Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Le due vie

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Brandi, Cesare 20 occorrenze

Non si tratta infatti di appurare se veramente l’economia abbia in ogni attività umana il ruolo di primo propellente e di condizionante: quel che colpisce, nel mondo attuale, è che la massa si comporta come se non avesse altro propellente o condizionante, e in stretta correlazione a ciò si traduce quindi in termini di presente. Sembrerebbe allora che proprio in questa riduzione del tempo reale al presente, per cui il futuro deve contrarsi nel presente, e il passato sopravvive solo in quanto vi confluisce, l’arte dovesse avere un posto privilegiato, visto che l’opera d’arte identifica un eterno presente nella coscienza che la riconosce come tale. Ma tale eterno presente dell’opera d’arte ha per effetto di fare accantonare la flagranza del presente in cui ciascuno vive: chi contempla, o ascolta contemplando, un’opera d’arte, vive in una sorta di levitazione terrena, per cui n’è vivificato, e ben altrimenti ossigenato che dall’aria di montagna. Ma tale levitazione, vivificazione, ossigenazione, se intensifica la coscienza, è a scapito della flagranza: l’eterno presente dell’opera d’arte è una sospensiva dalla flagranza del presente. Se tale flagranza occupa la coscienza così da impedirle di gettare la zavorra o tagliare l’ormeggio, invece di ritrovarsi libera nell’alto mare della forma, si troverà nella posizione ingrata di un cane a catena che per raggiungere l’offa — l’opera d’arte chiusa nella fattispecie — si sente strozzare dal collare. A questa coscienza alienata nel suo presente storico è inutile offrire allora simili miraggi: le belve fra le quali si presenta il domatore non devono essere affamate. Sarà la paura, non la fame che le farà ubbidire. Perché allora si avvicini all’opera d’arte chiusa, la coscienza attuale, non dovrà essere tenuta a catena dal suo presente, non dovrà avere più fame: la sua fame, il suo presente dunque, deve essere stato saziato. Solo così non mangerà il domatore, e cioè contemplerà l’opera d’arte. Questa si pone allora come antecedente alla fame, inattingibile dalla fame, e dunque fuori del presente: ma fuori del presente, non c’è che il passato. L’opera d’arte chiusa è al passato, come l’opera d’arte aperta non è al futuro, ma al presente: e allo stesso modo che non c’è più avanguardia così il passato si è richiuso in se stesso una volta per sempre. Ci sarà anzi un presente al passato, ad esempio, per l’arte contemporanea, che non si confonderà col passato-passato. Picasso è ancora vivente ma appartiene al passato-passato: Fautrier fino a poco fa vivente, apparteneva al presente al passato, perché tuttavia era già di quell’arte che richiede l’integrazione dello spettatore. Così si spiega il sinecismo dell’arte chiusa con quella aperta. Nel presente, la fame del presente deve essere placata con l’integrazione all’opera, con la possibilità di entrare in orbita con l’opera. Il passato avrà diritto di accesso solo in quanto si accontenterà di restare al passato, anche che realizzi un eterno presente: oppure se accetta di acquistare, come una doppia nazionalità, una nuova flagranza. Conferme di questo atteggiamento, che rispecchia da un lato la nostalgia del Paradiso perduto della forma, e dall’altra l’inderogabilità che il presente impóne, si trovano ad ogni piè sospinto: ma la più significativa — per Parte — è data dall’arredamento delle case e dalla museografia. L’opera antica, dal mobile al quadro, è sollecitata ad entrare nelle case — mai c’è stato un tale dilagante antiquariato — ma è anche sollecitata a entrare nel presente storico. Proprio in questo senso non usa più di ricreare un ambiente consono all’epoca dell’opera, ma si forza l’opera a far parte di un ambientamento, non di uno stile determinato cioè, ma di un determinato presente. E ciò non è perché si abbia una coscienza etica del falso, e quindi si sfuggano, come sarebbe doveroso, le falsificazioni d’ambiente, ma perché risulta inevitabile trasferire anche all’opera chiusa una parte almeno delle esigenze proprie dell’opera aperta, farle pagare il pedaggio della sua traslazione nel presente storico. Anche l’opera chiusa deve acquistare una flagranza, per transeunte che sia, al di qua di quel suo eterno presente che, inversamente, si configura al di là del presente storico. E poco importa se il dipinto, privato, per ringiovanirlo, della cornice, perde il raccordo alla spazialità della parete e, in genere, dell’ambiente: raccordo che era, esattamente, come il proscenio, comunicazione e barriera. Ma proprio quel raccordo lo riportava indietro, nel suo passato, mentre è il suo passato che deve essere risucchiato nel presente. Così ima donna anziana non si veste più al modo con cui le donne anziane del tempo in cui era giovane si vestivano, e cioè con la moda di quando erano giovani: le donne anziane, di oggi, prima di tutto non accettano d’essere anziane e poi si adattano alla moda dei giovani, non si riportano a quella del tempo in cui erano giovani.

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Se si ritiene di dovere o di potere sciogliersi, per l’avanguardia, dall’ambito romantico storicamente delimitato, per farne un concetto tipico-ideale se non proprio una categoria sopra-storica, non c’è nessuna ragione imperativa per non riconoscere l’avanguardia dove si constati eversione rispetto al passato e protensione verso il futuro, si abbia o non si abbia esplicitato, questo modo di porsi in situazione nella storia, come avanguardia. E sarebbe lo stesso che volere riconoscere il razzismo, così come fu teorizzato dal nazismo, nell’individuarsi come popolo eletto del popolo di Israele: storicamente porterebbe a falsare la storia, anche se concettualmente vi sia affinità fra la razza chiusa del popolo eletto e la pretesa supremazia della razza ariana. Ma l’opposizione che il Poggioli istituì fra avanguardia e Romanticismo 22, nacque dall'«ubbia che la continuità della linea ideologica e storica Romanticismo-avanguardia viene affermata da molti storiografi e critici... quasi sempre di destra»: bastò questo ad obnubilargli la visione esatta del rapporto strettamente genetico e non d’opposizione fra Romanticismo e avanguardia. Fine dell’avanguardia come fine del Romanticismo: così la teorizzammo nel 1949 23.

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Proprio per questo non si nega l’arte contemporanea negando che abbia il carattere delle avanguardie storiche: l’identità o coincidenza, come avrebbe voluto il Poggioli, fra avanguardia e arte moderna 24 non tiene conto del fatto che, se non vi è protensione verso il futuro, il titolo di avanguardia scade a designare il semplice traguardo del presente. Sicché se l’astrattismo di ripresa post-bellica non era avanguardia, perché chiaramente rivolto al passato, al primo astrattismo, e non al futuro, e quindi segnava il passo, il movimento che è venuto dopo, l’informale, non è stato avanguardia proprio perché, se non si rifaceva al passato, insisteva sull’hic et nunc e solo nell’hic et nunc della integrazione dello spettatore.

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E spiega anche come il cinematografo, nato in primo luogo dalla fotografia, abbia ereditato la stessa pretesa o rivendicazione che sia. Che non bastasse il fatto di riprodurre uno spettacolo naturale, per mettersi sullo stesso piano della pittura — e sia pure che, per consentire di esser raggiunta su quella strada, la pittura stessa dovesse essere interpretata erroneamente come mimesi — lo fa indurre il fatto che non tutte le attività volte a rilevare il dato naturale hanno ugualmente preteso di ascendere al livello della pittura. Si pensi alla cartografia ad esempio, che semmai può avere costituito, in tempi più lontani, una specie di branca minore della pittura, distaccandosene poi definitivamente via via che raggiungeva un grado di perfezione tecnica maggiore. La fotografia, invece, questa sua aspirazione all’arte, non la fonda o l’accresce nel maggiore perfezionamento tecnico rispetto ai primi vagiti in dagherrotipo e in calotype, e affetta anzi, nei più accorti, di deplorare il perfezionamento tecnico in quanto la può rendere più facile e volgare. È chiaro che intenziona, con ciò, qualcosa di inespresso, e che vale proprio in quanto inespresso, perché, dove si sia tentato di esprimerlo, non ha prodotto spostamenti apprezzabili nello status della fotografia come arte.

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Il secondo, analogo ma non identico, è quello in cui l’intenzionalità abbia isolato un frammento di materia o comunque un oggetto, sia o no opera dell’uomo, sicché la materia del frammento o dell’oggetto resti come in sospeso su se medesima: il che può accadere quando il prelevamento e l’isolamento costituisca l’oggetto (o il frammento) come oggetto significante, e cioè simbolico di un determinato, oscuro o palese, status. In questo caso, tanto se si tratti di un frammento di materia tratto dal mondo organico o inorganico, che di un manufatto, si manifesta come fenomeno colpito da una speciale epoché sospensiva Ora a questo si riconduce la prima fase del processo creativo, che abbiamo chiamata costituzione d’oggetto. E perciò il fenomeno così isolato non dà parallelamente, rispetto a ciò che abbiamo chiamato opera d’arte, un altro fenomeno-che-fenomeno-non-è, ma piuttosto il fenomeno sull’orlo di trapassare in fenomeno-che-fenomeno-non-è: e a ciò si giungerà solo con la formulazione d’immagine.

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Pia illusione, che questo possa accadere, anche dove lo Stato abbia struttura socialista e non capitalista. La redenzione della cultura di massa non si può sperare prima del fatto migliorando, come qualcuno crede, il livello dei fumetti o la forma del catino di polietilene, ma solo post factum: solo sul fatto l’individuo, la coscienza singola, potrà elaborare il riscatto.

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Non è detto perché il primo ponte in ferro sia stato costruito da un ingegnere con l’aiuto d’un architetto, che, anche nell’ingegnere, non ci fosse una larvata proiezione delle condizioni formali e non solo tettoniche a cui doveva uniformarsi il ponte stesso: e che insomma un’intuizione formale non abbia preceduto l’elaborazione di una tecnica che, via via, doveva condurre ai grattacieli. Non si elabora una tecnica tettonica come si elabora una tecnica per riconoscere le frodi olearie: questa sarà un iter interno della conoscenza, quella, per il solo fatto di ostendersi alla vista, si pone esterna al foro interiore del ricercatore, e quindi costretta a vestire comunque una forma, o, se a una forma non approderà ma solo ad una conformazione, a farne sentire la mancanza, come opera tettonica e rimasta solo tettonica. C’è un caso, nell’architettura contemporanea, quello di Nervi, che crede di potere elaborare delle soluzioni tettoniche indipendentemente dall’architettura, così che, nel Palazzo dello Sport, prestò la soluzione tettonica della copertura perfino a Piacentini. Il resultato è che l’illuminazione tettonica e asistematica di Nervi si presenta sempre come un cammino rimasto a mezzo, dove pure lo scopo è raggiunto, come un’ascensione fallita, perché una tettonica elaborata al di fuori della forma è contradditoria dove anche Putensilità più stretta richiede una conformazione precisa, un adeguamento che, segua pure la forma, la funzione non suggerisce mai in modo univoco. Donde il design come progettazione continua, inesauribile.

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Che l’interpretazione romantica come Derelitta abbia enfasizzato e reso celebre l’opera non c’è dubbio, come non c’è dubbio che, se veramente raffigura Mordecai che piange davanti alla porta del Re (dal Libro di Esther), apparirà meno «poetica»13. Ma questo rientra unicamente nella recezione storica dell’opera: nella sua essenza è quello che si manifesta e non il messaggio che trasmette o convoglia.

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Se io mi trovo di fronte ad una montagna, sentirò di colpo la montagna, in modo diretto e immediato: solo in un secondo momento potrò indagare, interrogare questo fenomeno che è la montagna, e cioè accantonare la sua presenza imminente, oggettivandola, per indagare come si sia formata, di quali strati geologici sia composta, e anche che cosa abbia significato per un dato popolo o lungo il succedersi delle varie epoche.

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Se la definizione precedente riguarda la struttura del messaggio — perché si abbia messaggio si devono riscontrare certi dati requisiti — tale struttura ha senso solo in vista della informazione che col messaggio si vuole trasmettere.

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«Il concetto dell’arte come una sorta di comunicazione, — scrive appunto — ha i suoi pericoli perché, per analogia di linguaggio, ci si aspetta naturalmente che comunicazione si abbia fra l’artista e il suo pubblico, ciò che io ritengo una nozione aberrante. Ma c’è qualcosa che può, senza pericolo di esser presi troppo alla lettera, esser chiamato comunicazione attraverso l’arte, particolarmente le informazioni che le arti favoriscono per un’epoca o un popolo alla gente di altra epoca. Neppure mille pagine di storia possono illustrarci la mentalità egiziana meglio di una visita ad un museo o mostra di arte egiziana...»

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Nella inderogabilità di questo secondo punto di stazione si fonda altresì la legittimità delle indagini relative alla possibilità che l’artista stesso abbia risentito del punto di vista del ricevente, sia che ciò avvenga per un contemperamento con le richieste del ricevente, sia che l’artista accetti di trasporsi, coscientemente o no, e più o meno parzialmente, dalla parte del ricevente. Quando questo ultimo evento si produca, e, per il momento attuale ne daremo congrua esemplificazione nella seconda parte di questo saggio, occorre precisare che l’accessione dello spettatore non si configura più come una mera recezione dell’opera, ma rientra strutturalmente nell’opera, sicché è componente da dovere essere rilevata e valutata in sede di critica rivolta all’essenza dell’opera, e non, come parrebbe, in sede di critica esperita dal punto di stazione della recezione dell’opera.

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Il fatto che, per una certa classe di opere d’arte, il veicolo con cui offrono la propria astanza di opera d’arte alla coscienza sia rappresentato dal linguaggio, e cioè dal sistema semiotico più evoluto, non implica che l’opera d’arte, che così si istituisce, abbia la stessa struttura della lingua in cui viene espressa. Certamente la struttura della lingua rimane la stessa nella poesia come nel verbale giudiziario, ma cambia l’intenzionalità con cui viene usata, da enunciazione di significati ad astanza. Si intrecciano quindi nell’opera d’arte, e non meno in quelle dette figurative che nelle altre, percorsi diversi, si stratificano livelli, ai quali compete una particolare struttura significante, ma allo stesso modo che le tessere di un mosaico, per provenienza e struttura fisica diverse, compongono un tutto, un’unità cioè, e pur rimanendo divise e pur mantenendo la propria struttura fisica, valgono, come epifania d’immagine, solo per quello che realizzano a vista, e cioè alla coscienza che le intenziona come opera d’arte. In questo senso, anche la ricerca per rintracciare, ove possibile e finché possibile, le connotazioni originarie e confuse con cui poté sorgere l’opera d’arte, all’atto della costituzione d’oggetto, rappresenterà un’indagine che non riguarda la struttura dell’opera, ma unicamente può servire alla ricostruzione storica, per approssimazione, del frangente da cui nacque l’opera d’arte. Nel che rientrano anche le indagini psicoanalitiche relative all’uomo che fu l’artista. L’indagine psicoanalitica tenterà di ricostruire un certo livello di semiosi in cui, ma non unicamente, affondò le radici anche la fabulazione e l’estrinsecazione dell’opera d’arte. Ma questo, come gli altri livelli significanti, che possono trovarsi ancora più scopertamente intrecciati nell’opera — si tratti di iconologia, di allegoria etc. — non faranno parte della struttura essenziale, specifica, dell’opera d’arte: l’opera d’arte varrà solo in quanto realizza un’astanza, in cui, i diversi strati significanti, vengono ad essere contemporaneamente inclusi e quindi indirettamente presentificati alla coscienza. Tutti i significati, che l’opera porta in sé, fondono senza scomparire, affondano nello spessore di quel reale sui generis che con essa si manifesta.

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Un codice in cui, come in una lingua, si può distinguere una grammatica e una sintassi, anche se il parallelismo con una lingua è più apparente che reale, in quanto che manca il nucleo essenziale perché si abbia lingua, l’unione arbitraria del significato nel significante in un’unità significativa, unione inscindibile. Perciò nella musica si ha una fonetica, ed anche una fonologia, ma sui generis, in quanto che le opposizioni sulle quali si articolano le tonalità e gli accordi non corrispondono che a se stesse, non si legano ad un significato, neppure ad un ethos fisso, che, come si sa, dai modi greci alla partizione in maggiore e minore, si è addirittura capovolto, e varia, naturalmente, a seconda delle assunzioni di un determinato strato culturale. Proprio perché la musica non nasce per trasmettere un messaggio, a meno che non venga, come in caserma, revoluta a segnale. L’intersoggettività della musica non è dunque per natura, ma per posizione, rispetto all’ambito culturale in cui matura e si manifesta. Il codice in cui è redatta deve essere conosciuto in se, ma non, come il codice di una lingua, per i significati che convoglia. E ciò spiega perché, seppure la musica possa sembrare la più diretta e immediata delle arti, il suo accaparramento, da parte dell’uditore, può essere così duro e difficile da resultare insormontabile, proprio perché il codice senza messaggio in cui è scritta, deve essere posseduto almeno empiricamente da chi ascolta. Così le innovazioni introdotte dalla musica seriale nel codice tradizionale della musica, l’hanno resa, per i più, incomprensibile: e cioè non astante come musica, ma solo come traguardo di suoni, fatto della percezione. Non c’è dubbio quindi che il codice in cui è scritta una musica è inseparabile dalla musica stessa: ma non è la struttura per cui è musica, e cioè, una volta ancora, realtà astante e non messaggio.

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Osserva infatti 10 che si sarebbe tentati di criticare l’assimilazione del principio di ragione al principio di causalità, ed eccepisce che ogni causa (Ursache) è senza dubbio una specie di fondamento (Grund, ratio), ma che non ogni fondamento offre le caratteristiche di una causa, che abbia cioè per conseguenza un effetto. Ratio e conseguenza non sono la stessa cosa che causa ed effetto («Grund und Folge sind nicht das gleiche wie Ursache und Wirkung»). Pure, dopo avere affermato che tali rilievi sono esatti da un certo punto di vista, aggiunge che, a voler fare la lezione a Leibniz su queste considerazioni, si rischia di precludersi la via a quello che il pensiero di Leibniz ha di più caratteristico. Ciò che introduce all’interpretazione duplice che dà Heidegger del principio di ragione, da un lato come principio che riguarda l’esistente, dall’altro come principio che né l’est del nihil est sine ratione colpisce l’essere. Donde si giustifica la qualifica che ne dava Leibniz, come principium magnum, grande, nobilissimum. È naturale che, con questa seconda interpretazione 11 scompare virtualmente, riassorbito nell’essere, il principio di causalità, che nella sua connessione necessaria di causa ed effetto (per cui presume lo svolgimento nel tempo) rientra di per sé nella problematica esistenziale. Nella problematica dell’esperienza lo incontra naturalmente Kant, che, nella Critica della ragion pura, alla Seconda Analogia, fa l’osservazione illuminante che, del principio di ragion sufficiente, «tanto spesso ma sempre invano n’è stata ricercata una prova» 12.

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Vale tuttavia vedere più da vicino come il principio di indeterminazione abbia ridimensionato il principio di causalità. Sempre nel campo della meccanica quantistica, il principio, nel suo enunciato più accessibile, è così espresso dal Reichenbach23: «In una data quantità u vi sono altre quantità v che non si possono misurare contemporaneamente alla quantità u». Le conseguenze di questo principio sono immense, perché se ne deduce che al determinismo della meccanica classica, fondata su leggi sempre valide, si sostituisce in meccanica quantistica (nel regno, sia detto volgarmente, dell'infinitamente piccolo) la probabilità statistica, donde la meccanica quantistica si rivela una disciplina statistica, e ciò costituzionalmente e non faute de mieux 24. Infatti l’imbarazzo provocato dal principio di indeterminazione, in una mentalità dommatica e positivista come quella scientifica, fece sperare o supporre che l’indeterminazione rispecchiasse uno stadio provvisorio della scienza, e che, progredendo ancora, ogni legge della fisica tornerebbe ad essere assoluta e non riferita ad una media statistica. Ma le cose non stavano così come si sperava, l’indeterminazione della meccanica quantistica va accettata, essa, come una legge insorpassabile della fisica, ed anzi la legge statistica si configura come il tipo fondamentale della legge fisica e non già faute de mieux25. Né diversamente dal Reichenbach poteva esprimersi lo Heisenberg 26 che, anche più chiaramente, sottolinea che «nei processi in campo macroscopico questo elemento statistico della fisica atomica non ha in generale importanza, perché nel processo macroscopico deriva dalle leggi statistiche una probabilità così elevata da permetterci di dire che il processo è, praticamente, determinato». 27. Con che si restringe ancora la portata d’applicazione in senso stretto del principio di causalità.

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Il problema allora è, se un contrasto simile fra le due meccaniche abbia o no portato ad un conflitto col principio di identità: ma è chiaro che, non potendosi avere pensiero valido al di fuori del principio di identità, il principio di indeterminazione non avrebbe potuto essere formulato, se un’inconciliabilità resultasse col primo. Infatti il principio di indeterminazione non contrasta col principio di identità, ma col principio di causalità, che non rappresenta una struttura inderogabile, valida in ogni direzione, del pensiero, e solo costituisce una struttura efficiente dove possa intervenire quella verifica sperimentale che consente di trasformare una successione nel tempo in un nesso causale.

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Né è rimasto campo dell’attività umana che non abbia ricevuto una teorizzazione che seguisse o riflettesse quella che a tutti si poneva a modello nelle scienze naturali.

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Quale resultato abbia raggiunto lo apprendiamo dalle parole di un filosofo marxista, Galvano della Volpe. Questi comincia intanto col premettere: «che senza coscienza del linguaggio pittorico e della sua puntualità storica non è possibile render giustizia in sede di gusto a nessun dipinto in particolare [...] col che cade anche ogni tentativo di una sociologia dell’arte, pittorica nella fattispecie, o di una iscrizione di questa in una superstruttura, che trascuri il suesposto carattere dialettico del rapporto tecnica-arte, e che pretenda, ad es. come la sociologia di Frederick Antal (per ricordare il tentativo più impegnato in proposito) di individuare e distinguere una Madonna col bambino di Masaccio da una Madonna col bambino di Gentile da Fabriano mediante ricorso al criterio che ‘ preso nella dovuta considerazione il contenuto dei quadri ’, col relativo sfondo sociale, sia ‘ subito chiaro che le differenze stilistiche sono dovute non solo alle differenze individuali tra i vari artisti, ma anche al fatto che tali opere furono intese per differenti sezioni del pubblico committente o appagarono bisogni artistici diversi, etc.; col risultato, consueto in tentativi del genere (anche se meglio mascherato dal gusto e dall’intelligenza dell’autore), di una giustapposizione meccanica di ‘contenuti’ e di stili o forme e insomma di storia sociale e arte: per esempio nel confronto della ‘ mancante chiarezza corporea ’ e del ‘ delicato colore delle figure ’ del ‘ religioso aristocratico e goticheggiante ’ Gentile con le figure invece ‘ nette, realistiche ’ della maniera ‘ classicista e upper-middle class ’ di Masaccio...» 46.

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