Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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L'altrui mestiere

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Levi, Primo 24 occorrenze

L' angolo a destra della porta d' ingresso è quello dove cinquant' anni fa stava un portaombrelli, e dove mio padre, rientrando a piedi dall' ufficio nei giorni di pioggia, depositava il parapioggia grondante, e nei giorni asciutti la canna da passeggio; dove per vent' anni è rimasto appeso un ferro da cavallo trovato da mio zio Corrado (a quel tempo si potevano trovare ferri da cavallo in corso Re Umberto), amuleto di cui sarebbe difficile stabilire se abbia o no esercitato la sua azione protettiva; e dove per altri vent' anni ha penzolato da un chiodo una grossa chiave di cui tutti avevano dimenticato la destinazione ma che nessuno osava gettare via. L' angolo successivo, fra il muro e il guardaroba di noce, era ambito come nascondiglio quando si giocava a rimpiattino; in una domenica imprecisata dell' oligocene, mi ci sono nascosto io, mi sono inginocchiato su una scheggia di vetro, mi sono ferito, ed ancora ne porto il segno sul ginocchio sinistro. Trent' anni dopo di me ci si è nascosta mia figlia, che però rideva e si faceva trovare subito; e dopo altri otto anni mio figlio con una torma di suoi coetanei, uno dei quali ha perso sul posto un dente da latte e per misteriose ragioni magiche lo ha conficcato in un buco dell' intonaco dove probabilmente si trova tuttora. Proseguendo nel cammino destrogiro, si trova la porta di una camera che dà verso cortile e che ha avuto nei decenni destinazioni diverse. Nei miei ricordi più lontani era il salotto buono, dove mia madre, due o tre volte all' anno, riceveva le persone di riguardo. Poi ci ha dormito per qualche anno una favolosa "donna fissa"; in seguito è stato ufficio commerciale di mio padre, finché, con la guerra, ha servito da accampamento e da dormitorio per parenti ed amici a cui le bombe avevano abbattuto la casa. Dopo la guerra (e il sequestro dovuto alle leggi razziali) ci hanno dormito e giocato successivamente i miei due figli, e ci ha passato molte notti mia moglie che li assisteva quando erano ammalati: io no, con l' alibi di ferro del lavoro in fabbrica e con l' egoismo olimpico dei mariti. Attualmente è un laboratorio multiplo dove si sviluppano fotografie, si cuce a macchina e si fabbricano giocattoli divertenti. Trasfigurazioni simili si potrebbero raccontare per tutti gli altri locali; da poco tempo, e con disagio, mi sono accorto che la mia poltrona preferita occupa il luogo preciso in cui, secondo la tradizione famigliare, io sono venuto al mondo. La mia casa è situata in un posto fortunato, non troppo lontano dal centro urbano eppure relativamente tranquillo; la proliferazione delle auto, che riempie ogni cavità come un gas compresso, è arrivata ormai fin qui, ma solo da pochi mesi si fatica a trovare un parcheggio. Le pareti sono spesse, ed i rumori della strada giungono attutiti. Un tempo tutto era diverso: la città finiva a poche centinaia di metri verso sud, si andava attraverso i prati "a vedere i treni" che allora, prima che si scavasse il sistema di trincee del quadrivio Zappata, correvano a livello del suolo. I controviali sono stati asfaltati solo verso il 1935; prima erano acciottolati, ed al mattino si veniva svegliati dai rumori dei carri che venivano dalla campagna: fragore dei cerchioni di ferro sui ciottoli, schiocchi delle fruste, voci dei conducenti. Altre voci famigliari salivano dalla strada in altre ore del giorno: i richiami del vetraio, dello stracciaio, del raccoglitore dei "capelli del pettine", a cui la già nominata donna fissa vendeva periodicamente i suoi, lunghi e canuti; occasionalmente, di mendicanti che suonavano l' organetto o cantavano in strada, ed a cui si gettavano monetine incartate. Attraverso tutte le sue trasformazioni, l' alloggio in cui abito ha conservato il suo aspetto anonimo ed impersonale: od almeno, tale sembra a noi che ci viviamo, ma è noto che ognuno è cattivo giudice delle cose che lo riguardano, del proprio carattere, delle proprie virtù e vizi, perfino della propria voce e del proprio viso; forse ad altri potrà apparire fortemente sintomatico delle tendenze appartate della mia famiglia. Certo, a livello consapevole, alla mia abitazione non ho mai chiesto molto di più del soddisfacimento dei bisogni primari: spazio, calore, comodità, silenzio, privatezza. Né mai ho consapevolmente cercato di farla mia, di assimilarla a me, di abbellirla, arricchirla, sofisticarla. Non mi è facile parlare del rapporto che ho con lei: forse è di natura gattesca, come i gatti amo gli agi ma posso anche farne a meno, e mi sarei adattato abbastanza bene anche ad un alloggiamento disagiato, come varie volte mi è successo, e come mi succede quando vado in un albergo. Non credo che il mio modo di scrivere risenta dell' ambiente in cui vivo e scrivo, né credo che questo ambiente traspaia dalle cose che ho scritte. Devo quindi essere meno sensibile della media alle suggestioni ed influenze dell' ambiente, e non sono sensibile affatto al prestigio che l' ambiente conferisce, conserva o deteriora. Abito a casa mia come abito all' interno della mia pelle: so di pelli più belle, più ampie, più resistenti, più pittoresche, ma mi sembrerebbe innaturale cambiarle con la mia.

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C' è poi un patrimonio immenso di metafore che lo scrittore può ricavare dalla chimica di oggi e di ieri, e che chi non abbia frequentato il laboratorio e la fabbrica conosce solo approssimativamente. Anche il profano sa che cosa vuol dire filtrare cristallizzare, distillare, ma lo sa di seconda mano: non ne conosce la "passione impressa", ignora le emozioni che a questi gesti sono legate, non ne ha percepita l' ombra simbolica. Anche solo sul piano delle comparazioni il chimico militante si trova in possesso di una insospettata ricchezza: "nero come ..."; "amaro come ..."; vischioso, tenace, greve, fetido, fluido, volatile, inerte, infiammabile: sono tutte qualità che il chimico conosce bene, e per ognuna di esse sa scegliere una sostanza che la possiede in misura preminente ed esemplare. Io ex chimico, ormai atrofico e sprovveduto se dovessi rientrare in un laboratorio, provo quasi vergogna quando nel mio scrivere traggo profitto di questo repertorio: mi pare di fruire di un vantaggio illecito nei confronti dei miei neo-colleghi scrittori che non hanno alle spalle una militanza come la mia. Per tutti questi motivi, quando un lettore si stupisce del fatto che io chimico abbia scelto la via dello scrivere, mi sento autorizzato a rispondergli che scrivo proprio perché sono un chimico: il mio vecchio mestiere si è largamente trasfuso nel nuovo.

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Se a questa tessitura fondamentalmente discontinua, e alle frequenti difficoltà linguistiche, si aggiungono le violente critiche e satire dirette contro la Curia romana, è facile comprendere come "Gargantua e Pantagruele" abbia trovato in ogni tempo un pubblico ridotto, e come si sia spesso tentato di contrabbandarlo, opportunamente amputato e rimaneggiato, come letteratura infantile. Eppure mi basta aprirlo per sentirvi il libro d' oggi, voglio dire il libro di tutti i tempi, eterno, che parla un linguaggio che sarà sempre compreso. Non già che vi si trattino i temi fondamentali della commedia umana: ché anzi, invano vi si cercherebbero le grandi sorgenti poetiche tradizionali, l' amore, la morte, l' esperienza religiosa, il destino precario. Perché in Rabelais non c' è ripiegamento, ripensamento, ricerca intima: è vivo in ogni sua parola uno stato d' animo diverso, estroso, estroverso, sostanzialmente quello del novatore, dell' inventore (non dell' utopista); dell' inventore di cose grosse e piccole, anche del "bosin", dell' estemporaneo da fiera. Si tratta, d' altronde, di un ritorno non casuale; è noto che il libro ha avuto un oscuro precursore, da secoli scomparso senza traccia: un almanacco da fiera paesana, le "Chroniques du grand Géant Gargantua". Ma i due giganti della sua dinastia non sono soltanto montagne di carne, assurdi bevitori e mangiatori insieme, e paradossalmente, essi sono gli epigoni legittimi dei giganti che mossero guerra a Giove, e di Nembrotto, e di Golia, e sono ad un tempo principi illuminati e filosofi gioiosi. Nel gran respiro e nel gran riso di Pantagruele è racchiuso il sogno del secolo, quello di una umanità operosa e feconda, che volge le spalle alle tenebre e cammina risoluta verso un avvenire di prosperità pacifica, verso l' età dell' oro descritta dai latini, non passata né lontanamente futura, ma a portata di mano, purché i potenti della terra non abbandonino le vie della ragione, e si conservino forti contro i nemici esterni ed interni. Questa non è speranza idilliaca, è robusta certezza. Basta che lo vogliate, ed il mondo sarà vostro: bastano l' educazione, la giustizia, la scienza, l' arte, le leggi, l' esempio degli antichi. Dio esiste, ma nei cieli l' uomo è libero, non predestinato, è "faber sui", e deve e può dominare la terra, dono divino. Perciò il mondo è bello, è pieno di gioia, non domani ma oggi: poiché ad ognuno sono dischiuse le gioie illustri della virtù e della conoscenza, ed anche le gioie corpulente, dono divino anch' esse, delle tavole vertiginosamente imbandite, delle bevute "teologali", della venere instancabile. Amare gli uomini vuol dire amarli quali sono, corpo ed anima, "tripes et boyaux". L' unico personaggio del libro che abbia dimensioni umane, e non sconfini mai nel simbolo e nell' allegoria, Panurgo, è uno straordinario eroe a rovescio, un condensato di umanità inquieta e curiosa, in cui, assai più che in Pantagruele, Rabelais sembra adombrare se stesso, la propria complessità di uomo moderno, le proprie contraddizioni non risolte, ma gaiamente accettate. Panurgo, ciurmadore, pirata, "clerc", volta a volta uccellatore e zimbello, pieno di coraggio "salvo che nei pericoli", affamato, squattrinato e dissoluto, che entra in scena chiedendo pane in tutte le lingue viventi ed estinte, siamo noi, è l' Uomo. Non è esemplare, non è la "perfection", ma è l' umanità, viva in quanto cerca, pecca, gode e conosce. Come si concilia questa dottrina intemperante, pagana, terrena, col messaggio evangelico, mai negato né dimenticato dal pastore d' anime Rabelais? Non si concilia affatto: anche questo è proprio della condizione umana, di essere sospesi fra il fango e il cielo, fra il nulla e l' infinito. La vita stessa di Rabelais, per quanto se ne sa, è un intrico di contraddizioni, un turbine di attività apparentemente incompatibili fra loro e con l' immagine dell' autore che tradizionalmente si ricostruisce dai suoi scritti. Monaco francescano, poi (a quarant' anni) studente in medicina e medico all' ospedale di Lione, editore di libri scientifici e di almanacchi popolari, studioso di giurisprudenza, di greco, d' arabo e d' ebraico, viaggiatore instancabile, astrologo, botanico, archeologo, amico di Erasmo, precursore di Vesalio nello studio dell' anatomia sul cadavere umano; scrittore fra i più liberi, è simultaneamente curato di Meudon, e gode per tutta la sua vita della fama di uomo pio ed intemerato; tuttavia lascia di se stesso (deliberatamente, si direbbe) il ritratto di un sileno, se non di un satiro. Siamo lontani, siamo all' opposto della sapienza stoica del giusto mezzo. L' insegnamento rabelaisiano è estremistico, è la virtù dell' eccesso: non solo Gargantua e Pantagruele sono giganti, ma gigante è il libro, per mole e per tendenza; gigantesche e favolose sono le imprese, le baldorie, le diatribe, le violenze alla mitologia e alla storia, gli elenchi verbali. Gigantesca sovra ogni altra cosa è la capacità di gioia di Rabelais e delle sue creature. Questa smisurata e lussureggiante epica della carne soddisfatta raggiunge inaspettatamente il cielo per un' altra via poiché l' uomo che sente gioia è come quello che sente amore, è buono, è grato al suo Creatore per averlo creato, e perciò sarà salvato. Del resto, la carnalità descritta dal dottissimo Rabelais è così ingenua e nativa da disarmare ogni intelligente censore: è sana e innocente e irresistibile come lo sono le forze della natura. Perché Rabelais ci è vicino? Non ci assomiglia certo, anzi, è ricco delle virtù che mancano all' uomo d' oggi, triste, vincolato ed affaticato. Ci è vicino come un modello, per il suo spirito allegramente curioso, per il suo scetticismo bonario, per la sua fede nel domani e nell' uomo; ed ancora per il suo modo di scrivere, così alieno da tipi e regole. Forse si può far risalire a lui, e alla sua abbazia di Telema, quella maniera oggi trionfante attraverso a Sterne e Joyce di "scrivere come ti pare", senza codici né precetti, seguendo il filo della fantasia così come si snoda per spontanea esigenza, diversa e sorprendente ad ogni svolta come una processione di carnevale. Ci è vicino, principalmente, perché in questo smisurato pittore di gioie terrene si percepisce la consapevolezza permanente, ferma, maturata attraverso molte esperienze, che la vita non è tutta qui. In tutta la sua opera sarebbe difficile trovare una sola pagina melanconica, eppure Rabelais conosce la miseria umana; la t ace perché, buon medico anche quando scrive, non l' accetta, la vuole guarire

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Certo conosciamo, e ci raccontiamo l' un l' altro, il significato letterale, sto per dire sportivo, dell' impresa: è la più ardita, e ad un tempo la più meticolosa, che mai l' uomo abbia tentata; è il viaggio più lungo; è l' ambiente più straniero. Ma perché lo facciamo, non sappiamo: i motivi che si citano sono troppi, intrecciati fra loro, ed insieme mutuamente esclusivi. Sotto a tutti, alla base di tutti, si intravede un archetipo; sotto l' intrico del calcolo, sta forse l' oscura obbedienza ad un impulso nato con la vita e ad essa necessario, lo stesso che spinge i semi dei pioppi ad avvolgersi di bambagia per volare lontani nel vento, e le rane dopo l' ultima metamorfosi a migrare ostinate di stagno in stagno, a rischio della vita: è la spinta a disseminarsi, a disperdersi su di un territorio vasto quanto è possibile; poiché, notoriamente, le "aiuole" ci fanno feroci, e la vicinanza del nostro simile scatena anche in noi uomini, come in tutti gli animali, il meccanismo atavico dell' aggressione, della difesa e della fuga. Ancora meno, a dispetto della nuova orgogliosa scienza del "futuribile", sappiamo dove questo passo ci porterà. Le grandi svolte tecnologiche dei due ultimi secoli (le nuove metallurgie, la macchina a vapore, l' energia elettrica, il motore a combustione interna) hanno provocato mutamenti sociologici profondi, ma non hanno scosso l' umanità sulle sue fondamenta; per contro, almeno quattro grosse novità degli ultimi trent' anni (l' energia nucleare, la fisica dello stato solido, gli antiparassitari e i detersivi) hanno condotto a conseguenze di misura molto maggiore, e di natura molto diversa, rispetto a quanto chiunque avesse osato prevedere. Di queste, almeno tre minacciano gravemente l' equilibrio vitale del pianeta, e ci stanno costringendo a frettolosi ripensamenti. Nonostante questi dubbi, e nonostante i disastrosi problemi che assillano il genere umano, due uomini calpesteranno il suolo della Luna. Noi molti, noi pubblico, siamo ormai assuefatti, come bambini viziati: il rapido susseguirsi dei portenti spaziali sta spegnendo in noi la facoltà di meravigliarci, che pure è propria dell' uomo, indispensabile per sentirci vivi. Pochi fra noi sapranno rivivere, nel volo di domani, l' impresa di Astolfo, o lo stupore teologico di Dante, quando sentì il suo corpo penetrare la diafana materia lunare, "lucida, spessa, solida e pulita". È peccato, ma questo nostro non è tempo di poesia: non la sappiamo più creare, non la sappiamo distillare dai favolosi eventi che si svolgono al di sopra del nostro capo. Forse è presto, non c' è che aspettare, il poeta dello spazio verrà poi? Nulla ce lo assicura. L' aviazione, il penultimo grande balzo, è vecchia ormai di sessant' anni, e non ci ha dato altri poeti se non Saint-Exupéry, ed uno scalino più in basso Lindberg e Hillary: tutti e tre hanno tratto ispirazione dalla precarietà, dall' avventura, dall' imprevisto. La letteratura di mare è morta con la navigazione a vela; non è mai nata, né sembra pensabile, una poesia ferroviaria. Il volo di Collins, Armstrong ed Aldrin è troppo sicuro, troppo programmato, troppo poco "folle", perché un poeta vi trovi alimento. Certo è chiedere troppo, ma ci sentiamo defraudati. Più o meno consapevolmente, vorremmo che i nuovi navigatori avessero anche questa virtù, oltre alle molte altre che li rendono egregi: che ci sapessero trasmettere, comunicare, cantare quanto vedranno e sperimenteranno. È difficile che ciò avvenga, domani o poi. Dal nero alveo primigenio senz' alto né basso, senza principio e senza fine, dalla contrada del Tohu e del Bohu, non ci sono giunte finora parole di poesia, eccettuate forse poche ingenue frasi del povero Gagarin: null' altro se non i suoni nasali, disumanamente calmi e freddi, dei messaggi radio scambiati con la Terra, conformemente a un rigido programma. Non sembrano voci d' uomo: sono incomprensibili come lo spazio, il moto e l' eternità.

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Con tutto questo, non ho ancora dimostrato che "Tartarin de Tarascon" sia un brutto libro: ma lo è, sotto qualsiasi angolo lo si voglia considerare; non credo che al mio giudizio negativo abbia contribuito il fenomeno spesso osservato, per cui i libri letti per obbligo scolastico (e si tratta di solito, purtroppo, delle opere più alte che ingegno umano abbia create) ne risultano permanentemente scoloriti, o addirittura intossicati e illeggibili. È brutto quasi per intero, quasi ad ogni pagina; se dovessi salvarne qualcuna, per una non necessaria antologia, non avrei dubbi: la descrizione del porto di Marsiglia, che è visto con occhio alacre e vivo e delineato senza lungaggini, con inconsueta disinvoltura, e il curioso e rapido incontro col cacciatore "vero", col Signor Bombonnel, l' unico personaggio dignitoso del libro (ma non resta in scena che pochi minuti). Per tutto il resto, la stesura è stracca, priva di nervo e di fantasia: Algeri e l' Algeria sono di seconda mano, tutte le figure umane sono cartacee, le avventure dello sfortunato cacciatore si ripetono nel giro di duecento pagine. E quegli sciatti e logori attacchi di periodo! "Per esempio", "Figuratevi", "Immaginate" (il lettore non deve mai immaginare nulla: spetta allo scrittore obbligarlo ad immaginarsi), "Inutile dirvi", "Oh stupore"; ed una profusione di puntini di sospensione. Eppure siamo in Francia, e negli anni di Flaubert e di Zola: "Tartarin de Tarascon" è gemello di "L' éducation sentimentale". Né si può addurre ad attenuante il carattere umoristico dell' opera. La sua comicità sta tutta nelle prime pagine e nell' assunto, e decade rapidamente quando dalla descrizione si procede alla narrazione. Non c' è una sola scena che inviti al riso aperto, liberatore; anzi, intorno a Tartarino (è forse questa la maggior sorpresa di questa rilettura) si vede addensarsi una sempre più cupa aura di fallimento, di naufragio ultimo, di frustrazione; vien fatto di pensare che, se Daudet avesse preso coscienza di questa vocazione tragica del suo uomo, invece di ostinarsi a vedere in lui un comico miles gloriosus, avremmo avuto un libro diverso e migliore.

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Non è bello, ma avviene: avviene che lo scrittore esaurisca il suo propellente, la sua carica narrativa, il suo desiderio di dar vita e forma alle immagini che ha concepite; che non concepisca più immagini; che non abbia più desideri, neppure di gloria o di denaro; e che scriva ugualmente, per inerzia, per abitudine, per "tener viva la firma". Badi a quello che fa: su quella strada non andrà lontano, finirà fatalmente col copiare se stesso. È più dignitoso il silenzio, temporaneo o definitivo.

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A giudicare dagli effetti, noti a chiunque abbia frequentato un ambulatorio o un laboratorio chimico o un' officina, appare evidente la ripugnanza con cui l' uomo parlante accoglie le parole che è costretto ad usare ma che gli giungono nuove. Esse rappresentano per lui dei veri corpi estranei, intrusi a forza nella sua lingua o nel suo dialetto, e il forzato utente cerca inconsciamente di aggiustarli: si comporta insomma come l' ostrica, che, inseminata con un granello di sabbia a spigoli aguzzi, non lo tollera e lo espelle, oppure lo rigira, lo cova, lo liscia, e a poco a poco ne fa una perla. Tipicamente, il parlante si sforza di ricostruire il "vero" significato della parola deformandola più o meno profondamente: questo fenomeno, la cosiddetta falsa etimologia o etimologia popolare, è un meccanismo onorato dal tempo, presente in tutte le lingue, illustrato da esempi antichi (melancolia, cioè "bile nera", alterato in malinconia per falso accostamento a "male"), da dozzine di altri splendidi, golosamente acchiappati al volo da Giuseppe Gioacchino Belli (brodomedico per protomedico, mormoriale per memoriale, formicare per fornicare, sgrassazione per grassazione), fino ai più recenti, che ogni giorno nascono intorno a noi o addirittura dentro ciascuno di noi. Di questi, alcuni sono di umile estrazione, e comportano una elaborazione inconscia ovvia ed elementare; altri sono più arditi, ed attestano associazioni ad un livello più alto; altri, infine, contengono un lampo di poesia, o di sarcasmo, o di riso. Riflettario, mobildeno, "acqua portabile" sono di origine artigiana e scaturiscono da puro buon senso. Riflettario (per refrattario all' azione della fiamma) è talmente appropriato, ad esempio nei forni a riverbero, che potrebbe essere tranquillamente adottato, e forse lo sarà. Mobildeno (per molibdeno) risente di mobile, dato l' uso del metallo negli acciai speciali, e del ribrezzo del parlante italiano per l' accostamento bd che gli sembra da rettificare. L' acqua portabile contiene un implicito atto d' accusa contro i violentatori del linguaggio. Dal momento che il verbo latino potare ("bere") in italiano non esiste più, perché la burocrazia del secolo scorso ha riesumato questo termine astruso, ignoto ai classici, di origine alchimistica ("aurum potabile")? Non bastava "acqua da bere", che era anche più corto? Di qui l' incomprensione e la non insensata correzione: l' acqua portabile è quella che ti viene portata a domicilio dalle condutture, senza alcuno tuo sforzo. Spesso, e soprattutto quando si tratta di parole di pertinenza della medicina, il neologismo rifiutato reca una forte carica affettiva, di ribrezzo ancora, ma non più per la parola, bensì per la cosa; o di sfiducia, o d' irrisione. Molti di questi termini "sbagliati" rispecchiano una situazione tipica: quella del paziente a bocca aperta davanti al medico che parla difficile, come Don Abbondio e come il dottor Azzeccagarbugli, e poi si fa anche pagare; ed è inevitabile il sospetto che parli difficile apposta, per mascherare la sua ignoranza ed impotenza, per cui il pagare è un di più, un qualcosa di non dovuto. In fondo, chi soffre è lui, il paziente, e non l' oracolo incomprensibile; l' indennizzo, il prezzo del dolore, spetterebbe a lui. "Raggi ultraviolenti". La deformazione allude ai noti effetti di una esposizione troppo prolungata; inoltre, non sono affatto violetti. Puz, in luogo di pus, si spiega dolorosamente da sé. "Iniezioni indovinose": perché bisogna indovinare la vena, e non sempre ci si riesce al primo colpo; e si deve ricordare a questo proposito che nel linguaggio corrente "diagnosticare" viene reso con "indovinare la malattia", e che il medico viene sentito come un indovino. Intercolite (per enterocolite) sembra contenere un concetto assai diffuso ed arcaico di patogenesi, secondo cui ogni malattia è una confusione, un miscuglio, una intercomunicazione aberrante di fluidi che dovrebbero stare separati: la bile nel sangue, il sangue nelle urine e così via. Allo stesso modello, naturalmente a livello subconscio, è da ricondurre mescolazioni. Il verme solitario viene spesso detto salutario o sanitario, perché appare più sensato ricollegarlo al concetto di salute che non a quello della sua solitudine: da una logica analoga è nato il termine "tifo pidocchiale" (in luogo di petecchiale: le petecchie sono gli esantemi caratteristici della malattia), perché esso viene diffuso attraverso i pidocchi degli abiti. Flautolenze, comunissimo, contiene una movenza di comicità insieme crassa e sottile, sconcia ed innocente. Si direbbe opera non collettiva e anonima, ma di un poeta arguto e strambo. I "dolori areonautici" alludono alla nota influenza delle condizioni atmosferiche sui reumatismi (meno chiara è la forma gemella "dolori aromatici"). È evidente il sigillo del rifiuto in "tintura d' odio". Analoghi rifiuti si ravvisano in molti termini della chimica, che designano sostanze nocive o ritenute tali: "cloruro demonio" per "cloruro d' ammonio", stelerato per stearato. Allo stesso modo, al tempo delle Crociate, il nome di Maometto, il gran nemico della Cristianità, era stato distorto in Malcometto, e nel tardo Cinquecento le pestilenze erano popolarmente dette pistolenze, quasi ravvisandovi la nocività di un' arma. Ritornando alla chimica, in bacalite è evidente l' accostamento fra la veterana delle materie plastiche, rigida giallastra e puzzolente, e il pesce di poco prezzo, talmente irrigidito dal sale di cui è imbevuto da meritarsi il nome di "pesce bastone" (Stockfisch in tedesco, da cui, ancora per etimologia popolare, ed insistendo sulla rigidità, è venuto l' italiano stoccafisso). Si noti del resto l' espressione stereotipa "duro come un baccalà". Leprite sta per iprite, l' aggressivo chimico collaudato ad Ypres nella prima guerra mondiale. Il termine non avrebbe potuto nascere nell' Italia del nord, dove sia l' iprite sia la lebbra si conoscono solo di nome. È stato coniato negli anni '30 in una fabbrica degli Abruzzi, dove veniva segretamente prodotta questa sinistra sostanza, e dove la memoria dell' altrettanto sinistra malattia, che dà luogo a piaghe vagamente simili, non è ancora spenta. In alcune miniere del Canavese, la pirite si chiama perite. Si noti che in piemontese "pera" vale "pietra": anche la pirite, con tutto il suo falso splendore che la rende simile all' oro, non è che una pietra. Adelaide, per aldeide, è un esempio curioso, perché, a differenza da tutti quelli citati finora, sembra nato da un errore di lettura anziché di ascolto. Ma si direbbe che contro il termine aldeide esista una sorta di ostilità preconcetta, dovuta forse al suo suono inconsueto e poco italiano: in una fabbrica in cui ho lavorato a lungo, la formaldeide (aldeide formica) veniva correntemente chiamata "Forma Dei", splendido termine dal sapore teologico. Ancora ad un errore di lettura è dovuta la distorsione di Prosérpina in Prosperìna: in effetti, la fanciulla rappresentata negli affreschi è rosea e prosperosa, e non ha nulla che ricordi una serpe. Lo spostamento dell' accento dimostra che il cicerone che così pronunciava il nome della dea lo aveva letto male su qualche trattato, e non lo aveva mai sentito pronunciare da altri. Anche bestemmia è frutto di falsa etimologia. È stato ricavato dal latino e greco blasfemia, che vale press' a poco ingiuria, per trasparente accostamento con bestia, trattandosi di un' azione ritenuta più degna della bestia che dell' uomo. "Lingua sinistrata" (per salmistrata) non si sente ormai più dire: è del tempo di guerra, ed esprime la diffidenza per gli scatolami autarchici allora reperibili. "Aria congestionata" è più recente, ed esso pure è frutto di un atteggiamento di rigetto per le diavolerie del progresso in blocco, gli architetti innovatori, le case con troppi piani e le finestre che non si aprono. Concedenza sta per coincidenza (ferroviaria). La coincidenza fra l' arrivo di un convoglio e la partenza di un altro viene garantita in termini enigmatici dall' orario delle ferrovie. Spesso manca: perciò, quando è rispettata, è un dono del destino, una benevola concessione. In anellina, anitrina, borotalcol non c' è rifiuto, ma semplicemente il tentativo di interpretarli accostandoli al termine italiano più prossimo: stanno, rispettivamente, per anilina, anidride e borotalco. Sanguis è pressoché universale per "sandwich", tramezzino per i puristi. Il tramezzino ha poco a che vedere col sangue (forse attraverso "bistecca al sangue"), ma nulla con le sillabe ruvide che compongono il nome del suo inventore, Lord Sandwich, che, secondo la leggenda, era talmente ossesso dal gioco delle carte che non dormiva mai, e mangiava solo tramezzini continuando a giocare con la mano libera. Del resto, la "rettifica" di parole straniere è fenomeno comunissimo in tutte le lingue. Il nome latino di Milano, Mediolanum, e cioè (probabilmente) "in mezzo al piano", non fu compreso dagli invasori di stirpe e lingua germanica, e venne rettificato in Mailand, ossia "terra di maggio", gentile termine che i tedeschi hanno conservato. Nel Cinquecento, davanti al termine italiano partigiana (un tipo di pugnale) i francesi non hanno esitato a mutarlo in pertuisane accostandolo a pertuis, pertugio, dal momento che un pugnale è fatto per perforare. Ancora in Francia, il nome tedesco del cavolo acido, Sauerkraut, data la nota tendenza francese a pronunciare le parole straniere secondo la loro propria fonetica, è stato pronunciato press' a poco come sorcròt; ma poiché si trattava pur sempre di cavolo, quest' ultimo nome è stato distorto in choucroûte, cioè letteralmente "cavolocrosta", benché di crosta non abbia traccia. Non so se Defoe conoscesse l' italiano o lo spagnolo certo attribuisce l' ignoranza delle due lingue al suo eroe Robinson, a cui fa scrivere runagate in luogo di renegade (parola, appunto, di origine italiana e spagnola): ora, ad un orecchio inglese runagate viene a dire qualcosa come "scappa al cancello". Il "vero" senso del termine è così ristabilito. Viturinari e fastudi, per veterinario e fastidio, sono ingegnosi tentativi del dialetto piemontese di dare un senso a due termini poco intelligibili, accostandoli rispettivamente a vettura e a studio: coi quali, secondo le etimologie accertate, non hanno nulla a che vedere. Vorrei ricordare infine, che Mauthausen, il nome del tristo Lager, in Italia suona esclusivamente come Matàusen, probabilmente per accostamento con mattatoio; e che nel non dimenticato memoriale di Piero Caleffi, "Si fa presto a dire fame", si racconta che il termine Stubendienst, "(addetto al) servizio di camerata", dagli italiani che non conoscevano il tedesco veniva italianizzato in stupidino o stupendino.

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Crede che le abbiano fatto la fisica, come dicono qui; o che Dio l' abbia punita per i suoi peccati. Del resto, la gente è crudele: quando passa per strada, la segnano col dito, le ridono dietro, e lei se ne accorge. Quanto ai due uomini, li ho convinti che per loro la cosa migliore era che si togliessero di mezzo fino a guerra finita; così sono andati con i partigiani, ma in due bande diverse".

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Altrimenti detto, non è un linguaggio affatto, o al più un vernacolo, un argot, se non un' invenzione individuale. perciò, a chi scrive nel linguaggio del cuore può accadere di riuscire indecifrabile, ed allora è lecito domandarsi a che scopo egli abbia scritto: infatti (mi pare che questo sia un postulato ampiamente accettabile) la scrittura serve a comunicare, a trasmettere informazioni o sentimenti da mente a mente, da luogo a luogo e da tempo a tempo, e chi non viene capito da nessuno non trasmette nulla, grida nel deserto. Quando questo avviene, il lettore di buona volontà deve essere rassicurato: se non intende un testo, la colpa è dell' autore, non sua. Sta allo scrittore farsi capire da chi desidera capirlo: è il suo mestiere, scrivere è un servizio pubblico, e il lettore volonteroso non deve andare deluso. Questo lettore, che ho la curiosa impressione di avere accanto quando scrivo, ammetto di averlo leggermente idealizzato. È simile ai gas perfetti dei termodinamici, perfetti solo in quanto il loro comportamento è perfettamente prevedibile in base a leggi semplici, mentre i gas reali sono più complicati. Il mio lettore "perfetto" non è un dotto ma neppure uno sprovveduto; legge non per obbligo né per passatempo né per fare bella figura in società, ma perché è curioso di molte cose, vuole scegliere fra esse, e non vuole delegare questa scelta a nessuno; conosce i limiti della sua competenza e preparazione, ed orienta le sue scelte di conseguenza; nella fattispecie, ha volonterosamente scelto i miei libri, e proverebbe disagio o dolore se non capisse riga per riga quello che io ho scritto, anzi, gli ho scritto: infatti scrivo per lui, non per i critici né per i potenti della Terra né per me stesso. Se non mi capisse, lui si sentirebbe ingiustamente umiliato, ed io colpevole di inadempienza contrattuale. Qui occorre far fronte a un' obiezione: talvolta si scrive (o si parla) non per comunicare, ma per scaricare una propria tensione, o una gioia, o una pena, ed allora si grida anche nel deserto, si geme, ride, canta, urla. Per chi urla, purché abbia motivi validi per farlo, ci vuole comprensione: il pianto e il lutto, siano essi contenuti o scenici, sono benefici in quanto alleviano il dolore. Urla Giacobbe sul mantello insanguinato di Giuseppe; in molte civiltà il lutto gridato è rituale e prescritto. Ma l' urlo è un ricorso estremo, utile per l' individuo come le lacrime, inetto e rozzo se inteso come linguaggio, poiché tale, per definizione, non è: l' inarticolato non è articolato, il rumore non è suono. Per questo motivo, mi sento sazio delle lodi tributate a testi che (cito a caso) "suonano al limite dell' ineffabile, del non-esistente, del mugolio animale". Sono stanco di "densi impasti magmatici", di "rifiuti semantici" e di innovazioni stantie. Le pagine bianche sono bianche, ed è meglio chiamarle bianche; se il re è nudo, è onesto dire che è nudo. Personalmente, sono stanco anche delle lodi elargite in vita e in morte a Ezra Pound, che forse è pure stato un grande poeta, ma che per essere sicuro di non essere compreso scriveva a volte perfino in cinese, e sono convinto che la sua oscurità poetica aveva la stessa radice del suo superomismo, che lo ha condotto prima al fascismo e poi all' autoemarginazione: l' una e l' altro germinavano dal suo disprezzo per il lettore. Forse il tribunale americano che giudicò Pound mentalmente infermo aveva ragione: scrittore d' istinto, doveva essere un pessimo ragionatore, e lo confermano il suo comportamento politico ed il suo odio maniacale per i banchieri. Ora, chi non sa ragionare deve essere curato, e nei limiti del possibile rispettato, anche se, come Ezra Pound, si induce a fare propaganda nazista contro il proprio paese in guerra contro la Germania di Hitler: ma non deve essere lodato né indicato ad esempio, perché è meglio essere sani che insani. L' effabile è preferibile all' ineffabile, la parola umana al mugolio animale. Non è un caso che i due poeti tedeschi meno decifrabili, Trakl e Celan, siano entrambi morti suicidi, a distanza di due generazioni. Il loro comune destino fa pensare all' oscurità della loro poetica come ad un pre-uccidersi, a un non-voler-essere, ad una fuga dal mondo, a cui la morte voluta è stata coronamento. Sono da rispettarsi, perché il loro "mugolio animale" era terribilmente motivato: per Trakl, dal naufragio dell' Impero Asburgico, in cui egli credeva, nel vortice della Grande Guerra; per Celan, ebreo tedesco scampato per miracolo alla strage tedesca, dallo sradicamento, e dall' angoscia senza rimedio davanti alla morte trionfatrice. Per Celan soprattutto, perché è un nostro contemporaneo (1920-70), il discorso deve farsi più serio e responsabile. Si percepisce che il suo canto è tragico e nobile, ma confusamente: penetrarlo è impresa disperata, non solo per il lettore generico, ma anche per il critico. L' oscurità di Celan non è disprezzo del lettore né insufficienza espressiva né pigro abbandono ai flussi dell' inconscio: è veramente un riflesso dell' oscurità del destino suo e della sua generazione, e si va addensando sempre più intorno al lettore, stringendolo come in una morsa di ferro e di gelo, dalla cruda lucidità di Fuga di morte (1945) al truce caos senza spiragli delle ultime composizioni. Questa tenebra che cresce di pagina in pagina, fino all' ultimo disarticolato balbettio, costerna come il rantolo di un moribondo, ed infatti altro non è. Ci avvince come avvincono le voragini, ma insieme ci defrauda di qualcosa che doveva essere detto e non lo è stato, e perciò ci frustra e ci allontana. Io penso che Celan poeta debba essere piuttosto meditato e compianto che imitato. Se il suo è un messaggio, esso va perduto nel "rumore di fondo": non è una comunicazione, non è un linguaggio, o al più è un linguaggio buio e monco, qual è appunto quello di colui che sta per morire, ed è solo, come tutti lo saremo in punto di morte. Ma poiché noi vivi non siamo soli, non dobbiamo scrivere come se fossimo soli. Abbiamo una responsabilità, finché viviamo: dobbiamo rispondere di quanto scriviamo, parola per parola, e far sì che ogni parola vada a segno. Del resto, parlare al prossimo in una lingua che egli non può capire può essere malvezzo di alcuni rivoluzionari, ma non è affatto uno strumento rivoluzionario: è invece un antico artificio repressivo, noto a tutte le chiese, vizio tipico della nostra classe politica, fondamento di tutti gli imperi coloniali. È un modo sottile di imporre il proprio rango: quando padre Cristoforo dice "omnia munda mundis" in latino a fra Fazio che il latino non lo sa, a quest' ultimo, "al sentir quelle parole gravide d' un senso misterioso, e proferite così risolutamente, ... parve che in quelle dovesse contenersi la soluzione di tutti i suoi dubbi. S' acquietò, e disse: "basta! lei ne sa più di me"". Neppure è vero che solo attraverso l' oscurità verbale si possa esprimere quell' altra oscurità di cui siamo figli, e che giace nel nostro profondo. Non è vero che il disordine sia necessario per dipingere il disordine; non è vero che il caos della pagina scritta sia il miglior simbolo del caos ultimo a cui siamo votati: crederlo è vizio tipico del nostro secolo insicuro. Finché viviamo, e qualunque sia la sorte che ci è toccata o che ci siamo scelta, è indubbio che saremo tanto più utili (e graditi) agli altri ed a noi stessi, e tanto più a lungo verremo ricordati, quanto migliore sarà la qualità della nostra comunicazione. Chi non sa comunicare, o comunica male, in un codice che è solo suo o di pochi, è infelice, e spande infelicità intorno a sé. Se comunica male deliberatamente, è un malvagio, o almeno una persona scortese, perché obbliga i suoi fruitori alla fatica, all' angoscia o alla noia. Beninteso, perché il messaggio sia valido, essere chiari è condizione necessaria ma non sufficiente: si può essere chiari e noiosi, chiari e inutili, chiari e bugiardi, chiari e volgari, ma questi sono altri discorsi. Se non si è chiari non c' è messaggio affatto. Il mugolio animale è accettabile da parte degli animali, dei moribondi, dei folli e dei disperati: l' uomo sano ed intero che lo adotta è un ipocrita o uno sprovveduto, e si condanna a non avere lettori. Il discorso fra uomini, in lingua d' uomini, è preferibile al mugolio animale, e non si vede perché debba essere meno poetico di questo. Ma, ripeto, queste sono mie preferenze, non norme. Chi scrive è libero di scegliersi il linguaggio o il non-linguaggio che più gli si addice, e tutto può darsi: che uno scritto oscuro per il suo stesso autore sia luminoso ed aperto per chi lo legge; che uno scritto non compreso dai suoi contemporanei diventi chiaro ed illustre decenni e secoli dopo.

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Tuttavia è possibile che questa interpretazione abbia contribuito alla fortuna del modo di dire, come se, divulgando le malefatte di qualcuno, veramente si "leggesse", in profondità e come in trasparenza, la natura e lo scopo della sua vita, riconoscendone l' intrinseca malvagità: da molto tempo è stato notato che l' anima del linguaggio è pessimista. La vera origine della frase è un' altra. Leggendo un bel romanzo tedesco di Luise Rinser ("Der schwarze Esel", "L' asino nero"), ho trovato un' espressione che non conoscevo, "die Leviten zu lesen", ossia "leggere i Leviti", in un episodio in cui i Leviti e il Levitico non c' entravano per nulla, e in un contesto che faceva invece pensare a "rimproverare, fare rimostranze". La faccenda mi ha incuriosito, forse anche perché coinvolgeva in qualche modo il mio nome, e ho cercato di chiarirmi le idee: si prospettava un' impresa modesta ma gradevole, come tutti i lavori che si intraprendono non per obbligo professionale né per acquistare merito o prestigio, ma per la gratuita curiosità del dilettante inesperto; per allegria e per gioco, per giocare "a fare il filologo", come da bambini si gioca "a fare il dottore" o "a fare le signore". Ho incominciato a sfogliare dizionari e vocabolari. Il vocabolario tedesco, inaspettatamente, registrava la locuzione. Sotto "Levit", levita, aggiungeva laconicamente: "jemandem die Leviten lesen" (e cioè: "leggere i Leviti a qualcuno"): fare un rabbuffo a qualcuno. Pittoresche, ma di scarso aiuto, erano le indicazioni del venerabile Gran Dizionario Piemontese-Italiano di V. di Sant' Albino, che trascrivo testualmente: E poco oltre: Brevissimo, ma risolutivo, è stato invece il Dizionario Etimologico del dialetto piemontese di A. Levi, edizione Paravia, di recente ristampato dalla Bottega di Erasmo. Alla voce vita (leze la) si legge: Inseguendo quest' ultima indicazione bibliografica, ho imparato che già all' inizio del nostro secolo diversi linguisti si erano affannati dietro a questo modo di leggere la vita, e che anche secondo la loro opinione le due espressioni, l' italiana e la tedesca, hanno la stessa origine: a mattutino, e cioè di solito a notte alta, in molti conventi era usanza che, dopo il canto dei salmi e degli inni, e dopo la lettura delle Sacre Scritture ed in specie del Levitico, il priore si rivolgesse poi individualmente ai singoli monaci, lodandoli per i loro adempimenti, e più spesso rimproverandoli per le loro mancanze; quando insomma "si leggevano i Leviti", i rimbrotti stavano per cominciare. Ora, per orecchi italiani, il passo da "leggere i Leviti" a "leggere la vita" è breve. È da pensare che, in qualche ordine monacale dalla regola particolarmente severa, questa lettura sempre ripetuta nelle notti gelide, precorritrice dell' amara medicina dei rimproveri, suscitasse tra i frati più giovani un' angoscia intensa, tanto che i suoi riflessi, quantunque distorti e quasi indecifrabili, sono giunti fino a noi, sul flusso secolare del linguaggio di tutti i giorni. Allo stesso modo, alla foce di un fiume, vediamo galleggiare trascinati dalla corrente i frammenti non più riconoscibili di oggetti familiari, che sono stati divelti a monte in qualche lontana valle ignorata.

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È questa, probabilmente, la battuta meno felice del romanzo: si ha l' impressione che il gesto teatrale abbia contagiato la "colonna sonora" tirandosela dietro. Ma qui il Manzoni si giustifica: a Renzo, in quel momento, poteva essere utile incutere spavento a Lucia, che fin allora aveva rifiutato la soluzione spiccia del matrimonio forzoso; Renzo poteva forse aver "adoperato un po' d' artifizio a farlo crescere, per farlo fruttare (lo spavento di Lucia!". Il Manzoni sembra disposto ad ammettere certe soluzioni recitative solo"quando due passioni schiamazzano insieme nel cuor d' un uomo"; ma in quello "schiamazzo" si legge chiara l' avversione cattolico-stoica dell' autore per le passioni di cui il personaggio, pur così amato, è schiavo. Come si vede, la lettura con la lente è un esercizio impietoso. Guai allo scrittore che lo pratica sui suoi stessi scritti: se lo fa, si sente condannato a riscrivere senza fine ogni pagina, e ogni suo libro diventa un' opera aperta.

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Invece, quando l' ospite è mobile e veloce, come il gatto, il cervo o l' uomo, è essenziale che l' insetto, appena terminata la muta, abbia successo nell' impresa fondamentale della sua vita, cioè nel salto che dal suolo lo porta a destinazione. Sulla pulce umana sono stati misurati salti di 30 centimetri in altezza, come dire almeno 100 volte la lunghezza della pulce stessa. Ora, la potenza che occorre per un salto simile non può essere fornita da alcun muscolo, e tanto meno dal muscolo di un insetto: gli insetti sono pressoché inerti a bassa temperatura, e la pulce deve invece saltare "a freddo", perché compie la sua muta in ambienti non sempre riscaldati, quali i pavimenti di certe abitazioni umane, ed appena è emersa dallo stato larvale ha bisogno di sangue. Dato così il problema, l' elegante soluzione che l' evoluzione ha elaborato attraverso prove ed errori di milioni di anni è la seguente. La potente muscolatura che era addetta al volo degli antenati volanti della pulce è stata riconvertita, e connessa con un sistema di accumulo elastico di energia meccanica: sostanzialmente, un meccanismo di tensione, sgancio e scatto simile a quello della balestra di un tempo, o del fucile a molla usato oggi dai subacquei. L' organo deformabile elasticamente, analogo alla molla del fucile ed all' arco della balestra, è costituito da una proteina pressoché unica nel regno animale, simile alla gomma ma dalle prestazioni molto migliori. In questo modo, l' energia necessaria per il salto istantaneo e prodigioso viene accumulata durante una fase preparatoria più lenta: tra un salto e l' altro, la pulce deve "raccogliersi", riaccumulare energia nelle sue molle; ma anche per queste pause le bastano pochi decimi di secondo. È questo il segreto che permette all' insetto di saltare anche in ambienti freddi, e di saltare così alto e così lontano. La signora Rotschild e i suoi collaboratori hanno capito e ricostruito questi sottili fenomeni fabbricandosi strumenti ingegnosi, ad esempio macchine fotografiche rapide azionate dallo stesso scatto della pulce. Qualche lettore si chiederà a cosa servano queste ricerche: un animo religioso potrebbe rispondere che anche in una pulce si rispecchia l' armonia del creato; uno spirito laico preferisce osservare che la domanda non è pertinente, e che un mondo in cui si studiassero solo le cose che servono sarebbe più triste, più povero, e forse anche più violento del mondo che ci è toccato in sorte. In sostanza, la seconda risposta non è molto diversa dalla prima.

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Una maledizione esse sono rimaste, come sa chi ha dovuto soggiornare, o peggio lavorare, in un paese di cui non conosceva la lingua, o chi abbia dovuto martellarsi in testa una lingua straniera in età adulta, quando il misterioso materiale su cui si incidono le memorie si fa più refrattario. Inoltre, a livello più o meno consapevole, per molti chi parla un' altra lingua è lo straniero per definizione, l' estraneo, lo "strano", il diverso da me, e il diverso è un nemico potenziale, o almeno un barbaro: cioè, etimologicamente, un balbuziente, uno che non sa parlare, un quasi-non-uomo. Per questa via, l' attrito linguistico tende a diventare attrito razziale e politico, altra nostra maledizione. Ne dovrebbe seguire che chi esercita il mestiere di traduttore o d' interprete dovrebbe essere onorato, in quanto si adopera per limitare i danni della maledizione di Babele; invece questo di solito non avviene, per ché tradurre è difficile, e quindi l' esito del lavoro del traduttore spesso è scadente. Ne nasce un circolo vizioso: il traduttore viene pagato male, e chi potrebbe essere o diventare un buon traduttore si cerca un mestiere più redditizio. Tradurre è opera difficile perché le barriere fra i linguaggi sono più alte di quanto si pensi comunemente. I vocabolari, specialmente quelli tascabili per uso dei turisti, possono essere utili per i bisogni fondamentali, ma costituiscono una pericolosa fonte di illusioni; lo stesso si può dire di quei traduttori elettronici multilingui che si trovano in commercio da qualche anno. Non è quasi mai vera l' equivalenza che gli uni e gli altri garantiscono fra la parola della lingua di partenza e quella corrispondente della lingua d' arrivo. Le aree dei rispettivi significati si possono sovrapporre in parte, ma è raro che coincidano, anche fra lingue strutturalmente vicine e storicamente imparentate fra loro. L' "invidia" dell' italiano ha un significato più specializzato dell' "envie" del francese, che indica anche il desiderio, e dell' "invidia" del latino, che comprende anche l' odio, l' avversione, come attesta l' aggettivo italiano "inviso". È probabile che in origine questa famiglia di parole alludesse unicamente al "veder male", sia nel senso di portare danno guardando, cioè di lanciare il malocchio, sia nel senso di provare disagio nel guardare una persona che ci è odiosa, di cui si dice (ma solo in italiano) che "non possiamo vederla"; ma poi, in ogni lingua, il termine è slittato in direzione diversa. Non pare che ci siano lingue dalle aree ampie e altre dalle aree ristrette: il fenomeno è capriccioso. L' area dell' italiano "fregare" copre almeno sette significati, quella dell' inglese "to get" è praticamente indefinita, "Stuhl" è in tedesco la sedia, ma attraverso una catena di traslati facile da ricostruire è giunta a significare anche "escrementi". Pare che solo l' italiano si preoccupi di distinguere fra le piume e le penne degli uccelli: francese, inglese e tedesco non se ne curano, e il tedesco "Feder" indica addirittura quattro oggetti distinti, la piuma, la penna degli uccelli, la penna per scrivere, e qualsiasi tipo di molla. Altre trappole per i traduttori sono i cosiddetti "falsi amici". Per remote ragioni storiche (che, caso per caso, sarebbe divertente andare a cercare), o talvolta per un singolo malinteso, alcuni termini di una lingua possono comparire in un' altra acquistandovi un significato non più affine o contiguo, come nel caso accennato prima, ma totalmente diverso. In tedesco, "Stipendium" è la borsa di studio, "Statist" è la comparsa teatrale, "Kantine" è lo spaccio, "Kapelle" è l' orchestra, "Konkurs" è il fallimento, "Konzept" è la brutta copia e "Konfetti" sono i coriandoli. I "macarons" francesi non sono maccheroni ma amaretti. In inglese, "aperitive", "sensible", "delusion", "ejaculation", "apology", "compass" non significano affatto quanto a un italiano può sembrare a prima vista, bensì rispettivamente purgante, ragionevole, illusione, esclamazione, scusa, bussola. "Second mate" è il terzo ufficiale. "Engineer" non è l' ingegnere nel nostro senso, ma chiunque si occupi di motori ("engines"): si racconta che questo "falso amico" sia costato caro, oltre che a molti traduttori, anche a una giovane nobildonna del nostro Sud, che nell' immediato dopoguerra si trovò sposata con un macchinista delle ferrovie americane sulla base di una dichiarazione fatta in buona fede ma capita male. Non ho la fortuna di conoscere il rumeno, lingua appassionatamente amata dai glottologi, ma essa deve pullulare di falsi amici, e rappresentare un vero campo minato per i traduttori, se è vero che "friptura" è l' arrosto, "suflet" è l' anima, "dezmierdà" vuol dire accarezzare, e "indispensabili" sono le mutande. Ognuno dei termini elencati è un agguato teso al traduttore disattento o inesperto, ed è divertente pensare che l' insidia è attiva nei due sensi: un tedesco rischia di scambiare un nostro uomo di Stato per una comparsa. Altre trappole tese al traduttore sono le frasi idiomatiche, presenti in tutte le lingue ma specifiche di ogni lingua. Alcune di queste sono facili a decifrarsi, oppure sono così bizzarre da mettere sull' avviso anche il traduttore novellino: credo che nessuno scriverebbe a cuor leggero che in Gran Bretagna piovono gatti e cani, cioè piove a dirotto, ma altre volte la frase ha l' aria più innocente, si confonde col discorso piano, e rischia di farsi tradurre parola per parola; come quando, nella traduzione di un romanzo, si legge del noto benefattore che ha uno scheletro nell' armadio, cosa possibile, anche se non comune. Uno scrittore che non voglia mettere in imbarazzo i suoi traduttori dovrebbe astenersi dall' usare frasi idiomatiche, ma questo gli sarebbe difficile, perché ognuno di noi, sia nel parlare sia nello scrivere, formula queste frasi senza più rendersene conto. Non c' è nulla di più naturale, per un italiano, che dire "siamo a posto", "fare fiasco", "farsi vivo", "prendere un granchio", il sopra citato "non posso vederlo", e centinaia di altre espressioni simili: tuttavia esse sono prive di senso per lo straniero, e non tutte sono spiegate dai dizionari bilingui. Perfino "quanti anni hai?" è una frase idiomatica: un inglese o un tedesco dicono l' equivalente di "quanto vecchio sei?", che a noi suona ridicolo, specie se la domanda è rivolta a un bambino. Altre difficoltà nascono dall' uso, comune in tutte le lingue, di termini locali. Ogni italiano sa cos' è la Juventus, e ogni lettore italiano di quotidiani sa a cosa si allude dicendo "il Quirinale", "la Farnesina", "Piazza del Gesù", "via delle Botteghe Oscure", ma se chi traduce un testo italiano non ha subito una lunga immersione nelle nostre faccende resterà perplesso, e nessun dizionario lo aiuterà. Lo aiuterà, se la possiede, la sensibilità linguistica, che è l' arma più potente di chi traduce, ma che non si insegna nelle scuole come non si insegna la virtù di scrivere in versi o di comporre musica; essa gli consente di calarsi nella personalità dell' autore del testo tradotto, di identificarsi con lui, e lo avvisa quando nel testo qualcosa non quadra, non va, è stonato, non ha un senso compiuto, sembra superfluo o sfasato. Quando questo avviene, può trattarsi di una colpa dell' autore, ma più spesso è un segnale: qualcuna delle tagliole descritte è lì, invisibile, ma con le mascelle spalancate. Ma non basta saper evitare le insidie per essere un buon traduttore. Il compito è più arduo: si tratta di trasferire da una lingua a un' altra la forza espressiva del testo, e questa è opera sovrumana, tanto che alcune traduzioni celebri (ad esempio quella dell' "Odissea" in latino e quella della Bibbia in tedesco) hanno segnato delle svolte nella storia della nostra civiltà. Tuttavia, poiché uno scritto nasce da una profonda interazione fra il talento creativo dell' autore e la lingua in cui egli si esprime, a ogni traduzione è connessa una perdita inevitabile, paragonabile a quella di chi va dal cambiavalute. Questo calo è di misura varia, grande o piccolo a seconda dell' abilità del traduttore e della natura del testo originale; è di regola minimo per i testi tecnici o scientifici (ma occorre in questo caso che il traduttore, oltre a possedere le due lingue, capisca quello che traduce, possegga cioè anche una terza competenza), massimo per la poesia (che cosa resta di "e vegno in parte ove non è che luca" se viene ridotto e tradotto come "giungo in un luogo buio"?) Tutti questi "contro" possono spaventare e scoraggiare ogni aspirante traduttore, ma si può aggiungere qualche peso sul piatto dei "pro". Oltre a essere opera di civiltà e di pace, tradurre può dare gratificazioni uniche: il traduttore è il solo che legga veramente un testo, lo legga in profondità, in tutte le sue pieghe, pesando e apprezzando ogni parola e ogni immagine, o magari scoprendone i vuoti e i falsi. Quando gli riesce di trovare, o anche di inventare, la soluzione di un nodo, si sente "sicut deus" senza per questo dover reggere il carico della responsabilità che grava sulla schiena dell' autore: in questo senso, le gioie e le fatiche del tradurre stanno a quelle dello scrivere creativo come quelle dei nonni stanno a quelle dei genitori. Molti scrittori antichi e moderni (Catullo, Foscolo, Baudelaire, Pavese) hanno tradotto scritti a loro congeniali, traendone gioia per sé e per i lettori, e ritrovando spesso in quest' opera lo stato d' animo lieto e leggero di chi, in un giorno di vacanza, si dedica a un lavoro diverso da quello di tutti i giorni. Vale la pena di dire una parola anche sulla condizione dello scrittore che si trova a essere tradotto. Essere tradotti non è un lavoro né feriale né festivo, anzi, non è un lavoro per niente, è una semi-passività simile a quella del paziente sul lettino del chirurgo o sul divano dello psicoanalista, ricca tuttavia di emozioni violente e contrastanti. L' autore che trova davanti a sé una sua pagina tradotta in una lingua che conosce si sente volta a volta, o a un tempo, lusingato, tradito, nobilitato, radiografato, castrato, piallato, stuprato, adornato, ucciso. È raro che resti indifferente nei confronti del traduttore, conosciuto o sconosciuto, che ha cacciato naso e dita nelle sue viscere: gli manderebbe volentieri, volta a volta o a un tempo, il suo cuore debitamente imballato, un assegno, una corona di lauro o i padrini.

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I giochi qui descritti, benché osservati in tutta l' Europa ed anche fuori di essa, sono familiari a ogni italiano che abbia o abbia avuto figli, o abbia contatto coi bambini, o anche solo conservi qualche memoria della sua propria infanzia. Con nomi ovviamente diversi, ma con cerimoniali stranamente simili, ritroviamo nelle loro molte varianti il "giocare a prendersi" e "a nascondersi", "liberi tutti", "guardie e ladri", e fino a questo punto non c' è nulla di molto strano; questi giochi sono razionali: riproducono le situazioni e le emozioni della caccia e dell' agguato, ed è probabile che le loro radici giacciano profonde nella nostra eredità di mammiferi cacciatori, sociali e litigiosi. Anche i cuccioli di cane e di gatto, benché appartengano a razze addomesticate da millenni, riproducono nei loro giochi i rituali della caccia e della lotta. È invece difficile spiegarsi perché giochi o cerimoniali astratti, apparentemente privi di significato utilitario, si ritrovino pressoché uguali in paesi molto lontani fra loro. Un esempio è il gioco ben noto dei "quattro cantoni", che non è razionale. Non c' è ragione che i quattro giocatori che occupano i cantoni non se ne restino indefinitamente ai loro posti, in modo che il bambino che riveste lo sgradevole ruolo di essere "sotto" rimanga "sotto" a oltranza. Eppure, da secoli a questa parte (il gioco è attestato fin dal 1600), e in buona parte del mondo, il rituale è lo stesso, come se, invece che di un gioco, si trattasse di una cerimonia religiosa. Lo stesso si può dire del gioco grazioso ma (per un adulto) irritante che in Italia si chiama "regina reginella". Per chi non lo ricordasse, la "reginella" sta a un capo del campo, e di fronte a lei (o a lui), allineati e ad una distanza di dieci o venti metri, stanno gli altri giocatori. Ognuno di questi, a turno, chiede alla regina quanti passi deve fare per arrivare "al suo castello", e la regina risponde nel modo più capriccioso, ma seguendo un lessico tradizionale, che i passi sono ad esempio quattro del gigante, o sei del leone, o cinque della formica, o addirittura dieci del gambero; in questo ultimo caso il giocatore-vittima è tenuto a retrocedere. Come si vede, il gioco non potrebbe essere più unfair: si tratta, in sostanza, di una versione infantile ed astemia della passatella. Vince, e cioè arriva al castello, sempre e solo il bambino che la regina ha voluto favorire; diventato a sua volta regina, renderà il favore alla regina di prima, secondo uno sgradevole galateo mafioso. Non resta alcuno spazio per l' iniziativa, l' intelligenza, la forza o l' abilità dei giocatori; a dispetto di tutto questo, il gioco è diffuso in molti paesi con poche varianti (ma singolari: nelle isole britanniche gli Opie hanno registrato, fra l' altro, anche il passo del bruco, il passo a buccia di banana e il passo dell' inaffiatoio; quest' ultimo consiste nello sputare più lontano che si può e nel fermarsi dove lo sputo è arrivato). In quasi tutti i giochi "a prendersi" è previsto un santuario (designato con vari nomi: da noi è "il tocco") in cui l' inseguito è immune dalla cattura; popolarissima è la variante che in Italia si chiama "rialzo" e quarant' anni fa si chiamava "portinària", che in Francia è "le chat perché", ed in Inghilterra "off-ground-he", cioè "via-da-terra-lui": per inciso, "he" (lui) o "it" (esso) è il giocatore che noi diciamo essere "sotto". In questa versione, l' immunità si acquista semplicemente salendo su qualunque superficie che sporga al di sopra del livello del suolo. "Rialzo" è noto in tutto il mondo. Altrettanto internazionali sono i rituali che precedono l' inizio di qualsiasi gioco. Essi consistono in generale in un sorteggio che deve designare il giocatore o i giocatori che sono "sotto", cioè che assumono la funzione meno gradita in ogni singolo gioco, ma ad un sorteggio equo, ad esempio col sistema della paglia più corta, si ricorre raramente. Diffusa ed equa, ma macchinosa in quanto consente solo lo spareggio fra due giocatori, è la cosiddetta (in Europa) "morra cinese", che do per conosciuta; in quasi tutti i paesi i tre segni della mano indicano la pietra, la forbice e la carta, e la giustificazione del perché ogni segno batta circolarmente il successivo è la stessa. Ancora per inciso: non trovo registrato dai diligentissimi coniugi Opie un tipo di spareggio che ho visto praticare in Piemonte; i due contendenti si dichiarano rispettivamente per il pari e per il dispari, ma poi, invece di ricorrere alla morra classica, uno dei due si pizzica il dorso della mano sinistra; vince quello dei due che ha previsto il numero, pari o dispari, delle grinze che la pelle viene a formare. Gli Opie hanno dedicato poca attenzione anche al grido di tregua, usato dappertutto per chiedere o imporre un armistizio nei giochi di competizione: si limitano a dire che nelle isole Britanniche si grida "Barley!" ("orzo"), senza indagare sulle origini del curioso termine. In Italia ed oggi, a quanto mi risulta, si grida "Alimorta!", di ovvio significato, e "Aliviva!" per riprendere il gioco. Cinquanta o sessanta anni fa, in Piemonte (non so se anche altrove) si gridava "Marsa!" Propongo un quesito all' eventuale lettore che provi appetito per questa antropologia minore: "marsa", in arabo, è il porto, d' onde Marsala, Marsa Matruh ed altri toponimi; è probabile che valga anche "riparo, asilo". Può essere questa l' origine del segnale, che verrebbe quindi dal Sud? Per accertarlo, bisognerebbe che gli anziani che nell' infanzia hanno giocato a rimpiattino in Sicilia si sforzassero di ricordare come si chiedeva tregua al loro tempo ed al loro paese. Li prego di farlo. Ad onta dei sistemi più sbrigativi ed equi che è facile immaginare, e che infatti sono stati immaginati, il sorteggio più popolare in tutto il mondo è quello della conta, e qui il discorso si fa interessante. Credo che ognuno ricordi almeno una o due delle "contine" che ha usato o sentito usare da bambino. Si tratta di cantilene ritmate, generalmente con quattro forti accenti per ogni verso; gli Opie, sfruttando anche altre raccolte precedenti, ne hanno registrate più di duecento, in tutta l' Europa e nei paesi di lingua inglese. Alcune, le più recenti, sono "razionalizzate" ed hanno un senso più o meno compiuto, ma è evidente che sono preferite le più antiche, e queste sono puri abracadabra. Ciò non ostante, vi si possono riconoscere alcuni filoni internazionali, non più di quattro o cinque: il ritmo, e spesso la rima, si conservano immutati, mentre le parole vengono distorte secondo lo spirito della lingua del luogo. È chiaro che sullo scopo utilitario del sorteggio prevale il carattere rituale, in cui il senso delle parole non ha importanza (quante proteste ha sollevato la decisione della Chiesa di sopprimere il latino dalla Messa!), mentre ne ha molta il ripetere gesti e parole che, essendo magici, devono essere sentiti come "sibillini". Si tratta dunque di parole ridotte a puro suono, e questo giustifica le difficoltà che si incontrano nel cercarne l' origine. Per uno dei filoni sopra accennati, essa tuttavia è stata trovata: benché le "contine" di questo filone siano diffuse in tutto l' ex impero britannico, la loro origine non è inglese, bensì gallese, e non riproduce l' antica parlata gallese oggi quasi scomparsa, ma la serie dei numerali, probabilmente preceltica, che usavano in tempi remoti i mandriani del Galles unicamente per contare i capi di bestiame. A quanto pare, usavano quella, e non la numerazione ordinaria, a scopo apotropaico, affinché cioè gli spiriti del male non comprendessero, e non sottraessero alla mandria alcuna bestia, rubandola o facendola ammalare. È evidente che queste "contine" devono il loro successo proprio alla loro secolare incomprensibilità. Una storia simile, ma più moderna, è stata ricostruita da una studiosa italiana, Matizia Maroni Lumbroso. Aveva imparato da bambina, a Viareggio, questa "contina": "Inimìni mani mo, chissanìa baistò, effiala retingò, inimìni mani mo"; molti anni dopo venne a sapere che si trattava di una "contina" inglese ("Eeny meeny miny mo, catch a nigger by his toe, if he hollers let him go, eeny meeny miny mo"), e che essa era stata insegnata a un piccolo gruppo di bambini italiani da un' anziana signora inglese. La "contina" aveva prontamente attecchito, e non escludo che circoli ancora oggi, proprio perché agli orecchi italiani era priva di senso, e quindi profondamente suggestiva. Del resto, anche in inglese hanno una parvenza di senso solo il secondo e il terzo verso: " ... prendi un negro per l' alluce, se grida lascialo andare". Il resto è puro incantesimo. In conclusione, non solo le strane "contine" si usano dappertutto, ma dappertutto si usano su per giù le stesse "contine". Sarebbe sbrigativo concludere che le "contine", e più in generale i giochi spontanei, sono internazionali perché "i bambini sono uguali in tutto il mondo". Perché lo sono? Il loro giocare è lo stesso dappertutto perché nasce da un' eredità biologica, perché riproduce un loro (e nostro) innato bisogno di una norma? O i loro giochi sono spontanei solo in apparenza, e di fatto riproducono in simbolo, in caricatura) i "giochi" degli adulti? Resta il fatto che le frontiere politiche sono impervie alle nostre culture verbali, mentre la civiltà del gioco, sostanzialmente non verbale, le attraversa con la libertà felice del vento e delle nuvole.

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È solo una curiosa coincidenza che si chiamasse Benz l' uomo che nel 1..5 costruì il primo motore a benzina efficiente; a meno che il suo nome (che compare tuttora nella ragione sociale della Mercedes) non abbia contribuito alla vocazione di inventore dell' ingegner Karl Benz. Ancora da una distillazione secca, e dall' intento di isolare l' essenza, lo spirito del legno, prende inizio la storia del nome del metano. Distillando a secco il legno si ottengono liquidi complessi, assai diversi a seconda del legno da cui si parte, e comunque costituiti in buona parte da acqua. Essi però contengono spesso una piccola percentuale di quello che oggi si chiama alcool metilico. Un altro chimico, questa volta francese, del secolo scorso purificò questo "spirito di legno", ne descrisse le proprietà, e si accorse che assomigliava molto al vecchio e noto "spirito di vino": aveva aroma e sapore anche più gradevoli di quest' ultimo, ma se consumato anche in piccola quantità conduceva alla cecità permanente, e qui si conferma che il grato odore è una pessima guida. Probabilmente con l' aiuto di qualche collega grecista, tradusse malamente "spirito di legno" in "methy hyle", perché in greco hyle è il legno, e methy indica genericamente i liquidi inebrianti (il vino, l' idromele eccetera). Questo "methy" compare anche nell' antichissimo nome dell' ametista: non a causa del suo colore violaceo, ma perché si riteneva che questa gemma avesse la proprietà di combattere l' ubriachezza. Da "methy hyle" si trasse "alcool metilico", e da questo il nome del metano, che gli è chimicamente vicino, in base ad un primo rudimentale accordo fra i chimici di vari paesi, secondo cui si doveva riservare la desinenza _ano agli idrocarburi saturi. Al metano hanno fatto seguito l' etano, dalla radice di "etere"; il propano, distorcendo un poco il greco "protos", cioè "primo"; e il butano, dalla radice di "butirro", che a sua volta trae origine da una parola greca che vuol dire "ricotta di vacca". Gli altri idrocarburi saturi, pentano, esano, eptano e così via, sono stati battezzati con meno fantasia ricorrendo ai numerali greci che corrispondono al numero dei rispettivi atomi di carbonio. Un secondo linguaggio chimico, meno fantasioso ma più espressivo, è quello costituito dalle cosiddette formule gregge. Dire che lo zucchero comune è C12H22O11, o che il vecchio piramidone, caro ai medici condotti, è C13H17ON3, non ci indica nulla sull' origine né sugli usi delle due sostanze, ma ne dà l' inventario. È, appunto, un linguaggio greggio, incompleto: viene a dire che per costruire una molecola di piramidone ci vogliono tredici atomi di carbonio, diciassette d' idrogeno, uno d' ossigeno e tre di azoto, ma non dice niente sull' ordine o sulla struttura in cui quegli atomi sono legati insieme. Insomma, tutto va come se un tipografo estraesse dalla cassetta le lettere c, e, i, o, p, r, s, s, e pretendesse di esprimere così la parola cipresso: il lettore non iniziato, o non aiutato dal contesto, potrebbe anche "leggere" processi o scopersi o chissà quale altro anagramma. È una scrittura sommaria, che ha il solo pregio (tipografico appunto) di stare bene nelle righe dello stampato. Il terzo linguaggio ha tutti i vantaggi, e il solo svantaggio dovuto al fatto che le sue "parole" nelle righe dello stampato comune non ci stanno. Tende a (o pretende di) darci il ritratto, l' immagine del minuscolo edificio molecolare: ha rinunciato a buona parte del simbolismo che è proprio di tutti i linguaggi, ed è regredito all' illustrazione, alla pittografia. È come se, invece della parola cipresso, si stampasse o disegnasse l' immagine del cipresso. Il sistema fa tornare alla mente quell' accademico del paese dei Balnibarbi di cui parla Swift nei "Viaggi di Gulliver": secondo lui, si doveva ragionare senza parlare, e in luogo delle parole egli proponeva di avere sottomano "ogni cosa su cui cadeva l' argomento del discorso", cioè quello che oggi si chiama il "referente": un anello se si parla di anelli, una vacca se si parla di vacche, e così via. In questo modo, argomentava l' accademico, "tutte le nazioni avrebbero potuto facilmente intendersi fra loro". Non c' è dubbio che il linguaggio oggettivo, anzi oggettuale, dei Balnibarbi, e le formule strutturali dei chimici, si avvicinano alla perfezione sotto l' aspetto della comprensibilità e dell' internazionalità, ma entrambi presentano l' inconveniente dell' ingombro, come ben sanno gli infelici compositori dei testi di chimica organica. Naturalmente, a dispetto delle sue pretese ritrattistiche, e a differenza dal Balnibarbo, il linguaggio delle formule di struttura, per il fatto stesso di essere un vero linguaggio, è rimasto parzialmente simbolico. In primo luogo, perché i suoi ritratti non sono in grandezza naturale, bensì nella "scala" (cioè nell' enorme ingrandimento) di circa uno a cento milioni. Poi, perché in luogo della forma degli atomi essi contengono il loro simbolo grafico, cioè l' abbreviazione del loro nome, e perché fra gli atomi stessi si dimostra utile introdurre, e rappresentare con trattini simbolici, le forze che tengono insieme gli atomi stessi. Infine, per il motivo fondamentale, e valido per tutti i ritratti, che l' oggetto rappresentato ha in generale uno spessore, ha una struttura a tre dimensioni, mentre il ritratto è piatto perché è piatta la pagina su cui deve essere stampato. Eppure, nonostante tutte queste limitazioni, se si confrontano questi schemi convenzionali con i ritratti "veri", quasi fotografici, che da qualche decennio si riesce a fare con tecniche sottili, si rimane colpiti dalla loro somiglianza: le molecole-parole, i disegnini ricavati dal ragionamento e dall' esperimento, sono proprio assai simili alle particelle ultime della materia che gli antichi atomisti avevano intuito vedendo i granelli di polvere che danzavano in un raggio di sole.

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Dopo aver letto la "Piccola Cosmogonia portatile" di Raymond Queneau (Einaudi, Torino 19.2) mi vedo costretto a rivedere questi principi4: penso che continuerò a scrivere come mi sono prescritto, ma penso anche che Queneau abbia fatto benissimo a scrivere nel suo modo, che è esattamente opposto al mio, e che mi piacerebbe scrivere come lui se ne fossi capace. Queneau è noto in Italia principalmente per i suoi romanzi, di cui il più conosciuto è il delizioso "Zazie dans le métro". Morto a 73 anni nel 1976, oltre che romanziere è stato poeta ed editore; ha frequentato surrealisti, matematici, biologi, linguisti; dal 1951 ha diretto per 25 anni la prestigiosa "Encyclopédie de la Pléiade", ma simultaneamente ha fondato una rivista di "letteratura potenziale" che descrive e propone strabilianti giochi verbali: non c' è stato ramo del sapere che sia sfuggito alla sua curiosità, sempre divertita e mai dilettantesca. Questa "Cosmogonia" è un poema in versi alessandrini diviso in sei canti, pubblicato per la prima volta nel 1950, e racconta nulla meno che la storia dell' universo. Dalla sua lettura sono uscito attonito, rallegrato e con un po' di capogiro, come da una corsa sull' ottovolante. Non c' è dubbio, è un libro straordinario, nei due sensi del termine. Non è un libro per tutti: non è per lettori distratti o incolti o in cerca del divertimento istantaneo; non è omogeneizzato né precotto, non è di facile digestione. Ognuno dei suoi quasi 1400 versi racchiude un enigma, ora arguto, ora futile, ora denso di significati: allusioni ad illustri antenati francesi (quest' uomo amabile ed universale si dimostra qui curiosamente chauvin: si indirizza esplicitamente ai "lecteurs franc6ais". Ma forse è solo la sua consapevolezza della sostanziale intraducibilità dei suoi versi), Baudelaire, Lamartine, Rimbaud: ma attenzione, sono ricordi ambigui, a metà strada fra l' omaggio e l' irrisione. S' incontrano ad ogni passo gergalismi innestati con disinvoltura su termini tratti da tutte le scienze della natura; vocaboli trascritti foneticamente ("l' histouar des humains", "tu sais xé qu' un concept"; certi remoti insetti hanno scoperto "que l' air est un espace où qu' on peut sdeplacer"). Spesso lo iato imposto dal metro è espresso con ortografie arbitrarie ("révolusillon" per "révolution"), secondo un ticchio di Queneau che ricorre già in suoi saggi del 1937, in seguito elegantemente sfruttato per rendere il "parlato" nei suoi romanzi. Il repertorio delle sue invenzioni verbali è sorprendente. Il diplodoco, uno fra i più grandi rettili fossili, è un "interminable idiot"; i giganteschi cetacei erranti nell' abisso sono degli "hercules" ma anche degli "erreculs"; le navi che assaltano Siracusa difesa da Archimede sono "les flottes nazirêmes", cioè, spiega l' autore al traduttore tedesco, triremi romane mal intenzionate: triremi naziste, insomma. Dato il gran numero di bisticci puramente verbali, la traduzione in endecasillabi di Sergio Solmi è ad un tempo ottima, perché non si poteva far di meglio, e insufficiente, perché una buona metà del sale e del pigmento del libro va inevitabilmente perduta. È comunque una guida eccellente per il lettore italiano: gli fa coraggio e gli spiana la strada, ma il testo a fronte resta indispensabile. Mi pare di aver detto abbastanza delle dotte bizzarrie di Queneau, e vorrei precisare: non sono soltanto capricci di un sapiente in vena di divertirsi. In questa cosmogonia hanno una funzione precisa; il calembour, il volgarismo, lo sberleffo goliardico troncano come una cesoia ogni sospetto di lievitazione retorica. È la stessa maniera che spesso adottano l' Ariosto e Heine; grazie ad essa, questi poeti restano leggibili ancora oggi ed anche ai non specialisti, mentre chi la ignora finisce nel limbo. È una legge a cui non si sfugge: l' autore che non sa ridere in proprio, magari anche di se stesso, finisce con l' essere oggetto di riso suo malgrado. Queneau, grande virtuoso del ridere, ottiene con la sua comicità quanto molti hanno tentato invano, fonde in un continuum omogeneo le troppo discusse "due culture". Non è un' impresa da poco. In questo poema eterodosso e barocco, ma fondamentalmente serio, affiorano una dottrina ed una poesia singolari, il cui accoppiamento non era più stato tentato dopo Lucrezio: ma Queneau è Queneau, e teme i voli protratti. La sua invocazione a Venere ricalca quella famosa che dà inizio al "De rerum natura", ma il suo impeto lirico è insieme solenne e buffone: alla poesia della scienza si lega inestricabilmente il gioco. È stata Venere, "mère des jeux des arts et de la tolérance", che ha donato le valli alle montagne, la donna all' uomo, il cilindro al pistone e il tender alla locomotiva. Grazie alla Dea, tutti gli animali, a lor luogo e tempo, traggono piacere dal pianeta "en y procréfoutant". Al testo bilingue fa seguito un' acutissima "Piccola guida alla Piccola cosmogonia", scritta da Italo Calvino che dell' autore è stato amico e seguace (e quanti sapori queneauiani si ritrovano nei suoi libri, dalle Cosmicomiche in poi!). Calvino ha accettato la sfida ed è stato al gioco: il suo commento, estremamente lucido, ha conservato tuttavia lo spirito e la leggerezza del testo, e si adopera con reverenza e pazienza a scioglierne i gomitoli; è un gioco intelligente anche questo. Con pazienza, sì: non inganniamo i lettori, è un libro che richiede pazienza, non è una lettura a basso costo. Calvino ha fatto opera di filologo, è risalito alle fonti, ha consultato i commenti di Jean Rostand, il celebre biologo ed amico di Queneau, ha interrogato naturalisti e chimici. Ha risolto molti enigmi ma non tutti: alcuni, l' autore stesso aveva ammesso di non saperli più spiegare, erano stati illuminazioni di un istante: ebbene, tanto meglio per il lettore amante del gioco, potrà magari venirne a capo lui. La pazienza del lettore sarà remunerata. Da questo testo labirintico scaturiscono tratti di poesia smagliante, e ad un tempo temi appassionanti ed attuali. La "Prosopopea di Ermete" che si legge nel canto terzo esprime a suo modo un' idea profonda e seria, la poesia delle origini: una intuizione panica dell' universo che è raro trovare presso altri poeti "autorizzati". La poesia risuona dappertutto intorno all' uomo attento: e non solo nella natura. "Il voit dans chaque science un registre bouillant. Les mots se gonfleront du suc de toutes choses"; c' è poesia nel ranuncolo e nella luna in primavera, ma anche nei vulcani, nel Calcio e nella funzione fenolo. "On parle des bleuets et de la marguerite, alors pourquoi pas de la pechblende pourquoi?" Come dargli torto? La fatica epica dei Curie, che dalla pechblenda ha condotto all' isolamento del Radio, aspetta invano il poeta che la sappia narrare. Il passo di cui parlo è il più denso del poema. Poco oltre, Mercurio così descrive l' autore ai lettori (la traduzione qui è mia ed è letterale): "costui, vedete, non ha nulla di didattico, che cosa didatterebbe dal momento che non sa quasi nulla?" È una delle chiavi dell' opera. Non la scienza è incompatibile con la poesia, ma la didattica, cioè la cattedra sulla pedana, l' intento dogmatico-programmatico-edificante. Queneau rifugge dai programmi, è il re dell' arbitrario: promette di passare in rassegna i cento elementi chimici, e poi, per ragioni pretestuose, si ferma allo Scandio, che ha il numero 21, e chiude la partita. In questa cosmogonia, che parte dal Caos e arriva all' automazione, la storia dell' umanità è polemicamente rattrappita in due soli versi. Ma dove coglie il destro di esprimere quello che sente, la gioia cosmica e biblica del principio, e insieme la necessità della fine, Queneau spiega le ali e dimostra la sua forza. La dimostra, nel suo sempre inaspettato modo, proprio negli ultimi versi del poema: dopo aver descritto la giovinezza della terra, la nascita della luna, il misterioso passaggio dai cristalli ai virus, i mostri primordiali, l' uomo e i suoi primi congegni, decolla con toni da "Excelsior" nell' apoteosi delle macchine calcolatrici: ma proprio qui, proprio come una vecchia divisumma in avaria, il suo canto si inceppa, si ripete come un disco lesionato, si blocca sugli infiniti dei verbi ed infine si arresta. Consummatum est, la cosmogonia è finita.

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e l' oggi, anzi, il futuro più remoto, che ti è lecito modellare a tuo piacere, puoi ambientare la tua storia dove vuoi; nel soggiorno di casa tua, nell' Empireo, alla corte di Tamerlano, nella stiva di un peschereccio, dentro un globulo rosso, in fondo a una miniera o in un bordello: insomma, in qualsiasi luogo tu abbia visto, o in luoghi sentiti descrivere, o letti, o visti al cinema o in fotografia, o immaginati, immaginari, immaginabili, non immaginabili. Tutta la Terra è tua, anzi, il cosmo; e se il cosmo ti è stretto, te ne inventi un altro che faccia al caso tuo. Se obbedisce alle leggi della fisica e del buon senso, bene; se no va bene lo stesso, o magari anche meglio; in ogni caso non scatenerai nessuna catastrofe, tutt' al più qualche lettore pignolo ti scriverà per esprimere urbanamente la sua delusione o il suo dissenso. Insomma, a parte il tempo che avrai perduto, non corri rischi superiori a quelli dello studente che fa il compito in classe: alla peggio prenderai un brutto voto. Non è un bel mestiere? Quanto ai personaggi, il discorso si fa complesso. Su questo tema, il ménage a tre fra l' autore, il personaggio e il lettore, si sono scritti quintali di libri, ma essendo io ormai un addetto ai lavori, mi permetto di dire la mia, ossia di proiettare le mie diapositive. Anche per i personaggi si prova all' inizio l' impressione di una libertà senza limiti. In astratto, tu hai su loro un potere assoluto, quale nessun tiranno ha mai avuto sulla faccia della terra. Puoi farli nascere nani o giganti, puoi affliggerli, torturarli, ucciderli, resuscitarli; o donare loro la bellezza e giovinezza eterne, la forza, la sapienza che tu non hai, la felicità di ogni minuto (ma questa, sarai capace di descriverla senza annoiare il tuo lettore?), l' amore, la ricchezza, il genio. Ma solo in astratto: perché sei legato a loro più di quanto non appaia. Ognuno di questi fantasmi è nato da te, ha il tuo sangue, nel bene e nel male. È una tua gemmazione. Peggio, è una tua spia, rivela una parte di te, le tue tensioni, come quegli incastri di vetro che si usano per rivelare se la crepa di un muro è destinata ad allargarsi. Sono un tuo modo di dire "io": quando li fai muovere o parlare rifletti a quello che fai, potrebbero dire troppo. Forse vivranno più a lungo di te, perpetuando i tuoi vizi ed errori. Veramente i personaggi di un libro sono creature strane. Non hanno pelle né sangue né carne, hanno meno realtà di un dipinto o di un sogno notturno, non hanno sostanza che di parole, ghirigori neri sul foglio di carta bianca, eppure puoi intrattenerti con loro, conversare con loro attraverso i secoli, odiarli, amarli, innamorartene. Ognuno di loro è depositario di certi elementari diritti, e sa farli valere. La tua libertà di autore è solo apparente. Se, una volta concepito il tuo homunculus, tu lo contrasti, se gli vuoi imporre un gesto avverso alla sua natura, o vietargli un atto che gli sarebbe congeniale, incontri una resistenza, sorda ma indubbia: come se tu volessi comandare alla tua mano di toccare un ferro rovente, o un oggetto che ti (che le) ripugna. Lui, il non-esistente, è lì, c' è, pesa, spinge contro la tua mano: vuole e disvuole, silenzioso e testardo. Se tu insisti, intristisce. Si apparta, cessa di collaborare con te, di suggerirti le sue battute; perde corpo, diventa piatto, sottile, bianco. È carta, e ritorna in carta. Anche per un altro verso la tua libertà d' invenzione è apparente. Allo stesso modo che è impossibile trasformare una persona di carne in un personaggio, farne cioè una biografia obiettiva e non distorta, così è impossibile eseguire l' operazione inversa, coniare un personaggio senza travasargli dentro, oltre ai tuoi umori d' autore, anche frammenti di persone che tu hai incontrate, o di altri personaggi. La prima impossibilità è dimostrata da millenni di letteratura. La resa del ritratto scritto è sempre bassa, anche nei testi migliori: l' intera Odissea non basta a darci l' immagine di Ulisse, ma neppure nel romanzo di taglio classico, o nella biografia dichiarata, in cui l' autore si affanna a descriverti la statura del suo soggetto, il colore dei suoi capelli, occhi e carnagione, la sua corporatura, il suo parlare, ridere, camminare, gesticolare: neppure qui, mai, per essenziale insufficienza dei nostri mezzi espressivi, si arriva alla mimesi. Ci arrivano con migliore approssimazione il cinematografo e la televisione; infatti, le riprese filmate di persone scomparse ci commuovono in misura ben maggiore dei ritratti scritti. Ci turbano: colui che vediamo muoversi e parlare sullo schermo, davvero non è morto del tutto . E se gli ologrammi ci regaleranno una terza dimensione, il turbamento sarà tremendamente maggiore, farà pensare alla magia nera. Per uno scrittore, tentare di competere con questi mezzi è tempo perduto. Ma altrettanto ferrea mi pare sia l' impossibilità di creare un personaggio dal nulla. Ho già detto che fatalmente l' autore vi trasferisce (sapendolo o non, volendolo o non, talora accorgendosene solo quando rilegge le sue pagine anni dopo averle scritte) una parte di sé; ma il resto, il non-sé, non è mai del tutto inventato. Brulica di ricordi: anche questi, consapevoli o inconsapevoli, volontari o non. Il personaggio che credi ingenuamente di aver fabbricato nella tua officina si rivela una chimera, un mosaico di tasselli, di istantanee scattate chissà quando e relegate nel solaio della memoria. Un conglomerato, insomma, che sarà tuo merito aver reso vivo e credibile; ma di quest' arte, di ricavare un organismo da un coacervo, non credo si possano dare regole certe. Si possono tentare regole negative: non è necessario che il tuo personaggio sia virtuoso, né simpatico, né savio; neppure è necessario che sia coerente con se stesso, anzi, forse è vero il contrario. Il personaggio troppo coerente è prevedibile, cioè noioso: non ha scatti, è programmato, non ha arbitrio. Dev' essere incoerente come tutti noi lo siamo, avere umore vario, sbagliare, perdersi, crescere di pagina in pagina, o declinare, o spegnersi: se rimane uguale a se stesso non sarà il simulacro di una creatura, ma il simulacro di una statua, cioè un doppio simulacro. Beninteso, al di sotto di questa incoerenza sta una più profonda coerenza, ma definirla è al di là delle mie forze; se sia stata rispettata lo si sa dopo, a pagina scritta, e il segnale è dato dal sangue del lettore, che per qualche istante gira un po' più caldo e un po' più in fretta.

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Non esiste legno "brutto" e non esiste albero il cui legno non abbia trovato una sua applicazione specifica: il cedro per le matite, il tiglio per i tasti dei pianoforti, la balsa per le remote imbarcazioni che salpavano dal Sud-America verso l' occidente sconosciuto, ma anche per le sedie che gli attori del cinema si rompono in testa nei pestaggi collettivi. Il legno è stato per millenni il materiale per costruzione, la "materia", per eccellenza, tanto che in alcune lingue materia e legno erano espressi dalla stessa parola. Non c' è dubbio che i nostri progenitori, diecimila, centomila anni fa, assai prima d' imparare a fondere il bronzo, avevano imparato a lavorare il legno. Eppure, accanto alle loro ossa si trovano selci, conchiglie, bronzo, argento, oro, ma legno mai (o solo in condizioni del tutto eccezionali), e questo ci dovrebbe mettere sull' avviso. Ci dovrebbe ricordare che il legno, come tutte le sostanze organiche, è stabile solo in apparenza. Le sue virtù meccaniche si accompagnano a una debolezza chimica intrinseca. Nella nostra atmosfera ricca d' ossigeno, il legno è stabile pressappoco come una palla da bigliardo che venga riposta su una mensola orizzontale cinta da un orlo spesso quanto un foglio di carta velina. Può starvi a lungo, ma basterà una minuscola spinta inavvertita, o anche solo un debole soffio d' aria, per farle superare la barriera e cadere a terra. Il legno, insomma, è desideroso di ossidarsi, cioè di distruggersi. Il cammino verso la distruzione può essere lentissimo, avvenire silenziosamente, a freddo, come nel legno sepolto, ad opera dell' aria aiutata dai batteri del sottosuolo; o può essere istantaneo, drammatico, quando la spinta è rappresentata da una sorgente di calore. Allora è l' incendio: un evento raro nelle nostre città di cemento ferro e vetro, ma frequente in passato. Se ne conserva la memoria là dove tuttora si costruisce in legno. Molti anni fa ho dormito in Norvegia in un bellissimo albergo tutto fatto di legno, in mezzo a un bosco sterminato e silenzioso. In ogni camera c' era in un angolo una gomena arrotolata, con un estremo libero e l' altro fissato al pavimento: in caso d' incendio avrebbe servito per calarsi al suolo dalla finestra. Poiché la nemica del legno è l' aria, o meglio l' ossigeno dell' aria, è comprensibile che il legno sia tanto più minacciato quanta più aria ha intorno: il legno in fogli sottili, in stecchi, in trucioli, in segatura. Quest' ultima, in specie, è una fonte di rischio che spero non sia trascurata nel manuale ricordato sopra: anche perché se ne fa largo uso e perché spesso viene accumulata e dimenticata come un qualsiasi materiale inerte. Non sempre è inerte, specialmente quando è asciutta. In una fabbrica in cui ho lavorato per molti anni si usava correntemente la segatura di legno per la pulizia dei pavimenti. Sapevamo che è una sostanza di cui è bene diffidare, perciò non la tenevamo all' interno dei reparti: una volta ne comperammo dieci fusti e li sistemammo all' aperto, sotto una tettoia; nessuno pensò di chiuderli con un coperchio, perché venivano spesso gli uomini delle pulizie a prelevarne e perché "si era sempre fatto così". I fusti restarono là per diversi mesi, finché venne da me un caporeparto a dirmi che uno dei fusti fumava. Andai a vedere: nove fusti erano freddi, il decimo scottava e dalla superficie della segatura saliva un fumo sinistro. Scavammo con una pala: al centro del fusto era un nido di brace e tutto intorno la segatura aveva già cominciato a carbonizzare. Se avessimo conservato quel fusto in un reparto o in un magazzino, la fabbrica intera sarebbe potuta andare a fuoco. Perché nove no e uno sì? Ne discutemmo a lungo, poi decidemmo di guardare meglio i fusti superstiti e notammo che la segatura non era affatto omogenea: forse veniva da segherie diverse, certo era fatta di legni diversi. Probabilmente conteneva anche materiale estraneo. Tutto questo poteva spiegare perché i fusti si erano comportati in maniera differente, ma non aiutava molto a capire perché uno avesse preso fuoco in quel modo. Poi qualcuno cominciò a parlare di autocombustione e tutti si sentirono più tranquilli, perché quando si dà un nome a una cosa che non si conosce si ha subito l' impressione di conoscerla un po' meglio. Andai comunque a raccontare la storia al comandante dei vigili del fuoco di allora, uomo solido e pratico. No, sull' autocombustione non aveva idee chiare, anzi, la riteneva un nome-imbroglio, una parola per coprire un' ignoranza, come la febbre criptogenetica dei medici; però aveva visto parecchi casi simili al nostro, non tutti di segatura, alcuni finiti in catastrofe, tutti accomunati da un tratto inquietante. In tutti, una massa apparentemente inerte dimenticata da qualche parte, in un solaio, in una cantina, in una discarica, "si ricordava" a un tratto, sotto uno stimolo quasi sempre sconosciuto, di possedere energia, di non essere in equilibrio con l' ambiente, di trovarsi insomma nella condizione della palla da bigliardo sulla mensola. I contorni di questa stabilità fragile, che i chimici chiamano metastabilità, sono ampi. Vi stanno comprese, oltre a tutto ciò che è vivo, anche quasi tutte le sostanze organiche, sia naturali, sia di sintesi; ed altre sostanze ancora, tutte quelle che vediamo mutare stato a un tratto, inaspettatamente: un cielo sereno, ma segretamente saturo di vapore, che si annuvola di colpo; un' acqua tranquilla che, al di sotto dello zero, congela in pochi istanti se vi si getta un sassolino. Ma è grande la tentazione di dilatare quei contorni ancora di più, fino a inglobarvi i nostri comportamenti sociali, le nostre tensioni, l' intera umanità d' oggi, condannata e abituata a vivere in un mondo in cui tutto sembra stabile e non è, in cui spaventose energie (non parlo solo degli arsenali nucleari) dormono di un sonno leggero.

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Haldane, al tempo in cui era un marxista convinto (e cioè prima che lo scandalo di Lysenko facesse vacillare alcune sue sicurezze) ad un ecclesiastico che gli domandava quale fosse la sua concezione di Dio abbia risposto: "He is inordinately fond of beetles", "ha un entusiasmo inconsulto per gli scarabei". Immagino che Haldane, col termine generico di beetles, volesse alludere ai coleotteri, ed in questo caso non si può che dargli ragione: per motivi che conosciamo male, questo "modello", pur entro la classe così multiforme degli insetti, numera da solo almeno 350000 specie ufficialmente catalogate, e nuove specie vengono continuamente scoperte. Poiché molti ambienti e molte aree geografiche non sono ancora stati esplorati dagli specialisti, si calcola che esistano attualmente un milione e mezzo di specie di coleotteri: ora, noi mammiferi, col nostro orgoglio di coronamento della creazione, non contiamo più di 5000 specie; difficilmente se ne scoprirà qualche decina di nuove, mentre molte specie esistenti vanno rapidamente estinguendosi. Eppure, l' invenzione dei coleotteri non sembra poi così innovativa: consiste "soltanto" nell' aver mutato destinazione al paio anteriore di ali. Non sono più ali ma elitre: sono ispessite e robuste, e fungono unicamente da protezione per le ali posteriori, membranose e delicate. Chi ricordi il meticoloso cerimoniale con cui una coccinella o un maggiolino si preparano al volo, e l' abbia confrontato con il decollo fulmineo ed orientato di una mosca, si sarà accorto che per la maggior parte dei coleotteri il volo stesso non è un modo per sfuggire a un' aggressione, ma piuttosto un sistema di trasporto a cui l' insetto ricorre solo per grandi spostamenti: un po' come uno di noi che, per prendere un aereo, si adatta ad acquistare il biglietto, a fare il check-in, ed a sottoporsi alla lunga attesa in aeroporto. La coccinella socchiude le elitre, armeggia per districare le ali, infine le distende, solleva le elitre obliquamente, ed inizia il suo volo, non agile né veloce. Pare se ne debba concludere che per una buona corazzatura si può pagare un prezzo alto. Ma la corazza dei coleotteri è una struttura ammirevole: da ammirarsi, purtroppo, solo nelle vetrine dei musei zoologici. È un capolavoro di ingegneria naturale, e ricorda le armature di tutto ferro dei guerrieri medioevali. È senza lacune: capo collo torace e addome, pur senza essere saldati, formano un tozzo blocco pressoché invulnerabile, le tenui antenne possono essere retratte in scanalature, ed anche le articolazioni delle zampe sono protette da risalti che ricordano gli schinieri dell' Iliade. La somiglianza fra uno scarabeo che avanza scartando l' erba, lento e possente, e un carro armato, è tale da far subito sorgere in mente una metafora nei due sensi: l' insetto è un piccolo panzer, il panzer è un enorme insetto. E il dorso dello scarabeo è araldico: convesso o piatto, opaco o rilucente, è uno stemma nobiliare: anche se il suo aspetto non ha alcun rapporto simbolico con il "mestiere" del suo titolare, cioè col suo modo di sfuggire agli aggressori, di riprodursi e di alimentarsi. Qui veramente la "fondness" dell' Eterno per gli scarabei ha scatenato tutta la sua fantasia. Non c' è materiale organico, vivente o morto o decomposto, che non abbia trovato un amatore fra i coleotteri. Molti sono onnivori, altri si nutrono a spese di una sola specie animale o vegetale. Ce ne sono che mangiano esclusivamente chiocciole, ed hanno fatto di se stessi uno strumento adatto allo scopo: sono siringhe viventi, hanno l' addome voluminoso, ma il capo e il torace sono di forma allungata e penetrante. Si piantano nel corpo molle della vittima, vi iniettano succhi digestivi, attendono che i tessuti si disgreghino, e poi li aspirano. Le bellissime cetonie (care a Gozzano: "Disperate cetonie capovolte", uno dei più bei versi che siano mai stati composti nella nostra lingua) si nutrono solo di rose, e i non meno belli scarabei sacri, solo di escrementi bovini: il maschio ne confeziona una pallina, l' afferra fra i tarsi posteriori come tra due perni, e parte a marcia indietro spingendola e facendola rotolare, finché trova un terreno adatto a seppellirla: allora entra in scena la femmina, e vi depone un solo uovo. La larva si nutrirà del materiale (ormai non più ignobile) a cui la coppia previdente ha dedicato tanta fatica, e dopo la muta emergerà dalla tomba un nuovo scarabeo: anzi, secondo alcuni antichi osservatori, lo stesso di prima, risorto dalla morte come la Fenice. Altri scarabei si trovano nelle acque lente o stagnanti. Sono nuotatori splendidi: alcuni, chissà perché, nuotano a cerchi stretti o in spirali complicate, altri puntano in linea retta verso un' invisibile preda. Nessuno di questi ha però perduto la facoltà di volare, perché spesso la necessità li spinge ad abbandonare uno stagno che si è disseccato per trovare un altro specchio d' acqua, magari molto lontano. Una volta, viaggiando a notte su un' autostrada illuminata dalla luna, ho sentito i vetri e il tetto dell' auto bombardati come dalla grandine: era uno sciame di ditischi, lucidi, bruni ed orlati di arancio, grossi come una mezza noce, che avevano scambiato l' asfalto della strada per un fiume, e tentavano invano di ammararvi. Questi scarabei, per ragioni idrodinamiche, hanno raggiunto una compattezza e semplicità di forme che credo unica nel regno animale: visti dal dorso, sono ellissi perfette, da cui sporgono solo le zampe mutate in remi. Anche nell' eludere i pericoli e le aggressioni questi insetti "le trovano tutte". Alcune specie esotiche, grandi quanto una fava, sono dotate di una forza muscolare incredibile. Se racchiusi nella mano, si forzano la via d' uscita tra le dita; se ingoiati da un rospo (per errore! ma i rospi inghiottono ogni piccolo oggetto che vedano muoversi in linea orizzontale), non seguono la strategia di Giona ingoiato dalla balena né quella di Pinocchio e Geppetto nel ventre del Pescecane, ma semplicemente, forti delle zampe anteriori adattate a smuovere il terreno, si scavano la via di uscita attraverso il corpo dell' aggressore. Altre fughe singolari sono quelle degli elateridi, eleganti scarabei nostrani dal corpo allungato. Se presi in mano, o comunque disturbati, ripiegano zampe ed antenne e si fingono morti; ma dopo un minuto o due si sente un clic improvviso, e l' insetto scatta in aria. Per questo breve balzo, fatto per sconcertare gli aggressori, non usa le zampe: ha elaborato un curioso sistema di tensione e scatto. Nella posizione di finta morte, torace e addome non sono allineati, ma formano un piccolo angolo: si raddrizzano di colpo quando si allenta una sorta di nottolino, e l' elateride non c' è più. La luce fredda delle lucciole (sono coleotteri anche loro) non mira alla difesa, serve bensì a facilitare l' accoppiamento. È anche questa una invenzione unica fra gli animali che non vivono nell' acqua; ma ci sono superlucciole di specie diversa, le cui femmine imitano la luce ferma delle femmine delle lucciole propriamente dette, attirandone così i maschi e divorandoli appena si posano loro accanto. Da tutti questi comportamenti si ricavano impressioni complesse: stupore, curiosità, ammirazione, orrore, riso. Ma mi pare che predomini su tutte la sensazione dell' estraneità: queste piccole fortezze volanti, queste macchinette portentose i cui istinti sono programmati da cento milioni di anni, non hanno nulla a che vedere con noi, rappresentano una soluzione totalmente diversa del problema del sopravvivere. In qualche misura, o anche solo simbolicamente, noi umani ci riconosciamo nelle strutture sociali delle formiche e delle api; nell' industria del ragno; nella danza delle farfalle: ma ai beetles, veramente, non ci lega nulla, neppure le cure parentali, poiché fra i coleotteri è rarissimo che una madre (e tanto meno un padre) veda la prole prima di morire. Sono loro i diversi, gli alieni, i mostri. Non è scelta a caso l' atroce allucinazione di Kafka, il cui commesso viaggiatore Gregorio, "svegliandosi una mattina da sogni agitati", si trova mutato in un enorme scarabeo, talmente disumano che nessuno della famiglia ne può tollerare la presenza. Ebbene: questi diversi hanno dimostrato mirabili capacità di adattamento a tutti i climi, hanno colonizzato tutte le nicchie ecologiche e mangiano tutto: alcuni perforano perfino il piombo e la stagnola. Hanno elaborato una corazza di straordinaria resistenza agli urti, alla compressione, agli agenti chimici, alle radiazioni. Alcuni fra loro scavano nel suolo rifugi profondi metri. Nel caso di una catastrofe nucleare, sarebbero i migliori candidati alla nostra successione (non gli stercorari, per mancanza di materia prima). Oltre a tutto, la loro tecnologia è ingegnosa ma rudimentale ed istintiva; da quando il pianeta sarà loro, dovranno ancora passare molti milioni di anni prima che un beetle particolarmente amato da Dio, al termine dei suoi calcoli, trovi scritto sul foglio, in lettere di fuoco, che l' energia è pari alla massa moltiplicata per il quadrato della velocità della luce. I nuovi re del mondo vivranno tranquilli a lungo, limitandosi a divorarsi e a parassitarsi fra loro su scala artigianale.

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Il libro si chiama "Shulkhàn Arùkh" ("La tavola imbandita"); è stato scritto in ebraico (ma io l' ho letto in traduzione) nel xvi secolo da un rabbino spagnolo; benché abbia mole considerevole, è il compendio di molte opere precedenti, e contiene in sostanza le regole, le usanze e le credenze dell' ebraismo del suo tempo. È diviso in quattro parti, che riguardano rispettivamente: le prescrizioni giornaliere, il Sabato e le feste; il cibo, il denaro, la purezza e il lutto; il matrimonio; la legislazione rabbinica civile e penale. L' autore, Joseph Caro, era sefardita ed ignorava le regole e gli usi degli ebrei orientali; perciò il testo fu ripreso successivamente dal famoso rabbino Moses Isserles di Cracovia, che ne scrisse un commento, argutamente intitolato La Tovaglia, col quale si proponeva di colmarne le lacune e renderlo adatto al lettore askenazita. All' ebreo, com' è noto, è fatto divieto di pronunciare il nome "vero" di Dio: esso viene bensì stampato nei libri, ma nella lettura deve essere sostituito da sinonimi. Di norma è lecito pronunciare la parola "Dio" in lingue diverse dall' ebraico (ma ho conosciuto un ebreo tedesco che, per estrema reverenza e timore di peccare, nelle sue lettere scriveva Gtt in luogo di Gott; lo stesso fanno, scrivendo D-o anziché Dio, i pochi seguaci italiani del rabbino Lubavic), tuttavia gli autori della Tavola e della Tovaglia si preoccupano di quanto può avvenire ai bagni pubblici, dove la presenza di corpi umani nudi rende l' ambiente intensamente profano; perciò, ai bagni, è preferibile non pronunciare il nome di Dio "neppure in tedesco o in polacco". Come si vede, è questa certamente una chiosa di Isserles: del resto, non risulta che nel 1500 in Spagna i bagni pubblici fossero molto diffusi. Per motivi simili, nella chiusa delle lettere non si deve scrivere "adiòs", "addio", "adieu": la lettera potrebbe essere insudiciata o finire tra le immondizie. Il concetto di nudità è vasto, principalmente per quanto riguarda la donna: è nudità ogni porzione del corpo che d' abitudine sia coperta, ed altresì i capelli. È insomma nudità tutto ciò che può attirare l' attenzione dell' uomo distraendolo dal pensiero di Dio: perciò è equiparata alla nudità "anche la voce della donna che canta". La stessa tendenza all' oltranza, al "far siepe alla Legge", si osserva anche per quanto riguarda il divieto di lavorare il Sabato. I lavori fondamentali della vita rurale ed artigiana dell' epoca vengono ampliati con fantasia scatenata. È vietato pigiare l' uva: quindi anche qualsiasi "spremere", ad esempio non si può spremere la frutta; ma se il liquido che si ottiene è da gettare, allora spremere è permesso, e si può spremere e sgocciolare l' insalata. È vietato cacciare; che fare con una pulce? La si può acchiappare e gettare lontana, ma non la si deve uccidere. Cacciare è anche catturare, intrappolare: perciò, prima di chiudere una cassa o un baule, devi accertarti che non contenga mosche o tignole; se tu le rinchiudessi, avresti cacciato, anche senza averne volontà né coscienza, e avresti infranto il Sabato. Come ti dovrai condurre se, di Sabato, ti dovessi accorgere che il tuo tino perde? Non puoi tappare la falla, perché sarebbe lavoro servile; e neppure puoi pregare esplicitamente un tuo servo od amico cristiano di provvedere, perché anche far lavorare è proibito. Tanto meno puoi proporgli di ricompensarlo l' indomani, perché questo sarebbe un contratto, e di Sabato sono vietati anche i contratti. Questa è la soluzione proposta: se il danno si prospetta grave, puoi dire impersonalmente: "Se qualcuno dovesse porre riparo non avrebbe a pentirsene". Nel giorno del riposo e della letizia è anche vietato scrivere e cancellare, forse in ricordo del tempo in cui si scriveva scalpellando la pietra. Questo divieto dà origine a una casistica mirabilmente ramificata. Non si può tracciare lettere, e neppure ghirigori, su un vetro appannato; maneggiando un libro, bisogna badare a non inciderne la copertina con l' unghia; per contro, è lecito mangiare una torta che porti scritte o disegni. Spazzare è un abradere, e quindi, con temeraria espansione del concetto, rientra fra i lavori proibiti perché comporta un cancellare: ma è permesso farlo "in modo non abituale", ad esempio usando penne d' oca in luogo della scopa. È vietato accendere un fuoco ed anche spegnerlo. Naturalmente è permesso, anzi obbligatorio, spegnere di Sabato un incendio se sono in pericolo vite umane; però, "se un abito prende fuoco, si può versare acqua sulla parte che non sta bruciando, ma non sul fuoco direttamente". L' idolatria va tenuta in abominio. Sugli idoli non si deve neppure posare lo sguardo, né avvicinarsi a loro a meno di quattro cubiti. Se, passando presso un idolo, ti si pianta una spina in un piede, non devi curvarti per toglierla, perché questo potrebbe apparire a qualcuno un gesto di ossequio: ma non ti devi curvare anche se non c' è nessuno, perché tale potrebbe sembrare il gesto a te stesso più tardi, nel ricordo. Devi allontanarti, o sederti, o almeno volgere le spalle all' idolo. A proposito del divieto di mangiare insieme carne e latte, si formulano ipotesi e soluzioni che ricordano gli studi e i problemi degli scacchisti: si immaginano cioè situazioni elegantemente improbabili, astratte, ma utili per ragionamenti sottili. Se due ebrei pii mangiano alla stessa tavola, e uno consuma carne e l' altro latticini, devono tracciare un segno sulla tovaglia per dividere i due campi, o comunque segnare un confine. Non devono bere allo stesso bicchiere, perché vi possono aderire tracce di cibo. Se insieme con la carne si prepara un piatto con "latte" di mandorle, bisogna lasciarvi dentro alcune mandorle intere, affinché sia evidente che non si tratta di latte vero. Che dire di questo labirinto? Frutto di altri tempi? Ingegno e tempo sprecati? Degradazione del sentimento religioso a regolamento massiccio? Questa "Tavola imbandita" è da buttare, da dimenticare o da difendere? E se è da difendere, come? Io non penso che ci si possa scrollare di dosso questo libro, e in generale il rito, con un' alzata di spalle, come si fa con le cose che non ci riguardano. Il rito, ogni rito, è un condensato di storia e di preistoria: è un nocciolo dalla struttura fine e complessa, è un enigma da risolvere; se risolto, ci aiuterà a risolvere altri enigmi che ci toccano più da vicino. E inoltre, i Mani sono pure qualcosa. Ma, oltre a questo, sento in questa "Tavola" un fascino che è di tutti i tempi, il fascino della subtilitas, del gioco disinteressato dell' ingegno: spaccare capelli in quattro non è mestiere da perdigiorno, ma allenamento mentale. Dietro a queste pagine curiose percepisco un gusto antico per la discussione ardita, una flessibilità intellettuale che non teme le contraddizioni, anzi le accetta come un ingrediente immancabile della vita; e la vita è regola, è ordine che prevale sul Caos, ma la regola ha pieghe, sacche inesplorate di eccezione, licenza, indulgenza e disordine. Guai a cancellarle, forse contengono il germe di tutti i nostri domani, perché la macchina dell' universo è sottile, sottili sono le leggi che la reggono, ogni anno più sottili si rivelano le regole a cui obbediscono le particelle subatomiche. È stato spesso citato il detto di Einstein: "Il Signore è sottile, ma malvagio non è"; sottili devono dunque essere, a Sua somiglianza, coloro che Lo seguono. Si nota che, tra i fisici e i cibernetici, sono molto numerosi gli ebrei originari dell' Europa orientale: che il loro esprit de finesse altro non sia se non un' eredità talmudica? Ma soprattutto, e sotto la scorza seriosa, sento in questa "Tavola" un riso che mi piace: è lo stesso riso delle storielle ebree in cui le regole vengono arditamente capovolte, ed è il riso di noi "moderni" che leggiamo. Chi ha scritto che pizzicare una pulce è un cacciare, o che aprire di Sabato un libro che porti una scritta sul taglio è probabilmente illecito (perché così facendo si cancella un messaggio scritto), ha riso scrivendo come noi ridiamo leggendo: non era diverso da noi, anche se lui si occupava di distinguere i lavori leciti dagli illeciti, e noi di bilanci aziendali o di cemento armato o di codici alfanumerici.

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Non che il desolato messaggio dell' "Elogio" abbia perso valore. Anche per noi, se ci limitiamo ai passeracei che ci sono famigliari, quelli dei nostri orti, colli e giardini, gli uccelli sono "le più liete creature del mondo". Ci appaiono felici perché hanno avuto in sorte il canto e il volo, e tali apparivano a Leopardi anche perché la Natura, che li ha dotati di sensi acutissimi, avrebbe donato loro altresì "un grandissimo uso d' immaginativa", ma non "profonda, fervida e tempestosa", bensì leggera e varia come quella dei bambini, a cui gli uccelli sono vicini anche per la loro vivacità continua e apparentemente inutile. Secondo Leopardi, è loro possibile essere lieti perché sono sciolti dalla consapevolezza della vanità della vita. Perciò non conoscono la noia, afflizione propria dell' uomo cosciente, e tanto più dolorosa per lui quanto più egli si è allontanato dalla natura. Inoltre, sono protetti contro gli estremi freddi e caldi, e se l' ambiente si fa loro ostile, migrano fino a trovare migliori condizioni di vita. Ma, anche se indipendenti, e liberi per antonomasia, sono pure sensibili alla presenza dell' uomo, e la loro voce è più gentile là dove più gentili sono i costumi dell' umanità. Questo loro canto, in cui il Leopardi vede la peculiarità degli uccelli, e il segno della loro condizione felice, è gratuito, è un canto-riso, "dimostrazione di allegrezza", capace di trasmettere questa allegrezza a chi lo ascolta, "facendo continue testimonianze, ancorché false, della felicità delle cose". Anche l' irrequietudine degli uccelli, il loro "non ... stare mai fermi della persona", è una pura manifestazione di gioia, avviene "senza necessità veruna", ed il loro volare è "per sollazzo". A conclusione, il Leopardi, o più precisamente il fittizio filosofo antico a cui l' "Elogio" viene attribuito, vorrebbe (ma solo "per un poco di tempo") "essere convertito in uccello, per provare quella contentezza e letizia della loro vita". Sono pagine limpide e ferme, valide in ogni tempo, la cui forza viene dal confronto costante, ma inespresso, con la miseria della condizione umana, con la nostra essenziale mancanza di libertà simboleggiata dal nostro gravare sulla terra. Tuttavia ci si può porre la domanda di come Leopardi le avrebbe scritte se, invece di fondarsi sul Buffon, e di limitarsi agli uccelli di cui ascoltava il canto nelle lunghe sere del suo borgo, avesse letto ad esempio i libri di Konrad Lorenz ed avesse esteso la sua attenzione ad altre specie di uccelli. Io credo che, in primo luogo, avrebbe abbandonato ogni tentativo di comparare gli uccelli con gli uomini. Attribuire agli animali (escluso forse il cane ed alcune scimmie) sentimenti quali la gaiezza, la noia, la felicità, è ammissibile solo in sede poetica, altrimenti è arbitrario ed altamente fuorviante. Altrettanto si può dire sull' interpretazione del canto degli uccelli: gli etologi ci spiegano che esso, specialmente se solitario e melodico (e quindi a noi più gradito), ha un significato ben preciso, di difesa territoriale e di ammonimento a possibili rivali o invasori. Assai più che al riso dell' uomo, sarebbe quindi paragonabile a manufatti umani poco amichevoli, quali le recinzioni e le cancellate con cui i proprietari circondano i loro possedimenti, o le insopportabili sirene elettroniche destinate ad allontanare i ladri dagli appartamenti. Quanto alla vivacità degli uccelli (di alcuni: altri, ad esempio i trampolieri, sono piuttosto tranquilli), si tratta di una soluzione obbligata a un problema di sopravvivenza: la si osserva soprattutto negli uccelli che si nutrono di semi o di insetti, e che quindi sono costretti ad un' attività frenetica per la ricerca del cibo, che è sparpagliato su vaste aree e spesso poco visibile; e d' altra parte l' alta temperatura del corpo e la fatica del volo obbligano questi uccelli a mangiare molto. Come si vede, è un circolo vizioso: faticare per procurarsi il cibo, mangiare molto per riparare i danni della fatica; un circuito chiuso non sconosciuto a buona parte del genere umano. Con queste osservazioni riduttive non ho affatto cercato di dimostrare che l' ammirazione per gli uccelli non sia giustificata. Lo è pienamente, anche se si accettano le spiegazioni che gli scienziati (non senza polemiche fra loro) ci vanno fornendo: anzi, soprattutto se le si accettano; ma si sposta su virtù diverse e più sottili. Come non ammirare, ad esempio, l' adattabilità degli storni? Fortemente gregari, abitavano da sempre le campagne coltivate, dove talvolta depredavano in misura massiccia le vigne e gli uliveti. Da non molti decenni hanno scoperto le città: pare che si siano installati a Londra nel 1914, e da pochi anni sono arrivati a Torino. Qui hanno scelto come dormitori invernali alcuni grandi alberi, in piazza Carlo Felice, in corso Turati e altrove, i cui rami, quando d' inverno sono spogli, a sera sembrano sovraccarichi di strani frutti nerastri. All' alba partono in reggimenti serrati "per il lavoro", cioè per i campi al di là della cintura industriale; rincasano al tramonto, in stormi giganteschi, di migliaia di individui, seguiti da ritardatari sparsi. Visti da lontano, questi voli sembrano nuvole di fumo: ma poi, a un tratto, si esibiscono in evoluzioni stupefacenti, la nuvola diventa un lungo nastro, poi un cono, poi una sfera; infine si ridistende, e come una enorme freccia punta sicura verso il ricovero notturno. Chi comanda l' esercito? E come trasmette i suoi comandi? I rapaci notturni sono straordinarie macchine da preda. Il loro aspetto inconsueto, ed un po' goffo quando sono a riposo, ha sempre destato curiosità, e qualche volta avversione. Hanno volo silenzioso, artigli potenti e grandi occhi frontali, che conferiscono loro un aspetto vagamente umano; ma anche gli occhi più grandi e sensibili sono ciechi quando l' oscurità è completa. Eppure, è stato osservato in esperimenti rigorosi che un gufo è capace di ghermire fulmineamente un sorcio, anche nel buio totale, purché questo produca un minimo rumore. Certamente la localizzazione avviene attraverso l' udito, e probabilmente entra in gioco l' asimmetria degli orecchi dell' uccello che da tempo era stata osservata: ma come i segnali acustici vengano elaborati è per ora un mistero. Anche più fitto è il mistero sull' orientamento degli uccelli. Si sa che non tutti gli uccelli migratori si orientano allo stesso modo, e che molti dispongono allo stesso tempo di strategie diverse, e si servono dell' una o dell' altra a seconda delle condizioni ambientali; certamente entrano in gioco i riferimenti geografici a terra e la posizione del sole; probabilmente anche il campo magnetico terrestre e il senso dell' olfatto. Ma si rimane attoniti, e percossi da una meraviglia quasi religiosa, nel leggere che alcuni migratori, che volano solo nelle notti serene, non solo orientano il loro volo sulle stelle, ma dalla configurazione del cielo ricavano con precisione il punto in cui si trovano, o in cui sono stati trasportati in sede di esperimento; e che sono capaci di tanto non solo gli uccelli che già hanno seguito lo stormo in precedenti migrazioni, ma anche individui giovani al loro primo volo. Tutto va insomma come se nascessero già in possesso di una mappa celeste e di un orologio interno indipendente dall' ora locale, stipati in un cervello che pesa meno di un grammo. Non minore è la meraviglia davanti al comportamento del cuculo, che alla luce della nostra morale umana appare dettato da un' astuzia perversa. Invece di costruire un nido, la femmina depone l' uovo nel nido di un uccello più piccolo; la coppia titolare del nido spesso (non sempre) non si accorge dell' intrusione, cova l' uovo estraneo insieme con i propri e il piccolo cuculo schiude. Appena nato, ancora implume e cieco, possiede già una sensibilità e intolleranza specifiche: non sopporta altre uova accanto a sé. Si rigira, si sforza, spinge, finché non ha fatto cadere a terra tutte le uova dei suoi fratelli putativi. I due "genitori" lo imboccheranno affannosamente per giorni e giorni, finché il pulcino sarà assai più grande di loro. Sembra di leggere un cattivo feuilleton, e non si sa se stupirsi di più per la perfezione degli istinti del cuculo, o per la mancanza di tali istinti nei suoi ospiti involontari: ma anche nei giochi della natura ci deve pur essere un vincente e un perdente. Gli uccelli, insomma, come altri animali, non sanno fare tutte le cose che facciamo noi, ma sanno farne altre che noi non sappiamo fare, o non altrettanto bene, o solo se aiutati da strumenti. Se l' esperimento che Leopardi sognava potesse essere realizzato, rientreremmo nelle nostre spoglie umane con parecchie frecce in più al nostro arco.

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Non credo che in vita sua abbia mai letto un libro; il suo mondo era delimitato dalla casa e dalla bottega, distanti tra loro non più di quattrocento metri, che lui percorreva a piedi quattro volte al giorno. Era un abile uomo d' affari, e in casa un altrettanto abile cuoco, ma andava in cucina solo nelle grandi occasioni, per confezionare vivande raffinate ed indigeste; allora ci stava tutta la giornata, e mandava via tutte le donne, moglie, figlie e domestiche. Il personale del negozio era una curiosa collezione di esemplari umani anomali. Su uno sfondo scolorito di commessi avventizi spesso rinnovati spiccava la mole perenne e bonaria di Tota Gina, la cassiera. Faceva corpo unico con la cassa, col registratore di cassa, e con l' alta pedana su cui la cassa riposava. Dal di sotto, si vedeva il suo seno maestoso, che invadeva tutto il pianale della scrivania e debordava ai margini come la pasta di casa. Aveva i denti d' oro e d' argento, e ci regalava le pastiglie Leone. Monsù Ghiandone pizzicava la erre e portava la parrucca. Monsù Gili portava cravatte sgargianti, correva dietro alle donne e si ubriacava. Francesco (niente Monsù: era l' uomo di fatica) veniva dal Monferrato e lo chiamavano S-ciapalfàr, Spaccailferro, perché una volta era stato aggredito, aveva divelto una di quelle lunghe manovelle che servono ad alzare i tendoni avvolgibili, ed aveva rotto la testa dell' assalitore. Sapeva camminare sulle mani, faceva la ruota, e dopo l' ora della chiusura faceva anche il salto mortale al di sopra del bancone di vendita. Insieme col nonno e con i commessi, vendevano stoffe anche due miei zii, che probabilmente avrebbero desiderato fare qualche altro mestiere; ma l' autorità del nonno, mai espressa con parole dure né tanto meno con ordini, era tuttavia indiscussa e indiscutibile. Fra di loro, i venditori comunicavano in piemontese, intercalando però nella parlata una ventina di termini tecnici che i clienti (anzi, le clienti: erano quasi tutte donne) non avrebbero dovuto decifrare, e costituivano un microgergo scheletrico, un codice elementare ma essenziale, le cui voci venivano sussurrate velocemente ed a fior di labbra. Ne facevano parte, in primo luogo, i numerali: ridotti per semplicità ad una filza di cifre, naturalmente cifrate, servivano al nonno per trasmettere al commesso quale prezzo (ridotto, o viceversa rincarato) praticare a questa o quella cliente; infatti, i prezzi non erano fissi, ma variavano in funzione della simpatia, della solvibilità, dell' eventuale parentela e di altri fattori imprecisabili. "Missià" era una cliente noiosa; "te5rdesun" ("tredici-uno") era la cliente del tipo più temuto, quella che fa tirar giù dai ripiani quaranta pezze, discute il prezzo e la qualità per due ore, e poi se ne va senza comprare. In tempo storico, il termine venne decifrato appunto da una te5rdesun, che fece una piazzata, e fu sostituito con l' equivalente "savoia", che a sua volta non durò a lungo. Altre voci valevano semplicemente "sì", "no", "tieni duro", "molla". Il nonno intratteneva rapporti cordiali, ma diplomaticamente complessi, con diversi concorrenti, alcuni dei quali erano anche suoi lontani parenti. Si scambiavano da negozio a negozio visite amichevoli che erano a un tempo missioni di spionaggio, combinavano pranzi domenicali omerici, e si chiamavano a vicenda Signor Ladro e Signor Imbroglione. Anche i rapporti con i commessi erano ambivalenti: in bottega, erano di sudditanza assoluta; ma qualche volta, nelle domeniche della buona stagione, il nonno li invitava a gite sociali alla birreria Boringhieri (nell' attuale piazza Adriano). Una volta, eccezionalmente, fino a Beinasco col trenino. Prive di ombre erano invece le relazioni con gli altri commercianti che in via Roma e dintorni vendevano scarpe, biancheria, gioielli, mobili, abiti da sposa. Il nonno mandava il più giovane e svelto dei commessi alla stazione di porta Nuova, ad aspettare i treni che arrivavano dalla provincia: doveva adocchiare le coppie di promessi sposi che venivano a Torino per gli acquisti, e pilotarli in bottega. Ma, una volta ultimato l' acquisto delle stoffe, la missione del giovane non era finita: doveva rimorchiare la coppia alla bottega degli altri commercianti consorziati, i quali, naturalmente, si erano organizzati per restituire il servizio. A Carnevale, il nonno invitava tutti i nipoti ad assistere alla sfilata dei carri allegorici dal balcone del magazzino. A quel tempo, via Roma era lastricata con deliziose mattonelle di legno, su cui gli zoccoli ferrati dei cavalli da tiro non slittavano, ed era percorsa dai binari del tram elettrico. Il nonno ci procurava un adeguato rifornimento di coriandoli, ma ci vietava di lanciare stelle filanti, specie nei giorni umidi: circolava infatti la leggenda di un bambino che aveva gettato una stella filante bagnata al di sopra del filo del tram, ed era rimasto fulminato. A Carnevale, per eccezione, veniva sul balcone del negozio anche la nonna: era una donnina fragile, che però portava in viso l' aria regale delle madri di molti figli, e già in vita aveva l' espressione assorta e fuori del tempo che esala dai ritratti degli antenati nelle loro grandi cornici. Lei stessa proveniva da una sterminata famiglia di ventun fratelli, che si erano dispersi come i semi di tarassaco nel vento: uno era anarchico e profugo in Francia, uno era morto nella Grande Guerra, uno era un celebre canottiere e nevropatico, ed uno (si raccontava sottovoce a con raccapriccio) quando ancora era a balia era stato divorato in culla da un maiale.

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Di Guido ho perso le tracce, e non so quindi chi di noi due abbia riportato la vittoria nella gara di gran fondo della vita; ma non ho dimenticato quello strano legame che forse amicizia non era, e che ci ha uniti e divisi. Nel mio ricordo la sua immagine è rimasta così, fissata come in un' istantanea: nudo in piedi sull' assurdo banco del liceo, simmetrico allo scheletro osceno di cui il professore stava esponendoci l' inventario; procace, dionisiaco ed oppostamente osceno, monumento effimero del vigore terrestre e dell' insolenza.

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Il primo segreto è il riposo nel cassetto, e credo che abbia valore generale. Fra la prima stesura e quella definitiva, deve passare qualche giorno; per ragioni che ignoro, per un certo tempo l' occhio di chi scrive è poco sensibile al testo recente. Bisogna, per così dire, che l' inchiostro si sia asciugato bene; prima, i difetti sfuggono: ripetizioni, lacune logiche, improprietà, stonature. Un ottimo surrogato al riposo può essere costituito da un lettore-cavia, dotato di buon senso e buon gusto, non troppo indulgente: il / la coniuge, un amico / _a. Non un altro scrittore: uno scrittore non è un lettore tipo, ha sue preferenze e fisime peculiari, davanti a un testo brutto è sprezzante, davanti a uno bello è invidioso. A questo precetto del riposo sto contravvenendo in questo stesso momento, perché appena scritta questa lettera la imposterò; così Lei potrà verificarne la validità. Dopo la maturazione, che assimila uno scritto al vino, ai profumi ed alle nespole, viene l' ora di cavare dal pieno. Quasi sempre ci si accorge che si è peccato per eccesso, che il testo è ridondante, ripetitivo, prolisso: o almeno, ripeto, così capita a me. Inguaribilmente, nella prima stesura io mi indirizzo ad un lettore ottuso, a cui bisogna martellare i concetti in testa. Dopo lo smagrimento, lo scritto è più agile: si avvicina a quello che, più o meno consapevolmente, è il mio traguardo, quello del massimo di informazione con il minimo ingombro. Noti che al massimo di informazione si può arrivare per diverse vie, alcune abbastanza sottili; una, fondamentale, è la scelta tra i sinonimi, che quasi mai sono equivalenti fra loro. Ce n' è sempre uno che è "più giusto" degli altri: ma spesso bisogna andarlo a cercare, a seconda del contesto, nel vecchio Tommaseo, o fra i neologismi del Nuovo Zingarelli, o fra i barbarismi stupidamente vietati dai tradizionalisti, o addirittura fra i termini di altre lingue; se il termine italiano manca, perché fare acrobazie? In questa ricerca, mi pare che sia importante mantenere viva la consapevolezza del significato originario di ogni vocabolo; se Lei ricorda ad esempio che "scatenare" voleva dire "liberare dalle catene", potrà usare il termine in modo più appropriato ed in sensi meno frusti. Non tutti i lettori si accorgeranno dell' artificio, ma tutti percepiranno almeno che la scelta non è stata ovvia, che Lei ha lavorato per loro, che non ha seguito la linea della massima pendenza. Dopo novant' anni di psicoanalisi, e di tentativi riusciti o falliti di travasare direttamente l' inconscio sulla pagina, io provo un bisogno acuto di chiarezza e razionalità, e credo che la maggior parte dei lettori la pensino allo stesso modo. Non è detto che un testo chiaro sia elementare; può avere vari livelli di lettura, ma il livello più basso, secondo me, dovrebbe essere accessibile ad un pubblico vasto. Non abbia paura di fare un torto al Suo es imbavagliandolo, non c' è pericolo, "l' inquilino del piano di sotto" troverà comunque il modo di manifestarsi, perché scrivere è denudarsi: si denuda anche lo scrittore più pulito. Se denudarsi non Le piace, si accontenti del Suo lavoro attuale. Dimenticavo di dirLe che, per scrivere, bisogna avere qualche cosa da scrivere. Gradisca i migliori saluti. Suo Primo Levi

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