Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Storia sentimentale dell'astronomia

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Piero Bianucci 34 occorrenze

Si capisce perché in questo campo il giovane Newton abbia poi fatto molto da sé, come autodidatta. In quegli anni, tra il 1663 e il 1668, stava già elaborando il calcolo infinitesimale e la teoria della gravità. In ciò l’aiutava il carattere chiuso e ossessivo, che sembrava fatto apposta per favorire la concentrazione. Nel 1665 incominciò anche i primi esperimenti di ottica con un prisma che aveva acquistato durante una fiera vicino a Cambridge.

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A rigore, non esistono prove che Newton già nel 1666 abbia preso in esame l’analogia tra la caduta dei corpi sulla Terra e il moto della Luna. A questa intuizione probabilmente arrivò quattro anni dopo, nel 1670, mentre si occupava di una classica obiezione degli oppositori della rotazione della Terra intorno al proprio asse: se davvero la Terra ruotasse in 24 ore su se stessa, dicevano i difensori dell’immobilità del nostro pianeta, la forza centrifuga dovrebbe sgretolarla e farla a pezzi. Newton calcolò l’intensità della forza centrifuga dovuta alla rotazione e dimostrò che è 350 volte più debole della gravità. Di qui sarebbe poi passato a calcolare la gravità terrestre alla distanza della Luna. I conti tornavano, ma solo in modo approssimativo a causa dell’imprecisione delle misure della Terra. L’importante è che in quell’occasione Newton fece notare che secondo le leggi di Keplero “gli sforzi di allontanamento dal Sole” dei pianeti sulle loro orbite erano inversamente proporzionali ai quadrati delle loro distanze dal Sole. Il gioco era quasi fatto.

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Il che non impedì ad Halley di diventare un buon marito, benché di ritorno dalla Polonia per un anno non abbia fatto altro che frequentare compagnie allegre e caffé alla moda. Il 20 aprile 1682, tre anni dopo l’avventura di Danzica, Edmond sposò Mary Tooke nella chiesa di San Giacomo a Londra. Quel matrimonio durerà cinquant’anni e darà tre figli.

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Galileo avrebbe concluso che la luce doveva essere almeno 10 volte più veloce del suono ma per la verità c’è chi dubita che abbia davvero eseguito l’esperimento. Rimane il fatto che lo immaginò, e che in mente aveva, come al solito, una sua convinzione da mettere alla prova.

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Martedì 13 marzo 1781 Hershel divenne il primo uomo che abbia scoperto un pianeta (Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno erano noti fin dall’antichità). Fu un colpo di serendipity. Spazzando il cielo con un telescopio da 16 centimetri di apertura e 2,1 metri di lunghezza focale, si imbatté in “una stella strana, piuttosto nebulosa, forse una cometa” nella costellazione dei Gemelli. Segnalò l’osservazione a Watson, che a sua volta ne riferì all’astronomo reale Devile Maskelyne. Presto le osservazioni chiarirono che non era né una stella né una cometa. Era un pianeta due volte più lontano di Saturno: Hershel ne vide chiaramente il disco (4 secondi d’arco) con un telescopio che forniva 270 ingrandimenti e in onore del re lo battezzò Georgium Sidus, stella di Giorgio (III). Il re ricambiò l’omaggio con uno stipendio che consentì a Hershel di lasciare la musica e dedicarsi all’astronomia (in realtà ci perse: da 600 sterline all’anno scese a 200, ma nei suoi interessi il cielo ormai batteva gli spartiti). Dopo il 1782 Hershel tenne concerti solo occasionalmente: gli capitò qualche volta a Windsor per Giorgio III e nel 1802, mentre era in visita da Napoleone a Parigi, improvvisò brillantemente sulla tastiera dell’organo di Notre-Dame.

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Si narra che per smentire chi additava la sua miseria come prova dell’inutilità della filosofia abbia guadagnato una fortuna affittando tutti i frantoi di Mileto e di Chio dopo aver previsto con calcoli astronomici un raccolto di olive eccezionalmente abbondante. Affermava che la morte è uguale alla vita, e a chi gli domandava perché dunque non si uccidesse rispondeva: “appunto perché non c’è differenza”. Avrebbe misurato l’altezza della piramide di Cheope confrontando la lunghezza dell’ombra che proiettava con quella del suo corpo, avrebbe coniato il motto “Conosci te stesso”, sarebbe morto assistendo a una gara di atletica, e così via. Ma non possiamo fidarci di questi aneddoti, visto che il famoso teorema di Talete in realtà lo dobbiamo a Euclide (“un fascio di rette parallele intersecanti due trasversali determina su di esse classi di segmenti direttamente proporzionali”).

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Resterebbe da capire come mai la massa che perturba Mercurio non abbia effetti sensibili su Venere e sulla Terra ma l’obiezione viene superata cercando un identikit compatibile: a causare lo slittamento del perielio sarebbe uno sciame di asteroidi con una massa complessiva simile a quella di Mercurio e con orbite il cui afelio non superi gli otto decimi della sua distanza dal Sole.

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Benché abbia sempre avuto una immagine seriosa e solenne (pur nella sua sincera professione di modestia), Schiaparelli non era privo di un lato scherzoso. Celoria racconta che l’astronomo studioso di Marte e il matematico Eugenio Beltrami si sfidarono a scrivere un sonetto in rime obbligate sul “metodo dei minimi quadrati”. Ed ecco che cosa tirò fuori Schiaparelli: Quando trovar piaccia il baricentro D’un orinale, oppur d’una padella, ai minimi quadrati monta in sella, e riuscirai, perdio, o ch’i’mi sventro.

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È diffusa l’opinione che Schiaparelli abbia per primo parlato dei canali di Marte e che Eugène Antoniadi per primo ne abbia denunciato l’inesistenza. In realtà il primo a parlare di canali fu padre Angelo Secchi, direttore dell’Osservatorio Vaticano, e il primo a demolirne il mito fu Vincenzo Cerulli (1859-1927), nel suo Osservatorio di Collurania, in Abruzzo, come abbiamo appena riferito.

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Padre Secchi e Schiaparelli intrattennero una fitta corrispondenza, e quindi è molto probabile che l’astronomo di Savigliano abbia usato la parola “canali” a proposito di Marte derivandola da padre Secchi.

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Può darsi che già l’uomo primitivo abbia notato il fenomeno perché situazioni del genere possono verificarsi per caso anche in natura. Per esempio, la luce che filtra attraverso il fogliame fitto di un albero può proiettare al suolo nitide immagini del Sole, e in questo modo è possibile osservare le fasi parziali di una eclisse senza rischiare l’accecamento.

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Benché l’invenzione della fotografia abbia beneficiato di molti contributi, Niépce rimane colui che ha il merito dell’idea e dei primi sviluppi tecnici, Daguerre è colui che l’ha portata a maturazione e Arago ha la benemerenza di averne compreso il valore scientifico.

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Benché la Germania abbia cercato di riaverlo come proprio cittadino nominandolo membro dell’Accademia Prussiana, Einstein mantenne i documenti svizzeri anche dopo aver prestato giuramento come cittadino americano il 1° ottobre 1940.

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Newton ragionò sull’obiezione e rispose a Bentley che aveva ragione ma solo in parte: l’universo collassa nel caso che abbia dimensioni finite ma la catastrofe si può scongiurare ammettendo che esista un tempo infinito e consista in una infinita quantità di stelle distribuite in modo uniforme. A queste condizioni tutte le attrazioni si bilanciano e l’universo è statico. In realtà, poiché già allora si sapeva che le stelle non sono immobili e immutabili, la soluzione era insoddisfacente: sarebbe bastato un piccolo squilibrio locale e un po’ per volta l’intera architettura sarebbe crollata. Inoltre anche l’idea delle stelle infinite e disposte in modo regolare non piaceva a Newton per due motivi: uno teologico, perché così l’universo acquisiva qualità come l’infinità e l’eternità tipiche di Dio; e uno fisico, perché se ci fossero infinite stelle in ogni direzione il nostro sguardo dovrebbe imbattersi in infiniti oggetti brillanti, e quindi il cielo di notte non sarebbe buio ma abbagliante come la superficie del Sole (paradosso di Olbers).

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Di per sé, l’espansione scoperta da Hubble non implica necessariamente che l’universo abbia avuto un inizio né che abbia una evoluzione. Come un fiume scorre rimanendo sempre uguale a sé stesso, così l’universo potrebbe espandersi senza evolversi immaginando che continuamente si crei un po’ di materia per sostituire quella che l’espansione allontana da noi. È la teoria dello “stato stazionario” proposta da Fred Hoyle, Hermann Bondi e Thomas Gold nel 1946. L’idea fu loro suggerita dal film “Dead of night” (Incubi notturni), storia horror che, pur costituita da episodi diversi, ha un unico protagonista – un architetto di nome Walter Craig – e si conclude esattamente come era iniziata.

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Forse oggi si consolerebbe pensando che la navicella spaziale “New Horizon”, lanciata il 19 gennaio 2006, l’oggetto più veloce che abbia mai lasciato la Terra (58.536 km/h), visiterà Plutone il 15 luglio 2015. E pazienza se, partita avendo come meta il nono pianeta del Sistema Solare, quando arriverà troverà un modesto “pianeta nano”.

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Lo stesso scenario però si può giustificare tenendo la Terra ferma e facendo muovere il pianeta lungo un epiciclo (o cerchio secondario) che abbia il suo centro in movimento lungo un cerchio maggiore, chiamato deferente.

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Da allora una pattuglia di astronomi non numerosa ma determinata, tra mille difficoltà scientifiche, tecnologiche e finanziarie, non ha mai smesso di cercare qualche signor E.T. che abbia voglia di comunicare con Homo sapiens. Hanno anche provato a prendere l’iniziativa inviando messaggi. Il primo di questi fu lanciato nell’universo nel 1974 con il radiotelescopio di Arecibo, Puerto Rico, il più grande del mondo, 305 metri di diametro. Niente. Nessuno lassù sembra avere qualcosa da dire.

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Un evento tragico chiude l’astronomia classica sulla soglia del medioevo: l’assassinio di Ipazia, per quanto ne sappiamo unica donna dell’antichità che abbia coltivato la scienza.

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Teone, ultimo intellettuale che abbia avuto a disposizione la famosa Biblioteca prima che i cristiani la distruggessero nel 389 a.C., aveva scritto un commento all’opera di Tolomeo. Ma Ipazia, secondo il suo allievo prediletto Sinesio, mise in discussione la cosmologia tolemaica che poneva la Terra al centro dell’universo. Sembra che abbia intuito anche la relatività dei moti poi descritta da Galileo nel Dialogo dei massimi sistemi e la forma ellittica delle orbite dei pianeti annunciata soltanto nel 1609 da Keplero. Certamente si oppose alla distruzione della Biblioteca di Alessandria, inventò un astrolabio piatto, un idroscopio e un anemometro. Leggendaria fu la sua bellezza, ma pare che non le desse alcuna importanza. Secondo il filosofo Damascio, a un allievo che si era perdutamente innamorato di lei mostrò una pezzuola usata per il mestruo dicendogli: “Questo, dunque tu ami, o giovane: niente di bello!”.

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Risulta che abbia osservato l’eclisse di Sole del 15 giugno 364 e quella di Luna del 26 novembre. Certo ebbe una personalità tale da lasciare il segno. La sua fama ha attraversato i secoli ed è stata rilanciata durante il Rinascimento. Raffaello Sanzio raffigura Ipazia nell’affresco della “Scuola di Atene” (1509-1511), una delle meraviglie dei Palazzi Vaticani. Nell’affollamento del dipinto, è l’unico personaggio che guardi verso lo spettatore, quasi un atto di sfida. Il Planetario di Torino Infini.To ha scelto lei – non Aristarco, Ipparco o Tolomeo – come rappresentante dell’astronomia antica: è Ipazia ad accogliere i visitatori e a raccontare la cosmologia delle sfere di cristallo in armoniosa rotazione intorno alla Terra immobile. Scelta storicamente discutibile, se è vero che Ipazia criticò quella teoria suscitando l’ira dei cristiani. Fu il vescovo di Alessandria Cirillo a scatenarle contro i fanatici che la lapidarono nel marzo del 415 e ne bruciarono i resti. Forte del fatto che il cristianesimo era stato proclamato religione dell’impero, Cirillo promosse anche un eccidio di ebrei.

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Può darsi che una civiltà altamente tecnologica abbia vita breve perché si autodistrugge prima di riuscire a comunicare. O che quella delle onde radio sia considerata una tecnologia primitiva. O che comunicare sia ritenuto pericoloso per sé o per gli altri.

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La supernova comparsa nel 1054 nella costellazione del Toro suscitò la meraviglia di astronomi arabi, cinesi e indiani d’America senza trovare attenzione in Europa benché sia stata visibile di giorno per tre settimane e abbia brillato in cielo per 653 notti. Non c’è peggior cieco di chi non vuole vedere. Possiamo dedurne che, scuole monastiche a parte, nel medioevo l’astronomia si immerse in un lungo letargo. Con qualche eccezione. All’inizio del settimo secolo Isidoro, vescovo di Siviglia, tracciò la distinzione tra astrologia e astronomia bollando la prima come superstizione. Beda il Venerabile nel 725 fissò le regole per determinare le festività mobili cristiane in quel calendario giuliano che fu il contributo all’astronomia dato dai romani. Nel 1050 il benedettino Ermanno lo Storpio descrisse costruzione e uso dell’astrolabio. Nel 1175 a Toledo Gerardo da Cremona curò una traduzione in latino dell’Almagesto e del De Coelo di Aristotele, avviando il recupero di conoscenze che si erano perdute.

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Ammesso che Dreyer abbia ragione, proprio a questa fonte indiretta e compilativa si dovrebbe la straordinaria modernità della cosmologia sottesa alla Divina Commedia che di recente alcuni studiosi hanno creduto di riconoscere.

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È improbabile, per lo studioso romeno, che Dante abbia potuto concepire una simile stortura. Invece tutto va a posto ricordando che Dante per un attimo coglie l’accecante visione di Dio circondato dai cori angelici usando gli occhi di Beatrice come uno specchio. “L’immagine allo specchio – ricorda Patapievici – è simile a quella reale, solo che è invertita”. Il mondo invisibile diventa allora un “calco rovesciato del mondo visibile”: l’empireo è Dio-centrico mentre la Terra è diavolo-centrica, i cori angelici orbitano intorno a Dio a velocità sempre più alta via via che ci si avvicina a Dio mentre i cieli accelerano via via che ci si allontana dalla Terra, l’invisibile obbedisce a norme opposte rispetto al visibile.

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Proveniva però da una famiglia di lingua tedesca (il padre era un ricco mercante) e pare che non abbia mai spiccicato una parola di polacco.

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La ricerca di una causa del moto planetario era così importante per Keplero che quando poté osservare la rotazione del Sole resa percepibile dalle macchie, pare abbia esclamato un ”Evviva!”.

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Ma il 1609 meritava di essere celebrato anche per il libro che introduce le orbite ellittiche stabilendo la “prima legge di Keplero” (benché l’astronomo tedesco non abbia mai parlato di leggi).

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È probabile che già nella tarda estate abbia indagato con sguardi veloci e curiosi la volta celeste, ma in quel periodo era troppo assorbito dalle pubbliche relazioni: doveva incassare dal Doge di Venezia l’avanzamento di carriera che si era conquistato perfezionando quel magico strumento. Una data quasi certa è il 30 novembre. La si deduce dalla fase lunare che Galileo disegna quando inizia l’osservazione sistematica del nostro satellite. In quella sera la Luna aveva poco meno di quattro giorni, appariva come una spessa falce nella costellazione del Capricorno e si trovava a 396 mila chilometri dalla Terra (12 mila in più della distanza media). I mari Crisium e Foecounditatis erano già illuminati dal Sole. In luce più o meno radente spiccavano i crateri Strabo, Endymion, Geminus, Proclus, Snellius, Stevinus.

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Lo schizzo riproduce la Luna al primo quarto, qualche cerchietto sul limite tra luce e ombra fa pensare ai crateri Ptolomaeus e Albategnus, ma sembra che Harriot non abbia ancora intuito la natura geologica di ciò che stava osservando.

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Pare tuttavia che Della Porta, pur rivendicando la priorità della sua invenzione, non lo abbia mai messo in pratica.

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Richard Lan tace su chi gli abbia venduto quel gioiello da bibliofili ma dice che proviene dall’Argentina. Forse qualche emigrante veneziano portò in Sud America l’opera di Galileo, ignaro di possedere un tesoro. Lo stesso Lan era diffidente: acquistò la copia soltanto dopo un consulto con Anton Griffin, storico dell’Università di Princeton.

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Il fatto che abbia voluto fornire una immagine a colori della Luna rientra nel suo culto per l’osservazione dei fenomeni naturali. Solo a un esame affrettato la Luna appare in bianco e nero. Il cannocchiale permette di cogliere sfumature che vanno oltre una semplice scala di grigi. Mari, creste montuose, crateri, circhi, raggiere hanno colorazioni delicate ma riconoscibili. Galileo era senza dubbio interessato a rendere questi aspetti fisici in quanto utili a rafforzare l’idea della Luna come un mondo simile alla Terra. Considerata questa cura nel disegno, è curioso notare, come ha fatto lo storico della lingua italiana Claudio Marazzini sulla rivista Studi linguistici italiani, che Galileo non si preoccupò di stabilire una toponomastica lunare. Riconosciute montagne e pianure (interpretabili anche come mari), e affermatane l’affinità con analoghe formazioni terrestri al punto da misurare con un metodo geometrico basato sulla lunghezza delle ombre l’altezza delle vette lungo il terminatore al primo quarto, sarebbe stato naturale battezzare queste strutture. Che Galileo non l’abbia fatto ci dice la sua fretta nel pubblicare, ma più ancora il suo concentrarsi su aspetti sostanziali, come la natura imperfetta e “terrestre” della Luna. Langrenus, e soprattutto Ricciòli, nelle mappe lunari disegnate nel 1645 e nel 1651, assegneranno i toponimi giunti in buona parte fino a noi e tuttora in uso.

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