Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Il codice della cortesia italiana

184188
Giuseppe Bortone 17 occorrenze
  • 1947
  • Società Editrice Internazionale
  • Torino
  • verismo
  • UNICT
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Quanto a Lui, c'è, prima d'ogni altra cosa, da augurarsi che non abbia portato nel matrimonio quella certa stanchezza che gli potrebbe esser derivata da una precoce, né sempre sana, esperienza di vita: rischierebbe di procurare una prima grave delusione alla compagna, la quale, senza dubbio, è andata a lui piuttosto inesperta e con entusiasmo. Se pur non vuole, o non può, fare un taglio assoluto con la vita da scapolo, deve apportarvi una profonda, definitiva modificazione; giacché non vorrà continuare a frequentare gli amici, il caffè, il circolo, il teatro, lasciando sempre e sola a casa la compagna. L'ufficio, per quanto alto, e la professione, per quanto delicata, assorbiranno ancora tutta la sua attività, ma non fino al punto di fargli dimenticare o trascurare l'importantissimo elemento nuovo penetrato nella sua vita. Sentirà tutta la responsabilità del capo di casa, e farà prevalere la sua volontà illuminata e sana; ma non tirannicamente. Si può giungere allo stesso punto attraverso un dispotismo brutale e attraverso una dolce fermezza; ma, mentre il primo suscita un senso di malcontento, di rancore e, talora, di rivolta, l'altra suscita un senso di fiducia e di stima, e rinsalda l'affetto. Nulla farà mancare in casa di quel che è necessario od opportuno; ma senza colpevoli condiscendenze, sopra tutto dal punto di vista del lusso. Farà di tutto perché si appianino gli eventuali dislivelli di educazione; ma sapientemente; cioè, evitando gli scatti d'ira, l'acrimonia dell' ironia, le offese idiote della gelosia, la volgarità del rinfacciare. In una parola, egli saprà parlare alla intelligenza e al cuore di lei; non venendo meno, in nessun caso, alle regole della piú squisita cortesia: la quale, fra due che si vogliono bene, non è che l'espressione della stima, della fiducia, della premura, dell'amore. Quanto alla parte ch'egli deve avere nella educazione basterà ricordare che, come la madre deve esser d'esempio sotto un certo punto di vista, egli lo deve esser non meno per quel che lo riguarda: non si può educare quando si parla bene e si razzola male. E deve reprimere energicamente non soltanto ogni piú piccola mancanza di rispetto, ogni piú lieve atto d'indisciplina o di ribellione, ma anche ogni atto di scortesia, evitando qualciasi condiscendenza che, deplorevole nella madre, sarebbe deplorevolissima nel padre. Quanto all'avvenire dei figli, li illumini, ma non ne coarti la volontà o l'inclinazione, se esse sono legittime e sane: sopra tutto, li abitui a disdegnare le cosí dette « raccomandazioni », a fare esclusivo affidamento sulla loro preparazione e sul loro valore: quando ci sono e quella e questo, può esser loro consentito fare una « presentazione », ma null'altro! Questo delle « raccomandazioni » è un argomento troppo scottante. Non si pensa che tutte le cose nostre andranno assai meglio; che la fisionomia dell'Italia sarà completamente e definitivamente trasformata, soltanto il giorno in cui si sarà generalmente persuasi - e si potrà vedere e constatare - che il merito esclusivamente è messo in valore, incoraggiato, premiato.

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Pensate: il modo di rispondere a un invito a pranzo, di vestire, di presentarsi, di sedere, di consumare i cibi e le bevande, di conversare, di trattare, di congedarsi, di contenersi e comportarsi in genere richiede una costante e sapiente vigilanza su se stessi, la quale, per chi non ne abbia fatto l'abitudine in casa, rappresenta un grave imbarazzo, se non una vera e propria fatica. L'ora del desinare è la piú importante per una famiglia, come quella che vede raccolti intorno alla medesima tavola i vari membri, dedicati, per lo piú, a forme diverse di attività. Ed è la importante anche nei rapporti sociali; perché ammettere un estraneo a questa dolce e sacra intimità è la piú grande e bella prova che gli si possa dare di stima e di amicizia. Dato ciò, si pensi a quanta e quale cautela occorra nel fare e nell'accettare un invito a pranzo; e si pensi altresí alla disposizione di spirito con cui ciascuno, messo da parte ogni molesto pensiero, debba parteciparvi. E poiché il piú contiene il meno, credo opportuno prospettare il caso d'un pranzo che abbia un certo tono, e con degl'invitati. Ma si capisce che la vita familiare di tutti i giorni ha minori esigenze; perché, in fondo, non si tratta che di rifornire la macchina di combustibile, quando ricorrenze e circostanze eccezionali, o il desiderio di aver con noi e di onorare qualche amico non ci impongano fatiche e spese impreviste. L' ambiente non va preparato lí per lí; ma alcune ore prima: riscaldato, se d'inverno; con le finestre chiuse fin dal mattino, se d'estate: con la luce ben regolata, tanto se sia di giorno che di sera. Nella stagione calda, allontanare con ogni cura le mosche. Arrivano gl'invitati. Essi depongono ogni ingombro personale: le signore tengono soltanto la borsetta; e, prima che in sala, sono accompagnate in un'altra stanza dove possano « ravviarsi ». Se hanno avuto un pensiero gentile per la signora, questa disporrà se si tratta di fiori, che sieno subito sistemati in bei vasetti; non si affretterà a svolgere, qualora si tratti di un pacchetto; a meno che, per ragioni speciali, non ne sia pregata dall'offerente. Tutti i commensali sono nella sala: se c'è un ritardatario, lo si può attendere qualche minuto, non di piú. Se la signora desidera offrire l'aperitivo, lo serve da sé. Se vuol offrire del brodo ristretto, farà portare un vassoio con le tazze - mai piene fino all'orlo - e le offrirà in giro. I commensali prendono tazza e piattino. Sulla tavola. Un panno morbido; su questo una tovaglia candida, ben tesa; in mezzo, un vaso a fondo largo, pieno d'acqua o di sabbia bagnata con dentro dei fiori freschi e vivaci, col gambo piuttosto corto. Volendo, si può anche disseminare qualche fiorellino qua e là, o qualche ramoscello verde. I tovaglioli, tutti della stessa tela della tovaglia, ugualmente piegati e cifrati: candidi anch'essi. Quanti sono i commensali, tanti piatti, a pochi centimetri di distanza dall'orlo della tavola, e badando a che non ve ne sieno di sbocconcellati, macchiati, o appannati. Gli altri piatti - scodelle, se la minestra è brodosa vanno portati volta a volta, ben caldi, dalla cucina, dove possono esser tenuti nel forno a moderato calore, o su una pentola piena di acqua calda, o, per chi l'avesse, nello speciale scaldapiatti fra i radiatori del termosifone. Le posate debbono essere luccicanti: esaminare. specialmente se non sieno macchiate le lame dei coltelli e gli interstizi dei rebbi delle forchette. A destra del piatto, il coltello e il cucchiaio; a sinistra, la forchetta; davanti, i bicchieri: uno per acqua, uno per vino, uno per vino speciale (se c'e), una coppa per lo spumante (se c'è), dopo averli esaminati attraverso per vedere se sono tersissimi. Sieno disposti gradualmente, i piú bassi a destra; ciò perché, dovendo esser riempiti dalla destra, non riescano d'impaccio a chi deve mescere. Se non saranno, durante il pranzo, cambiate le posate - e in questo caso soltanto - usa anche mettere a destra un poggia posate di cristallo o di metallo. I tovaglioli, piegati in tre o quattro - o a triangolo, se sono elegantemente cifrati - debbono essere collocati sul piatto. Gli altri modi, piú o meno ricercati, di piegarli dànno l'idea della trattoria. Le bottiglie di vino e di acqua, le saliere, i portastecchini sieno messi in quantità e in modo da esservene uno per ogni quattro commensali. Anche le bottiglie, come i bicchieri, debbono essere tersissime. Che il sale delle saliere non sia in pezzi o umido, e non manchi lo speciale cucchiaino per prenderlo. Le sedie sono o accostate alla tavola o lasciate un po' aperte verso l'estremità dove siederà la padrona di casa. Altro lavoro indispensabile è quello di preparare i piani della credenza e della controcredenza, per evitare di aprire e chiudere continuamente sportelli e cassetti, o dover andare ogni tanto a parlare nell'orecchio alla signora. Sul piano, perciò, della credenza, un tovagliolo e, su questo, posate di ricambio, posate speciali, acetiere, oliere, qualche bottiglia di vino, il cestino col pane tagliato, e i piatti, se non sono in caldo. Sul piano della controcredenza, pronti i piattini per la frutta e per il dolce, con la relativa posata; pronte le tazze per il caffè, con il cucchiaino, le mollette, le zuccheriere piene, e quant'altro si prevede che potrà occorrere. Il vino rosso speciale va tratto di cantina e messo nella stanza da pranzo almeno due ore prima di servirsene. I vini bianchi vanno serviti freschi. Le bottiglie di vino speciale non vanno messe sulla tavola: nei pranzi d'etichetta né pur quelle di vino comune, dovendo mescere i camerieri. Le stoviglie e gli utensili non disposti nella stanza da pranzo sono tenuti ordinati e pronti in cucina. Il pane va tagliato a fette e collocato in un elegante cestino fra due tovagliolini bianchi: quando i commensali sono a tavola, si provvede a mettere un pezzo a sinistra di ciascuno, badando a rifornirli ogni volta che ne avranno bisogno e prima che l'abbiano finito, per non costringerli a chiederlo. Le frutta, bellamente disposte su foglie verdi o su tovagliolini bianchi in fruttiere, che è bene sieno portate a tavola soltanto al momento di servirle. Quando viene annunziato che « la signora è servita! », tutti, sull'esempio di lei, si alzano per passare nella sala da pranzo. Precede la signora piú ragguardevole, o piú anziana, accompagnata dal padrone di casa: non usa piú offrire il braccio; ma, per quelle famiglie ove si faccia ancora, o quando si tratti di persone molto avanti nell'età, l'uomo offre alla signora il braccio sinistro ed entra per primo nella stanza da pranzo. Gli ufficiali in divisa offrono il braccio destro. Seguono gli altri in ordine, direi quasi, gerarchico: ultima delle signore la padrona di casa. Negli altri casi, passa per prima la padrona di casa accompagnata dall'uomo presente che si vuol onorare: seguono gli altri; ultimo il padrone di casa. Non è lecito scegliere la signora da accompagnare: le indica a ciascuno la padrona di casa, badando a non separare, né ora, né nell'assegnare i posti a tavola, le coppie di fidanzati. I posti a tavola. O si trovano già indicati su un elegante cartoncino bianco, o li distribuisce lí per lí la padrona di casa. I posti d'onore sono: per le signore, la destra e poi la sinistra del padrone di casa; per gli uomini, la destra e poi la sinistra della padrona di casa; per gli altri posti, la loro, per cosí dire, gradazione d'onore è data dalla maggiore o minore vicinanza ai padroni di casa. E, come si vede, un cerimoniale un po' complicato, specialmente quando non si conosce la posizione sociale dei singoli invitati; ma bisogna cercar di cavarsela nella miglior maniera, perché il nostro prossimo è, spesso, piú sensibile a questo che all'eccellenza del pranzo. I criteri generali da seguire sono: prima di tutto, informarsi bene della posizione sociale e gerarchica dei singoli invitati; in secondo luogo, regolarsi secondo la posizione medesima e, a parità di condizioni, secondo l'età. « A parità di condizioni »; perché l'età non costituisce titolo per le precedenze. Se ci sono stranieri, dar loro la precedenza, secondo il rango sociale. Io conosco delle signore abilissime nell'assegnare i posti a tavola: esse, pur rispettando le precedenze, sanno cosí bene disporre i commensali fra loro, da suscitar sùbito vive simpatie, rendendo cosí piacevolissimi i loro ricevimenti. Per prender posto, come per cominciare a mangiare, attendere che l'abbia fatto la padrona di casa. Questa può, eccezionalmente, cedere all'ospite tali sue prerogative. Ordine del servizio. Si comincia dal servire la signora che è alla destra del padrone di casa; indi, quella che è alla sua sinistra; e poi, a mano a mano, le altre per ordine di precedenza. Si passa poi alla padrona di casa, all'uomo che è alla sua destra, all'uomo che è alla sua sinistra, agli altri; il padrone di casa si serve per ultimo. Però, se il pranzo non è ufficiale o non ha rigorose pretese di eleganza, si suole alternare il servizio; in modo che i primi e gli ultimi serviti non sieno sempre gli stessi; ed anche perché, francamente, non è simpatico che pur la spensierata e lieta operazione del mangiare faccia risaltare, a ogni nuova portata, la differenza del rango sociale o del grado gerarchico. A ogni modo, non si fanno complimenti circa la precedenza nel servirsi. Questo indicato è l'uso italiano; ché, in altri Paesi - in Inghilterra, per esempio - si suole servir prima la padrona di casa: usanza, forse, tramandata da altri tempi, quando si credeva doveroso rassicurare i commensali che non sarebbero andati incontro a sorprese poco gradite... Quando si ripassa, si va senz'altro da chi prima ha finito, ricordando che non si servono una seconda volta la minestra, l'insalata e il formaggio. Ecco, intanto, schematicamente indicate le norme principali per ben stare a tavola. Per i padroni di casa. Cureranno che non si vada a tavola piú tardi dell'ora fissata; che ci sia abbondanza di tutto; sí che i commensali possano servirsi senza preoccupazioni; nel distribuire i posti, tenuto conto delle precedenze, faranno in modo che sieno avvicendati uomini e signore, e che capitino accanto persone che abbiano tra loro simpatia: ciò gioverà anche a tener animata la conversazione ; non vengono a discussione fra loro, né rimproverano i figliuoli; non fanno atti d'impazienza con i domestici; non decantano i loro vini o altre cose di famiglia, né celebrano i pregi della loro cucina; non fanno capire che il pranzo è costato fatica o spesa; non si adombrano per qualche piccola disgrazia che lasci lí per lí tracce sulla biancheria ; anzi, la signora interviene prontamente a rassicurare il maldestro; non insistono con i commensali perché si mangi o si beva di piú; tanto meno ricorrendo a quel volgare mezzuccio: « Ho capito: non piace! »; mangiano in modo da non essere i primi o gli ultimi a finire. Salvo che non sieno a regime speciale, debbono almeno assaggiar tutto. Per tutti i commensali. La sedia né troppo lontana, né troppo vicina alla tavola; i gomiti stretti ai fianchi, il busto eretto; nessun dondolio sulla sedia; non si allungano le gambe sotto la tavola; né si puntano i gomiti sopra; non si fissa il tovagliolo nel colletto o fra i bottoni del panciotto; non si spiega completamente, e si tiene sulle ginocchia; non si puliscono col tovagliolo piatti e bicchieri, né si esaminano i bicchieri contro luce; non si divorano con gli occhi le portate a mano a mano che vengono dalla cucina; non si scelgono i pezzi migliori, servendosi, né si osserva il modo di servirsi degli altri; non si fanno complimenti, né si rifiuta di servirsi per primi, quando la padrona di casa ha cosí disposto; non bisogna distrarci, o distrarre, mentre ci serviamo; né si attaccano discorsi con chi serve a tavola; non si trascurano i vicini, specialmente se signore, ma li si serve con garbo e premura; non si mangia troppo in fretta o troppo lentamente; non va la bocca verso la posata, ma la posata verso la bocca; non si riempie il proprio piatto per poi lasciarlo a mezzo; non si soffia sui cibi per farli raffreddare; non si versa il vino nella minestra, né si fanno altre mescolanze poco usate; non si solleva la scodella per portar via il poco rimasto sul fondo; chi voglia farlo deve sollevarla dalla parte che gli è piú vicina verso il centro della tavola; non si apre la bocca masticando, né si parla a bocca piena; non si fa rumore con i denti masticando ; non si fanno i bocconi troppo grossi ; non si tracanna il bicchiere tutto d'un fiato e fino in fondo ; né si beve mentre si ha il boccone in bocca; o senza essersi prima pulito la bocca; che va anche ripulita subito dopo aver bevuto; non si mette il ghiaccio nei bicchieri; né si tengono questi a lungo fra le mani, perché il vino rosso sviluppi il suo aroma; non si taglia il pane col coltello, ma si spezza con le mani ; né si porta alla bocca tutto il pezzo di pane; né si toglie la mollica, e tanto meno la si plasma con le dita; non s'introduce la propria posata nel piatto di portata; non si taglia prima in pezzi tutta la carne o l'altro che s'ha davanti; non si intinge il pane nel sugo o nella salsa rimasti nel piatto; non si riprendono a spolpare le ossa già lasciate ; non si sposta verso destra o verso sinistra il piatto vuoto; non si raccatta una posata caduta e tanto meno la si rimette sulla tavola; non si taglia il pesce col coltello, salvo che non si tratti di pesce affumicato o marinato ; se c'è la spatola, tanto meglio ; diversamente, s'adopera la forchetta e un pezzetto di pane; non si tiene sulle ginocchia, ma sulla tavola, la sinistra, quando è inoperosa; in nessun caso si porta il coltello alla bocca; non si fanno commenti su cose che non piacciano o che non si possano mangiare; non si attira l'attenzione su qualche cosa di estraneo che si possa trovare nei cibi; non si usano gli stecchini che nei casi indispensabili: è sconveniente gingillarsi con lo stecchino o, peggio, alzarsi da tavola con lo stecchino in bocca; non si porgono i patti al servitore; non si parla d'affari o di cose tristi; né si fanno discorsi lunghi con commensali che sieno all'altro capo della tavola; non si fanno tragedie di parole per piccole disgrazie; non si adoperano per il naso fazzoletti poco puliti; né si caccia la testa sotto la tavola o da uno dei lati per soffiarsi; né lo si fa rumorosamente; né si spiega dopo il fazzoletto ; non si starnutisce fragorosamente, o in modo da far « piovere » nei piatti dei vicini; non si tirano nòccioli, bucce o altro ; meno che mai pezzi di pane: e ciò anche nelle riunioni allegre, dove è pur consentita qualche libertà; non si ravviano i capelli col pettine o con le mani, né le signore mettono fuori il loro armamentario da toeletta; non si decantano pranzi fatti altrove; non si chiedono cose che i padroni di casa non hanno fatto mettere a tavola, adattandosi ad imitarli; non si fuma senza che i padroni di casa lo abbiano autorizzato ; in ogni caso, mai prima che si sia finito di mangiare; se si hanno sigari o sigarette di qualità migliore di quelli offerti dai padroni di casa, si evita di servirsene o di offrirli; nessuno si leva da tavola prima che lo abbia fatto la padrona di casa; non si piega il tovagliolo, ma lo si lascia con garbo alla sinistra del posto occupato; non si porta via alcun che dalla tavola, tranne la propria minuta, se c'era, o, al piú al piú, qualche fiore che si aveva davanti. La moda dei brindisi è, fortunatamente, tramontata; ma, se si dovesse farne, cercare di essere semplici e brevi, né dimenticare la padrona di casa, o qualche cara persona di famiglia assente. Non si toccano i bicchieri, ma si sollevano all'altezza del proprio viso, allungando il braccio dalla parte del festeggiato. Se il brindisi fatto da una signora, essa non invita i commensali a bere. La posata. La forchetta si tiene con la destra, quando si tratta di vivande per le quali non è necessario adoperare il coltello; quindi, per maccheroni, risotto, verdure, frittate, sformati, uova - anche sode polpette, ecc. Si tiene con la sinistra quando, con la destra, si debba adoperare il coltello per tagliare. In tal caso, si prende con la forchetta il pezzo tagliato, con la punta del coltello si adatta su per benino del contorno o della gelatina o della salsa, e si porta alla bocca in modo che le rebbie della forchetta sieno rivolte all'ingiú. Quando occorresse interrompere, forchetta e coltello si mettono nel piatto a contatto di punte non sulla tavola o sull'orlo del piatto. Quando si è finito, se la posata vien cambiata, la si lascia nel piatto parallelamente; se si deve tenerla per la portata successiva si mette sul poggiaposate con i rebbi in giú. Si lascia anche nel piatto, quando si è mangiato il pesce o delle uova; perché, in tali casi, dev'essere senz'altro cambiata. Il cucchiaio si adopera per le vivande liquide o semiliquide e per alcune specie di dolci. Si può portare alla bocca o per la punta o per il margine laterale, dalla parte piú vicina al manico. Se una distinzione si vuol fare, è piú comodo adoperarlo dalla parte della punta quando, nel liquido, c'è qualcosa di solido. In questo caso, né si introduce troppo nella bocca, né si attira il contenuto succhiandolo, né si consuma la cucchiaiata a parecchie riprese. La posata non si prende dalla parte piú bassa: la forchetta si adopera col manico nel pugno; il cucchiaio, prendendolo col pollice e coll'indice e appoggiandolo sul medio ripiegato; il coltello si adopera anch'esso col manico nel pugno. Usa anche tenere il coltello e la forchetta fra le prime due dita, come si terrebbe una penna; ma io trovo questo modo poco comodo; tanto piú che non si può far forza col coltello, né si deve allungar l'indice sul dorso della lama. Nei casi in cui si tiene la forchetta con la destra, ci si può aiutare con un pezzetto di pane nella sinistra. Il formaggio si taglia col coltello ed il pezzo si adatta su un pezzo di pane. Delle mani bisogna servirsi il meno possibile: si può adoperarle per i piccoli volatili; ma è bene non darne l'esempio; se mai, farlo con garbo. Neanche le ossa, o le lische, si prendono con le dita; ma si depongono sulla forchetta e poi sull'orlo del piatto. Per mangiare le uova dette al guscio, servite nel portaovo, se non v'è lo speciale strumentino ad anello per romperle, se ne schiaccia la punta col cucchiaino - mai col coltello - vi si mette il sale e col cucchiaino se ne porta alla bocca il contenuto. Non si solleva il guscio per ripulirlo fino in fondo. Si può accompagnare col pane, ma questo non si intinge nell'uovo. Il guscio si mette accanto al portaovo e lo si schiaccia discretamente col coltello. Il bicchiere si prende dalla parte piú bassa. Non si va incontro con esso a chi ci mesce da bere, né si alza per significare « basta ». Si sa che il bicchiere proprio o di altri non si riempie fino all'orlo. Talora, l'alzare il bicchiere è giustificato dalla preoccupazione che la goccia attaccata alla bottiglia scivoli sulla tovaglia e ne macchi il candore: cosa quest'ultima da evitarsi con cura anche se sembri che la padrona di casa non ci badi o non ci tenga. Come si deve aver cura di non versare l'olio, di non incrociare la posata... Pregiudizi senza dubbio; ma è colpa nostra se alcuni ci credono ancora? Quando è servita qualche vivanda che non si sa come si mangi, o vien dato qualche cosa che non si sa come adoperare, è prudente attendere e seguire l'esempio degli altri. Piú d'una volta si è veduto accostare alle labbra la piccola coppa dell'acqua e una fettina di limone, che vien portata su di un tovagliolino col piatto delle frutta, e che serve per lavarsi le dita: tovagliolino e coppa si mettono a sinistra. Si ricorda, a questo proposito, un episodio accaduto alla Corte di Vienna: in un pranzo offerto a una Delegazione bosniaca, quando furono portate in tavola le coppe d'argento con l'acqua tiepida e profumata, il capo della Delegazione si alzò e, dopo aver brindato, bevve il contenuto della coppa, immediatamente imitato dagli altri deputati. Fra l'imbarazzo dei commensali, Francesco Giuseppe rispose al brindisi e bevve anche lui di quell'acqua, mentre l'etichetta obbligava tutti i commensali a fare altrettanto. Le ostriche si staccano con la forchetta dal guscio e si portano con questo alla bocca. Le foglie dell'insalata non si tagliano, ma si portano alla bocca come vengono servite, salvo che, si capisce, non vengano servite intere. I carciofi si possono mangiare con le mani; però, nei pranzi eleganti, non si suol portare in tavola che la parte piú centrale e piú tenera, la quale si mangia con la forchetta. Agli asparagi, presi con la pinza speciale dal piatto comune, si taglia la parte verde e si porta alla bocca con la forchetta, se serviti come contorno: se come portata, si possono prendere dal proprio piatto con le mani. Quanto ai piselli, se si vogliono mangiare all'inglese, ossia dopo averli schiacciati, ciò va fatto col coltello contro la forchetta, non col cucchiaio o col coltello o con la forchetta contro il piatto. Per la frutta, che viene servita in ultimo, si adopera la forchetta e il coltello. È un po' di fatica quando, come spesso accade, il coltellino non è affilato. Non si sbuccia intera ma si taglia prima a quarti: mele, pere. Le pesche si sbucciano dopo averle tagliate in due. Le albicocche non si sbucciano; si bagnano soltanto nella coppa che si ha alla sinistra del proprio piatto, senza tenervele molto, perché si suppone sieno state già lavate. Né pure le prugne si sbucciano: si portano alla bocca intere quelle secche; si tagliano a fettine quelle fresche, senza portare alla bocca il nocciolo. Alle banane si incide la corteccia da cima a fondo, denudandone la polpa, che si mangia a piccoli pezzi, dopo averla tagliata con la forchetta. Ai fichi freschi, tenuti con la sinistra per il picciolo, si porta via una fettina della parte superiore, dov'era il fiore e dove si possono essere fermati gli insetti; poi, si tagliano in quattro spicchi senza separarli presso il picciolo; se ne stacca col coltello la polpa e si porta alla bocca con la forchetta. Agli aranci e ai mandarini, tenuti con la mano sinistra, non con la forchetta, si incide a spicchi la buccia; indi la si leva, se ne separano gli spicchi e si tagliano a metà per trarne i semi: non si sbucciano in tondo, né a spirale. In America, usa tagliarli in due, senza sbucciarli, nel senso orizzontale, ed estrarne con un cucchiaino la polpa e il sugo. Le ciliege si portano alla bocca una per volta - non a ciocche - prendendole dalla coppa, e se ne lascia poi cadere il nocciolo sul cucchiaino o, se questo non c'è, sulla forchettina. Meglio cosí che lasciarli cadere nella mano socchiusa. Le fragole, se sono grosse, e servite col gambo, si prendono a una a una con le mani, si passano nello zucchero, che si è avuto cura di mettere nel nostro piatto, e si portano alla bocca. Se son piccole, si mangiano col cucchiaino. Le frutta col guscio legnoso - noci, nocciole, mandorle - si schiacciano, non con i denti o con le dita, ma con lo speciale strumento, se ne cava il contenuto e si porta alla bocca con le mani. Per il popone, si libera la polpa dalla buccia e la si porta alla bocca con la forchetta, dopo averla tagliata in pezzi con l'aiuto del coltello. L'uva si porta alla bocca chicco per chicco, e, per chi non usa ingoiarli, si fanno ricadere nel cucchiaino vinaccioli e buccia, e si depongono all'angolo del piatto. Il gelato si prende con la spatola dal piatto comune, badando a non farlo scivolare, e si mangia con lo speciale cucchiaino piatto, accompagnandolo, se ci sono, con i biscotti. Il caffè è servito a tavola nei pranzi di famiglia; in sala, nei pranzi eleganti: io trovo preferibile servirlo sempre in sala, sia per «occupare» quel po' di tempo che rimane ancora, sia per dar modo di sparecchiare. Se è servito nella stanza da pranzo, la padrona di casa mesce nelle tazze, portate in giro dal cameriere; se, in sala, è servito in giro dalla padrona di casa, aiutata da qualche figliola o amica; i liquori son serviti dal padrone di casa. Quando si va in sala per il caffè, si attende a fumare qui. Il segnale di ritorno in sala è dato dalla padrona di casa, la quale prende il braccio del suo cavaliere ed esce per prima: seguono gli altri, senza darsi il braccio: ultimo il padrone di casa. Quindi, tener presente che, per il ritorno in sala, si segue l'ordine contrario a quello tenuto per uscirne. Quanto tempo si rimane in una casa dove si è stati invitati? Normalmente non piú di un'ora; ma è prudente e delicato regolarsi secondo il numero delle persone, il tono della conversazione, l'età e le abitudini dei padroni di casa. Usava fare la cosí detta « visita di digestione », fra gli otto e i quindici giorni. A me pare una bella usanza, che meriti d'esser conservata. Per gli uomini, è sufficiente che portino la loro carta di visita. Quando si tratti, invece che di un pranzo piuttosto elegante, di una colazione e, in genere, di un pasto alla buona, è preferibile adoperare la biancheria a grossi quadri in colore. Ora se ne produce della eccellente, per qualità e per disegni: a me piace molto, perché dà un senso di letizia, sopra tutto se anche i boccali e i piatti sono a tinte vivaci. Fuori d'Italia - in Francia specialmente usano anche dei graziosi tovagliolini di velina e dei mensali di carta, che si rinnovano, si capisce, volta per volta, e che son da preferirsi senz'altro alla tela cerata, che ricorda l'osteria. Quest'apparecchiatura, molto sbrigativa e comoda, è usata largamente in campagna - dove non si può andare tanto per il sottile, né si può pretendere troppo - e per le cene fredde, al ritorno dal teatro e dal ballo. In queste, ciascuno dei commensali si serve da sé, e il piatto si cambia soltanto per il dolce. Conchiudendo, dirò che ora non usano piú, come un tempo, le interminabili sfilate di portate: si preferisce la qualità alla quantità, la finezza all'abbondanza. Perciò: che non manchi mai, possibilmente, una tazza di brodo ristretto: si profitti della grande risorsa offerta dagli antipasti e dai tramezzi, tornati trionfalmente, e giustamente, in onore; tanto piú che, per questi, si può anche non lavorare in cucina, trovandosi preparato in scatole tutto quel che si può desiderare; sempre graditi la galantina con la gelatina, i soffiati, gli sformati, i volanti ripieni, i pasticci di carne, gli arrosti di cacciagione, le trote, le varie ed eccellenti qualità di formaggi, la macedonia frutta... piú o meno di queste deliziose cosine, a seconda della stagione, dell'ora, della circostanza; almeno due qualità di vino speciale; e poi, un profumato caffè bollente; e una sigaretta squisita... e sempre, da cima a fondo, la piú gustosa delle vivande - una gioviale cordialità: - di grazia, che si potrebbe offrire e desiderare di piú e di meglio? E si tenga, infine, presente che la prova migliore della buona educazione non sta nell'offrire un pranzo, abbondante e succulento quanto si voglia, ma nel mescolarsi sapientemente con gli altri. La cortesia, ripeto, nel suo vero senso, riguarda appunto quelle regole che, nel gioco della vita, rendono piú facile e piú semplice l'accomunarsi con i propri simili.

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Nei casi di grande amicizia - o quando la signora ne abbia bisogno - le offre il braccio sinistro: gli ufficiali le offrono il destro quando portano la sciabola. È elegante che un ufficiale di grado piú elevato saluti per primo un suo inferiore quando quest'ultimo è accompagnato con signore. Due uomini mettono in mezzo una signora: di tre o piú uomini, si mettono in mezzo quelli piú ragguardevoli: alla destra di questi, o della signora, le persone, per cosí dire, numero due; alla sinistra quelle numero uno. Una coppia mette in mezzo una signora, o una signorina: il marito sempre alla destra della moglie, lasciando la destra a un altro. Due signorine possono mettere in mezzo un giovanotto, se c'è dimestichezza fra loro. Un giovinetto o una giovinetta vanno alla sinistra dello loro istitutrice: se sono in due, la mettono in mezzo. Si suol dire che è uno spagnolismo questo del posto: a me non pare; perché, in fondo, mira a far godere a tutti la compagnia e la conversazione della persona che si suol collocare in mezzo. Un uomo non ferma sulla via una signora che conosce; salvo casi urgenti, o che non possa incontrarla piú, o altrove. Per salutare una signora in auto, non s'introduce il capo nel finestrino. Alle signore non si dànno denari o lettere sulla via. Se, poi, è segno di dubbia educazione fissare insistentemente signore e signorine che passano, o volgersi indietro a guardarle, è indice di somma volgarità farle bersaglio di complimenti piú o meno sdolcinati e galanti. Lode incondizionata, a questo riguardo, merita l'iniziativa di alcuni Prefetti e di alcuni Questori i quali hanno energicamente affrontato l'increscioso inconveniente, sparpagliando da per tutto agenti della squadra mobile e facendo diffidare quegli stupidi elegantoni sfaccendati, detti «pappagalli della strada » - o esoticamente gagà - che si ostinano a infastidire le passanti. Molto spesso, in verità, anche le donne si volgono indietro per esaminarsi - ammirarsi o deridersi, secondo i casi; - ed è divertente vedere come rimangano male quando, voltatesi nel medesimo istante, si sorprendono a squadrarsi a vicenda. È sommamente ridicolo, per un uomo, fermarsi di fronte allo specchio di qualche mostra per compiacersi del nodo della cravatta o della piega dei calzoni. Per quanto è possibile, si deve evitar di camminare, come si suol dire, con la testa per aria; lo esige, prima di tutto, l'infernale movimento stradale moderno, che è quasi un permanente attentato alla incolumità e alla vita; e, in secondo luogo, l'obbligo di adempiere ai doveri della cortesia. Se si rimane mortificati quando si saluta uno sconosciuto scambiato per un conoscente, o gli si rivolge la parola, quando addirittura non lo si prenda sotto il braccio; e si risponde a un saluto che non era diretto a noi - il che, in fondo, non è gran male - si rimane peggio quando ci accorgiamo d'aver guardato una persona, cui eravamo stati presentati, senza vederla e senza farle un cenno di saluto. Quando le chiederemo scusa, la prossima volta che ci troveremo insieme, apprenderemo che essa aveva notato la nostra distrazione. Non è conveniente fermare sulla via amici professionisti - avvocati, ingegneri, medici, insegnanti - per consultarli intorno a cose riguardanti appunto la loro professione. Al passaggio d'un funerale, è doveroso fermarsi per salutare o cavandosi il cappello, o mettendosi sull'attenti, se si è a capo scoperto. Ugualmente, se passa la bandiera nazionale. Non diversamente, se passa una processione. Chi fosse d'altra confessione religiosa torna indietro, svolta, entra in una bottega; ma non rimane a capo coperto, quando tutti si scoprono ; se non per altro, come omaggio alla opinione altrui. È bello vedere in alcune città - a Siena, per esempio, - salutare le lettighe che passano con un malato. Non bisogna fermarsi in crocchi sulla via per discutere: i passanti son quasi come gli anelli di una catena: se ne tiri uno, vengono via tutti; se uno ne fermi tutti si arrestano. Il che accadrebbe anche se si leggessero giornali o lettere. Guardarsi dal parlare, per la via, a voce alta, o con gesti, o di cose delicate, o facendo nomi; dal bisticciarsi, per le coppie sopra tutto ; dall'indicare col dito; dal fischiare o zufolare; dal ridere sguaiatamente; dall'intavolare conversazioni con persone che sieno in finestra; dal passare davanti a persone ferme, che guardino vetrine o leggano manifesti; dal passare fra due o piú che vadano insieme. In alcuni paesi - e città! - si tenta finanche di passare fra due carabinieri di servizio, perché... porta fortuna! Se s'incontra una persona di nostra conoscenza in compagnia d'un'altra con la quale preferirebbe di non esser veduta, si passa oltre con disinvoltura come se non la si fosse notata. Se si porta l'ombrello, o il bastone guardarsi dal farlo roteare. Soltanto, poi, i venerandi pensionati di provincia fanno compiere all'ombrello l'ufficio del bastone. Su quello non ci si appoggia, passeggiando, né lo si porta, come un famoso personaggio da commedia, sotto il braccio, o in altro modo che possa dar noia a chi è al nostro fianco o ai passanti. Inoltre, per non intralciare il movimento, è doveroso andar sempre dal lato prescritto, che non è da per tutto lo stesso, specialmente nelle città dove le vie son senza marciapiede. Imbattendosi faccia a faccia con uno che non tenga la sua mano, piuttosto che fare per parecchi secondi quel grottesco va e vieni, da destra a sinistra e viceversa, con le braccia piú o meno aperte, proseguire risolutamente per la propria destra. Può darsi che si abbia bisogno di qualche indicazione o informazione: ci si rivolge garbatamente a qualche passante che si vede pratico del luogo o a una guardia - è meglio non disturbare una signora - chiedendo scusa del fastidio e ringraziando: si dà alla stessa maniera; dolenti se non siamo in grado di farlo. Se chi si rivolge a noi è uno straniero, non risparmiare anche qualche passo perché l'indicazione sia completa e precisa. Talora si formano, sulle vie e sulle piazze dei crocchi, degli assembramenti per un incidente o di fronte alla esposizione di una bottega: una signora specialmente non s'imbranca. E non si cerca in tutti i modi di passare ai primi posti, spingendo dietro gli altri, se c'è un qualsiasi pubblico avvenimento. Quando piove e noi siamo forniti d'impermeabile o d'ombrello, si lascia lo spazio piú riparato, presso i muri, ai passanti che ne sono sforniti: se s'incontra una signora amica in tali condizioni, meglio offrirle senz'altro l'ombrello che proporle di accompagnarla. Non si gettano sulla via carte strappate e né pure scatole vuote di cerini o di sigarette: se non ci sono, qua e là, lungo la via, gli speciali cestini metallici, si tiene tutto in tasca, salvo a sbarazzarsene quanto prima, e tanto meglio se in modo che ne possa usufruire la Croce Rossa. Mi si son proposti due quesiti: Possono le signore, per via, portare dei pacchetti? - Non era elegante, specialmente in alcune nostre regioni; ma, oramai, le signore hanno superato questo pregiudizio: a condizione, però, che i pacchetti, per il numero o per il peso, non diano l'idea dello sgombero. È elegante, per una signora, andare a passeggio con un cagnolino al guinzaglio? - Al guinzaglio si, non certo in quelle altre maniere in cui oltre Manica e in America - per quanto non sia altrettanto elegante fermarsi col cagnolino - lo si guardi o non lo si guardi!, a tutti gli spigoli e a tutti i pali...È bene altresí educare il proprio cagnolino - senza, beninteso, picchiarlo sulla via - a non annusare i passanti, né ad abbaiar loro dietro; per quanto le bestie, e i cani specialmente, abbiano un odorato piú fino degli uomini, e, meglio degli uomini, sappiano distinguere gli amici veri dai falsi; ma, allora, bisognerebbe condursi dietro, invece di un cagnolino, un molosso! Si può mangiare sulla via? - In linea generale, no ; ma ci son vie e vie, e cose e cose che si posson mangiare. Non sarebbe, certo, conveniente mangiare per qualcuna delle vie centrali delle nostre città, e all'ora del passeggio; o mangiare dovunque panini imbottiti o fette di cocomeri; ma perché non dovrebbe esser permesso di assaporare, per esempio, qualche marrone candito? Quindi, è questione di discrezione!

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Del resto, non c'è Paese civile il quale non abbia provvisto a proteggerla, pur negli uffici e nei laboratori, nelle sue grandi ed auguste funzioni di sposa e di madre. Anzi, non mi sembra qui fuor di luogo ricordare che, in molti Paesi, per la donna impiegata, i limiti d'età per la pensione sono inferiori a quelli dell'uomo; e che, in molti altri, soltanto le nubili possono essere impiegate: quando si sposano, debbono lasciare l'impiego, essendo inconcepibile che una donna possa, nel tempo stesso, essere buona moglie, buona madre e buona impiegata. Certo che essa non può e non deve abusare della sua qualità di donna per mancare alla puntualità, alla esattezza, alla disciplina: dal momento che si sostituisce all'uomo, è necessario si metta nelle medesime condizioni di spirito, bandendo ogni suscettibilità ed ogni pretesa; docile sempre; e pronta ad accogliere serenamente ordini e, talora, anche qualche cortese richiamo. Quindi, deferente con i superiori, i quali, in ufficio, hanno diritto al saluto; fuori dell'ufficio, salutano per primi; garbata e condiscendente con i colleghi; ma riservata, evitando ogni forma di familiarità e imponendo, col suo contegno, rispetto e stima: contegno che deve accentuarsi nel caso si veda « preferita dai superiori». È consigliabile anche una grande semplicità nell'acconciatura e nel vestiario. Trascurata, assolutamente no; ma né pur troppo elegante; perché l'eccessiva eleganza di una impiegata può nuocere alla sua reputazione. Chiunque, poi, è in un ufficio, in un laboratorio, in un'officina, deve tener presente che egli, tutti i giorni, si troverà a contatto con altri che, come lui, attendono a un lavoro. Perciò, i rapporti con i colleghi debbono essere improntati non soltanto a benevola reciproca comprensione e tolleranza, ma anche a cordialità, sí da evitare ogni ragione di equivoco e di dissenso; prestandosi anche, talora, a sostituzioni nel servizio in casi di urgenza. Nei rapporti coi superiori, deferenza ed ossequio; non scendendo mai tanto a basse adulazioni o a forme di servilità, quanto a pettegolezzi, chiacchiericci, insinuazioni. Questi sono, spesso, determinati dall'ambizione, da una specie di mania che alcuni hanno di strusciarsi ai superiori: che è da evitarsi, anche per rispetto alla propria dignità. Nei rapporti con gli inferiori, deve costantemente dominare un senso di equità che ispiri fiducia, e di benevolenza che ispiri simpatia; tenendo presente che le buone maniere e una delicata comprensione fanno ingollare anche le pillole piú amare. L'esperienza insegna che nulla giova tanto a conservare solidamente la concordia fra impiegati di un medesimo ufficio quanto la « misura » nella intimità delle relazioni: intimità che è bene evitare con i superiori, non fosse altro per non esser costretti, qualche volta, a tornare indietro. Il rispetto, infine, per tutto l'altro personale, per l'ufficio e per il pubblico impone una tenuta decorosa, senza mezze maniche, o penne sull'orecchio o occhiali sulla fronte o mani non eccessivamente pulite. E la piú grande cortesia nelle relazioni col pubblico, il quale, spesso, né sempre con ragione, è impaziente. Qualche rara volta accade di trovarsi di fronte a impiegati che parlano, rispondono, si muovono con comodo eccessivo; che pare non vedano o dimentichino che lí c'è qualcuno ad aspettare; che si direbbe quasi prendano gusto ad esasperare l'attesa impaziente del pubblico. E se vi arrischiate a cortesemente protestare, c'è il caso che vi sentiate rispondere: « Faccio già troppo per quel che mi si dà! ». Impiegati siffatti non darebbero certamente l'impressione di un popolo dinamico, che aspiri legittimamente a un maggior benessere col fare ottimo uso del tempo. Il pubblico, dal canto suo, comprendendo che il lavoro, di alcuni uffici specialmente, è noioso o complesso o estenuante, non deve esiger troppo o troppo facilmente impazientirsi o dimostrarsi intollerabile: dopo tutto, negli uffici, ci son macchine per scrivere, per calcolare, per pesare, per timbrare, ma ci sono anche « uomini»; e se, ogni tanto, ci mettessimo mentalmente nei panni di questi, finiremmo col conchiudere che, molto probabilmente, non ce la sapremmo cavare né piú presto, né meglio di loro. Per questo appunto - ossia per evitare atti di fastidio o di scortesia e perdita di tempo - è prescritto di presentarsi col denaro contato, col pacchetto pesato, con la dichiarazione scritta di che cosa precisamente, nei singoli uffici, si desidera dire, chiedere, sapere. Ma quanti, e proprio fra i piú impazienti, si uniformano a queste prescrizioni? E un altro stretto dovere del pubblico, quando si presenta in un ufficio, è quello di rispettare scrupolosamente il turno. Non è certo ben giudicato chi, mostrando o inviando la propria pomposa carta di visita, o ricorrendo ad altri sotterfugi, riesce ad ottenere trionfalmente la precedenza. Alcuni vogliono portare nella vita civile le relazioni d'ufficio: non è bello; sí che un superiore, per esempio, ricevendo in casa sua un subordinato, non rimarrà comodamente seduto e col sigaro in bocca, ma lo riceverà come riceverebbe qualsiasi altro gentiluomo.

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Chi non ha la fortuna di possedere una vettura propria profitta, quando ne abbia bisogno, di quelle, cosí dette, di piazza; le quali, per il tempo che dura la « corsa », sono come vetture private. In una vettura, l'uomo solo non siede mai a destra, perché il posto di destra dev'esser lasciato libero per qualcuno che si possa, eventualmente, invitare: può sedere a destra una signora. Se si è invitati in una vettura privata da una signora o da persona di riguardo, si va senz'altro a sedere con le spalle al conducente, se in carrozza; sullo strapuntino di sinistra, se in auto, salvo a mettersi accanto a chi ha invitato in seguito ad insistenza. L'ospite in vettura privata, a corsa finita, «si ricorderà » con discrezione dell'autista. Nell'automobile, il posto d'onore è quello in fondo, a destra, ultimo quello davanti a sinistra. Quando una signora si trovi nella propria vettura, conserva il posto d'onore; ma questo non è sempre a destra, sebbene dalla parte opposta a quella dove siede l'autista. In carrozza, i due posti di fondo son sempre riservati alle donne, anche se una è del personale della casa: il signore siede di faccia, dalla parte della mamma, della moglie o della figlia. In una vettura guidata dal proprietario, il posto dell'invitato è quello accanto a lui, per non lasciar solo il proprietario, come se fosse un autista. Quando si attraversino località incantevoli per i panorami che offrono, diventano migliori i posti d'onde si possano godere di piú gli spettacoli naturali. Quando si deve salire, se è aperto lo sportello sinistro, sale prima la persona che deve occupare il posto d'onore; se è aperto lo sportello destro, sale prima quella che deve occupare il posto a sinistra, non senza aver chiesto permesso. Quando una signora scende da una vettura, l'uomo che l'accompagna scende prima per aiutarla, offrendole l'appoggio della propria mano: dalla parte del dorso, se non v'è intimità. Se l'uomo si trova dalla parte opposta a quella d'onde la signora deve scendere, salta giú rapidamente, passa dietro alla vettura e va dall'altro lato. Nelle vetture private aperte - come quelle pubbliche - non si fuma, perché si darebbe noia agli altri con la cenere e le scintille. Nelle chiuse, e quando vi sieno signore, si fuma soltanto se autorizzati da loro; è elegante che gli uomini rimangano a capo scoperto. Nelle vetture aperte, le signore eviteranno di portare cappelli dalle tese larghe, o comunque facili ad esser rapiti dal vento, e lunghi veli svolazzanti. Di due vetture ferme, riprende per prima la marcia quella che trasporta... un carico piú prezioso.

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Essendo, poi, impossibile, o quasi, la conversazione, a causa del frastuono dei motori, chi abbia bisogno di distrarsi porti con sé qualcosa di particolarmente interessante da leggere. E se dovessero verificarsi inconvenienti di stomaco, tener presenti le raccomandazioni per i viaggi per mare, servendosi, secondo le prescrizioni, dello speciale ricettacolo (col c, non col g!).

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Quanto all'equipaggiamento, prendere il meno possibile, ma bene scelto, sí che si abbia a portata di mano quanto può occorrere per le gare, per l'igiene, per i piccoli infortuni d'ogni genere. Le donne indossano la medesima tenuta degli uomini, aggiungendo qualcosina che sia come il segno di una sana e gioiosa femminilità. Se non si va in gita, ma per fermarsi qualche tempo in montagna, l'equipaggiamento è piú complicato, perché, negli alberghi di montagna, d'inverno come d'estate, la vita elegante ha molte esigenze. Altre importanti manifestazioni sportive sono il gioco del pallone, della pallacanestro, della palla a calcio, della lotta, del croquet, del golf, del polo, ecc., qual piú qual meno di uso o di moda nei vari Paesi; e ci sono, poi, il ciclismo, l'equitazione, la caccia, la scherma...: basta qui averle ricordate, e, sopra tutto, aver raccomandato che né la passione o la foga del gioco, né la brama di vincere possono autorizzare o giustificare la benché minima infrazione alle leggi della cortesia. Che anzi, nessuna occasione piú delicata di questa, per dimostrare - o col vestiario appropriato, o con la squisitezza delle forme, o col modo di trattare gli avversari - la propria perfetta educazione, la propria signorilità.

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Ciascuno, nel venire a contatto con la società, prima ancora di esigere il rispetto dagli altri, deve sentire il rispetto per se stesso: è ben difficile cogliere in fallo chi abbia sviluppato, educato, vivo questo sentimento: perché egli, prima di parlare o di agire, si chiede se quel che è per dire o per fare non sia in qualche modo lesivo della propria dignità o della dignità altrui. Mentre, poi, c'è un grado di dignità corrispondente, per cosí dire, ai vari gradi sociali, c'è una dignità che è comune a tutti, una dignità umana; e primissimo dovere della persona bene educata è di rispettarla in ognuno: il generale nel soldato, il ministro nell'usciere, il padrone nel servitore, l'insegnante nell'alunno, il passante in colui cui fa l'elemosina. Il peggior modo di qualificare una persona è dir di lei che « ha perduto ogni senso di dignità ». Dal momento, però, che la dignità è una virtú, non bisogna esagerare fino al punto di renderla suscettibilissima, trasformandola in « orgoglio ». L'orgoglio è molto sensibile; e derivano dalle offese ad esso - vere o presunte - le cosí dette « partite d'onore ». Fortunatamente, queste, oramai, non hanno più, fra noi, il loro epilogo sul terreno, ossia in quella barbarica usanza che era il duello. L'onore è qualcosa di troppo sacro perché si possa, quando si è gentiluomini, compromettere con leggerezza quello altrui, o vedere con leggerezza compromesso il proprio. Ciò che piú facilmente - e piú frequentemente - fa trascurare la dignità è l'eccessivo attaccamento al lucro, all'interesse. Questo attaccamento è, per se stesso, la negazione di ogni dignità; perché acceca fino al punto da spingere a dimenticare ogni senso di signorilità, di generosità, di decoro, nel parlare, nel vestire, nell'agire. Quid non mortalia pectora cogis auri sacra fames? Quanta povertà dignitosa, e quanta indecorosa ed esosa e spregevole ricchezza! L'avaro non può avere il senso della dignità, perché egli ignora che la ricchezza è un mezzo, non un fine; perché egli non capisce quanto meglio sia dare che chiedere; che la piú grande soddisfazione della vita è quella di dare, dare sempre, dare con gioia. Noi possediamo ciò che abbiamo donato: hilarem datorem diligit Deus, disse San Paolo. E, con l'avidità, con la taccagneria, l'ambizione. Anche questa mal si concilia con la dignità; perché l'uomo ambizioso, posseduto dalla febbre di dominare sui suoi simili, non guarda a mezzi, pur di « arrivare »; ed è costretto a transazioni frequenti con la propria dignità oltre che con le proprie convinzioni e con la propria coscienza - dovendo blandire, adulare e, non di rado, umiliarsi. « Transigere »: « la grande parola, che sembra il superlativo della prudenza, ed è quasi sempre il superlativo della viltà ». In fondo, l'avarizia e l'ambizione sono due aspetti dell'egoismo - che è la piú abietta, la piú brutale delle passioni umane - e, come tale, inconciliabile con la vera, con la grande signorilità. E c'è, in fine, la paura: trista parola e tristissimo sentimento, diffuso tra noi specialmente dal defunto regime, per il quale, sopraffatti dall'incubo di qualche male che ci possa capitare, si dimentica la propria personalità, si calpesta il proprio decoro e ci si rende schiavi di chi, in un modo o in un altro, ha saputo far nascere in noi quell'incubo. Parola e sentimento ignoti all'uomo « di carattere », all'Uomo, cioè, veramente tale, nel significato piú alto e piú nobile della parola.

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Se l'Esercito difende la Patria, quando questa ne abbia bisogno, la palestra in cui si formano e l'esercito armato e l'esercito civile - la Nazione, in una parola, tutta quanta - è la scuola. I soldati e i cittadini sono quali la scuola li fa! Di modo che la scuola è la funzione fondamentale di un popolo civile e che voglia guardare sicuro davanti a sé: dunque, il campo nel quale piú profondamente si deve incidere. Le norme del vivere civile non rappresentano ancora una materia specifica d'insegnamento, come già in alcuni Paesi - in Inghilterra, per esempio, dove è istituita anche una cattedra universitaria; - ma i docenti di ogni ordine e grado, che sono i funzionari dello Stato piú vicini al popolo, sanno che nessuno piú efficacemente di loro può inculcarle nelle nuove generazioni e, attraverso queste, nelle famiglie, nel popolo, in questo nostro popolo, esuberante piú d'ogni altro di viva cordialità, ma ancora non troppo esperto della « forma », di quella italiana specialmente; mentre, poi, si giudica da essa del grado di civiltà da un popolo raggiunto. Il luogo in cui la convivenza cameratesca diventa un grande problema è la scuola: qui essa ripone in termini nuovi uno dei temi fondamentali della pedagogia, e precisamente quello dei rapporti fra autorità e libertà. La pedagogia liberale, facendo scempio della saggezza dei suoi classici, come il Locke e il Rousseau, aveva finito per travasare tutta l'autorità nella libertà, e praticamente aveva esaltato il gusto romantico del fanciullo senza legge: il che si vede principalmente nella letteratura infantile che aveva scoperto « il monello », come il tipo della libertà naturale, terrore dei maestri, dei genitori, degli amici. Ora il fanciullo italiano è salvato da tale contagio, e risolve il rapporto con la semplice e composta ambizione di convivere col maestro in una passione comune; passione la scuola, passione l'avvenire della Patria. Ma in tale convivenza la legge del dovere si fa sentire, come, in un coro, la voce dominante.

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A una signora che, per la sua famiglia, abbia un titolo piú alto di quello del marito, si dà il titolo del marito; e se questo non ne ha alcuno, non le si dà alcun titolo. Quando poi, davanti al titolo, si mette il « signore »? In verità, l'indole stessa, il genio della nostra lingua comportano tale uso meno frequentemente che la lingua francese, per es., l'inglese, la tedesca: il monsieur, il mister, l'Herr si adoperano molto piú spesso che, da noi, il « signore »: questo ha un non so che di troppo umile, e quasi di servile. E, però, obbligatorio per gl'inferiori parlando ai loro superiori diretti e a quelli, in genere, con cui abbiano relazioni di semplice conoscenza: Signor Direttore, Signor Capo, Signor Ministro; è bello metterlo davanti agli alti gradi dell'Armata: Signor Ammiraglio, Signor Generale: come davanti al titolo nobiliare, rivolgendosi a signore: Signora Contessa, Signora Marchesa o a titolati anziani: Signor Duca: si tralascia senz'altro, parlando a titolati piú o meno coetanei, specialmente in un salotto.

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D'onde la necessità assoluta di sottostare a una regola, di ubbidire a una disciplina, di conformarsi, cioè, a tutto quello che esiste al mondo, perché nulla esiste al mondo che non abbia una sua legge e ad essa non ubbidisca. Chi si guardi intorno con occhio sapiente osserva l'ordine e l'armonia da per tutto; e ordine e armonia significano disciplina. Nulla è impossibile, nessuna mèta è irraggiungibile per l'uomo disciplinato; mentre tutto è incerto, tutto in balía del caso per l'uomo che non abbia saputo o voluto disciplinarsi. Ciò premesso, ne consegue che la disciplina non è una norma astratta, fuori della vita; ma quasi una linea di condotta perfettamente e costantemente aderente alla vita; una regola che non è fuori di noi, ma deve essere un nostro proposito fermo; anzi, piú che proposito, un sentimento profondo, che domini ogni nostro atto, si sia o non si sia osservati, ci sia o non ci sia una sanzione. Diversamente, la disciplina sarebbe null'altro che finzione, contraffazione, ipocrisia. Né essa si discute: è un principio che obbliga tutti; e tutti ugualmente; e da chiunque rappresentato: « è cosi, perché è cosí»; « questo si fa o non si fa, perché si deve o non si deve fare! ». La vita interna. È regolata, si può dire, ora per ora, e quasi minuto per minuto. C'è il tempo fissato per il riposo, per lo studio, per la ricreazione, e a nessuno dev'esser lecito protrarlo o accorciarlo secondo il proprio gusto: si pensi a quel che accadrebbe, se ciascuno facesse a suo piacere! Quindi, i vari segnali obbligano tutti, e immediatamente; l'ubbidienza « immediata » ai segnali è il fondamento della disciplina interna ; e non della interna soltanto, ma anche della interiore. È assolutamente errata l'osservazione che questa violenza fatta alla volontà dà poco buoni risultati, perché impone lo studio quando si preferisce la ricreazione, e il riposo quando si preferirebbe lo studio. Si confonde la « violenza » con l'« educazione » della volontà; educazione che, come ho detto, è la base di ogni successo e di ogni benessere della vita. E poi, sarebbe in parte vera, quando si trattasse di volontà consapevole, non di volontà giovanile, quasi ancora istintiva, la quale si capisce che preferirebbe il gioco allo studio, il letto alla scuola. Il convittore deve, dunque, tener presente che, mentre gli altri giovani della sua età sono educati in famiglia - in una società, cioè, molto ristretta - egli viene educato - e, a mio giudizio, per sua fortuna - in una società piú ampia, dove piú presto si sviluppano e si apprendono le nozioni di dovere e di diritto; dove non vi sono le condiscendenze parentali, che talora guastano l'opera educativa; dove, in fine, si sviluppa piú presto il senso della responsabilità - che è il piú grave e il piú importante della vita - essendo affidato al contegno del convittore il prestigio, la dignità, il buon nome non soltanto suo e della sua famiglia, ma anche della istituzione a cui egli appartiene. Pertanto, le norme della cortesia avanti esposte valgono per lui come per tutti; però s'impongono, per cosí dire, al convittore pin strettamente che agli altri. Un giovinetto che vada in giro con le scarpe polverose, con la giacca frittellosa, con dei bottoni pendenti o addirittura mancanti, può anche non esser notato o, al piú al piú, sarà sfavorevolmente giudicato, per quanto sconosciuto; se nelle medesime condizioni si trovasse un convittore, l'identificazione è presto fatta; e il nostro prossimo - disposto, per lo piú, a sentenziare all'ingrosso e poco benevolmente - da un convittore disordinato, giudica male il convitto; e il discredito ricade fatalmente dal convitto su tutti i convittori. Io conosco tanti i quali, pur alla distanza di decenni, si vantano d'essere stati educati in questo o in quel convitto: in convitti si capisce, che godevano e godono eccellente reputazione. Quindi, prima dote di un buon convittore dev'essere l'ordine; e ripeto qui che l'ordine non riguarda soltanto l'esteriore, ma tutte le nostre attività, tutti i nostri aspetti, dai piú effimeri ed apparenti ai piú spirituali e profondi: l'ordine, in una parola, è il primo passo per la educazione della volontà. Osservando come un convittore lascia il suo posto nel dormitorio o nello studio, come lascia la cameretta, come cura la tenuta, come sta a scuola, come partecipa ai giochi, si nota subito se egli è « ordinato ». È opportuno scendere a qualche particolare: Nel dormitorio, si rimane solamente nelle ore destinate al sonno, salvo che non sia altrimenti stabilito. Durante la notte, non si fanno cose che possano, comunque, disturbare il riposo degli altri. Le operazioni dello svestirsi, del vestirsi, della pulizia vanno eseguite con decenza e con sveltezza; beninteso che la sveltezza non deve giustificare la benché minima trascuratezza. La cameretta va tenuta pulita e ordinata, con ogni cosa al suo posto. Non si ricevono compagni nelle ore, o nelle maniere vietate; né vi si fa qualsiasi altra cosa non consentita dal regolamento interno. Non si fuma; né si tengono cose mangerecce che emanino odori sgradevoli, vini o liquori. È anche prudente non prepararsi il caffè con le enormi macchine a spirito, sia per lo sgradevole odore che questo lascia, sia per i pericoli che tali macchine presentano. Alla preghiera del mattino e della sera, si partecipa con la massima serietà; e con serietà non minore si partecipa al rito dell' alzabandiera. È il modo migliore di cominciar la propria giornata questo d'innalzare il pensiero a Dio e alla Patria. E si tenga presente che, presso alcuni popoli - l'americano, per esempio - piú grave castigo che si possa infliggere a un convittore o a uno scolaro è quello di escluderlo dal saluto collettivo alla bandiera! A studio: ci sono, si sa, quelli che studiano di piú e quelli che studiano di meno: quelli che evitano ogni distrazione, e quelli per i quali ogni occasione è buona per distrarsi. I primi hanno diritto a non essere in alcun modo disturbati; mentre il dovere dello studio dovrebbe esser sentito da tutti indistintamente. Studiar poco significa far brutta figura a scuola e in convitto; significa procurar noie - e dolore - alle famiglie, ai superiori e a se stessi; significa, quindi, scarsa sensibilità, scarso amor proprio. E che di buono si può attendere da un giovinetto che non abbia « amor proprio »? I convittori poco diligenti pensano mai alla vergogna, quasi alla tragedia e al lutto, del loro ritorno in famiglia: ritorno che dovrebbe, invece, essere una gioia per tutti? Anche i fratelli, anche le sorelline, che aspettano a braccia aperte chi ritorna vittorioso esprimono, con la loro accoglienza fredda, il proprio risentimento per l'ingratitudine dimostrata verso i genitori, per il dolore loro procurato, per le piccole bugie che si dovran dire, arrossendo, ai parenti e agli amici. E le vacanze? Si aspettano per lunghi dieci mesi; e poi quei giorni che sarebber dovuti essere di spensieratezza e di svago si convertiranno in giorni di preoccupazione, di amarezza, di tormento. C'è, è vero, chi non disturba gli altri durante le ore di studio perché dorme, o legge libri di viaggi e di avventure; ma costoro non sono meno riprovevoli; appunto perché dormono o leggono, invece di studiare; ossia perché non compiono il loro dovere e ingannano i genitori, i superiori e se stessi; se stessi, sopra tutto. Prima, però, di denunziare i disturbatori, è bene avvertirli e riavvertirli amichevolmente. Il posto a studio dev'esser lasciato in ordine, come quello del dormitorio, come la cameretta: al suo posto, e sempre al medesimo posto, ogni libro, ogni quaderno, ogni oggetto da scrittoio. È il solo modo di non perder tempo per cercar questo e per cercar quell'altro, e di ubbidire prontamente ai segnali. Al refettorio: che si vada a tavola con eccellente appetito è, senza dubbio, ottima cosa; ma cosa non altrettanto ottima è lanciarsi come lupi sulla preda, dimenticando ogni regola fondamentale di buona educazione. È, anche qui, mancanza di amor proprio costringere il superiore presente a ricordare le norme del ben stare a tavola. A chi può far piacere questo? Perciò, è indispensabile tener presenti le norme indicate, e attenervisi scrupolosamente. C'e anche da fare qualche raccomandazione in piú: siccome le tavole sono lunghe, e, spesso, accostate alle pareti, non precipitarsi al proprio posto, ma attendere che sieno prima entrati coloro che stanno dalla parte opposta a quella d'onde si entra. Se si legge qualche cosa, non disturbare; evitando sopra tutto, e in ogni, caso, di produrre, con i piatti o con la posata, quel frastuono che è caratteristico delle osterie d'infimo ordine. Poiché i commensali sono numerosi e gli ambienti non sempre vasti, è assolutamente necessario parlare sottovoce e non produrre rumore con le sedie, sia nel sedere a tavola, sia nell'alzarsi. Se si va a tavola con la tenuta di parata, e la minestra è brodosa, è lecito - ma soltanto eccezionalmente e ai piú piccini - di fermare il tovagliolo al colletto o fra i bottoni della giubba. Per qualsiasi reclamo non brontolare contro i servitori, né richiamare l'attenzione dei compagni, o fare con loro sfavorevoli apprezzamenti, ma - a tempo e luogo opportuni - esporre le proprie ragioni ai superiori. A ricreazione: il moto, la gioia piacciono a tutti; per la gioventú, sono l'espressione della vita: chi, in questa bella e cara età, non « esplodesse » dimostrerebbe di essere ammalato nell'organismo e nell'anima. Ma, per carità, che non si somigli a tanti veltri che escan di catena! Est modus in rebus: ci vuole una misura in tutto; anche nel passare dalla noia e dalla fatica dello studio, al sollievo e al giubilo della ricreazione. Se qualcuno vuol continuare a studiare non deve essere molestato o deriso dagli altri. Come egli non può pretendere che si parli sottovoce o che non si suoni il grammofono, cosí gli altri debbono rispettare il suo desiderio. Quante volte si suol ripetere, con tono canzonatorio, la parola sgobbone! Si è illogici e crudeli senza, forse, saperlo; perché, per lo piú, si dà quell'epiteto a compagni di volontà tenace che intendono di riuscire ad ogni costo, o a compagni che non hanno da spendere per « sussidiari » o per ripetizioni. Nei giochi, il convittore deve dimostrarsi di modi particolarmente signorili, evitando ogni atto di volgarità, di violenza, di frode, di sopraffazione: non deve deridere i compagni che hanno perduto; e, se gli si fa qualche scherzo, bisogna che ci sappia stare, che non si dimostri permaloso, quando, beninteso, lo scherzo sia sobrio e non offensivo; quando, in altri termini, sia contenuto entro certi limiti. Chi non desidera che si scherzi con lui non deve scherzare con gli altri. Arrangiarsi: è una brutta parola, venutaci dal francese, e che sa di caserma. Nei convitti, la si ripete piuttosto spesso e, purtroppo, la si pratica anche. Essa vuol dire « provvedere nel modo piú spiccio e piú comodo ai propri casi ». E scomparso un libro dallo scaffalino? Si provvede subito, prendendo lo stesso libro a un altro: si è improvvisamente spezzata una stringa? La si sostituisce con una portata via a un compagno. Per l'alta considerazione in cui ho i convitti, mi limito ad accennare al libro e alla stringsa; ma, talora, l'arrangiarsi va al di là delle piccole cose. Or mi domando come si faccia a non capire che, se l'arrangiarsi è uno scherzo, uno scherzo di pessimo genere, assolutamente da evitarsi; e, se non è uno scherzo, è qualcosa che si avvicina di molto al furto. Francamente, il convittore bene educato non si arrangia; e se si accorge che altri lo fanno sistematicamente a suo danno, deve denunziare il fatto ai superiori. Per i lestofanti ci son altri convitti! E, sia detto una volta per sempre, in questo caso, come in altri di qualche gravità, non si tratta di « far la spia », ma di salvare le proprie cose dll'istinto razziatore di altri; si tratta di salvare il buon nome del convitto: non farlo significherebbe complicità. Al piú al piú, per eccesso di generosità, si può denunziare il fatto, tacendo il nome degli arrangiatori sistematici, lasciando ai superiori la cura di identificarli. A ripetizione: questo delle cosí dette ripetizioni è divenuto, un bisogno quasi generale. E non se ne capisce la ragione; perché, fino a qualche decennio addietro - e quando i programmi erano piú vasti e piú complessi - la scuola bastava a tutti, e si ricorreva alle lezioni private soltanto nel caso di scarsa intelligenza o quando si voleva guadagnare qualche anno. Ci pensino, dunque, i convittori, e facciano del loro meglio per risparmiare questa spesa alle famiglie. A ogni modo, se lo credono necessario o opportuno, prendano pure lezioni; però tengano presente che esse debbono servire a colmare eventuali lacune, a completare il lavoro scolastico; in nessun caso, si deve ricorrere all'insegnante privato per farsi preparare da lui i cómpiti di scuola. Se cosí si facesse, il maggior lavoro e la maggiore spesa, invece di giovare, si convertirebbe in danno, perché si eviterebbe lo sforzo, che è il piú sicuro e piú efficace maestro dell'apprendimento. E si tenga altresí presente che l'insegnante privato è un insegnante come tutti gli altri, a cui si deve il massimo rispetto, e che non si può far venire o non venire secondo che piaccia o non piaccia, secondo che se n'abbia o non se n'abbia bisogno. La corrispondenza: è bene sia ridotta al minimo indispensabile. È doveroso scrivere almeno una volta per settimana alla famiglia. Si dice sempre la verità; si conferma che si sta di buon animo in convitto o, per lo meno, che ci si sta non troppo malvolentieri; non si fanno apprezzamenti poco benevoli sul trattamento o sui superiori, dando, come si suol dire, corpo alle ombre, ossia presentando come andamento generale quel che può essere stato uno sporadico e trascurabile caso particolare; si comunicano le piccole soddisfazioni ed anche le piccole sconfitte; si fa cenno dei timori, delle speranze e, sopra tutto, dei buoni propositi. Le lettere si fanno partire nei modi prescritti: se si ricorre ad altri mezzi, vuol dire che si ha qualcosa da nascondere; qualcosa, cioè, che non risponde a verità o che non è consentita dalle norme disciplinari. La vita esterna. Mi par quasi superfluo ripetere che, quando si è fuori, non si è il signorino Tizio o il signorino Caio, ma si è « un convittore», « uno di questo o quel convitto », per cui, qualsiasi cosa si faccia, di bene o di male, non ridonda tanto a merito o demerito della persona, quanto a merito o demerito della qualità specifica che si riveste, della istituzione di cui si fa parte. A scuola: il convittore dev'esser modello di diligenza, di contegno, di ordine. Se, per nessun alunno, è scusabile che gli manchi un libro, un quaderno, un foglio, la penna, lo è ancor meno per il convittore ; perché il convittore, anche in questo, si deve sorvegliare ed esaminare scrupolosamente prima di avviarsi a scuola. E sono riprovevolissimi quei convittori che « si rifanno » nella scuola del silenzio e della disciplina dovuti mantenere in convitto; com'è colpa gravissima obbligare un insegnante o un Preside a lamentarsi col Rettore della negligenza, del contegno poco corretto, del disordine dei dipendenti. Con i compagni esterni, i rapporti di buon cameratismo, e non oltre: se la classe è mista, uno squisito tratto cavalleresco con l'elemento femminile, ma nessuna smanceria o cascamortaggine. E, quando le lezioni sono finite, poiché l'istitutore è già lí ad attendere, allontanarsi sollecitamente e ordinatamente con lui, senza indugiarsi, con futili pretesti, per i corridoi, e magari a bocca aperta, per veder passare « le ragazze ». È bene non dimenticar mai che altro è « affermare - ed orgogliosamente anche! - di appartenere a un convitto » ed altro è « far la figura del collegiale ». A passeggio. Mai si è cosí sotto gli sguardi di tutti come quando si è a passeggio. Fa piacere all'occhio e allo spirito vedere dei giovinetti eleganti, che incedano marzialmente, composti e disciplinati, senza la piú piccola sguaiataggine nella voce, nel riso, nel gesto; senza dar noia ai passanti; senza volger il capo in giro, come un arcolaio, quasi alla ricerca ansiosa di una persona che interessi. Specialmente per le vie della città, né pur ci dovrebbe essere bisogno della vigilanza dell'istitutore, poiché ogni convittore dovrebbe esser animato da tale un senso di responsabilità da non permettersi cosa alcuna che possa, in qualsiasi modo, compromettere la reputazione dell'Istituto. Al teatro, al cinema, ai trattenimenti pubblici: la solita raccomandazione: presentarsi irreprensibilmente; e sempre tenere un contegno irreprensibile; come se esclusivamente dal contegno proprio dipendessero il buon nome e il prestigio del convitto. Da osservare in piú che, ai convittori in tenuta di parata e « in corpo », non sono consentite alcune piccole libertà permesse ai singoli: come lo scegliersi o il cambiar posto; il portare o il cavarsi i guanti, ecc.: per questo, attenersi scrupolosamente agli ordini ricevuti; anche per risparmiare al superiore presente il poco gradito compito di dover fare dei richiami in pubblico. Alle gare: signorilità nei modi, lealtà nello spirito; e impegnarsi a fondo perché trionfi il gruppo al quale si appartiene. Qui, come altrove, ora come sempre, esser animato da quello che, in gergo militare, si chiama « spirito di corpo ». I superiori: sono quelli che, implicitamente, hanno ricevuto dalle famiglie il delicato incarico di sostituirle nella educazione dei figlioli. Quando s'è detto questo, s'è detto tutto; e il convittore che questo comprende - e sente- sa anche quale debba costantemente essere il suo contegno verso di loro. Tale contegno si compendia in poche parole: rispetto assoluto ; ubbidienza incondizionata ; fiducia illimitata! Il buon convittore dimostra il suo rispetto per i superiori non in presenza loro e nelle forme soltanto. Parla con loro modestamente, stando composto, senza arroganza o presunzione; s'interessa vivamente a ciò che essi dicono o raccomandano; non risponde alzando le spalle ; non ne sparla, né si associa a chi ne sparla; se si vede trattato da loro con familiarità, non ne abusa; ubbidisce ed eseguisce anche quando par errato o eccessivo ciò che gli si chiede; subisce rimproveri e punizioni, anche se sembrano ingiusti; farà valer dopo le sue ragioni, se ne ha. In una parola, s'adopera piú e meglio che può per guadagnarsi la loro stima e la loro benevolenza. Il Rettore: è il Capo del convitto; colui che provvede e sovraintende a tutto ; colui che risponde di tutto, e su cui, di conseguenza, gravano tutte le responsabilità. Egli vuol bene ai convittori come a figlioli proprii, s'interessa piú che può alla loro salute, e meglio che può ai loro studi, alla loro formazione, a gettar le basi del loro avvenire. Comprende i disagi e i piccoli sacrifizi di ciascuno e ricorre a ogni mezzo e a ogni modo per attenuarli, per tener su lo spirito, per incoraggiare. E se, talora, par ch'egli prenda cura di alcuni piú che di altri, ciò dipende dal fatto che quelli hanno saputo, come poc'anzi ho detto, guadagnarsi piú degli altri la sua stima e la sua benevolenza, o perché dimostrano di aver maggior bisogno di sprone e di aiuto. Il che accade dovunque: ed è spiegabilissimo; ed è giusto - e doveroso - che, da un superiore, non si trattino alla stessa maniera quelli che fanno bene e quelli che fanno male. Invece, dunque, di mormorare, come spesso accade, meglio è mettersi in condizioni di farsi apprezzare e benvolere. Qualche volta - per fortuna, raramente! - il Rettore è costretto a mostrarsi un po' « duro ». È costretto, dico; perché ha anche lui una norma a cui sottostare, e piú rigorosa di quelle dei convittori; perché la vita e la dignità dell'istituto sono al di sopra del piccolo e povero interesse individuale e privato. Se nota, per es., una... pecora zoppa, egli, in quanto uomo, può anche compatirla; ma, come capo di un Istituto di educazione, deve energicamente cercar di guarirla ; e se nota un ramo insensibile e morto, deve inesorabilmente tagliarlo. Ciò può anche dispiacergli; anzi, si può esser sicuri che gli dispiace senz'altro; però, ripeto, nell'interesse della collettività, è suo stretto dovere farlo. Il Rettore, dunque, vive della vita di tutti, e singoli, i convittori - è quella la sua famiglia: - egli è accanto a loro, in mezzo a loro, anche quando ne è lontano; il suo spirito, vigilante e paterno, si sente da per tutto, a tutte le ore. Dato ciò, come non aver fiducia in lui, non rispettarlo, non volergli bene? Un convittore mi confessava candidamente d'aver conosciuto parecchi Rettori, ma nessuno piú severo del babbo. Il Vice-Rettore. Poiché il Rettore deve attendere a tutte le esigenze della vita del convitto, è giusto che, in qualcuna di esse, sia sostituito da un Vice-Rettore, il quale cura, specialmente, l'andamento disciplinare. E siccome c'è, anche nei convitti, una via gerarchica, il Vice-Rettore rappresenta, per cosí dire, l'ultimo gradino per il quale si accede al Rettore. È logico che questi sia informato di tutto; ma non sarebbe altrettanto logico che i convittori si presentassero a lui direttamente, facendogli affluire tutte quelle minuscole beghe che, nella vita collegiale, non mancano mai. Il Vice-Rettore esamina e vaglia e, quando lo creda opportuno, mette i subordinati a contatto diretto col suo superiore. Di modo che, dal momento che egli sovraintende immediatamente all'andamento disciplinare, e dal momento che questo è l'aspetto piú importante della vita collegiale, ognun vede quanto sieno laboriosi, ardui e delicati il suo compito e il suo ufficio. E chiunque tenti, in qualsiasi maniera, di sottrarsi alla disciplina tenga presente che gli procura un grande dispiacere, obbligandolo a ricorrere a sanzioni disciplinari. Gl'Istitutori: sono i piú vicini ai convittori: coloro che, per primi e meglio, ne conoscono i desideri, i bisogni, le ansie; coloro a cui piú spesso si ricorre, per chiarimenti ed aiuti; coloro che ne condividono la vita di tutte le ore. Le relazioni fra convittori ed Istitutori dovrebbero esser quali tra fratelli minori e maggiori; senza eccessive pretese o sciocche albagie da una parte; senza « arie », o colpevoli condiscendenze, dall'altra. Gli uni e gli altri dovrebbero essere legati da un sentimento di mutua benevola comprensione, basata sulla stima e sulla cortesia reciproca. Se non deve trascendere l'Istitutore, ancor meno deve trascendere il convittore. E non sono nel giusto quei convittori che giudicano buoni gl'istitutori solamente se e quando si rendono quasi complici delle loro eventuali marachelle, e permettono eccessiva intimità e libertà: familiarità, sí; ma, ripeto, non troppa, per non esser costretti, da un momento all'altro, a tirarsi indietro e far dare un giudizio poco lusinghiero sul modo di assolvere il proprio compito. I compagni. I compagni di convitto si ricordano per tutta la vita. Quando questa ci avrà avvolti nelle sue spire, ogni tanto, nelle piccole soste della varia attività quotidiana, affiora dal cumulo delle memorie qualche figura che visse con noi negli anni piú belli della prima giovinezza. E a chi non piacerebbe di esser ricordato dai compagni avvolto in una luce di cortesia, di amicizia, di fratellanza? Scaturisce da questa considerazione il modo di comportarsi del convittore con i compagni. Essere animato verso tutti da un sincero spirito di solidarietà e di cameratismo, che escluda ogni invidia e ogni gelosia: familiarità con pochissimi. Dimostrare della gratitudine per chi gli usi cortesia o, nel suo interesse, lo abbia trattenuto da qualche passo sbagliato, o lo consigli intorno a suoi eventuali difetti. Non essere avaro nel far piccoli favori, specialmente in cose che riguardano la scuola. Passar sopra a delle piccole offese, ed evitare ogni astio o desiderio di vendetta. Non millantare ricchezze, nobiltà, o altro, sopra tutto con chi non si trovi nelle medesime condizioni. Evitare lo stupido vezzo dei soprannomi. Non rivolgere mai la parola a chicchessia in dialetto, sforzandosi piú ch'è possibile di parlare l'italiano correttamente e con accento puro, specialmente quando questa è una delle ragioni principali per cui è stato messo in convitto. Non fare discorsi volgari, né dello spirito a spese di chicchessia. Non burlare i compagni per il paese d'onde provengono; per eventuali irregolarità nella loro famiglia; per la loro religione; per il loro modo di parlare; per qualche loro difetto fisico; per i natali poco nobili; per la poca intelligenza. In una parola, trattare tutti come si vorrebbe esser trattati da loro. È prudente, in fine, non invitare i compagni a casa propria per le vacanze, senza il permesso dei genitori; e non accettare con facilità e leggerezza inviti del genere. Gl' inferiori. Il convittore bene educato non tratta dall'alto al basso il personale di servizio, né usa con essa modi arroganti o poco cortesi. La cortesia autentica non si smentisce mai; anzi, s'afferma e spicca di piú specialmente nelle relazioni con gl'inferiori; perché, dopo tutto, non c'è merito ad esser cortesi con i superiori, e né pur con gli uguali, che, provocati, ci potrebbero energicamente rintuzzare. Qui, oltre alle raccomandazioni già fatte, mi sembra opportune ricordare al convittore ch'egli si deve guardare dall'indurre i servitori a trasgredire i loro doveri, scendendo con loro a pettegolezzi, o incaricandoli di commissioni che si vogliono sottrarre al controllo. Deve guardarsene, anche perché il servitore compiacente potrebbe esser sorpreso e vedersi applicare quelle multe, o addirittura potrebb'esser licenziato, con non grande soddisfazione di chi ne sarebbe stata la causa. CONCHIUDENDO: Se i giovinetti « sapranno » stare in convitto, ricorderanno sempre con piacere questo periodo della loro vita; e si accorgeranno che, nel convitto appunto, essi ricevettero la buona semente che, fruttificando, avrà fatto di loro degli ottimi cittadini.

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I Greci fecero una divinità del Silenzio; e le donne son troppo intuitive per non comprendere il valore di questa virtú, per non capire quanto ciò che non si dice abbia piú profondità, piú risonanza di quel che non esprimano le parole con i loro contorni limitati e precisi. Quale che sia il nostro sentimento, il silenzio è un gran mezzo di espressione: in ogni caso, è meglio tacere che parlare, come si suol dire, a vanvera. Saper restare muti è anche una delle piú sicure e piú belle prove d'intelligenza. Ma « sapere »; ossia servirsi del silenzio come di una dote superiore: la dote di chi ha ben compreso quanto di vero e quanto di falso, secondo le circostanze, ci sia nei famosi proverbi: Chi tace acconsente - Il silenzio è d'oro. - Un bel tacer non fu mai scritto. - Ex abundantia cordis os loquitur. Purtroppo, se questa virtú fosse apprezzata al suo giusto valore, la maggior parte delle nostre donne - e perché non degli uomini? - se ne starebbero permanentemente in casa, o permanentemente sole! La suddetta raccomandazione fa evitare parecchie altre gravi sconvenienze: 1) Di parlar troppo di sé o delle proprie cose. Vi sono alcuni i quali, nei loro discorsi, fanno affiorare mille volte il pronome di prima persona, e quasi calcandovi su la voce, come se averse la i maiuscola. Ignorano costoro che non c'è di peggio, per riuscire antipatici e insopportabili, che parlar troppo di sé; e che, viceversa, se si vuol riuscire amabili e simpatici, bisogna far di tutto per interessarsi agli altri. Si badi che non dico « fingere », ma « far di tutto » per interessarsi. Parimenti, il nostro prossimo, anche il meno geloso ed invidioso, non sopporta volentieri l'esposizione dei nostri pingui mezzi finanziari, delle cose preziose possedute o or ora acquistate e, in genere, di tutte le nostre « fortune »; tanto piú che, purtroppo, sono ben pochi quelli che potrebbero fare altrettanto. E anche meno è disposto a tollerare l'esposizione delle nostre sventure; essa diffonde nell'aria un senso di tristezza che, per carità e per solidarietà umana, oltre che per dovere, bisogna risparmiare agli altri. Non è certo di buon gusto, e né pur generoso, portarsi dietro, ovunque si vada, il fardello delle proprie disgrazie, preoccupazioni, miserie. È un po' difficile trovare qualcuno che non abbia ansie per la salute, o imbarazzi economici, o altre piccole e grandi pene e miserie personali o di famiglia. Intanto, starebbero freschi i nostri simili se, oltre che per le proprie, dovessero rammaricarsi anche per quelle degli amici e dei conoscenti : allora sí che il mondo sarebbe veramente una valle di lagrime, e dalla vita esulerebbe ogni sorriso! Le prèfiche, dunque, della vita se ne stieno in casa a brontolare, a meditare e piangere sul male dell'esistenza; ad invecchiare e a morire prima del tempo: e vengano a contatto con le altre creature umane soltanto quelle che, con la luce dello sguardo, con la parola calda, col sorriso cordiale, sanno diffondere intorno a loro la fede nella vita, la gioia dell'esistenza. Quindi, parlare per destare invidia, no; meno che mai per suscitare compassione. Le persone che piú volentieri si avvicinano, e con le quali si sta volentieri, sono appunto quelle che non fanno pesare la loro superiorità - in qualsiasi campo e quelle che non tormentano con la enumerazione interminabile di sciagure. Si tenga presente che, a queste ultime, l'esperienza dei secoli attribui il nefasto privilegio di « portar male » e affibbiò l'appellativo di iettatori. 2) Di spettegolare. Le signore specialmente se ne guardino: esse lo fanno spesso e piuttosto volentieri. Tante hanno questo non simpatico difetto; le quali, poi, ignorano che, fra loro medesime, si qualificano per « lingue d'inferno ». Dell'uomo pettegolo è meglio non parlare: lo si è definito, quando si è detto che egli ha rinunziato agli attributi piú nobili e piú fieri del suo sesso: la serietà, la dignità, la virilità. Giacché il pettegolezzo riveste non di rado i caratteri della maldicenza e, talora, della vera e propria calunnia. Si guarisce di questa peste imponendo a se stessi un costante contegno grave e rispettoso nei riguardi degli altri; evitando di « raccogliere le voci che corrono... »; di trasmettere, con piú o meno velata compiacenza, e con maggiore o minore arricchimento di frange, le voci raccolte; di parlare degli altri - specie, ripeto, se assenti - a base di « ma... », di « se... » e di punti sospensivi, pieni di significati misteriosi. La pietà di alcune lingue è peggiore della peggiore maldicenza! In alcuni Paesi d'Europa è stata bandita, contro il pettegolezzo, una vera e propria crociata, con comitati, assemblee, giuramento nelle scuole, circolari. In una di queste, era detto: « Non, si può avere un'idea delle grandi ripercussioni che la nostra iniziativa ha avuto in tutto il Paese. Le migliaia di lettere di plauso e di richiesta di moduli per l'adesione, pervenuteci in questi giorni, stanno a indicare che il pettegolezzo è diventato un vero flagello nazionale. Ed eccellente è stata trovata l'idea di estendere alla scuola la nostra campagna, e spiegare alle nuove generazioni quante tragedie potranno essere evitate se si riuscirà a estirpare la mala pianta! ». Si continuava invocando l'adesione e l'appoggio della stampa; ma, forse, i giornalisti si saranno rifiutati di prestar anche il giuramento... 3) Di far dello spirito non a proposito o di non buona lega. Son convintissimo che uno dei grandi benefizi - e dei meno dispendiosi - che si possano fare al nostro prossimo è quello di strappargli un sorriso o, addirittura, una bella risata: a condizione, beninteso, che quest'ultima non sia sguaiata; cioè, o troppo rumorosa o accompagnata da sussulti del corpo o da dimenamenti sulla sedia. Si dice che il sorriso aggiunge un filo alla trama della vita, e che il riso fa buon sangue: io non concepisco che una umanità sorridente. Ma quanto ci vuole per farla sorridere! Si capisce che qui si parla non del volgare cachinno, ma del sorriso e del riso sano e cordiale, suscitato non da lazzi piú o meno scurrili, né da buffonate e da istrionerie, ma da signorile umorismo. Quanto è difficile questo! Mentre, poi, è facile cadere nel ridicolo; e - si tenga bene in mente! - nulla, nella vita, si deve maggiormente temere del ridicolo. 4) Di fare dei discorsi arrischiati, di usare parole a doppio senso, di strizzare l'occhio... Cose sconvenientissime sempre e dovunque, anche mentre si trinca in una bettola; e da evitarsi in modo assoluto nelle riunioni di gente a modo, specialmente poi in presenza di signore o di ministri del culto. Se qualche imprudente - o maleducato - si arrischiasse a farne, cercare di cambiar discorso; in nessun caso, compiacersene, dimostrando col silenzio e con un atteggiamento anche piú serio del solito la propria riprovazione. 5) Di parlar «troppo» di cose tecniche. Queste non possono interessare tutti i presenti; per lo meno, non possono interessarli a lungo. Né è, certo, segno di generosa comprensione l'insistere presso un tecnico perché si indugi a parlare della sua scienza o industria: comincerebbe con l'essere lusingato; finirebbe col seccarsi. Chi lo crederebbe? ci sono alcuni i quali, prima di recarsi a una riunione, si leggono qualche voce dell'Enciclopedia, e poi girano e rigirano il discorso fino a che non hanno squadernato loro rara - recentissima - dottrina... 6) Di fare il « bene informato». Altra categoria, antipaticissima, questa dei « bene informati ». Gente, per lo piú, che passa da un ritrovo all'altro per raccogliere notizie, modificarle a gusto proprio e rimetterle in circolazione come se circostanze eccezionali le avessero portate a sua conoscenza; o che si vuol dar delle arie, facendo supporre vaste ed alte conoscenze. Malcelata millanteria, stupidità e, nella piú benevola delle ipotesi, mancanza di serietà e di prudenza.

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Ed è inutile aggiungere «quando lo meriti»; perché nessuna persona di senno vorrà trattenere presso di sé gente che non conosca il proprio mestiere, o non abbia voglia d'impararlo, o che non lo eserciti con coscienza. Bisogna, prima di tutto, provvedere a una sistemazione igienica e dignitosa; quindi, niente soffitte o bugigattoli senza finestre; non lusso di mobili, ma che non manchi l'indispensabile per poter tenere in ordine la persona e le cose. Quanto al nutrimento, dev'esser sano ed abbondante: lo stesso che per tutta la famiglia. Conosco delle famiglie dove non si beve vino, e pure si pensa a darne qualche bicchiere al personale di servizio. Quando c'è qualcosa di «speciale », non è doveroso farne parte; però è bello; e si può esser sicuri che il pensiero gentile sarà apprezzato. Si fisserà fin da principio come si desidera, o si esige, che stia in casa; si sarà meno rigorosi, e si consiglierà soltanto, per fuori, nei giorni di libertà. E si farà una netta distinzione fra i vari rami del servizio, per non pretendere dalla istitutrice quel che deve fare la cameriera, né dall'autista quello che deve fare il cuoco. Se ci fosse bisogno di aiuto o di sostituzione, chiederlo per piacere. Il trattare bene non significa permettere eccessiva confidenza; ciascuno al proprio posto! Perciò, non si permetterà che la persona di servizio tratti troppo familiarmente anche i bimbi, o che riferisca i pettegolezzi altrui. E gli adulti si asterranno dal venire a parole in presenza di lei, o dal parlare di cose intime proprie o della famiglia. Il marito dirà sempre « la signora » quando chiede di sua moglie; questa dirà sempre « il dottore, l'ingegnere, ecc. » parlando di suo marito. Gli ordini precisi, ma non secchi e privi di garbo; c'è differenza tra un « rifatemi la camera! » e un « volete rifarmi la camera? ». Un « grazie » e un « per favore », ogni tanto, non dispiacciono! Alle istitutrici sempre « signorina », e il lei: le persone di servizio, specialmente se sono in casa da molto tempo, si chiamano per nome e si può dar loro del tu. Si chiamano per nome le persone di servizio delle famiglie amiche soltanto se si conoscono da qualche tempo. In conclusione, le relazioni fra « padroni » e « servitori » debbono fondarsi su diritti e strettissimi doveri reciproci. I primi debbono aiutare, sorvegliare, consigliare queste persone meno istruite, meno fortunate di loro, piú disarmate di fronte alla vita; gli altri debbono essere rispettosi e fedeli, cercando non le famiglie presso cui si possa guadagnare di piú, ma dove ci sieno persone degno di stima e di affetto.

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D'altra parte, è giusto che chiunque ha fatto per noi qualche cosa a cui non era tenuto abbia una ricompensa: da chi ci porta un mazzo di fiori a chi ci aiuta a infilare il pastrano; da chi ci serve a tavola, in un ristorante o in una casa d'amici, a chi ci attacca un bottone nell'albergo. Perciò, è tutto detto quando si è raccomandato - a chi può - di non lesinare in fatto di mance; badando solamente che esse non sieno « poco dignitose » per la esiguità o per il modo.

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Chi crede opportuno mettervi qualche indicazione - che non abbia, però, il carattere di bardatura da fiera - lo faccia con la massima brevità e in caratteri piú piccoli. Né è elegante, contrariamente a quel che si crede, il biglietto di visita ridotto in proporzioni minime: ciò è appena consentito alle signore, ma senza esagerazioni. I litografati son da preferire agli stampati; gl'incisi ai litografati. Per gli uomini, può bastare l'iniziale del nome e il cognome: per le signore, il nome e il cognome del marito; per i giovani e per le signorine il nome e il cognome. Oramai, anche le signorine possono avere il loro biglietto di visita purché ne facciano un uso molto discreto. Per le vedove, il loro nome e il cognome del marito defunto, seguito, se piace, da quello che avevano da signorine, ma senza la parola « vedova »: per coniugi, il nome del marito e della moglie, col cognome del primo; e, per eccesso di cavalleria, il nome del marito preceduto, invece che seguito, da quello della moglie. In ogni caso, il nome deve precedere il cognome: si fa il contrario soltanto negli elenchi. Il biglietto di visita si manda per augúri, felicitazioni, condoglianze; per nascite, promozioni, onorificenze; per accompagnare regali, per presentazioni. In alcuni casi, è stato sostituito un po' dal telefono - nelle relazioni molto amichevoli - un po' dalla cartolina illustrata. Ma il biglietto è piú dignitoso della cartolina; salvo che questa non sia veramente bella, o spedita in busta chiusa. Anche il biglietto si spedisce in busta chiusa, quando si vuol attribuire importanza all'occasione per cui si manda o particolare considerazione alla persona cui s'invia. Usava che gli uomini portassero il proprio biglietto alla casa di una signora conosciuta a un pranzo, a una festa, a un ballo: ne lasciavano due, se la signora era coniugata; la indirizzavano ai genitori e alla figlia, se era signorina: oggi pare una ricercatezza o un perditempo; e i piú ne fanno a meno. E passi pure per le relazioni piú o meno comuni, ma non sarebbe certo corretto trascurar di portare la propria carta di visita quando si fosse stati presentati, in una delle occasioni suddette, a una signora d'alto rango o che fosse moglie di un'autorità, o un'autorità ella stessa. In tal caso, anche la signora presentata porta la carta di visita; e, se ha conosciuto anche il marito, porta il biglietto suo e quello del proprio consorte. Contraccambia la carta di visita soltanto il marito.

Pagina 62

In una parola, disporre ogni cosa in modo che l'ospite capisca che si è pensato a tutto, e che non abbia bisogno di chiedere nulla ; e il trattamento sia tale ch'egli si possa trovare a suo agio, e sia persuaso che la sua presenza non è di fastidio. Lo si accompagna alla stazione, lo si ringrazia della eccellente compagnia fatta, e si esprime l'augurio di poterlo presto rivedere in casa. A queste norme generali vanno aggiunte, tanto per chi è ospitato quanto per chi ospita, quelle particolari di delicatezza, riguardanti i rapporti fra uomini e signore, giovanotti e signorine. In fatto di ospitalità, le leggi e le persone sono sacre: violare comunque le prime, o comunque offendere le altre non è da gentiluomo. E un'ultima raccomandazione va fatta tanto a chi ospita quanto a chi è ospitato: oggi si parla un po' troppo e un po' da tutti - né sempre con competenza e serenità - di politica, di religione, di sociologia, di economia. Ora, questi argomenti vanno toccati con molta discrezione; specialmente se sappiamo o ci accorgiamo che le opinioni non concordano eccessivamente.

Pagina 76

Non ostante che la scienza abbia trovato, oltre la nicotina, altri potenti veleni nel tabacco; non ostante che i malanni causati dall'abuso di questo si riscontrino sempre piú numerosi e gravi, pure mai si è tanto fumato quanto si fuma oggi. Le statistiche ci dicono che il consumo del tabacco crebbe enormemente dopo il conflitto mondiale; con vantaggio, certo, delle regíe, ma con non altrettanto vantaggio delle funzioni cardiache e nervose, dell'attività visiva e mnemonica dei fumatori. Quindi, tutti dovrebbero evitare ogni eccesso, i giovanetti specialmente: e da nessuno si dovrebbe fumare nelle ore antimeridiane. La sigaretta, quando si aspiri, nuoce piú del sigaro e della pipa; ma il sigaro e la pipa debbono essere messi da parte quando ci si trova in presenza di signore. Anche se si sa che queste fumano, chieder sempre il permesso di accender la propria sigaretta, anzi, cominciar dall'offrir sigarette e fiammifero acceso. Le signore non offrono, come si suol dire, il fuoco: l'uomo presenta il fiammifero acceso, servendosene per ultimo. È finito, oramai, in soffitta l'in tre non si accende!; ma se, fra i presenti, ci fosse qualcuno per cui valesse ancora lo stolto pregiudizio, si ripassa il fiammifero acceso o se ne accende un altro, senza aggiungere che lo si fa per salvare la vita del piú giovine. Se le sigarette non sono di fine tabacco biondo, non offrirle e non fumarle. Fumando non si sputa; né si storce la bocca per mandar fuori il fumo ; né si lancia questo sul viso dei vicini. Né è elegante scuotere la sigaretta prima di accenderla, o spalmare di cera l'estremità superiore; la quale estremità deve esser tenuta delicatamente fra le labbra, senza esser bagnata. La cenere va fatta cadere negli speciali piattini; dove si lasciano e si schiacciano le cicche, non consumate fino al minimo possibile. Ogni persona bene educata, parlando con chicchessia, si leva la sigaretta di bocca; come la butta via - il sigaro si può spegnere - prima di entrare in qualsiasi casa privata. Le signore, pur fumando con discrezione e con grazia, dovrebbero non fumare « in pubblico ». E dovrebbero evitare che sentissero di tabacco la borsetta, il vestiti, i capelli, l'alito.

Pagina 85

Passa l'amore. Novelle

241507
Luigi Capuana 3 occorrenze
  • 1908
  • Fratelli Treves editori
  • Milano
  • verismo
  • UNICT
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- C'è mancato poco che la gran ruota del suo mulino non lo abbia sbalzato per aria e sfragellato! - La mano di Dio!... E ancoral... Ancora!... - Me l'ha raccontato uno del vostro paese. E, in pochi minuti, ogni cosa si è sfasciata, è andata in frantumi per troppa violenza di moto. Son crollati due solai.... - Crollerà l'intero palazzo! Vedrete! - Non fate il profeta del malaugurio! Infine sono figli vostri. E quella povera baronessa! È malata, quasi moribonda.... Andate colà, perdonate tutti, siate generoso! Vi occorre danaro? Due oncie? Sono le ultime. Fra qualche mese avrete le casse piene di scudi non saprete che farne.... E in gennaio non dimenticate di mandarmi le ulive nere salate, quelle di Cento-Salme. - Non c'è ulivi a Cento-Salme. So io dove trovarle. - E perdonate. Perdonare è dei grandi - concluse don Emanuele. No, non poteva perdonare! Ora che la lite era vinta, ora che la ricchezza tornava a far rifiorire il nome dei Zingàli, tutte le sofferenze, tutte le umiliazioni patite gli risalivano alla gola, gli attossiccavano la bocca, quasi gli fossero rimaste indigeste da più di due anni. E quel tanfo di cui più non si accorgeva, e quel sudiciume della biancheria e del vestito a cui più non badava, e dei quali aveva spesso tratta materia di orgoglio pel suo carattere, ora, soltanto ora, quel tanfo gli mozzava il fiato; ora, soltanto ora, quel sudiciume che portava addosso gli dava nausea! E la mattina dopo montò sul carretto di un compaesano, come un miserabile portato per carità, e si sfamò assieme col carrettiere in un'osteriaccia di campagna. Il sole lo cuoceva, le scosse del carretto gli indolenzivano le ossa. Ma, steso quasi bocconi su le dure tavole di abete di cui il carretto era carico, egli pensava al giorno che sarebbe rientrato nel suo palazzo da vero padrone, da vero barone di Fontane Asciutte e Cantorìa; lui che n'era uscito con quattro piastre in tasca e un mazzo di scritture sotto braccio! Lui che volevano far interdire perchè rovinava la famiglia! Lui che era stato abbandonato dalla moglie, dalle figlie, dai figli come un rognoso, come un appestato! - Ah, certamente già si apprestano a rappresentare la commedia! Ora che non sono più un matto da interdire, ora che non sono più un rognoso, ora che non sono più un appestato, ora verranno a chiedere perdono, si umilieranno, commetteranno tutte le viltà. - C'è Cento-Salme in vista. Ci sono diecimila onze per colui del mulino.... e dieci per l'avvocatino don Felicianino.... l'ipocrita, il gesuita!... Via! Via!... Non sono più marito, non sono più padre!... Sono soltanto don Pietro-Paolo Zingàli, barone di Fontane Asciutte e Cantorìa.... no, anzi, barone di Cento-Salme; otterrò un decreto pel nuovo titolo.... Era già sera; il mulo trascinava stancamente il carretto per lo stradone polveroso. Il carrettiere cantava. Il barone rizzò la testa; vide, lontano, spiccar neri sul cielo rossiccio, i campanili, le cupole, del paesetto da cui mancava da tre anni e un'inattesa forte commozione lo invase. Durante il viaggio aveva scambiato poche parole col carrettiere; ma in quel punto sentì il bisogno di parlare con lui, d'interrogarlo. - Che dicono di me? - Dicono che voscenza ha vinto la causa. Ora don Marco non penserà più al mulino.... - Forse.... - È stata una pazzia. I signori debbono fare i signori, ed io che sono un carrettiere, il carrettiere; dico bene, voscenza? - Ferma; scendo qui. Non far sapere a nessuno che mi hai portato. - Come vuole voscenza. E si arrampicò lentamente pel viottolo che saliva a destra su per la collina. I cani abbaiarono poco dopo, un contadino s'affacciò dal ciglione: - Zitto! - gli disse. - Sono stanco; la salita è ripida.

Pagina 126

Che vale che il mio letto abbia tre materasse di lana scelta, e morbide e ben sprimacciate? La testa mi va per aria! Mi rivolto di qua e di là.... Sì, sì!... Guai se dormissi come te, russando la grossa! Chi penserebbe alla mietitura, alla trebbia? Chi alla vendemmia? Rifiato forse? Tu ridi, bestione, quasi io dica delle sciocchezze.... Ed io ti dico che cambierei volontieri il tuo stato col mio! - Cambiamolo, Eccellenza! - Mi malediresti l'anima cento volte al giorno! - Ma, infine, da qui a cento anni, voscenza non si porterà tutto nell'altro mondo. Per chi lavora? - Lo so io? È la mia croce, non lo capisci? Ne godo forse di tutta questa ricchezza?... Perchè, tu lo sai bene, ce n'è grazia di Dio, ce n'è! Il magazzino del grano è pieno come un ovo; la cantina non ha una botte vuota; la dispensa ha quaranta coppi ricolmi fino all'orlo.... E poi, e poi!... Se ti dicessi quel che mi deve il barone Pitulla? Con belle ipoteche.... Eh! Eh!... Ma che vale? Lui se la spassa a Napoli, a Roma, a Torino, a Parigi con le donne.... Ed io sono stato a Roma, una volta sola, col pellegrinaggio, per vedere il Papa!... E se non tornavo sùbito, addio mietitura! Posso prendermi uno svago io?... Niente, niente! La mia croce è questa. Sia fatta la volontà di Dio! E don Pietro d'Accurso, detto il Gobbo, era invecchiato, mangiando bene, bevendo benissimo, grasso, roseo, tondo col suo eterno lamento su le labbra, predicando sempre che non c'è peggiore miseria di quella di esser ricchi; non facendo mai carità a nessuno, neppure a suo fratello che aveva otto figli e non sapeva come sfamarli col suo misero soldo di guardia campestre; dando da campare però a tante persone, pagando puntualmente tutti fino all'ultimo centesimo, mai però un centesimo di più, come neppure uno di meno. Egoista, sì, ma sincero nei suoi lamenti e nel suo aforismo prediletto: Non c'è peggiore miseria della ricchezza! E questo si vide benissimo nell'ultima sua malattia. Quando si accorse che l'ora sua era arrivata, mandò a chiamare il fratello: - Senti, Nanni; ti càpita una gran disgrazia: stai per diventare ricco, ricco assai. Il Signore abbia pietà di te. Pensa al funerale. Sarai costretto a spendere qualche migliaio di lire. Che vuoi farci? I quattrini sono là, in quel cassetto. I poveretti vanno all'altro mondo senza torce, nè preti, nè concerto; io sono ricco e debbo pensare a queste miserie anche in punto di morte!... Senti, Nanni: una bella cassa di noce scura, foderata di raso.... Ti costerà parecchio.... Ma che vuoi farci? Tu, se fossi morto guardia campestre, avresti dovuto contentarti della cassa del comune.... Te la saresti cavata, senza darti nessun pensiero, senza un soldo di spesa. Basta; io me ne vado. Mi dispiace di averti procurato questa disgrazia, questo gran guaio di lasciarti ricco.... Fa' la volontà di Dio, come l'ho fatta io!... Io vò a rendere i conti lassù!... Chi sa come andrà? Speriamo bene. Pensa a quel che ti ho detto di provvedere: cassa, funerale, concerto.... E.... spìcciati, spicciati.... Màndami qui il confessore!

Pagina 213

A meno che lei non abbia interesse di riaverla in casa.... È una bella ragazza, la conosco. - Per la mia età, brigadiere, non c'è più nè belle nè brutte ragazze. E non ci sono state mai neppure prima. - Se vuole, per farle piacere, chiamerò Tinu Mèndola, cercherò.... tenterò.... - Bravo! Bravo! Io la ringrazio, brigadiere. E uscendo dalla caserma, don Pietro pensava: - Non si può fare una buon'azione, sinceramente, senza che la gente non ci vegga sotto un secondo fine!

Pagina 34

Malia. Commedia in tre atti in prosa

242822
Luigi Capuana 3 occorrenze
  • 1891
  • Stabilimento tipografico di E. Sinimberghi
  • Roma
  • verismo
  • UNICT
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Pagina 11

Ha rabbia che Nedda abbia sposato prima di lei...- Sciocchezze!... E vedranno poi chi starà meglio... Oh! darei metà, del mio sangue per vedervi allegra!... Non paiono più, gli occhi vostri, i begli occhi per cui vi ho fatto cantare tante canzoni dietro quel portone

Pagina 12

Che volete che abbia?...

Pagina 35

Cosima

243871
Grazia Deledda 1 occorrenze
  • 1947
  • Arnoldo Mondadori Editore
  • Milano
  • verismo
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«Non abbia timore» rispose l'uomo, con una voce fra roca e dolce, ma anche quasi canora, che la padroncina non gli conosceva; «c'è Ippolito che è andato a raccogliere sterpi per il fuoco, e la sorveglia. Poi non si è quasi mai sentito niente, in questi posti. Chi vuole che veda la signorina? E poi è tanto savia, quella: non c'è pericolo che abbia dato appuntamento all'innamorato.» «Non si sa mai» insisteva la madre: e Cosima pensò in sua coscienza che realmente, su questo punto, si potevano elevare dubbi. «Le ragazze sono tutte stordite: quella, poi, ha certe idee in testa. Tutte quelle scritture, quei cattivi libri, quelle lettere che riceve. E non è venuto anche, a trovarla, un omaccione rosso come la volpe? e da lontano, è venuto, e poi ha scritto di lei sui giornali? La gente mormora. Cosima non troverà mai da sposarsi cristianamente: e anche le sorelle ne risentiranno, perché in famiglia tutto sta a sposar bene la primogenita. È vero che...» aggiunse con voce ancora piú lamentosa «ci sono anche i fratelli, che non ci fanno troppo da sostegno: oh, tu lo sai bene, Elia.» Egli lo sapeva: eppure aveva una fede cieca, un attaccamento appassionato per il signorino Andrea: ed anche la sua voce tremolò quasi di pianto quando ne parlò. «No, padrona, non si lamenti troppo del signorino Andrea. È buono, posso dire, quasi quanto lo era il signor Antonio: solo, è troppo generoso; è troppo amico di cattivi amici. Ma del resto bada alla roba, e ama le sorelle in modo particolare.» «Bada alla roba? Sí, ma per pigliarsi lui quasi tutta la rendita: e gioca, e va con le male donne. Questa la chiami bontà? Lo chiami amore per la famiglia? Andrea ci lascia appena il tanto per pagare i servi e le tasse. Io non dormo, un giorno o l'altro l'esattore verrà in casa a sequestrare: lo vedo in sogno, ne ho paura come del demonio. Oh, oh; Elia; e tutto questo perché i miei figlioli hanno abbandonato le vie del Signore.» «Lei esagera, padrona: ci sono figli peggiori: tutte le famiglie hanno la lor croce. Il signorino Andrea, dopo tutto, bada alla roba e la fa fruttare; è, dirò cosí, come un fattore, che si piglia la porzione maggiore. Ma poi metterà giudizio.» «No, Elia, non lo spero. D'altronde, che si fa? Siamo povere donne sole, con quel castigo terribile di Santus: e bisogna pure appoggiarsi ad Andrea. Tante volte penso di dividere il patrimonio: a ciascun figlio il suo; ma sarebbe peggio, poiché il disgraziato Santus in pochi mesi cadrebbe nella miseria, e anche il tuo signorino Andrea si giocherebbe la sua parte. Non c'è via di uscita: bisogna soffrire. E poi io voglio bene ai miei figli: troppo bene gli voglio; piú sono disgraziati piú li amo e li compatisco. Ma quella Cosima! È quella che piú mi dà pensiero.» «E invece sarà quella che piú le darà consolazioni: vedrà.» Ma la madre, mentre rimuginava nella padella le patate che lentamente si arrossavano e spandevano un buon odore, continuava a sospirare. Non è questo, Elia, io non ho bisogno di consolazione: la mia strada è finita, e nulla esiste piú per me tranne il bene dei miei figli. Ma essi non seguono la via giusta, quella che abbiamo percorsa io e il padre loro, benedetto sia. Sarà mia la colpa: sono una donna senza forza e senza volontà; ma loro dovrebbero capirlo. E se parlo cosí con te, questa sera, Elia, è perché so che tu solo puoi compatirmi.» Oh, padrona!» egli esclamò: e una commozione sincera, piena di sorpresa e di gratitudine, gli vibrava nella voce: probabilmente nessuno, da molto tempo, gli aveva parlato cosí. E intese forse quello che la padrona voleva dirgli, che anche lui aveva peccato e sofferto, ma era rientrato nella giusta via, perché aggiunse: «Le strade del Signore sono tante, ed Egli aiuta sempre i buoni cristiani». «Tu, dunque, credi in Dio? Io, vedi, a volte, non ci credo piú.» Non so: anche io non vado a messa da venti anni. Non so; non so: ma so che ad essere buoni e pazienti ci si guadagna sempre. E, dunque, padrona, coraggio.» Tacquero un momento: si sentiva il friggere sommesso della padella sulla fiamma: un odore di gente umile ma rassegnata usciva da quella stanzetta solitaria. Il pino vibrava ancora di fruscii, di pigolii, di vaghi lamenti, e dallo stradone arrivava il rumore di un passo di cavallo: Andrea. Cosima sentiva voglia di appoggiarsi al muro e piangere: in quel momento avrebbe rinunziato a tutti i suoi sogni, pur di consolare la madre: pensò che bisognava almeno darle il conforto della speranza di un buon matrimonio, fra lei e un qualche bravo giovane del luogo, e passò in rassegna tutti i proprietari, i professionisti, gli impiegati di sua conoscenza. Ma essi erano tutti imbevuti del pregiudizio che ella non potesse, con quella sua passione dei libri, diventare una buona moglie; né, d'altronde, ella voleva piú umiliarsi con nessuno. E fu in quel momento che le venne l'idea di muoversi, di uscire dal ristretto ambiente della piccola città, e andare in cerca di fortuna. Per dare consolazione alla madre.

Pagina 138

Documenti umani

244581
Federico De Roberto 4 occorrenze
  • 1889
  • Fratelli Treves Editore
  • Milano
  • verismo
  • UNICT
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Pagina 134

. - Dissero che era una rivelazione; credo che abbia fatto il giro d'Italia. A che?... a che?... - mi domandavo. Fu invece essa che mi dischiuse il paradiso promesso. Mia moglie aveva regalato una copia della composizione ad una sua amica, che io non conoscevo. Non volevo veder nessuno, fuggivo le distrazioni, avevo la fama di un orso, di uno stravagante, di un mattoide; non vero?... Quest'amica volle conoscermi; cercai di evitarla quanto più fu possibile; un giorno c'incontrammo. Credi tu che vi possano essere degli sguardi coi quali un uomo e una donna che non si conoscono, che si vedono per la prima volta, si dicano immediatamente: Noi saremo l'uno dell'altra?... Uno di questi sguardi brevi, profondi, fulminatori, fu quello che noi scambiammo.... Un mese dopo, il 20 maggio, la nostra muta promessa era compiuta.... - Come fu? - chiese il Natali che, lavorando attorno alla sua figura, non perdeva nè una parola nè un moto dell'amico. - Che cosa importa?... Si doveva andare in giro, tutti e tre, con mia moglie; all'ultima ora l'indisposizione d'un bambino la trattenne. Andammo soli, fuori Grotta, a Pozzuoli, a Baja.... Che cielo! che mare!... Conosci tu il boschetto che sta dietro il lago Lucrino, sulla via della grotta della Sibilla? Il terreno è in pendenza; si procede a caso, scostando i rami che vi sfiorano il viso. Attraverso il fogliame del castagneto filtra una luce verde, fantastica, da féerie; par di nuotare in mezzo allo smeraldo fluido.... Il 20 maggio!...

Pagina 135

Mi pare che ella abbia perfettamente ragione. Quest'autunno non ha nessuna poesia. Ritornerò in città domani l'altro.

Pagina 164

Quando io mi son deciso a parlare, nel tempo che pronunzio le prime parole, il mio pensiero è già mille miglia lontano da quel punto di partenza. lo mi ripiego su me stesso, io vivo di me e per me: l'anima mia è un mondo, e la vita cesserà prima che io ne abbia compiuta l'esplorazione. Leggo talvolta, e le voci dei grandi spiriti poetici, dei pensatori profondi, risvegliano mille echi nelle più recondite pieghe della mia mente.

Pagina 220

Il ritorno del figlio. La bambina rubata.

245442
Grazia Deledda 2 occorrenze
  • 1919
  • Fratelli Treves, Editori
  • Milano
  • Verismo
  • UNICT
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Pagina 151

E faccio alcuni passi: rasento ii muro: tocco la persiana: la persiana cede, viene a me; ho l'impressione che abbia tenuto il segreto, che voglia aiutarmi: spingo l'imposta, l'imposta cede, va in là, come scostandosi per farmi largo: e i vetri hanno un vago bagliore misterioso: riflettono la mia ombra, hanno qualche cosa di vivo, come occhi che vedono ma capiscono il perchè delle cose e compatiscono; il diavolo mi aiuta e mi spinge: la stanza è chiusa, illuminata solo dal chiarore della strada, dal biancore della culla. Io ho un'ultima esitazione; mi chino, sento l'odore tiepido del latte, delle piume calde; mi viene da piangere, ho paura di rompere la bambina col solo toccarla.... Poi la presi quasi con violenza, strappando con lei la coperta e avvolgendola rapidamente perchè non sentissero se si metteva a piangere. E fuggii.

Pagina 202

In Toscana e in Sicilia

245977
Giselda Fojanesi Rapisardi 2 occorrenze
  • 1914
  • Cav. Niccolò Giannotta, Editore
  • Catania
  • Verismo
  • UNICT
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Pagina 142

- Venga avanti, venga avanti; non abbia timore; non mangio mica le belle ragazze, sa!? - La fanciulla entrò come un automa, attirata ed incantata da quell'ammasso, da quel miscuglio di oggetti, tanto nuovi per lei. Víde tutto in confuso; rimase estatica ed intontita in quel caos di colori, di quadri, di stoffe che l'abbarbagliavano. Poi quello che attirò maggiormente la sua attenzione, turbandola, fu il quadro grande, più largo che lungo, che divideva la stanza quasi per metà e che rappresentava una donna di forme splendide, punto vestita, distesa su di un canapè, in una posa languidissima, che pareva la guardasse. La Virginia volse subito altrove gli occhi, facendosi rossa fino alla radice dei capelli e, vergognosa, stava per scappar via di nuovo. - Perchè fugge? Di che cosa ha avuto paura? Le domandò il giovane sorridendo. - Di nulla, di nulla; ma mi pare che l'Assuntina chiami. - Io non ho sentito e sì che gli orecchi li ho fini. Andiamo, sia buona, non se ne vada, mi faccia un po' di compagnia; eppoi; se vuole, le farò il ritratto. La spingeva, così dicendo, più avanti, verso un canapè. La Virginia confusa non seppe che cosa dire. - Via, si metta un pochino a sedere e mi guardi in viso, non sono po poi il diavolo da fare scappare a quel modo. No, no, purtroppo non era il diavolo! La fanciulla si sentiva sconvolta nel trovarsi lì sola con quell'uomo giovane, magro, dal viso bianco e fine, contornato da una barbetta bruna, dalla fronte ingombra di capelli nerissimi e ricci, che la fissava con certi occhi, certi occhi, che pareva volessero entrarle giù giù fino in fondo al cuore. Di certo era più bello di Cencio. Curiosa! A Cencio non ci aveva più pensato, come se non lo avesse più visto da tanti anni. Che differenza, Dio mio! A colazione il signor Ettore le domandò se si sarebbe trattenuta un pezzetto. Avrebbe dovuto restare addirittura colla sora Assuntina, che le voleva tanto bene. Questo era impossibile; il babbo le aveva dato il permesso soltanto per otto giorni. - Per otto giorni?! Ma non meritava conto di muoversi per così poco: almeno almeno un mesetto. L'Assunta approvava e prometteva di scriver lei. Adagio adagio la Virginia pigliò coraggio: affascinata, rispose alle domande del giovane e lo lasciò fare quando, prendendole una mano, due o tre giorni dopo, il pittore le disse che l'aveva bellina e che gliel'avrebbe disegnata volentieri; anche il ritratto glielo aveva promesso e voleva farglielo; ma bisognava si trattenesse più di una settimana. - Il ritratto ? - Dio ne guardi! Non lo voleva davvero, lei. Se non si arrischiava neppure a guardare il quadro grande della donna sul canapè! Tanto che il sor Ettore capì e l'assicurò, ridendo, che le avrebbe fatto la sola testina, con quei bei capelli biondi e quegli occhi tanto dolci, senza che si dovesse togliere neppure il fazzolettìno dal collo. Era contenta a quel modo?

Pagina 151

L'indomani

246250
Neera 1 occorrenze
  • 1889
  • Libreria editrice Galli
  • Milano
  • Verismo
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Aspetti un momento, tanto che esso abbia attaccato il filo. Bellone! Or ecco un colpo della sorte. Diede un buffetto, coll'indice e il pollice, al nuovo filo. - Cattivo! - fece Marta. - Guardi, guardi - esclamò il dottorone entusiasmato - esso torna a zampettare, bravo! Bravo, ti dico. E così vita natural durante, sa? Questa bestiola non si avvilisce mai; rotto un filo ne getta un altro; il secondo si spezza, viene il terzo. Avanti, sempre avanti! È il suo motto gentilizio. Osservi come è già salito; è all'apice. Paf! - Oh! crudele - gridò Marta nel vedere che aveva strappato ancora il tenue filo - perfido uomo! Egli la scrutò in fondo agli occhi che ella chinò subito, turbata. - Le chiedo scusa; ho voluto mostrarle fino a qual punto si può essere coraggiosi. Il ragno rifaceva la tela, salendo, salendo, intanto che Marta lo guardava non senza sorvegliare il suo brutale compagno. Ma egli disse con semplicità: - Andiamo a trovare Alberto. - Ed ella subito si mosse in silenzio. Lo incontrarono non molto lontano. Se ne veniva lemme, lemme, con la sua bella fisionomia aperta, serena, il passo regolare d'uomo senza fastidi. Ritornarono insieme tutti e tre fino al paese, fino alla porta dei due coniugi, dove il dottorone si accommiatò. Marta pensava che Alberto era finalmente nelle sue mani, e se lo divorava con gli occhi, mentre egli appendeva tranquillamente il cappello. Visto così, di dietro, la sua nuca aveva una seduzione particolare, colle orecchie morbide bene attaccate, i muscoli solidi; la guancia offriva per tre quarti una linea pastosa, appena adombrata dalla lanuggine, che attirava i baci. - Ho appetito, e tu? - diss'egli sedendosi alla mensa apparecchiata. - Ma sì, discretamente. - Appollonia è riuscita a trovare queste benedette quaglie? - Oggi no, vi saranno per domani. Marta aveva le lettere in tasca; le levò e andò a riporle nel tavolino da lavoro; poi sedette accanto al marito, calma in apparenza, ma coll'occhio fisso, la mente inquieta. - La signora Merelli ha avuto una bambina stanotte. - Sì? - Potrai andare domani o dopo a farle una visita. - Ci anderò. - Pare che stia benissimo. Dopo una lunga pausa, intanto che Alberto versava da bere ella chiese: - Se io avessi una bambina come la chiameresti? - Come vorresti tu. - Ma però? - Il nome di mia madre, per esempio, o della tua. - Questo è meglio certamente; tuttavia vi sono persone che preferiscono nomi di fantasia: Ida, Olimpia, Elvira... Ti piace Elvira? - Nè più, nè meno degli altri; dò poca importanza al nome. Non mi sono mai informato come ti chiamavi tu, lo seppi da te stessa. Marta lo osservava attentamente, mentre un tremito l'agitava tutta, sperando che egli almeno si accorgesse della di lei inquietudine e glie ne chiedesse il motivo. Si era già preparata. Se le domandava: Ti senti male? la risposta doveva essere press'a poco così: Sì, di un male che tu solo puoi guarire, ecc., ecc. Ma nulla di tutto questo. Alberto mangiava, e, solamente, vedendo il piatto di Marta quasi sempre vuoto, la esortò a mangiare anche lei. Sulla fine del desinare domandò: - Tua madre non ha ancora scritto? - No. - Se tarderà molto a venire, sopravverrà il freddo. Ella avrebbe potuto svelare le ragioni del ritardo, entrare nei particolari di un contratempo abbastanza buffo, ma ciò l'avrebbe portata lontana dalle sue preoccupazioni e non si sentiva la forza di fingere, nè di frenarsi. Preferì restare muta, bucherellando con lo stuzzicadenti la tovaglia. Alberto disse ancora: - Quando viene le puoi allestire la camera in fondo al corridoio; vi starà meglio che altrove, è bene esposta e molto allegra. L'evocazione di sua madre commosse Marta nell'intimo dell'anima; il ricordo di tante tenerezze perdute le fece gruppo alla gola, per cui si alzò e fece due o tre giri nella stanza. Passando accanto al tavolino da lavoro aperse rapidamente il tiretto, ne tolse le lettere e buttandole davanti a suo marito: - Vedi che cosa ho trovato oggi nella cassa, la cassa vecchia su in soffitta! Alberto guardò le lettere, prima con indifferenza, poi con sorpresa, infine leggendone una esclamò: - Ma da qual parte sono venute fuori? - Te l'ho detto; erano nella cassa. - Sole? - Oh! con della frangia, delle cortine usate, dei chiodi... - To, to, to! - Non sapevi che erano là? - Neppur per sogno. - Ti dispiace che le abbia lette? - Figurati! Acqua passata non macina più. Respinse le lettere dolcemente, come dolcemente faceva tutto, disposto a parlar d'altro. Marta ebbe un'audacia insolita; andò a sedersi sopra i suoi ginocchi e cingendogli il collo gli mormorò con la bocca contro l'orecchio: - L'hai amata molto? Egli ebbe un momento di imbarazzo; la situazione richiedeva uno di quegli slanci ai quali il suo temperamento era refrattario; un solo bacio, ma ardente, sarebbe bastato. Alberto invece provò un movimento di stizza verso Marta che gli faceva subire questa seccatura. - Che c'entrano adesso tali cose? - Sono gelosa del tuo passato, lo sai - disse Marta senza staccarsi da lui, sprofondata nel tepore del suo collo, che succhiava con piccoli baci spessi. Alberto si sciolse adagino dalle braccia di sua moglie replicando: - E che ci posso fare io? Era una risposta ad uso Appollonia, una di quelle osservazioni fredde, piene di buon senso, che non lasciano nessun posto per le soavi bugie del sentimento. Eppure Marta, nel caso suo, avrebbe trovato, senza mentire, un'altra parola... Si tolse dai ginocchi di suo marito e si pose sulla sedia, mettendosi davanti le lettere. - È morta? - domandò a un tratto. - Non credo, ma da quando lasciò il paese non ne seppi più nulla. - Tu non le avevi promesso di sposarla? - Mai. Marta fu ripresa da uno dei suoi slanci: - Dimmi il vero, Alberto, dimmelo! Io ci capisco così poco in questi vostri amori d'uomo... - Che devo dirti? Ella si accorse che formulare con una frase il suo pensiero non era tanto facile; balbettò: - Se l'hai amata molto... molto... e che ella pure... - Non so se m'abbia amato molto molto. Marta interruppe: - Come dubitarne con queste lettere? - Oh! le lettere - esclamò Alberto ridendo - è l'amore di voi altre donne, frasi! Per parte mia mi piaceva. - Niente di più? - È quanto basta, credo, per fare all'amore con una ragazza. Ella poi si esaltava, immaginando una passione romanzesca, rapimenti, fughe, veleno. Sarei stato molto sfortunato sposandola. Marta tacque un po', e poi: - Era bella? - Simpatica. - Bionda o nera? - Nera. - Alta? - Così così. Altro silenzio. - Grassa - Oh!... non so, non ricordo, non mi pare. - Aveva le mani piccole? - Ma è un passaporto quello che mi chiedi. Parola d'onore, ci pensi più tu in cinque minuti di quello che ci abbia pensato io durante un anno intero. - Ciò vuoi dire che non l'amavi come ti amava lei! - Può darsi, e allora consolati, brucia questi scartafacci alla buon'ora. Tanto il passato non si cancella, nè si rinnuova. Era appunto ciò che pensava Marta, ma senza trovarvi nessuna consolazione. Che Alberto avesse amato Elvira molto, poco o niente affatto, restava per lei il fatto di quella corrispondenza infuocata che parlava pure di baci dati e ricevuti. Se dati per amore, perchè dimenticati? Se dati senza, perchè dati? Stracciava i foglietti lentamente sotto la tavola, ascoltando il piccolo rumore che facevano, divisa tra i rimorsi che le suscitava una eccessiva delicatezza e il piacere materiale, indegno di lei, di quel meschino trionfo; ma la vinceva il piacere. Quando i pezzettini delle lettere non furono più suddivisibili, ella riunì le pieghe della gonna, tenendoveli come dentro a un sacco e si levò in piedi. Diede uno sguardo ad Alberto, il quale aveva infilato la punta di un sigaro in uno stecchino, lo stecchino nel tappo di una bottiglia, mantenendo il sigaro trasversale, ed accostata una candela all'altra estremità del sigaro, assisteva alla combustione attentamente, con le mani in tasca. Pensò: gli farò dono di un accendisigari. E cedendo alla tenerezza egoistica del suo affetto di moglie, Marta appoggiò, passando, le labbra sul collo di Alberto. Poi corse leggera in cucina, dove, scostando Appollonia dal camino, rovesciò sul fuoco i frammenti di carta che teneva nella gonnella.

Pagina 132

Il drago. Novelle, raccontini ed altri scritti per fanciulli

246520
Luigi Capuana 1 occorrenze
  • 1895
  • Enrico Voghera editore
  • Roma
  • Verismo
  • UNICT
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. — Come Lisa e Giovanna, Dio le abbia in gloria ! — pensava don Paolo, intenerito dal grazioso spettacolo e dai ricordi. — Basta; lasciate fare un po' a me! — disse all'ultimo. E ridotti i due pastoni in uno, lo arrotondò, lo allungò, lo ripiegò, ne fece un bel pastone corto corto, spargendo di tanto in tanto poche stille d'olio nel fondo della madia, perchè la pasta non s'appiccicasse. E quando fu pronto, lo levò di peso e lo depose in mezzo alla gramola. Egli sedette a cavalcioni, da cima, dove la stanga s'impernia nelle assicelle ritte, e disse : - Voi, una di qua e una di là, alzate e abbassate la stanga; al pastone bado io. E per cinque minuti s' intese soltanto il rumore del pernio della stanga, menata su e giù dalle bambine che ridevano, quasi facessero il chiasso, mentre don Paolo girava di qua e di là il pastone, ne ricacciava in dentro lestamente con le mani le coste, rimettendolo sempre in centro sotto la stanga che lo induriva , finchè non gli parve il momento di gridare : — Fermate ! Allora cominciò un altro chiasso, con le pagnotte da arrotondare e schiacciare. — Questa è per me. — Questa è pel nonno. - Pel nonno, figliuole mie, ci vogliono le focacce. Le faremo dopo. E questa volta il pane lo manderemo a cuocere dalla fornaia. Le bambine erano accese in viso, sparse di farina con le mani e le braccia impiastricciate di pasta. Don Paolo le avrebbe baciate, se i baci non gli fossero parsi segno di tenerezza eccessiva. E un po' burbero, per frenare la loro vivacità, brontolò: — Via, via; lavatevi mani e braccia, e spolveratevi bene! Ogni giorno, una lezione pratica. Don Paolo sapeva fare tutto, fin la calza, e voleva insegnargli ogni cosa da sè; non gli piaceva vedersi gente estranea fra' piedi. E se qualcuno, interrogandolo, intorno alle pupille, gli diceva: — Perchè non le mandate a scuola ? — A scuola? — rispondeva, quasi arrabbiato. — Le mie figliuole non sapevano leggere, ed erano donne di casa. Ora, riducono le bambine tante dottoresse... Ma che vale? Non sanno imbastire una calza, nè fare un rammendo, nè cucinare una minestra! La scuola è per le principesse. Su questo punto don Paolo non intendeva ragione. — Io sono della pasta antica, — aggiungeva. — Allora si sapeva leggere meno, ma si era più galantuomini. Non è vero forse? Inutile tentare di convincerlo. Voleva agire all'antica. ***

Pagina 28

La ballerina (in due volumi) Volume Primo

247130
Matilde Serao 1 occorrenze
  • 1899
  • Cav. Niccolò Giannotta, Editore
  • Catania
  • Verismo
  • UNICT
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Non vi è punto del mondo dove egli non sia stato, e dopo non abbia pubblicato le sue notevoli impressioni. Quest'ultimo volumetto è pieno di tante buone osservazioni sulla Sardegna e sulla Spagna, che ne rendono piacevolissima la lettura. (Il Risveglio di Palermo, 14 maggio 1899).

Pagina IV

La ballerina (in due volumi) Volume Secondo

247663
Matilde Serao 1 occorrenze
  • 1899
  • Cav. Niccolò Giannotta, Editore
  • Catania
  • Verismo
  • UNICT
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Non sì può dire che l'editore non renda omaggio al principio di lavorare per tutti i gusti, tua un libro che potrebbe fare la sua fortuna sarebbe quello in cui fosse spiegato il perché don Emanuele dei principi Ruspoli, abbia da essere ancora e sempre il sindaco di Roma. Vice-Versa. Da una corrispondenza da Roma al Giornale di Sicilia dell'8 luglio 1899.

Pagina 175

Nel sogno

248208
Matilde Serao 1 occorrenze

Abbia o non abbia simboleggiato il sublime accecamento della donna innanzi all'oggetto amato, noi coi nostri occhi mortali vediamo in Titania il cuore umano, in Bottom la vita e nel magico filtro che tutto trasforma, il potere sconfinato dell' immaginazione. La vita è grossolana, è mediocre, è laida; ma basta che gli occhi di chi la guarda, sieno stati bagnati da quel misterioso elisire che è la fantasia, perchè la vita muti tutto il suo aspetto, perché essa possa parer diversa da quello che è, un'altra cosa, un'altra figura, un'altra immagine, qualche cosa che attrae, che conquide, che avvince. La vita è rude, è gretta, è crudele; ma se colui che la subisce, ha in sè il segreto filtro che Oberon distillò a Titania dormiente, tutto sarà singolarmente mutato in bene e Bottom, ancora una volta, farà delirare la creatura gentile. Questa possente forza di trasformazione agisce in noi così mirabilmente che, si può dire, la vita intorno sia quella che noi facciamo con la nostra fantasia e non già quella che è nella sua essenza così grama, così bassa. La fantasia, in noi, diventa un artista creatore, dotato d'un tal sublime potere di creare, che da un vile fango trae la statua, la persona, il monumento, la città, il mondo. Plasmatrice inarrivabile, la fantasia, in noi e fuor di noi, non muta solo il volto delle persone che amiamo, non cambia per noi solo l'aspetto esteriore degli uomini e delle cose, ma ne trasforma lo spirito e l'anima, ma trasforma il corso degli avvenimenti e vince il Destino! Quale uomo potrebbe continuare a vivere, se la sua immaginazione non rifacesse intorno a sè la vita? Quale donna consentirebbe a vivere, se la sua immaginazione non le nascondesse le laidezze ond'è cosparsa la esistenza e non le infondesse il coraggio di esistere? Sublime potere della fantasia! Per essa, il povero lavoratore che passerà i suoi anni fra la fatica e gli stenti, lasciando di travagliare solo per morire, si creerà del suo lavoro e delle sue privazioni un dovere colorito di tutte le lusinghe di un nobile sacrificio: per essa, il povero impiegato che trascina la sua vita fra aride e mal compensate umili funzioni, vedrà il suo lungo cammino trasformato dal sogno in pace famigliare, coi figli benedicenti alla bontà segreta e costante del padre: per essa, la povera donna malmaritata, sofferente sotto un giogo che la ragione le mostrerebbe assurdo, ma che la fantasia le trasforma in un poetico dovere di onestà e di fedeltà, potrà compiere il suo triste viaggio senza errare, col cuore solitario, ma racconsolato: per essa l'uomo che sentì mancare in sè e attorno a sè le forze e le occasioni che lo dovevano condurre a una meta agognata, sentirà meno velenose, meno pesanti le delusioni di chi sbagliò la sua strada: per essa la fanciulla che amò invano, che non fu mai amata, che vede tolta a sè la miglior parte della vita muliebre, cioè l'amore, cerca altri moti più altruistici e più caritatevoli, di espandere l'ardore non corrisposto del suo cuore: per essa, pel prodigioso potere della fantasia, tutte le esistenze misere, senza conforti materiali, senza conforti morali, - e sono innumerevoli, ahimè, queste esistenze, - sopportano quietamente la loro desolazione e quasi ne traggono origine di serenità e di felicita. Sui nostri chiusi occhi, nel sonno, Oberon gitta la sua arcana malia; e l'anima nostra, trasportata dall'azione bizzarra del filtro, non si cura della congerie di tristezze disseminate lungo il corso degli anni, e trova in sè la energia della lotta e della vittoria. Senza fantasia, chi potrebbe amare la vita dove è l' immondo contatto degli sciocchi e dei perversi, dove s'agitano le passioni più odiose e più nauseanti, dove la mancanza di fede, il tradimento, l'abbandono colpiscono le anime più degne, dove sono tutte le caducità e tutti gli errori? Chi, senza fantasia, potrebbe subire l'insulto dei potenti, l'indifferenza della folla, la ingratitudine degli amici? Chi, senza fantasia, potrebbe veder morire in sè ogni speranza e fuori di sè ogni desiderio? Chi, senza fantasia, potrebbe patire, sacrificarsi, vivere di abnegazione e di abnegazione morire?

Pagina 21

Saper vivere. Norme di buona creanza

248767
Matilde Serao 9 occorrenze
  • 1923
  • Fratelli Treves Editore
  • Milano
  • Verismo
  • UNICT
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Ordinariamente, nel giorno di cresima, il cresimando o la cresimanda sono invitati a pranzo in casa del padrino o della madrina di cresima, salvo che il padrino sia scapolo o la madrina non abbia casa organizzata a ciò: questo invito è facoltativo. E così, la domenica seguente, la famiglia del cresimando o della cresimanda, invita a pranzo la madrina o il padrino: anche ciò è facoltativo. Ora è invalso l'uso che, oltre la madrina e padrino, facciano dei doni al cresimando o alla cresimanda, anche i parenti: abitudine di lusso e di vanità, che guasta il cuore dei giovinetti e delle giovinette. Basta, semplicemente, un piccolo ricordo pio dei genitori: e non già dei fili di perle o delle scrivanie intagliate, come ho letto, in un giornale francese!

Pagina 119

Chi voglia proprio offrire un dono a Sua Maestà, dono che abbia un valore intrinseco ed estrinseco, bisogna che prima ne domandi il permesso, altrimenti ognuno tenterebbe una via simile, per ottenere qualche cosa in ricambio: e ciò non avrebbe limiti. Chi voglia dedicare un libro, della musica, un'altra opera d'arte o del lavoro manuale, dedicare semplicemente, non altro, deve anche chiederne il permesso. Sua Maestà la Regina fa ringraziare sempre, per mezzo della dama incaricata, chi le invia libri e musica, in dono: a persone, che le hanno offerto qualche cosa, col suo permesso, manda un gioiello, con la cifra. Quando un maestro di musica, un concertista, è chiamato a Corte, per un concerto, riceve sempre un bellissimo gioiello, in compenso: anche quando un'attrice o un attore vi recita, un ricco ed elegante gioiello, è il suo compenso. Se la Regina interviene a una serata di onore di una grande attrice, di una grande cantante le offre sempre un braccialetto o un anello. Costoro, naturalmente, oltre le lettere di ringraziamento che inviano, domandano una udienza, per i ringraziamenti personali.

Pagina 133

Lavori, per modo di dire, lettrici mie, giacchè è impossibile che una villeggiante, abbia quindici anni o ne abbia settanta, lavori, sul serio, quando può chiacchierare con un'amica, fare la partita col cappellano, flirtare con un giovanotto: è impossibile che l'uncinetto, o l'ago di ricamo, o i ferri da far maglie, o la tappezzeria, possano troppo andar d'accordo con la conversazione, col giuoco, col flirt. Se voi siete sola, solissima in un villaggio, in un'isola abbandonata (e non si è mai assolutamente soli, anche in un deserto e anche in un'isola, esempio Robinson Crusoè), allora potrete anche fare una intera coltre al filet, potrete ricamare un intero mobile di un salotto, a punto antico, potrete, persino, fare degli arazzi di alto liccio; ma, se appena siete in tre, in quattro, in cinque, sarà una gran cosa, se metterete cinquanta punti nel vostro ricamo, se potrete fare due quadretti di filet, se potrete dare una sola stella di colori argentei alla vostra bizzarra tapezzeria, che imita l'antico. Non lo sperate, i vostri lavori domestici ritorneranno in ottobre, quasi intatti, alla città. Eppure, dovete portarli con voi! Vi sono momenti, vi sono ore, in cui un lavoro fra le mani, sotto gli occhi, è di una necessità assoluta: esso è una scusa, un pretesto, un diversivo, un derivativo; esso è una salvezza, per esso gli occhi possono abbassarsi o alzarsi come vogliono, le mani sono occupate, la persona sembra distratta: esso calma i nervi, regola la voce, mette delle pause sapienti nella conversazione. Una donna che ricama è venti volte più padrona di sè stessa, accanto a un uomo, che una donna, la quale non faccia nulla: una donna, che fa l'uncinetto, è molto più la padrona di suo marito, che non una donna disoccupata.... Io non approfondisco il soggetto, perchè voi già lo avete tutto inteso, care lettrici: il lavoro è, dunque, un'arma di difesa e di offesa, in villeggiatura. E chi di voi vorrebbe andare alla guerra, senza corazza e senza spada?

Pagina 168

È naturale che un diplomatico, un uomo politico, un alto funzionario abbia sempre il dovere strettissimo di distribuirne una larga parte: e che molti privati, anche per il giro antico delle loro relazioni, non possano sfuggire a questa distribuzione automatica. Ma molti privati e, anche, nella più elegante società, all'estero o in Italia, a poco a poco hanno smesso d'inviare o di deporre, queste carte da visita di Capo d'Anno: e se ne lasciano un centinaio, rigorosamente indispensabili, in cambio di mille, è tutto! Viceversa, piglia sempre più vigore la moda, ed è una moda leggiadra, poetica, adorabile, del Christmas card, dell'augurio, infin, sotto forma di un gentile cartoncino illustrato, sotto forma di un minuscolo calendario, sotto varie forme in cui, anche, l'arte può portare il suo contributo più fine. Giacchè, oramai, il Christmas card, l'augurio, il calendario, la piccola incisione, si fanno nelle forme più delicate e la fantasia degli artisti, degli artefici, si sbizzarrisce in una varietà grande. La banale carta da visita sparisce, con le sue due banalissime iniziali p.a.: per augurii: viceversa, l'augurio, in ogni sua manifestazione come carta d'augurio, come cartolina gentilmente illustrata, come calendarietto, si moltiplica, e i cartolai preferiscono vender queste cose qui, anzi che fare cento carte da visita, e ogni persona di animo affettuoso preferisce inviare l'augurio, il Christmas card, anzi che la carta da visita, e ognuno preferisce ricevere il calendarietto o la cartolina allegorica, invece della carta da visita. Ma non si può mandare a tutti un augurio in cartoncino, una cartolina illustrata, un calendario: è vero: ci vuol troppo tempo: e ci vuole anche una spesa maggiore: è vero! E non tutti gli amici e le amiche noi amiamo, in modo da volerci ricordare ad esse, così! Ebbene, un regime misto, allora, è consigliabile: cioè sbrigarsi di tutti gli estranei e di tutti gli indifferenti, con le carte da visita, diminuendo, naturalmente, il numero di costoro allo stretto necessario: e a coloro che amiamo, che ci vogliono bene, che ci sono lontani e per cui il nostro cuore, la nostra memoria, fremono di simpatia ininterrotta, mandare l'augurio illustrato, la cartolina artistica, l'artistico calendario. E ciò si può fare anche a Natale, come a Capo d'Anno: cominciando dal bel giorno in cui nacque il Divino Fanciullo e finendo nel nuovo anno!

Pagina 200

Fino ai tredici anni, si può portare la gonna che mostra il piede e anche il collo del piede: a quattordici anni, non si vede più se non il piede: a quindici anni abbia un grande sviluppo la giovanetta o sia restata gracile, veste lunga. Fra i tredici e i quattordici anni, si può portare ancora la treccia lunga, sulle spalle, o i capelli increspati o legati con un nodo di nastro, alla coda: dopo i quattordici anni, i capelli si debbono rialzare sulla testa, pettinandoli semplicemente, con grazia giovanilmente, senza troppo seguire la moda. Fra i tredici e i quattordici anni la giovanetta può portare ancora i colori molto vivi, delle vesti azzurro cupo con giacche rosse, delle vesti beige con giacche bianche, degli abiti scozzesi, dei mantelli di panno con pellegrina e con grossi bottoni, qualche cosa di molto grazioso, bene tagliato, ma senza lusso; può portare dei grandi cappelli di feltro, con cocche di nastro, in inverno, o delle canottiere di castoro, dei grandi cappelli di velo e nastro, in estate, o canottiere di paglia: le piume, i fiori, sono esclusi. Qualche gioiellino gentile, ma senza gran valore: una catenella d'oro al collo, a cui è sospesa una crocetta: qualche filo d'oro, come braccialettino, a cui è sospesa una daglia, un campanellino: due perline alle orecchie, o due diamantini. In casa, la giovanetta porta, sino a quindici anni, i grembiuli, molto carini, di seta, di surah, scozzesi o a disegno turco: dopo quindici anni, li smette. Nei giorni di ricevimento, ella non è sempre nel salone, ma vi apparisce e sparisce; serve il the, se non vi è una sorella grande; non fa conversazione, non si mescola ai gruppi, va via presto. A quell'età, la giovanetta va raramente a teatro, salvo a quello di musica; in qualche concerto; in nessun ballo ufficiale; in nessun ballo di cerimonia; non balla, se non quando si fanno quattro salti, in campagna. Tutto in lei deve essere semplice, gentile, grazioso, ma non lezioso, ma non civettuolo: se ha molta gaiezza, bene, ma deve moderarla: se ha dello spirito, lo lasci maturare, è meglio, se ne servirà meglio più tardi. Infine, deve prepararsi a essere signorina, imparando a esser cortese, piacevole, giustamente colta, con qualche arte coltivata particolarmente, imparando ciò, ma non facendone sfoggio, se non più tardi, abbastanza più tardi.

Pagina 232

Ordinariamente, ogni invitato che va a nozze di una certa importanza, ha la sua carrozza, o se ne procura una: ma sempre bene che la famiglia della sposa abbia quattro o cinque carrozze, a disposizione di coloro che non ne avessero, non più di quattro o cinque, massime se il matrimonio in chiesa. Se il matrimonio è in chiesa, bisogna curare l'addobbo, con molte grandi piante, formandone dei boschetti, ai due lati dell'altare: ci vuole un tappeto nello spazio ove seggono gli invitati, e una striscia di tappeto, tra le due file di sedie che arrivi sino fuori la chiesa e si prolunghi sugli scalini. Nella strada, domandare qualche guardia di più per il servizio regolare delle carrozze: alla porta della chiesa, vi debbono essere almeno due introduttori, parenti o amici della famiglia, che accompagnino le signore e introducano i signori. Meglio scegliere due giovanotti disinvolti, fra i tanti: se sono due giovani belli ed eleganti, molto meglio. Per quanto più si può, puntualità nell'arrivo della sposa e della famiglia: far aspettare, espone a grandi critiche. La sposa entra in chiesa, al braccio di suo padre, o del parente maschio più prossimo o, in mancanza di tutti, del più vecchio amico di casa: la precedono gli introduttori, per farle fare strada. Spesso un paggetto, un nepotino, sostiene lo strascico della sposa: esso deve essere sempre vestito di bianco, di raso bianco. Dopo la sposa, viene sua madre o la sua più prossima parente, al braccio dello sposo; e così ogni coppia, secondo la gerarchia, unendo le due famiglie. I testimoni e il compare seguono le due prime coppie, immediatamente; prendono posto, coi parenti stretti, sull'altare. Il rito nuziale l'ho spiegato, parlando dei doveri del compare. Possibilmente, domandare a Monsignore, un sermone non troppo lungo. Un po' di buona musica, se è possibile, non guasta: ma non oltre i tre pezzi. La sposa, dopo la cerimonia, dopo aver baciato i suoi parenti e stretto la mano ai testimoni e al compare, prende il braccio dello sposo per uscire, e mentre è venuta in carrozza col padre, se ne ritorna in carrozza con lo sposo, a casa. È a casa che gli invitati, arrivati anch'essi, le presentano, mano a mano, le loro felicitazioni. Ella deve avere smesso il velo bianco, ma conservato il vestito bianco, e i fiori d'arancio nei capelli.

Pagina 36

Or dunque, la giovane sposa, la signora matura, la vedova, la donna vecchia e persino la vecchia zitella che abbia casa sua e un'apparenza di agiatezza, debbono avere il loro giorno, per potersi creare, poi, nel resto del loro tempo, una vita come loro conviene. La scelta del giorno deve essere fatta con molta cura, con molta riflessione, con molta prudenza, con gli studii più profondi: non bisogna scegliere la domenica, perchè è un giorno in cui si va a conferenze e a concerti, in cui i ragazzi escono dal collegio, in cui vi sono tanti altri doveri da compiere: non il venerdì, che è un cattivo giorno per ricevere, sebbene molti lo considerino come un giorno eccellente, per non muoversi di casa: non il giorno in cui riceve la propria madre, o la propria suocera o la nostra migliore amica, o una dama di grande condizione, presso cui si tiene ad andare. Scelto una volta, il giorno, dopo un lavoro mentale lunghissimo, bisogna tenerlo fisso, perchè nulla è peggio che cambiare il giorno, e nulla è più disastroso che cambiarlo spesso. Si finisce per perdere, a poco a poco, ogni propria relazione; poichè le signore sono di labile memoria e dimenticano questo giorno, che cambia così spesso, poichè anche esse hanno il loro giro di visite, che non amano di vedere spostato: poichè il giorno di una signora elegante e intelligente, deve diventare uua istituzione fissa e inamovibile, con una tradizione di spirito e di cortesia. Chi passa dal lunedì al venerdì, dal sabato al martedì, acquista la reputazione di una persona capricciosa e disordinata, che non tiene nè al suo carattere, nè al suo giorno, nè alle persone che lo frequentano. Conosco grandi signore - per chiamarsi tale, non è neccessario avere grande nome o grandi ricchezze - le quali, dal giorno che si sono maritate, venti, o trenta, o quaranta anni fa, conservano sempre lo stesso giorno di ricevimento: ed è, questo, un altro atto squisito di amabilità verso amici ed amiche, un atto di rispetto verso sè stesso e verso la propria casa.

Pagina 54

Appena appena si abbia una posizione modesta, si può e si deve offrire qualche cosa alle amiche e agli amici, quando si ricevono le loro visite, nel giorno. Tre etti di cioccolattini; quattro etti di biscotti fini. Basta mettere questi dolci, i primi o i secondi, in un bel piatto del Giappone, in una bella coppa di cristallo, oggetti che sempre si possiedono e offrire questi, cioccolattini, questi biscotti con buona grazia: e si ha subito l'aria ospitale. Chi può offrire dell'altro, tanto meglio! Viene in prima linea il the: si può offrire nel modo più semplice, cioè per mezzo del cameriere che, appena una signora è seduta, arriva con un vassoino dove sono una tazzina col the, la piccola lattiera e il recipientino con l'acqua calda, per allungare il the, se si vuole: immediatamente, si offrono dei biscotti inglesi, dei wafers, delle pastarelle secche, insieme. Per far questo, basta un cameriere molto svelto; e non grandi arnesi, come tazze, cucchiaini, salviettine, ecc. Ma se si vuole offrire il the, prendendolo da un tavolino, in fondo al salotto, allora l'organizzazione deve essere larga e il lusso pretende mille elegantissime cose. La table à the, imbandita, quando si riceve nelle ore pomeridiane, implica bellissimi servizi di tazze, di piccoli e grandi piatti, di coppe, di vassoietti: implica teiere e lattiere elegantissime: implica un corredo di dolci, di paste, di bonbons, di biscotti, completissimo: implica biancheria finissima, ricamata, con merletti antichi e moderni: implica argenteria di coltellini, di cucchiaini, squisita. Chi lo può fare, tanto meglio! Ora è in moda il servizio di the alla russa: cioè in bicchieri che hanno il piede di argento cesellato, intagliato, traforato: con argenteria dello stesso stile. Ma un capriccio. Intorno alla table à the, vi sempre un servitore: e qualche signorina di casa o un'amica offre le tazzine, le fette di baba, di gâteau Margherita, i dolci. Qualche signora offre del cioccolatte, invece del the: tutto il servizio deve essere intonato come tazze, argenterie, biancheria, come dolci. Quando si va verso l'aprile, si offrono delle granite, dei parfaits di cioccolatte, di crema: si adoperano bicchieri di cristallo opaco, colorato, col manico: assai più elegante, il bicchiere con piede di argento. Sulla table à the vi sono sempre delle bottiglie di acqua ghiacciata, di limonata, di aranciata, per chi abbia sete: e bicchieri alti, senza piede, colorati, adattati a ciò. D'altronde il giorno è dedicato alle signore che non bevono liquori e neanche rosolii. La eleganza, la ricercatezza delle signore, è nelle mille cose che rendono squisito ciò che offrono: dai cento oggetti di porcellana, di cristallo, di argento, alla qualità del the, del latte, alla finezza e alla varietà dei biscotti, delle paste, dei dolci. Per lo più, una signora ricercata, si occupa lei, personalmente, di questo servizio, ogni settimana.

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Nelle regioni settentrionali, e specialmente nei due grandi, civili, mondani centri di Torino e Milano, dove più si sente la influenza dei sontuosi costumi ospitali francesi, ogni specie di pranzo, da quello di alta etichetta a quello intimo, è assolutamente alla moda; chiunque abbia vissuto un poco o molto, a Torino, a Milano, sa bene con quanta larghezza nell'alta società, nella grande borghesia, si pratichi questa forma di convivenza sociale. Come si scende verso l'Italia centrale, e, sovra tutto, come si giunge nella gran regione meridionale, questo uso così bello e simpatico si viene dileguando, sparisce. Fra noi, a Napoli, non esiste, quasi. Un tempo, nella grande vita mondana napoletana, quando venti case aristocratiche ricevevano, allora, sì, vi era questo costume gentile: ma non oltrepassava i limiti della classe patrizia. Poi, a mano a mano, per tante ragioni, più o meno malinconiche, per morti, per partenze, per viaggi, queste case si sono chiuse e di famosi, nell'alta società, non restarono, per un certo tempo, se non i pranzi di un vero gran signore, che era il duca di Castronovo, pranzi perfetti per la loro sontuosità e la loro squisitezza: con la morte del duca, la tradizione finì. Qua e là, dove la dama padrona di casa conserva i leggriadri costumi della ospitalità francese, che imparò per la educazione, a Parigi, per la dimora colà, vi sono dei pranzi eleganti: ma fuori quella stretta cerchia, niente! Gente che ha una bella casa, molti denari, buona servitù, argenterie, porcellane, cristallerie, non pensa mai ad invitare un amico, un'amica a pranzo: - gente, che non ha nulla da fare, che si annoia, che cerca compagnia, non pensa a questa forma così attraente di riunione: niente! Da che dipende? Dalla pigrizia delle signore? Dalla organizzazione, un po' difficile, di quanto ci vuole per dare un buon pranzo? Da uno spirito di grettezza? Da quell'inclinazione che hanno molti ricchi, fra noi, a concentrare tutto il loro lusso solo nei cavalli, gli uomini, solo nelle toilettes, le signore? Chi lo sa! Negli ultimi tempi, qualche passo è stato dato, anche nei paesi meridionali: negli ultimi tempi qualche pranzo è stato dato, si dà, in qualche grande albergo, per non avere fastidi in casa. Speriamo bene.

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Pane nero

248908
Giovanni Verga 1 occorrenze
  • 1882
  • Niccolò Giannotta editore
  • Catania
  • Verismo
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. - Non si dirà che mia sorella abbia a far la serva agli altri. - Ei vorrebbe che la facessi alla Rossa! - brontolava Lucia.

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Una notte d'estate

249511
Anton Giulio Barrili 1 occorrenze
  • 1897
  • Enrico Voghera editore
  • Roma
  • Verismo
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. - Mi rincresce, caro collega, che quell'imprudente di mio figlio vi abbia fatto stamane un discorso di cui potrete credervi offeso. - Offeso! Offeso! - ripetè Bendinello. - Questa è una delle vostre solite esagerazioni. - Solite! esagerazioni!... - Ma sì, oratorie. Non è il vostro costume? Si casca dal lato donde si pende; come le torri, come i campanili, che poi, se Dio vuole, non cascano affatto. Dite piuttosto che quel caro ragazzo mi ha tenuto un discorso che non toccava a lui di fare, non essendo egli il capo di casa. - Già! - disse Gian Luc a, colto alla sprovveduta da quella giratina del discorso di Bendinello. - Ed io, capo di casa... - Voi, caro collega, - ripigliò Bendinello, compiendogli a suo modo la frase, - aspetterete che sia finita la fabbrica di Carignano. - Gian Luca riconobbe il fatto suo, e si morse le labbra. - Ma sì... ma sì... - rispose allora, sforzandosi di apparire faceto. - E quando la finiranno, i vostri, quella fabbrica benedetta? - Caro, è finita: per chi chi ha occhi, gambe. e divozione, è finita da un pezzo. Per i buoni cristiani ci si dice messa ogni giorno festivo. E questo è l'essenziale, mi pare. - Il ghiaccio era rotto. Gian Luca non pensò neanche a replicargli che la famosa basilica, quantunque uffiziata, era ancora nuda di ornamenti, sprovvista d'organo, vuota di statue. - Allora, - diss'egli in quella vece, parlando lento, e guardando il collega nel bianco degli occhi, - sarebbe il caso che io, come capo di casa vi facessi una certa domanda, non è vero? Ma non c'e' anche da temere che voi vogliate piuttosto attaccare una pietra al collo della vostra figliuola, per affogarla nella Darsena? - La botta era resa, e il magnifico Bendinello ne fu colto in pieno. - Che discorsi son questi? - esclamò. - I discorsi che qualche volta si fanno; - soggiunse il magnifico Gian Luca. - E un po' leggermente, non vi pare? - Caro! se avete intenzione di offendermi col vostro «leggermente»... - Come voi, carissimo, come le mie «solite esagerazioni». - Oh giurabacco!

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Una peccatrice

249797
Giovanni Verga 1 occorrenze
  • 1866
  • Augusto Federico Negro
  • Torino
  • Verismo
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Ho assistito al più strano duello ch'io abbia veduto, ed ho l'onore d'assicurarle che me ne intendo un poco di questi giochetti. Tutto questo mi autorizza a creder poco nelle sue parole, in questo momento, e molto nella sua discrezione e nella sua modestia. - Signore! - E che!... forse che andiamo in collera perchè vengo a recarle i ringraziamenti della contessa. - La signora contessa nulla mi deve e nulla ha a ringraziarmi. - Stamattina, molto prima di partire pel Vomero col conte, ho veduto un biglietto così concepito in sostanza: Io non mi ritratterò, ma posso assicurare la signora di Prato che non le ucciderò il marito: Se la contessa avesse avuto la bontà di cedermi per un quarto d'ora quel biglietto, come io ne l'avea pregata, non avrei avuto la sfortuna, a quest'ora, di esser sì poco creduto. Brusio arrossì impercettibilmente e chinò la testa. - Ella ha letto questo biglietto?... - disse esitando. - Letto propriamente no; poichè è stata la contessa che ha avuto la bontà di leggermelo. Pietro respirò. - Ebbene? - Ebbene! io so tutto... La contessa istessa mi ha tutto rivelato! - aggiunse con enfasi napoletana l'interlocutore di Brusio. - Ella?!... - La prego di credere, prima di farsene le meraviglie, ch'io ho l'onore di trovarmi molto innanzi nell'amicizia della signora contessa di Prato, e che ella ha la bontà di mostrarmi tutta la fiducia... Non so se ella m'intende... - Non molto, veramente. - Eppure è sì chiaro! - aggiunse il vecchietto con un sorriso malizioso. - È adorabile quella contessa!... peccato che lei non abbia la fortuna di conoscerla intimamente... - Me ne rincresce di cuore. Sicchè?... - Sicchè ho saputo dalla Valderi, ieri sera, - seguitò colui, assumendo completamente l'aria misteriosa e gonfia del vecchio ganimede che si crede sicuro del fatto suo, - che lei, signore, ha voluto, non so perchè, rimandare alla signora un mazzo che questa le avea gettato sul proscenio la sera che si rappresentava il suo ***; cosa che il conte ha preso in mala parte, per cui n'è seguito lo scontro di stamattina... Quello di più delicato, che la contessa non volle, non seppe nascondermi, è che ella stessa avesse fatto pregare lei, signore, di venire ad un accomodamento, onde il sangue non fosse sparso per una causa sì futile; e le venne risposto con quel biglietto ch'ella mi lesse. Pietro sorrise involontariamcnte nel vedere la pazza persuasione e le galanti pretensioni del vecchietto. - La contessa, - seguitò colui, - ed io stesso non avevamo capito perfettamente quello che volessero dire quelle parole: Alla signora contessa di Prato posso assicurare che il conte, suo sposo, non correrà alcun pericolo: e che la sua nobile condotta di stamattina ha spiegato intieramente. Nella mia premura di presentarmi alla Prato con qualche cosa che le fosse gradevole, io son corso a ringraziar lei di cuore, a stringerle la mano per la contessa o per me, essendo sicuro di prevenire il desiderio della signora. - Mi permetta di farle osservare che questa sicurezza è, per lo meno, molto arrischiata. - Per bacco! dopo aver veduto Narcisa agitata, come ieri sera l'ho veduta; dopo che stamane prima di partire con suo marito, ella mi fece chiamare misteriosamente... segretamente, capisce?... per scongiurarmi colle più calde preghiere, colle lagrime agli occhi, chè facessi di tutto onde venire ad un accomodamento, non c'è bisogno di gran sale in zucca per capire che la contessa dev'essere contentissima dell'esito fortunatissimo di questo affare (poichè, scusi, ma la sua ferita al braccio non può chiamarsi una disgrazia) e che io, dopo aver fatto il possibile per venire all'aggiustamento che ella mi raccomandava, vada ad annunziarle di aver accomodato benone le cose, o aver perfino ringraziato lei. - Sarei dispiacentissimo però, signore, ove ella, senza volerlo, le avesse reso un servigio che sarà male accolto dalla signora. - Male accolto!?.. e perchè? - Giacchè il conte n'è uscito illeso, cosa deve importare di me, di uno sconosciuto, a quella signora? E come dovrà accettare che lei vada a dirle: Ho stretto da parte vostra la mano a quell'uomo che ha avuto la scortesia di rifiutarvi un sommo favore (poichè non è provato ch'io abbia risparmiato il conte) e che è andato a scaricare la sua pistola contro il petto di vostro marito? ll vecchietto rimase un momento confuso, come colpito da quella riflessione; ma poco dopo riprese vivamente, quasi trionfante: - No, no! son sicuro del fatto mio. Lei non conosce la bell'anima di Narcisa; ella sarebbe desolatissima se il minimo accidente le fosse accaduto... L'ho udita con questi orecchi esclamare, torcendosi le braccia: Mio Dio! se quel giovane morisse... per me!... - Ella ha delle questo?! - esclamò Pietro quasi fuori di sè... - Ma sì! Diavolo... che c'è? Le reca sorpresa che una donna abbia paura del sangue che potrebbe venire sparso per cagion sua? - Al contrario... È che... in tal caso... essendo sicuro... essendo certo di rendere a lei un servigio... di farle un buon ufficio presso qella signora... io le darei un attestato di quanto ella ha fatto per scongiurare il pericolo di questo duello... di come ella si è adoperato per far piacere alla contessa... - Mio amico! mio caro amico! - esclamò colui, abbracciandolo; come le ne sarei grato!... - E se lei crede che due righi potrebbero esserle utili presso la signora di Prato... - Ella è la bontà in persona, ed io le sono devotissimo anima e corpo. Senza aspettare che il suo interlocutore fornisse il compito dei suoi enfatici ringraziamenti Pietro si appressò al tavolino da albums, aprì una cartella che conteneva foglietti da lettere, e scrisse: «Un'uomo che ha molto a farsi perdonare dalla signora contessa di Prato, sarebbe fortunatissimo ove ella volesse indicargli un'ora della giornata in cui potesse venire ad implorare questo perdono ai suoi piedi». Piegò il foglio e fece mostra di rimetterlo così aperto all'amico della Prato. - Non occorre di suggellarlo, se lei avrà la bontà di recapitarlo personalmente alla signora contessa. - Anzi! anzi!... suggelli, suggelli pure! Voglio fingere di non sapere di che si tratti... Quest'attestato del quale sembrerò non essere informato, mi gioverà molto presso la mia cara contessa. Ella sarà contentissima di me... poichè... capisce... ella ha molta bontà per me... non dico per vantarmi... - Non perda tempo adunque. - Replicò Brusio, spingendolo verso la porta. - Un altro abbraccio, amico carissimo, un altro abbraccio. Lei troverà sempre in me un uomo tutto suo, un amico vero e riconoscente sino alla morte. Tratti d'amicizia come i suoi, che non si fanno aspettare... che vengono da sè... non si dimenticano... Poichè ella ha avuto la gentilezza d'indovinare... che io per quella cara Narcisa... capisce?!... - Addio, caro signore. - Oh, come mi sarà grata la contessa! come creperanno d'invidia quegli altri giovanotti, quell'ufficialetto di cavalleria pel primo!... Addio, caro amico. Uscì a ritroso, inchinandosi; e Pietro, lasciando cadere la portiera dietro di lui, non potè fare a meno di ridere della trista figura che la sciocca presunzione faceva fare a quel seduttore di 58 anni. A mezzogiorno il conte rientrò in casa e domandò della moglie. - La signora contessa è uscita in carrozza; - rispose il suo cameriere. - Uscita diggià! - esclamò il conte con qualche sorpresa. - Ed ha lasciato pel signore questo biglietto. Il conte non dissimulò un movimento di collera, ed esitando ad aprire la lettera, disse bruscamente al domestico: - Va bene! lasciatemi. Il biglietto di Narcisa era semplicissimo: «Lascio questa casa perchè sento che è impossibile rimanere uniti più oltre. - Sento troppo altamente i motivi che mi spingono a tal passo per nasconderlo - Non mi cercate adunque: sarebbe inutile - Vi so troppo ricco e troppo generoso per supporre che possiate far conto della mia dote: vi prego quindi di passare, su questa, 8 o 9 mila lire all'anno al mio incaricato d'affari a Torino, signor Treveri. Credo che basteranno». Era quanto vi ha di incisivo nell'ardire portato all'audacia, nella franchezza spinta sino al cinismo della donna volubile e galante, appassionata ed impetuosa. Quasi nell'ora istessa un elegante calesse si fermava dinanzi il portone di una graziosa casa a due piani nella Strada Nuova. Un palafreniere, che serviva anche da portinaio, venne ad aprire alla signora abbigliata con distinzione, che era discesa dal calesse, e le additò una scala a sinistra, della quale gli scalini di marmo erano fiancheggiati di vasi di fiori. In fondo alla corte, legati alle sbarre di un cancello che chiudeva un giardino di piacevolissimo aspetto, scalpitavano tre bellissimi cavalli inglesi. Nell'anticamera, ad un domestico che incontrò, la donna domandò se il signor Pietro Brusio era in casa. - Sì, signora; ma non è visibile, poichè è nel suo gabinetto di lavoro. - Ditegli che c'è una signora che desidera parlargli. - Domando scusa, signora; ma la prego di avere la bontà di ripassare verso le sei, o di lasciare il suo biglietto; poichè quando è nel suo gabinetto il signore non vuol essere disturbato assolutamente. - Fategli tenere questo biglietto in tal caso; - insistè la signora con una lieve tinta d'impazienza, prendendo da un elegante porta-biglietti una carta di visita e piegandola: - ditegli che aspetto. Non vi sgriderà certamente per questo. Il tuono di sicurezza e di superiorità con cui parlava la bella signora, vinsero le esitazioni del cameriere, che si decise a fare quanto ella diceva. - Si dia l'incomodo di seguirmi in sala, - diss'egli sollevando la portiera di un uscio; - il signore ci sarà a momenti. Per giungere al salotto si attraversava una piccola serra a cristalli, che occupava uno dei lati di una terrazza assai vasta, della quale s'era fatto un giardino pensile, sporgente su quella spiaggia incantata della Marinella che ha il bel golfo di Napoli per orizzonte, e in fondo Capri e Sorrento. Quella specie di stufa, dove vegetavano le più belle piante esotiche, circoscriveva come in una atmosfera separata dalla città clamorosa, il salotto ed il gabinetto da studio che vi era contiguo. I rumori esterni sembravano estinguersi sulla sabbia finissima del viale, come il più lieve alitare di vento moriva sulle grandi foglie di quelle piante immobili nelle loro masse svariate. Il salotto era addobbato con lusso; ma quel pensiero tutto originale che avea disposto lo stanzone dei fiori prima di giungervi, e il giardino sulla terrazza, sembrava aver presieduto nei minimi dettagli alla situazione di tutti gli oggetti che lo decoravano. Le porte vetrate, che si aprivano sulla terrazza, erano nascoste, alla lettera, da persiane di pianticelle rampicanti; ciò che unito alle pitture dei vetri, e alle doppie tende di raso e di velo faceva penetrare soltanto nella sala quella mezzaluce, che, col lasciare indistinte le forme degli oggetti, vi crea mille nuove immagini, e ne popola la semi-oscurità di quei mille sogni incantati, di quelle sfumature voluttuose che tanto piacciono alle signore galanti; il passo si arrestava sui tappeti vellutati, come se temesse di destare un eco che potesse strappare dalla deliziosa preoccupazione che faceva nascere quell'atmosfera. Il cameriere scomparve senza far rumore per uno degli usci dirimpetto, nascosto dalla stessa tenda di raso celeste. La signora si sprofondò in una delle poltroncine che erano vicine ad un elegante tavolino da albums, piccolocapolavoro nel suo genere; subendo anch'essa, senza accorgersene, il fascino che esercitava sui sensi quel luogoo ricco di dorature, di sete, di specchi e di profumi: fascino al quale forse ella era disposta. Poco dopo la tenda si aperse, e comparve un uomo, vestito del rigoroso abito nero, come se volesse dare a divedere di apprezzare tutto il valore della visita che riceveva; ancora pallido, ma di quel pallore che ci fa brillare gli occhi, quando la gioia troppo potente della felicità sembra chiamare al cuore tutto il sangue. Una benda di seta gli teneva al collo il braccio sinistro. Un momento però egli sembrò ondeggiare indeciso, mentre fissava i suoi occhi scintillanti su quel corpo da fata (che accennava appena le sue seduzioni sotto le linee quasi vaporose delle vesti, voluttuosamente disteso sulla poltroncina) e su quegli occhi che lo fissavano del loro sguardo piú bello, mentre il sorriso più dolce errava sui labbri di lei. Come se avesse temuto di rompere l'incanto di quel sogno troppo bello per lui, esclamò, quasi impaziente, verso un testimonio che gli stava vicino, ma che però non si vedeva: - Non ci sono per nessuno. Quando vi voglio suonerò. Andate. Non si udì sul tappeto, molto spesso, il passo del cameriere che si allontanava. Pietro si avanzò lentamente verso la dama, come se avesse voluto assaporarne con una voluttuosa economia d'analisi, tutte le emanazioni inebbrianti. Ella, nella sua positura da sirena, lo fissava sempre senza parlare. Il giovane non pensava neanche a proferire la più semplice formola di civiltà. Una parola sola le irruppe spontanea: - Lei!... lei, signora!... da me! - Che c'è di strano? - rispose ella con un indefinibile sorriso. - Non ha ella rischiata la vita per me, perchè io venga a rischiare quelli che il mondo chiama riguardi per lei?... Gli stese la destra, dopo essersi tolto il guanto; egli esitò a prendere quella mano, che forse, per fargli provare in tutta l'intensità il brivido del suo contatto, gli si metteva nuda fra le sue. - Ho ricevuto il suo biglietto dal signor Briollii. Se lei ha molto a farsi perdonare, io ho molto a ringraziarla... Ho verso di lei uno di quei doveri di gratitudine dinanzi a cui le convenienze sociali scompaiono; e son venuta a ringraziarla, signore, della sua azione sì nobile, sì generosa sino al sacrificio!... Invece di rispondere, Pietro seguitava ad ammirare, come si fa di un oggetto prezioso, quella manina bianca ed affilata che si teneva fra le sue senza osare di stringerla, come se temesse di farne appassire la delicata bellezza. - E questa ferita!... Dio mio!... continuò la contessa commossa vivamente. - Nulla... una scalfittura. Narcisa si avvide forse allora della tacita ammirazione con cui il giovane si teneva quella mano sulle palme, e, arrossendo impercettibilmente, fece un movimento per ritirarla. - Oh! la lasci!... - mormorò egli come un fanciullo che parli in un sogno delizioso. - È così bella!... La contessa, ancor più rossa di prima, ma sorridendo cogli occhi e le labbra del suo sorriso inebbriante, con un movimento rapidissimo e quasi istintivo di grazia squisita, o di sopraffina civetteria, gli porse l'altra, lasciandole in quelle di lui e guardandolo fisso negli occhi. Pietro volle baciare quelle mani da fata; ma gli parve un peccato, come gli era sembrato lo stringerle, di sfiorare coi suoi labbri quella pelle rasata. Dopo un momento di silenzio la contessa riprese: - Uno dei testimoni di mio marito, il signor Briolli mi ha fatto conoscere tutta la generosità della sua condotta... Se io avessi potuto sospettare che alla mia preghiera ella doveva rispondere con tal sacrificio, io avrei inorridito di avanzarla... come ora ho rimorso... - Non mi parli di ciò! - interruppe quasi brusco il giovane, come se avesse temuto di destarsi. - Noi abbiamo torti reciproci, - aggiunse Narcisa col suo sorriso ammaliatore; - siamo franchi in tal caso dall'una parte e dall'altra per poterceli perdonare scambievolmente... - Reciproci torti? - interruppe Pietro come trasognato. - I miei saranno più gravi; - rispose Narcisa, - ma ho la buona fede di confessarli e la risoluzione di espiarli... E voi? - Io non me ne trovo che uno!... ma sì grande... che io non oso rammentarlo senza arrossire in faccia a voi... - Confessatelo allora; forse vi verrà perdonato. - Contessa!... - È molto grave adunque perchè non abbiate il coraggio di questa confessione? - Le vostre parole me lo danno; io ho commesso l'indegnità d'insultarvi rimandandovi il mazzo e l'anello, e poco fa anche il biglietto... - Avete avuto torto nell'ultimo caso, non l'avevate nel primo... - Perchè? - Perchè nel primo caso quello che a voi pare colpa, mi provava piuttosto... - Narcisa!... - Che voi... - Che io vi amo come un pazzo!... come un uomo che non è più conscio di quello che fa, poichè voi gli avete tolto la mente e la ragione, Narcisa!... Così dicendo Pietro divorava coi baci quelle mani che si teneva fra le sue. - Ora che la vostra confessione è fatta, - diss'ella, non rispondendo direttamente, - veniamo alla mia. Pietro si accosciò sul tappeto ai piedi della contessa, tenendo sempre le sue mani. - Vi scrissi di aver conosciuto a Catania un giovanetto generoso sino al sacrifizio, nobile sino all'eroismo... Perdonatemi, non m'interrompete. Allora non sapevo chi fosse, non conoscevo che un giovane come se ne veggono tanti, inferiore fors'anche a quei giovani eleganti che mi facevano la corte. Anch'esso mi faceva la corte alla sua maniera, come la fanno i provinciali e gli adolescenti... Guardai qualche voltai costui che incontravo sempre sui miei passi in istrada, sulla porta del Teatro, uscendo e rientrando in casa... Qualche volta, quando paragonavo il suo stato a quello di coloro che mi amavano come lui ma che potevano dirmelo o almeno provarmelo, aspirare almeno ad un mio sorriso, ad una mia parola... mentre costui doveva sacrificarsi giorni e notti intiere per vedermi scendere da carrozza o per passarmi d'accanto al ritorno di un ballo ebbi un momento di curiosità, ed anche di riconoscenza sì lontana da sfumare nella compassione, per questo giovane che mi amava in tal modo, e mi amava senza speranza... Poi, non ci pensai più... - Poco tempo fa lo rividi in una festa: - riprese la contessa: - era l'uomo in voga; l'alta società avea per lui le più squisite cortesie, le donne più belle e più nobili gli sorridevano... Un vero trionfo! lo ammirai quella fronte larga e pallida, e mi sembrò di scorgervi qualche cosa di nobile che non vi avevo prima notato; mi parve di leggere un mondo intiero nei suoi occhi, sebbene alquanto malinconici. Lo sguardo ch'egli mi volse mi fece pensare al giovanetto sconosciuto... e provai una viva commozione a quel pensiero: C'era trionfo ed orgoglio soltanto in quel punto. Oh! io sono schietta, signore, per farmi credere quello che ho da dire in seguito. Quest'uomo avea fatto un miracolo pel mio amore - un miracolo di genio... lo l'ho veduto in quell'opera, come egli non ha veduto che me creandola, prendermi la mano, sorridendo del suo triste sorriso, e farmi passare in rassegna il suo cuore coi suoi palpiti, le sue speranze e le sue lagrime... e trasportarmi ai giorni delle vaghe aspirazioni e dei sogni ineffabili. Poi mi ha fatto piangere del suo pianto disperato a quelli spasimanti di passione... e si è arrestato anelante, spossato, colle braccia stese, nel punto in cui sentiva sfuggirsi questo fantasma a cui incatenava la sua esistenza... Oh, in quel momento, signore... s'io avessi veduto dinanzi a me quest'uomo, come l'ho veduto nel suo sogno, nel suo dramma... gli avrei stese le braccia ad incontrare le sue... - Narcisa!... - mormorò soffocato Brusio, sollevandosi sino ad inginocchiarsi. - Qualche volta, quando penso a quest'amore sì ardente e sì immenso che non avrei saputo immaginare, se non l'avessi ispirato, io che ho sorriso e folleggiato fra le ancor più folli proteste di mille galanti, io stordita da quest'incenso d'adulazioni e di corteggio che gli uomini più eleganti, più ricchi e nobili si affollano a bruciarmi ai piedi... io ho un movimento d'incerto terrore;... mi pare che debba essere terribile, divorante questa passione quando è giunta a tal grado;... mi pare ch'essa debba assorbire la vita in un bacio di fuoco.. ma in un bacio di tale ebbrezza da sembrare troppo piccolo compenso la vita, e troppo corti i giorni per avvelenarsene... - Narcisa!!... - ripetè Pietro colle lagrime agli occhi, prendendole le mani con violenza, mentre avea ascoltato sin allora cogli occhi spalancati e fissi, come pazzo di felicità, e coi gomiti appoggiati sulle ginocchia di lei. La fata si curvò mollemente verso di lui, e gli posò le braccia sullo spalle... poi lo sollevò lentamente, con quell'abbandono inimitabile e seducente che le era particolare; e guardandolo sempre col suo sorriso da sirena gli susurrò, quasi sulle labbra, colla sua voce più bella e più carezzevole: - Son venuta a vedere il tuo gabinetto da studio... Pietro... Quel soffio passò come un vento ghiacciato sul sudore che inondava la fronte di lui, che, impotente a più contenersi, la sollevò, prendendola fra le braccia, come un caro fanciullo, e la divorò dei baci, singhiozzando in un sublime delirio: - Tu sei il mio Dio! ed io non avrò mai forza per amarti come vorrei!!!... La portiera ricadde ondeggiante dietro di loro. Pochi giorni dopo, verso il tramonto, due giovani che s'avvincevano colle braccia allacciate, come le rampicanti che coprivano i fusti dei grandi alberi del giardino pensile, appoggiati alla ringhiera di pietra della terrazza, guardavano il sole che tramontava dietro quel mare azzurro che si stendeva immenso ai loro piedi ed ove si specchiavano Ischia e Procida. Narcisa teneva appoggiata la testa sulla spalla di Pietro, e di quando in quando si aggrappava al collo di lui colle sue candide braccia per passare i suoi labbri sulla fronte e gli occhi di lui con mille baci muti della sua bocca tremante che ne formavano un solo. - Che vita!... mio Dio! che vita!!... - mormorava ella soltanto qualche volta. - Eppure, mio dolce angioletto, quando io bacio questa tua fronte, e mi premo fra le labbra questi capelli, e ti chiudo gli occhi colle mie mani, e mi sento fremere fra le braccia questo tuo corpo da fata... io non credo, no... malgrado che io chiuda gli occhi, malgrado che io torturi disperatamente il mio cervello, per crederlo, che ciò che io provo di sì immenso, di sì convulso, di sì spasimante nella voluttà del piacere, nel delirio del godimento, mi viene da te;... che tutto ciò non è uno splendido sogno della mia fantasia, come ti sognai nel mio dramma... e ti sognai delirante, stringendomi la testa infuocata fra le mani, premendomi il cuore che sembrava scoppiarmi, seduto sul marciapiede di faccia ai tuoi veroni!... No... io non posso credere che quella donna che incontravo al passeggio, al braccio di un altr'uomo, fra l'ammirazione di quanti la vedevano, facendo palpitare il mio cuore col fruscio del suo strascico sulle vie;... che quella donna che vidi al Teatro; che mi passò da presso senza guardarmi; che seguii come un fanciullo, come un cane;... che non mi stancai a vedere dalla strada, per due mesi intieri, sotto la sua casa, ascoltando il minimo rumore che mi venisse da lei, che mi accennasse la sua presenza facendomi trasalire;... che quella donna che proferì quelle parole... quella notte... dal verone;... che mi torturò il cuore colle note strillanti del suo valtzer, quando mi parve che il mio cuore fosse rotto;... che quella donna ch'io non osavo avvicinare per non rompere il cerchio luminoso che la circondava d'aureola, per non rapirle un atomo di quella atmosfera profumata della quale si circondava, che faceva il suo prestigio;... che quella donna che adorai infine come un pazzo, spaventandomi di adorarla in tal modo, è mia!... mi ama!... mi è fra le braccia!!... che io posso chiamarla ogni giorno, ad ogni ora, ad ogni minuto;... che io ad ogni ora, ad ogni minuto posso udire quella voce che proferì: quell'uomo è pazzo: che mi dice che m'ama!... che io posso ad ogni ora, ad ogni minuto vivere la sua vita e suggergliela coi baci dalle labbra... Oh, no! Narcisa... per credere a ciò bisogna che noi ritorniamo a Catania, che noi abitiamo quella stessa casa, che io guardai con più venerazione della casa di Dio; che io respiri l'aria istessa di quelle camere; che mi metta a quel verone, con te, al posto che occupavi seduta sulla poltrona; e che io ti legga, seduto accanto alle tue ginocchia, come quell'uomo... Bisogna che mi metta con te, di notte, a quell'ora, a quel verone; e che tu ripeta quelle parole infami che io annegherei sulle tue labbra coi miei baci; bisogna che le tue mani ripetano su quel pianoforte le note di quel valtzer che m'inseguirono spietatamente quando fuggivo delirante come se fuggissi il cuore che sanguinava dirotto; bisogna che io mi segga su quel marciapiede, colla fronte fra le mani, come allora; e che io ascolti lo stormire di quegli alberi, il suono di quell'orologio, il murmure lontano di quel mare, il fruscio della tua veste;... e che io vegga il lume che rischiara la tua camera;... e che la tua voce sopratutto, la tua voce inebbriante, mi ripeta ad ogni ora, ad ogni minuto, che quello non è un sogno, che io non son pazzo;... e che i tuoi labbri, posandosi sulla mia fronte, mi scaccino questo turbine affannoso che mi sconvolge la mente, che mi fa dubitare della mia felicità... - Andiamo a Catania! - mormorò Narcisa, dandogli un lungo bacio e bagnandogli la fronte di due lagrime di voluttà.

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Dramm intimi

250067
Giovanni Verga 1 occorrenze
  • 1884
  • Casa Editrice A. Sommaruga e C.
  • Roma
  • Verismo
  • UNICT
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Ho un gran sospetto che quel dominò della Cavalchina fosse lui, e che abbia udito, quando deste l'indirizzo dell'albergo al gondoliere. Lasciatemi in pace, lasciatemi in pace, ecco quello che vi ho detto poi, nelle lunghe notti senza sonno e senza sogni. E vi ho detto anche peggio. Che ve ne importa? Che me ne importa? Io voglio dormire, voglio dormire soltanto. Voi siete bella, sana, giovane, ricca. Avete la San Mauro ai vostri piedi, Giuliano che vi fa ridere, il duca che vi manda delle violette da Nizza. Lasciatemi in pace. Vedete, è un'ora che vi scrivo. Il sole mi ha lasciato adagio adagio, e col sole la lieta fantasia che suscitava la vostra memoria. Ora ho freddo, e la nebbia è calata anche su di voi. Che colpa ne ho io? Se vedeste come è triste questo mare che illividisce, e questo verde che si fa scuro! Sento il bisogno del bel fuoco che scoppietta nel camino, e del buon brodo che fuma nella tazza. Se stanotte potessi dormire senza cloralio, quanto sarei felice! Vedete quanto poco ci vuole per dare la felicità! Il dottore m'assicura che sto meglio; e che forse in primavera potrò lasciare Sorrento. Giacchè dovete sapere che odio Sorrento, odio questo mare, questo cielo, questo verde implacabile in mezzo al quale sono costretto a stare, se voglio vivere. Anch'io difatti mi sento meglio, ho pensato a voi, ho riletto le vostre lettere; ho sentito ritornare in me qualcosa del passato che credevo morto, e mi rianima e mi scalda; dunque anch'io posso rinascere? Allora! allora!... No, non voglio pensare ad altro. Il medico dice che mi fa male. Il mio male siete voi. Non m'importa più di nulla, capite? Sentite! Siete in collera? Vi chiedo perdono; vi ho spiegato il motivo del mio silenzio. Sono un uomo dell' altro mondo. Non pensate più a me. Se mi vedeste ora, volgereste il capo dall'altra parte. Lasciatemi in pace.

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