Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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LE NOVELLE DELLA NONNA. Fiabe fantastiche

679047
Perodi, Emma 23 occorrenze
  • 1992
  • Newton Compton Editori s.r.l.
  • prosa letteraria
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Intanto annottava, ed egli, vedendo che nessuno veniva a soccorrerlo, cessò di pregare e incominciò a dire: - Ma non c'è neppur un cane che abbia pietà di me! Queste parole furon da lui ripetute tre volte; alla terza giunse di corsa un can da pastori, scodinzolò, e poi, accucciatosi accanto al ferito, si diede a leccargli la ferita. - Saremo amici, e, se campo, ti prometto che non soffrirai mai fame e non annuserai mai bastone, - disse Lapo, che sentiva rallentare il fiotto del sangue sotto quella continua medicatura. Il soldato passò così buona parte della notte, ma si sentiva ardere dalla sete e provava allo stomaco un certo stringimento, che gli rammentava di non aver mangiato da più ore. - Mi hai salvato dalla morte, - disse Lapo, - ma dovrò forse crepar di sete o di fame? Non aveva finito di parlare che il cane si alzò e, scodinzolando, batté la coda sulla mano destra del soldato, il quale, afferratala come se fosse un canapo, si mise l'altra mano sotto la gamba ferita e si lasciò trascinare attraverso il campo pieno di soldati e di cavalli morti, in cui i predoni si aggiravano a frotte per ispogliare i cadaveri. Il cane tirava, e Lapo si strascicava dietro a lui, lasciandosi condurre come fanno i ciechi dalle loro guide. Giunti che furono in prossimità di un fosso, nel quale scorreva acqua chiara e abbondante, il cane si fermò, e il ferito poté chinarsi sulla sponda e attinger acqua per dissetarsi. Il cane bevve pure e poi batté di nuovo la coda nella palma della mano destra di Lapo, e questi, afferratala, riprese la via col suo curioso compagno; ma non andaron molto oltre perché il cane si fermò accanto a un carro che pareva abbandonato e sotto al quale giaceva morta una mula. Lapo non ne poteva più e non avea più forza d'alzare un dito, perciò si lasciò cadere supino e disse: - Corri pure, cane mio, ma io non mi muovo più! Se è destinato che muoia qui, tu mi farai da becchino. Il cane pareva che intendesse non soltanto quel che Lapo diceva, ma anche quello che pensava, perché fatto un lancio entrò nel carro abbandonato e si diede ad annusare, frugando da un lato e dall'altro. Dopo aver armeggiato un pezzo, fece un altro lancio e depose a portata di mano del ferito una fiaschetta, scodinzolando dall'allegria. Quella fiaschetta conteneva del vino generoso, e dopo che Lapo ne ebbe bevuto alquanto si sentì ristorato. Il cane era tornato sul carro, e ogni volta che ne usciva portava accanto al soldato pane, formaggio, salame e ogni grazia di Dio, senza addentare nulla per satollarsi. - Sei una vera provvidenza, - diceva Lapo, - e se guarisco ti voglio fare un collare d'argento. Il sonno chiuse ben presto le palpebre di Lapo di Signa, e il cane, accucciatoglisi accanto, tenne a distanza da lui i predoni, che, vedendolo inetto a difendersi, gli avrebbero tolto anche le calze, che allora era uso portare affibbiate alla cintola. Però Lapo non dormì di un sonno tranquillo. Gli pareva di essere in un bosco foltissimo e di vedersi sulla testa un uccello smisurato e nero come la pece, che faceva larghi giri per carpirlo. Vide in questo mentre un altro uccello, tutto bianco, piombare dal cielo, dare una beccata nel cervello all'altro e farlo cader morto. Lapo si destò spaventato, mentre albeggiava, e disse: - Si vuole che i sogni che si fanno verso la mattina, sien veri. Cerchiamo di spiegare questo. L'uccello nero non può esser altri che il Diavolo, che mi vuol portare all'inferno; e quello bianco che mi salva, qualche santo; ma son tanti i santi che ho pregati di aiutarmi, che non so davvero chi si sia rammentato di me. Sia forse san Rocco che m'abbia mandato il suo cane? Appena egli ebbe nominato quel santo, il cane fece un lancio di gioia e si diede ad abbaiare festosamente come soglion fare i cani quando odono mentovare il padrone. Intanto s'era fatto giorno, e Lapo incominciava a perdersi di animo vedendo intorno a sé tutta quella caterva di morti e sentendo i lamenti di quei feriti che nessuno soccorreva. Prima si mise le mani agli orecchi, poi chiuse gli occhi, ma se per disavvedutezza gli veniva fatto di lasciare entrare il suono nel timpano o di alzar le palpebre, di nuovo lo colpivano quelle voci dolorose o quello spettacolo che gli metteva i brividi addosso. - Bisogna che cerchi di sloggiare di qui; - disse Lapo, - ma con questa gamba così rovinata, come farò mai! Il cane gli leccò le mani, come se volesse dirgli di aspettare un momento e poi corse via. - La morte è brutta quando la viene fra i piedi, - diceva Lapo che aveva l'uso di dire a voce alta tutti i pensieri che gli passavano per la mente. - Finché si vede da lontano, ci si scherza; ma ora gli è un'altra faccenda. Se non c'è qualcuno che mi soccorra, son bell'e fritto, perché di peccatucci non ne ho pochi sulla coscienza, e il Diavolo mi porterà all'inferno dritto dritto! Povero Lapo, ieri tanto arzillo e oggi mogio mogio! Si dice che dopo la burrasca viene il sereno, ma per me non verrà più e non rivedrò neppure la mi' Signa! Così lamentandosi sulla propria sorte egli s'era intenerito, e ora piangeva a calde lacrime. - San Rocco benedetto, - aggiunse col viso nero e polveroso tutto solcato di lacrime, - se siete proprio voi che mi avete mandato quel cane, non mi abbandonate così. Se mi aiutate, non vi posso promettere né una tavola d'altare, né qualche voto di argento o d'oro; ma vi prometto di far, per devozione, un pellegrinaggio alla Verna, magari con una gamba sola, perché quell'altra ormai è ita, e vi prometto anche di mordermi le dita tutte le volte che una di quelle maledette bestemmie mi corra alle labbra. Intanto che si lamentava a quel modo, impetrando l'aiuto di san Rocco, ecco che la gamba gl'incomincia a dolere terribilmente e, riscaldata dal sole ardente di giugno, gli scottava come un tizzo di fuoco. - San Rocco è sordo come tutti gli altri santi, - disse Lapo, - e son bell'e fritto! Frattanto egli stava per coricarsi sulla nuda terra, spossato e scoraggiato, quando vide tornare di corsa il cane e non fece a tempo a difendere la gamba ferita, che già quello aveva addentato la calza che gliela copriva, e la stracciava furiosamente con le zanne. Lapo, anche in quel momento, espresse a voce alta i suoi pensieri: - Morte, come sei brutta; se mi vuoi davvero, pigliami subito, e non mi fare sbrandellare così da un cane da pastore! Ma il cane, appena ebbe strappato la calza, andò a tuffare il muso in un rivo e ne bagnò la ferita. E tante volte tornò all'acqua, finché non ebbe tolto dalla piaga tutto il sangue che v'era rimasto aggrumato; poi raccolse di terra certe erbe che aveva recato in bocca giungendo, e le stese sulla gamba. - Che cane! - esclamò Lapo sentendosi sollevato dal dolore dopo quella medicatura. - Io scommetto, sapiente animale, che tu hai imparato a curar le piaghe stando al servizio di san Rocco? Il ferito s'aspettava una risposta, perché ormai da quella bestia nulla più lo meravigliava; ma il cane non fece altro che scodinzolare, poscia fuggì, e Lapo rimase di nuovo solo, ma per poco, ché di lì a un momento l'animale tornò strascinando un lenzuolo. Rise il soldato a quella vista, e non capì lì per lì per qual ragione glielo recasse; ma quando osservò che il cane, tirandolo con i denti e reggendolo con le zampe, come se volesse spolpare un osso, lo stracciava in tante strisce, fece un lancio di meraviglia e gridò: - Evviva il cane cerusico ed il suo santo protettore! - e buttò all'aria l'elmo in segno di gioia. Raccolse infatti le sottili bende, con quelle si fasciò la ferita, e dopo essersi ristorato con le vivande che il cane avea prese nel carro, disse all'animale: - Vogliamo andarcene da questo campo di morte prima che cali la sera? Se te lo devo dire, la vicinanza di questi ceffi di morti e i lamenti dei feriti non mi vanno a genio. Aiutami, e io ti vorrò più bene che a tutte le creature della terra e dell'aria. Il cane non si fece ripetere due volte l'invito, e, alzatosi sulle gambe di dietro, infilò una delle zampe davanti sotto l'ascella di Lapo, il quale, appoggiandosi sopra un troncone di asta raccolto in terra e camminando a piè zoppo, poté allontanarsi da Campaldino e cercar rifugio in una casa di contadini verso Soci, dove per compassione lo misero in un fienile. Lapo, appena coricato su quel letto di fieno, dormì come un ghiro senza pensare a nulla, e così, ben nutrito dal cane e ben riposato, non stette molto a rimettersi in salute; ma la prima volta che si provò a posare il piede in terra, s'accòrse che la gamba non la poteva più raddrizzare e che doveva camminare a piè zoppo. - Sono un uomo rovinato, sono un uomo perduto! - diceva. - Era meglio, cane mio, che tu mi avessi lasciato morire dove ero, piuttosto che farmi tanta assistenza per poi avere questo bel risultato! Lapo senza una gamba è un uomo morto! Il cane gli leccava le mani e guaiva. - Lo capisci anche tu, - continuava Lapo, - che per me non v'è più salvezza? Che cosa vuoi che faccia a questo mondo con una gamba di meno? E senza rammentarsi la promessa fatta a san Rocco, snocciolò una filastrocca di bestemmie degne di un turco. Il cane corse a rintanare il muso fra il fieno, e Lapo, accorgendosi di aver mancato di parola al suo santo protettore, si morse le dita a sangue. La sera di quel giorno, Lapo, appoggiandosi sul troncone d'asta, scese dal fienile e, ringraziati i contadini, stava per andarsene tutto sconsolato, quando il vecchio capoccia gli disse: - Ma come farai a tornartene a casa tua con una gamba sola? - Non ci penso neppure a tornare a casa! Signa è lontana, e poi così mutilato non avrei faccia di presentarmi a nessuno. - E che vuoi fare allora? - Quel che vorrà san Rocco; è lui che m'ha tenuto in vita e che m'ha mandato questo cane; mi figuro che per qualche cosa egli abbia voluto che non crepassi. - Aspetta, - rispose il capoccia, - ho visto una volta uno storpiato come te che si serviva di un certo armeggio per poter camminare; guardiamo se mi riesce di fartene uno. E preso dalla legnaia un ceppo di lecciolo, lo misurò al ginocchio dello storpio per vedere se era largo abbastanza per potervelo appoggiare; poi, lo assottigliò da un lato con l'accetta, vi fece con lo scalpello una specie di buco dal lato opposto, e, fasciato quell'armeggio con alcune cinghie di cuoio che tolse da una sua bisaccia, lo affibbiò alla gamba inferma. - Cammina, - ordinò il contadino a Lapo. Lo storpiato non se lo fece dir due volte e incominciò a battere in terra, gridando: - Ora il mio passo è accompagnato dalla musica: bim, bum; bim, bum! Nella sua allegria di potersi movere, Lapo aveva dimenticato la promessa fatta a san Rocco, e appena fu sulla strada maestra, invece di domandare al primo che incontrava quale via avrebbe dovuto seguire per giungere al gran sasso della Verna, domandò dove poteva trovare un'osteria, e, saputolo, si diresse a quella volta. Sotto una pergola v'erano alcuni soldati della sua compagnia che bevevano e giuocavano ai tarocchi. Appena lo videro gli corsero incontro dicendogli che lo avevan creduto morto, e domandandogli come aveva fatto a scampar dalla ferita. Lapo si mise a raccontare per filo e per segno quello che gli era occorso, ma quando chiamò il cane per mostrare agli amici il suo salvatore, chiama che ti chiamo, il cane non c'era più. Lo storpio non ci fece caso, perché era assuefatto a vederlo sparire ogni momento, e una volta imbrancato con gli antichi compagni bevve e giuocò tutto quanto aveva in tasca, finché, disperato di trovarsi senza un soldo, bestemmiò tutti i santi del Paradiso, compreso san Rocco, per non far parzialità. L'oste, sapendo che era al verde, non volle dargli da dormire, e Lapo dovette passare la notte allo scoperto. Ma trovandosi così abbandonato, gli venne il pentimento per quello che aveva fatto, e pianse e si raccomandò come un bambino, non solo a san Rocco, ma anche agli altri santi, che non gli levassero la loro protezione. Peraltro il cane non ricomparve, ed egli rimase tutta la notte con le spalle appoggiate ad un albero a pensare alla sua sorte. La mattina dopo, all'albeggiare, appoggiandosi sul troncone dell'asta e zoppicando, si avviò sulla via maestra chiedendo l'elemosina a quanti incontrava; ma tutti gli rispondevano: - Ben ti sta del tuo malanno, can d'un fiorentino! - Ma che si son dati l'intesa, che tutti mi rispondono a un modo? - esclamò Lapo, che sempre parlava a voce alta con se stesso. - Forse mi riconoscono a questo giglio che mi feci rapportare sul giustacore; ma se arrivo alla Verna voglio vestire il saio, e allora il giglio non mi farà più inviso a nessuno. E senza sgomentarsi per l'erta via, passa sotto Bibbiena e si inerpica sull'aspro monte. Quella salita si fa male con due gambe; figuriamoci quel che sia il farla con una gamba sola ed a stomaco vuoto! Lapo doveva fermarsi ogni momento, e quando si sedeva sopra un sasso, si lamentava più della notte dopo la battaglia, quando era in mezzo ai morti e ai feriti. Mentre era colà in preda alla disperazione, vide salire per l'erta un frate cercatore, che guidava un asino carico di bisacce. - Frate benedetto, - gli disse con voce piagnucolosa, - ho promesso al mio santo protettore, a san Rocco, di compiere il pellegrinaggio della Verna; ma con una gamba sola mi è assai disagevole il far la salita; mi faresti portar dal tuo asino? - Non vedi, - rispose il Frate, - che egli già s'inginocchia sotto il peso? - Ma di quello lo libererò io, - replicò Lapo, - e lo caricherò sulle mie spalle. Il Frate, che era un semplicione e al convento non lo impiegavano altro che alla cerca, non s'accòrse che l'asino avrebbe portato lo stesso il carico, ed aiutò Lapo a salire sul ciuco. Ma questi, a forza di frusta mosse due passi e poi fece una genuflessione come se si fosse veduto davanti san Francesco in carne e ossa, che aveva virtù di comandare agli uccelli, ai pesci e persino ai lupi. - Il tuo asino è stanco, - disse Lapo cui era tornato l'umor faceto. - Fa' una cosa: caricati sulle spalle queste bisacce e tu guadagnerai il Paradiso, perché avrai sudato per portare al convento l'elemosina per i poveri. Il Frate, assuefatto all'ubbidienza, si mise le bisacce sul groppone e arrivò al convento, rosso e trafelato, mentre Lapo vi giunse comodamente. Lassù, come avviene a tutti i pellegrini, egli fu refocillato e ospitato. - Ora che ci sono e che ho compiuta la penitenza, - disse Lapo, - è bravo chi mi manda via. Per fare il soldato non son più buono, ma per vestire il saio, sì. Per molti giorni Lapo rimase alla Verna, e gli pareva d'essere in Paradiso in mezzo a quella frescura, fra quella gente che gli diceva buone parole. Dipingeva allora una cappelletta detta degli Angeli, un certo frate Bigio fiorentino, il quale, attaccato discorso con lo zoppo, si fece narrare come era rimasto impedito nella gamba nonché tutte le avventure capitategli dopo, e financo il sogno. Lapo non aveva la lingua punto legata, sicché frate Bigio, dopo esserlo stato a sentire una mezz'ora, sapeva vita, morte e miracoli di lui, ed essendo persuaso che il sogno e l'aiuto miracoloso del cane significassero che lo storpiato aveva in Cielo qualche santo protettore, volle acquistarlo al convento, affinché la protezione si estendesse anche su questo. Così con bei modi prese a dimostrargli come il mestiere del soldato portava gli uomini alla eterna perdizione, perché oltre i vizî che in quella vita randagia s'incontrano e l'uso del mal parlare, avviene sovente che sieno colpiti improvvisamente dalla morte, senza che abbiano tempo di raccomandar neppure l'anima a Dio. - Frate Bigio, lo so anch'io, - rispondeva Lapo, - e anche prima di esser ferito, avrei voluto campare altrimenti; ma non sono atto a far nulla. - Vedremo, vedremo, - replicava il Frate. - Ti contenteresti, per esempio, d'indossar l'abito e andare in giro per la cerca? - Magari mi contenterei; ma come volete che me ne vada per le salite e per le scese con questa gamba unica? - C'è il somaro che ne ha quattro e che ti potrebbe portare. - Allora dico di sì subito, e se mi fate presto toglier da dosso quest'abito e questo elmetto, che mi rivelano per fiorentino in questo paese dove i fiorentini sono discacciati come se fossero diavoli, io vi prometto, frate Bigio, che dirò per voi tutti i giorni la coroncina a san Rocco, mio protettore. - Io te ne sarò grato, e avrò caro che tu resti fra noi, poiché ciò che m'hai narrato è così strano che io voglio raffigurarti, mentre ricevi la visione di san Rocco in qualcuno degli affreschi di cui vado ornando il refettorio. Perciò conserva codesti abiti anche quando avrai vestito il saio, affinché io possa farteli riprendere al momento in cui mi occorrerà di ritrarti. Lapo non tardò ad ascriversi all'Ordine, ma senza aspirar però né a dir messa né a confessare, poiché non conosceva l'a dalla zeta e anche il pater noster lo seminava di una ventina di strambotti. Appena ebbe vestito il saio se ne andò alla cerca, e nessuno degli altri cercatori riportava al convento tanti donativi quanti egli ne recava. - Come fai? - gli domandavano gli altri frati. - San Rocco mi aiuta, - rispondeva egli. Ma non era, davvero, mercé l'aiuto di san Rocco, che Lapo mangiava e beveva a crepapelle e poi riportava tanta roba su alla Verna. Tutta quella grazia di Dio la doveva alle sue ladre fatiche, perché è d'uopo sapere che sebbene egli avesse vestito l'abito di san Francesco, era più ribaldo che mai. Ecco che cosa aveva fatto. Prima di tutto aveva pregato frate Bigio che gli facesse un quadretto da appendersi nella chiesa del convento, nel quale egli fosse raffigurato mentre san Rocco gli mandava il cane a leccargli la ferita; e, non contento di questo, aveva ottenuto dal buon Frate che da un lato della tavola dipingesse il sogno, poi la sua conversione, e che sotto al quadro scrivesse il racconto di quel periodo della sua vita. Poi, dallo stesso Frate si fece fare un buon numero di abitini di tela da portarsi al collo, con l'immagine di san Rocco e il cane. Naturalmente ogni giorno una gran quantità di gente saliva per devozione alla Verna, vedeva il quadro di frate Bigio, era informato del miracolo, e quando quella gente tornava a casa, spargeva in tutto il contado la notizia. Così, quando fra' Lapo si presentava a chieder la carità con la gamba di legno e il saio, tutti lo pregavano d'intercedere per loro san Rocco, e non lesinavano nel dare al Frate ogni ben di Dio. Lapo ringraziava umilmente, e ai donatori più generosi lasciava l'abitino. A pregare per gli oblatori non ci pensava neppure, anzi, se aveva alzato il gomito più del consueto, snocciolava a voce alta per la via una litania di bestemmie da far venir la pelle d'oca. Così durò il Frate alcun tempo, e più grande si faceva nel contado la sua nomea di sant'uomo, e più prendeva baldanza. Né si limitava a regalare soltanto gli abitini, ma se era richiesto da qualche malato per ottenere da san Rocco la guarigione, portava delle erbe che diceva gli erano state additate dal Santo come salutari, e pronunziava parole che non appartenevano a nessuna lingua. E di questi inganni fra' Lapo non provava nessun rimorso. Egli non si dava cura altro che di mangiare e bere. Una sera, mentre tornava sull'imbrunire al convento, egli diceva fra sé: - Con queste erbe e con questi esorcismi ho trovato un tesoro. Oltre il grano, il vino e i polli, mi dànno anche elemosine in denari. Quando ne avrò raggruzzolati abbastanza, butto il saio in un burrone e mi metto la via fra le gambe per tornare a Signa. E allora, Lapo mio, che baldorie! Mentre così diceva, era giunto a un bosco molto folto, e il somaro s'impuntò senza voler fare un passo avanti. Lapo gli dette un paio di frustate, ma l'asino tenne duro. Allora a un tratto uscì dal bosco il solito can da pastori, che un tempo aveva soccorso Lapo, e con un morso gli staccò tre dita della mano destra; poi fuggì di nuovo a rintanarsi fra gli alberi. Fra il dolore e la paura, Lapo credé di morire, e non trovava neppur la forza di spronare il somaro per uscire da quel luogo cupo e solitario. Prima che il somaro si rimettesse in moto, tal quale come nel sogno, Lapo vide scendere dalla vetta altissima di un poggio un'aquila con le ali spiegate, che si mise a fare cerchi sulla testa di lui. - È finita! San Rocco pietoso aiutatemi, mi pento, salvatemi! E si buttò di sotto dal somaro. Alla invocazione di san Rocco il cane era tornato accanto a Lapo e lo aveva afferrato per la gamba sana, mentre l'aquila s'era attaccata con gli artigli a quella di legno e tirava anch'essa. Tira tira, le cinghie cederono, e l'aquila scappò via scorbacchiata con quell'armeggio fra le zampe; anche il cane lasciò la presa, e, come aveva stagnato a Lapo il sangue della gamba sul campo di battaglia, così questa volta gli stagnò quello che gli usciva dalle dita mozzate. Come Dio volle fra' Lapo risalì sul ciuco e si diresse al convento. - Torno in un bello stato, - disse al frate portinaio, - mi mancano tre dita e la gamba. - Foste forse assalito dai predoni? - domandò l'altro. - Così m'hanno ridotto il Cielo e l'Inferno, - rispose fra' Lapo. - Fratello, qui non si scherza, bisogna prepararsi a morire! - Noi ci prepariamo ogni giorno e ad ogni ora al gran passo. Per questo la morte non ci coglie mai alla sprovvista. - Così potessi dir io! - esclamò Lapo tutto afflitto, - ma sono ancora un gran peccatore. - Fate pubblica confessione. - La farò domattina. Infatti la mattina dopo, Lapo si fece portare nella chiesina degli Angeli, perché non poteva più camminare senza l'armeggio di legno; ma quando a voce alta si mise a narrare tutti i suoi inganni, i frati incominciarono a gridare: - È maledetto! È maledetto! E lo fecero portare fuori del recinto della Verna. - Ieri l'Inferno e il Paradiso si disputavano l'anima mia; oggi non mi vuole né Cristo né il Diavolo. Aspettiamo per veder quello che succede, - disse Lapo. E tanto per consolarsi, trasse fuori dalla scarsella i quattrini accumulati con frode e con inganni e si diede a contarli; ma eccoti che mentre contava gli vola in grembo una gazza, piglia i fiorini nel becco e fugge. - Ora son bell'e spacciato! - disse, - mi pigli anche il Diavolo non me ne importa più nulla! E difatti, nel colmo della notte scese il Diavolo, e, afferratolo, se lo portò all'Inferno. I ragazzi capirono che la novella era finita e ringraziarono la vecchia, la quale trattenne i piccoli invitati, dicendo loro: - O che la pattona non la volete? - Orsù, servitevi! - disse la Carola. Nessuno si fece pregare. E ne mangiarono anche i grandi, specialmente Cecco, che al reggimento non l'aveva mai neppur veduta. - Ora andate a casa, - diss'egli agli amici dei nipoti, - e se la novella e la pattona vi son piaciute, tornate la vigilia di Capo d'anno. - Verremo! - risposero i bambini uscendo tutt'allegri.

. - Credo che tu abbia scelto bene; ma appunto perché Vezzosa è superiore alle cognate, abbi riguardo di non offenderle, e cerca di non cambiare in avversione l'affetto che esse hanno per lei. La conversazione fu interrotta dai nipotini, che correvano a chiedere alla nonna la novella. - Ve la narrerò, - diss'ella, - tanto più che domenica starete senza; domenica è il gran giorno di festa. - Ma domenica balleremo! - esclamò l'Annina. E portata sull'aia una sedia per la Regina, andò a chiamare la mamma, le zie, Vezzosa e tutti gli uomini, i quali, terminato che ebbero la partita, si aggrupparono intorno alla vecchia massaia. - Stasera ho soggezione, - disse la Regina. - Finché raccontavo a quelli di casa e a qualche ragazza, ero sicura di trovare indulgenza; ma ora è un altro affare. - Ma noi sappiamo, - disse la Maria, - che avete molta abilità nel raccontare, e due persone più, due meno, non devon mettervi soggezione. Nell'inverno me ne struggevo di venire a veglia, ma non mi sono mai attentata di accompagnare Vezzosa. - Avete fatto male, - rispose la vecchia. E avrebbe voluto aggiungere che se fosse andata a veglia da loro, forse avrebbe evitato tanti attriti con la figliastra, alla quale sapeva che ella faceva rimproveri continui per quell'onesto svago domenicale; ma la Regina, che era donna prudente, tacque su quello scabroso argomento, e prese a dire: - Diverse centinaia di anni fa, c'era a Stia, che allora si chiamava Staggia, un bellissimo castello di un ricco e ospitale signore della famiglia Guidi, il quale avea nome Romano. Questo signore, benché toccasse già la trentina, non aveva preso moglie e viveva lontano dalle guerre, dilettandosi soltanto di poesia. Per questo aveva riunito nel castello una quantità di poeti, i quali gareggiavano fra loro per dilettarlo e ottenere la sua benevolenza e i suoi favori. Ma essi eran tutti mediocri verseggiatori, e il conte Romano, che era uomo molto dotto, non si appagava di quello che essi scrivevano e si guardava bene dal dare a uno di quei tanti la preferenza. Ora avvenne che da Firenze, sua patria, fosse fuggito un nobile cittadino, per nome ser Bindo de' Bindi, il quale era il più grande e gentile poeta di quel tempo. Appena il conte Romano seppe della fuga del poeta, e conobbe il luogo ove si era rifugiato, pensò di offrirgli ospitalità, e, senza informare nessuno dei proprî divisamenti, partì per il castello di Nipozzano sulla Sieve, ove ser Bindo si tratteneva da alcuni giorni. Soltanto lasciò l'ordine che fosse fatto sloggiare da una vasta e spaziosa camera del castello uno dei tanti verseggiatori che erano a Staggia, e che quella camera venisse arredata con ricchi tappeti e mobili di molto pregio. Il conte Romano partì dunque con numerosa scorta di valletti e di famigli, recando seco un cavallo in più e due muli onde caricare le valigie dell'ospite desiderato. Ser Bindo, vedendo giungere quel signore, lo accolse con ogni sorta di cortesie, e siccome il soggiorno di Nipozzano, per la sua troppa vicinanza con Firenze, non gli pareva molto sicuro, accettò di buon grado l'offerta e, ringraziato l'amico che l'aveva ospitato, caricò le sue robe sulle mule e partì per il castello di Staggia. Bisogna sapere che ser Bindo, prima che gli capitasse fra capo e collo tutto quel malanno che lo costringeva alla fuga, aveva incominciato un poema diviso in canti, di cui ne aveva scritti sette. Questi canti egli li aveva letti agli amici raccolti a veglia in casa sua, e la lettura di essi era bastata perché tutta Firenze sapesse che ser Bindo aveva scritto una cosa tanto pregevole da vincere tutti i poemi dell'antichità. Ora, quei sette canti erano stati riposti con molta cura in una busta di cuoio, e questa busta era rinchiusa a sua volta in una certa valigia più piccola delle altre. Ser Bindo, volendosi assicurare che quella valigia era ben legata, la tastò da tutte le parti prima di partire, e, non fidandosi di alcuno, prese da sé la mula per la briglia. La stagione era la meno favorevole dell'anno a un viaggetto attraverso l'Appennino. Nel marzo, di solito, imperversano fortissimi venti e spesso piove o nevica. Quel giorno appunto, mentre il conte Romano e il suo ospite passavano la Consuma, si scatenò una tremenda bufera. Il vento soffiava impetuoso, l'aria s'era fatta a un tratto oscura come se fosse notte, l'acqua scrosciava e i fulmini non cessavano un momento solo di squarciare le nuvole e facevano somigliare il cielo a un mare di fuoco. Il conte Romano, assuefatto alle intemperie del nostro Casentino, non se ne meravigliava, e messosi a riparo sotto una quercia, aspettava che il temporale cessasse. I valletti e i famigli avevano imitato l'esempio del loro signore, quindi non v'era che ser Bindo che si ostinasse a rimaner nel mezzo della via reggendo a stento il cavallo che montava e la mula che conduceva a mano. Un fulmine scoppiò con grandissimo fracasso a pochi passi da ser Bindo, il cavallo s'impennò, e il cavaliere, per non cader di sella, lasciò la briglia dell'altro animale, il quale, imbizzarritosi pure, si diede a correre per la scesa, e ser Bindo, per quanto lo inseguisse, non riuscì a riacchiapparlo. - I miei canti! I miei canti! - gridava il poeta tutto desolato dalla fuga della mula. Ma aveva voglia di urlare e di smaniare! I tuoni coprivano la sua voce e i compagni non potevano udirlo. Ser Bindo, spaventato nel vedersi avvolto in un turbine di neve, lasciò di inseguire la mula e si rifugiò anch'egli sotto un albero. Passò il temporale, i lampi cessarono di illuminare il cielo coperto di nuvole, e il conte Romano, avventuratosi di nuovo con i suoi sulla via, si diede a chiamare e a cercare ser Bindo. Egli lo trovò a riparo di un macigno, ritto accanto al cavallo e tutto piangente. - Quale sventura vi ha colpito? - domandò il Conte al poeta, mentre i valletti si guardavano fra di loro ammiccando ser Bindo e ridendo, poiché supponevano che piangesse dalla paura del temporale. - I miei canti! I miei canti! - ripeteva il poeta smarrito. - Tutta la mia fama, la gloria mia, se l'è portata via quella mula maledetta! Io sono rovinato. Il conte Romano ebbe pietà di tanto e sincero dolore e fece cercare la mula dai servi; ma tutto fu inutile, e, per evitare di esser di nuovo sorpresi dalla bufera, dovettero tutti proseguire il cammino, abbandonando la mula alla propria sorte. Quell'abbandono costò molto dispiacere al poeta, il quale non sapeva rinunziare ai sette canti del poema su cui aveva sudato tempo. Egli si pentiva di avere lasciato Nipozzano e soprattutto di non essersi messo addosso quel manoscritto, senza il quale non avrebbe saputo continuare l'opera intrapresa. Ser Bindo giunse, dunque, molto a malincuore a Staggia; il paesaggio invernale gli pareva triste, e il castello una vera prigione. Appena poi ne ebbe oltrepassata la pesante porta ferrata e ebbe veduto una doppia fila di gente, stranamente vestita, che il conte Romano salutò, dicendo al nuovo ospite: "Eccovi i miei poeti!" il fiorentino si sentì ribollire il sangue nelle vene. È bene dire che ser Bindo aveva una speciale avversione per la ciurmaglia di fannulloni; e, in genere, i poeti da strapazzo appartenevano a quella categoria. In antico era uso che alla stessa tavola, all'ora di pasto, sedessero tanto il signore, quanto l'ultimo famiglio. Soltanto la differenza di grado si vedeva dalla diversità del posto. In capo tavola, vicino al signore, stavano le persone di riguardo, come ser Bindo; in fondo, la gente di nessun conto, come i poetastri. Ma anche questi udivano i discorsi che il signore faceva; e infatti la ciurmaglia dei poetastri udì il racconto del temporale, dello smarrimento della mula, e udì le lamentazioni di ser Bindo sulla perdita de' suoi canti. - Io non potrò più scrivere un verso, - diceva l'infelice, - finché quei canti non saranno di nuovo in mano mia. La loro perdita mi affligge tanto, che io non saprei più esser poeta. Avete sentito dire, signor di Staggia, che quando l'uomo perde il filo di una idea non è più capace di nulla, finché non l'ha ripreso? Ebbene, in questi sette canti sta il filo del mio grandioso poema, ed io non potrò riafferrarlo finché non li avrò sott'occhi. Tutti quei poetastri, che fino a quel giorno erano stati fra di loro come cani e gatti, udendo queste parole si scambiarono uno sguardo d'intesa, e appena tolte le mense si riunirono a combriccola in una stanza appartata del castello e stabilirono di muovere sul far del giorno alla ricerca della mula, affinché i sette canti del poema non capitassero mai più nelle mani di quel presuntuoso, che il signore trattava da pari a pari. Infatti, appena fu calato il ponte levatoio del castello di Staggia, i poetastri si misero in cammino, e giunti a un certo punto presero ognuno una direzione differente per meglio cercare la mula. Uno di essi, quello appunto che avea più livore contro ser Bindo per essere stato sloggiato per dato e fatto di lui dalla bella camera che occupava prima, esplorando il terreno a fianco della via maestra, rinvenne la mula mezza sotterrata dalla neve e morta stecchita in un fosso. Ciapo, che così era nominato il poetastro, vi scese con molta precauzione, rinvenne la valigia che ser Bindo aveva descritta, e, aprendola, trovò in essa la busta che conteneva i canti del famoso poema. In sulle prime ebbe voglia di gridare per attrarre l'attenzione dei compagni, ma subito un pensiero maligno gli traversò la mente. Perché non teneva per sé quei canti? Per ora poteva nasconderli in qualche luogo, e quando fosse passato un poco di tempo, per non destar sospetti, andarsene da Staggia alla Corte di un altro signore e gabellarli per suoi. Così avrebbe acquistata fama, onori e denari, senza torturarsi il cervello. - Così, così farò; - disse fra sé, - sarei un bello stupido se non mangiassi la pappa che trovo già scodellata. E senza impensierirsi per la cattiva azione che commetteva, ripose la busta nel farsetto, gettò manate e manate di neve sulla mula, affinché nessuno la potesse scorgere, e finse di cercare ancora, sempre avvicinandosi al luogo ov'erano gli altri compagni. - Quella mula doveva essere indemoniata, - diss'egli allorché li ebbe raggiunti. - Non si trova per quanto si cerchi, e di lei non c'è traccia. Intanto s'era fatto tardi e la comitiva, intirizzita dal freddo, fece ritorno al castello, dove disse di essere andata a caccia, invece che alla ricerca della mula. Ser Bindo e il suo ospite risentivano troppo gli strapazzi del viaggio per potersi mettere in campagna; ma il Conte aveva disposto che fosse dato un premio a quello dei suoi terrazzani che avesse riportato la mula, viva o morta, al castello; e questa notizia l'aveva fatta bandire a suon di tromba per tutta la terra di Staggia. Ciapo rideva fra sé e sé, sentendo i banditori che si sgolavano, e appena giunto nel palazzo si rinchiuse nella nuova camera che gli era stata assegnata, e togliendo con molta fatica due mattoni di sotto il letto, vi nascose la busta. Poi andò a cena, e gongolava vedendo l'abbattimento di ser Bindo e la desolazione che gli cagionava la perdita dei suoi canti. Gli altri poetastri, udendo bandire il premio per tutta la terra, avevano avuto una rabbia da non dirsi. Ormai non potevano più mettersi in campagna, poiché si sarebbero imbattuti nei terrazzani del conte Romano, i quali, più cogniti di loro del paese, avrebbero certo rinvenuta la mula. Ciapo, per non essere scoperto, diceva che avevano ragione, che quella risoluzione del Conte era una vera disdetta, che sarebbe stato tanto meglio se la mula fosse caduta in loro potere, per fare un dispetto a quell'intruso di fiorentino, tanto superbioso dell'opera sua. Quella sera i poetastri si separarono tardi, e appena Ciapo fu in camera, dette un'occhiata ai mattoni per assicurarsi che non erano stati rimossi, e poi, stanco morto, si addormentò come un ghiro. Ma il riposo fu di breve durata perché fece un sogno spaventoso e gli parve di vedere quei sette canti trasformarsi in altrettanti serpenti, avviticchiarglisi addosso e stringergli la gola in modo da soffocarlo. Gettò un grido, balzò dal letto, e al lume della luna, che penetrava in camera sua attraverso ai vetri, non vide né canti né serpenti. - È un fatto, - disse, - che quando uno è molto stanco dorme male. E col cuore che gli batteva ancora forte dallo spavento, ritornò a letto, e questa volta dormì fino alla mattina. Prima del mezzogiorno udì un gran scalpiccìo nel cortile. Si affacciò e vide là molti terrazzani che recavano la mula sopra una barella. Il Conte, avvertito, scese, e scese pure ser Bindo: il primo bramava di leggere i sette famosi canti, mentre l'autore desiderava di averli fra mano per incominciare l'ottavo e condurre a termine tutto il poema, col quale intendeva di sferzare i vizî de' suoi ingrati concittadini. Essi si curvarono sulla mula per afferrare la valigia, ma questa non v'era più, e sulla soma del morto animale non rinvennero che roba di vestiario e altri amminnicoli. - Sono rovinato! Sono morto! - urlò ser Bindo, sgranando sui terrazzani, che avevano recato la mula, certi occhi da spiritato. Ciapo, sull'alto della scala, osservava quella scena sorridendo. - Chi di voi ha osato impadronirsi della valigia? - domandò il conte Romano. - Noi non abbiamo preso nulla, - dissero umilmente i terrazzani. - Vedremo, - replicò il Conte. E, furente d'ira, ordinò che tutti quelli che avevano riportata la mula fossero rinchiusi in una prigione buia, umidissima e sotterranea, finché non avessero confessato il misfatto. Ser Bindo avrebbe voluto intercedere per loro, ma era più morto che vivo per quella speranza delusa, e fu assalito dal freddo e dalla febbre. Intanto il corpo della mula venne gettato in uno dei fossati del castello, e i terrazzani tenuti in prigione. Quella notte il conte Romano, che per il solito dormiva come un ghiro, non poté prendere sonno. Rivolta di qua, rivolta di là, gli pareva che nel letto ci fossero le spine, e ogni tanto sentiva una voce interna che gli diceva: - Ma sei proprio sicuro, conte Romano, di non aver colpito il giusto pel peccatore? E questa voce lo tormentava. Intanto che il Conte vegliava, le mogli e le figlie dei terrazzani, imprigionati da lui, passarono la lunga notte invernale piangendo e smaniando. A giorno esse si recarono a un piccolo oratorio, dove era conservata con molta venerazione una immagine miracolosa della Madonna, e togliendosi i pendenti dagli orecchi e i vezzi dal collo, li deposero sull'altare dicendo: - Vergine santa, restituiteci i nostri mariti. Non abbiamo di prezioso che queste gemme e noi ve le offriamo. La Vergine ebbe compassione delle lacrime delle donne e fu commossa dell'offerta che esse facevano. Ma prima di rivolgersi al Conte, volle impietosire Ciapo. Egli dormiva ancora, quando la Vergine gli apparve e gli disse: - Se tu hai cara la salvezza eterna, devi restituire i setti canti del poema di ser Bindo, affinché quell'infelice poeta, quel disgraziato esule, compia l'opera incominciata e tanti poveri innocenti rivedano la luce del sole. La visione era bellissima, poiché la Madonna, che un insigne artista aveva dipinta sul muro dell'oratorio, si presentava a Ciapo non irata in volto, ma con espressione benigna di supplica, e sulla testa le riluceva una corona d'oro, e dal collo le pendevano vezzi di perle e di ambra trasparente. Ciapo si destò, ma non aprì gli occhi, temendo che la bella visione sparisse come un sogno, e sentendo la dolce voce della Madre di Dio che gli parlava con tanta gentilezza, disse: - Madonna, io farò quanto tu mi comandi per compiacerti, e i sette canti del poema ritorneranno dentro oggi a chi li compose e li vergò. Sparì la Vergine dopo aver udita questa solenne promessa di Ciapo; ma questi, aprendo gli occhi alla luce, rise della promessa e del sogno, e invece di restituire ciò che aveva involato, passò la giornata a comporre un'ode in ottava rima, nella quale magnificava la generosità del conte Romano a fine di cattivarsi l'animo del Conte stesso. Quel giorno ser Bindo non comparve a pranzo. Egli era così debole da non reggersi ritto e aveva invano cercato di alzarsi dal letto per assidersi alla mensa del suo ospite. Questi si mostrava accigliato, e allorché Ciapo, tolte le mense, volle recitargli l'ode composta in suo onore, il Conte glielo impedì con mal modo, dicendogli: - Cessa, poetastro, dal gracidare. I tuoi versi mi annoiano. Va' a dirli a chi ti pare, ma non tediarmi più con la tua noiosa presenza. Era lo stesso che se gli avesse detto, chiaro e tondo, di far presto le sue valigie e di sloggiare dal castello. Ciapo capì benissimo, e stabilì di non restare un giorno di più là dov'era. In breve egli riunì le sue robe, tolse di sotto i mattoni la busta e, chiesto un cavallo al signore, gli fece i suoi saluti e se ne andò. Egli aveva appena discesa l'erta del castello, che vide attraverso la via un bove furibondo, il quale gli andò addosso a testa bassa, quasi volesse sollevarlo sulle corna. Smarrito dal terrore, Ciapo spinse il cavallo sulla proda di un fosso, ma il bove lo incalzava sempre più furibondo, e pareva che mirasse con le corna al farsetto, nel quale il poetastro teneva riposti i canti di ser Bindo. - Cavallo mio, salvami! - esclamò Ciapo. - Se riuscissi a portare in salvo questo tesoro e ad assicurarmi la fortuna e la gloria, darei anche l'anima al Diavolo! Non aveva finito di pronunziare queste parole, che il cavallo fece un lancio, varcò il fosso e si diede a corsa sfrenata. Il bove, per seguirlo, fece un lancio, ma invece di toccar la sponda opposta, precipitò nel fosso e vi rimase. Corri corri, Ciapo giunse verso sera al castello di Poppi, e chiese l'ospitalità. Il Conte, che era persona molto generosa, gliela concesse, e s'intrattenne dopo cena a parlare col nuovo venuto, cui dette una camera per riposare fino alla mattina, sentendo che voleva riprendere il viaggio per recarsi a Spoleto. In quella notte Ciapo fu assalito da un timore che non sapeva spiegarsi. Gli pareva che cento braccia lo afferrassero, che cento bocche gli gridassero: - Restituisci i manoscritti all'esule poeta, e non far morire tanti innocenti! Eppure nella camera non c'era nessuno, e se anche prestava l'orecchio, non udiva nessuna voce. Gli è che le braccia che lo afferravano erano invisibili, e le voci gli parlavano al cuore e non all'orecchio. Ciapo, che non aveva spento la lucerna e si era coricato col farsetto per meglio custodire la busta, guardò da tutti i lati per vedere se scopriva un nascondiglio nella parete, e non vide nulla. Intanto le braccia lo stringevano sempre più, e cento voci minacciose gli ripetevano: - Restituisci i manoscritti all'esule poeta, e non far morire tanti innocenti! - Mai! - esclamò Ciapo. - Satana, aiutami tu! A un tratto si videro molte fiamme invadere la camera e circondare il poetastro. Le braccia cessarono di stringerlo, le voci di parlargli al cuore, e nella parete a fianco del letto si aprì una specie d'imposta che lasciò vedere una cassa di ferro. Ciapo ripose dentro a quella la busta che conteneva i canti, e la cassa si richiuse con fracasso, l'imposta sbatacchiò, e nessun occhio umano avrebbe potuto trovarne traccia. Intanto ser Bindo, desolato per la perdita fatta, si struggeva come una candela, e i poveri terrazzani rinchiusi nelle prigioni del castello di Staggia vedevano sospesa di continuo sulla loro testa la tremenda pena di cui li aveva minacciati il conte Romano. Questi non osava ordinare che i terrazzani fossero messi a morte, e una notte che era seduto accanto al letto del poeta agonizzante, vide la immagine miracolosa della Vergine apparirgli e guardarlo con occhi supplichevoli, stendendo verso di lui le mani in atto di preghiera. Quella visione lo colpì, e nel momento istesso ser Bindo, con voce fievolissima, gli disse: - Messere il Conte, io mi accorgo che la mia fine è prossima. Ormai la gloria non mi alletta più e sento di essere staccato completamente dai beni terreni. Restituite la libertà ai terrazzani che tenete prigionieri; essi sono innocenti, poiché non avevano alcun interesse di defraudarmi de' miei canti. Io sono certo che il colpevole è già lungi, ma anche a lui, in questo estremo momento, io perdono. - Il colpevole è Ciapo! - disse il Conte, che ebbe in quell'istante come una rivelazione. E senza indugiare, ordinò ad alcuni uomini di salir subito a cavallo e ricondurglielo vivo o morto, volendo sollevare, con la vista dei canti, i momenti estremi del morente. E appena il sole indorò le vette dei monti, ordinò che la prigione fosse aperta ai suoi terrazzani e che essi venissero rimessi in libertà. Intanto Ciapo ingrassava per il dispetto fatto a ser Bindo, e, strada facendo per recarsi a Spoleto, ripeteva: - Que' canti non li avrò io, ma neppur lui, poiché li custodisce il Diavolo. Ora, mentre ser Bindo languiva nel castello di Staggia, capitò colà un vecchio e santo frate francescano, il quale, udita la ragione del malore dell'esule, disse che avrebbe ricorso all'aiuto del santo di Assisi per consolarlo. E per ottenere quell'aiuto, digiunò e pregò con fervore. Il frate, dopo questo, proseguì la via per recarsi alla Verna e chiese l'ospitalità al signore di Poppi. Questi, naturalmente, gliela diede e gli assegnò la camera abitata pochi giorni prima da Ciapo. Era costume del francescano di farsi dare l'aspersorio e di benedire ogni stanza che doveva abitare anche per una notte sola. Egli benedì pure la camera di Poppi, e quando la parete che conteneva il nascondiglio del Diavolo fu spruzzata dell'acqua santa, avvenne un fatto strano. L'imposta del muro si spalancò con fracasso, la cassa di ferro s'aprì, la busta cadde per terra e da quella incominciarono ad uscire tanti fogli. Naturalmente il frate raccolse busta e carte, e, appena vi ebbe gettato gli occhi, si accòrse che su quelle carte erano scritti i sette canti rimati da ser Bindo. La notte parve lunghissima al frate, perché non vedeva l'ora e il momento di portare una consolazione all'esule infelice, e appena giorno si rimise in cammino, e un passo dopo l'altro giunse a Staggia. Era sera quando fu ammesso nella camera del morente, il quale, vedendo la busta in mano al frate, non ebbe la forza di parlare né di stendere le mani per riceverla. Pianse, invece, lungamente, amaramente, l'infelice, e quelle lacrime lo sollevarono molto. Il giorno dopo stava assai meglio; la settimana seguente poté alzarsi, e un mese dopo che ser Bindo era di nuovo in possesso dei sette canti del poema, già dava mano all'ottavo, e senza interruzione portava a termine l'opera grandiosa. E ser Ciapo? Si dice che la sua anima irrequieta abbia abitato per anni e anni il nascondiglio del Diavolo nella camera del castello di Poppi. Infatti, in quella camera nessuno ci voleva dormire, perché dicevano che si sentiva una voce lamentevole talvolta, e talvolta stizzosa, che diceva per ore e ore: "Che cosa ho fatto mai! Che cosa ho fatto mai!" Ora quella stanza è murata da più di cent'anni, e qui la novella è finita. - Nonna, noi vogliamo una promessa, - disse l'Annina accostandosi alla vecchia e guardando dietro di sé per vedere se i fratelli e i cugini la seguivano per mostrare che ella aveva il diritto di parlare a nome di tutti. - Sentiamola; che cosa chiedi? - disse la Regina. - Vedete, questi piccinucci, benché si divertano tanto a sentirvi raccontare, pure fanno fatica a star desti fino a quest'ora. Da qui avanti non ci potreste dire la novella di giorno, sull'aia, prima che suoni l'avemmaria? Ora le giornate sono lunghe, ed essi si levan coi polli e coi polli vorrebbero andare a letto. - La tua domanda sarà esaudita, - rispose la nonna. - Ma staranno buoni, di giorno, quei monellucci, o non si alzeranno venti volte per correre dietro anche a una mosca che voli? - Non per nulla sono la maggiore di tutti. Io saprò tenerli fermi, e vi prometto che nessuno vi disturberà, rispose l'Annina con molto sussiego. Dopo questo breve colloquio, la matrigna di Vezzosa si alzò, ringraziò la Regina e le fece mille complimenti per la novella; quindi cominciarono gli addii alla sposina. Tutte le donne di casa Marcucci la vollero baciare, tutti gli uomini vollero dirle una buona e affettuosa parola, ed ella, commossa da tante dimostrazioni di simpatia, piangeva e rideva nel tempo stesso. - Via, è ora di andare a letto! - disse Momo per tagliar corto a quell'intenerimento che vinceva anche lui. I bambini accompagnarono Vezzosa per un pezzetto di strada, dicendole: - Domenica non te ne andrai! Anche Gigino le zampettava accanto, reggendola per la sottana e ripetendo ciò che sentiva dire agli altri. In mezzo a tutta quella gente che manifestava liberamente la gioia che sentiva, Cecco solo stava zitto e seguiva Vezzosa a testa bassa. - Sei forse pentito? - gli domandò la ragazza, quando i bimbi l'ebbero lasciata. - Pentito! - esclamò egli. - Sono così felice, che non posso parlare. Non sai che mancano otto giorni soli a domenica? - Sette, non otto, - disse Vezzosa guardandolo affettuosamente, - e fra sette giorni porteremo lo stesso nome e saremo uniti nella gioia e nel dolore. - Nella vita e nella morte, - rispose Cecco in tono solenne, stringendole la mano.

- Via, par che tu abbia il cuor di zucchero! Eppure non eri così un tempo, e quando ti si dava il buon giorno rispondevi con le spallate. - Allora ero una bambina, e ora ho messo giudizio. - Via, Maso, lasciala in pace. Perché la punzecchi sempre? La Vezzosa è una brava e buona figliuola, e se le si chiede un piacere non si ricusa mai, - disse la Carola. - Non vedi che faccio per burla? - Sì, lo so, - rispose la Vezzosa, - ma mi pare che si perda tempo, e c'è la Regina che sta là ad aspettare che ci chetiamo per raccontare la novella. - Mamma, incominciate, - disse Cecco, che ci pativa a veder la Vezzosa alla berlina. La vecchia ripose in tasca il rosario e prese a dire: - Quando il beato san Francesco morì, lasciò fra i suoi frati un certo Amalziabene, un mezzo santo anche lui, il quale, se non parlava ai pesci e agli uccelli e non domava le fiere come il poverello di Assisi, aveva però un cuore d'oro e si sentiva morire quando incontrava dei bisognosi e non li poteva aiutare. Questo frate Amalziabene, dopo la morte di san Francesco, se ne venne alla Verna, attratto dall'asprezza del luogo, nel quale gli pareva di potersi dedicare meglio alla penitenza che in Assisi. Quando giunse, il suo nome era già molto venerato, e i frati lo accolsero con ogni sorta di riguardi, meno che il frate cuoco, certo fra' Gaudenzio, che non seppe dire altro che queste parole: - Padre guardiano è cresciuto un frate. Brodo lungo e seguitate! - volendo significare che non si sarebbe messa più carne in pentola per l'aumento di fra' Amalziabene e per conseguenza la minestra sarebbe stata meno saporita che al solito. Bisogna sapere poi che questo fra' Gaudenzio stava proprio in convento come un'anima nel purgatorio, perché lui non aveva nessuna vocazione di diventar santo; e, se non batteva il tacco e non buttava via la tonaca, era per evitare il capestro, perché a Firenze, dov'era nato e cresciuto, ne aveva fatta d'ogni erba un fascio, e non vedendo più scampo possibile, dopo di avere ucciso uno di casa Bardi, aveva passato la Consuma e s'era nascosto alla Verna sotto il saio del frate. Ma senza la paura di far quella morte sarebbe già passato in Romagna o in Val di Chiana per andarsene a Roma, non per divozione, ma perché in quella baraonda c'era più speranza di campar bene senza tanta fatica. Per suo gastigo il Padre guardiano prima di accettarlo fra i suoi frati zoccolanti, gli aveva domandato, vedendolo rozzo d'aspetto, che mestiere soleva fare. - L'ortolano no, il fornaio no, il falegname no, il pittore meno che mai; il muratore neppur per ombra, - aveva risposto il fiorentino. - Sai fare il cuoco, fratello? - Il cuoco sì, e son bravo! - esclamò Gaudenzio. - Della tua bravura non ce ne importa, fratello; - gli aveva detto il padre guardiano, - noi mangiamo frugalmente. Va' in cucina, dove c'è un frate che soffre a stare al fuoco, e prepara tu il desinare. Fra' Gaudenzio non se l'era fatto dir due volte, ed essendo infatti abilissimo nel cucinare, perché era un ghiottone e aveva fatto anche l'oste, preparò subito un pranzo squisito ai buoni frati, i quali gli fecero anche troppo onore, perché per il cuoco non ci rimasero altro che gli ossi. - Sei contento di me, Padre guardiano? - aveva domandato fra' Gaudenzio. - Anche troppo, fratello mio; anzi, temo che tu solletichi il peccato della gola nei miei frati, - rispose il superiore. - Ho capito! - pensò fra' Gaudenzio, - non bisogna avvezzarli troppo male. E da quel momento prese per sé il primo brodo e i pezzi scelti della carne nei giorni di grasso, e in quelli di magro si serbò i pesci migliori e i legumi più conditi. Però, nonostante che fra' Gaudenzio si facesse la parte migliore, pure la sua cucina piaceva tanto ai frati, che in poco tempo, da quanto si nutrivano, ingrassarono tutti, e presero a volere un gran bene a quell'omaccione, che li faceva mangiare con tanto appetito. Così stavano le cose quando capitò alla Verna fra' Amalziabene, e fu ricevuto dai frati con tutto il rispetto che meritava il discepolo caro a san Francesco. Giunse il frate di sera, e, poco dopo, la campanella suonò per la cena; ma appena fra' Amalziabene ebbe gustato le vivande preparate da fra' Gaudenzio, respinse il piatto e disse che cibi così delicati e così succolenti non si convenivano a' frati, che avevano fatto voto di povertà e vivevano di elemosine. Aggiunse che se il poverello d'Assisi fosse capitato in quella casa e avesse veduto come mangiavano i suoi fratelli, si sarebbe coperto la faccia dalla vergogna e avrebbe pianto. Il Padre guardiano e i frati furono punti dal meritato rimprovero, e si pentirono di aver ceduto al peccato della gola. Fra' Gaudenzio seppe tutto e ricevé ordine di non cucinare per otto giorni altro che minestra di ceci sull'acqua, e radicchio cotto in insalata. - Che c'è venuto a far quassù quel frate nemico delle consolazioni terrene? - brontolava fra' Gaudenzio, e intanto i ceci brontolavano più di lui nel paiuolo. - Ci vuol ridurre tutti al lumicino; ma il primo a fare una fine brutta sarà lui. Con quel viso giallo ci vuol altro che ceci e radicchio! Ben presto nel convento si formarono due partiti; quello di fra' Amalziabene era il più numeroso e si componeva di tutti i frati che avevano abbracciato la regola per fede del Santo fondatore e per desiderio di meritarsi il Paradiso, lasciando dietro a sé esempio al popolo; il partito di fra' Gaudenzio si componeva di tutti quelli che s'eran fatti frati per nascondere qualche marachella e campare senza fatica, pacificamente. E questi, che si lagnavano dei digiuni e non la intendevano di esser ridotti a quel magro cibo cui li aveva costretti fra' Amalziabene, armeggiavano fra di loro per fargli dispetti tali da costringerlo a ritornare al convento di Santa Maria degli Angioli ad Assisi. Questi malcontenti bazzicavano in cucina da fra' Gaudenzio, e il fiorentino un giorno disse loro: - Sapete, fratelli; io ho pensato di legare un gatto in un sacco e di metterlo sotto la finestra di fra' Amalziabene per impedirgli di dormire. - Ben trovata! - risposero i frati ridendo e stropicciandosi le mani. Infatti, mentre fra' Amalziabene e gli altri frati erano in coro, fra' Gaudenzio rinchiuse un gattaccio spelacchiato e rabbioso in un sacco, e attaccò questo a un chiodo fuori della finestra del frate. Dopo cena tutti andarono nelle celle, e fra' Amalziabene incominciò a sentir miagolare. Si alzò, cercò per la cella e, non vedendo nessun gatto, si coricò; ma la musica non cessava e fra' Amalziabene si levò per la seconda volta, aprì la finestra e si accòrse che il gatto era nel sacco. Con quella pietà che gl'ispiravano anche gli animali, egli tirò in casa il sacco, lo sciolse e vide la povera bestia impaurita. Se la prese in collo, l'accarezzò e le fe' posto accanto a sé sotto le coltri. Il giorno dopo il gatto seguiva fra' Amalziabene come avrebbe fatto un cagnolino, e fra' Gaudenzio si mordeva le mani per avergli procurato una compagnia, invece che un tormento. La sera dopo, fra' Gaudenzio, d'accordo coi congiurati, legò a' piedi della roccia sulla quale era costruita la cella di fra' Amalziabene, un ringhioso cane di un pastore che era ospitato dai frati. Questo cane abbaiò furiosamente tutta la notte e impedì al frate di dormire; ma egli, invece di muoverne rimprovero a qualcheduno, il giorno seguente disse: - Stanotte ho potuto lungamente pregare e ne ringrazio chi ha posto un cane sotto la mia finestra. Fra' Gaudenzio si mordeva le mani. - Ma che cosa gli possiamo fare a questo frate per farlo fuggire? - domandava ai compagni. Ma questi si stringevano nelle spalle e intanto si arrabbiavano di mangiar sempre la stessa brodaglia di ceci per minestra, e la stessa insalata di radicchio cotto per pietanza. - Se non vuole andarsene vivo, lo farò portar via morto, - disse un giorno fra' Gaudenzio. E, senza aggiunger altro, salito su di un certo abbaino del tetto, mentre gli altri frati erano a processione, camminò fin sulla cella di fra' Amalziabene e, rimossi che ebbe alcuni tegoli ed embrici, scoperchiò in più punti il soffitto per modo che l'aria fredda potesse entrare nella camera. Poi discese e disse: - Fra' Amalziabene è servito! Il giorno dopo, l'esile e scarno fraticello incominciò a tossire, e per una settimana si trascinò fuori della cella con la febbre addosso; ma poi non poté più levarsi, e in capo a pochi giorni spirò serenamente con gli occhi rivolti al cielo. I frati piangevano, fra' Gaudenzio e i suoi partigiani si calarono il cappuccio sulla fronte e si finsero afflitti, ma invece eran tutti contenti che fra' Amalziabene avesse tolto loro l'incomodo. Il giorno stesso della morte del suo nemico, fra' Gaudenzio mise in pentola un pezzo di carne invece dei ceci, e il Padre guardiano, con la mente rivolta al morto, non se ne accòrse neppure. Passò qualche tempo, e fra' Gaudenzio era contentissimo, perché il Padre guardiano non gli diceva nulla e lo lasciava spadroneggiare in cucina. Neppure i frati fiatavano, e rimettevano la collottola mangiando buone minestre e arrosti migliori. Un giorno, però, mentre eran tutti a refettorio, il Padre guardiano fece chiamare il cuoco. - Fratello, - gli disse, - hai forse fatto un patto col Diavolo per trascinarci tutti all'Inferno? - Perché? - domandò fra' Gaudenzio. - Già quel santo frate Amalziabene ci rimproverò di aver ceduto alla gola e di trascurare i digiuni e le regole dell'Ordine, mangiando cibi grassi e ghiotti. Sparito lui da questa terra, tu hai ricominciato a cucinare cibi che non si convengono a chi vive di elemosine ed ha fatto voto di povertà. Stanotte, fra' Amalziabene mi è apparso in sogno e mi ha rimproverato. Dunque, fratello, pensa di non espormi a nuovi rimproveri. Fra' Gaudenzio tornò in cucina a capo basso, umile e contrito d'aspetto, ma fra i denti sfilava contro il morto una giaculatoria di bestemmie da far venir giù il convento. - Anche da morto mi perseguita, quel nemico del benestare; ma gliela voglio far io! - borbottava. Quel che voleva fargli non lo diceva. Aspettò che tutti dormissero nel convento, poi scese nel sotterraneo dove si collocavano i morti, e trovato il cadavere di fra' Amalziabene già interamente spoglio della carne, ne prese il teschio, se lo portò nella cella e ve lo nascose. Il dì seguente fra' Gaudenzio andò là dove scorre un limpidissimo ruscello e, lavato quel teschio con cura, vi tolse con un coltello tutte le ossa che formano il viso, così che il rimanente serbò la forma di un piccolo bacile; poscia egli ritornò alle sue pentole, e mentre per il convento cuoceva ceci e fagioli, fagioli e ceci, per sé si cucinava starne, lepri e tordi, ai quali aveva imparato a dar la caccia, e poi, per ispregio a fra' Amalziabene, li mangiava nel suo teschio dicendo: - Senti che buon odore di cacciagione! Vuoi favorire? Senza complimenti! La cosa durò per alcuni giorni, e fra' Gaudenzio era tutto felice di far quello spregio al suo nemico e di aver trovato mezzo che tutti facessero astinenza, meno che lui, quando una mattina, che è, che non è, il Padre guardiano adunò tutti i frati, anche quelli addetti alla foresteria e alla cucina, e disse: - Fratelli, qui si commette un sacrilegio. Mi è apparso il poverello d'Assisi, col viso lacrimante, e mi ha detto: "Fra' Bonifacio, non permettere che nel luogo dove Gesù mi dette le sue stimmate, si profani una cosa sacra". Dopo questo avvertimento, fratelli, io vi ho adunati. Chi di voi è colpevole si accusi. I frati rimasero tutti a testa china e nessuno di essi si alzò a dire: "Il colpevole sono io!". E poiché nessuno parlava, il Padre guardiano aggiunse: - Se il colpevole non ha coraggio di accusarsi, cessi almeno dal peccare. Fratelli, preghiamo per lui! A quell'invito, tutti congiunsero le mani sul petto, tutti chiusero le palpebre in segno di raccoglimento e tutti pregarono, anche i partigiani di fra' Gaudenzio, tutti insomma, meno che lui. Dopo, la radunanza si sciolse e ognuno tornò alle proprie occupazioni, compreso fra' Gaudenzio, che aveva nascoste certe starne in un panierino per accorrere alla chiamata del superiore, e temeva che il gatto gliele rubasse. Ma nonostante le preghiere dei frati, fra' Gaudenzio continuò a servirsi del teschio del morto come di una scodella, e a ogni boccone ghiotto ripeteva il sacrilego detto: - Senti che buon odore di cacciagione! Vuoi favorire? Senza complimenti! Passarono così altri otto giorni senza che accadesse nulla di nuovo nel convento, quando una sera fra' Gaudenzio, entrando nella sua cella, udì un gran trambusto e vide il teschio che ruzzolava sul pavimento. - È pien di topi! - disse. E preso il teschio lo ripose nel nascondiglio e si coricò. Ma era appena entrato a letto, che gli convenne rialzarsi, e credendo che fossero i topi che facevano quel rumore, disse: - Ora vi servo io! Ma avea un bel dire che li avrebbe serviti: egli era al buio, e, prima che avesse battuto l'acciarino per accendere il lume, il rumore continuava e fra' Gaudenzio si sentiva ora addentare un piede, ora tirar per la tonaca, ora mordere il naso. - Che topi impertinenti! - ripeteva, - or ora vi servo io! Ma per quanto facesse non riusciva ad accendere il lume, e i topi intanto pareva che si moltiplicassero in un battibaleno, perché lo addentavano in ogni parte del corpo e non era a tempo a impedire i morsi e gli sgraffi. Mentre egli si lamentava dal dolore e, scoraggiato, aveva cessato i tentativi per accendere la lucernina, vide a un tratto nella sua cella un gran chiarore, che partiva dall'alto. Alzati gli occhi, scòrse un'apertura nel tetto, e, affacciato a questa, un mostro con la faccia di drago e la gola di fuoco da cui cadevano a migliaia certi Diavoletti piccoli, neri e pelosi, con i denti lunghi e le granfie aguzze e che fra' Gaudenzio aveva presi per topi. Benché fosse un gran burlone e non avesse paura né di Cristo né del Diavolo, pure in quel momento fra' Gaudenzio non ebbe coraggio di far bravate e disse soltanto: "È finita!". - No, - gli rispose il mostro, cessando un momento di vomitare Diavoletti, - non è punto finita, purché tu mi consegni il teschio di fra' Amalziabene, che nella tua cella non è ben custodito. - Prendilo pure, - rispose il frate. I Diavoletti pareva che non aspettassero altro che quel permesso per portarlo su. Lo addentarono in cento, poi spiegaron le ali e in un momento il teschio fu consegnato al mostro, il quale, prima di sparire, disse: - Tu mi rendi con questo dono un segnalato servigio, perché mi aiuti a fare un gran dispetto a quel Francesco d'Assisi, che quasi quasi mi ha portato via più anime del Nazzareno stesso. Che cosa vuoi in compenso? - Sanità, lunga vita e un buon arrosto tutti i giorni. - E poi? - Nulla; quando dovrò morire portami pure all'Inferno, purché non ci sia fra' Amalziabene né altri che predichi di mangiar ceci e radicchio. I Diavoletti apriron l'ali ed uscirono tutti dall'apertura del tetto, lasciando nella cella un puzzo di zolfo così forte che fra' Gaudenzio dovette spalancare le imposte della finestra per non morir soffocato. Quell'apparizione del Diavolo in persona e di tutti i Diavoletti, non gl'impedì poco dopo di dormire saporitamente, né di sognar l'arrosto, che si era assicurato vita naturale durante. Però la mattina dopo ebbe una chiamata che gli fece arricciare il naso. Un novizio andò in cucina a dirgli che il Padre guardiano lo aspettava. - Che vorrà? - diceva fra se stesso fra' Gaudenzio, prendendo un aspetto umile per presentarsi al superiore. - Qui gatta ci cova! Fra' Bonifacio lo attendeva ritto in una stanzetta attigua al refettorio, e appena lo vide lo squadrò da capo a piedi come farebbe un giudice. - Fra' Gaudenzio, chi non può mentire né sbagliare mi ha detto che tu hai commesso un sacrilegio; dov'è il teschio del glorioso fra' Amalziabene? Allorché Iddio domandò a Caino che cosa aveva fatto del fratel suo Abele, il fratricida non ebbe maggiore spavento che fra' Gaudenzio quando si sentì fare quella domanda a bruciapelo dal suo superiore. Tremò, impallidì e non ebbe fiato di rispondere. - Dico a te, fratello, - ribatté il Padre guardiano in tono fermo. - Sono forse un becchino, io, Padre reverendo? Non mi muovo mai dal focolare e non bazzico certo nelle tombe! - rispose fra' Gaudenzio dopo un momento. - Le tue parole non significano nulla. Io ti ho rivolto una domanda precisa, perché il tuo sacrilegio mi è noto, e voglio da te risposta eguale. - Io non posso darvene, Padre reverendo, perché non so nulla. - Ebbene, va' nella tua cella e medita sul tuo peccato. Da qui a tre giorni, se non mi avrai detto dov'è il teschio del glorioso fra' Amalziabene, tu sarai cacciato dal convento. - Faccio la santa ubbidienza; ma dopo tre giorni, Padre reverendo, vi darò la stessa risposta d'oggi; e intanto, chi cucinerà per il convento? - Non ci pensare; rifletti piuttosto sul tuo peccato e pèntiti. Dopo la fondazione dell'Ordine nessun frate ha meritato la pena che san Francesco stesso, apparsomi in chiesa, mi ha imposto di darti per servire d'esempio agli altri. Fra' Gaudenzio non fiatò, e appena fu nella sua cella incominciò a tremare e piangere, dicendo: - Diavolo, rendimi il teschio di fra' Amalziabene; rendimelo, te ne supplico, te ne scongiuro! Ma il Diavolo non gli rispondeva, e fra' Gaudenzio continuava a piangere come una vite tagliata. Era sgomentato dalla punizione di esser cacciato dal convento e di dover andar ramingo per il mondo, e forse morir sulla forca. In convento ci stava al sicuro, e ora cosa sarebbe accaduto di lui? - Povero me! - ripeteva. E intanto si faceva notte e nessuno si rammentava che egli non aveva mangiato dalla sera avanti. Per i frati era un reprobo, un dannato al quale nessuno osava più accostarsi. Quando sul grande bosco di abeti e cipressi che circonda la Verna furono scese le tenebre, fra' Gaudenzio cadde stanco di sonno e di fame sullo strapunto; ma appena ebbe chiusi gli occhi vide un gran chiarore e, alzando lo sguardo al soffitto, scòrse il drago con la gola di fuoco. - Eccoti l'arrosto, fra' Gaudenzio, - disse il Diavolo lasciandogli cadere accanto un porcellin di latte, di un bel color d'oro, cotto a puntino, e che faceva gola soltanto a vederlo. - Non ne voglio del tuo arrosto, Satana. Mi hai da rendere il teschio di fra' Amalziabene, se no son rovinato. Il Diavolo fece una risataccia e sparì. L'odore che tramandava il porcellin di latte era tanto appetitoso, e la fame di fra' Gaudenzio era così grande, che, senza pensare ad altro, staccò una coscina e la mangiò, e dopo quella le altre tre e poi la schiena, la testa; insomma, a farla breve, in capo a un'ora, dell'arrosto del Diavolo non ci restavano altro che gli ossi, e quelli li mangiò un gatto, che aveva gli occhi che facevan lume, e che era entrato nella cella senz'aprir l'uscio. Ma appena fra' Gaudenzio ebbe nello stomaco il cibo preparato nell'Inferno, svanì ogni timore della pena promessagli dal Padre guardiano, e provò molta contentezza per avere fatto lo spregio al teschio di fra' Amalziabene. - Son contento, - diceva stropicciandosi le mani. - Così quel frate giallo quando sentirà sonare la tromba del Giudizio Finale, si dovrà arrabattare per ritrovare il suo teschio; e se non va all'Inferno a cercarlo, resterà senza! Dopo aver fatto quella buona cena, fra' Gaudenzio si riaddormentò, e la mattina, nel destarsi, provò desiderio che il termine assegnatogli dal Padre guardiano giungesse presto. - Ieri, - diceva, - sono rimasto davanti a lui tutto impappinato; ma quando m'interrogherà gli saprò rispondere a tono, e se mi vuol cacciare dal convento, tanto meglio: l'arrosto me lo sono assicurato, e a procacciarsi il pane non ci vuol gran fatica. La sera, alla solit'ora, si spalancò di nuovo il soffitto, e il Diavolo con la testa di drago gli disse: - Buona sera, fra' Gaudenzio. - Buona sera. Tienlo pure quel teschio di frate, io non so che farmene, - disse il cuoco. - Mi fa piacere che tu abbia messo giudizio, - replicò il Diavolo. - Tanto quel teschio non te lo rendevo né con le buone né con le cattive. La sera, quando siamo tutti a cena nell'Inferno, ci versiamo il vino che, in quel boccale, acquista un sapore squisito. Mangia, fra' Gaudenzio, e non ti far cattivo sangue. Nel dir così lasciò cadere nella cella una bella lombata di vitella, cotta a puntino, che mandava un odore capace di risuscitare un morto; poi sparì. Fra' Gaudenzio pensò che quell'arrosto sarebbe stato anche migliore mangiato con un pezzo di pane e annaffiato da un fiasco di vin vecchio, e sapendo che a quell'ora tutti i fratelli dormivan la grossa, andò in dispensa, prese il pane, e poi scese in cantina e prese un fiasco di quel vino che serbavano per dir la messa. Ritornato in cella mangiò l'arrosto fin all'osso, e questo lo dette al solito gatto con gli occhi che facevan lume, e dopo aver veduto il fondo del fiasco, si coricò e dormì come un ghiro. Il giorno dopo si destò tardi, svegliato dal rumore del tuono. Si alzò e stava al buio, non osando aprire le imposte di legno, quando sentì avvicinarsi gente all'uscio della cella e bussare. Fra' Gaudenzio, che aveva messo il paletto, disse fra sé: - Per due giorni mi hanno dimenticato, e se avessi aspettato la loro carità, sarei morto di fame; se ora si rammentano di me, vuol dire che mi preparan qualche brutto tiro; tutto sommato è meglio lasciarli bussare. Il rumore continuo del tuono rintronava tutta la cella, e i bagliori dei lampi la illuminavano ogni momento; ma fra' Gaudenzio non aveva paura e gongolava, sentendo che di fuori continuavano a bussare all'uscio. Finalmente si fece udir la voce di fra' Bonifacio, non più imperiosa come due giorni prima, ma supplichevole. - Apri, fra' Gaudenzio, per l'amor di Dio! - Padre reverendo, - rispose il frate facendo la voce debole, - son due giorni che non ho preso cibo, e non ho forza di scender dal letto. - Dimmi, fra' Gaudenzio, dove hai nascosto il teschio di fra' Amalziabene. Non senti che il Cielo si scatena contro il convento perché accoglie un sacrilego? - Non sento nulla, - disse il frate ridendo. - Fra' Gaudenzio, non ti ostinare nel diniego. Già tre fulmini sono caduti sulla casa, ma per fortuna nessun fratello è morto. Dimmi dov'è il teschio! Fra' Gaudenzio si ricordò di aver veduto un teschio in un sotterraneo della chiesa di San Salvadore, che era in Valle Santa, e rispose a fra' Bonifacio: - Giacché son vicino a morte, voglio confessare il mio fallo; il teschio di fra' Amalziabene lo portai nel sotterraneo di San Salvadore, per avere una reliquia del nostro glorioso fratello. Fra' Bonifacio, appena ebbe udito questo, s'incamminò salmodiando, sotto la pioggia battente, alla testa dei suoi frati, verso la detta chiesa, e, trovato il teschio nel luogo indicato dal cuoco, lo sollevò da terra con grande venerazione e lo portò con le sue mani nella tomba di fra' Amalziabene. Il temporale cessò, e fra' Bonifacio pensava qual punizione infliggere al cuoco, quando un frate andò di corsa ad avvertirlo che il lato del convento dove era la cella di fra' Gaudenzio ardeva, probabilmente per la caduta di un fulmine. Il Padre guardiano dimenticò in quell'istante tutto il giusto risentimento che nutriva verso fra' Gaudenzio, e direttosi alla cella di lui, bussò forte all'uscio, dicendogli: - Fratello, fa' uno sforzo e apri; le fiamme salgono sulla tua cella. - Lasciale salire, Padre reverendo, io non ho forza di muovermi. Allora di fuori i frati si diedero ad urtare con pali contro l'uscio per abbatterlo; e fra' Gaudenzio, che non vedeva le fiamme, rideva, sentendo che si affannavan tanto per salvarlo mentre non correva nessun pericolo. Batti e batti, l'uscio alfine cedé, e quando i frati stavano per penetrare nella cella, videro il Diavolo con la testa di drago e la gola di brace, che stava nel vano a impedire loro il passaggio. Essi fuggirono spaventati, e in un momento le pareti della cella crollarono con gran fracasso e attorno al letto su cui giaceva fra' Gaudenzio, si formò come una fornace ardente; le fiamme salivano dal pavimento, penetravano dalle stanze vicine e già il frate si sentiva ardere i capelli e la barba e scottare le carni. - È questa la lunga vita che mi hai promesso? - diss'egli al Diavolo in tono di rimprovero. - Se ti preme la vita, te la concedo eterna, - rispose Satana. - Ma l'arrosto? - domandò fra' Gaudenzio. - L'avrai tutti i giorni. - Allora son tuo. Appena fra' Gaudenzio ebbe detto queste parole, si sentì sollevato dal mostro dalla faccia di drago e dai Diavoletti, i quali formarono sotto a lui come una nube densa, e dopo averlo spinto sopra al tetto, lo trascinarono in un burrone profondo, che si spalancò per inghiottirlo. Il convento continuò a ardere dal lato della cella di fra' Gaudenzio, e i frati, che si erano tutti rifugiati in chiesa a pregare, e non avevan veduto come egli fosse stato portato via, credettero che avesse trovato la morte nelle fiamme. Però capirono che fra' Gaudenzio, prima di morire, aveva ingannato il Padre guardiano, perché il teschio portato in processione nella tomba di lui, fu trovato il giorno dopo sul praticello dinanzi alla cappella degli Angioli, e per quante volte lo collocarono accanto alla salma di fra' Amalziabene, per altrettante lo trovarono or qua or là, ma mai al posto ove lo mettevano. E qui la novella è finita. Intanto il temporale era cessato e la Vezzosa staccava già, dal chiodo cui l'aveva appeso, il cappotto del babbo, per tornarsene a casa, quando Maso le disse: - Aspetta che ti accompagnamo; due passi non ci faranno male; e poi ho da dire una cosa a tuo padre. Un istante dopo tutti i Marcucci erano fuori con la Vezzosa, la quale, accostatasi a Cecco, gli disse: - Sentite, Cecco, ho da chiedervi un favore. - Dite pure. - Me lo potete lasciare per qualche giorno quel libro di Silvio Pellico? l'ho letto già ma non so staccarmene, e mentre mi fa piangere, mi pare che mi renda più buona e m'insegni a esser tollerante, e sapete se della tolleranza ne ho bisogno! - Tenetelo pure per sempre, - rispose il giovane. - Ma ad un patto. - Quale? - Che nel leggerlo pensiate a chi l'ha tanto letto prima di voi e ve l'ha dato. - Non dubitate, - rispose la Vezzosa. E siccome era giunta a casa sua, lasciò i Marcucci a parlare col babbo e corse in camera.

. - Hai ragione e non se ne parli più; ma si direbbe che, con l'ammalarsi proprio ora, abbia voluto farci un dispetto. - In ogni modo sarà l'ultimo, - rispose la ragazza, guardando con fiducia il suo promesso sposo. - Davvero, sarà l'ultimo! - Che cosa avete da dirvi in segreto? - domandò a Cecco e a Vezzosa quella monelluccia dell'Annina. Il giovane riferì il loro colloquio e tutti dettero ragione a Vezzosa, e la proclamarono prudente e assennata. Ogni giorno quella ragazza conquistava maggiormente l'affetto e la stima dei suoi futuri parenti. Regina poi l'adorava, e pareva che ringiovanisse quando l'aveva accanto e la sentiva parlare col suo Cecco. Quella sera se l'attirò nel canto del fuoco, che non aveva ancora abbandonato, benché l'aprile fosse vicino, e le disse commossa: - Tu sei la mia ultima consolazione! Vezzosa, per interrompere quel discorso, la pregò di raccontare la novella, e la Regina, dopo essersi asciugate le lacrime, prese a dire: - C'era una volta un oste di Poppi, che era l'uomo più temuto di tutti questi dintorni. Egli non conosceva scrupoli, e, pur di ammassare quattrini, avrebbe rinnegato Cristo. Non c'era affare losco in cui non fosse mescolato, ma nessuno osava accusarlo pubblicamente, perché avea nomèa di feroce, vendicativo e sanguinario. Messer Cione ogni momento perdeva un parente, e il popolo di Poppi diceva che questo avveniva in punizione dei suoi peccati. In pochi anni gli era morto il padre, poi la madre, i fratelli, due figli e per ultimo la moglie, una creatura buona e paziente, che sopportava tutte le prepotenze del marito senza lagnarsi. Credete che per questo messer Cione si mostrasse abbattuto? Neppur per idea. Non s'era vestito a lutto, non aveva fatto dir messe per il riposo dei suoi morti, e a chi gli porgeva consolazioni, rispondeva: - Chi muore giace, e chi resta si dà pace! Il giorno dei Morti era sempre un giorno di lutto per gli abitanti di Poppi, com'è anche ora, e per tutti. La gente pensava ai proprî defunti, pregava per loro, assisteva alla messa e all'ufizio e portava ceri sulle tombe. Chi poteva, faceva elemosine e ordinava messe, e sarebbe parso un sacrilegio, in quel giorno funebre, di divertirsi. Messer Cione non solo non pregava né si mostrava afflitto, ma canzonava ben bene, di sulla porta dell'osteria, vuota di avventori, quelli che andavano in chiesa a pregare. - Chi muore giace, e chi resta si dà pace! - ripeteva egli. Le donne, nell'udirlo dir così, si facevano il segno della croce; gli uomini abbassavano il capo senza rispondergli: ma sì gli uni che le altre lo riputavano empio, e avrebbero scommesso chi sa che cosa che era già dannato avanti di morire. Un anno, il dì dei Morti, durante la messa, s'era fatto vedere a tavola davanti all'osteria a mangiare e bere con due o tre soggettacci di Romena, gente che lo aiutava nelle faccende losche; quando ebbe mangiato a strippapelle, si fece portare i dadi e si mise a giocare e giuocò tutto il santo giorno, dando scandalo a quanti passavano. La sera, mezzo brillo, accompagnò i tre soggettacci fino a Romena, e dopo di aver fatto baldoria anche là, se ne tornò a Poppi cantando una canzonaccia. Quando passava davanti alle immagini della Madonna, murate nella cappellina o sulle facciate delle case de' contadini, batteva col bastone l'erba delle prode, senza aver paura di ferire le anime che in quella notte popolano la campagna. Così cantando e agitando il bastone, giunse a un punto dove facevano capo due vie scendenti da Poppi. La più lunga era posta sotto la custodia del Signore, mentre la più corta era frequentata dai morti. Molta gente, nel passarvi di notte, aveva veduto cose da raccapricciare; ma nessuno osava raccontarle, altro che in mezzo a una brigata numerosa. Messer Cione, per altro, non aveva paura neppur del Diavolo, e prese la via più breve fischiettando allegramente. Era una notte senza luna e senza stelle e il vento impetuoso faceva turbinare le foglie; i cespugli tremavano come persone che avessero paura, e in mezzo a quel silenzio i passi di messer Cione echeggiavano sinistramente; ma egli non aveva paura. Passando accanto a una casa abbandonata, sentì la banderuola che diceva: - Torna addietro! Torna addietro! Torna addietro! Messer Cione non badò a quell'avvertimento, e giunse a un rigagnolo, ingrossato dalla pioggia caduta poco prima, che diceva: - Non passare! Non passare! Egli non badò neppure a questo secondo avvertimento, e, posato il piede sui sassi che erano attraverso il rigagnolo, passò dal lato opposto. Giunto che fu a una vecchia quercia, col tronco vuoto e coi rami scossi dal vento, sentì dire: - Resta qui! Resta qui! Resta qui! Ma ser Cione percosse l'albero col bastone che aveva in mano e affrettò il passo. Alla fine penetrò nel luogo dove bazzicavano le anime. In quel momento, all'orologio di Poppi e a quelli dei castelli vicini, scoccò la mezzanotte. Un altro sarebbe scappato; ser Cione invece, per dar prova di coraggio, si mise a cantare una canzonaccia. Ma nel tempo che cantava la quarta strofa sentì il rumore di una carretta tirata da cavalli senza ferrare, e la vide, infatti, nel buio, che si avvicinava a lui, coperta di una coltre da defunto. Allorché la carretta fu a breve distanza, la riconobbe per la carretta della Morte. Era tirata da quattro cavalli neri, con le code così lunghe che spazzavano il terreno. Seduta sopra una stanga stava la Morte in persona, con una frusta di ferro in mano e ripeteva sempre: - Tirati da parte o ti metto sotto! Tirati da parte o ti metto sotto! Ser Cione si scansò, ma senza turbarsi. - Che fai qui, madonna Morte? - le domandò sfacciatamente. - Prendo, sorprendo e porto via, - rispose il brutto fantasma col viso di scheletro. - Sei dunque una ladra e una traditrice? - continuò ser Cione. - Sono quella che colpisce senza sguardo e senza riguardo. - Cioè una sciocca ed un'assassina. Allora non mi stupirebbe che in codesta carretta tu ci avessi dei compari per darti manforte a commettere le tue infamie. Ma, dimmi un po', perché hai tanta fretta e martorizzi i poveri cavalli con codesta frusta di ferro, che non ho mai veduto usare da nessuno? - Sappi, - rispose il fantasma, - che debbo andare a prendere messer Cione, l'oste di Poppi. Addio! Ciò detto frustò i cavalli, e via. Ser Cione si mise a ridere e non si turbò per questo. Nel giungere a una siepe di pruni, che metteva al lavatoio, vide due donne bianche e belle, che sciorinavano i panni di bucato. - Perbacco! - disse, - ecco due ragazze che non hanno paura del sereno! Perché, belle fanciulle, state fuori a quest'ora? Il coprifuoco è sonato da un bel pezzo, e a Poppi non potrete entrare fino a domattina. Siccome io pure ho fatto tardi, non sarebbe male d'ingannare il tempo ciarlando; che cosa fate? - Noi laviamo! - risposero le due donne. - Me ne rallegro tanto, ma ora non lavate. - Ora rasciughiamo, - soggiunsero le due donne. - Con questa nottata non rasciugherete neppure un moccichino. - Non dubitare, rasciugheremo, e intanto ci metteremo a cucire. - Che cosa? - domandò l'oste. - Il lenzuolo del morto che cammina e parla ancora. - Ditemi un po', come si chiama questo morto? - Messer Cione, l'oste di Poppi, - risposero le donne. Ser Cione rise più forte della prima volta quando aveva inteso pronunziare il suo nome dal fantasma della carretta, e salì per la viottola che menava al paese. Ma più andava avanti e più gli giungevano distinti all'orecchio i colpi che facevano altre lavandaie di notte, sbattendo i panni sulle pietre del rigagnolo. A un tratto le scòrse e vide che battevano un lenzuolo funereo, cantando il triste ritornello: Se cristian non ci viene a salvare, Sempre sempre bisogna lavare; Prepariamo il lenzuolo pel morto, Che dev'esser qui dentro ravvolto. Appena le lavandaie di notte videro giunger l'oste, cessarono il canto, si misero a gridare, e, correndogli incontro, gli presentarono il lenzuolo imponendogli di aiutarle a torcerlo per farne uscir l'acqua. - Non si rifiuta mai un piccolo servigio ... - rispose ser Cione. - Ma aspettate un momento, perché non ho altro che due mani. Allora posò in terra il bastone, e preso uno dei due capi del lenzuolo che gli presentava la morta, si diede a voltolarlo nello stesso senso in cui ella lo torceva, perché aveva sentito dire dai vecchi che quello era il solo mezzo per non essere torto come il lenzuolo e spremuto. Ma appena ebbe strizzato l'acqua dal lenzuolo della prima morta che gli s'era avvicinata, ne giunse una seconda, poi una terza e molte altre ancora, e tutte circondarono ser Cione pregandolo di aiutarle. Fra tutte quelle donne riconobbe sua madre, sua moglie, le sorelle e le figlie, e quando s'era affaticato a torcere il lenzuolo che gli presentavano, per ringraziamento glielo sbattevano in faccia e gridavano: - Maledetto colui che lascia patire i suoi nel Purgatorio! Maledetto in eterno! E tutte quelle morte scotevano i capelli, alzavano i lenzuoli bianchi, e lungo tutti i fossi del monte e della valle, lungo tutte le siepi, da tutte le vette, migliaia e migliaia di voci ripetevano: - Maledetto colui che lascia patire i suoi nel Purgatorio! Maledetto in eterno! Ser Cione si sentì rizzare tutti i capelli sulla testa, ma seguitava a voltare il lenzuolo nel senso che torceva la morta per non essere torto e spremuto anche lui. Così lavorò fino all'alba sudando freddo, circondato da uno stuolo di morte, che urlavano: - Maledetto colui che lascia patire i suoi nel Purgatorio! Maledetto in eterno! E dalla valle, dalle balze dei monti, dalle vette, partiva lo stesso grido di maledizione, che l'eco ripeteva migliaia e migliaia di volte. Ma appena l'alba incominciò a imbiancare il cielo, le morte sparirono a una a una, e ser Cione, spossato da tanto terrore, cadde in terra e dormì come un ciocco. Credete che ser Cione nel destarsi fosse pentito? Neppur per idea! Si stropicciò gli occhi e disse fra sé: - Guarda un po' che brutti sogni si fanno quando s'è bevuto un bicchiere di vino di più! Pare impossibile! E cantando tornò a casa sua, aprì l'osteria come al solito, senza serbare sul faccione di luna piena nessuna traccia della paura della notte. E per tutto quell'anno seguitò, come se non fosse stato nulla, a canzonar quelli che andavano in chiesa, che si levavano il boccon dalla bocca per fare elemosine, e ascoltavano messe per i loro defunti. E anche quell'anno ser Cione commise un sacco di ribalderie insieme con altri furfanti del vicinato, e andò lì lì per esser preso sul fatto e impiccato. Ritornò il giorno dei Morti, la triste giornata autunnale in cui tutti avevano la mente rivolta ai loro defunti e pregavano, affinché fossero sollevati dalle pene del Purgatorio. Ser Cione, fin dalla mattina, si mise sulla porta dell'osteria a canzonare quelli che andavano in chiesa, e vedendo passare un lungo stuolo di donne, che dicevano devotamente il De profundis si mise a urlare: - Sgolatevi pure, tanto i ragli degli asini non giungono in Paradiso! Tutto il paese era scandalizzato dalle parole di ser Cione, il quale, avendo invitato come di solito a far baldoria tutti i malanni di Poppi e dei paesi vicini, bevve per dieci, e dopo si diede a percorrere la campagna cantando a squarciagola. A uno a uno i suoi compagni lo lasciarono per tornar alle loro case, ed egli, vedendo che aveva fatto tardi e che al paese non poteva tornare, perché a quell'ora le porte eran chiuse, si rassegnò a passar la notte al sereno, tanto la serata era calma e la pioggia né la neve minacciavano di cadere. Tagliò dunque col coltello, che portava sempre seco, alcuni rami secchi dalle siepi e dagli alberi, e accese una bella fiammata in un punto riparato, a ridosso di un vecchio muro. Appena la fiamma divampò, ser Cione vide un fantasma bianco, rinvoltato in un sudicio lenzuolo a brandelli, accostarsi a lui. - Vattene! - disse ser Cione, - non permetto che altri si scaldi alla mia fiamma. - Lo so che sei un uomo senza cuore, che non hai pietà né dei vivi né dei morti, ma per questa notte io non mi muoverò di qui, - rispose il fantasma, e si sedé davanti alla fiamma. Poco dopo giunse un secondo fantasma avvolto in un lenzuolo anche più sudicio e più sbrandellato di quello dell'altro. - Vattene! - gli disse ser Cione, - non voglio tanta marmaglia d'intorno a me. - So bene che hai una pietra nel posto del cuore, - rispose il secondo fantasma, - che non hai pietà né dei vivi né dei morti; ma per questa notte non mi moverò di qui. Si sedé accanto al fuoco, e quindi soggiunse, rivolgendosi all'altro fantasma: - Ti rammenti come eravamo felici quando ci nacque quel figlio, moglie mia? - Se me ne rammento! Ogni lacrima che mi è costato, mi ha fatto ripensare a quel momento di gioia, marito caro. Io ti ho sopravvissuto, e non puoi credere quello che egli mi abbia fatto patire. Mi sottoponeva alle più dure fatiche, mi maltrattava, mi contava i bocconi, e lui stava tutto il giorno a bere, a bestemmiare e a far di peggio. Tuttavia gli avrei perdonato tutto, se una volta avesse ascoltato una messa, o avesse fatto un'elemosina per sollevare l'anima mia dalle pene del Purgatorio; ma invece quel birbante gozzoviglia in questo giorno sacro a noi, e non ha un pensiero per i suoi morti. Ser Cione, seccato da quei discorsi, si era già alzato per andarsene, maledicendo gl'importuni, ma sentì due mani gelate prenderlo per il viso e trattenerlo dov'era. - Questo è troppo! - esclamò egli. - Io voglio stare dove mi pare e andarmene dove mi accomoda. - Per questa notte, - disse il terzo fantasma, che lo aveva trattenuto, - tu devi ascoltare i nostri lamenti, poiché avrai capito che quei due che parlavano di te furon tuo padre e tua madre, come io fui tua moglie. Ora verranno gli altri morti della nostra famiglia, e spero che t'impediranno di andartene. Ser Cione, di riffa o di raffa, dovette star dov'era, e i due vecchi continuarono i loro lamenti, intanto che la moglie guardava di qua e di là come se aspettasse qualcuno. Finalmente si alzò e corse incontro a due angioletti bianchi, che volarono a lei con le faccine sorridenti, soffuse di luce. La donna li baciò piangendo di gioia: - Ecco i nostri figli, - diss'ella a ser Cione. - Come vedi non hanno bisogno delle tue preghiere, perché sono in Cielo; ma se tu avessi fatto dire qualche messa per me, non sarei più divisa da loro. Di questo solo mi dolgo con te, perché ti era così facile far cessare la nostra separazione. Ser Cione non parlava e neppure osava avvicinarsi ai due angioletti, che s'erano accostati alla mamma e le facevano mille carezze, mentre per lui non avevano nessuno sguardo, nessuna parola. I due vecchi intanto continuavano a imprecare a quello snaturato figliuolo, e alla loro voce si univa quella delle sorelle di ser Cione, sopraggiunte allora e anch'esse avvolte in lenzuoli funerei. Il solo vivo, in mezzo a tutti que' morti, non era più calmo e sprezzante come l'anno prima quando capitò in mezzo alle lavandaie di notte, che gli fecero torcere i lenzuoli funerei, né come poco avanti quando sentiva parlare il padre, la madre e la moglie. Dacché aveva veduto i suoi due bimbi, si sentiva una smania, una irrequietezza che non aveva mai provate. Avrebbe voluto baciare quei due angioletti, ma temeva di vedersi respinto da loro e stava a guardarli intenerito, ripensando a come era triste, ora, nel mondo, senza nessuno. Intanto il vecchio, la vecchia e le sorelle di ser Cione gridavano: - Maledetto colui che non ha pietà dei suoi morti! Maledetto in eterno! - Maledetto in eterno! - rispondevano le anime sparse nella campagna e alle quali è concesso, una volta l'anno, di tornare in terra. A un tratto ser Cione scoppiò in singhiozzi. - Son dannato, - diceva, - chi mi salverà? Tutti, tutti mi maledicono! La moglie del ribaldo strinse a sé i due bambini e alternava i baci con le parole che sussurrava loro nell'orecchio. I due piccini risposero alle suppliche di lei: - Non dubitare, mamma, addio! - E per me non c'è neppure un saluto? - domandò ser Cione ai figli. - Per ora no; ma torneremo presto, prestissimo. E volarono su, agili come due colombi. In breve, il chiarore che mandavano si confuse con quello delle stelle che erano sparse nel firmamento. I fantasmi, adunati intorno a ser Cione, non cessavano di lagnarsi di lui, ma egli non li udiva. Aveva nascosta la testa fra le mani e continuava a piangere dalla vergogna dei suoi peccati. La moglie sola non univa la sua voce a quella degli altri, non imprecava contro di lui, ma sibbene pregava per il suo ravvedimento e teneva l'occhio rivolto al cielo, da cui sperava di veder discendere i suoi due angioletti, che erano andati messaggieri a Dio. Ser Cione accostò la bocca all'orecchio della moglie, e le disse: - Credi tu che un uomo macchiato di peccati possa salvarsi? - Lo credo fermamente, - rispose ella. - E con qual mezzo? - Col vero e sincero pentimento, col pentimento che nasce più dal dolore di avere offeso Iddio e di aver recato danno al prossimo, che dal desiderio di sfuggire una punizione eterna, meritata dai peccati. - Io lo provo, questo pentimento, perché ho vergogna di quel che ho fatto, perché soffrirei mille pene, pure di cancellare la mia vita. - Ma senti tu, insieme a questo pentimento, la forza di incominciare un'altra vita, onesta, tutta diversa da quella passata? - La sento, anima santa, e il miracolo non l'hanno operato i miei vecchi con le loro aspre parole, non l'hanno operato le altre anime di morti con le loro maledizioni, ma l'hai operato tu, con la tua dolcezza. Nel vedermi guardare a quel modo dai nostri angioletti ho conosciuto la mia abiezione, ho avuto vergogna e ho sentito che cos'è rimorso e pentimento. In quell'istante ser Cione vide una striscia luminosa solcare lo spazio, e pochi secondi dopo udì due vocine dolci, due vocine care che cantavano: - Osanna! Iddio è grande e misericordioso verso i peccatori pentiti! - Senti, - disse il fantasma della moglie di ser Cione, - sono i nostri figli che tornano dal Cielo e ti portano la grazia; cerca di meritarla. Il solo vivente in quel consesso di morti, cadde in ginocchio, e le sue labbra mormorarono le preghiere imparate da bambino, mentre il suo cuore si dischiuse alla speranza. I due angioletti gli posarono le manine sulla testa, accarezzarono il volto paterno e volarono su nell'etere cantando: - Osanna! Osanna! L'alba incominciava a imbiancare il cielo, e i defunti di ser Cione sparirono a uno a uno, gridandogli: - Maledetto colui che non ha pietà dei suoi morti! Maledetto in eterno! La moglie lo lasciò, invece, dicendogli: - Persevera nel pentimento, lavora per meritarti il Cielo, e allora saremo uniti, uniti per sempre. Il sole, nel levarsi, trovò ser Cione allo stesso posto nel quale lo avevano lasciato i suoi morti, con le mani congiunte e l'occhio rivolto al cielo, dove aveva veduto salire i suoi angioletti. - Che sia stato un sogno? - esclamò egli; ma subito dopo aggiunse: - Anche se così fosse, che bel sogno! Salì a Poppi, e invece di andare a casa sua e mettersi a schernire i devoti dalla porta dell'osteria, entrò nella chiesa di San Fedele, s'inginocchiò in un angolo e si mise a pregare come ogni buon cristiano. Dopo aver lungamente pregato, specialmente per i suoi morti, andò in sagrestia e pose nella mano di un frate tutti i soldi che aveva in tasca, dicendo: - Dite tante messe per le anime dei miei poveri defunti! Il frate, che lo conosceva per un malandrino, sgranò tanto d'occhi, e tutti quelli che lo videro in chiesa, andarono a sparger la voce che ser Cione s'era ravveduto, che ser Cione voleva diventar santo. Quel giorno egli non aprì l'osteria e non l'aprì mai più. Dava ai poveri larghe elemosine, pregava, faceva dir messe per i suoi morti ed evitava d'incontrare i suoi antichi compagni di vita peccaminosa. Se però li vedeva, diceva loro: - Fratelli, ravvedetevi! Le soddisfazioni terrene sono fugaci, le punizioni sono eterne! A Poppi tutti erano edificati di quel cambiamento repentino, e le persone buone e pie, che prima egli aveva offese, ora si avvicinavano a lui e lo esortavano a perseverare nella via del pentimento, nella via che conduce alla salvezza. Ma tutte queste esortazioni non sarebbero bastate, se, durante la notte, non fossero scesi al capezzale dell'uomo solo, privo di famiglia, i suoi due angioletti bianchi, e non gli avessero fatto sulla fronte una lieve e dolce carezza. Così pregando, facendo elemosine e lavorando faticosamente per alleviare le fatiche di quelli che erano deboli o vecchi, ser Cione visse un anno ancora, e la notte dei Morti spirò dolcemente, sentendosi accarezzare la fronte dai suoi due angioletti; spirò da buon cristiano, e le benedizioni di quelli che aveva beneficati lo accompagnarono fin alla tomba e financo al di là, perché molti cuori sono riconoscenti anche dopo che il beneficio è cessato. Si dice che l'anima di ser Cione, che sconta ancora in Purgatorio una parte dei peccati che non ha potuto scontare in vita, torni, nella notte dei Morti, a esortare i peccatori di Poppi a ravvedersi e li attenda per le vie. Almeno così dicono molti che si sono pentiti e che da quell'anima hanno saputo la storia della vita di ser Cione e della sua morte, che altrimenti sarebbe da lunghi e lunghi anni dimenticata. - E qui, figliuoli, la novella è finita, - disse la Regina. - Quest'altra domenica ve ne racconterò una più lieta, più gaia, che vi farà ridere e non vi farà sognare i morti e le anime del Purgatorio. - Come la intitolerete, nonna? - domandò l'Annina. - Non te lo voglio dire; lo saprai domenica. - E domenica sapremo anche quando si faranno le nozze, perché fra otto giorni la tua matrigna sarà guarita, - aggiunse la bambinetta rivolgendosi a Vezzosa. - E domenica, - disse la Carola, - faremo anche i regali alla nostra cara sposina. Non son doni ricchi, ma glieli faremo col cuore. Noi donne specialmente non abbiamo altro che quei pochi soldi che si ricavano vendendo le uova, i polli e i piccioni, e possiamo spender poco; ma quei regalucci le mostreranno che le si vuol bene e che si accetta volentieri in casa nostra. La massaia, come al solito, aveva parlato a nome di tutte le cognate. Cecco era così commosso da quelle buone parole, che uscì e si mise a fischiare per non far vedere i lucciconi; la Vezzosa si era stretta un bambino al petto e lo baciava, tanto per isfogare il suo bisogno d'espansione, e la Regina piangeva. - E che son cotesti lacrimoni! - esclamò Maso. - Mamma, bisogna ridere e non far codesta faccia da funerale. - Quando siam vecchi, - rispose la Regina, - ci si commuove e si piange facilmente. Ma vedrete che saprò ridere il giorno delle nozze, e voglio fare anch'io due sgambetti quando gli altri balleranno. - Così va bene! - esclamò Maso. - Gente allegra, Iddio l'aiuta! Uscirono tutti, meno che le donne, per riaccompagnare le ragazze che erano state a veglia, e s'imbatterono nel padre di Vezzosa, che veniva di corsa a chiamarla. - Che è stato? - gli domandò la figlia. - Vieni presto, devo correre dal medico, la Maria delira, si vuol levare dal letto e le tre ragazze non son buone a trattenerla. Vezzosa disse appena buona notte a tutti e corse via. Cecco la seguì a distanza insieme con gli altri. E quando tutte le ragazze che erano state a veglia furono riaccompagnate a casa, egli, invece di tornare insieme con i fratelli al podere di Farneta, se ne andò mogio mogio a casa di Vezzosa. Ma per non disturbarla bussando, poiché la porta era chiusa, si sedé sopra un muricciuolo aspettando che qualcuno comparisse alla finestra o sull'uscio; e con l'occhio fisso sulla casetta bianca, che pareva un masso di neve illuminata in pieno dalla luna, si mise a pensare all'avvenire. Egli si struggeva non potendo aiutare Vezzosa nelle sue faccende, e non vedeva il momento di essere unito a lei per sempre e di dividerne le gioie e i dolori. A un tratto, senza riflettere, si mise a cantare una canzone del paese. Sentiva il bisogno di dire a Vezzosa che le era vicino e che vegliava anche lui. Dopo poco che aveva incominciato a cantare, sentì aprir l'uscio della cucina, e nel vano vide comparire la bella ragazza. Cecco corse a lei con uno slancio, come se non l'avesse veduta da un anno. - Grazie, - gli diss'ella, - di esser rimasto vicino a me. Cecco mio, la mia matrigna lotta davvero con la morte. In questo momento svaniscono in me tutti i risentimenti, e mi pento e mi dolgo di non essere stata più buona con lei in passato. Cecco strinse le mani della sua fidanzata, quasi volesse ringraziarla di esser così buona. In quel momento si udì un rumore di sonagli sulla via maestra, e di lì a poco comparve il calesse del dottore. Momo era stato a chiamarlo sull'imbrunire, e il dottore, scendendo, si scusava di non esser potuto venir prima. Cecco entrò in casa dietro al medico, e fu lieto di perder la nottata per potere ammirare la diligenza e l'affetto di cui dava prova la sua Vezzosa nell'assistere la matrigna.

Come sapete, il cavallo morì sulla soglia del castello di Romena, e vi sarete figurati, senza che io ve lo abbia detto, che il padron suo gli serbò gratitudine e gli fece dare onorata sepoltura. Quello che non vi potete figurare fu ciò che avvenne di Banfio. Il giullare, dunque, vedendosi privato del suo cavallo, chiese un compenso al conte di Porciano, il quale gli diede una borsa piena d'oro, ingiungendogli di partire al più presto. Ma Banfio, che stava bene nel palazzo dell'ospitale signore, s'indugiò alcuni giorni, e siccome era spesso invitato a bere ora dai soldati, ora dai terrazzani, seppe che si diceva esservi in quel castello un gran tesoro, e imparò anche la leggenda in versi che su quello correva. La leggenda, dunque, diceva: A Porciano, in Casentino, Tra una fonte ed uno spino, Si trova una campana d'oro fino, Che vale quanto tutto il Casentino. - È sempre bene a sapersi; - diceva Banfio, - ora partirò, ma potrei anche tornare a cercare questo gran tesoro. E partì, infatti, dopo essersi comprato un altro cavallo e averlo bardato con brandelli di panno rosso, penne e sonagli, per modo che si vedesse e si udisse da lontano. L'ideale vagheggiato da lungo tempo da Banfio era di andarsene alla corte del duca d'Urbino, che aveva fama del più liberale signore d'Italia. In quel tempo il Duca risiedeva a Gubbio, e fu verso quella città che si diresse il buffone. Come fosse ricevuto non so, ma devo ritenere che le cose non gli andassero tanto bene, perché cinque anni dopo, quando già il conte Gentile aveva ereditato il feudo del nonno, Banfio ricomparve in Casentino, non più a cavallo, ma a piedi, e in pessimo arnese, proprio come un gallo cui siano state levate le penne maestre. Anche d'umore non era più quello, ed era tanto invecchiato che pareva su di lui fossero passati quindici anni invece di cinque. Egli si recò a Porciano, e saputo che la profezia del suo balzano s'era avverata, si sentì tutto consolare fidando nella gratitudine del giovane signore. Infatti Gentile lo ricevé con molta cortesia appena fu giunto, e gli disse di trattenersi quanto voleva presso di lui e di non crucciarsi di nulla. Quest'assicurazione rese un poca dell'antica giovialità al povero Banfio, il quale per tenere allegra la contessa Clemenza tirò fuori dalla mente le vecchie barzellette e riuscì a far ridere tutta la sera la brigata. Ma lo scopo di Banfio non era quello di buscarsi gratis l'alloggio e il vitto in cambio di un paio di frizzi detti con garbo; egli s'era ficcato in mente di trovare il tesoro, e di diventar ricco come il soldano d'Egitto, che era reputato l'uomo più danaroso del mondo. Così, dopo la prima sera passata a divertire il conte Gentile e la nobile consorte di lui, Banfio pensò che era tempo di lavorare sul serio. Questo lavoro, secondo lui, consisteva nell'interrogare i vecchi, per raccogliere dalla loro bocca tutte le notizie che potevano dargli sulla campana d'oro fino e sul luogo dove si diceva che fosse. Andò dunque a trovare un vecchio Romito, che si diceva avesse più di cento anni, e viveva fra mezzo ai boschi dalla parte di Montemignaio. Alcuni tenevano quel vecchio in conto di stregone e assicuravano che in casa sua si davan convegno, la notte del sabato, le streghe. - Mi sapresti dire, - gli domandò Banfio, - dove siano quella tal fonte e quel tale spino fra i quali si trova la campana d'oro fino? - Se lo sapessi, a quest'ora la campana non ci sarebbe più ed io non mi sfamerei a castagne, - rispose il vecchio accennando il paiuolo che bolliva sul focolare. - Non è una ragione, - replicò Banfio. - Forse per trovar la campana bisognerà faticare, e tu non hai forza; mentre io ne ho ancora. Se tu m'indichi la fonte e lo spino, ti prometto di dividere con te il tesoro, - ribatté il giullare. - Non posso indicarti nulla perché non lo so; ma lo domanderò alle mie sorelle, che son più vecchie di me, e forse loro lo sapranno. Banfio sgranò tanto d'occhi nel sentire che il Romito aveva delle sorelle maggiori a lui, e pensò che se erano anche più brutte del vecchio, dovevan esser versiere in carne e in ossa; ma, per non offenderlo, prese un tono mellifluo e gli domandò: - E se le interrogassi io, quelle tue venerande sorelle? Io ho una certa maniera per far ciarlare le donne, proprio tutta mia. - Prova, - rispose il vecchio, - tanto più che Oliva, che è la maggiore, si lascia facilmente intenerire dalle paroline dolci. Se gliele dico io, non le fanno effetto, tant'è vero che m'ha fatto arrivare a quest'età senza volermi rivelare dove si trova la campana d'oro fino; ma se gliele dici tu, a voce bassa, nell'orecchio, è capace che ti faccia ricco come un Creso. Banfio gongolava, e già gli pareva di avere davanti agli occhi il misterioso tesoro di cui tutti parlavano senza averlo visto, quando il Romito gli disse a bruciapelo: - Conosco bene Oliva! se vuoi renderla dolce come il miele, le devi fare una promessa. - Quale? - Quella di sposarla! - replicò il Romito. - Ma non dici che è più vecchia di te? - Sì. - È grinzosa? - Sì. - È canuta? - Sì. - E io me la dovrei sposare, con tutti quegli anni e quei malanni addosso? - Faresti un affare d'oro, te lo dico io; Banfio, pensaci bene e ritorna sabato a mezzanotte. Oliva sarà qui certo, e allora combineremo. Banfio andò via un po' scoraggiato. L'idea di sposare la strega Oliva, più vecchia del Romito, non gli sorrideva punto. Però Banfio era uno di quegli uomini che non possono stare lungamente abbattuti, e fece presto a consolarsi dicendo: - Non sarà mica noto solo alla strega il nascondiglio della campana di oro fino. Ci son tanti vecchi in questo paese! E ripreso coraggio andò a trovare una donnina tutta curva, che camminava a malapena su due bastoni, ma che era tutta pepe. - Il posto te lo indico subito, - rispose la vecchia. - La fonte che tu cerchi è a settemila passi dal noce, che cresce sotto la torre a tramontana del castello di Porciano. Ti avverto però che non c'è strada, e bisogna camminare sempre a diritto. Ma quando ti ho detto il luogo, non ti ho detto nulla, perché soltanto Oliva, la sorella del Romito, possiede la sega per segare il macigno nel quale è rinchiusa la campana d'oro fino. Banfio stette a sentire quello che gli diceva la vecchia, ma siccome di Oliva non ne voleva sapere affatto, si consolò pensando che dal momento che sapeva il luogo, a spaccare il macigno ci sarebbe riuscito senza l'aiuto di Oliva. Senza più indugiare, Banfio cercò il noce, e poi, fattosi dare un gomitolo per non deviare né a destra né a sinistra, incominciò a sdipanarlo camminando e contando. Ma siccome egli non aveva molta memoria, ogni tanto saltava a pié pari qualche decina, oppure contava doppia qualche centinaia, e così rifaceva il gomitolo e ricominciava da capo. Pare impossibile, ma gli ci vollero otto giorni prima di aver contato settemila passi; e quando li ebbe contati si trovò in un punto dove non c'era né fonte, né spino, né macigno, ma un bel praticello tutto fiorito. - Quella vecchia era rimbambita e chissà quante sciocchezze mi ha dette! - esclamò Banfio. - Andiamo a interrogare qualche persona che abbia il cervello più al posto. Ma i giorni passavano, per il buffone, in gite, in palpiti, in ansietà, e quand'era notte e sperava di dormir placidamente, ecco che in sogno si vedeva apparire Oliva, la quale gli sorrideva con la bocca sdentata, e con una voce che pareva il rumore che fanno i tarli nel legno, gli diceva: - Banfio mio, se tu mi sposassi, io ti farei l'uomo più ricco della terra; rammentati quello che dice la leggenda, che la campana d'oro vale quanto tutto il Casentino. Saresti più ricco dei Guidi di Poppi, dei Catani di Chiusi, degli Ubertini di Bibbiena. Ma le ricchezze sarebbero nulla in paragone della felicità di avere una moglie bella e amorosa come me. Finché Oliva gli parlava in sogno del tesoro, Banfio l'ascoltava sorridendo; ma non appena gli faceva quelle moine, egli si destava spaventato e, per quella notte, addio sonno! Il giorno dopo andava a interrogare altre vecchie e altri vecchi del paese; ma tutti gli rispondevano che il luogo ove stava nascosto il tesoro lo sapevano, e ci sarebbero andati a occhi chiusi; ma in quanto a scavarlo era un'altra cosa: occorreva la sega di Oliva. Banfio s'era fissato in testa di arricchire e non aveva pace. - Ebbene, - disse un sabato, - anderò stanotte da Oliva. In fin dei conti, ella può essere meno brutta di quanto mi figuro. Per ora la cosa principale è di diventare ricco e di potermi rivoltolar nell'oro come i maiali nel fango. Presa che ebbe questa determinazione, non gli pareva vero che suonasse la mezzanotte per andar a bussare alla casuccia del Romito, fra i boschi, verso Montemignaio. A mezzanotte precisa era davanti all'uscio e sudava freddo dall'ansietà. Egli bussò e la voce del Romito domandò: - Chi sei? che vuoi? - Sono Banfio e voglio Oliva. - Potresti dire la bella Oliva, screanzato! - esclamò una voce stridula. - Sono Banfio e voglio la bella Oliva, - disse il giullare. Allora l'uscio si aprì e Banfio penetrò nella cucina; ma appena ebbe messo il piede sulla soglia, vi rimase inchiodato. - Perché non entri? - gli disse il Romito. Banfio non rispondeva e teneva gli occhi fissi sopra un gruppo formato da tre vecchie. Due di esse, vestite modestamente, stavano sedute sotto la cappa del camino a scaldarsi; la terza, tutta in ghingheri, gli veniva incontro e gli sorrideva con la bocca sdentata. In costei Banfio riconobbe subito l'Oliva veduta in sogno, ma anche più brutta. Aveva la pelle color delle vecchie candele di cera, gli occhi cisposi, la bocca bavosa, le mani rattrappite. Sulla testa pelata e tentennante teneva una scuffia di velluto ricamata di perle e sulla fronte un diadema di pietre preziose. - Da molti sabati ti aspettavo, Banfio, - disse la vecchia stendendogli la mano. - Perché non sei venuto prima, dolce amor mio? Banfio non sapeva più in che mondo si fosse, e aveva una voglia matta di stritolare quella brutta strega e di fuggir lontano; ma ella seppe trattenerlo, dicendogli: - Vuoi venir subito a veder la campana d'oro fino? - Andiamo! - rispose il giullare. - È una parola! La via è aspra e lunga, e io non sono assuefatta a calpestare sassi e steppi; prendimi nelle tue braccia amorose e portami dove io t'indicherò, - disse Oliva. Banfio l'avrebbe volentieri buttata nel fuoco, ma tacque e obbedì. Però, appena ebbe fra le braccia quel mucchio d'ossi e sentì l'alito appestato della vecchia, la strinse forte forte sperando di stritolarla. - Ho le membra delicate, amor mio; - disse Oliva, - e tu devi portarmi gentilmente, senza farmi male. Quel mucchio d'ossa infagottato nei ricchi abiti e nei gioielli pesava di molto, e Banfio sudava; ma nonostante camminò con quel carico per la via indicatagli dalla vecchia, e giunse al prato fiorito, dov'era riuscito partendo dal noce di Porciano. Giunto colà, egli aprì le braccia e lasciò cascar di botto Oliva sull'erba. - Piano, amor mio; noi donne abbiamo le membra fragili e bisogna trattarci come fiorellini delicati. - Bel fiorellino! - esclamò Banfio tutto arrabbiato. - Tu mi canzoni, strega. Qui c'ero venuto anche da me, e non c'è né fonte né spino, e per conseguenza non c'è neppure il tesoro. - T'inganni, - rispose Oliva. - Quest'erba e questi fiori lo celano agli occhi tuoi e a quelli di tutti. Scava qui, - ordinò ella battendo il bastone, - e troverai la fonte. Era un lume di luna così bello che pareva d'esser di pieno giorno, e Banfio distingueva non solo i fiori che smaltavano il prato, ma anche i fili d'erba. Egli si diede a scavare con le mani, e mentre lavorava, il sudore dell'ansietà gli gocciolava dalla fronte. Scava, scava, aveva fatto una buca abbastanza profonda, quando le sue dita incontrarono la pietra. - Qui non c'è una fonte, ma un macigno! - esclamò egli indispettito. - Smuovi la pietra che impedisce all'acqua di sgorgare e troverai la fonte, - rispose Oliva. - Ma io sono stanco, - osservò il giullare. - Non ho mai lavorato la terra prima d'ora! - Prima d'ora non fosti neppur ricco né marito felice, amor mio caro, - disse la vecchia. - Non ti stancare; ogni felicità deve esser conquistata con molta fatica. Se non fosse stato il desiderio della ricchezza, il giullare sarebbe scappato via, sì poco gli sorrideva l'altro di sposare quella strega; ma l'oro aveva un gran potere sull'animo di lui, e si piegò anche alla fatica di smuovere la pietra che tratteneva l'acqua. Questa, ormai libera, s'inalzò in una bellissima colonna, e ricadde sul prato coprendo i fiori e l'erba; poi, trovato un punto più basso, scorse, a guisa di piccolo rivo, verso il piano. - E lo spino dov'è? - domandò Banfio. - Sollevami ancora nelle tue braccia amorose e te lo indicherò, - disse Oliva. Il buffone dovette obbedire, e la vecchia lo guidò alla estremità opposta del prato, dove, col bastone, gli ammiccò che da quel lato cresceva una siepe di spini. - E la famosa campana, dov'è? - Vedi, - rispose la vecchia, - tutto lo spazio che corre fra la fonte e la siepe? - Lo vedo. - Quanto calcoli che sia? - Quattrocento passi almeno. - Ebbene, la campana d'oro che tu cerchi è larga altrettanto alla base. Gli occhi di Banfio brillavano di cupidigia e, dimenticando quello che gli era stato detto, si buttò in terra e si mise a scavare con le mani. Scava, scava, trovò il macigno. Allora fece una buca, a qualche distanza dalla prima, e lì pure sentì dopo poco sotto le unghie un masso di durissima pietra. La vecchia stava accanto a lui e rideva. - Amor mio caro, senza la sega che io sola possiedo e che per cento anni ho unta ogni giorno col grasso di topo, tu non riuscirai a intaccare codesto macigno. - Dammi subito quella sega! - disse Banfio accecato dalla brama di possedere quel tesoro. - Ho giurato di non darla altro che allo sposo mio, - replicò la vecchia bavosa. - Se vuoi, quest'altro sabato faremo le nozze. - E sia! - esclamò Banfio. - Ora, sposo mio diletto, ricopri la fonte e riconducimi dal fratel mio, - disse Oliva. Quando furono a casa del Romito, la vecchia, con mille leziosaggini, annunziò alle sorelle che era sposa, che il sabato venturo si facevano le nozze e che in quella settimana aveva da fare un mondo per preparare la casa e il corredo. Prima che fosse giorno ella si fece aiutare a salir sopra una mula, e soltanto dopo aver baciato e ribaciato Banfio, sbavandogli tutto il viso, se ne andò in compagnia delle sorelle. Il buffone, quando l'ebbe vista sparire fra gli alberi del bosco, credé di aver sognato e s'avviò verso Porciano con la testa imbambolata. Il tesoro lo voleva, ma quella vecchia cisposa e bavosa, no davvero! Peraltro, quel giorno, attratto dalla cupidigia, tornò al prato dov'era stato la notte e misurò la distanza che correva fra la fonte e la siepe di spini. - Con quest'oro si compra un reame! - esclamò. - Se non posso averlo senza sposar la vecchia, è meglio che la sposi; poi a farla crepare presto ci penserà la morte, che pare si sia scordata di venirsela a prendere, o ci penserò io a rammentarla al Diavolo. In quella settimana la via fra Porciano e il prato non mise erba; Banfio la faceva tre o quattro volte il giorno, calcolando sempre quanto avrebbe potuto valere quella grande campana d'oro fino, e pensando a tutte le soddisfazioni che si sarebbe potuto procurare quando quell'oro fosse suo. Altro che le ricchezze del conte Gentile! Il signor di Porciano gli pareva uno straccione, anche quando lo vedeva seduto a mensa, sotto il baldacchino frangiato di oro, o a cavallo, alla testa di una schiera di paggi e di valletti. Una cosa sola invidiava a Gentile: la bella e giovane sposa. Quando pensava a Oliva, gli s'agghiacciava il sangue nelle vene. Eppure tutta la notte il povero Banfio se la vedeva davanti agli occhi, come quel sabato che l'aveva portata sul prato. La settimana passò presto e la sera del sabato, Banfio, mogio mogio, andò a bussare alla casa del Romito. Quella volta la porta gli fu subito spalancata, e la sposa gli andò incontro tentennando, benché si appoggiasse sul bastone. - Dolce amor mio, tutto è pronto, non si aspettava altro che te, - gli disse baciandolo con la bocca bavosa. Infatti, sopra una parete era preparato un altare illuminato, e sopra a quello c'era un'immagine velata. Il Romito consegnò l'anello a Banfio perché lo infilasse nel dito alla sposa; le due sorelle fecero da testimonî e appena terminata la cerimonia si misero a tavola a mangiare. Il Romito beveva per dieci e dopo poco russava come un ghiro; le sorelle si addormentarono e Banfio e la sposa rimasero a parlare. - Ora che ti ho sposata, - disse a Oliva il giullare, - non mi potresti dare la sega per segare il macigno? - No, amor mio; - rispose la vecchia, - prima che io ti faccia ricco, devi dimostrarmi il tuo affetto e la tua gratitudine. A trovare il tesoro c'è tempo; che furia hai! Banfio, che si vedeva burlato, ebbe voglia di strozzarla; ma tentò di prenderla con le buone per ottener l'intento. - Carina, - le disse, - la morte ci potrebbe cogliere da un momento all'altro; perché non si debbono gustar subito le ricchezze che possiamo appropriarci? - La morte può colpirti, non dico; ma in quanto a me è impossibile; io ho fatto un patto con lei, e questo patto si rinnova ogni volta che mi rimarito. - Dunque, - disse Banfio spaventato, - io non sono il tuo primo consorte? La vecchia rise mostrando le gengive sdentate. - Il numero dei miei mariti è così grande che io non rammento neppure più quanti ne ho avuti, né come si chiamavano. Il desiderio di avere il tesoro li ha spinti a centinaia a sposarmi. - E son tutti morti? - Tutti: non per colpa mia, ma per colpa loro. Chi ha voluto uccidermi per impossessarsi della sega; chi mi ha maltrattata; chi ha tentato di fuggire. Ti avverto perché tu mi sei specialmente caro e vorrei serbarti lunghi anni al mio fianco, vorrei che tu fossi l'ultimo. Banfio sudava freddo addirittura. Dunque quella vecchiaccia gli avrebbe sopravvissuto, e senza il beneplacito di lei non poteva far nulla. - Ora andiamo a casa nostra; - disse la vecchia, - desta le mie care sorelle, aiutale a salir sulla mula; tu mi prenderai in groppa alla tua per avermi più vicina, dolce amor mio! Il pover'uomo dovette ubbidire e andare a casa della vecchia. Il giorno seguente e quelli successivi, la vecchia, col pretesto che nei primi giorni del matrimonio nessuno lavora, come nei giorni di festa, si rifiutava di consegnare a Banfio la sega per segare il macigno, e se lo teneva sempre d'attorno a farsi servire e accarezzare. Finalmente un giorno, a forza di moine, egli la indusse a consegnargliela, e appena l'ebbe nelle mani corse al prato, scavò la terra e quand'ebbe scoperto il macigno si diede a segarlo. Il ferro entrava nella pietra come un ago in un masso di ghiaccio, e con poca fatica Banfio giungeva a toccar l'oro; l'oro, mèta di tutti i suoi desiderî, delle sue brame sfrenate. Sega, sega, aveva staccato molti pezzi di macigno e vedeva tutta la parte superiore della campana, che, oltre ad essere di metallo prezioso, era ornata di finissimo lavoro e tempestata di gemme. Venne la sera, ma Banfio non si poteva staccar da quel posto e non pensava più alla moglie né ad altri. Venne la notte, ed egli lavorava ancora. Insomma, a farla breve, lavorò tanto, senza cessar mai, che quando spuntò l'alba aveva messo allo scoperto tutto un lato della campana e vi era penetrato sotto. Quando vide quell'immensa vòlta tutta d'oro massiccio, esclamò: - Quella strega, raccontandomi di tutti i mariti che ha fatto morire prima di me, ha voluto sgomentarmi. Scommetto che lo ha fatto per tenermi cucito alla sottana. Ora son ricco; marameo! chi s'è visto, s'è visto! Appena aveva pronunziato queste parole, si sentì acchiappare per la cintola delle brache dal gancio del batacchio e "din don" fu mandato di qua e di là, quasi che venti braccia tirassero la fune della campana. Questo scherzo durò per un pezzo, e Banfio si sentiva più morto che vivo. Aveva la testa tutta ammaccata, le braccia e le gambe rotte dai colpi, e pensava con terrore che anche a lui era riservata la sorte de' suoi predecessori, e che le ricchezze che lo circondavano non le avrebbe mai godute, mai! Ma appena la campana si fermò, egli riprese coraggio e pensò che sarebbe stato più prudente di andare a Porciano ad avvertire della scoperta il conte Gentile. Era quello un signore giusto di animo, e se gli avesse proposto di terminare lo scavo, che non poteva far da solo, mediante un tanto di compenso, il Conte lo avrebbe aiutato anche a trasportare la campana e a dividerla in tante parti per poterla fondere ed esitar l'oro. Lieto di questa pensata, Banfio si disponeva a rifare la via già fatta per discendere sotto la grande vòlta d'oro, quando, che è che non è, ecco che compare Oliva con gli occhi tutti lacrimosi. - Marito mio caro, già ti piangevo morto! - esclamò ella buttandogli al collo due braccia, che parevan pale da mulino a vento. - Perché, perché mi hai tenuta in tanta angustia? Banfio fremeva dalla rabbia a vedersi capitar quel fulmine a ciel sereno, e voleva indurre la vecchia a tornare a casa e a lasciarlo lavorare ancora; ma ella protestò che non voleva farlo morir di fatica, e lo persuase a sdraiarsi per terra e dormire. Il pover'uomo era stanco e non tardò a prender sonno. Quanto egli dormisse non lo so; però è un fatto che quando si svegliò sentì sonare a morte. Era un doppio funebre, malinconico, e il più curioso si è che era proprio la campana d'oro che sonava quel doppio. Banfio, non vedendosi più Oliva alle costole, pensò che quello era il momento opportuno per correre dal signore di Porciano a fargli la proposta; ma quando fece per camminare, la campana cessò di sonare, le gambe gli si fecero pesanti come se fossero state di piombo, ed egli dovette mettersi di nuovo a giacere per terra. Allora s'accòrse che la campana si stringeva lentamente, come se tutto l'oro che la formava tendesse a riunirsi in un sol masso. - Sono morto! - gridò. - Oliva, Olivuccia, Olivina mia bella, salvami! A questo grido nessuno rispose, mentre la campana si stringeva sempre e le pareti interne di essa già gli toccavano la testa e i piedi. Per non rimanere schiacciato, Banfio dovette alzarsi; ma dopo poco si trovò chiuso come in un astuccio, e la paura di morire lo assalì. Non chiamava più Oliva, che non gli rispondeva, ma gridava, sperando di essere udito da qualche pastore, e insieme con la paura di morire gli venne quella di esser dannato per sempre. Allora si diede a invocare tutti i santi del paradiso. Intanto la campana lo schiacciava e si restringeva sempre. - Vergine santa, - gridò allora, - mi pento di aver bramato le ricchezze, mi pento di tutto, salvatemi! Dopo questa fervida invocazione, la campana incominciò ad allargarsi sensibilmente, e Banfio poté uscir all'aria libera. Appena fu fuori si gettò in ginocchio e pregò. Banfio riprese coraggio e, senza fermarsi mai, corse a Porciano dove narrò tutto al conte Gentile, il quale esortò il giullare a cambiar vita e a rinunziare alle brame smodate di ricchezze, nate in lui per suggerimento del Demonio. Il conte Gentile, per convincere Banfio, lo condusse alla casa del Romito, e appena la toccò con una croce che aveva al collo, la casa sprofondò nella terra e il Romito sparì in una voragine. Poi ordinò a molti cavatori di pietra di scavare nel luogo ove Banfio aveva veduta la campana d'oro; ed essi, scava scava, non trovarono altro che un masso di tufo. Convinto il buffone che tutto quello che gli era successo non fosse altro che opera infernale, e per impedire che altri dopo di lui fosse tratto nei lacci del Demonio, fece pubblica confessione de' suoi peccati e quindi andò a farsi monaco a Camaldoli, dove visse molti anni disimpegnando gli uffici di converso. Ma l'esempio di Banfio non levò dalla testa degli abitanti di Porciano che nel loro territorio vi fosse il tesoro, e ancora, se andate nel paesetto costruito sotto il castello, vi diranno che: A Porciano, in Casentino, Tra una fonte ed uno spino, Si trova una campana d'oro fino, Che vale quanto tutto il Casentino. Però, nonostante la leggenda, nessuno l'ha scavata, e nessuno è arricchito. Qui Regina tacque e l'occhio suo corse a Vezzosa, che durante la narrazione della novella s'era alzata una diecina di volte per andare sulla via maestra a spiare il ritorno di Cecco. Il resto della famiglia andò a letto; la vecchia massaia e la giovane sposa, inquiete tutte e due, rimasero ad aspettare l'assente. - Mamma, - disse Vezzosa, - vi sembro meritevole che Cecco mi tenga in tanta angustia? - No, figlia mia; ma sii indulgente con lui, non lo rimproverare quando giunge. Mostragli la tua afflizione, non il tuo rincrescimento; la prima intenerisce, il secondo irrita. - E se Cecco si sviasse da casa? - Allora saprei richiamarlo io al dovere; ma per una volta sii indulgente. - Eccolo, - gridò Vezzosa che lo aveva veduto comparire nella viottola del podere. Era lui, infatti, ma taciturno e turbato. Si vedeva che era pentito di essere stato tante ore fuori di casa, e nel giungere diede appena la buona sera. - Che cosa t'è successo? - gli domandò Vezzosa. - Nulla. Quando siamo in compagnia, una ciarla tira l'altra, un bicchiere tira l'altro, e s'è fatto quest'ora. E senza aggiungere nessuna spiegazione, entrò in casa. - Mamma, a Cecco è successo qualche cosa, lo sento, me ne accorgo; fatelo confessare voi, io non ne ho il coraggio! - esclamò Vezzosa correndo a piangere in camera sua. Ma anche alle vive e tenere insistenze della mamma, Cecco rispose con lo stesso laconismo, e invece di salire a rassicurare la Vezzosa, s'indugiò molto nella stalla e non andò a letto altro che quando suppose che la moglie fosse addormentata.

No, io voglio i patti chiari e intendo che la mia metà abbia lo stesso trattamento di madonna. - L'avrà, l'avrà! - esclamarono marito e moglie. - E ora è terminata la filastrocca dei patti? - Ci rimane il più e il meglio. Collinetta amena è previdente, essa pensa alla vecchiaia e non fida troppo sulla generosità dei grandi. Ogni anno essa vuole tant'oro quanto ella ne può contenere, perché bisogna che dica che ella vincola la sua libertà soltanto per un anno. - Madonna Collinetta avrà l'oro che chiede, - replicò il Conte, - e avrà tutto il resto; però, col patto che la tristezza non apparisca mai sul volto della mia sposa e che il castello di Romena echeggi sempre di risa. - S'intende! - rispose il giullare. E abbassando la testa fece fare alla gobba tre inchini. Questa mossa bastò, come la prima volta, per far ridere a crepapelle la Contessa e le sue dame. Col giullare era entrata davvero l'allegria nel castello di Romena, e quando egli vedeva che la Contessa era pensierosa, si permetteva di far burle d'ogni genere, e raccontava storielle così ridicole da costringerla a ridere. Se erano a mensa e si accorgeva che non rimaneva per lui nessun boccone prelibato, si alzava, e senza tanti complimenti lo prendeva dal piatto di madonna Berta; dopo pranzo si metteva a cantare con una voce quasi chioccia le bellezze di Collinetta amena, e sfogava i supposti tormenti del suo cuore con parole così buffe, accompagnate da gesti così ridicoli, che madonna Berta si smascellava dalle risa e doveva imporgli di tacere. A Romena tutti eran pazzi di Riccio e gli permettevano di parlar liberamente e di far quello che gli pareva. Il solo che non potesse vederlo era un certo messer Lapo, un poetastro lungo e secco come una pertica, e noioso, aiutatemi a dire noioso. Questo tale non rideva mai alle facezie del gobbo e lo schivava quanto più poteva. E il giullare, che voleva divertire i signori alle spalle di quel figuro, lo tormentava sempre e non si lasciava sfuggire qualunque occasione si presentasse per metterlo alla berlina. Questo messer Lapo era un uomo alquanto pauroso; aveva paura degli animali, aveva paura dei morti, delle streghe, e, soprattutto, degli spiriti. Ora Riccio, saputo questo, volle fargli una burla, e siccome dormiva in una camera vicina a quella del poetastro, una sera, mentre questi sfogava alla finestra il suo estro poetico cantando alla luna, s'introdusse in camera di lui e si nascose sotto il letto. Quando ser Lapo ebbe sfogato ben bene la voglia di cantare, chiuse la finestra e si coricò. Ma era appena nel primo sonno, che si destò di soprassalto sentendosi tirare le coperte. - Gli spiriti! - disse con un fil di voce. Le stratte alle coperte si ripeterono insistenti, e poi sentì una mano diaccia che gli toccava i piedi: - Sono morto, - urlò, e con tutti e due i pugni si diede a batter nella parete per destare Riccio. Ma Riccio non rispondeva e continuava a tirar le coperte, a smuover le panchette e a far l'ira di Dio. - Anime sante! vi farò dire una messa, due messe, dieci messe, ma lasciatemi in pace! Nulla. Il diavolìo aumentava, gli sgabelli andavano per terra, i vestiti volavano come pipistrelli, battendo nel viso di ser Lapo: pareva il finimondo, e l'infelice non osava aprir gli occhi e tanto meno scendere dal letto. Quando Riccio credé di averlo abbastanza impaurito, se ne andò a letto e dormì saporitamente. La mattina dopo il poetastro e il giullare s'incontrarono nella sala del castello in presenza de' signori. Ser Lapo aveva un viso giallo da far pietà e certi occhi tutti stralunati dalla paura. - Non hai dormito neppur tu, compare? - domandò Riccio. - No, - rispose brevemente l'altro, che non voleva parlare degli spiriti. - Madonna e messere, nelle nostre camere ci son gli spiriti! - disse Riccio. - La mia Collinetta amena è tutta ammaccata dai colpi che le hanno dato. - Dunque li hai sentiti anche tu? - domandò ser Lapo sgranando gli occhi. - Se li ho sentiti? Non mi hanno lasciato dormire un momento solo. - Perché non ti sei fatto vivo quando ho bussato nella tua parete? - Amico, la paura mi ha fatto morire la voce nella strozza. - Io non vi dormo più in quella stanza, con licenza di madonna e di messere, - disse Lapo. - Va' a dormire in Torre, - rispose il Conte. - E io neppure ci dormo, - disse Riccio. - Andrò in Torre anch'io. Bisogna sapere che il castello di Romena era fiancheggiato da molte torri, ma ve n'era una più alta delle altre, che guardava il pian di Campaldino, e che chiamavano soltanto Torre, mentre le altre avevano tutte un nome speciale. Così il gobbo e il poeta quel giorno stesso presero le loro carabattole e andarono a stare nella Torre. In essa non vi era altro che una stanza per piano. Lapo prese quella di sotto e Riccio quella di sopra. Intanto il giullare aveva avvertito i signori che la storiella degli spiriti era una burla preparata da lui al poeta per tenere allegra la nobile compagnia, e aveva pregato il Conte di dar ordine che nessuno, di notte, rispondesse, qualora Lapo si mettesse a urlare e chiedere aiuto. In quel giorno Riccio, approfittando dell'assenza di Lapo aveva smosso i mattoni che rispondevano sul letto del poeta e, chiappati sul tetto una diecina di pipistrelli, l'aveva rinchiusi in una cassetta. Quando fu notte e tutti erano a letto, Riccio alzò uno dei mattoni smossi, e, legati per una zampa i pipistrelli a un cordino, li spinse giù. Questi si abbatterono sul viso di ser Lapo e con le grandi ali sbatacchiavano sulle coltri, sul guanciale e facevano un vero diavolìo. Lapo, che dormiva con un occhio solo, si destò di soprassalto, e stava per balzare dal letto e correr su da Riccio, quando sentì questi che urlava: - Salvatemi! Ho i diavoli in camera! Mi scorticano vivo! Allora capì che era inutile ricorrere al buffone, e messa la testa sotto le coltri si raccomandò l'anima a Dio. Quando piacque a Riccio, i pipistrelli cessarono di sbatacchiar le ali sul letto di Lapo; ma questi non si riaddormentò più, e la mattina dopo disse al Conte che nella Torre non ci voleva più stare, perché c'erano i diavoli, e invocò la testimonianza di Riccio. - Guardami, signor mio, e ti accorgerai dal mio viso quello che io abbia passato stanotte. A centinaia sono comparsi i diavoli alati in camera mia e io ho gridato, ho tempestato, mi son fatto il segno della croce, ma tutto è stato inutile. Se non mi dài un'altra camera, io me ne torno oltralpe, da dove son venuto, - disse Riccio. La contessa Berta, che sapeva tutto, non poteva trattenere le risa, vedendo la faccia impaurita che faceva il giullare nel raccontar a sua volta le avventure della notte, e lo spavento vero che gli si leggeva negli occhi. - Ti darò un'altra camera e a te pure, messer Lapo, - disse il Conte. - Voi dormirete nelle stanze terrene, che mettono alle prigioni; queste sono vuote, e là non ho mai inteso dire che vi fossero spiriti né diavoli. Anche quel giorno il poeta e il buffone presero le loro carabattole e le portarono in due stanzoni quasi bui. Riccio faceva animo al poeta dicendogli: - Stasera, prima di andare a letto, faremo venir qui fra' Leonardo con l'acqua santa, e quando avrà benedetto le pareti non temeremo più di nulla. Riccio, nell'entrare in quegli stanzoni disabitati, aveva veduto uscirne impauriti una quantità di scarafaggi e la vista di quegli animali gli suggerì un'idea, che mise subito ad effetto appena fu solo, dando loro la caccia e acchiappandone una gran quantità. La sera, com'egli e Lapo avevano stabilito, fecero andar fra' Leonardo a benedir le camere, e poi ognuno si ritirò nella propria, lasciando socchiuso l'uscio che le poneva in comunicazione fra loro. Lapo andò subito subito a letto, perché era stanco morto della veglia delle notti precedenti, e s'addormentò; Riccio, invece, cavò con cura a uno a uno gli scarafaggi dalla cassetta ove li aveva riposti, adattò loro un moccolino sulla schiena, e poi li portò davanti l'uscio di ser Lapo, e, accesi che ebbe i moccolini, spinse gli scarafaggi dentro la camera del poeta. Poi socchiuse l'uscio in modo che gli animaletti non tornassero indietro, e si mise a gridare: - Aiuto! aiuto! Ecco i diavoli! Il poeta si destò, spalancò gli occhi e vedendo quella processione di lumicini impazzì quasi dalla paura, mentre Riccio continuava a urlare: - Ahimè! Amico, soccorrimi, dei piccoli diavoli mi salgono nel mio letto, mi camminano sulle carni, mi entrano in bocca, sono indiavolato anch'io! Ser Lapo non parlava per non aprir la bocca e non esporsi alla stessa sorte del compagno. S'era tirato le coltri fin sopra al capo e si raccomandava a tutti i santi del Paradiso, promettendo a san Francesco un pellegrinaggio alla Verna, e a san Jacopo di Campostella, uno in Gallizia, se avevano misericordia di lui e lo salvavano. Intanto Riccio urlava sempre: - Son dannato! Me ne sono entrati dieci in bocca, mi brucian le viscere, mi dilanian lo stomaco, mi strappano il cuore! Tutta la notte il buffone continuò a gridare e a smaniare, e quando fu giorno andò in camera di ser Lapo, facendo gesti di ossesso e boccacce e sgambetti, come se avesse davvero avuto cento e non dieci diavoli in corpo. Ser Lapo era più morto che vivo, e questa volta, senza vedere né messere né madonna, fece un fagottino e se ne andò da Romena per compiere il pellegrinaggio prima alla Verna e poi in Gallizia. Quello che ridessero la Contessa e il conte di Romena al racconto delle avventure di quella notte, fatto da Riccio, non si può dire con parole. La Contessa badava a dirgli basta, perché dal tanto ridere soffriva. E quest'avventura continuò a tenerla di buonumore per molto tempo e a rallegrare le veglie invernali. Intanto, l'anno pattuito per il soggiorno di Riccio al castello di Romena stava per terminare, e il giullare non si sentiva disposto a rimanere in quella solitudine. Egli era assuefatto alle Corti numerose, popolate di dame e di cavalieri, alle liete brigate, e sentiva che a lungo andare avrebbe perduta la vena comica in quel castello, dove convenivano poche persone e sempre le stesse. Voleva dunque andarsene e, senza prevenir nessuno, la mattina che compieva l'anno si presentò nella sala dov'erano messer Alessandro, madonna Berta, i loro valletti e le loro dame. - Salute alla compagnia! - disse Riccio entrando e agitando il berretto con i sonagli. - Salute a te! - rispose la Contessa. - Che vuol dir, Riccio, codesto saluto diverso dal solito? - Gli è, madonna, che oggi non è un giorno come tutti gli altri. - Come sarebbe a dire? Che io sappia, non ricorre nessuna solennità. - È giorno d'addio, madonna. È un anno che sono arrivato, e oggi, che termina l'anno, me ne vado. - Parli da senno? - Da senno, madonna; l'aria di Romena non mi si confà. - Ma tu sai, Riccio, che qui ti vogliamo bene e abbiamo mantenuto tutti i nostri patti. Hai avuto il morbido letto di piume per Collinetta amena, hai avuto quattro abiti di panno di velluto, hai avuto buoni bocconi ... - Sì, madonna; anche tu però hai avuto giorni lieti e hai imparato a ridere. - È vero. - Però Collinetta amena deve avere ancora tant'oro quanto ne può contenere. - È giusto; - rispose il Conte, - ma tu non ci lascerai, non è vero? - Io vi lascerò, e Collinetta amena vuole subito quello che le spetta. - Sia fatta la tua volontà! - disse il Conte; e presa una borsa d'oro da un forziere la fece scivolare dal collo nella gobba del giullare. Riccio intanto s'era messo una mano sotto il farsetto e guardava il Conte. - Non ti basta? - domandò messer Alessandro. - Collinetta amena può contenere altre monete, - rispose Riccio. Il Conte tornò al forziere, prese una manciata d'oro e la fece sparire nella gobba. Riccio tirò giù dall'imbottitura del farsetto una manciata di stoppa e disse al Conte: - Collinetta amena può contenere altre monete; signor di Romena, rammentati dei patti. Il Conte tornò al forziere, prese altro oro, e lo mise nella gobba; ma più lui ne buttava e più Riccio cavava capecchio. A farla breve, per empir la gobba ci volle tutto l'oro del forziere. Messer Alessandro era su tutte le furie e madonna Berta rideva. Quando la gobba fu piena zeppa di monete d'oro, Riccio si levò il berretto con i sonagli, e disse: - Collinetta amena contiene molte monete, ma l'allegria non si paga, e madonna, che ha imparato a ridere di cuore, riderà ancora per molti anni ripensando al falso gobbo. Salute alla compagnia e figli maschi! Dopo aver detto queste parole, uscì. Nel cortile, il cavallino, sul quale era giunto, era già sellato, un altro era carico della roba del giullare, e lo montava un villano. L'omino, nonostante il carico che aveva nella gobba, balzò presto in sella, perché aveva paura che il Conte si pentisse e gli riprendesse l'oro che gli aveva dato, e via. La contessa Berta rimase in sala a ridere e non dimenticò più la consuetudine presa di aprir la bocca alle franche e sonore risate, e tutte le volte che il Conte si lagnava di essere stato spogliato dal giullare, essa gli rispondeva: - L'allegria non si paga! La novella aveva messo tutti di buonumore, e Vezzosa aveva riso veramente di cuore. - Vedi se ti ho fatto dimenticare la tristezza di questa settimana? - disse la Regina a Vezzosa. - La novella mi ha fatto ridere, ma quel che ha dileguato la mia tristezza è stata la vostra accoglienza, la vostra bontà per me; io sono felice, felice, e non rammento più i brutti giorni passati. Ma ora dico come Riccio. Salute alla compagnia! e me ne torno a casa. Cecco e Maso uscirono insieme con Vezzosa, e per tutta la via non fecero altro che parlare del bel modo col quale la Regina narrava e della freschezza di mente di quella donna già tanto avanti negli anni. - È stata una benedizione per la nostra famiglia; - disse Maso, - cerca d'imitarla. Vezzosa sorrise e rispose: - M'ingegnerò. E corse su dalla malata.

Gesù scrollò il capo mestamente: - È dunque inutile che io abbia bevuto il fiele e l'aceto sulla croce per riscattare il genere umano dal peccato! Vedrò gli uomini ricadere sempre nei tuoi tranelli. Che diritto hai tu sul popolo mio? - Quello che la volpe ha sul pollaio, - rispose Satana ridendo. - Ebbene, stammi a sentire, - riprese Gesù Cristo, - io voglio proporti un patto. Se tu rinunzi alle anime che tieni chiuse nel sacco, ti lascerò vivere un giorno intero sulla terra, senza che tu provi nessuna sofferenza. - Ma conserverò il mio potere? - domandò il Diavolo. - Sì, - replicò Gesù Cristo, - a patto però, che tu non potrai servirtene altro che per avvantaggiare gli uomini, e non per tormentarli. - Prenditi allora questo sacco di anime, Nazzareno! - esclamò Satanasso. - Il patto è concluso, e tu vedrai che io saprò rispettarlo. Gesù prese le anime salvate dalla sua misericordia, e domandò al Diavolo sotto quale aspetto voleva comparire fra gli uomini. - C'è un fraticello, alla Verna, che scende alla cerca, e che tutti ascoltano nei palazzi, come nelle case di contadini, perché lo credono un santo. Oggi fra' Leonardo è ammalato, e non scenderà; così la gente mi prenderà per lui. - Prendi pure le sembianze del Frate; ma bada bene di non far male a nessuno, e specialmente di rispettare tre famiglie di Bibbiena, che mi sono care. Queste famiglie son gli Sbrigoli, i Verri e i Dovizii. Ti tolgo dunque di sul tuo capo la maledizione per un giorno intiero, e per questo breve periodo di tempo la croce e l'acqua benedetta non avranno più il potere di metterti in fuga. Va', povero reprobo, e concediti alcune ore di riposo, prima che torni a pesare su di te la maledizione eterna. Quando il Diavolo fu rimasto solo, cambiò subito aspetto e, indossata la tonaca di saio e rialzatosi il cappuccio sulla testa per nascondere le corna, prese il viso umile del buon Fraticello, e s'incamminò a piedi a Bibbiena, con le bisacce vuote in ispalla. Appena ebbe messo piede in paese, le donne che eran sulla porta di casa, gli si fecero incontro per baciargli la corda che gli cingeva la vita, e tutte gli portavano una qualche elemosina per il convento. Il Frate ringraziava e benediva a destra e a sinistra, come se fosse stato davvero fra' Leonardo, e prima d'andare nelle tre famiglie designategli da Gesù Cristo, entrò alla Pieve e, inginocchiatosi sul marmo, finse di pregare. Ma la preghiera del Diavolo è una maledizione per la povera umanità, e mentre fingeva di parlare con Dio, egli meditava la rovina di molte persone. Terminata la lunga visita alla chiesa il falso Frate si alzò e rivolse il passo verso la casa degli Sbrigoli. Erano questi, due vecchi, marito e moglie, i quali non avevano mai avuto la consolazione di aver figliuoli. Erano invecchiati nella miseria e nelle privazioni, senza lagnarsi della loro sorte, sempre timorati di Dio, e avevano rispettato le leggi divine e quelle umane. Quando il Frate entrò in casa loro, stavano per mettersi a tavola. Era venerdì e non avevan davanti altro che un tegame di fagioli e un pan duro di saggina. Il Frate finse di essere mosso a compassione dalla loro miseria. - Mangiate sempre di magro, poveretti? - disse. - No, fra' Leonardo, - rispose la vecchia. - Mangiamo la minestra col brodo per Natale, per Pasqua e per l'Assunta; e il pan bianco la domenica. - E non avete desiderato mai cibi più sostanziosi e delicati? - Magari! Desiderare si può tutti, e i poveri sono tentati dal desiderio cento volte al giorno. Specialmente quando vediamo i cuochi del Vicario, che vanno a far la spesa e comprano tanta grazia di Dio, ci vien fatto di desiderare un pranzo da signori, almeno una volta prima di morire. - Ebbene, il vostro desiderio sarà appagato, poveretti, - disse il Frate con voce compassionevole. - Ecco un tagliere di legno di cedro, che la madre del Signore dette una volta a un gran santo. Chi lo possiede, non deve far altro che dire di quali pietanze vuol vederlo coperto, perché il tagliere gliele procuri subito. Siccome è giusto che tutti i poveri che incontro per via, e i nostri monaci ne approfittino, così non posso prestarvelo altro che fino a stasera, ma è abbastanza perché assaggiate una volta quei pranzi dei ricchi, che fanno nascere in voi tanti desiderî. Il vecchio Sbrigoli e la moglie ringraziarono con grande effusione il Frate, il quale raccomandò loro prima di andarsene di trar profitto del tagliere, senza perder tempo. Appena che il Diavolo fu uscito, i due vecchi, che non avevano mai mangiato a sazietà, posarono il tagliere sulla tavola e pensarono a quello che dovevano chiedere. - Voglio un pasticcio di maccheroni, - disse la vecchia guardando il tagliere con occhio di cupidigia. Subito comparve un pasticcio di maccheroni, coperto di una bella pasta color d'oro, e che mandava un odore che pareva dicesse: "Mangiami!". I due vecchi gettarono un grido di meraviglia e allungarono nello stesso tempo il coltello per partirlo. Ma dopo i primi bocconi, il marito disse: - Mi pare una sciocchezza di cominciare con una cosa dolce; perché non abbiamo chiesto invece una buona minestra di taglierini nel brodo di cappone! Domandiamola? - Chiedi invece un bel prosciutto di maiale, cotto in forno, - disse la moglie. - O un arrosto di tordi, - aggiunse il marito. - Con un pan di lepre, - ribatté la donna. - E un fritto di cervello, - continuò il vecchio. - Non bisogna dimenticare il pan fine. - Né il vin di Pomino. Tutto quello che avevan nominato copriva non solo il tagliere, ma anche la tavola, e i due poveretti guardavano tutta quella grazia di Dio con certi occhi e stavano per mettersi a mangiare, quando la moglie esclamò a un tratto: - Gesù mio! non avevamo pensato che oggi sono le quattro tempora. Lo Sbrigoli rimase a testa bassa. - Le quattro tempora! - ripeté, - giorno di magro e di astinenza. - Non si può mangiar la carne senza far peccato, - osservò la donna. - Eppure, - disse il marito - se non mangiamo oggi, domani non avremo più il tagliere miracoloso! - È vero! la festa andrà a monte. - E non tornerà più. - Dio mio, lasciare il pan di lepre! - E non assaggiare il prosciutto, cotto in forno! - E non saper se i tordi sono cotti a puntino! - E neppure il pasticcio di maccheroni! Il vecchio e la vecchia guardavano tutte quelle pietanze, da cui si sprigionava un fumo grasso e appetitoso che, entrando loro per le narici faceva da stimolo all'appetito. - Sarebbe però un peccato anche quello di non mangiare tanta roba buona, - osservò il vecchio. - Senza contare, - aggiunse la vecchia, - che il frate ci ha permesso di mangiarne. - Davvero? ... - Oh bella! Se no; che ci avrebbe egli dato a fare il miracoloso tagliere? - Hai ragione; eppoi il tagliere non fu regalato dalla Madonna a un santo? - In questo caso non può indurci a peccare; è una cosa sacra. - Come tutto quello che viene dalla gran madre di Dio, Maria. - E si può mangiare tutto quello che il tagliere ci fornisce senza scrupolo. - Mangiamo allora. - Mangiamo. Tutti e due incominciarono dalla minestra, quindi attaccarono il prosciutto di maiale, poscia il pan di lepre, i tordi arrosto e il pasticcio di maccheroni, senza pensar più alle quattro tempora; la gola li aveva rovinati. Il Diavolo, che era stato a guardarli dal buco della chiave, si fregò le granfie convertite in mani di frate, e tutto contento si diresse verso l'abitazione della famiglia Verri. In quella casa vi era una vedova insieme con la figlia sua e un cugino di questa, il quale aveva coltivato la vigna e il campo delle due donne e ora stava per condurre in moglie la ragazza. In cucina due sarte erano occupate a cucire il corredo della sposa, e nel resto della casa un falegname accomodava i mobili della camera nuziale. Il giovane conte Marco Saccone, signore del paese, stava giù in un piccolo orticello e parlava con il futuro sposo della compra di un cavallo. La vedova e la figlia accolsero affabilmente il Frate cercatore, e dopo aver parlato del tempo cattivo, della malattia che colpiva i polli e che aveva distrutte tutte le loro galline, nonché della festa della Verna, la madre uscì per andare in dispensa a prender le elemosine che era solita di fare a fra' Leonardo. Il Frate rimase a parlare con la ragazza del suo prossimo matrimonio. - Ragazza mia, voi state per abbracciare uno stato molto aspro, e, per sopportarlo, occorre una grande forza, - disse il Diavolo facendo la voce di predicatore. - Le spose dei gentiluomini, una volta maritate non debbon pensare ad altro che a indossare ricchi vestiti di seta o di vaio, andare in chiesa, seguir le cacce ed assistere a conviti; ma la moglie di uno che lavora la terra deve dire addio a ogni piacere e a ogni riposo; deve coricarsi tardi, perché è durante la veglia che ella fila, cuce e fa il pane; deve svegliarsi ad ogni momento per allattare i figli ed esser la prima alzata ad accendere il fuoco. - È vero, fra' Leonardo, la vita delle maritate povere è molto aspra, - disse Nicolina sospirando. - E poi, - continuò il falso Frate, - la meschina rendita dei poveri non è al coperto dalle sventure, come quella dei ricchi. La grandine rovina la vigna, e la famiglia non ha di che sfamarsi. Allora è la moglie soprattutto che soffre, perché intanto che il marito lavora fuori, è lei che sente le offese dei creditori e le grida dei bambini. - È vero, fra' Leonardo, quel che dite è verissimo! - ripeté la ragazza spaventata. - Senza contare che gli uomini, i quali si affaticano nei lavori manuali, sono spesso di pessimo umore, - continuò il Diavolo, - e invece di esser cortesi con le mogli come i signori lo sono con le loro, le trattano come bestie da soma. - Gesù mio! - esclamò Nicolina, - e Piero che bastona tanto le bestie! - Vedete dunque che Iddio vi sottopone a una dura prova, - continuò il Diavolo con fare umile. - Ma voi benedite la croce che vi dà a portare, figlia mia, e gioite in cuor vostro di non essere una dama nobile, la quale non conoscerebbe altro che i piaceri e le vanità della esistenza. - Sì, sì, fra' Leonardo, - disse Nicolina singhiozzando, - gioisco; ma, Dio mio, a questo che mi dite non ci avevo pensato! Nicolina prese la cocca del grembiule per asciugarsi le lacrime che le scendevano sulle gote bianche e rosse. Il Frate parve che s'intenerisse. - Statemi a sentire, povera innocente, - disse. - Io voglio aiutarvi in questa afflizione e assicurarvi l'affetto del vostro futuro sposo. Prendete quest'anello di ferro, nero come i vostri capelli. Esso apparteneva a un santo vescovo e possiede la virtù miracolosa di costringere l'uomo cui lo metterete in dito, di fare la vostra volontà. Anche se l'uomo fosse un conte o un duca, appena porterà quest'anello lo vedrete divenire vostro schiavo fedele. La ragazza prese l'anello e ringraziò caldamente il Frate, il quale, dopo aver posto nella bisaccia l'elemosina della vedova, se ne andò accompagnato fino all'uscio da Nicolina. Questa andò nell'orto per cercarvi di Piero, ma esso era uscito dalla porta di dietro, ed invece incontrò il Conte, che stava per portar via il cavallo comprato poco prima. Il conte Marco Saccone era un giovine alto e robusto, col viso acceso, e in tutto il Casentino passava per il più bel gentiluomo che vi fosse. Nicolina, vedendolo, si mise a pensare a quel che le aveva detto fra' Leonardo, e l'anello di ferro che le aveva dato. Ella paragonava la vita di una donna nobile a quella di una contadina e poi guardava quell'anello, che, al dir del Frate, aveva la virtù di farla amare da un conte o da un duca. "Se provassi su di lui, soltanto per vedere se il Frate ha detto il vero!" pensava Nicolina, mentre traversava l'orticello per rientrare in casa. Il Conte la vide e le disse: - Nicolina bella, dunque si fanno le nozze, e presto avrai un padrone? - L'ho già, - rispose la ragazza abbassando la testa, volendo dire che lei come tutti gli abitanti di Bibbiena, erano sottoposti all'ubbidienza della famiglia Saccone, che era entrata nei diritti dell'arcivescovo Tarlati di Arezzo. - Se io dunque sono il tuo padrone, Nicolina, a me spetta il primo bacio. E il Conte l'abbracciò; ma mentre la ragazza tentava di svincolarsi da lui, il signore vide l'anello di ferro che portava nell'indice, e le domandò da chi l'aveva avuto. Nicolina rispose che l'aveva trovato sulla proda di un fosso nel far l'erba. - Se è così l'anello mi spetta, perché sono il padrone della terra. E ridendo lo tolse di dito alla ragazza e se lo mise nel mignolo. Ma subito sentì accendersi il sangue e il cuore da un violento amore per Nicolina, e guardandola fisso con gli occhi scintillanti, le disse a bassa voce: - Bisogna che questo anello sia quello della nostra unione, Nicolina. Sali meco su questo cavallo e ti condurrò in una villa dove c'è tutto quello che puoi desiderare; avrai vesti di seta, gioielli e paggi. Nicolina fu così stupefatta da queste parole che non seppe rispondere; allora il Conte la sollevò da terra, la pose a sedere sulla sella e il cavallo partì di trotto facendo le faville sui ciottoli della strada. Il Diavolo, che era nascosto dietro un muricciolo, fece una capriola dalla contentezza e poi, riprendendo l'aspetto umile del Frate cercatore, si diresse verso la casa dei Dovizii. Questi erano tre fratelli, possidenti di terreni. Ognuno aveva la sua parte di terra, che coltivava a modo suo; ma il patrimonio paterno restava indiviso, e i fratelli vivevano fra loro d'amore e d'accordo. Il Frate li trovò riuniti in una stanza terrena occupati a tagliare col coltello i dentali per l'aratro. Nel veder fra' Leonardo si alzarono e vollero offrirgli da bere, ma il Diavolo li ringraziò. - No, brava gente, son venuto soltanto a prendere l'elemosina per il convento. - Scusateci, fra' Leonardo, ora siamo da voi. Si preparano i dentali per l'aratro, ché quelli che abbiamo son consumati, - disse il maggiore de' tre fratelli. - Eppure, - continuò il secondo, - furon fatti da poco col legno di querciolo; ma la nostra terra è dura come il sasso, e si suda molto a lavorarla. - Figuratevi, - aggiunse il terzo fratello Dovizii, - che in una giornata si stancano due paia di manzi; a mantenere tante bestie c'è da andare in rovina. - Capisco che vi lamentiate, figli miei, - rispose il Diavolo, - e voglio aiutarvi. Questo dentale fu fabbricato da san Giuseppe. Quando vi s'innesta il vomero, esso lavora tutto il giorno da sé e fa tanti solchi quanti non ne farebbero quattro aratri tirati dai manzi. Disgraziatamente questo dentale non può avere altro che un padrone e bisogna che appartenga a uno solo di voialtri. - Tiriamo a sorte per vedere a chi tocca! - esclamarono i fratelli. Il Frate acconsentì, e quando i Dovizii ebbero tirato, il dentale toccò al minore, che aveva nome Ciapo. Fra' Leonardo glielo diede e andò via avendo ricevuto una larga elemosina, dopo di aver raccomandato ai due fratelli maggiori di non esser gelosi del minore. Questi andò a prender l'aratro, lo portò in un campo, che non era stato lavorato da tre anni, e inserì il vomero nel nuovo dentale. Subito il vomero si mise in moto, volando sulla terra come un uccello cacciato dalla tempesta e facendo un solco più profondo per due volte di quello che suol fare il vomero. I due fratelli maggiori, che erano andati per vedere, rimasero immobili dalla sorpresa, ma in quel momento sparì dall'animo loro l'affetto per il fratello e provarono per lui un'invidia indicibile. Ciapo, invece, si gonfiava d'orgoglio. - È stato fortunato davvero di vincere il dentale! - sussurrarono essi a bassa voce, - noi avevamo tanti diritti quanto lui, ma il caso lo ha favorito. Ciapo udì questi discorsi e si volse irato. - Non fate come i reprobi, - disse, - che chiamano caso la volontà di Dio. Se ho ottenuto questo dono prezioso, vuol dire che ero stimato più degno di voi di riceverlo. I due fratelli gli risposero per le rime e lo chiamarono vanaglorioso. Quest'epiteto fece andare in bestia Ciapo. - Andatevene! Andatevene! - esclamò, - non mi fate uscir dai gangheri, perché con il mio aratro posso ammassare in breve molte ricchezze, e quando sarò un signore, se mi salta il ticchio, vi riduco alla miseria. Questa minaccia fece salire ai due fratelli maggiori tutto il sangue alla testa. Essi erano ciechi di rabbia e dissero: - Abbi giudizio, borioso maledetto, perché se tu ci minacci, ti spoglieremo di ciò che costituisce la tua superbia! - Se avete il coraggio, fatelo pure, - rispose Ciapo alzando il roncolo che portava alla cintura e ponendosi a difesa del suo tesoro. I fratelli, pazzi di furore, vedendogli in mano quel ferro, estrassero i coltelli e lo crivellarono di ferite, cessando soltanto quando Ciapo cadde morto davanti a loro. Una risata maligna echeggiò in quel momento dietro a una siepe. Era il Diavolo che rideva dalla contentezza e se ne andava felice dell'opera sua. Prima di giungere in Bibbiena, lasciò le vesti di Frate cercatore, e prendendo l'aspetto di un mercante di buoi, entrò in una osteria e chiese da cena. La serva gli portò in tavola un par di rocchi di salsicce, una frittata e un fiasco di vino. Mentre il Diavolo mangiava, entrò un uomo tutto commosso, narrando che i vecchi Sbrigoli erano crepati a tavola dal troppo mangiare e dal troppo bere. Il Diavolo si strofinò le mani e ordinò alla serva un altro fiasco di vino, ma di quello vecchio, stravecchio. Mentre sorseggiava il primo bicchiere entrò nell'osteria un altro uomo, annunziando che il conte Marco, mentre cavalcava per recarsi a una sua villa, dopo aver rubato la bella Nicolina Verri, era stato sorpreso dalla piena, guadando l'Archiano, ed era morto. - Anche la ragazza? - domandò il Diavolo. - S'intende, e il cavallo pure, - rispose l'uomo. - Il cadavere del conte Marco è stato ripescato, ma nessuno ha avuto ancora tanto coraggio da portare la notizia del disastro al padre suo. Il Diavolo, dalla contentezza, scese nell'orto e ballò come un burattino. Quando si fu rimesso a tavola, altri giunsero nell'osteria raccontando che i due fratelli Dovizii avevano ucciso Ciapo, e poi, dallo spavento del delitto commesso, si erano dati alla fuga. Il Diavolo mandò un grido di gioia e chiese che gli portassero un fiasco di vin santo. Intanto la gente era sgomenta da quel succedersi di disgrazie e di delitti in poche ore, e si faceva il segno della croce temendo che fosse prossimo il giorno del giudizio. Il Diavolo centellinava l'ultimo bicchierino di vin santo quando Gesù Cristo si presentò sull'uscio. - Satana, - disse, - la giornata è trascorsa e tu devi tornare alle fiamme dell'Inferno. - Son pronto, Nazzareno, - rispose Satanasso asciugandosi la bocca, - ma ti assicuro che non farò il viaggio solo. Porto meco tutti quelli che ti eran cari in questo paese. - Quali arti diaboliche hai tu impiegato per condurre a te quelle anime timorate di Dio? - domandò Gesù Cristo. - Un mezzo semplicissimo: li ho beneficati. Tu mi avevi proibito di tormentare gli Sbrigoli, i Verri e i Dovizii, e io non ho trasgredito la tua volontà; invece di molestarli, li ho arricchiti. Questo fatto ti servirà d'esempio, Nazzareno. Tu saprai un'altra volta che per perdere gli uomini vi è un mezzo ben sicuro; quello di beneficarli. Addio! E il Diavolo fece un lancio e sparì nell'oscurità della notte. Mentre Gesù Cristo, afflitto dalla dannazione di quelle anime, riprendeva il pellegrinaggio, alla luce delle torce vide recare sopra una barella il cadavere del conte Marco, che riportavano al palazzo. Poi, ammanettati in mezzo ai soldati, scòrse i due fratelli Dovizii. Il Signore si coprì la faccia e pianse esclamando: - Il Diavolo è più potente di me! - Come raccontate bene, Regina! - esclamò Vezzosa. Vi si starebbe a sentir degli anni. Me l'avevano detto che non ci era nessuno che narrasse le novelle come voi, ma non ci credevo. Ora non posso più dire così, ed è un piacere davvero l'ascoltarvi. - La mamma, - rispose la Carola, - ci fa parer corte le veglie d'inverno, e se tu ci fai bene attenzione, ogni novella contiene uno o più ammaestramenti. Io lo dico sempre, ai miei figliuoli, che son ben felici di avere una nonna come lei. Cecco aveva una voglia matta di unire le sue lodi a quelle altrui, ma la presenza delle donne di fuori lo tratteneva e avrebbe taciuto se la Vezzosa non l'avesse stuzzicato dicendo: - Scommetto che di quanti siamo qui, il solo che non piglia gusto alle novelle della Regina, è Cecco. Lui, assuefatto in città, deve ridere delle nostre fandonie. - Io? - rispose Cecco arrossendo. - Sì, proprio voi; al reggimento disimparate tutte le usanze del paese, e invece di sentir raccontare volentieri i fatti veri o immaginarî che riguardano il Casentino, leggete i fattacci che stampano i giornali. Ne ho visti tanti che sono ritornati da fare il soldato, e tutti avevan cambiato pensiero e disprezzavano ciò che prima piaceva loro. - Vi sbagliate, Vezzosa, - rispose Cecco vincendo il ritegno. - Io sono stato volentieri sotto le armi, perché ho imparato a montare a cavallo, a puntare un cannone, a sopportare le fatiche delle marce, e, all'occorrenza, sarei buono anch'io a difendere il nostro paese, che non è il Casentino solo, ma bensì tutta l'Italia. Ma anche quando ero nelle grandi città, il mio pensiero si volgeva sempre qui, e non vedevo il momento di tornare a casa per abbracciare la mia vecchietta e aiutare i fratelli. Io non credo che si possa essere buoni soldati, se non si comincia dal fissare le proprie affezioni a una casa, a un pezzetto di terra, e da queste non si estendano a una regione e poi alla grande patria, che il soldato deve essere pronto a difendere. - Cecco, voi parlate come un libro e non l'avrei mai creduto; ma già siete figliuolo della Regina. Godo davvero di sentire che voi siete rimasto un buon casentinese anche sotto le armi; vuol dire che alla vostra casa e alla vostra mamma siete affezionato davvero. Cecco non rispose, ma scambiò con la Regina uno sguardo pieno d'affetto. - Quand'è mamma che ci racconterete un'altra novella? - domandò la Carola. - Domenica, se non c'è nulla in contrario. - Allora, Vezzosa, non mancare domenica prossima; e siccome sarà entrato il carnevale, dopo la novella farete due salti. Avverti le compagne, e Cecco suonerà l'organino. - Cecco ballerà, - disse Vezzosa. - In paese non ce n'è tanti dei ballerini come lui, ed è meglio che suoni chi non può dimenar le gambe. Il bell'artigliere non poteva soffrire che quella ragazza si occupasse sempre di lui, e per levarle ogni speranza disse: - Su di me non ci contate, io non so ballare. - Si vedrà! - rispose Vezzosa che non voleva darsi per vinta. Per dare un'altra piega al discorso, Cecco disse: - Si può sapere, mamma, quello che ci racconterete domenica? - Se posso rammentarmene bene, vi racconterò la novella di Adamo il falsario; me la raccontava sempre la mia nonna; ma sono tanti e tanti anni che può essermi uscita di mente. - Oh, ve la rammenterete, nonna! - esclamò l'Annina, - voi non dimenticate mai nulla, e domenica saprete farvi onore davanti a molta gente! Poi balleremo e voi ci starete a vedere. - Io andrò a letto, bimba; alla mia età si ha bisogno di riposo. - Ora ne avete bisogno davvero, andate a letto, mamma. La vecchia, aiutata da Cecco, si alzò e andò in camera. Quando il bell'artigliere fu tornato in cucina, Vezzosa gli si piantò davanti, dicendogli: - Siamo tutte donne sole; vi dispiace, Cecco, di accompagnarci? Egli non poté rifiutarsi e uscì fischiando; ma invece di mettersi accanto alla Vezzosa, com'ella avrebbe voluto, s'imbrancò con i bambini, e con lei non scambiò altro che la felice notte sull'uscio di casa.

. - Lo senti, Tendegrimo; bisogna che egli non abbia sale in zucca per farci una siffatta proposta. Ma il maggiore dei conti di Papiano rispose dolcemente: - Il povero non può offrire altro che quello che ha. Poi, scendendo di sella e avanzandosi verso il vecchio, aggiunse: - Vi do il mio cavallo, buon uomo, non per il prezzo che me ne offrite, ma per amor di Gesù, il quale ha detto che i poveri sono i suoi eletti. Prendetelo, e io ringrazierò Iddio che si è servito di me per beneficarvi. Il vecchio mormorò tante e poi tante benedizioni, e, salito a cavallo con l'aiuto di Tendegrimo, s'allontanò nel prato. Tegrimo non poté perdonare al fratello quest'ultima elemosina, e si mise a rimproverarlo, dicendogli: - Stupido, dovresti vergognarti di esserti spogliato di tutto per la tua pazzia! Se hai pensato che quando tu fossi stato sprovvisto di tutto ti avrei permesso di prender metà del mio denaro, del mio mantello e del mio cavallo, hai fatto i conti senza di me. Voglio che la lezione ti sia d'esempio e che, sentendo le conseguenze della tua prodigalità, tu sia più economo per l'avvenire. Gli uomini che la contessa Costanza aveva dato come scorta ai figli, offrirono il loro cavallo al conte Tendegrimo, ma questi rifiutò e, rispondendo al fratello, disse: - È infatti una buona lezione, e non mi rifiuto ad averla. Non ho mai pensato a toglierti metà del danaro, del mantello e del cavallo. Segui anzi la tua via e fatti scortare come si conviene a gentiluomo, senza occuparti di me. Che la Signora del Cielo ti protegga! Tegrimo non rispose, ma fece cenno alla scorta di seguirlo e partì di trotto, mentre il fratello maggiore continuava il viaggio a piedi senza movergli neanche in cuor suo nessun rimprovero. Il minore dei conti di Papiano giunse così a un angusto passaggio fiancheggiato da due montagne altissime. Quel passaggio era chiamato il Sentiero Maledetto, perché un Orco abitava sulla vetta di uno dei due monti, e stava in agguato attendendo i viaggiatori, come farebbe una fiera nel bosco. Quest'Orco era un omone cieco, senza piedi, ma aveva l'udito così fino, che sentiva perfino una talpa se si scavava un buco sottoterra. Teneva al suo servizio due aquile che aveva addomesticate e che mandava ad afferrar la preda, quando la sentiva vicina. Le persone del paese, per passar da quel sentiero, si levavano le scarpe e non osavano respirare dalla paura d'esser sentite dall'Orco. Tegrimo, che non lo sapeva, entrò a cavallo nel sentiero con tutta la scorta. Il Gigante, udendo rumore di ferri sui sassi, si destò e disse: - Su, miei bracchi, dove siete? L'aquila bianca e l'aquila rossa accorsero alla chiamata. - Andatemi a ghermire chi passa, e così avrò la cena! - esclamò l'Orco. I due uccelli smisurati fenderono l'aria come due dardi, piombarono sul sentiero scavato nella terra e, afferrato che ebbero Tegrimo, lo portarono alla casa dell'Orco. La scorta, spaventata, voltò briglia e si diede alla fuga. In quel momento Tendegrimo giungeva all'imboccatura del sentiero, e vedendo il fratello trasportato in aria dalle aquile, gettò un grido e corse dietro a lui; ma Tegrimo e i suoi due assalitori sparirono in un battibaleno nelle nuvole, che avvolgevano le due montagne. Il giovinetto rimase per un momento fermo, guardando il cielo e le montagne che sorgevano a picco, e poi cadde in ginocchio e congiungendo le mani, esclamò: - Iddio onnipotente, che avete creato il mondo, salvate Tegrimo, il fratel mio! - Non scomodare Iddio per tanto poco, - dissero tre vocine a poca distanza da lui. Tendegrimo si volse meravigliato. - Chi ha parlato? Dove siete? - domandò. - Nella tasca del tuo farsetto, - risposero le tre voci. Il giovinetto tolse di tasca la noce, la castagna e la ghianda, dov'erano rinchiusi i tre piccoli insetti. - Siete dunque voi che volete salvare Tegrimo? - Noi, noi, noi, - risposero in coro le tre vocine. - E come farete, poveri animalucci? - Apri le nostre prigioni e vedrai. Tendegrimo fece come volevano le tre bestioline, e allora il ragno si accostò ad un albero e su quello cominciò a tessere una tela lucente e solida come se fosse stata d'acciaio; poi montò in groppa alla mosca dorata, che lo sollevò pian piano nello spazio, mentre il ragno continuava la trama i cui fili erano radi per modo da formare una scala che si allungava sempre più. Tendegrimo seguiva i due insetti salendo per quella scala miracolosa finché non ebbe raggiunto la cima della montagna. Allora la vespa si mise a volargli intorno al capo, ed egli, seguendola, giunse alla casa dell'Orco. Questa casa era una grotta scavata nel masso e alta come la navata di una chiesa. L'Orco, cieco e senza gambe, stava seduto nel centro della caverna e cantava una canzonaccia mentre tagliava le fette di lardo per fare arrostir Tegrimo, che era sdraiato per terra con le gambe legate e le braccia dietro la schiena. Le due aquile stavano a poca distanza; una attizzava il fuoco e l'altra caricava il girarrosto. Il rumore che faceva il Gigante cantando, e l'attenzione che prestava a preparar le fette di lardo, gl'impedirono di sentire che Tendegrimo si avvicinava con i suoi tre insetti; ma l'aquila rossa vide il giovinetto e stava già per afferrarlo, quando la vespa le bucò gli occhi col pungiglione di diamante. L'aquila bianca accorse in aiuto della compagna, ma fu accecata subito anche lei. Allora la vespa volò intorno al capo dell'Orco, che s'era alzato udendo il grido dei suoi servi, e si die' a pungerlo furiosamente nella faccia. Il Gigante muggiva come un toro ferito e agitava le braccia a guisa delle ali di un mulino a vento, ma non poteva acchiappar la vespa, perché non la vedeva, e neppur poteva fuggirla perché non aveva piedi. Alla fine si lasciò cadere col viso in terra per sottrarsi al pungiglione del rabbioso animale; in quel momento però giunse il ragno e tessé sopra a lui una rete, nella quale rimase come un topo nella trappola. L'Orco urlava chiamando le aquile; ma queste, che erano imbestialite dal dolore e s'accorgevano che egli era vinto, avevano cessato di temerlo; anzi, volendo vendicarsi su di lui della lunga schiavitù in cui le aveva tenute, gli si gettarono addosso e, attraverso la rete, gli lacerarono le carni col becco. A ogni colpo esse strappavano un lembo di carne sanguinante, e non cessarono, se non quando furono giunte all'osso. Allora si coricarono sulla carcassa dell'Orco, e siccome la carne del Diavolo non si digerisce, creparono d'indigestione. Intanto Tendegrimo aveva sciolto il fratello, e dopo averlo abbracciato piangendo dalla gioia, lo aveva menato fuori della casa dell'Orco, sul picco della montagna. Costì giunsero la vespa e la mosca coll'ali d'oro, attaccate a un carro, e pregarono i due fratelli di salirvi. Il ragno si mise davanti sul timone, e i due insetti volarono via rapidamente. Tendegrimo e Tegrimo attraversarono così i prati, i boschi e le montagne, e giunsero a Ravenna, dinanzi al palazzo del loro nonno. Il carro passò sul ponte levatoio e i due fratelli videro nel cortile i loro cavalli, che li aspettavano, e la loro scorta. Ma sull'arcione di Tendegrimo erano appesi la borsa e il mantello che aveva donati per via; soltanto la borsa era più grande e più piena, e il mantello era ornato di ricchi fermagli di diamanti. Il giovinetto avrebbe voluto rivolgersi ai tre insetti che lo avevano aiutato a salvare il fratello, per saper qualche cosa, ma il carro era sparito e, invece di tre insetti, vide dinanzi a sé tre angioli splendenti di luce. Tendegrimo cadde in ginocchio. Allora uno dei tre angioli gli disse: - Non temere, mio buon giovanetto, perché la donna, il bambino e il vecchio, che tu hai soccorsi, erano Maria, Gesù e san Giuseppe. Ci hanno dati a te perché tu potessi fare il viaggio senza pericolo e, ora che sei giunto, noi torniamo al Paradiso. Dette queste parole gli angioli avevano allargate le ali ed erano volati su in Cielo, cantando la gloria del Signore. Ciò che il fratello aveva operato per la sua salvezza avrebbe dovuto raddolcire l'animo duro di Tegrimo; invece lo inasprì maggiormente contro il fratello, tanto più che il nonno, che era il conte da Polenta, faceva più festa a Tendegrimo che a lui, e, come si conveniva al primogenito della famiglia, lo poneva alla sua destra a tavola e a cavallo, e lo chiamava messer il Conte, mentre a lui non dava nessun titolo. Il Diavolo forse, che si attacca ai malvagi, sul cui animo ha maggior presa, come la crittogama attacca le viti più deboli, incominciò a insinuare a Tegrimo che non era giusto che egli non fosse onorato come Tendegrimo e che a questi spettasse tutta l'eredità paterna. Questi pensieracci infiammarono il giovine alla ribellione; ma seppe nasconderla e covarla per poterla meglio effettuare al momento opportuno. Intanto era trascorso il tempo che i due fratelli dovevano passare alla Corte del nonno, e la contessa Costanza li richiamava con insistenza presso di sé, tanto più che aveva chiesto all'Imperatore l'investitura della contea e dei feudi per il figlio maggiore, e attendeva il ritorno del mèsso. Il vecchio conte da Polenta fece ricchi donativi ai nipoti prima che partissero; egli raccomandò al maggiore di osservare sempre le regole di buona cavalleria, e al minore di ubbidire in tutto e per tutto al fratello come suo signore e padrone. Queste parole fecero fremere Tegrimo; ma il Diavolo, che s'era impossessato dell'animo suo, gli dette la forza di non mostrarsi turbato, anzi, di promettere al nonno d'uniformarsi in tutto e per tutto ai voleri del fratello. Molta turba di cavalieri accompagnò i due giovani oltre le porte della città, e Tendegrimo e Tegrimo continuarono il viaggio con la loro scorta. Essi dovevano ripassare dall'angusto sentiero fra le due montagne, nel quale il secondo era stato involato dalle aquile. Giunti in quel punto, Tendegrimo scese da cavallo e ringraziò Gesù, la Madonna e san Giuseppe per la liberazione del fratello. Quindi rimontò a cavallo e proseguì il viaggio scambiando poche parole col fratello. Tendegrimo era triste come se lo minacciasse una sventura, e Tegrimo ruminava nella mente pensieri malvagi ed evitava di guardare in faccia il suo primogenito. Quando il loro arrivo fu segnalato alla contessa Costanza dal soldato che stava sempre in vedetta sulla più alta torre merlata del castello, ella mosse incontro ai figli, lieta e sorridente, e s'imbatté in essi mentre varcavano il ponte levatoio. I due giovani balzarono da cavallo per baciarle la mano, ed ella, stendendo la sinistra a Tegrimo e la destra a Tendegrimo, disse a questi: - Vi saluto, conte di Papiano. Per volontà dell'Imperatore voi siete investito de' feudi del padre vostro. Che possiate, messere, difenderli ed aumentarli! Tegrimo divenne cupo a quella notizia e sentì ribollirsi nel cuore tutto l'astio che aveva per il fratello, mentre questi, con fare umile, rispose alla madre: - Madonna, con l'aiuto di Dio cercherò d'esser buon figlio, buon signore e buon cristiano. La Contessa ordinò subito grandi feste per solennizzare l'investitura di Tendegrimo nei feudi paterni, e spedì messi a Poppi, a Romena, a Porciano, a Montemignaio, per tutto dove avevano dominio i Guidi, e anche ad Arezzo e a Firenze. Tegrimo, dominato il turbamento momentaneo, si mostrò lieto delle imminenti feste; ma sotto sotto si diede a cospirare contro il fratello. Prima di tutto fece intendere ai terrazzani che Tendegrimo, inclinato alla devozione più che alle armi, non avrebbe permesso scorrerie sulle terre vicine e si sarebbe mostrato severissimo con i predoni. Ora, siccome era dalle scorrerie in Romagna o sul territorio della Repubblica fiorentina che i terrazzani traevano il maggior guadagno, essi s'impensierirono di dover ubbidire al nuovo signore e incominciarono a dire che i devoti dovevano rinchiudersi nei conventi, e che non era giusto che gli uomini forti e valorosi avessero a poltrire nell'ozio. Quando Tegrimo fu sicuro di aver suscitato nei terrazzani il malcontento contro il fratello, parlò dei suoi sentimenti, disse che non sognava altro che guerre e conquiste, e che se il dominio gli fosse spettato, egli avrebbe meritato il nome del più ardito e intraprendente cavaliere d'Italia. Naturalmente, dopo questi discorsi, ci fu chi gli disse: - Peccato che voi non siate signore di Papiano! E siccome una parola detta abilmente tira un'offerta, così ci fu anche chi gli propose di far sparire Tendegrimo. Il giovane finse di raccapricciare a quella proposta, ma poi si lasciò convincere, e fra Tegrimo e i congiurati fu stabilito il come e il quando metterla ad effetto. Intanto il castello di Papiano era pieno di ospiti, e fra questi si trovavano molte dame e fanciulle, parenti della contessa Costanza. Una sera tutta la comitiva era adunata nella grande sala, intenta ad ascoltare due trovatori provenzali, che sonavano il liuto accompagnando il canto, quando sulla porta si presentò uno dei congiurati, cui era affidata la guardia del castello, e dopo aver rivolto uno sguardo d'intesa a Tegrimo, si accostò a Tendegrimo e gli disse: - Messer il Conte, è giunto ora un cavaliere seguito da due valletti, che chiede l'ospitalità. - Il suo nome? - domandò Tendegrimo. - Ha detto che non può rivelarlo in segretezza altro che al signore di Papiano. - Fatelo entrare nella sala terrena, - ordinò Tendegrimo; e poco dopo, scusandosi con la radunanza, usciva per recarsi presso lo sconosciuto. Tegrimo lo seguì con lo sguardo, e siccome i trovatori avevano interrotto il suono e il canto, egli disse: - Gentili dame, diamo principio alle danze intanto che il Conte confabula col misterioso cavaliere. Al suo invito i trovatori ripresero a suonare, le dame si alzarono dagli scanni stemmati, i giovani le pregarono del favore di poterle accompagnare, e ben presto la sala vastissima echeggiò dello stropiccio dei passi di tante e tante coppie allegre. La contessa Costanza e alcune matrone soltanto erano rimaste sedute, e guardavano le coppie svelte di bei cavalieri e di belle dame, ammirando Tegrimo, che si distingueva fra i giovani per la bella persona e per la foga nella danza. A un tratto, mentre i paggi entravano recando i preziosi vasi d'argento per mescer rinfreschi alla nobile comitiva, si sentì un rumore secco, come di fulmine caduto sul castello. Le danze cessarono, il liuto cadde dalle mani dei trovatori, i paggi lasciarono scivolare in terra i vasi d'argento, e le torce che illuminavano la sala si spensero a un tratto. Ma subito dopo si vide un gran chiarore, come d'incendio, e dalle finestre, che si erano spalancate, penetrò in sala il Diavolo; piombò su Tegrimo e, afferratolo per un braccio, lo portò via. Sparì il chiarore, e nella sala buia nessuno osava fiatare. La contessa Costanza era caduta in terra, le altre dame avevano perduto i sensi; e gli uomini si facevano in silenzio il segno della croce. Nel castello però echeggiavano i gridi di trionfo dei congiurati. - Evviva il conte Tegrimo! - urlavano avvicinandosi alla sala per annunziare al nuovo signore che la sua volontà era compiuta. A quelle grida i signori di Poppi, di Romena, di Porciano e di Montemignaio, tutti i Guidi, per farla breve, capirono che un delitto doveva essere stato commesso, e sguainarono tutti la spada. Così, quando i congiurati entrarono con le torce in mano per acclamare Tegrimo, furono assaliti e disarmati e rinchiusi in una torre. I prodi signori, dopo aver compiuto quest'atto di giustizia, scesero al pianterreno, e, chiamando in loro aiuto i valletti che li avevano accompagnati, s'impadronirono degli altri congiurati. Poscia, entrati nella sala dove era stato attratto Tendegrimo, lo trovarono steso in terra con una ferita di pugnale al petto, da cui sgorgava abbondantissimo il sangue. Alcuni dei congiurati, impauriti, rivelarono che il Conte era stato tratto in quell'agguato, col pretesto del cavaliere misterioso, per ucciderlo più facilmente in quella sera che egli non vestiva la maglia, e che Tegrimo era stato l'istigatore del delitto. - Tegrimo lo ha preso il Diavolo, - disse il conte di Romena. Udendo questo, i congiurati furono assaliti da grande paura, e colui che aveva vibrato il colpo, si gettò in terra supplicando che lo lasciassero in vita, affinché potesse pentirsi e far penitenza. In quel mentre il ferito, che tutti avevano creduto morto, aprì gli occhi, si sollevò a sedere, e disse: - Perdono a tutti, anche a mio fratello. - Troppo tardi! - esclamò il conte di Romena. - Come, lo avete ucciso? - domandò Tendegrimo spalancando gli occhi. - No, il Diavolo l'ha portato seco. - Gesù, Giuseppe e Maria! - esclamò il ferito, e ricadde con la testa per terra. Fu adagiato sopra una barella e portato in camera sua, dove frate Egidio gli curò la ferita con certi suoi farmachi, e la madre, ritornata in sé, gli preparò le bende. La ferita si rimarginò in pochi giorni e il Conte non soffriva nulla, anzi diceva di sentirsi bene e di veder sempre tre angeli che non si staccavano mai dal suo letto. Il poveretto non lamentava altro che la dannazione dell'anima del fratello. Quando fu guarito, cedé il suo feudo a un figlio del suo cugino di Romena, ed egli si ritirò nell'Eremo di Camaldoli, dove si raccolse in ardenti preghiere per riscattare i peccati del fratello e dove morì in concetto di santità. Se qualcuno va a Papiano, sentirà raccontare ancora della visita del Diavolo che andò a rapire in piena festa il conte Tegrimo. - E qui la novella è terminata, - disse la Regina. Tutti quelli che avevano ascoltato la narrazione, rabbrividivano e dicevano: - Ma sarà vero? Maso, per levar la paura da dosso ai bimbi, cominciò a dire: - Non lo sapete che le son fole! Uno comincia a dire che un uomo brutto capitò in mezzo alla festa; un secondo aggiunge che era brutto da far paura; un terzo afferma che era il Diavolo in persona, e così la notizia, aumentata dalle fantasie, passando di bocca in bocca, fa come un torrente che raccolga l'acqua di tanti fossi prima di giungere al piano. Quando arriva a noi, quella tale notizia ha perduto tutta l'apparenza della verità, e serve soltanto a rallegrare le nostre veglie. Ma né Diavolo né Santi bazzicano nel mondo, e i morti non risuscitano. La parola autorevole del capoccia rassicurò i bimbi, che si fecero intorno alla Vezzosa per chiederle i confetti che aveva cavato di tasca e che offriva. - Quando si mangeranno i vostri? - domandò Maso. Ella fece spallucce e abbassò gli occhi; Cecco si voltò da un'altra parte, e le cognate sorrisero guardandosi fra loro di sottecchi. Quella sera Cecco uscì a fumare prima che si sciogliesse la veglia, e poco dopo passò la Vezzosa, imbrancata con le altre ragazze, che cantava a squarciagola: Giovanottin che semini fra' sassi, Non lo sperar d'aver buona raccolta: Tu cerchi di venir dietro a' mi' passi, Ma sai che ci se' stato un'altra volta. - Vorrei sapere se canta così per me! - disse Cecco mordendosi un dito.

. - Prenderai prima un coltello che non abbia mai toccato carne; andrai lungo le siepi ascoltando il soffio del vento nell'erbe; quando udrai un lieve rumor di sonaglio, taglia la parte superiore dell'erba, che è quella del sonno, portala nell'orto, stendila in terra e torna ad avvertirmi. Amabile fece come le aveva ordinato il Frate e, trovata l'erba, la tagliò con un coltello nuovo e la stese nell'orto, e poi tornò dal Frate, il quale la rimandò a casa dopo averle insegnato quel che doveva fare. Fino a sera l'Amabile rimase nell'orto in orazione, e quando fu notte, sentì la voce del topo, che la chiamava. - Sono pronte le ali? - domandò in tono di scherno. - Non ancora, - rispose Amabile, - ma presto sì. - Sbrigati, sbrigati, - replicò il Mago, - ho furia, e domani sera devo essere a Firenze per certi affari miei. - Riposatevi un momento, - rispose la ragazza, - e vi contento subito. Il topo, che si sentiva volentieri trattato come persona di riguardo, si sedé sull'erba preparata da Amabile; ma l'erba del sonno produsse il suo effetto e di lì a poco il topo dormiva e russava. Dopo qualche momento comparve il corvo, e domandò: - Ebbene, carina, dove sono i miei quattro piedi? - Ahimè non ho potuto trovarli, neppure pagandoli a peso d'oro, - rispose Amabile. - Ne ero sicuro, - disse il Mago sghignazzando. - Ora dunque mi spetta metà della tua animaccia, e la voglio fra poco. - Concedetemi un po' di tempo, caro Mago! - esclamò Amabile. - Spero che avrete compassione di una povera ragazza innocente, che vi reca da cena. - Come mai? - domandò il corvo. - Ho acchiappato un topo con la trappola e l'ho portato qui per offrirvelo, - disse accennando il topo che dormiva sdraiato sull'erba. Il corvo lo guardò. - È un bocconcino ghiotto e lo accetto, a condizione di non rinunziare ai miei diritti. - Fate quello che vi pare, - replicò Amabile. Il corvo non si fece pregare: chiappò il topo per la collottola e giù in un boccone. Ma quello, svegliandosi, si mise a gridare e a dimenarsi tanto forte che con le quattro zampe forò lo stomaco del ghiottone. Allora comparve fra' Cirillo, che aveva veduto tutto. Egli recava la croce, e gridò: - Via, razza nata dal Diavolo! Questa ragazza non vi appartiene più perché ha adempiuto la sua promessa. A te, topo, ha dato le ali, perché oramai sei una cosa sola col corvo; a te, corvo, ha dato le quattro zampe che volevi. Andate dunque, e restate così come avete voluto essere, fino al giorno del Giudizio. I due Maghi, scorbacchiati, se ne andarono, ma non per questo la ragazza fu salva. Il grande spavento che aveva avuto nella caverna la fece ammalare, e presto presto si ridusse al lumicino. Il tessitore si rodeva le mani dal dispiacere. Avere una figliuola così bella, la bella fra le belle, e vedersela morire nel fiore degli anni! Il padre mandò a chiamare un forestiero che curava gl'infermi; costui le dette intrugli sopra intrugli, ma Amabile non risanò. Mandò a chiamare fra' Cirillo, e fra' Cirillo l'asperse di acqua benedetta; ma Amabile non risanò. Allora mandò a chiamare una vecchia, che stava in una capannuccia su verso la Beccia, e che tutti chiamavano la Strega, e costei, guarda e riguarda, esamina che ti esamino, disse che Amabile non sarebbe guarita, perché il suo male aveva sede nel cervello. E infatti non guarì. Di giorno era un po' più tranquilla, ma la notte pareva una indemoniata, perché appena l'aria si faceva buia, lo scheletro si alzava dal fondo della cava, si avvolgeva nel lenzuolo sbrandellato, e via accanto a lei a tormentarla, a coprirla di rimproveri per la fede mancata e per esserle fuggita con l'inganno. - Spergiura! Spergiura! - le diceva, e con le mani scheletrite le cingeva il collo, e con le guance ghiacciate toccava il viso infocato di Amabile. La malata urlava, si dibatteva tutta la notte, e ogni momento faceva atto di gettarsi giù dal letto; ma lo scheletro la tratteneva con le lunghe braccia, Amabile lo vedeva e lo sentiva, ma il padre, che l'assisteva, non vedeva nulla e attribuiva quelle smanie alla febbre che divorava la figliuola. Una sera Amabile morì. Le donne del vicinato la vestirono dei suoi abiti più belli, accesero molti ceri attorno al cadavere e le misero una croce fra le mani. Prima esse pregarono per l'anima di lei, poi, stanche, cederono al sonno. Quando si destarono all'alba, che è che non è, il cadavere era sparito. Figuriamoci lo spavento del padre e delle donne! Chi diceva che i ladri lo avevano rubato per spogliarlo degli abiti! Chi diceva che il Diavolo se l'era portato via! Figuriamoci se il padre cercò il cadavere della sua Amabile per fargli dare onorata sepoltura! Si mise alla testa di una comitiva di amici, e frugò per le macchie, per i burroni; tutto fu inutile. Allora fece fare delle novene; ma sì, il corpo d'Amabile era sparito e nessuno l'aveva veduto, né in città, né nel contado. Poi, come succede sempre, egli si stancò di cercare e riprese a tessere pensando sempre alla figliuola. Ecco com'erano andate le cose. Il corvo e il topo, che ormai formavano una sola persona, perfida per cento, appena che furono burlati a quel modo da Amabile pensarono di vendicarsi atrocemente di lei, e, aspettato il sabato notte, si recarono a un luogo dove sapevano d'incontrare il Diavolo, e gli esposero l'accaduto. - Che cosa posso fare per compiacervi, figli diletti? - domandò Satanasso quando ebbe udita tutta la narrazione. - Noi vorremmo un piccolo favore soltanto, - rispose il corvo che era molto loquace e parlava anche per il compagno. - Vorremmo cioè che ogni notte lo scheletro di messer Desiderio si destasse dal sonno della morte e andasse a tormentare Amabile. All'ora della di lei morte, poi, sarebbe nostra brama che Desiderio portasse la sua promessa sposa nella cava abbandonata, e se la tenesse a fianco fino al giorno del Giudizio. - Compare, - disse il topo, che vinceva in perfidia il corvo, - non ti pare che sarebbe meglio ottenere che tanto Desiderio quanto Amabile tornassero in vita per alcune ore; così il tradito continuerebbe a tormentare la spergiura? - Bravo! - esclamò il corvo. Il Diavolo, che era stato a sentire, si dette una fregatina alle mani in segno di allegrezza, e concesse ai due Maghi quello che volevano. - Ora, - disse il topo, - voliamo pur via e andiamo a godere dello spettacolo di Amabile alle prese con lo scheletro. Quella vista ci farà buon sangue, Infatti il corvo, nelle notti della malattia di Amabile, non si mosse più di sul davanzale della finestra, e quando la ragazza fu morta volò dietro allo scheletro, che se la portava nella sua caverna umida. Nel destarsi in quel luogo d'orrore, Amabile gettò un grido, e il topo le disse: - Perfida fra le perfide, ora non c'è nessuno che ti roda la corda. - Né che ti prenda sulle proprie ali per cavarti di qui, - aggiunse il corvo. - Sposa mia, sei diventata tanto brutta che mi fai orrore; - le diceva lo scheletro, - ma posa la testa più qua, affinché mi serva da guanciale. E allora lo scheletro posava il teschio sul viso di Amabile e la copriva d'improperî. - Spergiura! ... Vile! ... Anima nera! ... Strega! ... Questa scena si ripeteva ogni notte, e il corvo e il topo non la perdevano mai; venivano da lontano per assistervi, e a tutti e due pareva di andare a nozze. Ora avvenne che, dopo un certo tempo, fu stabilito a Bibbiena di costruire una nuova chiesa in onore della Madonna, e pensarono di prender la pietra nella cava abbandonata dove giacevano insepolti i cadaveri di Desiderio e di Amabile. Gli scavatori, appena vi scesero e videro quei due corpi, corsero a Bibbiena a raccontare il fatto, e il povero tessitore, che non aveva dimenticata la figlia, andò subito nella cava con la speranza di riconoscere in uno dei due cadaveri la sua Amabile. La riconobbe infatti dalle vesti, e con molta solennità fece trasportare la salma nel sagrato della Pieve, dove le dette onorata sepoltura. Le ossa di Desiderio furono poste in altro luogo. Da quel momento in poi Amabile riposò in pace, aspettando il giorno del Giudizio, e Desiderio la cercò invano accanto a sé. Si dice che per anni e anni un corvo stesse sempre, di notte, sul sagrato della Pieve gracchiando. Era il Mago col topo in corpo. Nessun dei due aveva potuto dimenticare il tradimento. Ora saranno crepati di vecchiaia, almeno si spera. E qui la novella è finita. - Mamma, - disse Cecco, - non so perché stasera ci abbiate raccontato questa novella che mette i brividi. Pare che l'abbiate detta per la Vezzosa. La ragazza rise di cuore mettendo in mostra i bellissimi denti, e fu lei che rispose: - No, la mamma non l'ha detta per me, prima di tutto perché non son la bella fra le belle, esposta a grandi tentazioni, e poi perché sa come la penso, - e qui guardò Cecco con occhio affettuoso. - Se ha scelto stasera questa novella, è perché si suol raccontare alle future spose. La mamma ha fatto bene a seguir l'usanza; è tanto bello di fare ciò che hanno fatto quelli che vissero prima di noi. Ma quell'Amabile, sentite, mamma, è vero che fu cattiva, ma ebbe una punizione che più tremenda, credo, non avrebbe saputo inventarla neppur Dante, che ha scritto l'Inferno! - E che ne sai tu di Dante? - le domandò Cecco. - Poco o nulla. Quand'ero piccola andavo per la vendemmia da certi cugini del babbo a Rassina, e là c'era una vecchia che sapeva a mente il canto del conte Ugolino, quello dei Serpenti, e non so più quali altri. Non sapeva neppur leggere, ma li diceva così bene da farci piangere. Ella ci raccontava che al tempo dei tempi questo Dante era stato in Casentino, a Poppi, a Romena e altrove, sempre ne' palazzi de' Guidi, e qui aveva scritto anche qualcuno di quei canti. Dice che i fiorentini lo avevan messo al bando e lui, sdegnato, se n'era venuto in questi poggi a sfogare il suo risentimento. - Non sai che cosa è avvenuto di quella cugina di tuo padre, che sapeva a mente i canti di Dante? - domandò la Regina alla sua futura nuora. - Ho sentito dire che era morta, - rispose la ragazza. - Morta sì, ma prima di scender nella fossa aveva fatto una tappa al manicomio. La povera Rosa s'era tanto empita la testa di quei canti, della descrizione delle pene dei dannati, che si figurava di esser lei nell'inferno circondata di serpenti. Era uno strazio a vederla. Credimi, Vezzosa, certi libri non son fatti per gli ignoranti come noi. Se ci si comincia a riflettere, s'ammattisce, perché il nostro cervello non è avvezzo a certo cibo. Maso fece osservare alla Vezzosa che era tardi e occorreva interrompere la veglia. La ragazza salutò tutti, prese in collo i bambini per baciarli, e avanti d'uscire chiamò da parte l'Annina e le regalò le buccole che aveva prima agli orecchi. Maso la riaccompagnò fino a casa, insieme con Cecco. Sulla porta c'era la matrigna ad aspettarla, che le urlò da lontano: - Dovevi farti aspettar dell'altro! È questa l'ora? Se tardavi un momento, trovavi tanto di catenaccio. Cecco sussurrò a Vezzosa: - Coraggio, ce n'è per poco; lasciala urlare e dormi bene.

Non te lo levare mai dal dito, e qualora tu abbia bisogno d'aiuto, rivolgi una fervente preghiera a san Romano, ed egli ti soccorrerà. All'altro anello non ci pensare; esso cagionerà la morte dei tuoi perfidi fratelli, e la pietra rossa, che è un rubino, si convertirà in un pezzo di sasso; quella verde, che è uno smeraldo, in un pezzo di vetro; e quella chiara, che è una opale, in un pezzo di calcinaccio. E il tuo anello rimarrà unico nel mondo per pregio e per valore. Caterina ringraziò caldamente il vecchio per averla salvata, ma egli sparì a un tratto, com'era comparso, senza dir altro. La ragazza, ancora commossa, andò in cerca dei maiali, riprese il fastello della legna, e corse a casa sua per preparar da cena ai genitori e ai fratelli. Ma questi, aspetta aspetta, non si presentarono, e Caterina temeva che la profezia del vecchio sconosciuto si fosse avverata; ma non diceva nulla per riguardo ai genitori; anzi, cercava di consolarli col dimostrar loro che più volte quegli scapestrati avevan passato la notte alla bettola e non erano tornati a casa altro che a giorno. Però il sole non era ancora levato, quando capitò al podere il garzone di un contadino, bianco come un panno lavato e tutto tremante dallo spavento. - Sapete ... - diceva al capoccia. - Sapete, v'è successa una disgrazia. - Quale? - domandò il vecchio insospettito. - Una grande disgrazia ... - Dimmi di che si tratta; parla! - Il maggiore dei vostri figliuoli è disteso in una pozza di sangue sulla via. Il vecchio barcollò; ma, fattosi animo, disse al ragazzo: - Conducimi da lui; corriamo, vediamo se vive ancora. - Aspettate, un'altra disgrazia vi ha colpito: il mezzano dei vostri figli è morto scannato in un fosso. - E l'ultimo dov'è? Dov'è? - domandò il vecchio. - L'ho visto penzolare impiccato da un ramo di quercia. Nel sentir questo, il povero padre cadde in terra come un ciocco e mandò un grido disperato. Caterina, che era su in camera a far le faccende, corse per veder quello che era accaduto, e dal ragazzo conobbe la triste verità. - Si sono uccisi l'uno con l'altro per disputarsi il possesso di un anello, e l'ultimo, vedendo morti i due maggiori, s'è impiccato per il rimorso. Ora pensiamo a soccorrere il babbo, a preparare la mamma a questo colpo, e poi daremo sepoltura ai morti, - disse la coraggiosa ragazza. Infatti, con molte cure, fece riprendere conoscenza al vecchio, disse alla mamma una parte della verità, e poi andò ella stessa di corsa dal parroco per invitarlo a rimuovere i tre cadaveri. Ma i suoi fratelli erano morti in peccato mortale e non potevano essere benedetti né seppelliti in terra santa, e correvano rischio di esser divorati dai lupi e dai corvi. Quindi ella, coraggiosamente, senza domandare aiuto ad alcuno, scavò una fossa appiè della quercia alla quale si era impiccato il fratello minore, e ve lo depose insieme con gli altri due; e dopo aver piantata una croce per indicare il luogo ov'era accaduto il misfatto, riprese la vita attiva, coraggiosa che si era imposta, conducendo avanti i lavori dei campi da sola. Le tre pietre del secondo anello acquistarono un magico splendore; l'altro che aveva trovato accanto ai fratelli morti, lo aveva sepolto insieme con loro per non vederlo più. In tutto il Casentino si parlò per un pezzo della tragica morte dei tre fratelli di Caterina, ma soprattutto si parlò di lei con ammirazione, e moltissimi furono i giovani contadini e benestanti che la chiesero in moglie. Ma ella scelse Donato, un giovinotto povero come Giobbe, ma lavoratore infaticabile. E quando si furono sposati, continuarono a stare al podere del padre di Caterina, e lo fecero prosperar tanto, coltivandolo con cura, che in breve rese più quello che una fattoria. Peraltro un anno, mentre il grano era già segato e stava ammucchiato sull'aia, pronto alla battitura, si sviluppò un incendio nei pagliai che erano eretti sul limitare dell'aia, e il fuoco si estese al grano, alla casa, e distrusse tutto. La coraggiosa Caterina, destata nel cuor della notte dalle fiamme, prese in collo i suoi bimbi e fuggì; Donato salvò i due vecchi e il bestiame, e della casa e del raccolto non rimase più nulla. Caterina era in sulle prime mezza svenuta per quella disgrazia, che distruggeva il frutto di tanti anni di fatiche e di sudori; ma appena gettò gli occhi sul ricco anello che le brillava al dito e rammentandosi della raccomandazione del vecchio sconosciuto che l'aveva salvata dalla morte, andò in un punto appartato del podere, sotto un ciuffo di pioppi, e gettatasi in ginocchio, disse col cuore: - San Romano, aiutatemi! Non aveva appena fatta questa fervida invocazione, che vide comparire dinanzi a sé il vecchio vestito di nero. - So quale motivo ti spinge a ricorrere a me, - le disse, - e il mio soccorso non ti mancherà. Gl'invidiosi hanno tentato di distruggere il frutto delle tue fatiche; ma sii perseverante, poni mano subito a ricostruire la tua casa e te ne troverai contenta. Infatti, la coraggiosa Caterina, insieme col marito, cercò di sbarazzare il terreno dalle macerie, e se durante il giorno ella lavorava per uno e per uno lavorava il marito, trovava la mattina seguente tanto lavoro fatto come se vi avesse impiegato dieci muratori. E lo stesso avvenne quando si diede a ricostruire la casa, tanto che in un mese questa era terminata, e prima dell'autunno Caterina la vide così asciutta, che vi andò ad abitare insieme con la famiglia. E quell'anno, se la raccolta del grano andò in perdizione, fu invece così abbondante quella dell'uva che al podere non sapevan più dove mettere il vino. Figuriamoci un po' se gl'invidiosi che avevan dato fuoco alla casa di Caterina si mangiavano le mani! A sentir loro era tutta virtù dell'anello, del bell'anello che vedevano splender sempre in dito alla coraggiosa donna; e intanto che ella lavorava, essi non facevano altro che almanaccare il mezzo per distruggere ciò che ella faceva, e così trascuravano le proprie faccende, impoverivano, e quando avevano il bisogno alla gola, ricorrevano a Caterina per imprestiti, oppure al marito di lei. Poi, quando veniva il giorno di pagare, erano più imbrogliati che mai, e allora offrivano, invece di denaro, chi un maiale, chi polli, chi vino, e taluni anche un pezzo di terra. In questo modo tutti impoverivano, meno Caterina, che continuava a lavorare per dieci, nonostante tutta l'agiatezza che s'era procurata. Ma le prove non era detto che fossero finite per lei; anzi, le più dure stavano per incominciare. Come ho detto, l'invidia dei compaesani li rendeva stolti al punto da trascurare ogni loro faccenda per non occuparsi altro che di Caterina. Essi contavano le bestie che costei aveva nella stalla, i maiali che mandava a pascere, i polli che beccavano sull'aia, i rotoli di lino che metteva a imbiancare alla guazza sui prati, ed anche il vino e l'olio che rimetteva; e dopo questi calcoli, accorgendosi di tanta prosperità, si mangiavano le mani e gridavano che nel mondo non c'era giustizia. Così, a forza di ripetere questo detto, tre fra i peggiori vagabondi del paese congiurarono a danno di Caterina. Pensa e ripensa al modo di rubarle il famoso anello , che ritenevano cagione di tutta la fortuna di lei, e non rammentando più quello che era accaduto ai tre fratelli di lei, stabilirono di aspettare la massaia un giorno di mercato, quand'ella andava a Bibbiena, assalirla, legarla, e farsi dire per forza o per amore le parole che si dovevano pronunziare affinché l'anello spiegasse le sue virtù. Infatti i tre vagabondi aspettarono Caterina nascosti dietro una siepe, e quando la videro comparire col paniere dell'uova infilato nel braccio e due paia di capponi in mano, fecero un salto, la misero nel mezzo e, sollevatala di peso, la portarono nel fitto bosco. Costì la legarono al tronco di un castagno. Caterina non era impallidita, non aveva incominciato a piangere od a supplicare com'avrebbe fatto un'altra donna. Essa diceva fra sé: - San Romano, aiutatemi! - e basta. - Caterina, vogliamo l'anello, - disse il più ardito dei tre assalitori. - Me lo potevate chiedere senza portarmi qui, e io ve lo avrei dato, - rispose ella. - Così mi farete giunger tardi al mercato e non potrò più vendere questa po' di roba. Tre mani si stendevano per afferrarlo, ed ella non sapeva a chi darlo. - Vedo che lo vorreste tutti e tre, ma io v'insegnerò il mezzo di farvi contenti. Per ora lo consegno a uno; ma appena avete agio, rompetelo e prendetene ciascuno una pietra: ogni pietra, basta dire certe parole, ha da sé sola la virtù che aveva tutto l'anello. - E queste parole quali sono? - domandarono gli uomini. - Nessuno me l'ha insegnate, le ho scoperte da me. Bisogna imprecare quanto meglio si può contro san Romano, che era un grande nemico del Diavolo. Allora Satanasso, da cui viene l'anello, gli accorda tutta la virtù. - Grazie, Caterina, - dissero i tre uomini. - E siccome ti sei mostrata compiacente, non ti faremo alcun male. Ciò detto la sciolsero e la lasciarono andare. Ella aveva fatto appena pochi passi, che udì i suoi aggressori pronunziare imprecazioni tremende contro san Romano. Si volse e vide che l'anello a un tratto si era allargato tanto da formare un cerchio sufficiente per contenere i tre uomini, i quali, lieti che l'oro fosse aumentato in modo così prodigioso, continuavano a imprecare contro il Santo. Ma quando tutti e tre furono presi dentro il cerchio, questo si ristrinse in un momento e li chiuse uno contro l'altro. E più imprecavano e più bestemmiavano, e più il cerchio si ristringeva, soffocandoli. Erano divenuti rossi in viso come tacchini e avevan la lingua penzoloni e gli occhi fuori della testa. Caterina anche in quel momento invocò san Romano, ed allora le comparve il vecchio sconosciuto, che già aveva veduto tre volte. Egli passò una corda nell'anello e strascinò i tre furfanti, più morti che vivi, fin sulla piazza grande di Bibbiena, dove in quel giorno eran tutti i contadini dei dintorni. - Vedete, - disse il vecchio vestito di nero, quando si accòrse che l'attenzione della folla era richiamata da quello strano gruppo di uomini, - questi tre manigoldi hanno assalito Caterina per toglierle il suo bell'anello, e l'anello si è allargato tanto da cingerli, ed ora li stringe fino a farli morire. Imparate da quest'esempio a non desiderare la roba d'altri ed a rispettarla. Un mormorìo di riprovazione corse fra la folla. Intanto Caterina s'era accostata al vecchio e lo supplicava di salvar la vita ai tre infelici per dar loro il tempo di confessare i proprî peccati. Il vecchio toccò l'anello, ed esso si spezzò come se fosse stato un sottile cerchio di vetro. Allora i tre liberati si gettarono in ginocchio davanti a lui e promisero di cambiar vita. L'anello, appena spezzato, riprese le proporzioni che aveva prima e il vecchio lo rese a Caterina; quindi sparì. La contadina narrò allora che il vecchio non era altri che san Romano, e disse che era sua intenzione di costruire un oratorio in onore del Santo. I tre uomini, ormai pentiti, si offrirono di aiutarla in quell'opera, e infatti sorse in breve una cappella nel bosco, là dove Caterina era stata legata all'albero, e i tre uomini, pentiti e convertiti, andarono ad abitarvi, menando vita esemplare. L'anello è rimasto sempre nella famiglia di Caterina, e i discendenti di lei hanno continuato per molti anni a prosperare, finché l'ultimo di essi, un fannullone di prima forza, lo vendé, dopo aver dato fondo a tutto. Peraltro, l'orefice d'Arezzo, che glielo aveva pagato molto salato, gli fece causa, perché le pietre preziose s'erano convertite una in un sasso, l'altra in un vetro e la terza in un pezzetto di calcinaccio, e così quel disgraziato, condannato per truffa, morì in galera. - Dite, nonna, - domandò l'Annina accorgendosi che la novella era finita, - credete proprio che fosse la virtù dell'anello che faceva essere la Caterina così attiva, così buona e coraggiosa? - Ci avrei i miei dubbî, - rispose la vecchia. - L'anello le serviva di sprone a bene operare, ma la virtù era tutta in lei, nel suo sentimento del dovere, nella sua coscienza. - Così mi spiego io pure la novella, - disse Vezzosa, - e credo non ci sia bisogno dell'anello per far prosperare una famiglia. La nostra mamma non ha mai incontrato nessun santo; non ha mai posseduto gemme che avessero una virtù nascosta, eppure anche lei è stata l'invidia del vicinato, e i suoi filati, le frutta, i polli, che portava al mercato, sono stati sempre vantati, e la famiglia sotto di lei ha prosperato. - E se voialtri la imiterete, prospererà ancora, - disse Maso. - Ora però è tempo di andare a letto, perché chi lavora non può permettersi il lusso di vegliar fino a tardi, - soggiunse. E preso il lume, si avviò su per le scale. Vezzosa e Cecco rimasero ancora sull'aia. - Tu, tu sola sarai la Caterina della nostra casa! - disse il giovane marito alla sua sposina. Ella sorrise e replicò: - Per me l'anello prezioso con le pietre splendenti, saranno i tuoi occhi. Se essi manterranno quella espressione lieta, io capirò di aver fatto bene; se li vedrò tristi, cercherò di far meglio. - Sei una buona donnina! - esclamò Cecco lusingato da quelle parole. E, senza indugiarsi più fuori, entrò in casa, tirò tutti i chiavistelli per assicurarsi dai ladri, e quindi andò anch'egli a riposarsi per riprendere la mattina seguente il lavoro.

. - Vi siete messe in testa che io abbia qualche afflizione, e ora, per contentarvi, dovrei ridere tutto il giorno. - Ma non pensi a Vezzosa? Lei, poverina, ti vuol tanto bene e si strugge nel vederti così. Cecco si stringeva nelle spalle come per dire che non ci aveva colpa lui se Vezzosa s'era messa dell'idee sciocche per la testa; ma Regina di queste risposte non era contenta, e una volta, il giovine, posto alle strette dalle insistenti domande della buona vecchia, rispose: - Sapete un po' perché son così uggito? Perché m'è venuto a noia di fare il pupillo, di non esser padrone di nulla, di dover chiedere tutto a Maso. Finché avevo quei pochi portati dal reggimento, le cose andavano bene; ma ora, se voglio pagare un sigaro a un amico, devo inchinarmi al capoccia. Io mi cerco un podere per andar a star da me, e voi non mi lascerete. - Nessuno lo ha mai fatto di andarsene di casa, - osservò la vecchia. - Tanto meglio! sarò il primo io. - Cecco, tu che mi volevi tanto bene, puoi cambiare in così pochi giorni! Tu che devi riconoscenza alla famiglia per l'accoglienza fatta alla sposa di tua scelta, vuoi dare quest'esempio di dissoluzione! - Ma che dissoluzione! qui siamo troppi! - Anche se ti cerchi un podere, non lo potrai avere altro che per San Martino; e vuoi che tutti questi mesi si viva a questo modo! Signore, - esclamò la vecchia, - fin qui vi avevo pregato per farmi vivere per vedere i figli di Cecco, ora vi prego di farmi morire per non assistere allo sfacelo della famiglia! C'era tanto dolore in quella esclamazione che Cecco ne fu commosso, e, come nei bei giorni di pace, gettò le braccia al collo a sua madre e le confessò la ragione vera della sua angustia. La prima domenica che gli amici erano andati a prenderlo, aveva giocato, contro il suo solito, e aveva perduto; la domenica successiva s'era lasciato trascinare con la speranza di vincere, e aveva perduto dell'altro; e ora si trovava con un debito che non poteva pagare, e per questo si sentiva struggere dalla pena. - Perché, perché non confidarmelo subito? - disse la buona madre. - Ho del bel filato e domani lo porterò alla fattoressa del marchese Corsi, che me lo compra sempre; così tu pagherai il tuo debito; ma promettimi, Cecco, di non farti più trascinare dai cattivi compagni. Quel Bista, sai, caccia sempre di contrabbando, ha subìto diverse condanne e i carabinieri non lo perdono d'occhio. Se tu divenissi come lui, io piangerei l'ora e il momento che t'ho dato la vita! L'agitazione di Cecco sparì come per incanto. La buona madre gli risparmiò la vergogna di confessare il suo fallo alla moglie, e la domenica, quando la solita comitiva, guidata da Bista, comparve a Farneta, la Regina stessa la sbrigò dicendo che Cecco non c'era, perché aveva accompagnato col trapelo certi forestieri a Camaldoli. E quando, seduta sull'aia, si mise a raccontar la novella, la sua voce non tremava più per l'ansietà, e il suo occhio inquieto non era più fisso di continuo su Vezzosa. Quella domenica ella prese a dire: - C'era una volta uno spaccalegna, che stava sotto la Falterona, in una casuccia fatta di sassi e coperta di paglia, e dalla mattina alla sera egli non faceva altro che lavorare nei boschi. Questo uomo, che si diceva avesse non pochi peccati sulla coscienza, non parlava mai con nessuno, ed era inselvatichito stando sempre solo. La poca gente del vicinato lo sfuggiva e gli aveva applicato il soprannome di Rospo. Rospo, tanto d'estate, che d'inverno, andava vestito di rozza lana, e aveva i capelli così ispidi, da farlo somigliare più a una bestia che ad un cristiano. Chi diceva che fosse fiorentino, chi aretino, ma nessuno sapeva di certo da che luogo fosse venuto, perché un bel giorno lo avevan veduto capitare lassù e offrirsi per tagliar legna, senz'altro bagaglio che un barbagianni grosso, ma aiutatemi a dir grosso, con due occhiacci che mettevano paura a guardarli. Si diceva che il barbagianni, di notte, stesse sempre appollaiato sul tetto della casupola, e che gli occhi dell'uccello splendessero nel buio come due tizzi accesi. I carbonai e i boscaiuoli, che non hanno troppa simpatia per quegli animali, evitavano di passar vicino all'abitazione di Rospo, e anche se la scorgevano da lontano, si facevano il segno della croce. Per questo timore che ispirava a tutti il barbagianni, la gente del contado non s'era accorta che ogni notte, dalla casuccia di Rospo, usciva una capra, la quale, di corsa, andava su quel versante della Falterona che guarda il Mugello e in quella parte che sovrasta il villaggio di Castagno, e costì si dava, con forza superiore alle sue zampe, a smuover macigni, a sbarbicar alberi e a rovinare quanto poteva il terreno. Poi, quando l'alba incominciava a imbiancare i monti, la capra, con pochi lanci, tornava alla casupola, spingeva l'uscio, e di lì a poco Rospo usciva per andarsene al lavoro, con l'accétta sulla spalla e il roncolo alla cintola. Questo avveniva nell'inverno dell'anno 1335, quando, la notte del 15 maggio rovinò una falda della montagna della Falterona e scoscese più di quattro miglia fino a Castagno, travolgendo case, alberi, bestiame e persone. Insomma, successe un vero finimondo, e la gente del contado fu presa da tale paura, vedendo quella rovina, che non osava più stare nelle case e passava la notte a ciel sereno, pregando sempre. Ma la paura si convertì in terrore, quando si vide che sul terreno scosceso correva acqua scura come cenere, dalla quale guizzavan fuori i serpenti a centinaia, che si gettavano nei boschi. E il terrore si estese a tutti i luoghi percorsi dal torrente Dicomano, dove si erano scaricate quelle acque torbide: a Pontassieve, poiché il Dicomano mette nella Sieve, e a Firenze, poiché la Sieve mette nell'Arno, e giù giù fino a Pisa. E non dovete credere che questo intorbidamento delle acque durasse poco. I lanaiuoli fiorentini per lungo tempo non poterono lavare né purgare i loro panni nell'Arno, e, vedendosi rovinati, mandarono uomini pratici su a Castagno per vedere se le acque si rischiaravano; ma le acque eran sempre nere come piombo. Né i danni si limitavano alla sola città di Firenze. In Mugello, a Falterona, i serpenti molestavano tutti, e nessuno osava più avventurarsi nei boschi. Le carbonaie erano spente, i taglialegna non lavoravano e le famiglie morivano di fame. Era un vero flagello, e mentre in montagna la gente andava scalza a Camaldoli per impetrare che quel flagello cessasse, a Firenze scoprivano le immagini dei Santi, le portavano in processione e non si stancavano di pregare; ma nulla valeva. Allora uno dei caporioni dell'arte della lana, che era rovinato più degli altri, propose ai compagni di consultare suor Maria Visdomini, monaca del convento d'Arcetri, che si diceva avesse delle visioni. La proposta parve buona ai lanaiuoli, ed essi andarono in corpore al convento, portando cera per l'altare della Madonna e un voto d'argento con l'agnello e la banderuola, che era la loro insegna. Suor Maria li accolse umilmente, come faceva sempre quando qualcuno ricorreva a lei, e disse che avrebbe pregato, e che se il Signore le avesse inviato una visione lo avrebbe fatto loro sapere. I mercanti se ne andarono mogi mogi per quella risposta; ma dopo tre giorni della loro visita ebbero una chiamata da suor Maria, la quale, attraverso la grata, narrò ai lanaiuoli che la notte, essendosi addormentata mentre pregava, le era apparso un luogo alpestre e scosceso, popolato di terribili serpenti, i quali correvano come lepri pei boschi. In mezzo ad essi gracidava tranquillamente un rospo sulle acque torbide che scendevano al piano, e un barbagianni, appollaiato sul tetto di una casupola, empiva l'aria del suo sinistro grido. Ad un tratto s'accendeva un rogo, e su quello erano messi a ardere il rospo e il barbagianni. Appena le fiamme incenerivano i due animali, i serpenti cadevano morti, e le acque ritornavano limpide e cristalline. Dopo questa risposta i mercanti si guardarono in viso sbalorditi. - È un indovinello, - disse il caporione, che aveva nome Bencio, - nonostante, vo' andare io stesso lassù alla Falterona per vedere se lo spiego. E infatti venne in Casentino e andò sul posto della frana dalla quale scendeva a Firenze quella melma, che era la sua rovina. A suon di domande, egli riuscì a sapere che da pochi mesi s'era andato a stabilire lassù un uomo per nome Rospo, che aveva seco un barbagianni. - Ora la visione di suor Maria Visdomini è chiara; Rospo e il suo barbagianni debbono morir sul rogo. Ma dal dire al fare c'è di mezzo il mare, ed egli non sapeva davvero come riuscire a far arrestare quell'uomo. Sparse bensì fra la gente la voce che il flagello veniva da quel taglialegna e dal suo uccellaccio del malaugurio; ma non trovò nessuno che si volesse accostare alla capanna per legarli tutti e due. Bencio, disperato di non poterli subito veder morti arrostiti, pensò meglio di tornare a Firenze e chieder l'aiuto del Bargello. In sulle prime i signori di Badia si rifiutarono di firmar la condanna di un uomo che non aveva commesso nessun delitto ed era soltanto accusato da una monaca; ma poi, noiati dai lanaioli, che erano molto potenti, sottoscrissero l'ordine di cattura e di morte, e Bencio, con quel foglio, se n'andò a San Godenzo, dove i fiorentini tenevano guarnigione, e chiese manforte. Naturalmente l'ottenne; ma quando giunse alla capanna per impossessarsi di Rospo, questi non c'era più, e il barbagianni, appollaiato sulla gronda del tetto, mandò un grido acuto, che a Bencio parve un grido di scherno. - La pagherai tu, anche per quel manigoldo del tuo padrone! - esclamò il lanaiolo imbestialito. E fatto un mucchio di rami secchi di faggio, sciolse il barbagianni, che era legato per una zampa, e lo mise sulle legna alle quali dette fuoco. Naturalmente, prima di metterlo ad arrostire con le penne e tutto, aveva avuto l'accortezza di legarlo per i piedi con una catena, fermandone l'estremità in terra con due pietroni di modo che l'uccello non potesse muoversi. Le fiamme si alzarono, avvolsero il barbagianni, ma non gli fecero nulla, neppure gli strinarono le penne, e più il fuoco s'ingagliardiva, più il sinistro uccello cantava. A un tratto uno dei servi della giustizia del Comune fiorentino, esclamò: - Questo è il barbagianni del Diavolo! Non l'avesse mai detto! gli altri, impauriti, scapparono come un branco di passerotti sorpresi a beccare il grano in un campo, e Bencio rimase solo dinanzi a quell'animale, che si divertiva a fargli gli occhiacci. Il lanaiolo metteva sempre nuove frasche intorno al rogo, e quel fuoco sarebbe bastato ad arrostire un vitello; invece, il barbagianni era più arzillo e canterino di prima. Ma benché egli non arrostisse, e il perché lo saprete in seguito, il piombo della saldatura della catena, si liquefaceva, e quando fu tutto strutto, l'uccello di malaugurio fece tre inchini con la testa a Bencio, e poi se ne fuggì via. - Qui sotto c'è una stregoneria! - esclamò il povero mercante. E se ne tornò a Firenze mezzo balordo. Ivi giunto, corse ad Arcetri a narrar le sue pene a suor Maria Visdomini. - Suora benedetta, Rospo e barbagianni sono fuggiti, e nell'Arno corre sempre acqua nera come fuliggine, - le disse. - Fratello, - rispose la monaca, - io pregherò il Signore, e se mi manda una visione, ve ne avvertirò. Ma intanto andate a casa e pensate che se un'altra volta Rospo e il barbagianni, o tutti e due, vi capitano fra le mani, dovete aspergerli di acqua benedetta, prima di metterli sul rogo. Ora andate in pace e che il Signore vi conceda di trovare chi cercate! Bencio non fu molto pago di quella risposta e passò il tempo a contar le ore e i minuti in attesa della nuova chiamata di suor Maria Visdomini. Dopo cinque giorni, mentre era nella sua bottega dietro Or San Michele, eccoti la servigiala a dirgli che andasse subito al convento d'Arcetri. Il lanaiolo non se lo fece dir due volte, e, passato il ponte Rubaconte, ora Ponte Vecchio, prese per la costa San Giorgio, e in poco tempo giunse, sudato e trafelato, nel parlatorio del monastero. Suor Maria Visdomini comparì subito dietro la grata, e gli disse: - Fratello, ho pregato, ho digiunato, e il Signore mi ha mandato un'altra visione. - Comunicatela subito, suor Maria, e se mi salvate dalla rovina, alla mia morte farò un ricco lascito al convento, - disse l'artiere. - Ebbene, ascoltatemi. Mi pareva di essere vicina a un torrente, che scorreva limpido fra due ripe erbose, ombreggiate da faggi. Fra questi faggi v'era un gruppo formato da tre abeti scuri. Sopra a quello di mezzo stava appollaiato un barbagianni, e sotto dormiva un rospo. Il torrente era l'Arno; l'ora era quella del tramonto. Bencio ringraziò la monaca, ma le indicazioni gli parevano così poco chiare che volle consultare i compagni prima di mettersi in viaggio. I lanaioli, che si vedevano ogni giorno più rovinati da quella persistente torbidezza delle acque dell'Arno, si appigliarono a quella speranza, e due di essi vollero partire, con Bencio, immediatamente per il monte. Giunti a San Godenzo, si fecero accompagnare dai servi di Giustizia della Repubblica fiorentina fino alla Falterona; quindi attesero l'ora indicata da suor Maria Visdomini e, passo passo, lungo il bel ... fiumicel, che nasce in Falterona, E cento miglia di corso non sazia. scese la comitiva guidata da Bencio e giunse a un punto detto Termine di Montelleri. Qui tutti si fermarono di botto perché fra i faggi videro spiccare tre abeti scurissimi. Bencio non fiatava e i suoi compagni neppure; camminavano in punta di piedi fra le ginestre fiorite, per non far rumore. Era appunto l'ora del tramonto, e già una nebbia leggiera saliva dal torrente e avvolgeva la campagna silenziosa. In mezzo a quella quiete vespertina a un tratto echeggiò un grido sinistro di barbagianni, e un uccello volò via con rumore. A quel grido, di sotto ai rami bassi degli abeti, si alzò un uomo, che pareva un selvaggio, con i capelli lunghi e la barba ispida, e, veduta tutta quella gente che stava per saltargli addosso, disse tre parole, che nessuno capì, e si trasformò in un attimo in una capra selvatica, che si mise a correre svelta su pei greppi della montagna. I soldati, inseguendola, le scoccavan quadrella; Bencio e gli altri lanaioli le tiravan sassi, ma la capra correva sempre guadagnando terreno, finché non sparì del tutto agli occhi dei suoi inseguitori. - Siam fritti! - disse Bencio. - E come faremo ora ad acchiapparla quella capra maledetta e quel barbagianni indiavolato? A quella domanda rispose uno dei servi di giustizia: - Messere, io conosco una vecchia di San Godenzo, che, senza andare mai fuori di casa, fa venire a sé tutte le bestie che chiama. - Me lo potevi dir prima; - osservò Bencio, - ci saremmo risparmiata questa gita, tutt'altra che comoda, su per queste montagne. - Gli è, - disse il servo, - che la vecchia non sempre si mostra compiacente con chi le chiede aiuto. - In ogni modo andiamo da lei, - ordinò il lanaiolo. E tutta la comitiva si rimise in cammino durante la notte, attraverso balze scoscese, accompagnata sempre dal grido sinistro del barbagianni, che pareva la canzonasse. - Se ti potessi arrostire, uccello del Diavolo! - borbottava fra i denti il lanaiolo, stanco morto dal lungo camminare. Come Dio volle tutta la brigata giunse nel cuor della notte al paese e andò a coricarsi. La mattina dopo, Bencio, guidato dal servo di giustizia, andò alla casa della vecchia, che era la donna più brutta, più sudicia ma anche più ricca del paese. Strada facendo il servo lo avvertì di trattarla con ogni sorta di riguardi se voleva ottenere qualche cosa da lei, e di mostrare che era sbalordito dalla sua bellezza. La vecchia abitava sola un gran fabbricato sulla via mulattiera di Romagna, e quella casa era così nera, che pareva un magazzino di carbone. - Fa forse la carbonaia, la tua vecchia? - domandò Bencio. - Messer no, ma del carbone ne ripone quanto vuole. - E come mai? - Ve lo dirò io. Ella pronunzia certe parole che nessuno capisce, e ogni sera mette fuori dalla finestra del pianterreno uno o più fascetti di fieno. Nella notte, i muli, che son partiti in lunghe file per Dicomano, voltano addietro e vengono a mangiare il fieno della vecchia, la quale non va a letto, e, sentendoli giungere, apre e prende una manciata di carbone per sacco; poi li rimanda via. Così ha fatto un deposito di carbone tanto grande da riempire tutte le cantine della casa. E lo stesso fa con le vacche e con le pecore che munge, e con gli uccelli che volano a stormi sulle sue finestre a beccare il miglio. Se sono uccelli delicati, li mette arrosto o li vende; se son coriacei, li scaccia via. Questo è il segreto della sua ricchezza. Il servo bussò all'uscio e Bencio si vide davanti una donna gigantesca, con due braccia come due colonne e un visone rosso tutto coperto da un barba ispida e grigia. A incontrarla di notte, un cristiano si sarebbe fatto il segno della croce. - Che volete? - domandò con un vocione da orco. - Son venuto, madonna carissima, - disse Bencio, - a chiedervi soccorso. Dovete sapere che io avevo una capra e un barbagianni, i quali erano stati da me ammaestrati con gran cura e con quelli giravo il mondo buscandomi qualche soldo. Quei due ingratissimi animali mi sono fuggiti stanotte, e io vi offro questi due gigliati d'oro se mi aiutate a ricuperarli. Ma con questa offerta non mi tengo per sdebitato verso di voi, e proclamerò ovunque la vostra possanza. - Due gigliati non bastano, - disse la vecchia, - perché come tu sai le capre sono ghiotte del sale, e per attirar la tua, debbo farle venire a branchi; i barbagianni poi sono uccelli che vivono di carne, e se chiamo il tuo, verranno a stormi e dovranno trovar da mangiare. - Vi darò un altro gigliato, quando i due animali saranno in mio potere, - disse Bencio. - Va bene; torna domattina e sarai contento. Bencio se ne andò tutto afflitto. Come avrebbe egli fatto a riconoscere fra tanti barbagianni, il barbagianni del Diavolo; tra tante capre quella appunto che aveva fatto intorbidare le acque dell'Arno? Questo pensiero non gli dette tregua in tutto il giorno. La sera lo tormentava sempre, e il lanaiolo non riusciva ad addormentarsi; così passò alcune ore a pensare, e rivolse una fervida preghiera a san Giovanni, protettore della sua città. Finalmente poté prendere sonno e gli parve di essere in uno stanzone chiuso, pieno di capre e di barbagianni. Un uomo stava in piedi e faceva ripetutamente con la mano destra il segno della croce. Tutte le capre s'inginocchiavano; tutti i barbagianni appollaiati chinavan la testa. Una sola capra correva spaventata per la stanza; un solo barbagianni volava spaventato dando di cozzo col capo contro le pareti. Quando si destò, Bencio si rammentava benissimo il sogno. - Ho capito, - disse, - e se questa volta non chiappo quei due animalacci, vuol dire che l'arte della lana è rovinata per sempre. Bencio si vestì e andò al casone della vecchia. - Che nottata! - diss'ella appena lo vide. - Tutte le capre di questi monti son venute, e dei barbagianni ce ne sono a migliaia. Se non avesse fatto giorno presto, in casa non ci sarebbe stato più posto neppur per me. - Lo credo; tutti questi animali son corsi alla vostra chiamata per rendervi omaggio, bellissima madonna; correrei io pure dalle parti più remote del mondo se voi vi degnaste di pensare a me. La vecchia sorrise al complimento mostrando una bocca grande come un forno, e con molta precauzione introdusse Bencio in una stalla così ampia che avrebbe potuto contenere una e anche due mandre di buoi. Le capre c'erano così fitte che non ci si sarebbe potuto buttare un granellino di miglio, e i barbagianni coprivano le pareti e le travi del soffitto. - Ora riconosci i tuoi animali, - disse la vecchia. Bencio finse di guardare di qua e di là fra tutta quella caterva di bestie, e intanto con la mano destra faceva ripetutamente il segno della croce. A quel segno tutte le capre piegaron le ginocchia, tutti i barbagianni inchinaron la testa. Uno solo di questi si mise a volare furiosamente per la stalla, mentre una capra saltava sulla schiena delle altre cercando un'uscita. Bencio prese una pertica e con quella menò botte da orbi al barbagianni, finché non l'ebbe fatto stramazzare; poi, legatolo fortemente per una zampa, si mise a dar la caccia alla capra. Questa, invece di fuggire, gli andava addosso a testa bassa, e il pover'uomo sudava senza mai poterla acchiappare. La vecchiona, da un cantuccio, rideva e badava a dirgli in tono di canzonatura: - Pare che queste bestie ti vogliano un gran bene; devi averle trattate con tutti i riguardi, se ti temono a questo modo! Bencio sbuffava e avrebbe volentieri strozzata la vecchia, che si divertiva a canzonarlo fine fine. Finalmente con la pertica riuscì ad assestare una bastonata nelle gambe alla capra ribelle, la quale cadde. Bencio le saltò addosso, e fattosi dare una corda dalla vecchia, legò la capra per le quattro gambe come fanno i macellai con i vitelli. - Ora, madonna bella, addio. Eccoti due altri gigliati invece d'uno, perché mi hai reso un gran servigio, - disse Bencio alla donna, - tanto grande che te ne serberò gratitudine per tutta la vita, e, se non avessi moglie, ti offrirei di sposarti. La vecchia si ringalluzzì tutta a quelle parole e rimase a lungo sulla porta a guardare il fiorentino, il quale si allontanava in direzione di San Godenzo portando in collo la capra e il barbagianni, che continuavano a dibattersi per fuggire. - Preparate un rogo, - ordinò Bencio ai servi di giustizia, intanto che si dirigeva verso la chiesa. Giunto colà si fece dare tutta l'acqua santa che c'era, e v'immerse prima il barbagianni, e poi ci lavò tutta la capra. Dopo quella lavanda le due bestie non si dibatteron più e rimasero abbattute. Intanto il rogo era stato preparato e su quello, ben legati con catene che non avevan saldature, furono messi insieme i due animali del Diavolo. Questa volta le fiamme li arrostirono col pelo e le penne. Bencio raccolse con cura le ceneri e si mise in viaggio per Firenze. Ma per via si sarebbe strappato i capelli, e i lacrimoni gli scendevan giù per le gote vedendo che il Dicomano correva sempre torbo, che la Sieve era sempre bigia, e l'Arno sempre nero. - Monache e santi si son burlati di me! - esclamava. - Sarò rovinato lo stesso e si perderà la gloriosa arte della lana, la ricchezza della mia bella Firenze! Giunto in patria egli, così afflitto e sconsolato com'era, si recò a Or San Michele e adunò tutta la congrega dei lanaioli, mostrando le ceneri dei due animali malefici e narrando tutte le peripezie del suo viaggio. - Bisogna chieder consiglio a suor Maria Visdomini, - dissero i lanaioli, - ella ci ha aiutati tanto e non ci abbandonerà. Bencio se ne andò dunque ad Arcetri e fece chiamare a parlatorio la monaca. - Vi aspettavo, - diss'ella. - Il mio pensiero vi seguiva nel viaggio e non ho cessato di pregare per voi. Una di queste notti ho avuto una visione. Mi pareva di essere in mezzo al ponte a Rubaconte e l'Arno sotto a me correva torbo. Da tutte le parti v'era una folla di lanaiuoli, i quali piangevano e si strappavano i capelli. A un tratto è comparso l'arcivescovo in pompa magna, col capitolo e il popolo dietro. Voi gli avete presentato una cassetta piena di cenere. Egli l'ha rovesciata nelle acque dell'Arno, e quelle, da torbe si son fatte chiare. - Ho capito! - esclamò Bencio piangendo di gioia, - il convento d'Arcetri avrà il ricco donativo, poiché voi, suor Maria, siete stata la mia salvezza e quella dell'arte cui appartengo. Lo stesso giorno una deputazione dell'arte della lana andava dall'arcivescovo a narrargli la visione di suor Maria Visdomini ed a supplicarlo di gettar le ceneri dei due animali del Diavolo nelle acque dell'Arno. L'arcivescovo promise che la domenica successiva avrebbe fatto la funzione, e tutta Firenze si preparò ad accompagnarlo solennemente. Infatti Bencio presentò la cassetta con le ceneri all'arcivescovo, e appena questi le ebbe gettate sulle acque, l'Arno riprese il suo colore. Il popolo, esultante, si gettò in ginocchio; tutte le campane sonarono a festa, e Bencio, il povero Bencio, quasi quasi ammattì dalla gioia. Il giorno dopo tutti i lanaiuoli ripresero a purgare e a lavare i loro panni nelle acque limpide dell'Arno, le chiese si arricchirono di voti, e il popolo acquistò sempre maggiore devozione per san Giovanni Battista. Alla sua morte, Bencio lasciò la metà del patrimonio ai figliuoli e l'altra metà al convento d'Arcetri, dove da un celebre artista gli fu eretto un sepolcro in marmo. Quella sera Vezzosa, appena finita la novella, era andata accanto a Cecco e gli aveva detto: - Vuoi che facciamo una passeggiata? Ho da dirti tante cose! E soli, i due sposi, s'eran spinti sulla via maestra, e la giovane aveva, in quella solitudine e in quel buio, narrato al marito le sofferenze di quei giorni passati. - Mi perdoni? - le domandò lui umilmente. Una stretta di mano fu la risposta eloquente di Vezzosa, e la serenità le tornò nel cuore. Regina non s'era mossa aspettando il ritorno del figlio e della nuora prediletta. Quando li vide giungere, ella lesse subito sui loro volti quel che era avvenuto, e s'accòrse che se da un lato il pentimento era stato sinceramente espresso, dall'altro il perdono era stato concesso con gioia. Ella sorrise ai due giovani, e, attrattili a sé, parlò loro lungamente con quella voce dolce e persuasiva, con quella semplicità e rettitudine in cui stava riposto il segreto della influenza di Regina sull'animo de' suoi. I giovani l'ascoltarono senza parlare, guardandosi scambievolmente; e quando ella ebbe terminato, le presero le mani e gliele baciarono con effusione. La Regina, intenerita, li abbracciò e disse: - La vita è già seminata di dolori, e tutte le mie preghiere non bastano a proteggervi da quelli. Fate almeno che questi dolori non sieno accresciuti dalle afflizioni procurate, che tolgono all'uomo la forza di sopportare le altre che vengono di lassù. Aveva parlato con quel tono solenne che sogliono usare certi vecchi che hanno la consuetudine di sapersi ascoltati, e Cecco e Vezzosa non ebbero parole per risponderle, ma la guardarono commossi.

. - Non ne avesti di me e mi trucidasti barbaramente; vuoi dunque che ne abbia io? - Misericordia! - ripeteva l'altro, - non mi fate morire in peccato. - Restituirai tutto? - Sì, tutto, lo giuro! - rispose Ramarro. Allora Gentile batté l'acciarino, accese la lucerna e chiamò i servi di giustizia. Questi accorsero, e Gentile costrinse Ramarro a confessare il suo delitto e a precisare la somma rubata al cavaliere di San Godenzo. Poi gli fece firmare un foglio nel quale dichiarava che era volontà sua che quella somma fosse restituita agli eredi. I servi di giustizia legarono ben bene l'assassino, e la comitiva riprese la via del Pontassieve. Ramarro fu rinchiuso in una prigione del castello, e Gentile andò in chiesa dove era ancora insepolto il cadavere di messer Lapo, cui fece dare onorata sepoltura nel sagrato, e quindi tornò all'Albergo Rosso. L'oste Pippo era ancora fra la morte e la vita, ma Rosa stava bene e aveva una parlantina per dieci. Ella coprì d'invettive il cavalier Gentile, accusandolo di averli rovinati e di aver ridotto il marito al lumicino. Gentile lasciò che ella sfogasse tutto il suo risentimento, e quindi le disse pacatamente: - Rosa, ditemi, in coscienza, avreste caro che la camera rossa potesse essere impunemente abitata e che nessuno spettro né spirito molestasse più i viaggiatori? - Magari, - disse la donna, - ma la camera rossa è sempre inabitabile e il mio uomo se ne va all'altro mondo diritto come un fuso. Allora Gentile, per rassicurarla, le disse chi era e le narrò quanto era avvenuto nella camera rossa la notte che egli vi aveva dormito, e come era riuscito a far arrestare l'assassino Ramarro, fingendosi l'assassinato. La donna, convinta che Gentile non poteva lasciar invendicata la morte dello zio, si rabbonì, e non lo tormentò più con i suoi rimproveri. Ella chiamò un medico, e insieme con Gentile curò Pippo, il quale, saputo anch'egli com'era andata a terminar la cosa, finì per riconoscer che Gentile aveva operato onoratamente, e si convinse pienamente quando la moglie lo ebbe assicurato che le pareti della camera rossa eran tornate bianche, e che di sul pavimento erano sparite le macchie di sangue fresco. Di lì a pochi giorni Ramarro, accorgendosi che per lui non c'era più scampo, dopo aver fatto una confessione generale de' suoi peccati, andò pentito alla forca, e da quel tempo nella camera rossa nessun viaggiatore è stato più molestato. Messer Gentile, prima di tornare a San Godenzo, andò ad Arezzo, dove, fattosi consegnare i danari rubati allo zio, fece con quelli larghe elemosine in suffragio dell'anima di lui, e data una buona parte di quei denari all'oste Pippo, per risarcirlo dei danni patiti, visse in pace il resto dei suoi giorni. Però, l'albergo di padron Pippo, doveva esser teatro di un altro assassinio, più drammatico del primo. Era un anno che la camera rossa aveva perduto le macchie di sangue, quando una sera sul tardi giunse all'osteria una lettiga attorno alla quale cavalcavano buon numero di cavalieri. Dalla lettiga scese una donna velata, ed era così affranta che fu portata nella camera fatale, dove Pippo ebbe ordine di recar la cena. Uno dei cavalieri era rimasto a far compagnia alla dama, mentre l'oste stava giù a soffiar nei fornelli per aiutare la moglie, e gli altri bevevano nella sala comune. Quando la minestra fu pronta, Pippo mise due scodelle in un vassoio e salì la scala; ma appena pose piede nella camera, gettò un grido, lasciò cadere tutto quello che aveva in mano e scese smarrito. I cavalieri, nel vederlo comparire con quella faccia stralunata, balzarono in piedi e lo interrogarono; ma l'oste era ammutolito dallo spavento. Allora salirono su e rimasero anch'essi esterrefatti nel contemplare lo spettacolo che avevano dinanzi agli occhi. Il loro compagno giaceva in terra trafitto da un pugnale nel petto, la dama era seduta, col capo riverso, tutta coperta di sangue. Si vedeva bene che era stata lei che aveva ucciso il cavaliere col proprio pugnale e poi s'era trafitta con la spada di lui. I cavalieri, senza scambiare una parola, presero i due cadaveri, li portarono giù e, depostili nella lettiga, sellarono i loro cavalli e sparirono sulla via Fiorentina, dalla quale erano giunti poco prima. Figuriamoci come restasse la Rosa vedendo quei due cadaveri, quella fuga e il suo Pippo inebetito! Ella lasciò bruciare la cena e corse in paese a chiedere aiuto. A un tratto l'osteria fu piena di gente, e Pippo fu circondato da una folla che lo interrogava, lo scoteva, per farlo tornare in sé. Ma Pippo non dava segno di senno. A un tratto, alcuni dei cavalieri partiti da pochi istanti, ricomparvero, ordinarono a tutti di uscire, presero Pippo di peso e lo misero in mezzo di strada, e con una face di resina appiccarono il fuoco ai mobili della casa. Allorché videro le fiamme uscire crepitando dalla finestra, salirono sui loro cavalli e via di galoppo. Nessuno osò opporsi ai loro atti, nessuno osò seguirli ed essi passarono come lo sterminio dinanzi a Rosa piangente, alla folla stupidita. Dopo poco l'Albergo Rosso crollava e non era più che un mucchio di rovine. Questa volta Pippo non si riebbe dalla paura: egli rimase ebete per tutto il resto della sua vita e la Rosa dovette camparlo, elemosinando e ripetendo la loro lacrimevole storia per intenerire la gente a farle la carità. Per molti e molti anni le macerie rimasero intatte sul terreno dove un tempo sorgeva l'Albergo Rosso, tanto era il terrore che provava la gente al ricordo dell'assassinio, e nessuno cercò mai di scoprire il mistero che avvolgeva quel truce fatto. Dopo molti anni, un buon prete volle far cessare negli animi la paura e si diede a rimovere le macerie della casa. Altri, rinfrancati dal suo esempio, lo aiutarono, e ben presto su quel terreno sorse, a forza di elemosine, una chiesetta. Ora la gente non ha più paura a passar da quel luogo, ma il fatto, narrato di padre in figlio, è vivo ancora nella mente degli abitanti di Pontassieve, e molti si fermano a recitare una prece nella chiesetta, in sollievo delle anime degli assassinati. - E ora che vi ho raccontata la novella, - aggiunse la Regina, - mi è venuto un pensiero, che voglio subito manifestarvi. I giorni difficili cui andiamo incontro me lo hanno suggerito. Noi abbiamo del buon vino; camere, su, ce ne sono, e pulite; perché non cerchiamo una famiglia di città che venga nell'estate a respirare quest'aria buona? La moglie dell'ispettore ci potrebbe aiutare; ella è stata qui, ci conosce, sa che sappiamo far da cucina e che siamo gente di cuore. - Ma si adatterebbero dei signori a stare in casa nostra? - osservò Maso. - Vale più un piatto di buon viso che una reggia, - rispose la vecchia. - Sicuro, non saranno conti né marchesi, quelli che verranno ad abitare quassù, perché certi signori vanno in altri luoghi; ma saranno impiegati, gente agiata, se non ricca, e noi si potrebbe guadagnare con loro tanto da sbarcare l'inverno. - Vezzosa, - disse Maso convinto dagli argomenti di sua madre, - domani scriverai alla signora Durini e io passerò parola al segretario comunale di Poppi, al quale càpitano sempre forestieri. La vostra mente, mamma, è il tesoro della famiglia, e non vi sapremo mai benedire abbastanza. Quella risoluzione presa lì per lì mise in moto le teste delle donne e dei bimbi. Tutti facevano proposte: chi voleva cedere la propria camera, chi i mobili, e ognuno si attribuiva una parte di lavoro. Era bastata quell'idea della buona vecchia per sollevare gli animi abbattuti della famiglia, o ora l'avvenire non appariva più a nessuno così triste come quando ella aveva preso a narrar la novella. La Vezzosa, che non aveva messo bocca nel discorso, perché le pareva che, essendo da poco in casa, non spettasse a lei a parlare, accompagnando in camera la vecchia, le buttò le braccia al collo commossa. - Mamma, - le disse, - che ci siate lungamente conservata; voi siete la nostra benedizione!

Mi pare che Carlo abbia il difetto di tutti i giovani e degli uomini d'oggigiorno: l'impazienza e la fretta. Vi ricordate che, prima di sposare la Carola, andai a veglia da lei tre anni, e quando il mio suocero, buon'anima, mi metteva con le spalle al muro per farmela sposare presto e dare intanto la via a una delle sue quattro figliuole, io gli rispondevo che al matrimonio, come a tutte le risoluzioni gravi che si prendono nella vita, bisognava pensarci prima, per non pentirsi poi. Vedete che a tardare me ne son trovato bene, e quando ho sposato la Carola, sapevo che virtù e che difetti aveva, e per questo siamo andati sempre d'accordo. - Tu hai ragione, ma la Carola potevi vederla quando volevi, perché le nostre case erano a poca distanza e la sera andavi sempre da lei; ma Carlo sta a Firenze, l'Annina a Camaldoli, e in capo a un anno essi si conosceranno quanto ora e non più di certo. In quest'anno, se Carlo avrà moglie, farà maggiore economia, e così potrà ricondurre più presto l'Annina in Casentino e incominciar quella vita di proprietario ch'è il suo sogno. Non ti pare che, in vista di queste considerazioni, tu potresti cedere e non ostinarti a restar fedele ai principî di quel che è detto è detto? Nella vita sopravvengono spesso tanti avvenimenti, che ci costringono a derogare dalle risoluzione prese, e questo prepotente affetto di Carlo per l'Annina è cosa da esser presa in considerazione. Rifletti, e poi dimmi che cosa debbo fare scrivere da Vezzosa a Carlo. Il capoccia rifletté qualche tempo e poi disse: - Io non lo capisco quest'affetto che non può aspettare un anno, come se un anno fosse la vita di un uomo. Ma se voi credete che l'Annina sia seria abbastanza per maritarsi e che Carlo sia capace di tenerla bene e dimostrarle affezione, derogherò volentieri dal mio principio per compiacervi; ma badiamo poi che voi, mamma, non dobbiate pentirvi della vostra bontà, ed io della mia condiscendenza. - Spero che Iddio mi risparmi questo dolore, - disse la vecchia sorridendo, - e finché sarò in vita aiuterò la giovane coppia con i miei consigli, e, dopo morta, con le mie preghiere. - E batti! - esclamò Maso che non voleva sentir parlar di malinconie. - Quando la finirete di parlar di cose tristi? Regina non rispose, ma sorrise affettuosamente al figliuolo per la concessione fattale.

Ti giuro che se domani tu non sei molte miglia lontano dai domini dei Guidi, io torno e ti precipito nel trabocchetto, che ben sai dove sia, e quanti felloni pari tuoi abbia inghiottiti! - Pietà! - supplicava ser Grifo con un fil di voce. Il conte Oberto, camuffato della armatura del suo antenato, fece un gesto di sdegno e disse: - Ho parlato. A buon intenditor poche parole! E facendo lo stesso rumore di ferro, uscì dalla stanza col doppiere in mano e richiuse l'uscio. Il conte Bandino e il conte di Poppi avevan udito tutto ed esclamarono: - Tu hai fatto benissimo la parte dell'ombra! - Lo credo, e se domani quel viso di zucca non è lontano molte miglia, vuol dire che si prepara a partire per un viaggio più lungo, per non tornar più. - Misericordia, lo scherzo è forse andato tropp'oltre! - disse il conte di Poppi, che era di animo meno crudele degli altri. - E se male incoglie a questo poeta, madonna Margherita se ne affliggerà, poiché ella ha compassione di lui. - Ringrazia Iddio e san Fedele che in un modo o in un altro te ne ho liberato, - rispose il conte Oberto. I tre signori scesero, e, dopo aver deposta l'armatura nella sala d'armi, ciascuno andò a coricarsi nella propria camera. La mattina dopo il conte di Poppi dormì lungamente, e quando il suo servo entrò in camera per aiutarlo a vestirsi, gli narrò che il cappellano, il quale dormiva in una stanza poco distante da quella di ser Grifo, udendolo gridare nella notte era accorso, e lo aveva trovato in terra, con gli occhi fuori della testa, pronunziando parole sconnesse e facendo atto di volere fuggire. Il prete, credendolo insatanassato, aveva preso nella cappella la croce e l'acqua santa e con questa l'aveva asperso, pronunciando le preci contro lo spirito maligno; ma tutto era stato inutile. Ser Grifo urlava più che mai e si trascinava bocconi sul pavimento come una bestia. Fino a giorno il cappellano era rimasto presso il poeta senza riuscire a calmarlo, e allora aveva chiamato in aiuto il cerusico, che, visitato il malato, aveva scrollato la testa, assicurando che non aveva febbre né alcun male palese e si trattava di qualche cattiva influenza. Il conte di Poppi, udendo questa narrazione rimase perplesso e domandò al servo: - E ora come sta ser Grifo? - Al solito; ma il cerusico lo ha lasciato perché le donne della nostra padrona lo hanno chiamato per visitarla. - E tu mi serbavi per ultimo questa notizia, villano che non sei altro! Che m'importa di ser Grifo quando madonna Margherita è ammalata! E terminando di vestirsi in un battibaleno, il conte di Poppi andò a visitare l'inferma. I due cugini, che non erano angustiati come il loro parente, vollero veder con i propri occhi in che stato fosse ser Grifo. Essi salirono nella camera di lui e seppero mostrarsi afflitti del male che lo aveva còlto. Il poveretto smaniava come una bestia e non li riconobbe. Egli batteva la testa contro le pareti, e due uomini robusti non riuscivano a impedirgli di farsi danno. - Voglio andarmene! - urlava. - Se il conte Guido mi trova qui alla mezzanotte, mi precipita nel trabocchetto. Lasciatemi! Ma i due servi, credendolo impazzato, invece di cedere alle sue preghiere, lo reggevano nel letto, e pregarono i signori di scendere e mandar loro altri due compagni, per tentare se fra tutti potevano legarlo. - L'abbiamo conciato bene! - disse Bandino mentre scendevano la bellissima scala. - Io credo che quel poetastro sia bell'e spacciato. - Meglio per lui, - rispose Oberto. - La tomba credo sia preferibile a una vita come la sua. Anche a Dante pareva che il pane altrui sapesse di sale, e quello era un poeta; figurati come deve parer amaro a questo inettissimo verseggiatore! I due signori non pensavano più a ser Grifo dopo quella breve visita. La malattia della contessa Margherita e le smanie del loro cugino li occupavano ben altrimenti; e il palazzo era tutto sottosopra per il pericolo che correva la castellana, la quale era stata colta da una febbre calda, e il suo bel volto, di consueto bianco e vermiglio, era acceso come un tizzo, mentre la sua bocca sorridente non pareva dir altro, che: - Signore mio, aiutatemi! Il marito, cui rivolgeva continuamente questa supplica, non sapeva che cosa farle, e il cerusico meno di lui. Intanto la febbre bruciava la contessa ogni giorno più. In questo frattempo ser Grifo era stato avvolto in un lenzuolo, messo in una cassa e portato, senza che nessuno lo piangesse, nel sotterraneo dove solevano seppellire i signori, perché sapevano che era di sangue nobile. Il povero poeta aveva passata tutta una giornata a gridare ed a sbatacchiarsi volendo fuggire. Sull'imbrunire le smanie erano cresciute, e quando aveva sentito scoccare il primo colpo della mezzanotte, s'era chetato a un tratto, chiudendo gli occhi. - È morto, - avevan detto quelli che gli erano intorno; e chiamato in fretta il prete lo avevan fatto benedire. Il giorno dopo, senza avvertire neppure il signore, lo avevano messo nel sotterraneo. Intanto al palazzo giungevano tutti i parenti della contessa Margherita. Chi da Stia, chi da Pratovecchio, chi da una parte e chi dall'altra, e tutti portavano seco i loro cerusichi, perché i messi che avevan recato loro la notizia della malattia, avevano aggiunto che messer Biagio, il cerusico di casa, non ne capiva nulla. Ognuno di questi cerusichi suggeriva un rimedio, ma la febbre non cedeva, e la notte del terzo giorno la contessa spirò. Il marito pareva più nel mondo di là che di qua, tanto era il dolore di vedersi separato da una così bella, virtuosa e cara compagna, e dimenticò tutto, meno che di renderle tutti gli onori che spettano a gentildonna. Egli ordinò che la bellissima salma fosse rivestita del ricco abito d'argento e di seta celeste che indossava il dì delle nozze: che i biondi e lunghi capelli fossero racchiusi in una reticella d'oro e perle orientali; che ai piedi le fossero messe scarpe di raso ricamate; che al collo, ai polsi, alla vita e sulla fronte le brillassero le gemme di cui soleva adornarsi nei dì dei torneamenti e delle feste solenni. Quando il bel corpo fu adorno in questo modo, egli stesso pose fra le mani di Margherita un bellissimo crocifisso di smalto e la fece portare dai paggi nella sala di arme dov'era inalzato un catafalco di drappo nero e d'oro circondato di faci ardenti. Gli armigeri, vestiti di maglia, stavano a guardia del catafalco; i monaci salmodiavano e l'immensa sala era piena di dame, di cavalieri, di famigli e di terrazzani. Il Conte seguiva la salma della sua sposa, tutto vestito a lutto e con un volto così stravolto da far pietà. Appena giunse in sala egli si gettò in ginocchio e vi rimase sino a sera. Tutto il contado correva a vedere la bellissima signora; e la gente che usciva di sala aveva pietà della giovane, morta nel fior degli anni, ma più ancora ne provava per quel fiero signore singhiozzante accanto al cadavere della sua Margherita. Infatti il Conte pareva ridotto un mucchio d'ossi, senza energia, senza volontà. Per due giorni la castellana rimase esposta nella grande sala, e il Conte pregò sempre accanto a lei; pregò e pianse. In quei due giorni il signor di Poppi, col pensiero sempre rivolto alla sua carissima, non si accòrse che ser Grifo mancava, ma quando giunse l'ora di chiudere Margherita in una cassa per trasportarla nell'avello di famiglia, il Conte disse: - Chiamatemi ser Grifo; da lui voglio sia vergata una pergamena da porsi in una custodia d'oro, affinché i lontani nepoti sappiano che questo è il cadavere della più bella, più cortese e più virtuosa fra le donne. - Signore, ser Grifo non può venire, - rispose uno dei servi. - È vero! - avevo dimenticato che fosse ammalato! - esclamò il Conte. - E come sta al presente? - Non possiamo sapere come stia, perché ci ha lasciati, - replicò il servo. - E quando è partito? - Son quattro dì, signore, che lo racchiudemmo nella cassa la quale ponemmo poi nell'avello dei conti Guidi in San Fedele. - Morto! - esclamò il Conte. - Sì, morto; ma non sappiamo se arrabbiato o insatanassato. Egli non ha ricevuto neppure i sacramenti, ed è spirato a mezzanotte precisa. Il Conte ebbe un brivido, ma non aggiunse parola. Ora la notizia di quella morte lo colpiva doppiamente, facendogli nascere nell'anima il rimorso che il povero ser Grifo fosse morto in seguito a quell'atroce burla; e poi, quell'uomo secco, giallo e di animo semplice al pari di un bambino di nascita, non era forse una delle persone che Margherita apprezzava, e non aveva forse più volte raccomandato di trattarlo umanamente per riguardo alla sventura che lo aveva colpito al pari di tanti e tanti nobili, che gli odi di parte condannavano ad andare raminghi per il mondo? Il conte di Poppi cacciò questi pensieri per dedicar soltanto la mente alla sua dilettissima, e non potendo valersi più dell'opera di ser Grifo, chiamò un suo cancelliere dal quale fece scrivere la pergamena. Poi, dopo avervi apposto il suo sigillo, la racchiuse con le sue mani in una custodia finamente lavorata da un abilissimo orafo fiorentino. Terminati tutti questi preparativi, si formò il corteo, che dal palazzo doveva recare la salma della Contessa all'abbazia di San Fedele, traversando il paese. La cassa della bellissima donna, che pareva dolcemente addormentata, era stata lasciata dischiusa, e il volto era coperto soltanto da un sottil velo, come le signore solean portare in testa. Precedevano il corteo i monaci dell'abbazia, vestiti di bianco secondo la legge di san Romualdo, loro fondatore; venivano dopo i preti, gli araldi, gli uomini d'arme, e, attorno alla salma, i paggi e il lungo stuolo dei parenti, e per ultimo i terrazzani, che piangevano ripensando alla bontà e cortesia dell'estinta. Il corteo era lunghissimo e lo accompagnava il suono delle campane di tutte le chiese della rocca e dei castelli vicini. Quando giunse in chiesa, la cassa fu deposta nel centro della navata e i frati salmodiarono per un bel pezzo, mentre il conte di Poppi, seduto solo sotto il baldacchino di drappo, guardava ora il volto della sua donna illuminato dalle faci, ora il posto vuoto accanto a sé dov'era solito vederla. Terminata la cerimonia, la cassa venne assicurata a una fune, fu tolta la grande lapide marmorea che ne chiudeva la bocca, e dopo che il Conte ebbe lungamente baciato la sua donna, la bella salma fu calata giù, nello scuro avello, che accoglieva le ossa di tanti e tanti della famiglia Guidi. Appena un rumore sordo annunziò che la cassa aveva toccato il suolo, un becchino scese per una scaletta di pietra a fine di sciogliere le funi e collocare il coperchio alla cassa, ma non era giunto ancora in fondo che gettava un grido d'angoscia. Credendo che gli fosse venuto male o che si fosse ferito nel trascinare la cassa, un secondo becchino scese in fretta, ma anche questi si mise a gridare come se lo ammazzassero, e cadde producendo un tonfo sordo. Intanto in chiesa tutti s'erano fatti gialli dalla paura, e chi scappava di qua chi di là, senza poter uscire, perché la porta dell'abbazia era chiusa. Il conte di Poppi, turbato anch'egli dal suo doloroso raccoglimento, si alzò e rivolse il passo alla bocca dell'avello. In un momento gli furono accanto Oberto e Bandino, anzi, il primo prese una delle faci che erano infilate agli angoli del catafalco e precedé gli altri nel sotterraneo. Ma appena ebbe scesi gli scalini, gettò egli pure un grido e fece per voltarsi a risalire, ma s'imbatté nei cugini che gl'impedivano il passo. - Ma Oberto! - esclamò il signore di Poppi, - pensa chi sei e dove siamo. - Lasciami risalire! - supplicava l'altro atterrito e sgomentato. Ma il vedovo Conte, per rispetto al cadavere calato allora nell'avello, costrinse il suo parente a scendere insieme con lui. Peraltro anche il conte di Poppi rimase inchiodato in fondo alla scala, perché quel che vide era cosa da mettere spavento a chiunque. Ser Grifo, pallido come un morto, con gli occhi infossati nell'occhiaie, l'alta e magra persona avvolta in un lenzuolo bianco, stava curvo sulla cassa che accoglieva il cadavere della bella contessa Margherita e piangeva fissandola. In terra giacevano tramortiti i due becchini. - È resuscitato! È resuscitato! - diceva Oberto. Il conte di Poppi considerò il poeta per un momento e disse: - Anima buona, ritorna nel regno dei morti, ti farò dire delle messe per la tua salvezza. Il poeta piangeva sempre, con gli occhi rivolti sulla morta. - Anima buona, ritorna nel regno della morte, e lascia a me la cura di piangere sulla salma della mia diletta. - Parli a me, Conte? - domandò ser Grifo. Nell'udire quella voce, Oberto, cui il cugino non contendeva più il passo, risalì in chiesa preceduto da Bandino. Ser Grifo allora narrò al Conte che, destatosi dopo un lunghissimo assopimento, s'era trovato in quell'avello oscuro, dove, a tastoni, aveva fatto sforzi inauditi per sollevare la lapide che lo chiudeva, e quando ormai era ridotto a rassegnarsi a morir d'inedia, aveva veduto aprire il sotterraneo e calarvi la cassa. Il poeta, piangendo, aggiunse: - Ma allorché ho veduto per chi si dischiudeva quest'avello, ti giuro, nobile Conte, che avrei preferito rimanesse sempre chiuso e morirvi fra gli strazi della fame. Appena il Conte ebbe sciolta la fune che legava la bara della Contessa, la baciò sulle guance, e, scuotendo fortemente i due becchini, li fece alzare e risalì la scala dell'avello. Il conte Oberto e il conte Bandino avevano già narrato che ser Grifo era risuscitato, e la gente che empiva la chiesa stava in grande trepidazione attendendo il ritorno del poeta, del Conte e dei becchini. Primo a presentarsi fu il signor di Poppi, che fu accolto da un mormorìo di soddisfazione; ma quando comparve ser Grifo, con quel viso di cadavere e avvolto nel lenzuolo bianco, la gente incominciò a urlare e molte donne caddero prive di sentimento. Il Conte, per calmare lo spavento dei suoi terrazzani, pose una mano sulla spalla dell'infelice, che si reggeva a stento, e insieme con lui traversò la chiesa. Giunti che furono al palazzo, lo fece ristorare con buone bevande e con cibi, e da quel giorno lo tenne sempre al suo fianco, ascoltandolo con le lacrime agli occhi quando esaltava in versi le virtù e la bellezza della sua dilettissima. Ogni giorno il Conte e il poeta scendevano nell'avello dell'abbazia di San Fedele, mentre i frati a coro pregavano per l'anima della defunta; e ogni giorno bagnavano di nuove lacrime quella salma bellissima che la morte non era riuscita ad offendere. Il signor di Poppi, dopo la sua vedovanza, aveva cessato di compiacersi della compagnia dei suoi cugini e spendeva la vita nel sollevare i bisognosi, nelle preci e nei ricordi di un breve e lieto passato, che rimpiangeva incessantemente. Ogni volta che usciva, lo accompagnava ser Grifo, che la gente del contado non chiamava più col suo nome. Da tutti egli era designato con quello del "Morto risuscitato!". Egli sopravvisse al Conte, e quando morì davvero, non si trovò chi lo volesse sotterrare. Perciò lo lasciarono nella camera attigua alla cappella, sul letto stesso dov'era morto, e allorché la carne fu consunta e non vi rimasero che le ossa, vi fu un prete che le raccolse in una piccola urna e le depose in terra santa. Peraltro v'è chi dice che nel palazzo di Poppi si aggiri ancora nelle notti burrascose un'ombra avvolta in un lenzuolo bianco, che da tutti è chiamata il "Morto risuscitato". Io però non l'ho mai veduta e non ho mai conosciuto nessuno che mi potesse dire di averla mirata con i suoi occhi. Gli sguardi di tutti i bambini si diressero involontariamente dal lato in cui sorge il grande palazzo, ma l'oscurità impediva che attraverso le finestre se ne scorgesse l'alta torre. - La novella è terminata, - disse Cecco, - e spero che vi sarà piaciuta tanto da invogliarvi di udirne un'altra la vigilia della Befana. - Davvero! - risposero in coro i bambini. - Quella sera, - disse la Regina, - vi racconterò appunto la storia della calza della Befana. Sono molti anni che non l'ho più narrata, e in questi giorni ci penserò per non dimenticarmi neppure una parola. - E quando torneremo a casa troveremo le calze che avremo appese al camino, tutte piene, - disse uno dei bambini invitati. - Di che? Di cenere e carbone, oppure di zuccherini? - domandò Cecco. - Quando ero piccino sapevo sempre quel che mi avrebbe portato la Befana. - Come si fa a indovinarlo? - domandò l'Annina allo zio. - Non è difficile. La sera, prima di addormentarsi, si ripensa a quel che abbiamo fatto nell'anno, e se non ci rammentiamo impertinenze grosse, cattiverie con i fratelli, rispostacce alla mamma, possiamo star sicuri che la calza sarà piena di bei regali; se invece la memoria ci dice che fummo oziosi, cattivi, impertinenti, quella benedetta calza non conterrà altro che fuliggine, cenere e carbone. Fate questo discorsetto con voi stessi, e vedrete che l'arte dell'indovino la imparerete subito. Era tardi, e i bimbi si separarono, dopo aver ringraziato la Regina. Cecco ricondusse la mamma in camera, e quando furono soli le buttò le braccia al collo e ambedue si baciarono forte forte. - Così potessi baciarti sempre, figlio mio! - disse la buona vecchia. - Ma almeno Iddio mi ha concesso la grazia che tu ritornassi prima che io lasci il mondo per sempre, e lo ringrazierò di questo favore finché le mie labbra potranno parlare. Cecco era commosso e per distrarla le disse: - Ora pensate a rammentarvi bene la novella della calza della Befana, perché voglio che vi facciate onore, avete capito? E con un nuovo bacio si separò dalla madre.

. - Gesù mio, - disse fra sé, - come è possibile che io abbia dimenticato così presto Santina per una Incantatrice, che dev'essere figliuola del Demonio! Con questa donna qui non oserei neppur dire le orazioni, né sera, né mattina, e sarei sicuro d'andare all'inferno a bruciare per tutta l'eternità. Mentre così parlava, la Fata aveva messo in tavola il fritto e spinse Gosto a mangiarne, dicendogli che andava a prendere per lui altre dodici qualità di vino. Gosto cavò fuori il coltello che gli aveva dato Santina, e, sospirando, si preparò a mangiare; ma appena la lama che distruggeva gl'incantesimi ebbe toccato il piatto d'oro, tutti i pesci si rizzarono e ritornarono uomini, vestiti secondo la loro professione. Il procuratore aveva la toga, il mugnaio era coperto di farina, il marinaro aveva la berretta rossa, e il lanzichenecco il vestito di più colori e la lancia, e tutti si misero a gridare: - Salvaci, se vuoi esser salvato! - Maria santa! Chi sono questi uomini, che gridavano nell'olio bollente? - esclamò Gosto tutto meravigliato. - Siamo cristiani come te, - risposero. - Eravamo venuti allo Scoglio del Diavolo per cercar fortuna, abbiamo accondisceso a sposare l'Incantatrice, e il dì dopo le nozze ella ci ha ridotti come vedi, e come aveva già ridotti i nostri predecessori, che sono nel vivaio. - Come! - esclamò Gosto. - Una donna, che par così giovane, è già vedova di tanti mariti? - E tu sarai ben presto convertito in pesce ed esposto a esser fritto e mangiato dai tuoi successori. Gosto fece un lancio. Gli pareva di esser già nella padella d'oro, e corse alla porta cercando di scappare prima del ritorno dell'Incantatrice; ma essa, entrando, aveva inteso tutto. In un batter d'occhio gettò la rete d'acciaio ed egli fu trasformato in ranocchio e portato nel vivaio, dov'erano tutti gli altri mariti. In quel momento il campanellino che Gosto aveva al collo si mise a scampanellare da sé, e Santina lo udì da Arezzo, mentre stava a filar la lana sull'aia del podere. Quel suono le fece provare una trafitta al cuore e gettò un grido: - Gosto è in pericolo! E senza attendere un momento, senza consigliarsi con nessuno, corse a mettersi il vestito delle feste, s'infilò le scarpe, ed uscì dal podere appoggiandosi sul bastone di san Francesco. Quando giunse a un crocevia, conficcò il bastone in terra e disse: Bastone, bastoncello, Del Santo poverello, Porta me da Gosto mio, Con l'aiuto del buon Dio! Il bastone si cambiò subito in un cavallo strigliato, bardato, sellato, infioccato sugli orecchi e impennacchiato sulla fronte. Santina gli salì in groppa e il cavallo si mise, prima a camminar di passo, poi di galoppo e alla fine correva tanto, che i fossi, gli alberi, le case, i campanili passavano davanti agli occhi della ragazza come farebbero le stecche di un arcolaio. Ma ella non si lamentava, sapendo che ogni passo la riavvicinava sempre più al suo caro Gosto; anzi, incitava l'animale, ripetendo: - Il cavallo va più piano della rondine, la rondine va più piano del vento, il vento della saetta; ma tu, cavallino mio, se mi vuoi bene, devi andare più presto di tutti; perché ho una parte del cuore che soffre, la parte migliore del cuore che è in pericolo. Il cavallo la capiva veramente bene, e correva come una pagliuzza travolta dal vento; ma quando fu a metà costa dell'Appennino, si fermò, perché dalla via presa da Santina non era mai passato nessun cavallo, tanto era ripida e scoscesa. Santina capì la ragione di quella fermata e prese a dire: Cavallo, cavallino, Del Santo poverino, Porta me da Gosto mio, Con l'aiuto del buon Dio! Appena la ragazza ebbe terminata questa invocazione, le ali spuntarono dai fianchi al cavallo, il quale, trasformatosi in uccello grandissimo, si diede a volare in alto e giunse in vetta a un monte. In quella vetta vide un nido di creta, coperto di borraccina, sul quale stava accovacciato un ometto grinzoso e pelato, il quale vedendo Santina si mise a gridare: - Ecco la bella ragazza che viene a salvarmi! - A salvarti! Ma chi sei, omìno? - Sono Cencio, il marito dell'Incantatrice dello Scoglio del Diavolo; è stata lei che mi ha relegato qui. - E che fai su quel nido? - Sto a covare sei uova di pietra e non sarò libero finché da queste uova non nasceranno sei pulcini. Santa non poté trattener le risa. - Povero gallettino, come farò mai a salvarti? - Salvando Gosto, che è in potere dell'Incantatrice, salverai anche me. - Dimmi come posso fare, per carità, e anche se dovessi percorrere in ginocchio il giro di tutti i santuarî, mi metterei subito in cammino. - Ebbene, occorrono due cose, - rispose il Nano. - Prima devi presentarti all'Incantatrice sotto le spoglie di un giovinotto; poi devi rubarle la rete d'acciaio, che porta alla cintura, e rinchiudervela fino al giorno del Giudizio. - E dove troverò mai un abito maschile? - domandò la ragazza. - Lo saprai subito, bella mia! Il Nano si mise a scavare la terra e, scava scava, fece una buca profonda. A un tratto si fermò e disse a Santina: - Io non ne posso più; ma tu non sei stanca e potrai scavare ancora. Qui ci devon esser rimpiattate certe valigie tolte dai ladri a un cavaliere. Costoro, dopo il furto, furon presi e impiccati, ma la roba rubata è custodita ancora dalla terra. Santina scavò tanto e poi tanto, che alla fine trovò le valigie di cuoio intatte. Dentro v'era un ricco vestito di velluto, un tocco piumato, cintura, calzoni e spada. Quando Santina ebbe indossato il ricco abito, pareva proprio un cavaliere. Ella ringraziò il Nano, il quale le diede ancora alcune indicazioni su quel che doveva fare, e poi l'uccello dalle ali smisurate la condusse con un sol volo fino allo Scoglio del Diavolo. Giunta colà ella disse: Uccello, bell'uccello, Ritorna bastoncello; Or son qui da Gosto mio, Con l'aiuto del buon Dio! Vedendo la barca a forma di cigno, Santina vi entrò e il cigno la condusse al palazzo dell'Incantatrice. Questa, vedendo il bel cavaliere riccamente vestito, fu tutta lieta ed esclamò: - Per Satanasso! Non vidi mai giovine più bello in quest'isola, e voglio fargli lieta e cortese accoglienza. Ella mosse dunque incontro a Santina, dicendole: "Cuor mio! Amor mio!". Poi le servì da merenda, e la ragazza, trovando sulla tavola il coltello di san Donato, lasciato lì da Gosto, lo prese per servirsene, caso mai ne avesse bisogno, e seguì l'Incantatrice nel giardino. La Fata le mostrò le aiuole con i fiori di diamanti, le fontane di acqua odorosa, e soprattutto il vivaio, dove nuotavano pesci di ogni colore. Santina li ammirò moltissimo e si sedé in riva all'acqua per vederli più da vicino. L'Incantatrice approfittò di quel momento per domandarle se non sarebbe stata contenta di restar sempre in sua compagnia, e Santina le rispose che non aveva altra brama, altro desiderio. - Dunque tu mi sposeresti subito? - domandò la Fata. - Sì, a patto però che tu mi lasci pescare uno di questi bei pesci con la rete d'acciaio che porti alla cintura. L'Incantatrice non aveva nessun sospetto e credé che quel desiderio fosse un capriccio del giovinotto; perciò gli dette la rete e disse sorridendo: - Vediamo, bel pescatore, quello che pescherai! - Pescherò il Diavolo! - esclamò Santina gettando la rete sulla testa della Incantatrice. - In nome del Redentore degli uomini, strega maledetta, diventa all'aspetto quel che sei in realtà. L'Incantatrice non poté gettar altro che un grido, che terminò in un gemito soffocato, perché il desiderio di Santina si era compiuto, e la bella Fata delle acque era trasformata in una orribile vecchia, bavosa e rugosa. Santina chiuse la rete e corse a gittarla in un pozzo, sopra il quale mise una pietra col segno della croce, affinché non potesse essere alzata, come quella dei sepolcri, altro che il giorno del Giudizio. Poi tornò in tutta fretta al vivaio, ma i pesci ne erano già usciti e le andavano incontro a guisa di lunga processione, gridando con le vocine roche: - Ecco il nostro padrone, colui che ci ha liberati dalla rete di acciaio e dalla padella d'oro. - E vi renderà pure il vostro aspetto di cristiani, - disse Santina, cavando di tasca il coltello di san Donato. Ma quando stava per toccare con quello il primo pesce, vide accanto a sé, sull'erba, un ranocchio verde con un campanellino al collo. Il ranocchio piangeva e comprimevasi il cuore con le sue zampette davanti; Santina a quella vista si sentì rimescolare tutto il sangue ed esclamò: - Sei tu, Gosto mio, sposo mio, mio bene? - Sono io, - rispose il ranocchio. Santina lo toccò subito con la lama che aveva alla cintura, e Gosto prese l'aspetto di cristiano. Essi si abbracciarono piangendo e ridendo nel medesimo tempo. Le lacrime, esprimevano i rammarici passati; il riso, le speranze dell'avvenire. La ragazza toccò poi tutti i pesci, che ritornarono uomini com'erano prima dell'incantesimo. Quando ella fu per partire, vide arrivare l'omìno della montagna, che stava sul nido, tirato da sei scarafaggi, che erano nati dalle sei uova di pietra. - Eccomi, bella ragazza! - esclamò scorgendo Santina. - L'incantesimo che mi teneva inchiodato sulla vetta del monte, ora è rotto mercè vostra. E per dimostrarle la sua gratitudine, la guidò nei sotterranei del palazzo, dove l'Incantatrice teneva nascosti i suoi tesori, e le disse di prendere tutto ciò che voleva. Santina e Gosto si empirono le tasche di pietre preziose, e la ragazza ordinò al bastone di diventare una nave abbastanza grande per portare sulle coste di Romagna tutta la gente che ella aveva salvata. Il bastone di san Francesco ubbidì subito, e prima che il bastimento salpasse, Santina toccò lo Scoglio del Diavolo col coltello di san Donato, e lo Scoglio sprofondò nei gorghi del mare. Dopo pochi giorni, Santina e Gosto tornarono al podere delle Grazie, vicino ad Arezzo, e invece di comprar soltanto un paio di manzi e un maiale, acquistarono terre in quantità e celebrarono le nozze con molta pompa. Alla cerimonia assistevano tutte le persone liberate da Santina, le quali, dopo aver avuto ricchi presenti dagli sposi, se ne tornarono a casa loro benedicendo l'accortezza della giovine. Santina fu buona moglie, com'era stata buona fidanzata, ed educò con amore i proprî figli, i quali salirono in alto grado, e fatti nobili dall'Imperatore, posero nel loro stemma un coltello, un campanellino ed un bastone. Mercè loro sorsero in Casentino tre chiese in onore di san Romano, di san Donato e di san Francesco, che erano stati i santi protettori della madre. Il coltello, il campanellino e il bastone perdettero ogni virtù appena la famiglia di Gosto e di Santina fu ricca e felice, ma i discendenti dei due sposi serbarono la fedeltà e la prudenza, che erano stati i veri talismani della loro avola, la quale morì vecchissima, in concetto di santità, e le fu eretta una tomba tutta di marmo dalla famiglia riconoscente. - E qui la novella è finita, - disse Regina. - Nonna, - prese a dire l'Annina, - quest'altr'anno io non sarò più qui accanto a voi a sentirvi raccontare i fatti meravigliosi dei cavalieri, delle dame e dei santi. - Sei forse pentita della risoluzione presa? - domandò la vecchia. - Non dico questo, ma la domenica sera e le feste io penserò con tenerezza a casa mia. - E farai bene a pensarci, perché qui tutti ti hanno voluto bene, cominciando da me; ma nello stesso tempo ti sentirai felice d'imparare, e di bastare alla tua esistenza. Anche per noi, destinate a vivere in campagna ed a guidare la modesta e rozza casa del contadino, l'istruzione è un patrimonio. Non parlo, si capisce, di quella che hanno le persone di città; ma dell'altra che s'acquista vedendo far bene i lavori, vedendo guidare con criterio una famiglia. L'ago, specialmente se adoprato con giudizio, è un risparmio immenso in una casa, e ti esorto a imparar bene a cucire, a stirare e a far da cucina. Una massaia abile è una benedizione per il marito e per i figli. La Regina era stata ascoltata con grande attenzione dalla sua famiglia, e l'Annina specialmente fu commossa dai saggi avvertimenti della nonna, la quale colse quell'occasione per tesser gli elogi di Vezzosa, che erasi allontanata un momento insieme col suo Cecco. - Vedi, - diceva rivolta all'Annina, - tua zia Vezzosa non ha portato un soldo in casa, ma nessuno di noi è pentito di averla accettata senza dote. - Nessuno certo! - esclamò Maso. - Ella s'industria in ogni modo per rendersi utile alla famiglia; - continuò la Regina, - ella sa fare di tutto, e sotto le sue dita abili, anche un cencio prende un aspetto decente. Se fosse stata invece disadatta a ogni cosa e ci avesse magari portato un migliaio di lire, la rendita di quel piccolo capitale ci avrebbe forse dato tanto vantaggio quanto ne risentiamo dalla sua intelligente operosità? No certo. Impara dunque, bambina mia, a farti una dote che nessuno ti potrà mai togliere, altro che Iddio, la dote vera: l'abilità unita all'operosità. Quando la Regina, parlando, toccava argomenti seri e dava ammonizioni, la sua voce prendeva un suono solenne ed affettuoso a un tempo, che commoveva la famiglia, come il suono di una voce che venisse dall'alto. L'Annina, nell'ascoltarla, aveva gli occhi pieni di lacrime e non trovava parole per risponderle. - Dunque, non hai capito quel che ti ha detto la nonna? - domandò la Carola. - Sì, che ho capito, e non lo dimenticherò; state sicura, mamma, non lo dimenticherò. Il ritorno di Vezzosa col marito pose termine a quella conversazione. La giovane sposa tornava col grembiule pieno d'insalata per la cena, e l'Annina si asciugò in fretta le lacrime e si diede ad apparecchiar la tavola.

Una notte, vedendo messer Spini dibattersi furiosamente in preda alle convulsioni, Teresona aveva detto: - Sant'Anna benedetta, non vi pare che quest'infelice abbia patito assai? guaritelo, per carità di lui e di me! La luminosa visione le era di nuovo comparsa, e sant'Anna le aveva risposto: - Se la diletta Figlia mia non avesse esaudito le tue preghiere, tu e l'esule non avreste più neppure questo ricovero. Non capisci che sono gli urli di lui che tengono lontana la gente da questo luogo? - Chino il capo alle savie disposizioni della Provvidenza, - rispose Teresona umilmente. - Così va bene; - disse sant'Anna, - quando la persecuzione contro messer Spini cesserà, egli sarà guarito. La visione scomparve, ma gli urli continuarono e il terrore era sparso nei dintorni. Intanto i contadini, che vedevano marcire la loro uva sulle viti nel Pian di Campaldino, erano andati dall'abate di Strumi, che aveva nomea di santo, e gli avevan detto, con voce tremante e spaventata: - Abate maggiore, il lupo mannaro è in paese, e noi si perde la raccolta dell'uva. L'abate si era fatto spiegare il come e il perché di quella perdita, e dopo aveva detto: - Domani farò una processione fino alla casetta nel Pian di Campaldino e con l'acqua santa caccerò il lupo mannaro. Infatti il giorno dopo aveva adunato i suoi monaci, e, preceduto dalla croce, si era diretto al luogo dove tenevasi nascosto messer Spini. Egli era in un momento di calma e, seduto per terra col dorso appoggiato alla rozza parete, esprimeva a Teresona, che lo ascoltava con le lacrime agli occhi, l'ammirazione che ella gl'ispirava per la sua illimitata bontà. - Ti voglio bene, Teresa, - le diceva, - più che alla madre mia, più che alle sorelle, agli amici, alla patria stessa, e non saprei vivere senza di te. La donna, che stava sempre in ascolto temendo una sorpresa, udì salmodiare e, guardando da uno spiraglio della porta, vide la processione di monaci dirigersi alla volta della casupola. - Siamo perduti! - esclamò. E, senza cercar di fuggire, perché lo reputava inutile, s'inginocchiò e pregò fervidamente sant'Anna e la Vergine. In quel momento messer Spini fu assalito dalle convulsioni; egli incominciò ad urlare, e il suo corpo prese a un tratto l'aspetto orribile di una bestia villosa, con una testa enorme e una bocca fornita di zanne minacciose. L'animale, sempre urlando, si fece sulla porta, e pareva pronto a gettarsi addosso al primo che si accostasse. Il giovane monaco che recava la croce ed era in testa alla processione, appena vide il mostro, fuggì; l'abate che sperava tanto nell'acqua santa, se la diede a gambe, e in breve Teresona vide le tonache bianche dei monaci sparire dalla pianura di Campaldino. Quando nessuno più rimase in quei dintorni, messer Spini riprese sembianze umane e Teresona respirò. Tutti e due capirono che quella trasformazione era avvenuta per intervento celeste, e ringraziarono le loro Protettrici. Dopo qualche giorno messer Spini non fu più assalito dalle convulsioni. Soltanto quando qualcuno voleva avventurarsi vicino alla casa, mandava urli da lupo, e se v'era qualche spirito forte che si accostava con l'intendimento di uccidere il lupo mannaro nella sua tana, il fiorentino prendeva subito le sembianze del mostro e faceva fuggire il mal capitato. Così Teresona e l'esule rimasero padroni di una zona di terreno, dalla quale essi ricavavano in parte il nutrimento. La ragazza però non cessava d'industriarsi andando a vendere erbaggi a Bibbiena, e laggiù apprese che a Firenze non governava più il partito avverso a messer Spini, e che a questi era stato revocato il bando e la confisca dei beni. Tutta lieta ella andò a comunicare la notizia all'esule, il quale pianse di gioia e, approfittando della notte, volle subito partire per Firenze. Teresona fu molto afflitta da quella risoluzione del fiorentino e gli disse: - Signor mio, quando sarete in patria, ricordatevi qualche volta di me. - Ma tu mi accompagni! - rispose messer Spini, - mi sei stata compagna, sostegno, appoggio nella brutta sorte, sarai dunque la compagna dei giorni lieti. Così partirono, e dopo molti giorni di viaggio faticoso, messer Spini bussava alla porta del suo palazzo e, riconosciuto dai suoi concittadini, tornava al possesso del patrimonio e delle cariche del governo della Repubblica. Teresona aveva ripreso gli abiti femminili, ma non appariva più a nessuno così brutta come per il passato, forse perché messer Spini narrava a tutti la devozione di cui era stata capace quella creatura così buona e coraggiosa. Nonostante Teresona si sentiva a disagio nel bel palazzo, e ormai che messer Spini era guarito e ritornato in patria, ella voleva riandarsene in Casentino, per aver notizie del padre suo e ottenerne il perdono. Ma messer Spini non glielo concesse e, anzi, per dimostrarle la sua gratitudine, volle farla sua moglie. Teresona credé d'impazzire dalla gioia allorché il suo signore le comunicò questa risoluzione. Le nozze furono celebrate senza pompa nella cappella del palazzo Spini, dove la sposa visse lunghissimi anni venerata e stimata dal marito e dagli amici di lui, e dove morì in tarda età. Appena messer Spini e la Teresona furono partiti dal Casentino, certi contadini che passavano una mattina sul limitare della pianura di Campaldino videro il cadavere di un mostro, simile in tutto e per tutto a quello che aveva tanto spaventato l'abate maggiore di Strumi e tutta la processione. Essi andarono a raccontare a Poppi che il lupo mannaro era crepato, e allora il popolo dei dintorni, guidato dai proprietari della pianura, andò a vedere la bestiaccia che era stata per tanto tempo il terrore di tutto il paese. - Bruciamola! - disse uno. - Bruciamola! - risposero tutti. Allora lì per lì fu messa insieme una catasta di legne secche; la bestiaccia pelosa vi fu posta sopra a forza di stanghe, perché nessuno voleva toccarla, e in breve fu avvolta dalle fiamme e incenerita. Da quel giorno nessuno ha più udito né veduto il lupo mannaro in quei luoghi, e i contadini sono ritornati ogni anno a badare all'uva matura, senza essere turbati nelle loro veglie dagli urli del lupo. - E ora la novella è finita, - disse la Regina. In quel momento tornavano da Camaldoli il professor Luigi e la moglie, e con loro c'era anche l'Annina. - Come mai sei venuta? - le domandò la nonna. - Non so, - rispose la ragazza, - la signora mi ha detto che era meglio che passassi qualche giorno a casa, ed ho ubbidito. La signora Maria prese da parte la Carola e le disse che la signora Durini, sapendo che Carlo Buoni doveva tornare mercoledì o giovedì della settimana seguente, aveva creduto più conveniente che si abboccasse con l'Annina e le aprisse l'animo suo in casa dei genitori, piuttosto che alla villa dell'ispettore. Dopo quell'abboccamento le avrebbero rimandato la ragazza, dalla quale non intendeva separarsi fino al giorno del matrimonio. L'Annina doveva sospettar qualche cosa, perché era turbata e guardava tutti come se volesse leggere nell'animo dei suoi il segreto che era sicura le celavano; ma non domandò nulla, per il momento, ai grandi. Però, imbrancatasi con i piccini, che le avevano fatto una gran festa vedendola giungere, li aveva condotti nell'orto, e abilmente, senza dimostrare curiosità, li aveva interrogati. Essi erano stati tutti contenti di raccontarle che in settimana avevan avuto visite, che c'erano stati i Buoni, padre e figlio, e che durante la loro visita essi erano stati mandati via di cucina. - E dopo che hanno fatto? - domandò l'Annina. - Dopo aver molto parlato, il capoccia ci ha mandati a prendere l'aleatico; essi hanno bevuto, e son partiti per Poppi. Però il Vecchio, al ritorno, s'è fermato qui di nuovo. - E com'era il babbo? - Tutto felice, come quando torna dal mercato e ha venduto bene un paio di manzi. - E voi, che cosa avete supposto? - chiese di nuovo l'Annina. - Che il capoccia, la nonna, le nostre mamme e la Vezzosa hanno paglia in becco. L'Annina era troppo furba per non aver capito tutto. Il cuore le batteva forte forte, e quel certo mistero che ancora avvolgeva un fatto di cui non poteva aver più dubbio, le faceva provare una grande, una immensa felicità. Non sapeva spiegarsi come il sor Carlo avesse proprio scelto lei, e quando fu a letto, sicura che nessuno la vedeva, pianse e rise dalla grande felicità.

Chiunque ti abbia mandato a me, Iddio o il Diavolo, io lo ringrazio di questa consolazione. L'ambizione di avere un figlio che avesse più ingegno, più fama di ogni uomo, mi fece ascoltare i suggerimenti insidiosi del Demonio; ma tu sei carne della mia carne, e io ti voglio bene e ti benedico. Il mostro, mentre Parri sfogava così il suo dolore, era balzato di sella e s'era gettato nelle braccia dell'uomo buono, che era suo padre. In quel momento un pensiero subitaneo, una speranza, balenarono nel cuore e nella mente dell'artista. Egli si mise a camminare trascinandosi dietro il figlio, e, giunto sotto il portico della Badia, si fermò dinanzi a una soave Madonna, dipinta da lui sul muro, allorché era a Firenze giovinetto a studiar l'arte. Per quella immagine egli aveva una straordinaria venerazione. Fece inginocchiare il figlio, gli pose le mani sulle due teste e disse: - Madonna santa, voi sapete con quanta devozione io vi ho dipinta; abbiate pietà di me; io non ho più altra ambizione che quella di vedere il figlio mio con un aspetto come tutti gli altri. Maria Santa, redimetelo! Dagli occhi della soave immagine sgorgarono a un tratto due lacrime, e il mostro, intenerito, chinò la testa. Quelle due lacrime gli caddero su una delle due teste, e dal cielo scesero allora due schiere di angeli cantando "Osanna!" e circondarono il mostro. Allorché essi, cantando, risalirono al cielo, le lacrime della soave immagine s'erano terse, e sul volto di lei si vedeva un sorriso di beatitudine. - Figlio mio, figlio mio! - esclamò Parri mirando il giovane, il quale, rimasto in ginocchio, nell'atteggiamento di prima, mostrava una sola testa, come tutte le creature umane. Prima cura del pittore fu quella di far battezzare e cresimare il suo figliuolo, e, sentendosi ormai liberato da quell'infernale persecuzione, ritornò ad Arezzo ove riprese a dipingere le figure lasciate incomplete nel Duomo, e molte altre di cui ornò tante chiese della città. Il figlio, che ora cristianamente si chiamava Giovanni, fu pittore assai valente, e in una parete di San Domenico ad Arezzo dipinse il miracolo avuto in suo favore a San Salvi. - E ora la novella è terminata, e io do la buona notte, - disse la Regina.

. - Fratello, - disse al malato, - io ti reco la salute, affinché tu abbia tempo di pentirti della vita che hai menato. Anche infermo, ser Bindo conservava la violenza dell'animo. Perciò divenne rosso in volto a quel rimprovero, e, drizzatosi sul letto, rispose con voce minacciosa: - Frate, è inutile che tu rimanga presso il mio letto; io non tollero accanto a me chi osa giudicare le mie azioni; vattene! - e con l'indice teso gli accennava la porta. - Non sono le tue ingiurie che mi faranno partire. Vecchio e cagionevole come sono, ho fatto il disagioso cammino dalla Verna a qui, per ordine del beato san Francesco, il quale mi ha ingiunto di disputare la tua vita alla malattia e la tua anima al suo eterno nemico, il demonio. Tu potresti anche minacciarmi di morte, ma io rimarrei! Ser Bindo, non potendosi muovere, urlò, sbraitò, senza che nessuno accorresse alle sue grida; e il frate pregava senza prestar orecchio alle villanìe che il vicario si lasciava uscir di bocca, come se non fossero dirette a lui. Così rimase il frate tutto il giorno accanto al letto dell'infermo, e questi, stanco alfine d'inveire contro di lui, e sentendo aumentare gli spasimi, disse con la sua solita manieraccia: - Se hai un rimedio, usalo, perché io mi sento morir dal dolore. Il frate era sicuro che si sarebbe venuti a questi ferri. Egli cavò da una bisaccia un vasetto di balsamo, e, sfasciate le gambe dell'infermo, le unse tutte con quello, recitando a bassa voce una preghiera. Dopo poco lo spasimo cessò, e ser Bindo, il quale non sapeva più che cosa fosse sonno, dormì profondamente per più ore. Al suo destarsi vide il frate inginocchiato che pregava, benché la notte fosse nel colmo. - Che cosa fai costì? - gli domandò il vicario. - Prego per te e attendo che tu mi chieda di assisterti, - rispose fra' Celestino. - Quale interesse ti spinge a questo? - Nessuno, fratello, altro che quello di redimere un'anima. - Non lo credo. Fra' Celestino non rispose e continuò a pregare. Ser Bindo, invece, si addormentò, ma poco dopo si destò, gridando come un dannato. - Che hai, fratello? - gli domandò fra' Celestino alzandosi e curvandosi su di lui. - Soffri forse nuovi spasimi? Il vicario accennava di no col capo, e quando si fu riavuto un poco rispose: - Frate, io ho veduto in faccia la morte, che mi voleva acchiappare, e dietro a lei v'era una voragine ardente, che ella mi accennava. Dimmi, sull'anima tua, credi tu che quella sia la pena che mi aspetta? - Se non ti penti, lo credo fermamente. L'infermo non aggiunse altro, e poco dopo si riaddormentò. Il frate continuò a pregare con maggior fervore di prima, implorando da san Francesco che intenerisse con un raggio della sua fede quell'anima indurita nel peccato. E san Francesco apparve in sogno al vicario e gli parlò con quella voce dolce che ammansiva le fiere, dimostrandogli la sua perfidia, non solo verso la gente affidata al suo governo, ma principalmente verso la moglie e i figli suoi; e gli fece vedere madonna Bice ramminga per i boschi, portandosi faticosamente in collo i tre bimbi, i tre poveri bimbi storpi, che ella guardava con beatitudine, come se fossero tre angioli di bellezza. - Quella madre è felice, - disse il Santo, - e tu pure potresti esser consolato, poiché la felicità le viene dal sentimento di aver fatto il suo dovere, dalla consolazione di dedicarsi a quelle tre creature. Il cuore indurito del vicario si commosse a quelle parole di san Francesco. - Se potessi ritrovare madonna Bice e ricondurla presso di me! - esclamò. - Se il tuo pentimento è sincero, la ritroverai, e io ti darò una guida sicura per rintracciarla, - disse il Santo, e sparì. Quella volta ser Bindo si destò senza gridare, senza spasimare, e vedendo fra' Celestino inginocchiato e pregante, gli disse: - Frate, metti un poco del tuo balsamo sulle mie ferite: io ho bisogno di guarire, perché debbo rintracciare mia moglie e i miei figli. Il frate non si meravigliò udendolo parlare in quel modo, perché sapeva che san Francesco aveva la virtù di operare grandissimi miracoli; e col balsamo unse le piaghe del vicario. Quelle piaghe si rimarginavano a vista d'occhio, e l'infermo non cessava di domandare quando sarebbe stato guarito, perché era punto dal desiderio di partire presto. Allorché in capo a tre giorni le gambe ritornarono sane come prima, ser Bindo disse al frate: - Ora che il corpo è guarito, curiamoci l'anima, venerando fratello. E inginocchiandosi dinanzi a lui, fece ampia confessione de' suoi peccati, accompagnando la narrazione con lacrime di sincero pentimento. Il frate pure piangeva commosso, vedendosi dinanzi quel grande peccatore ammansito dalla parola di san Francesco, e ringraziava umilmente il venerato capo del suo ordine di averlo scelto per istrumento della conversione di ser Bindo. Appena il vicario si fu alleggerito la coscienza da quel peso, ed ebbe pronunziato l'atto di contrizione, promettendo di scontare con tante opere di carità le sue azioni malvage, ordinò che gli fosse sellato un cavallo, e, vestitosi in fretta, partì alla ricerca di madonna Bice e dei suoi figli. Fra' Celestino lo accompagnò con le sue preghiere, e quando ser Bindo ebbe sceso il monte di Poppi, vide avverarsi la promessa del Santo, poiché da una siepe sbucò fuori un cane da pastori, che prima abbaiò per salutarlo e quindi si pose avanti al cavallo, servendo di guida al cavaliere. Così camminarono lungamente, finché il cane non si fermò sul limitare di un bosco. Il vicario vi spinse il cavallo e avrebbe voluto andar oltre, ma il cane si diede a saltargli alle gambe, quasi lo volesse trattenere. Era già notte, e ser Bindo capì che doveva pernottare in quel luogo, forse per non turbare il riposo della madre e dei bambini. Egli scese dunque da cavallo, e dopo aver mangiato le poche provviste che aveva seco, legò il cavallo a un albero sotto il quale si distese e dormì placidamente come non aveva dormito dopo che la sua anima s'era macchiata da tanti peccati. Gli uccelli, che salutavano il nuovo sole, lo destarono al far del giorno. Allora ser Bindo rimontò a cavallo, e questa volta il cane non si oppose alla sua andata; anzi, abbaiando festosamente, lo guidò fra i castagni, fino a una siepe di foltissimi pruni, che si diede a strappare con le zanne. Il cavaliere capì, e, balzando di sella, trasse la spada e cercò di aprirsi un varco nel prunaio. Ma in questo lavoro si forava le mani, lasciava la pelle attaccata agli spini e sanguinava da tutte le parti. Nonostante non cessava di tagliare per giungere alla moglie; ma ogni tanto il pensiero di vedersi davanti i tre storpiati gli toglieva il coraggio di proseguire, e allora gli veniva la voglia di scappar lontano, di lasciare madonna Bice e i tre bimbi al loro destino. In quei momenti di scoraggiamento sentiva o gli pareva di sentire la dolce voce del Santo che gli diceva: - Prosegui nella via del pentimento; non ti saranno rimessi i peccati altro che se tu ricondurrai a casa la infelice madre e i tre bimbi. E allora ser Bindo riprendeva coraggio e tagliava con più energia i pruni. Finalmente egli forò quella folta parete, e l'occhio suo si portò nel centro della spianata dove sorgeva la fontana. E quale non fu la sua gioia quando, invece di tre bimbi macilenti e deformi, vide saltare tre creature sane, belle e allegre, che si baloccavano con un caprettino di latte e ridevano delle capriole della bestiolina. Ser Bindo, senza pensare ai pruni, fece uno strappo alla pungente barriera, e in pochi salti fu accanto ai bambini e se li strinse al cuore coprendoli di sangue. Essi gettarono un grido, e madonna Bice, che era nella capanna, accorse spaventata. Ma quando ella vide il marito che accarezzava le sue creature, non poté più camminare, non poté più parlare, e cadde in ginocchio alzando le mani al cielo, in atto di profondo ringraziamento. Ella non disse al marito una sola parola di rimprovero per le sue barbarie, e appena poté moversi, corse ad attingere acqua alla fontana e con quella gli lavò le ferite. Il sangue si stagnò improvvisamente, e ser Bindo, commosso da tanta dolcezza, s'inginocchiò dinanzi alla moglie e le disse umilmente : - Mi perdoni? Ella non poté rispondere, ma gli prese la mano e la bagnò di lacrime. Poche ore dopo ser Bindo faceva salire a cavallo madonna Bice, le poneva fra le braccia i due figli maggiori, ed egli, tolto Landino in collo, conduceva il cavallo per la briglia fino al castello di Poppi. In quel momento il cane che lo aveva guidato fece un lancio e, abbaiando, sparì. La gente accorreva meravigliata sulle porte delle case per vedere passare il prepotente signore, ora così umile, e bisbigliava che soltanto un grande miracolo poteva averlo cambiato a quel modo. - Salute, fratelli! Salute, sorelle! - diceva ser Bindo passando accanto alla gente. - Pregate per l'anima mia! Da quel giorno il vicario non commise più nessuna prepotenza a danno del popolo a lui affidato, e fu eccellente marito e padre esemplare. Egli spese tutte le sue ricchezze in elemosine e nella costruzione di una chiesa, che fece erigere nel luogo dove la moglie e i figli suoi avevano passato un anno, e che dedicò a san Francesco. L'acqua della fontana, che aveva servito a togliere la deformità ai tre storpi di madonna Bice, sgorga ancora; ma ha perduto la sua virtù; forse perché nessuno l'ha usata con la stessa fede dell'infelice madre, la quale morì in tarda età, venerata da tutti e invidiata dalle altre donne per il valore, la saggezza e la generosità dei suoi figli. Qui la Regina tacque e la Vezzosa prese a dire: - Anche voi, mamma, siete invidiata per aver d'intorno una nidiata di figliuoli sani, buoni e operosi; ma a voi sono state risparmiate le prove dolorose che ebbe a sopportare madonna Bice prima di conseguire quella felicità, non è vero? La vecchia guardò la giovine sposa, poi chinò il capo, e il suo volto, di consueto così sereno, si rannuvolò. Cecco, che aveva seguìto quella scena muta, si accostò alla moglie e la tirò per la manica, affinché non ripetesse l'intempestiva domanda; poi andò verso la mamma, e, per toglierla dall'abbattimento nel quale l'avevano piombata le parole di Vezzosa, la invitò ad andare a letto. Nessuno osò più parlare quella sera, e la veglia incominciata gaiamente, terminò molto triste. - Ma che mistero c'è sotto? - domandava Vezzosa al marito. - Lo saprai, ma ora taci; non vedi come tutti si sono fatti silenziosi?

La cella dell'abate, intanto, si era empita di altri frati, e uno di essi, che era tenuto in conto di molto sapiente perché copiava continuamente antichi manoscritti ornandoli di belle iniziali fregiate, disse: - È naturale che la Madonna abbia gettata in terra la corona. La Santa Madre del Signore non vuole il dono di un frate che è divenuto antipapa a dispetto di Sua Santità Alessandro III, eletto nel conclave dei cardinali. La spiegazione che fra' Ilario dava del miracolo, confortò molto l'abate. - Avete parlato saggiamente, - diss'egli, - e noi metteremo un'altra corona sulla testa della Beatissima Vergine. E, senza indugiare, scese in chiesa, raccolse la corona falsa, e avviatosi nella stanza dov'eran conservati gli oggetti preziosi, tolse da un armadio una corona d'argento che egli stesso posò sul capo della Madonna. Quella sera, a refettorio, non si parlò d'altro che del miracolo, e nel castello di Strumi, come pure in paese, tutti traevano da quel rifiuto della Vergine l'augurio che ella si volesse costituire protettrice di papa Alessandro e della Lega dei comuni contro l'imperatore Federigo Barbarossa. - Vedete! - dicevano i paesani, - già due antipapi, creati da Federigo, sono periti di mala morte; presto toccherà anche a Giovanni Ungheri, il quale avrebbe fatto meglio a non cambiare l'abbazia di Strumi con la tiara che non gli viene da Dio. L'abate Lamberto, impensierito da quel fatto e da tutti i discorsi che suscitava, appena fu nella sua cella pensò esser prudente cosa il nascondere la corona in un ripostiglio a lui solo noto, e non parlar di venderla con anima viva. In seguito, tutto si sarebbe calmato; e quando il fatto fosse dimenticato, poteva, senza pericolo, mandare il gioiello magari anche in Francia. Egli dormì pacificamente, e, destato dalla campana che sonava a mattutino, andò in chiesa. Ma appena si presentò sulla porta che dal monastero metteva nel coro, ecco venirgli incontro molti frati spaventati. - Padre abate, - dicevano, - mentre stavamo a far la giaculatoria alla Madonna, l'immagine ha incominciato a muovere la testa, prima piano e poi tanto forte che la corona d'argento è caduta in terra: questa non è la corona dell'abate Giovanni, dell'antipapa; qui sotto c'è un mistero! L'abate Lamberto li calmò dicendo che probabilmente egli aveva posato male la corona e per questo era caduta; ma tanto lui quanto i suoi monaci, quella mattina, dissero distrattamente il mattutino e furon lieti che terminasse: l'abate, per tornar nella sua cella a meditare sull'accaduto; i monaci, per riunirsi fra loro e commentare lo strano avvenimento, del quale, ora, neppur fra' Ilario sapeva dare spiegazione, perché la corona d'argento era un donativo della buona contessa Matelda di Toscana, e la Madonna non poteva rifiutare un ornamento che veniva dalla pia dama. Perché dunque quel fatto avveniva tanto per la corona dell'antipapa Calisto, quanto per quella di colei che aveva lasciati i suoi feudi alla chiesa? - Misteri! - sentenziò fra' Ilario, e tornò ai suoi manoscritti, che gli facevano dimenticare le cose di questo mondo, e anche quelle del mondo di là. Dopo la refezione, l'abate Lamberto adunò i suoi monaci e propose loro di mettere un'altra corona alla Madonna e di legargliela sulla testa con un filo di argento. E tutto il convento andò in processione a togliere dall'armadio una bella corona di argento, ornata di smalti e portata a Strumi da Guido di Besagne, il capo dei conti Guidi di Casentino, l'unico superstite della potente famiglia, che aveva i suoi feudi in Romagna. Egli aveva regalata quella corona alla Madonna di Strumi in ringraziamento di una grazia da lui ottenuta, ed era un pregevole lavoro di Bisanzio. Questa volta l'abate non osò mettere la corona in testa alla Madonna; aveva la coscienza sudicia e temeva che l'immagine santa facesse un terzo miracolo per isvergognarlo in presenza di tutti: perciò disse a fra' Ilario: - Salite voi sulla scala e legate forte la corona in testa alla Vergine. Fra' Ilario prese un filo d'argento e un paio di tanaglie, e assicurò ben bene la corona sulla testa della Madonna, per modo che, per togliervela, sarebbe occorsa una lima. Quando questo lavoro fu terminato, l'abate Lamberto ordinò ai suoi monaci d'inginocchiarsi, e poscia intuonò la Salve Regina Ma neppur dopo questa preghiera era più tranquillo, perché gli pareva che la Madonna tenesse fissi su lui gli occhi che avevano perduto l'espressione buona e dolce, e s'erano fatti severi. Neppur quello sguardo crucciato della Madre di Gesù, bastò a farlo ravvedere. Con poca fatica avrebbe potuto togliere la corona dal nascondiglio e metterla nell'armadio al posto della falsa; ma quando pensava al valore di quel gioiello, sentiva ridestarsi in cuore tutta la sua cupidigia, e gli pareva già di vedere le belle monete d'oro che ne avrebbe ricavate, vendendolo. Allora i due miracoli gli apparivano cosa naturalissima, e diceva che la corona falsa e quella d'argento eran cadute perché nella fretta non le aveva bene accomodate sul capo della sacra immagine. L'abate Lamberto fece anche quella notte tutto un sonno, e avrebbe dormito fino a tardi se le campane non lo avessero destato per andare a mattutino. Scese in chiesa, a passo lento, come si conveniva a un uomo rivestito di un'alta carica, ma giunto sulla porta si fermò. Che volevano dire quelle genuflessioni dei monaci, quel silenzio e tutte quelle lampade accese, nella chiesa ancor buia? Fra' Ilario, che lo aveva scòrto fermo sul limitare della chiesa, glielo disse in poche parole. Un istante prima, mentre i monaci recitavano la giaculatoria, la Madonna aveva alzato le braccia e, staccatasi la corona, l'aveva gettata sul pavimento dov'era ancora. A questo racconto l'abate Lamberto impallidì, tremò, e non ebbe coraggio di accostarsi alla immagine. - Adunate il Capitolo, - suggerì fra' Ilario all'abate. - Aduniamolo, - rispose questi. Prima che il sole fosse alto, tutti i monaci che facevan parte del Capitolo erano convenuti in una grande sala attigua alla cella dell'abate, e questi stava seduto nel fondo di essa, sotto un baldacchino, perché gli spettavano gli stessi onori che ai signori di feudi, e aveva giurisdizione sulle terre dipendenti dall'abbazia di Strumi, e diritto di vita e di morte sugli abitanti. Tutti i monaci aspettavano che l'abate cominciasse a parlare, ma l'abate taceva. Fra' Ilario allora prese a dire: - Fratelli, finché si trattava della prima corona caduta dalla testa dell'immagine della Madonna, si poteva supporre che la Madre di nostro Signore avesse orrore di un donativo fattole da un antipapa, cioè da un nemico della Chiesa fondata da Pietro per ordine di Gesù; in quanto alla seconda corona si poteva ammettere che il nostro abate non l'avesse collocata solidamente sul capo dell'immagine; ma oggi voi tutti avete veduto l'atto della Madonna; che cosa ne pensate? - Miracolo! Miracolo! Miracolo! - si udì ripetere da tutte le bocche, - Miracolo sì, ma il miracolo è stato fatto a uno scopo; questo è l'effetto, ma la causa di questo miracolo, qual è? Un profondo silenzio si fece nella sala, e allora l'abate Lamberto, ripreso imperio su se stesso, prese a dire: - Fratelli, mi pare atto da ribelli il voler indagare la mente della gloriosa Madre di Gesù; sottoponiamoci al volere di Lei e non tentiamo più di alienare da Strumi la sua valida protezione, volendole porre in testa una corona che rifiuta; chiniamo la testa e preghiamo. L'astuto abate, con questo scappavia, aveva creduto di rimediare a tutto, e i monaci, assuefatti all'obbedienza, accettarono la proposta dell'abate, il quale, alzatosi dal ricco seggiolone, ordinò ai fratelli di seguirlo in chiesa, e congiungendo le mani si avviò avanti a tutti verso l'altare. Entrato che fu in chiesa, s'inginocchiò dinanzi alla Madonna, sopra un guanciale di drappo d'oro, e intonò le litanie. Si era fatto appena il segno della croce, quando tutti i monaci, che tenevano gli occhi fissi sull'immagine, dettero un grido. La Madonna, lentamente, aveva alzato il braccio destro e, puntando l'indice sull'abate, lo accennava agli altri. Frate Lamberto spalancò gli occhi, dette un grido e cadde tramortito per terra; i monaci fuggirono spaventati, e intanto l'abate rimase disteso sulle lastre di pietra, senza che nessuno gli desse aiuto. - È dannato! è dannato! - si sentiva bisbigliare per il monastero dai monaci sgomenti, che andavano a rinchiudersi nelle celle per pregare. Il sagrestano e fra' Ilario ebbero compassione dell'abate, e dopo poco ritornarono in chiesa per veder se si era riavuto. - Io ritengo che sia morto, - diceva il sagrestano, - e allora che sarà stato mai dell'anima sua? - No, fratello, non è morto. La Madonna, che è così pietosa anche per i più ostinati peccatori e intercede il Divin Figlio per loro, non può aver permesso che l'abate Lamberto muoia in peccato, poiché la sua anima certo non è scevra di macchie. Solleviamolo di qui, portiamolo nella sua cella e forse potremo guarirlo. Fra' Ilario, che nel copiare manoscritti dell'abbazia aveva imparato a conoscere la virtù di certe erbe medicinali, quando ebbe collocato l'abate sul letto, lasciò il sagrestano a guardia del malato e andò in cerca dei semplici che credeva lo potessero guarire; ma per quanto gli aprisse la bocca, gli facesse inghiottire decotti e gli applicasse degli empiastri, l'abate Lamberto non apriva gli occhi e non dava segno di vita. I monaci, sempre impauriti, udendo fra' Ilario andare e venire sotto i loggiati del cortile, mettevano ogni tanto il capo fuori dell'uscio della cella e domandavano notizie. Fra' Ilario passava, scrollando la testa come per dire che non c'era nulla di nuovo. Il sagrestano rimase tutta la notte a vegliare l'abate; ma il monaco, vinto dalla stanchezza, chinò il capo sul petto e s'addormentò saporitamente. Egli avrebbe dormito fino a giorno, senza rammentarsi di suonar mattutino, se non lo avessero destato grida strazianti. Aprì gli occhi e vide l'abate seduto sul letto, con gli occhi sbarrati e fuori della testa, che accennava la porta, che era in faccia al letto, ed era stata aperta senza sapere da chi né come. E da quella porta vide lentamente entrare l'immagine della Madonna, col volto crucciato, fermarsi in fondo al letto e accennare l'abate. Il sagrestano non volle veder altro. Scappò via come un pazzo, facendo svolazzare la tonaca bianca per i loggiati e per i corridoi, e giunto in sagrestia si attaccò alle campane e suonò all'impazzata, finché non gli rimase in mano la fune. I monaci si destarono credendo che l'abbazia bruciasse; la gente del paese si spaventò, e tutti, senza pensare a vestirsi, scapparon dal letto: i monaci, per correr in chiesa; la gente, per andar sulla piazza a veder quello che accadeva. Il sagrestano spalancò le porte della chiesa, e ai frati che giungevano dal convento e ai terrazzani che entravano di fuori non sapeva dir altro che: - La Madonna! La Madonna! Allora tutti guardarono, e si accòrsero che la sacra immagine non era più al suo posto. Questa sparizione agghiacciò ognuno dalla paura, e il popolo cadde in ginocchio atterrito, mentre i monaci fuggirono nelle celle. Fra' Ilario andò in quella dell'abate, e con grande meraviglia vide la Madonna appiè del letto e il malato per terra, malamente caduto e livido in faccia. Allora riunì i monaci e disse che la Madonna bisognava riportarla in chiesa in processione e che probabilmente era voluta andare a benedire l'abate prima che morisse, perché questa volta era morto davvero. Infatti le sue membra si erano irrigidite, ed egli era ghiaccio come un pezzo di marmo. Alcuni monaci ubbidirono, altri non poterono, perché lo spavento li teneva inchiodati nel letto; ma, come Dio volle, la processione si fermò e la Madonna, collocata sopra una barella, fu riportata in chiesa sul piedistallo. Fra' Ilario, aiutato da due monaci meno paurosi degli altri, vestì il corpo dell'abate della bianca tonaca e dello scapolare; lisciò la sua lunga barba, congiunse le mani del morto, e, dopo avergli messo sul petto la croce d'oro e le insegne del suo grado, lo fece portare in mezzo alla chiesa per rimanervi esposto. Appena la notizia della visita della Madonna nella cella dell'abate e della morte di lui si sparse nel contado, venne la gente a frotte e, credendo che Lamberto fosse santo, ognuno voleva toccarlo e portar seco una reliquia del defunto. Così, chi gli stracciava un pezzetto di tonaca, chi qualche pelo della barba, chi i capelli. La sera, quando due novizî furono lasciati a guardia del cadavere per pregare, l'abate pareva un Ecce Homo Ma la chiesa era quasi buia, la nottata lunga, e i due novizi s'addormentarono a un certo punto senza neppure terminare un De profundis che avevano incominciato; e nel destarsi, trovarono il cadavere con una gamba fuori della bara, per cui, invece di ricomporlo, scapparono per il monastero. Fra' Ilario, che fu tra i primi a correre in chiesa, confortò i monaci dicendo che i cadaveri si muovono talvolta perché i muscoli si rilasciano ; e alla meglio ricondusse la calma negli animi agitati, ma consigliò che il cadavere fosse presto calato nell'avello per far cessare tutte le cause di paura e di sgomento. E, come fra' Ilario aveva suggerito, fu fatto. La salma dell'abate fu calata quella mattina stessa nel sotterraneo, dopo essere stata aspersa di acqua benedetta; la pesante lapide di pietra cadde con fracasso sul pavimento e ne fu chiusa l'apertura. Quel giorno fu detto l'uffizio dei morti, e la mattina dopo venne cantata una messa per il riposo dell'anima dell'abate. Il popolo era tutto adunato in chiesa, i monaci avevano indossato i paramenti neri e gialli e stavano aggruppati intorno all'altare, quando tutti gettarono un grido. La lapide che chiudeva l'avello si alzava lentamente, e da quella sbucava fuori la testa livida di fra' Lamberto, con gli occhi sbarrati e la barba spelacchiata dai fedeli. - È risuscitato! È risuscitato! - si sentiva gridare. Fu un fuggi fuggi generale. La gente si affollava alla porta per uscire, le donne urlavano, il monaco che diceva la messa scappò col calice in mano, gli altri si sbandavano per il convento, e in breve in chiesa non rimase altri che l'abate, il quale faceva sforzi sovrumani per sollevare sempre più la lapide e aprire un varco alla sua persona. Vi riuscì finalmente, ed estenuato, cadendo ogni dieci passi, giunse alla sua cella senza esser veduto da alcuno. Ma qui le forze gli mancarono e rimase lungamente disteso per terra. I monaci s'eran chiusi in tre o quattro nelle celle e non osavano fiatare; fra' Ilario soltanto, dopo il primo momento di paura, tornò in chiesa, vide la lapide ancora sollevata, guardò nell'avello, e scorgendo la bara vuota si diede a cercare l'abate per il convento. "Forse non era morto; - pensava, - e chi sa, poveretto, quant'ha sofferto?" Nell'entrare in camera lo vide lungo disteso per terra, e corse a prendere vino e cibo per ristorarlo. Dopo poco l'abate Lamberto aprì gli occhi e, veduto frate Ilario accanto a sé, gli disse con voce spenta: - Fratello, volete farmi la carità di ascoltare la mia confessione? - Dite pure, abate reverendo, - rispose il monaco. Lamberto allora si accusò di tutti i suoi peccati di cupidigia, fino a quello della sostituzione della corona. - Ora mi rimane da dire il più grosso! - esclamò. - Dite pure, abate reverendo, io vi ascolto, e la misericordia di Dio è grande. L'abate narrò minutamente le tentazioni alle quali aveva soggiaciuto, i calcoli avari che avea fatti, l'indifferenza con cui aveva accolto gli avvertimenti palesi della Madonna. - Sono un gran peccatore! - disse terminando la confessione. - Siete pentito, sinceramente pentito? - gli domandò fra' Ilario. - Tanto pentito e sgomento del mio misfatto, che se mi diceste di andare in Terra Santa in pellegrinaggio a farmi trucidare dagli infedeli, vi andrei. - Non è questo che io v'impongo, ma bensì di ripetere pubblicamente in chiesa l'accusa contro voi stesso, e di venire in processione al nascondiglio a prender la corona per rimetterla con le vostre mani sulla testa della Vergine Santissima. - Ebbene, fra' Ilario, fate bandire per tutta la terra di Strumi che oggi stesso tutto il popolo sia adunato in chiesa prima del vespro per udir la confessione dell'abate. È inutile dire che la chiesa era gremita di gente quando l'abate vi scese sorretto da fra' Ilario e da un altro monaco. Egli s'inginocchiò nel centro della navata maggiore, sulla lapide che chiudeva l'avello, e, a capo chino, incominciò a snocciolare la lunga corona dei suoi peccati. Finché disse che aveva venduto indulgenze, che s'era appropriato il denaro del povero, che aveva ingannata la gente in ogni modo, il popolo tacque, ma quando giunse a confessare di avere spogliato la Madonna del prezioso donativo di Giovanni Ungheri, allora da cento bocche uscì una terribile parola infamante: - Ladro! Ladro! L'abate Lamberto chinò la testa e continuò la confessione; poi, alzatosi, si avviò alla sua cella seguìto dai monaci, e poco dopo ritornava in chiesa recando sopra un guanciale la preziosa corona, che riponeva sulla testa della Madonna. Quindi, come se non credesse completa la espiazione, si fece portare la corona falsa, e, postasela in testa, disse: - Questa io la porterò sempre affinché tutti sappiano del mio peccato. Quello stesso giorno l'abate Lamberto rinunziava alla sua carica, vestiva l'abito da pellegrino e col capo grottescamente ornato della corona, partiva per Terra Santa. Da quel giorno la Madonna di Strumi rimase immobile sul piedistallo, e la preziosa corona non si mosse più dalla testa di lei. Intanto la fortuna dell'Imperatore era assai scemata in Italia, e Alessandro III, il Papa eletto nel conclave dei cardinali, acquistava sempre maggior potenza. L'antipapa Calisto III, eletto dall'Imperatore, fu preso dal rimorso, e dopo lunghe incertezze depose la tiara e si riconciliò col Papa vero, con Alessandro. Questi, per ricompensarlo della sua sottomissione, gli restituì l'abbazia di Strumi abbandonata da fra' Lamberto, che tornato dopo alcuni anni dal pellegrinaggio di Terra Santa, senza essersi mai tolto di capo la corona che gli attirava le beffe di quanti lo incontravano, venne a stabilirsi in un Eremo poco distante da Strumi, menando vita solitaria ed esemplare. Quando Lamberto venne a morte, lasciò detto che desiderava esser sepolto con quella corona, che era stata per lui una vera corona di spine. L'abate Giovanni Ungheri non rimase molto a governare l'abbazia di Strumi. Papa Alessandro lo nominò arcivescovo di Benevento e la sua carica passò all'abate Ridolfo, il quale, edificata l'abbazia di San Fedele a Poppi, andò a stabilirvisi abbandonando Strumi. Ora dell'abbazia e del palazzo non restano altro che pochi avanzi, sui quali è stata costruita una casa di contadini; ma chi scava nei dintorni, trova scheletri grandissimi, e chi dice che sian di monaci, chi dei conti Guidi. In quella casa ci andò sposa una mia sorella, e per questo so tanto bene vita, morte e miracoli dell'abate Lamberto e dell'antipapa. Le mura non parlano, la terra neppure, ma parlano gli uomini, e così parlando, la storia dell'abate Lamberto si è risaputa di padre in figlio e io ho potuto raccontarvela, - terminò la Regina. - Grazie, mamma, - disse Maso, - ma non sarò io che potrò raccontarla come voi; farei un bel pasticcio se mi risolvessi a farlo. - Io però la so benissimo, - disse l'Annina, - e non dubitate, nonna, che questa e le altre novelle che ci avete raccontate, le ho tutte qui, - e accennò il capo. - Così potessi narrarle ai miei nipotini, come fate voi! I Marcucci continuarono un bel pezzo a parlare del monastero di Strumi e delle sue vicende, senza accorgersi che Cecco era sparito alla chetichella. Tutta la sera era stato inquieto, pareva che non avesse terren fermo, e appena la mamma aveva cessato di narrare, era uscito dalla parte che metteva nel cortiletto della stalla, e una volta fuori s'era diretto a passi precipitati verso la casa di Vezzosa. In cucina il lume ardeva ancora e il padre della ragazza stava sull'uscio a fumar la pipa. - Buona sera, Momo? - aveva detto Cecco. L'altro aveva risposto, e da un discorso all'altro eran venuti a parlare delle veglie, e Cecco aveva domandato al contadino: - Come mai non ci avete mandate le vostre figliole stasera? - Oh! queste donne! - esclamò Momo. - Non sanno star d'accordo. Che volete che vi dica; la massaia ha rimproverato Vezzosa perché dice che coll'andar fuori a veglia la domenica, svia tutti quelli che verrebbero da noi a far due chiacchiere; e Vezzosa se l'è avuto a male ed è andata a letto. Vedete, io voglio bene alle figliuole ed è per loro che ho ripreso moglie; ma se sapevo che sarebbero state insieme come cani e gatti, vi giuro io che non avrei messo un'altra donna in casa. - La pace tornerà appena avrete maritate le figliuole, - rispose Cecco. - Maritarle! È una parola. Per Vezzosa s'era presentato un partito; Felice del Masi, lo conoscete? Ebbene, lei non lo vuole; la mi' moglie vorrebbe darglielo, e da qui scene continue, e addio pace! Cecco sossultò a quelle parole, ma non ebbe coraggio di spiegarsi. Bisognava che prima interrogasse la mamma, i fratelli, le cognate, e se il maggior numero di loro si fosse opposto al parentado con Vezzosa? Quella sera Cecco andò a letto tutto turbato e dormì male, cosa che non gli era accaduta mai.

. - Speriamo, - rispose la signora, - che ella non abbia mai bisogno del mio aiuto; ma qualora le vostre tetre previsioni si avverassero, ella troverà in me un'altra madre. La castellana di Fronzola e la Forestiera si separarono, e per molti mesi madonna Laura non tornò più alla Grotta del Serpente dovendo curare il marito di una ferita riportata in battaglia contro i Guidi. E in quei mesi la malattia della Forestiera fece rapidissimi progressi. Ella era ridotta un'ombra; i dolci occhi azzurri solamente serbavano l'antica vivacità, ma quando si posavano sul volto della sua bimba, si empivano di lagrime. Nessuno sapeva come quella donna facesse a campare, perché non si poteva più trascinare nel bosco a far legna, né a raccattar castagne o coglier fragole; eppure il fuoco era sempre acceso nella grotta, e, senza elemosinare, aveva da nutrir sé e la sua creatura. - È santa, e gli angioli le portano il cibo! - diceva la gente di Fronzola, che aveva una grande venerazione per quella povera abbandonata. Ecco, invece, in che consisteva il mistero. Bianca era stata sempre molto devota della Vergine Maria, e anche ridotta com'era a procurarsi il cibo nei boschi, ella non trascurava mai di ornare di fiori, o di rami di vischio, o di felci la rozza immagine del tabernacolo a poca distanza dalla Grotta, e alla Vergine narrava tutti i suoi dolori, come avrebbe fatto con la madre sua, se l'avesse avuta al fianco. Un giorno, mentre sentiva aggravarsi la malattia, pregava e piangeva dinanzi alla sacra immagine, quando vide le mani della Vergine stendersi verso di lei e la bocca di pietra dischiudersi come se stesse per articolare una parola. Bianca tremò tutta e la Vergine la rassicurò dicendole: - Non piangere, Bianca, la tua Chiara sarà sempre al coperto della miseria. Fila con le tue abili mani un grembiule per la tua bambina. Ogni volta che essa lo cingerà alla vita, quel grembiule, per voler mio, si empirà di tutto ciò che le abbisogna. Pianse, la povera madre, a quella promessa che le faceva la Madre di Dio, e non sapendo come procurarsi il lino per filare il grembiule, si trascinò fino al castello e chiese di madonna Laura. - Signora, - le disse appena si trovò alla sua presenza, - io mi sono privata dei ricchi abiti, delle gemme, di tutto ciò che costituiva per me un ricordo della passata esistenza, ma non ho mai osato separarmi da un anello con lo stemma del padre mio, sperando che quell'anello potesse un giorno servire di riconoscimento alla mia Chiara. Ora, madonna, mi occorre del lino, e io vi offro in cambio quest'anello. E nel dir questo le mostrò un cerchio d'oro, ornato di un onice nel quale era incisa la croce dei conti di Morienna. - E voi dite, - domandò Laura, - che questo è lo stemma del padre vostro? - Sì, o signora. Ma il padre mio mi ha discacciata dalla sua corte, perché ho osato amare un semplice cavaliere e seguirlo dopo averlo sposato. Mio marito è morto al servizio della Repubblica fiorentina, ed io, rimasta sola con Chiara in estraneo paese, sono venuta a nascondere la mia miseria e il mio dolore in questi boschi. La castellana pianse nell'udire quella triste storia e dette alla povera Bianca quanto lino voleva, pregandola di tenersi l'anello, che costituiva la sua ricchezza. La Forestiera, tornata alla sua Grotta, benché si sentisse stremata di forze, si diede a filare il lino per la sua bimba, e filò giorno e notte; poi, chiesto in carità a una contadina di farla tessere al suo telaio, tessé la tela necessaria al grembiule e lo cucì con le sue mani. Tre giorni dopo si spengeva dolcemente, raccomandando a Chiara di serbare sempre l'anello e di cingere il grembiule ogni volta che le occorreva qualche cosa. Appena al castello di Fronzola giunse la notizia della morte della Forestiera, madonna Laura ordinò che il cadavere di lei fosse onorevolmente sepolto, e che sulla lapide fosse scolpito lo stemma dei conti di Morienna e il nome della defunta. A una sua ancella poi ella disse di recarsi alla Grotta e di condurre Chiara al castello. La bambina, che contava allora appena quattro anni, vi giunse piangendo, e le carezze della signora e del piccolo Guglielmo non riuscivano a calmarla. Ma allorché si sentì rivolgere dalla Contessa la parola in lingua provenzale, nella favella della madre sua, Chiara cessò di piangere, e da quel giorno concepì un vivissimo affetto per la castellana. Madonna Laura addestrava Chiara nei fini lavori d'ago; Amato le insegnava a leggere le canzoni della Provenza, e la bambina cresceva bellissima nel castello di Fronzola, ed era così buona di carattere e così pia e caritatevole, che tutti ricorrevano a lei per soccorsi; ed ella, che non abbisognava di nulla, cingeva per i poveri il grembiule filatole dalla madre e scendeva di continuo dai castello per recare soccorsi di vesti e di cibo ai poveri del contado. Queste uscite di Chiara furono osservate da una donna del castello di Fronzola, certa Geltrude, creatura astiosa e maligna, la quale, non osando fare alla contessa insinuazioni contro Chiara, andò dal Conte a dirgli che la ragazza, raccolta per pietà dalla signora, rubava tutto ciò che trovava. - Osservatela, messere, quando ella esce furtivamente dal castello, e domandatele che vi mostri ciò che reca nel grembiule. Il Conte, senza dir nulla alla moglie, spiò Chiara quel giorno stesso mentre varcava il ponte levatoio, e fermatala le domandò bruscamente: - Che cos'hai nel grembiule? La bambina arrossì e lasciò andare le cocche, ma invece di cadere in terra cibi e vesti di cui era pieno in quel momento, piovvero ai piedi del Conte rose e garofani. Si pentì il Conte di averla, anche per un momento, sospettata, e aiutandola a raccattare i fiori, le disse: - Portali pure dove vuoi; suppongo che sieno destinati al tabernacolo della Madonna. Chiara, senza rispondere, corse via, ma aveva fatto pochi passi che, gettando appena gli occhi nel grembiule, vide che i fiori ne erano spariti e che esso conteneva di nuovo cibi e vesti per i poveri. Chiara capì però che qualcuno doveva averla calunniata presso il Conte, e non volendo che nessuno sapesse la virtù miracolosa del suo grembiule, fu più guardinga e non lo cinse altro che quando era già fuori del castello. Così passarono alcuni mesi, e Geltrude, la quale non aveva raggiunto l'intento suo, che era quello di far cacciare Chiara dal castello, perché era gelosa della preferenza che la contessa concedeva alla figlia della Forestiera sopra a tutte le sue donne, non cessava di spiarla, e saputo che portava soccorsi nelle case dei poveri, tornò alla carica col Conte, nominandogli le case dov'ella andava e la roba che vi recava. Il castellano, insospettito, chiamò a sé Chiara, e con fare burbero le disse: - Tu non hai nulla e vivi della carità nostra. - È vero, messere, e io vi sono così grata del bene che mi fate, che non cesso di pregare per voi e la vostra famiglia. - Ma intanto tu la danneggi, privandola di ciò che costituisce la sua ricchezza per darla a questa masnada di bisognosi che si aggruppa intorno al castello. - Io non ho mai donato un boccon di pane che vi appartenesse, - rispose Chiara con la voce strozzata dal pianto. - E di chi è dunque tutto quello che dispensi? - domandò il Conte. - Dei poveri, soltanto dei poveri, - disse con accento di sincerità la fanciulla; quindi aggiunse dignitosamente: - Signore, credetemi, poiché non ho mai mentito. - Allora tu hai fatto un patto col Diavolo, ed è lui che ti fornisce tutto. - Ho cercato di star sempre in grazia di Dio e non ebbi mai rapporti con l'eterno nemico. - Dunque c'è un mistero, e io voglio saperlo. - Cacciatemi, messere, poiché siete nel vostro diritto; ma dalla bocca mia non saprete mai nulla. - Ebbene, vattene, e guarda bene di non parlare prima di partire a madonna Laura, poiché non voglio che ella interceda per te. Chiara, offesa di tanta durezza, mostrò al Conte un volto afflitto, ma non lacrimoso, e disse, prima d'uscire: - Signore, concedetemi che io vi ringrazi dei vostri benefizî, e se le preghiere di una infelice non vi sono discare, io pregherò sempre per voi. Il Conte non rispose, e Chiara se ne andò dal castello senz'altro bagaglio che il grembiule miracoloso e l'anello di sua madre, e col cuore afflitto da tanta ingiustizia si rifugiò nella grotta del Serpente. Ma prima di coricarsi ornò di fiori il tabernacolo della Vergine, sua protettrice. Ho detto più sopra che Fronzola era una continua minaccia per il forte Castello di Poppi, e il conte Guido, che ne era signore, non meditava altro che la rovina del conte Tarlati, suo natural nemico. Erano continue guerre per impossessarsi di Fronzola, che finivano sempre con perdite dalle due parti, ma senza che i Guidi riuscissero a togliere ai Tarlati la fortissima rôcca. La notte dopo che il conte Tarlati ebbe cacciata Chiara dal suo castello, una numerosa schiera di uomini d'arme di Poppi salirono quatti quatti sul colle Tenzino e poi sul poggio di Fronzola, e prima che le vedette delle torri dessero l'allarme, erano penetrati nelle case del paese, avevano fatti prigionieri gli abitanti e stretto d'assedio la rôcca. Il conte Tarlati, quando fu destato da questa notizia, andò su tutte le furie e ordinò di lanciar sassi e quadrella sugli assedianti; ma essi resistettero all'offensiva e le file loro si accrebbero il dì seguente di nuovi armati, spediti da Papiano, da Porciano e da Romena. Il castello di Fronzola era ben fornito di vettovaglie, e per più giorni resisté all'assedio; ma le persone che vi stavano rinchiuse erano molte, e il conte Guido, disperando di prendere la rôcca con le armi, attendeva che la mancanza di cibo inducesse il conte Tarlati a offrire la resa. All'autunno era succeduto l'inverno crudissimo; e la povera contessa Laura, desolata della scomparsa di Chiara, e afflitta, vedendo che la gente intorno a lei languiva di fame e soffriva il freddo, temeva da un momento all'altro che la più orribile delle sventure si abbattesse sulla sua famiglia e che il conte Guido s'impossessasse di Fronzola. È vero che il marito e il figlio, giovinetto, davano l'esempio della più energica resistenza e dividevano le privazioni degli assediati; ma la fame é cattiva consigliera, e il grano era esaurito, esaurite le provviste di carne, e i soldati si stimavano felici quando potevano mettere in pentola qualche civetta o qualche corvo, scovati nei merli del castello. L'assedio, nonostante la carestia, si protraeva ancora. I cavalli erano stati uccisi, uccisi i muli, e non restava agli assediati che una scarsa razione di fagioli per otto giorni ancora, quando una sera Chiara, che dalla Grotta del Serpente aveva assistito alle vicende dell'assedio, si presentò nella casetta dalla quale il conte Guido dirigeva le operazioni della guerra, e chiese di essere ammessa alla presenza del signore. - Che vuoi? - le domandò bruscamente il signore di Poppi. - Messere, - rispose ella, - io sono una infelice immensamente beneficata dal conte e dalla contessa di Fronzola. So che la difesa è ormai inutile e che essi debbono arrendersi o morire. Concedetemi di penetrare nella rôcca e di morire insieme con i miei benefattori. La soave espressione del volto di Chiara, la voce dolcissima di lei, e più di tutto la nobiltà dei sentimenti che ella esprimeva, commossero il conte Guido, il quale ordinò ai suoi valletti di sventolare bandiera bianca per chiedere di parlamentare. Fu abbassato il ponte levatoio e un drappello di assediati, pallidi e macilenti, si avanzò verso i valletti del signore di Poppi, i quali consegnarono ai fronzolesi la bionda fanciulla. Il ponte levatoio fu rialzato, e Chiara venne condotta nella sala d'armi, dove passeggiava inquieto e turbato il conte di Fronzola. - Che vieni a far qui? - le domandò il signore. - Vengo a portarvi la salvezza, se la rôcca può resistere ancora. - Non far nascere nel mio cuore vane speranze, - disse il Conte. - La fame c'incalza e fra breve non avremo più forza di resistere. - Questa forza, signore, ve la saprò procurare io con l'aiuto della Vergine Santissima. Destinatemi un luogo ove io possa esser al coperto dalla curiosità, e ad ogni ora venite a prendere quanto può occorrervi di vettovaglie. Il conte di Fronzola aveva poca fiducia in Chiara e credeva che ella macchinasse un tranello per vendicarsi di essere stata espulsa dal castello; ma, ridotto a quei ferri, credé obbligo suo di non respingere l'aiuto che ella gli offriva. Tuttavia, a fine d'impedirle di nuocere agli assediati, la rinchiuse in una stanza attigua alla sala, che prendeva luce dalla vôlta, e si allontanò. Dopo un'ora il Conte andò ad aprire e fu molto meravigliato di vedere la stanza, che prima era vuota, essere ora piena di mucchi di farina, di cacciagione e di agnelli scannati. - Con quali arti ti sei procurata tutto questo ben di Dio? - domandò. - Con l'aiuto della Vergine Santissima, come mi procuravo tutto quello che dispensavo ai poveri del contado. Il signore riprese coraggio e ordinò subito che fosse fatto il pane e arrostita tutta la carne, che dispensò ai difensori. Intanto la stanza ove stava Chiara si riempiva sempre, ora di vino, ora di carbone, ora di sassi per lanciare sugli assedianti, e la rôcca resisteva validamente agli attacchi del conte Guido, il quale, dopo lunghi mesi d'assedio, stanco alla fine di tanta resistenza, tornò a Poppi insieme con i suoi, e Fronzola riprese a fronzolore con grande molestia di lui. Figuriamoci se, dopo quel fatto, Chiara si ebbe ringraziamenti dal conte e dalla contessa Tarlati! La chiamarono col nome di "liberatrice", e se fosse stata figlia loro, non avrebbero potuto amarla di più. Anzi, per non separarsi mai più da lei, le offrirono di sposare il loro Guglielmo. Le nozze furono celebrate con molta pompa, e quel giorno, quando Chiara cinse il grembiule, la Madonna glielo fece trovar pieno di pietre preziose, degne di una regina di corona. Così non entrò povera nella famiglia dei conti Tarlati, di cui fu la benedizione, poiché col grembiule miracoloso non solo sollevò tutti i miseri del contado, ma assicurò ai conti di Fronzola la ricchezza. Disgraziatamente, quando ella era già vecchia, un incendio distrusse le stanze di madonna Chiara e anche le vesti di lei, nonché il grembiule miracoloso, che era stato la salvezza del castello. Questo, dopo la morte di madonna Chiara, cadde in potere del conte Simone di Poppi, che lo prese con l'aiuto de' fiorentini. Il Conte ne rese grandi grazie al comune di Firenze, e andando egli in quella città vi mandò la campana di Fronzola in segno di ricordanza. - Oh, se l'avessi io pure un grembiule come quello! - esclamò l'Annina. - Che ne faresti? - domandò la nonna. - Vorrei farvi stare bene tutti e empir la casa di tanta roba che non si potesse finire per anni e anni. Me lo rammento, sapete, quando càpitano gli anni cattivi, quando le raccolte vanno male, quando il babbo si arrabbia e soffre e voi vi affliggete. - Bambina mia, tutto non è sempre sereno nella vita, e i giorni tristi sono più frequenti di quelli lieti; ma quando si lavora e si cerca, nell'adempimento del proprio dovere, il coraggio per resistere alle avversità, si finisce per vincere l'avversa fortuna. Il grembiule miracoloso sarebbe una bella cosa, ma noi dobbiamo invece affidarci al lavoro, nient'altro che al lavoro. La terra è il nostro grembiule miracoloso; le affidiamo un chicco di grano e ci rende una spiga granita. - Le vostre parole sono d'oro, mamma! - esclamò Cecco facendosele accosto, - e se i vostri nipoti le ricorderanno, sapranno certamente trionfare sempre in ogni avversità. - Per quest'anno, - disse Maso che era un po' superstizioso come molti contadini, e non sentiva parlar volentieri di disgrazie, - se Dio vuole, la raccolta promette bene. Già siamo alla porta co' sassi, e se non si scatena qualche diavolo contro di noi, potremo contarlo fra gli anni migliori. - Ma anche se fosse cattivo, - ribatté la vecchia, - voi trovereste la forza di lottare contro l'avversità. Avete fortuna di volervi bene, di star d'accordo, e l'unione nella famiglia è già una forza. Le famiglie disunite sono quelle che vanno in perdizione. Vi rammentate dei Ducci? Avevano un podere che era una fattoria, braccia robuste per lavorarlo; ebbene! Non andavan d'accordo, ognuno tirava l'acqua al suo mulino, e ora son tanti pezzenti. - A proposito, nonna, - disse l'Annina, - m'ero scordata di dirvi che oggi, su a Camaldoli, abbiamo visto il capoccia dei Ducci, il cieco, guidato dal nipotino. - L'avete incontrato lassù? E che faceva? - domandò la Regina. - È venuto dall'ispettore Carli a chiedere l'elemosina. Aveva il bussolotto di stagno in mano, proprio come gli accattoni di professione. - E i figliuoli lo lasciano andare a chieder la carità? - domandò commossa la Regina. - I figliuoli sono ora tutti sparsi per il mondo; - rispose Maso, - i nipoti si sono allogati per garzoni nei poderi, e se il capoccia mangia, è in grazia della gente caritatevole, se no sarebbe morto di fame, lui e quel piccinuccio che gli hanno lasciato. - Se lo aveste conosciuto, quel capoccia, una trentina d'anni fa, - riprese a dire la vecchia, - sareste anche più meravigliati di vederlo elemosinare. Pareva il padrone di questi posti. Non c'era fiera, non c'era mercato, non c'era festa dove non si recasse, guidando un cavallo che andava come il vento; e spadroneggiava, dava consigli, s'intrometteva nelle contese fra contadini, insomma era per tutto, sapeva tutto, pagava da bere e da fumare a quanti gli si accostavano. Intanto i figliuoli, seguendo le sue orme, trascuravano il podere, e la povera massaia se ne stava a casa a piangere e a disperarsi. È morta di dolore, quella infelice; poi, sparita lei, che lavorava, tutti sono andati in rovina, e quel che è peggio, hanno preso a odiarsi scambievolmente. I figli accusavano il padre, questi accusava loro, e adesso tutti soffrono. Brutta fine hanno fatto, ma il loro esempio è stato giovevole a molti, e ora, quando si vede fratello questionar con fratello o padre con figli, si dice: "Faranno come i Ducci". I bimbi avevano ascoltato con il solito religioso silenzio le parole della nonna, e Gigino, per mostrarle che ne aveva capito il significato, tirò per la manica l'Annina, che gli era seduta accanto, e le disse: - Io ti voglio tanto bene! Quella scappata del Rossino fece rider tutti, e l'ilarità dileguò nell'animo dei bimbi il ricordo delle meritate sventure della famiglia Ducci.

E voi, madre Badessa, pregate affinché io sopporti con rassegnazione la dura croce che mi sono imposto e abbia il coraggio di serbare sul petto questo cartello che costituisce la mia espiazione. La badessa Costanza promise di accompagnare il cavaliere con le sue preci, ed Espiazione uscì dal monastero per riprendere il suo pellegrinaggio. Appena fu sulla piazza del paese, si imbatté in una comitiva di signori che andavano a caccia. Il primo di essi, che pareva il capo, fermò il suo cavallo di fronte all'infelice, e additandolo agli altri, disse: - Vedete, signori, quel brutto ceffo? Anche se non portasse il suo misfatto scritto in petto, la grinta lo denunzierebbe per traditore. Fatti da parte, fellone, e sgombra le vie maestre; i traditori non trovano terra in Casentino! Fremé, Espiazione, sentendosi insultato, e la mano corse alla cintura dov'era solito trovare la spada. Ma riavutosi subito, lasciò pender le braccia, e, chinatosi, baciò il piede del signore che lo aveva insultato, il quale rispose con un calcio all'atto umile dell'infelice, e si allontanò ridendo spietatamente. Espiazione avrebbe volentieri abbandonato la via maestra per rifugiarsi nei boschi ove sarebbe sfuggito agli insulti; ma una voce che gli parlava continuamente al cuore, gli diceva: - Rammentati che per meritare il perdono devi molto, molto soffrire. Ed egli, ubbidendo a quella voce, cercava gl'incontri e si presentava alla porta dei castelli chiedendo l'ospitalità. Naturalmente nessuno voleva ricoverarlo, e le guardie lo respingevano con insulti e con percosse. - Dio ve ne renda merito! - rispondeva per solito Espiazione. Un giorno giunse a Bibbiena. Il popolo, che non sapeva leggere, lo guardava con una specie di meraviglia e di terrore, ma non capiva quello che portava scritto in petto, Espiazione, che voleva far palese il suo delitto, andò a bussare in casa Dovizi, che era la più sontuosa e magnifica della città, e chiese di parlare al signore. I servi cercavano di respingerlo, ma egli si sedé su un muricciolo accanto al portone, aspettando che il padrone uscisse, e allorché lo vide, gli disse: - Signore, io ti chiedo l'ospitalità; sono sfinito, estenuato; dammi un letto dove riposare e gettami un tozzo di pane. Il signore lo fissò e gli rispose: - Non ospito traditori, ma sono cristiano e non nego un tozzo di pane a chi me lo chiede. E, rientrato in casa, fece gettare dai suoi servi una pagnotta all'infelice. A questa scena avevano assistito molte persone, perché la casa dei Dovizi era situata nella via più popolata della piccola città. Queste, udendo che il forestiero dallo strano ceffo stravolto era un traditore, lo circondarono insultandolo e tirandogli in faccia le immondizie. - Iddio ve ne renda merito! - rispondeva Espiazione. - Di tutto il male che mi farete, io vi renderò sempre grazie, poiché mi spiana la via del Cielo. Il popolo si divertiva a sentirsi ringraziare, e siccome ha istinti feroci, rincarava la dose. Ora non tirava più soltanto all'infelice torzoli, bucce e sterco di cavallo, ma correva in piazza a far provvista di sassi, che scagliava nella testa e nel petto al disgraziato, il quale rimaneva un momento sbalordito, ma appena riavutosi, senza neppur pensare a tergere il sangue che gli correva lungo il volto, ripeteva: - Iddio ve ne renda merito! Egli sorrideva in mezzo ai suoi carnefici, perché udiva la dolce voce, che gli parlava al cuore, ripetere: - Hai molto, molto sofferto; coraggio, il momento del perdono è vicino. Quel baccano chiamò alla finestra la signora del palazzo, la bella e pietosa madonna Chiara Dovizi. Vedendo un uomo disteso in terra e grondante sangue, preso a bersaglio dal popolo, ella ordinò ai servi di raccoglierlo e di portarlo in una camera, sopra un letto, e con le sue stesse mani lavò il sangue delle ferite. Ma Espiazione era giunto all'ultimo istante della sua vita e sorrideva nonostante gli atroci spasimi. Egli chiese un prete, e, confessatosi, morì santamente dopo poche ore. Madonna Chiara, che per volere del morente aveva udito la sua ultima confessione, fece dare al cavaliere della Gherardesca onorata sepoltura nella chiesa di San Francesco, e sopra un mausoleo di marmo fece scolpire lo stemma gentilizio della potente famiglia pisana e il nome che il cavaliere aveva scelto: Espiazione. La badessa Costanza, informata della morte del pentito, scrisse alla famiglia di lui e rimandò a Bolgheri la spada e il pugnale dell'estinto, assicurando che il pentimento sincero aveva lavato la macchia della colpa. - E qui è finita la novella dello stemma sanguinoso, - disse Regina rivolta ai suoi. I ragazzi non erano contenti della fine, e soprattutto volevano sapere se la bella Olimpia era proprio morta in seguito alla ferita, perché dalla novella non si ricavava. - Sì, - rispose la vecchia, - ecco una cosa che avevo dimenticato. I barbareschi, quando la videro esanime, caricarono sopra una barca tutti i tesori tolti alla sposa e quelli che avevano accumulati nella grotta, e andarono a raggiungere una nave che era in alto mare. Intanto il conte Valdifredo si era dato a cercare ovunque la sua bella sposa, e trovatala alfine morta nella grotta, le aveva dato sepoltura nel suo castello. Poi, desolato di tanta perdita, aveva costruito navi per dar la caccia ai barbareschi, e in una di quelle spedizioni aveva perduto la vita. Il castello di Bolgheri era così passato a un cugino, il quale aveva avuto dalla badessa Costanza la restituzione della spada e del pugnale. E dopo una breve pausa, la Regina domandò ai nipoti: - Ed ora siete contenti? - Sì, sì, nonna, contentissimi, e vi promettiamo che domenica saremo meno curiosi. - Peccato che Tonio e l'Annina non sentano le novelle! - disse Gigino. - Ma io le voglio tener a mente, e quando verranno le racconterò. - Che bel pasticcio ne farai! - risposero gli altri. - Pretenderesti forse di saper raccontar come la nonna? Il bimbo, umiliato da quella risposta, arrossì e stava per fare i lucciconi; ma la Vezzosa seppe consolarlo promettendogli che presto sarebbe venuto un bel bimbo, col quale egli si sarebbe potuto divertire; e di quel bimbo disse tante cose carine, che Gigino badava a ripeterle: - Zia, digli che si sbrighi a venire; io mi annoio solo; gli altri sono tutti grandi.

. - Io credo, - rispose la donna, che aveva nome Lena, - che quella Strega abbia fatto un patto col Diavolo. Oggi l'ho incontrata con la solita calza rossa in mano e il fastello di legna sul groppone, e le ho domandato se quest'anno faceva le feste a Monte Fattucchio. Essa mi ha detto che se ne va dalla sorella, e io, che volevo saper dove stesse questa sorella, non sono riuscita a cavarglielo dalla bocca. Mi ha detto che doveva camminar tanto, quasi fino ad Arezzo, ma io scommetterei che la vecchia piglia un'altra direzione. - Se sapeste, Lena, - disse Bertino, - quanta curiosità ho sempre avuto di scoprire vita, morte e miracoli di quella vecchia! Quand'ero piccino non passava giorno che non andassi a ronzare intorno a casa sua, e una sera che trovai la porta socchiusa, entrai e mi nascosi sotto il letto. Ma non dubitate che dovetti scappare presto! Un maledetto gatto nero mi s'avventò agli occhi e, come vedete, porto ancora il segno di quelle carezze. Continuarono così per un bel pezzo a parlar della vecchia, e dopo che Bertino ebbe cenato dal compar Bernardo, se ne andò; ma invece di avvicinarsi alla casetta della sua famiglia, abitata dai fratelli, uscì dal paese e si diresse verso la casetta della Befana. Dal finestrino si vedeva un gran chiarore, perché nel focolare ardevano le fascine ammonticchiate e i ciocchi di querciolo. Bertino, senz'esser veduto, mise gli occhi al finestrino, e vide la vecchia che spargeva a manciate il becchime in cucina, e udì che mentre faceva questo, diceva: - Gallina mia, ti preparo il mangiare per otto giorni. Se io penso a te, tu pensa a me, e fammi trovare tante uova belle quando torno. Poi la vecchia si diede a preparare uno zibaldone, e frattanto diceva al gatto, accovacciato sul focolare: - Neppure tu patirai in questi giorni, perché ti preparo da mangiare per un mese; ma pensa in questo tempo di non impoltronirti e di farmi trovare molti polli dei pollai del vicinato. Quando torno faremo un festino. Bertino non perdeva né una parola né un gesto della vecchia, e aspettava, perché era sicuro che dopo tutti quei preparativi ella si sarebbe messa in cammino. Difatti, quando ebbe vuotato lo zibaldone in un catino, prese da una cassa tante ma tante calze rosse; quindi scese in cantina e tornò su con un corbello pieno di cenere e carbone, con cui riempì le calze. Ma eran tante e tante, che la vecchia dovette far più viaggi prima di empirle tutte. Quando ebbe terminato questo lavoro, legò ogni calza in cima con uno spago, acciocché non ne uscisse nulla, e, preso uno sciallone, si mise ad aspettare. Di lì a poco si udì il rumore di un baroccio, e Bertino si nascose dietro il pozzo per non essere veduto. Il baroccio si fermò davanti all'uscio della vecchia. Lo tirava una mula, e la donna che lo guidava era più brutta della Befana. Questa aprì l'uscio, e, scambiate poche parole con la vecchia che era giunta, incominciò a portare tutte le calze che aveva riempite di cenere e di carboni. Ne portava delle grembiulate piene, e appena le aveva caricate, tornava a prenderne delle altre. - Ora capisco quel che fa delle legna che raccatta! - diceva Bertino tra sé, - ma che voglia farsi di tutte quelle calze, non lo capisco davvero! Basta vedremo. Così pensava Bertino, che ormai aveva stabilito di seguir le due vecchie. Il baroccio era carico, le strade cattive, la mula zoppa e certo non sarebbe andata di trotto. Lui poteva sempre camminare quanto quella bestia, che pareva avesse cent'anni per gamba. La Befana, terminato che ebbe di caricar le calze sul carro, accarezzò la gallina, lisciò il gatto, poi spense il lume e, dato due giri di chiave alla serratura di casa, salì sul carro, adagiandosi su un mucchio di fieno. L'altra vecchia frustò la mula, il baroccio si allontanò sulla strada buia e Bertino gli tenne dietro. Così camminarono per più ore, sempre sulla strada mulattiera, con un vento gelato che tagliava la faccia, su per i monti e giù per le scese, finché furono poco distanti dalla Badia a Prataglia. - Guarda un po' dove mi menan queste due Streghe! - diceva Bertino; ma nonostante che la via gli paresse lunga e disagiosa, non pensò punto a tornarsene a Monte Fattucchio, perché la curiosità di vedere quel che facevano le vecchie era più forte del disagio. Invece di entrare in paese, la vecchia che guidava diresse la mula su per una viottola. Pareva che l'animale conoscesse la via, perché si fermò accanto a un abete più alto degli altri e col piede sinistro batté tre volte il terreno. - Eccomi! - disse una voce che pareva venisse di sotterra. Infatti eran passati pochi minuti che si vedeva girare, come avrebbe fatto un uscio sui cardini, una parte del tronco dell'abete, e comparire una vecchia che pareva la nonna di quella che guidava, e la bisnonna della Befana. Camminava tutta curva appoggiandosi sopra un bastoncino, aveva una bazza che le toccava quasi la pancia, e una gobba più grossa di un cocomero di Rassina, e voi sapete se son grossi! Bertino la vedeva bene, perché la vecchia aveva in mano una lanterna. Appena ella ebbe scòrto le visitatrici, fece loro un mondo di salamelecchi. - Poverette! - diceva, - viaggiar con questo freddo! Ma non dubitate che vi ho preparato un fuoco e una cena che vi ristoreranno. Scendete, scendete, sorelle mie! - Carine! - diceva Bertino fra sé. - Scommetto che le Furie dell'Inferno sono meno brutte! Guarda come si baciano, con quelle boccacce sdentate! Ma intanto che lui stava a rispettosa distanza a canzonarle, le tre vecchie spinsero la mula col baroccio sotto una capanna di frasche, la chiusero e scomparvero tutte e tre nel tronco dell'abete. - E ora felicissima notte! - disse Bertino. - Quelle tre Streghe ciarleranno, mangeranno, si riscalderanno, e io eccomi qui a gelare! E gelava davvero, perché dal Monte Acuto soffiava un vento tremendo. - Non sarà mai detto che io passi la notte al sereno e domani mi trovino morto in questo bosco! - esclamò Bertino. - Quelle tre Streghe, po' poi, non mi mangeranno; i denti è un bel pezzo che li hanno sputati nella pappa! E, senza riflettere, bussò con un piede sul terreno in prossimità dell'abete, come aveva veduto fare alla mula. - Eccomi! - disse la solita voce; e poco dopo una parte del tronco dell'abete girò sui cardini come se fosse stato un uscio, e si affacciò la vecchia che pareva la bisnonna della Befana. - Che vuoi? - disse alzando la lanterna per meglio vederlo in faccia. - Io non ho chiamato; sono un viaggiatore che vado in Romagna, e, sentendomi gelare dal freddo, battevo i piedi per isgranchirmeli. Giacché vi vedo, però, vi chiedo per carità che mi facciate scaldare a una buona fiammata. La vecchia stette un momento soprappensiero, e poi disse: - Ti concederò l'ospitalità, se mi farai una promessa. - Purché non si tratti dell'anima mia, ve ne faccio cento. - È una cosa semplice, - replicò la vecchia. - Tu entrerai in casa mia, purché tu mi prometta d'infilarti la calza rossa della mia sorella. - Se si tratta di una calza, mi pare che non ci sia nulla di male. - Allora vieni, - disse la vecchia. E lo spinse avanti a sé, giù per una scala a chiocciola. Le pareti di quella scala erano tutte tappezzate di pipistrelli morti, con le ali spiegate, ma eran così grandi che Bertino da principio li aveva presi per aquile. Dopo la scala veniva un corridoio con le pareti tappezzate di corvi morti, e poi una sala piena di gatti vivi, neri come la pece, che miagolarono vedendo la vecchia. - Vedo, nonna, che ci avete numerosa compagnia. - Sono i miei amori, - rispose la vecchia. E andò oltre in uno stanzone dove vi erano per lo meno venti vecchie, tutte sedute davanti al fuoco, con la calza in mano come la Befana, con la differenza però che, quella cui ella lavorava, era rossa, e le altre erano bianche. - Ecco un viaggiatore che ha bisogno di riscaldarsi, - disse la vecchia che accompagnava Bertino e che era la padrona di casa. - Naturalmente gli ho fatto promettere che si sarebbe messo la calza rossa della Befana! - Benvenuto! Benvenuto! - gridarono tutte le vecchie ridendo e mostrando le gengive sdentate. E tutte gli si misero d'intorno facendo a gara a servirlo. Chi gli levava il mantello, chi gli toglieva il cappello, chi lo spingeva nel canto del fuoco, mentre la vecchiona che gli aveva aperto, apparecchiava per lui ogni sorta di vivande. Intanto la Befana, che pareva la Regina di tutto quel sinedrio di vecchie, si spicciava a intrecciare la punta della calza. Bertino, appena si fu riscaldato, andò a sedersi a tavola, e tutte le vecchie si affrettarono a portargli il pane, a tagliargli gli uccelli arrosto, che la padrona di casa aveva sfilati dallo spiedo, a mescergli il vino, a servirlo, insomma, come se fosse il loro padrone. - Buona questa minestra! - disse Bertino leccandosi i baffi. - È fatta col brodo di quelle belle bestioline che si chiamano rospi, - rispose la padrona di casa. Bertino si sentì rabbrividire e respinse la scodella. Una vecchia gliela tolse davanti e gli presentò un piatto su cui c'era un bel fritto. Bertino, che aveva una fame da lupi, ne mangiò e disse che non aveva mai gustato un fritto più appetitoso. - Lo credo, - rispose la vecchiona. - È fatto di coscine di gatti di latte e di cervello di lupo. Le prime son tenere come il burro, il secondo ha un raro sapore. "Che razza d'ingredienti!" pensò Bertino, e respinse il piatto. Allora una delle vecchie fu pronta a mettergli davanti certi uccelli grassi e belli come piccioni. "Qui non ci saranno intrugli! - pensò Bertino. - Questi uccelli sono starne, grasse pinate e cotte a puntino!" E con la fame che aveva, mangiò con grande appetito un intiero uccello. - Eccellenti queste starne! - disse. E già stava per mettersene un'altra nel piatto, quando la vecchia gli disse: - Ma che starne! Sono corvi di questi dintorni. Devi sapere che d'inverno, per questa strada che mena in Romagna, periscono molti viandanti, perciò i corvi non si pascono d'altro che di carne umana, e sono perciò gustosissimi. Bertino si sentì rivoltar lo stomaco e, alzatosi di scatto, già imboccava l'uscio per scappare, quando tutte le vecchie gli furono addosso per trattenerlo. La più accanita, la più furente era la Befana. - Birbante, ora che ti sei scaldato e hai la pancia piena, non vuoi mantenere la promessa; ma dalle mie mani non sfuggirai. E intanto, con quelle dita che parevano artigli di belva, gli stringeva il collo tanto da soffocarlo. - Pietà! misericordia! - balbettava Bertino facendosi bianco in viso come un cencio lavato. La Befana schiuse le dita, ma a scappare non c'era più da pensarci, perché le altre vecchie avevano sbarrato la porta. - Sono nelle vostre mani, - disse Bertino. E guardava ora una ora l'altra delle vecchie per vedere se sopra uno di quei visi grinzosi leggeva un po' di compassione. Ma purtroppo si somigliavan tutte e gongolavano nel vederlo soffrire. Mentre Bertino volgeva supplichevolmente gli occhi intorno, due di quelle Streghe lo legarono alla seggiola con una fune lunga lunga, che pendeva da un gancio del soffitto, e salirono sulla tavola per fare un nodo così alto che egli non giungesse a scioglierlo. Poi, due di esse lo presero per la gamba destra, mentre la Befana gli infilava nella sinistra la calza rossa pronunziando certe parole che Bertino non capì. Pare che il vedere quella calza rossa infilata nella gamba di Bertino, procurasse alle vecchie una grande contentezza; il fatto si è che tutte si raddrizzarono, dettero calci alla tavola e alle sedie per levarle di mezzo, e, facendo una catena delle braccia, si misero a ballare intorno al disgraziato, cantando e ridendo. Alla fine smisero, e la Befana, accostatasi a Bertino, tagliò la corda che lo legava alla sedia e gli disse: - Ora, Bertino, vattene pure. Le altre scoppiarono in una risata beffarda, e Bertino non si mosse, ma incominciò a capire che quelle Streghe dovevano avergli fatto qualche incantesimo, perché con tutto il desiderio che aveva di scappare, non riusciva a muovere un passo. - Vedi, carino, come ti ho ridotto obbediente! - gli disse la Befana dandogli uno scappellotto. - Dacché ti sei infilato quella calza rossa, che non ti potrai togliere altro che con la volontà mia, tu hai preso la mia livrea e bisogna tu mi ubbidisca come un cane ubbidisce al padrone. Anzi, i cani debbono udire la voce o veder il gesto per seguire il comando; tu, invece, non hai bisogno che io parli: quando penso a una cosa, sei costretto ad eseguirla. Guarda! Si vede che la Befana gli ordinava in quel momento col pensiero che egli mangiasse il rimanente dell'arrosto di corvi ingrassati a carne umana, perché Bertino andò a cercare nella madia e mangiò tutto l'arrosto che vi era riposto, facendo certe bocche che suscitarono le risa di quelle brutte Streghe. - Lo vedi se devi ubbidirmi per forza? Ora è inutile ogni ribellione: tu sei mio per sempre! - sentenziò la Befana. - Suo per sempre! - dissero le vecchie, non più ridendo, ma con una voce da metter paura. In quella stanza sotterranea non penetrava mai il giorno, e Bertino, così spaventato com'era, pensava di essere già nelle tenebre dell'inferno e che quella di ubbidire in tutto e per tutto la Befana fosse la sua eterna punizione. Come si pentiva di aver ceduto alla curiosità seguendo la vecchia, e come rimpiangeva le fatiche durate per raggranellare un capitale sufficiente a campar di rendita in vecchiaia! Ora gli toccava a servire una vecchiaccia che metteva paura a vederla! Le Streghe non dormivano mai. O mangiavano, o ballavano o costringevano Bertino a raccontar loro storielle da farle ridere. Figuriamoci con che cuore egli lo facesse! Così passò un certo tempo. Un giorno la Befana disse a tavola, mentre Bertino la serviva di tutto punto: - Domani è il sei gennaio, il giorno della mia festa, e stanotte tu devi lavorare assai. Io sono vecchia e mi annoia di andare in giro. Salirai a cavallo al bastone della granata e porterai i regali a tutti i bambini più impertinenti del Casentino. Bertino si sentì gelare e impallidì. Per ischivare il freddo aveva venduto la sua libertà, e ora doveva viaggiare per aria, di notte, a cavallo a un bastone! La Befana lo guardò ridendo. - Questa è la mia volontà; - gli disse, - pensaci, e ora mettiti bene in mente le istruzioni che ti darò. E qui gli fece una filastrocca di nomi di paesi e di case di contadini. Pover a lui se sbagliava! Doveva ovunque calarsi dalla cappa del camino, prendere la calza che i bimbi avevano appesa, e attaccarvi quella rossa già piena di cenere e di carbone. E sarebbe stato costretto a sbrigarsi, perché all'alba doveva esser di ritorno. La Befana aveva dato questi ordini a Bertino non in presenza delle altre vecchie, ma in una camera grande e tutta tappezzata di scaffali come lo studio di un notaro. Bertino guardava quella filza di carte e la Befana gli disse: - Capisco che sei curioso di sapere quel che contengono; ebbene, ti appago subito. Qui ci sono registrate tutte le impertinenze dei ragazzi durante tutto l'anno. Le mie compagne recano questi rapporti qui una volta ogni dodici mesi. Io giungo, li spoglio, faccio la mia lista, e porto cenere e carbone. Più la lista dei bambini cattivi è lunga, e più son contenta, perché quelli di Monte Fattucchio mi tormentano tutti i giorni dell'anno. La vecchia rideva dicendo questo, e Bertino pensava che se la vecchia lo avesse riconosciuto, si sarebbe rammentata che egli, da piccolo, era stato uno dei suoi più accaniti tormentatori. Quando Bertino tornò in cucina, trovò imbandito un vero festino. In cima alla lunga tavola era stato preparato una specie di trono, e sulla mensa fumavano vassoi pieni di pasticci, arrosti, dolci e ogni sorta di cibi squisiti. All'apparire della Befana, da tutte quelle bocche sdentate uscì un: Evviva! fragoroso, e poi avidamente si diedero a far ripulisti di tutto. Bertino vedeva sparire le pietanze in un battibaleno mentre i piatti delle vecchie si empivano di ossi che esse sputavano o di bocconi troppo duri. L'infelice doveva servirle tutte a bacchetta, e se non stava attento non si sentiva dire altro che: - Bertino sbrigati! Bertino non sei buono a nulla! Bertino, che maniera è questa di farmi così aspettare? Se Bertino avesse potuto prendere un frustone e con quello accarezzarle tutte! Ben presto in tavola non ci rimase più nulla, e allora la Befana, voltandosi al suo servo con aria canzonatoria, gli disse: - Ora, Bertino mio, va' tu a mangiare; devi rinforzarti lo stomaco per sopportare la fatica di stanotte! - Non c'è più nulla! - osò rispondere Bertino. - Non c'è più nulla? - ripeterono in coro le vecchie. - Ti abbiamo serbato tutti gli ossi nei piatti, e sono ossi squisiti di corvi ingrassati a carne umana! Nonostante che quel cibo gli facesse schifo, non solo perché si trattava di ossi di corvo, ma perché erano stati biascicati da quelle bocche bavose, pure egli dovette sgranocchiare quegli ossi come un cane affamato, perché la sua padrona voleva così. Mentre mangiava, sentì battere tre colpi sulla vòlta della cucina, e la vecchiaccia che aveva aperto a lui, prese il bastone e la lanterna ed andò ad aprire. Dopo poco essa ricomparve a cavallo a un bastone di granata e fece su quello tre giri per la stanza. Le altre vecchie pure vollero inforcare quel cavallo di legno e facevano le matte risate quando il bastone, passando veloce come il vento, batteva nelle gambe a Bertino. - Ora basta! - urlò a un certo punto la Befana. - Bertino, è tempo di partire; ma prima dammi un bacio. E con la bocca bavosa gli sbaciucchiò tutto il viso. - Qua un bacio! Qua un bacio! - dicevano le altre vecchie. Ed egli dovette abbracciarle tutte, compresa la vecchiona che gli aveva strappato la promessa, e che era la più ributtante e bavosa. Questa lo accompagnò all'aperto e gli dette la chiave della capanna di frasche, dove aveva rimesso il baroccio carico di calze. Bertino aprì, il bastone della granata andò a metterglisi fra le gambe, e subito la mula e il baroccio si alzarono per aria come aveva fatto il bastone, e la strana comitiva volò nella notte buia. Il cavallo di legno era ubbidientissimo, perché bastava che Bertino gli dicesse: "Va' nel tal posto!" perché subito ve lo conducesse. Allora la mula trascinava il baroccio in terra, vicino alla casa indicata; Bertino prendeva una calza rossa, o più, secondo il numero dei bambini che erano cattivi in quella famiglia, e scendeva per la cappa del camino in cucina, staccava la calza vuota, vi metteva invece quella piena, risaliva, e via. Aveva fatto più di cinquanta discese e non ne poteva più, quando capitò in una casa dove in cucina vegliavano ancora attorno al focolare. Appena Bertino si accòrse che c'era gente, volle arrampicarsi e fuggire, ma un contadino, credendolo un ladro, era stato pronto a chiapparlo per la gamba sinistra e tirava a più non posso. Bertino, che s'era attaccato con le mani a una pietra sporgente, faceva sforzi per risalire, e il contadino per farlo riscendere. Stavano così a tira tira, quando il contadino ebbe l'idea di attaccarsi all'orlo della calza e gliela sfilzò. La calza rossa cadde sul fuoco e fece una fiammata come se fosse stata di paglia. Appena la calza fu bruciata, Bertino tirò un gran respiro e gli parve di tornar libero. Nulla ora lo costringeva più a seguitare il viaggio per aria, e, lasciatosi cadere mezzo abbrostolito sulla pietra del focolare, raccontò in poche parole ai contadini chi era e chi non era, e quel che pretendeva da lui la Befana. Intanto, sul tetto, il baston della granata s'impazientiva e batteva sui tegoli a più non posso; la mula raspava il terreno e i cani di casa abbaiavano. - Non vengo, andate via senza di me, - diceva Bertino. E il bastone a batter più forte e la mula a raspare. - Sapete un po' quel che s'ha da fare? - disse il contadino che aveva tirato Bertino per la zampa. - S'ha da bruciare il bastone della granata, o per meglio dire il cavallo della Strega. Detto fatto. Ecco, appoggia una scala al tetto, piglia il bastone e lo tira giù per la cappa sul fuoco. In due minuti, del bastone della scopa non c'era rimasto altro che un mucchietto di cenere. Allora riscese e, afferrata la mula per il morso, la trascinò fino a un precipizio e ve la buttò dentro insieme col barroccio con le calze e tutto. La mattina dopo, Bertino, alla testa di una comitiva di contadini armati di bastoni, si diresse verso la Badia a Prataglia e, riconosciuto l'abete che nascondeva la scala delle Streghe, invece di bussare, abbatté la porta e seguito dai contadini scese nella cucina. Le Streghe erano a desinare e ridevano pensando che fosse accaduto qualche guaio a Bertino che ritardava. I contadini le presero, le legarono a due a due, e poi le spinsero fuori del loro antro a bastonate, e, condottele alla Badia, le consegnarono ai soldati. Il processo fu breve e tutte furon condannate, come streghe, ad essere arse vive. Il giorno dopo fu alzato un altissimo rogo in piazza, e su quello furono arrostite. Bertino allora ritornò a Monte Fattucchio, dove già lo piangevan per morto, e raccontò tutto alla Lena e a compar Bernardo, i quali empirono il paese delle avventure occorse al loro amico. In tutto il contado non ci fu chi volesse andare alla casa della vecchia, anzi, nessuno vi passò più davanti per molti anni, e un giorno quella catapecchia crollò. Ma dopo la morte delle Streghe, nessun bambino ha più trovato appesa la calza rossa piena di cenere, carbone e fuliggine. E qui la novella è terminata. Era tardi, e i ragazzi avevano fretta di andare a letto per destarsi di buon'ora a vedere quel che la Befana aveva messo loro nella calza; ma coloro che al principio della serata eran mogi mogi, avevan riacquistato la parlantina perché non temevano di esser puniti col brutto donativo. Quando i ragazzi del vicinato ebbero ringraziato la Regina per la novella, se ne andarono, e i bimbi Marcucci si aggrupparono ciascuno attorno alla propria mamma, raccomandandole di metter loro molti dolci nella calza. - Come ci credono alla Befana! - esclamò Cecco. - La Befana buona, voi lo sapete, è la mamma; quella della fuliggine, della cenere e del carbone, è morta arrostita; dunque dormite tranquilli! I bimbi salirono di corsa la scala che metteva nelle camere, e non sognarono la Befana che serve di spauracchio ai monelli, ma sognarono bensì la Befana buona, la mamma o la nonna che si studia di far piacere ai bambini, e dona ai buoni, per ricompensarli, e chiude un occhio con quelli impertinenti, con la speranza che si emendino.

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