Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNIFI

Risultati per: abbia

Numero di risultati: 14 in 1 pagine

  • Pagina 1 di 1

La ricerca delle radici

680342
Levi, Primo 3 occorrenze

Il romanzo di Roger Vercel è un caso particolare: credo che abbia un suo valore intrinseco, ma è importante per me per mie ragioni private, simboliche e pregnanti, perché l' ho letto in un giorno (il 1. gennaio 1945) in cui aspettavo di morire. Trenta autori cavati fuori da trenta secoli di messaggi scritti, letterari e non, sono una goccia in un oceano. Molte omissioni sono dovute ai limiti di spazio, ad una eccessiva specializzazione, o alla netta coscienza che la mia predilezione è patologica, è un' incapricciatura, un pallino, magari permanente e giustificabile chissà come, ma non trasmissibile. Altre omissioni sono più gravi, e vengono da una mia sordità, o insensibilità, o blocco emotivo, di cui sono consapevole e non fiero. Le inimicizie sono inesplicabili quanto le amicizie: confesso di aver letto Balzac e Dostoevskij per dovere, tardi, con fatica e scarso profitto. Ho omesso altri testi, specie se poetici, per la ragione opposta: non mi sono sentito di proporre autori stranieri che mi sono cari, e che scrivono in lingue che io conosco (Villon, Heine, Lewis Carroll), perché le traduzioni esistenti mi sembrano riduttive senza che io mi senta capace di farne di migliori; e se non ne conosco la lingua (molti russi, i lirici greci), perché so gli inganni che si annidano nelle traduzioni. In altri casi ancora, è certamente entrato in gioco un effetto di soglia, di barriera: si trattava di superare uno sbarramento (di lingua, di stile, di carattere, di ideologia), dopo il quale avrei trovato terreno piano; non ho fatto il passo decisivo per pigrizia, per pregiudizio o per mancanza di tempo. Se lo avessi fatto, mi sarei forse procurato un nuovo amico, avrei aggiunto una provincia al mio territorio, meravigliosa per definizione, perché ogni terra inesplorata è meravigliosa. Mia colpa: devo confessarlo, preferisco andare sul sicuro, fare un buco e poi rosicchiare dentro a lungo, magari per tutta la vita, come fanno i tarli quando hanno trovato un legno di loro gusto. E ci sono infine, beninteso, lacune anche più grosse, vuoti senza fondo, che sono vuoti miei, di una cultura autogestita, sbilanciata, faziosa, domenicale ed anche violentata: niente di musica, niente di figurativo, poco o niente dell' universo del sentimento. Tant' è, non potevo fingere di essere chi non sono. Sia per i singoli testi ed autori, sia per i brani entro l' opera di ogni autore, la scelta è stata sincera e quasi automatica. Ho abitudine di collocare i libri preferiti, indipendentemente dal loro tema e dalla loro età, tutti sullo stesso scaffale, e tutti sono abbondantemente sottolineati nei punti che amo rileggere: così non ho avuto da lavorare molto. Adesso, a compilazione ultimata, mi accorgo di una regolarità che non era nei programmi, anche perché non avevo un programma. Tutti o quasi i brani che ho scelto contengono o sottintendono una tensione. Tutti o quasi risentono delle opposizioni fondamentali inscritte "d' ufficio" nel destino di ogni uomo cosciente: errore _ verità, riso _ pianto, senno _ follia, speranza _ disperazione, vittoria _ sconfitta. Non mi sfugge, e mi dà un leggero fastidio, il carattere lapidario-funerario di un' opera come questa e lo vorrei sdrammatizzare: contro la sua perversa abitudine, il tarlo può trovare altri legni, o sapori nuovi nei legni vecchi. Solo i morti non cambiano più e non spingono altre radici, e perciò solo i morti hanno diritto alla critica, come saviamente è stato detto: "È una massima riconosciuta dell' etica letteraria che soltanto gli scrittori morti devono essere commentati, visto che non sono più in grado di spiegare se stessi, né di perturbare le spiegazioni di coloro che si dedicano al compito piacevole, e talvolta non privo di utilità, di rendere chiaro ciò che prima era oscuro, e profondo ciò che prima era solo chiaro" (F. C. S. Schiller, nel suo Commento allo "Snark" di Lewis Carroll). Gli autori non sono disposti secondo l' ordine cronologico tradizionale delle antologie, e neppure sono raggruppati per affinità di argomento. Ho seguito approssimativamente la successione in cui mi è accaduto di conoscerli e leggerli, ma spesso ho ceduto alla tentazione del contrasto, come per inscenare dialoghi trans-secolari: come per vedere in che modo due vicini possano reagire fra loro, che cosa possa avvenire all' interfaccia (per esempio) fra Omero e Darwin, fra Lucrezio e Babel', fra Conrad il marinaio e Gattermann il chimico prudente. A Giobbe ho riservato d' istinto la primogenitura, cercando poi di trovare buone ragioni per questa scelta. Il grafo che apre l' antologia vuol suggerire quattro possibili itinerari attraverso alcuni degli autori in campo. Il giusto oppresso dall' ingiustizia Perché incominciare da Giobbe? Perché questa storia splendida e atroce racchiude in sé le domande di tutti i tempi, quelle a cui l' uomo non ha trovato risposta finora né la troverà mai, ma la cercherà sempre perché ne ha bisogno per vivere, per capire se stesso e il mondo. Giobbe è il giusto oppresso dall' ingiustizia. È vittima di una crudele scommessa fra Satana e Dio: che farà Giobbe, pio, sano, ricco e felice, se sarà toccato negli averi, e poi negli affetti familiari, e poi sulla stessa sua pelle? Ebbene, Giobbe il giusto, degradato ad animale da esperimento, si comporta come farebbe ognuno di noi: dapprima china il capo e loda Dio ("Accetteremmo da Dio il bene e non il male?"), poi le sue difese crollano. Povero, orbato dei figli, coperto di piaghe, siede tra i rifiuti grattandosi con un coccio, e contende con Dio. È una contesa disuguale: Dio creatore di meraviglie e di mostri lo schiaccia sotto la sua onnipotenza.

Pagina 000i

Il Parini è un caro galantuomo ed un poeta dagli slanci contenuti, onesto arguto e preciso, responsabile di ogni parola che abbia mai scritta. Non credeva che il mestiere di scrivere sollevasse lo scrittore al di sopra del suolo; credeva invece alla poesia come strumento per rendere il mondo un po' migliore, ma non penso che nutrisse grandi illusioni. Era uno di quegli uomini che, attraverso i secoli, desidereresti conoscere di persona, frequentare: magari a tavola, di sera, in riva a un lago, bevendo vino vecchio con moderazione. Questa sua rassegna di imbecilli rammolliti rappresenta una classe che è scomparsa, ma un tipo umano che sopravvive.

Pagina 0043

Non c' è aspetto dell' animo umano che questo poeta saturnino, ribelle fino all' eversione nei suoi versi, funzionario retrivo nella vita, non abbia ritratto. Soprattutto il sonetto "Se more" mi pare indimenticabile. Riproduce un motivo caro ai romantici, e al Belli in specie: "la pietà, nascosta sotto il riso, per gli esseri inferiori, avviliti, degradati" (G. Vigolo). Anche qui si ricava una severa lezione morale da un capovolgimento: l' uomo, qui, è crudele e stupido "come le bestie", è un balbuziente mentale, incoerente e feroce; l' asino muore una morte da martire.

Pagina 0165

Lilit

682030
Levi, Primo 11 occorrenze

Non credo di aver ringraziato Eddy, ma dopo di allora, pur senza provare alcuna attrazione positiva per i "colleghi" triangoli verdi, mi è capitato più volte di domandarmi quale sostanza umana si assiepasse dietro al loro simbolo, e di rimpiangere che nessuno della loro ambigua brigata abbia (che io sappia) raccontato la sua storia. Non so come Eddy sia finito. Poche settimane dopo il fatto che ho raccontato, scomparve per qualche giorno; poi lo abbiamo rivisto una sera, stava in piedi nel corridoio fra il filo spinato ed il reticolato elettrico, e portava appeso al collo un cartello con su scritto "Urning", e cioè pederasta, ma non sembrava né afflitto né preoccupato. Assisteva al rientro della nostra schiera con aria svagata, insolente ed indolente, come se nulla di quanto avveniva intorno a lui lo riguardasse.

Pagina 0012

Ed è inesplicabile che il destino abbia scelto un epicureo per ripetere questa favola pia ed empia, intessuta di poesia, di ignoranza, di acutezza temeraria, e della tristezza non medicabile che cresce sulle rovine delle civiltà perdute.

Pagina 0018

O almeno, credo che Bandi, benché "Zugang", abbia capito o intuito tutto questo: perché, a lettura finita, mi si accostò, si frugò a lungo nelle tasche, e ne trasse infine, con cura amorosa, un ravanello. Me lo donò arrossendo intensamente, e mi disse con timido orgoglio: _ Ho imparato. È per te: è la prima cosa che ho rubato.

Pagina 0025

Non è chiaro se l' ambiguo suocero romeno abbia agito in buona fede, oppure se abbia fiutato l' inganno e si sia vendicato preventivamente, punendo Cesare e ad un tempo liberandosi di lui. Cesare fu interrogato, spedito a Roma con foglio di via e un viatico di pane e fichi secchi, nuovamente interrogato e poi rilasciato definitivamente. È questa la storia di come Cesare sciolse il suo voto, e scrivendola qui ho sciolto un voto anch' io. Può essere imprecisa in qualche particolare, perché si fonda su due memorie (le sua e la mia), e sulle lunghe distanze la memoria umana è uno strumento erratico, specialmente se non è rafforzata da souvenirs materiali, e se invece è drogata dal desiderio (anche questo suo e mio) che la storia narrata sia bella; ma il dettaglio dei dollari falsi è certo, ed ingrana con fatti che appartengono alla storia europea di quegli anni. Dollari e sterline falsi circolavano in abbondanza, verso la fine della seconda guerra mondiale, in tutta l' Europa e in specie nei Paesi balcanici; fra l' altro, erano stati usati dai tedeschi per pagare in Turchia la spia bifronte Cicero, la cui storia è stata raccontata più volte e in vari modi: anche qui, dunque, a risposta di un inganno. Si dice in proverbio che il denaro è lo sterco del diavolo, e mai denaro è stato più stercorario e più diabolico di quello. Esso veniva stampato in Germania, per inflazionare la circolazione monetaria in campo nemico, per seminare sfiducia e sospetto, e per "pagamenti" del tipo di quello accennato. In buona parte, a partire dal 1942, queste banconote erano prodotte nel Lager di Sachsenhausen, dove le SS avevano radunato circa centocinquanta prigionieri d' eccezione: erano grafici, litografi, fotografi, incisori e falsari che costituivano il "Kommando Bernhard", piccolo Lager segretissimo di "specialisti" entro la recinzione del più grande Lager, abbozzo delle saraski staliniane che saranno descritte da Solzenicyn in "Il primo cerchio". Nel marzo 1945, davanti all' incalzare delle truppe sovietiche, il Kommando Bernhard fu trasferito in blocco, dapprima a Schlier-Redl-Zipf, poi (il 3 maggio 1945, a pochi giorni dalla capitolazione) a Ebensee: erano entrambi Lager dipendenti da Mauthausen. Pare che i falsari abbiano lavorato fino all' ultimo giorno, e che poi le matrici siano state gettate in fondo a un lago.

Pagina 0062

Si direbbe che non abbia mai sparato un colpo: intorno ad essa non abbiamo rinvenuto neanche un bossolo. Abbiamo trovato invece su Kaenunu, incastrato fra due macigni, uno staffile, testimone di una inesplicabile violenza. Kaenunu è oggi sostanzialmente deserta. Su Mahui, invece, chi si armi di pazienza e disponga di vista buona non è raro che possa avvistare qualche atoùla, o più sovente una delle loro femmine, una nacunu. Se si escludono i casi ben noti di alcuni animali domestici, è forse questa l' unica specie animale in cui il maschio e la femmina siano stati designati con nomi diversi, ma il fatto trova spiegazione nel netto dimorfismo sessuale che li caratterizza, e che è certamente unico fra i mammiferi. Questa singolarissima specie di roditori si trova solo sulle due isole. Gli atoùla, cioè i maschi, sono lunghi fino a mezzo metro e pesano dai cinque agli otto chili. Hanno pelo grigio o bruno, coda molto corta, muso appuntito e munito di vibrisse nere, brevi orecchie triangolari; il ventre è nudo, roseo, appena velato da una rada peluria, il che, come vedremo, non è privo di significato evolutivo. Le femmine, di peso alquanto superiore, sono più lunghe e più robuste dei maschi: hanno movimenti più rapidi e sicuri, e a quanto riferiscono i cacciatori malesi anche i loro sensi sono più sviluppati, soprattutto l' olfatto. Il pelame è totalmente diverso: le nacunu, in tutte le stagioni, portano una vistosa livrea di un nero lucido, solcata da quattro striature fulve, due per parte, che dal muso attraversano i fianchi e si congiungono in prossimità della coda, che è lunga e folta, e dal fulvo sfuma all' arancio, al rosso acceso, o al porpora, a seconda dell' età dell' animale. Mentre i maschi, sullo sfondo delle pietraie in cui soggiornano, sono quasi invisibili, le femmine invece si notano di lontano, anche perché è loro abitudine dimenare la coda alla maniera dei cani. I maschi sono torpidi e pigri, le femmine agili ed attive. Gli uni e le altre sono muti. Fra gli atoùla non esiste accoppiamento. Nella stagione degli amori, che dura da settembre a novembre, e coincide quindi col periodo di maggior siccità, i maschi, al levar del sole, si inerpicano sulla cima delle alture, talvolta anche sugli alberi più alti, non senza contese per la conquista delle postazioni più elevate. Vi sostano, senza mangiare né bere, per tutta la durata del giorno: volgono il dorso al vento, e nel vento stesso emettono il loro seme. Questo è costituito da un liquido fluido, che nell' aria calda e secca evapora rapidamente, e si spande sottovento in forma di una nube di polvere sottile: ogni granello di questa polvere è uno spermio. Siamo riusciti a raccoglierli su lastrine di vetro spalmate d' olio: gli spermi degli atoùla sono diversi da quelli di tutte le altre specie animali, e sono piuttosto da assimilarsi ai granelli dei pollini delle piante anemofile. Non hanno filamento caudale, ed invece sono ricoperti da minuti peli ramificati ed aggrovigliati, per cui possono essere trascinati dal vento a distanze rilevanti. Nel viaggio di ritorno, ne abbiamo raccolti a 130 miglia dalle isole, e secondo ogni apparenza erano vitali e fertili. Durante l' emissione del seme gli atoùla si mantengono immobili, ritti sulle anche, con le zampe anteriori ripiegate, scossi da un lieve tremito che forse ha la funzione di accelerare l' evaporazione del liquido seminale dalla superficie glabra del loro ventre. Quando il vento muta improvvisamente (evento frequente in quelle latitudini) è singolare lo spettacolo degli innumerevoli atoùla, ciascuno eretto sulla sua prominenza, che tutti si orientano simultaneamente nella nuova direzione, come le banderuole che un tempo si ponevano sul culmine dei tetti. Appaiono intenti e tesi, e non reagiscono agli stimoli: un simile comportamento è spiegabile solo se si ricorda che questi animali non sono minacciati da alcun predatore, che altrimenti ne avrebbe facilmente ragione. Anche i cacciatori malesi li rispettano; secondo alcuni di essi, perché una antica tradizione li ritiene sacri a Hatola, il loro dio del vento, da cui addirittura trarrebbero il nome; secondo altri, semplicemente perché la loro carne, in questo periodo, provocherebbe una imprecisata malattia dell' intestino. Nella stagione della disseminazione, alla fissità dei maschi fa contrasto l' estrema mobilità delle femmine. Guidate dalla vista e dal fiuto, veloci ed inquiete, si spostano da un punto all' altro della brughiera; non cercano di avvicinarsi ai maschi né di portarsi come loro sui luoghi più elevati ; sembrano alla ricerca delle posizioni in cui meglio le avvolga l' invisibile pioggia del seme, e quando ritengono di averle trovate vi si fermano rigirandosi voluttuosamente , ma non più che per qualche minuto: subito se ne strappano con un agile balzo e riprendono la loro danza, su e giù per le pietraie e la brughiera. In quei giorni l' intera isola brulica delle fiamme aranciate e violette delle loro code, e il vento si carica di un odore acuto, muschiato, stimolante ed inebriante, che trascina in una ridda senza scopo tutti gli animali dell' isola. Gli uccelli si levano in volo stridendo, si aggirano in cerchi, puntano verso il cielo come impazziti e poi si lasciano precipitare come sassi; i topi saltatori, che di norma è solo possibile intravvedere nelle notti di luna, minuscole ombre inafferrabili, escono allo scoperto, abbagliati ed inetti nello splendore del sole, e si possono acchiappare con le mani; perfino le serpi sgusciano come allucinate dalle loro tane, si ergono sugli ultimi anelli e sulle code, e dimenano le teste come se seguissero un ritmo. Anche noi, nelle brevi notti che interrompevano quei giorni, abbiamo sperimentato sonni irrequieti, gremiti di sogni variopinti ed indecifrabili. Non siamo riusciti a stabilire se quest' odore che pervade l' isola promani direttamente dai maschi, o se invece venga secreto dalle ghiandole inguinali delle nacunu. La loro gravidanza dura circa trentacinque giorni. Il parto e l' allattamento non presentano nulla di notevole; i nidi, costruiti con sterpi al riparo di qualche roccia, vengono apprestati dai maschi, e rivestiti all' interno con muschio, foglie, talora con sabbia: ogni maschio ne prepara più d' uno. Le femmine prossime al parto si scelgono ciascuna il suo nido, esaminandone diversi con attenzione ed esitazione, ma senza controversie. I "figli del vento" che nascono, da cinque a otto per figliata, sono minuscoli ma precoci: poche ore dopo il parto escono già nel sole, i maschi imparano subito a presentare il dorso al vento come i loro padri, e le femmine, benché ancora sprovviste di livrea, si esibiscono in una comica parodia della danza delle madri. Dopo soli cinque mesi, atoùla e nacunu sono sessualmente maturi, e già vivono in branchi separati, in attesa che la prossima stagione di vento prepari le loro nozze aeree e lontane.

Pagina 0140

Isidora mi pare che abbia un po' troppa simpatia per i cristiani, anche se fino ad ora non mi risulta che si sia battezzata; però viene con me al Mitreo, voglio dire nella grotta di Mitra, e quando uccidono il toro per l' aspersione col sangue sta a vedere, e non mi sembra che le dispiaccia, anzi ho l' impressione che fra non molto accetterà di farsi iniziare. Non lasciarti spaventare dalle notizie che vengono dai confini. Qui corrono voci terribili su quanto succede nel paese dei Daci e in quello dei Parti, e io sono convinto che laggiù racconteranno invece che noialtri siamo stati tutti massacrati. Per contro, non c' è paese più tranquillo di questo: le sentinelle non dànno l' allarme quasi mai, e quando lo dànno, è quasi sempre un daino o un cinghiale, che il giorno dopo finisce arrosto. Figurati che la settimana passata una delle mie sentinelle, che poi è un veterano con non meno di dieci anni di servizio alla frontiera, ha svegliato il campo per un' oca selvatica, e allora io ho dovuto farlo fustigare. Tutti noi anziani, sposati o no, siamo sistemati abbastanza bene. Abbiamo ciascuno una cameretta, e tutte le camerette sono messe in fila e collegate da un corridoio. In ogni cameretta c' è un braciere, su cui si può fare un po' di cucina privata, e una veranda; il braciere lo usiamo molto, e la veranda poco. Abbiamo anche una lavanderia e un' infermeria per i malati. Le mogli sono tutte britanne, così non litigano fra loro: i bambini invece non fanno che litigare rotolandosi nel fango, ma la gente del luogo dice che il fango fa bene: in effetti, le malattie sono rare. Cara mamma, scrivimi e mandami notizie del paese: il servizio postale è discreto, le tue lettere mi arrivano in sessanta giorni, ed in poco più di sessanta giorni mi è arrivato anche il tuo pacco. Questo è il paese della lana, ma la lana di qui non è morbida e pulita come quella che fili tu. Ti ringrazio con affetto filiale: ogni volta che infilerò quelle calze, il mio pensiero volerà a te.

Pagina 0151

È un' arte antica, e perciò nobile: la sua testimonianza più remota è in Genesi 6.14, dove si narra come, in conformità a una precisa specificazione dell' Altissimo, Noè abbia rivestito (verosimilmente a pennello) l' interno e l' esterno dell' Arca con pece fusa; ma è anche un' arte sottilmente frodolenta, come quella che tende a occultare il substrato conferendogli il colore e l' apparenza di ciò che non è: sotto questo aspetto essa è imparentata con la cosmetica e l' adornamento, che sono arti altrettanto ambigue e quasi altrettanto antiche (Isaia ".16 sg). A chi esercita questo nostro mestiere vengono di continuo proposte le esigenze più varie: vernici elettricamente isolanti o conduttive, che trasmettano il calore o lo riflettano, che vietino ai molluschi di aderire alle carene, che assorbano il suono, o che si possano staccare dal substrato come si pela una banana. Ci chiedono vernici che impediscano al piede di scivolare, per i gradini degli aeroporti, e altre quanto è possibile scivolose, per le suole degli sci. Noi siamo dunque gente versatile e di vasta esperienza, abituati al successo e all' insuccesso, e difficili a stupirsi. Cionondimeno, ci lasciò stupiti la richiesta che ci pervenne dal nostro rappresentante di Napoli, signor Amato Di Prima: si pregiava di informarci che a un importante cliente della sua zona era stata campionata una vernice che proteggeva dalla sfortuna, e che sostituiva con vantaggio i corni, i gobbi, i quadrifogli, e gli amuleti in generale. Non gli era stato possibile intercettare altre informazioni, ad eccezione del prezzo, che era molto alto; era invece riuscito a impadronirsi di un campione che già aveva spedito per posta. Dato l' eccezionale interesse del prodotto, ci pregava istantemente di dedicare al problema la massima attenzione, si dichiarava fiducioso in una pronta risposta, e porgeva con l' occasione i più distinti saluti. Questa faccenda, del campione mirabolante che arriva per posta, insieme con la preghiera istante di dedicare eccetera (ossia, fuori dell' eufemismo, di copiarlo), fa parte del nostro lavoro, e ne costituisce forse l' aspetto più opaco. A noi piacerebbe fare di testa nostra: scegliere noi il problema, bello ed elegante, partire in caccia, avvistare la soluzione, inseguirla, incantonarla, trafiggerla, sfrondarla del troppo e del vano, realizzarla in laboratorio, poi in semiscala, poi in produzione, e ricavarne danaro e gloria; ma questo non ci riesce quasi mai. A questo mondo siamo in troppi, e i nostri colleghi-rivali in Italia, in America, in Australia, in Giappone, non dormono. Siamo sommersi dai campioni, e cederemmo volentieri alla tentazione di buttarli via o di rimandarli al mittente, se non considerassimo che anche i nostri prodotti subiscono uguale destino, diventano a loro volta mirabolanti , vengono sagacemente catturati e contrabbandati dai rappresentanti dei nostri concorrenti, analizzati, sviscerati e copiati: alcuni male, altri bene, aggiungendogli cioè una particola di originalità e d' ingegno. Ne nasce una sterminata rete di spionaggi e di fecondazioni incrociate, che, illuminata da solitari lampi creativi, costituisce il fondamento del Progresso Tecnologico. Insomma, i campioni della concorrenza non si possono buttare nel serbatoio dei fondami: bisogna proprio vedere cosa c' è dentro, anche se la coscienza professionale dà qualche segno di sofferenza. La vernice che veniva da Napoli, a prima vista, non presentava niente di speciale: l' aspetto, l' odore, il tempo di essiccazione erano quelli di un comune smalto acrilico trasparente, e l' intera faccenda puzzava d' imbroglio lontano un miglio. Lo telefonai al Di Prima, che si mostrò indignato: lui non era il tipo di mandare campioni in giro così per divertimento, quello in specie gli era costato tempo e fatica, il prodotto era interessantissimo e sulla sua piazza stava raccogliendo un successo incredibile. Documentazione tecnica? Non esisteva, non ce n' era bisogno, l' efficacia del prodotto si dimostrava da sé. A un motopeschereccio che da tre mesi tornava con le reti vuote avevano verniciato la carena, e da allora faceva delle pesche spettacolose. Un tipografo aveva miscelato la vernice con l' inchiostro da stampa: l' inchiostro copriva un po' meno, ma gli errori di tipografia erano scomparsi. Se non eravamo capaci di tirare fuori niente di buono, lo dicessimo subito ; se no, che ci dessimo da fare, il prezzo era di 7000 lire al chilo, e gli pareva che ci fosse un bel margine di guadagno; lui si impegnava a piazzarne almeno venti tonnellate al mese. Ne parlai con Chiovatero, che è un ragazzo serio e capace. Da principio storse il naso, poi ci pensò su, e arrischiò la proposta di incominciare dal semplice: di provare cioè la vernice su colture di Bacterium coli. Che cosa si aspettava? Che le colture si moltiplicassero meglio o peggio dei controlli? Chiovatero si spazientì, mi disse che non era sua abitudine mettere il carro avanti ai buoi (sottintendendo con questo che tale era la mia abitudine: il che, perdinci, non è assolutamente vero), che si sarebbe visto, che da qualche parte bisogna pure cominciare, e che "il basto si raddrizza per strada". Si procurò le colture, verniciò l' esterno delle provette, e aspettammo. Nessuno di noi era un biologo, ma non occorreva un biologo per interpretare i risultati. Dopo cinque giorni l' effetto era evidente: le colture protette si erano sviluppate in misura almeno tripla dei testimoni, che pure avevamo rivestiti con una vernice acrilica apparentemente simile a quella napoletana. Bisognava concludere che questa "portava fortuna" anche ai microrganismi: conclusione indigesta, ma, come è stato detto autorevolmente, i fatti sono una cosa ostinata. Si imponeva un' analisi approfondita, ma ognuno sa quale impresa complessa e incerta sia l' esame di una vernice: quasi come quello di un organismo vivente. Tutte le fantastiche diavolerie moderne, lo spettro infrarosso, il gas-cromatografo, l' NMR, ti aiutano fino a un certo punto, lasciano molti angoli inesplorati; e se non hai la fortuna che il componente-chiave sia un metallo, non ti resta che il naso, come ai cani. Ma un metallo là dentro c' era: un metallo fuori mano, talmente inusitato che nessuno del laboratorio ne conosceva per esperienza propria le reazioni, e che dovemmo quindi incenerire quasi l' intero campione per poterne avere in mano una quantità sufficiente a identificarlo; ma infine fu pizzicato e debitamente confermato con tutte le sue reazioni caratteristiche. Era tantalio, metallo assai rispettabile dal nome pieno di significato, mai visto prima in alcuna vernice, e quindi sicuramente responsabile della virtù che stavamo cercando. Come sempre avviene, a ritrovamento ultimato e confermato, la presenza del tantalio, e quella sua specifica funzione, cominciarono a sembrarci via via meno strane, e infine naturali, così come adesso nessuno si stupisce più dei raggi Ro5ntgen. Molino fece notare che col tantalio si fanno recipienti di reazione che resistono agli acidi più energici; Palazzoni si ricordò che serve anche a fare protesi chirurgiche assolutamente prive di reazioni di rigetto; ne concludemmo che è un metallo palesemente benefico, e che eravamo stati sciocchi a perdere tanto tempo nelle analisi: con un po' di buon senso avremmo potuto pensarci prima. In pochi giorni ci procurammo un sapone di tantalio, lo mettemmo in vernice e lo provammo sul Coli: funzionava, il risultato era raggiunto. Mandammo a nostra volta un abbondante campione di vernice al Di Prima, affinché la distribuisse ai clienti e ci desse un parere. Il parere giunse due mesi dopo, e fu entusiastico: lui stesso, Di Prima, si era verniciato dalla testa ai piedi, e poi aveva trascorso quattro ore di un venerdì, sotto una scala, in compagnia di tredici gatti neri, senza riceverne alcun danno. Provò anche Chiovatero, benché riluttante (non perché superstizioso, bensì perché scettico), e dovette ammettere che un certo effetto non si poteva negare: per due o tre giorni dopo il trattamento, aveva trovato tutti i semafori verdi, mai il telefono occupato, la sua ragazza si era riconciliata con lui, e aveva perfino vinto un modesto premio alla lotteria dell' Aci: tutto naturalmente finì dopo che ebbe fatto il bagno. A me venne in mente Michele Fassio. Fassio è un mio ex compagno di scuola a cui, fin dall' adolescenza, si sono attribuiti poteri misteriosi. Gli sono state addebitate sciagure senza fine, dalle bocciature agli esami al crollo di un ponte, a una valanga e a un naufragio: tutti dovuti, secondo l' insensata opinione dei suoi condiscepoli prima, dei suoi colleghi poi, al nefasto potere penetrante del suo occhio. Io, beninteso, a queste fandonie non ci credo, però confesso che ho sovente cercato di evitare il suo incontro. Fassio, poveretto, ha finito col crederci un poco anche lui, non si è mai sposato e si è ridotto a condurre una vita infelice, di rinunce e di solitudine. Gli scrissi, con tutta la delicatezza di cui fui capace, che io a certe sciocchezze non credevo, ma lui probabilmente sì; che, di conseguenza, io non potevo neppure credere nel rimedio che gli proponevo, ma mi pareva di dovergliene parlare ugualmente, se non altro per aiutarlo a recuperare quella sicurezza di sé che lui aveva perduta. Fassio rispose che mi avrebbe raggiunto al più presto: era disposto a sottoporsi a una prova. Prima di procedere al trattamento, e su sollecitazione di Chiovatero cercammo di renderci conto in qualche misura dei poteri di Fassio. Riuscimmo così a constatare che in effetti il suo sguardo (e solo il suo sguardo) possedeva un' azione specifica rilevabile in certe condizioni anche su oggetti inanimati. Lo invitammo a fissare per alcuni minuti un punto determinato di una lamina d' acciaio, poi introducemmo questa nella camera a nebbia salina e dopo poche ore notammo che il punto fissato da Fassio era nettamente più corroso del resto della superficie. Un monofilo di polietilene, allungato a rottura, si spezzava costantemente nel punto su cui convergeva lo sguardo di Fassio. Con nostra soddisfazione, entrambi gli effetti sparivano sia rivestendo lamiera e filo con la nostra vernice, sia interponendo fra soggetto e oggetto uno schermo di vetro previamente verniciato colla medesima. Potemmo inoltre accertare che solo l' occhio destro di Fassio era attivo: il sinistro, come del resto entrambi gli occhi miei, o di Chiovatero, non esercitavano alcuna azione misurabile. Coi mezzi di cui disponevamo, non ci fu possibile eseguire un' analisi spettrale dell' effetto Fassio se non in modo grossolano; è però probabile che la radiazione in esame abbia un massimo marcato nell' azzurro, con lunghezza d' onda di circa 425 Nm: uscirà entro pochi mesi una nostra esauriente pubblicazione sull' argomento. Ora, è noto che molti jettatori volontari usano occhiali azzurri, e non neri, e questa non può essere una coincidenza, ma il frutto di una lunga somma di esperienze recepite forse inconsapevolmente, e tramandate poi di generazione in generazione, come è avvenuto per certi rimedi della medicina popolare. In considerazione della tragica conclusione delle nostre prove, tengo a precisare che l' idea di verniciare gli occhiali di Fassio (erano normali occhiali da presbite) non è stata mia né di Chiovatero, ma di Fassio medesimo, che anzi insistette perché l' esperimento venisse fatto subito, senza perdere neppure un' ora: era molto impaziente di liberarsi dal suo triste potere. Verniciammo questi occhiali. Dopo trenta minuti la vernice era essiccata: Fassio li calzò e cadde immediatamente esanime ai nostri piedi. Il medico, che giunse poco dopo, cercò invano di rianimarlo, e ci parlò vagamente di embolo, d' infarto e di trombosi: non poteva sapere che l' occhiale destro di Fassio, concavo verso l' interno, doveva aver riflesso istantaneamente quel qualcosa che non poteva più trasmettere, e doveva averlo concentrato in un punto come in uno specchio ustorio; e che questo punto si doveva trovare in qualche angolo non precisato, ma importante, dell' emisfero cerebrale destro dell' infelice e incolpevole vittima delle nostre sperimentazioni.

Pagina 0163

Voi sapete quanto finora la Provvidenza ci abbia privilegiate. Nella mia lunga vita ho conosciuto paludi ben diverse; paludi solitarie e remote, in cui solo per occasione ed eccezione penetrava una creatura di sangue caldo, talché le loro miserabili inquiline si tenevano contente quando potevano rubare un sorso del sangue delle rane o dei pesci, freddo, viscido e vano; altre paludi ho visto, frequentate da genti selvatiche e feroci, che si ribellavano al nostro morso, che pure è sì lieve da simulare un bacio, e strappavano da sé i nostri corpi indifesi, incuranti se in così fare li laceravano, e laceravano forse in pari tempo la loro pelle medesima. Qui non è così, o finora non è stato così: non lo dimenticate. Non dimenticate il generoso e sottile disegno della Provvidenza, secondo il quale il Villano è costretto a guadare due volte al giorno queste acque per raggiungere il suo campicello all' alba e rincasare a sera. E ricordate ancora che la complessione del Villano non potrebbe essere a noi più propizia, poiché egli ha avuto in sorte da Natura una pelle rozza e spessa, insensibile alla nostra puntura; una mente semplice e paziente; ed in pari tempo un sangue mirabilmente ricco di nutrimento vitale. Proprio di questo sangue vi debbo parlare, sorelle tacite e pie. La nostra, come sapete, è una repubblica bene ordinata: ad ognuna di noi, a seconda dei suoi meriti e dei suoi bisogni, la nostra Assemblea ha assegnato una porzione diligentemente scelta e circoscritta della pelle del Villano, ed è stata cortesia assegnare a me vostra Decana l' incavo dei ginocchi, dove la pelle è più sottile, e dove la vena poplitea pulsa prossima alla superficie. Ora, per certo voi non avrete dimenticato quanto ci viene insegnato fin dai primi anni di scuola, e cioè che è questa vena la spia più precisa della pressione del sangue nel corpo dell' uomo. Ebbene, bando alle menzogne pietose, sorelle mie dilette: questa pressione sta rapidamente calando. Noi, tutte noi, abbiamo passato il segno, ed è tempo di provvedere. Intendetemi: non è un rimprovero che io voglia farvi, io che sono stata avanti a tutte, la più avida di tutte; ma sentite ciò che v' ho a dire. Dio misericordioso mi ha chiamata a mutar vita: ed io la muterò, l' ho già mutata; così faccia con tutte voi. Non è un rimprovero, vi dico: solo un insensato potrebbe porre in dubbio che il sugger sangue sia un nostro naturale diritto, da cui, oltre a tutto, la nostra stirpe trae il suo nome e il suo vanto. Non solo un diritto, ma una palese e rigida necessità, dal momento che il nostro corpo, in milioni d' anni di assuefazione a questo nutrimento così essenziale, ha perduto ogni capacità di ricercare, catturare, digerire e concuocere qualsiasi sostanza meno eletta; che i nostri muscoli si sono talmente indeboliti da vietarci anche la minima fatica; e che i nostri cervelli, che attingono alla perfezione se rivolti alla contemplazione dell' Entelechia, del Paracleto e della Quinta Essenza, sono invece grossi e disadatti davanti alle trivialità dell' agire concreto. Noi saremmo quindi incapaci di procurarci un sostentamento più rozzo del sangue: ogni altro alimento, d' altronde, sarebbe veleno per noi, che, uniche nella Creazione, abbiamo saputo scioglierci dalla necessità di evacuare dal nostro alvo le scorie quotidiane, poiché il nostro cibo mirabile non contiene né genera scorie. Non è questo il segno più eloquente della nostra nobiltà? Chi potrebbe disconoscere in noi il coronamento ed il vertice della Creazione? Il nostro sugger sangue è dunque necessario e buono, ma è stolto eccedere, come è stolto ogni eccesso. Mi è stato doloroso constatare come alcune fra voi sogliano impinzarsi fino a mettere a repentaglio la nostra invidiata capacità di nuotare a mezz' acqua, talché si riducono a galleggiare inerti, col ventre sconciamente rigonfio, finché la loro laboriosa digestione non si sia compiuta. Né basta, poiché ho saputo di alcune che sono morte per subitanea crepatura dei tegumenti. Tuttavia, non di questo vi debbo parlare: non di queste trasgressioni, pur vergognose, ma di interesse individuale, e seguite da naturale e quindi giusta sanzione. No, intendo ammonirvi di un pericolo assai più grave: se persevereremo nel nostro errore, se continueremo a saziarci dell' oggi senza pensare al nostro domani, che sarà di noi? Chi o che cosa succhieremo quando il Villano cadrà esangue? Ritorneremo all' increscioso siero delle carpe e dei rospi? O ci suggeremo a vicenda? O non ci vedremo costrette a ripercorrere un' eternità di fame, di tenebre e di morti precoci, ad attendere cioè che l' Evoluzione ci rinnovi (a quale prezzo, sorelle!) ripristinando in noi quelle facoltà positive ed attive che noi oggi detestiamo ed irridiamo nelle specie vili di cui ci nutriamo, quali i castori e gli uomini? Perciò vi esorto, blande sorelle: si ridesti in voi il senso della misura e l' orrore per il peccato di gola. Mai come oggi la sopravvivenza del Villano, e quindi la nostra, è stata legata alla vostra continenza, ed alla moderazione che saprete manifestare nell' esercizio del vostro diritto.

Pagina 0170

È probabile che quel sapiente francese di cui mi sfugge il nome, e che affermava di essere certo di esistere in quanto era sicuro di pensare, non abbia sofferto molto in vita sua, poiché altrimenti avrebbe costruito il suo edificio di certezze su una base diversa. Infatti, spesso chi pensa non è sicuro di pensare, il suo pensiero ondeggia fra l' accorgersi e il sognare, gli sfugge di tra le mani, rifiuta di lasciarsi afferrare e configgere sulla carta in forma di parole. Ma invece chi soffre sì, chi soffre non ha dubbi mai, chi soffre è ahimè sicuro sempre, sicuro di soffrire ed ergo di esistere. È mio augurio che tu divenga un maestro nell' arte nostra, e che tu non abbia mai ad esserne l' oggetto passivo; ma se mai questo ti dovesse accadere, come a me è accaduto, il dolore della tua carne ti fornirà la brutale certezza di essere vivo, senza che tu debba attingerla alle sorgenti della filosofia. Abbi dunque in istima quest' arte: essa farà di te un ministro del dolore, ti farà arbitro di porre termine ad un lungo dolore passato per mezzo di un breve dolore presente, e di prevenire un lungo dolore di domani grazie alla trafittura spietata inferta oggi. I nostri avversari ci scherniscono dicendo che noi siamo buoni a trasformare il dolore in denaro: stolti! È questo il miglior elogio del nostro magistero. Del discorso suadente. Il discorso suadente, detto anche imbonimento, conduce alla decisione i clienti che esitano fra il dolore attuale ed il timore delle tenaglie. È di somma importanza: anche il più inetto fra i cavadenti si industria bene o male a cavare un dente; l' eccellenza nell' arte si manifesta piena invece nel discorso suadente. Esso va profferito con voce alta e ferma e con viso lieto e sereno, come di chi è sicuro, e spande sicurezza intorno a sé; ma, al di fuori di questa, non si dànno altre regole certe. A seconda degli umori che fiuterai fra gli astanti, potrà esso essere giocoso o austero, nobile o scurrile, prolisso o conciso, sottile o crasso. È bene in ogni caso che esso sia oscuro, perché l' uomo teme la chiarezza, memore forse della dolce oscurità del grembo e del letto in cui è stato concepito. Ricorda che i tuoi ascoltatori, quanto meno ti capiranno, tanto maggior fiducia avranno nella tua sapienza e tanta più musica sentiranno nelle tue parole: così è fatto il volgo, e al mondo non è se non volgo. Perciò intesserai nel tuo sermone voci di Francia e di Spagna, tedesche e turchesche, latine e greche, non importa se proprie ed attinenti; se pronte non ne avrai, abituati a coniarne sul momento di nuove, mai prima udite; e non temere che te ne venga sollecitata una spiegazione, perché ciò non avviene mai, non troverà il coraggio di interrogarti neppure quello che salirà il tuo palco con piede sicuro per farsi cavare un molare. E mai, nel tuo discorso, chiamerai le cose col loro nome. Non denti dirai, ma protuberanze mandibolari, o qual altra stranezza ti venga in capo; non dolore, ma parossismo od eretismo. Non chiamerai soldi i soldi, e ancor meno chiamerai tenaglie le tenaglie, anzi non le nominerai affatto, neppure per allusione, ed al pubblico e massimamente al paziente non le lascerai vedere, tenendole nascoste nella manica fino all' ultimo istante. Del mentire. Da quanto hai letto or ora, potrai dedurre che la menzogna è peccato per gli altri, per noi è virtù. Il mendacio è tutt' uno col nostro mestiere: a noi conviene mentire con la favella, con gli occhi, col sorriso, con l' abito. Non solamente per illudere i pazienti; tu lo sai, noi miriamo più in alto, e la menzogna è la nostra vera forza, non quella dei nostri polsi. Con la menzogna, pazientemente appresa e piamente esercitata, se Dio ci assiste arriveremo a reggere questo paese, e forse il mondo: ma questo avverrà solo se avremo saputo mentire meglio e più a lungo dei nostri avversari. Tu forse la vedrai, non io: sarà una nuova età dell' oro, in cui noi soltanto in necessità estreme ci indurremo ancora a cavar denti, mentre per il governo dello Stato e per l' amministrazione della cosa pubblica ci basterà con larghezza la menzogna pia, da noi condotta a perfezione. Se ci dimostreremo capaci di questo, l' impero dei cavadenti si estenderà dall' oriente all' occidente fino alle isole più remote, e non avrà mai fine.

Pagina 0174

. _ Non sembra che abbia fretta, _ disse Goldbaum. _ I Siriono non hanno mai fretta: la fretta è una malattia nostra, _ rispose Wilkins. _ Loro però hanno altre malattie. _ Certo. Però non è detto che non si possa concepire una civiltà senza malattie. _ Cosa credi che voglia da noi? _ Io credo di averlo capito, _ disse Wilkins. Achtiti continuava a lisciare i legni con diligenza, rigirandoli da tutte le parti ed esplorandone la superficie con le dita e con gli occhi, che era costretto ad aguzzare perché era un po' presbite. Alla fine, legò insieme, sovrapponendole per un breve tratto, le due estremità non sgrossate e tese fra le punte una corda di budella ritorte: aveva una certa aria di orgoglio, e mostrò ai due che pizzicandola, la corda suonava a lungo, come quella di un' arpa. Mandò il ragazzo a prendere una freccia, prese la mira e la scagliò: la freccia si infisse tremolando nel tronco di una palma lontana una cinquantina di metri. Allora, con un gesto enfatico porse l' arco a Wilkins, facendogli cenno che era suo, lo tenesse, lo provasse. Poi cavò dalla scatola incominciata due fiammiferi, ne porse uno a Wilkins ed uno a Goldbaum, si accovacciò a terra, intrecciò le braccia sui ginocchi e rimase in attesa: ma senza impazienza. Goldbaum rimase interdetto, col suo fiammifero in mano; poi disse: _ Sì, credo d' aver capito anch' io. _ Già, _ rispose Wilkins; _ come discorso, è abbastanza chiaro: noi miseri Siriono, se non abbiamo un raschiatoio, ce lo facciamo; e se restiamo senza arco, col raschiatoio ci fabbrichiamo l' arco, e magari lo lisciamo anche, perché faccia piacere vederlo e tenerlo in mano. Voi stregoni stranieri, che rubate la voce degli uomini e la mettete in uno scatolino, siete rimasti senza fiammiferi: su, fabbricateli. _ Allora? _ Bisognerà spiegargli i nostri limiti _. A due voci, o meglio a quattro mani, cercarono di convincere Achtiti che è bensì vero che un fiammifero è piccolo, molto più piccolo di un arco (questo era un argomento a cui Achtiti sembrava tenere molto), ma che la capocchia del fiammifero conteneva una virtù (come spiegare?) residente lontano da loro, nel sole, nel profondo della terra, di là dei fiumi e della foresta. Erano penosamente consci dell' inadeguatezza della loro difesa: Achtiti sporgeva verso di loro le labbra a imbuto, scuoteva il capo, e diceva al ragazzo cose che lo facevano ridere. _ Gli dirà che siamo cattivi stregoni, furfanti buoni solo a vendere fumo, _ disse Goldbaum. Achtiti era un uomo metodico: disse qualche altra cosa al ragazzo, che afferrò l' arco ed alcune frecce e si mise a venti passi da loro con aria risoluta ; si allontanò, e tornò con uno dei coltelli ritrovati sul luogo del campo base, e che il fuoco aveva stemprati ed ossidati malamente. Raccattò da terra uno degli orologi e lo porse a Wilkins; Wilkins, col viso terreo di chi si presenta impreparato ad un esame importante fece un segno di impotenza: aprì la cassa dell' orologio e fece vedere ad Achtiti gli ingranaggi minuti, il bilanciere snello che non si fermava mai, i minuscoli rubini, e poi le proprie dita: impossibile! Lo stesso, o press' a poco, avvenne col registratore magnetico, che però Achtiti non voleva toccare: lo fece raccogliere da terra da Wilkins stesso, e si teneva le orecchie turate per timore di udirne la voce. E il coltello? Achtiti pareva voler fare intendere che si trattava di una specie di esame di riparazione, o insomma di una prova elementare, buona per qualsiasi sempliciotto, stregone o no: avanti, fabbricate un coltello. Un coltello, via, non è una specie di bestiolina con un cuore che batte, ed è facile ucciderla, ma molto difficile farla ritornare viva: non si muove, non fa rumori e si divide in due pezzi soltanto, e loro stessi ne possedevano tre o quattro, comperati dieci anni prima e pagati poco, una bracciata di papaie e due pelli di caimano. _ Rispondi tu: io ne ho abbastanza _. Goldbaum dimostrò minore talento mimico e senso diplomatico del suo collega; si sbracciò invano in una gesticolazione che neppure Wilkins comprese, ed Achtiti, per la prima volta, scoppiò a ridere: ma era un riso poco rassicurante. _ Che cosa volevi dirgli? _ Che forse saremmo riusciti a fare un coltello; ma che ci occorrevano delle pietre speciali, altre pietre che bruciano e che in questo paese non ci sono; molto fuoco e molto tempo. _ Io non avevo capito, ma lui probabilmente sì. Aveva ragione a ridere: avrà pensato che volevamo soltanto prendere tempo fino a che non vengano a prenderci. È il trucco numero uno di tutti gli stregoni e di tutti i profeti. Achtiti chiamò, ed arrivarono sette od otto guerrieri robusti. Afferrarono i due e li chiusero in una capanna di solidi tronchi; non c' erano aperture, la luce entrava soltanto dagli interstizi del tetto. Goldbaum Chiese: _ Credi che qui ci staremo a lungo? _; Wilkins rispose: _ Temo di no; spero di sì. Ma i Siriono non sono gente feroce. Si accontentarono di lasciarli là dentro ad espiare le loro bugie, fornendo loro acqua in abbondanza e poco cibo. Per qualche oscuro motivo, forse perché si sentiva offeso, Achtiti non si fece più vedere. Goldbaum disse: _ Io sono un bravo fotografo, ma senza lenti e senza pellicole .... Forse potrei fabbricare una camera oscura: cosa ne dici? _ Li faresti divertire. Ma ci chiedono qualche cosa di più: di dimostrare, in concreto, che la nostra civiltà è superiore alla loro: che i nostri stregoni sono più bravi dei loro. _ Non è che io sappia fare tante altre cose, con le mie mani. So guidare l' auto. So anche cambiare una lampadina o un fusibile. Disintasare un lavandino, attaccarmi un bottone; ma qui non ci sono né lavandini né aghi. Wilkins meditava. _ No, _ disse, _ qui ci vorrebbe qualcosa di più essenziale. Se ci fanno uscire, proverò a smontare il magnetofono; come sia fatto dentro non lo so bene, ma se c' è un magnete permanente siamo a posto: lo facciamo galleggiare sull' acqua di una scodella e gli regaliamo la bussola, e insieme l' arte di fare le bussole. _ Non credo che in un magnetofono ci siano dei magneti, _ rispose Goldbaum: _ e non sono neppure sicuro che una bussola gli serva molto. A loro basta il sole: non sono dei navigatori, e quando si mettono per la foresta seguono soltanto le piste segnate. _ Come si fa la polvere da sparo? Forse non è difficile: non basta mescolare carbone, zolfo e salnitro? _ Teoricamente sì: ma dove trovi il salnitro qui, in mezzo alle paludi? E lo zolfo ci sarà magari, ma chissà dove; e infine, a che cosa gli serve la polvere, se non hanno una canna forata qualunque? _ Ecco, mi viene un' idea. Qui la gente muore per un graffio: di setticemia o di tetano. Facciamo fermentare il loro orzo, distilliamo l' infuso e gli facciamo l' alcool; magari gli piace anche berlo, anche se non è tanto morale. Non mi pare che conoscano né eccitanti né stupefacenti: sarebbe una bella stregoneria. Goldbaum era stanco. _ Lievito non ne abbiamo, io non credo che sarei capace di selezionarne uno, e neppure tu. E poi vorrei vederti alle prese coi vasai locali, per farti costruire una storta. Forse non è del tutto impossibile, ma è un' impresa che ci costerebbe mesi, e qui è questione di giorni. Non era chiaro se i Siriono intendessero farli morire di fame, o se volessero soltanto mantenerli con la minima spesa, in attesa che arrivasse la lancia su per il fiume, o che maturasse in loro l' idea decisiva e convincente. Le loro giornate passavano sempre più torpide, in un dormiveglia fatto di calore umido, di zanzare, di fame e di umiliazione. Eppure, tutti e due, avevano studiato per quasi vent' anni, sapevano molte cose su tutte le civiltà umane antiche e recenti, si erano interessati a tutte le tecnologie primitive, alle metallurgie dei Caldei, alle ceramiche micenee, alla tessitura dei precolombiani: e adesso, forse (forse!) sarebbero stati capaci di scheggiare una selce perché Achtiti glielo aveva insegnato, e non erano stati in condizione di insegnare ad Achtiti proprio niente: solo a raccontargli a gesti meraviglie a cui lui non aveva creduto, ed a mostrargli i miracoli che loro due avevano portato con sé, fabbricati da altre mani sotto un altro cielo. Dopo quasi un mese di prigionia erano a corto di idee, e si sentivano ridotti all' impotenza definitiva. L' intero, colossale edificio della tecnologia moderna era fuori della loro portata: avevano dovuto confessarsi a vicenda che neppure uno dei ritrovati di cui la loro civiltà andava fiera poteva essere trasmesso ai Siriono. Mancavano le materie prime da cui partire o, se c' erano nelle vicinanze, loro non sarebbero stati capaci di riconoscerle o isolarle; nessuna delle arti che loro conoscevano sarebbe stata giudicata utile ai Siriono. Se uno di loro fosse stato bravo a disegnare, avrebbero potuto fare il ritratto di Achtiti, e se non altro destare la sua meraviglia. Se avessero avuto un anno di tempo, avrebbero forse potuto convincere i loro ospiti dell' utilità dell' alfabeto, adattarlo al loro linguaggio, ed insegnare ad Achtiti l' arte della scrittura. Per qualche ora discussero il progetto di fabbricare sapone per i Siriono: avrebbero ricavato la potassa dalla cenere di legno, e l' olio dai semi di una palma locale; ma a che cosa avrebbe servito il sapone ai Siriono? Abiti non ne avevano, e non sarebbe stato facile persuaderli dell' utilità di lavarsi col sapone. Alla fine, si erano ridotti ad un progetto modesto: avrebbero insegnato loro a fabbricare candele. Modesto, ma irreprensibile; i Siriono avevano sego, sego di pécari, che usavano per ungersi i capelli, ed anche per gli stoppini non c' erano difficoltà, si potevano ricavare dal pelo dei pécari stessi. I Siriono avrebbero apprezzato il vantaggio di illuminare a notte l' interno delle loro capanne. Certo avrebbero preferito imparare a fabbricarsi un fucile o un motore fuoribordo: le candele non erano molto, ma valeva la pena di provare. Stavano proprio cercando di rimettersi in contatto con Achtiti, per contrattare con lui la libertà contro le candele, quando sentirono un grande tramestio fuori della loro prigione. Poco dopo la porta fu aperta tra clamori incomprensibili, ed Achtiti fece loro cenno di uscire nella luce abbagliante del giorno: la lancia era arrivata. Il congedo non fu lungo né cerimonioso. Achtiti si era subito allontanato dalla porta della prigione; si accovacciò sui talloni voltando loro la schiena, e rimase immobile, come pietrificato, mentre i guerrieri Siriono conducevano i due alla sponda. Due o tre donne, ridendo e strillando, si scoprirono il ventre verso di loro; tutti gli altri del villaggio, anche i bambini, dondolavano il capo cantando "luu, luu", e mostravano loro le due mani molli e come disarticolate, lasciandole ciondolare dai polsi come frutti troppo maturi. Wilkins e Goldbaum non avevano bagaglio. Salirono sulla lancia, che era pilotata da Suarez in persona, e lo pregarono di partire più presto che poteva. I Siriono non sono inventati. Esistono veramente, o almeno esistevano fin verso il 1945, ma quanto si sa di loro fa pensare che, almeno come popolo, non sopravvivranno a lungo. Sono stati descritti da Allan R. Holmberg in una recente monografia ("The Siriono of Eastern Bolivia"): conducono un' esistenza minimale, che oscilla fra il nomadismo ed un' agricoltura primitiva. Non conoscono i metalli, non posseggono termini per i numeri superiori al tre, e, benché debbano sovente attraversare paludi e fiumi, non sanno costruire imbarcazioni; sanno però che un tempo le sapevano costruire, e si tramanda fra loro la notizia di un eroe, il cui nome era quello della Luna, che aveva insegnato al loro popolo (allora molto più numeroso) tre arti: accendere il fuoco, scavare piroghe e fabbricare archi. Di queste, oggi solo l' ultima sopravvive: anche il modo di fare il fuoco lo hanno dimenticato. Hanno raccontato a Holmberg che in un tempo non troppo lontano (due, tre generazioni addietro: press' a poco all' epoca in cui fra noi nascevano i primi motori a combustione interna, si diffondeva l' illuminazione elettrica e si cominciava a comprendere la fine struttura dell' atomo) alcuni fra loro sapevano fare il fuoco frullando uno stecco nel foro di un' assicella; ma a quel tempo i Siriono vivevano in un altro territorio, dal clima quasi desertico, in cui era facile trovare legna secca ed esca. Ora vivono fra paludi e foreste, in perpetua umidità: non trovando più legna secca, il metodo dell' assicella non è più stato praticato, ed è stato dimenticato. Il fuoco, però, l' hanno conservato. In ognuno dei loro villaggi o delle loro bande vaganti c' è almeno una donna anziana, il cui compito è di mantenere vivo il fuoco in un braciere di tufo. Quest' arte non è così difficile come quella di accendere il fuoco per strofinio, ma non è neppure elementare: specialmente nella stagione delle piogge occorre alimentare la fiammella coi fiori di una palma, che vengono fatti essiccare al calore della fiamma stessa. Queste vecchie vestali sono molto diligenti, perché se il loro fuoco muore anch' esse vengono messe a morte: non per punizione, ma perché vengono giudicate inutili. Tutti i Siriono che sono giudicati inutili perché incapaci di cacciare, di generare e di arare con l' aratro a piolo sono lasciati morire. Un Siriono è vecchio a quarant' anni. Ripeto, non sono notizie inventate. Sono state riportate dallo "Scientific American" nell' ottobre 1969, ed hanno un suono sinistro: insegnano che non dappertutto e non in ogni tempo l' umanità è destinata a progredire.

Pagina 0181

Ma le sue memorie materializzate, quelle che Guerrino disseminò con regale prodigalità per tutta quella valle, anche nelle sue diramazioni più appartate, e nelle due valli adiacenti, quelle sono nitide e perenni, accessibili a chiunque: voglio dire, a chiunque appunto sappia ancora viaggiare da pellegrino, ed abbia conservato l' antico talento di guardarsi intorno e di interrogare le cose e le persone con umiltà e pazienza. Del resto, il suo nome sopravvive in alcune similitudini di uso locale, destinate ad estinguersi presto, già ora stereotipe e mal comprese dai giovani: in quella valle c' è ancora chi dice "brutto come Guerrino", "povero come Guerrino", ed anche "fare a qualcuno il servizio di Guerrino" per indicare una rappresaglia macchinata ed elaborata; ma si dice anche "libero come Guerrino". Eppure, fra chi ancora parla così, pochi sanno che il libero e povero Guerrino è realmente esistito, e pochissimi conservano di lui un ricordo concreto. Della sua giovinezza nessuno sa più nulla, né da dove fosse piovuto in valle, perché piemontese era, ma non indigeno. È ricordato come un uomo tarchiato, dalle guance incavate e dalla mandibola prominente, dalla barba grigia incolta e arruffata, sporco, trasandato, ben piantato sulle gambe ercoline; indossava sempre, estate e inverno, una stessa casacca di taglio vagamente militare, e un paio di pantaloni di velluto nero, spelacchiati e lisi, mal sostenuti dalla cintura che egli teneva sotto la pancia obesa, e contribuiva a reggere anche quella. Come un filosofo cinico, portava con sé tutte le sue cose: esse consistevano nella sua attrezzatura professionale di pittore di madonne (barattoli di vernice e di tempera, pennelli, spatole, raschietti, cazzuole), in un lungo carrettino a due ruote che gli serviva per trasportare questa attrezzatura ed occasionalmente per dormirci, e in un cane da pagliaio ispido e selvaggio che rimorchiava il carrettino ed era perpetuamente incatenato ad esso. Nei trasferimenti, lui seguiva a piedi, con lo sguardo al cielo e alle montagne, perché era un uomo torvo e ipocondriaco, ma amante delle cose create. Il suo mestiere era di affrescare chiese, cappelle e cimiteri. All' occasione, faceva anche decorazioni profane e restaurava intonaci, opere murarie e tetti, ma accondiscendeva a queste attività solo se aveva fame o se gli accendevano la fantasia. Se non ne aveva né voglia né bisogno, stava all' osteria a bere in silenzio, o sulle rive a fumare la pipa. Nella valle i suoi dipinti non si contano. Non sono firmati, ma è facile distinguerli per i contorni pesanti, per il predominare dei toni caldi, rossi e violetti, e per una peculiare stilizzazione e simmetria delle sue figure. Aveva sangue di pittore: se avesse studiato, o almeno avuto occasione di vedere opere illustri d' altri tempi, il suo nome non sarebbe dimenticato. Comunque, non dovrebbe essere dimenticata almeno una delle sue opere, un Giudizio Universale dipinto sul frontone di una chiesetta sperduta fra i larici. È costruito con un equilibrio sapiente, con una rustica vigorosa precisione, ed è fitto di simboli macabri e strambi, al limite fra la pietà e l' ironia, che germogliano come gemme mostruose, frammiste ai corpi degli innumerevoli risorti, dal terreno bruciato e sconvolto: germogliano gigli e carciofi, piccoli scheletri gobbi, cannoni, falli, una gran mano dal pollice mozzo, una forca, un cavalluccio marino. Una delle anime che si aggirano alla ricerca affannata delle proprie spoglie è un fantasma diafano con gli occhi ciechi rivolti al cielo nero: sta indossando la sua pelle ritrovata col gesto domestico di chi infila una giacchetta. Questa pianura costellata di aneddoti buffoneschi o ribaldi è illuminata da una luce obliqua e livida, come un lampo pietrificato, e si perde verso un orizzonte d' uragano su cui troneggia la figura statuaria del Redentore. Il Redentore ha folti capelli e barba grigi, gli occhi sbarrati, e stringe in mano una spada che sembra piuttosto un coltello. È il suo autoritratto. Tutti i dipinti di Guerrino contengono almeno un ritratto, e molti ne contengono più d' uno. Sono rozzi ma pieni di espressione, alcuni quasi caricaturali. Si distaccano dagli altri visi, che invece sono di maniera, tutti simili, senz' anima, senza tensione creativa, e ognuno dei ritratti ha una sua storia. Come molti suoi confratelli più illustri, Guerrino ritraeva i suoi committenti. Se lo pagavano e lo trattavano bene, gli metteva l' aureola e li panneggiava da santi. Se lo pagavano poco, o facevano questione, o stavano a guardarlo mentre dipingeva e criticavano il suo lavoro, in un batter d' occhio li sbatteva sulle due croci dei ladroni, o nei panni dei fustigatori di Nostro Signore: ma erano loro, riconoscibili da lontano, solo con un' espressione più bestiale, o col naso da porco, o le orecchie d' asino. C' è, in una nicchia del cimitero, una sua Crocifissione in cui l' uomo che inchioda ha la testa di Re Umberto, ed il sacerdote che assiste impassibile ha, sotto la tiara il viso di Leone-XIII. C' è un altro suo dipinto di cui i vecchi valligiani vanno fieri. È una Natività, piuttosto dimessa e convenzionale, come se ne vedono a centinaia in tutta Italia, salvo che il bue ha fattezze quasi umane, anzi, è la caricatura feroce ed ingegnosa di una fisionomia che nella valle è tuttora abbastanza comune. Secondo la storia che si tramanda, è il ritratto del sindaco: era venuto a vedere, a lavoro finito; si era permesso di dire che i buoi non sono mica così, e non aveva neppure invitato Guerrino a bere, come è usanza. Guerrino non aveva risposto (pare che non aprisse bocca quasi mai), ma in piena notte, che era una notte di luna, si era levato scalzo, senza che neppure un cane abbaiasse, e in pochi minuti aveva dipinto la testa del sindaco al posto del muso del bue: però le corna le aveva lasciate. In effetti, i colori e le ombre di questa testa sono stridenti e maldestri: non doveva essere facile riconoscere i barattoli delle tinte al chiaro di luna. E il sindaco doveva essere un uomo di spirito, perché aveva lasciato le cose come stavano, e come stanno tuttora. Amava rappresentare se stesso sotto le spoglie di san Giuseppe: c' è addirittura una Sacra Famiglia, in alta valle, in cui il santo lavoratore, in luogo del martello o della sega, tiene nella destra una pennellessa, e nello sfondo scuro dell' officina si intravede una frattazza, cioè quella tavoletta di legno, con un manico su una faccia, che serve a lisciare gli intonaci. Altre volte, come ho già accennato, non aveva esitato a conferire i suoi tratti a Cristo medesimo: in una cappella votiva c' è un Cristo Deriso membruto e aggrondato, dalle spalle e dagli zigomi larghi, dagli occhi volpini sotto sopraccigli a cespuglio, dalla folta barba grigia. È ben piantato sul pavimento su due gambe solide come colonne, e guarda i suoi persecutori come se volesse dirgli: "questa me la pagherete". In verità, se la sua identificazione con Giuseppe è giustificata solo in piccola misura, quella con Cristo è offensiva. Guerrino doveva essere un tipo da prendere con le molle: secondo tutte le testimonianze raccolte, beveva, era rissoso, vendicativo, aveva il coltello facile, e gli piacevano le donne. Intendiamoci, quest' ultima qualità non è un difetto: le donne, o almeno alcune donne, sono piaciute a tutti i grandi di ogni tempo e paese, e un uomo a cui non piacciano le donne, o a cui del resto non piacciano gli uomini, è un infelice e tendenzialmente un individuo nocivo. Ma a Guerrino le donne piacevano solo in un certo modo, gli piacevano troppo e gli piacevano tutte, tanto che non c' è villaggio o frazione in cui non vengano indicati ai forestieri uno o più suoi figli presunti. Poi, tanto per dirla chiara, gli dovevano piacere particolarmente le bambine, ed anche questo si può leggere nelle sue pitture murali: le sue madonne (sono le sue creazioni migliori: dolcissime, ieratiche eppure vive, spesso accurate e nitide su fondi informi o non finiti, come se tutta la sua volontà e il suo estro si fossero concentrati sul loro viso) sono tutte diverse fra loro, ma tutte hanno tratti sorprendentemente infantili. Infatti, è fama che Guerrino condensasse in un ritratto ognuno dei suoi innumerevoli incontri, e che nessuna delle sue figure di donna sia di maniera: ognuna sarebbe un souvenir, forse una ricompensa gradita o magari sollecitata, un dono di maschio soddisfatto; o forse solo invece un item, un punto in più, una tacca nel suo calendario di fauno. Esplorando la valle, ho notato che si trovano sovente affreschi insignificanti, d' altro autore o di mano ignota, su cui una testa femminile è stata aggiunta o sovrapposta più tardi, spesso fuori posto o fuori tema: agli Inversini ne ho trovata una addirittura in una stalla, isolata in mezzo alla parete fiorita di salnitro. Forse era stato quello il luogo dell' incontro. In borgata Robatto, alla confluenza dei due torrenti, c' è una Madonna in trono col Bambino e Santi, sul fondo di un cielo azzurro che il tempo ha sbiadito sul verde. In questo cielo si affacciano quattro angioletti, secondo un modello risaputo e stanco: ma uno di questi reca un sensibile viso di fanciulla, dallo sguardo rivolto al suolo, e con le labbra sigillate in un sorriso ermetico evocatore di lontanissime immagini funerarie che Guerrino non poteva assolutamente conoscere. A terra, in primo piano, è inginocchiato di profilo un santo erculeo dalla barba grigia che tende una spiga verso il viso dell' angelo: santo ed angelo, corposi sul fondo manierato, portano il segno robusto della mano di Guerrino. Due di queste madonne bambine hanno il viso nero, come la Madonna di Oropa, di cui Guerrino può bene avere avuto notizia, e quella di Czestochowa: è questo, a quanto si dice, il rudimento di un mito remoto, etrusco prima che cristiano, in cui la Madre di Dio si confonde con Persefone, la dea degli Inferi, a significare il ciclo del seme, che ogni anno viene sepolto e muore per risorgere in frutto, e del Giusto che viene sacrificato per risorgere a nostra salvazione. Sotto l' effigie di una di queste vergini funeree Guerrino aveva scritto un motto sibillino, "Tout est et n' est rien". Non può che stupire il contrasto fra la gentilezza delle sue opere e la ruvidezza barbarica dei suoi modi. È fama che quegli incontri, da cui nascevano le sue immagini aeree, fossero poco meno che stupri, assalti panici nel fitto dei boschi o sugli alti pascoli, sotto lo sguardo attonito delle pecore, fra i latrati furiosi dei cani. Non era certo lui il solo: l' agguato alla pastorella è il motivo dominante della cultura popolare di queste valli, la pastorella vi compare come un oggetto sessuale per eccellenza, ed almeno metà delle canzoni che si cantano qui svolgono in diverse varianti il tema della bergera spiata, desiderata, conquistata, o della sua seduzione ad opera del ricco signore che viene dalla città, o del forestiero che l' abbaglia con la sua pompa esotica. Di Guerrino mi è stata raccontata una storia struggente. Si era innamorato, quando era già sulla quarantina, di una giovane molto bella: se n' era innamorato senza mai parlarle, né toccarla, né pure vederla da vicino, ma solo guardandola affacciata alla finestra. La finestra mi è stata mostrata, ed anche la donna: nel 1965 era una vecchina dai tratti minuti e dagli occhi chiari, rugosa e serena; portava con tranquilla dignità la canizie nobile delle donne che sono state bionde. Lei, dalla finestra, l' aveva costantemente rifiutato. Aveva passato l' intera vita a rifiutarlo, prima da ragazza, arrossendo e ridendo, poi da sposa, infine da vedova, e lui aveva trascorso la sua vita a ripeterle il suo invito senza speranza. Quando Guerrino passava per quella borgata, si fermava sotto la finestra e gridava: _ Madamina, son sempre qui _; lei, senza mai andare in collera, gli rispondeva: _ Andate, Guerrino, fate la vostra strada, _ e lui andava, taciturno e solo. Molti pensano che solo per quella donna, e per quel suo amore perenne, testardo e scontroso, Guerrino sia diventato Guerrino. Questa donna, la sua donna vera, Guerrino non l' ha dipinta mai. Come dicevo, il pittore di madonne è sparito verso la fine della prima guerra mondiale. Nessuno ricorda il suo cognome, ed anche il nome è incerto: Guerrino potrebbe essere uno stranome, come usa qui, perciò una ricerca d' archivio si prospetta come un' impresa disperata. Sulla sua fine non esiste che una traccia. Il vecchio Eliseo, già bracconiere, oggi guardacaccia, mi ha raccontato che verso il 1935, in una grotta, o piuttosto in una fenditura frequentata un tempo dai cercatori di quarzo, aveva trovato lo scheletro di un uomo e quello di un cane e su una delle pareti di roccia un disegno non finito, che a lui era parso rappresentasse un grande uccello dentro un nido infuocato. Non aveva denunciato nulla, perché a quel tempo aveva debiti con la giustizia. Ci sono ritornato sotto la sua guida, ma non ho trovato più niente.

Pagina 0201

Cerca

Modifica ricerca