Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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CHI VUOL FIABE, CHI VUOLE?

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Capuana, Luigi 2 occorrenze

Spuntare, crescere e sbocciare sarà quasi un solo momento: ma bisogna che non abbia altri fiori attorno. Coglieteli e portateli nella mia carrozza. Intanto appena il giardiniere e la cèchina saranno andati a letto, spargete davanti a l'uscio questa polvere per stornare la malìa della Strega. Essa viene ogni notte, a mezzanotte, e picchia. Se la ragazza le aprisse, rimarrebbe cèca per tutta la vita. Ed ora addio. Non mi rivedrete più. Siate felice, Reuccio! Chi bene fa, bene riceve; tenetelo a mente. Il giardiniere non credeva ai suoi occhi e ai suoi orecchi! La vecchia signora doveva essere una Fata! E quello era il Reuccio che non si sapeva dove fosse! Si allontanò in punta di piedi, trattenendo il respiro, col cuore che, dalla gioia, pareva volesse scoppiargli nel petto. E corse ad abbracciare la povera cèchina che cantava malinconicamente: - Attendo, attendo nella buia notte. - Babbo, perché mi abbracci così forte? - Perché io ti voglio bene, figliola mia! Non le disse altro. Pensava: - Se parlo, forse guasto! Quella notte, a mezzanotte, il solito forte picchio a l'uscio. - Picchiano, babbo! ... É la buona sorte! - Ti è parso, figliola mia! - Lasciami andare ad aprire, babbo! Se va via, non torna più! Si udì un altro picchio, più forte. - Hai sentito, babbo? - Ti è parso, figliola mia. La cèchina saltò giù dal letto nonostante che le gambe la reggessero a stento; saltò giù anche il padre e la trattenne. - Ah, padre scellerato! Non vuoi che apra alla buona sorte! Si udì un terzo picchio più insistente. La cèchina voleva andare ad aprire a ogni costo, dibattendosi. Allora scoppiò un grand'urlo: - Ahi! Ahi! Il giardiniere aperse la finestra e vide la Strega in fiamme, che si arrotolava per terra e bruciava come un tizzo. Dopo pochi minuti, ne rimaneva appena un po' di cenere. - Chi gridava, babbo? Sento puzzo di bruciaticcio. - Non è niente; il garzone ha dato fuoco a un po' di paglia. Riaddormentati, figliola! Non voleva spaventarla. Ma nessuno dei due prese sonno. E di tanto in tanto la cèchina si lamentava sotto voce, credendo che suo padre dormisse: - Era la buona sorte! E mi ha impedito di aprirle! All'alba un picchio fortissimo faceva rintronare la casetta. Questa volta la cèchina saltò giù, zitta zitta, dal letto, indossò alla meglio la veste, si trascinò, tastoni, con le gambe storpie, per le scale, e giunta dietro a l'uscio domandò: - Chi siete? Chi cercate? - Cerco i più begli occhi del mondo! - I più miseri occhi eccoli qui! E spalancò l'uscio disperatamente. Si sentì passare ripassare, lieve lieve, su le palpebre qualcosa di fresco, di vellutato, e sùbito le parve che un violento chiarore la ferisse. Diè un grido e cadde svenuta tra le braccia del garzone giardiniere, che era proprio il Reuccio. Quando la cèchina, non più cèca, riaprì le palpebre, egli vide splendere davvero i più begli occhi del mondo; sembravano due soli! Al grido era accorso il padre. Figuriamoci la sua gioia, vedendo la figliola che guardava attorno stupita, e non potea dire una sola parola! Ma dovettero metterla a sedere perché si reggeva male su le gambe storte. Si era trovato, finalmente, il fiore che rendeva la vista! Si sarebbe trovato pure l'albero il cui frutto raddrizzava le gambe; non se ne poteva più dubitare. Ora, con tutto quel che era accaduto, al giardiniere non passava per la testa che il Reuccio potesse voler sposare sua figlia. E sentendogli dire: - Questa sarà la mia Reginotta - fu preso da spavento, temendo che il Re e la Regina non lo avrebbero mai permesso, e che ne sarebbe venuto danno a lui e alla sua figliola, se il Reuccio si fosse ostinato. Infatti il Re e la Regina, appreso dalla stessa bocca del Reuccio la decisione di sposare la figlia del giardiniere, montarono in grandissima collera. Invano il Reuccio rivelò quel che gli aveva predetto in segreto la zingara, che poi era Fata Ragno, perché il giorno era Ragno e la notte bellissima Fata. Invano raccontò che egli, avendo un giorno impedito a un contadino di ammazzare un Ragno, la notte dopo si era visto comparire davanti la bellissima Fata venuta a ringraziarlo, perché quel Ragno era lei. Gli aveva promesso: Ti farò sposare i più begli occhi del mondo e ... Re e Regina non lo lasciarono neppure finir di parlare. - O Reuccio, o giardiniere: scegli! - Giardiniere, Maestà. E per i più begli occhi del mondo rinunciò alla corona. Fata Ragno però non aveva pensato d'indicargli l'albero il cui frutto raddrizzava le gambe. E gli aveva detto: - Addio, non ci rivedremo più! - Dove rintracciarla? Coltivando fiori e piante, il Reuccio spesso la invocava: - Ah Fata Ragno, Fata Ragno! Vi siete scordata di me! Ma una mattina, il Reuccio guarda in un cantuccio di aiuola e vede prodursi un portento. Da una zolla nuda spuntavano due foglioline e poi un gambo e altre foglie, su, su; e il gambo si rafforzava, diventava tronco; e i rami si distendevano, e tra le fronde tanti bei fiori rossi che cascavano e lasciavano scorgere frutti piccoli come bacche che, sotto gli occhi maravigliati del Reuccio, si ingrossavano, prima verdi, poi gialli di un colore d'oro scuro, e maturavano in pochi istanti ... E tra i rami, luccicavano al sole i fili di argento di un largo ragnatelo; e nel centro armeggiava con le gambe un grosso Ragno verde, tessendo e ritessendo. Il Reuccio non stiè più alle mosse, colse quanti più frutti poté e corse dalla cèchina che stava ancora a letto, quantunque il giorno fosse inoltrato. Ella aveva voluto che continuassero a chiamarla così: le faceva piacere ricordarsi della sua disgrazia ora che sapeva di avere i più begli occhi del mondo. - Cèchina, su, mangia questo frutto, e vedrai! - Oh, come è amaro! La Cèchina, addentatolo, lo buttò via. - Mangiane almeno uno solo; te ne prego! uno solo! La cèchina fece uno sforzo, per contentare il Reuccio, e non aveva terminato di mangiare uno di quei frutti color di oro scuro, che sentì un delizioso formicolìo alle gambe, e poi lunghi stiramenti ... e poi più niente. Era guarita; aveva le più belle gambe diritte del mondo! La notizia di questo secondo portento giunse fino agii orecchi del Re e della Regina. - Ma dunque quella cèchina era davvero una gran bellezza? - Ma dunque quella cèchina era davvero protetta da una Fata? - Andiamo a vedere. - Andiamo; ma senza farci conoscere. E si travestirono da mendicanti. - Fate la carità a due poveri vecchi! Sono due giorni che non mangiamo! Al lamento accorse la cèchina e aperse il cancello. - Entrate ed attendete un istante. Tornò di lì a poco con pane ed altro: - Tenete, ristoratevi. Queste monete vi serviranno pei vostri bisogni. E così dicendo, metteva in mano del Re e della Regina due monete d'oro per ciascuno. - Siete voi la Reginotta? - Se fossi Reginotta, non starei qui, ma a palazzo reale. Mio marito non è più Reuccio; è giardiniere. - Sono stati cattivi il Re e la Regina. - Che ne sapete voialtri? Potevano far peggio e non lo hanno fatto. Il Re e la Regina si guardarono negli occhi. Non era soltanto bellissima, ma anche buona. E si sentirono intenerire. Intanto si era accostato il Reuccio umilmente vestito da giardiniere. A quella vista, dovettero fare un grandissimo sforzo per contenersi. - Grazie, figlioli! Il cielo ve ne renda merito. E si affrettarono ad andar via. - Poverini! - esclamò la cèchina. - Non mangiavano da due giorni. Non ti dispiacerà che gli ho dato quattro monete d'oro, quelle tue. - Hai fatto bene. Vieni a vedere che fiorita, questa mattina! Sembra che tutte le aiuole siano in festa per noi. La vera festa fu più tardi, quando - trin! trin! trin! si fermarono al cancello due carrozze tirate da otto robusti cavalli con le sonagliere. Erano le carrozze reali. Al vedere discendere il Re e la Regina, il Reuccio si turbò. - Siete voi il giardiniere? - Sì, Maestà. - Datemi il più bel fiore del vostro giardino. Il Reuccio, gongolante di gioia, prese per mano la cèchina: - Eccolo qui, Maestà. Fu così che la cèchina diventò Reginotta, - Ed io? Rimarrò qui solo? - disse il giardiniere. - C'è posto anche per voi nel palazzo reale. La sposa ebbe tanti doni, ma il più ricco fu quello del Re: un bel Ragno di pietre preziose per ricordo di Fata Ragno. Stretta la foglia, larga la via, Dite la vostra, che ho detto la mia.

- Che abbia la crescenza uguale a quella degli altri. - Avrà qualcosa di meglio. Crescerà di altre due spanne non più. In certi momenti di gran bisogno però potrà allungare la sua statura quanto vorrà, fino a diventare un gigante. Basterà che si metta in bocca il pollice della mano destra e che vi soffi forte come in un cannello. Mezz'ora dopo sgonfierà e tornerà qual era prima. - Grazie, buona Fata! - Badi, però: di questo privilegio non deve servirsi per far del male agli altri, o per qualche cattivo scopo. Non solamente perderà per sempre quella virtù, ma sarà gastigato. - In che modo, buona Fata? É bene saperlo per avvertirlo. - Gli spunteranno due gobbe, una davanti e l'altra di dietro. - Ah! povero figlio mio! Ma non avverrà, buona Fata! - Ed ecco come dovrà fare. La Fata prese la manina destra di Radichetta, si mise tra le labbra il pollice e cominciò a soffiare. Quasi avesse gonfiato un otre, Radichetta erebbe di due spanne, bello, ben proporzionato; sembrava un altro. Sua madre piangeva dalla gioia; lo riconosceva a stento. - E non dire a nessuno di quel che hai visto e udito. Il bambino non deve saper niente prima di aver compiuto quindici anni. - Non saprà niente, buona Fata. La povera madre voleva baciarle i piedi per ringraziarla; ma la Fata, diventata di nuovo bella, fosforescente, coronata di fiori, le spariva a un tratto davanti. La donna, col bambino tra le braccia, non si saziava di baciarlo e ribaciarlo. - Figliolino del mio cuore, è stata la tua fortuna! E si sedé su l'erba, aspettando che spuntasse l'alba, per uscire dal bosco. Si era immaginato che il bambino sarebbe restato di tre spanne, come la Fata lo aveva fatto crescere soffiando il pollice della mano destra quasi fosse stato un cavallino. Invece, a poco a poco, se lo senti sgonfiare tra le braccia, e prima che l'alba spuntasse, Radichetta era già tornato piccinino una spanna come prima. Per un istante, ella credé che la Fata si fosse fatta beffe di lei. Si era messa in bocca il pollice della mano destra del bambino e aveva tentato di rigonfiarlo, ma non era riuscita. Si riprese però sùbito, pensando che le Fate non sono cattive, e tornò a casa con la lieta speranza che Radichetta, a quindici anni, in momenti di gran bisogno, avrebbe potuto far crescere la sua statura fino a divenire un gigante, Intanto tornò a filare, tenendo il figliolino nella tasca del grembiule. Egli era così vispo, così allegro che formava lo spasso delle vicine e dei loro ragazzi. - Radichetta, vuoi una chicca? - Si, una oggi, e l'altra domani. Rispondeva con una vocina sottile sottile, che si sentiva appena. - Allora sono due! Sei ghiotto, Radichetta! - Dàmmene mezza, ma sùbito, via! - Vieni a prendertela; salta fuori dalla tasca. E Radichetta, lesto lesto, scavalcava l'orlo della tasca del grembiule della mamma, si lasciava scivolare lungo la sua sottana e correva dietro a colui che gli aveva mostrato la chicca e faceva finta di non volergliela dare. - Bravo, Radichetta! Viva Radichetta! Ah! Ah! Era uno spettacolo vedergli muovere rapidamente le gambine; le comari e gli altri ragazzi ridevano, battevano le mani, fino a che quell'altro non si lasciava afferrare, e non gli dava la chicca. - Hai visto? - esclamava Radichetta trionfante, quasi gliela avesse tolta a forza. E arrampicandosi di nuovo alle falde della gonna della sua mamma, rientrava nella tasca del grembiule. La povera donna doveva tenerlo là, per evitare che i polli non lo beccassero; era così: piccinino, che non ne avevano paura, e lui non badava a pericoli. Le poche volte che ella lo aveva lasciato libero per la via, se l'era visto sparire davanti. Radichetta correva di qua, correva di là, si rimpiattava dovunque, e lei dall'ansietà che potesse accadergli qualche disgrazia, non aveva avuto pace, finché non lo aveva rintracciato e rimesso nella tasca. Gli anni passavano; Radichetta era già cresciuto di una spanna e mezzo, e aveva dodici anni. Sua madre non lo teneva più nella tasca del grembiule, ma lo voleva sempre accanto a sé o sotto i suoi occhi. Era troppo vivace e anche un po' manesco, quantunque uno schiaffo o un pugno di lui sembrassero piuttosto una carezza. Non era lo stesso per Radichetta. Uno spintone, un pugno, uno schiaffo degli altri ragazzi con cui attaccava facilmente lite facendo il chiasso, lo mandavano ruzzoloni per terra, o gli lasciavano i lividi sul viso. La povera mamma lo ammoniva, gli dava sempre torto, quantunque spesso avesse ragione. E minacciava i ragazzi: - Vedrete, un giorno o l'altro, come vi concerà Radichetta! - Per ora le ha avute; se le tenga! Radichetta, dalla stizza, si mordeva le manine. - Mamma, perché hai detto: Vedrete, un giorno o l'altro, come vi concerà Radichetta? - Perché sarà cosi; lo saprai a quindici anni. - E quanto ci vorrà ancora? - Un altr'anno, figliolo mio. I ragazzi avevano preso a beffarlo. Quando ci concerai, Radichetta? - Come ci concerai, Radichetta? - Vi concerò bene, non dubitate! - Gridalo forte, fàtti sentire. E Radichetta, con quella vocina sottile sottile che si sentiva appena, si sforzava a gridare: - Vi concerò bene, non dubitate! - Intanto ti abbiamo conciato noi, Radichetta! La mattina in cui egli compiva i quindici anni, la madre lo prese su le ginocchia (era già alto tre spanne) e gli disse: - Sta' attento, figliolo mio. Gli raccontò punto per punto quel che aveva visto la notte di luna nuova passata nel bosco con lui addormentato e messo a giacere su l'erba in mezzo alla radura. - E poi? - la interrompeva Radichetta. - E poi le Fate si accorsero della mia presenza e mi avrebbero buttato addosso un'imprecazione tremenda: Chi ci vede e chi ci sente Sorda e cèca immantinente! Chi ci sente e chi ci vede Cionca a un braccio e zoppa a un piede! Ma io gridai: Fate belle, sono una povera madre! Sparirono, e fui salva. - E poi? La madre si affrettò a raccontare il resto fino alla raccomandazione della Fata: - Badi, non si serva di questo privilegio per far male agli altri o per qualche scopo cattivo. - così non potrò conciare i ragazzi che mi hanno picchiato! - esclamò Radichetta piagnucolando. - É meglio far bene per male, figliolo mio! Radichetta non la intendeva a questo modo, tanto che rispose: - Allora non soffierò mai nel pollice. Che me ne faccio di questo bel regalo, se non posso rendere male per male? E corro il pericolo di buscarmi due gobbe, una davanti e l'altra di dietro! - Intanto prova, figliolo mio! - Niente; non vo' neppur provare! E non ci fu verso d'indurlo a mettersi in bocca il pollice della mano destra per accertarsi che la Fata non li avesse ingannati. Ma ecco, una notte, urli e pianti nella via. Era una nottataccia; pioveva a dirotto e tirava un vento così furioso, che pareva volesse sradicare le case. - Che cosa avviene, mamma? - Chi lo sa? Apro la finestra e sto ad ascoltare. E, nel buio, si sentiva urlare: - Aiuto! Aiuto! Ladri! Ci ammazzano! Radichetta saltò giù dal lettino, che aveva per materassa due guanciali, e si vestì in fretta. - Dove vuoi andare, figlio mio? - Vo a vedere questi ladri! Si mise in bocca il pollice della mano destra, e cominciò a soffiare. In meno di un minuto era diventato un omaccione. - Costoro, sì, vo' conciarli bene! Sua madre non poté trattenerlo. Si udivano sempre più alte le grida: - Aiuto! Aiuto! Ladri! Ci ammazzano! ... Alla cantonata Radichetta si fermò; riprese a soffiare nel pollice; in meno di un minuto era diventato un gigante. E con due sgambate si trovava davanti alla casa d'onde uscivano quelle grida: - Aiuto! Ladri! Ci ammazzano! Trascorsi pochi istanti, non si udì più niente. E la mattina dopo furono visti sul tetto di quella casa quattro ladri legati come tanti salami, pallidi, atterriti, non tanto del trovarsi legati a quel modo, ma della terribile apparizione del gigante. Egli, infatti, senza scomodarsi, aveva sfondato con un pugno una finestra, aveva ficcato dentro la stanza un braccio enorme e una manona con cui li aveva afferrati tutti e quattro e stretti nel pugno come niente; all'ultimo, legàtili tutti e quattro insieme, e tiràtili fuori, li aveva deposti sul tetto, sollevandoli come fuscelli; ed era sparito nel buio. Radichetta, compiuta la bella impresa, tornato zitto zitto a casa, non era potuto rientrare, ed era stato costretto a passare mezz'ora davanti all'uscio, aspettando di sgonfiarsi. Fin sua madre, che lo attendeva alla finestra, aveva avuto paura di quel gigante che sorpassava con la testa la più alta casa del vicinato. - Che cosa hai fatto, figliolo mio? - Lasciami sgonfiare; ti racconterò ogni cosa dopo. Passata mezz'ora, Radichetta era ridiventato un omino alto tre spanne. - Ti hanno riconosciuto, figlio mio? - Non mi ha riconosciuto nessuno; e non voglio che si sappia che ho questa virtù. Se non ero io, quella famiglia era scannata e derubata. - Sei contento di aver compiuto un'opera buona? - Contentissimo, mamma! E mamma e figliolo si rimisero a letto, e dormirono tranquillamente fino a tardi. Non si parlava d'altro nel vicinato. - Come? Non avete sentito nulla? - Nulla. Che cos'è accaduto? Ognuno faceva un racconto a modo suo. I ladri stavano per svaligiare una casa. Passava per caso da quelle parti l'Orco e accorse. I ladri eran dieci. Sei l'Orco se li maciullò in un batter d'occhio; e stava per spolparsi gli altri quattro, quando sonò la mezzanotte. Gli Orchi alla mezzanotte devono tornare alle loro tane; e così li lasciò sul tetto, legati perché non fuggissero. - Siete sicuro che è stato proprio l'Orco? - Chi volete che sia stato? Era un gigante, più alto di un campanile. Una delle vicine, per chiasso, disse: - Sarà stato Radichetta. É vero che sei stato là? - Io, proprio io! Tutti si misero a ridere. Chi poteva immaginare che Radichetta dicesse la verità? E per prenderlo in giro, i ragazzi inventarono una canzonetta e gliela cantavano in coro: - Radichetta ha il muso sporco, Mangia gente come l'Orco. Se gli danno una polpetta, Metà ne mangia, metà ne getta. Ora dice: Sono l'Orco! Radichetta, muso sporco. Da principio, egli li lasciò dire. Rideva in cuor suo, pensando che, se gliene fosse venuta la fantasia, data una soffiatina al pollice, sarebbe stato subito in caso di sbatacchiarli nel muro come tanti ranocchi. Sua madre si raccomandava: - Non te ne curare, figliolo mio! Smetteranno, vedrai! Invece, vedendogliela prendere in santa pace, quasi avesse paura di loro, quei birbi non smettevano punto, anzi rincaravano la dose. La sera attendevano che mamma e figliolo fossero andati a letto, e si radunavano dietro l'uscio sotto la finestra della casetta, per far loro la serenata: - Radichetta ha il muso sporco, Mangia gente come l'Orco. La povera donna si affacciava alla finestra: - Volete finirla, ragazzacci? Radichetta, coricato nel suo lettino, con due guanciali per materassa, ripeteva sottovoce: - Se scendo giù! Se scendo giù! E i ragazzacci: - Se gli danno una polpetta, Metà ne mangia, metà ne getta! - Volete finirla, ragazzacci? O vi butto un secchio d'acqua! Alla minaccia, i discoli si allontanavano, e facendo capolino dalla cantonata, riprendevano più forte: - Ora dice: Sono l'Orco! Radichetta, muso sporco! E scappavano via. Ogni due o tre sere, daccapo. Radichetta non ne poteva più! Una sera che il cielo era coperto di nuvole e nel vicolo faceva un gran buio, che cosa pensò di fare Radichetta? Pensò di rimpiattarsi dietro l'uscio della casetta vicina, e di attendere che i ragazzacci venissero per la solita serenata. - Per carità, figliolo mio, non far male a quegli screanzati. Ricordati! Ricordati! Intendeva dire: ricordati delle due gobbe! - Mamma, lasciami fare. Vedrai che non ricominceranno più. Cosi piccinino com'era e accoccolato dietro l'uscio, col buio della sera, i ragazzacci, venuti più numerosi delle altre volte, non potevano scorgerlo affatto. E, al segnale di uno di loro che faceva da capo, diedero la stura alla canzonetta di loro invenzione: - Radichetta ha il muso sporco, Mangia gente come l'Orco! Radichetta intanto, messosi il pollice della mano destra tra le labbra soffiava lentamente, soffiava, soffiava, e diventava un omaccione spropositato. Non ostante il buio, qualcuno dei ragazzi se n'accòrse e diè l'allarme. Volevano scappare, ma Radichetta, con quel corpaccio spropositato sbarrava l'uscita del vicolo, afferrava a uno a uno i ragazzi, somministrava loro una lieve sculacciata e li metteva fuori; se gliene avesse data una forte, li avrebbe conciati per le feste. Pianti, strilli, grida di spavento. Un omaccione a quella maniera nessuno l'aveva mai visto; siccome, a ogni sculacciata, Radichetta mandava un grugnito per impaurirli di più, così appena uno gridò: L'Orco! l'Orco!, tutti si misero a urlare: L'Orco, l'Orco! La madre era affacciata alla finestra: - Lasciali andare, Radichetta! Basta, Radichetta! E infatti, egli si tirò da una parte e lasciò scappare gli altri ragazzi senza molestarli. Poi, aperto l'uscio, era entrato carponi, con molto stento, aspettando di sgonfiare. Ma la mattina dopo, tutto il villaggio ragionava animatamente dell'accaduto. Non c'era più dubbio: Radichetta era Orco! Altrimenti sua madre non avrebbe gridato dalla finestra: - Lasciali andare, Radichetta! Basta, Radichetta! - E per non farsi riconoscere, si dava quella statura di tre spanne! Le mamme erano atterrite. Prima di sera chiudevano in casa i bambini perché sapevano che gli Orchi si nutrono di carni tenerelle. E durante il giorno non volevano più che essi facessero il chiasso con Radichetta. In un batter d'occhio poteva trasformarsi in Orco e inghiottire qualcuno senza neppure masticarlo. E non valeva che Radichetta non facesse male a nessuno. E non valse che in parecchie occasioni egli avesse salvata la vita di molte persone, quando il fiume vicino era straripato e aveva inondato le campagne e circondato il villaggio, e le acque torbide e vorticose portavano via pagliai, bestiame e tanta povera gente. Radichetta, gonfiatosi fino a quattro metri di altezza, con le gambe in mezzo all'acqua, afferrava cinque, sei persone alla volta; due tre buoi a una volta, e li portava di corsa all'asciutto, fuori di pericolo. Aveva cominciato dalla sua mamma e non si era riposato fino a che non aveva salvato tutti coloro che chiedevano aiuto da ogni parte. Allora, vistolo all'opra, tutti lo avevano invocato: Radichetta! Radichetta! con le lacrime agli occhi, con le braccia tese. Ma, dopo, nessuno gli era rimasto grato, nessuno voleva aver a che fare con quell'omino di tre spanne, che da un momento all'altro poteva trasformarsi in gigante. - Peggio per loro! - disse un giorno Radichetta alla sua mamma. - Io me ne vado pel mondo, in cerca di fortuna. Voglio tornare ricco, mamma, e fabbricarti un palazzo. - No, figliolo mio! Io sono contenta della nostra casetta; non saprei che cosa farmene di un palazzo. Come ti è venuta questa cattiva idea? - Fra un anno sarò di ritorno. Non ci fu verso di distoglierlo da questa risoluzione. - Ricordati! Ricordati! E la poveretta intendeva dire: ricordati delle due gobbe! Radichetta si mise, come suol dirsi, la via tra le gambe, e non si fermò fino a che non fu notte. Aveva camminato alla ventura; era stanco, e per riposarsi e dormire si sdraiava su l'erba di un prato. Appena appisolato, si senti scuotere e chiamare. - Ehi! Ragazzino! Al lume di luna scòrse sei brutti ceffi, armati fino al denti. - Chi siete? Che cosa volete? - Siamo la Provvidenza. Togliamo a chi ha troppo e diamo a chi non ha niente. Vieni con noi. Radichetta esitava, pure si era alzato in piedi. - Quant'anni hai? - gli domandò uno di quei brutti ceffi. - Venticinque. Ed era vero. - Ah! Dunque tu sei l'omino di tre spanne, di cui abbiamo inteso parlare. - Sono l'omino di tre spanne. - E puoi, a volontà, trasformarti in gigante? - Che ve n'importa, se fosse così? - Puoi arricchirti e farai arricchire. - In che modo? - Facendo da Provvidenza insieme con noi; togliere a chi ha troppo e dare a chi non ha niente. - Questo significa rubare. - Non badare alle parole. Su, su; vieni con noi. Radichetta esitava. - Sarai il nostro capo; comanderai e sarai obbedito. Con te, in poco tempo, diventeremo ricchi sfondati. - Potrò fabbricare un palazzo alla mia mamma? - Meglio di quello del Re. Radichetta non esitò più. Togliere a chi ha troppo e dare a chi non ha niente, come dicevano coloro, non gli sembrava una cattiva azione. E poi l'idea di arricchire presto e di tornare al villaggio per fabbricare a sua madre un palazzo più bello di quello del Re gli faceva girare il capo. - Che cosa dovrò fare con voi? - Quasi niente. Quando sarà il momento opportuno diventerai un gigante, stenderai il braccio fin dove nessuno di noi potrebbe arrivare, ficcherai la mano da una finestra, da un balcone e farai repulisti di quel che ci sarà di troppo in una casa: oro, argento, pietre preziose, cose che non si mangiano ma che dànno da mangiare. Tu prenderai doppia parte. Le altre parti, una per ciascuno di noi. - E che cosa daremo a chi non ha niente? - A questo penserà ognuno per proprio conto. I primi a non aver niente siamo noi. - No, non mi piace. Ci son tanti poveretti a questo mondo ... - Daremo una parte ai poveri; hai ragione. E andò con loro. Arrivarono davanti a un palazzo che sembrava un castello. Ponti levatoi, torri, torrette, feritoie. - Su, dunque, diventa gigante. Radichetta si mise tra le labbra il pollice della mano destra e cominciò a soffiare, a soffiare, a soffiare. In pochi istanti era già più alto del più alto torrione del castello. - Prèndici in mano a uno a uno, mèttici sul tetto e lascia fare a noi. Radichetta ne afferrò tre con una mano e tre con l'altra, e li posò sull'orlo del tetto, davanti a un abbaino. Con una ditata sfondò l'imposta, e i ladri entrarono dentro. Dopo un buon pezzo, rièccoli, carichi di ogni ben di Dio: oro, argento, pietre preziose. Radichetta questa volta li afferrò a uno a uno, li depose per terra, e disse: - Dividiamo. - Due parti per te; una per ciascuno di noi, e il resto pei poveri, i primi che incontreremo. Incontrarono un vecchietto curvo sotto un gran fastello di legna. Radichetta, che aveva voluto essere l'elemosiniere, ficcò la mano in un sacco: - Tenete buon uomo; non penerete più. E passarono oltre, prima che colui potesse rinvenire dalla sorpresa. Incontrarono una povera donna, vestita di stracci, secca allampanata, con due bambini per mano più cenciosi e più allampanati di lei. Radichetta ficcò la mano in un sacco: - Tenete, poverina; questo per te, e quest'altro per te. Mamma e bambini non ebbero tempo di rinvenire dalla sorpresa, che già Radichetta e i suoi compagni si erano dileguati. Giunsero, verso sera, in un altro posto. - Tu, Radichetta, domanderai alloggio in quel palazzo. Vedendoti così piccolo, non sospetteranno di nulla. Quando tutti saranno addormentati, ti gonfierai, aprirai l'uscio o una finestra, stenderai giù un braccio e ci prenderai a uno, a due, a tre, come ti tornerà più comodo. Pel resto, lascia fare a noi. Gran bottino, assai più dell'altra volta. Avevano riempito sei sacchi: oro, argento, pietre preziose. Radichetta prima calò giù i sacchi, poi i compagni; e siccome stava per sgonfiare, infilò un finestrone, e si lasciò cascar giù a poca altezza dal terreno. Dividiamo. - Due parti per te; una per ciascuno di noi; e il resto ai poveri, i primi che incontreremo. I ladri andarono a deporre il bottino in una delle grotte dove stavano nascosti durante la giornata, e poi, con la parte destinata al poveri, si fermavano a un capo di strada, in attesa del primo povero che sarebbe passato. Prima passò una ragazzina che piangeva, tutta smarrita. - Perché piangi, bella figliola? - Avevo due capre che davano da campare alla mia mamma e a me; è venuto il lupo e me le ha sbranate. - Tieni; non avrai più bisogno delle capre. Radichetta le diè due manciate di monete d'oro. E prima che colei potesse rinvenire dalla sorpresa, essi erano già lontani. Incontrarono un contadino che tirava per la cavezza un asino spelato, sbilenco, tutto pieno di guidaleschi. - Dove andate, compare? - Vado a buttarmi da un precipizio assieme con la mia povera bestia. Era l'unica mia risorsa; ma la fatica e il cattivo nutrimento l'hanno ridotta tosi. Meglio morire che vivere di stenti; lasciatemi andare. -Fatevi coraggio, compare; tenete da comprarvi un altr'asino, o un mulo, o un cavallo; non bisogna mai disperare. - E voi chi siete? - Siamo la Provvidenza. E prima che il contadino rinvenisse dalla sorpresa, essi eran già lontani. - Hai visto, Radichetta? Nessuno ci dice grazie, nessuno ci resta grato. Il meglio è che ognuno faccia la carità per proprio conto. Radichetta, con tant'oro accumulato da parte sua, era divenuto un po' avaro; voleva sempre accumularne dell'altro, per tornare ai villaggio e fabbricare a sua madre un palazzo più bello di quello del Re. Così, dopo nuove imprese ancora più fortunate delle precedenti, diceva: - Dividiamo. - Due parti per te; e una per ciascuno di noi. Per coloro che non avran niente penserà ognuno per conto suo. Incontrarono altri poveri, affamati, storpi, ciechi; e Radichetta, divenuto avarissimo, pensava: - Per chi non ha, provvederanno quest'altri, lo devo fabbricare a mia madre un palazzo più bello di quello del Re. E un giorno disse ai compagni: - Me ne vado. Porto via la mia parte, per andare a fabbricare un palazzo a mia madre più bello di quello del Re. Quando lo avrò finito, ci rivedremo. I sei ladri lo pregarono, lo scongiurarono di restar con loro un altro mese almeno; c'erano tre o quattro bei colpi da fare; ma Radichetta terme duro. L'ultima notte che restò con loro, Radichetta non poteva prender sonno dalla contentezza di rivedere la sua mamma di cui non aveva saputo più notizie da tanti mesi. Aveva detto: Me ne vado pel mondo in cerca di fortuna. E tornava con tanta ricchezza, che neppur lui sapeva quanta. Nella notte, ai buio, credendolo addormentato, i sei ladri, sotto voce, ragionavano fra loro. - Dovrà portarsi via davvero la sua parte? Ammazziamolo nel sonno, ora che è piccino di tre spanne. - Aspettate - disse da sé Radichetta; - vi concio io. E messosi il pollice della mano destra tra le labbra, cominciò a soffiare, a soffiare, a soffiare; e quando fu diventato un omaccione da poterli afferrare tutti per le gambe e sbatacchiarli nel muro, stese le braccia e li agguantò. I ladri cominciarono a urlare: - Radichetta, che cosa fai? - Vi do quel che meritate! Li sbatté tutti contro il muro, e li lasciò più morti che vivi. Aveva fatto un disegno nella sua mente. - Ora soffio nel pollice, mi carico addosso tutte le ricchezze, e via di corsa fino al villaggio. Giungerò prima che sia giorno. Ma soffia, soffia, soffia, non aveva più fiato e intanto rimaneva un omino di tre spanne. Figuriamoci il suo sbalordimento! Aveva perduto la gran virtù di crescer di statura, fino a divenire gigante. Ma ancora non capiva perché. Che cosa aveva fatto di male? Aveva tolto a chi aveva troppo e aveva dato a chi non aveva niente, come dicevano i suoi compagni. Si era fatto giorno. Quei sei giacevano per terra, insanguinati, e non davano segni di vita. Radichetta prese con sé il poco che poteva portare addosso, e si avviò pel suo villaggio, con l'intenzione di tornare a riprese nella grotta, e portar via almeno la sua parte. Picchiò all'uscio di casa sua. - Mamma, apri; son io, Radichetta! La povera donna diè un grido di gioia e corse ad aprire. Indietreggiò, spaventata: - Ah, Radichetta! Che cosa hai fatto? Radichetta non si era accorto che gli erano cresciute due gobbe, una davanti e l'altra di dietro. Così corto e piccinino, con quelle due gobbe sembrava un mostro addirittura. - Non importa, mamma - egli disse. - Ho tanto denaro da poter fabbricarti un palazzo più bello di quello d'un Re. Apre il sacco, dove egli aveva messo le cose più rare e più di valore della sua parte, e trova tanti gusci di chiocciola vuoti! Soltanto allora Radichetta capì che aveva fatto male ad associarsi con quei ladri, e si pentì di essersi lasciato lusingare dalle parole di coloro e di esser diventato a poco a poco peggio di essi. Ma non c'era più rimedio. E dovette portare le due gobbe, una davanti e una di dietro, per tutta la vita. Larga la via, la foglia è stretta Questa è la fiaba di Radichetta.

IL FIGLIO DEL CORSARO ROSSO

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Salgari, Emilio 16 occorrenze

- Pensate forse che io abbia assalito il galeone per il capriccio di saccheggiarlo o di fare strage del suo equipaggio? - E degli altri che cosa ne farete? - Sono liberi! - rispose il signor di Ventimiglia. - Che cosa dite? - Che sono liberi, vi ripeto. - E tutto questo furioso combattimento è avvenuto per fare di me un prigioniero? - chiese il segretario del marchese di Montelimar con stupore. - Precisamente. - Ma che cosa volete da me? - In questo momento non posso dirvelo. Passate sulla mia fregata e il galeone, se sarà ancora in grado di continuare il suo viaggio, se ne vada pure. - Senza saccheggio? - chiese il capitano della nave, facendosi a sua volta innanzi. Il conte lo guardò per qualche istante, sorridendo della sua sorpresa, poi chiese: - A quanto stimate le ricchezze contenute nel vostro galeone, capitano? - A mille e cinquecento piastre. - Non portate verghe d'oro? - Nessuna. - Pagherò al mio equipaggio le piastre che avrebbe potuto conquistare nel saccheggio della vostra nave - dichiarò il conte. - E lo stendardo di Spagna? - Sventolerà sempre sull'asta di poppa - rispose il conte. - Il grande stendardo di Spagna non si abbassa per ora dinanzi agli sguardi del figlio del Corsaro Rosso, o meglio, del conte di Ventimiglia ... Signori, siete liberi! A me però il segretario del marchese di Montelimar! Il vecchio capitano del galeone, che non aveva ancora lasciato cadere la spada, fece atto di gettarla a terra, ma il conte con un rapido gesto lo fermò dicendogli: - Conservatela per altre battaglie piú fortunate, signore: io non sono, come tanti filibustieri, un nemico giurato della vostra razza. A me basta compiere la mia missione e niente piú. - Quale? - È un segreto che non posso confidare a voi. Signor Barquisimeto, volete seguirmi o no? Dalla vostra risposta dipende la salvezza del galeone. Il segretario del marchese di Montelimar ebbe una breve esitazione, poi disse: - Piuttosto che la bandiera della mia patria scenda dall'albero, eccomi, signor conte. Affido però la mia vita alla vostra lealtà. Il signor di Ventimiglia non rispose. Il segretario fece alcuni passi innanzi. - Eccomi, signor conte, - disse. - A bordo, amici - rispose il corsaro. I filibustieri e i bucanieri lasciarono la barricata e si ritrassero lentamente a bordo della fregata, ma tenendo sempre, per precauzione, gli archibugi puntati contro gli spagnuoli. Il segretario del marchese di Montelimar, quantunque pallidissimo, li aveva seguiti. Quando il figlio del Corsaro Rosso lo vide attraversare il bompresso e mettere i piedi sul castello di prora della Folgore, gridò con voce tonante: - Ritirate i grappini d'arrembaggio e contrabbracciate le vele! La manovra fu eseguita in un momento dai corsari di servizio sulla tolda, mentre i cannonieri, temendo una sorpresa, si precipitavano nelle batterie. Il conte, ritto sulla prora altissima della fregata, si levò nuovamente il cappello e, dopo aver alzato la spada, l'abbassò gridando ai suoi corsari: - Salutate i colori della vecchia Spagna! È il nipote del Corsaro Nero e del Corsaro Verde che ve l'ordina! Salutate i valorosi! Mentre la fregata indietreggiava lentamente, essendo ormai stati tolti i grappini di arrembaggio, i bucanieri fecero una scarica di archibugi, sparando in alto, con non poco stupore degli spagnuoli, i quali erano rimasti raccolti sul castello di prora del galeone. Gli hidalghi, da veri cavalieri andalusi, non furono da meno dei filibustieri, di quei terribili uomini che avevano giurato la distruzione completa di tutte le colonie spagnuole, colla scusa di vendicare gl'indiani, e non a torto, dei tanti delitti efferati commessi dai primi conquistadores, e spararono anch'essi in alto, gridando: - Buon viaggio al figlio del Corsaro Rosso! La fregata, ormai libera, veleggiava lungo la poppa del galeone. Le due bandiere, quella del conte di Ventimiglia e il grande stendardo di Spagna, scesero per tre volte fino sul cassero e per altrettante si alzarono, poi le due navi si separarono. La fregata aveva ripresa la sua rotta verso ponente, mentre il galeone, che era uscito dalla lotta assai maltrattato, metteva la prora verso la costa di San Domingo per cercare un rifugio in qualche porto. - Centomila fulmini del mar di Biscaglia! - esclamò il guascone, quando le due navi furono lontane un tre o quattrocento metri. - Questi si chiamano combattimenti! ... e con tanta fatica, sí e no ho guadagnato il doblone che quel basco fortunato ancora mi deve. Se io fossi stato al posto del signor di Ventimiglia, non avrei lasciata nemmeno una piastra a quel galeone del malanno. Venti morti per avere un misero segretario! ... Quello non valeva nemmeno una carica per la pipa! Si era voltato verso Mendoza il quale, non meno avaro di lui, stava contando i dobloni che il conte, da uomo di parola, gli aveva subito versati, mentre il luogotenente faceva distribuire all'equipaggio le mille e cinquecento piastre che avrebbe potuto ricavare dal saccheggio del galeone. - Ohé, compare, - gli disse. - Siete stato pagato, mi pare. - Il conte è un galantuomo, - rispose Mendoza. - Una vera parola d'oro. Parla e cola oro! - Non ho mai avuto bisogno di occhiali io! ... Un guascone colle lenti sarebbe ridicolo. - E cosí? - Dimenticate, compare, quel doblone che abbiamo scommesso nella cantina della marchesa di Montelimar. Era Alicante o Xeres? - Xeres. - I baschi sarebbero meno gentiluomini dei guasconi? Vivaddio! Era Alicante! ... Di vini spagnuoli io me ne intendo. - I baschi sono galantuomini, - rispose gravemente Mendoza, ridendo. - Riconosco il mio torto, ma pel momento voi, don Barrejo, non avrete quel doblone, perché avendolo scommesso in una cantina dovremo berlo in un'altra cantina. Vi pare? Fuori del mar di Biscaglia! - Non ho mai trovato un compare cosí furbo! - gridò don Barrejo. - Credevo che i guasconi fossero i piú furbi dell'orbe terracqueo ed ora m'accorgo che i baschi sono ... - Che cosa? - chiese Mendoza, ridendo. - Fiori di canaglie! - Volete provocarmi, don Barrejo? Lo sappiamo già che i guasconi sono spadaccini e anche attaccabrighe. - E i baschi? - Testardi. - Una parola molto sonora e che non dice nulla, - disse il guascone. - Perdinci! ... Vuol dire che quando un basco ha detto una cosa, vivo o morto, sarà sempre quella. - Ah! ... Ho capito! ... Come quella di bere il doblone. - Ecco i guasconi che ridiventano furbi. - Che il diavolo vi porti all'inferno, - disse l'avventuriero, ridendo. - Me l'avete ben giuocato quel doblone. - State sicuro: andremo a berlo in qualche cantina dell'America centrale. Mentre i due compari discutevano sul doblone e la fregata riprendeva la sua corsa verso ponente, riparando alla meglio i danni subiti durante quell'accanito combattimento, il signor di Ventimiglia aveva pregato cortesemente il segretario del marchese di Montelimar di seguirlo nel salotto del quadro. - Sedetevi, cavaliere, - disse il conte, quand'ebbe chiusa la porta, indicandogli una sedia. - Abbiamo molto da discorrere fra noi. - Ciò mi stupisce molto, - rispose il segretario del marchese, il quale appariva assai pallido e molto inquieto. - È la prima volta che io vi vedo, signore. - Ne sono convinto, perché solamente da qualche mese mi trovo nelle acque del Golfo del Messico. - Per quale motivo? - Per cercare voi, prima di tutto, - rispose il conte, sedendosi di fronte al segretario. - Sono dunque un uomo cosí prezioso? - L'avete veduto or ora. Per avervi nelle mie mani, ho messo in pericolo la mia fregata e anche la vita mia e quella del mio valoroso equipaggio. Sapete già chi sono? - Il figlio del Corsaro Rosso. - Avete conosciuto mio padre? Il segretario del marchese di Montelimar diventò livido, ma non rispose. - Cavaliere, - disse il conte con voce un po' aspra - non dimenticate che siete completamente in mia balia e che, se anche sono un gentiluomo, ho nelle vene il sangue dei formidabili corsari che devastarono le colonie spagnuole del grande Golfo. Rispondete alle mie domande. - Ebbene, sí, l'ho conosciuto - rispose il segretario del marchese. - Dove? - A Maracaibo. - Quando? - Il giorno antecedente al suo supplizio. Questa volta fu il conte che divenne pallidissimo, mentre un lampo d'ira illuminava i suoi occhi. - Sapevano d'impiccare un gentiluomo? - chiese con voce sorda, stringendo i denti. - Io credo di sí. - Chi pronunciò la sentenza di morte contro mio padre e contro tutti i suoi marinai sfuggiti al naufragio? - Non lo so. - È inutile che cerchiate d'ingannarmi! - disse il signor di Ventimiglia balzando in piedi. - È stato il marchese di Montelimar, vostro signore. - Perché chiedermelo allora? - disse il cavaliere. - Volevo essere sicuro della cosa. Il conte girò due o tre volte intorno alla tavola che occupava il centro del salotto; poi, fermandosi bruscamente dinanzi al segretario, il quale lo guardava con terrore, gli disse: - Mio padre ed i miei due zii, il Corsaro Verde ed il Corsaro Nero, erano venuti in America per vendicare la morte del loro fratello maggiore ucciso a tradimento dal duca Wan Guld e non già per corseggiare, come fanno tutti gli altri filibustieri della Tortue. I Ventimiglia hanno ancora nel Piemonte terre e castelli, quanti forse non ne possiedono i vostri grandi di Spagna o i vostri conquistadores arricchitisi con le spoglie dei disgraziati cacichi del Messico o del Perú. - L'avevamo saputo dal nostro ambasciatore, accreditato presso la corte dei duchi di Savoia - rispose il segretario del marchese di Montelimar. Il conte fece un gesto con la destra, come per allontanare qualche lontano ricordo, poi riprese: - Torniamo al nostro discorso, cavaliere. Mio padre, prima di partire per l'America insieme con i suoi fratelli, il Corsaro Nero ed il Corsaro Verde, aveva sposato una principessa del Brabante che morí dandomi alla luce. Io non so in quale epoca egli sposò qui la figlia del grande cacico Hara, re del Darien, dalla quale ebbe una figlia. Ne avete udito parlare? - Sí, vagamente. - Quando la nave di mio padre naufragò sulle coste di Maracaibo, quella bambina si trovava fra i superstiti, non è vero? - Chi ve lo disse? - Un giorno, frugando fra le carte di mio padre, appresi che io avevo una sorellina in America. Morgan, che è oggi il governatore di Giamaica e che ha sposato Jolanda, la figlia del Corsaro Nero, mi ha confermato, or non è molto, che la notizia era vera. Che cosa ne ha fatto il marchese di Montelimar di quella fanciulla? Parlate, cavaliere! Perché se un'infamia fosse stata commessa, guai al vostro signore! Un Ventimiglia non perdona! Il figlio del Corsaro Rosso, cosí parlando, era diventato terribile. I suoi lineamenti si erano alterati, assumendo una espressione selvaggia ed i suoi occhi mandavano lampi sinistri. - Mi avete capito, cavaliere? - gridò, battendo fortemente il pugno sul tavolino. - Che cosa ne avete fatto di mia sorella? Io sono venuto appositamente in America per cercarla, risoluto a mettere sottosopra il gran Golfo, pur di trovarla! Ho nelle mie vene, ve lo ripeto, il sangue di gente di guerra e di corsari e farò vedere ai vostri compatriotti, al balenar delle mie artiglierie, lo stemma dei Ventimiglia. - Calmatevi, signor conte - disse il segretario. - È morta o viva mia sorella? - È viva. - Me lo giurate? - Sul mio onore! - Con questa affermazione voi avete salvata la vita al vostro signore. - Volevate ucciderlo? - Sí, con un buon colpo di spada - rispose il conte. - Dove si trova mia sorella? - Non ve lo saprei dire, signor conte sul mio onore. - Che sia un onore dubbio? - chiese il signor di Ventimiglia, facendo un gesto di minaccia. - Dovrò andare dal vostro signore a chiedere notizie di mia sorella? Ditemelo. Il cavaliere impallidí, poi divenne rosso. - Signor conte, - disse, con voce fremente, - quando un hidalgo spagnuolo giura sul suo onore, non vi è gentiluomo di Europa che possa stargli di fronte, perché innanzi a tutto noi siamo cavalieri, ci abbia creato Filippo secondo o Carlo quinto. Se dubitate, io sono pronto ad incrociare la mia spada contro di voi. I gentiluomini della vecchia Castiglia muoiono, ma non si arrendono! ... Mi avete capito, signor conte? Il signor di Ventimiglia lo aveva guardato con viva sorpresa. Per qualche istante strinse l'impugnatura della sua spada, poi disse: - No, cavaliere. Ho avuto torto a offendervi e da buon gentiluomo vi faccio le mie scuse. Voi dunque non sapete dove si trova mia sorella? - Io ho udito dire una sera dal marchese di Montelimar che l'aveva affidata ad un mayoral della costa del Pacifico. A Panama o dove? Questo non lo so; ve lo affermo solennemente, signor di Ventimiglia. - Ad un mayoral? Che cos'è? Io non conosco perfettamente la vostra lingua. - Ad una specie d'intendente - rispose il cavaliere. - Che voi non conoscete? - No. - Sicché sarà necessario che io vada a scovare il vostro signore. - Se riuscirete a sapere dove si trova. - Lo so di già - rispose il conte. - È impossibile! - Allora vi dirò che il vostro signore si trova ora a Pueblo-Viejo. Il segretario del marchese ebbe uno scatto e fece un gesto d'ira. - Chi ve lo ha detto? - chiese con i denti stretti. - La marchesa Carmen di Montelimar, non è vero? Oh! ... lo so che ha sempre odiato suo cognato, come so pure che ha favorito la vostra fuga da San Domingo. - V'ingannate, signore! - rispose il conte. - Lo avevo saputo prima da mio cugino Morgan. - L'uomo nefasto che ci ha rovinato Panama e che ha sposato Jolanda, la figlia del Corsaro Nero. - Precisamente, signor Barquimiseto. Il segretario del marchese di Montelimar si morse le labbra a sangue. - E voi andate a trovare il mio signore? - chiese. - Vi ho detto che sono venuto in America per cercare prima di tutto mia sorella! - E poi? - Ah! ... Il resto non vi riguarda, signore. - Ma s'indovina: voi siete venuto qui per vendicare vostro padre. - Io non ho ancora detto questo. Voi dunque non sapete dove si trova la nipote del grande cacico del Darien? - No, ve l'ho già detto, È stata affidata ad un mayoral e non ne so di piú. - Me lo dirà il marchese - disse il conte, alzandosi impetuosamente. - Vi avverto intanto che voi rimarrete mio prigioniero fino a che la mia missione non sarà finita; e due uomini vigileranno, giorno e notte, su di voi. Non contate quindi su di un possibile tentativo di fuga, poiché i miei filibustieri sono d'una fedeltà a tutta prova e non esiterebbero un solo istante ad uccidervi. D'altronde io farò quanto posso per rendervi meno pesante la prigionia, perché pranzerete alla mia tavola e sarete trattato c on tutti i riguardi ai quali ha diritto un cavaliere spagnuolo. Addio, signore; potete andare a riposarvi nella cabina che sta di fronte a noi: siete mio ospite. Ciò detto il conte uscí dal salotto e salí in coperta dove l'attendevano con viva impazienza il suo luogotenente, Mendoza e il terribile guascone. - Dunque? - chiese il signor Verra. - Ho finalmente la certezza che mia sorella è viva - rispose il signor di Ventimiglia. - Voi non potete immaginare quale desiderio abbia io di vedere quella fanciulla color cioccolata o rame finissimo. Farà furore alla corte dei duchi di Savoja, i quali già non ignorano la storia dei tre formidabili corsari. Poi, volgendosi verso Mendoza, gli domandò: - Tu che sei uno dei piú vecchi filibustieri e che hai combattuto con mio padre e con i miei zii, credi che io possa da solo condurre a fine una tale impresa? - No, signor conte - rispose il marinaio, tirandosi la barba. Non si ripete due volte la fortuna di Morgan, e gli spagnuoli sono formidabili nell'America centrale. Chi rifiuterà però un aiuto al figlio del Corsaro Rosso, al nipote dei corsari Verde e Nero? Forse che i piú famosi filibustieri non operano di là dell'istmo? David, Pusley e Grogner sono là! Andiamo a trovarli, e nessuno di loro si rifiuterà di mettere le sue navi, i suoi uomini, le sue spade e i suoi pezzi a disposizione d'un conte di Ventimiglia. - Potremo noi trovarli? - Io so di positivo che, dopo la loro disastrosa crociera verso lo stretto di Magellano, hanno conquistato l'isola di San Giovanni e che là meditano chi sa quali formidabili imprese ai danni della Spagna! - San Giovanni, hai detto? - Sí, una piccola terra che dista appena cinque leghe dal continente. Andiamo a trovare quei leoni, signor conte, e faremo cadere il marchese di Montelimar e anche un'altra volta Panama. Il filibustiere non ha mai avuto paura e lo troverete sempre pronto a qualsiasi cimento. - Sono i moderni guasconi. - disse don Barrejo. - Che gente meravigliosa! ... Il conte stette un momento immerso nei suoi pensieri, poi disse: - Credo anch'io che non si possa fare diversamente. L'aiuto di quei terribili filibustieri mi è necessario per lottare col marchese di Montelimar. Ma sei proprio certo, Mendoza, che si trovino sulle coste del Pacifico? Morgan mi aveva detto che erano partiti verso il sud, per aggirare la Terra del Fuoco e tornare nel Golfo da quella parte. - È vero, signor conte; ma la loro impresa è fallita e sono tornati verso il settentrione ancora in buon numero. Si dice che abbiano con loro non meno di ottocento uomini e che si propongono di mettere a sacco tutta l'America centrale. - Eh, con una simile forza non mi stupirei! So quanto valgono quegli uomini. E dove lasceremo noi la fregata? - La rimanderemo alla Tortue, signore - disse il luogotenente. Voi sapete bene che mai gli spagnuoli oserebbero assalire la rocca dei filibustieri. Volete affidare a me l'incarico? Lasciatemi una trentina di uomini ed io m'impegno di sfuggire alle crociere dei galeoni e delle caravelle spagnuole. - E poi, non avete vostro cugino? - chiese Mendoza. - La Giamaica ha porti sicuri, ed il signor Morgan è un uomo da difendere la vostra fregata contro tutti gli attacchi. - E sarà meglio! - disse il signor di Ventimiglia. - Signor Verra, date la rotta ai vostri piloti e andiamo a scovare, prima di tutto, il marchese di Montelimar a Pueblo-Viejo. Se non mi dirà dove si trova mia sorella, guai a lui! ... Sarò implacabile come mio zio, il Corsaro Nero!

. - Che quel furfante abbia fiutato il pericolo e abbia preso il largo? Voi sapete che gli spagnuoli hanno molte spie. - È impossibile! La nostra fregata è creduta da tutti una nave spagnuola, spedita qui a proteggere la città contro una sorpresa da parte dei bucanieri e dei filibustieri - rispose il conte. - Se avessero avuto qualche sospetto, i galeoni e le caravelle che si trovavano qui ci avrebbero già dato battaglia. Avete notato nulla di insolito nel porto? - No, signor conte. Le navi mercantili hanno caricato tutto il giorno zucchero e caffè, e quelle da guerra non hanno lasciato i loro ancoraggi - rispose Mendoza. - Eppure non mi sento affatto tranquillo. Basterebbe la piú lieve imprudenza per farci bombardare dai forti e dalla flotta. - Nessuno la commetterà, conte; l'equipaggio è sempre consegnato a bordo e ho fatto collocare delle sentinelle dinanzi alle due scale e perfino dentro le scialuppe. - Malgrado ciò, io vorrei andarmene al piú presto. Questa commedia non può durare a lungo, e la mia impresa potrebbe finire qui. Ah, se potessi vedere la marchesa per dieci minuti soli, mi risparmierebbe la fatica di cercare quell'inafferrabile cavaliere. Deve ben sapere qualche cosa dell'infamia commessa da suo cognato. Stette un momento silenzioso, poi soggiunse: - Non deve essersi coricata: proviamo, miei bravi, tenete pronte le spade e anche le pistole. - Sono tre ore, capitano, che aspettiamo la buona occasione per menare le mani - disse Martin. - Seguitemi. Assicuratisi che la via era deserta, l'attraversarono senza far rumore e si avviarono verso il palazzo dei Montelimar che si trovava a breve distanza. Il conte, invece di avvicinarsi al portone, girò intorno al magnifico giardino, cinto da una cancellata di ferro che si prolungava lungo i fianchi del fabbricato. Guardò in alto e scorse due finestre illuminate. - Sono ancora svegliati - mormorò. Ad un tratto trasalí. Delle note dolcissime, che uscivano dalle due finestre che non erano chiuse, l'avevano colpito. Qualcuno suonava il mandolino nel palazzo. Chi? Un servo od una cameriera, no, di certo. Non l'avrebbero osato, se la marchesa si fosse già coricata. - Che sia lei? - si disse. Si volse verso i due marinai, i quali avevano sguainate le lunghe spade per premunirsi contro una possibile sorpresa, e disse loro: - Dobbiamo superare la cancellata. - Un gioco da fanciulli per dei marinai - rispose Mendoza. - Montiamo all'arrembaggio - disse Martin. Il conte s'aggrappò alle sbarre, le salí fino alla cima, lesto come uno scoiattolo, varcò le punte e si lasciò cadere dall'altra parte, in mezzo ad un'aiuola di splendidi fiori. I due marinai erano saltati nel giardino, quasi nello stesso tempo. - Oh! c'è da battagliare, qui? - chiese Mendoza. - Lascia in pace la tua spada, per ora - rispose il conte di Ventimiglia. - Vedremo piú tardi se vi sarà bisogno di un po' di buon acciaio. Seguitemi senza rumore. Attraversarono il giardino, cercando di non fare scricchiolare la ghiaia dei viali, e giunsero sotto le finestre illuminate. Il mandolino continuava a suonare una dolcissima signadilla. - Non può essere che la marchesa - mormorò il conte. - Questa signadilla è stata suonata stasera durante la festa, e cerca d'imitarla ... Che io abbia tanta fortuna? Un gigantesco bombax, alto una trentina di metri, col tronco coperto di bitorzoli spinosi, s'alzava di fianco al palazzo, spingendo i suoi rami quasi presso alle finestre illuminate e anche piú sopra. - Ecco quello che mi occorreva - mormorò il conte. - Rimanete qui e non state in pensiero. La mia assenza non sarà lunga. S'aggrappò con precauzione ai bitorzoli, per non ferirsi le mani, e cominciò a salire, mentre Mendoza e Martin si sdraiavano alla base del tronco, nascondendosi quasi interamente tra le alte erbe che vi crescevano intorno. Bastarono pochi secondi al robusto e agilissimo gentiluomo per raggiungere il grosso ramo che rasentava una delle due finestre illuminate. Guardò attraverso i vetri socchiusi. La finestra prospettava su un elegante gabinetto dalle pareti coperte di arazzi di Granata e ammobiliato elegantemente, quantunque tutti i mobili fossero pesantissimi, come si usava in quell'epoca. Un lampadario d'argento, con parecchie candele, lo illuminava vivamente. Non vi era però alcuna persona; tuttavia la mandola non aveva cessato di suonare. Una cosa colpí subito il giovane conte. Era la veste di seta guernita di smeraldi, che la marchesa aveva indossata durante la festa, e che era stata gettata su un piccolo divano moresco scintillante di ricami d'oro e d'argento. Stava per spiccare il salto, quando udí Mendoza chiedere: - Chi vive? Una voce, che il conte riconobbe subito, rispose: - A voi lo domando: che cosa fate qui, bricconi? - A noi, bricconi! - gridò Martin. - Il conte di Sant'Iago! - mormorò il figlio del Corsaro Rosso, stringendo i denti. Non trovandosi che ad un'altezza di quattro metri, l'agile giovane si lasciò cadere dalla pianta. Mendoza e Martin stavano già con le spade in pugno di fronte al capitano degli alabardieri, il quale aveva pure sguainata la sua lama. - To'! - esclamò il signor di Sant'Iago con voce beffarda. - Il Conte de Miranda che cade dall'alto! Siete andato a far provvista di frutti di bombax? Vi avverto che non sono mangiabili e servono soltanto a fare un pessimo cotone. - E voi siete venuto qui a fare raccolta di fiori, non è vero? chiese il conte di Ventimiglia, rosso di collera. - Può anche darsi; ma almeno io li raccolgo in terra, mentre voi cercate i frutti presso le finestre, senza pensare che se vi scivola un piede potreste rimanere zoppo tutta la vita; un vero peccato per un cosí bel giovane! - Mi pare che voi scherziate - disse il conte di Ventimiglia. - E se cosí fosse? - chiese il capitano. - Penso che questo non sarebbe il posto. Lassú le finestre sono illuminate e mi spiacerebbe che ci vedessero. - La marchesa di Montelimar? - chiese il capitano ironicamente. - Se quella signora può impressionarvi, possiamo cercare altrove un posto dove nessuno venga a disturbarci. Oh, lo conosco questo giardino e so anche dove si trova un bellissimo prato che sembra stato preparato appositamente per incrociare due spade! - È una sfida che voi mi lanciate? - Prendetela come volete; a me importa poco. - Dov'è quel prato? - chiese il conte di Ventimiglia con ira ... - Fretta di morire? - Sono ancora vivo, signor di Sant'Iago; e se la vostra mano è lesta, la mia lo è altrettanto. - Cosí l'accordo sarà perfetto - rispose il capitano sempre ironico. - Vi avverto però che io la scorsa settimana spacciai un rivale che mi dava noia. - Me lo avete già detto, e ciò non produce su di me alcun effetto. Ho battuto piú d'un capitano, ed erano spagnuoli come voi! - Che cosa avete detto? - chiese il conte. Il figlio del Corsaro Rosso si morse le labbra, irato di essersi lasciato sfuggire quelle parole. - Signor conte, - disse il capitano - volete seguirmi fino a quel prato? Là potremo discorrere tranquillamente e anche divertirci. - Eccomi! - disse il figlio del Corsaro Rosso. - E quegli uomini? - chiese il signor di Sant'Iago, indicando Mendoza e Martin. - Non daranno qualche impiccio, se non a voi, almeno a me? - Qualunque cosa debba succedere, questi miei marinai non daranno fastidio a nessuno; vi do la mia parola d'onore. - Mi basta: venite, signori. Forse serviranno a qualche cosa - aggiunse poi col suo solito accento beffardo. Il capitano si cacciò sotto un boschetto di palme, lo attraversò sempre seguito dal Corsaro e dai due marinai, e sbucò in una piccola prateria coperta da un'erba piuttosto folta e circondata da ogni parte da splendidi palmizi. - Ecco un bel posto per parlare liberamente - disse volgendosi verso il conte di Ventimiglia. - E anche per uccidersi senza che nessuno intervenga, non è vero, capitano? - chiese il figlio del Corsaro Rosso. Il conte di Ventimiglia incrociò le braccia e, guardando il conte di Sant'Iago il quale si era esposto ai raggi della luna che allora sorgeva, gli chiese con voce secca: - Che cosa volete ora? Ditemelo subito, perché ho molta fretta. - Carrai! Correte molto presto incontro alla morte, voi! - Caramba! Pare che voi vi siate dimenticato d'una cosa, signor capitano! - Volete dire? - Che il quattordici ha vinto il tredici. - Credete di spaventarmi? - Niente affatto: mi hanno detto che siete coraggioso. - Tagliamo corto, conte. - Che cosa desiderate? - Darvi un buon colpo di spada - rispose il capitano, con voce rauca. - Quando un rivale mi attraversa la via o mi dà ombra, io lo mando a riposare nel cimitero di San Domingo. - Siete terribile! - Lo proverete fra poco, se non scapperete. - Che cosa dite, capitano? Io fuggire dinanzi alla vostra spada? Sono un gentiluomo ed un uomo di guerra, mio caro spaccamonti! - Rajo de Sol! Mi avete insultato! - urlò il conte di Sant'Iago. - Pare anche a me. - Vi ucciderò al primo attacco! - O al ventesimo? - Vi burlate di me? - Cosí pare - rispose il figlio del Corsaro Rosso, snudando la spada e mettendosi rapidamente in guardia. - Lampi e folgori! - Folgori e cannonate! - È troppo, conte de Miranda. - E la luna è splendida! Ci batteremo magnificamente senza aver bisogno né di torce, né di fanali. Signor capitano degli alabardieri di Granata, vi aspetto. Il conte di Sant'Iago aveva a sua volta snudato la lunga spada; ma tutto ad un tratto ruppe la guardia, dicendo: - Vi siete fatto annunciare col titolo di conte de Miranda: lo siete davvero? - Sono un gentiluomo e vi basti questo. - Spagnuolo? - Che io sia o non sia spagnuolo, non vi deve interessare. D'altronde se vorrete sapere il mio nome, lo troverete inciso sulla lama della mia spada ... Ed ora basta, capitano: ho fretta. Entrambi si rimisero in guardia, mentre Mendoza e Martin si erano un po' scostati, per lasciare ai due rivali la maggiore libertà possibile. Il conte di Ventimiglia volgeva le spalle alla luna che si mostrava maestosa al di sopra delle alte palme del giardino: il capitano invece era interamente illuminato. Si guardarono l'un l'altro, fissandosi intensamente con ira: poi il capitano, che pareva il piú impaziente, malgrado l'età, fece tre o quattro finte per vedere se l'avversario si smascherava o se tradiva il suo giuoco. Il giovane capitano della Nuova Castiglia non si mosse. Stava saldo come una rupe, con la spada in linea, lo sguardo attento. - Carrai! - esclamò l'alabardiere. - Vi giudico già di una buona lama, ma vedremo in seguito se parerete queste botte che sembrano finte. Il signor di Ventimiglia non rispose. Non doveva essere certamente alle sue prime armi, a giudicare dalla sua calma. - Sfonderò quel muro d'acciaio e di carne - disse il capitano, il quale perdeva la sua calma. - Ecco una buona stoccata! Paratela! Era partito a fondo con velocità fulminea, ma il conte con una parata di seconda, altrettanto rapida, aveva scartato la lama del capitano. - Carrai! Che braccio solido, signor de Miranda. Non mi aspettavo una simile resistenza. Il giuoco però è appena cominciato e la luna non tramonterà prima dell'alba. Anche questa volta il figlio del Corsaro Rosso non rispose. Guardava intensamente la punta della spada del capitano che l'astro notturno faceva scintillare sinistramente. - Non siete cortese, conte - disse il signor di Sant'Iago, rimettendosi in guardia. - Sapete che oggi usa battersi, scambiandosi frasi gentili? Un colpo di spada, che per poco non lo sorprese, fu la risposta del signor di Ventimiglia, colpo appena parato di terza, con solo un secondo di vantaggio. - Diavolo! - brontolò il capitano. - Qui non ci vogliono chiacchiere! Fece un passo indietro, tastando prima il terreno col piede sinistro per non scivolare, poi prese una guardia di seconda, dicendo: - Vi aspetto, conte! Il figlio del Corsaro Rosso, messo un po' in sospetto da quella mossa, si guardò bene dall'attaccare e rimase fermo, con la spada in linea, sempre minacciando il petto del capitano con un colpo d'arresto. - Non assalite dunque, signor conte de Miranda? - Non ho mai fretta, capitano. - V'aspetto da un mezzo minuto. - Potete aspettarmi anche mezzo secolo, se cosí vi piace. - Ah, per le corna del diavolo! Per la terza volta il conte di Ventimiglia stette zitto. Ratto come un lampo si era allungato tutto, facendo due salti innanzi ed era piombato sull'avversario, portandogli un colpo in mezzo al petto. Fu un grande miracolo se anche quella stoccata venne parata dallo schermitore spagnuolo; nondimeno la casacca di seta rimase tagliata per un bel tratto. - Caramba! Vi slanciate, signor conte, e cercate anche di sorprendermi, mentre io vi dico delle galanterie. Due centimetri piú innanzi, e mi toccavate. Un'altra volta ricordatevi che bisogna allungarsi ... Un grido gli spezzò la frase. La spada del signor di Ventimiglia era nuovamente scattata e la lama era entrata piú di mezza nel petto del capitano. Egli rimase un momento in piedi, trattenendo la lama del conte con la mano sinistra; poi si rovesciò pesantemente a terra, spezzandola. Cinque pollici di acciaio della spada spezzata rimasero conficcati nel suo stomaco, all'altezza della quarta costola di sinistra. - Morto? - chiesero ad una voce Mendoza e Martin facendosi innanzi. Il conte gettò a terra il troncone della spada e si curvò sul capitano che si contorceva fra gli spasimi d'un'atroce agonia. - Forse non siete ferito gravemente, signor di Sant'Iago - gli disse. - Possiamo ancora salvarvi. - Credo d'aver avuto il mio conto - rispose il capitano. - Per bacco! Avete la mano piú lesta della mia! Morirò presto e ciò mi rincresce per una sola cosa. - Quale? - Per non aver avuto il tempo di mandarvi a bordo le mille e cento piastre che mi avete vinto. - Non ve ne date pensiero; ditemi invece che cosa possiamo fare per voi. - Chiamate i servi della marchesa di Montelimar. Almeno morrò sotto il tetto della donna ... che amo e per la quale muoio. - Lasciate che cerchi di togliervi prima il pezzo di lama che vi è rimasta nel petto. - Mi uccidereste piú presto. No ... no ... i servi ... mandate ... correte. - Mendoza! Martin! chiamate gente al palazzo! I due marinai partirono di corsa; mentre il signor di Ventimiglia, piú commosso di quel che volesse sembrare, teneva alzata la testa del capitano, affinché il sangue non lo soffocasse. Era appena trascorso un minuto, quando si videro dei lumi e degli uomini avanzare attraverso i viali. - Signor conte, - disse il figlio del Corsaro Rosso - sono obbligato a lasciarvi. Non voglio che si sappia che sono stato io a ferirvi. - Vi ringrazio - rispose il capitano con voce fioca. - Se guarirò, spero che mi accorderete la rivincita. - Quando vorrete. Si alzò e si allontanò rapidamente, avviandosi verso la cancellata. Mendoza e Martin, dopo aver avvertiti i servi della marchesa, si erano a loro volta allontanati, scavalcando i ripari. Quando i valletti giunsero sul prato, il capitano era svenuto, ma teneva le mani serrate strettamente sul pezzo di lama. - Il capitano degli alabardieri di Granata! - esclamò il maggiordomo della marchesa, il quale guidava i servi. - È un amico della padrona! Presto, portiamolo al palazzo! Quattro servi sollevarono con precauzione il ferito e lo trasportarono in una stanza a pianterreno, adagiandolo su di un letto, mentre un quinto correva a cercare il medico di famiglia. La bella marchesa di Montelimar, avvolta in una vestaglia di seta azzurra, era subito scesa, e chiedeva al maggiordomo con voce angosciata: - Mio Dio, che cosa è successo, Pedro? - Hanno ferito gravemente ... - Il conte de Miranda? - gridò la marchesa impallidendo. - No, Signora, il conte di Sant'Iago. - Il capitano degli alabardieri? - Precisamente - Con qualche pistolettata? - Con un terribile colpo di spada; ha ancora mezza lama conficcata nel petto. - Un duello? - Cosí pare. - Ed il feritore? - Scomparso, signora. - E dove si sono battuti? - Nel vostro giardino. - Quell'uomo cercava sempre di uccidere ed ha avuto il suo conto. Chi può aver vinto la migliore lama del reggimento di Granata? Chi? Non è morto, è vero? - Solamente svenuto, ma io credo che non se la caverà. - Lascia che lo veda. Il maggiordomo si trasse da una parte, ed essa entrò nella stanza dove si trovavano alcuni servi affaccendati a bagnare le labbra e le narici del ferito con aceto, per cercare di farlo rinvenire. Il capitano giaceva sul letto con le braccia aperte, il volto cadaverico, la fronte ancora corrugata. Un sibilo, piuttosto che un respiro, gli usciva dalla bocca semiaperta. Aveva sempre il pezzo di lama piantato in mezzo al petto, presso il cuore, non avendo nessuno osato levarlo, per timore di provocare una violentissima emorragia. Il giubbetto di seta a righe azzurre e rosse, con grandi alamari d'argento, era squarciato per una lunghezza di parecchi pollici, ma nessuna goccia di sangue aveva macchiato la camicia. La lama serviva da tampone. - Disgraziato! - mormorò la marchesa con voce commossa. - Lo spadaccino che lo ha cosí terribilmente ferito non può essere di San Domingo, poiché tutti avevano pura della spada di quest'uomo ... È stato avvertito il medico, Pedro? - Sí, signora marchesa - rispose il maggiordomo. - Non tarderà a giungere. - Se non viene subito, questo povero conte muore. - Eccolo: odo della gente entrare. La porta si era aperta ed un vecchio, vestito interamente di seta nera, seguito da un giovane che portava una cassetta, erano comparsi. Erano il medico e il suo aiutante. - Signor Escobedo - disse la marchesa, andando incontro al vecchio - Vi raccomando quel signore: è il conte di Sant'Iago. Fate il possibile per strapparlo alla morte. - Oh! È il terribile spadaccino, marchesa? - chiese il medico. Quando si tratta di colpi di lama, l'affare è sempre serio. Vediamo. S'accostò al letto, mentre il suo aiutante apriva la cassetta contenente parecchi ferri chirurgici, e diede un lungo sguardo al ferito, il quale non aveva ancora ripreso i sensi. - Ferita grave, è vero, signor Escobedo? - chiese la marchesa. - Una stoccata terribile, marchesa - rispose il medico, facendo una smorfia e tentennando il capo. - Il suo avversario doveva avere un pugno ben solido. - Sperate di salvarlo? - Non posso darvi una risposta sicura, marchesa. Ritiratevi tutti a lasciatemi solo col mio aiutante. È necessario operare subito. La marchesa, il maggiordomo e i servi si affrettarono a sgombrare. - Una pinza forte, Maurico - disse il dottore quando furono soli, volgendosi verso l'aiutante. - Volete estrarre la lama, dottore? - Non posso certo lasciargliela nel petto! - Non morrà subito? - È quello che purtroppo temo. La punta deve aver offeso gravemente il polmone. In quel momento il conte emise un profondo sospiro e alzò le braccia, posando le mani sul pezzo di lama che gli usciva dal petto. - Sta per tornare in sé - disse il medico, il quale si era curvato sul ferito. Il capitano emise un altro sospiro piú lungo del primo e che terminò con una specie di rantolo, poi alzò lentamente le palpebre e fissò il dottore con uno sguardo velato. - Voi ... - balbettò. - Non parlate, signore. Un sorriso contorse le labbra del conte. - Sono ... un uomo ... di guerra ... - disse con voce spezzata. - Sono finito ... è vero? ... Il dottore scosse il capo senza rispondere. - Quanti minuti ... ho ... di vita? Parlate ... lo voglio. - Potreste vivere anche un paio d'ore, se non vi levo il pezzo di spada. - E levandolo? ... ditelo! - Pochi minuti forse, signor conte. - Mi ... basteranno ... per vendicarmi ... Ascoltatemi ... - Se parlate troppo vi ucciderete anche piú presto. Un altro sorriso comparve sulle smorte labbra del capitano. - Ascoltatemi ... - disse con suprema energia. - Sulla lama ... vi è inciso ... un nome ... quello del mio avversario ... Voglio conoscerlo ... prima di morire. - Bisognerebbe levarvela dal petto. Il conte fece un cenno affermativo. - Lo volete proprio? - chiese il dottore. - Già ... morrò ... egualmente. - Maurico, le pinze. L'aiutante portò due piccolissime tenaglie, un pacco di cotone e delle fasce, per arrestare subito il sangue che sarebbe sgorgato dalla ferita. - Presto ... - mormorò il conte. Il medico afferrò la lama e la trasse, a piccole scosse, dal corpo. Il conte aveva stretto le labbra per non gridare. Dall'alterazione del viso e dal sudore vischioso che gli copriva la fronte, si capiva quanto doveva soffrire. Fortunatamente quella dolorosissima operazione non durò che pochi secondi: subito dalla ferita sgorgò un getto di sangue che l'aiutante fermò con delle bende. - Il nome ... il nome ... - balbettò il capitano con voce spenta - presto ... muoio ... Il dottore pulí la lama lorda di sangue con un asciugamano, e vide apparire delle lettere incise sull'acciaio, sormontate da una piccola corona di conte. - Enrico di Ventimiglia - lesse. Il capitano, nonostante la sua estrema debolezza ed il dolore che lo tormentava, si era quasi alzato a sedere, esclamando con voce rauca: - Ventimiglia! ... Un nome di corsari: il Rosso ... il Verde ... il Nero ... Un Ventimiglia! Tradimento! - Conte, vi uccidete! - gridò il medico. - Ascoltate ... ascoltate ... la fregata ... giunta ieri ... è corsara ... la comanda quello vestito di rosso ... correte dal governatore ... avvertitelo ... fatela abbordare ... presto ... la città è in pericolo ... Muoio ... ma vendicheranno la mia morte ... Ah! Il capitano era ricaduto sui guanciali. Rantolava ed impallidiva a vista d'occhio. Il sangue filtrava attraverso le filacce e le bende arrossando la camicia e la giubba. Ad un tratto una spuma sanguigna comparve sulle labbra del disgraziato, poi le palpebre si abbassarono lentamente sugli occhi già spenti. Il capitano degli alabardieri di Granata era morto. - Maestro, - disse l'aiutante al medico, il quale teneva sempre in mano il pezzo di lama - che cosa farete ora? - Andrò ad avvertire subito il governatore. I Ventimiglia sono stati i piú tremendi corsari del golfo del Messico. Qualche loro figlio o parente è ricomparso in queste acque. Guai a noi se non si catturasse! ... Non ne parlare con nessuno, nemmeno con la marchesa. - Sarò muto, maestro. - Tu andrai ad avvertire il colonnello del reggimento di quanto è accaduto, perché venga trasportato in caserma, questo povero conte. - E voi? - Corro dal governatore. Avvolse nell'asciugamano la lama, poi aprí la porta. La marchesa di Montelimar, in preda ad una visibile commozione, aspettava nella sala vicina insieme al maggiordomo e alle sue cameriere. - Dunque, dottore? - chiese. - È morto, marchesa - rispose Escobedo. - La ferita era terribile. - E non vi ha detto chi lo ha ucciso? - Non ha potuto parlare; deve aver avuto un duello, perché non aveva piú la spada nella guaina. - E ora? - Penso io a tutto. Prima dell'alba il capitano sarà portato nella caserma o nel suo appartamento. Si potrebbe malignare sul conto vostro, se lo lasciassimo qui. - È quello che temevo. - Buona notte, marchesa. M'incarico io di ogni cosa.

- Che quel meticcio mi abbia ingannato? Non lo credo, signor conte, parlava troppo seriamente e poi si sa che il vino fa dir sempre la verità e ne aveva bevuto l'amico ricciuto. - Non è ciò che mi tormenta: sono anzi certissimo che mia sorella si trovi a Guayaquil. È un bel po' che i filibustieri di Grogner e di Raveneau de Lussan minacciano Panama, quindi credo benissimo che abbiano mandata mia sorella in quella città, per sottrarla ai pericoli d'un saccheggio. - E allora che cosa temete? - Che quel meticcio, per vendicarsi del brutto tiro giuocatogli abbia narrato ogni cosa al marchese ed a don Juan. - Tonnerre! ... Voi mi avete cacciato una pulce in un orecchio, signor conte. Non avevo pensato a questo. In tal caso un inseguimento sarebbe probabile. Abbiamo però un buon vantaggio e dei buonissimi cavalli, che ho scelto con molta cura. Quello stupido, con tutto quel vino che aveva bevuto, non può essersi svegliato tanto presto. Forse dorme ancora, mentre noi invece galoppiamo. - E spingeremo sempre piú forte. Mi preme giungere a Guayaquil prima che possa giungervi il marchese. - Quando vi saremo? - Domani sera, mi ha detto Mendoza. - Fors'anche prima, signor conte, - disse il basco, che si teneva sempre dinanzi, mentre don Ercole formava la retroguardia. - Affretta piú che puoi. - E la vostra ferita non s'inasprirà? - Non occupartene, - rispose il corsaro. - Si rimarginerà piú tardi. I quattro cavalli continuavano intanto la loro rapidissima corsa, essendo la strada in ottimo stato e anche molto ampia. Lungo i margini magnifici, i filari di enormi palme si stendevano senza interruzione, mentre al di là apparivano delle splendide piantagioni d'indaco e di zucchero. A mezzanotte il conte fece mettere i cavalli al passo, per non stancarli troppo, poi verso il tocco ripresero il galoppo, mentre la luna appariva dietro le piante che coronavano una collina. Avevano percorso cosí un paio di leghe, senza aver incontrato anima viva, quando Mendoza che aveva l'udito piú acuto di tutti, arrestò bruscamente il suo andaluso, dicendo: - Fermi tutti! ... - Avete veduto qualche gattaccio? - chiese il guascone. - Non scherzate, don Barrejo: questo non è il momento. Stettero in ascolto e parve loro di udire un lontano fragore. - Il galoppo di parecchi cavalli? - chiese il conte, con una certa inquietudine. - O è invece il rombo d'una cascata? - disse don Barrejo. - A me sembrano cavalli - rispose Mendoza. - Che il marchese ci dia la caccia? - domandò il conte. - Cosí presto? - disse il guascone. - Poteva aspettare almeno l'alba e starsene comodamente a letto. Che sia un nottambulo costui? Tornarono ad ascoltare e ben presto si convinsero che non si trattava d'una cascata, bensí d'un buon numero di cavalli galoppanti sulla strada di Guayaquil. - Dobbiamo dare battaglia signor conte? - chiese il guascone, il quale era sempre pronto a menare le mani od a sparare archibugiate. - Preferirei cercare un rifugio e lasciar passare il marchese, - rispose il signor di Ventimiglia. - E dopo? Se entra in Guayaquil prima di noi, non so se noi potremo poi fare altrettanto. Io vi proporrei di tendergli una imboscata e di fucilare per bene i suoi uomini. - E farci prendere? - disse Mendoza. - Non avrà già con sé quattro o cinque uomini di scorta. Si direbbe dal fragore che giunge fino a noi, che è un intero squadrone quello che galoppa. - Gettiamoci in mezzo alle piantagioni, - propose don Ercole. - Non sono le canne abbastanza alte per nasconderci e poi la luna sorge, - rispose il conte. - Se vi fossero delle macchie! - Ah! ... Il ponte del diavolo! - esclamò in quel momento Mendoza. - Signor conte, a gran carriera. Senza chiedere nessuna spiegazione lanciarono i cavalli ventre a terra, divorando lo spazio con fantastica rapidità. Quella corsa furiosa durò una buona mezz'ora, poi Mendoza la rallentò, dicendo: - Ci siamo. Cinquanta passi piú innanzi vi era un ponte in muratura; assai largo, gettato su un fiume poverissimo d'acqua. Mendoza balzò a terra, prese il cavallo per le briglie e s'avanzò rapidamente verso la riva, dicendo: - Seguitemi, signor conte. - Perché vuoi farci guadare il fiume? - chiese il corsaro. Nemmeno sull'altra riva vedo delle macchie bastanti per nasconderci. - E la vôlta del ponte, non la contate? ... I cavalieri che c'inseguono ci passeranno sopra, senza minimamente sospettare che quelli che cercano si trovano invece sotto. - Ohé, compare, diventate molto furbo, a quanto pare, - disse il guascone. - Sono anch'io del mar di Biscaglia. Affrettiamoci, signori, anche gli spagnuoli avranno udito il nostro galoppo e avranno precipitata la corsa. Scesero la riva e condussero i cavalli sotto il ponte, immergendosi nell'acqua fino alle ginocchia. - Avvolgete le teste dei nostri corsieri nelle gualdrappe, - disse il conte. - Potrebbero nitrire e tradirci. I tre spadaccini furono lesti ad obbedire. Il galoppo dei cavalli intanto diventava di momento in momento piú fragoroso. Gli spagnuoli dovevano aver udito anche quello prodotto dai cavalli dei fuggiaschi e si erano pure lanciati ventre a terra. Il conte e Mendoza si erano nascosti dietro la pila del ponte, per meglio accertarsi con chi avevano da fare, mentre il guascone ed il fiammingo trattenevano con mano salda i quattro corsieri. - Non devono essere lontani piú di mezzo miglio, - disse il signor di Ventimiglia al fedele basco. Credi tu che sia proprio il marchese? - Scommetterei dieci dobloni contro una piastra, signore. Don Barrejo ha fatto male a lasciare libero quel meticcio. - Volevi tu che lo scannasse in pieno giorno? - Poteva aspettare la sera e portarlo via. - A tutto non si pensa sempre ... eccoli ... non ti far vedere. Il mezzo squadrone del marchese di Montelimar, perché era proprio quello che don Juan de Sasebo gli aveva affidato, giungeva a corsa sfrenata, con un fracasso indiavolato. Il conte udí distintamente il marchese a gridare: - Spronate sempre: non devono essere lontani. I cinquanta cavalieri passarono come un uragano sul ponte e scomparvero in mezzo ad un fitto nuvolone di polvere. - Grazie, Mendoza, - disse il conte, battendo sulle spalle del basco. - Tu ci hai salvati. - Senza dare un colpo di spada né sparare una pistolettata - rispose il filibustiere. - La vostra e anche la mia salvezza non mi è costata troppe fatiche. - Ma senza la tua idea a quest'ora saremmo nelle mani del marchese ed avrei forse fatta la fine di mio padre. Per quanto valorosi si possa essere, non si può sostenere l'urto di un mezzo squadrone. - Signor conte, - disse il guascone avvicinandosi coi cavalli. - Rimontiamo in sella? - Preferisco rimanere qui per qualche ora, cosí i cavalli si riposeranno pienamente. Lasciamo che il marchese corra dietro alle nostre ombre. - Temete che ritorni? - Chi può dirlo? Non trovandoci su questa via, potrebbe distaccare un manipolo dei suoi cavalieri e rimandarli indietro a perlustrate le piantagioni. - Pure io non perderò inutilmente il mio tempo signore. Vi piacciono i gamberi? - Diventate pazzo, don Barrejo? - Niente affatto, signor conte. Ne ho sorpreso uno attaccato ai miei stivali ed era grosso, chiedetelo a don Ercole che se l'è mangiato vivo, senza dividerlo con me. Il fiammingo si limitò a scoppiare in una risata. - Ecco che anche i taciturni figli della Fiandra in nostra compagnia diventano allegri e burloni, - disse don Barrejo. - Che cosa avete voi nelle vostre vene? - chiese il conte. - Siamo appena sfuggiti a un cosi grave pericolo e scherzate. - Che cosa volete, signor conte? Il sangue guascone è cosí. Don Ercole legate i cavalli e cerchiamoci una deliziosa colazione per domani mattina. Io adoro i gamberi, quando però sono dentro il mio ventre. L'indiavolato avventuriero, senza pensare che gli spagnuoli potevano tornate da un momento all'altro, accese un pezzo di miccia ed aiutato dal fiammingo si mise a rovistare le pietre che si trovavano sotto il ponte, tuffando le braccia nell'acqua fresca del fiumiciattolo. Dovevano abbondare davvero in quel luogo i gamberi, poiché i due compari in meno di mezz'ora empirono le fonde dei quattro cavalli, dopo di averle vuotate di quanto contenevano. Alle due del mattino il conte, non udendo piú alcun rumore nei dintorni del corso d'acqua, diede il segnale della partenza. Rimontarono la riva non senza qualche fatica e spinsero i cavalli a piccolo trotto sempre pel timore di veder ricomparire da un momento all'altro i cavalieri del marchese. La notte era sempre splendidissima, e la luna irradiava le piantagioni sterminate di raggi azzurrini, permettendo cosí ai quattro avventurieri di poter scorgere da lontano i loro nemici. Sorvegliavano però attentamente i margini della strada, i quali s'affondavano in certi fossati molto propizi per una imboscata. Alle quattro del mattino intrapresero la salita di alcune colline boscose dietro le quali, alla distanza di tre o quattro leghe, doveva trovarsi la salda fortezza di Guayaquil. Del marchese e dei suoi cavalieri fino allora nessuna nuova. Avevano continuata la loro corsa verso la città o si erano fermati in qualche luogo per perlustrare le piantagioni? Qualche ora piú tardi, raggiunta la cima della prima altura e trovato un piccolo bosco, si accamparono. Base della colazione, non importa dirlo, furono i gamberi raccolti dal guascone e dal fiammingo, appena abbrustoliti sulla fiamma e tuttavia trovati da tutti squisitissimi. Stavano per cercare un torrente per dissetarsi, quando i quattro cavalli mandarono dei sonori nitriti e si diedero a scalpitare. - Amici, in guardia! - gridò il conte, correndo verso il suo destriero e staccando rapidamente l'archibugio. - I nostri andalusi hanno fiutato qualche cosa. - Che i cavalli spagnuoli siano come i cani da guardia! - disse il guascone. - In arcione! - comandò in quel momento il basco. Balzarono in sella e riguadagnarono rapidamente la via, lanciando i cavalli a corsa sfrenata. - Che cos'hai veduto dunque, Mendoza, per farci scappare? chiese il conte, quando furono lontani dal boschetto un tiro d'archibugio. - Ho veduto degli uomini che salivano nascostamente il fianco della collina. Cercavano di sorprenderci, signore. - Erano molti? - Non ho avuto il tempo di contarli. Ho scorto degli elmetti e delle canne d'archibugio e nient'altro. - Soldati erano di certo, - rispose il conte. - Amici, armatevi e tenetevi pronti. - Che i gamberi ci portino sfortuna? - si chiese il guascone. - Se sarà vero, non ne mangerò piú in tutta la mia vita. Cavalcavano da dieci minuti, quando un colpo d'archibugio partí dal fossato di destra. Il cavallo di Mendoza spiccò un salto, s'inalberò, poi stramazzò al suolo. Quasi nell'istesso tempo una scarica nutrita partiva dall'altro lato della via, atterrando i cavalli del conte e di don Ercole. Solo quello del guascone era sfuggito miracolosamente a quella tempesta di palle. - Don Barrejo, salvatevi! - gridò il conte il quale era subito balzato in piedi impugnando le pistole. - Ve l'ordino! ... Siamo presi! Il guascone fece fare al suo cavallo un volteggio fulmineo e quantunque il suo cuore sanguinasse pel dispiacere di non poter aiutare i suoi compagni, fuggí a corsa sfrenata verso Panama, pensando, e con ragione, che avrebbe potuto essere a loro piú utile libero che prigioniero. Il brav'uomo in un lampo aveva fatto subito il suo progetto. Correre a Panama, raggiungere Taroga ed avvertire Grogner e Raveneau de Lussan. Il conte aveva aspettato a piè fermo gli spagnuoli, mentre Mendoza e don Ercole, rimessisi subito in gambe anche essi, sguainavano le spade. Un uomo era sorto dal fossato di destra, mentre una trentina di cavalleggieri apparivano sul margine di sinistra, tenendo gli archibugi montati. - Pare che siate preso, signor conte, - disse, con ironia. - La resistenza sarebbe impossibile e vi costerebbe probabilmente la vita. - Ah ... Voi, signor marchese! - rispose il corsaro, con voce alterata. - Una volta per uno: prima io prigioniero dei filibustieri ed ora voi prigioniero degli spagnuoli. Gettate la spada e le pistole. Il conte esitava. Se avesse avuto ancora i cavalli vivi, non avrebbe certo tardato a gettarsi furiosamente contro i cavalleggieri spagnuoli, spalleggiato certo vigorosamente dal basco e dal fiammingo. - Prima di arrendermi, - disse, - voglio sapere da voi, signor marchese, che cosa intendete fare di me e dei miei compagni. Se avete l'intenzione di appiccarmi, come avete impiccato mio padre, vi avverto che vi darò battaglia, checché debba succedere e che il primo uomo che cadrà sarete voi, poiché vi tengo sotto il tiro delle mie pistole. - Io non ho alcuna intenzione di farvi del male, signor conte, - rispose il marchese, il quale temeva quei terribili corsari, non meno dei suoi compatriotti. - Io vi condurrò prigioniero a Guayaquil e là attenderete le decisioni che prenderà il presidente dell'Udienza Reale. - Il quale decreterà indubbiamente la mia morte e quella dei miei compagni, - rispose il signor di Ventimiglia, con voce beffarda. - No, perché la mia autorità pesa sulle decisioni dell'Udienza ed io farò il possibile per ottenere per voi un decreto di espulsione dalle colonie spagnuole dell'America centrale. - Voi però dimenticate per quale motivo io ho lasciato l'Europa. Non già per sete di guadagni, avendo terre e castella nella mia patria da non saperne quasi che cosa fare. Io ho attraversato l'Atlantico per ritrovare mia sorella, la figlia del Corsaro Rosso e nipote del Gran Cacico del Darien. La fronte del marchese di Montelimar si era oscurata. - Sapete voi dove si trova? - chiese dopo qualche istante di silenzio. - Sí, a Guayaquil. - Perché v'interessate tanto di quella giovane meticcia? - Per Bacco! ... È mia sorella! - gridò il conte. - Sapete che io l'ho sempre tenuta come mia figlia e che ella mi ama come se fossi suo padre? - Perché ignora forse che suo padre era un conte di Ventimiglia e che aveva in Europa un fratello. - Questo è vero, - rispose il marchese. - Che cosa risolvete dunque? - Preferirei di non farvela vedere. - Allora vi darò battaglia e vi ucciderò, - rispose il conte, con voce risoluta. - Non abbiate tanta fretta, signor conte. In questo affare noi potremo benissimo intenderci. Lasceremo alla fanciulla la scelta fra me e voi. - Impegnate la vostra parola di gentiluomo? - Sull'onore dei Montelimar. - Basta cosí, - disse il conte. Gettò la spada e le pistole, subito imitato dal fiammingo e da Mendoza. Il marchese si era voltato verso i suoi uomini. - Date tre cavalli a questi signori, - disse. Tre bellissimi morelli andalusi furono condotti. Il conte ed i suoi due spadaccini montarono in arcione, mentre dal margine opposto sbucavano una ventina di cavalleggieri, tutti bene montati e bene armati. - Signor conte, - disse il marchese, salendo pure a cavallo. - Vi prego di seguirmi. - Badate che conto sulla vostra parola - rispose il signor di Ventimiglia. - Vi mostrerò la lealtà dei gentiluomini spagnuoli. D'altronde io non vi odio affatto. - Ciò però non vi ha impedito di tentare d'assassinarmi, - rispose il conte, con ironia. - Avevo i miei motivi per fare ciò, allora. - Avreste ora cambiata idea? - Non ve lo posso dire. L'avete conciato bene quello spadaccino che si vantava di essere invulnerabile. .È bensí vero che i Ventimiglia hanno sempre goduto fama d'essere maestri nelle armi. In quel momento in lontananza si udirono echeggiare degli spari. - Chi fa fuoco? - chiese il corsaro, con apprensione. - Saranno cacciatori, - rispose il marchese. Mentiva. Era una partita dei suoi cavalleggieri che davano la caccia al bravo guascone. Il marchese spronò il suo cavallo ed il mezzo squadrone, diminuito d'una mezza dozzina di cavalieri, riprese, al piccolo trotto, la corsa verso Guayaquil, sorvegliando attentamente i prigionieri. Dopo quattro ore la truppa faceva la sua entrata nella città e andava a fermarsi dinanzi ad un palazzotto di bell'aspetto, circondato da un pittoresco giardino ricco di palme altissime e di banani meravigliosi, le cui immense foglie spandevano intorno un'ombra fresca e deliziosa. Guayaquil si trovava a circa dieci leghe dall'Oceano Pacifico ed era allora famosa per la singolare sua costruzione, poiché le sue case erano per la maggior parte erette sopra una specie di ponti per salvarle dalle frequenti inondazioni. Per le sue ricchezze, era stimata una delle piú ricche dell'America centrale, essendo essa a capo d'una vasta contrada che possedeva preziose miniere d'oro, d'argento e soprattutto di smeraldi. Non contava che qualche decina di migliaia d'abitanti, però era difesa da tre forti giudicati inespugnabili, con una guarnigione di cinquanta uomini ciascuno. Il marchese giunto dinanzi al palazzotto balzò a terra invitando il conte a fare altrettanto, poi entrò nel giardino. - Dove mi conducete? - chiese il signor di Ventimiglia. - A vedere vostra sorella, - rispose il marchese, - giacché desiderate conoscerla. Sarà di certo nel giardino amando l'aria libera. Il dolcissimo suono d'una chitarra giunse in quel momento ai loro orecchi. - Deve essere Neala, - disse il marchese. - È mia sorella che porta questo nome? - chiese il conte il quale appariva assai commosso. - Sí, conte. Il marchese si diresse verso un piccolo padiglione di stile moresco che occupava un angolo del giardino e che era ombreggiato da tre o quattro immense palme a ventaglio e mostrò al conte una giovane di sedici o diciassette anni, che indossava un semplice accappatoio di piccole trine intessute con pagliuzze d'argento e che stava sonando una piccola chitarra. Era una bellissima creatura, alta, slanciata, colla pelle un po' abbronzata, gli occhi nerissimi dal lampo cupo e selvaggio, coi capelli lunghissimi e pure nerissimi intrecciati graziosamente con fiori rossi. Vedendo il marchese si era alzata deponendo la chitarra e atteggiando le labbra ad un grazioso sorriso. - Figlia mia - disse il marchese - non mi aspettavi di certo cosí presto. - No, - rispose la giovane fissando subito sul figlio del Corsaro Rosso i suoi sguardi. - Ti conduco qui un signore che pretende essere tuo fratello e che ... Il conte lo interruppe bruscamente. - Non dite che pretendo, marchese, poiché voi sapete quanto me che mio padre ha sposato la figlia del Gran Cacico del Darien e che questa fanciulla è realmente mia sorella. Io sono nato da padre e da madre bianchi: la seconda moglie di mio padre fu invece una principessa indiana. La giovane meticcia continuava a fissare il corsaro con crescente intensità ed aveva fatto un passo innanzi, come attratta da una irresistibile simpatia. Era certamente il sangue che segretamente parlava. - Figlia mia - riprese il marchese - questo signore che è il Conte di Ventimiglia, vorrebbe strapparti a me e condurti lontano, lontano, in Europa ... - Nei miei castelli, su un mare piú azzurro dell'Oceano Pacifico, dove l'aria è piú balsamica e piú pura che qui - disse il corsaro. - Io sono bianco e voi siete bruna eppure siete mia sorella perché abbiamo avuto lo stesso padre: il Corsaro Rosso, Conte di Ventimiglia signore di Roccabruna e di Valpenta. Che cosa dice il vostro cuore, Neala? Che cosa dice il vostro sangue? Che cosa pensa il vostro cervello? Io ho lasciato l'Europa per venirvi a cercare, ho sfidato mille pericoli, ho combattuto al di là ed al di qua dell'istmo di Panama per venirvi a dire che siete mia sorella. Chi preferite? Il marchese di Montelimar che vi ha adottata come figlia o vostro fratello? Scegliete. Neala rimase per qualche istante ancora silenziosa, poi con uno scatto improvviso si fece addosso al corsaro e gli gettò le braccia al collo, dicendo: - Il cuore ed il sangue hanno parlato: io sono vostra sorella e voi siete mio fratello!

. - Chi credete che abbia ordito l'agguato? - Il marchese di Montelimar, d'accordo col Consigliere. - Ma se il marchese è a Taroga? - disse il guascone. - Vi era, volete dire, perché ora si trova qui. - Tonnerre! - È scappato! - Chi ve lo ha detto? - L'assassino, prima di morire. Che vi abbia ingannato? - chiese Mendoza, il quale fasciava intanto la ferita con un pezzo di lenzuolo trovato in un cassettone. - Non credo. D'altronde non aveva alcun motivo di tenermelo nascosto o d'ingannarmi. Allora bisogna riprenderlo, - disse don Barrejo. Senza di lui non potrò mai sapere dove quei dannati hanno nascosta mia sorella. E lui od il Consigliere devono cadere nelle nostre mani. Essi hanno preparato un agguato a me, e noi ne prepareremo uno a loro. - Noi siamo sempre pronti, è vero, Mendoza? - disse il guascone. - Anche a dar fuoco a Panama, - rispose il basco, il quale aveva terminata la fasciatura. - Dovremo però agire colla massima cautela, - disse il conte. - Domani, giacché la mia ferita non presenta alcun pericolo, torneremo alla fonda della Castigliana e studieremo sul da farsi. Conto specialmente su di voi, don Barrejo, che possedete una fantasia cosi ricca di trovate. - Mi occuperò di questo affare, signor conte. - Intanto occupiamoci di un altro piú pressante, - disse in quel momento il fiammingo, entrando. - Che cosa c'è dunque d'urgente? - chiese il conte. - Mi dispiace darvi una brutta nuova, signore, - rispose il fiammingo. - È caduto giú dal faro il guardiano? - chiese il guascone. - S'avanza un grosso gruppo di soldati attraverso alle dune. - Tonnerre! - esclamò don Barrejo. - Vengono a prendere voi, - disse il conte, - Mi pareva impossibile che il marchese ed il Consigliere vi lasciassero tranquilli. A me lo spadaccino ed a voi le guardie. - Scappiamo, - disse Mendoza. - Non potremo, - rispose don Ercole. - Il drappello si è diviso e s'avanza da due opposte direzioni, per prenderci in mezzo. - E poi il signor conte è debole e non potrebbe resistere ad una lunga corsa, - aggiunse il guascone. - Io però ho un'idea. Don Ercole, sono ancora lontani? - Un migliaio di passi e mi è parso che non abbiano molta fretta da avanzarsi. - Perdinci! ... Che occhi che hanno i fiamminghi! - esclamò don Barrejo. - Vincono quelli dei guasconi. - Fuori la vostra idea, don Barrejo, - disse il conte. - Non abbiamo tempo da perdere. - Voi, Mendoza, andate a vedere se la porta del pianterreno è ben chiusa; voi, signor conte, rimanete pure qui, anzi fareste bene a coricarvi un po', e voi, don Ercole, venite sulla lanterna. Io rispondo di tutto. Uscirono e salirono rapidamente la scaletta esterna che girava in forma di spirale intorno alla torre, giungendo ben presto sotto la cupoletta dove brillava una grossissima lanterna con vetri. Il fanalista stava seduto in un angolo della terrazza, occupato a fumare la sua grossa pipa. - Dove sono? - chiese il guascone a don Ercole. - Eccolo laggiú, il primo drappello. Il guascone guardò nella direzione indicata e vide infatti, a circa ottocento passi dal faro, avanzarsi una minuscola colonna, composta da non meno di due dozzine d'uomini. Seguiva la spiaggia lungo le dune. Brillando sempre la luna, non era possibile ingannarsi, poiché le corazze, gli elmetti, gli archibugi e le alabarde scintillavano vivamente. - Segue le dune di settentrione. - Vogliono proprio prenderci in mezzo. Ah! ... La vedremo. Quando si è un po' furbi, si può sempre sfuggire ai pericoli. Armò una pistola, si levò da una tasca una manata di piastre e s'avvicinò al guardiano, il quale, tutto immerso nel gustare il suo tabacco, non si era nemmeno degnato di voltarsi, pur avendoli uditi a salire. - Vecchio mio, scegli, gli disse il guascone, mostrandogli l'arma da fuoco ed il denaro. Vuoi piombo o argento? ... - Che cosa volete? - chiese il guardiano, balzando in piedi e lasciando cadere la pipa. - Assassinarmi forse? - Niente affatto, anzi vi offro un buon gruzzolo di piastre, però voi dovete ubbidirmi senza perdere un solo istante. Se rifiutate, allora non rispondo della vostra vita. - Dite, - rispose il vecchio, spaventato. - Innanzi tutto spogliatevi del vostro vestito bigio, che mi è assolutamente necessario. - E poi? - Lasciatevi legare sotto il vostro letto. - Volete portar via o guastare la lanterna? - Non sapremmo che cosa farne di questo grosso fanale. Sbrigatevi, o invece delle piastre vi caccio una palla nel cervello. - Scelgo le piastre, - disse il guardiano, dopo una breve esitazione. - D'altronde una resistenza da parte mia sarebbe impossibile. - Voi siete un uomo ragionevole, - rispose il guascone. - Ecco le piastre e giú il vestito. Il fanalaio, che ci teneva piú all'argento che al piombo, fu lesto a obbedire. Il guascone infilò i calzoni, indossò la grossa casacca di panno bigio con bottoni di metallo giallo, e si mise in testa il berrettone di tela cerata. - Somiglio ad un fanalista? - chiese a don Ercole, il quale stava legando ed imbavagliando il disgraziato sorvegliante. - Potreste lasciare la spada per la lanterna, - rispose il fiammingo, sorridendo. - Quando sarò vecchio, amico. Ora conducete, o, se vi piace meglio, portate quest'uomo nella camera del conte e cacciatelo sotto il letto. - Preferisco portarlo. - Ed ora a noi, signori soldati, - mormorò il guascone, quando fu solo. Raccolse la pipa del sorvegliante la quale fumava ancora e si sedette su un gradino della scala esterna, mettendosi a sua volta in osservazione.

. - Che egli mi abbia veduto attraversare le cancellate del giardino? - sí domandò, tirandosi furiosamente i baffi. - Fuggito! Ma dove? Si sarà probabilmente nascosto in qualche luogo ... Diaz! Un sergente degli alabardieri, a quella chiamata, entrò nel salotto. - Prendi dieci uomini e va a frugare il giardino del palazzo. Forse il corsaro è ancora là. - Subito, capitano - disse il sergente, uscendo rapidamente. - Signora marchesa, - disse il capo del drappello, quando furono nuovamente soli - io ho l'ordine di visitare minutamente le vostre stanze. - Fate pure, capitano i rispose la bella vedova. - Ma sono certissima che non lo troverete nel mio palazzo. - Eppure io sono sicuro, signora, di poterlo scovare in qualche luogo - rispose il capitano. - Dalla città non può uscire, perché tutte le porte sono bene guardate; imbarcarsi nemmeno, perché sulle calate abbiamo mandato parecchi drappelli di soldati, e la sua nave sta per essere circondata dai galeoni e dalle caravelle. È ora di finirla con questi Ventimiglia e noi la finiremo. Signora, vado a visitare il palazzo.

. - No, perché non mi ha voluto e credo che abbia fatto bene, perché i guasconi non si trovano bene nemmeno all'inferno e potrebbero tagliare le code ai figli di Belzebú. Diamine! Siamo gente pericolosa noi! - Ha fatto tre volte bene, - disse Mendoza, prorompendo in una risata, - perché saremo noi a bere quei dobloni. - Oh! Me ne dovete uno, compare, ricordatevelo. - Lo prenderete agli spagnuoli. - Fa lo stesso, - rispose il guascone, sempre serio. Il conte non si occupava più dei due burloni. Ora guardava il padiglione della marchesa che stava per scomparire e dinanzi al quale spiccavano ancora due macchie oscure, ed ora la sua superba fregata che si dondolava graziosamente nella rada, tendendo le catene delle due âncore, come se fosse impaziente di prendere il largo dopo tanto riposo. La scialuppa, giunta presso il capo Tiburon che era coperto di boscaglie, in mezzo alle quali probabilmente stavano sempre nascosti gli spagnuoli in attesa del segnale d'attacco, virò a ponente ed i quattro negri, deposti i remi, gettarono le reti. - Che ci prendano per pescatori autentici? - chiese Mendoza al conte. - Giriamo al largo, capitano, prima che nasca nell'animo degli spagnuoli qualche sospetto e che ci salutino con qualche colpo di cannone. Avete udito la marchesa dire che sospetta vi sia dell'artiglieria nemica nascosta in quelle boscaglie? - Sí - rispose il conte, il quale sembrava un po' inquieto. - Vi è anche altro, Mendoza. - Che cosa, capitano? - Scorgo alcune grosse scialuppe seminascoste fra i paletuvieri della costa. Non possono appartenere a pescatori, perché qui non v'è alcun villaggio. - Ventre di pescecane! - esclamò il lupo di mare. - Che abbiano intenzione d'abbordare la fregata? - Lo temo, Mendoza. - Li ricacceremo in mare! - disse il guascone, il quale non cessava di contare e ricontare i suoi dobloni. - Che il luogotenente si sia già accorto che stanno preparandogli un agguato? - chiese Mendoza. - Il signor Verra è un uomo che non dorme, quando sa di navigare in acque pericolose - rispose il conte. - Scommetterei cento piastre contro una che egli ha già fatto i suoi preparativi per il combattimento. - Quando l'abborderemo la fregata? - Aspettiamo che il sole sia tramontato. Non voglio compromettere maggiormente la marchesa. Peschiamo e fingiamo di non occuparci della mia nave, benché abbia sempre in alto il vessillo spagnuolo. I quattro negri ritiravano in quel momento le reti ben cariche di pesci. La scialuppa riprese poco dopo la corsa sotto la direzione di Mendoza, allontanandosi sempre piú dal capo Tiburon per evitare qualche brutta sorpresa e manovrando in modo da descrivere un ampio semicerchio dinanzi alla prora della fregata. Altre due volte le reti furono gettate e ritirate sempre ben provviste di pesci, poi, cominciando il sole a tuffarsi in mare, la scialuppa si diresse lentamente verso la fregata che aveva già acceso sull'altissimo cassero i suoi due grossi fanali. Mendoza, il quale teneva sempre il timone, la dirigeva in modo da far credere agli spagnuoli che volesse passare al largo della nave per tentare un'ultima pescata, prima di far ritorno al padiglione dei bagni della marchesa di Montelimar. Il figlio del Corsaro Rosso osservava attentamente il veliero che le prime ombre cominciavano ad avvolgere. Una calma assoluta pareva regnare a bordo. Si era udito solo il rullare del tamburo che chiamava gli uomini a cena nel frapponte, poi piú nulla. - Signor conte, - disse il guascone, quando l'ultimo sprazzo di luce scomparve - abbordiamo? - Aspettate un po', impaziente guascone - rispose il signor di Ventimiglia. - Avete tanta fretta di menare le mani? - Non sarei un avventuriero! E poi la mia draghinassa è stanca di rimanere inoperosa. Tutte le mattine mi domanda di sbudellare qualcuno e non trovo mai l'occasione di accontentarla. - Non vi mancheranno, ve l'assicuro. - Sapete che noi guasconi ... - Sí, uccidete sempre, - rispose il conte, con un sorriso un po' ironico. - Non sarei un guascone, diavolo! - disse don Barrejo. - Mendoza! - Capitano? - Punta diritto sulla fregata. Ormai gli spagnuoli non possono piú scorgerci. - Date dentro ai remi, pagani! - gridò il lupo di mare agli africani. L'oscurità era piombata quasi improvvisamente sulla piccola rada, avvolgendo lo specchio d'acqua ed il capo Tiburon. La scialuppa attraversò velocemente la distanza che la separava dalla fregata ed abbordò il legno a bordo, ossia verso l'opposta parte occupata dagli spagnuoli, per non essere colpiti da qualche cannonata, fosse pure sparata a casaccio. Con suo profondo stupore il conte non udí gli uomini di guardia dare l'allarme, quantunque la prora dell'imbarcazione avesse urtato sonoramente il fianco del veliero. - Che cosa fanno i miei uomini? - si chiese aggrottando la fronte. - Si lasciano abbordare senza accorgersene? - Io credo, capitano, che voi abbiate torto di lamentarvi - disse Mendoza. - Sono troppo furbi i vostri marinai. Se sulla nostra barca vi fossero degli spagnuoli, scommetto che a quest'ora le granate scoppierebbero sulle nostre teste come gragnuola. Il signor Verra non è un marinaio da lasciarsi sorprendere. La scala di corda toccava l'acqua, permettendo una facile ascensione. Il conte l'afferrò e si issò fino sul ponte della fregata, gridando: - Si dorme qui? - No, signor di Ventimiglia, anzi si veglia attentamente e vi si aspettava - rispose una voce. Un uomo era improvvisamente apparso dinanzi al conte, smascherando una lanterna che fino allora aveva tenuta coperta con un pezzo di velaccio. Era un bel giovane di non ancora trent'anni, dai lineamenti piuttosto duri, con baffi e barba nerissimi, di statura alta e slanciata. - Voi, luogotenente! - esclamò il conte stupito. - Vi aspettavo da parecchie ore, capitano - rispose il giovane. Vi avevo già veduto col cannocchiale e mi ero immaginato che non avreste tardato a raggiungere la vostra nave. E poi ero stato avvertito dal pescatore d'una certa marchesa di Montelimar che eravate già giunto nei dintorni del capo Tiburon e anche che gli spagnuoli ci hanno preparato un agguato. - Ed è purtroppo vero, signor Verra! - rispose il conte. - Aspettano che noi salpiamo le âncore per darci addosso attraverso il Capo. - E noi siamo pronti a riceverli! - rispose il luogotenente. - I vostri uomini sono tutti ai loro posti di combattimento e le artiglierie non chiedono che di sparare. - Bene! - disse il conte. - È uscito nessun galeone da San Domingo? - Ne è passato uno dinanzi a noi, quattro o cinque ore or sono. Martin mi ha assicurato che doveva essere la Santa Maria. - Dove andava? - Verso ponente. - Sapremo raggiungerla. Sono troppo pesanti quei galeoni per competere con le fregate e soprattutto con la nostra. Prima di domani mattina noi l'abborderemo e avremo nelle nostre mani il segretario dell'ex governatore di Maracaibo. - Devo far salpare le âncore e spingere le vele, conte? - Un momento ancora, luogotenente - rispose il signor di Ventimiglia, il quale rispondeva a scatti. Si curvò sulla murata e gridò ai negri della scialuppa: - Tornate subito al padiglione dei bagni, se vi preme la vita. Portate alla marchesa vostra padrona e al bucaniere i miei ultimi saluti ... Martin! Il meticcio, che stava seduto su un barile chiacchierando con Mendoza e col terribile guascone, fu pronto ad accorrere. - La mia divisa rossa - disse il conte. - Il figlio del Corsaro Rosso non si batte sotto le vesti d'un pescatore. La mia spada di combattimento e la mia corazza. Signor Verra, fate spiegare le vele e date ordine agli artiglieri di non fare risparmio di mitraglia. Vedremo se sapranno arrestarmi attraverso il capo Tiburon e se la Santa Maria riuscirà a fuggire alla nostra caccia. Fate presto! Mentre il fischietto di Mendoza chiamava i marinai agli argani per salpare le âncore ed i gabbieri per spiegare completamente le vele, ed il luogotenente dava le ultime disposizioni per il combattimento imminente, il corsaro scese nel quadro di poppa seguito dal guascone e da Martin. Quando ricomparve era tutto vestito di rosso, come era comparso negli splendidi saloni della marchesa di Montelimar, con una nuova spada al fianco e le pistole di grosso calibro alla cintola. Salí sul ponte di comando, situato sul davanti dell'altissimo quadro, ed imboccato il portavoce, gridò: - Alla vela! Tutti al posto di combattimento! Il figlio e nipote dei tre grandi corsari vi guida e vi guarda!

. - Io credo che messer Belzebú abbia una gran simpatia per noi, disse il guascone, il quale correva come un daino per giungere sulle rive del Chagres e trovare un rifugio in mezzo alle immense foreste che coprivano le rive del fiume. - O qualche santo ci protegge, di certo, - rispose il basco, Se riuscirò a sapere qual è, parola d'onore che gli offrirò due ceri da una piastra ciascuno. Pure scambiando qualche parola, trottavano lestamente, scendendo sempre il vallone, il quale accennava a finire. Infatti ai loro orecchi giungeva ormai distintamente il fragore prodotto dalle acque del fiume, che si frangevano contro le roccie che coprivano il suo letto. In lontananza rimbombavano sempre le archibugiate degli spagnuoli. Pareva che gl'indiani, accresciuti forse di numero, tenessero valorosamente testa. Dopo venti minuti i tre avventurieri si gettavano in mezzo alle foreste costeggianti il Chagres. Il sole in quel momento stava per tramontare e l'oscurità cominciava a diffondersi sotto le maestose palme. - Prendiamo fiato, - disse il guascone. - Non sono un cavallo andaluso e nemmeno un mulo dei Pirenei. Gli spagnuoli ormai non ci raggiungeranno piú. - Siamo ancora molto lontani dall'accampamento dei filibustieri del conte? - chiese il fiammingo. - Fra tre o quattro ore vi giungeremo, - rispose Mendoza. - Non ci smarriremo fra queste foreste? - Non abbiamo che da seguire la riva del Chagres. Tutte le precauzioni sono state prese per raggiungerlo. - Sono impaziente di vedere il figlio del famoso Corsaro Rosso. Ho udito parlare anch'io moltissimo dei tre fratelli filibustieri. - Bastano le chiacchiere, - disse il guascone. - In marcia, amici. Mi hanno detto che le foreste del Chagres sono popolate di brutte bestie ed io colle bestie non ho mai desiderato di aver da fare. Ho sempre preferito gli uomini, perché almeno non saltano come gatti rabbiosi. Si erano messi in cammino, seguendo a breve distanza la riva del fiume. Mille strani rumori s'alzavano sotto la tenebrosa foresta. Muggivano i pipa, quegli enormi e schifosi rospi, che hanno il dorso tutto bucato per nascondervi i loro piccini, e le parranua; fischiavano acutamente i grossi batraci nascosti fra le alte erbe del fiume e strepitavano i caimani. Il basco, pratico dei luoghi, poiché aveva seguito Morgan a Panama, si era messo alla testa del minuscolo drappello, tenendo la spada in mano. Il guascone lo seguiva colla sua draghinassa ed il fiammingo colla sua pistola, non avendo armi da taglio. Tutti tre cercavano di non far rumore, non già perché temessero di venire raggiunti dagli spagnuoli, bensí per non attirare l'attenzione delle bestie feroci che potevano aggirarsi per la foresta. In quell'epoca i giaguari ed i coguari erano ancora numerosissimi sull'istmo e non esitavano a gettarsi ferocemente sulle persone che osavano attraversare le foreste da loro abitate. Marciavano da un paio d'ore, sempre seguendo il Chagres le cui acque, ostacolate dal letto roccioso, muggivano cupamente, quando Mendoza si fermò bruscamente, stendendo la spada in linea ed impugnando la pistola carica. - Ancora gl'indiani? - chiese il guascone, alzando la sua draghinassa. - Non ho mai veduto un indiano cogli occhi fosforescenti - rispose il basco. - Allora sarà un gatto rabbioso. - Purché non sia un gattone terribile. Signor fiammingo, toglietevi dalla cintura la navaja e preparatevi a servirvene. Se non sarà una spada, potrà egualmente tagliare. - Che brutti occhi! - disse il guascone. - È un gatto quello. - Io credo invece che sia un giaguaro affamato. - Non so che cosa sia un giaguaro affamato perché in Guascogna non ho veduto altro che dei gatti e dei lupi. In mezzo alle fitte tenebre accumulate sotto le immense foglie delle palme tacarà, si vedevano scintillare due punti luminosi, i quali avevano degli strani bagliori verdi-giallastri. Doveva essere qualche giaguaro o qualche coguaro, il leone americano, in attesa della preda. - E dunque, signor Mendoza? - chiese il guascone, vedendo che il basco non si decideva a riprendere le mosse. - Sarebbe ridicolo che un gattaccio, sia pur grosso come un toro, tenga in iscacco tre spadaccini famosi. - Non vedete che ci chiude il passo, don Barrejo? - rispose Mendoza. - Dategli un calcio. I gatti guasconi, quando vedono una gamba alzata, scappano sempre. - Subito, purché mi si dia una pistola carica, essendo le mie vuote. Che diamine! ... Una bestia non può fermare tre uomini come noi. - Prendete dunque, - rispose il basco, porgendogli l'arma. - Badate però che quel gattaccio, come vi ostinate a chiamarlo, potrebbe strapparvi gli occhi. - Uh! ... Ne ho visti tanti io in Guascogna, quand'ero ragazzo. - Erano diversi da questi. - Ora la vedremo. Lo spadaccino prese la pistola, mise la draghinassa in linea e s'avanzò con pazza temerità verso i due punti fosforescenti, che non cessavano di brillare fra le tenebre. Il basco ed il fiammingo gli avevano tenuto dietro, pronti ad aiutarlo in quella pericolosa impresa. Il guascone non aveva percorsi dieci passi, quando un orribile miagolio che terminò in un terribile muggito soffocato, si fece udire. - Il gattaccio soffia, - disse don Barrejo. - Deve essere arrabbiato. Ora t'accomodo io! Era tutt'altro che un gattaccio! Si trattava d'un vero coguaro, uno dei piú pericolosi animali che si trovino nelle foreste americane, e che per forza e per ferocia non la cedono che ai colossali orsi grigi delle Montagne Rocciose. Vengono chiamati le tigri dell'America e possono rivaleggiare con le tigri reali dell'India, quantunque non ne abbiano la mole. Posseggono però una tale forza da trascinare un toro. Il guascone, un po' impressionato dai miagolii feroci della fiera, si era fermato. - E dunque, don Barrejo, che cosa facciamo? - chiese Mendoza, il quale rideva sotto i baffi. - Non è un gattone guascone quello lí? - Mi pare che soffi un po' troppo, - rispose l'avventuriero. - Dategli un calcio. - Ah! ... Diamine! ... Mi pare che la cosa sia un po' difficile! - Infilatelo. - È quello che stavo appunto studiando. - Giú un colpo di spada! . Aspetto che mi assalga. Aveva puntata la pistola e allungata la draghinassa. La belva soffiava sempre e ruggiva sordamente, senza muoversi. Don Barrejo, seccato di non vederla avanzarsi, fece qualche passo innanzi, gridando: - Su, gattaccio, assaggia un po' la mia draghinassa! Il giaguaro si era accovacciato, pronto a slanciarsi. Mendoza si era messo a fianco del guascone, temendo che gli toccasse qualche grave disgrazia, mentre il fiammingo impugnava la pistola. - Il gattaccio ha paura, - disse don Barrejo. - Diavolo! ... Sente l'odore d'un uccisore di gatti. Aveva appena pronunciato quelle parole, quando il coguaro spiccò un salto cosí impetuoso da farlo cadere a gambe alzate. Mendoza, che gli stava presso, allungò rapidamente la spada, affondandola nelle carni della bestiaccia, mentre il fiammingo, che aveva ancora una pistola carica, sparava a bruciapelo. Il coguaro, doppiamente ferito, saltò sopra la testa dei suoi feritori e scomparve nella foresta, ruggendo. - Corpo di bacco! - esclamò il guascone, il quale si era prontamente alzato. e, per sua fortuna, incolume. - Che gattacci vivono in questo paese? Non sono di quelli che ammazzavo io quando ero ragazzo. L'avete ucciso voi, signor Mendoza? - Non lo so, - rispose il basco. - La mia spada è però insanguinata. - E la mia palla deve averla ben cacciata nel corpo, - aggiunse il fiammingo. - Scommetterei che l'ho acciecato. - Ecco un uomo meraviglioso, - disse don Barrejo. - Io non vedevo quasi piú quel gattaccio, e lui l'ha proprio preso in un occhio. Speriamo allora che essendo cieco non ci secchi piú. - Un fiammingo, - disse Mendoza. - Che cosa volete dire voi? - chiese il brabantino. - Che è un mezzo guascone, se non lo è per intero. Don Barrejo ed il brabantino proruppero in una clamorosa risata. - E Mendoza è un basco, - disse il primo. - Sí, un basco, - ripeté il secondo, con voce grave. - Che lavora di gambe per non farsi nuovamente sorprendere dal gattone cieco, - rispose Mendoza, riprendendo la corsa. I due fracassoni credettero bene di seguirlo, non essendo veramente sicuri se il coguaro avesse ancora o no i suoi occhiacci a riflessi giallastri. Quella seconda galoppata durò un'altra ventina di minuti, poi Mendoza, che da qualche po' osservava attentamente la riva del Chagres, si fermò additando ai suoi compagni alcuni fuochi che brillavano sotto gli alberi. - Ancora gl'indiani? - chiese il guascone, vedendolo arrestarsi. - È l'accampamento del conte, - rispose il basco. - Sono certo di non ingannarmi. In quel momento una voce rauca gridò minacciosamente: - Chi vive? Rispondi o faccio fuoco. - Mendoza, - rispose il basco. - Avanti allora, compare. Quattro uomini armati d'archibugi e di pistole si erano slanciati fuori da un cespuglio, seguiti da un quinto il quale portava una torcia. - Il lupo di mare! - esclamò il capo delle sentinelle. - Hai tardato molto a farti vivo, compare. Si beve bene dunque a Pueblo-Viejo? - Benissimo, - disse don Barrejo. - Vi faremo assaggiare un certo Alicante che abbiamo scoperto, che non si beve nemmeno nella vecchia Spagna. - Quando? - Quando prenderemo d'assalto la città, - rispose il guascone. - È vero, compare? - chiese il filibustiere a Mendoza. - Chi vivrà vedrà, - si limitò a rispondere il basco, allontanandosi rapidamente per recarsi dal conte di Ventimiglia. Nell'attraversare l'accampamento, s'accorse che i filibustieri erano ben piú numerosi di prima. Gruppi d'uomini che prima non aveva mai veduti, chiacchieravano o fumavano attorno ai fuochi, tenendo i loro archibugi fra le gambe. - Il signor conte ha ricevuto degli aiuti, - mormorò. - Prendere Pueblo-Viejo sarà per noi un giuoco. La tenda del conte s'innalzava in mezzo all'accampamento ed era illuminata anche internamente. Mendoza entrò risolutamente, dicendo: - Eccomi, capitano. - Finalmente! - esclamò il signor di Ventimiglia, il quale stava seduto su un vecchio tronco d'albero, intento ad osservare, alla luce d'una torcia, una specie di carta geografica dei dintorni. - Cominciavo a temere che ti avessero preso od appiccato. - Niente affatto, signor conte, - rispose il lupo di mare. Quando vi è con me quel demonio di guascone non correrò mai alcun pericolo. - Vi è dunque? - Sí, il marchese si trova a Pueblo-Viejo. Don Barrejo ha parlato con lui, anzi ha bevuto insieme la cioccolata. Vi spiegherà come, lui stesso piú tardi ... - E mia sorella si trova presso di lui? - Questo non abbiamo potuto saperlo, signor conte. Abbiamo però saputo che fino a poco tempo fa si trovava presso il marchese una bellissima meticcia, giunta non si sa da dove e poi misteriosamente scomparsa. Il conte aveva alzato vivamente la testa, mentre una profonda emozione alterava il suo viso. - Mia sorella è la nipote del Gran Cacico del Darien? - Può darsi che sia quella. - Bisogna che abbia il marchese nelle mie mani. - Lo credo anch'io, signor conte. - Sai quanti soldati vi sono in città? - Due o trecento cavalleggieri e qualche compagnia d'archibugieri. - E l'artiglieria? - Pochi pezzi. - La prenderemo d'assalto prima di mezzodí, - rispose il conte, risolutamente. - Sai che ho ricevuto dei rinforzi? - Mi sono accorto della presenza di altri uomini, che qui prima non c'erano. - I miei corrieri che ho mandati verso le sponde del Pacifico per avvertire Grogner e Tusley di mandarmi dei rinforzi, hanno incontrato una partita di filibustieri, forte di settantacinque uomini, guidata da un gentiluomo francese, il signor Raveneau de Lussan. - E cinquanta ne avete voi, siamo dunque in buon numero, - disse Mendoza. - Tu conosci ormai la via? - Sí, signor conte. - Potremo giungere prima dell'alba sotto le mura di Pueblo-Viejo? - Anche piú presto. Il conte uscí dalla tenda, estrasse le sue pistole e le scaricò in aria. Era quello il segnale della riunione. Gli uomini che stavano seduti intorno ai fuochi o di guardia ai quattro angoli dell'accampamento si alzarono frettolosamente e si portarono in massa dinanzi alla tenda, preceduti da un uomo di bassa statura, che indossava una corazza d'acciaio in mezzo alla quale campeggiava uno stemma dorato: era Raveneau de Lussan. - Partiamo, conte? - disse il gentiluomo francese, con voce nasale. - Sí, signor de Lussan, - rispose il figlio del Corsaro Rosso. Si tratta d'assalire Pueblo-Viejo. - E noi la prenderemo, - rispose tranquillamente il filibustiere. I miei uomini cominciavano ad annoiarsi. - Spegnete i fuochi ed in marcia, senza perdere tempo. Cerchiamo di sorprendere il marchese nel suo palazzo. Dieci minuti dopo, i filibustieri levavano il campo inoltrandosi sotto la grande foresta, preceduti da Mendoza, dal guascone e dal fiammingo. Il conte di Ventimiglia veniva subito dopo i tre avventurieri, con Raveneau de Lussan. La truppa raggiunse felicemente le rive del Chagres e verso le due del mattino s'inoltrava nel vallone dove aveva avuto luogo lo scontro fra i tre avventurieri ed i cavalleggieri spagnuoli. Temendo una sorpresa, il conte mandò innanzi una grossa avanguardia. Se gli spagnuoli si fossero trovati ancora là e avessero occupate le due falde della valle, avrebbero certo dato molto da fare ai filibustieri. Fortunatamente, dopo d'aver cacciati gl'indiani, erano ritornati a Pueblo-Viejo, ben lungi dal sospettare la vicinanza d'un cosí grosso numero di nemici. Mezz'ora prima che sorgesse il sole, i filibustieri, senza essere stati segnalati dalle cinquantine incaricate di battere ogni notte le foreste vicine alla città, giungevano a pochi tiri d'archibugio da Pueblo-Viejo. Come la maggior parte delle piccole città dell'istmo di Panama, anche quel centro, non molto popoloso e piuttosto discosto dai due oceani, non aveva che qualche vecchio bastione ed un fossato facilissimo a varcarsi coll'aiuto di pochi fasci di legna. Per filibustieri abituati a dare la scalata perfino alle altissime muraglie dei forti difese da formidabili artiglierie, almeno per quell'epoca, ci voleva ben altro! ... Il figlio del Corsaro Rosso divise i suoi uomini in due colonne, affidando il comando della meno numerosa al gentiluomo francese e, appena il primo raggio di sole comparve, si spinse risolutamente all'attacco. Le sentinelle spagnuole che vegliavano sul bastione, scorgendo quei gruppi d'uomini che s'avanzavano attraverso alle piantagioni di zucchero e di caffè, non avevano indugiato a dare l'allarme ed a sparare parecchi colpi d'archibugio. I filibustieri non si erano nemmeno curati di rispondere. Guidati dal conte, da Mendoza, dal guascone, avevano rapidamente attraversato il fossato, ricoprendolo di fascine, poi avevano aperto il fuoco contro le prime case, facendo scappare gli abitanti seminudi. Nessuno si era opposto all'assalto, tanto era stato fulmineo. sicché i filibustieri irruppero attraverso le vie della città a passo di corsa, mentre Raveneau de Lussan s'impadroniva, con non meno fortuna, del vecchio bastione, facendo subito inchiodare i pochi pezzi che lo guarnivano, piú utili del resto a spaventare i tica-tica che saccheggiavano le piantagioni, che uomini cosí risoluti e formidabili, come erano i corsari del golfo del Messico e dell'oceano Pacifico. Gli abitanti, svegliati di soprassalto da quelle scariche, scappavano verso la piazza maggiore, dove si ergevano la chiesa che poteva servire da fortezza, e il palazzo del governatore. Uomini, donne e fanciulli si spingevano gli uni gli altri carichi delle loro cose piú preziose trovate sotto mano. I filibustieri credevano già di avere in loro mano la cittaduzza, quando scorsero dinanzi alla chiesa due squadroni di cavalleggieri colle spade in pugno. Erano circa cento cinquanta uomini, ben montati e bene armati e che avrebbero potuto dare del filo da torcere agli assalitori, se questi non fossero stati ritenuti come uomini invincibili perché creduti figli dell'inferno. Il figlio del Corsaro Rosso si slanciò risolutamente verso la chiesa, gridando ai suoi uomini: - Sotto, amici! I filibustieri, i quali già molto contavano sul terrore che ispiravano, dopo le loro strepitose vittorie riportate al di là ed al di qua dell'istmo, fecero una scarica generale. I cavalleggieri tentarono una carica disperata, poi volsero i cavalli, fuggendo disordinatamente attraverso le vie della città. Parecchi avevano già vuotato l'arcione e giacevano morti o moribondi dinanzi ai gradini della chiesa. - Ora quel dannato taverniere farà i conti con me, - disse il guascone. - Se lo trovo, guai a lui! Il conte di Ventimiglia prese con sé una dozzina di uomini e si slanciò verso il palazzo del governo, dalle cui finestre non era partito nemmeno un colpo d'archibugio; mentre gli altri, provvedutisi di alcune travi, sfondavano la porta della chiesa per far uscire gli abitanti della città che vi si erano rifugiati cogli oggetti piú preziosi. Il guascone, Mendoza ed il fiammingo avevano accompagnato il conte, pronti a sacrificarsi per difenderlo. - Per centomila demoni! - esclamò don Barrejo, quando ebbero salito lo scalone. - I colombi sono scappati assieme al falco. Signor conte, non sarà qui che voi scoverete il marchese di Montelimar, il mio carissimo amico. Scommetto che non avrete l'onore di assaggiare la sua squisita cioccolata. E conte ed i suoi uomini si erano precipitati attraverso le sale, sfondando i mobili e le porte. Non furono trovati che sette alabardieri nascosti in un bugigattolo, sotto un ammasso di fasci di canne da zucchero. Vi era però fra di loro un uomo già conosciuto da Mendoza e dal guascone. - Corpo d'un trombone sfiatato! - esclamò don Barrejo. - Il capo della scorta! Ehi, camerata, il conte d'Alcalà vi prega di far udire la vostra voce armoniosa. Ve l'avevo già detto, se non m'inganno, che mi avreste riveduto e molto presto. Il capo-ronda, molto avvilito di vedersi ancora dinanzi l'ex-prigioniero, era uscito dal bugigattolo, borbottando e stringendo minacciosamente una specie di misericordia. - Interroghiamo quest'uomo, signor conte, - disse don Barrejo. È una vecchia nostra conoscenza. - Dov'è il marchese? - gridò il signor di Ventimiglia, il quale appariva esasperato. - Da ieri sera, caballeros, egli galoppa sulla via che conduce a Nuova Granata, - rispose il capo-ronda. - I vostri compagni, che si spacciavano per conti e grandi di Spagna, non sono stati troppo furbi e si sono traditi. - Burlone! - esclamò il guascone. - Quando è partito? - chiese il conte. - Prima della mezzanotte. S. E. non è un uomo da cadere facilmente nel laccio e si è messo in salvo per tempo. Nuova Granata non è Pueblo-Viejo e non la prenderete con poche scariche d'archibugi, signor mio. - Con chi se n'è andato? Parla, se vuoi salvare la pelle. Sai che i filibustieri non sono molto generosi. - Aveva una scorta di otto uomini. - Ed una fanciulla? - Sí, caballero. - Una meticcia, è vero? - Come lo sapete voi? - Rispondi e non interrogare, - disse il signor di Ventimiglia con voce minacciosa. - Sí, una meticcia, - rispose il capo-ronda. - Quale posizione occupava quella meticcia nella casa del governatore? - Veniva trattata come fosse una parente di S. E. - Quanti anni potrà avere? - Dai quindici ai sedici. Il conte fece mentalmente un rapido calcolo. - Non può essere che lei, - mormorò. Poi, alzando la voce, rispose: - È dunque molto fortificata Nuova Granata? - Cosí si dice. - Ci sei stato tu? - Mai, caballero. Il figlio del Corsaro Rosso fece un gesto di dispetto. - Poche ore prima e cadevano l'uno e l'altra nelle mie mani, disse. Poi volgendosi verso uno dei suoi ufficiali: - Incaricatevi della custodia di questi uomini. Possono essermi molto utili piú tardi. Lasciò la sala e ridiscese sulla piazza, seguito da Mendoza, dal guascone, dal fiammingo e da una mezza dozzina di filibustieri. I corsari del signor di Lussan non erano ancora riusciti a entrare nella chiesa. Gli abitanti che stavano dentro difendevano accanitamente le loro ricchezze, che avevano frettolosamente raccolte, e ad ogni intimazione di resa, rispondevano con scariche d'archibugi. - Signor di Ventimiglia, - disse il gentiluomo francese, vedendolo comparire. - Questi spagnuoli non intendono di uscire. Volete che faccia saltare la chiesa con una mezza dozzina di barili di polvere? - Sarebbe un massacro inutile, - rispose il conte. - E se rimangono lí dentro noi non avremo nemmeno una piastra. - Io rinuncio alla mia parte. - Non rinunceranno però né i miei, né i vostri uomini. - Avete fatto dei prigionieri? - Appena due dozzine. - Mandatene uno nella chiesa ad annunciare agli assalitori che, se non capitolano, ammazzeremo per ora quelli che teniamo nelle nostre mani. Mentre il signor di Lussan si preparava a obbedire, Mendoza si avvicinò al guascone ed al fiammingo. - Amici, - disse. - Finché questa gente se la sbriga colla chiesa, approfittiamone per andare ad assaggiare il buon vino di quel furfante di taverniere. Se comincia il saccheggio generale della città, noi non troveremo che le botti vuote. Io ne so qualche cosa della sete dei filibustieri ... poi la nostra presenza qui non è necessaria. Il conte ed il francese hanno uomini piú che sufficienti per forzare gli assediati alla resa. - Tonnerre! - esclamò don Barrejo. - Mi ero dimenticato di quell'amico! ... Che sia nascosto nelle sue cantine? - Ho qualche speranza di scovarlo in mezzo alle sue botti, - rispose Mendoza. - Ed anch'io, - disse il fiammingo. - Andiamo, compari, - conchiuse il guascone. Approfittando della confusione che regnava sulla piazza, i tre avventurieri presero il largo e, inosservati, si cacciarono entro una viuzza a loro ben nota, che doveva condurli in breve dinanzi alla taverna d'El Moro. Come avevano supposto, la porta era chiusa e regnava un silenzio da tomba. - Che l'amico si sia rifugiato in chiesa coi suoi sguatteri? - si chiese il guascone, dopo d'aver appoggiato un orecchio alla toppa. Non odo nemmeno quel gattaccio nero miagolare. - Buttiamo giú la porta, - disse il fiammingo, il quale, avendo scorto a breve distanza un ammasso di legnami che dovevano servire alla costruzione di una casa, si era impadronito d'una trave. - Ecco l'uomo forte della compagnia, - disse don Barrejo, vedendo che il fiammingo non piegava sotto il peso. - D'ora innanzi, giacché non ha mai voluto dirci il suo nome, lo chiameremo don Ercole. Afferrarono solidamente la trave, presero la rincorsa e con un colpo solo sventrarono alla lettera la porta della taverna, con un tale rimbombo che parve avessero sparato là dentro una cannonata. - Don Ercole! ... Voi siete l'eroe della giornata ... il re della taverna, - disse il guascone. - Perdinci! Che muscoli! ... Sareste capace di buttar giú anche una fortezza! ... - Sono un fiammingo, - rispose serio serio l'avventuriero. Sguainarono le draghinasse, temendo un assalto a colpi di spiedo o di casseruole, ed entrarono. Non videro scappare che un grosso gatto nero, quello che già il guascone aveva notato. La povera bestia, spaventata da quel colpo di tuono, balzava attraverso le tavole e sui banchi, come se fosse impazzita, rovesciando bicchieri e bottiglie. - Quella bestia lí deve avere l'anima di quel brutto gattaccio che abbiamo incontrato sulle rive del Chagres, - disse don Barrejo. - Sapete dove si trova la cantina? - chiese Mendoza al fiammingo. - La porta è dietro al banco. - Prendiamo prima qualche torcia, - disse il guascone. - Non occorre, - rispose Mendoza. Salí su un tavolo e staccò il lanternone che serviva ad illuminare la sala. L'accese non senza qualche difficoltà, poi si diressero verso la porta che doveva mettere nella cantina. Bastò una pedata del guascone per sgangherarla e farla rotolare giú per la scala. - Ci sono! ... - esclamò Mendoza, alzando il lanternone. - Chi? - chiese don Barrejo. - Ho udito un grido dalla cantina. - Che fortuna! ... Ah! ... Povero taverniere! ... In quali mani stai per cadere! ... - disse il guascone. Fate luce, Mendoza! Scesero la scala con precauzione, tenendo le draghinasse in linea e giunsero in un'ampio sotterraneo contro le cui pareti s'appoggiavano una dozzina e forse piú di rispettabili e ben panciute botti. - Dove si sarà nascosto quel briccone? - disse don Barrejo. Una voce s'alzò dietro le fila di botti di destra, gridando: - Chi è che osa darmi del briccone? - Tonnerre! ... Il taverniere! ... - Ancora quel birbante! ... - strillò il proprietario d'El Moro. Ora ti spillerò sangue! ... - Amici, fuori le pistole! - comandò il guascone. Il taverniere era balzato fuori dal suo nascondiglio, brandendo minacciosamente uno spiedo e dopo di lui erano comparsi, uno ad uno, i suoi quattro sguatteri egualmente armati. - Ancora qui, furfante! - urlò l'oste, furioso. - Dove si beve del buon vino si torna sempre, - rispose il guascone, puntandogli contro la spada e la pistola. - Mi ero immaginato che voi dovevate essere un filibustiere, - disse il taverniere, il quale non osava farsi innanzi, vedendo tre bocche da fuoco spianate. - Sono venuto anzi ad avvertirvi che la città è caduta nelle nostre mani e che ogni resistenza è ormai inutile. Siamo in mille! - E che cosa volete da me? - Assaggiare nuovamente il vostro Alicante ed il vostro Xeres. - Il mio vino! ... - Volete prima che vi ammazzi? - chiese il guascone, cambiando tono. - Rimarremo allora noi padroni assoluti della cantina e le vostre proteste non servirebbero piú a nulla. Volete un consiglio da amico? Andate a sedervi su quelle travi, insieme ai vostri sguatteri, lasciate in pace gli spiedi, buoni per infilzare polli e anitre e non uomini come noi, e non seccateci piú, diversamente noi faremo boum! E allora andrete a trovare compare Belzebú. - Voi mi volete rovinare. - Abbiamo rovinata anche l'intera città, quindi potete consolarvi. - Io non vi darò una piastra! ... - Ma che piastra! ... È il vostro vino che noi vogliamo. Ci prendete per dei ladri? Sbrigatevi, giú gli spiedi e subito là in fondo. Abbiamo sete noi, tonnerre! Il povero oste ed i suoi aiutanti, spaventati dall'accento terribile del guascone e reputando ogni resistenza affatto inutile, gettarono gli spiedi e andarono a sedersi sulla trave indicata, la quale si trovava all'estremità opposta della cantina. Mendoza posò a terra il lanternone, mentre don Barrejo ed il fiammingo s'impadronivano di alcuni boccali di terracotta ben capaci. - Proviamo lo Xeres, prima, - disse il basco. - È quello del famoso doblone. - E poi assaggeremo anche tutte le altre botti, spero, - aggiunse il fiammingo. - Badate di non ubbriacarvi, - disse il guascone. - Non siamo soli qui e quei gattacci che stanno là in fondo potrebbero saltarci addosso. Mentre uno tracannava a garganella Xeres e gli altri Porto e Alicante, il povero taverniere si strappava i capelli, strillando. - Questi birbanti mi rovinano! Né il guascone, né i suoi compagni facevano attenzione ai lamenti ed alle ingiurie del taverniere e dei suoi sguatteri. Continuavano tranquillamente a bere, assaggiando il contenuto di tutte le botti. Dovevano essere dei formidabili bevitori, poiché pareva che ingollassero tanta acqua. Ad un certo momento però il guascone il quale si sentiva forse girare un po' la testa e oscillare le gambe, gettò via il boccale che teneva in mano e che era ancora quasi pieno di Porto, dicendo: - Basta, camerati! ... Non siamo già delle botti, noi! ... Ora verrà la solenne punizione del taverniere. - Che cosa volete fare? - urlò l'oste, piú che mai furibondo. Non siete ancora contenti? - Vi lasciamo le piastre e dovete averne un buon gruzzolo. E vi lamentate ancora? Non sapete dunque che quando i filibustieri piombano su una città spazzano via tutto? Dovete anzi esserci grati di questa generosità. - Volete ammazzarci? - Voi no e nemmeno i vostri sguatteri. Sono le vostre botti che pagheranno per la vostra perfida condotta verso gentiluomini della nostra marca. Mendoza, quali credete che siano le botti migliori? Le avete assaggiate tutte? - Tutte, - rispose il basco. - E voi, don Ercole? - Anch'io - disse il fiammingo. - Quali sono? I due avventurieri, dopo maturo esame, indicarono due enormi recipienti contenenti l'uno dello Xeres ed un altro della Malaga stravecchia. Il guascone impugnò due pistole, quindi rispose serio serio: - Io, nella mia qualità di presidente del Consiglio di guerra, decreto la morte di queste due botti. Ciò detto sparò le due pistole contro i due recipienti, forandoli. Due zampilli scaturirono subito, scorrendo pel pavimento. Il taverniere aveva mandato un urlo come se gli avessero strappato il cuore ed aveva fatto un salto innanzi, per avventarsi contro quei tre demoni scatenati. Il guascone però era stato pronto a mettere un piede sugli spiedi e ad allungare la sua terribile draghinassa, gridando: - Alto là, brav'uomo! ... Quest'arma ha sempre sete di sangue umano e beve quando trova l'occasione. - Miserabili, mi vuotate le botti e quelle anche che contengono il migliore. - A noi piace offrire alla terra sempre del vino di prima qualità affinché ne riproduca di quello piú squisito. Anche la terra qualche volta beve volentieri. Mendoza ed il fiammingo ridevano a crepapelle, per niente impressionati della disperazione del taverniere. Don Barrejo lasciò che lo Xeres e la vecchia Malaga colassero per parecchi minuti allagando la cantina, poi disse ai compagni: - È ora d'andarsene. Se restiamo qui ancora un quarto d'ora saremo piú ubbriachi della terra che beve. Taverniere, addio! Mentre il povero oste urlava, come se lo scorticassero vivo ed i suoi quattro sguatteri vomitavano una serqua di maledizioni, i tre avventurieri raccolsero il lanternone e salirono la scala, senza nemmeno occuparsi di rispondere. - Andiamo a vedere che cosa succede ora alla chiesa, - disse il guascone quando furono fuori dalla taverna. Giungevano già in ritardo. Gli abitanti si erano arresi ed i filibustieri avevano saccheggiata la città, portandosi via quanto oro avevano potuto trovare e si preparavano a ripartire. Come! ... Si riprende la marcia, signor conte? - chiese Mendoza il quale era riuscito a trovare il signor di Ventimiglia. - Andiamo a raggiungere i filibustieri che si trovano all'isola S. Giovanni, - rispose il figlio del Corsaro Rosso. - Senza Grogner e Tusley non potremmo espugnare una piazza forte come è quella di Nuova Granata. - È necessario che il marchese non mi sfugga la seconda volta. - Fa' radunare i nostri uomini e andiamo a far conoscenza coll'Oceano Pacifico.

Invece di combatterli, li fanno maledire dai loro sacerdoti con esorcismi e contro di loro fanno alzare le cose piú sacre che abbia la religione, non diversamente che se avessero combattuto l'inferno. Gli spagnuoli, pressati da tanta rovina, cercano di temperare il flagello mandando a Grogner una lettera del vicario generale di Costarica, colla quale lo avvertivano essersi fatta la pace fra la Spagna e le potenze di Francia e d'Inghilterra e che il viceré di Panama metteva a loro disposizione parecchie navi per ricondurli in Europa. I filibustieri, che non erano cosí ingenui da accettare una simile proposta, che li avrebbe messi in balìa del nemico, per tutta risposta assaltano la città di Nicoya e la mettono a sacco e la bruciano, non salvando dalla distruzione che le chiese e tutti gli oggetti del culto cattolico. Le cose erano giunte a questo punto quando un mattino, mentre i filibustieri stavano allestendo alcune vecchie barcaccie per intraprendere qualche altra audace scorreria, videro approdare alla loro isola, che era diventata una piccola Tortue, sette scialuppe montate da un centinaio e mezzo d'uomini. Erano i corsari del conte di Ventimiglia e di Raveneau de Lussan. Quei valorosi, dopo aver conquistata e saccheggiata Pueblo-Viejo, avevano fatto una marcia rapidissima verso l'Oceano Pacifico, per portarsi a quell'isola dove erano sicurissimi di trovare dei soccorsi. Evitando con cura le città ed i villaggi, marciando sempre attraverso le boscaglie per non imbattersi nei corpi spagnuoli che il viceré di Panama, allarmato da quei continui attacchi, aveva lanciato in tutte le direzioni, risoluto a ricacciare in mare quei pericolosissimi nemici, erano giunti felicemente sulle sponde del grande Oceano, impadronendosi per sorpresa di un numero abbastanza rilevante d'imbarcazioni tolte ai pescatori della costa. Non giungevano però a San Giovanni di Pueblo in un momento felicissimo. Pochi giorni prima, una flotta composta di quindici legni spagnuoli aveva fatto la sua comparsa in quelle acque, costringendo Grogner ed i suoi uomini ad abbruciare piú che in fretta la loro fregata e gli schifi che possedevano, perché non cadessero nelle mani dei loro nemici. Fortunatamente gli spagnuoli si erano contentati di portar via le ferramenta del vascello e di distruggere quanto era rimasto di esso, senza osare di inoltrarsi nell'isola. La notizia dell'arrivo del figlio del Corsaro Rosso con Raveneau de Lussan, reduci dalla presa di Pueblo-Viejo, non aveva mancato di produrre una profonda emozione e anche di rialzare immensamente il morale dei filibustieri i quali, distrutta la loro flottiglia, non si trovavano piú in grado di riprendere le loro scorrerie verso il continente. Grogner, avvertito dell'approdo del nipote del famoso Corsaro Nero e cugino del non meno famoso Morgan, il conquistatore di Panama, si era affrettato a muovergli incontro. Già la notizia che un parente dei piú celebri filibustieri del Golfo del Messico veleggiava in quelle acque, era giunta fino all'isola. Grogner non era un gentiluomo come Raveneau de Lussan, tuttavia godeva fama di essere uno dei piú arditi corsari di quell'epoca. Aveva esordito, come quasi tutti i filibustieri, come mozzo; aveva combattuto in Francia, in Inghilterra ed in Olanda, poi era passato in America, desideroso di fare una rapida fortuna. Era giunto però troppo tardi, quando ormai le città del golfo del Messico erano state completamente rovinate dall'Olonese, da Montbars, dai tre corsari, da Grammont, da Wan Horn, da Morgan e da tanti altri non meno famosi. Aveva quindi seguito le tracce di Davis, girando il capo Horn ed era giunto ancora in tempo per fare dei bei colpi contro le cittaduzze dell'America centrale, aiutato da trecento disperati, che non avevano paura né degli archibugi, né delle artiglierie spagnuole e tanto meno delle loro squadre. Narrano le cronache di quel tempo che rassomigliava un po' a Morgan e che quantunque di statura mediocre possedeva una forza muscolare straordinaria ed un coraggio a tutta prova. Come abbiamo detto, udendo che il capo dei filibustieri sbarcato a San Giovanni di Pueblo era il figlio del Corsaro Rosso, si era affrettato a muovergli incontro, dicendogli: - Signor conte, vi si aspettava qui. Tutti i vecchi filibustieri hanno conosciuto e hanno combattuto sotto il comando dei tre corsari che hanno portato, sia pure per una loro vendetta privata, un terribile colpo alla potenza spagnuola del Golfo del Messico. Ecco la mia mano, ed ecco i miei uomini pronti a seguirvi dove voi vorrete. - Era appunto di voi che io avevo bisogno, - rispose il corsaro. lo sono venuto qui per proporvi una terribile impresa. - Voi sapete, signor conte, che nessuna impresa ha spaventato mai i Figli della Costa, come ci hanno chiamato noi per tanti lustri. Che cosa volete da noi? ... - La conquista di Nuova Granata, - rispose il signor di Ventimiglia. - Diamine, - disse Grogner. - È come domandare la testa del governatore di Panama o la presa di Messico o di Cuzco. Nuova Granata è una delle città piú fortificate del Nicaragua, signor conte. - Avreste paura? La prenderemo io ed il signor di Lussan. - Diamine, non correte tanto, signor conte. Là vi sono dei tesori favolosi da raccogliere ... - Che io sono pronto a rinunciare a beneficio dei vostri uomini e di quelli del signor di Lussan. - Si sa che i tre famosi corsari erano ricchissimi, - rispose Grogner. Che cosa chiedete per vostra parte? - Un uomo. - Un prigioniero? - chiese con stupore il filibustiere. - Niente di piú. - Che diavolo! ... Un uomo prezioso senza dubbio. - Il marchese di Montelimar. - Il governatore di Pueblo-Viejo? - Precisamente. - Vi è scappato? Mi hanno detto che voi avete presa d'assalto quella città, signor conte. - Ma ho avuto il torto di giungere troppo tardi, signor Grogner. - Quanti uomini avete? - Centocinquanta, con quelli di Raveneau de Lussan. - Ed altrettanti ne ho io, - rispose Grogner. - Se Pietro l'Olonese con un terzo delle nostre forze ha espugnato Maracaibo e poi Gibraltar, io sarei ben sorpreso se non si potesse prendere d'assalto Nuova Granata, prendere il marchese, molte piastre e fare anche parecchi prigionieri, signor conte. Voi avete sette schifi, mi hanno detto. - Sí, signor Grogner. - Il marchese è in quella città? - Ne sono sicuro. - Via - disse il filibustiere, dopo qualche istante di silenzio. Andremo a vedere se i cannoni che difendono il forte di Nuova Granata saranno carichi con ferro o con acqua calda. Al figlio del Corsaro Rosso un filibustiere che si rispetta non può rifiutare nulla. Signor conte, vi offro ospitalità nella mia povera tenda e domani partiremo. - Ecco un uomo, - disse don Barrejo, il quale aveva assistito al colloquio, tenuto sulla spiaggia, rivolgendosi verso i due inseparabili amici: il fiammingo e Mendoza. - Un vero filibustiere, - rispose il basco. - Siete mai stato in quella città, signor Mendoza? - Siccome non ho mai avuto alcuna premura di prendere un passaporto per l'altro mondo, cosí mi sono sempre ben guardato di mettere i piedi nelle città difese da troppi cannoni. - Troveremo delle taverne, io spero! ... - Che i granatini bevano dell'acqua? - disse il fiammingo. Io non lo crederò mai. - E nemmeno io, don Barrejo, - aggiunse Mendoza. - Là troveremo forse delle botti migliori di quelle che abbiamo assaggiato a Pueblo-Viejo. Granata fornisce di vini Panama e, siccome a Panama si trovano un viceré e degli altissimi funzionari, sono piú che certo che troveremo delle cantine meravigliosamente fornite. Mi stupite però, signor guascone. - Perché? - chiese lo spadaccino. - Si direbbe che voi siete diventato un filibustiere piú pel desiderio di assaggiare i vini spagnuoli che per avidità di guadagno. Eppure i dobloni non vi spiacciono, mi pare. - Quelli verranno piú tardi, - rispose il guascone. - Cerchiamo un posto dove si possa mangiare e bere. Qualche doblone passeggia ancora per le mie tasche e se si può berlo e mangiarlo, niente di meglio. Diamine! ... Un guascone è sempre generoso. Non era difficile all'isola di S. Giovanni di Pueblo spendere dei denari, poiché i filibustieri che vi si erano rifugiati ne avevano fatto, come abbiamo detto, una piccola Tortue. Malgrado le continue minacce degli spagnuoli, quei formidabili scorridori del mare si divertivano allegramente, profondendo le ricchezze guadagnate nei saccheggi, con una prodigalità da nababbi. Dei meticci, giunti dal continente ben provvisti di viveri e soprattutto di vini e di liquori, avevano piantate le loro baracche, vendendo a prezzi esorbitanti i loro generi. I filibustieri, da veri ladroni, non badavano a pagare. Che cosa costava d'altronde a loro il denaro? E come ne erano sempre ben provvisti! ... I tre compagni si cacciarono quindi sotto una immensa tenda, dove molti uomini bevevano allegramente o giuocavano o danzavano con alcune prigioniere spagnuole al suono di alcune chitarre suonate da negri. - Questo è il paese della cuccagna, - disse don Barrejo, sedendosi all'estremità d'una lunghissima tavola. - Io scommetto che le donne spagnuole non si sono mai divertite tanto, come quando si sono trovate con questi briganti. - Adagio, signor guascone, - rispose il basco. - Talvolta questi divertimenti costano cari alle prigioniere ed ai prigionieri. - Perché? Non si rispettano quelle signore? - Anzi si rispettano moltissimo e guai al corsaro che osasse comportarsi da villano contro le prigioniere. Talvolta però giungono i giorni tristissimi ed i sorrisi di quelle disgraziate si tramutano in lagrime di sangue. - Che cosa volete dire? - Che quando i loro parenti ed i governatori non mandano i riscatti, i filibustieri non esitano a far estrarre ai prigionieri, siano uomini o donne, la sorte. - E cosí? - Quello o quella che ha avuto la sfortuna di levare una palla nera, si decapita e la testa si manda al governatore per costringerlo a pagare. - Ciò è brutto. - Che cosa volete? È la guerra. Gli spagnuoli d'oltremare non sono piú generosi e quando riescono a prendere qualcuno di noi l'appiccano senza misericordia. - Guardiamo dunque di non farci prendere, - disse il fiammingo. Si fecero portare delle bottiglie e del prosciutto salato e si misero a bere ed a mangiare. Avevano però appena vuotata qualche tazza, quando un rimbombo assordante li fece balzare in piedi. - Il cannone! - aveva gridato don Barrejo. Tutti i filibustieri che si trovavano sotto la tenda si erano precipitati fuori, prendendo i loro archibugi, mentre le donne strillavano ed i chitarristi scappavano, gettando via gli istrumenti. - Che cosa succede dunque? - chiese il guascone, snudando la sua draghinassa. - Queste sono cannonate spagnuole, - rispose Mendoza. A loro volta erano corsi fuori, slanciandosi verso la piccola baja dove trovavasi ancorata la flottiglia dei filibustieri, la quale si componeva d'un vascello e d'una mezza dozzina di barcaccie. Una grande confusione regnava sulle sponde del porticino, dove si erano radunati tutti i filibustieri dell'isola. Vi erano anche il conte di Ventimiglia, Grogner e di Lussan. In lontananza il cannone continuava ancora a tuonare. Quindici vascelli muovevano lentamente verso l'isola, disposti su due colonne. Era la flotta spagnuola del Pacifico, incaricata di impedire il passo ai corsari che provenivano dal Capo Horn o dallo stretto di Magellano, flotta imponente che avrebbe potuto purgare per sempre quei mari da quegli audaci ladroni, se l'avessero voluto. - Signor conte, - disse Grogner al figlio del Corsaro Rosso, con voce un po' alterata. - Siete giunto in un cattivo momento. - Non mi pare, - rispose il signor di Ventimiglia, - poiché vi ho condotto dei rinforzi. - Non potremo resistere ad una squadra cosi potente. Non ho che un vascello e delle barcaccie. - Fate tirare a terra le barcaccie e gli schifi e nascondeteli sotto le foreste. - Ed il vascello? - Incendiatelo perché non venga preso dagli spagnuoli. Spicciatevi, signor Grogner e poi ritiriamoci nell'interno dell'isola. Se vorranno assalirci, sapremo difenderci. Gli ordini furono subito dati. Mentre una partita di corsari saliva a bordo della nave, radunando quanto catrame si trovava nella stiva e lo incendiava, gli altri s'affannavano a mettere in salvo le migliori barcaccie e le scialuppe, per non rimanere sprovvisti completamente di mezzi di trasporto, capaci più tardi di far loro raggiungere il continente. La squadra spagnuola, sicura del fatto suo, aveva intanto incominciato a sparare tremende bordate, specialmente contro il vascello il quale già era stato sgombrato rapidamente. - Perdinci! - esclamò il guascone. - Questa volta gli spagnuoli fanno sul serio. Signor basco, giacché i nostri compagni scappano, lavoriamo di gambe anche noi. I colpi di spada li ricevo volentieri, ma non ho provato mai alcuna affezione per le grosse palle che tagliano in due senza nemmeno dirvi: guarda che ti ammazzo, imbecille! I filibustieri infatti, messe in salvo le imbarcazioni, scappavano da tutte le partì, mentre i proprietarii delle baracche, aiutati dai loro negri, cercavano di portare via il meglio che possedevano, per non lasciarlo cadere nelle mani degli spagnuoli. Le cannonate intanto non cessavano. Le palle cadevano come una fitta gragnuola sulla spiaggia e sul vascello, il quale già avvampava rapidamente, eruttando dai boccaporti spalancati immense nuvole di fumo. Era una squadra veramente imponente, composta di galeoni, di fregate e di grosse caravelle e montata da duemila marinai. I filibustieri, guidati dal signor di Ventimiglia, da Grogner e da Raveneau de Lussan, si erano intanto affrettati a mettersi in salvo su una collina situata quasi nel mezzo dell'isola e perciò fuor di portata dalle artiglierie della flotta; artiglierie, che come abbiamo detto, in quei tempi avevano una portata molto limitata. Erano tuttavia assai inquieti, temendo un poderoso assalto da parte degli equipaggi. Fortunatamente nulla di grave accadde. La squadra, dopo aver cannoneggiate le baracche, sbarcò alcune centinaia d'uomini per raccogliere le ferramenta del vascello corsaro distrutto dall'incendio, e qualche ora dopo riprendeva la sua rotta veleggiando verso Panama. - Corpo di un bue! - esclamò il guascone, il quale osservava tutte quelle navi maestose, dall'alto della collina. - Avrebbero potuto distruggerci e hanno preferito invece andarsene. Buon viaggio, signori e che Dio vi guardi dalle tempeste. Si levò il feltro e salutò la squadra, facendo nel medesimo tempo un inchino cosí profondo da far scoppiare dalle risa non solamente il basco, bensí anche il conte di Ventimiglia e Grogner che gli stavano presso.

Peccato che la mia bella della catapecchia non abbia assistito agli atti di valore del suo innamoratissimo. - Voi siete pazzo, don Barrejo, - disse il conte. - Me lo hanno veramente detto anche le guardie; io tuttavia non credo di avere ancora il cervello guasto. Gliele ho date però, ve l'assicuro, signor conte, e le ho fatte correre. In Guascogna non ci sono mai stati dei pazzi e nemmeno dei manicomi. - Che paese meraviglioso! - esclamò Mendoza. - Un'altra volta voglio nascere dall'altra parte del mar di Biscaglia! ... - E farete bene, però mi pare che sarebbe meglio mostrare a quella deliziosa ostessa come sanno lavorare di denti i guasconi ed anche i fiamminghi, è vero, don Ercole? Se il conte ci permette? ... - Metteteli pure in opera, - rispose il signor di Ventimiglia. - Mi rincresce che manchi qui un po' d'antipasto. Ah! ... Come divorerei in contraccambio i bellissimi occhi di questa simpatica catalana! ... - No, sivigliana, - disse Mendoza. - Sempre occhi delle belle spagnuole, - rispose il guascone, con un sospirone, mentre si tirava dinanzi un paio di tondi ben pieni di pesci arrostiti e si empiva il bicchiere. Don Ercole, degnatevi di imitarmi. Anche voi, signora, se non avete cenato col signor conte. La bella ostessa scoppiò in una risata argentina. - Io non sono una signora, caballero, - disse, mostrando due magnifiche file di denti. - Sono la padrona d'una povera posada. - Per un guascone, una donna è sempre una signora, - rispose don Barrejo, il quale però, pur chiacchierando, divorava come un lupo e vuotava bicchieri di eccellente Porto, aiutato vigorosamente dal taciturno fiammingo. - E poi, pei vostri magnifici occhi un guascone si farebbe uccidere. - Che cosa sono questi guasconi? - chiese la bella castigliana. - Dei parenti prossimi del diavolo, - rispose Mendoza, il quale faceva gli occhi di triglia alla vezzosa ostessa. - Misericordia! - esclamò Panchita, facendosi precipitosamente il segno della croce. - Compare, - disse il guascone, guardando con un certo cipiglio il basco. - Anche al di là del mar di Biscaglia si dice che vivano dei prossimi parenti di Belzebú. Sareste geloso di me? - Don Barrejo, - disse il conte, - vorreste attaccare lite? - No, signor di Ventimiglia: in questo momento preferisco attaccarmi alle bottiglie di questa graziosa castigliana. Tonnerre! ... Va giú come l'acqua, è vero, don Ercole? - Come l'olio, - rispose il fiammingo. - Señora, spero che ne avrete molte di queste, nella vostra cantina. - Mio marito l'ha provveduta per bene prima di morire. - Ah! ... Vostro marito è morto? - Durante una contesa avuta una sera con un filibustiere. - Pessima gente quei bricconi, - disse don Barrejo. - Ammazzano sempre! ... Quelli sono veri figli di Belzebú. Oh! ... La finiranno anche loro. Señora, un'altra bottiglia del vostro Porto. La vuoterò tutta alla vostra salute, parola di gentiluomo. - Voi, don Barrejo, siete una spugna, - disse il conte. - Io e don Ercole abbiamo battagliato contro le guardie della Capitaneria del Porto, signor di Ventimiglia, e, quando si combatte, la sete viene sempre, almeno ai guasconi. - E anche ai fiamminghi, a quanto pare, - aggiunse Mendoza. Don Ercole, invece di rispondere, si accontentò di versare attraverso la sua bocca di lupo nordico l'ultimo bicchiere rimasto sulla tavola. La taverniera giungeva in quel momento portando un cesto pieno di bottiglie. Il conte aveva già, prima dell'entrata dei due avventori, posato sull'angolo della tavola un bel mucchio di piastre, poteva quindi fornire abbondantemente da bere e realizzare nel medesimo tempo un bel guadagno. - Ora, donna Panchita, parliamo, - disse il conte, mentre Mendoza e don Barrejo continuavano a sturare bottiglie. - Io sono venuto qui per chiedervi una informazione. - A me, signor conte! - esclamò la bella castigliana, con stupore. - Avete molte conoscenze in città. - Sono nata qui. - Avete mai udito nominare un certo don Juan de Sasebo, consigliere dell'Udienza Reale di Panama? La castigliana pensò un momento, poi rispose: - Sí, io ho avuto occasione di fornire a quel consigliere del mio vino. - Quello doveva essere un gran furbo, - disse il guascone. Sapeva dove poteva trovare il buon vino. - Allora voi sapete, Panchita, dove abita, - riprese il conte. - In calle dell'Arameio. - Siete certa di non ingannarvi? - Certissima, signor conte. Sono andata io coi miei due servi a portargli una cinquantina di bottiglie. - Tonnerre! ... Bevono i consiglieri dell'Udienza Reale di Panama! - borbottò il guascone. - E poi danno a me della spugna! ... - È lontana da qui la sua abitazione? - riprese il signor di Ventimiglia. - Si trova di fronte al palazzo del Viceré. - Lo sai tu, Mendoza? - Saprò trovarlo, - rispose il basco. - Che uomo è quel don Juan de Sasebo? _ chiese il corsaro alla bella castigliana. - Sulla quarantina e uomo coraggiosissimo, perché si dice che un tempo fosse stato aiutante di campo del re di Spagna o d'uno dei suoi parenti. - Sapete dirmi altro? - No, signor conte. - Avrete cinquanta piastre per le informazioni datemi. - Voi siete troppo generoso. Che cosa posso fare per voi? - Darci una stanza o due per poterci riposare alcune ore, - rispose il signor di Ventimiglia. - Non ne ho che una, con sei lettucci che in questo momento sono tutti vuoti. - Non chiedo di piú. Il conte si era alzato. I tre avventurieri, che avevano già dato fondo anche a parecchie altre bottiglie, si erano pure levati. L'ostessa accese una candela di sego e salí una scala, introducendo i suoi ospiti in uno stanzone, che era occupato da un bel numero di letti tutti vuoti. Appena entrati, furono colpiti da uno strano fragore che si ripercuoteva al di fuori. - Che cos'è questo? - chiese il conte. - È il fiume che passa proprio sotto la posada, signore, - rispose la castigliana. - E che ci canterà la ninna nanna, - aggiunse il guascone, per farci addormentare piú presto. Badate di non dormire coi due occhi chiusi, - disse il conte. Che cosa temete, signore? Chi mi assicura che gli uomini che avete fugati non tornino per cercarvi? - Tanto peggio per loro, signor conte. Io e don Ercole ci siamo accontentati di battagliare; se ci compariscono dinanzi un'altra volta, li uccideremo, è vero, signor fiammingo? - Certo, - rispose l'omaccione. - E se tornassero in buon numero? - disse Mendoza. - Forse che noi non siamo le quattro piú formidabili lame della filibusteria? - rispose don Barrejo. - Corichiamoci, - disse il conte. - Dormiremo con un occhio aperto. - Buona notte, caballeros, - disse la bella sivigliana. Il guascone fece un galante inchino, dicendo: - Bella signora, io vi contraccambio l'augurio e cercherò di sognare i vostri occhi fulgidissimi. Voi cercate di sognare almeno i miei baffi. L'ostessa scappò via, ridendo, mentre i quattro avventurieri si gettavano vestiti sui letti, mettendosi accanto le spade e le pistole, non essendo proprio sicuri di passare la notte tranquillamente. Purtroppo erano stati buoni profeti! Sonnecchiavano da un paio d'ore, quando furono bruscamente svegliati da alcuni colpi sonori picchiati contro la porta della posada. Il conte ed il guascone erano stati i primi a gettarsi giú dai letti. - Tonnerre! - esclamò quest'ultimo, afferrando la sua draghinassa. Che non si possa dormire cinque minuti a Panama? Queste sono le guardie, - disse il conte, aggrottando la fronte. In quel momento la porta della stanza si aprí e comparve l'ostessa, appena coperta da una manta rigata, in preda ad un vero spavento. - Caballeros, - disse, con voce affannata. - Vi sono giú dieci o dodici guardie del porto, che domandano di perquisire la fonda. - È profondo il fiume? - chiese il conte. - Profondissimo, caballero. - Potete tenere a bada quegli uomini per qualche minuto? - Dirò loro che mi lascino almeno il tempo di vestirmi. - Quella finestra dà sul fiume? - Sí, caballero. - Noi scapperemo di là; ci permettete di rivedervi? - La mia fonda è sempre aperta per voi, signor conte. - Ritorneremo domani sera. Si tolse da una tasca una borsa ben fornita e gliela mise nelle mani, dicendole: - Addio, bella vedova: conto sulla vostra furberia. I colpi risuonavano piú sonori: le guardie picchiavano furiosamente coi calci degli archibugi e colle impugnature delle spade, gridando con voce minacciosa: - Aprite o gettiamo giú la porta! ... Ordine del viceré! Mentre l'ostessa usciva correndo, per rispondere, il guascone spalancò la finestra che dava sul fiume. Un corso d'acqua, piuttosto impetuoso, scorreva sotto la posada, lambendone la parete. Il conte s'affacciò e lanciò un rapido sguardo. - Quello che mi rincresce, - disse, - è di dovere bagnare le pistole. Bah! ... Ci rimarranno le spade, è vero, don Barrejo? - Talvolta sono piú preziose delle armi da fuoco, perché almeno sono piú sicure, - rispose il guascone. - Sapete tutti nuotare? - Tutti! - risposero ad una voce i tre avventurieri. - Saltiamo, prima che le guardie buttino giú la porta. - A me prima, signor conte, - disse il guascone. Salí sul davanzale, si assicurò bene la draghinassa e saltò risolutamente nel fiume, il quale scorreva quattro metri piú sotto. - È profonda l'acqua? - chiese il conte, quando lo vide ricomparire. - Si nuota magnificamente, - rispose il guascone. - Giù tutti! Uno dietro all'altro saltarono e trovarono tanta acqua da sprofondare, senza toccare il letto del fiume e da ritornare, senza incidenti, a galla. La corrente, che era rapidissima, li prese e li trascinò via. Erano però tutti abilissimi nuotatori e, quantunque i gorghi cercassero di quando in quando di subissarli e di attirarli nei loro giri vorticosi, dopo quattro o cinquecento metri presero terra a breve distanza l'uno dall'altro. - Con una notte cosí afosa, un bagno non fa veramente dispiacere, disse Mendoza. - Specialmente quando salva la pelle, - aggiunse il guascone, il quale si stringeva addosso i panni per sbarazzarsi dell'acqua che li inzuppava. Il conte si era affrettato a salire la riva, per vedere dove avevano approdato. Si trovavano sul margine d'una piantagione di zucchero, coperta di canne altissime le quali potevano offrire un ottimo rifugio. Era molto difficile che le guardie andassero a scovarli fino là, quindi pel momento nulla potevano temere. - Che cosa faremo, ora? - chiese il guascone. - Qui non vedo né una posada, né una taverna, né una venta. - Vorreste bere ancora, don Barrejo? - chiese il conte. - Eh! ... Se fosse possibile vuotare qualche bottiglia di Alicante per asciugarsi piú presto, non ne sarei dispiacente, - rispose il guascone. - Succhiate una canna da zucchero. Qui ve ne sono delle centinaia di migliaia. - Le lascio ai fanciulli, signor conte. - Allora aspettate che il sole vi asciughi. Noi non possiamo rientrare in città, inzuppati come siamo. E poi non dimenticate che oggi o questa sera dovremo fare una visita. - Ad una taverna? - A don Juan de Sasebo. - Volete proprio vederlo? - Se il marchese di Montelimar non mi ha ingannato, mia sorella si trova nelle mani di quel consigliere. - Allora andremo a prenderlo pel collo e, se resisterà, stringeremo forte. Io mi domando che cosa faremo noi, intanto? - Guardate ed imitatemi, - disse Mendoza. Estrasse la draghinassa e cominciò ad abbattere le canne, formandone in terra un fitto strato. - Signor conte, - disse poi. - Potete coricarvi e terminare il sonno cosí malamente interrotto dalle guardie. Qui nessuno verrà di certo ad importunarci. Il guascone ed il fiammingo non avevano indugiato a fare altrettanto, sicché in pochi minuti si prepararono un giaciglio, se non troppo comodo, per lo meno bene asciutto. - Dormiamo, in attesa che il sole renda le nostre vesti almeno un po' presentabili, - disse il conte. Si gettarono sullo strato di canne, uno presso all'altro ed essendo la notte caldissima non tardarono ad addormentarsi, quantunque fossero ancora inzuppati d'acqua. Quando si svegliarono, le loro vesti erano perfettamente asciutte ed il sole già molto alto. La piantagione era sempre deserta, non essendo ancora giunto il momento di procedere al taglio della preziosa canna. - Andiamo a fare una prima esplorazione in città, - disse il conte. - Voglio assicurarmi se veramente il consigliere abita là dove ci ha indicato la bella castigliana. Siate prudenti e non commettete gradassate: lo dico specialmente a voi, don Barrejo. - Sí, prometto di essere tranquillo come un agnello dei Pirenei, - rispose il guascone. - No, come un montone, - disse Mendoza. - Vada anche pel montone! ...

. - E che si lasciano derubare come pecoroni, - rispose il guascone, - perché tu sei il piú grande ladro che io abbia conosciuto sulla terra. - A me, ladro! - strillò il taverniere, inferocito. - Ora ti accoppo! Aveva fatto un altro passo innanzi, minacciando di far uso della sua casseruola. Il guascone che doveva aver perduto l'orientazione dopo le copiose bevute, trasse con un gesto maestoso la sua draghinassa e si mise bravamente in guardia, dicendo a Mendoza: - Avanti i guasconi! Il lupo di mare rimase tranquillamente seduto dinanzi alla sua tazza, ancora quasi piena, dicendo: - Ma che! ... Io sono un basco che abita dall'altra parte del mar di Biscaglia! Don Barrejo fece una smorfia, poi si slanciò come un toro furioso contro il taverniere, vociando come un ossesso: - Largo ai guasconi! La sua draghinassa piombò con un fragore assordante sulla casseruola, facendola saltare dall'altra parte della sala con un fragore assordante, poi si precipitò contro l'aiutante che aveva ancora infilzata l'anitra nello spiedo. Levargliela di colpo con una puntata meravigliosa e gettarla sul tavolino, proprio dinanzi a Mendoza, fu l'affare d'un momento. - Per la cena, compare! - gridò. - Lo Xeres mi ha messo indosso un appetito sorprendente. La mangeremo quando avrò accoppata tutta questa gente. Ecco quello che sanno fare i guasconi! Gli aiutanti ed il taverniere, spaventati dall'aspetto terribile del formidabile spadaccino, erano scappati piú che in fretta in cucina, gettando gli spiedi; però non era scappato l'uomo barbuto, un vero tipo d'avventuriero giunto forse dal Perú o dal Messico. - Señor, - disse, facendosi innanzi e sguainando a sua volta la sua draghinassa. - Contro i cuochi del taverniere combattete meravigliosamente e fate fuggire perfino le casseruole. E le spade? Vorrei vedervi se sareste capace di fare altrettanto. Ci avete fatto ridere ed ora cominciate ad annoiarci. O uscite, o vi accenderemo qui dei ceri. Mendoza, che fino allora aveva riso, si era alzato, snudando rapidamente la sua spada. Don Barrejo, accortosene, si volse verso di lui, dicendogli: - Ohé, compare, lasciate fare ai guasconi. I baschi verranno dopo se ve ne sarà bisogno. - Voi avete bevuto troppo e un colpo di spada piomba senza accorgersene. - Vi darò ora, compare, una solenne smentita. L'omaccio barbuto buttò a terra la sua draghinassa, dicendo con voce irata: - Mi pare che si chiacchieri troppo qui. Sareste voi invece i pappagalli? - Se non sono sordo, voi avete detto ad un guascone del pappagallo! - gridò don Barrejo. - Guascone o non guascone, vi dico che se non siete un pappagallo sarete di certo una scimmia rossa! - urlò l'avventuriero, impazientito. - Avete udito, compare? - chiese il guascone, volgendosi verso Mendoza, il quale frenava a stento le risa. - Ci ha chiamato scimmie rosse. - Voi solo, per ora, - rispose il filibustiere. - Lo dico anche a voi, - disse l'avventuriero irritato. - Avete udito, compare? - chiese il guascone. Mendoza posò la spada sulla tavola e levò di sotto la casacca una navaja, aprendola. Fra il profondo silenzio che regnava nella sala, disse con voce grave: - Se il mio amico non vi getterà a terra, quest'arma, che non è lunga nemmeno un terzo della vostra spada, vi spaccherà la gola. Parola di basco! ... - Uh! che spacconi! - gridò l'avventuriero. - Ohé, compare, aspetterete prima che gli tagli la barba, disse il guascone. - Potrebbe far deviare la lama. - Io però prima ti metterò in bocca le budella! - I guasconi non hanno mai mangiato di questa roba, rispose don Barrejo. - Finitela, cialtrone! - A me cialtrone! - Buffone! - A me buffone! - Pauroso! - Un guascone! - Vieni avanti furfante! - Ecco che ti faccio la barba! Il guascone si era slanciato innanzi, colla draghinassa tesa, minacciando di passare da parte a parte l'avventuriero. Questi aveva fatto subito un salto indietro, mettendosi in guardia. - Tu non sei uno spadaccino, - disse il guascone. - Tu credevi di aver dinanzi qualche indiano e non un maestro d'armi. Allunga un po' la gamba destra, per Bacco! ... Quella lí è la guardia d'uno scolaro. - Canarios! Prendi questa! ruggí l'avventuriero, tirando un colpo furioso. Il guascone fu lesto a parare. - Non è cosí che si attacca, - disse don Barrejo. - Il vostro maestro non valeva niente: era un vero asino. - Pretendete d'insegnare la scherma a me? - urlò l'omaccione barbuto, sbuffando. - Un guascone insegna la scherma a tutti gli spadaccini del mondo, esclusi gl'italiani. Ah! ... Quelli sono veramente terribili e fanno sudare a freddo ed a caldo. - Tirate, invece di chiacchierare, scimmia rossa! I bevitori, che si erano addossati alle pareti per non prendersi qualche colpo di draghinassa, per la terza volta scoppiarono in una clamorosa risata. Il guascone li guardò trucemente. - Silenzio o dopo verrà la vostra volta, - disse. - Le scimmie rosse talvolta sono pericolosissime. - Ma basta, chiacchierone! - urlò l'avventuriero. - Tirate o vi faccio portare da bere. - Fate pure, però vi avverto che vuoterò la coppa dopo d'avervi tagliata la barba e d'aver spillato un po' del vostro sangue. Quella gamba è sempre fuori di posto! ... Allungatela dunque un po' piú! ... - Questo è troppo! ... - È ancora poco: alzate la mano sinistra. Che diavolo! ... Il vostro maestro non valeva nemmeno un fico secco. La risposta fu un'altra terribile stoccata, che avrebbe indubbiamente passato il guascone da parte a parte, se non fosse stato lesto a parare anche quella. - Ecco una bellissima botta, - disse don Barrejo. - Il vostro maestro non era un vero asino. - Era del Brabante, - disse l'avventuriero. - Scuola fiamminga: ottima, non c'è che dire. Siete anche voi del Brabante? - Certo. - Toh! ... Ed io che vi avevo preso per uno spagnuolo autentico. - No, sono fiammingo. - Non mi rincresce di saperlo, - disse don Barrejo, sempre calmo. - Quella scuola non la conoscevo prima di questo momento. Date un'altra stoccata dunque. - Credete di essere in una sala d'armi? Badate che io intendo di uccidervi. - Fate pure, senza preoccuparvi della mia persona, - disse don Barrejo. - Allora parate anche questa! Il guascone aveva fatto un salto indietro, guardando con un certo stupore il suo avversario. - Questi sono colpi maestri, - disse. - La faccenda comincia a diventare un po' seria. In gamba, guascone! L'avventuriero tornava alla carica, premuroso di finirla con quell'indiavolato chiacchierone. Tirò una dietro l'altra quattro o cinque stoccate, con rapidità fulminea, poi, non essendo riuscito nel suo intento, fece passare la draghinassa dalla mano destra a quella sinistra, dicendo al guascone, che aveva sempre parato con un'abilità straordinaria: - Ora vi darò la botta segreta che mi ha insegnato quell'asino, come voi l'avete chiamato, del mio maestro. Poi, volgendosi verso il taverniere ed ai suoi aiutanti che stavano impalati sulla porta della cucina, aggiunse: - Preparate i ceri pel signore: fra mezzo minuto quest'uomo sarà morto! Il guascone ebbe un moto di collera. - Tonnerre! - esclamò. - Volete spaventarmi? Se non fossi un guascone vi confesso, signor uomo barbuto, che le vostre lugubri parole mi avrebbero sinistramente impressionato. Poi, guardando il taverniere che era ritornato tenendo nelle mani due candele, gli disse: - Lasciate pure i ceri in cucina per ora: vivaddio sono ancora vivo e non sono ancora ben certo che la draghinassa del signore spacchi in due la mia carcassa. Non sono già fabbricato con mollica di pane io e qui dentro vi sono delle ossa e ossa guascone. - Spaccone! - gridarono gli avventurieri ed i borghesi. Mendoza impugnò la spada e, muovendo verso di loro, disse con voce grave: - Silenzio, voi! ... Qui vi sono in giuoco due vite umane e non dovete parlare. Don Barrejo: in guardia! ... - Lasciate fare a me, compare, - rispose il guascone. - Sono molto curioso di conoscere queste famose bòtte segrete dei maestri fiamminghi. Quando tornerò in patria le insegnerò ai miei amici. La calma meravigliosa del terribile spadaccino aveva impressionato i bevitori. Un profondo silenzio regnava nella taverna. Si sarebbe detto che tutti trattenevano il respiro per non turbare i due avversari. L'omaccio barbuto si era messo in guardia, piegando le ginocchia e aggomitolandosi quasi su sé stesso, per non offrire forse troppo bersaglio al guascone. La sua draghinassa stava tesa, in linea diritta; senza la piú piccola oscillazione. Studiava certamente il suo colpo misterioso. Don Barrejo lo fissava intensamente, come se cercasse di leggergli dentro gli occhi la stoccata che stava meditando. Aveva presa la guardia di seconda, scoprendosi tutto. - Deve essere ben sicuro di sé stesso, - mormorò Mendoza, che era pure un bravissimo spadaccino, - per esporsi in tale modo. Che faccia un arresto? Il fiammingo continuava ad abbassarsi verso terra, anzi aveva appoggiata la mano sinistra sul pavimento di legno, come se avesse voluto tentare il famoso colpo del cartoccio e s'allungava innanzi, tenendo sempre la draghinassa in linea. Il guascone seguiva attentamente tutte quelle mosse misteriose, domandandosi, non senza una certa inquietudine, che specie di colpo stava per portargli quell'uomo barbuto. Certo avrebbe preferito un attacco furioso, accompagnato da urla e da gran colpi. Nondimeno quell'accidente d'uomo conservava una calma ammirabile e non staccava un solo istante i suoi sguardi da quelli del fiammingo. Si sarebbe anzi detto che cercava di affascinarlo come i serpenti affascinano i piccoli volatili. Nella sala continuava a regnare un assoluto silenzio. Tutti attendevano con ansietà quel terribile colpo che doveva, probabilmente mandare all'altro mondo uno o l'altro dei due avversari. Ad un tratto il fiammingo, che non aveva cessato di abbassarsi contro il pavimento, allungandosi come un crotalo, scattò con impeto terribile. La sua lama scintillò un momento solo e andò a colpire il guascone, non già verso il cuore, bensí verso il basso ventre. Si udí un colpo secco e con immenso stupore di tutti la draghinassa del fiammingo, invece di squarciare gl'intestini di don Barrejo, saltò verso il fondo della sala, spaccando alcune bottiglie che si trovavano su un tavolo. Il fiammingo si era prontamente rialzato, guardando con spavento il guascone, il quale rideva a crepapelle, mentre gli spettatori prorompevano in un applauso fragoroso, gridando: - Bella parata! ... - Meravigliosa! ... - Siete un famoso spadaccino! ... - Offriamogli da bere, caramba! ... L'uomo barbuto, rosso di collera, s'avvicinò al guascone, dicendo: - M'avete vinto: uccidetemi! ... - Ma che! ... Non ammazzo nemmeno i mosquitos io, eppure quelli qualche volta non mi lasciano dormire. Che cosa volete che ne faccia della vostra pelle, io? Fosse quella d'un giaguaro o d'un coguaro varrebbe almeno qualche cosa; quella umana non può servire che agli antropofaghi del Darien e quelli sono un po' troppo lontani. - Siete una piazza inattaccabile, voi? - Una roccia guascone, - rispose don Barrejo. - Che cosa posso fare ora per voi? Riprendere la mia draghinassa e ricominciare il duello? - Adagio, caballero, - disse il taverniere, avanzandosi. - Voi non riavrete la vostra spada, se prima quel signore là non mi pagherà le quattro bottiglie d'aguardiente e le due di malaga autentica che mi ha spezzate. - Chi è quello là? - chiese il guascone. - Voi. - E volete che io paghi? - Dieci piastre. - Bah! ... Cane d'un ladro! - urlò il guascone. - Ci hai rubato prima un doblone, dandoci da bere dei veleni, ed ora vuoi derubarci ancora? - Basta! - vociò il taverniere, furibondo. - Ne ho fino sopra i capelli di voi! ... Va' fuori, mascalzone! ... - A me! ... - Corpo di Satana! - gridò il fiammingo. - L'oste è diventato matto! Dammi la mia draghinassa o ti getto in aria anche le botti che hai in cantina. - Pagatemi le dieci piastre! - strillò il taverniere. Il guascone fece colla sua draghinassa un terribile molinello, tuonando: - Avanti i guasconi, i baschi ed i fiamminghi! ... Finiamola con quell'impertinente! L'impertinente però, se non era un uomo di spada, non era nemmeno un pauroso, poiché scaraventò addosso ai due filibustieri ed al fiammingo che si era unito a loro, una casseruola, mentre i suoi aiutanti, non meno inferociti di lui, facevano volare piatti e bottiglie, facendo un fracasso infernale. I bevitori, spaventati, temendo di tornarsene a casa colla testa rotta, spalancarono la porta, scappando a tutte gambe. Il guascone, Mendoza ed il fiammingo facevano intrepidamente fronte all'assalto dell'oste e dei suoi quattro uomini, scaraventando sedie e sgabelli in tutte le direzioni, e fracassando fiaschi e bottiglie. Xeres, Malaga, Alicante, Porto e Aguardiente scorrevano sui banchi e sui tavoli, mentre piatti, bottiglie, casseruole, secchi, padelle e spiedi continuavano a volare attraverso la sala, aumentando i danni. - Accoppiamo questi manigoldi! - urlava ferocemente il guascone, il quale battagliava furiosamente contro quella grandine di proiettili, menando colpi di draghinassa. Il fiammingo aveva sradicata una tavola e, dopo averla rovesciata, vi si era nascosto dietro, rimandando al loro indirizzo bottiglie e tondi, con una rapidità prodigiosa, mentre il basco non cessava di lanciare sgabelli. Quella battaglia durava da qualche minuto, quando uno dei bevitori usciti poco prima, rientrò, gridando: - La ronda! ... Scappate! Il guascone afferrò la tavola dietro la quale si riparava Mendoza e la scaraventò contro il taverniere ed i suoi aiutanti, fracassando una cinquantina di bottiglie che stavano allineate sul banco. I cinque uomini, spaventati dal fracasso prodotto da tutti quei vetri, infilarono la porta, urlando a squarciagola: - A noi, guardie! ... Ci accoppano! ... - Scappiamo, - disse il fiammingo. - Signori, vi è un'altra uscita dalla parte della cucina. - Guidateci, - disse il guascone. - E la mia draghinassa? - L'ha portata via quell'oste maledetto. - Furfante! ... - Ve lo avevo detto io che era un ladrone patentato! - disse don Barrejo. - Ci ha rubato un doblone! - Scappiamo! - gridò Mendoza. I tre avventurieri si precipitarono verso la cucina, saltando sopra i tavoli e gli sgabelli che ingombravano il suolo. - Satanasso! - gridò l'uomo barbuto. - Hanno chiusa la porta! ... - Si salta dalla finestra, - disse il guascone. - Ve ne sono due qui, se non m'inganno. Signor basco sfondatene una. - Lasciate a me quest'incarico, - rispose il fiammingo. - Sono forte come un toro! ... - Infatti avete delle buone spalle, molta polpa e molte ossa, disse il guascone. Il fiammingo, vedendo appesa alla parete una grossa mazza di legno che serviva certamente ai cuochi del taverniere per battere le costolette, l'afferrò e percosse cosí furiosamente le imposte d'una finestra, da farle cadere sulla via con un fracasso indiavolato. Quattro o cinque voci si erano subito alzate. - Ohé! ... Volete accoppare la gente? - Che cosa succede in questa taverna, questa sera? - È scoppiata una rivoluzione? Il guascone fu lesto a saltare sul davanzale ed a gettarsi sulla via, cadendo in mezzo ad un gruppo di nottambuli. - Chi siete? urlarono in coro. - Scappate! gridò il guascone. - È fuggito un giaguaro che stava chiuso in una gabbia e sta divorando l'oste! I nottambuli, udendo quelle parole, alzarono i tacchi, scomparendo con velocità fulminea attraverso le viuzze della città. - Voi siete un uomo di genio, - disse il fiammingo, il quale a sua volta era saltato sulla strada. - Chi sarebbe entrato lí dentro, sapendo che vi è un giaguaro? Ah! ... La splendida trovata! Anche il basco aveva fatto il suo salto. - Lasciate i giaguari ed i coguari e giuocate di gambe, - disse. - Volete farvi prendere dalla ronda? - A vento in poppa! - gridò il guascone, allargando le sue lunghissime e magre gambe. - Facciamo correre la ronda. Signor fiammingo, badate che i guasconi ed i baschi sono agili come i cervi. - Lo so, - rispose l'omaccio barbuto, prendendo lo slancio. Si erano messi tutti tre in corsa, seguendo la riva d'un torrentello il quale pareva che tagliasse a metà Pueblo-Viejo. Avevano percorso un due o trecento passi, quando sbucarono in una via trasversale, che era ingombra di persone. Vedendo comparire i tre fuggiaschi, un grido si alzò fra quei nottambuli. - Ecco i ladri! ... - Ferma! ... Ferma! ... - Chiama la ronda! ... - Maledetto oste! - vociò il guascone, sguainando la sua draghinassa. - È sempre fra i miei piedi! ... Ora lo sgozzo come un pollo! ... - Apriteci invece il passo! - gridò il fiammingo, il quale si trovava inerme. Il guascone piombò in mezzo al gruppo, dando piattonate a destra ed a sinistra, mentre Mendoza punzecchiava colla sua spada i piú vicini, urlando: - Largo! ... Largo! ... Abbiamo un giaguaro alle spalle ed è rabbioso! Fu un'altra fuga generale. Il taverniere però, che sapeva di non aver nella sua cantina alcuna bestia feroce, si gettò da un lato, continuando a gridare: - Aiuto! ... I ladri! ... Avanti la ronda! Il guascone ed i suoi due compagni avevano ripreso lo slancio, mentre dalla taverna che era vicinissima, uscirono precipitosamente due alabardieri e due archibugieri difesi da corazze d'acciaio e da elmetti. - Accoppateli! - urlò l'oste. - Sono filibustieri! Non ci voleva di piú per mettere le ali ai piedi della ronda. I filibustieri erano troppo temibili per lasciarli scappare impuniti, sicché i quattro bravi militi si slanciarono dietro ai fuggiaschi, urlando a loro volta: - Ferma! ... Ferma! ... I filibustieri! ... All'armi! ... All'armi! ... - Tonnerre! - gridò il guascone. - Eccoci sulle spalle un grosso affare! ... Gambe, Mendoza! ... Gambe fiammingo! ... - Io non ho i garretti dei baschi e dei guasconi! - brontolò l'omaccio barbuto, il quale soffiava come un mantice. - I fiamminghi non sono cani da corsa! Bene o male, sagrando e sbuffando, teneva però dietro ai lesti figli del mar di Biscaglia, i quali filavano come lepri inseguite dai bracchi. Quella seconda corsa non durò però molto, poiché il guascone, che stava dinanzi a tutti, tutto d'un tratto si fermò, facendo poi tre o quattro salti indietro. - Che cosa c'è? - chiese Mendoza, il quale giungeva buon secondo. - La via è chiusa! - Non c'è un passaggio? - No, compare. - Date la scalata alla casa che ci chiude il passo! ... Ai guasconi nulla è impossibile. - Non sono un gatto. - Allora siamo presi! ... La ronda ci è alle spalle! - disse il fiammingo. - Datemi un spada. - Per cosa farne? - chiese il basco. - Per cacciare la ronda. - E farci fucilare? Contro gli archibugi non valgono le armi bianche. - Io credo, signori, - disse don Barrejo, ringuainando la draghinassa, - che la divertentissima scena finisca proprio in fondo a questa via senza uscita. La colpa è della vostra barba, signor fiammingo. Se voi rimanevate zitto, io accoppavo quel ladrone di taverniere e tutto sarebbe finito lí. - Se l'avessi saputo prima, me la tagliavo, - rispose il fiammingo. - Ecco la ronda, - disse Mendoza, ringuainando pure la spada. Siamo fritti. - Non ancora, compare, - rispose il guascone. - Lasciate fare a me e vedrete che colpo giuocherò io in Pueblo-Viejo! ... - Io sono certo di prendere d'un colpo solo dos paiaros e un golpe come dicono questi spagnuoli. - Signor fiammingo, avete un sigaro? - Dei cubani e dei migliori. - Datemene uno e voi accendetene un altro. Diamine! ... Si può ben fumare in barba alla luna. In quel momento i due alabardieri ed i due archibugieri si precipitarono entro la via senza uscita, gridando con voce minacciosa: - Arrendetevi o facciamo fuoco! ...

Ditemi un po', mio caro amico, sapete che il marchese abbia una figlia? Al Messico si diceva che si fosse sposato segretamente con una principessa, però a me non volle mai confessarlo. - Sicuro che l'ha. - Bella? - Bellissima. - E dove l'ha nascosta: che io non l'ho mai veduta? - Ultimamente l'aveva affidata al mio padrone. - E l'ha ancora? - No, signore, l'ha mandata a Guayaquil, perché erasi sparsa la voce che un famoso corsaro voleva rapirgliela. - Non era sicura in Panama? - Si diceva che i filibustieri si preparavano a tentare un colpo di mano sulla città e, per precauzione, il mio padrone l'ha fatta partire. Anzi io facevo parte della scorta. - Fortezza salda, Guayaquil? - Fortissima, - rispose il meticcio. - Un altro bicchiere, ancora. Voi siete un pessimo bevitore. Ehi, oste dannato, porta delle altre bottiglie ed un canestro di pesci salati. Abbiamo fame e anche molta sete, è vero don Alonzo? Il disgraziato meticcio non si sentí in caso di rispondere. Sempre addossato alla parete, guardava il guascone con due occhi che non avevano piú alcuna espressione. - È finito, - sussurrò don Ercole al guascone. - Pare anche a me. - E la supplica? Aspetta che chiuda gli occhi. Per ora so quanto desideravo. Il trattore aveva portato i pesci salati ed altre bottiglie. Il meticcio ne mangiò qualcuno, bevette un altro bicchiere, poi si abbandonò contro la parete, russando quasi subito. Il guascone ed il fiammingo terminarono tranquillamente la loro seconda colazione, vuotarono coscienziosamente le altre bottiglie, e, dopo d'aver pagato lo scotto, se ne andarono non senza aver raccomandato all'oste di lasciar digerire il vino al povero meticcio, senza disturbarlo. La digestione fu piuttosto lunga, poiché non fu che verso le otto della sera che il servo di don Juan de Sasebo aprí gli occhi. Si guardò intorno, stupito di trovarsi solo. - Ehi, taverniere! - gridò. - Dove sono andati quei signori che mi tenevano compagnia? - Se ne sono andati cinque o sei ore fa, - rispose l'omaccione. - Senza lasciarvi alcuna carta? - No. - Ed un gruzzolo di piastre da consegnare a me? - Hanno pagato il conto e nient'altro. Quantunque avesse il cervello ancora un po' annebbiato pel troppo vino ingollato, il disgraziato ebbe un lampo di lucidità. - Che cosa ho fatto io, sciagurato! - esclamò. - Quei due individui erano certamente due nemici del mio padrone e mi hanno condotto qui per farmi cantare su cose che forse li interessavano ed io, stupido, sono caduto nella trappola. Correrò a narrare tutto al mio padrone. Mi ricordo ancora quello che mi hanno domandato, malgrado il gran vino bevuto. Furfanti! ... M'avete derubato delle piastre, ma io ve le farò pagare. Uscí dalla fonda come un pazzo e dieci minuti dopo don Juan de Sasebo che stava nel suo gabinetto, conosceva quanto era accaduto al disgraziato. Il marchese di Montelimar era presente alla narrazione. - Tu sei un miserabile! - urlò il Consigliere, quando il meticcio ebbe finito di raccontare la sua gita alla fonda. - Tu meriteresti di morire sotto la frusta, canaglia! ... - Ammazzatemi pure, - rispose il servo, il quale si strappava a ciocche a ciocche i suoi capelli lanuti. - Sí, sono stato un miserabile. - Un asino! ... Un bue! ... - Sí, un bue, padrone. - Quest'uomo ci ha traditi, - disse il Consigliere, volgendosi verso il marchese di Montelimar il quale fumava flemmaticamente un grosso sigaro, sdraiato su una soffice poltrona coperta di pelle rossa di Cordova con grosse bordure dorate. - Adagio, amico, - rispose l'ex-governatore di Maracaibo. Questa avventura potrebbe invece portarci fortuna. - Tu lo credi? - Udiamo un po', Alonzo, - riprese il marchese, senza rispondere al Consigliere. - Uno di quei due uomini era alto, magro, assai bruno, con due baffi neri, assai rialzati e due occhi piccoli e scintillanti? - Sí, Eccellenza. - E portava alla cintura, invece d'una spada, una draghinassa, vero? - Verissimo, Eccellenza. - Lo conosci tu? - chiese il Consigliere. - È il braccio destro del conte di Ventimiglia, - rispose il marchese. - Sono ben audaci quei furfanti! D'altronde nulla è perduto, anzi io credo che questa avventura ci gioverà. Giacché quell'imbecille di Valiente con tutte le sue spacconate si è fatto stupidamente ammazzare, noi organizzeremo una vera caccia al conte. È piú facile coglierlo in aperta campagna che in Panama, dove può trovare mille rifugi. Metti a mia disposizione cinquanta cavalieri scelti e vedrai che io coglierò quei corsari, prima che v edano le mura di Guayaquil. - Anche cento, se ne vuoi. - Non troppi: pochi ma coraggiosi, e poi i filibustieri non sono che in quattro, e per quanto valenti, non potranno tenere testa ad un mezzo squadrone ben montato e bene armato. - Chi guiderà la spedizione? - Io, - rispose il marchese. - Voglio finirla una buona volta con quel conte, il quale turba continuamente i miei sonni. Se non è il diavolo in persona, non mi sfuggirà. - Credi tu che siano già sulla strada di Guayaquil? - Ne sono certissimo. - Quando conti di partire? - Prima della mezzanotte. Manda i tuoi scudieri a reclutare gli uomini che mi sono necessari e bada soprattutto che i cavalli siano ben riposati e di prima qualità. - Fra un'ora il mezzo squadrone sarà dinanzi alla porta del mio palazzo, - rispose il Consigliere alzandosi.

- Non vi hanno detto che quelle barcaccie sono montate da biscaglini, i migliori marinai che abbia la Spagna? - Basterà per oggi anche contro di loro. - Badate che lavori bene, perché si dice che in quelle navicelle vi sia una grossa provvista di corde. - Che dovranno servire? - Ad appiccarci, se ci prendono vivi. - Dite sul serio? - Lo hanno confessato i prigionieri della fregata, - rispose Mendoza. - Oh! ... I bricconi! ... - Il viceré di Panama è stanco di noi ed ha giurato di farci fare l'ultima danza, appesi ai pennoni. - Brutto ballo, - disse il fiammingo, il quale si trovava presente. - Infatti non deve essere molto piacevole, - rispose il guascone. Mi raccomanderò alla mia draghinassa. - Sapete però che cosa hanno deciso i filibustieri? - Di adoperarle per legare come salami i prigionieri. - Niente affatto: di servirsene per far danzare sui pennoni, o meglio sotto i pennoni, gli equipaggi delle barcaccie. - Non li abbiamo ancora presi. - Eh! ... aspettate un po'. La fregata era giunta allora a buon tiro. Le due barcaccie, ingannate dallo stendardo che sventolava sempre sul corno dell'artimone, non avevano cessato di avanzarsi. Un comando breve, secco, echeggiò sul ponte della nave predata. - Fuoco di bordata! In un lampo la bandiera di Spagna viene ammainata e sostituita dagli stendardi di Francia e d'Inghilterra, e una tempesta di palle prende d'infilata le due barcaccie, disalberandole e rasandole come due pontoni. Una barcaccia s'incendia e brucia come un pezzo di legno secco e le polveri scoppiano con fracasso orrendo, scaraventando in alto la coperta, sventrando la poppa e sfondando le murate di babordo e di tribordo. L'altra però tiene vigorosamente testa all'attacco, cannoneggiando furiosamente coi due soli pezzi che aveva a bordo. La lotta non dura che pochi minuti, poiché in aiuto dei filibustieri accorrono anche i due vascelli, i quali fanno un fuoco infernale sulle due disgraziate navicelle. Quella che brucia va a fondo e nessuno degli uomini che la montano sfugge al disastro, l'altra viene abbordata e presa dopo un brevissimo combattimento. Ventidue filibustieri però cadono gravemente feriti e fra di loro Tusley, il quale doveva morire qualche giorno dopo avendo ricevuto una palla avvelenata. I filibustieri, furiosi per le gravi perdite subite e per aver trovato tante funi destinate ad impiccarli, non ostante le proteste del conte di Ventimiglia, non lasciano vivo nemmeno uno dei prigionieri che montavano la seconda barcaccia. Superbi di tanta fortuna, lo stesso giorno si ritirarono a Taroga per deliberarvi sul da farsi, avendo saputo che non uno bensí cinque dei loro compagni si trovavano prigionieri a Panama, soggetti a durissima schiavitú. Era loro intenzione di muovere audacemente sulla ricca città e di tentarne l'assalto. Ma avendo appreso che una forte squadra aveva lasciato i porti del Perú e che moveva in cerca di loro per finirla una buona volta, decisero di mandare un messo a Panama e d'intimare al Presidente dcll'Udienza Reale la pronta restituzione dei cinque prigionieri e della figlia del Corsaro Rosso, minacciando, in caso di rifiuto, di uccidere, per ognuno di essi, quattro spagnuoli dei tanti che tenevano nelle loro mani. Il Presidente manda ai filibustieri un ufficiale per dire loro a voce che nulla poteva fare e nel medesimo tempo ricorre al vescovo di Panama per tentare se il suo carattere potesse avere qualche efficacia, almeno sui francesi che si piccavano di mostrarsi sempre cattolici. Il vescovo scrisse infatti dicendo che il rifiuto del Presidente da non altro dipendeva che dalla obbedienza che egli doveva agli ordini sovrani, i quali gli proibivano una tale sorta di scambi ed avvertendoli nell'istesso tempo che quattro prigionieri inglesi si erano ormai convertiti al cattolicismo e che erano decisi a rimanere cogli spagnuolí. Quelle risposte, come si può ben comprendere, non erano sufficienti per persuadere quei formidabili corsari. In un altro consiglio decisero di rimandare un altro prigioniero a Panama affinché avvertisse anche a voce il Presidente che erano piú che mai risoluti a massacrare i trecento spagnuoli che tenevano nelle loro mani, anche per vendicarsi delle palle avvelenate usate dagli archibugieri della fregata, le quali avevano causata la morte di Tusley e dei ventidue feriti. Per fare maggior impressione, decapitarono venti prigionieri estratti a sorte e mandarono le teste a Panama. Un tale atroce fatto indusse il Presidente a non piú tardare a mettere in libertà quei prigionieri ed a pagare diecimila piastre. Nel numero mancava però la figlia del Corsaro Rosso. Fu un'esplosione di collera terribile, poiché i filibustieri ci tenevano soprattutto ad avere la fanciulla, perché ormai riguardavano il conte di Ventimiglia come il loro vero capo. Il progetto di trucidare tutti i prigionieri spagnuoli, compreso il marchese di Montelimar, per un momento trionfò ... - Mandate la testa dell'ex-governatore di Maracaibo al Presidente dell'Udienza Reale di Panama, - avevano detto Grogner e Raveneau de Lussan, che parevano i piú inferociti. - Diamo una terribile lezione a quegli uomini che usano contro di noi palle avvelenate, cosa contraria a tutte le leggi della guerra! ... - No, - aveva risposto fermamente il conte. - Io vi lascio liberi e mi risolvo ad andare a Panama a cercare mia sorella. Se avrò bisogno di voi, non dubito che voi accorrerete tutti in mio aiuto. Mettete a mia disposizione una barcaccia, affinché possa avviarmi alla costa ed uno schifo per entrare inosservato in porto. La testa del marchese di Montelimar risponderà della mia vita.

Abbia pur nelle vene sangue indiano, è sempre mia sorella e la troverò, o vivaddio rinnoverò le gesta dei tre corsari e non tornerò in Europa senza prima aver compiuto terribili vendette. - Vorreste vendicare anche la morte di vostro padre? - disse la marchesa, la quale l'aveva ascoltato col piú vivo interesse. - Su questo argomento, marchesa, per il momento non posso parlare - disse il conte quasi con ira. - Lo leggo nei vostri occhi. - Può essere. - E questa vostra sorella dove l'anderete a cercare? - disse Buttafuoco, il quale fino allora era rimasto silenzioso. - Il marchese di Montelimar me lo dirà - rispose il conte. - Ormai so dove si trova; poi spero d'avere, fra qualche giorno, nelle mie mani il suo segretario. Se non fosse per questo, la mia fregata non mi aspetterebbe al capo Tiburon, a rischio di essere catturata dai galeoni o dalle caravelle spagnuole. Che cosa ne dite, Buttafuoco? Il bucaniere approvò con un gesto del capo. - Siete soddisfatta, marchesa? - chiese il conte. - Forse non quanto desidererei - rispose la bella andalusa.- Credo che non solamente per ritrovare vostra sorella voi abbiate lasciato l'Italia e siate venuto in questi mari lontani. - Mio padre ed i suoi fratelli diventarono corsari per compiere delle vendette - rispose il conte con voce sorda. - È probabile che anch'io debba compierne una; ma questa, signora, deve rimanere un segreto fra me e Dio. Il bucaniere riempí il bicchiere del conte, dicendo: - Bevete, signore: l'aguardiente sopisce e soffoca in me, piú di quello che credete, terribili ricordi: questo delizioso vino di Spagna calmerà i vostri. In quello stesso momento in cui il conte, forse convinto dalle parole del misterioso avventuriero, stava per vuotare la tazza, un negro si precipitò nel porticato, col viso sconvolto, la pelle grigiastra, gli occhi di porcellana dilatati, dicendo: - Sono qui, signora: sono entrati. - Chi? - chiese la marchesa aggrottando la fronte. - Una cinquantina intera. - Con qual diritto? - Ordine del governatore di San Domingo. - Comincia a diventare noioso quel signore! - disse la marchesa alzandosi. - Amici, non sarebbe prudente che voi rimaneste ancora qui. Ci hanno interrotta una notte deliziosa, ma io no ne ho nessuna colpa ... Marto, chiama subito gli uomini che cenano sulla terrazza. - Che cosa volere fare, Marchesa? - chiese il bucaniere. - Nascondervi. - Nella vostra palazzina? Con un ordine del governatore non si tratterranno dal frugarla da cima a fondo. La signora di Montelimar ebbe un sorriso. - Lasciate fare a me, conte - disse. - Avete qualche nascondiglio segreto anche qui? - Vi mando nelle mie cantine. - Bel luogo! - disse Mendoza che entrava in quel momento, seguito dal guascone. - Marto, conduci questi signori nell'ultima cantina, quella che è piena di botti. Gli spagnuoli non giungeranno fin là; rispondo io di tutto, conte. I quattro uomini seguirono il servo negro, il quale si era munito di parecchie torce e d'un paniere dove aveva messo i resti della cena. Giunti all'estremità dell'ampio cortile Marto aprí una porticina e li fece scendere per una scaletta stretta e umida, e li condusse poi attraverso spaziose cantine piene di botti grossissime. - Compare, - disse il guascone battendo sulle spalle di Mendoza - giú vi è da bere a crepapelle. - E noi berremo! - rispose il filibustiere. - Ne assaggeremo un po' da tutti quei recipienti. La marchesa non deve bere che del vino delle Canarie o di Alicante. Attraversate parecchie cantine, giunsero finalmente nell'ultima, assai lunga e stretta, e anche quella ingombra di botti e di barili. - È un paradiso un po' oscuro, ma pur sempre un paradiso, - disse Mendoza, facendo schioccare la lingua. - Passate, signori, - disse il negro - perché devo ostruire l'entrata con dei barili. - Non ci seppellirai vivi, spero - disse il guascone. - Non abbiate questo timore - rispose l'africano sorridendo. Il conte, Buttafuoco e i due avventurieri s'affrettarono a rifugiarsi nella cantina, portando le torce, gli archibugi ed il paniere, mentre Marto spingeva contro l'apertura, molto bassa e molto stretta, una grossa botte, ostruendo e nascondendo completamente il passaggio. - Speriamo che questa avventura sia l'ultima! - disse il conte, dopo aver piantata in terra una torcia. - Che ne dite, Buttafuoco? - Eh! - rispose il bucaniere, il quale non sembrava molto tranquillo. - Non so se la marchesa potrà resistere ad un ordine scritto dal governatore di San Domingo. - Che ci vengano a scovare? - Non saprei che cosa rispondere alla vostra domanda, signor conte. - Se verranno, ci difenderemo - disse Mendoza. - Qui siamo come in una casamatta. - Ma senza uscite - aggiunse il guascone. - Noi siamo come lupi rinchiusi nella loro tana con i cacciatori all'ingiro. - In attesa che i cacciatori si mostrino o si ritirino, io avrei una proposta da fare - disse Mendoza. - Quale? - chiese il conte. - Di terminare la cena, giacché quel bravo pagano dell'Africa ha avuto la buona idea di empire il canestro; e poi di assaggiare il vino di questa botte. Sono curiosissimo di sapere quali vini beve la marchesa e quali offre ai suoi ospiti. Vi pare, don Barrejo? - Un guascone non rifiuta mai di bere! - rispose l'avventuriero, con sussiego. - Signore conte, - disse Buttafuoco, il quale non aveva potuto frenare uno scoppio di risa - dove avete raccolti questi due diavoli? - Uno l'ho pescato nel mar di Biscaglia - rispose il signor di Ventimiglia. - E me fra i boschi di San Domingo, presso Puerta del Sol aggiunse il guascone. - Ma anch'io ho respirato l'aria salubre del mar di Biscaglia. Compare, terminiamo la cena, se il signor conte ce lo permette: io non ho avuto che il tempo di assaggiare una costoletta di cinghiale, coriacea come la carne d'un mulo centenario. - Fate pure - disse il signor di Ventimiglia. - Io preferisco, finché gli spagnuoli ci lasciano un po' di respiro, chiudere gli occhi. - Ed io altrettanto - aggiunse il bucaniere. - Se si dovrà impegnare nuovamente la lotta, saremo almeno riposati. Affidiamo a voi la guardia. - Un guascone non s'addormenta mai in faccia al nemico - disse don Barrejo. - E nemmeno un basco! - aggiunse Mendoza. - Si sono ben appaiati - brontolò il bucaniere. Il conte si era già coricato fra due botti ed aveva subito chiusi gli occhi. Buttafuoco non tardò ad imitarlo, mentre il filibustiere ed il suo degno compagno si accoccolavano intorno al canestro, pescando e divorando quanto vi era dentro, per nulla preoccupati dell'imminente pericolo che li minacciava. - Sapete, don Barrejo, che voi resistete meravigliosamente al sonno? - disse Mendoza, quando non vi fu piú nulla da porre sotto i denti. - E che! ... Un guascone! ... - Questi guasconi sono dunque delle macchine? - Quasi, compare. - Se provassimo la nostra resistenza al vino? - Era quello che volevo proporvi. Quel brutto negro si è dimenticato di mettere delle bottiglie nel canestro. Ma non valeva la pena che s'incomodasse; non siamo qui in una cantina marchionale? Sono qualche volta una bestia, compare - disse l'avventuriero. - Quantunque guascone! ... - Eh, qualche volta anche noi diventiamo bestioni; ma io rimedio subito ... - Guardate che bella pancia ha quel bottale! ... Scommetterei che contiene dello Xeres. - No, dell'Alicante. - Ma che! ... Xeres. - Me ne intendo io di vini di Spagna! - Anche senza assaggiarli? ... Compare! ... Voi siete un uomo meraviglioso! ... Scommettiamo uno dei vostri dobloni? - Vada per il doblone, - rispose don Barrejo, - Si troverà meglio nelle vostre tasche che in quelle degli spagnuoli. Spillate, compare, vedremo chi avrà ragione. Mendoza, che aveva già adocchiato un grosso boccale di terra, nascosto sotto una trave e che serviva probabilmente ai cantinieri per gustare il vino della marchesa all'insaputa dell'intendente, andò a spillare il panciuto recipiente, facendo uscire un bel rivoletto color dell'ambra. - Caramba! - esclamò il marinaio. - Voi avete una fortuna indiavolata, signor Barrejo. Questo è vero Alicante! ... Che i guasconi abbiano anche un fiuto meraviglioso? - Non manca nulla a noi, caro compare! Avete perduto il doblone. - Che vi pagherò quando saremo a bordo della fregata, se ci riusciremo. Il guascone fece una smorfia, poi alzò le spalle. - Bah, - disse - mi consolerò con questo deliziosissimo Alicante. Sentite che profumo, compare? La signora marchesa di Montelimar sa dove fare i suoi acquisti. Su, bevete e passate. Volete farmi morire di sete? - No, prima al vincitore! - rispose serio Mendoza, porgendo la brocca. Il guascone l'afferrò, allargò per bene le gambe e si mise a bere a garganella, senza nemmeno prendere respiro. - Carrai! - esclamò il filibustiere, facendo un gesto di spavento; - Volete ubriacarvi, don Barrejo? - Bah! ... Un guascone? ... - rispose l'avventuriero staccando per un momento le labbra. - Al diavolo tutti i guasconi! ... Io mi attaccherò alla botte e vedremo chi berrà piú a lungo. Il degno lupo di mare imboccò lo spinello e per parecchi minuti nella cantina non si udí altro rumore che quello prodotto dal gorgoglio del vino che passava attraverso le gole dei due formidabili bevitori. Chi sa quanto quel leggero rumore sarebbe continuato, se un improvviso sussurrio di voci, che proveniva dalle ampie cantine, non l'avesse interrotto. Il guascone aveva lasciato cadere il boccale senza averne veduto il fondo, mentre Mendoza chiudeva rapidamente la cannella della botte, dicendo precipitosamente al compagno: - Spegnete la fiaccola. Il guascone si affrettò ad obbedire. - Che stiano per scoprirci? - chiese il lupo di mare. - Della gente scende nelle cantine, - rispose don Barrejo, accostandosi alle botti che ostruivano l'entrata. - Vedo delle torcie brillare. - Sacco rotto! ... Che questa bevuta di Alicante ci porti sfortuna? ... Era proprio Alicante, è vero, don Barrejo? - Per Bacco! ... E del piú fino, - rispose l'avventuriero. - Peccato che siano venuti a guastarci la bevuta. Potevano aspettare un momento, diavolo! ... Svegliamo il conte? - Non credo che pel momento sia necessario, - rispose Mendoza. - Aspettiamo di vedere quello che succede. Forse avremo ancora l'occasione di riprendere la nostra bevuta senza incomodi testimoni. Ventre di foca! ... Sono proprio gli spagnuoli. Guardate, don Barrejo. S'avvicinarono entrambi alle botti che occupavano, anzi che nascondevano la porta e spinsero gli sguardi attraverso le fessure lasciate dai grossi recipienti che Marto aveva fatti rotolare. Quattro servi della marchesa, tutti schiavi negri, guidati da Marto in persona, erano entrati nella cantina, seguiti da una dozzina di archibugieri spagnuoli i quali portavano delle torcie. - Ohé, compare, - disse Barrejo, - va bene essere guasconi e baschi, ma mi pare che la faccenda diventi un po' seria. - Forse meno di quello che credete, - rispose Mendoza. - Non vedete che invece di frugare le cantine s'attaccano alle botti? Scommetterei un mezzo doblone contro cento che quei bravi armigeri sono piú assetati di noi! ... - E allora noi li imiteremo. - Adagio, signor guascone. Non scherziamo troppo con questo delizioso Alicante, specialmente in questi momenti. Potrebbero interrompere la loro bevuta e venire a scoprirci e non so che cosa succederebbe allora con troppo vino in corpo. Invece di bucare gli spagnuoli, potremmo bucare le botti. - E causare una inondazione. - È vero, signor guascone. - Ammiro la vostra prudenza. - State zitto e vediamo che cosa sta per succedere. Gli archibugieri del governatore di San Domingo pareva che avessero affatto dimenticato lo scopo principale della loro escursione nelle cantine della marchesa. I servi, guidati da Marto, avevano tratto di sotto le travi che reggevano le monumentali botti, dei grossi boccali e si erano affrettati a riempirli ed i soldati, che forse mai si erano trovati in mezzo a tanta abbondanza, vi avevano dato dentro, bevendo furiosamente Porto, Alicante, Xeres e Madera. Perfino il sergente che li guidava, afferrato un boccale e dopo essersi seduto su una trave, si era messo a trangugiare a lunghi sorsi il contenuto. - Compare, - disse don Barrejo, che da qualche istante si dimenava come avesse il diavolo in corpo. - E noi assisteremo come due statue ad una simile festa? - Avete ragione, signor guascone, - rispose Mendoza. - Quella gente non si occupa che delle botti e siccome noi non siamo botti da spillare non verranno di certo ad importunarci. - Voi continuate coll'Alicante, io darò l'assaggio a qualche altro recipiente. Vedremo chi sarà piú fortunato. - Io, di certo. - Un doblone che troverò di meglio io, invece. - Vada! - disse Mendoza. - Già non pagherò nemmeno questo. I due compari, che ormai erano legati da una profonda amicizia, stavano per riprendere la bevuta, quando una sorda imprecazione li arrestò. Buttafuoco che aveva un udito finissimo e che era abituato a dormire con un solo occhio, si era lasciato scivolare giú dalle botti, chiedendo con voce sommessa: - Che cosa succede? Perché avete spenta la fiaccola? - Gli spagnuoli ci cercano - aveva risposto Mendoza. - Sono già discesi? - Sí, ma pare che cerchino piú le botti che noi, - disse il guascone. - Potevate continuare il vostro sonno. E poi non vegliamo forse noi? - Parlavate di dar l'assalto anche voi al buon vino. - Tanto per scacciare la noia e l'umidità, signor Buttafuoco, - rispose Mendoza. - Per ora lasciate in pace le botti, - rispose il bucaniere. - Sono troppo pericolose in certi momenti. Vi rifarete piú tardi. - E questo è parlare da saggio, capitano, - disse quel volpone di guascone. Buttafuoco si accostò alla porticina e guardò a lungo, - La marchesa li ha giuocati, - disse finalmente. - Possiamo aspettare tranquillamente che quei soldati abbiano bevuto. La bevuta degli archibugieri del governatore di San Domingo durò una buona mezz'ora, poi tutti se ne andarono, piú o meno malfermi in gambe, e le cantine ridiventarono silenziose e tenebrose. - Possiamo attaccare? - chiese Mendoza. - Che cosa? - chiese Buttafuoco. - Le botti anche noi? - Andate al diavolo! ... Io riprendo il mio sonno. - E noi la guardia, - rispose il guascone. - Badate di non addormentarvi davvero di fronte al nemico. - Oh! ... Mai, signore. E mentre il bucaniere, ormai pienamente rassicurato di non rivedere piú gli spagnuoli nelle cantine, riprendeva il suo sonno, i due compari, non meno tranquilli di non correre piú alcun pericolo, ricominciavano i loro assaggi dei vini della marchesa di Montelimar.

Io non dubito che assalirà Pueblo-Viejo, quantunque non abbia con sé molte forze. - So che ha mandato un corriere all'isola San Giovanni, per avere dei rinforzi. È probabile che a quest'ora qualche partita di filibustieri sia già giunta al suo campo. Nessuno può negare aiuti al figlio del Corsaro Rosso. - E poi non ci siamo noi? - disse il guascone. - Noi tre siamo capaci di dare la scalata ad un campanile difeso da una bombarda. - Senza scendere da cavallo, - aggiunse il fiammingo. - Precisamente. Avevano messi i cavalli al passo e stavano salendo una collina coperta da rade palme e da gruppi di cespugli, dietro la quale doveva scorrere il Chagres, l'unico fiume che solchi l'istmo di Panama e che è nondimeno d'una certa importanza. Stavano già, sempre chiacchierando, per raggiungere la cima per scendere poi attraverso un ampio vallone, quando arrestarono bruscamente i cavalli, guardandosi l'un l'altro con una certa ansietà. - Che sia il fiume che produce questo fragore? - chiese il guascone, dopo d'aver ascoltato qualche istante. - A me pare il galoppo di parecchi cavalli, - rispose Mendoza. - Che cosa ne dite voi, fiammingo? - Che ci si dà la caccia, - rispose l'avventuriero. - Che abbiano già scoperte le nostre tracce? - si chiese don Barrejo. - Lesti, raggiungiamo la cima e vediamo chi avrà ragione. Allentarono le briglie e strinsero le ginocchia, non avendo speroni. I tre andalusi si misero al trotto, quantunque la collina fosse molto ripida ed in pochi minuti raggiunsero la cima, fermandosi dinanzi ad un ampio vallone cosparso di cespugli e di macigni e che scendeva verso il Chagres. Di lassú i tre avventurieri potevano dominare un immenso tratto di paese, era quindi facile per loro scoprire dei cavalieri. - Non vedo che il fiume, - disse il guascone. - E questo lo udite? - chiese il basco, curvando rapidamente il capo. Un colpo d'archibugio era rimbombato ed una palla era passata su di loro, fischiando sinistramente. - Ci assassinano a tradimento! - urlò il guascone. In quel momento una mezza dozzina d'uomini, montati anch'essi su bellissimi cavalli, si mostrò sul margine d'un palmeto. Erano cavalleggieri spagnuoli, mandati certamente dietro ai tre audaci avventurieri dal marchese di Montelimar. - Al galoppo! - gridò il guascone, nel mentre una seconda detonazione rintronava. - Non mi aspettavo una simile sorpresa, - brontolò Mendoza. - Dovevano aspettare che noi fossimo giunti almeno in vista del campo. I tre andalusi si erano lanciati nel vallone, saltando agilmente i cespugli ed i massi, senza che i cavalieri avessero bisogno di aizzarli. Il terreno era tutt'altro che favorevole per una corsa furiosa, essendo cosparso d'ostacoli e anche di crepacci, tuttavia i tre avventurierí che sapevano d'aver sotto dei saltatori meravigliosi e resistentissimi, erano certi di tenere gli assalitori a grande distanza. Gli spagnuoli, superata la cima, si erano a loro volta slanciati nel vallone, urlando e sparando, di quando in quando, un colpo d'archibugio, piú per intimorire i fuggiaschi che colla speranza di colpirli. Se sudavano gli andalusi dei tre avventurieri, non faticavano meno quelli degli spagnuoli: i quali forse non erano migliori di quelli del governatore. La corsa diventava sempre piú furiosa e anche sempre piú pericolosa. Il basco, il guascone ed il fiammingo, tutti buoni cavalieri per loro fortuna, poiché il marinaio, prima di diventare filibustiere, aveva servito in un reggimento di cavalleria, avevano un gran da fare per evitare gli ostacoli. Ogni dieci o quindici passi erano costretti a trattenere bruscamente i cavalli e ad allargare le gambe per permettere loro di varcare dei profondi crepacci. - Tenete bene strette le briglie - gridava di quando in quando don Barrejo, il quale era sempre il primo. - Chi cade è un uomo perduto! ... Reggete bene i cavalli! Gli spagnuoli facevano sforzi prodigiosi per guadagnare via e giungere a tiro d'archibugio, essendo rimasti indietro durante l'ultima salita del colle. Spronavano senza misericordia e gridavano a squarciagola, per aizzare sempre piú i loro magri cavalli, senza riuscire però a guadagnare un metro sui fuggiaschi. La corsa durava da una buona mezz'ora, sempre attraverso a quell'aspro e selvaggio vallone il quale pareva che non dovesse finire mai, quando il guascone mandò un urlo di rabbia. - Che cosa avete, don Barrejo? - chiese Mendoza, spaventato. Cede, il vostro andaluso? - C'è che la via è tagliata, - rispose il guascone. - Non è possibile! ... Siamo passati per di qua sette giorni or sono. - Ed ora non si può passare piú, sangue di Belzebú! ... Alto, amici! ... Fermate i cavalli prima che si spezzino il cranio. Erano giunti ad una svolta della valle e dinanzi a loro si ergeva una roccia colossale, la quale ostruiva completamente il passaggio. Dietro era franata una quantità enorme di terra e di massi i quali avevano formato una specie di collinetta. - Siamo presi, - disse il fiammingo. - No, signore, - rispose il guascone, il quale non si perdeva mai d'animo. - Avete un archibugio appeso alla sella e delle pistole, nelle fonde. Prendiamo posizione e difendiamoci. - Di dove passiamo? - chiese Mendoza. Non vedete che la roccia è tagliata a picco? - Fate coricare i cavalli e nascondiamoci dietro i loro corpi. Badate di non alzare la testa. Presto: gli spagnuoli giungono! In un lampo balzarono di sella, levarono gli archibugi e le pistole, poi fecero coricare i cavalli sull'orlo d'un crepaccio. I sei cavalleggieri giungevano a gran galoppo, rossi di collera, colle spade in pugno. Vedendo i tre cavalli stesi a terra, fermarono i propri e ringuainarono le spade, staccando invece dalle selle gli archibugi. Si erano fermati a soli duecento passi dai fuggiaschi, quindi avevano subito indovinato il motivo di quella improvvisa sosta. Il capo squadrone che li comandava s'avanzò solo, per vedere dove si nascondevano i tre avventurieri, i quali si guardavano bene dal mostrarsi. - Olà! - gridò, vedendo brillare la canna d'un archibugio dietro uno dei tre andalusi. - Siete presi, a quanto pare. Spero che non avrete nessuna voglia d'impegnare la lotta con noi, che siamo piú numerosi e anche ben risoluti a ricondurvi da S. E. il governatore di Pueblo-Viejo. Vi arrendete sí o no? - Il signor conte d'Alcalà non si arrende mai e si batte invece sempre! - gridò il guascone, mostrandosi. - Ah! ... Ah! ... Siete voi quello che si era spacciato per l'amico di S. E. il governatore! ... - In persona, caballeros. - Non ne dubitavo. Dunque vi arrendete? - Il conte d'Alcalà non ha mai risposto di sí a questa domanda. Però si potrebbe forse intenderci, senza sprecare inutilmente della polvere e delle palle e massacrarci a vicenda. - Che cosa volete dire, señor? - Che con un po' di dobloni si potrebbe accomodare questa faccenda. Il capo squadrone fece un gesto di collera. - I soldati spagnuoli non si vendono, bandito! - gridò. - E poi S. E. il governatore pagherà la vostra cattura a un prezzo ben piú caro. - Si capisce che non vi hanno detto che io sono diretto a Panama, dove vado a raccogliere una eredità di cento mila dobloni. Invece di attaccare briga con noi, serviteci di scorta e vi pagherò tutti da vero principe, - disse il guascone. - Preferisco fucilarvi sul posto, señor. - Vi faccio un'altra proposta allora. - Sembra che vi piaccia troppo di chiacchierare, bandito. - No: sono conte d'Alcalà, signore d'Aramejo, de Mendoza y Alicante y Bermejo de los Angelos. - E grande di Spagna, lo sappiamo, - disse il capo squadrone ironicamente. - Sí, anche grande di Spagna, - rispose il guascone, sempre calmo. - Finitela! ... - Vi propongo un duello. - A chi? - A voi, caballero. - Siete pazzo? - Niente affatto, perché vi offro delle splendide condizioni. Se voi mi ucciderete, vi do la mia parola d'onore che i miei due compagni si arrenderanno, se io avrò la fortuna di fare invece la pelle a voi, ci lascierete andare tranquillamente. - Dopo morto? ... - Ci lascieranno andare i vostri cavalleggieri. - Preferisco fucilarvi, se non vi arrendete. - Provatevi, dunque! ... Vi avverto però che ho con me un terribile filibustiere che non sbaglia mai il bersaglio. Figuratevi che a duecento metri spacca una nocciuola e spegne con una palla la fiamma d'una torcia. - Spaccone! ... Va' a raccontarlo a tuo nonno, se l'hai ancora vivo. - È morto vent'anni fa. Il capo squadrone, che doveva averne fin sopra i capelli di quella chiacchierata, volse le spalle e raggiunse i suoi uomini, i quali erano nel frattempo balzati a terra, nascondendosi dietro ai loro cavalli. - Signor basco, - disse il guascone, volgendosi verso Mendoza. Io non sono un cattivo archibugiere, e spero pure che il fiammingo non sia uomo da sprecare inutilmente del piombo, però conto specialmente su di voi. M avete detto di essere stato bucaniere, prima di diventare filibustiere. - Credo d'aver ammazzato un migliaio di bufali nelle foreste di San Domingo e di Cuba. - Smontatemi dunque quei soldati. Quando non avranno piú cavalli, se ne andranno di certo. A voi il primo colpo. Il filibustiere che si era steso nel crepaccio per mettersi completamente al coperto dalle palle, si rizzò sulle ginocchia, tenendosi sempre riparato dietro all'andaluso che gli stava dinanzi, e puntò risolutamente l'archibugio. I cavalleggieri stavano in quel momento rimontando a cavallo, per tentare una carica disperata a colpi di spada e di pistola. Mendoza mirò l'animale che montava il capo squadrone, un bellissimo destriero tutto bianco, e fece subito fuoco. Un urlo di collera, seguito da una salva di bestemmie, accompagnò lo sparo. Il cavallo bianco era caduto, sbalzando di sella il capo squadrone. Colpito in direzione del cuore aveva fatto, prima di stramazzare, uno scarto cosí fulmineo, rizzandosi poscia sulle zampe di dietro, da non lasciate il tempo al suo padrone di abbandonate le staffe e di saltare da una parte. I cinque cavalleggieri, vedendo il loro capo a terra, caricarono ventre a terra, quantunque la discesa che conduceva verso la frana fosse coperta di massi enormi staccatisi dalla colossale roccia piombata dall'alto. - A noi, fiammingo - gridò il guascone. Due spari rimbombarono, uno dietro l'altro, destando l'eco della vallata, seguiti da due sonori nitriti e da due altre imprecazioni. Altri due cavalli erano caduti in mezzo alle roccie, trascinando con loro i cavalieri. Gli altri tre si erano fermati, facendo un fulmineo volteggio, poi erano fuggiti verso lo svolto del vallone, presso cui si trovava il caposquadrone, piú furibondo che mai. - Se siamo terribili spadaccini, siamo pure formidabili archibugieri, - disse don Barrejo. - Signor fiammingo, siete veramente un uomo prezioso, malgrado la vostra immensa barba. - Non sono forse io del Brabante? - disse il fiammingo, con solenne gravità. - Per le centomila code del diavolo, io non avevo saputo, prima d'oggi, che i brabantini fossero anche abilissimi archibugieri! ... - E questo non è nulla! ... - Allora siamo sicuri di smontare tutti! I due cavalieri che erano stati scavalcati, approfittando dei crepacci e delle rocce, si erano rapidamente allontanati, strisciando come serpenti ed abbandonando i loro cavalli moribondi. I loro compagni, trovandosi nell'impossibilità di riprendere la carica e per paura di venire a loro volta smontati, si erano trincerati dietro una roccia, sparando alcuni colpi d'archibugio. Non dovevano essere cattivi bersaglieri, poiché al terzo sparo il bel l'andaluso del fiammingo si rizzò di colpo, mandando un lungo nitrito, sferrò alcuni calci e poi cadde di quarto, tre metri piú innanzi della spaccatura. - Ecco una vera disgrazia, - disse il guascone. - Quell'animale valeva almeno duecento piastre e non potrò piú rimandarlo a S. E. il marchese di Montelimar. È vero che non avevo proprio quest'intenzione. Le sue scuderie sono piú ben fornite delle mie, diamine. Ohé, signor Mendoza, dormite sui vostri allori? - Aspettate un po' e vedrete che cosa sanno fare i filibustieri. Cerco di gettare a terra un uomo ed un cavallo insieme. - E quel cavalleggiero cerca di spaccare la mia testa, - rispose il guascone, gettandosi precipitosamente a terra, mentre il suo feltro, forato da una palla, balzava lontano parecchi passi. - Questa è una vera battaglia! ... - I guasconi sono sempre stati battaglieri, quindi non vi dispiacerà, - disse il fiammingo, colla sua solita calma. - Preferiscono sempre però un corpo a corpo, a colpi di spada. - Fate per ora un corpo a corpo a palle di piombo. - Sono troppo traditrici, perché ammazzano senza nemmeno dire: ohé, guardatevi che vi mando a visitare l'altro mondo. - Già, è un brutto affare. Un colpo d'archibugio aveva interrotto il loro discorso. Il filibustiere aveva fatto fuoco e, come aveva promesso, aveva ammazzato un altro cavallo e l'uomo che gli stava dietro. - Signor Mendoza, - disse l'incorreggibile chiacchierone. Voi siete un tiratore veramente tremendo. - Come il fiammingo è un brabantino, io sono un filibustiere, rispose Mendoza. - Avete ancora delle munizioni? - Tre colpi soli: S. E. il governatore ci ha forniti poco bene. - Forse presentiva che noi li avremmo adoperati contro i suoi armigeri, - rispose il guascone. Una scarica in quel momento partí ed un altro cavallo del governatore, dopo d'aver spiccato un salto, cadde fulminato. - È il mio, - disse il guascone, bestemmiando. - Non valeva la pena di regalarci dei cavalli cosí splendidi, per farli poi massacrare dai suoi cavalleggieri. - Se ci avesse dati dei muli sfiniti, sarebbe stata la medesima cosa. - Signor fiammingo, guardate troppo il vostro archibugio. Sono tutti cosí lenti i brabantini quando devono sparare? - Anch'io aspetto la mia occasione, - rispose l'avventuriero. - Tiriamo insieme dunque: scommetto un doblone, da bersi alla taverna d'El Moro, che io abbatterò un cavallo e due uomini. - Bum! - fece Mendoza. - Altro che bucaniere! ... - Accettato, - rispose il fiammingo. Fecero fuoco contemporaneamente e fu il brabantino che gettò giú un altro cavallo. - Per centomila code del diavolo! - esclamò don Barrejo. - Si vede che i guasconi non sanno tirare che gran colpi di spada. Signor fiammingo, terrò in serbo il doblone per berlo alla vostra salute. Corpo di Belzebú! ... Ecco che la faccenda diventa proprio seria. Gli spagnuoli, furibondi di essere tenuti in iscacco da quei tre terribili avventurieri, sparavano senza posa, tenendosi coricati dietro le sporgenze del terreno. Rispondevano colpo per colpo alle archibugiate del basco, del fiammingo e del guascone, cercando di avanzarsi. Non avevano però fortuna. Sia che un certo panico si fosse manifestato fra di loro; sia che i loro archibugi avessero una portata assai minore, le loro palle passavano sopra le teste degli avventurieri, senza causare alcun danno. Il guascone ed i suoi compagni, ben nascosti dietro ai cavalli, dei quali due non davano piú segno di vita, resistevano con tenacia ammirabile. Ma dopo un quarto d'ora si trovarono tutti tre senza munizioni. Non avevano che le pistole e le spade. - Ladro d'un governatore! - borbottò don Barrejo. - Poteva essere piú generoso. Non ha badato a darmi dei cavalli di valore ed ha economizzato sulle munizioni. Ora verrà il buono. Poi, volgendosi verso i suoi due compagni, disse: - Non usate le pistole che all'ultimo momento e tenetevi pronti a caricare colle spade. - lo non ne ho, - disse il fiammingo. - Caricherete colla sella del vostro cavallo, - disse il guascone. Gli spagnuoli non avevano cessato di avanzarsi. Ben risoluti ad impadronirsi dei tre avventurieri, prendevano però le loro precauzioni, non ignorando ormai d'aver da fare con persone risolute e pronte a qualunque sbaraglio. Strisciavano fra i massi, cercando di non esporsi e scivolavano fra i crepacci. Anche essi dovevano aver lasciati gli archibugi presso i cavalli. Erano cosí pervenuti ad una distanza di una ventina di metri, quando si udirono in aria due sibili acuti. Tutti avevano alzata la testa. - Delle freccie! - aveva esclamato il guascone. - Benissimo! ... Gli spagnuoli dinanzi e gl'indiani in alto. Si stava meglio a Pueblo-Viejo. Sette od otto uomini dalla pelle ramigna, quasi interamente nudi, colle teste adorne di piume variopinte e che tenevano in mano dei lunghi archi, erano comparsi fra le alte rocce del vallone. Non correvano però in aiuto né degli spagnuoli, né degli avventurieri, perché lanciavano i loro pericolosi dardi tanto contro gli uni che contro gli altri. Per essi l'uomo bianco rappresentava il nemico, a qualunque nazione appartenesse. - Don Barrejo, che cosa facciamo? - chiese Mendoza, il quale si era prontamente riparato dietro una sporgenza dell'enorme roccia, insieme al fiammingo. - Carichiamo gli spagnuoli, che sono per ora i piú pericolosi, rispose il guascone. I cavalleggieri, che si trovavano maggiormente esposti alla pioggia di dardi, non avanzavano piú, anzi balzavano a destra ed a sinistra per evitare d'essere colpiti. - Approfittiamone, amici, - disse il guascone. I tre avventurieri balzarono innanzi, scaricando un colpo di pistola ognuno, non volendo rimanere affatto senza munizioni, poi il guascone ed il basco caricarono colle loro draghinasse, urlando ferocemente. Gli spagnuoli che già si trovavano a mal partito in causa delle freccie e che avevano perduto un altro uomo, colpito in pieno petto da una palla di pistola, fuggirono precipitosamente su pel vallone, traendosi dietro i cavalli rimasti vivi. - Io spero di non rivederli piú, - disse il guascone, rifugiandosi precipitosamente dietro la roccia, per non prendersi qualche freccia attraverso il corpo. - Non sono però scappati gl'indiani, - disse il fiammingo. - Non sarà facile a loro di colpirci. Bisognerebbe che girassero il vallone e noi sappiamo quanto è lungo. - Mi pare che si siano divisi, - disse Mendoza. - Alcuni di loro inseguono i cavalleggieri: vedo infatti lassú volare dei dardi. - Cosí affretteranno la loro ritirata, signor basco. - E gli altri assedieranno noi, don Barrejo. - Aspetteremo la notte. - Ed intanto ci ammazzano l'ultimo andaluso! - gridò il fiammingo. Infatti l'ultimo andaluso, colpito da cinque o sei freccie, era caduto addosso agli altri due, nitrendo lamentosamente. - Ah! ... furfanti! ... - gridò il guascone. - Non ne avevano abbastanza della carne qui, senza ammazzarci anche quella povera bestia. - Ci impediscono di fuggire, - disse Mendoza. - Quante piastre perdute! ... - Un migliaio per lo meno, don Barrejo. - Ci rifaremo al saccheggio di Pueblo-Viejo. Per bacco! ... Mi viene una superba idea. - Dite. - Di far pagare questi tre cavalli a quel furfante di taverniere. Se riesco a scovarlo, lo farò urlare come una coyota. Mentre si scambiavano quelle parole, tranquilli come se fossero al sicuro dentro un castello, gl'indiani non cessavano di scagliare freccie e di mandare, di quando in quando, il loro acutissimo urlo di guerra. Sprecavano però inutilmente i loro dardi, poiché i tre avventurieri si guardavano bene dal lasciare l'angolo della roccia. - Suppongo che non avranno delle migliaia di freccie, - riprese il guascone, dopo un breve silenzio. - Ne hanno già scagliate parecchie dozzine. Ah! ... Se avessi un po' di polvere! ... - Non abbiamo che tre cariche, - disse Mendoza. - E di pistola ... - Tiro troppo breve. - Lo so, signor basco. Io continuo a tormentarmi il cervello per trovare un mezzo qualunque che ci permetta di andarcene, e non trovo nulla. Ciò m'inquieta. - Qui non corriamo alcun pericolo, - disse il fiammingo, il quale masticava l'ultimo pezzo del suo sigaro. - Non sono gl'indiani che m'inquietano, - rispose il guascone. - Il sole, forse? - Me ne infischio del caldo. Sono gli spagnuoli. - Se sono scappati! ... - E se ritornassero con dei rinforzi e ci trovassero ancora qui? ... - Che frittata! - esclamò Mendoza. - Fortunatamente Pueblo-Viejo non è tanto vicina ed i cavalleggieri sono quasi tutti smontati. - E quelli montati possono correre innanzi e tornare alla testa di qualche squadrone. - Ah diavolo! - brontolò Mendoza, grattandosi furiosamente la testa. - Voi mi avete messo una pulce terribile in un orecchio. È necessario prendere una risoluzione eroica. Credete che questa roccia sia proprio inaccessibile? - Io non l'ho ancora osservata attentamente, - rispose il guascone. - Si può provare. - Non ci colpiranno gl'indiani? - chiese il fiammingo. - Non credo, perché l'angolo della roccia si prolunga. - Tentiamo, - disse Mendoza, risolutamente. - State attenti alle freccie; non sono già molto pericolose in pieno giorno. Presero gli archibugi, armi troppo preziose, anche se pel momento scariche, per lasciarle agli altri, impugnarono le tre pistole cariche e scivolarono lungo la parete dell'enorme roccia, girandola verso l'opposta parte del vallone. Gl'indiani non potevano accorgersi di quella ritirata, impedendo la frana di osservare ciò che succedeva in basso. I tre avventurieri, procedendo cauti e nel piú profondo silenzio, riuscirono finalmente a raggiungere l'altro angolo, il quale si appoggiava contro la parete rocciosa del vallone. Per un caso assolutamente straordinario, l'enorme rupe, nel precipitare, si era per cosí dire smussata verso la base, lasciando un passaggio fra il proprio angolo e la parete che scendeva a picco. - L'ho sempre detto io, che tutti gli avventi hanno la loro stella! - esclamò il guascone, trionfante. - Un cavallo non potrebbe passare, ma un uomo sí. Prenderemo quei signori indiani alle spalle! ... - Infatti noi abbiamo una fortuna veramente straordinaria, disse Mendoza. - Chi avrebbe potuto supporre che qui esistesse un passaggio? - Dentro, amici, - comandò don Barrejo. - Spicciamoci, giacché gl'indiani non si sono ancora accorti della nostra scomparsa. Odo sempre le freccie fischiare dall'altra parte della frana. Si curvò e si mise a strisciare sotto la rupe, seguito tosto da Mendoza e dal fiammingo. Quella specie di galleria si prolungava per una quindicina di metri, ingombra di terriccio e di macigni. I tre avventurieri l'attraversarono rapidamente e giunsero dietro la frana. - Laggiú mugge il Chagres, - disse il guascone. - Dobbiamo attaccare alle spalle gl'indiani o scappare? I"Veramente ad un guascone ripugna di mostrare i talloni al nemico. - Io direi di dare l'attacco, - rispose Mendoza. - Se si accorgono della nostra fuga non cesseranno di perseguitarci. Io so quanto sono testardi quei maledetti uomini rossi. - Voi meritereste di essere promosso generale. - Perché, don Barrejo? - Gli uomini si conoscono nei momenti difficili. Scappano almeno gl'indiani quando odono dei colpi di fuoco? - Come conigli. - Allora cerchiamo di sorprenderli. Che cosa dite voi, signor fiammingo? - Conosco anch'io quella gente che ha la pelle color rame e vi posso dire che è sempre meglio dare l'assalto. - Riusciremo noi a sorprenderli? - Basta arrampicarsi sulla roccia, - rispose Mendoza. - Qui è piú accessibile che dall'altra parte. - Noi siamo gente sempre straordinariamente fortunata, - disse il guascone. - Se gl'indiani non si accorgono della nostra scalata, faremo una carica a fondo. Compare Mendoza, insegnateci la via. Non siete piú giovane, questo è vero, però potete competere con un gatto selvaggio. Questi filibustieri sono veramente meravigliosi! ... - Ora vi darò una prova di che cosa sono capaci i figli della Tortue, - rispose il basco. - Se non faccio fuggire gl'indiani, che un giaguaro mi divori. - Brutta scommessa, - disse il guascone, scuotendo la testa. Il filibustiere osservò attentamente l'enorme frana, poi, avendo scoperto una specie di gradinata, si mise a salirla. Non era già una gradinata regolare, tuttavia il lupo di mare aveva dato arditamente l'assalto, ansioso di piombare alle spalle degl'indiani, i quali non cessavano di scagliare freccie nel vallone, per impedire la fuga agli assediati. Il guascone ed il fiammingo gli si erano messi dietro, pronti ad aiutarlo nella temeraria impresa. Puntando i piedi sulle sporgenze ed aggrappandosi agli sterpi, il lupo di mare raggiunse senza troppa fatica la cima e scivolò inosservato verso gli alberi che coprivano il margine del vallone. - Ecco il momento di mostrare a quel terribile guascone che anche i baschi valgono qualche cosa, - brontolò. - Che tutta la gloria spetti a lui, perché abita dall'altra parte del mar di Biscaglia, comincia un po' a seccarmi. Canarios! ... Anche noi siamo famosi per menare le mani e per uccidere, sia pure a colpi di navaja. Don Barrejo ed il flemmatico fiammingo lo avevano raggiunto, senza che le pelli-rosse se ne fossero accorte. - Signor Mendoza, - disse don Barrejo, - non sarebbe questo il momento di dare una prova della vostra abilità? - Che cosa volete dire? - chiese il filibustiere. - Abbiamo gl'indiani a soli venti passi da noi e ci voltano le spalle ed io ho udito vantare la straordinaria abilità dei baschi. - A giuocare di spada? - Le spade sono le armi dei guasconi, - disse don Barrejo. È il colpo della navaja che io vorrei vedere. Si risparmierebbe una carica di polvere. - Ho capito, - rispose il basco, sorridendo. - L'avete sempre la vostra navaja? - Preferirei lasciare la spada per la mia arma nazionale. - Fate un buon colpo dunque! Vedremo se la pelle degl'indiani è piú dura di quella degli uomini di razza bianca. Una cosí tremenda stoccata, data a distanza, potrebbe produrre un effetto straordinario. - Vi contenterò, - rispose Mendoza. - Sarà una palla risparmiata. Fermatevi qui e non fate rumore! GI'indiani si trovavano a trenta o quaranta passi, nascosti dietro gli enormi massi della frana. Credendo che gli avventurieri si trovassero sempre riparati dietro l'angolo dell'enorme roccia, non cessavano di lanciare delle freccie, senza guardarsi alle spalle. - Sotto, Mendoza, - disse il guascone. - Lasciate fare a me, - rispose il basco. - Tenetevi pronti a caricare a colpi di spada, se non volete consumare le nostre ultime munizioni. Silenzio! Si era allontanato, strisciando, dopo essersi sbarazzato dell'archibugio il quale non poteva essergli piú di nessuna utilità. Sulla mano allargata teneva la terribile navaja basca, colla punta rivolta verso il polso ed il manico al di fuori. Strisciava come un serpente, senza produrre il menomo rumore. Il guascone ed il fiammingo lo seguivano a breve distanza, tenendo pronte le pistole, pronti a portargli aiuto nel caso che il colpo fosse mancato. Ad un tratto Mendoza si fermò dietro il tronco d'una grossa palma. GI'indiani non erano che a dieci o dodici passi e gli volgevano le spalle, intenti a lanciare, senza interruzione, delle freccie. Si udí un leggiero sibilo e qualche cosa scintillò in alto. La navaja era stata lanciata, piantandosi fra le spalle d'un selvaggio e con tanta violenza da troncargli di colpo la colonna vertebrale. I suoi compagni, vedendolo cadere, avevano fatto tre o quattro salti innanzi, urlando spaventosamente. Il guascone sparò un colpo di pistola, poi caricò colla sua terribile draghinassa. Era una carica affatto inutile, perché i figli delle foreste, spaventati di vedersi dinanzi quei tre uomini bianchi, si erano precipitati sotto la vicina boscaglia, correndo come lepri. Quasi nel medesimo istante si udirono rimbombare nel vallone parecchi colpi d'archibugio. - Gli spagnuoli! - gridò il guascone, mentre il basco s'impadroniva della navaja. - Gambe, amici!

Dinanzi, trattenuti da due negri, scalpitavano tre bellissimi cavalli sauri, dalla criniera lunghissima, bassi di statura, come sono generalmente quelli di Tazza andalusa, i migliori che abbia la Spagna, perché velocissimi, resistentissimi e d'una solidità meravigliosa. Il guascone li esaminò a lungo, da uomo che se ne intende, poi si stropicciò allegramente le mani, dicendo: - Per bacco! ... Il signor marchese di Montelimar possiede dei cavalli splendidi! ... Quando avrò ereditato i miei centomila dobloni, lo pregherò di vendermene alcuni. Non manca nulla; bardatura solida, archibugio appeso alla sella, pistole nelle fonde. È ben gentile S. E. il Governatore. Si capisce che queste parole le aveva pronunciate a voce alta, perché le udissero i due staffieri che trattenevano i cavalli ed i due alabardieri che stavano di guardia dinanzi al magnifico portone del palazzo. In quel momento comparvero Mendoza ed il fiammingo, accompagnati dal capo-ronda, il quale appariva molto avvilito per l'enorme granchio che aveva preso. - A cavallo i miei servi, - disse il guascone, montando in sella, da cavallerizzo esperto. - Vi avverto che ho molta premura e che quindi faremo una lunga trottata. Il basco ed il fiammingo erano rimasti immobili, come trasognati, guardando con profondo stupore quel diavolo d'uomo. Credevano di venire condotti in una prigione meno comoda di quella del palazzo del governatore, per poi venire con ogni probabilità appiccati, e si trovavano invece dinanzi dei magnifici cavalli e delle armi. - Mi avete capito? - gridò don Barrejo, facendo un gesto d'impazienza. - Il signor governatore ha riconosciuto l'errore commesso dalle sue guardie e ci ha rimessi in libertà. Diamine! ... Non poteva certo mantenere l'arresto d'un conte d'Alcalà. Quindi, volgendosi verso il capo-ronda, gli disse con voce severa: - E voi un'altra volta siate piú guardingo, caramba! ... - Signor conte, ricevete le mie scuse, - rispose il povero soldato. - E voi ricevete invece questi, - rispose il guascone, levando da un taschino alcune piastre e gettandogliele dinanzi. - Avanti! Allentò le briglie e si allontanò, seguito dal basco e dal fiammingo, mentre gli alabardieri di guardia gli presentavano le armi e gli staffieri negri si inchinavano fino a terra. Il guascone, che aveva sempre una grande paura che giungesse il taverniere, attraversò la città al trotto, passò il ponte levatoio e lanciò il cavallo a gran carriera, mormorando: - Anche questa volta non hanno avuto il tempo d'intrecciare la corda per appiccarmi.

L'avanguardia non pare che abbia voglia di punzecchiarci le gambe con le sue alabarde. - Già, non arriverebbero fino alle mie - rispose il guascone. - Ci vorrebbe una scala. Ora butto giú un uomo ogni mezzo minuto! I quattro uomini ricominciarono a sparare fra le erbe, con crescente rabbia. Il bucaniere, il quale misurava bene i suoi colpi, faceva dei tiri meravigliosi, tuttavia gli spagnuoli non cessavano di guadagnare terreno, malgrado le enormi perdite che subivano. Degli uomini certo cadevano di quando in quando morti o feriti, pure essi s'avvicinavano con un'ostinazione ammirabile alla macchia scivolando fra le alte erbe. Che cosa volevano tentare? Se avessero avuto qualche archibugio si sarebbero certamente sbarazzati, con poche scariche, di quel piccolo gruppo di nemici. Probabilmente volevano tentare un disperato assalto all'arma bianca. Buttafuoco s'infuriava, bestemmiando e sparando senza tregua. - Che non riesca questa volta a farli scappare? - brontolava. Che uomini abbiamo dunque noi dinanzi? Sono fusi con acciaio temprato nelle acque del Guadalquivir? Invano le palle fischiavano o miagolavano sopra le erbe ed invano i quattro assediati sparavano con rabbia crescente. Le due cinquantine, risolute a por fine a quel combattimento che costava loro molte perdite, non cessavano di avanzarsi e di circondare la macchia. - Ebbene, Buttafuoco? - chiese il signor di Ventimiglia ad un certo momento. - Come va questa faccenda? - Che cosa volete che vi dica, signor conte? - rispose il bucaniere. - Io sono meravigliato. In vita mia non ho mai veduto degli uomini cosí coraggiosi. Queste due cinquantine sono stupefacenti! Al loro posto io sarei già scappato! - Purché non facciano invece stupire noi, - disse Mendoza. - È quello che attendo, - rispose il bucaniere, - anzi che temo. Questa ostinazione mi dà molto a pensare. - Che cosa temete, Buttafuoco? - chiese il signor di Ventimiglia. - Non lo so e non sono affatto tranquillo. - Per tutti i pescicani del mar di Biscaglia! _ esclamò il guascone. - Qui l'affare sembra che cominci ad imbrogliarsi! - Voi che siete un guascone dovreste sbrogliarlo subito, - disse Mendoza. - Ci sono i cani sotto di noi. - Pei guasconi valgono meno dei lupi. - Tacete e fate fuoco invece, - disse il bucaniere. - Non è colle chiacchiere che si guadagnano le battaglie. - Toh! La chiama una battaglia! - brontolò Mendoza. - Io la chiamerei una misera scaramuccia! Quattro colpi d'archibugio rimbombarono uno dietro l'altro, facendo scappare una mezza dozzina di spagnuoli; gli altri però non lasciarono le erbe e continuarono a spingersi audacemente attraverso la foresta, sul cui margine erano ormai giunti. - Morte dell'inferno, - disse Buttafuoco, gettando via il cappello. - Ora non li fermeremo piú. - Gli spagnuoli? - Se si gettano fra i cespugli, nessun occhio potrà scovarli e nessuna palla potrà raggiungerli. Che cosa vorranno fare? Arrostirci? Si era voltato verso il guascone, il quale era disceso su uno dei rami piú bassi. - Signor soldato, - gli disse - volete prendervi la briga ora di distruggere la muta che urla sotto i nostri piedi? Dovete aver ancora una sessantina di colpi da sparare. - Io spero di averne anche di piú - rispose il guascone, il quale conservava un sangue freddo ammirabile. - Giacché l'avanguardia vi lascia inoperoso, massacratemi quei dannati mastini. - Preferirei uccidere degli uomini, - rispose Barrejo. - Ma quelli sono meno pericolosi! Vi affido un incarico piú difficile. - Un posto d'onore, - brontolò Mendoza, ridendo. - Sia pure - disse il guascone. - Se quei cani valgono gli uomini, m'incarico io di fare di loro una gigantesca frittata. Armò l'archibugio che aveva già caricato e con un colpo ben aggiustato abbatté il cane piú grosso, spaccandogli la testa. - E uno! - disse. - Quello non mangerà piú i miei polpacci. Mentre il guascone si arrabattava contro i mastini che latravano a piena gola intorno all'albero, impazienti di piantare i loro formidabili denti nelle carni dei fuggiaschi, Buttafuoco, il conte e Mendoza non cessavano di sparare qualche colpo a casaccio contro le cinquantine ormai scomparse nel bosco. Gli eroici soldati della vecchia Spagna, per nulla atterriti da quelle incessanti archibugiate che mettevano a dura prova il loro coraggio, non cessavano di avanzare, risoluti a raggiungere l'enorme albero de l cotone e a venire ad un corpo a corpo, sicuri, dato il loro numero, di aver facilmente ragione dei loro nemici. Avevano però da fare con uomini ben risoluti a vendere cara la pelle. Mentre il guascone continuava a fucilare i cani, Buttafuoco aveva impegnato una rapida conversazione col conte, interrotta di frequente dalle archibugiate di Mendoza. - È necessario sloggiare e salvarci fra le paludi - aveva detto il bucaniere. - Potremo spezzare il cerchio di ferro che sta per serrarsi intorno a noi? - aveva chiesto il signor di Ventimiglia. - Con una scarica improvvisa di archibugi ci apriremo una breccia sufficiente per passare. - E dopo? - Ci rifugeremo in mezzo ai pantani. - Mi hanno detto che queste paludi hanno dei banchi di sabbie mobili. - Li conosco. - E i cani? - Il vostro compagno sta fucilandoli con rara maestria. Ancora qualche minuto e non vi sarà piú un mastino sotto di noi ... Ah, ecco quello che temevo! Un bagliore sinistro era balenato a breve distanza dall'albero, poi un fastello di legna veniva scaraventato contro il tronco del bombax, facendo scappare i cinque o sei cani sfuggiti ai colpi del guascone. Un fumo denso, soffocante, che provocò agli assediati una tosse violentissima e che fece lagrimare istantaneamente i loro occhi, si alzò subito. - Del pimento! - gridò Buttafuoco. - A terra, amici, o non potremo piú resistere! Lasciate gli archibugi e preparatevi a lavorare con le spade. Giú! Un secondo fascio di legna, pure acceso, era stato scagliato. Anche quello era formato di rami di pepe rosso di Cajenna che sprigionavano un fumo infernale. - Sono carichi gli archibugi? - chiese Buttafuoco, il quale stava per spiccare il salto. - Sí! - Giú! e mano alle spade! I quattro uomini si lasciarono cadere. Un mastino si precipitò sul bucaniere, tentando di saltargli alla gola e di strangolarlo, ma il cacciatore, che si aspettava quell'assalto, balzò indietro con agilità prodigiosa afferrando il fucile per la canna e gli fracassò il cranio con un terribile colpo di calcio. Anche altri due, che si erano scagliati contro il conte e contro il guascone, non ebbero miglior fortuna. Due fulminei colpi di spada li fecero cadere l'uno sull'altro, con le gole squarciate. - Fuoco sulle cinquantine! - tuonò allora il bucaniere. Gli spagnuoli accorrevano con le alabarde in resta, urlando a piena gola: - Arrendetevi! Siete presi! Quattro colpi d'archibugio furono la risposta; poi il bucaniere ed i suoi compagni, approfittando della confusione manifestatasi fra gli assalitori per quell'improvvisa scarica, si slanciarono a corsa disperata verso il margine della foresta per guadagnare le paludi. Il guascone, che aveva le gambe piú lunghe degli altri e che era tutto nervi e muscoli, aveva la velocità d'un proiettile: chi si trovava forse un po' male era Mendoza; tuttavia non rimaneva indietro di molto. Gli spagnuoli si erano slanciati a loro volta, urlando ferocemente e aizzando i due ultimi cani che erano loro rimasti. Pareva però che le povere bestie, impressionate probabilmente dalla strage fatta dei loro compagni, non avessero molto desiderio di far la conoscenza con gli archibugi e con le spade di quei formidabili avversari, poiché non osavano spingersi troppo innanzi. In meno di cinque minuti i fuggiaschi attraversarono la piccola pianura e raggiunsero il margine delle paludi. - Fermatevi! - gridò Buttafuoco. - Vi possono essere dei banchi di sabbie mobili. Fate fronte agli spagnuoli per qualche minuto finché io non trovo il passaggio. Gli assalitori, vedendo i quattro uomini fermarsi e caricare precipitosamente gli archibugi, si arrestarono anch'essi, non osando esporsi al tiro di quei terribili tiratori. Buttafuoco, avendo scorto una lingua di terra coperta in parte di canne e di erbe palustri, si era slanciato risolutamente innanzi per cercare un passaggio che li conducesse in qualche luogo sicuro. Il conte e i suoi due compagni si erano intanto posti al riparo dietro il tronco d'un albero caduto per decrepitezza o abbattuto da qualche fulmine, ed avevano ricominciato a sparare, abbattendo i due ufficiali che guidavano le cinquantine. Gli alabardieri, spaventati dalla precisione terribile di quei tiri, si gettarono nuovamente fra le erbe, non sapendo in quale modo dare l'attacco. In quel momento non ringraziavano di certo i governatori che li avevano privati delle armi da fuoco. Mentre il conte e i suoi compagni mantenevano un fuoco abbastanza vivo, Buttafuoco continuava a perlustrare la palude che pareva di una estensione immensa. La sua paura era d'incontrare quelle terribili sabbie mobili che quando afferrano una preda, sia uomo o animale, non la restituiscono piú. Aveva spezzato una canna e si avanzava nell'acqua tastando il fondo. Ad un tratto il conte lo vide ritornare correndo, col volto giulivo. - Dunque? - chiese il signor di Ventimiglia, sparando un'altra archibugiata là dove vedeva scintillare gli elmetti degli alabardieri. - Ho trovato il passaggio - rispose il bucaniere. - Non sarà forse largo, tuttavia per noi basterà. - E i caimani? - Non preoccupatevi di quelle stupide bestiacce. Non ci daranno molti fastidi. Caricate gli archibugi e seguitemi tutti! Attenti sempre ai cani! Il conte ed i suoi compagni ricaricarono frettolosamente le loro armi, poi si slanciarono dietro al bucaniere, il quale correva lungo la piccola lingua di terra che aveva scoperta. I due cani, vedendoli scappare, avevano ripreso animo, mentre anche gli spagnuoli, comprendendo che i loro nemici stavano per sfuggire al tanto sospirato accerchiamento, si erano alzati agitando furiosamente le alabarde. In meno di mezzo minuto i fuggiaschi raggiunsero l'estremità della lingua di terra. - Fuori le spade e risparmiate la polvere! - gridò Buttafuoco. I due cani stavano per raggiungerli, aizzati dalle grida dei loro padroni. Il conte, che conservava un ammirevole sangue freddo, cacciò la sua spada fra le fauci spalancate del primo doz, immergendola fino a mezzo corpo, mentre Mendoza ed il guascone attaccavano coraggiosamente il secondo. Due guaiti avvertirono Buttafuoco che anche i due pericolosi avversari avevano avuto il loro conto. - In acqua, signori, - disse - e badate di seguirmi attentamente, perché ai vostri fianchi si trovano le sabbie mobili e chi vi cade dentro non ne esce piú. Se gli spagnuoli ci seguono, sparate uno per volta qualche colpo di archibugio. Ai caimani ci penso io. Erano entrati tutti nell'acqua fangosa della savana, immergendosi fino alla cintola, senza preoccuparsi gran che degli spagnuoli, i quali si erano slanciati animosamente sulla lingua di terra, con la speranza di poterli acciuffare o di vederli scomparire fra le sabbie traditrici. Buttafuoco tastava sempre il fondo con la sua canna e cercava di affrettare il passo, quantunque incespicasse ogni momento, essendovi sott'acqua delle erbe non meno perfide delle sabbie. Avevano cosí percorso circa cinquecento passi, quando videro alzarsi a breve distanza un isolotto coperto da una folta vegetazione e che pareva avesse un'estensione considerevole. - Ecco uno splendido rifugio! - disse Buttafuoco. - Se il fondo continua a mantenersi buono, sotto quelle piante potremo sfidare non due, ma anche dieci cinquantine. Mi pare già che gli spagnuoli non abbiano, almeno per il momento, alcuna intenzione di cacciarsi in acqua. Diavolo! Le sabbie mobili fanno troppa paura a tutti! Tastando sempre il terreno ed avanzando con grande precauzione, il bucaniere raggiunse l'isolotto e salí sulla riva, aggrappandosi a certe erbacce dure e coriacee, chiamate olgochloa e che sono cosí cattive che perfino le capre le rifiutano. Una massa di passiflore rampicanti si parò dinanzi al bucaniere. Sono piante che crescono molto rapidamente formando dei bellissimi festoni e che producono dei fiori purpurei con pistilli e stami bianchi con martello, chiodi, il ferro della lancia e tutti gl'istrumenti della Passione, che poi si tramutano in frutta gialle, ovoidali, grosse come poponcelli, assai apprezzate dagli abitanti, specialmente se cucinate con vino e molto zucchero. - Questo deve essere un piccolo paradiso! - mormorò Buttafuoco. - Probabilmente gli spagnuoli ci assedieranno ora, ma io credo che non riusciranno ad affamarci, come forse sperano. Conosco la ricchezza di questi isolotti. - Siamo giunti finalmente a casa? - chiese Mendoza. - Parrebbe - rispose Buttafuoco. - Che i nostri creditori vengano a romperci le tasche anche qui? - Mi sembra che abbiano rinunciato, per oggi o meglio per questa notte, ad importunarci. - Sono gente educata, - disse il guascone. - Se avessero però potuto mettervi le mani addosso, non so, mio caro signor soldato, se avreste ancora tanto spirito, - rispose il bucaniere, ridendo. - E lo dite a me? Oh li conosco io, quei signorini. Diavolo! Ci tengono poco a scherzare coi bucanieri. - E nemmeno i bucanieri con loro, - ribatté Buttafuoco. Noi siamo ancora in quattro e dubito molto che essi siano ancora in cento. Signor conte, volete dormire qualche ora? Pel momento nessun pericolo ci minaccia. - La gente di mare è abituata alle lunghe veglie e non sento affatto il desiderio di riposarmi, - rispose il signor di Ventimiglia. - Io preferirei una buona cena, - disse Mendoza. - La lingua di bufalo e anche l'arrosto di maiale non so piú dove si trovino. Probabilmente si sono affondati nei miei talloni, dopo tante corse furiose. - Io credo di averli sulle punte dei piedi, - disse il guascone con comica gravità. - Io non ho meno fame di voi, - disse il bucaniere. - Però sarete costretti, al pari di me, ad aspettare l'alba. Non posso già prendere degli uccelli di notte e qui noi non troveremo altro che uccelli. - E sarà già molto, - disse il conte, sorridendo. - Le paludi di San Domingo sono di solito molto frequentate dai pennuti, signore, ed una buona colazione non ci mancherà, purché gli spagnuoli ci lascino tranquilli. - Credete che tentino un nuovo attacco? - Ora che non hanno piú i cani, i quali costituiscono la vera forza delle cinquantine, non oseranno forse assalirci. È probabile però che mandino degli uomini a cercare dei rinforzi per assediarci. Di ciò però mi preoccupo ben poco. - E se circondassero la savana? - chiese il signor di Ventimiglia. - Eh! Ci vorrebbero almeno cento cinquantine ed il governatore di San Domingo non ne troverà mai tante. Se io ho un passaggio, non dispero di trovarne un altro e, prima che i rinforzi giungano, noi saremo a S. José, nella fattoria della marchesa. Là non correremo alcun pericolo, essendo io molto conosciuto dall'intendente. - Quest'uomo è veramente meraviglioso, - disse Mendoza. - Decisamente i filibustieri hanno una fortuna straordinaria. È bensí vero che gli spagnuoli ci credono figli o nipoti o pronipoti di compare Belzebú! È già qualche cosa anche questo. Il bucaniere ed il conte si erano coricati sotto una passiflora, sorvegliando attentamente le mosse degli spagnuoli, mosse assolutamente inoffensive, poiché non avevano osato abbandonare la penisoletta che s'avanzava nella savana. Sorvegliavano anche le acque, soprattutto quelle ingombre di erbe, per paura che qualche caimano tentasse di giungere di soppiatto fino all'isolotto per fare qualche buon colpo. Quelle brutte bestiacce non dovevano mancare in quella palude, però non si mostrarono. Probabilmente non si erano ancora accorte della presenza di quel gruppo d'uomini. Quando le tenebre cominciarono ad alzarsi, il bucaniere ed il conte, dopo essersi assicurati che gli spagnuoli erano sempre fermi sulla penisoletta, fecero una rapida escursione attraverso all'isolotto, onde cercare un passaggio che permettesse loro di sfuggire alla sorveglianza dei loro avversarii. Quel pezzo di terra era ingombro di ponted eire, bellissimi cespi di foglie d'un verde lucente e di fiori azzurri e di aristolochie dalle foglie ovali, i fiori lividi in forma di sifoni, col tronco grosso come una botte e radici gigantesche le quali s'alzavano fuori dalla terra come serpenti smisurati. Non mancavano però le piante d'alto fusto. Qua e là s'ergevano, a gruppi, delle quercie, delle magnolie acuminate cariche di certe frutta somiglianti ai cetriuoli, d'un bel rosso lucente, e che si adoperano con successo per guarire le febbri intermittenti, e anche dei noci neri, di dimensioni gigantesche e molto frondosi. Numerosi volatili fuggivano dinanzi al corsaro ed al bucaniere. Erano corvi di mare, piú grossi dei galli, ferocissimi perché osano assalire perfino le persone ferite impotenti a difendersi; fenicotteri, tantali verdi, ibis bianche e botauri, bellissimi volatili alti quasi due piedi, colle penne brune rigate, il ventre grigiastro, il becco acutissimo e gli occhi gialli e molto delicati. - Occupiamoci prima del passaggio, - disse il bucaniere al conte, il quale si preparava a sparare qualche colpo onde procurarsi una buona colazione. - Avremo tempo per massacrare questi volatili, i quali non mi sembrano molto spaventati per la nostra presenza. - Sperate di trovarlo? - Eh! ... Le savane di quest'ísola sono molto difficili ad attraversarsi in causa delle sabbie mobili che costituiscono il fondo. Ma io non dispero di trovare qualche costa che ci permetterà di farla agli spagnuoli. Voi siete sicuro che la vostra nave vi aspetta sempre al capo Tiburon? - Non scioglierà le vele senza mio ordine, - rispose il conte. - Allora possiamo andare alla fattoria della marchesa. Senza il suo appoggio sarà un po' difficile che voi possiate lasciare San Domingo. A quest'ora tutte le cinquantine saranno in movimento per catturarvi. I tre famosi corsari non sono stati dimenticati e gli spagnuoli devono essere molto spaventati nell'apprendere che ve n'era un quarto che batte ancora le acque del gran golfo e che non si sa che cosa voglia fare. - Forse è questo che farà venir loro la febbre, - disse il conte. - Che cosa io sia venuto a fare qui tutti lo ignorano. Certamente io non ho varcato l'Atlantico per continuare le gesta di mio padre e dei miei zii. Il bucaniere si era voltato vivamente, guardando fisso il figlio del Corsaro Rosso. - Delle vendette? - chiese. - Quelle verranno piú tardi, - rispose il signor di Ventimiglia, con voce grave. - Ho prima altro da fare. Si era fermato, guardando a sua volta fisso fisso il bucaniere. - Siete stato nel Darien, voi? - gli disse ad un tratto. - Sí; con Wan Horn, - rispose Buttafuoco. - Conoscete dunque quel paese? - Abbastanza bene: si trattava allora di attraversarlo con l'aiuto di un grande cacico, nemico terribile degli spagnuoli, per andare ad assalire Granata. - Come si chiamava quel grande cacico? - Hara. - Aveva delle figlie, non è vero? - Sí, signor conte. - Date spose a dei famosi filibustieri? - Questo lo ignoro - rispose Buttafuoco. - È lui. - Chi? Il conte, invece di rispondere, si mise a guardare la savana che si estendeva dinanzi a lui a perdita d'occhio, interrotta qua e là da isolotti e da altifondi coperti da una vegetazione superba. - Saremo costretti ad attraversarla? - chiese dopo un lungo silenzio. - Sí, signor conte - rispose Buttafuoco. - Non possiamo tornare indietro: perderemmo la vita, poiché sono certo che gli spagnuoli hanno mandato dei corrieri per aver degli aiuti e le cinquantine che giungeranno non saranno solamente armate di alabarde. - Quando partiremo? - Questa sera stessa, perché i nostri nemici non s'accorgano della direzione che prenderemo. - È lontana la fattoria della marchesa? - È piú vicina di quello che supponete - rispose Buttafuoco. Con una rapida marcia vi potremo giungere in cinque o sei ore. - Cerchiamo la colazione, allora. - Un momento, signor conte; è la costa che mi occorre trovare. Se non riesco a scoprirla, non potremo allontanarci dall'isolotto. Spezzò una canna, armò l'archibugio per essere piú pronto a far fuoco sui caimani e avanzò nell'acqua tastando il fondo. Aveva percorso una quindicina di passi, quando il conte lo vide ritornare. - Abbiamo una fortuna meravigliosa, - disse - il fondo è ottimo e non vi sono sabbie. Signori spagnuoli, ci aspetterete un bel po' e quando vi metterete in marcia non troverete che dei caimani ... Signor conte, guadagniamoci ora la colazione. Non sarà una faccenda lunga. Getteremo giú una mezza dozzina di scoiattoli e ci procureremo un arrosto squisito. Rifecero il cammino percorso, costeggiando specialmente i noci neri, ed aprirono quasi subito il fuoco. Fra gli enormi rami delle grosse piante saltavano disperatamente o meglio volavano dei graziosi animaletti, un po' piú grossi dei topi, col pelame grigio perla sopra e bianco argenteo sotto, con gli orecchi piccoli e neri, il muso roseo ed una splendida coda che pareva una magnifica piuma di struzzo. Erano degli scoiattoli volanti i quali, spaventati dalla presenza di quei due sconosciuti, cercavano di mettersi in salvo, come se avessero già indovinate le malevole intenzioni del bucaniere. Quantunque rassomiglino un po' a quelli che si trovano nelle foreste d'Europa, ne differiscono per una membrana pelosa che unisce le gambe posteriori a quelle anteriori, permettendo loro di spiccare delle vere volate che si prolungano talvolta perfino di cinquanta e più passi. Avevano però da fare con un tiratore meraviglioso; cosicché, in meno di cinque minuti, sette od otto di quei graziosi roditori, mitragliati dal bucaniere, caddero al suolo insieme ad un gran numero di noci che potevano servire benissimo come ottima frutta. Mendoza ed il guascone, che già s'immaginavano di avere una buona colazione con un cacciatore cosí famoso, avevano nel frattempo acceso un allegro fuoco e raccolte delle erbe aromatiche per rendere l'arrosto piú gustoso. I quattro uomini scuoiarono in pochi istanti le bestiole, le infilarono nella bacchetta di ferro d'uno degli archibugi e le misero sopra i carboni, girando quello spiedo primitivo su due forchettoni di legno piantati nel suolo. Mendoza si era improvvisato cuoco, dopo che il guascone gli aveva solennemente dichiarato di saper divorare anche sei beccaccini l'uno dietro l'altro, ma di non saperseli cucinare. Il buon marinaio non aveva né protestato, né brontolato; anzi, aveva guardato con ammirazione quel formidabile mangiatore, chiedendogli solamente per quale motivo i guasconi, pur essendo divoratori, non ingrassavano. Non occorre dire che la domanda era rimasta senza risposta, perché anche don Barrejo non avrebbe saputo dare su quello strano caso nessuna spiegazione plausibile. Il fatto sta che gli scoiattoli scomparvero tutti e la maggior parte passò nel ventre del guascone. Finita la colazione, i quattro uomini si occuparono subito degli spagnuoli, temendo sempre un improvviso colpo di mano. Quelli invece pareva che per il momento non si occupassero affatto di loro. Avevano acceso dei fuochi all'estremità della penisoletta e divoravano la loro colazione tranquillamente, composta forse di testuggini, poiché quei preziosi rettili abbondano intorno alle savane sandominghesi.. - Attendono dei rinforzi - disse Buttafuoco al conte. - Se noi non ci affrettiamo a scappare, circonderanno la palude, e allora sarà bravo chi potrà sfuggire all'accerchiamento. Le cinquantine non si trovano però lí per lí, e possono passare parecchi giorni prima che arrivino. Certo che noi non aspetteremo il momento terribile e fileremo attraverso le acque e anche fra le sabbie mobili. Penserà poi la marchesa a farvi scappare, signor conte. - Sarà la seconda volta - rispose il conte. - A lei tutto è facile - disse Buttafuoco. Aprí una tasca di cuoio che portava al fianco e offrí al conte un grosso sigaro dicendogli: - Potrete con questo ingannare il tempo. È tabacco cubano che ho potuto avere dai filibustieri della Tortue, e non ne troverete del migliore, ve lo assicuro io. Il conte stava per prendere il sigaro, quando un colpo d'archibugio rimbombò e una palla fischiò sopra di loro. Il basco si alzò precipitosamente, afferrando il suo fucile. - Signor conte - disse con la voce un po' alterata - sono giunti dei rinforzi agli spagnuoli e si preparano a prenderci a fucilate. Poi, alzando la voce, disse a Mendoza ed al guascone: - S'impegna battaglia: attenti alle palle!

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