Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Personaggi e vicende dell'arte moderna

260821
Venturoli, Marcello 50 occorrenze
  • 1965
  • Nistri-Lischi
  • Pisa
  • critica d'arte
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Certo nelle litografie sugli «aspetti di Parigi», pubblicate da Vollard nel 1899 il mondo di Bonnard brulica di notazioni umane e sottili; si sente quasi in certe monocromie, in certi segni crudi, guizzanti, quanto il pittore abbia ereditato da Toulouse Lautrec; c’è perfino cordializzata nel grottesco, la sua amara satira; e così nei dipinti di Bonnard fra il 1895 e il 1905 — molti dei quali di piccolo taglio — è la chiave del primo amore, l’unico e fedele per un cinquantennio, di Bonnard per gli Impressionisti.

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Noi non facciamo molta differenza tra la «Memoria dell’uomo del Lager» di Luciano Minguzzi (benché la medesima angoscia e forse ancor più trasalente, lo scultore abbia saputo esprimere anche in opere meno sociali, come nelle versioni di «Ombre nel bosco») e il «Fucilato» (1943) o i numerosi «Ostaggi» (1944) dipinti da Fautrier: la diffidenza è, si comprende, nella qualità e nella intensità di quei «gridi», nella maggiore o minore pienezza di quei «no» che esprimono nel martirio dell’uomo la sua imperitura rivalsa, non nella sostanza del sentimento: in questo pianto tanto indifeso quanto ammonitorio; ed ecco nel medesimo ordine, se non nella medesima statura, i «Feriti» e i «Martìri» di Somaini, ecco i sudari di angeliche e misteriose esistenze — voci al di là della ragione, ma che pure esistono e tentano — di Scanavino; ecco le immagini «penose», «premute», in quelle penne d’aria colorata, a costruire l’unità di forze viventi, un clamore senza parole, in Moreni; e la malinconia sommessa, che non grida e canta la solitudine con voci bianche, di Sadun; perfino il totemismo di quel prestigioso principe degli artigiani che è Mirko, combinato insieme a tante figurazioni plastiche dell’angoscia, appare con altro accento, se non ossessivo, neppure soltanto incantato e giuocante; è in questa sua selva di simboli costruiti dall’uomo una sorta di personificazione dei mali e di deliri, un antropomorfismo delle umane sciagure.

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È stato sottolineato dai maggiori critici dell’artista e da Luigi Mallé — al quale dobbiamo il maggior catalogo sul corpus delle opere di Pougny — il fatto che l’artista durante un cinquantennio di esperienze artistiche abbia affiancato «manifestazioni puramente astratte ad altre non solo figurative ma apertamente e anche sentimentalmente narrative», per cui i modi tardo impressionisti, almeno fino al 1930 circa, più che confluire in quelli avanguardistici, vengono delibati in se stessi, apparendo come fini, anziché come mezzi, di una espressione artistica. Ci riferiamo soprattutto all’opera «Piatto con uova» del 1917, che avrebbe potuto dipingere un Vuillard o addirittura un Bonnard, anche se in certe blande squadrature — ma non certo negli impasti — si possano vagamente percepire gli echi del cubismo sintetico; opera che denuncia, in epoca non sospettabile ancora di conformismo e tutta scatenata nella avanguardia, una sorta di nostalgia o di suggestione, al profondo nella natura di Pougny. Quasi che dopo aver vissuto tante patrie per quante tendenze con consapevole ardore, si fosse maturata in lui l’idea di una patria più stabile e antica, nel mito adoratissimo dell’impressionismo.

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Titoli, come si vede, per liriche, più che per quadri e disegni; ma è in Munch continuamente, anche nelle opere più a fuoco, una specie di complesso illustrativo, quasi che il pittore abbia trovato, condotto dalla ispirazione letteraria di una splendida lirica, pennelli e matite nel giro di quelle parole. Le parole sono scomparse; e restano le immagini.

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Come in Toulouse Lautrec, così in Munch noi crediamo che l’opera grafica dell’artista sopravanzi di molto la pittura; non già perché il grande pittore norvegese non abbia espresso a pieno il suo mondo nel colore, ma perché il suo mondo — con tutti i limiti illustrativi che comporta — ci sembra nato apposta per il bianco e nero; quell’imponderabile della esecuzione litografica e acquafortistica, quel vago e diafano del segno che vibra anche nella xilografia compitata, conferiscono un singolare prestigio all’arte di Munch, troppo tormentata per essere soltanto pittura (la pittura degli Impressionisti) e troppo poco pittura per rappresentare a pieno i lirici contenuti del suo temperamento letterario.

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Noi pensiamo che Picasso abbia voluto dirci: nascono dentro di noi per ogni cosa che vediamo, per ogni persona che amiamo, vicino a sentimenti semplici, umani, anche dei sentimenti inconfessabili (ciò che prima abbiamo chiamato inconscio, bestiale, assurdo) ma fino a quando questa parte del nostro sentire rimarrà dentro di noi come un peso, una colpa, noi non potremo liberarcene. Soltanto quando questo inconscio sarà fatto conscio, questo inespresso sarà reso espresso, noi cesseremo d’esserne le vittime. Per non avere più paura — sembra dire l’artista in questo quadro — è necessario riconnettere punto per punto l’immagine della paura. Ecco perché a noi il quadro, «alla fine», non ripugna. Vi troviamo, e in maniera molto evidente, in quel consolidarsi grandioso e solenne di un corpo diviso, la vittoria della ragione.

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Ciò non significa tuttavia — e non era forse neppure il caso di sottolinearlo — che il pittore non abbia doti eccezionali di evocatore; ma in un altro ordine, più d’incanto che di dolore, più di rapimento che di spasimo, più nell’ordine della felice grande tradizione impressionista (la misura astratta di quei rapimenti sensibili) quasi che per l’artista il messaggio dell’espressionismo e del surrealismo sia davvero passato invano.

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affascinano e appagano qualunque visitatore, anche colui il quale abbia deciso di considerare Braque a qualche cosa di meno e di più limitato» di Picasso.

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Questi suoi sommari e reiterati appuntamenti con l’immagine, queste apparenze di cose presenti, così inequivocabili e al tempo stesso così schive, queste foglie che diventano carne, specchio di un dolore che si fa tenero e come sorridente in virtù di una tavolozza rosata, di un rilievo di materia che palpita e respira dai fondi, mal si prestano a una lettura querula, invadente, che abbia il continuo bisogno dei riferimenti alle fonti, che riproponga dall’esterno, per un astratto concetto della personalità dell’artista, la questione dei generi o quella dell’ispirazione. Strano fenomeno davvero quello di un’arte, come questa di Fautrier così poco confondibile con quella di qualunque altro pittore prima di lui, così perentoria nella definizione dei suoi limiti, eppure tanto fraintesa e misconosciuta, tanto frettolosamente e grossolanamente giudicata, anche da parte di chi possiede più di uno strumento valido di percezione nelle cose dell’arte.

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Giudizi assai negativi e minimizzanti sono stati formulati da studiosi di vana formazione al contributo del surrealismo nelle arti figurative, come l’opinione, assai discutibile, che questo «ismo» sia stato indifferente a costituire nuovi mezzi espressivi e che abbia esaurito l’atteggiamento dell’artista in una ricerca tutta esteriore e letteraria di analogie e di accostamenti di oggetti: in sostanza, per queste critiche un po’ sbrigative, il surrealismo altro non fu che un giuoco più o meno intelligente di composizioni accademiche in scenografie di incantate assurdità, ora in chiave di favola, ora di incubo, ora squallidamente fisse ad elencare, sotto mentite spoglie, manie sessuali, storture psichiche, casi limite della nostra vicenda mentale.

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Viene il sospetto, a questa esemplificazione, che il pittore si sia voluto prendere per sé e per pochi amici una licenza, abbia soltanto voluto «fare il matto» con una certa eleganza; infatti i lettori potranno domandarsi a che cosa serve, fra tante preoccupazioni gravi della vita di oggi, fra tanti problemi urgentissimi, di carattere economico e politico, un bosco di birilli, o, peggio, una campagna, come nel quadro «Le Territoire» del 1956, che appare sulla tela come un miraggio, una specie di isola verde, con prati ed albero, stampata in mezzo al cielo; o perché mai nel quadro «La voix du sang» (1962) un tronco si apra in due cassetti, levigati e sagomati come nella bottega di un ebanista e mostri nei vuoti una sfera e una villetta.

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E par davvero, davanti a molti dei suoi disegni migliori, di ritrovare, rispecchiato, il senso di una scoperta della realtà, di un viaggio nella realtà, su una immagine fissa, ma sempre diversa per la ricchezza arcana degli episodi che essa imprigiona. così il segno di Shahn è sicuro e al tempo stesso timido; netto, con la autorità quasi meccanica del grafico industriale e tuttavia sviluppato nel giro di una felice incertezza, quasi che la penna abbia intoppi frequenti a mano a mano che scorre e incontra difficoltà da superare senza fretta, pena uno sgarbo irreparabile.

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In verità il problema resta quello dell’immagine raggiunta con maggiore o minore senso grafico, o senso cromatico; e va da sè che anche per Ben Shahn il fatto della pittura con tutte le sue gamme d’iride, abbia basilare importanza. Basterebbe a provare ciò l’unico dipinto presente nella scelta, del periodo «italiano» dove il colore non suona come una aggiunta, ma come un naturale sviluppo della grafia dell’artista: si ritrovano altresì nel quadro alcune delle soluzioni affascinanti dei disegni, come pure alcune delle più raffinate intuizioni cromatiche di Ben Shahn: la finestra ritagliata sulla astratta parete amaranto, è figlia sicuramente della analoga parete dello splendido dipinto dei ragazzi che leggono i fumetti; come pure la donna in nero, personaggio di un coro di madri smisurato al tempo della guerra, somiglia alle donne dei minatori del 1948.

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Che questa dipendenza dalla natura come fatti e immagini visive da rapportare ulteriormente e ridurre, sia a sua volta giustificata in Giacometti per la sua lunga permanenza in zona surrealista ed abbia quindi preso dai testi di Erst, di Tanguy e di Magritte la «misura umana» del Museo, l’eterna, decrepita, consunta faccia di Adamo, è cosa da sviscerare; qui penso sia bastevole dire che il legame visivo e sensibile di Giacometti con i suoi modelli — siano essi figure o paesi o nature morte — è insopprimibile per la sua spontaneità, per la sua inevitabilità.

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Forse non c’è quadro del pittore, eccetto il suo autoritratto (l’opera più alta dell’artista) che non abbia un equivalente più espresso nella pittura francese e tedesca del medesimo periodo; ma questo continuo somigliare di Viani agli altri senza rifarne il verso, questo attingere da fonti forestiere con i bicchieracci di Viareggio, questi alti e bassi di tradizione e di anti-tradizione, di bel disegno xilografico e di escandenscenze espressioniste, formano, guardati tutti insieme, una voce, una personalità, che è impossibile attribuire ad altri se non a Viani. D’accordo, «Monsieur Flery», «Il filosofo», «Impressioni di Parigi», poco ci manca perché diventino vignette; ma è proprio quel poco che ci manca, che è di Viani: la sobrietà delle linee, è alle soglie del facile, ma il facile rimane fuori della porta.

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Una sola pittura del Maestro (e possiamo ben chiamarlo così, dopo i suoi quarantacinque anni di attività e i suoi settantatré vegetissimi di vita) raramente conquista ed appaga; quel senso di «fatica», quella programmatica antiretorica nelle gamme tenute e dimesse, quel continuo sperimentare nel nobile «esercizio» possono creare nell’animo di chi guarda, una certa inappagatezza; due o tre opere insieme, sulle prime, sembra aggravino questo quadro emozionale, quasi che il pittore nel suo perseverare non abbia voluto «rinnovare se stesso», col mantener fede agli schemi plastici, tonali, in una parola «formali», dell’arte sua. Ma una intera parete, o una sala, o il complesso di più sale — come è appunto il caso di questa bellissima mostra — capovolgono questo «giudizio», fanno del pittore un piccolo Cézanne. E come il grande impressionista riesce sempre a fare il quadro, anche quando in esso rimane, tenace, un’ombra della sua meditazione formale, così Melli, alla fine, pare liberarsi dallo stesso suo formalismo, anzi, arriva all’immagine emancipata proprio attraverso di esso.

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Nella prima sala della rassegna sono contenute le opere di Melli eseguite dal 1909 al 1920 all’incirca, sculture e pitture: e si veda come fin dagli inizi l’artista abbia mantenuto una sua linea, senza considerare nessuno degli «ismi» di cui fu tuttavia intrinseco, come una meta da raggiungere. Si nota in alcune opere un futurismo sui generis, già molto pittorico, sposato cioè alle esperienze del cubismo analitico, come in Creola, Studio di testa, La ridente; e c’è anche una sfumatura del rigore e del giuoco dei metafisici (Mia moglie, Testa); e se vogliamo proprio guardare con una lente di ingrandimento questi trasalimenti del giovane Melli, in alcuni quadri è anche la «follia» meditata degli espressionisti tedeschi (Controluce) ma, anche qui, non l’apparenza di quei modi, la lezione, invece, che dietro le sprezzature di quegli avanguardisti il pittore aveva saputo leggere della grande fioritura impressionista. Quanto alle sculture ognun vede che il «boccionismo» di Melli non esiste, esiste invece un incontro tra i due sul terreno dei valori plastici, in piena parità di risultati, anzi con qualche punto all’attivo per Melli, assai più «prudente» e felice nel tirar dentro il suo plasticare, vicino al rigorismo mentale dei cubisti, anche una scintilla «luministica» di Medardo Rosso.

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Spazzapan non era un artista bohémien, almeno nei modi e nei gusti; e benché abbia vissuto quotidianamente nella misura più diretta la sua avventura con l’arte, non si può dire che egli assumesse dall’esterno e molto spesso anche nelle sue abitudini e nelle sue scelte d’uomo, atteggiamenti smaccatamente professionali: infatti, fra lui pittore e il mondo in cui, fin dal 1928 fu necessitato a vivere, Torino e l’Italia fascista, era una perpetua frattura, un vuoto non facilmente colmabile, pena la grave rinuncia da parte dell’artista ad una cultura europea da lui conquistata a Vienna, Monaco e Parigi intorno agli anni Venti.

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Sirene, prostitute, ciociare, signore, ostesse, poeti famosi e amici coi quali il pittore ebbe in comune gli schiamazzi notturni, principi devoti e cardinali quasi papi, intorno ai quali colombe, chiavi, cupole, formano una sorta di liturgica eresia, di devozione laica, col rito (mal conosciuto) del surrealismo; nature morte che crescono dai piani rossi di tavolini, fuor del pretesto, fino a comporre un episodio di allusioni; ma colui che guarda non si chiede mai (come avviene dinnanzi ad opere dichiaratamente simboliche) cosa abbia voluto esprimere il pittore al di là della presenza allucinante dei suoi oggetti: ché, sempre, nei quadri di cose del marchigiano è di scena, prepotente, e, si direbbe, esclusivo, il suo sguardo, quel «dolore che vede»: emergono e poi si solidificano fino al graffito, fino al chiaroscuro vetrino, le cose vive di Scipione dentro quell’aria rossa, infuocata, come di chi rifletta le immagini in una retina di sangue.

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Si potrebbe dire che il massimo paladino italiano dell’astrattismo, nel sottolineare i momenti e le istanze «decorative», magiche, ermetizzanti del pittore romano abbia la sua parte di ragione, colga a suo modo nel segno. Ma la pittura di Mario Mafai è, nel suo insieme, un’altra cosa, vive una sua vita e una sua pienezza, malgrado l’opinione dell’illustre critico.

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Si può dire che Mafai abbia combattuto la sua battaglia con poche perdite e molti punti all’attivo, in quel suo sperimentare generoso e avaro insieme, in quel suo essere contagiato e reticente. Cézanne faceva sempre gli onori di casa, mentre Morandi non era del tutto buttato dalla finestra; le tipologie delle «donnine» beccheggiavano in pose fra soddisfatte ed estenuate, nei suoi corti orizzonti di parati crescevano insieme con le ombre sui muri stinti nuovi mazzi di rose. E poi i colli monumentali della sua Ciociaria, dipinti dentro un fazzoletto, con quei verdi di lattuga, quelle vie e quei paesi di tenero lichene; gli autoritratti dai visi paglierini, coi pomelli accesi di luci rosse e verdi, le occhiaie violette a dar la immagine quasi clownesca di una umanità pur seria e dolorante, fra salute e noia, responsabilità e stravaganza, a suscitare ancora una volta lo spiritello della anarchia.

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Tanto che, leggendo i titoli di alcune opere di Mafai, ci viene quasi il sospetto che l’artista abbia voluto lasciar scritto sotto il quadro quasi l’opposto di quanto pati: «Perché no?», si domanda dinnanzi a una tentazione pittorica astratta; e dinnanzi a questa medesima tentazione, così conclude: «E senza prudenza». Mentre la prudenza del quadro raggiunge fin anche la timidezza. Sotto un altro soggetto egli ha scritto: «Meglio non pensarci»; mentre, se mai, sembra proprio che l’artista al quadro abbia pensato troppo.

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Ma, il fatto che Mafai e Scipione si presentino del tutto autonomi rispetto la pittura di Raphael nei loro risultati, non ci fa concludere che la donna abbia dipinto opere subalterne rispetto alle loro. Dirò piuttosto che la singolare pittrice è da ammirare nel gruppo come un ingegno a sé stante, come un temperamento del tutto autonomo, che visse e tradusse in opere mirabili le comuni istanze del «gruppo».

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Dalle personali ordinate alla Biennale di Venezia a quella di Ivrea del 1957, il discorso su Rosai, già così ricco e positivo nella critica italiana, si è fatto più ampio e non v’è studioso d’arte contemporanea, che non abbia dedicato la sua attenzione all’artista fiorentino. Nel nostro piccolo, diverse sono state le occasioni per le quali abbiamo scritto dell’arte del pittore: una di queste, anzi, Pier Carlo Santini, curatore del catalogo della Mostra, ha voluto ricordare, bontà sua. Né qui staremo a ripeterci. Ma in un punto del nostro saggio (pubblicato nel volume «Dagli Impressionisti a Picasso») siamo orgogliosi di aver dato un contributo alla collocazione della personalità di Rosai nel quadro dei valori del Novecento: poiché Rosai — scrivevamo — fu un novecentista sui generis, forse sotto taluni aspetti il meno legato — come per altro avvenne a Lorenzo Viani — al rituale parnassiano, o magico, o ermetico, di cui poco o tanto furono investite le opere degli altri Maestri, coetanei di Rosai. E che Rosai — aggiungevamo nel nostro scritto — il quale fu «diciannovista e uno dei fondatori del fascismo fiorentino, nel momento di dipingere prende le parti del popolo che odia ogni sopruso, che vuol vivere in pace nel mondo, senza manganelli e cortei, senza falò e teschi di morto, che il fascista Rosai diventasse in sostanza antifascista nei suoi quadri, è un fatto sintomatico, il quale conferma la veridicità e la insopprimibile umanità dei suoi personaggi... Noi crediamo che in quegli anni, tra le ultime esperienze dei futuristi... e i saggi aristocratici dei metafisici, non vi fu in Italia pittura più aperta e commossa per la sorte del popolo di quella di Rosai».

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Come pure un aggancio più generico, ma non meno suggestivo, con la «scuola romana» (per la preminenza delle luci pomeridiane nel breve taglio «assorto» della tela, per quell’accendersi di ocre e terre tra il verde macerato) si nota in Paesaggio 1923 della Collezione Mattioli, esposto quest’anno anche alla Galleria civica d’arte moderna di Torino nella «Mostra dei capolavori nelle raccolte private»: in questo quadro viene in mente il primo Mafai dei paesaggi; e ancor più, per certa prospettiva «gianicolense» si ricorda il primo Mafai tributario di Raphael e di Scipione, come pure sensibile a questo Rosai (lo abbia visto o no, poco importa), nel dipinto rosaiano dal titolo «Paesaggio» (1923?) della collezione Giancarlo Michelucci, opera mai esposta fin oggi o pubblicata.

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Benché Prampolini abbia partecipato sia alla prima che alla seconda mostra del Novecento, abbia subito la non brillante suggestione della seconda ondata futurista e un certo «ballismo», piuttosto politico che estetico nel suo momento di maggior depressione stilistica della «aeropittura», benché abbia arredato parecchie sale di manifestazioni e mostre del ventennio con pannelli decorativi, mosaici, bassorilievi, plastiche murali e polimaterici, resta il fatto certo che l’artista non fu mai, nel gusto e nel clima, un pittore del Novecento; e questo è senza dubbio il suo piú gran merito. Non solo perché, nonostante le numerose contraddizioni in cui cadde l’arte sua, Prampolini ha rappresentato in un momento assai poco qualitativo in Italia, una linea «europea» di sviluppo, di indiscussa consapevolezza, ma perché, proprio in virtù di questa «partenza» europea, l’arte di Prampolini è cresciuta e si è fatta adulta dopo la Liberazione, dando un contributo non indifferente al panorama delle ricerche e dei risultati dell’arte astratta italiana dal 1945 all’anno della morte del pittore, avvenuta nel 1956.

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Che poi, come scrive Marchiori, il raggiungimento della libertà interiore abbia salvato Guidi dal declino della vecchiezza, è vero soltanto sul piano umano, psicologico; sul terreno dei risultati, il Guidi di ora (non parlo certo del pittore di domani) è assai più «preistorico» ed inconsistente nelle sue tragedie senza voce, nelle sue sceniche tempeste di virgole animate, che non nei paesaggi di Venezia dagli anni 1928 al 1943, di cui nella Mostra, non a caso, manca totalmente l’esempio.

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Benché l’arte del maestro bergamasco abbia uno sviluppo organico e conseguente, senza pentimenti e senza conversioni «modernistiche», io trovo nel Manzù maturo dopo il 1950 una maggiore autonomia dalle strettoie ottocentesche ed umanistiche, in modo particolare dalla sudditanza di Medardo Rosso.

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Ciò nonostante le opere sono restate, a documentare tappa per tappa l’estro e la cultura di uno dei nostri più alti pittori della generazione dei Maestri che abbia contribuito a tener saldo il legame della nostra «provincia» con l’arte migliore d’Europa.

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Non ci pare esatto che Spazzapan abbia ottenuto pochi riconoscimenti «elargiti per un valore che si intuiva vagamente e per quella specie di paura che si prova davanti all’ignoto». È più vicino al vero invece il fatto che Spazzapan fin dal 1932 fu apprezzato da quelle persone che contavano qualche cosa in Italia e che erano poche, come ben sa il Venturi; che Spazzapan fece moltissime mostre e che si meritò via via critiche ed elogi come è dovuto ad artista nazionale di alta qualità e originalissimo. Dopo la Liberazione le mostre romane del pittore, soltanto nel 1945, furono tre, al Cortile, alla Margherita e a Lo Zodiaco, in prevalenza di disegni e furono festeggiate — anche da chi scrive, allora da qualche anno sulla breccia — come brillantissimi avvenimenti; nelle Biennali e nelle Quadriennali l’artista ebbe sale e pareti commentate da quanti amano l’arte al di fuori o al di sopra di ogni aggancio col mercato. Se Spazzapan non fu molto premiato, ciò rientra nella regola tutt’ora vigente che vuole meno premiati e più messi da parte quegli artisti che non viaggiano a vele gonfie nella maniera.

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Chi guardi i gruppi dei contadini dipinti nella seconda sala proverà subito una impressione nuova e singolare, quasi che i contadini incontrati da Levi si inseriscano nel taglio dei quadri come dentro una finestra, nella quale Levi abbia posato il suo sguardo. Il pittore scrive nella sua premessa in catalogo di aver dipinto dei frammenti di una più vasta narrazione; ma il poema è tutto nei frammenti, aggiungiamo noi, è in questo modo di guardare per quadri, una realtà troppo cruda, troppo articolata e intensa, per essere detta tutta. Almeno da Levi.

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Direi, se la frase non assumesse un certo sapore, estraneo al mio palato, che Levi abbia dato agli amici la sua più florida e intelligente esperienza di conservatore, mentre ai compagni incontrati in Calabria abbia dato tutto il suo potenziale rivoluzionario; meno florido, senza dubbio, più inquieto e impacciato, ma assai più ricco di risultati.

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Quanto alla scelta delle opere per la retrospettiva, ci sembra che al Venturi abbia fatto velo il suo gusto programmatico verso l’astratto puro. E benché l’illustre critico ci dia in breve la formula di questo optimum spazzapaniano («una sintesi del pittorico e del geometrico, dove il geometrico si è sciolto nel pittorico e il pittorico si è liberato dalla figurazione») resta il fatto che almeno la metà delle tempere esposte in chiave astratta non può essere letta che come un assaggio o una sperimentazione di modi ancora da decantare. È vero, si, che in certe evocazioni fiabesche, in certe atmosfere felicemente tenebrose, riaffiora l’antica fantasia, tradotta senza sforzo nell’ultimo «ismo»; e opere quali «Estate», «Richiamo di Poseidone», «Notte africana» sono eccellenti quanto le figure «araldiche» del «Partigiano impiccato» (nel quale ultimo non vediamo però il dramma che vi nota il critico, essendo il quadro piuttosto il diagramma decorativo di un rapimento fuor del dolore) o del «Bue squartato»; o quanto i pezzi più fisionomici dello Spazzapan del felice periodo «avanguardistico» dal 1940 al 1950 («Composizione astratta», «Fiori», «Composizione geometrica», «Santone») ma nell’insieme le opere astratte non hanno la medesima carica fantastica e la medesima concretezza di stile. Alle soavi e intense evocazioni di corpi nello spazio «Apparizione notturna» e «Composizione astratta N. 1», vere piccole gemme dell’informale, si affiancano in altre opere, somme di immagini inerti e confuse, che rendono monotona la Mostra, togliendo a chi ricorda dell’artista opere figurative di altissima qualità non presenti a Venezia, il piacere di rivivere nell’aria incantata dei Giardini, integra e più veritiera, la lunga stagione del Maestro di Gradisca.

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In questi ultimi tempi l’arte italiana dell’antinovecento è tornata alla ribalta, dopo quindici anni di assenza: e sembra davvero poco credibile il fatto che solo a distanza di quindici anni dal suo storico compimento, il 1945, l’arte meno conformista o piú irrequieta fra le due guerre abbia avuto il suo quarto d’ora — secondo l’opinione di taluni — o il suo crisma di validità — secondo altri — proprio oggi, momento largamente diverso anche in Italia, in fatto di arte, da quello immediatamente dopo la guerra. Ché dovrebbe parere piú verosimile e conseguente, se mai, un’altra ipotesi — la quale però non si è verificata — di una consapevolezza della critica e dell’arte italiane intorno al 1945, dei valori dell’antinovecento: proprio allo scopo di cercare nelle forze piú vive e operanti dell’Italia del ventennio le premesse e i caratteri dell’arte nata dopo la Liberazione. Ma, come è noto, le cose andarono diversamente. Se la pittura e la scultura dal 1930 al 1945 si distinguono, laddove si sviluppano fuori del rituale novecentesco, come polemiche e negatrici dell’arte dei «maestri», operando una frattura col momento novecentista, l’arte che nacque dopo la Liberazione si distingue da quella dell’antinovecento per una seconda e più energica frattura, ricollegandosi, se mai, e in un modo esplicito, alla avanguardia francese, sulla linea del picassismo.

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Ma se Capogrossi è forse l’unico tra gli artisti della scuola romana che si è rinnovato in radice, i risultati di questo rinnovamento sono essenzialmente formalistici e molto spesso meccanici; non si direbbe proprio che il «nuovo corso» abbia giovato all’artista nella libertà della fantasia: imparato o scoperto questo nuovo alfabeto, Capogrossi ripete da quindici anni, con oscillazioni più o meno fisse e reperimenti piuttosto cauti della lezione di Magnelli e di Arp, la sua scrittura; in campiture e segni, in collocazioni e analogie, in schiere e in tribù sempre diversi, ma sempre nell’ordine del divenire meccanico, immaginativo: la fantasia non è molto amica di questo artista coraggioso e meritevole di rispetto. Qualche cosa di molto simile potrebbe esser detto di Leoncillo, squisito e patetico espressionista figurativo, divenuto poi cubisteggiante e in ultimo informale; ma non ci par proprio che Leoncillo abbia l’estro e l’intraprendenza fantastica, per esempio, di un Fontana; in lui, se non cova più la nostalgia del passato, è forse ancora una eccessiva compunzione nei confronti degli ultimi «ismi», sempre un atteggiamento troppo sperimentale e, nell’esperimento, edonistico. Si potrebbe perciò concludere che nella generazione antinovecentista coloro i quali sono oggi astrattisti (di Mafai non è davvero necessario parlare; l’ultima sua pittura è il sintomo della sua vecchiezza) non rappresentano il meglio di essa, ma soltanto un arrivo oltre il traguardo, per una gara che non li presupponeva; la vera gara, se così possiamo esprimerci, resta quella di una generazione impegnata nei modi dell’avanguardia storica, essenzialmente figurativa.

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E non solo perché dallo «sguardo alla giovane scuola romana dal 1930 al 1945» si ricava con soddisfazione quanto abbia dato la Capitale allo svecchiamento dell’arte nostra, ma quanto sia stata originale e commossa la fase prima di rottura coi modi del Novecento; fase di rottura che iniziò da Roma, ebbe subito riflessi e contatti con Torino e, più tardi, con i giovani di «Corrente».

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Potrebbe dunque sembrar ovvio, — tanto da domandarci stupiti perché mai la Quadriennale non vi abbia pensato prima — che si facesse a Roma, dopo quindici anni, una Mostra dell’arte migliore prodotta nella Capitale dopo il momento novecentista; infatti molti artisti «romani» continuano ad operare nella Capitale, molte opere che fan parte della Mostra furono in occasioni ormai storiche, esposte nel medesimo palazzo, in una edizione più antica della Quadriennale: sono, insomma, gelose opere della nostra cultura cittadina, queste dello «sguardo» di Castelfranco, uno «sguardo dal ponte» si potrebbe chiamare, nel senso che tanta arte di avanguardia, tante opere assai più tese e gridate, son passate sotto il ponte «romano», sotto questa prima fase di riscossa dal chiuso ermetico e di evasione dell’arte del Novecento.

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Il più tipico, anche per le peculiari caratteristiche di idosincrasia, fra i giovani seppellitori dei morti in omaggio ai vivi non tutti vivi, fu — e resta anche oggi, benché abbia di molto calibrato il tono e sia diventato assai più prudente nei giudizi di condanna — Enrico Crispolti, il quale in occasione della Mostra dei Maestri, dopo aver notato giustamente la intrusione di Spadini e la non eccellente scelta di alcuni altri, poneva intanto quasi provocatoriamente la ipotesi di una aggiunta: quella della «scuola romana», non come una svolta dal Novecento, ma come una sua appendice.

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A proposito dei nove motivi musicali o trofei di note che Sergio Romiti ha esposto alla Quadriennale, ci sia permessa questa osservazione psicologica: dinnanzi ad un unico «pezzo» del pittore bolognese vien fatto di sostare a lungo, quasi a mettere a fuoco la nostra percettibilità con quelle liriche vanescenze; ma, dopo un lungo ascoltare ed ascoltarsi per percepire l’eco di musiche che non si odono, una smania ci spinge a guardare oltre, nelle tele sorelle, se mai si possa scorgere ciò che nella prima non abbiam visto o capito; ma, se dinnanzi ad una sola opera di Romiti ci pareva di essere noi in colpa, troppo «grossi» per tanta finezza da decifrare con pazienza, dinnanzi a tutte e nove ci pare che la colpa sia di Romiti, che egli abbia voluto in quella somma di squisite pochezze dare l’immagine di una reticenza, piuttosto che di una confessione, di una ambiguità, piuttosto che di una certezza. Ma il fatto che questi quadri non ci respingano e non ci leghino, non autorizza nessuno a concludere che essi siano inespressi, casuali e meccanici: in quella sorta di «caleidoscopio» su raso (la parola non è nostra, ma non siamo autorizzati a citarne la fonte) Romiti è vitale e inimitabile; forse c’è una sola persona che possa imitarlo (cosa che pensiamo avvenga talvolta) ed è lui stesso.

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Dalla partenza naturalistica all’arrivo astratto può sembrare che l’artista abbia camminato troppo in fretta, nel senso di ritenere le scorie di una immagine visiva, dentro i pur liberi, unidimensionati paradigmi; pare in un primo momento che, come paglie nella retina, l’artista abbia conservato i colori fisici delle sue vegetazioni, cardi secchi, viti, granoturchi, tra violetti e verdi e terre bruciate e che, allarmato e scontento, si affanni a rilevare con la grassa pennellata quella sorta di macerazione più o meno inerte dentro la luce; ma, pur in questa condizione difficile, di naturalista astratto (come ben seppe definirlo Francesco Arcangeli in un memorabile saggio su «Paragone») Morlotti riesce a dare a chi non si appaghi della prima impressione, la misura inconfondibile di un travaglio, pazienza e fiducia sempre scaldate dal senso della scoperta. I suoi paesaggi e le sue nature morte, nella turgidezza del tessuto cromatico fanno pensare perfino a certa pittura lombarda, ma altro è il tono, altro è il timbro; fuor delle scaglie e delle asperità della tela, il quadro appare intensamente unitario, quasi lo specchio di un poi, non più contrasto o bisticcio insanabile tra sensazione e schema mentale, ma purissima visione di fantasia. In quest’ordine di risultati sono secondo noi le due nature morte esposte.

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Lo Stradone di vent’anni dopo ci appare con voce più tenorile, con immagini più labili e indistinte dentro atmosfere squisitamente gremite di un polline colorato, di una cenere luminosa; sono i suoi dipinti piuttosto delle monocromie, che però non si ripetono nelle gamme di quadro in quadro, costituendo anzi, quasi il motivo o la chiave pittorica di ciascuna visione; ed ecco il verde lattuga di «Mattino sull’Appia», il lavagna del «Cantiere di notte», tra i paesaggi più lirici che abbia dipinto l’artista negli ultimi anni e che somiglia ai notturni dello Stradone del 1943; il ruggine dello scattante «Sudamericano» tra fumi e bagliori; il grigio perla, appena macerato nel verde, del vasto eppur tenero «lamento» per lo straccivendolo; l’azzurro del personaggio, quasi ballerino di palcoscenico che recita da «teddy boy» in «Chitarra e blue jeans». Né il risentito e mesto tonalismo astratto di Stradone si placa nelle opere di minor taglio: e sorprendono quei fuochi di artificio con cui crescono e piovono in giù lemme lemme i fiori nel «Barattolo», quei luccicori della periferia, quelle lingue di luce nel buio gelido del campo di concentramento.

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Il fatto che Marco Valsecchi, suo presentatore in catalogo, mostrasse di sottovalutare questo aspetto descrittivo dello scultore milanese, ci fa credere che Milani abbia condiviso l’idea del suo critico e che non si sia molto preoccupato di trovare significati precisi nelle sue «plastiche parietali» di gesso, sabbia e cemento; ma, come scriveva Valsecchi, l’artista era davvero arrivato a mettere a nudo, per ricominciare un nuovo discorso, lo scheletro stesso della scultura? In effetti, se questo puro scheletro non era «a nudo» due anni fa, per la carica pittorica e sentimentale (si potrebbe dire romantica e «illustrativa») della «visione», oggi, nelle cinque opere esposte, l’artista raggiunge una maggiore astrazione; con qualche riferimento, ancora, alla realtà sensibile di ieri nelle «superfici», con un assorbimento totale di questa nelle definizioni plastiche, verticali e spaziali.

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Questa volta Mirko si presenta con nove sculture dall’apparenza di statue di sale o di alabastro o di minerale, che la mano di un raffinato selvaggio abbia scolpito in loco per scongiurare il malocchio: alcuni di questi totem sono «animati» con evidenti allusioni antropomorfiche (sculture N. 5 e N. 2); altri, di tematica più chiusa o decorativa (sculture N. 6 e N. 8). Piace di Mirko il giuoco trepido e fortunato, piace meno, o addirittura respinge, la materia che l’artista ha adoperato, una spuma di plastica, ci dicono, che svuota del loro peso queste forme pur chiuse; e non già perché la prima impressione di consistenza e di robustezza ci venga tradita dal suono vuoto e inerte che fa la materia al più lieve tocco; ma perché, sia pure in un secondo tempo, avvertiamo, anzi chiariamo completamente, quella sensazione equivoca, comunicataci fin dal primo incontro da queste crisalidi di forme.

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Sembra, insomma, che l’animo ipersensibile di Guerreschi abbia subito un trauma durante questa seconda guerra mondiale, e che da questa spaventosa impressione egli non si sia più riavuto, non abbia voluto liberarsi del tutto: sembra che per Guerreschi la guerra sia scoppiata ieri e che sotto un certo profilo duri anche adesso.

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Delle svariate «Madamoiselles Pogany» (una delle quali, in metallo, è presente alla XXX Biennale) l’artista teneva allo studio una intiera parentela, come pure della «Colonna senza fine», la più straordinaria costruzione ascensionale cui abbia messo mano l’uomo d’oggi: sculture in pietra o in legno o in marmo di cui si coglievano all’istante le «diversità», tanto la materia ne mutava il peso, la incidenza nella luce, la dimensione nello spazio, eppure così difficili e lente nella traduzione, così schive di ogni facile effetto! Le versioni delle sculture di Brancusi sono immagini tattili di tempi successivi, specchio della contemplazione di un momento, dalla piattaforma di un altro momento.

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E basterebbe confrontare una qualunque scultura del gruppo non arcaico dell’artista (dal «Prometeo» del 1911 alla «Musa» del ’12, dall’«Uccelletto» alla «Negra bionda» alla tanto bistrattata «Scultura per il cieco» del ’24), — che è uno dei massimi risultati tattili di una forma che non abbia bisogno della «luce» per comunicare la sua evidenza — con le sculture di taluni altri maestri che operarono nello stesso momento o in quello immediatamente successivo, per dimostrare come Brancusi, essendo il più alto di tutti, non può conseguentemente ereditare in un modo negativo e limitante, il gusto decorativo ed esterno del Liberty.

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Le sue «miniature», come le chiama Konrad Rothel sono effettivamente «tra le cose più belle» che egli abbia eseguito dopo il 1956, ma non ci sembrano valori pittorici assoluti: intanto il loro maggior limite è quello di essere state eseguite, a così grande distanza di tempo dai primi analoghi esperimenti di Klee, con la medesima misura nella quale operò il maestro; accenti grafici precisi, raffinati e levitanti, di cose e paesi, di ambienti e di stagioni, sudari di decalcomanie, trepidi caleidoscopi di immagini su spazi candidi, non più grandi di un fazzoletto; noi siamo persuasi che l’artista abbia messo in questi poetici giuochi tutto il fervore e tutto l’amore inventivo di cui dispose Klee; però la misura minima di queste opere tradisce il distacco e precipita l’artista nell’imitazione.

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E così si può dire per l’accanimento col quale Leoncillo presenta di anno in anno sempre nuovi esperimenti materici, profondendo il suo magistero tecnico in artifici, di smalti, strati, tagli, senza giungere a quella agognata immagine di poesia, a quella giusta cadenza fra intenzione e mezzo adoperato, fra ispirazione e stile, per cui le sue opere compongono quasi il ritratto di un arsenale, sono il risultato di una febbre fredda; né si vede perché lo scultore abbia così spesso da prodursi in questo arrovellio.

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Anche i due quadri realizzati con legni combusti specie il più piccolo, — quello della intrusione in uno spazio candente come neve dalla mano rotta delle tavole — sono ottimi; e il più vasto quadro delle lamiere, cupo e sguarnito, ma di una sonorità minacciosa, è forse il più intenso e saldo di quelli che abbia eseguito Burri con questo mezzo.

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