Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Un vampiro

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Luigi Capuana 2 occorrenze

"Francamente, mi sembra che tu abbia paura". "Paura di che? Sarebbe bella! ... ". "Paura di dover mutare opinione. Hai detto: Io non credo agli spiriti. E se, dopo, fossi costretto a crederci?". "Ebbene, sì; questo mi seccherebbe. Che vuoi? Siamo così noi scienziati: siamo uomini, caro mio. Quando il nostro modo di vedere, di giudicare ha preso una piega, l'intelletto si rifiuta fin di prestar fede ai sensi. Anche l'intelligenza è affare di abitudine. Tu intanto mi metti con le spalle al muro. Sia. Sentiamo dunque questi famosi fatti". "Oh! ... ", esclamò con un largo respiro Lelio Giorgi. "Già sai per quali tristi circostanze dovetti andarmene a cercar fortuna in America. I parenti di Luisa erano contrari alla nostra unione; come tutti i parenti - e non dico che avessero torto - anch'essi badavano, più che ad altro, alla situazione economica di colui che doveva essere il marito della loro figliuola. Non avevano fiducia nel mio ingegno; diffidavano anzi della mia pretesa qualità di poeta. Quel volumetto di versi giovanili pubblicato allora, è stato la mia maggiore disgrazia. Non che pubblicati, non ne ho scritti più da quell'anno in poi; ma anche tu, poco fa, mi hai chiamato caro poeta! L'etichetta mi è rimasta appiccata addosso, quasi fosse stata scritta con inchiostro indelebile. Basta. Suol dirsi che c'è un Dio per gli ubriachi e pei bambini. Bisognerebbe aggiungere: E talvolta anche pei poeti, giacché devo passare per poeta". "Ecco come siete voialtri letterati! Cominciamo sempre ab ovo! ". "Non spazientirti. Ascolta. Durante la mia dimora di tre anni a Buenos Aires, non aveva più avuto nessuna notizia di Luisa. Piovutami dal cielo quell'eredità di uno zio che non s'era mai fatto vivo con me, tornai in Europa, corsi a Londra ... e con dugentomila lire di cartelle della Banca d'Inghilterra volai qui ... dove mi attendeva il più doloroso disinganno. Luisa era sposa da sei mesi! Ed io l'amavo più di prima! ... La povera creatura aveva dovuto cedere alle insistenti pressioni dei suoi. Ci mancò poco, te lo giuro, che non commettessi una pazzia. Questi particolari, vedrai, non sono superflui ... Commisi però la sciocchezza di scriverle una focosissima lettera di rimproveri, e di spedirglierla per posta. Non avevo previsto che potesse capitare in mano del marito. Il giorno dopo egli si presentò a casa mia. Compresi subito l'enormità del mio atto e mi proposi di esser calmo. Era calmo anche lui. "Vengo a restituirle questa lettera" mi disse. "Ho aperto sbadatamente, non per indiscrezione, la busta che la conteneva; ed è stato bene che sia accaduto così. Mi hanno assicurato che lei è un gentiluomo. Rispetto il suo dolore; ma spero che lei non vorrà turbare inutilmente la pace di una famiglia. Se può fare lo sforzo di riflettere, si convincerà che nessuno ha voluto arrecarle del male volontariamente. Certe fatalità della vita non si sfuggono. Lei intende qual è ormai il suo dovere. Le dico intanto, senza spavalderia, che son risoluto a difendere a ogni costo la mia felicità domestica". Era impallidito parlando e gli tremava la voce. "Chiedo perdono dell'imprudenza" risposi. "E, per meglio rassicurarla, le dico che domani partirò per Parigi". Dovevo essere più pallido di lui; le parole mi uscivano a stento di bocca. Mi stese la mano; gliela strinsi. E mantenni la parola. Sei mesi dopo, ricevevo un telegramma di Luisa: "Sono vedova. T'amo sempre. E tu?". Suo marito era morto da due mesi". "Il mondo è così: la disgrazia di uno forma la felicità di un altro". "È quel che egoisticamente pensai anch'io; ma non sempre è vero. Mi era parso di toccare il cielo col dito la sera delle nozze e durante i primi mesi della nostra unione. Evitammo, per tacito accordo, di parlare di colui . Luisa aveva distrutto ogni traccia del morto. Non per ingratitudine, giacché quegli, illudendosi di essere amato, aveva fatto ogni sforzo per renderle lieta la vita; ma perché temeva che l'ombra di un ricordo, anche insignificante, potesse dispiacermi. Indovinava giusto. Certe volte, il pensiero che il corpo della mia adorata era stato in pieno possesso, quantunque legittimo, di un altro mi dava tale stretta al cuore, che mi faceva fremere da capo a piedi. Mi sforzavo di nasconderglielo. Spesso però l'intuito femminile velava di malinconia i begli occhi di Luisa. E per ciò la vidi raggiante di gioia, quando ella fu sicura di potermi annunciare che un frutto del nostro amore le palpitava nel seno. Ricordo benissimo: prendevamo il caffè, io in piedi, ella seduta con una posa di dolce stanchezza. Fu quella la prima volta che un accenno al passato le sfuggì dalle labbra. "Come sono felice" esclamò "che questo sia avvenuto soltanto ora!". Si udì un gran colpo all'uscio, quasi qualcuno vi avesse picchiato forte col pugno. Trasalimmo. Io corsi a vedere, sospettando una sbadataggine della cameriera o di un servitore; nella stanza allato non c'era nessuno". "Vi sarà parso colpo di pugno qualche schianto forse prodotto nel legno dell'uscio dal calore della stagione". "Diedi tale spiegazione, visto il turbamento grandissimo di Luisa; ma non ne ero convinto. Un forte senso di impaccio, non so definirlo altrimenti, si era impossessato di me e non riuscivo a celarlo. Stemmo alcuni minuti in attesa. Niente. Da quel momento in poi, però, notai che Luisa evitava di rimaner sola; il turbamento persisteva in lei, quantunque non osasse di confessarmelo, né io di interrogarla". "E così, ora comprendo, vi siete suggestionati, inconsapevolmente, a vicenda". "Niente affatto. Pochi giorni dopo io ridevo di quella sciocca impressione; e attribuivo allo stato interessante di Luisa l'eccessivo eccitamento nervoso che traspariva dai suoi atti. Poi parve tranquillarsi anch'essa. Avvenne il parto. Dopo qualche mese però, mi accorsi che quel senso di paura, anzi di terrore, l'aveva ripresa. La notte, tutt'a un tratto, ella si avvinghiava a me, diaccia, tremante. "Che cosa hai? Ti senti male?" le domandavo ansioso. "Ho paura ... Non hai udito?". "No". "Non odi? ... " insistette la sera appresso. "No". Invece quella volta udivo un fioco suono di passi per la stanza, su e giù, attorno al letto; dicevo di no per non atterrirla di più. Levavo il capo, guardavo ... "Dev'essere entrato qualche topo in camera ... ". "Ho paura! ... Ho paura!". Per parecchie notti, ad ora fissa prima della mezzanotte, sempre quello scalpiccio, quell'inesplicabile andare e venire, su e giù, di persona invisibile, attorno al letto. Lo attendevamo". "E le fantasie riscaldate facevano il resto". "Tu mi conosci bene; non sono uomo da essere eccitato facilmente. Facevo il bravo anzi, per riguardo di Luisa; tentavo di dare spiegazioni del fatto: echi, ripercussioni di rumori lontani; accidentalità della costruzione della villa, che la rendevano stranamente sonora ... Tornammo in città. Ma, la notte appresso, il fenomeno si riprodusse con maggior forza. Due volte la spalliera appiè del letto venne scossa con violenza. Balzai giù, per osservar meglio. Luisa, rannicchiata sotto le coperte, balbettava: "È lui! È lui!"". "Scusa" lo interruppe Mongeri "non te lo dico per metter male tra tua moglie e te, ma io non sposerei una vedova per tutto l'oro del mondo! Qualcosa permane sempre del marito morto, a dispetto di tutto, nella vedova. Sì. "È lui! È lui!". Non già, come crede tua moglie, l'anima del defunto. È quel lui , cioè sono quelle sensazioni, quelle impressioni di lui rimaste incancellabili nelle sue carni. Siamo in piena fisiologia". "Sia pure. Ma io" riprese Lelio Giorgi "come c'entro con la tua fisiologia?". "Tu sei suggestionato; ora è evidente, evidentissimo". "Suggestionato soltanto la notte? A ora fissa?". "L'attenzione aspettante, oh! fa prodigi". "E come mai il fenomeno varia ogni volta, con particolari imprevisti, poiché la mia immaginazione non lavora punto?". "Ti pare. Non abbiamo sempre coscienza di quel che avviene dentro di noi. L'incosciente! Eh! Eh! fa prodigi anch'esso". "Lasciami continuare. Riserva le tue spiegazioni a quando avrò finito. Nota che la mattina, nella giornata, noi ragionavamo del fatto con relativa tranquillità. Luisa mi rendeva conto di quel che aveva sentito lei, per raffrontarlo con quel che avevo sentito io, appunto per convincerci, come tu dici, se mai le fantasie sovraeccitate ci facessero, nostro malgrado, quel brutto scherzo. Risultava che avevamo sentito l'identico rumore di passi, nella stessa direzione, ora lento, ora accelerato; la stessa scossa alla spalliera del letto, lo stesso strappo alle coperte e nella stessissima circostanza, cioè quando io tentavo, con una carezza, con un bacio, di calmare il suo terrore, d'impedirle di gridare: "È lui! È lui!" quasi quel bacio, quella carezza provocassero lo sdegno della persona invisibile. Poi, una notte, Luisa, aggrappandosi al collo, accostando le labbra al mio orecchio, con un suono di voce che mi fece trasalire, mi sussurrò: "Ha parlato!", "Che dice?", "Non ho sentito bene ... Odi? Ha detto: Sei mia!". E siccome anch'io la stringevo più fortemente al petto, sentii che le braccia di Luisa venivano tratte indietro, violentemente, da due mani poderose; e dovettero cedere non ostante la resistenza che mia moglie opponeva". "Che resistenza poteva opporre, se era lei stessa che agiva in quel modo, senza averne coscienza?". "Va bene ... Ma ho sentito l'ostacolo anche io, di persona che si frapponeva tra me e lei, di persona che voleva impedire, a ogni costo, il contatto tra me e lei ... Ho visto mia moglie rigettata indietro con una spinta ... Giacché Luisa voleva stare in piedi, per via del bambino che dormiva nella culla accanto al letto, ora che sentivamo scricchiolare i ferri a cui la culla era sospesa e vedevamo la culla dondolare, traballare e le copertine volare via per la camera, buttate per aria malamente ... Non era allucinazione questa. Le raccoglievo; Luisa, tremante, le rimetteva al posto; ma di lì a poco esse volavano per aria di nuovo, e il bambino, destato dalla scossa, piangeva. Tre notti fa, peggio ... . Luisa sembrava vinta dal malefico fascino di colui ... Non mi udiva più, se la chiamavo, non si accorgeva di me che le stavo davanti ... Parlava con colui e, dalle sue risposte, capivo quel che colui le diceva. "Che colpa ho io, se tu sei morto? Oh! no, no! ... Come puoi pensarlo? Avvelenarti io? ... Per sbarazzarmi di te? ... È un'infamia! E il bambino che colpa ha? Soffri? Pregherò per te farò dire delle messe ... Non vuoi messe? ... Me, vuoi? ... Ma come mai? Sei morto! ... ". Invano io la scotevo, la chiamavo per destarla da quella fissazione, da quell'allucinazione ... Luisa si ricomponeva tutt'a un tratto. "Hai sentito?", mi diceva, "Mi accusano di averlo avvelenato. Tu non ci credi ... Tu non mi sospetterai capace ... oh Dio! E come faremo pel bambino? Lo farà morire! Hai sentito?". Io non avevo udito niente, ma capivo benissimo che Luisa non era pazza, non delirava ... Piangeva, abbracciando stretto stretto il bambino levato dalla culla per proteggerlo dal maleficio di colui . "Come faremo? Come faremo?"". "Il bambino però stava bene. Questo avrebbe dovuto tranquillarvi". "Che vuoi? Non si assiste a fatti di tale natura senza che la mente più solida non ne riceva una scossa. Io non sono superstizioso, ma non sono neppure un libero pensatore. Sono di quelli che credono e non credono, che non si occupano di quistioni religiose perché non hanno tempo né voglia di occuparsene ... Ma nel mio caso e sotto l'influenza delle parole di mia moglie: "Farò dire delle messe" pensai naturalmente all'intervento di un prete". "L'hai fatta esorcizzare?". "No, ma ho fatto ribenedire la casa, con gran spargimento di acqua benedetta ... anche per impressionare l'immaginazione della povera Luisa, se mai si fosse trattato d'immaginazione esaltata, di nervi sconvolti ... Luisa è credente. Tu ridi, ma avrei voluto veder te nei miei panni". "E l'acqua benedetta?". "Inefficace. Come se non fosse stata adoperata". "Non l'avevi pensato male. Anche la scienza ricorre talvolta a mezzi simili nelle malattie nervose. Abbiamo il caso di quel tale che credeva gli si fosse allungato enormemente il naso. Il medico finse di fargli l'operazione, con tutto l'apparato di strumenti, di legatura di vene, di fasciature ... e il malato guarì". "L'acqua benedetta invece fece peggio. La notte dopo ... Oh! ... Mi sento rabbrividire al solo pensarci. Ora tutto l'odio di colui era rivolto contro il bambino ... Come proteggerlo? ... Appena Luisa vedeva ... ". "O le sembrava di vedere ... ". "Vedeva, caro mio, vedeva ... Vedevo anche io ... quasi. Giacché mia moglie non poteva più avvicinarsi alla culla; una strana forza glielo impediva ... Io tremavo allo spettacolo di lei che tendeva desolatamente le braccia verso la culla, mentre colui - me lo diceva Luisa - chinato sul bambino dormente, faceva qualcosa di terribile, bocca con bocca, come se gli succhiasse la vita, il sangue ... Sono tre notti di seguito che la nefanda operazione si ripete e il bambino, il caro figliuolino ... non si riconosce più. Bianco, da roseo che era! come se realmente colui gli abbia aspirato il sangue; deperito in modo incredibile, in tre sole notti! È immaginazione questa? È immaginazione? Vieni a vederlo". "Si tratta dunque?..". Il Mongeri rimase alcuni minuti pensoso, a testa bassa, aggrottando le sopracciglia. Il sorriso un po' sarcastico e un po' compassionevole apparsogli su le labbra mentre Lelio Grandi parlava, si era spento tutt'a un tratto. Poi alzò gli occhi, fissò l'amico che lo guardava con ansiosissima attesa e ripetè: "Si tratta dunque? ... Ascoltami bene. Io non ti spiego niente, perché sono convinto di non poter spiegarti niente. È difficile essere più schietto di così. Ma posso darti un consiglio ... empirico, che forse ti farà sorridere alla tua volta, specialmente venendoti da me ... Fanne l'uso che credi". "Lo eseguirò subito, oggi stesso". "Ci vorrà qualche giorno, per parecchie pratiche che occorrono. Ti aiuterò a sbrigarle nel più breve tempo possibile. I fatti che mi hai riferito non li metto in dubbio. Devo aggiungere che, per quanto la scienza sia ritrosa di occuparsi di fenomeni di tale natura, da qualche tempo in qua non li tratta con l'aria sprezzante di prima: tenta di farli rientrare nella cerchia dei fenomeni naturali. Per la scienza non esiste altro, all'infuori di questo mondo materiale. Lo spirito ... Essa lascia che dello spirito si occupino i credenti, i mistici, i fantastici che oggi si chiamano spiritisti ... Per la scienza c'è di reale soltanto l'organismo, questa compagine di carne e di ossa formante l'individuo e che si disgrega con la morte di esso, risolvendosi negli elementi chimici da cui riceveva funzionamento di vita e di pensiero. Disgregati questi ... Ma appunto la quistione si riduce, secondo qualcuno, a sapere se la putrefazione, la disgregazione degli atomi, o meglio la loro funzione organica si arresti istantaneamente con la morte, annullando ipso facto la individualità, o se questa perduri, secondo i casi e le circostanze, più o meno lungamente dopo la morte ... Si comincia a sospettarlo ... E su questo punto la scienza verrebbe a trovarsi d'accordo con la credenza popolare ... Io studio, da tre anni, i rimedi empirici delle donnicciuole, dei contadini per spiegarmi il loro valore ... Essi, spessissimo, guariscono mali che la scienza non sa guarire ... La mia opinione oggi sai tu qual è? Che quei rimedi empirici, tradizionali siano i resti, i frammenti della segreta scienza antica, e anche, più probabilmente, di quell'istinto che noi possiamo oggi verificare nelle bestie. L'uomo, da principio, quando era molto vicino alle bestie più che ora non sia, divinava anche lui il valore terapeutico di certe erbe: e l'uso di esse si è perpetuato, trasmesso di generazione in generazione, come nelle bestie. In queste opera ancora l'istinto; nell'uomo, dopo che lo svolgimento delle sue facoltà ha ottenebrato questa virtù primitiva, perdura unicamente la tradizione. Le donnicciuole, che sono più tenacemente attaccate ad essa, ci han conservato alcuni di quei suggerimenti della natura medicatrice; ed io credo che la scienza debba occuparsi di questo fatto, perché in ogni superstizione si nasconde qualcosa che non è unicamente fallace osservazione dell'ignoranza ... Perdonami questa lunga disgressione. Quello che qualche scienziato ora ammette, cioè che, con l'atto apparente della morte di un individuo, non cessi realmente il funzionamento dell'esistenza individuale fino a che tutti gli elementi non si siano per intero disgregati, la superstizione popolare - ci serviamo di questa parola - lo ha già divinato da un pezzo con la credenza nei Vampiri, ed ha divinato il rimedio. I Vampiri sarebbero individualità più persistenti delle altre, casi rari, sì, ma possibili anche senza ammettere l'immortalità dell'anima, dello spirito ... Non spalancar gli occhi, non crollare la testa ... È fatto, non insolito, intorno al quale la così detta superstizione popolare - diciamo meglio - la divinazione primitiva potrebbe trovarsi d'accordo con la scienza ... E sai qual è la difesa contro la malefica azione dei Vampiri, di queste persistenti individualità che credono di poter prolungare la loro esistenza succhiando il sangue o l'essenza vitale delle persone sane? ... L'affrettamento della distruzione del loro corpo. Nelle località dove questo fatto si produce, le donnicciuole, i contadini corrono al cimitero, disseppelliscono il cadavere, lo bruciano ... È provato che il Vampiro allora muore davvero; e infatti il fenomeno cessa ... Tu dici che il tuo bambino ... ". "Vieni a vederlo; non si riconosce più. Luisa è pazza dal dolore e dal terrore ... Mi sento impazzire pure io, anche perché invasato dal diabolico sospetto ... Ma ... Invano mi ripeto: Non è vero! Non può esser vero! ... Invano ho tentato di confortarmi pensando: E dato pure che fosse vero? ... È una gran prova d'amore. Si è fatta avvelenatrice per te! ... - Invano! Non so né posso più difendermi da una vivissima repugnanza, da una straziante violenza di allontanamento, altra malefica opera di colui ! ... Egli insiste nel rimprovero: lo capisco dalle risposte di Luisa, quando colui la tiene sotto il suo orrido fascino, e la poverina protesta. "Avvelenarti? Io? ... Come puoi crederlo? ... ". Oh! Non viviamo più, amico mio. Sono mesi e mesi che sopportiamo questo tormento, senza farne parola a nessuno per timore di far ridere di noi le persone che si dicono spregiudicate ... Tu sei il primo a cui ho avuto il coraggio di farne la confidenza per disperazione, per invocare un consiglio, uno scampo ... E avremmo ancora pazientemente sopportato tutto, lusingandoci che così strani fenomeni non avrebbero potuto prolungarsi troppo, se ora non corresse pericolo la nostra innocente creaturina". "Fate cremare il cadavere. È una prova che m'interessa, oltre che come amico, come scienziato. Alla moglie, quantunque non più vedova, sarà facilmente concesso; ti aiuterò nelle pratiche occorrenti presso le autorità. E non mi vergogno per la scienza di cui sono un meschino cultore. La scienza non scapita di dignità ricorrendo anche all'empirismo, facendo tesoro di una superstizione, se poi potrà verificare che è superstizione soltanto in apparenza; ne riceverà impulsi a ricerche non tentate, a scoprire verità non sospettate. La scienza deve essere modesta, buona, pur di aumentare il suo patrimonio di fatti, di verità. Fate cremare il cadavere. Ti parlo seriamente", soggiunse il Mongeri, leggendo negli occhi del suo amico il dubbio di esser trattato da donnicciuola, da popolano ignorante. "E il bambino intanto?", esclamò Lelio Giorgi torcendosi le mani. "Una notte io ebbi un impeto di furore; mi slanciai contro colui seguendo la direzione degli sguardi di Luisa, quasi egli fosse persona da potersi afferrare e strozzare; mi slanciai urlando: "Va' via! Va' via, maledetto! ... ". Ma fatti pochi passi, ero arrestato, paralizzato, inchiodato là, a distanza con le parole che mi morivano in gola e non riuscivano a tradursi neppure in indistinto mugolio ... Tu non puoi credere, tu non puoi immaginare ... ". "Se volessi permettermi di tenervi compagnia questa notte ... ". "Ecco: me lo chiedi con tale accento di diffidenza ... ". "T'inganni". "Forse faremo peggio: temo che la tua presenza non serva che ad irritarlo di più, come la benedizione della casa. Questa notte no. Verrò a riferirti domani ... ". E, il giorno dopo, egli tornò così spaventato, così disfatto che il Mongeri concepì qualche dubbio intorno all'integrità delle facoltà mentali del suo amico. "Egli sa!", balbettò Lelio Giorgi appena entrato nello studio. "Ah, che nottata d'inferno! Luisa lo ha sentito bestemmiare, urlare, minacciare terribili gastighi se noi oseremo". "Tanto più dobbiamo osare", rispose il Mongeri. "Se tu avessi visto quella culla scossa, agitata in modo che io non so spiegarmi come il bambino non sia cascato per terra! Luisa ha dovuto buttarsi ginocchioni, invocando pietà, gridandogli: "Si, sarò tua, tutta tua! ... Ma risparmia quest'innocente ... ". E in quel momento mi è parso che ogni mio legame con lei fosse rotto, ch'ella non fosse davvero più mia, ma sua, di colui !". "Càlmati! ... Vinceremo. Càlmati! ... Voglio esser con voi questa notte". Il Mongeri era andato con la convinzione che la sua presenza avrebbe impedito la manifestazione del fenomeno. Pensava: "Accade quasi sempre così. Queste forze ignote vengono neutralizzate da forze indifferenti, estranee. Accade quasi sempre così. Come? Perché? Un giorno certamente lo sapremo. Intanto bisogna osservare, studiare". E, nelle prime ore di quella notte, accadeva proprio com'egli aveva pensato. La signora Luisa girava gli spauriti occhi attorno, tendeva ansiosamente l'orecchio ... Niente. La culla rimaneva immobile: il bambino, pallido pallido, dimagrito, dormiva tranquillamente. Lelio Giorgi, frenando a stento l'agitazione, guardava ora sua moglie, ora il Mongeri che sorrideva soddisfatto. Intanto ragionavano di cose che, nonostante la preoccupazione, arrivavano in alcuni momenti a distrarli. Il Mongeri aveva cominciato a raccontare una sua divertentissima avventura di viaggio. Bel parlatore, senza nessun'affettazione di gravità scientifica, egli intendeva di deviare così l'attenzione di quei due, e intanto non perderli d'occhio, per notare tutte le fasi del fenomeno caso mai dovesse ripetersi, e già cominciava a persuadersi che il suo intervento sarebbe stato salutare, quando nell'istante che il suo sguardo si era rivolto verso la culla, egli si accorse di un lieve movimento di essa, il quale non poteva esser prodotto da nessuno di loro perché la signora Luisa e Lelio gli sedevano dirimpetto e discosti dal posto dov'era la culla. Non poté far a meno di fermarsi, di farsi scorgere, e allora Luisa e Lelio balzarono in piedi. Il movimento era aumentato gradatamente e quando la signora Luisa si volse a guardare là, dove gli occhi di Mongeri si erano involontariamente fissati, la culla si dondolava e sobbalzava. "Eccolo!", ella gridò. "Oh, Dio! Povero figliuolino!". Fece per accorrere, ma non poté. E cadde rovesciata su la poltrona dov'era stata seduta fin allora. Pallidissima, scossa da un fremito per tutta la persona, con gli occhi sbarrati e le pupille immobili, balbettava qualcosa che le gorgogliava nella gola e non prendeva suono di parola, e sembrava dovesse soffocarla. "Non è niente!", disse Mongeri, levatosi in piedi anche lui e stringendo la mano di Lelio che gli si era accostato con vivissimo atto di terrore, quasi per difesa. La signora Luisa, irrigiditasi un istante, ebbe un tremito più violento e subito parve ritornasse allo stato ordinario; se non che la sua attenzione era tutta diretta a guardare qualcosa che gli altri due non scorgevano, a prestar ascolto a parole che quelli non udivano, e delle quali indovinavano il senso dalle risposte di lei. "Perché dici che voglio continuare a farti del male? ... Ho pregato per te! ... Ho fatto dir delle messe! ... ". "Ma non si può sciogliere! Tu sei morto ... ". "Non sei morto? ... Dunque perché mi accusi di averti avvelenato? ... ". "D'accordo con lui? Oh! ... ". "Ti aveva promesso, sì; ed ha mantenuto ... Per finzione? C'intendevamo da lontano? Lui m'ha spedito il veleno? ... È assurdo! Non dovresti crederlo se è vero che i morti vedono la verità ... ". "Va bene. Non ti stimerò morto ... Non te lo ripeterò più". "È in istato di trance spontanea!", disse Mongeri all'orecchio di Lelio. "Lasciami". Presala pei pollici, dopo qualche minuto, e ad alta voce, chiamò: "Signora! ... ". Alla voce cupa e irritata, voce robusta, maschile, con cui ella rispose, Mongeri dié un salto indietro. La signora Luisa si era rizzata sul busto con tal viso rabbuiato, con tale espressione di durezza nei lineamenti, da sembrare altra persona. La speciale bellezza della sua fisionomia, quel che di gentile, di buono, quasi di verginale che risultava dalla dolcezza dello sguardo dei begli occhi azzurri e dal lieve sorriso errante su le labbra, come un delicato palpito di esse, quella speciale bellezza era compiutamente sparita. "Che cosa vuoi? Perché t'intrometti tu?". Mongeri riprese quasi subito padronanza di sé. L'abituale sua diffidenza di scienziato gli faceva sospettare di aver dovuto sentire anche lui, per induzione, per consenso dei centri nervosi, l'influsso del forte stato di allucinazione di quei due, se gli era parso di veder dondolare e sobbalzare la culla che, ora, egli vedeva benissimo immobile, con dentro il bambino tranquillamente addormentato, ora che la sua attenzione veniva attirata dallo straordinario fenomeno della personificazione del fantasma. Si accostò, con un senso di dispetto contro se stesso per quello sbalzo indietro al rude suono di voce che lo aveva quasi investito, e rispose imperiosamente: "Finiscila! Te l'ordino!". Aveva messo nell'espressione tale sforzo di volontà che il comando avrebbe dovuto imporsi all'esaltamento nervoso della signora, superarlo - egli pensava -. La sardonica e lunga risata che rispose subito a quel te l'ordino , lo scosse, lo fece titubare un istante. "Finiscila! Te l'ordino!", replicò poi con maggior forza. "Ah! Ah! Vuoi essere il terzo ... che gode ... Avvelenerete anche lui?". "Mentisci! Infamemente!". Mongeri non aveva potuto trattenersi di rispondere come a persona viva. E la lucidità della sua mente già un po' turbata, non ostante gli sforzi ch'egli faceva per rimanere osservatore attento e imparziale, venne sconvolta a un tratto quando si sentì battere due volte su la spalla da mano invisibile, e nel medesimo istante si vide apparire davanti al lume una mano grigiastra, mezza trasparente, quasi fosse fatta di fumo, e che contraeva e distendeva con rapido moto le dita assottigliandosi come se il calore della fiamma la facesse evaporare. "Vedi? Vedi?", gli disse Giorgi. E aveva il pianto nella voce. Improvvisamente ogni fenomeno cessò. La signora Luisa si destava dal suo stato di trance , quasi si svegliasse da sonno naturale, e girava gli occhi per la camera, interrogando il marito e Mongeri con una breve mossa del capo. Essi s'interrogavano, alla lor volta, sbalorditi di quel senso di serenità, o meglio di liberazione che rendeva facile il loro respiro e regolari i battiti del cuore. Nessuno osava parlare. Solamente un fioco lamento del bambino li fece accorrere ansiosi verso la culla. Il bambino gemeva, gemeva, dibattendosi sotto l'oppressione di qualcosa che sembrava aggravarglisi sulla bocca e gli impedisse di gridare ... Improvvisamente, cessò anche questo fenomeno, e non accadde più altro. La mattina, andando via, Mongeri non pensava soltanto che gli scienziati hanno torto di non voler studiare da vicino casi che coincidono con le superstizioni popolari, ma tornava a ripetersi mentalmente quel che aveva detto due giorni avanti ai suo amico: Non sposerei una vedova per tutto l'oro del mondo . Come scienziato è stato ammirevole, conducendo l'esperimento fino all'ultimo senza punto curarsi se (nel caso che la cremazione del cadavere del primo marito della signora Luisa non avesse approdato a niente) la sua reputazione dovesse soffrirne presso i colleghi e presso il pubblico. Quantunque l'esperimento abbia confermato la credenza popolare e dal giorno della cremazione dei resti del cadavere i fenomeni siano compiutamente cessati, con gran sollievo di Lelio Giorgi e della buona signora Luisa, nella sua relazione, non ancora pubblicata, il Mongeri però non ha saputo mostrarsi interamente sincero. Non ha detto: "I fatti sono questi, e questo il resultato del rimedio: la pretesa superstizione popolare ha avuto ragione su le negazioni della scienza: il Vampiro è morto completamente appena il suo corpo venne cremato". No. Egli ha messo tanti se, tanti ma nella narrazione delle minime circostanze, ha sfoggiato tanta allucinazione , tanta suggestione , tanta induzione nervosa nel suo ragionamento scientifico, da confermare quel che aveva confessato l'altra volta, cioè: che anche la intelligenza è affare d'abitudine e che il mutar di parere lo avrebbe seccato. Il più curioso è che non si è mostrato più coerente come uomo. Egli che proclamava: "Non sposerei una vedova per tutto l'oro del mondo" ne ha poi sposata una per molto meno, per sessantamila lire di dote! E a Lelio Giorgi che ingenuamente gli disse: "Ma come? ... Tu! ... ", rispose: "A quest'ora non esistono insieme neppure due atomi del corpo del primo marito. È morto da sei anni!", senza accorgersi che, parlando così, contraddiceva l'autore della memoria scientifica Un preteso caso di Vampirismo , cioè se stesso.

Tu credi ancora che io abbia fatto ciò per invincibile curiosità di studiare, a modo mio, le misteriose forze della nostra psiche in un soggetto che presentava le migliori condizioni per tale studio. Disingànnati, caro Blesio. Sin dai primi giorni del mio matrimonio, nello stordimento prodottomi dalla felicità di vedere e di sentire accanto a me quell'esile figura di bruna il cui possesso mi era sembrato, per quattro lunghi anni, irrealizzabile sogno, sin dai primi giorni mi ero lentamente sentito invadere da un infinito inesplicabile senso di sgomento, che mi rendeva pensoso e distratto. "Che cosa hai?" mi domandava Delia, allacciandomi le braccia attorno al collo con gesto di suprema grazia affettuosa. "Niente! La troppa felicità, vedi? mi stordisce come un potente liquore". Non mentivo, rispondendo così, ma non dicevo intera la verità. Non avrei saputo dirla in quei giorni, fino al mattino in cui, svegliatomi prima di lei, e contemplandola, al fioco lume della lampadina da notte, abbandonata sui guanciali, coi nerissimi capelli disciolti e il petto lievemente ansante pel respiro, contemplandola più come deliziosa visione d'arte che come realtà, all'improvviso ebbi coscienza della natura di quell'indefinito sgomento che da parecchie settimane mi rendeva pensoso e distratto. "Mi ama davvero? Per quale nascosto scopo vuol darmi a intendere che mi ama?". Ora mi pareva impossibile che la dolcissima creatura che avrebbe potuto aspirare per bellezza, per bontà, per intelligenza, a un'unione più degna di lei, si fosse lasciata indurre a sposare me, non ricco, quasi brutto, con l'unico prestigio di un po' di abilità ... o di qualcosa di più, via, nella mia arte di scultore, e di una discreta cultura che, secondo certi critici, ha molto nociuto al mio ingegno di artista". "Questa botta tocca anche a me!", disse Blesio, ridendo. "Tu hai avuto sempre il torto di badar troppo a quel che scriviamo noi pretesi critici d'arte. Lasciaci cantare! Lavora". Si scorgeva però che il riso di Blesio era sforzato, e che tentava di nascondere il triste presentimento di quel che poteva da un momento all'altro accadere, se l'eccessivo perturbamento del suo amico non si fosse arrestato. Raimondo fece una spallucciata, e continuò: "Da prima scacciai via sdegnosamente come indegno di me e di lei l'importuno pensiero. Ma già un'intima voce tornava insistente a sussurrarmelo a ogni nuova manifestazione di affetto prodigatami da Delia. Allora, la prendevo per le mani, la fissavo tenendola ferma innanzi a me, interrogandola: "Mi ami davvero?" e lo stupore che si manifestava sul bel volto di Delia e il doloroso sorriso che le spuntava su le labbra prima della timida risposta: "Perché me lo domandi?" invece di farmi comprendere la sciocchezza e la villania della mia interrogazione, mi sembrava involontaria conferma di quel dubbio anche quando ella, liberatasi rapidamente dalla stretta delle mie mani, aggrappandomisi al collo con l'abituale gesto di suprema grazia affettuosa, mi baciava e ribaciava, senza aggiungere una sola parola. Pareva volesse dirmi: "Sei contento? ... Si bacia così soltanto quando si ama davvero!". Quella muta risposta però non mi appagava; né avrei saputo dire intanto qual altra avrebbe potuto ella darmene per disperdere il mio dubbio. Mi tornava in mente il motto di quel diplomatico, che la parola ci è stata data per nascondere il nostro pensiero. Quei baci erano meno della parola, o qualcosa di eguale, o anche qualcosa di poco più; non me n'importava. Sapevo, caro Blesio, che il pensiero di una persona può irridersi facilmente di qualunque altrui violenza per scoprirlo. Passarono parecchi mesi prima che mi balenasse l'idea di servirmi dell'azione magnetica per ottenere, all'insaputa di lei, la schietta rivelazione della verità. E anche dopo concepitone il disegno, esitai ancora per altri mesi, temendo di poter produrre irrimediabili disturbi in quel sensibilissimo organismo, che alle minime impressioni vedevo sobbalzare quasi fosse stato punto da uno spillo, o toccato da un carbone ardente. Mi trattenne pure, dopo che ero già risoluto, il leggero velo di tristezza che le mie ripetute domande: "Mi ami davvero?" avevano steso sul volto di Delia, e il lieve tremito della sua voce che mi pareva rivelasse, invece della parola, la protesta del suo cuore: "Perché dubiti di me?". Infatti, perché dubitavo? Perché - e questo era il peggio - non ricevendo risposte che mi soddisfacessero, perché mi sentivo, a poco a poco, distaccare da Delia, quasi la sua bella manina mi allontanasse e volesse tenermi a distanza? Dall'ampia vetrata del mio studio, la vedevo comparire ogni mattina nel giardinetto, con la preferita vestaglia color crema, ornata di larghi nastri rossi, coi capelli nerissimi appena ravviati e che le davano intanto un'aria di arcaica eleganza seducentissima. Si aggirava lentamente pei viali, si fermava, riprendeva ad andare o a cogliere fiori dai vasi e dalle aiuole che ella stessa coltivava con arte di giardiniera provetta. Di tanto in tanto, alzava il capo verso la vetrata, guardava intenta, quasi si attendesse di vedermi col viso incollato ai vetri per osservarla; e crollava la testa, delusa, mortificata. Lo capivo, perché potevo benissimo vederla senz'essere visto. Perché fingevo la sorpresa com'ella entrava nel mio studio, esitando su la soglia con la cestina colma di fiori, quasi simile alla bionda Flora tizianesca della Galleria degli Uffizi? ... Cominciavo a sentire, e ne avevo dispetto, un senso di lieve rancore per quella che mi sembrava sua ostentazione d'ingannarmi. Non so che cosa avrei poi fatto, se Delia mi avesse risposto: "No, non t'amo! Meriti forse d'essere amato?". Da due settimane, notte per notte, mentr'ella dormiva al mio fianco, io m'ingegnavo di saturarla del mio fluido, come avevo appreso dai libri letti e studiati per tale scopo. Ella non doveva accorgersi della mia intenzione di addormentarla; temevo che, richiesta di accondiscendere, si rifiutasse. E durante la giornata spiavo se mai apparisse in lei qualche sintomo da rivelarmi che la mia azione magnetica fosse riuscita a dominarla. Niente! Già disperavo del buon resultato, quando un pomeriggio ... Oh, tu non puoi farti un'idea della profonda commozione che mi assalì in quel momento! Delia avea voluto posare da modello per una figurina di donna commissionatami da un americano. "Sta' ferma, così!", le dissi vivamente, lieto dell'atteggiamento da lei preso appena sedutasi davanti a me poco lontana dal cavalletto. La vidi irrigidirsi, chiudere gli occhi, impallidita, col respiro ansante ... Era entrata, quando meno me l'aspettavo, nel più profondo sonno magnetico. Ne fui spaventato, come se avessi compiuto su lei il più vile dei delitti colpendola a tradimento. Rinfrancàtomi un po' e presala pei pollici con mani tremanti, mi affrettai però a interrogarla: "Dormi?". "Si". "Sei lucida?". "Lucidissima". "Potresti leggermi nel pensiero?". "Sì. Tu dubiti ... ". "Ecco" la interruppi, facendo gli opportuni passaggi . "Ecco la mano di una persona che tu non conosci: è moglie di un mio amico. Ama il marito? ... Osserva bene". E così dicendo le avevo messo in una mano l'altra sua mano. Vidi che la stringeva forte, corrugando la fronte, abbassando la testa in atto di scrutare. "Lo ama tanto!". "Non t'inganni?". "No. Il cuore di costei è come un limpidissimo fonte di cui si scorge nettamente il fondo. L'ama. Oh, tanto!", replicò. "Osserva meglio" insistei. "Non occorre. Povera donna! Ha già capito che egli dubita, e piange spesso, in segreto. È dunque cieco costui da non accorgersi che quegli occhi hanno pianto? È strano: io provo la stessa sofferenza di lei ... Devo piangere, come lei ... Lasciami piangere!". E copiose lacrime le inondarono il volto accompagnate da singhiozzi. Attesi che si sfogasse un po'. "Ora ti sveglio" la suggestionai. "Non dovrai ricordarti di niente". "Non mi ricorderò di niente". Le ripresi i pollici, aspirando, perché sapevo che così doveva farsi per riattirarmi il fluido; e nel momento in cui ella riapriva gli occhi, finsi, sorridendo, di aggiustarle la testa per la posa. "Così!". E mi misi a lavorare come se niente fosse stato. Avrei dovuto esser pago dell'esperimento; ma sapevo che i soggetti, come li chiamano, possono mentire anche durante la inconsapevolezza del sonno magnetico. Non era il caso di Delia? Per ciò ripetei per un'intera settimana, col pretesto delle pose, due o tre volte il giorno, l'esperimento e sempre con l'identico risultato, quantunque io avessi fatto ogni sforzo per indurre Delia ad essere veramente sincera. E questo, forse - anzi senza forse, ora ne sono convinto - ha prodotto gli incredibili fenomeni che per un intero anno mi han dato l'impressione di una vita fuori della vita, d'una vita che non so distinguere se sia stata sogno o realtà, e che aggiungerà presto un'altra catastrofe a quella avvenuta tre mesi addietro". "Eh, via! Non dire così!", esclamò Blesio. "A furia d'immaginare la possibilità di una disgrazia, noi contribuiamo spessissimo a farla accadere davvero". Raimondo Palli portò le mani alla fronte e alle tempie, premendo, quasi volesse impedire che gli scoppiassero: poi, rigettati indietro, con vivace movimento della testa, i folti capelli, e socchiudendo gli occhi, riprese: "Una mattina, dovetti accorgermi che Delia mi sfuggiva di mano, resistendo alla mia volontà, non cadendo più nel sonno magnetico così facilmente provocato ed ottenuto fino allora. Posava per gli ultimi tocchi della mia figurina, che era e non era il suo ritratto perché io avevo sentito ripugnanza di vendere a un estranio la precisa immagine di mia moglie. Le solite parole: "Sta' ferma! Cosi!" che le altre volte erano bastate a farla istantaneamente addormentare, riuscivano inefficaci quantunque replicate più volte. "Che cosa vuoi farmi? ... Che cosa mi hai fatto?" ella domandò, diffidente, guardandomi fisso negli occhi. E siccome io non avevo saputo risponderle, stupito di sentirla parlare a quel modo, ella soggiunse: "Mi sembra di avere qualcosa di strano dentro di me, qualcosa che mi scote, che m'eccita ... Non so come esprimermi ... Oh! oh! ... Veggo, ma non cogli occhi, lontano, fin in fondo al giardino ... Laggiù, nell'aiuola a destra, un gatto raspa la terra e danneggia le pianticine di violette! ... È possibile? ... Vieni; andiamo a vedere!". E mi trascinò per mano fuori dello studio, laggiù, dove un gatto faceva precisamente quel ch'ella aveva visto stando a sedere presso il cavalletto, da un punto dove si scorgevano appena le cime degli alberi del giardino smosse dal vento dietro la vetrata. "Sei diventata una veggente" le dissi con tono di voce che voleva essere scherzoso e non nascondeva intanto il mio stupore. "Male!" ella rispose con improvvisa serietà. "È assai meglio non vedere! ... È assai meglio ignorare!". Non aggiunse altro, né io le seppi dir altro". Blesio, impensierito dell'esaltazione del suo amico, resa più manifesta dalla crescente irrequietezza delle mani e dai rapidi alteramenti della voce in evidente contrasto con la minuziosa limpida narrazione, tentò nuovamente d'impedirgli di proseguire. "Non stancarti; ho già capito, sei stato un po' imprudente, forse ... ". "Forse? ... Troppo dovresti dire", riprese Raimondo Palli. "Troppo". E, implorando con lo sguardo, continuò: "Da quel giorno in poi, caro Blesio, io ho assistito a tali portenti di chiaroveggenza da far perdere l'equilibrio a qualunque più solido intelletto. Non osai più d'interrogarla: "Mi ami? Di', mi ami davvero?". Ma Delia sentiva anche da una stanza all'altra le vibrazioni del mio pensiero, come se le nostre anime, fuse insieme, pensassero la stessa cosa, nello stesso momento. La vedevo apparire su la soglia del mio studio, col viso contratto da dolore intenso, e la sua voce piena di lacrime mi rimproverava: "Perché dubiti di me? Lo sento, non negarlo! Che cosa dovrei fare, parla! per darti la prova suprema dell'immenso amore mio?". Pietà, o vigliaccheria, io mi ostinavo a negare. Inutilmente. La vedevo andare via niente convinta delle affettuose parole, delle carezze, dei baci che - lo capivo dopo - non producevano su lei l'effetto voluto per l'esagerazione a cui mi induceva la paura di non poter più sfuggire a quell'ispezione che mi aveva ridotto in uno stato peggiore di ogni peggiore schiavitù. Come? Non sarei più stato libero di formolare un'idea, un desiderio, una speranza, senza che Delia non venisse a dirmi: "Si, è una buona idea; dovresti attuarla. - O pure: Dipende da te, perché quel bagliore di fantasia diventi realtà. - O pure: - No, quel desiderio è troppo ambizioso per noi; non lasciartene lusingare. - O pure: Dici bene, questa speranza è un gran conforto per me!". E ciò come se io l'avessi messa a parte di tutto con le più precise parole, per consultarla, per averne l'approvazione o la disapprovazione? ... Oh! Non aver niente da nasconderle! Nei primi mesi della nostra unione, era stata anzi gran delizia per me comunicarle i più riposti pensieri, chiederle consigli, suggerimenti che mi rivelavano sempre più squisite delicatezze d'animo, sempre più fine penetrazione d'intelligenza in ricambio del mio cordiale abbandono. Volevo così dimostrarle la mia profonda gratitudine per la gioia, la felicità, la nuova essenza di vita che ella era venuta a diffondere attorno a me, tanto da farmi credere divenuto un altro, quando mi accorgevo dell'agile sviluppo di alcune mie facoltà artistiche rimaste fin allora quasi latenti. E provavo un senso di mortificazione, se Delia, con delicata modestia, mi diceva: "Che bisogno hai tu di consultarmi? Tutto quel che tu fai lo giudicherò sempre ben fatto, anche quando gli altri potranno giudicarlo altrimenti". Non avevo dunque proprio niente da nasconderle. E intanto ora stimavo violato il sacro penetrale del mio pensiero, di cui prima le spalancavo a due battenti le porte. Una cupa irritazione mi invadeva a ogni nuova manifestazione della sua inevitabile chiaroveggenza e nello stesso tempo una viva indignazione per quello che, in certi momenti, mi sembrava atto di ingrato ribelle. Non avrei dovuto essere piuttosto felicissimo per l'assoluta compenetrazione delle nostre anime, della quale la chiaroveggenza di Delia era mirabile testimonianza? "No!" riflettevo subito. "Ella rimane chiusa, impenetrabile. Io, soltanto io, sono in sua compiuta balìa!". Tentai di difendermi con lo stesso mezzo servito, involontariamente, a produrre l'incredibile fenomeno. Ma Delia non sentiva più il mio influsso; era già più forte di me". "Avresti dovuto ricorrere ad uno specialista" lo interruppe Blesio. "Un magnetizzatore di professione, probabilmente avrebbe domato quelle forze ancora non bene conosciute e che la tua malaccortezza aveva scatenate ... Ma, te ne prego, rimandiamo a qualche altro giorno questi dolorosi ricordi ... Nella foga del parlare, non ti accorgi che essi ti commuovono fortemente". "Li ripenso quando non parlo; vale lo stesso. Lasciami proseguire" rispose Raimondo, stirandosi nervosamente i baffi e la barba. "Sopravvennero intanto alcuni mesi di sosta. Credei che la eccitazione nervosa da me provocata si fosse finalmente esaurita, e che la cura consigliatami da un dottore consultato all'insaputa di Delia avesse realmente contribuito a fortificarne l'organismo. Era un po' dimagrita in quei mesi, e aveva perduto la vivace tinta che coloriva le sue guance di bruna con lieve sfumatura rosea. Soltanto lo splendore degli occhi era rimasto immutato. Vedendola rifiorire, non sospettando affatto che quella tregua potesse essere passeggera, avevo ripreso a lavorare alla statua La Giovinezza , quasi suggeritami da lei, un mattino di primavera, passeggiando insieme tra la splendida esplosione dei fiori delle aiuole che fiancheggiavano i brevi viali del nostro giardinetto. La Giovinezza , nella mia intenzione, doveva essere Delia trasformata in Dea, idealizzata, se pure ci fosse stato bisogno d'idealizzare una figura che era, pei miei occhi, un'idealità artistica in atto. Il lavoro mi assorbiva talmente che le lunghe ore di quella giornata di estate sembravano insufficienti alla mia smania di condurre a termine la statua in brevissimo tempo. Delia veniva spesso a tenermi compagnia, seduta in un angolo, leggendo e ricamando zitta zitta per non distrarmi: ed io mi accorgevo della sua presenza soltanto nei momenti di riposo della modella. Mi accorgevo pure, con doloroso stupore, che mai Delia mi era parsa così lontana da me, come in quelle lunghe giornate che più mi stava silenziosamente vicina. Eppure quella statua che mi si vivificava sotto la stecca e il pollice era la libera traduzione del bozzetto improvvisato con insolita rapidità mentre ella, che me n'aveva quasi suggerito l'idea, posava perché io fissassi nella creta il movimento delle linee della sua persona, così come l'immaginazione me la andava trasformando in fantasia d'arte. Una sera, tutt'a un tratto, Delia mi disse: !Ah, Raimondo! ... Tu stai per cessare di amarmi!". "Non pensare assurdità!", risposi bruscamente. "Tu però in quest'istante mentre neghi, pensi: - Oh, Dio, ella indovina!". Tornai a negare: ma era vero. In quell'istante pensavo proprio: "Oh, Dio, ella indovina". "Come avvenga non so" riprese Delia. "C'è dentro di me o una anima nuova, o qualcosa che direi malia, se potessi credere alla malia. Strana malia, Raimondo; malefica malia che mi fa vedere quel che non vorrei vedere, che mi fa udire quel che non vorrei udire, quasi il tuo pensiero parli per me ad alta voce ... E sto in ascolto, da mesi, costretta, decisa di non dirti niente, di soffrire in silenzio perché mi sembra che anche tu soffra ... Ah, Raimondo! Tu stai per cessare di amarmi ... Mi sento impazzire!". Non ricordo più quel che dissi per consolarla, per confortarla. Dovetti essere efficacissimo, se Delia mi si gettò tra le braccia scoppiando in pianto dirotto, balbettando tra i singhiozzi: "Perdonami! Ti faccio soffrire!". Ma il giorno dopo e così tutti i giorni, per parecchi mesi, si ripeté la stessa scena, fino a che Delia quasi estenuata dallo sforzo inconsapevolmente fatto dall'organismo, non parlò più, e si ridusse a fissarmi, a fissarmi a lungo, crollando dolorosamente la testa, sorridendo con tale tristezza che io ero forzato ad abbassare gli occhi, o a rivolgerli altrove avvilito da quella luminosità di cui ti ho parlato, che mi pareva scendesse a illuminare le più riposte profondità del mio cuore ... Che terribili mesi di sofferenza, caro Blesio! Noi vivevamo isolati, per deliberato disegno, sin dai primi giorni del nostro matrimonio, entrambi orgogliosi di bastare a noi stessi ... E la gente, che per maligna o benevola curiosità si occupava dei fatti nostri, ci giudicava felici! Tali avremmo potuto essere, certissimamente, se le mie stesse mani non avessero distrutto, con imperdonabile caparbietà, il magnifico immeritato dono benignamente concessomi dalla sorte. Giacché io ero stato caparbio, stupidamente caparbio nel volermi accertare, a ogni costo, se il mio dubbio: "Mi ama davvero? Perché vuol darmi a intendere che m'ama?", corrispondesse o no alla realtà. Che terribili mesi, caro Blesio! Tu non potrai mai formartene neppure un'idea approssimativa. Invano cercavo un rifugio nel lavoro; invano la mia coscienza di artista mi confortava con attestarmi che la statua ormai quasi compiuta, sotto l'impulso di tante agitazioni, fosse riuscita più bella di quanto io, incontentabile, non l'avevo sperata. Lavoravo febbrilmente, quasi la mia mano fosse stata mossa da un altro me stesso che conviveva dentro di me assieme con quello che si tormentava, e smaniava e delirava, sì, a volte delirava, intanto che la mano dell'altro dava gli ultimi tocchi alle estremità della figura con meticolosa accuratezza ... Fu allora ... Oh, non avevo badato alla nuova espressione degli sguardi con cui Delia osservava il mio lavoro, aggirandosi attorno al cavalletto, muta, intenta, in visibile ammirazione, mi pareva, di quella Giovinezza in parte sua geniale ispirazione. Ne ero lusingato, anche perché in quel punto non provavo l'impressione scrutatrice di quelle nere pupille luminosissime, che mi rivelavano quanto il mio cuore fosse mutato, vinto da grave stanchezza di amare per aver troppo amato". Raimondo si arrestò quasi volesse riprendere forza. La sua voce infatti si era andata affievolendo; le ultime parole gli erano uscite dalle labbra seguite da un profondo sospiro. Blesio osservava con pena il rapido movimento delle palpebre e il tremito delle labbra che rendevano più triste quella pausa. Raimondo alzò le mani, come per rimovere qualche ostacolo davanti a sé, e tratto un altro profondo sospiro, riprese: "Quella splendida mattina di maggio, lo studio era invaso da tale giocondità di luce, che i gessi dei miei precedenti lavori sembravano inattesamente scossi da misteriosi brividi di vita. La creta della Dea, assai più di essi, prendeva così mirabili chiaroscuri, riflessi così formicolanti da darmi l'illusione che sotto le carni del seno e delle braccia ignude si avverasse il miracolo della pulsazione del sangue. Delia, entrata con lievi passi, si era fermata dietro di me, senza che io me ne fossi accorto ... Tutt'a un tratto, mi sentii afferrare violentemente pel braccio; e prima che, spinto da lei vigorosamente da parte, potessi accorrere e impedire l'atto di quelle furibonde mani, Delia ... Oh! oh! "No, non è così!" balbettava con voce roca, che io non avrei saputo riconoscere se l'avessi udita senza veder lei. "No, non è così!". E le esili mani, tese come artigli, si affondavano nella creta, disformando braccia, seno, volto alla Dea che mi era costata tanti mesi di lavoro! ... Ero rimasto impietrito davanti a quell'orrore. "No, non è così! ... Non è così!". E Delia brancicava la creta, quasi tentasse di rimodellarla, voltandosi verso di me con gli occhi sbarrati dall'improvviso scoppio di pazzia, le labbra sformate da un terribile sorriso, balbettando con voce aspra e roca: "Ecco! ... Ecco come dev'essere! ... Ecco! Tu non hai saputo ... Io, io sì!". E cadde riversa sul pavimento in violenta convulsione. Quando rinvenne, non mi riconosceva più! La ho assistita, la ho vegliata per tre eterni mesi, giorno e notte, istupidito dal dolore, attanagliato dal rimorso di aver prodotto lo sfacelo di quella povera creatura con lo stolto esperimento che avrebbe dovuto disperdere il mio sospetto, e invece ... invece! "Mi amava davvero?". Ho ancora integra la mia ragione continuando a domandarmelo? E quel che è accaduto è stato colpa mia o inesorabile opera di quella fatalità che regge la nostra esistenza? ... Dimmelo tu! Rischiarami tu!". E Raimondo Palli, convulso, singhiozzava, torcendosi le mani tese supplichevoli verso l'amico. Blesio aveva anche lui le lacrime agli occhi e non riusciva a trovare una sola parola di conforto, incerto se Raimondo fosse già pazzo o sul punto di divenir tale.

IL RE DEL MARE

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Salgari, Emilio 18 occorrenze

- Che è il migliore ed il più potente incrociatore che io abbia veduto: una vera meraviglia, - rispose l'indiano con entusiasmo. - Sì, sono dei bravi costruttori gli americani. Vent'anni or sono ricorrevano all'estero per formare le loro flotte ed ora nelle loro costruzioni vincono tutti. Solide e potenti, ecco come sono le loro navi d'oggidì. Con questa noi daremo ben da fare ai nostri avversari. - E se l'Inghilterra ci lanciasse addosso le migliori navi della sua flotta? Hai pensato a questo, Sandokan? - Le faremo correre, mio caro, - rispose la Tigre della Malesia. - L'oceano è vasto, la nostra nave è la più rapida, e dei trasporti inglesi da assalire per privarli del loro carbone ne troveremo sempre. Non ho la pretesa di poter continuare indefinitamente questa guerra, ma prima di quel giorno in cui noi avremo recati enormi danni ai nostri avversari, tali da fare loro rimpiangere il giorno in cui ci hanno cacciati dalla nostra isola. Accese il suo splendido narghilè, prese sotto il braccio l'indiano e dopo d'aver passeggiato per qualche minuto fra la ruota del timone e le torri poppiere, disse: - Sai che il capitano va migliorando? - sir Moreland? - chiese Tremal-Naik. - Sì, malgrado l'orribile ferita, non ha che una leggera febbre. Il signor Held è stupefatto e credo che abbia ragione. Che fibra meravigliosa ha quell'uomo! - Ti ha riconosciuto? - Sì, anche or ora. - Deve esser rimasto stupefatto di vedersi in nostra mano. Non credeva certo di dover trovarsi così presto coi suoi antichi prigionieri. Dorme? - Sì e anche tranquillamente. - Non ci darà dei fastidi quell'uomo? - Può darsi, ho dei progetti su di lui. - Quali? - Non so ancora nulla per ora, - disse Sandokan. - Ci penserò a che cosa potrà giovarci. Cerchiamo innanzi a tutto di farcelo amico. Ci deve bene un po' di riconoscenza per averlo strappato alla morte. - Indovino il tuo pensiero, - disse Tremal-Naik. - Tu speri di aver da lui qualche notizia sul figlio di Suyodhana. - È vero, - rispose Sandokan. - Combattere un nemico sconosciuto, che non si sa dove si trovi, nè che cosa stia tramando, inquieta assai. Bah! Un giorno o l'altro si svelerà, si mostrerà, suppongo, e quel giorno la Tigre divorerà anche il tigrotto dell'India. Il dottor Held era in quel momento comparso sulla porta del quadro. Quell'americano, che come abbiamo detto, aveva accettato le proposte fattegli da Sandokan, proposte che potevano costargli però la vita, era un bel giovane di ventisei o vent'otto anni, alto, piuttosto magro, dallo sguardo intelligentissimo e vivo, colla fronte spaziosa ed il viso roseo come quello d'una fanciulla, adorno d'una barbetta bionda tagliata a punta. - E dunque, signor Held? - gli chiese Sandokan muovendogli sollecitamente incontro. - Ormai rispondo della sua guarigione, - rispose il medico. - Fra quindici giorni quell'uomo starà perfettamente bene. Quegli anglo-indiani hanno la pelle ben dura. La campana che annunciava il pranzo interruppe la loro conversazione. - A tavola o Yanez s'impazienterà, - disse Sandokan. Mentre scendevano nel salone del quadro, il Re del Mare continuava la sua corsa verso il sud-sud-ovest. L'oceano era sempre deserto, percorrendo la nave una zona pochissimo frequentata dai velieri e dai piroscafi, i quali ordinariamente si tengono più al nord o più al sud, gli uni per evitare le calme e gli altri per evitare i banchi sottomarini che sono numerosissimi intorno alle coste di Borneo. Di quando in quando una banda di volatili calavano sulle coffe degli alberi, prendendone possesso e lasciandosi avvicinare dai marinai senza dimostrare di spaventarsi. Erano dei grossi uccellacci, specie di procellarie giganti, colle penne brune, chiamati dai marinai rompitori d'ossa e dagli scienziati quebranta huesos, formidabili pescatori, armati d'un rostro così acuto e così robusto che permette loro di affrontare i più grossi pesci, colpendoli mortalmente nel cranio. Anche qualche splendido albatro veniva a volteggiare intorno alla nave, salutando i marinai con dei grugniti da porco e attraversando senza paura la tolda, nonostante le fucilate che sparavano i malesi. Magra selvaggina però, perchè se sembravano immensi, misurando le loro ali unite perfino tre metri e mezzo, è molto se i loro corpi pesano otto o dieci chilogrammi, senza contare poi che le loro carni sono coriacee e impregnate d'un pessimo odore di pesce. Comunque erano ammirabili nei loro voli, essendo dei volteggiatori straordinari. Certi momenti rimanevano quasi immobili al di sopra dell'incrociatore, vibrando appena le loro gigantesche ali, poi partivano come fulmini e calavano in mare a pescare i piccoli cefalopodi, i loligo, dei quali si nutrono di preferenza. Le prede d'altronde non mancavano a quegli avidissimi volatili, perchè le acque dell'oceano si mostravano straordinariamente ricche di pesci, con molto piacere anche dei marinai, i quali o con reticelle o con fiocine, nonostante la rapidità dell'incrociatore, s'ingegnavano di prenderli onde variare la minuta di bordo. Oltre a grosse bande di dorate, di piccoli delfini e di serpenti di mare, lunghi un metro, di forma cilindrica, colla pelle bruna nera e la coda gialla, si vedevano a galleggiare un numero sterminato di diodon, pesci assai strani, che abitano quasi esclusivamente le zone torride e che hanno l'abitudine di navigare col ventre in aria e di gonfiarsi fino a diventare completamente rotondi. Salivano dagli abissi dell'oceano a centinaia e centinaia, mostrando le loro spine acute che coprono i loro corpi, facendoli rassomigliare ai ricci terrestri, a tinte però svariate, bianche, violacee o macchiate in nero, mentre in mezzo a loro sfilavano, coi tentacoli al vento onde approfittare del menomo soffio d'aria, lunghe file di nautilus. Di quando in quando un improvviso terrore si manifestava fra tutti quegli abitanti dell'oceano tropicale. Le dorate scomparivano precipitosamente, i diodon si sgonfiavano rapidamente, lasciandosi colare a picco; i nautilus ripiegavano i loro tentacoli, rovesciavano la loro conchiglia navigante fino allora come una leggera barchetta, e si sommergevano. Un nemico terribile e avidissimo, si era bruscamente scagliato in mezzo alle bande colla formidabile bocca spalancata, irta di denti acuti come quelli delle tigri. Era un vorace charcharias, un pescecane di cinque o sei metri di lunghezza, che aveva sparso quell'improvviso terrore, un nemico pericoloso anche per gli uomini. Con rapidità fulminea ingoiava i ritardatari, poi scompariva, sempre preceduto dal suo pilota, un grazioso pesciolino colla pelle azzurra porporina, a striscie nere, non più lungo di venticinque centimetri e che serve di guida al suo formidabile padrone e protettore. Cessato però il pericolo, le dorate ricomparivano giuocherellando e i diodon si rigonfiavano ballonzolando sulle onde e le splendide conchiglie dei nautilus dai margini di madreperla raddrizzavano gli otto tentacoli leggermente arrotondati all'estremità. Verso il tramonto, quando Sandokan e Yanez scesero nella cabina dove trovavasi l'anglo-indiano, constatarono con piacere che il ferito si trovava in condizioni migliori che al mattino. La febbre era quasi cessata e la ferita, sapientemente cucita dall'abile americano, non dava più sangue. Quando entrarono, sir Moreland stava parlando, con voce abbastanza chiara, col signor Held, chiedendo informazioni sulla potenza della nave corsara. Vedendoli, l'anglo-indiano fece uno sforzo per alzarsi a sedere; Sandokan con un gesto glielo impedì. - No, sir Moreland, - disse. - Siete troppo debole e per ora dovete evitare qualsiasi sforzo. È vero, mio caro Held? - La ferita potrebbe riaprirsi, - rispose il dottore. - Vi ho proibito, Sir, di fare qualsiasi movimento. L'anglo-indiano porse la mano all'americano, a Yanez e a Sandokan, dicendo loro: - Grazie di avermi salvato, signori, quantunque avessi desiderato di affondare assieme alla mia nave ed ai miei disgraziati marinai. - Vi è sempre tempo a morire per un marinaio, - rispose Yanez, sorridendo. - La guerra non è ancora finita, anzi per noi è appena cominciata. Una nube oscurò la fronte dell'anglo-indiano. - Credevo che la vostra missione terminasse colla liberazione di quella fanciulla e di suo padre, - disse. - Non avrei acquistata una nave di tale potenza per una simile impresa, - disse Sandokan. - I miei prahos sarebbero stati sufficienti. - Sicchè voi continuerete a corseggiare? - Sì e finchè avrò un solo uomo ed un pezzo d'artiglieria servibile. - Io vi ammiro, signori, ma credo che le vostre corse finiranno presto. L'Inghilterra ed il rajah non tarderanno a farvi inseguire dalle loro squadre. Come resisterete voi a simili attacchi? Il carbone vi verrà meno e sarete costretti ad arrendervi o a farvi colare a picco dopo una inutile resistenza. - Lo vedremo ... Poi Sandokan, cambiando bruscamente tono, chiese: - Come state, sir Moreland? - Relativamente bene; il dottore mi assicura che io potrò alzarmi fra una diecina di giorni. - Avrò molto piacere di vedervi passeggiare sul ponte della mia nave. - Sicchè contate di tenermi prigioniero, - disse l'anglo-indiano, sorridendo. - Anche se volessi rendervi la libertà in questo momento non potrei farlo, perchè siamo ben lontani dalle coste. - Risalite verso il nord? - No, sir Moreland, andiamo invece verso il sud; desidero vedere la foce del Sarawak. - Vi comprendo, signore. Tenterete un colpo di mano sui depositi di carbone del rajah. - Non lo so ancora. - Signor Sandokan, desidererei una spiegazione, se lo permettete. - Parlate, sir Moreland, - rispose la Tigre della Malesia. - Poi, se me lo permettete, vi farò anch'io qualche interrogazione. - Desidererei sapere perchè avete coinvolto nella guerra anche il rajah di Sarawak. - Perchè noi siamo convinti che egli sia il protettore dell'uomo misterioso che ha scatenato contro di noi gli inglesi di Labuan e che in un solo mese ci ha recato tanti danni. - Chi è costui? Sandokan fissò sull'anglo-indiano uno sguardo acutissimo, come se avesse voluto leggergli fino in fondo al cuore, poi disse: - È impossibile che voi, che appartenete alla marina del rajah, non lo abbiate conosciuto. Qualche cosa, come un fremito, passò sul viso di sir Moreland, il quale rimase per qualche istante muto. - No, - disse poi, - non ho mai veduto l'uomo a cui voi alludete. Ho udito però a narrare che un individuo misterioso, che pare possegga delle ricchezze favolose, ha visitato il rajah, mettendogli a sua disposizione navi e uomini per vendicare James Brooke. - Un indiano, è vero? - Non lo so, - rispose sir Moreland. - Io non l'ho mai veduto. - È quell'uomo che ha spinto gli inglesi ed il rajah contro di noi? - Così mi hanno narrato. - Il figlio d'un famoso capo di thugs indiani. - Non ve lo saprei dire. - E vuole misurarsi colle tigri di Mompracem? - Ed è anche certo di vincervi. - Cadrà come è caduto suo padre e come è caduta tutta la sua setta, - disse Sandokan. Un secondo fremito passò sul viso dell'anglo-indiano, mentre negli occhi nerissimi balenava come una fiamma. Stette un'altra volta qualche istante muto, come se qualche improvviso pensiero lo turbasse, poi disse: - L'avvenire ve lo dirà. Poi, cambiando bruscamente discorso, chiese: - Sono sempre a bordo quell'indiano e sua figlia? - Non ci lasceranno, perchè la loro sorte è unita alla nostra, - rispose Sandokan. Sir Moreland si lasciò sfuggire un sospiro e s'abbandonò sul guanciale. - Riposate tranquillo, - gli disse Sandokan. - Non accadrà nulla questa notte. - Uscì insieme a Yanez e salì sul cassero. Surama e Darma stavano prendendo il fresco, chiacchierando con Tremal-Naik. Vedendo Yanez, Darma gli si appressò, interrogandolo collo sguardo. - Tutto va bene, - le sussurrò il portoghese col suo solito sorriso. - Potrò visitarlo? - Domani nessuno te lo impedirà, se ... La frase gli fu spezzata dal grido della vedetta istallata sulla coffa dell'albero di trinchetto: - Fumo all'orizzonte! Guarda all'ovest! Quel grido aveva fatto balzare in piedi Sandokan, che si era appena allora seduto presso Tremal-Naik e fatto accorrere in coperta tutto l'equipaggio. Sul cielo ancora fiammeggiante, non essendosi il sole ancora completamente immerso, si vedeva una sottile colonna di fumo alzarsi nella limpida e tranquilla atmosfera. - Che sia qualche nave da guerra in cerca di noi? - chiese Yanez, - o un pacifico piroscafo in rotta per Sarawak? - Sospetto più che sia una nave da guerra, - disse Sandokan, che aveva puntato un cannocchiale recatogli da Sambigliong. - Ah! Toh! Sembra che si allontani verso l'ovest; il pennacchio di fumo si è piegato verso la nostra parte. - Che ci abbia scorti? - chiese Tramal-Naik, che li aveva raggiunti. - Come noi ci siamo accorti della sua presenza, è probabile che il suo comandante abbia veduto anche il nostro fumo. - Mi viene un sospetto, - disse Yanez. - Quale? - Che sia qualche esploratore. - È possibile, Yanez, - rispose Sandokan. - Che cosa risolvi di fare? - Seguirlo a distanza. Domani, ai primi albori, ci metteremo in caccia e tanto peggio per lui se appartiene alle squadre del rajah o di Labuan. Passeremo la notte in coperta. Le tenebre che calavano rapidissime non permettevano più di poter scorgere quel pennacchio di fumo, ma il Re del Mare aveva messa la rotta a ponente per seguirlo nella sua rotta. Colle sue poderose macchine era certo di raggiungerlo prima dell'alba e di catturarlo o di affondarlo colle sue formidabili artiglierie. La guardia franca, per precauzione, era stata tenuta in coperta, potendo darsi che durante la notte gravi avvenimenti accadessero. - A dodici nodi! - aveva comandato Sandokan. - Lo seguiremo da presso. Il comando era stato appena dato che il Re del Mare ripartiva colla prora a ponente. La notte era splendida, una vera notte tropicale piena di fascino e d'incanto, come solo si possono vedere in quelle regioni delle calme quasi eterne. Quantunque il sole fosse scomparso da parecchie ore, pareva che avesse lasciato dietro di sè una porzione della sua luce, perchè nel firmamento non regnava oscurità completa. Un vago chiarore, scialbo, d'una trasparenza incredibile, regnava lassù e si proiettava sulle acque dell'oceano, permettendo agli uomini di quarto di spingere i loro sguardi a distanze infinite. Le acque, tratto tratto, parevano incendiarsi. Dai profondi abissi del mare salivano a battaglioni le meduse, mentre gli splendidi anemoni schiudevano le loro brillanti corolle rosee, bianche azzurre, gialle e violette, ondeggiando mollemente le loro frange sfolgoranti. In mezzo a quelle ondate di luce sottomarina, di quando in quando si vedevano scivolare dei mostri, i quali spargevano il terrore e la confusione fra quei molluschi. Ora erano dei charcharias, pericolosi e sempre affamati squali; ora dei calamari giganti dal becco da pappagallo, gli occhi glauchi e fissi e i tentacoli coperti da ventose. Ora invece, una massa enorme appariva bruscamente a galla, lanciando in alto spruzzi fiammeggianti e ricadendo poi con un tonfo cupo. Era una balenottera dal dorso nero-verdastro, lunga una quindicina di metri, cetaceo ancora abbastanza comune nei mari intertropicali, nonostante la caccia accanita delle navi baleniere. Sandokan e Yanez, quantunque la giornata fosse stata assai faticosa e nessun pericolo, almeno apparentemente, minacciasse la loro nave, non si erano coricati. Non era già per godersi quella splendida notte, nè per ammirare i fulgori variopinti degli anemoni, spettacoli oramai troppo noti a loro, vecchi naviganti dei mari della Malesia. Un segreto timore li tratteneva sul ponte. Camminavano con una certa agitazione, fermandosi sovente per fissare i loro sguardi verso ponente. Quel fumo li preoccupava vivamente, temendo che quel legno fosse l'avanguardia di qualche flottiglia. - Hai scorto qualche cosa? - chiese Yanez, verso la mezzanotte, vedendo Sandokan arrestarsi per la decima volta e puntare il cannocchiale verso ovest. - Io giurerei d'aver veduto, alcuni minuti or sono, un punto bianco, splendidissimo, brillare nella direzione ove è scomparso quel pennacchio di fumo, - rispose la Tigre. - Il fanale del trinchetto di quella nave oppure una stella? - No, Yanez: nè l'uno nè l'altra. Poi, dopo una breve pausa, riprese: - Credi tu che la squadra di Labuan non ci cerchi? Non sarà certo rimasta inoperosa a Victoria, dopo la nostra dichiarazione di guerra. - Colla velocità che possediamo, non ci sarà difficile lasciarla indietro. - Ed il carbone ci mancherà presto, - rispose Sandokan. - Le nostre carboniere sono ormai semi-vuote. - Ci riforniremo a spese del rajah. - Se potremo giungere alla foce del Sarawak. - Che cosa temi? Sandokan non rispose. Guardava attentamente sempre verso ponente, percorrendo tutta la linea dell'orizzonte. Ad un tratto abbassò il cannocchiale. - Un lampo, - disse. - Dove, Sandokan? - È brillato nella direzione presa da quella nave. Mi parve un lampo di luce elettrica. - Sì, signore, - confermò l'americano Horward, che per un momento aveva lasciato la sala delle macchine. - L'ho scorto anch'io. - Che quella nave corrisponda con qualche altra? - chiese Yanez. - È quello che temo. - rispose Sandokan. - Fortunatamente l'orizzonte è chiaro e vedremo subito il nemico. Signor Horward, date ordine in macchina che si preparino a portare la nostra velocità a quattordici nodi. Sono curioso di sapere chi potrà gareggiare con noi. - L'americano aveva appena trasmesso il comando, quando un nuovo lampo balenò nella direzione di prima. Pareva che una lampada elettrica di grande potenza, avesse proiettato un ampio fascio di luce sull'oceano. Un momento dopo una sottilissima striscia di fumo s'alzò sull'orizzonte. - Un razzo, - disse Yanez. - Sono due navi che corrispondono e una deve essere quella che è fuggita al nostro avvicinarsi. Segnala di certo la nostra rotta. - Signor Sandokan, - disse l'americano. - Se non m'inganno vedo un punto nero scorrere sull'oceano. Sta attraversando un tratto d'acqua fosforescente. - Un punto! Allora non può essere una nave. - E che si muove con rapidità straordinaria, a quanto pare. - Che sia qualche scialuppa a vapore? Allungò nuovamente il cannocchiale, mantenendolo orizzontale per qualche minuto. Il punto nero, che ingrandiva rapidamente, aveva attraversato la zona fosforescente confondendosi colla tinta cupa delle acque, ma più oltre ve n'era una seconda formata da migliaia di nottiluche, di anemoni e di meduse. - Sì, sembra una grossa scialuppa a vapore, - disse Sandokan. - Non è che a duemila metri. La manderemo a far compagnia alle meduse. Mastro Steher!

. - Che peccato che sir Moreland non ci abbia fornito qualche spiegazione sul nostro nemico, - disse Tremal-Naik. - Uhm! - fece Yanez. - Io ho il sospetto che quell'anglo-indiano sia più ai servigi del figlio di Suyodhana che a quelli del rajah di Sarawak. - Ragione di più per non risparmiarlo, signor Yanez, - disse Kammamuri. - Dovevate lasciar tuonare tutte le artiglierie contro la sua scialuppa a vapore, invece di danneggiarla solamente. - Che cosa vuoi, mi rincresceva lasciar massacrare quel giovane valoroso, - rispose Yanez. - Così piacevole e cortese, - aggiunse Tremal-Naik. - Con noi si è mostrato un vero gentiluomo, quand'io e Darma eravamo suoi prigionieri, specialmente verso la mia figlia. - Fino dal primo istante? - Veramente no, - rispose l'indiano. - Nei primi giorni appariva estremamente freddo, anzi mi guardava sovente con un brutto sguardo che mi dava non poche preoccupazioni, poi a poco a poco cambiò. - Ah! - fece Yanez, sorridendo. Riaccese la sigaretta che gli si era spenta e s'avviò verso il cassero dove si erano in quel momento mostrate Surama e Darma. - Non avrete già avuto paura, mie buone fanciulle - disse guardando specialmente la figlia dell'indiano con una certa malizia. - Grazie signor Yanez, - gli sussurrò Darma, prendendogli la destra e stringendogliela fortemente. - Che cosa sai tu? ... - Ho sentito tutto. - Ti sarebbe assai spiaciuto se fosse stato ucciso, è vero Darma? - Sì, - sospirò la fanciulla. - Amor fatale! ... - Bah, finita la guerra vedremo di scovarlo quel coraggioso giovane. Chissà! ... Tutto potrebbe finire bene e fare di voi due felici, poichè me ne sono accorto che anche sir Moreland ti ama ardentemente. - Eppure, sahib bianco, - disse Surama, - mi hanno detto che aveva tentato di far saltare la nostra nave. - Danneggiarla gravemente forse e approfittare della confusione per rapirci Darma, - disse Yanez. - Oh, non l'avrebbe certo lasciata annegare. Toh! ... La nebbia si alza e vedo laggiù a diffondersi un poco di luce. È l'alba che sorge; vedremo se le navi degli alleati ci sono ancora alle spalle. Infatti la nebbia, che aveva così opportunamente protette le tigri di Mompracem, cominciava ad alzarsi, cacciata via dalla brezza mattutina. Quando tutti quei vapori scomparvero verso il nord, il mare apparve deserto. La squadra degli alleati, che non poteva competere colle poderose macchine del Re del Mare, doveva essere rimasta molto indietro e fors'anche ritornata verso la foce del Sarawak. Anche verso il nord l'orizzonte appariva sgombro, essendosi tenuto l'incrociatore molto lontano dalle coste bornesi, per non farsi scorgere da qualche nave costiera. Non si vedevano altro che degli uccelli marini, assai numerosi in quei paraggi e che volteggiavano con una leggerezza ed una velocità veramente ammirabili. Il Re del Mare continuò la sua corsa velocissima tutto il giorno, volendo Sandokan non solo conservare il suo vantaggio, ma aumentarlo, onde avere il tempo necessario per trovare la Marianna. Prima del tramonto l'incrociatore navigava già nelle acque che bagnano la costa del Sedang. - Possiamo considerarci, almeno per ora, fuori di pericolo, - disse Yanez a Horward il quale, assieme a Darma, contemplava il tramonto del sole. - Sì, però fra giorni, anzi forse fra quarant'otto ore, saremo costretti a ricominciare la musica, - rispose l'americano. - Le navi degli alleati non ci lasceranno tranquilli. - Ah! ... che superbo tramonto! ... - esclamò in quel momento Darma. - Quelli che si ammirano in questi mari sono infatti i più splendidi. - disse Yanez. - Hanno delle tinte che non si vedono in altri luoghi. Se state attenti vedrete il famoso raggio verde. - Un raggio verde! - esclamarono l'americano e Darma. - È splendido, mia piccola Darma: è un fenomeno meraviglioso che si può ammirare solamente nei mari della Malesia e nell'Oceano Indiano. Il cielo è purissimo, quindi anche tu lo vedrai. Aspetta solamente che l'orlo superiore del sole stia per scomparire. - Possibile che da tutto quel fulgore infuocato possa sprigionarsi un raggio d'un tal colore! - esclamò. - Sono certo di non ingannarmi: state attenti. Il sole tramontava in un oceano di luce, le cui tinte a poco a poco variavano certo a causa dello stato più o meno igrometrico dell'atmosfera e della distanza dell'astro dallo zenith. Mentre stava, per modo di dire, per affondare nell'oceano, pel cielo si diffondeva una luce rosso-giallognola la quale prendeva rapidamente una tinta quasi violacea che si perdeva insensibilmente in un fondo azzurro-grigiastro. Il margine superiore del disco stava per sparire, quando apparve improvvisamente un raggio assolutamente verde, d'una bellezza tale da strappare all'americano ed a Darma un grido d'ammirazione. Si proiettò per qualche istante sulle acque, poi scomparve di colpo, mentre l'ultimo lembo dell'astro diurno si celava dietro l'orizzonte. - Splendido! - aveva esclamato Horward. - Superbo! - aveva detto Darma. - Non avevo mai veduto un raggio d'un tal colore! ... - Perchè non hai percorso che di rado questi mari, - rispose Yanez. - E non si può vederlo in altri luoghi? - chiese Kammamuri che si era unito a loro. - È difficilissimo, perchè occorrono eccezionali condizioni di limpidezza ed una grande purezza d'orizzonte e solamente in queste regioni si possono avere con maggior frequenza tali condizioni. Ecco la campana che ci chiama a cena. Approfittiamone finchè nessun pericolo ci minaccia, - disse Yanez, offrendo il braccio alla giovane anglo-indiana. Due ore dopo il tramonto, il Re del Mare, che non aveva diminuita la sua velocità, si trovava di fronte alla foce del Sedang, ad una distanza di qualche mezza dozzina di miglia. - Che la Marianna sia nascosta entro il fiume? - chiese Kammamuri a Yanez che esplorava la costa con un cannocchiale. - Il suo comandante non sarà stato così sciocco. Deve essersi celato in mezzo alle scogliere di levante, che formano parecchi canali. Avanzeremo lentamente in quella direzione. La nave, che aveva moderata la sua velocità, fece una punta fino a breve distanza dalle foci del fiume, poi si diresse verso l'est, dove si scorgevano lunghe file di scogliere. Già si trovava a poca distanza dalle prime rocce che emergevano come minuscoli isolotti, quando si udirono rombare in lontananza alcune deboli detonazioni. Sandokan, prontamente avvertito da Kammamuri, si era affrettato a salire in coperta assieme a Tremal-Naik ed a Horward. Esaminato attentamente l'orizzonte in tutte le direzioni, nessuna nave, nè a vela, nè a vapore, apparve in vista. Eppure quegli spari, tre, se gli uomini di guardia non si erano ingannati, erano stati uditi da tutti. Una viva inquietudine si era dipinta sul viso di Sandokan. - Che qualche nave abbia sorpresa la mia vecchia Marianna e l'abbia cannoneggiata? - si chiese. - Da quale parte venivano quegli spari? - Da occidente, - disse Yanez, che era di guardia. - Non hai veduto prima, in quella direzione, alcuna colonna di fumo? - Niente; l'orizzonte era purissimo. - Quelle detonazioni erano deboli? - Debolissime. - Quelle cannonate devono quindi essere state sparate ad una grande distanza, - disse Horward. - Sì, considerato che il vento soffia appunto dall'est. - Sandokan, - disse Tremal-Naik, la cui fronte si era oscurata. - Cerchiamo subito la Marianna. - È quello che faremo, - rispose la Tigre delle Malesia. - Se non la troveremo dietro a quelle scogliere, torneremo verso il Sedang. Manda Kammamuri con dei gabbieri sulle coffe e con dei buoni cannocchiali onde esplorino attentamente l'orizzonte. Il Re del Mare aveva continuata la sua corsa verso l'est, seguendo la costa ad una distanza di un paio di miglia per non urtare contro qualche banco di sabbia; tuttavia nessuna nave appariva in vista. Una profonda ansietà aveva invaso l'equipaggio e soprattutto Sandokan e Yanez. L'assenza del loro praho, che doveva trovarsi in quei paraggi già da parecchi giorni e forse da qualche settimana, inquietava assai tutti, temendo che fosse stato scoperto da qualche nave nemica ed affondato. Sambigliong era furioso, più di tutti, e girava e rigirava fra le torricelle dei grossi cannoni, promettendosi di fracassare l'audace che aveva osato di abbordare la vecchia Marianna. La corsa del Re del Mare durò un'ora, senza che i gabbieri avessero potuto scoprire in alcuna direzione il veliero, poi ad un comando di Sandokan l'incrociatore virò di bordo, accostandosi ad una barriera d'altissime scogliere che formavano un braccio di mare fra esse e la costa. Ormai tutti erano convinti che una disgrazia fosse toccata alla povera nave. - Attivate i fuochi! - aveva comandato Sandokan. - Se giungiamo in tempo, faremo pagar caro agli inglesi questo colpo di mano! ... - Che ci raggiunga la squadra degli alleati? ... - chiese Tremal-Naik a Yanez. - Dobbiamo avere un vantaggio d'una dozzina d'ore almeno, - rispose il portoghese. - Giungerà troppo tardi. La nave filava come una rondine marina, a tiraggio forzato. Tonnellate di carbone venivano precipitate nei forni, sprigionando un calore così intenso che macchinisti e fuochisti penavano a sopportare. La notte, chiarissima, essendo sorta la luna poco dopo le undici, permetteva di discernere sull'argentea superficie del golfo qualsiasi punto nero, i gabbieri però, ad ogni domanda che veniva loro indirizzata rispondevano sempre negativamente. Nulla, sempre nulla! ... Nessun punto nero sull'orizzonte! ... - Che quei colpi di cannone abbiano segnata l'agonia della Marianna? - si chiedevano tutti, con crescente ansietà. Alla mezzanotte le coste orientali di Sedang cominciarono a delinearsi, nerissime per la massa imponente delle loro foreste secolari. Ad un tratto, quando il Re del Mare aveva già imboccato il canale che s'apriva dietro le scogliere, una voce risuonò sulla piattaforma del trinchetto. - Fumo dinanzi a noi! ... Yanez aveva puntato un cannocchiale nella direzione indicata. Un grosso punto nero, che emetteva una fitta colonna di fumo, filava fra la costa e le scogliere, fuggendo verso levante. - Una nave a vapore! - gridò il portoghese. - Duemila metri! ... Buon tiro per dei valenti artiglieri! Fermiamola! ... Cento rupie a chi la tocca! ... Non aveva ancora terminata la frase che il vecchio quartiermastro americano, che aveva già guadagnati i duecento dollari, era dietro al suo pezzo, sotto la torretta proviera di babordo. Vedeva perfettamente la nave che cercava di fuggire. La luna la illuminava in pieno. La distanza era ragguardevole, però il vecchio cannoniere aveva fiducia nei suoi occhi e nel suo pezzo. - Ora li accomodo io! - disse. - Le cento rupie balleranno nelle mie tasche in attesa di comperare una montagna di tabacco ed un barile di ginepro. Attese che la nave passasse attraverso la prora dell'incrociatore e fece fuoco rapidamente. Aveva colpito nel segno, causando all'avversario qualche grave danno o l'aveva mancato? Gli fu impossibile saperlo, perchè quasi nell'istesso momento la nave scompariva dietro un ostacolo, che la distanza non aveva permesso prima di distinguere, un isolotto o qualche scogliera. Il Re del Mare si era messo in caccia, rallentando però la corsa, perchè da un momento all'altro poteva trovarsi dinanzi a uno dei tanti numerosi banchi sabbiosi che si estendono dinanzi alle foci del Sedang. Giunto ad un chilometro dalle spiaggie, Sandokan aveva dato il comando di scandagliare. Non conosceva che imperfettamente quei paraggi e non osava avanzarsi alla cieca, per paura di arenare l'incrociatore. La nave però, contro la quale l'incrociatore aveva fatto fuoco, pareva che fosse scomparsa. Certo aveva approfittato delle scogliere che si vedevano numerose verso il nord, per cacciarsi in qualche canale e dileguarsi o cercare un rifugio entro qualche piccola baia. Il Re del Mare, nella sua seconda corsa, doveva essere rimontato molto verso il levante del Sedang, quindi Yanez e Sandokan presero il partito d'abbandonare il fuggiasco, che doveva essere troppo debole per osare di contrastargli il passo, e di tornare verso ponente per cercare la Marianna. Era sorto in loro il dubbio che il praho, per potersi sottrarre all'inseguimento, avesse cercato pure qualche nascondiglio o si fosse gettato alla costa. Marciava da un quarto d'ora, a velocità ridotta, continuando a perlustrare, quando presso un gruppo di scogliere apparve una massa nerastra fornita d'un'alberatura altissima, dove si vedevano delle vele ancora spiegate. - Nave alla costa! - gridarono in quel momento le vedette delle coffe. - Deve essere la nostra Marianna! - gridò Yanez. - Finalmente! ... Il Re del Mare aveva subito virato di bordo, avanzandosi lentamente verso quelle scogliere. Tutti si erano precipitati verso prora per meglio osservare quella nave, la cui immobilità però dava luogo a non poche inquietudini, tanto più che pareva si trovasse addossata alle rocce. Un fanale elettrico era stato subito volto verso di essa, illuminandola come in pieno giorno, eppure, cosa strana, pareva che nessuna persona si trovasse in coperta. - Accendete tre razzi, - comandò Yanez. - Se a bordo vi sono degli uomini risponderanno di certo. - Che sia proprio la Marianna? - chiese Tremal-Naik, il quale condivideva le apprensioni dei due comandanti. - Non te lo posso ancora dire, - rispose il portoghese, - quantunque le vele siano d'un grosso praho o per lo meno d'un giong. - Mi nasce un dubbio. - Che quella nave, per sfuggire alle cannonate dell'inglese si sia gettata addosso a quelle scogliere, arenandosi? È così Tremal-Naik? - Sì. - E temo che tu abbia indovinato. - E l'equipaggio? Non si vede nessuno? - E nessuno risponde, - disse Sandokan che si era accostato, mentre tre razzi lanciati da Kammamuri e da Sambigliong si spegnevano dopo di aver sparso in aria un nembo di scintille multicolori. - Allora gli inglesi hanno fatto prigioniero l'equipaggio, - disse Tremal-Naik. - E noi andremo a liberarli, dovessi inseguire quella nave fino entro il Sedang. Fa' calare in acqua una scialuppa e andiamo a vedere se si tratta veramente della Marianna. L'incrociatore aveva rallentata la marcia, sempre per tema di trovarsi improvvisamente dinanzi a dei bassifondi. Gli scandagli avevano già dati solamente dodici metri e pareva che il fondo si elevasse rapidamente. La gran barca a vapore fu calata e Sandokan, Yanez e Tremal-Naik, con venti malesi armati, vi entrarono, dirigendosi verso la scogliera. Il Re del Mare aveva virato di bordo tornando un po' al largo, essendo l'ondata piuttosto forte. La scogliera non distava che cinque o seicento metri. Era una lunga fila di rocce, di colore molto scuro, tagliate a mo' di sega, coi fianchi sventrati e corrosi dall'eterna azione delle onde. La nave si era arenata verso la punta settentrionale e nell'urto, che doveva essere stato violentissimo, si era piegata su un fianco, appoggiandosi colle bancazze ad una roccia elevata quanto l'alberatura. Temendo una sorpresa, Sandokan comandò a dieci uomini di armare i fucili, poi spinse la scialuppa contro una caletta formata da una cintura di scogli, dove l'acqua era tranquilla. Lasciati sei marinai a guardia dell'imbarcazione, cogli altri raggiunse la nave. - La Marianna! - gridò ad un tratto, con accento di dolore. Il disgraziato veliero, od in causa d'una falsa manovra, o spintovi appositamente, si era sventrato sulle punte delle scogliere in così malo modo, da ritenerlo per sempre perduto. Le rocce assai aguzze, gli avevano fracassata la carena, causandole uno squarcio così enorme, che le onde entravano liberamente nella stiva, rumoreggiando continuamente. - In che stato è ridotto quel povero legno! - esclamò Yanez, che pareva non meno commosso della Tigre della Malesia. - Che l'abbiano costretto a gettarsi su queste scogliere? E il suo equipaggio? - Vi è una scala di corda a babordo, - disse Tremal-Naik. - Saliamo. - Preparate le armi, - comandò Sandokan. - Vi possono essere degli inglesi a bordo. - Pronti! - disse Yanez. Salì pel primo, quindi Sandokan, poi gli altri, tenendo in mano i fucili e le pistole. Un silenzio di morte regnava sulla nave, ma che disordine sulla tolda! ... Si vedevano casse e barili sventrati per ogni dove, fucili e spingarde rovesciate, poi a prora un buco enorme che pareva fosse stato prodotto da qualche granata. Il boccaporto maestro era aperto e giù, nella profondità della stiva, si udiva l'acqua a muggire cupamente. - Non vi è nessuno qui, - disse Yanez. - Che cosa sarà successo dei miei uomini? - si chiese con ansietà Sandokan. - E del carico che aveva la nave? Mi pare che la stiva sia stata vuotata. In quell'istante sulla cima dello scoglio, contro cui s'appoggiava la Marianna, si udì una voce a gridare: - Il capitano! ... Sandokan e Yanez avevano alzata vivamente la testa, mentre i malesi, per precauzione, armavano rapidamente le carabine. Un uomo dalla pelle oscura e semi-nudo, scendeva rapidamente la roccia, tenendo in mano un parang, la cui larga lama scintillava vivamente ai raggi della luna. In pochi istanti raggiunse la murata di babordo e balzò in coperta, dicendo: - Vi aspettavo, capitano. - Tu, Sakkadana! - esclamarono ad una voce Yanez e Tremal-Naik, riconoscendo in lui il pilota della Marianna. - Che cosa è successo qui? - chiese Sandokan. - Siamo stati sorpresi ieri sera da una nave a vapore, che ci ha costretti a gettarci su queste scogliere, avendoci prodotto due squarci sotto la linea di galleggiamento. È fuggita vedendo giungere il vostro incrociatore. - Ha saccheggiato la Marianna il suo equipaggio? ... - Sì, Tigre della Malesia. Ha portato via armi e munizioni. - Ed i tuoi compagni dove sono? ... - Hanno guadagnato il Sedang. - E tu sei rimasto? - Non vi era più posto nella scialuppa, essendo stata l'altra spaccata da una palla di cannone. - Non vi siete abboccati coi capi dayaki? - Sì, - rispose il pilota, - otto giorni or sono, ma nulla abbiamo potuto concludere. Il rajah, sospettando di loro, ne ha fatto imprigionare per precauzione una buona parte ed altri li ha esiliati lontani dalle frontiere. - Maledizione! - esclamò Yanez. - Ecco una notizia che non m'aspettavo. Addio speranze! ... - Forse abbiamo tardato troppo, - disse Sandokan. - Il rajah ci ha prevenuti. - Che cosa faremo ora, Sandokan? ... - Non ci rimane che lottare sul mare, - rispose la Tigre della Malesia. - Ritorneremo verso il nord, giacchè il grosso degli alleati si trova nelle acque di Sarawak e riprenderemo la guerra contro le navi mercantili, arrecando alle linee di navigazione il maggior danno possibile. Se sarà necessario ci spingeremo fino nei mari della Cina. A bordo, amici! ... Non perdiamo tempo. Stavano per ridiscendere nella scialuppa, quando udirono un colpo di cannone rimbombare a bordo del Re del Mare. Sandokan aveva trasalito. - Che segnali la flotta degli alleati? - si chiese. - Lo suppongo, - rispose Yanez. - Vedo che si muove e che punta la prora verso di noi. - Guardate! - gridò Tremal-Naik. Verso l'ovest una luce vivissima illuminava l'orizzonte che poco prima era ancora tenebroso. La flotta degli alleati, composta d'una mezza dozzina di navi, muoveva velocemente per impedire all'incrociatore di prendere il largo. - Presto, a bordo! - gridò la Tigre della Malesia. Si lasciarono scivolare l'un dietro l'altro giù per la fune e la scialuppa mosse velocemente verso il Re del Mare, che dal canto suo le muoveva incontro. Le navi nemiche, quantunque fossero ancora lontane, avevano aperto il fuoco e le cannonate si succedevano alle cannonate e qualche proiettile s'inabissava a poche dozzine di metri dall'imbarcazione. Fra qualche minuto quelle masse metalliche dovevano giungere a destinazione. Il Re del Mare era però ormai a poche gomene. Manovrò in modo da coprire la scialuppa dai tiri delle artiglierie avversarie, opponendo ai proiettili i suoi poderosi fianchi, poi la scala fu abbassata d'un colpo solo. L'ingegnere Horward, Darma e Surama con Kammamuri erano usciti dalla torretta di poppa, gridando: - Presto! ... Presto! ... Salite! ... Alcuni marinai avevano già calati i paranchi per issare la scialuppa. Yanez, Sandokan, Tremal-Naik ed i loro compagni si slanciarono sulla scala, dopo d'aver assicurato i ganci. - Finalmente! - esclamò l'americano. - Credevo che non arrivaste in tempo. - A posto gli artiglieri! - gridò Sandokan. - Doppi timonieri alla ruota! ... - Avremo da fare per sbarazzarci della squadra; però siamo forti e veloci, - disse Yanez.

Che cosa poi abbia narrato loro e promesso, io lo ignoro. So solo che pochi giorni dopo, i dayaki erano tutti in armi e che chiedevano la testa di Tremal-Naik, che fino allora era stato il loro protettore. - Ha regalato a quei fanatici imbecilli le armi? - E anche molto denaro. - È vero che un giorno una nave inglese è giunta alla foce del Kabatuan e che quel pellegrino si è abboccato col comandante? - chiese Yanez. - Sì, signore, anzi aggiungerò che durante la notte l'equipaggio sbarcò altre casse piene d'armi. - Non sai a che razza appartiene quell'uomo? - No, signore: quello che vi posso dire è che la sua pelle è oscura assai e che parla il bornese con difficoltà. - Che mistero impenetrabile! - mormorò Yanez. - Mi romperò il capo senza riuscire a schiarirlo. Stette un momento silenzioso, come se si fosse immerso in un profondo pensiero, poi chiese: - Come avevano fatto a sapere che la Marianna giungeva in soccorso di Tremal- Naik? - Pare che sia stato un servo dell'indiano a informare i capi dayaki ed il pellegrino. - Quale incarico ti avevano dato? Il malese ebbe una breve esitazione, poi rispose: - Di arenare la vostra nave, innanzi tutto. - Non mi ero dunque ingannato, dubitando di te. E poi? - Lasciate che non confessi il resto. - Parla liberamente: ti ho promesso di lasciarti la vita ed io non manco alla mia parola. - Di approfittare dell'assalto dei dayaki per incendiarvi la nave. - Grazie della tua franchezza, - disse Yanez, ridendo. - Sicchè avevano deciso la nostra morte? - Sì, signore. Pare che il pellegrino abbia avuto qualche motivo di dolersi delle tigri di Mompracem. - Anche di noi! - esclamò Yanez, che cadeva di sorpresa in sorpresa. - Chi può essere costui? Noi non abbiamo mai avuto a che fare con dei fanatici mussulmani. - Non so che cosa dirvi, signore. - Se è vero quello che ci hai narrato, quel miserabile ci insidierà dovunque? - Non vi lascerà tranquilli, badate a me e farà di tutto per massacrarvi dal primo all'ultimo, - disse il pilota. - Io so che ha fatto giurare ai capi dayaki di non risparmiarvi. - E noi faremo il possibile per ucciderne più che potremo, è vero, Tangusa? - Sì, signor Yanez, - rispose il meticcio. - Padada, - disse il portoghese, - sai tu che la fattoria di Pangutaran sia già assediata? - Non lo credo, signore, avendo il pellegrino radunate quasi tutte le sue forze per schiacciare prima voi. - Dunque la via che va dall'imbarcadero al kampong di Tremal-Naik può essere libera. - O almeno poco guardata. - Quanto ti ha dato il pellegrino perchè tu mandassi la mia nave sui banchi e me la incendiassi? - Cinquanta fiorini e due carabine. - Io te ne darò duecento se tu mi guidi al kampong. - Accetto, signore, - rispose il malese, - e avrei accettato anche senza alcun compenso, dovendovi la vita. - Siamo ancora lontani dall'imbarcadero? - Fra un paio d'ore vi giungeremo, è vero? - disse Tangusa guardando il malese. - Fors'anche prima. Yanez sciolse le corde che stringevano le mani del prigioniero e uscì, dicendo: - Saliamo in coperta. Sul fiume regnava ancora una gran calma e le acque si svolgevano tranquille, fra due rive coperte di superbe felci arborescenti, di belle piante di cycas, di pandanus, di casuarine e di palme, che spiegavano a ventaglio le loro gigantesche foglie piumate. Fra i rotangs che cadevano in festoni lungo i tronchi degli alberi, vi erano delle siamang, quelle orride scimmie nere che hanno la fronte bassissima, gli occhi infossati, la bocca enorme, il naso piatto e sotto la gola un lungo gozzo che pende come una vescica gonfia, le quali saltellavano di ramo in ramo, senza dimostrare alcuna preoccupazione. In acqua invece nuotavano fra le erbe, numerose bewah, quelle gigantesche lucertole semi-acquatiche che raggiungono sovente i due metri di lunghezza. Dei dayaki nessun indizio. Se fossero stati vicini, i quadrumani non avrebbero mostrato tanta tranquillità, essendo in generale estremamente diffidenti. La Marianna, che s'avanzava assai lentamente aiutata anche dai remi, non potendo il vento soffiare troppo liberamente fra quelle due immense muraglie di verzura, continuò a salire indisturbata fino al mezzodì, poi si arrestò dinanzi ad una specie di piattaforma che s'avanzava nell'acqua sorretta da alcune file di pali. - L'imbarcadero del kampong di Pangutaran, - avevano esclamato simultaneamente il pilota e Tangusa. - Giù le àncore e accosta, - aveva comandato subito il portoghese. - Alle spingarde gli artiglieri. Due ancorotti furono affondati e il veliero, spinto dalla corrente, andò ad appoggiarsi all'imbarcadero ai cui pali fu legato. Yanez era salito sulla murata, per accertarsi meglio che nessun dayako si trovava imboscato su quella riva. Che qui crudeli selvaggi vi fossero passati non vi era dubbio, potendosi scorgere a breve distanza dall'imbarcadero gli avanzi di parecchie capanne distrutte dal fuoco e una vasta tettoia semi-scoperchiata, coi pilastri anneriti dal fumo e dalle fiamme. - Pare che non vi sia nessuno qui, - disse Yanez, volgendosi verso il meticcio che si era pure rizzato sulla murata. - Non si aspettavano che noi giungessimo fino qui, - rispose Tangusa. - Erano troppo sicuri di poterci fermare e massacrare alla foce del fiume. - Quanto distiamo dal kampong! - Un paio d'ore, signor Yanez. - Facendo tuonare i cannoni da caccia, Tremal-Naik potrebbe udirci? - È probabile. Contate di partire subito? - Sarebbe imprudenza. Aspettiamo la notte; passeremo più facilmente e forse senza essere veduti. - Quanti uomini prenderemo? - Non più di venti. Mi preme che la Marianna non rimanga troppo sprovvista. Se la perdessimo sarebbe finita, per tutti, anche per Tremal-Naik e per Darma. Frattanto noi faremo una breve esplorazione nei dintorni, per accertarci che non ci si tenda qualche agguato. Questa tranquillità non mi rassicura affatto. Fece mettere in batteria le spingarde e i pezzi, volgendoli verso l'imbarcadero, rizzando delle barricate formate con barili pieni di ferraccio, onde meglio riparare gli artiglieri, quindi comandò di ammainare le vele sul ponte, senza levarle dai pennoni onde la nave fosse pronta a salpare in pochi minuti. Terminati quei preparativi, Yanez, il meticcio ed il pilota, scortati da quattro malesi dell'equipaggio, armati fino ai denti, scesero sull'imbarcadero per fare una ricognizione nei dintorni, prima di avventurarsi col grosso sotto le folte foreste che si estendevano fra la riva del fiume ed il kampong di Pangutaran.

Lo sconosciuto, vedendo che il portoghese non si decideva a rispondere ed indovinando di certo i pensieri che gli passavano pel capo, disse: - Voi credete che il dottor Paddy O'Brien abbia il cervello esaltato, è vero signore? O per lo meno che abbia voglia di scherzare? Ebbene, no, comandante, perchè io sono riuscito a fare una scoperta prodigiosa, che otterrà dei risultati terribili. - Continuate, - disse flemmaticamente Yanez, che cominciava a divertirsi. - Sapete che si è ora trovato il mezzo di accendere le lampade elettriche senza bisogno di filo? A Chicago, nel mio stabilimento elettrico, ho fatto degli esperimenti straordinari e a delle distanze di quattromila metri. - Poco interessanti per me quelle esperienze, mio caro signor Paddy O'Brien. A noi bastano i nostri cannoni per demolire i nostri avversari. - E che cosa fareste, se io vi dicessi che ho anche trovato il mezzo di accendere a delle distanze notevoli dei barili di polvere? - Ah! ... - fece Yanez, levandosi da una tasca una sigaretta ed accendendola. - Una scoperta davvero stupefacente, mirabile. - Che vi sembra inverosimile, è vero, comandante? - disse lo scienziato. - Io non l'ho ancora esperimentata, quindi non devo nè crederla vera, nè deriderla. - Acconsentite ora ad imbarcarmi? Se vi rifiuterete sbarcherò a Bruni ed andrò ad offrire il mio segreto agli inglesi. - Giacchè desiderate fare una corsa attraverso i mari della Malesia a bordo del Re del Mare, non mi oppongo affatto. Vi avverto inoltre che vi faremo ben guardare da uomini fedeli, incorruttibili, fino al momento in cui si presenterà l'occasione di esperimentare la vostra stupefacente, meravigliosa, terribile scoperta. Non si sa mai! ... Potreste in un momento di malumore, provarla contro di noi e fare scoppiare il nostro Re del Mare. - Fate pure. - E che i vostri bagagli, che devono di certo contenere il segreto di quella diavoleria spaventosa, si terranno sotto sequestro sotto la mia personale vigilanza. - Non mi oppongo. - E aggiungo ancora che farò intrecciare appositamente un buon canapo per appiccarvi senza misericordia, se vi saltasse il ticchio di tentare qualche cosa contro di noi. Mi avete ben compreso signor demonio della guerra? - Perfettamente, - rispose l'americano. - E così? - Accetto, comandante. - Non dite però a nessuno che voi siete un parente di messer Belzebù; i nostri uomini sono gente risoluta e coraggiosa, ma potrebbero spaventarsi sapendo d'aver io imbarcato il demonio della guerra. Dottore fate cercare i vostri bagagli. Durante quello strano colloquio, i passeggeri avevano sgombrato lo steamer, affollandosi confusamente nelle scialuppe, dove erano già imbarcati i viveri sufficienti per poter raggiungere la costa bornese, senza correre il pericolo di soffrire la fame e la sete. Non si erano però ancora allontanate, attendendo il loro comandante, il quale si era ancora recisamente rifiutato di lasciare la sua nave, nonostante le preghiere dei suoi ufficiali e le intimazioni di Yanez e dei suoi uomini. Il valoroso marinaio anzi si era seduto tranquillamente su una sedia a dondolo, che aveva fatta portare sul ponte di comando e si era messo a fumare la sua pipa, con una calma che aveva stupito gli stessi malesi. Alle minacce di Yanez di farlo imbarcare colla violenza, egli aveva risposto con una semplice scrollata di spalle. Il portoghese ammirando quel coraggio, prima di risolversi a lanciare contro il comandante i suoi primi uomini, aveva fatto avvertire Sandokan. - Ah! ... Non vuole lasciare la sua nave? - aveva risposto la Tigre della Malesia, che era a portata di voce. - Che ci rimanga, giacchè così vuole. Ordinò alle scialuppe di prendere subito il largo, sotto la minaccia di colarle a fondo, in caso di rifiuto, e non s'occupò più di quell'uomo. - E lo lasceremo saltare colla sua nave? - chiese Yanez. - Pensiamo a vuotare i depositi di carbone ora. Devono essere ben poco forniti giacchè questa nave stava per finire il suo viaggio. Ti mando un rinforzo di cento uomini onde non perdere troppo tempo. Siamo troppo vicini a Bruni e potremmo venire sorpresi. Come Sandokan aveva già previsto, i pozzi dello steamer erano quasi tutti esauriti, dovendo esso rifornirsi di carbone a Bruni prima di proseguire pei mari della Cina. Non erano rimaste che poche tonnellate di combustibile, quantità assolutamente insufficiente per completate le provviste del Re del Mare, il quale aveva molto consumato durante la sua precipitosa ritirata. Nondimeno ci vollero non meno di quattro ore per trasbordarle sull'incrociatore, insieme ad una considerevole quantità di viveri e alla cassa di bordo, molto ben fornita. Durante quel saccheggio, il comandante inglese non aveva nè lasciato il suo posto, nè mossa alcuna protesta. Aveva continuato a fumare colla sua solita flemma ed aveva anche accettato un bicchiere di whisky che Yanez gli aveva offerto, sorseggiandolo con perfetta calma. Quando le ultime scialuppe, cariche di carbone, si furono allontanate, il portoghese s'avvicinò all'inglese e dopo d'averlo salutato cordialmente, gli disse: - Signore, noi abbiamo finito. - Allora tocca a me di finire la mia esistenza, - rispose il comandante dello steamer. - Metto a vostra disposizione la mia jola ben fornita di viveri e anche d'una vela, che vi permetterà di raggiungere le scialuppe prima che giungano alla costa. Guardate, la brezza soffia dall'ovest e vi è favorevole. - Vi ho detto che io non abbandonerò la mia nave e manterrò la parola. Questo steamer, che da sei anni guido attraverso l'oceano, lo amo troppo per lasciarlo e se deve andare a picco mi inabisserò con lui. - Ditemi almeno quale morte preferite? Volevo farlo saltare in aria con una tonnellata di polvere, nondimeno se desiderate lo squarceremo invece con una palla dei nostri più grossi cannoni. Almeno lo vedrete sommergersi lentamente e forse potrete pentirvi, prima che scompaia tutto sotto le onde. - Ciò non mi riguarda, signore; fate quello che credete. - Addio, signore, siete un coraggioso. - Addio comandante e buona fortuna, - rispose l'inglese, un po' ironicamente. - Ah! vi pregherei di un favore. - Dite pure. - Di far avvertire i miei armatori di Bombay, se ne avrete l'occasione, che John Kopp è morto a bordo della sua nave, come un vero uomo di mare. - Lo farò, ve lo prometto. Fra dieci minuti avrò l'onore di cannoneggiarvi. - Per quel momento avrò terminata la mia pipata. Si separarono, levandosi le berrette, poi Yanez scese nella baleniera che l'aspettava all'estremità della scala, mentre l'inglese sempre impassibile riprendeva il suo posto sul seggiolone, dopo d'aver issata la bandiera inglese. - E dunque non si muove? - chiese Sandokan, quando Yanez fu sull'incrociatore. - Ecco un ostinato degno d'ammirazione, - rispose il portoghese. - Vuole andare a picco colla sua nave. Lo farai tu? - Non siamo ancora partiti, - disse Sandokan con un sorriso. S'avvicinò a poppa dove il vecchio artigliere americano stava appoggiato a una delle torrette e gli sussurrò all'orecchio alcune parole. Poco dopo l'incrociatore virava di bordo, avanzandosi verso lo steamer a piccolo vapore. L'inglese fumava sempre, in attesa del colpo di cannone che doveva sventrare la sua nave. Sandokan si era portato a prora e lo guardava sorridendo. Il Re del Mare, guidato da Sambigliong, passò a trenta passi dalla poppa del vapore, rallentando la marcia. Allora Sandokan imboccando il porta-voce, gridò all'inglese: - Signore, vorrei pregarvi di un favore. Se avrete l'occasione di rivedere i vostri armatori, dite loro che le tigri di Mompracem hanno risparmiata la loro nave perchè la comandava un coraggioso quale siete voi. Buona fortuna! Poi mentre la bandiera di Mompracem salutava l'inglese, l'incrociatore s'allontanò velocemente verso il settentrione. L'astuto e prudente Sandokan, non osando trattenersi troppo a lungo in quei paraggi così prossimi a Labuan, per timore di venire preso fra la squadra della colonia ed i quattro incrociatori che dovevano cercarlo accanitamente, aveva preso il partito di dirigersi verso le coste settentrionali di Borneo, per piombare sulle navi provenienti dall'Australia. Era impossibile o per lo meno difficile che gli inglesi si immaginassero che egli potesse allontanarsi così tanto dal golfo di Sarawak. Era quindi certo di sorprendere parecchie navi australiane prima che gli armatori, spaventati, pensassero a sospenderne la partenza. Desiderando rimanere assolutamente incognito, si tenne lontano dalle vie tenute ordinariamente dalle navi, ed un bel giorno si trovò a sole quaranta miglia dalla punta settentrionale del Borneo. Fu una crociera di soli sei giorni, eppure quali disastri dovette subite la marina mercantile inglese in così breve tempo! Due piroscafi e tre velieri caddero nelle mani delle implacabili tigri di Mompracem, subendo l'egual sorte toccata a quelle catturate nel mare della Malesia. Equipaggi e passeggeri lasciati liberi di salvarsi sulle coste delle isole, le navi affondate senza misericordia coi loro carichi quasi completi. Avendo però appreso da alcuni prahos che anche la squadra della Cina, allarmata da tante catture, stava per radunarsi, il Re del Mare, coi pozzi di carbone al completo, aveva un'altra volta preso subito il largo ridiscendendo verso il sud. Sandokan e Yanez volevano andare a distruggere gli splendidi steamers che facevano il servizio fra l'India e la bassa Cocincina. Una smania terribile di affondare aveva preso Sandokan, il quale pareva ritornato il sanguinario pirata d'altri tempi. Sapendo che presto o tardi si sarebbe trovato di fronte a qualcuna di quelle poderose squadre che l'Ammiragliato aveva lanciato sulle sue orme, prima di cadere vinto, voleva dare un colpo mortale al commercio inglese e fare stupire a sua volta il mondo colla sua audacia. - I nostri giorni sono contati, - aveva detto a Yanez e a Tremal-Naik. - Fra qualche mese non troveremo più nessuna nave inglese che ci fornisca il combustibile. Finchè ne abbiamo, approfittiamone; poi accadrà quello che la sorte avrà decretato. - Troveremo altre navi che ce ne forniranno, - aveva risposto Yanez. - Costringeremo quelle d'altre nazionalità a vendercene, dovessimo ricorrere alla violenza. - E dopo?! ... - Non ci sono io forse dopo? - disse una voce chioccia dietro di loro. - La mia invenzione stupefacente distruggerà tutti quelli che cercheranno di assalirvi. Era il dottor Paddy O'Brien di Filadelfia, il demonio della guerra del quale finora quasi nessuno si era più occupato. - Ah! già, ci siete voi, - disse Yanez, con un sorriso un po' beffardo. - Voi che al momento del pericolo fermerete i proiettili che verranno scagliati contro di noi. - No, signore, v'ingannate, non arresterò i proiettili, io, - rispose l'omiciattolo con vivacità. - Farò invece saltare le polveriere delle navi che vi assalteranno. La mia macchina non fallirà. - Ed anch'io ne ho la convinzione, - disse in quel momento l'ingegnere Horward. - Questo mio compatriota mi ha spiegato in che cosa consiste la sua macchina e, per quanto la cosa possa sembrarvi stupefacente, io credo che riuscirà a far saltare le navi che ci daranno la caccia. - Lo vedremo alla prova, - disse Sandokan, con accento di dubbio. - Se continuiamo a scendere verso il sud, un giorno o l'altro incontreremo di certo i nostri avversarii. Tenete pur pronta la vostra macchina meravigliosa, signor Paddy. Per due altri giorni il Re del Mare scese costantemente verso il sud, facendo delle punte molto al largo, senza scorgere alcuna nave a vapore in nessuna direzione. Gli armatori dovevano aver dato gli ordini necessari per trattenere nei porti delle isole della Sonda le loro navi, onde non vederle sommergere dall'audace corsaro che fino allora, colle sue corse fulminee e coi suoi spostamenti, era sfuggito alla caccia delle squadre. L'interruzione delle linee di navigazione doveva aver causato perdite immense agli inglesi. Che cosa sarebbe avvenuto del Re del Mare quando l'ultima tonnellata di carbone fosse scomparsa nelle bocche ardenti dei suoi immensi forni? - Non avevo pensato che l'arma che io adoperavo avesse un doppio taglio, - mormorò un giorno Sandokan. - Uno per gli inglesi ed uno per me. Cinquecento miglia erano state percorse, avvicinandosi il Re del Mare alle coste di Malacca e ancora nessuna nave inglese si era mostrata. Alcune ne erano state vedute, tedesche, italiane, francesi ed olandesi, navi che costituivano piuttosto un pericolo perchè potevano dare avviso all'Ammiragliato delle rotte del corsaro, temendo che questi un giorno si rivolgesse anche contro di esse. Sandokan e Yanez cominciavano a preoccuparsi. Sentivano per istinto che pel Re del Mare i giorni erano contati e che il cerchio di ferro stava per stringersi intorno alle ultimi tigri di Mompracem. Tremal-Naik e Kammamuri li sorprendevano di frequente colla fronte pensierosa e cogli occhi torbidi. Talvolta invece li vedevano guardare a lungo Darma e Surama e scuotere la testa con tristezza, come se avessero un rimorso di averle imbarcate, per travolgerle in una tremenda catastrofe, che ormai pareva loro certa. - Fanciulle, - disse un giorno Yanez, mentre Darma contemplava l'orizzonte infuocato dagli ultimi raggi del sole morente, come se sperasse di veder comparire già da quella parte l'uomo che amava, - avete paura della morte voi? - Perchè ci fate questa domanda signor Yanez? - chiese l'anglo-indiana con un triste sorriso. - Perchè forse l'ultima ora sta per suonare per noi tutti. - Quando morrete, noi vi seguiremo negli abissi del mare, - rispose Darma. - Sì, io non lascerò il sahib bianco, che mi ama, - disse Surama, guardando dolcemente il portoghese. - Io vorrei però sottrarvi alla morte, prima che essa vi sfiori colle sue gelide ali e tale è anche il pensiero di Sandokan. Noi corriamo verso la Malacca e possiamo sacrificare le ultime provviste di carbone per deporvi su quelle spiagge. Darma e Surama fecero col capo un energico segno negativo. - No, - disse la prima, con voce recisa. - Io non lascerò nè mio padre, nè voi, checchè debba succedere. - Nè io mi separerò da te, sahib bianco, a cui devo la vita e la libertà, - disse Surama. - Pensa, Darma, che tu potresti un giorno diventare sposa felice e unirti ad un uomo, sia pure inglese, che t'ama immensamente e che io stimo. - sir Moreland mi avrà a quest'ora dimenticata, - rispose la fanciulla con un sospiro. - Pensa che da un momento all'altro la flotta degli alleati può piombarci addosso e stringerci in un cerchio di fuoco, e che tu sei donna. - No, signor Yanez, - disse Darma, con maggior fierezza. - Noi non vi abbandoneremo, è vero Surama? - Io sarò felice di morire a fianco del mio sahib bianco, - rispose l'indiana. Yanez le accarezzò con una mano la lunga capigliatura nera, poi disse: - Bah! ... chissà! ... Non siamo ancora vinti.

Che cosa abbia dato ad intendere quell'uomo a questi selvaggi, nè io nè il mio padrone siamo riusciti a saperlo. Il fatto è che riuscì a fanatizzarli ed indurli a distruggere le fattorie ed a ribellarsi all'autorità del signor Tremal-Naik. - Ma che istoria mi racconti tu! - esclamò Yanez, che era al colmo della sorpresa. - Una storia tanto vera, signor Yanez, che il mio padrone corre il pericolo di morire abbruciato nel suo kampong assieme alla signorina Darma, se voi non accorrete in suo aiuto. - L'uomo dal turbante verde ha aizzato quei selvaggi non solo contro le fattorie ... - Anche contro il mio padrone e vogliono la sua testa, signor Yanez. Il portoghese era diventato pallido. - Chi potrà essere quel pellegrino? Quale misterioso motivo lo spinge contro Tremal-Naik? L'hai visto tu? - Sì, mentre scappavo dalle mani dei dayaki. - È giovane, vecchio ... - Vecchio, signore, alto di statura e magrissimo, un tipo da vero pellegrino che ha fame e sete. E vi è di più ancora che aggrava il mistero, - aggiunse il meticcio. - Mi hanno detto che due settimane or sono è giunta qui una nave a vapore che portava la bandiera inglese e che il pellegrino ha avuto un lungo colloquio con quel comandante. - È partita subito quella nave? - La mattina seguente ed ho il sospetto che, durante la notte, abbia sbarcato delle armi, perchè ora non pochi dayaki posseggono dei moschetti e anche delle pistole, mentre prima non avevano che delle cerbottane e delle sciabole. - Che gli inglesi c'entrino in tutta questa faccenda? - si domandò Yanez, che appariva molto preoccupato. - Possibile, signor Yanez! - Sai la voce che corre a Labuan? Che il governo inglese abbia intenzione di occupare la nostra isola di Mompracem col pretesto che noi costituiamo un pericolo costante per la sua colonia e di mandarci a occupare qualche altra terra più lontana. - Gli inglesi che devono a voi tanta riconoscenza, per averli sbarazzati dei thugs che infestavano l'India! - Mio caro, credi tu che un leopardo possa avere della riconoscenza verso una scimmia, supponiamo, che l'ha sbarazzato degli insetti che lo tormentavano? - No, signore, quei carnivori non hanno quel sentimento. - E non ne avrà nemmeno il governo inglese che viene chiamato il leopardo dell'Europa. - E voi vi lascerete cacciare da Mompracem? Un sorriso comparve sulle labbra di Yanez. Accese una sigaretta, aspirò due o tre boccate di fumo, poi disse con voce calma: - Non sarebbe già la prima volta che le tigri di Mompracem si mettono in guerra col leopardo inglese. Un giorno hanno tremato e Labuan ha corso il pericolo di vedere i suoi coloni divorati da noi o cacciati in acqua. Non ci lasceremo nè sorprendere, nè sopraffare. - Sandokan ha mandato dei suoi prahos a Tiga ad arruolare uomini? - chiese il meticcio. - Che non varranno meno per coraggio, delle ultime tigri di Mompracem - rispose Yanez. - L'Inghilterra ci vuole scacciare dalla nostra isola, che da trent'anni occupiamo? Si provi e noi metteremo la Malesia intera in fiamme e daremo battaglia, senza quartiere, all'insaziabile leopardo inglese. Vedremo se sarà la Tigre della Malesia che soccomberà nella lotta. In quel momento si udì la voce di Sambigliong, il mastro della Marianna, a gridare: - In coperta, capitano! - Giungi in buon punto, malese mio, - rispose Yanez. - Ho appena terminato ora il mio colloquio con Tangusa. Che cosa c'è di nuovo? - S'avanzano. - I dayaki? - Sì, capitano. - Va bene. Il portoghese uscì dal quadro, salì la scala e giunse in coperta. Il sole stava allora per tramontare in mezzo ad una nuvola d'oro, tingendo di rosso il mare, che la brezza lievemente corrugava. La Marianna era sempre immobile, anzi essendo quello il momento della massima marea bassa, si era un po' coricata sul fianco di babordo, in maniera che la coperta rimaneva sbandata. Verso le isolette che facevano argine all'irrompere del fiume, una dozzina di grossi canotti, fra cui quattro doppi, s'avanzava lentamente verso il mezzo della baia, preceduta da un piccolo praho che era armato d'un mirim, un pezzo d'artiglieria un po' più grosso dei lilà, quantunque fuso allo stesso modo, con ottone grossolano, rame e piombo. - Ah! - fece Yanez, colla sua solita flemma. - Vogliono misurarsi con noi? Benissimo, avremo polvere in abbondanza da regalare, è vero Sambigliong? - La provvista è copiosa, capitano, - rispose il malese. - Noto che s'avanzano molto adagio. Pare che non abbiano nessuna fretta, mio caro Sambigliong! - Aspettano che la notte scenda. - Prima che la luce se ne fugga vediamo che musi sono. - Prese il cannocchiale e lo puntò sul piccolo praho che precedeva sempre la flottiglia delle scialuppe. Vi erano quindici o venti uomini a bordo, che indossavano l'abito guerresco; pantaloni stretti, abbottonati all'anca e al collo dei piedi, sarong cortissimo, in testa il tudung, un curioso berretto con lunga visiera e molte piume. Alcuni erano armati di fucile; i più avevano invece dei kampilang, quelle pesanti sciabole a doccia d'un acciaio finissimo, dei pisau-raut, ossia specie di pugnali dalla lama larga e non serpeggiante come i kriss malesi, e avevano dei grandi scudi di pelle di bufalo di forma quadrata. - Bei tipi, - disse Yanez colla sua solita calma. - Sono molti, signore. - Ouff! Un centinaio e mezzo, mio caro Sambigliong. Si volse guardando la tolda della Marianna. I suoi quaranta uomini erano tutti ai loro posti di combattimento. Gli artiglieri dietro ai due cannoni da caccia e alle quattro spingarde, i fucilieri dietro alle murate i cui bordi erano coperti di fasci di spine acutissime e gli uomini di manovra, che pel momento non avevano nulla da fare essendo il veliero sempre arenato, sulle coffe muniti di bombe da lanciare a mano e armati di carabine indiane di lunga portata. - Vengano a trovarci! - mormorò, visibilmente soddisfatto degli ordini impartiti da Sambigliong. Il sole stava per scomparire, diffondendo i suoi ultimi raggi e bagnando di luce aurea o rossastra le coste dell'immensa isola e le scogliere contro cui si frangevano rumoreggiando le onde che venivano dal largo. Il grande globo incandescente calava superbamente in acqua, incendiando un gran ventaglio di nubi al di sopra delle quali s'innalzavano grandi zone d'oro e lembi ampi di porpora, smaglianti sull'azzurro chiaro del cielo. Finalmente s'immerse, quasi bruscamente, infiammando per alcuni istanti tutto l'orizzonte, poi quell'onda di luce si attenuò rapidamente, non essendovi crepuscoli sotto quelle latitudini, la grande fantasmagoria solare si estinse e le tenebre piombarono avvolgendo la baia, le isole e le coste bornesi. - Buona notte per gli altri e cattiva per noi, - disse Yanez, che non aveva potuto fare a meno di contemplare quello splendido tramonto. Guardò la flottiglia nemica. Il piccolo praho, le doppie scialuppe e quelle semplici affrettavano la corsa. - Siamo pronti? - chiese Yanez. - Sì, - rispose Sambigliong per tutti. - Allora, Tigrotti di Mompracem, non vi trattengo più. Il piccolo praho era a buon tiro e copriva le scialuppe che lo seguivano in fila, l'una dietro all'altra, per non esporsi al fuoco delle artiglierie della Marianna. Sambigliong si curvò su uno dei due pezzi da caccia piazzati sul cassero che erano montati su perni giranti onde potessero far fuoco in tutte le direzioni e, dopo aver mirato per qualche istante, fece fuoco, spezzando netto l'albero di trinchetto, il quale cadde sul ponte assieme all'immensa vela. A quel colpo veramente meraviglioso, urla furiose s'alzarono sulle scialuppe, poi la prora del legno mutilato a sua volta avvampò. Il mirim del piccolo veliero aveva risposto al fuoco della Marianna, ma la palla, male diretta, non aveva fatto altro danno che quello di forare il contro fiocco che Yanez non aveva fatto ammainare. - Quei bricconi tirano come i coscritti del mio paese, - disse Yanez, che continuava a fumare placidamente, appoggiato alla murata di prora. A quel secondo sparo tenne dietro una serie di detonazioni secche. Erano i lilà delle doppie scialuppe che appoggiavano il fuoco del piccolo praho. Quei cannoncini non erano fortunatamente ancora a buon tiro e tutto finì in molto baccano e molto fumo senza nessun danno per la Marianna. - Demolisci il praho, innanzi tutto, Sambigliong, - disse Yanez, - e cerca di smontare il mirim che è il solo che possa danneggiarci. Sei uomini ai due pezzi da caccia e accelerate il fuoco più ... Si era bruscamente interrotto ed aveva lanciato un rapido sguardo verso poppa. Ad un tratto trasalì e fece un gesto di sorpresa. - Sambigliong! - esclamò, impallidendo. - Non temete, signor Yanez, il praho fra due minuti sarà fracassato o per lo meno rasato come un pontone. - È il pilota che non vedo più. - Il pilota! - esclamò il malese lasciando il pezzo di caccia che era già puntato. - Dov'è quel briccone? Yanez aveva attraversata rapidamente la tolda, in preda ad una visibile emozione. - Cerca il pilota! - gridò. - Capitano, - disse un malese che era al servizio dei due pezzi di poppa, - l'ho veduto or ora scendere nel quadro. Sambigliong, che forse aveva avuto il medesimo sospetto del portoghese, si era già precipitato giù per la scaletta, impugnando una pistola. Yanez lo aveva subito seguìto mentre i due cannoni da caccia tuonavano contro la flottiglia, con un rimbombo assordante. - Ah! cane! - udì gridare. Sambigliong aveva afferrato il pilota che stava per uscire da una cabina, tenendo in mano un pezzo di corda incatramata accesa. - Che cosa facevi, miserabile? - urlò Yanez precipitandosi a sua volta sul malese che tentava di opporre resistenza al mastro. Il pilota, vedendo il comandante che aveva pure impugnata una pistola e che pareva pronto a fargli scoppiare la testa, era diventato grigiastro, ossia pallido, pure rispose con una certa calma: - Signore, sona disceso per cercare una miccia per le spingarde ... - Qui, le micce! - gridò Yanez. - Tu, briccone, cercavi d'incendiarci la nave! - Io! - Sambigliong, lega quest'uomo! - comandò il portoghese. - Quando avremo battuto i dayaki avrà da fare con noi. - Non occorrono corde, signor Yanez, - rispose il mastro. - Lo faremo dormire per una dozzina d'ore, senza che ci dia alcun fastidio. Afferrò brutalmente per le spalle il pilota che non cercava più di opporre resistenza, e gli compresse coi pollici tesi la nuca, poi gli affondò nel collo, un po' al disotto degli angoli mascellari, gli indici ed i medi in modo da stringergli le carotidi contro la colonna vertebrale. Allora si vide una cosa assolutamente strana. Padada stralunò gli occhi e spalancò la bocca come se si fosse manifestato un principio d'asfissia, la respirazione gli divenne improvvisamente affannosa, poi rovesciò il capo indietro e s'abbandonò fra le braccia del mastro, come se la morte lo avesse colto. - L'hai ucciso! - esclamò Yanez. - No, signore, - rispose Sambigliong. - L'ho addormentato e prima di dodici o quindici ore non si sveglierà.1 - Dici davvero? - Lo vedrete più tardi. - Gettalo su qualche branda e saliamo subito. Il cannoneggiamento diventa vivissimo. Sambigliong alzò il pilota, che pareva non desse più alcun segno di vita, e lo adagiò su un tappeto, poi tutti e due salirono rapidamente sulla tolda, nel momento in cui i due cannoni da caccia tornavano a tuonare con tale fragore da far tremare tutto il veliero. Il combattimento fra la Marianna e la flottiglia si era impegnato con grande ardore. Le scialuppe doppie, che, come abbiamo detto, erano armate di lilà, si erano disposte su una fronte piuttosto larga, a destra e a sinistra del praho, onde dividere maggiormente il fuoco del veliero e si erano impegnate risolutamente a proteggere le altre imbarcazioni che, quantunque più piccole, portavano equipaggi più numerosi, riserbati certamente per l'attacco finale. Gli spari si succedevano agli spari e le palle, quantunque tutte di piccolo calibro, fischiavano in gran numero sulla Marianna, smussando qualche pennone, forando le vele, maltrattando il sartiame e scheggiando le murate. Alcuni uomini erano stati già feriti e qualcuno ucciso, nondimeno gli artiglieri di Mompracem facevano freddamente il loro dovere, con una calma ed un sangue freddo meraviglioso. Le spingarde, essendo ormai la distanza diminuita, avevano pure cominciato a tuonare, lanciando sulla flottiglia bordate di mitraglia, composta per la maggior parte di chiodi, che si piantavano nella pelle dei dayaki, facendoli urlare come scimmie rosse. Nonostante quelle scariche formidabili, la flottiglia non cessava di avanzare. I dayaki, che sono generalmente coraggiosi non meno dei malesi e che non temono la morte, davano dentro ai remi furiosamente, mentre quelli che erano armati di fucile, mantenevano un fuoco vivissimo, quantunque poco efficace, non avendo molta pratica di quelle armi, che forse adoperavano per la prima volta. Erano già giunte le scialuppe a cinquecento passi, quando il praho su cui si era concentrato il fuoco dei pezzi da caccia della Marianna, si coricò su un fianco. Aveva ormai perduto i suoi due alberi, il bilanciere era stato fracassato di colpo da una palla tiratagli da Yanez e le sue murate erano state ridotte in così cattivo stato, che non esistevano quasi più. - Smonta il mirim, Sambigliong! - gridò Yanez, vedendo una doppia scialuppa accostarsi al praho coll'evidente intenzione d'impadronirsi del pezzo d'artiglieria, prima che il piccolo veliero affondasse. - Sì, comandante, - rispose il malese, che serviva al pezzo da caccia di babordo. - E voi altri mitragliate l'equipaggio prima che venga raccolto, - aggiunse il portoghese, che dall'alto del cassero seguiva attentamente le mosse della flottiglia, senza levarsi dalle labbra la sigaretta. Una bordata colpì il praho, bordata di pezzi da caccia e di spingarde, smontando il mirim il cui carrello fu fracassato di colpo e spazzando il ponte da prora a poppa, con un uragano di mitraglia che storpiò e ferì la maggior parte dell'equipaggio. - Bel colpo! - esclamò il portoghese, colla sua flemma abituale. - Eccone uno che non ci darà più fastidio. Il piccolo veliero non era ormai che un rottame che si empiva rapidamente d'acqua. Gli uomini che erano sfuggiti a quella tremenda bordata, si erano gettati in mare e nuotavano verso le scialuppe, mentre i pontoni tiravano furiosamente coi lilà con non troppa fortuna, quantunque la Marianna, colla sua mole ed immobilizzata come era, offrisse un ottimo bersaglio. Ad un tratto il legno si capovolse bruscamente, rovesciando in acqua morti e feriti e rimase colla chiglia in aria. Urla feroci s'alzarono dalle scialuppe, vedendo il praho andarsene alla deriva in quello stato. - Gridate come oche, - disse Yanez. - Ci vuole ben altro per vincere le tigri di Mompracem, miei cari. Fuoco sulle scialuppe! Avanti, fucilieri! L'affare diventa caldo. Sebbene privati del praho che col suo pezzo poteva contrabbattere i cannoni da caccia, la flottiglia aveva ripreso la corsa e s'avvicinava rapidamente alla Marianna. Le tigri di Mompracem non facevano economia nè di palle nè di polvere. Colpi di cannone e di spingarda si alternavano a nutrite scariche di fucileria che facevano dei larghi vuoti fra gli equipaggi delle scialuppe e dei pontoni. Quei vecchi guerrieri, che un giorno avevano fatto tremare gli inglesi di Labuan, che avevano vinto e rovesciato James Booke, il rajah di Sarawak, e che avevano distrutti, dopo formidabili combattimenti, i terribili thugs indiani, si difendevano con accanimento ammirabile, senza nemmeno prendersi la briga di ripararsi dietro i bordi. Anzi, sprezzanti d'ogni pericolo, nonostante i consigli del portoghese che ci teneva a conservare i suoi uomini, erano saliti tutti sulle murate per mirare meglio e di là, e anche dalle coffe, facevano un fuoco infernale sulle scialuppe, decimando crudelmente i loro equipaggi. Gli assalitori però erano così numerosi, che quelle gravi perdite non li scoraggiavano. Altre scialuppe, uscite dal fiume, avevano raggiunta la flottiglia e anche quelle cariche di guerrieri. Erano almeno trecento selvaggi, sufficientemente armati, che muovevano all'abbordaggio della Marianna, risoluti, a quanto pareva, ad espugnarla e massacrare i suoi difensori fino all'ultimo, non potendosi sperare quartiere da quei barbari sanguinari che non hanno che un solo desiderio: quello di fare raccolta di crani umani. - La faccenda minaccia di diventare seria, - mormorò Yanez, vedendo quelle nuove scialuppe. - Tigrotti miei, date dentro più che potete o noi finiremo per lasciare qui le nostre teste. Quel cane d'un pellegrino li ha fanatizzati per bene e li ha fatti diventare idrofobi. S'accostò al pezzo da caccia di tribordo, che in quel momento era stato scaricato e allontanò Sambigliong che stava pigliando la mira. - Lascia che mi scaldi un po' anch'io, - disse. - Se non sfasciamo i pontoni e mandiamo in acqua i loro lilà, fra tre minuti saranno qui. - Le spine li tratterranno, capitano. - Eh, non so, mio caro. I loro kampilang avranno buon gioco. - Ed i nostri gabbieri non ne avranno meno colle loro granate. - Sia, ma preferisco che non giungano qui. Diede fuoco al pezzo e, come al solito, non mancò il colpo. Uno dei pontoni, formati da due scialuppe riunite da un ponte, andò a catafascio. Le prore, spaccate a livello d'acqua, in un momento si riempirono ed il galleggiante affondò. Un secondo fu pure gravemente maltrattato, ma al terzo colpo di cannone sparato da Yanez le scialuppe erano già quasi sotto. - Impugnate i parangs e portate le spingarde a poppa! - gridò, abbandonando il pezzo che ormai diventava inutile. - Sgombrate la prora! In un baleno quei comandi furono eseguiti. I fucilieri si ammassarono sul cassero, lasciando soli i gabbieri nelle coffe, mentre Sambigliong con alcuni uomini sfondava a colpi di scure due casse lasciando scorrere per la coperta una infinità di pallottoline d'acciaio irte di punte sottilissime. I dayaki, resi furiosi dalle gravi perdite subite, avevano circondata la Marianna urlando spaventosamente e cercavano di arrampicarsi, aggrappandosi alle bancazze, alle sartie, ai paterazzi ed alla dolfiniera del bompresso. Yanez aveva impugnata una scimitarra e si era messo in mezzo ai suoi uomini. - Stringete le file attorno alle spingarde! - gridò. I fucilieri che stavano presso le murate non avevano cessato il fuoco, fulminando a bruciapelo i dayaki dei pontoni e quelli che cercavano di montare all'abbordaggio. Le canne dei fucili e delle carabine indiane erano diventate così ardenti che scottavano le mani dei tiratori. I dayaki arrivavano, inerpicandosi come scimmie. Ad un tratto atroci urla di dolore scoppiarono fra gli assalitori. Avevano posate le mani sui fasci di spine che coprivano le murate e che erano dissimulati dalle brande stese sopra i bastingaggi, straziandosi orribilmente le dita e non reggendo a così atroce dolore si erano lasciati cadere addosso ai compagni, travolgendoli nella loro caduta. Se non erano pel momento riusciti a scavalcare le murate di babordo e di tribordo, quelli che si erano issati sulle trinche del bompresso, erano stati invece più fortunati, avendo trovato subito un appoggio sull'albero istesso. Accortisi delle spine, a gran colpi di kampilang staccarono i fasci gettandoli in mare, ed in dieci o dodici irruppero sul castello di prora mandando urla di vittoria. - Dentro colle spingarde! - gridò Yanez che li aveva lasciati fare. Le quattro bocche da fuoco lanciarono una bordata di chiodi su quel gruppo, spazzando tutto il castello. Fu una scarica terribile. Nessuno degli assalitori era rimasto in piedi, quantunque non vi fosse nemmeno un morto. Quei disgraziati, che avevano ricevuto in pieno quella bordata, si rotolavano pel castello, dibattendosi e mandando urla spaventevoli e gemiti strazianti. I loro corpi, foracchiati in cento luoghi dai chiodi, parevano schiumarole gocciolanti sangue. La vittoria era nondimeno ancora ben lungi. Altri dayaki salivano da tutte le parti, disperdendo prima le spine coi kampilang e rovesciandosi in coperta, malgrado il fuoco vivissimo delle tigri di Mompracem. Là un altro ostacolo però, non meno duro delle spine, attendeva gli assalitori: erano le pallottole d'acciaio che coprivano tutta la tolda e le cui punte non si potevano sfidare senza i pesanti stivali di mare. Per di più, i gabbieri delle coffe avevano cominciato a lanciare le granate che scoppiavano con fragore, lanciando intorno frammenti di metallo. I dayaki, presi fra due fuochi, impossibilitati ad avanzare, si erano arrestati; poi un subitaneo terrore, accresciuto da un'altra bordata di mitraglia che ne gettò a terra parecchi, li prese e si precipitarono confusamente in acqua, nuotando disperatamente verso i pontoni e le scialuppe. - Pare che ne abbiano finalmente abbastanza, - disse Yanez, che durante la lotta non aveva perduto un atomo della sua flemma. - Ciò v'insegnerà a temere le vecchie tigri di Mompracem. La disfatta degli isolani era completa. Pontoni e scialuppe fuggivano a forza di remi verso le isolette che si estendevano dinanzi al fiume, senza più rispondere al fuoco del veliero, fuoco che ben presto fu fatto cessare dal portoghese, ripugnandogli di massacrare delle persone che ormai non si difendevano più. Dieci minuti dopo, la flottiglia, le cui scialuppe facevano per la maggior parte acqua, scompariva entro il fiume. - Se ne sono andati, - disse Yanez. - Speriamo che ci lascino tranquilli. - Ci aspetteranno nel fiume, signore, - disse Sambigliong. - E vi daranno nuovamente battaglia, - aggiunse Tangusa, che ai primi colpi di cannone era pure salito in coperta per prendere parte alla difesa, quantunque esausto di forze. - Lo credi? - chiese il portoghese. - Ne sono certo, signore. - Daremo loro un'altra lezione che leverà loro, e per sempre, la voglia d'importunarci. Troveremo acqua sufficiente per spingerci fino alle scale del kampong? - Il fiume è profondo per un tratto lunghissimo e purchè il vento sia favorevole non troverete difficoltà a salirlo. - Quanti uomini abbiamo perduto? - chiese Yanez a Kickatany, il malese che funzionava da medico a bordo. - Ve ne sono otto nell'infermeria, signore, fra cui due gravemente feriti e quattro morti. - Che il diavolo si porti quei maledetti selvaggi ed il loro pellegrino! - esclamò Yanez. - Orsù, così è la guerra, - aggiunse poi con un sospiro. Quindi volgendosi verso Sambigliong che pareva aspettasse qualche ordine: - La marea sta per raggiungere la sua massima altezza. Cerchiamo di trarci da questo maledetto banco.

Vediamo se possiamo lasciare questo banco prima che la marea abbia raggiunto la sua massima altezza. Volse le spalle al malese e si diresse verso prora, curvandosi sulla murata del castello. La nave che aveva dato in secco, probabilmente in causa d'una falsa manovra, era uno splendido veliero a due alberi, costruito di certo da poco tempo a giudicarlo dalle sue linee ancora perfette, con due immense vele simili a quelle che portano i grossi prahos malesi. Doveva stazzare non meno di duecento tonnellate ed aveva un armamento da renderlo temuto anche a qualche piccolo incrociatore. Infatti, aveva sul cassero due pezzi da caccia di buon calibro, protetti da una barricata mobile formata da due grosse lastre di acciaio congiunte ad angolo e sul castello di prora quattro lunghe e grosse spingarde, armi eccellenti per mitragliare i nemici, quantunque di corta portata. Inoltre aveva un equipaggio numeroso, fin troppo per un legno così piccolo, formato da una quarantina di persone, malesi e dayaki, per la maggior parte attempati ma ancora solidi, dai visi fierissimi e con non poche cicatrici, ciò che indicava come quegli uomini fossero gente di mare e anche di guerra. La nave si era arrestata all'entrata d'una vasta baia, entro cui sboccava un fiume che pareva abbondante d'acqua. Numerose isole, fra cui una grandissima, riparavano la baia dai venti di ponente, tutte cinte di scogliere corallifere e di banchi e coperte da una vegetazione foltissima d'un bel verde intenso. La Marianna si era arenata su uno di quei banchi che le acque nascondevano e che, in quel momento, cominciava ad apparire, continuando la marea ad abbassarsi. La ruota di prora aveva toccato molto profondamente, in modo da rendere impossibile lo scagliamento col solo mezzo delle àncore gettate a poppavia e alate all'argano. - Cane d'un pilota! - esclamò Yanez, dopo d'aver osservato attentamente il banco. - Non ce la caveremo prima di mezzanotte. Che cosa ne dici, Sambigliong? Un malese che aveva il viso assai rugoso ed i capelli biancastri, e che tuttavia sembrava ancora robustissimo, si era accostato all'europeo: - Dico, signor Yanez, che nessuna manovra riuscirebbe a toglierci di qui senza l'aiuto dell'alta marea. - Hai fiducia in quel pilota? - Non so, capitano, - rispose il malese, - non avendolo mai veduto prima d'ora. Nondimeno ... - Continua, - disse Yanez. - Quello d'averlo trovato solo, così lontano da Gaya, in un canotto incapace di resistere ad un'ondata e di essersi subito offerto di guidarci, non mi pare chiaro. - Che abbia commesso una imprudenza ad affidargli il timone? - si chiese Yanez, che era diventato pensieroso. Poi, scuotendo il capo come se avesse voluto scacciare lungi da sè un pensiero importuno, aggiunse: - Per quale scopo quell'uomo, che appartiene alla vostra razza, avrebbe cercato di perdere il migliore e più poderoso praho della Tigre della Malesia? Forse che noi non abbiamo sempre protetti gli indigeni bornesi contro le vessazioni degli inglesi? Forse che non abbiamo rovesciato James Brooke per ridare l'indipendenza ai dayaki di Sarawak? - E perchè mai, signor Yanez, - disse Sambigliong - i dayaki della costa si sono messi in armi improvvisamente, contro i nostri amici? Eppure Tremal-Naik, creando fattorie su queste spiagge, che prima erano quasi deserte, ha dato loro il mezzo di guadagnarsi da vivere comodamente, senza correre i rischi della pirateria che li decimava. - È un mistero questo, mio caro Sambigliong, che nè io nè Sandokan siamo ancora riusciti a spiegare. Questo improvviso scoppio d'ira contro Tremal-Naik deve avere una causa che per ora ci sfugge, ma certo qualcuno ha soffiato sul fuoco. - Che Tremal-Naik e sua figlia Darma corrano un vero pericolo? - Il messo che ci ha mandato a Mompracem ha detto che tutti i dayaki sono in armi e sembrano presi da una improvvisa pazzia, che tre delle fattorie sono state saccheggiate e poi incendiate e parlavano di massacrare Tremal-Naik. - Eppure non c'è un uomo migliore di lui in tutta l'isola, - disse Sambigliong. - Non comprendo come quei furfanti guastino e saccheggino le sue proprietà. - Ne sapremo qualche cosa quando giungeremo al kampong di Pangutaran. La comparsa della Marianna sul fiume calmerà un po' i dayaki e se non deporranno le armi, li mitraglieremo come si meritano. - E conosceremo le cause che li hanno indotti a sollevarsi. - Oh! - esclamò ad un tratto Yanez, che aveva volti gli sguardi verso la foce del fiume. - Vi è qualcuno che pare voglia dirigersi verso di noi. Un piccolo canotto, munito d'una vela, era sbucato dietro gli isolotti che ingombravano la foce del fiume ed aveva puntato la prora verso la Marianna. Un solo uomo lo montava, ma era così lontano ancora da non poter distinguere se era un malese o un dayako. - Chi può essere costui? - si chiese Yanez, che non lo perdeva di vista. - Guarda, Sambigliong, non ti sembra indeciso sulla sua manovra? Ora si dirige verso gli isolotti, ora se ne allontana per gettarsi verso le scogliere corallifere. - Si direbbe che cerchi d'ingannare qualcuno sulla sua vera rotta, signor Yanez, - rispose Sambigliong. - Che sia sorvegliato e che cerchi d'ingannarli? - Pare anche a me, - rispose l'europeo. - Va'a prendermi un cannocchiale e fa' caricare una spingarda a palla. Se si cercherà d'intralciare la manovra di quell'uomo, il quale evidentemente mira a raggiungerci, faremo fuoco. Un momento dopo puntava l'istrumento sul piccolo canotto che allora si trovava a non meno di due miglia e che aveva finalmente abbandonato le isolette della foce, per spingersi risolutamente verso la Marianna. Ad un tratto gli sfuggì un grido: - Tangusa! - Quello che Tremal-Naik aveva condotto con sè da Mompracem e che aveva innalzato alla carica di fattore? - Sì, Sambigliong. - Finalmente sapremo qualche cosa su questa insurrezione, se è veramente lui, - disse il dayako. - Non m'inganno: lo vedo benissimo. Oh! - Che cosa avete, signore? - Vedo una scialuppa montata da una dozzina di dayaki che mi pare voglia dare la caccia a Tangusa. Guarda verso l'ultima isola: la vedi? Sambigliong aguzzò gli sguardi e vide infatti un'imbarcazione stretta e molto lunga, lasciare la foce del fiume e slanciarsi velocemente verso il mare, sotto la spinta di otto remi poderosamente manovrati. - Sì, signor Yanez, danno la caccia al fattore di Tremal-Naik, - disse. - Hai fatto caricare una spingarda? - Tutte e quattro. - Benissimo: aspettiamo un momento. Il piccolo canotto che aveva il vento in favore, filava diritto verso la Marianna con sufficiente velocità, nondimeno non pareva che potesse gareggiare colla scialuppa. L'uomo che la montava, accortosi di essere seguìto, aveva legata la barra del timone ed aveva preso due remi per accelerare maggiormente la corsa. Ad un tratto, una nuvoletta di fumo s'alzò sopra la prora della scialuppa, poi una detonazione giunse fino a bordo della Marianna. - Fanno fuoco su Tangusa, signor Yanez, - disse Sambigliong. - Ebbene mio caro, io mostrerò a quei furfanti come tirano i portoghesi, - rispose l'europeo colla sua solita calma. Gettò via la sigaretta che stava fumando, si fece largo fra i marinai che avevano invaso il castello di prora attirati da quello sparo e s'accostò alla prima spingarda di babordo, puntandola sulla scialuppa. La caccia continuava furiosa ed il piccolo canotto, nonostante gli sforzi disperati dell'uomo che lo montava, perdeva via. Un altro colpo di fucile era partito da parte degli inseguitori e senza miglior successo, essendo generalmente i dayaki più abili nel maneggio delle loro cerbottane che delle armi da fuoco, non conoscendo l'alzo. Yanez, calmo, impassibile mirava sempre. - È sulla linea, - mormorò dopo qualche minuto. Fece contemporaneamente fuoco. La lunga e grossa canna s'infiammò con un rombo strano che si ripercosse perfino sotto gli alberi che coprivano le sponde della baia. Sul tribordo della scialuppa si vide alzarsi uno sprazzo d'acqua, poi si udirono in lontananza delle urla furiose. - Presa, signor Yanez! - gridò Sambigliong. - E fra poco affonderà, - rispose il portoghese. I dayaki avevano interrotto l'inseguimento ed arrancavano disperatamente per raggiungere uno degli isolotti della foce, prima che la loro imbarcazione affondasse. Lo squarcio prodotto dalla palla della spingarda, un buon proiettile di piombo misto a rame, del peso d'una libbra e mezzo, era così considerevole da non permettere di prolungare molto quella corsa. Ed infatti i dayaki distavano ancora trecento passi dall'isolotto più vicino, quando la scialuppa, che si riempiva rapidamente d'acqua, mancò loro sotto i piedi, scomparendo. Essendo i dayaki della costa tutti abilissimi nuotatori, perchè passano la maggior parte della loro esistenza in acqua al pari dei malesi e dei polinesiani, non vi era pericolo che si annegassero. - Salvatevi pure, - disse Yanez. - Se tornerete alla carica vi scalderemo i dorsi con della buona mitraglia a base di chiodi. Il piccolo canotto, liberato dai suoi inseguitori, mercè quel colpo fortunato, aveva ripresa la rotta verso la Marianna spinto dalla brezza che aumentava col calar del sole e ben presto si trovò nelle sue acque. L'uomo che lo guidava era un giovane sulla trentina, dalla pelle giallastra, ed i lineamenti quasi europei, come se fosse nato da un incrocio di due razze, la caucasica e la malese; di statura piuttosto bassa e assai membruto; aveva il corpo avvolto in brandelli di tela bianca che gli fasciavano strettamente le braccia e le gambe e che apparivano qua e là macchiati di sangue. - Che l'abbiano ferito? - si chiese Yanez. - Quel meticcio mi sembra assai sofferente. Ohe, gettate una scala e preparate qualche cordiale. Mentre i suoi marinai eseguivano quegli ordini, il piccolo canotto, con un'ultima bordata, giunse sotto il fianco di tribordo del veliero. - Sali presto! - gridò Yanez. Il fattore di Tremal-Naik legò la piccola imbarcazione a una corda che gli era stata gettata, ammainò la vela, poi salì quasi con fatica la scala, comparendo sulla tolda. Un grido di sorpresa ed insieme d'orrore era sfuggito al portoghese. Tutto il corpo di quel disgraziato appariva crivellato come se avesse ricevuto parecchie scariche di pallini e da quelle innumerevoli, quantunque piccolissime ferite, uscivano goccioline di sangue. - Per Giove! - esclamò Yanez, facendo un gesto di ribrezzo. - Chi ti ha conciato in questo modo, mio povero Tangusa? - Le formiche bianche, signor Yanez, - rispose il malese con voce strozzata facendo un'orribile smorfia strappatagli dal dolore acuto che lo tormentava. - Le formiche bianche! - esclamò il portoghese. - Chi ti ha coperto il corpo di quei crudeli insetti così avidi di carne? - I dayaki, signor Yanez. - Ah! Miserabili! Passa nell'infermeria e fatti medicare, poi riprenderemo la conversazione. Dimmi solamente per ora se Tremal-Naik e Darma corrono un pericolo imminente. - Il padrone ha formato un piccolo corpo di malesi e tenta di far fronte ai dayaki. - Va bene, mettiti nelle mani di Kickatany che è un uomo che si intende di ferite, poi mi manderai a chiamare, mio povero Tangusa. Ora ho altro da fare. Mentre il malese, aiutato da due marinai, scendeva nel quadro, Yanez aveva rivolto la sua attenzione verso lo sbocco del fiume dove erano comparse altre tre grosse scialuppe montate da numerosi equipaggi ed una doppia, munita di ponte sul quale si scorgeva uno di quei piccoli cannoni di ottone chiamati dai malesi lilà, fusi insieme con rame tolto dalla carena delle vecchie navi e qualche particella di piombo. - Oh diavolo! - mormorò il portoghese. - Che quei dayaki abbiano intenzione di venirsi a misurare colle tigri di Mompracem? Non sarà con quelle forze che voi avrete ragione di noi, miei cari. Abbiamo dei buoni pezzi che vi faranno saltare come capre selvatiche. - Purchè non abbiano altre scialuppe nascoste dietro le isole, signor Yanez, - disse Sambigliong. - Siamo troppo forti per aver paura di loro, quantunque noi conosciamo l'audacia e lo slancio di quegli uomini, figli di pirati e di tagliatori di teste. Ne abbiamo due di quelle casse. - Palle d'acciaio armate di punte? Sì, capitano Yanez. - Falle portare in coperta e da' ordine a tutti i nostri uomini di calzare stivali di mare se non vorranno guastarsi i piedi. Ed i fasci di spine li hai imbarcati? - Anche quelli. - Falli gettare sulle impagliature tutto intorno al bordo. Se vorranno montare all'assalto li udremo a urlare come belve feroci. Pilota! Padada che si era issato fino sulla coffa del trinchetto per osservare le mosse sospette delle quattro scialuppe era disceso e si era accostato al portoghese guardando obliquamente. - Sai dirmi se quei dayaki posseggono molte barche? - Non ne ho vedute che pochissime sul fiume, - rispose il malese. - Credi che tenteranno di abbordarci, approfittando della nostra immobilità? - Non credo, padrone. - Parli sinceramente? Bada che comincio ad avere qualche sospetto su di te e che questo arenamento non mi è sembrato puramente accidentale. - Il malese fece una smorfia come per nascondere il brutto sorriso che stava per spuntargli sulle labbra, poi disse un po' risentito: - Non vi ho dato alcun motivo per dubitare della mia lealtà, padrone. - Vedremo in seguito, - rispose Yanez. - E ora andiamo a trovare quel povero Tangusa, mentre Sambigliong prepara la difesa.

Pare che tale desiderio lo abbia manifestato anche il rajah a quanto ho potuto capire. Ci tiene ad avere in ostaggio quelle due persone per frenare Sandokan nelle sue audacie e impedirgli di ritentare l'insurrezione dei dayaki dell'interno, che sono stati poi alleati ai tempi di James Brooke. Sir Moreland era rimasto silenzioso, come se fosse in preda ad una viva preoccupazione; poi, dopo qualche istante di silenzio, disse con tono singolare che non sfuggì al portoghese: - Anch'io ci tengo dacchè Tremal-Naik e Darma rimangano prigionieri. Si passò con un moto nervoso una mano sulla fronte e mandò un sospiro. - Fatalità del destino, - disse poi, come parlando fra sè. Yanez lo osservava attentamente, pensando: - Che diavolo ... che quell'anglo-indiano sia stato ferito dagli occhi di Darma? Vivaddio è un bel giovane, pieno di fuoco e di slancio e mi sembra leale. Se provassi a grattargli dolcemente la gola? - Capitano, - disse, - che cosa decidete dunque? - Il governatore di Kohong può aver ragione, - rispose sir Moreland, dopo un altro breve silenzio. - I prigionieri potrebbero essermi d'imbarazzo a bordo della mia nave e poi non si sa mai come finisce una battaglia, specialmente quando vi sono di mezzo quei terribili pirati. Ho fiducia intera nella robustezza del mio vascello e nel valore dei miei uomini, scelti con cura e anche nella potenza dei miei cannoni che sono dei più moderni; ma non conosco le forze dei nostri avversari e potrei avere la peggio. Voi credete che essi sappiano dove si trova il mio Sambas? - È il nome della vostra nave? - Sì, - rispose il capitano. - A Kohong si crede che la Tigre della Malesia e Yanez sappiano dove si trova ancorata e non si dubita che da un momento all'altro vi assalgano. - Allora affiderò a voi i due prigionieri; ma risponderete della loro salvezza? - Io seguirò la costa passando dietro le scogliere. L'acqua non è abbondante in quei canali interni e la nave dei pirati della Malesia non potrebbe seguirmi. Io rispondo pienamente di loro, capitano. - È meglio che approfittiate delle tenebre. - È quello che volevo proporvi, sir Moreland, - disse Yanez, che frenava a grande stento la gioia interna. - Quanti uomini avete? - Dieci qui e due nella rada. - Vi servirete della barcaccia a vapore, così all'alba potrete giungere a Kohong. - E voi, capitano? - Io uscirò in mare ed andrò a cercare la Tigre della Malesia. Anelo di misurarmi con quell'uomo. - Lo odiate? - È un pirata che è tempo di domare, - si limitò a rispondere il capitano. - Seguitemi. Riaprì la porta e rientrò nel salotto dove si trovavano ancora Tremal-Naik e Darma. - Preparatevi a partire, - disse, guardando particolarmente la fanciulla. - Dove volete tradurci, capitano? - chiese Tremal-Naik. - Ho ricevuto l'ordine di farvi condurre a Kohong. - Qualcuno minaccia il fortino? - Non posso rispondere a questa domanda. Yanez finse di approvare con un gesto. Sir Moreland fece cenno ai due prigionieri di andarsi ad abbigliare, poi sturò una bottiglia e riempì due bicchieri offrendone uno al portoghese. - Voi mi assicurate che non vi lascerete catturare, è vero? - chiese l'anglo- indiano, dopo d'aver vuotato il suo. - Se vedo qualche pericolo mi getterò alla costa, capitano, - rispose Yanez. - Sono valorosi i vostri uomini? - Sono i migliori della guarnigione di Kohong. Quando avrò l'onore di rivedervi? - Salperò all'alba e muoverò subito verso la cittadella, a meno che i pirati della Malesia non mi arrestino. Tuttavia ho fiducia di vincerli. Yanez sbozzò un sorrisetto ironico. - Ve l'auguro, capitano, - disse poi. - È ora di finirla con quei fieri e pericolosi scorridori del mare. Tremal-Naik e Darma erano in quel momento rientrati. Il primo si era coperto il capo d'un immenso turbante e la seconda si era gettata sulle spalle una mantiglia di seta bianca che l'avvolgeva tutta. - Vi scorterò fino alla spiaggia, - disse il capitano, - quantunque nessun pericolo vi minacci. Yanez, udendo quelle parole, aggrottò lievemente la fronte. - Che prenda con sè degli uomini? - mormorò, assai contrariato da quella proposta. - Bah? Li ridurremo a dovere appena saremo in vista del mare. Uscirono tutti insieme nel cortile, dove si trovavano sempre allineati i dieci pirati, appoggiati alle loro carabine. Vedendo apparire il capitano, presentarono le armi con un insieme che fece stupire lo stesso Yanez. - Sono uomini solidi, - disse sir Moreland, dopo d'averli osservati uno ad uno. - Andiamo. Quattro pirati formarono l'avanguardia, dietro si misero Yanez e Tremal-Naik, poi Darma col capitano a qualche distanza, quindi gli altri sei. I primi portavano il fanale e tre torce per illuminare la via, essendosi il cielo coperto di un fitto velo di vapori che intercettava completamente quel vago chiarore che proiettano gli astri, specialmente attraverso la limpida atmosfera delle regioni equatoriali. Un profondo silenzio regnava nelle pianure sottostanti alla collinetta, rotto solo dal passo leggero del drappello. Anche la risacca pareva che si fosse calmata in causa forse del riflusso. Yanez taceva, ma scambiava di quando in quando uno sguardo con Tremal-Naik e lo urtava col gomito, come per raccomandargli la massima prudenza. Dietro di lui il capitano diceva qualche parola, sotto-voce, alla fanciulla, che il portoghese non riusciva ad afferrare per quanto aguzzasse l'udito. I pirati, muti come pesci, col dito sul grilletto delle carabine, li seguivano pronti al primo comando ad avventarsi contro il capitano. Discesa la collinetta, il drappello s'avanzò in mezzo alle piantagioni e, siccome il sentiero era stretto, Yanez ne approfittò per distanziare il capitano. - Sii pronto a tutto, - sussurrò a Tremal-Naik, quando credette che il capitano non lo potesse più udire. - E Sandokan? - chiese sotto-voce l'indiano. - Ci aspetta al largo. - A quale rischio ti sei esposto, Yanez. - Bisognava ben tentare un colpo di testa. Senza di voi non saremmo stati liberi di cominciare le ostilità. - Del capitano che cosa ne farai? Ti chiedo la sua libertà, perchè egli ci ha trattati più come ospiti che come prigionieri. - Non ho alcuna intenzione di ucciderlo. Sarebbe una vigliaccheria assassinarlo. Chi è quell'uomo? - Un inglese ai servigi del rajah, e che prima faceva parte della marina indiana. - Lui, inglese, con quella pelle così abbronzata e quegli occhi! No, io lo credo un anglo-indiano piuttosto. - Anche a me è venuto il sospetto; comunque sia, si è comportato verso di noi come un vero gentiluomo. - Zitto: ecco il mare. S'accostò ai quattro pirati che lo precedevano, fra i quali si trovava Sambigliong e sussurrò loro qualche parola. - Va bene, - rispose l'antico mastro della Marianna. - Me ne occuperò io. Pochi minuti dopo giungevano sulla spiaggia del mare, là dove la scialuppa si trovava arenata. A tre o quattro gomene la barcaccia fumava. Il macchinista americano non aveva perduto il suo tempo a quanto pareva. - Spingete in acqua la scialuppa, - comandò Yanez. Mentre quattro uomini eseguivano l'ordine, gli altri si erano disposti intorno al gruppo formato da Tremai-Naik, da Darma e dal capitano. Sambigliong anzi si era messo dietro a quest'ultimo. Appena Yanez vide la scialuppa a galleggiare, s'accostò a sir Moreland che stava presso Darma e gli stese la mano, dicendogli: - Fidatevi di me, capitano: io condurrò i prigionieri in salvo. Nel medesimo tempo strinse la mano dell'anglo-indiano con tale forza da fargli scricchiolare le dita e da paralizzargli il braccio. Mentre lo teneva, impedendogli in tal modo che sguainasse la sciabola, Sambigliong afferrò a mezzo corpo il capitano e con un colpo solo l'atterrò. Sir Moreland aveva mandato un grido di furore: - Ah! Miserabili! I pirati si erano precipitati su di lui e in meno che lo si dica gli avevano legato le mani dietro al dorso e l'avevano privato della sciabola e delle pistole che portava alla cintura. Appena potè rimettersi in piedi, avendogli lasciate le gambe libere, fece atto di scagliarsi su Yanez che lo guardava, sorridendo silenziosamente. - Che cosa significa questa aggressione? - gridò, pallido d'ira. - Chi siete voi? Yanez si levò l'elmetto e salutandolo ironicamente, gli rispose: - Ho l'onore di presentarvi i saluti del mio amico, la Tigre della Malesia. - Chi siete voi? - Yanez de Gomera, sir Moreland. La sorpresa fu tale, che il giovane capitano fu per qualche istante incapace di pronunciare una parola. - Yanez, - disse finalmente, guardandolo quasi con terrore. - Voi il compagno della Tigre della Malesia! - Ho quest'onore, - rispose il portoghese. Il capitano girò lo sguardo verso Darma. La fanciulla non aveva mandato un grido, nè aveva fatto un gesto durante quell'improvviso attacco. Era rimasta immobile e silenziosa, a cinque passi dall'anglo-indiano, quantunque il suo pallore tradisse una certa angoscia. - Uccidetemi dunque, se l'osate, - disse rivolgendosi a Yanez. - Ci chiamano pirati, ma sappiamo essere generosi forse più degli altri, - rispose il portoghese. - Se io fossi caduto nelle mani del rajah, a quest'ora mi avrebbe fatto fucilare; io, signore, vi dono invece la vita. - Che io avrei chiesto, - disse Tremal-Naik. - E che io non ti avrei rifiutata, - aggiunse Yanez. - Che cosa volete fare di me, dunque? - chiese il capitano coi denti stretti. - Lasciarvi libero di tornarvene a Macrae, signore. - Potreste pentirvi d'una simile generosità, perchè domani vi darò la caccia colla mia nave. - E troverete sul vostro cammino un avversario degno di voi, - rispose Yanez. - Se volete attendere l'equipaggio della barcaccia, fra pochi minuti sarà qui. - Si sono arresi quei miserabili? - Li abbiamo sorpresi e non potevano misurarsi con noi. Capitano, buona notte e buona fortuna. - Ci rivedremo più presto di quello che credete. - Vi aspettiamo, sir Moreland. Su, imbarcate! Tremal-Naik prese per mano Darma, che non aveva mai aperto bocca e la trasse dolcemente verso la scialuppa facendola sedere a poppa, poi s'imbarcarono tutti gli altri, mentre il capitano passeggiava nervosamente sulla spiaggia, cercando di spezzare le corde che gli legavano le mani. La scialuppa prese subito il largo dirigendosi verso la barcaccia che fumava sempre e che aveva a prora il fanale acceso. Darma, dopo d'aver stretta mestamente la mano al portoghese ed averlo ringraziato con un sorriso, si era appoggiata con un gomito al banco di poppa e teneva gli sguardi fissi sulla riva. Anche il capitano aveva cessato di passeggiare. Ritto su una duna di sabbia guardava la scialuppa ad allontanarsi e forse non era la scialuppa che guardava. - Ebbene, Tremal-Naik, che cosa ne dici di questo colpo di testa? - chiese Yanez, ridendo. - Che voi siete dei demoni, - rispose l'indiano. Non dubitavo che un giorno o l'altro sareste venuti a salvarci, non però così presto. Come avevate saputo che ci avevano condotti a Macrae? - A Labuan; più tardi ti narrerò tuttociò che è avvenuto dopo il vostro rapimento. Sappi intanto che abbiamo una delle più potenti navi del mondo e che ci prepariamo a fare la guerra al rajah di Sarawak e all'Inghilterra, per vendicarci di averci scacciati da Mompracem. - Tanto osate? - E devo aggiungere un'altra cosa che ti farà stupire. - Quale? - Che quel pellegrino che ci diede tanto da fare era un emissario del figlio di Suyodhana. - Tu dici ... - Quando saremo a bordo del Re del Mare ti spiegheremo meglio. Vorrei ora sapere se nessuno ti disse mai che Suyodhana avesse un figlio. - Mai ne ho udito parlare e poi, come capo dei thugs, non poteva ammogliarsi. Sicchè sarebbe stato lui a muoverci la guerra? - Sembra, e appoggiato dagli inglesi e dal rajah di Sarawak. - E come gli inglesi possono aver accordata protezione al figlio d'un thug perchè venga a misurarsi con noi che abbiamo estirpata quella piaga che disonorava l'India? - È un mistero che noi non siamo riusciti a spiegare. - E dove si trova quell'uomo? - Ecco un altro mistero, mio caro Tremal-Naik. Speriamo in qualche luogo d'incontrarlo e di fargli fare la fine di suo padre. Signor Horward! La scialuppa era giunta presso la barcaccia e l'americano era salito prontamente in coperta. - Tutto bene, signor Yanez? - Meglio non la poteva andare. Avete la massima pressione? - Da un'ora. - Ed i prigionieri? - Sembrano conigli. - A bordo, ragazzi. Aiutò Darma a salire sulla barcaccia, poi tutti si issarono sulla tolda. - Sbrighiamoci, - disse Yanez. Fece slegare uno ad uno gli indiani che formavano l'equipaggio della barcaccia, fece scivolare nelle tasche del sergente un pugno di sterline e li fece scendere nella scialuppa dicendo loro: - Il capitano Moreland vi aspetta sulla spiaggia. Portate a lui i miei saluti ed i miei ringraziamenti per la bella barca a vapore che mi ha regalato. Signor Horward, a tutto vapore. L'americano fece fischiare ripetutamente la macchina, come un ironico saluto agli indiani della scialuppa, e la barcaccia, sbarazzata dell'ancora, filò rapidamente verso l'uscita della baia. Yanez, affidata la barra del timone a Sambigliong, si era collocato a prora assieme a Tremal-Naik e scrutava attentamente le tenebre per cercare di discernere la nave di Sandokan, che doveva incrociare a non molta distanza dalla costa. Dovendo però avere i fanali spenti non era cosa facile scoprirla. - Si sarà portata più al largo a menochè non siano avvenute delle novità durante la mia assenza, - disse Yanez a Tremal-Naik che lo interrogava. - Da un praho che veniva da Labuan abbiamo saputo che una squadriglia d'incrociatori inglesi ha lasciato Victoria per darci la caccia. - Che Sandokan li abbia incontrati? - Avremmo udito il cannone e poi Sandokan non è un uomo da lasciarsi sorprendere, specialmente colla nave che possiede. Vedo laggiù delle scorie accese alzarsi. È il Re del Mare! Signor Horward, caricate le valvole! La barcaccia, che era davvero una buona camminatrice, s'avanzava sempre più rapida sul tenebroso mare, lasciandosi a poppa una scia che talvolta diventava luminosa per effetto d'un principio di fosforescenza. Ad un tratto una massa enorme, che scivolava sulle acque con un sordo fragore, comparve dinanzi alla scialuppa a vapore sbarrandole la via, mentre una voce formidabile gridava: - Puntate il pezzo di prua! - Alt! - aveva comandato prontamente Yanez. - Ehi, Sandokan, cala la scala. Sono le tigri di Mompracem che tornano! La barcaccia, che aveva rallentato il cammino, abbordò l'enorme nave presso l'anca di tribordo, sotto la scala che era stata abbassata d'un colpo solo.

- Yanez, - disse Tremal-Naik, - che il pellegrino sia stato invece sconfitto e che abbia mandato qui qualche corriere per far ritirare gli assedianti? - O che cerchino di trarci in qualche agguato? - chiese invece il portoghese. - In qual modo? - Colla speranza che noi approfittiamo della loro ritirata per abbandonare il kampong e poi assalirci in piena foresta con tutte le loro forze. No, mio caro Tremal-Naik, non sarò così sciocco io, da abboccare all'amo. Finchè non sapremo la sorte toccata alla mia Marianna, noi non lasceremo questa fattoria dove potremo difenderci lungamente, nel caso che il mio equipaggio sia stato distrutto. Mettiamo qui una sentinella e pel momento non preoccupiamoci delle manovre insidiose di quei furfanti. - Signor Yanez, - disse Darma. - Venite a prendere un po' di riposo, intanto, ed a far colazione. Non udendo più alcun colpo di cannone, quantunque fossero tutti angosciati per la sorte che poteva essere toccata all'equipaggio della Marianna, scesero nella sala pianterrena dove i servi del kampong avevano preparata un'abbondante refezione all'inglese, con carne fredda, burro e thè con biscotti. Terminato il pasto e mandato il meticcio sulla torricella onde li avvertisse delle mosse degli assedianti, fecero una minuta ispezione alle cinte e alle opere di difesa, onde essere pronti a sostenere anche un lungo assedio. Erano trascorse già tre ore dallo scoppio, quando udirono Tangusa gridare dall'alto del minareto: - All'armi! E subito dopo rimbombarono alcuni spari. Yanez e Tremal-Naik si erano precipitati verso la piattaforma più alta della cinta, da cui potevano dominare buon tratto della pianura. Vi erano appena giunti, quando videro un piccolo drappello d'uomini uscire dalla foresta a corsa sfrenata, sparando sui dayaki che accorrevano da tutte le parti come per tagliare loro il passo. Due grida erano sfuggite alle labbra del portoghese e dell'indiano: - Le tigri di Mompracem! Sambigliong! Poi lanciarono due grida tuonanti: - Fuoco le spingarde! - Alzate la saracinesca ai nostri amici! I pirati che avevano scortato Yanez, vedendo i loro compagni alle prese cogli assedianti, si erano gettati sulle tre spingarde che difendevano la cinta dalla parte meridionale, scaricando quasi contemporaneamente. I dayaki, udendo quegli spari e vedendo cadere parecchi compagni, avevano aperte le file rifugiandosi precipitosamente nella foresta. Sambigliong e il suo drappello, trovando il passo libero, si erano slanciati verso il kampong a tutta corsa, non cessando di sparare. La saracinesca era stata alzata e parte della guarnigione era mossa incontro a loro per sostenerli nel caso che i dayaki tornassero alla riscossa e anche per guidarli attraverso il boschetto spinoso. I superstiti della Marianna non erano che una mezza dozzina. Erano neri di polvere, madidi di sudore, ansanti, colle vesti stracciate e insanguinate ed avevano la schiuma alle labbra per la lunga corsa che doveva essere durata non meno di tre ore. Il corriere, che conosceva la via, per fortuna era insieme a loro. - La mia nave? - gridò Yanez, correndo incontro a Sambigliong. - Saltata, capitano, - rispose il mastro con voce rantolante. - Da chi? - Da noi ... non potevamo più resistere ... erano centinaia e centinaia di selvaggi che ci piombavano addosso ... tutti i nostri compagni sono stati uccisi ... anche i feriti ... ho preferito dar fuoco alle polveri ... - Sei un valoroso, - gli disse Yanez, con voce profondamente commossa. - Capitano ... vengono ... sono molti ... preparatevi alla resistenza. - Ah! vengono! - esclamò Yanez con voce terribile. - Vendicheremo i nostri morti!

. - Peccato che Tremal-Naik non abbia fondata la sua principale fattoria sul fiume. Noi saremo costretti a dividere le nostre forze. È bensì vero che i miei Tigrotti si battono splendidamente sia sui ponti dei loro prahos, che a terra. - Saliamo dunque, signore? Il vento è favorevole e la marea ci spingerà per qualche ora ancora. - Avanti e bada di non mandare la Marianna in secco. - Conosco troppo bene il fiume. - Il veliero superò una lingua di terra che formava la barra del fiume e rimontò la corrente, spinto dalla brezza notturna che gonfiava le sue enormi vele. Quel corso d'acqua, che è ancora oggidì poco noto, in causa della continua ostilità dei dayaki che non risparmiano nemmeno le teste degli esploratori europei, era largo un centinaio di metri e scorreva fra due rive piuttosto alte, coperte da manghi, da durion e da alberi gommiferi. Nessun fuoco si vedeva brillare sotto gli alberi, nè si udiva alcun rumore che indicasse la presenza di quei formidabili cacciatori di teste. Solo di quando in quando nelle acque, che dovevano essere profonde, echeggiava un tonfo prodotto dall'improvvisa immersione di qualche gaviale addormentato a fior d'acqua, che la massa del veliero aveva spaventato. Quel silenzio tuttavia non rassicurava affatto Yanez, il quale anzi raddoppiava la vigilanza, cercando di scoprire qualche cosa sotto la fosca ombra degli alberi. - No, - mormorava, - è impossibile che noi abbiamo potuto passare inosservati. Deve succedere qualche cosa; fortunatamente conosciamo il nemico e non ci coglierà di sorpresa. Era trascorsa una mezz'ora, senza che nulla fosse accaduto di straordinario, ed il portoghese cominciava a rassicurarsi, quando, verso il basso corso del fiume, si vide una linea di fuoco alzarsi al di sopra dei grandi alberi. - Toh! un razzo! - aveva esclamato Sambigliong, che aveva potuto scorgerlo prima che si spegnesse. La fronte di Yanez si era abbuiata. - Come mai questi selvaggi posseggono dei razzi di segnalazione? - si chiese. - Capitano, - disse Sambigliong, - ciò è una prova che in tutta questa faccenda vi è lo zampino degli inglesi. Questi ignoranti non li hanno mai conosciuti prima d'ora. - O che li abbia portati quel pellegrino misterioso. - Là, guardate, comandante: si risponde. Yanez si era vivamente voltato verso la prora ed a una notevole distanza, verso l'alto corso del fiume, invece, aveva veduto spegnersi in cielo un'altra linea di fuoco. - Tangusa, - disse, volgendosi verso il meticcio, che non aveva abbandonata la barra. - Pare che si preparino a farci passare una brutta notte, gli ex coltivatori del tuo padrone. - Lo sospetto anch'io, signore, - rispose il meticcio. In quell'istante verso prora si udirono delle esclamazioni. - Lucciole! - O fuochi? - Guarda lassù. - Brucia il fiume! - Signor Yanez! Signor Yanez! Il portoghese in pochi salti fu sul castello di prora, dove si erano già radunati parecchi uomini dell'equipaggio. Tutto l'alto corso del fiume, che scendeva in linea quasi retta con leggeri serpeggiamenti, appariva coperto da miriadi di punti luminosi che ora si raggruppavano ed ora si disperdevano, per riunirsi poco dopo in linee ed in macchie foltissime. Yanez era rimasto talmente sorpreso, che stette per qualche minuto silenzioso. - Qualche fenomeno, capitano? - chiese Sambigliong. - È impossibile che quelle siano lucciole. - Nemmeno io lo credo, - rispose finalmente Yanez, la cui fronte si abbuiava sempre più. Tangusa che aveva affidato momentaneamente la barra a uno dei timonieri, era pure accorso, allarmato da quelle esclamazioni. - Sapresti dirmi di che cosa si tratta? - chiese Yanez, vedendolo. - Quelli sono fuochi che scendono il fiume, signore, - rispose il meticcio. - È impossibile! Se ognuno di quei punti luminosi segnalasse una barca, ve ne dovrebbero essere delle migliaia e non credo che i dayaki ne posseggano tante, nemmeno riunendo tutte quelle che si trovano sui fiumi bornesi. - Eppure sono fuochi, - replicò Tangusa. - Accesi dove? - Non so, signore. - Su dei tronchi d'albero? - Non saprei dirvelo. - Il fatto è che quei fuochi s'avvicinano, capitano, e che la Marianna potrebbe correre il pericolo d'incendiarsi. Yanez lanciò un "per Giove!" tuonante che fece stupire Sambigliong, che non l'aveva mai veduto prima d'allora uscire dai gangheri. - Che cos'hanno preparato quelle canaglie? - esclamò il bravo portoghese. - Capitano, prepariamo per maggior precauzione le pompe. - E arma i nostri uomini di buttafuori e di manovelle per allontanare quei fuochi. Questi maledetti selvaggi cercano d'incendiare la nostra nave. Su lesti, Tigrotti miei: non vi è tempo da perdere. Quelle centinaia e centinaia di punti luminosi ingrandivano a vista d'occhio, trascinati dalla corrente e coprivano un tratto immenso di fiume. Scendevano a gruppi, danzando con un effetto meraviglioso, che in altre occasioni Yanez avrebbe certamente ammirato, ma non in quel momento. Giravano su loro stessi, seguendo i gorghi, formando delle linee circolari e delle spirali, che poi bruscamente si rompevano, oppure delle linee rette che poi diventavano delle serpentine. Un gran numero filava lungo le rive; molti invece, anzi i più danzavano in mezzo, essendo la corrente ivi più rapida. Dove posassero nessuno poteva dirlo, essendo la notte oscura, anche a causa dell'ombra proiettata dalle piante altissime che coprivano le rive. Certo però dovevano ardere su dei minuscoli galleggianti. Tutto l'equipaggio, armatosi frettolosamente di buttafuori, di pennoni, di aste e di manovelle, si era disposto lungo i fianchi della Marianna per allontanare quei fuochi pericolosi. Alcuni erano scesi nella rete delle dolfiniere del bompresso e nelle bancazze per poter meglio agire. - Sempre in mezzo al fiume! - aveva gridato Yanez a Tangusa, che aveva ripresa la barra del timone. - Se prenderemo fuoco, faremo presto a poggiare sull'una o sull'altra riva. La flottiglia giungeva a ondate, correndo addosso alla Marianna la quale s'avanzava lentamente essendo il vento debolissimo. - Recatemi uno di quei fuochi, - disse Yanez ai malesi che si erano calati nella rete della dolfiniera, la cui estremità inferiore sfiorava quasi l'acqua. Tutti i marinai si erano messi all'opera, vibrando furiosi colpi di buttafuori e di manovelle su quei fuochi galleggianti che ormai circondavano la Marianna. Un malese, presone uno, lo aveva recato a Yanez. Si componeva d'una mezza noce di cocco, piena di bambace inzuppato d'una materia resinosa e attaccaticcia che ardeva meglio dell'olio vegetale, di cui fanno ordinariamente uso i bornesi al pari dei siamesi. - Ah! Bricconi! - aveva esclamato il portoghese. - Ecco una trovata meravigliosa che io non avrei mai immaginata! Come sono diventati furbi, da un momento all'altro, questi dayaki! Tigrotti, date dentro a tutta lena; se questo cotone s'attacca ai madieri, arrostiremo come anitre allo spiedo. Aveva gettato via il guscio di cocco e si era slanciato a prora, dov'era maggiore il pericolo, perchè quei fuochi investendo il tagliamare si rovesciavano in gran numero e la materia attaccaticcia e resinosa ond'era imbevuto il cotone poteva attaccarsi al fasciame, dove avrebbe trovato buon alimento nel catrame che lo copriva. I Tigrotti, che avevano compreso il gravissimo pericolo che correva il veliero, non risparmiavano i colpi. Specialmente quelli che si trovavano nella rete della dolfiniera ed a cavalcioni delle trinche, avevano un bel da fare a rovesciare quei minuscoli galleggianti, che giungevano sempre a ondate, scivolando e capovolgendosi lungo i fianchi della Marianna. Tuttavia dei fuochi di cotone di quando in quando s'appiccicavano al fasciame, ed il catrame subito prendeva fuoco, sviluppando un fumo denso ed acre. Guai se quel legno avesse avuto un equipaggio poco numeroso! Le tigri di Mompracem fortunatamente erano bastanti per sorvegliare tutti i bordi e, quando il fuoco cominciava a manifestarsi, le pompe lo spegnevano di colpo con un abbondante getto d'acqua. Quella strana lotta durò una buona mezz'ora, poi i pericolosi galleggianti cominciarono a diradarsi e finalmente cessarono di sfilare, scomparendo verso il basso corso del fiume. - Che ci preparino ora qualche altra sorpresa? - disse Yanez che aveva raggiunto il meticcio. - Vedendo il loro criminoso tentativo andato a male, escogiteranno qualche cosa d'altro. Che cosa ne dici, Tangusa? - Che noi non giungeremo all'imbarcadero del kampong, senza che i dayaki ci diano una seconda battaglia, signor Yanez, - rispose il meticcio. - La preferirei a qualche altra sorpresa, mio caro. Finora però non vedo alcuna scialuppa. - Non siamo ancora giunti, anzi tarderemo assai con questo vento così debole. Se non aumenta, invece del mezzodì dovremo faticare fino alla sera di domani. - E ciò mi rincrescerebbe. Ohè, Tigrotti, aprite gli occhi e tenete le armi in coperta. I tagliatori di teste ci spiano di certo. Accese una sigaretta e si sedette sul capo di banda di poppa, per meglio sorvegliare le due rive. La Marianna, sfuggita miracolosamente a quel secondo pericolo, s'avanzava sempre più lenta, essendo scemata la brezza. Nessun rumore si udiva sulle rive, che erano sempre coperte da alberi immensi che stendevano i loro rami mostruosi sul fiume, rendendo maggiore l'oscurità, eppure nessuno dubitava che degli occhi seguissero nascostamente il veliero. Era impossibile che i dayaki, dopo quel tentativo che per poco non riusciva, avessero rinunciato all'idea di distruggere quella piccola sì, ma poderosa nave che aveva inflitto loro quella sanguinosa sconfitta. Altre cinque o sei miglia erano state guadagnate, senza che alcun nuovo avvenimento fosse accaduto, quando Yanez scorse, sotto le foreste, scintillare dei punti luminosi che apparivano e scomparivano con grande rapidità. Pareva che degli uomini muniti di torce corressero disperatamente fra gli alberi, scomparendo subito in mezzo ai cespugli. Poi dei sibili si udivano in varie direzioni che non dovevano essere mandati da serpenti. - Sono segnali, - disse il meticcio, prevenendo la domanda che Yanez stava per rivolgergli. - Non ne dubitavo, - rispose il portoghese, che ricominciava ad inquietarsi. - Che cosa ci prepareranno ora? - Una sorpresa non migliore dell'altra di certo, signore. Ci vogliono impedire a qualunque costo di giungere all'imbarcadero. - Comincio ad averne le tasche piene, - disse Yanez. - Almeno si mostrassero e ci attaccassero risolutamente. - Sanno che siamo forti e che non manchiamo di artiglierie, signore, ed un assalto diretto non lo tenteranno. - Eppure sento per istinto che quei bricconi preparano qualche cosa contro di noi. - Non dico il contrario e vi consiglierei di non far disarmare le pompe. - Temi che ci mandino addosso un'altra flottiglia di noci di cocco? Invece di rispondere, il meticcio si era vivamente alzato, dando un colpo di barra al timone. - Siamo al passo più stretto del fiume, signor Yanez, - disse poi. - Prudenza o daremo dentro a qualche banco. Il fiume, che fino allora si era mantenuto abbastanza largo, permettendo alla Marianna di manovrare liberamente, si era repentinamente ristretto in modo che i rami degli alberi s'incrociavano. L'oscurità era diventata ad un tratto così profonda che Yanez non riusciva più a discernere le sponde. - Bel luogo per tentare un abbordaggio, - mormorò. - E anche per fucilarci per bene, signore, - aggiunse Tangusa. - Punta le spingarde verso le due rive, Sambigliong! - gridò Yanez. Gli uomini addetti al servizio delle grosse bocche da fuoco avevano appena eseguito quell'ordine, quando la Marianna, che da alcuni minuti aveva accelerata la corsa essendo la brezza diventata più fresca, urtò bruscamente contro un ostacolo che la fece deviare verso babordo. - Che cosa è avvenuto? - gridò Yanez. - Ci siamo arenati? - Ma no, capitano, - rispose Sambigliong che si era slanciato verso prora. - La Marianna galleggia! Il meticcio con un colpo di barra rimise il legno sulla rotta primiera, quando avvenne un secondo urto e la Marianna tornò a deviare indietreggiando di alcuni passi. - Come va questa faccenda? - gridò Yanez, raggiungendo Sambigliong. - Vi è una linea di scoglietti dinanzi a noi? - Non ne vedo, capitano. - Eppure non possiamo passare. Fa' calare in acqua qualcuno. Un malese gettò una fune e dopo averla assicurata, si lasciò scivolare, mentre il veliero per la terza volta tornava a indietreggiare. Yanez e Sambigliong, curvi sulla murata prodiera guardavano ansiosamente il malese che si era gettato a nuoto per cercare l'ostacolo che impediva al legno di avanzare. - Scogliere? - chiese Yanez. - No, capitano, - rispose il marinaio, che continuava a inoltrarsi tuffandosi di quando in quando, senza preoccuparsi dei gaviali che potevano mozzargli le gambe. - Che cos'è dunque? - Ah! Signore! Hanno tesa una catena sott'acqua, e non possiamo avanzare se non la taglieremo. Nel medesimo istante una voce poderosa s'alzò fra gli alberi della riva sinistra, gridando in un inglese molto gutturale: - Arrendetevi, Tigri di Mompracem, o noi vi stermineremo tutti!

. - È appunto perciò che vi consiglierei, innanzi a tutto e prima che abbia luogo la riunione delle due squadre, di tentare un colpo contro i depositi di carbone che si trovano alla foce del Sarawak, - disse Tremal-Naik. - È quel che tenteremo, - rispose Sandokan. - Andremo poi a distruggere quelli che gli inglesi hanno sull'isoletta di Mangalum. Privi dei loro rifornimenti, noi avremo buon gioco sugli uni e sugli altri e potremo gettarci sulle linee di navigazione e dare un colpo mortale ai commerci inglesi colla Cina e col Giappone. Approvate questa mia idea? - Sì, - risposero ad una voce Yanez e Tremal-Naik. - Ho però un altro progetto, - continuò Sandokan dopo un breve silenzio. - Di fare insorgere i dayaki di Sarawak. Tra di loro abbiamo dei vecchi amici, quelli che ci aiutarono a rovesciare James Brooke. Io vorrei mandare a loro un buon carico d'armi onde possano mettersi in campagna. Con noi in mare e quei terribili tagliatori di teste alle spalle, il rajah ed il suo alleato, il figlio di Suyodhana, non si troverebbero certo su un letto di rose. - Supponi che il figlio del capo dei thugs si trovi col rajah? - chiese Tremal- Naik. - Ne sono sicuro, - rispose Sandokan. - E anch'io, - aggiunse Yanez. - Avete dato un appuntamento alla Marianna? - chiese l'indiano. - Ci aspetta al capo Tanjong-Datu con carico di carbone, di munizioni e di armi! - Che vi sia di già? - Lo suppongo. - Allora andiamo a Sarawak, - concluse Tremal-Naik.

- Suppongo che abbia potuto raccogliere una ventina di malesi, signor Yanez. - Avremo così un piccolo esercito che darà da fare a quel maledetto pellegrino. Affrettiamo il passo e cerchiamo di giungere al kampong prima che l'alba sorga. La foresta non permetteva però che si avanzassero così rapidamente come avrebbero desiderato, essendo caduti in mezzo ad una antica piantagione di pepe che avvolgeva gli alberi in una rete assolutamente inestricabile. Le grosse piante non erano riuscite a soffocare i sarmenti altissimi i quali, ripiegandosi verso il suolo e collegandosi coi rotangs ed i calamus o avvolgendosi intorno alle mostruose radici uscite dal suolo per mancanza di spazio, formavano un intrecciamento colossale che opponeva una solida resistenza. - Mano ai parangs, - disse Yanez, vedendo che le due guide non riuscivano a passare. - Faremo rumore, - osservò il pilota. - Non ho già alcuna voglia di tornarmene indietro. - I dayaki possono udirci, signore. - Se ci assalgono li riceveremo come si meritano. Affrettiamoci. A colpi di sciabola riuscirono ad aprirsi un varco e sempre sciabolando a destra ed a manca, continuarono ad inoltrarsi nell'interminabile foresta. Marciavano da un'ora, lottando ostinatamente contro le piante, quando il pilota s'arrestò bruscamente, dicendo: - Fermi tutti. - I dayachì? - chiese sotto voce Yanez, che lo aveva subito raggiunto. - Non lo so, signore. - Hai udito qualche cosa? - Dei rami scricchiolare dinanzi a noi. - Andiamo a vedere, Tangusa, e voi tutti rimanete qui e non fate fuoco se io non vi do il segnale. Si gettò a terra trovandosi dinanzi a un caos di radici e di sarmenti e si mise a strisciare verso il luogo dove il malese asseriva d'aver udito i rami scricchiolare. Il meticcio gli si era messo dietro cercando di non far rumore. Percorsero così una cinquantina di metri e s'arrestarono sotto le enormi corolle d'un fiore mostruoso, un crubul che aveva una circonferenza di oltre tre metri, e che tramandava un odore poco piacevole. Essendovi intorno a quel fiore un po' di spazio libero, era facile scoprire degli uomini che si avanzassero attraverso la foresta. - Padada non si era ingannato, - disse Yanez, dopo essere rimasto qualche po' in ascolto. - Sì, qualcuno si avvicina, - confermò il meticcio. - E questo cos'è? - chiese a un tratto Yanez. In lontananza si udì in quel momento un rombo strano che pareva prodotto dall'avanzarsi di qualche furgone o d'un treno ferroviario. - Non è il tuono, - disse il portoghese. - Non lampeggia ancora, - disse Tangusa. - Si direbbe che un fiume ha rotto gli argini e straripa. - Non è caduta ancora una goccia d'acqua e poi il Kabatuan è lontano. - Che cosa sarà? - E s'approssima rapidamente, signore. - Verso di noi? - Sì. - Taci! Appoggiò un orecchio al suolo ed ascoltò nuovamente, trattenendo il respiro. La terra trasmetteva nettamente quel rombo inesplicabile che pareva prodotto dal rapido avanzarsi di masse enormi. - Non comprendo assolutamente nulla, - disse finalmente Yanez, rialzandosi. - È meglio che ci ripieghiamo verso la scorta; chissà che il pilota non ci spieghi questo mistero. Sgusciarono sotto i giganteschi petali del crubul e rifecero il cammino percorso, scivolando fra gli infinti sarmenti. Quando raggiunsero il luogo ove avevano lasciati i loro uomini, s'avvidero che anche la scorta era in preda ad una viva agitazione, udendosi anche là quel fragore. Solo Padada pareva tranquillo. - Da che cosa proviene questo baccano? - gli chiese Yanez. - È una colonna di elefanti che fugge dinanzi a qualche pericolo, signore, - rispose il pilota. - Saranno certamente moltissimi. - Degli elefanti! E chi può aver spaventato quei colossi? - Degli uomini, io credo. - Che i dayaki si avanzino da ponente? È di là che il fragore viene. - È quello che pensavo anch'io. - Che cosa mi consigli di fare? - Di allontanarci al più presto. - Non incontreremo gli elefanti sulla nostra via? - È probabile, ma basterà una scarica per farli deviare. Hanno una paura incredibile quei colossi degli spari, non essendovi abituati. - Avanti dunque, - comandò il portoghese, con voce risoluta. - Dobbiamo giungere al kampong prima che vi arrivino i dayaki. Si rimisero frettolosamente in cammino sciabolando i rotangs ed i calamus, mentre il fragore aumentava rapidamente d'intensità. Il pilota doveva aver indovinato giusto. Fra il fracasso assordante prodotto dall'incessante crollare delle piante, abbattute dai poderosi ed irresistibili urti di quelle enormi masse lanciate a galoppo sfrenato, si cominciavano a udire dei barriti. Quei pachidermi dovevano essere spaventati da qualche grossa truppa d'uomini, non fuggendo ordinariamente dinanzi ad un drappello di cacciatori. Dovevano essere state le bande dei dayaki a metterli in rotta. Yanez e i suoi uomini affrettavano il passo, temendo di venire travolti nella pazza corsa di quei pachidermi. Avendo trovato degli spazi liberi, si erano messi a correre, guardandosi con spavento alle spalle, credendo di vedersi rovinare addosso quei mostruosi animali. Anche Yanez appariva preoccupato. Avevano raggiunta una macchia formata quasi esclusivamente di enormi alberi della canfora, che nessuna forza avrebbe potuto atterrare, avendo quelle piante dei tronchi grossissimi, quando il pilota per la seconda volta si arrestò, dicendo precipitosamente: - Gettatevi sotto queste piante che sono sufficienti a proteggerci. Ecco che giungono! Si erano appena lasciati cadere dietro a quei tronchi colossali quando si videro apparire i primi elefanti. Sbucavano a corsa sfrenata da una macchia di sunda-matune, gli alberi della notte, così chiamati perchè i loro fiori non si schiudono che dopo il tramonto del sole e dei quali dovevano aver fatta una vera strage nella carica furibonda. Quei colossi, che parevano pazzi di terrore, piombarono di colpo su un ammasso di giovani palme che sbarrava loro la via e le abbatterono come se una falce immensa, manovrata da qualche titano, fosse scesa su quelle piante. Non era che l'avanguardia quella, poichè pochi istanti dopo si rovesciò su quello spazio il grosso, con clamori spaventevoli. Erano quaranta o cinquanta elefanti, fra maschi e femmine, che si urtavano fra loro confusamente, cercando di sorpassarsi. Le loro formidabili trombe percuotevano con impeto irresistibile alberi e cespugli, tutto abbattendo. Vedendone alcuni che pareva volessero scagliarsi verso gli alberi della canfora, Yanez stava per far eseguire una scarica, quando vide dei punti luminosi apparire dietro ai pachidermi che descrivevano delle fulminee parabole. - Silenzio! Che nessuno si muova! I dayaki! - aveva esclamato Padada. Parecchi uomini, quasi interamente nudi, correvano dietro agli elefanti, scagliando sui loro dorsi dei rami resinosi accesi, che subito raccoglievano appena caduti, tornando a lanciarli. Non erano che una ventina, tuttavia i pachidermi, atterriti da quella pioggia di fuoco che cadeva loro addosso senza posa, non osavano rivoltarsi, mentre con una sola carica avrebbero potuto spazzare e stritolare quel piccolo gruppo di nemici. - Non muovetevi e non fate fuoco! - aveva ripetuto precipitosamente Padada. Gli elefanti erano già passati, urtando i primi tronchi della macchia, senza che quelle colossali piante avessero fortunatamente ceduto ed erano scomparsi nel più folto della foresta, sempre perseguitati dai dayaki. - Che siano cacciatori? - chiese Yanez quando il fragore si perdette in lontananza. - Che cacciavano noi, - rispose il malese. - La nostra discesa a terra è stata notata da qualcuno che sorvegliava l'imbarcadero e non essendo probabilmente in numero sufficiente i dayaki che si trovavano nei dintorni, ci scagliano addosso gli elefanti. Vedrete che faranno percorrere a quei colossi tutta la foresta, colla speranza che c'incontrino sulla loro corsa e ci travolgano. - Possiamo quindi rivederli ancora? - È probabile, signore, se non ci affrettiamo a lasciare questa boscaglia ed a rifugiarci nel kampong di Pangutaran. - Siamo lontani molto ancora? - Non ve lo saprei dire, essendo questa parte della foresta così intricata, da non poterci nè orientare, nè correre troppo. Tuttavia suppongo che giungeremo prima dell'alba. - Prima che gli elefanti ritornino, andiamocene. Non si trovano sempre degli alberi della canfora per proteggerci. Mi stupisce però una cosa. - Quale, signore? - Come quei selvaggi abbiano potuto radunare tanti animali. - Li avranno incontrati per caso non essendo domatori come i mahut siamesi o i cornac indiani, - disse Tangusa, che assisteva al colloquio. - Non è raro, in queste foreste, trovare delle truppe di cinquanta e anche di cento capi. - E si presteranno a quel giuoco? - Continueranno a scappare finchè i dayaki avranno fiato e non cesseranno di perseguitarli coi tizzoni accesi. - Non credevo che quei bricconi fossero così furbi. Amici, al trotto! Lasciarono la macchia che li aveva così opportunamente protetti da quella carica spaventevole e si cacciarono entro altri macchioni formati per la maggior parte di alberi gommiferi, di dammeri e di sandracchi, cercando alla meglio di orientarsi, non potendo scorgere le stelle, tanto era folta la cupola di verzura che copriva la foresta. Fortunatamente le piante non crescevano così l'una presso all'altra ed i cespugli e i rotangs erano rari, sicchè potevano marciare più celermente e correre anche meno rischi di cadere in qualche agguato. In lontananza il fragore prodotto dagli elefanti lanciati in piena corsa si udiva ancora, ora intenso ed ora più debole. I poveri animali ora cacciati da una parte, ora respinti verso l'altra, facevano il giuoco dei dayaki, i quali sapevano abilmente guidarli dove desideravano, colla speranza che sorprendessero il drappello in qualche luogo dell'immensa foresta. Padada e il meticcio, sapendo ormai di che si trattava, si regolavano a tempo per tenersi sempre lontani da quel pericolo, conducendo il drappello in direzione opposta a quella seguìta dai pachidermi. Dopo una buona mezz'ora parve finalmente che i dayaki, convinti che le tigri di Mompracem non si trovassero in quella parte della selva, spingessero gli elefanti verso il fiume, poichè il fragore prodotto da quella carica furibonda si allontanò verso il sud, finchè cessò completamente. - Ci credono ancora lontani dal kampong, - disse il pilota, dopo d'aver ascoltato per qualche po'. - Vanno a cercarci verso il Kabatuan. - Quanta ostinazione in quei furfanti, - disse Yanez. - È proprio una guerra a morte che ci hanno dichiarata. - Eh, signor mio, - rispose Padada, - sanno bene che se noi riusciamo a unirci a Tremal-Naik, l'espugnazione del kampong diverrà estremamente difficile. - Io glielo lascio il kampong; non ho alcuna intenzione di stabilirmi qui. Ho l'ordine di condurre a Mompracem Tremal-Naik e sua figlia e non già di fare la guerra al pellegrino, almeno per ora. Più tardi vedremo. - Rinunziate a sapere chi è quell'uomo misterioso che ha giurato un odio implacabile contro tutti voi? - Non ho ancora pronunciato l'ultima parola, - rispose Yanez, con un sorriso. - Un giorno faremo i conti con quel messere. Per ora mettiamo in salvo l'indiano e la sua graziosa fanciulla. Dove siamo ora? Mi pare che la foresta cominci a diradarsi. - Buon segno, signore. Il kampong di Pangutaran non deve essere molto lontano. - Fra poco troveremo le prime piantagioni, - disse il meticcio che da qualche minuto osservava attentamente la foresta. - Se non m'inganno siamo presso il Marapohe. - Che cos'è? - chiese Yanez. - Un affluente del Kabatuan, che segna il confine della fattoria. Alt, signori! - Che cosa c'è? - Vedo dei fuochi brillare laggiù! - esclamò Tangusa. Yanez aguzzò gli sguardi e attraverso uno squarcio delle piante, ad una distanza considerevole, vide brillare nelle tenebre un grosso punto luminoso che non doveva essere un semplice fanale. - Il kampong! - chiese. - O un fuoco degli assedianti? - disse invece Tangusa. - Dovremo dare battaglia prima di entrare nella fattoria? - Prenderemo il nemico alle spalle, signore. - Tacete, - disse in quel momento il pilota, che si era avanzato di alcuni passi. - Che cosa c'è ancora? - chiese Yanez, dopo qualche minuto. - Odo il fiume rompersi contro le rive. Il kampong si trova dinanzi a noi, signore. - Attraversiamolo, - rispose Yanez risolutamente, - e piombiamo sugli assedianti a passo di carica. Tremal-Naik ci aiuterà dal canto suo come meglio potrà.

Che la vecchiaia mi abbia indebolita la vista? - Oh no, ci vedete ancora troppo bene. - Allora? Darma volse il capo verso il mare, fissando i suoi sguardi sulla nave nemica, che forzava la sue macchine e dicendo: - È una grossa nave anche quella. - Che non varrà la nostra - rispose Yanez. - Costringetela ad arrendersi piuttosto che affondarla. Potrebbe esservi utile. - Se è comandata da sir Moreland non abbasserà la bandiera. Quell'uomo, quantunque giovane, deve essere un valoroso e si batterà finchè tutto il suo equipaggio non sarà distrutto. - E non accorderete quartiere a nessuno? - Quando la nave calerà a picco vedremo di salvare i superstiti, te lo prometto, Darma. Ritirati nella cabina con Surama. Qui stanno per piovere le granate. La voce formidabile, sonora come lo squillo d'una tromba, della Tigre della Malesia, echeggiò in quel momento sul ponte: - A tutto vapore, ingegnere di macchina! Pronti pei fuochi di bordata! Dietro le brande i fucilieri! La nave avversaria che doveva essere fornita di macchine poderose, non era più che a duemila metri e muoveva diritta sul Re del Mare delle tigri di Mompracem, come se avesse avuto intenzione di speronarlo o per lo meno di abbordarlo. Era un bell'incrociatore e fornito di sperone, con tre alberi e due ciminiere. Pareva che fosse potentemente armato a giudicarlo dal numero dei suoi sabordi e anche in coperta si scorgevano parecchi pezzi, ma non protetti da torri blindate come quelli delle tigri di Mompracem. Dietro le murate e perfino sulle coffe si vedevano numerosi fucilieri e sul ponte di comando parecchi ufficiali. - Ah! - disse Sandokan, che lo contemplava con occhio tranquillo. - Vuoi misurarti pel primo colle tigri di Mompracem? Siamo pronti a riceverti. Mentre le due fanciulle sgombravano rapidamente la coperta rifugiandosi nel quadro di poppa, Sandokan, Yanez e Tremal-Naik si ritrassero nella torretta di comando dove potevano mettersi in comunicazione col personale di macchina. Gli artiglieri americani, assieme ai migliori puntatori malesi, attendevano dietro ai loro pezzi col cordone tira-fuoco in mano. Ad un tratto una detonazione scoppiò al largo, mentre un getto di fuoco sfuggiva da uno dei due pezzi di prora dell'incrociatore. Si udì un rauco sibilo, che s'avvicinava rapidissimo attraverso gli strati d'aria, poi una vampa s'alzò sull'orlo della prima torretta di babordo del Re del Mare, mentre delle schegge passavano sibilando sopra i fucilieri appiattati dietro le murate. - Granata da dodici pollici! - aveva esclamato Yanez. - Buon tiro! La voce di Sandokan si fece udire subito. - Artiglieri, non vi trattengo più! I due pezzi da caccia di prora avvamparono nell'istesso tempo, mentre quelli della batteria di tribordo, trovandosi a buon tiro, tuonavano a loro volta con rimbombo tale da far tremare tutta la nave. L'incrociatore, che aveva già guadagnato altri cinquecento metri e che manovrava in modo da presentare all'avversario il suo fianco di babordo, fu sollecito a rispondere. Palle e granate cominciavano a cadere in gran numero su entrambi i vascelli, scrosciando lungo i fianchi di ferro e scheggiando i ponti, smussando i pennoni e massacrando le manovre. Le granate, scoppiando, lanciavano in alto getti di fuoco, minacciando ad ogni istante di incendiare le alberature. I fucilieri, coricati dietro le murate, a loro volta avevano aperto il fuoco, facendo delle scariche nutrite. Una fitta nuvola di fumo avvolgeva le due navi, rotta da lampi, mentre il fracasso era diventato così formidabile da soffocare la voce dei comandanti. La nave americana, meglio protetta, meglio armata e anche più rapida, e montata da un equipaggio ormai incanutito fra il fumo delle battaglie, aveva buon gioco contro l'avversario. Le sue poderose artiglierie battevano terribilmente l'incrociatore, coprendolo di fuoco e di ferro, demolendogli le murate, massacrando le sue manovre e aprendogli fori considerevoli nello scafo. Invano la povera nave, che aveva creduto di annientare facilmente i pirati di Mompracem, cercava di tener testa a quell'uragano di ferro che cadeva sui suoi ponti con un orrendo frastuono, facendo strage degli artiglieri della coperta e dei fucilieri. Le sue palle rimbalzavano sulle piastre metalliche del Re del Mare e le sue granate non riuscivano a demolire le torri blindate, dietro le quali gli artiglieri di Mompracem, sotto la direzione dei quartiermastri americani, sparavano al sicuro. Sandokan aveva fatto ritirare sotto coperta i suoi fucilieri, avendo compresa l'inutilità di quegli uomini, necessari sui prahos, ma non su simili navi, e aveva dato il comando di muovere addosso all'incrociatore per dargli l'ultimo colpo. Il Re del Mare, quasi ancora incolume, nonostante il furioso e ininterrotto cannoneggiamento dell'avversario, si era slanciato innanzi descrivendo una immensa curva attorno all'incrociatore che si era fermato. A quattrocento metri gli scaricò addosso una terribile bordata coi pezzi del ponte e quelli di babordo, demattandolo e rasandolo come un pontone. Perfino le due ciminiere erano rovinate in coperta, divelte da due granate scoppiate alla loro base. - È finito, - disse Yanez. - Intimiamogli la resa. - Se si arrenderanno, - rispose Sandokan. Lasciò che il vento diradasse il fumo e fece innalzare sulla cima dell'alberetto maestro la bandiera bianca. La risposta fu una bordata che fulminò metà dei timonieri del Re del Mare. - Non ne avete abbastanza? - gridò Sandokan. - Calatelo a fondo! Fuoco! Fuoco senza tregua! Il cannoneggiamento ricominciò con un crescendo spaventevole. Il Re del Mare continuava la sua rapida corsa circolare opprimendo il disgraziato incrociatore sotto un fuoco spaventevole. La nave americana faceva meraviglie. Pareva un vulcano avvampante, pronto a tutto distruggere. L'incrociatore nondimeno opponeva una resistenza eroica, quantunque ormai fosse ridotto ad un ammasso di rovine. I due pezzi della coperta, smontati da quella grandine di granate, non rispondevano più. Il ponte era pieno di morti e di feriti mescolati a pezzi di murate, a pennoni spaccati, a lembi di manovre cadute dalle alberature sotto gli ultimi uragani di mitraglia ordinati da Sandokan. Getti di fuoco correvano da prora a poppa, illuminando sinistramente il mare, mentre dagli ombrinali di babordo e di tribordo sfuggivano getti di sangue. La nave si sfasciava sotto i colpi furiosi, mortali del Re del Mare. - Basta! - gridò ad un tratto Yanez, che dalla torre di comando assisteva a quella strage. - Cessate il fuoco! Le scialuppe in mare! Sandokan che guardava freddamente, terribilmente impassibile, si volse verso il portoghese, dicendogli: - Che cosa comandi, fratello? - Che il massacro cessi. La Tigre della Malesia ebbe un momento di esitazione, poi rispose: - Hai ragione: salviamo i superstiti. Quegli uomini o meglio il loro comandante è un eroe! Mettete in acqua le scialuppe!

. - Tuttavia dubito che la sua tattica abbia buon successo. Quando i dayaki si slanceranno all'assalto romperanno le loro file. La disciplina militare non può aver fatto presa su questi guerrieri selvaggi. Musica, avanti! I dayaki cominciavano a sparare violentemente. I colpi di cannone si alternavano con scariche nutrite di carabine, senza grande successo, poichè le grosse tavole di legno di tek delle cinte non erano facili a sfondarsi ed i difensori del kampong erano ben protetti dai parapetti. Per di più gli alberi spinosi che si stendevano tutto all'intorno e che avevano rami e fronde fittissime, non permettevano ai fucilieri nemici di poterli mirare. La spingarda collocata sulla piattaforma della torricella aveva tirato il primo colpo contro la colonna, che muoveva verso il punto dove si trovava la saracinesca e la sua palla, di buon calibro, lanciata da Sambigliong, che era un valente artigliere, non era andata perduta. - La prima goccia di sangue è stata sparsa, - disse Yanez. - Speriamo che diventi un fiume. Dai quattro angoli del kampong le tigri di Mompracem, a cui era stato affidato il servizio delle spingarde, si sparava con un crescendo assordante. Non potendo quelle piccole bocche da fuoco controbattere il tiro dei lilà e soprattutto del mirim, sparavano contro le colonne d'assalto, con palle da una libbra, facendo dei larghi vuoti. Le carabine indiane, maneggiate dai malesi e dai giavanesi della fattoria, tutte di tiro lunghissimo, appoggiavano vigorosamente il fuoco delle spingarde, mettendo a dura prova il coraggio degli assalitori. Yanez non perdeva tempo. Sparava un colpo di carabina la cui palla abbatteva quasi sempre un uomo, poi balzava alla spingarda appena era stata ricaricata e prendeva d'infilata la colonna che s'avanzava verso la saracinesca, facendo dei tiri veramente meravigliosi, che stupivano lo stesso Tremal-Naik e che strappavano grida di entusiasmo ai malesi ed ai giavanesi del kampong. I dayaki, che non si sentivano troppo sostenuti dalle loro artiglierie dirette da pessimi tiratori, nè dai loro fucilieri, più abili nel lanciare frecce che palle, cercavano di affrettare il passo, incoraggiandosi con urla ferocissime e coprendosi più che potevano coi loro scudi, come se non potessero venire attraversati dai proiettili delle carabine indiane degli assediati. Il fuoco del kampong, vigorosissimo, li decimava per bene. Le loro colonne soffrivano perdite immense e tuttavia non si scompaginavano ancora. Quando però le spingarde cominciarono a scagliare addosso a loro nembi di mitraglia, coprendoli di chiodi e di frammenti di ferro, si videro oscillare e le linee si aprirono qua e là. - Avanti! - gridava Yanez, che non si prendeva nemmeno la briga di ripararsi dietro il parapetto. - Date dentro e finiremo per mandarli a rotoli. Mitragliateti alle gambe! Ed il fuoco aumentava sempre, coprendo le bande di una vera pioggia di piombo, di ferro e di chiodi. Tigri di Mompracem, malesi e giavanesi gareggiavano in bravura ed in audacia, risoluti a non permettere ai dayaki di giungere sotto le cinte e di slanciarsi all'attacco. Soprattutto le spingarde facevano delle vere stragi gettando a terra, ad ogni scarica di mitraglia, un buon numero d'uomini. Non producevano ferite mortali, è vero, ma mettevano i guerrieri fuori di combattimento, rovinando loro le gambe. Nondimeno, malgrado le enormi perdite, quegli ostinati selvaggi non accennavano ancora ad arrestarsi. Anzi con un ultimo slancio giunsero ben presto dinanzi alla zona alberata, gettandosi coraggiosamente in mezzo alle spine dove si appiattirono per prendere un po' di riposo e per riordinarsi prima di tentare l'ultimo sforzo. - Quella è vera carne da cannone, - disse Yanez, la cui fronte si era abbuiata. - Non credevo che potessero spingersi così vicini. È bensì vero che non sono ancora sulle cinte e che se le spingarde diventano pel momento inutili, tuttavia le carabine e le pistole avranno ancora buon giuoco. - Non inquietarti, amico mio, - disse Tremal-Naik. - Ho preparato loro una sorpresa che produrrà sulla loro pelle maggior effetto dei chiodi. - Ma intanto ci sono sotto. - Lasciali venire. D'altronde le cinte sono alte e le tavole di tek così grosse che i loro kampilang si smusseranno senza riuscire a spaccarle. - M'inquieta il fuoco dei loro pezzi. - Tirano così male! - Che cosa fanno? Non li odo più. - S'avanzano strisciando tra le spine. - È bene assicurata la saracinesca? - Ho fatto mettere le caviglie di ferro e nessuno potrà alzarla. Eccoli! Mentre i lilà e il mirim continuavano a tuonare, aprendo nei panconi delle cinte qualche foro appena sufficiente per lasciar passare una mano e i fucilieri s'avanzavano, sempre disposti in catena, strisciando al suolo e nascondendosi dietro i piccoli rialzi di terreno e dietro i tronchi abbattuti per sfuggire alle scariche della spingarda collocata sul minareto, che non aveva cessato di far fuoco, gli assalitori s'aprivano con precauzione il passo fra le piante spinose. Essendo quasi tutti nudi ed i cespugli e gli arbusti foltissimi e formidabilmente armati di punte acutissime, l'impresa era tutt'altro che facile e lo provavano le grida di dolore che di quando in quando mandavano gli assalitori, che non potevano frenare. - La loro carne va a brandelli, - disse Yanez, che curvo sul parapetto, fra l'apertura lasciata da due sacchi di sabbia collocati dinanzi alla spingarda, li spiava. - Mordono le spine, miei cari. - Eppure passano egualmente quei demoni. Ecco lì il primo che striscia lungo la cinta. - E che non andrà a raccontare ai suoi compagni se è più o meno solida, - aggiunse il portoghese. Puntò la carabina e sparò quasi senza mirare. Il dayako che era riuscito, a prezzo di chissà quali punture, ad attraversare quella formidabile barriera, si levò di colpo sulle ginocchia allargando contemporaneamente le braccia e cadde col cranio attraversato dal proiettile, mandando un urlo rauco. - Fuoco in mezzo alle piante! - gridò Yanez. - Ci sono sotto. Poi facendo girare la spingarda sul perno e abbassando la canna più che potè, lanciò una bordata di mitraglia di traverso, mentre i Tigrotti di Mompracem, i malesi ed i giavanesi ricominciavano il fuoco massacrando arbusti e assedianti insieme. Vociferazioni spaventevoli s'alzarono sotto le piante, segno evidente che non tutti i colpi erano andati perduti, poi una valanga d'uomini si rovesciò verso la saracinesca assalendola a colpi di kampilang, mentre i lilà ed il mirim raddoppiavano il fuoco, cercando di mandare le loro palle sulle terrazze per allontanare i difensori. Tremal-Naik aveva mandato un lungo fischio. Subito si videro uscire dalla cucina otto uomini che portavano delle enormi caldaie che spandevano all'interno un fumo acre e denso. Salirono rapidamente la scala, deponendo le caldaie sul terrazzo sovrastante la saracinesca. - Per Giove! - esclamò Yanez, sentendosi avvolgere da quel fumo che gli strappava dei colpi di tosse. - Che cosa portate qui? - Guardati, Yanez! - gridò Tremal-Naik. - Lascia il posto a questi uomini. - Ma gli altri cominciano a montare. - Il caucciù bollente li farà ridiscendere. Gli otto uomini, armatisi di giganteschi mestoli, cominciarono a rovesciare il liquido fumante contenuto nelle caldaie. Urla, orribili, strazianti, s'alzarono tosto alla base della cinta. I dayaki, spaventosamente ustionati dal caucciù bollente che veniva gettato dall'alto della cinta e senza alcuna economia, si erano scagliati come pazzi in mezzo alle piante, fuggendo a precipizio. Una mezza dozzina di loro, che avevano ricevuto le prime palate del terribile liquido, si dimenavano e si contorcevano dinanzi alla saracinesca, ululando lugubremente come lupi idrofobi. - Per Giove! - esclamò Yanez, facendo un gesto d'orrore. - Questo indiano ha avuto una trovata magnifica! Cucina vivi quei poveri diavoli! I dayaki fuggivano anche dalle altre parti, poichè anche da quelle terrazze gli assediati avevano cominciato ad aspergere coloro che avevano tentato di scalare la cinta. Il fuoco intenso delle spingarde e delle carabine completava la sconfitta degli assedianti i quali ormai non pensavano ad altro che a porsi fuori di portata dalle armi da fuoco dei difensori del kampong e a rifugiarsi nei loro accampamenti. Invano i fucilieri avevano tentato di accorrere in aiuto delle colonne di assalto che si ripiegavano confusamente. Una bordata di mitraglia lanciata da tutte le spingarde li persuase a seguire i fuggiaschi. Due minuti dopo intorno al kampong non restavano che i morti e qualche ferito che stava per esalare l'ultimo respiro.

- Che abbia condotti Tremal-Naik, Darma e i loro uomini a Labuan. - E vorreste sbarcare un paio dei vostri malesi onde vadano ad informarsi? - E raccoglierli più tardi. - Due uomini bianchi avrebbero maggiori probabilità e ve ne sono a bordo di quelli che hanno fegato. Basta pagarli. - Avranno ciò che chiederanno. - Seguitemi, signor Yanez. Quando salirono in coperta, le spiagge di Labuan erano perfettamente visibili, non distando che una dozzina di miglia. L'americano fece armare una scialuppa, chiamò due marinai, due californiani alti come granatieri e li informò del desiderio espresso dal portoghese. - E offro cento sterline a ciascuno se riuscirete a darmi notizie dei miei amici, - aggiunse Yanez. - Andiamo anche all'inferno noi, - rispose uno dei due marinai. - A prendere Belzebù, se lo vorrete, signor comandante, - disse l'altro. - Fra due giorni al più tardi io verrò a raccogliervi. - Di notte? - chiese Bob. - Sì, e segnalerò la nostra presenza con un razzo verde. - Che il diavolo ci porti via se non riusciremo, signor comandante, - rispose il primo. La scialuppa era pronta. I due californiani vi discesero e presero subito il largo arrancando verso l'isola, mentre il Nebraska riprendeva frettolosamente la sua rotta, dirigendosi verso ponente. Un po' più tardi lo strangolatore, dopo che il medico ebbe constatato essere veramente morto, veniva gettato in mare chiuso entro un'amaca e con una palla di cannone ai piedi, onde sottrarlo alla voracità dei pescicani, che si tengono ordinariamente a fior d'acqua. Alle otto di sera il Nebraska, che non aveva rallentata la velocità, si trovava già a mezza via fra Labuan e Mompracem. Il mare era sempre deserto e la luna sorgeva lentamente all'orizzonte, specchiandosi in esso. Una calma assoluta regnava intorno alla nave. Nessuna ondulazione increspava la superficie che pareva d'olio. Yanez, Kammamuri e Sambigliong, dal castello di prora, spiavano ansiosamente l'orizzonte, impazienti di avvistare l'alta rupe su cui sorgeva la dimora della Tigre della Malesia, mentre l'americano, che aveva ripreso momentaneamente il comando della poderosa nave, passeggiava sulla plancia di comando. - Quale sorpresa per Sandokan vedendoci giungere con un simile rinforzo! - disse Sambigliong. - Abbiamo perduto la Marianna e torniamo con una nave che ne vale venti. - Che darà del filo da torcere a Sindhya ed ai suoi alleati, se veramente ne ha, - rispose Yanez. - Che gli inglesi si siano accontentati d'una semplice minaccia, capitano? - È un bel po' che ci hanno fatto capire di andarcene lontani da Mompracem. - E l'ultima minaccia era grave, signor Yanez, - disse Kammamuri. - Non avevo mai veduto Sandokan così preoccupato prima di allora. - Si preparava alla resistenza? - Sì, signor Yanez. Ad un tratto il portoghese impallidì. - Se giungessimo troppo tardi? - chiese con ansietà. - No, è impossibile che abbiano potuto vincere in così breve tempo Sandokan. Ha uomini di ferro e navi e cannoni e batterie formidabili. Le sole forze di Labuan non sarebbero sufficienti per una tale impresa. Fra un'ora sapremo che cosa sarà avvenuto. Si era messo, come era sua abitudine, quando un pensiero lo tormentava, a passeggiare pel castello, colle mani affondate nella tasca e la sigaretta spenta fra le labbra. Passarono quindici o venti minuti. Solo diciotto o venti miglia separavano la Nebraska da Mompracem. Ad un tratto, verso ponente, si udì un rombo lontano, che si propagò sul mare rumoreggiando sinistramente. Yanez aveva interrotta bruscamente la sua passeggiata, mentre l'americano scendeva precipitosamente la plancia di comando. - Un colpo di cannone! - aveva esclamato Yanez. - E viene da Mompracem, signor de Gomera, - disse l'americano, salendo il castello. - Il vento ci soffia di fronte. - Che gli inglesi abbiano assalito l'isola? - Ma ci siamo noi e vi mostrerò la potenza delle nostre artiglierie. Uomini di macchina! A tiraggio forzato e caricate le valvole più che potete. Uomini dei pezzi! Ai vostri posti! Una seconda detonazione rimbombò in quel momento, più distinta della prima, seguìta dopo qualche po' da una serie non interrotta di spari più o meno sonori. Non ci si poteva ingannare. All'orizzonte, in direzione di Mompracem, si combatteva un'aspra battaglia. Yanez e l'americano si erano slanciati sul ponte di comando, mentre gli artiglieri caricavano frettolosamente i pezzi della coperta e delle batterie e si raddoppiava il personale di macchina. - Siamo pronti? - chiese Brien all'ufficiale di quarto che aveva ispezionati rapidamente tutti i pezzi. - Sì, comandante. - Doppia riserva al timone ed in coperta la guardia franca. Le detonazioni continuavano con un fragore crescente. Si udivano quelle secche dei piccoli pezzi e quelle poderose e più prolungate delle artiglierie di grosso calibro. Yanez, un po' pallido per l'emozione, ma calmo, aveva puntato un cannocchiale verso ponente, mentre la nave correva come una rondine marina, lasciandosi dietro una interminabile scia spumeggiante. - Fumo all'orizzonte! - gridò ad un tratto il portoghese. - Vi sono delle navi a vapore laggiù. Sono navi inglesi, non ne dubito. Presto! Presto! - Corriamo il pericolo di saltare, signor de Gomera. Non possiamo forzare di più le caldaie. Un fumo biancastro, che la luce lunare mostrava perfettamente, si alzava verso Mompracem. I colpi spesseggiavano. Si combatteva furiosamente in quella direzione. Poi cominciarono a scorgersi i lampi delle artiglierie. Avvampavano su una vasta zona, come se un gran numero di navi combattessero. - I nostri prahos! - urlò d'improvviso Yanez, staccando dall'occhio il cannocchiale. - La Tigre della Malesia s'allontana al nord. Maledetti! Ancora una volta gli inglesi ci hanno vinti! L'americano gli aveva strappato di mano il cannocchiale. - Sì, i prahos - disse poi, - e cannoneggiati da cannoniere. Veleggiano al nord. - Cannonieri! - gridò Yanez. - Pronti pel fuoco di bordata! Massacrate quelle navi! Il Nebraska si avanzava rapido, in modo da frapporsi fra i velieri che fuggivano sempre sparando, colla Marianna di Sandokan in coda che avvampava come un vulcano e le piccole navi a vapore che li perseguitavano con scariche formidabili. - Eccoci in pieno ballo, - disse l'americano. - Giovanotti! Fuoco di bordata!

- Mentre tu non devi dimenticarti, Sandokan, - aggiunse Yanez con voce grave, - che noi a bordo abbiamo due fanciulle, Surama, la prima donna che io abbia amata e questa fanciulla che per salvarla noi abbiamo intrapresa una guerra contro ai thugs e compiuti mille prodigi. Nemmeno esse sfuggirebbero alla rabbia dei vincitori. Vorresti tu, con questo atto inumano, renderle nostre complici? - La Tigre della Malesia aveva incrociate le braccia, guardando ora Darma ed ora Surama, che s'avanzava lentamente in quel momento, scendendo dal ponte di comando. Il lampo terribile che poco prima gli balenava negli occhi, a poco a poco si spegneva. Ad un tratto tese la mano a Yanez, senza parlare, scosse due o tre volte il capo, poi si mise a passeggiare, fermandosi di quando in quando a guardare le navi che continuavano la loro rotta, passando al largo delle Romades. Il Re del Mare le seguiva sempre, mantenendo la distanza. La notte trascorse senza che Sandokan avesse preso un momento di riposo. Aveva continuato a passeggiare in coperta, fra le torri, senza mai aprire bocca. Quando però i primi albori cominciarono a diffondersi pel cielo, fece accelerare la marcia dell'incrociatore, comandando agli artiglieri di prendere i loro posti di combattimento. Con una rapida manovra si portò a poche gomene dalle due navi e fece issare la sua bandiera, appoggiandola con un colpo in bianco. Urla acutissime si erano alzate dai due trasporti, i cui ponti si erano gremiti di soldati, pallidi di terrore. - Mettetevi in panna e arrendetevi a discrezione o vi affondo, - aveva fatto segnalare Sandokan. Nel medesimo tempo aveva fatto puntare le artiglierie sulle due navi, pronto a far eseguire alla lettera la minaccia.

Il nostro compatriotta ci ha detto che è stato un uomo che si fa chiamare il Re del Mare ma che pare abbia l'appoggio, più o meno velato, del governatore di Labuan e del rajah. - Non sa chi è costui? - chiese Yanez. - Lui stesso lo ignora, non avendolo mai veduto. Ma tuttavia ha assicurato che quell'uomo è potente e che è amico del rajah - disse il marinaio. Si volse verso il comandante americano: - Volete sbarcare qui? - gli chiese. - Preferirei piuttosto qui che su di un'altra costa. - Non avrete dei fastidi da parte degli inglesi, dopo quello che avete fatto? - Nessuno mi conosce, signore, e poi sono suddito americano e gli inglesi non oseranno molestarmi. D'altronde inventerò una storiella qualunque per spiegare la mia presenza sulle coste di Labuan: un naufragio per esempio avvenuto molto al largo, la presa della mia nave da parte dei pirati bornesi o qualcos'altro. Non inquietatevi per me. - V'incarichereste di affidare una lettera all'ufficio postale di Victoria pel governatore di Labuan? - Figuratevi se vi negherei un tal favore, signore. - Vi avverto che si tratta d'una dichiarazione di guerra. - Me l'ero immaginato, - rispose l'americano. - Mi guarderò dall'avvertire il governatore di averla impostata io. - Yanez, - disse Sandokan, volgendosi all'amico, - preleva dalla mia cassa, che si trova nella mia cabina della Marianna, mille sterline che regalerai all'equipaggio americano e fa' preparare le scialuppe onde sbarchi. Scendo un momento nel quadro a scrivere la lettera pel governatore. Quando tornò sul ponte, l'equipaggio americano che doveva lasciare la nave, escluso il personale di macchina ed i due quartiermastri cannonieri che avevano già firmato l'arruolamento, lo salutò con un formidabile: - Hurrà alla Tigre della Malesia! Hurrà! Hipp! Hipp! Hipp! Sandokan reclamò con un gesto un breve silenzio, poi fatti salire a bordo della nave i comandanti dei prahos e la maggior parte dei suoi Tigrotti, lesse ad alta voce: Noi Sandokan, soprannominato Tigre della Malesia, ex principe di Kini-Ballon e Yanez de Gemerà legittimi proprietarii dell'isola di Mompracem, notifichiamo al signor governatore di Labuan che da oggi dichiariamo la guerra all'Inghilterra, al rajah di Sarawak ed all'uomo che è da loro protetto. Da bordo del Re del Mare: 24 maggio 1868. SANDOKAN E YANEZ DE GOMERA Un urlo terribile, selvaggio, si scatenò come un uragano dai petti delle terribili tigri di Mompracem. - Viva la guerra! Morte ed esterminio alle giacche rosse! - Signore, - disse il comandante americano, tendendo a Sandokan la destra, - vi auguro di dare a quel prepotente di John Bull una dura lezione. Della potenza della nave che v'ho venduto, ne rispondo pienamente e nessun'altra che si trovi in questi mari potrà tenervi testa. Prima però di lasciarvi vi voglio fare una domanda e darvi un consiglio. - Parlate, - disse Sandokan. - La nave non possiede che cinquecento tonnellate di carbone, provvista che, anche economizzata, non potrà durarvi più d'un mese. Servitevi più che potete delle vele, perchè dopo la vostra dichiarazione di guerra, avrete chiusi i porti olandesi e del sultanato di Bruni che si manterranno indubbiamente neutrali e che si rifiuteranno di provvedervi. - Avevo già pensato a questo, - rispose Sandokan. - Mandate, quindi, prima che la guerra scoppi, la vostra Marianna a caricare carbone a Bruni e datele un appuntamento in qualche punto della baia di Sarawak onde la vostra nave non rimanga senza combustibile in sul più bello della guerra. Il carbone per voi non sarà meno prezioso della polvere, ricordatevelo. - In caso disperato andrò a saccheggiare i depositi che gli inglesi hanno su certe isole pel rifornimento delle loro squadre, - rispose Sandokan. - Ed ora, signori, buona fortuna, - disse l'americano, stringendo energicamente le mani ai due antichi pirati di Mompracem. Mise la lettera nel portafoglio e scese la scala. Il suo equipaggio aveva già preso posto nelle imbarcazioni che erano guidate da numerosi pirati. La squadriglia prese subito il largo, dopo un altro fragoroso urrah. Mezz'ora dopo, le imbarcazioni, sbarcato l'equipaggio americano sulla spiaggia di Labuan, fecero ritorno. La Marianna ed i prahos avevano sciolte le vele, pronti a salpare pel nord e raggiungere il porto amico di Ambong, con equipaggi ridotti, essendo la maggior parte dei loro marinai passati sull'incrociatore. - Ed ora, - disse Sandokan, quando ebbe dato gli ultimi ordini ai comandanti dei legni e che questi si misero in marcia, - andiamo a liberare Tremal-Naik ed abbattere la potenza del rajah di Sarawak, suoi alleati e protetti. Un momento dopo, il Re del Mare, come era stata battezzata la poderosa nave americana, si slanciava a tutto vapore verso il sud, per raggiungere la baia di Sarawak.

Chissà che domani il mio cervello non abbia trovato qualche buona idea. Certi che gli assedianti, colla terribile batosta ricevuta, non sarebbero tornati alla riscossa, i tre uomini che erano stanchissimi si ritrassero nelle loro stanze non certo lieti, specialmente il portoghese e Tremal-Naik, della brutta piega che prendevano le cose. La notte passò tranquilla. I dayaki, scoraggiati e anche addolorati per le gravi perdite subite, non avevano più osato lasciare i loro accampamenti che dovevano rigurgitare di feriti. Gli uomini di guardia del kampong udirono fino all'alba rullare i tamburoni e i lamenti dei parenti dei morti rimasti nei fossati delle cinte, che nessuno aveva levati di là. Al mattino seguente Yanez, che aveva dormito male e pochissimo, angosciato dalle tristi notizie recate dal maharatto, era già in piedi prima ancora che il sole fosse spuntato all'orizzonte. Pareva che fosse tormentato da qualche idea, perchè, invece di scendere nella sala per farsi servire il thè come faceva tutte le mattine, raggiunse il terrazzo su cui esisteva ancora un pezzo della torretta di legno che le artiglierie nemiche avevano demolito e di lassù si mise ad osservare attentamente le cinte e la disposizione interna del kampong. La fattoria formava un vasto parallelogrammo, tagliato a metà dal bengalow e dalle tettoie e da una palizzata in modo da poter dividere la difesa. La prima parte, dove trovavasi la saracinesca, comprendeva i fabbricati in muratura: la seconda le aie e le abitazioni della servitù e dei campieri e i recinti degli animali. Fu quella disposizione, prima non attentamente notata, che colpì il portoghese. - Per Giove! - mormorò, stropicciandosi allegramente le mani. - Ciò si presta meravigliosamente al mio progetto. Tutto dipende dalla provvista delle cantine del mio amico Tremal-Naik. Se il bram abbonda il colpo è fatto. I dayaki non sono meno golosi dei negri e anche su loro i forti liquori esercitano un fascino irresistibile. Cane d'un pellegrino! Ti preparerò un tiro da maestro. Ridiscese visibilmente soddisfatto e trovò Tremal-Naik e Kammamuri nel salotto, che stavano vuotando alcune tazze di thè. - Hai trovato nessuna buona idea che ci permetta di andarcene? - chiese, rivolgendosi al padre della fanciulla. - Ho tormentato invano tutta la notte il mio cervello, - rispose Tremal-Naik che sembrava assai abbattuto. - Non vi sarebbe che un solo tentativo da fare, un tentativo disperato. - Quale? - Di aprirci il passo attraverso le file degli assedianti coi parangs in pugno. - E farci probabilmente massacrare, - rispose Yanez. - Trenta contro trecento, avendo ormai dieci o dodici uomini feriti che non varranno gran che in una lotta corpo a corpo; brutto affare. - Non ho trovato altro di meglio. - Di quanti vasi di bram disponi? - chiese bruscamente Yanez. - A che cosa potrebbe servirci quel liquore? - chiesero ad una voce Tremal-Naik e Kammamuri guardandolo con sorpresa. - Per farci scappare, amici miei. - Scherzi, Yanez. - No, Tremal-Naik. D'altronde il momento sarebbe male scelto. Sei ben provvisto? - Le mie cantine sono piene, provvedendo io tutte le tribù dei dintorni. - I dayaki sono buoni bevitori, vero? - Come tutti i popoli selvaggi. - Se trovassero sui loro passi un centinaio di vasi di quel liquore, a loro disposizione, credi tu che si fermerebbero per vuotarli? - Non glielo impedirebbe nemmeno il cannone, - rispose Tremal-Naik. - Allora, miei cari amici, il pellegrino è giocato, - disse Yanez. - Non ti comprendiamo. - Il kampong è diviso in due dalla palizzata interna? - Sì, l'ho fatto appositamente costruire per opporre maggiore resistenza nel caso che il nemico avesse potuto forzare la saracinesca, - rispose Tremal-Naik. - L'idea è stata buona, amico mio, e ci servirà magnificamente in questo momento. Noi concentreremo tutte le nostre difese verso le aie e le abitazioni dei servi, lasciando ai dayaki il passo libero e abbandonando loro il bengalow e le tettoie. - Come! - esclamò Tremal-Naik. - Tu cederesti loro le nostre migliori opere di difesa? - Non ci servirebbero più dal momento che abbiamo deciso di evacuare la piazza, - rispose Yanez. - Anzi abbatteremo una parte della cinta che guarda la saracinesca per attirare meglio i dayaki. - La palizzata interna non è molto solida. - Mi basta che resista qualche ora e poi i dayaki non si affaticheranno ad abbatterla. Preferiranno bere il tuo bram, - disse Yanez ridendo. - Noi collocheremo nel cortile tutti i vasi che contiene la tua cantina e vedrai che quella barriera li arresterà meglio di qualunque altra. - Si ubriacheranno, ne sono certo. - È quello che desidero; perchè noi ne approfitteremo per andarcene, dopo d'aver incendiato il bengalow e le tettoie. Protetti dalla barriera di fuoco, nessuno ci molesterà almeno per alcune ore. - Tippo Sahib, il Napoleone dell'India non sarebbe certo capace di architettare un simile piano. - Quella non era una tigre di Mompracem, - disse Yanez con comica serietà. - Cadranno nel laccio i dayaki. - Non ne dubito. Appena si accorgeranno che la saracinesca è aperta e che le terrazze sono state abbandonate e disarmate, non indugieranno ad assalirci. Sotto gli arbusti spinosi non mancano delle spie che si affretteranno ad avvertirli. - A quando il colpo? - chiese Kammamuri. - Tutto deve essere pronto per questa sera. Le tenebre ci sono necessarie per fuggire senza essere veduti. - All'opera Yanez, - disse Tremal-Naik. - Io ho piena fiducia nel tuo piano. - Hai un cavallo per Darma? - Ne ho quattro e buoni. - Va benone, faremo correre i dayaki fino alla costa. Quanto hai impiegato tu, Kammamuri, a raggiungerla? - Tre giorni, signore. - Cercheremo di arrivare prima. I villaggi di pescatori non mancano e qualche praho o delle scialuppe sapremo trovarle. L'audace progetto fu subito comunicato ai difensori del kampong e da tutti approvato senza obiezioni. D'altronde, non vi era nessuno che non fosse disposto a fare un supremo tentativo per liberarsi da quell'assedio che cominciava a pesare e demoralizzare la piccola guarnigione. I preparativi vennero cominciati. Le spingarde vennero ritirate e piazzate dietro la palizzata interna, su terrazze frettolosamente costruite, essendo la fattoria fornita di legname, poi le cantine furono vuotate portando tutto il bram nel cortile che si estendeva dinanzi al bengalow. Vi erano più di ottanta vasi, della capacità di due e anche tre ettolitri ciascuno; tanto liquore da ubriacare un esercito, essendo quella mistura fermentata, di riso, di zucchero e di succhi di palme diverse, eccessivamente alcolica. Verso il tramonto, la guarnigione abbattè una parte della cinta e dopo aver isolate le terrazze, le incendiò per meglio attirare i dayaki e far loro credere che il fuoco fosse scoppiato nel kampong. Terminati quei diversi preparativi e preparate delle cataste di legna sotto le tettoie e nelle stanze terrene del bengalow, abbondantemente innaffiate di resine e di caucciù onde ardessero immediatamente, la guarnigione si ritrasse dietro la palizzata in attesa del nemico. Come Yanez aveva preveduto, gli assedianti attratti dai bagliori dell'incendio che divorava le terrazze contro cui si erano fino allora infranti i loro sforzi e fors'anche avvertiti dai loro avamposti celati sotto gli arbusti spinosi, che le cinte erano state sfondate, non avevano indugiato a lasciare i loro accampamenti per muovere ad un ultimo assalto. Presa fra il fuoco ed i kampilang, la guarnigione del kampong non doveva tardare ad arrendersi. Calavano le tenebre quando le sentinelle che vegliavano sui due angoli posteriori della fattoria annunciarono il nemico. I dayaki avevano formato sei piccole colonne d'assalto e s'avanzavano di corsa, mandando clamori assordanti. Si tenevano ormai certi della vittoria. Quando Yanez li vide entrare fra gli arbusti, fece dare fuoco alle cataste di legna accumulate sotto le tettoie e nelle stanze del bengalow, poi appena vide che i suoi uomini erano in salvo, fece tuonare le spingarde per simulare una disperata difesa. I dayaki erano allora davanti alle cinte. Vedendole in parte abbattute ebbero un momento di esitazione temendo qualche agguato, poi passarono correndo sotto le terrazze che finivano di ardere e si rovesciarono all'impazzata nel kampong, urlando a squarciagola, pronti a sgozzare i difensori a colpi di kampilang. Yanez vedendoli slanciarsi verso gli enormi vasi che formavano come una doppia barriera dinanzi al bengalow, aveva dato ordine di sospendere il fuoco per non irritare troppo gli assalitori. Vedendo quei recipienti, i dayaki per la seconda volta si erano arrestati. Un resto di diffidenza li tratteneva ancora non sapendo che cosa potessero contenere. L'alcol che si sprigionava dai coperchi, che erano stati appositamente smossi, non tardò a giungere ai loro nasi. - Bram! Bram! Fu il grido che uscì da tutte le gole. Si erano precipitati sui vasi, strappando i coperchi e tuffando le mani nel liquido. Urla di gioia scoppiarono tosto fra gli assedianti. Una bevuta s'imponeva, tanto più che i difensori avevano sospeso il fuoco. Un sorso, solo un sorso e poi avanti all'attacco! Ma dopo le prime gocce tutti avevano cambiato parere. Era meglio approfittare dell'inazione della guarnigione del kampong; d'altronde era infinitamente migliore, quell'ardente liquore, delle palle di piombo. Invano i capi si sfiatavano per cacciarli innanzi. I dayaki erano diventati ostriche attaccate al loro banco colla differenza che si erano invece incrostati ai vasi. Ottanta vasi di bram! Quale orgia! Mai si erano trovati a simile festa. Avevano gettato perfino gli scudi ed i kampilang e bevevano a crepapelle, sordi alle grida e alle minacce dei capi. Yanez e Tremal-Naik ridevano allegramente, mentre i loro uomini staccavano senza troppo rumore alcuni tavoloni dalla cinta per prepararsi la ritirata. Intanto le tettoie cominciavano ad ardere e dalle finestre del bengalow uscivano torrenti di fumo nero. Fra pochi istanti una barriera di fuoco doveva frapporsi fra gli assedianti e gli assediati. I dayaki non parevano preoccuparsi dell'incendio che minacciava di divorare l'intero kampong. Insaziabili bevitori continuavano a dare dentro ai vasi, urlando, ridendo, cantando, e contorcendosi come scimmie. Bevevano colle mani, coi panieri destinati a contener le teste dei vinti nemici, con gusci di noci di cocco trovati per il cortile. I loro stessi capi avevano finito per imitarli. Il terribile pellegrino dopo tutto era al campo e non poteva vederli. Perchè non avrebbero approfittato di quell'abbondanza, dal momento che gli assediati si mantenevano tranquilli? E gli uomini cadevano, come fulminati, pieni da scoppiare, intorno ai vasi, mentre le fiamme s'alzavano altissime facendo piovere su di loro una pioggia di scintille. Il bengalow era tutto in fuoco e le tettoie, piene di provviste, ardevano come zolfanelli, illuminando i bevitori. Era il momento di andarsene. I dayaki non si ricordavano forse di non aver più dinanzi il nemico, tanto la loro ubriachezza era stata rapida. - In ritirata! - comandò Yanez. - Abbandonate tutto fuorchè le carabine, le munizioni ed i parangs. Aiutando i feriti, lasciarono silenziosamente la palizzata, attraversarono la cinta e si slanciarono a corsa sfrenata attraverso la pianura, preceduti da Tremal-Naik e da Kammamuri che cavalcavano a fianco di Darma. La tigre li seguiva spiccando salti immensi, spaventata dalla luce dell'incendio che diventava sempre più intensa. Raggiunto il margine della boscaglia che si estendeva verso ponente, il drappello che si componeva di trentanove persone, compresi sette feriti, s'arrestò per prendere fiato e anche per osservare ciò che succedeva nel kampong e negli accampamenti dei dayaki. La fattoria pareva una fornace. Il bengalow che era costato tante fatiche al suo proprietario, ardeva dalla base alla cima come una fiaccola immensa, lanciando in aria fitte nubi di fumo e sprazzi di scintille. Le cinte avevano pure preso fuoco e rovinavano assieme alle terrazze. Si udivano gli scoppi delle spingarde che erano state abbandonate ancora cariche. Degli uomini s'aggiravano affannosamente trascinando i guerrieri che si erano ubriacati e che correvano il pericolo di essere bruciati accanto ai vasi di bram. Il pellegrino doveva aver tenuto alcuni drappelli di riserva per appoggiare le colonne d'assalto nel caso che non fossero riuscite a penetrare nel kampong e, non udendo più nè spari nè grida di guerra, erano certamente accorsi per vedere che cosa era successo dei loro compagni. - Che l'inferno bruci tutte quelle canaglie, - disse Yanez inforcando uno dei quattro cavalli che gli era stato condotto da Tangusa. - Solo mi spiace andarmene senza aver potuto mettere le mani su quel cane di pellegrino. Spero di ritrovarlo un giorno sul mio cammino e allora guai a lui! - Un giorno? - disse ad un tratto Kammamuri, che aveva volti gli sguardi verso il nord. - Gambe, signori! Siamo stati scoperti e ci danno la caccia!

Pare che se ne intenda di cose di guerra e che abbia dedicate tutte le sue cure alla sua artiglieria. Non marciano mica male, gli artiglieri! Manovrano come coscritti di tre mesi! - E non tirano male, ve lo assicuro, capitano, - disse Sambigliong. - Battevano la Marianna per bene, prendendola d'infilata da prora a poppa. - Che quel dannato pellegrino sia stato prima soldato? - si chiese Yanez. - Chi diavolo può essere quell'uomo misterioso? - Yanez, - disse Tremal-Naik, guardandolo con una certa espressione, - credi tu che noi potremo resistere a lungo? - Come artiglieria siamo debolucci in confronto a loro, - rispose il portoghese, - ora che non abbiamo più i nostri due pezzi da caccia, ma prima che gli assedianti montino all'assalto, ci vorrà del tempo e decimeremo per bene le loro colonne, se vorranno tentare di espugnare a viva forza la nostra fortezza. Basta che i viveri e le munizioni non ci vengano a mancare. - Ti ho già detto che siamo ben forniti, specialmente dei primi. Tutte le tettoie ne sono piene. - Allora terremo duro fino a che tornerà Kammamuri. Sapendoci in pericolo, Sandokan non indugerà a mandarci altri soccorsi. Quanto avrà impiegato a raggiungere la costa? - Non meno d'una settimana. - Sicchè a quest'ora dovrebbe essere a Mompracem. - Lo spero, se i dayaki non lo hanno ucciso, - rispose Tremal-Naik. - Uhm! Assalire un uomo che è scortato da una tigre! Nessuno avrebbe osato attaccarlo. Quindi, a conti fatti, fra una quindicina di giorni potrebbe essere qui. Terremo duro fino allora e intanto cercheremo di divertire i dayaki facendoli ballare a colpi di mitraglia. - E se Sandokan non ci mandasse soccorsi? - In tal caso, mio caro amico, ce ne andremo, - rispose Yanez, colla sua calma abituale. - Con tutti questi assedianti?! - Vedremo se fra quindici giorni saranno così numerosi. Non caricheremo già le spingarde con patate e le carabine con uova di passeri. Terminiamo la nostra ispezione, mio caro Tremal-Naik, e vediamo di fortificare i punti più deboli. Dobbiamo resistere e resisteremo. Mentre riprendevano il loro giro, i dayaki si erano accampati intorno alla fattoria, tenendosi fuori di portata dai tiri delle spingarde, costruendo rapidamente, con rami e con foglie di banano, delle capannuccie per ripararsi dagli ardenti raggi del sole, mentre i loro artiglieri innalzavano senza indugio delle piccole trincee formate di terra e sassi e piazzavano i loro pezzi in modo da poter battere la fattoria tutta all'intorno. Quei cannoni non potevano recare quindi danno alle massiccie tavole che formavano la cinta, essendo il tek un legno durissimo che offre una grande resistenza, tuttavia quando Yanez, terminata l'ispezione, salì sulla torricella con Tremal-Naik e Sambigliong, per dominare tutta la pianura, non potè frenare un gesto di stizza. - Quel pellegrino deve essere stato un soldato, - ripetè. - I dayaki non avrebbero mai pensato innalzare delle trincee, nè a scavare dei fossati per ripararsi dai tiri degli avversari. - Lo vedi? - chiese in quel momento Tremal-Naik. - Chi? - Il pellegrino. - Come! Osa mostrarsi? - Guardalo là, in piedi su quel tronco d'albero che gli artiglieri hanno fatto rotolare dinanzi al mirim per rinforzare la trincea. Yanez guardò attentamente nella direzione indicata, poi, tratto da una tasca un binoccolo di marina, lo puntò. Sul tronco stava un uomo molto alto e molto secco, vestito tutto di bianco, con alamari d'oro, con scarpe rosse a punta rialzata come usano i ricchi bornesi di Bruni ed il capo difeso da un ampio turbante di seta verde che gli calava fino sugli occhi. Pareva che avesse cinquanta o sessanta anni. La sua pelle era assai abbronzata, ma non così oscura nè opaca come quella dei malesi e dei dayaki e anche i suoi lineamenti, che Yanez distingueva benissimo, erano molto più fini e più perfetti di quelli delle due razze dominanti le grandi isole malesi. - Parrebbe un arabo o un birmano, - disse Yanez, dopo di averlo osservato a lungo. - Un dayako no di certo e nemmeno un malese. Da dove sarà piombato costui? - Non lo hai mai veduto? - chiese Tremal-Naik. - Frugo e rifrugo nella mia memoria e mi convinco sempre più di non aver mai avuto a che fare con quell'uomo, - rispose il portoghese. - Eppure in qualche luogo dobbiamo averlo veduto. Il suo odio contro di me e anche contro di voi, avendo udito narrare che dopo di me si sarebbe anche occupato delle tigri di Mompracem, deve essere stato motivato da qualche cosa. - Ah! Vorrebbe prendersela anche con Mompracem, - disse Yanez, sorridendo. - Si capisce che non conosce ancora quanto valgono i nostri Tigrotti. - Si provi a rovesciare le sue orde sulle coste della nostra isola! Vedrà quanti dayaki torneranno alle loro natie foreste. Ah! La danza di guerra! Brutto indizio. - Che cosa vuol dire, Yanez? - Che i dayaki si preparano alla pugna. Si esaltano prima colla danza quando mettono mano ai kampilang. Sambigliong, va' ad avvertire i nostri uomini di tenersi pronti e fa' portare le spingarde ai quattro angoli della fattoria, onde possano battere tutti i punti dell'orizzonte. Quando i dayaki si muoveranno, verremo noi a dirigere la difesa. Un centinaio e mezzo di guerrieri, che tenevano in ambo le mani una sciabola, si erano staccati dal grosso su quattro colonne avanzandosi verso il kampong, per eseguire la danza di guerra. Giunti a cinquecento passi dalla cinta, mandarono un urlo altissimo, un urlo di sfida, poi formarono quattro circoli, mettendosi a ballare disordinatamente. Nel centro avevano deposto i loro kampilang, incrociando l'uno coll'altro in modo da occupare un vasto spazio, poi alcuni avevano tratto dai panieri che portavano appesi al fianco, alcune teste umane che parevano recise di recente, collocandole fra i gruppi formati dalle sciabole. Vedendo quelle teste, Yanez aveva fatto un gesto d'ira, a malapena represso. - Miserabili! - aveva esclamato. - Appartenevano ai tuoi uomini, è vero mio povero amico? - disse Tremal-Naik. - Sì, - rispose il portoghese. - Devono aver pescato i cadaveri lanciati nel fiume dall'esplosione, per impadronirsi delle loro teste. Noi non faremo altrettanto ma, vivaddio, contraccambieremo con piombo senza risparmio. - Vuoi che li mitragliamo giacchè sono a buona portata? - Non ancora. Dobbiamo lasciare a loro di sparare il primo colpo. I dayaki intanto continuavano a sgambettare come scimmie o come ubriachi in delirio, ululando spaventosamente, dimenando le braccia e contorcendosi, mentre alcuni suonatori percuotevano con delle mazze dei tamburoni di legno coperti con una pelle di tapiro. Ora i danzatori procedevano a passo cadenzato, poi spiccavano salti come se calpestassero dei carboni accesi, finalmente si davano ad una corsa pazza, impugnando certe specie di kriss, come se inseguissero dei nemici fuggenti. Quella danza durò una buona mezz'ora, poi, i guerrieri esausti, trafelati, rientrarono nei loro accampamenti. Successe un profondo silenzio che si prolungò per alcuni minuti, poi un urlo formidabile, mandato da tutti i combattenti, echeggiò nella pianura, propagandosi sotto i boschi che la circondavano. - Si preparano all'attacco? - chiese Tremal-Naik a Yanez che aveva puntato nuovamente il binocolo. - No: vedo un uomo che esce dalla tettoia abitata dal pellegrino con una banderuola verde infissa su una lancia. - Che ci mandi un parlamentario? - Sembra, - rispose il portoghese. - A proporci la resa? - La pace no di certo. Un dayako, un qualche famoso guerriero a giudicarlo dalle lunghe penne che gli ornavano la testa e dalla straordinaria quantità di braccialetti di ottone che portava alle braccia e alle caviglie, aveva lasciato il campo, seguìto da un altro che reggeva a stento uno di quei grossi tamburi di legno che avevano servito poco prima per accompagnare i danzatori. - Cospettaccio! - esclamò il portoghese. - Ecco un parlamentario in piena regola; invece d'avere un trombettiere ha un tamburino o meglio un tamburone. Quel pellegrino deve essere un uomo civilissimo. Scendiamo, Tremal-Naik, e andiamo a udire che cosa ci manda a dire il generalissimo dei dayaki. - Avevano appena lasciata la torretta e raggiunta la terrazza che si alzava sopra la saracinesca, quando il parlamentario giunse, chiedendo di voler parlare all'uomo bianco. - Non sono io il padrone del kampong, - disse il portoghese, curvandosi sul parapetto e guardando con curiosità il guerriero ed il suo tamburino. - Non importa, - rispose il parlamentario. - Il pellegrino della Mecca, il discendente del gran Profeta, desidera che io comunichi solamente coll'uomo bianco, il fratello della Tigre della Malesia. - Per Giove! - esclamò Yanez, ridendo. - Due fratelli di colore diverso! Quel pellegrino deve essere un grande sciocco. Poi alzando la voce, proseguì: - Mi dirai allora che cosa ha da dirmi il discendente del Profeta. - Egli ti manda a dire che accorda per ora la vita a te ed ai tuoi uomini, a condizione che tu gli ceda Tremal-Naik e sua figlia. - E per cosa farne di loro? - Per decapitarli, - rispose candidamente il guerriero. - Mi dirai almeno per quale motivo. - Allah così vuole. - Dirai allora che il mio Allah invece non lo vuole e che io sono qui venuto per far rispettare il suo desiderio e che sono pronto a difendere i miei amici. - Ti ripeto che Allah ed il Profeta hanno decretato la morte di quell'uomo e di quella fanciulla. - Io me ne infischio di loro e di quell'imbroglione di pellegrino che vi ha fanatizzati dandovi da bere delle panzane. - Il pellegrino è uomo che ha compiuto dei miracoli sotto i nostri occhi. - E non sotto i miei e gli dirai anzi che lo sfido a farne qualcuno. Fino a prova contraria non lo crederò altro che un intrigante che abusa della vostra dabbenaggine o dei vostri istinti sanguinari. - Io andrò a riportare a lui le parole dell'uomo bianco. - Senza fretta, giacchè noi non ne abbiamo, - disse Yanez, ironicamente. Il tamburino fece echeggiare per tre volte il suo pesantissimo istrumento che risuonò come il tuono udito in lontananza, poi i due selvaggi tornarono verso l'accampamento dove tutti i guerrieri pareva che li aspettassero con viva impazienza. - Quel pellegrino deve essere il più gran furbo che viva sotto la cappa del cielo, - disse Yanez a Tremal-Naik, quando i due parlamentari si furono allontanati. - Che specie di miracoli può aver compiuto quell'uomo per persuadere i dayaki d'essere un semi-dio? Vorrei saperlo. - Qualche cosa deve evidentemente aver fatto, - rispose l'indiano. - Non ci si impone da un momento all'altro a questi selvaggi che sono per natura diffidenti. - Armi, denari e miracoli! - esclamò Yanez. - Con tuttociò si domano anche gli antropofagi della Malesia. E non sapere per quali cause quell'uomo se la prende con noi! - Con me e con mia figlia, - corresse Tremal-Naik. - Per ora e poi? ... E poi non mi fiderei delle promesse di quell'impostore. Toh! Ecco il parlamentare che ritorna. Comincia a diventare noioso lui e anche il suo tamburone. Se si mostra ancora gli farò tirare nelle gambe una scarica di pallottole o di chiodi. - Uomo bianco, - disse il parlamentario, quando giunse sotto il terrazzo, - il pellegrino mi manda a dire che egli compirà dinanzi a te un miracolo stupefacente che nessun altro uomo potrebbe fare, per dimostrare a te ed ai tuoi uomini la sua invulnerabilità. - Vuole che io provi sul suo corpo la penetrazione delle palle della mia carabina? - chiese Yanez beffardemente. - Egli si propone di eseguire dinanzi ai tuoi occhi la prova del fuoco e vuol mostrarti come ne uscirà incolume per la protezione celeste che gode. Chiede solo che tu gli conceda una zona di terreno in prossimità del kampong, in modo che tu possa ben osservarlo. - E poi? - Non ti basta? - Domando che cosa farà dopo. - Aspetterà la tua decisione. - Che sarebbe? - Di consegnargli nelle sue mani l'indiano e sua figlia, perchè dopo una simile prova non ti rimarrà più alcun dubbio che egli non sia un semi-dio, contro cui nessuno potrebbe lottare, nè tu, nè i tuoi uomini e nemmeno la Tigre della Malesia, quantunque la si dica invincibile. - Giacchè il pellegrino è così gentile da offrirci uno spettacolo, digli che noi non ci opponiamo. Ci servirà almeno di svago. - Tu non credi, uomo bianco, che il pellegrino possa subire una simile prova? - Te lo saprò dire quando avrò veduto quel miracolo. - E ti arrenderai allora? - Questo poi non te lo posso dire per ora. - I tuoi uomini disarmeranno subito e ti abbandoneranno. - Va bene: aspetterò che gettino a voi i loro fucili, - rispose Yanez col suo sorrisetto ironico. Non era trascorso un quarto d'ora da che i due parlamentari avevano fatto ritorno per la seconda volta all'accampamento, quando Yanez e Tremal-Naik, che non avevano abbandonato il terrazzo, curiosi di godersi quel miracolo, videro due drappelli di dayaki, formati d'una quindicina d'uomini ciascuno, tutti disarmati, accostarsi al kampong portando delle grandi ceste colme di pietre, per la maggior parte piatte, che dovevano aver raccolte di certo nel letto di qualche ruscello. Si fermarono a cinquanta passi dal terrazzo e si misero a disporle in modo da formare una specie di aia, larga una mezza dozzina di metri e lunga il doppio. - Preparano il letto del braciere, - disse Yanez a Tremal-Naik che lo interrogava. Ripartiti i due drappelli, se ne avanzarono due altri carichi di legname resinoso che accumularono sulle pietre e che poi accesero lasciandolo avvampare per un paio d'ore. Yanez, Tremal-Naik e tutta la guarnigione, eccettuate le sentinelle, avevano assistito pazientemente a quei preparativi, tenendosi al riparo degli alberi i cui rami fronzuti proiettavano una fresca ombra sulle terrazze costruite sulla cinta per permettere ai difensori di far fuoco più comodamente. I dayaki, che da quanto si poteva capire, ci tenevano a mostrare all'uomo bianco, - essere superiore per loro, - i miracoli del pellegrino, a poco a poco si erano radunati intorno al falò, senza che i difensori del kampong si fossero presi la briga di protestare, essendosi avanzati tutti inermi. - Ecco un divertimento che non godremo mai più, - aveva detto Yanez, - e che non produrrà alcun effetto, almeno sui miei Tigrotti. - E nemmeno sui miei malesi e giavanesi, - aveva aggiunto Tremal-Naik. - Già non credono in Allah come questi fanatici imbecilli. Chi può essere stato a far conoscere a questi selvaggi la religione maomettana? - Gli arabi antichi, mio caro, - rispose il portoghese. - Non sai tu che quegli intrepidi navigatori conoscevano e percorrevano queste regioni, quando gli europei non sapevano nemmeno che esistessero in questa parte del globo le grandi isole malesi? Tu non conosci certo Tolomeo che visse 166 anni dopo la nascita di Gesù Cristo, il dio dei cristiani. Ti posso però dire che fino da quell'epoca gli arabi conoscevano perfettamente i malesi, la Chersoneso Aurea ove si poneva il monte Ofir, che altro non sarebbe che Sumatra; Glabadiva che è l'attuale Giava; i Satiri che sono Battias, gli antropofagi. Eh! Guarda il pellegrino che si avanza! Quel birbone si lascerà bruciare le piante dei piedi per dare ad intendere ai suoi fanatici che è un semi-dio, un essere superiore, un vero discendente del gran Profeta? Io ammiro la sua forza d'animo. - Ed io vorrei ucciderlo con un buon colpo, - rispose Tremal-Naik. - Non commettiamo un simile assassinio, amico mio. Dobbiamo essere gli ultimi a rispondere alle provocazioni. Siamo persone civili, noi. Un urlo immenso li avvertì che il pellegrino stava per lasciare l'accampamento onde mostrare all'uomo bianco ed ai suoi guerrieri la sua invulnerabilità e la sua potenza di essere superiore. Darma, la gentile e graziosa anglo-indiana, aveva raggiunto suo padre e Yanez. Anche i Tigrotti di Mompracem si erano radunati sul terrazzo, appoggiando le carabine ai parapetti, temendo qualche sorpresa da parte di quei selvaggi nei quali non avevano nessuna fiducia. Il pellegrino si avanzava verso la via formata dalle pietre, rese ardenti da due ore di fuoco continuo. Aveva sul capo il suo turbante verde ed il viso nascosto da un piccolo drappo di seta d'egual colore. Il corpo invece era avvolto in una specie di camicia assai attillata, di nanchino giallo, che gli scendeva fino alle ginocchia ed i suoi piedi erano nudi. - O che quell'uomo è un gran ciurmadore o è una vera salamandra, - disse Yanez. - Forse che i fakiri dell'India non passeggiano sui tizzoni ardenti invece che sulle pietre arroventate? - disse Tremal-Naik. - Non ricordi della festa di Darma Ragia, dove tu hai conosciuto l'adorabile Surama, la nipote del rajah di Gualpara? - Per Giove! Se me ne ricordo, - rispose Yanez. - Anche in quella festa i fanatici correvano sulle brace. - Ma uscivano da quell'inferno zoppi, mentre questo demonio di pellegrino promette di passeggiare su quelle pietre scaldate a bianco senza alcun malanno. - Lo vedremo, Yanez, a meno che non sia un gran fakiro. - Apri gli occhi, Darma, - disse Yanez, vedendo la fanciulla curvarsi sul parapetto. - Non mi fido di quei bricconi. - Che cosa temete, signor Yanez? - Eh! Un colpo di carabina si fa presto a spararlo. - Non hanno alcuna arma, - rispose Darma. - Sì, visibile. Avanti, signor discendente di Maometto, mostrateci il vostro miracolo. Il misterioso avversario di Tremal-Naik era giunto dinanzi all'aia lastricata di pietre che doveva proiettare un calore assolutamente intollerabile. Stette un momento raccolto in se stesso, colle mani alzate e gli sguardi fissi verso occidente, ossia in direzione del lontanissimo sepolcro del Profeta, agitò per qualche po' le labbra come se recitasse una preghiera, poi si slanciò risolutamente sulle pietre, gridando per tre volte, con voce rimbombante: - Allah! Allah! Allah! Quindi con passo sicuro, insensibile all'ardente calore che saliva dalle pietre, coi piedi e le gambe nude, s'avanzò sull'aia, a passi lenti, senza che gli sfuggisse un moto che tradisse qualche dolore. I dayaki, stupiti, ammaliati da una simile prova, lo guardavano con profonda ammirazione, alzando le braccia. Quell'uomo per loro doveva essere assolutamente un semi-dio, un vero discendente del grande Profeta. Il pellegrino compiuta la traversata si fermò un momento, poi ritornò sui suoi passi, sempre calmo, sempre impassibile, come se passeggiasse su un prato anzichè su delle pietre che potevano cuocere benissimo del pane. - Costui deve essere un figlio di compare Belzebù! - esclamò Yanez, che non poteva fare a meno di ammirare lo stoicismo di quell'uomo. - Come può resistere a quel calore? Eppure i suoi piedi sono nudi e qui non vi può essere alcun trucco. - Quell'uomo deve essere insensibile come una vera salamandra, - rispose Tremal- Naik. Il pellegrino, compiuta la seconda prova, volse il viso mascherato dal drappo verso Yanez, guardandolo per qualche istante, poi si allontanò a lenti passi, dirigendosi verso la sua tettoia, mentre i dayaki, in preda ad una vera esaltazione, urlavano a squarciagola: - Allah! Allah! Allah! Qualche minuto dopo, mentre i guerrieri raggiungevano i loro accampamenti, precipitandosi verso il pellegrino, il parlamentario, accompagnato dal suo tamburino, si presentava per la terza volta sotto la terrazza. - Che cosa vuoi ancora, uomo noioso? - gli chiese Yanez. - Vengo a chiederti se dopo una simile prova data dal discendente del gran Profeta tu ti sei deciso ad arrenderti, - disse il guerriero. - Ah! È vero, dovevo darti una risposta, - disse Yanez. - Dirai dunque al figlio o nipote o pronipote di Maometto, che io lo ringrazio dell'interessante spettacolo che si è degnato di offrire a noi, poveri miscredenti. Poi levandosi, con un gesto superbo, un magnifico anello che portava in un dito, lo gettò al parlamentario stupito, aggiungendo: - E questa è la sua ricompensa! ...

IL VENTRE DI NAPOLI (VENTI ANNI FA - ADESSO - L'ANIMA DI NAPOLI)

682525
Serao, Matilde 5 occorrenze
  • 1906
  • FRANCESCO PERRELLA EDITORE
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Questa è opera civile questa è opera bella, anche se confini troppo con la reclame industriale, anche se abbia troppo l'aria di una speculazione, anche se tenda a trasformare sempre più in un enorme Palace , tutta la Napoli che sale, laggiù, dal mare sino alle colline fiorite di Posillipo e del Vomero! Quel che si è fatto a Nizza e a Montecarlo, ha formato la fortuna di tutta la Cornice da Mentone a Hyères quel che si è fatto al Cairo, ha formato la fortuna di tutto l'Egitto: sia, sia, questa opera buona, questa opera santa, e in questo paese così bello e così povero, così affascinante e così pieno di miseria, in questo paese così delizioso e dove si muore di fame, in questo paese dall'incanto indicibile, si dia alla industria del forestiero la forma larga, felice, fortunata, che porti, a Napoli, il solo modo di far vivere centinaia di migliaia di persone! Ma si permetta a un'anima solitaria e ardente di passione, pel suo paese, come è la mia, di chiedere una parte di tutto questo, una povera, piccola parte per migliorare le condizioni igieniche e morali del popolo napoletano. Non si chiedono milioni, poichè i milioni hanno fatto fiasco nell'opera del Risanamento, e nessuno, naturalmente, vuol dare più milioni, quando i primi sono stati spesi male o perduti, per fatalità quasi che una mano misteriosa perseguitasse questo buon popolo nostro. Si chiedono, in nome di quel Dio giusto che volle fossero accolti tutti i poveri, nel suo nome, povero e vagabondo egli medesimo, sulla terra, che alla redenzione fisica e spirituale dei poveri un po' di attenzione, un po' di denaro, un po' di cura sia dedicata da coloro che debbono e possono fare questo! Tutto deve esser fatto con modeste ma tenaci idee di bene, con semplici ma ostinati rimedii, con umili ma costanti intenzioni di giovare. Bando alla rettorica sociale, bando alla rettorica industriale, bando alla rettorica amministrativa, quella che viene dal Comune, la peggior rettorica perchè guasta quanto di pratico, di utile, di buono si potrebbe fare, dagli edili nostri. Perchè dunque non si obbligano la società dei nuovi quartieri al Vasto, all'Arenaccia, al Quartiere Orientale, di ridurre al minimo possibile le pigioni, in modo che le case fatte pel popolo siano abitate proprio da esso e non dalla piccola borghesia, in modo che ogni stanza non costi più di nove o dieci lire e non vi possano per regolamento stare più di due o tre persone, quando vi sono bimbi? Si tenti questo! E se ciò non basta, in tutte le nuove costruzioni sia nei quartieri popolari sia nei quartieri più aristocratici, perchè non si obbligano, con legge, con regolamento, ad avere un piano dei loro palazzi, l'ultimo, fatto in modo che la gente del popolo vi possa abitare, avendo delle stanze, delle soffitte, ciò che si chiama il suppenno che non costino, appunto, più di nove o dieci lire al mese ogni stanza? E se qualche società ancora, qui, vuol costruire sulle colline, o sulla spiaggia, verso la ferrovia o verso il mare, perchè non la si obbliga, per legge o per regolamento, se vuole tale concessione, a costruire al quarto o al quinto piano, tali stanze, a cui si accederebbe dalle scale di servizio? E nei conventi che il Municipio oramai possiede in gran numero, da cui sono state discacciate tante sventurate monache perchè albergano solo dei grandi elettori o dei servitori di consiglieri comunali? Perchè, poichè le povere monacelle furono buttate fuori alla strada, alla miseria e alla morte, non si fa una spesa, una santa spesa per pulire, per restaurare, questi numerosi monasteri e non si affittano, quelle stanze, diventate nette e salubri al popolo napoletano? Un poco di questo denaro che dovrebbe servire, per chiamar qui gente, dall'Europa e dalle Americhe, pochissimo di questo denaro dedicarlo, saviamente, mitemente ma costantemente, a creare delle modicissime, modestissime non case, ma stanze, stanze per il popolo! E qualcuno di quei vividi lampioni a gas che splendono nel Rione della Beltà, perchè non metterlo laggiù, anche meno splendido, ma lampione, ma acceso, dietro il paravento, dietro i famosi palazzi del Rettifilo, alle cui spalle, nella notte, si ruba, si commettono infamie e si uccide, nelle tenebre profonde e paurose? Perchè non dare un poco di luce, proprio un poco, perchè non si possa più nè rubare nè uccidere, almeno in alcune di quelle vie? Non è un dovere stretto, rigoroso, di qualunque municipio, di dare la luce, di sera, di notte, ai cittadini? Questo rigorosissimo dovere, perchè non si compie, in favore del popolo napoletano, dai due lati del Rettifilo, da Porto a Pendino a Mercato a Vicaria? L'idea semplice: qualche lampione, o edili nostri! E di questa schietta fresca, spumante acqua di Serino, vanto di Napoli, salvazione di Napoli, lavacro interiore, lavacro esteriore perchè laggiù, dietro il paravento, non vi è, pare, neanche la conduttura? Questo supremo beneficio che tanto è costato non era, non deve essere fatto solamente per il volto e per il ventricolo dei ricchi, forestieri, o non forestieri, dei borghesi, piccoli o grandi, ma chi lo volle, questo beneficio profondo dell'acqua, lo volle soprattutto per il popolo e il popolo non lo ha, dietro il Rettifilo, non lo ha, o lo ha scarsissimo e beve e si lava nell'acqua verminosa dei pozzi e delle cisterne: e in un modo qualunque, provvisorio, semi provvisorio, definitivo, come meglio si può, bisogna darla, darla questa buona acqua ai quartieri popolari e non servirsene solo per innaffiare la passeggiata di via Caracciolo! E qualcuno di quegli spazzini che dovrebbero rendere nitido come il cristallo il rione della Beltà, dopo aver spazzato questo rione, discenda dove non è mai stato, dove non si spazza mai, e scrosti, tenti di scrostare il sudiciume annoso, e trasporti via, oggi superficialmente, domani meglio, fra un mese completamente, i cumuli invecchiati e putridi d'immondizie. Vi sia un piccolo, piccolo servizio di spazzamento, laggiù, appaia la scopa, appaia il carretto, si compia il dovere oscuro ma preciso di nettare le vie, alla meglio, come si può, ma in qualche modo, ma ogni giorno! E qualcuno di quei gloriosi militi municipali che debbono tener lontani i pezzenti, i mendicanti, i fiorai, per non seccare gli stranieri della Riviera e del Chiatamone, penetri, penetri laggiù, e applichi le leggi di polizia urbana, laggiù ove non vi è traccia di tutto questo, laggiù ove ognuno fa quello che vuole, perchè niuno s'incarica di fargli fare quello che deve! E i militi della questura non si occupino solo a vegliare nei quartieri aristocratici che i cocchieri non vessino i viaggiatori del Grand Hotel e del Bertolini, ma qualche milite di essi si occupi a impedire, possibilmente, il vizio, l'infamia e il delitto nei quartieri popolari, dietro il Rettifilo! Che chiedo io, infine, per i miei fratelli del popolo napoletano, che chiedo io come tutti quelli che hanno cuore, e anima, salvo che finisca l'oblio e l'abbandono? Che chiedo io, in nome dell'eguaglianza umana e cristiana, salvo che il popolo di laggiù sia trattato come tutti gli altri cittadini, abbia una casa, abbia della luce, nella notte, dell'acqua, della nettezza, della sorveglianza, sia guardato e protetto contro sè stesso e gli altri? Che chiedo, io, se non l'applicazione della legge umana e sociale, trattar quelli come si trattano gli altri, dar loro quel che spetta loro, come esseri viventi, come cittadini di una grande città? Faccia il suo dovere chiunque, non altro che il suo dovere, verso il popolo napoletano dei quattro grandi quartieri, faccia il suo dovere come lo fa altrove, lo faccia con scrupolo, lo faccia con coscienza e, ogni giorno, lentamente, costantemente, si andrà verso la soluzione del grande problema, senza milioni, senza società, senza intraprese, ogni giorno si andrà migliorando, fino a chè tutto sarà trasformato, miracolosamente, fra lo stupore di tutti, sol perchè, chi doveva si è scosso dalla mancanza, dalla trascuranza, dall'inerzia, dall'ignavia e ha fatto quel che doveva. Napoli, primavera 1904

Così passano quattro, cinque, fino a dieci settimane, senza che la povera donna abbia mai potuto riunire le cinque lire: e ogni lunedì le tocca pagare l'interesse del dieci per cento per settimana, e dopo la quinta settimana donna Carmela è diventata una iena, bisogna pregarla perchè non gridi, perchè non faccia delle scene, essa vuole il suo denaro, vuole il sangue suo , l'interesse non le serve, le servono i quattrini del capitale. Sulla soglia delle porte, alle porte delle officine, ogni sabato, ogni lunedì, si ode la voce irosa di donna Carmela : essa, dal mattino, è in giro per esigere, ricoglie , e fa tremare uomini e donne, con il suo tòno alto e imperioso. In un posto ha da esigere una lira, in un altro due, in un altro cinque: e non osano ribellarsi a lei, non avendo da pagarla, non osano ribellarsi, potendo aver sempre bisogno di lei. Quella donna grassa è implacabile: sa la sua potenza: se una serva non paga, essa minaccia di fare uno scandalo con la padrona, se una donna non paga, essa minaccia di dirlo al marito, se un operaio non paga, essa sa l'indirizzo del capo officina, e cui va a denunciarlo. Ella è astuta e cauta, audace e sboccata: ella resta sempre nella posizione di una benefattrice, a cui codesti ingrati rodono le fibre e bevono il sangue. E infatti nessuno le dà una coltellata, nessuno la bastona, nessuno la insulta, e quel che è più forte ancora, nessuno ha il coraggio di negarle i quattrini: l'onestà del popolo napoletano non è neppur capace di truffare una usuraia. Non le danno neppure torto nelle sue escandescenze: e cercano sempre di mansuefarla. Quando una povera donna napoletana ha bisogno di un grembiule, di un vestito, di un fazzoletto da collo, di un paio di camicie, non avendo quattrini per comperarle, si decide ad andare da donna Raffaela che dà la robba cu a credenza . Quest'altra usuraia prende, a basso prezzo, tela e percallo e fazzoletti di cotone dai negozi: e li rivende alla povera gente. Ogni oggetto, naturalmente, è pagato molto più caro del suo valore: primo guadagno. Poi, come all'altra usuraia, bisogna pagare l'interesse del dieci per cento alla settimana, sulla somma. Questi debiti, complicati continuamente, pesano sulla esistenza delle povere donne, per mesi e mesi: talchè, molto spesso, il grembiule si è consumato, la veste è lacera, le camicie sono bucate, e la povera donna ne ha pagato tre volte il valore, e il debito rimane uguale: donna Raffaela è furibonda, ella grida come una energumena, vuole strappare dal collo della donna il fazzoletto che le ha venduto, vuole sciogliere dai fianchi il grembiule e va gridando: Chesta è robba mia! T'aie arrobbato lu sango mio! Come l'altra, ella finisce per incassare quattro o cinque volte il capitale; come l'altra, ella è necessaria alla povera gente, la quale non reagisce mai contro queste violenze; come l'altra, ella non arrischia mai che piccoli capitali, preferendo di far piccoli e molti affari, dove non vi sono rischi, a grossi affari che offrono sempre dei pericoli. Le agenzie private di pegni rappresentano l'usura organizzata in modo legale. Queste agenzie non sono succursali del Monte di Pietà, che debbano conformarsi alle tariffe del grande istituto di misericordia; ma sono speculazioni debitamente autorizzate e viventi con capitali proprii. Per lo più sono esercitate da donne, profondamente sottili nella loro volgarità, nella loro ignoranza, e vengono messe su con pochi capitali. Anzitutto, in queste agenzie, l'oggetto è deprezzato vilmente, specie se non è oro: e il primo guadagno è su questo. Vi si paga un fantastico diritto di registro, poi un tanto per la cartella, poi l'interesse anticipato per un mese, tutto questo così complicato, così bene salvaguardato, così apparentemente legale, che queste agenzie esigono il cinque per cento d'interesse al mese, senza che nessuno abbia il diritto di lagnarsi. So di una moglie di impiegato che dovette impegnare il suo unico vestito di seta, il vestito delle nozze, che era costato duecentocinquanta lire, in una di queste agenzie, tenuta da una grossa donna Gabriela : n'ebbe trentasei lire, di cui ritirò soltanto trent'una, lasciandone cinque per interesse, per la cartella ed il diritto di registro. Per sei mesi, tremando che non le vendessero il suo vestito e non avendo le trentasei lire, le toccò pagare, ogni mese, cinque lire, vale a dire che restituì i quattrini presi: al settimo non ebbe neppure quelle cinque lire ed il vestito fu venduto. Accorse, per vedere di prendere il di più, poichè il vestito era nuovo, e si era dovuto vendere bene: invece era stato liberato per trenta lire; almeno così apparve dal libro. Ebbe poi il piacere d'incontrare donna Gabriela al teatro col suo vestito indosso e carico di oro e di gioielli, ricomprati dall'agenzia. Poichè molte di queste amano di sovraccaricarsi degli oggetti che hanno in deposito, e più di una popolana vede passare l'impegnatrice che va alla passeggiata, portando al collo il laccetto d'oro che ella ha dovuto impegnare, alle orecchie gli orecchini di una vicina, e sulle spalle il mantello di velluto della signora del terzo piano: e dietro le porte, dietro le finestre, quando l'impegnatrice passa, vi sono dei sospiri repressi, delle lagrime inghiottite, dei pallori subitanei: l'impegnatrice sembra un idolo indiano a cui si sacrifichi oro e sangue. Alcune impegnatrici, più astute e più calcolatrici, impegnano di nuovo, ma al Banco, gli oggetti di oro e di valore, guadagnandoci ancora, poichè il Banco dà onestamente il terzo del valore ed esse neppure il quinto: così aumentano i loro capitali, e mettono gli oggetti al sicuro. Ma perchè - si domanda - la povera gente non si rivolge ai due Banchi dello Spirito Santo e di Donnaregina? Perchè si fa spogliare da queste agenzie? Gli è che a questi Banchi governativi, il tramite è molto lungo - e molta gente non ha pazienza, non sa come fare, vuole sbrigarsi presto, è presa da una necessità urgentissima e preferisce entrare in una delle prime agenzie che trova dove la servono subito, senza formalità e senza parole; gli è che in questi Banchi governativi, la pubblicità è sempre grande, e una persona timida vi arrossisce di vergogna e preferisce entrare nella penombra discreta delle agenzie private, dove tutto sembra fatto con grande segretezza; gli è che il venerdì e il sabato, poichè il popolo napoletano deve giuocare al lotto, e ha giuocato, la folla è così grande che i Banchi governativi non bastano più e il popolo si riversa nelle agenzie private. Ora, calcolate. Ogni vicolo ha la sua donna Carmela , ogni strada la sua donna Raffaela , ogni angolo di piazza ha la sua agenzia autorizzata; e in certe strade nere, ogni tre botteghe, s'impegna. Calcolate, moltiplicate, pensate alla miseria, pensate al lotto: da un lato l'avidità e la furberia: dall'altro l'onestà e l'ingenuità, il bisogno, la miseria. Di questo cancro, l'usura, agonizza in una infelicità infinita la gente napoletana.

E allora, per chi abbia anima sensibile questa strada assume un simbolo elettissimo, è l'emblema della solidarietà umana che, dall'alto del trono, del governo dello Stato, del governo della Città, sente la necessità di elevare prima fisicamente e poi moralmente il popolo, dando ad esso i beni primari della vita, la luce, l'aria, la nettezza, la salubrità, dandogli la via e la casa, dandogli il modo di acquistare la sanità del corpo che è la gioia dell'anima, sottraendolo alle infermità, alle degenerazioni, all'epidemia, e sottraendolo, così, anche alla disonestà e al vizio. Questo, nella mente di chi lo volle, dopo la strage del 1884, dopo la visita ai tugurii e alle catapecchie fatta dal Re, dopo l'orrore che ne ebbe l'animo dei maggiorenti, questo era il compito del Rettifilo, che si è chiamato e si chiama Risanamento, con tutto il suo progetto di diramazioni, di colmate, di traverse. Il Rettifilo doveva salvare il popolo napoletano: e poichè gli occhi che guardano poco e fugacemente, poichè le labbra che domandano, non sempre sono esaudite da labbra che conoscano la verità, poichè il difetto di cui tutti siamo malati, è la fretta, poichè noi siamo, anche, malati di superficialità, poichè nessuno ha il tempo di fare quel che vorrebbe, nel mondo, poichè nessuno ha la volontà necessaria a eseguire tutto quello che vorrebbe, poichè tutto ci sfugge, per esser profondi, così, noi possiam credere che, veramente, il Rettifilo abbia dato al popolo napoletano tutto quello che gli mancava, e, sovra tutto, lo posson credere tutti coloro che passano qui un giorno o un mese! Eppure, questa illusione non resisterebbe a una osservazione più minuta. Alla seconda, alla terza, alla decima volta che voi attraversate questa magnifica strada, volgendo gli occhi, a manca, a dritta, lo scenario seducente ha dei grandi strappi. Un imponente palazzo, rossastro, pomposo, si pavoneggia con le sue cento finestre: e, accanto, voi scovrite un vuoto, e un muretto basso si prolunga, si prolunga, un muretto su cui la pubblicità allegramente appende i suoi quadri, da anni e anni, e dietro questo muretto, molto più indietro, sorgono delle masse di case lercie, cadenti, miserabili, di tutte le misure, macchiate di tutte le stigmate della povertà e del vizio. Ciò sparisce: un'altra costruzione moderna tenta ridarvi una parvenza di civiltà, ma, fatto accorto, voi cercate ficcar l'occhio, ai fianchi, alle spalle, e subito dietro, a otto o dieci metri, ecco, di nuovo, un affogamento di topaie, dalle cui finestrette pendono i cenci più indecenti, magari con la poesia del vaso di basilico e del popone appeso al giunco. Così, otto, quindici, venti volte, dalle due parti, ma sovra tutto, a diritta, andando verso la ferrovia, questo sipario lacerato bruscamente, vi mostra degli spettacoli improvvisamente brutti, nauseanti, schifosi: è la cattiva parola, ma è la parola e invano voi tentate di rifare le fila del vostro sogno di una via maestosa e ricca, di una via nobile e purificante, di una via che serva egualmente alla salute, alla fortuna e alla felicità del popolo. Queste continue apparizioni, fra le enormi nuove costruzioni, di quelle immonde costruzioni vecchie, non lontane, vicine, non lontane, accanto, non lontane, alle spalle, vi hanno distrutto tutta la vostra tela d'illusione. Cercate le traverse che dovevano portare da sinistra, dai quartieri più alti al Rettifilo, bonificando la regione che comincia a santa Maria la Nova e continua pei Banchi Nuovi, san Giovanni Maggiore, Mezzocannone, Università, sino all'Annunziata, sino a Capuana, e non ne trovate che due sole, complete, su venti, quelle attorno al Sedile di Porto, e tutte le altre sono abbozzate, sono pezzi di via, di otto o dieci metri, con il loro bravo nome, di un qualche nostro illustre cittadino - e anche di voi, o Francesco Serao, o avo mio! - e niente altro, salvo, dopo questi dieci metri, che una cortina di antiche case non abbattute, una cortina che chiude le comunicazioni, che urta lo sguardo. Voi cercate le più belle traverse, quelle che dovevan tagliare a diritta, dal Rettifilo al mare, risanando i quartieri successivamente di Porto, Mercato e Vicaria. Su venti, ve n'è una sola, completa . Alcune altre, quattro o cinque sono come quelle a sinistra, appena cominciate, abbandonate da anni, ottuse, traverse cieche, ove, in fondo, ma non molto in fondo, sorge lo stesso spettacolo, sempre, di case antichissime, mezze dirute, mezze cadenti, nerastre, verdastre, grigiastre. Dopo, non vi è più nulla. Cioè, vi sono dei vicoletti che precipitano per mezzo di dislivelli paurosi, di scalette ripide, difese da rozze ringhiere, in tutto ciò che sta dietro il Rettifilo , vicoletti sinuosi, vicoletti neri, angoli dove due o tre vicoli s'intersecano dirupandosi, tutto un disegno bislacco e grottesco, accanto, sì, accanto, alle altitudini superbe dei nuovi palazzi. E voi, verso la fine del Rettifilo, vedendo fuggire gli ultimi lembi mirabili della vostra illusione, voi vi domandate se non siate vittima di un'allucinazione, se una parte di quel che vedete non sia falso, poichè troppo forte è il contrasto, poichè non può essere tutto vero, a pochi metri di distanza, il decente e l'indecente, il pulito e lo sporco, la pompa e l'inguaribil miseria, il lusso e la povertà più abbietta. Che cosa è falso, che cosa è vero? Sono, forse il portato di un incubo tutte quelle masse di abitazioni luride, fetide, cascanti, ove pare che si moltiplichino la tristizie e la tristezza, il morbo e il disonore, il delitto e la morte? Sono forse gli spettacoli che vi fecero inorridire, come uomini e come cristiani, venti anni prima, sono questi spettacoli che si rinnovano, falsamente nella memoria, nella fantasia, così, come nei momenti di nostra malinconia spirituale e di nostra debolezza fisica? O, forse è falsa l'altra parte, cioè la parvenza moderna del Rettifilo e i suoi palazzi che vorrebbero essere splendidi, ma che sono almeno, nuovi, netti, solidi, grandi, appartengono al sogno? Non sono forse, un lungo scenario di tela, su cui un abile scenografo abbia dipinto a grandi tratti, una serie di edifici maestosi, e intanto, non si sa come, non si sa perchè, la tela ha delle grandi soluzioni di continuità e lascia vedere l'oscurità, il luridume delle quinte, ove tutto è rancido, è puzzolente, è nauseante? O, forse, non sono di carta pesta, di legno dipinto, queste case, come quelle che estrae, lentamente, da una scatola, la mano di un bimbo e le dispone sovra un piano, ad angoli retti? Non è, forse, a destra, a sinistra del Rettifilo, lo svolgersi di un bizzarro paravento, i cui pezzi non sono bene congiunti, anzi sono disgiunti, e il paravento non giunge a nascondere, quel che non si deve vedere? E passino i vostri occhi ricercatori dalle cose alle persone del Rettifilo, vi passino, per conoscer più presto e meglio il motto dell'enigma. La possente arteria napoletana rifluisce, in ogni ora, di sangue vivido: una folla attraversa costantemente il Rettifilo, a piedi, in carrozza, in trams , specialmente sino a piazza Depretis, andando e venendo dai due rami di via Duomo. Folla di ogni qualità e, talvolta, anche, folla di persone distinte, bene vestite, gli uomini con la catena di oro sul panciotto, le donne con i ciondoli sospesi sul petto. Tutto questo mondo va, viene, ritorna, si allontana, mondo svariato, multiforme, multanime. Se voi siete abituato a discernere i volti e le espressioni, fra la folla, se avete l'ardente e dolente segreto dell'intuizione, voi scorgerete, lungo il Rettifilo, persone e faccie che vi daranno un fremito di sorpresa e, forse, di sgomento. Sugli angoli di quelle viuzze, presso quelle ringhiere, su quel limitare fatidico fra il vecchio e il nuovo, e, persino, nelle poche vie principali e non finite, stazionano sempre degli uomini, sul cui viso la delinquenza è impressa e la cui espressione non mente; stazionano mendicanti dei due sessi e di tutte le età, ma di una mendicità sfrontata e ributtante, e stazionano anche, meno di mattina, molto più nel pomeriggio, moltissimo di sera, le sventurate e sciagurate femmine del popolo, che esercitano il più compassionevole e più atroce fra i mestieri. Così, sull'orlo della superba via, sui due suoi lati, fiancheggiandola, il vizio e la miseria, il delitto mettono la loro popolazione. La gente che passa, è molta, non guarda bene, non bada: ma due, tre volte al giorno, un ladro si slancia sovra al galantuomo , sovra la signora, in pieno giorno, in pieno Rettifilo, fra mille persone, e gli strappa l'orologio, le strappa gli orecchini, il derubato grida, il ladro infila la viottola, si gitta per un angiporto, è sparito, la folla strepita, non vi sono guardie, i mendicanti gridano e una di quelle donne del vizio, dà una falsa indicazione, perchè è, forse, un'amante, un'amica, una sorella del ladro, sempre una complice. Sia a piedi, sia in carrozza, la vittima, il ladro finisce sempre per fare il suo colpo, senza farsi arrestare, liquefacendosi come una nuvola, dietro una di quelle stradette: e alcune, anzi, di quelle vie, hanno la loro fatal rinomanza, come quella a principio del Rettifilo, la via di santa Candida. Dopo le nove di sera, il tratto del Rettifilo da piazza Depretis alla Ferrovia, è poco percorso da gente: e malgrado le grosse lampade elettriche, quel tratto è uno dei più pericolosi della città, e i medesimi cocchieri da nolo, affrettano il passo zoppicante del loro povero cavallo, andando alla stazione o tornandone, poichè sanno che il loro passaggiero può avere, forse e senza forse, un'aggressione. In quell'ora non si aggirano, colà, che ladruncoli, camorristi, pregiudicati e donne di mala vita. Nella magnifica strada: nella strada della salute e della redenzione del popolo napoletano! Ahi, che essa è semplicemente un paravento, ma leggiero, fragile e grossolano paravento, un paravento che non nasconde neppure, a chi vuol saper tutto, tutto ciò che vi è dietro, di pietoso e di orribile! E un'altra volta io vi dirò quel che vidi, lì dietro, con una triste e lunga curiosità, con un coraggio disperato e, con l'angoscia più opprimente, del mio umile ma fedele cuore di napoletana!

Non ti pare che la parola bellezza abbia un senso diverso e profondo? E che applicarlo a sì esigua e ambigua cosa, sia una grande audacia? E che il progetto e il progettista debbano soccombere sotto il ridicolo di quest'audacia? Per aver questo giardino, con la fontanella e il porticato, ecco che cosa deve spendere il Municipio di Napoli. Anzitutto deve dare alla Cassa sovvenzioni di Genova la egregia somma di settecentomila lire: è vero che si pagano in trent'anni, queste settecentomila lire, ma un debito è un debito, anche se si paghi a piccole rate. Non vorrei affermare che il Comune debba corrispondere anche l'interesse, perchè non lo so: ma è probabile che per avere la fontanella nel giardinetto e il porticato, intorno, per aver ciò a credito, qualche interesse si dovrà pagare. Inoltre, il Comune concede alla società, di costruire un sesto piano a tutti gli undici edifici: calcolato, così, a occhio e croce, un piano di più, sovra undici immensi palazzi, può rendere alla società da novanta a centomila lire di maggior reddito, cioè un regaluccio di oltre due milioni di capitale, sempre per aver quel che sapete. Quanto saranno più belli, più accoglienti, più estetici questi palazzi di sei piani, invece che di cinque, lo sa il Signore! Vi è dell'altro: la società ha il diritto di non lastricare più con pietre le vie fra i suoi palazzoni, poichè questo lastricamento costa molto: allo scopo di facilitarle ancora più la posizione, il Comune le permette di adoperare il macadam , col risultato di aver del fango in inverno, fango che macchia i vestiti e li rode; e la polvere più acre, in estate. Non basta ancora: la società ha la concessione della sorgente di acqua solfurea: non sarà gran che; ma è qualche altra cosa. Non vi pare che, per un giardino, una fontana e un porticato ciò costi molto, troppo, immensamente? E con tanti denari, tante concessioni, tante facilitazioni, il risultato sarà questo: e il rione presunto della Bellezza, sarà mortalmente brutto, se si arriva a compiere col suo anacronisma di Pompei, fra edifici di sei piani come in America; che il prezzo dei suoli, restando sempre forte e le difficoltà di costruzione essendo sempre grandi, la Cassa Sovvenzioni, seguiterà a non vendere e seguiterà a non costruire e che alla fine del salmo il rione della Bellezza consisterà in un piccolo giardino, in una fontana e in un porticato vuoto, fra un vasto deserto arido e polveroso. La società si sarà rifatta in parte dei suoi guai, con quelle settecentomila lire; il Comune dovrà pagarle e passando per Santa Lucia nuova, il cittadino inconscio creperà dal ridere, a veder quella buffonata, e tu amico lettore e io, cronista scettico e pessimista, tu ed io che non siamo inconsci, rimpiangeremo quei venticinque o cinquanta centesimi, parte tua e parte mia delle settecentomila lire!

Ma la vera via crucis per l'osservatore che abbia un'anima pietosa, è il percorrere, a piedi, dove può e come può, tutto ciò che è dietro il paravento, alla diritta del Rettifilo, venendo dal centro della città, andando verso la ferrovia, principiando da quanto è alle spalle della via Niccola Amore, continuando sino a piazza Mercato, sino a porta Nolana. Alle spalle? Via Niccola Amore, a diritta, non ha che un lungo e basso muretto e tutte le vecchissime case, in cui s'imboccava via Porto, sono in piedi, alte, prepotenti, incombenti, sfidanti da anni il piccone, che non le tocca, che non le toccherà, forse, giammai! Ivi, non vi è neppure il paravento: ivi, signoreggiano, quasi spettri della miseria e dell'onta, tutte le case di Basso Porto ricetti di povertà inaudite, ricetti di delitti e di delittuosi, ricetti di tutte le cose e le persone infami e dolenti. Guardate! Non avete che a guardare alla vostra diritta, passando, e il Basso Porto vi dirà che è stato di vano, di inane, di inutile quanto si è voluto fare e quanto non si è fatto, quanto non si è voluto fare! Ma, abbiate una lugubre curiosità e discendete, laggiù. Dico bene: discendete tutto il lato destro del Rettifilo: le colmate sono restate un progetto fantasioso, mai eseguito onde, laggiù si penetra per tutti i modi più rudimentali, più incerti, più infidi e più pericolosi. Scalette di legno improvvisate e diventate, ahimè, definitive; scalette di pietra, a scalini mal connessi e tremanti sotto il piede; scalette tagliate nella terra, sì, nella terra, come in qualche villaggio africano; rampe a scaglioni; rampe di terra, discese ripide e sdrucciolevoli: tutte le forme, infine, del precipizio, a due passi dai grandi palazzi. Qua e là, qualche rozza ringhiera; appoggiandovisi, guardando giù, par di mettere l'occhio in una cantina, in un pozzo. Lo slivello fa paura. Le colmate dovrebbero arrivare ai primi piani di queste catapecchie: e a pianterreno, ai primi piani di queste catapecchie, abita gente, ha bottega, vive, muore; e così sarà, per moltissimi anni ancora, così sarà, forse, per sempre! Lo slivello pauroso si prosegue da Porto, a Vicaria, a Mercato, sino alla fine, e in fondo a questi pozzi, in fondo a queste cantine, in fondo a questi sotterranei esiste tutto quello che esisteva prima, purtroppo, peggiorato! Le antiche arti, gli Orefici, gli Armieri, i Lanzieri, i Taffettanari, son là, coi loro piccoli opificii malsani, oscuri, miserabili; sono ancora lì le straduccie affogate, fra le case, gli antichi portoncini larghi settantacinque centimetri, le antiche finestre dai vetri sporchi, gli antichi cavalcavia sui quali pare si abbattano le vecchie case crollanti, gli antichi vicoli ciechi, ricovero di ogni sporcizia: tutto, tutto è restato com'era, talmente sporco da fare schifo, senza mai uno spazzino che vi appaia, senza mai una guardia che vi faccia capolino. Tutto si fa, nelle piazzette, nei vicoletti: tutti vendono il vendibile, erbe, frutta, carne, pesci, nel fango eterno della strada; e vi sono le antiche osterie, ancora, ove si vendono le zuppe di pasta e fagioli, le fritture, di cento cose fritte, dai panzarotti ai peperoni, le insalate di scapece , il zoffritto a porzione di tre soldi, di due soldi, persino di un soldo! Come un tempo! Peggio di un tempo! A dieci passi dal Rettifilo, caldaie di patate, caldaie di polipi, caldaie di spighe bollite, caldaie di castagne, e il più acre odore, intorno, da queste cucine, dalle piccole fucine degli Orefici,e degli armaioli, dalle marmitte dei tintori! Pieno di colore? Già: ma orribile! Io rammento tre punti, fra gli altri. Una piccola regione chiamata Tentella : cioè un intrico quasi verminoso di vicoletti e vicolucci, nerastri, ove la luce meridiana mai discende, ove mai il sole penetra, ove per terra la mota è accumulata da anni, ove le immondizie sono a grandi mucchi, in ogni angolo, ove tutto è oscuro e tutto è lubrico, ove, a un crocicchio, vi è un'ostessa dai folti capelli neri, a un crocicchio, donde, in penombra si vede ancora il fondaco Tentella , una ostessa che vende ogni sorta di mangiare in grandi piatti di rame lucido, dalla fragaglia fritta alla spiritosa di pastinache. E m'incoraggia ad andare verso il fondaco Tentella , l'ostessa, con la bonomia napoletana, m'incoraggia, poichè vede che io esito, innanzi a tutte quelle sporcizie, lungo quelle mura trasudanti umidità, con quegli odori nauseanti: mi incoraggia, mentre io esito, fissando gli occhi in quella oscurità - e siamo nel paese dell'azzurro, del sole! - mentre sul suo viso giallastro, sulle sue labbra violette, nei suoi denti neri, io leggo tutte le traccie di quella vita sprofondata nel lezzo e nei contatti costantemente malsani, tre o quattro persone, in una stanza, e che stanza, e le ore del giorno, in una cucina affumicata, a preparare le vivande male olenti, da vendere! Da quanti anni non viene, qui, un sindaco, un assessore? Da quanti anni non si lavano, queste vie? Da quanti mesi non si spazzano? Tutto il letame delle bestie e delle persone e delle case, tutto è qui e nessuno ce lo toglie, qui, sull'orlo della civiltà novella, dietro ai palazzi sontuosi - andate laggiù, cercate del vicolo Barre: esso dovrebbe corrispondere a una colmata che non si è fatta, a una traversa che non si è mai aperta. È un vicolo strettissimo, lunghissimo, con case altissime, disseminate di balconi, di finestrelle: i due lati sono legati fra loro da cavalcavia, da ponti di pietre, da ponticelli di legno, il che ne aumenta l'oscurità: i due lati, anche, sono legati da corde, da funicelle a cui pendono panni, di tutti i colori, rappezzati, stinti: e questo lunghissimo vicolo Barre, i cui portoncini sembrano caverne, non ha un lampione: è una vera sentina di ogni cosa più ignobile: ed è pericoloso a esser attraversato anche di giorno, tutto abitato da donne di mala vita, da camorristi, da ladri, e l'orrore che ne proverete non sarà solamente fisico, voi proverete uno di quegli avvilimenti morali che provocano delle profonde tristezze. E se voi volete scrivere un capitolo di un romanzo popolare, più innanzi, molto più innanzi di questo tremendo vicolo Barre, attraversate il vico dei Cangiani, col suo relativo supportico. Esso è costeggiato, a manca e a dritta, tutto da piccole locande, dove si pagano quattro o cinque soldi per dormire, ove si dorme in quattro o cinque in una sola stanza: queste locande hanno una clientela speciale, quella dei carrettieri di Calabria, di Basilicata, del Cilento, di Terra di Lavoro, coloro che si chiamano nel popolo, vaticali , da viatico, certo: e questi contadini stanno, di giorno, sui portoncini di queste locande da quattro soldi, stanno, vestiti dei loro panni pesanti e di taglio contadinesco, coi loro cappelli di strana foggia, coi loro mantelli, seduti per terra, seduti sovra una pietra, aspettando di rimettersi in cammino. Io ho attraversato questo vicolo, fermandomi a guardare quei volti adusti, immobili di espressione, pazienti sotto le fatiche e sotto i disagi, quelle labbra mute: ho vissuto dei lunghi minuti in questo vicolo nerastro, tutto disselciato, pieno di acque luride, pieno di una melma attaccaticcia, in questo vicolo talmente tetro che sembra una tomba, e, a un certo punto, sono stata presa dal delirio di fuggire, di fuggire, per non vedere più, per non udire più, per non avere più lo spettacolo della più amara delusione, nel mio cuore di napoletana, per non soffrire delle sconosciute sofferenze altrui, da niuno consolate, poichè quella gente vive e muore, laggiù, alle spalle dei superbi palazzi, ignota, obliata, disdegnata, disprezzata! E, in ultimo, sapete che è accaduto? Che il popolo, non potendo abitare il Rettifilo, di cui le pigioni sono molto care, non avendo le traverse a sua disposizione, non avendo delle vere case del popolo , è stato respinto, respinto, dietro il paravento! Così si è accalcato molto più di prima; così il Censimento potrebbe dirvi che tutta la facciata del Rettifilo, è poco abitata, e tutto ciò che è dietro, disgraziatamente, è abitato più di prima; che dove erano otto persone, ora sono dodici; che lo spazio è diminuito e le persone sono cresciute; che il Rettifilo, infine, ha fatto al popolo napoletano più male che bene! In quell'intrico che va da Porto a Mercato, a Vicaria, si aggroviglia una folla spaventosa; non vi sono che poche fontanelle di acqua e le case, che debbono essere, demolite (?), ne mancano; non vi sono fognature regolari, non vi sono lampioni, poichè il piano stradale, è assolutamente dissestato: tutto ciò che serve alla vita, vi manca. Se una epidemia, lontana sia, dovesse capitarci, impossibile circoscriverla, impossibile dominarla: in quei quartieri farebbe novellamente strage, come venti anni or sono; e i nostri edili nulla ne sanno; e nessuno vuol saperne niente. E quel popolo che è stato tradito, poichè non ha avuto quanto la nazione gli aveva donato, per redimerlo igienicamente e moralmente, quel popolo che è abbandonato, che lo sa, che un po' ne ride, un po' ne sospira, un po' ne digrigna i denti, questo grande popolo che noi dobbiamo amare, che noi amiamo, perchè ci sentiamo affratellati con esso, perchè anche noi siamo popolo, perchè noi siamo come esso e figliuoli del medesimo Iddio di giustizia e di clemenza, questo popolo non resiste agli antichi istinti, al bisogno di vivere come che sia, al bisogno di vendicarsi di questa società ingrata e traditrice: non resiste alla suggestione del vizio, del male: e giuoca: e ruba: e si vende: e ferisce: e uccide: e colà, di giorno, di notte, appena dietro il paravento, o nel Rettifilo istesso, il crimine, il delitto, si espandono, fioriscono, eterna rampogna, eterno rimorso a coloro che, fedifraghi al Re, ad Agostino Depretis, a Niccola Amore, a Guglielmo Sanfelice, alla Nazione, commossa di orrore e di pietà, mancarono ai patti giurati e ruppero ogni promessa, lasciando il popolo napoletano a languire, a struggersi, a patire, ad agonizzare, nella più profonda ignavia del corpo e dell'anima.

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