Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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PROFUMO

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Capuana, Luigi 6 occorrenze

Abbia stima di me. Abbia pietà pure! Sono malata ... Non concorra a farmi peggiorare. Le voglio bene anch'io, ma non come intende lei. Si scordi di me. Si scordi di me! ..." "Impossibile! Scordarla, ora? Ora?" la interruppe Ruggero. "Si fidi. Non lo saprà nessuno, mai! Nessuno!" "No! No!" gemeva Eugenia. Ma l'accento, ma gli sguardi, pur troppo, dicevano sì.

Morta in questo mo- do, quasi abbia voluto andarsene per sempre col broncio, con la collera che mi ha mostrato fino a pochi giorni fa, ineso- rabile, implacabile! Che orrore!" "Rassegnatevi! Fate la volontà di Dio!" gli ripetè il dottor Mola prendendolo per le braccia. Il pianto gli scattò dal cuore tutt'a un tratto, e singhiozzando "Mamma! Mamma!" si rizzò per coprire di baci e ba- gnare di lacrime la squallida faccia della venerata sua morta.

"Grazie; ma occorre pure che abbia fede io in me stesso. Il caso è, non dico grave; ma da non prendersi alla leggera. Intanto, l'essenziale mi sembra che la signora sia tranquilla, evitando qualunque più lieve pretesto di eccitazione. E io la credevo placida, serena, mite! È vero che l'ho vista poche volte soltanto." Patrizio si passava e ripassava la mano su la fronte ... "Se la mamma sapesse" rifletteva, stando ad ascoltare il dottore. "Il senso dell'olfatto, ottuso dagli anni e dalle malat- tie, le ha impedito finora di accorgersene. Se arrivasse a sapere!" "Coraggio!" gli disse il dottore. "Non c'è da affliggersi tanto." "Ella fa il suo dovere, trattandomi quasi come un malato; non vuol farmi paura col darmi a scorgere tutta la gravezza del caso ..." "Che cosa vi passa per la testa?" "Ma io sono un disgraziato. Porto la iettatura addosso! La mia vita è stata fino a pochi mesi fa una lunga sequela di sventure. Lei non sa nulla! Debbo aspettarmi sempre di peggio! ... Lei non sa nulla! ..." "Coraggio!" "Venga domani ... col pretesto del suo reclamo per la ricchezza mobile. Dico così perché Eugenia non si figuri ... L'immaginazione delle donne è portata a ingrandire, a esagerare. La mamma poi non deve venir messa a parte di niente. Ignora; lasciamola nella sua ignoranza. È così impressionabile, povera donna! Sono tanto agitato io, uomo! ..." "E non c'è ragione, caro Agente! ... Il caso può essere e non essere cosa grave. Nei fenomeni nervosi, chi si raccapezza? Scoppiano all'improvviso; spariscono all'improvviso; fanno guasti; non lasciano traccia. Può darsi che que- sto profumo sia fenomeno passeggero, di quelli che non lasciano traccia. Allora: "Benvenuto! Buon viaggio!". Sarebbe peggio se si trattasse di puzzo. Rido, pensando che se a ogni nostro pensiero corrispondesse davvero un profumo, i cat- tivi pensieri dovrebbero produrre gran puzzo! E le corbellerie? Quelle che dico io, per esempio, al letto degli ammalati? Mettiamo che le corbellerie non abbiano nè puzzo, nè odore, perciò nessuno se n'accorge. Basta ... Vedrete doma- ni come saprò recitare la commedia! È quasi il nostro mestiere ... Già, in questo mondo, recitiamo la commedia tutti, un po' per uno, quando non recitiamo la farsa o la tragedia ... Mondo di guai! Pure non dobbiamo ridurcelo peggiore di quel che è. All'ultimo - è la mia antifona - antifona da vecchio e fuori di moda: "Ricordiamoci che c'è Dio!". Giova sempre a qualche cosa." Il dottor Mola si era alzato dal sedile di pietra, e batteva familiarmente con una mano su la spalla di Patrizio, per consolarlo e incoraggiarlo. "Guardate la campagna! Guardate il mare! Non vi sentite schiarire l'animo? Lo spettacolo della natura è sempre con- solante. Voi vivete troppo da eremita. Ci avete fatto l'abitudine, me lo avete detto ... Ragione di più per romperla, almeno qualche volta. Aria! Aria! E gamba lunga. Io faccio, in media, una diecina di miglia al giorno, salendo scale, andando su e giù per vicoli e vicoletti. Ho sessantotto anni, e porto la mazza soltanto perché i dottori debbono portarla: è di prammatica. Aria! Aria!" Patrizio, accompagnandolo, si strizzava le mani: "Se la mamma arriva a sapere!" Eugenia notò un gran cambiamento nei modi di suo marito. Ora egli le stava attorno con insolita premura, guardan- dola con occhi così pietosi, così pieni d'indulgenza, ch'ella cominciò a insospettirsi. Prima, egli rimaneva nella stanza di ufficio fino all'ora di colazione. Da qualche settimana, invece, pareva che un pensiero fisso e tormentoso lo spingesse a fare rapide apparizioni in camera o nel salottino. "Ti occorre qualche cosa?" ella domandava. "No. Voglio distrarmi da un lavoro noioso che mi dà il mal di capo." "Dà a farlo ai commessi." "Debbo farlo io, per forza. Mi arrufferebbero ogni cosa." E passeggiava per la stanza, accarezzandole fuggevolmente la testa quando le passava vicino. Tornava da lì a qualche ora, col pretesto di un oggetto da ricercare nella cassetta del tavolino e che non trovava. "Che cerchi?" "Cerco un appunto, un pezzettino di carta così!" Subito però smetteva la ricerca e s'intratteneva con lei. "Che cosa fai?" "Orlo dei fazzoletti, lo vedi." "Bisognerà ricamarvi le cifre." "Pensavo a questo." "Gotiche?" "Di che ti mescoli? Le sceglierò io." Si vedeva che era un pretesto per osservarla; infatti non le levava gli occhi d'addosso. E tutte le volte finiva con domandarle: "Ti senti bene?" "Sì. Perché dovrei sentirmi male?" "Mi sembri un po' pallidina." "Ti paio sempre pallidina, Dio mio!" Era dunque proprio malata e intanto non se ne accorgeva? Il dottor Mola veniva quasi tutti i giorni: "Non da medico, ma da buon vicino. Vicinanza è mezza parentela." Il brav'omo voleva ingannarla, con quel risolino malizioso, con quegli occhietti neri, che quasi gli schizzavano fuori dalla faccia schiacciata. "Si dà l'aria di canzonarmi, pel maledetto profumo ... E mi tempesta di domande. Perché? È dunque sintomo cattivo? Perciò, forse, non me ne vogliono dir niente. Mi trattano da bambina." E notava tutto, piena di sospetti vaghi. Notava il leggero malessere, specie di spossatezza che la faceva rimanere a lungo nella stessa positura, con lo sguar- do fisso in un punto. Notava i sordi rumori che le assalivano gli orecchi, ora come lontano scroscio di acque correnti, ora come leggero fischio, ora come tintinnio. Aveva già notato più volte una rigidezza nell'estremità della lingua, che ricompariva specialmente qualche giorno prima che l'odor di zagara diventasse più intenso. L'acutezza di esso variava, senza ragione comprensibile, anche nella medesima giornata, a periodi diversi, a sbalzi, con nessuna corrispondenza di intervalli. L'aumento dell'emissione le apportava uno stato di eccitamento ilare, simile a quello che le dava il caffè, se ella eccedeva nella dose. Si stillava il cervello. Non le pareva d'essere sempre sul punto di cadere in un accesso nervoso come giorni fa? Si sentiva portar via, via, via, verso un ignoto abisso; il terrore del prossimo sfacelo le dava il capogiro, le faceva correre un brivido diaccio da capo a piedi; e, a un tratto, ecco una mano che l'arrestava proprio sull'orlo e le impediva di precipitare. Così anche l'irri- tazione prodottale fin dalle cose più insignificanti, ella se la sentiva svaporare da tutto il corpo con quel profumo di za- gara, che appunto allora diventava più acuto e che la lasciava spossata e abbattuta poco meno che non potesse fare un accesso compiuto. Non ne diceva niente a Patrizio, nè al dottor Mola; sentiva vergogna. Da ragazza le avevano fatto capire che quei di- sturbi femminili bisognava dissimularli, per pudore; ed ella, senza intenderne bene la ragione, si conformava anche ora a quel consiglio. Interrogata dal dottore, aveva negato di averne mai avuti prima di quel giorno. E teneva nascosti i fe- nomeni interni: l'ansia, il terrore, la sovraeccitazione, se fosse stato possibile, avrebbe nascosto fin il profumo. Infatti tentava ogni mezzo per attenuarlo, lavandosi continuamente le mani e le braccia, facendo inutile sciupio di sapone, che all'ultimo produceva un resultato contrario, rendendo più libera e più facile la traspirazione voluta impedire. Perciò ella avea smesso, attendendo che il fenomeno, un giorno o l'altro, sparisse da sè com'era venuto. Intanto diventava più sospettosa, più diffidente. Le pareva di sentirsi circondata da un'atmosfera maligna. La tregua apparente nel contegno della suocera, le affettuose sollecitudini di Patrizio assumevano stranissimi significati per lei. La vecchia - come la chiamava - doveva essere troppo soddisfatta di saperla malata di quella inesplicabile malattia; per ciò sembrava acchetata. Chi sa che cosa s'attendeva la vecchia cattiva? Ah, ella avrebbe voluto interrogare a quattr'occhi il dottore, se fosse stata sicura di strappargli di bocca la verità! Ma il dottor Mola si divertiva a sgusciarle di mano ogni volta che ella tentava di afferrarlo e indurlo a parlare. Non la pren- deva sul serio. "Dottore, e questo profumo?" "Siete diventata una pianta d'arancio in fiore. Di che vi lagnate, signora mia?" Il dottore non aveva torto. Perché si ostinava a nascondergli i sintomi interni che ella andava notando e che il pove- r'uomo non poteva indovinare? E, irragionevolmente, s'indispettiva di sentirsi osservata, compatita. Le blande carezze di Patrizio la irritavano, con grande meraviglia di lui. "Ma che hai?" "Niente" rispondeva, brusca, senza accorgersene. E siccome nessuno dei due ardiva di provocare una spiegazione che avrebbe tolto di mezzo facilmente l'equivoco, lo stato dell'animo di lei peggiorava; ed egli ricorreva invano al dottore, che si stringeva nelle spalle dicendo: "Stiamo a vedere." Il dottore aveva replicatamente insistito: "Uscite da questa prigione volontaria. Abbiamo nei dintorni molti punti deliziosissimi da poter farvi belle e lunghe passeggiate. Gioverebbero immensamente alla signora." Patrizio ne aveva parlato più volte a Eugenia, quasi fosse stata un'idea propria, un capriccio che avrebbe fatto molto piacere anche a lui. "No" ella aveva sempre risposto. "Qui si sta tanto bene! Se volessi passeggiare, c'è la selva, ci sono i corridoi, c'è la terrazza!" E lo fissava, e lo costringeva ad abbassare gli occhi. Un giorno però, tutt'a un colpo, Eugenia si era decisa a chiedere una franca dichiarazione al dottor Mola. Stata alla vedetta, all'arrivo di lui gli uscì incontro nel corridoio, e lo prese per una mano: "Venga, venga qui." Il gesto, l'espressione insolita della voce lo fecero mettere in guardia. Quella celletta dell'antica infermeria, col vano della finestra ingombro dai fitti rami d'una pianta di loto che dalla selva sottostante si elevava presso il muro della facciata a sormontare il tetto del convento, pareva fatta a posta per col- loqui misteriosi. La penombra, che i riflessi verdognoli delle foglie illuminate dal sole vi spandevano dentro, lasciava appena distin- guere i mucchi di mattoni rotti, i vecchi telai di imposte, i tavolini e i legni sporchi di gesso e di calcina che ingombra- vano gli angoli. Le due seggiole, poste una di fronte all'altra presso la finestra, indicavano chiaramente un interrogatorio premeditato. "Scusi se l'ho condotto in questa stanzaccia." "Ai vostri comandi, cara signora." "Dottore, mi dica la verità!" "Indovino senza che parliate" egli rispose sorridendo. "Nausea, eh? ... Languori, eh? ... Appetiti bizzarri, eh? ... In questo caso sarebbe stato più pratico consultare la suocera. Avreste evitato di arrossire ..." "No, no, s'inganna! ... Mi fa arrossire lei!" rispose Eugenia con voce turbata. "Questo maledetto profumo che non vuole andarsene via? ... Non capiscono, lei e Patrizio, che tacendo mi spaventano di più e mi fanno sospettare tante bruttissime cose?" Il dottore, con le mani aperte, le accennava di calmarsi, di calmarsi: "Avete ragione, signora mia. Noi medici siamo nell'obbligo di saper tutto; ma spesso (parlo di me e dei miei pari) sappiamo poco o niente. Non potendo confessarlo ai clienti - se no, addio professione! - in certi casi facciamo come i bastimenti quando c'è tempesta; prendiamo il largo. E se non siamo presuntuosi o senza coscienza, ci mettiamo a con- sultare i nostri autori ... Così, con l'aiuto di Dio, evitiamo, qualche volta, le corbellerie più madornali." Quantunque il dottor Mola, occorrendo, adoperasse facilmente coi malati le pietose bugie, pure allo scintillio di quegli occhi pieni di diffidenza e intenti a scrutare le parole che gli uscivano di bocca, aveva provato tale impaccio da sentir bisogno di una pausa. "Questo maledetto profumo che non vuole andarsene via!" riprese, imitando scherzevolmente l'intonazione di Euge- nia. "Si tranquilli. Già sappiamo che cosa è, e possiamo ridergli in faccia!" "Ah!" esclamò Eugenia, incredula. "Non avete mai inteso parlare di donne che, in uno stato simile al vostro, prendono in abborrenza gli alimenti ordi- nari, e divorano cenere, terra, segatura di legname, carbone, ne si nutrono d'altro? ... Noi chiamiamo pica questa malattia. Chi poteva sospettare che tra i sintomi della pica ci fosse anche la emissione di un profumo? ... Sissigno- ra, è così ... Avreste forse preferito mangiar cenere o carbone?" Ella lo guardava con tanto d'occhi, senza poter dire una sola parola; e il cuore le batteva così rapido, e un nodo le stringeva così fortemente la gola, che per un istante temette di essere sul punto di svenirsi ... "È ... proprio ... questo?" balbettò. "Ah, Signore! ..." E si levò da sedere, passandosi le mani sul viso, facendosi di mille colori, ripetendo soltanto: "Ah, Signore! ..." Il dottor Mola già sentiva rimorso di quella pietosa bugia, e osservava commosso la giovane che, affacciatasi alla fi- nestra, pareva provasse una deliziosa sensazione stropicciando la faccia tra le lunghe e fini foglie del loto, quasi calmas- se con tale espediente l'eccitazione cagionata dalla inattesa notizia. "Ora" egli disse "dovreste confessarvi con questo vecchio confessore che è qui. Che cosa vi sentite? Fatevi animo; non abbiate ritegno. Commettereste un sacrilegio tacendo, come nella confessione; non si tratta soltanto della vostra sa- lute, ma di quella di un'altra creatura di Dio. Parlate, parlate!" Ed ella parlò, abbandonatamente, chiedendo scusa, di tratto in tratto, del suo sciagurato silenzio: "Non tacevo io; c'era qualcuno che mi metteva una mano su la bocca, allorché volevo parlare ..." "Intendo. Via, rispondete alle mie domande; faremo più presto." Al dottore non pareva vero che la sua pietosa bugia avesse potuto produrre quell'effetto. "Donne! Donne!" pensava fra una domanda e l'altra ... "Vedete?" egli concluse all'ultimo. "Se aveste parlato prima, non avremmo perduto un tempo preziosissimo. Da og- gi in poi però, cara signora, sarete docile, ubbidiente, è vero? Dio vi ha consolata; dovreste eseguire tutte le prescrizioni del medico, anche per non essere ingrata verso Dio! ..." "Sì, sì" ella rispondeva, asciugandosi le lagrime. Si sentiva più leggera, quasi le fosse stata tolta una macina di sul petto. "È questo? ... Oh Vergine benedetta! ..." "Se i sintomi non ci ingannano" soggiunse il dottore. "Non lo sospettavo neppure! ... Niente che me n'avvertisse! Può mai darsi?" "Tutto può darsi, se vuole Iddio. Come siamo egoisti! Dimentichiamo una persona che non è in pensiero meno di noi." "Vada da Patrizio, vada, dottore!"

"Non abbia paura; sono di cera ... Ecco Pilato!" E il Padreterno palleggiava un testone coi capelli neri, arruffati, ricinto da una sgualcita corona di carta dorata. "Mi fa male!" gridò Eugenia, coprendosi la faccia con le mani. Il Padreterno ripose la testa coronata del governatore della Giudea e chiuse l'armadio. "Scusi" disse. "È vero: quelle teste staccate fanno un brutto effetto ... anche a me. Ma bisognava vedere i per- sonaggi belli e vestiti, atteggiati, aggruppati, tra i ceri accesi, i vasi di garofani e di basilico, e il gran parato di carta e velluti! Oh! ... La Madonna Addolorata, con le sette spade conficcate nel petto, singhiozzava per via di fili di seta, tesi come corde di chitarra (un novizio, nascosto dietro il parato, li faceva scattare di tratto in tratto): zin! zin! Singhioz- zi da spezzar il cuore. Pilato con la penna da scrivere che se ne scappava in alto non appena lo scellerato tentava di met- ter la firma alla condanna di nostro Signore! E Giuda! E Caifasso! E san Pietro col gallo che cantava tre volte! E Gesù alla colonna, flagellato dai giudei! ... Parevano proprio vivi! Il venerdì santo, folla fitta così! E compunzione e pianti e penitenze! ... Ora il povero Padreterno accende quattro mozziconi di candele fra quattro stracci stinti di carta da parato, e festa! Siamo diventati una manica di giudei, di protestanti senza Dio nè Madonna. E quei quattro stracci di carta da parato il povero Padreterno rimane a contemplarseli solo solo. Non viene più un cane in questa chiesa abbandonata. Vanno a vedere i sacri sepolcri delle altre chiese, dove ancora li apparecchiano. Sacri sepolcri? Fanno ri- dere di compassione. Miserie! ... Buffonate!" Eugenia, ancora un po' sbalordita, non rispose; fece due o tre passi e aperse l'uscio che metteva nella chiesa. Bianca, illuminata dal sole che penetrava dalle larghe vetrate, la chiesa le parve più spaziosa delle altre volte, ma meno solenne. Il Padreterno, ad alta voce, con poco o nessun rispetto del santo luogo per abitudine di sagrestano, le fa- ceva smarrire il sentimento religioso che l'aveva spinta a entrare. Così, invece di andare diritto verso l'altare della Ma- donna, ella si lasciava trascinare da lui a osservare distrattamente quadri e altari, quasi vi fosse andata soltanto per ca- varsi quella curiosità. "Vedete? Qui c'è mezzo paradiso!" diceva il Padreterno, indicando un gran quadro, pieno di innumerevoli figure di angioli e di santi. "Pittore fu un canonico di Marzallo, che mio nonno ha conosciuto. Dipingeva per la gloria di Dio ... e della propria pancia. Il suo compenso era pappatorio: un capo di selvaggina per ogni sacro personaggio. E i devoti andavano a caccia, o compravano una lepre, un beccaccino, un coniglio, una gallina prataiola per aver sul quadro ognuno il proprio santo, oltre agli angioli, ai serafini e cherubini, che il canonico vi accatastava di propria volontà a ca- rico del convento. Guardi lassù, tra le nuvole, tutte quelle testoline di angioletti con le alucce appiccate al collo; un capo di selvaggina per ognuna di esse! Ce n'è voluto, signora mia! E se il devoto non portava il coniglio, o la lepre, o la bec- caccia, piff! paff! in quattro botte il canonico gli scancellava il santo o la santa sotto gli occhi ... E diceva di dipin- gere per la gloria di Dio!" Il Padreterno rideva; ma Eugenia, andando così attorno per la chiesa e udendolo parlare, sentiva dileguare dal cuore il sentimento voluto effondere a piè di Dio e della Madonna. Guardava le sue vesti da casa, e timorosa e incerta di commettere una profanazione, seguiva il Padreterno che, in maniche di camicia, la conduceva per le navate alzando la voce, quasi essi non fossero nella casa di Dio, e il Sagramento non stesse laggiù, nel tabernacolo dell'altar maggiore, dove ardeva la lampada perenne. Avrebbe voluto dirgli: "Zitto, lasciatemi sola; voglio pregare: sono venuta qui a po- sta!" e non poteva. Già dubitava che ora le riuscisse più di pregare ... "Quello lì è sant'Antonio di Padova, col bambino Gesù" riprendeva intanto il Padreterno. "L'hanno santificato e sta bene; il papa ci ha dovuto avere le sue buone ragioni. Ma io, signora mia, se fossi il bambino Gesù, invece di fargli una carezza al viso sbarbato, gli vorrei piuttosto tirar un orecchio, e forte anche, per insegnargli un po' di carità, bell'e santo qual è!" "Che dite? Non sta bene parlare così!" lo interruppe Eugenia. "Ah, voscenza non sa che il primo di giugno incomincia la tredicina di cotesto santo; ed è sempre la nostra rovina! I devoti lo pregano con messe e vespri: "Sant'Antonio benedetto, non mandate la nebbia, ora che gli ulivi sono in fiore!". E lui, dispettoso, nebbia sopra nebbia, per disseccare la fioritura degli ulivi, nostra sola ricchezza! Quel faccione di cuor contento le pare viso da fare miracoli? Io, intanto, non gli accendo neppure un mozzicone di candela." Eugenia si allontanò frettolosamente, quantunque non potesse frenarsi di ridere. Scandalizzata delle sciocchezze del Padreterno, dette ad alta voce nella casa di Dio, in faccia allo stesso santo, era andata a inginocchiarsi davanti alla cap- pella della Madonna dello Spasimo, cercando di raccogliersi e di pregare. Ma il suo cuore era già freddo, inaridito, e la parola restia. La Madonna, che agonizzava sull'altare a piè della croce, tra Maria Maddalena e san Giovanni, non riusciva a com- moverla; quelle viscere che avrebbero dovuto sussultare di gioia e di gratitudine, rimanevano inerti. Ahimè, la Madonna la castigava forse in tal modo per la sua irriverenza? Un sordo terrore l'agitava, pensando che poco fa la rivelazione del dottore era bastata per farle sgorgare dagli occhi dolcissime lacrime. "Madonna mia! Bella Madre Santissima! Abbiate pietà di me!" ella mormorava. Queste parole però non se le sentiva scaturire dal cuore, ma suggerire dalla riflessione. Diceva così, perché si soleva dire così, perché tante altre volte ella stessa aveva detto così. Le pareva, anzi, che le venissero suggerite da un'altra per- sona inginocchiata al suo fianco. "Vergine addolorata! Madre degli sconsolati, abbiate pietà di me!" Si portò le mani agli occhi. La gran luce, che inondava la chiesa dalle finestre della navata centrale e da quelle della cupola, da cui un fascio di sole scendeva appunto, tra un nugolo di formicolante pulviscolo, fino a piè dell'altare, la di- straeva abbagliandola. Ma anche con gli occhi chiusi e coperti dalle mani, ella rimaneva impietrita, nè poteva pregare. Una maligna voce le sussurrava sommessamente dentro l'orecchio: "Non è vero! Nulla vive nelle tue viscere. Per questo rimangono mute". "Santa Madre degli afflitti, abbiate pietà di me!" ella balbettava. Si sentiva mancare il terreno sotto le ginocchia; le veniva di prorompere in un grand'urlo e rovesciarsi sul pavimento e rotolarvisi per quella smania che le attanagliava lo stomaco e le scoteva tutta la persona. E si rizzò in piedi, barcollan- te, atterrita dell'assalto nervoso che stava per scoppiarle addosso, presentito da due giorni. Le pareva di correre, di volare leggera come una piuma, sfiorando appena il suolo. La voce del Padreterno, che la invitava dall'angolo opposto a osservare qualcosa, la inseguiva, la inseguiva tra le colonne e tra i banchi attraversati ra- pidamente, con gli occhi ansiosi fissi all'uscio della sagrestia, quasi non dovesse più raggiungerlo e varcarlo ... Nel corridoio riconobbe appena Patrizio che le veniva incontro, rimproverandola affettuosamente: "Ti ho cercata dappertutto! Dovevi avvertirmi che andavi in chiesa." "Ah, Patrizio! ... Patrizio! ..." E si rovesciò, arcuando il corpo e contorcendo i polsi, tra le braccia di lui. Ora ella restava dimessa, quasi vergognosa, dinanzi a suo marito. "Non tormentarti! Non è niente. Sto meglio." Patrizio le rispondeva con mite sorriso di rassegnazione, sentendo di amarla più fortemente da che la sapeva colpita. Non la rimproverava più d'avere taciuto; la compativa come una bambina un po' strana e viziata che mostrava di vo- lersi correggere. "Dimmi: il dottore si è ingannato?" gli domandò un giorno. "Si è ingannato!" "Lo sentivo!" sospirò Eugenia. "Meglio così." "Perché?" "Perché è meglio che, prima, tu sia guarita perfettamente." "Presto?" "Presto, se stai tranquilla, se sai frenarti." "Baciami! Voglio guarir subito!" "Coi baci non si guarisce." "Resta qui, accanto a me. Sarò buona ..." "E l'ufficio?" "Lascia socchiuso l'uscio. Così almeno potrò vederti; mi basterà." Voleva essere tranquilla, voleva frenarsi, come le raccomandava Patrizio. Di tanto in tanto però il solito sospetto, anzi la certezza dell'odio della suocera le rinasceva in fondo al cuore e le accendeva il sangue. Ella faceva ogni sforzo per cacciar via quella tentazione, per tenerla lontana, ma non sempre vi riusciva; massime nei giorni in cui Patrizio pa- reva volesse sottrarsi a qualunque più piccola tenerezza da parte di lei. Quel chiodo le rimaneva conficcato proprio in mezzo al cuore. E la vecchia ve lo calcava più profondamente ogni giorno! Ah, quel suo silenzio, quegli sguardi diacci diacci, indifferenti a prima vista, ma così cattivi! Patrizio tornava a ripeterle: "È una tua fissazione! E ti fa male. Non voglio sentirne parlare!" Ed ella, come l'altra volta, non gliene parlava più. Non pensarci però era impossibile. "Non mi trattiene mai nella sua camera! Mi risponde appena, con un sì o con un no, quando le rivolgo la parola. Mai non mi dice: Eugenia fa' questo! Eugenia fa' quello! . E sarei tanto felice di servirla! Non mi occorre niente. E si rivol- ge a Dorata piuttosto che a me!" Sì, sì, faceva male a ripensarci, a fermarcisi sopra con viva insistenza; Patrizio aveva ragione. E canticchiava a fior di labbra per distrarsi; e si rimproverava di chiamarla, nel suo interno, sprezzantemente: la vecchia! Come dirle: Mam- ma! intanto? Così avesse potuto ripeterglielo a ogni istante, ella che avea appena conosciuta la sua povera mamma, morta giovanissima soprapparto! Eppure, pensando e ripensando, si sentiva eccitare assai meno di prima, quasi i suoi nervi già cominciassero ad abi- tuarsi. Cedeva, per sfiducia, per stanchezza. Che delusione! S'era ingannata lei, immaginando nel matrimonio una felicità che non c'è, oppure l'avevano tradita le circostanze, le persone. Patrizio? Che cosa s'era immaginata infine? Vita tranquilla, ritirata, consolata da affetto sincero. Carezze! Ba- ci! Cose da nulla, e che pure l'avrebbero resa paga e contenta. Ah! Le lettere di Patrizio l'avevano illusa. E quando, di notte, egli le aveva parlato dalla finestra con quella voce affiochita dalla commozione? L'aveva illusa. Oh, allora egli sembrava un altro! Che parole di fuoco! Che castelli in aria per l'avvenire! Le faceva provare le vertigini. Non aveva mai inteso nessuno parlarle a quel modo! Nessuno le aveva mai detto tutte quelle belle cose carezzevoli, vera musica incantatrice ... E l'aveva illusa! L'aveva illusa! ... Si era forse illuso anche lui! Si rivedeva nella cameretta di Castroreale, nel letticciuolo di ragazza, rannicchiata sotto la coperta. Quante fantasti- cherie, per due anni, in quella bianca cameretta, avanti d'addormentarsi! E quante esitanze, quante lotte, nei primi giorni in cui s'era accorta delle intenzioni di lui, sconosciuto, forestiero, che se la divorava con gli occhi quasi di nascosto, per il dubbio, pareva, di essere scoperto da qualche indiscreto! Otto mesi fa, laggiù! E ora in quella celletta di convento, lontana dal paese nativo, dai suoi, da ogni persona nota! E quello sconosciuto, quel forestiero, che tante volte l'aveva fatta sorridere, allora, per quel suo modo strano di guardarla fisso fisso, pieno di timidezza e di audacia, era già diventato il suo Patrizio! E lei gli apparteneva, corpo e anima! Oh, lei sì, corpo e anima! Ma lui? lui? Non trovava risposta a tale domanda. Spesso però si meravigliava anche di essersela potuta indirizzare, ingrata o perversa ... "Di che cosa posso lagnarmi? Che cosa mi manca? ..." Da qualche settimana aveva preso l'abitudine di affacciarsi alla finestra del salottino, coi gomiti appoggiati sul da- vanzale, con la faccia tra le palme. Fantasticava ora intorno all'una, ora intorno all'altra di queste idee che le pullulavano nel cervello non appena rimasta sola. Affacciàtasi a quella finestra, mèssasi in quella positura, le pareva di sentir ranno- dare la catena delle sue fantasticherie al punto in cui il giorno avanti l'aveva interrotta, con la vista dello stesso paesag- gio, con la stessa luce di sole, di faccia al verde di quella siepe di fichi d'India che circondava l'orlo del precipizio; nel silenzio meridiano, interrotto soltanto dalla soneria dell'orologio del convento, o dal cinguettio di qualche passero, o dal grido rauco delle taccole che nidificavano in cima al campanile. Evidentemente, con la cura ordinata dal dottor Mola, i nervi di lei si andavano calmando. Le stesse cose d'una volta già le producevano impressioni meno vive. Di tanto in tanto, è vero, tornava a sentirsi scotere da capo a piedi, come se il male stesse per ridestàrsele dentro all'improvviso; e ne provava un grande sgomento, prima ignorato ... Ma era- no minacce che svanivano, che svaporavano col solito odore di zagara, e più rapidamente che per l'innanzi. Ora la invadeva una tristezza sfibrante, una specie di rimpianto, un dolore chiuso, che talvolta arrivava fino a farla piangere, ma non più a irritarla, a sconvolgerla, a farla contorcere e urlare. Patrizio l'aveva sorpresa due o tre volte in quella positura, in quella contemplazione: "Che cosa guardi? Che cosa pensi?" "Osservavo quelle donne che stendono il bucato al sole su la siepe di fichi d'India. Vengono ogni quindici giorni; l'ho notato." "Non hai visto?" egli le disse una mattina. "Nella selva sono fiorite le rose. Me l'ha detto il Padreterno." "Non me ne sono accorta." "Non te ne curi più, dovresti dire!" "È vero. Le ho trascurate da qualche settimana." "Come ti senti?" "Benissimo." "Dimmi la verità!" "Non ti nascondo più nulla, lo sai." Ella riprese la sua posizione, coi gomiti sul davanzale e con la faccia tra le mani. Patrizio la guardò alcuni istanti, un po' impacciato; pareva volesse soggiungere qualche altra domanda; poi tornò zitto zitto in ufficio. Avrebbe voluto domandarle: "Perché sei cambiata? Che cosa accade nel tuo cuore?" E glien'era mancato il coraggio. Seduto al tavolino, con dinanzi le lunghe liste di cifre da rivedere, da addizionare, da riportare nei diversi registri che lo ingombravano, egli, lavoratore assiduo e paziente, si distraeva di tratto in tratto, abbandonandosi a rimuginare inces- santemente la tormentosa interrogazione che da parecchi giorni lo assaliva all'improvviso: "Perché è cambiata? Che cosa accade nel suo cuore?" Ora udiva di rado l'allegro e sommesso canticchiare di lei, che dall'uscio socchiuso s'insinuava nello studio quasi per dirgli: "Bada: sono qui e penso a te! Dimentica un po' coteste brutte cartacce. Vieni a darmi un bacio!". Non levava gli occhi dai registri, non interrompeva il lesto calcolo delle cifre; sentiva però un delicato piacere a quel mormorio di voce femminile che gli aleggiava attorno e gli penetrava nel più profondo del cuore. E se alzava la testa per trovare una certa lettera alfabetica sul dorso dei volumi in-folio del catasto, allineati nei rozzi scaffali lungo le quattro pareti della cella, andava difilato a prendere il volume occorrente, senza cedere alla tentazione di affacciarsi nella camera dove Eugenia canticchiava lavorando presso la finestra, in quei felici primi mesi dell'insediamento nell'ufficio di Marzallo. Bei giorni! Sovente ella spingeva, zitta zitta, tra i battenti dell'uscio la testina con capelli neri e lucidi, lievemente ondulati; e re- stava là qualche istante a guardarlo in silenzio, finché non le diceva, sorridendo: "Ti ho sentita!" "Guardami dunque!" Egli continuava il suo lavoro, scrivendo una cifra qua, un'altra là, consultando qualche foglio, svoltando una pagina, e poi rispondeva: "Ecco, ti guardo!" Eugenia gli faceva un rapido saluto con la mano e spariva. Bei giorni! Qualche volta ella picchiava all'uscio: "Vuoi un sorso di caffè?" "Grazie; più tardi." "Si fredderà." "Non sarà gran male." Eugenia, tenendo in mano la tazzina fumante, sospingeva l'uscio con gesto di fanciullesco dispetto, ed entrava don- dolando graziosamente la testa, facendo una smorfiettina con le labbra: "Non deve freddarsi ... Oh, non fare il cipiglio! Vado via subito." "Qui si viene soltanto per affari" le diceva, scherzando, nel restituire la tazzina vuota. "Grazie. Questa volta, passi!" E riprendeva a lavorare, brontolando rapidamente le cifre, seguendone le filze con la mano che teneva la penna, con- tinuando l'operazione quasi non l'avesse punto interrotta; ma più svelto, ma con qualcosa che gli sorrideva internamente e gli rendeva gioconde fin le cifre. Ora non più! Quel sommesso gorgheggio femminile era cessato; quelle gentili apparizioni d'un istante interrompevano assai ra- ramente la monotonia del suo arido lavoro. I capricci delle scappatelle in fondo ai corridoi fuori mano, o nella selva, o sulla terrazza, in diverse ore del giorno, specie a sera inoltrata, nelle serate di luna piena, o nella tiepida oscurità protet- trice delle notti estive senza luna; quei capricci, che tante volte lo avevano conturbato perché gli era parso rivelassero in Eugenia un che di malsano e sensuale, da cui veniva urtata la sua rigida idealità; ora che ella restava volentieri sola, in camera o in salotto, anche senza essere occupata in uno dei soliti lavorini di cucito e d'uncinetto, quei capricci egli già cominciava a rimpiangerli, quantunque tuttavia non lo confessasse apertamente a se stesso. Fin i contrasti, le lotte per attutire o infrenare l'irritazione di lei a proposito del contegno della suocera; gli scoppi di pianto e gli accessi nervosi, sopravvenuti a sconvolgere la tranquillità della sua vita e ad atterrirlo per l'avvenire; fin questi talvolta gli sembravano preferibili a quella nuova fase d'indifferenza che gli dava viva inquietudine. "Cosa strana!" pensava. Non avea sempre desiderato che fosse così, per quel gran bisogno di riposo che egli provava dopo le tante fiere agitazioni e i tanti profon- di dolori della sua misera giovinezza? Perché dunque si sentiva preso da malessere, osservando che, col decrescere della malattia di Eugenia, il carattere di lei veniva appunto conformandosi all'idea che egli s'era fatta di un'inalterabile felicità domestica, di una esistenza isolata e quasi fuori del mondo? "È cambiata? Che cosa accade nel suo cuore?" Non aveva proprio desiderato questo, no, mai! E perciò scrollava la testa e si passava la mano su la fronte per scac- ciar via l'irritante pensiero. "È assurdo! È impossibile!" Riprese a lavorare, assorbendosi nei calcoli numerici. Intanto, a dispetto dell'attenzione richiesta dalle operazioni a- ritmetiche, la dolorosa domanda gli insisteva, gli insisteva tuttavia dentro il cervello. Si levò dal tavolino, andò di là, nella stanza dove i commessi lavoravano o fingevano di lavorare, come egli soleva benignamente rimproverarli, e parve volesse sfogare contro di essi il malumore. I commessi si guardarono negli occhi, meravigliati. "Quest'Agente è una dama!" dicevano spesso tra loro. "Una dama a dirittura." E nei rari momenti di severità, si borbottavano da un tavolino all'altro: "Cattivo tempo!" "Tramontana!" "Scirocco!" Poco dopo, nella stanza si sentì soltanto lo stridere delle loro penne su per le colonne degli stampati e sui fogli di carta bollata dei certificati catastali, mentre Patrizio andava da un tavolino all'altro esaminando una registrazione, ri- scontrando una cifra, rimproverando Ciancio per una cassatura, Griffo per una omissione, Zuccaro per l'eccessiva len- tezza di una copia. "Cattivo tempo!" "Tramontana!" "Scirocco!" I commessi si ammiccavano, facendo versacci.

"È vero: pare che io abbia toccato della zagara e che me ne sia rimasto l'odore ... Si avverte appena però ..." "Anzi, al contrario! Senti? ... Anche ai polsi ..." soggiunse Patrizio ... E tirò in su, curiosamente, una manica di lei fio al gomito. "Pure al braccio!" esclamò, meravigliato. "Senti, senti!" Eugenia si strinse nelle spalle: "Sarà stata la lavandaia, che avrà voluto profumarmi la biancheria ..." "Può darsi." "Dunque, come ti dicevo ..." ella cercò di riprendere. Patrizio portò rapidamente l'indice della mano destra alle labbra per significarle: Silenzio! "Animo tranquillo e buon brodo, ha raccomandato il dottore!" E affacciatosi all'uscio che dava sul corridoio, chiamò: "Dorata! Dorata!" Eugenia persisteva nella sua idea. Finito di sorbire la tazza di brodo recata dalla donna, messasi a sedere su la sponda del letto, ravviata la veste e pas- sàtesi le mani sul volto, attirò Patrizio tra le ginocchia, cingendogli le braccia attorno il collo. "Bada!" gli disse. "Io non cedo. Non ho ceduto ai miei, quando mi agitavano dinanzi a gli occhi lo spauracchio di una vita randagia, senza nessuna sicurezza per l'avvenire; non cederò, mettitelo in mente, nemmeno con tua madre!" "In che cosa dovresti cedere? ..." Egli affettava un tono di gentile canzonatura, per mascherare l'agitazione che le parole di lei gli producevano. "Intendo" riprese Eugenia seria seria "intendo: che voglio esser libera, con libertà santa e giusta, si capisce! Intendo che ti voglio sincero con me, come da un pezzo non sei più, sì, come da un pezzo non sei più! Mi credi tanto stupida da non capirlo?" E all'improvviso gli si abbandonò con la fronte sul petto, mormorandogli quasi in tono di preghiera: "Pensa che ora non ho altri che te! Pensa che tu sei tutto per questa povera creatura che ti vuol bene! Oh Patrizio! Il mio cuore è uno specchio così limpido che neppure il fiato l'appanna ... Puoi mirarviti quando tu vuoi! Sul tuo cuore, invece, c'è spesse volte un velo grigio, che m'impedisce di vedervi bene quando più avrei bisogno di vedervi be- ne. Non ce lo voglio! Strappalo! Che cosa chiedo infine? Se io ti sentissi sincero, non mi curerei di nient'altro! Hai forse qualche doloroso segreto? ... Mettimene a parte; voglio soffrire assieme a te!" "Vedi come ti ecciti? ... Come esageri? ..." E sollevandole la testa, soggiunse: "Dammi una prova del tuo amore, Eugenia; te ne scongiuro, non tornare su questo soggetto, almeno per ora! Ti fa male; fa male anche a me ..." "Non ne parlerò ... Ma ... sarai tu sincero da oggi in poi?" "Sì, sì, come sempre! ..." "Proprio sincero? ..." "Sì!" "Ebbene ... allora ..." ella riprese lentamente, fissandolo, "allora dimmi ... perché ... la mam- ma ... No, non voglio saperlo! Me lo dirai quando ti parrà!" E gli si avvinse di nuovo al collo, arrossendo di essersi così presto contraddetta, e ripetendo con voce soffocata: "Non voglio saperlo! Non voglio saperlo!"

CENERE

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Deledda, Grazia 3 occorrenze

Nonna mia; credete che io abbia paura? Andiamo!» «Bene, andiamo ... Aspetta!», disse la vecchia, e lo precedette su per la scaletta di legno: la sua ombra deforme tremolò sul muro, allungandosi fino al tetto. Davanti all'uscio della cameretta ove giaceva la morta, zia Grathia si fermò esitando, e strinse nuovamente il braccio di Anania; egli si accorse che la vecchia tremava, e, non seppe perché, anch'egli sentì un brivido. «Figlio», disse zia Grathia a bassa voce, quasi in segreto, «non spaventarti.» Egli impallidì; il pensiero che da qualche momento lo tormentava, deforme e mostruoso come le ombre tremolanti sui muri, prese forma e gli riempì l'anima di terrore. «Che è?», gridò, indovinando intera l'orrenda verità. «Sia fatta la volontà del Signore ... » «Si è uccisa?» «Sì ... » «Oh, Dio! Oh, che orrore!» Egli gridò due volte, e gli parve che i capelli gli si rizzassero sul capo, e sentì la sua voce risonare nel lugubre silenzio della casetta. Ma subito si dominò, e spinse l'uscio. Sul lettuccio, dove egli aveva dormito, vide il cadavere di Olì, delineato dal lenzuolo che lo copriva; per le imposte aperte entrava l'aria fresca della sera, e la fiammella di un cero, che ardeva accanto al letto, pareva volesse volar via, fuggirsene per la notte fragrante. Anania s'avvicinò subito al letto, e cautamente, quasi temendo di svegliarlo, scoprì il cadavere. Una benda coperta di macchie già secche di sangue nerastro fasciava il collo, passava sotto il mento e sulle orecchie e si annodava tra i folti capelli neri della morta; in questo cerchio tragico il viso di lei si disegnava grigiastro, con la bocca ancora contorta per lo spasimo: attraverso le grandi palpebre socchiuse si scorgeva la linea vitrea degli occhi. Anania capì subito che Olì s'era recisa la carotide. Colpito sinistramente dalle macchie di sangue, ricoprì il viso della morta, lasciando solo scoperti i capelli che si aggrovigliavano sull'alto del guanciale: i suoi occhi s'erano riempiti di terrore, la sua bocca si contorse alquanto, quasi imitando la contrazione spasmodica della bocca di Olì. «Dio! Dio! Che orrore, che orrore!», egli disse, intrecciando disperatamente le dita e scuotendo le mani. «Il sangue! Ha sparso il sangue! Ma come ha fatto, dunque, come ha potuto? Ma come ha fatto? Ma si è dunque tagliata la gola? Che orrore! Che errore fu il mio! Dio! Dio! ... No, zia Grathia, non chiudete ... io soffoco. Sono stato io a dirle di uccidersi ... Ah! ah! ah!» Egli singhiozzò, senza lacrime, soffocato da un impeto di rimorso e di orrore. «Ella è morta disperata», disse poi, «ed io non le ho detto una sola parola di conforto. Dopo tutto ella era mia madre, ed ha sofferto nel mettermi al mondo. Ed io ... l'ho uccisa ... ed io vivo!» Mai, come in quel momento, davanti al terribile mistero della morte, egli aveva sentito tutta la grandezza ed il valore della vita. Vivere! Non bastava soltanto vivere, muoversi, sentire la brezza profumata mormorare nella notte serena, per essere felici? La vita! La cosa più bella e più sublime che una volontà eterna ed infinita abbia potuto creare! Ed egli viveva; ed egli doveva la vita alla misera creatura che ora gli stava davanti immobile e priva di questo sommo bene. Perché egli non aveva mai pensato a questo? Ah, egli non aveva mai capito il valore della vita, perché non aveva mai veduto da vicino l'orrore e il vuoto della morte. Ed ecco ella, ella sola s'era riserbata il compito di rivelargli col dolore della sua morte, la gloria suprema di vivere: ella, a prezzo della sua propria vita, lo faceva nascere una seconda volta, e questa nuova vita era incommensurabilmente più grande della prima. Come un velo gli cadde dagli occhi; egli vide tutta la meschinità delle sue passioni, dei suoi odi e dei suoi dolori passati. Egli aveva sofferto perché sua madre aveva peccato, perché lo aveva abbandonato ed era vissuta nella colpa! Sciocco! Che importava tutto ciò? Che importavano queste sfumature nel quadro grandioso della vita? Non bastava che Olì lo avesse fatto nascere, perché ella rappresentasse per lui la più meritevole delle creature, la madre, ed egli dovesse amarla ed esserle riconoscente? Egli singhiozzò ancora: ma attraverso la sua angoscia sentiva sempre più intensa la gioia di vivere. Sì, egli soffriva: dunque viveva. La vedova gli si avvicino, prese fra le sue le mani di lui, strette convulsivamente, lo confortò, gli fece coraggio, poi lo supplicò d'allontanarsi. «Andiamo giù, figlio, andiamo. No, non tormentarti: ella è morta perché doveva morire. Tu hai fatto il tuo dovere, ed essa ... forse anch'essa fece il suo, sebbene il Signore ci abbia dato la vita per penitenza, imponendoci di vivere ... Andiamo giù.» «Era giovane ancora!», disse Anania, calmandosi alquanto e fissando i capelli neri della morta. «No, non ho paura, zia Grathia, aspettate, restate un momento. Quanti anni aveva? Trentotto? Ditemi», chiese poi, «a che ora è morta? Come ha fatto? Raccontatemi tutto. È stato qui il pretore?». «Andiamo; ti dirò tutto, vieni», ripeteva zia Grathia, dirigendosi verso l'uscio. Ma egli non si mosse: guardava sempre i capelli della morta, meravigliandosi che fossero così neri ed abbondanti, ed avrebbe voluto ricoprirli col lenzuolo, ma provava una strana paura ad avvicinarsi nuovamente al cadavere. La vedova tornò presso il letto, ricoprì i capelli, e preso Anania per la mano lo trascinò fuori. Egli si voltò per guardare il tavolinetto appoggiato al muro, ai piedi del letto; poi, quando furono usciti, si mise a sedere su un gradino della scala. La vedova depose il lume per terra, sedette anch'essa sulla scaletta, e cominciò a narrare una lunga storia, della quale Anania serbò sempre nella memoria questi tristi frammenti: «Ella diceva sempre, sempre: "Oh, me ne andrò, vedrete, me ne andrò, anche se egli non vuole. Gli feci abbastanza del male, zia Grathia mia: ora bisogna che lo liberi di me, in modo che egli non senta più il mio nome. Lo abbandonerò una seconda volta, ora che non vorrei lasciarlo più ... lo abbandonerò nuovamente per espiare la colpa del primo abbandono ... "». «Ella fece arrotare il coltello a serramanico, che teneva sempre con sé ... » « ... Quando ricevemmo il sacchettino entro il fazzoletto colorato, ella diventò livida; poi squarciò un po' il sacchettino e pianse ... » « ... Sì, ella s'è tagliata la gola. Sì, stamattina alle sei, mentre io ero alla fontana. Quando rientrai la trovai in un lago di sangue: era ancora viva, con gli occhi spalancati orribilmente ... » « ... Tutta la giustizia, - il brigadiere, il pretore, il cancelliere, - invase la casa. Ah, pareva l'inferno! Il popolo s'affollò nella strada, le donne piangevano come bambine. Il pretore sequestrò il coltello, mi guardò con occhi terribili, mi chiese se tu avevi minacciato tua madre. Poi vidi che anch'egli aveva le lagrime agli occhi ... » «Ella visse fin quasi a mezzogiorno; agonia per tutti. Figlio, tu sai se nella mia vita io vidi cose terribili; ma nessuna come questa. No, non si muore di dolore e di pietà, poiché io oggi non sono morta. Ah, perché siamo nati?» ella concluse, piangendo. Anania provò un indicibile turbamento nel veder piangere quella donna strana, che il dolore pareva avesse da lungo tempo pietrificato; ma egli, egli che la notte prima aveva pianto d'amore fra le braccia di Margherita, egli non poté piangere di rimorso e d'angoscia: solo qualche singhiozzo convulso gli stringeva ogni tanto la gola. Si alzò e pregò la vedova di lasciarlo rientrare un momento nella camera. «Voglio vedere una cosa ... » disse, con voce tremula da bambino. La vedova riprese il lume, riaperse l'uscio, lasciò passare Anania, e attese: così triste e nera, con quell'antica lucerna di ferro in mano, ella pareva la figura della Morte in attesa vigilante. Anania si avvicinò in punta di piedi al tavolinetto, sul quale aveva notato il suo sacchettino, squarciato, deposto su un piatto di vetro. Prima di toccarlo lo guardò quasi con diffidenza, poi lo prese e lo vuotò. Ne uscì fuori una pietruzza gialla, e cenere, cenere annerita dal tempo. Cenere! Anania palpò a lungo, con tutte e due le mani, quella cenere nera che forse era l'avanzo di qualche ricordo d'amore di sua madre; quella cenere che aveva posato lungamente sul suo petto, sentendone i palpiti più profondi. E in quell'ora memoranda della sua vita, della quale capiva di non sentire ancora tutta la solenne significazione, quel mucchiettino di cenere gli parve un simbolo del destino. Sì, tutto era cenere: la vita, la morte, l'uomo; il destino stesso che la produceva. Eppure, in quell'ora suprema, vigilato dalla figura della vecchia fatale che sembrava la Morte in attesa, e davanti alla spoglia della più misera delle creature umane, che dopo aver fatto e sofferto il male in tutte le sue manifestazioni era morta per il bene altrui, egli ricordò che fra la cenere cova spesso la scintilla, seme della fiamma luminosa e purificatrice, e sperò, e amò ancora la vita.

Pare che abbia paura di arrivare; e giunta al fatale limite, davanti al portone chiuso, silenzioso e scuro come la porta del destino, esita un momento, si accomoda gli anelli, il nastro del grembiule, la cintura; cinge il mento col lembo della benda, e infine si decide e batte al portone ... » Parve ad Anania che quel colpo si ripercotesse sul suo petto. Balzò in piedi, sollevò la candela e si guardò nello specchio. «L'ho detto io! Sono pallido. Guarda che stupido! Ebbene, non voglio pensarci più ... » S'affacciò alla finestra. Nel cortile chiuso, illuminato dall'ultimo barlume del giorno, il sambuco immobile disegnava una macchia scura. Silenzio perfetto. Le galline dormivano già, ed anche il porchetto dormiva. Le stelle scaturivano, scintille d'oro, fra la cenere azzurrognola del caldo crepuscolo. Al di là del cortile, nella straducola, passava un piccolo mandriano a cavallo, cantando in dialetto: Inoche mi fachet die Cantende a parma dorata ... Anania pensò alla sua infanzia, alla vedova, a Zuanne. Che faceva il fraticello sul suo alto convento? «E dire che voleva diventare un bandito! Sarei curioso di vederlo! Lo vedrò. Entro questo mese mi recherò certamente a Fonni.» Ah! D'un colpo il suo pensiero tornò là, dove si decideva il suo destino. «La vecchia colomba è nello studio semplice e ordinato del signor Carboni. Ecco, quella è la scrivania dove una sera lo studente ha frugato e ... Oh, Dio, è mai possibile che egli abbia commesso una così vile azione? Sì, quando si è ragazzi non sì è coscienti; tutto è facile, tutto è possibile. Come siamo pazzi, da fanciulli! Potremmo anche commettere un delitto con la massima incoscienza! Basta; zia Tatàna è là. Ed anche il signor Carboni è là, grasso, tranquillo, con la catena d'oro scintillante attraverso il petto.» «Ma che cosa dunque dice quella vecchietta?», pensò Anania, sorridendo nervosamente. «Sarei curioso di vedere come se la cava. S'io potessi esser là, non veduto! Se avessi l'anello che rende invisibili; ecco, lo infilerei al dito e ... via ... subito là ... Ma se il portone fosse chiuso, come farei? Ebbene, picchierei, diamine! Mariedda aprirebbe, stizzita contro i ragazzi che picchiano al portone e scappano. Io ... Ma come sono pazzo a pensar queste cose puerili! Uff! non voglio pensarci più! ... » Si tolse dalla finestra, prese la candela, scese in cucina, andò a sedersi davanti al focolare acceso. Ma d'un tratto ricordò che era d'estate e si mise a ridere: poi guardò a lungo il gattino rosso che stava davanti al forno, immobile e pronto, coi baffi irti e la coda tesa, aspettando il passaggio di un topo. «No», disse Anania, pensando allo strazio del topolino, «per stasera non te lo lascio prendere: neppure un topolino, deve stasera soffrire in questa casa. Usciu, usssciuu!», gridò balzando in piedi e correndo verso il gattino che vibrò tutto e saltò sopra il forno. Sempre agitato da una inquietudine nervosa, Anania si mise a camminare su e giù per la cucina; di tanto in tanto palpava i sacchi ricolmi d'orzo e mormorava: «Mio padre non è poi tanto povero; egli è un mezzadro del signor Carboni, non il suo servo. No, egli non è povero; ma non potrebbe certo restituire quello ... che spendo io, se non avvenisse ciò che ... deve avvenire. Ma avverrà poi? Che cosa si combina in questo momento? Ecco, zia Tatàna ha parlato ... Che ha detto? Ah, no, no, no, non bisogna neppure pensarci ... Bisogna piuttosto pensare alla risposta che darà, che dà, il benefattore ... Che dirà egli, l'uomo più leale del mondo, sapendo che il suo protetto ha osato tradire così la sua buona fede? Ecco, egli cammina pensieroso attraverso la stanza: zia Tatàna lo guarda, pallida, oppressa ... ». «Dio, Dio, che accade mai?», gemé Anania, stringendosi il capo fra le mani. Gli pareva di soffocare; uscì nel cortile, si sporse sul muricciuolo di cinta, attese, ascoltò ... Niente, niente. Solo, dopo un quarto d'ora circa, due voci risuonarono dietro il muricciuolo; poi una terza, una quarta: erano i vicini che si riunivano così ogni notte davanti alla bottega di maestro Pane, per godersi il fresco e chiacchierare. «Nostra Signora mia», diceva la voce stridula di Rebecca, «ho visto cinque stelle cadere sul cielo. Ah, ciò non è invano ... Deve succedere qualche disastro ... » «Che tu stii per mettere al mondo l'anticristo?», chiese la voce ironica di un contadino. «Dicono che deve nascere da un animale.» «L'anticristo lo metterà al mondo tua moglie, animale schifoso!», rispose adirata la ragazza. «Prenditi questa, garofano!», disse la bella Agata che mangiava rideva e parlava nello stesso tempo. Il contadino cominciò a dire parole insolenti; il vecchio falegname s'irritò e gridò: «Se non la finisci ti butto un sasso, faina pelata». Ma il contadino proseguì nella sua bella impresa: allora le donne si allontanarono e andarono a sedersi sotto il muricciuolo del cortile, e zia Sorichedda - una vecchietta che quaranta anni prima era stata serva in casa dell'Intendente, - cominciò a raccontare per la millesima volta la storia della sua padrona. «Era una marchesa. Suo padre era amico intimo del re di Spagna, e le aveva dato in dote mille scudi in oro. Quanto fanno mille scudi?» «E cosa sono mille scudi?», disse Agata con disprezzo. «Margherita Carboni ne ha quattro mila ... » «No», osservò Rebecca, «altro che quattro mila! Quaranta mila». «Voi non sapete quel che dite!», gridò zia Sorichedda. «Mille scudi in oro non li possiede neppure don Franceschino.» «E andate! Siete rimbambita!», gridò Agata, accalorandosi. «Che cosa contano mille scudi? Se li ha Franziscu Carchide in suole di scarpe!» La questione diventò seria; le donne cominciarono a ingiuriarsi: «Lo sai tu perché vanti il tuo Franziscu Carchide, questa immondezza rifatta! ... ». «Immondezza siete voi, vecchia peccatrice.» «Ah!» Foglia di gelso, Chi la fa la pensa ... Anania ascoltava, e ad un tratto, nonostante l'inquietudine che lo agitava, scoppiò a ridere. «Oh», gridò Agata, affacciandosi al muricciuolo, «buona notte alla Vossignoria. Che cosa fai lì al buio, pipistrello? Fa vedere il tuo bel viso». «Prego!» egli rispose, avvicinandosi e pizzicandola al braccio, mentre Rebecca, che all'udire la risata del giovane s'era accoccolata per terra, quasi volendo nascondersi, pizzicava Agata alla gamba. «Al diavolo chi vi ha formati!», imprecò la bella ragazza. «Questo è un po' troppo! Lasciatemi o ... svelo!» Ma i due la pizzicarono più forte. «Ahi! ahi! Al diavolo! Rebecca, è inutile che tu faccia la gelosa ... ahi! zia Tatàna stasera ... è andata a chiedere ... parlo o no? Ah! ... » Anania si ritrasse, chiedendosi come mai la indiavolata Agata sapeva ... «Cuoricino mio, un'altra volta rispetta zia Agata!», ella disse sogghignando, mentre Rebecca, che aveva capito, taceva, impietrita, e zia Sorichedda domandava: «Fammi il piacere, Nania Atonzu, dimmi, chi a Nuoro può avere mille scudi in oro?». Anche il contadino s'avvicinò e chiese: «Dimmi, Nania, è vero che il papa ha settantasette donne ai suoi comandi? ... ». Anania non rispose, forse non intese neppure: vedeva una figura avanzarsi dal fondo della straducola e si sentiva venir meno. Era lei, la vecchia colomba messaggera, era lei che tornava portando fra le pure labbra, come un fiore di vita o di morte, la parola fatale. Egli si ritirò e chiuse la porticina che dava sul cortile, mentre zia Tatàna rientrava dall'altra parte e chiudeva la porta di strada. Ella sospirava ed era ancora un po' pallida e oppressa; s'avvicinò al focolare, e i suoi primitivi gioielli, i suoi ricami, la cintura, gli anelli, scintillarono al riflesso del fuoco. Anania le corse incontro e la guardò ansioso, e siccome ella taceva le domandò con impazienza: «Che cosa vi hanno detto?». «Pazienza, figlio del Signore! Ora ti dirò ... » «No, Dite subito. Mi vogliono?» «Sì! Ti vogliono, sì, ti vogliono!», annunziò la vecchia, aprendo le braccia. Egli sedette, sbalordito, e si prese la testa fra le mani: zia Tatàna lo guardò e scosse la testa, mentre con le mani un po' tremule si slacciava la cintura. «Mi vogliono! Mi vogliono! È mai possibile?», ripeteva fra sé Anania. Davanti al forno il gattino aspetta ancora il passaggio del topo, e deve già sentire qualche rumore perché la sua coda freme: infatti, dopo un momento, Anania sente uno stridio, un piccolo grido di morte. Ma adesso la sua felicità è così completa che egli non ricorda più che nel mondo esiste il dolore. La relazione particolareggiata di zia Tatàna gettò un po' d'acqua fredda su quel grande incendio di gioia. La famiglia di Margherita non si opponeva all'amore dei due giovani, ma, naturalmente, non dava ancora un consentimento pieno, irrevocabile. Il «padrino» aveva sorriso, aveva battuto le mani e scosso la testa come per dire: «me l'hanno fatta quei due!». Aveva anche detto: «Fanno presto a metter le ali questi ragazzi!», ma poi era diventato serio e pensieroso. «Ma, infine, che avete concluso?», gridò Anania, facendosi anch'egli serio e pensieroso. «Che bisogna aspettare, Santa Caterina bella! Non hai ancora capito? Ma la padrona disse: "Bisognerebbe interrogare anche Margherita". "Eh, credo proprio che non occorra", rispose il padrino, battendo le mani. Io sorrisi.» Anche Anania sorrise. «Abbiamo dunque concluso ... Va via, gatto!», gridò zia Tatàna, tirando il lembo della tunica, sul quale il gattino s'era comodamente adagiato leccandosi i baffi con orribile soddisfazione. «Abbiamo concluso che bisogna aspettare. Il padrone mi disse: "Che il `fanciullo' pensi a studiare ed a farsi onore. Quando egli avrà un posto onorevole noi gli daremo la nostra figliuola: intanto si amino pure, e che Dio li benedica". Ecco, tu ora cenerai, spero!» «Ma, infine, posso presentarmi in casa loro come fidanzato?» «Per adesso no: per quest'anno no! Tu corri troppo, galanu meu! La gente direbbe che il signor Carboni è rimbambito, se permettesse una tal cosa: bisogna che tu prenda la laurea, prima ... » «Ah», gridò Anania, adirandosi, «è dunque meglio ... » Stava per dire: «è dunque meglio che ci vediamo di notte, di nascosto, per non urtare la falsa suscettibilità della gente?»; ma subito pensò che vedersi di notte, di nascosto da soli, era forse meglio che vedersi di giorno e alla presenza dei genitori, e si calmò completamente. Peggio per loro, dunque! Per consolarsi ricominciò le visite la notte stessa: la fantesca, appena socchiuse il portone gli augurò la «buona fortuna» come se le nozze fossero già celebrate, ed egli le diede la mancia e attese trepidando la sposa. Essa venne, cauta e silenziosa, profumata d'ireos, con un abito chiaro biancheggiante nella notte diafana. Si abbracciarono a lungo, silenziosi, vibrando assieme, ebbri di gioia: il mondo era loro. Per la prima volta Margherita, ormai sicura di potersi abbandonare senza paure né rimorsi all'amore del bel giovane che impazziva per lei, si mostrò appassionata e ardente, quale Anania non osava sognarla: ed egli uscì dal convegno barcollando, cieco, fuori di sé. La notte appresso, il convegno fu ancora più lungo, più delirante. La terza notte la serva, che vigilava nella cucina, forse stanca di vegliare, fece il segno convenuto in caso di sorpresa e gl'innamorati si lasciarono alquanto spaventati. L'indomani Margherita scrisse: «Ho paura che ieri notte il babbo si sia accorto di qualche cosa. Badiamo di non comprometterci, ora appunto che siamo tanto felici: è bene, quindi, che per qualche giorno non ci vediamo. Abbi pazienza, e sii anzi coraggioso come lo sono io, che faccio un enorme sacrifizio rinunziando, per qualche tempo, alla immensa felicità di vederti: mi pare di morire, perché ti amo ardentemente, perché mi sembra di non poter più vivere senza i tuoi baci, ecc., ecc.». Egli rispose: «Adorata mia, tu hai ragione: tu sei una santa, per bontà e per saviezza, mentre io non sono che un pazzo, pazzo d'amore per te. Non so, non vedo più quel che faccio. Ieri notte potevo compromettere tutto il nostro avvenire e non me ne accorgevo neppure. Perdonami: quando sono vicino a te perdo la ragione. Ho la febbre; mi consumo tutto, mi pare che entro di me arda un fuoco distruttore. Rinunzio con spasimo alla suprema felicità di vederti per qualche sera; e siccome ho bisogno di moto, di svago, di un po' di lontananza, per attutire alquanto questo fuoco che mi divora e mi rende incosciente e malato, penso di fare un'escursione sul Gennargentu. Tu vuoi, non è vero? Rispondimi subito, cara, adorata, mio spasimo e mia gioia. Ti porterò sul cuore: dalla più alta cima sarda ti manderò un saluto, griderò ai cieli il tuo nome e il mio amore, come vorrei gridarlo dalla più eccelsa cima del mondo affinché tutta la terra ne restasse attonita. Ti abbraccio, ti porto con me, unita a me, per tutta l'eternità». Margherita diede graziosamente il suo permesso. Altra lettera di Anania: «Parto domani mattina con la corriera per Mamojada-Fonni. Passerò sotto la tua finestra alle nove. Vorrei vederti stanotte ... ma voglio essere prudente. Vieni, vieni con me, Margherita, adorata mia, non lasciarmi un solo istante, vieni qui, sul mio cuore, ardi del mio fuoco d'amore, fammi morire di passione».

Ella non sa neppure che io abbia supposto ... Ah, dunque non è lei?», aggiunse a bassa voce, con meraviglia, come se fino a quel momento fosse stato certo che Maria Obinu era sua madre. «Ma parlate dunque!», esclamò poi. «Perché mi tenete così sulla corda? Perché non mi avete parlato ancora di lei? Dov'è? dov'è?» «Ma se non ha mai lasciato la Sardegna!», disse la vedova, camminandogli sempre a fianco. «In verità, io credevo che tu lo sapessi. Io l'ho riveduta quest'anno, ai primi di maggio; ella venne a Fonni per la festa dei Santi Martiri, e conduceva un cantastorie, un giovine cieco suo amante. Essi erano venuti a piedi da un villaggio lontano, da Neoneli; ella soffriva le febbri di malaria, e sembrava una vecchia di sessanta anni. Terminate le feste, il cieco, che aveva guadagnato assai, abbandonò Olì per seguire una comitiva di mendicanti diretti ad un'altra festa campestre. So che ella, in giugno e luglio, fece la mietitrice nelle tancas di Mamojada. La febbre la distruggeva: stette lungamente malata nella cantoniera e ci sta ancora ... » Anania si fermò, sollevò il viso e aprì le braccia con atto disperato. «Ed io ... io ... l'ho ... vista!», gridò. «Io l'ho vista! L'ho vista! ... Siete certa di quanto mi dite?», chiese poi fissando la vedova. «Certissima: perché dovrei ingannarti?» «Ditemi», egli insisté, «ma c'è davvero? Io vidi alla finestra una donna febbricitante, gialla, terrea, con due occhi da gatto ... Era lei? Ne siete certa?» «Certissima, ti dico. Era lei certamente.» «Ed io ... io l'ho vista!», egli ripeté, e si strinse il capo fra le mani, torcendoselo, preso da una collera violenta contro se stesso che si era così lungamente, così stupidamente ingannato; che aveva cercato sua madre al di là dei monti e dei mari, mentre ella trascinava la sua miseria e il suo disonore attraverso l'isola natìa; che si era commosso davanti a tanti volti stranieri e non aveva sentito un palpito nello scorgere il volto della mendicante, della miseria viva, di sua madre, incorniciato dalla finestruola tetra della cantoniera. Che cosa dunque era l'uomo? E il cuore umano? E la vita, l'intelligenza, il pensiero? Ah, sì, ora che queste domande gli salivano non più oziosamente alle labbra, ora che la realtà batteva intorno a lui le sue ali funebri e squarciava i vapori dell'illusione, ora egli rispondeva alle sue domande e sapeva che cosa era l'uomo, il suo cuore, la sua vita: inganno, inganno, inganno. A un tratto zia Grathia lo prese per un braccio e lo costrinse a sedersi: poi gli si accoccolò davanti, gli strinse una mano, e lo guardò di sotto in su, lungamente, pietosamente. «Bambino mio», gli disse, «piangi, piangi. Ti farà bene. Come sei freddo!». Anania strappò la mano dal morso duro delle mani della vedova. «Ma per chi mi prendete?» domandò offeso. «Non sono un ragazzino, io! Perché devo piangere?» «Eppure ti farebbe bene, figlio! Ah, sì, io so quanto fa bene piangere! Quanto fu picchiato alla mia porta, una notte, ed una voce che pareva quella della Morte mi disse: "Donna, non aspettare più!" io diventai di pietra. Per ore ed ore non potei piangere; e furono le ore più terribili per me: mi pareva che il cuore, dentro il petto, fosse diventato di ferro rovente, e mi bruciasse, mi bruciasse le viscere, mi lacerasse il petto con la sua punta acuta. Ma poi il Signore mi concedé le lagrime, ed esse rinfrescarono il mio dolore come la rugiada rinfresca le pietre arse dal sole. Figlio, abbi pazienza! Siamo nati per soffrire: e cosa è mai questo tuo dispiacere in confronto di tanti altri dolori?». «Ma io non soffro!», egli protestò. «Dovevo aspettarmelo, questo colpo; me lo aspettavo anzi, vedete! Sono stato spinto a venir qui quasi da una forza misteriosa; una voce mi diceva: va, va, là saprai qualche cosa! Certo, ho provato un colpo ... un po' di sorpresa ... ma adesso è passato: non datevi pena.» Ma la vedova lo fissava, lo vedeva livido in viso, con le labbra pallide contratte, e scuoteva il capo. Egli prosegui: «Ma perché nessuno mi ha detto mai nulla? Eppure qualche cosa dovevano sapere. Il carrozziere, per esempio, possibile che non sapesse nulla?». «Forse. Ella sola poteva farti sapere qualche cosa; ma no, essa ha paura di te. Quando venne qui, per la festa, con quel miserabile cieco che si fece condurre da lei e poi la abbandonò, nessuno qui la riconobbe, tanto sembrava vecchia, piena di stracci, istupidita dalla miseria e dalla febbre. Del resto, neppure tu l'hai riconosciuta. Il cieco la chiamava con un brutto nomignolo: soltanto a me ella confidò il suo vero essere, mi raccontò la sua triste storia e mi scongiurò di non farti mai saper nulla di lei. Essa ha paura di te.» «Perché ha paura?» «Ha paura che tu la faccia mettere in prigione perché ti ha abbandonato. Ha anche paura dei suoi fratelli che sono cantonieri della ferrovia ad Iglesias.» «E suo padre?», domandò Anania, che non aveva mai pensato a questi suoi parenti. «Oh! è morto da tanti anni, morto maledicendola. E Olì crede sia stata questa maledizione a perseguitarla.» «Sì! È lei che è pazza! Ma che ha ella fatto durante tutti questi anni? Come ha vissuto? Perché non ha lavorato?» Egli sembrava di nuovo calmo, e faceva le sue domande senza curiosità, pensando alle conseguenze di questo disastroso avvenimento. Ma quando la vedova sollevò un dito e disse solennemente: «Tutto sta nelle mani di Dio! Figlio, c'è un filo terribile che ci tira e ci tira ... Forse che mio marito non avrebbe voluto lavorare, e morire sul suo letto, benedetto dal Signore? Eppure! ... Così di tua madre! Ella certo avrebbe voluto lavorare e vivere onestamente ... Ma il filo l'ha tirata ... », egli s'accese in volto, e di nuovo contorse le dita e si sentì soffocare da un impeto di vergogna e di spasimo. «Tutto ... tutto è finito per me, dunque!», singhiozzò. «Che orrore, che orrore! Che miseria, che onta! Ma raccontatemi, dunque, ditemi tutto. Come ha vissuto? ... Voglio sapere tutto ... tutto ... tutto, capite! voglio morire di vergogna, prima ancora che ... Basta!», disse poi scuotendo la testa, come per scacciare via da sé ogni turbamento. «Raccontatemi.» Zia Grathia lo guardava con infinita pietà: avrebbe voluto prenderselo sulle ginocchia, cullarlo, cantargli una nenia infantile, calmarlo, addormentarlo; ed invece lo torturava. Ma ... sia fatta la volontà del Signore: siamo nati per soffrire, e non si muore di dolore! Tuttavia la vedova cercò di raddolcire alquanto il calice amaro che Dio porgeva per le sue mani al disgraziato fanciullo. Disse: «Io non so raccontarti precisamente come ella visse e ciò che fece. So che ella, dopo averti lasciato, e fece benissimo, perché altrimenti tu non avresti avuto mai un padre e non saresti stato fortunato come lo sei ... ». «Zia Grathia! Non fatemi arrabbiare! ... », egli interruppe impetuosamente. «Tranquillità! Pazienza!», gridò la donna. «Non disconoscere la bontà del Signore, ragazzo mio! Se tu fossi rimasto qui, che avresti fatto? Forse avresti finito vilmente col farti anche tu frate ... frate mendicante ... frate poltrone! ... Basta, non parliamone più! Meglio morire che finire così! E tua madre avrebbe seguìto egualmente la sua via, perché quello era il suo destino. Anche qui, prima di partire, credi tu ch'ella menasse una vita santa? Ebbene, no: era questo il suo destino. Ella aveva qui, negli ultimi tempi, un amante carabiniere che fu trasferito a Nuraminis pochi giorni prima della vostra fuga. Dopo che ti ebbe abbandonato, almeno così la disgraziata mi raccontò, ella partì per Nuraminis, a piedi, nascondendosi di giorno, camminando di notte, attraversando metà della Sardegna. Raggiunse il carabiniere e la loro relazione continuò per qualche mese; egli aveva promesso di sposarla, ma invece si stancò presto di lei, la maltrattò, la percosse, poi l'abbandonò. Ella seguì la sua fatale via. Mi disse, - e piangeva, poveretta, piangeva da commuovere le pietre, - che cercò sempre del lavoro, ma che non poté trovarne mai. È il destino, te lo dissi! Il destino che priva del lavoro certi esseri disgraziati, come ne priva altri della ragione, della salute, della bontà. L'uomo e la donna inutilmente si ribellano. No, avanti, morite, crepate, ma seguite il filo che vi tira! Basta, ultimamente però ella si era emendata: s'era unita con un cieco cantastorie e vivevano da due anni come marito e moglie: ella lo conduceva per i paesi, per le feste campestri, da un luogo all'altro; camminavano quasi sempre a piedi, qualche volta soli, qualche volta in compagnia di altri mendicanti girovaghi. Il cieco cantava certe poesie che egli stesso componeva: aveva una bellissima voce. Qui, mi ricordo, cantò la Morte del re, una poesia che faceva piangere la gente. Il Municipio gli diede venti lire, il Rettore lo invitò a pranzo. Raccolse, in tre giorni che stette qui, più di venti scudi. Ed era un'immondezza! Anche lui prometteva di sposare la disgraziata; invece, quando la vide ammalata, che non poteva trascinarsi oltre, la piantò, per paura che lo costringessero a spendere per curarla. Di qui partirono assieme; andarono alla festa di Sant'Elia; là il cieco schifoso incontrò una compagnia di mendicanti campidanesi che dovevano recarsi ad una festa campestre nella Gallura, e andò via con loro, mentre la disgraziata moriva di febbre in una capanna di pastori. Dopo, come ti dissi, sentendosi meglio, ella vagò di qua e di là, mietendo, raccogliendo spighe, finché la febbre l'atterrò del tutto. L'altro giorno, però, mi mandò a dire che stava meglio ... » Un fremito, invano represso, percorreva tutte le membra di Anania. Quanta miseria, quanta vergogna, quanto dolore, e che iniquità divina ed umana nel racconto della vedova! Nessuno dei sanguinosi e tristi racconti ch'egli aveva sentito narrare nella sua infanzia dalla strana donna, gli era mai parso più spaventoso di questo: nessuno lo aveva mai fatto tremare come questo. Ad un tratto ricordò il pensiero balenatogli una volta in mente, in una dolce sera lontana, nel silenzio della pineta interrotto appena dal canto del galeotto pastore. «È stata anche in carcere?», domandò. «Sì, credo, una volta. Furon trovati in casa sua certi oggetti, che un suo amico aveva preso da una chiesa campestre; ma fu rilasciata perché provò di non sapere neppure di che si trattasse ... » «Voi mentite!», disse Anania con voce cupa. «Perché non dite tutta la verità? Essa è stata anche ladra ... ebbene, perché non dirlo! Credete che mi importi niente? Proprio niente, vedete, neppure così», aggiunse, mostrandole la punta del mignolo. «Che unghie, Signore!», osservò la vecchia. «Perché ti lasci crescere così le unghie?» Egli non rispose, ma balzò in piedi e camminò su e giù, furioso, mugolando come un toro. La vedova non si mosse, ed egli, dopo pochi istanti, tornò a calmarsi, e fermandosi davanti alla donna chiese con voce dolente ma rassegnata: «Ma perché son nato io? Perché mi hanno fatto nascere? Vedete, io ora sono un uomo rovinato: tutta la mia vita è distrutta. Non potrò proseguire gli studi, e la donna che dovevo sposare, e senza la quale non potrò più vivere, ora mi lascerà ... cioè devo lasciarla io». «Ma perché? Non sa chi sei tu?» «Sì, lo sa, ma crede che quella donna sia morta o così lontana da non udirne più neanche il nome. Ed ora invece ecco che essa ritorna! Come volete voi che una fanciulla pura e delicata possa vivere vicino ad una donna infame?» «Ma che cosa vuoi fare? Non hai tu stesso detto che non ti importa nulla di lei?» «E voi che cosa mi consigliate?» «Io? Che cosa ti consiglio? Di lasciarle proseguire la sua via», rispose ferocemente la vedova: «non ti ha abbandonato lei? Se tu lo vorrai, la tua sposa non incontrerà mai la disgraziata, e tu stesso non la vedrai mai più ... ». Anania la guardò, a sua volta pietoso ma anche sprezzante. «Voi non capite, non potete capire!» disse. «Lasciamo andare; ora bisogna pensare al modo di vederla; bisogna ch'io vada là domani mattina.» «Tu sei matto ... » «Voi non capite ... » Si guardarono; entrambi reciprocamente sdegnati e pietosi. Allora cominciarono a discutere e quasi a litigare. Anania voleva partire subito, o al più tardi la mattina dopo; la vedova proponeva di far venire Olì a Fonni senza dirle il perché. «Giacché ti ostini! Ma va là! io la lascerei tranquilla; come ha camminato sinora camminerà d'ora in avanti ... Lasciala stare ... Mandale qualche soccorso ... » «Nonna, pare che anche voi abbiate paura. Quanto siete semplice! Io non le torcerò un capello; io la prenderò con me; ella vivrà con me ed io lavorerò per lei: le voglio fare del bene, non del male, perché tale è il mio dovere ... » «Sì, questo è il tuo dovere; ma d'altronde, figlio, pensa, rifletti. Come vivrete voi? Come camperete?» «Non pensateci!» «Come, come farete?» «Non pensateci!» «Bene, allora! Ma ti ripeto che essa ha una folle paura di te, e se tu vai ad affrontarla così, improvvisamente, è capace di commettere qualche pazzia.» «Ed allora facciamola venir qui: ma subito, domani mattina.» «Sì, subito, sulle ali d'un corvo! Come sei impaziente, figlio delle mie viscere! Va e riposati, adesso, e non pensare a niente. Domani notte a quest'ora ella sarà qui, non dubitare. Dopo, tu farai quel che vorrai. Domani tu salirai sul Gennargentu: io direi anzi di rimanerci fino a posdomani ... » «Vedrò io!» «Ora va ... va a riposarti», ella ripeté, dolcemente spingendolo. Anche nella stanzetta ove egli aveva dormito con sua madre nulla era cambiato; vedendo il misero giaciglio, sotto cui c'era un mucchio di patate ancora odoranti di terra, egli ricordò il lettino di Maria Obinu e le illusioni ed i sogni che lo avevano per tanto tempo perseguitato. «Come ero bambino!», pensò amaramente. «E dicevo di esser uomo! Ah, soltanto adesso sono uomo! Ah, soltanto ora la vita mi ha spalancato le sue orribili porte! Sì, sono un uomo, ora, e voglio essere un uomo forte! No, vile vita, tu non mi vincerai; no, mostro, tu non mi abbatterai! Tu mi perseguiti, tu mi hai finora combattuto a viso coperto, vigliacca, miserabile, e solo oggi, in questo giorno lungo come un secolo, solo oggi hai svelato il tuo volto orrendo! Ma non mi vincerai, no, non mi vincerai!» Aprì le imposte tentennanti che davano su un balcone di legno, del quale rimanevano appena i sostegni; si afferrò a questi e si sporse fuori. La notte era limpidissima, fresca, chiara e diafana come sono in montagna le notti sul finir dell'estate. Nel silenzio indicibile che regnava, la visione delle montagne vicine e le linee vaghe delle montagne lontane sembravano più solenni e grandiose. Ad Anania, che vedeva quasi ai suoi piedi le valli profonde, pareva di star sospeso sopra un abisso: e mentre le linee delle montagne lontane gli destavano in cuore una dolcezza strana, e gli davan l'idea di versi immensi scritti dalla mano onnipotente d'un divino poeta sulla pagina celeste dell'orizzonte, il vicino colosso nero-turchiniccio di Monte Spada, protetto dalla formidabile muraglia del Gennargentu, lo opprimeva, gli sembrava l'ombra del mostro al quale poco prima aveva lanciato la sua sfida. E pensava a Margherita lontana, a Margherita sua, non più sua, che in quell'ora sognava certamente di lui guardando anch'essa l'orizzonte; e sentiva una grande pietà per lei, più che per se stesso, e lagrime soavi e amare come il miele amaro gli salivano agli occhi; ma egli le respingeva, queste lagrime, le respingeva come un nemico felino e sleale che tentasse vincerlo a tradimento. «Son forte!», ripeteva, fermo sul balcone senza ringhiera. «Mostro, sono io che ti vincerò, ora che mi stai davanti!» E non si accorgeva che il mostro gli stava alle spalle, inesorabile. VIII. Nella lunga notte insonne egli decise, o credette decidere, il proprio destino. «Io la costringerò a viver qui, presso zia Grathia, finché non avrò trovato la mia via. Parlerò francamente al signor Carboni e a Margherita. Ecco, dirò loro, le cose stanno così: io ho intenzione di far vivere mia madre presso di me, appena la mia posizione me lo permetterà: questo è il mio dovere, ed io lo compio, caschi l'universo. Essi mi scacceranno come si scaccia una bestia immonda; io non mi illudo. Allora io cercherò un impiego, e lo troverò bene, e prenderò con me la disgraziata, e vivremo assieme di miseria, ma pagherò i miei debiti, e sarò un uomo. Un uomo!» pensò amaramente. «O un cadavere vivente!» Gli pareva d'esser calmo, freddo, già morto alla gioia di vivere; ma in fondo al cuore sentiva una crudele ebbrezza d'orgoglio, una smania di stolto combattimento contro la fatalità, contro la società e contro se stesso. «L'ho voluto io, dopo tutto!», pensava. «Sapevo bene che doveva finir così: mi sono lasciato trascinare dalla fatalità. Guai a me! Devo espiare io: espierò.» Questa illusione di coraggio lo sostenne tutta la notte, ed anche il giorno dopo, durante l'ascensione al Gennargentu. La giornata era triste, annuvolata e nebbiosa, ma senza vento: egli volle partire egualmente, con la speranza, diceva, che il tempo si rasserenasse, ma in realtà per cominciare a dar a se stesso una prova di fermezza, di coraggio e di noncuranza. Che gli importava oramai delle montagne, degli orizzonti, del mondo intero? Ma egli voleva fare ciò che aveva stabilito di fare. Solo un momento, prima della partenza, esitò. «E se ella, avvertita della mia presenza, non venisse e fuggisse ancora? E io non prendo forse del tempo perché ciò avvenga?» La vedova lo rassicurò impegnandosi a far venire Olì al più presto possibile, ed egli partì. La guida, su un cavallino forte e paziente, precedeva per gli erti sentieri, talvolta dileguandosi fra la nebbia argentea delle lontananze silenziose, talvolta disegnandosi sullo sfondo del sentiero come una figura dipinta a guazzo sopra una tela grigia. Anania seguiva: tutto era nebbia intorno a lui, dentro di lui, ma egli distingueva attraverso quel velo fluttuante il profilo ciclopico del Monte Spada, e dentro di sé, fra le nebbie che gli avvolgevano l'anima, scorgeva quest'anima come scorgeva il monte, grande, immensa, dura, mostruosa. Un silenzio tragico circondava i viaggiatori, interrotto soltanto, a intervalli, dal grido degli avoltoi. Forme strane apparivano qua e là fra la nebbia, ai lati del sentiero roccioso, e il grido degli uccelli carnivori sembrava la voce selvaggia di quelle misteriose parvenze, disturbate dal passaggio dell'uomo. Anania credeva di camminare fra le nuvole, sentiva qualche volta il senso del vuoto, e per vincere la vertigine doveva guardare intensamente il sentiero, sotto i piedi del cavallo, fissando le lastre umide e lucenti dello schisto e i piccoli cespugli violetti del serpillo la cui acuta fragranza profumava la nebbia. Verso le nove, fortunatamente pei viaggiatori che in quell'ora percorrevano un sentiero strettissimo tagliato sul dorso immenso di Monte Spada, la nebbia diradò: Anania diede un grido di ammirazione, quasi strappatogli violentemente dalla bellezza magnifica del panorama. Tutto il monte apparve coperto da un manto violetto di serpillo fiorito; e al di là, la visione delle valli profondissime e delle alte cime verso cui si avvicinavano i viaggiatori, pareva, tra il velo squarciato della nebbia luminosa, fra giuochi di sole e d'ombra, sotto il cielo turchino dipinto di strane nuvole che si diradavano lentamente, un sogno d'artista impazzito, un quadro d'inverosimile bellezza. «Come la natura è grande, e come è bella e come è forte!», pensò Anania, intenerito. «Nel suo cuore immenso tutto è puro: ah, se ci trovassimo qui soli, tutti e tre, io, Margherita e lei, chi più penserebbe alle cose impure che ci separano?» Un soffio di speranza gli attraversò lo spirito: e se Margherita lo amasse davvero tanto quanto aveva dimostrato d'amarlo in quegli ultimi giorni, e se acconsentisse? ... Con questa folle speranza in cuore camminò lungo tratto, finché raggiunse il fondo del versante di Monte Spada per ricominciare la salita verso la più alta cima del Gennargentu. Un torrente passava in fondo alla valle, fra enormi roccie e boschi di ontani che un improvviso soffio di vento scuoteva. Nel silenzio profondo del luogo misterioso il mormorio degli ontani diede ad Anania una bizzarra impressione; gli parve che la sua speranza animasse le cose intorno, e che gli alberi tremassero, come sorpresi da una gioia arcana. Ma ad un tratto ricadde nelle sue cupe idee e un progetto stravagante gli attraversò la mente: farsi romito. «Se mi nascondessi su queste montagne e vivessi solo, cibandomi d'erbe e di uccelli? Perché l'uomo non può viver solo, perché non può spezzare i lacci che lo avvincono agli altri uomini e lo strangolano? Zarathustra? Sì, ma anch'Egli una volta scrisse: "Oh, quanto sono solo! Non ho più nessuno con cui possa ridere, nessuno che mi consoli dolcemente ... "» Per tre ore l'ascesa continuò, lenta e pericolosa. Il cielo si rasserenò completamente, il vento soffiò: le cime schistose brillarono al sole, profilate di argento sull'azzurro infinito; l'isola svolse i suoi cerulei panorami, disegnati di montagne chiare, di paesi grigi, di stagni lucenti, e qua e là sfumati nella linea vaporosa del mare. Ogni tanto Anania si distraeva, ammirava, seguiva con interesse le indicazioni della guida e guardava col binocolo; ma appena egli cercava di godere la dolcezza del panorama magnifico, il dolore gli dava come una zampata da tigre per riafferrarlo interamente a sé. Verso mezzogiorno arrivarono alla vetta Bruncu Spina. Appena smontato, Anania s'arrampicò fino al mucchio di lastre schistose del punto trigonometrico, e si gettò per terra onde sfuggire alla furia del vento che lo assaltava d'ogni parte. Sotto il suo sguardo irrequieto stendevasi quasi tutta l'isola, con le sue montagne azzurre e il suo mare argenteo, rischiarata dal sole allo zenit: sopra il suo capo brillava il cielo turchino, vuoto e infinito come il pensiero umano. Il vento rombava furiosamente nel vuoto, e le sue raffiche investivano Anania con rabbia pazza: pareva l'ira violenta d'una belva formidabile che cercasse di scacciare ogni altro essere dall'antro aereo dove voleva dominare sola. Anania resisté a lungo: la guida gli si trascinò accanto, gettandosi anch'essa carponi sulle lastre schistose, e cominciò a indicare le principali montagne ed i paesi ed i borghi dell'isola. Il vento rapiva le parole e mozzava il respiro ai due uomini. «Quella è Nuoro?», gridò Anania. «Sì: la collina di Sant'Onofrio la divide in due.» «Sì, è vero. Si vede distintamente.» «Peccato che questo vento sia così rabbioso! Va al diavolo, vento maledetto!», urlò la guida. «Altrimenti si poteva mandare un saluto a Nuoro, tanto oggi sembra vicina!» Anania ripensò alla promessa fatta a Margherita: « ... Dalla più alta cima sarda ti manderò un saluto; griderò ai cieli il tuo nome ed il mio amore, come vorrei gridarlo dalla più eccelsa cima del mondo affinché tutta la terra ne restasse attonita ... ». E gli sembrò che il vento gli portasse via il cuore, sbattendolo contro i colossi granitici del Gennargentu. Al ritorno egli credeva di trovare sua madre presso la vedova, e ansiosamente, dopo aver lasciato il cavallo presso la guida, attraversò il paese deserto e si fermò davanti alla porticina nera di zia Grathia. La sera scendeva triste, un vento gagliardo soffiava per le straducole erte, rocciose: il cielo era pallido: pareva d'autunno. Anania, fermo davanti alla porticina, ascoltava. Silenzio. Attraverso le fessure scorgevasi il chiarore rosso del fuoco. Silenzio. Anania entrò e vide soltanto la vecchia, che filava seduta sul solito sgabello, tranquilla come uno spettro. Sulle brage gorgogliava la caffettiera, e da un pezzo di carne di pecora, infilato in uno spiedo di legno, sgocciolava il grasso sulla cenere ardente. «E dunque? ... Nonna, dunque?» «Pazienza, gioiello d'oro! Non ho trovato una persona fidata che potesse andare laggiù. Mio figlio non è in paese.» «Ma il carrozziere?» «Pazienza, ti ho detto, oh!», esclamò la vedova, alzandosi e deponendo il fuso sullo sgabello. «Ho pregato appunto il carrozziere di dirle che venga assolutamente, domani. Gli dissi: "La pregherai a nome mio che venga, poiché ho da comunicarle cose importantissime che la riguardano. Non le dirai che qui c'è Anania Atonzu; va, figlio, che Dio ti ricompensi perché fai un'opera di carità".» «E lui? E lui?» «Lui ha promesso di condurla qui in vettura.» «Ella non verrà! Vedrete che non verrà», disse Anania, inquieto. «Purché non fugga ancora. Ho fatto male a non recarmi io stesso ... ma sono ancora a tempo ... » E voleva partire subito: ma poi si lasciò facilmente convincere a rimanere, e attese. Un'altra triste notte passò. Nonostante la stanchezza che gli fiaccava le membra, egli dormì pochissimo, - su quel duro giaciglio dove era tristamente nato e sul quale avrebbe voluto quella notte stessa morire. Il vento urlava sul tetto, con boati da mare in tempesta, e la sua voce rombante , ricordava ad Anania l'infanzia melanconica, i terrori lontani, le notti d'inverno, il contatto di sua madre che lo stringeva a sé più per paura che per amore. No, ella non lo aveva amato: perché illudersi? ella non lo aveva amato; ma forse questa era stata la più orrenda sventura e la perdita inesorabile di Olì. Egli lo sentiva, lo sapeva; e provava una tristezza mortale, un'improvvisa pietà per lei che era vittima del destino e degli uomini. S'ella fosse arrivata quella notte, mentre la voce del vento destava nel cuore di Anania impeti di terrore e di pietà, egli l'avrebbe accolta con tenerezza; ma la notte passò, e spuntò una giornata che il vento rendeva melanconica, ed egli trascorse ore che mise fra le più tristi e irrequiete della sua vita. Durante quelle ore egli girò per le viuzze, come spinto dal vento, andò in qualche casa, bevette molta acquavite, ritornò dalla vedova e sedette accanto al fuoco, assalito da brividi di febbre e da una acuta irritazione nervosa. Anche zia Grathia non trovava pace; vagava su e giù per la casa, e un'ora prima che arrivasse la corriera s'avviò per andare incontro ad Olì. Prima di uscire pregò Anania di tenersi calmo. «Bada che ella ha paura di te ... » «Andate, santa donna!», egli disse con disprezzo. «Non la guarderò neppure: le dirò soltanto poche parole.» Passò più di un'ora. Anania ricordava con amarezza la dolce ora passata nell'attendere zia Tatàna: e mentre anelava l'arrivo di Olì, il triste arrivo che doveva una buona volta porre fine ai suoi tormenti, si sentiva divorato da un cupo desiderio: che ella non arrivasse, che fosse di nuovo fuggita, scomparsa per sempre! «Ma è anche malata», pensava con triste conforto, «morrà ben presto!» La vedova rientrò, sola, frettolosa. «Zitto, non arrabbiarti!», disse a voce bassa, rapidamente. «Viene! Viene! È qui: io le ho detto tutto. Zitto! Ha una paura terribile. Non farle del male, figlio!» Uscì di nuovo, lasciando aperta la porticina che il vento cominciò a sbattere, spingendola, attirandola, quasi trastullandosi con essa. Anania attese, pallido, incosciente. Ogni volta che la porta si apriva il sole ed il vento penetravano nella cucina, illuminavano e scuotevano ogni cosa, e sparivano per ricomparire subito. Per uno o due minuti Anania seguì incoscientemente il gioco del sole e del vento, ma ad un tratto s'irritò contro la porta e mosse per chiuderla, nervoso e col volto cupo d'ira. Egli apparve così alla misera donna che si avanzava tremando, timida e lacera come una mendicante. Egli la guardò: ella lo guardò: lo spavento e la diffidenza era negli occhi d'entrambi. Né l'uno né l'altra pensarono neppure a stendersi la mano, neppure a salutarsi: tutto un mondo di dolore e di errore era fra loro e li divideva inesorabilmente, come due mortali nemici. Anania tenne ferma la porta, appoggiandovisi, tutto inondato di sole e di vento, e seguì con gli occhi la misera figura di Olì, mentre ella, quasi spinta da zia Grathia, si avanzava verso il focolare. Sì, era ben lei, la pallida e scarna apparizione intravveduta nella finestra nera della cantoniera; nel viso giallo- grigiastro i grandi occhi chiari, sbiaditi dalla debolezza e dalla paura, parevano gli occhi d'un gatto selvatico ammalato. Appena ella si fu seduta, la vedova ebbe una magnifica idea: lasciò soli i suoi ospiti! Ma Anania sbatté la porta e corse irritatissimo dietro zia Grathia. «Dove andate? Venite, tornate subito, altrimenti vado via anch'io!» disse aspramente, raggiungendo la vecchia su per la scaletta. Olì dovette sentire la minaccia, perché quando Anania e la vedova rientrarono in cucina ella piangeva presso la porta, pronta ad andarsene. Cieco di vergogna e di dolore, Anania le si slanciò sopra, l'afferrò per un braccio e la spinse contro il muro, poi chiuse a chiave la porta. «Nooo!», egli gridò, mentre la donna s'accoccolava per terra, restringendosi tutta come un riccio e piangendo convulsa. «Non partirete più! Non farete più un passo senza il mio consentimento. Rimanete, piangete finché volete, ma di qui non vi muoverete più. I tempi allegri son finiti.» Olì pianse più forte, tutta scossa da un fremito di spasimo; ma nello scoppio del suo pianto risuonò quasi una frenetica irrisione alle ultime parole di Anania; ed egli lo sentì, e la vergogna subitanea per le mostruose parole pronunziate accrebbe il suo furore. Ah, il pianto della donna lo irritava, invece di commuoverlo; tutti gli istinti dell'uomo primitivo, barbaro e feroce, vibravano nei suoi nervi frementi: ed egli lo sentiva, ma non sapeva dominarsi. Zia Grathia lo guardava atterrita, domandandosi se Olì non avesse ragione a temerlo; e scuoteva la testa, minacciava con ambe le mani, s'agitava, pronta a tutto pur d'impedire una scena violenta; ma non sapeva che dire, non poteva parlare. Ah, era indiavolato quel bel ragazzo ben vestito: era più terribile d'un pastore orgolese con la mastrucca, più terribile dei banditi che ella aveva conosciuti sulla montagna. Ella s'era immaginata una scena ben diversa da quella! «Sì», egli riprese, abbassando la voce, e fermandosi davanti a Olì, «i vostri viaggi son finiti. Ragioniamo un po': è inutile piangere, anzi dovete rallegrarvi perché avete ritrovato un buon figliuolo che vi restituirà bene per male: quindi dovete aspettarvi da lui molto bene. Di qui voi non vi muoverete più, finché non l'ordinerò io. Capite? capite?», ripeté, sollevando di nuovo la voce, e battendosi la mano sul petto. «Adesso sono io il padrone: non sono più il bimbo di sette anni, che voi avete vilmente ingannato e abbandonato; non sono più l'immondezza che voi avete buttato via; sono un uomo ora, capite? e saprò difendermi, sì, saprò difendermi, saprò, perché voi finora non avete fatto altro che offendermi, uccidermi giorno per giorno, sempre a tradimento, sempre! sempre! e rovinarmi, capite, rovinarmi sempre più, sempre più, come si rovina una casa, un muro, così, pietra per pietra, così ... » Egli faceva atto di buttar giù un muro; si curvava, sudava, quasi oppresso da una vera fatica fisica; ma d'un tratto, improvvisamente, guardando Olì che piangeva sempre, sentì la sua ira sbollire, svanire. Un senso di gelo lo invase. Chi era quella donna che egli ingiuriava? Quel mucchio di stracci, quella lurida lumaca, quella mendicante, quell'essere senza anima? Poteva ella capire ciò che egli le diceva? ciò che ella aveva fatto? E d'altronde che poteva esserci di comune fra lui e quella creatura immonda? Era poi davvero sua madre, quella? E se lo era, che significava, che importava? Madre non è la donna che dà materialmente alla luce una creatura, frutto d'un momento di piacere, e poi la butta nel mezzo della strada, in grembo al perfido Caso che l'ha fatta nascere. No, quella donna lì non era sua madre, non era una madre, sia pure incosciente: egli non le doveva nulla. Forse non aveva diritto di rimproverarle i suoi errori, ma non doveva neppure sacrificarsi per lei. Sua madre poteva essere zia Tatàna, poteva essere zia Grathia, e magari Maria Obinu, e magari zia Varvara o Nanna l'ubriacona; tutte, fuorché la miserabile creatura che gli stava davanti. «Avrei fatto bene a non occuparmene, davvero, come consigliava zia Grathia», pensò. «E forse è meglio che essa riprenda la sua via. Che può importarmi di lei? No, non me ne importa niente.» Olì continuava a piangere. «Finitela», diss'egli freddamente, ma non più irato; e siccome ella piangeva più forte, egli si volse alla vedova e le fece cenno di confortarla e farla tacere. «Non vedi che ha paura?», mormorò la vedova, passandogli vicina. «Su! su!», disse poi, battendo una mano sulle spalle di Olì. «Finiscila, figlia. Fatti coraggio, abbi pazienza. È inutile piangere; egli non ti divorerà, poi; è figlio delle tue viscere, dopo tutto. Su! su! Adesso prendi un po' di caffè, poi discorrerete meglio. Fammi il piacere, figlio, Anania, va un po' fuori: poi ragionerete meglio. Va fuori, gioiello d'oro.» Egli non si mosse, ma Olì si calmò alquanto, e quando zia Grathia le portò il caffè, ella prese tremando la tazza e bevette avidamente, guardandosi attorno con occhi ancora spaventati, diffidenti, eppure attraversati da balenii di piacere. Ella era avida del caffè, come quasi tutte le donnicciuole sarde, ed Anania, che aveva un po' ereditato questa passione, la guardava e la studiava, ridiventato perfettamente cosciente; e gli pareva di scorgere una bestia selvatica e timida, una lepre rosicchiante l'uva nella vigna, trepida per il piacere del pasto e per la paura di venir sorpresa. «Ne vuoi ancora?», domandò zia Grathia, chinandosi e parlando ad Olì come ad una bambina. «Sì? No? Se ne vuoi ancora dimmelo pure. Da' qui la chicchera, e alzati, su, lavati gli occhi, sta tranquilla! Hai sentito? Su, figlia!» Olì si alzò, aiutata dalla vecchia, e andò diritta alla tinozza dell'acqua dove usava lavarsi venti anni prima: volle pulire la chicchera, poi si lavò, e s'asciugò col grembiale bucherellato. Le sue labbra tremavano, qualche singhiozzo le gonfiava ancora il petto, i suoi occhi arrossati e cerchiati, enormi nel viso piccolo, sfuggivano lo sguardo freddo di Anania. Egli guardava il grembiale bucherellato e pensava: «Bisognerà subito farle una veste: è veramente lurida. Ho ancora sessanta lire delle lezioni date a Nuoro: ho fatto bene a fare quelle ripetizioni ... Ne troverò anche altre. Venderò anche i libri ... Sì, occorre subito vestirla e calzarla ... Avrà anche fame ... ». Quasi indovinando il suo pensiero, zia Grathia disse ad Olì: «Hai fame? Se hai fame dimmelo pure, subito: non star lì vergognosa; chi si vergogna patisce. Hai fame? No?». «No», rispose Olì con voce rauca. Anania si turbò nell'udire quella voce: era ancora la voce d'un tempo, sì, la voce lontana, la voce di lei. Sì, quella donna era lei, era lei, la madre, la sola, la vera, l'unica madre! Era la carne della sua carne, il membro malato, il viscere fracido che lo straziava, ma dal quale non poteva staccarsi senza lasciar la vita. «Ebbene, allora siedi qui», disse zia Grathia avvicinando due sgabelli al focolare, «siedi qui, figlia, e tu siedi qui, gioiello mio. Sedete qui entrambi e discorrete ... ». Fece sedere Olì, e pretendeva di fare altrettanto con Anania, ma egli si scosse bruscamente. «Lasciatemi dunque; non sono un bimbo, vi ho detto! D'altronde», egli riprese, camminando su e giù per la cucina, «c'è poco da discorrere. Ho già detto quanto dovevo dire. Ella rimarrà qui finché io non ordinerò altrimenti: voi ora le comprerete le scarpe e un vestito ... vi darò i danari ... , ma di questo parleremo poi ... Intanto», e alzò la voce, per significare che si rivolgeva ad Olì, «rispondete voi: che cosa rispondete dunque?» Credendo che egli parlasse con la vedova, Olì non rispose. «Hai sentito?», le disse zia Grathia, con voce dolce. «Che cosa rispondi?» «Io?», ella chiese a bassa voce. «Sì, tu.» «Io ... nulla.» «Avete debiti?», domandò Anania. «No.» «Verso il cantoniere, no?». «No. Si hanno tenuto tutto quanto avevo.» «Che cosa avevate?» «I bottoni d'argento della camicia, le scarpe nuove, dodici lire in argento.» «Che cosa possedete ora?» «Nulla. Come mi vedi, mi scrivi», diss'ella, toccandosi il grembiale. La sua voce era cupa, cavernosa. «Avete qualche carta?» «Cosa?» «Qualche carta», spiegò zia Grathia. «Sì, la fede di nascita?» «Sì, la fede di nascita», ella rispose toccandosi il petto. «L'ho qui.» «Fate vedere». Ella trasse una carta gialliccia, macchiata d'olio e di sudore, mentre Anania ripensava amaramente alle ricerche e alle indagini fatte per scoprire se Maria Obinu possedeva carte rivelatrici. Zia Grathia prese la carta e gliela diede; egli la svolse, la lesse, la restituì. «Perché ve la siete procurata?», domandò. «Per sposarmi con Celestino ... » «Il cieco», spiegò la vedova, e aggiunse borbottando: «quell'immondezza vile». Anania tacque, e continuò a camminare su e giù per la cucina: il vento sibilava incessantemente intorno alla casetta; dalle fessure del tetto piovevano alcune striscie di sole che disegnavano fantastiche monete d'oro sul pavimento nero. Anania camminava divertendosi automaticamente a mettere i piedi su quelle monete, come usava una volta, da bambino: si domandava che cosa gli restava da fare e gli sembrava d'aver già esaurito una parte del suo grave compito. «Io ora chiamerò di là zia Grathia», pensava, «e le consegnerò i danari perché le compri le vesti e le scarpe e le dia da mangiare, poi partirò e vedrò ... Qui non mi resta altro da fare: è tutto fatto ... È tutto fatto!», ripeté fra sé con infinita tristezza. «Tutto è finito.» Gli venne in mente di sedersi accanto a sua madre, di chiederle come aveva vissuto, di rivolgerle una sola parola di dolcezza e di perdono: ma non poteva, non poteva: il solo guardarla lo disgustava; gli pareva che ella puzzasse (e in realtà ella emanava quello sgradevole odore tutto speciale dei mendicanti), e non vedeva l'ora di andarsene, di fuggire, di togliersi dagli occhi quella vista dolorosa. Eppure qualche cosa lo tratteneva; egli sentiva che la scena non poteva terminare così, dopo poche frasi; pensava che Olì forse, fra la sua paura e la sua vergogna, gioiva d'aver un figlio bello, forte, civile; e nel suo disgusto, nel suo dolore anch'egli provava un meschino conforto dicendo a se stesso: «Almeno non è sfrontata: forse si può redimere ancora. È incosciente, ma non sfrontata. Non si ribellerà». Eppure ella si ribellò. «Ecco», egli ricominciò, dopo un lungo silenzio, «voi rimarrete qui finché non avrò aggiustato i miei affari. Zia Grathia comprerà le vesti e le scarpe ... » La voce rauca e dolente risuonò forte: «Io non voglio nulla. Io no ... ». «Come no?», egli chiese, fermandosi di botto davanti al focolare. «Io non resto.» «Che cosa?», egli gridò sporgendosi in avanti, coi pugni stretti e gli occhi spalancati. «Spiegatevi meglio.» Ah, dunque non era tutto finito? Ella osava? perché osava? Ah, ella dunque non capiva che suo figlio aveva sofferto e lottato durante tutta la sua vita per raggiungere uno scopo: quello di ritirarla dalla via della colpa e del vagabondaggio, anche sacrificandole tutto il suo avvenire? Perché ora ella osava ribellarglisi, perché voleva sfuggirgli ancora? Non capiva che egli le avrebbe impedito di far ciò, anche a costo d'un delitto? «Spiegatevi!», egli ripeté, dominando a stento la sua collera. E stette ad ascoltare, fremente, esaltato, ficcandosi le unghie puntute sulle palme delle mani, mentre il suo viso andava di momento in momento deformandosi sotto la pressione di un dolore senza nome. Zia Grathia lo fissava, pronta anch'essa a gettarglisi sopra se egli osava toccare Olì. Fra le tre creature selvagge, riunite intorno al focolare, la fiamma di un tizzo sorgeva azzurrognola e cigolava: pareva piangesse. «Ascoltami», disse Olì animandosi, «non adirarti, tanto oramai la tua collera è inutile. Il male è fatto e nulla più lo può rimediare: tu puoi uccidermi, ma non ne ritrarrai alcun benefizio. L'unica cosa che tu possa fare è di non occuparti di me. Io non posso restare qui: me ne andrò e tu non udrai più mie notizie. Figurati di non avermi mai incontrata ... » «Dove vuoi andare?», chiese la vedova. «Anch'io gli ho detto queste cose, ma egli non capisce la ragione: ci sarebbe però un mezzo ... Rimani qui egualmente, invece di andar per il mondo: non diremo chi tu sei ed egli vivrà tranquillo come se tu fossi lontana. Perché, povera te, se vai via di qui, dove andrai?» «Dove Dio vuole ... » «Dio?», proruppe Anania, dandosi forti pugni sul petto. «Dio ora vi comanda di obbedirmi. Non osate neppur più ripetere che non volete restare qui. Non osate», egli disse come in delirio. «Credete che io scherzi, forse? Non osate muovere un passo senza ordine mio; altrimenti sarò capace di tutto ... » «Per il tuo bene», ella insisté. «Ascoltami almeno: non essere feroce con me, mentre sei indulgente con tuo padre, con quel miserabile che fu la mia rovina.» «Ella ha ragione!», disse la vedova. «Tacete!», impose Anania. Olì prese ancor più coraggio. «Io non so parlare, Ananì ... io ora non so parlare perché le disgrazie mi hanno reso stupida; ma una sola cosa ti domando: non avrei tutto da guadagnare restando qui? Se voglio andar via non è per il tuo bene? Rispondi. Ah, egli neppure mi ascolta!», disse poi, rivolta alla vedova. Anania camminava nuovamente su e giù per la cucina, e pareva non udisse davvero le parole di Olì; ma a un tratto trasalì e gridò: «Ascolto!». Ella riprese umilmente: «Perché dunque vuoi che io rimanga qui? Lasciami andare per la mia via: come un giorno ti feci del male, lascia che ora possa farti del bene. Lasciami andare: io non voglio esserti d'impedimento: lasciami andare ... per il tuo bene ... ». «No!», egli ripeté. «Lasciami andare, te ne supplico: sono ancor buona a lavorare. Tu non saprai più nulla di me: sparirò come la foglia portata dal vento ... » Egli s'aggirò su se stesso; una terribile tentazione lo insidiò: lasciarla andare! Per un minuto secondo una folle gioia gli brillò nell'anima, al pensiero che tutto poteva considerarsi come un sogno maligno: una sola parola e il sogno svaniva e tornava la dolce realtà ... Ma subito ebbe vergogna di se stesso: la sua ira crebbe, il suo grido echeggiò nuovamente nella tetra cucina. «No!» «Tu sei una belva», mormorò Olì, «non sei un cristiano: sei una belva che morde le sue stesse carni. Lasciami andare, fanciullo di Dio, lasciami ... » «No!» «Una belva davvero!», confermò zia Grathia, mentre Olì taceva e pareva vinta. «C'è bisogno di urlare così? Nooo! Nooo! Nooo! Fuori, se sentono, crederanno che c'è un toro selvatico, chiuso qui dentro. Son queste le cose che ti hanno insegnato a scuola?» «A scuola mi hanno insegnato questa ed altre cose», egli disse, abbassando la voce che gli si era fatta rauca. «Mi hanno insegnato che l'uomo non deve lasciarsi disonorare, a costo di morirne ... Ma voi non potete capire certe cose! Infine, tagliamo corto, e state zitte tutt'e due ... » «Io non capisco? Io capisco benissimo», protestò la vecchia. «Nonna, voi capite davvero. Ricordatevi ... Ma basta, basta!», esclamò egli, agitando le mani, stanco, nauseato. Le parole della vecchia lo avevano colpito; egli ritornava cosciente, ricordava che si era sempre ritenuto un essere superiore, e voleva porre fine alla scena dolorosa e volgare. «Basta», ripeté a se stesso, lasciandosi cader seduto in un angolo della cucina e prendendosi la testa fra le mani. «Ho detto no e basta. Finitela ora», aggiunse con voce affranta. Ma Olì s'accorse benissimo che era invece il momento di combattere: ella non aveva più paura, e osò tutto. «Senti», disse con voce umile, sempre più umile, «perché vuoi rovinarti, "figlio mio?" (Sì, ella ebbe il coraggio di dir così, ed egli non protestò). Io so tutto ... Tu devi sposarti con una fanciulla ricca e bella: se ella viene a conoscere che tu non mi rinneghi, ti rifiuterà. Ed ha ragione: perché una rosa non può stare vicina ad una immondezza ... Fallo per lei; lasciami andare, ella crederà sempre che io non esista più. Ella è un'anima innocente; perché dovrebbe soffrire? Io andrò lontano, cambierò nome, sparirò portata via dal vento. Basta il male che ti feci involontariamente ... sì ... involontariamente; figlio mio, io non voglio farti più del male, no. Ah, come una madre può fare il male a suo figlio? Lasciami andare». Egli ebbe desiderio di gridare: «Eppure voi non mi avete fatto altro che del male», ma si vinse. A che serviva gridare? Era inutile e indecoroso; no, egli non voleva più gridare: solo, col capo sempre stretto fra le mani, con voce nello stesso tempo lamentosa e rabbiosa, continuò a rispondere: «No, no, no». In fondo sentiva che Olì aveva ragione, e capiva che ella veramente voleva andarsene per non renderlo infelice, ma appunto l'idea che in quel momento ella era più generosa e più cosciente di lui lo irritava e gliela rendeva odiosa. Ella si era trasformata: i suoi occhi illuminati lo guardavano supplichevoli e amorosi; quando ripeteva: «lasciami andare» la sua voce vibrava e tutto il suo volto esprimeva una tristezza senza nome. Forse un sogno soave, che giammai prima d'allora aveva rischiarato l'orrore della sua esistenza, le sfiorava l'anima: restare, vivere per lui, trovar finalmente pace. Ma dal profondo dell'anima primitiva un istinto di bene, - la scintilla che si cela anche nella selce, - la spingeva a non badare a quel sogno. Una sete di sacrifizio la divorava, ed Anania lo capiva, e sentiva finalmente che ella voleva a modo suo compiere il proprio dovere, come egli a modo suo voleva compiere il suo. Egli però era il più forte e voleva e doveva vincere con tutti i mezzi, anche con la violenza, anche con la necessaria crudeltà del medico che per guarire il malato gli apre la carne coi ferri. Ad un tratto ella si gettò per terra, ricominciò a piangere, supplicò, gridò. Anania rispose sempre no. «Che farò dunque io?», ella singhiozzò. «Nostra Signora mia, cosa farò io? Bisogna che ti abbandoni ancora con inganno, per farti il bene per forza? Sì, io ti lascerò, io me ne andrò. Tu non sei il mio padrone. Io non so chi tu sei ... Io sono libera ... e me ne andrò ... » Egli sollevò il volto e la guardò. Non era più irato; ma i suoi occhi freddi e il suo viso livido, improvvisamente invecchiato, incutevano spavento. «Sentite», disse con voce ferma, «finiamola. È deciso tutto, e non c'è da discutere oltre. Voi non muoverete un passo senza che io lo sappia. E badate bene, e tenete a mente le mie parole come se fossero le parole di un morto: se finora ho sopportato il disonore della vostra vita vergognosa era perché non potevo impedirlo, e perché speravo di por fine a tale obbrobrio. Ma d'ora in avanti sarà altra cosa. Se voi vi permettete di andar via di qui vi seguirò, vi ucciderò e mi ucciderò! Tanto non mi importa più nulla di vivere!» Olì lo guardava con terrore: in quel momento egli era rassomigliantissimo a zio Micheli, il padre, quando l'aveva cacciata via dalla cantoniera; gli stessi occhi freddi, lo stesso volto calmo e terribile, la stessa voce cavernosa, lo stesso accento inesorabile. Le parve di vedere il fantasma del vecchio, che risorgeva per castigarla, e sentì l'orrore della morte intorno a sé. Non disse più parola, e si accoccolò per terra, tutta tremante di spavento e di disperazione. Una triste notte cadde sul villaggio desolato dal vento. Anania, che non aveva potuto trovare un cavallo per ripartire subito, dovette passare la notte a Fonni, e dormì d'un sonno inquieto, simile al sonno di un condannato nella prima notte dopo la sentenza. Olì e la vedova vegliarono lungamente accanto al fuoco: Olì aveva il freddo foriero della febbre e batteva i denti, sbadigliava e gemeva. Come in una notte lontana, il vento rombava sopra la cucina vigilata dalla spoglia nera del bandito, e la vedova filava, alla luce giallognola del fuoco, impassibile e pallida come uno spettro: ma questa volta ella non narrava alla sua ospite le storie del marito, e non osava confortarla. Solo, di tanto in tanto, la supplicava inutilmente di andare a letto. «Andrò se mi fate una carità», disse finalmente Olì. «Parla.» «Chiedetegli se egli ha ancora la rezetta che gli diedi il giorno che siamo fuggiti di qui; e pregatelo di farmela vedere.» La vecchia promise, e Olì si alzò: tremava tutta, e sbadigliava tanto che le sue mascelle scricchiolavano. Tutta la notte vaneggiò, arsa dalla febbre; ogni tanto chiedeva la rezetta e si lamentava infantilmente perché zia Grathia, coricatale a fianco, non si alzava e non andava da Anania per chiedergliela. Un dubbio le attraversava la mente in delirio: che Anania non fosse suo figlio. No, egli era troppo crudele e spietato; ella, che era stata la vittima di tutti non poteva convincersi che suo figlio dovesse torturarla più degli altri. Nel delirio raccontò a zia Grathia che aveva attaccato al collo di Anania quel sacchettino per riconoscerlo quando sarebbe stato grande e ricco. «Io volevo andare a trovarlo un giorno, vecchia vecchia, col bastone. Dun! Dun! picchiavo alla sua porta. "Io sono Maria Santissima trasformata in mendicante!" I servi ridevano e chiamavano il padrone. "Vecchia, che cosa vuoi?" "Io so che tu hai un sacchettino così e così: io so chi te lo ha dato; se tu oggi hai tante tancas e servi e buoi lo devi a quella povera anima che ora è ridotta a sette once di polvere. Addio, dammi un po' di pane col miele. E perdona alla povera anima." "Servi, segnatevi, questa vecchia che indovina ogni cosa è Maria Santissima ... " Ah, ah, ah, la rezetta, la voglio ... Quel giovine non è ... lui! La rezetta ... la rezetta ... » All'alba zia Grathia entrò da Anania e gli raccontò ogni cosa. «Ah», diss'egli con un sorriso amaro, «ci voleva anche questa! che ella dubitasse! Gliela farò vedere io ... se sono io!» «Figlio, non essere snaturato: contentala almeno in questa piccola cosa ... », supplicò zia Grathia. «Ma io non l'ho più quel sacchettino; l'ho buttato via: se lo ritroverò ve lo manderò.» Zia Grathia insisté inoltre per sapere l'esito del colloquio che Anania avrebbe avuto con la fidanzata. «Se ella veramente ti vuol bene, si rallegrerà della tua buona azione», gli disse, per confortarlo. «No non ti rifiuterà, anche se tu le dici che non rinneghi tua madre. Ah, l'amore vero non bada ai pregiudizi del mondo: io amavo pazzamente mio marito quando tutto il resto del mondo lo disprezzava ... » «Vedremo», disse melanconicamente Anania, «vi scriverò ... » «Per carità, non scrivermi, gioiello d'oro! Io non so leggere, lo sai, e non voglio far sapere a nessuno i fatti tuoi. Piuttosto mandami un segno. Senti, se ella non ti rifiuta mandami la rezetta avvolta in un fazzoletto bianco; se ti rifiuta, mandala avvolta in un fazzoletto di colore ... » Egli promise di contentare la vecchia. «Ma tu quando tornerai?» «Non so; fra non molto certamente, appena avrò aggiustato i miei affari.» Egli partì senza aver riveduto Olì; un'angoscia infinita l'opprimeva; il viaggio gli sembrava eterno, e sebbene un tenue filo di speranza lo guidasse, non avrebbe voluto arrivare mai a Nuoro. «Ella mi ama», pensava, «forse mi ama come nonna amava suo marito. La sua famiglia mi disprezzerà, mi caccerà; ma ella mi dirà: "Ti aspetterò, ti amerò sempre ... ". Sì, ma che posso io prometterle? Oramai il mio avvenire è distrutto». Un'altra speranza inconfessabile, egli sentiva però in fondo al cuore: che Olì fuggisse ancora: egli non osava palesare a se stesso questa speranza, ma la sentiva, la sentiva; e se ne vergognava, e ne calcolava tutta la viltà, ma non poteva scacciarla ... Nel momento in cui aveva gridato: «Vi ucciderò e mi ucciderò», era stato sincero, ma ora gli pareva che tutto fosse stato un orribile sogno; e nel rivedere la strada e i paesaggi che tre giorni prima aveva attraversato con tanta gioia nell'anima, e nell'avvicinarsi a Nuoro, il senso della realtà lo stringeva acerbamente. Appena arrivato cercò il sacchettino, e per un'idea superstiziosa, - poiché egli credeva che le cose prevedute non avvengono, - lo avvolse in un fazzoletto di colore. Ma poi pensò che i tristi avvenimenti di quei giorni egli li aveva sempre attesi e preveduti, e si irritò contro la sua puerilità. «Del resto, perché debbo mandare il sacchettino? Perché debbo contentarla?», disse fra sé, sbattendo l'involto contro il muro. Ma subito lo raccattò, pensando: «Per zia Grathia. Alle quattro vado dal signor Carboni e gli dico tutto», decise poi. «Bisogna finirla oggi stesso. Bisogna esser uomini. Ed Ora dormiamo.» Si buttò sul letto e chiuse gli occhi. Eran circa le due; un meriggio caldissimo e silenzioso. Egli aveva ancora nelle orecchie il rombo del vento, ricordava il freddo della notte passata a Fonni, e provava una strana impressione. Gli pareva d'esser caduto in un abisso roccioso, fra montagne erte desolate che soffocavano il breve orizzonte; ricordi lontani gli risalivano dal profondo dell'anima: le notti di febbre a Roma, il fragore del vento su Bruncu Spina, una poesia del Lenau: I Masnadieri nella Taverna della landa, la canzone del mandriano che era passato nella straducola la sera in cui zia Tatàna aveva chiesto la mano di Margherita. Ma nello sfondo della sua immaginazione nereggiava sempre la cucina della vedova, col cappotto nero e vuoto come un simbolo, con la figura di Olì dai grandi occhi di gatto selvatico. Che dolore e che tristezza gli causavano ora quegli occhi! Così rimase a lungo, senza poter dormire, ma con gli occhi ostinatamente chiusi, immerso in un cupo torpore. A un tratto pensò alla morte, meravigliandosi che questo pensiero non gli fosse ancora balenato in mente. «Nessuna cosa è più certa della morte; eppure ci tormentiamo tanto per cose che passano inesorabilmente. Tutto passerà: tutti morremo: perché soffrire così? ... E se alle quattro mi suicidassi? Sì.» Per qualche momento l'impressione della fine lo gelò tutto. Passò, ma gli lasciò una oppressione così spaventosa che egli sentì il bisogno di scuotersi per liberarsene. Solo allora si accorse che, in fondo, mentre gli pareva d'esser in preda alla più cupa disperazione, egli sperava sempre. «Margherita! Margherita! Parlerò con lei stanotte; ella mi dirà di tacere ogni cosa a suo padre, di aspettare, di fingere. No, non voglio essere vile. Voglio essere uomo. Alle quattro sarò dal signor Carboni.» Alle quattro, infatti, egli passò davanti alla porta di Margherita, ma non poté fermarsi, non poté suonare. E passò oltre avvilito, pensando di ritornare più tardi, ma convinto, in fondo, che non sarebbe riuscito giammai di aver il colloquio col padrino. Due giorni e due notti trascorsero così in una vana battaglia di pensieri cangianti come onde agitate. Nulla pareva mutato nella sua vita e nelle sue abitudini; egli aveva ripreso a dar lezioni agli studentelli in vacanza, leggeva, mangiava, passava sotto le finestre di Margherita e vedendola la guardava ardentemente: ma durante la notte zia Tatàna lo udiva camminare per la camera, scendere nel cortile, uscire, rientrare, vagare: pareva un'anima in pena, e la buona vecchia lo credeva ammalato. Che aspettava egli? Che sperava? Il giorno dopo il suo ritorno, vedendo un uomo di Fonni attraversare la viuzza, impallidì mortalmente. Sì, egli aspettava qualche cosa ... qualche cosa d'orribile: la notizia che ella fosse scomparsa nuovamente; e si accorgeva benissimo della sua viltà, ma nello stesso tempo era pronto ad eseguire la sua minaccia: «vi seguirò, vi ucciderò, mi ucciderò». In certi momenti gli pareva che niente fosse vero; nella casa della vedova c'era soltanto la vecchia, col suo cappotto e le sue leggende: niente altro ... niente altro ... La seconda notte dopo il suo ritorno udì zia Tatàna raccontare una fiaba ad un bimbo del vicinato: « ... La donna fuggiva, fuggiva, gettando dei chiodi che si moltiplicavano, si moltiplicavano, coprivano tutta la pianura. Zio Orco la inseguiva, la inseguiva, ma non arrivava a prenderla perché i chiodi gli foravan i piedi ... ». Che piacere angoscioso aveva destato quella fiaba in Anania bambino, specialmente nei primi giorni dopo il suo abbandono! Quella notte egli sognò che l'uomo di Fonni gli aveva portato la novella: ella era fuggita ... egli la inseguiva, la inseguiva ... attraverso una pianura coperta di chiodi ... Eccola, ella è là, all'orizzonte: fra poco egli la raggiungerà e la ucciderà; ma egli ha paura, ha paura ... perché ella non è Olì, è il mandriano passato nella viuzza mentre zia Tatàna era dal signor Carboni ... Anania corre, corre; i chiodi non lo pungono, eppure egli vorrebbe che lo pungessero ... Olì, trasformata in mandriano, canta: canta i versi del Lenau: I Masnadieri nella Taverna della landa; ecco, egli sta per raggiungerla e ucciderla, e un gelo di morte lo agghiaccia tutto ... Si svegliò coperto da un sudore freddo, mortale; il cuore non gli batteva più, ed egli scoppiò in un pianto d'angoscia violenta. Il terzo giorno Margherita, meravigliata che egli non scrivesse, lo invitò al solito convegno. Egli andò, raccontò la gita, si abbandonò alle carezze di lei come un viandante stanco si abbandona alle carezze del vento, all'ombra d'un albero, sull'orlo della via; ma non poté dire una sola parola sul cupo segreto che lo divorava. 18 settembre, ore due di notte Margherita, Sono rientrato a casa adesso, dopo aver pazzamente errato per le strade. Mi pare d'impazzire da un momento all'altro ed è anche questa paura che mi spinge a confidarti, - dopo una lunga inenarrabile indecisione, - il dolore che mi uccide. Ma voglio esser breve. Margherita, tu sai chi io sono: figlio della colpa, abbandonato da una madre più disgraziata che colpevole, io sono nato sotto un astro terribile e devo espiare delitti non miei. Inconsapevole del mio triste destino, spinto dalla fatalità, io ho trascinato con me, nell'abisso dal quale io non potrò mai uscire, la creatura che ho amato sopra tutte le creature della terra. Te, Margherita ... Perdonami, perdonami! Questo è il mio più immenso dolore, il rimorso terribile che mi strazierà per tutto il resto della vita, se pure vivrò ... Senti. Mia madre è viva: dopo una esistenza di colpe e di dolori, ella è risorta davanti a me come un fantasma. Essa è miserabile, malata, invecchiata dal dolore e dalle privazioni. Il mio dovere, tu stessa lo dici a te stessa in questo momento, è di redimerla. Ho deciso di riunirmi con lei, di lavorare per sostenerla, di sacrificare la vita stessa, se occorre, per compiere il mio dovere. Margherita, che dirti altro? Mai come in questo momento ho sentito il bisogno di aprirti tutta l'anima mia, simile ad un mare in tempesta, e mai ho sentito mancarmi le parole come mi mancano in quest'ora decisiva della mia vita. La ragione stessa mi manca; ho ancora sulle labbra il profumo dei tuoi baci e tremo di passione e di angoscia ... Margherita, Margherita, la mia vita è nelle tue mani! Abbi pietà di me ed anche di te. Sii buona come io ti ho sempre sognata! Pensa che la vita è breve, e che la sola realtà della vita è l'amore, e che nessun uomo della terra ti amerà come ti amo e ti amerò io. Non calpestare la nostra felicità per i pregiudizi umani, i pregiudizi che gli uomini invidiosi inventarono per rendersi scambievolmente infelici. Tu sei buona, sei superiore: dimmi almeno una parola di speranza per l'avvenire. Ma che dico? Io divento pazzo; perdonami, e ricordati che, qualunque cosa accada, io sarò sempre tuo per l'eternità. Scrivimi subito ... A. 19 settembre Anania, La tua lettera mi sembra un orrendo sogno. Anch'io non trovo parole per esprimermi. Vieni stanotte, alla solita ora, e decideremo assieme il nostro destino. Sono io che devo dire: la mia vita è nelle tue mani. Vieni, ti aspetto ansiosamente ... M. 19 settembre Margherita, Il tuo bigliettino mi ha gelato il cuore; sento che il mio destino è già deciso, ma un filo di speranza mi guida ancora. No, non posso venire; anche volendolo non potrei venire. Non verrò se tu non mi dirai prima una parola di speranza. Allora correrò a te per inginocchiarmi ai tuoi piedi e per ringraziarti e adorarti come una santa. Ma ora no, non posso, e non voglio. Quanto ti scrissi la notte scorsa è la mia irrevocabile decisione; scrivimi, non farmi morire in questa attesa terribile. Il tuo infelicissimo A. 19 settembre, mezzanotte Anania, Nino mio, Ti ho aspettato fino a questo momento, palpitante di dolore e di amore, ma tu non sei venuto, tu forse non verrai mai più, ed io ti scrivo, in quest'ora soave dei nostri convegni, con la morte nel cuore e le lagrime negli occhi non ancora stanchi di piangere. La luna smorta cala sul cielo velato, la notte è melanconica e quasi lugubre e mi pare che tutto il creato si rattristi per la sventura che opprime il nostro amore. Anania, perché mi hai tu ingannato? Io sapevo sì, come tu dici, quello che tu sei, e ti amai appunto perché sono superiore ai pregiudizi umani, perché volevo ricompensarti delle ingiustizie che la sorte aveva tramato a tuo danno, e sopratutto perché credevo che anche tu, anche tu fossi superiore ai pregiudizi, e avessi riposto in me, come io avevo riposto in te, tutta la tua vita. Invece mi sono ingannata; o meglio sei stato tu ad ingannarmi, tacendomi i tuoi veri sentimenti. Ho sempre creduto che tu sapessi che tua madre viveva, e dove si trovava, e la vita che conduceva; ma ero certa che tu, vilmente abbandonato da lei, non facessi più caso d'una madre snaturata, tua sventura e disonore, e la ritenessi come morta per te e per tutti ... Non solo, ma ero certa che se ella osava presentarsi a te, come pur troppo é accaduto, tu non ti saresti degnato neppure di guardarla ... E invece, invece! Invece tu ora scacci chi ti ha lungamente amato e ti amerà sempre, per sacrificare la tua vita e il tuo onore a chi ti ha abbandonato, bambino inconsapevole; a chi ti avrebbe ucciso o lasciato in un bosco, in un deserto, pur di liberarsi di te. Ma è inutile che io ti scriva queste cose, perché tu certamente le capisci meglio di me; ed è inutile che tu continui ad illudermi e ad invocare sentimenti che io non posso avere dal momento che neppure tu li hai. Perché, vedi, io capisco benissimo che tu vuoi sacrificarti non per affetto, e neppure per generosità, - perché probabilmente tu odii giustamente la donna che fu la tua rovina, - ma spinto da quei pregiudizi umani inventati dagli uomini per rendersi scambievolmente infelici. Sì, sì: tu vuoi sacrificarti per il mondo; tu vuoi rovinarti e rovinare chi ti ama, solo per la vanità di sentir dire: "hai fatto il tuo dovere!". Tu sei un fanciullo, e il tuo è un sogno pericoloso ma anche, permettimi di dirtelo, anche ridicolo. La gente, sapendolo, ti loderà, sì, ma in fondo riderà della tua semplicità. Anania, torna in te, sii buono, con te e con me, come tu dici, e sopratutto sii uomo. No, io non dico di abbandonare tua madre, debole e infelice, come essa ti ha abbandonato: no, noi l'aiuteremo, noi lavoreremo per lei, se occorre, ma che essa stia lontana da noi, che essa non venga a mettersi fra noi, a turbare la nostra vita con la sua presenza. Mai! mai! Perché dovrei ingannarti, Anania? Io non posso neppure lontanamente ammettere la possibilità di vivere assieme con lei ... Ah, no! Sarebbe una vita orrenda, una continua tragedia; meglio morire una buona volta che morire lentamente di rancore e di disgusto. Io non ho mai amato quella disgraziata; ora ne sento pietà, ma non posso amarla; e ti scongiuro di non insistere nel tuo pazzo progetto, se non vuoi farmela nuovamente odiare mille volte più di prima. Questa la mia ultima decisione; sì, aiutarla, ma tenerla lontana, che io non la veda mai, che possibilmente il mondo dove vivremo noi ignori che ella esiste. Pensa che anche lei, forse, sarà più contenta di vivere lontana da te, la cui presenza le causerebbe un continuo rimorso. Tu dici che é invecchiata dal dolore, dalle privazioni, miserabile e malata; ma di chi la colpa se non sua? Per te, ed anche per lei, è meglio che ella si trovi in quello stato; così cesserà di vagabondare, e, non ti disonorerà più; ma che ella, dopo averti oltraggiato quando era sana e giovane, non si faccia un'arma della miseria e della debolezza per richiedere il sacrifizio della tua felicità! ... Ah, questo no, non devi permetterlo mai! No, non è possibile che tu compia una aberrazione fatale! A meno che tu non mi ami più e colga l'occasione per ... Ma no, no, no! Neppure voglio dubitare di te, della tua lealtà e del tuo amore! Anania, ritorna in te, ti ripeto, non essere malvagio e crudele con me, che ti diedi tutti i miei sogni, tutta la mia giovinezza, tutto il mio avvenire, mentre vuoi essere generoso verso chi ti ha odiato e rovinato. Abbi pietà ... vedi ... io piango, io ti imploro, anche per te, che vorrei veder felice come sempre sognai ... Ricordati tutto il nostro amore, il nostro primo bacio, i giuramenti, i sogni, i progetti, tutto, tutto ricorda! Fa che tutto non si risolva in un pugno di cenere; fa che io non muoia di dolore; fa che tu stesso non abbi a pentirti del tuo pazzo procedere. Se non vuoi dar retta ai miei consigli interroga persone serie, persone di Dio, e vedrai che tutti ti diranno qual è il tuo vero dovere, che tutti ti diranno di non essere ingrato, né malvagio. Ricorda, Anania, ricorda! Anche ieri notte mi dicevi che dalla vetta del Gennargentu gridasti il tuo amore, proclamandolo eterno. Dunque mentivi; anche ieri notte mentivi? E perché? ... Perché mi tratti così! Che ho fatto io per meritarmi tanto dolore? Possibile che tu non ricordi come ti ho sempre amato? Ricordi una sera che io stavo alla finestra e tu mi buttasti un fiore, dopo averlo baciato? Io conservo quel fiore per ornarne il mio vestito da sposa; e dico conservo perché son certa che tu sarai il mio sposo diletto, che tu non vorrai far morire la tua Margherita (e il tuo sonetto lo ricordi?), che saremo tanto felici, nella nostra casetta, soli soli col nostro amore ed il nostro dovere. Sono io che aspetto da te, subito, una parola di speranza. Dimmi che tutto fu un sogno tormentoso; dimmi che la ragione è ritornata in te, e che ti penti d'avermi fatto soffrire. Domani notte, o meglio stanotte, perché è già passata la una, ti aspetto; non mancare; vieni, adorato, vieni, diletto mio, mio amato sposo, vieni: io ti aspetterò come il fiore aspetta la rugiada dopo una giornata di sole ardente; vieni, fammi rivivere, fammi dimenticare; vieni, adorato, le mie labbra, ora bagnate d'amaro pianto, si poseranno sulla tua bocca amata come ... «No! no! no!», disse convulso Anania, torcendo la lettera senza leggerne le ultime righe. «Non verrò! Sei vile, vile, vile! Morrò ma non mi vedrai mai più.» Coi fogli stretti nel pugno si gettò sul letto, e nascose il viso sul guanciale, mordendolo, comprimendo i singhiozzi che gli gonfiavano la gola. Un fremito di passione lo percorreva tutto, dai piedi alla nuca; le invocazioni di Margherita gli davano un desiderio cupo dei baci di lei, e a lungo lottò acerbamente contro il folle bisogno di rileggere la lettera sino in fondo. Ma a poco a poco riprese coscienza di sé e di ciò che provava. Gli parve di aver veduto Margherita nuda, e di sentire per lei un amore delirante e un disgusto così profondo che annientava lo stesso amore. Come ella era vile! Vile sino alla spudoratezza. Vile e coscientemente vile. La Dea ammantata di maestà e di bontà aveva sciolto i suoi veli aurei ed appariva ignuda, impastata d'egoismo e di crudeltà; la Minerva taciturna apriva le labbra per bestemmiare; il simbolo s'apriva, si spaccava come un frutto, roseo al di fuori, nero e velenoso all'interno. Ella era la Donna, completa, con tutte le sue feroci astuzie. Ma il maggior tormento di Anania era il pensare che ella indovinava i suoi più segreti sentimenti e che aveva ragione: sopratutto ragione di rimproverargli l'inganno usatole, e di pretendere da lui il compimento dei suoi doveri di gratitudine e d'amore. «È finita!», pensò. «Doveva finire così.» Si rialzò e rilesse la lettera: ogni parola lo offendeva, lo disgustava e lo umiliava. Margherita dunque lo aveva amato per compassione, pur credendolo vile come era vile lei. Ella forse aveva sperato di farsi di lui un servo compiacente, un marito umile; o forse non aveva pensato a nulla di tutto questo; ma lo aveva amato solo per istinto, perché era stato il primo a baciarla, il solo a parlarle d'amore. «Ella non ha anima!», pensò il disgraziato. «Quando io deliravo, quando io salivo alle stelle e mi esaltavo per sentimenti sovrumani, ella taceva perché nella sua anima era il vuoto, ed io adoravo il suo silenzio che mi sembrava divino; ella ha parlato solo quando si destarono i suoi sensi, e parla ora che la minaccia il pericolo volgare del mio abbandono. Non ha anima né cuore. Non una parola di pietà: non il pudore di mascherare almeno il suo egoismo. Eppoi come è astuta! La sua lettera è copiata e ricopiata, sebbene riveli la grossolana ignoranza di lei: quanti "che", ci sono! Mi sembrano martelli, pronti a fracassarmi il cranio. Le ultime righe, poi, sono un capolavoro ... ella sapeva già, prima di scriverle, l'effetto che dovevano produrre ... ella è più vecchia di me ... ella mi conosce perfettamente, mentre io comincio appena adesso a conoscerla ... ella vuole attirarmi al convegno perché è sicura che se io ci vado mi inebrio e divento vile ... Inganno! inganno! inganno! Come la disprezzo ora! Non una parola buona, non uno slancio generoso, niente, niente! Ah, che rabbia!» (torse di nuovo la lettera) «Vi odio tutti; vi odierò sempre! Voglio essere cattivo anch'io; voglio farvi soffrire, schiantare, morire ... Cominciamo!» Prese il sacchettino ancora avvolto nel fazzoletto di colore, e poco dopo lo mandò a zia Grathia. «Tutto è finito!», ripeteva ogni momento. E gli pareva di camminare nel vuoto, fra nuvole fredde, come sul Gennargentu; ma adesso invano guardava sotto, intorno a sé: non via di scampo; tutto nebbia, vertigine, orrore. Durante la giornata pensò cento volte al suicidio; s'informò se poteva presentarsi subito agli esami per maestro elementare o per segretario comunale; andò nella bettola e presa fra le braccia la bella Agata (già fidanzata con Antonino), la baciò sulle labbra. Turbini di odio e di amore per Margherita gli attraversavano l'anima; più rileggeva la lettera più ella gli sembrava perfida; più sentiva d'allontanarsele più l'amava e la desiderava. Baciando Agata ricordava l'impressione violenta che il bacio della bella paesana gli aveva destato un giorno; anche allora Margherita era tanto lontana da lui, un mondo di poesia e di mistero li divideva; e questo stesso mondo, crollato, li divideva ancora. «Che hai?», gli chiese Agata, lasciandosi baciare. «Vi siete bisticciati, con lei? Perché mi baci?» «Perché mi piaci ... Perché sei puzzolente ... » «Tu hai bevuto», diss'ella, ridendo. «Se ti piacciono le donne così, puoi andare da Rebecca ... Se però Margherita viene a saperlo!» «Taci!», diss'egli, adirandosi. «Non pronunziar neppure il suo nome ... » «Perché?», chiese Agata, freddamente maligna. «Non diverrà mia cognata? È forse diversa da noi? È una donna come noi. Perché noi siamo povere? Chissà poi se anch'ella sarà ricca! Se fosse stata certa di ciò, forse ti avrebbe tenuto sempre a bada finché trovava un partito migliore di te!» «Se non la finisci ti batto ... », diss'egli furibondo. Ma l'insinuazione di Agata accrebbe i suoi sentimenti: oramai egli riteneva Margherita capace di tutto. Verso sera si mise a letto, con la febbre, deciso a non alzarsi, l'indomani, affinché Margherita venisse a sapere ch'egli era malato, e ne soffrisse. Giunse ad immaginarsi una segreta visita di lei; e pensando alla scena che ne sarebbe seguita, tremava di dolcezza. Ma ad un tratto questo sogno gli apparve qual era, puerilmente sentimentale, e ne provò vergogna. Si alzò ed uscì. Alla solita ora si trovò davanti al portone di Margherita. Ella stessa aprì. Si abbracciarono e si misero entrambi a piangere; ma appena Margherita cominciò a parlare, egli sentì un invincibile disgusto per lei, poi un senso di gelo. No, egli non l'amava più, non la desiderava più. Si alzò e andò via senza pronunziar parola. Giunto in fondo alla strada tornò indietro, s'appoggiò al portone e chiamò: «Margherita!». Ma il portone rimase chiuso.

Vita intima

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Vertua Gentile, Anna 5 occorrenze

L'uomo d'oggi vuole nella donna la compagna; cioè una creatura, che come lui possieda i doni del cuore e dell'intelligenza; che, come lui, abbia ben saldi e sviluppati nell'anima i sentimenti del buono e del bello. Che importa se queste facoltà agiscono in lui e nella sua compagna con qualche differenza?... La legge della differenza non è forse il fondamento della creazione?.. Che importa se la ragione è — generalmente — nell'uomo guidata da calcolo e interesse personale e nella donna dal sentimento e dalla passione ? L'uomo giudica per riflessione, la donna per istinto. L' uomo vede il vero; la donna lo sente. L'uomo è assennato per logica, la donna per ispirazione. Ciò che per l'uomo è giustizia, per la donna è quasi sempre carità ; la filo- sofia della donna è filosofia del sentimento, il cuore della donna aspira alle affezioni esclusive, di modo che in essa l'amore della famiglia supera generalmente l'amore della patria e dell'umanità: l'uomo ha il potere, la donna ha i diritti. E tutto ciò è giusto perchè è nell'ordine naturale delle cose. E ciò non stabilisce superiorità nè inferiorità. Questo ora l'uomo sente e ca- pisce e vuole nella donna non la schiava, non l'idolo, non la serva, ma la compagna. La compagna capace di comprenderlo, di esercitare una benefica influenza su la sua intelligenza e su la sua energia: capace di sostenerlo del suo coraggio, fatto di amore e di annegazione, nei momenti di sconforto; capace di ricevere nel suo cuore, sempre aperto, ogni intimo sfogo, e di confortare il dolore del dubbio, l'angoscia del malcontento, lo strazio della de- lusione. L'uomo di adesso sa valutare i pregi della donna e trova in essa valido aiuto, consigli, incoraggiamenti, riposo. E vuole nella donna sua la reggitrice, la regina della famiglia. Ma una reggitrice, una regina tutta moderna che non ha nulla a che vedere con la moglie e la madre dei tempi andati. Poi che l'ideale della famiglia come quello della donna è oggi assai diverso dall'ideale che se ne facevano i nostri avi, fatti rigidi, baldanzosi e prepotenti dalla persuasione della loro superiorità. Allora la madre di famiglia, doveva sedere al focolare, filando insieme con le figlie e con le ancelle, estranea a tutto quanto non fosse l'azienda domestica. Ma la donna moderna non può nè deve essere una semplice Cenerentola, una creatura umile e passiva fino a l'oblio di sè stessa. Vivendo in mezzo ai continui prodotti della scienza, la sua ignoranza ora sarebbe colpevole e fatale. Ed ella ha la sua giusta parte di coltura, una coltura, che con giusta preparazione, si estende a tutte le donne, secondo le varie gradazioni sociali. L'istruzione congiunta con un'educazione intelligente, non distrugge le attitudini nè le soavi virtù femminili, come alcuni temono, facendo delle donne delle sapute pretensione. Pur troppo, ogni buona cosa si può guastare, ed è possibile che l'istruzione ingeneri l'orgoglio. Ma questo succede solo a chi da natura fu sprovvisto di buon senso. E' stolto il timore di chi pensa che l'istruzione possa alterare i costumi della donna; è vieto pregiudizio quello di chi sostiene, che lo studio ed il sapere possano deviare la donna dalle occupazioni, dai piaceri della famiglia. La donna dell'Inghilterra, dove, circa cinquant'anni fa, si produsse una prima potente scossa che, quasi spinta da corrente elettrica, percorse tosto tutti i paesi, è assai istruita, molto saggiamente educata e buona massaia ad un tempo. La donna americana, nei grandiosi collegi di New- York, del Massachussets, della Pensilvania, impara a rispettare il culto saggiamente illuminato della famiglia e dei doveri dai quali dipende la felicità domestica, nello stesso tempo che impara a conoscere le scienze, le arti e le lettere. Nei collegi universitarii di Oxford e di Cambridge, la donna si abilita nelle arti e nelle scienze, e non per questo si spoglia delle sue gentili virtù, nè dimentica nè disdegna le occupazioni domestiche. Anzi, è massaia accorta e laboriosa; esige in famiglia un rigoroso scambio di delicatezze morali e non tollera mali esempi. E fuori di casa proibisce ai suoi, gli svaghi e gli spet- tacoli che possano urtare contro l'onestà e il buon costume. Così la donna è quivi come in America, tenuta in alta stima; ed è spesso superiore per istruzione agli stessi uomini, occupati negli affari, nel commercio, nell' industria. E' splendida la nuova idealità della donna, chiamata a liberamente esplicare il suo spirito in ogni attività consentanea a la sua natura. Chi negherebbe che più la donna coltiva il suo spirito, più diminuisce la sua ignoranza, e meglio prende sul serio la vita nel suo scopo e nei suoi doveri e più si fa virtuosa? ... La donna saggiamente istruita e educata, sente in tutta la sua soavità la poesia della famiglia. Dolce e sana poesia, che non è certo quella delle vertiginose immaginazioni, delle febbrili passioni, dei sogni ad occhi aperti di chi si perde nella vanità di vuoti ideali, nel vago, sconfinato azzurro delle illusioni. E' la poesia che si accoglie nelle piccole umili cose, poesia ascosa e gentile, di cui la donna è la vera ispiratrice; è la poesia della casa e della famiglia. *** La famiglia di oggi non è certo quella del passato e neppure quella del principio del nostro secolo. Come tutte le cose, la famiglia ha subito una grande evoluzione. Tutto si è modificato nella famiglia; la potenza paterna, i diritti della madre, il diritto d'educazione, quello della sorveglianza, quello della correzione, dell' usufrutto dell' amministrazione. Nel nostro secolo, e specialmente nella seconda metà, è scomparso il diritto di potere del padre su i figli. Al diritto del padre è successo una specie di tutela, che, in generale cessa quando il figlio o la figlia abbiano raggiunto l'età maggiore. E questo potere limitato o autorità, possono quasi sempre essere esercitati dal padre come dalla madre, con certe differenze nei diritti dell' uno e dell' altra. Il padre è libero di educare i figli come meglio gli piace. Ma, senza intaccare la libertà del padre di famiglia, nel nostro secolo si è detto: « Va bene la libertà del padre, ma non è tutto. Vi sono anche i diritti e gli interessi dei figli : e poi la società è interessata grandemente a l'educazione delle generazioni nuove; e poi ci sono i diritti della madre, che esigono speciale considerazione ». In vista dei diritti dei figli e dell'interesse sociale, la legge ha dunque portata una restrizione a la libertà del padre di famiglia. Basta accennare a questi fatti principali: l'istruzione obbligatoria in quasi tutti i paesi inciviliti, l'età prefissa per i piccoli operai, il diritto di ricorso accordato al fanciullo contro la tale e la tale altra decisione dei genitori, ecc. Vi sono leggi che accordano al figlio che abbia raggiunto una certa età, il diritto di ricorrerere presso le autorità competenti, quando nella scelta della professione non fosse d'accordo con la volontà paterna. « I parenti — dicono queste leggi — hanno il diritto di scegliere per i figli una carriera o una professione, te- nendo conto delle loro attitudini e dei loro desideri. I figli, dai diciassette anni in poi, che incontrassero nella volontà dei genitori un ostacolo alle loro aspi-razioni, hanno il diritto di ricorrere al tribunale competente ». E quando il padre e la madre non avessero le stesse idee riguardo all'educazione dei figli ? … Nel codice civile di Zurigo del 1887, è detto a proposito: « I genitori hanno il diritto e il dovere di crescere e educare i figli. Le spese di mantenimento e di educazione spettano in prima linea al padre, in seconda linea sono a carico della madre quando non bastassero i mezzi dei figli. « L'educazione comprendendo il fisico e lo spirituale, è quindi necessario, oltre la cura igienica corporale, l'educazione morale e religiosa, l'insegnamento elementare, la preparazione a una professione. « Nella scelta della professione , devono essere considerati le attitudini e i gusti dei figli. Se il padre e la madre non sono d'accordo in ciò che riguarda l'educazione e la professione dei figli, è al padre che resta l' ultima parola. « Nei matrimonii misti, cioè in quelli in cui lo sposo ha una religione diversa da quella della sposa, il figlio, raggiunta l'età del discernimento, cioè i sedici anni, ha il diritto di scegliere liberamente la religione che meglio si confaccia con le convinzioni sue. Vi sono anche delle leggi che dicono: « Se la madre è convinta che la volontà del padre sia tale da danneggiare i figli, può ricorrere a l'autorità giudiziaria, che, in tal caso, potrà affidare a lei sola l' educazione dei figli. Il principio che ha dettato la legge francese del 28 luglio 1889 guida a questa stessa conclusione. In fatti ; dal momento che la potenza paterna può essere soppressa quando il padre mal conosce o disconosce i suoi doveri o abusa dei suoi diritti, non èlogico ammettere, che l'autorità può essere limitata in certi casi, a profitto della madre, quando questa abbia le sue buone ragioni per far valere e appoggiare la sua domanda ? La donna ha o non ha -- si disse nel secolo XIX -- il diritto di alzare la voce quando si tratta dei figli suoi ? E siccome l'attuale forma della famiglia non permette di confidare a la madre gli stessi diritti del padre in quanto si riferisce a l'educazione dei figli, la più elementare giustizia esige il diritto di ricorso a vantaggio della madre. La restrizione del potere paterno nella famiglia, ha fatto che questa non sia più quella che era in principio del secolo. Allora il padre era ancora circondato da un rispetto che si avvicinava al timore; e tutti chinavano riverenti il capo al suo volere, alle sue parole. Che se alcuno dei figli osava opporsi a la volontà paterna, era tenuto in conto di ribelle, si aveva allora lo spettacolo delle numerose famiglie governate e rette da un sol capo, del quale, in generale, si accettavano senza discussione le idee per quanto non più a la cieca i comandi e le ingiunzioni. La famiglia d'allora era più raccolta e perciò i vincoli d' affetto parevano più forti. C'era un'ora della sera, nella quale il padre si chiamava vicini i figli e i domestici per la preghiera in comune. Il sentimento religioso, sentito più o meno, si manifestava apertamente e riverentemente nelle forme esteriori. La Messa ascoltata religiosamente nei dì di festa, la confessione e la comunione a Pasqua, il digiuno e il magro nei dì comandati. Nelle campagne, fra i contadini, il capocasa reggeva la famiglia la quale accoglieva spesso in un centro solo, parecchie famigliuole nascenti. E il capoccia contadino , come il padre nelle famiglie cittadine e ricche , aveva e sentiva il suo potere. Adesso anche nelle campagne, è difficile trovare delle famiglie numerosissime tutte dipendenti da un sol capo. La restrizione del potere paterno è arrivata da per tutto e tutti la trovano logica e conforme al progresso dell' incivilimento. Massimo d' Azeglio dice di suo padre: « In famiglia noi giovani ne avevamo una soggezione incredibile ed il timore pur troppo, non lascia limpido il giudizio ». E della religione del tempo di suo padre e del suo, dice : « L'Italia è l'antica terra del dubbio. Poco vi potè la Riforma, non tanto perché la frenasse l'Inquisi- zione romana, quanto perchè poco l'Italia si curava di Roma e meno di Wittemberga. Gli Italiani non presero mai le questioni di dogma molto sul serio, ed il chi a se è vero ! dolorosa parola a l'umanità) fin dai tempi di Guido Cavalcanti, dominò sempre fra noi. Perciò fu l'Italia spettatrice piuttosto indifferente della lotta fra Wittemberga e Roma, poco curandosi d'ambedue! Ma il dubbio, le derisioni, i sarcasmi di Voltaire, erano più di suo genio; quindi volgeva un sorriso allo scetticismo francese come a conosciuto e vecchio amico. Ma se ciò accadeva nel resto d'Italia, in Piemonte era altra cosa. « A fronte di pochi novatori, l'antica fede popolare stava salda sulle antiche sue basi. Oggi, dopo tante bufere passate sopra questo sbattuto paese poco o nulla vediamo mutato al suo carattere tradizionale ; figuratevi quale doveva essere allora, uscita appena dall'ambiente del medio evo! « Il senso religioso era vero e profondo generalmente « La parola conversione uona oggi al nostro orecchio quasi come un vocabolo di antiche leggende di santi. Dove mai oggidì fra noi si vide o si udì parlare di una di quelle potenti e rumorose conversioni che ricordano un San Francesco, un San Benedetto, un San Gerolamo, ecc.?... « Invece, l'esaltazione religiosa è frequente nelle razze anglo-sassone e tedesca. Fra loro è fatto comune una conversione. Ogni veggente, sia furbo o convinto vi trova tosto gente divota, che pel suo dogma accetta sacrifizi e privazioni. « Venga invece in Italia un di costoro; predichi in piazza; avrà quello uditorio medesimo che hanno i saltimbanchi; e che, finito il sermone, si scioglierà alzando le spalle e dicendo: E' matto ! « Con gente capace di morire per una fede anche storta e stramba, c'è qualche cosa da fare; con gente invece non persuasa di nulla, in nome di che di chi iuscirete a farla muovere, a farla operare, a farla morire ? ... Il dubbio è un gran scappafatiche; lo direi quasi il vero padre del dolce far niente taliano ». *** Dunque nel secolo XIX dalla famiglia sparì il dispotismo paterno; scomparve la rigida autorità del padrone per lasciar luogo a maggior tenerezza a la confidenza, a la familiarità, a la reciproca affettuosa fiducia. Il sentimento della famiglia forse non si rafforzò ma si ingentilì, specialmente in molte classi. A la terza persona, con la quale nella prima metà del secolo, i figli usavano trattare i genitori, in Italia venne a poco a poco sostituita la seconda; il tu he invita a confidenza , che avvicina cuore a cuore , ma che pur troppo, qualche volta stabilisce una uguaglianza poco favorevole al rispetto e di ostacolo al sentimento educativo. Nel secolo XIX, meno le eccezioni, i figli non ebbero più nessun timore del padre e trattavano la madre con intimità spesso eccessiva. I genitori perdettero in autorità ma guadagnarono in affetto e confidenza. Affetto e confidenza scemarono però in essi il potere educativo. Forse si è inconsciamente o per necessità delle cose, passati da un eccesso all'altro. E' entrata nell'animo di tutti la persuazione, che l'autorità non è come il potere, un fatto che agisce per forza materiale e per via legale ; ma bensì una cosa morale, che influisce su l'anima, che suppone la virtù in chi l'esercita, la docilità e l'amore rispettoso in chi la subisce. E, una volta di ciò persuasi, i genitori si lasciarono andare a la tenerezza non di rado soverchia, e nei figli andò sviluppandosi e crescendo prepotente il forte sentimento dell'individualità. Ora, tenerezza e individualità, sono forse due cose ancora troppo nuove come la libertà e l'uguaglianza ; sono per dir cosi, due ottimi strumenti dei quali ancora non si è imparato a servirsi ; sono un bene che conviene imparare a usar bene. Il fatto è, che con il diminuire dell'autorità, diminuì pure l'influenza che i genitori dovrebbero esercitare su i figli. Questa autorità o morale influenza che si voglia, ora nelle famiglie delle persone educate, è specialmente la madre che tenta di svegliarla e di rafforzarla in se stessa ; di conquistarla e di meritarla. E per riuscire in questo che non è punto facile, ella sente il bisogno di guadagnarsi la stima dei figli. Ora, questo bisogno, questo desiderio di stima ascendente , dice per se solo, l'attuale cambiamento dei rapporti morali fra la madre e i figliuoli. Nei tempi andati, la madre come il padre non si curavano certo dell'intima considerazione dei figli; perchè la considerazione e la stima suppongono il giudizio; e allora non si ammetteva che i figli potessero giudicare i genitori. Ma era logico, era giusto, era compatibile, questa specie di barriera morale fra i genitori e i figliuoli ? ... Non è più razionale, più equa, più secondo natura, la confidenza , quasi l' uguaglianza moderna fra i genitori e i figli ? Quali saranno le cause che possono avere gradatamente determinato questo cambiamento di rapporti morali nella famiglia? ... Una di queste cause, molti la riconoscono nella grande riforma educatrice della donna; riforma che ha per fondamento e per conseguenza la giustizia e sopratutto la stima dell'uomo per la donna. La donna amata di amore dignitoso e elevato, stimata nel suo giusto valore, libera da l'oppressione che le imprigionava le facoltà giacenti inerti, indistinte, abbuiate, sente in tutta la sua forza la propria individualità, e l'anima sua, fatta di sentimento, al sentimento si abbandona. E il sentimento esige tenerezza più che ragionevolezza: una tenerezza spesso soverchia, che rallenta i freni nella mano educatrice. E l'uomo che quando stima e ama si lascia tanto facilmente influenzare fino a vedere e sentire con gli occhi e con il cuore della donna amata e stimata, finisce per lasciarsi a sua volta spadroneggiare dal sentimento, a scapito della ragione, e spesso soffoca nell' affetto, fatto di indulgenze, di paure vaghe e di pietà infinita, la sua autorità, il suo potere di padre; e diventa l'amico, il compagno, quasi l' uguale dei figli. E' quindi evidente che non si può dire a questi: « Fate questo , fate quest' altro perché io voglio così ». Non vi possono essere comandi fra uguali; non soffre violenza una volontà abituata ad agire per proprio impulso; non si piega a la cieca la ragione, che non fu mai offuscata da tirannia. Così, per educare volontà e ragione, è ora necessaria una influenza che non sia l'autorità d'altri tempi; la influenza d'una superiorità riconosciuta e di una specchiata virtù, congiunta con una voce cara e insinuante, che sappia trovare la via del cuore. Ed ecco perché la madre per riuscire nella educazione dei figli, ha bisogno di vegliare su le sue azioni, su le sue parole, in modo da essere una continua vivente lezione di moralità. La madre che educa con vera intelligenza d'amore i suoi figliuoli, è proprio del secolo XIX. In altri tempi, il rispetto esagerato, quasi pauroso e il sentimento di superiorità, staccavano, per così dire, i figli della madre, la quale — in generale — quando aveva loro insegnato a brontolare vecchie preghiere e a baciarle la mano mattina e sera, a parlare appena se interrogati , a tenersi ritti impettiti ed a seguire scrupolosamente i dettati del Galateo d'allora, credeva d'aver adempito a ogni suo dovere materno. Si deve dunque, io credo, a l'istruzione e a l'educazione femminile, la famiglia civile di oggi; la famiglia, ove la tenerezza avvicina e la mutua simpatia intellettuale interessa ed avvince; la famiglia retta e guidata dalla madre che può e vuole essere la prima educatrice dei figli suoi. La madre moderna — intendo quella che comprende il proprio dovere con saggezza — sente, che è suo diritto e suo dovere, di svegliare , e educare nel cuore e nella mente dei figli, la prima idea di Dio, dell'onestà, del bene, del bello, e il sentimento dell'individualità. Sente il dovere di fare in modo , che l' individualità non devii mutandosi in egoismo , in personalità invidiosa, in individualismo che isola dai proprii simili; ma che a poco a poco si trasformi nel sentimento intimo, profondo e santo, che fa che uno si senta qualcuno e voglia essere qualcuno. La madre intelligente sa che è guaio serio comprimere la individualità nell'animo dei fanciulli; sa che la depressione converte i deboli in ipocriti e i forti in ribelli; ma sa pur anche, che se non va compressa, l'individualità vuol essere educata, se non si vogliono crescere dei deboli , dei prepotenti , degli egoisti; e trova il modo di ben dirigere nei figli questa forza , insegnando loro la sana e forte dottrina, che è la compagna della libertà: la dottrina della responsabilità personale. Chi nel secolo XIX tanto fece e fa tuttora per la riforma femminile, non pensò certo di strappare la donna al suo centro naturale, che è quello degli affetti ; ma volle invece , renderla più conscia della grandezza morale della sua missione, quindi più degna di essa. Il titolo santo di madre di famiglia non dice solamente devozione, tenerezza, accortezza; dice anche e forse più, un lavorio continuo, incessante, faticoso; dice preoccupazioni, crucci, dolori, tutto un complesso di pene morali che però l' intima compiacenza e la soddisfazione generosa, acchetano e addolciscono. E più la donna è istruita, più sa e più ha l'animo temprato al coraggio, confortato dal pensiero di Dio, e meglio è compresa della sua alta, difficile missione, e la missione stessa le torna più delicata, più doverosa e santa. Il sentimento della famiglia si è fatto più delicato in quasi tutte le classi; ma forse non in tutte le classi si è rafforzato. Insieme con l'istruzione, elementare sì, ma sufficiente a stenebrare le menti sgombrandole dai pregiudizi e rendendo ognuno capace di comprendere il perché di quasi tutto quello che vede; insieme con un poco di educazione, che dirozza, nella casa dell' operaio del contadino, del lavoratore in genere, entrò il desiderio, anzi il bisogno della pulizia, dell'ordine, delle maniere meno grossolane, delle parole meno volgari, di un poco di affettuosità, quindi di gentilezza. Si è pensato e sentito, che il povero ha dei santi diritti nel punto di vista della morale pubblica; che la sua più grande disgrazia è la digradazione morale, che la miseria distrugge il rispetto personale, esaurisce lo spirito e influisce tristamente su le affezioni domestiche, spingendo, quasi a rifugio, verso gli abbietti piaceri; si è pensato e sentito, che l'anima per elevarsi, ha bisogno di mezzi accessibili al ricco come al povero; che la verità morale è il tesoro della intelligenza; che il germe delle grandi idee morali, è in tutti gli animi e che il povero può aspirare a l'educazione più elevata e raggiungerla. E si concluse, che nell'interesse di tutti, era logico e giusto riconoscere una sola casta morale; quella dell'umanità. Tutti uguali, non solo davanti a Dio, non solo davanti a la legge , ma nella coscienza di ciascuno; nella coscienza pubblica. *** Un'uguaglianza, non materiale, che non può esistere nell'umanità come non esiste in natura, che è delicato e soave sogno di pochi, o esigenza di prepotenti; ma la santa uguaglianza, che sta nell'elevatezza morale; la persuasione che ogni uomo può cercare in se stesso forza e felicità e che deve domandare l'una e l'altra a l'amore del dovere, a l'energia della volontà , a la coltura dello spirito. La persuasione che di queste virtù si può arricchire chiunque voglia, purché voglia seriamente rafforzare il pensiero per mezzo della riflessione e della sana lettura e fortificare il carattere con il lavoro e la pratica del bene. Solo in questa via feconda si trova la pace dell'anima e il sentimento della propria dignità e della propria forza; solo camminando coraggiosamente e liberamente in questa via, si può trovare il proprio bene insieme con quello della società; si può acquistare la certezza , che la più grande forza dell'universo è lo spirito, non già la forza bruta e materiale ; che il potere dell'uomo è fatto di energia morale e intellettuale e che è lo spirito che ha conquistato la materia. Tutto ciò si senti e si pensò nel secolo XIX; e con queste idee nella mente, con questi sentimenti nel cuore, si finì, per la maggiore, a sentire l'uguaglianza, la fratellanza santa, comandata da Dio, necessaria a la ragione, indispensabile a la generosità. Tutti fratelli; quindi disposti al reciproco rispetto, al mutuo soccorso. E il povero fu aiutato, rialzato, reso capace di riconoscere nel suo io , a creatura pensante e ragionante, che ha sacri doveri da compiere e sacri diritti da esigere. Ora, il sentimento ben chiaro e profondo dei doveri e dei diritti, dovrebbe essere fiaccola sempre accesa, che illumina di vivida luce, onestà e gentili costumi, e a quella e a questi invita e attrae. L'aura di civiltà e di progresso, spirante miglioramento , penetrò nelle famiglie di tutte le classi, nel secolo XIX e vi portò una certa dignità materiale; ma forse, più materiale che morale. Il luridume, lo sconcio e immorale agglomeramento di uomini, donne fanciulli, raccolti insieme in chiatte, schifose stanze, quasi tane, è immondo spettacolo, che ora di rado, affligge occhio e sentimento. Ed è, generalmente, triste ricovero di oziosi, viziosi e peggio, rifuggenti dai pubblici asili aperti dalla beneficenza; classe di disgraziati , che civiltà e progresso riusciranno a diminuire ma non a sopprimere, come la mano esperta dell'agricoltore riesce a scemare le male erbe nei campi e nei prati , ma non certo a toglierle del tutto. Più non si incontrano, o assai di rado, contadini e specialmente operai sudici e strappati, dalle maniere e parole grossolane e triviali. Cosa che allontanava le così dette persone educate, causando due mali; l'orgoglio e il dispregio da una parte, l'avvilimento, la persuasione d'inferiorità e spesso la ribellione, dall'altra. Adesso, grazie, principalmente alle scuole, aperte nei più umili e remoti villaggi, il povero si è dirozzato; si esprime benino; ha modi abbastanza urbani, capisce. La distanza fra lui e chi a lui è superiore per istruzione e educazione, è diminuita. Sono smantellati i castelli feudali; le distanze sociali vanno scomparendo; il passato è morto. E' spento il vecchio prestigio; le vecchie idee più non esistono. Più non vi sono classi che si lasciano opprimere e avvilire; la società è fatta di tutti, e tutti vogliono avervi e sentirvi la propria parte. L'operaio, il contadino, tutti o quasi tutti, adesso pensano; vogliono sapere la ragione di ciò che fanno, di ciò che credono, per fino delle loro sofferenze. Si direbbe che chiedano un compenso del passato. A l'inerzia d'ogni nobile desiderio, è successa la sete della verità; a l'accasciamento morale, è successo il sentimento ben chiaro e forte della giustizia. Le creature davvero superiori, le quali sono schiettamente convinte che il miglioramento della società, più tosto che con fieri, sanguinosi strappi, si ottiene gradatamente, per mezzo della sana, vigorosa educazione morale, plaudiscono a questo primo risveglio voluto dal progresso; risveglio, che se lascia ancora molto e molto a desiderare, è però sempre un passo verso il meglio. Ma come nei bambini è previdente e saggio guidare al bene le buone disposizioni , così , chi desidera con sincerità il bene di tutti , trova previdente e saggio fare in maniera , che nei cuori e nelle menti di ognuno, i desideri sieno onestamente guidati al possibile, le aspirazioni a l'arrivabile, e che l'anima accolga il sentimento d'un ideale non offuscato da sragionevolezze, da folli prepotenze. Le creature superiori , che vogliono per davvero il bene della società , sanno che, se si vuole migliorare una generazione, è necessario comprendere la ragione dell' umano vivere , guardare al punto ove hanno origine i beni ed i mali e le norme del volere, e farne oggetto di applicazione la famiglia; prendere per mano i fanciulli e gli ignoranti, indirizzarli con amore e intelligenza alle verità morali per mezzo delle scuole, dei libri e sopratutto dei costumi. Questo si è cercato di fare nel secolo XIX, a vantaggio della famiglia, quindi della società e della patria. Pur troppo manca ancora molto a raggiungere l'ideale, e taluni vedono in questo risveglio d'ogni classe, in questo spesso focoso desiderio di miglioramento , un male piuttosto che un bene ; e i pessimisti scettici guardano, con sorriso dubitoso, a l'inquietudine morale vasta e profonda, e a le corruttrici bramosie di godimento che accompagnano il progresso. Ma chi puó dire a che possa portare il disordine o l'apparenza del disordine ? ... « ... né l'acqua iraconda che scende a ruina la valle — dice Fogazzaro — nè la frana di macigni e di selve capovolte che trabocca dall' alto a romperle il corso , sanno che nel luogo del loro incontro , una lama d' acqua pura si alzerà con sorriso ubbediente a rispecchiare il cielo pago e sereno ».

Se dunque più non si può avere una religione di Stato, conformemente ai principi di diritto e di libertà della coscienza, si abbia la neutralità; s'impartisca un insegnamento puramente civile. Non bisogna però dimenticare che quando si sopprime un insegnamento morale in una forma, bisogna ristabilirlo efficacemente in un'altra forma equivalente. Una fede non può essere sostituita se non da un'altra fede più larga e più razionale. Al catechismo positivo del credente, non si deve sostituire un catechismo puramente negativo, quello dell' incredulo e talvolta dello scettico. Non si deve interpretare la tolleranza nel senso di intolleranza, nè bisogna che il sistema di neutralità imposto a la scuola, diventi un sistema di eliminazione e conduca a fare il silenzio su tutte le grandi questioni ; perché in tal modo, si avrebbe per risultato l'immobilità morale; con la scusa di non impegnare la coscienza, non la si sveglierebbe ; e per paura di urtare delle convinzioni, si rischierebbe di distruggere ogni convinzione e di seminare da per tutto l' indifferenza. Si dia ai fanciulli l'idea del bene come la più alta di tutte e la meglio fondata nella ragione; si spieghino ai fanciulli, in forma semplicissima, le ragioni particolari dei loro doveri, sopra tutto verso gli altri. Un educatore eminente, il Boutroux, sostiene che a la domanda dei fanciulli « Perché questa cosa va fatta e quella evitata ? » Si deve rispondere : « Perché questa è bene e quella male ». La morale, considerata anzi tutto dal punto di vista positivo, ha dei fondamenti essenzialmente sociali dimostrati e spiegati. Tutti i doveri, compresi quelli che si dicono verso se stessi, poggiano oltre che su altre ragioni, su ragioni sociali. Si hanno tutti i vantaggi a mostrare ai fanciulli le ragioni sociali dei doveri e a far loro capire che non vi può essere una società fuori delle seguenti regole : « Tu vuoi vivere insieme con gli altri perché sei un uomo non un bruto ? . . Fa dunque per quanto é in te, ciò che è necessario perché gli uomini possano vivere una vita comune. Bisogna far capire ai maestri prima e poi ai fanciulli, che un essere ragionevole il quale concepisce l'universo e ne ricerca il principio, non può fare a meno di riconoscersi legato a la società, fuori della quale egli non potrebbe nè esistere nè pensare. Questa idea del tutto in cui viviamo con il pensiero, questa idea dell'universale e dell'infinito, dà a l'essere cosciente e ragionevole, sia pure un fanciullo, un sentimento di dignità personale, di superiorità, di fierezza morale; e questo sentimento l'educatore deve destare molto per tempo. Se si persuade il fanciullo, che un essere capace di pensare e di amare non viene al mondo unicamente per vivervi, per godervi qualche tempo e poi morire; bensì per rinascere d'una vita nuova e migliore e fin d'ora eterna, giacché é una vita di verità e d'amore senza limiti di spazio né di tempo, la quale cerca di trionfare per fino della morte ; ecco che in nome della scienza e della coscienza, gli si sarà fatto capire, che l' essere pensante vale qualche cosa al di sopra del mondo in cui é chiuso ; ecco la vera e pura ragione morale, la quale é ad un tempo, la più legittimamente interessata di tutte in quanto è la dignità nostra, e la più disinteressata in quanto è la dignità degli altri. Qui è la fonte della solidarietà , non solo materiale , ma morale; di quella vera solidarietà, la quale viene dal fatto , che per noi, esseri coscienti e ragionevoli, il vero io là dove noi formiamo un insieme unitamente con gli altri. Si faccia dunque capire al fanciullo, che l' uomo ideale e veramente morale, è quello il quale agisce sempre secondo questo principio di solidarietà senza limiti, fondato sulla ragione stessa. « Io non posso essere pienamente felice se non sono felici tutti gli altri; non posso amare veramente gli altri se non mi faccio amare da loro a forza di far loro del bene ». L'ideale cristiano è la felicità degli eletti ; l'ideale patriottico è la felicità della nazione; l'ideale filosofico è la felicità di tutti gli esseri, nessuno eccettuato. Solo questo sentimento della nostra solidarietà universale, può combattere il ristretto individualismo e il limitato nazionalismo che caratterizzano l'epoca presente. Ormai più non si può contare su la paura dell'inferno per moralizzare i fanciulli come si faceva nella prima metà del secolo XIX; ma questa non è una ragione per rinunziare a mostrare ai fanciulli le conseguenze razionali e sperimentali delle loro azioni, la fecondità malefica del male e la fecondità benefica del bene, l'identità del bene morale e della felicità individuale e collettiva. I doveri verso se stessi sono, in gran parte, le condizioni stesse della vita individuale più intensa e più espansiva e quindi più veramente felice ; i doveri verso gli altri, sono, in gran parte, regole di vita collettiva e di comune progresso. La sregolatezza, l'alcoolismo, l'accidia, l' inedia, tutti i peccati capitali, non hanno soltanto un' essenza mistica, ed è facile dimostrare la catena fatale di mali che si tirano dietro. L'educatore deve persuadersi che, contrariamente a l' opinione volgare, le idee più alte sono le più pratiche, perchè sono quelle che svegliano i sentimenti grandi e durevoli. L'utilitarismo nell'insegnamento va contro il proprio scopo ; invece, è la morale più disinteressata quella che ha maggiore probabilità di agire su le anime dei giovani. Che se a questi si fanno conoscere le verità morali, se ne fa conoscere anche il buon uso; se si mostrano loro le ragioni sociali, psicologiche e filosofiche del dovere, si viene a indicar loro lo scopo e insieme anche i mezzi per giungervi. Per una tale istruzione morale e sociale , ci vorrebbe del tempo ; bisognerebbe fare dei grandi tagli nei programmi stracarichi di scienza, di storia, di geografia, di grammatica, di erudizione in tutte le forme; programmi, che sono un vero capolavoro di ignoranza pedagogica. Si potrebbe introdurre nell'insegnamenro un'unità di spirito, uno scopo, dandogli un'orientazione sociale e morale, facendo convergere tutto a la formazione dell'uomo e del cittadino. Come nell'antico insegnamento religioso ogni cosa prendeva un colore religioso e metteva capo a la conferma della fede e a la pratica del dovere religioso, così la democrazia dovrebbe fare concorrere razionalmente ogni cosa a la pratica del dovere sociale. Ai molti, e sono i più e diventano i più forti , che non pensano a nulla o pensano stortamente a mille cose, è atto di prudenza l'insegnare a pensare razionalmente ai doveri e agli interessi di tutti. La riforma dovrebbe cominciare dai maestri, nelle mani dei quali è, in gran parte, l'avvenire del paese. Ai maestri manca qualche cosa ; non per colpa loro, ma per colpa del tempo in cui viviamo: manca un insieme di convinzioni morali ragionate, che dia al loro insegnamento un indirizzo preciso e sicuro. Il maestro ha bisogno di ideale. Gli occorrerebbe un'educazione filosofica e morale più forte, una direzione di coscienza virile e simpatica durante gli anni giovanili. Oggi tutte le fonti di moralità sono esaurite per colui che più non ha fede. L' aridità, l' atonia che ne risultano sono particolarmente funeste a l'educazione nazionale. Il maestro dovrebbe ricevere l' unica istruzione che fosse per se stessa educativa ; che non avesse per risultato una specie di spostamento intellettuale ; che invece di ispirargli quasi il disgusto della propria condizione, lo rialzasse ai suoi occhi ; dovrebbe ricevere l'istruzione morale e sociale, su la base di un largo idealismo. Al caos di cognizioni scientifiche, storiche e geografiche, bisognerebbe sostituire un'organizzazione di idee direttrici, una sintesi teorica e pratica delle principali nozioni di ordine morale e sociale. Solo lo spirito filosofico e sociologico è atto a formare degli educatori. Gli insegnanti poi dovrebbero essere indipendenti dagli agenti della politica militante. Importa moltissimo che coloro ai quali è affidato l' educazione, vale a dire un ufficio di conservazione e di progresso sociale, non diventino un elemento di sociale dissoluzione. Nel secolo XIX, o meglio verso la fine del secolo XIX, si è convenuto che la principale causa degli scarsi risultati morali e sociali, che si ottengono dalla istruzione elementare, è questa; che manca il complemento indispensabile; cioè la estensione necessaria agli adolescenti ; che perciò , le cognizioni morali e sociali dovrebbero essere diffuse, non tanto nella scuola quanto dopo. E si fece il possibile di fondare la seconda educazione del popolo ; quella da cui, dipendono in gran parte, il benessere e la felicità della famiglia. Perciò si è pensato di aprire le scuole serali e le scuole festive, ove i figli del popolo, obbligati a guadagnarsi prematuramente la vita o a imparare il mestiere nelle botteghe e nelle officine , possono progredire nello sviluppo intellettuale e morale, facendo in tal modo l'interesse dell'industria, la quale vivendo essa stessa dalla scienza, sia teorica, sia applicata, abbisogna di lavoratori istruiti e pratici. Si è pure pensato di fondare dei circoli popolari ove, per mezzo di conferenze e di letture, si cerca di diffondere la moralità popolare, che è il primo e il più vitale dei grandi interessi nazionali. In Italia non vi ha città, non vi ha borgata nè paese, che non abbia le sue scuole serali e festive. E in molte città e paesi, vi sono pure i circoli popolari per davvero fondati a scopo morale. In Germania, oltre a una quantità di istituzioni private per giovinetti, c'è un insegnamento primario pubblico, domenicale, per i fanciulli e le fanciulle dai dodici ai diciotto anni. In ogni borgo, in ogni villaggio, si danno lezioni ogni domenica, fuorchè a l'epoca della mietitura. I giovani e le fanciulle non possono sposarsi se non provano d'avere assiduamente frequentate queste lezioni domenicali. Vi sono pure, in Germania , a complemento delle scuole elementari, le scuole « borghesi » corrispondenti presso a poco alle scuole elementari superiori; e queste scuole sono, per la maggior parte, domenicali e festive. In Svizzera, la scuola complementare è ordinariamente di tre anni; e in molti cantoni la frequentazione è obbligatoria per tutti i giovinetti e le giovinette, che hanno compiuto gli studi primarie non frequentino una scuola secondaria. A tale scopo, in Francia come in Italia, molto si adoperano gli istituti cattolici, che come i laici offrono a la giovinezza, oltre a l' istituzione , il mezzo di svagarsi e divertirsi igienicamente. In Inghilterra, poi, gli istituti d'istruzione e di educazione a complemento della scolastica si moltiplicano continuamente. L'inghilterra ha una « estensione universitaria » le sue « colonie universitarie » i « suoi palazzi del popolo » e un' infinità di patronati. E tutte le classi sociali , dall' aristocrazia alle corporazioni operaie e ai singoli lavoratori, contribuiscono a l'educazione popolare con mirabile slancio. A New York, nel marzo del l898, alcuni di quei riformatori sociali, che non corrono dietro alle chimere, ma si tengono sul terreno della pratica, si adoperarono per far istituire dei corsi di lezioni per gli operai adulti ; lezioni che prendono le mosse dalle principali questioni politiche del giorno, nelle quali, si dovessero discutere specialmente, problemi storici politici e sociali. Oratori e dotti di fama riconosciuta, si dichiaravano pronti a prestare l'opera loro, e il risultato della prova superò l'aspettativa, giacché gli operai mostrarono per quelle lezioni il più vivo interesse. Incoraggiti dal successo del primo tentativo, gli organizzatori pensarono di dare maggiore estensione e regolarità a l' opera loro e disposero le cose in modo, che, durante l'inverno passato, le lezioni si davano di sera, tre volte la settimana. Ci sono locali che contengono da mille a mille cinquecento uditori i quali accorrono a sentire la parola istruttiva e educatrice di valenti oratori. L'ingresso è libero; il programma delle lezioni interessantissimo. Non si predica contro il socialismo; si cerca invece di elevare la coltura generale degli operai, d' interessarli a considerare le cose dal punto di vista storica, a guardare al di là dei loro interessi immediati. L' esempio di New York è già imitato in altre città. L' Italia lo segue con le Università popolari. Interessare i fanciulli e i popolani a l'istruzione e a l'educazione, è toglierli al pericolo di piaceri pericolosi, renderli forti contro le insurrezioni 'degli agitatori, favorire il bene della famiglia. Nel secolo XIX tutti riconoscono, che si fecero studi, tentativi e opere d'ogni maniera per educare seriamente il fanciullo e il popolo a beneficio dello Stato e della famiglia. Mai come in questo secolo fu favorita l' idea dell' educazione liberale, che vuoi dire: saper sottomettere le passioni a la volontà, la quale obbedisca a sua volta a una coscienza delicata; avere una intelligenza che sia, per cosi dire, uno strumento di logica lucida e calma, di cui tutte le parti siano della stessa forza e in ordine perfetto, quasi macchina a vapore applicabile a ogni genere di lavoro; avere uno spirito nudrito delle conoscenze delle verità fondamentali della natura e delle leggi delle sue operazioni; aver imparato a comprendere e ad amare tutte le bellezze, quelle della natura come quelle dell'arte; a detestare la viltà; a rispettare gli altri come se stessi. Che vuol dire, essere, quanto è possibile a l'uomo, in armonia con la natura, la quale farà di lui quanto è possibile a l'uomo di essere, mentre egli trarrà da essa tutto il possibile vantaggio. Mons. Geremia Bonomelli Vescovo di Cremona, nel suo libro « Seguiamo la ragione » che è la prima parte di un lavoro « vasto e arduo qual è il compendio razionale della nostra fede » dice: « E’ vero; sono molti oncora al giorno d'oggi, che, nati in famiglia credente, cresciuti in una società cristiana, senza fatica alcuna, hanno ricevuta la fede, come una eredità non contesa, la conservano e camminano speditamente per dritta via. Per essi, i primi e santi affetti di famiglia si confondono con quelli della religione, né mai sorge ombra di dubbio a turbare la pace della loro fede; e se talvolta sorge, prontamente la scacciano. Anime felici ! per le quali nascere a la terra è nascere al cielo e a le quali il tesoro della fede è dato prima ancora di conoscerlo, e più che una conquista, è una eredità veneranda e resa cara dall'amore della famiglia ... Ma vivono altri (e oggidì sono moltissimi) i quali, quantunque nati in un ambiente religioso e cristiano e per alcuni anni nutriti col latte della fede, colpa dei tempi e degli uomini, a poco a poco ne ritrassero le labbra, poi respinsero la madre, che loro la porgeva, e finalmente consumarono il loro divorzio dalla Religione, che aveva rallegrati i giorni della loro infanzia, corsero dietro ai predicatori del libero pensiero e caddero nella miscredenza. La miscredenza teorica o pratica ! ecco il terribile morbo che da circa due secoli travaglia la società cristiana e che ai nostri tempi ha preso proporzioni non più viste e che ogni di più si dilata. Nei tempi remoti era una malattia pressoché ignota, ristretta tutt'al più a qualche individuo, e per essere rarissima, al popolo ispirava un cotal orrore. Ora questo tremendo contagio siè diffuso dovunque e in particolar modo si è applicato alle classi colte e istruite. Una credenza, quale che si fosse, nei secoli andati, era comunissima : se alcuni uscivano dalla Chiesa cattolica (e talora uscivano intiere nazioni) formavano una Chiesa a sè, o abbracciavano una religione già esistente, o la creavano a lor modo, ma non vi è esempio di un popolo senza una religione positiva, più o meno determinata e pubblicamente professata. L’ elemento sovrannaturale e divino sotto le forme più svariate ed anche contradittorie apparisce dovunque e sempre, e brilla in tutte le manifestazioni dell'umanità come il sole rifulge in cielo sul suo capo. Solamente sul finire del secolo XVIII, comincia una fase nuova che nel nostro è smisuratamente cresciuta. E una fase, in cui gli occhi di molti non si levano più in alto, ma si fisssano in basso e cercano intorno e dentro sè quello che cercavano fuori di s., in cielo. Gli uomini della scienza, pressochè tutti, ora fanno parte a sè in materia di religione, ciascuno tiene ciò che gli taleuta e anche nulla se così gli piace. Non si vuol più accettare una regola suprema, eguale per tutti, esterna; si sostituisce praticamente il proprio modo di vedere, e questa è la norma del credere e dell'operare. Il protestantismo poneva, qual norma assoluta e comune di religione, la Bibbia; ora vi si mette la ragione di ciascuna e perciò si hanno tante religioni quante sono le teste; è l'individualismo più assoluto che si possa mai immaginare in religione. Tutto il sovrannaturale si dilegua: resta la sola ragione dell'uomo; e troppo spesso in luogo della religione, la passione arbitra inappellabile di tutto. Di qui l’indifferentismo, o scetticismo la miscredenza, he invadono la società moderna. In questa fase o evoluzione dello spirito umano, è impossibile una religione novella; non si hanno che atomi disgregati, impotenti a formare un corpo organico. La miscredenza moderna è dissolvitrice per eccellenza; nell'opera sua distruggitrice , si lascia indietro qualunque scisma , qualunque eresia e lo stesso paganesimo. Ella fa di sua natura il vuoto più perfetto, annienta ogni religione e tende a fare della irreligione la religione universale, come altri francamente ebbe a confessare. E questa la malattia religiosa caratteristica della nostra società istruita. In quali classi sociali la miscredenza trova i suoi proseliti ? . . . Non certo nel popolo, che lavora sui campi e che suda nelle officine: qui troverete forse l'indifferenza, il dubbio, l'ignoranza della religione, anche, se volete la superstizione, non la miscredenza nel senso rigoroso della parola. La miscredenza fredda, risoluta, che ha coscienza di ciò che dice e vuole la miscredenza sistematica, per convinzione (non cerco se sincera e in buona fede o mascherata) la si incontra soltanto nelle classi istruite. Essa scende dall'alto al basso: non ascende dal basso all'alto ». L' illustre pensatore, indagando le cause della miscredenza del secolo XIX, scrive ancora : « Si disse : questa piaga sì larga e gangrenosa della società cristiana istruita, deriva dalle passioni, prima delle quali, l'orgoglio. Causa della miscredenza, dicono altri, sono le passioni politiche e le lotte fra le due autorità, religiosa e civile. E il rispetto umano che relegando la fede nel santuario della coscienza, fa pompa d'una miscredenza che non ha e ne ingrossa fuor di misura le file ? E lo spirito di curiosità, la smania di tutto conoscere e spiegare, quello che ci ha dato la miscredenza ? - Così altri. La ragione umana è finita e debolissima ; qual meraviglia, che volendo fissare lo sguardo nelle cose divine, ne rimanga abbagliato, perda l'equilibrio e cada nel dubbio e rigetti con superbo disdegno ciò che non può comprendere? ...E il ragionamento di parecchi uomini dotti. E a questo ragionamento di uomini dotti, egli aggiunge. « Si farebbe oltraggio a la verità se non si riconoscesse il progresso grandissimo che la ragione ha fatto in questi due secoli ». Conclude dicendo « che la moderna incredulità trae la sua precipua origine dalla scienza e cresce in ragione de' suoi progressi » l' incredulità è una malattia propria d'una società colta e progredita, come, nell'ordine fisico, lo sono il suicidio, gli enormi eserciti stanziali, le sètte anarchiche, i colossali fallimenti e andate dicendo. E spiega questa sua conclusione, che pare stolta, assurda, empia, condannata dalla chiesa. « Guardimi il cielo di considerare la scienza per se stessa quasi madre della miscredenza e nemica della religione ! Quando dico che la miscredenza si origina dalla scienza e cammina sui suoi passi, lo dico in quel senso nel quale il Vangelo afferma, che Cristo è posto in ruina e in salute di molti ; lo dico in quel senso, in cui altri potrebbe dire, che le acque distruggono le messi, che il sole brucia i campi, che la luce accieca, che il vino è un veleno, che le ricchezze corrompono, che l'ingegno è una sventura. Ciascuno intende che tutte queste cose per se stesse sono buone, utili, anzi necessarie ; ma pure sovente accade che per loro difetto, o per il loro eccesso, o pcl mal uso che se ne fa, anzichè vantaggio, rechino danno ed estrema ruina. La scienza fu ed è causa, o meglio occasione di miscredenza, per molti rispetti … E uno dei principali rispetti lo trova nella mancanza quasi assoluta della istruzione religiosa in quasi tutte le famiglie, nelle Università, nei Licei, nei Ginnasi, negli Istituti Tecnici e si può dire in tutte le scuole governative. Una delle cause più efficaci della miscredenza moderna e la massima, vuolsi calcolare nella separazione totale o parziale della istruzione religiosa dalla scientifica e nello squilibrio immenso tra questa e quella ; la prima è rimasta fanciulla, la seconda è divenuta adulta, e questa naturalmente, disprezza e schiaccia quella. E il Bonomelli a tal proposito riporta il linguaggio santamente audace che l'arcivescovo Ireland di S. Paolo negli Stati Uniti, ci fa sentire. L'epoca nostra è un' epoca intellettuale. Ella adora l' intelletto. Tutte le cose sono messe a la prova della ragione ; l'opinione pubblica, il potere che governa, sono formati da essa. La Chiesa stessa sarà giudicata a la stregua della ragione. I cattolici devono tenere il primo posto nella scienza religiosa. Essi devono mostrarsi in prima linea in ogni movimento intellettuale. Un'opera importante nel secolo futuro, sani, costruire scuole, collegi, seminari, e ciò clic è ancora più importante, inalzare le presenti e le future istituzioni al più alto grado di grandezza intellettuale. Solo le migliori scuole daranno a la Chiesa gli uomini di cui abbisogna. E queste scuole devono essere moderne nel corso degli studi' e nel metodo, per modo che gli scolari che escono dalle loro aule, siano uomini del secolo ventesimo. . . . Cercate gli uomini ; parlate loro un linguaggio non affettato e in istile del secolo XIX, ma ardente, che vada al cuore e a la mente ; rendete popolare la religione fin dove possibile. Se vogliamo guadagnare questa società, che nella parte sua più eletta, ha fatto divorzio quasi totale dalla Chiesa, e tenere nel suo seno quello che ancora vi sta, non illudiamoci ; dopo la virtù sia la scienza ; scienza vera, moderna, forte, spigliata, sciolta, da certe pastoie vecchie, create da un ridicolo convenzionalismo, accessibile a tutti; sia l'arma a cui diamo di piglio. Chi tiene le masse, regna ; le masse non sono tenute che dal loro Intelletto e dal loro cuore. Nessun potere le domina se non quello che tocca le loro anime libere ». Le legittime e veramente gloriose conquiste del progresso scientifico, non furono dunque sconosciute dal sincero pensiero cristiano nel secolo XIX. Il pensiero cristiano in urto con il progresso scientifico, sarebbe in urto con se medesimo. La via che la Provvidenza aperse al bene, a la verità , e al meglio a sollievo delle creature e a la loro esaltazione, non può essere disertata da chi perla in nome della verità e del bene. La scienza che dà ragione d' ogni cosa e studiando la bellezza dell' universo, innalza la niente commossa e grata al Creatore ; la scienza che avvicina i popoli rendendo possibile, anzi favorendo la santa fratellanza e la diffusione del bene ; che .allevia il dolore e diminuisce le malattie ; che stenebra la mente, distrugge i pregiudizi, insegna com' formata la terra e quali forze sono negli elementi, che indaga le vicissitudini del tempo, il moto degli astri , la natura della vita animale, le segrete virtù della vegetazione, la forza dei venti, non che un nuovo legame fra l'uomo e Dio.

Vuole in lei un cuore che continuamente batta per lui e insieme una mano sempre pronta a tergergli il sudore della fronte; vuole una creatura tutta tranquillità, pace, ordine, che non abbia altro desiderio, altro piacere di quello di rendergli la casa bella e cara; una specie di paradiso, fulgido di luce, soave di profumo, quella luce e quel profumo che vengono dalla donna, raggio e calore della vita domestica... » Nel suo poetico sogno, l' illustre professore canta, mi pare, l' egoismo maschile. Nel matrimonio d'oggi, dicono i moderni pensatori, si sono introdotti dei nemici che spesso contribuiscono a distruggerlo. Il matrimonio è per molti un affare. Basta dire delle agenzie matrimoniali ; basta leggere certi avvisi nella quarta pagina dei giornali; basta sapere di certi mediatori e mediatrici matrimoniali. Nel 1878 ebbe luogo a Vienna un processo contro una mediatrice di matrimoni, per le tristi conseguenze di quella speculazione. In molte famiglie ricche il padre è stappato fuori dalle mura domestiche dalla corsa sfrenata al lavoro che mantiene e procura la ricchezza. La madre è tolta alle cure di madre e di massaia, da mille impegni che sono diventati altrettanti doveri. La non facile occupazione di conservare nella casa il lusso che esige lavorio e studio; le visite da rendere e da ricevere; l'abbigliamento, gli spettacoli, le conferenze di moda, la lettura dei romanzi ; tutta una vita affannosa. E i figli ? Spesso abbandonati alle bambinaie nella prima infanzia; poi in balia di governanti e precettori o in collegio. Padre, madre, figliuoli, si ritrovano a l'ora dei pasti; e non c'è tempo nè voglia e nè pure si sente la necessità di una mutua continua sorveglianza, d' uno scambio di intime idee, di quel continuo calore di affettuosità e di confidenza, senza il quale nella famiglia i sentimenti non possono fare a meno di raffreddarsi. E il matrimonio fra gli operai ? In generale l'operaio sposa una donna perchè l'ama. Ma nè pure nell'operaio è raro il caso del calcolo nell'unione matrimoniale; egli pensa al vantaggio del lavoro della sua donna e vede nei figli appena grandicelli strumenti di un lavoro che basterà al loro sostentamento. E quante impreviste e improvvise vicende sorgono a turbare la pace del matrimonio fra i poveri ! Vi sono le crisi commerciali e industriali, le guerre, gli scioperi, le nascite dei nuovi figli, che diminuiscono e tolgono il lavoro del padre di famiglia e mettono la madre nell'impossibilità di occuparsi fuori di casa. E tutto ciò inasprisce il carattere e influisce tristamente su la vita domestica, dove la cruda necessità entra per scacciare la modesta agiatezza, la mutua tolleranza, la generosità e spesso la virtù. Non di rado allora l'uomo disperato cerca conforto e oblio nel vino e nei liquori; a l' osteria finiscono gli ultimi risparmi; la casa diventa un doloroso luogo di querele, pianti, rimproveri. E la ruina del matrimonio e della vita di famiglia si compie. Grazie a Dio, non sempre succede così. Vi sono famigliuole fra operai che resistono agli urti della male sorte e con la forza della volontà, l' economia, il buon senso e l'amore, si salvano dalla ruina. E quando il lavoro c'è, e il padre e la madre possono guadagnare la loro giornata ? I figli piccoletti che non possono ancora essere accolti negli asili infantili, sono lasciati in custodia dei fratelli e delle sorelle più grandicelli, che non li possono educare per la ragione che non sono educati. Padre e madre tornano a mezzogiorno per il pasto affrettato; ma non sempre nè tutti tornano; mangiano fuori, per necessità di tempo. Il pasto solo della sera riunisce la famiglia. La madre non ha che la serata per accudire alle faccende domestiche, per badare ai vestiti, a la biancheria, a l'ordine della casa. E il da fare la rende inquieta, irascibile, attrabiliare. I fanciulli fanno il chiasso ed essa li manda bruscamente a letto; poi si dà attorno per le povere stanze; ripulisce, prepara, cuce, rattoppa fino ad ora tarda; e intanto disfoga in mal umore, in lagnanze e in maledizioni, la sua vitaccia faticosa e grama. Il marito, che ha sgobbato il dì intiero, sente il bisogno di un'ora di svago ed esce di casa. Nei momenti di grande lavoro, l'operaio non ha libera neppure la festa; anche quel giorno è tolto a la vita della famiglia ! Spesso deve lavorare delle ore in più assentandosi da casa il poco tempo che di solito vi passa. La sua abitazione è lontana dall'officina ? Si alza il mattino quando i figli dormono ancora sodamente, e torna la sera quando già sono a letto. Alle volte l'officina è così lontana, che l'operaio è costretto a starvi tutta la settimana, non tornando a casa che il sabato sera. Il lavoro della donna e dei fanciulli accresce sempre più, sopra tutto nelle industrie tessili. E donne e fanciulli passano l'intera giornata lontani dalla famiglia. A Colmar verso la fine del novembre 1873, sopra 8109 operai impiegati nell'industria tessile, vi erano 3509 donne, 3416 uomini e 1184 fanciulli. Nei cotonifici inglesi, nel 1875, su 479,515 operai vi erano 258,667 donne, 38,558 giovinetti e giovinette dai 13 ai 18 anni, 66,900 fanciulli al disotto dei 13 anni, e 115,391 uomini. Quale doveva essere la vita di famiglia di quella povera gente ? Qual è la vita di famiglia di molti operai e operaie della nostra Italia Nei centri industriali il padre è a l'officina, la madre nelle filande, nei filatoi nelle fabbriche tessili; i figli piccoli nelle scuole, i grandi al lavoro; e questo tutto il giorno ed ogni giorno. Il pane in casa non manca, e nè pure il companatico; quello che manca è la vita della famiglia. Scrive Herbert Spencer: « Quando con la legge sui poveri i provvide pubblicamente ai bambini che igenitori non potevano o non volevano sostentare adeguatamente , la società assunse funzioni familiari, come fece pure. allorquando prese in qualche modo cura dei genitori non aiutati dai figli. La legislazione ha di recente rallentati i legami famigliari dispensando i genitori dalla cura intellettuale dei figliuoli e sostituendo l'educazione pubblica a la paterna. Ed ha sostituita maggiormente la responsabilità dei genitori con quella nazionale, quando le autorità deputate a ciò, hanno provvisto in parte al vestiario dei fanciulli abbandonati prima che siano in età di poter apprendere, ed han fatto anche frustare, per mezzo degli agenti di polizia, i ragazzi renitenti ad andare a scuola. Questo riconoscere come unità sociale l'individuo piuttosto che la famiglia, è davvero giunto adesso al punto che i doveri paterni dello stato, sono ritenuti da molti indiscutibili. A disgiungere, e sperdere quindi a rallentare gli affetti della famiglia, nel secolo XIX, contribuisce anche l'emigrazione. La popolazione dei paesi inciviliti, nel nostro secolo, si è tanto aumentata, che ha cominciato a trovarsi troppo fitta in Europa. Nello stesso tempo i mezzi di trasporto si andarono perfezionando al punto da facilitare assai l'emigrazione. Nei tempi andati erano pochissimi gli emigranti; solamente nel secolo XIX cominciò la grande emigrazione che porta ciascun anno gli Europei a centinaia di migliaia nei paesi tuttora deserti del Nuovo Mondo. Durante la carestia dell'Irlanda, causata dalla malattia nelle patate, dal 1847 al 1853, emigrarono tre milioni d'Irlandesi. Tedeschi, Norvegesi, Inglesi, Irlandesi, Italiani, Francesi, tutti emigrano. Qualche volta le famiglie intiere vanno a cercar fortuna oltremare. Ma più, spesso sono gli uomini soli o anche le donne sole, che se ne vanno. Gli uomini lasciando moglie e figli o i vecchi genitori ; le donne staccandosi dalla loro famiglia. E la lontananza illanguidisce i ricordi e scema o annulla gli affetti più sacri. Vi sono famiglie di contadini ove al focolare non sono che i vecchi genitori. I figli e le figlie se ne sono andati tutti; messe le ali, diventati forti al volo, hanno lasciato il nido deserto. Non manca del tutto il gradito spettacolo della famiglia come il cuore e la ragione la vorrebbero. Ma sono ancora le famiglie ideali. Si trovano là dove la ricchezza non ha introdotto fra le mura domestiche troppe esigenze: troppo lusso, troppa ambizione e vanità. Si trovano là ove il padre di famiglia guadagna abbastanza con il suo impiego e la madre può darsi tutta alle cure domestiche, a l'educazione di figli; si trovano fra i campaguoli agiati, fra i contadini che lavorano la terra propria; fra i piccoli commercianti; fra gli operai che hanno una fucina, una bottega propria. Queste famiglie che il bisogno non disgiunge, che la smania dell'apparire non tocca, che l'emigrazione non diminuisce, sono come verdi oasi nel deserto. L'occhio e il sentimento si fissano in esse e riposano e si confortano. Ma sono molte queste famiglie in questa fine del secolo XIX.? Nel secolo XIX tutto è stato trasformato. La società moderna più non riconosce il diritto d'un uomo sopra un altro uomo; del padrone sul servo, del ricco sul povero; l'uomo, in qualunque condizione si trovi, è libero. Vi ha libertà di coscienza di culto, di parola, di andare e venire dove meglio pare e piace, di scegliere il domicilio, di regolare il proprio modo di vivere; libertà di industria e di commercio; la società contemporanea riposa su la libertà individuale. Dell'antico non sussistono che la famiglia e la proprietà. Ma la famiglia sussiste in modo differente dall'antico. Siamo noi più felici dei nostri avi ? Chi potrebbe affermarlo. ? Per certo la nostra vita è meglio organizzata di quella dei nostri padri Ma come i fanciulli abituati a ogni comodità, agli agi, agli spassi, al lusso, noi ci siamo abituati al meglio e più non ne sentiamo il diletto. L'educazione ha forse indebolito in noi il senso del piacere. Il lusso adesso non è privilegio di pochi; è entrato più o meno in ogni famiglia. I facili e poco costosi prodotti dell'industria e del commercio sono adesso a la portata di tutti e in ogni casa è entrato il bisogno di un certo benessere dorato detto dagli inglesi « comfort ». Un piccolo borghese di adesso, ha maggiori esigenze di un gran signore dei tempi andati. La vita materiale, l'intellettuale, la sociale : tutto è cambiato. Più la civiltà progredisce e più la sua corsa si fa rapida. Dobbiamo sgomentarci per ciò ? L'umanità ha subito trasformazioni che manco si sarebbero immaginate, e non ha perito. La storia della civiltà insegna ad avere confidenza nell'avvenire: confidiamo!

Si direbbe che il grande amore per l'umanità in generale, abbia scemato la forza dell'amore fra i membri della famiglia. La filantropia non è certo cosa nuova ; essa non è altro che un appellazione della carità, che diciotto secoli prima della filantropia, aveva annunziato agli uomini, che sono tutti fratelli e che devono amarsi come figliuoli d' uno stesso Dio. Così la carità come la filantropia mirano al bene del prossimo e sono mosse dallo stesso sentimento sociale che sta nell'intimo di ogni cuore. La filantropia, che è una tendenza primitiva dell'anima nostra, è ora diventata una specie di scienza. Ubbidire a un cieco sentimento, non è sempre senza pericolo e senza conseguenze qualche volta fatali. Il meccanismo delle nostre società moderne, è ora così complicato, che l'esercizio della beneficenza per essere veramente efficace, deve essere illuminato saggiamente per non urtare contro i problemi più spinosi della scienza sociale. Ora si considera l'elemosina della carità privata come questione di economia politica. Il solo sentimento, sia pure sorretto da fervente zelo, ora non basta più per contribuire al bene del prossimo; è necessario uno studio serio dei mezzi meglio opportuni a raggiungere lo scopo cui si mira, per non impiegare invano le forze della società. Vi è chi chiama la filantropia una chimera della filosofia moderna: in vece essa non è altro che una virtù la quale forma la forza del cristianesimo, e non è certo un nome inventato per spogliare la carità del suo carattere divino. Carità e filantropia hanno uno scopo comune , che è di aiutare e migliorare la condizione di tutti con mezzi e istituzioni saggiamente suggeriti e sorretti. Senza la saggezza, senza provvedimenti studiati e approvati dal buon senso e dall' odierno bisogno della società, come si potrebbero sciogliere i difficili problemi del sistema penitenziario, del miglioramento morale dei condannati, del patronato dei giovani detenuti ? .. come si potrebbero trovare i rimedii da applicarsi alle piaghe delle grandi città, come la mendicità, il vagabondaggio, ecc. ? . . Religione e filantropia, avendo uno scopo comune, fanno gli stessi sforzi per il meglio della società. Le casse di risparmio, ove la classe laboriosa va versando le sue economie, le quali tendono a recare il benessere nelle famiglie istituendo abitudini d'ordine, al gusto degli stravizii; le sale d'asilo che raccolgono l'infanzia strappandola a l'inerzia, a l'abbandono, ai mali esempi, per avviarli su la via della moralità e soccorrerla materialmente, sono opere filantrofiche che il papa Gregorio XVI, non temette di consacrare di tutta l'autorità della Chiesa, approvandone gli statuti con una bolla del 20 giugno del 1836. E in una istruzione pubblicata con la sua approvazione, si legge: « che non bisognava, edere in questa istituzione il solo vantaggio materiale ma i molteplici vantaggi, che ne ridonderanno a la religione ed ai buoni costumi. Il giorno del Signore sarà meglio santificato perché vi si risparmierà il danaro che spendevasi in giuochi e in bagordi. I padri e le madri daranno buon esempio ai loro figliuoli e li alleveranno con maggiore attenzione. L'andar vagando sarà loro interdetto, e l'onesto artigiano, in tempo di penuria, non sarà più costretto a tendere la mano. I delitti scemeranno; perché la miseria e la farne menano certamente al male. Dio, che é la carità stessa, benedica dunque questa santa istituzione: egli che é la fonte d'ogni bene, farà che sorgano beni novelli. » In tutti i paesi inciviliti, la beneficenza ha aperto asili per ogni maniera di disgraziati. Basta dare uno sguardo a l'America ove la beneficenza ha per regina la donna, nella quale, la pietà, l'abnegazione, il sacrificio sono bisogni del sentimento. In America, le attivissime associazioni sono fatte quasi tutte per iniziativa femminile. Le donne americane spesseggiano nelle Università, negli Istituti tecnici, nelle scuole professionali, ma spesseggiano anche ovunque si fa sentire il bisogno di educatrici e di infermiere. Educare, confortare, assistere é proprio della donna, e più la donna é intelligente e illuminata, e meglio educa, conforta e assiste. Nei grandiosi ospizi americani, ove scienza e carità uniscono insieme i loro sforzi mirabili a sollievo dell'umanità sofferente, le donne di qualunque condizione, di qualunque culto religioso, si trovano a confortare, a prestare cure delicate e solerti. La miss protestante come la suora dalla candida cornetta, spiegano uno stesso zelo pietoso al letto degli infere nelle sale chirurgiche. E’ principalmente la donna, che spiega tutta la sua attività generosa per il ravvicinamento delle razze a mezzo degli stabilimenti coloniali e delle scuole cui gli indiani, in particolar modo, devono il loro incivilimento. E’ la donna l'anima delle crociate mosse contro l'intemperanza e l'ubbriachezza; e certo non vale a diminuire la grande opera benefica, il chiasso delle poche agitatrici esaltate. E’ la donna che presiede al buon ordine degli istituti di carità; che lavora gratuitamente nelle amministrazioni; che esercita da per tutto una intelligente vigilanza: da per tutto ove sono raccolti i bambini, i vecchi, gli infelici, i malati, gli orfani. A Washington, quasi tutti gli ospizii, le case di benefi- cenza, gli asili d'infanzia, sono intieramente tenuti da donne. E nelle scuole di carità, erette in ogni parocchia, sono le signore che la domenica insegnano e spiegano il Vangelo. E in tutti questi grandiosi istituti, trovano asilo, cure, educazione, una immensa quantità di persone, che per una causa o per un'altra sono — a l'infuori dei derelitti che non hanno parenti — allontanate dalla famiglia per sempre o per un dato tempo, o per la giornata, quali aggravi che sarebbero d'inciampo e di danno al buon andamento della casa. Sono istituzioni che detono l'amore per l'umanità e il desiderio evidente di venire in aiuto delle famiglie povere e disgraziate. Ospitare in luogo opportuno, assistere e curare gli infermi, é una delle opere benefiche, sante e di diretto soccorso alle famiglie. L'origine degli ospedali risale ai primordi del consorzio civile. Tutti i popoli, che passarono dallo stato selvaggio alle istituzioni della civiltà, ebbero fra le prime, quello di dar ricovero e ricetto a quanti abbisognavano di ricovero e di assistenza per essere travagliati da morbi o infermità, di vitto e di alloggio. Ospedali, o meglio ospizii, che accoglievano viaggiatori, infermi, accattoni, tapini, poverelli, sventurati e infelici d'ogni maniera, ne ebbero le più antiche e più remote nazioni paganiche ed idolatriche, i Romani compresi, i quali come i Greci, avevano gli ospizii pubblici e privati giusta le tradizioni umanitarie e caritatevoli dei popoli Orientali, di cui la religione e la civiltà furono trapiantate e modificate in Occidente, fino dalle prime età mondiali come si trapiantano, modificano e trasformano tuttodì. Gli ospedali e gli ospizi si resero necessari con l'emancipazione dell'industria e con la nuova organizzazione data a la società umana sotto l'impulso della cristiana civiltà. Nel primo inaugurarsi della religione di carità, quando la casa d'ogni credente era aperta a ciascun confratello e vescovi e preti davano asilo e alimento a chiunque a loro ricorreva, non occorrevano ospedali nè ospizii. Ma con il moltiplicarsi dei bisognosi, più non bastò la carità privata e venne la necessità degli stabilimenti collettivi. Il primo ospedale di malati è quello fondato dalla dama romana Fabiola la quale insieme con altre matrone, dischiuse un ricovero nel quale ella stessa con le sue compagne si consacrava al soccorso degli infermi. E non si limitavano a l'assistenza dei malati le generose matrone; ma offrivano le loro campagne ai convalescienti perché nell'aria pura presto riprendessero le forze. Giuliano imperatore dischiuse le porte di pubblici uffici , agli infermi poveri. Ma i più grandiosi furono quelli eretti da S. Basilio Vescovo di Cesarea, da Gregorio di Nazianzio e da S. Giovanni Grisostomo a Costantinopoli nel 370. La fondazione dei monasteri giovò assai a la diffusione degli ospizi. L'imperatore Giustiniano fece costruire su la via che conduceva al tempio di Gerusalemme, un ospizio per i pellegrini e un ospedale per i malati. Nel Medio Evo l'istituzione degli ospedali sopravisse e la ruina dell'ordine sociale. Due malattie — il fuoco di S. Antonio e la lebbra — che afflissero l'Europa nei secoli IX e XII, contribuirono ad eccitare lo zelo della pubblica e della privata carità. Nel secolo XVI, in mezzo a la lotta cagionata dal protestantismo, la carità cristiana rifulse nelle creazioni dell'ordine ospitaliero di S. Giovannni di Dio i cui religiosi sono conosciuti in Italia sotto il nome di Fatebenefratelli. Nel numero dei grandi benefattori dell'umanità conviene mettere S. Camillo de Lellis che fondò l'ordine dei serviti per i soccorsi da prestarsi a domicilio, S. Vincenzo de' Paoli e la madre Francesca della Croce, fondatrice delle suore di Carità. Il più grossolano senso di pietà e di commiserazione per gli infortuni umani basta a persuadere a chiunque la necessità di provvedimenti pubblici e sociali a sollievo degli ammalati. Pure seri dubbi furono suscitati contro l'istituzione degli ospedali: e da uomini, per ogni riguardo commendevoli. E’ bene — chiedono molti — avvezzare i poveri a respingere da sè e dalla propria casa i loro più prossimi parenti nell' ora del più crudele infortunio qual'è quello della malattia ? . . . Non è questo un rallentare i vincoli che devono avvincere i vari membri della famiglia ? . . . non è un indebolirne l'affetto ? Uno scrittore moderno scrisse così.: « Gli ospedali, nonostante gli inconvenienti che apportano, sono gli stabilimenti caritatevoli la cui necessità è la più facile e venire giustificata. La malattia infatti, flagello che viene ogni giorno ad attestare la fralezza umana, ci assale in un modo cosi impreveduto e subitaneo, che delude spesso tutti i calcoli della previdenza e sopprimerebbe ogni energia, ogni spirito d'intraprendenza, se fosse necessario aver sempre presente i pericoli dei quali può essere apportatrice. Il più severo economista non potrebbe domandare al giovine operaio al cominciare della sua carriera, ed al viaggiatore nelle lontane escursioni, di avere rigorosamente seco i fondi sufficienti per curare una malattia: d'altronde troppo costosa e cagione di troppi inconvenienti, per poter fare assegnamento su gli effetti della carità individuale. Noi più non ci troviamo, per così fare, nei tempi dell'antica ospitalità; non già che si creda il cuore dell' uomo più insensibile che per il passato alle sofferenze dei suoi simili: ma ben altre necessità di famiglia, ben altre condizioni di abitazioni , sono oggi imposte e rendono il più delle volte impossibile l' introdurre nelle pareti domestiche e sovratutto in istato di malattia, uno straniero, che tuttavia non si può lasciar soffrire e morire senza soccorso. A la comunità dunque compete il debito di sovvenire a si fatto bisogno mercè gli stabilimenti ospitalieri: questi formano parte integrante di quelle condizioni di sicurezza ch'essa è tenuta di provvedere a tutti i suoi membri. Nella categoria di queste condizioni entrano ancora più cotali stabilimenti, ove si rifletta, che oltre alle malattie che colpiscono il celibe, l'uomo solitario, il viaggiatore, ve ne sono altre per le quali è necessaria che la società adotti speciali provvedimenti, poichè le loro conseguenze non si limitano a l'individuo che ne è colpito, ma vanno a ferire la pubblica incolumità. Tali sono l'alienazione mentale ed alcuni morbi contagiosi ed anche epidemie, per cui gli ospedali diventano veri ricoveri di beneficenza generale » . Riguardati dunque come stabilimenti destinati a raccogliere l'infermo celibe abbandonato, solo, viaggiatore, gli ospedali devono considerarsi come una delle istituzioni sociale non solo più benefiche ma anche più necessarie; e non è possibile muovere il più piccolo dubbio su la loro utilità. Ma non così assoluto può essere il giudizio che dobbiamo portarne, ove li riguardiamo come ricoveri abituali e permanentemente aperti ai malati della popolazione indigente sedentaria. Riguardo a questa, l’influenza degli ospedali non è cosi innocente e così benemerita come molti possono supporre. E nondimeno è precisamente per queste classi sociali , che la maggior parte degli istituti ospedalieri sono fondati; è specialmente con lo scopo di assicurare ai poveri affetti da malattia e residenti in paese, un asilo e una cura medica che in ogni tempo si è provveduto a la fondazione degli ospitali. E sebbene il primitivo intento della cristiana ospitalità , sia stato quello di soccorrere i pellegrini ed i viandanti ammalati, questi, al di d’oggi, non formano più che la menoma parte degli ospiti, abitualmente raccolti nelle case di pubblica cura; la regola è divenuta eccezione, Ora questa profonda e radicale mutazione nell’indole e nella destinazione degli ospedali, si che i moderni stabilimenti cosi notabilmente differiscono dagli antichi, deve essa riguardarsi come un progresso o come una degenerazione ? … Merita di venire promossa e lodata o di essere segnalata come un pericolo ed una fonte di irreparabili danni sociali ? E’ un fatto pur troppo avverato e notorio , che là dove esistono grandi ospedali nei quali è a chiunque agevole ottenere l'ammissione, si manifesta una tendenza nella popolazione a ricorrere, durante le malattie alle cure gratuite ch'essa è certa di trovarvi. Or bene, una tale tendenza, in sè medesima considerata, non può che riuscire contraria tanto ai precetti della morale quanto a quelli dell'economia. Quando l'ammalato ha una famiglia, è nel suo seno che dovrebbe ricevere i soccorsi dei quali abbisogna ; avvezzare i poveri a respingere da sì; e dalla propria casa i loro più prossimi parenti nel momento della malattia, quando le forze fisiche e morali sono abbattute da! morbo , per metterli a carico della carini pubblica, è tale cosa di cui è difficile concepirne alcuna più dissolvente e più funesta per il sociale ordinamento. E specialmente durante la malattia che rivelasi, in tutta la santa potenza, la fecondita morale della famiglia. I doveri adempiuti e i benelizi ricevuti, la riconoscenza da una parte e la tenerezza dall'altra, le notti passati da una madre o da una moglie al capezzale del febbricitante figlio o marito , i timori le speranze le consolazioni, la solennità medesima della morte, tutti questi sono elementi di educazione di perfezionamento, di virtù, che sarebbe colpa il disconoscere, che è gravissimo errore il trascurare e spegnere nei cuori della popolazione. Per poco che vi si rifletta, è impossibile non sentirsi attristati e quasi sgomenti dal gran numero di pessimi istinti, dall'egoismo, dalla crudeltà, elle in molte famiglie del popolo sviluppa e mantiene l'abitudine di mandare a l'ospedale i loro congiunti non appena questi sono affetti di una di quelle affezioni morbose, che dovrebbero essere una propizia occasione a fare svolgere tutta la potenza d'amore e di pietà di cui è capace il cuore umano. Tali sono gli effetti che dal lato morale produce la spedalità male intesa ed improvvisamente amministrata. Né meno deplorevoli sono gli effetti economici. Fra tutte le qualità necessarie ad assicurare il progresso della umana associazione, niuna importa maggiormente di promuovere e mantenere viva nell'anima, della previdenza. Per misurare la bontà e l'utilità delle pubbliche istituzioni, non vi ha più sicuro criterio di quelle di osservare quale influsso esercitano su questa virtù; quelle che la destano, la secondano e l'incoraggiano sono da encomiarsi come sono da respingere quelle che la deprimono. A questa stregua, chi non vede i pericoli che circondano gli ospedali, aperti gratuitamente chiunque voglia ricorrervi, non richiedendo per l'ammissione che condizioni troppo facili e comuni ? .. Quando — dice un altro scrittore — accostandosi a la maturità della vita, il lavoratore pensa formarsi una famiglia, egli deve previamente accettarne i pesi e i doveri. Ora, supporrà egli di adempire a questi doveri, man-dando a l'ospedale la moglie e i figli malati, riguardando l'ospizio come un rifugio aperto alla sua vecchiezza ? . . . Tale è pure tuttavia la tentazione che gli dà la vicinanza di questi stabilimenti, congiunta con l'abitudine che egli ha sempre veduto seguire dai suoi compagni, con gli esempi che gli vengono continuamente dati. Ciò gli farà dimenticare di risparmiare durante l' età del lavoro: gli farà trascurare i salutari consigli che gli offrono, per i giorni difficili , le associazioni di previdenza; vivrà la dipendente vita del proletario, perdendo quasi la dignità e l'indipendenza del cittadino, logorerà il capitale sociale invece di apportare la sua pietra a l'edificazione del progresso generale dell'umanità. Oltre agli ospedali quali e quanti altri istituti di beneficenza non apre la società, ai poveri, agli abbandonati, agli orfani, ai pericolanti, a l'infanzia, soccorrendo a ogni bisogno della famiglia, con illuminata previdenza ! .. . Sono istituti che dicono altamente il generale sentimento di umanità, il desiderio del progresso morale, l'amore che é il solo legame, la sola religione universale; l'amore, principio di unione , di fratellanza, che Dio ha messo nel cuore, non nello spirito dell'uomo; l'amore, fonte inesauribile di carità. Un amore, una carità previdenti, provvidenziali, che danno la smania di aiutare i disgraziati, di migliorare la condizione del povero, di impedire il male, di diminuire il dolore e avviare al bene ogni classe di persone. Questo amore, questa carità, che pure, salvano da tanti guai, riparano a tante miserie, possono indebolire il sentimento di affetto fra i membri della famiglia; ma come fare altrimenti ? La società è così costituita che è indispensabile provvedere ai mille bisogni di tanti e tanti soffocando forse nella grande opera pietosa gli affetti più naturali. Come provvedere ai bisogni morali e materiali dei bambini e dei fanciulli poveri, dei giovinetti discoli , dalle fanciulle pericolanti , dei ciechi e dei sordomuti, di adulti spostati e incapaci di lavorare, dei vecchi affraliti che sarebbero di spesa alle famiglie ? .. E ci sono, perciò varie specie di ospizi; quello dell'allattamento dei neonati, gli asili d'infanzia, gli orfanotrofi, i ricoveri per i discoli, le case provvidenziali per le giovinette in pericolo , per gli adulti che hanno bisogno di lavoro, per tutti i disgraziati o quasi. Che sarebbe di questa moltitudine di poveretti se la società non pensasse a provvedere ai loro bisogni ? . . . Basterebbe l'affetto della famiglia a soccorrerli, a salvarli dal male ?... . Il cuore, il buon senso, il desiderio della famiglia, logicamente e santamente costituita, fanno pensare con una certa incresciosità agli istituti — per esempio — dell'allattamento dei neonati. Addolora l'idea che una madre deva assoggettarsi a la necessità di staccarsi dal seno la propria creatura, di affidarla per l'intera giornata alle cure degli altri ! E chissà quante poverette rinuncieranno con angoscia, quasi con gelosia, al dovere di allattare i loro piccini, di circondarli delle delicate cure richieste dalla loro debolezza! E vi rinuncieranno per mancanza di mezzi materiali, di tempo, magari Chi sa quante poverette dovranno sacrificare al lavoro nelle casi industriali, nei negozii, nelle famiglie, il piacere di tenersi presso i propri bambini in fasce. Ma come fare se il lavoro è necessario al pane della famiglia ? Sicuro; tutti lo sentono, tutti lo sanno: l'allattamento materno è desiderabile, come quello che offre, oltre molti altri vantaggi, quello di rafforzare i legami della famiglia, di mantenere le affezioni domestiche. La vista della culla eccita l'attività, insegna la previdenza, compensa la moderazione, impone rispetto all'uomo per la donna, comanda il sentimento della protezione. E il bimbo riceve cure, se non più igieniche, certo più tenere; e in tanto gli si figge nel cervello la rappresentazione della madre che lo allatta, del padre che lo accarezza, degli oggetti che lo colpiscono; e le prime impressioni che riceve dal mondo esteriore sono quelle della casa e dell'ambiente nel quale è destinato a vivere. L'alattare i proprii figli è uno dei più santi e cari doveri della madre. « Partorire con dolore — dice Mantegazza — è della femmina. Allattare il proprio figlio, riscaldarlo del calore del proprio petto, dargli un altra volta la vita con l'alimento del seno, è della madre ». Ma pur troppo ci sono delle madri che non sentono questo santo dovere e rinunciano con un sospiro di sollievo a l'incomodo di curarsi dei loro bimbi in fasce, e fanno impegni per affidarli, anche senza bisogno, agli istituti di allattamento. E che dire delle altre molte appartenenti alle classi agiate, che con tutta indifferenza affidano le loro creature alle balie, rinunciando al dolcissimo piacere di allattarle per schivare seccature, per non avere impicci, per non recar danno a la fresca bellezza ?.. Il sentimento della famiglia non può certo trovarsi nel cuore di queste madri: nè per esse gli istituti di allattamento saranno una prova di affievolimento nelle affezioni più intime. Vi sono bambini che passano i giorni della prima infanzia via di casa sempre o quasi. Sono mandati a balia, in campagna, o affidati per l'intero giorno a l'istituto di allattamento; a l'età di due, tre anni, li accolgono i giardini d'infanzia, da mattina a sera. Dai giardini d' infanzia passano alle scuole elementari, e nelle ore che corrono fra la fine della scuola e la sera, sono raccolti nella scuola e famiglia, ove la generosità pubblica li sorveglia mentre fanno i compiti o studiano le lezioni, procura loro svaghi sani e innocenti e quasi sempre del pane per la merenda. Questi fanciulli non si trovano in casa propria che la sera, quando i genitori sono tornati dal lavoro, e stanchi e spesso inaspriti, specie le donne, dalla continua obbligata assenza dalla casa, dalla necessaria mancanza dei doveri di madre di famiglia e di massaia, non sentono altro bisogno, altro desiderio che quello del riposo e del nutrimento non sempre corrispondente alle fatiche sostenute. Quel ritrovo della famiglia non è certo sempre allegro nè allietato dalla pace serena. In simili condizioni di cose come possono rafforzarsi i legami fra genitori e figli, fra sorelle e fratelli ?.. Poi che la società è costituita in modo che in molte classi, i genitori devono disertare la casa per il lavoro, e la donna non ha tempo o pochissimo di occuparsi della famiglia, conviene benedire agli asili, agli ospizii, alle scuole ed ai riareatori laici o religiosi, che nel miglior modo possibile, cercano di supplire a la famiglia raccogliendo i bambini, i fanciulli, gli adolescenti, per proteggerli contro la inerzia, l'abbandono, il malo esempio, per distoglierli dalla via del male che conduce a perdizione, che si oppone al morale progresso, a la economica floridezza della società. Un'altra istituzione che si deve benedire come provvida e pietosa è quella dell'ospizio dei vecchi. Non sono più capaci di lavorare, sono, acciaccosi, e dopo di avere cresciuto i figli, sentono che i figli non possono senza grave sacrificio sostenerli nei loro ultimi giorni di stanchezza, che dovrebbero per molti essere giorni di riposo meritato. L'ospizio li raccoglie, la carità li strappa a la miseria, offre loro tetto, vesti, vitto. La necessità li stacca dalla famiglia; non più vecchi o ben pochi nelle case del povero, non più la saggia voce dell'esperienza, la scuola del rispetto, l'affezione santa fra nonni e nepoti!... Un altro crudele, necessario strappo alle affezioni della famiglia !... Strappo crudele che ferisce il cuore e fa pensare. Ma non sorgerà dunque mai, mai una società abbastanza ricca e devota al dovere, che permetta al vecchio povero di morire dove ha vissuto, fra la gente che ama, seguendo le abitudini incontrate, circondato dall'affetto dei suoi ?.. Perchè la società non è costituita in modo da lasciare il vecchio povero nel posto che Dio gli ha assegnato, là dove l'uomo giovane e forte dovrebbe aiutarlo, la donna averne cura, i fanciulli sorridergli ed ascoltarne riverenti le parole ? E’ così dolce vedere la debolezza sorretta dalla forza, la infermità alleviata dalla salute fiorente, il capo canuto curvo su i riccioli biondi !... E’ invece triste l'ospizio ove sono raccolte tante vecchiaie, ove giacciono sepolti i ricordi, i desiderii, le languide speranze, non di rado il rammarico, qualche volta la sorda, impotente ribellione contro l'ingiustizia. E pure che sia mille volte benedetto l'ospizio che toglie il vecchio povero al freddo, a la fame e pur troppo anche a l'ingratitudine ! Ma che si possa sperare in un tempo in cui la famiglia sia costituita in modo che cessi d'essere necessaria questa pietosissima e grandiosa opera di beneficenza, in un tempo in cui le condizioni sociali sieno tali che l'amore e la gratitudine possano unirsi insieme, per offrire un posto d'affetto e di riconoscenza in seno della famiglia, ai vecchi affievoliti e impotenti al lavoro ! In Danimarca si concedono pensioni ai vecchi poveri. Per ciò fu approvata una legge il 9 aprile 1891: legge che andò in vigore il primo luglio dello stesso anno per tutto il regno, salvo Copenhagen e il suo sobborgo Frederiksberg, in cui andò in vigore nel 1892. Scopo della legge è di accordare pensioni, su fondi pubblici, ai poveri che hanno superati i 60 anni e che possono dimostrare come la miseria non sia per essi cagionata da vizi, o da condotta irregolare o dall' essersi privati di tutto a vantaggio dei figli o di altri. Gli aspiranti a la pensione, espongono lo stato loro e le rendite di cui godono, i debiti se ne hanno, gli aiuti che già hanno ricevuto ecc; e queste loro dichiarazioni devono essere attestate da due persone minacciate da severe pene se dicono il falso. Allora si fa un'inchiesta e si accorda la pensione se ne è il caso. Si può però appellare contro la risoluzione dell'autorità che ha applicato la legge. Nell'anno 1897 furono date in tutto il regno, 52,930 ensioni. Nel 1893, sopra 220 ersone, che avevano varcati i 60 anni, ve n'erano 30 he rice- vevano la pensione e dodici che da loro dipendevano (figli, mogli, ecc.); ma al principio del 1897, il numero dei pensionati era cosi cresciuto, che solamente su 180 persone sopra i 60 anni si trovava la stessa quantità di pensionati. In alcuni luoghi i pensionati sono alloggiati in case, alcune delle quali sono specialmente assegnate a loro soli, e nel 1896 ve n'erano 426 che ricevevano questo trattamento a Copenhagen, e 339 nelle altre parti del regno. Soccorrere con una pensione i vecchi, i quali se hanno famiglia possono vivere con essa senza essere di peso e soffrire avvilimento, cosa che prova il progresso nel sentimento filantropico. Come in tutto, anche qui c'è qualche inconveniente. Per esempio; molti che hanno o stanno per avere i 60 anni, cambiano di residenza per andare in luoghi dove sperano di poter ottenere una pensione più grande di quella che avrebbero liquidato se fossero rimasti nel luogo di origine, e ciò avviene principalmente dalle campagne a la città. Nè mancano questioni e difficoltà che debbono ancora essere risolute, come per esempio: se chi possiede una piccola proprietà possa godere della pensione accordata su i fondi pubblici, o se debba restare a l'autorità il diritto di rivalsa su la proprietà lasciata da un pensionato dopo la morte di costui. Li ogni modo questa legge ha un'azione benefica anche in riguardo ai suoi effetti morali. Il primo di tali effetti è quello di accordare al vecchio la possibilità di passare i suoi ultimi anni con le persone della famiglia; di evitare uno strappo crudele di abitudini e di affetti. Un altro quello di influire su la condotta. Il pensiero, il desiderio, la speranza della pensione, non possono a meno di essere di sprone al ben condursi, al meritare la stima pubblica, e insieme con la stima una sincera testimonianza di regolarità per il momento opportuno. Nel secolo XIX la famiglia del povero fu soccorsa e istruita; ma i vincoli fra i membri che la compongono non vennero rafforzati. E pure non mancò il desiderio di educare negli animi il sentimento della famiglia. Molti sono gli esempi che lo dimostrano, e fra questi il seguente, che si riferisce agli orfanelli. L'istituzione degli orfanotrofi é antichissima. La sorte dei poveri fanciulli privi dei genitori, ha sempre impietosito, ha sempre destato un sentimento generoso. Ma gli antichi orfanotrofi non miravano ad altro che a dare agli sventurati fanciulli senza difesa, un asilo ed una protezione, contro i pericoli d'ogni genere che li minacciavano, senza curarne l'educazione, se si toglie la religione, grossolanamente impartita. Al genio della moderna carità era riserbato di risguardare sotto un aspetto più largo e più filantropico questo genere di benefici stabilimenti. Gli orfanotrofi si propagarono rapidamente in Italia più che negli altri paesi. L'ospizio degli orfanelli fondato in Roma nel secolo XVI, destinava e preparava ad utili professioni i ragazzi ricettati, e il cardinale Salviati vi unì un collegio per i fanciulli che a dodici anni, mostrassero di avere attitudine a l'istruzione letteraria. Papa Innocenzo XII fondò poi un secondo orfanotrofio annesso al grande ospizio apostolico, di S. Michele, nel quale si insegnano le arti meccaniche e le liberali. I due grandi stabilimenti per gli orfanelli di Milano, i Martinetti e le Stelline rivaleggiano con quelli di Roma, Tutte le città ormai hanno il loro orfanotrofio. E i ricoverati ormai non sono tutti obbligati a star reclusi il giorno intero nello stabilimento. Si trovò che nell'officina dell'ospizio, il fanciullo compie per lo più senza passione il suo dovere. Non vi è nulla che ecciti il suo ardore; nulla che lo divaghi e con la divagazione gli rafforzi la volontà. Si è quindi pensato di disseminarli nelle botteghe e nei negozi privati. Così gli orfani possono scegliere il mestiere o l'arte verso cui si sentono inclinati ; la speranza del lucro e l'emulazione servono loro di stimolo; imparano non solo l'arte o il mestiere, ma anche il modo di vivere in società; quindi a fare frequenti e utili osservazioni sul proprio carattere; e sopra tutto a farsi un'idea della famiglia, ne respirano l'aura vitale e educano nel loro cuore quei sentimenti d' affetto che non possono essere svegliati e sviluppati in un ospizio.

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