Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Questioni politico religiose

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Convien dunque prendere un' altra via, ed esaminare che cosa è lo Stato in sé medesimo: allora sapremo che cosa Iddio ha voluto che sia, e che cosa lo abbia fatto. Come quando voglio sapere che cosa sia un albero, non ci arriverei punto con il pensare solamente che è una certa cosa fatta da Dio, perché questa è la condizione comune a tutte le cose, e non propria del solo albero; ma ci arriverò con l' osservare come sia fatto l' albero stesso nelle sue diverse parti e negli effetti della vita vegetativa che in esso si manifestano. Che cosa è adunque lo Stato considerato in sé stesso? Lo Stato è certamente prima di tutto un certo numero di famiglie e d' uomini, uniti insieme al fine di dare un ordine pacifico alle loro reciproche relazioni, per così fatta maniera, che tutti i diritti di ciascun individuo e di ciascuna famiglia sieno tutelati e regolati, e così possano coesistere ed essere da chi li possedono, esercitati senza collisioni: il che non potendosi ottenere, se non ci sia nel mezzo di tutti questi uomini una mente sola, o individua o collettiva, che produca quest' ordine, questa tutela e questo regolamento, perciò si dà autorità di ciò fare ad una o più persone, e così si istituisce quella podestà che si chiama governo civile. In queste parole abbiamo lo scopo dello Stato; abbiamo la sua origine prossima, e con essa quella delle diverse forme del suo governo; abbiamo altresì un criterio per definire a che cosa s' estenda l' autorità e la potestà del governo civile. Lo scopo dello Stato è la tutela e la prospera coesistenza, mediante uniformi regolamenti, di tutti i diritti razionali di quelle famiglie e di quegli uomini che si sono e si trovano così uniti sopra un medesimo territorio, e che singolarmente prendono il nome di cittadini, e nella collezione ordinata quello di Stato. L' origine prossima dello Stato è il desiderio e la volontà di tutta questa moltitudine di persone, che ha bisogno e brama di convivere pacificamente, con buon ordine, e non solo senza reciproco danno o molestia, ma con il maggiore vantaggio possibile. La forma di governo risulta dal numero di quelle persone a cui viene affidata l' autorità di tutelare e di governare, mediante uniformi e giuste disposizioni, tutta questa massa di diritti. Poiché se i padri di famiglia, uniti allo scopo indicato, avessero da principio voluto stabilire in comune, per via di discussioni tra loro, le dette disposizioni, che prendono il nome di leggi , senza commettere questa incumbenza ad una commissione permanente o ad una persona o famiglia particolare; ne sarebbe uscita una forma intieramente popolare. Se invece di ciò fossero state elette alcune famiglie o persone, e queste solo incaricate di un tale ufficio, a cui tutte le altre ubbidissero, se n' avrebbe avuta la forma degli Ottimati. Finalmente, se di tutto ciò si fosse incaricato un sol uomo od una sola famiglia, ne sarebbe uscito il governo di un solo. Ma qualunque sia la forma del governo dello Stato, o democratica, o aristocratica, o monarchica, o mista, l' origine prossima dello Stato rimane sempre la medesima, consistente nella volontà di quella prima massa di uomini che hanno sentita la necessità e l' utilità di coesistere e di convivere pacificamente e vantaggiosamente tra loro. La prima e più rimota causa sarebbe stata la causa universale di tutte le cose, cioè Dio, e dico Dio non considerato solo come causa efficiente, ma di più come autore e vindice della giustizia, come fonte dell' ordine e del bene, come istitutore dell' umana natura e della società domestica. Da questo si deduce qual sia l' estensione e il limite del potere civile. L' autorità e la potestà del governo civile non può essere certamente se non di quella natura, e al più di quella estensione, che si trova esistere nella moltitudine accennata di famiglie e di uomini che in tale società s' uniscono e ordinatamente si collegano. Egli è evidente, che un governo civile (o che il potere sia tutto concentrato nelle mani di uno solo, o che sia diviso in più parti e affidato a più mani, per esempio ad un Re, e ad un Parlamento, e ad alcuni tribunali) non potrà mai pretendere di possedere un' autorità, che ecceda o per eccellenza di natura, o per ampiezza d' oggetti ad essa subordinati, quell' autorità che era posseduta da quell' intera massa di famiglie o d' individui, che costituisce, come dicevamo, lo Stato; e ciò per la ragione semplicissima, che l' effetto non può essere maggiore della sua causa, e niuno può dare quello che non ha [...OMISSIS...] Conosciamo in questa maniera, che cosa sia lo Stato civile, e trovata l' origine prossima del suo potere, e quindi ancora un criterio per definire fino a qual limite si possa estendere la sua massima e totale potestà, ritorniamo alla questione che ci eravamo proposta: - Lo Stato è egli indipendente dalla Chiesa? - Egli è evidente, che sarà indipendente, se si verifica che la moltitudine di quelle famiglie e di quegli individui che lo formano, sieno indipendenti, ma se ciascuna di queste famiglie e di questi individui dipendesse o dovesse dipendere dall' autorità della Chiesa, anche lo Stato, che non è altro che il loro complessivo aggregato, avrà una subordinazione e dipendenza dalla Chiesa. Prima dunque di venire ad una decisione, noi dobbiamo fare la domanda: - Chi sono quelli che vogliono risolvere la proposta questione? Sono i Cattolici, sono gli Acattolici? E se questi, sono gli eretici o gli infedeli? Egli è evidente, che un cattolico, che riconosce la Chiesa, deciderà la questione in un modo diverso da un infedele, che non riconosce in essa nessuna potestà ricevuta da Gesù Cristo. E del pari in altro modo scioglierà la questione un eretico, secondo le sue individuali persuasioni, e secondo l' opinione che si è formata della Chiesa. Per questo noi dicevamo da principio, che è impossibile andar tutti d' accordo nel rispondere alla proposta questione, se non abbiamo uno stesso concetto, non solo dello Stato, ma ancora della Chiesa. Restringiamoci adunque per intanto a vedere in che modo questa questione di somma importanza venga necessariamente risolta da uno il quale professa la Religione Cattolica, come noi la professiamo, e nel suo ragionare si mantiene coerente ai principii della sua fede. Qual è dunque il concetto che un cattolico, secondo la sua fede, ha e deve avere della Chiesa di Gesù Cristo? Un cattolico crede come dogma, che Gesù Cristo, fondando la sua Chiesa, le ha dato un' autorità suprema di ammaestrare tutti gli uomini e di giudicare intorno a tutte quelle cose che riguardano il lecito e l' illecito, l' onesto e il giusto; intorno a tutte quelle cose che spettano alla coscienza, e di legare e sciogliere le anime, e di aprire e chiuder loro le porte del cielo, secondo i giudizi ch' ella pronuncia: crede viceversa del pari come una verità dogmatica, che Gesù Cristo ha imposto a tutti gli uomini il dovere di ascoltare la sua Chiesa, e di uniformarsi e sottomettersi alle sue decisioni nel detto ordine morale, in tutta l' estensione di quest' ordine, sia per quella parte che riguarda i doveri che hanno per oggetto immediato Iddio, e sia per quella parte che riguarda gli altri, che hanno per oggetto il prossimo. Essendo questo indubitato, e, come dicevamo, riconosciuto come una verità dogmatica da tutti quelli che professano la Religione Cattolica, ne viene questa inevitabile conseguenza, che ciascun uomo è soggetto e dipendente dalla Chiesa in tutte quelle cose che riguardano l' ordine religioso e morale, e che si rende colpevole e macchia la sua coscienza, ogni qualvolta ricusa di soddisfare a questa obbligazione di soggezione e di dipendenza; e perciò, che anche una moltitudine di uomini, in qualunque maniera si uniscano insieme, e qualunque sia il numero, anche grandissimo, della medesima, non possono mai né avere né costituire una potestà qualunque, che sia nel detto ordine indipendente della Chiesa Cattolica. Poiché questa indipendenza che non ha un uomo, non possono averla come dicevamo, né pure due, né pure tre, né pure mille uomini; e per la stessa ragione né pure molti milioni; niente aggiungendo il nome di nazione , o di Stato , o di società civile , o di governo , o altro qualunque che essi assumano. Come se voi fate un aggregato, grande quanto vi piaccia, di zeri, e li sommate insieme, non potete avere nella somma alcun valore, perché le singole cifre che avete messe insieme ne sono prive; come se mettete insieme molte gocce d' acqua pura, per quante esse sieno, riuscirete ad ottenere neppure un centellino di vino, perché in nessuna c' era mescolato del vino; come, in generale, un aggregato d' elementi non può dare quello che non ha niuno di essi, così del pari se si uniscono molti uomini, ciascuno dei quali sia dipendente da una data autorità, pel semplice fatto della loro volontaria unione non diventano indipendenti, e però nella loro unione non si può trovare l' indipendenza, di cui ciascuno di essi è privo. Se dunque non è altro lo Stato civile, che l' unione ben regolata di questi uomini, dei quali ciascuno dipende nell' ordine delle obbligazioni morali e di coscienza dalla Chiesa; anche lo Stato, sia piccolo o grande, potente o debole, questo è indifferente, è necessariamente in egual modo dipendente da essa; e tutta la sua autorità, sotto questo rispetto, non è assoluta, né suprema, ma a quella istituita da Gesù Cristo nella Chiesa pienamente subordinata. La conseguenza è logica, e può sfidare tutti i sofismi: essa non è già una dottrina opinabile o controversa; ma è necessariamente professata da ogni cristiano cattolico. Ciascuno uomo adunque deve pensarci a mente tranquilla, facendo tacere le prevenzioni, e gli sarà facile convincersi, che non ci sono che due vie per le quali mettersi, o quella di rinunziare alla Religione Cattolica, senza ambagi, né cavilli; o quella di riconoscere che il governo civile, in quel che riguarda il giudizio intorno al lecito ed al peccaminoso, dipende dalla Chiesa Cattolica. E questo viene a dire, che se nasce dubbio che una qualche legge o disposizione governativa possa essere illecita od ingiusta o contraria alla legge di Dio, il supremo giudice, a cui spetta di conoscere della questione, non è lo Stato medesimo, ma la Chiesa Cattolica, alla cui decisione, quando sia emanata, lo Stato ha obbligazione di sottomettersi né più né meno che ogni individuo o famiglia, che sono gli elementi dello Stato. Qualora adunque quelle persone, nelle cui mani è depositata l' autorità civile dello Stato, invece di sottomettersi agli insegnamenti e giudizi della Chiesa in tali materie, si arrogano l' indipendenza e la pretesa di giudicare in modo opposto al giudizio della Chiesa, o senza alcun riguardo a questo giudizio, essi mancano alle loro obbligazioni, ed il peccato che commettono, trae seco la loro eterna dannazione, e può essere punito con la scomunica e con le altre pene ecclesiastiche. La dottrina adunque dell' indipendenza dello Stato o della società civile dalla Chiesa, è l' abolizione del Cattolicismo e della Religione di Gesù Cristo, ed essa non può essere professata se non dagli infedeli, e solo fino ad un certo segno dagli acattolici. In questo modo Gesù Cristo ha istituita nel mezzo del genere umano una autorità d' origine veramente soprannaturale e immediatamente divina, al di sopra di tutte le autorità umane, dei regni e degli imperii, a temperamento salutare e benefico della loro materiale potenza e della forza bruta. Per essa tutti questi, ricevendo la luce e l' ordine della giustizia, secondo una stessa legge, da un medesimo tribunale, possono costituire una unità maravigliosa e pacifica, e l' umana famiglia essere di nuovo raccolta dalla sua dispersione sotto un padre comune, Iddio (4). Un' altra delle questioni più clamorose de' nostri tempi è quella della separazione dello Stato dalla Chiesa. Che cosa s' intende per separazione dello Stato dalla Chiesa? Questo è quello che niuno vi dice. Pure se non si sa con tutta chiarezza che cosa si voglia significare con questa separazione è impossibile di giudicare se chi la proclama abbia ragione o torto, e per lo meno ha torto nel non ispiegarsi a sufficienza. Diamo adunque noi un senso a questa espressione, quel senso a cui sembra che mirino quei dottrinari, che ne fanno più uso. Diremo dunque d' intendere per separazione dello Stato dalla Chiesa « quel sistema, che pretende che lo Stato debba fare le sue proprie leggi e prendere le sue disposizioni governative senza avere nessun riguardo alle leggi, prescrizioni e disposizioni della Chiesa, come se non esistessero o fossero a lui del tutto ignote, e ciò pel motivo che lo Stato ha un fine diverso da quello della Chiesa, cioè ha il fine del bene temporale, quando la Chiesa ha il fine del bene spirituale ». Merita un tale sistema di essere approvato o piuttosto conviene disapprovarlo? Egli è chiaro, che se a questa domanda risponderà un uomo, che non crede che la Chiesa Cattolica abbia una potestà divina, ricevuta da Gesù Cristo, come sarebbe un infedele, o un cristiano che ha del tutto perduto la sua fede, non troverà nessuna difficoltà ad approvare il sistema di tale separazione. Ma noi vogliamo conoscere, e prima di tutto definire, come la debba intendere un uomo che professa sinceramente la Religione Cattolica, e che crede alla divina istituzione della Chiesa. Determinata così la questione, non sarà difficile accorgersi che il risolverla si riduce ad un corollario della questione precedente: « se lo Stato sia indipendente dalla Chiesa ». Trattando la questione precedente, abbiamo veduto che, secondo i princìpii del Cattolicismo, niun uomo è indipendente dalla Chiesa, e però neanche una congregazione di uomini; né lo Stato è nulla più che una congregazione di uomini. Ma abbiamo veduto nello stesso tempo, che questa dipendenza dello Stato dalla Chiesa è ristretta alle cose morali, cioè all' ordine del giusto e dell' ingiusto, del lecito e dell' illecito. Nel resto, come ci risultò da quella discussione, lo Stato è indipendente; ed è indipendente ogni altra società umana, la famiglia, per esempio, ed ogni altro individuo particolare. Infatti quando l' uomo o una società qualunque ha da operare qualche cosa, si presentano naturalmente al pensiero due questioni distinte: E` lecita od illecita questa cosa? E` utile o dannosa? Il giudice supremo della prima di queste due questioni è la Chiesa, secondo la credenza cattolica. Il giudice supremo della seconda è lo Stato, o il padre di famiglia e l' uomo particolare, secondo che è l' uno o l' altro di questi subbietti che deve operare, e che propone a se stesso, prima di operare, quelle questioni. Da questo ne viene, che se la Chiesa dicesse allo Stato: « Operate così perché vi è utile »(ciò che ella non fa mai), in tal caso lo Stato potrebbe giustamente rispondere alla Chiesa: « Voi siete uscita dalla sfera delle vostre attribuzioni: sono io il giudice di quello che mi è utile, e in questo sono da voi indipendente ». Ma qui si conviene sempre avvertire, che la stessa cosa potrebbe rispondere un padre di famiglia, od un uomo qualunque. Se poi la Chiesa per lo contrario dice allo Stato: « Questa cosa è illecita: non la potete fare senza peccato », allora, pronunciando la Chiesa in cosa di sua competenza, né un uomo particolare, né una congregazione d' uomini, qual è lo Stato, può ricusare di sottomettersi all' autorità della Chiesa. Tale è indubitatamente la dottrina della Religione Cattolica. Per vedere dunque se lo Stato che ha per fine l' utilità temporale, e che circa questa è giudice supremo, possa secondo i princìpii della Cattolica Religione fare le sue leggi e tutti gli altri atti governativi, separandoli e astraendoli nel detto modo dalla Chiesa, senza avere nessun riguardo alle sue leggi, alle sue prescrizioni, basterà dimandare se la questione di ciò che è utile si possa intieramente separare dalla questione di ciò che è onesto: e se lo Stato possa adoperare tutti i mezzi che crede conducenti all' ottenimento dell' utile, che è il suo fine proprio, senza avere nessun riguardo, e senza volgere il pensiero a ciò che è giusto, lecito ed onesto. La questione dunque della separazione dello Stato dalla Chiesa si trasforma in un' altra equivalente, ma più generale, della separazione dell' utile dall' onesto. Ridotta la questione a questa nuova forma, diviene di facile ed evidente soluzione per tutte le persone che tengano in qualche pregio l' onestà e la giustizia, e che non si sono ancora date al più abietto utilitarismo. Per tutte queste persone non può esistere il menomo dubbio; ma è cosa certissima che l' utile non si può separare dall' onesto, e che non si deve cercar quello senza nessun riguardo a questo, e che perciò quando la Chiesa Cattolica, che n' è il tribunale competente, giudica che qualche progetto di legge e qualunque altra disposizione governativa è ingiusta od illecita, ovvero quando si rileva che un dato progetto s' oppone a quello che è insegnato o comandato dalla Chiesa, il governo civile non può indurlo in legge, pel solo motivo che gli sembri utile o conducente al comun bene; e tutti coloro che occupassero qualche carica nel governo, concorrendovi, peccherebbe. E conviene qui osservare la somma differenza tra le false religioni, per esempio quelle del paganesimo, e la vera religione di Gesù Cristo. Nelle religioni pagane il sacerdozio si restringeva ad aver cura dei riti religiosi, e non credeva di sua spettanza tutto ciò che eccedesse le pratiche religiose e l' onoranza de' falsi Dei. Ma Gesù Cristo ha fondata una religione che non riguarda già soltanto alcuni riti e pratiche, ma riguarda tutta la vita dell' uomo e tutte le sue azioni private e pubbliche, e che ha per iscopo la intera santificazione e salute dell' uomo stesso. Perciò a differenza delle religioni false, che sono piuttosto superstizioni, Gesù Cristo pose per fondamento della sua la verità, la giustizia, la rettitudine in ogni cosa, l' onestà, la carità e ogni specie di perfezione morale. Quindi egli doveva dare alla sua Chiesa, come effettivamente le diede, un potere che s' estendesse a tutto l' ordine morale, a tutti i doveri dell' uomo, del padre o figlio di famiglia, del cittadino, dell' uomo di Stato, dell' imperante. A tutti questi doveri dunque s' estende il potere di giudicare che ha la Chiesa. E la Chiesa ha ed ha sempre avuta la coscienza di questa sua autorità maravigliosa, e l' ha sempre e verso tutti praticata. Le sette all' incontro che si sono da essa separate, prive di questa coscienza, da sé stesse si sono collocate in un luogo inferiore, e di rado o debolmente, e per una impotente imitazione della Chiesa, hanno tentato d' esercitare una simile autorità, ben sentendo che qualora avessero voluto seriamente usarne, si sarebbero rese ridicole. E` dunque impossibile, secondo i princìpii della Religione Cristiana Cattolica, che lo Stato, si separi talmente dalla Chiesa, che egli sia licenziato a far leggi e disposizioni governative senza aver nessun riguardo a ciò che dice o giudica la Chiesa intorno al giusto ed all' onesto, al lecito e al peccaminoso, senza riguardo alle sue prescrizioni e ai suoi materni insegnamenti. Quindi per sostenere il sistema della separazione dello Stato dalla Chiesa, preso nel senso indicato, conviene rinunziare alla Religione Cattolica, e negar fede a quelle parole di Cristo: [...OMISSIS...] o a quell' altro: [...OMISSIS...] . Ma se anche si guarda la questione sotto un altro rispetto, si troverà ugualmente che non si può sostenere la sentenza di coloro che dicono che l' autorità civile deve fare le sue leggi ed altri atti governativi secondo la norma dell' utile, senza avere nessun riguardo alle leggi e prescrizioni ecclesiastiche o religiose, chiamando questo « separazione dello Stato dalla Chiesa ». La società civile fu istituita, come abbiamo veduto, acciocché tutti i diritti de' suoi membri, cioè dei cittadini, venissero con il mezzo della pubblica sanzione tutelati e difesi. A questa condizione l' individuo e la famiglia entrando a far parte della società civile rinunziano a difenderli e a tutelarli da sé stessi con la forza privata. E` dunque il governo civile, per la natura della sua istituzione e per il suo fine, obbligato a difendere efficacemente, con i mezzi preventivi e repressivi, tutti i diritti di quelli che alla sua autorità si sottomettono per essere ben governati. Ed è naturale, che se il governo civile manca a questa sua obbligazione, e rimangono i diritti indifesi, ritorni ad aver luogo l' uso della forza privata, con il quale lo Stato fa un passo indietro verso la barbarie, e la società civile, turbata, verso la sua dissoluzione, come avveniva sovente nel medio evo, quando le nuove società civili non erano ancora pienamente costituite. Ora ogni cosa amata ed apprezzata può essere oggetto d' un diritto, e non le sole cose materiali. Certo, che alcuni governi nei nostri tempi sembrano concedere alle cose materiali una attenzione quasi esclusiva, e si persuadono d' aver fatto tutto, quando abbiano reso lo Stato materialmente prospero. Ma questa maniera di pensare gretta ed assai limitata s' oppone alla ragione, ed è respinta dagli istinti più nobili della natura umana, che sono i morali. Che anzi gli stessi governi nei quali più domina questo spirito e sistema di materialismo, diventano necessariamente incoerenti seco stessi, non potendo prescindere in molte loro disposizioni da considerazioni superiori a quelle degli interessi materiali. E` dunque fuori di controversia, che tutti i diritti dei cittadini devono essere protetti e difesi dal potere dello Stato; non quelli soli che hanno oggetti materiali, ma anche quelli che hanno per oggetto dei beni invisibili e morali, e tra questi i diritti religiosi. Tutti quelli che professano sinceramente qualche religione, apprezzano talmente il libero culto di essa, che niuna delle cose terrene gli paragonano, ma considerano la loro religione come la cosa più preziosa, e più cara di tutte, senza confronto. Sarebbero dunque disposti, quando fossero nello stato di natura, a difendere la loro religione con tutte le loro forze, e non solo con il sacrificio delle sostanze temporali, ma con quello della vita stessa. Quanto dunque un tal bene è apprezzato, altrettanto grande è l' obbligazione del governo civile di guarentirlo e di difenderlo ai cittadini che lo possedono. Ma se il governo civile è obbligato a difendere i diritti religiosi dei cittadini, egli deve conoscerli questi diritti e averli presenti, sia per istabilire delle leggi e dei regolamenti atti ad ottenere questa difesa, sia per non esporsi a far tali leggi e tali regolamenti, che fossero essi stessi una violazione di tali diritti, o conducessero alla violazione dei medesimi. Se dunque il governo deve aver riguardo, nel fare le sue leggi e nel prendere le sue disposizioni, alla religione professata dai cittadini, dunque è falso e contrario al sociale diritto il sistema della separazione totale dello Stato dalla Chiesa . Concludiamo: il governo civile deve aver riguardo, nella formazione delle sue leggi ed altri atti governativi, alla religione dei cittadini per due motivi: I) per proteggere i diritti religiosi dei medesimi; II) per evitare di violarli egli stesso. E` dunque contraria alla religione e al buon senso quella separazione assoluta dello Stato dalla Chiesa, che è divenuta uno dei luoghi comuni della politica volgare (3). Non c' è dubbio alcuno, che ogni Stato, grande o piccolo, ha la sua Autonomia. Perché dunque ci proponiamo noi una questione intorno all' Autonomia dello Stato? Se questa parola venisse sempre adoperata in quel senso che l' adoperano i più assennati pubblicisti, cioè a indicare l' indipendenza che ciascuno Stato pienamente costituito, e avente una esistenza propria riconosciuta, ha da ciascun altro, sia nel dare a se stesso le proprie leggi, sia nella direzione del proprio governo, crederemmo inutile il parlare di questo argomento. Ma ci sono alcuni, che, invece di riporre l' Autonomia dello Stato in una relazione d' indipendenza rispetto agli altri Stati, estendendo il significato della parola, vi parlano dell' Autonomia dello Stato in relazione a un ordine di cose più elevato, alla legge morale e alla Chiesa Cattolica. Questi, che sotto l' autorità d' una parola vecchia e accreditata vogliono introdurre una teoria nuova, ci obbligano a proporci la questione: « Se ci abbia un' Autonomia dello Stato presa sotto questo nuovo punto di vista ». Rispondiamo: Se voi intendete una Autonomia ristretta dentro la sfera delle cose morali ed oneste, lo Stato è Autonomo in verso a qualunque potere; ma se voi intendete per Autonomia la facoltà di far leggi indipendentemente da qualsivoglia legge morale e religiosa e dall' autorità, che alle cose morali e religiose presiede, questo ritorna alla questione dell' indipendenza dello Stato dalla Chiesa, già da noi prima trattata. Ripetiamo dunque, che una tale autonomia dello Stato né c' è, né ci può essere. Che cosa importa l' Autonomia in questo senso? Importa l' Arbitrio del legislatore. Infatti dandosi al legislatore un potere incondizionato di far leggi, questo potere non è più regolato né moderato da cosa alcuna: tutto si riduce alla sua volontà: [...OMISSIS...] Ora che cosa è una volontà, che non ha altra regola che sé medesima, se non l' arbitrio? Poiché da qual' altra cosa ripeterà un tal potere la sua regola? Donde prenderà la moderazione, la misura, l' ordine delle sue disposizioni? Dalla legge naturale? No, perché l' Autonomia, di cui si parla, non è obbligata ad alcun riguardo verso le leggi naturali. Dalle leggi divine? Neppure, perché ella anche da queste vanta una perfetta indipendenza. Da ciò che la Chiesa Cattolica insegna e comanda a nome di Dio? Meno assai, perché questo potere non è che conseguente al potere divino, che lo ha istituito. L' Autonomia dello Stato dunque in questo senso è l' umano arbitrio messo in trono. A una teoria così fatta, figlia dell' orgoglio e dell' immoralità, si volle dare nei nostri tempi anche veste filosofica. Si cominciò dallo stabilire, che « l' uomo è il legislatore di sé stesso ». Il Kant, che ripose in questa sentenza il principio supremo dell' Etica, le diede il nome appunto d' Autonomia. Egli però non ne trasse, e probabilmente non ne vide, tutte le conseguenze di cui era gravido (1). L' Hegel fa l' ostetrico del parto mostruoso. Se l' uomo è il legislatore, se esso è il fonte d' ogni morale e d' ogni diritto, conviene di conseguente che sia Dio, poiché ognuno sente che l' autorità della legge morale e la natura del giusto e dell' onesto è qualche cosa di eterno e di divino. Cotesti pensatori dunque, che, senza darsi gran cura di accertarsi che un principio sia vero, si danno per somma cura di cavarne imperterriti tutte le conseguenze, non ebbero difficoltà di asserire appunto non esservi altra divinità fuori di quella dell' uomo o dell' umanità, e così venne al mondo la moderna Antropolatria . Dopo che l' uomo fu divinizzato a questo modo, era naturale che ancor più s' accordassero allo Stato gli onori divini. L' Hegel dunque vi descrive lo Stato come un gran Dio organizzato, con l' unione, quasi direi, d' altrettante minori divinità. Qual maraviglia, dopo di ciò, che si parlasse dell' onnipotenza dello Stato, della sua assoluta indipendenza, della sua Autonomia! Ora voi non sentite solamente l' eco di una dottrina così stravagante nelle frasi del nostro Mazzini; ma la sentite anche nelle bocche di quelli che rifiutano ogni consorzio con il Mazzini, e che vi parlano sul serio di libertà costituzionale; la sentite nelle bocche de' così detti dottrinari francesi; in bocca di molti che governano: onnipotenza delle leggi, indipendenza, autonomia , sono le loro frasi più care. Questo sistema dunque altrettanto scempio quanto brutale, è quello che fu denominato Statolatria . Gli autori e i fautori di questo sistema, distruggendo la religione e la morale, che sono le naturali moderatrici del potere civile (ed è il medesimo che si distruggano con il negarle, come gli Hegeliani, o con l' astrarre pienamente da esse), abbandonano i popoli alla mercé dell' arbitrio de' governanti. Se il nudo arbitrio del legislatore civile è quello, che, senza alcun riguardo alle morali obbligazioni, dee fare la legge civile e darle esecuzione, l' umanità è divenuta il ludibrio di pochi scellerati. E può essere benissimo, ed anzi è infatti, che un tale sistema di schietta tirannia si denomini libertà; poiché che cosa più facile d' applicargli una parola? Quanti sciocchi poi la raccolgono, quasi avessero trovato un caro tesoro, e la ripetono come una luminosa verità. Ai fautori di cotesto sistema non mancano tuttavia le loro giustificazioni, e conviene ascoltarli. « Non è vero, dicono, che noi abbandoniamo i popoli all' arbitrio de' governanti; poiché, sebbene noi non vogliamo che lo Stato sia soggetto a nulla, neppure alla morale e alla religione, ciò non di meno in luogo di queste due forze temperatrici dell' arbitrio, noi surroghiamo altri temperamenti egualmente efficaci, cioè il calcolo dell' utilità , e dell' opportunità, l' opinione pubblica , e finalmente il voto popolare , che legittimamente si manifesta nelle assemblee parlamentari . Se si trattasse dell' arbitrio di un solo, ci avrebbe, lo concediamo, dispotismo; ma presso di noi vale l' arbitrio di tutti; e ciò che risulta, quasi forza media, da tutti questi arbitrii è appunto la regola di coloro che governano lo Stato; questo arbitrio collettivo tempera adunque ottimamente l' arbitrio individuale e gl' impedisce di trasmodare ». Queste giustificazioni non sono rivolte, come si vede, a dimostrare che un tale sistema di governo non sia immorale e irreligioso, anzi concedono pienamente che il sistema è ateo; ma sono rivolte a provare che esso non è tuttavia un sistema tirannico avente a sola sua base l' arbitrio del legislatore civile. Non è dunque giustificabile da parte della religione e della morale: e però niuno che professi la Religione Cattolica, niuno che di buona fede e in un modo conseguente professi qualche altro culto, e finalmente nessuno che abbia in sé qualche poco di onestà e di morale, potrà accettarla. Tuttavia è necessario ancora esaminare, se quei temperamenti che propongono, al di fuori d' ogni autorità e obbligazione morale e religiosa, sieno sufficienti a temperare e regolare l' arbitrio legislativo e governativo per così fatto modo da non degenerare in oppressione, dispotismo e tirannia. Qualor anche dunque si supponga, che gli spedienti proposti come temperamenti dell' arbitrio legislativo avessero per sé considerati tutta l' efficacia di cui si dicono forniti; che cosa si potrebbe conchiudere intorno a così ingegnosi ritrovati? - Rimarrebbero sempre davanti a noi distinte e inconfusibili le due questioni, della morale e dell' utilità. Supponendo che fosse provveduto con gli indicati spedienti all' utilità temporale, ch' è il fine prossimo ma non il principale dello Stato (2); rimarrebbe sempre vero, che la morale in un tale sistema sarebbe interamente sacrificata; dico interamente, perché non si tratta solo di violare qualche legge particolare della morale o della religione, ma si nega la stessa autorità della legge morale religiosa, e così si riduce l' uomo ad uno stato brutale, spoglio della sua propria dignità, che dalla sola morale procede e dalla sua relazione con le cose eterne e divine. Laonde niun uomo onesto (poiché l' onesto è quello che ama sopra tutti i beni l' onestà, la giustizia, la moralità, la religione e in tutti i suoi passi le consulta riverente), e soprattutto niun uomo religioso, niuno per certo che professa la Cattolica Religione, può dare la sua adesione ad un tale sistema, e non anzi pienamente riprovarlo. Ma uno Stato, che in questo modo rinunci alla dignità morale, potrà egli procacciarsi veramente e a lungo l' utilità temporale? Non entrerà da tutti i lati, in una nazione così governata, la corruzione del costume? e nell' inondazione di ogni mollezza e di ogni vizio, non si videro far naufragio i più grandi regni e i più potenti imperii, a malgrado de' consigli i più prudenti di quelli che governavano? Basta aprire le storie: gli esempi sono molti e tremendi, e troppo divulgati per fermarci a narrarli. Ma esaminiamo a parte a parte il valore di quei poteri moderatori che si vogliono sostituire a quelli della morale e della religione. Sarà, dicono, un temperamento all' arbitrio il calcolo dell' utilità . - Ma chi obbliga i governanti a fare un tal calcolo, se non hanno obbligazioni morali? Dico a fare questo calcolo tanto a favore degli altri che a favore di se stessi? Poiché un calcolo che riguardasse l' utilità di tutti e di ciascuno è certamente compreso in quel precetto della morale evangelica: « Non fare ad altri quello che tu non vorresti fatto a te stesso, fa' agli altri quello che tu vorresti che gli altri facessero a te ». E in virtù d' un precetto della morale questo calcolo si fa praticamente; ma senza alcun precetto, alcuna obbligazione, sono essi gli uomini disposti a farlo tuttavia? Se poi si tratta d' un calcolo del bene maggiore e più generale nella somma, chi mai degli uomini sa fare un tal calcolo con perfezione, e senza sbagli? E poi, se si cerca soltanto un calcolo della utilità generale, rimarranno sacrificati all' utilità dei più i singoli cittadini e la minorità, rimarranno sacrificati i deboli ai forti, poiché se non c' è la giustizia che difenda i diritti degli individui, se deboli, e delle minorità, a questi non resta certamente alcun' altra guarentigia; ricorreranno dunque per disperazione alla rivoluzione, e tale è il solito risultato de' governi immorali e irreligiosi. L' opinione pubblica . - C' è obbligo di seguirla? anche qui noi domandiamo. Obblighi morali di nessuna sorta, rispondono i sostenitori dell' Autonomia dello Stato. Perché dunque l' ascolteranno quelli che governano, quando sembrasse loro utile, almeno a se stessi, il non ascoltarla? L' hanno mai ascoltata i despoti e i tiranni? Mai: dunque se ne può fare senza, se non accomoda. Di più, quanti mezzi non ha il governo di falsare l' opinione pubblica? Quanti mezzi di dividerla, producendo la discordia negli animi e il gioco de' partiti? E poi, chi fa o chi manifesta l' opinione pubblica? Sempre quelli che più gridano. Niun partito confesserebbe mai di non averla a sé favorevole: la vorrà dunque avere per sé anche il partito del governo, né questo sarà perciò sicuro segno che l' abbia. « Ma noi nel nostro sistema intendiamo che l' opinione pubblica debba essere la prima regola del governo, e che il governo non possa mai abbandonarla ». E che? dopo aver abolite tutte le obbligazioni della morale e della religione, vorreste forse imporre voi stessi al vostro governo un' obbligazione. Non si riderà di voi, come voi vi ridete della morale e della religione? Il vostro princìpio non ammette temperamento. Se al governo attribuite un' assoluta Autonomia, statevi dunque zitti, che il vostro sistema è qui tutto; non potete aggiungere una sola parola di più né una condizione; dovete lasciargli fare quello che vuole, perché se gli imponeste la più piccola obbligazione, già con questo gli avreste tolto l' Autonomia. Il voto delle Assemblee Parlamentari . - E` egli certo che le assemblee parlamentari rappresentino la nazione? - Tutto ciò che di più favorevole si possa dire delle assemblee parlamentari, si è ch' esse rappresentino la maggioranza della nazione. Ma se questa maggioranza si crede indipendente da ogni legge morale e religiosa, e se il solo arbitrio della medesima deve esser legge, che cosa se ne avrà se non la tirannia della maggioranza? e per poco che altri conosca la storia delle assemblee parlamentari, e abbia osservato che cosa possono produrre cotali macchine governative, si persuaderà della verità di quello che molti pubblicisti asseriscono, cioè che di tutte le tirannie la peggiore è quella della maggioranza. Le minoranze non possono essere protette che da una potenza morale: tolta dunque questa, e proclamato il princìpio, che il solo arbitrio e la sola Autonomia della maggioranza governi, le minoranze sono alla loro mercè, al loro capriccio. Niun avvilimento, niuna servitù, niuna oppressione è simile a questa. Il Sismondi non vede altro temperamento nei sistemi costituzionali, che lo spirito di una reciproca conciliazione. Ma dove si stabilisca in principio che il governo non riconosca altra autorità che la propria, e non dipenda da una legislazione superiore, qual è la morale e la religiosa; che conciliazione si può concepire? Quella sola tutt' al più per la quale colui che ha in mano il potere, vede riuscirgli utile ad accrescere o a conservare lungamente questo stesso potere, questo potere, dico, del tutto arbitrario. Ma la supposizione da noi fatta, che la maggioranza nel Parlamento rappresenti la maggioranza della nazione, non si verifica sempre, e ad ogni modo è un puro accidente che si verifichi. Non s' è trovata ancora una legge elettorale, che guarentisca questo risultato. Me ne appello agli uomini di Stato più perspicaci; i soli cangiamenti continui della legge elettorale, che si succedono a poca distanza l' uno dall' altro, e la critica che subisce ciascuno di essi, ben lo provano ad evidenza. E poi, nell' esecuzione, chi non sa che cosa voglia dire la lotta dei partiti? Fu detto che il governo costituzionale è la guerra incruenta: guerra certo, benché non sempre incruenta; ma appunto perché guerra, vince chi può più, e può più il partito più audace, più risoluto, quello che ha meno ritegni morali, il quale di solito è uno de' partiti estremi. Allora questo è la nazione, cioè quella nazione che si dice rappresentata da' Parlamenti. La verità si è, che non è punto la nazione, ma è un pugno di gente astuta e violenta, che espila a suo pro la nazione, che la lacera e la corrompe, e che tuttavia prende il suo nome e incorona questo bel nome usurpato con l' aureola d' un altro bel nome, usurpato pur esso e mentito, quello di libertà. Niuno dunque degli espedienti, che con abuso d' ingegno, si cercano o nell' equilibrio delle forze, o nei calcoli dell' utilità, o nella potenza dell' opinione, o nella numerosità di quelli che influiscono nelle deliberazioni governative, possono aggiungere un temperamento sufficiente alla Autonomia dello Stato, quando per Autonomia s' intenda un potere assoluto di far leggi, e di governare in un modo indipendente da ogni altra legge e autorità superiore, morale e religiosa. Questa Autonomia è dunque il nudo arbitrio, l' essenza stessa dell' assolutismo, la tirannia eretta in un sistema che da alcuni si chiama liberalismo. Che se poi a questa parola tanto di frequente adoperata di Autonomia si dà un altro significato, non saremo certamente noi quelli che la neghino allo Stato. Lo Stato, come qualsiasi umano individuo, in ogni sua operazione, come abbiamo già detto, deve proporsi, prima di operare, due questioni diverse, l' una riguardante la giustizia e la moralità, l' altra l' utilità. Questa seconda è di sua natura subordinata alla prima. Lo Stato, come qualunque individuo, non può fare cosa alcuna, che giudichi a sé utile, se prima non si sia assicurato che la cosa è onesta, e onesto il modo di farla. Prima si ascolti il consiglio di Aristide, e poi quello di Temistocle. Per attignere ciò che appartiene all' onesto, deve lo Stato accostarsi ad altri fonti, e ad altri per attignere ciò che è utile. Ora né questi fonti possono essere confusi insieme, né può essere confuso l' utile con l' onesto. Se si domanda che cosa sia l' onesto per tutti quelli che professano la Religione Cristiana Cattolica, che cosa sia l' onesto secondo i princìpii di questa religione, che sparse sull' onesto cotanta luce, che ne dilatò i confini, che lo innalzò sopra tutte le cose, e lo dichiarò quella sublime ed altissima potenza, da cui dipende tutta l' umanità e il fine di tutto l' universo, si avrà bene spesso una risposta diversa da quella che si otterrebbe risolvendo la domanda secondo altri princìpii meno perfetti e meno elevati. Certo un uomo che professasse il paganesimo, o un filosofo che professasse l' ateismo, vi dichiarerà cosa onesta quello che il figlio della Chiesa Cattolica e il discepolo di Gesù Cristo pronuncierà essere turpissimo e inonestissimo. Ora quello che a noi più di tutto interessa, si è di sapere che cosa sia onesto o inonesto, giusto od ingiusto, lecito od illecito, morale o immorale, per un cristiano cattolico. Questo si desume, sia dall' insegnamento scritto o tradizionale, sia dalla viva voce di quella autorità che ha istituito Gesù Cristo nel mezzo del genere umano e che si chiama Chiesa Cattolica. Rispetto dunque a questa dottrina, e rispetto a questa autorità vivente, e che persevererà nel mondo fino alla fine dei secoli secondo la promessa di Cristo, niun governo civile è autonomo. Tale è indubbiamente il dogma del Cristianesimo. Ma risoluta una volta questa questione dell' onestà, il governo civile, per tutto ciò che riguarda l' altra questione subordinata dell' utilità, ha una pienissima Autonomia. Che cosa dunque si dovrà dire di quelli i quali, come foste de' fanciulli, vogliono spaventarvi con la parola di teocrazia, quasi come con la befana? Ecco il discorso che vi tengono: « Volete far ritornare il mondo al medio evo: volete sacrificare i progressi della civiltà moderna: volete aggiungere al pastorale la spada: volete confondere le cose sacre con le profane: volete che il governo si renda schiavo dei preti... ». Ma dove mai correte con la vostra immaginazione riscaldata? Noi non vogliamo nulla di questo: noi non vogliamo confondere, ma distinguere: vogliamo distinguere quello che voi confondete: voi confondete il bene col male, l' onesto con l' utile, e noi vogliamo stabilire quella separazione che queste due cose hanno in natura: voi volete confondere i poteri, volete che il potere dello Stato giudichi ad un tempo dell' onesto e dell' utile, ed anzi che sacrifichi l' onesto all' utile; e noi vogliamo, che altro sia il potere che giudica dell' onesto, ed altro il potere che giudica dell' utile. L' onesto, essendo una cosa eterna e divina, non può avere per giudice altro che un' autorità divina, qual è quella istituita da Gesù Cristo nella sua Chiesa; l' utile poi, essendo cosa umana, può essere benissimo oggetto di un' autorità umana, qual è quella del governo civile; vogliamo quindi lasciare alla Chiesa il suo, e allo Stato il suo. E poi non siamo noi che stabiliamo questo: perché questi non sono altro che i princìpii della religione cristiana cattolica, e questi princìpii non li abbiamo inventati noi, né possiamo noi mutarli. Noi diciamo solamente una cosa di fatto, diciamo che tale è la dottrina necessaria e inevitabile della Religione Cristiana: tali per conseguente sono i princìpii di quelli, che professano questa religione. Non volete voi professarla? sarà questa un' altra questione: l' abbiamo già detto prima, che chi non professa la Religione Cristiana deciderà in altro modo le questioni che discutiamo: abbiamo detto, che un pagano e un ateo verrebbero ad altre conclusioni, così proporzionatamente un eretico. Non si tratta di convincervi che la Religione Cristiana Cattolica sia vera o falsa, perfetta o imperfetta: si tratta di sapere che cosa consegua logicamente, secondo i princìpii di questa religione, intorno all' Autonomia dello Stato; ed è indubitato, che consegue quello che abbiamo detto, cioè che lo Stato non ha punto né poco un' Autonomia assoluta, essendo egli obbligato di seguire intorno al giusto e all' onesto, in tutta la sfera che abbracciano queste parole, un' altra legge anteriore alla sua e un' altra autorità, che è quella di Cristo e della sua Chiesa. Se voi dite che questa dottrina è del medio evo, noi vi rispondiamo, che è di tutti i tempi; perché la dottrina di Gesù Cristo e della sua Chiesa è immutabile, e durerà sino alla fine del mondo; vi rispondiamo ancora, che fu certamente anche del medio evo questa dottrina, perché anche allora si professò la Religione Cristiana, ed essa fu quella che nel medio evo concepì, e più tardi partorì la civiltà europea, di cui noi godiamo. Il corso di questa civiltà non può dare indietro, e di questo è prova luminosa questo fatto, che ella resse al terribile urto di quella rivoluzione che scosse l' Europa negli ultimi anni del secolo scorso, nella quale gli atti dell' empietà, della barbarie, dell' impudicizia, e d' una inumana crudeltà toccarono gli ultimi eccessi. Dall' immondo vortice uscirono allora a nuova vita le idee pagane: si voleva far tornar il mondo indietro di venti secoli, distruggendo gli acquisti inapprezzabili che aveva fatto l' umanità per mezzo del Cristianesimo. Ma tutto indarno: la marcia trionfale di questo non si arresta per gli sforzi impotenti dell' orgoglio umano, come non si arresta il sole nel suo corso al gracidare delle ranocchie. Le sole menti più deboli vacillarono, e molte ce ne restano ancora di ammalate e di convalescenti. Voi dunque, signori miei, prendete un equivoco chiamando progresso della civiltà uno sforzo, com' era quella rivoluzione, di farla retrocedere; e prendete alcune dottrine tendenti a imbarbarire il mondo, come fossero le massime della civiltà stessa. E questa civiltà appunto, e il vero bene, il vero progresso dell' umanità, è quello che richiede che ogni governo civile e specialmente costituzionale sia sottomesso alle leggi della morale, e da queste sia temperato il suo potere. Né il governo civile potrebbe mai essere veramente sottomesso a tali leggi, se non ci fosse nel mondo costituita da Dio una autorità reale e vivente, atta ad insegnarle e dichiararle con ogni sicurezza, o non fosse da lui riconosciuta. Senza una tale autorità morale e spirituale, che contrabbilanci l' immensa forza bruta, accumulata in alcune mani, sieno queste poche o molte, non si sarebbe mai potuto rimediare all' incomodo gravissimo che trae seco di necessità un governo civile, cioè il pericolo della tirannia. Questo rimedio e questo mezzo di emendazione non fu trovato, né si poteva trovare avanti Gesù Cristo: quindi fino allora durò la burbanza dei superbi dominatori, e le tirannie e le oppressioni non ebbero misura. Ma il consiglio e l' intendimento di Gesù Cristo, secondo un divino decreto eterno, fu quello di provvedere e di soccorrere da tutti i lati e sotto tutti gli aspetti all' umanità che egli redimeva. Eresse dunque, egli che solo il poteva, un magistero e un tribunale altissimo di morale sopra la terra, a cui promise immancabilmente assistenza; e poi facendo entrare le nazioni nella sua Chiesa, le accolse a questa condizione, che i loro imperanti e i loro civili governi, ed esse stesse le nazioni intere ed i popoli i più potenti, rinati nel suo battesimo, piegassero la fronte e prendessero la legge della perfetta giustizia, umiliati a quel magistero e a quel tribunale. Così governi civili divennero giusti, onesti, mansueti, benefici, promovitori del bene di tutti, e questo è l' unico santissimo fondamento della civiltà e della libertà civile e politica. Fu provveduto in questo modo al povero popolo, provveduto ai deboli, a tutti; su questa via solamente sta il progresso civile ed umanitario, e sono possibili le costituzioni. Solo quelli che ripugnano ad una tale dottrina, qualunque sia il lenocinio delle loro parole, sono i nemici del progresso, della libertà, dell' incivilimento, i nemici pur troppo infaticabili dell' umanità, i veri autori e fautori della servitù e della tirannia. Accordiamo dunque ai governi civili anche noi, per dirlo di nuovo, la loro Autonomia, l' Autonomia nella sfera dell' utile, sfera subordinata a quella dell' onesto. E` dunque anche per noi, ed anzi per noi soli, interamente distinto il potere dello Stato e il potere della Chiesa. Il potere dello Stato è assoluto rispetto all' utile, che forma il suo fine immediato, ma a condizione che l' utile sia subordinato all' onesto. Il sacerdote non deve entrare, come sacerdote, punto né poco in questa sfera dell' utile, perché non è sua. Le due potestà dunque hanno i loro proprii oggetti distintissimi e inconfusibili: ma tuttavia subordinati. Questo non è soltanto conseguente ai princìpii della cristiana dottrina; ma, anche in sé stesso considerato, è razionale, vantaggioso, necessario all' umanità, e desiderabile che fosse vero, quando pure non lo fosse. Abbiamo escluso il sistema d' assoluta separazione dello Stato dalla Chiesa, come affatto inconciliabile con il Cattolicismo. Coloro che, lasciandosi governare dalla fantasia, si compiaciono di rappresentare lo Stato e la Chiesa come due pianeti che percorrono orbite diverse senza mai incontrarsi, non si dimostrano soltanto mancanti de' princìpii proprii della questione, per la soluzione della quale si consigliano di ricorrere all' astronomia, ma si chiariscono ugualmente imperiti di questa ultima scienza. Infatti per appigliarsi ad una similitudine di tal fatta conviene dire che del tutto ignorino come niuna parte del sistema planetario sia disgiunta o indipendente dall' altre, e come i pianeti non percorrerebbero le diverse loro orbite con tanta regolarità, se nel bel mezzo di essi non ci fosse il sole, che con la sua attrazione ne determinasse loro il corso, e nel debito ordine, aggirantisi a sé d' intorno, li mantenesse. Che due governi che abbiano sudditi diversi possano conservar l' indipendenza reciproca e una totale separazione di leggi e d' atti, questo certamente s' intende. Ma che due governi che hanno gli stessi sudditi possano imporre a questi, senza aversi alcun riguardo reciproco, varie leggi ed obbligazioni, negandosi che possano nascere collisioni, e supponendo in pari tempo che i sudditi, nel caso che nascano, possano ubbidire contemporaneamente ai due contrarii comandi, questo è così impossibile, che lo vedono gli stessi fanciulli. Conviene dunque lasciare da banda il sistema dell' assoluta separazione dello Stato dalla Chiesa; e poiché, lasciato questo sistema, rimane che lo Stato e la Chiesa devano procedere con una certa relazione armonica, resta che al presente cerchiamo quale deva essere l' armonia che accordi tra loro le leggi e gli atti de' governi civili, e le leggi e gli atti della Chiesa Cattolica. Circa questa questione sono stati inventati, e più o meno praticati, tre sistemi, che noi chiameremo, il sistema d' immistione , il sistema d' alleanza e il sistema d' organismo . Nel sistema d' immistione le due potestà si confondono: lo Stato entra in molte di quelle cose che appartengono alla Chiesa, la Chiesa in molte di quelle cose che appartengono allo Stato. Questo fonda sulla supposizione che ci sieno delle materie veramente miste. Altri negano che queste materie miste ci sieno, tra i quali monsignor Affre, il glorioso martire della carità pastorale. Noi siamo dell' avviso di quest' ultimo. Possono bensì i due poteri determinare qualche cosa intorno ad uno stesso oggetto, ma sempre sotto un rispetto diverso; ed essendo diverso il rispetto, la materia delle due legislazioni, formalmente considerata, rimane già con questo distinta. Non si può dunque erigere in sistema il principio, che una delle due potestà, deva di necessità immischiarsi in ciò che appartiene all' altra; e se così accade per mutua concessione, questo non deriva dalla natura intrinseca delle potestà stesse, e si dee riguardare siccome cosa transitoria ed accidentale, né mai può erigersi in sistema. Tuttavia se le materie non sono miste, sono talvolta affini per le due ragioni già toccate, cioè perché le due potestà impongono le loro leggi a sudditi identici, essendo un identico uomo il cattolico e il cittadino; e perché gli stessi oggetti, sotto rispetti diversi, possono dar materia alle prescrizioni dell' uno e dell' altro potere. E` dunque chiaro, che il tracciare la linea di confine delle due giurisdizioni riesce in alcuni casi difficile: di che la necessità che i due poteri entrino tra loro in amichevoli e coscienziose trattazioni, affine di accordarsi e convenire sulla separazione delle due materie distinte sì, ma quasi impercettibilmente tra loro: e di qui conseguentemente la necessità de' Concordati (1). Ma da questo stesso apparisce, che il sistema d' immistione non è punto necessario, potendosi sempre le materie delle due giurisdizioni, con più o meno di cura e di studio, distinguere e separare. E la distinzione d' altra parte è dimandata sì dalla natura dei due poteri, sì dall' ordine e dalla chiarezza con cui devono entrambi procedere, e giova oltremodo alla conservazione del loro buon accordo, in conformità del volgare proverbio: « Conti chiari, amicizia lunga ». Il secondo sistema, che si suol chiamare d' alleanza , è quello secondo il quale le due potestà si obbligano ad aiutarsi reciprocamente, di maniera che le disposizioni dello Stato riescano vantaggiose al fine della Chiesa, e le disposizioni della Chiesa riescano vantaggiose al fine dello Stato. Sebbene questo sistema abbia tutta l' apparenza di esser utile ad entrambe le potestà, tuttavia noi lo crediamo inapplicabile e l' escludiamo del pari, come abbiamo escluso il sistema d' immistione. E` certo, che se le due potestà si mantengono dentro i propri confini, la concordia loro è immanchevole, e dai loro atti risulta naturalmente a ciascuna un reciproco vantaggio. Ma lo stabilire questo reciproco vantaggio, come la materia di un trattato espresso o tacito d' alleanza, invece di lasciare che esso nasca da sé spontaneamente per la natura stessa della cosa, lungi d' accrescere questo vantaggio medesimo, lo diminuisce; e molte volte lo impedisce e genera di più il pericolo, che ciascuna delle due potestà, uscendo dalla propria via, che diritta le scorge al proprio fine, per far troppo e quello che non le appartiene, faccia meno, e per giovare all' altra imperitamente, noccia a sé medesima. La Chiesa Cattolica è stata istituita da Gesù Cristo per dirigere tutti gli uomini in questa vita alla loro perfezione morale, e alla beatitudine nell' altra, per insegnar loro a non peccare, ma in tutte le loro relazioni, come individui e come membri di qualunque società, osservare la giustizia, l' onestà ed ogni virtù, e perciò le è stata data l' autorità di giudicarli, se peccano, e d' ammonirli e di castigarli; se ritornano poi in sé stessi ascoltando le sue parole, d' assolverli in nome di Dio dai peccati. Tutte le cose temporali, secondo la dottrina cristiana, devono subordinarsi a questo altissimo fine morale; ed è indubitato poi, che, mediante questa fedele subordinazione, gli uomini in complesso vantaggiano anche temporalmente; non che questo sia un fine diretto della Chiesa, ma è stato promesso da Gesù Cristo come un soprappiù, quando ha detto: « « Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno aggiunte » (2). » Laonde S. Paolo pure scrisse: [...OMISSIS...] Ma nel sistema d' alleanza si pretende che la Chiesa con le sue disposizioni influisca direttamente al bene dello Stato: almeno di questo sistema io parlo. Ora questo facilmente diventa un far servire le cose di un ordine superiore, come sono le religiose e le divine, ad un ordine inferiore; e questo è altamente riprovevole. Pure questo è quello che molti governi malavveduti, ostentando una falsa pietà, pretesero dalla Chiesa. Il sistema di questi governi conduce ai due funestissimi effetti, della corruzione del Clero, e dell' odio della religione da parte dei popoli. Se la religione fa direttamente e in proposito causa comune in tutto co' governi esistenti, egli è naturale che venga combattuta dai partiti e considerata anch' essa un partito politico, o come un istrumento politico. Allora essa non si presenta più ai popoli nella sua augusta maestà di religione e nella sua imparzialità e quasi impassibilità di giudice del bene e del male; ma travestita, ridotta negli angusti confini d' un interesse temporale, non più padrona del proprio giudizio, avente almeno l' aspetto di congiungere in sé le due qualità inconciliabili di giudice e di parte, è necessariamente presa a sospetto, disamata, disprezzata. In questo sistema d' alleanza, oltre di ciò, le scissure tra il potere temporale e l' ecclesiastico scoppiano all' improvviso e con maggior furore, come tra due alleati infedeli. Il governo pretende che la religione serva ai suoi interessi. Ma il governo talora è una usurpazione; l' usurpatore, quando è invalso questo sistema, pretende dalla Chiesa tutto ciò che pretendeva il governo legittimo. Posto che il governo sia legittimo, egli è certamente il giudice di quello che gli è utile e che gli è dannoso; pretendendo dunque di essere aiutato ne' suoi interessi dalla Chiesa, pretende di conseguenza, che la Chiesa riceva da lui la direzione, se l' assoggetta, esige che serva ai suoi capricci. Ma viene un tempo in cui la Chiesa non può, non vuole assolutamente farlo. Allora scoppia la scissura, ed anche la persecuzione: intanto il governo ha creato, per mezzo dei suoi uomini di legge, un diritto pubblico, in forza del quale egli vanta delle magnifiche ragioni, che hanno per base consuetudini o concessioni, o finalmente massime cavillose; e con un tale diritto fatto ad arte, insensibilmente introdotto, e già quasi riconosciuto, almeno in apparenza, vuol riconvenire la Chiesa del suo torto. Ma non regge questo sistema, neppur considerato da parte dei vantaggi che lo Stato si obbliga di recare alla Chiesa, mediante l' accennato trattato tacito o espresso di alleanza. Deriva bensì dalla natura del potere civile, che questo deve essere subordinato alla Chiesa nelle cose morali e religiose, in tutto ciò che riguarda il giudizio sul lecito o sull' illecito, ma non deriva nulla più di questo. Qualora il governo operi in modo che non entri mai con le sue leggi e disposizioni in niuna collisione coi giudizi e con le leggi della Chiesa, e che protegga i diritti religiosi de' cittadini, la Chiesa ne avrà vantaggio indubitatamente, ma in un modo indiretto. Se all' incontro il governo, oltre di tutto questo si propone di fare di più, eccedendo il suo mandato, nasceranno, almeno in certi tempi e in certe circostanze, molti incomodi sì per lo Stato, e sì per la Chiesa. Primieramente il governo civile non entra in questa via se non con la speranza e con la pretensione d' averne un ricambio corrispondente: vuole che i patti dell' alleanza sieno reciproci; e noi abbiamo veduto come ripugni alla natura della Chiesa il mettersi a disposizione dello Stato, ossia l' operare direttamente al fine di questo. Di poi lo Stato, occupandosi direttamente di un fine diverso dal suo, intorno al quale egli non è giudice competente, perde la sua naturale libertà e s' espone al pericolo di commettere molti errori, come s' è veduto, per parlare di cosa lontana, ne' governi teologizzanti del basso impero. Non è dunque migliore del precedente il sistema che abbiamo chiamato di alleanza, inteso in quella maniera nella quale noi l' abbiamo definito. Rimane il terzo, che abbiamo chiamato il sistema dell' organismo . Basterà esporlo brevemente per intendere, che esso è quello che nasce logicamente dalla natura delle due potestà, utile e decoroso ad entrambe e solo degno d' essere adottato. Questo sistema richiede che non rimangano confuse le materie soggette alle due giurisdizioni, e però esclude il sistema d' immistione: richiede che l' uno e l' altro potere conservi la sua libertà di operare dentro la propria giurisdizione, e però esclude il sistema d' alleanza. In altro non consiste tale sistema se non in questo, che i due poteri riconoscano ed osservino quelle relazioni fra loro, che escono dalla loro natura e non son sopraggiunte dall' artificio o dall' arbitrio, due cose che sogliono così facilmente alterare e guastare il bello e il perfetto ordine della natura. La natura de' due poteri, cioè la natura del potere della Chiesa istituita nel mezzo degli uomini da Gesù Cristo, e la natura del potere dello Stato istituito dagli uomini stessi che si aggregano in società civile, hanno di comune questo, che l' uno e l' altro potere intende ad unire e ad associare gli uomini. Associano gli stessi uomini in due società contemporanee e viventi sul medesimo territorio. Il potere della Chiesa unisce gli uomini in una gran famiglia di cui è capo Iddio, acciocché socialmente uniti, e con vari legami e mezzi interni ed esterni congiunti, tutti d' accordo, e ciascuno da sé, cooperino al bello e alla perfezione morale di ciascuno e di tutti. Il potere dello Stato, unisce questi stessi uomini in un altro modo e per un altro fine, che non impedisce l' altissimo fine della Chiesa: li unisce affinché abbiano tutela e regola i loro diritti reciproci, ed essi coesistano e convivano con sicurezza e pace e prosperità temporale tra loro. Egli è evidente, che questa seconda società con l' ottenere il proprio fine, lungi dall' arrecare nocumento, giova non poco alla prima società, cioè alla Chiesa di Gesù Cristo, che abbisogna di pace e di ordine e che desidera la felice e fraterna convivenza degli uomini. Ma di più è da considerarsi, che l' istituzione di questa seconda società, cioè della società civile, continua naturalmente e compisce l' opera della prima, considerata quest' opera come un' organizzazione dell' umanità. Infatti, la prima associa e organizza l' umanità relativamente alla sua perfezione morale. Ma l' umanità composta di spirito e di corpo, e bisognosa per la esistenza temporanea di mezzi esteriori, sente anche l' impulso d' associarsi e d' organizzarsi, per regolare pacificamente e col maggior vantaggio tutto ciò che riguarda tali mezzi, cioè i beni temporali; e questa è la ragione per cui ella si move ad istituire la società civile. Come dunque l' uomo è un individuo, così l' umanità, cioè l' unione degli uomini, aspira ad avere, propriamente parlando, una sola e individua organizzazione. Ma come l' uomo, benché individuo, è composto di due parti intimamente connesse, l' anima e il corpo, così parimente l' organizzazione dell' umanità risulta di due parti, che per la stessa natura della cosa hanno il più intimo nesso tra loro, e che si dicono la Chiesa e lo Stato, la società ecclesiastica e la civile. Queste società dunque, sebbene distinte e inconfusibili, non formano e non devono formare che una sola e perfetta organizzazione dell' uman genere. Ma l' uomo non poteva formare da se stesso la prima, la formò dunque il Padre del genere umano, Iddio: la formò Gesù Cristo, da lui mandato. La seconda società era tale, che poteva essere congregata dagli uomini, non eccedendo le loro forze: Iddio dunque ne abbandonò ad essi il lavoro. L' organizzazione della prima, cioè della società ecclesiastica, avendo per autore e capo Gesù Cristo, poté essere una e indivisibile per tutta l' umanità: la società civile, avendo per autori gli uomini stessi che si uniscono, ritenendo dell' imperfezione della causa, dovette dividersi in più governi o Stati limitati. E non di meno la Chiesa di Gesù Cristo nella sua magnifica universalità ed unità, onde riceve il nome di Cattolica, unisce nel suo seno e di nuovo organizza e moralmente avvincola i diversi Stati tra loro, formandone la Cristianità. Così, ordinati nell' umanità della Chiesa, anche gli Stati civili acquistano una specie di consacrazione, e partecipano in qualche modo di quella dignità che viene alla Chiesa dalla sua divina origine. Che se taluno sfugge ribelle, almeno per qualche tempo a questa mirabile armonica unione, non è da imputarsi il difetto dell' ideale disegno; ma parte alla malizia degli uomini che ricalcitrano al proprio bene, parte all' ignoranza che non lo intende o non lo abbraccia nella sua pienezza. Tale è indubbiamente la dottrina del Cattolicismo: né i Cattolici possono averne un' altra. Così s' avvera quello che disse San Paolo: « « Non c' è potere che non sia da Dio: ma i poteri che sono da Dio, sono ordinati » » l' ordinazione dei poteri è dunque un criterio dato dall' Apostolo, per riconoscere quali poteri si possono dire esser da Dio. Il sistema della totale separazione dello Stato dalla Chiesa, di cui noi abbiamo veduto l' erroneità e l' impossibilità, fu riprodotto sotto diverse denominazioni, tra le quali sotto una divenuta celebre, di sistema della legge atea . Questa questione nondimeno indica qualche cosa di più, perché esige che il legislatore civile, nel fare le leggi, non solo consideri come non esistente la Religione Cattolica, ma come non esistente in sulla terra né pure una religione qualunque. I fautori di questo sistema, sia che pretendano che il legislatore nella formazione delle leggi civili parta dall' ipotesi che non esista la Religione e la Chiesa Cattolica, sia che parta dall' ipotesi che non esista religione di sorta alcuna, il consigliano fondare le sue leggi sopra un errore di fatto , essendo un errore di fatto che tra gli uomini, pe' quali fanno le leggi, non esista religiosa credenza. Questa sola osservazione potrebbe sembrar sufficiente a dimostrare che il sistema della legge atea è contrario alla logica, alla ragion giuridica e al buon senso. Ed anzi sembra che non si possa trovare un pensiero più strano e più disordinato di questo, che le buone leggi devono essere basate sopra ipotesi, e queste erronee; e che il legislatore, per elevarsi al livello del presente secolo, sia obbligato a supporre che i fatti più luminosi e importanti dell' umanità e della società, uno de' quali è quello della fede religiosa de' popoli, non esistano punto. La cosa è così nuova, che riesce difficile fin anco a spiegare l' origine d' una teoria di questa fatta. E nel vero, per ispiegare come possa essere stata concepita, non basta né pure ricorrere all' ateismo dei suoi inventori. Poiché, se noi ci rivolgessimo a de' filosofi atei, ma del resto ragionevoli, e dimandassimo loro che cosa pensano d' un così fatto precetto che si dà ai legislatori civili, crediamo che ci risponderebbero: « Noi reputiamo che le religioni sieno de' meri pregiudizi, ma poiché esistono ed hanno profonde radici negli uomini, il savio legislatore dee avere ad esse quello stesso riguardo ch' egli ha alle altre condizioni di fatto in cui si trova l' umanità, agli altri istinti, passioni e forze interne, dalle quali gli uomini si lasciano movere e determinare alle loro operazioni ». L' ateismo stesso dunque, puro e solo, non avrebbe potuto inventare il sistema della legge atea. Che cosa dunque ci bisognava di più? Era necessario che all' ateismo si unisse l' odio della religione e degli uomini che la professano. Per quanto possa parere misterioso un tale sentimento, non se ne può negare l' esistenza in alcuni uomini, e solamente questa mostruosa passione è una causa sufficiente a spiegare come sia potuto cadere in mente umana il sistema della legge civile atea. La legge atea fa due cose: 1) Cancellando dai codici e dagli atti del governo ogni vestigio di religione, tende a distruggere tutte le religioni; 2) Venendo di necessità con la religione in frequente collisione, vessa e martoria tutti coloro che la professano. L' odio dunque della religione, che contiene in se stesso quello degli uomini, è lo spirito da cui uscì una tale dottrina. Ora l' odio d' Iddio e degli uomini non è per verità un felice ispiratore de' legislatori: l' odio di Dio e degli uomini non è quello che possa dare al legislatore un' intenzione retta che gli possa far conoscere e volere quel bene che è il naturale scopo della legge: ella è piuttosto una passione rea e truce, che perverte, agita, disordina la mente del legislatore medesimo, e in appresso lo rende subdolo, astuto, iniquo, sedizioso, traditore della società che gli è commessa, e che egli sacrifica alla sua irreligiosa passione. Il legislatore di questa scuola sta di continuo in sul timore che la secreta molla de' suoi atti sia discoperta; s' infinge e la ricopre con tutte le arti della simulazione e della ipocrisia. Egli di frequente ha in bocca questo già troppo vecchio sofisma: « Io non sono incaricato della religione, ma di procacciare con le leggi civili il bene temporale del popolo ». Il più leggero buon senso gli risponde: « Se voi non siete incaricato della religione, siete però obbligato a non recarle offesa: certo voi siete incaricato del bene temporale del popolo, ma a questa condizione, che badando al bene temporale non sacrifichiate ad esso quello che al popolo è ancor più caro, la sua religione ». Cotesti legislatori adunque sono sleali: secondo la loro passione irreligiosa interpretano il mandato ricevuto dal popolo contro l' intenzione del popolo. Sotto la coperta della massima « le leggi civili non sono leggi religiose », vi danno « leggi irreligiose ». Così è del tutto falso che cotesti legislatori prescindano dalla religione: anzi questa sta di continuo presente al loro pensiero: l' hanno presente, ma per distruggerla; e quand' essi vi parlano dello scopo d' un bene temporale puro e separato da ogni religioso elemento, rimangono convinti con ciò stesso, che nel formare in tal modo le leggi, il loro scopo è il progresso dell' empietà. La questione dunque svela così la sua indole: non si tratta più di sapere se la legge civile possa essere neutrale rispetto alla religione, neutralità che non esiste, ma si tratta di sapere se la legge civile deva essere religiosa ovvero irreligiosa, dovendo necessariamente e per natura della cosa aver l' una o l' altra di queste due qualità. Quest' origine del sistema che si dice della legge atea è confermata dalla storia. Le due grandi bandiere che dividono profondamente il genere umano, sono e sono sempre state la religione e l' empietà . Questo è un fatto umanitario che bisogna riconoscere e dargli tutta l' importanza che merita. Come non mancò mai una classe d' uomini cultori di Dio, così si perpetuò in sulla terra anche un' altra classe d' uomini che presero Iddio e le cose divine più o meno in odio, e con un' ira segreta o palese, che ha qualche cosa di portentoso e di oltrenaturale, cercarono con tutta la costanza e a forze unite, ogni qualvolta ebbero l' occasione e la possibilità d' unirsi, di propagare la propria empietà, aspirando a questo infernale intento, come al massimo de' loro desiderii, al più ardente de' loro voti. Quanto più l' umanità svolse di mano in mano le sue varie facoltà e propensioni, e con l' incivilimento divenne più molteplice e più scaltra nell' uso dei mezzi al conseguimento dei suoi fini, tanto più anche gl' inimici delle cose divine manifestarono d' astuzia e di potenza, e con associazioni e con sistemi sofistici tentarono di spingere avanti la malaugurata loro impresa. Di tutti questi sistemi sofistici, forse il più efficace, il più prudente e coperto, fu quello che essi applicarono al raffazzonamento delle società civili che dà materia alla nostra presente questione e fu chiamato la legge atea . Quello che è più singolare, e che dimostra come i sofismi possano allacciare anche delle menti non comuni e delle persone ben intenzionate, si è il fatto che alcune appunto di queste persone colte e sinceramente cattoliche abbracciarono e presero la difesa d' un sistema di tal natura; e a queste nostre parole non pochi forse si risovverranno d' un celebre giornale francese d' alcuni anni fa. L' inganno nasceva e nasce da questo, che tali persone suppongono sempre che la legge civile possa totalmente separarsi dalle cose religiose senza venire in alcuna collisione e contraddizione con le medesime. Ma questa è una supposizione interamente falsa, e che nasce da una imperfetta considerazione della legge civile, delle sue disposizioni e de' suoi oggetti. Non basta partire da una notizia astratta e confusa della legge civile: conviene vedere da vicino come ella è, conviene esaminarne con diligenza la natura. L' illusione infatti si dilegua, tostoché si considera la legge civile nella sua integrità, e fornita di tutti i suoi elementi essenziali. Quando dunque si medita sulla vera e compiuta indole della legge civile, allora si perviene ad una conclusione del tutto contraria alla precedente, la quale è questa. « Niuna legislazione civile può riuscire indifferente alle credenze religiose, ma sempre e necessariamente, in qualunque modo ella si faccia, riesce o amica o nemica alle medesime ». La verità di questa proposizione apparisce manifesta, tanto se si considerano le disposizioni che è obbligata a prendere la legge civile, quanto se si considerano gli oggetti , intorno ai quali ella non può astenersi dal disporre. 1) Infatti supponiamo prima, che la legislazione civile si possa astenere e si astenga dal disporre cosa alcuna riguardante la religione, s' astenga dallo stabilire premii o castighi all' osservanza o all' inosservanza di religiosi doveri: che si restringa ad oggetti puramente temporali, la difesa personale, l' ordine pubblico, la tutela delle proprietà e cose simili. Questa legislazione riuscirà essa per ciò indifferente alle religiose credenze? E` facile accorgersi che né pure una tale legislazione sarà indifferente, ma riuscirà anch' essa necessariamente o amica od ostile alle medesime. Restringiamo il nostro discorso per intanto alla Religione Cattolica. Egli è evidente che gli autori d' una tale legislazione nel compilarla hanno potuto prendere per loro norma due princìpii diversi, cioè o il princìpio « di prescindere dalla Religione Cattolica, come se non esistesse al mondo »; o il princìpio « di restringersi bensì agli oggetti non religiosi, ma di stare avvertiti nello stesso tempo che le disposizioni della legge intorno ad oggetti di natura temporali non vengano in alcuna collisione con la Cattolica Religione ». Ora egli è del pari evidente a chi alcun poco riflette, che nel caso che in compilando la legge avessero preso per loro norma il primo di questi due princìpii, la legge da essi formata sarà una legge ostile alla Religione Cattolica, attese molte collisioni che diverse delle sue disposizioni verrebbero indubbiamente a produrre con la medesima, le quali non si possono evitare se non da que' legislatori che se le propongono espressamente; nel caso poi che i detti legislatori avessero abbracciato per loro norma il secondo princìpio, col quale appunto si propongono d' evitarle, la legge uscita dalle loro mani sarebbe amica alla medesima religione. Tanto l' una quanto l' altra di queste due legislazioni, create secondo le due diverse ipotesi che abbiamo accennato, sarebbero limitate alla sfera di oggetti puramente temporali, escludendo tutti quelli che fossero di natura religiosa. Pure la prima riuscirebbe una legge atea: non così la seconda, perché questa anzi avrebbe un continuo riguardo alla religione, e si sarebbe composta ed ammodata ad essa per non urtar da nessuna parte con le prescrizioni della medesima. Quand' anco dunque si conceda che ci sia una sfera d' oggetti propri della legislazione civile che non hanno natura d' oggetti religiosi, e quindi che ci possa essere una separazione tra oggetti non religiosi e oggetti religiosi, rimane ancora ad esaminare se le disposizioni che dà la legge intorno ad oggetti non religiosi vengano o non vengano a collidersi con la religione medesima. Se tali disposizioni intorno ad oggetti non religiosi non arrecano collisione alcuna con le leggi della religione, in tal caso, come dicevamo, la legge non è indifferente; ma è da collocarsi tra le legislazioni amiche. Se poi ella trae seco qualche reale collisione, in modo che non si possa eseguire ad un tempo la legge civile e quello che la religione prescrive, in tal caso ella è ostile e nemica alla religione epperciò né pure in questo caso è indifferente. Si dirà forse, da chi considera poco addentro la materia, che qualunque sieno le disposizioni che fa la legge civile intorno ad oggetti non religiosi, queste disposizioni non possono venir mai in collisione con la religione. Ma questo è un manifesto inganno. E l' inganno nasce di qui, che non si considera che la Religione Cristiana Cattolica per la sua stessa essenza non si restringe già alle cose interne e spirituali, ma riguarda e prescrive molte cose esterne e corporali: tali, a ragion d' esempio, sono i Sacramenti e il sacrificio: tale la gerarchia de' Pastori e tutto il loro governo disciplinare, del quale almeno una parte è certamente essenziale: ci sono case, luoghi, persone e azioni sacre, e anzi tutte le azioni tanto interne quanto esterne degli uomini sono regolate dalle leggi e dai precetti della Religione Cristiana, e ciò perché questa non è già una religione da burla o di mera cerimonia, come vorrebbero farla credere i suoi nemici, ma è una compiuta legislazione e istituzione di Dio per la perfezione morale dell' uman genere. Per questo fra l' altre cose, Gesù Cristo ha riservato alla sua propria autorità il vincolo che stringe la società domestica, cioè il matrimonio, rendendolo cosa sacra con l' elevarlo alla dignità di Sacramento. A chi negasse queste cose non si potrebbe rispondere altro se non: « Informatevi, si tratta di un semplice fatto che ben potete verificare; la Religione Cristiana esiste; i suoi Pastori la insegnano; fatevi dunque ad ascoltarli ed interrogateli, e tantosto vi persuaderete di tutto ciò ». E` dunque cosa evidente che la legislazione civile, anche in quelle sue disposizioni che riguardano oggetti puramente esterni e materiali e per sé considerati non religiosi, può venire in gravissime collisioni con la Religione Cattolica. E questo conviene che avvenga di necessità ogniqualvolta il legislatore nella formazione delle leggi segue il principio « di non badare affatto a niuna credenza religiosa come se non esistesse ». 2) Noi abbiamo supposto che i legislatori civili si astengano nelle loro leggi da tutti affatto gli oggetti religiosi e si restringano a disporre unicamente intorno a cose di natura loro temporali. Ma è ella possibile una tale supposizione? Si trovò mai o si trova al mondo una legge civile che abbia potuto essere coerente a questo principio? Quelli che lo affermano prendono il più grossolano equivoco. Essi vi dicono: gli oggetti religiosi non sono di competenza del potere civile, e per ciò niuna disposizione della legge civile dee ricordare tali oggetti. Il principio è vero, ma la conseguenza è falsa. E` vero che gli oggetti religiosi non sono di competenza della civile autorità, ma è falso che la civile autorità possa astenersi dal fare delle disposizioni intorno ai medesimi. Solamente che ella o può fare tali disposizioni in armonia con la Religione, o in disarmonia con essa: ecco il bivio dove conviene scegliere. Spieghiamoci, e la cosa riuscirà chiarissima. Che cosa vuol dire: gli oggetti religiosi non sono di competenza della civile autorità? Vuol dire che la civile autorità non può giudicare intorno ad essi, non può fare che sieno diversi da quel che sono, non può cangiarli; deve prenderli come un fatto esistente; riconoscerli come si riconoscono i fatti che si producono indipendentemente dal civile potere: la sola testimonianza di quel corpo che professa una religione, cioè dell' autorità religiosa che in quel corpo si trova, è atta a determinare quale sia questa religione, quali i suoi dogmi, quali i suoi precetti, quali le sue pratiche obbligatorie. A questa testimonianza deve ricorrere il governo per conoscere la Religione di cui si tratta, in tutte le sue parti. Questo vuol dire non essere gli oggetti religiosi di competenza del governo civile: il principio dunque è vero. Ma ne viene forse da ciò che il governo civile possa astenersi dal dare qualunque disposizione intorno a tali oggetti religiosi? Il credere questo è soltanto proprio di quegli uomini superficiali, che, rimanendo nel mondo dell' astrazione, giudicano di quelle cose che appartengono al mondo concreto, e che sembrano persuadersi che sieno sufficienti gli astratti a regolare le cose dei concreti; ben inteso che quando ci mettono le mani essi, sono i primi a cadere nelle più aperte contraddizioni con il loro principio. Infatti il governo civile mancherebbe al fine della sua istituzione, se interdicesse a se stesso la facoltà di fare qualunque legge, e di prendere qualunque disposizione intorno ad oggetti religiosi. Vediamolo brevemente. a ) In primo luogo egli è indubitato, che il fine del governo civile abbraccia tra l' altre cose la tutela di tutti i diritti de' cittadini. Il diritto altro non è che la facoltà di operare quello che è lecito ed utile: quello poi che è obbligatorio è al sommo lecito, è al sommo utile per tutti coloro che hanno una morale e una coscienza. Laonde la libertà di coscienza abbraccia i più preziosi ed i più sacri fra i diritti. A questa classe appartengono i diritti religiosi. Se dunque il governo civile ha indubitatamente per suo fine la tutela di tutti i diritti dei cittadini, molto più de' principali che sono i religiosi. Se dunque egli è obbligato di provvedere alla tutela di questi diritti, conviene che le sue leggi e le sue disposizioni abbiano anche per loro materia degli oggetti religiosi, tali essendo i diritti di cui parliamo (2). b ) In secondo luogo, come certe disposizioni intorno ad oggetti puramente temporali possono venire in collisione con la Religione; così certe pratiche ed atti religiosi che all' esterno si manifestano, possono avere degli effetti temporali intorno ai quali debba disporre il civile potere. Ora quantunque questi effetti, presi da se stessi, appartengano all' ordine temporale, tuttavia essi sono connessi indivisibilmente con la loro causa religiosa, ed esistono quando questa è posta, non esistono se questa non è posta; e la stessa causa religiosa di tali effetti, può esser posta in diversi modi, anche senza che ne soffra la Religione. A ragion d' esempio nasce una pestilenza. A giudizio dei medici l' adunarsi il popolo in chiesa produrrebbe l' effetto di una maggiore mortalità: il governo lo proibisce per tutelare la vita de' cittadini. Il fine è temporale, ma l' oggetto di cui dispone, cioè l' adunanza sacra, è religioso. D' un oggetto religioso può anche abusare la malizia umana a danno del governo: il governo civile viene a conoscere che è ordito un tumulto popolare in occasione d' una sacra pompa; egli ne proibisce l' effettuazione: dispone di un oggetto sacro per un fine temporale. Si può dire ugualmente d' infinite cose. E` dunque impossibile, che il governo civile non prenda delle disposizioni riguardanti oggetti religiosi, per la intima connessione che questi talvolta hanno con altri oggetti temporali, intorno ai quali il governo civile può e deve disporre. Da questo si rende manifesto quanto sia erronea l' asserzione di coloro che affermano, che il governo può prescindere con le sue leggi e con le disposizioni da qualunque oggetto e da qualunque riguardo religioso. Quelli che spacciano una sì strana proposizione, contraria al fatto che tutti i governi restringerebbero il potere governativo entro confini assai più angusti di quelli che gli assegna il diritto: poiché verrebbero a sottrarre alla sua potestà non solo le cose riguardanti la religione, ma anche innumerevoli oggetti ed effetti temporali, co' quali le cose religiose sono intimamente connesse. Eppure (prescindendo da alcuni che non intendono affatto la questione di cui si tratta, e sono ignoranti sotto sopra di buona fede) gli altri che spacciano una tale teoria come un acquisto della moderna civiltà sono lontanissimi dal pensiero di restringere entro troppo brevi confini l' autorità del potere civile, che anzi sono appunto quelli che la dichiarano indipendente da ogni altra autorità. Costoro dunque non sono in buona fede, e quando vi dicono che il legislatore civile può prescindere dalla Religione, e la legge deve essere atea, adducendo per ragione di questo, che il civile governo non ha per suo oggetto la Religione o le cose religiose, essi non intendono già di dire che il governo e la legge civile devano veramente lasciar da parte tutti gli oggetti religiosi; ma intendono che il governo e la legge civile devano disporre di tutto, tanto degli oggetti profani quanto dei religiosi, considerandoli tutti come oggetti egualmente profani, e di conseguenza disporne senz' alcuna riverenza alla religiosità dei medesimi. Ora questo sistema, che è quello che domina in alcuni Stati d' Europa (benché non del tutto, perché del tutto è impossibile), questo sistema, che in altri Stati si vuole al presente introdurre, magnificandolo come un gran progresso di civiltà, è quello appunto che non solo suppone, dicevamo, l' ateismo nell' animo dei suoi autori; ma di più l' odio della Religione, e lo spirito di proselitismo all' empietà: poiché c' è indubitatamente anche un proselitismo di questa sorte. L' ateismo, per vero dire, si può speculativamente concepire sotto la forma di indifferenza religiosa. E quando non ci fosse nell' animo che un ateismo senza odio, rimarrebbe ancora nella mente sufficiente calma per intendere che il governo civile, secondo la sua istituzione e il suo proprio vantaggio, è obbligato a far leggi, e prendere disposizioni tali che non osteggino la religione dei cittadini, è obbligato di più a difendere i loro interessi religiosi. Ma se insieme con l' ateismo domina nel cuore di tali filosofi politici l' odio, come dicevamo, della Religione, questa terribile passione non calcola più né quel che deva fare il governo né quel che sia utile a se stesso o alla nazione, non calcola e non cerca altro, che di ottenere la propria soddisfazione. E la propria soddisfazione giace nella distruzione d' ogni Religione, nella estinzione nel mondo d' ogni sentimento religioso, nel regno sognato dell' ateismo. Secondo l' ardente brama e il cieco giudizio di costoro, questo è l' apice, questo l' ideale del progresso civile. Uomini animati da un sentimento infernale, formolarono questa teoria già da due secoli nel celebre « Tractatus theologico7politicus » (1670), divenuto poi il manuale delle società segrete e degli stessi gabinetti. Essi videro che il più potente istrumento per annientare la religione ed estinguere il sentimento religioso nelle nazioni, era il governo civile. Diedero dunque forma al loro concetto di una teoria politica. Nello stesso tempo che diffusero le massime di cui questa teoria si compone tra i popoli, adulandoli ed eccitandoli a scuotere ogni giogo, s' impossessarono di molti uomini di governo, e, per mezzo di essi, introdussero ne' consigli de' regnanti le stesse dottrine in forma di massime politiche, adulando al pari gl' imperanti, ed eccitandoli ad esercitare il potere più assoluto e più indipendente da ogni religione e da ogni morale. Tale è la teoria che si riassume nella parola premessa a questo articolo: La legge atea . Il sistema, come risulta da ciò che dicevamo, ha due facce, l' una onesta, ed è quella dalla quale si presenta quando coloro che lo insegnano lo espongono così: « Noi rispettiamo la religione e desideriamo che ella fiorisca, ma crediamo che la civiltà dei tempi esiga che il governo civile nelle sue leggi e nelle due disposizioni faccia astrazione da ogni religione, lasciando alle convinzioni particolari di praticare quella che ciascuno scieglie liberamente, o nessuna ». Udendo queste parole accompagnate da tali proteste, alcuni che non esaminano più avanti, sono presti a dire: la cosa è ragionevole: questo sistema non osteggia niuna religione, le lascia tutte libere, e però è il sistema della vera libertà. Ma se invece di questa faccia fraudolenta è la vera e propria faccia del sistema, quella che lo fa conoscere, noi avremo il sistema medesimo tradotto in questa altra forma più esplicita: « Il governo e la legge civile devono disporre di oggetti tanto profani quanto religiosi; ma con il pretesto che egli non è incaricato che di provvedere a un fine profano, deve riguardare come fossero profani anche gli oggetti religiosi, e però non deve prestare alcuna attenzione alle collisioni che le sue leggi e le sue disposizioni incontrassero con le religiose credenze ». Ridotto a questa formola più chiara e più vera della precedente, svanisce dal perfido sistema la lode che gli si attribuisce, di favorire la libertà religiosa, ed è messo pienamente al nudo il suo vero fine, quello di stabilire nella società l' ateismo. Infatti abbiamo veduto: 1) Che le disposizioni delle leggi civili, anche quando riguardano oggetti puramente temporali, possono venire in collisione con la Religione; 2) Che le leggi civili dispongono necessariamente diverse cose intorno ad oggetti religiosi; 3) Che dunque sotto il nome di legge atea non si può intendere né che la legge civile sia priva d' ogni relazione con la Religione, né che la legge civile s' astenga del tutto dal disporre qualche cosa intorno ad oggetti religiosi, perché l' una e l' altra cosa è impossibile. Rimane dunque che il sistema della legge atea non abbia altro significato se non questo che dicevamo, cioè che quantunque la legge civile abbia molta relazione con la Religione, e disponga anche d' oggetti religiosi, tuttavia ella non deve avere riguardo alle collisioni che ella involgesse e producesse con le religiose credenze. Egli è evidente, che i legislatori che fanno tali leggi, se si vogliono supporre coerenti a se stessi, non solo si mostrano atei indifferenti, ma le loro leggi sono un monumento d' odio e di disprezzo di ogni religione, essendo fatte quelle leggi con questo sentimento e secondo la massima, che la religione dei cittadini non meriti il più piccolo riguardo, e non sia cosa degna di alcuna riverenza. Il che suppone certamente l' odio e l' intento di abolire la Religione. Senza quest' astiosa passione la mente tranquilla del legislatore intenderebbe, che le cose che i cittadini hanno più care e preziose, quali sono le religiose, non solo vanno rispettate e non offese, ma anco protette; e che questo è un dovere e un vantaggio ad un tempo del governo. Onde non si può spiegare come un governo civile metta sotto i piedi i propri doveri, e sacrifichi i proprii vantaggi, se non supponendo che la passione irreligiosa l' acciechi e gli tolga il giudizio, oppure che pecorescamente vada dietro agli scaltri maestri della irreligione, che sanno così ben lusingare la vanità filosofica di tutti quelli che sono al potere. Ma è dunque vero che un tale sistema lasci, come si dice, alle convinzioni private il praticare quella religione che a ciascuno più piace, e però che questo sia il sistema della libertà religiosa? Se le disposizioni governative e le leggi non venissero mai in alcuna collisione con le religiose credenze dei cittadini, la cosa potrebbe passare; se poi accade appunto il contrario, ell' è una menzogna. Ora noi lo vedemmo: le leggi e le disposizioni governative non possono evitare tali collisioni, se non a condizione che il legislatore abbia un continuo riguardo, nel formarle, alle stesse credenze religiose, e le rispetti ammondando ad esse le proprie leggi. Il che è appunto proprio quello che non si vuole dagli autori del sistema che discutiamo, i quali prescrivono anzi, che la legge civile proceda così franca e così indipendente, da non badare a qualunque collisione possa insorgere tra lei e la religione dei cittadini. Le collisioni sono dunque inevitabili tra le leggi di tali governi e la Religione. E se queste collisioni devono indubitatamente essere frequenti, come ci può essere libertà religiosa sotto una legge che osteggia e cozza con la religione professata dai cittadini? La libertà religiosa importa tre cose: 1) Che la propria religione rimanga incolume in tutte le sue parti, e da tutti rispettata; 2) Che ognuno possa soddisfare ai propri doveri religiosi e agli spontanei movimenti della sua pietà, senza che per questo motivo venga a patire molestia o vessazione alcuna; 3) Che nessuno possa violare i diritti reciproci che vengono in conseguenza della Religione agli occhi di quelli che la professano. Ora quando la legge civile non si dà alcun pensiero di evitare le collisioni con la Religione, come vogliono i filosofi politici di cui parliamo, essa offenderà indubitatamente la libertà religiosa dei cittadini sotto tutti tre questi aspetti. Poiché, ora distruggerà qualche parte della Religione, ora metterà qualche impedimento al libero esercizio di lei, ora renderà impossibile ai fedeli la conservazione dei proprii diritti reciproci, quali vengono loro assegnati dalla Religione. In tutti questi tre casi c' è tirannia della legge, oppressione, e non libertà religiosa. Tutto questo è contrario all' istituzione ed alla natura del governo civile; per ciò stesso è contrario alla stabilità dei governi. Infatti ricorriamo all' origine giuridica del governo civile. Egli è indubitato che il governo civile nasce da una specie di mandato che una o più persone ricevono dal popolo, cioè dai padri di famiglia, col quale mandato sono investite della potestà civile (3); è indubitato che tale mandato esprime e determina i limiti di questa potestà. Ora i padri di famiglia hanno una religione, e la religione è riguardata da quelli che la professano come la più preziosa e la più importante di tutte le cose che si possedono. E` egli dunque presumibile, che questi padri nel loro mandato impongano alle persone a cui affidano il governo la obbligazione di comporre e promulgare una legislazione atea? Il che viene a dire: E` egli presumibile, o piuttosto è possibile, che quei padri di famiglia, istituendo un governo, dieno ai futuri governanti un mandato espresso sostanzialmente in questo modo: « Noi padri di famiglia vi incarichiamo di farci delle leggi, in modo che sieno tutelati i nostri diritti temporali, e che sorga fra di noi la prosperità di tutti i beni materiali. Per riguardo poi alla nostra religione, la quale c' è più cara della vita, vi dispensiamo intieramente dal proteggerla; ve ne facciamo anzi proibizione, e vi diamo ampia facoltà di far leggi contrarie alla medesima; di distruggerla tutta, o quella parte che voi crederete; di vessarci o di molestarci in conseguenza della legge atea che ci farete ogniqualvolta noi soddisferemo ai nostri doveri religiosi o alla inclinazione della nostra pietà in opposizione alla detta legge; di manomettere i nostri reciproci diritti religiosi, il che vi sarà facile parimente di fare promulgando delle leggi che esse stesse li infrangano, e che proteggano tutti quelli che li vorranno infrangere? ». Sarà dunque questa la voce dei padri di famiglia che istituiscono il governo civile? Questa la volontà del popolo? Questo il mandato che hanno ricevuto i governi esistenti, dal quale mandato essi stessi riconoscono il loro potere, sopratutto quelli che si dànno il vanto d' essere governi popolari? Si può rispondere evidentemente di no. Ci può essere sicuramente qualche ateo tra i padri di famiglia, ma la massa non è mai atea, le nazioni non sono atee: molto meno le nazioni cristiane e civili. Il sistema della legge atea dunque contraddice direttamente al mandato che hanno ricevuto i governi dai popoli; insegna loro a operare in opposizione a questo mandato, e così rompere la fede ai loro mandati, e infrangere (per usare le frasi d' un Sommo Pontefice) (4) il patto sociale, e in una dottrina così insensata ed immorale si fa consistere la civiltà e la luce del secolo. Intanto i governi risicano la propria esistenza, e nella turbazione delle pubbliche cose essi stessi sono reputati sediziosi. Trattando la questione precedente, abbiamo osservato, che il legislatore civile non può astenersi dal prendere alcune disposizioni intorno ad oggetti religiosi: uno di questi è il matrimonio. Di conseguente il legislatore dovrà scegliere tra quei due partiti che soli gli rimangono, come abbiamo dimostrato, cioè o di usare la cautela, dettando queste sue leggi intorno al matrimonio, di non far nascere nessuna collisione tra il disposto dalle sue leggi e la religione, ovvero di non fare alcuna osservazione a ciò che la religione stabilisce, il che conduce per inevitabile conseguenza a stabilire delle leggi che lottano col princìpio religioso e con la religiosa coscienza de' cittadini. Questo secondo è il sistema della legge atea, il primo è il sistema favorevole alla Religione: la legge civile, come abbiamo provato, in qualunque maniera sia dettata, non può riuscire indifferente, conviene per necessità della cosa che sia o pia od empia. Vero è che alcuni signori, di quelli che si dicono del giusto mezzo, hanno proposto come componimento amichevole di fare una legge sul matrimonio che fosse mezzo pia e mezzo empia: le leggi che si volevano introdurre in Piemonte erano appunto di questo tenore, ma il buon senso, non meno che la Religione piemontese, resero vani fin qui gli sforzi di questi incivilizzatori del giusto mezzo. Fra le ragioni che adducevano per difendere l' opera mezzanamente empia del governo, c' era questa, che si negava addirittura che il matrimonio fosse un oggetto religioso. Ma l' argomento era sciancato da due parti. Infatti, se l' oggetto del matrimonio è profano, que' diversi progetti di legge peccavano di grosso, perché lo facevano sacro; e se il matrimonio è sacro, que' progetti di legge peccavano di grosso ancora più, perché lo facevano profano. Il giusto mezzo infatti è uno di que' sistemi che non trovò mai un' argomentazione a suo favore che non possa essere ancora rivolta contro di lui. Del rimanente il decidere che il matrimonio sia un argomento profano sembra una corbelleria fino che non si sa chi decide così, poiché è necessario prima di tutto sapere, come si possa conoscere, se un argomento sia sacro o sia profano. Per arrivare a saperlo, interrogheremo noi quelli che non professano nessuna religione? Sarebbe assurdo, che è ben facile intendere che per coloro che non hanno religione d' alcuna sorte non ci sono oggetti sacri, ma son tutti profani. Interrogheremo noi di quelli che asseriscono di avere una religione, ma una religione che si compongono da se stessi sull' autorità della propria ragione e del proprio senso? Neppure: perché è certamente in arbitrio di costoro di fare e disfare gli oggetti religiosi una o più volte al giorno. Lasciando dunque da parte anche queste religioni individuali (se pur meritano un tal nome) interrogheremo noi le religioni stabili, professate costantemente e immutabilmente da una comunità di persone. Supponiamo che tra queste ce ne fosse una che non annoverasse tra gli oggetti sacri il matrimonio, e ce ne fosse un' altra che lo annoverasse tra gli oggetti sacri. In tal caso, rispetto a tutti quelli che professano la prima di queste religioni, il matrimonio sarà profano; e rispetto a tutti quelli che professano la seconda, il matrimonio sarà un oggetto sacro. Si vede dunque che l' essere sacro o profano un oggetto, è una qualità relativa alle diverse religioni; e che se una data religione riconosce tra gli oggetti sacri che gli sono proprii il matrimonio, questo, relativamente a quella religione, sarà sacro, e niuno lo potrà rendere o dichiarare profano. Non è dunque posto nell' arbitrio né degli uomini di legge, né degli uomini di Stato lo stabilire se un oggetto sia sacro o profano; ma questo giudizio appartiene essenzialmente alla Religione medesima; e se la Religione, cioè l' autorità religiosa, dichiara che un oggetto è sacro, niuno può dire il contrario relativamente a quella Religione. Ora tra gli oggetti sacri della Religione Cristiana Cattolica c' è appunto il matrimonio, il quale non solo da questa, che è l' unica vera Religione, si dichiara sacro, ma di più Sacramento. Onde per tutti quelli che riconoscono questa per la vera religione, il matrimonio è assolutamente e non già relativamente cosa sacra. Ma qui entrano in campo i signori del giusto mezzo con nuovi argomenti. In primo luogo dichiarano, che essi non negano punto al matrimonio la qualità di sacro, ma che esso nello stesso tempo è anche profano: è un oggetto che ha le due qualità di essere sacro e di essere profano ad un tempo. La sottigliezza di cotesti ingegni è maravigliosa. Che cosa significa profano? Apriamo il vocabolario, e troviamo: non sacro. Il matrimonio dunque di costoro è sacro e non sacro nello stesso tempo! Or qui, per evitare questa troppo aperta contraddizione, o piuttosto per velarla, mettono mano alle distinzioni. Noi non diciamo, dicono, che il matrimonio sia sacro e non sacro sotto lo stesso aspetto: è sacro come Sacramento, ma non è sacro come contratto. - Così dicendo, essi si sono dimenticati il criterio che abbiamo poco prima stabilito per conoscere se un oggetto sia sacro o profano. Noi abbiamo detto, che non c' è altra via per saperlo se non quella d' interrogare la Religione, e nel caso nostro la Religione Cattolica. Poiché se la Religione è quella sola che può dire se un dato oggetto sia sacro, ella sola può anche dire, di necessaria conseguenza, sotto quale aspetto quell' oggetto sia sacro. Ora la Religione Cattolica ci dice nello stesso tempo e che il matrimonio è sacro, e che è sacro come contratto, perché il matrimonio non è altro che contratto, ma contratto sacro. Quando dunque i signori del giusto mezzo gravemente ci dicono, che il matrimonio è profano come contratto, ed è sacro come Sacramento, altro non fanno che separare dal contratto matrimoniale la qualità di sacro, mentre la Religione Cattolica gliela unisce. Poiché il Sacramento non è altro che la qualità di sacro, di cui gode, per giudizio della Chiesa Cattolica, e per istituzione di Gesù Cristo, il contratto matrimoniale. Si arrogano adunque con la loro distinzione l' autorità di decidere quale sia l' oggetto sacro e come sia sacro; mentre abbiamo veduto, che nessuno può decidere questa questione se non la Religione stessa, dalla quale viene che un oggetto sia sacro. Caduta questa, eccoci in campo un' altra distinzione, sgraziatamente non meno sofistica della prima. Vi dicono: Accordiamo che nel matrimonio ci sia un contratto sacro, ma aggiungiamo che ce n' è anche uno profano: il matrimonio non è un contratto solo, ma è due contratti; l' uno è ecclesiastico, e l' altro civile. - Sarà ben difficile concepire una simile distinzione: qual più contraria al senso comune? Chi può pensare che un uomo, il quale abbia contratta un' obbligazione mediante un contratto, possa contrarre la stessa obbligazione mediante un altro contratto, di maniera che la stessa identica obbligazione possa esser prodotta da due diverse convenzioni? Poiché il matrimonio alla fine non è che un' obbligazione reciproca, che nasce pel consenso dei contraenti. Ci vorranno dunque due consensi, e non basterà uno solo per fare il matrimonio! Se uno di questi consensi è valido, cioè esso produce l' obbligazione, a che cosa servirà l' altro consenso? E se uno di questi due consensi non è valido, cioè se non produce l' obbligazione, sarà egli un consenso o un contratto? Se dunque è assurdo immaginare due consensi nel matrimonio e due obbligazioni, del pari è assurdo immaginare due contratti. Ma siamo giusti: tra i fautori del così detto matrimonio civile ce ne sono de' meno irragionevoli dei precedenti, i quali abbandonano la pluralità dei contratti per uno stesso matrimonio. De' quali alcuni vi dicono, che non c' è altro contratto del matrimonio fuori del contratto civile, il quale è materia esclusiva della legislazione civile. Altri vi dicono, che l' unico contratto matrimoniale è il naturale, ma questo poi deve essere rivestito delle formalità ecclesiastiche, acciocché sia riconosciuto valido dalla Chiesa, e deve essere rivestito delle formalità civili, acciocché sia riconosciuto valido dallo Stato; di maniera che, secondo questi, ci sarebbe un contratto valido di matrimonio benché la Chiesa e lo Stato nol riconoscessero per tale; e quando si dice contratto valido, si dice certamente contratto obbligatorio, che se non indicasse obbligazione, non sarebbe punto un contratto. Ebbene, per quanto vadano costoro errati nelle loro opinioni, quello che a noi importa dimostrare non è precisamente l' erroneità di queste. Anzi, noi vogliamo stabilire una proposizione indipendente dalla verità o dall' erroneità di tutte le opinioni accennate e d' altre simili; e con ciò vogliamo dimostrare, che questi diversi sistemi, a cui si appigliano gli uomini di legge, non sono punto atti a risolvere la vera questione di cui si tratta. Infatti la questione fondamentale è questa: « Se la legge civile deve essere amica, o deva essere nemica alla religione dei cittadini; se deva essere in accordo con questa religione, o deva mettersi in disaccordo ed in collisione con la medesima ». Ecco l' unica questione veramente importante al presente, da cui conviene che noi partiamo per risolvere l' altra delle leggi civili, intorno al matrimonio. E infatti supponiamo per un po' che il matrimonio non sia altro che un contratto civile, ovvero supponiamo che il matrimonio deva essere rivestito delle formalità civili, e cose simili. A malgrado di queste verità, come di pretende che sieno, rimarrà ugualmente vero anche questo, che, a giudizio della Religione e della Chiesa Cattolica, il contratto matrimoniale è un Sacramento, e che non ci può essere alcun contratto valido di matrimonio, cioè obbligatorio, se non è Sacramento, e se non ha tutto ciò che si richiede per essere Sacramento; e di più, che esistendo questo valido contratto, esso è indissolubile, a malgrado di tutte le leggi e di tutte le autorità cattoliche ed acattoliche della terra. Questa è la dottrina religiosa cattolica, e rimane tale a fronte di tutte le opinioni e di tutte le dispute, per quanto i disputanti pretendano avere la verità dalla loro. Ciò posto, noi dicevamo, che una legislazione civile qualunque intorno al matrimonio non può rimanersi indifferente rispetto ad una tale dottrina religiosa, ma che le conviene di necessità scegliere tra questi due partiti, o di esserle amica o di esserle inimica. Se dunque una legislazione riconosce per validi contratti matrimoniali tutti quelli che sono riconosciuti dalla Chiesa Cattolica e nissun altro in tal caso ella è amica della detta religione; e se fa il contrario, ella è inimica, seguendo in quest' ultimo caso il sistema della legge atea. Sciolta dunque la questione intorno a questo sistema della legge atea, e dimostrato, come abbiam fatto trattando la questione precedente, che la legislazione civile non deve essere ostile alle credenze religiose dei cittadini, è sciolta di conseguente anche l' altra che riguarda il così detto matrimonio civile, e che non è altro che un caso d' applicazione. Veniamo dunque alla conclusione, che sarà necessariamente questa: La questione, se ci possa essere o no un matrimonio civile, è superiore e indipendente da tutte le diverse private opinioni che possono avere i legisti e gli statisti intorno alla natura del matrimonio; e invano essi si perdono in tali dispute, non accorgendosi che la vera soluzione del problema dipende da un princìpio più elevato e più universale, che sfugge alla loro considerazione. Che poi la legge del così detto matrimonio civile sia contraria e ostile alla Religione Cattolica, non sembra necessario dimostrarlo maggiormente dopo quello che abbiamo detto di sopra e quello che ne fu scritto in occasione de' progetti di legge presentati al Parlamento piemontese. Che anzi, se ci fu mai legge che fino dalla sua origine portasse con sé i caratteri storici dello spirito irreligioso e astioso alla Religione Cattolica, essa è indubitatamente quella del matrimonio civile. Basta considerare in qual tempo e da quali mani ella uscì per restarne convinti. Chi non conosce qual era lo spirito dei legislatori francesi del 1791 e susseguenti? Lo spirito d' empietà, sempre subdolo e astuto, procede sino a un certo segno cautamente e gradatamente, ma quando crede d' essere sicuro del fatto suo, svela senza pudore la sua faccia: seguitiamolo ne' suoi passi a quel tempo e in quella nazione in cui egli, rompendo violentemente ogni tradizione co' secoli trascorsi, creò il matrimonio civile. Nella prima Costituzione politica che si diede la Francia nel 1791 fu inserito questo articolo: [...OMISSIS...] - Era appunto il contrario di quello che per 1. secoli aveva insegnato la Religione Cattolica: secondo la sua parola, che è parola di verità, il matrimonio non fu mai e non è un contratto civile. A quella Costituzione tenne dietro ben presto il decreto dello stato civile, che dedusse la prima conseguenza da quel princìpio, conseguenza sì prossima che si annunciò come una spiegazione della Costituzione stessa; e questa conseguenza fu la dissolubilità del matrimonio: [...OMISSIS...] - Ecco di nuovo il contrario di quanto insegna la Religione Cristiana Cattolica, della quale è un dogma che il matrimonio è un vincolo e un contratto indissolubile. L' effetto che immediatamente produssero queste leggi, in aperta contraddizione alla Religione si fu l' indebolimento d' ogni affetto domestico, e si vide in breve tempo triplicato il numero degli infelici bambini abbandonati dagli snaturati loro genitori (2). Tali disposizioni di quel governo civile contrariavano bensì direttamente la Religione, però con quelle forme legali che coprono, in qualche modo, lo spirito d' impietà che vi si racchiude. Ma ben presto questo spirito, tenendosi già sicuro della vittoria, si manifestò apertamente con caratteri più ributtanti dell' immoralità, mediante una serie di decreti e di leggi che sono troppo conosciuti, e provano ad evidenza come l' ateismo, di quelle leggi provenisse non già soltanto da freddi principii di diritto, o da un ateismo del legislatore puramente speculativo, ma da un odio profondo ad ogni religione; e basterà per tutte indicare la legge con la quale i legislatori pretendevano abolire il pregiudizio intorno alle concezioni illegittime, e a tal fine concedevano una ricompensa alle figlie che avrebbero avuto il coraggio di allattare i loro bambini in pubblico (3). Ognuno sa che il matrimonio civile del 1791 facendo continui progressi, nel corso di soli due anni (1793) giunse al tempio della ragione. E uno di que' legislatori del matrimonio civile e dell' abolizione del culto cristiano cattolico in Francia, il Chaumette, con molta semplicità spiegò che era la nova Dea, la ragione, che si voleva unicamente adorare. Riconducendo in trionfo alla Convenzione l' invereconda femmina ch' era stata posta in sull' altare nella chiesa di Nostra Donna, e rendendo conto del novo rito: « Colà », disse il Chaumette, « abbiamo abbandonati idoli inanimati, per seguire la ragione, per seguire quest' imagine animata, capolavoro della natura! ». Tale era la ragione, la dea di quei famosi legislatori. E uno storico del giusto mezzo trova veramente deplorabili queste scene, rappresentate senza raccoglimento e senza bona fede (4). Fu necessario che Massimiliano Robespierre, trascorsi pochi mesi dall' istituzione del culto della ragione, ammonisse questi invidiati legislatori civili, che l' ateismo era aristocratico. Allora si risolsero di distruggere l' opera della loro legislativa sapienza, riabilitando, in virtù della stessa autorità dello Stato, l' Ente Supremo. La legge civile che vuol esser atea, non arriva che ad essere incoerente; così si punisce e confonde da se medesima. E` dunque provato ad evidenza dalla storia, quanto onorati e puri sieno i natali del matrimonio civile, che può senza controversia vantare d' esser legittima prole dell' odio di ogni religione e della morale, di questo odio che nei momenti del suo trionfo rende i civili legislatori, letteralmente, de' mentecatti e de' furiosi. Chi vuol conoscere la natura del seme, esamini l' erba che da lui nasce. Ma le aberrazioni dello spirito umano non hanno lunga durata; il mondo va ogni giorno più aprendo gli occhi, ammaestrato dall' esperienza e dalla riflessione sull' empietà, sulla immoralità profonda, sull' abiezione, sul danno sociale, sulla dissennatezza del matrimonio civile: pur ora l' Olanda, dove era stato introdotto dall' armi francesi, lo scancellò dalle sue leggi, almeno pe' cattolici: la Francia stessa, esperta de' funestissimi effetti di questo nuovo matrimonio di sua invenzione, si va ogni dì più convincendo del suo antico errore: già anche gli scrittori laici di quella nazione apertamente lo impugnano (5), e di questi giorni stessi una numerosa petizione, presentata a quel Senato, ne domanda l' abolizione (6). E il Piemonte? Il buon senso del Senato piemontese ha mandato a vuoto il tentativo dei retrogradi che volevano regalarci questa merce straniera del 1791, e si spera che niun altro tentativo di tal sorta verrà a disonorare e ad affliggere un popolo così sveglio e religioso. Noi ci proponiamo di cercare in che cosa consista la libertà di coscienza. Lo faremo con il separare prima di tutto le interpretazioni false di questo acclamato principio, le interpretazioni mancanti di sincerità. Dimostreremo che mediante queste interpretazioni subdole e sofistiche, la libertà di coscienza è divenuta una coperta e uno strumento d' interessi egoistici e di passioni irreligiose e immorali; il che è quanto un dire, che quello che molti chiamano libertà di coscienza non è tale, ed è anzi il contrario. Rimossa poi questa libertà di coscienza finta e bastarda, facilmente apparirà da sé qual sia il vero significato di questa espressione libertà di coscienza , intesa non meno secondo il diritto, che secondo la logica. E non intendiamo punto parlare di que' legislatori o governi civili, che invocando la libertà di coscienza nelle loro leggi e nei loro atti, non si curano di velare l' insincerità del loro procedere, e di più hanno la vanità di far trasparire ad un tempo e la loro falsità e la loro incredulità, dichiarandosi per la libertà di coscienza. La prima volta che in Francia si promulgò una legge che stabiliva la libertà di coscienza, fu al tempo della Convenzione, e sotto questa legge di libertà fu abolita la religione! E` troppo noto come il procuratore del comune di Parigi, Chaumette, spasimante della libertà di coscienza, prese un bel giorno ad inveire contro la pubblicità del culto cattolico, e sostenne che questo era un odioso privilegio, che si doveva abolire; e infatti quel Comune nel giorno 14 ottobre 1793 decise, sempre appellando alla libertà di coscienza, che i ministri di qualunque religione non potessero più esercitare il loro culto fuori dei templi, instituì ancora nuove cerimonie funebri profane da sostituire alle sacre; e ne' cimiteri, rimossi tutti i simboli religiosi, fece collocare la statua del sonno, con altre disposizioni di simil genere. Di poi alcuni legislatori e governatori di quel tempo andarono in persona a sedurre il miserabile Gobel, vescovo costituzionale, e lo persuasero a rinunziare solennemente all' esercizio del culto; e nella farsa che se ne fece davanti alla Convenzione, il presidente della medesima al discorso del rinunziante rispose con tutta gravità che [...OMISSIS...] . E lo storico del giusto mezzo aggiunge, che rispose accortamente (2). Il qual fatto fu seguito dall' abolizione della religione, e da tutte quelle abbominazioni che rimangono e rimarranno nella storia siccome un indelebile commentario della maniera in cui veniva intesa da quei governatori riformatori la libertà di coscienza. Il principio della libertà di coscienza professato a questo modo non può formare l' oggetto di una seria discussione, e la menzogna della legge e de' legislatori s' affaccia tanto chiara e tanto impudente, che non ha bisogno di essere svelata. In altri non pochi di quelli che vogliono comparire come fautori della libertà di coscienza, c' è un' altra maniera di mancanza di sincerità più imprudente e s' involge in artificiosi sofismi; e questa stessa ha diversi gradi. Prima di descriverla, noi protestiamo di riconoscere che in taluni di tali uomini l' incoerenza di cui danno manifesta prova quando parlano di libertà di coscienza, non è neppure totalmente insincerità; c' è mescolato indubitatamente dell' ignoranza, del pregiudizio, dell' irriflessione. Infine quando noi nominiamo l' insincerità degli uomini, intendiamo non altro che l' insincerità dei sistemi. Crediamo perciò che molti di tali sistemizzatori possano essere utilmente richiamati al vero concetto della libertà di coscienza, e che meritino d' essere invitati a considerare le contraddizioni in cui cadono, forse senz' avvedersene, quando prendono a ridurre all' atto questo principio. Tale è l' intento che noi ci proponiamo nello svolgere la presente questione. Tre di questi fallaci e ingannevoli sistemi intorno alla libertà di coscienza ci si presentano, che noi chiameremo: il sistema legale, il sistema filosofico e il sistema utilitario. Gioverà meglio il far conoscere qual sia il carattere proprio di ciascuno di questi sistemi per mezzo di esempi, non solo perché vedendolo in atto più facilmente se ne raccoglierà l' indole, ma ben anco affinché niuno creda che noi forse gl' inventiamo e non sieno sistemi reali esistenti nella pratica de' governi e nelle teorie de' governanti. Il sistema legale, il più decente nelle forme e il più coperto, sedusse uomini d' altra parte rispettabili. L' esempio che sono per darne ne somministra la prova. Nella seduta del 10 giugno, anno corrente 1.53, nella Camera de' deputati di questo Stato, il ministro di grazia e giustizia, rispondendo all' interpellanza d' un deputato savoino, fece questa dichiarazione: [...OMISSIS...] Niente di più esplicito. Ma rimane a conoscersi l' interpretazione di questo principio ancora indeterminato; e l' interpretazione non si fa aspettare, perché lo stesso ministro ce la dà non meno esplicita in queste parole: [...OMISSIS...] Qui il ministro vuole che nessuno sia costretto, né impedito a fare un atto religioso, ma però ad una condizione, che quest' atto non sia proibito dalle leggi civili. Suppone dunque che la legge civile possa impedire o proibire un atto qualunque che emani dalla fede religiosa de' cittadini: e questa è l' assoluta e piena libertà religiosa di coscienza ch' egli loro promette. Ecco che cosa s' intende nel sistema legale quando si dice d' ammettere pienamente, interamente ed in tutte le sue conseguenze il principio della libertà di coscienza: s' intende quella porzione che non viene loro tolta dalla legge civile. All' opposto, la questione della libertà di coscienza consiste appunto nella ricerca: « Se la legge civile possa proibire o impedire un atto che emani dalla fede religiosa de' cittadini ». Chi suppone che la legge possa far questo, in generale non ammette per fermo la libertà di coscienza, stabilisce bensì l' intolleranza e il dispotismo insieme con la pazza onnipotenza della legge civile. E` anche evidente che una tal legge, se riguarda la vera religione, è assolutamente empia; e se riguarda religioni false, è almeno riguardata come empia da que' cittadini che la professano. Tutta la questione dunque viene stranamente falsata, ed è pur necessario restituirle la sua vera forma, che non può essere altra che questa: Si ricerca « se la religione sia anteriore e superiore alla legge civile, o se la legge civile sia anteriore e superiore alla religione »; ovvero « se le leggi di Dio si debbano conformare alle leggi degli uomini, o viceversa se gli uomini debbano conformare le loro leggi a quelle di Dio »; e di conseguente, quando le due leggi riuscissero contraddittorie, « se le leggi di Dio debbano essere rispettate e ubbidite a preferenza delle leggi degli uomini, o se le leggi civili degli uomini debbano essere rispettate e ubbidite a preferenza delle leggi di Dio ». Per verità, se la libertà di coscienza consiste in questo solo, che « niun cittadino possa mai essere né costretto, né impedito a fare un atto qualunque non proibito dalle leggi, che emani dalla sua fede religiosa », egli è evidente, che non ci può essere niuna legge civile, qualunque sia, che offenda il principio della libertà di coscienza, e che perciò la legge civile è sempre, per sua propria essenza, liberalissima. A valutar bene a solo colpo d' occhio questo sistema legale della libertà di coscienza, gioverà ricorrere ad un esempio estremo, poiché il principio, essendo generale, vale ugualmente pei casi estremi, che pei più moderati. Ricorriamo dunque a Nerone. Quando questo Imperatore (e lo stesso si dica degli altri governi, non pochi di simil tempra, che furono al mondo) proibì sotto pena di morte il Cristianesimo, c' era ancora in quegli Stati un' intera e perfetta libertà di coscienza? Secondo il sistema legale surriferito bisogna rispondere di sì: perché anche allora « niun cittadino era impedito a fare atto qualunque non proibito dalle leggi, che emanasse dalla sua fede religiosa ». E` vero che i cristiani non potevano fare gli atti che emanavano dalla loro fede religiosa; ma questi atti non essendo legali, poiché erano proibiti dalla legge civile, andavano esclusi dalla libertà religiosa, secondo i legisti di cui parliamo: godevano però i cittadini cristiani di quel tempo pienamente e interamente e in tutte le sue conseguenze, della libertà di coscienza, perché niuno di essi poteva essere costretto o impedito a fare un atto qualunque di quegli altri non proibiti dalle leggi che emanassero dalla loro fede religiosa! Che se non avevano altra fede religiosa che quella i cui atti erano proibiti dalle leggi civili, quei magistrati di allora potevano dire come i magistrati d' adesso: « Noi non abbiamo facoltà di ricercare o l' incredulità o lo scetticismo di nessuno ». Egli è dunque evidente, se non vogliamo corbellare la gente, quando parliamo di libertà di coscienza, che con questa questione si tratta unicamente di sapere se le leggi civili debbano essere subordinate al principio della libertà di coscienza, o se la libertà di coscienza debba essere subordinata alle leggi civili. Poiché conviene scegliere, i legisti (già s' intende, non tutti, ma quella specie di cui parliamo) scelgono che il principio della libertà di coscienza sia subordinato alla legge civile, non sofferendo che cosa alcuna sia superiore all' autorità di questa terribile legge. Ma è pur cosa maravigliosa, che chiamino principio quel che è subordinato alla legge civile, e che ci facciano tali leggi che hanno i principii non di sopra, ma di sotto. I legisti di questa sorte sono stati sempre uguali in tutti i secoli e sotto tutte le forme di governo. Gli avvocati d' Enrico V e di Federico Barbarossa partivano dallo stesso principio da cui partono oggidì gli avvocati degli Stati costituzionali e delle repubbliche, che dettano le loro leggi atee; soltanto che allora s' attribuiva alla volontà d' un legislatore individuale quello che ora s' attribuisce alla volontà collettiva d' alcuni legislatori. Questa volontà può sempre tutto indipendentemente da principii: da essa sola emana esclusivamente il diritto, l' obbligazione: [...OMISSIS...] Noi intanto crediamo che basti la più piccola dose di buon senso per intendere, che il collocare la libertà di coscienza in questo, che « niun cittadino possa mai essere né costretto né impedito a fare un atto qualunque che emani dalla sua fede religiosa, con la restrizione che questo atto non sia proibito dalle leggi », non è un dichiararsi a favore della libertà di coscienza, ma è soltanto pronunciare una celia. Escluso il sistema legale, vediamo qual sia il filosofico (già s' intende nel senso abusivo della parola), e cerchiamo se in questo secondo sistema ci abbia più sincerità che nel primo. - In uno Stato ci sono o ci possono essere anche di quelli che non hanno alcuna credenza religiosa, o che non vogliono almeno professarne nessuna. Da questo i filosofi, di cui parliamo, si credettero giustificati a dedurre, che la legge civile, acciocché riesca formata secondo il principio della libertà di coscienza, debba regolarsi in modo che, rimanendo identica per tutti, possa convenire a tutte egualmente le credenze, come pure a tutti i sistemi d' incredulità. Ma come arrivare a questo intento? Essi risposero: con la legge atea, della quale noi ragionammo nella questione precedente. I detti filosofi non si dettero, non si vollero dare la menoma pena di esaminare se sia possibile una legge alla condizione che le imponevano; ma, parlando sempre in astratto, assicurano sulla loro fede i popoli, che una legge, quando è atea, adempie perfettamente alla condizione indicata. Noi abbiamo dimostrato che non diedero in questo gran prova di sagacità, poiché s' avvera appunto il contrario; dimostrammo di più, che una legge di tal sorta è solo favorevole a quella classe di cittadini che non professa credenza alcuna, o che è indifferente a tutte; e allo stesso tempo che offende da molte parti la coscienza di tutte le altre classi de' cittadini che hanno una credenza, e che perciò essa è una legge di privilegio per gli increduli. Noi ripeteremo qui solo una osservazione, e questa si è, che quel definire la questione così in astratto, trasse in inganno anche persone non prive al tutto di fede religiosa, ma inette a cercare il fondo delle questioni. Quando la Francia, facendo ritorno al culto cattolico, abolì quelle leggi che erano state dettate dall' odio della Religione e a nome della libertà di coscienza, si esaminò se doveva essere abolita con esse anche la legge sul divorzio [...OMISSIS...] I giureconsoli che presero parte alle conferenze tenute per la compilazione del Codice di Napoleone, non erano certo più gl' increduli furiosi del 93: pure mantennero il divorzio, ingannati da quell' illusorio princìpio della libertà di coscienza, nel senso che gli avevano assegnato i filosofi della rivoluzione. « Il vero motivo », dissero, « che obbliga le leggi civili ad ammettere il divorzio, è la libertà dei culti. Ci sono dei culti che autorizzano il divorzio; ce ne sono degli altri che lo proibiscono. La legge dunque (ecco le conseguenze che ne cavano) deve permetterlo, affinché quelli la cui credenza l' autorizza, possano farne uso ». Questo argomento, ridotto a forma generale, si può esprimere così: La legge civile per rispettare la libertà di coscienza deve adattarsi a quelli che credono meno. E questa è appunto la massima che conduce all' ateismo totale della legge. Poiché tra tutte le gradazioni di credenza c' è anche quella in cui ogni credenza svanisce, e perciò la legge si dovrà adattare propriamente a quelli che non hanno alcuna credenza, e così dovrà essere essa stessa atea. Se nella gravità di quella discussione intorno al divorzio avesse trovato grazia la logica, questa avrebbe mostrato a que' legisti che la conseguenza che essi deducevano dall' esserci nello Stato dei culti che autorizzavano il divorzio, era assai più estesa della premessa; poiché dall' esserci dei culti che autorizzavano il divorzio si può trarre benissimo la conseguenza, che la legge per la libertà di coscienza permetta a coloro che professano quei culti il divorzio, ma non si può trarre la conseguenza universale, che dunque lo permetta a tutti, anche a coloro che professano dei culti che non autorizzano punto il divorzio e che lo condannano. I legisti ricorreranno qui probabilmente al male inteso e mal applicato princìpio dell' uniformità della legge civile, del quale noi ci proponiamo di trattare a parte in un' altra questione. Qui ci basta di riconvenirli, che non fu dunque il princìpio della libertà di coscienza, com' essi dichiararono solennemente, quello che suggerì loro la legge universale sul divorzio, ma un altro princìpio tutto diverso. E così appunto sogliono fare i legisti: vi dicono di partire, nella formazione delle loro leggi, dal princìpio della libertà di coscienza, e poi, quando voi li riconvenite della falsità del loro asserto, vi scambiano le carte in mano, e vi dicono di essere partiti da un princìpio tutt' altro, come nel caso nostro, dalla pretesa necessità, che le leggi civili sieno uniformi per tutti quelli che professano culti diversi ed opposti. Dicendo ciò cotesti filosofi legali, sembra che non si accorgono della necessità almeno che hanno di accordare un princìpio con l' altro, seppur vogliano persuaderci che essi li seguano entrambi. Uniformità di leggi per tutti i culti diversi e libertà di coscienza sono esse cose conciliabili? Noi abbiamo anzi dimostrato che sono princìpii perfettamente contraddittori. Se le leggi civili, abbiamo detto, potessero astenersi da disporre intorno a tutto ciò che ha qualche relazione anche lontana con le religiose credenze, la cosa sarebbe possibile, e però quelle leggi che non involgono relazione alcuna coi vari culti, possono benissimo essere uguali ed uniformi per tutti i cittadini. Ma poiché ci sono sempre molte altre leggi civili che involgono diverse relazioni con gli oggetti religiosi, perciò il princìpio dell' uniformità delle leggi cade in aperta contraddizione con quello della libertà di coscienza; e in tutto questo genere di leggi non è mai possibile conciliare i due princìpii, ma l' uno o l' altro deve essere abbandonato. E così fecero i legisti della Francia trattando e adottando le leggi sul divorzio. Ma quale dei due princìpii abbandonarono? Furono forse sinceri? ci dissero chiaro e da galantuomini che il princìpio dell' uniformità delle leggi li obbligava a sacrificare quello della libertà di coscienza? Io crederò, per diminuire il loro torto, che prima di mentire a noi, abbiano mentito a se stessi, e che perciò non si sieno accordi della falsità che profferivano. Ma il fatto si è, che l' unico princìpio, di cui fecero pompa nei motivi della legge, fu quello della libertà di coscienza, cioè quello che andavano ad immolare; e dell' altro, cioè della materiale uniformità delle leggi, che era il solo che veramente mantenevano, non fecero una sola parola. Il primo era popolare e riscuoteva facilmente l' applauso; conveniva dunque far passare sotto gli auspizi di questo princìpio una legge che da tante parti lo violava. Tale è la sincerità de' filosofi legali. E che la legge che permette a tutti i cittadini il divorzio osteggi la Religione Cattolica che lo proibisce e offenda la libertà religiosa dei cattolici, è facile di vederlo: Quella legge agli occhi della Religione Cattolica contiene un' eresia, e perciò insulta il dogma cattolico col dichiararlo falso, poiché la legge dice assolutamente e universalmente: « il matrimonio è dissolubile »; il dogma cattolico dice: « non è dissolubile »(5). La legge dunque non era già indifferente alla Religione, ma si fondava sopra un princìpio d' empietà agli occhi della Religione Cattolica. Questo offendeva tutto il corpo dei cittadini cattolici, quando la libertà di coscienza esige che la propria religione rimanga incolume, e da tutti, specialmente dal legislatore, rispettata [...OMISSIS...] ; Due coniugi cattolici divorziati, e passati ad altre nozze col favore della legge, si pentono del fatto che hanno commesso, giusta i princìpii della Religione che professano. Questa religione impone loro, come obbligazione gravissima, di dividersi l' uno dalla supposta moglie, l' altra dal supposto marito. Ma non ci sono cause per ottenere dalla legge un altro divorzio. La legge obbliga la moglie ad abitar col marito, ed obbliga il marito a ricevere presso di sé la moglie «( Cod. del R. d' Italia , 214) ». La legge dunque impedisce a questi cristiani cattolici di adempire alle più gravi obbligazioni che impone loro la fede religiosa che professano, e li obbliga a permanere in uno stato condannato dalla propria coscienza. C' è dunque sincerità in legislatori di questa sorta, quando vi fanno delle leggi che torturano crudelmente la coscienza cattolica, e poi vi danno per motivo di tali leggi la libertà dei culti, la libertà di coscienza? Avranno mentito, a se stessi, lo replichiamo, ma in qualunque modo si spieghi, la menzogna è innegabile; Due cattolici divorziati, poniamo per mutuo consenso, risentendo i giusti rimorsi della propria coscienza, vogliono ricongiungersi. Questo è un loro sacro diritto, è un atto altamente morale. La legge civile vi si oppone (6). Che se si riuniscono, devono farlo in onta della legge, e i loro figli sono considerati illegittimi. I diritti dunque che vengono loro in conseguenza della religione che professano, sono distrutti da quella legge civile del divorzio, ed il loro esercizio aggravato d' incomodi e danni gravissimi. Ora, come noi vedemmo, la libertà di coscienza sincera e non mentitrice, importa che coloro che professano una religiosa credenza possono liberamente esercitare i loro religiosi diritti. Di nuovo adunque hanno pronunziata una manifestissima falsità i legislatori del Codice Napoleonico, dicendo che dal princìpio della libertà dei culti erano stati obbligati a stabilire la legge del divorzio. Tale è la sincerità e la lealtà del sistema filosofico della libertà di coscienza. Gli autori di quel Codice l' avevano ereditato dai così detti filosofi della rivoluzione, e non fa maraviglia che non è la prima volta che i legisti bevano grosso in punto di princìpii (7). Il princìpio della libertà di coscienza non comparisce solo sulla bocca dei legisti e dei filosofi che arrivano al governo; comparisce financo sulla bocca dei politici utilitari. Parrà strano a prima vista, che costoro, che non hanno princìpii fissi di sorta alcuna, professino in certe circostanze il princìpio della libertà di coscienza. Ma il mistero è spiegato, quando si distingua il dire dal fare, e una professione sincera da una professione ingannatrice. Ecco in qual modo si distingue il sistema utilitario dal legale e dal filosofico. Quando gli utilitari sono al potere, essi cercano di guadagnarsi quei partiti ne' quali credono di poter trovare una forza maggiore, senza riguardo all' onestà, alla giustizia, alla moralità, alla religione, che sono cose che non hanno per essi realtà, o se ci danno qualche peso, le considerano sempre come subordinate all' utilità. Ora, egli avviene quello che noi vediamo co' nostri occhi, che il partito più violento si compone di quegli uomini che non hanno religiose credenze, o non ne hanno abbastanza per raffrenare le loro passioni, l' orgoglio sopratutto, e lo spirito di dominazione. Questi arditi brigatori e faccendieri sono temuti oltremodo per la loro attività sempre inquieta e intraprendente. I governi utilitari dunque si mettono dalla loro parte, fanno loro delle concessioni e così la fazione incredula riesce infine facilmente ad essere quella che più di tutti influisce nella formazione delle leggi e negli atti del governo stesso. Non avendo dunque gli utilitari un princìpio proprio, prendono i princìpii da quei partiti a cui s' associano, e il più delle volte ne' tempi nostri s' associano, come dicevamo, al partito irreligioso, che essendo più violento, facilmente è stimato anche il più forte. Nel che va spesso errato il calcolo degli utilitari, calcolo difficilissimo a farsi bene. La libertà di coscienza dunque degli utilitari, o è una promessa che non viene mantenuta, come quella de' due sistemi precedenti, o è una libertà effimera e accidentale, perché è quella, né più né meno, che viene loro imposta dai partiti su cui s' appoggiano. Riassumendo, tre sono dunque le false ed incoerenti interpretazioni del princìpio della libertà di coscienza: 1) Quella de' legali che definiscono la libertà di coscienza, la libertà di fare quegli atti religiosi, che non sono proibiti dalla legge civile; 2) Quella de' così detti filosofi, che definiscono la libertà di coscienza, quella che consiste nell' ateismo della legge; 3) Quella degli utilitari, che non amano definizioni, e che perciò non hanno definizione alcuna, ma consiste in promettere, quando torna conto, libertà di coscienza, e poi governare secondo l' opportunità a seconda di quel partito, qualunque sia, in cui si credono consistere la forza maggiore. Con l' aver noi indicate queste tre principali contraffazioni della libertà di coscienza, noi abbiamo risposto negativamente alla nostra questione. Ma crediamo d' aver fatto con ciò solo buona parte del cammino. Poiché il lettore, rimosse quelle libertà di coscienza illusorie, facilmente può da se stesso arrivare a trovare in qualche modo la libertà vera che andiamo cercando. Pure per approfondire e sviluppare da' suoi diversi lati il vero concetto della libertà di coscienza, dovremmo metterci in altre questioni che con questa della libertà di coscienza si complicano; il che ci proponiamo di fare in appresso. Per ora ci contenteremo di conchiudere indicando i due caratteri principali che deve presentare il vero sistema della libertà di coscienza, i quali sono: 1) Che la legge civile non s' opponga mai né direttamente né indirettamente alla coscienza religiosa dei cittadini; 2) Che la libertà di coscienza conceduta dalla legge civile sia tale e tanta, quale e quanta può essere acciocché la legge non si contraddica. Questi caratteri essenziali riceveranno lume e sviluppo dalla trattazione delle seguenti questioni. Che i cittadini sieno uguali davanti alla legge è princìpio santissimo. Ma noi abbiamo veduto già, rispondendo alle questioni precedenti, quanti equivoci si possano prendere intorno all' intelligenza dei princìpii. La loro universalità, quel ch' è più, e le parole indeterminate con le quali s' esprimono, danno luogo a varie interpretazioni delle quali una sola è vera e l' altra è falsa. Al nostro tempo non mancano i princìpii, ma le società civili sono tuttavia sofferenti e non trovano riposo, perchè i princìpii si sono divulgati senza darsi cura di determinarne esattamente il valore. Laonde, i partiti appassionati ed irreligiosi, approfittandosi sofisticamente della loro indeterminazione, se ne prevalsero per ingannare ugualmente i popoli ed i governi. Quello che resta a fare, e che è desiderabilissimo che si faccia da tutti, si è riprendere in mano i princìpii che già si sono dichiarati, rimovere da essi l' indeterminazione dei significati, fissarne il vero ed unico senso, rendendoli intelligibili alle moltitudini sin qui corbellate. Quando il popolo stesso intenderà il significato legittimo di quei solenni princìpii, che gli si fanno tuttodì risuonare all' orecchio come altrettante parole magiche, finirà il giuoco de' mariuoli, sieno questi governanti o demagoghi, e la società entrerà nella strada d' un vero e veramente umano progresso. « I cittadini sono uguali in faccia alla legge »: che cosa significa? Questo, al solito, non si dice mai. Tutt' al più si traduce quel principio in altre parole egualmente indeterminate, come a dire: « le leggi debbono essere uniformi per tutti i cittadini ». La indeterminazione tanto dell' una quanto dell' altra formola, per poco che si considerino, è manifesta. La prima, dicendo che i cittadini debbono essere eguali in faccia alla legge, non dichiara in che consista quest' eguaglianza, e pure c' è indubitatamente una disuguaglianza anche in faccia alla legge: perché la legge stessa non giudica eguale colui che è innocente e colui che è ladro; ma mette in carcere questo secondo e lascia in libertà il primo: e così essa pronunzia, che questi due cittadini non sono eguali in faccia a lei. La seconda formola dice che le leggi civili debbono essere uniformi per tutti i cittadini; e qui del pari resta indeterminato di quale uniformità si parli. Infatti, se si prendesse la cosa alla lettera, tutti i cittadini dovrebbero essere soggetti a tutte le leggi; e così ne verrebbe l' assurdo, che le leggi civili non potessero essere fatte mai per una singola classe di cittadini, e che riguardassero soltanto a quello che hanno di comune e di uguale tutti affatto i cittadini. Si dirà, a cagion d' esempio, che le leggi fatte per regolare l' agricoltura, sieno uniformi tanto per gli agricoltori quanto per quelli che né lavorano, né posseggono terreni? O che le leggi che regolano l' esercizio della medicina debbano valere anche per quelli che non sono medici, e perciò non sono uniformi per tutti i cittadini, ma riguardano solamente una classe di essi, e tengono conto della disuguaglianza delle altre classi? Essendo tutto questo assurdo, è evidente per lo contrario, che gli indicati princìpii sono nelle loro espressioni indeterminati, e che involgono dell' incertezza nel modo in cui si possono intendere. Or bene, eccovi lo spirito d' irreligione e di sofisma che abusa di questa indeterminazione, e che si prevale di essa per condurre i legislatori e le leggi a favorire l' empietà, e a vessare ingiustamente i cittadini che professano la religione. Invece di fare quel che c' era da fare, cioè spiegare prima di tutto e determinare bene il senso di quelle formole, i filosofi politici, animati da quello spirito, ne deducono francamente la conseguenza che la legge civile non debba aver nessun riguardo a quelle differenze che nascono tra' cittadini dal professare alcuni una religione e alcuni un' altra, e alcuni nessuna religione, argomentando così: Le leggi civili debbono essere uniformi per tutti i cittadini. Ma non potrebbero essere uniformi, se esse tenessero conto delle diverse comunità religiose, e provvedessero a ciascuna di esse in separato, quando volgono relazioni con oggetti religiosi. Dunque le leggi civili, benché involgano relazioni con oggetti religiosi, debbono essere uniformi per tutti i cittadini, qualunque religione professino o non professino. Su questa argomentazione si fondò da' filosofi politici, noi lo vedemmo nelle questioni precedenti, la teoria del matrimonio civile. Dovendoci essere, a giudizio di costoro, delle leggi anche sul matrimonio uniformi per tutti i cittadini, ne venne di conseguenza che la legge dovesse stabilire un matrimonio estraneo ad ogni credenza religiosa; e in tal modo s' ottenesse in Francia (che ebbe però assai pochi imitatori) di stabilire per tutti, anche per la gran massa dei cittadini che non hanno rinunziato alla fede, cioè per la immensa maggioranza, quello che a tutta ragione si può definire: « Il matrimonio privilegiato de' pochi increduli ». La legge civile infatti non riconosce altro matrimonio. Così questa legge uniforme, favorevole esclusivamente agli increduli, e gravosa, ingiuriosa ed ostile a tutti gli uomini religiosi, pei quali il matrimonio è sacro, costituisce un vero privilegio sotto coperta d' uniformità. Que' filosofi dunque e que' legislatori, che credono di avere stabilito un argomento insuperabile nel sillogismo testé riferito, non s' accorgono e non vogliono accorgersi dell' incoerenza, in cui poi cadono, quando nella formazione dell' altre leggi non seguono più quel principio d' uniformità, inteso in un modo così assurdo. Poiché, riducendo, la questione alla sua generalità, noi domandiamo loro: si devono o non si devono osservare dal legislatore nella formazione delle leggi le differenze che dividono i cittadini in classi distinte? Se rispondono di sì, perché dunque pretendono che le leggi non abbiano riguardo alle differenze religiose, che pur dividono anche esse in differenti classi i cittadini? Se rispondono di no, perché dunque nella formazione di moltissime leggi hanno essi continuamente riguardo alle differenze che distinguono appunto i cittadini in diverse classi? E, per vero dire, sono assai poche quelle leggi che riguardano tutti egualmente i cittadini. Queste si riducono unicamente a quelle che non hanno altro oggetto se non l' uomo o il cittadino, senz' altra considerazione. Ma tutte l' altre leggi regolano e dispongono di condizioni speciali de' cittadini, e però riguardano esclusivamente certi gruppi di essi, gruppi o classi formate da certe loro differenze, a ciascuna delle quali ha minuto riguardo la legge. La legge civile, a ragion d' esempio, considera la differenza dell' età; quindi attribuisce diritti ed obblighi diversi alle diverse età; attribuisce ai minori d' età obblighi e diritti diversi che ai maggiori; punisce meno severamente quelli che non hanno passato un certo numero di anni di quelli che l' hanno passato; classifica dunque i cittadini secondo la differenza dell' età, e non pretende che le stesse leggi valgano per tutti ugualmente. La legge civile considera la differenza di sesso, e molte leggi ci sono che, fatte per l' uno dei due sessi, non possono valere per l' altro. Attribuisce ai maschi doveri e diritti civili e politici, che non attribuisce alle femmine. La legge civile considera la differenza delle professioni e delle arti; e ciascuna classe de' cittadini risultante da queste differenze è regolata da leggi sue proprie. La legge civile considera la differenza del sapere; fa leggi pei professori, per gli scolari, per le accademie degli scienziati. La legge civile considera la differenza dell' avere i cittadini impiego o no dallo Stato, e tra gli impiegati distingue i civili dai militari; ciascun dicastero ha i suoi propri regolamenti e le sue leggi. La legge civile considera la differenza delle fortune, quella della nobiltà di stirpe o personale, e innumerevoli altre differenze, che sarebbe lungo d' annoverare. Se dunque la legge civile è obbligata a considerare per la necessità stessa del suo fine, tutte le altre differenze dei cittadini, perché non sarà obbligata a considerare la differenza della religione? Perché questa sola differenza sarà disprezzata e negletta dalla legge civile, e riguardo a questa sola si metterà avanti il principio che la legge civile deve essere uniforme per tutti i cittadini, e non limitata ad una sola classe di essi? Perché solo in questo caso si teme che, se la legge civile si limita ad una classe, ella costituisce un privilegio? Quasiché la massima parte delle leggi civili non fossero necessariamente fatte per classi distinte, o quasiché fosse un privilegio il dare a tutti il suo, e non fosse anzi privilegio la legge universale, quando riesca utile a pochi e dannosa ed offensiva a molti? Come se dovendosi decretare l' uniforme per un esercito si pretendesse che la misura dell' abito si dovesse desumere dalla statura minima assegnata al soldato, e ciò per non creare un privilegio a favore de' soldati di statura più alta. Certamente ci sarebbe in tal caso l' uniformità materiale della legge, e lo Stato non somministrerebbe più braccia di panno all' un soldato che all' altro; ma la legge non si rimarrebbe d' essere stoltissima, e costituirebbe veramente un ridicolo privilegio a favore dei soldati più piccoli. In un modo somigliante, se quelle leggi che involgono relazioni con le credenze religiose e con i doveri e diritti che procedono dalle medesime, si vogliono fare materialmente uniformi, e per ciò stesso riguardare come non esistenti le differenze religiose, si avranno leggi d' uguale stoltezza, ingiuriose ed offensive a tutti i credenti, e favorevoli ed utili a quei pochi che avessero totalmente rinunziato ad ogni fede religiosa, e che sarebbero i privilegiati. Forse si risponderà che il legislatore non considera la differenza della religione, perché egli non vuol perscrutare i pensieri e le opinioni degli uomini: che le differenze religiose non sono differenze esterne; e che le altre differenze a cui la legge ha riguardo, essendo esterne, sono tali che distinguono gli uomini secondo la vita sociale. Certamente non mancherà e non è mancato chi risponda a questa maniera. Ma si può egli credere che una tale risposta sia di buona fede? Quando sia così, ella ci rivela la più crassa ignoranza di ciò che costituisce una religione. E infatti le religioni non sono soltanto opinioni interne, benché le interne e invisibili credenze ne sieno il fondamento: come anche in ogni altr' ordine di cose le interne opinioni e i sentimenti invisibili dell' animo sono il fondamento delle operazioni umane. Che cosa è dunque la Religione? La Religione è una credenza che produce un' esterna e visibile società; in ispecie la Religione Cattolica, l' unica vera e compiuta, è la grande società fondata da Gesù Cristo, la quale, oltre la fede, ha una organizzazione visibile, de' magistrati visibili, distribuiti in una certa gerarchia, e composta da un sorprendente numero di soci, sparsi sopra tutta la terra, che tutti si riconoscono come appartenenti al medesimo corpo sociale, aventi le stesse obbligazioni, gli stessi diritti, un culto esterno comune, un codice di leggi disciplinari, dei tribunali e dei giudizi. Tale è la Religione Cattolica. Incominciando dal simbolo, che è il segno esterno della fede, e che tutti sono obbligati di professare esternamente in faccia a tutti i governi civili, e anche a tutti i tiranni del mondo, sigillandolo con il proprio sangue, se l' empietà delle leggi civili a ciò li riduca: tanti altri sono i segni esteriori e visibili, tante le differenze profonde che separano questi credenti da tutti gli altri uomini, che presi insieme, tutti questi segni formano la maggiore e più complessa delle differenze esterne che possono mai separare una classe d' uomini da un' altra, una classe di cittadini da un' altra, né v' ha cosa che possa distinguere i cittadini tra loro, in tutta la loro vita e in tutte le loro abitudini, e in tutto il modo di operare, anche riguardante le cose umane, quanto questa credenza religiosa, da tutti quelli che la professano. Perché dunque il legislatore civile, che fa le leggi speciali per tante altre società di commercio e d' industria, società di lettere e di scienze, società di beneficenza e di carità, chiuderà poi gli occhi in faccia a questa sola, la più grande e la più importante di tutte, anche per gli interessi temporali, e dirà: Io non la vedo? Perché o affetterà d' ignorare o pretenderà d' essere obbligato a lasciar da parte una differenza così visibile, che è come città fabbricata sul monte, così luminosa, che è come il sole che illumina il mondo, una differenza che risulta da tanti doveri e diritti, costumi e azioni? Perché sarà così schifiltoso da adattare le sue leggi a questa immensa classe de' cittadini per non offenderla e danneggiarla con le sue leggi ne' più cari interessi di lei, e qui solo tutt' ad un tratto gli nascerà scrupolo di non forse creare a suo favore un privilegio, quand' egli pure adatta senza alcuno scrupolo, l' altre leggi all' altre classi e società, e tien conto, secondo il dovere, delle diverse condizioni in cui i cittadini si trovano, e delle varie loro differenze? Se la legge civile è istituita all' utilità de' cittadini, e non a soddisfare a chimeriche e incoerenti teorie, ella è obbligata certamente a rispettare tutti gli interessi religiosi dei cittadini medesimi; e quindi a considerarli, per non mettersi a cimento co' suoi ordinamenti di pregiudicarli. Non ha dunque il legislatore che due sole vie d' esser coerente a sé medesimo, o di proibire e condannare la Cattolica Religione (e lo stesso dicasi d' un' altra qualunque) o, ammettendole, di conformare ad essa le sue proprie leggi. Nel primo caso, non si parli dunque di libertà di coscienza; nel secondo caso soltanto questa libertà è salvata. La ragione dunque, che importa di necessità la coerenza, non si trova punto dalla parte de' legislatori di cui parliamo, e di cui è infetta l' Europa. Non è in un qualche ragionamento che si possa trovare il fondamento del loro sistema, ma nelle loro disposizioni d' animo e ne' loro istinti. Alcuni di essi non si persuadono che la Religione sia qualcosa di serio. Essendo essi indifferenti, o credenti freddi e trascurati, si persuadono che anche tutti gli altri cittadini non ne facciano gran conto, e sieno disposti facilmente a transigere, quando la legge civile viene a cancellare, se non direttamente, almeno le conseguenze, qualche linea del Codice religioso. Quindi, con tanto più piacere inseriscono nelle loro leggi qualche elemento d' empietà, inquantoché sembra loro con ciò di fare una bravata, e d' ostentare nello stesso tempo la potenza e l' autorità dello Stato, mettendola al di sopra delle cose divine ed umane. Schiavi del rispetto umano (segno di una gran debolezza di carattere morale), si mettono così al sicuro di non apparir troppo religiosi e un tantino increduli. E` questo un gusto delicatissimo alla loro vanità! Fatti uomini leggeri da questa loro tutta individuale disposizione (quando altramente potrebbero essere uomini serii), applauditi dagli increduli o settari di professione, a cui s' accordano tutti quelli che vogliono ficcarsi negli impieghi e procacciarsi onori governativi, con merito e senza merito, si trovano infine aver perduto totalmente di vista lo scopo vero della legge, la giusta e ragionevole soddisfazione di tutti i cittadini, per cui dovrebbe esser fatta. Costoro straziano i popoli e guastano le nazioni. Contro l' aspettazione poi, incontrano fermo ostacolo nelle coscienze, onde o sono rovesciati da' loro gradi, o, essendo scaltri e proteiformi, cedono senza convertirsi. Del resto, a coloro che s' immaginano poter le leggi civili indirettamente modificare la Religione Cattolica e abituare i cittadini cattolici a far senza di qualche suo articolo, come si tentò con il progetto di legge sul matrimonio civile, io direi: Disingannatevi; imparate a conoscere che cosa sia questa Religione: ella è un tutto solo, e questo è più duro del diamante: voi potrete con le vostre ugne graffiarlo quanto volete, ma non potrete farne saltare la più piccola scheggia, né manco un atomo. Infatti la Religione, per la sua propria essenza, o è tutto o è nulla: i cattolici lo sentono, e il volere che essi vi cedano un briciolo della loro religione, è impresa così pazza, come pretendere che ve la cedano tutta. E sta qui appunto un altro pregiudizio di certi civili legislatori: sono contrariissimi (a udire le loro proteste) a voler distruggere la Religione, ma si contentano che essa si adatti in qualche piccola cosa alle leggi civili dello Stato, e ciò per il pubblico bene. All' incontro la Religione Cattolica è di natura sua così inflessibile, sapete voi perché? perché è divina. Sembrando loro impossibile che la cosa sia così da vero, scherniscono come fanatici coloro che non si adattano alle loro voglie discrete. Ma tant' è: o conviene abolire il Cattolicismo con la legge civile, o conviene che questa legge s' inchini a lui riverente, lo rispetti in tutte le sue parti; se no, la legge cozzerà e si spezzerà contro lo scoglio: quelli che lo professano, il Cattolicismo, sanno d' essere in questo superiori alla legge civile, e superiori a tutta la forza da cui è circondata: poiché questa Religione è essenzialmente libera anche sotto il ferro, ed ella sola dà al suo seguace la vera indipendenza e il coraggio dell' uomo libero. Uno dei più grossolani equivoci è certamente quello che prende il volgo delle rivoluzioni, quando gli si fa risuonare agli orecchi la parola libertà . Per lui la libertà è la facoltà illimitata di fare tutto ciò che gli attalenta, di soddisfare agli impulsi delle sue passioni senza ostacolo d' alcuna autorità, di non essere obbligato ad alcun ordine nel suo operare. E` consentaneo che coloro i quali in un dato stato vogliono distruggere l' ordine stabilito, s' approfittino di questa viziosa disposizione d' una gran parte della plebe, e facciano risuonare a' suoi orecchi questa parola vaga di libertà, senza darsi alcuna sollecitudine di determinarla; anzi tenendola sempre a bella posta sull' indeterminato. Se ella venisse determinata ad un senso razionale, sarebbe finito l' incanto, e la magica verga si spezzerebbe nelle mani dei prestigiatori. Per questo è impossibile ragionare co' rivoluzionari di professione, e sperare di indurli a distinguere la libertà dalla licenza, considerando essi come mezzo opportuno al loro intento la confusione stessa de' concetti. Tutto questo non ci può sorprendere. Ma c' è una cosa che deve cagionare giustamente maraviglia, ed è, che non tutti quelli che prendono la licenza per la libertà , rivolgono per questo nell' animo di rovesciare i governi stabiliti: meraviglia ancor maggiore dee produre, che ce ne sieno degli altri che con quella confusione tanto volgare e tanto immorale credano di stabilirli; e sopratutto che anche non pochi di questi stessi che presiedono a' governi, almeno nella pratica, si mostrino di un tale avviso. Una persuasione così fatta genera una politica abbietta e dispregevole; si crede guadagnare al governo l' affetto del popolo abbandonandolo alla licenza e promovendola con mille modi indiretti sotto il magnifico nome di libertà; ma i governi immorali non solo si discreditano nell' opinione de' savi, ma il popolo stesso più si corrompe, e dispregia quel governo che gli fornisce i mezzi di corrompersi. Che se si cerca il fondo di questo sistema politico della licenza, si riconoscerà che i governi licenziosi, lungi dal mirare co' loro atti a stabilire la libertà, mirano veramente ad edificare il dispotismo: partono da una segreta persuasione che sia più facile dominare un popolo corrotto e sfibrato, a cui in pari tempo sia dato ad intendere che è libero, perché è libero il vizio di spaziare impunito, in parte anche onorato. Questa perfidia s' è più volte praticata tanto da' governi assoluti, quanto da' governi costituzionali e dalle Repubbliche, ché la forma del governo non impedisce punto che i governanti e i governi possano andar privi d' ogni moralità. Solamente che i primi non possono coprire la licenza sotto il mantello della libertà: è un previlegio de' secondi l' abusare ipocritamente di questa parola per trasformare il vizio in diritto pubblico. D' altra parte a questa maniera d' operare de' governi licenziosi, che per abuso di parole si dicono liberi, si rattaccano molte questioni: questioni di morale, questioni di diritto, questioni di religione e di politica. Che cosa è la licenza? - Ecco già una questione grave di morale, e può essere anco di religione, su cui si può disputare e si può non intendersi. Ha il governo civile il diritto di reprimere la licenza? o una qualche parte almeno di ciò che costituisce la licenza? - Ecco un' altra questione di diritto, che divide parimenti le opinioni. Può il governo reprimere la licenza, ogni licenza, senza mettere a rischio o la tranquillità o la sicurezza dello Stato? - Ecco una terza questione di politica, o di prudenza governativa, la cui soluzione varia indefinitamente secondo le indefinite circostanze in cui si trova la società civile. Ma qualunque sia la maniera di risolvere queste diverse questioni, conviene prima di tutto convenire in questo, che la licenza e la libertà sono cose diverse e che non conviene attribuire all' una il nome dell' altra, non conviene credere, o mostrare di credere, di far progredire la libertà quando si fa progredire la licenza. Ora la confusione delle idee nel mondo è pervenuta a tal segno, che su questo stesso è difficile ad intendersi « se esista della licenza », se differisca d' essenza dalla libertà, e l' una sia l' opposto dell' altra. Infatti, come possono concedere che si abbia una licenza opposta essenzialmente alla libertà, coloro che non riconoscono l' essenza della morale e tutto riducono ad un calcolo d' utilità? Egli è evidente, che agli occhi di costoro la licenza non può differire dalla libertà, se non per essere in certe circostanze inopportuna e disutile: non ci vedono costoro nessun male intrinseco ed assoluto: tutti credono dover valutare dagli effetti che la licenza produce. E da quali effetti? Non certamente da effetti moralmente buoni, o moralmente cattivi, ché la questione si volgerebbe in circolo, ma dagli effetti piacevoli o dolorosi, da vantaggi o svantaggi temporali, i quali si possono avere nella vita presente, da effetti utili e disutili alla potenza del governo e all' economia pubblica. Egli è dunque evidente che per tutti quegli uomini che non riconoscono la Morale, e non vedono altro che l' utilità e la disutilità nelle azioni umane, non ci può essere azione alcuna che non sia essenzialmente licenziosa e assolutamente malvagia. Epperò, se costoro hanno in mano le redini de' governi, non possono avere scrupolo a promulgare leggi licenziose e a pretendere disposizioni immorali, quando ci trovino il tornaconto, o credano secondo il loro calcolo di trovarcelo: né si può entrare con cotestoro in discussione su ciò, perché disconoscono la prima e fondamentale distinzione del bene e del male, sulla quale s' appoggia la dignità e la nobiltà del vivere umano e la sua viltà e ignobilità. Il nostro discorso adunque non può indirizzarsi a questi. Altro non possiamo dir loro, se non: ritornate ad essere uomini: se il vostro imbrutimento nasce da errore d' intelletto, istruitevi e vi sarà facile convincervi, che esiste una morale che non è l' utilità, e che quella è d' un valore assoluto, a cui niun vantaggio temporale è comparabile. Se poi, rinunziando alla morale, avete rinunziato anche alla ragione, e negate l' autorità morale unicamente perché non la volete, non ho alcun rimedio a suggerirvi; il libero arbitrio appartiene a voi, non a me; ma a chi ve l' ha dato appartiene il dimandarvene conto. Vi fo soltanto riflettere, che, se voi negate l' esistenza della legge morale e di una conseguente obbligazione morale, abdicate tutti i suoi diritti. Poiché come potete imporre altrui la obbligazione di rispettarli, quando negate ogni obbligazione? Dovete dunque convenire che voi non avete più diritti, perché non esiste più la natura del diritto, quando non ci sia di contro l' obbligazione morale che lo protegga; né voi potrete più lamentarvi, che gli altri uomini seguendo la vostra dottrina si levino la vita, l' onore, la roba, ecc., ogni qual volta il calcolo dell' utilità (ché nessun altro può fare per essi) li consiglia di operare in questa maniera. Vi resterà la forza: ma n' avreste sempre abbastanza per difendervi? Questo è quello che è dubbioso, specialmente se la dottrina che voi professate sia abbracciata da chi è più forte di voi. Lasciati adunque da parte costoro, noi vogliamo ragionare, come abbiamo cominciato, con uomini onesti, di buona fede, che non solo riconoscono l' esistenza d' una morale, ma l' apprezzano al di sopra di tutte le cose. Esistendo agli occhi di questi l' autorità, superiore ad ogni autorità, della legge morale, esiste per essi l' obbligazione e il diritto, la virtù e il vizio, la libertà e la licenza. Con costoro si può dunque proporre e discutere la questione: « che cosa è la libertà, che cosa è la licenza? ». La libertà, per contrapposto alla licenza, non può essere che il libero esercizio di tutte le facoltà umane regolato dalla legge morale. La licenza all' opposto è bensì in qualche modo un esercizio delle facoltà umane, ma non regolato dalla legge morale, anzi a questa opposto. Tutto quello adunque che è vizioso nell' umana attività, è licenza e non libertà: tutto quello che è lecito e virtuoso, appartiene alla libertà. Questi princìpii non possono esser addotti in controversia da quelli che ammettono l' ordine morale, né sono mai stati dubbiosi pel senso comune. Se dunque noi vogliamo partire da questi semplici princìpii, ci riuscirà facile rilevare quale sia la natura dei governi liberali, e quale la natura de' governi licenziosi che fanno uso riprovevole del nome di libertà per venirci. Poiché que' governi, che con le leggi e con le loro disposizioni lasciano i cittadini liberi ad operare quanto naturalmente è lecito e buono, questi, qualunque sia la loro forma, o monarchia, o aristocratica, o democratica, o mista, sono a tutta ragione governi liberali, e quanto più li lasciano liberi a ciò e meno dànno loro impacci di leggi e di decreti, tanto più sono liberali. Que' governi all' incontro, di nuovo qualunque sia la loro forma, che nella formazione delle loro leggi, e in tutti i loro atti seguitano la massima, che c' è tanto più di libertà in un popolo, quanto maggiore gli si lascia facoltà, e maggiore gli si dà occasione di ubbidire alle passioni e di sfogarsi ne' vizi: que' governi, di conseguenza, che con le dette leggi ed atti stabiliscono quasi un diritto universale l' essere impunemente licenzioso (il che provoca la pubblica licenza), questi, liberali falsamente si chiamano, ma sono veramente licenziosi. Egli è pur singolare a vedere che nell' animo di molti s' è confitta questa assurda opinione, che ci possa essere un diritto del vizio. Il vizio non può essere oggetto d' alcun diritto, assolutamente parlando, perché il diritto è cosa morale, non un semplice fatto: il diritto è una facoltà di operare protetta dalla legge morale, il vizio all' incontro è ciò che la legge morale condanna. Ma qui nasce un dubbio, che è quello che complica la questione e la rende difficile; poiché gli uomini viziosi difendono la loro libertà di peccare impunemente in due modi. Alcuni con la fronte alta vi dicono: noi siamo in diritto di fare quello che vogliamo. Alcuni altri, più cauti, dicono: l' operare viziosamente non può costituire un diritto, lo accordiamo, ma neghiamo che il governo civile abbia alla sua volta il diritto d' impedire l' operar vizioso e immorale; e però reclamano questa pretesa libertà. Questa è la seconda questione che ci proponevamo. Ai primi adunque crediamo superfluo rispondere, poiché quando dicono: noi abbiamo il diritto di operare tanto il bene quanto il male, scambiano manifestamente il diritto col fatto: che abbiano la libertà naturale d' eleggere il bene o il male non è che un fatto; non è e non può essere per modo alcuno un diritto: converrebbe confondere tutte le nozioni per dire il contrario. Se si ammette che l' operare il male sia proibito dalla legge morale; con ciò stesso si riconosce che non può essere. O dunque non ammettono l' esistenza della legge morale, e in tal caso non esiste più diritto alcuno, come dicevamo, ma dei puri fatti; o ammettono l' esistenza d' una tale legge, e in tal caso il diritto non può essere che una facoltà d' operare protetta dalla medesima, e però una facoltà d' operare il lecito. La potenza dunque che ha l' uomo di scegliere il bene ed il male, è un fatto naturale, che contiene un diritto, ma che non è tutta diritto nel suo esercizio; poiché operare il bene essendo approvato dalla legge morale, acquista con ciò la dignità di diritto; ma operare il male non ha in sé alcuna dignità morale, e però non può costituire diritto alcuno. Rispondiamo adunque ai secondi, a quelli che concedono a noi, che non si può dare un diritto assoluto del male, ma tuttavia vogliono stabilire un diritto relativo del male, cioè un diritto di non essere molestati dal governo a cagione del loro operare vizioso: onde in questo senso chiamano l' impunità del vizio, diritto di libertà civile. Interviene in questa questione un singolare equivoco. Volete voi dire, noi dimanderemo a costoro, che il vizio non possa essere represso dall' autorità de' governi civili, purché esso abbia qualche cosa di rispettabile, per un titolo insomma inerente al vizio stesso? Ovvero, volete dire che l' autorità del governo ha i suoi limiti, determinati dal fine della sua istituzione, e che la sua autorità a cagione di questi limiti non può arrivare fino alla repressione del vizio? La prima di queste due cose è così apertamente stravagante, che non fa bisogno di parlarne; convien dunque che vi appigliate alla seconda. Ora che cosa prova la seconda? Che cosa prova e che cosa viene a dire la proposizione, che il governo civile ha un' autorità ristretta entro certi limiti determinati dal suo fine? Null' altro, se non che il governo civile non avrà forse autorità di stabilire pene per tutti gli atti viziosi, potendovene essere di quelli che al fine della società civile non s' oppongono, almeno direttamente, ovvero che non si possono sopprimere senza cagionare un male maggiore. Ma poiché ci sono indubitatamente anche quegli atti viziosi ed immorali, i quali nuociono gravemente alla società civile ed al suo fine; per ciò appunto è da dire, che il governo civile abbia l' autorità e il diritto di reprimerli e di punirli. La questione in tale modo cangia di natura, e non si tratta più di sapere « se il governo possa e deva reprimere ciò che è vizioso, senza offendere la libertà »; ma si tratta di determinare entro quali limiti questo diritto del governo civile sia naturalmente ristretto, ristretto dico, non già da un sognato diritto di libertà che possa avere l' uomo a peccare impunemente, ma dallo stesso fine del governo, che ne determina le incombenze e i poteri. Ora questa è la seconda questione che noi accennavamo intorno al diritto e al dovere de' governi civili, di reprimere la licenza: tentiamone la soluzione. Ma prima qual è, ci si dice, la soluzione della questione nel sistema utilitario? parlo di quella che logicamente deriva da questo sistema. Sarà forse favorevole alla licenza? Può essere, ma certo è contraria alla libertà. Non esistendo più né morale né giustizia, per l' utilitario (poiché di tutte queste cose tien luogo la sola utilità) consegue che anche il governo civile, non possa prendere a sua direzione altra norma o regola, che la sola utilità. L' utilità checché si dica, è sempre ed essenzialmente personale, poiché colui che preferisce l' utilità altrui alla propria, non seguirebbe la norma della utilità, ma della virtù. Onde gli utilitari al governo devono di necessità considerare l' utilità propria come fine, l' altrui come mezzo, che è il carattere del dispotismo. Ma supponiamo che gli uomini del governo per una felice incoerenza si propongano a fine l' utilità pubblica; anche in questo caso ne verrà che il sistema penale, come ogn' altra disposizione governatica, sarà regolato unicamente secondo il calcolo dell' utilità. Quando la sia così, alla legge o ai giudici sarà facoltativo di sottoporre a pene anche degli innocenti, se parrà che questo sia utile. Così infatti presso certe nazioni utilitarie si puniva di morte il generale che perdesse una battaglia, benché senza la menoma sua colpa. Le vite dunque e le sostanze de' cittadini, ammessa una tale dottrina, sono subordinate a' calcoli utilitari, più o meno approssimativi degli uomini che governano. Ora da una parte quest' è il più orribile e barbaro dispotismo, dall' altra è la più obrobriosa servitù e il più profondo avvilimento della dignità umana. Per compenso questo governo tirannico potrà essere a sua voglia licenzioso, purché da' suoi calcoli utilitari risulti proficua la licenza. Il diritto penale filosofico senza alcuna base di giustizia era divenuto in fatti la dottrina comune, prima che Pellegrino Rossi, e qualche altro scrittore italiano, di nuovo lo rimettesse sulla sua base naturale ed eterna, rovesciata da sensisti e da quello spirito d' empietà e di immoralità che guastò profondamente ne' tempi recenti, più o meno, tutte le università e i governi d' Europa. Sembra già tempo di guarire da questa vertigine, di ritornare ai princìpii di giustizia e d' onestà, non meno che di ragione. Secondo questi princìpii esiste nello Stato un diritto di punire che non può applicarsi che ai colpevoli: è un diritto rivolto appunto a reprimere la licenza e a proteggere la libertà... (2).

Giacomo l'idealista

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De Marchi, Emilio 14 occorrenze

Vedo che dovrò anch'io regalare almeno una lampada all'altare della Madonna della Noce, quantunque abbia il cattivo gusto di lasciarsi vestir cosí male. Revenons à nos moutons. La ragazza, che fu tenuta finora sotto la protezione di quelle due farfalle angeliche delle tue zie di Buttinigo, sarà per raccomandazione del vescovo inviata a un ospedaletto di suore, fuori della diocesi, dove troverà nei conforti della religione e della carità quel coraggio di cui, poverina, avrà presto bisogno. O iniqui peccatori! Vedete di quali tristi conseguenze siete cagione? e potete ancora andar saccheggiando come i lanzichenecchi le fragili virtú e le riposte dovizie della bellezza? Scherzi a parte, Giacinto; se vuoi proprio bene alla tua povera mammà, come vuoi far credere, non star piú colle mani in mano. Prendi una bella penna e scrivi un letterone coi fiocchi, in cui ti mostri riconoscente di tutto quel che ha fatto per te, e chiedile perdono di tutto quel che le hai fatto soffrire. E prometti di lasciarti guidare da' suoi consigli. Quando si ha una mamma santa e di talento come hai la fortuna di possedere, la strada della virtú è già segnata. E colla medesima penna scrivi allo zio Monsignore un'altra lettera piena di lagrime, che cominci colle parole: "umilmente prostrato a' suoi piedi ." e finisca colla promessa che gli fai di piangere tutta la vita questo tuo giovanile traviamento. Non ti pesi troppo di riempire tre o quattro facciate, che non mai fatica letteraria sarà piú ricompensata. L'esperienza la si deve pagare a proprie spese: ma tu saresti indegno del nome che porti, se da questa esperienza non ricavassi qualche insegnamento e non ne uscissi colla nausea per tutto ciò che è volgare e poco pulito. L'aristocratie c'est de la politesse. Perdona ad una vecchia amica la predica: ma questa volta te la sei meritata. La tua quasi zietta Fulvia. IL CONTE LORENZO A GIACOMO LANZAVECCHIA Cremona, 15 dicembre. Caro Giacomo, Son dovuto partire dal nostro Ronchetto senza prima salutarvi, com'era desiderio mio vivissimo: ma il rigor del verno e questo cuore, che da qualche tempo mi travaglia non poco, mi hanno impedito di scendere a salutarvi alle Fornaci. Sento tuttavolta che andate via via, per quanto di lento passo, riacquistando la sanità, la quale, secondo che parve a tutte le filosofie del mondo, è il miglior dono di natura. Noi abbiamo ritrovato in Cremona le solite nebbie e le tristezze solite; e temo che il verno per le presenti difficoltà politiche non abbia a rimuovere i dolori di questa plebe, cui già troppe voglie mettono in quello stato, che non può trovar posa in sulle piume. Spero nella diligenza vostra (tosto che le forze vel consentano) per dar opera a ordinare un primo catalogo di quelle mie iscrizioni, alle quali è, posso dire, attaccata una parte della mia vita e di quella vanità, che nella vita serve come l'olio delle lampade a rischiarare il sentiero che mena alla morte. Vorrei che l'opera del padre tornasse di sprone al figlio, quando questi occhi saranno morti alla luce del sole, per nobilitarsi, come dice il nostro divino Petrarca, in qualche bell'opera di mano o d'ingegno. La classe nostra, per troppa sete di godimenti sensuali, trascura oggidí quell'arti, che ai nostri maggiori diedero lustro e autorità nel mondo, onde nessuna meraviglia, se all'insorgere dei nuovi ordini e dei nuovi dritti popolari, l'aristocrazia epicurea si mostri impari al compito suo. Questo, come sapete, è mia intenzione dire in quel "Discorso preliminare", che premetterò alla raccolta delle iscrizioni gentilizie e che sarà la mia fatica e il mio ozio in questo tenebroso verno. Vi mando la copia definitiva dell'iscrizione, che ho preparato alla memoria del vostro compianto genitore. "Brevis esse laboro, obscurus fio", posso dire con Orazio: ma nulla è piú tedioso quanto una parola vana; e qui sonmi ingegnato di stringer la maggior quantità di fatti nel minor numero di segni. Ditemi tuttavolta il parer vostro, ché non tanto m'ingegno di piacere quanto di non dispiacere agli amici. Ho dovuto lasciar tale e quale la frase arte laterizia, checché dica quel bon'omo del canonico Ostinelli a cui sono cosí care le cianciafruscole manzoniane. Abbiatemi per vostro. Lorenzo Magnenzio di Villalta. GIACOMO A CELESTINA Fornaci, 15 dicembre. Mia cara e buona Celestina, mia buona sorella, sono stato molto malato, molto malato per te. Per poco morivo del tuo dolore, mia povera innocente. Sarei venuto prima a consolarti, ad asciugare le tue lagrime, se Dio non avesse avuto pietà del mio patimento e non mi avesse per molti giorni tolte le forze e la coscienza di me stesso. Ma verrò, sta certa, appena potrò sopportare questi freddi e le fatiche del viaggio senza pericoli. Ho bisogno di piangere con te e di dirti una parola che ti consoli. Qualunque sia la tua disgrazia, per me è certa l'innocenza tua come è certa la luce del sole. Dio terrà conto de' nostri patimenti e farà giustizia. Se anche la contessa non avesse sostenuta la tua parte contro l'iniquo che ti ha oltraggiata, puoi credere che io avrei dubitato un istante della tua virtú e del tuo affetto? Gli uomini e Dio giudicheranno il colpevole come si merita; ma tu lasciati giudicare da me. Sí, Celestina, il tuo cuore, la tua vita, la tua virtú sono nelle mie mani come il giorno che ho raccolto il tuo primo sguardo d'affetto. Hanno empiamente calpestato questo nostro affetto, hanno trascinata nel fango la nostra virtú, e questo colpo sarà il principio della nostra morte, ma noi possiamo guardarci in faccia senza rimproveri e senza rossore. Io ti assolvo e ti benedico, mia povera figliuola! Se potessi essere costí, vorrei metterti le mani sulla testa per rendere piú fortequesta benedizione. Lascia che essa scenda fino al tuo cuore e lo rinfranchi. Immagino tutto quello di piú spaventoso agiterà i tuoi giorni e le tue notti. Forse avrai maledetta la vita, la fede, la religione, e nel delirio del male avrai meditato cose perverse e terribili. Ebbene, non pensar piú a nulla, non dir piú una parola, non far piú un passo senza prima interrogarmi. Se qualche volta ti par di morire di dolore, come è sembrato a me, pensa che la tua vita non è tua, e che nella tua disperazione io perderei l'ultima forza e l'ultimo sostegno di quel coraggio, di cui ho molto bisogno per me e per gli altri. Se mi vuoi proprio bene, in nessuna maniera potresti dimostrarmelo di piú, come nel mostrarti dolce e ubbidiente a' miei consigli. Fino alle feste di Natale io resterò alle Fornaci: dopo andrò a insegnare in una scuola del Lago Maggiore, a Pallanza, dove hanno bisogno d'un professore supplente per il principio dell'anno. Lascerò accomodare queste nostre cose in modo che non manchino a' miei fratelli i mezzi per lavorare. Se la mamma vorrà venire con me, impedirà che m'intristisca nella solitudine. E chi sa che tu non possa tenerle compagnia? Essa potrebbe avere in te una mano che l'aiuti e nello stesso tempo avresti in lei una dolce e materna assistenza. In paese nuovo molte malinconie passeranno da sé, e può essere che Dio trovi nell'avvenire e per te e per me un compenso a queste terribili prove. Quel che ti scrivo, mia povera creatura, è la voce sincera del cuore, e vorrei scrivere ancora di piú, se non mi sentissi gli occhi velati di lagrime. Ho bisogno di sapere che tu sei buona, tranquilla, obbediente: e poiché queste signore ti usano molta carità, pregale per me di mandarmi spesso tue notizie. Prega l'Addolorata e abbi davanti che nelle nostre afflizioni Dio è presente: anzi, non è mai cosí vicino a noi, come quando ci sembra che ci abbia abbandonati. Il tuo Giacomo. Mai filosofo s'era abbassato tanto, fino a invocare in suo aiuto il nome della Madonna addolorata! mai sapiente s'era tanto rimpicciolito per farsi perdonare il peccato d'esistere! Ma è pur forza riconoscere che dovendo parlare ad un'umile creatura della terra, poco gli potevano servire le ingegnose argomentazioni degli stoici e i sillogismi della coerenza scientifica. La bontà ha questo di superiore, che non disdegna, quando occorre, di essere irragionevole e incoerente. Il cuore ha detto un filosofo corazzato di matematica, ha delle dimensioni e delle ragioni, che la ragione non conosce. Fu questo medesimo sentimento di umile convinzione, che lo persuase qualche giorno dopo a scrivere alla contessa Magnenzio una lettera, che egli considerò quasi come il suo testamento morale: "Mio zio - le diceva - mi ha fatto sapere che la S. V. Ill. desidera avere da me una parola che le manifesti i miei sentimenti e i miei propositi di fronte ai fatali avvenimenti che hanno colpito la mia povera esistenza. Sarebbe ormai un vano orgoglio per parte mia, se volessi opporre un glaciale silenzio alle domande angosciose di una madre, che per antiche ragioni ho l'obbligo di riverire, e che la comune sventura rende oggi agli occhi miei ancora piú degna di rispetto. Mi pare che le mie stesse sofferenze vadano rimpicciolendosi come ghiaccio che si scioglie in un'acqua mortale e profonda. Non sarò mortodel tutto, ma sento il freddo della morte salire da tutte le parti e circondarmi il cuore. Ho scritto a Celestina parole, che mi uscirono spontanee, ma che non saprei ripetere per paura di me stesso, come non ho saputo rileggerle al momento che mi sgorgavano dalla penna, mentre una nuvola pregna di lagrime circondava la mia testa. Se mi lascio trascinare da qualche atto che ha apparenza di perdono, non mi lodi come di una prova di forza morale; ma consideri quel che faccio e quel che dico come la conseguenza dello stato di atonia e d'incapacità, in cui sono ridotto da questi mali troppo crudeli. Credo che anche il mio povero cervello non sia in grado di connettere e di formulare gli elementi di una risoluzione. Come un vinto ferito a morte, accetto tutti i patti e tutte le catene nella convinzione che l'umiliazione non potrà durar molto, e che io non potrò vederne la fine. Non posso non volere io solo e per un inutile intento ciò che è desiderio di tutti quelli che mi vogliono bene. Avrei troppo poco rispetto e troppa poca pietà verso i miei stessi dolori, se respingessi con insolente asprezza la carità di questa medicina. Ho accettato un umile posto provvisorio a Pallanza, dove mi recherò subito dopo le feste di Natale. Avrei voluto partir subito, se di tempo in tempo un resto di febbre non mi avvertisse di usare prudenza, e mi curo non per troppa voglia di guarire, ma per il timore di rimanere troppo tempo invalido a consumare la carità di questa povera mia gente, che non posso sacrificare al mio risentimento. Al mio disinganno basto io, e bene ho fatto a sacrificargli tutte le illusioni, che andavo raccogliendo in un fascio di carte, a cui non potevo piú credere. Perché avrei pubblicato le menzogne di un sogno? Se la cenere è tutto quello che resta in fondo di ogni verità, tanto fa non credere alla fiamma .". - E mentre scriveva queste parole, si compiaceva di carezzare il presentimento che l'eccesso del patimento l'avrebbe presto dispensato dal cercar altre ragioni, riducendolo all'ultima, che comprende tutte le altre.

- gridò Giacomo dal di dentro; e quando ebbi spinto l'uscio: Bravo, - soggiunse - mettiti lí cinque minuti su quella sedia di paglia fin che abbia finito di leggere a Blitz questa bozza di stampa. La posta parte alle nove e non vorrei perdere una giornata. - Fa conto ch'io sia il tuo cane - dissi sorridendo mentre mi mettevo a sedere in un cantuccio. Giacomo, per riconoscere gli errori nelle bozze di stampa, aveva bisogno di leggere a voce alta la sua filosofia a qualcuno; ma, non essendovi alle Fornaci chi avesse la pazienza di stare a sentire le sue astruserie, obbligava Blitz a sedersi nel mezzo della stanza e a dargli ascolto. - "Qual è la causa e qual è l'effetto? - leggeva il filosofo, alzando di tempo in tempo gli occhi verso il cane, che socchiudeva un poco i suoi. - È l'organizzazione il principio della vita o è la vita il principio dell'organizzazione? Quel che Claude Bernard ha detto della vita fisica, io psicologo posso dire della vita morale. Cosa meravigliosa in noi non è tanto la varietà e la molteplicità dei fenomeni spirituali, quanto il nascere e lo svilupparsi dell'uomo morale, che opera e cammina secondo un ideale a cui egli non può resistere". - Ti giuro, Edoardo, che questa bestia capisce tutto, - interruppe Giacomo per lasciare un po' di riposo al cane. - Non solamente egli mi ascolta sempre con quell'immobile attenzione che vedi ora, ma cogli occhi mi dice quando l'idea lo persuade e quando non lo persuade, quando la sentenza è chiara e quando all'incontro è troppo filosofica. Se nel testo c'è poca evidenza, Blitz chiude gli occhi e par che si addormenti come un buon cristiano. Mi lasci andare fino in fondo della pagina? Intanto si scalda l'acqua nel gamellino. - Leggi pure: mi sforzerò anch'io di capire, se non ti par troppa superbia. Giacomo cambiò il foglietto, e, dopo aver richiamata l'attenzione di Blitz, ripigliò a leggere con un tono alquanto declamatorio: "Questo moto verso il miglioramento è la condizione necessaria della nostra vita morale che, nell'inerzia, troverebbe la morte. Ogni passo dev'essere necessariamente un passo avanti nella via del progresso ideale, che è la risultante benefica di tutti gli altri progressi economici e scientifici". Ti pare, Blitz? Il cane mosse un poco il muso e fece dondolare le orecchie. "L'uomo d'oggi è senza dubbio migliore di quello di ieri ." sta attento, Blitz. - E volgendosi a me con uno scoppio di serena ilarità - Guarda, - disse - si direbbe che il vecchio scettico è poco persuaso di questa verità. - "Domani sarà ancor migliore, finché, reso padrone della verità, potrà un giorno sedere ottimo arbitro, giudice conciliatore tra sé e la natura. Dal suo idealismo, come da un trono inarrivabile, il piccolo re dell'universo stenderà sulla natura lo scettro ch'egli tiene per investitura divina e formolerà le leggi eterne della felicità .". Blitz, eccitato dal gesto e dallo sguardo ispirato del suo padrone non seppe piú stare alle mosse, e protestò, se non sbaglio il commento, con due o tre abbaiamenti sgarbati e dispettosi. - Vedi se in lui non c'è lo scettico pessimista? - proruppe Giacomo, abbandonandosi a ridere sulla sua seggiola, che perdeva le paglie per il di sotto. - Tutte le volte che io assicuro all'uomo una qualche superiorità, il mio cane abbaia. Ma abbi pazienza, Blitz: ancora una cartella e poi ho finito. Mentre Giacomo leggeva, e mentre l'acqua del caffè muggiva nel gamellino, sopra una fiamma a spirito in mezzo a un treppiedi di ferro, feci con l'occhio il giro delle quattro pareti di quell'umile cameretta, da dove usciva tanto orgoglio filosofico e tanta fede nella missione conquistatrice dell'umanità. Un letto con un pagliericcio imbottito di foglie secche, quattro sedie scompagnate, un vecchio trumò del settecento, pieno di libri, un tavolino zoppo di tre gambe tenuto ritto da un vecchio Rimario del Ruscelli, ecco tutto l'arredamento. A capo del letto pendeva un quadretto della Madonna del Bosco, di un gusto molto campagnuolo, circondata da un rosario a grani grossi come le noci, e da altri piccoli segni religiosi, che svelavano una mano affettuosa e forse una pia sollecitudine. Se il pensiero è il diavolo, i grani di quel rosario non erano ancor grossi abbastanza per cacciarlo via; ma Giacomo aveva troppa fede nella bontà, per togliere alla sua mamma un'illusione. Dall'imposta della finestra pendeva la borraccia, che gli aveva servito nella disgraziata campagna del 1866 nel Trentino, piccolo fasto, che, insieme al gamellino, ricordava una storia segnata di patimenti e forse di eroismi, di cui non si doveva mai parlare. Anche la vecchia chitarra pendeva attaccata a un chiodo, coperta da un dito di polvere, tra due sacchi di grano, un sacco di carbone e un arcolaio fuori uso. L'indole di Giacomo, cosí facile ad arrendersi ad ogni piccolo bene che parlasse un po' forte, non pareva nemmeno accorgersi della mediocrità e dello squallore, in cui era nato e cresciuto. Abituato fin da ragazzo ai gusti semplici e a cercare nelle reali compiacenze della meditazione il sapore squisito anche delle cose che non si possono avere, non solo non provava alcuna invidia per chi si pasce dei lauti favori della fortuna, ma il non vivere di idee parevagli la piú compassionevole sorte che potesse toccare a una creatura ragionevole. - Scarpe rotte e la testa in paradiso era il motto della sua nobiltà di spirito. Questa soddisfazione tutta interiore, come lo rendeva indifferente e spensierato nelle cose contingenti di questo basso mondo, lo rendeva altrettanto paziente nel sopportar i piccoli inconvenienti della povertà, le umili molestie e i pregiudizi de' suoi di casa, i piagnistei frequenti della mamma, che vedeva precipitare la sua casa, le fantastiche declamazioni di suo padre, che attribuiva al governo anche gli spropositi della sua ostinazione, le scontrosità di sua sorella Lisa (che, per far presto, in casa chiamavano Spaventapasseri), la povertà intellettuale di Battista, che vedeva in lui un prediletto il quale andava spesso a tavola in casa dei signori, perché gli ripugnava la polenta e il merluzzo di casa sua. - Ho bisogno che questa dissertazione sull' Idealismo sia stampata presto, perché il premio non si può ritirare se non si presenta l'opera stampata. E non mai, come in questi tempi, ho sentito il bisogno di denaro, non tanto per me, quanto per questa mia povera gente . Giacomo, mentre parlava, andava rimestando con un cucchiale il caffè bollente nel gamellino, come soleva fare in collegio Ghislieri, quando c'invitava a una discussione metafisica nella sua camera. - A mio padre, come forse avrai capito, manca il senso e l'indirizzo della vita moderna. Egli crede che negli affari basti essere galantuomini, e, quel che è peggio, immagina che gli altri siano tutti galantuomini come lui. Già da qualche anno siè lasciato trascinare in una falsa speculazione con un certo signore che abita quassú a un sito detto la Rivalta, un ex impresario che si è dato all'usura, un chiacchierone che incanta con la sua parlantina. Costui, col pretesto di un impianto d'una sega a vapore, credo che a quest'ora abbia già mangiato a mio padre una ventina di mila lire, e continui a mettere ipoteche su quel po' di terra che abbiamo al sole. Il male si è che il povero pà, per non spaventarsi, si sforza d'illudersi e, abilmente raggirato da quel furbo di professione, crede che il suo denaro abbia a fruttare domani il cinquanta per cento. Non volendo, per un senso d'orgoglio, confessare i suoi torti a persona pratica, cova i suoi pensieri dentro di sé, cerca di stordirsi colle barzellette, se la piglia cogli italiani, coll'esattore, colla ricchezza mobile, ch'egli crede causa della sua rovina. Se noi potessimo aiutarlo! ma Battista non ha che le spalle di buono, e ora si è fitto in capo di voler sposare la figlia dell'oste della Praschetta, che è stata l'amante di tutti i carabinieri di passaggio. Angiolino è un ragazzo che dovrà presto andar soldato. Ci sono io, il dotto, il sapiente, vale a dire il piú inutile. Se fosse greco, potrei dare un suggerimento; ma che vuoi che m'intenda io di mattoni, di tegole, di sega a vapore, di mutui e di ipoteche? Giacomo sorrise e cantarellò sull'aria del Crispino e la Comare: - Maledetto il mio troppo saper. Levò il gamellino dal fuoco, tolse dal trumò due chicchere che collocò sul tavolino, dopo averne rimossa la gran montagna di libri e di fogli scritti che vi stava sopra, e, sedendosi accanto a me, dopo avermi battuto famigliarmente colla mano sui ginocchi, riprese: - Ecco perché ti ho invitato, caro Edoardo, a passar qualche giorno alle Fornaci. Mio padre, che ha della simpatia per te, non avrà difficoltà ad avviare un discorso su questi benedetti suoi interessi, e tu potrai dargli un buon parere. Cerca di vedere un po' in fondo a questa birboneria della sega a vapore e delle ipoteche, e, se è possibile, di arrestare il male prima che diventi cancrena. - Lo farò volentieri. - Io ero tornato quest'anno con molti progetti, ma li metteremo in guardaroba con pepe e canfora fino a un altro anno. - Tu pensavi forse a prender moglie . Giacomo si fece subito rosso in viso, come soleva facilmente quando appena un'emozione un po' forte gli passava nel cuore. Versò il caffè nelle chicchere, tenendo delicatamente il gamellino per un'orecchietta, e, quando ebbe finita la delicata operazione, soggiunse: - Sai che io son legato da un'antica promessa . - Se non ricordo male, si chiamava Celestina questo tuo vecchio idealismo. - Vedi che non è un amore di ieri. Celestina è figlia d'una nostra povera parente, che, dopo essere stata mal maritata a uno scucito sarto di Oggiono, morí nell'estrema miseria. Il pà, col suo gran cuore, si prese la bambina, che rimase sempre con noi, ed è cresciuta con noi, come una sorella, fino all'anno scorso, quando la persuasi a entrare al servizio della contessa Magnenzio. Gli anni non sono piú quelli di prima, e in queste angustie la poverina non voleva piú restare di peso a' suoi benefattori. E poi per metter su casa non fa male l'aver un po' di quattrini in disparte. Un po' di quattrini lei, il premio dell'Istituto io, i mobili dello zio prete, che me li cede volentieri c'era abbastanza per fare in modo che il nostro ente ideale diventasse sussistente; ma anche per quest'anno non si potrà far nulla. Ieri il pà mi fece capire, che se gli potevo prestare cinquecento lire, gli avrei levata una spina dal cuore. Gli ho dato tutto quello che avevo su un libretto della Banca Popolare; e dico il vero che, se l'Istituto volesse anticiparmi i denari del premio, vorrei procurarmi questa consolazione di dire a mio padre: Prendete, è roba vostra. Sarebbe proprio una cosi grande consolazione per me, di poter rendere qualche cosa a questa povera gente, che, se coi libri si potesse far quattrini, vorrei scrivere e stampare tutto quel che mi passa qua dentro . Giacomo si toccò la fronte colla mano, e rimase un istante cogli occhi fissi alla luce della finestra. Poi lentamente, come se parlasse a sé stesso, soggiunse: - Tutte le volte che vedo mio padre sudar sotto il sole, intento a caricare e scaricare mattoni, che lo sento litigare cogli operai e coi capimastri, quando torna dai mercati rauco, spossato, abbattuto, mentre io sto qui di sopra a conciliare i nominalisti coi realisti o a sostenere il concetto dell'anima universale, provo una tale mortificazione di questo sapere che non sa far nulla . - Scusa, Giacomo, - interruppi con grave intonazione - tu lavori a sminuzzare la grammatica ai ragazzi, e ad elevare un edificio morale . - Ben, bene, lasciamola li. - soggiunse con un sorriso tra il lieto e il melanconico. - Intanto anche per quest'anno: cara Celestina addio. Quantunque si sforzasse di cantarellare sul suo patimento, una tenera commozione tremolò nella sua voce. Povero Giacomo! a questo suo amore aveva consacrato la parte migliore della giovinezza, quando la donna è per la maggior parte dei giovinotti allegri o una lieta scapestreria o una bambola divertente. Nel suo ascetismo filosofico aveva accesa una lampada davanti a una cara immagine, e in questa luce mite che emanava dal suo cuore, insieme alla sua virtú aveva potuto trattenerlo un santo rispetto per la celeste creatura, che l'amore monello piglia col vischio. Il tempo che egli aveva occupato in aspettare non era stato perduto per lui e nemmeno per la bella Celestina, se è vero che anche la donna migliori nel pensiero dell'uomo che l'adora. Ma perché l'aspettare sia bello, è necessario che non sia infinito. Se Giacomo, dunque, si doleva del suo destino non sapevo dargli torto. - Non conosco questa tua Celestina, - gli dissi compassionandolo - ma procuro di vederla co' tuoi occhi. - Per il momento non potrebbe essere collocata piú bene. Conosco casa Magnenzio fin da ragazzo, e quel che sono lo devo alla protezione di questi bravi signori. Fu per un legato di questa buona famiglia, che ho potuto avviarmi agli studi nel Seminario di Cremona e bussare alla porta della sacra teologia. Speravano di cavare da me un buon prete, e quando, per non ingannare la loro buona fede, ho dovuto confessare che non ne sentivo la vocazione, non mi tolsero per questo la loro benevolenza. La contessa Cristina è una donna d'animo e di coltura superiore, che sa unire a una grande delicatezza un sentimento elevato del dovere. In casa sua Celestina non può che migliorare. - E c'è anche una contessina? - Donna Enrichetta è una bambina alta, bionda, semplice come una figura di frate Angelico. A proposito di lei, mi fai ricordare che le ho promesso un sonetto per i suoi quindici anni. Tu le vedrai stamattina alla messa, perché per tua norma al Ronchetto e alle Fornaci si è tutti buoni cristiani. - Celestina vale una messa, dirò come Enrico quarto.

Intanto io son del parere che tu abbia a vendere allo stracciaiuolo tutta questa filosofia, che ti guasta lo stomaco. La Lisa indicò i libri e le carte ammucchiate sul tavolino, facendo colle due mani il segno di chi spazzola l'aria. - Già, credi pure, il mondo non lo si rappezza piú nemmeno con la carta stampata e una buona digestione vale una dozzina di belle massime. Quando c'è la salute, a che cosa serve la spezieria? - Tu gli fai la testa grossa cosí - rimproverò la mamma. - Badate a tener nota esatta di tutto quello che spendete per me - disse Giacomo, rannuvolandosi in volto, con uno sforzo doloroso, che gli fece la fronte umida di sudore. - Non parlar di conti, adesso, - riprese la mamma - e non pigliarti pensiero per noi. Don Angelo ha detto che, per tutto quello che ci può abbisognare, si abbia a ricorrere a lui. - L'ha mandato san Giuseppe coll'asinello questa volta - aggiunse la Lisa. - Del resto, non siamo in un deserto e non manca la gente che ci vuol bene. Anche Battista si lasciò rimorchiare dalla mamma a far la pace con Giacomo. Questi lo salutò colla mano, mentre l'altro entrava, raggirando con una mano il cappello e grattandosi coll'altra la nuca. - Voletevi bene e addio! - disse la mamma. - Ora dobbiamo lavorare tutti per ciascuno e ciascuno per tutti, anche per benedire alla memoria di quel pover'uomo, che ci aspetta in paradiso. La Santina passò in fretta un angolo del suo grembiale negli spigoli degli occhi e continuò a promettere per Battista, che s'induriva sotto le carezze della tenerezza, fino a perdere l'uso della favella. La mamma invece (e non isfuggí al nostro malato questo fenomeno) rianimata dal pensiero di essere utile, contenta di vedere un po' di pace tornare in famiglia, stava per ritrovare la sua antica alacrità di spirito. In fondo, la disgrazia di Celestina rappresentava per lei, a parte il dispiacere, la liberazione del suo Giacomo, che con tanto sapere e con tanta abilità poteva aspirare a qualche cosa di piú bello che non sia lo sposare una stracciona senza un soldo, una mezza contadina, una figlia di nessuno. Nel suo orgoglio materno la Santina era persuasa che, se Giacomo metteva il suo cappello sulla soglia dell'uscio, le piú belle doti dei dintorni ci saltavano dentro. Non poteva mancare la visita del vecchio Blitz. Quando capí che il padrone cominciava a veder qualcheduno, il brutto cane, che da cinque o sei giorni non abbandonava la loggetta, si fece coraggio e venne innanzi a fiutare il letto. Giacomo, aprendo gli occhi, incontrò quelli buoni e lagrimosi del fedele animale; sporse una mano dalla coltre, gli strinse il muso, lo carezzò, lo interrogò a lungo con uno sguardo, a cui il vecchio filosofo pessimista rispose con un tremito convulso di tutto il corpo e con un lento dimenar della coda. - Hai sentito, Blitz, quel che ci hanno fatto? - mormorò Giacomo, come se volesse provare la voce e le forze in presenza del suo prudente compagno. - Hai sentito quel che hanno fatto della nostra povera Celestina? E non è finita, ve', Blitz; ne vedrai di piú brutte. Se non propriamente pronunciate, queste tristezze furono espresse dallo sguardo dell'uomo, raccolte e compatite dallo spirito del cane, che, posate le due zampe pelose sulle coltri del letto, mandava un gemito come d'anima sofferente. Le forze fisiche tornarono a poco a poco e, insieme, andava crescendo, al tornare della coscienza del suo stato, il terrore e la vergogna dell'oltraggio ricevuto. L'animo, già cosí paziente e tollerante dei mali, correva, al divampare dell'odio, a pensieri di estrema violenza: l'occhio fissavasi in una sua idea lugubre: l'infermo stringeva ipugni sotto le coperte, o si metteva a sedere sul letto, come se cercasse di misurare le sue forze per una estrema battaglia. Non poteva finir cosí! Era un risveglio assai doloroso e grottesco per un filosofo idealista, che stava sognando l'amabile conciliazione degli uomini colle forze nemiche della natura! All'urto feroce della realtà egli si avvedeva d'aver riflesso nella sua filosofia le cose del mondo forse con una certa limpidezza, ma semplicemente capovolte! Aveva creduto nell'illusione fantastica della sua solitudine di stendere il volo ai piú alti cieli e invece era semplicemente la terra che gli mancava sotto i piedi. Mai ingenuità filosofica era stata piú punita! mai s'era vista una piú grande incapacità! Che gli restava di fare? egli non poteva restar eternamente cosí immerso in un morboso letargo, né chiudere gli occhi bastava per non vedere, né sprofondarsi in un sepolcro significava esser morto. Dalla rovina delle sue costruzioni fantastiche, come tra gli sconquassi d'un'immensa impalcatura posticcia, qualche cosa d'immobile e di massiccio era di sotto, contro cui ogni uomo va a battere la testa, ove non sappia edificarvi sopra la vita. Cadevano i vaghi pensieri, ma restava il dovere da compiere. Bisognava insomma far qualche cosa per sé, per Celestina, per il suo onore, per la famiglia, per l'opinione del mondo, per la pace dei buoni, per il riscatto della coscienza, per il sollievo dell'animo esulcerato, per la difesa degli innocenti, per il castigo dei tristi. Ma dove cominciare? a chi chiedere la forza dell'odio e della vendetta? come rompere le catene ormai irrugginite della sua antica schiavitú morale contro questi benefattori, che non poteva pagare? All'immagine laida del miserabile, che aveva vituperato con bestiale brutalità quanto di piú sacro e di piú puro può contenere il cuore d'un uomo sentiva a un tratto la sua volontà ingrandirsi, farsi di ferro; coll'occhio arroventato fisso nell'aria cercava il vile, lo ritrovava, gli si scagliava addosso, metteva le mani nel suo sangue e di questo sangue, di cui nella squisita debolezza nervosa vedeva le chiazze vermiglie vagolare sulle pareti e sul bianco del letto, provava una vertiginosa ebbrezza. A queste fiammate, da cui il suo spirito debole e titubante era trasportato a esagerate emozioni, seguivano molte ore di depressione morale e di sonnolenza, durante le quali la forza critica della sua mente, quella ch'egli era abituato ad adoperare di piú e di cui, come di un coltello del mestiere, si serviva per recidere i lacci e le corde degli inviluppi morali, rispondeva con una lunga e ironica argomentazione alle rodomontate del sentimento. "Un assassinio? una strage? un duello? Ci vuole un bel coraggio a liquidare con un delitto o con una elegante pantomima il crudele dolore dell'anima tua! Forseche il sangue ha mai potuto lavare una macchia e spegnere una sete? E deve proprio toccare a te questa parte di romantico Ernani, perché si tragga dall'agonia mortale di due cuori un drammaccio volgare, che rallegri e contristi di tragica pietà i lettori delle cronache e dei fatti diversi? A chi gioverebbe una vendetta volgare? poco a te, se pur ti pare che giovi al frenetico il rotolarsi nel fango; nulla agli altri, se non a rendere volgari le piú delicate sofferenze; nulla a pagare il danno d'una vita spezzata; nulla a soddisfare la legge morale; nulla a nessuno insomma, tranne che a far piacere agli invidiosi e agli imbecilli". Ma che poteva fare dunque per quella poverina? All'immagine di Celestina le lagrime gli correvano agli occhi, un nodo angoscioso minacciava di soffocarlo, pareva che le ultime forze della sua vita si ritirassero e lo lasciassero esangue. La voce malinconica, il viso sconvolto, quel tono di morta disperazione, con cui gli aveva parlato l'ultima volta nel viale del giardino, tutto questo tornava vivo e presente a scoraggiarlo di piú. Che cosa rimaneva di tutto il caro edíficio della sua vita di lavoro ideale, di quel loro amore cosí naturale e ridente, cosí tenero di tutte le dolcezze piú spontanee della vita? Questo loro affetto non intessuto di astruserie, come sogliono fabbricarne gli spiriti stanchi e sciupati, ma semplice come un fiore, era stato il suo orgoglio. Celestina, oltre alle virtú native della donna innamorata, che cede all'amore dell'uomo forte e sapiente, rappresentava per lui gli adunati desideri, la bellezza ideale, il sospirato riposo, quanto insomma di eletto sovrabbonda alla vigorosa virtú dell'uomo savio e che la donna raccoglie e conserva per i giorni della stanchezza e del dubbio. All'idea che di un cosí incantevole edificio non restava piú che un mucchio di cenere, egli si rivoltava nel letto, cacciava la testa sotto il cuscino, urlava come una belva ferita chiedendo: perché? perché? L'immaginazione gli procurava non minori tormenti nel fargli sentire quel che al propalarsi del sordido caso, i soliti beffardi avrebbero dovuto dire di lui, della ragazza, della burla giocata al filosofo, della superbia punita di casa Lanzavecchia. O Dio! qualche soddisfazione egli doveva pur domandare a questi signori. Nessun anacoreta avrebbe tollerato che una creatura debole e innocente rimanesse senza difesa e senza giustizia sotto l'obbrobrio di un simile oltraggio, senza assumere nella sua pigra sonnolenza morale una obbrobriosa responsabilità. Il male che si compie, accettando in silenzio il male, è una forma, e non la piú coraggiosa, di complicità. Molte ore restava cosí confitto, come un povero Cristo, alla croce dei suoi pensieri, cogli occhi fissi alla luce della finestra, in cui sbatteva irrigidito il candore della prima nevicata; e ripensando per un ozioso abbandono dello spirito ai fatti piú lontani della sua fanciullezza, evocava gli episodi di quel suo antico amore. Sul muro di quella stessa stanza, dove giaceva a invocare inutilmente la morte, erano rimaste le vecchie traccie di un altarino in due striscie dipinte in mattone rosso, simulanti un padiglione, tra le screpolature dell'intonaco. Celestina era venuta spesso ad ascoltare una messa, che il pretino recitava sopra due sedie con indosso il grembiale della mamma in luogo della sacra pianeta, con in testa un logoro berretto dello zio prete. Qualche altra volta egli l'aveva confessata, stando seduto in un vecchio armadio; poi l'aveva comunicata con un manus Christi della zia Veronica. Quante volte avevano preparato insieme le feste del mese di Maria, addobbando la loggetta di pezzuole, di frasche, di corone di fiori, o avevano preparata per la sera una lunga illuminazione di moccoletti, in mezzo alla quale sfilava una processione di ragazzine e di villanelli scalzi, nel frastuono d'una musica di coperchi, d'imbuti e di scatole di lucilina! Quando Giacomo predicava dall'alto del seggiolone, Celestina con sulla testa il grembialone della zia Santina, stava a sentirlo tutta raccolta e compunta, ridendo a qualche citazione in trappolorum gamberellis, che usciva di bocca al predicatore, con quel suo riso irresistibile che metteva in iscompiglio la divozione. Dal suo letto egli vedeva la chioma biancheggiante dell'antico frassino in fondo alla vignetta, in cui solevano ricoverarsi nelle ore calde e cercar nel fitto dei rami una aerea abitazione e fabbricare colla fantasia case e palazzi incantati, che tremolavano ad ogni soffio di vento. Venivano ad una ad una queste memorie e partivano da lui, come pietose visitatrici, che escano dalla casa di un morto. Che potevano dare questi signori in compenso di tanto bene perduto?

Non spererò mai che Giacinto abbia a pubblicare le mie opere postume. Povero Giacintone! - Il conte ritornava pian piano a ricollocare il primo volume del Forcellini accanto al secondo, senza smettere di ripetere: - Povero Giacintone! piú grande amico dei cavalli che dei libri. Avrei dovuto chiamarlo alla greca, Filippo o Ippofilo. Mi ha scritto ieri una cartolina da Roma tutta piena di parole tenere e senza errori di ortografia. È a lui che voglio dedicare, se campo abbastanza, questa pubblicazione, a cui intendo premettere un "Discorso preliminare intorno agli Uffici della Nobiltà nel presente tempo", che mi sta sul tavolino da parecchi anni e non aspetta che un'ultima spinta . Fabrizio, il vecchio cameriere particolare del conte, comparve in quel mentre sull'uscio: - La signora contessa prega il signor Giacomo, prima d'andar via, di passare un istante da lei. - Dite invece alla signora contessa che l'aspettiamo qui - soggiunse il conte: e fatto un cenno a Giacomo, lo trasse nel vano della porta a vetri, che dava sul giardino, dove, affievolendo colla voce la importanza della cosa, gli disse: - Eccovi le due righe di epigrafe che avrei scritte per quel povero uomo. Voi sapete da insegnarmene, ma la qualità dell'uomo presentava questa volta qualche difficoltà stuzzicante. Imbalsamare gli illustri personaggi è mestier facile; ciarriva anche il sacrestano. Il punctum è di saper far vivere nel sasso un uomo modesto, un fabbricatore di mattoni: qui ti voglio, Giovannino! non si può mica mettere sul marmo la locuzione: Fabbricatore di mattoni e tanto meno quello sguajato (sgua-j-a-to, colla coda, con vostro permesso) epiteto di fornaciajo, e tanto meno fornaciaio coll' i corto. Ergo, come ce la caviamo? il latino dà fornacator, che non ha continuità nel volgare: meglio sarebbe calcarius, ma calcario può indurre nel volgo ambiguità e far pensare a ricalcare, calco, calcagno. Plinio mi dà un buon laterariorum fornacator, vale a dire cuocitore di laterizii, ma c'è pericolo che si cada nell'astruso, mentre il bello, come il sole, è tutto nella chiarezza. Quando poi si tratta di stile epigrafico, il bello è tutto nell'evidenza . Donna Cristina entrò ad interrompere la dotta esposizione, nella quale il conte si rianimava già tutto come un anatrino, che, dopo un lungo tempo di polvere e di siccità, senta tuonare in cielo e subito dopo vede l'acqua traboccare dai fossatelli. Era la prima volta che la contessa rivedeva Giacomo, dopo la morte di Mauro Lanzavecchia: e il giovane attribuí l'animazione dolente, quasi paurosa, con cui gli tese la mano, a un sentimento di commiserazione e di fedele amicizia. - Giacomo non ci dice di no, - cominciò a riferire il conte - anzi la cosa è fatta. Io gli dicevo poc'anzi quel che mi dicevi tu ieri sera; è un piacere e un servizio reciproco, che ci facciamo. I vecchi hanno bisogno dei giovani e i giovani hanno bisogno dei vecchi. - Signora contessa, - prese a dire Giacomo con un'intonazione cosí profonda che per poco non rasentava il pianto - non è la prima volta che io provo la bontà e la generosità illuminata di questa casa e, se qualche cosa mi trattiene dal dire subito di sí, è il dubbio ch'io non sappia degnamente corrispondere. Ringrazio il signor conte, ringrazio lei, donna Cristina. - E, non sapendo piú continuare davanti alla forte commozione, stese le mani a questi suoi due benefattori, fissando gli occhi sulla luce della finestra. - Offrendole questa tenue anticipazione, non intendiamo di umiliare il suo coraggio, caro Giacomo, ma solamente di metterla in grado di compiere piú bene il suo dovere di figlio amoroso e di studioso. Non è un dono, ma un prestito, che vogliamo assicurare alla sua attività. La contessa disse tutto ciò con un accento quasi sforzato, come se ogni parola le cagionasse un tormento. - E poi, Giacomo potrà anche, restando alle Fornaci, dare un occhiata a questa nostra gente. Il fattore è vecchio e comincia a far capire poco quello che dice, come un filosofo anche lui. - Il conte, che per aver ben digerita la colazione era in vena d'allegria, seguitò a battere una solfa leggiera sulle spalle del filosofo che aveva davanti - Finché non torni a casa dal servizio militare Bogella il giovine non farà male un'occhiata intelligente alla casa. Anche questi libri avrebbero bisogno d'un buon repulisti, ma se i servitori ci mettono zampe, addio categorie . Don Lorenzo, in questo istante, per non so quale successione di idee, si ricordò di non aver ancor preso il suo caffè delle tre. Egli soleva fare la sua prima colazione alle sette con un brodo liscio, o con un caffè all'ovo,o con una tazza di cioccolata che Fabrizio gli portava in camera, a seconda delle esigenze dello stomaco. In cucina e nelle sue adiacenze giudicavano subito dell'umore del padrone dalla chicchera sporca che tornava indietro. Brodo liscio significava sempre pranzo mal digerito, notte inquieta, giornata torbida, brontolamenti a tavola, piatti di ritorno, rimproveri al cuoco, accessi di palpitazione, sgomento della contessa, lacrime delle cameriere. Quel doversi mettere a tavola senza voglia di mangiare era per il conte una mortificazione insopportabile, quasi un vivere senza speranza, come avere un bel libro in mano, scritto bene, stampato bene, e non vederci. Per mantenere il buon equilibrio dello stomaco, che pei ricchi è la base della felicità, come pei poveri si vuole che sia il ventre, don Lorenzo faceva gran conto sul suo caffè caldo delle tre, anch'esso un piccolo piacere della vita, che Orazio, il classico gaudente, non aveva conosciuto, una vera nettarea bevanda, che avrebbe potuto ispirare a Virgilio un poemetto didascalico sul tipo delle "Georgiche". Nei primi ardori giovanili, quasi tutti ci sentiamo in qualche parte di noi stessi un poco poeti, don Lorenzo aveva ben carezzata l'idea d'una Coltivazione del caffè in versi sciolti, sull'esempio del poemetto che l'Arici consacrò alla Coltivazione degli olivi; e le quattro parti eran già distribuite con una varietà di scene e di episodi, che andavano dai torridi campi del Guatemala all'Ottagono della Galleria e al caffè Biffi di Milano; ma la difficoltà inaudita d'introdurre in versi rispettabili certe parole, come chicchera e macinino, ne aveva a piú riprese stancate le mani. Dopo averne pubblicato un mezzo canto sull' "Annuario degli Agiati di Rovereto", continuò a berlo il suo nèttare, ma lasciò stare le Muse, che non potevano ispirare quel che non avevano mai provato. Mentre Fabrizio serviva il caffè nelle belle chicchere di porcellana, Giacomo espose nettamente alla contessa il desiderio di avere alle Fornaci per alcuni giorni, la Celestina, in aiuto alla povera mamma. - È impossibile, - scattò a dire la contessa colla istintiva prepitazione di chi si difende da un improvviso assalto; ma poi per correggere sé stessa e per distruggere l'impressione che doveva produrre una cosí recisa risposta: - Cioè, non per dir di no, - soggiunse con umile spiegazione: - in un altro momento non avrei fatto ostacolo; ma in questi giorni aspetto le mie cognate di Buttinigo, avremo gente a pranzo, insomma se me la lasciate . - Che cara figliuola questa vostra Celestina! - disse il conte, che cominciava a gustare col naso il profumo del suo caffè - la mi piace con quel suo fare allegro e villereccio, che mi ricorda la Nencia di Barberino. Quando mi sento di cattivo umore o lo stomaco impastato, la faccio cantare: Va là, villan e mi pare di bere una tazza d'acqua fresca del fonte d'Ippocrene. Birbone il filosofo! - sentenziò socchiudendo gli occhietti maliziosi, mentre indicava col cucchialino alla contessa l'amico Giacomo, che stava prendendo il suo caffè in piedi con un contegno imbarazzato, colla testa accesa da una non ingrata commozione. - Birbone il filosofo, in filosofia, lui dice, io sono spiritualista, hegeliano, trascendentale e, se non vi disturba, anche intinto di panteistico spinosismo; ma in amore cerco il materiale e il palpabile. Questi idealisti son piú birboni degli altri, ve': a noi dànno le penne, ma l'oca se la mangiano loro . Mentre il conte, fatto rubicondo dal piacere, interno ed esterno, rideva cogli occhi, colla pelle del naso e col cucchialino, il volto di donna Cristina, pallidissimo, si fissò sui vetri della finestra in una rigidezza piú severa che dolente. Il conte che aveva la bocca buona, continuò: - Solamente, caro Giacomo, procurate che queste signore non ve la guastino, col loro Sacro Cuore. È diventata una esagerazione questo Sacro Cuore di Gesú. Pare che non si possa esser buoni cattolici, se non si fanno smanie per queste francioserie. Adesso bisogna che anche la divozione ci venga di Francia insieme alla moda dei cappellini. Oggi "Sacré- Coeur", domani "Ravachol" . Il conte, che aveva colla Francia una vecchia ruggine per quel che aveva letto dei tempi del Terrore, non poteva perdonarle la continua e deleteria influenza, che il libro francese esercita sul modo di scrivere dei nostri giornalisti e dei nostri stessi autori, non escluso quel benedetto don Alessandro, che in questa faccenda dello scrivere ha avuto dei grossi torti. - Francioserie di lingua, francioserie di cappellini, francioserie di Madonne e di Sacri Cuori, a furia di francioserie ci sveglieremo una bella mattina con una bomba sotto il letto. Io son vecchio ormai, o almeno spero che questo balzano di cuore mi farà morire a tempo: ma voi, Giacomo, mi saprete dire, cioè non verrete a dirmelo, perché sarò morto, ma vi accorgerete che gusto sarà questo vostro Socialismo. - Non è mio, signor conte, - obbiettò sorridendo Giacomo. - Non è vostro, ma è figlio della vostra filosofia dalle maniche larghe. Ve ne accorgerete, ve ne accorgerete. Speriamo che per quel tempo io abbia finito di mangiare la mia galantina e di prendere il mio caffè. Mi rincresce per il mio Ippofilo, per Filippone, e per quell'angelo che suona il cembalo di là. Il conte tacque per ascoltare alcune battute di una sonatina di Beethoven che donna Enrichetta eseguiva con una garrula agilità. Le note entrarono e risonarono nello studio, come il trillo gaio d'un canarino. La luce tiepida del pomeriggio, passando per le finestre, diffondevasi sugli scaffali, sulle splendide rilegature dei libri, sui vasi di porcellana, sulle cornici dei quadri, sulle stoffe damascate delle poltrone in una festa tranquilla di colori e di forme, in mezzo a cui apriva le braccia un mite crocifisso d'avorio biancheggiante su un drappo rosso ricamato in oro dalle mani della contessa e sormontato dallo stemma di casa. Duemila lire! Giacomo, nel ritornare alle Fornaci per la bella strada che gira dietro il "Roccolo" di don Andrea, non fece che pensare a questa offerta, che gli avrebbe permesso di lasciare per qualche tempo l'insegnamento e di rimanere alle Fornaci a dirigere la liquidazione e gli accomodamenti della sua casa. Duemila lire! S'egli tornava indietro col pensiero fino alle prime memorie della vita, non ricordava d'aver posseduto mai, tutto in una volta, una somma cosí grossa e veneranda, né di aver mai pensato, in mezzo alle ipotesi della possibilità, a quel che si può fare con due mila lire in mano. Gli era nota la forza del sole e anche quella dell'intelligenza umana, che sa predire le eclissi: ma della potenza dinamica del denaro, se aveva un'opinione confusa, per quel che si può vedere guardandosi in giro, non ne aveva mai provata la sensazione immediata del possesso, sensazione che gli metteva in corpo una specie di vanagloriosa ebbrezza. Gli pareva che con due mila lire un uomo, che non fosse stato ne' casi suoi, dovesse realizzare un tal patrimonio di compiacenze e di cose felici che a descriverle bene non sarebbero bastate due mila pagine d'un bel formato Le Monnier. Bastava dire che in grazia di quei quattro foglietti da cinquecento, chiusi in una busta di carta, egli avrebbe potuto sposare e vivere un anno lautamente con Celestina in quattro camerette imbiancate di fresco, tra quattro mobili profumati di vernice fresca: unanno di paradiso, mezzo in terra e mezzo in cielo, di cui non sapeva supporre le delizie, senza provare delle vertigini quasi mortali. E faceva conto che restasse ancora il margine per una cinquantina di libri tra vecchi e nuovi, che, a furia di farsi desiderare inutilmente, eran diventati anch'essi una specie di amoroso tormento. A Bergamo aveva veduto esposto in una bottega un vestito intero di un panno grigio-ferro per sessantacinque lire: c'era da far la figura di un signorone. Per men di quaranta lire un suo collega, piú disgraziato di lui, gli aveva offerto un orologio d'oro, che avrebbe potuto diventare uno splendido anello con un rubino, un simbolo lucente che parlasse alla santarella d'un cuore vivo, coronato di spine, come quello del buon Gesú. E tutto questo per duemila miserabili lire, per molto meno, cioè, di quel che costa un cavallo! Il denaro non è l'idea, ma compera i padroni dell'idea. Misteriosa calamita, attira la simpatie degli uomini, di cui consolida il lavoro e la forza, come il raggio del sole si consolida nei frutti della terra. Il denaro è la volontà del mondo fatta metallo, è la forza quasi divina della materia, che il cieco volgo prosternato adora; e peggio per chi non ci crede! Le porte d'oro del piacere non si apriranno agli empi. Se non che le benedette duemila lire non erano per lui che una goccia di rugiada al sole. L'avvocato Brognolico aveva parlato chiaro. Si sarebbe tentato un concordato coi creditori, che, non potendo continuare essi a fabbricare mattoni, forse avrebbero potuto nel loro interesse venire a una intelligenza coi Lanzavecchia, che da padroni di casa dovevano rimanervi come servitori degli altri. Alla povera mamma doveva parer brusca questa sentenza, e piú brusca alla Lisa, con quel suo carattere indocile e caparbio! Battista doveva per ora e forse per sempre rinunciare alla sua Fiorenza, la quale non aveva servito che di specchietto per tirare gli allocchi nelle reti del sor Francesco della Fraschetta, un gran positivista anche lui! e anche Angiolino aveva finito di divertirsi colle sue trappole ai topi e cogli archetti agli uccelli. In quanto al sor Giacomo, il gran fabbricatore e negoziante di nebbia, come aveva già detto: Cara Celestina, addio, poteva aggiungere anche: Addio, filosofia! I creditori, gli avvocati, il curatore, il giudice, non potendo battere un morto e avendo bisogno di un vivo che potesse rispondere, venivano a cercare e a tormentare lui, che aveva studiato e perfino stampato dei libri. Camminando per la bella strada del sole, Giacomo cosí parlava all'ombra sua, che gli scivolava di sotto i piedi: - Intanto bisogna che ti metta nelle mani d'un uomo pratico, che ti consigli e ti mostri fin dove è dover tuo riconoscere gl'impegni di tuo padre. Un sapiente della tua forza è un pulcino nella stoppa in questi affari; tutti sistemi di filosofia presi insieme non pagano un soldo di pane. In queste angustie le profferte di casa Magnenzio e il soccorso pronto di questi buoni signori sono la mano di Dio, e tu non potresti rifiutare senza esporti al biasimo di altezzoso, di superbo e di sconsiderato. Non è elemosina, bensí una onesta anticipazione, che potrai restituire con largo interesse in altrettanto lavoro; ma fosse anche l'elemosina, il respingerla quando viene fatta a questo modo, sarebbe piú una scontrosità che un atto dignitoso. Si fa del bene anche col lasciarlo fare agli altri, e il saper ricevere non è merito piú comune che il saper dare. Se si toglie ai signori ogni occasione d'esser utili al prossimo, non si sa perché Dio li metta al mondo. Anche la ricchezza finirebbe col diventare un'illusione, se non giovasse a diminuire i mali del mondo, mentre nelle mani dei buoni e dei generosi la ricchezza è la vicaria della Provvidenza in terra. Tra questi pensieri giunse in vista delle Fornaci. Blitz,quando riconobbe il padrone, gli mosse incontro a fargli festa con un gran dimenare di coda. Giacomo gli strinse il muso, lo guardò negli occhi, e mettendogli vicina al naso la busta suggellata: - Indovina - gli disse - che cosa c'è qua dentro. - E siccome il cane ignorante non sapeva che odore avesse il denaro, Giacomo gli batté la busta sul naso, dicendogli: - Questo è l'Assoluto, asinaccio!

. - Io credo, signor conte, che ella non abbia un senso troppo esatto della gravità della situazione - osservò con forzata benevolenza il mediatore della pace. - Se Ferrazzi dichiara la guerra, è un uomo che sa tener bene la penna in mano. - Oh sí, me ne sono accorto, - scoppiò a dire buffonchiando il conte, che aveva sotto gli occhi il famoso L'orenzo. Brognòlico a questi sgambetti, a questa diplomatica impassibilità del conte, dubitò per un momento o di essere arrivato troppo tardi, cioè a cose già accomodate, o di avere a che fare con un politicone raffinato, e che sapeva rappresentare a meraviglia la sua parte di gonzo. La sua grande furberia gl'impediva d'immaginare il caso d'un uomo, che di furberia non ne aveva né punto, né poco. Temendo rimetterci anche le spese del viaggio, si affrettò a sparare tutte le batterie di guerra, nella speranza d'intimorire col rumore quelli che non poteva ferire colla mitraglia. - Senta, Eccellenza, - riprese, attaccandosi colle due mani alle spranghe degli occhiali - a parte la questione personale, creda pure che se Ferrazzi o altri, - (e tenendo la mano sollevata in aria aspettò un istante per dar tempo al conte di capire quel che egli credeva che l'altro fingesse, per una politica sopraffina, di non capire) - se Ferrazzi o altri mettesse alla luce questa storia, sarebbe una vera degringolade per tutto il partito cosí detto ben pensante. La tensione dei partiti del nostro Collegio è tale che basta una goccia d'acqua a far traboccare un mare d'inchiostro. Se lor signori non trovano il modo di appianare la cosa sulla modesta base concordata dall'onorevole di Breno e da Monsignor di San Zeno, garantisco che questa primavera portiamo un deputato radicale massonico a Montecitorio. Uno scandalo in casa Magnenzio, compromettendo i piú bei nomi dell'aristocrazia, farà perdere vent'anni di lavoro al partito clericale. Noi abbiamo le nostre Società operaie fortemente organizzate, e, se tre o quattro giornali vogliono divertirsi, lo scandalo Magnenzio, San Zeno, Lanzavecchia, abilmente lanciato, in quindici giorni fa il giro di tutta Italia. Siccome sonoamico politico non solo di Ferrazzi, ma ho qualche relazione all'Estrema, so quel che si può fare, quando c'è l'interesse di fare. D'altra parte, ho molta stima per l'onorabilità e la rispettabilità della sua casa, caro signor conte; conosco anche il signor Giacomo Lanzavecchia e so che uomo è; finalmente son uomo anch'io, so capire e compatire questi peccati di gioventú; anzi, è il caso di dire: chi di voi è senza peccato scagli la prima pietra. Ma la politica non ha viscere di pietà; quando ha fame divora, se non altro, anche i suoi figli. Permodoché, tutto sommato, vale a dire, tenuto conto degli interessi morali da una parte, degli interessi pubblici dall'altra, io credo che, in ultima analisi, noi dovressimo proprio venire a una soluzione pacifica. Ci vuol pazienza, caro conte, il mondo va pigliato com'è. Pensi che nel grosso del pubblico non c'è nulla che faccia tanta impressione come un romanzetto galante tra un elegante della jeunesse dorée e una povera ragazza del popolo. Le figlie del popolo, che servono ai piaceri dei ricchi, è un tema non ancora sfruttato, molto piú in questo caso, in cui c'è modo di battere insieme al blasone anche l'eroismo d'un ufficiale di cavalleria, che, mentre gli altri vanno a farsi ammazzare in Africa, resta a casa ad abbracciare e sedurre le cameriere. Perdoni, don Lorenzo, se oso dare al cuore d'un padre queste crudeli trafitte; ma è bene che ella abbia sott'occhio tutto quel che si può dire e tutto quel che domani potressimo stampare. Qualora, invece, si cercasse di accomodare lo strappo inter nos, senza bisogno di testimoni e di reciproche scritture, né venti, né venticinque mila lire devono parere una somma esorbitante. A questa lunga e corrente esposizione dell'avvocato Brognòlico, don Lorenzo, tenendo le mani appoggiate ai ginocchi e gli occhi immobili nel volto del suo interlocutore, prestò un'attenzione che andò di sorpresa in sorpresa, di meraviglia in meraviglia, di curiosità in curiosità, di paura in paura come proverebbe un villano ignorante davanti ai prodigi diabolici d'un abile prestigiatore. Partito col desiderio di conoscere chi fosse il famigerato Galiasso, prima trovò che il brigante era un giornalista, poi che il giornalista era d'accordo col deputato, il quale, non capiva bene in qual modo, se l'intendeva col vescovo per minacciare qualche cosa di grosso, non a lui, pover'uomo, ma a qualcuno de' suoi, che aveva abbracciata una cameriera. E quel ch'era piú bello ancora, le tremila lire di Galiasso diventavano, strada facendo, ventimila, venticinquemila. Nello sforzo che egli faceva dentro di sé per entrare nello spirito di questo strano racconto, in cui vedeva, peggio che nelle Metamorfosi d'Ovidio, un brigante trasformarsi in un narciso e un framassone in una mitria, tutte le rughe del volto confluirono sulla sua fronte, le grosse ciglia bianche formarono come un cespuglio spinoso sopra il naso, la sua carnagione andò oscurandosi come sotto una nuvola, che passasse davanti al globo della lucerna. E di mano in mano che l'avvocato andava pesando il pro ed il contro, riferendosi con certezza a fatti che erano ignoti a uno di loro, il povero conte si sentí inondare da una fredda paura, da un febbrile sgomento, che gli tolse la capacità di rispondere. Quando il Brognòlico cessò di parlare, don Lorenzo rimase lí colle mani sui ginocchi, gli occhi attenti ad aspettare il resto della curiosa storia. Vedendo che l'avvocato non aveva piú nulla a dire e che ora toccava a lui, proprio a lui, di parlare, alzò lentamente una mano, che tenne sollevata un pezzo in aria, mosse le labbra entro una frase sconnessa, in cui passò ancora una volta il nome di Galiasso, e, allungato il braccio tremante fino a toccare il bottone del campanello, a Fabrizio che comparve sull'uscio, chiese: - È tornata la signora contessa? - Sí, signor conte. - Digli che l'aspetto qui. Nel breve intervallo che rimasero ancor soli, l'avvocato, che stava studiando l'effetto della sua proposta sulla cera appannata del conte, interpretando il suo silenzio come un freddo e disdegnoso risentimento, cercò di raddolcire la sua proposta, dicendo che non si sarebbe mai fatta una questione di numeri, che, con un po' di deferenza dalle due parti, si sarebbero facilmente messi d'accordo. Donna Cristina era appena tornata dalla conferenza, quando Fabrizio venne ad avvisarla che il conte aveva bisogno di parlarle. Al nome dell'avvocato Brognòlico, ch'essa conosceva come un suo nemico nato, vale a dire quanto un giacobino deve essere nemico di un aristocratico, indovinò quel che poteva essere accaduto. Fabrizio non osò disingannarla. Si può immaginare che cuore fosse il suo, quando con passo rotto, con una pesante spossatezza di tutto il corpo, entrò nello studio del conte - Guarda un po', Cristina, se sai spiegare questo biglietto del deputato di Breno - Il conte, in piedi dietro la scrivania, indicò col tagliacarte d'avorio l'avvocato, che all'entrare della contessa si era tirato in piedi anche lui e stava in attitudine rispettosa: - Presento il signor avvocato Galeazzi: voglio dire Ferrazzi . - Brognòlíco - corresse l'altro; il quale, volendo in poche parole far capire alla signora lo scopo e l'importanza del suo mandato, si affrettò di soggiungere: - Signora contessa, vengo a nome di Monsignor vescovo. Il conte, sempre in balía d'un tremito convulso, toccando ora un libro, ora un calamaio, ora una penna, come se cercasse con questi contatti materiali di scaricare una corrente di elettricità, agitando il tagliacarte in aria, domandò volgendosi alla contessa: - Devi tu qualche cosa a Monsignore? ti sei forse impegnata in qualche obbligazione politica? chi è che abbraccia le cameriere in casa mia? Si può sapere qualche cosa di quel che si fa e di quel che si búggera in questa casa? mi scrivono lettere minacciose, vengono in casa mia a farmi delle proposte disonoranti, mi oltraggiano in ciò che mi resta di piú nobile, e non mi è dato nemmeno sapere a chi devo dir grazie. E che c'entrano i giornali coi fatti miei? Io non li leggo nemmeno i giornali, per non guastarmi lo stile, e quindi posso pretendere che non abbiano a occuparsi di me. Sai che cosa ha avuto il coraggio di dire questo signore a un nobile Magnenzio di Villalta? - Il conte nel metter fuori queste parole appuntò il tagliacarte d'avorio come una spada verso gli occhiali affumicati. - Ha avuto il coraggio di dire che in casa Magnenzio le figlie dei popolo servono ai piaceri dei padroni . La contessa, non potendo piú sostenersi sulle gambe, si lasciò cadere col corpo quasi sfasciato sopra una sedia. Era un'altra battaglia perduta. E il conte, sempre piú acceso in viso d'un color rosso, che faceva comparire ancor piú candidi i capelli lunghi ed i baffi, battendo col tagliacarte sul legno della scrivania, prese a dire, colla dignità con cui avrebbe declamato all'Ateneo di Bergamo il suo "Discorso preliminare": - Signor avvocato Brognòlico, lei è entrato in casa nostra colla presentazione d'un amico e d'un parente e io amo rispettare in lei il carattere sacro dell'ambasciatore; ma mi permetta di dirle, e lo dica pure a chil'ha mandato, che i Magnenzio, da Berengario in poi, non solo non hanno mai risposto a proposte disonoranti, ma possono dire con Dante: la vostra miseria non mi tange . E come se in questo supremo sforzo morale si fosse consumata l'ultima energia della schiatta, il conte, arruffato un gran gesto colla mano stanca in aria, restò a bocca aperta, paralizzato, nell'incapacità fisica di continuare. Accorse Fabrizio, che, sorreggendolo, gl'impedí di cadere. La contessa gettò un grido spaventato e si affrettò a riceverlo nelle braccia. Si mosse anche l'avvocato, che ritirò le sedie, fece largo per aprir la strada verso l'uscio della cameretta vicina, dove il povero conte fu adagiato su un divano. Preso da uno dei suoi accessi di cuore, sbarrando gli occhi, non faceva che mormorare delle sillabe scucite, che parevano invocare un po' di carità, un po' di compassione. Agli squilli dei campanelli uscirono altri servi, accorse miss Haynes, che fu mandata indietro a trattenere donna Enrichetta. Il conte cominciò presto a riaversi. Allora donna Cristina, tirato in disparte l'avvocato, definí con lui in un discorso concitato e positivo quest'ultima parte della vertenza e gli consegnò un biglietto per il ragioniere Riboni. - Sono addoloratissimo, creda, signora contessa, di essere stato causa innocente di tanto male; se avessimo immaginato che il signor conte non era al fatto delle cose, non avressimo certamente. - Ma la contessa gli voltò le spalle prima che egli avesse potuto finire. Col prezioso biglietto in mano Brognòlico traversò le due anticamere, uscí sullo scalone, si fece indicare da un servo lo studio del ragioniere Riboni, e guardando l'orologio per rifare i suoi conti sul tempo, si rallegrò in cuor suo di aver spazio avanti a sé anche per mangiare un boccone. Se avesse potuto formulare in parole la confusa compiacenza, che rischiarava in quel momento la sua diplomazia, senza pretendere di far ombra a Nicolò Machiavelli, avrebbe potuto riassumere il suo pensiero in questa grave sentenza: "La miglior politica non è quella che corre, bensí quella che arriva a tempo".

Se Giacomo ha avuta la fortuna di trovare dei benefattori che l'hanno fatto studiare, non è una ragione perché egli abbia a mangiare dei sassi. Non sarà mai un disonore che il nome d'un Lanzavecchia sia stampato sul cartone d'un libro. Io non so che cosa è la scienza, perché la vacca quando ero un ragazzo mi ha mangiato l'abbecedario, ma mi diceva il conte Lorenzo, quando sono andato ieri a portargli le tegole per la rimessa, mi diceva che a Bergamo e a Venezia son rimasti di princisbecco per quel che Giacomo ha scritto su quel cataclisma dell'avvenire: dillo tu come si chiama quel tuo libro per cui ti hanno dato un premio. Né io, né tua madre non ne capiremo mai una saetta, perché siam nati quando andavano ancora in processione le formiche; ma don Lorenzo non è un'oca, e, in intuito, istruzione, sa quel che pesano le lasagne. Io non so che cosa sia la scienza, ripeto, ma fosse anche una scopa, il merito è di saper adoperarla. E se quei signori di Venezia dànno un premio di tre mila lire a un Lanzavecchia, capisci, scarmigliona . - Mi dànno meno, molto meno, pà - interruppe Giacomo sorridendo. - Poiché Dio ti ha dato il dono di maneggiare bene la penna, dovresti, gamba di un cane, scrivere qualche diaspro su questa porcheria dell'esattore, che ogni anno ti aumenta la ricchezza mobile. Sotto il cessato governo austriaco, prima del sessanta, sipagava il pane in questi paesi non piú di cinque soldi la libbra, e per cinque soldi avevi un boccale di vino di Mondònico che avrebbe fatto cantare i morti. Oggi questi italiani ti fanno pagare sette soldi la libbra il pane, e dico soldi di cinque centesimi l'uno; e a stento per ottanta o novanta centesimi ti dànno uno scongiurato vin di Barletta che ti abbrucia le viscere. Sotto il cessato, un onesto padre di famiglia, che non avesse il capo alla politica, era sicuro di lasciare un po' di dote alle sue figliuole, fare una posizione a cavallo ai maschi, e salvarsi un bicchier di vin vecchio. Sotto questi che comandano adesso, uno non salva nemmeno i denari del suo funerale. E voglion che si gridi viva l'Italia! Grideremo: Viva i ladri! Che se domani volessi, per citare un caso, maritare quella povera cristiana, - e nel dir queste parole il vecchio fornaciaio andava segnando colla punta della forchetta la ragazza lunga e liscosa, - dopo quarant'anni di sacrosanto lavoro, mondo scongiurato, non ho quasi da comperarle un paio di scarpe - O caro il mio pà, se lo dite un po' piú forte, vengono a cercarmi i tre re magi - protestò la Lisa, ridendo nel piatto con un fare tra l'amaro e il dispettoso. - Sí, sí, cara la mia ricchezza mobile - seguitò quel rumoroso padre di famiglia. - Oggi l'aver dei figliuoli non è piú una consolazione. Ecco quel che dovresti scrivere in bel volgare, Giacomo, scriverlo e stamparlo sulle loro gazzette a questi italiani, che il diavolo porti sulla forca . - Ohibò, un uomo che ha avuto un figliuolo garibaldino - provai a dire per far sonare un'altra corda meno stridente; ma il vecchio impetuoso, che cominciava a sentire le tazzette del suo vecchio diaspro, e che da quel ch'era facile capire, sedeva su vecchie piaghe, mi tagliò la parola in bocca per dirmi, strillando come un'oca: - Eh, eh, si è ben creduto che il Garibaldi e compagnia bella dovessero portar l'abbondanza. A sentire gli italianoni d'allora si dovevano legare le siepi colle salsiccie e l'Adda doveva correre vin di Piemonte. Mondo scongiurato, che fallimento! per ogni garibaldino morto per la patria, son spuntati dieci esattori vivi che ti mangiano vivo. - E come se cercasse di spegnere un gran fuoco interno, Mauro Lanzavecchia tracannò la sua quarta o quinta tazzetta. In mezzo a questi discorsi, nei quali però né Battista, né Angiolino non misero mai parola, la cena finí presto. La mia presenza forse dava ombra ai due giovani, che, finito appena d'ingoiare l'ultimo boccone, dettero una selvatica buona sera e se ne andarono pei fatti loro. - Non tornare a casa come l'altro sabato, Battistella, se non vuoi che ti rinfreschi col secchio del pozzo - gridò il pà verso il maggiore dei due che si allontanò zuffolando. Poi, voltosi a me, soggiunse: - È un ragazzo un po' corto di cervello, che si lascia facilmente ingarbugliare dal vino. Forse non è tanto la quantità che fa male, quanto il meridionale che ti vendono quest'italiani di osti. Piú tardi venne a sedersi intorno alla tavola, nella frescura del pergolato, che tremolava teneramente al caldo riflesso della lampada, il maestro della banda, e quel don Andrea, padrone del "Roccolo", un prete bergamasco, che avviò il gran discorso della caccia, delle allodole, dei fringuelli, delle quaglie, dei cani da naso, dei cani da fermo, con quella gravità di sentenze, che ogni buon bergamasco mette in questa speciale istituzione della sua provincia. Essendo sfuggito al prete un giudizio alquanto avventato sulle correnti d'aria della riva lombarda, dove la passata degli uccelli in certe stagioni è quasi nulla, tale da non pagare nemmeno la spesa delle reti, il patriottismo del sor Mauro si risvegliò di botto come un leone affamato; e tra lui e quel pretucolo ruvido e nero come un carbonaio, il battibecco durò un pezzo con tanto calore che bisognò rinnovare il fiasco. La sera passò d'incanto, e non mi parve vero che fosse l'ora d'andare a dormire. Prima di salire a sognare la polenta colla ricchezza mobile, mi lasciai condurre da Giacomo a fare un giretto intorno alle fornaci, su cui batteva una bella luna d'agosto in ritardo.

Mi pare che, prima d'ora, non abbia mai saputo che cosa sia soffrire, né mai prima di questa grande battaglia ho tanto compatito chi piange. Ora, sí, sento nel cuore le sette spade dell'Addolorata e capisco come le ricchezze, i titoli gli onori, le vanità del mondo, non valgano un'ora di buona coscienza. Non c'è donna cosí povera tra queste contadine, colla quale non farei cambio volontieri, se Dio mi potesse restituire la pace. No, il morire non è il peggior male: è peggio il non poter morire, quando si vuole. Dio sa se io vorrei essere sotto la terra da dieci anni! almeno sarei morta nell'illusione della mia felicità, nella freschezza delle mie gioie materne, sarei morta compianta, benedetta, e avrei trovato nella memoria de' miei cari il suffragio, che ci fa vivere anche dopo la morte. Questa invece non è né la vita, né la morte. È un'agonia, un singhiozzo che non cessa mai. Io sono un dolore solo, temo d'ogni scossa, non ho piú lagrime e non ho finito di piangere, non ho riposo né giorno né notte, e, poiché non posso morire, invoco quasi la pazzia, che mi liberi da questa spaventata coscienza. Lorenzo, che non deve mai saper nulla, s'è lasciato persuadere a restare al Ronchetto fino a dicembre: cosí almeno spero di poter rivedere il giovine e di strappargli almeno una promessa, che salvi la mia povera casa. Come potrei abbandonare questo campo di battaglia? Alla ragazza non dite nulla per ora di questa malattia del giovine; ma procurate di secondare le idee, che espongo nella lettera qui inclusa per lei. E poi pregate per me: mai ho avuto tanto bisogno della preghiera di tutti. Giacinto non scrive piú, ma so che mi rimprovera di non saper far nulla per lui. Non immagina nemmeno quel che mi costa di fatiche e di spasimi questa sua colpa. Dio salvi lui e me dal dover rendere i conti, Quando mi sforzo d'immaginare quel che accadrebbe intorno a noi, se uno di questi giornali nostri nemici, che combattono per l'empietà, stampasse il nostro nome nella cronaca degli scandali; quando penso al giudizio che di lui, di me, di suo padre pronuncerebbero i nostri parenti e gli amici che ci stimano, dico il vero, non mi pare quasi che sarebbe un maggior avvilimento, se Giacinto riparasse al suo errore, come si fa in altri ceti, sposando la ragazza."

"Che l'ex- impresario abbia a cercare anche questa volta il suo vantaggio, è chiaro come il sole; ma, nel suo vantaggio, non si può negare che non vi sia un utile e una sicurezza anche per noi. I miei fratelli, se va quest'accordo, metterebbero le braccia, e l'ometto della Rivalta il grande ingegno che Dio gli ha dato per far quattrini. La casa resterebbe cosí assicurata a queste povere donne, che, alla sola idea di andar raminghe per il mondo (e dove si andrebbe?), si lascierebbero morire di spavento. Questo signor Mangano trova che io non manco d'un certo bernoccolo per gli affari, e da una settimana in qua mi ronza intorno, perché persuada la contessa a cedergli un certo campo e una cascina, detta la Colombera, in corrispondenza di alcune cambialette di don Giacinto cadute nelle sue mani. È un tasto doloroso che dovrò toccare alla contessa: ma non è la prima e non sarà l'ultima volta. Ed eccoti, caro trapezio, come un filosofo idealista, quasi trascendentale, può trasformarsi, senza ch'egli se ne accorga, in un mediatore di affari e in un fabbricatore di tegole. Ovidio non ha prevista questa metamorfosi". E finiva la lettera con questa notizia: "Celestina è stata poco bene in questi giorni con una piccola minaccia di tifo, che pare scongiurata. Essa ha trovato nella contessa una madre amorosa, che me la farà guarire". Giacomo era tanto lontano dall'immaginare il terribile disastro della sua vita e dal supporre nella gente oscure intenzioni che non esitò a trattare direttamente per incarico della contessa questa faccenduola delle cambiali di don Giacinto, recandosi egli stesso una bella mattina di ottobre a far visita al signorotto della Rivalta. L'edificio, che portava il nome di Rivalta, avrebbe quasi potuto aspirare all'onore di palazzo, se non fosse stato il deplorevole abbandono, in cui da cinquant'anni in qua lo avevano lasciato i molti e cattivi padroni, che se l'erano barattato. Di fuori conservava ancora le traccie e la fisionomia dello stile pesante del seicento per il suo portone a grossi dadi di pietra, sovraccaricato da un enorme mascherotto di sasso, e per due vecchie colonnette mal sagomate messe davanti, che reggevano ancora qualche rugginoso pezzo di catena; ma l'erba cresceva tra i ciottoli del grossolano selciato, spuntava dalle screpolature delle sconnesse cornici, le gelosie si sgretolavano nei loro vecchi telai,dopo aver lasciata l'ultima vernice come una allumacatura lungo le pareti delle muraglie, e le macchie s'incontravano, scendendo, coll'umidità che saliva dalla corte, come sparse ombre di desolati fantasmi. Il caseggiato signorile, dopo aver servito per alcuni anni ad uso di filatoio, era caduto, in conseguenza d'un fallimento, nelle mani rapaci di questo signor Ignazio, un ex-impresario teatrale, intraprenditore di affari indecisi, sovventore riconosciuto di denaro al prossimo, che tra le molte trappole aveva piantata qui la famosa sega a vapore. La sega non lavorava piú per mancanza, diremo cosí, di combustibile; ma il sottile affarista lavorava sempre anche al buio, stendendo i suoi fili invisibili per un circuito di venti o trenta miglia a tutti gl'ingenui, a tutti i discoli, a tutti gli allucinati, a tutti i credenti e miscredenti della fortuna. Mauro Lanzavecchia era stato uno degli ingenui. Siccome questo signor Ignazio, ricco ormai del suo, era oggi molto meno bisognoso di far affari, aveva sugli altri suoi pari il vantaggio di poter aspettare le buone occasioni, le quali non si maritano che agli uomini pazienti. E ciò spiega come molti buoni figliuoli di famiglie oneste lo preferissero agli altri esosi speculatori di mestiere, che non mirano che a guadagnar presto. Don Giacinto l'aveva, per esempio, sempre trovato un uomo ragionevole, e in certe occasioni quasi generoso. La stessa educazione dell'uomo, che aveva molto viaggiato e trattata la compagnia variopinta degli artisti, oltre a dargli il trattocivile e corretto, non gli permetteva di mostrarsi sordidamente avido e taccagno, come si mostrano gli strozzini di seconda qualità. Dacché cominciava a invecchiare e a schiudere la mente, come soleva dire, ai casti pensieri della tomba, il suo primo pensiero non era tanto di far quattrino da quattrino, quanto di collocare onestamente la sua Norma a una persona onesta, che facesse onore al suo denaro. Un galantuomo è anche lui un buon capitale nel mondo, quando sia ben impiegato; e nessuno sa meglio apprezzare la rendita che fruttano le modeste virtú di un uomo onesto, quanto colui che si è trovato qualche volta nelle condizioni di non poter esserlo. Questo pensiero non era estraneo al desiderio, che lo spingeva ad accostarsi al giovine Lanzavecchia, a mostrarglisi ragionevole, docile, transigente, migliore della sua fama, disposto ad accogliere una buona proposta, a rendere un buon servizio, a riparare, se pareva necessario, un torto o una ingiustizia, a rimetterci del suo, piuttosto che passare agli occhi del sor Giacomo come un aguzzino bramoso del sangue altrui. E in questo suo desiderio era tanto piú lodevole in quanto che, a sentirlo, avrebbe potuto maritare la sua Norma a fior di banchieri ricchi sfondati e, se avesse voluto, farne una contessa o una marchesa. Duecento mila lire pronte e il resto a babbo morto, col tempo che fa, possono indorare le vecchie corone, che, senza lo splendore del metallo, nessuno le vuole piú nemmeno per insegna d'osteria. Invece, se Giacomo Lanzavecchia si fosse fatto avanticol fallimento in una mano e il suo diploma nell'altra, l'amoroso padre l'avrebbe preferito a un principe, non una volta, ma quante volte il carattere, l'intelligenza, il sapere, il nome superano i titoli oziosi. Giacomo andò alla Rivalta col denaro e coll'autorizzazione di ritirare le cambiali, che don Giacinto aveva rilasciate a favore di alcuni suoi compagni di studio. Dal piazzaletto della vecchia villa si dominava un gran tratto della valle e del corso dell'Adda. Il Ronchetto col suo fastoso palazzo biancheggiava nel verde folto del giardino; piú sotto era il Santuario; e piú in basso ancora le Fornaci, con due vecchi camini lunghi e affumicati, colla vecchia casa dal tetto bistorto, dai pioventi cascanti anneriti dal tempo, coi riquadri dei mattoni rossi, che spiccavano sugli spazi giallognoli esposti al sole dove gli operai lavorano a modellare la terra nelle forme, all'ombra di un graticcio di foglie secche. Dall'alto si poteva scorgere anche un tratto del muricciuolo, che chiude il camposanto. Giacomo si soffermò un istante a riassumere, con un'occhiata pensosa, la storia della sua povera casa, e provò un senso quasi d'orgoglio davanti alla riflessione che la filosofia, usata bene, può servire a qualche cosa. Se i creditori non erano piombati come uno stormo di avvoltoi sulla sua casa, se i suoi fratelli avevano lavoro e sua madre un letto e un boccone di pane, il merito stavolta era stato dei mangialibri. La stima lungamente coltivata aveva fruttato il credito; e il credito aveva disarmata l'avarizia. "Anche i buoni son furbi" - finí col conchiudere in cuor suo, mentre coll'occhio andava a cercare tra le sessanta finestre di casa Magnenzio una certa finestra verso ponente, a cui soleva mandare le sue giaculatorie. Era la stanza di Celestina. La trovò,l'ultima sopra le serre, vi si fermò un istante, e, ricordando che "Frulin" era malata, un senso di oscura tristezza passò come una nuvola nell'animo suo. Un grande abbaiamento di cani lo fece uscire dai suoi pensieri. Si mosse e andò a battere al portone chiuso. Al rimbombo, che rispose di dentro, si raddoppiò lo sguaiato abbaiamento, in mezzo a cui risonò la voce poco armoniosa d'una donna, che sgridava le bestie, inviandole all'inferno. Il catenaccio interno cigolò un pezzo negli anelli, si aprí uno sportello, e comparve la figura poco pulita d'una vecchia serva, che, colle maniche rimboccate fin sopra ai gomiti, dava maledizioni con un padellino a quattro o cinque botoli grassi, ringhiosi che si avanzavano. - È lei, sor Giacomo? venga avanti. - C'è il signor Ignazio? - domandò Giacomo alla donna, nella quale riconobbe una certa Serafina, che aveva servito molto tempo in palazzo. Si voleva che l'avessero mandata via per poca fedeltà. Sui passi della donna, attraversò una corte d'apparenza signorile, ma forse d'aria ancor più umida e tetra che non fosse di fuori. - Sora Norma - chiamò la serva. Una bella voce di contralto rispose con un gorgheggio: - Chi mi chiama? Ed ecco subito dopo comparire sull'uscio della sala una florida ragazza, dal portamento soldatesco, coi capelli scomposti sopra un giubboncello rosso fiammante ornato di alamari d'oro come una divisa ungherese, che si teneva in braccio una cagnolina appena nata, colla tenerezza con cui si porterebbe una bimba a battezzare. Gli occhi grandi e nericome quelli delle famose odalische ebbero un lampo di gioia. Tirandosi accosto l'uscio, senza però nascondere la bella e arruffata testa di zingara, la signorina Norma si scusò di non essere presentabile, e pregò il signor Lanzavecchia di passare nello studio di papà. Il signor Ignazio, con indosso una vestaglia da camera a fiorami rossi su fondo giallo, con un berretto da cavallerizzo in una mano, stese l'altra mano al caro visitatore, si sprofondò in cerimonie, che avevano un non so che di frettoloso e diagitato, e, chiesto perdono per il gran disordine, fece sedere Giacomo in uno stanzino pieno di vecchi mobili, di quadri, di suppellettili preziose, che gli davano l'aspetto d'una bottega di rigattiere. L'ex- impresario, magro, secco, nervoso, col viso volpino di certi uomini d'affari, si mostrò d'una cortesia infinita, profondendosi in complimenti, che il suo accento triestino rendeva ancora piú morbidi. Quando Giacomo fece l'atto di levare il portafogli di tasca, non volle assolutamente né ricevere, né vedere il denaro: - Dica alla signora contessa che non intendo far speculazioni sulla inesperienza di un giovinotto allegro. Don Giacinto ha firmato per gli altri, ed è giusto che gli usi qualche riguardo; io sono pronto a rinnovare questi piccoli effetti, che possono valere molto meno di quel che dicono. Spero invece che la signora contessa vorrà accontentare quel mio modesto desiderio che lei sa, caro signor Giacomo, e vorrà cedermi quel pezzo di campo della Colombera a cui faccio la corte da un pezzo. Questa Rivalta è un cimitero, come vede, e il mio sogno è di finire i miei giorni al sole. Lei deve assolutamente aiutarmi in questa faccenda. - Casa Magnenzio non usa a vendere e non so come potrò persuadere la contessa . - Lei può molto, ora, lo sappiamo; e sappiamo anche che può chiedere quel che vuole a quei signori. - Sono un magro mediatore - tornò a dire il buon uomo. - Lei è piú filosofo di tutti, mi lasci dire, e noi dobbiamo fare della strada insieme. Ora le presenterò mia figlia. - E, dirizzandosi coi suo passetto scivolante verso l'uscio, chiamò due o tre volte: - Norma, vieni un po' qua.- E poi gridò verso la cucina: - Porta il caffè, Serafina. - E poiché Norma si faceva alquanto aspettare, egli tornò a sedersi davanti al giovine, pose confidenzialmente le mani ossute e lunghe sui ginocchi di lui, e, dopo aver battuto tre o quattro colpetti confidenziali, passò la mano sul filo di due baffetti sottili, tinti e tirati aguzzi come punteruoli: - Che piacere che provo, caro professore, di stringere con lei un po' d'amicizia. Io non sono né un letterato, né un protettore di letterati, ma so giudicare gli uomini e li peso per il loro valore. Lei è un uomo, che andrà molto avanti, e per la strada maestra. Noi poveri affaristi, che siamo costretti a rimestare negli stracci, non sempre le mani vanno dove si vorrebbe. La scienza invece è una cosa astratta e pulita; non solo, ma la scienza oggi è la sola e genuina aristocrazia possibile di fronte a questi contini e marchesini, che non valgono piú della porcellana rotta. Il mondo, oggi, è di chi pensa e di chi lavora. Vieni, Norma - disse, alzandosi di nuovo, andando incontro alla figlia, che entrava col vassoio del caffè. - Conosci il professor Lanzavecchia? è un filosofo, che è stato anche garibaldino. La penna e la spada, ecco uno stemma che mi piace. Giacomo si alzò, s'inchinò alla signorina, che nel frattempo aveva dato un colpo di pettine alla chioma selvaggia, e accettò il caffè, ch'essa gli versò lentamente da un cuccumino tignoso, stando in piedi come un gendarme davanti a lui, carezzandolo cogli occhi neri e morbidi come il velluto, fino al punto di costringere il bravo giovinotto ad abbassare i suoi sul piattello. - Questo è il mio gioiello, dirò anch'io come la madre dei Gracchi - esclamò l'orgoglioso padre, stringendo con affettuosa dimestichezza nelle dita la gota rubiconda della ragazza - e, siccome non ho che lei al mondo, posso dire che questaè la mia vita. Essa è nata in America da madre spagnuola. Non è forse un bel pezzo d'andalusa? Avrebbe voluto studiare il canto anche lei come sua madre, che è morta, poverina, di febbre gialla: ma io, che conosco il mestieraccio, glielo proibisco. Quando si hanno duecentomila lire di dote, si può fare qualche cosa di meglio che non andare a scopare i palcoscenici colle gonnelle. - Sposerò un principe russo - uscí a dire la bella creatura con tono lieto e scioccherello. - Che principe d'Egitto! sposerai l'uomo che ti piacerà, e mi darai dei nipotini, ai quali voglio lasciare qualche cosa, perché tuo padre non ha ancora eseguiti tutti i pezzi del suo programma. Si parlò di molte altre cose alla ventura, fin che Giacomo, sentendosi avviluppato in quell'aria come da invisibili ragnatele, con un atto d'energia, che sapeva trovare nei momenti decisivi, alzandosi repentinamente, tagliò corto col dire: - Bisogna che io veda subito il ragioniere Riboni e lo mandi qui a definire la faccenda di queste cambiali. La signora contessa desidera che il conte non ne sappia nulla . - So rispettare tutte le delicatezze - disse il padrone di casa con un fare umile umile. - Io spero che il signor Giacomo vorrà favorirmi qualche altra volta. Abbiamo di là una piccola raccolta di monete antiche, che forse potranno interessarla. Norma sa distinguere benissimo un Nerone da un Diocleziano. Sento dire che anche il conte Magnenzio è un mezzo antiquario. Lo incoraggi, e me lo conduca qualche volta. Troverà prezzi, dirò cosí, di fallimento. Norma, accompagna il signor professore . E dopo avere stretta la mano di Giacomo nelle sue di scheletro vivente, s'inchinò per l'ultima volta, chiuse l'uscio, lasciando che la ragazza accompagnasse il giovane a vedere la raccolta delle medaglie antiche. Ma Giacomo, che possedeva la sua psicologia e sapeva servirsene, mostrò di avere una grande premura, promise che sarebbe tornato con piú comodo e, rinnovati i suoi rispetti alla signorina, si avviò verso il portone seguito dai botoli, che mostrarono colle loro giravolte e con certi mugolii di tenerezza di saper anch'essi apprezzare la filosofia. Quando Giacomo fu di fuori, corse a un tratto per la bella strada al sole, colla contentezza del topolino che fugge da una trappola troppo grande per il suo piccolo corpo. Che il signor Ignazio volesse bene a sua figlia e lavorasse per accrescerle la dote, che Norma, la figlia della spagnuola, avesse due magnifici occhi e un fare procace di baiadera, eran cose naturali, che stavan bene al loro posto; il punto difficile cominciava nel voler trovare quel tal uomo rispettabile, che servisse di errata corrige alle cattive speculazioni del suocero e che, insieme a una bella ragazza spettinata, si rassegnasse a sposare una ricchezza racimolata nei due emisferi a furia di baratti e di usura. Sollevando lo sguardo alla finestra della sua Celestina, l'ultima sopra le serre, che splendeva nella luce del sole, gli parve di guardare in un angolo del paradiso.

Se ti pare che io abbia fatto qualche sacrificio per questa povera casa, dovrai compatire se desidero mettermi a posto. Qui finirei coll'essere la zia senza denti, o col mangiare un pane, che non mi vorrà passare quel giorno che madamisella tornasse in casa a comandare piú di prima. Ti parevo troppo ingiusta, quando dicevo che madamisella non era fatta per noi: sarà stata una disgrazia, ma a me non è capitata. Comunque non sarò io che starò ad ingrassare sui peccati degli altri. Questo matrimonio invece arriva a tempo, come l'arca di salvazione. Lo zio prete ne avrebbe già parlato alla contessa: e quando tu non avessi nulla in contrario, si potrebbe fare questo carnevale. Non è l'anno d'allegria, no di certo: ma il povero pà, se dà un'occhiata in qua, vorrà ben perdonare, se non lasciamo finire l'anno di triste condizione. Queste non sono allegrie, cara Madonna! son rimedi da far passare la miseria. Mangia dunque: non lasciarti prendere dall'ipocondria; son già troppe le tribolazioni senza bisogno di andarle a cercare col lanternino. Giacomo si sforzò di mangiare; ma nel mettere in bocca il pane, gli risonò nell'animo con una violenza irrefrenabile la frase di Angiolino: Che non si dica che noi si mangia il pane sporco. Uno stringimento della gola, una nausea nervosa dello stomaco gli fece sputare nella cenere il boccone, che egli non sapeva né rompere, ne inghiottire. Sentendosi il cuore pesante e tormentato, cosí ch'egli temette per un momento di non potere piú trascinarlo innanzi, né potendo togliersi dalle ossa i brividi, prima ancora che la giornata fosse scura del tutto, andò a letto e pregò che lo lasciassero quieto.

Che Blitz, il vecchio scettico, abbia ragione quando abbaia?". Era la metà di settembre. Mauro Lanzavecchia tornava sul far della notte, dopo una giornata calda e afosa, dall'aver visto il suo terzo avvocato a Oggiono, colla brutta notizia in corpo che il tribunale di Lecco, sull'istanza dei piú ostinati creditori, aveva fatto dichiarare il fallimento. Questo era il bel risultato di una lunga e accanita battaglia che da due anni a questa parte sosteneva egli solo contro la mala fortuna, contro gli imbroglioni, contro il governo, contro l'agente delle tasse, contro ogni sorta d'angherie e di strazi. Era partito a piedi da Oggiono per il bisogno di rompere in qualche gran sforzo la tremenda irritazione che il brutto avviso aveva prodotto nel suo sangue già avvelenato e guasto. E per darsi forza, e piú ancora per prepararsi un coraggio fittizio che l'aiutasse a portar a casa la sua condanna di morte, s'era fermato lungo la strada alla soglia di parecchie osterie a bere qualche tazzetta del solito scongiurato meridionale, a far delle celie amare cogli osti e cogli avventori contro questa perla di governo d'italiani, che prima ruba ai galantuomini e poi, se non può scannarli, li mette in prigione. Quando giunse in vista del Ronchetto, che dominava col suo palazzone come una macchia biancastra sul fondo oscuro del poggio, si fermò un respiro in mezzo alla strada, si appoggiò colle due mani sul pomo del bastone, fermo coi piedi nella polvere a contare le ore che scoccavano alla Madonna del Bosco. - Sette, otto, nove, nove e mezzo - contò, movendo un dito dopo l'altro come se sonasse il cembalo. A quest'ora a casa sua dormivano già. Che faceva lí nel buio, nel deserto di una strada? Se invece di voltar verso le Fornaci avesse preso il sentiero che scende all'Adda? Or sí or no, a seconda dei voli del vento, s'egli stava a sentire, saliva il rumore stridulo dei fiume a dirgli qualche cosa. "Cani, cani, cani" diceva mentalmente con forza; dopo tregenerazioni di galantuomini, dopo quasi ottant'anni di onesto e indefesso lavoro, tràcchete, i Lanzavecchia erano costretti a dichiarare il loro fallimento, a lasciar portar via le fornaci, la terra, la casa, vale a dire costretti a cercar l'elemosina, a mangiare il pane degli altri, a patire il disonore come se si trattasse d'una stirpaccia di scongiurati italiani. Insieme alla brutta parola di fallimento l'avvocato di Oggiono aveva fatto capire per giunta che il tribunale avrebbe cercato i libri. Che libri? I Lanzavecchia avevano scritto su tutti i muri: "Poveri, ma onesti ." questo sí; ma era inutile cercar loro dei libri. - Sarebbe bella, - disse sospirando e fermandosi un'altra volta presso il muro del camposanto, su cui batteva il chiarore d'un pezzo di luna avvolta in una nuvolaglia piena di guizzi di caldo, - sarebbe bella che si dovesse, per far presto, andare in galera. E come se all'idea sola di questo curioso accidente si svegliasse in lui la voglia di ridere, rise un pezzo di sé stesso, dondolandosi sulle gambe stracche, facendosi vento al viso infiammato col cappello. In quel camposanto lí vicino era sepolto Galdino Lanzavecchia suo padre, che portava sul capo una croce di sasso con su scritto in parole di bronzo: "Negoziante probo ed onesto .". Vicino a questa ce n'era un'altra di croce, d'un sasso vecchio vecchio con su scritto in parole, sbiadite: "Nicodemo Lanzavecchia uomo operoso e integerrimo .". Sarebbe stata bella, gamba d'un cane, che i suoi figliuoli dovessero scrivere sulla terza: "Mauro Lanzavecchia, fallito come un governo" .! Soltanto a pensarle queste cose, sudava nella freschezza che la valle mandava su; ma egli aveva la fornace di dentro. Era un calore che, gli abbruciava le viscere, che tutta l'acqua dell'Adda non sarebbe bastata a spegnere. Che gli restava di fare? annegarsi? attaccarsi a una trave della stalla prima che il governo mandasse i carabinieri ad arrestarlo? - O povero me! o me disperato per sempre! che cosa ho io fatto di male in tutta la mia vita? poveri morti, ditelo voi, se non ho sempre lavorato con giustizia e con carità. E doveva proprio toccare a me questa maledizione, a me che ho salvato cento volte gli altri, e non solo a parole, ma coi fatti, coi fatti, coi fatti . Un passo dopo l'altro, guidato dalla pratica che fa trovare all'orbo la strada della dispensa, venne fin presso le case del paese, fin all'osteria della Fraschetta, che fa quasi da sentinella sull'incontro delle strade. Un chiarore caldo traspariva attraverso le tendine rosse della porta, da cui usciva anche un brontolare spesso di voci rotto dai colpi di nocca che i giocatori lasciavano cadere sul banco. Mauro montò sul primo dei tre scalini che mettono alla bottega e cercò di ficcar l'occhio dentro per vedere chi c'era. Attraverso agli interstizi, che lasciavano le tende flaccide e molli, vide la solita compagnia, cioè il mugnaio del Lavello, il sarto, il magnano idraulico, il beccamorto, raccolti sulle ultime tre carte di una partita a tresette, a cui assistevano, fumando un'oncia di pipa, due o tre villani scamiciati. Una lampada tonda a petrolio versava dal palco su quel gruppo di faccie indurite dall'attenzione una luce cruda e lividastra che sbiadiva sul fustagno sporco, sulle rozze camicie, lasciando ombre nere negli angoli piú segreti della stanza. Mauro cercò se c'era in bottega Francesco, l'oste, il piú grosso de' suoi creditori. Avaro come una formica, arido come l'esca, non era uomo da regalare il suo a nessuno, ma il fornaciaio sperava che in considerazione del pattuito matrimonio fra Battista e la Fiorenza, trattandosi di mescolare il sangue e i denari, l'oste avesse ad accettare una combinazione, che permettesse a un povero uomo di vivere gli ultimi giorni in casa sua e di morire nel suo letto. Forse era conveniente parlargliene subito e strappargli di bocca una promessa prima che la notizia del dichiarato fallimento gli arrivasse all'orecchio. Esitò un momento prima d'entrare, perché, tra i soliti avventori seduti al banco, c'era la lingua maledica del mugnaio di Lavello, al quale Mauro si era creduto in obbligo di dare in piú d'un'occasione, qualche lezione gratuita di educazione e di saper vivere. Gli pareva già di sentirne i commenti: - Come? (avrebbe detto il mugnaio) un sapientone come Mauro Lanzavecchia ha fatto crac? non è lui quello che inventò la polvere di pimpirimpara e la trivella per succhiellare i maccheroni? non aveva le mani piene di consigli per tutti gl'ignoranti, che facevan diverso da quello che faceva lui? non ha in casa un avvocato che stordisce l'Europa e il mondo intero colla profondità del suo immenso sapere? Piú d'una volta e forse piú di quel che era necessario, il fornaciaio aveva vantato all'osteria davanti a quei quattro o cinque zoticoni il talento eccezionale di suo figlio Giacomo, un filosofo di primo ordine, capace di mettere in un sacco tutti i professori di Pavia. Quando l'Istituto veneto ebbe assegnato il premio alla dissertazione, Mauro era venuto appositamente alla Fraschetta colla Gazzetta di Venezia in mano, l'aveva distesa sul banco, perché leggessero, se sapevano leggere, quel che a Venezia si stampava in intuito di un Lanzavecchia delle Fornaci; e picchiando col dito sulle parole, nell'effusione dell'orgoglio paterno, aveva sostenuto che l'Italia avrebbe avuto un altro Cesare Cantú, o qualche cosa di piú rotondo ancora. Nulla piú offende l'orgoglio degli ignoranti quanto il trionfo d'un confinante, nel quale, come avviene anche in politica e nella stessa filosofia, si suol vedere un pericoloso competitore, e come tale, il primo e il piú vicino dei nostri nemici. Si aggiunga che l'orgoglio umano è cosi fatto che ogni lode data agli altri par sempre qualche cosa che non viene data a noi, o che ci vien sottratta, o per lo meno che ci vien ritardata con ingiustizia e di cui dobbiamo un giorno o l'altro rifarci con un proporzionale risarcimento. Era naturale adunque che gli ignoranti e gli invidiosi ridessero ora colla bocca larga del gran talento di casa Lanzavecchia e si pigliassero sulle disgrazie di Mauro, non solo il capitale, ma anche gli interessi delle cambiali ch'egli aveva scontato in anticipazione. Sarebbe troppo infelice la vita degli sciocchi, se Dio non riservasse loro di tanto in tanto di queste consolazioni. Questi riflessi, che si presentarono in nube, quasi di scorcio alla mente di Mauro, lo trattennero un poco sulla soglia dell'osteria e forse se ne sarebbe andato via senz'altro, se uno di quei contadini che sedevano nell'osteria, aprendo improvvisamente la porta, non l'avesse riconosciuto e salutato a voce alta. Egli si trovò cosí nella bottega portato da una volontà piú forte del suo orgoglio. Girò gli occhi intorno e visto Francesco che sonnecchiava dietro una tavola, colle spalle appoggiate al muro e le braccia incrociate, il capo cascante, la berretta sugli occhi, passò in mezzo al frastuono dei giuocatori, che commentavano rumorosamente la partita, e, sedutosi in faccia all'oste, lo toccò, dolcemente nel gomito. - Siete voi? - fece l'oste, dopo aver aperti dogliosamente gli occhi. - Ebbene? che vi ha detto l'avvocato? - La va male, Cecco, - disse il fornaciaio con voce coperta da un pesante affanno. - Cioè? - tornò a domandare l'amico, senza distaccare le spalle dal muro, al quale pareva incollato, socchiudendo di nuovo gli occhi impiombati dal sonno. - Cioè, - disse Mauro, che vedendo passare il piccolo dell'osteria, gridò: - Tu, portami un mezzo litro del tuo scongiurato meridionale. - Poi riprese sottovoce: - La va da cani, Cecco, ma non è detta ancora l'ultima parola in quest'Africa maledetta. Solamente voi, dovete procurarmi altre cinque mila lire. - Non vi conviene, Mauro - disse l'oste colla voce fredda con cui soleva tirar le somme agli avventori. E come se non avesse più nulla a dire, chiuse la bocca e tornò a lasciar cascare la testa - Voi non sapete quel che c'è in aria, - disse Mauro, che per darsi un po' di forza riempí la tazzetta col vino che il ragazzo mise davanti; e dopo averla trangugiata tutta d'un fiato: - Son quarant'anni che faccio il fornaciaio e sfido a trovare un mattone piú sincero del mio. - È il vostro torto di lavorar troppo bene - osservò l'oste che sapeva a memoria la sua filosofia, aprendo un poco gli occhi rimpiccioliti di fronte alla luce tagliente della lucerna. - Comincio ad accorgermi d'essere sempre stato una bestia, - disse Mauro, alzando alquanto la voce e lasciando cadere con forza la tazzetta sul piatto. - Non bisogna mai dirlo, Mauro, - saltò su dal banco del giuoco il mugnaio, che parlò senza togliere gli occhi dal ventaglio delle sue dieci carte sporche . - Sí, il mio torto è di non aver saputo fare l'italiano a tempo. - replicò vigorosamente l'altro, facendo un mezzo giro sulla panca e alzando in aria una mano. Poi stendendo l'altra a stringere con uno slancio d'amicizia il polso dell'oste:- Potete dire che i Lanzavecchia abbiano mai venduto lucciole per lanterne? mio padre Galdino, mio nonno Nicodemo . - Altri tempi - fu presto a interrompere l'oste, un uomo piuttosto indifferente per i grandi principi della giustizia. - Una volta, - soggiunse poi con un sorriso secco, che stentò a muoversi sulla sua bocca asciutta priva di labbra - una volta il vino lo si faceva anche coll'uva. Mauro sentí il veleno dell'argomento e battendo due volte la tazzetta sul banco: - Lo so - disse - che in un paese di ladri chi non ruba mangia il suo pane a tradimento. Voi però non mi abbandonerete, Francesco. - Io faccio l'oste, vedete - osservò il compare, indicando con un piccolo gesto i suoi avventori, il banco, la lucerna. E tornò a chiudere gli occhietti cenericci. - Volevo dire che questi nostri figliuoli devono maritarsi a San Martino. - Ecco! - riprese l'oste, mandando avanti una sua favorita particella dimostrativa, colla quale soleva, come con una lanterna cieca, illuminare le idee degli altri e fare il buio sulle proprie. Anch'io dovrò fare i miei conti. - Non li avete già fatti mille volte questi benedetti conti? - notò con un tono di rancore il fornaciaio. - Non si finisce mai di fare i conti. Se con poco si fa poco, che cosa volete che si faccia con niente? - Volete dire, se capisco il latino, che poiché io sono un uomo fallito, mi si può, parlando con poco rispetto . L'oste lo pregò con un gesto frettoloso della mano di non gridar troppo forte. Ma l'altro, che attingeva l'eloquenza dalla tazzetta: - Ho capito, - seguitò con piú calore - volete dire che poiché m'è entrata la disgrazia in casa, la vostra Fiorenza . - Non gridate sui tetti i vostri interessi, benedetto uomo - tornò a raccomandare vivamente il buon Francesco della Fraschetta, distaccando la schiena dal muro, rianimando gli occhi sotto la tesa della berretta, che faceva un color solo col colore scialbo del suo viso teso, liscio, immobile come un viso di legno. - Sí, ora mi si può, con licenza parlando, sputare addosso, - seguitò il fornaciaio con voce scalmanata. E dopo aver sogghignato il tempo necessario per inghiottire il fiotto amaro di saliva che gli inondava la bocca: - Allora - riprese, porgendo il fiaschetto vuoto al ragazzo - portamene un altro di questo tuo scongiurato veleno. E a voi, eccovi i vostri soldi. Cosí dicendo, stese una gamba tra la tavola e la panca, infilò una delle sue grosse mani nella tasca dei calzoni, ne trasse una manata di soldi e, fattone un pugnetto, lo batté sul banco, sotto il naso dell'oste, che, avvezzo a queste ed altre mimiche, non dette segno di meraviglia. - Cosí non direte che Mauro Lanzavecchia abbia bevuta una goccia del vostro vino senza pagare. E in quanto alla vostra Fiorenza, se vi piace sentire, vi dirò che un Lanzavecchia si degnava fin troppo di bere a questo boccale. Parole grosse, cattive, superbe, che, una volta uscite, lasciarono il buco fatto per tutte le altre che vollero tener dietro. L'orgoglio di tre generazioni di galantuomini, infiammato dalle molte tazzette di vino bevuto nella giornata, non troppo d'accordo tra loro, e mal trattenuto da una volontà già sconnessa per troppi colpi, traboccò in epifonèmi e in dichiarazioni che avrebbero fatto onore a un principe del sangue, non che a un fabbricatore di tegole; ma in quel momento, in quel sito, sulla bocca d'un uomo cosí scassinato nel credito, non ebbero la forza di far tremare nessuno. I giocatori, al diavolío che faceva il Bismarck delle Fornaci, dissero, parlando sommessamente tra loro: - Pare che laggiú si guasti la parentela. - È la tazzetta che suona - osservò il magnano. - La superbia non paga debiti - notò con burbanza il mugnaio del Lavello. - Staremo a vedere quel che stamperanno le gazzette questa volta. Mauro poco prima che sonassero le dieci e mezzo si alzò, facendo puntello coi pugni sulla tavola, e con passo che voleva essere da bersagliere, traversò lo spazio libero dell'osteria, avviandosi alla porta senza salutare nessuno. Prima però di chiudere l'uscio dietro di sé, parendogli di non aver detta l'ultima ragione o che tutti quei bravi signori avessero bisogno d'una soddisfazione, si voltò verso di loro, che aspettavano cogli occhi aperti, mosse la mano allargata a guisa d'un ventaglio, la girò nell'aria, come se la sfregasse su un muro, e quando vide tutte le faccie immobili e tutte le bocche attente, mise fuori con misurata intenzione la morale solenne della favola: - Vicende umane, oggi la lepre, domani il cane! E si tirò dietro l'uscio, mentre un rumoroso scoppio di risa accoglieva questa sentenza nova novissima, non mai udita, non mai stampata sulle gazzette.

. - Io non ho detto, cara contessa, che qualcuno abbia mancato al suo dovere. Parlavo dei doveri del nostro ceto . - Che cosa si può fare per salvare Giacinto? - chiese la madre, stendendo la mano in segno di pace a donna Adelasia. I progetti messi innanzi e discussi furono molti. Prima d'ogni cosa, bisognava fare in modo che il conte non ne sapesse nulla, perché nelle condizioni precarie della sua salute, sarebbe stato come un dargli una pugnalata. Non meno necessario era di tener celato il disonore della casa a monsignor vescovo e a tutti i San Zeno, che avrebbero potuto disinteressarsidel povero ragazzo e danneggiare col suo anche l'avvenire di Enrichetta. Infine la prudenza voleva che la ragazza fosse allontanata subito, con un bel pretesto, dalla casa, dove la sua presenza diventava sempre più pericolosa e occasione di scandalo; e poiché un pretesto lo si trova facilmente, sarebbero venute esse stesse al Ronchetto a chiedere la ragazza in prestito per qualche tempo colla scusa di farsi aiutare a finire un certo padiglione di seta, che avevano promesso all'altare della Madonna per la prossima festa del centenario. Anzi, per semplificare di piú l'impresa e per non suscitare inutili discorsi, al prossimo martedí l'avrebbero aspettata alla Madonnina della Noce, dove sarebbero andate colla carrozza a prenderla. E rimasero in quest'accordo.

Era per provare la rotondità delle frasi, che di tanto in tanto lo scrittore aveva bisogno di leggere a voce alta uno de' suoi foglietti, su cui la scrittura grossa ed obliqua correva come altrettante note musicali: "Parlare a' giorni nostri degli uffici della nobiltà potrà forse parere a taluno pressoché opera vana, per non dire ridevole, tanto oggi gli uomini si affaticano a non stimare se non quel che in oro si traduce o che dell'oro abbia le fallaci apparenze. Che giovano (dice la gente al vil guadagno intesa), che giovano gli emblemi e le larve d'una polverosa nobiltà, condannata a un perpetuo esilio dal consorzio civile, buona, non dico a reggere, ma solamente a far gemere le meste rovine degli aviti palagi .?" - Fabrizio, mi pare un po' troppo caldo qua dentro - interruppe il conte, che cominciava a infiammarsi nel fervore delle sue frasi cadenzate. - Forse è meglio che tu mi dia la veste verde, che riscalda meno. Di queste vesti foderate di flanella ce n'erano quattro come i quattro poeti, di peso e di imbottitura diversa, che Fabrizio doveva far indossare a norma del termometro e del barometro giudiziosamente combinati insieme. Veste verde significava quasi sempre depressione atmosferica, aria morta e soffocante, pioggia imminente. Indossata la nuova zimarra, il conte riprese la sua lettura, sollevando un viso, che la luce della lucerna circondava di gloria. "Ciò non di meno pare a me che all'umano consorzio le virtú del passato non giovin meno di quel che giovin le forze del presente, non essendo, a parer mio, null'altro il presente momento che la somma risultante di tutte le forze antecedenti. E stando cosí la condizion delle cose, nessun ordine è piú indicato a conservare intatta e venerata la tradizion del passato di quel che sia l'ordine della nobiltà, che dei tempi trascorsi conserva, dirò cosí, le pietre piú preziose e le già intrecciate corone. Che se l'antico ha potuto suscitare, al volger del passato secolo, contro l'instituto gentilizio la reazion popolare, non fu giusto che insieme alle colpe andasse travolta la tradizione, avvegnaché ." - Fabrizio, portami il brodo liscio stamattina, e di' al cuoco che quella sua lingua di manzo era troppo grassa. Mi pare di sentirmela ancora in bocca. Don Lorenzo si mosse per consultare un passo dei "Discorsi" del Machiavelli, dove si parla del dominio dei pochi: e pochi istanti dopo, Fabrizio entrava colla posta del mattina, raccolta in un vassoio d'argento. C'era il solito "Bollettino dell'Istituto Veneto", quello dell'"Istituto Lombardo" colle prime comunicazioni del Lattes sull'italianità degli Etruschi, un argomento che stuzzicava la sua curiosità e insieme il suo orgoglio nazionale contro quei signori della Sprea, che ti farebbero tedesco anche il bel tempo. C'era la "Perseveranza" di Milano, detta donna Paola, della quale divideva or sí, or no, le opinioni. Se come umanista non aveva ripugnanza ad accettare anche le idee di Lucrezio Caro, che egli traduceva di nascosto per un certo gusto del difficile; se nel campo libero della filosofia indipendente non gli facevan paura né gli atomi di Epicuro, né i vortici del Cartesio, né la pluralità dei Mondi del Leibnizio; in politica, era, secondo il suo modo di vedere, un altro paio di pantofole. Come cittadino, come Magnenzio, come padre di famiglia, era di opinione che una buona messa e un buon rosario valgono, per la felicità dei popoli, piú che tutta la scienza della famosa Enciclopedia. - S'è visto il bel risultato della dea Ragione applicata al governo dei popoli. O l'utopia di Platone, o la ghigliottina a vapore. Quel che piú importa ai popoli è di star bene e di vivere in pace. Siccome però per pace intendeva specialmente la sua, cosí il buon uomo era tratto facilmente a giudicare le teoriche sociali un po' troppo colla bocca dello stomaco. Questa pace benedetta se la faceva seder vicina tutte le volte che poteva chiudersi nel suo studio, in un angolo della casa, dove non arrivava mai nessun rumore della strada, tranne il rintocco delle ore del vicino convento dei cappuccini. E per amore di questa pace, ai libri dei vivi preferiva quelli dei morti, perché sulle guerre dei morti son già cresciuti gli ulivi o son scaramuccie già messe in musica: mentre queste controversie politiche, sociali, economiche, parlamentari, amministrative, anche quando si fanno per otium philosophiae, lasciano sempre la bocca impastata come una lingua di manzo non ben sgrassata. Don Lorenzo, dopo aver crollata la testa su un articolo d'intonazione rosminiana, che la "Perseveranza" riportava in difesa delle quaranta proposizioni quasi ereticali del filosofo roveretano (tutte begheche sconnettono la fede), prese dal piatto una letteraccia mal piegata, che puzzava di pipa lontano un miglio, con sopra una scritturaccia, che pareva dipinta colla scopa, e voltandola e rivoltandola nelle mani - Chi è questo Gioppino che scrive L'orenzo coll'apostrofo? - brontolò un pezzo, squadrando con un certo sospetto la lettera, che pareva suggellata coll'unto. - Vien da Calusco? Chi può scrivere da Calusco? Dov'è questo Calusco? - All'avvicinarsi delle feste di Natale ne arrivavano molte di queste lettere di poveri supplicanti bisognosi di qualche sussidio e di solito il conte le passava a Fabrizio, perche se l'intendesse col ragioniere Riboni e cercassero con prudenza di liberarlo dalle mosche e dagli scrupoli. Ma era la prima volta che Gioppino osava scrivere L'orenzo con l'apostrofo. - Birbonaccio, aspetta che t'insegnerò io l'ortografia. Aspetta me, aspetta me. - E strofinando le babbuccie morbide di panno sul pelo del tappeto, il conte, che da vecchio ammiratore dei Sacchetti e del Lasca aveva il gusto delle facezie mordaci, girò intorno allo scrittoio, sedette sui tre cuscini della poltrona e afferrò la penna per far scoppiare quell'epigramma, che gli faceva gli occhi piccini e il naso crespo. - "Se lor con l'or confondi ." avrebbe voluto cominciare; e, per richiamare la rima, corse coll'occhio alla firma del supplicante, una firma che pareva uno scorpione schiacciato sotto una pagina di altri scorpioni, veri scorpioni, corpo di Bacco! pieni di veleno. La lettera correva in questi termini: Ill'ustrissimo Sigor Cote , Se L'ei non fa trovare per s'abato a mezzanote L'ire tremila al l'uogo detto S'asso del Pin presso il Roccolo noi metteremo in piassa il gran segreto con suo disonore di L'ei e di tutta la famiglia. Non parli con ness'uno si no guaja. Galiasso . Un cane, a cui sia dato a mordere un ferro rovente avvolto in una polpetta, non lascerebbe cascare il boccone con piú dolore e raccapriccio di quel che il conte lasciò cadere il foglio di mano. In cinquant'anni e più, cioè dal dí che i suoi occhi correvano sull'alfabeto, non aveva mai letto quattro righe piú spropositate e piú spaventose. Altro che Gioppino! Chi poteva essere questo bardassa di Calusco? e di che segreto andava spropositando? disonore di chi e di che? Quando Fabrizio entrò colla scodella del brodo si spaventò nel vedere il volto del padrone piú smorto della carta. - Che cosa è accaduto, signor conte? si sente male? - gli domandò, fermandosi in mezzo alla stanza. - Sto bene, sto benone, sto d'incanto - rispose il conte, facendo saltare quel brutto foglio da una mano all'altra. - Quando si bevono di questi brodetti a stomaco digiuno, un uomo non può che sentirsi bene. Guarda un po' quel che mi scrivono. Non badare all'ortografia, ma cerca di penetrare nel concetto. Una delizia, vedrai, un sorbetto. Conosci tu questo signor Galiasso? C'è dalle nostre parti qualcuno che porta questo bel nome? - Non ho mai sentito che ci sia nessuno che si chiami cosí. - disse il vecchio Fabrizio, mentre correva cogli occhi sulla lettera, fingendo nel viso meno sorpresa e meno turbamento di quel che veramente provasse in cuor suo. Segreto aiutante della contessa in questa segreta congiura diretta a nascondere al conte una dolorosa e pericolosa verità, questa improvvisa minaccia di ricatto non poteva che confondere i piani di guerra e dare al cuore mezzo malato del suo padrone una scossa dolorosa. - Non ci deve badare, signor conte - prese a dire il fedele servitore, mostrando indifferenza. Asini e malviventi ce ne saran sempre, e, siccome sanno che lei è buono e amico della pace, credono forse di spaventarla. - Grazie tante. Minaccia di mettere in piazza un gran segreto. Che segreto c'è da mettere in piazza? E non si contenta mica di poco il sor Galiasso riverito; ma domanda solamente tre mila lire. Catteri! tre mila lire non sono un quattrino e in che modo le domanda il sor Galiasso! . Il conte, che aveva già la bocca impastata, per via di quella sciagurata lingua di bue, se la sentí diventar piena di una saliva salata. Ballando sulla poltrona, si lamentò con voce quasi piagnucolosa: - C'è da perdere la fame per quindici giorni. - Non si spaventi, le dico, non dia importanza. Son cose che a loro signori càpitano tutti i giorni. - Nossignore, a me non è mai capitato. Quando un uomo non fa male a nessuno, ha diritto che gli altri non faccian male a lui . - Guai se questi cani dovessero mordere tutte le volte che abbaian! Essi tentano il colpo. Se va, dicono, è segno che la cosa ha le gambe. Ma qualche volta son loro che ci lasciano le gambe e la coda. - Chi conosci tu a Calusco? non hai sentito che ci sia qualcheduno dalle nostre parti che ci voglia male? - Le pare? una casa come la sua? - Non son piú quei tempi, non son piú quei tempi. Dacché si son formate queste società segrete operaie, dacché si va seminando l'odio tra le classi, è una disgrazia nascere nei nostri panni. Anche l'elemosina sembra un'ingiuria adesso, e i Galiassi, che oggi scrivono queste letterine, domani metteranno la dinamite sotto il portone. - Oh caro signor conte, lei corre troppo, interruppe Fabrizio, ridendo . - Ti dico che si precipita. Tu non hai sentito a dir nulla, n'è vero? In questa casa tu sei piú vecchio di me e devi volermi bene. - Lo domanda, signor conte? - Non sospetti che possa essere quel servo di stalla, che abbiamo licenziato tre anni fa .? - Or fa un anno che è andato in America. - Ma dall'America si ritorna - disse sospirando il buon uomo, che all'idea d'un viaggio in America si sentiva venir le vertigini. - Dall'America si ritorna: e poi si lascia sempre a casa qualcuno . - Conosco questa gente, stia sicuro. Solamente sarà prudenza non dir nulla di questa lettera, né alla contessa né alla contessina . - Sicuro, sicuro! le donne si lasciano facilmente impressionare. Anzi bisognerà stare attenti che non facciano loro qualche brutto scherzo nella strada. Ahimè, si precipita! È una cosa che dobbiamo trattare fra te, me e il Riboni. Dovresti chiamarlo, se c'è . - Tornerà stasera. Ora beva il suo brodo e non ci pensi. - Portalo via, non mi va giú - disse restituendo la scodella, con una mesta espressione di abbattimento. - Guasterei anche quella poca colazione delle undici e mezzo. Lasciami vedere ancora una volta quegli scarabocchi. Altro che! si precipita maledettamente, si precipita! - Non ci pensi piú. Vedrò io il signor Riboni - disse Fabrizio, facendo scomparire il foglio nella pettorina del suo grembiale di servizio. - Vedete se con una cinquantina di lire si può mandare in pace un povero affamato. - Se lei comincia a dare, non si salva piú. Queste lettere è meglio fingere di non averle ricevute, o si consegnano al questore. - Guardatevi bene dal metter in mezzo la polizia! non voglio gendarmi in casa. Ve lo comando! - gridò, alzandosi quanto era lunga la sua piccola persona, lasciando cadere un gran pugno sul "Dizionario dei sinonimi". - Non voglio intrighi, deposizioni, arresti, diavolerie di questo genere, né per tre mila né per sei mila, né per dieci mila. Avete capito? comando io! - Mai la paura d'un uomo aveva parlato con piú coraggio. Fabrizio finse acconciarsi e disse: - Come vuole, signor conte. Del resto, creda pure, che quando non si dà nulla e non si ha nulla a temere, queste lettere son buone per la stufa. - E soprattutto si badi a non far saper nulla ai giornali. Non voglio pettegolezzi. Come si semina si raccoglie! brontolò parlando con sé stesso - Per certa gente è già una grande colpa il nascere bene. Come se avessi domandato io al padre creatore di farmi nascere dal grembo d'una nobile Magnenzio. Si precipita . Fabrizio lasciò il conte in preda alle sue smanie piagnucolose, e corse a far leggere la lettera alla contessa, perché fosse avvertita in tempo di questa nuova minaccia. Donna Cristina aveva ricevuto alcuni giorni prima la lettera di Giacomo e in seguito a una nuova visita di don Angelo cominciava appena a veder un po' di lume in mezzo a quella spaventosa oscurità, in cui si dibatteva da cinque mesi. La bontà di Giacomo l'aveva commossa. Seguendo l'ispirazione del cuore riconoscente, stava preparando una lettera di conforto al generoso amico, che non rifiutava d'essere suo alleato nell'opera di riparazione, mentre gli sarebbe stato cosí facile vendicarsi colla rovina di tutti. Il cuore della donna, della madre, della cristiana, ravvivato da un raggio di speranza, insieme alla riconoscenza, sentiva un ardore insolito di bene, quasi un desiderio di emulazione in questa gara di sacrificio, e andava pensando quel che poteva restituire di bene al mondo in compenso di tanto male e quale soddisfazione, degna di sé e dell'uomo, potesse offrire al giovine avvilito e trafitto nei sentimenti piú sacri. "Io non so scrivere" gli diceva "e mi manca l'arte di esprimere tutta la pietà, che ho provato e che riprovo leggendo la vostra lettera. Non al professore, non all'uomo dotto, ma immagino dunque di scrivere a quel giovinetto Giacomo, che in altri tempi frequentava la mia casa e al quale non mi pento ancora d'aver dato un forte consiglio. È invocando questa mia benevolenza quasi materna, che vi parlo come da amica ad amico, da donna che ha salito il Calvario ad uomo che ha salita la croce, nella fratellanza dei comuni dolori. Conforti materiali, riparazioni degne di voi non potremo darvene. Indegna io stessa d'ogni consolazione, sarei quasi spregevole, se volessi offrirne a voi; tanto meno ho consigli a darvi. Vi dico soltanto questo: che prego per voi colla stessa anima con cui prego pe' miei figli, nella fiducia che Dio, che ha la mano miracolosa, voglia versare nelle vostre piaghe l'unico balsamo che può col tempo ristabilire le forze perdute. Lasciatemi almeno l'illusione, povero Giacomo, che io non prego, no, per il riposo d'un morto, ma per la pace di un vivo. Davanti ai mali irreparabili l'uomo forte ha sempre un rifugio nell'idea che non vi è cosí gran male che non possa essere superato da una piú grande speranza. I mali vengono piú dalla fatalità che non dalla cattiva volontà degli uomini; ma l'idea del bene vien tutta da noi. Io ho troppa stima della forza del vostro cuore, per non sperare che chi ha scritto qualche pagina virtuosa e sublime non sappia arrivare col cuore fin là dove un giorno è volato col pensiero. Spero che in molti istanti, cosí piagato come siete, abbiate a sentire la santità e la dignità della natura umana ingrandita in voi. "Il fuoco raffina i nobili metalli. Il dolore ha scoperto e messo a nudo molta parte di voi, ch'era prima ignota a voi stesso e che, senza queste scosse, sarebbe rimasta per sempre sepolta. Non dite dunque come un povero merciaio alla vigilia del suo fallimento, che la vostra vita è finita. Provate a chiedervi una volta se per caso una vita nuova non stia per cominciare per voi. Che voi abbiate gettato alle fiamme il manoscritto in cui, come dite, eran raccolte le illusioni della vostra giovinezza, non mi fa pena, come pare che infondo faccia a voi. A me basta che non abbiate abbruciata la vostra fede. Purché la fiamma salga al cielo, poco importa che abbruci l'altare. Provate a cercare nella cenere e ritroverete il vostro diamante. Per quanto grande possa essere il vostro sacrificio, i meriti che acquistate agli occhi di Dio e a quelli della vostra coscienza sono tali che non potranno produrre col tempo che un gran bene. Voi siete giovine e dovete conservare intatte le vostre idealità. Seguitate a studiare. Noi abbiamo bisogno di chi sostenga la fede nella virtú. I nostri figli, lo vedete, non credono piú all'affetto delle madri, e quelli stessi, che dovrebbero combattere in prima fila per l'onore, sono i primi a imbrattarsi di fango. Voi potrete fare del bene, non solo coll'ingegno che Dio vi ha dato, ma anche coll'esperienza che vi siete acquistata. Nessun privilegio nobilita tanto l'anima nostra quanto la coscienza di aver molto sofferto ." A questo punto era arrivata e stava quasi per chiudere la lettera nella quale il suo cuore, nella felice improvvisazione del sentimento, si esaltava della misteriosa dolcezza che hanno le umane consolazioni, quando Fabrizio con un passo sospettoso entrò a farle vedere la scarabocchiata lettera, che aveva tanto spaventato il povero conte. Essa, che quasi s'illudeva di toccare il porto, trasalí a questo nuovo inaspettato assalto. Quel mondo geloso e avaro nelle sue pretensioni, a cui aveva sperato di sfuggire, dava segno di risvegliarsi e già si presentava all'uscio come un esoso creditore. I debiti del male voglion essere scontati e pagati; l'esattore era qui. Pallida, tremante, nascose il lurido scarabocchio tra le carte profumate dello stipetto. - Non dite al conte che mi avete fatta vedere questa lettera: cercherò di parlare col Prefetto. Non parlatene con nessuno. Ah mio Dio, non abbiamo finito!

. - E prima ch'egli avesse tempo di protestare, ritrovando nell'eccitazione del suo sentimento la forza che nessuna autorità esterna avrebbe saputo darle, seguitò con tono eguale, quasi freddo, ma convinto, senza togliere lo sguardo dai fiori, che andava sbadatamente sfogliando con le dita: - Penso che la Madonna vi abbia mandato oggi in un momento di dolore, perché io trovi il coraggio di dirvi quel che devo dirvi. Forse è meglio che questo vostro pensiero non si compia mai. Voi non siete piú quello d'una volta. - Perché "Frulin", io non sono piú quello d'una volta? - disse Giacomo, evocando un piccolo soprannome che il pà, per far presto, aveva inventato per lei quando era venuta in casa: e mise in questa voce senza senso una tale dolcezza allegra e canzonatoria che Celestina impallidí come se agonizzasse, un velo nero le offuscò gli occhi, e fattasi a un tratto sdegnosa e dura: - Ascoltate, Giacomo - gli disse aggrottando le ciglia. - Quando è nata questa nostra affezione eravamo due ragazzi, e non si poteva sapere dove si sarebbe finiti. Povero voi, poveretta io, ci siam voluti bene senza capire cosa volesse dire volersi bene. Il tempo non è passato allo stesso modo per noi due: io sono ancora la povera ignorante di una volta, mentre voi avete fatta molta strada, e ne dovrete fare molta ancora. Sento come tutti parlano di voi: avete stampato anche dei libri, e ne stamperete ancora; ma per andare avanti avete bisogno di essere libero, di non dover trascinare una povera contadina, che sarà sempre per voi un peso morto. Se io potessi essere la vostra serva, ma vostra moglie è un'altra cosa. Avete bisogno di una ragazza che vi possa seguire e capire. In questa buona casa vedete che non mi manca nulla: e poi, se devo dirvi tutto, da qualche tempo sento una voce che mi chiama. - Che cosa ti dice questa voce "Frulin"? - seguitò Giacomo, sempre sul medesimo tono di chi non vuol pigliare le cose sul serio. - Alcune monache cappuccine, che vengono spesso al palazzo per la questua e che rimasero qualche volta a dormire, mi hanno parlato di quel che soffrono le povere morette in Africa e vorrebbero che io andassi con loro. Poiché non posso essere vostra, voglio essere di Dio. Che cosa volete, Giacomo - continuò con un singulto, come se si sforzasse di reprimere un'amarezza rigurgitante. - Mi pare di essere già stata per voi una cattiva tentazione quel giorno che lasciaste di studiare da prete, con molto dispiacere dei vostri, specialmente dello zio prete, che dopo d'allora mi ha sempre chiamato un diavolo . Giacomo non poté nascondere un sorriso di compiacenza a questa antica facezia dello zio prete, e avrebbe voluto cominciare a parlar lui; ma la ragazza, trascinata dalla foga appassionata del suo pensiero, non lo lasciò dire: - Non voglio ora essere il vostro inferno, dopo essere stata la vostra tentazione. Lasciatemi andare per il mio destino e voi andate per il vostro. Troverete cento buone ragazze migliori di me, con istruzione, con dote, che vi permetteranno di studiare con meno stenti, che sapranno capire quello che scrivete, che vi faranno onore in società . Giunta a questo punto, come chi arriva sfinita dopo una gran corsa sulla cima erta d'un monte, le mancò tutt'a un tratto la lena. Un terribile impeto che, venendo dallo stomaco minacciò di soffocarla, la fece andare indietro di qualche passo: ma la volontà fu ancora piú forte del patimento. Non volendo piangere, si portò alle labbra una cocca del grembiule, che prese a mordere, mentre cercava intorno a sé cogli occhi se arrivava qualcuno a liberarla. - Chi mi ha parlato già di queste monache cappuccine e di questa voce che chiama? - prese a dire Giacomo con flemmatica bonomia: - Credo la contessa, una volta: non ho capito ben con quale intenzione, se non fu per mettere alla prova anche la mia vocazione per te . Da quel fino psicologo che credeva d'essere, Giacomo avrebbe voluto aggiungere che queste titubanze e questi scrupoli nel suo "Frulin" non solo non lo persuadevano, ma erano per lui una ragione di piú per voler bene alla sua tentazione e al suo diavolo. Di donne dotte ormai ne son piene le dispense; mentre una donna semplice e sincera non c'è scienza che la possa fabbricare, se non la fabbrica la mamma natura. E avrebbe voluto aggiungere, se fosse stato il caso fare una lezione in quel sito, che quanto piú gli uomini sono analitici, complicati, foderati di sapere, tanto piú cercano di riposare la testa sul seno d'un amore semplice e naturale, che li aiuti a essere semplici e naturali. I piú occulti misteri si svelano nelle anime più ingenue, mentre gli spiriti superbi e raffazzonati non sentono piú se non quel che il loro orgoglio permette di sentire. E all'uomo moderno non mancherebbe che questa disgrazia per essere il piú disgraziato degli animali, vale a dire, che, dopo aver guastato molte cose belle per il capriccio di voler vedere come son fatte, avesse a guastare anche l'amore, riducendolo a un dialogo tra un filosofo e una donna cogli occhiali. Questo, ripeto, avrebbe voluto dire Giacomo Lanzavecchia, a una santarella piena di titubanze e di scrupoli inutili. Ma avrebbe "Frulin" penetrato lo spirito della sua sottile psicologia? Si limitò a castigarla con due schiaffetti, soggiungendo: - Avremo tempo di parlar di queste faccende con piú comodo. Ora ho troppe cose per la testa. È in casa la contessa? Celestina accennò di sí col capo. - Vorrei domandarle che ti lasciasse venire tre o quattro giorni alle Fornaci a far compagnia alla povera mamma, che non ha piú la forza di reggersi. Mentre io vado dal conte, dille che desidero parlarle. e . e . (girando il braccio intorno alla vita della ragazza, la trasse un poco a sé, premendo le labbra a lungo nel fitto de' suoi capelli) e di' alle monache che il tuo moretto da salvare l'hai trovato da un pezzo. Giacomo se ne andò pel viale dei carpini, non volendo piú far attendere il conte, e lasciò Celestina irrigidita in tutto il corpo, cogli occhi aridi e fissi, col cuore inerte, indurita, come una statua. Quando il giovane scomparve dietro la casa del fattore, venendo a un tratto a mancare in lei la forza artificiale che l'aveva sorretta finora, il suo corpo si sfasciò, e cadde sul margine dell'erba, colla faccia rivolta alla terra, urlando nel silenzio di quella verde solitudine: - Madonna, Madonna, Madonna, fatemi morire!

L'ANNO 3000

677901
Mantegazza, Paolo 7 occorrenze

Io ti ho promesso di svelarti il grande segreto, l'unico ch'io mi abbia per te, ad Andropoli; ma non ti ho però detto in qual giorno te l'avrei rivelato, se appena giunti, o più tardi, o magari l'ultimo giorno, quello della nostra partenza. Tu vedi dunque, che non ho mancato di parola, nè dimenticato la mia promessa. Or bene, il giorno della rivelazione è giunto e te lo annunzio ad alta voce, solennissimamente. Domani avrai il mio segreto, nel giorno della proclamazione del premio cosmico. - E a qual'ora di questo giorno e in qual luogo? - Nell'ora della proclamazione e nella grande sala dell'Accademia. Maria saltò al collo di Paolo, e allegra come un puledro in festa lo baciò più e più volte. Il malumore, la displicenza eran volati via, s'eran sfumati come nebbia mattutina fugata dal primo raggio di sole. Per tutto quel giorno la sua allegria accumulata e non spesa per tanti giorni si scatenò tutta quanta, innondando di pazza gioia anche il suo Paolo. Ballarono, saltarono, si rincorsero come fanciulli. La gioia è sempre giovane e nelle sue forme più belle è anche infantile. E Paolo e Maria per tutto quel giorno e la mattina appresso ebbero sempre fra tutti e due non più di sedici anni. *** L'Accademia di Andropoli è il più alto Istituto scientifico del mondo. Conta cento membri, presi dalle più lontane regioni, e formano, direi, un vero Senato della scienza. Eletti dal libero voto di tutti i pensatori del mondo, rappresenta tutte le branche delle scienze, delle lettere e delle arti, e non hanno altro obbligo che di trovarsi in Andropoli una volta all'anno, e precisamente il 31 dicembre, quando i segretari delle diverse regioni presentano la storia scientifica, letteraria e artistica dell'anno; ciascuno nella disciplina che gli è affidata. Ritornati alla loro patria corrispondono coll'Accademia, per rispondere ai diversi problemi, che sono affidati al loro studio. Trenta fra loro sorteggiati risiedono per tutto l'anno nella capitale, dove hanno splendidi alloggi. Il loro onorario è di 500000 lire all'anno. Ogni dieci anni si riuniscono tutti quanti per distribuire il premio cosmico e che vien conferito a colui, che abbia fatto la più grande scoperta di quel decennio. Il premio è di un milione di lire, e colui che lo guadagna ha diritto di sedere nel Consiglio supremo del Governo, e prende il titolo di Sofo, l'onorificenza più alta in tutto il mondo e eguale soltanto a quella del Pancrate. Nell'anno 3000 si chiude appunto un decennio dall'ultimo premio, e i concorrenti sono 150. Era appunto all'indomani del giorno, in cui Paolo e Maria avevano avuto il dialogo da noi riferito, che si doveva conferire il premio cosmico; e i nostri viaggiatori si recarono all'Accademia, che trovarono affollata da cento e cento curiosi, venuti da ogni parte del mondo per assistere alla gran festa della scienza. La città è tutta imbandierata, le botteghe tutte chiuse, e nella piazza musiche variopinte riempiono l'aria, di deliziose armonie. Entrando nella gran sala delle assemblee Maria vide con grande stupore, che Paolo andò a sedere con lei nei posti riservati al Pancrate e ai suoi ministri, in due grandi seggiole dorate. - Ma, Paolo mio, perchè mai ci sediamo qui? Non sarebbe meglio confondersi col pubblico, e sedere là nel fondo, dove potremmo senza suggezione conoscere e osservare ogni cosa? - No, Mariuccia mia, perchè è il posto che mi spetta, ed io ho potuto ottenere dal Presidente, che anche tu sieda qui accanto a me. E oggi è qui che ti sarà svelato il mio segreto, l'unico mio segreto. Maria tacque e rimase immersa nell'estasi di una grande meraviglia, di un grandissimo stupore. Intanto la sala si andava affollando sempre più e una musica deliziosa confortava in tutti la fatica dell'aspettare. A un tratto la musica cessò, si diffuse all'intorno un silenzio solenne e i membri della presidenza presero i loro posti, sedendo fra i cento senatori della scienza. In mezzo ad essi, in una poltrona più alta sedeva il Presidente, che portava al collo sospesa da una catena di palladio una grande medaglia d'oro, che stava a dire, ch'egli aveva riportato altre volte lo stesso premio cosmico, che si stava per conferire. Il Presidente si alzò, e dopo aver dichiarata aperta la seduta, invitò il Segretario generale a leggere la relazione sul premio cosmico, e noi la riassumeremo per sommi capi. - I concorrenti al premio cosmico dell'anno 3000 sono 150. Un primo lavoro di analisi dei lavori presentati li ridusse subito a 50. Più difficile fu il lavoro della seconda cernita, perchè in quelle cinquanta scoperte e invenzioni, molte avevano un valore reale; ma un po' per volta i cinquanta divennero tre, e dei tre non fu troppo difficile scegliere l'uno, essendo riservato agli altri due il secondo e il terzo premio. L'ingegnere inglese John Newton ha inventato una trivella gigantesca mossa da una nuova macchina elettrica, che ci permetterà di perforare tutto il nostro pianeta, giungendo al centro della terra. Potremo così conoscere la vera struttura del globo, fin qui divinata, ma non conosciuta; e chi sa di quali nuove forze potremo disporre nell'avvenire. L'invenzione è di una straordinaria importanza e perciò abbiamo dato all'ingegnere Newton il terzo premio. Lo invito a recarsi alla Presidenza, per ricevere il premio. L'ingegnere Newton era seduto accanto a Paolo. Si alzò, e recatosi al banco del Sofo, ricevette un diploma e una medaglia. La musica intonò le sue armonie, e tutti gli astanti si alzarono ad applaudire il premiato. E il segretario continuò a leggere la sua relazione: Il celebre astronomo Carlo Copernic ha perfezionato talmente il telescopio da permetterci di vedere gli abitanti dei pianeti più vicini. Questa invenzione segna un'era nuova nella storia della civiltà, e permettendoci di allargare i confini del mondo conosciuto, accrescerà all'infinito i tesori del nostro pensiero, lasciandoci anche sperare, che in un tempo non troppo lontano noi potremo metterci in relazione coi nostri fratelli planetarii. Si trovò quindi ragionevole e giusto di accordare il secondo premio all'astronomo Copernic. E qui nuovi applausi e nuove armonie. Dopochè il Copernic ebbe ricevuto il premio, vi fu una lunga pausa di silenzio e di aspettazione. Quel silenzio esprimeva l'infinita curiosità di sapere, chi mai avesse potuto fare una scoperta ancor più grande. Perforare la terra da parte a parte e comunicare direttamente cogli antipodi! E spiare la vita degli abitanti di Venere, di Mercurio, di Marte! Che cosa vi può essere mai di più grande? *** E il segretario riprese la parola. La terza scoperta, signori e signore, e di certo la più grande, è quella dello psicoscopio, strumento che ci fa leggere facilmente i pensieri dell'uomo, verso cui si dirige. Prego il signor Paolo Fortunati, di Roma, a voler venire al banco della presidenza per dimostrare praticamente come agisce il psicoscopio. Maria a queste parole si sentì battere il cuore forte forte, guardò Paolo, che dopo averle stretta una mano convulsivamente, le disse all'orecchio: - Ecco il mio segreto! Si alzò, e salito a fianco del presidente dell'Accademia, si levò di tasca un piccolo strumento, a guisa di un doppio cannocchiale di tasca e lo rivolse verso il pubblico. Il silenzio era stato grandissimo, appena il segretario aveva parlato, ma ora un grande rumore di seggiole smosse e di gente che si alzava, turbò la serena pace di quel luogo sacro alla scienza. Era il rumore di molti, che improvvisamente lasciavano la sala, perchè avevano paura che si leggessero i pensieri, che in quel momento, passavano per il loro cervello. Paolo, benchè in quel momento fosse estremamente commosso, non potè a meno di ridere a quella fuga tumultuosa. Appena si ritornò al silenzio dell'aspettativa e più nessuno si mosse, Paolo rivolse il psicoscopio verso un fanciullo sui dieci anni, che stava seduto accanto alla sua mamma, e poi: - Ecco là quel fanciullo, che pensa con grande dolore, che egli si sta annoiando in questa sala, ascoltando discorsi che non intende; mentre a casa sua i suoi fratelli giuocano a palla nel giardino. Egli dirige mentalmente a tutti noi delle maledizioni ... Tutta l'assemblea scoppiò in una risata omerica. Paolo diresse allora il suo strumento qua e là, come se cercasse qualcuno o qualche cosa, e in modo da non far capire dove si fermasse più a lungo. - Non accennerò ad alcuno in particolare, ma io leggo in più di dieci fra le persone qui convenute un grandissimo sdegno per la solenne ingiustizia commessa a loro riguardo dai nostri accademici. Essi avevano concorso al premio cosmico e non l'hanno conseguito ... In uno di essi poi leggo anche pensieri orrendi di odio e di vendetta ... A queste parole il tumulto di prima sorse di nuovo e più violento. Alle sedie smosse e cadute di chi abbandonava la sala, si unirono grida irose: Profanazione! Profanazione! Abbasso il psicoscopio ... Paolo rimase imperterrito, e il Presidente suonò più volte il campanello, invocando silenzio e pace. Intanto la sala si era vuotata più che mezza, e il segretario potè ripigliare la sua relazione: L'Accademia ha creduto a voti unanimi di conferire il primo premio al signor Fortunati, perchè se le due altre scoperte ci allargano le frontiere del conoscibile, il psicoscopio ci promette un'era nuova di moralità e di sincerità fra gli uomini. Quando noi tutti sapremo, che chiunque può leggere nel nostro cervello, faremo sì che pensieri e opere non si contraddicano, e noi saremo buoni nel pensiero, come cerchiamo di esserlo nelle opere. È a sperare che col psicoscopio la menzogna sarà bandita dal mondo o almeno sarà un fenomeno rarissimo, che si andrà perdendo del tutto; come tutte le funzioni e gli organi, che non hanno più uno scopo necessario o utile. E lasciamo da parte tutti i vantaggi, che potrà arrecarci il nuovo strumento nella diagnosi delle malattie mentali, nell'educazione, nella psicologia. La scienza del pensiero entrerà ben presto in un nuovo mondo, e di certo è assai più utile all'uomo il conoscere se stesso, che il centro della terra o gli abitanti degli altri pianeti. Dacchè l'uomo è comparso sulla terra, egli ha fatto immensi progressi nelle scienze, nelle arti, nelle lettere; in tutto ciò che riguarda la vita del pensiero; ma nella moralità il progresso è ancora molto addietro, e non è punto in armonia con quello della mente. Il psicoscopio ci promette di realizzare questo sogno di tutti i secoli, quello cioè che il progresso morale sia parallelo a quello intellettuale, e siccome tutti crediamo, che il primo per la felicità degli uomini sia molto più importante dell'altro, ecco perchè l'Accademia ha creduto di dover assegnare il primo premio al signor Paolo Fortunati, che ha inventato il psicoscopio. Tutti quelli che erano rimasti nella sala, perchè non avevano paura che il terribile strumento ottico leggesse attraverso il loro cranio alcuni pensieri malvagi, si alzarono in piedi, applaudendo fragorosamente il fortunato vincitore del premio cosmico, e che anche nel suo nome portava quasi il vaticinio della sua gloria ... L'unica persona che non si alzò, era la più felice e la più commossa. Era Maria, che si nascondeva il volto nel fazzoletto per celare le lagrime di una gioia infinita, che la innondava tutta quanta dal capo ai piedi. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Paolo intanto era sceso dal banco della presidenza, era ritornato al suo posto, e là le lagrime di due felici si univano insieme, confondendosi nell'estasi di un'ebbrezza sola. Tutti i presenti guardavano commossi quel gruppo dei due felici, persuasi che l'abbraccio di quella donna in quel momento, in quel luogo, era il premio più alto e primo della scoperta immortale di Paolo. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . *** Pochi giorni dopo Paolo e Maria, dopo aver avuto l'alto consenso del Tribunale sanitario di Andropoli, per unirsi nel matrimonio fecondo; ne ricevevano nel Tempio della Speranza il sacramento solenne, e da amanti, che lo erano già da varii anni, diventavano marito e moglie; avendo acquistato per consenso della scienza il più alto dei diritti, una volta concesso a tutti nei tempi barbari; quello cioè di trasmettere la vita alle generazioni future. 1 Il Panglosso è un teatro riserbato agli uomini molto colti e dove si danno rappresentazioni nelle lingue morte, dal greco all'italiano, dal latino e dal sanscrito all'inglese, al turco, al chinese. 2 Il Teatro dei buffoni di Andropoli ha lo scopo di far ridere ad ogni costo, onde rallegrare gli ipocondriaci, gli annoiati e tutti i depressi. 3 Il Teatro del pianto non dà che rappresentazioni melanconiche, ma non mai strazianti, per mettere una nota triste e pur desiderata nella vita dei troppo felici.

Son curioso davvero fin dove questo profeta abbia indovinato il futuro. Ne leggeremo certamente delle belle e ne rideremo di cuore. È bene a sapersi che nell'anno 3000 da più di cinque secoli non si parla nel mondo che la lingua cosmica. Tutte le lingue europee son morte e per non parlare che dell'Italia, in ordine di tempo l'osco, l'etrusco, il celtico, il latino e per ultimo l'italiano. Il viaggio, che stanno per intraprendere Paolo e Maria, è lunghissimo. Partiti da Roma vogliono recarsi ad Andropoli, capitale degli Stati Uniti Planetarii, dove vogliono celebrare il loro matrimonio fecondo, essendo già uniti da cinque anni col matrimonio d'amore. Essi devono presentarsi al Senato biologico di Andropoli, perchè sia giudicato da quel supremo Consesso delle scienze, se abbiano o no il diritto di trasmettere la vita ad altri uomini. Prima però di attraversare l'Europa e l'Asia per recarsi alla capitale del mondo, posta ai piedi dell'Imalaia, dove un tempo era Darjeeling, Paolo voleva che la sua fidanzata vedesse la grande Necropoli di Spezia, dove gli Italiani dell'anno 3000 hanno come in un Museo raccolte tutte le memorie del passato. Maria fino allora aveva viaggiato pochissimo. Non conosceva che Roma e Napoli e il pensiero dell'ignoto la inebbriava. Non aveva che vent'anni, avendo data la mano d'amore a Paolo da cinque anni. Il volo da Roma a Spezia fu di poche ore e senza accidenti. Vi giunsero verso sera, e dopo una breve sosta in uno dei migliori alberghi della città, cavarono fuori dall'aerotaco una specie di mantello di caucciù, che si chiama idrotaco e che gonfiato da uno stantuffo in pochi momenti si converte in un barchetto comodo e sicuro. Anche qui nessun bisogno di barcaiuolo e di servi. Una macchinetta elettrica, non più grande di un orologio da caminetto, muove l'idrotaco sulle onde, colla velocità che si desidera. Il Golfo di Spezia era in quella sera divino. La luna dall'alto, nella pace serena della sua luce, spargeva su tutte le cose come un fiato soave di malinconia. Monti, monumenti, isole parevano di bronzo; immoti come chi è morto da secoli. La scena sarebbe stata troppo triste, se le onde chiacchierine, che parevano cinguettare e ridere fra la rete infinita d'argento, che le inserrava come migliaia di pesciolini presi nella rete dal pescatore, non avessero dato al golfo un palpito di vita. I due fidanzati si tenevano per mano e si guardavan negli occhi. Si vedevano anch'essi come velati in quella luce crepuscolare, che toglie la durezza degli oggetti; facendo giganti le anime delle cose. - Vedi, Maria, - disse Paolo a lei, quando potè parlare: - qui intorno a noi dormono nel silenzio più di ventimila anni di storia umana. Quanto sangue si è sparso, quante lagrime si son versate prima di giungere alla pace e alla giustizia, che oggi godiamo e che pure sono ancora tanto lontane dai nostri ideali. E sì, che fortunatamente per noi, dei primi secoli dell'infanzia umana, non ci son rimaste che poche armi di pietra e confuse memorie. Dico fortunatamente, perchè più andiamo addietro nella storia e più l'uomo era feroce e cattivo. E mentre egli parlava, si andavano avvicinando alla Palmaria, convertita allora in un grande museo preistorico. - Vedi, Maria, qui vissero in una grotta dieci o venti secoli or sono uomini, che non conoscevano metalli e si vestivano colle pelli delle fiere. Sulla fine del secolo XIX un antropologo di Parma, certo Regalia, illustrò questa grotta, che era detta dei Colombi, descrivendone gli avanzi umani e animali, ch'egli vi aveva trovati. In quel tempo però, cioè sulla fine del secolo XIX, tutta l'isola era coperta di cannoni, ed una batteria grande, un vero miracolo di arte omicida, difendeva il golfo dagli assalti del nemico. Tutto il golfo del resto era un trabocchetto gigantesco per uccidere gli uomini. Sui monti, cannoni; sulle sponde, cannoni; sulle navi, cannoni e mitragliatrici: tutto un inferno di distruzione e di orrore. Ma già qualche secolo prima questo golfo portava memorie di sangue. Lì ad oriente sopra Lerici tu vedi un antichissimo castello, dove fu prigioniero un re di Francia, Francesco I, dopochè ebbe perduta la battaglia di Pavia. Noi non vediamo più l'ecatombe di ossa, che devono trovarsi sul fondo del mare, perchè sul principio del secolo XX ebbe luogo una terribile battaglia navale, a cui presero parte tutte le flotte d'Europa; mentre per fatale coincidenza in Francia si combatteva un'altra grande battaglia. Si battevano per la pace e per la guerra, e l'Europa era divisa in due campi. Chi voleva la guerra e chi voleva la pace; ma per volere la pace si battevano, e un gran mare di sangue imporporò le onde del Mediterraneo e allagò la terra. In un solo giorno nella battaglia di Spezia e in quella di Parigi morì un milione di uomini. Qui dove noi siamo ora, godendo le delizie di questa bellissima sera, saltarono in aria in un'ora venti corazzate, uccidendo migliaia di giovani belli e forti; che avevano quasi tutti una madre, che li attendeva; tutti una donna che li adorava. La strage fu così grande e crudele, che l'Europa finalmente inorridì ed ebbe paura di sè stessa. La guerra aveva uccisa la guerra e da quel giorno si mise la prima pietra degli Stati Uniti d'Europa. Quei giganti neri, che vedi galleggiare nel Golfo sono le antiche corazzate, che rimasero incolumi in quel giorno terribile. Ogni nazione d'allora vi è rappresentata: ve n'ha di italiane, di francesi, d'inglesi, di tedesche. Oggi si visitano come curiosità da museo e domattina ne vedremo qualcuna. Vedrai come in quel tempo di barbari, ingegno e scienza riunivano tutti i loro sforzi per uccidere gli uomini e distruggere le città. E figurati, che uccidere in grande era allora creduta gloria grandissima e i generali e gli ammiragli vincitori erano premiati e portati in trionfo. - Poveri tempi, povera umanità! Però, anche dopo aver abolita la guerra, l'umana famiglia non ebbe pace ancora. Vi erano troppi affamati e troppi infelici; e la pietà del dolore, non la ragione, portò l'Europa al socialismo. Fu sotto l'ultimo papa (credo si chiamasse Leone XX ), che un re d'Italia scese spontaneo dal trono, dicendo che voleva per il primo tentare il grande esperimento del socialismo. Morì fra le benedizioni di tutto un popolo e i trionfi della gloria. I suoi colleghi caddero protestando e bestemmiando. Fu una gran guerra, ma di parole e di inchiostro; fra repubblicani, conservatori e socialisti; ma questi la vinsero. L'esperimento generoso, ma folle, durò quattro generazioni, cioè un secolo; ma gli uomini si accorsero di aver sbagliato strada. Avevano soppresso l'individuo e la libertà era morta per la mano di chi l'aveva voluta santificare. Alla tirannia del re e del parlamento si era sostituita una tirannia ben più molesta e schiacciante, quella d'un meccanismo artificiale, che per proteggere e difendere un collettivismo anonimo soffocava e spegneva i germi delle iniziative individuali e la santa lotta del primato. Sopprimendo l'eredità, la famiglia era divenuta una fabbrica meccanica di figliuoli e di noie sterili e tristi. Un gran consesso di sociologi e di biologi seppellì il socialismo e fondò gli Stati Uniti del mondo, governato dai migliori e dai più onesti per doppia elezione. Al governo delle maggioranze stupide subentrò quello delle minoranze sapienti e oneste. L'aristocrazia della natura fu copiata dagli uomini, che ne fecero la base dell'umana società. Ma pur troppo non siamo ancora che a metà del cammino. L'arte di scegliere gli ottimi non è ancora trovata; e pensatori e pensatrici, i sacerdoti del pensiero e le sacerdotesse del sentimento, travagliano ancora per trovare il modo migliore, perchè ogni figlio di donna abbia il posto legittimo, che la natura gli ha accordato nascendo. Si sono soppressi i soldati, il dazio consumo, le dogane, tutti gli strumenti della barbarie antica. Si è soppresso il dolore fisico, si è allungata la vita media, portandola a 60 anni; ma esiste ancora la malattia, nascono ancora dei gobbi, dei pazzi e dei delinquenti, e il sogno di veder morire tutti gli uomini di vecchiaia e senza dolore è ancora lontano. Maria taceva, ascoltando, e Paolo tacque anch'egli, come oppresso da una grande malinconia. I ventimila anni di storia gli parevano troppo lungo tempo per così piccolo cammino percorso sulla via del progresso. Maria volle rompere quel silenzio e dissipare quella malinconia; e coll'agilità mobile e intelligente che hanno tutte le donne, volle far fare al pensiero del suo compagno un gran salto. - Dimmi, Paolo, perchè fra le tante lingue morte tu hai studiato con particolare amore l'italiano? È una curiosità che ho da un pezzo e che tu non mi hai mai soddisfatto. Non sarà di certo per poter leggere nell'originale L'anno 3000? - No, mia cara, è perchè la letteratura italiana ci ha lasciato la Divina Commedia e Giovanin Bongè, Dante e Carlo Porta, i due poeti massimi del sublime e del comico. Li leggeremo insieme questi due grandi poeti e tu vedrai che ho cento ragioni di voler studiare l'italiano prima d'ogni altra lingua morta. Nessuno ha saputo toccare tutte le corde del cuore umano come l'Allighieri e nessuno ci ha fatto ridere più umanamente del Porta. Per capire però il Porta non basta saper l'italiano, ma si deve studiare il milanese, un dialetto molto celtico, che si parlava dieci secoli or sono in gran parte della Lombardia, quando l'Italia aveva più di venti dialetti diversi. E poi, anche senza Dante o senza il Porta, io avrei studiato l'italiano prima d'ogni altra lingua morta, perchè essa era la figlia prediletta e primogenita del greco e del latino e in sè concentrava i succhi di due fra le massime civiltà del mondo, e ad esse se n'aggiunse una terza di suo, non meno gloriosa delle altre. Parlando italiano si ripensa Socrate e Fidia, Aristotile e Apelle; si ripensa Cesare e Tacito; Augusto e Orazio; Michelangelo e Galileo; Leonardo e Raffaello. Mai nessuna altra lingua ebbe una genealogia più nobile e più grande. Ecco anche perchè, quando si fondarono gli Stati Uniti d'Europa, per facile consenso di tutti, Roma fu scelta a capitale. - Paolo mio, tu mi fai troppo superba di essere romana! E di nuovo i due fidanzati tacquero, mentre il loro idrotaco scorreva sulle onde del golfo, rompendo ad ogni suo movimento le maglie della rete d'argento, distesa sul pelo dell'acqua. Intanto si avvicinavano all'antico Arsenale di Spezia e un suono monotono e lugubre giungeva al loro orecchio; ora confuso e appena percettibile, ora chiaro e distinto; secondo le vicende della brezza notturna. Gli occhi di Paolo e di Maria si volgevano là donde quel suono veniva e pareva che sorgesse dall'onda, dove un corpo rotondo galleggiava sull'acqua, come un'immensa testuggine marina. Verso quel punto diressero la loro navicella e il suono si andava facendo più forte e più triste. A pochi passi da quel corpo galleggiante fermarono l'idrotaco. - Che cos'è questo corpo? - È un'antica boa, a cui i barbari del secolo XIX attaccavano le loro corazzate maggiori. È rimasta qui dopo tanti secoli arrugginita e obbliata per memoria di un tempo, che per fortuna degli uomini non ritornerà più. Intanto il suono triste e monotono, che usciva dalla boa, era divenuto chiarissimo. Era un suono doppio e straziante, fatto di due note; un lamento e un tonfo. Prima era un ihhh stridente e prolungatissimo, e poi, dopo una pausa breve, un bumhh cupo e profondo, e una nuova pausa, e un ripetersi incessante del lamento e del tonfo. Anche il cuore umano misura il breve giro del quadrante della vita con due suoni alterni, un tic e un tac; ma son suoni allegri, quasi festosi. Quell'ihhh e quel bumhh invece sembravano i palpiti di un cuore gigantesco e straziato, che battesse il tempo del nostro pianeta. - Dio mio, dimmi, Paolo, perchè quella boa si lamenta? Par che soffra e pianga. - Pazzarella, - rispose egli, sorridendo forzato. - Il lamento è lo stridere dell'anello arrugginito della boa e il tonfo è il batter dell'onda sulla cassa vuota. Paolo però, dando la spiegazione fisica di quel suono alterno, era preoccupato da altri pensieri, che spaziavano in un mondo più alto e più lontano. E i due tacquero ancora e lungamente. - Andiamo via, torniamo a terra, questa boa mi fa terrore, mi fa piangere. - Hai ragione, andiamo via. Questo lamento rattrista anche me. Mi par di veder qui l'immagine dolorosa di tutta la storia umana. Un lamento, che sorge dalle viscere dei bambini appena nati, dei giovani straziati dall'amore, dei vecchi che hanno paura della morte; di tutti i malcontenti, di tutti gli affamati di pane o di gloria, di ricchezza o di amore. Un lamento, che si innalza da tutto il pianeta, che piange e domanda al cielo il perchè della vita, il perchè del dolore. E a quel lamento di tutto il pianeta risponde il destino, il fato con quel tonfo cupo e profondo: Così è, così deve essere, così sarà sempre. - No, Paolo, non è così, non sarà sempre così! Pensa alle corazzate omicide che non ci son più, pensa alla guerra che più non esiste; pensa al progresso che mai non posa. Anche questa boa, che sembra ripeterci coi suoi palpiti l'eterno lamento dell'umanità, e la crudele risposta del fato, tacerà un giorno, disciolta dalle acque del mare ... - E così sia, - disse Paolo, accelerando il moto della navicella, per fuggire all'incubo di quel suono lamentevole e straziante. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Al mattino seguente il sole più fulgido brillava nel cielo di Spezia invece della luna. La vita operosa del lavoro teneva dietro alla malinconia della notte; e i due fidanzati, dopo aver visitato alcune carcasse delle vecchie corazzate, rimontando nell'aerotaco, spiccarono il volo verso Oriente, donde sempre è venuta agli uomini colla luce del giorno la speranza, che mai non muore.

Le cattedre sono infinite di numero, perchè ognuno, che siasi dedicato a una ricerca speciale, può aprire un corso sull'argomento prediletto, purchè ne abbia fatto dimanda al Consiglio superiore delle Scuole, composto di tre soli individui, che rappresentano le tre branche dell'insegnamento. Paolo e Maria ebbero voglia di assistere ad una delle tante lezioni, che si facevano in quel giorno, e entrati a caso in una sala, videro annunziato l'argomento, che tratterebbe il professore in quel giorno. L'annunzio diceva: Storia degli errori umani. Influenza delle passioni sulla logica del pensiero. La lezione non durò che un'ora e diede ai nostri viaggiatori un grandissimo diletto. L'oratore era molto dotto, aveva la parola facile, abbondante, e colla sua arguzia talvolta mordace rendeva piacevole anche la più arida dottrina e la storia documentata degli errori umani. Tutto il corso di quell'anno e del successivo doveva essere dedicato alla storia degli errori umani; ma in quel giorno il professore dedicava la sua eloquenza all'esame dell'antica avvocatura e degli errori, nei quali era trascinata un tempo la ragione umana dai periti scientifici, che i tribunali assegnavano alla difesa o all'accusa dei delinquenti. "Vi fu un tempo (diceva egli ) di lontanissima barbarie, in cui a forza di voler rischiarare i problemi della colpa, a furia di voler portare troppa luce nei giudizii onde la verità ne uscisse limpida e chiara, si abbagliavano talmente gli occhi dei giudici, da portarli alle sentenze più assurde. "I giudici, che avrebbero dovuto essere soli competenti, avevano di contro un pugno di uomini trovati per strada, medici o ingegneri o commercianti, che non avevano mai studiato neppure l'alfabeto della scienza giuridica e che pure in ultimo dovevano sentenziare, assolvere o condannare. "E i poveri giurati, innocenti nella loro ignoranza, paurosi della loro immeritata responsabilità, si volgevano ai periti tecnici, agli uomini di scienza, che avrebbero dovuto illuminarli, e la luce sovrapposta alla luce produceva invece tenebre sempre più dense. "I periti della difesa dicevano: "Non vi è veleno nelle viscere della vittima. "E i periti dell'accusa dicevano invece: "Vi è veleno. "E i poveri giurati davanti a così sfacciate contraddizioni, abbagliati e confusi dal cozzo dell'eloquenza avvocatesca, dalle liriche invettive dei giudici, sballottati fra la scienza che negava da sè stessa la propria efficacia colle flagranti contraddizioni e perduti nel labirinto dei sofismi, dei paradossi, della dialettica, che cadevano sulle loro spalle come tanti proiettili in un dì di battaglia, finivano per abbandonarsi alla suggestione del sentimento; il più infido dei giudici nel campo della giustizia, e sentenziavano col cuore, invece che colla ragione. "E in ultima analisi, non era la scienza giuridica, non la scienza dei periti che dava il supremo giudizio, ma era l'egoismo o la compassione. "Il primo diceva ai giurati: "Quell'uomo ha rubato: lasciato libero, potrà rubare ancora e mettere le sue mani anche nelle tue tasche. "Dunque in prigione, alla galera. "Quella donna, bella e giovane ha peccato in amore. Quanto volentieri avrei diviso il peccato con lei! "Poveretta! Le sia data la libertà. "E quando invece la compassione compariva o scuoteva le fibre sensibili dei giurati, era assolto il colpevole, quando la compassione per lui era più forte che per la vittima. Era invece condannato, quando gli avvocati eran riusciti, a far sentire più forte la compassione per la vittima. "Come vedete, - diceva il professore, - era un problema di affinità elettiva, era una lotta del sentimento colla ragione e la povera giustizia andava sommersa troppo spesso in queste lotte molto disuguali. "Ecco che cosa era la giustizia dieci secoli or sono. Ma non vogliamo essere troppo superbi noi altri uomini del secolo XXXI, perchè anche noi non sappiamo sempre disgiungere e separare nettamente il cuore dal pensiero, nei nostri giudizii." La lezione, spesso interrotta da risate di approvazione, fu fragorosamente applaudita al suo fine e i nostri, viaggiatori lasciarono il Palazzo della Scuola, molto contenti della loro visita.

Il numero dei fiori coltivati è oggi almeno mille volte maggiore che non fosse nei secoli XIX e XX, non solo perchè non v'ha più un cantuccio del nostro pianeta, nè la più lontana delle foreste, che non ci abbia dato il tributo delle sue piante e dei suoi fiori; ma anche perchè l'arte ha saputo creare specie nuove, che non sembrano al primo aspetto avere parentela alcuna colle specie che nascono spontanee nel prato e nel bosco. Nel mercato dei fiori si vendevano anche piante vive e fiori imbalsamati, che sembravano freschi e che ingannavano l'occhio di tutti. Dal mercato dei fiori Paolo e Maria passarono in quello delle frutta. Anche qui un incanto per gli occhi, un profumo per il naso. La bellezza dei fiori sta a quella dei frutti, come fra loro stanno i loro profumi. Nei fiori la bellezza è il fascino primo, che li rende le più care creature della terra. Si direbbe che in essi il sommo fra i coloristi della Scuola Veneta si è alleato col principe del disegno della Scuola Greca; per cui la profusione, la varietà e l'intreccio dei colori non sono vinti che dall'eleganza, dalla purezza o dalla bizzarria del disegno. Là dove il colorista innamorato, nell'esaltazione del suo amore per il colore, lo getta a piene mani, in eccesso, col pericolo di cadere nel barocco e nella pletora del troppo, si fa innanzi il pittore del disegno, che nell'originalità e l'eleganza delle linee fa tale una cornice all'orgia dei colori, da far dire a tutti: Oh che santi e cari alleati! Oh come stanno bene insieme nella feconda creazione del bello! E quando il disegno sarebbe troppo severo, troppo semplice o rigido, viene subito il colorista colla sua inesauribile tavolozza a dar vita e gioventù al calice troppo gretto, alla coppa troppo classica; e il fiore par che risponda ai suoi due genitori: Grazie, grazie! Se i fiori son tanto belli da bastare essi soli per dettare un trattato d'estetica a chiunque (purchè egli non sia un filosofo ); anche i loro odori sono la poesia del profumo, che ha in essi forse un numero maggiore di note, che non abbia la musica. E non hanno dessi la delicatezza e la fugacità di un sogno, che fra le palpebre socchiuse, compare e sparisce e s'indovina più che non si senta? E non hanno forse anche la nota dell'aroma più ardente e più caldo, e la voluttà profonda, che sembra un contatto di carni innamorate e il piccante e il frizzante e l'etereo e il vaporoso e il solleticante e tante e tante altre delizie, a cui il nostro linguaggio tanto imperfetto nega lo stampo di una parola? E così nei frutti forme e colori e profumi stanno tra di loro nello stesso rapporto come bellezza di forme e soavità di odori stanno nei loro padri, e fratelli, i fiori. Il profumo delle frutta non ha la poesia di quello dei fiori; e se nell'ammirazione di questi, il primo grido dell'anima è: Oh belli! nell'ammirazione dei frutti, il grido invece e quest'altro: Oh buoni! Così le forme dei frutti sono molto più semplici e poche, così i loro profumi hanno poche note. Possono essere piacevoli, di raro inebbrianti, possono essere forti, di raro o mai voluttuosi. Son profumi che son quasi sapori, e che stanno a quelli dei fiori, come l'amicizia sta all'amore. E non son forse i fiori gli amori delle piante? E non son forse i frutti le amicizie generate dall'amore? A tutto questo pensavano e tutto questo sentivano i nostri viaggiatori, passando dal mercato dei fiori a quello dei frutti. Anche qui vedono e ammirano raccolti in una stessa bottega le fragole, i lamponi, i manghi, i mangostani, le banane di cento varietà, i cocchi, gli ananassi, le cirimoie e le pere e le mele e tanti e tanti altri frutti, che il secolo XIX non conosceva ancora. Fra essi la pata, che un argentino ha saputo strappare alle foreste vergini della sua patria e coltivare in Europa, facendone un frutto, per profumo e per sapore rivale della pesca. Eppure un certo Mantegazza l'aveva fin dal secolo XIX additata come un frutto silvestre del tutto sconosciuto agli Europei. Paolo e Maria, passando dinanzi a un banco, dove erano esposte montagnole di arancie e di mandarine, videro un monello, che ghermiva, una delle più belle e delle più grosse e se la svignava; non però tanto svelto da non esser veduto dalla venditrice, che gridava: Al ladro, al ladro! Appena fu udito questo grido, da tutte le parti del mercato si sentì esclamare ad alta voce, da uomini, da donne, da fanciulli: Giustizia, giustizia, giustizia! E in men che nol dico, il ladroncello fu ghermito da un signore, che alla sua volta gridava: Giustizia, giustizia! Nell'anno 3000 non vi sono carabinieri, nè poliziotti, nè guardie di pubblica sicurezza; ma ogni cittadino onesto è carabiniere, poliziotto e per di più anche giudice. In pochi minuti intorno al monello si raccolsero sei cittadini, che col signore, che l'aveva afferrato, bastavano ad improvvisare il tribunale, che si chiama la Giustizia dei sette. Il pubblico, dopo aver riconosciuto che il tribunale era costituito, si ritirò, facendo circolo intorno a quelli otto uomini; sette giudici, ed un colpevole. - Perchè hai rubato quest'arancia? - disse colui che aveva per il primo arrestato il piccolo delinquente. - Perchè avevo sete. - Ma quell'arancia non era tua. - No, ma la fruttivendola ne aveva cento e mille. - Non importa. Quelle arancie eran tutte sue. Dovevi chiederla o comperarla. Tu hai rubato e te n'andrai alla Casa di giustizia. Allora uno dei sette disse: - Io scendo appunto nella città e abito in quei pressi. Lo condurrò io stesso colà. Datemi la sentenza. Uno dei sette staccò un foglietto da un portafoglio che aveva in tasca e scrisse: Fanciullo ladro di un'arancia. Tutti i sette firmarono il foglio e l'accompagnatore lo prese e se n'andò col monello, che senza opporre resistenza, ma piagnucolando lo seguì. E tutto rientrò nell'ordine di prima. - Vedi, Maria, - disse Paolo, - tu hai assistito ad un giudizio e ad una sentenza, come si suol fare per tutti i delitti, anche pei maggiori. In questo caso si trattava del semplice furto di un'arancia, ma se quel ragazzaccio avesse rubato un diamante o un portafogli pieno di denaro o avesse dato una coltellata ad un suo compagno, si sarebbe gridato egualmente: Giustizia, giustizia! E nello stesso modo si sarebbero riuniti sette galantuomini, avrebbero fatto un giudizio sommario e avrebbero condotto il colpevole alla Casa di giustizia. E questa Casa non è già un carcere, come quelli che si usavano anticamente, ma una specie di scuola, dove si correggono i colpevoli: dove si studiano con amore le cause, che possono aver condotto a delinquere. Maria interruppe Paolo: - Ma tu mi hai detto, che alcuni specialisti esaminano il cervello dei bambini appena nati e quando scoprono in essi una tendenza irresistibile al delitto, li sopprimono. - E questo è vero, - rispose Paolo, - ma non si distruggono che i delinquenti nati, cioè coloro, che per la speciale e fatale organizzazione delle loro cellule cerebrali sono necessariamente consacrati al delitto. Essi ucciderebbero e ruberebbero anche se nascessero ricchi, anche se la fortuna li mettesse nelle condizioni più felici. Queste però sono rarissime eccezioni. Tutti gli altri uomini nascono onesti, ma sono figli di lontanissimi padri, che vivevano nella vita selvaggia, che rendeva necessaria la violenza, e conservano nel loro cervello un germe celato del delitto, che in circostanze favorevoli può svilupparsi e condurli a uccidere o a rubare. Non vi ha uomo su questa terra, che in un impeto subitaneo di passione non possa per odio o per vendetta rendersi colpevole di un omicidio o di un furto. La nostra civiltà cerca da secoli di educare l'uomo in modo di sopprimere, di soffocare quei germi atavici; mentre d'altra parte si cerca di organizzare la vita sociale in modo che il delitto sia inutile e dannoso a chi lo commette. Un tempo la giustizia umana non si occupava che di punire: oggi invece cerchiamo di prevenire la colpa, rendendola difficile o impossibile. E che questo lavoro della civiltà non sia inutile, lo prova la statistica del delitto, che lo dimostra sempre più raro. Ciò non toglie che abbiamo sempre dei ladri e degli assassini. Il progresso morale è assai più lento del progresso intellettuale, ma non dobbiamo disperare che un giorno l'uno si metta a livello dell'altro. - Dunque oggi non si puniscono più i delitti? - Sì, ma la pena è ridotta alla perdita temporanea della libertà. Non ti pare forse una punizione sufficiente quella di essere segregato dal consorzio umano? Nella Casa di giustizia, il ladro, l'assassino son tenuti chiusi, mentre si cerca di dimostrar loro l'enormità della colpa commessa persuadendoli che il delitto non è soltanto una colpa, ma è un errore e una cattiva speculazione. La chiusura non dura che pochi giorni o poche settimane ed è caso molto raro che si prolunghi ad alcuni mesi E la punizione non finisce lì, perchè quando il colpevole è rimesso in libertà porta per qualche tempo all'occhiello dell'abito un nastrino giallo, che segna in lui un marchio di infamia, per cui tutti lo guardano con diffidenza e sospetto. I ladri lo portano di color giallo, gli assassini o tutti quelli che hanno commesso atti di grande violenza, lo portano rosso. E quel segno non si toglie che dopo che il colpevole ha mostrato colla sua condotta di esser ritornato nel grembo dei galantuomini. - E quando il delinquente è recidivo? - Oh allora, la pena della prigionia è raddoppiata o triplicata secondo i casi, e il colpevole, uscendo dalla Casa di giustizia, porta due nastri invece di uno. Ciò avviene però rarissime volte e per lo più in delinquenti nati, che per errore dell'esame cerebrale, son sfuggiti alla soppressione. *** Pochi momenti dopo Paolo e Maria, scendevano dal mercato, dopo aver comprato molti fiori e molte frutta e ritornavano al loro albergo.

Quando la morte sia improvvisa o il defunto non abbia espresso alcun desiderio sul modo con cui debba esser trattato il suo cadavere, provvedono per lui i più vicini parenti, e in mancanza di questi, lo Stato. Il metodo più usato è la dissoluzione del cadavere nell'acido nitrico. Il corpo umano vien ridotto ad una soluzione di nitrati di piccolo volume e che è conservato dai parenti in speciali bocce di cristallo. Le bocce, abbandonate dai parenti morti anch'essi, sono conservate nella Necropoli. Alcuni lasciano per testamento che la soluzione del loro corpo sia saturata colla creta, e ridotta così a concime sia sepolta al piede di qualche albero prediletto del loro orto o del loro giardino. Molti però preferiscono la cremazione, e i nostri viaggiatori visitarono il forno crematorio. È semplicissimo. Il cadavere è messo nudo in una specie di urna di platino, che ha la forma del corpo umano. Quando l'urna è chiusa, alle due estremità, che corrispondono al capo e ai piedi del morto, si applicano due fili, e una corrente di altissimo calore arroventa l'urna in modo, che in soli cinque o sei minuti è ridotta in cenere. Raffreddata l'urna se ne raccolgono le ceneri, che si consegnano alla famiglia o si serbano nella casa dei morti secondo il desiderio espresso dal defunto nel proprio testamento. Alcuni vogliono, che, secondo l'antico uso degli Indù, le loro ceneri siano gettate in un fiume o nel mare. Altri invece esprimono il desiderio, che esse siano deposte nelle aiuole del giardino, dell'orto o del campo per fecondare la terra. Per quelli che non hanno espresso altro desiderio che quello di essere cremati, senza dir altro; le ceneri vengono deposte in piccole urne di porcellana, e col nome del defunto e la data della morte si serbano nella necropoli. Dal forno crematorio i nostri viaggiatori passarono al Laboratorio necroforo dei Siderofili, Così si chiamano quegli uomini singolari, che adottando un'idea messa fuori da un chimico francese molti secoli prima, vogliono che dal loro cadavere si estragga tutto il ferro che contiene, e con esso si conii poi una medaglietta che porta inciso il loro nome coll'indicazione della patria e la data della morte. In questo modo i superstiti possono serbare un ricordo eterno dei loro cari estinti, portando appesa al collo o alla catena dell'orologio o altrove, il ferro che circolava nel loro sangue e faceva parte di tutti i loro tessuti. Paolo e Maria poterono coi loro occhi assistere a tutte le complicate operazioni, colle quali si estrae da un corpo umano il ferro che contiene e se ne fabbrica poi una medaglietta. Il lavoro è difficile e dispendioso, e perciò questo metodo di distruzione dei cadaveri umani è adottato solo dalle persone molto ricche, ed è quindi aristocratico. Uno dei chimici del singolare laboratorio spiegava ai visitatori i processi, coi quali un uomo è convertito in una medaglietta, non più grande di un antico centesimo, e li divertiva, narrando loro alcuni curiosi aneddoti. Egli conosceva in Andropoli una signora molto vecchia, e che nella sua lunga vita tutta dedicata ad una larga galanteria aveva avuto molti amanti, dai quali esigeva sempre che fossero siderofili. Il caso volle, che molti di questi amanti morissero in giovane età, per cui essa possiede una ventina di medagliette, colle quali si è fatta fare un monile molto singolare. Ogni medaglietta è unita all'altra con un anello d'oro e un brillante, ed essa ha in quel gioiello raccolta tutta quanta la storia della sua vita. Mi dicono, che questa buona donna, come facevano gli antichi cristiani coi loro rosarii, passa delle ore intiere tenendo in mano il suo rosario d'amore, e passando da una medaglietta all'altra, e baciandole una dopo l'altra, ricorda i poveri morti che l'hanno amata. Il nostro chimico narrò pure, come la siderofilia fiorisse specialmente nei secoli XXVII e XXVIII, epoca in cui si può dire, che fosse l'unico metodo di distruzione dei cadaveri usato dalle persone ricche. E noi abbiamo qui nel nostro tempio un vero Museo di medagliette, che furon trovate smarrite o che lo Stato raccolse per la scomparsa delle famiglie a cui appartenevano. Oggi la siderofilia è usata assai poco, perchè nell'anno 2858 si scoperse, che un chimico di quel tempo, che si era dato alla specialità di cavare il ferro dai cadaveri umani per farne poi le medagliette necrofore, si faceva pagare profumatamente l'operazione chimica, ma per risparmiarsi il lungo travaglio, invece di ricavare il ferro dal corpo del morto, prendeva un chiodo, un pezzo di ferro qualunque, e con esso coniava la sua medaglietta. Quel furbo aveva davvero inventato un'industria molto lucrosa, dacchè convertiva un pezzetto di ferro del valore di forse un soldo, in una medaglia che gli era pagata fin cinquecento lire. Egli arricchì immensamente, ma dopo di lui, per molti anni il pubblico dei morti ebbe grandissima diffidenza, e le medagliette di ferro umano, cadute in ridicolo, ebbero il loro tramonto. Non è che da alcuni anni, che una società di siderofili si è costituita in Andropoli, e qui hanno fondato un laboratorio, che presenta tutte le garanzie possibili, e dove per turno assistono alle nostre operazioni alcuni consiglieri di questa Società. L'ingegnere siderofilo, prima di congedarsi dai suoi visitatori, mostrò loro un laboratorio speciale, dove si stavano facendo degli studi per assecondare il desiderio di un ricco milionario, il quale vorrebbe che dopo la sua morte non solo venisse estratto il ferro dal suo cadavere, ma ad uno ad uno si isolassero tutti gli elementi; e così l'ossigeno, l'idrogeno, il carbonio, l'azoto, lo solfo, il fosforo, ecc. Questo signore, che è un inglese, ha messo a nostra disposizione pei nostri studi più di un milione, e da sè stesso ha disegnato un monumento tutto in pietra dura e che rassomiglia ad un'antica farmacia, e dove dovrebbero essere collocati tutti i corpi elementari, che hanno costituito il suo corpo. Nessun'altra iscrizione dovrebbe leggersi in questo monumento fuori di questa: Corpi elementari che formavano il corpo di N. N. Salutato l'ingegnere, Paolo e Maria passarono nella Sezione degli Imbalsamatori, dove si preparano i cadaveri di coloro, che vogliono resistere al tempo anche dopo la morte, conservando integri i loro corpi. La visita fu lunga e molto curiosa, dacchè gli imbalsamatori nel loro testamento non si accontentavano di dire, che volevano che il loro corpo fosse preservato dalla putrefazione; ma dicevano anche come volessero essere imbalsamati. E nell'anno 3000 i metodi di conservazione dei cadaveri sono molti e svariatissimi. I corpi imbalsamati sono poi ritirati dalle famiglie o conservati nella necropoli a seconda del desiderio espresso dal defunto o dai suoi parenti. I nostri viaggiatori, percorrendo il lungo Museo degli imbalsamati, poterono coi loro occhi vedere tutto quel popolo di morti superbi, che avevano voluto sopravvivere a sè stessi. Alcuni pochi erano imbalsamati come gli antichi egiziani, tutti chiusi nelle loro bende incatramate e chiusi in sarcofaghi di legno intarsiato e dipinto. Altri erano semplicemente disseccati in un forno, dopo essere stati imbevuti di sublimato corrosivo. Facevano ribrezzo, sembrando grandi stoccafissi. Più in là chiusi in grandi vetrine si vedono cadaveri pietrificati, rigidi e duri come la pietra, che paiono statue modellate da un pessimo scultore. Meno orribili sono altri imbalsamati col processo più perfetto, che si conosca nell'anno 3000. Sono vestiti dei loro abiti e serbano la loro fisonomia e il loro colorito; ma i loro occhi di vetro e immobili paiono guardar sempre fissi in un luogo. Si può ammirar l'arte, con cui sono stati preparati, ma fanno terrore e sembrano protestare contro chi ha voluto in uno strano connubio associare la vita alla morte. Maria guardava tutte quelle mummie con un evidente ribrezzo e non potè far a meno che di dire al suo Paolo: - Paolo mio, se muoio prima di te, io desidero che tu non mi faccia nè disciogliere nell'acido nitrico, nè cremare, nè molto meno imbalsamare. Fammi seppellire nella terra molle e odorosa, senza cassa alcuna, ond'io, anche morta, possa sentirmi circondata e abbracciata dalla nostra eterna madre, dal cui grembo siamo usciti. Io voglio disciogliermi in essa e nutrire col mio sangue e i miei visceri i fiori, che tu pianterai sulla mia fossa. Me lo prometti, non è vero, Paolo mio? - Sì, te lo prometto, - rispose Paolo colla voce interrotta dal singhiozzo, - ma sarai tu quella che mi adagerai nella terra molle e odorosa, perchè io ho parecchi anni più di te e prima di te devo fare il lungo viaggio; il viaggio senza ritorno. - Ma non parliamo di cose tristi. - E come non parlarne, qui, dove non siamo circondati che da morti, che ci ridestano l'eterno pensiero del mondo al di là, di cui tutta la nostra civiltà non ha saputo svelarci il segreto? Ma andiamo all'ultima tappa del nostro triste pellegrinaggio. Andiamo a visitare il cimitero. E i nostri viaggiatori rientrarono nel tempio, e avendolo attraversato, per una porticina si trovarono in un vasto giardino, tutto quanto popolato di arbusti sempre verdi e di fiori. Nel mezzo si innalza una colonna gigantesca di bronzo, che porta sulla cima una fiamma sempre ardente. Nello zoccolo della colonna sta scritta anche là la bella parola: Sperate. Dalla colonna partono come tanti raggi cento piccoli sentieri, che finiscono alla periferia del campo dei morti, e da ambo i lati del sentiero sono poste le tombe. Ogni tomba è un piccolo giardino in miniatura e in mezzo ad esse si innalza un cippo di marmo nero, in cui non si legge che il nome del morto e la data della nascita e della morte. Null'altro. - Vedi, Maria, qui non vi ha distinzione alcuna tra ricchi e poveri, tra genii e volgo. Chi può pagare il cippo, se lo fa da sè, e ai poveri provvede lo Stato. È assolutamente proibito di scrivere sulla tomba alcuna parola di elogio, nè di innalzare statue o mausolei sontuosi. Una volta, molti secoli or sono, le disuguaglianze e le vanità umane parlavano ad alta voce anche nei cimiteri, e chi li visitava, doveva credere che tutti quei morti erano stati in vita uomini di genio; eroi del cuore o del pensiero. E chi aveva dettate quelle epigrafi aveva spesso tormentato il povero morto, quando era in vita; lo aveva offeso, calunniato, fors'anche gli aveva affrettata la morte. Maria disse allora a Paolo: - Ho sempre trovato giusta questa eguaglianza di tutti gli uomini nel cimitero, ma mi pare che si dovrebbe fare un'eccezione per gli uomini di genio o per quelli, che colla carità o coll'eroismo hanno resi grandi servizi all'umanità. - E tu hai ragione, ma questi uomini grandi hanno la loro apoteosi in un Panteon, che è un po' più in là di questa necropoli e che noi visiteremo. Qui giacciono i loro corpi, là troveremo raccolte le memorie delle loro opere. - Permettimi, Paolo, un'altra osservazione. Mi è sempre parso, che nella nostra civiltà lo Stato prenda una parte eccessiva, invadente quasi. E perchè i superstiti non possono innalzare ai loro cari perduti una statua, un monumento, se vogliono, anche un mausoleo? Il nostro tempo si distingue soprattutto per il trionfo dell'individualismo e mi pare che qui, dove si dovrebbe lasciare all'affetto e al dolore tutti i loro santi diritti, lo Stato si intromette con troppa tirannia. - Ma no, Maria mia, lo Stato non è invasore. Qui dirige e comanda, perchè le necropoli sono monumenti pubblici, ma ognuno nella propria casa, nel proprio giardino, nel proprio paese è padrone di innalzare ad un caro morto, anche un tempio, se lo vuole. - Ma andiamo nel Panteon: là non troveremo più cadaveri, ma dei morti che son più vivi di quando erano di questo mondo. Un viale tutto fiancheggiato di alberi giganteschi li condusse ad una vera città, dacchè ogni regione del globo vi ha i proprii templi innalzati alla memoria dei grandi uomini. E ogni tempio ha l'architettura caratteristica del paese, a cui quei genii appartenevano. Ne ha la China: ne hanno il Giappone, l'India, l'Australia, l'America, l'Africa e l'Europa. In ogni tempio si innalzano infiniti monumenti di bellissimo stile, dove non sono deposte le ossa dei genii scomparsi, ma dove si trova come in compendio tutta la loro vita. In tutti si trova o il busto o la statua, che riproduce i lineamenti del grande estinto e poi, come in una chiesetta chiusa, si vedono alle pareti tutti i ritratti di lui nelle diverse età della vita. Un albero genealogico della famiglia segna la sua discendenza e poi, se autore di libri, in una libreria son poste tutte le sue opere, colle diverse edizioni, e le sue biografie. Spesso si vedono anche gli oggetti che gli sono stati più cari, il suo cane o il suo gatto imbalsamati, i fiori che prediligeva, il suo bastone, la poltrona in cui sedeva e tanti altri oggetti. Se il morto era un artista, si vedono le riproduzioni in fotografia dei suoi quadri, delle sue statue, degli edifizi che aveva innalzati. Se era un meccanico o un ingegnere si trovano nel monumento, che gli è stato innalzato, i disegni delle macchine inventate, delle strade, dei ponti che aveva costruiti. In una parola ogni monumento è una biografia parlante dell'uomo grande, a cui era stato innalzato. - Tu vedi, Maria, che per aver soppressi i mausolei vanitosi nel cimitero, i grandi uomini non sono meno onorati da noi di quello che lo furono dai nostri antichi padri, i quali, lasciando ai superstiti la cura di ricordare i loro morti, misuravano col denaro e non col merito l'altezza della statua e il lusso dei marmi; per cui spesso un uomo volgarissimo aveva in quei cimiteri uno splendido mausoleo, mentre un genio non era ricordato che da una modestissima lapide. Paolo, come facevano tutti i visitatori di quel Panteon, entrando nei diversi monumenti, si levava il cappello, facendo una genuflessione dinanzi all'effigie del grand'uomo. - Questi sono i nostri santi, e che tengon luogo degli antichi, spesso fabbricati per industrie simoniache da preti furbi ed ignoranti o che non avevano avuto altro merito che quello di aver digiunato o di aver contraddette le più sacre leggi della natura; quelle che ci comandano di amare e di riaccendere nei nostri figli la fiaccola della vita. Commossi, ma non rattristati, i nostri due compagni passeggiarono lungamente nel Panteon di Andropoli, richiamando alla memoria le grandi azioni e le grandi opere di quei grandi. Maria, commossa profondamente dalla lunga passeggiata, fece un'ultima domanda al suo Paolo: - Dimmi, Paolo, qui non trovo più l'uguaglianza, che ho veduta nel campo dei morti. Qui trovo monumenti piccini, mezzani, grandissimi, e chi è giudice e esecutore di queste grandi disuguaglianze? - Gli uomini grandi, mia cara, son tutti degni di gloria; ma son molto disuguali fra di loro. Abbiamo i genii, che colla luce del loro pensiero innalzano un faro che illumina tutto il pianeta; che colle loro opere segnano un'era nuova nella storia dell'umanità. E ne abbiam altri, che col loro talento e il lavoro indefesso perfezionano le scoperte dei primi; nè è cosa giusta, che essi abbiano gloria eguale agli altri. È il concorso dei più, è il voto dei membri della grande Accademia di Andropoli, che decide quale sia il monumento, che deve essere innalzato alla memoria del grande scomparso. E il giudizio non è pronunziato che dopo una lunga e profonda discussione.

Quanto al capo della città, si chiama il Diverso di quest'oggi, perchè ogni giorno per turno ognuno di noi, che abbia più di vent'anni, uomo o donna non importa, diventa capo per un giorno solo, e al numero 1000 scioglie i problemi d'ordine che possono offrirsi; amministra la giustizia e fa insomma tutto ciò che nell'Andropoli fanno centinaia d'impiegati. Del resto il governo dell'Eguaglianza è facilissimo, perchè nella casa del Diverso di quest'oggi sta esposto a tutti il codice, che stabilisce e regola la vita di ciascuno. Noi abbiamo in orrore la diversità, perchè offende la giustizia, che è la nostra Dea; e ognuno di noi denunzia subito al Diverso d'un giorno chi nel vestire, nel mangiare o in qualsiasi cosa si comporti diversamente dagli altri. Maria non potè frenar le risa a questo discorso dell'egualitario, ma questi non ebbe tempo di accorgersene, perchè, salutati i viaggiatori, aveva già ripreso il suo passo cadenzato e monotono. - Ma, Paolo mio, noi siamo venuti in una gabbia di matti! Andiamo via e presto. - Ma no, Mariuccia mia! Questo regno dell'Eguaglianza mi par curioso assai e vorrei studiarlo più da vicino. Son più di mille e cento anni che i francesi fecero una terribile e sanguinosa rivoluzione per conquistar fra le altre cose l'eguaglianza. Si tagliarono colla ghigliottina migliaia di teste innocenti, ma gli uomini continuarono a nascere gli uni diversi dagli altri e le gerarchie sociali si adagiarono nella società in cui oggi viviamo e dove la giustizia concede non più le stesse cose a tutti, ma bensì ciò che ognuno si merita. Ma ecco qui che nell'Isola degli esperimenti troviamo dopo undici secoli rinnovellato lo stesso sogno del 1789. - Meno male che qui non vedo la ghigliottina e questi matti di egualitarii si sono liberamente raccolti per attuare il loro sogno. - Ma io, dolce compagna mia, mi sento un grande appetito e vorrei picchiare alla prima porta, che incontriamo per chiedere l'ospitalità. E così fecero i nostri viaggiatori. Al numero 365 della via numero 6 entrarono in una casa dell'Eguaglianza, che aveva spalancate le sue porte, come tutte le altre. Nel vestibolo trovarono una creatura bianco-vestita. Sarà un uomo o una donna? Era molto difficile il dirlo; ma quando aprì la bocca per salutarli, si accorsero che era una donna e che parlava come tutti gli altri la lingua cosmica. - Perdoni, signora, ci hanno detto che in questa città non vi sono alberghi, e che ogni casa offre l'ospitalità ai viaggiatori. E perciò vorremmo pregarla a darci da colazione. - Entrino e si mettano a sedere. Mi duole però doverle dire, che l'ora della colazione è passata e converrà che aspettino l'ora del pranzo, che è alle diciassette. - Scusi, signora; ma abbiamo molto appetito e ci basterebbe il più modesto spuntino: due uova e un po' di pane. - Non potrei trasgredire la legge dell'Eguaglianza. Da bravi viaggiatori avrete con voi qualche piccola provvista, che vi permetterà di aspettare l'ora del pranzo, che si farà in comune. Intanto eccovi aperta la camera degli ospiti, che è per l'appunto libera. Paolo e Maria avevano sempre nella loro borsetta da viaggio degli albuminoidi condensati e degli alimenti nervosi, per cui chiedendo mille scuse all'egualitario si raccolsero nella camera degli ospiti, ridendo come due pazzi della singolarità dei costumi di quel paese. Venuta l'ora del pranzo, sentirono suonare un campanello elettrico, che lo annunziava, e nello stesso tempo suonavano tutti i campanelli della città. Introdotti nella sala da pranzo, videro sedute a mensa cinque persone, il babbo, la mamma e tre figliuoli. Nessun cameriere, nessuna serva. Per turno si alzava ora il padre, ora la madre, ora uno dei tre figli e da uno sportello aperto nel muro prendevano le vivande, preparate da essi in cucina con piccola fatica personale e congegni ingegnosissimi di meccanica e di chimica. Il padrone di casa, poco diverso dalla padrona nella fisionomia, e in tutto eguale ad essa nel vestito, era ilare e cogli ospiti gentilissimo. Si informava del loro viaggio, dava notizie preziose sulla città dell'Eguaglianza e sugli altri Stati dell'isola, ma sopratutto ci teneva a portare a cielo la perfezione sociale del governo sotto cui viveva. - Vedete, che mirabile cosa è questo sistema, tutto ordine e simmetria! A questa stessa ora nella nostra città tutti pranzano e tutti mangiano la stessa cosa, e in molte mense siede anche lo stesso numero di persone, dacchè il celibato è proibito; come è proibito avere più di tre figli. Soltanto nel caso in cui la sventura ce ne involi uno, possiamo sostituirlo con un quarto. Il primo d'ogni mese tutti i capi di famiglia mandano alla casa del Diverso d'un giorno la proposta dei cibi, che si dovrebbero mangiare a colazione, a pranzo e a cena, e la maggioranza delle proposte divien legge per tutti. Così si variano le vivande e le ore dei pasti a seconda delle stagioni e della pubblica salute. Non vi par questo l'ideale d'una società? Nessuno primo, nessuno secondo; ma tutti eguali. Nessuna ambizione, nessuna lotta per il potere, che abbiamo tutti quanti per un giorno; nessuna invidia. Che ve ne pare? Paolo non voleva umiliare un uomo così gentile, nè disingannarlo nella beatitudine sicura delle sue convinzioni. Si accontentò di dire: - Di certo, il vostro organismo sociale è molto curioso, molto originale ... - Oh, caro signore, non è soltanto curioso e originale; ma è la perfezione, l'ideale di tutti i governi umani. - Ma come riuscite a far trovar piacevoli a tutti le stesse cose? Gli uomini nascono tanto diversi gli uni dagli altri ... - Può darsi, ma l'abitudine delle stesse cose li rende sempre più eguali e noi speriamo col tempo di farli nascere tutti eguali, tutti della stessa robustezza, della stessa intelligenza, degli stessi gusti. Una legge votata nello stesso anno impone a tutti di fecondare la propria moglie soltanto il primo di maggio. Quanto all'amore, lo facciamo tutti alla stessa ora, ogni mattina, quando suona una campana speciale dalla casa del Governo. Non vi par bello, poetico il pensare che voi mangiate, che voi dormite, che voi passeggiate alla stessa ora di tutti i vostri concittadini? Qui Paolo, frenando a stento il sorriso, non potè a meno di dire: - Caro signore, fino dal 1600 i Gesuiti del Paraguay avevano pensato la stessa cosa, e una certa campana suonata al mattino, ingiungeva ai cittadini di porgere il loro tributo a Venere feconda ... - Non so chi fossero questi Gesuiti, dei quali mi parlate, ma trovo che un'idea, che rimane dopo tanti secoli, deve avere un serio fondamento nei bisogni della natura umana ... - Io credo invece, - soggiunse Paolo, - che la natura umana è così elastica, è così proteiforme, che ci permette di ripetere a lunghi intervalli le stesse esperienze, e di ritentare le stesse strane utopie, come credo che sia questa vostra repubblica egualitaria. *** Il giorno dopo i nostri viaggiatori partirono dall'Eguaglianza e si diressero a Tirannopoli, piccolo stato, dove il popolo viveva sotto il regime dispotico d'un piccolo tirannetto, Niccolò III, che portava il titolo di czar in memoria degli imperatori di Russia, che avevano governato molti secoli prima gran parte dell'Europa orientale e dell'Asia occidentale. Non si fermarono che un giorno indignati della pecoraggine di quella gente, che ubbidiva a un uomo solo, che non aveva altro merito che quello di essere nato da Niccolò II, che alla sua volta aveva ereditato il trono di Niccolò I, fondatore della dinastia. Tirannopoli formicolava di soldati, che non avevano a difendere la patria, che non aveva nemici; ma che facevano la parte di carabinieri e di guardie di pubblica sicurezza, riferendo ogni giorno al Capo della polizia ciò che avevano veduto e udito nel loro spionaggio quotidiano. Una parola sola poco riverente pronunciata contro lo czar era punita col carcere e ogni tentativo di ribellione si meritava la pena di morte, che veniva eseguita collo strangolamento. Niccolò era non solo re assoluto, ma anche capo della religione. Questa era semplicissima: adorazione di un Dio solo e dei suoi santi, che erano tutti tiranni celebri nella storia del passato. Augusto, Tiberio, Nerone, Ezzelino da Romano, Luigi XI, Luigi XIV, Enrico VIII d'Inghilterra, Napoleone I, Re Bomba di Napoli, Pietro il Grande e tanti altri erano altrettanti santi, che avevano il loro tempio e il loro culto. Intorno al trono vi era una doppia aristocrazia, la civile e la religiosa, strette entrambe da vincoli di parentela e di una comune solidarietà. Portavano titoli diversi secondo la gerarchia a cui appartenevano e in cambio dei servigi, che rendevano al trono, erano pagati lautamente; senza far altro che difendere il trono e l'altare. Tirannopoli era circondata da Stati liberi e qualche cittadino era riuscito a fuggire dalla tirannia di Niccolò III per recarsi all'Eguaglianza, alla Metropoli del socialismo, allo Stato parlamentare; ma l'emigrazione era rara e difficile, essendo punita colla morte, se si poteva ghermire il colpevole. In caso diverso era punita nelle persone dei congiunti più vicini al colpevole. Del resto l'emigrazione era rarissima per un'altra ragione. Gli abitanti di Tirannopoli, nati da due generazioni di schiavi, nascevano già rassegnati e pazienti della schiavitù e ubbidivano alle leggi più assurde e tiranniche. I più intelligenti e i più fieri speravano in un Messia, che aveva di là a venire, che avrebbe ucciso il tiranno e distrutta l'aristocrazia dominante, dando a tutti la luce della libertà. Quando Paolo e Maria, inorriditi dal triste spettacolo di quella società di schiavi, stavano per uscire dalla frontiera di quel paese, s'incontrarono con un giovane signore, che Paolo aveva conosciuto a Roma, quando vi faceva i suoi studi e che poi si era recato per diporto ad Andropoli. Fin da fanciullo aveva istinti tirannici e divenuto uomo, in pubbliche conferenze e in articoli di giornali, predicava la necessità di rinforzare il Governo degli Stati Uniti d'Europa con leggi restrittive. Ora il tribunale supremo di Andropoli gli aveva imposto di recarsi per un mese nell'Isola di Ceilan e vedere cogli occhi suoi, che bella e buona cosa fosse uno Stato governato coll'antica tirannide. Fu egli stesso che narrò ai due sposi lo scopo del suo viaggio, e Paolo, ridendo, gli disse: - Vai, vai a Tirannopoli e un mese sarà soverchio tempo, perchè tu possa guarire dalle tue idee autoritarie. *** Continuando il loro viaggio di esplorazione Paolo e Maria giunsero a Turazia, capitale d'un piccolo Stato governato dal Socialismo collettivo. Le cose si rassomigliavano assai a quelle vedute da essi nella città dell'Eguaglianza e non erano meno curiose e ridicole. Incontratisi in un giovinetto che passeggiava per la via, gli chiesero l'indirizzo di un albergo e mentre egli li accompagnava entrarono in conversazione con lui, chiedendogli di chi fosse figlio: - Non lo so, come non lo sa alcuno degli abitanti di questo paese. Non conosco che mia madre, ma siccome essa ebbe molti amanti, parecchi pretendono di avermi data la vita. Qui il nostro cognome è quello della mamma, perchè l'amore è libero e non esiste il matrimonio. I figli son tutti dello Stato, che è il gran padre di tutti. Maria chiese ancora a quel giovinetto socialista, perchè la loro città si chiamasse Turazia. - È in onore d'un certo Turati, che visse in Italia verso la fine del secolo XIX e che fu uno dei più onesti e ragionevoli socialisti di quel tempo e che colla penna e colla parola preparò l'avvento della gran Repubblica socialista, che governò più tardi l'Europa. Maria s'interessò vivamente allo studio di Turazia e Paolo in poche parole le fece la storia della grande e generosa utopia del socialismo, ch'egli definiva un'arcadica tenerezza del cuore accompagnata dalla più profonda ignoranza della natura umana. - Vedi, Maria, fin dal 1895 l'Europa contava socialisti di diverse specie, e un certo Bianchini, arguto e profondo scrittore di quel tempo, ne trovava tre diverse categorie. In prima fila vi erano i socialisti della scienza, una scienza nella sostanza non sempre purissima, ma che nell'esteriorità curava gelosamente il proprio incedere grave, sistematico, dignitoso. Questi socialisti dicevano giorno, ora e minuto della prossima trasformazione sociale e del relativo fallimento borghese. Le loro trovate non peccavano di eccessiva varietà. Si lavorasse troppo o non si lavorasse affatto, vi fosse ingombro o deficienza, piovesse o tempestasse, essi non vedevano al mondo che l'infame capitale in basso e Dio Marx in alto, un grande precursore del Turati. Vi erano poi i socialisti della letteratura: qualche uomo di talento, alcuni mediocri, e dietro il gregge infinito degl'autori traditi dalla sorte, cui l'avvento del socialismo sorrideva come una rivendicazione della propria genialità incompresa, ad una santa opera nella quale la tirannia del capitale più non tarperebbe le ali ai voli sconfinati del pensiero. Essi sognavano il giorno felice, in cui la sordida avarizia degli editori più non contrasterebbe l'ineffabile dolcezza di far gemere i torchi, e quel sogno li esaltava, faceva vibrare le parti più sensibili e più accese del loro cuore. Il socialista letterato era un animale entusiasta, espansivo, convinto fino all'assurdo delle proprie idee, ma personalmente molto innocuo. Il Bianchini distingueva per ultimo i socialisti della cattedra, e trovava al suo tempo, che erano pochi, ma singolarmente cocciuti. Erano uomini spaventosamente eruditi, che si erano tuffati col più eroico dei coraggi nel mare magno delle leggi e degli istituti giuridici per ricavarne l'infallibile ricetta, che doveva cancellare dal dizionario umano la triste parola di dolore. Il loro lavoro speculativo li aveva inconsciamente separati dal mondo dei viventi per portarli in un ambiente, in cui non si riconosceva che una divinità, la legge: che era tutto, doveva tutto, poteva tutto. Non vi era esigenza fisiologica o naturale, che si degnassero considerare nell'uomo, ma colla massima disinvoltura essi la perfezionavano, volgevano e capovolgevano così come domandavano i bisogni del loro sistema prestabilito. E accanto ai maestri, lavoratori sobrii, illusi in buona fede, sorgevano i discepoli, leggeri, superficiali, che si pavoneggiavano nella loro veste pretensiosa di essere superiori a buon mercato. Studiando la storia del socialismo però, cara Maria, io credo che alle tre specie di socialisti magistralmente definiti dal Bianchini sulla fine del secolo XIX se ne debba aggiungere una quarta, che era fors'anche la più numerosa ed è quella dei socialisti per pietà. A questi appartenne Edmondo De Amicis, un celebre scrittore italiano del secolo XIX. E questi sono per l'appunto quelli che, dopo undici secoli, hanno voluto ritentare l'antica prova, fondando qui nell'isola di Ceilan lo Stato di Turazia. Il dolore fisico non esiste più, ma esistono ancora molte e molte forme di dolore morale, ad onta che si cerchi di sopprimere dalla nascita i delinquenti nati e tutti i mostri e tutti gli organismi consacrati a morire immaturamente e di malattie ereditarie. Qualche volta i biologi periti sbagliano e lasciano vivere uomini, che per la loro costituzione son condannati a soffrire o a far soffrire gli altri, se non fisicamente, moralmente; dacchè la pietà altruistica è un acerbo dolore. Aggiungi a questo la lotta delle individualità forse troppo libere nei loro movimenti e che fanno nascere spesso contrasti, contraddizioni, disuguaglianze. Da quel poco che ho veduto qui in Turazia mi pare che l'esperimento, che non dura che da cinque anni, non avrà lunga vita. La gran massa del popolo socialista è costituita da ignoranti e da gente di carattere debolissimo, venuta qui, sperando di trovarvi una panacea ai loro mali. Alla testa ho veduto uomini d'ingegno, ma con più cuore che testa, e che si affannano a risolvere questa specie di quadratura del circolo; cioè di dare a tutti quel che spetta a ciascuno, misurando con equa bilancia il valore del lavoro, che è così diverso nei diversi organismi umani. Lo Stato è divenuto una specie di tumore gigantesco, che assorbe tutto colla santa intenzione di distribuire a tutti un egual quantità di sangue e di vita; ma questa distribuzione è fatta da uomini, che per quanto intelligenti e buoni, son pur sempre uomini ed hanno le loro simpatie, le loro passioni; e di qui altrettante cause di errore e di malcontenti. Nota poi, che la impossibilità di accumulare il frutto del lavoro per lasciarlo ai figliuoli toglie ogni nerbo all'energia individuale e una grande apatia regna sovrana nell'atmosfera di questo Stato, dove se non vi sono nè oppressori, nè oppressi, mancano però le sante e poderose lotte del primato e le più belle e nobili energie abortiscono, perchè è a loro negato il lavoro. Ieri, mentre tu dormivi, ho avuto una lunga conversazione con uno dei capi principali di Turazia, ma trovai in lui un grande poeta, invece di un sapiente uomo di Stato. Egli era entusiasta del nuovo esperimento e mi diceva che la Repubblica socialista ha un grande avvenire ed è destinata poco per volta ad assorbire tutte le società planetarie. Alla mia obbiezione che essi avevan soppresso Dio e la famiglia, cioè il tempio in cui si crede o si spera e il nido in cui si ama, egli, crollando il capo in aria di compassione e colla voce ispirata e calda di un apostolo e di un profeta mi rispondeva: "Sì, è vero, abbiamo soppresso Dio, perchè è una menzogna. Abbiamo soppressa la famiglia egoistica e animalesca; ma l'abbiamo allargata, portandone i confini a ben più largo giro. Qui siamo tutti fratelli e i giovani son figli dei vecchi. La parentela non è soltanto del sangue, ma del cervello, del cuore, di tutti i nervi che fanno vibrare la natura umana ai sussulti della gioia e del dolore. La gioia di un solo è gioia di tutti; il dolore di un solo è dolore di tutti. "L'individuo, che voi altri planetarii, avete fatto un Dio, qui da noi non è che la molecola, l'atomo sociale, un membro del grande organismo, che è lo Stato. Noi non sentiamo il bisogno di maggior libertà, nè di maggiore agiatezza, perchè lo Stato pensa per noi e a tutti distribuisce ciò che gli spetta. Noi abbiam copiato ciò che fa la natura, quando plasma gli organismi del mondo vegetale e del mondo animale. "Forse che il braccio o un dito del piede o uno dei tanti nostri visceri si lamenta del lavoro che gli spetta nel grande travaglio della vita? No di certo: ognuno dei nostri organi lavora per sè e per gli altri e vive nello stesso tempo della vita propria e della vita collettiva. Voi altri, individualizzatori fanatici, potete salire in alto finchè volete; potete sentirvi potenti, ricchissimi; ma siete sempre unità. Io invece, vedete, sento fremere in me la vita di tutti i 30000 fratelli, che per ora costituiscono la Repubblica sociale di Turazia, come se la coscienza del mio Io fosse grande come quella di tutti i miei concittadini." Molte altre e belle cose disse quel socialista, e anche a lui non ebbi il coraggio di gettare in faccia una sola delle tante obbiezioni, che mi venivano al labbro. Mi accontentai di stringergli forte la mano, dicendogli: "Vi ammiro e vi invidio, benchè sia di opposto parere sulla forma di governo sociale che vi siete data. Ogni entusiasmo, ogni fede ardente è sempre un fenomeno del pensiero, che sorprende e che per di più fa felice chi ne è capace." *** Da Turazia i nostri pellegrini, viaggiando nell'interno dell'Isola, si recarono a Logopoli, o città della parola; una nuova ricostruzione di un antico Stato parlamentare. Vi trovarono poco di nuovo e di interessante. Logopoli è una copia perfetta dell'antica Inghilterra, quando era uno Stato indipendente retto da un governo parlamentare. Di diverso non c'è che questo; che il Re non è un capo ereditario, ma elettivo. Ogni cinque anni Camera e Senato si riuniscono in una sola assemblea per dare il loro voto nell'elezione del Re. Questo Capo dello Stato è però un Re travicello, che non fa che firmare i decreti e a cui hanno tolto anche il diritto di grazia. Ha un ricco appannaggio e porta intorno la maestà e gli orpelli del suo alto posto. Del resto ministri, deputati e senatori, come negli antichi Stati a regime parlamentare. Gli stessi intrighi, le stesse corruzioni per essere eletti membri dell'una o dell'altra Camera, essendo a Logopoli elettivi anche i senatori. Pagati gli uni e gli altri profumatamente, ma esclusi da ogni impiego. Così pure esclusi tutti gli avvocati e quelli che abbiano interessi comuni colle imprese dello Stato. La rappresentanza del popolo però è divenuta un po' più sincera e seria; dacchè ad ogni votazione importante, ad ogni atto politico di grande gravità, sia pur di un ministro, di un deputato o di un senatore, gli elettori del Collegio hanno diritto di riunirsi in comizio straordinario e di dare un voto di disapprovazione al loro rappresentante. Questi cessa da quel momento di essere membro del Parlamento o del Gabinetto e dev'essere sostituito per via di una nuova elezione. Questa ed altre riforme di minor conto hanno migliorato in Logopoli l'antica forma parlamentare, ma vi rimangono sempre queste due infermità organiche:... Quella di fabbricar le leggi con una commissione di troppi individui, facendole mutevoli ad ogni accidente od incidente di persone o di cose. E l'altra di mutar sempre al capriccio vagabondo degli elettori coloro che devono dettar le leggi e reggere il timone dello Stato. *** I nostri compagni non visitarono tutti gli Stati dell'Isola degli esperimenti, ma soltanto i principali. Oltre gli egualitarii, oltre Tirannopoli, Turazia e Logopoli, vi sono altre genti e altri paesi governati diversamente. Basta che un centinaio di uomini pensino un'utopia sociale nuova o ne ripensino una antica già sepolta da secoli, ed essi sanno che nell'Isola di Ceilan si trova sempre un piccolo o grande territorio vergine, dove possono fondare la nuova Repubblica o la nuova Teocrazia. E così si fanno e rifanno gli esperimenti: così sorgono e muoiono città e falansteri e organismi nuovi e bizzarri; che servono poi di svago ed anche di scuola agli uomini politici degli Stati Uniti planetarii. Paolo e Maria seppero infatti, che Ceilan possiede oltre gli Stati da essi visitati: Poligamo, staterello a governo semidispotico, dove ogni uomo ha molte mogli. Poliandra, altro Stato, dove invece ogni donna ha molti mariti. Cenobia, una immensa città ieratica, da cui sono escluse le donne e gli uomini vivono in un ascetismo continuo. Monachia, piccola città tutta di monache date al culto di Saffo. Peruvia, uno Stato comunista, dove si ricopia l'antico regime socialista dell'Impero degli Incas; e dove la proprietà, essendo tutta dello Stato, si presta a ciascuno secondo i suoi bisogni, allargandone la frontiera secondo il numero dei figli. Così pure il lavoro, vien distribuito nei diversi giorni della settimana per sè, per i poveri e i malati, per il re e i principi e per le spese del culto.

A chi si presenta non si domanda mai dove egli abbia studiato, nè con chi. Gli si fanno esami rigorosissimi teorici e pratici a seconda dei casi e poi si concede o si rifiuta la patente a cui egli aspira. Non vi sono gradi di merito, onde non offendere l'amor proprio di alcuno ed anche perchè una lunga esperienza ha dimostrato, che per quanto le Commissioni esaminatrici sieno scrupolosamente imparziali e gli esami si facciano con tutta la coscienza e tutta la maturità, i giudizi non corrispondono sempre fedelmente al merito reale del candidato. Naturalmente le scuole di Andropoli sono giudicate le migliori del mondo e quindi i diplomi che si rilasciano qui dall'Università della capitale hanno un grandissimo valore e ogni giorno giungono dai più lontani paesi studenti non laureati o già laureati, ma che vogliono conquistare il prezioso diploma metropolitano. L'uomo quando pensa e quando discute, è sempre un grande decentratore, ma quando agisce diventa feroce centralizzatore, e a questo istinto, che ha dell'automatico, direi quasi dell'animalesco, i nostri scienziati moderni cercano di opporsi con tutte le armi della critica, della persuasione, dell'autorità indiscutibile, che danno ad essi la dottrina e l'esperienza. Un altro problema, che tormenta attualmente il pensiero de' nostri alti consiglieri della scuola, è quello di conoscere le attitudini individuali, onde i maestri privati o pubblici possano guidare lo studente nella scelta della professione, nell'elezione degli studii. Qui, secondo noi, è riposto il segreto di tutta quanta l'efficacia della istruzione e della educazione. Non vi ha forse uomo sulla terra, che non sia adatto a far qualcosa di utile e di buono; ma questa attitudine non è sempre cosciente, nè si rivela sempre anche al più acuto osservatore di cervelli e di intelletti. L'esame delle cellule centrali fatto colla luce penetrante e cogli acuti strumenti ottici dei nostri psicoigei è ancora molto addietro nelle sue possibilità. Questi dotti sanno ben dirci, se un cervello porterà l'individuo a cui appartiene necessariamente al delitto, se appartiene ad un imbecille, a un uomo volgare o ad un genio; ma più in là non sanno andare. Resta quindi ancora all'individuo, ai suoi genitori e ai maestri lo spiare l'andamento evolutivo del pensiero nelle prime età della vita, per scoprire quali sieno nel suo cervello gli organi deboli, quali i forti, onde rinforzare i primi e approfittare degli altri per la scelta della professione e l'indirizzo degli studi. Noi non vogliamo spostati nella nostra società e chi sbaglia nella scelta della carriera è uno spostato e quindi un infelice. *** Paolo e Maria, ringraziando il cortese impiegato, che aveva fatto loro da cicerone nel Ministero della Salute, passarono nell'ultimo braccio della gran croce governativa, dove sulle pareti sta scritto Industria e Commercio. E anche qui un nuovo cicerone fu loro di guida. Sull'ingresso una statua gigantesca della Libertà domina alta e sublime, come per esprimere l'indirizzo nuovo preso dal lavoro umano nell'anno 3000, ma iniziato già da parecchi secoli. - Vedi, - disse Paolo a Maria, - questa statua rappresenta un bellissimo schiavo, che ha rotte le catene, che stanno infrante ai suoi piedi. Esso si appoggia sopra un trofeo di ruote; di pile e di altri strumenti; mentre dall'altro lato un aerotaco e una nave indicano il commercio. Vedi, Maria, quelle catene rappresentano i ceppi, nei quali visse o meglio soffrì l'industria col suo fratello il commercio nei tempi antichi. Il pensare a quei tempi mi da raccapriccio e sento una profonda compassione per quei nostri remoti padri, che subivano pazienti tutte quelle forme variate di schiavitù commerciale e industriale. Figurati, che fino al secolo XX in molte città d'Europa e in tutte le città italiane non si poteva entrare senza essere sottoposti ad una visita, brutale spesso e sempre noiosa, per parte di rozze guardie, che ti frugavano nelle valigie e nei bauli, dapertutto, per vedere se avevi oggetti sottoposti al dazio consumo, che pesava su tutte le derrate alimentari, sul vino, sul latte e sopra mille altre cose. E quando la città o il villaggio era in riva al mare, anche se tu fossi giunto in barchetta da un paese lontano da quello, forse non più di tre o quattro chilometri, tu dovevi passare per la trafila di due categorie di guardie, quelle di finanza per vedere se portavi merci dall'estero e quelle municipali per verificare se volevi defraudare il dazio consumo. Una doppia imposizione da subirsi in una passeggiata di un'ora! Grazie a Dio, si abolì il dazio consumo fin dal secolo XXI in tutte le città d'Europa e d'America; e poi man mano si andavano costituendo gli Stati Uniti del mondo, si abolirono anche le dogane in tutto il mondo ed oggi gli economisti non si ricordano più neppure del significato delle parole protezionista e liberoscambista. Evviva la civiltà! Evviva il progresso! Oggi tutti i paesi del mondo si scambiano liberamente i loro prodotti e le dogane son relegate insieme alle fortezze nel Museo delle rovine del passato. E qui intervenne il cortese cicerone a dare i necessari schiarimenti. - In questo dipartimento gli economisti, gli industriali, i commercianti, che per il loro ingegno, per le loro intraprese, per i loro studi hanno acquistato una fama mondiale, esaminano i grandi problemi del commercio cosmico, a cui danno preziosi consigli, grazie alle informazioni statistiche, che qui si raccolgono da ogni parte del mondo e a cui fanno appello gli industriali e i commercianti di tutto il pianeta. Eccovi un esempio di una delle funzioni esercitate da questo Ministero. Da tre o quattro anni nel Canadà si fondò una gran fabbrica di un nuovo materiale di costruzione per le case, che consiste nella riduzione in pasta degli alberi di acero di quelle immense foreste e che si mescola con diversi silicati solubili. La solidità e il poco prezzo di questo materiale, la sua poca o nessuna conducibilità per il calorico lo resero in poco tempo popolarissimo, e l'uso andò diffondendosi in tutti i paesi del mondo. La fabbrica, incoraggiata dal successo, raddoppiò la produzione della pasta e la spinse ad un eccesso superiore al bisogno. In pari tempo a Giava sorse un'altra fabbrica dello stesso genere, che anch'essa produce troppo. Il Governo centrale di qui, avvertito del fatto e forte dei dati statistici raccolti dalla produzione e il consumo della pasta di carte costruttive, avvertì per telegrafo l'una e l'altra fabbrica, perchè limitassero la produzione al necessario. Senza questo avvertimento, che fu comunicato proprio in questa settimana, dopo poco tempo una delle due manifatture avrebbe dovuto fallire. E lo stesso vien fatto per tutte le altre grandi industrie, che da questo centro ricevono istruzioni e consigli. Un'altra grande missione di questo Dicastero consiste nello studiare in opportuni laboratori i prodotti delle industrie nuove, che spesso non corrispondono per il loro valore reale alle speranze sempre troppo ottimiste dei loro inventori. Qui si sfrondano molte illusioni, ma si impediscono anche molte catastrofi. Quanto al commercio si fa lo stesso come per l'industria. Questo Dicastero non è un organo fiscale, ma un semplice ufficio di informazioni. Ogni grande commerciante di Pechino o di Nuova York, di Genova o di Londra, può nello stesso giorno conoscere per telegrafo il movimento commerciale di tutto il mondo rappresentato dalle navi entrate e uscite nei diversi porti e la natura e la quantità delle merci che portano in grembo. *** Dopo aver salutato e ringraziato la loro guida, i nostri viaggiatori lasciarono il Palazzo del Governo, ammirati dell'ordine, che vi regna sovrano e superbi di essere nati in un'epoca, che ha raggiunto tanti e così alti progressi nel movimento della civiltà. Nell'uscire dal palazzo però Paolo e Maria videro a fianco dell'entrata una palazzina a un sol piano, da dove partono un'infinità di fili, che si dirigono verso tutti i punti dell'orizzonte. Sulla porta sta scritto a grandi caratteri una sola parola: Denaro. Vollero informarsi che cosa fosse quell'uffizio. È null'altro che la ragioneria cosmica, come chi dicesse l'organo finanziario del nostro pianeta e che rappresenta tutte le funzioni, che un tempo esercitavano con un complicatissimo meccanismo i ministri di finanza, la Corte dei Conti, le Esattorie e tutti gli svariati strumenti di tortura, coi quali si estorceva il denaro dalle borse dei contribuenti per sopperire alle spese del Governo. Le quattro grandi sezioni dello Stato informano la ragioneria centrale di quanto occorre per le spese universali di bonifica, di esplorazioni scientifiche, di salvaguardia della salute pubblica; e il ragioniere capo, dopo essersi consultato coi suoi pochi colleghi, una volta all'anno fa sapere a tutto il mondo il tributo che si esige da Andropoli. Il Podestà di ogni regione ripartisce il tributo sopra ogni cittadino secondo le sue ricchezze. La tassa cresce in ragione geometrica della rendita di ogni cittadino. I poveri non pagano nulla. Questo è il bilancio cosmico, ma ogni Comune ha il proprio bilancio e anche qui le tasse sono geometricamente progressive e i poveri sono esenti da ogni tributo. Ogni regione ha un Consiglio dei reclami, dove si mandano le proteste di coloro, che si credono tassati soverchiamente o ingiustamente, e Andropoli ha poi il proprio Consiglio per i reclami della tassa cosmica. I giudizii emanati da questo Consiglio sono senza appello. Le proteste poi nell'anno 3000 sono molto rare, perchè le tasse non vengono pagate che dai ricchi, perchè sono molto modeste e sopratutto perchè ognuno sa di pagare in proprio vantaggio; dacchè le entrate sono spese tutte a beneficio di ciascuno e dei grandi interessi universali.

Teresa

678415
Neera 8 occorrenze
  • 1897
  • CASA EDITRICE GALLI
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Siamo donne, ma, diavolo, non c'è stato nessuno che ci abbia mangiate. Tre ragazze le ha già, una piú, una meno ... così il suo Carlino non va soldato. Il silenzio si rifece, grave, tormentoso; rotto a tratti da' gemiti della sofferente. - Vede, signora Caterina, in questa camera io son nata; in questa camera ... presto ... forse oggi, chi sa non abbia a morire. - Ma ne devo sentire ancora? - interruppe la signora Caterina, ponendosi le mani sui fianchi - si crederebbe, a darle ascolto, ch'è una bambinetta senza giudizio, e non la madre di quattro figli, a momenti cinque! Perché deve morire? Tanto può morir lei, come posso morir io, sul colpo, di accidente. Ha sentito ieri? Il fratello del sindaco, quel pezzo di uomo che pareva il ritratto della salute? ... In un jesus, nemmeno il tempo di dire amen; stava leggendo una lettera, paf, era morto. Non si deve pensare alla morte; quando viene, è perché deve venire; del resto noi donne abbiamo sette anime e un animino ... allegra dunque. Fra un'ora, un'ora e mezzo al piú tutto sarà finito. Guardi, l'ho detto a mia cognata Peppina prima di uscir di casa: aspettami all'alba, che la signora Caccia si sbriga presto. Non è il primo giorno che ci conosciamo, eh! Si fidi. La signora Soave, un po' calmata, girò attorno per la stanza uno sguardo carezzevole, quasi per trovare degli amici nei due canterani di legno di noce a pancia rigonfia; nel letto, mezzo nascosto sotto una bella coperta di filugello giallo a fioroni verdi, colle lenzuola rimboccate, guernite di una gala di mussolino; nell'inginocchiatoio, tutto pieno di libri, col predellino incavato dalle lunghe genuflessioni; nello specchio piccolo, verdognolo, appeso troppo in alto, dove non si vedeva che la faccia; nelle tende della finestra, lavorate da lei, a rombi, con un uccellino e una palma alternati per ogni rombo; nei due unici quadri, in cornice di legno nero, rappresentanti il matrimonio di Maria Vergine. Ma piú che tutto, lo sguardo della signora Soave si arrestò con compiacenza sopra un bambinello di cera coperto da una campana di vetro. Quel bambinello giallino, con due puntini neri al di sopra di un piccolo rialzo che simulava il naso; quel bambinello dall'espressione dolce e rassegnata, coricato da piú che vent'anni in mezzo ai fiori di carta e alle striscioline d'argento che gli ornavano la culla; quel bambino nudo e santo attirava in modo particolare la tenerezza della signora che si sentiva struggere di amore e di rispetto; con una voglia di piangere, una voglia di baciarlo, e una voglia di raccomandarsi alle sue manine benedette. La grandezza di Dio, rappresentata da quel piccolo bambino, la colpiva di uno stupore pietoso e devoto. Si alzò, e, movendosi a stento, andò a deporre un bacio sulla campana di vetro; restando poi immobile, colle mani giunte, assorta in una contemplazione dolorosa. L'uscio, di fianco al letto, si aperse pian pianino, e una testa di fanciulla, passando tra la fessura, domandò: - Mamma! La signora Soave si scosse: - Che vuoi Teresina? Non ti sei coricata un poco? - Oh! com'è possibile? Sto alla finestra con Carlino; aspettiamo il babbo. È passato Caramella, mi ha detto di stare tranquilli, che pericolo per il momento non c'è. Papà verrà presto. - Dio sia lodato! Va' a letto, Teresa, va' a letto. - E tu mamma? - Or ora ci vado. La fanciulla fece atto di ritirarsi; ma, prima che l'uscio fosse chiuso, la madre le si avvicinò, perplessa, ponendole una mano sulla spalla e dicendole a bassa voce con accento tremante: - Prega per me ... - Mamma ... mamma ... Ella si pose un dito sulle labbra, composta, con una solennità misteriosa e dolce: - Questa notte avrai un altro fratellino ... sono cose che capirai piú tardi ... ma già sei la maggiore tu, devi pur saperlo. Ora va a letto. La pose fuori con amorevolezza, e chiuse l'uscio. Dall'altra parte, in uno stretto corridoio, che divideva la camera nuziale dalla camera delle ragazze, Teresina rimase immobile, appoggiata allo stipite dell'uscio, con una oppressione in gola e un turbamento improvviso. Aveva quindici anni. Era cresciuta nell'ambiente tranquillo della famiglia, in quella cittaduzza di provincia, lontana da tutte le emozioni. Era il primo anno che stava a casa da scuola, e ne' suoi doveri di giovane massaia aveva ancora l'incertezza della inesperienza; ma si sentiva compresa della sua missione di aiutare la mamma. Il suo temperamento la portava alla serietà, e il suo cuore all'affetto. Le poche parole della madre, pronunciate lì sull'uscio, nel turbamento di quella notte, l'avevano profondamente impressionata. Si sentiva a un tratto fatta donna - con un presentimento improvviso di dolori lontani, con una responsabilità nuova, con un pudore bizzarro, misto di una straordinaria dolcezza. Sembrava che in quel momento, solamente in quel momento, ella riconoscesse il proprio sesso, sentendosi scorrere nelle vene un'onda di languore non mai avvertita prima, e, nel cervello, sorgere una curiosità viva, pungente, la quale cessò di colpo davanti al rossore che le invadeva le guancie. Tutto ciò durò lo spazio di cinque minuti, come fosse ricaduto il lembo di velo che le aveva squarciato il futuro. Ella si rifece calma, di una calma piú malinconica, piú intensa; rientrò nella propria cameretta; il fratello che l'aspettava, appoggiato al davanzale della finestra, guardò con una intuizione nuova, ed avendo egli pronunciata qualche parola, trasalì al suono di quella voce d'uomo, e lo guardò, alla sfuggita, temendo ch'egli potesse leggerle sul volto il suo segreto. Ma Carlino non si occupava che della piena. Avrebbe voluto trovarsi anche lui sull'argine, insieme agli altri, e si sporgeva fuori dalla finestra per vedere se passava qualcuno a cui domandare notizie. Qualche altra finestra, come quella dei due ragazzi, era aperta; donne spaurite vi si affacciavano origliando, temendo sempre i rintocchi della campana che doveva avvertirle di fuggire. - Sai? - disse Carlino, col riso un po' melenso dei fanciulloni di quattordici anni - la vecchia Tisbe è in piedi da due ore, colle sue posate d'argento nel grembiale e il cagnolino sotto il braccio. Teresina non rise. - Se potessi ... - tornò a dire Carlino, ponendo una gamba a cavalcioni del davanzale - solamente una scappata, tanto da vedere. Credi che non sarei capace di scendere dalla finestra? - Andiamo, via, ci mancherebbe altro. Gli rispose cosí, a fior di labbro, dritta dritta nel vano della finestra, collo sguardo fisso ostinatamente nel buio. A un tratto si accostò a suo fratello, passandogli un braccio intorno al collo, chinandosi lievemente, fino ad accarezzare colla guancia i capelli di lui corti ed ispidi come le setole di una spazzola. Egli non avvertì la carezza. Tutto sporto fuori colle braccia, guardando in direzione della piazza, diceva: - Se venisse giù di lì! giù! giù! uh! che fracasso ... Non lo sgomento del pericolo lo agitava, bensì l'emozione di quel divertimento nuovo. Tutto il fiume giù in paese! uh! ... E rideva, pensando ancora alla vecchia Tisbe, col cagnolino sotto il braccio e le posate nel grembiale. - Che grossa disgrazia! - mormorò Teresina, rabbrividendo, stringendosi contro al ragazzo con un bisogno irresistibile di tenerezza. - Auf! - fece egli, dando una crollata di spalle - mi soffochi. E si sciolse dall'amplesso, sbuffando. La fanciulla, mortificata, si ritirò in fondo alla camera, dove c'era il suo letto. Sedette sulla seggiolina, accanto al capezzale, e lasciò cadere la testa fra i cuscini. Lì presso c'era il letto delle gemelle; coricate l'una da capo e l'altra da piedi, vestite, con un scialle buttato a traverso dei loro corpi. Dormivano saporitamente. Di lí a poco, un andirivieni, un movimento insolito in camera della madre, fece risollevare il capo a Teresina, che si portò accanto all'uscio, origliando. Successe un breve silenzio. Ella stava per riprendere il suo posto, accanto al letto, quando un vagito di bimbo le trasse una esclamazione; e subito, senza riflettere, obbedendo ad uno slancio del cuore, entrò nella camera attigua. - Mamma, mi permetti? La signora Caterina si fece sull'uscio, seria, con un dito sulle labbra. - La lasci entrare - mormorò fiocamente di sotto la coperta a fiorami, la voce della signora Soave. Teresina entrò in punta di piedi, commossa, rattenendo il fiato. La signora Caterina le presentò una bambinetta appena nata, tutta rossa, avvolta in un pannicello. - Oh! com'è piccolina. Voleva prenderla in braccio, ma la signora Caterina non lo permise. - Dopo, quando sarà fasciata. Teresina la baciò adagio sui capelli; poi, avvicinandosi al letto di sua madre, vi si chinò sopra, riverente, piena di tenerezza, con un senso recondito di timore. - Lasciala stare la mamma - disse bruscamente la signora Caterina. - Sto bene - tornò a mormorare la signora Soave, ricambiando con uno sguardo le carezze della figlia; e soggiunse: - Teresa è la mia donnina, dovrà fare da seconda madre ... - Sí, sí - rispose la fanciulla, tanto commossa, che quasi singhiozzava. La signora Caterina, senza dir altro, la prese per un braccio, e la pose fuori della camera. Carlino venne incontro a sua sorella, gridando: - C'è qui il babbo. Ora sentiremo le notizie; mi ha già detto che hanno atterrato tutte le case vicine a San Rocco. Teresina non capì nulla; aveva anche lei la sua notizia e la disse al fratello, tremante, tutta pallida: - Ci è nata una sorellina. - Ah! sì? - fece Carlino - lo sapevo che doveva nascere. E scese le scale di corsa, per incontrare suo padre. Teresina rimase immobile, colpita dalle ultime parole del fratello. Come mai egli lo sapeva?

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Stassera, dalle dieci alle undici, passeggerò finché ella abbia la bontà di aprire la finestra terrena. Aspetto e spero. E. ORLANDI. Era piú, ed era meno di quello che supponeva. Da un mese il giovinotto le faceva, visibilmente, quantunque delicatamente, la corte. Una dichiarazione formale non poteva essere molto lontana dalle idee di Teresina; se la fanciulla avesse avuto il coraggio di interrogare se stessa, avrebbe trovato il desiderio di quella dichiarazione in tutti i sospiri che gettava al vento, nelle ansie della domenica, quando doveva andare a messa e sapeva di vederlo, là, al solito posto; nelle distrazioni frequenti, nei sonni agitati: - sì, la dichiarazione era attesa. Ma quella lettera non diceva una sola parola d'amore, e le chiedeva invece, senza preamboli, una cosa tanto grave, qual'era un appuntamento. Teresina non sapeva che risolvere; si trovava in una agitazione strana. Per fortuna nessuno venne a bussare al suo uscio, così che ebbe tempo di rimettersi alquanto, almeno in apparenza. Nascose la lettera in seno; ma era troppo alta, la sentiva scricchiolare ad ogni movimento; aperse il busto, e la spinse piú avanti, vicino al cuore; allora le venne il dubbio che potesse scivolarle giú per la vita e perdersi per la casa; ne provò un terrore pazzo; tornò a slacciarsi tutta, assicurando la carta con uno spillo alla camicia. Ancora non si sentiva tranquilla, e ad ogni tratto andava tastando colle dita se la lettera fosse al posto. Che voleva Orlandi da lei? Era possibile che l'amasse davvero? Egli, il piú bel giovane del paese! Si batté la fronte: - oh! - proruppe in un oh! di rabbia, di dolore. Ricordava una fotografia trovata nella valigia di Carlino, il ritratto di una bella donna che suo fratello aveva chiamata l'amante d'Orlandi. Uno strazio, una smania orribile la prese, una gelosia rapida, quasi fulminea; un bisogno di interrogare suo fratello, di sapere chi fosse quella donna, se Orlandi l'amava molto, se l'amava ancora, dove era, che faceva, tutto tutto. E Carlino era a Parma! Si morse le mani dal dispetto; almeno glie lo avesse domandato subito, lo saprebbe. Ma che glie ne importava allora? - E adesso? Lo amava già tanto quell'Orlandi, lo amava al punto di soffrire, da piangere per lui? perché piangeva, non dirottamente, ma con quelle lagrime scarse e brucianti che lasciano il solco. Non sarebbe andata all'appuntamento, oh! no. Gli avrebbe rimandata la sua lettera, con un silenzio sdegnoso. Ma se la storiella del ritratto non fosse vera? Se Carlino avesse affibbiata all'amico quella innamorata, così per celia? In fatti, perché tenere nella sua valigia il ritratto dell'amante di un altro? Si chetò. Rifece, dolcemente, la breve tela de' suoi incontri col giovane; la prima volta che si erano conosciuti, nella passeggiata alla Fontana; l'improvvisata che egli le aveva fatta, trovandosi subito la domenica appresso sulla porta della chiesa. Ripensò i suoi sguardi così espressivi, quella bella persona, quella testa intelligente, quel sorriso che pareva un raggio di sole. Una soavità d'amore la invase; sentì correre per le vene un giubilo novo, come se una grande felicità l'attendesse, come la sua vita, chiusa fino allora, si aprisse ad orizzonti sconfinati. Ma volle frenarsi, dopo tutto non sapeva che cosa le avrebbe detto Orlandi. Pensò un istante di chiedere consiglio alla pretora. Se fosse stata presente, le avrebbe narrata ogni cosa. Ma la pretora, quel giorno non si fece vedere. Prima di scendere Teresina cedette a un desiderio invincibile di rileggere la lettera. Era la terza o la quarta volta che si sbottonava l'abito, che sentiva correre sulla pelle quel foglietto di carta levigata, morbido come una carezza, pungente come una ferita; ed alla carezza sorrideva, alla puntura gettava un piccolo grido smorzato dal piacere, tutta tremante, sembrandole che quel foglio, uscito dalle mani di un uomo e che ella nascondeva in seno, togliesse il primo velo al suo pudore di vergine. Quando andò a raggiungere la madre nel salotto terreno, ella si era composta una fisonomia calma, ma così seria, così piena di mistero, che la signora Soave le domandò subito che cosa avesse. Teresina mentì, come mentono tutti gli innamorati. Ma in fondo al cuore le doleva quella menzogna alla mamma, non sapendo poi nemmeno lei perché taceva, perché mentiva. La signora Soave, colle manine di cera abbandonate sui ginocchi e lo sgabello sotto ai piedi, incominciò a parlare di Carlino, delle camicie che bisognava mandargli, dei fazzoletti che non erano orlati ancora; ogni tanto interrompeva la litania monotona con un: - Te ne rammenti, nevvero, Teresina? Teresina diceva di sì. - Tuo padre si lagna sempre; dice che non facciamo economia, che quel ragazzo gli costa un occhio, e che, se noi non sappiamo limitarci nelle spese, sarà costretto a fargli sospendere gli studi ... Un lunghissimo sospiro sollevò il petto gracile della signora Soave, per un po' non ebbe voce; indi riprese, affievolita, tenendosi una mano sul cuore: - Ho raccomandato all'Orlandi di dargli dei buoni consigli … che posso fare, mio Dio, che possiamo fare noi donne? A quel nome di Orlandi, Teresina aveva trasalito impercettibilmente, volgendo gli sguardi al gran quadro meccanico che conteneva l'orologio. Erano le due. Otto ore ancora! Le gemelle intanto si accapigliavano nel vano della finestra, mute, senza chiedere soccorso a nessuno. Convenne dividerle; cinque minuti dopo si abbracciavano, al medesimo posto, facendo sberleffi alla loro sorella maggiore. L'Ida si annoiava con quella giornataccia: in causa della pioggia non poteva uscire nel cortile a giuocare. La noia pei bambini è sinonimo di capricci; ella incominciò a far tante diavolerie, che la signora Soave, colla testa intronata, sentendo un principio di emicrania, pregò Teresina di occuparla. E Teresina, pazientemente, si pose a ritagliare degli ometti di carta, e poi delle carrettelle, e dei vasi da fiore, e poi delle casette col tetto, colla porta, colle finestre da chiudere e da aprire. Era calma, sorrideva; ma ad ogni quarto d'ora i suoi occhi cercavano con ansia le sfere dell'orologio, e ad ogni ora che suonava, il sangue le dava un tuffo. Per lo sforzo del contenersi, era diventata pallida. Aveva dimenticato di far colazione; si sentiva appetito, ma non la voglia di mangiare. Anche il parlare le costava fatica. Avrebbe voluto chiudersi nella sua camera, e non far altro che pensare a lui, intensamente, esclusivamente. Non era possibile. Verso le quattro dovette andare in cucina ad ammannire il desinare; la mamma l'aiutava, debolmente, sedendosi ad ogni minuto, stringendo colle manine gialle il capo che le doleva. - Va', va', mamma; faccio io. - Le gemelle potrebbero darti una mano ... - No, mamma; hanno i loro compiti di scuola. Le gemelle erano l'incubo di Teresina. Ella se le vedeva crescere accanto astiose, diffidenti, ricambiando con una musoneria fredda tutte le sue premure. Avrebbero potuto essere le sue amiche, le sue confidenti, e invece una barriera di ghiaccio le divideva. Questo era un grande sconforto per Teresina. Così, tutta sola nella cucina bassa, intenta a uffici volgari, la fanciulla ingannava l'eternità dell'aspettativa avvinta docilmente alla sua catena, imparando la grande virtù femminile del dominarsi, la profonda abilità femminile di nascondere un tormento dietro un sorriso. Nel muoversi rapidamente, nel chinarsi, ella sentiva ancora lo sfregamento della lettera sulle carni delicate del seno; allora stringeva le labbra, palpitando lievemente, come per assaporare meglio quella sensazione che era ad un punto dolore e piacere.

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Alla Scala c'è uno spettacolo stupendo; la Wrozlinger è la piú bella prima donna che io abbia mai vista; anche il ballo è spettacoloso. Insomma mi vedi in estasi come un vero provinciale. Invece di una settimana prolungherò il mio soggiorno a tutto gennaio. Avvennero dei cambiamenti che non posso spiegarti per lettera; modifico i miei progetti relativi alla fondazione di un giornale. Persone competenti me ne hanno sconsigliato, almeno per ora. Non rinuncio però alla carriera di pubblicista; il mio avvenire è qui. Vorrei dirti mille tenerezze, ma sono interrotto. Domani, quando riceverai questa lettera sarò a pranzo della contessa Bernini, una parente degli Arese". Non c'era altro. Per quanto Teresina voltasse e rivoltasse il foglio da tutte le parti, la parola d'amore che essa cercava, Egidio non l'aveva scritta. Egidio si divertiva, Egidio era felice ... La sua tristezza crebbe del doppio, sentì tutto l'orrore dell'isolamento. Quegli amici, quei teatri, quei balli le rubavano il suo innamorato, e per quanto le sembrasse egoistica l'invidia, ebbe invidia di tutte quelle persone che lo vedevano, che parlavano con lui, che gustavano la gioia de' suoi sguardi e de' suoi sorrisi, che gli portavano via il tempo, i pensieri, la vita. Che valeva il suo ardente amore? che valevano quattro anni di pensieri non interrotti, di aneliti smaniosi, di aspettative agonizzanti, di insonnie, di torture, di martirio continuo? Eccola sola a piangere, sola a soffrire. Guardò la neve che continuava a scendere lentamente e le parve che tutta la cingesse di un mantello di ghiaccio. Rabbrividì, un vago desiderio di morte le attraversò il cervello, insieme al pensiero della povera donna che avevano seppellita allora. Poi si gettò sulla lettera, stringendola appassionatamente, cogli occhi pieni di lagrime, col cuore che le si schiantava fra l'amore e il dolore, mormorando tra i singhiozzi: - Egidio! Egidio! Egidio!

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- Il mio diritto si arresta a togliere lo scandalo; non sta in me giudicare se ella abbia torto o ragione opponendosi a queste nozze; però inter nos da amico, me ne congratulo. Quell'Orlandi è uno sbrigliatello; si immischia ora di politica e di giornalismo ... cose che non si sa mai dove vanno a finire. Il signor Caccia si trovò molto lusingato che Monsignore la pensasse come lui sul conto di Orlandi. Colpito così nel suo debole, soffocò in un profondo inchino un rimasuglio di stizza e prese commiato; seguito fin sulla soglia dai complimenti che l'abate gli recitava con voce morbida e insinuante. Ma una volta fuori, tolta la suggezione, tolto il fascino della superiorità, l'esattore sentì ribollirsi di nuovo il sangue. Mai la sua famiglia era stata occasione di dicerie; mai nel suo alto rispetto del decoro aveva permesso un atto, una parola sola che potessero offrire un lato debole alla maldicenza. Nella sua mente limitata, quasi faro conduttore, brillava un solo ideale: l'onore del nome: ed a questo avrebbe sagrificata ogni altra considerazione. Ed ora? Per colpa di Teresina, eccolo involto in una rete di ciarle disgustose, umilianti. Che direbbe il paese? Al pensiero di quel che direbbe il paese, il signor Caccia non si contenne piú. Era ben vero che una ventina d'anni addietro egli non aveva tenuto gran conto dell'opinione del paese in certe sue faccende particolari, nelle quali un uomo non scapita mai Ma una donna? Ah! per le donne la quistione è differente. Il signor Caccia teneva questa differenza come articolo di fede. Quando un uomo non ruba, non mente, non tradisce, basta - tutto il resto gli è permesso. Dalla donna si esige ben altro. - Corbezzoli, - borbottava stringendosi nel pastrano - sta' a vedere che non sarò padrone in casa mia! Una sciocca ragazza si permette di resistermi ed io lascerò che il nostro nome serva di zimbello agli sfaccendati? Un monello attraversò la strada cantando: "Guarda l'amore che cosa mi fa far". Il signor Caccia si voltò rabbiosamente, come lo avesse morso una vipera. "Sono queste canzonacce" pensò "che fanno perder la testa alle ragazze". Arrivato a casa non gli fu possibile preparare un discorso; dovette sfogare subito la sua bile e l'eccesso fu così violento che la signora Soave svenne. Quand'ebbero adagiata la povera donna sul suo letto, con un pizzico di camomilla bruciata sullo stomaco, l'esattore presa a parte Teresina, la investì colle piú terribili minacce. Le disse che ella era l'obbrobrio della famiglia, il disonore dei suoi capelli bianchi: che, ostinandosi in quell'amorazzo, gli avrebbe accorciata la vita; che per causa sua le sorelle innocenti perdevano la riputazione e tante e tante altre cose da far accapponare la pelle; dette tutte con accento sincero, con una indignazione veramente sentita; talché la fanciulla a capo chino, stava come la piú gran colpevole, non osando nemmeno piangere. Anch'ella era cresciuta in quel pregiudizio di pudore che circonda le donne, per cui tutte si vergognano dell'amore, ammettendolo come astrazione, non mai nella realtà. Una fanciulla si intenerisce al bacio di Giulietta e di Romeo, perché è lontano, perché è scritto o dipinto; ma non oserebbe confessare che il suo amante l'ha baciata ed è pronta a scandalizzarsi se una loquace amica le confida di avere baciato. Tutto ciò senza ipocrisia, solo per la lotta continua in cui trovasi fra la natura e la società - la società che le dice respingi, la natura che le grida accetta. Teresina sarebbe morta di vergogna, se qualcuno avesse potuto leggerle nell'anima fino a qual punto amava. Aveva la persuasione di amare troppo, piú assai che non sia permesso dalla religione e dal pudore femminile; era questo un gran peccato di cui si accusava a Dio. Udendo le gravi parole del padre, si trovò perduta senza remissione. Era come se l'avessero sorpresa nuda; un vituperio, un'onta incancellabile. Non disse una parola, non si difese, non pregò. Quando il padre volle farle giurare di non pensare mai piú ad Orlandi, ella si reclinò tutta sopra se stessa, qual canna sbattuta a terra, in un completo annientamento; e la sua risposta si perdette fra i singhiozzi. Ma poi, le ore, i giorni, le settimane che seguirono quel terribile momento! Non osava guardare in faccia suo padre e nemmeno le sorelle, le quali avevano preso un fare altezzoso di persone cui nulla si può rimproverare. Non c'era che la madre, a cui Teresina potesse volgere gli occhi pieni di lagrime, senza trovare in quelli di lei un rimprovero. Che lunghi silenzi penosi nel salotto terreno! Che tormento, ogni giorno rinnovato, quando la famiglia stava riunita a mensa e il capo di casa, col cipiglio ancor piú grave del solito, presiedeva come un giudice. Piú nulla sorrideva a Teresina nel buio salotto: non la finestra alla quale le era proibito affacciarsi, da cui non doveva piú udire il passo di Egidio: non l'orologio sul quale aveva contato trepidando le sue ore felici. Una tristezza senza nome piombava su di lei; ogni oggetto che la circondava, ogni mobile, tutto portava le impronte del passato. Qui, aveva letto nascostamente una lettera; là, aveva pensato, pianto, sospirato d'amore. E le memorie erano recenti, calde ancora. I rimproveri del padre, le preghiere della mamma, il pensiero di essere segnata a dito come una svergognata, di non poter piú alzare la fronte senza rossore, tutto ciò l'aveva impressionata moltissimo. Capiva di non poter reggere a quella vita, e l'ultima lettera di Orlandi la aiutava nel proposito di dimenticare. Ma come il dimenticare era difficile, doloroso, irto di spine! Che cosa dimenticare? Le ebbrezze? erano state così vive. Le ansie? così compensate. I dubbi, le aspettative, i dolori? Ma ognuno di essi aveva ribadita la catena. Si dimenticano cinque anni della propria esistenza? Esortata dalla madre, consigliata dall'amica, gli aveva scritto di non pensare piú a lei; che non erano destinati; che la sua famiglia non voleva; che non le scrivesse mai piú, né cercasse di rivederla. Spedita la lettera, le parve un sogno. Si aspettava da un momento all'altro di vederlo comparire. Di notte sognava che suo padre acconsentiva alle nozze e che Orlandi, ricco a milioni, veniva a prenderla, tra lo sbigottimento e la sorpresa di tutti. Qualche volta, dopo una giornata di tormenti e di noia indescrivibile, dopo aver pianto in silenzio sulle camicie che cuciva, Teresina si coricava stanca, nauseata della vita. Invocava il sonno, l'unico bene che le restasse; sperava nel sonno di trovare l'oblio. Ma al mattino, destandosi, la prima impressione era quella del suo amore perduto, ed era assalita da tale disperazione da sembrarle impossibile la ripresa di una giornata come quella trascorsa. Eppure la riprendeva, nella monotonia dell'abitudine, nella inenarrabile monotonia della vita femminile, trascinando di camera in camera la sua tristezza, meravigliata di trovarsi passiva in tanto dolore. Che cosa poteva fare? Ribellarsi al padre, far morire di cruccio quell'angelo della mamma, rompere tutte le tradizioni della famiglia, mancare ai doveri di figlia ubbidiente e sottomessa? La schiavitù la cingeva da ogni lato. Affetto, consuetudine, religione, società, esempi, ciascuno le imponeva il proprio laccio. Vedeva la felicità e non poteva raggiungerla. Era libera forse? Una fanciulla non è mai libera, non le si concede nemmeno la libertà di mostrare le sue sofferenze. Ella doveva fingere colla madre per amore, col padre per timore, colle sorelle per vergogna. Peggio quando uscì. La osservavano come una bestia rara, fermandosi sui due piedi. Tutte quelle che le avevano invidiata la conquista di Orlandi, se ne vendicavano ridendole in faccia, berteggiandola. Le persone piú prudenti bisbigliavano sommessamente. Gli uomini la guardavano dritta negli occhi, con fare ardito. Nessuno di quei curiosi considerava l'amore seriamente. Inclinavano a trovare in esso la parte allegra, la bagatella, il motto per ridere, la facezia oscena. Veramente l'amore è un dramma per chi lo recita, una farsa per chi vi assiste. Tra due giovanotti Teresina sorprese questo frammento di conversazione, di cui si sentiva l'oggetto: - ... e per quel sugo ... - È una gonza. - Dico lui. - Oh! lui si rifà. E giù una sghignazzata. In mezzo al suo dolore, Teresina aveva la percezione di un ridicolo, ma di un ridicolo che sfuggiva alla sua analisi. Come già aveva provato altre volte, sentiva di trovarsi isolata, attaccata al mondo solamente per il tramite della famiglia, e che intorno ci fosse una gran nebbia. Somigliava anche a coloro che non frequentano da bambini tutte le classi, che, toccato un certo punto, trovano improvvisamente il terreno che manca, una lacuna nei loro studi. Questa deficienza la umiliava piú che mai, ora che si sentiva giunta all'apogeo del suo sviluppo di donna, e la compassione derisoria che qualcuno le dimostrava, le faceva bruciare il volto come se fosse una sferzata. Le gemelle, che s'erano fatte due ragazzone vistose, sfoggiavano con una certa insolenza i loro diciassette anni, considerando la sorella maggiore già destinata a diventare zitellona. E difatti la piccola statura di Teresa, il volto pallido e tranquillo, erano propri a farla scomparire in mezzo a quei due colossi, che avevano ereditato dal padre il forte colorito e le spalle poderose. Incominciava per Teresina una serie nuova di piccole mortificazioni, di torture a colpi di spillo, lente, quasi invisibili, che sfioravano la vanità femminile e penetravano addentro nel suo cuore, mordendola col veleno dell'ingratitudine, lasciandole uno scoramento, uno sconforto d'ogni cosa. La grande molla dell'organismo femminile, il bisogno di piacere, aveva perduto lo scatto. Piacere a chi? Tutto il mondo le era indifferente. Non ammetteva, nemmeno come lontana ipotesi, ch'ella potesse amare un altro. Vi sono donne che sbagliano al primo colpo e si rifanno dopo; ma ella sentiva che Egidio era la metà dell'anima sua. Qualcuno avrebbe potuto interessarla prima; ora era impossibile. Vedeva giungere la morte; una morte preceduta dall'annientamento di tutte le facoltà; una morte liberatrice. Il pensiero della Calliope la visitava spesso; le sembrava che sotto terra si dovesse stare in pace.

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. - Se tu lo avessi sposato - era la pretora che diceva così a Teresina - saresti già maritata da dieci anni, piú bella, piú fresca, senza che egli poi abbia peggiorato in bruttezza; poiché è la specialità dei brutti quella di conservarsi inalterabili. Aggiungi che la figlia gli è morta ... non era proprio un cattivo partito. Ma tutte queste considerazioni non riuscirono ad ispirare alla zitella quel proficuo ravvedimento che la sua amica sperava. Aveva tentato, per cortesia, di interessarsi a lui, alle buone qualità che tutti gli riconoscevano; ma i pregi morali sfuggivano all'attenzione distratta di Teresina, e vedeva invece il cranio calvo del professore, la sua barba ispida, tozza, tagliata a guisa di una siepe di mortella. Tutto ciò otteneva un effetto diametralmente opposto alle idee della pretora; perché Teresina rimpiangeva con maggior ardore i bei capelli neri d'Orlandi e la sua barba morbida, entro cui il sole scherzava, dandole dei riflessi di fuoco. - Dopo tutto - istigava ancora l'amica - anche per Orlandi gli anni passano. Luzzi, che è stato a Milano uno di questi giorni, lo ha veduto, e dice che non è piú quel bel giovane d'una volta. Ma sembrava che tutto quanto si faceva intorno a lei per distoglierla da Orlandi, non ottenesse altro scopo che quello di farglielo amare maggiormente. Teresina pensò che egli pure soffriva, che era solo, senza famiglia, senza amore, e gli scrisse una lettera lunga, riboccante d'affetto. Come desiderava vederlo! Era già quasi un anno e mezzo che non s'erano stretti al cuore. Quando sarebbe venuto a trovarla? Nella vita febbrile di Egidio, nelle lotte aspre, violente ch'egli doveva sostenere ogni giorno, in quella corsa affannosa dietro il successo, non mancavano le ore di scoraggiamento, di malinconia atroce. Si trovava a mezzo cammino, colla gioventù dietro le spalle, perduti i piú begli anni, svanite le forti illusioni; non avendo ricavato nessun partito né dal suo ingegno, né dalla sua bellezza, né dalla sua salute. Gli amici dicevano fra loro: Come mai Orlandi non si è ancora creata una posizione? Uno che lo conosceva bene, lo definì con due parole: Orlandi non ha la costanza del lavoratore e non ha la furberia dello scroccone; è un uomo mancato. E quest'uomo, cui la fortuna aveva sorriso mendacemente prodigandogli tutti i suoi doni, conservava in fondo al cuore un affetto sincero, misto di riconoscenza e di pietà, per la fanciulla che lo amava con tanta abnegazione. L'affetto emergeva sopratutto nei giorni dello sconforto, quando dopo aver cercato inutilmente una ebbrezza nuova o una amicizia disinteressata, dopo le sconfitte dell'ingegno e la nausea dei sensi, egli trovava, rincasando, le lettere della povera dimenticata. Fu in uno di questi momenti, che Egidio rispose a Teresina, narrandole i suoi sconforti, le sue lotte, chiamandola sorella e amica sua. "Ho capito," pensò la pretora, vedendo il volto raggiante della sua amica "egli ha rimesso dell'olio nella lampada". Ma un avvenimento inaspettato si impose all'attenzione di tutta la famiglia. Luminelli maggiore chiese la mano dell'altra gemella, e, come cosa già intesa, ella acconsentì allegramente. I due matrimoni si dovevano fare nello stesso giorno. - Vedi? - così la pretora a Teresina - tua sorella ha otto anni meno di te, eppure si adatta a sposarlo. Teresina si strinse nelle spalle. Le gemelle per lei erano sempre state un enigma; ma davanti a quelle nozze senza amore, provò una vera repulsione. Quale infame ingiustizia pesa dunque ancora sulla nostra società, che si chiama incivilita, se una fanciulla deve scegliere tra il ridicolo della verginità e la vergogna del matrimonio di convenienza? Queste riflessioni la tennero sconvolta per parecchi giorni, e se ne amareggiò vivamente. Senza accorgersene, la sua anima accoglieva mille dubbi, si imbeveva di fiele. L'urto continuo de' suoi sentimenti colle realtà brutali della vita, le dava una asprezza di linguaggio che pareva bizzarria. E si accorgeva ella stessa di stuonare in mezzo agli altri; sentiva il proprio malumore come una nota falsa in un concerto, incapace di frenarsi; tanto piú incapace, perché le cresceva ogni giorno il disprezzo dei suoi simili, sotto forma di ribellione al convenzionalismo ipocrita che l'aveva oppressa, che la opprimeva sempre. Il disgusto degli uomini e delle cose le si infiltrava per una quantità di vie secondarie, lento, ma completo. Una volta le Ridolfì, parlando dell'ultima Portalupi, dissero: - Oh! quella non si marita piú, è già una vecchia zitella! E la Portalupi era minore di Teresina. Ella riusciva antipatica a tutte quelle ragazze, così come le ragazze a lei. Si isolava piú che poteva, chiudendosi in un sussiego malinconico, che restava incomprensibile per quelle giovani testoline. Aveva delle fissazioni, delle voglie assurde. Andando a passeggio, non poneva mai i piedi sulla connessura dei mattoni; se ciò le accadeva inavvertitamente, sentiva un ribrezzo nelle gambe, un tremito convulso. Contava i rosoni del soffitto, immaginando che fossero pari; se riuscivano dispari, era una stizza, una contrarietà assurda, ma invincibile. Fissava una persona a tergo, ostinandosi finché quella si fosse voltata; se non si voltava, le pareva di ricevere un urto nel petto e digrignava i denti. Soffriva per il sole, per il vento, per i tempi piovosi. Aveva sempre fredde le braccia, in alto, all'attaccatura, e portava, sotto il vestito, due maniche di lana tenute insieme col mezzo di un nastro che le attraversava il dorso. Le gemelle, che s'erano tagliate qualche camicia senza maniche, avevano detto ridendo: - Queste starebbero bene a Teresina! Mancando la cura delle sorelline, che l'aveva tanto occupata negli anni addietro, trovava le giornate vuote. Non poteva aiutare nemmeno l'Ida, perché ella non aveva mai avuto grande ingegno e la fanciulla, svegliatissima, era già avanti negli studi, vagheggiando prossima la patente di maestra. Suo fratello era tanto lontano, che non le offriva nessuna risorsa. Solamente si parlava di lui come di un appoggio futuro per la famiglia. Quando le gemelle fossero maritate, s'avrebbe potuto raggiungerlo e formare una casa sola; oppure fare istanza perché trasferissero Carlino nella cittaduzza nativa. In attesa di questi cambiamenti, nel trambusto delle nozze, coll'orrore del mondo e della società, Teresina viveva quasi esclusivamente in compagnia della madre inferma - riparate tutte e due dall'aria, coi piedi sullo stesso sgabello, sorridendosi tristamente. Un pensiero disperato l'assaliva di tratto in tratto. Aveva paura di diventare una vecchia stramba come la Calliope, di rinchiudersi in casa e mostrarsi solo alle sbarre delle finestre, con un fazzoletto giallo in capo, facendo sberleffi alle persone che passano. Il doppio matrimonio, per quanto si affrettasse, non poté aver luogo che ai primi di settembre. Quel giorno Teresina ebbe un accesso delle sue solite convulsioni; l'Ida la pose a letto, affettuosamente, cercando di calmarla, ricordandosi quanta pazienza ella aveva avuta con lei quand'era piccina. Non assistí né alla cerimonia, né all'asciolvere. Le spose gemelle vennero a salutarla, in piedi, tenendo sollevate le gale dell'abito. Avevano fretta, perché il treno partiva a momenti. Sulla soglia dell'uscio si voltarono; s'erano dimenticate di baciarla e le gettarono un piccolo bacio sulla punta delle dita, raccomandandole di stare tranquilla. Come Dio volle, a poco a poco, la casa ridivenne calma; sparvero i figurini di mode, i rotoli di tela, i pezzetti di nastro dimenticati sui mobili. Al vocìo chiassoso delle gemelle, alle risate argentine delle Ridolfi, successe un silenzio che pareva di tomba. Il signor Caccia meditava, nel suo studiolo, sulle spese avute in occasione delle nozze e volgeva il pensiero al figlio lontano, quello che doveva essere il sostegno della famiglia. L'Ida studiava indefessamente, senza distrazioni e senza debolezze, coll'occhio fisso alla meta. Solamente verso sera, Ida lasciava i libri, Teresa si staccava dal letto della madre e le due sorelle - la prima e l'ultima - uscivano a prendere una boccata d'aria, serie entrambe per motivi diversi, scambiandosi poche parole. Alla fine di settembre, Ida si contorse un piede e per una settimana non poté uscire. Teresina, alla quale il dottore aveva prescritta rigorosamente una passeggiata tutti i giorni, usciva sola. Passava oramai i trent'anni e nessuno si occupava piú di lei. Quei preludi di libertà, sebbene giunti in un tempo in cui non avrebbe saputo approfittarne, le cagionarono un piacere nuovo. Usciva dal paese, prendendo il viale della Madonna della Fontana, caro a lei per antiche memorie; e ripassando sotto quegli alberi, era stretta da una tale folla di emozioni dolci e melanconiche, così vive, così intense, che quella passeggiata vespertina segnava l'ora piú bella delle sue giornate. Entrò una volta in chiesa per rivedere la cappella sotterranea, la graziosa cappelletta dipinta, dalle cui finestre si scorgeva l'orto del curato, profumato di basilico. I ricordi della giovinezza l'assalirono aspri, pungenti, in quel posto dove ella erasi inginocchiata a vent'anni, dove aveva per la prima volta guardato Egidio. Dalle finestre entravano ancora i ciuffi di basilico; morivano le rose sull'altare tra le lampade d'ottone inargentato; le figure degli affreschi sorridevano nei toni delicati delle pitture vecchie. Nulla era cambiato nella gran calma immobile del tempio, ma Teresina piangeva. Un suono di passi ripercosso nel silenzio della navata la riscosse. Si asciugò gli occhi coll'angolo del velo e uscì dalla cappella. In mezzo alla chiesa trovò Orlandi, solo, che le veniva incontro. Non fu nemmeno sorpresa; impallidì, aggrappandosi al suo braccio, battendo i denti per la commozione. - Quando sei arrivato? - Son due ore. Un telegramma di mia zia ... per affari. Riparto stanotte. - E se non mi vedevi? - Ti vedo - disse Orlandi, col suo bel sorriso. - Non ebbi il tempo di avvertirti, ma ero deciso di vederti a qualunque costo. Seppi, per caso, che eri venuta qui; mia zia t'ha veduta passare. Teresina non pensò al pericolo di essere scoperta; la felicità del momento presente la invadeva tutta. Ma il suo corpo indebolito non reggeva piú alle forti scosse, non poteva stare in piedi; trasse Egidio su un banco della chiesa e gli si pose a fianco, con quell'oblìo di tutto il mondo che la prendeva, sempre, in compagnia di lui. Parlarono rapidamente delle loro famiglie, della loro posizione. Teresina, che lo guardava, alla luce morente del giorno, si sentì stringere il cuore scoprendogli, lungo le guancie, due solchi che davano al bel viso una espressione indefinibile di malinconia. - Mi trovi cambiato? - disse lui improvvisamente, e con un sorriso triste le mostrò i capelli radi sulle tempie. Ella gli si strinse contro, fino a posargli la bocca sul petto, mormorando: - Ed io, dunque? Tacquero, quasi abbracciati, ascoltando i loro respiri, potendo baciarsi, eppure non baciandosi, coi sensi freddi. - Mi scrivi così di rado ... Ella disse ciò a bassa voce, guardandolo dolcemente per attenuare il rimprovero. Lui si passò una mano sulla fronte. - Sono occupato tutto il giorno e gran parte della sera. - Dove vai alla sera? - Nei teatri, prima, poi alla redazione del giornale. Faccio la cronaca. Non mi piace questo mestiere, io vagheggio la critica d'arte ... Gli trapelava nella voce un'amarezza, come uno scoramento di persona avvilita. - E non puoi farla? - No ... no ... sono cose che tu non capisci. Teresina abbassò il capo, nell'umiltà della propria ignoranza, nello sconforto di non poter dividere tutti i pensieri e tutti i dolori di lui. Le balenò un istante l'immagine della bella signora dalle forme opulenti, vestita da Diana: ma non ebbe il coraggio di parlarne in quel momento. Le succedeva sempre così. Delle mille cose che voleva dirgli, non riusciva mai a dirne una, dominata da una suggezione bizzarra e assorbita tutta nel rapimento di contemplarlo. I dolori, le smanie, le lotte, le gelosie, le risoluzioni prese e lasciate, le estasi convulse, le malinconie isteriche, tutta la sua gioventù, la sua bellezza, la sua vita che se ne andava in quella lenta fiamma d'amore, non le suggerivano una sola parola. Gli stava accanto immobile, cogli occhi fissi, come un cane fedele davanti al suo padrone. - Ti aspetteranno a casa ... - Oh! ancora un minuto ... Pensò se avesse qualcos'altro a dirgli; non trovò nulla. Ella avrebbe voluto sapere di lui, della sua vita, avrebbe voluto che lui parlasse, ma non osava interrogarlo; temeva di perdere tempo con una domanda oziosa. E intanto il tempo passava. Nella chiesa faceva già buio; l'altare maggiore sprofondato nell'ombra, aveva una vaga apparenza di bara; le colonne della navata sembravano giganteschi fantasmi. Dalla cappella sotterranea usciva il bagliore rossigno della lampada accesa per la Madonna. Un odore di rose secche era nell'aria. Lo scaccino, in sacristia, scosse il mazzo delle chiavi. Si alzarono insieme, urtandosi nella oscurità. Egidio la prese per la vita. - Oh! - diss'ella - se ci chiudessero qui, per sempre, e non vedere piú nessuno e morire così. Avevano le labbra sulle labbra. Egli fu meravigliato di quel pensiero arditamente poetico. Sorreggendola, mentre uscivano dal tempio, le mormorò all'orecchio: - Quando mi sentirò morire, verrò a morire presso a te. Non dissero piú nulla. Si abbracciarono stretti, a lungo, con una tenacità disperata. Teresa sparve rapidamente sotto gli alberi. Egli la scortò da lungi, fino in paese.

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. - Permetta ... abbia pazienza. Tornò a posarle la testa sul cuore, premendo leggermente. Aveva una foresta di capelli castagni, un po' grossi, dai quali emanava un profumo lieve; scomposti dal movimento, quei capelli toccavano quasi la bocca di Teresina, che si irrigidiva, dilatando gli occhi, sotto la tentazione di un desiderio pazzo. Intorno all'orecchio, fra il lobulo e la radice dei capelli, il principio del collo si disegnava vigoroso, leggermente arrossato verso la gola; sulla nuca, candidissimo. Egli aveva ventinove anni. - Nulla. Il cuore non ha nulla ... esternamente. Marcò con una lieve esitazione quest'ultima parola, raddrizzandosi, un po' colorito nel volto. Il signor Caccia rientrò in quel punto. - Sua figlia ha una costituzione buonissima; i polmoni sani, il cuore sano; una tendenza all'anemia, forse, ma anche questa temporanea, dipendente da cause che sfuggono al nostro esame. - Ma se la vedesse nel momento della crisi, quando la prende la convulsione ... Non se la può figurare. - Oh! sì - fece il medico sorridendo - me la figuro perfettamente; ma non è altro che una alterazione nervosa. Col tempo e con un po' di buona volontà, credo potrà svanire. Nel dire "buona volontà" tornò a guardare Teresa. - Non sta troppo in casa, nevvero? - Ma ... veramente - balbettò il signor Caccia - le donne ... Il medico riprese senza lasciarlo finire: - Quando si manifesta un perturbamento dei nervi così vivo, con caratteri francamente isterici, la miglior cura è quella di non abbandonare l'ammalata a se stessa. Io posso ordinare delle medicine, ma se non sono aiutato dal sistema ... - si volse - direttamente a Teresa. - La stagione è favorevole, abbiamo una primavera che è un incanto. Esca spesso. Vada a trovare un'amica, procuri di interessarsi a qualche cosa, di cambiare l'ordine abituale de' suoi pensieri, di non fissarsi in una idea. Faremo una piccola cura arsenicale combinata col ferro, ma il primo rimedio, se ne persuada, lo deve trovare in se stessa. Mi comprende, nevvero? Le strinse la mano, colla sua dolcezza indolente d'operatore, mostrando i denti bianchi nell'arco del sorriso; lasciando sul capezzale come un profumo della sua vigorosa giovinezza. Tornò qualche giorno dopo, per vedere l'esito della cura, ed essendo comparso all'improvviso davanti a Teresina, ella arrossì, tutta confusa, con un sentimento recondito di vergogna. Quella specie di intimità con un uomo giovane, senza il legame dell'amore, la turbava. Era meravigliata di non trovare maggior avversione al contatto, di sorprendere nei suoi sensi una vita autonoma, indipendente dal cuore e dalla volontà. Fino allora aveva amato, in un sol uomo, l'incarnazione dell'amore; ma nella tensione di tutto il suo essere verso quell'ideale, il cuore e la mente resistevano, i nervi no. I nervi, a sua insaputa, con una ribellione mostruosa, vibravano quando il giovane dottore le stringeva la mano, e la guardava colla sua pupilla intenta. E Teresina spasimava, sentendosi prendere alla gola da un rantolo convulso; trovando in se stessa, nella tardiva rivelazione dei propri sensi, l'enigma della vita, che le era sempre apparso a tratti, mascherato, svisato, tenuto nascosto come un'onta. In quei giorni, per una combinazione, avendo suo padre acquistata, senza guardarla, una partita di libri vecchi, ella pose le mani sopra un libriccino gualcito. Il titolo l'invitò a leggere le prime pagine, e poi continuò meravigliata, ansiosa; passando dalla sorpresa alla indignazione, fino a un feroce diletto, fino alla nausea la piú ributtante. Restò immobile, col sangue che le formicolava nelle vene, con una fiamma sulle gote, il palato arido, le fauci ingrossate, gli occhi vitrei. Non aveva mai udito né immaginato niente di simile. Al primo rinvenire, l'indignazione la vinse su ogni altro sentimento; stracciò il libro in mille piccoli frammenti, rendendoli sempre piú piccoli, piú piccoli ancora, ponendoli da ultimo sotto i piedi e gustando, nel calpestarli, una gioia che la purificava. Raccolse poi gli avanzi informi e li gettò nella cassetta delle spazzature; ma si vedevano; la loro bianchezza sudicia risaltava sul fondo nero. Ella non era contenta. Tornò a raccattarli e li volle abbruciare - vivi - ché quei frammenti agitati dalla fiamma, le davano veramente l'impressione di cose vive, di mostri osceni, condannati al rogo. Ristette infine, palpitante, davanti al mucchietto di cenere, persuasa che nulla piú esistesse di quelle sozzure. Ma si ingannava. Il suo pensiero era colpito, macchiato irrimediabilmente. Per quanto facesse non poteva togliersi il ricordo delle pagine lette; ed era un ricordo amaro, come di medicina che torni a gola. E venivano, non cercate, le riflessioni, i confronti, le induzioni. Cento cose rimaste oscure fino allora le si chiarivano spietatamente; non poteva piú dubitare, non poteva piú illudersi. Quelle spiegazioni crudeli erano la sola risposta ch'ella trovava alla sua lunga, insoddisfatta curiosità di fanciulla. Quelle pagine stampate, che non volavano come le parole, che non svanivano come i sorrisi, che ella aveva distrutte in un esemplare ma che esistevano in mille altri, quelle pagine infami erano un documento della miseria umana, della sua propria miseria. Un libro osceno le dava la chiave del mistero ch'ella aveva ricercato invano; ch'ella aveva interrogato nei fremiti paurosi e pudibondi di se stessa, nelle reticenze maligne degli altri. Era dunque quello l'ignobile segreto che teneva uniti gli uomini alle donne? Quello l'amore? Sottile, profondo, un pensiero sopra tutti la martoriava: Egidio. Quando l'immagine di lui venne a mischiarsi alle rimembranze lascive, ella provò la maggior vergogna della sua vita. Le parve di veder trascinare nel fango tutto quanto aveva di sacro al mondo. Era la profanazione dell'affetto piú gentile, era l'altare che si frangeva, l'idolo che diventava creta. Arrossì, sola, di se stessa. E la prese una tristezza, un dolore come avesse perduto per sempre una persona adorata. Per tutto quel giorno non poté incontrare alcuno a viso alzato; aveva orrore dei suoi simili. Alla sera, chiudendosi nella sua camera, si illuse di potersi disfare dall'incubo; ma l'incubo divenne piú violento. Mentre si spogliava, era assalita da curiosità brutali. Sembrava che le pagine infami si fossero incollate alla sua pelle, che le formassero, come la camicia di Nesso, un involucro di fuoco, entro il quale si dibatteva. Cadde in ginocchio disperata, recitando macchinalmente tutte le orazioni che sapeva, unendo il nome di Egidio al nome della Madonna, con un bisogno ardente di dimenticare. Accovacciandosi sotto le coltri, spossata, evocò le pure visioni del suo amore: l'incontro nella cappella, i ritrovi in chiesa, il primo appuntamento alla finestra, sotto l'acqua che veniva a rovesci, che nessuno di loro sentiva, e quei baci di cielo in cui ella credeva di dare l'anima. A poco a poco la pace entrava in lei. Una dolcezza malinconica la cullava, la consolava. Egidio era sempre stato sincero; non l'aveva ingannata, non l'aveva tradita mai, non si era fatto migliore di quel che fosse. Che cosa si può chiedere di piú agli uomini? Sentiva ora una tenerezza straordinaria a compatirlo, a comprenderlo nelle debolezze del suo sesso. Il recente dolore le faceva sanguinare il cuore; ma da quella stessa ferita saliva, alle piú nobili idealità del suo pensiero, una compassione pietosa, una commiserazione di questa umanità sofferente e bestiale, un delicato istinto di perdono. E piú forte, piú puro, emergeva da tanto fango l'affetto ch'ella aveva nel cuore e che sapeva diviso. Chiuse gli occhi rassegnata, sospirando lievemente. A tratti, un fremito l'agitava ancora ma anche quello andò scomparendo sotto il torpore del sonno; finché rimase l'affanno dei sospiri, sempre piú lievi, a indicare che il pensiero si addormentava.

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