Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Il divenire della critica

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Dorfles, Gillo 14 occorrenze

Occorre però che gli artisti e i critici di questa presente avanguardia non si dimentichino che problemi sociali e tecnici (intesi nella più vasta e profonda accezione dei due termini), non possono essere ignorati al giorno d’oggi; che l’intenzionalità della tecnica va di pari passo con la presa di coscienza del suo definitivo telos; che non basta aver raggiunto un determinato fine - di denuncia, di scandalo, di rottura - per credere che l’opera sia degna del museo; che bisogna, dunque, saper anche creare per l’oggi, senza mirare al domani, o, peggio, all’eternità; e che non basta neppure l’elemento denunciatario di situazioni ambigue a riscattare l’opera artistica, ma bisogna che questa abbia già in sé il segno e il significato d’un superamento e d’un riscatto.

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Sarebbe rischioso trarne delle troppo facili conclusioni: che queste sculture si «ispirino» all’oggetto industriale, o viceversa che l’oggetto industriale abbia la sua matrice nella scultura moderna. In realtà la «linea», lo stile di queste strutture ha ben poco in comune (salvo per il materiale e il colore, dunque per l’aspetto più estrinseco) con gli oggetti utilitari creati industrialmente (jet, televisori, macchine da scrivere, ecc.). Tra i due prodotti forse hanno la meglio i secondi: la robustezza plastica del jet, della carrozzeria d’automobile, dà i punti alla spesso scarsa icasticità di questi scultori (la ricerca di purezza e di elementarità rigorosa di certe strutture primarie può anche mascherare un’assenza di capacità inventiva!) Salvo s’intende le dovute eccezioni: quando si giunge alla purezza ma anche all’armonia dei King, dei Tucker, dei Kelly, del vecchio ma agilissimo Sandy, del poliedrico Paolozzi che ha qui una sua efficacissima Inversione in acciaio cromato. Credo, in definitiva, che il punto cruciale di questo quesito: «fino a dove è "arte” l’opera di disegno industriale», e «quando è "più artistica” l’opera d’arte pura», può essere risolto confrontando uno dei grandi mobiles colorati o uno degli stabiles neri di Calder, o di David Smith (e qui anche una delle opere di Lenk, di Murray, di Robert Morris, ecc.), con certe opere industriali dei nostri giorni. Certo: Calder, Smith e Paolozzi, non sarebbero mai esistiti senza un’era tecnologica, ma anche la nostra era tecnologica non avrebbe mai posseduto autentici monumenti artistici senza opere come quelle di questi - pochi - artisti che ne hanno saputo interpretare gli aspetti più pregnanti.

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Per questo ritengo utile compiere una sia pur breve incursione nelle ultime e più importanti posizioni assunte in questo settore dagli studi semiologici, proprio per cercar di dimostrare fino a che punto questa impostazione dei problemi critici abbia o meno inciso sulla loro qualità e sulla loro efficacia.

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Quanto ho detto spiega altresì perché un artista come Turcato in una mostra recente abbia sentito il bisogno di «oggettualizzare» i suoi dipinti circondandoli con una netta cornice metallica ovalare così che la qualità - in lui sempre ancora tonale e materica del colore - acquistasse una maggior precisione, trasformando - sia pur attraverso uno stratagemma - le tele dipinte in oggetti a sé stanti. E questo spiega, per citare ancora un ultimo pittore molto lontano da queste tendenze, perché Tadini, nella sua mostra da Marconi, abbia sacrificato le raffinatezze chiaroscurali e addirittura rinascimentali dei suoi dipinti e abbia adottato una maniera di tracciare le immagini netta, secca, scarnificata che certo è più consona all’attuale stagione pittorica.

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In una società che disgraziatamente non può che essere tecnologica (a meno che la «bomba» abbia distrutto ogni nostra conoscenza scientifica) ma che non deve necessariamente essere né ipercapitalistica, né artigianalmente sottosviluppata, l’arte dovrà rispecchiare ovviamente le strutture costitutive della società anche quando, in apparenza, ci si sforzi di opporsi ad esse.

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E la miglior prova di quanto vengo affermando è ad esempio il fatto che proprio l’artista più originale e più autonomo di questo gruppo torinese, Pistoletto, dopo aver con maggior dignità e coerenza degli altri rifiutato di partecipare alla Biennale di Venezia, abbia addirittura preferito rinunciare - almeno temporaneamente - alla produzione delle sue lamiere metalliche specchianti che avevano ottenuto un notevole successo internazionale, per darsi alla realizzazione di scene teatrali estemporanee, recitate da un gruppo di «guitti».

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Vorrei, dunque, concludere affermando - contro i detrattori della mostra che hanno parlato spesso in nome di arcaici movimenti neorealisti, o di troppo facili puntigli ideologico-politici come la mostra romana abbia rappresentato senza alcun dubbio un’operazione degna d’essere condotta a termine e per molti versi di alto livello artistico; ma come, per contro, sia proprio il momento attuale - in Italia e all’estero - ad essere e ad apparire particolarmente delicato. Rotto l’equilibrio che, sino a qualche anno addietro - sino al periodo pop - esisteva sia pur precario tra oggetto artistico e fruitore, l’arte visuale oggi si sta incamminando verso una sottile ma azzardata convivenza con alcune esasperate manifestazioni dell’arte verbale e della musica. L’elemento metaforico, di pun linguistico, che si è venuto affermando in poesia e in musica negli ultimi anni, difficilmente potrà valere come piedistallo per forme artistiche come quelle pittoriche e plastiche. A meno che anche queste siano intese solo come un complemento e un accompagnamento ad altrettanti esperimenti teatrali, spettacolari, urbanistici, territoriali; ma non più decisamente plastici o pittorici.

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Che poi il video-nastro abbia un’immensa possibilità nel campo didattico è cosa evidente: non solo come mezzo di attivo «passivo» ma come mezzo didattico attivo: ossia attraverso la creazione di materiale direttamente da parte del discente.

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Pur nella varietà e nella complessità dei tracciati, pur nella perfezione delle composizioni, si nota quasi sempre l’assenza d’un elemento che è di solito caratteristico d’ogni opera d’arte: quell’elemento di disturbo che interviene a modificare, magari a contrastare, il naturale svolgersi d’un’operazione sino a un certo punto impeccabile e senza il quale sembra che l’opera non abbia la possibilità di costituirsi a organismo a sé stante e autonomo. È proprio questo elemento di disturbo, che invano cercheremmo di definire e di identificare (e che potremmo forse, secondo la vecchia definizione di Ruskin, riconoscere in una «perfezione geometrica organicamente trascesa»), a permetterci di trasformare il mero dato scientifico, geometrico, matematico in una entità vivente, dotata di autonomia creativa.

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Perché l’arte concettuale abbia un’efficacia occorre che si oggettualizzi e come tale traduca il concetto in oggetto.

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Questa constatazione ci permette inoltre di accettare l’ipotesi che l’opera d’arte abbia, oltre ad una vitalità ed efficacia contemporanea alla sua ideazione e realizzazione, anche una efficacia «postuma», transepocale, che si riverbera in epoche anche molto posteriori a quelle della sua produzione.

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Tuttavia, un ritorno a un tipo d’arte che abbia abbandonato i valori di scambio per quelli esclusivamente d’uso - oggi quasi inimmaginabile -, mi sembra abbastanza ipotizzabile, comunque si mettano le cose dal punto di vista socio-politico. Ne abbiamo già oggi degli esempi anche se marginali e paradossali: la pittura-scultura infantile, quella dei dementi (entrambe spesso «spontanee» o esercitate con precisi intenti pedagogici e terapeutici) sono forme d’arte del tutto avulse da ogni «valore di scambio», cariche invece di un «valore d’uso». (Anche se, persino su questi onesti e candidi esempi d’un’arte fatta per catartizzare e curare, si son visti lanciarsi gli avvoltoi dell’affarismo consumistico: allestitori di mostre d’arte infantile e di arte demenziale, pronti a «valorizzare» tali opere assurde e perciò allettanti sul mercato artistico). E allora non stupisce che, accanto a tanti esempi di body art, di forme autodeformatrici e autolesionistiche, si siano riesumati degli esempi «storici» come quelli del viennese Messerschmid (1736-83)1 e che nella Documenta 73 di Kassel, accanto alla Selbstdarstellungen dei Ben, dei Nitsch, degli Acconci (essi stessi per buona parte rientranti nella categoria d’un’arte patologica anche se già in partenza mercificata) si siano allestite mostre come quelle degli schizofrenici Adolf Wölfli e H. A. Müller. Si tratta comunque di casi e di esempi marginali, che non tolgono nulla alle previsioni, in parte positive, che ho fatto per quanto riguarda la possibilità futura d’un’arte non soggetta all’esclusiva esca del consumismo, e capace invece di valere da complemento e da completamento al «tempo lavorativo», nonché da stimolo per una diversa utilizzazione di quello che - con espressione quanto mai incauta - è stato definito «tempo libero».

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Qual è, allora, la funzione del critico; e, soprattutto, possiamo ammettere che ne abbia una?

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E ho anche spesso affermato come tale fenomeno abbia i suoi lati positivi e negativi: positivi, per la «scoperta» e la messa in valore di tutto un vasto panorama oggettuale che ci circonda e di cui siamo partecipi; negativi, per il pericolo, sempre incombente, d’una «feticizzazione»: tappa spesso immancabile della precedente oggettualizzazione, attraverso la quale l’oggetto - e addirittura la creatività dell’uomo si trasforma in feticcio e finisce col diventare soltanto moneta di scambio mercificata e alienante.

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