Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Ricordi d'un viaggio in Sicilia

169022
De Amicis, Edmondo 5 occorrenze
  • 1908
  • Giannotta
  • Catania
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Perché è ancor vivo nell'anima di tutti quegli che diede all'amore alla mestizia il linguaggio della più dolce melodia che abbia mai intenerito il cuore umano; e possono mutar scuole e gusti ,possono passar torrenti di nuove musiche e aurore e soli di nuove glorie, ma la parola divina che egli ha parlato al mondo rimarrà eterna, ed eterno il suo caro nome: caro nome che, mezzo secolo dopo la sua morte, noi non possiamo pronunciare ancora senza un sospiro di rimpianto, come se a noi stessi fosse stata rapita innanzi tempo la consolazione celeste della sua voce. Catania, con le sue strade diritte lunghissime, arieggia Torino, ma ha aspetto più vario e più gaio per il color più chiaro degli edifizi e per il dislivello del suo suolo, composto in buona parte di vecchie lave vulcaniche; il quale ascende verso l'Etna, sovrastante alla città e visibile da ogni punto. Chi la vede per la prima volta in una giornata serena non si può capacitare che in una città così splendidamente lieta possano infuriare tante tempestose passioni di parte, combattersi tante accanite battaglie politiche. Essa ha l'incanto della gioventù, a cui brilla in viso la coscienza della forza e la fede nell'avvenire. E' infatti la città più florida della Sicilia. E nonè di fresca data la sua prosperità crescente. Dopo il memorando terremoto del 1693, che la distrusse tutta quanta, Catania rifatta venne prosperando continuamente, e dal 1860 in poi è quasi raddoppiata la sua importanza. Per giungere a questo essa non ebbe che ad aiutare la sorte e la natura che l'hanno privilegiata d'ogni favore. Situata quasi nel punto di mezzo della costa orientale dell'isola, al Lembo della più vasta e più fertile delle pianure siciliane, alle falde del gran vulcano fecondatore, intorno a cui fioriscono le più svariate colture, essa accoglie in sé e manda fuori dal suo porto profondo in grande abbondanza ogni specie di prodotti agricoli e minerali, e alimenta fra le sue mura, oltre alle generali industrie cittadine, una quantità d'industrie speciali, che danno una straordinaria attività al suo commercio e attirano Greci, Inglesi, Tedeschi ad accrescerle senza posa con nuovi sfruttamenti e nuove imprese. Ma non è città industriale e commerciale soltanto: è ricca d'Istituti di beneficenza, possiede biblioteche cospicue, è sede d'una delle maggiori Università d'Italia, in cui sono laboratori rinomati di chimica e di fisica, d'anatomia e di zoologia, e rinomatissimi di geologia e di mineralogia; ed è fra i primi d'Europa, visitato da scienziati d'ogni paese, il suo Osservatorio Astronomico, in specie per riguardo alla fotografia stellare, a cui è propizia la maravigliosa limpidità atmosferica , e agli studi geodinamici, ai quali appartiene una collezione di fotogrammi sismici, forse la più preziosa del mondo.

E' una successione di golfi e di seni dalle curve graziosissime, dominati da alti promontorii dirupati, che si specchiano nel più maraviglioso azzurro marino che abbia mai sorriso al sole. Si percorre il primo tratto, lungo il mare, in vista delle diciassette isole dell'Arcipelago Eolio, che par che sorgano l'una dopo l'altra dalle acque, con le loro belle forme vulcaniche, ardite e leggere, tinte di colori soavi, d'un'apparenza quasi vaporosa. E le pianure verdi, solcate da innumerevoli corsi d'acqua, succedono alle pianure verdi, i boschi ai boschi, i vigneti ai vigneti, e vaghe città biancheggianti sulle alture, e monti scoscesi coronati di chiese aeree e di castelli spagnuoli e normanni e d'avanzi di colonie greche e romane. E fuggono accanto al treno i boschetti d'aranci, le siepi di fichi d'India, le spalliere di áloi, i gruppi di palme, tutte le varietà di piante di tutte le terre italiche, accarezzate e mosse da un'aria imbalsamata che vi delta nel sangue e nell'anima un sentimento delizioso della vita. E quante grandi immagini del passato vi sorgono dinanzi da ogni parte! Su quel ridente azzurro del golfo di Spadafora fu distrutta da Agrippa la flotta di Sesto Pompeo; su quell'altre acque luminose, fra il Capo Orlando e la foce della Zapulla, fu sconfitta l'armata di Federico dalle armate riunite di Catalogna e d'Angiò; laggiù riportò Duilio la prima vittoria navale di Roma; su questa pianura l'esercito cartaginese di Amilcare fu sbaragliato dall'esercito greco di Gelone e di Terone. A grandi lampi vi passa dinanzi tutta la storia dell'isola fatale, intorno a cui gravitò per secoli la vita storica e sociale di tre continenti, e d'in fondo al passato immenso vedete sorgere l'albore d'una speranza: poiché se l'Italia peninsulare, come fu detto con felicissima immagine, è un braccio teso dall'Europa nella direzione dell'Africa, la Sicilia è pur sempre la mano di quel braccio; ed è ancora una grande verità quella affermata dal Fischer, ch'essa possiede una stoffa di colonizzatori di primordine "atta a metter radici sopra ogni terra, a prosperare sotto ogni cielo". Chi sa che nell'avvenire dell'Africa non sia il risorgimento dell' "organo prensorio" d'Italia? Ed ecco Monte Pellegrino, ecco la Conca d'oro, ecco Palermo!

Non credo che ci sia al mondo altra grande città decaduta che abbia dinnanzi a sé una così maravigliosa immagine del suo grande passato; non credo che esista un altro così ampio, così magnifico, così solenne cimitero istorico com'è questo dei quattro quartieri siracusani scomparsi; appetto al quale scompare alla sua volta la città vivente, o quasi si dimentica. Dico "Cimitero" poiché le poche ville sparse, i due o tre alberghi, le due piccole chiese di Santa Lucia e di San Giovanni e le case rustiche qua e là disseminate sono come perdute nell'amplissimo spazio. Le rovine colossali lo dominano intero. Dovunque volgiate il passo, anche per i piani erbosi e fra i vigneti, dove le rovine non sono visibili, voi le vedete ancora. Vedete le gradinate grandiose del teatro greco e dell'anfiteatro romano, scavate nella roccia, in gran parte ancora intatte, immagine d'un lavoro quasi sovrumano, che vi sgomenta e le pareti scoscese delle latomie profonde, e le vaste gallerie delle necropoli, e gli acquedotti enormi, e gli avanzi delle antiche mura dell'Acradina; e da tutti questi frammenti della sua ossatura gigantesca la visione della città intera vi sorge dinnanzi, con la sua sterminata cinta merlata e turrita, coi suoi porti affollati di navi, coi suoi templi superbi, coi suoi arsenali, i ginnasi, i mercati, i bagni, i giardini; immensa, bella e terribile, qual'era ai tempi di Dionisio il vecchio. La più maravigliosa delle rovine è il forte d'Eurialo, posto verso la punta del triangolo rivolta ad occidente: una delle più ammirabili opere di architettura militare dell'ingegneria greca: chiave della difesa di Siracusa; dove le muraglie del lato sud si congiungevano. Dovrebbero risonare e scintillare le parole come colpi di scalpello nella pietra per descrivere l'aspetto di quelle quattro torri poderose, di quei fossati profondi scavati nel macigno, di quel cortile interiore dove si riconoscono ancora i ricetti dei cavalli e delle macchine, di quella rete di passaggi sotterranei, dove s'ammassava la cavalleria per le sortite improvvise. Tutto questo è così forte, cosi fiero, così formidabile, così vivamente ed eloquentemente antico, che il primo senso d'ammirazione vi si muta a poco a poco in stupore, e in qualche momento vi scote un brivido come se la vostra vista intellettuale, per un miracolo, penetrasse a traverso i secoli trascorsi, e le palpitasse davanti di vita vera la storia, che non era prima per essa se non una visione di larve.

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Chi può maravigliarsi che davanti a un tale spettacolo l'Imperatrice di Germania abbia lasciato cadere a terra un diamante senza avvedersene? Questo mi disse quello stesso custode del Teatro che trovò il diamante fra i ruderi vicini alla porta e che lo riportò all'Augusta Signora. Ed egli stesso mi riferì con alterezza di cittadino taorminese un motto che aveva udito il giorno innanzi da una bizzarra signora straniera incantata del panorama: motto ch'io metto qui come suggello al mio povero tentativo di descrizione. - "Credo poco all'Inferno; ma credo al Paradiso perché l'ho visto... ed e questo".

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Così caldamente innamorati d'ogni bell'ideale che amano ed onorano anche chi ne abbia fatto loro balenare appena un vago riflesso con poca arte e con malsicura coscienza; cosi ingenuamente generosi che ingrandiscono e abbelliscono con l'immaginazione uomini e cose, credendo che sia loro virtù intrinseca quello che essi mettono in loro di proprio! Ma v'erano altri sentimenti delicati in quelle dimostrazioni. Tutta quella gioventù sapeva che quel suo ospite aveva sofferto dei grandi dolori, e lo festeggiava per consolarlo; pensava, vedendogli i capelli bianchi, ch'egli non aveva più lungo tempo da vivere, e voleva che la sua vita fosse coronata da una delle più profonde e dolci soddisfazioni ch'egli avesse potuto mai desiderare, gli voleva lasciar nell'anima un ricordo che gli desse impulso a lavorare ancora infaticabilmente fino agli ultimi suoi anni; prevedeva che in quella cara terra egli non sarebbe ritornato mai più, e voleva che gliene rimanesse una immagine più bella, più cara ancora di quella che n'aveva riportata quarant'anni innanzi, al tempo della sua prima giovinezza. O cari fanciulli del popolo, operai, studenti, buoni amici sconosciuti d'ogni età e d'ogni ceto, ospiti affettuosi e giocondi, come egli ha ben capito e sentito la gentilezza del vostro intento, e che profonda gratitudine ve ne serberà in cuore fin che gli anni e l'infermità non gli abbiano spento l'ultimo barlume di memoria delle giornate luminose e felici che ha trascorse sotto la bellezza incantevole del vostro cielo e in mezzo alle vestigia gloriose della vostra storia!

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La fatica

169784
Mosso, Angelo 17 occorrenze
  • 1892
  • Fratelli Treves, Editori
  • Milano
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Non so più in che libro io abbia letto che qualcuno vide in alto mare degli uccelli, tra i volatori più forti, che avevano sulla schiena qualche uccello piccolo il quale facevasi portare e che a questo modo aveva trovato nella disperazione la salvezza. Una memoria antichissima della stanchezza delle quaglie l'abbiamo nella sacra Bibbia dove nell'Esodo si racconta come gli Israeliti si nutrirono di quaglie nel deserto. La facilità colla quale si lasciavano prendere dimostra che erano esauste dal viaggio. Vi sono degli uccelli che ad ogni primavera fanno più di quindicimila chilometri per andare dall' Africa australe, dalla Polinesia e dall'Australia fino alle regioni polari; e nell'autunno rifanno indietro il medesimo viaggio per ritornare alle loro stazioni d'inverno. Il rondone compie ogni anno il viaggio dal Capo Nord al Capo di Buona Speranza, e viceversa. Le emigrazioni delle gru e delle cicogne le vediamo ripetersi ogni anno. Ma come si orientino a traverso i monti e nel mare, come dall'Africa le cicogne e le rondini tornino al loro antico nido, come siasi sviluppato l'istinto che le guida, non sappiamo ancora. In questi ultimi anni si sono scritti libri assai pregevoli su questo argomento: citerò quelli di PalmènI. A. PALMÉN; Ueber die Zugstrassen der Vögel, 1876, Leipzig., di Weismann WEISMANN, Ueber das Wandern der Vögel. Berlin, 1878., e di Seebohm SEEBOHM,The geographical distribution of the Charadriidoe.. Ora non si contentano più gli ornitologi, contemplando gli uccelli che passano per l'aria, di dire che si tratta di un istinto mirabile. Anche su quest'argornento sono cominciati gli studi analitici. Palmèn dimostrò che gli individui più vecchi e più forti guidano le schiere migratrici, e che la maggior parte degli uccelli che fuorviano e si perdono per strada, sono individui giovani dell'ultima covata, o madri che si fermano e deviano per cercare i figli smarriti. Difficilmente i maschi adulti, se non sono sbattuti da una tempesta, perdono la strada. Palmèn ha pubblicato una carta delle grandi vie delle emigrazioni. I termini miliari di queste lunghe strade sono certi luoghi, dove gli uccelli possono riposarsi e trovare nutrimento abbondante.Palmén dice che sarebbe mancar di criterio l'ammettere che gli uccelli escano dall'uovo portando innata la conoscenza di questi luoghi. L'istinto che posseggono gli uccelli ha bisogno di essere educato. Appena escono dal nido cominciano a studiare lo spazio che li circonda, poi si allontanano in cerca del cibo e la foga del volare li spinge lontano quanto loro serve la memoria. Così sviluppasi rapidamente in essi il senso dei luoghi e della direzione. Quando giunge l'autunno si lanciano intrepidi verso i paesi del mezzogiorno; e, se un uccello nato in quell'anno è così irrequieto che non aspetta i genitori, può riuscire a trovare una via che lo conduca al suo scopo, ma il più delle volte soccombe. E perciò che generalmente viaggiano in stormi e in grandi comitive.Così imparano dai vecchi a conoscere gli accidenti del terreno, i monti, i fiumi e le valli, che sono le grandi vie maestre delle emigrazioni. Ciò che a noi sembra un istinto meraviglioso e cieco sarebbe una conoscenza dei luoghi, che le generazioni degli uccelli si tramandano come una tradizione.

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Torino, 1876, la rigidità, cadaverica nel cuore del cane, ed abbiamo veduto che talora essa comincia prima che il cuore abbia cessato di battere spontaneamente. È probabile che succeda lo stesso nel cuore nostro, e che quando si rallentano i suoi battiti nell'agonia, abbia già cominciato quel processo della alterazione del muscolo, che dovrà, farlo irrigidire. Per farci un'idea di questo fenomeno abbiamo fatto delle esperienze nel cane, dalle quali risultò che nelle quattro prime ore, eccetto dei movimenti fibrillari e delle piccole oscillazioni, il cuore, staccato dal corpo, rimane quasi immobile. Verso la quarta ora incomincia la vera contrazione della rigidità cadaverica, e questa in circa due ore raggiunge il suo massimo.

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Gli annegati che prima di morire si dibattono fortemente nella speranza di aggrapparsi a qualche cosa che li salvi, si trovauo attaccati colle mani rigide agli oggetti, che avevano afferrati, senza che la morte abbia rilasciato i muscoli. Nell'ultimo spaventoso naufragio degli emigranti italiani presso Gibilterra (17 marzo 1891) in cui perirono trecento persone, fra i cadaveri che il mattino dopo furono trovati sulla spiaggia, vi era il cadavere di una donna con un bambino morto stretto al collo. Nè l'agonia ne le onde burrascose dell'oceano, che avevano sbattuto quei cadaveri sulla spiaggia, avevano bastato per allentare l' ultima stretta della morte, per disgiungere la madre dal suo figliolo. Le osservazioni più commoventi sulla rigidità cadaverica le raccolse il professore Rossbach sui campi di battaglia di Beaumont e Sedan, durante la campagna del 1870 ROSSBACH, Ueber eine unmittelbar mit dem Lebensende beginnende Todtenstarre,- Virchow's Archiv B, LI, Fag. 558,.Sopra una collina nelle vicinanze di Floins giaceva in terra una lunga fila di usseri fraucesi. Egli ne vide parecchi che avevano conservato nel volto l'espressione del dolore provato negli ultimi istanti della vita: avevano le ciglia corrugate, le labbra strette, e benchè i cadaveri fossero già freddati, una contrazione convulsa teneva ancora terribilmente sfigurati i muscoli della faccia. Molti stringevano la spada in pugno. Un soldato era nell'atteggiamento di caricare il facile. Alcuni li trovò morti col viso sorridente, forse coll'espressione dell'ultimo pensiero che avevano evocato nel momento della morte. Un soldato era caduto sul dorso tenendo le braccia lunghe e rivolte al cielo: da lontano si credette che non fosse morto e chiedesse aiuto; accorsero e lo trovarono irrigidito a quel modo. Una granata uccise d' un colpo tutta una comitiva di soldati, che si erano riparati in una fossa per fare tranquillamente colazione. Di uno, dice Rossbach, si poteva essere certi che raccontasse qualche storia allegra tanto era viva l'espressione di contentezza che gli rimaneva ancora nel volto benchè l'avesse ucciso una grave ferita del cranio. Un altro di questi soldati teneva colla mano la tazza presso la bocca, ma gli mancava il cranio; e della faccia mutilata non gli era rimasta che la mandibola inferiore. Essendo profonda la fossa, nella quale si erano riparati nessuno pel colpo era caduto in terra ed erano rimasti seduti, o sdraiati, in modo che guardandoli dall' alto parevano vivi, se non era di quel tale colla tazza in mano in atto di bere, al quale mancava la testa. Un caso commovente di rigidità cadaverica descritto dal Rossbach, è quello di un soldato tedesco ferito nel petto, che sentendosi morire volle vedere ancora una volta il ritratto di sua moglie o della sua amata. Egli giaceva di fianco, appoggiato su di un braccio e teneva dinanzi agli occhi, colla mano sollevata e rigida il ritratto che pareva stesse ancora contemplando nella morte.

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Chiunque abbia fatto un’ ascensione sopra una montagna si sarà accorto che l'ultima parte della salita per toccare la vetta, costa uno sforzo assai maggiore che non abbiano costato altri passi più difficili, quando si era meno stanchi. Il nostro corpo non è fatto come una locomotiva che consuma la stessa quantità di carbone per ogni chilogrammetro di lavoro. In noi, quando il corpo è stanco, una quantità anche piccola di lavoro meccanico produce degli effetti disastrosi. La ragione l'ho già accennata nel precedente capitolo, ed è che le prime contrazioni, il muscolo le fa consumando sostanze differenti da quelle che consumerà in ultimo quando è stanco. Per servirmi di un esempio dirò che anche per il digiuno nel primo giorno si consumano dei materiali che abbiamo nel corpo, i quali sono diversi da quelli che spremeremo per così dire dai nostri tessuti negli ultimi giorni della inanizione. Ho detto che il nostro corpo risente un danno maggiore per il lavoro che fa quando è già stanco. Una delle ragioni di questo fatto è che un muscolo avendo consumata nel lavoro normale tutta l'energia della quale poteva disporre, si trova obbligato per un soprappiù di lavoro ad intaccare per così dire, altre provvigioni di forza che teneva in riserbo; ed a far questo occorre che il sistema nervoso lo aiuti con una maggiore intensità dell'azione nervosa. Ma quantunque lo sforzo nervoso sia più cospicuo, il muscolo stanco si contrae debolmente. Quando solleviamo un peso vi sono due parti che si affaticano: l'una è centrale, puramente nervosa, cioè la parte impulsiva della volontà, l'altra è periferica, ed è il lavoro chimico che si trasforma in lavoro meccanico dentro alle fibre muscolari. Kronecker aveva già detto che il peso non stanca ma che l'eccitamento stanca. Ho voluto provare se questa legge trovata nelle rane è pure vera per l'uomo. Adattai all' ergografo una vite, V (fig. 5. capitolo IV). Girando questa vite che passa dall'altra parte del montante I fra le due sbarre d' acciaio, nelle quail si move il corsoio N, si dà al peso un punto di appoggio più vicino alla mano: e il dito medio viene esonerato dal peso nel principio della sua contrazione. Se mentre il muscolo si contrae per fare un tracciato della fatica, noi giriamo avanti la vite V dell' ergografo, possiamo far sì che il dito lavorando, prenda il peso ad altezze successivamente minori. Scaricandolo a questo modo del peso, vediamo che nel principio quando il muscolo è riposato non si accorge della differenza. Il muscolo pare dunque indifferente al peso che solleva quando è nella pienezza delle sue forze. Una volta dato l'ordine al muscolo di contrarsi, questo produce il massimo del suo raccorciamento sia che il peso debba sollevarlo per tutta la contrazione, o solo durante una parte della medesima. In questa prima parte delle mie esperienze venne confermato quanto Kronecker aveva osservato nelle rane. Quando l' energia del muscolo è diminuita per effetto della fatica, il muscolo sente un beneficio se lo si scarica, dandogli un appoggio che lo liberi da una parte del peso. Chi dopo essersi affaticato solleva con stento 50 chilogrammi, troverà che uno di più è troppo pesante. Ma se non è stanco e ne solleva 80 o 100, uno o due di più oltre il cinquantesimo passano inavvertiti. Avremo occasione di esaminare meglio questo fatto, intanto possiamo, da quanto ho detto, paragonare i movimenti alle sensazioni. Vediamo ripetersi qui ciò che tutti abbiamo provato in un concerto, dove non ci accorgiamo se nell'orchestra vi sono 35 o 40 violini. Entrando in una sala sfarzosamente illuminata, non ci accorgiamo se le candele accese solo 90 o 100, ma quando non vi sono più che due candele accese, o due violini che suonano, ci accorgiamo subito se uno cessa di suonare o l'altra di splendere. Così noi intravediamo una prima legge della fatica e delle sensazioni, che cioè l'intensita loro non è del tutto proporzionale all'intensità della causa esteriore che le provoca.

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E tutti deploriamo che la necessità di concentrare le industrie e le macchine negli opifici, abbia distrutto il consorzio e la vita serena e libera degli operai, e creato delle condizioni igieniche e morali malsane: che la necessità ferrea di far lavorare le macchine, e di sfruttarle la notte e il giorno, esaurisca e corrompa la natura umana. È certo che la società subisce ora una evoluzione rapida e profonda, intorno alla quale è impossibile ogni previsione. Ma non sarà mai che si trovi un organamento della società, nel quale gli uomini non abbiano a faticare, nel quale non si distinguano quelli che lavorano colle braccia da quelli che lavorano col cervello. Gli uomini sono già, nascendo, fisiologicamente diversi. Per quanto si risalga in alto nella leggenda e nella storia si trovano gli uomini che per vivere faticano, e gli uomini che per accrescersi il godimento della vita fanno faticare. Anche se una legge ci mettesse tutti nella medesima condizione, sarebbe presto infranta: perchè la legge non potrebbe mai vincere la natura; e gli uomini si dividerebbero subito secondo le attitudini particolari che hanno avuto nascendo. È una legge della natura che i deboli obbediscano ai forti, e i più forti siano guidati da coloro che sono più abili e più astuti. Chi nasce con più ingegno, e squisitezza di senso, sarà sempre colui che comanda: perchè l'oculatezza, la perseveranza, la prudenza, la temperanza, l'attitudine ad adattarsi e la svegliatezza della mente, non sono doni che la natura regali a tutti gli uomini, e chi nasce con essi saprà farsi obbedire. La scomparsa delle differenze sociali è sfortunatamente un sogno, più assai che non sia la fratellanza universale dei popoli. Però in mezzo all'agitazione che va crescendo, e che alcuni vorrebbero affrettare verso la rivoluzione sociale, bisogna ammettere che il benessere del proletario è cresciuto da per tutto, o che almeno in nessuna parte è peggiorato. In questo secolo la popolazione si è raddoppiata nell'EuropaNel 1810 la popolazione dell'Europa era calcolata a 180 milioni, nel 1886 a 347 milioni., e la vita dell'uomo è divenuta più lunga. Per il vitto, per l'istruzione e l' igiene, da per tutto è progresso. Il timore che aveva l'operaio che gli mancassero i mezzi di sussistenza, perchè le macchine lo avrebbero sostituito, non si è verificato. La richiesta del lavoro invece di scemare è cresciuta. E la macchina ha messo alla portata del popolo gran parte di ciò che prima era riservato al ricco. Le pretese maggiori che ora accampano gli operai, nascono da ciò: che essi hanno un ideale più elevato della loro esistenza, e che la civiltà ha loro creato dei bisogni, che prima ad essi erano affatto sconosciuti. Tutto oggi nobilita la fatica. La civiltà crescendo, crebbe il desiderio del lavoro, come il mezzo di soddisfare ai cresciuti bisogni, e mitigare le ingiustizie e la disparità della fortuna. Il mondo antico poggiava sulla schiavitù del lavoro, e nessuno dei grandi pensatori della Grecia e di Roma, si oppose mai a quella; perchè la fatica materiale dell' uomo era messa alla pari di quella delle bestie, e lo schiavo non era un cittadino, ma una cosa. Fu il cristianesimo che proclamò l' eguaglianza degli uomini, e ci fece intravvedere per la prima volta la comunanza dei beni. A mano a mano che crebbe il progresso civile, gli uomini si andarono uguagliando sempre più, fino a che la nobiltà ed i privilegi sono caduti. Ma l'umanità non si arresta nei suoi progressi, ed oggi siamo travagliati dal problema grave e pauroso di un' eguaglianza più radicale. Questa è la grande difficoltà, della quale si preoccupano tutti coloro cui stanno a cuore la libertà ,e la dignità umana. E non è più una questione di partito, non è più un' agitazione che si faccia con intenti sovversivi; è una convinzione profonda, è un sentimento sacro di moralità, che ci spinge a studiare i mezzi, perchè la proprietà si divida senza fare violenza, senza spargere il sangue, perchè chi dà il lavoro lo conceda in virtù di leggi umane, perchè chi lo riceve non diventi uno schiavo, perchè la razza umana non degeneri sotto l'usura della fatica.

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Basta fiutare i vapori del nitrito di amilo per produrre una forte iperemia del cervello; ma chiunque abbia fatto questa esperienza si sarà accorto che non per questo diventa più fervido il lavoro delle idee. Anche nelle ghiandole succede un fatto identico, non basta a promuovere una secrezione che cresca l'afflusso del sangue alla ghiandola, bisogna che vi sia un eccitamento dei nervi secretori: anzi questa è la condizione fondamentale, l'iperemia è un fatto secondario. La civilà differente delle razze umane, l'attitudine maggiore o minore che hanno i vari individui di una medesima razza, al lavoro intellettuale, dipenderebbe dalla facilità e dalla intensità colla quale per mezzo di quest'azione riflessa si riesce a modificare i processi chimici della vita ed ottenere che nelle varie parti del cervello, le sue cellule lavorino più attivamente e restino più impressi nelle medesime i fenomeni del mondo esterno. II nostro cervello è tanto più forte quanto più possiamo bruciarlo e distruggerlo rapidamente, e con altrettanta rapidità, ripristinare le condizioni della sua energia. Questi supposti nervi dell'attenzione avrebbero come i nervi secretori la potenza di attizzare i processi distruggitori nelle cellule degli emisferi cerebrali, per trasformarne l'energia e produrre il pensiero. L’attenzione sarebbe, come la funzione periodica delle ghiandole, un meccanismo diretto a risparmiare l'energia degli organi, che devono funzionare solo nel giusto momento in cui il loro consumo è necessario.

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Per poco che uno abbia fatto attenzione si sarà accorto che dopo una passeggiata troppo lunga, o dopo un esercizio violento di ginnastica o di scherma o di canottaggio, siamo meno atti allo studio.Se qualche volta dopo un esercizio moderato ci sembra che diventi più facile il lavoro del cervello, ciò dipende dall'azione eccitante del lavoro muscolare, della quale avremo occasione di occuparci estesamente più tardi. Dove si vede meglio l'incapacità dell'attenzione per effetto della fatica muscolare è nelle ascensioni alpine. Saussurre sul Monte Bianco poteva fare appena con grande stento un piccolo lavoro intellettuale. "Lorsque je prenais de la peine, ou que je fixais mon attention pendant quelques moments de suite, il fallait me reposer et haleter pendant deux ou trois minutes." In me osservai che la grande fatica muscolare toglie ogni attitudine all'attenzione e leva la memoria. Ho fatto parecchie ascensioni. Sono stato sulla vetta del Monte Viso e due volte sul Monte Rosa, e non mi ricordo più nulla di ciò che ho visto da quelle sommità. La memoria mia e la ricordanza degli accidenti della ascensione, va come sfumando a misura che mi elevo nello spazio. Sembra che avvelenandosi il sangue coi prodotti della fatica, e consumandosi l'energia del sistema nervoso, diventino meno favorevoli le condizioni fisiche del pensiero e della memoria. E questo è per me tanto più singolare, in quanto che ho una memoria felice dei luoghi. Parecchi alpinisti che ho consultato in proposito, furono d'accordo meco nell'ammettere che l'ultima parte di un'ascensione rimane poco impressa nella memoria. L'avvocato L. Vaccarone, noto per le sue intrepide ascensioni, uno degli scrittori più autorevoli del Club alpino italiano, mi raccontava di essere obbligato a prendere degli appunti durante la marcia, perchè la séra ritornando da un'ascensione non si ricorda quasi di nulla. Il giorno dopo, cessata la stanchezza, gli ritornano alla memoria molti particolari che credeva aver dimenticati completamente. La incompatibilità che esiste tra il lavoro del cervello e quello dei muscoli, lo studio dell'azione eccitante dell'esercizio, il limite massimo fino dove questo può spingersi conservandosi utile, e il danno che ne proviene all'attività cerebrale, quando si eccede col moto, sono dei fatti che meriterebbero di esser presi in maggior considerazione, da quanti stabiliscono gli orari dei collegi e degli istituti d'istruzione. Il professor G. Gibelli mi disse che nelle escursioni botaniche gli scema la memoria appena egli comincia a stancarsi. Anche delle piante più comuni gli capitò spesso di non trovare più il nome. Riposandosi scompare rapidamente questo fenomeno della stanchezza. Delboeuf nel suo studio pregevolissimo sulla misura delle sensazioniDELBOEUF, Eléments de Psychophysique. Paris; 1883, pag. 52. rammenta che i miopi mettono gli occhiali per sentire meglio, perchè cosi diminuiscono la fatica che viene dalla visione confusa.

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La fatica quando è molto forte, sia che ci siamo stancati in un lavoro intellettuale od in un lavoro muscolare, produce un cambiamento nel nostro umore e diventiamo più irritabili, sembra quasi che la fatica abbia consumato ciò che vi era di più nobile in noi, quell'attitudine per la quale il cervello dell' uomo civile si distingue da quello dell'uomo primitivo e selvaggio. Non sappiamo più dominarci quando siamo stanchi, e le passioni hanno degli scoppi violenti che non possiamo più trattenere e correggere colla ragione. L'educazione che teneva compressi i moti involontari rallenta i suoi freni, e succede di noi come se discendessimo alcuni gradini più in basso nella gerarchia sociale. Ci manca la resistenza al lavoro intellettuale, e la curiosità e la forza dell' attenzione, che sono le caratteristiche più importanti dell'uomo superiore ed incivilito. Le persone che soffrono di malattie croniche del sistema nervoso, sono generalmente irascibili. Vedremo più tardi che l'isterismo è uno stato del sistema nervoso paragonabile a quello che producesi per effetto della fatica. La fisonomia espressiva, il gesto vivace, la potenza dello sguardo, e lo stato nervoso che caratterizza gli artisti, la melanconia, o l'eccessiva allegrezza, e certe abitudini e modi che possono ad alcuni sembrare strani, dipendono in loro, per grande parte, dalla diminuita resistenza del sistema nervoso, da una specie di esaurimento e di isterismo, prodotto dalla fatica continua del cervello. A questo eccitamento che si nota in alcuni, fa riscontro in altri una depressione della sensibilità. È come il cavallo stanco che non reagisce più alla frusta. Molti avranno provato uno stato simile dopo una lunga marcia. La stanchezza, passato il primo periodo della eccitazione, si trasforma poco per volta in un esaurimento che ci rende insensibili, che ci procura una emozione piacevole, e si è meravigliati di non più sentire lo sforzo del camminare, quasi andassimo innanzi per la sola forza acquistata. Nel giornale dei GoncourtJournal des Goncourt. T. 1, pag. 219. è descritto questo fenomeno: "L'excès du travail produit un hébétement tout doux, une tension de la tête qui ne lui permet pas de s'occuper de rien de désagréable, une distraction incroyable des petites piqûres de la vie, un désintéressement de l'existence réelle,une indifference des chores les plus sérieuses telle, que les lettres d'affaires très pressées, sont remisées dans un tiroir, sans les ouvrir."

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Alcuni suppongono che il nostro corpo abbia molte provvigioni di forza, diverse una dall'altra, e da usare secondo i vari bisogni della vita, e che questi magazzini di energia possano consumarsi l'uno indipendentemente dall'altro. Essi credono, ad esempio che, se abbiamo disponibile una certa quantità di forza, la quale serva a far muovere i muscoli, questa potrà esaurirsi nelle marcie o nelle contrazioni muscolari, lasciando intatta quella provvigione di energia che il sistema nervoso tiene in serbo per il lavoro del cervello. E questa, provvigione d'energia possa rimanere distinta dall'accumulo di forza che serve alle funzioni genitali e via dicendo. Io non credo che il nostro organismo sia fatto a questo modo. Vi è una provvista unica di energia nel sistema nervoso; e sebbene dobbiamo ammettere delle localizzazioni, queste non sono però tali che funzionando un organo con molta attività, non ne risentano danno anche gli organi prossimi. L'esaurimento della forza è generale: e possono consumarsi tutte le provviste dell'energia, esagerando un' attività, qualunque dell' organismo. Dalle esperienze che ho fatto sulla fatica, risultò che esiste una sola fatica, la nervosa; questa è il fenomeno preponderante, e anche la fatica muscolare è nel fondo una fatica ed un esaurimento del sistema nervoso. La complicazione più grave nello studio della fatica, nasce da ciò che non in tutto l' organismo si consuma allo stesso modo. I prodotti generatisi nella fatica alcuni li sentono più ed altri li sentono meno. Studiando la forza dei muscoli prima e dopo la lezione su varii miei colleghi ho potuto convincermi della grande differenza che esiste in tale riguardo. Nel professor Aducco, per esempio, la lezione produce un eccitamento nervoso che gli dà una forza maggiore dei muscoli. Avevamo osservato questo aumento parecchie volte quando egli mi suppliva nella scuola, ma trattandosi di pubblicare un tracciato di queste esperienze, lo pregai di lasciarmi un ricordo della sua prima lezione. Quando fu nominato professore di fisiologia nell' Urniversità di Siena, egli cominciò tre giorni prima della sua prolusione a scrivere coll'ergografo la curva della fatica del dito medio della mano sinistra, sollevando tre chilogrammi col ritmo di due secondi. Questi tracciati egli faceva quattro volte al giorno, alle 9 e alle 11 ant., poi andava a far colazione e ritornava all'1 e alle 4 a fare un altro tracciato. La figura 17 rappresenta la serie delle contrazioni

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E il mio foglietto lo rammento così bene, quantunque io l' abbia in tasca, che so quando arrivo nel parlare in fondo alla pagina e devo voltarlo nella memoria. Finalmente vengono i professori che qualche volta improvvisano la lezione su quei capitoli della scienza dove essi hanno fatto degli studi speciali. Sono le ore più deliziose nella carriera dell'insegnante queste dove uno può esporre dei concetti proprii, e abbandonarsi quasi in balìa dell' onda corrente di cose lungamente meditate. La sola incertezza che si prova è che non si sa come andrà, a finire la lezione. Ma l'uditorio capisce subito che avete abbandonato il terreno volgare dei manuali per lanciarvi nelle sfere superiori della scienza; e ve ne accorgete dal fatto che tutti gli occhi vi guardano più intenti e che la scolaresca è divenuta più immobile. Chi vi ascolta partecipa alla vostra emozione, perchè egli sente che attinge alla fonte donde scaturisce una nuova dottrina. Egli comprende che la trepidazione vostra non nasce dalla incertezza del pensiero, che anzi vi anima e vi trascina la foga delle idee, e che cercate solo la forma più esatta per rivestire i vostri concetti, per abbellire colla parola un pensiero lungamente accarezzato. Sono queste le ore che vi ringiovaniscono, in cui sentite il fuoco sacro della scuola; in cui avete la certezza che nessun trattato, nessun libro può supplirvi ed eguagliarvi nell'efficacia dell'educare. I concetti, le idee nuove espresse da voi in quel momento, dalla voce che sentite risuonare nell'aula, dischiuderanno nuovi orizzonti nelle menti dei giovani che vi ascoltano, e dureranno in alcuni di essi come un ricordo affettuoso per tutta la vita, e vi rallegra la speranza, che forse da una di quelle fronti giovanili irradierà la gloria, alla quale voi avete aspirato invano.

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Credo non abbia torto, perchè egli si lagnava con me di aver provato qualche volta una leggera vertigine, e un senso di vuoto nella testa. Un mio collega, che qualche volta dimentica l'ora, come dice lui, sente una debolezza grande della vista dopo aver fatto una lezione troppo lunga. Questo fenomeno lo avverte specialmente nel principio dell'estate, quando il caldo eccessivo gli altera un po' la digestione. Allora basta un piccolo strapazzo del cervello, e specialmente una lezione di un'ora e mezzo per annebbiargli la vista, tanto che dopo non può più leggere. È un'astenopia che viene dall'esaurimento del sistema nervoso, e scompare poche ore dopo finita la lezione.

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Può però anche capitare a degli insegnanti provetti e celebri, di esaurirsi in seguito ad un corso di lezioni che uno abbia fatto con maggiore impegno e maggiore studio. Di parecchi nomi che potrei citare mi limito a ricordare due uomini celebri come insegnanti, intorno ai quali ho avuto dei dati positivi, Huxley e Mantegazza.

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Vedendo questa diminuzione tanto considerevole della forza muscolare, in seguito ad un lavoro del cervello, il primo pensiero che viene alla mente è che la fatica qui osservata abbia un'origine centrale, che sia cioè la volontà che non può più agire con eguale forza sui muscoli, perchè la fatica dei centri psichici si è diffusa ai centri motori. L'esperienza seguente mostra che la cosa è molto più complessa.

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Solo che opera con una prodigiosa rapidità e sicurezza e novità di risultati; per cui questi uomini stanno più in alto di tutti, e a chi li contempla di sotto, sembra che la loro altezza sia inarrivabile, e che un miracolo li abbia spinti fin lassù. Neppure Raffaello aveva, se così è lecito esprimersi, il dono soprannaturale del genio, che trova nella immaginazione la forma sublime del bello e lavora seguendo ciò che gli detta la voce arcana della coscienza. Questo tesoro della inspirazione non credo che la natura abbia concesso ad alcuno. Anche per Raffaello la fatica in la base della fama immortale, e lo disse prima di tutti Michelangelo che certo fu giudice competente: Raffaello non ebbe quest'arte da natura ma per lungo studio.CONDIVI, Vita di Michelangelo Buonarroti, pag. 82, I pregiudizii che corrono intorno alla forza del genio sono molti, e dipendono in grande parte dall'amore che abbiamo noi del meraviglioso e dal desiderio che hanno il maggior numero degli uomini celebri di nascondere la loro fatica, per parere dappiù di quello che sono. Alcuni errori biografici sono veramente singolari, come l'esempio celebre del pomo di Newton che veduto cadere, inspirò al grande filosofo l'idea della gravitazione universale. Ora Newton, come Galileo, come Darwin, fu precisainente uno dei pensatori più infaticabili. "Non perdo mai di vista il mio soggetto, diceva lui, aspetto che i primi albori aumentando a poco a poco, diventino una piena luce raggiante ". Un solo uomo mi parve un tempo facesse eccezione a questa regola, il Göthe: per la sterminata vastità del suo ingegno, e l'altezza della sua mente. Avevo letto la sua autobiografia, le sue lettere, la vita interessantissima che ne scrisse il Lewes, e non perchè il Lewes sia un fisiologo, ma, perchè è ammesso da tutti, devo dire che anche a me parve essere la migliore. Ma per quanti studi biografici io abbia letti intorno a Göthe, mi parve sempre più che fosse un uomo cui il lavoro non dovesse aver costato fatica. Più che tutto me lo faceva credere ciò che Schiller disse di lui con queste parole: "mentre noi altri dobbiamo raccogliere e provare tutto con fatica per produrre lentamente qualche cosa di tollerabile, egli non ha bisogno che di scuotere leggermente l'albero per far cadere i suoi bellissimi frutti maturi e pesanti " Während wir Andern mühselig sammeln und prüfen müssen, um etwas Leidliches langsam hervorzubringen, darf er nur leis an dem Bäume schütteln, um sich die schönsten Früchte, reif and schwer, zufallen zu lassen. - 21 Juli 1797. Ma però ebbi più tardi a ricredermi, quando nell'opera Zur Farbenlehre del Göthe, lessi nell'ultimo volume, questa, sua confessione: "I miei contemporanei fino dal primo apparire dei miei tentativi poetici si mostrarono abbastanza benevoli verso di me, o per lo meno riconobbero che io aveva talento poetico ed inclinazione. Eppure i miei rapporti coll' arte della poesia, erano meravigliosamente strani e del tutto pratici, in quanto che io, un soggetto che mi colpisse, un modello che mi eccitasse, un processo che mi attirasse, lo portavo così lungamente nell'interno del mio sentimento, fino a che ne risultasse qualche cosa che potesse considerarsi come un mio prodotto, e dopo che per anni lo avevo formato silenziosamente; finalmente tutto d’un tratto, e quasi istintivamente come se fosse maturo, lo mettevo sulla carta ".Opera citata, tag. 277. Flaubert lavorava quattordici ore al giorno, e tutti sanno che in questo scrittore la ricerca della perfezione dello stile era divenuta una malattia. Di lui si raccontano tanti aneddoti; fra gli altri che si alzava la notte per correggere una parola; che rimaneva immobile per delle ore colle mani nei capelli, chino sopra di un aggettivo. Lo stile lo tiranneggiava, era una passione per lui l'affaticarsi cercando insaziabile la legge misteriosa di una bella frase, e finalmente questa disperazione dell'anima finì per diventargli un ostacolo insuperabile al lavoro. Nella vita del Flaubert vi sono alcuni lati originali che interessano il fisiologo. Flaubert disse penser c'est parler e nessun altro scrittore forse lo ha superato nello studio dei rapporti fra il pensiero e la parola. Egli provava il ritmo dei suoi periodi sul registro della propria voce. Una frase cattiva, diceva, è un peso al torace e si trova fuori delle condizioni della vita se non va d' accordo colla fisiologia del linguaggio, se armoniosamente non si puo recitare ad alta voce .Journal des Goncourt, pag. 277. Stricker ha fatto degli studi fisiologici intorno a questo argomento, e dimostrò che mentre pensiamo ad una parola la pronunciamo silenziosamente e che possiamo sentire i movimenti della laringe, come se parlassimo senza dar suono alle parole. Tutti abbiamo visto le mille volte nella strada, delle persone che parlano ad alta voce, e passando loro vicino si chetano , e quando abbiamo fatto pochi passi innanzi riprendono a parlare. La presenza nostra li distrasse dal loro pensiero, e poscia subito vi ritornarono involontariamente e ricominciarono a parlare. Del legame indissolubile che unisce il pensiero colla parola, offrono begli esempi le biografie dei grandi scrittori, quelli specialmente che lasciarono nelle opere loro un'impronta più evidente delle forti passioni che agitavano il loro animo. Alfieri ritornato a venti anni dall'Olanda, col cuore pieno traboccante di malinconia e di amore, sentì la necessità di applicare la sua mente a qualche forte studio. Si mise a leggere Plutarco."Le vite di quei grandi, egli dice, sino a quattro e cinque volte le rilessi con un tale trasporto di grida, di pianti e di furori pur anche, che chi fosse stato a sentirmi nella camera vicina mi avrebbe certamente tenuto per impazzato ".Vita di Vittorio Alfieri, Capitolo VII. Balzava in piedi agitatissimo e fuori di sè, e lagrime di dolore e di rabbia gli scaturivano dagli occhi. Balzac Onorato, il celebre romanziere, che ebbe una tale fecondità, da non essere paragonabile che alla maravigliosa vivacità della sua, fantasia, produsse tanti libri, che non si crederebbe essergli potuto avanzare il tempo per correggerli tutti. Pure c' è qualche cosa in lui che fa stupire più della sua facilità ed è appunto la faticosa ed improba difficoltà del suo modo di lavorare. Ecco come egli componeva i suoi libri: meditava a lungo il suo argomento, poi ne buttava giù un abbozzo informe in poche pagine. Quest' abbozzo mandava alla stamperia; di là gli rimandavano in larghi fogli le prime bozze di stampa. Egli riempiva queste bozze di aggiunte e di correzioni per tutti i versi, cosicchè tali correzioni parevano un fuoco d'artificio venuto fuori da quel primo suo getto. Si rifacevano le bozze, e già nelle seconde era scomparso tutto il testo delle prime: egli lo rimaneggiava ancora, lo modificava, lo mutava instancabilmente e profondamente. Alcuni romanzi furono tirati sulla dodicesima prova di stampa, altri toccarono la ventesima. I compositori si disperavano quando avevano che fare con un suo manoscritto; gli editori si rifiutavano di sopportare le spese delle sue giunte e correzioni.

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Il primo fisiologo che abbia espresso chiaramente il meccanismo della contrazione muscolare, è stato Alfonso Borelli. Nel suo libro sul moto degli animali, alla proposizione XXII, egli dice BORELLI, De motu animalimn. Vol. II, pag. 56. : "Per produrre la contrazione dei muscoli occorrono due cause delle quali una esiste nei muscoli stessi e l'altra viene dal di fuori. L'impulso al moto non può trasmettersi dal cervello per altra via che per i nervi; in ciò tutti sono d' accordo e lo dicono del resto in modo evidentissimo le esperienze; fu pure rigettata la supposizione che qui si tratti dell'azione di una facoltà incorporea, o di spiriti aerei; percio è necessario di ammettere che una qualche sostanza corporea si trasmetta dai nervi ai muscoli, o che si comunichi una commozione la quale possa in un batter d' occhio produrre il rigonfiamento dei muscoli." Tutto questo è giusto e anche oggi non sapremmo dirlo meglio. Borelli ammise che l'incitamento alla contrazione del muscolo fosse dato da un'azione chimica, da una acredine pungitiva che si diffonde alla estremità del nervo per irritare il muscolo Aut acredine pungitiva principia fibrarum alicuius nervi; et sic eam irritent, et titillent. Vol. II, pag. 59.. "Il rigonfiamento, dice Borelli, la durezza e la contrazione non succede nei nervi, cioè nelle vie su le quali si diffonde, e dove esiste la facoltà motiva, ma fuori di essi, cioè nei muscoli. Perciò la sostanza o facoltà che i nervi trasmettono, presa di per sé, non è capace a produrre una contrazione: ma è necessario che vi si aggiunga qualche cosa d'altro che si trova nei muscoli stessi, o che loro viene somministrato abbondantemente, dalle quali sostanze insorge qualcosa che è simile alla fermentazione od all'ebollizione e la quale produce il subitaneo rigonfiamento dei muscoli." Il concetto che dovremo farci della fatica dei nervi, dipende in grande parte dalla natura dei processi che hanno luogo dentro il nervo stesso. Questo è perciò uno dei punti capitali. Borelli emise fino dal principio due ipotesi, ed i fisiologi si trovano ancora nell'alternativa di scegliere fra l'una o l'altra di quelle, senza saper decidere con sicurezza quale delle due sia la vera. La trasmissione dell' eccitamento nervoso ai muscoli, ossia l'ordine che va, per esempio, dal cervello nei muscoli della mano, può essere un cambiamento chimico, che ogni molecola trasmette alle molecole vicine nella sostanza del nervo. Per servirci di un paragone grossolano, si potrebbe dire che i nervi sono come una miccia, o come una fila di granelli di polvere, messi l' uno accanto all' altro dal cervello fino al muscolo. L'atto della volontà consisterebbe nell'accendere il primo granello nei centri nervosi, e quando brucia l'ultimo granello, questo fa cambiare stato al muscolo e si produce la contrazione. Questo concetto nello stato attuale della scienza è quello che ha le maggiori probabilità di essere vero. Ma disgraziatamente non conosciamo ancora quali siano i cambiamenti chimici che succedono nel nervo che funziona; ed alcuni fisiologi avendo osservato che i nervi non si affaticano, o che almeno si affaticano molto meno del cervello e dei muscoli, sostengono che la trasmissione dell'agente nervoso lungo i nervi, non succeda per una trasformazione chimica paragonabile a quanto si vede nella miccia. Secondo questi fisiologi l'agente nervoso sarebbe di natura meccanica, cioè una specie di vibrazione delle molecole, che si trasmette lungo il nervo senza alterare la sua composizione chimica. Quest'eccitamento meccanico che possiamo paragonare alla trasmissione del suono a traverso le molecole di un corpo solido, arrivando dal centro nervoso al muscolo, produce una decomposizione esplosiva, cioè il cambiamento chimico della contrazione. La prima idea di questo meccanismo appartiene pure ad Alfonso Borelli e citerò le sue paroleProp. XXIII, p. 57. Vol. II.: "Ora ci rimane a cercare cosa passi per i nervi, quale sia questa forza, in che modo sia spinta nei nervi, e per quali canali. È chiaro che il nervo, quantunque piccolo come un capello sottilissimo, è composto di molti fili fibrosi, legate insieme da un involucro membranoso; ciascuna fibra è cava internamente come le canne, benchè alla nostra vista troppo debole, appaiano solide e ripiene. Non è impossibile che le fibre nervose siano dei tubetti cavi pieni di una sostanza come la midolla del sambuco." E strano che Borelli affermando una cosa che non aveva veduto, perchè gli mancavano i microscopi che abbiamo ora, siasi tanto avvicinato alla verità. Ranvier dimostrò pochi anni fa che la guaina che protegge ciascuna fibra, ha dei nodi e degli stringimenti che formano degli spazi come nelle canne o nel sambuco; e questi spazi sono pieni di una sostanza liquida o quasi liquida che chiamasi mielina. La mielina è come un inviluppo che serve a proteggere ed isolare il filamento centrale che chiamasi cilindro dell'asse. E gli strozzamenti che ha scoperto nei nervi il Ranvier, servono ad impedire che le sostanze liquide le quali entrano a comporre il nervo producano un' alterazione del nervo stesso col loro spostamentoRANVIER,Leçons sur l'histologie du sistème nerveux. Paris, 1878, pag. 131. Tom. I.. Da ciò vediamo che col paragonare il nervo ad un ramo di sambuco Borelli ha indovinato il vero. Poscia Borelli soggiunge Opera citata, p. 58.: "Dobbiamo imaginare che le cavità spongiose delle fibre dei nervi siano sempre piene fino alla turgescenza di un succo, o spirito che proviene dal cervello. E come vediamo in un intestino pieno di acqua e chiuso alle due estremità, che se una delle sue estremità viene compressa, o leggermente percossa, subito la commossione e la percossa, si manifestano all' estremo opposto dell' intestino, in quanto che le parti fluide che stanno contigue disposte in lungo ordine l'una accanto all'altra, dando un impulso e percuotendosi l'una coll'altra, diffondono il moto fino alla parte estrema; così qualunque leggera compressione o colpo od irritazione fatta nel principio dei canalicoli delle fibre nervose che esistono nel cervello si diffonde sino ai muscoli." Per dimostrare come nell' azione del nervo sul muscolo, non vi sia un impiego grande di forza e che basta una causa minima per produrre la contrazione, egli dice che dobbiamo rammentarci che il contatto leggerissimo di una piuma nelle narici, o nell' orecchio o nella gola, può produrre delle contrazioni e delle convulsioni molto forti nei muscoli dell' organismo. Ciò che Borelli tentava di indovinare, o forse aveva veduto confusamente, ora possiamo osservare facilmente e con maggior evidenza nei muscoli degli insetti, che mettiamo viventi sotto il microscopio. Facendoli contrarre si vede partire dal punto dove il nervo tocca il muscolo un ingrossamento che percorre la fibra muscolare a guisa di un'onda, la quale si propaga verso le parti del muscolo che sono più lontane dal nervo. Sono passati due secoli, e dobbiamo confessare che in questa parte della fisiologia si è fatto poco progresso, perchè non sappiamo ancora dire con sicurezza quale sia l'intima natura del processo nervoso. Parlando del meccanismo col quale noi eseguiamo dei movimenti volontari, Borelli diceProposizione XXIV, pag. 59.: "Nella quiete profonda e nel sopore degli spiriti animali noi non possiamo comprendere l' esistenza di un atto volontario, né la passione della facoltà sensitiva, ma è necessario che nel cervello si agitino questi spiriti per una qualche mozione locale, come lo esige l'indole della loro virtù a muoversi. Noi possiamo quindi comprendere come i succhi del cervello agitati dagli spiriti, o per mezzo di una trasmissione di movimento, o per un acredine pungitiva irritino e solletichino le origini dei nervi." Se questo modo di esprimersi del Borelli per spiegare i movimenti volontarii, può sembrare oscuro, nessun fisiologo oserebbe fargliene rimprovero, perchè anche oggi non sappiamo dire nulla di più intelligibile. L'origine dei movimenti volontari è sempre stato lo scoglio maggiore della fisiologia, e disgraziatamente è un problema così importante che devono occuparsene tutti e specialmente i filosofi. Darwin parlando dei movimenti involontari, diceCH. DARWIN, The expression of the emotions, pag. 39: "è probabile che alcune azioni le quali si eseguirono prima colla coscienza, siansi per mezzo dell'abitudine e dell'associazione trasformate in movimenti riflessi e che ora siano fissati e divenuti ereditarii nel sistema nervoso. Sarebbero dunque i movimenti automatici dei movimenti che prima erano prodotti dalla volontà e dopo cessarono di esserlo". Tale è il concetto che sostiene anche Spencer, nei suoi Principii di psicologia H. SPENCER, Principes de Psychologie. Tome II, pag. 608.: ma Borelli aveva già formulato questo arduo problema quasi colle stesse parole che adoperano i filosofi moderni. "Non è impossibile, dice Borelli, che sia stata un'azione volontaria quella che ora si fa per abitudine, e noi che non avvertiamo più di averla voluta, crediamo di non volerla. Così è dei movimenti del cuore che nulla osta si compiano senza l'assenso della volontà, e malgrado che non li vogliamo. Noi vediamo del resto che molti altri movimenti delle estremità che senza dubbio cominciarono ad esegnirsi sotto l' impero della volontà, ora si fanno senza che ce ne accorgiamo, e qualche volta anche senza che lo vogliamo " Opera citata. Prop. LXXX. Tomo II, pag. 158. Di questa proposizione del Borelli dovettero occuparsi i filosofi spiritualisti e combatterla, perchè Borelli alterava il concetto ortodosso della volontà, e ne attribuiva una parte anche ai movimenti del cuore, dicendo: "il movimento del cuore si fa dunque per una facoltà, senziente ed appetente non per una ignota necessità, organica". Come si vede, si tocca qui ad uno dei più gravi problemi della filosofia. L'abate Antonio Rosmini rimproverando al Borelli di aver confuso il principio sensitivo coll' anima razionaleA. ROSMINI Psicologia. Libri dieci, pag. 192., disse che in questa, dottrina del Borelli "si può vedere l' origine del moderno sensismo".

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Io non so se l'amor suo per l'Italia fosse rimasto sempre così grande da desiderare che qui avessero pace le sue ossa, o se l'intolleranza religiosa di quei tempi gli abbia negato il riposo che ognuno spera di trovare nella terra dove è nato. Cosimo dei Medici fece condurre con grandi onori la sua salma a Firenze e le spoglie dell'immortale fisiologo riposano in San Lorenzo sotto la cupola grandiosa della cappella medicea, vicino ai monumenti con cui Michelangelo rendeva immortali le tombe di quei principi benemeriti delle scienze e delle arti. Un giorno sono stato a visitare la tomba di Stenone nei sotterranei di San Lorenzo: per giungervi bisogna passare sulla pietra che copre le ossa di Donatello, il grande maestro del verismo nell'arte. Di fronte vi è la cripta di Cosimo padre della patria, e a destra contro un pilastro una lapide dice:

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Basta che uno digerisca o dorma male o faccia qualche eccesso, perchè subito la curva cambi non solo per la durata del lavoro, cioè per il numero delle contrazioni ma nel tipo stesso della sua curva, così che uno che abbia una curva come quella del professor Aducco, può sotto l’ influenza di cause debilitanti, dare una curva che rassomiglia a quella del dottor Maggiora. Le differenze si riferiscono non solo alla quantità del lavoro meccanico ed alla figura della curva, ma anche al tempo che è necessario al ristoro dei muscoli, così che dovrà aspettarsi un tempo più lungo del normale perchè il muscolo si reintegri nella sua forza. Vedremo cioè che dopo un esaurimento della forza due ore non bastano più, ma ci vorrà un tempo più lungo per dare nuovamente una curva normale. Una differenza notevole nella forza si produce col cambiare delle stagioni: di questo mi convinsi con ripetute esperienze sopra il professor Aducco nel quale il calore della state modifica d' assai la nutrizione del suo organismo. L'esercizio, di tutte le cause che modificano le condizioni del corpo, e quello che aumenta di più la forza dei muscoli. Lo vediamo nel tracciato 10 del professor Aducco, che è quasi lungo il doppio del precedente, perchè qui fa 80 contrazioni, e la loro altezza totale è di 2m959 -. Questo tracciato fu scritto mentre il cilindro si moveva più rapido che nel tracciato della figura 7 : perciò le linee sono alquanto più staccate l’ una dall'altra: ma il ritmo delle contrazioni è sempre di due secondi. Il lavoro meccanico compiuto in questo tracciato per esaurire la forza dei muscoli flessori del dito medio è di chilogrammetri 8.577. Vediamo cioè che dopo un mese di esercizio fa

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Fisiologia del piacere

170081
Mantegazza, Paolo 25 occorrenze
  • 1954
  • Bietti
  • Milano
  • Paraletteratura - Divulgazione
  • UNICT
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E perchè il libro abbia meglio a rispondere alle condizioni nuove di vita e alle esigenze dei lettori, che hanno ormai gusti letterari moderni e più raffinati, abbiamo incaricato il prof. Andrea Ferrari di rendere la forma più snella e più corrente, alleggerendola in taluni punti, in altri sostituendo le espressioni alquanto antiquate, ritoccando qua e là il periodare talora prolisso e stanchevole. Ma in questo tentativo di ammodernizzare la forma, e soprattutto di aggiornare il contenuto secondo le nuove scoperte e gli ultimi portati della scienza, è stata nostra cura precipua quella di lasciare integra la sostanza; sia pel dovuto riguardo all'autore, sia soprattutto perchè la materia è trattata dal Mantegazza con squisito senso artistico e scientifico, con tatto particolare, e sotto ogni punto di vista in modo esauriente e completo. Dalle prefazioni, che l'autore ha premesso alle prime edizioni, ci piace riportare qui il «Decalogo di Epicuro», che il Mantegazza ha posto in fronte al suo libro, come guida e ammaestramento «con cui ognuno potrà essere uomo felice, purchè lo voglia».

Per rimediare a questo difetto, pare che la natura abbia voluto mettere in noi un altro sentimento di riserva, il quale, essendo di ordine meno ideale, può essere facile a tutti: l'onore. Se al sentimento purissimo e trasparente della nostra dignità aggiungiamo una dose infinitesima di amor proprio, che è di colore molto spiccato, noi diamo al primo una tinta visibile agli occhi miopi. Basta per questo far subire alla nostra dignità una seconda riflessione, coll'emanarla al di fuori di noi sulla coscienza dell'umana società. Allora il raggio purissimo della nostra immagine morale si associa a qualche cosa di plastico e di sensibile, e noi, ricevendolo di ritorno nella nostra coscienza, lo sentiamo più intensamente. L'onore è uno dei sentimenti più indefinibili, perchè è un vero mezzo termine, un'immagine di mezza tinta adattata dalla natura alla umana debolezza. L'uomo di cuore elevato si difende da ogni bassezza, col solo sentimento della propria dignità, e l'onore per lui non è che un sinonimo. Se anche fosse isolato dall'umanità intera, non si abbasserebbe mai di una linea, perchè egli rispetterebbe la propria immagine morale come cosa santa, e non potrebbe tollerare i rimproveri del proprio alleato. L'uomo mediocre, invece, ha bisogno dell'aiuto dell'umanità intera per non venir meno alla propria dignità; ha bisogno del terribile spauracchio del disonore per non darsi vinto al primo cozzo d'armi. L'uomo elevato vede aperto il santuario e nudo il dio; mentre l'uomo volgare ha bisogno del tabernacolo e della reliquia, e l'umanità intera gli va ripetendo, che sotto lo splendido manto carico d'oro e di gemme, ch'egli adora, sta un dio formidabile che non si può impunemente offendere. In questo modo egli ubbidisce ad una potenza misteriosa che, curvandogli la cervice, non lo lascia guardare in alto, e il di cui nome basta a farlo tremare. Egli è superstizioso, mentre l'uomo che sente la propria dignità è religioso. Man mano che l'onore si va allontanando dal suo primitivo tipo di perfezione, esso si avvicina all'amor proprio, finchè si confonde colla vanità. Le pareti del tabernacolo si vanno ingrossando sempre più, mentre il dio che vi sta racchiuso si va facendo piccino piccino, finchè scompare del tutto. In questo modo può darsi che un uomo non si abbassi mai ad una viltà senza avere palpitato al sentimento della propria dignità. Egli ha ubbidito ad un codice che ha trovato già scritto nascendo, egli ha adorato un dio che non aveva mai conosciuto. Le leggi che regolano i piaceri della propria dignità e dell'onore sono le stesse, perchè sono determinate da un'identica natura. Essi sono quasi sempre negativi, cioè derivano, dalla riparazione di un'offesa. La dignità e l'onore non possono mai transigere senza portare se stessi alla perdizione; per cui, rimanendo immacolati, producono una gioia calma, che il più delle volte non si fa sentire. Quando invece sono messi in pericolo di vita, essi sorgono animosi alla riscossa e si riposano gioiosi sui loro altari. La nostra dignità non si compiace che delle grandi battaglie, mentre l'onore è fatto per le scaramucce. Nei grandi fatti d'arme esso fa da bersagliere. L'influenza di questi piaceri si esercita su tutti i sentimenti anche i più nobili e generosi, e la virtù è sempre il primo convitato alle loro feste. Leggendo la storia, si trovano molte azioni eroiche che si devono alla sodisfazione di questi sentimenti, e scorrendo negli archivi della memoria, ognuno può ricordarsi di aver provato queste gioie. Fortunatamente l'onore non è lettera morta che per pochissimi. L'uomo e la donna sentono ugualmente la propria dignità e l'onore; ma l'espressione di questi sentimenti riesce più seducente nella donna, perchè il coraggio morale, compagno della debolezza fisica, ispira maggior simpatia e ammirazione.

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Pochissimi fortunati con un solo colpo d'occhio misurano il secolo in cui vivono e la distanza che devono percorrere; e, gettandosi a corpo perduto nella strada che pare la natura abbia fatta per essi, corrono rapidamente alla loro meta. Quasi tutti coloro però che avrebbero diritto di aspirare alla gloria, messi nel centro che da sè dirama come tanti raggi le vie della scienza, corrono forsennati qua e là, senza sapere dove inoltrare il passo. Con lo sguardo vanno osservando tutte le strade, e nella baldanza del loro giovane cuore vorrebbero gettarsi in tutte ad un tempo, o percorrerle successivamente. Più d'una volta s'inoltrano di alcuni passi in un sentiero, e, impazienti di trovarlo troppo angusto o soverchiamente lungo, ritornano insodisfatti al centro donde sono partiti, maledicendo nel loro insano furore la natura che non concede ad essi una vita di secoli. Ma, infine, spossati dalle inutili aspirazioni e dalla lunga lotta, gettando un ultimo sguardo di desiderio alle regioni che non potranno percorrere, entrano rassegnati e tranquilli in una qualunque delle vie e vi si adattano per la vita. L'amor della gloria non può essere consentito che al genio, e pei mediocri è una profanazione o una bestemmia. La grandezza di questa passione proporzionata all'altezza della mente che la guida, ed anche quando arriva al fanatismo, essa arde e divora l'uomo che la sente, ed illumina l'umanità. Più d'una volta il genio si è offerto vittima spontanea sull'altare dell'umana civiltà, e ardendo se stesso è brillato in mezzo alle tenebre e si è spento. Egli ha acceso il proprio rogo, ma l'umanità, rischiarata da quel raggio, ha fatto un passo avanti in attesa di una nuova vittima e di un nuovo lampo di luce. Le turbe che formano l'umana famiglia sono mandre di ciechi che brancolano nelle tenebre e dirigono i loro passi nei sentieri determinati dallo spazio e dal tempo. Ma un solo genio compare, e gli occhi attoniti delle moltitudini a lui si rivolgono cercando luce e calore. Ed egli illumina i loro passi, e colla sferza della sua volontà obbliga a correre per un istante, onde guadagnare il tempo perduto; e finchè egli brilla, gli uomini gli corrono dietro, e a fuoco spento, quando l'astro è tramontato, l'umanità riprende il cammino per le sue vie. Le gioie della gloria brillano come soli, ma si acquistano a caro prezzo. Appena il genio si inoltra nella via che si è tracciata, mille nemici gli muovono contro cercando di arrestarlo nel suo ardito viaggio. I pregiudizi, l'invidia, l'odio, l'ignoranza, gli fanno inciampo ad ogni passo, ma egli lotta coraggiosamente per vincere e tirare innanzi. Nè questo basta: egli aspira con furore agli applausi, alle corone d'alloro, ai trionfi; ma invece più d'una volta percorre lunghissima via senza che un solo applauso ne rianimi gli spiriti affranti, senza che una mano pietosa lo sostenga nell'aspra lotta, o gli additi all'estremo orizzonte il premio che lo aspetta. Egli cammina solo e muto, per cui spesso teme di avere sbagliato la via, o di parlare in una lingua che gli altri non possono intendere. Allora si arresta esitando, e domanda a se stesso se veglia o sogna, se pensa o delira; finchè, confortato dalla propria coscienza, che riflette la sua mente in tutta la sua grandezza, prende coraggio e va innanzi. Spesso la gloria non è raggiunta che presso la fine del lungo viaggio; qualche volta ancora essa non depone la sua corona che sopra un cadavere, o sul freddo sepolcro manomesso dagli archeologi. Una vita consacrata alla gloria si può quasi sempre rappresentare con un fondo radioso di speranza, trapunto qua e là con foglie avvizzite di alloro. Il lampo di un momento di gloria sfavilla però di tanta luce, che basta ad illuminare l'oscurità di lunghi anni di fatiche e di miseria. Il delirio il più sfrenato non basta in quell'istante ad esprimere la pienezza della gioia che trabocca da ogni parte e non trova nei poveri mezzi del nostro organismo segni che bastino a rappresentarla. Eppure il genio, quando non spregia la gloria con fervido senso di superiorità, non si accontenta quasi mai dell'apoteosi più sublime, e, guidato dalla sfrenata fantasia, sogna glorie maggiori e più splendidi trionfi, e numera, con l'avidità dell'usuraio, i capitali della mente per vedere se può trarne ancora un interesse maggiore.

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Allora egli arriva qualche volta a sagrificare germogli minori della stessa pianta, onde la gemma prediletta abbia a crescere più rigogliosa. La nostra coscienza e l'opinione pubblica ci fanno decidere nella difficile scelta. La pianta della vanità, essendo perenne e molto vivace, pullula sempre teneri rampolli anche nei tronchi recisi; per cui, quand'anche possa presentarsi un sol tronco ben alto e diritto, esso è circondato presso a terra da una famiglia di polloni che gli fanno corona. Così la donna che, dopo aver consultato se stessa, ha trovato che il suo cuore e la sue mente promettono assai poco, si dedica in modo speciale alla vanità fisica; tanto più che la bellezza è nel suo sesso più apprezzata, ed ella si è già persuasa che la turba che applaude o fischia sarà più pronta a ricompensarla di un voluttuoso piegar dei fianchi, o della studiata posa di una gamba accavallata sull'altra, che per i tesori più preziosi della mente o del cuore. La vanità in tutte le sue forme è sempre fatale alla vita del cuore, il quale intisichisce e muore. La donna che vuol piacere a tutti non può amare alcuno, e quando l'uomo le domanda il cuore, ella non sa trovarlo, perchè l'ha tagliuzzato, e ne ha dato un briciolo a tutti i suoi adoratori. Più di una volta essa si accorge del vuoto, e pone in luogo del prezioso viscere che ha sperperato, un cuore artificiale di cartapesta o di gomma elastica, che giunge talvolta ad ingannare gli uomini di corta vista. Questi cuori, se non altro, hanno il vantaggio di saper resistere alle intemperie e di non invecchiare mai. Che il cielo pietoso ce ne tenga lontani! Queste gioie sono di tutte le età, ma la vanità fisica naturalmente non può brillare che nella giovinezza, senza correre il rischio di farsi deridere anche dai fanciulli. La altre due varietà invece si sanno coltivare meglio nell'età adulta. La civiltà è molto favorevole a queste passioncelle, le quali, essendo bizzarre e capricciose, trovano nei magazzini della moda sempre nuovi abiti per mascherare un fantoccio che è continuamente lo stesso. Le gioie della vanità si nascondono con tale artificio, che la loro fisonomia è poco conosciuta. Qualche volta però brillano di tanta luce, che gli occhi si fanno scintillanti, e tutta la fisonomia ne è raggiante. Spesso l'espansione del piacere è irrefrenabile, e l'uomo vano, tornando nella propria camera, si soffrega le mani, ride col proprio specchio, e si abbandona alla più sfrenata allegria, sghignazzando, saltando, gesticolando, parlando o canticchiando.

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Questo non gli impedisce di essere uno dei migliori galantuomini e dei cuori più generosi ch'io abbia mai conosciuto. L'amore del furto è, fortunatamente, una malattia sporadica che non arriva mai a farsi epidemica, e che compare qua e là nei due sessi e nei diversi paesi senza regola e senza misura. La civiltà può influire sul numero dei ladri di professione, ma non nella statistica dei dilettanti dell'arte, i quali nascono spontanei come i geni e da soli si sviluppano, arrivando qualche volta a un grado molto pericoloso di perfezione. Quando la presenza di estranei non impedisce al ladro di esprimere le sue gioie, egli ride di cuore, o sorride, o si frega le mani; ma in qualunque modo la sua fisonomia presenta sempre un'aria maliziosa, che svela il carattere morboso della sua gioia. Più d'una volta egli burla la persona derubata, come se fosse presente, arrivando in questo modo a render ridicola a' suoi occhi una disgrazia che deve far soffrire gli uomini dabbene, offendendo in loro il sentimento del giusto.

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L'uomo, animale destinato a vivere in società, deve avere necessariamente un legame morale che lo unisce a' suoi fratelli, e la natura gli ha concesso un affetto primitivo che nasce in lui e con lui muore, e che, oscurandosi nelle burrasche più violente delle passioni, torna però sempre a risplendere nel cielo, appena la calma abbia diradato le nubi che hanno ottenebrato l'orizzonte del cuore. Questo sentimento lega quasi tutti gli uomini per mezzo di un filo misterioso, facendone un sol corpo, un solo individuo. I mari e i monti sembrano dividere qua e là la catena che lega gli uomini da un punto all'altro della terra, e gli odii delle nazioni e dei governi spezzano violentemente il filo degli affetti; ma la corrente emanata da un popolo che soffre o esulta, che s'innalza o si abbassa, se non può correre con rapidità telegrafica, si diffonde però lenta e calma una superficie della terra ed arriva a confondersi con la corrente sempre viva, che produce da ogni parte l'umana famiglia, divisa ne' suoi innumerevoli alveari. Qualche volta una scintilla emanata dal genio ha impiegato molti secoli a far sentire la sua scossa all'umanità intera; ma nessuna corrente è andata mai perduta, e nella vita morale che riceviamo per eredità di nascita e di educazione, si confondono ancora misteriosamente le conquiste di Alessandro, la caduta dell'Impero romano e le guerre dei Crociati. L'oscillazione partita da Betlemme, or sono venti secoli, va diffondendosi ancora nelle estreme regioni dell'Australia, a cui misteriosamente si affiancano i fremiti partiti dalla Mecca. A scosse impetuose, o per correnti insensibili, il minimo movimento fa oscillare l'umanità intera, l'elidersi e l'incontrarsi misterioso di mille fremiti che partono da ogni punto del mondo abitato costituiscono la vita morale dell'umana famiglia. Nei grandi centri della civiltà, dove gli operai della macchina sociale formicolano laboriosi, le scintille partono senza posa; e diffondendosi per la rete delle strade ferrate e dei telegrafi, fanno muovere le nazioni d'Europa e d'America ad una vita agitate e turbinosa; mentre nelle lontane colonie, le correnti emanate dalle grandi pile della civiltà, arrivano deboli e lente, sicchè non producono più nè scintilla, nè scossa. A poco a poco per la forza della pila si accresce, i fili telegrafici, per i quali corre il pensiero, si moltiplicano, e noi ben presto dal centro dell'Europa potremo far palpitare con noi della stessa vita i selvaggi della Patagonia e quelli della Micronesia. In ogni modo un sentimento collega l'uomo all'uomo in un moto di simpatia. Indeterminato e confuso, questo affetto è il fondo sul quale si intrecciano tutte le passioni più o meno violente che legano fra loro alcuni individui, e ben di rado si mostra in tutta la sua semplicità e senza che il cuore v'abbia trapunta qualche immagine più viva. Due uomini, che provano il piacere di avvicinarsi, soddisfano il più semplice di tutti i sentimenti di seconda persona, che potrebbe chiamarsi affetto umano e sociale. Ben di rado però questa gioia esiste da sola, perchè l'oscillazione comunicata a questo sentimento, trae quasi sempre in simpatia d'azione altri affetti che lo elidono o lo ravvivano. Così, se due uomini che si incontrano si fanno paura, l'amore di se stessi oscura subito il piacere di vedersi, ed essi si allontanano o si mettono sulla difensiva. Se invece i due uomini parlano una stessa lingua e si conoscono a vicenda, associano al piacere di sodisfare il sentimento sociale, la gioia intellettuale di comunicarsi i propri pensieri. L'affetto sociale è soddisfatto tutte le volte che noi accomuniamo la nostra vita con quella di un altro uomo, sia che guardiamo semplicemente, insieme ad uno sconosciuto, uno stesso oggetto, sia che ci trovi assieme a migliaia di persone ad assistere allo stesso spettacolo. La parte misteriosa che prende questo sentimento a tutte le nostre gioie, viene espressa complessivamente della parola compagnia; ma riesce molto difficile a definirsi. Nello stesso modo che probabilmente in tutti i corpi trovasi misteriosamente celato qualche imponderabile, così in quasi tutti i nostri piaceri entra, come elemento indispensabile, l'affetto sociale: anche in moltissime gioie individuali, senza volerlo, si vive e si gode insieme a un'immagine che è fuori di noi. L'egoista più perfetto può isolarsi finch'egli vuole, ma è pur sempre un membro dell'umanità che deve con essa soffrire e con essa godere; e l'uomo individuo può resistere fisicamente, ma non moralmente; perchè l'uomo-completo, l'uomo fisiologico è sociale e vive insieme all'umana famiglia, anche quando vuol isolarsi da essa nella solitudine più profonda. L'uomo che ha vicino un altro uomo, e non ha alcuna ragione di odiarlo, anche senza vederlo lo sente, e senza saperlo comunica moralmente con lui. Supponendo che un uomo privo di tutti i sensi, tranne del gusto, sappia di essere a tavola con altre persone, egli ne sente la presenza e gode della loro compagnia. In questo caso il suo piacere è semplice e puro, e non deriva che da una sodisfazione passiva del sentimento sociale; egli non vede nè ascolta i suoi vicini, ma sa di essere in mezzo ad esseri della sue specie, e ne gode. Questo affetto però è così delicato, che si lascia modificare dalle passioni più miti. Così basta che il povero cieco e sordo-muto pensi un momento alle sue sventure, perchè il dolore cancelli il piacere ch'egli prova, e, invece di amare i suoi commensali, li invidi e li odii. Il sentimento sociale non ha che un carattere vago e indistinto quando ci mantiene allo stato di potenza, ma prende invece una forma determinata quando passa allo stato di forza attiva. In questo passaggio esso presenta il carattere speciale di tutti gli affetti, di seconda persona ai quali serve di sfondo, e che tutti rappresenta nelle leggi fondamentali che lo reggono. L'egoista e il superbo possono agire con veemenza e passione per sodisfare i loro piaceri prediletti, ma riflettono sempre in se stessi lo scopo dell'azione; mentre l'uomo che ama di qualunque affetto un suo fratello, pone la sodisfazione del proprio sentimento fuori di sè e si rallegra delle gioie altrui, provando un piacere molto maggiore, quando egli stesso direttamente ridesta nell'altro la gioia.

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Domandate ad una donna che ama, se ella abbia trovato nei cento volumi di letteratura e nei romanzi che ha letto, una storia esauriente dell'amore. Ella vi risponderà sorridendo che i libri hanno spigolato qua e là qualche gemma del tesoro, hanno involato qualche scintilla del vulcano; ma che la storia dell'affetto che le rode il cuore e le divora la vita col piacere e col dolore, non è stata mai scritta e forse non lo sarà mai. Nè io tenterò di tracciarla, e le donne che mi leggeranno potranno accusarmi di ignoranza, ma non di superbia. Per quanto sia smisurato l'arsenale di forme alle quali può ricorrere l'amore, esso in generale è costituito dal bisogno del riavvicinarsi dei due sessi, che devono comunicare la vita alla materia e formare un nuovo individuo. La parte che prende il sentimento in questo fenomeno è costituita dal sentimento dell'amore, il quale può arrivare a tal grado di potenza da far dimenticare lo scopo ultimo. È in tal modo che moltissimi si rifiutano ad ammettere che il fine essenziale e necessario dell'amore sia il congiungimento dei sessi, e credono che la definizione di questo sentimento, com'io l'ho data, tenda ad avvilirlo. La verità non può mai abbassare ciò ch'essa impronta del suo suggello. L'unione dei sessi non è un'azione brutale, nè vile: è legge necessaria di natura, è fenomeno fra i più belli della vita, e che solo l'uomo può deformare e avvilire colla prostituzione della morale, come può fare delle cose più belle e più sante. Si può amare, e violentemente, di purissimo affetto platonico, senza neppure pensare all'amplesso; ma nell'ordine, naturale delle cose, questa passione è sempre fondata sull'idea fondamentale del sesso e della generazione. Non si può amare che una persona di diverso sesso e nell'età feconda; ciò che prova abbastanza la ragione necessaria dell'affetto. Dal ceppo di una stessa pianta l'industre giardiniere può ritrarre un rampollo da frutto, come può educare una gemma che esaurisca la sua vita nel fiore e nelle foglie. Ogni ramo però, sia che s'adorni soltanto di fronde e di fiori, o sia carico di semi, ha pur sempre la stessa origine, e spetta sempre alla stessa pianta. Lo stesso avviene dell'amore. Nell'ordine naturale questo sentimento ci dà le foglie nelle sue gioie più pure, ci dà i fiori nei piaceri misti che si possono indovinare, e ci rallegra coi frutti quando arriva al suo sviluppo completo. Come un albero può crescere alto e rigoglioso senza dar fiori nè frutti, così l'amore può illuminare di gioia la vita di due individui, senza che mai abbiano insieme spasimato nei piaceri del senso. Ma non per questo è men vero che la natura destina l'albero a tramandare la sua vita per mezzo dei semi, come accende il fuoco dell'amore perchè tramandi il calore della vita. Nello stesso modo con cui la vita d'una pianticella si prolunga, quando le si impedisce di portar fiori o frutti; così la vita dell'amore si protrae assai più a lungo, quando si accontenta di porgerci le foglie sempre verdi delle gioie platoniche. Quando la pianta ha dato i suoi frutti, il fine della natura è raggiunto, e se la vita, e conseguentemente l'amore, si prolunga ancora, ciò si deve alla generosità della provvidenza.

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Non saprei dire con sicurezza se gli antichi sapessero venerare più di noi gli uomini grandi; ma inchino a credere che anche in questo caso la civiltà abbia contribuito ad accrescere in massa dei piaceri.

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La speranza non è un sentimento primitivo, nè una forza originale che abbia un punto fisso di partenza e una sua regione unica e necessaria, ma è soltanto un atteggiamento degli affetti, un'oscillazione del desiderio verso una meta, uno dei fenomeni più delicati e interessanti del mondo morale. È un desiderio, è un bisogno, è il profumo di un affetto che cerca un altro affetto è una vela che cerca la brezza d'una forza intellettuale che la possa sospingere. Il desiderio, intemperante e leggero, si innalza dapprima rapido e veemente, senza consultare la bussola, senza fiutare il vento e fors'anche senz'aver mai conosciuta la meta che deve raggiungere nè la strada che deve percorrere. Baldo e impaziente, non aspira che a salire, e, elevandosi, gode del moto concitato e libero, senza guardarsi attorno e senza dubitare. Ma non sempre la meta è raggiunta, e il caso ben di rado fa seguire la strada retta che riunisce il bisogno al piacere. Più spesso la nube leggera e vaporosa del desiderio, dopo essersi elevata rapidamente nelle regioni superiori dell'atmosfera, si arresta incerta e pende oscillante nell'etere. Là spirano lenti, tiepidi e profumati gli zeffiri, e sostengono mollemente sulle loro ali azzurre il desiderio che, senza salire nè discendere, vibra ed oscilla. Quel moto soave è la speranza, quella regione immensa è il campo a cui si elevano tutte le umane passioni, è il limbo dove i desideri stanno sospesi fra il cielo e l'abisso, aspettando la vita o la morte. Voi tutti dovete conoscere quella regione, perchè voi tutti certamente avete desideri che aleggiano sull'estremo orizzonte dei vostri sogni, e che vibrano del moto armonioso della speranza; voi tutti dovete avere colà le vostre nubi sospese, voi tutti dovete seguire con trepidazione le vicende delle vostre navicelle scorrenti su quel mare senza confini. Sì, un oceano senz'onde, ma temibile nella bonaccia e nella tempesta, e le nubi leggere del desideri che vi stanno sospese tremolano sempre incerte e paurose. Sono così delicati quei fiocchi di vapore che, scossi appena oltre la molle ondulazione della speranza, soffrono il timore, vero mal di mare di quell'oceano misterioso. Di quando in quando una nube oscillante a lungo precipita d'improvviso, colpita da un freddo mortale che l'ha condensata. Allora il moto della speranza cessa, e il dolce dolore tien dietro alla gioia. Altre volte un benefico raggio di sole arresta il desiderio nella sua caduta, e la nube, espandendosi leggera, oscilla ancora al moto soave della speranza e si innalza di nuovo. Così avviene che spesso gli umani desideri, in una vera altalena morale, pendano tra la speranza ed il timore, ed or salendo, or precipitando, occupano la vita. Qualche rara volta il desiderio, dopo aver vibrato del moto della speranza, si innalza rapido e diritto, e raggiunge la meta. In tutti questi movimenti, in tutta questa vita meteorica e nebulosa l'uomo passa la più gran parte dei suoi giorni, godendo delle gioie più vive, o soffrendo le più atroci delusioni. La ragione principalissima che rende tanto seducente la speranza è il moto incerto e alterno del desiderio, il quale aspetta e non dispera, vede ad ogni momento lo scopo, e ad ogni istante crede di poterlo raggiungere. Molti dei nostri desideri, dopo essere apparsi all'orizzonte nel primo spuntare della ragione, rimangono sempre oscillanti allo stesso posto fino alla morte. Più d'una volta la formula della vita di un uomo potrebbe essere rappresentata da un'unica nube, che paziente e sicura aspetta al medesimo posto il vento che dovrebbe innalzarla o abbassarla in mezzo alle intemperie e alle procelle dell'esistenza. Le gioie più vive però si provano quando il desiderio, oscillando di speranza, s'innalza a un tratto verso la meta. Vi è una vera e suprema voluttà in quella ascesa. La massima gioia si prova nel momento in cui la speranza diventa realtà, quando l'ultima oscillazione del desiderio che si perde si confonde col primo fremito della sodisfazione che comincia. Un'altra sorgente fecondissima di gioia deriva dall'alternarsi della caduta con la salita, del timore con la speranza. Per alcuni individui la tempesta agitata di queste incertezze costituisce anzi la massima voluttà. Tutti possono rammentare la trepida ansia di qualche momento della vita, nel quale si passa improvvisamente dalla speranza al timore, o dal dolore alla gioia. Una lettera impazientemente aspettata a lungo, e forse ormai non più sperata, ci arriva. I caratteri dell'indirizzo ci sono sconosciuti, ma il timbro della posta ci fa ritenere che quel foglio non possa assolutamente venire che da quell'unica che sopra tutte abbiamo in mente. La speranza più soave ci fa sospirare e sorridere: trepidanti guardiamo la lettera senza osare di aprirla. Là dentro vi è forse già segnata in nostra sentenza, là forse sta scritto il destino del nostro avvenire. L'impazienza ci consuma, ma il coraggio ci manca; e, guardando e riguardando, cerchiamo di indovinare dal modo in cui è scritto l'indirizzo, e fin dal modo con cui la lettera è stata suggellata le disposizioni dell'animo di chi ce l'ha indirizzata. Finalmente, dopo uno sforzo energico, la busta è rotta, il foglio è aperto, l'occhio avido e irrequieto corre alla firma, misura la lunghezza dello scritto e la commenta... Un rifiuto non potrebbe essere così lungo, una risposta consolante non sarebbe così breve. Tutto tortura e tutto consola, e passando dalla speranza al timore, in brevissimo intervallo di tempo proviamo uno spasimo di gioia e di dolore che non ha nome. Fra la disperazione e la felicità sta un deserto immenso, sul quale la speranza semina un sentiero di molle erbetta, che, ristrettissimo dapprima, va man mano dilatandosi fino a formare un vasto prato sempre fiorito, un vero eden di delizie. I gradi della speranza sono infiniti e si può dire che essa muta di volume ad ogni istante, tanto è sensibile ai minimi cambiamenti di temperatura, che or la condensano ed or la espandono. Tutti gli uomini sperano, ma non se ne trovano due soli che abbiano lo stesso capitale di speranza: l'uno è milionario e l'altro è pitocco; l'uno impiega i suoi fondi al cento per uno, e l'altro a stento ne ricava l'uno per cento. L'interesse della speranza è la gioia; ma come vi sono capitali che non dànno interesse, così vi è qualche speranza che non produce piaceri. Allora bisogna intaccare e divorare il capitale, misurandolo colle pretensioni della fame e coll'avarizia della miseria. Qualche volta, dopo aver consumato tutta la propria sostanza, bisogna vivere di elemosina, e in questo caso fortunatamente si trova molta generosità: tutti sono pronti a offrirvi il loro obolo e a mostrarsi caritatevoli. Quando poi non vi sentite di abbassarvi all'umiliazione dell'accattone, privatevi di qualcosa e andate a comperare un po' di speranza. Non mancano le botteghe dove la si vende; non mancano gli usurai che la pesano a libbre, ad once, a grani, e la vendono a tutti i prezzi, secondo il valore che hanno i fondi della fede pubblica. Quando l'uomo non può comperare un soldo di speranza, o quando non vuole abbassarsi al vile mercato, diventa suicida. L'uomo vivente senza speranza è un paradosso. Si può vivere senza godere, si può vivere in mezzo al dolore; ma per sopportare la vita bisogna avere fra mani una cambiale di gioia per l'avvenire, dovesse essere di un centesimo, dovesse essere falsa: una cambiale speranza. Essa costituisce il contravveleno dei più atroci dolori, il balsamo più soave delle piaghe morali. Quand'essa arriva a costituire un grande capitale può bastare a render amena la vita. Moltissimi individui si credono ricchi, perchè hanno nei loro scrigni fasci di valute, che potrebbero perdere tutto il loro valore col fallimento o la frode di un banchiere; così molti si credono felici perchè hanno fra mani mille cambiali per l'avvenire segnate dalla speranza. Essi muoiono sorridenti e beati senza che uno solo di quei biglietti di credito sia mai stato convertito in moneta sonante. È sotto quest'aspetto che alcuni economisti proclamano altamente che si debba in ogni caso impiegare i propri fondi su beni stabili e non sopra la carta; ma io trovo che quando non si può avere danaro sonante, è sempre meglio avere un credito, anche se inesigibile. Vi sono negozianti che lavorano sopra un capitale di credito, e vi possono essere anche uomini che vivono sopra un capitale di speranza. Quel che preme per giungere ai primi posti nel teatro della vita, è di avere qualche cosa fra mani onde abbagliare o ingannare il portiere, che fissa i posti alla folla che incalza per passare. In qualche caso ho veduto un petulante ciarlatano riescire a passare ai primi posti con un artifizio ingegnoso. Dopo avere sbuffato a lungo di impazienza e avere schiamazzato davanti alla porta per la quale doveva entrare nel teatro della vita, egli dava un pugno solenne sugli occhi del portiere, il quale, quasi accecato dal barbaglìo del colpo, credeva di vedere molt'oro, e curvandosi fino a toccare il suolo con la fronte, lasciava passare. L'oro porta sempre fra i primi posti. Se non volete credere a tanta imbecillità da parte del portiere, vi dirò che chi presiede alla distribuzione dei posti e alla gerarchia delle autorità è l'opinione pubblica, e allora mi crederete subito sulla parola.

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La lotta fra la ragione e la fantasia è la storia di uomini grandi; ma nei grandissimi queste due forze sono sempre compagne inseparabili, sebbene la seconda abbia per la prima la riverenza del figlio e del discepolo. I piaceri della fantasia ci rendono quasi sempre amanti della solitudine, perchè questa favorisce lo sviluppo più completo delle immagini, mentre il moto continuo, turbinoso del mondo ci distrae da ogni concentrazione fantastica. Essi hanno l'inconveniente di renderci meno interessanti gli spettacoli del mondo reale, i quali sono quasi sempre al disotto delle splendide immagini ch'essa crea col suo magico pennello. La fantasia, disponendo di tutto il mondo morale, può far entrare nel suo caleidoscopio anche le immagini date dal sentimento, le quali, essendo come le altre molto vive, possono arrivare al punto di illuderci sulla realtà di un affetto che non esiste in concreto. È in questo modo che alcuni uomini dotati di viva fantasia credono di possedere un cuore delicato e generoso, perchè possono descriverne gli affetti più veementi o squisiti. Può darsi che essi sentano veramente mentre parlano e scrivono, ma la fiamma suscitata dalla loro fantasia può essere spenta da un istante all'altro dalla volontà, mentre il fuoco dell'affetto non può essere spento dalla mente. Si può avere la fantasia più fervida e il cuore più arido del mondo. Essa è una facoltà puramente mentale, e quantunque possa rassomigliare assai a un sentimento nelle sue forme, non gli si avvicina mai nella sostanza.

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Credo che nei paesi del nord questa facoltà abbia una tempera più robusta. La massima differenza però è segnata dall'organismo individuale. Alcuni non hanno mai provato una sola gioia pura del volere, mentre altri coltivano questi piaceri con una sollecitudine speciale, e se ne regalano ogni giorno una certa dose. Si può esser grandi anche senza aver mai provato la ferrea gioia del volere; ma non si può possedere questa forza, a un dato grado di potenza, senz'avere una certa superiorità nel bene o nel male.

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Nei pesci e nei rettili credo che nessuno abbia mai letto l'espressione della gioia, mentre negli uccelli la vivacità dei movimenti, il brio del canto e il brillare degli occhi esprimono chiaramente il piacere. I mammiferi, che vivono liberi nelle loro foreste, nascondono ai nostri sguardi i loro piaceri, per cui non ne possiamo conoscere la fisonomia; quando ci è dato avvicinarli e osservarli a lungo, possiamo leggere sul loro muso, il dolore o la paura se ci sanno più forti di essi; mentre se hanno muscoli e denti più potenti dei nostri, potremmo trovarci in un tale stato da non poter sicuramente analizzare la loro fisonomia. Gli animali domestici esprimono la gioia con segni particolari, che noi conosciamo benissimo; e tutti sanno come il cane dimeni la coda, e il cavallo muova le orecchie e nitrisca in modo particolare. Si può dire che le espressioni elementari del piacere sono comuni a tutti i mammiferi superiori, ma che il riso non è concesso che all'uomo soltanto.

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Man mano ,che l'uomo-bambino avanza nel sentiero della vita, egli gode sempre più, quantunque non abbia idea del piacere. Egli allora è allo stesso livello dei bruti, i quali possono spasimare di gioia, ma non possono sicuramente formarsi l'idea di una sensazione piacevole. Nella fanciullezza la verginità della sensazione supplisce alla imperfezione delle facoltà superiori, per cui le impressioni più indifferenti nell'età adulta possono allora fornire una sorgente di piacere. In quest'età, d'altronde, il meccanismo della vita è nell'uomo sano così attivo, e il moto della nutrizione così continuo e vivace, che soltanto la coscienza di esser vivo costituisce un fondo di gioia, che spande la sua allegra tinta su tutti i giorni di quell'età. Tutte le volte che il sistema nervoso si trova in uno stato di grande benessere e di leggero eretismo, la minima sensazione basta a produrre piacere. È per questo che il fanciullo sano è quasi sempre allegro. Del resto, in quest'età il piacere spetta quasi sempre ai sensi, e specialmente al senso del tatto esercitato dai muscoli ai sentimenti minori e alle facoltà intellettuali di second'ordine. Ben di rado in questa età i lavori mentali riescono piacevoli, perchè la debolezza delle facoltà dell'intelletto esige ancora un soverchio sforzo nel loro esercizio, perchè ne possa nascere un piacere. Si studia soltanto per dovere, e se si studia con gioia, è perchè si accontenta l'amor proprio e si soddisfano i parenti e i maestri. Il giovane gode in generale più d'ogni altro le gioie più fulgide della prima età assieme ai piaceri più severi dell'età matura, salvo le eccezioni. Il giovane diventa qualche volta suicida, spesso maledice la vita, chiama meretrice la speranza; ma egli è sempre un ricco che muore soffocato dalle dovizie, è uno, scialacquatore che, dopo aver abusato di tutto e consumato immensi capitali, grida alla miseria e alla disperazione. Quando tutto gli sorride, quando è padrone del mondo dei piaceri, quando la natura intera sembra vezzeggiarlo, quando le simpatie di tutti lo elevano al cielo, egli osa sbadigliare e sorridere di sprezzo e di cinismo, e in mezzo alla felicità osa, con un vero sacrilegio di ingratitudine, rassegnarsi alla vita. La giovinezza, in generale, è l'età delle più grandi gioie, e chi maledice nell'atto di goderne abusa della vita, e rimpiange poi inutilmente nell'età matura il tempo sprecato e le forze consunte. Nella giovinezza si comincia ad imparare nuovi piaceri, forse si gustano tutti; ben di rado si arriva a farsi un'arte o una scienza della gioia. Si corre a dritta e a manca, si vola e si sprofonda senza misurare gli abissi, nè le proprie forze. Purchè ci sia da lottare e da vincere, da percuotere o da esser percossi; purchè, insomma, si possa delirare nel fuoco di un rogo o nel gelo d'un ghiaccio, si vive e si gode. Il primo bisogno è quello di scatenare la forza che ci divora, e purchè si sprigioni per qualche valvola, non c'importa del resto. Ora essa si spegne nelle contrazioni dei muscoli, ora si svapora in un diluvio di progetti impossibili, ora fischia rabbiosa e concitata dalla valvola delle passioni più violenti, ed ora si rintuzza in lunghi e pericolosi studi. L'uomo che a vent'anni non può fare scialacquo, nè essere prodigo, non è giovane e non lo sarà mai. In mezzo a tante gioie però il giovane non si arresta quasi mai ad analizzarle. Impetuoso e violento, non ha appena fiutato un fiore, non ha appena sfogliato un libro, che getta il fiore, trascura il libro, e corre innanzi in mezzo al turbine del mondo, urtando, urlando e agitando le mani avide di cogliere, di afferrare e di rompere. Quante sublimi imprudenze, quante generose utopie, quante bestemmie e quante benedizioni segnano il corso fulmineo di quel pazzo fisiologico! La natura però segna certi confini alla prodigalità dell'uomo, e quando il sangue gli scorre meno concitato nelle vene e la stanchezza della lunga e rapida corsa gli fa rallentare il passo, egli ha il tempo di asciugarsi il sudore della fronte e di guardarsi attorno. L'uomo in quel momento diventa adulto. Gli anni e il vigore del corpo possono tracciare i confini delle età fisiche, ma non delle età morali. Queste si corrispondono spesso, ma non sempre. L'adolescente può in alcuni casi abusare di una precoce intelligenza, e a diciotto anni può fermarsi davanti all'arena della giovinezza, può guardarsi attorno prima di iniziare la corsa, può tracciarsi il sentiero della vita. Allora quest'uomo diventa adulto senza essere stato giovane. Egli ha preveduto i pericoli di una corsa disordinata e folle, ha misurato le proprie forze e non le ha trovate bastevoli per permettersi le feste della giovinezza; vi rinuncia spontaneamente, e si rassegna a prendere a vent'anni l'andatura posata dell'uomo adulto. In ogni modo, sia che l'uomo diventi adulto a vent'anni o a quaranta, le sue gioie cambiano di natura o almeno di forma, e mentre prima i capitali de' suoi piaceri consistevano quasi tutti in beni mobili, ora si sono cambiati in beni immobili. Nella giovinezza si preferisce il convulso alternar della Borsa, e purchè si abbia un interesse molto alto, si va incontro senza paura al fallimento e alla rovina. Oggi milionario, domani senza un soldo. In questa terribile altalena vi ha movimento, vita, delirio; il giovane ne è contento. L'adulto, invece, si accontenta dell'interesse del quattro o del tre per cento, ma lo vuol sicuro e ipotecato. Impiega i suoi capitali in case o in terre, ma diventa sempre tributario di tutte le case di assicurazione, da quella degli incendi a quella per la grandine e per i vetri della casa. I beni immobili che fruttano i piaceri dell'adulto sono i sentimenti della famiglia, le calme aspirazioni della gloria, lo studio, la considerazione di se stesso, il concetto di possesso, ed altri capitali consimili. Quando l'adulto diventa vecchio, egli si trova povero di gioie, poichè, ad onta delle sue economie e delle sue previdenti sollecitudini, il tempo inesorabile lo ha spogliato, ed egli diventa avaro. Allora toglie i suoi fondi dalle mani degli affittaiuoli, e diventa egli stesso amministratore e cassiere. S'egli potesse maneggiare la zappa diventerebbe ben volentieri anche coltivatore. Diffida di tutti e vuole da solo vedere e misurare, e, concentrando tutto intorno a sè, cerca di allontanare tutti quelli che hanno l'aria di parassiti; ei non ha torto; i capitali dei suoi piaceri, de' quali ha fatto tanto abuso nella giovinezza, si sono ridotti ai minimi termini. L'economia dell'età adulta ha riordinato alquanto le sue finanze ma il tempo, contro il quale non vi ha assicurazione, gli ha rovinato le case, gli ha isteriliti i campi. Non gli restano più che alcune care memorie, e le pallide gioie che ha conservate nelle proprie serre riscaldate artificialmente. S'egli è sano di mente e di corpo, non è infelice, e, quantunque vacilli e sorrida di rado, ama la vita con trasporto, fors'anche con vero furore; e checchè si dica, quando l'uomo ama la vita, è perchè essa gli dà più piaceri che dolori.

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Chi desidera di diventar ricco sperando di essere più felice, il più delle volte non si inganna, e d'altronde aspira alla cosa più naturale del mondo; ma chi vorrebbe esser nato ricco, a meno ch'egli non abbia il genio dell'economia politica, desidera un bene pericoloso e un male probabile. Ogni professione ha i propri piaceri: una gioia speciale caratteristica con varie altre minori e secondarie; oppure una gioia alla quale si riuniscono vari piaceri sotto forme e proporzioni diverse in modo da costituire un gruppo speciale. La storia dei piaceri di ogni professione sarebbe certamente un lavoro molto interessante, se ad esse fosse unita la storia dei dolori, i quali, confondendosi e cementandosi insieme ai piaceri, presenterebbero la formula viva e fisiologica nelle diverse condizioni sociali. Il separare, nella storia delle professioni, i piaceri dai dolori, è un guastare uno dei più bei quadri di storia dell'uomo morale. Si possono dare diverse classificazioni più o meno razionali delle professioni umane, e si possono anche dividerle secondo la natura dei piaceri che in esse predominano. I piaceri del senso tattile puro e semplice sono più numerosi in tutte le professioni manuali ed artistiche, e la scultura sta forse al disopra di tutte. Le facili gioie del gusto sono, in generale, più vive nelle professioni del cuoco, del soldato e del medico. La grandissima differenza che esiste nella sensibilità dei nasi fa sì che nessuna professione possa esercitare sui piaceri dell'olfatto tale influenza da vincere in un modo sensibile l'organizzazione del senso. Se ciò non fosse, i fabbricatori e i venditori di essenze dovrebbero essere i privilegiati. I maestri di musica e gli artisti gustano più che gli altri dei piaceri dell'udito. I piaceri della vista si godono meglio nelle professioni di viaggiatore, di micrografo e di pittore. I piaceri dell'onore possono essere di tutte le professioni, ma si gustano più spesso in quella del soldato. Le gioie della gloria sono concesse a tutti, ma per aspirarvi bisogna essere almeno d'intelligenza aperta e di cuore fermo. Possono aspirarvi scienziati e artisti. L'ambizione con tutte le sue varietà minori concede maggiori piaceri a quelli che esercitano una professione di governo o hanno in mano il potere. I piaceri del possesso sono più vivi nelle professioni di banchiere, di negoziante e di possidente, se questa può ritenersi professione. I naturalisti e gli specialisti di ogni genere provano quasi sempre più degli altri i piaceri del raccogliere. I piaceri della benevolenza pratica dovrebbero essere più largamente concessi ai medici, ai sacerdoti e a tutti gli addetti a stabilimenti di beneficenza. L'amor patrio dovrebbe concedere gioie più vive al soldato. Le gioie religiose dovrebbero essere più squisite nella professione del sacerdote. I piaceri della lotta si gustano meglio nelle professioni del soldato, del cacciatore, dell'avvocato, del medico, del gladiatore, dello sportivo. Le gioie della giustizia sono tesori più largamente concessi al buon volere dei giudici. Le gioie della speranza sono largamente concesse a tutte le professioni nelle quali si lavora molto e si guadagna poco. I piaceri dell'odio e del furto spettano a tutti coloro che non hanno senso morale e rispetto per la proprietà. I piaceri che non ho nominati spettano a tulle le professioni, le quali vi esercitano una influenza così debole che il più delle volte sfugge ai nostri mezzi d'investigazione.

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Del resto, se non potremo trovare un desiderio che sia naturalmente calmo, potremo indebolirlo col regime pitagorico, col digiuno e col cilicio, sicchè abbia a camminare lento e zoppicante, quando uscirà nel mondo a spendere i nostri denari. Fatto questo, ci sarà possibile impiegare i nostri capitali a un interesse basso ma sicuro, assicurandoli e ipotecandoli con la virtù, la prudenza, lo studio. Accontentiamoci del poco, e per tutto ciò che ci mancherà accarezziamo la speranza; amiamo gli uomini e noi stessi; abbelliamo con la fantasia ciò che ci riesce disgustoso e brutto; compiaciamoci delle cose nostre senza superbia; crediamo e ridiamo, e se, dopo questo, non saremo ancora felici, potremo almeno dire di aver fatto tutto ciò che onestamente potevamo fare per diventarlo. A nostro contorto, poi, ricordiamo sempre che la felicità non è uno stato naturale all'uomo onesto, e che non può essere quasi sempre che una fortuna. Si può esser galantuomini e felici, ma soltanto come si può nascere milionari e nello stesso tempo uomini di genio, per un caso straordinario di fortuna. Del resto, ad altre circostanze pari, l'uomo più felice è quello che è dotato di maggiore sensibilità, di maggior fantasia, di volontà più robusta e di minori pregiudizi. È quell'uomo raro che a tanto volere, da sospendere le vibrazioni del dolore e da lasciare oscillare tutte le corde che fremono di piacere. La felicità può dunque essere un piacere al grado superlativo, una scintilla di gioia vivissima che attraversa l'orizzonte della nostra vita e scompare, dopo avere percorso una parabola molto breve. In questo caso essa è sinonimo di beatitudine, di piacere spinto al grado massimo dell'umano sentire, e accompagnato dalla piena coscienza della sodisfazione. Altre volte, invece, essa è una fiaccola che illumina un'epoca della nostra esistenza, o tutta quanta la vita, ed è in questo caso il sommo bene a cui possa aspirare l'uomo. Di questo stato beatissimo si hanno tante varietà quante sono le nature umane. Perchè vi possa essere la felicità, deve esistere un accordo ammirabile fra le circostanze ambientali e l'uomo che in esse si trova, perchè essa non è che l'armonia completa del nostro io col mondo che lo circonda. Le felicità nè si possono confrontare, nè sommare, nè dividere. L'Indiano-pampa che, dopo aver rimpinzato lo stomaco di sangue caldissimo di cavallo, si sdraia sotto il tetto del suo toldo, immerso nella beata coscienza di una digestione eccellente, è felice come il sultano che nelle delizie del suo serraglio, fra i sogni fantasmagorici dell'oppio, pensa di essere padrone d'una gran parte del globo; come il filosofo che, dopo lunghe ore di frenesia intellettuale fra i suoi libri e i suoi manoscritti, va a rannicchiarsi nel letto sentendosi pienamente felice. Questi tre uomini hanno diverse nature, godono in modo assai diverso, ma sono tutti felici, dacchè tutti credono di esserlo. Anche il pazzo, che sorride a chi non lo crede il sommo pontefice, è felice, s'egli si sente tale. Si può fingere la felicità come ogni altra cosa in questo mondo; ma dacchè uno si crede felice, lo è; nè l'eloquenza di Cicerone o le prepotenze d'un tiranno potrebbero farlo cambiare d'avviso.

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Crede che i poveri siano fatti da Dio per esercitare la carità dei ricchi, nè mai ha domandato al Creatore perchè abbia dato il veleno alle vipere e le spine alle rose. Ella è felice.

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L'esercizio della funzione del sesso, formando il primo anello della catena sociale, ci rende più affettuosi e facili a compatire e a perdonare, mentre la vittoria completa sugli istinti della carne sublima le facoltà intellettuali a scapito del sentimento, oppure ci fa schiavi dei brutali piaceri della tavola, qualora la mente non abbia che pallidi bisogni. I piaceri del sesso hanno poi un'importanza molto diversa nella vita dei singoli individui. Chi è capace di godere dei tesori dell'intelligenza o delle squisitezze del sentimento, non dedica ai piaceri sessuali che una piccola parte di se stesso, mentre altri, per imperfezione congenita o per abbrutimento della condizione sociale, dedica la maggior parte delle sue forze alle lotte amorose. La monotona e lurida stoffa della vita di molti non porta altre tracce che una serie più o meno interrotta di punti segnati dai labili delirii di amplessi volgari. Per fortuna, però, gli individui normali, equilibrati, che non eccedono nè nell'astinenza, nè negli abusi, sono l'assoluta maggioranza, e questi della funzione, eminentemente volta alla riproduzione della specie, non fanno solo una fonte di godimento, e nemmeno la trascurano a danno dell'incremento demografico.

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Le relative sensazioni che si hanno in questi casi appartengono alla classe dei piaceri patologici, e condannano i colpevoli a soffrire, quasi la natura abbia invariabilmente fissato ad ogni individuo una certa misura di piaceri e di dolori, che noi possiamo accrescere e diminuire, senza mutarne però mai il reciproco rapporto. Così, quando veniamo ad aumentare la massa dei piaceri che ci è destinata, una mano inesorabile lascia cadere un granello sulla bilancia del dolore, onde non si alteri mai l'equilibrio. Si è disputato più volte dai fisiologi se la natura sia stata parziale verso uno dei sessi, concedendogli una più ampia coppa al banchetto dell'amore. Sebbene simile questione non sia positivamente solubile con esperienze e prove positive, credo che si possa con bastante sicurezza dedurre che la donna gode assai più dell'uomo nei deliri dell'amplesso, lasciando sempre da parte le eccezioni che derivano da condizioni individuali. L'apparato voluttuoso dei genitali femminei è assai più complicato di quello concesso all'uomo. La clitoride è nelle donne l'organo esterno del piacere, ed ha il suo riscontro nella verga virile. Ma la donna, oltre la clitoride, che può essere più o meno sviluppata e sensibile per l'uso diretto e pei piaceri che essa prende su se stessa, ha la vagina con le labbra, il vestibolo e il collo dell'utero, che in molte donne è fonte dei più intensi piaceri. Anche il seno dà piaceri sessuali nella donna: i capezzoli si fanno turgidi, ed una lieve carezza li eccita all'estremo, al pari della tiroide: infatti la pressione delle labbra sul collo, in un bacio intenso e prolungato, riesce di irresistibile voluttà. Gli organi genitali femminei nelle parti che servono al piacere sono tutti ricoperti da una membrana, irrorata continuamente da muco; ed essendo interni, conservano illesa la loro sensibilità. L'uomo invece ha la maggior parte della verga coperta da comuni tegumenti, e anche il glande viene più volte in contatto cogli oggetti esterni. L'apparato femmineo destinato ai piaceri del sesso ha una superficie molto più estesa di quella dell'uomo. La donna è dotata di una sensibilità più squisita dell'uomo, per cui sente assai più fortemente tutte le influenze degli oggetti esterni. Nell'atto della copula la donna è quasi pienamente passiva, e però, non essendo impiegata la più piccola parte di forza al moto, tutta la tensione riesce rivolta al senso. La donna non soffre dopo i piaceri venerei che una leggera spossatezza, che deriva dall'esaurimento in cui cade il sistema nervoso, e quindi si trova, assai prima dell'uomo, pronta a rinnovare gli amplessi. La donna è fisicamente sempre pronta alla copula, mentre l'uomo non lo è che qualche volta. Molte donne hanno più polluzioni nel tempo in cui l'uomo non ne compie che una sola. La donna, quantunque nasconda i palpiti del seno e i frequenti desideri sotto ampie vesti, aspira con maggior trasporto dell'uomo a questi piaceri, a lei resi ancor più seducenti dal mistero che le viene imposto dal pudore e dalle consuetudini sociali. Infine la natura nella funzione generativa doveva alla donna un compenso pei dolorj e pei pericoli che le riserva, e quindi le concede maggiori voluttà; le quali le fanno dimenticare la lunga serie di sacrifici che può incontrare nel cedere al prepotente bisogno. Vi è un fatto, tuttavia, che sembra contraddire apertamente a tutte queste ragioni, e dietro il quale alcuni affermano il contrario di quanto ho cercato di provare: sarebbe questo l'assoluta indifferenza od anche la noia che, nel fingere di partecipare al godimento, provano molte meretrici nel ricevere l'amplesso venduto. In questo caso peraltro noi siamo in un campo che appartiene interamente alla patologia morale, e quindi fuori affatto delle condizioni ordinarie. D'altronde l'abuso della copula rende la donna così indifferente a quest'atto ch'ella deve prestare tutta la sua partecipazione onde trovarvi piacere; e ha bisogno di una eccitazione locale più intensa e più prolungata per arrivare ad ottenere una polluzione completa. Quasi tutte le meretrici però hanno un amante, al quale cedono oltre il corpo anche l'affetto, e negli amplessi che loro riserbano provano anch'esse piaceri, che non possono dividere colla turba della loro clientela. Questo fatto non ha quindi alcuna importanza in simile questione, e serve solo a provare come, in tutti gli atti morali della donna, il sentimento entri quale principalissimo elemento, e abbia una tale influenza da modificare un atto, a cui siamo trascinati da tanta prepotenza di leggi anatomiche e fisiologiche.

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Ma tali incomodi riescono tollerabili, e il giovane si accontenta di passare alcune ore nella sonnolenza o in lievi occupazioni, aspettando che il processo riparatore lo abbia messo ancora in grado di abusar di se stesso. Allora l'organismo abituale in cui vengono tenuti gli organi genitali dalle lascive immagini della mente lo fa ricadere nella colpa. Altre volte lo scoraggiamento e l'impotenza di eccitare altre sensazioni per le quali si richiederebbe tutta l'energia, trascinano al malaugurato piacere onde provare una scossa e sentire di vivere. Una vita passata fra occupazioni languide, fra lunghe ore di sonno o di sonnolenza, fra momenti d'ira e di dispetto, e segnata qua e là dalle abitudini sozzure, è miserabile e vile. Voi tutti che, incatenati dai pregiudizi, vi siete chiusi nell'angusto sentiero di una vita modellata dalle esterne circostanze che vi ballottano e vi urtano; voi che vivete senza esservi mai domandato perchè e a che vivete, voi che non siete che morte cifre nella formula di una generazione; continuate pure nelle vostre abitudini depravate, dacchè non potete intendere gioie più elevate o men basse. Ma tutti voi altri che avete infrante le catene del pregiudizio e salendo sulle alture del pensiero spaziate libero lo sguardo sull'orizzonte che vi circonda; voi che intendete la sublime voluttà del pensare, e che indirizzate la vostra vita ad uno scopo, come la religione, la scienza, la gloria o l'affetto; per quanto vi è sacra la vostra dignità di uomo, non cedete ad un vizio che vi farebbe precipitare dall'alto, e vi spezzerebbe fra le mani quelle armi, con le quali dovete combattere i formidabili nemici che ingombrano la via del vero, del bello e del buono. Se ancora non conoscete i solitari piaceri, non tentateli affatto, perchè la prova sarebbe pericolosa. Se fatalmente li imparaste a conoscere in un'età nella quale l'intelletto era ancora bambino, combattete il nemico coll'arme più potente concessa all'uomo, colla suprema facoltà della sua mente: la volontà. Educate questa potenza preziosa: vogliate tutto ciò che è difficile a conseguire; vogliate combattere ciò che è quasi invincibile: vogliate fabbricarvi la vita fin dove in natura ve lo concede; e allora proverete la sublime compiacenza dell'aver voluto e dell'aver vinto, la quale vale assai più del sacrifizio dei fremiti più voluttuosi. Se la natura non vi ha concesso che un fiacco volere, associatevi ad altri, confidate il vostro segreto ad un amico, unitevi a lui per vincere il nemico, e rendetevi degno di una delle vittorie più difficili.

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La ragione prima che corre alla mente per ispiegare questo fatto è che la natura abbia voluto punire il colpevole che l'inganna, deludendone uno dei fini più importanti. Altri pensano che la rilassatezza e il senso di nausea che tengono dietro ai solitari piaceri, inducano un perturbamento generale che non si ha nella copula. Questo argomento, come il precedente, è però debolissimo, giacchè molte volte nel coito il pentimento e il timore delle conseguenze sono assai più gravi, senza che per questo si abbiano i disturbi fisici e morali che seguono l'onanismo. La facilità di ripetere gli atti lascivi dell'onanismo non vale a spiegare gli effetti di un'unica polluzione manuale, messi a confronto con quelli di una polluzione naturale. L'ipotesi dello sviluppo della elettricità nel contatto dei due sessi è puramente gratuita, sebbene non si possa negare interamente. Un'opinione probabile su questo argomento e che nell'onanismo e nella copula gli effetti sono pari quanto alla perdita materiale dello sperma, ma che nel primo l'organismo deve esercitare uno sforzo sproporzionato per ottenere il delirio del piacere, non trovandosi mai nell'orgasmo naturale, il quale non può aversi che nel contatto dei due sessi. Nella copula abbiamo un eretismo straordinario, che viene spento da un proporzionato piacere , per cui si ha poco sviluppo di forza ed equilibrio totale. Nell'onanismo invece si ha un eretismo mediocre a cui tiene dietro un piacere straordinario, per cui vi ha sproporzione tra la forza e l'effetto e perturbamento del sistema nervoso. Questa mia ipotesi sarebbe giustificata in parte anche dall'osservazione, la quale dimostra che una polluzione per onanismo riesce meno dannosa quanto più veemente è il desidero che spinge alla colpa, e che il coito fiacca tanto meno, quanto più sospirato è l'amplesso. Non è improbabile ancora che, in questo terribile conflitto di voluttà fra i due sessi, si scatenino correnti vitali che passano da un corpo all'altro, e che, equilibrandosi si compensino a vicenda. In ogni modo tale questione non è ancora sciolta, ed essa deve essere studiata profondamente, perchè può portare molta luce sulla misteriosa azione del sistema nervoso. Non meno della masturbazione è da lamentare Il congiungimento tra persone dello stesso sesso. Due donne possono congiungersi in modi svariati ottenendo un godimento spasmodico, che raggiunge spesso il parossismo. I piaceri venerei fra donne snervano, sfibrano e riescono deleteri per l'organismo. Altrettanto avviene pei congiungimenti non naturali fra uomo e donna: l'usare la lingua e la bocca, al posto dei genitali, acuisce il piacere a tutto scapito del sistema nervoso e della salute. Riprovevole è anche il ricorrere a mezzi inconfessabili per procurarsi i piaceri venerei: le donne che si servono dei cani diletti, pagano poi ben care le blandizie delle loro leccate, e finiscono sfatte e invecchiate anzi tempo. Ma su tanti pervertimenti è meglio far punto!

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L'atto di accingersi a fumare apre una serie di piaceri coll'occupazione facile e interessante che richiede, sia che si abbia ad allestire e accendere il sigaro, sia che si debba caricare la pipa. Chi ha osservato un fumatore di buon gusto nell'atto che fa i suoi preparativi per abbandonarsi al prediletto piacere, deve ammettere che quel momento è delizioso: e non può essere altrimenti, dacchè la speranza di godere e la compiacenza di farne i preparativi con le proprie mani e senza fatica, sono elementi che devono produrre una sensazione piacevole. Del resto, basta osservare il giovane fumatore nell'atto di prepararsi a fumare una sigaretta. II secondo elemento cha entra a far parte di questo piacere tanto complesso è la sensazione del gusto, la quale nella pipe si limita al sapore del fumo, e nel sigaro consta anche della sensazione della saliva che imbeve le parti solubili delle foglie del tabacco. Le infinite varietà dell'acre e dell'aromatico formano mille combinazioni di piaceri conosciute a fondo soltanto dai consumati fumatori. In generale però i nervi gustatori e tattili della bocca sono in uno stato di irritazione piacevole, di vero orgasmo, e l'uomo gusta senza nutrirsi. Il senso tattile delle labbra e dei muscoli della bocca concorre pure al piacere nei moti alterni e delicati che sono necessari ad aspirare il fumo, a ritenerlo nella bocca e a farlo uscire in volute. L'olfatto ha grandissima parte in questo piacere, ma certamente meno degli altri elementi. In ogni modo non è indispensabile, perchè si può essere privi interamente dell'olfatto e quasi del gusto, e provar piacere nel fumare. Il profumo del tabacco, d'ordinario, viene aspirato dalle narici col fumo che esce dalla bocca; ma può passare anche dal retrobocca nel naso per le fossa nasali. Quelli che sanno fare uscire in colonne il fumo dal naso, provano anche il piacere d'una leggera irritazione della pituitaria, al quale si unisce la compiacenza di un giuoco bizzarro. La vista paga il suo tributo ai fumatori, svagandoli cogli scherzi della lenta combustione e delle vicende presentate dal fumo che sale in volute per l'aria. Gli effetti fisiologici della nicotina e degli altri principii volatili odorosi che vengono assorbiti e che agiscono a preferenza sul sistema nervoso, hanno pure una grande influenza sui piaceri del fumare, e vi contribuiscono specialmente col facilitare la digestione e coll'indurre la sensibilità generale in uno stato particolare di torpore eretistico, che può arrivare fino alla voluttà. I novizi vengono intossicati e soffrono; gli adepti s'inebbriano e se sono molto sensibili, provano in tutta la superficie cutanea un senso di tepore particolare o di prurito leggero molto piacevole. Infine i veterani provano una sensazione indefinita di benessere che li esalta. Tutti questi piaceri però non esistono da soli, ma si combinano fra loro in un accordo che li unifica e armonizza, formando un'unica sensazione piacevole. Sono futili tutte le questioni che si agitano ogni giorno sulla vera essenza del piacere del fumare, e se esso spetti al gusto, all'olfatto o alla vista. Nessuno di questi sensi gode da solo, ma concorre nella sua parte a produrre il piacere. L'elemento però che collega tutti i piaceri in un solo, facendo, direi quasi, da cemento, è il piacere di far qualche cosa, di esser distratto di quando in quando dal lavoro, o di interrompere l'ozio. L'ozio completo è insopportabile anche ai più inerti; ma il lavoro stanca e piace a pochi. Ora il fumar tabacco è una vera transazione, un vero trattato di pace tra l'inerzia e l'attività, fra l'odio al lavoro e l'avversione all'ozio. I più volgari, e quindi anche i più numerosi fumatori, non hanno mai saputo trovare nel fumare altro piacere che questo. In ogni modo i piaceri del fumare non sono patologici per la più parte degli uomini. I piaceri dell'olfatto, per quanto siano labili, sono troppo trascurati nei progressi della civiltà, ed essi non hanno ancora dato luogo a invenzioni relative di qualche importanza. In Europa il limitato uso del tabacco, le essenze di cui profumiamo i nostri abiti, e il tributo che ci offre l'orticoltura colla coltivazione di piante odorose, sono gli unici sollievi concessi a questo senso. In Oriente il naso è meno dimenticato che da noi, e nelle camere dei ricchi ardono profumi deliziosi. Queste gioie però sono elementari, e non costituiscono ancora un complesso di mezzi atti a produrre veri piaceri olfattivi. La civiltà futura riempirà questa lacuna? L'armonia e la melodia degli odori devono esistere, come esiste l'accordo in tutte le altre sensazioni.

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Così non v'è alcuno il quale in sua vita non abbia passato qualche quarto d'ora battendo sul tavolo i polpastrelli delle dita, o percuotendo le molle contro gli alari negli ozi del focolare, o picchiando il piede contro terra nelle noie di una insipida conversazione. Queste sensazioni piacevoli sono forse il primo elemento della musica, o almeno formano un anello di congiunzione fra le due grandi classi dei piaceri dell'udito. Un rumore forte e improvviso, che rompa a un tratto il silenzio per cessare subito dopo, può produrre un piacere per la scossa che comunica ai nervi sensori. In questo caso la sensazione non deve essere nè troppo debole, nè troppo forte. Il fischio d'una locomotiva, lo sparo d'un fucile o d'un fuoco d'artifizio, un unico tocco di campana che si perda nell'aria, o in tonfo d'un corpo pesante che cada dall'alto nell'acqua, possono produrre piaceri di questa natura. Altre volte la sensazione è piacevole per un carattere particolare, che solletica o commuove in modo speciale i nervi dell'udito, come il versarsi del grano in uno staio, il lacerarsi d'una stoffa di cotone, il rovesciarsi d'un carro di sabbia, lo stormire delle frondi, lo scrosciare d'una cascata, il fremere delle onde, il gemere dei venti, il rimbombar del tuono, e tanti altri rumori di natura molto diversa. Un rumore può arrecare piacere quando, senza cambiare di natura, muta di grado, salendo o decrescendo a poco a poco. In questo caso la ragione principale del piacere sta nell'attenzione prolungata, la quale eleva la sensazione ad un grado massimo di intensità. Basta rammentare il rumore di una carrozza o di una locomotiva, il fremito d'una verga metallica. Quando il suono va decrescendo, più d'una volta il nostro orecchio raccoglie avidamente le ultime vibrazioni sonore che vanno perdendosi, quasi a misurare la delicatezza del senso. Un altro piacere si ha nel contrasto di due rumori che si succedono, e che possono differire nella natura o in amendue questi elementi. Così il pesante martello del fabbro, che batte ora sull'incudine ed ora sul ferro rovente, può arrecarci in questo modo un piacere; nella stessa guisa l'eco ci interessa così vivamente nel confronto dei due suoni analoghi. Le più grandi gioie però che ci forniscono i rumori non sono le sensazioni per se stesse, quanto le immaginazioni e le idee che ci ridestano. In questo caso il senso non serve che di strumento, e il piacere è quasi puramente del sentimento o dell'intelletto. Alcuni rumori fragorosi, come quello del martellare e dello stridere della fucina, possono ridestarci all'operosità e all'energia; altri rumori monotoni e lenti, come quello del pendolo o del fluire blando delle acque del fiume, possono ispirarci alla calma ed al riposo. Lo stormire delle fronde e il fluttuar delle onde sulla sabbia della riva ci portano ad una soave melanconia e ad inenarrabili voluttà. Altre volte lo strascico di una veste di seta può ridestarci immagini lascive. Spesso il rumore di un vaso che si rompe ci fa sorridere all'idea del disappunto del malaugurato a cui è capitato l'accidente. Infine sono tali e tante queste sorgenti di piaceri, che il solo enumerarle sarebbe un improbo lavoro. Basterà dire che in qualche caso il piacere prodotto da un rumore può arrivare ai massimi gradi dell'umano sentire. Ciascuno può, a questo proposito, immaginare il delirio di gioia che può provare un prigioniero condannato a morte, che, dopo aver lavorato lunghe ore attorno alla porta che lo rinchiude, sente a un tratto, contro ogni speranza, lo scatto della serratura scassinata.

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I difetti del senso però influiscono assai meno di quelli dell'intelletto a diminuire i piaceri della vista; per cui un miope sgraziato, che non estende il suo orizzonte visuale oltre un braccio, può godere col microscopio in un'ora più di quanto abbia goduto uno stupido distratto, che con ottima vista abbia fatto il giro del mondo. La donna gode, in generale, molto meno dell'uomo dei piaceri della vista. Essa è troppo distratta e, per sua organizzazione intellettuale, troppo avversa all'analisi delle sensazioni. Più d'una volta la donna si arresta nel piacere alla vernice sottilissima della sensazione, mentre l'uomo nello stesso tempo ha già percorso un mondo di immagini e di idee. Nella prima età l'uomo vede, ma non guarda; per cui il piacere deve essere molto debole. Quando egli comincia ad arrestare il suo occhio stupito e vagante sopra un oggetto, la novità della sensazione supplisce al difetto delle facoltà intellettuali, e il piacere si fa sempre più intenso. Nella fanciullezza la verginità del senso va man mano perdendosi alla vista di nuovi oggetti, per cui si vanno limitando i confini del nostro orizzonte visuale, nello stesso tempo che i piaceri si perfezionano con lo sviluppo del cervello. In questa età i piaceri della vista sono più sensuali che nelle età successive! Nella giovinezza la prepotenza di altre facoltà e la lussuria di tante sensazioni, che si affollano e si confondono, tolgono alquanto dell'attenzione necessaria al godimento dei piaceri della vista, i quali non si gustano in tutta la loro pienezza che nell'età adulta, a cui è concessa tutta la calma necessaria alla analisi. Quando poi gli occhi perdono la loro piena funzionalità, l'uomo vede a poco a poco annebbiarsi l'orizzonte, e infittirsi il velo che avvolge il mondo da cui ben presto verrà escluso. I piaceri della vista sono maggiori nei paesi prediletti dalla natura, e dove il cielo sorride sempre alle bellezze della terra. Il ricco gode più del povero anche di queste gioie, perchè molti piaceri della vista si possono acquistare. Noi godiamo più dei nostri padri, perchè la civiltà va man mano dilatando l'orizzonte che ne circonda inventando nuove combinazioni di piaceri. Non si fabbricano forse colori in una infinita gamma di tinte? La luce elettrica non gareggia col sole in raggi potenti e benefici? Il cinematografo non rapisce alla stessa vita la meraviglia delle sue scene e dei panorami splendidi? L'influenza di queste gioie è molto benefica e concorre a perfezionare la vista e l'intelletto, e ad aumentare sempre più i tesori che si raccolgono dall'immaginazione. Uno stesso oggetto, veduto in diversi tempi, ci dà immagini diverse, quando noi abbiamo sensi abbastanza delicati per distinguere i minimi gradi di differenza delle sensazioni. L'abitudine di guardare ci addestra all'osservazione e all'analisi, e in questo modo educa la mente agli studi più difficili e severi. La natura degli oggetti che noi osserviamo spesso tende pure ad ispirarci i sentimenti e le idee che vi si riferiscono, concorrendo in questo modo a segnarci un sentiero nelle lande della vita. Così la vista delle scene della natura c'ispira una serenità di mente e di cuore che tende a spargere una calma soave su tutta la vita; così la vista continua dei capolavori della pittura e della scultura ci educa al sentimento del bello. Ma la ragione di questo fenomeno sta nelle leggi che reggono l'intelletto.

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Ma il numero in questo caso non è stato la causa necessaria del piacere, il quale proviene dal contrasto e dal ridicolo delle cose, non che dalla curiosità di sapere perchè mai quella sedia abbia la pretesa di possedere due membra più delle altre. La dimensione di un corpo può arrecarci piacere, quando sia estremamente grande o straordinariamente piccola. Queste sensazioni sono quasi sempre complicate dal piacere della novità, che però non entra come elemento essenziale. Tutti coloro che, per la prima volta, si recano sulla spiaggia del mare, provano un piacere infinito, nel quale entra anche la impressione per la immensità del piano che si stende innanzi ai loro occhi, sebbene forse la fantasia abbia già fatto loro immaginare uno spazio ancor più grande del reale. La distanza degli oggetti non ci interessa quasi mai da sola, ma arreca piacere col ridestarci idee o sentimenti diversi. I limiti del nostro orizzonte visuale sono immensi, e vengono segnati, da una parte, dal microscopio che ci mostra un infusorio della larghezza di un decimillesimo di millimetro, e, dall'altra, dal telescopio che ci mostra milioni di soli, dinanzi ai quali la nostra terra figura come un granello minutissimo di sabbia. A parità di circostanze, un oggetto vicino ci invita all'osservazione e al desiderio di toccarlo, al bisogno di possederlo; mentre un corpo immensamente lontano c'inspira ammirazione e stupore. Un oggetto vicino si guarda, un oggetto lontano si contempla; il primo c'interessa, parola in cui entra come elemento secondario anche il cuore, mentre il secondo ci sorprende. La forma degli oggetti ci può interessare vivamente da sè sola per gli elementi geometrici che, insieme al numero, alla grandezza e alla distanza, formano l'ordine e la simmetria. La simmetria è una sorgente fecondissima di piaceri, che derivano dai caratteri matematici dei corpi. L'artista può trovare nuove combinazioni di ordine e di misura, ma non può mai allontanarsi dal tipo invariabile segnato dalla natura. Nessuno ha mai pensato di dimostrare e di discutere le leggi fondamentali della simmetria: esse stanno scritte a caratteri indelebili nel nostro cervello, come condizione necessaria della sua funzione. Daltronde, nessuno potrà mai spiegare perchè la vista di una sfera perfetta produca maggior piacere di quella d'un ammasso informe, nello stesso modo che non si può dimostrare perchè due e due fanno quattro. Il numero concorre come elemento necessario nei piaceri della simmetria, dacchè questa non può esistere senza diverse parti, le quali si possono numerare. Una serie di oggetti della stessa natura può fornirci sensazioni piacevoli, diverse fra loro, a seconda che l'ordine principale, col quale sono distribuiti, è rappresentato da numeri pari o, da numeri dispari. Lo stesso si può dire del rapporto numerico delle diverse parti di uno stesso corpo. In generale l'ordine più semplice e regolare è segnato da numeri pari, e il piacere più elementare della simmetria consiste nel mettere due corpi l'uno di contro all'altro. L'ordine segnato da numeri dispari produce già un piacere più complesso, e per il quale sono necessari almeno tre oggetti o tre elementi geometrici di uno stesso corpo. Nella simmetria però il numero non è che un elemento secondario delle proporzioni geometriche; e quand'anche vari oggetti siano isolati fra loro e disposti in un ordine qualunque, noi tendiamo a riunirli per mezzo di linee immaginarie, costruendo vere figure geometriche. Senza saperlo, in questo modo, noi giudichiamo simmetrico un corpo o un sistema d'oggetti, quando le linee lo definiscono e formano una figura geometrica regolare. I piaceri più semplici dell'ordine e della simmetria sono prodotti da figure geometriche semplicissime, quali sarebbero le linee parallele o perpendicolari fra loro, i triangoli, i rombi, i quadrati, i poligoni e tutte le altre figure rappresentate da linee rette. Nuove combinazioni di piaceri si hanno dalle figure curvilinee, dal cerchio, dall'ellissi, dalla parabola, o dalla combinazione delle linee curve colle linee rette. Dalla geometria piana passando a quella dei solidi, troviamo i piaceri prodotti dalla vista dei corpi cristallizzati e degli oggetti che li imitano; giacchè moltissimi oggetti rappresentano grossolanamente corpi terminati da facce regolari e simmetriche. Le casse, i mattoni, i libri, e le diverse parti dei tavoli e delle sedie, sono varietà di prismi; mentre nelle stoviglie, nei bicchieri e nelle bottiglie vediamo parti di sfera. I gradi massimi dei piaceri della simmetria sono complicati da elementi intellettuali di un ordine superiore; per cui gli oggetti sono chiamati belli, quando nell'ordine delle loro parti sono d'accordo con la loro funzione, e corrispondono perfettamente al tipo ideale che ce ne formiamo. Sebbene però si abbiano infiniti piaceri dalla simmetria, esiste anche un bello irregolare, un'estetica del disordine; ciò che prova come nell'intricato meccanismo delle umane facoltà, dove infiniti elementi si confondono e si intrecciano, si possono avere effetti identici dalle cause più disparate.

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L'interesse più grande che ci ispirano i lavori pittorici consiste nella compiacenza di veder imitata la natura, in modo che l'occhio rimane ingannato, e la mente si meraviglia come l'uomo abbia potuto sopra un piano e con poche tinte rappresentare immagini che rassomigliano tanto a quelle prodotte dai veri oggetti. È per quest'unica ragione che un grappolo d'uva, che è un oggetto comunissimo, non ci può interessare; mentre, dipinto perfettamente, può rallegrarci la vista ogni volta che lo guardiamo. Questo primo elemento entra a far parte di tutti i piaceri offerti dalla pittura, e costituisce quasi da solo le sensazioni che ci sono date dalla rappresentazione degli oggetti inanimati. II secondo elemento, che unito al precedente, forma gli effetti più sorprendenti, è la compiacenza di veder sorpresa la natura in un suo atto rapido e passeggero, per cui noi possiamo avere ad ogni istante sottocchio una scena che occorre in occasioni rare o lontane. Il paesista fissa sopra una tela il guizzar del lampo o il lieve tremolare delle onde, nello stesso modo che il ritrattista ferma ne' suoi quadri le umane passioni, arrivando a sorprendere perfino il fulmineo balenar degli occhi irati o il languore voluttuoso e incerto d'uno sguardo amoroso. Altre volte l'arte riunisce in breve spazio infinite bellezze, o le perfeziona, elevandole a un grado superiore al naturale. Così il pittore d'ornato riunisce gli elementi della simmetria, che qua e là si trovano sparsi nella natura, creandone nuove combinazioni; come il paesista ci presenta sopra una sola tela gli elementi di tanti paesaggi, facendone una vera creazione. È in questo modo che noi, senza uscire di casa, possiamo viaggiare in tulle le regioni della terra e commuoverci alle scene più affettuose o ai casi più strabilianti; riposarci nella calma di una figura angelica che dorme, o fremere nel turbine delle battaglie. Ai piaceri sensuali della pittura concorrono poi l'attenzione spinta fino all'analisi, l'amore di raccogliere e di possedere, e la vanità in tutte le sue forme. La fotografia è un grado minore della pittura, perchè vi manca il lato creativo dell'artista. Ma lo studio dei piani, il tono della luce, il punto di vista, la lunghezza della posa, fanno della fotografia un'arte particolare, che dà piaceri visivi sia per la scelta, sia per le positive che si possono ottenere. La scultura ci dà molti piaceri consimili a quelli della pittura, ma dai quali sono quasi sempre escluse le sensazioni dei colori. Qui il piacere è più sensitivo e meno intellettuale; perchè non si hanno figure, ma forme, e la fantasia riposa, trovandosi davanti immagini che tanto si rassomigliano a quelle che ci sono date dagli oggetti reali. L'architettura, la cesellatura e tulle le arti che imitano gli oggetti, ci dànno piaceri consimili ai precedenti, o che variano soltanto entro ristretti confini. In generale, il piacere è tanto maggiore quanto più noi abbiamo disposizione a quell'arte. Il profano vede, il dilettante guarda, l'artista osserva e si immedesima col capolavoro dell'arte. Questi tre individui camminano sopra una stessa strada, ma si arrestano a diverse stazioni. Canova contemplando Ia Venere Medicea, doveva fremere di voluttà; mentre Davy, dopo aver attraversato una famosa galleria, non sostava che davanti a una statua per dire: «Che bel pezzo di carbonato calcare!». Il caleidoscopio, il panorama, il diorama, la lanterna magica, lo stereoscopio e altri giuochi consimili sono fondati sui piaceri della vista, e ci rallegrano colla varietà delle immagini e coll'imitazione della natura. Il perfezionamento e la unificazione di tali apparecchi ha portato alla cinematografia, che è un trionfo di luce e di colore, atto a procurare i più intensi piaceri della vista. Se a questo si aggiunge l'ultimo portato della scienza e dell'industria, la televisione, si vede subito che ormai per l'uomo non vi sono più limiti nella ricerca del sodisfacimento di ogni suo bisogno e del raggiungimento d'ogni suo piacere. Anche il teatro procura larga messe di piaceri visivi, sia pei scenari che spesso sono veri capolavori di arte pittorica, sia per le scene che riflettono così bene la vita sotto gli aspetti più o meno drammatici. La fantasmagoria è un divertimento poco conosciuto, ma che è di effetto sorprendente. Noi siamo immersi in una profonda oscurità che a un tratto viene rotta da un punto luminoso, il quale per la sua piccolezza ci pare infinitamente lontano; ma ad un tratto si ingrandisce, piglia forme distinte, e sembra correre alla nostra volta; finchè la figura, arrivata ad una straordinaria grandezza, minaccia di precipitarsi su noi; ma poi, subitamente come è apparsa, si rimpicciolisce e si allontana per sparire nel buio. Le lenti e gli specchi che ingrandiscono, impiccoliscono, spesso deformano, e moltiplicano le immagini, possono piacerci per la novità delle sensazioni. Lo specchio piano riflette l'immagine dei corpi nella loro grandezza naturale, e ci può svagare con sensazioni, ma più ancora perchè riflette la nostra immagine, che possiamo rendere più o meno ridicola con opportune smorfie. In questo caso però il piacere deriva quasi interamente da un sentimento, e lo specchio riflette, assieme ai nostri tratti, la nostra vanità e il nostro egoismo. Queste gioie però sono innocenti, e si perdonano volentieri alla donna, che per qualche ora sta chiusa religiosamente nel laboratorio della sua toeletta per farsi bella e seducente. I fuochi d'artifizio fondati sui piaceri della vista, ai quali si associano poche sensazioni dell'udito. L'intensità della luce, la vivezza dei colori, il moto della immagini, sono i tre elementi che ne costituiscono la bellezza. I piaceri che si hanno dall'arte pirotecnica sono anch'essi complicati da elementi morali; e basterà rammentare a questo proposito la bianchissima luce del bengala che ci rappresenta la calma associata allo splendore e alla forza, e il vorticoso moto di un brillante girasole che inebbria la vista con tanta lussuria di luce e di moto. I fuochi d'artificio, presi in massa e ridotti a una formula che ce ne rappresenti quasi il valore fisiologico, si possono dire l'espressione più vera dell'allegria popolare; la quale, nel sorger subitaneo, nello scintillare rapido e prorompente, e negli scoppi tempestosi, è rappresentata a meraviglia dal balenare dei razzi, dal fremito delle piogge di fuoco e dal detonar delle granate e dei petardi. È per questo che tanto la sagra di un villaggio, quanto una festa solenne civile, terminavano spesso con fuochi di artifizio. La prima si accontenta dello sparo di una dozzina di insolenti mortaretti e di qualche umile razzo; mentre la seconda ci mostra tutto l'apparato sfolgorante dei prodotti più favolosi della pirotecnica. Le illuminazioni sono fuochi d'artifizio fissi per breve tempo, semplicissimi, che rappresentano una gioia calma e duratura. Il montanaro annuncia le sue feste accendendo i fuochi che brillano sulle cime dei monti, come le stelle con le quali sembrano confondersi. Il cittadino invece illumina le sue feste con torrenti di luce, che piovono da splendide lumiere e da ricche lampade elettriche. La luce è adorata dai popoli di Oriente sotto varie forme; essa raccoglie intorno al focolare gli uomini di tutte le nazioni; rallegra e dà vita, insieme al calorico suo fido e degno compagno. I piaceri della vista hanno una grandissima parte in quasi tutti i giuochi ed in un'infinità di divertimenti molto complessi: il ballo, il teatro, la caccia, la pesca, e tutti gli spettacoli grandi e piccoli, dal presepio meccanico alla grande esposizione, sono altrettante feste per il senso della vista, che aprono all'uomo uno smisurato orizzonte di piaceri, del quale non sono stati tracciati i confini. L'arte non ha ancora esaurite tutte le combinazioni degli elementi che già si conoscono, come l'ingegno umano non ha ancora piantato le colonne d'Ercole ai confini del mondo. Si faccia fare domani all'ottica un altro salto identico a quello che le fece fare Galileo, e noi vedremo aprirsi miniere infinite di nuovi piaceri. Da una parte vedremo col microscopio gli atomi primi dei corpi, mentre dall'altra contempleremo nuove regioni di mondi regolate da altre leggi di moto. Le opere più moderne di microscopia e di astronomia invecchieranno di un secolo in un giorno, ma l'uomo sarà contento di se stesso.

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Sull'Oceano

171544
De Amicis, Edmondo 3 occorrenze
  • 1890
  • Fratelli Treves, Editori
  • Milano
  • Paraletteratura - Divulgazione
  • UNICT
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Noi ricorriamo col pensiero la storia della navigazione, e risalendo dal tronco d'albero alla zattera, dalla piroga alla barca a remi, e su su per tutte le forme della nave ingrandite e fortificate dai secoli, ci fermiamo dinanzi a quella forma ultima per raffrontarla alla prima, e il cuore ci si gonfia d'ammirazione, e ci domandiamo quale altra opera meccanica più maravigliosa abbia compiuto la razza umana. Più maravigliosa dell'oceano che essa rompe e divora, e alla cui minaccia continua risponde collo strepito infaticato dei suoi congegni: - Tu sei immenso, ma sei un bruto; io son piccolo, ma sono un genio; tu separi i mondi, ma io li lego, tu mi circondi, ma io passo, tu sei strapotente, ma io so.

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Se è vero che in ogni lunga navigazione v'è una così detta "giornata del diavolo" in cui tutto va alla peggio, e il piroscafo diventa un inferno, io credo che il Galileo abbia avuto la sua il giorno dopo di quella sepoltura, almeno per tre quarti, poichè, grazie al cielo, non finì com'era incominciata. Ci può aver contribuito quella morte a bordo, il sapere che da due giorni si faceva poco cammino, e un brutto mare somigliante ad una immensa lastra di platino, la quale rifletteva una vôlta di nuvole senza colore, donde pareva che piovessero falde dilatate di fuoco, come sopra i bestemmiatori dell'inferno dantesco. Ma tutto questo non basta a dar ragione d'una giornataccia compagna, e bisogna proprio ammettere un influsso misterioso del tropico del Capricorno, che si doveva passare nelle ventiquattr'ore.

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