Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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IL BENEFATTORE

662576
Capuana, Luigi 5 occorrenze
  • 1901
  • CARLO LIPRANDI EDITORE
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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. - Non abbia paura; siamo qui noi! - disse uno di essi. - Non ho paura di nessuno - rispose alteramente il signor Kyllea. - Sono suddito inglese! ... Ma che vogliono costoro? - Dicono che l'acqua appartiene ad essi; che lei l'ha distolta dall'altro versante della collina. - Sono matti o furfanti. - Dica: bestie piuttosto! Li hanno suscitati, incitati ... Il brigadiere è là ... Abbiamo telegrafato per rinforzi ... Ora si udiva un rumore confuso di voci, di passi incalzanti, quasi di armento che scendesse con corsa sfrenata, abbattendo gli ostacoli che gli capitavano dinanzi. I due carabinieri si affacciarono alla porta e rientrarono, chiudendola. Il signor Kyllea, pallido, smaniante, strizzandosi le mani, si volgeva di tratto in tratto a guardare nella stanza accanto ... - Ah! Se non ci fossero le donne! ... Ho tre Remington! Don Liddu, che era andato ad affacciarsi dall'alto della terrazza, venne ad annunziare: - Se ne vanno! ... Hanno guastato tutto! ... Ma lungo lo stradone scende un'altra fiumana di gente ... Le campane suonano a stormo! Don Liddu s'interruppe. Grida confuse, fischi, poi due colpi d'arma da fuoco! ... I carabinieri si slanciarono fuori; e don Liddu, afferrato il padrone, cercava a ogni costo di impedirgli di uscire. - Per carità! Voscenza , no! Voscenza , no! Il signor Kyllea stava per svincolarsi, quando comparve miss Elsa, atterrita. - Babbo! ... Che cosa è stato? ... Babbo! Ed ecco la signora Kyllea mezza vestita, bianca come un cencio lavato, che gesticolava senza profferir parola. Il signor Kyllea si contenne: - Niente! Niente! - disse. - Dei malintenzionati. Ma non potè far a meno di trasalire anche lui, sentendo picchiare alla porta, e gridare: - Aprite! Aprite! - Sono i carabinieri! - esclamò don Liddu che aveva riconosciuto la voce. Erano essi infatti, accompagnati dal brigadiere e sostenevano una figura insanguinata, con gli abiti stracciati, che si reggeva a stento. Miss Elsa die un grido; aveva riconosciuto Paolo Jenco!

Ma, avete sentito dire finora che l' inglese abbia fatto celebrare una sola messa laggiù? - Se vi chiamasse per celebrarla ogni domenica, non sparlereste. - Non sparlo io, dico la verità. E, in quanto ai risultati, vi ripeto: Datemi tempo! Eh? Vuole insegnarci a fare il vino? Ma sappiamo farlo meglio di lui, e di uva schietta. Farà degli intrugli e discrediterà i nostri vini costui. Fa burro e formaggi ... di latte di vacca! Avete mai sentito dire che si facciano formaggi col latte di vacca? Farà formaggi che inverminiscono in due giorni. Se gli inglesi sono porci, da preferirli al nostro piacentino , al nostro caciocavallo, peggio per loro. Che è mai quel suo burro? L'ho assaggiato; cosa insipida, cosa da medicature, se mai. Oh! Vedremo i suoi olii. Per questo ha comprato Pennino e Santa Barbara , che hanno boschi di ulivi. Strettoi di ferro, o di acciaio, che so io? E la ruggine? Non guasterà gli olii? Don Paolo Conti, che ha voluto provarli questi nuovi famosi strettoi, vi ha rimesso mezzo patrimonio ed è tornato all'uso antico. E poi, chi troppo abbraccia, poco stringe, dice il proverbio. Il canonico, fatta una dispettosa scappellata, era andato via. Intanto, laggiù, sotto il sole, la vallata sorrideva, col vigneto, con l'agrumento, con le cascine bianche, con le vacche pascolanti su per le colline ora che e' era da brucare erba fresca sotto gli ulivi di S. Barbara . In cima a una collina, specchieggiavano due grandi vasche d'acqua per l'inaffiatura delle piante di limoni; e, più in là, con la facciata tinta in verde pallido, si vedeva il Cottage a un solo piano, dove sarebbe venuta ad abitare la famiglia dell' inglese , moglie, figlia e una cognata sorella della moglie, con due donne di servizio. Il Sindaco e gli altri tre erano rimasti a contemplare, muti, quello spettacolo che loro sembrava ancora incredibile, quantunque avessero assistito, quasi giorno per giorno, alla rapida trasformazione. - Il canonico è una bestia! - aveva poi esclamato il Sindaco. - Ma ci sono a Settefonti un centinaio di bestie uguali a lui. Protestanti! Che me n'importa, se fanno tanto bene? L' inglese è stato una provvidenza per Settefonti. Se c'è chi può lagnarsi, siamo noi proprietari che ci abbiamo visto mancare le braccia dei contadini, e abbiamo dovuto pagarli come li paga lui. Ma ora anche questo guaio cesserà; non occorrono più grandi lavori laggiù. Io non sono spericolato, come il canonico e tant'altri. Il mondo, infine, è di chi se lo piglia. Siamo curiosi noi! Don Liddu, per esempio, si è ingrassato a spese dell' inglese tre anni. Quasi tutto l' Albergo del Gallo era occupato da lui che vi aveva istallato i suoi uffici di amministrazione, lasciando appena una stanza per i forestieri, quando ne capitava uno. Ed ora che vede sfuggirsi questa mammella succhiata tre anni comodamente, Don Liddu piange e si strappa i capelli. Dice che è rovinato, perchè la clientela gli si è sviata, e già Maccarone gli ha preso il posto, con la Locanda della Luna là di faccia, quasi per fargli maggior dispetto. Che pretendeva? Che l' inglese rimanesse eternamente all'albergo? Egli ha laggiù un'abitazione da principe - posso dirvelo io che l'ho visitata - proprio da principe, da farci vergognare delle nostre catapecchie. Dovrebbe vivere con la famiglia all'albergo? ... Sarà una bella giornata domenica prossima. Mezzo paese invitato; banda, fuochi d'artifizio. Pranzo per una settantina di persone ... Verrà appositamente il cuoco di una gran trattoria da Catania ... Alla faccia nostra! Sia! L' inglese , l'altra volta, ce l'ha spiattellato sul viso in Casino: - Potreste fare una Società, mettere insieme i capitali che tenete morti in casa, e chiederne altri al credito bancario, se non bastassero. La Sicilia diventerebbe un giardino; produrrebbe dieci, venti, cento volte più che oggi non dia. Invece, state qui in Casino, a morir d'ozio! Non ha forse ragione? - Dovrebbe dare l'esempio lei ... - Non ne ragioniamo! È inutile! Quando si vedeva messo alle strette, il Sindaco se la cavava sempre così: - È inutile! Non ne ragioniamo!

. - Abbia il coraggio di affermare qualunque enormità ad alta voce. È un modo come un altro di far progredire l'umanità. Lei dunque sosteneva ... - Che un giorno noi ci sbarazzeremo delle nostre gallerie d'arte, vendendole ai selvaggi del centro dell'Africa, della Nuova Zelanda, della Papuasia, agli Esquimesi, agli abitatori dei Poli, se ce ne sono. Quadri e statue serviranno loro da giocattoli, fino a che quei selvaggi non si saranno anch'essi inciviliti; se pure, da fanciulli grandi, non li sciuperanno prima, per vedere come sono fatti, precisamente come praticano i nostri fanciulli coi giocattoli di Parigi e di Norimberga. - S'inganna, riprese il dottore sorridendo. - Così le avrebbe risposto il mio vecchio professore di fisiologia, se lei gli avesse espresso questo suo convincimento. Tra quattro o cinque secoli - egli metteva una lunga data per precauzione - i veri capolavori di pittura e di scultura non esisteranno più, cioè non staranno più chiusi nelle gallerie, ma andranno attorno pel mondo, vivi, immortali, e genereranno altri esseri, immortali al pari di loro; e formeranno, forse, il nucleo dell'umanità futura. - Questa, sì, è un'enormità! - esclamò la baronessa. - Lo credevo anch'io; ma ho dovuto ricredermi. E morrò col dispiacere di non poter assistere alla Redenzione dei capolavori , come il mio professore la chiamava. - Ci sarà dunque pure un Cristo per le opere d'arte? - Sì, baronessa; e sarà quella stessa divina forza che le ha create: il Pensiero! - Vuole sbalordirci, dottore! - Quando avrò raccontato quel che ho visto con questi occhi, lei penserà diversamente. - Quante stranissime cose ha viste! - esclamò la baronessa con fine espressione di malizia. - Privilegio della vecchiaia! Quel mio professore di fisiologia aveva un gran difetto; era eccessivamente modesto. Soleva dire: - Più la scienza va avanti e più diviene ignoranza! - Modo suo speciale per indicare che ogni mistero schiarito ce ne mette sùbito innanzi parecchi altri e maggiori. La modestia di quel grand'uomo proveniva dalla sua immensa dottrina. Diceva pure: - Una verità precoce può esser utile assai meno di una menzogna opportuna. - Ed è vero. Ma se io dovessi riferire tutti i sapienti aforismi del mio vecchio professore non la finirei fino a domani. Per arrivare al concetto della Redenzione dei capolavori , egli era partito dall'idea che il pensiero umano, creando un'opera d'arte, non poteva agire diversamente dal pensiero divino che agisce nella natura. Secondo lui, si trattava anzi dell'identica forza creatrice, con la sola differenza che il pensiero divino opera nella natura direttamente; indirettamente, per mezzo dell'umano organismo, nell'opera d'arte. Io, materialista in quel tempo, sorridevo sotto il naso udendo queste metafisicherie dalla bocca di un professore che, appunto per la scienza da lui coltivata, la fisiologia, giudicavo avrebbe dovuto essere più materialista di me. Lo ascoltavo però con rispetto, perchè infine le sue metafisicherie si abbarbicavano sempre a un fatto, a parecchi fatti che gli esperimenti rendevano indiscutibili. Pensavo - È un gran poeta costui! - e ignoravo di dire una profonda verità, giacchè poeta significa: creatore o, meglio, rivelatore. Egli stimava che le figure umane dipinte dai grandi artisti o scolpite in marmo, quando raggiungevano un alto grado di bellezza, dovevano essere certamente qualche cosa di più che semplici figure con la sola apparenza della vita. Figure voluttuose, figure severe, figure pensose, figure dai cui occhi e atteggiamenti traspariscono l'anima e la volontà, no, non potevano essere soltanto un gioco di linee e di colori, se poi provocavano sensazioni e sentimenti che sono arrivati in certi individui fino alla passione e alla pazzia. Piuttosto creature con organismi incompleti, o, meglio con organismi più raffinati, più perfetti del nostro, ma rimasti come in incubazione su la tela o nel marmo, in attesa dell'alito risvegliatore della loro vita latente. - È una bella fantasia! - gli dissi un giorno. - Sarà una realtà, giacchè mi costringi a rivelartelo - egli rispose. E mi condusse in una stanza appartata del suo vasto laboratorio. A una parete era appeso un ritratto di donna. Mi parve di riconoscerlo; avevo una confusa idea di averlo visto e ammirato non ricordavo più dove, quantunque ora - per accorta disposizione di luce, credevo - mi sembrasse assai più bello. Quell'attraentissima mezza figura cinquecentesca produceva una straordinaria illusione di rilievo, quasi di stacco, dal fondo grigio oscuro. Gli occhi avevano vividi lampi, come se nella pupilla si riflettessero le persone e gli oggetti circostanti; le labbra, un umidore, come di fiato che passasse a traverso della sottile apertura della bocca, donde s'intravedeva una fila di denti bianchissimi: la pelle una colorazione, una morbidezza, come se sotto la epidermide palpitassero, con impercettibile movimento, le vene che la rendevano fresca, rosea, quasi fosforica. - Che capolavoro! - esclamai. - È di Sebastiano del Piombo. Siedi là e sta a osservare. Si sedette pure lui davanti al quadro a mezzo metro di distanza, e tese le braccia con le mani aperte, al modo che usano i magnetizzatori coi soggetti da ipnotizzare. Oh, quel che avevo notato poco prima non era stato una illusione ottica, prodotta dai chiaroscuri e dalla luce! A poco a poco, sotto la influenza della corrente magnetica che si sprigionava dalle mani del professore, la figura dipinta si animava sempre più, s'agitava con lieve fremito, prendeva un'incredibile espressione di benessere, di piacere e, talvolta, anche di sofferenza, di smania repressa o che non riusciva a manifestarsi compiutamente. Dopo un'ora, e fino a che le braccia rimasero tese verso di essa, io potei credere che la figura di donna, immortalata su la tela dal prodigioso pennello di Sebastiano del Piombo, sentisse circolare dentro di sè un alito di vita assai diverso da quello ricevuto dalla potenza dell'arte. E quando le braccia del professore, cadendo stanche ed estenuate pel lungo sforzo fatto, interruppero la miracolosa operazione, dovetti accertarmi che qualche cosa era rimasto là, su la tela, qualche cosa di più di quel che vi avevo notato entrando, quantunque assai meno di quel che era apparso sotto i miei occhi mentre l'opera di vivificazione durava. Sfinito, col respiro ansante, col viso livido di pallore, il professore teneva china la testa sul petto e gli occhi socchiusi. Gli presi una mano; era diaccia come quella di un cadavere. Dopo alcuni istanti, però, egli si riaveva, alzava la fronte rugosa e mi guardava tentando di sorridere. - È mai possibile? - esclamai. - Dubiti ancora! - mi rimproverò. - Sei dunque di coloro che preferiscono di dar torto alla testimonianza dei loro sensi, se questi contradicono un'opinione da essi stimata certezza? Non lo nego, ero di questi! Dopo un quarto d'ora di riflessione, io credevo di essermi lasciato vincere dalla violenza suggestiva di lui; ma la sicurezza di tale convincimento veniva sùbito scossa, appena volgevo lo sguardo al ritratto. L'impressione che ne sentivo era stranissima: di cosa equivoca, non più opera d'arte e non ancora persona viva. - Dovresti aiutarmi; sei giovane, robusto, e persona seria, di cui posso fidarmi - soggiunse il professore rizzandosi da sedere. E mi raccontò la storia di quel ritratto d'ignota. Qualcuno di voialtri forse ricorderà lo scalpore che levarono i giornali parecchi anni addietro pel furto di un quadro della Galleria degli Uffizi. Lo aveva fatto rubare lui. - Per tentare la prova - continuò - occorreva un capolavoro che esercitasse vivissima impressione su l'operatore; mi sembrava condizione indispensabile, ed io non potevo chiedere di averne uno a mia disposizione, senza farmi giudicare impazzito. Questo ritratto lo avevo visto più volte e n'ero rimasto profondamente scosso. Ne avevo anche ordinato una copia quattr'anni prima, ma era riuscita così male che avevo dovuto rifiutarla. Quando mi fissai nell'idea di questo esperimento, la ignota di Sebastiano del Piombo mi si presentò così insistentemente davanti agli occhi, che decisi di averla qui, a ogni costo. Non ho rimorso di aver fatto commettere un furto; lo scopo scientifico assolve d'ogni peccato. Tu non andrai a denunziarmi - soggiunse. - Mi denunzierò da me stesso, quando sarà l'ora. Ahimè, quell'ora non arrivò, perchè le cose di questo mondo sono in gran parte rette dal caso. La morte colpì all'improvviso il professore, quando il suo esperimento era appena a un terzo di strada. Due giorni avanti, io avevo potuto assistere, ancora mezzo incredulo ma stupito, alla progressiva animazione del ritratto dell'ignota; ed ero uscito dal laboratorio domandandomi: - È possibile? - e rispondendo a me stesso: - sei peggio di San Tommaso! Infatti, avevo osato di accostare la punta delle dita a quel volto che si animava, che palpitava; e, provata la sensazione di toccare non un freddo dipinto ma carne tiepida e molle che si sollevava, come una bolla, dal fondo della tela, avevo tratto indietro la mano con rapido gesto di terrore e di ripugnanza. Il giorno della morte del professore, dopo averlo adagiato con l'aiuto di altre persone sul lettino di ferro dove egli aveva dormito, per tanti anni, poche ore della notte - non si permetteva, da quasi mezzo secolo, più di quattr'ore di sonno - io volli rivedere il ritratto dell'ignota. Un doloroso presentimento mi agitava: che la interruzione di quella vita avesse dovuto guastare i resultati ottenuti. Un orribile spettacolo mi fece indietreggiare. Il capolavoro di Sebastiano del Piombo era irrimediabilmente deformato; quasi la pelle di quel florido viso femminile fosse stata ridotta una vescica sgonfiata, raggrinzita e appiccicatasi, seccando, su la tela.

. - Io ho creduto finora, che il nostro organismo, così semplice e così delicato, abbia invece una forza di resistenza veramente straordinaria. - E appunto qui consiste il suo mistero! Urti, colpi violentissimi, spesso non vi producono nessuna notevole impressione; e quel che in confronto di essi potrebbe dirsi un soffio, una lieve spinta vi fa avverare, come nel caso di cui parlerò, un grave disastro. - Ma voi non siete impazzito! - Ero già su la via, altrimenti l'atto da me commesso sarebbe proprio inesplicabile. Ho reagito in tempo; ecco tutto. - Insomma, che cosa avete fatto? - domandò la baronessa resa impaziente dalla curiosità. - Ho distrutto un capolavoro, o per parlare con precisione, un'opera d'arte che certamente, stava per riuscire un capolavoro. - Perchè? - Perchè? ... Il mio amico Doneglia, scultore valentissimo che sarebbe salito in gran fama se fosse stato meno modesto e meno incontentabile, mi tormentava da parecchi anni: - Voglio fare il tuo ritratto! - Se io fossi meno brutto! - rispondevo. - Sarai bellissimo nel marmo o nel bronzo - insisteva. - Si era fitto in mente che io avessi una testa da filosofo greco con quella lunga barba che m'ero lasciato crescere allora e i capelli folti e arruffati di cui più non c'è quasi vestigio. A me però sembrava troppo onore per la mia barba e pei miei capelli l'essere immortalati da un grande artista come lui. Pensavo ch'egli avrebbe impiegato meglio il suo ingegno e il suo tempo terminando quel suo Centauretto che ruzzava tra l'erba e pareva uscito dalle mani di uno scultore ateniese dei tempi di Fidia, quantunque lasciato non finito con la scusa che il ragazzo servitogli da modello era morto ed egli non aveva più trovato chi potesse sostituirlo. Glielo ripetevo ogni volta che tornava a tentarmi. - Ebbene - mi rispose un giorno - ti do la mia parola d'onore che finirò il Centauretto, se prima mi lascerai cavare il capriccio di fare il tuo busto! Era premio troppo grande da non vincere tutti i miei scrupoli. E misi la pretesa mia testa da filosofo greco a sua disposizione. Così vidi di giorno in giorno, sotto il nervoso pollice del mio amico e sotto l'abilissima opera della sua stecca, uscir fuori dall'informe cumulo di creta ammassata sul cavalletto la mia figura così viva e parlante, che la guardavo con stupore quasi mi fossi sdoppiato, o quasi qualche cosa di me si fosse trasfuso in quell'immagine dalle cui labbra mi attendevo di sentir scappare da un momento all'altro il suono della mia voce, come già c'era il lieve bonario sorriso che, a detta del mio amico, formava la caratteristica della mia fisonomia. I doveri di medico non mi permettevano di accordargli frequenti e lunghe pose. Spesso passavano due, tre settimane senza che io mettessi piede nel suo studio. - Oh, Dio! Ti sei un po' ingrassato! - o pure: - Oh, Dio! Sei alquanto dimagrito! Come avvenissero questi cambiamenti piccoli ma percettibili, giacchè egli li notava sùbito, non saprei dire. - Non lo faccio a posta - rispondevo scusandomi. Ne ero dispiacente perchè gli inopportuni cambiamenti ritardavano molto l'esecuzione del busto. L'incontentabile artista doveva togliere qualche cosettina qua, supplirla là; e quel po' di creta, tolta o aggiunta in un posto, determinava altre aggiunte o soppressioni, delle quali egli cercava di spiegarmi l'intima ragione per indurmi a pazientare nel martirio della posa. Ogni volta allora, riprendendo la seduta, mi sembrava ch'egli scancellasse l'impronta della straordinaria rassomiglianza; ma, alla fine, sul punto di accomiatarmi, mi maravigliavo che la rassomiglianza e l'alito di vita animatore del busto fossero col paziente lavoro divenuti più evidenti. Un giorno gli dissi scherzando: - Non mi accadrà, spero, come alla amata di quel pittore di cui si parla in una novella del Poe. Io non morrò perchè la mia vita si sarà trasfusa tutta nel ritratto quando esso sarà finito. Rispose con un brontolìo. Passava e ripassava il dito su la fronte del busto, ed io mi accorsi che egli si sforzava di spingere un po' in dentro qualche cosa di duro che la creta copriva appena. - C'è un sassolino? - domandai. - No, il cranio vien fuori ... Ho messo qui un cranio per meglio modellare la testa. - Un cranio? Proprio un cranio? - Ti stupisce? Non potei nascondergli che il sapere incastrato nella testa del mio busto il cranio di un morto ignoto mi produceva repugnante impressione. - Molti scultori fanno così - egli mi disse. Rimessomi a posare, mi sentivo impacciato. Fanciullaggine! Ora lo comprendo; ma quel cranio che, vivente, aveva contenuto un cervello pensante affatto diverso dal mio, mi faceva fantasticare stranissime cose. Mi pareva che l'impronta di vita del mio ritratto dovesse ridestare le funzioni intellettive della vuota cassa cerebrale, e produrre un turbamento che poteva oltrepassare l'opera d'arte e influire su l'originale, su me che mi vedevo rivivere in essa. Mi pareva anche da sentirmi un che di estraneo dentro la testa, quasi quel cranio non fosse solamente incastrato nella creta, ma si fosse sostituito al mio, o almeno tentasse di sostituirsi al mio, come per opera di magìa. Fanciullaggine! ripeto. E tale la giudicavo da principio. Infatti, nelle sedute dei giorni appresso, scherzando all'amico scultore: - Chi sa che diamine pensa il mio ritratto con quel cranio altrui! Vi sarà rimasta qualche impressione dei pensieri là avvenuti una volta, e forse la forma esteriore può produrre il miracolo di metterli in moto. È una cosa macabra? Intanto, durante le sedute di posa mi affondavo sempre più in questa fissazione. Un crescente malessere mi invadeva. Non osavo più di scherzare intorno a quel cranio. La preoccupazione dello spirito alterava l'espressione della mia fisonomia, facendomi corrugare la fronte, e togliendo alle mie labbra la caratteristica del lieve, bonario sorriso che lo scultore era riuscito a rendere, con molto stento, nell'opera sua - Che cosa hai? - mi domandava. - Muoviti, parla; non prendere quest'aria mutriona che ti disdice! Ed io non avevo il coraggio di confessargli che tutto proveniva dal maledetto cranio di cui egli aveva avuto la funebre idea di servirsi per modellare più facilmente la testa del busto. Ormai quel senso di malessere non era più momentaneo, durante soltanto le poche ore di posa; lo portavo via con me tutta la giornata, e, la notte, mi impediva di addormentarmi sùbito appena entrato in letto, come solevo, quantunque le visite e le occupazioni giornaliere mi facessero rientrare a casa non meno stanco di prima. Non mi sentivo più io, ma un po' quell'altro che doveva pensare dentro la testa del busto sotto l'involucro di creta che lo copriva. Ed era una smania acuta, una sofferenza tormentatrice a cui non riuscivo di sottrarrai. Mi sembrava ridicolo che mi fossi ridotto fino a questo estremo; mi davo dell'imbecille e peggio; ma nello stesso tempo provavo una vivissima attrazione verso il busto che di giorno in giorno diveniva sempre più rassomigliante e più vivo con l'amorosa, assidua carezza del pollice dell'artista, da cui vedevo affinare maravigliosamente la modellatura. Per parecchi giorni di sèguito ero andato a posare. - Poche altre sedute - mi diceva il Doneglia - e poi sarai libero. Egli, l'incontentabile, cominciava ad essere soddisfatto dell'opera sua. Ma io vedevo aumentare, con una specie di terrore, l'espressione di persona proprio viva che il busto aveva già assunto in quelle ultime sedute. Mi voltavo a ogni istante per guardarlo, irrequieto, con la sensazione di una dolorosa pressura al cranio mio e del busto, quasi fossero divenuti un cranio solo; con la sensazione di una lotta, di un contrasto di pensieri opposti che vi tumultuassero dentro per prendere gli uni sopravvento su gli altri. E mi mordevo le labbra, e increspavo le mani conficcandomi le ugne nelle carni, facendo grandi sforzi per non far scorgere all'artista la mia interna angoscia. Egli dava gli ultimi tocchi di stecca agli occhi, facendovi la pupilla, dove quasi sprizzava una luce che animava il busto straordinariamente; e lavorava intento, con estrema delicatezza, mentre io sentivo più e più invasarmi dall'idea che stèssi per perdere la mia personalità ed essere interamente asservito a quell'altro ... - No! No! -. gridai, slanciandomi addosso al busto e rovesciandolo con le due mani dal cavalletto. - Oh, Dio! Che hai fatto! Perchè? Perchè? Ma io non badavo al desolato grido dell'artista che vedeva distratta l'opera sua; e coi piedi deformavo la testa rimasta intatta nella caduta, facendone schizzar fuori quel cranio con le occhiaie, con la dentiera e il buco triangolare delle narici imbrattati di creta che sembrava carne imputridita e rimastavi appiccicata nello sfacelo; poi, con la punta di un piede lo facevo ruzzolare in un angolo. - Perchè? Perchè? - Perchè? - risposi, rinvenendo dal furore che mi aveva improvvisamente assalito. - Mi sentivo impazzire. Oh, quel cranio! Perdonami! Mi sentivo impazzire. Capivo l'enormità a cui ero trasceso, e la contristata figura dell'artista che guardava stupito la distruzione da me operata, mi faceva pietà. Ma io rivivevo, io provavo l'immensa gioia della liberazione dall'incubo che per poco non mi aveva fatto perdere la ragione; e stringendo affettuosamente le mani del mio povero amico, gli mormoravo: - Perdonami!.. Pensa ora al tuo Centauretto; non castigarmi col lasciarlo non finito! È un gran rimorso. Il Doneglia non ha più ripreso la gentile statuina, e la moderna scultura italiana non può contare, per mia colpa, un capolavoro di più.

Sia che egli abbia operato la puntura nel lato destro invece che nel sinistro, o in un altro impercettibile punto non ancora scrutato dalla scienza, il resultato fu terribile. E prima ad accorgesene fu la dolce signora Von Schwächen, che il marito, chiamato per non so quale seduta coi suoi colleghi di Università, avea dovuto lasciar sola a guardia dell'addormentato. Ella era entrata nella camera, assai commossa dal caso; e si era permesso un castissimo gesto di carezza, alla fronte del giovane, quando lo vide saltar giù dal letto ... Ah Signore Iddio! E non ebbe tempo di indignarsi, di gridare al soccorso. - Non aggiungerò altro, - s'interruppe il dottor Maggioli, a un vivissimo gesto della baronessa, - quantunque, se veramente avesse voluto, nelle tre ore che passarono - egli soggiunse subito, sornione - prima che il professore fosse tornato a casa, la onesta signora avrebbe potuto indignarsi, gridare al soccorso e fare ben altro! Il professore trovò il giovane già desto, un po' abbattuto, e gli sorrise col più ipocrita dei sorrisi che mai labbro umano avesse abbozzato. E sicuro del fatto suo, trionfante, sprezzante, da quel giorno permise che il giovane Hart rinnovellasse più frequentemente le visite alla signora, e consentì anche che l'accompagnasse qualche volta, e solo, al passeggio. La signora Von Schwächen scoprì un giorno, fra gli appunti dei cartolari scientifici del marito, la spiegazione della sua sicurezza e della sua tranquillità, e fu indignata dell'infamia commessa contro quei poveri otto o nove timidi adoratori di lei. Palesò la scoperta al suo Hart; il quale, sospettando quel che doveva essere accaduto con lui, si diè segretamente a fare esperienze che lo condussero a verificare, in modo assolutamente scientifico, quel che il caso aveva fatto operare al ferocissimo sterilizzatore. I due amanti, per ciò, stimandosi troppo protetti dalla sicurezza del professore, non presero più, da allora in poi, tante precauzioni nelle loro gioie, e un bel giorno si fecero sorprendere. Ma allora si vide quel che può la passione scientifica in un alto intelletto. Invece di buttarsi addosso al vituperatore del suo talamo e strozzarlo, il professore Von Schwächen volle persuadersi come mai la sua operazione fosse fallita. Si mise a discutere con lo scolaro, quasi niente di male fosse accaduto, quasi si trovassero rinchiusi nel laboratorio. Il professore espose la sua scoperta e le sue otto o nove esperienze in anima vili ; Hart riferì i resultati opposti, ottenuti per via delle ricerche da lui iniziate, e addusse in prova sè stesso. E di accordo, come contratto di pace, professore e scolaro stabilirono di non propalare le loro rispettive scoperte. - La mia è malefica! - conchiuse il professore. - La mia è peggio; è superflua! - conchiuse il discepolo.

Il Marchese di Roccaverdina

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Capuana, Luigi 9 occorrenze

E questo qualcuno non si arresterà, non si stancherà, finché tu non abbia pagato il tuo debito, finché tu non abbia espiato anche quaggiù! ... ». Parlava e aveva paura della sua voce, che gli sembrava la voce di un altro; parlava e abbassava la testa, quasi quel qualcuno gli giganteggiasse di fronte, senza forma, senza nome, simile a un terribile misterioso fantasma, facendogli sentire la stessa prepotente forza da cui, la notte che il vento urlava per le vie, era stato trascinato in casa di don Silvio per confessarsi e sgravarsi la coscienza dell'orrido incubo che l'opprimeva. Ed ora, che doveva egli fare? Accusarsi, come gli aveva imposto don Silvio? Gli sembrava inutile ormai. Neli Casaccio era morto in carcere. Nessuno, all'infuori di lui, pensava più a Rocco Criscione! Che doveva egli fare? Andare a buttarsi ai piè del papa per ottenere l'assoluzione, per farsi imporre una penitenza? Oh! Non poteva più vivere così ... E tornava ad irrompere contro se stesso: «L'orgoglio ti acceca! ... Non vuoi macchiare il nome dei Roccaverdina! ... Dei Maluomini! Ah! Ah! E vorresti continuare ad ingannare il mondo, come hai ingannato la giustizia umana! ... Hai scacciato di casa tua il Cristo, che t'importunava col rimprovero della sua presenza! ... Ed ecco dove ora ti trovi! Egli, sì, egli ti è stato addosso, non ti ha dato tregua ... E ti perseguiterà, fino all'estremo, e smaschererà la tua ipocrisia, inesorabilmente! ... Che potrai tu contro di lui?». Con un manrovescio fece volar via dal tavolino quei libri che più non riuscivano a convincerlo, e già gli sembravano balorda mistificazione; e stette a lungo, con la testa tra le mani, con gli occhi sbarrati, guardando verso il letto, dov'egli aveva dormito, facendo brutti sogni, la notte avanti e dove non avrebbe più potuto trovar sonno fino a che non avesse ottenuto, espiando, la divina grazia del perdono! Si stupiva di vedersi ridotto in questo stato, come travolto da un turbine improvviso. Gli sembrava che il tempo fosse trascorso con incredibile celerità, e ch'egli fosse, in poche ore, invecchiato di vent'anni. Eppure niente era mutato attorno a lui. Ogni oggetto della sua stanza era al posto di prima, li scorreva con gli occhi, li numerava ... No, niente era mutato. Egli soltanto era diventato un altro. Perché? Perché? Suo cugino, sentendosi in pericolo di morte, aveva rinnegato le sue convinzioni? Che doveva importargli di lui? E non poteva essere stata una debolezza piuttosto fisica che intellettuale? Raccolto da terra uno dei volumi, sfogliò parecchie pagine, si rimise a leggere, irritandosi di non ritrovare in quei ragionamenti l'evidenza persuasiva e convincente che lo aveva prima turbato un po' e poi consolato e confortato, facendogli vedere il mondo e la vita sotto un aspetto positivo, affatto nuovo per lui. Forza e materia, nient'altro ... E le cose che scaturivano per propria virtù dal seno della materia cosmica, dall'atomo all'uomo, via via con lunga serie di lente evoluzioni ... E gli organismi che si perfezionavano per continuo e interminabile movimento, dalla coesione minerale alla germinazione vegetativa, dalla sensazione all'istinto e alla ragione umana ... E tutto senza soprannaturale, senza miracoli, senza Dio! ... La materia che si disgregava assumeva nuove forme, sviluppava nuove forze ... Ah! Si era lasciato convincere facilmente, perché gli accomodava di credere che le cose andassero così! E non era mai rimasto proprio convinto. No! No! Come espiare? Era inutile illudersi; doveva espiare! Gli sembrava impossibile che quella parola fosse potuta uscire dalla sua bocca. Ma si sentiva vinto; non ne poteva più! La sua volontà, il suo orgoglio, la sua fierezza erano cascati giù tutt'a un tratto, come vele abbattute da un tremendo colpo di vento. C'era, da un pezzo, dentro di lui qualcosa che lavorava a logorarlo, se n'era già accorto ... Aveva tentato di opporvisi, di contrastarlo ... Non era riuscito! ... Bisognava espiare! Bisognava espiare! Il silenzio gli faceva paura. Un gatto cominciò a lamentarsi nella via con voce quasi umana ora di bambino piangente, ora di uomo ferito a morte; e il lamento si allontanava, si avvicinava, elevandosi, abbassandosi di tono, prolungatamente; grido di malaugurio, sembrava al marchese, quantunque lo sapesse richiamo di amore. Non poté fare a meno di stare in ascolto, distraendosi, o piuttosto confondendo con quel grido l'intima voce che gli si lamentava nel cuore, mentre gli sfilavano quasi davanti agli occhi a intervalli o confusamente Rocco Criscione, Agrippa Solmo, don Silvio La Ciura, Zòsimo, Neli Casaccio, dolorose figure di vittime sacrificate alla sua gelosia, al suo orgoglio, alla sua impenitenza. Rocco, bruno, con neri capelli folti, con occhi nerissimi, penetranti, con impeto di virilità che scattava nella parola e nei gesti, eppure devoto a lui, altero di sentirsi chiamare Rocco del marchese , e in atto di ripetergli le parole di quel giorno. «Come vuole voscenza !». Agrippina Solmo, chiusa nella mantellina di panno scuro, che andava via singhiozzando, ma con un cupo rimprovero, quasi minaccia, nello sguardo. Don Silvio La Ciura, steso sul cataletto, col naso affilato, con gli occhi affondati nelle occhiaie illividite dalla morte, la bocca sigillata per sempre, come egli si era rallegrato di vederlo, davanti a la cancellata del Casino , tra la folla. Zòsima, con quella bianchezza smorta, con quel sorriso di tristezza rassegnata, che non osava ancora credere alla sua prossima felicità, con quel diffidente «Ormai!» su le labbra, che in quel punto gli sembrava profetico: «Ormai! Ormai! ... ». Come avrebbe potuto avere il coraggio di associarla alla sua vita, ora che egli si sentiva alla mercé di una vindice forza, avverso alla quale non poteva nulla? ... No, no! Doveva espiare, solo solo, non procurarsi un nuovo rimorso travolgendo quella buona creatura nella inevitabile ruina! Inevitabile! ... Non sapeva da che parte, né da parte di chi, né come, né quando; ma non poteva più dubitare che una parola rivelatrice sarebbe pronunciata, che un castigo gli sarebbe piombato addosso presto o tardi, se non si fosse volontariamente imposta una penitenza, un'espiazione, fino a che non si sentisse purificato e perdonato. Don Silvio gli aveva detto: «Badate! Dio è giusto, ma inesorabile! Egli saprà vendicare l'innocente. Le sue vie sono infinite!». E con l'accento di queste parole gli risuonava nell'orecchio anche il ricordo del vento che scoteva le imposte della cameretta, e passava e ripassava via pel vicolo, urlando e fischiando. Non osava più alzarsi dalla seggiola, con la strana sensazione che la sua camera fosse diventata una prigione murata da ogni parte, dove lo avrebbero lasciato morire di terrore e di sfinimento, com'era morto Neli Casaccio, immeritatamente, in scambio di lui. Si era lusingato di sfuggire alla giustizia umana e alla divina, dopo che i giurati avevano emesso il loro verdetto; dopo che don Silvio era stato reso muto prima dal suo dovere di confessore, poi dalla morte; dopo ch'egli si era illuso di essersi sbarazzato di Dio, della vita futura e di avere acquistato la pace con le dottrine e con l'esempio del cugino Pergola ... E, tutt'a un tratto! ... O aveva sognato? ... O continuava a sognare a occhi aperti? Sentì il primo cinguettio dei passeri sui tetti, vide infiltrarsi a traverso gli scuri mal chiusi del balcone il chiarore dell'aurora, e gli parve di destarsi davvero da un orribile sogno. Spalancò l'imposta, respirò a larghi polmoni la frescura mattutina, e sentì invadersi da un dolce senso di benessere di mano in mano che la luce del giorno aumentava. I passeri saltellavano, si inseguivano sui tetti, cinguettando allegramente; le rondini gorgheggiavano su la grondaia, dove avevano appesi i loro nidi; pel vicolo, per le case riprendeva il rumore, l'affaccendamento della vita ordinaria. E il sole, che già dorava la cima dei campanili e delle cupole, scendeva lentamente, gloriosamente sui tetti, faceva venire avanti, quasi le ravvicinasse, le colline lontane, le montagne che formavano una lieta curva di orizzonte attorno alle colline che digradavano e si perdevano nella vasta pianura verde, coi seminati qua e là luccicanti di rugiada, nell'ombra. Con la crescente luminosità del giorno, i tristi fantasmi che lo avevano contristato durante la nottata si erano già dileguati. E appena gli tornò davanti agli occhi la figura del cugino Pergola, col berretto bianco, di cotone, calcato fin su le orecchie, il collo circondato d'empiastri sorretti dalla grigia fascia di lana, seduto sul letto, appoggiato al mucchio dei guanciali, col viso congestionato e gli occhi rigonfi, quella risata che colà, nella camera, tra le candele ardenti sui candelabri di legno dorato attorno alle teche delle reliquie e al cordone di argento del Cristo alla Colonna, quella risata che gli era stata soffocata in gola, più che dal turbamento, dalla presenza dell'afflitta signora e dei bambini, gli scoppiò ora irrefrenabile in faccia al cielo azzurro, luminoso, in faccia alle cupole, ai campanili, alle case di Ràbbato, alla campagna, alle colline; e senza nessuna amarezza di delusione, quasi finalmente comprendesse di aver ecceduto, di essersi lasciato vigliaccamente impressionare anche lui! E apriva soddisfatto i polmoni a lunghi respiri di soddisfazione!

Credo che abbia anche un po' di febbre. Cosa da niente ... Porto il lume. Ha voluto essere lasciata allo scuro.» Mario lo precedette in camera. «Che cosa è stato?», egli domandò chinandosi su la giacente. «Non so; mi sono sentita male tutt'a un colpo. Ora mi par di star meglio», rispose la marchesa con voce turbata. «Mando pel dottore?» «Non occorre.» «Lo faccio avvertire perché venga domattina, di buon'ora.» «È inutile. Mi sento meglio.» Egli ficcò la mano sotto le coltri per tastarle il polso. E siccome la marchesa evitò che la toccasse, sforzandosi di sorridere e schermendosi, il marchese le posò la mano su la fronte. «Scottate!» «È il calore del letto», ella rispose. «Non ha preso nulla?», domandò il marchese alla serva. «Nulla. Il brodo è pronto in cucina.» «Bevetene almeno una tazza. Non potrà farvi male», egli disse con accento di preghiere, rivolgendosi alla marchesa. «Più tardi, forse.» «Portalo», ordinò alla serva. «Sarà meglio che lo prendiate subito», soggiunse tornando a posare la mano su la fronte della moglie. Ella non rispose e chiuse gli occhi. «Vi dà fastidio il lume?» «Un poco.» Il marchese tolse il lume dal posto dove la serva lo aveva posato, lo collocò su un tavolinetto coprendolo con una ventola che quasi abbuiò la camera, e rimase ritto in piedi davanti a la sponda del letto, attendendo che la serva recasse la tazza col brodo. «Avete avuto brividi di freddo?», domandò dopo lunga pausa. «No.» «Avreste potuto almeno mandare a chiamare la mamma», egli disse dopo altra pausa. «Per così poco?» Egli prese la tazza di mano della serva. «È un sorso», fece. «Bevetelo prima che si freddi.» La marchesa si sollevò su un gomito e bevve lentamente. «Grazie!», disse lasciandosi ricadere sul letto. Egli la guardava con grande apprensione. Gli sembrava che qualche altra terribile cosa stesse per accadde e che quella povera creatura innocente dovesse pagare per lui. L'insolita tenerezza nei suoi modi e nella sua voce proveniva da questo. E mentre egli restava là, in piedi, silenzioso con le mani appoggiate a la sponda del letto, un po' chino e con gli sguardi intenti, la marchesa pensava a quel gesto, a quella dolorosa espressione del viso di lui osservata la mattina, quando il marchese stava per partire per Margitello, e che l'aveva tenuta in profonda agitazione. Pensava anche alla cesta e alla lettera arrivate da Modica quel giorno. L'aveva portata un giovane capraio spedito a posta. «Chi vi manda?», ella gli aveva domandato, quantunque già avesse capito da chi potessero provenire lettera e cesta. «Mia zia Spano ... Solmo la chiamavano qui. Bacia le mani a voscenza .» La marchesa, a quel nome, si era sentita rimescolare. «Il marchese è in campagna. Volete aspettarlo?», ella disse. «Aspetterò per la risposta. Mia zia vuole la risposta. Dice: loro eccellenze devono scusare la sua impertinenza; sono cacicavallo. Qui non ne fanno; per questo si è presa la libertà ... » «Va bene. Siete stanco? Mangerete un boccone.» E dato l'ordine alla serva perché lo servisse in cucina, era rimasta con crescente turbamento, davanti a quella lettera da lei buttata sul tavolino quasi le avesse scottato le dita. Che voleva costei? Perché si faceva viva? Le parve di vederla, a un tratto, aggirarsi di nuovo per quelle stanze dov'era stata quasi dieci anni padrona assoluta della casa e più del cuore del marchese, come a lei, moglie, non era riuscito; le parve che quella lettera e quella cesta nascondessero un tranello per far riprendere a colei l'antico posto, e scacciarne chi vi era divenuta legittima signora. E fissava, con sguardi diffidenti, la cesta dove poteva, fosse, essere qualche opera di malìa. Le tornavano in mente casi uditi raccontare da popolane (allora l'avevano fatta sorridere d'incredulità), casi di malìe, preparate in una torta, in una frittata dalle quali erano stati prodotti o una lenta malattia di sfinimento e poi la morte, o un rinfocolamento di passione da confinare con la pazzia. No, non avrebbe permesso che il marchese mangiasse di quei cacicavallo, e lei non li avrebbe neppure toccati. Chi lo sa? Tante cose che paiono fiabe, sono vere; altrimenti non si racconterebbero. E, a poco a poco, si affondò talmente in questo sospetto, che esso assunse per lei evidenza di certezza. Sentiva diffondersi, a traverso dei vimini della cesta, la maligna influenza colà rinchiusa, e invaderla e inquinarle il sangue e attossicarle la fonte della vita. Ebbe la tentazione di aprire la lettera, di strapparla anche senza leggerla, giacché fin le parole colà scritte potevano avere qualche malefica potenza. Resisté; intanto ordinava alla serva di mettere cesta e lettera in un ripostiglio nascosto. «Che ti ha detto quell'uomo?», le domandò. «Dice che sua zia ha sempre su le labbra il nome del padrone, benedicendolo.» «Niente altro?» «Dice che vorrebbe venire a baciargli le mani, e che verrà un giorno o l'altro. E mi ha domandato se il padrone ha già avuto un figlio.» «Che gliene importa?» «Così mi ha detto.» «Ha un figlio ... sua zia?» «Vuole voscenza che glielo domandi?» «No.» Ma quando la serva ebbe portato via cesta e lettera, la marchesa ripensò lungamente quella domanda che le pareva insidiosa quanto il regalo e la lettera. E per tutta la mattinata non poté distrarsi, con dinanzi gli occhi la figura di Agrippina Solmo come l'aveva veduta di sfuggita due o tre volte, anni addietro. L'aveva invidiata allora, sentendosi inferiore a lei per giovinezza e bellezza, ma senza sdegno e senz'odio, perché allora stimava che non era colpa di colei se il marchese l'aveva voluta e se l'era tenuta in casa. Ne aveva avuto anzi compassione, povera giovane! La miseria, le insistenze del marchese ... Come non cadere in peccato? E talvolta l'aveva ammirata per la devozione, per la sottomissione assoluta, pel quasi incredibile disinteresse; lo dicevano tutti. Ma dopo? Zòsima rammentava il sospetto della baronessa intorno alla Solmo per l'uccisione di suo marito. Rammentava il respiro di soddisfazione della vecchia signora quando la Solmo era andata via da Ràbbato col secondo marito. «Non mi par vero, figlia mia!», aveva esclamato. «Ti si è levata di torno una gran nemica!» Ma ella era piena di illusioni e di fiducia in quei giorni, e le parole della baronessa le erano parse esagerazioni. Invece ... Invece oggi le riconosceva molto minori del vero. La sua gran nemica ella l'aveva subito ritrovata, invisibile, ma presente in quella casa dove si era lusingata di regnare sola e senza contrasti; l'aveva ritrovata su la soglia del cuore del marchese, e non aveva permesso che la moglie vi penetrasse ... Ed eccola ora; arrivata da lontano, col regalo e con la lettera, per rafforzare il suo potere, forse creduto in punto di diminuire: eccola, arrivata forse per mettere in opera una mortale malìa, contro di lei certamente! Andando da una stanza all'altra, torcendosi le mani, parlando a voce alta, reprimendosi di tratto in tratto per timore di essere osservata, con gli occhi pieni di lagrime che non potevano sgorgare, ella metteva tutto questo in confronto col contegno del marchese verso di lei, e vi trovava una chiara conferma di quel che pensava e che non avrebbe voluto credere. Ma come non credere? Ah, Signore! Che aveva mai fatto per meritarsi tale castigo? Non aveva già rinunciato al bel sogno della sua giovinezza? Non si era già rassegnata a morire in quella sua triste casa dove ora le sembrava di non aver sofferto niente a paragone di quel che soffriva là, tra la ricchezza e il lusso che le facevano sentire maggiormente la desolazione del suo povero cuore? E un lentore l'aveva invasa, e un cerchio di ferro le aveva stretto le tempie e gliele stringeva ancora, mentre il marchese, nella penombra della camera, con le mani appoggiate alla sponda del letto, più non osava di interrogarla, ed ella avrebbe voluto gridargli: «La lettera è di là! La cesta è di là!», quasi il marchese stesse muto e chino su di lei in attesa di tale rivelazione perché già sapeva! Spalancò gli occhi, lo fissò in viso, e con voce velata dal turbamento, gli disse: «Avete visto il capraio arrivato da Modica?» «No. Che cosa vuole?» «Ve lo dirà lui e la lettera che ha portato. Ha portato anche una cesta.» «Ah!», fece il marchese accigliandosi. «Lettera e cesta sono nel ripostiglio.» Il marchese rispose con una spallucciata. «Se vi pregassi ... », disse la marchesa quasi balbettando dalla commozione. E arrestatasi un istante, riprese subito: «Sono una sciocca! ... Non voglio procurarmi un rifiuto!» Scoppiò in pianto dirotto. «Zòsima! ... Zòsima! Che cosa è accaduto! ... Non mi nascondete nulla!», esclamò stupito il marchese. «Voi, voi mi nascondete qualche cosa!», ella rispose tra i singhiozzi. Si sollevò, si mise a sedere sul letto, e frenando il pianto, ripeté: «Sì, sì! Voi mi nascondete qualche cosa! ... Mi trattate da moglie forse? Neppure da amica! A un'amica spesso si confida tutto, si chiedono conforti o consigli. Ma io qui sono una estranea che deve ignorare, che deve macerarsi il cuore nel buio. Oh, non parlo per me, non mi curo soltanto di me. Anche voi soffrite; lo veggo! Non state continuamente in guardia? Ogni mia domanda, anzi, ogni mia parola non vi mettono in sospetto? Credete che non me ne sia accorta? Da un pezzo! Se non vi volessi bene, non baderei a niente. Se non vi volessi bene, non mi torturerei pensando e ripensando: "È per cagione mia? In che ho potuto dispiacergli?". Involontariamente, se mai; dovreste dirmelo pure ... Non ho voluto ingannarvi, io. Siete venuto voi a cercarmi, quando già non m'illudevo più, non speravo più ... ». «Oh, marchesa! Oh, Zòsima!» «Chiamatemi Zòsima! Marchesa di Roccaverdina non son potuta divenire finora!» «Non dite così!» «Debbo dirlo per forza! ... Vorreste darmi a credere, per esempio, che la notizia di quella cesta e di quella lettera non vi ha prodotto nessuna impressione? Quale, non so. Avete alzato le spalle; ma questo non prova nulla; non rivela quel che avete pensato, né quel che pensate in questo momento ... Chiamate Maria, fatevi dare la lettera ... Conterrà forse cose che potrebbero farvi molto piacere ... commuovervi, distrarvi dal presente che sembra vi pesi ... Se io fossi un ostacolo ... Oh! io sono un fuscellino che potere cacciar via con un soffio! ... Voi lo sapete ... Voi lo sapete!» La voce, vibrata un momento con dolorosa ironia, e poi diventata tremula, incerta, le si era affievolita tra i singhiozzi di nuovo irrompenti; e le ultime parole le erano uscite dalle labbra soffocate dallo scoppio di pianto che l'accasciava sui guanciali, con la faccia nascosta tra le mani. «Ma ditemi la verità! Che cosa vi hanno insinuato? Ditemi la verità!» Il marchese non sapeva persuadersi che unicamente la cesta e la lettera avessero prodotto quell'esplosione di gelosia, quel grido d'anima trambasciata! Immaginava che, nella sua assenza, fosse dovuto accadere qualche cosa di inatteso, di grave, e per ciò insisteva a ripetere: «Ditemi la verità! Ditemi la verità!». Stringendosi forte la fronte con le mani convulse era andato premurosamente a mettere il paletto all'uscio, per impedire che Maria - non ancora abituata a picchiare prima di introdursi in una stanza - entrasse all'improvviso; e tornato davanti al letto, premendo con una mano carezzevolmente la testa della marchesa, la supplicava, sottovoce, di frenarsi, di tranquillarsi. «Siete eccitata ... Forse avete la febbre ... Voi un ostacolo? Come avete potuto pronunziare questa parola? Ostacolo a che? ... Oh, non voglio farvi l'offesa di credervi gelosa di un'ombra; sarebbe indegno di voi ... Mi giudicate male. Quella cesta? ... La farò buttar via, con tutto quel che contiene. Quella lettera? ... Non la leggerò, la getterò nel fuoco senza aprirla. Dovreste leggerla voi, per disingannarvi ... Che cosa potrei nascondervi? La mia vita trascorre sotto i vostri occhi ... Non sono galante, lo so; sono anzi rozzo di maniere. Marchese contadino mi chiamava una volta lo zio don Tindaro; e me ne glorio, ve lo confesso. Avrei potuto vivere in ozio come tant'altri, meglio di tant'altri ... Avete veduto; ho rifiutato di essere Sindaco, per continuare a fare il contadino. Il cugino Pergola mi tiene il broncio; il dottor Meccio sparla di me in Casino , nelle farmacie, dovunque; mi ha fin chiamato: "Fantoccio di cencio! Pulcinella!". Che me n'importa? Ma voi, voi, Zòsima, non dovreste giudicarmi come lo zio don Tindaro, come il cugino Pergola, come il dottor Meccio! ... Sì, ho preoccupazioni ... di interessi ... Sono cose che non vi riguardano ... Si accomoderanno. Forse io do troppa importanza a certe difficoltà, a certi incidenti ... Me lo ripeteva, giorni addietro, don Aquilante ... Ma neppur lui mi capisce. Ormai la mia vita è così; non posso stare inoperoso, non posso arrestarmi ... Se verrà un figlio - e spero che verrà - non dovrà dire che suo padre è stato un fannullone, superbo soltanto del suo titolo di marchese. E se vorrà essere un marchese contadino, come me, se vorrà fare tutt'altro ... non potrà dire che io abbia offuscato il nome dei Roccaverdina; non potrà dire ... » Parlando, parlando, con foga che maravigliava lui stesso, il marchese sentiva di divagare, di fare uno sforzo per lottare contro la terribile fatalità che si rinnovellava quando già gli era sembrata per lo meno respinta assai lontano; che per bocca altrui (come quello stesso giorno a Margitello, o per mezzo della sua coscienza, allorché egli aveva creduto di poter sfuggire all'ossessione del ricordo immergendosi nelle lotte municipali, negli affari, mutando condizioni di vita) veniva a sconvolgerlo, a turbarlo! ... Il tempo, le circostanze, non valevano dunque niente? ... E la sua voce si addolciva, intenerita dal pensiero che quella dolce creatura, singhiozzante sui guanciali perché gli voleva bene, non chiedeva infine altra ricompensa all'infuori di un po' di affetto, d'una buona parola, di un gesto di carezza; poco, quasi niente! ... Ah! C'era qualcosa che gli aggelava il cuore, che gli irrigidiva la lingua, che rendeva duri i suoi modi, proprio nel punto ch'egli stava per manifestarsi veramente qual era ... l'opposto di quello poi che appariva per la parola interdetta, per la carezza vietata ... E Zòsima doveva per ciò credere ch'egli non si accorgesse di nulla, che rimanesse indifferente alle sue smanie, alle sue torture, e che il passato ... Ah, se Zòsima avesse potuto sapere com'egli imprecava ogni giorno contro di esso! ... Se avesse potuto sapere! ... E intanto continuava a parlare, a parlare, senza notare che, di mano in mano, la sua voce diveniva meno dolce, meno dimessa, e la parola egualmente, anche per lo sforzo di pensare nello stesso tempo a cose diverse; anche per lo sforzo maggiore, di resistere all'improvvisa tentazione di gridare alla marchesa: «Vi spiegherò ... Vi dirò. Tutto vi dirò», tentazione che cercava di sostituirgli su le labbra queste alle altre parole che non spiegavano e non rivelavano nulla. «Sentite, Zòsima! ... Ascoltatemi bene. Io non posso vedervi piangere, non voglio vedervi piangere più! Mai più, mai più non voglio vedervi piangere. Siete la marchesa di Roccaverdina ... Siate fiera e orgogliosa come sono io. E non mi dite mai più, mai più, che dubitate di me, che non vi sentite amata; mi fate offesa grave; non la tollero ... La gelosia è da donnicciuola. La gelosia del passato è peggio che da donnicciuola ... Io ho bisogno di tranquillità, di pace; per ciò sono venuto a cercarvi. Vi ho stimata degna di questa casa, e non credo di essermi ingannato ... Capisco che non state bene; forse avete la febbre ... Domani manderò a chiamare il dottore ... e vostra madre che è donna di molto senno e saprà consigliarvi bene, ne sono certo ... Ma voi non avete bisogno che altri vi consigli, all'infuori di me. Dovete avere fiducia in me ... E questa sia l'ultima volta che noi ragioniamo intorno a un argomento così dispiacevole. Se mi volete bene, sarà così! Se non volete contristarmi, sarà così!» La sua voce era divenuta all'ultimo talmente severa che la marchesa, quasi intimidita, aveva cessato di piangere; e seguitolo un po' con gli occhi, mentre a testa bassa, con la fronte corrugata e le mani dietro la schiena andava su e giù, davanti al letto, da un punto all'altro della camera, non poté fare a meno di accennargli di accostarsi. «Perdonatemi!», gli disse. «Mai più! Mai più!» «Vedremo», rispose il marchese seccamente.

Oh, non già che non abbia parlato! Un'ora e mezzo, con furia di gesti, battendo i pugni sul tavolino ... Se l'è presa anche contro i pezzi grossi che autorizzano con l'esempio le soperchierie dei loro dipendenti! Come se, in questo caso, il marchese di Roccaverdina avesse detto a Rocco: "Va' a rubargli la moglie a Neli Casaccio!". Povero avvocato! Non sapeva dove sbatter la testa; armeggiava con le braccia e con la lingua, dopo che il Procuratore del Re gli aveva troncato anticipatamente i soliti argomenti. La gelosia! La forza irresistibile! Si capiva che parlava unicamente per parlare. E poi ... voleva provar troppo. Processo d'indizi! Le testimonianze? "Ho sentito dire! ... . Mi è stato detto! ... . Ha minacciato!" "È un uomo feroce; cacciatore di mestiere! Si può decidere della libertà di un cittadino su così fragili basi?" ... » E il marchese rifaceva la voce e i gesti dell'avvocato con evidentissimo accento d'ironica commiserazione, ridendo perché i circostanti ridevano, lieto dell'effetto prodotto su coloro che dovevano sembrargli proprio i giurati, o altri giurati da giudicare in appello, tanto egli si animava nel ripetere le frasi più altisonanti e più comuni dell'avvocato, aumentando l'ironica intonazione fino alla ripresa del Procuratore del Re che volle parlare l'ultimo per dare il colpo di grazia! «Una botta da maestro intanto l'aveva già data il nostro avvocato qui. Poche parole, ma sostanziose, ma gravi, di quelle che non ammettono replica ... » Don Aquilante che, con le mani incrociate, gli occhi socchiusi, ora storceva le labbra, ora scoteva la testa, e sembrava di non accorgersi del mormorio di approvazione seguito alle parole del marchese, si scosse con un sussulto allo scatto di voce, che parve un tuono, con cui quegli rispondeva al dottor Meccio, detto San Spiridione non si sapeva perché. Il dottor Meccio, seduto proprio di faccia al marchese, era stato ad ascoltarlo a testa bassa, col mento appoggiato al pomo dorato della sua canna d'India quasi più lunga di lui; non si era mosso, né aveva fatto nessun altro segno di approvazione, né riso come tutti gli altri. E rizzandosi improvvisamente su le interminabili magre gambe - la sua vecchia tuba pareva dovesse arrivare a toccar la volta del salone - avea sentenziato: «L'han condannato a torto. È il mio parere». Il marchese era scattato: «Come torto? Con tante prove? Che ne sapete voi?». «È il mio parere. I giurati non sono infallibili.» «Chi ha dunque ammazzato Rocco?» «Non lo ha ammazzato Neli Casaccio.» «Chi dunque? Ci vuole un bel coraggio a parlare così! Perché non siete andato a dirlo al giudice istruttore quand'era tempo? Non vi rimorde la coscienza di aver lasciato condannare, secondo voi, un innocente? Ecco come siamo! "È il mio parere!" Ma il vostro parere non vale un fico contro la sentenza dei giurati! Il giudice istruttore è stato dunque un bestione? Il Presidente e i giudici della Corte di Assise sono stati pure bestioni? Chi è dunque l'assassino? Dov'è?» «Non vi scaldate troppo, marchese!» «Dite, dite: chi è stato l'assassino! Dov'è?» Il marchese, in piedi, pallido dalla collera, gesticolava, urlava, ripetendo: «Chi è stato l'assassino? Dov'è?». «Può essere qui, tra noi, tra quella folla davanti la vetrata, e forse ride di me, di voi, dei giurati, dei giudici, della giustizia! E se dico una sciocchezza, lasciatemela dire! La parola è libera!» San Spiridione gli teneva testa imperterrito, mentre parecchi tentavano di condurlo via per por termine a quella scena sconveniente, e altri circondavano il marchese pregandolo di compatire un presuntuoso che diceva sempre no quando uno diceva sì, per vizio d'indole, per abitudine ... «E perché me lo dice in faccia? L'ho fatto forse io il processo? L'ho discussa io la causa? L'ho condannato io Neli Casaccio?» E, tornato a sedersi, riprendeva la relazione daccapo, minuziosamente, riferendo le testimonianze a una a una, e l'arringa del Procuratore del Re, e le arringhe degli avvocati ... «Tanto, a me che può importare se hanno condannato uno invece di un altro? È affare dei giurati, dei giudici della Corte ... Disgraziatamente», conchiuse, «per gli assassinii che commettono i medici ignoranti non c'è processi né Corte di Assise! ... » Ma il dottor Meccio non poté rispondere a questa frecciata. Era andato via borbottando: «Se il marchese si figura che il Casino sia la spianata del Castello!».

Può darsi che io abbia torto.» «Hai torto certamente.» «Sì, sì, mamma, ho torto; lo comprendo. Non affliggerti per me!» Andando via, il marchese le aveva detto: «Tornerò presto questa sera». Ma era già un'ora di notte, e la marchesa, affacciata al terrazzino a pian terreno allato al portoncino d'entrata, cominciava a impensierirsi del ritardo. Si atterrì vedendo arrivare soltanto Titta a cavallo d'una mula. «Il marchese?» «Non è niente, eccellenza.» Titta, saltato giù da cavallo, legata la mula a uno degli anelli di ferro confitti a posta nel muro ai due lati del portoncino, si affrettava ad entrare. Ella gli corse incontro nell'anticamera. «Stia tranquilla, voscenza . È accaduto ... » «Il marchese sta male?» «No, eccellenza. Devo andare dal pretore e dai carabinieri ... Si è impiccato uno a Margitello: compare Santi Dimauro.» «Oh, Dio! ... Perché? Come?» «È venuto a impiccarsi nel suo fondo venduto al marchese due anni fa. L'aveva detto tante volte: "Verrò a morirvi un giorno o l'altro!". E finalmente il disgraziato ha mantenuto la parola. Si era pentito di aver venduto quel fondo ... Di tanto in tanto lo trovavano là, nella carraia, coi gomiti su le ginocchia e la testa tra le mani. "Che fate qui, compare Santi?" "Guardo la mia terra, che non è più mia!" "Avete preso un sacco di quattrini!" "Sì, ma io vorrei la mia terra!"» «Perché l'ha venduta?» «Oh! Egli soleva raccontare una storia lunga. Pel processo di Rocco Criscione ... L'aveva col marchese, che non c'entrava ... Il giudice istruttore ... sa, voscenza ; quando si fa un processo si raccolgono tutte le voci ... E siccome il giudice istruttore ... Una storia lunga! ... Ma era venuto lui stesso a dire al marchese: " Voscenza vuole quel pezzo di terra? Se lo prenda". Era proprio nel cuore di Margitello, e di tratto in tratto il vecchio alterava il limite ... I contadini quando possono rubare un palmo di terreno, non hanno scrupoli. Compare Rocco, buon'anima, non era omo da lasciarlo fare, nell'interesse del padrone. "E il marchese non ne troverà un altro eguale, eccellenza!" Il vecchio si era dunque presentato dal marchese: " Voscenza vuole quel pezzo di terra? E se lo prenda!". Poi il vecchio si era pentito. Veniva a piangere là, quasi ci avesse un morto ... Che colpa n'aveva il padrone? E ora, per fargli dispetto, si è impiccato a un albero ... Chi se n'era accorto? Spenzolava davanti la casetta ... Le mule della carrozza - gli animali hanno il fiuto meglio di noi cristiani - non volevano andare né avanti né indietro. Io guardo attorno per veder di che cosa s'impaurissero le povere bestie ... Ah, Madonna santa! Salto giù di cassetta, scende di carrozza anche il marchese, tutti e due più pallidi del morto. Non lo dimenticherò finché campo! ... Pavonazzo, con gli occhi e la lingua di fuori ... Lo tocco; era freddo! ... Allora siamo tornati a Margitello ... Il marchese, sturbato, non poteva parlare ... Ha dovuto buttarsi sul letto. Ora sta meglio ... E mi ha mandato per avvertire voscenza . Devo andare dal pretore e dai carabinieri ... Il morto è là, che spenzola ancora ... Ha voluto dannarsi!» La marchesa era stata ad ascoltare senza interromperlo, corsa da brividi per tutta la persona, quasi avesse davanti il corpo del vecchio contadino col viso pavonazzo, con gli occhi e la lingua di fuori, che dondolava dal ramo dell'albero a cui disperatamente era andato a impiccarsi. «Il Signore lo avrà perdonato!», ella disse commossa. «Ma il marchese però non è tornato? Ditemi la verità, Titta: sta male?» «Eccellenza, no! Aspetta la giustizia coi carabinieri e i manovali che dovranno portar via il morto ... Mi ha mandato a posta ... E se voscenza permette ... » La marchesa quella notte ebbe paura di dormire sola in camera sua. Disse a mamma Grazia: «Recitiamo un rosario in suffragio del disgraziato». A metà del rosario, mamma Grazia era già addormentata su la poltrona dove la marchesa l'aveva fatta sedere; ed ella si buttò sul letto vestita, certa di non chiudere occhio, con nel cuore un'inesplicabile angoscia, un invincibile presentimento di tristissimi casi che sarebbero sopravvenuti, presto o tardi, per cattiva influenza di quel morto.

Miracolo che ora non abbia colpito Titta! Hanno dovuto imbavagliarlo, togliendosi le giacche di dosso - non avevano altro - per impedirgli di farsi male. Lo spiritismo? Può darsi benissimo! ... E vedrete che don Aquilante finirà pazzo anche lui!» «Mi par di sognare!» «Povera marchesa! Nemmeno un anno di felicità!» Avevano dovuto picchiare più volte prima che venissero ad aprire il portoncino, chiuso perché la folla dei curiosi non invadesse la casa. «Ma come? Ma come?», ripeteva don Tindaro, nel salotto dove la marchesa era svenuta per la terza volta quando egli vi entrava assieme col notaio. Fra tante persone, nessuno gli dava retta. La signora Mugnos e Cristina, aiutate dal cavalier Pergola, portavano in camera la marchesa che sembrava un cadavere, con le braccia penzoloni, gli occhi chiusi, bianca bianca in viso. «Ma come? Ma come? ... Dottore!» «È di là, nello studio», rispose il dottor Meccio. «Pazzia furiosa! Vi ricordate, notaio, in Casino , quella volta? Eh? Eh? Che ne dite ora?» E seguì le donne in camera per soccorrere la svenuta. Dal corridoio, don Tindaro e il notaio udivano gli urli del marchese, quantunque l'uscio dello studio fosse chiuso; il cavalier Pergola li aveva raggiunti. «Ci sarebbe voluta la camicia di forza! ... Ma in questo porco paese dove trovarla? ... Abbiamo dovuto legarlo su una seggiola a bracciuoli ... mani e piedi! Chi poteva mai supporre ... !» Lo zio don Tindaro non osava d'inoltrarsi, inorridito dalla vista dell'infelice marchese che si dibatteva urlando scomposte parole, con la bava alla bocca, i capelli in disordine, agitando qua e là la testa, stralunando gli occhi, quasi irriconoscibile! Solide corde lo tenevano fermo su la seggiola, e Titta e mastro Vito Noccia, il calzolaio, reggevano dai lati la seggiola che scricchiolava, asciugando di tratto in tratto la bava che dalla bocca colava sul mento e sul petto del demente. «Ma come? ... Ma come?» «All'improvviso!», spiegava il cavalier Pergola. «Da più giorni si lagnava di una trafittura al cervello, di un chiodo, diceva, conficcato nella fronte ... Il male ha lavorato, lavorato sottomano ... Ormai è certo ... », riprese a un gesto interrogativo del suocero. «Lo ha ammazzato lui, per gelosia! ... » «Inesplicabile!», esclamò il notaio Mazza. «Anzi, ora tutto diventa chiaro», riprese il cavalier Pergola. E stettero un pezzo muti, a guardare il marchese che non cessava un minuto di agitare la testa, di stravolgere gli occhi, urlando con una specie di ritmo: «Ah! Ah! ... Oh! Oh!», mandando bava dalla bocca, intramezzando agli urli parole che rivelavano le rapide allucinazioni della mente sconvolta: «Eccolo! Eccolo! ... Mandatelo via! ... Ah! Ah! Oh! Oh! ... Zitto! Siete confessore! ... Voi non potete parlare! Siete morto! ... Non potete parlare ... Nessuno deve parlare! Ah! Ah! Oh! Oh!». «Sempre così!», disse Titta stralunato. «Sempre così!», confermò mastro Vito. «E una settimana fa, passando davanti a la mia bottega qui vicino si era fermato su la soglia. "Bravo! Di buon'ora al lavoro, mastro Vito." "Se non si lavora non si mangia, eccellenza!" Ah Signore! Che miseria siamo!» E mentre, non ostante la terribile rivelazione che faceva compiangere il povero Neli Casaccio condannato a torto e morto in carcere, la gente da due giorni s'impietosiva in vario modo della pazzia del marchese, soltanto Zòsima rimaneva inesorabile, inflessibile, sorda a ogni ragione. «No, mamma, non posso perdonare! ... È stata un'infamia, una grande infamia! ... Non capisci, dunque? L'ha amata fino a diventare assassino per essa! ... Te lo dicevo! Io non sono mai stata niente, oh niente! per lui.» «Ma che si dirà di te?» «Che m'importa di quel che si dirà? Voglio andar via! Non voglio restare un altro solo giorno in questa sua casa ... Mi fa orrore!» «Anche questa è pazzia! Sei la moglie. Ora egli è un infelice, un malato ... » «Ha tanti parenti, ci pensino loro! Qui c'è la maledizione! Mi sento morire! Mi vuoi morta dunque?» «Oh, Zòsima! ... Gesù Cristo ci comanda di perdonare ai nostri nemici.» «Sta' zitta tu! ... Non puoi intendere tu!», aveva risposto sdegnosamente alla sorella. «Se non mi volete in casa vostra ... » «Figlia mia, che dici mai?» «Fino a diventare assassino ... per quella!» Non sapeva darsene pace. Il suo cuore traboccava di odio, quanto aveva traboccato di amore fino a pochi giorni addietro. Il sangue le si era cangiato in fiele. Ah! ora ella doveva, con più ragione, invidiare colei che poteva insuperbirsi apprendendo di essere stata amata tanto! Si sentiva umiliata, ferita mortalmente nella più delicata parte di se stessa, in quel legittimo orgoglio di donna che si era formata un culto della sua prima ed unica passione, e aveva sofferto in silenzio, nascostamente, senza illusioni e senza speranze, tanti anni! Perché non aveva dato ascolto all'ammonimento delle sue esitanze? Perché si era lasciata indurre dalla baronessa e dalla madre? Non sarebbe stata, com'era stata, marchesa di Roccaverdina di nome soltanto! Nulla, nulla poteva più compensarla, consolarla! E doveva fingere, per l'occhio della gente? Sentirsi compassionare? Oh, chi sa quante in quel momento ridevano di lei! Tutte coloro che avrebbero voluto essere al posto di lei; parecchie, lo sapeva! No, no! Ormai era finita! Se il marchese fosse guarito, non guarirebbe egualmente l'atroce piaga che le si era aperta nel cuore! Giorni fa, poteva confortarsi, lasciarsi lusingare dalle buone parole, dalle apparenze; ora, impossibile! Doveva stimarsi un'estranea in quella casa che neppure la sua presenza di moglie legittima aveva potuto ribenedire ... Mamma Grazia, povera vecchia, s'era ingannata! E, ferma nella risoluzione di andar via, rispondeva: «Questa sera, tardi, quando nessuno potrà accorgersene, con le sole vesti che ho indosso! ... È inutile, mamma, non potrai persuadermi!». «Se tu lo vedessi, ne avresti pietà!» «Dio è giusto! È la mano di Dio che lo punisce!» «Castigherà anche te che non avrai fatto il tuo dovere ... Non ti riconosco, Zòsima! Tu, così buona!» «Mi ha resa cattiva lui; mi ha pervertita lui! Mi ha fatto diventare una creatura senza cuore! Peggio per lui!» La signora Mugnos, addoloratissima di quest'altra pazzia (tornava a qualificare per tale l'ostinazione della figlia), aveva voluto parlarne allo zio don Tindaro e al cavalier Pergola. Il vecchio rispose crudamente: «Lo ringrazia così del bene che le ha fatto?». Il cavalier Pergola alzò le spalle, borbottò una bestemmia e domandò: «La casa, in mano di chi l'abbandona la casa?». «N'esce come vi è entrata!», replicò fieramente la signora, che in quel punto sentì ribollirsi in petto tutto l'orgoglio delle nobili famiglie Mugnos e De Marco - ella era una De Marco da ragazza - delle quali portava il nome. Ciò non ostante, tornò ad insistere presso la figlia: «Rifletti bene! Hai tante responsabilità!». «Ho riflettuto abbastanza!», rispose Zòsima. «Consigliati col tuo confessore!» «In questo momento non posso ascoltar altro che il mio cuore. Non voglio essere un'ipocrita; sarebbe un'indegnità ... Oh, mamma!» E vestita di scuro, quasi da vedova, sotto lo scialle nero che le copriva la fronte, a sera avanzata ella scendeva assieme con la mamma sorretta al braccio della sorella, la vecchia scala dell'atrio, e usciva nel vicolo buio sotto il palazzo Roccaverdina. Aveva voluto evitare di attraversare il corridoio e di passare davanti a l'uscio dello studio dove il marchese urlava giorno e notte da quattro giorni - assistito da Titta e da mastro Vito che si davano lo scambio - agitandosi su la sedia a bracciuoli, senza che mai il nome di Zòsima gli fosse venuto alle labbra. Lo zio don Tindaro e il cavalier Pergola entravano, a intervalli, dal demente che non li riconosceva, e ne uscivano atterriti. Ora, invece del dottor Meccio, accorso il primo giorno più per maligna soddisfazione che per zelo, lo visitava il dottor La Greca, medico di famiglia, soprannominato il Dottorino perché piccolo e smilzo di persona. Alle corde egli aveva fatto sostituire larghe fasce, fino a che non fossero arrivati la camicia di forza e l'apparecchio per le docce mandati a comprare a Catania. Con lui si poteva ragionare. Invece quel clericalaccio di San Spiridione aveva fatto andare su le furie il cavalier Pergola, ripetendogli più volte: «Caro cavaliere, qui si vede la mano di Dio!». «E la zia Mariangela dunque, che riammattiva a ogni gravidanza? E bestemmiava e imprecava, mentre quando ritornava in senno era la più buona e onesta donna? E gli altri pazzi? La mano di Dio! Esquilibri di nervi, sconvolgimento di cervello prodotto dal pensiero fisso, fisso sempre su la stessa idea.» Il dottor La Greca andava di accordo con lui. E se quel fanatico di don Aquilante aveva davvero iniziato il marchese nelle pratiche spiritiche, ce n'era d'avanzo per spiegarsi perfettamente quel che avevano sotto gli occhi. Gli ospedali di Parigi, di Londra, di Nuova York - egli affermava - rigurgitavano di spiritisti ammattiti, uomini e donne. Per ciò il cavaliere aveva fatto capire all'avvocato di non farsi più vedere in casa Roccaverdina. «Insomma, dottore, non si può far nulla? Dobbiamo stare a guardare?» Lo zio don Tindaro avrebbe voluto ordinazioni di rimedi, tentativi almeno. Gli urli del marchese lo straziavano; e si desolava alla risposta del dottore: «È assai se riusciamo a farlo mangiare!». Dovevano imboccarlo, indurlo a inghiottire con minacce, ingozzarlo talvolta come una bestia. Opponeva resistenza, serrava i denti, agitava furiosamente la testa - «Oh! Oh! Ah! Ah!» - e il ritmo di questi urli si udiva fin dalla spianata del Castello, ora che il dottore aveva fatto trasportare il marchese in una stanza più larga e più ariosa, dove si era potuto rizzare comodamente l'apparecchio per la doccia, arrivato il giorno avanti. Steso sul letto, con la camicia di forza, il demente sembrava avesse intervalli di calma, allorché con gli occhi sbarrati, fissi in qualcuna delle sue continue allucinazioni, borbottava accozzaglie di suoni che avrebbero voluto essere parole; ma era calma illusoria. La forza dell'allucinazione lo domava, travagliandolo internamente, ed egli usciva da quello stato scoppiando in urli più violenti, più forti, in esclamazioni di terrore: «Eccolo! Eccolo! ... Mandatelo via! Ah! Ah! Oh! Oh! il Crocifisso! ... Rimettetelo al suo posto, giù, nel mezzanino! Oh! Oh! Ah! Ah!». E i nomi di Rocco Criscione, di Neli Casaccio, di compare Santi Dimauro, facevano capire il tristo cumulo di impressioni che gli aveva sconvolto il cervello, dove la pazzia già si mutava in ebetismo, senza speranza di guarigione. Lo zio don Tindaro, per la sua età, non resisteva alla tortura del miserando spettacolo; e il cavalier Pergola, rimasto in casa Roccaverdina, dopo quindici giorni non ne poteva più, anche perché doveva badare ai proprii affari, e per quelli del cugino non sapeva come regolarsi. La imperdonabile risoluzione della marchesa lo faceva uscire in escandescenze: «E si dicono cristiane! E si confessano e ingoiano particole! E ... ! E ... ! E ... !». La sfilata degli improperi non finiva più se qualcuno, venuto ad informarsi dello stato del marchese, tentava di scusare la povera signora che avea dovuto mettersi a letto appena giunta a casa, con febbre che durava ancora e faceva temere per la sua vita. «Qui, qui era il suo posto! ... E quel che ho detto a voi glielo direi in faccia! ... Voglio che lo sappia!» Poteva durare più a lungo, così? «Non durerà molto», gli aveva risposto una sera il dottore. «L'ebetismo si aggrava con terribile rapidità.» Ed egli e il dottore che stava per accomiatarsi, erano rimasti stupiti e quasi non credevano ai loro occhi, vedendo apparire su l'uscio del salotto Agrippina Solmo, che Maria non era riuscita a far restare in anticamera. «Dov'è? ... Lasciatemelo vedere!» Maria teneva ancora afferrata per la falda della mantellina quella sconosciuta, parsale pazza quando le aveva aperto la porta d'entrata. «Dov'è? ... Me lo lascino vedere ... Per carità, cavaliere!» E gli si era buttata ai piedi, ginocchioni.

«Attendiamo che il giurì abbia giudicato. Ero venuto per sapere l'ora precisa della partenza.» «Quando vorrete. La carrozza è a vostra disposizione. Io non vengo.» «Siete citato anche voi.» «La mia deposizione è scritta nel processo; possono leggerla.» «Ma gioverà anche la vostra presenza. I giurati, lo sapete, giudicano secondo le impressioni del momento, secondo la loro coscienza; non hanno neppur bisogno di fatti precisi ... » E don Aquilante aveva dovuto stentare per indurlo ad andare assieme con lui alla Corte d'Assise. Se n'era quasi pentito. «Badiamo, marchese! ... Badiamo!», egli si raccomandava. Ma il marchese non gli dava retta, e continuava a dar colpi di frusta alle mule, lanciandole in corsa vertiginosa per quelle rampe di stradone che giravano in declivio attorno al monte in cima al quale Ràbbato stava esposto ai quattro venti, che qualche volta sembrava se lo palleggiassero tra loro. «Badiamo, marchese!» Invano Titta, il cocchiere, seduto in cassetta accanto al marchese, si voltava di tanto in tanto per rassicurarlo. Don Aquilante ricordava, raccapricciando, che appunto lungo quelle rampe le mule avevano preso, tempo fa, la mano al marchese, e lo avevano trascinato giù per la china, tra sterpi e sassi, come impazzite, fino all'orlo del ciglione a precipizio, dove si erano fermate per miracolo; e pensava che certi miracoli non si ripetono, se si ripetono i guai. Doveva ricordarselo, il marchese! Invece le mule, spumanti di sudore, perdevano il fiato, smaniando sotto i colpi di frusta che piovevano fitti. Evidentemente il marchese sfogava contro di loro tutto il suo malumore, quasi l'istruttoria ed il processo li avessero fatti quelle povere bestie e potesse essere colpa di esse se Neli Casaccio veniva assolto! Erano trasvolati, come un lampo, accanto ai carretti coi testimoni, che scendevano senza fretta. Don Aquilante aveva intravisto Rosa Stanga, mastro Vito Noccia, Michele Stizza e non aveva avuto tempo di rispondere al loro saluto. Li invidiava. Stavano scomodi, sì, sui carretti, esposti alla polvere e al sole; ma almeno andavano tranquilli, senza pericolo di rompersi la noce del collo. «Badiamo, marchese!» E per distrarsi, don Aquilante si sforzava di pensare al marchese grande , di cui si raccontava ancora la storiella dei testimoni ... Quegli era un vero Roccaverdina! ... Altri tempi, altri uomini! ... Doveva vincere una lite? Occorrevano prove? E scriveva al suo agente, in paese: «Manda subito, subito, un'altra carrettata di testimoni!». Si compravano a due tarì l'uno! ... Falsi, s'intende! Il marchese grande , oh! oh! non guardava tanto pel sottile! La razza, su certi punti, è rimasta la stessa. Quando un Roccaverdina prende un drizzone, è capace di tutto, nel bene e nel male! ... Anche a costo di far scavezzare il collo a chi non c'entra ... «Badiamo, marchese!» Il marchese però scendeva da cassetta appunto quando, raggiunta la pianura, lo stradone filava dritto a perdita d'occhio, tra il frinire delle cicale su per gli ulivi e il zirlare dei grilli tra le stoppie. «Dicono che avremo la ferrovia fra quattro o cinque anni» «Anche i treni prendono la mano ai macchinisti negli scontri», rispose il marchese, sorridendo stranamente. «E con le macchine è inutile gridare: Badiamo, marchese!»

Se credete che il marchese non abbia altro da fare!» E la nottata precedente alla domenica in cui doveva avvenire la votazione, il marchese era andato attorno, accompagnato dal cugino e da parecchie persone fidate, a bussare alle porte degli elettori che dormivano tranquilli, per incoraggiare gli esitanti, per tentare gli ultimi assalti su coloro che resistevano, per condurre, come prigionieri, in casa sua quelli di dubbia fedeltà, o che non avrebbero saputo resistere alle pressioni degli avversari. E per le vie, pei vicoli, le squadre dei due partiti s'incontravano guardandosi in cagnesco, scambiandosi motti ironici, prendendo allegramente la cosa, secondo gli umori delle persone. Il marchese non si era mai sognato di dover arrivare fino a questo punto. In certi momenti, sentiva nausea, stanchezza di quei piccoli intrighi. Intanto, si trovava nel ballo; doveva ballare! Un bel giorno, quando si sarebbe seccato, avrebbe mandato tutti - Municipio, Consiglio, elettori - tutti a farsi benedire! Non voleva ridursi il servitore di nessuno. Era tornato a casa all'alba, e si era messo a letto, che non ne poteva più. Di là, intanto, nella sala da pranzo, quei mascalzoni vuotavano bottiglie di vino dietro bottiglie e mangiavano a due ganasce uova sode, formaggio, salame, ulive nere salate, noci, fichi secchi, con montagne di pani freschi che sparivano di su la tavola quasi fossero pilloline; mangiavano e bevevano, in attesa di essere condotti nella chiesetta di San Luigi, dove la votazione aveva luogo per mancanza di locali più adatti. Venivano a prenderli a due, a tre, a quattro per volta, secondo la prima lettera dei nomi; e il cavalier Pergola e il dottor Meccio facevano da carabinieri, non lasciandoli avvicinare da nessuno per timore che non accadesse qualche rapido scambio di scheda, scortandoli fino al tavolino del seggio tra le risate, le parole sarcastiche, le velate minacce degli avversarii, che però non protestavano, facendo la stessa cosa per conto loro. Poi il marchese avea dovuto uscire di casa in fretta per andare a deporre la sua scheda, al secondo appello; ed era passato in mezzo a due ali di elettori, quasi vergognoso di quel suo primo atto di vita pubblica che lo esponeva alla vista di tanta gente non meno di lui maravigliata di vederlo apparire colà. E la sera, fino a tardi, la sua casa era stata invasa da persone di ogni sorta, venute a rallegrarsi della vittoria. Raccontavano episodi, magnificavano i loro sforzi, e gli si affollavano attorno per rammentargli tacitamente: «Dovrà ricordarsi di noi quando occorrerà!». «Non abbiamo lavorato pei suoi begli occhi!» «Non ci siamo messi allo sbaraglio unicamente per farle piacere!» «Così è il mondo!», pensava il marchese. «Tutto apparenza. Mi credono onesto, irreprensibile perché ignorano. Così è il mondo! Forse parecchi di questi qui hanno fatto peggio di me, e, ignorando, anche io li stimo e li rispetto. Forse, non hanno avuto coraggio, ardire, astuzia, onesti loro malgrado; forse, loro è mancata l'occasione, onesti per caso!» Sentiva rinascere proprio in quei momenti la solita superstiziosa paura, la solita apprensione di pericoli appiattati nell'ombra. Gli pareva che il contatto con tanta gente lo costringesse a vivere in un'atmosfera insidiosa, dove non poteva respirare liberamente. Non vedeva l'ora di sottrarsi ai loro sguardi, di tornare a Margitello. Colà i lavori erano stati sospesi; voleva sorvegliarli lui, non si fidando molto dell'ingegnere. Stavano per arrivare i pigiatoi, i frantoi, le botti, i bottaccini, i coppi; e i locali erano ancora ingombri di materiali, e certe opere di muratura appena iniziate! Inoltre, aveva fretta di assestare la sua casa, la sua vita; di riprendere un po' la vecchia abitudine d'isolamento; di riposarsi dopo tante agitazioni che, infine, non erano servite a difenderlo, come aveva creduto, dagli intimi turbamenti dai quali era reso scioccamente irrequieto. La baronessa di Lagomorto non aveva visto di buon occhio l'intromissione del marchese negli affari municipali. «Che t'immagini? Si servono di te pei loro fini. Ti hanno mai ricercato prima?» «Ho sempre rifiutato.» «Avresti fatto meglio a lasciarli cantare anche ora. Zòsima, ieri mi diceva: "Ha tanto da fare a casa sua!". Quasi, poveretta, temesse ... Insomma, quando ti risolverai? Io non voglio morire prima di assistere alle tue nozze.» «Tra qualche mese, zia.» «Li so, per prova, i tuoi mesi. Hai la felicità sotto mano, e non ti scomodi a stendere il braccio! Perché? Non ti capisco; Zòsima ha ragione di sospettare ... » «Mi dispiace.» «Lo dici in certa maniera! Comincio ad impensierirmi anch'io.» «Non credevo che la fabbrica laggiù, a Margitello, dovesse tenermi tanto occupato. Ora poi queste elezioni ... » «Domani chi sa che cos'altro!» «Niente, zia! Mi sento stanco; ho bisogno di pace, di tranquillità. Ecco! Voi lo sapete, se una cosa mi afferra ... » «Appunto.» «Uno di questi giorni, domenica prossima anzi, con voi, con la signora Mugnos, con Zòsima, parleremo dei preparativi; e in due o tre settimane ... Ho riflettuto; l'idea di Zòsima mi persuade; tutto alla buona, senza sfarzo, senza chiasso. Non potranno dire che faccia così per avarizia o perché mi manchino i quattrini. Un matrimonio è festa di famiglia.» «Zòsima ne sarà molto contenta.» Ed era partito per Margitello assieme con l'ingegnere e il cavalier Pergola, il quale gli stava alle costole più che mai. Bisognava battere il ferro mentre era caldo; non perdere i beneficii della grande vittoria ottenuta. «Gli amici sono rimasti scombussolati; ma lavorano con le mani e coi piedi presso il sottoprefetto, presso il deputato, perché la scelta del sindaco caschi sopra uno di loro.» «Non posso farmi sindaco da me!», rispondeva il marchese un po' seccato. «Se li lasciamo mestare, se non ci facciamo vivi! ... Una visita al sottoprefetto ... » «E chi lo conosce cotesto signore?» «Non importa; è un funzionario del governo, e si terrà onorato di ricevere l'ossequio del marchese di Roccaverdina.» «Lasciamo, per ora, questo discorso. Guardate. Le campagne sembrano un giardino!» Un'immensa stesa di verde, di mille toni di verde, dal tenero al cupo che sembrava quasi nero; un trionfo, una follia di vegetazione fin nei terreni più ingrati, che non avevano mai prodotto un fil d'erba! I ciglioni dello stradone sembravano due interminabili siepi folte di meravigliosi fiori gialli, rossi, bianchi, azzurri, che si rizzavano su giganteschi steli tra foglie di smeraldo, come se un'esperta mano di giardiniere avesse pensato a mescolare i colori e le loro sfumature per produrre effetti di sorprendente decorazione. Ed erano erbe selvatiche senza nome, che s'intrecciavano, si pigiavano, non lasciando il minimo spazio tra loro, sorridenti, smaglianti al sole che le vivificava dall'alto. E i seminati! Un tappeto di velluto verde che non finiva più, cosparso di macchie rosse dai papaveri, punteggiato di ricami cilestrini e violetti dalle iridi. E qua i papaveri dilagavano in larghe chiazze sanguigne; là, i fiori del lino coprivano liste e quadrati col loro tenero azzurro argentato; e, dappertutto, miriadi di farfalle che s'inseguivano con ali tremolanti, piccole, grandi, di ogni forma e colore, quali non se n'erano mai viste, quante non se n'erano mai dischiuse dalle crisalidi e dai bozzoli a memoria di uomo! Le mule della carrozza trottavano allegramente, e gli stormi dei piccioni di Margitello, incontrati alla svolta della carraia, tornavano addietro, verso il casamento con rapido fruscio d'ale, quasi ad annunziare colà la visita del padrone.

«Eccolo: ho voluto condurlo con me perché voscenza e il marchese si persuadano che è forte e svelto, quantunque abbia appena dieci anni. Ne facciano quel che vogliono; in città, in campagna, purché io sappia che non gli manca un boccone di pane. Non so più dove dare la testa. Non mi resta che andare attorno a chiedere l'elemosina per me e pei miei poveri figliuolini! ... Ma il Signore dovrà farmi morire avanti che io arrivi a quest'estremo, e portarseli tutti in paradiso prima di me.» La marchesa non avea potuto risponderle in modo evasivo come l'altra volta; e alla vista del bambino scalzo, coperto di stracci, pallido e macilento, ma che dimostrava nella faccia e specialmente negli occhi intelligenza precoce, si era sentita commuovere. «Vuoi restare qua?», gli domandò. «Eccellenza, sì!» «O vuoi andare in campagna?» «Eccellenza, sì!» La marchesa sorrise. La povera mamma ravviava con le dita i capelli arruffati del bambino, sorridendo anch'essa, e le ciglia le palpitavano lasciandole cascare qualche lagrima su le gote scarnite. Da qualche tempo in qua il marchese non si era più ricordato di lei; mamma Grazia non era più ricomparsa a portarle quel piccolo soccorso che aveva tenuto in vita mamma e figliuoli durante i terribili giorni della mal'annata. Ella, povera donna, non se ne lagnava. Si era ingegnata, come tanti altri, andando a raccogliere cicoria, amarella, tutte le erbe mangiabili che la pioggia aveva fatto ripullulare per le campagne, nutrendo sé e i bambini con esse appena condite con un po' di sale e con qualche stilla di olio, spesso senza neppur questo; benedicendo la divina Provvidenza che con tal mezzo aveva impedito che tanta misera gente perisse di fame. «Ora m'industrio alla meglio», soggiungeva la vedova. «Cucio, filo. Andrò anche a raccogliere ulive, raccomandando i bambini alla carità di una vicina. Ma siamo cinque bocche, eccellenza!» «Prendo il ragazzo», risolse la marchesa tutto a un tratto. «Bisogna rivestirlo, provvederlo di scarpe. Pel vestito, comprate la roba e portatela da mastro Biagio, il sarto ... Lo conoscete? Le scarpe bisognerà ordinarle a posta, credo. Vi do il denaro occorrente per tutto. Quel che rimarrà lo terrete per voi.» E le lagrime della povera donna le avevano bagnato la mano, voluta baciare per forza. Quella sera, il marchese, tornato tardi da Margitello, si era messo a tavola di buon umore. La marchesa, seduta di faccia a lui, attendeva che egli finisse di parlare delle meraviglie delle pigiatrici e degli strettoi delle uve, che agivano con la precisione di un orologio. «Se penso», egli continuava, «che in questo vino qui hanno sguazzato i piedacci di un pestatore, mi vien nausea di berlo! Ai tempi di Noè non si faceva altrimenti! Un mascalzone grosso e tarchiato va su e giù pel palmento affondando nell'uva ammonticchiata le pelose gambaccie fino alla caviglia, reggendosi a un bastone per non scivolare, spiaccicando i chicchi coi piedi mal ripuliti ... E questa incredibile porcheria dovrebbe continuare ancora tra noi! ... » «Non mi sgriderete», lo interruppe finalmente la marchesa, «se vi dirò che sono contenta anch'io della mia giornata. Ho fatto un'opera di carità ... Ho preso un servitorino ... » «Come mai?» «Mi sono lasciata intenerire ... Un bambino di dieci anni ... Povera creatura! ... Quell'orfanello ... ricordate? di cui vi parlai tempo fa ... figlio del disgraziato Neli Casaccio ... Ho fatto male?» Ella si era arrestata un istante, meravigliata di vederlo rannuvolare in viso e di vedergli abbassare gli occhi quasi volesse evitare di guardarla o sfuggire di essere osservato; poi aveva ripetuto la domanda: «Ho fatto male?». «No. Certamente», proseguì il marchese con voce turbata, «non potrà riuscirmi piacevole l'avere sempre dinanzi chi mi ricorderà avvenimenti che mi hanno contristato assai ... » «Posso riparare, se ho sbagliato.» «La marchesa di Roccaverdina, quando ha dato la sua parola, deve mantenerla a ogni costo.» «Ma, infine, che tristi cose può rammentarvi quel ragazzetto? Se suo padre è morto in carcere, non ci ha colpa lui. Il male, se mai, l'ha fatto quello; dico così perché ha ammazzato, per gelosia. Non era un cattivo soggetto, non rubava; campava facendo il cacciatore. Tutti lo proclamano anzi un brav'uomo. Voleva troppo bene a sua moglie; la gelosia lo ha perduto. In certi momenti, quando la passione ci offusca il cervello, noi non sappiamo più quel che facciamo ... Io lo avrei assolto ... » «E ... l'ucciso?», disse il marchese ... Ma subito, quasi questa domanda gli fosse sfuggita suo malgrado, si affrettò a soggiungere: «Che bei discorsi a tavola! ... ». «Io non credevo di vedervi accigliare per un mio atto di carità ... », rispose Zòsima dolcemente. «Eppure la povera vedova non si stanca di benedirvi, gratissima di tutto quel che voi avete fatto per essa e pei suoi bambini, durante la mal'annata. Volevate essere solo nel beneficarla? Ah, da ora in poi le buone opere dobbiamo farle insieme!» Sorrideva, tentando di scancellare la cattiva impressione da lei involontariamente prodotta; e si meravigliava che restasse silenzioso, e non riprendesse a mangiare. «Non avrei mai creduto di farvi tanto dispiacere!», esclamò. «È una mia ubbia, scusate», egli rispose. «Forse m'inganno ... E poi ... Mi abituerò a vedere il ragazzo ... Parliamo d'altro.» Prese dalla fruttiera un bel grappolo di uva e lo porse in un piatto alla marchesa, dicendole: «È cosa vostra, di Poggiogrande». Vedendo che ella, assaggiatone soltanto pochi chicchi, riprendeva a picchiare distrattamente su la tavola con la punta della forchetta, il marchese, un po' impacciato, le domandò: «Non vi piace?». «È eccellente ... L'ucciso avete detto? ... » Il marchese la guardò negli occhi, stupito di sentirle riprendere il discorso di prima. «L'ucciso, capisco, era persona di casa vostra», ella continuò. «Lo chiamavano Rocco del marchese ! Gli volevate bene perché abile, fedele; non avete ancora trovato chi possa sostituirlo ... Ma ... giacché, per caso, siamo venuti a parlarne, voglio dirvi schiettamente la mia impressione.» «Dite.» «Se fosse vivo, quell'uomo mi farebbe ribrezzo.» «Ribrezzo?» «Sì. Uno che può sposare l'amante del padrone ... per interesse, non per altro ... Oh! La sua condotta lo prova. Se l'avesse sposata per passione, io ora lo compatirei ... Ma non l'amava, non si curava nemmeno di salvare le apparenze ... Insidiava le mogli degli altri. Voialtri uomini però giudicate a modo vostro ... La stessa sua moglie doveva forse disprezzarlo ... Vedete? In questo momento vi ricordo persone e fatti che vorrei dimenticati da voi; che voi mi avete detto più volte di ricordare appena, come fantasmi di un sogno lontano ... » «Non mi avete creduto?» «Se non vi avessi creduto, non ve ne parlerei; quantunque di tanto in tanto ... Ecco; ve ne parlo per questo. Avrei dovuto avere la franchezza, il coraggio di domandarvi ... E, invece, faccio come coloro che intraprendono un gran giro per arrivare a un punto dove temono di trovare una trista notizia, quasi il ritardare per via fosse un sollievo anticipato ... » «Che avete, Zòsima?», disse il marchese, levandosi da sedere, e avvicinandosi a lei premurosamente. «Che vi hanno detto? ... Che sospettate? Quella stupida di mamma Grazia, forse ... » «No, poveretta! ... Ho il cuore gonfio. Sappiatelo, Antonio. Non mi sento ... amata da voi!» E alcuni singhiozzi soffocarono queste ultime parole. «Perché? Perché?», balbettò il marchese. «Dovreste dirmelo voi perché!»

Non so come mai, allora, io non abbia commesso un eccidio!» «Avete ragione, zio. Quando però il male è fatto, dobbiamo cercarvi il rimedio.» «Sono un Roccaverdina schietto, io; non mi piego, mi spezzo! Se tu, invece di sangue, hai siero nelle vene ... Quanti anni sono che non ti ho più guardato in viso per l'affare di Casalicchio? Oggi il caso ci ha fatto incontrare in terreno neutrale, in un albergo. Ricorda però che io sono di acciaio; non mi piego, mi spezzo. Frangar non flectar! Nel secolo scorso i Roccaverdina erano soprannominati i Maluomini ... Coi nostri antenati non si scherzava. Ora siamo una razza incarognita; tu, agricoltore; io ... almeno! ... Non c'intendiamo. Faccio conto di non esserci visti.» «Non ritiro la mia parola, no. Scavate pure quanto volete a Casalicchio. Darò ordini che vi lascino fare.» «A quel patto?» «Con nessun patto.» «No, grazie! Non voglio restarti obbligato.» Il marchese stette un po' a guardare con gratitudine il vecchio parente rimessosi a riempirsi gli occhi di quei suoi preziosi oggetti che non avrebbe riveduti più. Lo vedeva andare da un vaso all'altro, soffiare diligentemente sopra uno per mandar via qualche granellino di polvere che gli pareva lo deturpasse; rivoltare un altro per ammirarne ancora, mentr'era in tempo, le bellissime figure disegnate con contorni neri su fondo rossiccio; e palpare una statuetta, una patera con dolce carezza di amatore. E intanto che lo guardava, si sentiva rinascere in cuore tutto l'orgoglio della razza dei Maluomini , e la compiacenza di non riconoscersi degenere, come il vecchio lo giudicava. Il rincrescimento della continua ipocrisia, della continua menzogna, da cui poco prima era stato turbato, già gli pareva debolezza indegna di un Roccaverdina. «Avrei voluto vederti! ... Lo avresti ammazzato!» Non erano parole di approvazione, di giustificazione? Non si scherzava neppure con lui, come coi suoi antenati, che certamente avevano ricevuto quel soprannome perché forti e potenti! ... I tempi però erano cangiati, e la razza si adattava ai tempi. La Società Agricola gli sembrava un atto di potenza e di forza; oggi non era possibile mostrarsi Maluomini altrimenti. A Margitello, dopo tanti mesi di trista inerzia, cagionata dalla insistente siccità, e interrotta soltanto dall'occupazione di curare i pochi bovi rimasti, e di bruciare e seppellire i cadaveri di quelli che il tifo continuava ancora ad ammazzare, il massaio e i garzoni avevano visto arrivare il marchese, l'ingegnere e parecchi azionisti della Società Agricola ; i quali erano rimasti colà una settimana per assistere agli studi e alle prime operazioni di sbarazzamento del terreno su cui l'edificio ideato dal marchese doveva sorgere. Più di una cinquantina di contadini, tra uomini e ragazzi, scavavano le fondamenta, trasportavano il terriccio, felici di guadagnare pochi soldi al giorno che almeno servivano a non farli morire di fame, loro e le loro famiglie. Qualche socio aveva, timidamente, fatto osservare al marchese che la spesa sarebbe stata, forse, eccessiva per un tentativo ... «Dovremo poi rifarci da capo? Tra due anni ci troveremo costretti; vedrete! ... E se sopraggiunge la pioggia, addio! Occorrerà di scappellarci alla gente, perché ci faccia la grazia di venire a lavorare qui.» Nessuno aveva più osato di fiatare dopo questa strillata. Si sarebbe detto che i denari presi in prestito dal Banco di Sicilia, gli scottassero le mani, ed egli avesse fretta di buttarli tutti via, in legname, in mattoni, in tegole, in calce, in gesso, in ferramenta di ogni sorta. L'atrio era già ridotto un arsenale con un brulichio, simile a quello di un formicaio affaccendato, di uomini che in certi momenti perdevano la testa, storditi dalle sfuriate del marchese, dagli ordini e dai contr'ordini, quand'egli mutava tutt'a un tratto di parere intorno alla costruzione di un muro, all'impostatura di una porta o d'una finestra che non gli garbavano più, quantunque stabilite da lui stesso e segnate nella pianta eseguita, col suo consenso, dall'ingegnere. Allorché questi, ogni due o tre giorni, arrivava a Margitello, trovava sempre qualche novità. «Ma, signor marchese! ... » «Mi meraviglio anzi che non ci abbiate pensato prima voi!» E spiegava la ragione del mutamento; e il torto doveva essere sempre dell'ingegnere, non di lui. Era preso interamente da quelle costruzioni; avrebbe voluto vederle già in piedi, col tetto, con le imposte e tutto il resto; e gli sembrava che venissero su lentamente, quasi per ostile esitanza. Appena le domeniche si rammentava di fare una visita in casa della zia, dove sapeva di trovare Zòsima con la madre e la sorella. Alla signora Mugnos non era parso conveniente che il marchese andasse a casa loro. «Per evitare pettegolezzi», ella aveva detto alla baronessa. Ma, in realtà, perché voleva evitare a sé e alle figlie l'umiliazione dello spettacolo di quelle squallide stanze dove esse nascondevano la loro misera condizione, e dove le figlie passavano le giornate, e spesso le nottate, lavorando di cucito o di ricamo; e lei, che non s'era mai sporcate le mani quando la famiglia era in auge, vi s'incalliva le signorili dita tirando il pennecchio della rocca e girando il fuso per conto di altri. «Ah zia! ... Dovreste venir a vedere, tutte e quattro. Una scarrozzata di poche ore.» «Il mal del calcinaccio è ereditario in casa nostra!» «Ma di che si tratta? Non ho capito bene. D'un palmeto? D'un fattoio?», domandava la signora Mugnos. E al marchese non sembrava vero di riparlarne, di dare ampie spiegazioni, di fare descrizioni particolareggiate; di condurre, quasi, le quattro signore per mano a traverso i tini, i tinelli, le botti e i bottaccini che ancora non erano al lor posto, ma che si sarebbero trovati là tra non molto; a traverso i frantoi, gli strettoi, i coppi pieni di olio, che non c'erano neppur vuoti, ma che erano stati ordinati, tutti di una misura e di unico modello, uguali a quello in uso nel Lucchese e a Nizza, verniciati dentro e fuori, e non di semplice terracotta che comunicava agli oli il rancido e ne alterava il colore! Zòsima stava ad ascoltarlo con soave aria di rassegnazione, sorridendogli ogni volta che egli si rivolgeva specialmente a lei per dimostrarle che la stimava di maggiore intelligenza delle altre, e che la sua approvazione gli riusciva gradita assai più di quella di ogni altra persona. Ma le sole parole di tenerezza che il marchese le rivolgeva accomiatandosi erano sempre queste: «Non piove! Vedete? ... Non piove!». «C'è forse fretta?», rispose Zòsima una volta. «Margitello intanto non vi lascia tempo di pensare ad altro.» «Lo dite per rimproverarmi?» «Non saprei rimproverarvi neppure se avessi ragione di farlo ... Quando sarò davvero marchesa di Roccaverdina ... » «Siete già tale, Zòsima, almeno per me.» «Quando sarò davvero marchesa di Roccaverdina», lo ripeteva con accento scherzoso, «avrò certamente più agio di vedervi e di darvi qualche preghiera.» «Perché dite così?» «Perché dovrei parlarvi di una poveretta venuta l'altro giorno da noi ... » «È vero», disse la signora Mugnos. «Voleva la signora marchesa. "Ma qui non c'è nessuna marchesa, figlia mia! ... . Eccellenza sì, la marchesa di Roccaverdina!" "Non ancora, figlia mia." "Eccellenza sì, la marchesa di Roccaverdina; debbo gettarmele ai piedi, per questa creatura qui, per quest'orfanello ... Il signor marchese ha fatto tanto! Gli dobbiamo la vita. Senza di lui, saremmo morti tutti di fame anche prima della disgrazia di mio marito ... " E bisognò farla parlare», la signora Mugnos sorrideva, «con la marchesa di Roccaverdina!» «Per quel figliuolo di dieci anni», riprese Zòsima. «Che cosa voleva? ... Chi era costei?» «La povera vedova di Neli Casaccio.» «Ma ... », fece il marchese. «E insisteva: "Per niente, pel solo pane e vestiti; con quattro cenci lo ricopre ... O pure, se lo prenda voscenza , per ragazzo da mandare qua e là. È svelto di mente e lesto di gamba". Che potevo risponderle? Non ha voluto persuadersi che non sono marchesa di Roccaverdina!» «E su questo punto ha fatto bene», egli rispose. «In quanto al ragazzo, no, non è possibile che lo prendiamo in casa nostra. La sua presenza mi rammenterebbe continuamente troppe cose tristi; no, no!» «Povera donna!», esclamò la baronessa. «Zia mia, se si dovesse beneficare tutte le persone nel modo che esse richiedono! ... Ognuno fa quel che può.» «Osservo solamente», riprese la baronessa, «che gli uomini di una volta erano più cortesi di quelli del giorno d'oggi. Alla prima preghiera di una signorina», e calcò su le parole prima e signorina, «non avrebbero mai risposto con una negativa. Per lo meno, avrebbero promesso; e poi ... Si sa, le circostanze ... » «Zòsima», disse il marchese, «scommetto che voi preferite la mia ... scortesia.» «Sì», ella rispose.

CONTRO IL FATO

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Steno, Flavia 3 occorrenze

Il mondo può perdonare, ma io non comprendo come si abbia il coraggio di prendere un giglio educato con ogni più soave cura, custodito gelosamente fino alla sua piena fioritura, e metterlo ad avvizzire al contatto impuro di certi corpi fradici di vizi, saturi di libidine, desiderosi di rifarsi un istante succhiando la purezza e il profumo di quel fiore, per poi sprezzarlo e gettarlo nell'oblìo, presto stanchi di quella soave castità delicata, ignorante di lussuria sapiente.... Dio, Dio! ma come hanno potuto darvi a quell’uomo, mia Sarah? Come avete potuto amarlo?... Come potete piangere ancora, mentre io vi sto ai piedi implorando una parola d'amore? O Sarita! dimmi che lo vuoi, il mio amore, e che insieme dimenticheremo quest'orribile passato! Era scivolato in ginocchio davanti a lei, e le aveva appoggiata in grembo la testa cingendole colle braccia la vita sottile, attirandosela vicina. Allora ella si scosse. Non aveva udita una parola di quanto egli le aveva detto; non si rammentava neppur più d'averlo vicino. Ma quando lo vide ai suoi piedi, quando si sentì stretta da lui, provò un brivido di spavento orribile. Quell'uomo le faceva ribrezzo! Oh quant'era stato infame svelandole la triste verità: a che scopo poi? por farle soffrir tanto strazio, per costringerla ad arrossire umiliata davanti a lui, per poterle gettar in faccia ad ogni istante il tradimento dell'altro? E osava ora chiedere amore in cambio del suo delitto? Ah, no! Non era soltanto l’amor proprio che sanguinava in lei, desideroso di vendicarsi colla stessa misura, era soprattutto l’amore! L'amore, che neppur il tradimento valeva ad uccidere, l'amore straziato e crudelmente offeso sì, ma purtroppo e sempre, tutto dell’altro! - Andate, - gl'intimò, sforzandosi di rizzarsi, cogli occhi lampeggianti d'ira - prima mi facevate compassione, ma ora vi odio! Vi temevo, perchè istintivamente sentivo che mi avreste fatto del male; ma ora ho paura di voi; più dei serpenti che strisciano nelle macchie dei nostri paesi laggiù!... siete cattivo!... siete cattivo'... - Badate! - sussurrò ancora lui, colla disperazione dell'amore, e la malvagità dell'orgoglio schiacciato - potrei perdervi, sapete!... Essa parve colpita, poi: - Ah, sì? anche questo sapreste fare, non è vero?... Provatevi adunque! Credete forse che io mi lascerei calunniare da voi? che non saprei difendere il mio amore ed il mio onore a prezzo della vita? E credete forse d'essere più forte, perchè siete un uomo e siete ricco?... Ah, signor Rook!. Egli fremeva di sdegno, di passione e di collera, sotto quella sfida così piena di disprezzo e di serenità. - Sarah! - esclamò ancora. - Non una parola di più, signor Rook: o voi partite. o io alzo la voce e chiamo forte, a rischio di fare uno scandalo. Aveva la voce tanto sicura, il gesto così fiero e dignitoso, tutta la splendida persona così spirante un altero sdegno, che egli comprese non esser quella una vana minaccia. S'inchinò profondamente con una tremenda ironia nell'occhio freddo, sinistramente lucente, e disse uscendo: - Ci rivedremo.... Andato via William, Sarah che s'era fatta forte sino allora per difendersi, ricadde in un dolore così pieno di sconforto e d'avvilimento, che non potè più resistere. La musica che giungeva dalle sale da ballo, l'allegro frastuono dei convitati, l'aspetto di festa gaia e lieta di tutto quell'ambiente e soprattutto il suo stesso costume un po' ardito, un po' folle, le facevano assai male. Quella serata da cui si riprometteva tanta intima, purissima gioia, era stato invece un martirio atroce. Si alzò lentamente, cercando di comporsi un viso sereno e calmo, se non ridente, si diresse verso le sale da ballo. Erano appena le due. In quel salone dove era entrata poche ore prima, tanto felice, provò come un capogiro: ma non potè abbandonarsi al suo dolore. In un momento Belitzine, d'Ostrog e il direttore del Casino le furono intorno. - Finalmente, eccovi, duchessa, vi abbiamo cercata tanto! - esclamò Belitzine, radiante d'essere il cavaliere di quella splendida bellezza. - Infatti mi sentivo poco bene e sono andata a riposarmi nelle sale del buffet.... buffet....- Oh, quanto me ne dispiace! Come state ora, duchessa? - Poco bene ancora:... e per questo desidererei di ritirarmi.... Sapreste dirmi dove sia il duca?... Belitzine o d'Ostrog si guardarono un po' impacciati. - Lo sapete voi, d'Ostrog? - Era andato a giocare con Lovere, credo.... Sarah sentì una fiamma d'indignazione salirle al viso. - Se poteste essere tanto buono di cercarlo.... - Ai vostri ordini, duchessa - disse d'Ostrog ancor più imbarazzato. Uscì e rientrò poco dopo dicendo: - Il signor duca è impegnatissimo in una partita a maccao: prega la signora di volerlo attendere un istante, oppure di concedermi l'onore di accompagnarla.... - Venite, d'Ostrog - rispose essa.

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. - Non so precisamente; dicono ch'essa gli abbia già mangiato quasi un milione. - Da quanto tempo è a Parigi? - interrogò ancora il signor Rook. - Da due settimane appena; veniva direttamente da Vienna, dove appunto aveva incontrato Paulowski. - Ebbene, un milione in due settimane non è poi una somma enorme! Non sono neppure centomila lire al giorno! - disse il signor Rook con un'indifferenza che fece stupire di Chalmy. - Ma allora siete proprio deciso a voler sostituire Paulowski? - disse. - È un vero colpo di fulmine questo! - Se volete essere tanto gentile da presentarmi alla signorina Yvonne la bella.... - soggiunse William cortesemente. - Appena sarà finito l'atto, sarà un onore per me. - Grazie.... William fu subito accettato; era bastata una parola sussurrata da di Chalmy alla bella peccatrice, entrando nel palco, perch'ella sorridesse gentile all'americano. - Vi aspetterò domani a mezzogiorno in casa mia gli disse senza curarsi degli sguardi supplichevoli che Paulowski le rivolgeva, e aggiunse: - Via di Rivoli 14. Poi lo congedò perchè cominciava l'ultimo atto e voleva ascoltare la musica. William non insistette: uscì anzi volentieri da quel palco, felice d'aver trovato finalmente «il suo soggetto»; pronto pel giorno dipoi a qualunque patto, pur di farne lo strumento suo per un po' di tempo. Certo non ne parlò a di Chalmy. Continuò anzi a fingersi con lui innamorato della bella etèra, e pronto a deporle ai piedi tutto il suo avere. Uscirono insieme prima che l'ultimo atto fosse finito, e si diressero a piedi all'Hôtel d'Amèrique, dove il signor Rook aveva preso alloggio. - Se non vi dispiace di passare di qua verso le dieci, andremo insieme dal mio gioielliere - disse il signor Rook all'amico. Di Chalmy s'affrettò d'accettare, felice di essere a parte di questo nuovo intrigo e di portarne la primizia nelle sale del club. club.- Buona fortuna! - disse, stringendo caldamente la mano dell'americano. E se ne andò mormorando: - Povere miniere di Wyoming! Anche Yvonne fece la stessa riflessione, mentre si spogliava. Quella sera il povero Paulowski fu licenziato senza il menomo tributo d'affetto, cui avrebbe avuto diritto, e Maria, l'intelligente cameriera, fu invece la confidente della padrona. E la confidenza fu narrata assai affettuosamente nello spogliatoio elegantissimo della donna mondana, mentre, l'abito meraviglioso, le sottane di seta e le mutandine di trina, cadevano sulla pelle di tigre messa là davanti al divano, come emblema della crudele rapacità di quella donna. Intorno e sopra nell'atmosfera tiepida era un profumo acuto, snervante e galeotto fatto d'iris, di muschio, di pelle di Spagna e di opoponax fusi insieme per l'opera di perdizione; e nel piccolo spogliatoio, saturo di questi profumi, la bellissima, già spogliata, indugiava ancora movendosi lenta lenta coi rosei piedini, chiusi in certe babbucce di raso bianco, che sembravano giocattoli cinesi. - Dunque è molto ricco? - chiedeva Maria. - Ah! pare di sì! - fece Yvonne prendendo sul caminetto un elegante portasigarette e scegliendone una. - Cinquantamila lire l'ora di rendita! La cameriera spalancò gli occhi e la bocca stupita dall'enormità della cifra. - L'ora! - esclamò. - Già; l'ora.... - disse Yvonne con un'adorabile risata. - Per carità! Altro che il conte! - soggiunse Maria alludendo al povero Paulowski. - Oh il conte! ormai è liquidato; - fece la bella con un cinismo sfacciato - figurati che stamani ha pianto perchè non poteva darmi le diecimila lire pel mantello che abbiamo visto in Via Richelieu. - Lo so, lo so.... - E domani, il signor Beudy porterà la nota degli ultimi abiti. T'assicuro che sarei stata molto impensierita se non fosse capitato quest'americano. - Oh, la signora non ha che da scegliere.... - disse la ragazza adulando. - Ah! che cosa vuoi! - fece essa con una smorfia di disgusto, sfregando un fiammifero sul marmo del caminetto - sono una massa di spiantati, tutti questi adoratori d'oggi, che finiscono i loro denari al giuoco.... Non ce n'è uno serio! - Ma se la signora permettesse.... - soggiunse Maria un po' imbarazzata. - Di' dunque. - Ecco, vorrei permettermi un consiglio. La signora è molto buona, ma dovrebbe anche non fidarsi interamente degli uomini, e mettere qualche cosa da parte per quando si trovasse in un momento un po' imbarazzante.... Non so, mi pare!... - Ma se son tutte miserie! - protestò Yvonne accendendosi. - Credono tutti che io riceva delle somme favolose: dillo tu, che lo sai, in quali imbarazzi sono sempre! Se non fosse capitato l'americano, sarei stata costretta di vendere qualche cosa per pagare Beudy!... - Non si può risparmiar nulla! nulla! nulla!... E ne era perfettamente convinta quella divoratrice di patrimonî, nelle cui piccole mani passavano fiumi d'oro subito convertiti in abiti meravigliosi, in gioielli ricchissimi, in splendidi equipaggi e mobili principeschi, che godevano solo un istante il suo capriccioso favore, ed erano subito sostituiti da altre cento fantasie strane e costose. Tutto intorno il piccolo gabinetto a forma di conchiglia rosea incrostata d'oro, pareva il nido di una Nereide bionda, sorridente fra le trine preziose e il raso soffice delle poltroncine basse e bianche, come in mezzo a una candida spuma leggerissima, e attestava lo sfarzo di quella sovrana della bellezza e del piacere. - Quando verrà l'americano? - interrogò la cameriera colla familiarità d'una confidente necessaria. - Domani a mezzogiorno. - Ma domani a mezzogiorno verrà pure il marchese di Valmyère. - Oh! quello lo rimanderai. - Sarà la terza volta che viene senza essere ricevuto. - Che importa? forse si stancherà e non verrà più. La confidente non osò più di ripetere. - Che vestito desidera la signora per domani? chiese poi. Yvonne rifletté un poco. - Un accappatoio bianco - disse. E siccome la cameriera si mostrava stupita di tale scelta, troppo semplice secondo lei.... - Ciò è più signorile - osservò Yvonne. - A che ora devo svegliare la signora? - Oh, non prima ch'egli arrivi! Lo farai aspettare un po' nel salotto giallo. - Benissimo. - Puoi andare a dormire ora - disse congedandola ed entrando ella stessa nella sua camera principesca. Poi sulla soglia si rivolse ancora per soggiungerle: - E soprattutto non dimenticare di portarmi la nota di Beudy, mentre sono con lui. - Non dubiti, signora.... - assicurò la cameriera, già abituata a quella piccola commedia d' introduzione. - riposi bene, signora - soggiunse poi; e uscì....... Anche il signor Rook dormì bene quella notte, lieto della scoperta fatta, sicuro che quella donna gli avrebbe servito a meraviglia come strumento d'una vendetta da cui doveva nascere finalmente l'amore. Quando di Chalmy venne a svegliarlo, s'aspettava di trovarlo eccitato ed ansioso come un vero innamorato prossimo di vedere appagati i suoi desiderî, e fu sommamente stupito di saperlo ancora addormentato, come dopo una giornata di lavoro lungo ed ingrato. Egli non immaginava certo che l'adorata di William era assai lungi da Parigi, ben diversa dalla brillante etèra e che solo nella speranza di poterla presto ottenere, egli s'era addormentato finalmente tranquillo dopo tanti giorni e tante notti d'inquietudine terribile. Prima di lasciarsi fecero colazione insieme, e il signor Rook finì di meravigliare il visconte col suo appetito invidiabile. - Davvero non è questa una colazione da innamorato.... non potè trattenersi dall'osservare. - Ma voi dimenticate ch'io sono americano, caro visconte, e che l'essere innamorato o invogliato, come più vi piace, d'una bella creatura, non impedisce certo di render giustizia a questo pasticcio di lepre con tartufi, che è eccellente, e a questo vino del Reno veramente delizioso. Il visconte sorrise. - Ogni cosa a suo tempo, - soggiunse William, sbucciandosi una banana - anzi, non vi par questa una bellissima prefazione ad un duo d'amore? - Splendida assai, e vedete che per conto mio vi ho imitato fedelmente - E avete fatto bene! Vogliamo andare dal mio banchiere? - disse poi alzandosi. - Non ho abbastanza danaro in tasca, e per le imprese a cui ci accingiamo, il danaro è la sola chiave che deve aprirci le porte dell'Eden. - Siete molto spiritoso stamane, - osservò di Chalmy - si capisce che la felicità vi rende lieto. - Se tu sapessi quanto son felice! - non potè a meno di pensare William. E uscirono insieme. Il banchiere del signor Rook stava un po' lontano di là, ma nessuno dei due pensò a prendere una carrozza. Non era tardi, d'altronde, e la giornata splendida, come raramente ne spuntano in Parigi, rendeva deliziosa quella passeggiata mattutina attraverso i quartieri più popolosi e più industriosi. L'ampia e lunghissima Via Cassine, l'arteria del quartiere, pareva in quell'ora avanzata, un enorme alveare brulicante d'api affaccendate: ai lati, i negozi numerosi e svariatissimi, aperti con pompa fastosa di colori ridenti e vivi, erano un'offerta muta ma eloquentissima che spronava i desiderî e incitava al lavoro. Dalle vie laterali secondarie era un affluire continuo di gente, un'enorme massa frettolosa e affaccendata, dove si confondevano insieme i tipi più svariati, le condizioni più disparate: commercianti, industriali e negozianti occupatissimi, pei quali il tempo è oro, come nel vecchio proverbio inglese; piccoli impiegati pallidi e sfiniti stretti nel povero abito nero ormai stinto e ragnato, che affrettavano il passo per tornar pronti all'ufficio ingrato e penoso; gruppi di operai sereni e ridenti nello oneste bluse turchino, stanchi di lavoro ma inebriati di sole e di gioia di vivere; frotte di fanciulle e di bimbe che trotterellavano, alcune lacere, altre modeste, altre ancora arieggianti la piccola coquette: sartine, modiste, crestaie, maestrine, commesse, tutta la gran Parigi che lavora, che pensa, che si agita e vive, tutta la schiera dei laboriosi e degli onesti compresi della serietà della vita, che lottano strenuamente per l'esistenza, sempre immobili sulla breccia, spesso vinti, spesso spenti purtroppo, ma sempre pronti all'appello e sereni anche dinanzi al supremo sacrificio. E attraverso tutta quella folla d'onesti e di lavoratori che sudavano tutta la vita per un pane ed un tetto, passavano i due uomini occupati da un'idea che era ironia suprema a tutto quel lavoro, a tutto quel dolore fatto di stenti dignitosamente nascosti a tutta quella onestà sconosciuta; essi andavano a deporre ai piedi d'un idolo di fango un tributo d'oro e di gemme sufficiente a sollevare una gran parte delle miserie di Parigi.... a pagare con somme favolose e con doni regali una sezione di lussuria sapiente.... Era il trionfo della carne sull'intelligenza e sulla virtù! Era l'ironia suprema, lanciata dal vizio a tutto ciò che di onesto e di puro esiste ancora nel gran mare di fango dilagante.... Era l'infinitamente triste!...

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