Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Giacomo l'idealista

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De Marchi, Emilio 14 occorrenze

Vedo che dovrò anch'io regalare almeno una lampada all'altare della Madonna della Noce, quantunque abbia il cattivo gusto di lasciarsi vestir cosí male. Revenons à nos moutons. La ragazza, che fu tenuta finora sotto la protezione di quelle due farfalle angeliche delle tue zie di Buttinigo, sarà per raccomandazione del vescovo inviata a un ospedaletto di suore, fuori della diocesi, dove troverà nei conforti della religione e della carità quel coraggio di cui, poverina, avrà presto bisogno. O iniqui peccatori! Vedete di quali tristi conseguenze siete cagione? e potete ancora andar saccheggiando come i lanzichenecchi le fragili virtú e le riposte dovizie della bellezza? Scherzi a parte, Giacinto; se vuoi proprio bene alla tua povera mammà, come vuoi far credere, non star piú colle mani in mano. Prendi una bella penna e scrivi un letterone coi fiocchi, in cui ti mostri riconoscente di tutto quel che ha fatto per te, e chiedile perdono di tutto quel che le hai fatto soffrire. E prometti di lasciarti guidare da' suoi consigli. Quando si ha una mamma santa e di talento come hai la fortuna di possedere, la strada della virtú è già segnata. E colla medesima penna scrivi allo zio Monsignore un'altra lettera piena di lagrime, che cominci colle parole: "umilmente prostrato a' suoi piedi ." e finisca colla promessa che gli fai di piangere tutta la vita questo tuo giovanile traviamento. Non ti pesi troppo di riempire tre o quattro facciate, che non mai fatica letteraria sarà piú ricompensata. L'esperienza la si deve pagare a proprie spese: ma tu saresti indegno del nome che porti, se da questa esperienza non ricavassi qualche insegnamento e non ne uscissi colla nausea per tutto ciò che è volgare e poco pulito. L'aristocratie c'est de la politesse. Perdona ad una vecchia amica la predica: ma questa volta te la sei meritata. La tua quasi zietta Fulvia. IL CONTE LORENZO A GIACOMO LANZAVECCHIA Cremona, 15 dicembre. Caro Giacomo, Son dovuto partire dal nostro Ronchetto senza prima salutarvi, com'era desiderio mio vivissimo: ma il rigor del verno e questo cuore, che da qualche tempo mi travaglia non poco, mi hanno impedito di scendere a salutarvi alle Fornaci. Sento tuttavolta che andate via via, per quanto di lento passo, riacquistando la sanità, la quale, secondo che parve a tutte le filosofie del mondo, è il miglior dono di natura. Noi abbiamo ritrovato in Cremona le solite nebbie e le tristezze solite; e temo che il verno per le presenti difficoltà politiche non abbia a rimuovere i dolori di questa plebe, cui già troppe voglie mettono in quello stato, che non può trovar posa in sulle piume. Spero nella diligenza vostra (tosto che le forze vel consentano) per dar opera a ordinare un primo catalogo di quelle mie iscrizioni, alle quali è, posso dire, attaccata una parte della mia vita e di quella vanità, che nella vita serve come l'olio delle lampade a rischiarare il sentiero che mena alla morte. Vorrei che l'opera del padre tornasse di sprone al figlio, quando questi occhi saranno morti alla luce del sole, per nobilitarsi, come dice il nostro divino Petrarca, in qualche bell'opera di mano o d'ingegno. La classe nostra, per troppa sete di godimenti sensuali, trascura oggidí quell'arti, che ai nostri maggiori diedero lustro e autorità nel mondo, onde nessuna meraviglia, se all'insorgere dei nuovi ordini e dei nuovi dritti popolari, l'aristocrazia epicurea si mostri impari al compito suo. Questo, come sapete, è mia intenzione dire in quel "Discorso preliminare", che premetterò alla raccolta delle iscrizioni gentilizie e che sarà la mia fatica e il mio ozio in questo tenebroso verno. Vi mando la copia definitiva dell'iscrizione, che ho preparato alla memoria del vostro compianto genitore. "Brevis esse laboro, obscurus fio", posso dire con Orazio: ma nulla è piú tedioso quanto una parola vana; e qui sonmi ingegnato di stringer la maggior quantità di fatti nel minor numero di segni. Ditemi tuttavolta il parer vostro, ché non tanto m'ingegno di piacere quanto di non dispiacere agli amici. Ho dovuto lasciar tale e quale la frase arte laterizia, checché dica quel bon'omo del canonico Ostinelli a cui sono cosí care le cianciafruscole manzoniane. Abbiatemi per vostro. Lorenzo Magnenzio di Villalta. GIACOMO A CELESTINA Fornaci, 15 dicembre. Mia cara e buona Celestina, mia buona sorella, sono stato molto malato, molto malato per te. Per poco morivo del tuo dolore, mia povera innocente. Sarei venuto prima a consolarti, ad asciugare le tue lagrime, se Dio non avesse avuto pietà del mio patimento e non mi avesse per molti giorni tolte le forze e la coscienza di me stesso. Ma verrò, sta certa, appena potrò sopportare questi freddi e le fatiche del viaggio senza pericoli. Ho bisogno di piangere con te e di dirti una parola che ti consoli. Qualunque sia la tua disgrazia, per me è certa l'innocenza tua come è certa la luce del sole. Dio terrà conto de' nostri patimenti e farà giustizia. Se anche la contessa non avesse sostenuta la tua parte contro l'iniquo che ti ha oltraggiata, puoi credere che io avrei dubitato un istante della tua virtú e del tuo affetto? Gli uomini e Dio giudicheranno il colpevole come si merita; ma tu lasciati giudicare da me. Sí, Celestina, il tuo cuore, la tua vita, la tua virtú sono nelle mie mani come il giorno che ho raccolto il tuo primo sguardo d'affetto. Hanno empiamente calpestato questo nostro affetto, hanno trascinata nel fango la nostra virtú, e questo colpo sarà il principio della nostra morte, ma noi possiamo guardarci in faccia senza rimproveri e senza rossore. Io ti assolvo e ti benedico, mia povera figliuola! Se potessi essere costí, vorrei metterti le mani sulla testa per rendere piú fortequesta benedizione. Lascia che essa scenda fino al tuo cuore e lo rinfranchi. Immagino tutto quello di piú spaventoso agiterà i tuoi giorni e le tue notti. Forse avrai maledetta la vita, la fede, la religione, e nel delirio del male avrai meditato cose perverse e terribili. Ebbene, non pensar piú a nulla, non dir piú una parola, non far piú un passo senza prima interrogarmi. Se qualche volta ti par di morire di dolore, come è sembrato a me, pensa che la tua vita non è tua, e che nella tua disperazione io perderei l'ultima forza e l'ultimo sostegno di quel coraggio, di cui ho molto bisogno per me e per gli altri. Se mi vuoi proprio bene, in nessuna maniera potresti dimostrarmelo di piú, come nel mostrarti dolce e ubbidiente a' miei consigli. Fino alle feste di Natale io resterò alle Fornaci: dopo andrò a insegnare in una scuola del Lago Maggiore, a Pallanza, dove hanno bisogno d'un professore supplente per il principio dell'anno. Lascerò accomodare queste nostre cose in modo che non manchino a' miei fratelli i mezzi per lavorare. Se la mamma vorrà venire con me, impedirà che m'intristisca nella solitudine. E chi sa che tu non possa tenerle compagnia? Essa potrebbe avere in te una mano che l'aiuti e nello stesso tempo avresti in lei una dolce e materna assistenza. In paese nuovo molte malinconie passeranno da sé, e può essere che Dio trovi nell'avvenire e per te e per me un compenso a queste terribili prove. Quel che ti scrivo, mia povera creatura, è la voce sincera del cuore, e vorrei scrivere ancora di piú, se non mi sentissi gli occhi velati di lagrime. Ho bisogno di sapere che tu sei buona, tranquilla, obbediente: e poiché queste signore ti usano molta carità, pregale per me di mandarmi spesso tue notizie. Prega l'Addolorata e abbi davanti che nelle nostre afflizioni Dio è presente: anzi, non è mai cosí vicino a noi, come quando ci sembra che ci abbia abbandonati. Il tuo Giacomo. Mai filosofo s'era abbassato tanto, fino a invocare in suo aiuto il nome della Madonna addolorata! mai sapiente s'era tanto rimpicciolito per farsi perdonare il peccato d'esistere! Ma è pur forza riconoscere che dovendo parlare ad un'umile creatura della terra, poco gli potevano servire le ingegnose argomentazioni degli stoici e i sillogismi della coerenza scientifica. La bontà ha questo di superiore, che non disdegna, quando occorre, di essere irragionevole e incoerente. Il cuore ha detto un filosofo corazzato di matematica, ha delle dimensioni e delle ragioni, che la ragione non conosce. Fu questo medesimo sentimento di umile convinzione, che lo persuase qualche giorno dopo a scrivere alla contessa Magnenzio una lettera, che egli considerò quasi come il suo testamento morale: "Mio zio - le diceva - mi ha fatto sapere che la S. V. Ill. desidera avere da me una parola che le manifesti i miei sentimenti e i miei propositi di fronte ai fatali avvenimenti che hanno colpito la mia povera esistenza. Sarebbe ormai un vano orgoglio per parte mia, se volessi opporre un glaciale silenzio alle domande angosciose di una madre, che per antiche ragioni ho l'obbligo di riverire, e che la comune sventura rende oggi agli occhi miei ancora piú degna di rispetto. Mi pare che le mie stesse sofferenze vadano rimpicciolendosi come ghiaccio che si scioglie in un'acqua mortale e profonda. Non sarò mortodel tutto, ma sento il freddo della morte salire da tutte le parti e circondarmi il cuore. Ho scritto a Celestina parole, che mi uscirono spontanee, ma che non saprei ripetere per paura di me stesso, come non ho saputo rileggerle al momento che mi sgorgavano dalla penna, mentre una nuvola pregna di lagrime circondava la mia testa. Se mi lascio trascinare da qualche atto che ha apparenza di perdono, non mi lodi come di una prova di forza morale; ma consideri quel che faccio e quel che dico come la conseguenza dello stato di atonia e d'incapacità, in cui sono ridotto da questi mali troppo crudeli. Credo che anche il mio povero cervello non sia in grado di connettere e di formulare gli elementi di una risoluzione. Come un vinto ferito a morte, accetto tutti i patti e tutte le catene nella convinzione che l'umiliazione non potrà durar molto, e che io non potrò vederne la fine. Non posso non volere io solo e per un inutile intento ciò che è desiderio di tutti quelli che mi vogliono bene. Avrei troppo poco rispetto e troppa poca pietà verso i miei stessi dolori, se respingessi con insolente asprezza la carità di questa medicina. Ho accettato un umile posto provvisorio a Pallanza, dove mi recherò subito dopo le feste di Natale. Avrei voluto partir subito, se di tempo in tempo un resto di febbre non mi avvertisse di usare prudenza, e mi curo non per troppa voglia di guarire, ma per il timore di rimanere troppo tempo invalido a consumare la carità di questa povera mia gente, che non posso sacrificare al mio risentimento. Al mio disinganno basto io, e bene ho fatto a sacrificargli tutte le illusioni, che andavo raccogliendo in un fascio di carte, a cui non potevo piú credere. Perché avrei pubblicato le menzogne di un sogno? Se la cenere è tutto quello che resta in fondo di ogni verità, tanto fa non credere alla fiamma .". - E mentre scriveva queste parole, si compiaceva di carezzare il presentimento che l'eccesso del patimento l'avrebbe presto dispensato dal cercar altre ragioni, riducendolo all'ultima, che comprende tutte le altre.

- gridò Giacomo dal di dentro; e quando ebbi spinto l'uscio: Bravo, - soggiunse - mettiti lí cinque minuti su quella sedia di paglia fin che abbia finito di leggere a Blitz questa bozza di stampa. La posta parte alle nove e non vorrei perdere una giornata. - Fa conto ch'io sia il tuo cane - dissi sorridendo mentre mi mettevo a sedere in un cantuccio. Giacomo, per riconoscere gli errori nelle bozze di stampa, aveva bisogno di leggere a voce alta la sua filosofia a qualcuno; ma, non essendovi alle Fornaci chi avesse la pazienza di stare a sentire le sue astruserie, obbligava Blitz a sedersi nel mezzo della stanza e a dargli ascolto. - "Qual è la causa e qual è l'effetto? - leggeva il filosofo, alzando di tempo in tempo gli occhi verso il cane, che socchiudeva un poco i suoi. - È l'organizzazione il principio della vita o è la vita il principio dell'organizzazione? Quel che Claude Bernard ha detto della vita fisica, io psicologo posso dire della vita morale. Cosa meravigliosa in noi non è tanto la varietà e la molteplicità dei fenomeni spirituali, quanto il nascere e lo svilupparsi dell'uomo morale, che opera e cammina secondo un ideale a cui egli non può resistere". - Ti giuro, Edoardo, che questa bestia capisce tutto, - interruppe Giacomo per lasciare un po' di riposo al cane. - Non solamente egli mi ascolta sempre con quell'immobile attenzione che vedi ora, ma cogli occhi mi dice quando l'idea lo persuade e quando non lo persuade, quando la sentenza è chiara e quando all'incontro è troppo filosofica. Se nel testo c'è poca evidenza, Blitz chiude gli occhi e par che si addormenti come un buon cristiano. Mi lasci andare fino in fondo della pagina? Intanto si scalda l'acqua nel gamellino. - Leggi pure: mi sforzerò anch'io di capire, se non ti par troppa superbia. Giacomo cambiò il foglietto, e, dopo aver richiamata l'attenzione di Blitz, ripigliò a leggere con un tono alquanto declamatorio: "Questo moto verso il miglioramento è la condizione necessaria della nostra vita morale che, nell'inerzia, troverebbe la morte. Ogni passo dev'essere necessariamente un passo avanti nella via del progresso ideale, che è la risultante benefica di tutti gli altri progressi economici e scientifici". Ti pare, Blitz? Il cane mosse un poco il muso e fece dondolare le orecchie. "L'uomo d'oggi è senza dubbio migliore di quello di ieri ." sta attento, Blitz. - E volgendosi a me con uno scoppio di serena ilarità - Guarda, - disse - si direbbe che il vecchio scettico è poco persuaso di questa verità. - "Domani sarà ancor migliore, finché, reso padrone della verità, potrà un giorno sedere ottimo arbitro, giudice conciliatore tra sé e la natura. Dal suo idealismo, come da un trono inarrivabile, il piccolo re dell'universo stenderà sulla natura lo scettro ch'egli tiene per investitura divina e formolerà le leggi eterne della felicità .". Blitz, eccitato dal gesto e dallo sguardo ispirato del suo padrone non seppe piú stare alle mosse, e protestò, se non sbaglio il commento, con due o tre abbaiamenti sgarbati e dispettosi. - Vedi se in lui non c'è lo scettico pessimista? - proruppe Giacomo, abbandonandosi a ridere sulla sua seggiola, che perdeva le paglie per il di sotto. - Tutte le volte che io assicuro all'uomo una qualche superiorità, il mio cane abbaia. Ma abbi pazienza, Blitz: ancora una cartella e poi ho finito. Mentre Giacomo leggeva, e mentre l'acqua del caffè muggiva nel gamellino, sopra una fiamma a spirito in mezzo a un treppiedi di ferro, feci con l'occhio il giro delle quattro pareti di quell'umile cameretta, da dove usciva tanto orgoglio filosofico e tanta fede nella missione conquistatrice dell'umanità. Un letto con un pagliericcio imbottito di foglie secche, quattro sedie scompagnate, un vecchio trumò del settecento, pieno di libri, un tavolino zoppo di tre gambe tenuto ritto da un vecchio Rimario del Ruscelli, ecco tutto l'arredamento. A capo del letto pendeva un quadretto della Madonna del Bosco, di un gusto molto campagnuolo, circondata da un rosario a grani grossi come le noci, e da altri piccoli segni religiosi, che svelavano una mano affettuosa e forse una pia sollecitudine. Se il pensiero è il diavolo, i grani di quel rosario non erano ancor grossi abbastanza per cacciarlo via; ma Giacomo aveva troppa fede nella bontà, per togliere alla sua mamma un'illusione. Dall'imposta della finestra pendeva la borraccia, che gli aveva servito nella disgraziata campagna del 1866 nel Trentino, piccolo fasto, che, insieme al gamellino, ricordava una storia segnata di patimenti e forse di eroismi, di cui non si doveva mai parlare. Anche la vecchia chitarra pendeva attaccata a un chiodo, coperta da un dito di polvere, tra due sacchi di grano, un sacco di carbone e un arcolaio fuori uso. L'indole di Giacomo, cosí facile ad arrendersi ad ogni piccolo bene che parlasse un po' forte, non pareva nemmeno accorgersi della mediocrità e dello squallore, in cui era nato e cresciuto. Abituato fin da ragazzo ai gusti semplici e a cercare nelle reali compiacenze della meditazione il sapore squisito anche delle cose che non si possono avere, non solo non provava alcuna invidia per chi si pasce dei lauti favori della fortuna, ma il non vivere di idee parevagli la piú compassionevole sorte che potesse toccare a una creatura ragionevole. - Scarpe rotte e la testa in paradiso era il motto della sua nobiltà di spirito. Questa soddisfazione tutta interiore, come lo rendeva indifferente e spensierato nelle cose contingenti di questo basso mondo, lo rendeva altrettanto paziente nel sopportar i piccoli inconvenienti della povertà, le umili molestie e i pregiudizi de' suoi di casa, i piagnistei frequenti della mamma, che vedeva precipitare la sua casa, le fantastiche declamazioni di suo padre, che attribuiva al governo anche gli spropositi della sua ostinazione, le scontrosità di sua sorella Lisa (che, per far presto, in casa chiamavano Spaventapasseri), la povertà intellettuale di Battista, che vedeva in lui un prediletto il quale andava spesso a tavola in casa dei signori, perché gli ripugnava la polenta e il merluzzo di casa sua. - Ho bisogno che questa dissertazione sull' Idealismo sia stampata presto, perché il premio non si può ritirare se non si presenta l'opera stampata. E non mai, come in questi tempi, ho sentito il bisogno di denaro, non tanto per me, quanto per questa mia povera gente . Giacomo, mentre parlava, andava rimestando con un cucchiale il caffè bollente nel gamellino, come soleva fare in collegio Ghislieri, quando c'invitava a una discussione metafisica nella sua camera. - A mio padre, come forse avrai capito, manca il senso e l'indirizzo della vita moderna. Egli crede che negli affari basti essere galantuomini, e, quel che è peggio, immagina che gli altri siano tutti galantuomini come lui. Già da qualche anno siè lasciato trascinare in una falsa speculazione con un certo signore che abita quassú a un sito detto la Rivalta, un ex impresario che si è dato all'usura, un chiacchierone che incanta con la sua parlantina. Costui, col pretesto di un impianto d'una sega a vapore, credo che a quest'ora abbia già mangiato a mio padre una ventina di mila lire, e continui a mettere ipoteche su quel po' di terra che abbiamo al sole. Il male si è che il povero pà, per non spaventarsi, si sforza d'illudersi e, abilmente raggirato da quel furbo di professione, crede che il suo denaro abbia a fruttare domani il cinquanta per cento. Non volendo, per un senso d'orgoglio, confessare i suoi torti a persona pratica, cova i suoi pensieri dentro di sé, cerca di stordirsi colle barzellette, se la piglia cogli italiani, coll'esattore, colla ricchezza mobile, ch'egli crede causa della sua rovina. Se noi potessimo aiutarlo! ma Battista non ha che le spalle di buono, e ora si è fitto in capo di voler sposare la figlia dell'oste della Praschetta, che è stata l'amante di tutti i carabinieri di passaggio. Angiolino è un ragazzo che dovrà presto andar soldato. Ci sono io, il dotto, il sapiente, vale a dire il piú inutile. Se fosse greco, potrei dare un suggerimento; ma che vuoi che m'intenda io di mattoni, di tegole, di sega a vapore, di mutui e di ipoteche? Giacomo sorrise e cantarellò sull'aria del Crispino e la Comare: - Maledetto il mio troppo saper. Levò il gamellino dal fuoco, tolse dal trumò due chicchere che collocò sul tavolino, dopo averne rimossa la gran montagna di libri e di fogli scritti che vi stava sopra, e, sedendosi accanto a me, dopo avermi battuto famigliarmente colla mano sui ginocchi, riprese: - Ecco perché ti ho invitato, caro Edoardo, a passar qualche giorno alle Fornaci. Mio padre, che ha della simpatia per te, non avrà difficoltà ad avviare un discorso su questi benedetti suoi interessi, e tu potrai dargli un buon parere. Cerca di vedere un po' in fondo a questa birboneria della sega a vapore e delle ipoteche, e, se è possibile, di arrestare il male prima che diventi cancrena. - Lo farò volentieri. - Io ero tornato quest'anno con molti progetti, ma li metteremo in guardaroba con pepe e canfora fino a un altro anno. - Tu pensavi forse a prender moglie . Giacomo si fece subito rosso in viso, come soleva facilmente quando appena un'emozione un po' forte gli passava nel cuore. Versò il caffè nelle chicchere, tenendo delicatamente il gamellino per un'orecchietta, e, quando ebbe finita la delicata operazione, soggiunse: - Sai che io son legato da un'antica promessa . - Se non ricordo male, si chiamava Celestina questo tuo vecchio idealismo. - Vedi che non è un amore di ieri. Celestina è figlia d'una nostra povera parente, che, dopo essere stata mal maritata a uno scucito sarto di Oggiono, morí nell'estrema miseria. Il pà, col suo gran cuore, si prese la bambina, che rimase sempre con noi, ed è cresciuta con noi, come una sorella, fino all'anno scorso, quando la persuasi a entrare al servizio della contessa Magnenzio. Gli anni non sono piú quelli di prima, e in queste angustie la poverina non voleva piú restare di peso a' suoi benefattori. E poi per metter su casa non fa male l'aver un po' di quattrini in disparte. Un po' di quattrini lei, il premio dell'Istituto io, i mobili dello zio prete, che me li cede volentieri c'era abbastanza per fare in modo che il nostro ente ideale diventasse sussistente; ma anche per quest'anno non si potrà far nulla. Ieri il pà mi fece capire, che se gli potevo prestare cinquecento lire, gli avrei levata una spina dal cuore. Gli ho dato tutto quello che avevo su un libretto della Banca Popolare; e dico il vero che, se l'Istituto volesse anticiparmi i denari del premio, vorrei procurarmi questa consolazione di dire a mio padre: Prendete, è roba vostra. Sarebbe proprio una cosi grande consolazione per me, di poter rendere qualche cosa a questa povera gente, che, se coi libri si potesse far quattrini, vorrei scrivere e stampare tutto quel che mi passa qua dentro . Giacomo si toccò la fronte colla mano, e rimase un istante cogli occhi fissi alla luce della finestra. Poi lentamente, come se parlasse a sé stesso, soggiunse: - Tutte le volte che vedo mio padre sudar sotto il sole, intento a caricare e scaricare mattoni, che lo sento litigare cogli operai e coi capimastri, quando torna dai mercati rauco, spossato, abbattuto, mentre io sto qui di sopra a conciliare i nominalisti coi realisti o a sostenere il concetto dell'anima universale, provo una tale mortificazione di questo sapere che non sa far nulla . - Scusa, Giacomo, - interruppi con grave intonazione - tu lavori a sminuzzare la grammatica ai ragazzi, e ad elevare un edificio morale . - Ben, bene, lasciamola li. - soggiunse con un sorriso tra il lieto e il melanconico. - Intanto anche per quest'anno: cara Celestina addio. Quantunque si sforzasse di cantarellare sul suo patimento, una tenera commozione tremolò nella sua voce. Povero Giacomo! a questo suo amore aveva consacrato la parte migliore della giovinezza, quando la donna è per la maggior parte dei giovinotti allegri o una lieta scapestreria o una bambola divertente. Nel suo ascetismo filosofico aveva accesa una lampada davanti a una cara immagine, e in questa luce mite che emanava dal suo cuore, insieme alla sua virtú aveva potuto trattenerlo un santo rispetto per la celeste creatura, che l'amore monello piglia col vischio. Il tempo che egli aveva occupato in aspettare non era stato perduto per lui e nemmeno per la bella Celestina, se è vero che anche la donna migliori nel pensiero dell'uomo che l'adora. Ma perché l'aspettare sia bello, è necessario che non sia infinito. Se Giacomo, dunque, si doleva del suo destino non sapevo dargli torto. - Non conosco questa tua Celestina, - gli dissi compassionandolo - ma procuro di vederla co' tuoi occhi. - Per il momento non potrebbe essere collocata piú bene. Conosco casa Magnenzio fin da ragazzo, e quel che sono lo devo alla protezione di questi bravi signori. Fu per un legato di questa buona famiglia, che ho potuto avviarmi agli studi nel Seminario di Cremona e bussare alla porta della sacra teologia. Speravano di cavare da me un buon prete, e quando, per non ingannare la loro buona fede, ho dovuto confessare che non ne sentivo la vocazione, non mi tolsero per questo la loro benevolenza. La contessa Cristina è una donna d'animo e di coltura superiore, che sa unire a una grande delicatezza un sentimento elevato del dovere. In casa sua Celestina non può che migliorare. - E c'è anche una contessina? - Donna Enrichetta è una bambina alta, bionda, semplice come una figura di frate Angelico. A proposito di lei, mi fai ricordare che le ho promesso un sonetto per i suoi quindici anni. Tu le vedrai stamattina alla messa, perché per tua norma al Ronchetto e alle Fornaci si è tutti buoni cristiani. - Celestina vale una messa, dirò come Enrico quarto.

Intanto io son del parere che tu abbia a vendere allo stracciaiuolo tutta questa filosofia, che ti guasta lo stomaco. La Lisa indicò i libri e le carte ammucchiate sul tavolino, facendo colle due mani il segno di chi spazzola l'aria. - Già, credi pure, il mondo non lo si rappezza piú nemmeno con la carta stampata e una buona digestione vale una dozzina di belle massime. Quando c'è la salute, a che cosa serve la spezieria? - Tu gli fai la testa grossa cosí - rimproverò la mamma. - Badate a tener nota esatta di tutto quello che spendete per me - disse Giacomo, rannuvolandosi in volto, con uno sforzo doloroso, che gli fece la fronte umida di sudore. - Non parlar di conti, adesso, - riprese la mamma - e non pigliarti pensiero per noi. Don Angelo ha detto che, per tutto quello che ci può abbisognare, si abbia a ricorrere a lui. - L'ha mandato san Giuseppe coll'asinello questa volta - aggiunse la Lisa. - Del resto, non siamo in un deserto e non manca la gente che ci vuol bene. Anche Battista si lasciò rimorchiare dalla mamma a far la pace con Giacomo. Questi lo salutò colla mano, mentre l'altro entrava, raggirando con una mano il cappello e grattandosi coll'altra la nuca. - Voletevi bene e addio! - disse la mamma. - Ora dobbiamo lavorare tutti per ciascuno e ciascuno per tutti, anche per benedire alla memoria di quel pover'uomo, che ci aspetta in paradiso. La Santina passò in fretta un angolo del suo grembiale negli spigoli degli occhi e continuò a promettere per Battista, che s'induriva sotto le carezze della tenerezza, fino a perdere l'uso della favella. La mamma invece (e non isfuggí al nostro malato questo fenomeno) rianimata dal pensiero di essere utile, contenta di vedere un po' di pace tornare in famiglia, stava per ritrovare la sua antica alacrità di spirito. In fondo, la disgrazia di Celestina rappresentava per lei, a parte il dispiacere, la liberazione del suo Giacomo, che con tanto sapere e con tanta abilità poteva aspirare a qualche cosa di piú bello che non sia lo sposare una stracciona senza un soldo, una mezza contadina, una figlia di nessuno. Nel suo orgoglio materno la Santina era persuasa che, se Giacomo metteva il suo cappello sulla soglia dell'uscio, le piú belle doti dei dintorni ci saltavano dentro. Non poteva mancare la visita del vecchio Blitz. Quando capí che il padrone cominciava a veder qualcheduno, il brutto cane, che da cinque o sei giorni non abbandonava la loggetta, si fece coraggio e venne innanzi a fiutare il letto. Giacomo, aprendo gli occhi, incontrò quelli buoni e lagrimosi del fedele animale; sporse una mano dalla coltre, gli strinse il muso, lo carezzò, lo interrogò a lungo con uno sguardo, a cui il vecchio filosofo pessimista rispose con un tremito convulso di tutto il corpo e con un lento dimenar della coda. - Hai sentito, Blitz, quel che ci hanno fatto? - mormorò Giacomo, come se volesse provare la voce e le forze in presenza del suo prudente compagno. - Hai sentito quel che hanno fatto della nostra povera Celestina? E non è finita, ve', Blitz; ne vedrai di piú brutte. Se non propriamente pronunciate, queste tristezze furono espresse dallo sguardo dell'uomo, raccolte e compatite dallo spirito del cane, che, posate le due zampe pelose sulle coltri del letto, mandava un gemito come d'anima sofferente. Le forze fisiche tornarono a poco a poco e, insieme, andava crescendo, al tornare della coscienza del suo stato, il terrore e la vergogna dell'oltraggio ricevuto. L'animo, già cosí paziente e tollerante dei mali, correva, al divampare dell'odio, a pensieri di estrema violenza: l'occhio fissavasi in una sua idea lugubre: l'infermo stringeva ipugni sotto le coperte, o si metteva a sedere sul letto, come se cercasse di misurare le sue forze per una estrema battaglia. Non poteva finir cosí! Era un risveglio assai doloroso e grottesco per un filosofo idealista, che stava sognando l'amabile conciliazione degli uomini colle forze nemiche della natura! All'urto feroce della realtà egli si avvedeva d'aver riflesso nella sua filosofia le cose del mondo forse con una certa limpidezza, ma semplicemente capovolte! Aveva creduto nell'illusione fantastica della sua solitudine di stendere il volo ai piú alti cieli e invece era semplicemente la terra che gli mancava sotto i piedi. Mai ingenuità filosofica era stata piú punita! mai s'era vista una piú grande incapacità! Che gli restava di fare? egli non poteva restar eternamente cosí immerso in un morboso letargo, né chiudere gli occhi bastava per non vedere, né sprofondarsi in un sepolcro significava esser morto. Dalla rovina delle sue costruzioni fantastiche, come tra gli sconquassi d'un'immensa impalcatura posticcia, qualche cosa d'immobile e di massiccio era di sotto, contro cui ogni uomo va a battere la testa, ove non sappia edificarvi sopra la vita. Cadevano i vaghi pensieri, ma restava il dovere da compiere. Bisognava insomma far qualche cosa per sé, per Celestina, per il suo onore, per la famiglia, per l'opinione del mondo, per la pace dei buoni, per il riscatto della coscienza, per il sollievo dell'animo esulcerato, per la difesa degli innocenti, per il castigo dei tristi. Ma dove cominciare? a chi chiedere la forza dell'odio e della vendetta? come rompere le catene ormai irrugginite della sua antica schiavitú morale contro questi benefattori, che non poteva pagare? All'immagine laida del miserabile, che aveva vituperato con bestiale brutalità quanto di piú sacro e di piú puro può contenere il cuore d'un uomo sentiva a un tratto la sua volontà ingrandirsi, farsi di ferro; coll'occhio arroventato fisso nell'aria cercava il vile, lo ritrovava, gli si scagliava addosso, metteva le mani nel suo sangue e di questo sangue, di cui nella squisita debolezza nervosa vedeva le chiazze vermiglie vagolare sulle pareti e sul bianco del letto, provava una vertiginosa ebbrezza. A queste fiammate, da cui il suo spirito debole e titubante era trasportato a esagerate emozioni, seguivano molte ore di depressione morale e di sonnolenza, durante le quali la forza critica della sua mente, quella ch'egli era abituato ad adoperare di piú e di cui, come di un coltello del mestiere, si serviva per recidere i lacci e le corde degli inviluppi morali, rispondeva con una lunga e ironica argomentazione alle rodomontate del sentimento. "Un assassinio? una strage? un duello? Ci vuole un bel coraggio a liquidare con un delitto o con una elegante pantomima il crudele dolore dell'anima tua! Forseche il sangue ha mai potuto lavare una macchia e spegnere una sete? E deve proprio toccare a te questa parte di romantico Ernani, perché si tragga dall'agonia mortale di due cuori un drammaccio volgare, che rallegri e contristi di tragica pietà i lettori delle cronache e dei fatti diversi? A chi gioverebbe una vendetta volgare? poco a te, se pur ti pare che giovi al frenetico il rotolarsi nel fango; nulla agli altri, se non a rendere volgari le piú delicate sofferenze; nulla a pagare il danno d'una vita spezzata; nulla a soddisfare la legge morale; nulla a nessuno insomma, tranne che a far piacere agli invidiosi e agli imbecilli". Ma che poteva fare dunque per quella poverina? All'immagine di Celestina le lagrime gli correvano agli occhi, un nodo angoscioso minacciava di soffocarlo, pareva che le ultime forze della sua vita si ritirassero e lo lasciassero esangue. La voce malinconica, il viso sconvolto, quel tono di morta disperazione, con cui gli aveva parlato l'ultima volta nel viale del giardino, tutto questo tornava vivo e presente a scoraggiarlo di piú. Che cosa rimaneva di tutto il caro edíficio della sua vita di lavoro ideale, di quel loro amore cosí naturale e ridente, cosí tenero di tutte le dolcezze piú spontanee della vita? Questo loro affetto non intessuto di astruserie, come sogliono fabbricarne gli spiriti stanchi e sciupati, ma semplice come un fiore, era stato il suo orgoglio. Celestina, oltre alle virtú native della donna innamorata, che cede all'amore dell'uomo forte e sapiente, rappresentava per lui gli adunati desideri, la bellezza ideale, il sospirato riposo, quanto insomma di eletto sovrabbonda alla vigorosa virtú dell'uomo savio e che la donna raccoglie e conserva per i giorni della stanchezza e del dubbio. All'idea che di un cosí incantevole edificio non restava piú che un mucchio di cenere, egli si rivoltava nel letto, cacciava la testa sotto il cuscino, urlava come una belva ferita chiedendo: perché? perché? L'immaginazione gli procurava non minori tormenti nel fargli sentire quel che al propalarsi del sordido caso, i soliti beffardi avrebbero dovuto dire di lui, della ragazza, della burla giocata al filosofo, della superbia punita di casa Lanzavecchia. O Dio! qualche soddisfazione egli doveva pur domandare a questi signori. Nessun anacoreta avrebbe tollerato che una creatura debole e innocente rimanesse senza difesa e senza giustizia sotto l'obbrobrio di un simile oltraggio, senza assumere nella sua pigra sonnolenza morale una obbrobriosa responsabilità. Il male che si compie, accettando in silenzio il male, è una forma, e non la piú coraggiosa, di complicità. Molte ore restava cosí confitto, come un povero Cristo, alla croce dei suoi pensieri, cogli occhi fissi alla luce della finestra, in cui sbatteva irrigidito il candore della prima nevicata; e ripensando per un ozioso abbandono dello spirito ai fatti piú lontani della sua fanciullezza, evocava gli episodi di quel suo antico amore. Sul muro di quella stessa stanza, dove giaceva a invocare inutilmente la morte, erano rimaste le vecchie traccie di un altarino in due striscie dipinte in mattone rosso, simulanti un padiglione, tra le screpolature dell'intonaco. Celestina era venuta spesso ad ascoltare una messa, che il pretino recitava sopra due sedie con indosso il grembiale della mamma in luogo della sacra pianeta, con in testa un logoro berretto dello zio prete. Qualche altra volta egli l'aveva confessata, stando seduto in un vecchio armadio; poi l'aveva comunicata con un manus Christi della zia Veronica. Quante volte avevano preparato insieme le feste del mese di Maria, addobbando la loggetta di pezzuole, di frasche, di corone di fiori, o avevano preparata per la sera una lunga illuminazione di moccoletti, in mezzo alla quale sfilava una processione di ragazzine e di villanelli scalzi, nel frastuono d'una musica di coperchi, d'imbuti e di scatole di lucilina! Quando Giacomo predicava dall'alto del seggiolone, Celestina con sulla testa il grembialone della zia Santina, stava a sentirlo tutta raccolta e compunta, ridendo a qualche citazione in trappolorum gamberellis, che usciva di bocca al predicatore, con quel suo riso irresistibile che metteva in iscompiglio la divozione. Dal suo letto egli vedeva la chioma biancheggiante dell'antico frassino in fondo alla vignetta, in cui solevano ricoverarsi nelle ore calde e cercar nel fitto dei rami una aerea abitazione e fabbricare colla fantasia case e palazzi incantati, che tremolavano ad ogni soffio di vento. Venivano ad una ad una queste memorie e partivano da lui, come pietose visitatrici, che escano dalla casa di un morto. Che potevano dare questi signori in compenso di tanto bene perduto?

Non spererò mai che Giacinto abbia a pubblicare le mie opere postume. Povero Giacintone! - Il conte ritornava pian piano a ricollocare il primo volume del Forcellini accanto al secondo, senza smettere di ripetere: - Povero Giacintone! piú grande amico dei cavalli che dei libri. Avrei dovuto chiamarlo alla greca, Filippo o Ippofilo. Mi ha scritto ieri una cartolina da Roma tutta piena di parole tenere e senza errori di ortografia. È a lui che voglio dedicare, se campo abbastanza, questa pubblicazione, a cui intendo premettere un "Discorso preliminare intorno agli Uffici della Nobiltà nel presente tempo", che mi sta sul tavolino da parecchi anni e non aspetta che un'ultima spinta . Fabrizio, il vecchio cameriere particolare del conte, comparve in quel mentre sull'uscio: - La signora contessa prega il signor Giacomo, prima d'andar via, di passare un istante da lei. - Dite invece alla signora contessa che l'aspettiamo qui - soggiunse il conte: e fatto un cenno a Giacomo, lo trasse nel vano della porta a vetri, che dava sul giardino, dove, affievolendo colla voce la importanza della cosa, gli disse: - Eccovi le due righe di epigrafe che avrei scritte per quel povero uomo. Voi sapete da insegnarmene, ma la qualità dell'uomo presentava questa volta qualche difficoltà stuzzicante. Imbalsamare gli illustri personaggi è mestier facile; ciarriva anche il sacrestano. Il punctum è di saper far vivere nel sasso un uomo modesto, un fabbricatore di mattoni: qui ti voglio, Giovannino! non si può mica mettere sul marmo la locuzione: Fabbricatore di mattoni e tanto meno quello sguajato (sgua-j-a-to, colla coda, con vostro permesso) epiteto di fornaciajo, e tanto meno fornaciaio coll' i corto. Ergo, come ce la caviamo? il latino dà fornacator, che non ha continuità nel volgare: meglio sarebbe calcarius, ma calcario può indurre nel volgo ambiguità e far pensare a ricalcare, calco, calcagno. Plinio mi dà un buon laterariorum fornacator, vale a dire cuocitore di laterizii, ma c'è pericolo che si cada nell'astruso, mentre il bello, come il sole, è tutto nella chiarezza. Quando poi si tratta di stile epigrafico, il bello è tutto nell'evidenza . Donna Cristina entrò ad interrompere la dotta esposizione, nella quale il conte si rianimava già tutto come un anatrino, che, dopo un lungo tempo di polvere e di siccità, senta tuonare in cielo e subito dopo vede l'acqua traboccare dai fossatelli. Era la prima volta che la contessa rivedeva Giacomo, dopo la morte di Mauro Lanzavecchia: e il giovane attribuí l'animazione dolente, quasi paurosa, con cui gli tese la mano, a un sentimento di commiserazione e di fedele amicizia. - Giacomo non ci dice di no, - cominciò a riferire il conte - anzi la cosa è fatta. Io gli dicevo poc'anzi quel che mi dicevi tu ieri sera; è un piacere e un servizio reciproco, che ci facciamo. I vecchi hanno bisogno dei giovani e i giovani hanno bisogno dei vecchi. - Signora contessa, - prese a dire Giacomo con un'intonazione cosí profonda che per poco non rasentava il pianto - non è la prima volta che io provo la bontà e la generosità illuminata di questa casa e, se qualche cosa mi trattiene dal dire subito di sí, è il dubbio ch'io non sappia degnamente corrispondere. Ringrazio il signor conte, ringrazio lei, donna Cristina. - E, non sapendo piú continuare davanti alla forte commozione, stese le mani a questi suoi due benefattori, fissando gli occhi sulla luce della finestra. - Offrendole questa tenue anticipazione, non intendiamo di umiliare il suo coraggio, caro Giacomo, ma solamente di metterla in grado di compiere piú bene il suo dovere di figlio amoroso e di studioso. Non è un dono, ma un prestito, che vogliamo assicurare alla sua attività. La contessa disse tutto ciò con un accento quasi sforzato, come se ogni parola le cagionasse un tormento. - E poi, Giacomo potrà anche, restando alle Fornaci, dare un occhiata a questa nostra gente. Il fattore è vecchio e comincia a far capire poco quello che dice, come un filosofo anche lui. - Il conte, che per aver ben digerita la colazione era in vena d'allegria, seguitò a battere una solfa leggiera sulle spalle del filosofo che aveva davanti - Finché non torni a casa dal servizio militare Bogella il giovine non farà male un'occhiata intelligente alla casa. Anche questi libri avrebbero bisogno d'un buon repulisti, ma se i servitori ci mettono zampe, addio categorie . Don Lorenzo, in questo istante, per non so quale successione di idee, si ricordò di non aver ancor preso il suo caffè delle tre. Egli soleva fare la sua prima colazione alle sette con un brodo liscio, o con un caffè all'ovo,o con una tazza di cioccolata che Fabrizio gli portava in camera, a seconda delle esigenze dello stomaco. In cucina e nelle sue adiacenze giudicavano subito dell'umore del padrone dalla chicchera sporca che tornava indietro. Brodo liscio significava sempre pranzo mal digerito, notte inquieta, giornata torbida, brontolamenti a tavola, piatti di ritorno, rimproveri al cuoco, accessi di palpitazione, sgomento della contessa, lacrime delle cameriere. Quel doversi mettere a tavola senza voglia di mangiare era per il conte una mortificazione insopportabile, quasi un vivere senza speranza, come avere un bel libro in mano, scritto bene, stampato bene, e non vederci. Per mantenere il buon equilibrio dello stomaco, che pei ricchi è la base della felicità, come pei poveri si vuole che sia il ventre, don Lorenzo faceva gran conto sul suo caffè caldo delle tre, anch'esso un piccolo piacere della vita, che Orazio, il classico gaudente, non aveva conosciuto, una vera nettarea bevanda, che avrebbe potuto ispirare a Virgilio un poemetto didascalico sul tipo delle "Georgiche". Nei primi ardori giovanili, quasi tutti ci sentiamo in qualche parte di noi stessi un poco poeti, don Lorenzo aveva ben carezzata l'idea d'una Coltivazione del caffè in versi sciolti, sull'esempio del poemetto che l'Arici consacrò alla Coltivazione degli olivi; e le quattro parti eran già distribuite con una varietà di scene e di episodi, che andavano dai torridi campi del Guatemala all'Ottagono della Galleria e al caffè Biffi di Milano; ma la difficoltà inaudita d'introdurre in versi rispettabili certe parole, come chicchera e macinino, ne aveva a piú riprese stancate le mani. Dopo averne pubblicato un mezzo canto sull' "Annuario degli Agiati di Rovereto", continuò a berlo il suo nèttare, ma lasciò stare le Muse, che non potevano ispirare quel che non avevano mai provato. Mentre Fabrizio serviva il caffè nelle belle chicchere di porcellana, Giacomo espose nettamente alla contessa il desiderio di avere alle Fornaci per alcuni giorni, la Celestina, in aiuto alla povera mamma. - È impossibile, - scattò a dire la contessa colla istintiva prepitazione di chi si difende da un improvviso assalto; ma poi per correggere sé stessa e per distruggere l'impressione che doveva produrre una cosí recisa risposta: - Cioè, non per dir di no, - soggiunse con umile spiegazione: - in un altro momento non avrei fatto ostacolo; ma in questi giorni aspetto le mie cognate di Buttinigo, avremo gente a pranzo, insomma se me la lasciate . - Che cara figliuola questa vostra Celestina! - disse il conte, che cominciava a gustare col naso il profumo del suo caffè - la mi piace con quel suo fare allegro e villereccio, che mi ricorda la Nencia di Barberino. Quando mi sento di cattivo umore o lo stomaco impastato, la faccio cantare: Va là, villan e mi pare di bere una tazza d'acqua fresca del fonte d'Ippocrene. Birbone il filosofo! - sentenziò socchiudendo gli occhietti maliziosi, mentre indicava col cucchialino alla contessa l'amico Giacomo, che stava prendendo il suo caffè in piedi con un contegno imbarazzato, colla testa accesa da una non ingrata commozione. - Birbone il filosofo, in filosofia, lui dice, io sono spiritualista, hegeliano, trascendentale e, se non vi disturba, anche intinto di panteistico spinosismo; ma in amore cerco il materiale e il palpabile. Questi idealisti son piú birboni degli altri, ve': a noi dànno le penne, ma l'oca se la mangiano loro . Mentre il conte, fatto rubicondo dal piacere, interno ed esterno, rideva cogli occhi, colla pelle del naso e col cucchialino, il volto di donna Cristina, pallidissimo, si fissò sui vetri della finestra in una rigidezza piú severa che dolente. Il conte che aveva la bocca buona, continuò: - Solamente, caro Giacomo, procurate che queste signore non ve la guastino, col loro Sacro Cuore. È diventata una esagerazione questo Sacro Cuore di Gesú. Pare che non si possa esser buoni cattolici, se non si fanno smanie per queste francioserie. Adesso bisogna che anche la divozione ci venga di Francia insieme alla moda dei cappellini. Oggi "Sacré- Coeur", domani "Ravachol" . Il conte, che aveva colla Francia una vecchia ruggine per quel che aveva letto dei tempi del Terrore, non poteva perdonarle la continua e deleteria influenza, che il libro francese esercita sul modo di scrivere dei nostri giornalisti e dei nostri stessi autori, non escluso quel benedetto don Alessandro, che in questa faccenda dello scrivere ha avuto dei grossi torti. - Francioserie di lingua, francioserie di cappellini, francioserie di Madonne e di Sacri Cuori, a furia di francioserie ci sveglieremo una bella mattina con una bomba sotto il letto. Io son vecchio ormai, o almeno spero che questo balzano di cuore mi farà morire a tempo: ma voi, Giacomo, mi saprete dire, cioè non verrete a dirmelo, perché sarò morto, ma vi accorgerete che gusto sarà questo vostro Socialismo. - Non è mio, signor conte, - obbiettò sorridendo Giacomo. - Non è vostro, ma è figlio della vostra filosofia dalle maniche larghe. Ve ne accorgerete, ve ne accorgerete. Speriamo che per quel tempo io abbia finito di mangiare la mia galantina e di prendere il mio caffè. Mi rincresce per il mio Ippofilo, per Filippone, e per quell'angelo che suona il cembalo di là. Il conte tacque per ascoltare alcune battute di una sonatina di Beethoven che donna Enrichetta eseguiva con una garrula agilità. Le note entrarono e risonarono nello studio, come il trillo gaio d'un canarino. La luce tiepida del pomeriggio, passando per le finestre, diffondevasi sugli scaffali, sulle splendide rilegature dei libri, sui vasi di porcellana, sulle cornici dei quadri, sulle stoffe damascate delle poltrone in una festa tranquilla di colori e di forme, in mezzo a cui apriva le braccia un mite crocifisso d'avorio biancheggiante su un drappo rosso ricamato in oro dalle mani della contessa e sormontato dallo stemma di casa. Duemila lire! Giacomo, nel ritornare alle Fornaci per la bella strada che gira dietro il "Roccolo" di don Andrea, non fece che pensare a questa offerta, che gli avrebbe permesso di lasciare per qualche tempo l'insegnamento e di rimanere alle Fornaci a dirigere la liquidazione e gli accomodamenti della sua casa. Duemila lire! S'egli tornava indietro col pensiero fino alle prime memorie della vita, non ricordava d'aver posseduto mai, tutto in una volta, una somma cosí grossa e veneranda, né di aver mai pensato, in mezzo alle ipotesi della possibilità, a quel che si può fare con due mila lire in mano. Gli era nota la forza del sole e anche quella dell'intelligenza umana, che sa predire le eclissi: ma della potenza dinamica del denaro, se aveva un'opinione confusa, per quel che si può vedere guardandosi in giro, non ne aveva mai provata la sensazione immediata del possesso, sensazione che gli metteva in corpo una specie di vanagloriosa ebbrezza. Gli pareva che con due mila lire un uomo, che non fosse stato ne' casi suoi, dovesse realizzare un tal patrimonio di compiacenze e di cose felici che a descriverle bene non sarebbero bastate due mila pagine d'un bel formato Le Monnier. Bastava dire che in grazia di quei quattro foglietti da cinquecento, chiusi in una busta di carta, egli avrebbe potuto sposare e vivere un anno lautamente con Celestina in quattro camerette imbiancate di fresco, tra quattro mobili profumati di vernice fresca: unanno di paradiso, mezzo in terra e mezzo in cielo, di cui non sapeva supporre le delizie, senza provare delle vertigini quasi mortali. E faceva conto che restasse ancora il margine per una cinquantina di libri tra vecchi e nuovi, che, a furia di farsi desiderare inutilmente, eran diventati anch'essi una specie di amoroso tormento. A Bergamo aveva veduto esposto in una bottega un vestito intero di un panno grigio-ferro per sessantacinque lire: c'era da far la figura di un signorone. Per men di quaranta lire un suo collega, piú disgraziato di lui, gli aveva offerto un orologio d'oro, che avrebbe potuto diventare uno splendido anello con un rubino, un simbolo lucente che parlasse alla santarella d'un cuore vivo, coronato di spine, come quello del buon Gesú. E tutto questo per duemila miserabili lire, per molto meno, cioè, di quel che costa un cavallo! Il denaro non è l'idea, ma compera i padroni dell'idea. Misteriosa calamita, attira la simpatie degli uomini, di cui consolida il lavoro e la forza, come il raggio del sole si consolida nei frutti della terra. Il denaro è la volontà del mondo fatta metallo, è la forza quasi divina della materia, che il cieco volgo prosternato adora; e peggio per chi non ci crede! Le porte d'oro del piacere non si apriranno agli empi. Se non che le benedette duemila lire non erano per lui che una goccia di rugiada al sole. L'avvocato Brognolico aveva parlato chiaro. Si sarebbe tentato un concordato coi creditori, che, non potendo continuare essi a fabbricare mattoni, forse avrebbero potuto nel loro interesse venire a una intelligenza coi Lanzavecchia, che da padroni di casa dovevano rimanervi come servitori degli altri. Alla povera mamma doveva parer brusca questa sentenza, e piú brusca alla Lisa, con quel suo carattere indocile e caparbio! Battista doveva per ora e forse per sempre rinunciare alla sua Fiorenza, la quale non aveva servito che di specchietto per tirare gli allocchi nelle reti del sor Francesco della Fraschetta, un gran positivista anche lui! e anche Angiolino aveva finito di divertirsi colle sue trappole ai topi e cogli archetti agli uccelli. In quanto al sor Giacomo, il gran fabbricatore e negoziante di nebbia, come aveva già detto: Cara Celestina, addio, poteva aggiungere anche: Addio, filosofia! I creditori, gli avvocati, il curatore, il giudice, non potendo battere un morto e avendo bisogno di un vivo che potesse rispondere, venivano a cercare e a tormentare lui, che aveva studiato e perfino stampato dei libri. Camminando per la bella strada del sole, Giacomo cosí parlava all'ombra sua, che gli scivolava di sotto i piedi: - Intanto bisogna che ti metta nelle mani d'un uomo pratico, che ti consigli e ti mostri fin dove è dover tuo riconoscere gl'impegni di tuo padre. Un sapiente della tua forza è un pulcino nella stoppa in questi affari; tutti sistemi di filosofia presi insieme non pagano un soldo di pane. In queste angustie le profferte di casa Magnenzio e il soccorso pronto di questi buoni signori sono la mano di Dio, e tu non potresti rifiutare senza esporti al biasimo di altezzoso, di superbo e di sconsiderato. Non è elemosina, bensí una onesta anticipazione, che potrai restituire con largo interesse in altrettanto lavoro; ma fosse anche l'elemosina, il respingerla quando viene fatta a questo modo, sarebbe piú una scontrosità che un atto dignitoso. Si fa del bene anche col lasciarlo fare agli altri, e il saper ricevere non è merito piú comune che il saper dare. Se si toglie ai signori ogni occasione d'esser utili al prossimo, non si sa perché Dio li metta al mondo. Anche la ricchezza finirebbe col diventare un'illusione, se non giovasse a diminuire i mali del mondo, mentre nelle mani dei buoni e dei generosi la ricchezza è la vicaria della Provvidenza in terra. Tra questi pensieri giunse in vista delle Fornaci. Blitz,quando riconobbe il padrone, gli mosse incontro a fargli festa con un gran dimenare di coda. Giacomo gli strinse il muso, lo guardò negli occhi, e mettendogli vicina al naso la busta suggellata: - Indovina - gli disse - che cosa c'è qua dentro. - E siccome il cane ignorante non sapeva che odore avesse il denaro, Giacomo gli batté la busta sul naso, dicendogli: - Questo è l'Assoluto, asinaccio!

. - Io credo, signor conte, che ella non abbia un senso troppo esatto della gravità della situazione - osservò con forzata benevolenza il mediatore della pace. - Se Ferrazzi dichiara la guerra, è un uomo che sa tener bene la penna in mano. - Oh sí, me ne sono accorto, - scoppiò a dire buffonchiando il conte, che aveva sotto gli occhi il famoso L'orenzo. Brognòlico a questi sgambetti, a questa diplomatica impassibilità del conte, dubitò per un momento o di essere arrivato troppo tardi, cioè a cose già accomodate, o di avere a che fare con un politicone raffinato, e che sapeva rappresentare a meraviglia la sua parte di gonzo. La sua grande furberia gl'impediva d'immaginare il caso d'un uomo, che di furberia non ne aveva né punto, né poco. Temendo rimetterci anche le spese del viaggio, si affrettò a sparare tutte le batterie di guerra, nella speranza d'intimorire col rumore quelli che non poteva ferire colla mitraglia. - Senta, Eccellenza, - riprese, attaccandosi colle due mani alle spranghe degli occhiali - a parte la questione personale, creda pure che se Ferrazzi o altri, - (e tenendo la mano sollevata in aria aspettò un istante per dar tempo al conte di capire quel che egli credeva che l'altro fingesse, per una politica sopraffina, di non capire) - se Ferrazzi o altri mettesse alla luce questa storia, sarebbe una vera degringolade per tutto il partito cosí detto ben pensante. La tensione dei partiti del nostro Collegio è tale che basta una goccia d'acqua a far traboccare un mare d'inchiostro. Se lor signori non trovano il modo di appianare la cosa sulla modesta base concordata dall'onorevole di Breno e da Monsignor di San Zeno, garantisco che questa primavera portiamo un deputato radicale massonico a Montecitorio. Uno scandalo in casa Magnenzio, compromettendo i piú bei nomi dell'aristocrazia, farà perdere vent'anni di lavoro al partito clericale. Noi abbiamo le nostre Società operaie fortemente organizzate, e, se tre o quattro giornali vogliono divertirsi, lo scandalo Magnenzio, San Zeno, Lanzavecchia, abilmente lanciato, in quindici giorni fa il giro di tutta Italia. Siccome sonoamico politico non solo di Ferrazzi, ma ho qualche relazione all'Estrema, so quel che si può fare, quando c'è l'interesse di fare. D'altra parte, ho molta stima per l'onorabilità e la rispettabilità della sua casa, caro signor conte; conosco anche il signor Giacomo Lanzavecchia e so che uomo è; finalmente son uomo anch'io, so capire e compatire questi peccati di gioventú; anzi, è il caso di dire: chi di voi è senza peccato scagli la prima pietra. Ma la politica non ha viscere di pietà; quando ha fame divora, se non altro, anche i suoi figli. Permodoché, tutto sommato, vale a dire, tenuto conto degli interessi morali da una parte, degli interessi pubblici dall'altra, io credo che, in ultima analisi, noi dovressimo proprio venire a una soluzione pacifica. Ci vuol pazienza, caro conte, il mondo va pigliato com'è. Pensi che nel grosso del pubblico non c'è nulla che faccia tanta impressione come un romanzetto galante tra un elegante della jeunesse dorée e una povera ragazza del popolo. Le figlie del popolo, che servono ai piaceri dei ricchi, è un tema non ancora sfruttato, molto piú in questo caso, in cui c'è modo di battere insieme al blasone anche l'eroismo d'un ufficiale di cavalleria, che, mentre gli altri vanno a farsi ammazzare in Africa, resta a casa ad abbracciare e sedurre le cameriere. Perdoni, don Lorenzo, se oso dare al cuore d'un padre queste crudeli trafitte; ma è bene che ella abbia sott'occhio tutto quel che si può dire e tutto quel che domani potressimo stampare. Qualora, invece, si cercasse di accomodare lo strappo inter nos, senza bisogno di testimoni e di reciproche scritture, né venti, né venticinque mila lire devono parere una somma esorbitante. A questa lunga e corrente esposizione dell'avvocato Brognòlico, don Lorenzo, tenendo le mani appoggiate ai ginocchi e gli occhi immobili nel volto del suo interlocutore, prestò un'attenzione che andò di sorpresa in sorpresa, di meraviglia in meraviglia, di curiosità in curiosità, di paura in paura come proverebbe un villano ignorante davanti ai prodigi diabolici d'un abile prestigiatore. Partito col desiderio di conoscere chi fosse il famigerato Galiasso, prima trovò che il brigante era un giornalista, poi che il giornalista era d'accordo col deputato, il quale, non capiva bene in qual modo, se l'intendeva col vescovo per minacciare qualche cosa di grosso, non a lui, pover'uomo, ma a qualcuno de' suoi, che aveva abbracciata una cameriera. E quel ch'era piú bello ancora, le tremila lire di Galiasso diventavano, strada facendo, ventimila, venticinquemila. Nello sforzo che egli faceva dentro di sé per entrare nello spirito di questo strano racconto, in cui vedeva, peggio che nelle Metamorfosi d'Ovidio, un brigante trasformarsi in un narciso e un framassone in una mitria, tutte le rughe del volto confluirono sulla sua fronte, le grosse ciglia bianche formarono come un cespuglio spinoso sopra il naso, la sua carnagione andò oscurandosi come sotto una nuvola, che passasse davanti al globo della lucerna. E di mano in mano che l'avvocato andava pesando il pro ed il contro, riferendosi con certezza a fatti che erano ignoti a uno di loro, il povero conte si sentí inondare da una fredda paura, da un febbrile sgomento, che gli tolse la capacità di rispondere. Quando il Brognòlico cessò di parlare, don Lorenzo rimase lí colle mani sui ginocchi, gli occhi attenti ad aspettare il resto della curiosa storia. Vedendo che l'avvocato non aveva piú nulla a dire e che ora toccava a lui, proprio a lui, di parlare, alzò lentamente una mano, che tenne sollevata un pezzo in aria, mosse le labbra entro una frase sconnessa, in cui passò ancora una volta il nome di Galiasso, e, allungato il braccio tremante fino a toccare il bottone del campanello, a Fabrizio che comparve sull'uscio, chiese: - È tornata la signora contessa? - Sí, signor conte. - Digli che l'aspetto qui. Nel breve intervallo che rimasero ancor soli, l'avvocato, che stava studiando l'effetto della sua proposta sulla cera appannata del conte, interpretando il suo silenzio come un freddo e disdegnoso risentimento, cercò di raddolcire la sua proposta, dicendo che non si sarebbe mai fatta una questione di numeri, che, con un po' di deferenza dalle due parti, si sarebbero facilmente messi d'accordo. Donna Cristina era appena tornata dalla conferenza, quando Fabrizio venne ad avvisarla che il conte aveva bisogno di parlarle. Al nome dell'avvocato Brognòlico, ch'essa conosceva come un suo nemico nato, vale a dire quanto un giacobino deve essere nemico di un aristocratico, indovinò quel che poteva essere accaduto. Fabrizio non osò disingannarla. Si può immaginare che cuore fosse il suo, quando con passo rotto, con una pesante spossatezza di tutto il corpo, entrò nello studio del conte - Guarda un po', Cristina, se sai spiegare questo biglietto del deputato di Breno - Il conte, in piedi dietro la scrivania, indicò col tagliacarte d'avorio l'avvocato, che all'entrare della contessa si era tirato in piedi anche lui e stava in attitudine rispettosa: - Presento il signor avvocato Galeazzi: voglio dire Ferrazzi . - Brognòlíco - corresse l'altro; il quale, volendo in poche parole far capire alla signora lo scopo e l'importanza del suo mandato, si affrettò di soggiungere: - Signora contessa, vengo a nome di Monsignor vescovo. Il conte, sempre in balía d'un tremito convulso, toccando ora un libro, ora un calamaio, ora una penna, come se cercasse con questi contatti materiali di scaricare una corrente di elettricità, agitando il tagliacarte in aria, domandò volgendosi alla contessa: - Devi tu qualche cosa a Monsignore? ti sei forse impegnata in qualche obbligazione politica? chi è che abbraccia le cameriere in casa mia? Si può sapere qualche cosa di quel che si fa e di quel che si búggera in questa casa? mi scrivono lettere minacciose, vengono in casa mia a farmi delle proposte disonoranti, mi oltraggiano in ciò che mi resta di piú nobile, e non mi è dato nemmeno sapere a chi devo dir grazie. E che c'entrano i giornali coi fatti miei? Io non li leggo nemmeno i giornali, per non guastarmi lo stile, e quindi posso pretendere che non abbiano a occuparsi di me. Sai che cosa ha avuto il coraggio di dire questo signore a un nobile Magnenzio di Villalta? - Il conte nel metter fuori queste parole appuntò il tagliacarte d'avorio come una spada verso gli occhiali affumicati. - Ha avuto il coraggio di dire che in casa Magnenzio le figlie dei popolo servono ai piaceri dei padroni . La contessa, non potendo piú sostenersi sulle gambe, si lasciò cadere col corpo quasi sfasciato sopra una sedia. Era un'altra battaglia perduta. E il conte, sempre piú acceso in viso d'un color rosso, che faceva comparire ancor piú candidi i capelli lunghi ed i baffi, battendo col tagliacarte sul legno della scrivania, prese a dire, colla dignità con cui avrebbe declamato all'Ateneo di Bergamo il suo "Discorso preliminare": - Signor avvocato Brognòlico, lei è entrato in casa nostra colla presentazione d'un amico e d'un parente e io amo rispettare in lei il carattere sacro dell'ambasciatore; ma mi permetta di dirle, e lo dica pure a chil'ha mandato, che i Magnenzio, da Berengario in poi, non solo non hanno mai risposto a proposte disonoranti, ma possono dire con Dante: la vostra miseria non mi tange . E come se in questo supremo sforzo morale si fosse consumata l'ultima energia della schiatta, il conte, arruffato un gran gesto colla mano stanca in aria, restò a bocca aperta, paralizzato, nell'incapacità fisica di continuare. Accorse Fabrizio, che, sorreggendolo, gl'impedí di cadere. La contessa gettò un grido spaventato e si affrettò a riceverlo nelle braccia. Si mosse anche l'avvocato, che ritirò le sedie, fece largo per aprir la strada verso l'uscio della cameretta vicina, dove il povero conte fu adagiato su un divano. Preso da uno dei suoi accessi di cuore, sbarrando gli occhi, non faceva che mormorare delle sillabe scucite, che parevano invocare un po' di carità, un po' di compassione. Agli squilli dei campanelli uscirono altri servi, accorse miss Haynes, che fu mandata indietro a trattenere donna Enrichetta. Il conte cominciò presto a riaversi. Allora donna Cristina, tirato in disparte l'avvocato, definí con lui in un discorso concitato e positivo quest'ultima parte della vertenza e gli consegnò un biglietto per il ragioniere Riboni. - Sono addoloratissimo, creda, signora contessa, di essere stato causa innocente di tanto male; se avessimo immaginato che il signor conte non era al fatto delle cose, non avressimo certamente. - Ma la contessa gli voltò le spalle prima che egli avesse potuto finire. Col prezioso biglietto in mano Brognòlico traversò le due anticamere, uscí sullo scalone, si fece indicare da un servo lo studio del ragioniere Riboni, e guardando l'orologio per rifare i suoi conti sul tempo, si rallegrò in cuor suo di aver spazio avanti a sé anche per mangiare un boccone. Se avesse potuto formulare in parole la confusa compiacenza, che rischiarava in quel momento la sua diplomazia, senza pretendere di far ombra a Nicolò Machiavelli, avrebbe potuto riassumere il suo pensiero in questa grave sentenza: "La miglior politica non è quella che corre, bensí quella che arriva a tempo".

Se Giacomo ha avuta la fortuna di trovare dei benefattori che l'hanno fatto studiare, non è una ragione perché egli abbia a mangiare dei sassi. Non sarà mai un disonore che il nome d'un Lanzavecchia sia stampato sul cartone d'un libro. Io non so che cosa è la scienza, perché la vacca quando ero un ragazzo mi ha mangiato l'abbecedario, ma mi diceva il conte Lorenzo, quando sono andato ieri a portargli le tegole per la rimessa, mi diceva che a Bergamo e a Venezia son rimasti di princisbecco per quel che Giacomo ha scritto su quel cataclisma dell'avvenire: dillo tu come si chiama quel tuo libro per cui ti hanno dato un premio. Né io, né tua madre non ne capiremo mai una saetta, perché siam nati quando andavano ancora in processione le formiche; ma don Lorenzo non è un'oca, e, in intuito, istruzione, sa quel che pesano le lasagne. Io non so che cosa sia la scienza, ripeto, ma fosse anche una scopa, il merito è di saper adoperarla. E se quei signori di Venezia dànno un premio di tre mila lire a un Lanzavecchia, capisci, scarmigliona . - Mi dànno meno, molto meno, pà - interruppe Giacomo sorridendo. - Poiché Dio ti ha dato il dono di maneggiare bene la penna, dovresti, gamba di un cane, scrivere qualche diaspro su questa porcheria dell'esattore, che ogni anno ti aumenta la ricchezza mobile. Sotto il cessato governo austriaco, prima del sessanta, sipagava il pane in questi paesi non piú di cinque soldi la libbra, e per cinque soldi avevi un boccale di vino di Mondònico che avrebbe fatto cantare i morti. Oggi questi italiani ti fanno pagare sette soldi la libbra il pane, e dico soldi di cinque centesimi l'uno; e a stento per ottanta o novanta centesimi ti dànno uno scongiurato vin di Barletta che ti abbrucia le viscere. Sotto il cessato, un onesto padre di famiglia, che non avesse il capo alla politica, era sicuro di lasciare un po' di dote alle sue figliuole, fare una posizione a cavallo ai maschi, e salvarsi un bicchier di vin vecchio. Sotto questi che comandano adesso, uno non salva nemmeno i denari del suo funerale. E voglion che si gridi viva l'Italia! Grideremo: Viva i ladri! Che se domani volessi, per citare un caso, maritare quella povera cristiana, - e nel dir queste parole il vecchio fornaciaio andava segnando colla punta della forchetta la ragazza lunga e liscosa, - dopo quarant'anni di sacrosanto lavoro, mondo scongiurato, non ho quasi da comperarle un paio di scarpe - O caro il mio pà, se lo dite un po' piú forte, vengono a cercarmi i tre re magi - protestò la Lisa, ridendo nel piatto con un fare tra l'amaro e il dispettoso. - Sí, sí, cara la mia ricchezza mobile - seguitò quel rumoroso padre di famiglia. - Oggi l'aver dei figliuoli non è piú una consolazione. Ecco quel che dovresti scrivere in bel volgare, Giacomo, scriverlo e stamparlo sulle loro gazzette a questi italiani, che il diavolo porti sulla forca . - Ohibò, un uomo che ha avuto un figliuolo garibaldino - provai a dire per far sonare un'altra corda meno stridente; ma il vecchio impetuoso, che cominciava a sentire le tazzette del suo vecchio diaspro, e che da quel ch'era facile capire, sedeva su vecchie piaghe, mi tagliò la parola in bocca per dirmi, strillando come un'oca: - Eh, eh, si è ben creduto che il Garibaldi e compagnia bella dovessero portar l'abbondanza. A sentire gli italianoni d'allora si dovevano legare le siepi colle salsiccie e l'Adda doveva correre vin di Piemonte. Mondo scongiurato, che fallimento! per ogni garibaldino morto per la patria, son spuntati dieci esattori vivi che ti mangiano vivo. - E come se cercasse di spegnere un gran fuoco interno, Mauro Lanzavecchia tracannò la sua quarta o quinta tazzetta. In mezzo a questi discorsi, nei quali però né Battista, né Angiolino non misero mai parola, la cena finí presto. La mia presenza forse dava ombra ai due giovani, che, finito appena d'ingoiare l'ultimo boccone, dettero una selvatica buona sera e se ne andarono pei fatti loro. - Non tornare a casa come l'altro sabato, Battistella, se non vuoi che ti rinfreschi col secchio del pozzo - gridò il pà verso il maggiore dei due che si allontanò zuffolando. Poi, voltosi a me, soggiunse: - È un ragazzo un po' corto di cervello, che si lascia facilmente ingarbugliare dal vino. Forse non è tanto la quantità che fa male, quanto il meridionale che ti vendono quest'italiani di osti. Piú tardi venne a sedersi intorno alla tavola, nella frescura del pergolato, che tremolava teneramente al caldo riflesso della lampada, il maestro della banda, e quel don Andrea, padrone del "Roccolo", un prete bergamasco, che avviò il gran discorso della caccia, delle allodole, dei fringuelli, delle quaglie, dei cani da naso, dei cani da fermo, con quella gravità di sentenze, che ogni buon bergamasco mette in questa speciale istituzione della sua provincia. Essendo sfuggito al prete un giudizio alquanto avventato sulle correnti d'aria della riva lombarda, dove la passata degli uccelli in certe stagioni è quasi nulla, tale da non pagare nemmeno la spesa delle reti, il patriottismo del sor Mauro si risvegliò di botto come un leone affamato; e tra lui e quel pretucolo ruvido e nero come un carbonaio, il battibecco durò un pezzo con tanto calore che bisognò rinnovare il fiasco. La sera passò d'incanto, e non mi parve vero che fosse l'ora d'andare a dormire. Prima di salire a sognare la polenta colla ricchezza mobile, mi lasciai condurre da Giacomo a fare un giretto intorno alle fornaci, su cui batteva una bella luna d'agosto in ritardo.

Mi pare che, prima d'ora, non abbia mai saputo che cosa sia soffrire, né mai prima di questa grande battaglia ho tanto compatito chi piange. Ora, sí, sento nel cuore le sette spade dell'Addolorata e capisco come le ricchezze, i titoli gli onori, le vanità del mondo, non valgano un'ora di buona coscienza. Non c'è donna cosí povera tra queste contadine, colla quale non farei cambio volontieri, se Dio mi potesse restituire la pace. No, il morire non è il peggior male: è peggio il non poter morire, quando si vuole. Dio sa se io vorrei essere sotto la terra da dieci anni! almeno sarei morta nell'illusione della mia felicità, nella freschezza delle mie gioie materne, sarei morta compianta, benedetta, e avrei trovato nella memoria de' miei cari il suffragio, che ci fa vivere anche dopo la morte. Questa invece non è né la vita, né la morte. È un'agonia, un singhiozzo che non cessa mai. Io sono un dolore solo, temo d'ogni scossa, non ho piú lagrime e non ho finito di piangere, non ho riposo né giorno né notte, e, poiché non posso morire, invoco quasi la pazzia, che mi liberi da questa spaventata coscienza. Lorenzo, che non deve mai saper nulla, s'è lasciato persuadere a restare al Ronchetto fino a dicembre: cosí almeno spero di poter rivedere il giovine e di strappargli almeno una promessa, che salvi la mia povera casa. Come potrei abbandonare questo campo di battaglia? Alla ragazza non dite nulla per ora di questa malattia del giovine; ma procurate di secondare le idee, che espongo nella lettera qui inclusa per lei. E poi pregate per me: mai ho avuto tanto bisogno della preghiera di tutti. Giacinto non scrive piú, ma so che mi rimprovera di non saper far nulla per lui. Non immagina nemmeno quel che mi costa di fatiche e di spasimi questa sua colpa. Dio salvi lui e me dal dover rendere i conti, Quando mi sforzo d'immaginare quel che accadrebbe intorno a noi, se uno di questi giornali nostri nemici, che combattono per l'empietà, stampasse il nostro nome nella cronaca degli scandali; quando penso al giudizio che di lui, di me, di suo padre pronuncerebbero i nostri parenti e gli amici che ci stimano, dico il vero, non mi pare quasi che sarebbe un maggior avvilimento, se Giacinto riparasse al suo errore, come si fa in altri ceti, sposando la ragazza."

"Che l'ex- impresario abbia a cercare anche questa volta il suo vantaggio, è chiaro come il sole; ma, nel suo vantaggio, non si può negare che non vi sia un utile e una sicurezza anche per noi. I miei fratelli, se va quest'accordo, metterebbero le braccia, e l'ometto della Rivalta il grande ingegno che Dio gli ha dato per far quattrini. La casa resterebbe cosí assicurata a queste povere donne, che, alla sola idea di andar raminghe per il mondo (e dove si andrebbe?), si lascierebbero morire di spavento. Questo signor Mangano trova che io non manco d'un certo bernoccolo per gli affari, e da una settimana in qua mi ronza intorno, perché persuada la contessa a cedergli un certo campo e una cascina, detta la Colombera, in corrispondenza di alcune cambialette di don Giacinto cadute nelle sue mani. È un tasto doloroso che dovrò toccare alla contessa: ma non è la prima e non sarà l'ultima volta. Ed eccoti, caro trapezio, come un filosofo idealista, quasi trascendentale, può trasformarsi, senza ch'egli se ne accorga, in un mediatore di affari e in un fabbricatore di tegole. Ovidio non ha prevista questa metamorfosi". E finiva la lettera con questa notizia: "Celestina è stata poco bene in questi giorni con una piccola minaccia di tifo, che pare scongiurata. Essa ha trovato nella contessa una madre amorosa, che me la farà guarire". Giacomo era tanto lontano dall'immaginare il terribile disastro della sua vita e dal supporre nella gente oscure intenzioni che non esitò a trattare direttamente per incarico della contessa questa faccenduola delle cambiali di don Giacinto, recandosi egli stesso una bella mattina di ottobre a far visita al signorotto della Rivalta. L'edificio, che portava il nome di Rivalta, avrebbe quasi potuto aspirare all'onore di palazzo, se non fosse stato il deplorevole abbandono, in cui da cinquant'anni in qua lo avevano lasciato i molti e cattivi padroni, che se l'erano barattato. Di fuori conservava ancora le traccie e la fisionomia dello stile pesante del seicento per il suo portone a grossi dadi di pietra, sovraccaricato da un enorme mascherotto di sasso, e per due vecchie colonnette mal sagomate messe davanti, che reggevano ancora qualche rugginoso pezzo di catena; ma l'erba cresceva tra i ciottoli del grossolano selciato, spuntava dalle screpolature delle sconnesse cornici, le gelosie si sgretolavano nei loro vecchi telai,dopo aver lasciata l'ultima vernice come una allumacatura lungo le pareti delle muraglie, e le macchie s'incontravano, scendendo, coll'umidità che saliva dalla corte, come sparse ombre di desolati fantasmi. Il caseggiato signorile, dopo aver servito per alcuni anni ad uso di filatoio, era caduto, in conseguenza d'un fallimento, nelle mani rapaci di questo signor Ignazio, un ex-impresario teatrale, intraprenditore di affari indecisi, sovventore riconosciuto di denaro al prossimo, che tra le molte trappole aveva piantata qui la famosa sega a vapore. La sega non lavorava piú per mancanza, diremo cosí, di combustibile; ma il sottile affarista lavorava sempre anche al buio, stendendo i suoi fili invisibili per un circuito di venti o trenta miglia a tutti gl'ingenui, a tutti i discoli, a tutti gli allucinati, a tutti i credenti e miscredenti della fortuna. Mauro Lanzavecchia era stato uno degli ingenui. Siccome questo signor Ignazio, ricco ormai del suo, era oggi molto meno bisognoso di far affari, aveva sugli altri suoi pari il vantaggio di poter aspettare le buone occasioni, le quali non si maritano che agli uomini pazienti. E ciò spiega come molti buoni figliuoli di famiglie oneste lo preferissero agli altri esosi speculatori di mestiere, che non mirano che a guadagnar presto. Don Giacinto l'aveva, per esempio, sempre trovato un uomo ragionevole, e in certe occasioni quasi generoso. La stessa educazione dell'uomo, che aveva molto viaggiato e trattata la compagnia variopinta degli artisti, oltre a dargli il trattocivile e corretto, non gli permetteva di mostrarsi sordidamente avido e taccagno, come si mostrano gli strozzini di seconda qualità. Dacché cominciava a invecchiare e a schiudere la mente, come soleva dire, ai casti pensieri della tomba, il suo primo pensiero non era tanto di far quattrino da quattrino, quanto di collocare onestamente la sua Norma a una persona onesta, che facesse onore al suo denaro. Un galantuomo è anche lui un buon capitale nel mondo, quando sia ben impiegato; e nessuno sa meglio apprezzare la rendita che fruttano le modeste virtú di un uomo onesto, quanto colui che si è trovato qualche volta nelle condizioni di non poter esserlo. Questo pensiero non era estraneo al desiderio, che lo spingeva ad accostarsi al giovine Lanzavecchia, a mostrarglisi ragionevole, docile, transigente, migliore della sua fama, disposto ad accogliere una buona proposta, a rendere un buon servizio, a riparare, se pareva necessario, un torto o una ingiustizia, a rimetterci del suo, piuttosto che passare agli occhi del sor Giacomo come un aguzzino bramoso del sangue altrui. E in questo suo desiderio era tanto piú lodevole in quanto che, a sentirlo, avrebbe potuto maritare la sua Norma a fior di banchieri ricchi sfondati e, se avesse voluto, farne una contessa o una marchesa. Duecento mila lire pronte e il resto a babbo morto, col tempo che fa, possono indorare le vecchie corone, che, senza lo splendore del metallo, nessuno le vuole piú nemmeno per insegna d'osteria. Invece, se Giacomo Lanzavecchia si fosse fatto avanticol fallimento in una mano e il suo diploma nell'altra, l'amoroso padre l'avrebbe preferito a un principe, non una volta, ma quante volte il carattere, l'intelligenza, il sapere, il nome superano i titoli oziosi. Giacomo andò alla Rivalta col denaro e coll'autorizzazione di ritirare le cambiali, che don Giacinto aveva rilasciate a favore di alcuni suoi compagni di studio. Dal piazzaletto della vecchia villa si dominava un gran tratto della valle e del corso dell'Adda. Il Ronchetto col suo fastoso palazzo biancheggiava nel verde folto del giardino; piú sotto era il Santuario; e piú in basso ancora le Fornaci, con due vecchi camini lunghi e affumicati, colla vecchia casa dal tetto bistorto, dai pioventi cascanti anneriti dal tempo, coi riquadri dei mattoni rossi, che spiccavano sugli spazi giallognoli esposti al sole dove gli operai lavorano a modellare la terra nelle forme, all'ombra di un graticcio di foglie secche. Dall'alto si poteva scorgere anche un tratto del muricciuolo, che chiude il camposanto. Giacomo si soffermò un istante a riassumere, con un'occhiata pensosa, la storia della sua povera casa, e provò un senso quasi d'orgoglio davanti alla riflessione che la filosofia, usata bene, può servire a qualche cosa. Se i creditori non erano piombati come uno stormo di avvoltoi sulla sua casa, se i suoi fratelli avevano lavoro e sua madre un letto e un boccone di pane, il merito stavolta era stato dei mangialibri. La stima lungamente coltivata aveva fruttato il credito; e il credito aveva disarmata l'avarizia. "Anche i buoni son furbi" - finí col conchiudere in cuor suo, mentre coll'occhio andava a cercare tra le sessanta finestre di casa Magnenzio una certa finestra verso ponente, a cui soleva mandare le sue giaculatorie. Era la stanza di Celestina. La trovò,l'ultima sopra le serre, vi si fermò un istante, e, ricordando che "Frulin" era malata, un senso di oscura tristezza passò come una nuvola nell'animo suo. Un grande abbaiamento di cani lo fece uscire dai suoi pensieri. Si mosse e andò a battere al portone chiuso. Al rimbombo, che rispose di dentro, si raddoppiò lo sguaiato abbaiamento, in mezzo a cui risonò la voce poco armoniosa d'una donna, che sgridava le bestie, inviandole all'inferno. Il catenaccio interno cigolò un pezzo negli anelli, si aprí uno sportello, e comparve la figura poco pulita d'una vecchia serva, che, colle maniche rimboccate fin sopra ai gomiti, dava maledizioni con un padellino a quattro o cinque botoli grassi, ringhiosi che si avanzavano. - È lei, sor Giacomo? venga avanti. - C'è il signor Ignazio? - domandò Giacomo alla donna, nella quale riconobbe una certa Serafina, che aveva servito molto tempo in palazzo. Si voleva che l'avessero mandata via per poca fedeltà. Sui passi della donna, attraversò una corte d'apparenza signorile, ma forse d'aria ancor più umida e tetra che non fosse di fuori. - Sora Norma - chiamò la serva. Una bella voce di contralto rispose con un gorgheggio: - Chi mi chiama? Ed ecco subito dopo comparire sull'uscio della sala una florida ragazza, dal portamento soldatesco, coi capelli scomposti sopra un giubboncello rosso fiammante ornato di alamari d'oro come una divisa ungherese, che si teneva in braccio una cagnolina appena nata, colla tenerezza con cui si porterebbe una bimba a battezzare. Gli occhi grandi e nericome quelli delle famose odalische ebbero un lampo di gioia. Tirandosi accosto l'uscio, senza però nascondere la bella e arruffata testa di zingara, la signorina Norma si scusò di non essere presentabile, e pregò il signor Lanzavecchia di passare nello studio di papà. Il signor Ignazio, con indosso una vestaglia da camera a fiorami rossi su fondo giallo, con un berretto da cavallerizzo in una mano, stese l'altra mano al caro visitatore, si sprofondò in cerimonie, che avevano un non so che di frettoloso e diagitato, e, chiesto perdono per il gran disordine, fece sedere Giacomo in uno stanzino pieno di vecchi mobili, di quadri, di suppellettili preziose, che gli davano l'aspetto d'una bottega di rigattiere. L'ex- impresario, magro, secco, nervoso, col viso volpino di certi uomini d'affari, si mostrò d'una cortesia infinita, profondendosi in complimenti, che il suo accento triestino rendeva ancora piú morbidi. Quando Giacomo fece l'atto di levare il portafogli di tasca, non volle assolutamente né ricevere, né vedere il denaro: - Dica alla signora contessa che non intendo far speculazioni sulla inesperienza di un giovinotto allegro. Don Giacinto ha firmato per gli altri, ed è giusto che gli usi qualche riguardo; io sono pronto a rinnovare questi piccoli effetti, che possono valere molto meno di quel che dicono. Spero invece che la signora contessa vorrà accontentare quel mio modesto desiderio che lei sa, caro signor Giacomo, e vorrà cedermi quel pezzo di campo della Colombera a cui faccio la corte da un pezzo. Questa Rivalta è un cimitero, come vede, e il mio sogno è di finire i miei giorni al sole. Lei deve assolutamente aiutarmi in questa faccenda. - Casa Magnenzio non usa a vendere e non so come potrò persuadere la contessa . - Lei può molto, ora, lo sappiamo; e sappiamo anche che può chiedere quel che vuole a quei signori. - Sono un magro mediatore - tornò a dire il buon uomo. - Lei è piú filosofo di tutti, mi lasci dire, e noi dobbiamo fare della strada insieme. Ora le presenterò mia figlia. - E, dirizzandosi coi suo passetto scivolante verso l'uscio, chiamò due o tre volte: - Norma, vieni un po' qua.- E poi gridò verso la cucina: - Porta il caffè, Serafina. - E poiché Norma si faceva alquanto aspettare, egli tornò a sedersi davanti al giovine, pose confidenzialmente le mani ossute e lunghe sui ginocchi di lui, e, dopo aver battuto tre o quattro colpetti confidenziali, passò la mano sul filo di due baffetti sottili, tinti e tirati aguzzi come punteruoli: - Che piacere che provo, caro professore, di stringere con lei un po' d'amicizia. Io non sono né un letterato, né un protettore di letterati, ma so giudicare gli uomini e li peso per il loro valore. Lei è un uomo, che andrà molto avanti, e per la strada maestra. Noi poveri affaristi, che siamo costretti a rimestare negli stracci, non sempre le mani vanno dove si vorrebbe. La scienza invece è una cosa astratta e pulita; non solo, ma la scienza oggi è la sola e genuina aristocrazia possibile di fronte a questi contini e marchesini, che non valgono piú della porcellana rotta. Il mondo, oggi, è di chi pensa e di chi lavora. Vieni, Norma - disse, alzandosi di nuovo, andando incontro alla figlia, che entrava col vassoio del caffè. - Conosci il professor Lanzavecchia? è un filosofo, che è stato anche garibaldino. La penna e la spada, ecco uno stemma che mi piace. Giacomo si alzò, s'inchinò alla signorina, che nel frattempo aveva dato un colpo di pettine alla chioma selvaggia, e accettò il caffè, ch'essa gli versò lentamente da un cuccumino tignoso, stando in piedi come un gendarme davanti a lui, carezzandolo cogli occhi neri e morbidi come il velluto, fino al punto di costringere il bravo giovinotto ad abbassare i suoi sul piattello. - Questo è il mio gioiello, dirò anch'io come la madre dei Gracchi - esclamò l'orgoglioso padre, stringendo con affettuosa dimestichezza nelle dita la gota rubiconda della ragazza - e, siccome non ho che lei al mondo, posso dire che questaè la mia vita. Essa è nata in America da madre spagnuola. Non è forse un bel pezzo d'andalusa? Avrebbe voluto studiare il canto anche lei come sua madre, che è morta, poverina, di febbre gialla: ma io, che conosco il mestieraccio, glielo proibisco. Quando si hanno duecentomila lire di dote, si può fare qualche cosa di meglio che non andare a scopare i palcoscenici colle gonnelle. - Sposerò un principe russo - uscí a dire la bella creatura con tono lieto e scioccherello. - Che principe d'Egitto! sposerai l'uomo che ti piacerà, e mi darai dei nipotini, ai quali voglio lasciare qualche cosa, perché tuo padre non ha ancora eseguiti tutti i pezzi del suo programma. Si parlò di molte altre cose alla ventura, fin che Giacomo, sentendosi avviluppato in quell'aria come da invisibili ragnatele, con un atto d'energia, che sapeva trovare nei momenti decisivi, alzandosi repentinamente, tagliò corto col dire: - Bisogna che io veda subito il ragioniere Riboni e lo mandi qui a definire la faccenda di queste cambiali. La signora contessa desidera che il conte non ne sappia nulla . - So rispettare tutte le delicatezze - disse il padrone di casa con un fare umile umile. - Io spero che il signor Giacomo vorrà favorirmi qualche altra volta. Abbiamo di là una piccola raccolta di monete antiche, che forse potranno interessarla. Norma sa distinguere benissimo un Nerone da un Diocleziano. Sento dire che anche il conte Magnenzio è un mezzo antiquario. Lo incoraggi, e me lo conduca qualche volta. Troverà prezzi, dirò cosí, di fallimento. Norma, accompagna il signor professore . E dopo avere stretta la mano di Giacomo nelle sue di scheletro vivente, s'inchinò per l'ultima volta, chiuse l'uscio, lasciando che la ragazza accompagnasse il giovane a vedere la raccolta delle medaglie antiche. Ma Giacomo, che possedeva la sua psicologia e sapeva servirsene, mostrò di avere una grande premura, promise che sarebbe tornato con piú comodo e, rinnovati i suoi rispetti alla signorina, si avviò verso il portone seguito dai botoli, che mostrarono colle loro giravolte e con certi mugolii di tenerezza di saper anch'essi apprezzare la filosofia. Quando Giacomo fu di fuori, corse a un tratto per la bella strada al sole, colla contentezza del topolino che fugge da una trappola troppo grande per il suo piccolo corpo. Che il signor Ignazio volesse bene a sua figlia e lavorasse per accrescerle la dote, che Norma, la figlia della spagnuola, avesse due magnifici occhi e un fare procace di baiadera, eran cose naturali, che stavan bene al loro posto; il punto difficile cominciava nel voler trovare quel tal uomo rispettabile, che servisse di errata corrige alle cattive speculazioni del suocero e che, insieme a una bella ragazza spettinata, si rassegnasse a sposare una ricchezza racimolata nei due emisferi a furia di baratti e di usura. Sollevando lo sguardo alla finestra della sua Celestina, l'ultima sopra le serre, che splendeva nella luce del sole, gli parve di guardare in un angolo del paradiso.

Se ti pare che io abbia fatto qualche sacrificio per questa povera casa, dovrai compatire se desidero mettermi a posto. Qui finirei coll'essere la zia senza denti, o col mangiare un pane, che non mi vorrà passare quel giorno che madamisella tornasse in casa a comandare piú di prima. Ti parevo troppo ingiusta, quando dicevo che madamisella non era fatta per noi: sarà stata una disgrazia, ma a me non è capitata. Comunque non sarò io che starò ad ingrassare sui peccati degli altri. Questo matrimonio invece arriva a tempo, come l'arca di salvazione. Lo zio prete ne avrebbe già parlato alla contessa: e quando tu non avessi nulla in contrario, si potrebbe fare questo carnevale. Non è l'anno d'allegria, no di certo: ma il povero pà, se dà un'occhiata in qua, vorrà ben perdonare, se non lasciamo finire l'anno di triste condizione. Queste non sono allegrie, cara Madonna! son rimedi da far passare la miseria. Mangia dunque: non lasciarti prendere dall'ipocondria; son già troppe le tribolazioni senza bisogno di andarle a cercare col lanternino. Giacomo si sforzò di mangiare; ma nel mettere in bocca il pane, gli risonò nell'animo con una violenza irrefrenabile la frase di Angiolino: Che non si dica che noi si mangia il pane sporco. Uno stringimento della gola, una nausea nervosa dello stomaco gli fece sputare nella cenere il boccone, che egli non sapeva né rompere, ne inghiottire. Sentendosi il cuore pesante e tormentato, cosí ch'egli temette per un momento di non potere piú trascinarlo innanzi, né potendo togliersi dalle ossa i brividi, prima ancora che la giornata fosse scura del tutto, andò a letto e pregò che lo lasciassero quieto.

Che Blitz, il vecchio scettico, abbia ragione quando abbaia?". Era la metà di settembre. Mauro Lanzavecchia tornava sul far della notte, dopo una giornata calda e afosa, dall'aver visto il suo terzo avvocato a Oggiono, colla brutta notizia in corpo che il tribunale di Lecco, sull'istanza dei piú ostinati creditori, aveva fatto dichiarare il fallimento. Questo era il bel risultato di una lunga e accanita battaglia che da due anni a questa parte sosteneva egli solo contro la mala fortuna, contro gli imbroglioni, contro il governo, contro l'agente delle tasse, contro ogni sorta d'angherie e di strazi. Era partito a piedi da Oggiono per il bisogno di rompere in qualche gran sforzo la tremenda irritazione che il brutto avviso aveva prodotto nel suo sangue già avvelenato e guasto. E per darsi forza, e piú ancora per prepararsi un coraggio fittizio che l'aiutasse a portar a casa la sua condanna di morte, s'era fermato lungo la strada alla soglia di parecchie osterie a bere qualche tazzetta del solito scongiurato meridionale, a far delle celie amare cogli osti e cogli avventori contro questa perla di governo d'italiani, che prima ruba ai galantuomini e poi, se non può scannarli, li mette in prigione. Quando giunse in vista del Ronchetto, che dominava col suo palazzone come una macchia biancastra sul fondo oscuro del poggio, si fermò un respiro in mezzo alla strada, si appoggiò colle due mani sul pomo del bastone, fermo coi piedi nella polvere a contare le ore che scoccavano alla Madonna del Bosco. - Sette, otto, nove, nove e mezzo - contò, movendo un dito dopo l'altro come se sonasse il cembalo. A quest'ora a casa sua dormivano già. Che faceva lí nel buio, nel deserto di una strada? Se invece di voltar verso le Fornaci avesse preso il sentiero che scende all'Adda? Or sí or no, a seconda dei voli del vento, s'egli stava a sentire, saliva il rumore stridulo dei fiume a dirgli qualche cosa. "Cani, cani, cani" diceva mentalmente con forza; dopo tregenerazioni di galantuomini, dopo quasi ottant'anni di onesto e indefesso lavoro, tràcchete, i Lanzavecchia erano costretti a dichiarare il loro fallimento, a lasciar portar via le fornaci, la terra, la casa, vale a dire costretti a cercar l'elemosina, a mangiare il pane degli altri, a patire il disonore come se si trattasse d'una stirpaccia di scongiurati italiani. Insieme alla brutta parola di fallimento l'avvocato di Oggiono aveva fatto capire per giunta che il tribunale avrebbe cercato i libri. Che libri? I Lanzavecchia avevano scritto su tutti i muri: "Poveri, ma onesti ." questo sí; ma era inutile cercar loro dei libri. - Sarebbe bella, - disse sospirando e fermandosi un'altra volta presso il muro del camposanto, su cui batteva il chiarore d'un pezzo di luna avvolta in una nuvolaglia piena di guizzi di caldo, - sarebbe bella che si dovesse, per far presto, andare in galera. E come se all'idea sola di questo curioso accidente si svegliasse in lui la voglia di ridere, rise un pezzo di sé stesso, dondolandosi sulle gambe stracche, facendosi vento al viso infiammato col cappello. In quel camposanto lí vicino era sepolto Galdino Lanzavecchia suo padre, che portava sul capo una croce di sasso con su scritto in parole di bronzo: "Negoziante probo ed onesto .". Vicino a questa ce n'era un'altra di croce, d'un sasso vecchio vecchio con su scritto in parole, sbiadite: "Nicodemo Lanzavecchia uomo operoso e integerrimo .". Sarebbe stata bella, gamba d'un cane, che i suoi figliuoli dovessero scrivere sulla terza: "Mauro Lanzavecchia, fallito come un governo" .! Soltanto a pensarle queste cose, sudava nella freschezza che la valle mandava su; ma egli aveva la fornace di dentro. Era un calore che, gli abbruciava le viscere, che tutta l'acqua dell'Adda non sarebbe bastata a spegnere. Che gli restava di fare? annegarsi? attaccarsi a una trave della stalla prima che il governo mandasse i carabinieri ad arrestarlo? - O povero me! o me disperato per sempre! che cosa ho io fatto di male in tutta la mia vita? poveri morti, ditelo voi, se non ho sempre lavorato con giustizia e con carità. E doveva proprio toccare a me questa maledizione, a me che ho salvato cento volte gli altri, e non solo a parole, ma coi fatti, coi fatti, coi fatti . Un passo dopo l'altro, guidato dalla pratica che fa trovare all'orbo la strada della dispensa, venne fin presso le case del paese, fin all'osteria della Fraschetta, che fa quasi da sentinella sull'incontro delle strade. Un chiarore caldo traspariva attraverso le tendine rosse della porta, da cui usciva anche un brontolare spesso di voci rotto dai colpi di nocca che i giocatori lasciavano cadere sul banco. Mauro montò sul primo dei tre scalini che mettono alla bottega e cercò di ficcar l'occhio dentro per vedere chi c'era. Attraverso agli interstizi, che lasciavano le tende flaccide e molli, vide la solita compagnia, cioè il mugnaio del Lavello, il sarto, il magnano idraulico, il beccamorto, raccolti sulle ultime tre carte di una partita a tresette, a cui assistevano, fumando un'oncia di pipa, due o tre villani scamiciati. Una lampada tonda a petrolio versava dal palco su quel gruppo di faccie indurite dall'attenzione una luce cruda e lividastra che sbiadiva sul fustagno sporco, sulle rozze camicie, lasciando ombre nere negli angoli piú segreti della stanza. Mauro cercò se c'era in bottega Francesco, l'oste, il piú grosso de' suoi creditori. Avaro come una formica, arido come l'esca, non era uomo da regalare il suo a nessuno, ma il fornaciaio sperava che in considerazione del pattuito matrimonio fra Battista e la Fiorenza, trattandosi di mescolare il sangue e i denari, l'oste avesse ad accettare una combinazione, che permettesse a un povero uomo di vivere gli ultimi giorni in casa sua e di morire nel suo letto. Forse era conveniente parlargliene subito e strappargli di bocca una promessa prima che la notizia del dichiarato fallimento gli arrivasse all'orecchio. Esitò un momento prima d'entrare, perché, tra i soliti avventori seduti al banco, c'era la lingua maledica del mugnaio di Lavello, al quale Mauro si era creduto in obbligo di dare in piú d'un'occasione, qualche lezione gratuita di educazione e di saper vivere. Gli pareva già di sentirne i commenti: - Come? (avrebbe detto il mugnaio) un sapientone come Mauro Lanzavecchia ha fatto crac? non è lui quello che inventò la polvere di pimpirimpara e la trivella per succhiellare i maccheroni? non aveva le mani piene di consigli per tutti gl'ignoranti, che facevan diverso da quello che faceva lui? non ha in casa un avvocato che stordisce l'Europa e il mondo intero colla profondità del suo immenso sapere? Piú d'una volta e forse piú di quel che era necessario, il fornaciaio aveva vantato all'osteria davanti a quei quattro o cinque zoticoni il talento eccezionale di suo figlio Giacomo, un filosofo di primo ordine, capace di mettere in un sacco tutti i professori di Pavia. Quando l'Istituto veneto ebbe assegnato il premio alla dissertazione, Mauro era venuto appositamente alla Fraschetta colla Gazzetta di Venezia in mano, l'aveva distesa sul banco, perché leggessero, se sapevano leggere, quel che a Venezia si stampava in intuito di un Lanzavecchia delle Fornaci; e picchiando col dito sulle parole, nell'effusione dell'orgoglio paterno, aveva sostenuto che l'Italia avrebbe avuto un altro Cesare Cantú, o qualche cosa di piú rotondo ancora. Nulla piú offende l'orgoglio degli ignoranti quanto il trionfo d'un confinante, nel quale, come avviene anche in politica e nella stessa filosofia, si suol vedere un pericoloso competitore, e come tale, il primo e il piú vicino dei nostri nemici. Si aggiunga che l'orgoglio umano è cosi fatto che ogni lode data agli altri par sempre qualche cosa che non viene data a noi, o che ci vien sottratta, o per lo meno che ci vien ritardata con ingiustizia e di cui dobbiamo un giorno o l'altro rifarci con un proporzionale risarcimento. Era naturale adunque che gli ignoranti e gli invidiosi ridessero ora colla bocca larga del gran talento di casa Lanzavecchia e si pigliassero sulle disgrazie di Mauro, non solo il capitale, ma anche gli interessi delle cambiali ch'egli aveva scontato in anticipazione. Sarebbe troppo infelice la vita degli sciocchi, se Dio non riservasse loro di tanto in tanto di queste consolazioni. Questi riflessi, che si presentarono in nube, quasi di scorcio alla mente di Mauro, lo trattennero un poco sulla soglia dell'osteria e forse se ne sarebbe andato via senz'altro, se uno di quei contadini che sedevano nell'osteria, aprendo improvvisamente la porta, non l'avesse riconosciuto e salutato a voce alta. Egli si trovò cosí nella bottega portato da una volontà piú forte del suo orgoglio. Girò gli occhi intorno e visto Francesco che sonnecchiava dietro una tavola, colle spalle appoggiate al muro e le braccia incrociate, il capo cascante, la berretta sugli occhi, passò in mezzo al frastuono dei giuocatori, che commentavano rumorosamente la partita, e, sedutosi in faccia all'oste, lo toccò, dolcemente nel gomito. - Siete voi? - fece l'oste, dopo aver aperti dogliosamente gli occhi. - Ebbene? che vi ha detto l'avvocato? - La va male, Cecco, - disse il fornaciaio con voce coperta da un pesante affanno. - Cioè? - tornò a domandare l'amico, senza distaccare le spalle dal muro, al quale pareva incollato, socchiudendo di nuovo gli occhi impiombati dal sonno. - Cioè, - disse Mauro, che vedendo passare il piccolo dell'osteria, gridò: - Tu, portami un mezzo litro del tuo scongiurato meridionale. - Poi riprese sottovoce: - La va da cani, Cecco, ma non è detta ancora l'ultima parola in quest'Africa maledetta. Solamente voi, dovete procurarmi altre cinque mila lire. - Non vi conviene, Mauro - disse l'oste colla voce fredda con cui soleva tirar le somme agli avventori. E come se non avesse più nulla a dire, chiuse la bocca e tornò a lasciar cascare la testa - Voi non sapete quel che c'è in aria, - disse Mauro, che per darsi un po' di forza riempí la tazzetta col vino che il ragazzo mise davanti; e dopo averla trangugiata tutta d'un fiato: - Son quarant'anni che faccio il fornaciaio e sfido a trovare un mattone piú sincero del mio. - È il vostro torto di lavorar troppo bene - osservò l'oste che sapeva a memoria la sua filosofia, aprendo un poco gli occhi rimpiccioliti di fronte alla luce tagliente della lucerna. - Comincio ad accorgermi d'essere sempre stato una bestia, - disse Mauro, alzando alquanto la voce e lasciando cadere con forza la tazzetta sul piatto. - Non bisogna mai dirlo, Mauro, - saltò su dal banco del giuoco il mugnaio, che parlò senza togliere gli occhi dal ventaglio delle sue dieci carte sporche . - Sí, il mio torto è di non aver saputo fare l'italiano a tempo. - replicò vigorosamente l'altro, facendo un mezzo giro sulla panca e alzando in aria una mano. Poi stendendo l'altra a stringere con uno slancio d'amicizia il polso dell'oste:- Potete dire che i Lanzavecchia abbiano mai venduto lucciole per lanterne? mio padre Galdino, mio nonno Nicodemo . - Altri tempi - fu presto a interrompere l'oste, un uomo piuttosto indifferente per i grandi principi della giustizia. - Una volta, - soggiunse poi con un sorriso secco, che stentò a muoversi sulla sua bocca asciutta priva di labbra - una volta il vino lo si faceva anche coll'uva. Mauro sentí il veleno dell'argomento e battendo due volte la tazzetta sul banco: - Lo so - disse - che in un paese di ladri chi non ruba mangia il suo pane a tradimento. Voi però non mi abbandonerete, Francesco. - Io faccio l'oste, vedete - osservò il compare, indicando con un piccolo gesto i suoi avventori, il banco, la lucerna. E tornò a chiudere gli occhietti cenericci. - Volevo dire che questi nostri figliuoli devono maritarsi a San Martino. - Ecco! - riprese l'oste, mandando avanti una sua favorita particella dimostrativa, colla quale soleva, come con una lanterna cieca, illuminare le idee degli altri e fare il buio sulle proprie. Anch'io dovrò fare i miei conti. - Non li avete già fatti mille volte questi benedetti conti? - notò con un tono di rancore il fornaciaio. - Non si finisce mai di fare i conti. Se con poco si fa poco, che cosa volete che si faccia con niente? - Volete dire, se capisco il latino, che poiché io sono un uomo fallito, mi si può, parlando con poco rispetto . L'oste lo pregò con un gesto frettoloso della mano di non gridar troppo forte. Ma l'altro, che attingeva l'eloquenza dalla tazzetta: - Ho capito, - seguitò con piú calore - volete dire che poiché m'è entrata la disgrazia in casa, la vostra Fiorenza . - Non gridate sui tetti i vostri interessi, benedetto uomo - tornò a raccomandare vivamente il buon Francesco della Fraschetta, distaccando la schiena dal muro, rianimando gli occhi sotto la tesa della berretta, che faceva un color solo col colore scialbo del suo viso teso, liscio, immobile come un viso di legno. - Sí, ora mi si può, con licenza parlando, sputare addosso, - seguitò il fornaciaio con voce scalmanata. E dopo aver sogghignato il tempo necessario per inghiottire il fiotto amaro di saliva che gli inondava la bocca: - Allora - riprese, porgendo il fiaschetto vuoto al ragazzo - portamene un altro di questo tuo scongiurato veleno. E a voi, eccovi i vostri soldi. Cosí dicendo, stese una gamba tra la tavola e la panca, infilò una delle sue grosse mani nella tasca dei calzoni, ne trasse una manata di soldi e, fattone un pugnetto, lo batté sul banco, sotto il naso dell'oste, che, avvezzo a queste ed altre mimiche, non dette segno di meraviglia. - Cosí non direte che Mauro Lanzavecchia abbia bevuta una goccia del vostro vino senza pagare. E in quanto alla vostra Fiorenza, se vi piace sentire, vi dirò che un Lanzavecchia si degnava fin troppo di bere a questo boccale. Parole grosse, cattive, superbe, che, una volta uscite, lasciarono il buco fatto per tutte le altre che vollero tener dietro. L'orgoglio di tre generazioni di galantuomini, infiammato dalle molte tazzette di vino bevuto nella giornata, non troppo d'accordo tra loro, e mal trattenuto da una volontà già sconnessa per troppi colpi, traboccò in epifonèmi e in dichiarazioni che avrebbero fatto onore a un principe del sangue, non che a un fabbricatore di tegole; ma in quel momento, in quel sito, sulla bocca d'un uomo cosí scassinato nel credito, non ebbero la forza di far tremare nessuno. I giocatori, al diavolío che faceva il Bismarck delle Fornaci, dissero, parlando sommessamente tra loro: - Pare che laggiú si guasti la parentela. - È la tazzetta che suona - osservò il magnano. - La superbia non paga debiti - notò con burbanza il mugnaio del Lavello. - Staremo a vedere quel che stamperanno le gazzette questa volta. Mauro poco prima che sonassero le dieci e mezzo si alzò, facendo puntello coi pugni sulla tavola, e con passo che voleva essere da bersagliere, traversò lo spazio libero dell'osteria, avviandosi alla porta senza salutare nessuno. Prima però di chiudere l'uscio dietro di sé, parendogli di non aver detta l'ultima ragione o che tutti quei bravi signori avessero bisogno d'una soddisfazione, si voltò verso di loro, che aspettavano cogli occhi aperti, mosse la mano allargata a guisa d'un ventaglio, la girò nell'aria, come se la sfregasse su un muro, e quando vide tutte le faccie immobili e tutte le bocche attente, mise fuori con misurata intenzione la morale solenne della favola: - Vicende umane, oggi la lepre, domani il cane! E si tirò dietro l'uscio, mentre un rumoroso scoppio di risa accoglieva questa sentenza nova novissima, non mai udita, non mai stampata sulle gazzette.

. - Io non ho detto, cara contessa, che qualcuno abbia mancato al suo dovere. Parlavo dei doveri del nostro ceto . - Che cosa si può fare per salvare Giacinto? - chiese la madre, stendendo la mano in segno di pace a donna Adelasia. I progetti messi innanzi e discussi furono molti. Prima d'ogni cosa, bisognava fare in modo che il conte non ne sapesse nulla, perché nelle condizioni precarie della sua salute, sarebbe stato come un dargli una pugnalata. Non meno necessario era di tener celato il disonore della casa a monsignor vescovo e a tutti i San Zeno, che avrebbero potuto disinteressarsidel povero ragazzo e danneggiare col suo anche l'avvenire di Enrichetta. Infine la prudenza voleva che la ragazza fosse allontanata subito, con un bel pretesto, dalla casa, dove la sua presenza diventava sempre più pericolosa e occasione di scandalo; e poiché un pretesto lo si trova facilmente, sarebbero venute esse stesse al Ronchetto a chiedere la ragazza in prestito per qualche tempo colla scusa di farsi aiutare a finire un certo padiglione di seta, che avevano promesso all'altare della Madonna per la prossima festa del centenario. Anzi, per semplificare di piú l'impresa e per non suscitare inutili discorsi, al prossimo martedí l'avrebbero aspettata alla Madonnina della Noce, dove sarebbero andate colla carrozza a prenderla. E rimasero in quest'accordo.

Era per provare la rotondità delle frasi, che di tanto in tanto lo scrittore aveva bisogno di leggere a voce alta uno de' suoi foglietti, su cui la scrittura grossa ed obliqua correva come altrettante note musicali: "Parlare a' giorni nostri degli uffici della nobiltà potrà forse parere a taluno pressoché opera vana, per non dire ridevole, tanto oggi gli uomini si affaticano a non stimare se non quel che in oro si traduce o che dell'oro abbia le fallaci apparenze. Che giovano (dice la gente al vil guadagno intesa), che giovano gli emblemi e le larve d'una polverosa nobiltà, condannata a un perpetuo esilio dal consorzio civile, buona, non dico a reggere, ma solamente a far gemere le meste rovine degli aviti palagi .?" - Fabrizio, mi pare un po' troppo caldo qua dentro - interruppe il conte, che cominciava a infiammarsi nel fervore delle sue frasi cadenzate. - Forse è meglio che tu mi dia la veste verde, che riscalda meno. Di queste vesti foderate di flanella ce n'erano quattro come i quattro poeti, di peso e di imbottitura diversa, che Fabrizio doveva far indossare a norma del termometro e del barometro giudiziosamente combinati insieme. Veste verde significava quasi sempre depressione atmosferica, aria morta e soffocante, pioggia imminente. Indossata la nuova zimarra, il conte riprese la sua lettura, sollevando un viso, che la luce della lucerna circondava di gloria. "Ciò non di meno pare a me che all'umano consorzio le virtú del passato non giovin meno di quel che giovin le forze del presente, non essendo, a parer mio, null'altro il presente momento che la somma risultante di tutte le forze antecedenti. E stando cosí la condizion delle cose, nessun ordine è piú indicato a conservare intatta e venerata la tradizion del passato di quel che sia l'ordine della nobiltà, che dei tempi trascorsi conserva, dirò cosí, le pietre piú preziose e le già intrecciate corone. Che se l'antico ha potuto suscitare, al volger del passato secolo, contro l'instituto gentilizio la reazion popolare, non fu giusto che insieme alle colpe andasse travolta la tradizione, avvegnaché ." - Fabrizio, portami il brodo liscio stamattina, e di' al cuoco che quella sua lingua di manzo era troppo grassa. Mi pare di sentirmela ancora in bocca. Don Lorenzo si mosse per consultare un passo dei "Discorsi" del Machiavelli, dove si parla del dominio dei pochi: e pochi istanti dopo, Fabrizio entrava colla posta del mattina, raccolta in un vassoio d'argento. C'era il solito "Bollettino dell'Istituto Veneto", quello dell'"Istituto Lombardo" colle prime comunicazioni del Lattes sull'italianità degli Etruschi, un argomento che stuzzicava la sua curiosità e insieme il suo orgoglio nazionale contro quei signori della Sprea, che ti farebbero tedesco anche il bel tempo. C'era la "Perseveranza" di Milano, detta donna Paola, della quale divideva or sí, or no, le opinioni. Se come umanista non aveva ripugnanza ad accettare anche le idee di Lucrezio Caro, che egli traduceva di nascosto per un certo gusto del difficile; se nel campo libero della filosofia indipendente non gli facevan paura né gli atomi di Epicuro, né i vortici del Cartesio, né la pluralità dei Mondi del Leibnizio; in politica, era, secondo il suo modo di vedere, un altro paio di pantofole. Come cittadino, come Magnenzio, come padre di famiglia, era di opinione che una buona messa e un buon rosario valgono, per la felicità dei popoli, piú che tutta la scienza della famosa Enciclopedia. - S'è visto il bel risultato della dea Ragione applicata al governo dei popoli. O l'utopia di Platone, o la ghigliottina a vapore. Quel che piú importa ai popoli è di star bene e di vivere in pace. Siccome però per pace intendeva specialmente la sua, cosí il buon uomo era tratto facilmente a giudicare le teoriche sociali un po' troppo colla bocca dello stomaco. Questa pace benedetta se la faceva seder vicina tutte le volte che poteva chiudersi nel suo studio, in un angolo della casa, dove non arrivava mai nessun rumore della strada, tranne il rintocco delle ore del vicino convento dei cappuccini. E per amore di questa pace, ai libri dei vivi preferiva quelli dei morti, perché sulle guerre dei morti son già cresciuti gli ulivi o son scaramuccie già messe in musica: mentre queste controversie politiche, sociali, economiche, parlamentari, amministrative, anche quando si fanno per otium philosophiae, lasciano sempre la bocca impastata come una lingua di manzo non ben sgrassata. Don Lorenzo, dopo aver crollata la testa su un articolo d'intonazione rosminiana, che la "Perseveranza" riportava in difesa delle quaranta proposizioni quasi ereticali del filosofo roveretano (tutte begheche sconnettono la fede), prese dal piatto una letteraccia mal piegata, che puzzava di pipa lontano un miglio, con sopra una scritturaccia, che pareva dipinta colla scopa, e voltandola e rivoltandola nelle mani - Chi è questo Gioppino che scrive L'orenzo coll'apostrofo? - brontolò un pezzo, squadrando con un certo sospetto la lettera, che pareva suggellata coll'unto. - Vien da Calusco? Chi può scrivere da Calusco? Dov'è questo Calusco? - All'avvicinarsi delle feste di Natale ne arrivavano molte di queste lettere di poveri supplicanti bisognosi di qualche sussidio e di solito il conte le passava a Fabrizio, perche se l'intendesse col ragioniere Riboni e cercassero con prudenza di liberarlo dalle mosche e dagli scrupoli. Ma era la prima volta che Gioppino osava scrivere L'orenzo con l'apostrofo. - Birbonaccio, aspetta che t'insegnerò io l'ortografia. Aspetta me, aspetta me. - E strofinando le babbuccie morbide di panno sul pelo del tappeto, il conte, che da vecchio ammiratore dei Sacchetti e del Lasca aveva il gusto delle facezie mordaci, girò intorno allo scrittoio, sedette sui tre cuscini della poltrona e afferrò la penna per far scoppiare quell'epigramma, che gli faceva gli occhi piccini e il naso crespo. - "Se lor con l'or confondi ." avrebbe voluto cominciare; e, per richiamare la rima, corse coll'occhio alla firma del supplicante, una firma che pareva uno scorpione schiacciato sotto una pagina di altri scorpioni, veri scorpioni, corpo di Bacco! pieni di veleno. La lettera correva in questi termini: Ill'ustrissimo Sigor Cote , Se L'ei non fa trovare per s'abato a mezzanote L'ire tremila al l'uogo detto S'asso del Pin presso il Roccolo noi metteremo in piassa il gran segreto con suo disonore di L'ei e di tutta la famiglia. Non parli con ness'uno si no guaja. Galiasso . Un cane, a cui sia dato a mordere un ferro rovente avvolto in una polpetta, non lascerebbe cascare il boccone con piú dolore e raccapriccio di quel che il conte lasciò cadere il foglio di mano. In cinquant'anni e più, cioè dal dí che i suoi occhi correvano sull'alfabeto, non aveva mai letto quattro righe piú spropositate e piú spaventose. Altro che Gioppino! Chi poteva essere questo bardassa di Calusco? e di che segreto andava spropositando? disonore di chi e di che? Quando Fabrizio entrò colla scodella del brodo si spaventò nel vedere il volto del padrone piú smorto della carta. - Che cosa è accaduto, signor conte? si sente male? - gli domandò, fermandosi in mezzo alla stanza. - Sto bene, sto benone, sto d'incanto - rispose il conte, facendo saltare quel brutto foglio da una mano all'altra. - Quando si bevono di questi brodetti a stomaco digiuno, un uomo non può che sentirsi bene. Guarda un po' quel che mi scrivono. Non badare all'ortografia, ma cerca di penetrare nel concetto. Una delizia, vedrai, un sorbetto. Conosci tu questo signor Galiasso? C'è dalle nostre parti qualcuno che porta questo bel nome? - Non ho mai sentito che ci sia nessuno che si chiami cosí. - disse il vecchio Fabrizio, mentre correva cogli occhi sulla lettera, fingendo nel viso meno sorpresa e meno turbamento di quel che veramente provasse in cuor suo. Segreto aiutante della contessa in questa segreta congiura diretta a nascondere al conte una dolorosa e pericolosa verità, questa improvvisa minaccia di ricatto non poteva che confondere i piani di guerra e dare al cuore mezzo malato del suo padrone una scossa dolorosa. - Non ci deve badare, signor conte - prese a dire il fedele servitore, mostrando indifferenza. Asini e malviventi ce ne saran sempre, e, siccome sanno che lei è buono e amico della pace, credono forse di spaventarla. - Grazie tante. Minaccia di mettere in piazza un gran segreto. Che segreto c'è da mettere in piazza? E non si contenta mica di poco il sor Galiasso riverito; ma domanda solamente tre mila lire. Catteri! tre mila lire non sono un quattrino e in che modo le domanda il sor Galiasso! . Il conte, che aveva già la bocca impastata, per via di quella sciagurata lingua di bue, se la sentí diventar piena di una saliva salata. Ballando sulla poltrona, si lamentò con voce quasi piagnucolosa: - C'è da perdere la fame per quindici giorni. - Non si spaventi, le dico, non dia importanza. Son cose che a loro signori càpitano tutti i giorni. - Nossignore, a me non è mai capitato. Quando un uomo non fa male a nessuno, ha diritto che gli altri non faccian male a lui . - Guai se questi cani dovessero mordere tutte le volte che abbaian! Essi tentano il colpo. Se va, dicono, è segno che la cosa ha le gambe. Ma qualche volta son loro che ci lasciano le gambe e la coda. - Chi conosci tu a Calusco? non hai sentito che ci sia qualcheduno dalle nostre parti che ci voglia male? - Le pare? una casa come la sua? - Non son piú quei tempi, non son piú quei tempi. Dacché si son formate queste società segrete operaie, dacché si va seminando l'odio tra le classi, è una disgrazia nascere nei nostri panni. Anche l'elemosina sembra un'ingiuria adesso, e i Galiassi, che oggi scrivono queste letterine, domani metteranno la dinamite sotto il portone. - Oh caro signor conte, lei corre troppo, interruppe Fabrizio, ridendo . - Ti dico che si precipita. Tu non hai sentito a dir nulla, n'è vero? In questa casa tu sei piú vecchio di me e devi volermi bene. - Lo domanda, signor conte? - Non sospetti che possa essere quel servo di stalla, che abbiamo licenziato tre anni fa .? - Or fa un anno che è andato in America. - Ma dall'America si ritorna - disse sospirando il buon uomo, che all'idea d'un viaggio in America si sentiva venir le vertigini. - Dall'America si ritorna: e poi si lascia sempre a casa qualcuno . - Conosco questa gente, stia sicuro. Solamente sarà prudenza non dir nulla di questa lettera, né alla contessa né alla contessina . - Sicuro, sicuro! le donne si lasciano facilmente impressionare. Anzi bisognerà stare attenti che non facciano loro qualche brutto scherzo nella strada. Ahimè, si precipita! È una cosa che dobbiamo trattare fra te, me e il Riboni. Dovresti chiamarlo, se c'è . - Tornerà stasera. Ora beva il suo brodo e non ci pensi. - Portalo via, non mi va giú - disse restituendo la scodella, con una mesta espressione di abbattimento. - Guasterei anche quella poca colazione delle undici e mezzo. Lasciami vedere ancora una volta quegli scarabocchi. Altro che! si precipita maledettamente, si precipita! - Non ci pensi piú. Vedrò io il signor Riboni - disse Fabrizio, facendo scomparire il foglio nella pettorina del suo grembiale di servizio. - Vedete se con una cinquantina di lire si può mandare in pace un povero affamato. - Se lei comincia a dare, non si salva piú. Queste lettere è meglio fingere di non averle ricevute, o si consegnano al questore. - Guardatevi bene dal metter in mezzo la polizia! non voglio gendarmi in casa. Ve lo comando! - gridò, alzandosi quanto era lunga la sua piccola persona, lasciando cadere un gran pugno sul "Dizionario dei sinonimi". - Non voglio intrighi, deposizioni, arresti, diavolerie di questo genere, né per tre mila né per sei mila, né per dieci mila. Avete capito? comando io! - Mai la paura d'un uomo aveva parlato con piú coraggio. Fabrizio finse acconciarsi e disse: - Come vuole, signor conte. Del resto, creda pure, che quando non si dà nulla e non si ha nulla a temere, queste lettere son buone per la stufa. - E soprattutto si badi a non far saper nulla ai giornali. Non voglio pettegolezzi. Come si semina si raccoglie! brontolò parlando con sé stesso - Per certa gente è già una grande colpa il nascere bene. Come se avessi domandato io al padre creatore di farmi nascere dal grembo d'una nobile Magnenzio. Si precipita . Fabrizio lasciò il conte in preda alle sue smanie piagnucolose, e corse a far leggere la lettera alla contessa, perché fosse avvertita in tempo di questa nuova minaccia. Donna Cristina aveva ricevuto alcuni giorni prima la lettera di Giacomo e in seguito a una nuova visita di don Angelo cominciava appena a veder un po' di lume in mezzo a quella spaventosa oscurità, in cui si dibatteva da cinque mesi. La bontà di Giacomo l'aveva commossa. Seguendo l'ispirazione del cuore riconoscente, stava preparando una lettera di conforto al generoso amico, che non rifiutava d'essere suo alleato nell'opera di riparazione, mentre gli sarebbe stato cosí facile vendicarsi colla rovina di tutti. Il cuore della donna, della madre, della cristiana, ravvivato da un raggio di speranza, insieme alla riconoscenza, sentiva un ardore insolito di bene, quasi un desiderio di emulazione in questa gara di sacrificio, e andava pensando quel che poteva restituire di bene al mondo in compenso di tanto male e quale soddisfazione, degna di sé e dell'uomo, potesse offrire al giovine avvilito e trafitto nei sentimenti piú sacri. "Io non so scrivere" gli diceva "e mi manca l'arte di esprimere tutta la pietà, che ho provato e che riprovo leggendo la vostra lettera. Non al professore, non all'uomo dotto, ma immagino dunque di scrivere a quel giovinetto Giacomo, che in altri tempi frequentava la mia casa e al quale non mi pento ancora d'aver dato un forte consiglio. È invocando questa mia benevolenza quasi materna, che vi parlo come da amica ad amico, da donna che ha salito il Calvario ad uomo che ha salita la croce, nella fratellanza dei comuni dolori. Conforti materiali, riparazioni degne di voi non potremo darvene. Indegna io stessa d'ogni consolazione, sarei quasi spregevole, se volessi offrirne a voi; tanto meno ho consigli a darvi. Vi dico soltanto questo: che prego per voi colla stessa anima con cui prego pe' miei figli, nella fiducia che Dio, che ha la mano miracolosa, voglia versare nelle vostre piaghe l'unico balsamo che può col tempo ristabilire le forze perdute. Lasciatemi almeno l'illusione, povero Giacomo, che io non prego, no, per il riposo d'un morto, ma per la pace di un vivo. Davanti ai mali irreparabili l'uomo forte ha sempre un rifugio nell'idea che non vi è cosí gran male che non possa essere superato da una piú grande speranza. I mali vengono piú dalla fatalità che non dalla cattiva volontà degli uomini; ma l'idea del bene vien tutta da noi. Io ho troppa stima della forza del vostro cuore, per non sperare che chi ha scritto qualche pagina virtuosa e sublime non sappia arrivare col cuore fin là dove un giorno è volato col pensiero. Spero che in molti istanti, cosí piagato come siete, abbiate a sentire la santità e la dignità della natura umana ingrandita in voi. "Il fuoco raffina i nobili metalli. Il dolore ha scoperto e messo a nudo molta parte di voi, ch'era prima ignota a voi stesso e che, senza queste scosse, sarebbe rimasta per sempre sepolta. Non dite dunque come un povero merciaio alla vigilia del suo fallimento, che la vostra vita è finita. Provate a chiedervi una volta se per caso una vita nuova non stia per cominciare per voi. Che voi abbiate gettato alle fiamme il manoscritto in cui, come dite, eran raccolte le illusioni della vostra giovinezza, non mi fa pena, come pare che infondo faccia a voi. A me basta che non abbiate abbruciata la vostra fede. Purché la fiamma salga al cielo, poco importa che abbruci l'altare. Provate a cercare nella cenere e ritroverete il vostro diamante. Per quanto grande possa essere il vostro sacrificio, i meriti che acquistate agli occhi di Dio e a quelli della vostra coscienza sono tali che non potranno produrre col tempo che un gran bene. Voi siete giovine e dovete conservare intatte le vostre idealità. Seguitate a studiare. Noi abbiamo bisogno di chi sostenga la fede nella virtú. I nostri figli, lo vedete, non credono piú all'affetto delle madri, e quelli stessi, che dovrebbero combattere in prima fila per l'onore, sono i primi a imbrattarsi di fango. Voi potrete fare del bene, non solo coll'ingegno che Dio vi ha dato, ma anche coll'esperienza che vi siete acquistata. Nessun privilegio nobilita tanto l'anima nostra quanto la coscienza di aver molto sofferto ." A questo punto era arrivata e stava quasi per chiudere la lettera nella quale il suo cuore, nella felice improvvisazione del sentimento, si esaltava della misteriosa dolcezza che hanno le umane consolazioni, quando Fabrizio con un passo sospettoso entrò a farle vedere la scarabocchiata lettera, che aveva tanto spaventato il povero conte. Essa, che quasi s'illudeva di toccare il porto, trasalí a questo nuovo inaspettato assalto. Quel mondo geloso e avaro nelle sue pretensioni, a cui aveva sperato di sfuggire, dava segno di risvegliarsi e già si presentava all'uscio come un esoso creditore. I debiti del male voglion essere scontati e pagati; l'esattore era qui. Pallida, tremante, nascose il lurido scarabocchio tra le carte profumate dello stipetto. - Non dite al conte che mi avete fatta vedere questa lettera: cercherò di parlare col Prefetto. Non parlatene con nessuno. Ah mio Dio, non abbiamo finito!

. - E prima ch'egli avesse tempo di protestare, ritrovando nell'eccitazione del suo sentimento la forza che nessuna autorità esterna avrebbe saputo darle, seguitò con tono eguale, quasi freddo, ma convinto, senza togliere lo sguardo dai fiori, che andava sbadatamente sfogliando con le dita: - Penso che la Madonna vi abbia mandato oggi in un momento di dolore, perché io trovi il coraggio di dirvi quel che devo dirvi. Forse è meglio che questo vostro pensiero non si compia mai. Voi non siete piú quello d'una volta. - Perché "Frulin", io non sono piú quello d'una volta? - disse Giacomo, evocando un piccolo soprannome che il pà, per far presto, aveva inventato per lei quando era venuta in casa: e mise in questa voce senza senso una tale dolcezza allegra e canzonatoria che Celestina impallidí come se agonizzasse, un velo nero le offuscò gli occhi, e fattasi a un tratto sdegnosa e dura: - Ascoltate, Giacomo - gli disse aggrottando le ciglia. - Quando è nata questa nostra affezione eravamo due ragazzi, e non si poteva sapere dove si sarebbe finiti. Povero voi, poveretta io, ci siam voluti bene senza capire cosa volesse dire volersi bene. Il tempo non è passato allo stesso modo per noi due: io sono ancora la povera ignorante di una volta, mentre voi avete fatta molta strada, e ne dovrete fare molta ancora. Sento come tutti parlano di voi: avete stampato anche dei libri, e ne stamperete ancora; ma per andare avanti avete bisogno di essere libero, di non dover trascinare una povera contadina, che sarà sempre per voi un peso morto. Se io potessi essere la vostra serva, ma vostra moglie è un'altra cosa. Avete bisogno di una ragazza che vi possa seguire e capire. In questa buona casa vedete che non mi manca nulla: e poi, se devo dirvi tutto, da qualche tempo sento una voce che mi chiama. - Che cosa ti dice questa voce "Frulin"? - seguitò Giacomo, sempre sul medesimo tono di chi non vuol pigliare le cose sul serio. - Alcune monache cappuccine, che vengono spesso al palazzo per la questua e che rimasero qualche volta a dormire, mi hanno parlato di quel che soffrono le povere morette in Africa e vorrebbero che io andassi con loro. Poiché non posso essere vostra, voglio essere di Dio. Che cosa volete, Giacomo - continuò con un singulto, come se si sforzasse di reprimere un'amarezza rigurgitante. - Mi pare di essere già stata per voi una cattiva tentazione quel giorno che lasciaste di studiare da prete, con molto dispiacere dei vostri, specialmente dello zio prete, che dopo d'allora mi ha sempre chiamato un diavolo . Giacomo non poté nascondere un sorriso di compiacenza a questa antica facezia dello zio prete, e avrebbe voluto cominciare a parlar lui; ma la ragazza, trascinata dalla foga appassionata del suo pensiero, non lo lasciò dire: - Non voglio ora essere il vostro inferno, dopo essere stata la vostra tentazione. Lasciatemi andare per il mio destino e voi andate per il vostro. Troverete cento buone ragazze migliori di me, con istruzione, con dote, che vi permetteranno di studiare con meno stenti, che sapranno capire quello che scrivete, che vi faranno onore in società . Giunta a questo punto, come chi arriva sfinita dopo una gran corsa sulla cima erta d'un monte, le mancò tutt'a un tratto la lena. Un terribile impeto che, venendo dallo stomaco minacciò di soffocarla, la fece andare indietro di qualche passo: ma la volontà fu ancora piú forte del patimento. Non volendo piangere, si portò alle labbra una cocca del grembiule, che prese a mordere, mentre cercava intorno a sé cogli occhi se arrivava qualcuno a liberarla. - Chi mi ha parlato già di queste monache cappuccine e di questa voce che chiama? - prese a dire Giacomo con flemmatica bonomia: - Credo la contessa, una volta: non ho capito ben con quale intenzione, se non fu per mettere alla prova anche la mia vocazione per te . Da quel fino psicologo che credeva d'essere, Giacomo avrebbe voluto aggiungere che queste titubanze e questi scrupoli nel suo "Frulin" non solo non lo persuadevano, ma erano per lui una ragione di piú per voler bene alla sua tentazione e al suo diavolo. Di donne dotte ormai ne son piene le dispense; mentre una donna semplice e sincera non c'è scienza che la possa fabbricare, se non la fabbrica la mamma natura. E avrebbe voluto aggiungere, se fosse stato il caso fare una lezione in quel sito, che quanto piú gli uomini sono analitici, complicati, foderati di sapere, tanto piú cercano di riposare la testa sul seno d'un amore semplice e naturale, che li aiuti a essere semplici e naturali. I piú occulti misteri si svelano nelle anime più ingenue, mentre gli spiriti superbi e raffazzonati non sentono piú se non quel che il loro orgoglio permette di sentire. E all'uomo moderno non mancherebbe che questa disgrazia per essere il piú disgraziato degli animali, vale a dire, che, dopo aver guastato molte cose belle per il capriccio di voler vedere come son fatte, avesse a guastare anche l'amore, riducendolo a un dialogo tra un filosofo e una donna cogli occhiali. Questo, ripeto, avrebbe voluto dire Giacomo Lanzavecchia, a una santarella piena di titubanze e di scrupoli inutili. Ma avrebbe "Frulin" penetrato lo spirito della sua sottile psicologia? Si limitò a castigarla con due schiaffetti, soggiungendo: - Avremo tempo di parlar di queste faccende con piú comodo. Ora ho troppe cose per la testa. È in casa la contessa? Celestina accennò di sí col capo. - Vorrei domandarle che ti lasciasse venire tre o quattro giorni alle Fornaci a far compagnia alla povera mamma, che non ha piú la forza di reggersi. Mentre io vado dal conte, dille che desidero parlarle. e . e . (girando il braccio intorno alla vita della ragazza, la trasse un poco a sé, premendo le labbra a lungo nel fitto de' suoi capelli) e di' alle monache che il tuo moretto da salvare l'hai trovato da un pezzo. Giacomo se ne andò pel viale dei carpini, non volendo piú far attendere il conte, e lasciò Celestina irrigidita in tutto il corpo, cogli occhi aridi e fissi, col cuore inerte, indurita, come una statua. Quando il giovane scomparve dietro la casa del fattore, venendo a un tratto a mancare in lei la forza artificiale che l'aveva sorretta finora, il suo corpo si sfasciò, e cadde sul margine dell'erba, colla faccia rivolta alla terra, urlando nel silenzio di quella verde solitudine: - Madonna, Madonna, Madonna, fatemi morire!

L'ANNO 3000

677901
Mantegazza, Paolo 7 occorrenze

Io ti ho promesso di svelarti il grande segreto, l'unico ch'io mi abbia per te, ad Andropoli; ma non ti ho però detto in qual giorno te l'avrei rivelato, se appena giunti, o più tardi, o magari l'ultimo giorno, quello della nostra partenza. Tu vedi dunque, che non ho mancato di parola, nè dimenticato la mia promessa. Or bene, il giorno della rivelazione è giunto e te lo annunzio ad alta voce, solennissimamente. Domani avrai il mio segreto, nel giorno della proclamazione del premio cosmico. - E a qual'ora di questo giorno e in qual luogo? - Nell'ora della proclamazione e nella grande sala dell'Accademia. Maria saltò al collo di Paolo, e allegra come un puledro in festa lo baciò più e più volte. Il malumore, la displicenza eran volati via, s'eran sfumati come nebbia mattutina fugata dal primo raggio di sole. Per tutto quel giorno la sua allegria accumulata e non spesa per tanti giorni si scatenò tutta quanta, innondando di pazza gioia anche il suo Paolo. Ballarono, saltarono, si rincorsero come fanciulli. La gioia è sempre giovane e nelle sue forme più belle è anche infantile. E Paolo e Maria per tutto quel giorno e la mattina appresso ebbero sempre fra tutti e due non più di sedici anni. *** L'Accademia di Andropoli è il più alto Istituto scientifico del mondo. Conta cento membri, presi dalle più lontane regioni, e formano, direi, un vero Senato della scienza. Eletti dal libero voto di tutti i pensatori del mondo, rappresenta tutte le branche delle scienze, delle lettere e delle arti, e non hanno altro obbligo che di trovarsi in Andropoli una volta all'anno, e precisamente il 31 dicembre, quando i segretari delle diverse regioni presentano la storia scientifica, letteraria e artistica dell'anno; ciascuno nella disciplina che gli è affidata. Ritornati alla loro patria corrispondono coll'Accademia, per rispondere ai diversi problemi, che sono affidati al loro studio. Trenta fra loro sorteggiati risiedono per tutto l'anno nella capitale, dove hanno splendidi alloggi. Il loro onorario è di 500000 lire all'anno. Ogni dieci anni si riuniscono tutti quanti per distribuire il premio cosmico e che vien conferito a colui, che abbia fatto la più grande scoperta di quel decennio. Il premio è di un milione di lire, e colui che lo guadagna ha diritto di sedere nel Consiglio supremo del Governo, e prende il titolo di Sofo, l'onorificenza più alta in tutto il mondo e eguale soltanto a quella del Pancrate. Nell'anno 3000 si chiude appunto un decennio dall'ultimo premio, e i concorrenti sono 150. Era appunto all'indomani del giorno, in cui Paolo e Maria avevano avuto il dialogo da noi riferito, che si doveva conferire il premio cosmico; e i nostri viaggiatori si recarono all'Accademia, che trovarono affollata da cento e cento curiosi, venuti da ogni parte del mondo per assistere alla gran festa della scienza. La città è tutta imbandierata, le botteghe tutte chiuse, e nella piazza musiche variopinte riempiono l'aria, di deliziose armonie. Entrando nella gran sala delle assemblee Maria vide con grande stupore, che Paolo andò a sedere con lei nei posti riservati al Pancrate e ai suoi ministri, in due grandi seggiole dorate. - Ma, Paolo mio, perchè mai ci sediamo qui? Non sarebbe meglio confondersi col pubblico, e sedere là nel fondo, dove potremmo senza suggezione conoscere e osservare ogni cosa? - No, Mariuccia mia, perchè è il posto che mi spetta, ed io ho potuto ottenere dal Presidente, che anche tu sieda qui accanto a me. E oggi è qui che ti sarà svelato il mio segreto, l'unico mio segreto. Maria tacque e rimase immersa nell'estasi di una grande meraviglia, di un grandissimo stupore. Intanto la sala si andava affollando sempre più e una musica deliziosa confortava in tutti la fatica dell'aspettare. A un tratto la musica cessò, si diffuse all'intorno un silenzio solenne e i membri della presidenza presero i loro posti, sedendo fra i cento senatori della scienza. In mezzo ad essi, in una poltrona più alta sedeva il Presidente, che portava al collo sospesa da una catena di palladio una grande medaglia d'oro, che stava a dire, ch'egli aveva riportato altre volte lo stesso premio cosmico, che si stava per conferire. Il Presidente si alzò, e dopo aver dichiarata aperta la seduta, invitò il Segretario generale a leggere la relazione sul premio cosmico, e noi la riassumeremo per sommi capi. - I concorrenti al premio cosmico dell'anno 3000 sono 150. Un primo lavoro di analisi dei lavori presentati li ridusse subito a 50. Più difficile fu il lavoro della seconda cernita, perchè in quelle cinquanta scoperte e invenzioni, molte avevano un valore reale; ma un po' per volta i cinquanta divennero tre, e dei tre non fu troppo difficile scegliere l'uno, essendo riservato agli altri due il secondo e il terzo premio. L'ingegnere inglese John Newton ha inventato una trivella gigantesca mossa da una nuova macchina elettrica, che ci permetterà di perforare tutto il nostro pianeta, giungendo al centro della terra. Potremo così conoscere la vera struttura del globo, fin qui divinata, ma non conosciuta; e chi sa di quali nuove forze potremo disporre nell'avvenire. L'invenzione è di una straordinaria importanza e perciò abbiamo dato all'ingegnere Newton il terzo premio. Lo invito a recarsi alla Presidenza, per ricevere il premio. L'ingegnere Newton era seduto accanto a Paolo. Si alzò, e recatosi al banco del Sofo, ricevette un diploma e una medaglia. La musica intonò le sue armonie, e tutti gli astanti si alzarono ad applaudire il premiato. E il segretario continuò a leggere la sua relazione: Il celebre astronomo Carlo Copernic ha perfezionato talmente il telescopio da permetterci di vedere gli abitanti dei pianeti più vicini. Questa invenzione segna un'era nuova nella storia della civiltà, e permettendoci di allargare i confini del mondo conosciuto, accrescerà all'infinito i tesori del nostro pensiero, lasciandoci anche sperare, che in un tempo non troppo lontano noi potremo metterci in relazione coi nostri fratelli planetarii. Si trovò quindi ragionevole e giusto di accordare il secondo premio all'astronomo Copernic. E qui nuovi applausi e nuove armonie. Dopochè il Copernic ebbe ricevuto il premio, vi fu una lunga pausa di silenzio e di aspettazione. Quel silenzio esprimeva l'infinita curiosità di sapere, chi mai avesse potuto fare una scoperta ancor più grande. Perforare la terra da parte a parte e comunicare direttamente cogli antipodi! E spiare la vita degli abitanti di Venere, di Mercurio, di Marte! Che cosa vi può essere mai di più grande? *** E il segretario riprese la parola. La terza scoperta, signori e signore, e di certo la più grande, è quella dello psicoscopio, strumento che ci fa leggere facilmente i pensieri dell'uomo, verso cui si dirige. Prego il signor Paolo Fortunati, di Roma, a voler venire al banco della presidenza per dimostrare praticamente come agisce il psicoscopio. Maria a queste parole si sentì battere il cuore forte forte, guardò Paolo, che dopo averle stretta una mano convulsivamente, le disse all'orecchio: - Ecco il mio segreto! Si alzò, e salito a fianco del presidente dell'Accademia, si levò di tasca un piccolo strumento, a guisa di un doppio cannocchiale di tasca e lo rivolse verso il pubblico. Il silenzio era stato grandissimo, appena il segretario aveva parlato, ma ora un grande rumore di seggiole smosse e di gente che si alzava, turbò la serena pace di quel luogo sacro alla scienza. Era il rumore di molti, che improvvisamente lasciavano la sala, perchè avevano paura che si leggessero i pensieri, che in quel momento, passavano per il loro cervello. Paolo, benchè in quel momento fosse estremamente commosso, non potè a meno di ridere a quella fuga tumultuosa. Appena si ritornò al silenzio dell'aspettativa e più nessuno si mosse, Paolo rivolse il psicoscopio verso un fanciullo sui dieci anni, che stava seduto accanto alla sua mamma, e poi: - Ecco là quel fanciullo, che pensa con grande dolore, che egli si sta annoiando in questa sala, ascoltando discorsi che non intende; mentre a casa sua i suoi fratelli giuocano a palla nel giardino. Egli dirige mentalmente a tutti noi delle maledizioni ... Tutta l'assemblea scoppiò in una risata omerica. Paolo diresse allora il suo strumento qua e là, come se cercasse qualcuno o qualche cosa, e in modo da non far capire dove si fermasse più a lungo. - Non accennerò ad alcuno in particolare, ma io leggo in più di dieci fra le persone qui convenute un grandissimo sdegno per la solenne ingiustizia commessa a loro riguardo dai nostri accademici. Essi avevano concorso al premio cosmico e non l'hanno conseguito ... In uno di essi poi leggo anche pensieri orrendi di odio e di vendetta ... A queste parole il tumulto di prima sorse di nuovo e più violento. Alle sedie smosse e cadute di chi abbandonava la sala, si unirono grida irose: Profanazione! Profanazione! Abbasso il psicoscopio ... Paolo rimase imperterrito, e il Presidente suonò più volte il campanello, invocando silenzio e pace. Intanto la sala si era vuotata più che mezza, e il segretario potè ripigliare la sua relazione: L'Accademia ha creduto a voti unanimi di conferire il primo premio al signor Fortunati, perchè se le due altre scoperte ci allargano le frontiere del conoscibile, il psicoscopio ci promette un'era nuova di moralità e di sincerità fra gli uomini. Quando noi tutti sapremo, che chiunque può leggere nel nostro cervello, faremo sì che pensieri e opere non si contraddicano, e noi saremo buoni nel pensiero, come cerchiamo di esserlo nelle opere. È a sperare che col psicoscopio la menzogna sarà bandita dal mondo o almeno sarà un fenomeno rarissimo, che si andrà perdendo del tutto; come tutte le funzioni e gli organi, che non hanno più uno scopo necessario o utile. E lasciamo da parte tutti i vantaggi, che potrà arrecarci il nuovo strumento nella diagnosi delle malattie mentali, nell'educazione, nella psicologia. La scienza del pensiero entrerà ben presto in un nuovo mondo, e di certo è assai più utile all'uomo il conoscere se stesso, che il centro della terra o gli abitanti degli altri pianeti. Dacchè l'uomo è comparso sulla terra, egli ha fatto immensi progressi nelle scienze, nelle arti, nelle lettere; in tutto ciò che riguarda la vita del pensiero; ma nella moralità il progresso è ancora molto addietro, e non è punto in armonia con quello della mente. Il psicoscopio ci promette di realizzare questo sogno di tutti i secoli, quello cioè che il progresso morale sia parallelo a quello intellettuale, e siccome tutti crediamo, che il primo per la felicità degli uomini sia molto più importante dell'altro, ecco perchè l'Accademia ha creduto di dover assegnare il primo premio al signor Paolo Fortunati, che ha inventato il psicoscopio. Tutti quelli che erano rimasti nella sala, perchè non avevano paura che il terribile strumento ottico leggesse attraverso il loro cranio alcuni pensieri malvagi, si alzarono in piedi, applaudendo fragorosamente il fortunato vincitore del premio cosmico, e che anche nel suo nome portava quasi il vaticinio della sua gloria ... L'unica persona che non si alzò, era la più felice e la più commossa. Era Maria, che si nascondeva il volto nel fazzoletto per celare le lagrime di una gioia infinita, che la innondava tutta quanta dal capo ai piedi. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Paolo intanto era sceso dal banco della presidenza, era ritornato al suo posto, e là le lagrime di due felici si univano insieme, confondendosi nell'estasi di un'ebbrezza sola. Tutti i presenti guardavano commossi quel gruppo dei due felici, persuasi che l'abbraccio di quella donna in quel momento, in quel luogo, era il premio più alto e primo della scoperta immortale di Paolo. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . *** Pochi giorni dopo Paolo e Maria, dopo aver avuto l'alto consenso del Tribunale sanitario di Andropoli, per unirsi nel matrimonio fecondo; ne ricevevano nel Tempio della Speranza il sacramento solenne, e da amanti, che lo erano già da varii anni, diventavano marito e moglie; avendo acquistato per consenso della scienza il più alto dei diritti, una volta concesso a tutti nei tempi barbari; quello cioè di trasmettere la vita alle generazioni future. 1 Il Panglosso è un teatro riserbato agli uomini molto colti e dove si danno rappresentazioni nelle lingue morte, dal greco all'italiano, dal latino e dal sanscrito all'inglese, al turco, al chinese. 2 Il Teatro dei buffoni di Andropoli ha lo scopo di far ridere ad ogni costo, onde rallegrare gli ipocondriaci, gli annoiati e tutti i depressi. 3 Il Teatro del pianto non dà che rappresentazioni melanconiche, ma non mai strazianti, per mettere una nota triste e pur desiderata nella vita dei troppo felici.

Son curioso davvero fin dove questo profeta abbia indovinato il futuro. Ne leggeremo certamente delle belle e ne rideremo di cuore. È bene a sapersi che nell'anno 3000 da più di cinque secoli non si parla nel mondo che la lingua cosmica. Tutte le lingue europee son morte e per non parlare che dell'Italia, in ordine di tempo l'osco, l'etrusco, il celtico, il latino e per ultimo l'italiano. Il viaggio, che stanno per intraprendere Paolo e Maria, è lunghissimo. Partiti da Roma vogliono recarsi ad Andropoli, capitale degli Stati Uniti Planetarii, dove vogliono celebrare il loro matrimonio fecondo, essendo già uniti da cinque anni col matrimonio d'amore. Essi devono presentarsi al Senato biologico di Andropoli, perchè sia giudicato da quel supremo Consesso delle scienze, se abbiano o no il diritto di trasmettere la vita ad altri uomini. Prima però di attraversare l'Europa e l'Asia per recarsi alla capitale del mondo, posta ai piedi dell'Imalaia, dove un tempo era Darjeeling, Paolo voleva che la sua fidanzata vedesse la grande Necropoli di Spezia, dove gli Italiani dell'anno 3000 hanno come in un Museo raccolte tutte le memorie del passato. Maria fino allora aveva viaggiato pochissimo. Non conosceva che Roma e Napoli e il pensiero dell'ignoto la inebbriava. Non aveva che vent'anni, avendo data la mano d'amore a Paolo da cinque anni. Il volo da Roma a Spezia fu di poche ore e senza accidenti. Vi giunsero verso sera, e dopo una breve sosta in uno dei migliori alberghi della città, cavarono fuori dall'aerotaco una specie di mantello di caucciù, che si chiama idrotaco e che gonfiato da uno stantuffo in pochi momenti si converte in un barchetto comodo e sicuro. Anche qui nessun bisogno di barcaiuolo e di servi. Una macchinetta elettrica, non più grande di un orologio da caminetto, muove l'idrotaco sulle onde, colla velocità che si desidera. Il Golfo di Spezia era in quella sera divino. La luna dall'alto, nella pace serena della sua luce, spargeva su tutte le cose come un fiato soave di malinconia. Monti, monumenti, isole parevano di bronzo; immoti come chi è morto da secoli. La scena sarebbe stata troppo triste, se le onde chiacchierine, che parevano cinguettare e ridere fra la rete infinita d'argento, che le inserrava come migliaia di pesciolini presi nella rete dal pescatore, non avessero dato al golfo un palpito di vita. I due fidanzati si tenevano per mano e si guardavan negli occhi. Si vedevano anch'essi come velati in quella luce crepuscolare, che toglie la durezza degli oggetti; facendo giganti le anime delle cose. - Vedi, Maria, - disse Paolo a lei, quando potè parlare: - qui intorno a noi dormono nel silenzio più di ventimila anni di storia umana. Quanto sangue si è sparso, quante lagrime si son versate prima di giungere alla pace e alla giustizia, che oggi godiamo e che pure sono ancora tanto lontane dai nostri ideali. E sì, che fortunatamente per noi, dei primi secoli dell'infanzia umana, non ci son rimaste che poche armi di pietra e confuse memorie. Dico fortunatamente, perchè più andiamo addietro nella storia e più l'uomo era feroce e cattivo. E mentre egli parlava, si andavano avvicinando alla Palmaria, convertita allora in un grande museo preistorico. - Vedi, Maria, qui vissero in una grotta dieci o venti secoli or sono uomini, che non conoscevano metalli e si vestivano colle pelli delle fiere. Sulla fine del secolo XIX un antropologo di Parma, certo Regalia, illustrò questa grotta, che era detta dei Colombi, descrivendone gli avanzi umani e animali, ch'egli vi aveva trovati. In quel tempo però, cioè sulla fine del secolo XIX, tutta l'isola era coperta di cannoni, ed una batteria grande, un vero miracolo di arte omicida, difendeva il golfo dagli assalti del nemico. Tutto il golfo del resto era un trabocchetto gigantesco per uccidere gli uomini. Sui monti, cannoni; sulle sponde, cannoni; sulle navi, cannoni e mitragliatrici: tutto un inferno di distruzione e di orrore. Ma già qualche secolo prima questo golfo portava memorie di sangue. Lì ad oriente sopra Lerici tu vedi un antichissimo castello, dove fu prigioniero un re di Francia, Francesco I, dopochè ebbe perduta la battaglia di Pavia. Noi non vediamo più l'ecatombe di ossa, che devono trovarsi sul fondo del mare, perchè sul principio del secolo XX ebbe luogo una terribile battaglia navale, a cui presero parte tutte le flotte d'Europa; mentre per fatale coincidenza in Francia si combatteva un'altra grande battaglia. Si battevano per la pace e per la guerra, e l'Europa era divisa in due campi. Chi voleva la guerra e chi voleva la pace; ma per volere la pace si battevano, e un gran mare di sangue imporporò le onde del Mediterraneo e allagò la terra. In un solo giorno nella battaglia di Spezia e in quella di Parigi morì un milione di uomini. Qui dove noi siamo ora, godendo le delizie di questa bellissima sera, saltarono in aria in un'ora venti corazzate, uccidendo migliaia di giovani belli e forti; che avevano quasi tutti una madre, che li attendeva; tutti una donna che li adorava. La strage fu così grande e crudele, che l'Europa finalmente inorridì ed ebbe paura di sè stessa. La guerra aveva uccisa la guerra e da quel giorno si mise la prima pietra degli Stati Uniti d'Europa. Quei giganti neri, che vedi galleggiare nel Golfo sono le antiche corazzate, che rimasero incolumi in quel giorno terribile. Ogni nazione d'allora vi è rappresentata: ve n'ha di italiane, di francesi, d'inglesi, di tedesche. Oggi si visitano come curiosità da museo e domattina ne vedremo qualcuna. Vedrai come in quel tempo di barbari, ingegno e scienza riunivano tutti i loro sforzi per uccidere gli uomini e distruggere le città. E figurati, che uccidere in grande era allora creduta gloria grandissima e i generali e gli ammiragli vincitori erano premiati e portati in trionfo. - Poveri tempi, povera umanità! Però, anche dopo aver abolita la guerra, l'umana famiglia non ebbe pace ancora. Vi erano troppi affamati e troppi infelici; e la pietà del dolore, non la ragione, portò l'Europa al socialismo. Fu sotto l'ultimo papa (credo si chiamasse Leone XX ), che un re d'Italia scese spontaneo dal trono, dicendo che voleva per il primo tentare il grande esperimento del socialismo. Morì fra le benedizioni di tutto un popolo e i trionfi della gloria. I suoi colleghi caddero protestando e bestemmiando. Fu una gran guerra, ma di parole e di inchiostro; fra repubblicani, conservatori e socialisti; ma questi la vinsero. L'esperimento generoso, ma folle, durò quattro generazioni, cioè un secolo; ma gli uomini si accorsero di aver sbagliato strada. Avevano soppresso l'individuo e la libertà era morta per la mano di chi l'aveva voluta santificare. Alla tirannia del re e del parlamento si era sostituita una tirannia ben più molesta e schiacciante, quella d'un meccanismo artificiale, che per proteggere e difendere un collettivismo anonimo soffocava e spegneva i germi delle iniziative individuali e la santa lotta del primato. Sopprimendo l'eredità, la famiglia era divenuta una fabbrica meccanica di figliuoli e di noie sterili e tristi. Un gran consesso di sociologi e di biologi seppellì il socialismo e fondò gli Stati Uniti del mondo, governato dai migliori e dai più onesti per doppia elezione. Al governo delle maggioranze stupide subentrò quello delle minoranze sapienti e oneste. L'aristocrazia della natura fu copiata dagli uomini, che ne fecero la base dell'umana società. Ma pur troppo non siamo ancora che a metà del cammino. L'arte di scegliere gli ottimi non è ancora trovata; e pensatori e pensatrici, i sacerdoti del pensiero e le sacerdotesse del sentimento, travagliano ancora per trovare il modo migliore, perchè ogni figlio di donna abbia il posto legittimo, che la natura gli ha accordato nascendo. Si sono soppressi i soldati, il dazio consumo, le dogane, tutti gli strumenti della barbarie antica. Si è soppresso il dolore fisico, si è allungata la vita media, portandola a 60 anni; ma esiste ancora la malattia, nascono ancora dei gobbi, dei pazzi e dei delinquenti, e il sogno di veder morire tutti gli uomini di vecchiaia e senza dolore è ancora lontano. Maria taceva, ascoltando, e Paolo tacque anch'egli, come oppresso da una grande malinconia. I ventimila anni di storia gli parevano troppo lungo tempo per così piccolo cammino percorso sulla via del progresso. Maria volle rompere quel silenzio e dissipare quella malinconia; e coll'agilità mobile e intelligente che hanno tutte le donne, volle far fare al pensiero del suo compagno un gran salto. - Dimmi, Paolo, perchè fra le tante lingue morte tu hai studiato con particolare amore l'italiano? È una curiosità che ho da un pezzo e che tu non mi hai mai soddisfatto. Non sarà di certo per poter leggere nell'originale L'anno 3000? - No, mia cara, è perchè la letteratura italiana ci ha lasciato la Divina Commedia e Giovanin Bongè, Dante e Carlo Porta, i due poeti massimi del sublime e del comico. Li leggeremo insieme questi due grandi poeti e tu vedrai che ho cento ragioni di voler studiare l'italiano prima d'ogni altra lingua morta. Nessuno ha saputo toccare tutte le corde del cuore umano come l'Allighieri e nessuno ci ha fatto ridere più umanamente del Porta. Per capire però il Porta non basta saper l'italiano, ma si deve studiare il milanese, un dialetto molto celtico, che si parlava dieci secoli or sono in gran parte della Lombardia, quando l'Italia aveva più di venti dialetti diversi. E poi, anche senza Dante o senza il Porta, io avrei studiato l'italiano prima d'ogni altra lingua morta, perchè essa era la figlia prediletta e primogenita del greco e del latino e in sè concentrava i succhi di due fra le massime civiltà del mondo, e ad esse se n'aggiunse una terza di suo, non meno gloriosa delle altre. Parlando italiano si ripensa Socrate e Fidia, Aristotile e Apelle; si ripensa Cesare e Tacito; Augusto e Orazio; Michelangelo e Galileo; Leonardo e Raffaello. Mai nessuna altra lingua ebbe una genealogia più nobile e più grande. Ecco anche perchè, quando si fondarono gli Stati Uniti d'Europa, per facile consenso di tutti, Roma fu scelta a capitale. - Paolo mio, tu mi fai troppo superba di essere romana! E di nuovo i due fidanzati tacquero, mentre il loro idrotaco scorreva sulle onde del golfo, rompendo ad ogni suo movimento le maglie della rete d'argento, distesa sul pelo dell'acqua. Intanto si avvicinavano all'antico Arsenale di Spezia e un suono monotono e lugubre giungeva al loro orecchio; ora confuso e appena percettibile, ora chiaro e distinto; secondo le vicende della brezza notturna. Gli occhi di Paolo e di Maria si volgevano là donde quel suono veniva e pareva che sorgesse dall'onda, dove un corpo rotondo galleggiava sull'acqua, come un'immensa testuggine marina. Verso quel punto diressero la loro navicella e il suono si andava facendo più forte e più triste. A pochi passi da quel corpo galleggiante fermarono l'idrotaco. - Che cos'è questo corpo? - È un'antica boa, a cui i barbari del secolo XIX attaccavano le loro corazzate maggiori. È rimasta qui dopo tanti secoli arrugginita e obbliata per memoria di un tempo, che per fortuna degli uomini non ritornerà più. Intanto il suono triste e monotono, che usciva dalla boa, era divenuto chiarissimo. Era un suono doppio e straziante, fatto di due note; un lamento e un tonfo. Prima era un ihhh stridente e prolungatissimo, e poi, dopo una pausa breve, un bumhh cupo e profondo, e una nuova pausa, e un ripetersi incessante del lamento e del tonfo. Anche il cuore umano misura il breve giro del quadrante della vita con due suoni alterni, un tic e un tac; ma son suoni allegri, quasi festosi. Quell'ihhh e quel bumhh invece sembravano i palpiti di un cuore gigantesco e straziato, che battesse il tempo del nostro pianeta. - Dio mio, dimmi, Paolo, perchè quella boa si lamenta? Par che soffra e pianga. - Pazzarella, - rispose egli, sorridendo forzato. - Il lamento è lo stridere dell'anello arrugginito della boa e il tonfo è il batter dell'onda sulla cassa vuota. Paolo però, dando la spiegazione fisica di quel suono alterno, era preoccupato da altri pensieri, che spaziavano in un mondo più alto e più lontano. E i due tacquero ancora e lungamente. - Andiamo via, torniamo a terra, questa boa mi fa terrore, mi fa piangere. - Hai ragione, andiamo via. Questo lamento rattrista anche me. Mi par di veder qui l'immagine dolorosa di tutta la storia umana. Un lamento, che sorge dalle viscere dei bambini appena nati, dei giovani straziati dall'amore, dei vecchi che hanno paura della morte; di tutti i malcontenti, di tutti gli affamati di pane o di gloria, di ricchezza o di amore. Un lamento, che si innalza da tutto il pianeta, che piange e domanda al cielo il perchè della vita, il perchè del dolore. E a quel lamento di tutto il pianeta risponde il destino, il fato con quel tonfo cupo e profondo: Così è, così deve essere, così sarà sempre. - No, Paolo, non è così, non sarà sempre così! Pensa alle corazzate omicide che non ci son più, pensa alla guerra che più non esiste; pensa al progresso che mai non posa. Anche questa boa, che sembra ripeterci coi suoi palpiti l'eterno lamento dell'umanità, e la crudele risposta del fato, tacerà un giorno, disciolta dalle acque del mare ... - E così sia, - disse Paolo, accelerando il moto della navicella, per fuggire all'incubo di quel suono lamentevole e straziante. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Al mattino seguente il sole più fulgido brillava nel cielo di Spezia invece della luna. La vita operosa del lavoro teneva dietro alla malinconia della notte; e i due fidanzati, dopo aver visitato alcune carcasse delle vecchie corazzate, rimontando nell'aerotaco, spiccarono il volo verso Oriente, donde sempre è venuta agli uomini colla luce del giorno la speranza, che mai non muore.

Le cattedre sono infinite di numero, perchè ognuno, che siasi dedicato a una ricerca speciale, può aprire un corso sull'argomento prediletto, purchè ne abbia fatto dimanda al Consiglio superiore delle Scuole, composto di tre soli individui, che rappresentano le tre branche dell'insegnamento. Paolo e Maria ebbero voglia di assistere ad una delle tante lezioni, che si facevano in quel giorno, e entrati a caso in una sala, videro annunziato l'argomento, che tratterebbe il professore in quel giorno. L'annunzio diceva: Storia degli errori umani. Influenza delle passioni sulla logica del pensiero. La lezione non durò che un'ora e diede ai nostri viaggiatori un grandissimo diletto. L'oratore era molto dotto, aveva la parola facile, abbondante, e colla sua arguzia talvolta mordace rendeva piacevole anche la più arida dottrina e la storia documentata degli errori umani. Tutto il corso di quell'anno e del successivo doveva essere dedicato alla storia degli errori umani; ma in quel giorno il professore dedicava la sua eloquenza all'esame dell'antica avvocatura e degli errori, nei quali era trascinata un tempo la ragione umana dai periti scientifici, che i tribunali assegnavano alla difesa o all'accusa dei delinquenti. "Vi fu un tempo (diceva egli ) di lontanissima barbarie, in cui a forza di voler rischiarare i problemi della colpa, a furia di voler portare troppa luce nei giudizii onde la verità ne uscisse limpida e chiara, si abbagliavano talmente gli occhi dei giudici, da portarli alle sentenze più assurde. "I giudici, che avrebbero dovuto essere soli competenti, avevano di contro un pugno di uomini trovati per strada, medici o ingegneri o commercianti, che non avevano mai studiato neppure l'alfabeto della scienza giuridica e che pure in ultimo dovevano sentenziare, assolvere o condannare. "E i poveri giurati, innocenti nella loro ignoranza, paurosi della loro immeritata responsabilità, si volgevano ai periti tecnici, agli uomini di scienza, che avrebbero dovuto illuminarli, e la luce sovrapposta alla luce produceva invece tenebre sempre più dense. "I periti della difesa dicevano: "Non vi è veleno nelle viscere della vittima. "E i periti dell'accusa dicevano invece: "Vi è veleno. "E i poveri giurati davanti a così sfacciate contraddizioni, abbagliati e confusi dal cozzo dell'eloquenza avvocatesca, dalle liriche invettive dei giudici, sballottati fra la scienza che negava da sè stessa la propria efficacia colle flagranti contraddizioni e perduti nel labirinto dei sofismi, dei paradossi, della dialettica, che cadevano sulle loro spalle come tanti proiettili in un dì di battaglia, finivano per abbandonarsi alla suggestione del sentimento; il più infido dei giudici nel campo della giustizia, e sentenziavano col cuore, invece che colla ragione. "E in ultima analisi, non era la scienza giuridica, non la scienza dei periti che dava il supremo giudizio, ma era l'egoismo o la compassione. "Il primo diceva ai giurati: "Quell'uomo ha rubato: lasciato libero, potrà rubare ancora e mettere le sue mani anche nelle tue tasche. "Dunque in prigione, alla galera. "Quella donna, bella e giovane ha peccato in amore. Quanto volentieri avrei diviso il peccato con lei! "Poveretta! Le sia data la libertà. "E quando invece la compassione compariva o scuoteva le fibre sensibili dei giurati, era assolto il colpevole, quando la compassione per lui era più forte che per la vittima. Era invece condannato, quando gli avvocati eran riusciti, a far sentire più forte la compassione per la vittima. "Come vedete, - diceva il professore, - era un problema di affinità elettiva, era una lotta del sentimento colla ragione e la povera giustizia andava sommersa troppo spesso in queste lotte molto disuguali. "Ecco che cosa era la giustizia dieci secoli or sono. Ma non vogliamo essere troppo superbi noi altri uomini del secolo XXXI, perchè anche noi non sappiamo sempre disgiungere e separare nettamente il cuore dal pensiero, nei nostri giudizii." La lezione, spesso interrotta da risate di approvazione, fu fragorosamente applaudita al suo fine e i nostri, viaggiatori lasciarono il Palazzo della Scuola, molto contenti della loro visita.

Il numero dei fiori coltivati è oggi almeno mille volte maggiore che non fosse nei secoli XIX e XX, non solo perchè non v'ha più un cantuccio del nostro pianeta, nè la più lontana delle foreste, che non ci abbia dato il tributo delle sue piante e dei suoi fiori; ma anche perchè l'arte ha saputo creare specie nuove, che non sembrano al primo aspetto avere parentela alcuna colle specie che nascono spontanee nel prato e nel bosco. Nel mercato dei fiori si vendevano anche piante vive e fiori imbalsamati, che sembravano freschi e che ingannavano l'occhio di tutti. Dal mercato dei fiori Paolo e Maria passarono in quello delle frutta. Anche qui un incanto per gli occhi, un profumo per il naso. La bellezza dei fiori sta a quella dei frutti, come fra loro stanno i loro profumi. Nei fiori la bellezza è il fascino primo, che li rende le più care creature della terra. Si direbbe che in essi il sommo fra i coloristi della Scuola Veneta si è alleato col principe del disegno della Scuola Greca; per cui la profusione, la varietà e l'intreccio dei colori non sono vinti che dall'eleganza, dalla purezza o dalla bizzarria del disegno. Là dove il colorista innamorato, nell'esaltazione del suo amore per il colore, lo getta a piene mani, in eccesso, col pericolo di cadere nel barocco e nella pletora del troppo, si fa innanzi il pittore del disegno, che nell'originalità e l'eleganza delle linee fa tale una cornice all'orgia dei colori, da far dire a tutti: Oh che santi e cari alleati! Oh come stanno bene insieme nella feconda creazione del bello! E quando il disegno sarebbe troppo severo, troppo semplice o rigido, viene subito il colorista colla sua inesauribile tavolozza a dar vita e gioventù al calice troppo gretto, alla coppa troppo classica; e il fiore par che risponda ai suoi due genitori: Grazie, grazie! Se i fiori son tanto belli da bastare essi soli per dettare un trattato d'estetica a chiunque (purchè egli non sia un filosofo ); anche i loro odori sono la poesia del profumo, che ha in essi forse un numero maggiore di note, che non abbia la musica. E non hanno dessi la delicatezza e la fugacità di un sogno, che fra le palpebre socchiuse, compare e sparisce e s'indovina più che non si senta? E non hanno forse anche la nota dell'aroma più ardente e più caldo, e la voluttà profonda, che sembra un contatto di carni innamorate e il piccante e il frizzante e l'etereo e il vaporoso e il solleticante e tante e tante altre delizie, a cui il nostro linguaggio tanto imperfetto nega lo stampo di una parola? E così nei frutti forme e colori e profumi stanno tra di loro nello stesso rapporto come bellezza di forme e soavità di odori stanno nei loro padri, e fratelli, i fiori. Il profumo delle frutta non ha la poesia di quello dei fiori; e se nell'ammirazione di questi, il primo grido dell'anima è: Oh belli! nell'ammirazione dei frutti, il grido invece e quest'altro: Oh buoni! Così le forme dei frutti sono molto più semplici e poche, così i loro profumi hanno poche note. Possono essere piacevoli, di raro inebbrianti, possono essere forti, di raro o mai voluttuosi. Son profumi che son quasi sapori, e che stanno a quelli dei fiori, come l'amicizia sta all'amore. E non son forse i fiori gli amori delle piante? E non son forse i frutti le amicizie generate dall'amore? A tutto questo pensavano e tutto questo sentivano i nostri viaggiatori, passando dal mercato dei fiori a quello dei frutti. Anche qui vedono e ammirano raccolti in una stessa bottega le fragole, i lamponi, i manghi, i mangostani, le banane di cento varietà, i cocchi, gli ananassi, le cirimoie e le pere e le mele e tanti e tanti altri frutti, che il secolo XIX non conosceva ancora. Fra essi la pata, che un argentino ha saputo strappare alle foreste vergini della sua patria e coltivare in Europa, facendone un frutto, per profumo e per sapore rivale della pesca. Eppure un certo Mantegazza l'aveva fin dal secolo XIX additata come un frutto silvestre del tutto sconosciuto agli Europei. Paolo e Maria, passando dinanzi a un banco, dove erano esposte montagnole di arancie e di mandarine, videro un monello, che ghermiva, una delle più belle e delle più grosse e se la svignava; non però tanto svelto da non esser veduto dalla venditrice, che gridava: Al ladro, al ladro! Appena fu udito questo grido, da tutte le parti del mercato si sentì esclamare ad alta voce, da uomini, da donne, da fanciulli: Giustizia, giustizia, giustizia! E in men che nol dico, il ladroncello fu ghermito da un signore, che alla sua volta gridava: Giustizia, giustizia! Nell'anno 3000 non vi sono carabinieri, nè poliziotti, nè guardie di pubblica sicurezza; ma ogni cittadino onesto è carabiniere, poliziotto e per di più anche giudice. In pochi minuti intorno al monello si raccolsero sei cittadini, che col signore, che l'aveva afferrato, bastavano ad improvvisare il tribunale, che si chiama la Giustizia dei sette. Il pubblico, dopo aver riconosciuto che il tribunale era costituito, si ritirò, facendo circolo intorno a quelli otto uomini; sette giudici, ed un colpevole. - Perchè hai rubato quest'arancia? - disse colui che aveva per il primo arrestato il piccolo delinquente. - Perchè avevo sete. - Ma quell'arancia non era tua. - No, ma la fruttivendola ne aveva cento e mille. - Non importa. Quelle arancie eran tutte sue. Dovevi chiederla o comperarla. Tu hai rubato e te n'andrai alla Casa di giustizia. Allora uno dei sette disse: - Io scendo appunto nella città e abito in quei pressi. Lo condurrò io stesso colà. Datemi la sentenza. Uno dei sette staccò un foglietto da un portafoglio che aveva in tasca e scrisse: Fanciullo ladro di un'arancia. Tutti i sette firmarono il foglio e l'accompagnatore lo prese e se n'andò col monello, che senza opporre resistenza, ma piagnucolando lo seguì. E tutto rientrò nell'ordine di prima. - Vedi, Maria, - disse Paolo, - tu hai assistito ad un giudizio e ad una sentenza, come si suol fare per tutti i delitti, anche pei maggiori. In questo caso si trattava del semplice furto di un'arancia, ma se quel ragazzaccio avesse rubato un diamante o un portafogli pieno di denaro o avesse dato una coltellata ad un suo compagno, si sarebbe gridato egualmente: Giustizia, giustizia! E nello stesso modo si sarebbero riuniti sette galantuomini, avrebbero fatto un giudizio sommario e avrebbero condotto il colpevole alla Casa di giustizia. E questa Casa non è già un carcere, come quelli che si usavano anticamente, ma una specie di scuola, dove si correggono i colpevoli: dove si studiano con amore le cause, che possono aver condotto a delinquere. Maria interruppe Paolo: - Ma tu mi hai detto, che alcuni specialisti esaminano il cervello dei bambini appena nati e quando scoprono in essi una tendenza irresistibile al delitto, li sopprimono. - E questo è vero, - rispose Paolo, - ma non si distruggono che i delinquenti nati, cioè coloro, che per la speciale e fatale organizzazione delle loro cellule cerebrali sono necessariamente consacrati al delitto. Essi ucciderebbero e ruberebbero anche se nascessero ricchi, anche se la fortuna li mettesse nelle condizioni più felici. Queste però sono rarissime eccezioni. Tutti gli altri uomini nascono onesti, ma sono figli di lontanissimi padri, che vivevano nella vita selvaggia, che rendeva necessaria la violenza, e conservano nel loro cervello un germe celato del delitto, che in circostanze favorevoli può svilupparsi e condurli a uccidere o a rubare. Non vi ha uomo su questa terra, che in un impeto subitaneo di passione non possa per odio o per vendetta rendersi colpevole di un omicidio o di un furto. La nostra civiltà cerca da secoli di educare l'uomo in modo di sopprimere, di soffocare quei germi atavici; mentre d'altra parte si cerca di organizzare la vita sociale in modo che il delitto sia inutile e dannoso a chi lo commette. Un tempo la giustizia umana non si occupava che di punire: oggi invece cerchiamo di prevenire la colpa, rendendola difficile o impossibile. E che questo lavoro della civiltà non sia inutile, lo prova la statistica del delitto, che lo dimostra sempre più raro. Ciò non toglie che abbiamo sempre dei ladri e degli assassini. Il progresso morale è assai più lento del progresso intellettuale, ma non dobbiamo disperare che un giorno l'uno si metta a livello dell'altro. - Dunque oggi non si puniscono più i delitti? - Sì, ma la pena è ridotta alla perdita temporanea della libertà. Non ti pare forse una punizione sufficiente quella di essere segregato dal consorzio umano? Nella Casa di giustizia, il ladro, l'assassino son tenuti chiusi, mentre si cerca di dimostrar loro l'enormità della colpa commessa persuadendoli che il delitto non è soltanto una colpa, ma è un errore e una cattiva speculazione. La chiusura non dura che pochi giorni o poche settimane ed è caso molto raro che si prolunghi ad alcuni mesi E la punizione non finisce lì, perchè quando il colpevole è rimesso in libertà porta per qualche tempo all'occhiello dell'abito un nastrino giallo, che segna in lui un marchio di infamia, per cui tutti lo guardano con diffidenza e sospetto. I ladri lo portano di color giallo, gli assassini o tutti quelli che hanno commesso atti di grande violenza, lo portano rosso. E quel segno non si toglie che dopo che il colpevole ha mostrato colla sua condotta di esser ritornato nel grembo dei galantuomini. - E quando il delinquente è recidivo? - Oh allora, la pena della prigionia è raddoppiata o triplicata secondo i casi, e il colpevole, uscendo dalla Casa di giustizia, porta due nastri invece di uno. Ciò avviene però rarissime volte e per lo più in delinquenti nati, che per errore dell'esame cerebrale, son sfuggiti alla soppressione. *** Pochi momenti dopo Paolo e Maria, scendevano dal mercato, dopo aver comprato molti fiori e molte frutta e ritornavano al loro albergo.

Quando la morte sia improvvisa o il defunto non abbia espresso alcun desiderio sul modo con cui debba esser trattato il suo cadavere, provvedono per lui i più vicini parenti, e in mancanza di questi, lo Stato. Il metodo più usato è la dissoluzione del cadavere nell'acido nitrico. Il corpo umano vien ridotto ad una soluzione di nitrati di piccolo volume e che è conservato dai parenti in speciali bocce di cristallo. Le bocce, abbandonate dai parenti morti anch'essi, sono conservate nella Necropoli. Alcuni lasciano per testamento che la soluzione del loro corpo sia saturata colla creta, e ridotta così a concime sia sepolta al piede di qualche albero prediletto del loro orto o del loro giardino. Molti però preferiscono la cremazione, e i nostri viaggiatori visitarono il forno crematorio. È semplicissimo. Il cadavere è messo nudo in una specie di urna di platino, che ha la forma del corpo umano. Quando l'urna è chiusa, alle due estremità, che corrispondono al capo e ai piedi del morto, si applicano due fili, e una corrente di altissimo calore arroventa l'urna in modo, che in soli cinque o sei minuti è ridotta in cenere. Raffreddata l'urna se ne raccolgono le ceneri, che si consegnano alla famiglia o si serbano nella casa dei morti secondo il desiderio espresso dal defunto nel proprio testamento. Alcuni vogliono, che, secondo l'antico uso degli Indù, le loro ceneri siano gettate in un fiume o nel mare. Altri invece esprimono il desiderio, che esse siano deposte nelle aiuole del giardino, dell'orto o del campo per fecondare la terra. Per quelli che non hanno espresso altro desiderio che quello di essere cremati, senza dir altro; le ceneri vengono deposte in piccole urne di porcellana, e col nome del defunto e la data della morte si serbano nella necropoli. Dal forno crematorio i nostri viaggiatori passarono al Laboratorio necroforo dei Siderofili, Così si chiamano quegli uomini singolari, che adottando un'idea messa fuori da un chimico francese molti secoli prima, vogliono che dal loro cadavere si estragga tutto il ferro che contiene, e con esso si conii poi una medaglietta che porta inciso il loro nome coll'indicazione della patria e la data della morte. In questo modo i superstiti possono serbare un ricordo eterno dei loro cari estinti, portando appesa al collo o alla catena dell'orologio o altrove, il ferro che circolava nel loro sangue e faceva parte di tutti i loro tessuti. Paolo e Maria poterono coi loro occhi assistere a tutte le complicate operazioni, colle quali si estrae da un corpo umano il ferro che contiene e se ne fabbrica poi una medaglietta. Il lavoro è difficile e dispendioso, e perciò questo metodo di distruzione dei cadaveri umani è adottato solo dalle persone molto ricche, ed è quindi aristocratico. Uno dei chimici del singolare laboratorio spiegava ai visitatori i processi, coi quali un uomo è convertito in una medaglietta, non più grande di un antico centesimo, e li divertiva, narrando loro alcuni curiosi aneddoti. Egli conosceva in Andropoli una signora molto vecchia, e che nella sua lunga vita tutta dedicata ad una larga galanteria aveva avuto molti amanti, dai quali esigeva sempre che fossero siderofili. Il caso volle, che molti di questi amanti morissero in giovane età, per cui essa possiede una ventina di medagliette, colle quali si è fatta fare un monile molto singolare. Ogni medaglietta è unita all'altra con un anello d'oro e un brillante, ed essa ha in quel gioiello raccolta tutta quanta la storia della sua vita. Mi dicono, che questa buona donna, come facevano gli antichi cristiani coi loro rosarii, passa delle ore intiere tenendo in mano il suo rosario d'amore, e passando da una medaglietta all'altra, e baciandole una dopo l'altra, ricorda i poveri morti che l'hanno amata. Il nostro chimico narrò pure, come la siderofilia fiorisse specialmente nei secoli XXVII e XXVIII, epoca in cui si può dire, che fosse l'unico metodo di distruzione dei cadaveri usato dalle persone ricche. E noi abbiamo qui nel nostro tempio un vero Museo di medagliette, che furon trovate smarrite o che lo Stato raccolse per la scomparsa delle famiglie a cui appartenevano. Oggi la siderofilia è usata assai poco, perchè nell'anno 2858 si scoperse, che un chimico di quel tempo, che si era dato alla specialità di cavare il ferro dai cadaveri umani per farne poi le medagliette necrofore, si faceva pagare profumatamente l'operazione chimica, ma per risparmiarsi il lungo travaglio, invece di ricavare il ferro dal corpo del morto, prendeva un chiodo, un pezzo di ferro qualunque, e con esso coniava la sua medaglietta. Quel furbo aveva davvero inventato un'industria molto lucrosa, dacchè convertiva un pezzetto di ferro del valore di forse un soldo, in una medaglia che gli era pagata fin cinquecento lire. Egli arricchì immensamente, ma dopo di lui, per molti anni il pubblico dei morti ebbe grandissima diffidenza, e le medagliette di ferro umano, cadute in ridicolo, ebbero il loro tramonto. Non è che da alcuni anni, che una società di siderofili si è costituita in Andropoli, e qui hanno fondato un laboratorio, che presenta tutte le garanzie possibili, e dove per turno assistono alle nostre operazioni alcuni consiglieri di questa Società. L'ingegnere siderofilo, prima di congedarsi dai suoi visitatori, mostrò loro un laboratorio speciale, dove si stavano facendo degli studi per assecondare il desiderio di un ricco milionario, il quale vorrebbe che dopo la sua morte non solo venisse estratto il ferro dal suo cadavere, ma ad uno ad uno si isolassero tutti gli elementi; e così l'ossigeno, l'idrogeno, il carbonio, l'azoto, lo solfo, il fosforo, ecc. Questo signore, che è un inglese, ha messo a nostra disposizione pei nostri studi più di un milione, e da sè stesso ha disegnato un monumento tutto in pietra dura e che rassomiglia ad un'antica farmacia, e dove dovrebbero essere collocati tutti i corpi elementari, che hanno costituito il suo corpo. Nessun'altra iscrizione dovrebbe leggersi in questo monumento fuori di questa: Corpi elementari che formavano il corpo di N. N. Salutato l'ingegnere, Paolo e Maria passarono nella Sezione degli Imbalsamatori, dove si preparano i cadaveri di coloro, che vogliono resistere al tempo anche dopo la morte, conservando integri i loro corpi. La visita fu lunga e molto curiosa, dacchè gli imbalsamatori nel loro testamento non si accontentavano di dire, che volevano che il loro corpo fosse preservato dalla putrefazione; ma dicevano anche come volessero essere imbalsamati. E nell'anno 3000 i metodi di conservazione dei cadaveri sono molti e svariatissimi. I corpi imbalsamati sono poi ritirati dalle famiglie o conservati nella necropoli a seconda del desiderio espresso dal defunto o dai suoi parenti. I nostri viaggiatori, percorrendo il lungo Museo degli imbalsamati, poterono coi loro occhi vedere tutto quel popolo di morti superbi, che avevano voluto sopravvivere a sè stessi. Alcuni pochi erano imbalsamati come gli antichi egiziani, tutti chiusi nelle loro bende incatramate e chiusi in sarcofaghi di legno intarsiato e dipinto. Altri erano semplicemente disseccati in un forno, dopo essere stati imbevuti di sublimato corrosivo. Facevano ribrezzo, sembrando grandi stoccafissi. Più in là chiusi in grandi vetrine si vedono cadaveri pietrificati, rigidi e duri come la pietra, che paiono statue modellate da un pessimo scultore. Meno orribili sono altri imbalsamati col processo più perfetto, che si conosca nell'anno 3000. Sono vestiti dei loro abiti e serbano la loro fisonomia e il loro colorito; ma i loro occhi di vetro e immobili paiono guardar sempre fissi in un luogo. Si può ammirar l'arte, con cui sono stati preparati, ma fanno terrore e sembrano protestare contro chi ha voluto in uno strano connubio associare la vita alla morte. Maria guardava tutte quelle mummie con un evidente ribrezzo e non potè far a meno che di dire al suo Paolo: - Paolo mio, se muoio prima di te, io desidero che tu non mi faccia nè disciogliere nell'acido nitrico, nè cremare, nè molto meno imbalsamare. Fammi seppellire nella terra molle e odorosa, senza cassa alcuna, ond'io, anche morta, possa sentirmi circondata e abbracciata dalla nostra eterna madre, dal cui grembo siamo usciti. Io voglio disciogliermi in essa e nutrire col mio sangue e i miei visceri i fiori, che tu pianterai sulla mia fossa. Me lo prometti, non è vero, Paolo mio? - Sì, te lo prometto, - rispose Paolo colla voce interrotta dal singhiozzo, - ma sarai tu quella che mi adagerai nella terra molle e odorosa, perchè io ho parecchi anni più di te e prima di te devo fare il lungo viaggio; il viaggio senza ritorno. - Ma non parliamo di cose tristi. - E come non parlarne, qui, dove non siamo circondati che da morti, che ci ridestano l'eterno pensiero del mondo al di là, di cui tutta la nostra civiltà non ha saputo svelarci il segreto? Ma andiamo all'ultima tappa del nostro triste pellegrinaggio. Andiamo a visitare il cimitero. E i nostri viaggiatori rientrarono nel tempio, e avendolo attraversato, per una porticina si trovarono in un vasto giardino, tutto quanto popolato di arbusti sempre verdi e di fiori. Nel mezzo si innalza una colonna gigantesca di bronzo, che porta sulla cima una fiamma sempre ardente. Nello zoccolo della colonna sta scritta anche là la bella parola: Sperate. Dalla colonna partono come tanti raggi cento piccoli sentieri, che finiscono alla periferia del campo dei morti, e da ambo i lati del sentiero sono poste le tombe. Ogni tomba è un piccolo giardino in miniatura e in mezzo ad esse si innalza un cippo di marmo nero, in cui non si legge che il nome del morto e la data della nascita e della morte. Null'altro. - Vedi, Maria, qui non vi ha distinzione alcuna tra ricchi e poveri, tra genii e volgo. Chi può pagare il cippo, se lo fa da sè, e ai poveri provvede lo Stato. È assolutamente proibito di scrivere sulla tomba alcuna parola di elogio, nè di innalzare statue o mausolei sontuosi. Una volta, molti secoli or sono, le disuguaglianze e le vanità umane parlavano ad alta voce anche nei cimiteri, e chi li visitava, doveva credere che tutti quei morti erano stati in vita uomini di genio; eroi del cuore o del pensiero. E chi aveva dettate quelle epigrafi aveva spesso tormentato il povero morto, quando era in vita; lo aveva offeso, calunniato, fors'anche gli aveva affrettata la morte. Maria disse allora a Paolo: - Ho sempre trovato giusta questa eguaglianza di tutti gli uomini nel cimitero, ma mi pare che si dovrebbe fare un'eccezione per gli uomini di genio o per quelli, che colla carità o coll'eroismo hanno resi grandi servizi all'umanità. - E tu hai ragione, ma questi uomini grandi hanno la loro apoteosi in un Panteon, che è un po' più in là di questa necropoli e che noi visiteremo. Qui giacciono i loro corpi, là troveremo raccolte le memorie delle loro opere. - Permettimi, Paolo, un'altra osservazione. Mi è sempre parso, che nella nostra civiltà lo Stato prenda una parte eccessiva, invadente quasi. E perchè i superstiti non possono innalzare ai loro cari perduti una statua, un monumento, se vogliono, anche un mausoleo? Il nostro tempo si distingue soprattutto per il trionfo dell'individualismo e mi pare che qui, dove si dovrebbe lasciare all'affetto e al dolore tutti i loro santi diritti, lo Stato si intromette con troppa tirannia. - Ma no, Maria mia, lo Stato non è invasore. Qui dirige e comanda, perchè le necropoli sono monumenti pubblici, ma ognuno nella propria casa, nel proprio giardino, nel proprio paese è padrone di innalzare ad un caro morto, anche un tempio, se lo vuole. - Ma andiamo nel Panteon: là non troveremo più cadaveri, ma dei morti che son più vivi di quando erano di questo mondo. Un viale tutto fiancheggiato di alberi giganteschi li condusse ad una vera città, dacchè ogni regione del globo vi ha i proprii templi innalzati alla memoria dei grandi uomini. E ogni tempio ha l'architettura caratteristica del paese, a cui quei genii appartenevano. Ne ha la China: ne hanno il Giappone, l'India, l'Australia, l'America, l'Africa e l'Europa. In ogni tempio si innalzano infiniti monumenti di bellissimo stile, dove non sono deposte le ossa dei genii scomparsi, ma dove si trova come in compendio tutta la loro vita. In tutti si trova o il busto o la statua, che riproduce i lineamenti del grande estinto e poi, come in una chiesetta chiusa, si vedono alle pareti tutti i ritratti di lui nelle diverse età della vita. Un albero genealogico della famiglia segna la sua discendenza e poi, se autore di libri, in una libreria son poste tutte le sue opere, colle diverse edizioni, e le sue biografie. Spesso si vedono anche gli oggetti che gli sono stati più cari, il suo cane o il suo gatto imbalsamati, i fiori che prediligeva, il suo bastone, la poltrona in cui sedeva e tanti altri oggetti. Se il morto era un artista, si vedono le riproduzioni in fotografia dei suoi quadri, delle sue statue, degli edifizi che aveva innalzati. Se era un meccanico o un ingegnere si trovano nel monumento, che gli è stato innalzato, i disegni delle macchine inventate, delle strade, dei ponti che aveva costruiti. In una parola ogni monumento è una biografia parlante dell'uomo grande, a cui era stato innalzato. - Tu vedi, Maria, che per aver soppressi i mausolei vanitosi nel cimitero, i grandi uomini non sono meno onorati da noi di quello che lo furono dai nostri antichi padri, i quali, lasciando ai superstiti la cura di ricordare i loro morti, misuravano col denaro e non col merito l'altezza della statua e il lusso dei marmi; per cui spesso un uomo volgarissimo aveva in quei cimiteri uno splendido mausoleo, mentre un genio non era ricordato che da una modestissima lapide. Paolo, come facevano tutti i visitatori di quel Panteon, entrando nei diversi monumenti, si levava il cappello, facendo una genuflessione dinanzi all'effigie del grand'uomo. - Questi sono i nostri santi, e che tengon luogo degli antichi, spesso fabbricati per industrie simoniache da preti furbi ed ignoranti o che non avevano avuto altro merito che quello di aver digiunato o di aver contraddette le più sacre leggi della natura; quelle che ci comandano di amare e di riaccendere nei nostri figli la fiaccola della vita. Commossi, ma non rattristati, i nostri due compagni passeggiarono lungamente nel Panteon di Andropoli, richiamando alla memoria le grandi azioni e le grandi opere di quei grandi. Maria, commossa profondamente dalla lunga passeggiata, fece un'ultima domanda al suo Paolo: - Dimmi, Paolo, qui non trovo più l'uguaglianza, che ho veduta nel campo dei morti. Qui trovo monumenti piccini, mezzani, grandissimi, e chi è giudice e esecutore di queste grandi disuguaglianze? - Gli uomini grandi, mia cara, son tutti degni di gloria; ma son molto disuguali fra di loro. Abbiamo i genii, che colla luce del loro pensiero innalzano un faro che illumina tutto il pianeta; che colle loro opere segnano un'era nuova nella storia dell'umanità. E ne abbiam altri, che col loro talento e il lavoro indefesso perfezionano le scoperte dei primi; nè è cosa giusta, che essi abbiano gloria eguale agli altri. È il concorso dei più, è il voto dei membri della grande Accademia di Andropoli, che decide quale sia il monumento, che deve essere innalzato alla memoria del grande scomparso. E il giudizio non è pronunziato che dopo una lunga e profonda discussione.

Quanto al capo della città, si chiama il Diverso di quest'oggi, perchè ogni giorno per turno ognuno di noi, che abbia più di vent'anni, uomo o donna non importa, diventa capo per un giorno solo, e al numero 1000 scioglie i problemi d'ordine che possono offrirsi; amministra la giustizia e fa insomma tutto ciò che nell'Andropoli fanno centinaia d'impiegati. Del resto il governo dell'Eguaglianza è facilissimo, perchè nella casa del Diverso di quest'oggi sta esposto a tutti il codice, che stabilisce e regola la vita di ciascuno. Noi abbiamo in orrore la diversità, perchè offende la giustizia, che è la nostra Dea; e ognuno di noi denunzia subito al Diverso d'un giorno chi nel vestire, nel mangiare o in qualsiasi cosa si comporti diversamente dagli altri. Maria non potè frenar le risa a questo discorso dell'egualitario, ma questi non ebbe tempo di accorgersene, perchè, salutati i viaggiatori, aveva già ripreso il suo passo cadenzato e monotono. - Ma, Paolo mio, noi siamo venuti in una gabbia di matti! Andiamo via e presto. - Ma no, Mariuccia mia! Questo regno dell'Eguaglianza mi par curioso assai e vorrei studiarlo più da vicino. Son più di mille e cento anni che i francesi fecero una terribile e sanguinosa rivoluzione per conquistar fra le altre cose l'eguaglianza. Si tagliarono colla ghigliottina migliaia di teste innocenti, ma gli uomini continuarono a nascere gli uni diversi dagli altri e le gerarchie sociali si adagiarono nella società in cui oggi viviamo e dove la giustizia concede non più le stesse cose a tutti, ma bensì ciò che ognuno si merita. Ma ecco qui che nell'Isola degli esperimenti troviamo dopo undici secoli rinnovellato lo stesso sogno del 1789. - Meno male che qui non vedo la ghigliottina e questi matti di egualitarii si sono liberamente raccolti per attuare il loro sogno. - Ma io, dolce compagna mia, mi sento un grande appetito e vorrei picchiare alla prima porta, che incontriamo per chiedere l'ospitalità. E così fecero i nostri viaggiatori. Al numero 365 della via numero 6 entrarono in una casa dell'Eguaglianza, che aveva spalancate le sue porte, come tutte le altre. Nel vestibolo trovarono una creatura bianco-vestita. Sarà un uomo o una donna? Era molto difficile il dirlo; ma quando aprì la bocca per salutarli, si accorsero che era una donna e che parlava come tutti gli altri la lingua cosmica. - Perdoni, signora, ci hanno detto che in questa città non vi sono alberghi, e che ogni casa offre l'ospitalità ai viaggiatori. E perciò vorremmo pregarla a darci da colazione. - Entrino e si mettano a sedere. Mi duole però doverle dire, che l'ora della colazione è passata e converrà che aspettino l'ora del pranzo, che è alle diciassette. - Scusi, signora; ma abbiamo molto appetito e ci basterebbe il più modesto spuntino: due uova e un po' di pane. - Non potrei trasgredire la legge dell'Eguaglianza. Da bravi viaggiatori avrete con voi qualche piccola provvista, che vi permetterà di aspettare l'ora del pranzo, che si farà in comune. Intanto eccovi aperta la camera degli ospiti, che è per l'appunto libera. Paolo e Maria avevano sempre nella loro borsetta da viaggio degli albuminoidi condensati e degli alimenti nervosi, per cui chiedendo mille scuse all'egualitario si raccolsero nella camera degli ospiti, ridendo come due pazzi della singolarità dei costumi di quel paese. Venuta l'ora del pranzo, sentirono suonare un campanello elettrico, che lo annunziava, e nello stesso tempo suonavano tutti i campanelli della città. Introdotti nella sala da pranzo, videro sedute a mensa cinque persone, il babbo, la mamma e tre figliuoli. Nessun cameriere, nessuna serva. Per turno si alzava ora il padre, ora la madre, ora uno dei tre figli e da uno sportello aperto nel muro prendevano le vivande, preparate da essi in cucina con piccola fatica personale e congegni ingegnosissimi di meccanica e di chimica. Il padrone di casa, poco diverso dalla padrona nella fisionomia, e in tutto eguale ad essa nel vestito, era ilare e cogli ospiti gentilissimo. Si informava del loro viaggio, dava notizie preziose sulla città dell'Eguaglianza e sugli altri Stati dell'isola, ma sopratutto ci teneva a portare a cielo la perfezione sociale del governo sotto cui viveva. - Vedete, che mirabile cosa è questo sistema, tutto ordine e simmetria! A questa stessa ora nella nostra città tutti pranzano e tutti mangiano la stessa cosa, e in molte mense siede anche lo stesso numero di persone, dacchè il celibato è proibito; come è proibito avere più di tre figli. Soltanto nel caso in cui la sventura ce ne involi uno, possiamo sostituirlo con un quarto. Il primo d'ogni mese tutti i capi di famiglia mandano alla casa del Diverso d'un giorno la proposta dei cibi, che si dovrebbero mangiare a colazione, a pranzo e a cena, e la maggioranza delle proposte divien legge per tutti. Così si variano le vivande e le ore dei pasti a seconda delle stagioni e della pubblica salute. Non vi par questo l'ideale d'una società? Nessuno primo, nessuno secondo; ma tutti eguali. Nessuna ambizione, nessuna lotta per il potere, che abbiamo tutti quanti per un giorno; nessuna invidia. Che ve ne pare? Paolo non voleva umiliare un uomo così gentile, nè disingannarlo nella beatitudine sicura delle sue convinzioni. Si accontentò di dire: - Di certo, il vostro organismo sociale è molto curioso, molto originale ... - Oh, caro signore, non è soltanto curioso e originale; ma è la perfezione, l'ideale di tutti i governi umani. - Ma come riuscite a far trovar piacevoli a tutti le stesse cose? Gli uomini nascono tanto diversi gli uni dagli altri ... - Può darsi, ma l'abitudine delle stesse cose li rende sempre più eguali e noi speriamo col tempo di farli nascere tutti eguali, tutti della stessa robustezza, della stessa intelligenza, degli stessi gusti. Una legge votata nello stesso anno impone a tutti di fecondare la propria moglie soltanto il primo di maggio. Quanto all'amore, lo facciamo tutti alla stessa ora, ogni mattina, quando suona una campana speciale dalla casa del Governo. Non vi par bello, poetico il pensare che voi mangiate, che voi dormite, che voi passeggiate alla stessa ora di tutti i vostri concittadini? Qui Paolo, frenando a stento il sorriso, non potè a meno di dire: - Caro signore, fino dal 1600 i Gesuiti del Paraguay avevano pensato la stessa cosa, e una certa campana suonata al mattino, ingiungeva ai cittadini di porgere il loro tributo a Venere feconda ... - Non so chi fossero questi Gesuiti, dei quali mi parlate, ma trovo che un'idea, che rimane dopo tanti secoli, deve avere un serio fondamento nei bisogni della natura umana ... - Io credo invece, - soggiunse Paolo, - che la natura umana è così elastica, è così proteiforme, che ci permette di ripetere a lunghi intervalli le stesse esperienze, e di ritentare le stesse strane utopie, come credo che sia questa vostra repubblica egualitaria. *** Il giorno dopo i nostri viaggiatori partirono dall'Eguaglianza e si diressero a Tirannopoli, piccolo stato, dove il popolo viveva sotto il regime dispotico d'un piccolo tirannetto, Niccolò III, che portava il titolo di czar in memoria degli imperatori di Russia, che avevano governato molti secoli prima gran parte dell'Europa orientale e dell'Asia occidentale. Non si fermarono che un giorno indignati della pecoraggine di quella gente, che ubbidiva a un uomo solo, che non aveva altro merito che quello di essere nato da Niccolò II, che alla sua volta aveva ereditato il trono di Niccolò I, fondatore della dinastia. Tirannopoli formicolava di soldati, che non avevano a difendere la patria, che non aveva nemici; ma che facevano la parte di carabinieri e di guardie di pubblica sicurezza, riferendo ogni giorno al Capo della polizia ciò che avevano veduto e udito nel loro spionaggio quotidiano. Una parola sola poco riverente pronunciata contro lo czar era punita col carcere e ogni tentativo di ribellione si meritava la pena di morte, che veniva eseguita collo strangolamento. Niccolò era non solo re assoluto, ma anche capo della religione. Questa era semplicissima: adorazione di un Dio solo e dei suoi santi, che erano tutti tiranni celebri nella storia del passato. Augusto, Tiberio, Nerone, Ezzelino da Romano, Luigi XI, Luigi XIV, Enrico VIII d'Inghilterra, Napoleone I, Re Bomba di Napoli, Pietro il Grande e tanti altri erano altrettanti santi, che avevano il loro tempio e il loro culto. Intorno al trono vi era una doppia aristocrazia, la civile e la religiosa, strette entrambe da vincoli di parentela e di una comune solidarietà. Portavano titoli diversi secondo la gerarchia a cui appartenevano e in cambio dei servigi, che rendevano al trono, erano pagati lautamente; senza far altro che difendere il trono e l'altare. Tirannopoli era circondata da Stati liberi e qualche cittadino era riuscito a fuggire dalla tirannia di Niccolò III per recarsi all'Eguaglianza, alla Metropoli del socialismo, allo Stato parlamentare; ma l'emigrazione era rara e difficile, essendo punita colla morte, se si poteva ghermire il colpevole. In caso diverso era punita nelle persone dei congiunti più vicini al colpevole. Del resto l'emigrazione era rarissima per un'altra ragione. Gli abitanti di Tirannopoli, nati da due generazioni di schiavi, nascevano già rassegnati e pazienti della schiavitù e ubbidivano alle leggi più assurde e tiranniche. I più intelligenti e i più fieri speravano in un Messia, che aveva di là a venire, che avrebbe ucciso il tiranno e distrutta l'aristocrazia dominante, dando a tutti la luce della libertà. Quando Paolo e Maria, inorriditi dal triste spettacolo di quella società di schiavi, stavano per uscire dalla frontiera di quel paese, s'incontrarono con un giovane signore, che Paolo aveva conosciuto a Roma, quando vi faceva i suoi studi e che poi si era recato per diporto ad Andropoli. Fin da fanciullo aveva istinti tirannici e divenuto uomo, in pubbliche conferenze e in articoli di giornali, predicava la necessità di rinforzare il Governo degli Stati Uniti d'Europa con leggi restrittive. Ora il tribunale supremo di Andropoli gli aveva imposto di recarsi per un mese nell'Isola di Ceilan e vedere cogli occhi suoi, che bella e buona cosa fosse uno Stato governato coll'antica tirannide. Fu egli stesso che narrò ai due sposi lo scopo del suo viaggio, e Paolo, ridendo, gli disse: - Vai, vai a Tirannopoli e un mese sarà soverchio tempo, perchè tu possa guarire dalle tue idee autoritarie. *** Continuando il loro viaggio di esplorazione Paolo e Maria giunsero a Turazia, capitale d'un piccolo Stato governato dal Socialismo collettivo. Le cose si rassomigliavano assai a quelle vedute da essi nella città dell'Eguaglianza e non erano meno curiose e ridicole. Incontratisi in un giovinetto che passeggiava per la via, gli chiesero l'indirizzo di un albergo e mentre egli li accompagnava entrarono in conversazione con lui, chiedendogli di chi fosse figlio: - Non lo so, come non lo sa alcuno degli abitanti di questo paese. Non conosco che mia madre, ma siccome essa ebbe molti amanti, parecchi pretendono di avermi data la vita. Qui il nostro cognome è quello della mamma, perchè l'amore è libero e non esiste il matrimonio. I figli son tutti dello Stato, che è il gran padre di tutti. Maria chiese ancora a quel giovinetto socialista, perchè la loro città si chiamasse Turazia. - È in onore d'un certo Turati, che visse in Italia verso la fine del secolo XIX e che fu uno dei più onesti e ragionevoli socialisti di quel tempo e che colla penna e colla parola preparò l'avvento della gran Repubblica socialista, che governò più tardi l'Europa. Maria s'interessò vivamente allo studio di Turazia e Paolo in poche parole le fece la storia della grande e generosa utopia del socialismo, ch'egli definiva un'arcadica tenerezza del cuore accompagnata dalla più profonda ignoranza della natura umana. - Vedi, Maria, fin dal 1895 l'Europa contava socialisti di diverse specie, e un certo Bianchini, arguto e profondo scrittore di quel tempo, ne trovava tre diverse categorie. In prima fila vi erano i socialisti della scienza, una scienza nella sostanza non sempre purissima, ma che nell'esteriorità curava gelosamente il proprio incedere grave, sistematico, dignitoso. Questi socialisti dicevano giorno, ora e minuto della prossima trasformazione sociale e del relativo fallimento borghese. Le loro trovate non peccavano di eccessiva varietà. Si lavorasse troppo o non si lavorasse affatto, vi fosse ingombro o deficienza, piovesse o tempestasse, essi non vedevano al mondo che l'infame capitale in basso e Dio Marx in alto, un grande precursore del Turati. Vi erano poi i socialisti della letteratura: qualche uomo di talento, alcuni mediocri, e dietro il gregge infinito degl'autori traditi dalla sorte, cui l'avvento del socialismo sorrideva come una rivendicazione della propria genialità incompresa, ad una santa opera nella quale la tirannia del capitale più non tarperebbe le ali ai voli sconfinati del pensiero. Essi sognavano il giorno felice, in cui la sordida avarizia degli editori più non contrasterebbe l'ineffabile dolcezza di far gemere i torchi, e quel sogno li esaltava, faceva vibrare le parti più sensibili e più accese del loro cuore. Il socialista letterato era un animale entusiasta, espansivo, convinto fino all'assurdo delle proprie idee, ma personalmente molto innocuo. Il Bianchini distingueva per ultimo i socialisti della cattedra, e trovava al suo tempo, che erano pochi, ma singolarmente cocciuti. Erano uomini spaventosamente eruditi, che si erano tuffati col più eroico dei coraggi nel mare magno delle leggi e degli istituti giuridici per ricavarne l'infallibile ricetta, che doveva cancellare dal dizionario umano la triste parola di dolore. Il loro lavoro speculativo li aveva inconsciamente separati dal mondo dei viventi per portarli in un ambiente, in cui non si riconosceva che una divinità, la legge: che era tutto, doveva tutto, poteva tutto. Non vi era esigenza fisiologica o naturale, che si degnassero considerare nell'uomo, ma colla massima disinvoltura essi la perfezionavano, volgevano e capovolgevano così come domandavano i bisogni del loro sistema prestabilito. E accanto ai maestri, lavoratori sobrii, illusi in buona fede, sorgevano i discepoli, leggeri, superficiali, che si pavoneggiavano nella loro veste pretensiosa di essere superiori a buon mercato. Studiando la storia del socialismo però, cara Maria, io credo che alle tre specie di socialisti magistralmente definiti dal Bianchini sulla fine del secolo XIX se ne debba aggiungere una quarta, che era fors'anche la più numerosa ed è quella dei socialisti per pietà. A questi appartenne Edmondo De Amicis, un celebre scrittore italiano del secolo XIX. E questi sono per l'appunto quelli che, dopo undici secoli, hanno voluto ritentare l'antica prova, fondando qui nell'isola di Ceilan lo Stato di Turazia. Il dolore fisico non esiste più, ma esistono ancora molte e molte forme di dolore morale, ad onta che si cerchi di sopprimere dalla nascita i delinquenti nati e tutti i mostri e tutti gli organismi consacrati a morire immaturamente e di malattie ereditarie. Qualche volta i biologi periti sbagliano e lasciano vivere uomini, che per la loro costituzione son condannati a soffrire o a far soffrire gli altri, se non fisicamente, moralmente; dacchè la pietà altruistica è un acerbo dolore. Aggiungi a questo la lotta delle individualità forse troppo libere nei loro movimenti e che fanno nascere spesso contrasti, contraddizioni, disuguaglianze. Da quel poco che ho veduto qui in Turazia mi pare che l'esperimento, che non dura che da cinque anni, non avrà lunga vita. La gran massa del popolo socialista è costituita da ignoranti e da gente di carattere debolissimo, venuta qui, sperando di trovarvi una panacea ai loro mali. Alla testa ho veduto uomini d'ingegno, ma con più cuore che testa, e che si affannano a risolvere questa specie di quadratura del circolo; cioè di dare a tutti quel che spetta a ciascuno, misurando con equa bilancia il valore del lavoro, che è così diverso nei diversi organismi umani. Lo Stato è divenuto una specie di tumore gigantesco, che assorbe tutto colla santa intenzione di distribuire a tutti un egual quantità di sangue e di vita; ma questa distribuzione è fatta da uomini, che per quanto intelligenti e buoni, son pur sempre uomini ed hanno le loro simpatie, le loro passioni; e di qui altrettante cause di errore e di malcontenti. Nota poi, che la impossibilità di accumulare il frutto del lavoro per lasciarlo ai figliuoli toglie ogni nerbo all'energia individuale e una grande apatia regna sovrana nell'atmosfera di questo Stato, dove se non vi sono nè oppressori, nè oppressi, mancano però le sante e poderose lotte del primato e le più belle e nobili energie abortiscono, perchè è a loro negato il lavoro. Ieri, mentre tu dormivi, ho avuto una lunga conversazione con uno dei capi principali di Turazia, ma trovai in lui un grande poeta, invece di un sapiente uomo di Stato. Egli era entusiasta del nuovo esperimento e mi diceva che la Repubblica socialista ha un grande avvenire ed è destinata poco per volta ad assorbire tutte le società planetarie. Alla mia obbiezione che essi avevan soppresso Dio e la famiglia, cioè il tempio in cui si crede o si spera e il nido in cui si ama, egli, crollando il capo in aria di compassione e colla voce ispirata e calda di un apostolo e di un profeta mi rispondeva: "Sì, è vero, abbiamo soppresso Dio, perchè è una menzogna. Abbiamo soppressa la famiglia egoistica e animalesca; ma l'abbiamo allargata, portandone i confini a ben più largo giro. Qui siamo tutti fratelli e i giovani son figli dei vecchi. La parentela non è soltanto del sangue, ma del cervello, del cuore, di tutti i nervi che fanno vibrare la natura umana ai sussulti della gioia e del dolore. La gioia di un solo è gioia di tutti; il dolore di un solo è dolore di tutti. "L'individuo, che voi altri planetarii, avete fatto un Dio, qui da noi non è che la molecola, l'atomo sociale, un membro del grande organismo, che è lo Stato. Noi non sentiamo il bisogno di maggior libertà, nè di maggiore agiatezza, perchè lo Stato pensa per noi e a tutti distribuisce ciò che gli spetta. Noi abbiam copiato ciò che fa la natura, quando plasma gli organismi del mondo vegetale e del mondo animale. "Forse che il braccio o un dito del piede o uno dei tanti nostri visceri si lamenta del lavoro che gli spetta nel grande travaglio della vita? No di certo: ognuno dei nostri organi lavora per sè e per gli altri e vive nello stesso tempo della vita propria e della vita collettiva. Voi altri, individualizzatori fanatici, potete salire in alto finchè volete; potete sentirvi potenti, ricchissimi; ma siete sempre unità. Io invece, vedete, sento fremere in me la vita di tutti i 30000 fratelli, che per ora costituiscono la Repubblica sociale di Turazia, come se la coscienza del mio Io fosse grande come quella di tutti i miei concittadini." Molte altre e belle cose disse quel socialista, e anche a lui non ebbi il coraggio di gettare in faccia una sola delle tante obbiezioni, che mi venivano al labbro. Mi accontentai di stringergli forte la mano, dicendogli: "Vi ammiro e vi invidio, benchè sia di opposto parere sulla forma di governo sociale che vi siete data. Ogni entusiasmo, ogni fede ardente è sempre un fenomeno del pensiero, che sorprende e che per di più fa felice chi ne è capace." *** Da Turazia i nostri pellegrini, viaggiando nell'interno dell'Isola, si recarono a Logopoli, o città della parola; una nuova ricostruzione di un antico Stato parlamentare. Vi trovarono poco di nuovo e di interessante. Logopoli è una copia perfetta dell'antica Inghilterra, quando era uno Stato indipendente retto da un governo parlamentare. Di diverso non c'è che questo; che il Re non è un capo ereditario, ma elettivo. Ogni cinque anni Camera e Senato si riuniscono in una sola assemblea per dare il loro voto nell'elezione del Re. Questo Capo dello Stato è però un Re travicello, che non fa che firmare i decreti e a cui hanno tolto anche il diritto di grazia. Ha un ricco appannaggio e porta intorno la maestà e gli orpelli del suo alto posto. Del resto ministri, deputati e senatori, come negli antichi Stati a regime parlamentare. Gli stessi intrighi, le stesse corruzioni per essere eletti membri dell'una o dell'altra Camera, essendo a Logopoli elettivi anche i senatori. Pagati gli uni e gli altri profumatamente, ma esclusi da ogni impiego. Così pure esclusi tutti gli avvocati e quelli che abbiano interessi comuni colle imprese dello Stato. La rappresentanza del popolo però è divenuta un po' più sincera e seria; dacchè ad ogni votazione importante, ad ogni atto politico di grande gravità, sia pur di un ministro, di un deputato o di un senatore, gli elettori del Collegio hanno diritto di riunirsi in comizio straordinario e di dare un voto di disapprovazione al loro rappresentante. Questi cessa da quel momento di essere membro del Parlamento o del Gabinetto e dev'essere sostituito per via di una nuova elezione. Questa ed altre riforme di minor conto hanno migliorato in Logopoli l'antica forma parlamentare, ma vi rimangono sempre queste due infermità organiche:... Quella di fabbricar le leggi con una commissione di troppi individui, facendole mutevoli ad ogni accidente od incidente di persone o di cose. E l'altra di mutar sempre al capriccio vagabondo degli elettori coloro che devono dettar le leggi e reggere il timone dello Stato. *** I nostri compagni non visitarono tutti gli Stati dell'Isola degli esperimenti, ma soltanto i principali. Oltre gli egualitarii, oltre Tirannopoli, Turazia e Logopoli, vi sono altre genti e altri paesi governati diversamente. Basta che un centinaio di uomini pensino un'utopia sociale nuova o ne ripensino una antica già sepolta da secoli, ed essi sanno che nell'Isola di Ceilan si trova sempre un piccolo o grande territorio vergine, dove possono fondare la nuova Repubblica o la nuova Teocrazia. E così si fanno e rifanno gli esperimenti: così sorgono e muoiono città e falansteri e organismi nuovi e bizzarri; che servono poi di svago ed anche di scuola agli uomini politici degli Stati Uniti planetarii. Paolo e Maria seppero infatti, che Ceilan possiede oltre gli Stati da essi visitati: Poligamo, staterello a governo semidispotico, dove ogni uomo ha molte mogli. Poliandra, altro Stato, dove invece ogni donna ha molti mariti. Cenobia, una immensa città ieratica, da cui sono escluse le donne e gli uomini vivono in un ascetismo continuo. Monachia, piccola città tutta di monache date al culto di Saffo. Peruvia, uno Stato comunista, dove si ricopia l'antico regime socialista dell'Impero degli Incas; e dove la proprietà, essendo tutta dello Stato, si presta a ciascuno secondo i suoi bisogni, allargandone la frontiera secondo il numero dei figli. Così pure il lavoro, vien distribuito nei diversi giorni della settimana per sè, per i poveri e i malati, per il re e i principi e per le spese del culto.

A chi si presenta non si domanda mai dove egli abbia studiato, nè con chi. Gli si fanno esami rigorosissimi teorici e pratici a seconda dei casi e poi si concede o si rifiuta la patente a cui egli aspira. Non vi sono gradi di merito, onde non offendere l'amor proprio di alcuno ed anche perchè una lunga esperienza ha dimostrato, che per quanto le Commissioni esaminatrici sieno scrupolosamente imparziali e gli esami si facciano con tutta la coscienza e tutta la maturità, i giudizi non corrispondono sempre fedelmente al merito reale del candidato. Naturalmente le scuole di Andropoli sono giudicate le migliori del mondo e quindi i diplomi che si rilasciano qui dall'Università della capitale hanno un grandissimo valore e ogni giorno giungono dai più lontani paesi studenti non laureati o già laureati, ma che vogliono conquistare il prezioso diploma metropolitano. L'uomo quando pensa e quando discute, è sempre un grande decentratore, ma quando agisce diventa feroce centralizzatore, e a questo istinto, che ha dell'automatico, direi quasi dell'animalesco, i nostri scienziati moderni cercano di opporsi con tutte le armi della critica, della persuasione, dell'autorità indiscutibile, che danno ad essi la dottrina e l'esperienza. Un altro problema, che tormenta attualmente il pensiero de' nostri alti consiglieri della scuola, è quello di conoscere le attitudini individuali, onde i maestri privati o pubblici possano guidare lo studente nella scelta della professione, nell'elezione degli studii. Qui, secondo noi, è riposto il segreto di tutta quanta l'efficacia della istruzione e della educazione. Non vi ha forse uomo sulla terra, che non sia adatto a far qualcosa di utile e di buono; ma questa attitudine non è sempre cosciente, nè si rivela sempre anche al più acuto osservatore di cervelli e di intelletti. L'esame delle cellule centrali fatto colla luce penetrante e cogli acuti strumenti ottici dei nostri psicoigei è ancora molto addietro nelle sue possibilità. Questi dotti sanno ben dirci, se un cervello porterà l'individuo a cui appartiene necessariamente al delitto, se appartiene ad un imbecille, a un uomo volgare o ad un genio; ma più in là non sanno andare. Resta quindi ancora all'individuo, ai suoi genitori e ai maestri lo spiare l'andamento evolutivo del pensiero nelle prime età della vita, per scoprire quali sieno nel suo cervello gli organi deboli, quali i forti, onde rinforzare i primi e approfittare degli altri per la scelta della professione e l'indirizzo degli studi. Noi non vogliamo spostati nella nostra società e chi sbaglia nella scelta della carriera è uno spostato e quindi un infelice. *** Paolo e Maria, ringraziando il cortese impiegato, che aveva fatto loro da cicerone nel Ministero della Salute, passarono nell'ultimo braccio della gran croce governativa, dove sulle pareti sta scritto Industria e Commercio. E anche qui un nuovo cicerone fu loro di guida. Sull'ingresso una statua gigantesca della Libertà domina alta e sublime, come per esprimere l'indirizzo nuovo preso dal lavoro umano nell'anno 3000, ma iniziato già da parecchi secoli. - Vedi, - disse Paolo a Maria, - questa statua rappresenta un bellissimo schiavo, che ha rotte le catene, che stanno infrante ai suoi piedi. Esso si appoggia sopra un trofeo di ruote; di pile e di altri strumenti; mentre dall'altro lato un aerotaco e una nave indicano il commercio. Vedi, Maria, quelle catene rappresentano i ceppi, nei quali visse o meglio soffrì l'industria col suo fratello il commercio nei tempi antichi. Il pensare a quei tempi mi da raccapriccio e sento una profonda compassione per quei nostri remoti padri, che subivano pazienti tutte quelle forme variate di schiavitù commerciale e industriale. Figurati, che fino al secolo XX in molte città d'Europa e in tutte le città italiane non si poteva entrare senza essere sottoposti ad una visita, brutale spesso e sempre noiosa, per parte di rozze guardie, che ti frugavano nelle valigie e nei bauli, dapertutto, per vedere se avevi oggetti sottoposti al dazio consumo, che pesava su tutte le derrate alimentari, sul vino, sul latte e sopra mille altre cose. E quando la città o il villaggio era in riva al mare, anche se tu fossi giunto in barchetta da un paese lontano da quello, forse non più di tre o quattro chilometri, tu dovevi passare per la trafila di due categorie di guardie, quelle di finanza per vedere se portavi merci dall'estero e quelle municipali per verificare se volevi defraudare il dazio consumo. Una doppia imposizione da subirsi in una passeggiata di un'ora! Grazie a Dio, si abolì il dazio consumo fin dal secolo XXI in tutte le città d'Europa e d'America; e poi man mano si andavano costituendo gli Stati Uniti del mondo, si abolirono anche le dogane in tutto il mondo ed oggi gli economisti non si ricordano più neppure del significato delle parole protezionista e liberoscambista. Evviva la civiltà! Evviva il progresso! Oggi tutti i paesi del mondo si scambiano liberamente i loro prodotti e le dogane son relegate insieme alle fortezze nel Museo delle rovine del passato. E qui intervenne il cortese cicerone a dare i necessari schiarimenti. - In questo dipartimento gli economisti, gli industriali, i commercianti, che per il loro ingegno, per le loro intraprese, per i loro studi hanno acquistato una fama mondiale, esaminano i grandi problemi del commercio cosmico, a cui danno preziosi consigli, grazie alle informazioni statistiche, che qui si raccolgono da ogni parte del mondo e a cui fanno appello gli industriali e i commercianti di tutto il pianeta. Eccovi un esempio di una delle funzioni esercitate da questo Ministero. Da tre o quattro anni nel Canadà si fondò una gran fabbrica di un nuovo materiale di costruzione per le case, che consiste nella riduzione in pasta degli alberi di acero di quelle immense foreste e che si mescola con diversi silicati solubili. La solidità e il poco prezzo di questo materiale, la sua poca o nessuna conducibilità per il calorico lo resero in poco tempo popolarissimo, e l'uso andò diffondendosi in tutti i paesi del mondo. La fabbrica, incoraggiata dal successo, raddoppiò la produzione della pasta e la spinse ad un eccesso superiore al bisogno. In pari tempo a Giava sorse un'altra fabbrica dello stesso genere, che anch'essa produce troppo. Il Governo centrale di qui, avvertito del fatto e forte dei dati statistici raccolti dalla produzione e il consumo della pasta di carte costruttive, avvertì per telegrafo l'una e l'altra fabbrica, perchè limitassero la produzione al necessario. Senza questo avvertimento, che fu comunicato proprio in questa settimana, dopo poco tempo una delle due manifatture avrebbe dovuto fallire. E lo stesso vien fatto per tutte le altre grandi industrie, che da questo centro ricevono istruzioni e consigli. Un'altra grande missione di questo Dicastero consiste nello studiare in opportuni laboratori i prodotti delle industrie nuove, che spesso non corrispondono per il loro valore reale alle speranze sempre troppo ottimiste dei loro inventori. Qui si sfrondano molte illusioni, ma si impediscono anche molte catastrofi. Quanto al commercio si fa lo stesso come per l'industria. Questo Dicastero non è un organo fiscale, ma un semplice ufficio di informazioni. Ogni grande commerciante di Pechino o di Nuova York, di Genova o di Londra, può nello stesso giorno conoscere per telegrafo il movimento commerciale di tutto il mondo rappresentato dalle navi entrate e uscite nei diversi porti e la natura e la quantità delle merci che portano in grembo. *** Dopo aver salutato e ringraziato la loro guida, i nostri viaggiatori lasciarono il Palazzo del Governo, ammirati dell'ordine, che vi regna sovrano e superbi di essere nati in un'epoca, che ha raggiunto tanti e così alti progressi nel movimento della civiltà. Nell'uscire dal palazzo però Paolo e Maria videro a fianco dell'entrata una palazzina a un sol piano, da dove partono un'infinità di fili, che si dirigono verso tutti i punti dell'orizzonte. Sulla porta sta scritto a grandi caratteri una sola parola: Denaro. Vollero informarsi che cosa fosse quell'uffizio. È null'altro che la ragioneria cosmica, come chi dicesse l'organo finanziario del nostro pianeta e che rappresenta tutte le funzioni, che un tempo esercitavano con un complicatissimo meccanismo i ministri di finanza, la Corte dei Conti, le Esattorie e tutti gli svariati strumenti di tortura, coi quali si estorceva il denaro dalle borse dei contribuenti per sopperire alle spese del Governo. Le quattro grandi sezioni dello Stato informano la ragioneria centrale di quanto occorre per le spese universali di bonifica, di esplorazioni scientifiche, di salvaguardia della salute pubblica; e il ragioniere capo, dopo essersi consultato coi suoi pochi colleghi, una volta all'anno fa sapere a tutto il mondo il tributo che si esige da Andropoli. Il Podestà di ogni regione ripartisce il tributo sopra ogni cittadino secondo le sue ricchezze. La tassa cresce in ragione geometrica della rendita di ogni cittadino. I poveri non pagano nulla. Questo è il bilancio cosmico, ma ogni Comune ha il proprio bilancio e anche qui le tasse sono geometricamente progressive e i poveri sono esenti da ogni tributo. Ogni regione ha un Consiglio dei reclami, dove si mandano le proteste di coloro, che si credono tassati soverchiamente o ingiustamente, e Andropoli ha poi il proprio Consiglio per i reclami della tassa cosmica. I giudizii emanati da questo Consiglio sono senza appello. Le proteste poi nell'anno 3000 sono molto rare, perchè le tasse non vengono pagate che dai ricchi, perchè sono molto modeste e sopratutto perchè ognuno sa di pagare in proprio vantaggio; dacchè le entrate sono spese tutte a beneficio di ciascuno e dei grandi interessi universali.

Teresa

678415
Neera 8 occorrenze
  • 1897
  • CASA EDITRICE GALLI
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Siamo donne, ma, diavolo, non c'è stato nessuno che ci abbia mangiate. Tre ragazze le ha già, una piú, una meno ... così il suo Carlino non va soldato. Il silenzio si rifece, grave, tormentoso; rotto a tratti da' gemiti della sofferente. - Vede, signora Caterina, in questa camera io son nata; in questa camera ... presto ... forse oggi, chi sa non abbia a morire. - Ma ne devo sentire ancora? - interruppe la signora Caterina, ponendosi le mani sui fianchi - si crederebbe, a darle ascolto, ch'è una bambinetta senza giudizio, e non la madre di quattro figli, a momenti cinque! Perché deve morire? Tanto può morir lei, come posso morir io, sul colpo, di accidente. Ha sentito ieri? Il fratello del sindaco, quel pezzo di uomo che pareva il ritratto della salute? ... In un jesus, nemmeno il tempo di dire amen; stava leggendo una lettera, paf, era morto. Non si deve pensare alla morte; quando viene, è perché deve venire; del resto noi donne abbiamo sette anime e un animino ... allegra dunque. Fra un'ora, un'ora e mezzo al piú tutto sarà finito. Guardi, l'ho detto a mia cognata Peppina prima di uscir di casa: aspettami all'alba, che la signora Caccia si sbriga presto. Non è il primo giorno che ci conosciamo, eh! Si fidi. La signora Soave, un po' calmata, girò attorno per la stanza uno sguardo carezzevole, quasi per trovare degli amici nei due canterani di legno di noce a pancia rigonfia; nel letto, mezzo nascosto sotto una bella coperta di filugello giallo a fioroni verdi, colle lenzuola rimboccate, guernite di una gala di mussolino; nell'inginocchiatoio, tutto pieno di libri, col predellino incavato dalle lunghe genuflessioni; nello specchio piccolo, verdognolo, appeso troppo in alto, dove non si vedeva che la faccia; nelle tende della finestra, lavorate da lei, a rombi, con un uccellino e una palma alternati per ogni rombo; nei due unici quadri, in cornice di legno nero, rappresentanti il matrimonio di Maria Vergine. Ma piú che tutto, lo sguardo della signora Soave si arrestò con compiacenza sopra un bambinello di cera coperto da una campana di vetro. Quel bambinello giallino, con due puntini neri al di sopra di un piccolo rialzo che simulava il naso; quel bambinello dall'espressione dolce e rassegnata, coricato da piú che vent'anni in mezzo ai fiori di carta e alle striscioline d'argento che gli ornavano la culla; quel bambino nudo e santo attirava in modo particolare la tenerezza della signora che si sentiva struggere di amore e di rispetto; con una voglia di piangere, una voglia di baciarlo, e una voglia di raccomandarsi alle sue manine benedette. La grandezza di Dio, rappresentata da quel piccolo bambino, la colpiva di uno stupore pietoso e devoto. Si alzò, e, movendosi a stento, andò a deporre un bacio sulla campana di vetro; restando poi immobile, colle mani giunte, assorta in una contemplazione dolorosa. L'uscio, di fianco al letto, si aperse pian pianino, e una testa di fanciulla, passando tra la fessura, domandò: - Mamma! La signora Soave si scosse: - Che vuoi Teresina? Non ti sei coricata un poco? - Oh! com'è possibile? Sto alla finestra con Carlino; aspettiamo il babbo. È passato Caramella, mi ha detto di stare tranquilli, che pericolo per il momento non c'è. Papà verrà presto. - Dio sia lodato! Va' a letto, Teresa, va' a letto. - E tu mamma? - Or ora ci vado. La fanciulla fece atto di ritirarsi; ma, prima che l'uscio fosse chiuso, la madre le si avvicinò, perplessa, ponendole una mano sulla spalla e dicendole a bassa voce con accento tremante: - Prega per me ... - Mamma ... mamma ... Ella si pose un dito sulle labbra, composta, con una solennità misteriosa e dolce: - Questa notte avrai un altro fratellino ... sono cose che capirai piú tardi ... ma già sei la maggiore tu, devi pur saperlo. Ora va a letto. La pose fuori con amorevolezza, e chiuse l'uscio. Dall'altra parte, in uno stretto corridoio, che divideva la camera nuziale dalla camera delle ragazze, Teresina rimase immobile, appoggiata allo stipite dell'uscio, con una oppressione in gola e un turbamento improvviso. Aveva quindici anni. Era cresciuta nell'ambiente tranquillo della famiglia, in quella cittaduzza di provincia, lontana da tutte le emozioni. Era il primo anno che stava a casa da scuola, e ne' suoi doveri di giovane massaia aveva ancora l'incertezza della inesperienza; ma si sentiva compresa della sua missione di aiutare la mamma. Il suo temperamento la portava alla serietà, e il suo cuore all'affetto. Le poche parole della madre, pronunciate lì sull'uscio, nel turbamento di quella notte, l'avevano profondamente impressionata. Si sentiva a un tratto fatta donna - con un presentimento improvviso di dolori lontani, con una responsabilità nuova, con un pudore bizzarro, misto di una straordinaria dolcezza. Sembrava che in quel momento, solamente in quel momento, ella riconoscesse il proprio sesso, sentendosi scorrere nelle vene un'onda di languore non mai avvertita prima, e, nel cervello, sorgere una curiosità viva, pungente, la quale cessò di colpo davanti al rossore che le invadeva le guancie. Tutto ciò durò lo spazio di cinque minuti, come fosse ricaduto il lembo di velo che le aveva squarciato il futuro. Ella si rifece calma, di una calma piú malinconica, piú intensa; rientrò nella propria cameretta; il fratello che l'aspettava, appoggiato al davanzale della finestra, guardò con una intuizione nuova, ed avendo egli pronunciata qualche parola, trasalì al suono di quella voce d'uomo, e lo guardò, alla sfuggita, temendo ch'egli potesse leggerle sul volto il suo segreto. Ma Carlino non si occupava che della piena. Avrebbe voluto trovarsi anche lui sull'argine, insieme agli altri, e si sporgeva fuori dalla finestra per vedere se passava qualcuno a cui domandare notizie. Qualche altra finestra, come quella dei due ragazzi, era aperta; donne spaurite vi si affacciavano origliando, temendo sempre i rintocchi della campana che doveva avvertirle di fuggire. - Sai? - disse Carlino, col riso un po' melenso dei fanciulloni di quattordici anni - la vecchia Tisbe è in piedi da due ore, colle sue posate d'argento nel grembiale e il cagnolino sotto il braccio. Teresina non rise. - Se potessi ... - tornò a dire Carlino, ponendo una gamba a cavalcioni del davanzale - solamente una scappata, tanto da vedere. Credi che non sarei capace di scendere dalla finestra? - Andiamo, via, ci mancherebbe altro. Gli rispose cosí, a fior di labbro, dritta dritta nel vano della finestra, collo sguardo fisso ostinatamente nel buio. A un tratto si accostò a suo fratello, passandogli un braccio intorno al collo, chinandosi lievemente, fino ad accarezzare colla guancia i capelli di lui corti ed ispidi come le setole di una spazzola. Egli non avvertì la carezza. Tutto sporto fuori colle braccia, guardando in direzione della piazza, diceva: - Se venisse giù di lì! giù! giù! uh! che fracasso ... Non lo sgomento del pericolo lo agitava, bensì l'emozione di quel divertimento nuovo. Tutto il fiume giù in paese! uh! ... E rideva, pensando ancora alla vecchia Tisbe, col cagnolino sotto il braccio e le posate nel grembiale. - Che grossa disgrazia! - mormorò Teresina, rabbrividendo, stringendosi contro al ragazzo con un bisogno irresistibile di tenerezza. - Auf! - fece egli, dando una crollata di spalle - mi soffochi. E si sciolse dall'amplesso, sbuffando. La fanciulla, mortificata, si ritirò in fondo alla camera, dove c'era il suo letto. Sedette sulla seggiolina, accanto al capezzale, e lasciò cadere la testa fra i cuscini. Lì presso c'era il letto delle gemelle; coricate l'una da capo e l'altra da piedi, vestite, con un scialle buttato a traverso dei loro corpi. Dormivano saporitamente. Di lí a poco, un andirivieni, un movimento insolito in camera della madre, fece risollevare il capo a Teresina, che si portò accanto all'uscio, origliando. Successe un breve silenzio. Ella stava per riprendere il suo posto, accanto al letto, quando un vagito di bimbo le trasse una esclamazione; e subito, senza riflettere, obbedendo ad uno slancio del cuore, entrò nella camera attigua. - Mamma, mi permetti? La signora Caterina si fece sull'uscio, seria, con un dito sulle labbra. - La lasci entrare - mormorò fiocamente di sotto la coperta a fiorami, la voce della signora Soave. Teresina entrò in punta di piedi, commossa, rattenendo il fiato. La signora Caterina le presentò una bambinetta appena nata, tutta rossa, avvolta in un pannicello. - Oh! com'è piccolina. Voleva prenderla in braccio, ma la signora Caterina non lo permise. - Dopo, quando sarà fasciata. Teresina la baciò adagio sui capelli; poi, avvicinandosi al letto di sua madre, vi si chinò sopra, riverente, piena di tenerezza, con un senso recondito di timore. - Lasciala stare la mamma - disse bruscamente la signora Caterina. - Sto bene - tornò a mormorare la signora Soave, ricambiando con uno sguardo le carezze della figlia; e soggiunse: - Teresa è la mia donnina, dovrà fare da seconda madre ... - Sí, sí - rispose la fanciulla, tanto commossa, che quasi singhiozzava. La signora Caterina, senza dir altro, la prese per un braccio, e la pose fuori della camera. Carlino venne incontro a sua sorella, gridando: - C'è qui il babbo. Ora sentiremo le notizie; mi ha già detto che hanno atterrato tutte le case vicine a San Rocco. Teresina non capì nulla; aveva anche lei la sua notizia e la disse al fratello, tremante, tutta pallida: - Ci è nata una sorellina. - Ah! sì? - fece Carlino - lo sapevo che doveva nascere. E scese le scale di corsa, per incontrare suo padre. Teresina rimase immobile, colpita dalle ultime parole del fratello. Come mai egli lo sapeva?

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Stassera, dalle dieci alle undici, passeggerò finché ella abbia la bontà di aprire la finestra terrena. Aspetto e spero. E. ORLANDI. Era piú, ed era meno di quello che supponeva. Da un mese il giovinotto le faceva, visibilmente, quantunque delicatamente, la corte. Una dichiarazione formale non poteva essere molto lontana dalle idee di Teresina; se la fanciulla avesse avuto il coraggio di interrogare se stessa, avrebbe trovato il desiderio di quella dichiarazione in tutti i sospiri che gettava al vento, nelle ansie della domenica, quando doveva andare a messa e sapeva di vederlo, là, al solito posto; nelle distrazioni frequenti, nei sonni agitati: - sì, la dichiarazione era attesa. Ma quella lettera non diceva una sola parola d'amore, e le chiedeva invece, senza preamboli, una cosa tanto grave, qual'era un appuntamento. Teresina non sapeva che risolvere; si trovava in una agitazione strana. Per fortuna nessuno venne a bussare al suo uscio, così che ebbe tempo di rimettersi alquanto, almeno in apparenza. Nascose la lettera in seno; ma era troppo alta, la sentiva scricchiolare ad ogni movimento; aperse il busto, e la spinse piú avanti, vicino al cuore; allora le venne il dubbio che potesse scivolarle giú per la vita e perdersi per la casa; ne provò un terrore pazzo; tornò a slacciarsi tutta, assicurando la carta con uno spillo alla camicia. Ancora non si sentiva tranquilla, e ad ogni tratto andava tastando colle dita se la lettera fosse al posto. Che voleva Orlandi da lei? Era possibile che l'amasse davvero? Egli, il piú bel giovane del paese! Si batté la fronte: - oh! - proruppe in un oh! di rabbia, di dolore. Ricordava una fotografia trovata nella valigia di Carlino, il ritratto di una bella donna che suo fratello aveva chiamata l'amante d'Orlandi. Uno strazio, una smania orribile la prese, una gelosia rapida, quasi fulminea; un bisogno di interrogare suo fratello, di sapere chi fosse quella donna, se Orlandi l'amava molto, se l'amava ancora, dove era, che faceva, tutto tutto. E Carlino era a Parma! Si morse le mani dal dispetto; almeno glie lo avesse domandato subito, lo saprebbe. Ma che glie ne importava allora? - E adesso? Lo amava già tanto quell'Orlandi, lo amava al punto di soffrire, da piangere per lui? perché piangeva, non dirottamente, ma con quelle lagrime scarse e brucianti che lasciano il solco. Non sarebbe andata all'appuntamento, oh! no. Gli avrebbe rimandata la sua lettera, con un silenzio sdegnoso. Ma se la storiella del ritratto non fosse vera? Se Carlino avesse affibbiata all'amico quella innamorata, così per celia? In fatti, perché tenere nella sua valigia il ritratto dell'amante di un altro? Si chetò. Rifece, dolcemente, la breve tela de' suoi incontri col giovane; la prima volta che si erano conosciuti, nella passeggiata alla Fontana; l'improvvisata che egli le aveva fatta, trovandosi subito la domenica appresso sulla porta della chiesa. Ripensò i suoi sguardi così espressivi, quella bella persona, quella testa intelligente, quel sorriso che pareva un raggio di sole. Una soavità d'amore la invase; sentì correre per le vene un giubilo novo, come se una grande felicità l'attendesse, come la sua vita, chiusa fino allora, si aprisse ad orizzonti sconfinati. Ma volle frenarsi, dopo tutto non sapeva che cosa le avrebbe detto Orlandi. Pensò un istante di chiedere consiglio alla pretora. Se fosse stata presente, le avrebbe narrata ogni cosa. Ma la pretora, quel giorno non si fece vedere. Prima di scendere Teresina cedette a un desiderio invincibile di rileggere la lettera. Era la terza o la quarta volta che si sbottonava l'abito, che sentiva correre sulla pelle quel foglietto di carta levigata, morbido come una carezza, pungente come una ferita; ed alla carezza sorrideva, alla puntura gettava un piccolo grido smorzato dal piacere, tutta tremante, sembrandole che quel foglio, uscito dalle mani di un uomo e che ella nascondeva in seno, togliesse il primo velo al suo pudore di vergine. Quando andò a raggiungere la madre nel salotto terreno, ella si era composta una fisonomia calma, ma così seria, così piena di mistero, che la signora Soave le domandò subito che cosa avesse. Teresina mentì, come mentono tutti gli innamorati. Ma in fondo al cuore le doleva quella menzogna alla mamma, non sapendo poi nemmeno lei perché taceva, perché mentiva. La signora Soave, colle manine di cera abbandonate sui ginocchi e lo sgabello sotto ai piedi, incominciò a parlare di Carlino, delle camicie che bisognava mandargli, dei fazzoletti che non erano orlati ancora; ogni tanto interrompeva la litania monotona con un: - Te ne rammenti, nevvero, Teresina? Teresina diceva di sì. - Tuo padre si lagna sempre; dice che non facciamo economia, che quel ragazzo gli costa un occhio, e che, se noi non sappiamo limitarci nelle spese, sarà costretto a fargli sospendere gli studi ... Un lunghissimo sospiro sollevò il petto gracile della signora Soave, per un po' non ebbe voce; indi riprese, affievolita, tenendosi una mano sul cuore: - Ho raccomandato all'Orlandi di dargli dei buoni consigli … che posso fare, mio Dio, che possiamo fare noi donne? A quel nome di Orlandi, Teresina aveva trasalito impercettibilmente, volgendo gli sguardi al gran quadro meccanico che conteneva l'orologio. Erano le due. Otto ore ancora! Le gemelle intanto si accapigliavano nel vano della finestra, mute, senza chiedere soccorso a nessuno. Convenne dividerle; cinque minuti dopo si abbracciavano, al medesimo posto, facendo sberleffi alla loro sorella maggiore. L'Ida si annoiava con quella giornataccia: in causa della pioggia non poteva uscire nel cortile a giuocare. La noia pei bambini è sinonimo di capricci; ella incominciò a far tante diavolerie, che la signora Soave, colla testa intronata, sentendo un principio di emicrania, pregò Teresina di occuparla. E Teresina, pazientemente, si pose a ritagliare degli ometti di carta, e poi delle carrettelle, e dei vasi da fiore, e poi delle casette col tetto, colla porta, colle finestre da chiudere e da aprire. Era calma, sorrideva; ma ad ogni quarto d'ora i suoi occhi cercavano con ansia le sfere dell'orologio, e ad ogni ora che suonava, il sangue le dava un tuffo. Per lo sforzo del contenersi, era diventata pallida. Aveva dimenticato di far colazione; si sentiva appetito, ma non la voglia di mangiare. Anche il parlare le costava fatica. Avrebbe voluto chiudersi nella sua camera, e non far altro che pensare a lui, intensamente, esclusivamente. Non era possibile. Verso le quattro dovette andare in cucina ad ammannire il desinare; la mamma l'aiutava, debolmente, sedendosi ad ogni minuto, stringendo colle manine gialle il capo che le doleva. - Va', va', mamma; faccio io. - Le gemelle potrebbero darti una mano ... - No, mamma; hanno i loro compiti di scuola. Le gemelle erano l'incubo di Teresina. Ella se le vedeva crescere accanto astiose, diffidenti, ricambiando con una musoneria fredda tutte le sue premure. Avrebbero potuto essere le sue amiche, le sue confidenti, e invece una barriera di ghiaccio le divideva. Questo era un grande sconforto per Teresina. Così, tutta sola nella cucina bassa, intenta a uffici volgari, la fanciulla ingannava l'eternità dell'aspettativa avvinta docilmente alla sua catena, imparando la grande virtù femminile del dominarsi, la profonda abilità femminile di nascondere un tormento dietro un sorriso. Nel muoversi rapidamente, nel chinarsi, ella sentiva ancora lo sfregamento della lettera sulle carni delicate del seno; allora stringeva le labbra, palpitando lievemente, come per assaporare meglio quella sensazione che era ad un punto dolore e piacere.

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Alla Scala c'è uno spettacolo stupendo; la Wrozlinger è la piú bella prima donna che io abbia mai vista; anche il ballo è spettacoloso. Insomma mi vedi in estasi come un vero provinciale. Invece di una settimana prolungherò il mio soggiorno a tutto gennaio. Avvennero dei cambiamenti che non posso spiegarti per lettera; modifico i miei progetti relativi alla fondazione di un giornale. Persone competenti me ne hanno sconsigliato, almeno per ora. Non rinuncio però alla carriera di pubblicista; il mio avvenire è qui. Vorrei dirti mille tenerezze, ma sono interrotto. Domani, quando riceverai questa lettera sarò a pranzo della contessa Bernini, una parente degli Arese". Non c'era altro. Per quanto Teresina voltasse e rivoltasse il foglio da tutte le parti, la parola d'amore che essa cercava, Egidio non l'aveva scritta. Egidio si divertiva, Egidio era felice ... La sua tristezza crebbe del doppio, sentì tutto l'orrore dell'isolamento. Quegli amici, quei teatri, quei balli le rubavano il suo innamorato, e per quanto le sembrasse egoistica l'invidia, ebbe invidia di tutte quelle persone che lo vedevano, che parlavano con lui, che gustavano la gioia de' suoi sguardi e de' suoi sorrisi, che gli portavano via il tempo, i pensieri, la vita. Che valeva il suo ardente amore? che valevano quattro anni di pensieri non interrotti, di aneliti smaniosi, di aspettative agonizzanti, di insonnie, di torture, di martirio continuo? Eccola sola a piangere, sola a soffrire. Guardò la neve che continuava a scendere lentamente e le parve che tutta la cingesse di un mantello di ghiaccio. Rabbrividì, un vago desiderio di morte le attraversò il cervello, insieme al pensiero della povera donna che avevano seppellita allora. Poi si gettò sulla lettera, stringendola appassionatamente, cogli occhi pieni di lagrime, col cuore che le si schiantava fra l'amore e il dolore, mormorando tra i singhiozzi: - Egidio! Egidio! Egidio!

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- Il mio diritto si arresta a togliere lo scandalo; non sta in me giudicare se ella abbia torto o ragione opponendosi a queste nozze; però inter nos da amico, me ne congratulo. Quell'Orlandi è uno sbrigliatello; si immischia ora di politica e di giornalismo ... cose che non si sa mai dove vanno a finire. Il signor Caccia si trovò molto lusingato che Monsignore la pensasse come lui sul conto di Orlandi. Colpito così nel suo debole, soffocò in un profondo inchino un rimasuglio di stizza e prese commiato; seguito fin sulla soglia dai complimenti che l'abate gli recitava con voce morbida e insinuante. Ma una volta fuori, tolta la suggezione, tolto il fascino della superiorità, l'esattore sentì ribollirsi di nuovo il sangue. Mai la sua famiglia era stata occasione di dicerie; mai nel suo alto rispetto del decoro aveva permesso un atto, una parola sola che potessero offrire un lato debole alla maldicenza. Nella sua mente limitata, quasi faro conduttore, brillava un solo ideale: l'onore del nome: ed a questo avrebbe sagrificata ogni altra considerazione. Ed ora? Per colpa di Teresina, eccolo involto in una rete di ciarle disgustose, umilianti. Che direbbe il paese? Al pensiero di quel che direbbe il paese, il signor Caccia non si contenne piú. Era ben vero che una ventina d'anni addietro egli non aveva tenuto gran conto dell'opinione del paese in certe sue faccende particolari, nelle quali un uomo non scapita mai Ma una donna? Ah! per le donne la quistione è differente. Il signor Caccia teneva questa differenza come articolo di fede. Quando un uomo non ruba, non mente, non tradisce, basta - tutto il resto gli è permesso. Dalla donna si esige ben altro. - Corbezzoli, - borbottava stringendosi nel pastrano - sta' a vedere che non sarò padrone in casa mia! Una sciocca ragazza si permette di resistermi ed io lascerò che il nostro nome serva di zimbello agli sfaccendati? Un monello attraversò la strada cantando: "Guarda l'amore che cosa mi fa far". Il signor Caccia si voltò rabbiosamente, come lo avesse morso una vipera. "Sono queste canzonacce" pensò "che fanno perder la testa alle ragazze". Arrivato a casa non gli fu possibile preparare un discorso; dovette sfogare subito la sua bile e l'eccesso fu così violento che la signora Soave svenne. Quand'ebbero adagiata la povera donna sul suo letto, con un pizzico di camomilla bruciata sullo stomaco, l'esattore presa a parte Teresina, la investì colle piú terribili minacce. Le disse che ella era l'obbrobrio della famiglia, il disonore dei suoi capelli bianchi: che, ostinandosi in quell'amorazzo, gli avrebbe accorciata la vita; che per causa sua le sorelle innocenti perdevano la riputazione e tante e tante altre cose da far accapponare la pelle; dette tutte con accento sincero, con una indignazione veramente sentita; talché la fanciulla a capo chino, stava come la piú gran colpevole, non osando nemmeno piangere. Anch'ella era cresciuta in quel pregiudizio di pudore che circonda le donne, per cui tutte si vergognano dell'amore, ammettendolo come astrazione, non mai nella realtà. Una fanciulla si intenerisce al bacio di Giulietta e di Romeo, perché è lontano, perché è scritto o dipinto; ma non oserebbe confessare che il suo amante l'ha baciata ed è pronta a scandalizzarsi se una loquace amica le confida di avere baciato. Tutto ciò senza ipocrisia, solo per la lotta continua in cui trovasi fra la natura e la società - la società che le dice respingi, la natura che le grida accetta. Teresina sarebbe morta di vergogna, se qualcuno avesse potuto leggerle nell'anima fino a qual punto amava. Aveva la persuasione di amare troppo, piú assai che non sia permesso dalla religione e dal pudore femminile; era questo un gran peccato di cui si accusava a Dio. Udendo le gravi parole del padre, si trovò perduta senza remissione. Era come se l'avessero sorpresa nuda; un vituperio, un'onta incancellabile. Non disse una parola, non si difese, non pregò. Quando il padre volle farle giurare di non pensare mai piú ad Orlandi, ella si reclinò tutta sopra se stessa, qual canna sbattuta a terra, in un completo annientamento; e la sua risposta si perdette fra i singhiozzi. Ma poi, le ore, i giorni, le settimane che seguirono quel terribile momento! Non osava guardare in faccia suo padre e nemmeno le sorelle, le quali avevano preso un fare altezzoso di persone cui nulla si può rimproverare. Non c'era che la madre, a cui Teresina potesse volgere gli occhi pieni di lagrime, senza trovare in quelli di lei un rimprovero. Che lunghi silenzi penosi nel salotto terreno! Che tormento, ogni giorno rinnovato, quando la famiglia stava riunita a mensa e il capo di casa, col cipiglio ancor piú grave del solito, presiedeva come un giudice. Piú nulla sorrideva a Teresina nel buio salotto: non la finestra alla quale le era proibito affacciarsi, da cui non doveva piú udire il passo di Egidio: non l'orologio sul quale aveva contato trepidando le sue ore felici. Una tristezza senza nome piombava su di lei; ogni oggetto che la circondava, ogni mobile, tutto portava le impronte del passato. Qui, aveva letto nascostamente una lettera; là, aveva pensato, pianto, sospirato d'amore. E le memorie erano recenti, calde ancora. I rimproveri del padre, le preghiere della mamma, il pensiero di essere segnata a dito come una svergognata, di non poter piú alzare la fronte senza rossore, tutto ciò l'aveva impressionata moltissimo. Capiva di non poter reggere a quella vita, e l'ultima lettera di Orlandi la aiutava nel proposito di dimenticare. Ma come il dimenticare era difficile, doloroso, irto di spine! Che cosa dimenticare? Le ebbrezze? erano state così vive. Le ansie? così compensate. I dubbi, le aspettative, i dolori? Ma ognuno di essi aveva ribadita la catena. Si dimenticano cinque anni della propria esistenza? Esortata dalla madre, consigliata dall'amica, gli aveva scritto di non pensare piú a lei; che non erano destinati; che la sua famiglia non voleva; che non le scrivesse mai piú, né cercasse di rivederla. Spedita la lettera, le parve un sogno. Si aspettava da un momento all'altro di vederlo comparire. Di notte sognava che suo padre acconsentiva alle nozze e che Orlandi, ricco a milioni, veniva a prenderla, tra lo sbigottimento e la sorpresa di tutti. Qualche volta, dopo una giornata di tormenti e di noia indescrivibile, dopo aver pianto in silenzio sulle camicie che cuciva, Teresina si coricava stanca, nauseata della vita. Invocava il sonno, l'unico bene che le restasse; sperava nel sonno di trovare l'oblio. Ma al mattino, destandosi, la prima impressione era quella del suo amore perduto, ed era assalita da tale disperazione da sembrarle impossibile la ripresa di una giornata come quella trascorsa. Eppure la riprendeva, nella monotonia dell'abitudine, nella inenarrabile monotonia della vita femminile, trascinando di camera in camera la sua tristezza, meravigliata di trovarsi passiva in tanto dolore. Che cosa poteva fare? Ribellarsi al padre, far morire di cruccio quell'angelo della mamma, rompere tutte le tradizioni della famiglia, mancare ai doveri di figlia ubbidiente e sottomessa? La schiavitù la cingeva da ogni lato. Affetto, consuetudine, religione, società, esempi, ciascuno le imponeva il proprio laccio. Vedeva la felicità e non poteva raggiungerla. Era libera forse? Una fanciulla non è mai libera, non le si concede nemmeno la libertà di mostrare le sue sofferenze. Ella doveva fingere colla madre per amore, col padre per timore, colle sorelle per vergogna. Peggio quando uscì. La osservavano come una bestia rara, fermandosi sui due piedi. Tutte quelle che le avevano invidiata la conquista di Orlandi, se ne vendicavano ridendole in faccia, berteggiandola. Le persone piú prudenti bisbigliavano sommessamente. Gli uomini la guardavano dritta negli occhi, con fare ardito. Nessuno di quei curiosi considerava l'amore seriamente. Inclinavano a trovare in esso la parte allegra, la bagatella, il motto per ridere, la facezia oscena. Veramente l'amore è un dramma per chi lo recita, una farsa per chi vi assiste. Tra due giovanotti Teresina sorprese questo frammento di conversazione, di cui si sentiva l'oggetto: - ... e per quel sugo ... - È una gonza. - Dico lui. - Oh! lui si rifà. E giù una sghignazzata. In mezzo al suo dolore, Teresina aveva la percezione di un ridicolo, ma di un ridicolo che sfuggiva alla sua analisi. Come già aveva provato altre volte, sentiva di trovarsi isolata, attaccata al mondo solamente per il tramite della famiglia, e che intorno ci fosse una gran nebbia. Somigliava anche a coloro che non frequentano da bambini tutte le classi, che, toccato un certo punto, trovano improvvisamente il terreno che manca, una lacuna nei loro studi. Questa deficienza la umiliava piú che mai, ora che si sentiva giunta all'apogeo del suo sviluppo di donna, e la compassione derisoria che qualcuno le dimostrava, le faceva bruciare il volto come se fosse una sferzata. Le gemelle, che s'erano fatte due ragazzone vistose, sfoggiavano con una certa insolenza i loro diciassette anni, considerando la sorella maggiore già destinata a diventare zitellona. E difatti la piccola statura di Teresa, il volto pallido e tranquillo, erano propri a farla scomparire in mezzo a quei due colossi, che avevano ereditato dal padre il forte colorito e le spalle poderose. Incominciava per Teresina una serie nuova di piccole mortificazioni, di torture a colpi di spillo, lente, quasi invisibili, che sfioravano la vanità femminile e penetravano addentro nel suo cuore, mordendola col veleno dell'ingratitudine, lasciandole uno scoramento, uno sconforto d'ogni cosa. La grande molla dell'organismo femminile, il bisogno di piacere, aveva perduto lo scatto. Piacere a chi? Tutto il mondo le era indifferente. Non ammetteva, nemmeno come lontana ipotesi, ch'ella potesse amare un altro. Vi sono donne che sbagliano al primo colpo e si rifanno dopo; ma ella sentiva che Egidio era la metà dell'anima sua. Qualcuno avrebbe potuto interessarla prima; ora era impossibile. Vedeva giungere la morte; una morte preceduta dall'annientamento di tutte le facoltà; una morte liberatrice. Il pensiero della Calliope la visitava spesso; le sembrava che sotto terra si dovesse stare in pace.

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. - Se tu lo avessi sposato - era la pretora che diceva così a Teresina - saresti già maritata da dieci anni, piú bella, piú fresca, senza che egli poi abbia peggiorato in bruttezza; poiché è la specialità dei brutti quella di conservarsi inalterabili. Aggiungi che la figlia gli è morta ... non era proprio un cattivo partito. Ma tutte queste considerazioni non riuscirono ad ispirare alla zitella quel proficuo ravvedimento che la sua amica sperava. Aveva tentato, per cortesia, di interessarsi a lui, alle buone qualità che tutti gli riconoscevano; ma i pregi morali sfuggivano all'attenzione distratta di Teresina, e vedeva invece il cranio calvo del professore, la sua barba ispida, tozza, tagliata a guisa di una siepe di mortella. Tutto ciò otteneva un effetto diametralmente opposto alle idee della pretora; perché Teresina rimpiangeva con maggior ardore i bei capelli neri d'Orlandi e la sua barba morbida, entro cui il sole scherzava, dandole dei riflessi di fuoco. - Dopo tutto - istigava ancora l'amica - anche per Orlandi gli anni passano. Luzzi, che è stato a Milano uno di questi giorni, lo ha veduto, e dice che non è piú quel bel giovane d'una volta. Ma sembrava che tutto quanto si faceva intorno a lei per distoglierla da Orlandi, non ottenesse altro scopo che quello di farglielo amare maggiormente. Teresina pensò che egli pure soffriva, che era solo, senza famiglia, senza amore, e gli scrisse una lettera lunga, riboccante d'affetto. Come desiderava vederlo! Era già quasi un anno e mezzo che non s'erano stretti al cuore. Quando sarebbe venuto a trovarla? Nella vita febbrile di Egidio, nelle lotte aspre, violente ch'egli doveva sostenere ogni giorno, in quella corsa affannosa dietro il successo, non mancavano le ore di scoraggiamento, di malinconia atroce. Si trovava a mezzo cammino, colla gioventù dietro le spalle, perduti i piú begli anni, svanite le forti illusioni; non avendo ricavato nessun partito né dal suo ingegno, né dalla sua bellezza, né dalla sua salute. Gli amici dicevano fra loro: Come mai Orlandi non si è ancora creata una posizione? Uno che lo conosceva bene, lo definì con due parole: Orlandi non ha la costanza del lavoratore e non ha la furberia dello scroccone; è un uomo mancato. E quest'uomo, cui la fortuna aveva sorriso mendacemente prodigandogli tutti i suoi doni, conservava in fondo al cuore un affetto sincero, misto di riconoscenza e di pietà, per la fanciulla che lo amava con tanta abnegazione. L'affetto emergeva sopratutto nei giorni dello sconforto, quando dopo aver cercato inutilmente una ebbrezza nuova o una amicizia disinteressata, dopo le sconfitte dell'ingegno e la nausea dei sensi, egli trovava, rincasando, le lettere della povera dimenticata. Fu in uno di questi momenti, che Egidio rispose a Teresina, narrandole i suoi sconforti, le sue lotte, chiamandola sorella e amica sua. "Ho capito," pensò la pretora, vedendo il volto raggiante della sua amica "egli ha rimesso dell'olio nella lampada". Ma un avvenimento inaspettato si impose all'attenzione di tutta la famiglia. Luminelli maggiore chiese la mano dell'altra gemella, e, come cosa già intesa, ella acconsentì allegramente. I due matrimoni si dovevano fare nello stesso giorno. - Vedi? - così la pretora a Teresina - tua sorella ha otto anni meno di te, eppure si adatta a sposarlo. Teresina si strinse nelle spalle. Le gemelle per lei erano sempre state un enigma; ma davanti a quelle nozze senza amore, provò una vera repulsione. Quale infame ingiustizia pesa dunque ancora sulla nostra società, che si chiama incivilita, se una fanciulla deve scegliere tra il ridicolo della verginità e la vergogna del matrimonio di convenienza? Queste riflessioni la tennero sconvolta per parecchi giorni, e se ne amareggiò vivamente. Senza accorgersene, la sua anima accoglieva mille dubbi, si imbeveva di fiele. L'urto continuo de' suoi sentimenti colle realtà brutali della vita, le dava una asprezza di linguaggio che pareva bizzarria. E si accorgeva ella stessa di stuonare in mezzo agli altri; sentiva il proprio malumore come una nota falsa in un concerto, incapace di frenarsi; tanto piú incapace, perché le cresceva ogni giorno il disprezzo dei suoi simili, sotto forma di ribellione al convenzionalismo ipocrita che l'aveva oppressa, che la opprimeva sempre. Il disgusto degli uomini e delle cose le si infiltrava per una quantità di vie secondarie, lento, ma completo. Una volta le Ridolfì, parlando dell'ultima Portalupi, dissero: - Oh! quella non si marita piú, è già una vecchia zitella! E la Portalupi era minore di Teresina. Ella riusciva antipatica a tutte quelle ragazze, così come le ragazze a lei. Si isolava piú che poteva, chiudendosi in un sussiego malinconico, che restava incomprensibile per quelle giovani testoline. Aveva delle fissazioni, delle voglie assurde. Andando a passeggio, non poneva mai i piedi sulla connessura dei mattoni; se ciò le accadeva inavvertitamente, sentiva un ribrezzo nelle gambe, un tremito convulso. Contava i rosoni del soffitto, immaginando che fossero pari; se riuscivano dispari, era una stizza, una contrarietà assurda, ma invincibile. Fissava una persona a tergo, ostinandosi finché quella si fosse voltata; se non si voltava, le pareva di ricevere un urto nel petto e digrignava i denti. Soffriva per il sole, per il vento, per i tempi piovosi. Aveva sempre fredde le braccia, in alto, all'attaccatura, e portava, sotto il vestito, due maniche di lana tenute insieme col mezzo di un nastro che le attraversava il dorso. Le gemelle, che s'erano tagliate qualche camicia senza maniche, avevano detto ridendo: - Queste starebbero bene a Teresina! Mancando la cura delle sorelline, che l'aveva tanto occupata negli anni addietro, trovava le giornate vuote. Non poteva aiutare nemmeno l'Ida, perché ella non aveva mai avuto grande ingegno e la fanciulla, svegliatissima, era già avanti negli studi, vagheggiando prossima la patente di maestra. Suo fratello era tanto lontano, che non le offriva nessuna risorsa. Solamente si parlava di lui come di un appoggio futuro per la famiglia. Quando le gemelle fossero maritate, s'avrebbe potuto raggiungerlo e formare una casa sola; oppure fare istanza perché trasferissero Carlino nella cittaduzza nativa. In attesa di questi cambiamenti, nel trambusto delle nozze, coll'orrore del mondo e della società, Teresina viveva quasi esclusivamente in compagnia della madre inferma - riparate tutte e due dall'aria, coi piedi sullo stesso sgabello, sorridendosi tristamente. Un pensiero disperato l'assaliva di tratto in tratto. Aveva paura di diventare una vecchia stramba come la Calliope, di rinchiudersi in casa e mostrarsi solo alle sbarre delle finestre, con un fazzoletto giallo in capo, facendo sberleffi alle persone che passano. Il doppio matrimonio, per quanto si affrettasse, non poté aver luogo che ai primi di settembre. Quel giorno Teresina ebbe un accesso delle sue solite convulsioni; l'Ida la pose a letto, affettuosamente, cercando di calmarla, ricordandosi quanta pazienza ella aveva avuta con lei quand'era piccina. Non assistí né alla cerimonia, né all'asciolvere. Le spose gemelle vennero a salutarla, in piedi, tenendo sollevate le gale dell'abito. Avevano fretta, perché il treno partiva a momenti. Sulla soglia dell'uscio si voltarono; s'erano dimenticate di baciarla e le gettarono un piccolo bacio sulla punta delle dita, raccomandandole di stare tranquilla. Come Dio volle, a poco a poco, la casa ridivenne calma; sparvero i figurini di mode, i rotoli di tela, i pezzetti di nastro dimenticati sui mobili. Al vocìo chiassoso delle gemelle, alle risate argentine delle Ridolfi, successe un silenzio che pareva di tomba. Il signor Caccia meditava, nel suo studiolo, sulle spese avute in occasione delle nozze e volgeva il pensiero al figlio lontano, quello che doveva essere il sostegno della famiglia. L'Ida studiava indefessamente, senza distrazioni e senza debolezze, coll'occhio fisso alla meta. Solamente verso sera, Ida lasciava i libri, Teresa si staccava dal letto della madre e le due sorelle - la prima e l'ultima - uscivano a prendere una boccata d'aria, serie entrambe per motivi diversi, scambiandosi poche parole. Alla fine di settembre, Ida si contorse un piede e per una settimana non poté uscire. Teresina, alla quale il dottore aveva prescritta rigorosamente una passeggiata tutti i giorni, usciva sola. Passava oramai i trent'anni e nessuno si occupava piú di lei. Quei preludi di libertà, sebbene giunti in un tempo in cui non avrebbe saputo approfittarne, le cagionarono un piacere nuovo. Usciva dal paese, prendendo il viale della Madonna della Fontana, caro a lei per antiche memorie; e ripassando sotto quegli alberi, era stretta da una tale folla di emozioni dolci e melanconiche, così vive, così intense, che quella passeggiata vespertina segnava l'ora piú bella delle sue giornate. Entrò una volta in chiesa per rivedere la cappella sotterranea, la graziosa cappelletta dipinta, dalle cui finestre si scorgeva l'orto del curato, profumato di basilico. I ricordi della giovinezza l'assalirono aspri, pungenti, in quel posto dove ella erasi inginocchiata a vent'anni, dove aveva per la prima volta guardato Egidio. Dalle finestre entravano ancora i ciuffi di basilico; morivano le rose sull'altare tra le lampade d'ottone inargentato; le figure degli affreschi sorridevano nei toni delicati delle pitture vecchie. Nulla era cambiato nella gran calma immobile del tempio, ma Teresina piangeva. Un suono di passi ripercosso nel silenzio della navata la riscosse. Si asciugò gli occhi coll'angolo del velo e uscì dalla cappella. In mezzo alla chiesa trovò Orlandi, solo, che le veniva incontro. Non fu nemmeno sorpresa; impallidì, aggrappandosi al suo braccio, battendo i denti per la commozione. - Quando sei arrivato? - Son due ore. Un telegramma di mia zia ... per affari. Riparto stanotte. - E se non mi vedevi? - Ti vedo - disse Orlandi, col suo bel sorriso. - Non ebbi il tempo di avvertirti, ma ero deciso di vederti a qualunque costo. Seppi, per caso, che eri venuta qui; mia zia t'ha veduta passare. Teresina non pensò al pericolo di essere scoperta; la felicità del momento presente la invadeva tutta. Ma il suo corpo indebolito non reggeva piú alle forti scosse, non poteva stare in piedi; trasse Egidio su un banco della chiesa e gli si pose a fianco, con quell'oblìo di tutto il mondo che la prendeva, sempre, in compagnia di lui. Parlarono rapidamente delle loro famiglie, della loro posizione. Teresina, che lo guardava, alla luce morente del giorno, si sentì stringere il cuore scoprendogli, lungo le guancie, due solchi che davano al bel viso una espressione indefinibile di malinconia. - Mi trovi cambiato? - disse lui improvvisamente, e con un sorriso triste le mostrò i capelli radi sulle tempie. Ella gli si strinse contro, fino a posargli la bocca sul petto, mormorando: - Ed io, dunque? Tacquero, quasi abbracciati, ascoltando i loro respiri, potendo baciarsi, eppure non baciandosi, coi sensi freddi. - Mi scrivi così di rado ... Ella disse ciò a bassa voce, guardandolo dolcemente per attenuare il rimprovero. Lui si passò una mano sulla fronte. - Sono occupato tutto il giorno e gran parte della sera. - Dove vai alla sera? - Nei teatri, prima, poi alla redazione del giornale. Faccio la cronaca. Non mi piace questo mestiere, io vagheggio la critica d'arte ... Gli trapelava nella voce un'amarezza, come uno scoramento di persona avvilita. - E non puoi farla? - No ... no ... sono cose che tu non capisci. Teresina abbassò il capo, nell'umiltà della propria ignoranza, nello sconforto di non poter dividere tutti i pensieri e tutti i dolori di lui. Le balenò un istante l'immagine della bella signora dalle forme opulenti, vestita da Diana: ma non ebbe il coraggio di parlarne in quel momento. Le succedeva sempre così. Delle mille cose che voleva dirgli, non riusciva mai a dirne una, dominata da una suggezione bizzarra e assorbita tutta nel rapimento di contemplarlo. I dolori, le smanie, le lotte, le gelosie, le risoluzioni prese e lasciate, le estasi convulse, le malinconie isteriche, tutta la sua gioventù, la sua bellezza, la sua vita che se ne andava in quella lenta fiamma d'amore, non le suggerivano una sola parola. Gli stava accanto immobile, cogli occhi fissi, come un cane fedele davanti al suo padrone. - Ti aspetteranno a casa ... - Oh! ancora un minuto ... Pensò se avesse qualcos'altro a dirgli; non trovò nulla. Ella avrebbe voluto sapere di lui, della sua vita, avrebbe voluto che lui parlasse, ma non osava interrogarlo; temeva di perdere tempo con una domanda oziosa. E intanto il tempo passava. Nella chiesa faceva già buio; l'altare maggiore sprofondato nell'ombra, aveva una vaga apparenza di bara; le colonne della navata sembravano giganteschi fantasmi. Dalla cappella sotterranea usciva il bagliore rossigno della lampada accesa per la Madonna. Un odore di rose secche era nell'aria. Lo scaccino, in sacristia, scosse il mazzo delle chiavi. Si alzarono insieme, urtandosi nella oscurità. Egidio la prese per la vita. - Oh! - diss'ella - se ci chiudessero qui, per sempre, e non vedere piú nessuno e morire così. Avevano le labbra sulle labbra. Egli fu meravigliato di quel pensiero arditamente poetico. Sorreggendola, mentre uscivano dal tempio, le mormorò all'orecchio: - Quando mi sentirò morire, verrò a morire presso a te. Non dissero piú nulla. Si abbracciarono stretti, a lungo, con una tenacità disperata. Teresa sparve rapidamente sotto gli alberi. Egli la scortò da lungi, fino in paese.

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. - Permetta ... abbia pazienza. Tornò a posarle la testa sul cuore, premendo leggermente. Aveva una foresta di capelli castagni, un po' grossi, dai quali emanava un profumo lieve; scomposti dal movimento, quei capelli toccavano quasi la bocca di Teresina, che si irrigidiva, dilatando gli occhi, sotto la tentazione di un desiderio pazzo. Intorno all'orecchio, fra il lobulo e la radice dei capelli, il principio del collo si disegnava vigoroso, leggermente arrossato verso la gola; sulla nuca, candidissimo. Egli aveva ventinove anni. - Nulla. Il cuore non ha nulla ... esternamente. Marcò con una lieve esitazione quest'ultima parola, raddrizzandosi, un po' colorito nel volto. Il signor Caccia rientrò in quel punto. - Sua figlia ha una costituzione buonissima; i polmoni sani, il cuore sano; una tendenza all'anemia, forse, ma anche questa temporanea, dipendente da cause che sfuggono al nostro esame. - Ma se la vedesse nel momento della crisi, quando la prende la convulsione ... Non se la può figurare. - Oh! sì - fece il medico sorridendo - me la figuro perfettamente; ma non è altro che una alterazione nervosa. Col tempo e con un po' di buona volontà, credo potrà svanire. Nel dire "buona volontà" tornò a guardare Teresa. - Non sta troppo in casa, nevvero? - Ma ... veramente - balbettò il signor Caccia - le donne ... Il medico riprese senza lasciarlo finire: - Quando si manifesta un perturbamento dei nervi così vivo, con caratteri francamente isterici, la miglior cura è quella di non abbandonare l'ammalata a se stessa. Io posso ordinare delle medicine, ma se non sono aiutato dal sistema ... - si volse - direttamente a Teresa. - La stagione è favorevole, abbiamo una primavera che è un incanto. Esca spesso. Vada a trovare un'amica, procuri di interessarsi a qualche cosa, di cambiare l'ordine abituale de' suoi pensieri, di non fissarsi in una idea. Faremo una piccola cura arsenicale combinata col ferro, ma il primo rimedio, se ne persuada, lo deve trovare in se stessa. Mi comprende, nevvero? Le strinse la mano, colla sua dolcezza indolente d'operatore, mostrando i denti bianchi nell'arco del sorriso; lasciando sul capezzale come un profumo della sua vigorosa giovinezza. Tornò qualche giorno dopo, per vedere l'esito della cura, ed essendo comparso all'improvviso davanti a Teresina, ella arrossì, tutta confusa, con un sentimento recondito di vergogna. Quella specie di intimità con un uomo giovane, senza il legame dell'amore, la turbava. Era meravigliata di non trovare maggior avversione al contatto, di sorprendere nei suoi sensi una vita autonoma, indipendente dal cuore e dalla volontà. Fino allora aveva amato, in un sol uomo, l'incarnazione dell'amore; ma nella tensione di tutto il suo essere verso quell'ideale, il cuore e la mente resistevano, i nervi no. I nervi, a sua insaputa, con una ribellione mostruosa, vibravano quando il giovane dottore le stringeva la mano, e la guardava colla sua pupilla intenta. E Teresina spasimava, sentendosi prendere alla gola da un rantolo convulso; trovando in se stessa, nella tardiva rivelazione dei propri sensi, l'enigma della vita, che le era sempre apparso a tratti, mascherato, svisato, tenuto nascosto come un'onta. In quei giorni, per una combinazione, avendo suo padre acquistata, senza guardarla, una partita di libri vecchi, ella pose le mani sopra un libriccino gualcito. Il titolo l'invitò a leggere le prime pagine, e poi continuò meravigliata, ansiosa; passando dalla sorpresa alla indignazione, fino a un feroce diletto, fino alla nausea la piú ributtante. Restò immobile, col sangue che le formicolava nelle vene, con una fiamma sulle gote, il palato arido, le fauci ingrossate, gli occhi vitrei. Non aveva mai udito né immaginato niente di simile. Al primo rinvenire, l'indignazione la vinse su ogni altro sentimento; stracciò il libro in mille piccoli frammenti, rendendoli sempre piú piccoli, piú piccoli ancora, ponendoli da ultimo sotto i piedi e gustando, nel calpestarli, una gioia che la purificava. Raccolse poi gli avanzi informi e li gettò nella cassetta delle spazzature; ma si vedevano; la loro bianchezza sudicia risaltava sul fondo nero. Ella non era contenta. Tornò a raccattarli e li volle abbruciare - vivi - ché quei frammenti agitati dalla fiamma, le davano veramente l'impressione di cose vive, di mostri osceni, condannati al rogo. Ristette infine, palpitante, davanti al mucchietto di cenere, persuasa che nulla piú esistesse di quelle sozzure. Ma si ingannava. Il suo pensiero era colpito, macchiato irrimediabilmente. Per quanto facesse non poteva togliersi il ricordo delle pagine lette; ed era un ricordo amaro, come di medicina che torni a gola. E venivano, non cercate, le riflessioni, i confronti, le induzioni. Cento cose rimaste oscure fino allora le si chiarivano spietatamente; non poteva piú dubitare, non poteva piú illudersi. Quelle spiegazioni crudeli erano la sola risposta ch'ella trovava alla sua lunga, insoddisfatta curiosità di fanciulla. Quelle pagine stampate, che non volavano come le parole, che non svanivano come i sorrisi, che ella aveva distrutte in un esemplare ma che esistevano in mille altri, quelle pagine infami erano un documento della miseria umana, della sua propria miseria. Un libro osceno le dava la chiave del mistero ch'ella aveva ricercato invano; ch'ella aveva interrogato nei fremiti paurosi e pudibondi di se stessa, nelle reticenze maligne degli altri. Era dunque quello l'ignobile segreto che teneva uniti gli uomini alle donne? Quello l'amore? Sottile, profondo, un pensiero sopra tutti la martoriava: Egidio. Quando l'immagine di lui venne a mischiarsi alle rimembranze lascive, ella provò la maggior vergogna della sua vita. Le parve di veder trascinare nel fango tutto quanto aveva di sacro al mondo. Era la profanazione dell'affetto piú gentile, era l'altare che si frangeva, l'idolo che diventava creta. Arrossì, sola, di se stessa. E la prese una tristezza, un dolore come avesse perduto per sempre una persona adorata. Per tutto quel giorno non poté incontrare alcuno a viso alzato; aveva orrore dei suoi simili. Alla sera, chiudendosi nella sua camera, si illuse di potersi disfare dall'incubo; ma l'incubo divenne piú violento. Mentre si spogliava, era assalita da curiosità brutali. Sembrava che le pagine infami si fossero incollate alla sua pelle, che le formassero, come la camicia di Nesso, un involucro di fuoco, entro il quale si dibatteva. Cadde in ginocchio disperata, recitando macchinalmente tutte le orazioni che sapeva, unendo il nome di Egidio al nome della Madonna, con un bisogno ardente di dimenticare. Accovacciandosi sotto le coltri, spossata, evocò le pure visioni del suo amore: l'incontro nella cappella, i ritrovi in chiesa, il primo appuntamento alla finestra, sotto l'acqua che veniva a rovesci, che nessuno di loro sentiva, e quei baci di cielo in cui ella credeva di dare l'anima. A poco a poco la pace entrava in lei. Una dolcezza malinconica la cullava, la consolava. Egidio era sempre stato sincero; non l'aveva ingannata, non l'aveva tradita mai, non si era fatto migliore di quel che fosse. Che cosa si può chiedere di piú agli uomini? Sentiva ora una tenerezza straordinaria a compatirlo, a comprenderlo nelle debolezze del suo sesso. Il recente dolore le faceva sanguinare il cuore; ma da quella stessa ferita saliva, alle piú nobili idealità del suo pensiero, una compassione pietosa, una commiserazione di questa umanità sofferente e bestiale, un delicato istinto di perdono. E piú forte, piú puro, emergeva da tanto fango l'affetto ch'ella aveva nel cuore e che sapeva diviso. Chiuse gli occhi rassegnata, sospirando lievemente. A tratti, un fremito l'agitava ancora ma anche quello andò scomparendo sotto il torpore del sonno; finché rimase l'affanno dei sospiri, sempre piú lievi, a indicare che il pensiero si addormentava.

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