Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Da Bramante a Canova

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Argan, Giulio 16 occorrenze

Non sorprende che, nel corso dei lavori, il progetto borrominiano abbia subito drastiche decurtazioni: la chiesa doveva essere pronta per il Giubileo, non potendosi inibire ai pellegrini (e furono, nel 1650, più di settecentomila) la visita di quella che era, dopo San Pietro, la più insigne e venerata delle basiliche romane; per di più, le finanze pontificie attraversavano un periodo molto difficile. Meno ancora sorprende che, chiuse le celebrazioni giubilari, non si sentisse più l’urgenza di completare il restauro. Ed è poi del tutto normale che, morto Innocenzo e succedutogli Alessandro VII, questi non mostrasse alcuna premura di completare l’opera del suo predecessore. Sorprende invece, come indizio cli un mutato e più moderno atteggiamento, che il ripristino di una basilica di tanta importanza storica sia stato deciso per un’occasione particolare, il Giubileo, che comportava una scadenza fissa, vicina e improrogabile. E che, nel deciderlo, si sia tenuto gran conto delle esigenze specifiche collegate a quella ricorrenza, e precisamente dell’inconsueto afflusso di grandi masse di devoti: circostanza, questa, che ha sicuramente influito sulla concezione della navata maggiore, immaginata come un’immensa, luminosa, ariosa sala di ricevimento o di spettacolo. È proprio ponendo o accettando come determinanti queste circostanze imposte da una occasione, per quanto solenne, che si declina fin dal primo momento l’intenzionalità del monumento inteso come somma di valori significativi sedimentati nel tempo e tramandati di generazione in generazione; e si opta decisamente per una soluzione moderna e funzionale, frutto di una brillante invenzione individuale, adeguata ad esigenze del momento, databile ad annum anzi, come vedremo, ad diem. Una soluzione, per di più, il cui interesse consisteva anche nel «miracolo tecnico» di un’esecuzione straordinariamente rapida. Ma è anche significativo che, proprio come « miracolo tecnico», l’operazione fallisca: e, con lo scacco di Borromini in San Giovanni, abbia principio il fallimento dell’aspirazione tipicamente cattolica e barocca di sviluppare un nuovo artigianato ad alto livello tecnologico.

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Non tanto interessa stabilire che cosa l’artista abbia ideato e non potuto realizzare (su questo punto siamo abbastanza documentati); ma come, nel naufragio, abbia salvato il salvabile, recuperato valori compromessi, messo a profitto le circostanze avverse ed, infine, È fatto il restauro del restauro: tenendo presente che non tanto l’invenzione brillante quanto proprio il tormentoso svilupparsi dell’idea attraverso i dati di fatto, propizi o contrari, è il carattere veramente nuovo della progettazione borrominiana, sempre intimamente legata al farsi, alla vicenda esistenziale dell’opera.

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L’itinerario di questi piccoli capolavori, ricostruito con perfetta analisi da Portoghesi, dimostra come Borromini, angustiato per l’incolpevole fallimento della grande impresa, abbia cercato di creare nelle navate minori, più conformi al suo disegno, altrettanti punti di vivo interesse, che distraessero il visitatore dalla disgraziata veduta della navata maggiore, il cui effetto doveva apparirgli doppiamente mancato: dal punto di vista della spazialità prospettica, malamente troncata da una brusca diminuzione di scala all’arco trionfale, proprio là dove avrebbe dovuto dispiegarsi nella tribuna e nel transetto, e dal punto di vista della spazialità luminosa, soffocata dai grevi intagli del soffitto piano. Con quei minuscoli gioielli architettonici ribadisce, infine, il suo intento antimonumentale; e scrive l'amaro, patetico commento (quasi un epicedio) dell’opera incompiuta.

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È il solo edificio religioso che il Cortona abbia studiato come organismo autonomo e completo, con una calcolata correlazione tra interno ed esterno. Una soluzione centrale, a blocco chiuso, era questa volta imposta dalla configurazione della zona: l’incombente altura capitolina da un lato, la valle del Foro dall’altro, l’arco di Settimio Severo davanti, i ruderi emergenti nelle vicinanze. Il Frey è stato il primo a capire che, se lo schema planimetrico a croce può far pensare ad un recupero cinquecentesco dai progetti per San Giovanni dei Fiorentini e perfino al piano bramantesco per San Pietro, in realtà c’è una differenza fondamentale: nel Cinquecento la parete è limite di spazio, il Cortona «la dissolve in un sistema di sostegni, in colonne libere poste tra pilastri che sporgono in fuori come quinte e sopra i quali la trabeazione continua senza interrompersi; in più il muro retrostante è traforato da porte, finestre e gallerie, oppure nascosto da altari, così che non appare affatto come un piano omogeneo». La parete plastica, che elimina così la funzione di limite del muro che la dislocazione di elementi portanti nel vano dell’edificio, è indubbiamente la prima, grande invenzione del Cortona; ma è facile osservare che l’innovazione non consiste certamente nella scoperta di un nuovo sistema statico, ma semplicemente nella concezione della parete come un piano pittorico, un muro decorato». Per raggiungere l’autonomia plastica delle pareti era necessario: 1) disimpegnare i quattro bracci della croce dal sistema bloccato dei sostegni della cupola, e cioè dal vano centrale; 2) disgregare il nucleo plastico unitario fissando un asse longitudinale dominante, rispetto al quale gli spazi laterali non apparissero come espansione del vano centrale, ma come fughe prospettiche ortogonali all’asse maggiore; 3) trasformare la gravitazione dei corpi intorno al vano centrale in una successione prospettica. I quattro spigoli corrispondenti alle imposte degli archi della cupola avrebbero dovuto essere, in un sistema plastico unitario, i punti di massimo sforzo, quindi di massima intensità plastica; sono invece punti volutamente deboli, di snodo, perché le colonne accoppiate si disgiungono e tra i loro fusti cilindici non emerge uno spigolo vivo, ma si vede la faccia piana e trasversa, sdrucciola, di un pilastro arretrato. Non un fortissimo, ma una pausa. Così ogni colonna, invece di agire come fulcro plastico articolante, diventa l’elemento di testata di un vario prospettico, l'inizio di una allineata successione di membrature sporgenti e di rientranze profonde. Né bisogna dimenticare che, com’è provato dai disegni, il Cortona era partito da uno schema perfettamente centrale, e che soltanto nel corso dell’elaborazione ha deciso di prolungare i due bracci sull’asse dell’ingresso, trasformando l’organismo plastico centralizzato in un organismo prospettico longitudinale.

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Se di quel tema architettonico il Cortona si serve, nei suoi dipinti, come simbolo del sacro, non v’è ragione di credere che non abbia, nel contesto decorativo della Pace, lo stesso significato. Ma non v’è neppure ragione di dubitare che, se concentra in quell’elemento il tema del sacro, sia per liberarsene, e per poter sviluppare liberamente come decorazione festosa o addobbo cerimoniale tutto il resto del suo discorso, che dunque deve interpretarsi come una sorta di apparato con cui si rende onore al sacello. Si passa così dalla concezione berniniana della sacralità monumentale e da quella borrominiana dell’esaltazione religiosa ad una concezione che vorrei dire civile o laica, perché non esprime la sacralità o la religiosità in sé, ma il tributo della gente alla sacralità del tempio. Così il Cortona anticipa, sul piano puramente ideologico, un pensiero del Guarini: quello, cioè, che non esiste un’architettura religiosa né un’architettura sacra, ma sempre e soltanto una architettura. civile (o, diremmo noi, sociale), sia pure con destinazione e funzione religiose o, come dice il Guarini, ecclesiastiche. È una svolta importante, e non soltanto nella storia dell’architettura, ma nella storia di quell’ideologia borghese, che comincia a formarsi proprio nel Seicento. Né v’è bisogno di sottolineare che il tema del sacro come omaggio di una società ideale ai simboli del sacro è un tema fondamentale della rettorica decorativa del Cortona pittore: in ogni caso, uno dei suoi contributi essenziali alla poetica del Barocco. Infine, sol che si pensi alla vicinanza delle date, non è dubbio che la soluzione urbanistico-sociale e modestamente decorativa della piazza di Santa Maria della Pace rappresenta l’antitesi ideologica della soluzione allegorico-monumentale del colonnato berniniano per San Pietro.

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Dunque l'architetto non vuol più che lo spazio architettonico abbia un centro ideale: esso non è più definito da una sua struttura, ma dai suoi limiti e nel suo limite ultimo, dove tutte le prospettive convergono progressivamente stringendosi, pone l'oggetto del culto, l'immagine.

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Rimane da vedere quale peso abbia avuto, nell’esistenza artistica di Michelangiolo, la presenza costante, ossessiva, quasi persecutoria dell’idea inespressa della tomba di Giulio II. Non ha senso rispondere che, morto il committente e succedendosi le ordinazioni da parte dei pontefici venuti dopo, l’attuazione del progetto perde ogni ragione d’urgenza e viene perciò sistematicamente posposta ai nuovi impegni di lavoro: se tutto si riducesse a questo, non si spiegherebbero i mutamenti radicali, anche tematici, che evidentemente non dipendono da un progressivo restringersi del programma iniziale. Quanto al fatto che tutte le opere compiute da Michelangiolo tra il 1505 e il 1545 attingano e portino motivi al progetto inattuato, determinando anche nel «concetto» gli sviluppi che il Tolnay ha così bene descritti, si tratta appunto di vedere perché questa specie di osmosi tra le opere in atto e l’opera in progetto abbia finalmente condotto allo svuotamento di quest'ultimo. Infine, bisogna tenere presente che la storia delle vicende della tomba non è la storia di un progetto inattuato, ma di una serie di tentativi falliti: almeno quattro volte (dopo il progetto del 1505, quando eseguisce varie parti decorative; dopo quello del 1513, quando scolpisce i due Schiavi ora al Louvre e il Mosè; dopo quello del 1532, quando eseguisce gli Schiavi della Accademia e la Vittoria; dopo il 1542, quando partecipa all’esecuzione del disegno finale) Michelangiolo ha messo mano all’esecuzione della tomba; e gli Schiavi, il Mosè, la Vittoria sono indubbiamente tra le sue opere più alte. Si tratta dunque di trovare i motivi profondi dei successivi fallimenti dell’opera.

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Nulla di più verosimile che la nuova tecnica progettistica guariniana, proprio in quanto si avvicinava al «modello» della tecnica della composizione musicale ed eliminava radicalmente la componente storica, abbia contribuito non poco alla fortuna internazionale del Barocco. L’irradiazione europea dell’architettura barocca avviene infatti in un modo totalmente nuovo, senza espliciti riconoscimenti dell’autorità di un maestro e senza limitazione formale delle sue storiche «invenzioni», ma col processo stesso che il Guarini (T. III, cap, XIII) descrive a proposito dell’architettura gotica, di cui «non sono stati mai dati precetti o assegnate le proporzioni», sì da potersi dire «nata senza maestro».

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Nella storia architettonica, inseparabile dalla storia politica, del Piemonte l’Alfieri fu il primo architetto di Stato: il primo, cioè, che abbia coscientemente inserito l’iniziativa urbanistica ed edilizia nella direzione politica del paese. In questo senso il suo impegno ostinato sul fatto linguistico, sulla definizione di una morfologia e di una sintassi architettoniche italiane, e non più piemontesi, trova una giustificazione e scopre una finalità che il grande nipote non riconobbe, benché la sua impresa letteraria ripercorresse a gran passi la strada tracciata dall’impresa architettonica dello zio.

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I primi a chiedersi seriamente perché l’Inghilterra, malgrado il suo elevato livello culturale, non abbia avuto una scuola autonoma, non sono certamente i nobili, che comperano antichità e opere d’arte di gusto classico e considerano il «grand tour» nel continente come il necessario complemento di un’educazione signorile. Quando Webb risponde a quella domanda dicendo che il gusto dei ritratti ha ostacolato la nascita di una pittura di storia, addossa implicitamente la responsabilità di quella carenza alla nobiltà, che aveva incoraggiato lo sviluppo unilaterale della ritrattistica. Ma, poco oltre, indica nella finalità religiosa un limite alla rappresentazione del bello: e, se è già importante che la figurazione religiosa non venga considerata contraria al fine della vera religione ma al fine proprio dell’arte, assai più interessante è il fatto che l’arte «di storia», di cui si deplora la mancanza, venga distinta dall’arte religiosa, che dunque è valutata come un genere imperfetto. È dunque chiaro che, per pittura di storia, Webb intende una pittura di fatti, senza implicazioni religiose o allegoriche: una storia non eroica e celebrativa, dunque, e molto prossima alle vedute della nascente cultura borghese.

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Il genio-gusto non è soltanto dell’artista, ma di chiunque abbia ricevuto una certa educazione: e se questa facoltà, quando prende il nome di genio, sollecita a fare dell’arte, non si vede come possa rimanere affatto inerte quando prende il nome di gusto. È vero che ha sempre una funzione educativa: ma anche la conoscenza dell’arte classica, che non aveva conseguenze pratiche e costituiva soltanto un ornamento della persona, era un fattore dell’educazione. Ma, al contrario della nobiltà, la borghesia era una classe che lavorava, produceva, non aveva paura di sporcarsi le mani, non considerava l’arte come il tributo di una classe inferiore: la pedagogia borghese non poteva dunque fermarsi alla qualificazione dell’individuo in rapporto a un rango sociale, doveva inserirsi in quella ch’era ormai la tecnica e l’economia, la funzione produttiva della classe. Non è da escludere che, tra le origini lontane del dilettantismo, vi sia anche il vecchio discorso di Richardson sull’attitudine della pittura a produrre ricchezza: perché spendere quattrini a comperare quadri, quando è possibile, unendo l’utile al dilettevole, farseli da sé? Ma il dilettantismo pittorico è anche un aspetto, benché secondario, dell'avventura tecnica che la borghesia s’apprestava ad affrontare con le prime imprese industriali. I pionieri dell’industria, coloro che per primi si distaccano dai modi operativi tradizionali, sono mossi, molto più che dall’interesse del guadagno, dallo spirito d’avventura, dal gusto dell’iniziativa rischiosa, da una sorta di genio artistico, infine: come, vedi la coincidenza, il padre di Gainsborough. Insomma: con il dilettantismo pittorico, (fenomeno tipicamente borghese come il dilettantismo architettonico, parte di un’arte del governo, era stato un fenomeno tipicamente aristocratico), non soltanto la borghesia partecipa dello sforzo di dar vita a una pittura, ma dimostra di considerare la pittura come un agente del proprio sforzo progressivo, anzi come una delle proprie tecniche, dei propri modi di operazione. Si crea, infatti, anche la tecnica più adatta al dilettantismo e più conforme al gusto del «pittoresco»: l’acquarello. Anche in questo caso si tratta piuttosto di una messa a punto che di un’invenzione tecnica; ma bisogna rammentare che, se nella tradizione artistica continentale l’acquarello è sempre un complemento del disegno e perciò è un elemento preparatorio dell’opera (anche se, proprio come tale, acquista un interesse particolare), in Inghilterra è considerato come una tecnica autonoma, oggetto di una ricerca e di una teorizzazione particolari. E s’intende: è una tecnica semplice, ma che richiede grande prontezza di notazione e di esecuzione; non è artigianale, non dà luogo a oggetti vistosi e decorativi, ma traduce immediatamente un’attività mentale, dando luogo ad immagini che hanno la consistenza brillante ed immateriale delle immagini mentali; lascia al colore la sua qualità di apparenza, senza peso e quantità di sostanza; designa una profondità indefinita, evocativa ma non rappresentativa di spazio. È, infine, la tecnica corrispondente al «seeing properly», quella che attua il carattere attivo o creativo del vedere: il momento meccanico, e necessario, del rapporto di coesistenza o di partecipazione, e non più di distaccata o oggettiva contemplazione, che passa tra uomo e natura.

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È strano che Ruskin, dopo esser giunto per primo alla teorizzazione dello spazio frammentario, non abbia riconosciuto, nella pittura degli impressionisti francesi, la prima concreta rappresentazione di uno spazio frammentario. Ma si spiega: la pittura degli Impressionisti nasceva da una crisi storica, che la cultura inglese non aveva se non marginalmente vissuta, implicava una polemica rivoluzionaria contro valori tradizionali, che la pittura inglese non aveva mai accettati. Allo stesso modo, però, la critica di Ruskin rifletteva e affrontava problemi che, nella cultura del continente, non si erano ancora prospettati in termini così gravi come in Inghilterra. L’arte dei «primitivi» italiani appare a Ruskin come il risultato di un’intenta, approfondita, umile indagine della natura; e il mezzo di questa indagine risulta essere un accurato, scrupoloso, onestissimo artigiano. Come risulterà dalla penosa diatriba con Whistler, ciò che Ruskin rimprovera agli Impressionisti, e ai pittori che ne seguono l’indirizzo, è appunto la mancanza di una coscienza artigiana, di una modesta e compunta diligenza nel fare: impossibile immaginare artisti come quelli alla testa di una maestranza, impossibile supporre una qualsiasi divulgazione della loro arte nei prodotti di quotidiano impiego. È un’obbiezione che vale piuttosto sul terreno morale che su quello estetico: ma sono appunto questi due campi che Ruskin non vuole assolutamente distinti. Ma non si può evocare l’argomento antico del naturalismo senza poi trarne le conseguenze: come sempre, il tema del naturalismo si tira dietro il tema della religiosità dell’arte. Non dimentichiamo che l’avere rivalutato Parte dei «primitivi» italiani valse al Ruskin l’accusa, certamente immeritata, di «papismo». Ma se l’accusa era ingiusta, sta di fatto che la «socialità» di Ruskin, e perfino quella del socialista Morris, si colora di religiosità: quasi che il fine della vita sociale non fosse da realizzarsi su questa terra, ma nella finale beatitudine dei cieli. E questa evasione nel misticismo è la prova di un malinteso, se non proprio di una frattura, con la società storica: più ancora, di un’opposizione tra l’ideale dell’artista e gli interessi della società. Per questa via s’infiltra, nel gusto fondamentalmente «pittoresco» di Ruskin, una vena di «sublime»: il tema dell’artigianato d’elezione, più religioso che sociale, che passerà poi nei Preraffaelliti ed in Morris, dando vita al movimento di Arts and Crafts.

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Nel 1772 il suo giudizio non era senza riserve: «Alla domanda su chi debba avete il primo posto, Raffaello o Michelangiolo, bisogna rispondere che, se questo spetta a chi possiede una più ricca combinazione di possibilità artistiche, non v’è dubbio che ne abbia diritto Raffaello; se invece si ritiene, come Longino, che il sublime, rappresentando la vetta più alta che l’arte umana possa raggiungere, compensi largamente l’assenza di ogni altra bellezza e faccia perdonare ogni deficienza, allora la preferenza va data a Michelangiolo».

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Fuseli, si sa, era un fanatico dell’antico, il primo che dell’arte classica abbia avvertito il caldo contenuto umano, l’intensità espressiva; ma «l’arte di dare alla figura principale del quadro il dominio dell’orizzonte è forse il solo punto in cui l’arte moderna sia più avanti dell’antica» (Lectures, IV, 1805). I suoi eroi-attori non sono figure della vita trapassate ed assunte nell’arte, ma figure dell’arte classica discese e mescolate alla vita: fatte moderne, non senza acquistare una leggera patina di barbarie neogotica, di cui l’artista, con il suo gusto del contraddittorio, è il primo a compiacersi. Per Fuseli, come già per Winckelmann, l’arte ha la sua determinazione storica, è una epoca nella vita del mondo, l’epoca classica dei miti e delle immagini, delle sorgenti primarie della forma, della felice scoperta dei «true elements of human essence» (Lectures, VII, 1810). È un mondo che si può evocare, magari con gli artifizi della negromanzia manieristica, ma non si può più rianimare se non, appunto, compromettendolo audacemente col moderno. (Perciò, se per Fuseli, Michelangiolo è il genio fuori del tempo, Leonardo è il vero creatore dell’arte moderna). L’apparizione delle figure dell’arte è dunque, sempre, e non potrebbe non essere, magica e spettacolare, e non importa ch’essa avvenga su una scena teatrale, nel sogno o nell’incubo, purché sia sottratta a ogni confronto con la realtà della nozione empirica, che romperebbe subito l’incanto. Le immagini, così spaesate, di Fuseli, sono sempre il prodotto di un repentino fissarsi del movimento; al subito aprirsi del sipario, gli attori sono già in scena, atteggiati ed immobili, fatti come di sale nel raggio crudo del riflettore. E tutto è artificio, dal gruppo statuario d’immagini che riflette il gusto sociale del tempo per i cosiddetti quadri plastici (ne parla anche Goethe), agli effetti di luce. Ciò che l’artista specialmente cerca è «the command of horizon», e può ottenerlo soltanto affidando tutta la responsabilità della scena a una figura dominante o ad un gruppo di figure così strettamente avviluppate da formare una sola e quasi mostruosa figura con più teste e molte braccia. Era un modo di concentrare l’espressione, del resto, che Fuseli aveva studiato sugli antichi e in particolare sui marmi del Partenone. Meglio che nelle tardive osservazioni sul Laocoonte di Lessing, in questi gruppi di figure avvinghiate e percosse dalla stessa corrente di pathos, Fuseli vuole mostare come sia possibile trasporre in una forma violentemente emotiva proprio ciò che Lessing riteneva assolutamente non suscettibile di rappresentazione plastica e destinato ad essere espresso con la parola e la misura del verso. Si lascia guidare, nella dimostrazione grafica, dall’estrema vividezza ed impressività delle immagini poetiche di Shakespeare, dalla loro carica emozionale che investe indirettamente anche le facoltà visive: e dal suo modo di scandire tutta l’azione sul ritmo del verso, dal suo gusto delle situazioni strette e del corpo-a-corpo dialogico, dall’audacia sprezzante con cui ammette nel più scelto e fiorito dei contesti l’urlo, l’interiezione, l’invettiva. Potrebbe dirsi che, se si dà nella poesia di Shakespeare un aspetto «giambico» nel senso della Poetica aristotelica, è proprio questo che Fuseli trasceglie, per tradurre quella poesia in figure.

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In ogni caso, l’oggettività e l’indeclinabilità formale degli attributi autorizzano una libertà pressoché illimitata nella allegorizzazione delle figure: il Serpotta per esempio, fissati che abbia (e magari isolati dal contesto mediante la doratura) certi attributi obbligatori, si compiace di raffigurare una virtù o una santa come una graziosa, giovane donna vestita all’ultima moda. Ed è facile intendere come questo rapporto di attributo obbligato e allegorizzazione libera sia tanto più frequente nella scultura decorativa, in cui minore o minima è l’importanza del soggetto. L’Inverno del Bonazza, poi, è un tipico esempio, tra i molti, di allegoria non concettuale, e sviluppata al livello del «genere»: la figura «di costume» (l’uomo intabarrato) ed una natura morta in trompe-l’oeil (lo scaldino, la lanterna e il soffietto), sebbene non appartengano al repertorio dell’allegorismo tradizionale, formano tuttavia un’allegoria, ma una allegoria d’un tipo nuovo, che non ·si produce secondo un iter rettorico, rivolto a magnificare la bellezza di un concetto, bensì secondo l’agile meccanismo delle associazioni mentali, che avevano descritto illuministi inglesi e che in Italia era stato studiato da Giuseppe Parini anche in rapporto alle strutture del linguaggio e dello stile letterario (per esempio, al rapporto tra sostantivo e attributo). Nell'arte figurativa il percorso associativo- combinatorio della «mente attiva» si identifica con l’andamento sinuoso e a spirale e con le oscillazioni e le vibrazioni coloristiche del rococò; ed in questo senso era stato teorizzato come generatrice formale dallo Hogarth, che nella «linea ondulata e serpentina» individuava il principio universale del bello, comune ai fenomeni della natura ed a quelli del costume e della moda, cioè della vita di una società che ha le sue radici e i suoi modelli nella natura.

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