Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Il Drago e cinque altre Novelle per fanciulli

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

. - Come Lisa e Giovanna, Dio le abbia in gloria! - pensava don Paolo, intenerito dal grazioso spettacolo e dai ricordi. - Basta: lasciate fare un po' a me - disse all'ultimo. E ridotti i due pastoni in uno, lo arrotondò, lo allungò, lo ripiegò, ne fece un bel pastone corto corto, spar- gendo di tanto in tanto poche stille d'olio nel fondo della madia, perchè la pasta non s'appiccicasse. E quan- do fu pronto lo levò di peso e lo depose in mezzo alla gramola. Egli sedette a cavalcioni, da cima, dove la stanga s'impernia nelle assicelle ritte, e disse: - Voi, una di qua e una di là, alzate e abbassate la stanga; al pastone bado io. E per cinque minuti s'intese soltanto il rumore del pernio della stanga, menata su e giù dalle bambine che ridevano, quasi facessero il chiasso, mentre don Paolo girava di qua e di là il pastone, ne ricacciava in dentro lestamente con le mani le coste, rimettendolo sempre in centro sotto la stanga che lo induriva, finchè non gli parve il momento di gridare: - Fermate! Allora cominciò un altro chiasso, con le pagnotte da arrotondare e schiacciare. - Questa è per me. - Questa è pel nonno. - Pel nonno, figliuole mie, ci vogliono le focacce. Le faremo dopo. E questa volta il pane lo manderemo a cuocere dalla fornaia. Le bambine erano accese in viso, sparse di farina con le mani e le braccia impiastricciate di pasta. Don Paolo le avrebbe baciate, se i baci non gli fossero parsi segni di tenerezza eccessiva. E un po' burbero, per frenare la loro vivacità, brontolò: - Via, via; lavatevi mani e braccia, e spolveratevi bene! Ogni giorno, una lezione pratica. Don Paolo sapeva fare tutto, fin la calza, e voleva insegnargli ogni cosa, da sè; non gli piaceva vedersi gente estranea fra' piedi. E se qualcuno, interrogandolo intorno alle pupille, gli diceva: - Perchè non le mandate a scuola? - A scuola? - rispondeva quasi arrabbiato. - Le mie figliuole non sapevano leggere, ed erano donne di ca- sa. Ora, riducono le bambine tante dottoresse ... Ma che vale? Non sanno imbastire una calza, nè fare un rammendo, nè cucinare una minestra! La scuola è per le principesse. Su questo punto Don Paolo non intendeva ragione. - Io sono della pasta antica, - aggiungeva. - Allora si sapeva leggere meno, ma si era più galantuomini. Non è vero forse? Inutile tentare di convincerlo. Voleva agire all'antica. * * * Di tanto in tanto, per far svagare le bambine, le conduceva in campagna, a Doguara, nel fondicello tutto piantato a olivi e mandorli con un po' di vigna su la costa; o a Pietra-che-suona, dove seminava grano, fave, ceci, ed era la dote della moglie. Dognara sarebbe stato di Lisa, Pie- tra-che-suona, di Giovanna, se se lo meritavano, se crescevano buone, virtuose, e massaie come voleva lui. Le notti che non poteva dormire, pensava spesso al testamento che occorreva fare perchè le orfanelle, alla sua morte, non si ritrovassero in mezzo d'una via, e la roba non se la prendesse il fisco, poichè egli non ave- va parenti vicini nè lontani. Ma non sapeva risolversi; andare dal notaio e mettere in carta le sue ultime volontà gli pareva mal augu- rio. Che fretta aveva? S'era consultato però col canonico suo compare che aveva battezzato Lisa, e quel servo di Dio gli aveva risposto ridendo: - Volete dunque comprarvi un bel pezzo di paradiso? Fate bene, compare. Ma non occorreva aver fretta; il paradiso era grande, ne avrebbe trovato sempre un pezzetto per sè e per la moglie e le figliuole, caso che esse stessero ancora in purgatorio. Per suffragio di quelle anime benedette non faceva dire tre messe ogni anno, il giorno dei morti? No, non occorreva aver fretta; intanto stava sempre con l'animo sospeso. La morte arriva quando meno ce l'attendiamo; non manda l'avviso avanti. Chi ha tempo, non aspetti tempo ... Ne conveniva: ma l'idea del mal'augurio gli si metteva per traverso, e gl'impediva di prendere una risolu- zione. Per questo rimase proprio atterrito la mattina che gli dissero: - È morta la sciancata. Siete contento? Lui la chiamava la strega, ma tutti gli altri la sciancata. Piena di salute, grassa e ben pasciuta, era morta d'accidente, in un minuto. - Dio le perdoni! - esclamò: - Dio le perdoni il male che voleva fare alle orfanelle! Quella morte però gli era parsa un ammonimento. Se l'accidente fosse venuto a lui? Per scacciar via quel tristo pensiero, si faceva il segno della santa croce. E la sera, disse alle bambine rimaste mute all'annuncio: - Recitiamo il santo Rosario per l'anima della... Stava per dire: - della strega - ma subito si corresse. E fu la prima e l'ultima volta che gli accadde di chiamare zia colei. * * * No, non voleva morire ora che anche la casa pareva rifiorita per la bella imbiancatura recente, per l'ordine, per la pulizia, con la terrazza piena di graste di garofani, di menta, di basilico, e quel gelsomino che s'arrampicava alla parete, ricordo di Lisa che gli voleva tanto bene, e lo annaffiava, lo ripuliva delle foglie secche, e lo aveva potato di sua mano pochi giorni prima della disgrazia. Quel gelsomino don Paolo lo aveva curato tant'anni, raccogliendone i fiori e conservandoli in un cartoccio, quasi fossero stati qualcosa soprav- vivente della sua povera figliuola. Ingrossato nel tronco, si era arrampicato coi rami ai sostegni di canna; ma ora sembrava sentisse anche lui il soffio di vita che rianimava tutta la casa, e verdeggiava e fioriva per festeggiare la nuova Lisa, come non aveva verdeggiato e fiorito da un pezzo. - Il gelsomino e di Lisa, - diceva don Paolo a Giovanna. - Perchè? - domandava la bambina un po'ingelosita di quella particolarità. - Perchè si chiama Lisa. Sono tuoi i garofani, il basilico, la menta. - Ma lo innaffio anch'io. - No, deve innaffiarlo lei, soltanto lei. Voleva procurarsi tutte le illusioni, povero vecchio. Tanto più che l'autunno gli metteva in cuore una gran malinconia, come l'anno passato, quando s'era immaginato che quell'autunno dovesse essere l'ultimo di sua vita. S'era ingannato; invece gli era anzi capitata la buona fortuna di quelle due bambine. - Vuol dire che il Signore mi darà tempo di tirarle su queste due creature; è giusto che sia così. Tentava di confortarsi a questo modo; e si stizziva ogni volta che suo compare il canonico, a cui aveva parlato del testamento, glielo rammentasse, e lo esortasse a farlo subito, per non pensarci più. - O che sono coi piedi nella fossa? - rispondeva. Si sentiva bene, con le gambe solide. Aveva badato alla vendemmia e al raccolto degli ulivi, come un giovane di vent'anni; ora preparava la seminagione del grano e delle fave, e non poteva occuparsi del testa- mento; ci pensava e ripensava però, voleva maturarlo. Se ne sarebbe riparlato insieme, nel prossimo inverno, dopo Natale. - O che sono coi piedi nella fossa? E a proposito di Natale, si rammentò che l'anno scorso i suonatori della Ninnaredda (Ninna- Nanna), nelle notti della Novena, non erano venuti a suonare sotto le sue finestre; disabituati, dopo tanti an- ni, non si rammentavano più ch'egli esistesse al mondo. Ma ora che aveva in casa le bambine, egli voleva suonata la Ninnaredda sotto le finestre, come tutti gli altri; poteva regalare i suonatori meglio degli al- tri, la vigilia di Natale, quando sarebbero venuti a casa sua, di giorno, com'era costume. Dolci, càlia, vino ... e il vino quest'anno era proprio di quello! Il primo giorno della Novena appunto, aveva incontrato i suonatori che accompagnavano un Bambino Gesù di cera, toccato in sorte a una vicina nella chiesetta delle Orfanelle. Che festa mettevano per la via quei tre violini e il contrabasso, fra una trentina di ragazzi che li precedevano e li seguivano, allegri, saltellanti, quasi che il Bambino Gesù fosse toccato a loro! E mentre i suonatori passavano davanti la porta di casa, don Paolo, che faceva ferrare l'asino, accennato a mastro Gaetano e a mastro Neli, sorridendo, e aveva gridato per farsi sentire bene: - Non vi scordate di me! I suonatori tirarono innanzi senza rispondere, borbottando qualcosa tra loro, continuando a grattare i vio- lini. Ma egli si era persuaso che avessero capito. E per ciò la sera, dopo cena, mentre le bambine si dispone- vano ad andare a letto, le aveva avvertite: - Questa sera, quando sarà il momento, vi sveglierò io. Domani poi, con vino cotto e miele e farina, impa- steremo i mostaccioli pei suonatori, e faremo la càlia. Spogliandosi, Lisa disse a Giovanna: - Io non m'addormenterò. - E neppure io. Ma don Paolo, che le aveva udite dall'altra stanza soggiunse: - Addormentatevi. Vi sveglierà il nonno. - Fingiamo di dormire, - sussurrò Lisa all'orecchio di Giovanna. - Sì, sì! E finsero così bene, che si addormentarono profondamente. * * * Don Paolo, aspettando i suonatori, si era messo ad acconciare la cavezza dell'asino, e si godeva anticipa- tamente il piacere della svegliata delle bambine alle prime note della Ninnaredda. I suonatori non si facevano sentire nè da vicino, nè da lontano, ed era quasi mezzanotte. Dovevano aver cominciato il giro dall'altra punta del paese. Poveretti! Andare attorno con quel freddo e suonare con le mani intirizzite non era un divertimento; ma alla fine della Novena potevano spartirsi un bel gruzzoletto, una catasta di dolci, parecchi sacchi di càlia, senza contare il vino! Poveretti! Quei regali erano proprio ben gua- dagnati! ... - Ah! Eccoli Si sentiva, a volte sì, a volte no, secondo il vento, il grugnito del contrabbasso, ma lontano assai. Don Pa- olo s'impazientiva delle troppe fermate, e rifletteva che nella sua via essi non avevano molte case sotto cui arrestarsi: dal dottor Cipolla, dai Carcò, dal notaio Miani, e poi da lui. - Oh! Ora si udiva benissimo, oltre il suono del contrabbasso, anche quello dei violini; don Paolo si sentiva in- tenerire. E appena si persuase che i suonatori erano già sotto la casa del notaio Miani, posò per terra la ca- vezza, si levò da sedere, aperse l'uscio della camera delle bambine e aspettò per svegliarle. - Come saranno contente! Gli pareva che i suonatori lo facessero apposta indugiando colà. Non era bastata la Ninnaredda ! At- taccavano anche una suonatina allegra! - Faranno lo stesso qui sotto, - pensava. Nel silenzio della notte si sentiva sul selciato il rumore delle scarpe grosse, e le voci dei suonatori che parlavano fra loro e ridevano ... - Ora si fermano ... Invece, con gran rabbia di don Paolo, i suonatori erano passati oltre. Egli tremava dall'indignazione per quel dispetto, sperando d'ingannarsi finchè il rumore dei passi, ancora vicino, potè illuderlo un istante; poi, con le lagrime agli occhi, guardò le bambine che dormivano, e tese i pugni, minacciando quei pezzi di ub- briaconi! - E la Ninnaredda ? - domandarono le bambine la mattina appresso. - Come? Non ve ne rammentate, dal gran sonno? - rispose don Paolo, sforzandosi a ridere. - Eppure io vi ho svegliate. E andò a fare una lavata di capo a mastro Gaetano: - Vi pagherò meglio degli altri! Capite? Ora ci ho le bambine. * * * La notte di Natale aveva voluto condurle a vedere il presepe e a sentire la messa di mezzanotte. Pioviggi- nava, tirava vento; ma la chiesa era lì a quattro passi, e don Paolo non aveva creduto di commettere un'imprudenza, all'età sua, con quel tempaccio. Per tenere deste le bambine fino alla mezzanotte, s'era mes- so a giocare all'oca con loro, usando la gentile malizia di contar male i propri punti perchè il perditore fosse sempre lui, e fingendo, ogni volta, di arrabbiarsi contro la disdetta: - Santo Dio! voi mi spogliate. La posta era di venti nocciuole, ma egli invece pagava un soldo; e le bambine ridevano, vedendosi accu- mulare davanti tante belle palanche, mentre i loro mucchi di nocciuole rimanevano intatti. - Santo Dio, voi mi spogliate! Questo è l'ultimo soldo. E don Paolo faceva atto d'arrovesciare una tasca. - No, ce n'è ancora un altro. Ce n'era sempre qualcuno in questa o in quella tasca. Lisa contava i suoi; quindici! Giovanna contava dall'altra parte: dodici! - Oh!. ecco le campane. È il primo seguo per la messa cantata. Nel silenzio della notte le campane squillavano allegre, annunziando gloria in cielo e pace in terra; e già cominciava per la via il via vai della gente. - Al secondo segno, andremo in chiesa. Intanto aveva continuato a lasciarsi spogliare, come diceva. Aveva anzi finto di dover giuocare sulla paro- la, perchè non possedeva piò un soldo spicciolo. Poi tirate fuori due mezze lirette di argento, aveva detto se- rio serio: - Se mi vincete pure queste qui, domani non potrò fare la spesa. - La faremo noi, - aveva risposto Lisa, ridendo. - Brava! E don Paolo si era lasciato spogliare anche delle due mezze lirette d'argento, prima che le campane suo- nassero il secondo segno. In chiesa c'era folla, e gran confusione; la gente arrivava a frotte; un pecoraio strillava la Ninnaredda con la cornamusa, intanto che i sagrestani accendevano i lumi dell'altare. Il vento e la pioggia scotevano i vetri delle grandi invetriate; dalla porta, continuamente aperta, penetravano sbuffi d'aria umida e fredda, ma dentro si scoppiava dal caldo. - C'è da prendere un malanno all'uscita! - rifletteva don Paolo. E infatti egli lo prese,: tosse e febbri, febbri e tosse. Da prima non aveva voluto mettersi a letto, nè far chiamare il medico; ma poi aveva dovuto persuadersi che lo stare in piedi era peggio. Pure aveva aspettato fino a tardi e si era coricato l'ultimo, per illudersi che non si metteva a letto come malato. La mattina dopo però non aveva avuto la forza di levarsi; e svegliate le bambine, aveva detto: - Andate del dottor Cipolla, qui vicino; ditegli che venga a farmi una visita; prendete la chiave della porta di casa. E quando aveva inteso il rumore della porta chiusa dalle bambine, s'era sentito solo solo, abbandonato; e tutti i terrori della notte precedente gli erano piombati addosso. - Questa volta è finita! - ripeteva. - Questa volta non c'è più rimedio! Invece del medico, perchè non mando a chiamare il notaio? No, no: gli pareva quasi impossibile che Gesù Bambino volesse ripagarlo in quel modo della messa anda- ta a sentire a mezzanotte, ripagarlo facendolo morire.:No, Gesù Bambino misericordioso si sarebbe ricorda- to delle orfanelle che rimanevano senza aiuto e senza guida, se il loro tutore era portato via dalla febbre e dalla tosse che gli toglieva il respiro. Il dottor Cipolla, lungo, lungo, lungo, magro e stecchito, col bastone sotto braccio, aggiustandosi a ogni po' le punte del colletto della camicia, era entrato sorridendo, senza togliersi il cappello a staio perchè aveva paura d'infreddarsi, e s'era fermato in piedi davanti al letto. Lo chiamavano San Pantaleone chi sa perchè, forse per la statura, quasi quel San Pantaleone indicasse qualcosa di spropositamente alto col semplice suono delle sillabe. - Sedete, dottore! sedete! - disse don Paolo, con voce lamentosa, interrotta da colpi di tosse. Non poteva vederselo davanti, ritto in piedi, con quella tuba in testa che toccava la volta della camera, e il collo incastrato nell'alto colletto che non gli permetteva di abbassare il capo. - Sedete, dottore! Temeva che la sua voce di malato non riuscisse ad arrivare fino a lassù, sotto la tuba, e penetrargli dentro gli orecchi sempre turati con la bambagia. - Voialtre, andate di là, - soggiunse per allontanare le bambine. E appena esse furono uscite di camera, si mise a singhiozzare. - Dottore, ditemi la verità! Per quelle creature, che non voglio lasciare in mezzo a una via, ditemi la veri- tà! - Certe cose, caro don Paolo, - rispose il dottore, tirandosi le punte del colletto, - non bisogna mai riman- darle proprio agli estremi momenti, quando la testa non ci regge più! Così anche per le cose della santa Chiesa. - Dunque sono spacciato? - Non esageriamo caro don Paolo!... Ecco qui un calmante per la tosse! una cucchiaiata all'ora; poi pen- seremo alla febbre... Niente di grave. - La mia sentenza di morte! - pensava don Paolo, seguendo con gli occhi la mano che scriveva la ricetta sul ginocchio della gamba accavalcata all'altra. E prima che il dottore andasse via, egli lo pregò di mandargli il notaio Miani, pel testamento, erano a u- scio e bottega, non sarebbe stato troppo incomodo per lui. Il dottor Cipolla, che s'interessava molto anche della salute dell'anima dei suoi clienti, dopo il notaio, s'affrettò a mandargli pure suo compare, il canonico. Ma don Paolo, che aveva dovuto fare un bello sforzo per vincere l'idea di malaugurio del testamento, quando vide entrare il canonico, non potè frenarsi: - Venite a portarmi la jettatura anche voi? Lasciatemi in pace! - Sono venuto per una visita, - si scusava il canonico. Don Paolo però seguitava a strillare: - No, compare; se mi confesso muoio! - Siete cristiano, sì o no? - Cristianissimo; ma se mi confesso e prendo il viatico, muoio! - Le cose sante sono la miglior medicina, compare. - Ma se non debbo morire ... E non voleva morire, almeno questa volta. E ragionava, a modo suo, parlando a stento, fra un colpo di tosse e l'altro, per convincere il canonico, che si frenava a stento per non ridere. - Come? sono andato alla messa di Natale per devozione, ci ho condotto anche le bambine e il Signore, in ricompensa, mi farebbe morire? Non è possibile. Dio è giusto. Non può mandarmi all'inferno; non ho ruba- to, non ho ammazzato, non ho calunniato; ho fatto anzi un'opera di carità da meritarmi il paradiso ... - Questo non dovreste dirlo voi, - lo interruppe il canonico. - Se il Signore si avvede che mi son confessato e comunicato, dice: - Quel povero don Paolo portiamolo in paradiso, è meglio, giacchè ora si trova in grazia nostra! - No, Signore benedetto! lasciatemi star qui ... Non vedete che queste orfanelle hanno soltanto me, e che se muoio io, le spogliano, le riducono alla miseria con tutto il bel testamento che ho fatto? Lasciatemi quaggiù un altro pochino! - Il Signore sa bene quel che deve fare, non ha bisogno dei vostri consigli! ... - Non lo consiglio, lo prego! E dovreste pregarlo anche voi nella. santa messa! Io dico: Il Signore, non vuol farmi dannare. Ebbene, se muoio non confessato, mi danno... Dunque mi dia. la salute del corpo, non per me, per le orfanelle... E per ciò non mi confesso, no, no, no! Potete andarvene, compare canonico! Il canonico, dalle risa, era passato alla commozione per tanta ingenuità, che in fine significava profondis- sima fede in Dio; e non insistette, anche per non turbare il malato, che non gli sembrava così grave come il dottor Cipolla gli aveva detto. - Riposatevi; avete chiacchierato troppo! Infatti, calmatasi l'eccitazione, don Paolo era ricaduto, ansimante, con la testa sui guanciali, la bocca a- perta e gli occhi chiusi. Le orfanelle lo guardavano atterrite, senza osare di accostarsi al letto, interrogandosi con cenni: - Che dobbiamo fare? Non dovettero far altro che preparare qualche scottatura di tiglio, di cammomilla, e poi ottimi brodi di pollo durante la convalescenza. La quale, contro ogni previsione del dottore, fu così rapida, che una mattina in cui egli credeva di trovare il malato ancora a letto in attesa del permesso di alzarsi per qualche ora, lo trovò invece in cucina davanti a un fornello, mentre Giovanna grattava il cacio, e Lisa sbatteva in un piatto le uova per una magnifica frittata, e lui sminuzzava un po' di prezzemolo e di cipolla da servire pel condimento. Il dottore, che appunto tornava dalla casa di un cliente morto pochi minuti prima senza permesso di lui, ed era rimasto male davanti ai parenti in lagrime e che quasi l'accusavano di aver ammazzato il malato, visto don Paolo in atto di fare il cuoco, s'era messo a ridere e s'era sentito venire l'acquolina in bocca all'odore. - Ah, voi fate venir in casa il medico per invitarlo a colazione? - Se volete favorire, - aveva risposto don Paolo, sorridendo. Ma per levarselo di torno subito, gli aveva messo in mano una carta da dieci lire, pagamento delle visite. Non voleva conti in sospeso con nessuno, col medico soprattutti: certa gente è meglio tenerla lontana quanto più si può. - Staremo un bel pezzo prima di rivederci, caro dottore! - gli disse su l'uscio, allegro, quasi avesse in ta- sca il contratto con Domineddio, di dover campare un secolo o poco meno. E fu proprio così. * * * Erano passati dieci anni. Lisa aveva preso marito da sei mesi; si parlava già di certe trattative con un cu- gino del marito di Lisa che aveva posto gli occhi su Giovanna; e don Paolo sembrava più arzillo di quando aveva leticato con la strega per le bambine. Soltanto la testa non lo serviva bene come una volta; la memoria gli veniva meno di giorno in giorno. Chiacchierava troppo del passato, rammentandosi i più minuti particola- ri; ma gli avvenimenti vicini, anche della giornata, gli si scancellavan subito dalla mente. Le prime volte, accorgendosene, ne aveva riso egli stesso: - Comincio a istupidire, figlie mie! Da lì a qualche mese però le cose cambiarono. Non usciva più di casa; andava da una stanza all'altra come sperduto, con le sopracciglia aggrottate, le mani dietro la schiena, guardando attorno con aria diffidente, quasi andasse notando novità che gli dispiace- vano. Brontolava, si stizziva per cose da nulla, ripeteva certi atti giorno per giorno, a ora fissa, quantunque ogni volta si lasciasse subito convincere che aveva torto. A ora fissa, da una settimana, si metteva a preparare la tavola. - Che fate, nonno? - Lo vedi. Non si desina oggi forse? - Ma se abbiamo già desinato due ore fa! - Abbiamo già desinato? ... È vero, hai ragione. Stava un momentino esitante, e zitto zitto sparecchiava. Poi, da lì a un mese, non si lasciò convincere più. Era inutile ripetergli: - Abbiamo già desinato! - egli scoteva il capo, con aria maliziosa e continuava ad apparecchiare. Quando aveva finito, si sedeva a tavola, aspettando, battendo sull'orlo del piatto con la forchetta e col coltello, impazientendosi del ritardo: - Volete farmi morire di fame, povero vecchio? Ingrate, ingrate! Vi ho dato tutta la mia roba; mi sono spogliato per voi ... ed ecco la ricompensa! Dannate! L'inferno vi aspetta. Urlava, piangeva. Lisa e Giovanna un po' ridevano, un po' rimanevano stupite, afflitte di vederlo piange- re; poi, a furia di carezze e di buone maniere, riuscivano a farlo levare da tavola, a deviarlo da quella fissa- zione; suggerendogli: - È mezzanotte; andate a letto. Il sole vicino al tramonto inondava la camera dove lo conducevano, ma egli non se n'avvedeva; e mentre Lisa chiudeva gli scuretti della finestra, egli dava mano a spogliarsi, e intanto domandava: - E il santo rosario? - L'abbiamo recitato or ora. - Sì, sì, è vero; non bisogna scordarsene mai altrimenti la Madonna non ci aiuta. Andate a letto anche voi. È mezzanotte. Ma questo stratagemma giovò per poco. Una notte Lisa e Giovanna furono svegliate da forti picchi all'uscio. - Dormiglione, su, levatevi! È mezzogiorno. E d'allora in poi, a ogni mezzanotte era mezzogiorno per lui. Lisa si alzava, apriva la finestra: - Non vedete che è buio? - È annuvolato. C'è l'ecclissi ... Si rammentava dell'ecclissi di anni addietro, e affermava che il sole sarebbe ricomparso subito. Insomma ci voleva una pazienza da santi; e Lisa e Giovanna erano proprio due sante, che gli volevano bene, e lo ado- ravano, e lo compativano, povero vecchio. Lisa qualche volta leticava col marito che non aveva carità, com'ella gli rimproverava: - Forse sa quel che fa, poverino? Ora, di tanto in tanto, egli perdeva anche la conoscenza delle persone. - Chi siete? Che fate qui? Chi cercate? - Sono Lisa; non mi conoscete? - Lo so, lo so; ma costei, chi è costei? - Giovanna. A quei nomi rimaneva turbato. I ricordi delle figliuole morte e la figura delle due donne che si vedeva da- vanti lo imbrogliavano, lo rendevano dubbioso; e voltava le spalle, crollando la testa, ricominciando da capo dopo un momento: - Chi siete? Che fate qui? Il padrone sono io. La roba è mia. E si metteva a discorrere, divagando: - Avevo due figliuole ... Quella strega le mandava a chiedere l'elemosina ... E sono morte, povere creature, morte di tifo! ... Ve ne ricordate? Io ho fatto testamento; ho lasciato ogni cosa a loro ... Erano orfanelle, abbandonate da tutti ... Il Signore se l'è prese ... Sia fatta la volontà di Dio! Come vi chiamate? Lisa? Giovanna? Si chiamavano così anche le mie creature. Se volete stare con me e servirmi ora che sono vecchio, faccio testamento e lascio ogni cosa a voi ... Il padrone sono io. Ma qui non ci voglio più stare; voglio andarmene a casa mia. Prendete le chiavi; andiamo, andiamo! E bisognava secondarlo, perchè non s'arrabbiasse e non urlasse. Lisa fingeva di mettersi lo scialle - e spesso bastava buttarsi addosso una salvietta, un asciugamani - e gli dava braccio per le scale. Scendevano giù, in istalla o in cantina, e risalivano: - Eccoci in casa nostra! - Ah, come si sta bene qui! Colà non mi ci potevo vedere! ... In casa altrui uno non può fare a modo proprio. Si erano abituate a queste stranezze; spesso le prevenivano, le secondavano sempre, visto che era il mi- glior mezzo per non farle prolungare; e anche ci si divertivano quando il povero vecchio si sfogava a parlare del passato lontano, molto lontano, che gli veniva alla mente con lucidità e precisione meravigliosa. Si divertivano quasi, anche quando se la prendeva con loro, con quelle ingrate che lo facevano morire di fame, che non potevano più vederselo dinanzi, perchè il padrone era lui e loro volevano tutta la roba per sè ... - Ma le gastigherò io! So io come gastigarle! - Come? - Straccerò il testamento, le lascierò nude in mezzo a una via! - Fate bene, - gli diceva Lisa ridendo. - Dovreste lasciare la roba a noialtre. - A voialtre? Che c'entrate voialtre? La roba mia è delle mie figlie, delle orfanelle che ho cresciute, nu- trendole con la carne del mio cuore, col sangue delle mie vene! Che c'entrate voialtre? Esse soltanto mi vo- gliono bene; e pregheranno per l'anima mia quando sarò morto; che c'entrate, voialtre? * * * Per altri due anni era durata così, senza un giorno di tregua. Poi il vecchio era diventato triste, muto. Passava le ore della giornata su una seggiola, con le mani su le ginocchia, guardando di tratto in tratto le due giovani, o tirando il laccio della culla dove dormiva Paolino, il bambino di Lisa; docile e obbediente alla parola di lei: - Su, cullate il bambino. Non aveva mai domandato di chi fosse quel bambino, nè come si trovasse in casa, nè come si chiamasse. Ma un giorno avevano visto il povero vecchio alzarsi dalla seggiola dov'era stato tutta la mattinata a sede- re, e stropicciarsi gli occhi e la fronte, quasi si destasse da profondissimo sonno. - Lisa! ... Giovanna! Le chiamava sorridendo, con voce tremula dalla commozione, maravigliato, quasi le rivedesse dopo lunga assenza. E pareva ricordarsi di tutto, e pareva si vergognasse di quel che ricordava ... - Sono stato pazzo? Oh, povere figlie mie, quanto vi ho fatto soffrire! ... Ma ora me ne vado; non vi tormento più ... Me ne vado a trovare quelle altre che mi aspettano da un pezzo ... Dio vi bene- dica, povere orfanelle! E fece atto di alzar le mani per benedirle ... Le lasciò ricadere ... S'era spento tutt'a un tratto, dolcemente, tra le braccia di Lisa e di Giovanna. Roma, novembre 1893.

LA CURA DEL MOTO E DEL SOLE

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Panzini, Alfredo 1 occorrenze

La meta del mio viaggio era lontana: una borgata di pescatori su l'Adriatico, dove io ero atteso in una casetta sul mare: questa borgata supponiamo che non sia lungi dall'antico pineto di Cervia e che, per l'aere puro, abbia il nome di Bellaria. Ora, quel giorno della partenza, il cielo era senza nubi, e per far piacere alla città che mi ospita da tanti anni, dirò che era azzurro: certo ne pioveva un'afa così ardente e greve, che in ogni altra città d'Italia gli uomini si sarebbero addormentati; e anche le motrici e le macchine si sarebbero fermate. ( ... ) Da mesi e mesi la vecchia bicicletta nel chiuso studiolo mi diceva: "Ricordi dieci anni fa la gioia dell'alba che raggiò da Collefiorito? l'ascesa a Recanati come ad un santuario? La sosta a San Vitale presso Classe con quei gran gigli simmetrici per l'abside azzurra, e quei mansueti cervi simbolici, assetati di verità, tanto che ti palpitò il cuore, o incredulo, di fede e di amore per il Cristo, giovanetto severo che lì giganteggia seduto, e ti fissa con l'indice levato?" Questi precedenti spiegano la ragione della mia contentezza quando quel giorno undici luglio, ornate le gambe di un paio di novissime calze, montai in sella. Incontrai per la città qualche conoscente, molto meravigliato nel vedermi in cotale assetto. Ma io salutai da lungi e dissi nel cuore biblicamente: " Nescio vos! ". Molto più fortunata di me, la bicicletta aveva trovato un meccanico che fermò qualche vite, rinnovò i pneumatici, e lubrificò i congegni. Per noi, creature di Dio, non esistono pezzi di ricambio. I pneumatici una volta invecchiati, tali rimangono, né il mercante vende olio per lubrificare le ossa indurite. Noi, sventuratamente, abbiamo l'età dei nostri pneumatici, cioè delle nostre arterie, e non c'è laboratorio che le rinnovi. Ciò è molto sconfortante: vale tuttavia a spiegare un'altra causa della mia contentezza quando mi accorsi che il pedale ripondeva bene all'impulso, che le case andavano indietro e la verdura della campagna veniva avanti. Addio, Madonnina del Duomo! (... )

ALLA CONQUISTA DI UN IMPERO

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Salgari, Emilio 20 occorrenze

. - Che abbia fiutato il vento infido? In guardia, amico e trombona bene. - Sul pianerottolo s'aprivano quattro grandiose gallerie, tutte di marmo, con colonne contorte e adorne di teste d'elefanti che intrecciavano artisticamente le loro proboscidi. Ampie tende di seta azzurra e leggerissima, con trama d'oro, d'uno splendido effetto, scendevano fra i colonnati onde ripararle dai riflessi del sole e mantenere una certa frescura. Lungo le pareti dei vasi enormi per lo più d'origine cinese reggevano dei colossali mazzi di fiori e delle foglie di banani. Anche in quelle gallerie v'erano numerose guardie che passeggiavano, armate di picche e di scimitarre. Il ministro fece attraversare a Yanez ed alla sua scorta una di quelle gallerie, poi aprì una porta tutta di bronzo dorato e sculturata e li introdusse in una immensa sala tappezzata in seta bianca con ricami d'oro e che aveva all'intorno parecchie dozzine di divanetti di velluto bianco. All'estremità, su una piattaforma di marmo, coperta in parte da un ricchissimo tappeto, si ergeva una specie di letto, su cui stava sdraiato, appoggiandosi ad un cuscino di velluto rosso, un uomo che indossava una lunga zimarra bianca. Intorno a quella specie di trono, stavano quattro vecchi indiani che sembravano sacerdoti, e dietro di loro, schierati su quattro linee, quaranta soldati seikki, i guerrieri più valorosi che abbia l'India e che vengono assoldati in gran numero dai rajah per farsene una guardia fedele e sicura. Il ministro con un gesto imperioso fece fermare i malesi presso la porta, poi prese per una mano Yanez, lo condusse verso il trono gridando ad alta voce: - Salute a S. A. Sindhia, rajah dell'Assam! Ecco il mylord inglese. - Il sovrano si era alzato, mentre Yanez si toglieva il cappello. I due uomini si guardarono per qualche minuto senza parlare come se volessero studiarsi a vicenda. Sindhia era un uomo ancora giovane, poiché non pareva che avesse più di trent'anni, però la vita dissoluta che doveva condurre, aveva già tracciata sulla fronte del tiranno delle rughe precoci. Era nondimeno sempre un bellissimo tipo d'indiano, dai lineamenti finissimi, con occhi neri che parevano due carboni lucenti. Una rada barbetta nera gli dava un aspetto piuttosto truce. - Sei tu il mylord che mi riporta la pietra di Salagraman? - chiese finalmente, dopo aver squadrato dall'alto in basso il portoghese. - Se è vero quanto hai detto al mio ministro, sii il benvenuto, quantunque io non ami gli stranieri. - Sì, io essere mylord John Moreland, Altezza, ed io riportare a te conchiglia con capello di Visnù - rispose Yanez. - Tu avere promesso ricchezze, onori, è vero? - E manterrò la promessa, mylord - rispose il principe. - Ebbene io a te dare conchiglia. - Si volse facendo cenno al malese che portava il cofano di avvicinarsi. Levò la seta che l'avvolgeva e andò a deporlo ai piedi del principe. - Tu vedere prima Altezza, se quella essere vera pietra rubata. - Vi è un segno sulla pietra che io ed i gurum della pagoda di Karia conosciamo benissimo - rispose il principe. Aprì il cofano e prese la conchiglia facendola girare e rigirare fra le mani. Una vivissima gioia si era subito diffusa sul suo viso. - È la pietra che fu rubata, - disse finalmente. - Mylord, tu sarai mio amico. - Uno dei suoi cortigiani udendo quelle parole portò subito a Yanez una sedia dorata, facendolo sedere dinanzi alla piattaforma. Quasi subito una diecina di servi, che indossavano dei costumi sfarzosi entrarono reggendo dei vassoi d'oro sui quali vi erano delle chicchere piene di caffè, bicchieri colmi di liquori, piattelli con gelati e pasticcini dolci. Il principe e Yanez furono i primi serviti, poi i ministri, quindi i malesi della scorta. - Ed ora mylord, - disse Sindhia dopo d'aver vuotato un paio di bicchieri di cognac, ingollati come se quella vecchia grappa fosse della semplice acqua, - mi dirai come sei riuscito a sorprendere i ladri e perché ti trovi sul mio territorio. - Io essere qui venuto a cacciare le bâg - rispose Yanez - perché io essere molto grande cacciatore e non avere paura di tigri. Io averne uccise molte, tante nelle Sunderbunds del Bengala. - Ed i ladri? - Io essermi imboscato ieri notte per cacciare una bâg nera e grossa molto e ... - Una tigre nera! - aveva esclamato il principe sussultando. - Sì. - Quella che ha divorati i miei figli! - gridò Sindhia passandosi una mano sulla fronte che pareva si fosse coperta d'un gelido sudore. - Come? Quella bâg avere mangiato ... - Taci, mylord - disse il principe quasi imperiosamente. - Continua. - Tigre non venire ed io aspettare sempre - proseguì Yanez. - Sole stava per farsi vedere, quando io scorgere cinque indiani scappare attraverso bosco. Dovevano essere thugs, perché io avere veduto ai loro fianchi, lacci e fazzoletti seta nera con palle piombo. Io odiare quei bricconi e quindi sparare subito carabina poi pistole e ucciderli tutti, poi gettare cadaveri nel fiume e coccodrilli tutto mangiare. - Ed il cofano? - Averlo trovato a terra. - E poi? - Poi io avere udito tuoi araldi, ed io portare qui conchiglia col capello di Visnù perché non sapere cosa farne io. - E che cosa domandi ora, mylord? - chiese Sindhia. - Io non volere denaro, io essere molto ricco. - Ma tu hai diritto ad una ricompensa. La pietra di Salagraman è per noi un tesoro impagabile. - Yanez stette un momento silenzioso, fingendo di pensare, poi disse: - Tu nominare me tuo grande cacciatore, ed io uccidere le tigri che mangiano tuoi sudditi. Ecco quello che io volere. - Il rajah aveva fatto un gesto di stupore, tosto imitato dai suoi ministri ed aveva ben ragione di mostrarsi sorpreso. Come! Quell'inglese originale invece di chiedere ricompense si offriva invece di rendere dei preziosi servigi, quali la distruzione di tutte le belve che tanti danni e tante angosce recavano ai poveri assamesi delle campagne? - Mylord, - disse il rajah, dopo un silenzio abbastanza lungo. - Io ho offerto onori e ricchezze a chi avrebbe ricuperata la pietra di Salagraman. - Io saperlo,- rispose Yanez. - E non domandi nulla. - Io essere contento cacciare bâg ed essere tuo grande cacciatore. - Se ciò può farti felice, io ti offro alla mia corte un appartamento, i miei elefanti ed i miei scikari (7).

. - Così cattiva che si calcola abbia divorato più di duecento persone. - Molto appetito quella bestia! - Tu sei grande cacciatore, mi hai detto. - Moltissimo. - Vuoi provarti a ucciderla? - Yanez con non poca sorpresa del rajah non aveva risposto. I suoi occhi si erano invece fissati su una doppia cortina di seta che pendeva dietro a quella specie di letto e che di quando in quando oscillava come se dietro si nascondesse qualcuno. - Che cosa può essere? - si era chiesto il sospettoso portoghese. - Si direbbe che qualcuno suggerisce delle pessime idee al sovrano. - Mi hai capito, mylord? - chiese il rajah, un po' sorpreso di non ricevere risposta. - Sì, altezza - rispose Yanez. - Io andare uccidere bâg nera che ha mangiato tuoi figli. - Avresti tanto coraggio? - Io mai avere paura delle tigri. Pum! E morte tutte! - Se tu, mylord riuscirai a vendicare i miei figli, io darò a te tutto quello che vorrai. Pensaci. - Io avere pensato. - Che cosa vorrai? - Tu avere commedianti a corte, Altezza. - Sì. - Io voler vedere commedie indiane e suggerire io soggetto ad artisti. - Ma tu non domandi nulla! - esclamò il rajah, che cadeva di sorpresa in sorpresa. Un sorriso diabolico era comparso sulle labbra di Yanez. - Noi inglesi essere tutti eccentrici. Io voler vedere teatro indiano. - Subito? - No, dopo aver uccisa tigre feroce. Io dare a mangiare a quella brutta bestia molto piombo. Tu Altezza preparare domani elefanti e scikari, prima spuntare sole. Io preparare tutti miei uomini. Lasciami andare ora: curare molto mie armi buone. - Yanez si era alzato facendo al principe un profondo inchino. - Addio, mylord! - disse il rajah porgendogli la destra. - Non dimenticherò mai quanto ti devo. - Aho! Io non avere fatto nulla. - I seikki ed i ministri si erano riavvicinati. I primi ad un cenno del rajah aveva presentato le armi al portoghese, il quale aveva risposto con un perfetto saluto militare. Anche i sei malesi, dal canto loro, avevano alzato le carabine salutando il rajah. Yanez attraversò a passi lenti la sala, accompagnato da due ministri; quando però fu presso la porta si volse bruscamente e vide, con non poca sorpresa, una testa comparire fra le cortine di seta che pendevano dietro il trono del principe. Quella testa era d'un uomo bianco, barbuto, con due occhi di fuoco. I loro sguardi s'incontrarono, ma fu un lampo, poiché quell'europeo era subito scomparso. - Ah! Birbante! - mormorò Yanez. - Eri tu che suggerivi al principe! Deve essere quel greco misterioso di cui mi ha parlato quel povero Kaksa Pharaum. Quello deve essere più pericoloso di quell'imbecille di Sindhia, però mio caro, hai da fare con delle vecchie Tigri di Mompracem e puoi essere certo che ti mangeranno. - Salutò i ministri che lo avevano accompagnato e uscì dal palazzo, salutato dalle guardie che vegliavano sulle gradinate e dinanzi al portone. A breve distanza stava fermo il suo mail-cart, tirato da due cavalli che Bindar, il sivano, riusciva a mala pena a tenere fermi. - Mio fratellino Sandokan è veramente un grand'uomo, - mormorò Yanez. - Che tigre prudente. - Si volse verso i malesi che aspettavano i suoi ordini: - Disperdetevi, - disse loro - fate tutto ciò che volete e badate di non farvi seguire da nessuno. Non ritornate alla pagoda sotterranea che a notte tarda e fucilate senza misericordia chi cercherà di spiarvi. Vi sono dei pericoli. - Va bene capitano, - risposero i malesi. Salì a cassetta, sedendosi a fianco di Bindar e lanciò i cavalli a corsa sfrenata onde nessuno potesse seguirlo. Solamente quando fu sulle rive del Brahmaputra lontano dagli ultimi sobborghi, rallentò il galoppo furioso dei focosi destrieri. - Bindar, - disse, - hai udito a parlare tu della tigre nera che ha mangiato i figli del rajah? - Sì, sahib - rispose l'indiano. - Anch'io ho udito vagamente a parlarne due o tre giorni or sono. Che bestia è? - Una bâg che si dice sia tutta nera e che commette delle stragi terribili. - Quale luogo frequenta? - Le jungle di Kamarpur. - Sono lontane? - Una ventina di miglia, non di più. - Al di là del Brahmaputra? - Non è necessario attraversare il fiume. - È vero che ha mangiati i figli del rajah? - Sì, sahib. - Quando? - L'anno scorso. - E come? - Il rajah seccato dai continui reclami dei suoi sudditi, s'era finalmente deciso di porre fine alle stragi che commetteva quella admikanevalla (8)

. - Che io abbia la chiave ed una fune e il colpo sarà fatto. Mio caro greco, vedremo chi di noi due sarà più furbo. Vi è qualcuno che discorre con Surama. Bah! Se non starà zitto con un colpo di pugnale gli chiuderò per sempre la bocca. - Ritornò nel suo bugigattolo, si sdraiò sul letto, e, acceso il cibuc, si mise a fumare immergendosi in profondi pensieri. Aveva appena terminata la prima carica di tabacco, quando il giovane sudra ricomparve tenendo in mano una bottiglia ed un bicchiere di metallo dorato. - Ecco, sahib - gli disse. - È il maggiordomo che ti manda questo. - E la chiave? - L'ho presa senza che nessuno se ne accorga. - Tu sei un bravo ragazzo. Ora dimmi se mia sorella è sola o in compagnia di qualche altra donna. - Questo lo ignoro, non potendo io entrare nell'harem del mio signore. - Non importa, - disse Sandokan dopo un momento di riflessione. - Che cosa devo fare ora? - Portare la carta che ti ho dato al mio amico e procurarmi per questa sera una solida corda. - Che cosa vuoi fare sahib? - chiese il sudra spaventato. - T'ho detto che ti prendo al mio servizio con doppia paga: non ti basta? - È vero, sahib. - Vattene. - Attese che il rumore dei passi fosse cessato, poi tornò nel corridoio e tenendo in mano la chiave che il giovane gli aveva dato, accostò di nuovo un orecchio alla toppa. - Non parlano più, - mormorò. - Facciamo la nostra comparsa: Surama mi rivedrà ben volentieri. - Introdusse la chiave e aprì. Un grido, a mala pena represso, rispose allo stridio del chiavistello. - Taci, Surama! - disse Sandokan. - Sono io!

Dove credi che il rinoceronte abbia il suo covo? - Nella foresta che costeggia lo stagno dei coccodrilli. - Lontana? - Qualche ora di marcia. - Si è mai mostrato di giorno? - Mai, sahib. È solamente a notte tarda che lascia la foresta per venire a devastare le nostre piantagioni. - L'hai veduto tu? - Sì, tre notti or sono gli ho sparato contro due colpi di carabina e probabilmente non sono riuscito a colpirlo. - È grosso? - Non ne ho mai veduto di così colossali. - Va bene. Lasciami riposare fino dopo il tramonto e avverti l'uomo che deve guidarci di tenersi pronto. - Sarò io che ti condurrò sul luogo che la cattiva bestia frequenta. - Una parola, mylord - disse l'ufficiale del rajah. - Come intendi cacciarlo? - Lo aspetterò all'imboscata. - Non otterresti nulla, perché al primo colpo di fucile, quegli animali assalgono e scappano, e tu sai che una palla sola non basta ad atterrarli. Il rajah ha messo a tua disposizione uno dei suoi migliori cavalli, onde tu possa inseguire l'animale dopo fatto il colpo. - Me ne servirò, - rispose Yanez. - Ora lasciatemi tranquillo perché non so se questa sera avrò tempo di dormire. - Attese che il capo e l'ufficiale si fossero allontanati, poi volgendosi verso i suoi malesi che stavano seduti a terra, lungo le pareti, disse loro: - Qualunque cosa debba succedere, voi non mi lascerete solo nella foresta. Non abbiate paura del rinoceronte: penso io ad abbatterlo. - Temi qualche tradimento, padrone? - chiese Kubang. - Sono sicurissimo che quel maledetto greco, cercherà di vendicarsi, con tutti i mezzi possibili, del colpo di scimitarra che gli ho dato, e perciò dubito di tutto e di tutti. In una caccia in mezzo alla foresta accade talvolta di ammazzare un cacciatore invece dell'animale. - Non perderemo d'occhio i seikki, capitano Yanez. Alla prima mossa sospetta, piomberemo addosso loro come tigri e vedremo quanti sfuggiranno alle nostre scimitarre. - Che uno di voi monti la guardia fuori della capanna e prendiamo un po' di riposo. - Si stese su una stuoia ed invitato dal gran calore che regnava e dal profondo silenzio, poiché anche gli elefanti e gli indiani si erano addormentati, chiuse gli occhi. Fu svegliato verso il tramonto dai latrati dei cani, dai nitriti dei cavalli, dai barriti degli elefanti e dalle grida dei cornac e dei seikki. I malesi erano già in piedi e pulivano le loro carabine e le loro pistole. - La cena, - disse Yanez. - Poi andremo a scovare questo signor colosso. - I cuochi avevano preparato il pasto serale e non aspettavano che l'ordine del gran cacciatore per servire. Yanez mangiò alla lesta, prese la sua magnifica carabina a doppia canna, caricata con palle rivestite di rame, veri proiettili da grossa caccia, e uscì. Gli uomini scelti ad accompagnarlo, non erano che in sei e tenevano per le briglie alcuni splendidi cavalli, fra i quali uno tutto nero che pareva avesse il fuoco nelle vene e che era riccamente bardato, con staffe corte all'orientale. - Il mio? - chiese Yanez all'ufficiale. - Sì mylord, - rispose l'indiano. - Non montarlo però ora. - Perché? - I cavalli devono giungere sul luogo della caccia freschissimi. I rinoceronti corrono colla velocità del vento quando caricano e guai al cavallo che in quel momento si trovasse affaticato. - Hai ragione. E la guida? - Ci aspetta di là delle piantagioni. - Partiamo, ma senza cani: disturberebbero la caccia. - Così ho pensato anch'io, desiderando tu cacciare all'agguato. - Lasciarono l'accampamento e presero un sentiero che attraversava le piantagioni d'indaco, seguìti dagli sguardi di tutti i contadini, i quali si erano schierati sui margini dei campi. La notte era splendida e propizia per una buona caccia. Una fresca brezzolina, che scendeva dagli altipiani giganteschi del Bhutan, soffiava ad intervalli, sussurrando fra le pianticelle d'indaco, e la luna sorgeva mestosa dietro i lontani picchi della frontiera birmana. In cielo le stelle fiorivano a milioni e milioni, proiettando una luce dolcissima. Yanez colla sua eterna sigaretta fra le labbra, colla carabina sotto un braccio, seguìto subito dai suoi malesi, marciava in testa al drappello. L'ufficiale invece guidava i seikki che conducevano i cavalli. Oltrepassate le piantagioni il drappello trovò il vecchio capo. - L'hai veduto? - gli chiese Yanez. - No, sahib, ma ho saputo dove si trova il suo covo. Un cacciatore di nilgò me l'ha indicato. - Credi che sia già uscito a pascolare? - Oh! non ancora. - Meglio così: lo sorprenderemo nel suo covo. - Ripresero la marcia avviandosi verso una foresta che nereggiava verso ponente e che sembrava immensa. Bastò un'ora di marcia rapidissima, essendo gli indiani dei camminatori lestissimi ed infaticabili non meno degli abissini, perché la raggiungessero. Per un caso veramente raro, quella foresta si componeva quasi tutta di fichi d'India, piante colossali d'una longevità straordinaria, dalle foglie ovali lanceolate, coriacee, mescolate a piccoli frutti d'un sapore dolciastro che poco hanno da fare coi nostri fichi d'Europa, e dai cui tronchi gl'indiani estraggono, mediante una semplice incisione, una specie di latte che non è però bevibile, ma che invece serve ottimamente a preparare una specie di gomma-lacca, che nulla ha da invidiare a quella che viene usata dai cinesi e dai giapponesi. Il vecchio capo fece una breve fermata sul margine della foresta mettendosi in ascolto, poi non udendo che gli ululati lontani di alcuni lupi indiani, s'inoltrò risolutamente fra quella miriade di tronchi, dicendo a Yanez: - Non ha ancora lasciato il suo covo. Se fosse uscito lo si udrebbe, perché quando scorazza per le boscaglie fa sempre udire il suo niff-niff. - Meglio così, - rispose Yanez. Gettò via la sigaretta, armò la carabina, fece segno ai malesi di fare altrettanto e seguì la guida che s'inoltrava con passo sicuro sotto le immense volte dei fichi, tenendo in mano un vecchio fucile che ben poco avrebbe potuto servire contro quei colossali animali, che hanno una pelle quasi impenetrabile ai migliori proiettili. La foresta, di passo in passo che i cacciatori s'avanzavano, diventava sempre più fitta. Per di più enormi cespugli crescevano qua e là, avvolti in una vera rete di calamus e di nepente. I cacciatori avevano percorso un buon mezzo miglio, quando il vecchio indiano fece a loro segno di arrestarsi. - Ci siamo? - chiese Yanez sottovoce. - Sì, sahib: lo stagno dei coccodrilli è poco lontano ed è sulle sue rive che il rinoceronte ha il suo covo. Fa' avvolgere le teste dei cavalli nelle gualdrappe onde non nitriscano. L'animale può essere di buon umore e sfuggirci, invece di caricarci. - Yanez trasmise l'ordine ai seikki poi disse alla guida: - Avresti paura a seguirmi? - Perché sahib? - Desidero scovare il rinoceronte senza avere dietro di me i seikki ed i miei uomini. Spareranno dopo di me se non riuscirò ad abbatterlo. - Tu sei il grande cacciatore del rajah, quindi nulla devo temere. - Aspettatemi qui e tenetevi pronti a montare a cavallo, - disse Yanez alla scorta. - Se io manco aprite il fuoco e mirate bene. Se ci carica sarà un affare serio ad arrestarlo in piena corsa. Andiamo amico: conducimi nel luogo preciso dove si trova il covo. - Vieni, sahib. - Si allontanarono in silenzio, passando con precauzione fra le innumerevoli colonne dei fichi, cogli occhi in guardia e gli orecchi ben tesi. Regnava un profondo silenzio. Perfino i bighama, i lupi dell'India, tacevano in quel momento. Anche il venticello notturno era cessato e non faceva più stormire il fogliame degli immensi alberi. Percorsi altri trecento passi il vecchio indiano tornò a fermarsi. - Lasciami ascoltare, - disse sottovoce a Yanez. - Lo stagno dei coccodrilli sta dinanzi a noi. - Odi nulla? - Il respiro del rinoceronte. Deve essere nascosto in mezzo a quel vasto cespuglio. - Che non abbia fame questa sera? - Si sarà cibato abbondantemente stamane. - Lo costringerò io a mostrarsi. - Si guardò intorno e scorto un grosso pezzo di ramo, lo scagliò, con quanta forza aveva, al disopra del cespuglio. Subito una specie di fischio rauco s'alzò fra le fronde seguìto da uno strano grido. Era il niff-niff del rinoceronte. - Si è svegliato - sussurrò Yanez mettendosi rapidamente la carabina alla spalla. - Che si mostri e gli caccerò due palle nel cervello. - Trascorsero alcuni istanti senza che l'animale si mostrasse. Anche l'indiano, quantunque avesse una scarsa fiducia nell'efficacia del suo vecchio fucile, si teneva pronto a sparare. Ad un tratto il cespuglio si agitò in tutti i sensi, come se una tempesta fosse improvvisamente scoppiata nel suo seno, poi s'aprì bruscamente ed un enorme rinoceronte comparve lanciando furiosamente il suo grido di guerra. Subito tre detonazioni rimbombarono l'una dietro l'altra, seguìte tosto da un altissimo grido lanciato dall'indiano. - Fuggi, sahib! ... - Il rinoceronte quantunque dovesse aver ricevuto qualche palla, poiché Yanez non mancava mai ai suoi colpi, caricava all'impazzata coll'impeto furibondo, che è particolare a quegli animalacci. Il portoghese vedendolo, aveva voltato le spalle slanciandosi a tutta corsa verso il luogo ove si trovavano i malesi e i seikki. Fortunatamente gl'innumerevoli tronchi dei fichi d'India, che in certi luoghi crescevano così uniti da non permettere il passaggio ad un grosso animale, avevano frenato lo slancio terribile del colosso, lasciando così tempo ai fuggiaschi di raggiungere i loro compagni. - A cavallo! - gridò Yanez. Un seikko gli condusse prontamente dinanzi quel cavallo che il rajah gli aveva destinato. Il portoghese con un solo slancio fu in sella senza servirsi delle staffe. I malesi e i seikki vedendo il rinoceronte apparire fra i tronchi dei baniani a corsa sfrenata, fecero una scarica, poi si dispersero in varie direzioni, trasportati loro malgrado dai cavalli spaventati che non obbedivano più né alle briglie, né agli speroni. L'ufficiale del rajah era stato il primo a scappare, senza perdere tempo a far fuoco. Yanez aveva fatto fare al suo nero destriero un salto terribile per evitare l'urto del furibondo colosso, mentre il vecchio indiano, più fortunato, si poneva in salvo, con un'agilità scimmiesca, su un fico. Il rinoceronte, reso feroce dalle ferite ricevute, continuò la sua corsa per un due o trecento passi; poi fatto un brusco voltafaccia tornò indietro lanciando per la seconda volta il suo grido di guerra: niff-niff! ... Se gli altri erano scappati, Yanez era rimasto sul luogo della caccia e non per volontà sua, bensì per bizzarria del suo cavallo che pareva fosse diventato improvvisamente pazzo. Faceva dei terribili salti di montone come se il peso del cavaliere gli spezzasse le reni, s'inalberava nitrendo dolorosamente, poi sferrava calci in tutte le direzioni. Il portoghese però non si lasciava scavalcare e stringeva nervosamente le ginocchia e non risparmiava né strappate di briglie, né colpi di sperone, sagrando come un turco. - Via! scappa! - urlava. - Vuoi farti sventrare? - Il cavallo non obbediva ed il rinoceronte tornava alla caccia, colla testa bassa ed il corno teso, pronto ad immergerlo tutto nel ventre del nemico. Un freddo sudore bagnava la fronte di Yanez. Un terribile sospetto gli era balenato nel cervello, ossia che il greco gli avesse preparato qualche tranello per perderlo nel momento più pericoloso. Guardò rapidamente in aria. Appena ad un metro sopra la sua testa si stendevano orizzontalmente i rami dei fichi. - Sono salvo! - esclamò, gettandosi a bandoliera la carabina. In quel momento il rinoceronte piombò addosso all'imbizzarrito destriero. Il corno scomparve intero nel ventre del povero animale, poi con un colpo di testa alzò cavallo e cavaliere. Uno solo però cadde: il primo, poiché il secondo, che aveva conservato un meraviglioso sangue freddo anche in quel terribile frangente, si era disperatamente abbrancato ad un ramo, issandosi prontamente. Il cavallo, sventrato di colpo, stramazzò al suolo, s'alzò ancora inalberandosi, poi cadde di quarto mandando un nitrito soffocato. Il rinoceronte, colla brutalità e ferocia istintiva degli animali della sua razza, tornò addosso al povero animale immergendogli per la seconda volta nel corpo il corno, poi preso da un eccesso di furore indescrivibile, si mise a calpestarlo rabbiosamente mandando fischi acuti. Sotto il suo peso enorme, le ossa del cavallo scricchiolavano e si spezzavano, e dagli squarci prodotti da quei due colpi di corno, uscivano insieme getti di sangue, intestini e polmoni. Yanez che aveva ricuperata prontamente la sua calma, appena messosi a cavalcioni del ramo, ricaricò la carabina, borbottando: - Ora vendicherò il cavallo del rajah, quantunque quel testardo, per poco, non mi abbia spedito diritto nell'altro mondo. - In quel momento alcuni spari rimbombarono a breve distanza: poi i sei malesi passarono a centocinquanta metri circa da Yanez, trasportati in un galoppo sfrenato. - Andate pure, miei bravi - disse Yanez. - Ci penso io al rinoceronte. - Si accomodò meglio che poté sul ramo e puntò la carabina. Il bestione che pareva impazzito non aveva ancora lasciato la sua vittima. La squarciava a gran colpi di corno avvoltolandosi nel sangue, la calpestava lasciandosi poi cadere con tutto il suo enorme corpaccio e non cessava di mandare urla stridenti. Una palla che lo colpì un po' sopra l'occhio sinistro, lo calmò per un istante. S'arrestò guardando in aria, colla bocca aperta. Era il momento che Yanez aspettava. Il secondo colpo di carabina partì colpendo l'animale al palato e penetrandogli nel cervello. La ferita era mortale, pure il bestione non cadde. Anzi si mise a galoppare vertiginosamente intorno ai tronchi dei fichi schiantandone parecchi. - Per Giove! - esclamò Yanez ricaricando l'arma. - Per questi animali ci vorrebbe una spingarda o meglio un cannone. - Attese che gli passasse sotto e fece fuoco quasi a bruciapelo, colpendolo fra la nuca ed il collo. L'effetto fu fulminante. L'animalaccio si rizzò di colpo sulle zampe posteriori, poi stramazzò pesantemente a terra rimanendo immobile. Aveva ricevuto cinque palle e tutte foderate di rame e di grosso calibro. - Era tempo che tu morissi! - esclamò Yanez lasciandosi scivolare giù da uno di quegli innumerevoli tronchi. - Ho ammazzato tanti animali, ma nessuno m'ha fatto sudare né passare un brutto momento come questo. Vediamo ora che giuoco hai tentato, maestro Teotokris dell'Arcipelago greco. Che una tigre mi divori se qui sotto non vi è la tua mano! Il cavallo era troppo impazzito. - S'avvicinò con precauzione al rinoceronte e dopo essersi ben accertato che era proprio morto e che non vi era più pericolo che si rimettesse in piedi, rivolse la sua attenzione al destriero del rajah. Disgraziato animale! Intestini, cuore, polmoni e fegato giacevano intorno a lui, strappati dal brutale corno del colosso ed il suo corpo schiacciato, mostrava delle ferite spaventevoli dalle quali il sangue colava ancora abbondantemente. - Sembra quasi una focaccia, - mormorò Yanez. - Spero nondimeno di poter ancora trovare il perché aveva il diavolo in corpo. Ci deve essere qui sotto qualche bricconata. - Guardò a lungo il cadavere, poi slacciò la fascia del sottoventre e alzò la sella. - Ah! birbanti! - esclamò. Nella parte interna vi erano state confitte tre punte d'acciaio, lunghe un centimetro. - Ecco perché il povero animale era diventato furibondo, - riprese il portoghese. - Saltando in sella gli si erano conficcate nelle carni. Questo è un tiro del greco. Egli sperava che il rinoceronte mi sventrasse. No, mio caro, anche questa t'è andata a vuoto. Yanez ha la pelle più dura di quello che tu credi e, devo dirlo, anche una fortuna prodigiosa. Acqua in bocca per ora e lasciamo correre, ma ti giuro, birbante, che un giorno ti farò pagare, e tutto d'un colpo, i tuoi tradimenti. Già quell'altissimo ufficiale, che deve essere una tua creatura, mi era sospetto. - Caricò flemmaticamente la carabina e sparò, con un certo intervallo l'uno dall'altro, due colpi in aria. Le due detonazioni rombavano ancora sotto le infinite volte di verzura, quando vide giungere, a breve distanza l'uno dall'altro, i suoi fidi malesi seguìti dall'ufficiale del rajah. - Ecco fatto, - disse Yanez con una certa ironia, guardando l'indiano. - Come vedi la faccenda è stata sbrigata senza troppa fatica. - L'ufficiale rimase per qualche istante muto, guardandolo con profondo stupore. - Morto, - disse poi. - Non si muove più, - rispose Yanez. - Tu sei il più grande cacciatore di tutta l'India. - È probabile. - Il rajah sarà contento di te. - Lo spero. - Farò tagliare dai seikki il corno e tu stesso lo regalerai al principe. - Lo presenterai tu, così potrai avere una mancia. - Come vuoi, mylord. - Fammi condurre un altro cavallo, purché sia più docile del primo. Ne ha qualcuno troppo bizzarro il tuo signore. - L'ufficiale finse di non udirlo ed essendo in quel momento giunti i seikki accompagnati dal vecchio indiano, fece cenno a uno di loro di smontare. Yanez stava per montare in sella quando un'improvvisa agitazione si manifestò fra i seikki, seguìta quasi subito dalle grida: - Lo jungli-kudgia! ... Lo jungli-kudgia! - Yanez udendo dietro di sé aprirsi i cespugli si voltò rapidamente. Un animale che a prima vista sembrava un bisonte indiano, era comparso improvvisamente aprendosi il passo fra le liane e i nepenti. - Fuoco, amici! - gridò. I sei malesi, che avevano le carabine ancora cariche, fecero fuoco simultaneamente, non badando al grido mandato dal vecchio indiano: - Ferma! - Il ruminante colpito da cinque o sei palle stramazzò fra le erbe, senza mandare un muggito. - Sventura sui maledetti stranieri! - urlò il capo del villaggio slanciandosi verso l'animale che agonizzava e alzando le braccia verso il cielo. - Hanno ucciso la vacca sacra di Brahma! - Ehi capo, diventi matto? - chiese Yanez. - Se è per spillarmi un po' di rupie, sono pronto a pagarti la tua bestia. - Una vacca sacra non si paga, - rispose l'ufficiale del rajah. - Andate tutti al diavolo! - gridò Yanez che perdeva la pazienza. - Temo, mylord che tu dovrai fare i conti col rajah, perché qui, come in tutta l'India, una vacca è un animale sacro, che nessuno può uccidere. - Perché dunque i tuoi uomini hanno gridato lo jungli-kudgia? Sebbene non conosca profondamente la lingua indiana, quel nome lo si dà, se non erro, ai terribili bisonti della jungla, che non sono meno pericolosi d'un rinoceronte. - Si saranno ingannati. - Peggio per loro. - Mentre si scambiavano quelle parole, il vecchio indiano continuava a girare intorno al cadavere della vacca, manifestando la più violenta disperazione e vomitando una serqua infinita d'ingiurie contro gli uccisori dell'animale sacro. - Finiscila, cornacchia! - gridò Yanez, sempre più seccato. - T'ho liberato dal rinoceronte che guastava le tue piantagioni, e non cessi d'ingiuriarmi. Tu sei la più grande canaglia che abbia conosciuto da che sono nato. Se non ritiri la tua linguaccia da cane, ti farò bastonare dai miei uomini. - Tu non lo farai, - disse l'ufficiale del rajah con voce dura. - Chi me lo impedirebbe, signor ufficiale? - chiese Yanez. - Io, che qui rappresento il rajah. - Tu non sei, per me, che sono un mylord inglese, che un impiegato della corte, inferiore ai miei servi. - Mylord! - Vattene all'inferno, - disse Yanez, montando a cavallo. Poi volgendosi verso i malesi che guardavano ferocemente i seikki, pronti a caricarli al primo moto sospetto, disse a loro: - Torniamo in città; ne ho abbastanza di questo affare. - Mylord, - disse l'ufficiale, - gli elefanti ci aspettano. - Gettali nel fiume, non ne ho bisogno. - Fece salire dietro di sé il malese che gli aveva dato il cavallo e partì al galoppo, mentre il vecchio indiano gli urlava dietro ancora una volta: - Maledetti stranieri! Che Brahma vi faccia morire tutti! - Usciti dal bosco, le tigri di Mompracem si gettarono fra le piantagioni, senza badare se rovinavano più o meno l'indaco, e presero la via di Gauhati. Quando entrarono in città era ancora notte. Le guardie che vegliavano dinanzi al portone, si affrettarono ad introdurli nel vasto cortile d'onore, dove, sotto i porticati spaziosi, dormivano su semplici stuoie, scudieri e staffieri, onde essere più pronti ad ogni chiamata del loro signore. Yanez affidò a loro i cavalli e salì nel suo appartamento svegliando il chitmudgar. - Tu, signore! - esclamò il maggiordomo stropicciandosi gli occhi. - Non mi aspettavi così presto? - No, signore. Hai già ucciso il rinoceronte? - Sì, l'ho messo a terra con quattro colpi di carabina. Portami una bottiglia nella mia stanza, alcune sigarette e aspettami, ché devo chiederti importanti spiegazioni. - Sono ai tuoi ordini, sahib. - Yanez si sbarazzò della carabina, mandò i suoi malesi a coricarsi, poi raggiunse il chitmudgar, che aveva già accesa la lampada e messo sul tavolo una bottiglia di liquore ed una scatola di sigarette indiane, formate d'una foglia di palma arrotolata e di tabacco rosso. Vuotò un bicchiere di vecchio gin, poi sdraiatosi su una poltrona, gli narrò succintamente come si era svolta la caccia, dilungandosi solo sull'uccisione di quella maledetta vacca sacra, che l'aveva fatto uscire dai gangheri: - Che cosa ne dici tu ora di questo affare? - È una cosa grave, mylord - rispose il maggiordomo che appariva preoccupato. - Una mucca è sempre sacra, e chi l'uccide incorre in grandi fastidi. - Mi avevano detto che era un bisonte della jungla ed io ho comandato il fuoco senza guardarla bene. - Il chitmudgar scosse il capo mormorando: - Affare serio! affare serio! - Dovevano tenersela nel villaggio. - Tu hai ragione, mylord, ma il torto sarà tuo. - Quel capo è un vero furfante. Non gli ho ucciso il rinoceronte che devastava le piantagioni del villaggio? Ah! e se in questa faccenda vi fosse sotto la mano del favorito del rajah? Le punte di ferro vi erano nella sella. - Non mi stupirei, - rispose il maggiordomo. - Io so che quell'uomo ti odia a morte. - Me ne sono già accorto e poi vorrà vendicarsi di quel colpo di scimitarra. - Certo, mylord. - Allora è stata ordita una vera congiura. Prima ha tentato di farmi sventrare dal rinoceronte, poi mi ha mandato la vacca sacra. Che fosse d'accordo anche il capo del villaggio? - È probabile, signore. - Per Giove! non mi lascerò mettere nel sacco. Vado a riposarmi e se prima di mezzogiorno il rajah manda qualcuno dei suoi satrapi, risponderai che dormo e che non voglio essere disturbato. Se insistono, lancia contro di loro i miei malesi. È ora di mostrare a quel cane di greco e a quell'ubriacone che serve, che un mylord non si lascia prendere a gabbo. Va', chitmudgar. - Spense la lampada e si gettò sul ricchissimo letto senza spogliarsi, addormentandosi quasi subito.

. - Che il favorito del rajah abbia fatto un nuovo acquisto. - Non comprendo. - Cioè che abbia fatto rapire, di notte, una principessa straniera che si dice sia d'una bellezza meravigliosa. - Sì, sahib - rispose l'indiano abbassando la voce e socchiudendo gli occhi. - Mi sorprende però come si sia saputo in città quel rapimento, essendo stato commesso di notte. - Coll'aiuto d'un gussain è vero? - Che cosa ne sai tu, sahib? - Me lo hanno detto, - rispose Sandokan. - Bevi ancora: non hai ancora vuotata la tua tazza. - L'indiano, che ci trovava piacere, d'un solo colpo la lasciò asciutta. L'effetto di quella bevuta, in un uomo non abituato ad altro che a sorseggiare del toddy, fu fulminante. S'accasciò di colpo sul seggiolone guardando Sandokan con due occhi smorti, che non avevano più alcun splendore. - Ah! Mi dicevi dunque che il colpo era stato fatto di notte, - rispose Sandokan con un leggero tono ironico. - Sì, sahib - rispose l'indiano con voce semi-spenta. - E dove l'hanno portata quella bella fanciulla? - Nel bengalow del favorito. - E vi si trova ancora? - Sì, sahib. - Si dispera? - Piange continuamente. - Il favorito non si è fatto però ancora vedere? - Ti ho detto che è ammalato e che si trova sempre alla corte, nell'appartamento destinatogli dal rajah. - E dove l'hanno messa? Nell'harem? - Oh no! - Sapresti indicarci la stanza? - L'indiano lo guardò con una certa sorpresa e fors'anche con un po' di diffidenza, quantunque fosse ormai completamente o poco meno ubriaco. - Perché mi domandi questo? - chiese. Sandokan accostò la sua seggiola a quell'indiano e abbassando a sua volta la voce gli sussurrò agli orecchi: - Io sono il fratello di quella giovane. - Tu, sahib? - Tu però non devi dirlo se vuoi guadagnare una ventina di rupie. - Sarò muto come un pesce. - Talvolta anche i pesci emettono dei suoni. Mi basta che tu sia muto come quelle teste d'elefante che adornano le pagode. - Ho capito, - rispose l'indiano. - E se tu mi servirai bene avrai fatto la tua fortuna - continuò Sandokan. - Sì, sahib - rispose l'indiano sbadigliando come un orso e abbandonandosi sullo schienale della poltrona. - Purché mi presenti al chitmudgar del favorito. - Sì ... del favorito. - E che non parli. - Si ... parli. - Vattene al diavolo! - Sì ... diavolo. - Furono le sue ultime parole poiché vinto dall'ubriachezza chiuse gli occhi mettendosi a russare sonoramente. - Lasciamolo dormire, - disse Sandokan. - Questo giovanotto non ha certo bevuto mai così abbondantemente. - Sfido io, gli hai fatto bere tre razioni d'un cipay in un solo colpo. - Ma sono riuscito a sapere quanto desideravo. Ah! Surama è ancora nel palazzo ed il greco si trova ancora a letto! Quando quel briccone si alzerà, la futura regina dell'Assam non sarà più nelle sue mani. - Che cosa intendi di fare? - Di fare innanzi a tutto la conoscenza del chitmudgar. Quando sarò nel palazzo, vedrai che bel tiro giuocheremo noi. Lasciamo che quest'indiano digerisca in pace il gin che ha ingollato e andiamo a fare colazione. - Passarono in un vicino salotto e si fecero servire una tiffine, ossia carne, legume e birra. Quand'ebbero finito s'allungarono sui seggioloni e dopo d'aver avvertito il maggiordomo di non lasciar uscire il giovane indiano, chiusero a loro volta gli occhi prendendo un po' di riposo. Il loro sonno non fu molto lungo, poiché il chitmudgar, dopo un paio d'ore, entrò avvertendoli che l'indiano aveva di già digerita l'abbondante bevuta e che insisteva di vederli. - Quel ragazzo deve avere uno stomaco a prova di piombo, - disse Sandokan alzandosi lestamente. - Può fare concorrenza agli struzzi, - aggiunse Tremal-Naik. Entrarono nel vicino gabinetto e trovarono infatti il servo del greco in piedi e fresco come se avesse bevuto dell'acqua pura. - Ah! sahib! - esclamò con un gesto desolato. - Io mi sono addormentato. - E temi i rimproveri del maggiordomo del bengalow, è vero? - chiese Sandokan. - Ah no, perché oggi sono libero. - Allora tutto va bene. - Sandokan trasse dalla fascia un pizzico di fanoni, ossia di monete d'argento del valore d'una mezza rupia, e gliele porse dicendo: - Per oggi queste, a patto però che tu mi presenti al maggiordomo, desiderando io di avere un impiego alla corte, poco importa che sia alto o basso. - Purché tu sia con lui generoso, l'impiego può fartelo avere. Ha un fratello alla corte che gode d'una certa considerazione. - Andiamo subito adunque. - Ed io? - chiese Tremal-Naik. - Tu mi aspetterai qui, - rispose Sandokan, strizzandogli l'occhio. - Se vi sarà un altro posto disponibile non mi dimenticherò di te. Vieni, giovanotto. - Lasciarono l'albergo e, attraversata la piazza che era affollata di persone, di carri d'ogni forma e dimensione dipinti tutti a colori smaglianti, da elefanti e da cammelli, entrarono nello splendido bengalow del favorito del rajah, non senza però che Sandokan avesse destata una viva curiosità pel suo fiero portamento e per la tinta della sua pelle ben diversa da quella degl'indiani che non ha sfumature olivastre. Il chitmudgar del greco, avvertito subito della presenza di quello straniero nell'abitazione del suo padrone, si era affrettato a scendere nella stanza dove era Sandokan, introdotto dal giovane servo, coll'idea di far bene sentire, a quell'intruso, tutta la sua autorità di pezzo grosso. Quando però si vide dinanzi l'imponente figura del formidabile pirata, fu il primo a fare un profondo inchino, a chiamarlo signore e pregarlo di sedersi. - Tu saprai già, chitmudgar, lo scopo della mia visita, - gli disse Sandokan bruscamente. - Il servo che ti ha qui condotto me lo ha detto, - rispose il maggiordomo del favorito con aria imbarazzata. - Mi stupisce però come tu, signore, che hai l'aspetto d'un principe, cerchi un posto alla corte e per mezzo mio. - E del tuo padrone, - disse Sandokan. - D'altra parte hai ragione di mostrarti sorpreso non essendo io mai appartenuto alla casta dei sudra (12).

- Chi credi tu, chitmudgar che alla corte abbia qualche interesse a sopprimermi? - Il maggiordomo era rimasto silenzioso. - Il rajah? - No, è impossibile! - esclamò l'indiano. - Egli ti deve troppa riconoscenza per aver ricuperata la pietra di Salagraman e di non aver chiesto alcuna ricompensa. E poi egli ti ammira troppo dopo l'uccisione della kala-bâgh. - E allora? - L'altro uomo bianco. - Il favorito, è vero? - L'indiano ebbe una breve esitazione, poi rispose francamente: - Sì, lui. - Ne ero certo, - disse Yanez. - Egli teme che tu mylord, gli prenda il posto. - Credi tu che questo liquore sia avvelenato? - Questo no; è impossibile! Le bottiglie che io ho portato qui le ho prese nelle cantine del rajah, quindi puoi vuotarle con animo tranquillo. - Bevi allora. - Ecco mylord. - Il chitmudgar vuotò, senza esitare, d'un sol colpo il bicchiere. - È eccellente, mylord. - Allora berrò anch'io, - disse Yanez, empiendo un altro bicchiere. - Va' a riposarti ora: se avrò bisogno di te ti farò chiamare. - Il maggiordomo fece un profondo inchino e si ritirò. Yanez vuotò un altro bicchiere, accese una sigaretta e si stropicciò le mani mormorando: - La giornata è stata pesante, tuttavia non ho perduto il mio tempo inutilmente. Le frutta le raccoglieremo più tardi. La matassa è ancora molto imbrogliata; però spero di dare a Surama la corona che le spetta e di mandare a casa del diavolo Sindhia. Il ragno malefico è quel dannato greco dell'Arcipelago. Domani farò il possibile di darti una terribile lezione. -

. - Che abbia compromesso Yanez? - si chiese a mezza voce Sandokan mentre la sua fronte si copriva d'un freddo sudore. Si mise poi a passeggiare per la spianata colle mani chiuse, il viso alterato. Un improvviso scoppio di furore lo assalì d'un tratto: - Cane d'un greco! - gridò tendendo un braccio in direzione della capitale dell'Assam. - Non lascerò questo paese se non ti avrò prima strappato il cuore! Come ho uccisa la Tigre dell'India, ucciderò anche te! - Anche Tremal-Naik appariva molto preoccupato e nervoso. Egli si chiedeva insistentemente quali parole erano riusciti a strappare dalle labbra di Surama. Egli aveva già provato, quando aveva cercato di lottare cogli strangolatori della jungla nera, l'effetto di quei misteriosi narcotici, che solo certi indiani conoscono. Se erano riusciti a scoprire lo scopo della loro presenza nel principato d'Assam, doveva succedere una catastrofe completa, pensava. Sandokan dopo d'aver passeggiato qualche minuto, stringendo continuamente le pugna e aggrottando di quando in quando la fronte, tornò precipitosamente verso il gussain. - Hai più nulla da aggiungere a quanto hai detto? - No, sahib. - Ti avverto che tu rimarrai nelle nostre mani fino al nostro ritorno e che se hai mentito ti farò levare la pelle. - Ti aspetterò tranquillo - rispose il fakiro. - Invece di duecento rupie ne hai guadagnate quattrocento, che ti verranno contate subito. - Io sono tuo anima e corpo. - Vedremo, - rispose Sandokan. Si volse verso i malesi dicendo loro: - Levate quest'uomo dalla buca e dategli da mangiare e da bere finché vorrà. Vegliate però attentamente anche su lui. Ed ora mio caro Tremal-Naik, prepariamoci a partire. Surama sarà salva, se non sopravvengono altri incidenti. - Chi condurremo con noi? - Bindar, Kammamuri e sei uomini; gli altri rimarranno a guardia dei prigionieri. - Saremo sufficienti per tentare il colpo? - In caso di bisogno chiameremo in nostro aiuto i sei malesi che ha Yanez. Non perdiamo tempo e partiamo. - Sandokan ed i suoi compagni, dopo d'aver raccomandato a Sambigliong di tenere un piccolo posto di guardia sulle rive della palude, lasciavano la pagoda per raggiungere il Brahmaputra. Essendo quasi mezzo giorno non dovevano correre alcun pericolo nella traversata della jungla, poiché ordinariamente le belve, a menoché non siano eccessivamente affamate, durante le ore più calde del giorno si tengono sdraiate nelle loro tane. Solo la notte si mettono in caccia, favorendo le tenebre i colpi di sorpresa. La traversata infatti la compirono senza vedere alcun animale pericoloso. Solo qualche coppia di bighama, ossia di cani selvaggi, li seguì per qualche tratto urlando senza osare di attaccarli. Giunti sulle rive della palude trovarono la bangle nel medesimo luogo ove l'avevano lasciata, segno evidente che nessuno si era spinto fin là. Le guardie del rajah non avendo potuto seguire le tracce dei fuggiaschi in causa del fiume dovevano aver abbandonato l'inseguimento. - Bindar, - disse Sandokan salendo a bordo della barcaccia, - governa in modo da farci giungere in città a notte inoltrata. Non voglio che ci vedano entrare nel palazzo di Surama, che dovrà servirci da quartier generale. - S'imbarcarono levando l'ancora, ritirarono l'ormeggio ed imboccarono il canale che doveva condurli nel Brahmaputra remando lentamente, non avendo molta fretta. Una gran calma regnava sulla palude e sulle sue rive. Solo di quando in quando qualche uccello acquatico s'alzava pesantemente, descrivendo qualche curva intorno alla bangle, poi si lasciava cadere fra i gruppi di canne. In mezzo alle piante del loto, mezzo affondati nel fango, sonnecchiavano dei grossi coccodrilli, i quali non si degnavano di muoversi nemmeno quando la barca passava accanto a loro. Fu verso le sei della sera che Sandokan ed i suoi compagni raggiunsero il Brahmaputra. Due poluar, specie di navigli indiani, i più adatti alla navigazione interna, perché assai leggermente costruiti, colla prora e la poppa ad eguale altezza e muniti di due piccoli alberi che sorreggono due vele quadrate, navigavano a poca distanza l'uno dall'altro radendo quasi la riva opposta, dove la corrente si faceva sentire più forte. - Che siano barche in crociera? - si chiese Sandokan, che le aveva subito notate. - Non vedo seikki a bordo, - disse Tremal-Naik. - Mi hanno più l'apparenza di navigli mercantili. - Vedo una spingarda sulla prora di uno di essi. - Talvolta quelle barche sono armate non essendo sempre sicuri i corsi d'acqua che attraversano queste regioni. - Tuttavia li sorveglieremo, - mormorò Sandokan. - Possiamo accertarci subito se sono dei semplici trafficanti od esploratori. - In quale modo? - Rimanendo noi indietro o sopravvanzandoli. - Proviamo: giacché non abbiamo fretta facciamo ritirare i remi e lasciamoci portare dalla corrente. - I malesi, subito avvertiti, ritirarono le lunghe pale e la bangle rallentò la sua corsa, andando un po' di traverso. I due poluar continuarono la loro marcia, aiutati dalla brezza che gonfiava le loro vele ed in pochi minuti si trovarono considerevolmente lungi dalla bangle, sparendo poi entro la curva del fiume. - Se ne sono andati - disse Tremal-Naik. - Come vedi io non m'ero ingannato. - Sandokan crollò il capo senza rispondere. Non pareva affatto convinto della tranquillità di quei due piccoli navigli. - Dubiti? - chiese Tremal-Naik. - Un pirata fiuta gli avversari a grandi distanze, - disse finalmente la Tigre della Malesia. - Io sono più che sicuro che quei due poluar perlustrano il fiume. - Ci avrebbero fermati ed interrogati. - Non siamo ancora giunti a Gauhati. - Che i seikki ci abbiano seguìti nella nostra ritirata attraverso la jungla? Eppure quella sera io non vidi alcuna barca a darci la caccia. - E le rive non le conti? Voi siete tutti corridori insuperabili ed un uomo che avesse seguito la riva sinistra avrebbe potuto facilmente tenersi sempre in vista della bangle e notare il luogo ove aveva imboccato il canale della palude. - E perché non ci hanno assaliti nella jungla? - Può darsi che non abbiano avuto il coraggio di farlo - rispose Sandokan. - Le mie non sono però che semplici supposizioni e potrei benissimo ingannarmi. Tuttavia apriamo bene gli occhi e teniamoci pronti a qualunque evento. Sento per istinto che dovremo lottare con un uomo fortissimo che vale dieci volte il rajah. - Quel greco? - Sì, - rispose Sandokan. - È lui il nemico pericoloso. - È vero. Senza quell'uomo Yanez avrebbe fatto a quest'ora chissà che cosa. - A me basta avere i seikki sottomano. Se il demjadar riesce a persuaderli a mettersi ai miei servigi, vedrai che pandemonio saprò scatenare io a Gauhati. - Accese il suo cibuc e si sedette sulla murata di prora, lasciando penzolare le gambe sul fiume che rumoreggiava intorno alla bangle. Il sole stava allora tramontando dietro le alte cime dei palas, quei bellissimi alberi dal tronco nodoso e massiccio, coronato da un fitto padiglione di foglie vellutate, d'un verde azzurrognolo, donde partono degli enormi grappoli fiammeggianti, dai quali si ricava una polvere color di rosa, adoperata dagli indù nelle feste di Holi. Sulle rive, numerosi contadini battevano, con un ritmo monotono, l'indaco, raccolto durante la giornata e messo a macerare entro vasti mastelli per meglio distaccare le particelle e farle precipitare più presto, avendo gli indiani un modo diverso per trattare tale materia colorante. Altri invece spingevano in acqua colossali bufali per dissetarli, guardandoli attentamente onde i coccodrilli non li afferrassero pel naso o pel muso e li tirassero sotto, cosa comunissima nei fiumi dell'India. La bangle, verso le nove, giunse in vista dei fanali che splendevano nelle vie principali della capitale dell'Assam. Stava per passare vicino all'isolotto su cui si alzava la pagoda di Karia, quando si trovò improvvisamente dinanzi ai due poluar che chiudevano il passaggio. Una voce si era subito alzata sul più vicino: - Ohe! Da dove venite e dove andate? - Lascia che risponda io, - disse Tremal-Naik a Sandokan. - Fa' pure, - rispose questi. Il bengalese alzò la voce gridando: - Veniamo da una partita di caccia. - Fatta dove? - chiese la medesima voce di prima. - Nella palude di Benar, - rispose Tremal-Naik. - Che cosa avete ucciso? - Una dozzina di coccodrilli che andremo a raccogliere domani essendo affondati. - Avete visto degli uomini in quei dintorni? - Null'altro che dei marabù e delle oche. - Passate e buona fortuna. - La bangle, che aveva rallentata la marcia, riprese la corsa a tutta forza di remi, mentre i due poluar allentavano le gomene per lasciarle il passo. - Che cosa ti ho detto? - disse Sandokan a Tremal-Naik, quando furono lontani dai due navigli. - Noi pirati abbiamo un fiuto straordinario e sentiamo i nemici a distanze incredibili. - Me ne hai dato or ora una prova, - rispose Tremal-Naik. - Che ci abbiano proprio seguìti? - Non ne dubito. - Tuttavia ce la siamo cavata benissimo. - Per la tua buona idea. - Dove sbarcheremo? - Nel centro della città. Questa notte desidero dormire nel palazzo di Surama. Forse là troveremo notizie di Yanez. Kubang non avrà mancato di fare una visita ai servi. - È quello che pensavo anch'io. Quel malese è molto intelligente. - Un gran furbo, - disse Sandokan. - Se non lo fosse non sarebbe un malese. Bah! evitata la crociera tutto andrà bene. Domani ci metteremo in cerca di Surama e prepareremo al greco od ai suoi uomini un bel tiro. Credi che nel suo palazzo abbia un chitmudgar? - Certo, Sandokan, - rispose Tremal-Naik. - Un indiano che si rispetta, deve avere una ventina di servi per lo meno ed un direttore di casa. - Che si lasci pescare da me ed il colpo sarà fatto. Non si tratta che di sapere i luoghi che frequenta. - Perché? - Lascia fare a me: ho la mia idea. Ehi, Bindar, possiamo approdare? - Sì, sahib. - Accosta la riva dunque. - La bangle in pochi colpi di remo attraversò il fiume e andò ad ancorarsi dinanzi ad un vecchio bastione che difendeva la città verso occidente. - A terra, - comandò Sandokan, dopo essersi assicurato che dietro la bastionata non vi era nessuno. - Due soli malesi rimangano a guardia della bangle. - Presero le loro armi e scesero sulla riva che era coperta da fitte macchie di nagatampo, alberi durissimi e che producono dei fiori odorosi e bellissimi, dei quali si adornano le giovani indiane. - Seguitemi, - disse Sandokan. - Giungeremo al palazzo di Surama inosservati, se non vi saranno intorno delle spie. - Che cosa temi ancora? - chiese Tremal-Naik. - Eh! Quel greco è capace di aver teso degli agguati, mio caro. In cammino amici e se vi sarà da menar le mani non fate uso che delle scimitarre. Nessun colpo di carabina o di pistola. - Sì, Tigre della Malesia - risposero i malesi. - Venite! - Si misero a costeggiare il fiume coperto da enormi tamarindi, che rendevano colla loro ombra l'oscurità più fitta; poi raggiunto il sobborgo orientale, si cacciarono fra le viuzze interne dirigendosi verso il centro della città. Essendo già molto tardi, pochissimi abitanti si trovavano per le vie e anche quelli s'affrettavano a girare al largo, scambiando probabilmente Sandokan ed i suoi uomini per soldati del rajah in cerca di qualche malvivente. La mezzanotte non doveva essere lontana quando il drappello sbucò sulla piazza dove sorgeva il palazzo, che Yanez aveva acquistato per la sua bella fidanzata. Sandokan si era arrestato lanciando un rapido sguardo a destra ed a sinistra. - Vedo due indiani fermi dinanzi al palazzo, - disse a Tremal-Naik. - Non mi sono sfuggiti, - rispose il bengalese. - Che siano due spie di quel maledetto greco? - Può darsi. Egli ha interesse a far sorvegliare il palazzo. - Cerchiamo di prenderli in mezzo. Ci faremo credere guardie del rajah intenti ad eseguire una ronda notturna. - I due indiani però, accortisi della presenza del drappello, si allontanarono rapidamente non ostante che Tremal-Naik avesse subito gridato dietro a loro: - Alt! Servizio del rajah! - Non devono essere due galantuomini, - disse Sandokan quando li vide scomparire entro una viuzza tenebrosa. - Lasciamoli andare. - Poi volgendosi verso Kammamuri continuò: - Tu resta qui di guardia coi malesi. La nostra spedizione notturna non è ancor finita e prima che sorga il sole voglio fare la conoscenza colla dimora privata di quel cane di greco. - Salì la gradinata seguìto da Tremal-Naik e da Bindar e percosse, senza troppo fracasso, la lastra di bronzo sospesa allo stipite della porta. Il guardiano notturno che vegliava nel corridoio, fu pronto ad aprire e riconoscendo in quegli uomini gli amici della sua padrona, fece un profondo inchino. - Conducimi subito dal maggiordomo, - disse Sandokan. - Sbrigati, ho fretta. - Entra nel salotto, sahib. Fra mezzo minuto ti raggiungerò. - Sandokan ed i suoi due compagni aprirono la porta ed entrarono in una elegantissima stanzetta che era ancora illuminata. Si erano appena seduti dinanzi ad uno splendido tavolino d'ebano di Ceylan filettato in oro, quando il maggiordomo del palazzo, appena coperto da un dootèe di tela gialla, si precipitava nel salotto, esclamando con voce singhiozzante: - Ah signori! Quale disgrazia. - La conosciamo, - disse Sandokan. - È inutile che tu perdi il tempo a raccontarcela. Il sahib bianco della tua signora s'è fatto vedere? - No. - Ha mandato nessuno? - Quell'uomo dalla faccia olivastra, con una lettera per la padrona. - Dammela subito. I minuti sono preziosi in questo momento. - Il maggiordomo s'avvicinò ad un cofanetto laccato con intarsi di madreperla e prese un piccolo piego, porgendolo al pirata. Questi ruppe il suggello e lesse rapidamente ciò che stava scritto dentro. - Yanez non sa ancora nulla, - disse poi a Tremal-Naik - Kubang ha conservato bene il segreto. - E poi? - Avverte Surama di non inquietarsi per lui e che il favorito guarisce rapidamente. Già tutti i bricconi hanno la pelle a prova di acciaio e di piombo. - E null'altro? - L'incarica di far sapere a noi che pel momento non corre alcun pericolo e che si è già guadagnata la stima e la confidenza del rajah. Giacché si trova benissimo alla corte e non sa che gli hanno rapito la fidanzata, lasciamolo tranquillo, operiamo da noi soli. - Poi volgendosi verso il maggiordomo che stava ritto dinanzi a lui, in attesa dei suoi ordini, gli chiese: - È avvenuto nessun altro fatto dopo il rapimento della tua padrona? - No, sahib. Ho notato però che alla sera ronzano attorno al palazzo, fino a notte tardissima, delle persone. - Ah! - esclamò Sandokan. - Si sorveglia qui. Non ne dubitavo. Hai fatto delle ricerche? - Sì, sahib e sempre infruttuose. - Hai avvertito la polizia? - Non ho osato, temendo che la padrona sia stata rapita per ordine del rajah. - Hai fatto benissimo. Tremal-Naik, Bindar, rimettiamoci in caccia. - Ed io, signore, che cosa devo fare? - chiese il maggiordomo. - Assolutamente nulla fino al nostro ritorno. Gli uomini che il sahib bianco ha lasciati a guardia di Surama sono sempre qui? - Sì. - Li avvertirai di tenersi pronti; posso aver bisogno anche di loro per rinforzar la mia scorta. Domani sera, a notte inoltrata, noi saremo qui. Addio. - Uscì dal salotto e raggiunse i suoi uomini che si erano seduti sulla gradinata. - Deponete le carabine, - disse loro. - Conservate solo le pistole e le scimitarre. Ed ora in caccia! -

. - Credete Eccellenza che abbia agito bene il rajah vostro signore? - chiese Yanez, diventato improvvisamente serio. - Non so. È morta poi? - No, Eccellenza, Surama è diventata una bellissima fanciulla ora e non ha che un solo desiderio: quello di strappare a suo cugino la corona dell'Assam. - Kaksa Pharaum aveva fatto un soprassalto. - Dite, mylord? - chiese spaventato. - Che riuscirà nel suo intento, - rispose freddamente Yanez. - E chi l'aiuterà? - Il portoghese s'alzò e puntando l'indice verso la Tigre della Malesia che non aveva cessato di fumare, gli rispose: - Quell'uomo là innanzi a tutto, che ha rovesciato troni e che ha vinto la terribile Tigre dell'India, Suyodhana, il famoso capo dei thugs indiani, e poi io. L'orgogliosa e la grande Inghilterra, dominatrice di mezzo mondo, ha piegato talvolta il capo dinanzi a noi, tigri di Mompracem. - Il ministro si era a sua volta alzato, guardando con profonda ansietà ora Yanez ed ora Sandokan. - Chi siete voi, dunque? - chiese finalmente, balbettando. - Degli uomini che nemmeno i vostri più formidabili uragani potrebbero arrestare, - rispose Yanez, con voce grave. - E che cosa volete voi da me? Perché mi avete trasportato in questo luogo che io non ho mai veduto? - Yanez, invece di rispondere, riempì nuovamente le tazze e ne porse una al ministro, dicendogli colla sua voce insinuante: - Bevete prima, Eccellenza. Questo squisito liquore vi rischiarirà le idee meglio del vostro detestabile toddy. Bevetene pure liberamente: non vi farà male. - Il ministro, che si sentiva invadere da un invincibile tremito nervoso, credette opportuno di non rifiutarsi. Yanez si raccolse un momento, poi, fissando il disgraziato ministro che aveva le labbra smorte, gli chiese: - Chi è l'europeo che si trova alla corte del rajah? - Un uomo bianco che io detesto. - Benissimo: il suo nome? - Si fa chiamare Teotokris. - Teotokris! - mormorò Yanez. - Questo è un nome greco. - Un greco! - esclamò Sandokan, scuotendosi. - Che cos'è? Io non ho mai udito a parlare di greci. - Tu non sei un europeo, - disse Yanez. - Sono uomini che godono fama di essere i più furbi dell'intera Europa. - Avversari temibili? - Temibilissimi. - Buoni per te, - rispose la Tigre della Malesia, sorridendo. Il portoghese gettò via con stizza la sigaretta, poi rivolgendosi al ministro: - Gode molta considerazione a corte, quello straniero? - gli chiese. - Più che noi ministri. - Ah! Benissimo. - Si era nuovamente alzato. Fece tre o quattro giri intorno alla tavola, torcendosi i baffi e lisciandosi la folta barba, poi, fermandosi dinanzi al ministro che lo guardava attonito, gli chiese a bruciapelo: - Dov'è che i gurus nascondono la pietra di Salagraman che contiene il famoso capello di Visnù? - Kaksa Pharaum guardò il portoghese con profondo terrore e rimase muto, come se la lingua gli si fosse improvvisamente paralizzata. - Mi avete capito, Eccellenza? - chiese Yanez un po' minaccioso. - La pietra ... di Salagraman! - balbettò il ministro. - Sì. - Ma ... io non so dove si trova. Solo i sacerdoti ed il rajah ve lo potrebbero dire, - rispose Kaksa, riprendendo animo. - Io non so nulla, mylord. - Voi mentite, - gridò Yanez, alzando la voce. - Anche i ministri del rajah lo sanno: me lo hanno confermato parecchie persone. - Gli altri forse, non io. - Come! Il primo ministro di Sindhia ne saprebbe meno dei suoi inferiori? Eccellenza, voi giuocate una pessima carta, ve ne avverto. - E perché vorreste sapere, mylord, dove si trova nascosta? - Perché quella pietra mi occorre, - rispose Yanez audacemente. - Kaksa Pharaum mandò una specie di ruggito. - Voi rubate quella pietra! - gridò. - Non sapete che il capello che contiene, appartenne, migliaia di anni or sono, ad un dio protettore dell'India? Non sapete che tutti gli stati c'invidiano quella reliquia? Non sapete che, se ci venisse portata via, sarebbe la fine dell'Assam? - Chi lo ha detto? - chiese Yanez ironicamente. - Lo hanno affermato i gurus. - Il portoghese alzò le spalle, mentre la Tigre della Malesia faceva udite un risolino beffardo. - Vi ho detto, Eccellenza, che a me occorre quella conchiglia: aggiungerò poi, per placare i vostri timori, che non lascerà l'Assam. Io non la terrò nelle mie mani più di ventiquattro ore, ve lo giuro. - Allora andate a chiedere al rajah un tale favore. Io non posso accordarlo, perché ignoro ove i sacerdoti della pagoda di Karia la nascondano. - Ah! Non vuoi dirmelo, - disse Yanez cambiando tono. - La vedremo! - In quel momento si udì ad echeggiare il gong, sospeso esternamente alla porta. - Chi viene a disturbarci? - chiese Yanez, aggrottando la fronte. - Io, padrone: Sambigliong, - rispose una voce. - Che cosa c'è di nuovo? - Tremal-Naik è giunto. - Sandokan aveva lasciata la pipa, e si era alzato precipitosamente. La porta si aprì ed un uomo comparve, dicendo: - Buona sera, miei cari amici: eccomi pronto ad aiutarvi. - Le destre di Sandokan e di Yanez si erano tese verso il nuovo venuto, il quale le aveva strette fortemente, esclamando: - Ecco un bel giorno: mi pare di tornare giovane insieme a voi. - L'uomo che così aveva parlato era un bellissimo tipo d'indiano bengalino, di circa quarant'anni, dalla taglia elegante e flessuosa, senz'essere magra, dai lineamenti fini ed energici, la pelle lievemente abbronzata e lucidissima e gli occhi nerissimi e pieni di fuoco. Vestiva come i ricchi indiani modernizzati dalla Young-India, i quali ormai hanno lasciato il dootèe e la dubgah pel costume anglo-indù, più semplice, ma anche più comodo: giacca di tela bianca con alamari di seta rossa, fascia ricamata e altissima, calzoni stretti pure bianchi e turbantino rigato sul capo. - E tua figlia Darma? - avevano chiesto ad una voce Yanez e Sandokan. - È in viaggio per l'Europa, amici - rispose l'indiano. - Moreland desidera far visitare a sua moglie l'Inghilterra. - Sai già perché ti abbiamo chiamato? - chiese Yanez. - So tutto: voi volete mantenere la promessa fatta quel terribile giorno in cui il Re del Mare affondava sotto i colpi di cannone del figlio di Suyodhana. - Di tuo genero, - aggiunse Sandokan, ridendo. - È vero ... Ah! - Si era vivamente voltato guardando il ministro del rajah, il quale stava immobile presso la tavola, come una mummia. - Chi è costui? - chiese l'indiano. - Il primo ministro di S. A. Sindhia, principe regnante dell'Assam, - rispose Yanez. - Toh! Tu giungi proprio in buon punto. Sapresti tu, Tremal-Naik, far parlare quell'uomo che si ostina a non dirmi la verità? Voi indiani siete dei grandi maestri. - Non vuol parlare? - disse Tremal-Naik, squadrando il disgraziato che pareva tremasse. - Hanno fatto cantare anche me gli inglesi, quando ero coi thugs. Kammamuri però è più destro di me in tali faccende. Ti preme, Yanez? - Sì. - Hai ricorso alle minacce? - Ma senza buon esito. - Ha cenato quel signore? - Sì. - È quasi mattina, può quindi fare uno spuntino, o una semplice tiffiné (2)

- Aspetta che io abbia quel fakiro nelle mie mani e vedrai come lo farò cantare! Lo costringerò io a dirmi dove l'hanno nascosta, dovessi mettere sossopra tutta la popolazione di Gauhati. Quando ho sottomano i miei malesi ed i miei dayachi, non ho paura di tutti i seikki del principe, se ne avrà allora. - Ti ho udito più volte parlare di quei seikki - disse Tremal-Naik. - Tu devi avere qualche idea. - Penso mio caro che non sarà con una trentina di pirati, per quanto valorosi ed audaci, che si potrà conquistare un trono, - rispose Sandokan. - Tu mi dicesti che quei valorosi soldati servono chi meglio li paga. - È vero. - Che cosa saranno per noi centomila rupie? Una corona vale ben di più. Aspetta che Surama sia nuovamente libera ed io mi occuperò di questo importante affare. Ah! Ci siamo già! Sbarchiamo. - E l'alba spunta, - rispose Tremal-Naik. La bangle aveva gettata già l'ancora a pochi passi dalla riva meridionale dell'isolotto, poi i malesi l'avevano spinta verso terra servendosi dei loro lunghi remi. - Fingiamo di essere cacciatori, - disse Sandokan ai suoi uomini. - Vedo alzarsi fra questi canneti stormi di oche, di anitre, di bozzagri e di marabù. Fuciliamoli finché la pagoda sarà aperta e ... - Fermi, - disse in quel momento Bindar. - Che cos'hai veduto? - Comincia la nagaputsciè, - aggiunse Bindar. - Che cos'è ciò? - Mi ero dimenticato di dirti, sahib, che quest'oggi scade appunto l'uffizio del serpente, - rispose l'indiano. - Ne so meno di prima: tu ti scordi facilmente che io non sono indiano. - È una festa che fanno le donne, sicché ne vedremo moltissime qui. Mancheranno invece gli uomini. - Meglio per noi: così non ci daranno impiccio quando piomberemo sul fakiro. E perché vengono qui le donne? - Perché su queste rive abbondano l'arisci ed il margosano. - Due piante acquatiche? - Sì, sahib. - Andiamo a cacciare fra i margosani allora. - Diede ordine a tre malesi di rimanere a guardia della bangle, poi tutti scesero fra i canneti che pullulavano di uccelli acquatici. La luce diurna si diffondeva rapidissima e si udivano già a risuonare nella pagoda i giganteschi tumburà, quegli enormi tamburi ricchi di dorature e di pitture, coi quali s'annunciano le feste religiose ed i tam-tam. Fra i canneti e le piante di loto che tappezzavano le rive, volavano via vere nubi di tortorelle dalle piume bianche, che mandavano lievi grida, cakinni, colombi di tutte le tinte, pernici, beccaccini, corvi, bozzagri e gypaeti insieme con oche ed anitre. Sandokan, Tremal-Naik ed i malesi non tardarono ad aprire il fuoco, più per farsi credere cacciatori che per fare delle prede, non avendo con loro alcun fucile da caccia. Tutto quel baccano infatti non ebbe altro risultato che di far stramazzare qualche oca, colpita miracolosamente da una palla di carabina. La caccia durò una mezz'ora, poi fu sospesa, poiché cominciavano a giungere sulla riva delle donne per compiere la cerimonia del nagaputsciè, ossia l'uffizio del serpente. Quella strana festa viene eseguita parecchie volte all'anno ed ha per iscopo d'invocare la protezione delle divinità per avere una numerosa prole. I serpenti hanno nulla a che fare in questa funzione, poiché i sapwallah, ossia gli incantatori, non si fanno nemmeno vedere, né figurano alcun cobra-capello, né il più infimo naja. Il tutto si limita ad una semplice passeggiata, che fanno le donne sulle rive dei fiumi o degli stagni, dove abbondano soprattutto le piante chiamate arisci e margosano. Giunte sotto quegli alberi che non nascono che fra i bassifondi, le indiane depongono una pietra chiamata lingam, già venerata da tutti i bramini e da tutti i sivani, d'una forma che non si può descrivere perché troppo oscena, ma che per la circostanza è unita da due piccole serpi pure di pietra. Dopo averla ben lavata nell'acqua del fiume o dello stagno, vi accendono dinanzi alcuni pezzi di legno, destinato specialmente a quelle specie di sacrifici e vi gettano sopra dei fiori chiedendo al dio a cui sono fedeli, ricchezze, numerosa prole e molti anni di vita ai loro mariti. Terminate alcune preghiere abbandonano quelle pietre sul luogo onde altre donne che non le posseggono se ne possano servire. Se per caso sulle rive non trovano alcuna pianta di arisci o di margosano, portano con loro alcuni rami di quegli alberi e li piantano da una parte e dall'altra del lingam, in modo da formare una specie di baldacchino. L'arisci, per le donne indiane viene riguardato come il maschio ed il margosano come la femmina, quindi raccolgono più rami dell'uno o dell'altro secondo il desiderio dei loro mariti. Sandokan vedendo giungere le prime schiere di donne, chiamò i suoi cacciatori onde non disturbare quelle cerimonie e, guidato da Bindar, s'avviò verso la grande pagoda dove sperava di trovare il misterioso fakiro che aveva rapita Surama. Attraversati alcuni boschetti di fichi baniani e di cassie latifoglie, che somministrano agli indù dei fiori molto carnosi e assai nutrienti, si trovarono improvvisamente dinanzi al vasto piazzale che si estendeva intorno alle gradinate della pagoda. Bindar che precedeva sempre la truppa, aveva subito fatto un salto indietro. - Che cos'hai? - aveva subito chiesto Sandokan. - Lui! - Chi lui? - Il gussain! - Sandokan si volse verso il malese di Surama mostrandogli il fakiro. - Padrone! - esclamò il malese. - Lo vedi quel fakiro che ha un braccio rigido? - Il birbante! - Lo riconosci? - Sì, è quello che è venuto nel palazzo a levare il mal occhio. - Non t'inganni? - No, padrone: è proprio lui. Ecco la cicatrice che gli sfregia la fronte. - Va bene: siamo su una buona pista. - Il gussain Tantia si trovava seduto sui gradini dell'entrata principale della pagoda, tenendo in mano una conchiglia del genere dei corni d'Ammone, simile alla famosa pietra di Salagraman, piena di latte, che doveva, secondo il rito, essere stato prima versato sul lingam, per poterlo efficacemente offrire ai moribondi, onde potessero rendersi degni di godere le delizie del cailasson, ossia del paradiso indiano. Intorno a lui sonnecchiavano dieci o dodici altri fakiri che appartenevano però alla classe dei saniassi, pessimi individui più dediti al brigantaggio che alle pratiche religiose e che sono assai temuti da tutti gli indiani. Ed infatti oltre le lunghe barbe che davano loro un aspetto ripugnante, ai lunghissimi capelli che da anni non dovevano aver conosciuto l'uso del pettine e che erano imbrattati di fango rossastro, per farsi maggiormente temere, avevano a fianco dei nodosi bastoni. - Sono quelli i suoi protettori? - chiese Sandokan con profondo disprezzo, volgendosi verso Bindar. - Sì, sahib. - Bella scorta! - Guardati, perché sono cattivi e nell'istesso tempo molto rispettati. - Mi degnerò appena di prenderli a calci. Sarebbe troppo onore per loro, se mi servissi della carabina o della scimitarra. Accampiamoci sotto l'ombra fresca di questo superbo pipal e tu malese mio cerca di non farti vedere dal fakiro. Potrebbe riconoscerti ancora. - Sì, padrone - rispose il pirata, sdraiandosi dietro ai suoi compagni. - Ed ora, giacché abbiamo portato con noi delle provviste, facciamo colazione, - disse Tremal-Naik. Senza preoccuparsi delle donne che entravano in gran numero nella pagoda e che si facevano dare dal fakiro alcune gocce di latte che mettevano religiosamente entro delle microscopiche ampolle, per serbarle probabilmente pei loro mariti o congiunti, trassero le provviste, che i malesi, sempre prudenti perché abituati alle lunghe spedizioni, avevano rinchiuse in sacchetti di tela e consistenti in carne fredda, biscotti e bottiglie di arak. Il fakiro pareva non si fosse accorto affatto della presenza di quel drappello che bivaccava sotto le piante. Continuava a vendere il suo latte, mentre i suoi protettori dormivano al sole, certi di dividere una buona giornata. Terminato il pasto, i malesi ed i loro capi, si misero a fumare, aspettando impazientemente il momento d'impadronirsi del fakiro. Non fu però che verso il tramonto che Tantia lasciò i gradini della pagoda, coll'evidente intenzione di tornarsene in città. I saniassi si erano svegliati e armati dei loro bastoni, gli si erano messi alle calcagna impazienti forse di dividere il prezzo della vendita del latte sacro. - In piedi - aveva comandato Sandokan. - Li sorprenderemo sotto le macchie. Tu malese resta indietro, onde non s'accorgano delle nostre intenzioni. - Il drappello si cacciò sotto i fichi baniani, sparando qualche colpo contro i pappagalli che cicalavano rumorosamente ed in grande numero, fra i frondosi rami di quegli splendidi e maestosi alberi. Il fakiro pareva che non avesse anche questa volta prestata alcuna attenzione a quei cacciatori ed aveva continuata la sua via sempre seguìto da quei luridi saniassi. Già aveva percorso quasi mezzo chilometro accostandosi sempre più alla riva, dove aveva certo la sua barca, quando Sandokan e Tremal-Naik, che lo avevano preceduto girando le macchie, gli sbarrarono la via, tenendo le carabine in mano. - Alto, fakiro! - gridò il primo, mentre i malesi si radunavano rapidamente dietro di lui. Tantia li guardò tranquillamente, dicendo: - Non ho più latte da vendere, e poi ai cacciatori non ne do mai. - Si tratta di qualche cosa di più importante del latte, amico, - rispose Sandokan. Questa volta il gussain li guardò sospettosamente. - Che cosa vuoi tu? Non vedi che sono un fakiro? - È bene un fakiro che mi occorre. - Va' a cercarne un altro. - Un altro non saprebbe dirmi quello che voglio sapere da te. - Da me! - esclamò il gussain con inquietudine. - Tu vedi che io sono un pover'uomo che non si occupa che della vendita del latte sacro e del mal occhio. - È appunto perché tu sai togliere le occhiate fatali, che noi abbiamo bisogno di te, - disse Tremal-Naik. - Io non ho tempo in questo momento. Devo tornare in città essendo atteso da un grande personaggio della corte. - Quello aspetterà - disse Sandokan con tono minaccioso. - Congeda la tua scorta e vieni con noi. - Io non vado mai solo. - Basta fakiro! Obbedisci! - I saniassi vedendo che la faccenda prendeva una brutta piega, impugnarono i loro randelli e si misero dinanzi al gussain urlando a squarciagola: - Largo, canaglie! - Sandokan si volse verso i malesi dicendo: - Spazzate questi furfanti! - Non aveva ancora terminato il comando che i pirati, guidati da Kammamuri e da Bindar, si erano scagliati, impugnando le carabine per la canna onde servirsene come mazze. I saniassi lasciarono andare alcune randellate, poi scapparono come lepri in tutte le direzioni lasciando lì il loro protetto. - Ora briccone, - disse Sandokan, scrollando bruscamente il disgraziato fakiro - verrai con noi. - Non mi uccidete! - balbettò il povero diavolo terrorizzato. - Non saprei che cosa farne della tua pelle, - rispose Sandokan. - Non sarebbe buona nemmeno per fabbricare un tumburà. È la tua lingua che mi occorre. - Vuoi strapparmela, signore! - strillò il gussain tremando. - Allora non parlerebbe più mentre noi abbiamo bisogno invece che canti e molto alto. Cammina e basta. - Dove volete condurmi? - Lo saprai più tardi. - Bada che io ho il potere di gettare il mal occhio. - Finiscila, cialtrone! - disse Tremal-Naik. - Già i tuoi saniassi non torneranno a liberarti. Avanti! - I malesi si presero in mezzo il gussain e lo spinsero verso la riva che era poco lontana. La notte era già calata, quando il drappello giunse dinanzi alla bangle, la quale era nascosta fra i canneti. - Nulla di sospetto? - chiese Sandokan ai due dayachi che erano rimasti a bordo. - No, padrone, - risposero ad una voce. - Imbarchiamoci e torniamo presto. Io non so che cosa sia, eppure non sono tranquillo questa sera. - Che cosa temi? - chiese Tremal-Naik, mettendo piede sul ponte. - Finora tutto è andato bene. - Eppure vorrei già essere nella pagoda sotterranea. - Infatti tu mi sembri irrequieto. - È il rapimento di Surama che mi ha tolto la mia solita tranquillità, - rispose Sandokan. - Io non cesso dal chiedermi perché l'hanno portata via. - Il fakiro è nelle nostre mani e ce lo dirà. - In quel momento due detonazioni ruppero il silenzio che regnava sul fiume, rumoreggiando sinistramente sotto le folte boscaglie che si prolungavano lungo le rive. Sandokan aveva spiccato un salto. - Le carabine dei miei uomini! - aveva esclamato. - Amici, preparatevi al combattimento! -

. - Pel momento non corre alcun pericolo e credo che non abbia mai goduto tanta salute come ora. - E Tremal-Naik? - In questo momento sta cenando di certo e senza troppe apprensioni. - Ma tu ... - Aspetta un po': sappi che sono qui in qualità di ospite e non già di prigioniero. Ora rispondimi a quanto ti chiederò. Innanzi a tutto verrà nessuno a disturbarci? - Per ora no. Abbiamo un paio d'ore di libertà. - Non mi occorre tanto tempo. Ti hanno usato dei maltrattamenti? - No, signore, tutt'altro. - Ti hanno interrogata? - Non ancora, tuttavia vi è nel mio cervello un ricordo confuso. - Quale? - Posso aver sognato. - Spiegami codesto sogno, Surama - disse Sandokan. - Mi sembra d'aver veduto degli uomini intorno al mio letto e di aver udito degli strani discorsi e poi mi sembra che mi abbiano dato da bere qualche cosa, come un liquore fortissimo e molto amaro. Qualche cosa di vero può essere avvenuto poiché quando mi sono svegliata, in questo letto, avevo il cervello offuscato e le membra mi tremavano come se avessi bevuto del bâng. - Cos'è? - Una mistura d'oppio. - La fronte di Sandokan si corrugò. - Sei ben certa, Surama, che non sia stato un sogno? - Non te lo saprei dire con piena sicurezza, - rispose la bella assamese. - Quel tremito però non mi parve naturale. - Ecco dove sta il pericolo. Voi indiani possedete delle droghe misteriose che esaltano le persone e che le costringono a parlare. Tremal-Naik m'ha parlato un giorno d'una certa youma. - Non devono aver adoperata quella pianta, perché produce una febbre intensissima, che dura parecchie ore. No, se è vero che mi hanno dato da bere qualche cosa, deve trattarsi d'altro. - Pensa bene, fanciulla, perché se tu hai parlato puoi aver compromesso non solo me e te, bensì anche Yanez. - E se, come t'ho detto, fosse stato un sogno? - Il tuo cervello, se fosse stato un sogno, non sarebbe rimasto offuscato. - Anche questo è vero. - Se vi fosse qualche mezzo per poter sapere quello che hai detto! - mormorò Sandokan. - Chissà, forse Tremal-Naik può trovarlo; egli conosce molti narcotici. - Io sono pronta a bere tutto quello che vorrai, Sandokan. - Di questa faccenda ci occuperemo più tardi. - E tu come hai saputo che io ero stata rapita? - chiese Surama. - Ho preso quel cane di fakiro e l'ho costretto a confessare. È il favorito del rajah che t'ha fatta rapire, probabilmente per vendicarsi di quel colpo di scimitarra. Anche questo è affare che poco interessa pel momento. È un giuoco che io gli restituirò questa notte istessa. Tutto è ormai pronto per la tua evasione. Dove mettono le tue finestre? - Sulla varanga del secondo piano. - Hai paura ad affidarti a una fune ben solida? - Io sono pronta a fare tutto quello che vorrai. - Si dorme presto in questa casa? - Alle undici tutti i lumi sono spenti, - rispose Surama. - A mezzanotte sii pronta. Dorme nessuna serva qui? - So che ve ne sono due nella camera attigua. - Vengono da te prima di coricarsi? - Sì, per accompagnarmi a letto. - Hai qualche bottiglia di liquore da offrire loro? - Anche del vino europeo: il chitmudgar non mi lascia mancare nulla. - Sandokan si frugò nella fascia ed estrasse una scatola di metallo contenente parecchi tubetti a vari colori. Ne prese uno, lo esaminò attentamente, poi lo porse a Surama dicendole: - La polvere che sta qui dentro, la scioglierai in una bottiglia, o di liquore o di vino, e poi offrirai a ciascuna delle due donne un bicchierino di quella mistura, non di più. Il narcotico è potente e assorbito in dose superiore, potrebbe far dormire per sempre chi lo prende. Ora un'altra domanda e poi ti lascerò sola. - Parla signore, - disse Surama nascondendosi in seno il tubetto. - Credi tu che i montanari di tuo padre si siano scordati di te? - Se mi presentassi a loro e dicessi che io sono Surama, la piccola figlia del famoso guerriero, sono più che certa che prenderebbero le armi per aiutare te e Yanez in questa difficile impresa. Pensi tu forse di condurmi fra di loro? - Ciò può essere necessario per metterti al sicuro, - rispose la Tigre della Malesia. - Un elefante quanto potrebbe impiegare per giungere fra quelle montagne? - Non più di cinque giorni. - Ne so abbastanza. Addio, Surama, e sii pronta per la mezzanotte. - Strinse la mano alla futura principessa dell'Assam e tornò in punta di piedi nella sua stanzetta. - Tutto va a gonfie vele, - mormorò. - Se non sopravverranno degli incidenti, domani noi saremo nella jungla di Benar e perfettamente al sicuro. Poi vedremo che cosa ci converrà fare. - Si sdraiò sul suo lettuccio mettendo su uno sgabello una bottiglia di arak, accese la pipa ed attese tranquillamente che giungesse il momento di agire e che il giovane sudra si presentasse. La mezzanotte non era lontana, quando un leggero colpo battuto alla porta lo fece scendere dal letto. - Deve essere lui, - mormorò. - Ecco un bravo ragazzo che farà una discreta fortuna. - Aprì senza far rumore e si vide dinanzi il servo del maggiordomo. - Dunque - gli chiese Sandokan. - Dormono tutti. - Sono tutti spenti i lumi? - Sì, sahib. - Hai veduto nessuno a passeggiare sulla piazza? - Un gruppo d'uomini. - Sono i miei amici. Prendi la fune. - È qui, sahib. - Seguimi e non aver paura. Da questo momento tu sei ai miei servigi. - Grazie, padrone. - Sandokan aprì la porta che metteva nel corridoio e bussò replicatamente a quella della stanza di Surama che fu subito aperta. La giovane assamese aveva abbassato il lucignolo della lampada per far credere che dormiva e si era gettata sulla testa una larga fascia di seta, che la nascondeva quasi tutta. - Eccomi, signore - disse a Sandokan. - Sono pronta a scendere. - Le tue serve? - Dormono profondamente. - Hanno bevuto il narcotico? - Da più di un'ora. - Prima di domani sera non si sveglieranno, - disse Sandokan. - Siamo quindi sicuri di non essere disturbati da parte loro. - Aprì una finestra e passò sulla varanga accostandosi silenziosamente al parapetto. Quantunque l'oscurità fosse fitta, scorse subito alcune ombre umane sfilare silenziosamente dinanzi al palazzo del favorito. - Devono essere Tremal-Naik, Kammamuri e i miei malesi, - mormorò. - Speriamo che tutto vada bene. - Svolse la corda, legò un capo ad una colonna di legno della varanga e gettò l'altro nel vuoto, mandando nel medesimo tempo un leggero sibilo che imitava perfettamente quello del terribilissimo cobra-capello. Un segnale identico rispose poco dopo. - È lui - disse Sandokan. - All'opera! - Tornò verso la finestra, prese fra le sue braccia Surama e s'avviò verso la fune dicendo al sudra: - Scendi pel primo tu. - Sì, padrone. - E fa' presto. - Il giovanotto varcò il parapetto e scomparve. - Tu incrocia le tue mani attorno al mio collo, - disse poscia Sandokan alla bella assamese, - e dammi la tua fascia di seta, onde ti leghi a me. - Non sarebbe necessario, - rispose la principessa. - Le mie braccia sono robuste. - Non si sa mai quello che può accadere. - Prese la sciarpa, strinse Surama contro il proprio dorso, poi a sua volta montò sul parapetto, non senza essersi prima cacciato fra i denti il kriss malese. - Stringi forte, - disse. - Non mi strangolerai colle tue piccole mani. - Afferrò la corda e si mise a scendere. Vecchio marinaio, non si trovava certo imbarazzato a compiere quella manovra, tanto più che possedeva una muscolatura da sfidare l'acciaio. In pochi istanti raggiunse la veranda inferiore. Disgraziatamente urtò coi piedi contro l'orlo della leggera tettoia che la copriva, facendo cadere un pezzo di grondaia. Una sola imprecazione gli sfuggì suo malgrado. Quel pezzo di latta o di zinco che fosse, nel precipitare sulle pietre della piazza, produsse molto rumore. Sandokan puntò i piedi contro il riparo e si lasciò scivolare verticalmente, senza badare se si scorticava o no le mani. Non distava dal suolo che pochi metri quando dalla varanga udì una voce a urlare: - All'armi! La prigioniera fugge! - Poi rintronò un colpo di pistola. La palla fortunatamente non aveva colpito né Sandokan, né Surama. Uomini, servi e guardie, si erano precipitati sulla varanga urlando a squarciagola: - Ferma! Ferma! - Due, avendo trovata la fune stesa dinanzi alla galleria, vi si aggrapparono lasciandosi scorrere fino a terra, ma già Sandokan che reggeva sempre Surama, si trovava al sicuro fra i suoi fedeli malesi. Tremal-Naik vedendo poi quei due venire avanti con dei tarwar in mano, armò rapidamente le due pistole che aveva nella fascia e scaricò uno dietro l'altro, senza troppa fretta, quattro colpi che li fece cadere l'uno sull'altro. - Via! - gridò Sandokan dopo aver sciolto il piccolo sari che legava Surama, e d'aver presa questa fra le braccia. - Al palazzo!- La porta del bengalow del favorito, si era aperta e dieci o dodici uomini muniti d'armi da fuoco e da taglio e ancora semi-nudi, si erano scagliati dietro ai fuggiaschi, urlando senza posa: - All'armi! All'armi! - Sandokan correva come un cervo, fiancheggiato da Tremal-Naik e da Kammamuri e protetto alle spalle dai malesi. La caccia era cominciata furiosa, implacabile; ma quantunque gli indù godano generalmente la fama di essere corridori instancabili, avevano trovato nei loro avversari dei campioni degni dei loro garretti. Di quando in quando qualche colpo di fuoco echeggiava, facendo accorrere alle finestre gli abitanti delle vicine case. Ora veniva sparato dagli inseguitori ed ora dai fuggiaschi, senza gravi perdite né da una parte né dall'altra non potendo, in quella corsa disordinata, prendere la mira. Nondimeno una viva inquietudine cominciava a tormentare Sandokan. Quelle grida e quegli spari facevano accorrere ad ogni istante altre persone ed il drappello dei servi del greco s'ingrossava rapidamente. Sarebbero riusciti a salvarsi nel palazzo senza essere stati scorti? Lo stesso pensiero doveva essere sorto anche nel cervello di Tremal-Naik, poiché senza cessare di correre, chiese a Sandokan: - Non verremo noi assediati? - Prima di voltare l'angolo dell'ultima via, faremo una scarica. È assolutamente necessario che non ci vedano entrare nel palazzo. Forza alle gambe! Cerchiamo di distanziarli. - Avevano percorso sette od otto vie, senza incontrare fortunatamente nessuna guardia notturna. Con uno sforzo supremo raggiunsero l'angolo del palazzo vantaggiando a un tempo di duecento e più passi. - Fate fronte! - gridò Sandokan ai malesi. - Caricate! Fuoco di bordata prima! - Le terribili tigri di Mompracem, niente spaventate di trovarsi di fronte a cinquanta o sessanta avversari, puntarono le carabine facendo una scarica, poi estratte le scimitarre caricarono furiosamente con urla selvagge. Vedendo cadere parecchi dei loro, gl'indù volsero le spalle senza aspettare l'attacco impetuoso, irresistibile, dei malesi. - Kammamuri, fa' aprire la porta del palazzo prima che quei furfanti ritornino! - È già aperta, signore! - gridò Bindar. - A me, malesi! - I pirati che si erano slanciati dietro ai fuggiaschi ululando come bestie feroci, si ripiegarono di corsa e si gettarono dentro l'ampio peristilio del palazzo di Surama, chiudendo e barricando precipitosamente la porta. - Spero che nessuno ci abbia veduti, - disse Sandokan deponendo a terra Surama e aspirando poscia una lunga sorsata d'aria. - Grazie, Sandokan, - disse la giovane. - A te ed al sahib bianco devo ormai troppe volte la mia vita. - Lascia queste cose e andiamo a vedere che cosa succede. Intanto fa' armare tutta la tua gente. Temo che vi sarà battaglia questa notte. - Salì la gradinata insieme con Tremal-Naik e con Kammamuri e si affacciò ad una finestra del secondo piano. - Saccaroa! - esclamò. - Ci hanno ritrovati! Qui corriamo il pericolo di venire presi! Ah! Per Maometto, preparerò loro un bel tiro, prima che giungano i soldati del rajah! - Che cosa vuoi fare? - chiese Tremal-Naik. - Surama! - gridò invece Sandokan. La giovane assamese saliva in quel momento la scala. - Che cosa desideri signore? - chiese avvicinandosi rapidamente. - La tua casa è isolata mi pare. - Sì. - Che cosa vi è di dietro? - Una piccola pagoda. - Isolata anche quella? - No, si appoggia ad un gruppo di palazzi e di bengalow. - È larga la via che divide la tua casa dalla pagoda? - Una diecina di metri. - Fa' portare subito delle funi, tutte quelle che puoi trovare. Ci raggiungerai sul tetto. Bindar! - L'indiano che era sulla varanga vicina fu pronto ad accorrere. - Eccomi, padrone - disse. - Da' ordine ai miei malesi ed ai servi di tenere in iscacco gli assalitori per alcuni minuti. Che non facciano economia di polvere né di palle. Va' e comanda il fuoco. E ora, Tremal-Naik, vieni con me e con Kammamuri. - Salirono una seconda gradinata raggiungendo l'ultimo piano e trovato un abbaino, passarono sul tetto che era quasi piatto, non avendo che due leggere inclinazioni. - Non mi aspettavo tanta fortuna, - mormorò Sandokan. - Andiamo a vedere quella via e quella pagoda. - Mentre s'avanzavano carponi, dinanzi al palazzo echeggiavano clamori assordanti. Gli assedianti dovevano essere cresciuti di numero a giudicarlo dal fracasso che facevano. Il fuoco però non era ancora cominciato né da una parte né dall'altra. Bindar non aveva forse giudicato prudente cominciare pel primo le ostilità, per non irritare maggiormente gli avversari. Sandokan ed i suoi due compagni in pochi momenti attraversarono il tetto, raggiungendo il margine opposto. Una via larga, nove o dieci metri, separava il palazzo da una vecchia pagoda di modeste proporzioni, la quale era sormontata da una specie di terrazzo, irto di antenne di ferro che sorreggevano dei piccoli elefanti dorati che funzionavano forse da mostraventi. - È alta quanto questa casa, - disse Sandokan. - Che cosa vuoi tentare? - chiese Tremal-Naik. - Di passare su quel terrazzo, - rispose la Tigre della Malesia. Il bengalese lo guardò con spavento. - Chi potrà saltare attraverso questa via? - Tutti. - Ma come? - Tu sai ancora adoperare il laccio? Un vecchio thug non dimentica facilmente il suo mestiere. - Non ti capisco. - Non si tratta che di gettare una buona corda al di sopra d'una di quelle antenne e di formare poi un ponte volante con un paio di gomene. - Ah! Padrone, lascia fare a me allora, - disse Kammamuri. - Sono stato un anno prigioniero dei thugs di Rajmangal e ho appreso a servirmi del laccio a meraviglia. Non sarà che un semplice giuoco. - E poi dove scapperemo noi? - chiese Tremal-Naik. - Vi sono delle case dietro la pagoda che attraverseremo facilmente, passando sui tetti. In qualche luogo scenderemo. - E non ci daranno la caccia? - Io eleverò fra noi e gli assedianti una tale barriera da togliere loro ogni idea d'inseguirci. - Tu sei un uomo meraviglioso, Sandokan. - Non sono stato forse un pirata? - rispose la Tigre della Malesia. - Nella mia lunga carriera ne ho provate delle avventure e ne ho ... - Una scarica di carabine gli tagliò la frase. I malesi ed i servi del palazzo avevano aperto il fuoco, per impedire agli assedianti di abbattere la porta e d'invadere le stanze del pianterreno. - Se la resistenza dura dieci minuti noi siamo salvi, - disse Sandokan. Si volse udendo delle tegole a muoversi, Surama s'avanzava con precauzione andando carponi sul tetto, accompagnata da due servi e da un malese, che portavano corde di seta, strappate probabilmente dai tendaggi, e grosse corde di canape tolte dalle varanghe. - Chi è che ha aperto il fuoco? - chiese Sandokan aiutando la brava ragazza ad alzarsi. - I tuoi uomini. - Vi sono dei seikki fra gli assalitori? - Una dozzina e avevano subito attaccata la porta. - Kammamuri scegliti la corda e bada che sia solida perché tu dovrai passare su quella. - Lascia fare a me, padrone; - rispose il maharatto. Si gettò sulle funi che erano state deposte dinanzi a lui e prese un cordone di seta, lungo una quindicina di metri e grosso come un dito, osservandolo attentamente in tutta la sua lunghezza. - Ecco quello che fa per me, - disse poi. - Può sorreggere anche due uomini. - Fece rapidamente un nodo scorsoio, si spinse verso il margine del tetto, lo fece volteggiare tre o quattro volte intorno alla propria testa come fanno i gauchos della pampa argentina e lo lanciò. La corda ben aperta alla sua estremità, in causa di quel rapido movimento rotatorio, cadde su una delle aste di ferro e vi scivolò dentro. - Ecco fatto, - disse Kammamuri volgendosi verso Sandokan. - Tenete forte il cordone. - Guarda prima se vi è gente nella via. - Non mi pare, padrone. D'altronde l'oscurità è fitta e nessuno ci vedrà. - Sandokan e Tremal-Naik si gettarono sulle tegole afferrando strettamente il cordone, subito imitati dai due servi e dal malese. - Coraggio amico, - disse il pirata. - Ne ho da vendere, - rispose il maharatto sorridendo. - E poi non soffro le vertigini. - Si appese al cordone, incrociandovi sopra, per maggior precauzione, le gambe e s'avanzò audacemente al di sopra della via, senza nemmeno pensare che poteva da un istante all'altro cadere da un'altezza di diciotto o venti metri e sfracellarsi sul lastricato. Sandokan e Tremal-Naik seguivano con viva emozione e non senza rabbrividire quella traversata, dal cui buon esito dipendeva la salvezza di tutti. Vi fu un momento terribile, quando il coraggioso maharatto giunse a metà della distanza che divideva il palazzo dalla pagoda. Il cordone quantunque tirato a tutta forza dai cinque uomini, aveva descritto un arco accentuatissimo, crepitando sinistramente sotto il peso non indifferente di Kammamuri. - Fermati un istante! - gridò precipitosamente Sandokan. Il maharatto che doveva pure aver udito quel crepitìo che poteva annunciare una imminente rottura, ubbidì subito. Fortunatamente la corda non aveva ceduto, né aveva dato alcun altro suono. A quanto pareva, i fili di seta si erano solamente allungati senza spezzarsi. - Vuoi provare? - chiese finalmente Sandokan. - Aspettavo il tuo ordine, - rispose Kammamuri con voce perfettamente calma. - Va', amico, - disse Tremal-Naik. Il maharatto riprese la sua marcia aerea, procedendo però con precauzione e giunse ben presto sul terrazzo della pagoda, mandando un gran sospiro di soddisfazione. - Le funi, padrone! - gridò subito. Sandokan aveva già scelto le più grosse e le più solide. Le annodò facilmente. Le due funi, annodate l'una sopra l'altra, all'altezza d'un metro e mezzo e assicurate a due aste di ferro, potevano permettere il passaggio senza correre troppi pericoli. - Tremal-Naik, - disse Sandokan; - occupati di far passare le persone. Surama hai paura? - No, signore. - Passa per la prima. - E tu? - chiese Tremal-Naik. - Vado a coprire la ritirata e preparare la barriera che impedirà agli assedianti di darci la caccia. - Riattraversò il tetto e ridiscese negli appartamenti. La battaglia fra gli indù, i malesi ed i servi del palazzo infuriava, facendo accorrere da tutte le vicine vie nuovi combattenti. I malesi nascosti dietro i parapetti delle varanghe che avevano coperti con materassi, cuscini e pagliericci, sparavano furiosamente facendo indietreggiare, ad ogni scarica, gli assalitori e mandandone molti a terra morti o feriti. La folla però, che era pure armata di ottime carabine e di pistole, rispondeva non meno vigorosamente e anche dalle case fronteggianti il palazzo di Surama si sparava contro la varanga, mettendo in serio pericolo i difensori. Sandokan si era precipitato fra i suoi uomini, gridando: - Riparate subito sul tetto! Fra pochi minuti il palazzo sarà in fiamme! Prima le donne ed i servi, ultimi voi per coprire la ritirata. - Ciò detto strappò una torcia che illuminava la varanga e diede fuoco alle stuoie di coccottiero, quindi si slanciò attraverso le splendide stanze che formavano l'appartamento riservato di Surama, incendiando i cortinaggi di seta delle finestre, le coperte dei letti, i tappeti, i leggeri mobili laccati. - Ci diano la caccia ora, - disse quando vide le fiamme avvampare e le stanze riempirsi di fumo. - Cinquantamila rupie non valgono un dito di Surama. - Ritornò sulla varanga inseguito dalle colonne di fumo per accertarsi che non vi era più nessuno. Indiani e malesi, dopo d'aver fatta un'ultima scarica, erano precipitosamente fuggiti; e le stuoie, le colonne di legno e persino il pavimento, avvampavano con rapidità prodigiosa lanciando intorno bagliori sinistri. - Questo palazzo brucerà come un pezzo d'esca, - mormorò Sandokan. - È tempo di metterci in salvo. - Raggiunse l'abbaino e balzò sul tetto. La ritirata era cominciata in buon ordine; uomini e donne attraversavano rapidamente il ponte volante reggendosi sulle due funi, mentre i malesi, curvi sui margini del tetto, consumavano le loro ultime munizioni e scagliavano nella via, sulle teste degli assedianti, ammassi di tegole. Sul terrazzo della pagoda le persone si accumulavano, prendendo subito la via dei tetti, sotto la guida di Tremal-Naik, di Kammamuri e di Bindar. Quando Sandokan vide finalmente il ponte volante libero, vi fece passare i malesi, poi troncò con un colpo di coltello le due funi che erano state legate attorno al comignolo d'un camino, onde gli assedianti, nel caso che la casa non bruciasse interamente, non potessero accorgersi da qual parte gli assediati fossero fuggiti. - Ora un esercizio da buon marinaio, - mormorò Sandokan. Prima di eseguirlo lanciò intorno un rapido sguardo. Dagli abbaini uscivano nuvoli di fumo e getti di scintille e nella sottostante via si udivano i clamori feroci della folla. - Entrate e dateci la caccia, - mormorò il pirata con un sorriso ironico. Afferrò una delle due funi, si spinse fino sull'orlo del tetto e senz'altro si slanciò andando a battere i piedi contro il cornicione della pagoda che sorreggeva il terrazzo. Nessun altro uomo, che non avesse posseduta l'agilità e la forza straordinaria di Sandokan, avrebbe potuto tentare una simile volata senza fracassarsi per lo meno le gambe. Il pirata però che doveva possedere una muscolatura d'acciaio, non provò che un po' di stordimento, prodotto dal violentissimo contraccolpo. Stette un momento fermo per rimettersi un po', quindi cominciò a issarsi a forza di pugno finché raggiunse il terrazzo. Sui tetti delle vicine case i servi e le donne fuggivano rapidamente, fiancheggiati dai malesi. Surama camminava alla testa, sorretta da Tremal-Naik e da Kammamuri. Sandokan, pur camminando con una certa precauzione, in pochi istanti li raggiunse. - Finalmente! - esclamò il bengalese, - cominciava a diventare inquieto non vedendoti comparire. - Io ho l'abitudine di giungere sempre, - rispose la Tigre della Malesia. - Ed il mio palazzo? - chiese Surama. - Brucia allegramente. - È un patrimonio che se ne va in fumo. - E che la Tigre della Malesia pagherà - rispose Sandokan alzando le spalle. - Ci inseguono? - chiese Tremal-Naik. - Attraverso le fiamme? Si provino a mettere i loro piedi entro quella fornace. Io già non ti seguirei di certo. - Ma dove finiremo noi? - Aspetta che troviamo una via che c'impedisca di andare più innanzi, amico Tremal-Naik. Ho già fatto il mio piano. - E quando la Tigre della Malesia ne ha uno nel cervello, si può essere certi che riuscirà pienamente, - aggiunse Kammamuri. - Può darsi, - rispose Sandokan. - Non fate troppo rumore e non guastate troppe tegole. In questo momento non potrei risarcire i danneggiati. - La ritirata si affrettava sempre in buon ordine, passando da un terrazzo all'altro. Gli uomini aiutavano sempre le donne a scavalcare i parapetti, che talvolta erano così alti da costringere i malesi a formare delle piramidi umane, per meglio favorire le scalate. Verso il palazzo si udivano sempre urla e spari e si scorgevano le prime lingue di fuoco sfuggire attraverso gli abbaini. Nelle case di fronte e di dietro, di quando in quando, partivano delle grida altissime: - Al fuoco! Al fuoco! - I fuggiaschi che temevano di essere sorpresi, si affrettavano. Se le fiamme s'alzavano, qualcuno poteva scorgerli e dare l'allarme, e questo, Sandokan assolutamente non lo desiderava. - Presto! presto! - diceva. Ad un tratto gli uomini che si trovavano all'avanguardia, si ripiegarono verso il terrazzo che avevano appena allora superato. - Che cosa c'è? - chiese Sandokan. - Non si può più andare innanzi, - disse Bindar che guidava quel drappello. - Abbiamo una via dinanzi e tanto larga che non la potremo sorpassare. - Vedi nessun abbaino? - Ce ne sono due sotto il terrazzo. - Di che cosa ti lagni dunque amico, quando abbiamo delle scale per scendere nella via? Fa' sfondare quegli abbaini e andiamo a fare una visita agli abitanti di questa casa. Sarà troppo mattutina, ma la colpa non è nostra. -

. - Per mezzo del maggiordomo che il rajah aveva messo a disposizione del suo grande cacciatore, ho avvertito il capitano Yanez che non abbia nulla da temere. - Non vi è pericolo che lo avvelenino? - No, Tigre della Malesia, perché il carceriere è un parente del maggiordomo e fa prima assaggiare i cibi ad un cane. - Surama, ti raccomando quel maggiordomo e quel suo parente - disse Sandokan volgendosi verso la giovane. - Forse quei due uomini hanno salvata la vita al tuo fidanzato. - Non li dimenticherò, Sandokan, te lo prometto. - Hai altro da dire, Kubang? - riprese poi la Tigre della Malesia. - Vorrei chiederti un favore. - Parla. - Di vendicare i miei amici che formavano la scorta del capitano Yanez, - disse il malese con voce commossa. Il viso di Sandokan si fece cupo. - Non era necessario che tu lo chiedessi, amico - disse con voce stridula. - Sai che la Tigre della Malesia non perdona. Saranno tutti vendicati. - Quindi volgendosi verso Khampur, il capo dei montanari, gli disse: - Darai ordine a tutti gli equipaggi, che alla mezzanotte salpino le ancore e che i falconetti siano carichi e pronti a trasportarsi in città. Avremo probabilmente bisogno di un po' di artiglieria, per controbattere quella degli assamesi, se avranno il tempo di condurla al fuoco. - Sarai obbedito, sahib - rispose il montanaro. - Tutti i miei uomini sono impazienti di combattere e di dare una corona alla figlia di Mahur. - Li ringrazierai da parte mia, - disse Surama, - e dirai a loro che non scorderò giammai di dover ai prodi montanari di Sadhja il mio trono. - Vieni, Tremal-Naik - disse Sandokan. - Andiamo a preparare il nostro piano. - A mezzanotte precisa la flottiglia salpava le ancore e coi poluar in testa, essendo i più grossi ed i meglio armati, lasciava silenziosamente la palude dei coccodrilli, scendendo il Brahmaputra su due colonne.

. - Che abbia delle palle in corpo ne sono certo, tuttavia non possiamo dire di avere la sua pelle. - La troveremo morta nel suo covo, - disse Tremal-Naik. - Se le ferite non fossero gravissime si sarebbe gettata contro di noi. Se è fuggita è segno che non si sentiva più in grado di affrontarci. - Che le abbiamo fracassate le zampe anteriori? - chiese Yanez. - Io ho mirato all'altezza del collo. - È probabile, - rispose Tremal-Naik. - Non credi che ritorni? - L'aspetteresti inutilmente. - Andremo a cercarla domani. - E le daremo il colpo di grazia, se sarà ancora viva, - aggiunse Sandokan. - Orsù torniamo al campo. Alcune ore di sonno non guasteranno. - Stettero qualche minuto in ascolto, poi non udendo alcun rumore lasciarono la radura riattraversando l'ultimo tratto di jungla che li separava dall'accampamento. Fuori della cinta incontrarono Kammamuri coi sei malesi. - Andate a dormire, - disse loro Sandokan. - L'abbiamo ferita e all'alba andremo a scovarla. Avvertite il chitmudgar (maggiordomo) che faccia preparare per tempo gli elefanti. - Tutti gli indiani erano in piedi, colle armi in mano, temendo che i cacciatori avessero mancata la tigre e che questa assalisse l'accampamento. Quando però udirono che era stata gravemente ferita, tornarono a coricarsi. I tre amici si cacciarono sotto la tenda, accettarono un bicchiere di birra, che il maggiordomo aveva premurosamente offerto e si gettarono senza spogliarsi sui materassini, mettendosi a fianco le carabine. Il loro sonno non durò che poche ore. I barriti degli elefanti e le urla dei cani li avvertirono che tutto era pronto per cominciare la battuta. - Eccoli ridiventati coraggiosi, - disse Yanez, vedendo gli scikari schierati dinanzi ai colossali animali e pieni di ardore. Vuotarono una tazza di tè caldissimo e presero posto sui loro elefanti. - All right! - comandò Yanez quando vide che tutti erano pronti. I tre pachidermi si misero subito in movimento, preceduti dagli scikari e fiancheggiati dai behras. Appena fuori dalla cinta i cani furono liberati e si slanciarono in tutte le direzioni abbaiando con furore. Cominciava appena allora a rischiararsi il cielo. Gli astri si smorzavano a poco a poco ed una luce rossastra, che diventava rapidamente più intensa, saliva dalla parte d'oriente. Una fresca brezza spirava dal non lontano Brahmaputra, piegando ad intervalli i bambù, che formavano la jungla. Dinanzi ai cani che si gettavano furiosamente attraverso le piante con grande coraggio, animali e volatili fuggivano precipitosamente, indizio sicuro che la terribile kala-bâgh non imperava più su quei dintorni. Degli axis, che durante la notte si erano forse abbeverati allo stagno, scappavano a tutte gambe. Erano gli eleganti cervi indiani, somiglianti ai daini, dal pelame fulvo, macchiato di bianco con una certa regolarità. Talvolta invece erano stormi di kirrik, bellissimi uccelli dalle penne nere e lucentissime, bianche solamente sul collo e sul petto, con un piccolo ciuffo di penne sulla testa e la coda molto folta ed allungata. - O la tigre è morta o sta agonizzando nella sua tana, - disse Tremal-Naik, a cui nulla sfuggiva. - Quegli axis e questi uccelli non si troverebbero qui, se quella brutta bestia battesse ancora la jungla. Questo è un buon segno. - Tu che hai soggiornato molti anni nelle Sunderbunds ne devi sapere più di noi, - disse Yanez. - Io comincio a sperare d'offrire a quel briccone di rajah la pelle della kala-bâgh. - Ed io ne sono sicuro, - aggiunse Sandokan. - Il tuo principe sarà così pienamente soddisfatto, - disse Tremal-Naik. - La pietra di Salagraman prima, poi la pelle della tigre che gli ha divorato i figli. Che cosa potrebbe desiderare di più? Tu, Yanez, sei un uomo veramente fortunato. - L'impresa non è ancora finita, amico. Anzi è ancora da cominciare. - Che cosa vorrai offrirgli ancora? - Non lo so nemmeno io per ora. - Il ministro? - Oh! Quello rimarrà prigionero finché Surama sarà proclamata principessa dell'Assam. Quello guasterebbe troppo le mie faccende. - E sono così numerose, è vero, Yanez? - disse Sandokan. - Non poche di certo ... Aho! Che cos'hanno i cani? - Dei latrati furiosi s'alzavano fra i bambù ed i cespugli spinosi. Si vedevano i botoli a slanciarsi animosamente innanzi e poi ritornare precipitosamente verso gli elefanti, i quali mostravano una certa irrequietezza alzando ed abbassando alternamente le trombe e soffiando vigorosamente. Anche gli scikari si erano fermati, dubbiosi fra l'andare innanzi o mettersi sotto la protezione dei pachidermi. - Ehi, mahut, che cosa c'è dunque? - chiese Yanez, afferrando la carabina. - I cani hanno fiutata la kala-bâgh, - rispose il conduttore. - Anche il tuo elefante? - Sì perché non osa più andare innanzi. - Allora la tigre è vicina. - Sì, sahib. - Fermati qui e noi scendiamo. - Gettarono la scala di corda, presero le loro armi e scesero. - Mylord! - gridò il maggiordomo. - Dove vai? - A finire la kala-bâgh, - rispose tranquillamente il portoghese. - Fa' ritirare i tuoi scikari. Non mi sono necessari. - Quell'ordine non era necessario, poiché i battitori, spaventati dai latrati acuti dei cani, che annunciavano la presenza della fiera, si ripiegavano già precipitosamente, onde non provare la potenza di quelle unghie. - Questi indiani valgono ben poco, - disse Sandokan. - Potevano rimanersene nel palazzo del principe. Se non vi fossero gli ufficiali inglesi, l'India sarebbe a quest'ora quasi inabitabile. - Badate alle spine, - disse in quel momento Yanez. - Lasceremo qui mezzi dei nostri abiti. - La jungla in quel luogo era foltissima e non facile a superarsi. Macchioni di bambù spinosi si stringevano gli uni addosso agli altri. La kala-bâgh si era scelta un buon rifugio, se si trovava veramente colà. - Lascia a me il primo posto, - disse Sandokan a Yanez. - No, amico - rispose il portoghese. - Vi sono troppi occhi fissi su di me ed il colpo di grazia deve darlo mylord, se vuol diventare celebre. - Hai ragione, - disse Sandokan, ridendo. - Noi non dobbiamo figurare che in seconda linea. - Dei guaiti lamentevoli si erano alzati fra una macchia che cresceva venti passi più innanzi, ed i cani davano indietro. La tigre doveva averne sventrati alcuni. - È nascosta là, - disse Yanez, armando la carabina. - Potremo passare? - chiese Sandokan. - Mi pare che vi sia un'apertura sulla nostra destra, - disse Tremal-Naik. - Deve averla fatta la tigre. - Sotto, Yanez. Con sei colpi possiamo affrontare anche quattro belve, - disse Sandokan. Il portoghese girò intorno alla macchia e trovata un'apertura vi si cacciò dentro, mentre i cani per la seconda volta tornavano ad indietreggiare, latrando a piena gola. Percorsi quindici passi, Yanez si fermò e togliendosi colla sinistra il cappello, disse con voce ironica: - Vi saluto, acto bâgh beursah! - Un sordo mugolìo fu la risposta. La tigre era dinanzi al portoghese, sdraiata su un ammasso di foglie secche, ormai impotente di nuocere. Aveva tutto il pelame del petto coperto di sangue e le due zampe anteriori fracassate. Vedendo comparire quei tre uomini, fece un supremo sforzo per rimettersi in piedi, ma cadde subito lasciandosi sfuggire dalle fauci spalancate un urlo di furore. - Abbiamo pronunciata la tua sentenza - disse Yanez, che si teneva a soli dieci passi dalla belva. - Tu sei stata accusata di assassinio e d'antropofagia, perciò i signori giurati sono stati inflessibili e tu devi ora pagare il fio dei tuoi delitti e regalare la tua pelle a S. A. il rajah dell'Assam, per compensarlo dei sudditi che tu gli hai divorati. Chiudi gli occhi. - La tigre invece di obbedire fece un nuovo tentativo per alzarsi ed infatti vi riuscì. Yanez però l'aveva ormai presa di mira. Due colpi di carabina rimbombarono formando quasi una sola detonazione, e la kala-bâgh ricadde fulminata con due palle nel cervello. - Giustizia è fatta, - disse Sandokan. - Avanti gli scikari! - gridò Yanez. - La tigre è morta. - I battitori costruirono rapidamente una specie di barella, incrociando e legando dei solidi bambù e caricarono la belva, non senza però una certa apprensione. - Per Giove! - esclamò Yanez, che si era avvicinato per poterla meglio esaminare. - Non ho mai veduto una tigre così grossa. - Si è ben nutrita di carne umana, - disse Tremal-Naik. - Il pelame tuttavia non è veramente splendido. Si direbbe che questa bestia soffriva la rogna. - Tutte le tigri che si nutrono esclusivamente di carne umana, perdono la loro bellezza primiera ed il loro pelame a poco a poco si guasta. - Che sia una specie di lebbra? - chiese Sandokan. - Può darsi, - disse Yanez. - Tu sai che anche i dayachi dell'interno del Borneo, che sono pure antropofagi, vanno soggetti a quella malattia quando abusano troppo di carne umana. - L'ho notato anch'io, Yanez. Comunque sia è sempre una bella bestiaccia. Giacché la nostra missione è finita, affrettiamoci a ritornare a Gauhati. Abbiamo più da fare laggiù che qui. - Ritornarono al loro elefante, fra le acclamazioni entusiastiche del maggiordomo, degli scikari e dei conduttori di cani e fecero ritorno all'accampamento. Divorata la colazione che i servi avevano già allestita e fatta una fumata, la carovana levò il campo facendo ritorno alla capitale dell'Assam.

. - E nemmeno io, quantunque abbia interrogati, in questi otto giorni, non so quanti indiani. - Chi ce l'indicherà dunque? - Il ministro, - rispose Yanez. Sandokan guardò il portoghese con vera ammirazione. - Ah! che diavolo d'uomo! - esclamò poi. - Tu saresti capace di giuocare Brahma, Siva e anche Visnù insieme. - Forse, - rispose Yanez, ridendo. - Troveremo però alla corte del rajah un ostacolo che sarà duro da abbattere. - Che cos'è? - Un uomo. - Se hai rapito un ministro, potrai fare scomparire anche quello. - Si dice che goda una grande influenza a corte e che sia lui che fa di tutto per impedire agli stranieri di razza bianca di metterci dentro i piedi. - Chi è? - Un europeo, mi hanno detto. - Qualche inglese. - Non ho potuto saperlo. Ce lo dirà il ministro. - Una brusca fermata che per poco non fece loro perdere l'equilibrio, interruppe la loro conversazione. - Siamo giunti, padrone, - disse il conduttore del carro. Dieci o dodici uomini, gli stessi che li avevano aiutati a rapire il ministro, erano usciti da una porta, schierandosi silenziosamente ai due lati del veicolo. - Vi ha seguìti nessuno? - chiese loro Sandokan, balzando a terra. - No, padrone - risposero ad una voce. - Nulla di nuovo nella pagoda? - Calma assoluta. - Prendete il ministro e portatelo nel sotterraneo di Quiscena. - Il carro si era fermato dinanzi ad una gigantesca roccia che s'appoggiava in parte al Brahmaputra e che s'alzava in una località deserta affatto, non essendovi intorno che delle antichissime muraglie semidiroccate, che un tempo dovevano aver servito di cinta alla città e ad ammassi colossali di macerie. Sulla fronte, al di sopra di una porta di bronzo, si scorgevano confusamente delle divinità indiane, di pietra nera, allineate su una specie di cornicione sorretto da una infinità di teste d'elefante, scavate nella roccia e che tenevano le proboscidi arrotolate. Doveva essere qualche pagoda sotterranea, come già ve ne sono tante nell'India, poiché in alto non si vedeva alcuna cupola né semi-circolare, né piramidale. Altri uomini erano usciti, portando delle torce ed unendosi ai primi. Pareva che tutte quelle persone, quantunque indossassero costumi assamesi, appartenessero a due razze ben distinte che nulla o ben poco avevano d'indiano. Infatti, mentre alcuni erano bassi e piuttosto tarchiati, colla pelle fosca che aveva dei riflessi olivastri con sfumature rossastro cupo e gli occhi piccoli e nerissimi, altri invece erano piuttosto alti, di colore giallastro, coi lineamenti bellissimi, quasi regolari e gli occhi grandi, bene aperti ed intelligentissimi. Un uomo che avesse avuto profonda conoscenza della regione malese, non avrebbe esitato a classificare i primi per malesi autentici e gli altri per dayachi bornesi, due razze che si equivalevano per ferocia, per audacia e per coraggio indomito. - Prendete quest'uomo, - aveva detto Yanez, scendendo dal carro e sporgendo il ministro sempre addormentato. Un malese che aveva il volto rugoso, ma i capelli ancora nerissimi e forme quasi atletiche, afferrò fra le poderose braccia Kaksa Pharaum e lo trasportò nella pagoda. - Conduci il carro nel nascondiglio, - proseguì Yanez volgendosi verso il conduttore. - Quattro uomini rimangano qui fuori a guardia. Possiamo essere stati seguiti. - Prese sotto braccio Sandokan, riattizzò la sigaretta e varcarono la soglia, inoltrandosi in un angusto corridoio, ingombro di rottami staccatisi dall'umida volta e che pareva s'addentrasse nelle viscere della colossale roccia. Dopo aver percorsi cinquanta o sessanta metri, preceduti dagli uomini che portavano le torce e seguìti dagli altri, giungevano ad una immensa sala sotterranea, scavata nel vivo masso, di forma circolare, nel cui centro s'ergevano, sopra una pietra rettangolare, di dimensioni enormi, le tre dee: Parvati, Latscimi e Sarassuadi, la prima, protettrice delle armi siccome dea della distruzione; la seconda, delle vetture, dei battelli e degli animali quale dea della ricchezza; la terza, dei libri e degl'istrumenti musicali come dea delle lingue e dell'armonia. - Fermatevi qui, - disse Yanez a coloro che lo accompagnavano. - Tenete pronte le carabine: non si sa mai quello che può succedere. - Prese una torcia e seguìto sempre da Sandokan entrò in un secondo corridoio, un po' più stretto del primo e lo percorse finché fu giunto in una stanza, pure sotterranea, ammobigliata sontuosamente e illuminata da una bellissima lampada dorata che reggeva un globo di vetro giallastro. Le pareti ed il pavimento erano coperti da fitte tappezzerie del Guzerate, scintillanti d'oro e rappresentanti per lo più belve strane, solo esistite nella fervida fantasia degli indù e all'intorno vi erano comodi e larghi divani di seta e mensolette di metallo sorreggenti dei fiaschi dorati e delle coppe. Nel mezzo, una tavola con incrostazioni di madreperla e di scagliette di tartaruga che formavano dei bellissimi disegni, con intorno parecchie sedie di bambù. Solo una parte della parete era scoperta, essendovi incastrato, in una vasta nicchia, un pastore colla faccia nera: era Quiscena, il distruttore dei re malvagi e crudeli, che formavano l'infelicità del popolo indiano. Il ministro era stato deposto su uno di quei soffici divani e russava beatamente come se si trovasse nel suo letto. - È tempo di svegliarlo, - disse Yanez, gettando la sigaretta e prendendo da una mensola un fiasco dal collo lunghissimo, il cui vetro rosso era racchiuso da una specie di rete di metallo dorato. - Noi abbiamo pratica di veleni e d'antidoti, è vero, Sandokan? - Non saremmo stati tanti anni laggiù, nel regno degli upas, - rispose il pirata. - Gli hai fatto fumare dell'oppio? - Ben nascosto sotto la foglia del sigaro, - disse Yanez. - Lo avevo coperto così bene da sfidare l'occhio più sospettoso. - Due gocce di quel liquido in un bicchiere d'acqua basteranno per farlo saltare in piedi. Il suo cervello non tarderà molto a snebbiarsi. - Vediamo, - disse il portoghese. Empì un bicchiere d'acqua preso da una bottiglia di cristallo che si trovava sulla tavola e vi lasciò cadere due gocce d'un liquido rossastro. L'acqua spumeggiò, prendendo una tinta sanguigna, poi a poco a poco riacquistò la solita limpidezza. - Aprigli la bocca, Sandokan, - disse allora il portoghese. Il pirata s'avvicinò al ministro tenendo in mano un pugnale e colla punta lo sforzò ad aprire i denti, che erano fortemente chiusi. - Presto, - disse Sandokan. Yanez versò nella bocca di Kaksa Pharaum il contenuto del bicchiere. - Fra cinque minuti, - disse la Tigre della Malesia. - Allora puoi accendere la tua pipa. - Credo che sia meglio. - Il pirata prese da una mensola una splendida pipa adorna di perle lungo la canna, la riempì di tabacco, l'accese e si sdraiò su uno dei divani, come un pascià turco, mettendosi a fumare con studiata lunghezza. Yanez, curvo sul ministro, lo scrutava attentamente. Il respiro, poco prima affannoso dell'indiano a poco a poco diventava regolare e le sue palpebre subivano di quando in quando una specie di tremito, come se facessero degli sforzi per alzarsi. Anche le gambe e le braccia perdevano la loro rigidità: i muscoli, sotto la misteriosa influenza di quel liquido, si allentavano. Ad un tratto, un sospiro più lungo sfuggì dalle labbra del ministro, poi quasi subito gli occhi s'aprirono, fissandosi su Yanez. - Amate troppo il riposo, Eccellenza, - disse Yanez ironicamente. - Come fanno i vostri servi a svegliarvi? Vi ho fatto fare un viaggio che è durato più di un'ora e non avete cessato un sol momento di russare. Non servite troppo bene il vostro signore. - Per ... Mylord! - esclamò il ministro, alzandosi di colpo e girando intorno uno sguardo meravigliato. - Sì, io, mylord. - Ma ... dove sono io? - In casa di mylord. - Il ministro stette un momento silenzioso, continuando a girare gli occhi intorno, poi esclamò: - Per Siva! Io non ho mai veduto questo salotto. - Sfido io! - rispose Yanez, colla sua solita flemma beffarda. - Non vi siete mai degnato di visitare il palazzo di mylord. - E quell'uomo chi è? - chiese Pharaum, indicando Sandokan, che continuava a fumare placidamente come se la cosa non lo riguardasse affatto. - Ah! Quello, Eccellenza, è un uomo terribile, che fu chiamato per la sua ferocia, la Tigre della Malesia. È un gran principe ed un grande guerriero. - Kaksa Pharaum non poté nascondere un tremito. - Non abbiate paura di lui, però, - disse Yanez, che si era accorto dello spavento del ministro. - Quando fuma è più dolce d'un fanciullo. - E che cosa fa qui, in casa vostra? - Viene a tenere qualche volta compagnia a mylord. - Voi vi burlate di me! - gridò Kaksa, furibondo. - Basta! Avete scherzato abbastanza! Vi siete dimenticato che io sono possente quanto il rajah dell'Assam? Voi pagherete caro questo giuoco! Ditemi dove sono e perché mi trovo qui, invece di essere nel mio palazzo o io ... - Potete gridare finché vorrete, Eccellenza, nessuno udrà la vostra voce. Siamo in un sotterraneo che non trasmette al di fuori alcun rumore. D'altronde, rassicuratevi: io non voglio farvi male alcuno se non vi ostinerete a rimanere muto. - Che cosa volete da me? Parlate, mylord. - Lasciate prima che vi dica, Eccellenza, che ogni resistenza da parte vostra sarebbe assolutamente inutile, perché a dieci passi da noi vi sono trenta uomini che nemmeno un intero reggimento di cipay sarebbe capace d'arrestare. Accomodatevi ed ascoltate pazientemente una pagina di storia del vostro paese. - Da voi? - Da me, Eccellenza. - Lo spinse dolcemente verso una sedia, costringendolo a sedersi, prese alcune tazze di cristallo finissimo ed un fiasco, riempiendole d'un liquore color dell'oro vecchio, poi aprì il portasigari, offrendolo al prigioniero. Nel vedere i grossi manilla, Kaksa Pharaum fece un gesto di terrore. - Potete scegliere senza timore, - disse Yanez. - Questi non contengono nemmeno una particella d'oppio. Se avete qualche sospetto, prendete una sigaretta, a vostra scelta. - Il ministro fece un feroce gesto di diniego. - Allora assaggiate questo liquore, - continuò Yanez. - Guardate: ne bevo anch'io. È eccellente. - Più tardi: parlate. - Yanez vuotò la sua tazza, accese la sigaretta, poi, appoggiando comodamente il dorso alla spalliera della sedia, disse: - Ascoltatemi dunque, Eccellenza. L'istoria che voglio narrarvi non sarà lunga, però vi interesserà molto. - Sandokan, sempre sdraiato sul divano, fumava silenziosamente, conservando una immobilità quasi assoluta.

. - Io non contesto che egli sia un coraggioso e che la fortuna lo abbia favorito - disse poi. - Ma appunto perché è un coraggioso può essere anche pericoloso. - Il rajah fece un gesto di noia e s'alzò dicendo: - Lasciami in pace quell'inglese, Teotokris. Fa' invece avvertire i miei attori di preparare questa sera, nel grande cortile, uno spettacolo emozionante. - Farò come tu vuoi, Altezza, - rispose il greco. Yanez, soddisfattissimo della buona piega che prendevano i suoi affari, aveva preso possesso dell'appartamento destinatogli dal munifico rajah. Si componeva di quattro bellissime stanze, d'un salotto elegantissimo e d'un gabinetto pel bagno, tutte ammobigliate con molto sfarzo e fornite di punka, che sono grandi tavole coperte di stoffa, attaccate al soffitto e che un servo fa girare continuamente, mediante un giuoco di corde, onde mantenere nell'interno una deliziosa frescura. Il chitmudgar, che il principe aveva destinato al famoso cacciatore, aveva subito fatto portare un lauto pranzo con molte bottiglie di birra e di liquori, destinato parte al primo e parte ai sei malesi che avevano preso posto in una delle quattro stanze tramutandola in una specie di caserma. - Fammi compagnia, - aveva detto Yanez al maggiordomo, sedendosi. - Io! ... Con voi, mylord! - aveva esclamato l'indiano, facendo un gesto di stupore. - Taci e dividi con me. Ho molte cose da chiederti e anche delle rupie da regalarti se mi sarai fedele. - Le rupie fecero maggior effetto dell'invito, poiché il chitmudgar, venale come la maggior parte dei suoi compatriotti, obbedì prontamente senza più protestare contro un così grande onore. - È vero che i commedianti sono qui, nel palazzo? - chiese Yanez assaggiando le vivande. - Sì, mylord. - Conosci il capo della compagnia? - È mio amico anzi, mylord. - Benissimo, - disse Yanez versandosi un bicchiere di birra e tracannandola d'un colpo solo. - Desidero vederlo. - Io ho avuto l'ordine di soddisfare qualunque tuo desiderio. Il rajah così vuole. - Ed io invece desidero che il principe non sappia affatto che io voglio vedere il capo della compagnia. Compero il tuo silenzio per cinquanta rupie. - Il chitmudgar fece un soprassalto e sgranò gli occhi. In un anno di servizio forse non aveva guadagnato la metà di quella somma, che rappresentava per lui una piccola fortuna. - Che cosa devo fare? - Te l'ho detto: desidero che venga qui il capo dei commedianti e possibilmente senza che sia veduto. Dove si terrà lo spettacolo? - Nel cortile interno. - Yanez si rovesciò nella poltroncina di bambù e guardò per qualche po' il chitmudgar. - È quello stesso dove il rajah uccise suo fratello? - Sì, mylord. - Me l'ero immaginato. Vi è ancora quella famosa balconata da dove il fratello di Sindhia sparò sui suoi parenti? - Si trova anzi precisamente sopra il palcoscenico. - Per Giove! - esclamò Yanez. - Ciò si chiama avere una prodigiosa fortuna. Va' a chiamarmi quell'uomo. - Il chitmudgar non si fece ripetere l'ordine due volte, quantunque il pranzo non fosse stato ancora terminato. Si alzò precipitosamente e scomparve. - Ah! Ah! - fece Yanez ridendo. - Mio caro rajah voglio prepararti un tiro birbone e metterti nel cuore un sospetto che non ti lascerà più dormire. - Chiamò il capo dei sei malesi il quale, pranzando nella stanza vicina coi compagni fu pronto ad accorrere. - Che cosa desideri capitano Yanez? - gli chiese il selvaggio figlio della Malesia. - Quante rupie vi ha affidate Sandokan? - chiese il portoghese. - Seimila. - Che siano pronte. - Un momento dopo il maggiordomo entrava accompagnato da un indiano piuttosto attempato, dagli occhi intelligentissimi, dai lineamenti ancora belli, dalla carnagione piuttosto oscura essendo gli attori indiani quasi sempre tamuli o malabari, che sono i popoli più appassionati per le rappresentazioni drammatiche. - Ecco il calicaren (attore), - disse il maggiordomo. L'indiano fece un profondo inchino e attese di essere interrogato. - Sei tu che scegli le commedie o le tragedie che si rappresentano od il rajah? - gli chiese Yanez. - No, io, sahib, - rispose il calicaren. - Che cosa avevi intenzione di rappresentare questa sera? - Il Pramayana, una tragedia scritta dal nostro grande poeta Valmiki, che è il più celebre che sia conosciuto nell'India. - Di che cosa tratta? - Delle imprese e delle conquiste fatte dal dio Rama a Ceylan. - Rama non m'interessa, - rispose Yanez. - Il soggetto voglio dartelo io. Vieni ed ascoltami attentamente. - Si alzò e lo condusse nel suo salotto. Il colloquio durò una buona mezz'ora e terminò con una chiamata di Yanez del capo della scorta malese. - Da' a quest'uomo cinquecento rupie, - disse il portoghese. - Questo è il regalo di mylord. - Il calicaren si era precipitato ai piedi del generoso inglese; ma questi con un rapido gesto lo aveva trattenuto dicendo: - Non occorre. Intasca e fa' quanto ti ho detto. Ora puoi andartene e sopratutto silenzio. - Sarò muto come una statua di bronzo, sahib - rispose il calicaren. Quando fu solo Yanez si gettò sul magnifico letto, tutto dorato con intarsi di madreperla e coperto da una superba stoffa di seta damascata, dicendo: - Ed ora possiamo riposare finché verrà quell'europeo misterioso se si degnerà di venirmi a salutare. - Invitato dal silenzio profondo che regnava nel palazzo, essendo l'ora del riposo diurno che dura da dopo il mezzodì fino alle quattro, durante il cui tempo tutti gli affari sono sospesi, e dalla dolce frescura prodotta dalla punka che un servo, situato sulla terrazza, manovrava energicamente, non tardò a chiudere gli occhi. Una discreta battuta alla porta lo svegliò dopo un paio d'ore. - Sei tu, chitmudgar? - chiese Yanez balzando giù dal letto. - Sì, mylord. - Che cosa si vuole da me? - Vi è, sahib, Teotokris che desiderava vederti. - Teotokris! - esclamò il portoghese. - Chi è costui? Questo è un nome greco, se non m'inganno. Ah! Deve essere l'europeo di cui mi hanno parlato. Andiamo a fare la conoscenza di quel misterioso personaggio. - Si rassettò le vesti, si mise per precauzione una pistola in tasca sapendo, per istinto, d'aver a che fare con un avversario forse pericolosissimo ed entrò nel salotto. Il greco era là, in piedi, con una mano appoggiata al tavolo, un po' meditabondo. Vedendo entrare Yanez si rizzò di colpo squadrandolo rapidamente, poi fece un legger inchino, dicendo in perfetto inglese: - Ben felice di salutarvi, mylord e di vedere qui, alla corte di S. A. il rajah dell'Assam, un altro europeo. - Quelle parole però erano state pronunciate con una certa ironia stizzosa, che non era sfuggita al furbo portoghese. Tuttavia questi fu pronto a rispondere amabilmente. - Io lo avevo saputo, signore, che vi era qui un europeo e nessuno è più felice di me di potergli stringere la mano. Fuori del nostro continente a qualunque nazione apparteniamo siamo sempre fratelli, perché siamo tutti figli della grande famiglia degli uomini bianchi. Sedetevi signor ... - Teotokris. - Un greco? - Sì, dell'Arcipelago. - Come mai vi trovate qui? La vostra nazione non ha interessi nell'India. - È una lunga istoria che vi racconterò un'altra volta. Non sono venuto per questo, mylord. - Ditemi che cosa desiderate da me. - Chiedervi, da parte del rajah, una spiegazione. - Yanez aggrottò impercettibilmente la fronte e guardò attentamente il greco, come se cercasse di scrutare i suoi pensieri. - Parlate, - disse poi. - Voi non siete giunto solo qui? - No, ho condotto con me sei cacciatori malesi che mi hanno dato molte prove di fedeltà quando cacciavo le tigri bornesi. - Ah! Siete stato al Borneo? - Ho visitato tutte le isole malesi facendo delle vere stragi d'animali feroci. - Eppure noi abbiamo saputo che un'altra persona vi ha accompagnato. - Chi? - Una bellissima giovane indiana che ha preso in affitto un palazzo. - E così? - chiese Yanez, freddamente. - Il rajah desidererebbe sapere se è qualche principessa indiana. - E perché? - Per invitarla a corte. - Ah! - fece Yanez, respirando un po' più liberamente di prima, poiché aveva provato, non ostante il suo meraviglioso coraggio e sangue freddo, una certa apprensione. - Dite a S. A. che io lo ringrazio, ma che quella giovane non ama che la tranquillità della sua casa. - È però una principessa. - Sì, del Mysore, - rispose Yanez. - Volete saper altro? - Il greco non rispose: pareva che fosse imbarazzato o che volesse fare qualche altra domanda e non osasse. - Parlate, - disse Yanez. - Vi fermerete molto qui, mylord? - Non lo so, dipendendo dal minor o maggior numero di tigri che infestano l'Assam. - Lasciate che divorino, - disse il greco, alzando le spalle. - Che cosa importa a voi se si mangiano alcune centinaia d'assamesi? Il rajah ne avrà sempre abbastanza da governare. - Non siete troppo gentile verso chi vi ospita. - Sono ospite del rajah e non di loro. - Spiegatevi meglio. - Che cosa vorreste per tornarvene nel Bengala? Là vi sono più tigri che qui e nelle Sunderbunds potrete sfogarvi finché vorrete. - Io andarmene! - esclamò Yanez. Teotokris rimase silenzioso, guardando però con un certo stupore Yanez. - Un mio compatriotta mi avrebbe a quest'ora compreso, - disse poi con mal celata collera. - Può darsi, signore, - rispose pacatamente Yanez; - siccome però noi inglesi non siamo così svegliati come i greci dell'Arcipelago, abbiamo l'abitudine di aspettare sempre maggiori spiegazioni. - Cinquemila rupie vi basterebbero? - chiese il greco. - Per ... - Andarvene? - Aho! - Ottomila. - Yanez lo guardò senza rispondere. - Diecimila, - disse il greco coi denti stretti. Nuovo silenzio da parte del portoghese. - Quindicimila? - E trentamila invece a voi se fra ventiquattro ore avrete varcato la frontiera dell'Assam, - disse Yanez, alzandosi. Il greco era diventato pallidissimo, come se avesse ricevuto uno schiaffo in pieno viso. - A me! - gridò. - Sì, a voi le offre mylord Moreland, che non è mai stato un greco dell'Arcipelago, né un pescatore di spugne o di sogliole. - Avete detto? - gridò Teotokris stringendo le pugna. - Vi occorrerebbe per caso un medico per farvi qualche operazione agli orecchi? Uno dei miei malesi è abilissimo in tali faccende. Ha curato perfino una giovane tigre che io avevo fatta prigioniera. - Il greco aveva fatto due passi indietro saettando su Yanez, che conservava la sua calma ammirabile, due occhi di fuoco. - Mi avete offeso, mi pare? - disse con voce arrangolata. - Parrebbe anche a me. - E allora? - Ma! Da noi, quando si crede di aver ricevuto un insulto, si usa chiedere una riparazione colle armi. - Il greco rimase interdetto. Yanez dal canto suo levò una sigaretta da una tasca e l'accese tranquillamente, soffiando in aria una nuvoletta di fumo profumato. - Se ne volete una anche voi, signore, ve la offro di tutto cuore. - Voi volete burlarvi di me! - Io! Dio me ne guardi! Io non amo burlarmi che delle tigri, e quelle sono più pericolose degli uomini. Vi pare, signor Teotokris? - Sicché voi non volete andarvene? - Non sono già venuto qui per uccidere una miserabile kala-bâgh - rispose Yanez. - Voglio tornarmene al Bengala con un bel numero di pelli. E poi ho trovato che si sta benissimo qui nel palazzo reale. - Voi non conoscete ancora quanto sia capriccioso il rajah. Egli sarebbe capace di ordinarvi domani di portargli una tigre ogni giorno. - Ed io andrò a cercarla e ucciderla. Non mi ha nominato forse il suo cacciatore? - E potrebbe anche chiedervi di mostrare i vostri documenti per accertarsi se siete veramente un mylord od un volgare avventuriero. - Questa volta fu Yanez che impallidì. La sua destra piombò sulla spalla sinistra del greco con tale violenza da costringerlo a piegarsi, quantunque fosse più alto d'almeno un palmo. - Siete voi ora, signor Teotokris, che mi avete offeso: vi sembra? - Può darsi. - Ora siccome un mylord non lascia mai impunito un insulto, vi chiedo di rendermi stretto conto di quel titolo di avventuriero. - Quando lo vorrete, se mi concederete la scelta delle armi e che il duello sia pubblico. - Fate, - rispose semplicemente Yanez. - Per domani. - Sia. - Il rajah e la sua corte saranno i nostri testimoni. - Benissimo. - Addio, signore. - Mylord vi saluta, greco dell'Arcipelago. -

- È mezzo ubbriaco e credo che non abbia nemmeno capito che la corona gli cadeva dalla testa, - rispose Yanez. - Ma Surama dov'è? - È a bordo d'uno dei nostri poluar. La faremo subito avvertire. - E tutta questa gente dove l'hai scovata, tu? - Sono i sudditi del padre della tua fidanzata. Lascia le spiegazioni a più tardi. - In quell'istante giunse Khampur. - Capo, - disse volgendosi verso Sandokan. - Che cosa devo fare? Tutti i soldati del rajah o scappano o si arrendono. - Manda, innanzi a tutto, una buona scorta al poluar, onde conduca qui, il più presto possibile, Surama. Manderai poi i tuoi uomini a occupare tutte le caserme della città ed i fortini dei bastioni. Non troveranno ormai più alcuna resistenza. - Lo credo anch'io, capo. - E ripartì di corsa, mentre i suoi montanari disarmavano i prigionieri e sparavano le loro ultime cartucce contro le case, onde la popolazione non scendesse nelle vie. - Dal rajah ora, - disse Sandokan. - Guidaci, mio bravo demjadar. Tu hai mantenuto la tua promessa e la rhani dell'Assam manterrà i suoi patti. - Il capo dei seikki si diresse verso il palazzo reale seguìto da Sandokan, da Yanez, da Tremal-Naik e da una piccola scorta. I seikki guardavano le porte, dinanzi alle quali erano stati piazzati dei piccoli pezzi d'artiglieria. Il drappello salì lo scalone principale ed entrò nella sala del trono, dove si trovavano radunati i ministri ed alcuni dei più alti dignitari dello stato. Il rajah invece se ne stava, semi-coricato, sul suo letto-trono, mezzo inebetito dai liquori e dallo spavento. Certo la morte del greco, del suo fido, quantunque perfido consigliere, doveva avergli schiantata l'anima. Vedendo entrare Yanez seguìto da tutti gli altri, scese dal trono e assumendo una cert'aria di dignitosa fierezza, infusagli dal cognac bevuto, gli chiese con voce rauca: - Che cosa vuoi tu, mylord, ancora da me? La mia vita forse? - Noi non siamo assamesi, Altezza - rispose il portoghese togliendosi il cappello e facendo un inchino. - Al governo inglese premerebbero, forse, più che la mia vita le mie ricchezze? - Vostra Altezza s'inganna. - Che cosa volete dire, mylord? - Che il governo inglese non c'entra affatto in questa rivoluzione o, sollevazione, se così vi piace meglio. - Il rajah fece un gesto di stupore. - Per conto di chi avete agito voi dunque così? Chi siete? Chi vi ha mandati qui? - Una fanciulla che voi ben conoscete, Altezza - rispose Yanez. - Una fanciulla! - Sapete Altezza chi sono i guerrieri che hanno vinto le vostre truppe? - chiese Sandokan, avanzandosi. - No. - I montanari di Sadhja. - Un grido terribile lacerò il petto del principe. - I guerrieri di Mahur! - Si chiamava ben così, il forte montanaro che vostro fratello uccise a tradimento, - continuò Sandokan. - Ma io non ho preso parte a quell'assassinio! - urlò il principe. - Ciò è vero, - rispose Yanez, - però Vostra Altezza non avrà dimenticato che cosa ha fatto della piccola Surama, la figlia di Mahur. - Surama! - balbettò il rajah diventando livido. - Surama! - Sì, Altezza. A chi l'avete venduta? Ve lo ricordate? - Il rajah era rimasto muto guardando Yanez con intenso terrore. - Allora voi, Altezza, mi permetterete di dirvi che quella fanciulla, figlia di un grande capo che era vostro zio, invece di farla sedere sui gradini d'un trono, come le spettava per diritto di nascita, l'avete venduta, come una miserabile schiava, ad una banda di thugs indiani, onde ne facessero una bajadera. Vi ricordate ora? - Anche questa volta il rajah non rispose. Solamente i suoi occhi si dilatavano sempre più, come se dovessero schizzargli dalle orbite. - Quella fanciulla, - proseguì l'implacabile portoghese, - chiese il nostro aiuto e noi, che siamo uomini capaci di mettere sottosopra il mondo intero, siamo venuti qui, dalle lontane regioni della Malesia, per sostenere i suoi diritti e, come avete veduto, ci siamo riusciti, poiché voi non siete più rajah. È la rhani che da questo momento regna sull'Assam. - Il principe scoppiò in una risata stridula, spaventosa, che si ripercosse lungamente nell'immensa sala. - La rhani! - esclamò poi, sempre ridendo. - Ah! ... ah! ah! Le mie carabine ... le mie pistole ... i miei elefanti ... voglio sposare la rhani! ... Dov'è ... dov'è? Ah! Eccola! Bella, bellissima! ... - Yanez, Sandokan e Tremal-Naik si guardarono un po' atterriti. - È diventato pazzo, - disse il primo. - Bah! Vi sono degli ospedali a Calcutta, - aggiunse il secondo. - Surama è ormai abbastanza ricca per pagargli una pensione principesca. - E uscirono tutti e tre, un po' pensierosi, mentre il disgraziato, colpito improvvisamente da una pazzia furiosa, continuava a urlare come un ossesso: - Le mie carabine ... le mie pistole ... i miei elefanti ... voglio sposare la rhani! - Dieci giorni più tardi gli avvenimenti narrati, quando già il disgraziato rajah era stato condotto a Calcutta, sotto buona scorta, per essere internato in uno dei primari stabilimenti d'alienati e quando già tutte le città dell'Assam, avevano fatto atto di sottomissione completa, la bellissima Surama impalmava solennemente il suo amato sahib bianco, cedendogli metà della corona. - Eccovi finalmente felici, - disse a loro Sandokan, la sera istessa, mentre la folla, delirante, acclamava i nuovi sovrani dell'Assam, ed i fuochi d'artifizio illuminavano fantasticamente la capitale. - Ora tocca a me procurarmi una corona, quella stessa che portava sul capo mio padre. - E quando sarà quel giorno? - chiese Yanez. - Sai che noi, quantunque di tinta diversa, siamo più che due fratelli. Parla e verrò io ad aiutarti coi miei scikari e, se sarà necessario, coi montanari di Sadhja. - Chi lo sa, - disse Sandokan dopo un silenzio relativamente lungo. - Forse quel giorno è più prossimo che tu non lo creda, ma non voglio per ora guastare la tua luna di miele, come dite voi uomini dell'estremo occidente. Fra giorni mi imbarcherò pel Borneo coi miei ultimi malesi e dayachi e, quando sarò là, riceverai miei ordini. -

. - Per quanto credi che io ne abbia? - Non sarai in piedi prima di due settimane. Sei robustissimo tu, signore. - Ed ho pelle di marinai addosso, - disse il greco, sforzandosi a sorridere. - Spicciati: il sangue se ne va e non desidero affatto di perderlo. - Il medico che, quantunque indiano, doveva essere abilissimo, cucì lestamente la ferita, spalmandola poi con una materia che pareva resinosa e la fasciò strettamente. Aveva appena terminato, quando un ufficiale dei seikki entrò nella stanza annunciando il rajah. La fronte del greco si era subito abbuiata, tuttavia si guardò bene dal far trasparire il suo malumore. - Uscite tutti, - disse al medico ed ai servi. Il rajah entrava in quel momento e solo. Anche la sua fronte non pareva serena. Attese che tutti si fossero allontanati, compreso l'ufficiale, poi prese una sedia e si assise presso il capezzale del ferito. - Come va dunque, mio povero Teotokris? - chiese. - Ti credevo più abile e più fortunato. - Vi ho dato, Altezza, non poche prove della mia abilità nell'uso del laccio. Non credo di meritarmi quindi alcun rimprovero. - È grave la ferita? - No, Altezza. Potrò rimettermi a vostra disposizione fra una quindicina di giorni e allora vi giuro che non perderò il mio tempo. - Che cosa vuoi dire? - Che saprò chi è quell'uomo che si spaccia per un mylord. - Tu serbi rancore a quel valoroso cacciatore. - E gliene serberò finché avrò un alito di vita, - rispose il greco con accento feroce. - Eppure tu gli hai giuocato un cattivo tiro. - Voi supponete Altezza? ... - Che l'impugnatura di quella scimitarra sia stata abilmente segata onde la lama cedesse al menomo urto. - Chi è che mi accusa? - Io, - disse il rajah, aggrottando la fronte. - Se siete voi Altezza che lo dite, allora non negherò più. - Confessi? - Sì, è vero: l'estremità della lama l'ho fatta segare presso la guardia da un abilissimo artefice. - Il principe non poté frenare un gesto di stupore e guardò severamente il suo favorito. - Avevi dunque paura del gran cacciatore bianco? - Volevo sopprimerlo a qualunque costo per rendere al mio benefattore un grande servizio, - disse il greco audacemente. - A me? - Sì, Altezza. - Uccidendo colui che mi ha restituito la pietra di Salagraman e che ha ucciso la kala-bâgh! - Sì, perché quell'uomo un giorno, ne sono sicuro, ti giuocherà qualche pessimo tiro. - E perché? - Perché è un inglese innanzi tutto e tu sai, forse meglio di me, che gli uomini della sua razza furono sempre i più pericolosi avversari degli indiani. Forse che quasi tutto l'Indostan non è stato conquistato da loro? E poi perché quel mylord ha condotto con sé una principessa indiana che non è assamese? Apri gli occhi Altezza e non fidarti ciecamente di quell'inglese che non sappiamo che cosa sia venuto a fare qui. - A uccidere la tigre, mi ha detto - rispose il rajah. - Tu potrai credere quello che vorrai, ma non io che appartengo alla razza più astuta che viva in Europa. - Il principe, visibilmente impressionato, si era levato in piedi mettendosi a passeggiare intorno al letto del ferito. Diffidente per carattere, cominciava a diventare inquieto. - Che cosa fare? - chiese ad un tratto fermandosi presso il greco che lo aveva seguito con uno sguardo ironico. - Io non posso congedarli lì per lì; potrei anzi avere dei grossi fastidi col governatore del Bengala. - Non ti consiglierei di far ciò nemmeno io, Altezza - disse il greco. - E allora? - Vuoi lasciare a me carta bianca? - Il rajah lo guardò con diffidenza. - Penseresti a farlo assassinare da qualche sicario o di farlo avvelenare? Cattivi mezzi che non mi salverebbero dall'avere dei grattacapi. - Non sarà contro di lui che io agirò. A te Altezza non chiedo altro che di farlo strettamente sorvegliare. - Con chi te la prenderai dunque? Voglio prima saperlo. - Con quella misteriosa principessa indiana. Quando sarà in mia mano la costringerò a dirmi chi è, e che razza d'avventuriero sia quel mylord. - Io credo davvero che tu appartenga alla razza più astuta dell'Europa, - disse il rajah. - Non desidero però che quella donna o fanciulla che sia venga trasportata qui. - Ho una casa di mia proprietà, dove tengo le mie donne - rispose il greco. - Questa notte mi farò condurre colà, ma tu dirai a tutti che io sono sempre alla tua corte e darai ordine che nessuno, per qualsiasi motivo, venga a disturbarmi. - Farò quello che vorrai. Addio e pensa a guarire presto. -

. - Che abbia il suo covo in quei dintorni? - chiese Sandokan. - Sì, deve trovarsi fra i bambù della vicina jungla, perché anche alcune settimane or sono, è stata incontrata due volte da uno scikaro. - Questa sera potremo trovarci a quello stagno? - Prima del tramonto vi giungeremo, - rispose il maggiordomo. - Volete che tendiamo una imboscata colà? - chiese Sandokan volgendosi verso Yanez e Tremal-Naik. - Se quella bestia è così astuta e diffidente, non si lascerà accostare dagli elefanti. - Era quello che pensavo anch'io, - disse il portoghese. - A che ora riprenderemo le mosse? - chiese Tremal-Naik al maggiordomo. - Alle quattro, sahib. - Possiamo approfittare per schiacciare un sonnellino allora. Non siamo sicuri di riposarci questa sera. - Il maggiordomo fece portare altri cuscini, poi abbassare sul dinanzi della tenda un gran drappo pure di seta, onde potessero riposare più tranquilli. Anche gli scikari ed i conduttori dei cani, approfittando della grande calma che regnava sotto le piante, e del nessun pericolo che li minacciava, si erano addormentati. Vegliavano invece gli elefanti, occupati a dar fondo ad un ammasso di foglie e di rami di pipal, di cui sono ghiottissimi, non avendo forse trovata sufficiente la razione fornita loro dai mahuts, quantunque composta di venticinque libbre di farina impastata con acqua, di una libbra di burro chiarificato e di mezza libbra di sale per ciascuno. Alle quattro, con una precisione cronometrica, tutta la carovana era pronta a riprendere le mosse. La tenda in un baleno era stata levata e gli elefanti, che erano appena allora stati spalmati di grasso alla testa, agli orecchi ed ai piedi, si mostravano di buon umore, scherzando coi loro mahuts. - Avanti! - aveva gridato Yanez che aveva ripreso il suo posto con Sandokan ed il bengalese. La carovana si mosse di buon passo, sempre coll'ordine primiero. Gli scikari, non essendo ancora giunti sul luogo della caccia, si tenevano ultimi insieme ai conduttori dei cani ed ai servi. Il paese accennava a cambiare. I grandi alberi scomparivano per dar luogo a immense distese di erbe palustri, grosse e diritte come lame di sciabola che i botanici chiamano thypha elephantina, perché assai amate dagli elefanti che ne fanno delle scorpacciate, ed a gruppi di bambù spinosi, alti solo pochi metri, ma invece molto grossi. Era il principio della jungla umida, il regno dell'acto bâgh beursah (la tigre signora) come l'hanno chiamata i poeti indiani. Della selvaggina piccola e grossa, spaventata dall'avvicinarsi di quei tre colossi accompagnati da tanta gente armata, balzava di quando in quando fuori da quei bambù, allontanandosi a corsa precipitosa. Ora erano dei samber, specie di cervi, più grossi di quelli europei, dal pelame bruno violetto sul dorso e bianco argenteo sotto il ventre e la testa armata di corna robuste, che spiccavano dei salti meravigliosi, scomparendo in pochi istanti agli occhi dei cacciatori; ora invece erano dei nilgò, le antilopi indiane, grosse quasi quanto un bue di media statura, di forme però eleganti e fini ed il pelame grigiastro; ora delle bande di cani selvaggi, grossi quanto gli sciacalli ai quali rassomigliano molto nella forma della testa e che sono famosi cacciatori di daini, dei quali ne distruggono un gran numero. Anche qualche bufalo delle jungle, strappato al suo riposo dal barrire degli elefanti, si scagliava, con impeto furibondo, fuori dalle macchie di bambù, mostrando la sua testaccia corta e quadra, armata di corna ovali e fortemente appiattite, curvantisi all'indietro. Si arrestava qualche momento, ben piantato sulle poderose zampe, guatando cogli occhi iniettati di sangue la carovana, smanioso forse di lanciarsi ad una carica disperata e di far strage di scikari e di valletti, poi s'allontanava a piccolo galoppo, volgendosi di quando in quando indietro e anche soffermandosi come per dire: un bhainsa della jungla non ha paura. Il sole era prossimo al tramonto e gli elefanti cominciavano a dar segno di stanchezza in causa della pessima natura del suolo che cedeva facilmente sotto i loro larghi piedi, quando Yanez, dall'alto della cassa, al di là d'una piccola jungla formata esclusivamente di piante spinose, vide scintillare una distesa d'acqua. - Ecco lo stagno della tigre nera, - disse. Quasi nell'istesso momento una viva agitazione si manifestò fra i cani. Tiravano i guinzagli e latravano furiosamente formando un baccano assordante. - Che cosa c'è dunque? - chiese il portoghese al mahut. - I cani hanno fiutata la pista della kala-bâgh, - rispose l'indiano. - Che sia passata per di qua? - Certo, sahib. I cani non latrerebbero così. - E quando passata? Di recente? - Solo i cani potrebbero saperlo. - Il tuo elefante non dà alcun segno d'agitazione? - Nessuno finora. - Avanzati verso lo stagno. Ne faremo il giro per vedere quale contegno terranno i cani. - Sì, sahib, - rispose il mahut alzando la sua corta picca armata lateralmente d'un uncino molto acuto. L'elefante che si era arrestato un momento, riprese il cammino scostando colla sua formidabile tromba i bambù. Era ancora tranquillo, tuttavia doveva essersi accorto anche lui che s'avanzava nel dominio della tigre perché non aveva più il passo lesto come prima. I cani, sotto una tempesta di frustate, non urlavano più, però di quando in quando tentavano di rompere le funicelle per slanciarsi attraverso le typha. - Che l'abbiano proprio fiutata la belva? - chiese Yanez, che sembrava inquieto, rivolgendosi verso Tremal-Naik. - Credo che il mahut non si sia ingannato, - rispose il bengalese. - Per precauzione faremo bene a preparare le carabine. Si è dato qualche volta che le tigri solitarie invece di fuggire si siano gettate improvvisamente addosso ai cacciatori. - Approntiamoci, Sandokan. - La Tigre della Malesia vuotò il suo cibuc e presa la sua carabina a due colpi, montò i grilletti mettendosela poi fra le ginocchia. Yanez e Tremal-Naik lo avevano imitato, poi avevano appoggiato contro l'orlo della cassa tre picche di corta misura che avevano però delle lame piuttosto larghe e coi margini affilatissimi. - Tu Sandokan, veglia sul mahut, io guardo a destra e tu Tremal-Naik a sinistra, - disse Yanez quando quei preparativi furono terminati. - Conto più su di noi tre che su tutta questa gente. - E su Kammamuri e sui nostri malesi, - aggiunse la Tigre della Malesia. - Non sono uomini da volgere le spalle nel momento del pericolo. - Quantunque tutto indicasse che quelle jungle fossero state percorse dalla terribile belva, gli elefanti giunsero senza cattivi incontri sulle rive dello stagno e ne fecero il giro levando solamente alcune coppie di pavoni ed una mezza dozzina di oche selvatiche, grosse quanto quelle europee, col collo invece più lungo, le ali orlate di nero, la testa adorna d'un ciuffo. Quello stagno non aveva che una circonferenza di cinque o seicento metri e serviva da serbatoio ad alcuni minuscoli torrenti che si perdevano nelle vicine jungle. Le piante acquatiche, le jhil, che somigliano al loto comune e che producono un grosso tubero assai apprezzato dagli indiani, lo avevano invaso per buona parte. - Accampiamoci qui, - disse Yanez al mahut. Gettò la scala e scese coi suoi compagni. Il maggiordomo lo aveva subito raggiunto per attendere i suoi ordini. - Fa' alzare la tenda e preparare l'accampamento. - Sì, mylord. - Una domanda prima. - Parla. - Vi sono altri stagni nei dintorni? - Nessuno. Non vi è che il fiume, ma è molto lontano ancora. - Sicché i nilgò ed i bufali sono costretti a venire qui a dissetarsi. - Ai villaggi non s'avvicinano mai e poi quelle fontane sono troppo frequentate dagli uomini e dalle donne. - Non mi occorre ora che una buona cena. - Gli scikari, i valletti ed i servi, aiutati anche dal malesi che erano sotto la direzione di Kammamuri, in meno d'un quarto d'ora prepararono l'accampamento intorno ad un magnifico pipal nim, dal tronco enorme e dal fogliame cupo e fitto, che coi suoi immensi rami lo copriva quasi tutto. Trattandosi di fermarsi in quel luogo forse parecchi giorni, gli scikari per premunirsi dalle sorprese della terribile kala-bâgh, con dei bambù incrociati avevano formata come una barriera tutta all'intorno, legandoli strettamente. La tenda, quantunque non fosse proprio necessaria, era stata rizzata contro un albero, ossia quasi nel centro del campo. Il pranzo, molto abbondante, poiché il babourchi aveva caricato alla lettera di provviste il terzo elefante destinato più al servigi della carovana che ad affrontare la pericolosa bestia, fu subito preparato e anche lestamente divorato dai cacciatori. - Mylord, - disse il maggiordomo entrando sotto la tenda, dopo che Yanez ed i suoi compagni ebbero finito di mangiare. - Devo far accendere dei fuochi intorno all'accampamento? - Guardati bene dal farlo, - rispose il portoghese. - Spaventeresti la tigre e allora dove andremo a cercarla? Noi siamo venuti qui per cacciarla e non già per tenerla lontana. - Può piombare sul campo, mylord. - E noi saremo pronti a riceverla. Fa' collocare delle sentinelle dietro la cinta e non preoccuparti d'altro. Hai del grasso tu? - Del ghi(burro chiarificato) che potrà servire ugualmente. - E delle scatole di latta? - Sì, quelle della carne conservata per te e pei tuoi compagni. - Riempiene tre o quattro di burro, mettici dentro un pezzo di tela od una funicella, falle accendere e collocale intorno all'accampamento, alla distanza di tre o quattrocento passi. - Io farò quello che vorrai. - Che cosa vuoi fare con quelle scatole Yanez? - chiese la Tigre della Malesia quando il maggiordomo si fu allontanato. - Attiriamo la bâgh, - dissero Tremal-Naik ed il portoghese. - Ah i furbi! - L'odore del grasso o del burro si espande a grandi distanze e giungerà alle nari della tigre, - continuò Tremal-Naik. - Facevo così quand'ero il cacciatore della jungla nera e le belve giungevano sempre ed anche in buon numero. - Amici, prendiamo le nostre armi ed andiamo a imboscarci fuori del campo, - disse Yanez. - Io sono certo che quella bestiaccia cadrà questa notte sotto i nostri colpi. - Sono pronto, - disse la Tigre della Malesia. Presero le loro carabine e le munizioni, si passarono nella cintura i kriss che sapevano, i due pirati specialmente, maneggiare meglio di qualunque altro e lasciarono la tenda. - Tu occupati dell'accampamento e fidati più dei miei uomini che dei tuoi scikari, - disse Yanez al maggiordomo che era ritornato. - E tu, mylord, dove vai? - chiese l'indiano con stupore. - Noi andiamo a scovare la kala-bâgh. - Di notte! - Non abbiamo paura, noi. Addio: presto udrai le nostre carabine. - Avvertirono anche Kammamuri di vegliare attentamente, poi i tre valorosi uscirono dal campo, tranquilli come se andassero a cacciare dei beccaccini. Era una di quelle splendide notti delle quali se ne vedono solamente nell'India. Le stelle fiorivano nel cielo purissimo, sgombro di qualsiasi nube e la luna s'alzava al di sopra delle cupe foreste che s'estendevano al di là del Brahmaputra, proiettando i suoi raggi azzurrini sulla jungla che circondava lo stagno. Yanez ed i suoi due compagni, oltrepassate le scatole piene di burro chiarificato che bruciavano crepitando e lanciando di quando in quando sprazzi di luce vivissima, s'addentrarono fra i canneti ed i cespugli della jungla finché ebbero trovato un piccolo spazio scoperto, una minuscola radura dove non crescevano che pochi mindi. - Ecco un magnifico posto, - disse il portoghese, deponendo la carabina. - Di qui possiamo sorvegliare l'accampamento e anche la jungla. Si direbbe che le piante non lo hanno invaso per far piacere a noi. - È vero, - rispose Sandokan. - Taci! - disse in quell'istante Tremal-Naik. - Che cosa hai udito? - La risposta non la diede il bengalese. Fu un hu-ab terribile, formidabile, che rintronò nella notte tranquilla come un colpo di tuono e che scosse perfino le salde fibre della Tigre della Malesia. La risposta l'aveva data la kala-bâgh!

. - Tu sei il più bravo indiano che io abbia conosciuto fino a oggi, - rispose Kubang, commosso. - Il padrone, se un giorno sarà libero, non ti dimenticherà. - S'avvolse nel dootèe e s'allontanò frettolosamente, senza volgersi indietro, avviandosi verso la casa di Surama, colla speranza d'incontrare in quei dintorni qualcuno di sua conoscenza. Stava per giungervi scorgendo già le ultime colonne di fumo che s'alzavano sopra le rovine del palazzo, interamente divorato dal fuoco, quando un uomo che veniva in senso contrario con molta premura, gli sbarrò bruscamente il passo. Kubang, già troppo esasperato dalla catastrofe che aveva colpito il suo padrone, stava per sparare una pistolettata sull'insolente, quando un grido di gioia gli sfuggì: - Bindar! - Sì, sono io sahib, - rispose subito l'indiano. - Surama e la Tigre della Malesia sono ormai in viaggio per la jungla di Benar e venivo ad avvertire il tuo padrone. - Troppo tardi, amico - rispose Kubang con voce triste. - Egli è prigioniero ed i miei camerati sono stati massacrati. Pare che tutto sia stato scoperto e che quel cane di greco sia vincitore su tutti. Non perdere un momento, va' a raggiungere subito la Tigre della Malesia e avvertilo subito di quanto è avvenuto. - E tu? - Io rimango qui a sorvegliare il greco. Ho modo di sapere quello che può accadere alla corte. La mia presenza in Gauhati può essere più utile che altrove. - Hai bisogno di denaro? Ho riscosso or ora per conto del capo. - Dammi cento rupie. - E dove potrò io trovarti? - Nel sobborgo di Kaddar vi è una casetta tutta rossa, che appartiene al chitmudgar, che era stato messo a disposizione del capitano Yanez. Là andrò a stabilirmi. Ora parti senza indugio e va' ad avvertire la Tigre. Quell'uomo libererà di certo il capitano. - Bindar gli contò le cento rupie, poi partì a corsa sfrenata dirigendosi verso il fiume, dove contava di acquistare o di noleggiare qualche piccolo battello. Kubang proseguì il suo cammino per raggiungere il borgo, il quale trovandosi lontano dal palazzo reale, aveva meno probabilità, in quel luogo, di venire scoperto. Sua prima cura però fu quella di entrare da un rigattiere baniano e di cambiare il suo costume troppo vistoso, con uno mussulmano; poi dopo d'aver fatto colazione in un modestissimo bengalow di passaggio, riprese la marcia addentrandosi nelle tortuose viuzze della città bassa. Eccetto che nei grandi centri, o nei dintorni dei palazzi reali o delle più celebri pagode, le città indiane non hanno strade larghe. La pulizia è una parola poco conosciuta, sicché quelle viuzze, prive d'aria, sempre sfondate e polverose, essendo rare le piogge, somigliano a vere fogne. Una puzza nauseante si alza da quei labirinti, anche perché di quando in quando si trovano delle vaste fosse, dove vengono gettate le immondizie delle case, il letame delle stalle e le carogne d'animali morti. Guai se non vi fossero i marabù, quegli infaticabili divoratori, che da mane a sera frugano entro quei mondezzai, ingozzandosi fino quasi a scoppiare. Fu solamente verso le tre del pomeriggio che Kubang, che aveva parecchie volte sbagliata via, non conoscendo che imperfettamente la città, riuscì finalmente a scoprire la casetta rossa del chitmudgar. Era una minuscola costruzione a due piani, che sembrava più una torre quadrata che una vera casa, che si elevava in mezzo ad un giardinetto dove sorgevano sette od otto maestose palme, che spandevano all'intorno una deliziosa ombra. - È un vero nido, - mormorò Kubang. - Speriamo che il proprietario vi sia già. - Aprì il cancelletto di legno che non era stato fermato e s'inoltrò sotto le piante. Il maggiordomo stava seduto dinanzi alla sua casetta, insieme a una bella e giovane indiana dalla pelle vellutata, appena un po' abbronzata, con lunghi capelli neri adorni di mazzolini di fiori. - Ti aspettavo, sahib, - disse l'indù muovendo sollecitamente incontro al malese. - Sono due ore che sono giunto. Ecco la mia donna, una brava fanciulla, che sarà ben lieta di riceverti come ospite, se tu, come credo, avrai intenzione di fermarti qui. Almeno saresti sicuro, specialmente ora che hai cambiato pelle. - È una offerta che io accetto ben volentieri, avendo dato appuntamento qui agli amici del mio padrone. - Saranno sempre ben ricevuti da me e dalla mia donna. - Hai raccolte notizie sul capitano? - Ben poche. Posso solo dirti che è sempre rinchiuso nel sotterraneo della terza cupola, però ... - Continua. - Ho trovato il modo di poter far pervenire a lui tue notizie, se credi che possano essergli utili. - E come? - chiese il malese con ansietà. - Il rajah ha rinnovato i carcerieri che vi erano prima, e uno è un mio parente. - E si presterà al pericoloso giuoco? - È troppo furbo per lasciarsi sorprendere. Con un po' di rupie, sarà a nostra disposizione. - Dammi un pezzo di carta. - Più tardi: ora pranziamo. -

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