Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Piccolo mondo antico

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Fogazzaro, Antonio 11 occorrenze

Abbia la bontà di vedere i documenti. Queste ..." "Si tenga i suoi scartafacci", interruppe la marchesa vedendogli levar di tasca delle carte. "Queste sono le copie fatte da me ..." "Le dico che se le tenga, che se le porti via!" La marchesa suonò un campanello e si avviò da capo per uscire. Il professore, tutto fremente, udendo venir un domestico, vedendo lei aprir l'uscio, gittò le sue carte sopra una seggiola, disse sottovoce in fretta e furia: "Le lascio qui, non le veda nessuno, io sono al Sole, ritornerò domani, le guardi, ci pensi bene!", e prima che arrivasse il domestico, scappò per la parte ond'era venuto, tolse il ferraiuolo, infilò le scale. La marchesa rimandò il domestico, stette un poco in ascolto, poi ritornò sui suoi passi, prese le carte, andò a chiudersi nella sua stanza e, inforcati gli occhiali, incominciò a leggere presso la finestra. La faccia era oscura e le mani tremavano. Il professore stava per andare a letto nella sua camera gelata del Sole, quando due poliziotti vennero a recargli l'ordine di recarsi immediatamente all'ufficio di Polizia. Egli sentì bene un certo rimescolamento interno ma non si smarrì e partì con essi. Alla Polizia, un piccolo Commissario insolente gli domandò perché fosse venuto a Lodi e avutone risposta che c'era venuto per affari privati, fece un atto d'incredulità sprezzante. Che affari privati pretendeva avere a Lodi il signor Gilardoni? Con chi? Il professore nominò la marchesa. "Ma se nessuna Maironi sta a Lodi!", esclamò il Commissario, e perché l'altro protestava, lo interruppe subito: "Basta, basta , basta!". La Polizia sapeva di certo che il signor Gilardoni, quantunque I. R. pensionato, non era un leale austriaco, che aveva degli amici a Lugano e ch'era venuto a Lodi con un fine politico. "Lei ne sa più di me!", esclamò il Gilardoni soffocando a stento la collera. "Faccia silenzio!", gl'intimò il Commissario. "Del resto Ella non deve credere che l' I. R. Governo abbia paura di Lei. È libero di andare. Solamente deve lasciar Lodi entro due ore!" Qui Franco avrebbe capito subito di dove veniva il colpo; il filosofo non capì. "Son venuto", diss'egli, "a Lodi per un affare urgente che non ho finito, per un interesse privato gravissimo. Come posso partire dentro due ore?" "Con una vettura. Se, trascorse due ore, Ella è ancora in Lodi, La faccio arrestare." "La mia salute", replicò la vittima, "non mi permette di viaggiare di notte in dicembre." "Ebbene, La farò arrestare subito." Il povero filosofo prese in silenzio il suo cappello e uscì. Un'ora dopo egli partiva per Milano in un calessino chiuso, con i piedi nella paglia, con una coperta sulle gambe, con una gran sciarpa al collo, pensando che aveva pur fatto una bella spedizione e inghiottendo saliva ogni momento per sentir se gli doleva la gola. Notte infame davvero; ma non la passò sulle rose neppur la signora Marchesa.

Nella chiusa v'eran questi periodi: "Leggendo tutte le accuse che ti fai ho pensato con rimorso a quelle che t'ho fatto io, una triste notte, e ho sentito che ci pensavi anche tu quando scrivevi, benché né questa lettera né alcuna delle altre tue ne abbia parola. Di quelle accuse ho rimorso, Franco mio; ma delle altre cose a cui tanto penso nella mia solitudine, oh come vorrei che parlassimo ancora, da buoni amici!". Il desiderio di Luisa restò vano. Su questo punto Franco non rispose affatto, anzi la sua prima lettera fu alquanto freddina. Perciò Luisa non ritornò più sull'argomento. Solo una volta, parlando di Maria, scrisse: "Se tu vedessi come recita il Padre nostro mattina e sera, e come si comporta a Messa, la domenica, saresti contento". Egli rispose: "Di quanto mi scrivi circa le pratiche religiose di Maria, sono contento e ti ringrazio". Sì Luisa che Franco scrivevano quasi ogni giorno e spedivano le lettere una volta alla settimana. Ismaele andava alla posta di Lugano ogni martedì, portava la lettera della moglie e riportava quella del marito. In giugno Maria ebbe il morbillo, in agosto lo zio Piero perdette quasi improvvisamente l'occhio sinistro e ne fu, per qualche tempo, molto turbato. Durante questi due periodi, le lettere di Oria spesseggiavano. In settembre la corrispondenza ritornò settimanale. Tolgo dal fascio le ultime lettere scambiate fra Luisa e Franco alla vigilia degli avvenimenti onde furono colti alla fine di settembre. Luisa a Franco Oria, 12 settembre 1855 Il riverito signor Ismaele ci ha fatto molto aspettare l'ultima tua, perché da Lugano invece di venire a Oria è andato a Caprino con alcuni amici suoi e delle Potenze Occidentali a festeggiare la presa di Sebastopoli nella cantina dello Scarselon e là ha bevuto "un cicinìn" e quindi è ritornato a Lugano dove un altro "cicinìn" lo ha fatto dormire come un salame fino a mercoledì mattina. Ha pure dimenticato di spedirti il vasetto di lucido e così lo dovrai aspettare una settimana o pagare, a Torino, tanto più caro, se la provvista è finita. Me ne rincresce assai. Se Dina ti ha offerto di scrivere qualche appendice teatrale, tanto meglio. Così potrai udire gratis un po' di musica; benché sono anch'io dell'opinione del vostro Caval di spade che bisogna ricondurre la musica italiana al tamburo. Quanto all'affare Valle Intelvi, lodo la tua prudenza. Essa è stata però così grande che non sono certissima d'averti inteso bene. Ho inteso che per preparare, in caso di guerra, un movimento alle spalle dei nostri signori, occorrono alcune persone sicure cui far capo con le opportune comunicazioni da Torino, sia direttamente sia per mezzo del Comitato di Como. A ogni modo andrò io stessa domani a Pellio Superiore dove c'è un medico condotto grande amico di V. e sicurissimo. Parlerò con lui, intanto. Per quella fodera sdrucita non ti crucciare. Basta che porti l'abito a Lugano quando verrai. Ci penserò io e posso anche promettere di foderarti le maniche di seta, grazie ad una sottana che mia madre mi diceva essere venuta in casa Ribera da casa Affaitati nel secolo scorso, una sottana gialla a fiorami rossi che né io né Ombretta porteremo certo mai. Ombretta sta benissimo. Da tre giorni, declinando il caldo, ha ripreso i suoi colori. Stamattina le ho dato la prima lezione di lettura col metodo Lambruschini. Tutto si trasforma e progredisce nella nostra casa! Questa sorte è toccata ieri all'antico cartellone della tombola, con dolore muto ma palese della Cia. Ne ho fatto strage per tagliarne fuori, oltre a cinque quadratini per le vocali, parecchi altri quadrati più grandi, dove ho disegnato, immagina come! le figure di so-le, lu-na, ca-ne, bu-e, ecc. Maria ha imparate le vocali con prontezza sufficiente. A mezza lezione è entrato lo zio Piero e ha esclamato: "Oh povero me!". Poi, malgrado le mie proteste, ha molto compianto Maria. Ella ha risposto che studiava per scrivere a papà. "Scrivere a papà" è la sua idea fissa e io credo che se la facessi scrivere conducendole la mano, perderei forse il più forte stimolo che posso adoperare con lei come maestra di lettura, poiché sa che prima di scrivere deve imparare a leggere. Il suo affetto per te vien sempre fuori con una mistura di amor proprio. Parla come se fosse un bisogno, non suo ma tuo, mio, dell'universo intero che Ombretta Pipì scriva a papà . Uno di questi giorni mi udì sgridar la Veronica perché ha la cattiva abitudine di buttar dalla cucina l'acqua sporca sul carrubo che n'è intristito. Ricordai alla Veronica, naturalmente, quanto il carrubo è caro a te. Maria l'udiva che brontolava tra sé contro il povero carrubo perché manda ombra in cucina e gli augurava di crepare. "Taci!", le intimò Maria con una forza inesprimibile. "Ti mando via se non taci." L'altra la rimbeccò e Maria fuori a piangere. Io udii e accorsi. "Perché piangi?" " Perché la Veronica dice brutte parole alla pianta di papà." Bisognava vedere che visetto irritato! Adesso fa lei la guardia al carrubo, non se ne allontana senza una predica alla Veronica e prende un'aria d'importanza come se la vita del carrubo fosse affidata a lei. Ogni mattina, quando va in giardinetto, corre lì e dice: "Stai bene, pianta?". Oggi ha versato molte lagrime perché la breva soffiava scotendo forte il carrubo, e poi ch'ella gli ebbe fatta la solita domanda, io le dissi: "Vedi che non sta bene il carrubo? Vedi che risponde di no?". Più tardi mi domandò se il carrubo, quando muore, va in Paradiso. Le risposi che siccome il carrubo disturba la Veronica mandando l'ombra in cucina, non può andare in Paradiso. Tacque mortificata. Lo zio Piero è ormai rassegnato del tutto alla perdita del suo occhio. Si paragona ad un altare dove si dice messa e il chierico ha spento, durante l'ultimo vangelo, una delle due candele. Dopo pranzo egli e Maria fanno in loggia delle conversazioni senza fine, non più interrotte dal corso del Mississipì, oramai dimenticato. Lo zio le racconta tante vecchie cose che non ha mai raccontato neppure a me. Io non entro, allora, in loggia, perché credo che si apra più volentieri con la piccina sola. Si vogliono un gran bene e non si fanno mai o quasi mai baci né carezze, come se Maria fosse una persona grande. 13 Stamattina ho preso con me la Leu, la sorella della Veronica, ch'è clorotica, per condurla a consultare il medico di Pellio; capisci! Abbiamo impiegato due ore e mezzo da Osteno. Tu avresti goduto con entusiasmo la bellezza dei luoghi e della mattina. Io invece non me ne commossi che un momento fra i vecchi castagni di Pellio Superiore, dove voltandosi a guardar giù la valle si scopre, in fondo a quel grande imbuto verde, Porlezza e un pezzetto di lago, una piccola coppa di acqua viva, verde anche quella. Ti ricordi che abbiamo fatto colazione insieme lassù, nel tempo in cui ero ancora signorina e che l'Ester si è accorta di qualche cosa quando mi hai parlato di mia madre? Ho trovato il mio medico condotto alla fontana di "Pèll sora", fra le pecore, come un patriarca. Gli ho fatto visitare la Leu e poi, allontanata questa, abbiamo parlato. Non sapeva che sei a Torino e al solo nome di Torino mi afferrò e mi strinse le mani come se la moglie d'uno ch'è a Torino fosse già una specie di eroina. Credeva poi che corrispondendo con Torino io avessi il piano di Cavour in una tasca e quello di Napoleone nell'altra. È un bonapartista così sfegatato che gli è amara l'alleanza inglese e dice "la perfida Albione". Si teneva sicurissimo, del resto, della guerra a primavera e non gli piacque udire che ci sono dei dubbi. Credo che mi abbia subito ammirata meno. Quanto ad agire nel momento buono, dice che in Vall'Intelvi si faranno tagliare a pezzi, se occorre, "come micch". Perché parla sempre in plurale, dice "nün chì". Non ha l'aria d'uno spaccamonti. Parlando di venire alle mani coi Croati diventò più rosso dell'asso di cuori e vibrava tutto come un bracco quando gli si mostra un pezzo di pane. "Nün chì", mi disse, "gh'emm poeu anca el Brenta." Sai, hanno a vendicare il Brenta, fucilato dagli austriaci. Insomma, se la parte mia, quando scoppierà la guerra, non fosse di liberare la "süra Peppina" e di buttare ai cavedini il suo Carlascia, andrei volentieri a battermi insieme al dottore di Pellio. Ritornammo alle tre. Lo zio giuocava a tarocchi col curato, con Pasotti e col signor Giacomo. Il curato aveva la Gazzetta Ticinese e si era molto parlato di Sebastopoli. Si capisce che Pasotti ha una gran rabbia come tutti i tedesconi. Invece il signor Giacomo era tutto intenerito per il suo Papuzza e il curato propose di bere una bottiglia alla salute di Papuzza. Allora lo zio Piero gli domandò se non aveva vergogna, egli prete, di festeggiare le buone fortune di Papuzza. "Mi l'era per bev", brontola il curato. "L'è ben che ghe n'è minga", risponde lo zio. Il curato brontolò peggio di prima e lo zio, per consolarlo, gli fece una dotta dissertazione sui dialetti lombardi, concludendo: "Ghe n'è no, ghe n'è minga e ghe n'è miga". 14 Non credo che Pasotti verrà più in casa nostra. Me ne rincresce per quella povera Barborin che non potrà più venirci neppur lei, temo; ma non mi pento di quel che ho fatto. Egli sa benissimo che sei a Torino da un pezzo, come qui lo sanno tutti. Ne ha parlato persino col Ricevitore, me lo disse la Maria Pon che stando alla cappella del Romìt li udì mentre scendevano discorrendo ad Albogasio Superiore. Quando è venuto da noi ha affettato sempre d'ignorarlo e ha domandato le tue notizie con quelle sue solite smancerie di premura e di amicizia. Oggi mi trova sola in giardinetto, mi domanda quanto ancora starai assente e se adesso sei a Milano. Io gli rispondo netto che mi meraviglio della sua domanda. Egli diventa pallido. "Perché?", dice. "Perché Lei va dicendo che Franco è in ben altro luogo." Si confonde, protesta, freme. "Protesti pure", dico io. "Tanto è inutile. Lo so. Del resto Franco sta benissimo dov'è. Lo dica pure a chi crede." "Lei mi offende!", diss'egli. Io non stetti tanto a riflettere e risposi: "Sarà!". Allora se n'andò precipitosamente, senza salutarmi, nero come l'asso di picche, poiché sono in vena di simili paragoni. Sono sicura che stasera andrà a Cressogno. Il Cüstant ci ha mandato a regalare una magnifica tinca presa da lui stamattina con gran dispetto del Biancòn che pesca tutto il giorno, non prende niente e si arrabbia perché le tinche, brave! se ne impipano di S. M. I. R. A. e del suo Carlascia. "Poer omàsc!", dice la súra Peppina. "El se mangia el fidegh!". Gli passerà, gli passerà. Miti sensi, pace amica Tornan presto a nobil cor; Dio conservi e benedica Ferdinando Imperator. Ho raccontato allo zio l'episodio Pasotti e n'è stato assai malcontento. "Bel profitto", ha detto, "che ne caverai!" Povero zio, parrebbe un utilitario. Invece è un filosofo. In fondo, di fronte agli sdegni miei per tante brutte cose che sono nel mondo, il suo argomento capitale è "ghe voeur alter!". Oggi la messa parrocchiale è stata ad Albogasio Superiore. Nell'uscire di chiesa con Maria ho avuto uno sguardo desolato della povera Pasotti che aveva evidentemente l'ordine di evitarmi. Invece è discesa con noi Ester e poi è anche salita in casa e mi ha tenuto, a quattr'occhi, un discorso che da qualche tempo mi aspettavo. Ha cominciato pregandomi di non ridere e ridendo lei. Insomma capisci che il professore, dalli e dalli, ha fatto un po' di breccia. E così, quantunque Ester affermi di non poter decifrare i propri sentimenti. Io vedo tutto il cammino ch'egli ha fatto nel suo cuore. Sulle prime, te ne ricordi? lo chiamava valsoldesemente el vecc, el veggiòn, el zücca pelada, l'oreggiàt, el nasòn, el barbarostì. Quando s'accorse della simpatia di lui un sentimento di gratitudine le fece smettere questi titoli, senza riconciliarla però né con il cranio lucido né con le orecchie a ventaglio né col pelo rossiccio né col naso fiorito dell'adoratore. Adesso de' primi tre guai non si parla più; su questi tre punti l'amico ha vinto la battaglia e può portarli in trionfo. Solo intorno al quarto punto vi è ancora del combattimento. "Mi l'è quel nas!", diceva Ester stamattina e rideva rideva, si nascondeva il bel visetto brillante. Il naso scandaloso mi pare che fatalmente prosperi, si colori e ingrossi sempre più. Quel semplice uomo mi confidò poco fa, forse perché lo ripetessi a Ester, che ha sempre bevuto solamente acqua anche in gioventù e che il rossore e il turgore del suo naso dipendono da frequenti sofferenze viscerali. Ho paura che questo nuovo aspetto delle cose non migliori la situazione. Credo però che l'amica finirà con superare anche un così grande e grosso ostacolo. Il fatto è che la passione di lui è all'apice. Egli le ha scritto trenta pagine di confessione generale, vuotandosi proprio il cuore e rivoltandone la fodera, per modo da intenerire un croato. Io lo aiutai presso Ester che deciderà entro due giorni e vuole che la risposta gli sia fatta da me. Io poi capisco che la letteratura del professore le mette soggezione e che ha un gran timore di fare sbaglietti di ortografia. Buon segno! 18 Sono stata tre giorni senza scrivere temendo non esser padrona della mia penna, non saper comprimere il mio pensiero dentro parole che devono avere una data misura e non più. Adesso lo posso fare e lo faccio. Sappi però, Franco, che non rispondo esser padrona di me sempre! È venuto dunque da me, la sera del 15, l'agente di tua nonna. Poiché la rata semestrale de' tuoi interessi scade il 16 ho creduto che avesse le cinquecento svanziche e gli ho detto senz'altro che andavo a preparargli la ricevuta. Allora il gentilissimo signor Bellini mi disse che la ricevuta mia non gli poteva bastare. "Come", rispondo, "se Le è bastata il 16 marzo?" "Ma!", dice. "I miei ordini!" "Ma Franco non c'è." "Lo so." "E allora, cosa è venuto a fare?" "Sono venuto a dirle che il signor don Franco, per avere il denaro deve presentarsi all'agenzia della signora marchesa in Brescia." "E se non potesse andare a Brescia?" Qui il signor Bellini fece un gesto come per dire: pensateci voi. Io gli risposi che andava bene, gli feci portare il caffè e gli dissi che avrei desiderato comperare dalla signora marchesa le librerie del tuo antico studio di Cressogno. Il Bellini diventò giallo e partì mogio mogio come il nostro vecchio cane Patò di casa Rigey quando aveva rubato. È certo che in questa immondizia vi ha un dito del signor Pasotti. Ieri è venuto qua il prefetto della Caravina e ha raccontato che il 14 sera Pasotti è andato a Cressogno assai tardi ed è capitato in casa della nonna mentre si diceva il rosario, per cui gli toccò pure di rosarieggiare. Questo faceva ridere il prefetto; secondo lui il Pasotti va a messa perché è I. R. pensionato ma di preghiere dice solo "el Patèr d'i ratt", che io non so cosa sia. Soggiunse poi che quando gli altri partirono, Pasotti restò a confabulare con la nonna e che c'era anche il Bellini. Bellini era arrivato il 15 stesso, da Brescia. Probabilmente aveva recati i denari per te. Fino all'ottobre, quando arriverà il denaro tuo, c'è da vivere. Altro non dico. Il ciclamino che troverai qui dentro te lo manda Maria. Devo pure raccontarti questa cosa! Puoi pensare in quale stato d'animo ella mi vede. Mi ode anche spesso discorrere dell'argomento con lo zio. Lo zio è sempre lo zio. In vita sua ha solamente giudicato birbanti quegli appaltatori che gli offrivano quattrini e un altro zio, il suo antipodo, che dopo di essersi servito del nipote per anni, non gli ha lasciato un fico secco. Altri birbanti non ha mai voluto vedere e neanche adesso vuol vederne. Ora, quando io discorro con lui, Maria vorrebbe ascoltare sempre. Io la mando via ma poi tante volte mi accorgo che piano piano ritorna. Stamattina si mette a recitare le sue orazioni. Oh, Franco, tua figlia è ben religiosa nel senso tuo! L'ultima che recita è il requiem per la povera nonna Teresa. "Mamma", dice allora, "voglio recitare il requiem anche per la nonna di Cressogno." Ho risposto quel che ho risposto, parole amare; avrò fatto anche male, se vuoi, lo confesso. Maria mi guarda e fa: "È proprio cattiva la nonna di Cressogno?". "Sì." "E perché lo zio dice che non è proprio cattiva?" "Perché lo zio è tanto buono." "E tu, allora, non sei mica tanto buona?" Cara la mia innocente, me la mangiai di baci, non ne potei proprio a meno. Appena fu libera di parlare, riprese subito: "Non vai mica, sai, in Paradiso, se non sei tanto buona". Quella del Paradiso è la sua fissazione. Povero Franco, non averla con te, tu che saresti così contento di lei! Fai un gran sacrificio! Se ti può far piacere ti dirò che la sola possibilità per me di amare Iddio la trovo in questa bambina perché in essa Iddio mi diventa visibile, intelligibile. Addio, Franco; ti abbraccio Luisa P.S. Sappi che ho licenziato la Veronica per il 1o ottobre. Per economia, prima; e poi perché mi sono accorta che fa all'amore con una guardia di finanza. Oh, mi scordavo quest'altra! Mezz'ora fa è venuta Ester a dirmi che si è decisa per il sì ma che desidera di aspettare ancora un giorno a vedere il professore. Si capisce che il naso è inghiottito ma non ancora passato giù nello stomaco. Franco a Luisa Torino, 12 settembre 1855 Iersera Dina mi ha mandato al d'Angennes dove si è data male un'opera vecchiotta che non mi garba, Marin Faliero Aggiungi l'idea tormentosa di dover scrivere l'appendice e intenderai che non è stato un invitarmi a nozze. Un collega mi propose di presentarmi in un palco dov'erano due dame sfoggiatamente eleganti. Credo l'abbia fatto per desiderio del Dina perché esitava, gittava qualche rapida occhiata ai miei panni i quali mostrano aperto il canchero della borsa. Pensa se mi fu agevole il trarmid'impaccio! Panni vetusti Fedeli e frusti vi debbo anche per questo una gratitudine che non rifiuto. In teatro non si parlava che di Sebastopoli. I più credono che la pace non si farà, che l'Inghilterra non vorrà posare le armi prima d'aver levato ai russi per cinquant'anni il prurito delle conquiste. Uscendo dal teatro udii il deputato B., un fiero avversario della spedizione, dire a qualcuno: "Hanno preso la loro tomba. Un piccolo Napoleone, una piccola Mosca!". Io dissi forte: "Hanno preso Verona". B. mi guardò con due occhi fulminei e io guardai lui senza abbassare i miei. Egli si strinse nelle spalle e se n'andò. Salii nella mia soffitta e mi posi a scrivere l'appendice sui margini di un giornale onde non sciupare carta. Scrivi, cancella, riscrivi e ricancella, ne son venuto a capo alle quattro del mattino. Qui mi dicono che i miei periodi hanno una forma troppo classica e che adopero troppi vocaboli e modi toscani. "Già, Lei, col Suo Giusti!", mi ha detto D. Il guaio è ch'io non so scrivere un italiano piemontese come forse piacerebbe a lui. Intanto mi son buscato un bellissimo e lucentissimo scudo nuovo di zecca con un Vittorio Emanuele così parlante che potrebbe farvi svenire dalla commozione, come svenne ier l'altro all'hôtel della Liguria una signora veneta vedendo passare alla testa d'una colonna di fanteria il generale Giannotti che scambiò, in grazia de' baffi maiuscoli, per il Re. Io serberò lo scudo, ve lo porterò a Lugano, tu lo porrai da parte e sarà la prima pietra della dote di Ombretta. Va bene? L'idea me n'è venuta per un sogno che feci stamattina, appena addormentato, nell'ora in cui l'anima Alle sue visïon quasi è divina. Sognai ch'era nella chiesa di S. Sebastiano di Oria, con te e Maria, grande, bella, vestita da sposa; che lo sposo era Michele Steno e che lo zio Piero si stava mettendo cotta e stola per celebrar lui il matrimonio e che Michele Steno si alzò dall'inginocchiatoio per venirmi a dire: "Sì, tutto va bene, ma e la dote, e la dote?". Maria mia dolcissima, verrà pure per te il gran giorno della dote; quand'anche tu tenessi allora in serbo molti pezzi d'oro sopra lo scudo d'argento, avresti tuttavia lo scudo più caro! 14 Il Fante di bastoni è in pericolo di essere licenziato dal suo principale per le condizioni veramente miserevoli del suo vestito. Il Fante è per verità uno sciupone e non ha ancora appreso, duris in rebus , a maneggiare una spazzola; ma insomma gli altri sapienti hanno deciso che non faranno colazione per una settimana ond'egli si possa rimpannucciare. Vedi bassezza del cuore umano! Il Fante si è sbracciato a ringraziare e poi si disponeva a far colazione lui, come se nulla fosse. Questo gliel'abbiamo proibito. Così oggi invece di andar al "Mal de stomi" passammo una mezz'oretta sulla via del Po, verso il Valentino, a veder l'acqua scendere. L'Udinese portò seco il flauto, perché ad una colazione ideale dove si offrivano le più trimalcioniane idee di cibi e di bevande, la musica non poteva mancare. Egli aveva una lettera de' suoi con magnifiche proposte di ritorno all'ovile. Persino il cavallo da sella gli offrono. Ci narrò di avere risposto che lo vedranno presto arrivare sopra un cavallo del Re Vittorio Emanuele. Allora il Padovano, gran motteggiatore, gli ha detto con tutta flemma: "Ciò, eroe, sonistu anca el trombon, ti?". (Vedi che t'imito, poiché la ferula de' pedanti mi è lontana, nelle tue scandalose familiarità col dialetto.) L'Udinese si è arrabbiato alquanto ma poi vi ha fatto su la sua brava sonatina di flauto. Il fatto strano è che nessuno di noi ha sentito fame. Però, levando la seduta, abbiamo deciso che l'abbigliamento del Fante verrà semplificato e ch'egli potrà benissimo fare a meno del giustacuore, modernamente detto sottoveste. Ah noi faremmo a meno anche del pranzo per poter passare il Ticino col Re nell'aprile del 1856! Ne parlavamo tornando in città dalla colazione ideale. Il Padovano ha osservato che in aprile l'acqua è troppo fredda e che sarebbe meglio aspettare fino a giugno. Si diceva che gran cosa sarà l'Italia senza tedeschi. Ti assicuro ch'eravamo tutti entusiasti malgrado il vuoto dello stomaco. Tutti meno il Padovano, sempre; del quale va pur detto, a sua scusa, che patisce la fame, o quasi, per non vedere austriaci, e che quantunque bussi all'uscio de' quaranta si batterà meglio di qualche giovane che adesso si mangia un caiserlicchio a colazione e due a pranzo. Egli crede che torneremo un paese di cani e gatti. "Per esempio", diceva, "intendiamoci bene. Partiti i tedeschi, ciascuno a casa sua e guai a voi se venite a rompermi le scatole a Padova!". Mi pareva di udire lo zio Piero, quando noi pure, a Oria, s'è parlato della grandezza, dello splendore futuro d'Italia. "Eh sì sì!", diceva. "Eh sì sì! Il lago diventerà di latte e miele e la Galbiga de formagg de grana!" Vedremo, vedremo! 21 La tua lettera mi suscita un tumulto di sentimenti che non si scrivono. Mi addolorano, senza dubbio, l'atto della nonna e la obliqua malevolenza del Pasotti ma più mi affligge lo sdegno tuo troppo forte. Quando un mio procuratore si presenterà a Brescia, il pagamento non potrà venire rifiutato. È vero, tu sei donna e non hai l'obbligo di conoscere queste cose. Anche la collera ti perdono poiché freddo non rimasi nemmeno io, da principio. Quindi mi son detto: Di che ti sdegni e che ti sorprende? Non conoscevi tu quel malanimo e non ne avesti offese maggiori? Infinitamente mi rattrista che tu non abbia saputo celare i tuoi sentimenti a Maria, infinitamente mi commuove che tu ne sia pentita e infinitamente mi consola che tu ami il Signore nella bambina, che tu me lo scriva. A dir vero, cara, non dovrei appagarmene così perché ad amare Iddio ne invitano i cieli e la terra ed Egli ci è visibile in ogni luce, intelligibile in ogni vero! Ma insomma tu incominci a udire la voce Sua! Nelle mie lettere non ho mai toccato questo punto per sentirmi troppo inetto a parlartene degnamente, efficacemente. E ora lascio che Iddio ti parli nella bambina, torno nel mio silenzio. Sappi soltanto che ascolto palpitante, che prego e spero. Posso io dirti quello che sento per Maria? Chi potrebbe dire questa commozione, questa tenerezza immensa, questo desiderio che mi strugge di tenermela almeno un momento, un solo momento, sul cuore? Credi tu che io possa attendere fino a novembre? No no no, scriverò appendici, copierò, monterò qualche guardia per altri ma verrò a Lugano prima! Coprila di baci per me, intanto, dille che Papà ha sempre nel cuore la sua Ombretta e che la benedice, domandale cosa le farebbe piacere ch'io le portassi e poi scrivimelo senza pensar poi troppo alla mia povertà. Ti abbraccio, Luisa mia, con l'anima. Franco Luisa a Franco 24 settembre 1855 Finalmente! Da quando sei partito io desiderai sempre, che tu toccassi quel punto. Come mi sarò spiegata, quella notte, nella mia commozione dolorosa? Come mi avrai inteso tu nella tua? Da mesi e mesi sento il bisogno di parlarne con te e non l'ho fatto mai per mancanza di coraggio. Vedi, per esempio. Tu mi hai accusata d'orgoglio, quella notte. Ti supplico di credere che non sono orgogliosa; non posso neanche comprendere un'accusa simile! Mi par di capire dalla tua lettera che tu mi supponga ritornata alla fede in Dio. Ma t'ho io mai detto di non credere in Dio? Non posso averti detto questo perché la storia de' pensieri miei mi è tutta scritta nella mente, e lo spavento, l'angoscioso pensiero di non poter forse più credere in Dio mi son venuti dopo la tua partenza; ne so il giorno e l'ora. Avevo udito parlare a S. Mamette di un gran pranzo dato da tua nonna a Brescia e io non potevo assolutamente procurare al nostro diletto zio quel regime di cibi e di vino che il medico, temendo per l'occhio destro, prescriveva. Ho lottato con quelle tenebre spaventose, Franco, e ho vinto. È vero, la vittoria è in gran parte della nostra Maria. Vorrei dire che se tante nere nuvole mi nascondono l'esistenza di una Giustizia Superiore, me ne trapela però un raggio in Maria; e questo raggio mi fa credere e mi fa sperare nell'Astro. Perché sarebbe orribile che l'universo non avesse un governo di giustizia! Quella notte, dunque, io ti ho potuto solamente dire che intendevo la religione in un modo diverso da te, che gli atti di fede cristiana e le preghiere non mi parevano essenziali all'idea religiosa ma l'amore e l'azione per quelli che soffrono, sì! Ma lo sdegno e l'azione contro coloro che fanno soffrire, sì! E tu vuoi ritornare nel tuo silenzio? Ma no, non lo devi. Ti senti debole, dici. Debole te o il tuo Credo? Ragioniamo, discutiamo. Confessa che voialtri credenti amate le vostre credenze anche perché sono un comodo riposo dell'intelletto. Vi adagiate in esse come in un'amaca sospesa in aria per tante fila lavorate dagli uomini, annodate dagli uomini a diversi uncini. Voi vi state bene e se si va tentando, saggiando con la mano anche uno solo di questi fili, ve ne turbate e avete paura che si spezzi, perché poi molto facilmente si spezzerà il suo vicino e dopo questo un altro e tutto il vostro letto fragile rovinerà dall'aria in terra con vostro spavento e dolore. Conosco questo spavento e questo dolore, so che si paga così la compiacenza di camminar poi sul solido e perciò non mi trattiene dal discutere teco una pietà che sarebbe falsa. Ma forse mi inganno e sarai tu che mi solleverai a te nel tuo letto di fragili fili e d'aria. Maria non può far tanto. Se Maria mi fa credere in Dio non vuol dire che possa farmi credere anche nella Chiesa. E tu credi sopra tutto nella Chiesa, tu! Cerca di persuadermi dunque e io pure ti ascolterò palpitando; e se non prego, almeno spero, perché adesso più che mai desidero pienamente unirmi a te. Adesso con l'antico affetto sento per te un'ammirazione nuova, una gratitudine nuova. Ti offenderai di questo mio sfogo? Pensa che otto mesi sono devi aver trovato una mia lettera nella tua borsa da viaggio e che da otto mesi aspettavo risposta! Il professore ed Ester si vedono in casa nostra, oramai come fidanzati. Quelli son felici, almeno. Ella va in chiesa, egli non ci va, e né l'uno né l'altro si danno pensiero di ciò più che del colore diverso de' loro capelli. E così fanno novecentonovantanove sposi su mille, credo! Ti abbraccio. Scrivi a lungo, a lungo. Luisa Questa lettera non partì da Lugano che il 26 settembre e Franco l'ebbe il 27. Il 29, alle otto della mattina, ricevette il seguente telegramma pure da Lugano: Bambina malata gravemente. Vieni subito Zio

desidero non abbia cattive conseguenze". Il periodo non ebbe un gran successo. Luisa fece il viso scuro e non parlò; Franco guardò sua moglie e non osò metter fuori il commento favorevole che aveva nella bocca ma non, per verità, nel cuore. La povera Barborin che aveva approfittato della andata di suo marito a Lugano per correre a portar il suo zuccherino, rimase assai mortificata, guardava contrita ora Luisa ora Franco e finì col togliersi di tasca uno zuccherino vero e proprio onde darlo a Maria. Poi, avendo capito che gli sposi desideravano partire in barca e struggendosi di stare un po' con Maria, tanto disse e fece che quelli se ne andarono lasciando l'incarico alla Veronica di metter la bambina a letto un po' più tardi. Maria non parve gradir molto la compagnia della sua vecchia amica. Taceva, taceva ostinatamente e non andò molto che spalancò la bocca e scoppiò in lagrime. La povera Pasotti non sapeva che Santi invocare. Invocò la Veronica, ma la Veronica discorreva con una guardia di finanza e non udì o non volle udire. Offerse anelli, braccialetti, l'orologio, persino il cappellone da viceregina Beauharnais, ma nulla riuscì gradito. Maria continuava a piangere. Ebbe allora l'idea di mettersi al piano e si mise a picchiare e ripicchiare otto o dieci battute d'una monferrina antidiluviana. Allora la principessina Maria si mansuefece, si lasciò pigliar dalla sua musicista di camera così delicatamente come se le sue braccine fossero state ali di farfalla e posar sulle ginocchia così piano come se vi fosse stato pericolo di far cader in polvere le vecchie gambe. Udite cinque o sei repliche della monferrina, Maria fece un visino annoiato, si provò di strappar dal piano le mani rugose della suonatrice e disse sottovoce: "Cantami una canzonetta". Poi, non ottenendo risposta, si voltò a guardarla in faccia, le gridò a squarciagola: "Cantami una canzonetta!". "Non capisco", rispose la Pasotti, "sono sorda." "Perché sei sorda?" "Sono sorda", replicò l'infelice, sorridendo. "Ma perché sei sorda?" La Pasotti non poteva immaginare cosa chiedesse la bambina. "Non capisco", diss'ella. "Allora", fece Maria con un'aria molto grave, "sei stupida." Dopo di che aggrottò le ciglia e riprese piagnucolando: "Voglio una canzonetta!" Qualcuno disse dal giardinetto: "Eccolo, quel delle canzonette!" Maria alzò il viso, s'illuminò tutta. "Missipipì", diss'ella e scivolò giù dalle ginocchia della Pasotti, corse incontro allo zio Piero ch'entrava. Si alzò anche la Pasotti, stese le braccia, tutta sorpresa e ridente, verso il vecchio inaspettato amico. "Tè chì, tè chì, tè chì!". E corse a salutarlo. La Maria strillò tanto forte "Missipipì, Missipipì!", e si avvinghiò tanto stretta alle gambe dello zio che questi, quantunque paresse non averne voglia, dovette pur sedere sul canapè, pigliarsi la bambina sulle ginocchia e ripeterle la vecchia canzone: Ombretta sdegnosa ... Dopo quattro o cinque Missipipì la Pasotti, temendo che suo marito ritornasse, prese congedo. La Veronica voleva porre Maria a letto. La piccina si crucciò, lo zio intervenne: "Oh lasciatela un po' qui!", e uscì con lei sulla terrazza per vedere se il papà e la mamma ritornassero. Nessuna barca veniva da Casarico. La piccina ordinò allo zio di sedere e gli si arrampicò sulle ginocchia. "Perché sei venuto?", diss'ella. "Non c'è mica, sai, il pranzo per te." "Me lo farai tu, il pranzo. Sono venuto per star con te." "Sempre?" "Sempre." "Proprio sempre sempre sempre?" "Proprio sempre." Maria tacque, pensierosa. Poi domandò: "E cosa mi hai portato?" Lo zio si levò di tasca un fantoccio di gomma. Se Maria avesse potuto sapere, intendere con quale animo, sotto qual colpo lo zio fosse andato a prender per lei quel fantoccino avrebbe pianto di tenerezza. "È brutto questo regalo", diss'ella, ricordando gli altri dello zio. "E se resti qui, non mi porti più niente?" "Più niente." "Va' via, zio", diss'ella. Egli sorrise. Adesso Maria volle sapere dallo zio se, quando era bambino lui, suo zio gli portasse regali. Ma questo zio dello zio, per quanto la cosa paresse impossibile a Maria, non era mai esistito. E allora chi gli portava regali? Ed era egli un buon bambino? Piangeva? Lo zio si mise a raccontarle cose della sua infanzia, cose di sessant'anni prima, quando la gente portava parrucca e codino. Si compiaceva di ricordare alla nipotina quel tempo lontano, di farla vivere per un momento insieme ai suoi vecchi, e parlava con gravità triste, come avendo presenti quei cari morti, come parlando più per essi che per lei. Ella gli fissava in viso gli occhi spalancati, non batteva palpebra. Né lui né lei s'accorgevano che intanto passava il tempo, né lui né lei pensavano più alla barca che doveva venire. E la barca venne, Luisa e Franco salirono senza sospettare di nulla, pensando che la bambina dormisse. Franco fu il primo che vide sotto i rami cadenti delle passiflore lo zio seduto, curvo su Maria che gli stava sulle ginocchia. Mise una gran voce di sorpresa e corse là seguito da Luisa, con l'idea che fosse successo qualche cosa. "Tu qui?", diss'egli correndo. Luisa, pallida, non disse nulla. Lo zio alzò il capo, li vide: essi compresero subito che vi era una brutta novità, non gli avevano mai veduto una faccia così seria. "Addio", diss'egli. "Cosa è stato?", sussurrò Franco. Egli fe' cenno ad ambedue di ritirarsi dalla terrazza nella loggia, ve li seguì, allargò le braccia, povero vecchio, come un crocifisso e disse con voce triste ma tranquilla: "Destituito". Franco e Luisa lo guardarono un momento come istupiditi. Poi Franco esclamò: "Oh zio, zio!", e lo abbracciò. Vedendo quell'atto e il viso di sua madre, Maria scoppiò in lagrime. Luisa cercò di farla tacere, ma ella stessa, la donna forte, aveva il pianto alla gola. Seduto sul canapè della sala lo zio raccontò che l' I. R. Delegato di Como lo aveva fatto chiamare per dirgli che la perquisizione operata nella sua casa di Oria aveva dati risultati dolorosi e inattesi; quali, non aveva voluto assolutamente dire. Aveva poi soggiunto che s'era voluto iniziare un processo contro di lui ma che in vista dei lunghi e lodevoli servigi prestati al Governo si limitava a togliergli l'ufficio. Lo zio aveva insistito per conoscere le accuse e colui l'aveva licenziato senza rispondere. "E allora?", disse Franco. "E allora ...". Lo zio tacque un poco e poi pronunciò una frase sacramentale d'ignota origine che egli stesso e i suoi compagni tarocchisti solevano ripetere quando il giuoco andava disperatamente male: "Siamo arcifritti, o Regina". Vi fu un lungo silenzio; poi Luisa si buttò al collo del vecchio. "Zio, zio", gli sussurrò, "ho paura che sia stato per causa nostra!" Ella pensava alla nonna e lo zio intese che accusasse Franco e sé di qualche imprudenza. "Sentite, cari amici", diss'egli con un tono bonario che aveva pure qualche recondito sapore di rimprovero, "questi sono discorsi inutili. Adesso la frittata è fatta e bisogna pensare al pane. Fate conto su questa casa, su qualche piccolo risparmio che mi frutta circa quattro svanziche al giorno e su due bocche di più: la mia e quella della Cia; la mia, speriamo per poco tempo." Franco e Luisa protestarono. "Ci vuol altro! Ci vuol altro!", fece lo zio agitando le braccia, come a dispregio di un sentimentalismo irragionevole. "Viver bene e crepare a tempo. Questa è la regola. La prima parte l'ho fatta, adesso mi tocca di fare la seconda. Intanto mandatemi dell'acqua in camera e aprite la mia borsa. Vi troverete dieci polpette che la signora Carolina dell'Agria mi ha voluto dare per forza. Vedete che le cose non vanno poi troppo male." Ciò detto lo zio si alzò e se n'andò per l'uscio del salotto con passo franco, mostrando anche da tergo la sua faccia eretta, il suo modesto ventre pacifico, la sua serenità di filosofo antico. Franco, ritto sul limitare della terrazza, con le braccia incrociate sul petto e le sopracciglia aggrottate, guardava verso Cressogno. Se in quel momento egli avesse avuto fra le mascelle un fascio di Delegati, di Commissari, di birri e di spie, avrebbe tirato tale un colpo di denti da farne una melma sola.

E soggiunse: "Ho piacere che quella signorina vi abbia conosciuto; così, se mai sapeva di qualche progetto, sarà ben contenta che non se ne parli più". "Contenti tutt'e due", disse Franco. "Voi non sapete niente affatto se sarete contento. Specialmente se avete ancora le idee d'una volta." Udito questo, Franco posò il giornale e guardò la nonna in faccia. "Cosa succederebbe", diss'egli, "se avessi ancora le idee d'una volta?" Non parlò stavolta in tono di sfida, ma con serietà tranquilla. "Ecco, bravo", rispose la marchesa. "Spieghiamoci chiaro. Spero e credo bene che un certo caso non succederà mai, ma, se succedesse, non state a credere che alla mia morte ci sarà qualche cosa per voi, perché io ho già pensato in modo che non ci sarà niente." "Figùrati!", fece il giovine, indifferente. "Questi sono i conti che dovrete fare con me", proseguì la marchesa. "Poi ci sarebbero quelli da fare con Dio." "Come?", esclamò Franco. "I conti con Dio li farò prima che con te e non dopo!" Quando la marchesa era côlta in fallo tirava sempre diritto nel suo discorso come se niente fosse. "E grossi", diss'ella. "Ma prima!", insistette Franco. "Perché", continuò la vecchia formidabile, "se si è cristiani si ha il dovere d'obbedire a suo padre e a sua madre e io rappresento vostro padre e vostra madre." Se l'una era tenace, l'altro non l'era meno. "Ma Dio vien prima!", diss'egli. La marchesa suonò il campanello e chiuse la discussione così: "Adesso siamo intesi". Si alzò dal canapè all'entrar della Carlotta e disse placidamente: "Buona notte". Franco rispose "buona notte" e riprese la Gazzetta di Milano Appena uscita la nonna, gittò via il foglio, strinse i pugni, si sfogò senza parole, con un furibondo sbuffo, e saltò in piedi, dicendo forte: "Ah, meglio, meglio, meglio! Meglio così", fremeva in sé "meglio non condurla mai, la mia Luisa, in questa maledetta casa, meglio non farle soffrir mai questo impero, questa superbia, questa voce, questo viso, meglio viver di pane e d'acqua e aspettar il resto da qualunque lavoro cane, piuttosto che dalle mani della nonna: meglio far l'ortolano, maledetto sia, far il barcaiuolo, far il carbonaio!" Salì nella sua camera, risoluto di romperla con tutti i riguardi. "I conti con Dio?", esclamò sbattendosi l'uscio dietro. "I conti con Dio se sposo Luisa? Ah vada tutto, cosa me ne importa, mi vedano, mi sentano, mi facciano la spia, glielo dicano, glielo contino, gliela cantino che mi fanno un piacerone!" Si vestì in fretta e in furia, urtando nelle seggiole, aprendo e chiudendo il cassettone a colpi. Mise un abito nero, per sfida; discese le scale rumorosamente, chiamò il vecchio domestico, gli disse che sarebbe stato fuori tutta la notte, e senza badare alla faccia tra sbalordita e sgomenta del pover'uomo, a lui molto devoto, si slanciò in istrada, si perdette nelle tenebre. Egli era fuori da due o tre minuti, quando la marchesa, già coricata, mandò Carlotta a vedere chi fosse venuto giù correndo dalle scale. Carlotta riferì ch'era stato don Franco e dovette subito ripartire con una seconda missione. "Cosa voleva don Franco?". Stavolta la risposta fu che don Franco era uscito per un momento. Questo momento fu pietosamente aggiunto dal vecchio servitore. La marchesa ordinò a Carlotta di andarsene lasciando il lume acceso. "Ritornate quando suonerò", diss'ella. Dopo mezz'ora ecco il campanello. La cameriera corre dalla padrona. "È ancora fuori don Franco?" "Sì, signora marchesa." "Spegnete il lume, prendete la calza, mettetevi in anticamera e quando sarà rientrato venite a dirmelo." Ciò detto la marchesa si girò sul fianco verso la parete, voltando all'attonita e malcontenta cameriera l'enigma bianco, uguale, impenetrabile del suo berretto da notte.

Non credo che di casa sua don Franco abbia più di tre svansiche al giorno. Lei poi ..." Il Ricevitore si soffiò sul palmo della mano. "Dunque capisce. Hanno la donna di servissio. C'è una bambina di due anni o ché; ci vuole la ragassa, per curare la bambina. Si fanno venire fiori, libri, musica, el diavol a quatter. Alla sera si giuoca a tarocchi, c'è la sua bottèglia. Ce ne vogliono così delle svansiche, mi capisce!" Il Commissario rifletté un poco e poi, con una faccia nebulosa, con gli occhi al soffitto, con certe parole sconnesse che parevano frammenti d'oracolo, fece intendere che l'ingegnere Ribera, un I. R. impiegato, favorito recentemente dall'I. R. Governo di una promozione in loco , avrebbe dovuto esercitare sui nipoti una influenza migliore. Quindi con altre domande e con altre osservazioni che concernevano specialmente le presenti debolezze dell'ingegnere, insinuò al Bianconi che le sue attenzioni paterne dovevano rivolgersi con particolare segretezza e delicatezza all'I. R. collega, onde illuminare, occorrendo, la Superiorità circa tolleranze che sarebbero scandalose. Gli chiese finalmente se non sapesse che l'avvocato V. di Varenna e un tale di Loveno venivano abbastanza spesso a visitare i Maironi. Il Ricevitore lo sapeva e sapeva dalla sua Peppina che venivano a far musica. "Non credo!", esclamò il Commissario con subita e insolita asprezza. "Sua moglie non capisce niente! Ella si farà menar per il naso, caro Bianconi, a questo modo. Quei due sono soggettacci che starebbero bene a Kufstein. Bisogna informarsi meglio! Informarsi e informarmi. E adesso andiamo in giardino. A proposito! Quando entra da Lugano qualche cosa per la marchesa Maironi ..." Lo Zérboli compié le frase con un gesto di graziosa larghezza e s'incamminò seguito dal mastino, alquanto mogio. La signora Peppina si fece trovare ad annaffiar i fiori con l'aiuto di un ragazzotto. Il Commissario guardò, ammirò e trovò anche modo di dar una lezioncina al poliziotto subalterno. Lodando quei fiori trasse destramente la Bianconi a nominar Franco e sulla persona di Franco non si fermò affatto come se non gliene importasse nulla. Si tenne ai fiori, affermò che Maironi non poteva averne di più belli. Strilli, gemiti e giaculatorie dell'umile signora Peppina che perfino si vergognava d'un paragone simile. E il Commissario insistette. Ma come? Anche le fuchsie di casa Maironi erano più belle? Anche le vainiglie? Anche i pelargoni? Anche i gelsomini? "I gesümin?", fece la signora Peppina. "Ma el sür Mairon el gà el pussee bell gesümin de la Valsolda, cara Lü!" Così il Commissario venne poi a sapere molto naturalmente che il famoso "gesümin" non era ancora fiorito. "Vorrei vedere le dalie di don Franco", diss'egli. La ingenua creatura si offerse di accompagnarlo a casa Ribera quel giorno stesso: "Gavarissen inscì mai piasè". Ma il Commissario espresse il desiderio di attendere la venuta dell' I. R. ingegnere in capo della provincia per avere occasione di riverirlo e la signora Peppina fece "eccola!" in segno della sua soddisfazione. Intanto il mastino, umiliato da quell'arte superiore, desiderando mostrar in qualche modo che almeno dello zelo ne aveva anche lui, afferrò per un braccio il ragazzotto dall'annaffiatoio e lo presentò. "Mio nipote. Figlio d'una mia sorella maritata a Bergamo con un I. R. portiere della Delegassione. Ha l'onore di chiamarsi Francesco Giuseppe, per desiderio mio; ma capisce bene, per il dovuto rispetto, questo non può essere il nome solito." "Soa mader la ghe dis Ratì e so pader el ghe dis Ratù ch'el se figura!", interloquì la zia. "Citto, Lei!", fece lo zio, severo. "Io lo chiamo Francesco. Un ragasso bene educato, devo dirlo, molto bene educato. Di' un po' su, Francesco, quando sarai grande, cosa farai?" Ratì rispose a precipizio come se recitasse la Dottrina Cristiana: "Io quando sarò grande mi comporterò sempre da suddito fedele e devoto di Sua Maestà il nostro Imperatore nonché da buon cristiano; e spero coll'aiuto del Signore diventare un giorno I. R. Ricevitore di Dogana come mio zio, per andar quindi a ricevere il premio delle mie buone opere in paradiso". "Bravo bravo bravo", fece lo Zérboli, accarezzando Ratì. "Seguitiamo a farci onore." "Ch'el tasa, sür Commissari", saltò fuori da capo la Peppina, "che stamattina el baloss el m'ha mangiaa foeura mèss el süccher de la süccherera!" "Comè comè comè?", fece il Carlascia uscendo di tono per la sorpresa. Si rimise subito e sentenziò: "Colpa tua! Si mettono le cose a posto! Vero, Francesco?" "Pròpe", rispose Ratì, e il Commissario, seccato da quel battibecco, da quella ridicola riuscita della sua frase paterna, prese bruscamente congedo. Appena partito lui, il Carlascia menò un "toeu sü el süccher, ti", e un formidabile scapaccione a Francesco Giuseppe che si aspettava tutt'altro e corse a salvarsi tra i fagiuoli. Poi aggiustò le partite di sua moglie con un buon rabbuffo, giurando che in avvenire lo avrebbe tenuto lui lo zucchero, e poiché ella si permise di ribattere "cossa te voeut mai intrigàt ti?" la interruppe, "intrigatissim in tütt! intrigatissim in tütt!" e voltatele le spalle, s'avviò a gran passi, sbuffando e fremendo, verso il posto dove la diligente sposa gli aveva preparata la lenza e la polenta, e inescò i due poderosi ami da tinche. Poiché in antico quel piccolo mondo era ancora più segregato dal mondo grande che al presente, era più che al presente un mondo di silenzio e di pace, dove i funzionari dello Stato e della Chiesa e, dietro al loro venerabile esempio, anche alquanti sudditi fedeli dedicavano parecchie ore ad una edificante contemplazione. Primo a ponente, il signor Ricevitore slanciava due ami appaiati in capo a una lenza sola, due traditori bocconi di polenta, lontano dalla sponda quanto mai poteva; e quando il filo si era ben disteso, quando il sughero indicatore si era quasi ancorato in placida attesa, l' I. R. uomo posava delicatamente la bacchetta della lenza sul muricciuolo, sedeva e contemplava. A levante di lui, la guardia di finanza che allora chiamavano "il sedentario", accoccolata sull'umile molo dell'approdo davanti ad un altro sughero, pipava e contemplava. Pochi passi più in là, il vecchio allampanato Cüstant, imbianchino emerito, sagrestano e fabbriciere, patrizio del villaggio di Oria, seduto sulla poppa della sua barca con una sperticata tuba preistorica in testa, con la magica bacchetta in mano, con le gambe penzoloni sull'acqua, raccolta l'anima nel sughero suo proprio, contemplava. Seduto sull'orlo d'un campicello, all'ombra d'un gelso e d'un cappellone di paglia nera, il piccolo, magro, occhialuto don Brazzova, parroco di Albogasio, rispecchiato dall'acqua limpida, contemplava. In un orto di Albogasio Inferiore, fra le rive del Ceròn e la riva di Mandroeugn, un altro patrizio in giacchetta e scarponi, il fabbriciere Bignetta, detto el Signoron, duro e solenne sopra una sedia del settecento con la famosa bacchetta in mano, vigilava e contemplava. Sotto il fico di Cadate stava in contemplazione don Giuseppe Costabarbieri. A S. Mamette pendevano sull'acqua e contemplavano con grande attività il medico, lo speziale, il calzolaio. A Cressogno contemplava il florido cuoco della marchesa. In faccia a Oria, sull'ombrosa spiaggia deserta del Bisgnago, un dignitoso arciprete della bassa Lombardia usava passar ogni anno quaranta giorni di vita contemplativa. Contemplava solitario, vescovilmente, con tre bacchette ai piedi, i relativi tre pacifici sugheri, due con gli occhi e uno col naso. Chi passando per l'alto lago avesse potuto discernere tutte queste figure meditabonde, inclinate all'acqua, senza veder le bacchette né i fili né i sugheri, si sarebbe creduto nel soggiorno d'un romito popolo ascetico, schivo della terra, che guardasse il cielo giù nello specchio liquido, solo per maggiore comodità. In fatto tutti quegli ascetici pescavano alle tinche e nessun mistero dell'avvenire umano aveva per essi maggior importanza dei misteri cui arcanamente alludeva il piccolo sughero, quando, posseduto quasi da uno spirito, dava segni d'inquietudine sempre più viva e in fine di alienazione mentale; poiché, dati dei crolli, dei tratti ora avanti ora indietro, pigliava per ultimo, nella confusione delle sue idee, il partito disperato di entrar giù a capofitto nell'abisso. Questi fenomeni avvenivano però di rado e parecchi contemplatori solevano passare delle mezze giornate senza notar la menoma inquietudine nel sughero. Allora ciascuno, senza toglier gli occhi dal piccolo galleggiante, sapeva seguire un invisibile filo d'idee parallelo al filo della lenza. Così avveniva talvolta al buon arciprete di pescar mentalmente una sede episcopale; al Signoron di pescare un bosco ch'era stato dei suoi avi, al cuoco di pescare una certa tinca rosea e bionda della montagna, al Cüstant di pescare una commissione del Governo per dare il bianco al picco di Cressogno. Quanto al Carlascia, il suo secondo filo aveva generalmente un carattere politico. E questo si comprenderà meglio quando si sappia che anche il filo principale, quello della lenza, suscitava spesso nel suo torbido testone certe considerazioni politiche suggeritegli dal Commissario Zérboli. "Vede, caro Ricevitore", gli aveva detto una volta lo Zérboli ragionando a sproposito sul moto milanese del 6 febbraio, "Lei ch'è un pescatore di tinche può benissimo capire la cosa. La nostra grande monarchia pesca alla lenza. I due bocconi uniti sono la Lombardia e il Veneto, due bei bocconi tondi e solleticanti, con del buon ferro dentro. La nostra monarchia li ha buttati là davanti a sé, in faccia alla tana di quel pesciatello sciocco ch'è il Piemonte. Egli ha abboccato nel quarantotto il boccone Lombardia, ma poi ha potuto sputarlo e cavarsela. Milano è il nostro sughero. Quando Milano si muove vuol dire che c'è sotto il pesciatello. L'anno scorso il sughero s'è mosso un pochino; il caro pesciatello non aveva fatto che fiutare il boccone. Aspettate, verrà un movimento grande, noi daremo il colpo, ci sarà un poco di strepito e di sbatacchiamento e lo tireremo su, il nostro pesciatello, non ce lo lasceremo scappare più, quel porcellino bianco, rosso e verde!" Il Biancòn ci aveva fatto una gran risata e spesso, mettendosi a pescare, si ruminava, per il proprio innocente piacere, la graziosa similitudine, da cui gli nascevano per solito altri sottili e profondi pensamenti politici. Quella mattina il lago era quieto, propizio per le contemplazioni. Le prime alghe del fondo precipitoso si vedevan diritte, segno che non c'eran correnti. I bocconi, slanciati ben lontano, calarono lentamente a piombo, il filo si distese via via sotto il sughero che gli navigò dietro un poco indicando con spessi anellini i titillamenti dei piccoli cavedini e si mise quindi in pace, segno che i bocconi s'erano adagiati sul fondo e che i cavedini non li toccavan più. Il pescatore posò la bacchetta sul muricciuolo e si mise a pensare all'ingegnere Ribera. Il Biancòn aveva, a sua insaputa, una discreta dose di mansuetudine in un doppio fondo che Iddio gli aveva fatto nel cuore senza avvertirnelo. Il mondo del resto se ne poté accorgere nel 1859 quando il caro pesciatello si mangiò il boccone di Lombardia con l'amo e il filo e la bacchetta e il Commissario e tutto quanto; e il Biancòn, rassegnato, si mise a piantar cavoli nazionali e costituzionali a Precotto. Malgrado questa occulta mansuetudine, posando la bacchetta e pensando che si trattava di pescare quel povero vecchio ingegnere Ribera, egli provò una singolare compiacenza non nel cuore, non nel cervello né in alcuno dei soliti sensi, ma in un suo particolare senso, puramente I. e R. Davvero, egli non aveva coscienza di sé come di un organismo distinto dall'organismo governativo austriaco. Ricevitore di una piccola dogana di frontiera, si considerava una punta d'unghia in capo a un dito dello Stato; come agente di polizia poi, si considerava un occhiolino microscopico sotto l'unghia. La vita sua era quella della monarchia. Se i Russi le facevano il solletico sulla pelle della Galizia, egli ne sentiva il prurito a Oria. La grandezza, la potenza, la gloria dell'Austria gli ispiravano un orgoglio smisurato. Non ammetteva che il Brasile fosse più esteso dell'Impero Austriaco, né che la Cina fosse più popolata, né che l'Arcangelo Michele potesse prendere Peschiera, né che Domeneddio potesse prendere Verona. Il suo vero Iddio era l'Imperatore; rispettava quello del cielo come un alleato di quello di Vienna. Non gli era, dunque, mai entrato il sospetto che l'ingegnere in capo fosse un cattivo suddito. Le parole del Commissario, un vangelo per lui, ne lo persuasero addirittura; e l'idea di trovarsi a portata questo malfido servitore accendeva il suo zelo d'occhio regio e d'unghia imperiale. Si diede dell'asino per non averlo conosciuto prima. Oh ma era ancora in tempo di pescarlo bene: bene bene bene bene! "Lasci fare a me! Lasci fare a me, signor ..." Troncò la frase e afferrò la bacchetta. Il sughero aveva impresso nell'acqua un anello, dolcemente, muovendosi appena; indizio di tinca. Il Biancòn strinse forte la bacchetta tenendo il fiato. Altro tocco al sughero, altro anello più grosso; il sughero va pian piano sull'acqua, si ferma, il cuore del Biancòn batte a furia; il sughero cammina ancora per un piccol tratto, a fior d'acqua e sprofonda; zac! il Biancòn dà un colpo, la bacchetta si torce in arco tanto il filo è tirato da un peso occulto. "Peppina, el gh'è!", grida il Carlascia perdendo la testa, confondendo il sesso della tinca con quello dell'ingegnere in capo: "El guadèll, el guadèll". Il sedentario si volta invidioso: "Ghe l'ha, scior Recitòr?". Il Cüstant si cuoce dentro e non fa motto né volge la sua tuba. Ratì accorre e accorre anche la signora Peppina portando il "guadèll", una pertica lunga con una gran borsa di rete in capo, per imborsarvi la tinca nell'acqua, ché il tirarla su di peso col filo sarebbe un rischio disperato. Il Biancòn piglia il filo, lo raccoglie pian piano a sé. La tinca non si vede ancora ma deve esser grossa; il filo viene in su per un paio di braccia, poi è tirato furiosamente in giù; quindi torna a venire, viene, viene, e in fondo all'acqua, sotto il naso dei tre personaggi, balena un giallore, un'ombra mostruosa. "Oh la bella!", fa la signora Peppina sottovoce. Ratì esclama: "Madòne, madòne!", e il Biancòn non dice parola, tira e tira con cautela. È un bel pescione, corto, grosso, dal ventre giallo e dal dorso scuro che viene in su dal fondo quasi supino e per isghembo, con mala volontà. Le tre facce non gli piacciono perché volta loro di colpo la coda e sbattendola fa un'altra punta furiosa verso il fondo. Finalmente, spossato, segue il filo, arriva sotto il muro con la pancia dorata all'aria. La Peppina, rovescioni sul parapetto, stende giù quanto può la sua pertica per imborsar il malcapitato e non le riesce. "Per el müson!", grida suo marito. "Per la cua!", strilla Ratì. A quello strepito, alla vista di quel pauroso arnese, il pesce si dibatte, si tuffa; la Peppina si arrabatta invano, non trova il "müson", non trova la "cua"; il Biancòn tira, la tinca trascinata a galla si aggomitola e con una potente spaccata rompe il filo, strepita via tra la spuma. "Madòne!", esclama Ratì; la Peppina seguita a frugar l'acqua con la sua pertica; "dova l'è sto pèss? dova l'è sto pèss?", e il Biancòn che era rimasto petrificato col filo in mano, si volta furibondo, tira un calcio a Ratì, afferra sua moglie per le spalle, la scuote come un sacco di noci, la carica d'improperi. "L'è andada, scior Recitòr?", fa il sedentario, mellifluo. Il Cüstant volta un poco la tuba, guarda il luogo della catastrofe, torna alla contemplazione del suo pacifico sughero e brontola in tono di compatimento: "Minga pràtich!". Intanto la tinca ritorna alle native alghe profonde, malconcia ma libera come il suo simile, il Piemonte, dopo Novara; ed è dubbio se al povero ingegnere in capo toccherà la stessa fortuna.

Se non è vero che il tavolino abbia risposto prima di si e poi di no? Se non è vero di questi spiriti menzogneri? Si tolse dal parapetto e sali, a passi lenti, in casa. Trovò lo zio in cucina, seduto sotto la cappa del camino, con le molle in mano e col bicchiere di latte accanto. La Cia e la Leu cucinavano. "Dunque", disse lo zio, "sono andato alla Ricevitoria. Il Ricevitore è a letto con l'itterizia, ma ho parlato col Sedentario." "Di che cosa, zio?" "Di Lugano, della tua andata a Lugano il 25. Mi ha detto che chiuderà un occhio e che passerai." Luisa tacque, stette a guardar il fuoco meditabonda. Poi diede certi ordini alla Leu per l'indomani e pregò lo zio di venire in salotto con lei. "Cosa serve?", diss'egli con la solita semplicità. "Non avrai gran segreti. Stiamo qui che c'è il fuoco." La Cia accese il lume. "Usciremo noi", diss'ella. Lo zio fece la sua solita smorfia di compassione per le altrui sciocchezze ma tacque, bevve il suo bicchier di latte e lo porse silenziosamente a Luisa. Luisa prese il bicchiere e disse piano: "Non ho ancora deciso". "Cosa?", fece lo zio bruscamente. "Cosa non hai deciso?" "Se andrò all'Isola Bella." "Euh! Che diavolo?" Lo zio Piero non la poteva neanche intendere una cosa simile. "E perché non andresti?" Ella rispose con tranquillità, come se dicesse una cosa ovvia: "Ho paura di non poter lasciare Maria". "Ah senti!", fece lo zio. "Siediti là." Le additò il sedile in faccia, sotto la cappa del camino, lasciò le molle e disse con quella sua voce grave, onesta voce del cuore: "Cara Luisa, hai perso la bussola". E alzate le braccia con un "euh!" profondo, le lasciò ricadere sulle ginocchia. "Persa!", diss'egli. Stette un poco in silenzio, a capo chino, porgendo le labbra con un brontolio di parole in formazione, che poi uscirono. "Cose che non avrei mai creduto! Cose che paiono impossibili. Ma quando" (così dicendo rialzò il capo e guardò Luisa in faccia) "si comincia a perderla, la bussola, l'è fatta. E tu, cara, hai cominciato a perderla da un pezzo." Luisa trasalì. "Eh sì!", esclamò lo zio a gola piena. "Hai cominciato a perderla da un pezzo. Ed è questo che volevo dirti. Senti: mia madre ha perso dei figli, tua madre ha perso dei figli, ho visto tante madri perdere dei figli e nessuna faceva come te. Ci vuol altro, siamo tutti mortali e dobbiamo accettare la nostra condizione. Si rassegnavano. Ma tu, no. E questo cimitero! E queste due, tre, quattro visite al giorno! E questi fiori, e cosa so io, oh povero me! E anche queste scempiaggini che fai a Casarico con quell'altro povero imbecille, che voi credete farle in segreto e tutti ne parlano, persino la Cia! Oh povero me!" "No, zio", disse Luisa tristemente ma tranquillamente. "Non dir queste cose. Non puoi capire." "Siamo intesi", rispose lo zio con tutta l'ironia di cui era capace. "Non posso capire. Ma poi ce n'è un'altra. Tu non vai più in chiesa. Io non ti ho mai detto niente perché in queste cose il mio principio è stato sempre di lasciar fare a ciascuno quel che crede; ma quando ti vedo perdere, dirò così, il buon senso e anche il senso comune, non posso a meno di farti riflettere che se si voltano le spalle a Domeneddio, si fanno di questi guadagni. Adesso poi questa idea di non voler andare a vedere tuo marito, in circostanze simili, passa tutti i limiti." "Vuol dire", riprese dopo una breve pausa, "che ci andrò io." "Tu?", esclamò Luisa. "Perché no? Io, sì. Contavo di accompagnarti ma, se non vieni, andrò solo. Andrò a dire a tuo marito che hai perduto la testa e che spero di andar presto anch'io a trovar la povera Maria." Mai nessuno aveva udito dal labbro dello zio Piero una parola tanto amara. Fosse questo, fosse l'autorità dell'uomo, fosse il nome di Maria pronunciato così, Luisa fu vinta. "Andrò", diss'ella. "Ma tu devi restar qui." "Niente affatto", rispose lo zio contento. "Sono quarant'anni che non vedo le Isole. Approfitto dell'occasione. E chi sa che non mi arruoli in cavalleria, io?" "E così", disse la Cia a Luisa dopo che lo zio era andato a letto. "Vuol proprio partire anche il mio padrone? Cara lei, per amor del Cielo, non glielo permetta!" E le raccontò che due ore prima egli aveva stralunato gli occhi e piegata la testa sul petto; che chiamato da lei non aveva risposto; che poi si era riavuto e che alle premurose domande di lei era andato in collera protestando di non aver avuto male, di aver sentito solo un po' di sonno. Luisa l'ascoltava in piedi, col lume in mano, con gli occhi vitrei, divisa fra l'attenzione alle parole che udiva e qualche altro pensiero assai diverso, assai lontano, dallo zio, dalla casa, dalla Valsolda.

Adesso sono ancora una bestia di dir questo, metta ch'io non abbia detto, perché al posto Suo, tutt'altro! Dicevo al posto mio, Signore! Si sa! Dunque mi pareva, guardi che asino, che la nonna Le volesse un gran bene, che la roba del nonno finirebbe a ogni modo nelle Sue mani; e con quest'idea! ... Passa un po' di tempo, mi consiglio con la signora Teresa, le mostro lettera e testamento. Mi dice che avrei dovuto informar Lei subito, appena fatta la scoperta, ma che oramai, essendovi di mezzo, in qualche maniera, sua figlia, non mi vuol dare alcun consiglio. Del resto, dice ... Bene, questo non importa. Capisco insomma che il testamento le fa orrore anche a lei. Cosa vuole, io mi metto in testa che già la nonna finirà con accettare il matrimonio e non parlo. Stasera Lei mi dice che la nonna minaccia; si figuri! Adesso capisce che non ho potuto aspettare, che non ho potuto tenere un momento ancora queste carte; ecco, a Lei, le prenda!" Franco, assorto nei propri pensieri, non udì che queste ultime parole. "No", diss'egli, "non le prendo. Mi conosco. Se le ho in mano posso fare troppo presto qualche cosa di troppo grave. Le tenga Lei, per ora." Il Gilardoni non voleva saperne di tenerle, e Franco ebbe uno de' suoi scatti di impazienza. Niente gl'irritava i nervi, del resto, come gli sfoghi sconclusionati della gente di buon cuore e di cattiva testa. Si riscaldò perché il Gilardoni resisteva, gli fece intendere che quel volersi sbarazzare a ogni costo delle carte era egoismo bell'e buono e che quando si fanno degli spropositi bisogna subirne le conseguenze. Le parole furono presso a poco queste; la faccia irritata e dura diceva molto peggio. Il Gilardoni, rosso rosso, fremeva tutto per quell'accusa di egoismo, ma si contenne; e fatto anche lui un fiero cipiglio, ripetendo "bene bene bene bene", intascò frettolosamente le carte e uscì senz'altro. Subito Franco, per soddisfazione della propria coscienza, si mise a persuader se stesso che il signor Beniamino aveva tutti i torti possibili; torto di non avergli consegnato le carte molto prima, torto di essersi fatto pregare adesso per tenerle ancora, torto di essersi offeso. Sicuro di far la pace con lo sconclusionato filosofo, non pensò più a lui, spense il lume e, ritornato alla sua poltrona, ripiombò nelle riflessioni di prima. Adesso cominciava a vederci chiaro. Non poteva servirsi con dignità di quel testamento disonorante per la nonna nella forma e nella sostanza, nel sospetto che generava, considerata la lettera, di una soppressione delittuosa; poco onorevole anche per suo padre. No, mai. Conveniva dire al professore di bruciar tutto. Così, signora nonna, trionferò di te, facendoti grazia della roba e dell'onore senza curarmi di dirtelo! Assaporandosi questo proposito, Franco si sentì quasi alzar da terra, respirò a pieni polmoni, contento di sé come un principe, illuminato e pacificato nell'anima da un sentimento misto di generosità e d'orgoglio. Malgrado tutta la sua fede e le sue pratiche cristiane, egli era lontanissimo dal sospettare che un tale sentimento non fosse interamente buono e che una magnanimità meno conscia di se stessa sarebbe stata più nobile. Si lasciò cadere sulla spalliera della poltrona, disposto, meglio che prima nol fosse, al riposo, pensando tranquillamente alle cose lette, alle cose udite, come uno che per poco non si è lasciato prendere in una speculazione rischiosa e ne considera le angustie, i guai evitati per sempre. Avveniva pure in fondo all'anima sua un sommovimento di vecchie memorie. Gli tornò a mente la storia di un certo discorso fatto da una vecchia cameriera sulla ricchezza di casa Maironi che sarebbe stata rubata ai poveri . Egli era bambino, allora, e la donna non s'era fatto riguardo di parlare in presenza sua. Ma il bambino ne aveva riportato una impressione profonda, risvegliatagli più tardi, a mezza l'adolescenza, da un certo prete che gli avea raccontato in aria di segreto, con solennità e forse non senza intenzione, come la roba Maironi provenisse da una lite vinta, contro giustizia, all'Ospitale Maggiore di Milano. "Così per me", pensò Franco, "tutto è ritornato al diavolo." Gli venne in mente che potesse esser tardi, riaccese il lume e guardò l'orologio. Erano le tre e mezzo. Oramai gli sarebbe stato impossibile di riposare. Era troppo vicino il momento di ritrovarsi con Luisa, la sua immaginazione era troppo accesa. Ancora un'ora e mezzo! Egli guardava l'orologio tutti i momenti; questo benedetto tempo non passava mai. Prese un libro e non poté leggere. Aperse la finestra; l'aria era mite, il silenzio profondo, il lago chiaro verso il San Salvatore, il cielo stellato. A Oria si vedeva un lume. Il suo destino era forse di vivere colà, in casa dello zio. Si mise, guardando distrattamente il punto luminoso, a immaginar l'avvenire, fantasmi che sempre mutavano. Verso le quattro e mezzo udì un tocco di campanello al piano inferiore, e poco dopo, il Pinella venne ad avvertirlo a nome del padrone, che, se voleva far la salita del Boglia era tempo di mettersi in cammino. Il padrone aveva un gran dolor di capo e non poteva muoversi, né riceverlo. Franco cercò sulla scrivania un pezzo di carta e vi scrisse: "Parce mihi, domine, quia brixiensis sum" . Poi uscì, fu accompagnato dal Pinella col lume fino al sottoportico tenebroso dove mette capo la strada di Castello e scomparve. La marchesa Orsola suonò il campanello alle sei e mezzo e ordinò alla cameriera di portare il solito cioccolatte. Ne inghiottì una buona metà e poi domandò con tutta flemma a che ora don Franco fosse ritornato. "Non è ritornato, signora marchesa." Le viscere della vecchia dovettero turbarsi un poco, ma neppure un muscolo del suo viso si mosse. Ella posò le labbra sull'orlo della tazza di cioccolatte, guardò la cameriera e disse pacatamente: "Portatemi uno di quei biscottini di ieri." Verso le otto la cameriera ritornò per annunciarle che don Franco era venuto e non aveva fatto che salire in camera, pigliarvi il suo passaporto, ridiscendere e incaricare il cameriere di trovargli un barcaiuolo che lo conducesse a Lugano. La marchesa non fiatò, ma più tardi mandò ad avvertire il suo confidente Pasotti che lo aspettava. Pasotti capitò subito e si trattenne con lei una buona mezz'ora. La dama voleva assolutamente sapere dove e come suo nipote avesse passata la notte. Pasotti aveva già raccolte e poté offrire certe voci vaghe intorno a una visita notturna di don Franco in casa Rigey; ma si desideravano notizie esatte e sicure. Il sagace Tartufo, curioso per natura come un bracco che va fiutando tutte le puzze, ficcando il muso in tutti i buchi e strofinandolo a tutti i calzoni, promise di fornirle alla signora marchesa dentro un paio di giorni, e se ne andò con gli occhi scintillanti, fregandosi le mani nell'aspettazione di una piacevole caccia.

Franco tacque e il suo direttore, nel congedarlo, insistette: "Abbia prudenza! Non si lasci prendere!", ma non ebbe alcuna risposta. Dal momento in cui aveva ricevuto il telegramma, Franco aveva camminato su e giù per Torino come in sogno, senza udire il suono dei propri passi, senza coscienza di ciò che vedeva, di ciò che udiva, andando macchinalmente dove gli occorreva, in quella congiuntura, di andare, dove lo portava una facoltà inferiore e servile dell'anima, quel misto di ragione e d'istinto che ci sa guidare per il labirinto delle vie cittadine, mentre lo spirito nostro, fisso in un problema o in una passione, niente se ne cura. Vendette orologio e catena per centotrentacinque lire a un orologiaio di Doragrossa, comperò una bambola per Maria, passò dal caffè Alfieri e dal caffè Florio per far avvertire gli amici e, dovendo pigliar il treno delle undici e mezzo per Novara, fu alla stazione alle undici. Vi capitarono alle undici e un quarto il Padovano e l'Udinese. Essi cercarono di rincorarlo con ogni sorta di supposizioni rosee e di ragionamenti vani, ma egli non rispondeva parola, aspettava con una avidità immensa il momento di partire, di esser solo, di correre verso Oria, perché, qualunque ne fosse il pericolo, era ben deciso di andare a Oria. Entrò in una carrozza di terza classe e quando la locomotiva fischiò, quando il treno si scosse, mise un gran sospiro di sollievo, e si diede tutto al pensiero della sua Maria. Ma v'era troppa gente, troppo rozza e chiassosa gente intorno a lui. A Chivasso, non potendo resistere a quei discorsi, a quelle risate, passò in una carrozza vuota di seconda classe dove si mise a parlar solo, guardando il sedile di faccia. Dio, perché non mettere nel telegramma una parola di più? Oh, Signore, una parola sola! Il nome della malattia, almeno! Un nome orribile gli attraversò la mente: croup. Stese le braccia avanti, contro il fantasma, in uno stiramento convulso, aspirando aria con tutta la forza sua e le lasciò ricader con un soffio che parve vuotargli il petto d'anima e di vita. Perché doveva trattarsi di un male subitaneo, altrimenti Luisa avrebbe scritto. Altro lampo nella mente: congestione cerebrale? Egli stesso, da bambino, era stato a morte per una congestione cerebrale. Signore, Signore, questa era una luce buona. Era Dio che gliela mandava! Fu preso da singhiozzi nervosi, senza lagrime. Maria, tesoro, amore, gioia! Doveva esser questo, sì. La vide ansante, accesa, vegliata dal medico e dalla mamma, immaginò in un minuto lunghe lunghe ore al suo capezzale, lunghe angoscie, il rinascer della speranza, il primo sussurro della dolce voce: "Papà mio". Si alzò in piedi, giunse e strinse le mani in uno sforzo muto di preghiera. Poi ricadde a seder esausto, volse gli occhi senza sguardo alla campagna fuggente, sentendo quasi un legame fra le grandi Alpi velate, ferme all'orizzonte di settentrione e il pensiero dominante, fermo, assopito, nell'anima sua. Ogni tanto lo strepito del treno lo toglieva dal suo torpore suggerendogli l'idea di una corsa angosciosa, richiamando il suo cuore a correre, a batter così. Egli chiudeva poi gli occhi per vedersi meglio arrivare a casa. Subito gli venivan immagini su dal cuore alle palpebre, ma si muovevano, mutavano continuamente, non poteva arrestarle più d'un momento. Era Luisa che gli correva incontro sulle scale, era lo zio che gli stendeva le braccia sull'entrata della sala, era il dottor Aliprandi che gli apriva l'uscio dell'alcova e gli diceva "bene bene", era, nella camera buia, un moto di ombre silenziose, era Maria che lo guardava con gli occhi lucidi di febbre. A Vercelli, parendogli già essere a mille miglia da Torino, l'impero della realtà lo riprese. Quando sarebbe a Lugano, come, per qual via andrebbe a Oria? Scopertamente, per il lago, facendosi vedere alla Ricevitoria? E se non lo lasciassero passare perché non aveva sul passaporto il visto dell'uscita, o se, peggio, vi fosse un ordine di arresto per quest'affare del medico di Pellio? Meglio prendere la montagna. Poteva venire arrestato dopo, ma con la pratica dei luoghi che aveva fatto prima del 1848, cacciando, era quasi sicuro di arrivare a casa. Questo faticoso lavoro di fare e disfare piani lo distrasse alquanto, gli tenne occupata la mente sin oltre Arona, sul battello del Lago Maggiore. Aveva fatto il conto di arrivare a Lugano nel cuore della notte. Se vi fosse qualcuno ad aspettarlo? Se non v'era nessuno, poteva darsi che alla farmacia Fontana, dove andavano molte valsoldesi, si sapesse qualche cosa. Se Iddio volesse fargli trovare a Lugano notizie rassicuranti potrebbe rimettere all'indomani ogni decisione circa l'andata a Oria. Prese dunque il partito di non far progetti sino a Lugano e pregò fervorosamente Iddio che gli facesse trovare queste buone notizie. Il cielo era coperto, le montagne avevano già una tinta autunnale triste, il lago era leggermente nebbioso, le campane di Meina suonavano; sul vapore non c'era quasi nessuno e la preghiera di Franco gli morì nel cuore sotto una tristezza pesante, gli occhi suoi si smarrirono dietro uno stormo di gabbiani bianchi che volavan lontano verso le acque di Laveno, verso il paese nascosto dov'era l'anima sua. Arrivò a Magadino dopo le sette, fece il monte Ceneri a piedi, per il sentiero che mette alla Cantoniera, prese una vettura a Bironico e arrivò a Lugano dopo la mezzanotte. Discese in piazza presso il caffè Terreni. Il caffè era chiuso, la piazza deserta, scura; tutto taceva, anche il lago di cui s'intravedeva un palpitar lento nell'ombra. Franco si fermò un momento sulla riva con la speranza che qualcheduno fosse venuto ad aspettarlo e comparisse da qualche parte. Non poteva veder la Valsolda nascosta dietro il monte Brè; ma quella era l'acqua stessa che rispecchiava Oria, che dormiva nella darsena della sua casa. Gli si allargò un poco il cuore in un sentimento di pace, gli parve essere ritornato tra familiari suoi. Tacendo ogni voce umana, gli parlavano le grandi montagne oscure, sopra tutte il monte Caprino e la Zocca d'i Ment che vedevano Oria. Gli parlavano dolcemente, gli suggerivano un presentimento buono. Diciannove ore eran passate dalla data del telegramma; il male poteva esser vinto. Non comparendo nessuno, si avviò alla farmacia Fontana, suonò il campanello. Egli conosceva da molti anni quell'ottimo, cordiale galantuomo del signor Carlo Fontana, passato anche lui col mondo antico. Il signor Carlo venne alla finestra e si meravigliò molto di vedere don Franco. Non aveva alcuna notizia della Valsolda, era stato due giorni a Tesserete, n'era ritornato da poche ore, non sapeva niente. Il suo assistente, il signor Benedetto, era partito anche lui da poche ore, per Bellinzona. Franco ringraziò e si avviò verso Villa Ciani, risoluto di andare subito ad Oria. Poteva scegliere fra due vie: o salire da Pregassona il versante svizzero del Boglia, toccar l'Alpe della Bolla, attraversare il Pian Biscagno e il gran bosco dei faggi, uscirne sul ciglio del versante lombardo, al faggio della Madonnina, calare ad Albogasio Superiore e Oria; o prendere la comoda via di Gandria verso il lago, e poi il sentiero malvagio e rischioso che da Gandria, ultimo villaggio svizzero, taglia la costa ertissima, passa il confine a un centinaio di metri sopra il lago, porta alla cascina di Origa, cala nei burroni della Val Malghera e ne risale alla cascina di Rooch, vi trova la stradicciuola selciata che passa sopra il Niscioree e discende a Oria. La prima via era assai più lunga e faticosa ma in compenso migliore per eludere al confine la vigilanza delle guardie. Partendo dalla farmacia Fontana, Franco decise di appigliarsi a quella. Ma quando fu a Cassarago, dove mettono la strada di Pregassona a quella di Gandria, quando vide la punta di Castagnola così vicina e pensò che da Castagnola si va a Gandria in meno di mezz'ora, che da Gandria si può andare a Oria in un'ora e mezza, l'idea di salire il Boglia, di camminare sette od otto ore gli divenne intollerabile. Salendo il Boglia sarebbe poi anche arrivato di giorno; questo era, per la sicurezza, uno scapito grande. Prese risolutamente la via di Castagnola e Gandria. Il cielo era tutto coperto di nuvole pesanti. Sotto i grandi castani ove passava il sentiero di Castagnola, non si sapeva dove mettere il piede; ma che sarebbe poi stato nel gran bosco del Boglia, se Franco avesse presa quella via? Così fu dentro Castagnola e peggio di così nel labirinto delle viuzze di Gandria. Dopo averle fatte e rifatte più volte, sbagliando, Franco riuscì finalmente sul sentiero del confine e si fermò a riposare. Sul punto di cimentarsi nel fitto delle tenebre ai pericoli di un sentiero difficile, di un incontro con le guardie austriache, per giungere poi a quell'altro pauroso passo dell'entrar in casa, del far la prima domanda, dell'udir la prima risposta, alzò la mente a Dio, raccolse tutti i suoi pensieri in un proposito di fortezza e di calma. Si ripose in cammino. Gli occorreva ora dare tutta la sua attenzione al sentiero per non smarrirlo, per non precipitare. I campicelli di Gandria finiscono presto. Poi vengono fratte folte, pendenti sopra il lago, valloncelli franosi, mascherati dal bosco, che ruinano diritti al basso. In quei passaggi bui Franco era costretto di menar le braccia alla cieca per abbrancar un ramo, poi un altro, cacciar il viso nel fogliame che almeno aveva l'odore della Valsolda, trascinarsi di pianta in pianta, tastar coi piedi il suolo, non senza terrori di sprofondare, cercar le tracce del sentiero. Il suo fardello era piccino ma pure gli dava impaccio. E gli dava noia quello stormir delle frasche al suo passaggio; gli pareva che dovesse udirsi lontano, sui monti e sul lago, nel silenzio religioso della notte. Allora si fermava e stava in ascolto. Non udiva che il remoto rombo della cascata di Rescia, qualche lungo ululato di allocchi nei boschi di là del lago e talvolta giù nel profondo, sull'acqua, un secco tocco, Dio sa di che. Non impiegò meno di un'ora per arrivare al confine. Là, fra la valle del Confine e la Val Malghera, il bosco era stato tagliato di recente, il pendio sassoso era nudo, maggiore perciò il pericolo di precipitare, maggiore il pericolo di venire scoperto. Attraversò quel tratto pian piano, fermandosi spesso, mettendosi carponi. Prima di arrivare a Origa udì, giù abbasso, un rumor lieve di remi. Sapeva che la barca delle guardie passava qualche volta la notte alla riva di Val Malghera. Eran le guardie, certo. Sotto i castagni di Origa respirò. Là era coperto e camminava sull'erba, senza rumore. Scese la costa occidentale di Val Malghera e risalì dall'altra parte senza intoppi. Nell'avvicinarsi a Rooch il cuore gli martellava a furia. Rooch è come un avamposto di Oria. Ivi mette capo la stradicciuola ch'egli aveva salita tante volte con Luisa nei tepidi pomeriggi invernali, cogliendo violette e foglie d'alloro, discorrendo dell'avvenire. Si ricordò che l'ultima volta avevano avuto una piccola disputa sullo sposo desiderabile per Maria, sulle qualità che dovrebbe avere. Franco avrebbe preferito un agricoltore e Luisa un ingegnere meccanico. Rooch è una cascina posta a ridosso di pochi campicelli scaglionati sul monte che fanno una chiara piccola macchia nella boscaglia. Una stanza sopra, la stalla sotto, un portichetto davanti alla stalla, una cisterna nel portichetto; non c'è altro. Il portichetto s'affaccia sulla viottola ciottolata che passa da due a tre metri più basso. Dal ciglio del burrone di Val Malghera a Rooch ci son pochi passi. Salito sul ciglio, Franco udì qualcuno parlare sommessamente nella cascina. Sostò e, fattosi da banda, si stese bocconi sull'erba fuori del sentiero, lungo un cespuglietto di castagni. Non udì più parlare, ma udì venire un rapido passo d'uomo e stette immobile, trattenendo il respiro. L'uomo si fermò quasi accanto a lui, aspettò un poco, poi ritornò indietro adagio e disse ad alta voce, con accento forestiero: "Non c'è niente. Sarà stata una volpe". Le guardie. Seguì un lungo silenzio durante il quale non osò muoversi. Le guardie ricominciarono a discorrere ed egli si propose d'indietreggiare senza far rumore, di calarsi da capo in Val Malghera per girare dietro la cascina, in alto. Si levò adagio adagio le scarpe. Stava per muoversi quando udì le guardie, tre o quattro, uscire dalla cascina discorrendo e venire verso di lui. Ne intese una dire: "Non resta qui nessuno?", e un'altra rispondere: "È inutile". Quattro guardie gli passarono accanto una dopo l'altra senza vederlo. Non avevan sospetti perché discorrevano di cose indifferenti. Uno diceva che si può restare sott'acqua dieci minuti senz'affogare, un altro ribatteva che dopo cinque minuti bisogna morire. La quarta passò in silenzio ma, appena passata, si fermò; Franco rabbrividì udendola fregar un fiammifero. Quegli accese la pipa, tirò due o tre boccate di fumo, e poi domandò ai compagni, alquanto forte perché s'eran già dilungati, scendevan la costa di Val Malghera. "Quanti anni aveva?" Uno di coloro rispose, pure forte: "Tre anni e un mese". Allora la quarta guardia tirò altre due boccate di fumo e si rimise in cammino. Franco, che stava bocconi, all'udir "tre anni e un mese", l'età di Maria, si alzò sulle braccia stringendo l'erba convulsivamente. Il rumor dei passi si perdeva già in Val Malghera. "Dio, Dio, Dio, Dio!", diss'egli. Si rizzò ginocchioni, ripeté lentamente dentro a sé, come istupidito, la parola terribile: "aveva". Si torse le mani, gemette ancora: "Dio, Dio, Dio, Dio!". Di quel che fece in seguito non ebbe quasi coscienza. Scese a Oria con la sensazione vaga d'esser diventato sordo, con un gran tremito nel braccio che portava la bambola. Arrivò alla Madonna del Romìt, attraversò il paese e invece di scendere per la scalinata del Pomodoro continuò diritto per il sentiero che raggiunge la scorciatoia di Albogasio Superiore, discese per la stessa scaletta che aveva presa la Pasotti il giorno prima della catastrofe. Vide sulla faccia della chiesa un chiaror debole che usciva dalla finestra dell'alcova, non si fermò sotto la finestra illuminata, non chiamò, entrò nel sottoportico e spinse l'uscio. Era aperto. Entrò dal fresco della notte in un'afa pesante, in un odore strano di aceto bruciato e d'incenso. Si trascinò a stento su per le scale. Davanti a lui, sul pianerottolo a mezza scala, veniva lume dall'alto. Giunto là vide che la luce usciva dalla camera dell'alcova. Salì ancora, mise il piede sul corridoio. L'uscio della camera era spalancato; molti lumi dovevano arder là dentro. Sentì, con l'odor d'incenso, odor di fiori, fu preso da un tremito violento, non poté avanzare. Dalla parte della cucina si udiva qualcuno dormire, dalla parte dell'alcova non si udiva niente. A un tratto la voce di Luisa parlò, tenera, quieta: "Vuoi che venga anch'io, domani, dove vai tu, Maria? La vuoi la tua mamma, in terra con te?". "Luisa! Luisa!", singhiozzò Franco. Si trovarono nelle braccia l'uno dell'altro, sulla soglia della loro camera nuziale che aveva la memoria degli amori ancor viva e il dolce lor frutto, morto. "Vieni, caro, vieni vieni", diss'ella e lo trasse dentro. Nel mezzo della camera, fra quattro ceri accesi, giaceva nella bara aperta, sotto un cumulo di fiori recisi e languenti come lei, la povera Maria. Erano rose, vainiglie, gelsomini, begonie, gerani, verbene, frondi fiorite di olea fragrans , e altre frondi non fiorite, egualmente scure, egualmente lucenti: le frondi del carrubo già tanto caro a lei perché tanto caro al suo papà. Fiori e frondi erano sparsi anche sul viso. Franco s'inginocchiò singhiozzando: "Dio, Dio, Dio!", mentre Luisa prese due roselline, le pose in una manina di Maria e poi la baciò sulla fronte. "Tu puoi baciarla sui capelli", diss'ella. "Sul viso no. Il dottore non vuole." "Ma tu? Ma tu?" "Oh, per me è un'altra cosa." Egli posò invece le labbra sulle labbra gelide che trasparivano tra le foglie di carrubo e fiori di geranio. Ve le posò lievemente, come per un addio tenero, non disperato, alla veste caduta e vuota della diletta creatura sua partita per altra dimora. "Maria, Maria mia", sussurrò fra i singhiozzi, "che cosa è stato?" Egli non aveva inteso affatto che il primo discorso delle guardie sugli annegati avesse un nesso col secondo. "Non lo sai?", gli chiese la moglie senza sorpresa, pacatamente. Gliel'avevano detto com'era stato telegrafato; ma ella sapeva pure che Ismaele doveva recarsi a Lugano per incontrarvi Franco e ignorava che Ismaele, arrivata la posta dal Ceneri senza nessuno, era andato a dormire. "Povero Franco!", diss'ella baciandolo sul capo, quasi maternamente. "Non c'è mica stata malattia." Egli si rizzò in piedi, esclamò atterrito: "Come? Non c'è stata malattia?" La persona che Franco aveva udito dormire, la Leu, entrò in quel momento per far suffumigi, vide Franco, rimase sbalordita. "Va'", le disse Luisa, "posa il fuoco lì fuori, mettici quel che vuoi e poi va in cucina, dormi, povera Leu." Quella obbedì. "Non c'è stata malattia?", ripeté Franco. "Vieni", gli rispose sua moglie, "ti racconterò tutto." Lo fece sedere sulla dormeuse, a piè del letto matrimoniale. Egli la voleva accanto a sé. Ella gli fe' segno di no, di non insistere, di tacere, d'aspettare, e sedette a terra presso la sua creatura, incominciò il racconto doloroso con voce piana, eguale, indifferente, quasi, al dramma che diceva, con una voce simile a quella della sorda Pasotti, che pareva venire da un mondo lontano. Prese le mosse dall'incontro con la Bianconi in Campò e disse, sempre con la stessa calma, tutti i pensieri, tutti i sentimenti che l'avevan portata ad affrontare la nonna, disse i fatti sino al momento in cui s'era convinta che Maria non aveva più vita. Quand'ebbe finito s'inginocchiò a baciar la sua morta e le sussurrò: "Il tuo papà ha in mente che t'ho uccisa io, adesso, ma non è vero, sai, non è vero". Egli si alzò, tutto vibrante di una commozione senza nome, si chinò sopra di lei, la raccolse da terra, non renitente né abbandonantesi, con mani risolute e riguardose, se la collocò vicina sulla dormeuse, le cinse con un braccio le spalle, la strinse a sé, le parlò sui capelli, bagnandoli di poche lagrime ardenti che a quando a quando gli rompevan la voce: "Povera Luisa mia, no, non l'hai uccisa tu. Come vuoi che io pensi questa cosa? Oh, no, cara, no. Io ti benedico, invece, per tutto che hai fatto per lei da quando è nata. Io che non ho fatto niente, ti benedico, te che hai fatto tanto. Non dir più, non dir più quella cosa! La nostra Maria ..." Un violento singhiozzo gli ruppe le parole, ma subito l'uomo, con forte volere, si vinse, continuò: "Non sai cosa dice la nostra Maria in questo momento? Dice: mamma mia, papà mio, adesso siete soli, ciascuno di voi non ha che l'altro, siate uniti più che mai, donatemi a Dio perché mi ridoni a voi, perché io sia il vostro angelo e vi conduca un giorno a Lui e stiamo insieme per sempre. La senti, Luisa, che dice così?". Ella fremeva nelle sue braccia, scossa da sussulti violenti, col viso basso, resistendo a Franco che glielo voleva alzare. Finalmente gli prese in silenzio una mano e gliela baciò. Egli pure, allora, la baciò sui capelli. Poi gli sussurrò: "Rispondimi". "Tu sei buono", rispose Luisa con voce accorata e debole, "tu hai pietà di me ma non pensi quello che tu dici. Tu devi pensare che la causa della sua morte sono io, che se avessi seguito i tuoi sentimenti, le tue idee, non sarei uscita di casa, e se non uscivo di casa non succedeva niente, Maria sarebbe viva." "Lascia star questo, lascia star questo. Tu potevi credere che Maria fosse in camera o con la Veronica, tu potevi rimanere in sala con gli sposi e la disgrazia sarebbe successa ugualmente. Non pensar più a questo, Luisa. Ascolta invece quello che ti dice Maria." "Povero Franco! Poveretto, poveretto!", disse Luisa, con un'amarezza di sottintesi paurosi, da far gelare il sangue. Franco tacque, tremando, non valendo a immaginare cosa ella pensasse, eppure temendo udirlo. Si sciolsero lentamente dalla loro stretta, Luisa per la prima. Ella riprese però la mano di suo marito, volle accostarsela da capo alle labbra. Franco trasse teneramente a sé quella di lei, tentò un'ultima parola: "Perché non mi vuoi rispondere?" "Ti farei troppo male", diss'ella, sottovoce. Egli ebbe il senso di una irreparabile rovina nell'anima di lei e tacque. Non ritirò la mano ma si sentì mancare ogni forza, invader da uno scuro, da un gelo, come se Maria, chiamata inutilmente, fosse morta una seconda volta. L'angoscia, la stanchezza, l'afa, i misti odori della camera poterono tanto sopra di esso che dovette uscire per non venir meno. Andò in loggia. Le finestre erano aperte; l'aria pura, fresca, lo rianimò. Pianse, al buio, la sua figliuola, senza ritegno, senza nemmeno quel ritegno che vien dalla luce. S'inginocchiò ad una finestra, s'incrociò le braccia sul petto, pianse, col viso al cielo, lagrime e parole a flutti, parole incomposte di strazio e di fede ardente, chiamando Dio in aiuto, Dio, Dio che lo aveva colpito. E glielo disse, a Dio, con la piena delle lagrime, che gli permettesse di piangere ma che sapeva bene perché la bambina era morta. Non aveva egli tanto pregato che il Signore la salvasse dal pericolo di perdere la fede stando con sua madre? Ah quella sera, quella ultima sera che Maria gli aveva detto "papà mio, un bacio" e tante altre tenerezze e non voleva lasciar la sua mano, come come aveva pregato! Era un terrore, una gioia, uno spasimo di ricordarlo. "Signore, Signore", diss'egli verso il cielo, "Tu tacevi e mi ascoltavi, Tu mi hai esaudito secondo le tue vie misteriose, Tu hai preso il mio tesoro con Te, ella è sicura, ella gode, ella mi aspetta, Tu ne congiungerai!" Non fu amaro il dirotto pianto in cui le parole morirono. Ma dopo, pensando ancora quest'ultima sera, gli fu amarissimo di esser partito senza dirlo a Maria, di averla ingannata. "Maria, Maria mia", supplicò piangendo, "perdonami!" Dio, come gli pareva impossibile che tutto questo fosse vero, come gli pareva di andar nell'alcova, di doverla trovar là, dormente nel suo lettino, con la testa piegata sulle spalle e le manine aperte abbandonate sulle lenzuola, con le palme in su! E invece vi era, sì, ma! ... Oh che cosa! non poteva, non poteva essere fine al pianto. Venne la Leu col lume e gli portò il caffè. L'aveva mandata la signora. Egli ebbe un movimento di tenera gratitudine per sua moglie. Dio, povera Luisa, che infelicità nera la sua! E quali spaventose apparenze di castigo per lei nel colpo che le piombava sopra in quel momento, proprio in quel momento! Lo aveva ben compreso, lei, ch'egli doveva pensar così e lo pensava davvero e aveva negato per pietà, sì, per pietà com'ella aveva inteso pure. E queste spaventose apparenze di castigo non frutterebbero dunque niente? Ella si separava da Dio più che mai, chi sa fino a qual punto. Povera, povera Luisa! Non era da pregar per Maria, Maria non ne aveva bisogno, era da pregar per Luisa, da pregar dì e notte, da sperar nelle preghiere dell'animetta cara, nascosta in Dio. Egli parlò con la Leu, abbastanza calmo, si fece raccontar da lei tutto che aveva veduto, tutto che aveva udito della cosa terribile. "La voreva propi el Signor la Soa tosetta", disse la Leu per ultimo. "Bisoeugnava vedèlla in gièsa, cont i so manitt in crôs cont el so bel faccin seri. La somejava on angiol tal e qual! Propi." Poi domandò a Franco se desiderasse tener il lume. No, preferiva star allo scuro. E il funerale, a che ora si farebbe? La Leu credeva che si farebbe alle otto. La Leu, quando cominciava a discorrere, non smetteva facilmente e forse aveva anche paura di starsene soletta in cucina: "El so papà!", diss'ella ancora prima di andarsene. "El so car papà! L'è forsi minga vott dì che son vegnüda chì a portagh di castegn a la sciora e sta cara tosetta, che la parlava inscì polito, propi come on avocàt, la fa: "Sai, Leu, presto il mio papà viene a Lugano e io vado a trovarlo". Ciào, l'è ona gran roba!" Lagrime e lagrime. Ah Iddio aveva preso la bambina per toglierla agli errori del mondo, Iddio aveva punito Luisa degli errori suoi ma non era disegnato l'orribile castigo anche per lui? Non aveva egli colpe? Oh sì, quante, quante! Ebbe la chiara visione di tutta la propria vita miseramente vuota di opere, piena di vanità, mal rispondente alle credenze che professava, tale da renderlo responsabile dell'irreligiosità di Luisa. Il mondo lo giudicava buono per le qualità di cui non aveva merito alcuno, essendo nato con esse; tanto più severo sentiva sopra di sé il giudizio di Dio che molto gli aveva dato e frutto non ne aveva colto. S'inginocchiò da capo, si umiliò sotto il castigo, nella desolata contrizione del cuore, nell'ardor di espiare, di purificarsi, di farsi degno che Iddio lo ricongiungesse con Maria. Pregò e pianse a lungo a lungo, poi uscì sulla terrazza. Il cielo imbiancava sopra la Galbiga e le montagne del lago di Como; veniva giorno. Dal nero Boglia imminente soffiavano le tramontane fredde. Da vicino e da lontano, a riva di lago e nell'alto grembo della valle, si levaron suoni di campane. L'idea che Maria e la nonna Teresa erano insieme, felici, salì al cuore di Franco spontanea, chiara e soave. Gli parve che il Signore gli dicesse: ti addoloro ma ti amo, aspetta, confida, saprai. Le campane suonavano da vicino e da lontano, a riva di lago e nell'alto grembo della valle, il cielo diventava più e più bianco sopra la Galbiga, verso il lago di Como, lungo l'erto profilo nero del Picco di Cressogno; e le distese dell'acqua piana prendevano laggiù in levante, fra le grandi ombre dei monti, un chiaror di perla. Le frondi della passiflora, tocche dalle tramontane, ondulavano silenziosamente sopra il capo di Franco, agitate dall'aspettazione della luce, della gloria immensa che scendeva in oriente colorando di sé nuvoli e sereno, salutata dalle campane. Vivere, vivere, operare, soffrire, adorare, ascendere! La luce voleva questo. Portarsi via i vivi tra le braccia, portarsi via i morti nel cuore, ritornare a Torino, servir l'Italia, morir per lei! Il nuovo giorno voleva questo. Italia, Italia, madre cara! Franco giunse le mani in uno slancio di desiderio. Anche Luisa udì le campane. Non avrebbe voluto udirle, non avrebbe voluto che venisse giorno mai più, che venisse l'ora di ceder Maria alla terra. Inginocchiata presso il corpicino della sua creatura le promise che ogni giorno, finché avesse vita, sarebbe venuta a parlarle, a portarle fiori, a tenerle compagnia, mattina e sera. Poi sedette, affondò nei pensieri cupi che non aveva voluto dire al marito, cresciuti e maturati in lei nel corso di ventiquattr'ore come una maligna infezione assorbita da lungo tempo, rimasta inerte per lungo tempo, colta, un dato momento, dalla corrente del sangue, divampata con fulminea violenza. Tutte le sue idee religiose, la sua fede nell'esistenza di Dio, il suo scetticismo circa la immortalità dell'anima tendevano a capovolgersi. Ella era convinta di non essere affatto in colpa della morte di Maria. Se realmente esisteva una Intelligenza, una Volontà, una Forza padrona degli uomini e delle cose, la mostruosa colpa era sua. Questa Intelligenza aveva freddamente disegnato la visita della Pasotti e il suo dono, aveva allontanato da Maria le persone che potevano custodirla in assenza della madre, l'aveva tratta senza difesa nelle sue insidie feroci, e uccisa. Questa Forza aveva fermato lei, la madre, proprio nel momento in cui stava per compiere un atto di giustizia. Stupida lei che aveva prima creduto nella Giustizia Divina! Non v'era Giustizia Divina, vi era invece l'altare alleato del Trono, il Dio austriaco, socio di tutte le ingiustizie, di tutte le prepotenze, autore del dolore e del male, uccisore degl'innocenti e protettore degl'iniqui. Ah s'egli esisteva, meglio che Maria fosse tutta lì, in quel corpo, meglio che nessuna parte di lei cadesse, sopravvissuta, nelle mani della sua Onnipotenza malvagia! Ma era possibile dubitare che quest'orribile Iddio esistesse. E se non esistesse si potrebbe desiderare che una parte dell'essere umano continuasse a vivere, non miracolosamente, ma naturalmente, oltre la tomba. Ciò era forse più facile a concepire, che la esistenza di un tiranno invisibile, di un Creatore feroce contro le proprie creature. Meglio la signoria della Natura senza Dio, meglio un padrone cieco ma non nemico, non deliberatamente cattivo. Certo non bisognava pensare più in alcun modo né inquesta vita né in una vita futura, se vi fosse, al fantasma vano, Giustizia. La fioca luce dell'alba si mesceva a' suoi pensieri come a quelli di Franco, solenne e consolante per lui, odiosa per lei. Egli, cristiano, pensava una insurrezione di collera e d'armi contro fratelli in Cristo per l'amore di un punto sopra un minimo astro dei cieli; ella pensava una ribellione immensa, una liberazione dell'Universo. Il pensiero di lei poteva parere più grande, l'intelletto di lei poteva parere più forte; ma Colui che meglio è conosciuto dalle generazioni umane quanto più ascendono nella civiltà e nella scienza; Colui che consente venire onorato da ciascuna generazione secondo il poter suo e che gradatamente trasforma ed alza gl'ideali dei popoli, servendosi per il governo della terra, nel tempo opportuno, anche degl'ideali inferiori e perituri; Colui ch'essendo la Pace e la Vita sofferse venir chiamato il Dio degli eserciti, aveva impresso il segno del Suo giudizio sul viso della donna e sul viso dell'uomo. Mentre l'alba si accendeva in aurora, la fronte di Franco venivasi irradiando di una luce interiore, gli occhi suoi ardevano, fra le lagrime, di vigor vitale: la fronte di Luisa sempre più si oscurava, le tenebre salivano in fondo a' suoi occhi spenti. Al levar del sole una barca comparve alla punta della Caravina. Era l'avvocato V. che veniva da Varenna alla chiamata di Luisa.

La marchesa si capisce che abbia delle difficoltà, ma poi è buona, gli vuole un gran bene. Ha preso una paura, l'altra notte, povera donna!" Guardò il professore che taceva inquieto, accigliato, e pensò: non parli? allora sai. "Capisce!", riprese. "Non dire dove si va! Non Le pare?" "Ma io non so niente, io non capisco niente!", esclamò il Gilardoni, sempre più accigliato, sempre più inquieto. Qui Pasotti sapendo che il professore aveva cessato da lungo tempo di visitare le Rigey e ignorandone la cagione, arrischiò un passo avanti, da bargnìf novizio. "Bisognerebbe domandarne a Castello", diss'egli con un sorriso malignetto. A questo punto il Gilardoni, che già bolliva, traboccò. "Mi faccia il piacere", diss'egli impetuosamente, "lasciamo stare questo discorso, lasciamo stare questo discorso!" Pasotti si rabbuiò. Cerimonioso, adulatore, sdolcinato, non era però mai disposto, nell'orgoglio suo, a prendersi pacificamente in faccia una parola spiacevole, e s'impermaliva d'ogni ombra. Non parlò più, e passato un paio di minuti prese congedo con dignitosa freddezza, si ritirò masticando rabbia attraverso le barbabietole e le rape. Quando si trovò da capo nella contrada dei Mal'ari, il bargnìf stette un pezzetto a pensare col mento in mano, poi si avviò verso la riva di Casarico, a passi lenti, molto curvo, ma con gli occhi brillanti del barbone che ha fiutato in aria l'indirizzo recondito di un tartufo. Le spaventate difese di don Giuseppe, le difese ostinate della Maria, l'imbarazzo e lo scatto del professore gli dicevano che il tartufo c'era e grosso. Gli era venuta l'idea di andare a Loggio dove abitavano il Paolino e il Paolon, gente bene informata; poi aveva pensato ch'era martedì e che probabilmente non li avrebbe trovati. No, era meglio salir direttamente da Casarico a Castello, fiutare e frugare nell'abitazione di certa signora Cecca, ottima donna, tutta cuore, famosa per l'assidua vigilanza che esercitava dalle sue finestre, per mezzo di un formidabile cannocchiale, sulla Valsolda intiera. Ella poteva dire ogni giorno chi fosse andato a Lugano col barcaiuolo Pin o col barcaiuolo Panighèt, notava i colloqui del povero Pinella con una certa Mochèt sul sagrato di Albogasio, lontano un chilometro; sapeva in quanti giorni il signor ingegnere Ribera avesse bevuto il bariletto di vino che la sua barca riportava vuoto dalla casa d'Oria alla cantina di S. Margherita. Se Franco era stato in casa Rigey, la signora Cecca doveva saperlo. Nel sottoportico che da Casarico mette alla stradicciuola di Castello, Pasotti si sentì venir dietro a precipizio qualcuno che gli passò accanto nel buio, e credette di conoscere un tale detto "légora fügada (lepre cacciata)" per la sua andatura sempre furiosa. Era costui un egregio galantuomo ancora più curioso di Pasotti, un'ottima persona che amava di saper le cose semplicemente per saperle, senz'altri fini, e andava sempre solo, si trovava dappertutto, compariva e scompariva in un baleno, quando in un luogo quando nell'altro, come certi insettoni alati che danno un guizzo, un frullo, un colpo e poi, zitti, non si odono, non si vedono più sino a un altro guizzo, a un altro frullo, a un altro colpo. Egli aveva scorti i Pasotti entrare al "Palazz" e si era insospettito di qualche cosa per l'ora insolita. Appiattato in un campicello aveva visto la signora Barborin ritornare e il Controllore avviarsi a Casarico, quindi, seguito costui alla lontana, s'era appostato, durante la sua visita al Gilardoni, dietro un pilastro del portico di Casarico; e ora gli era scivolato accanto approfittando dell'oscurità per correre a Castello e aspettarlo, sorvegliarlo da qualche buon posto di osservazione. Lo vide infatti entrare dalla signora Cecca. La vecchia e gozzuta signora stava nel suo salotto tenendosi in collo un marmocchio col braccio sinistro e reggendo con la mano libera uno sperticato tubo di cartone infilato per isghembo nella finestra, come una spingarda, con la mira giù al lago scintillante, a una vela bianca, gonfia di breva. All'entrar di Pasotti che veniva avanti con la persona inclinata, con il cappello in mano, con un viso ilare ilare, dolce dolce, la buona ospitale donna posò in fretta quel lungo naso mostruoso di cartone che le piaceva metter nelle faccende più lontane degli altri, dove il suo proprio naso di cartapecora, benché smisurato, non arrivava. Ell'accolse il Controllore, come avrebbe accolto un Santo taumaturgo che fosse venuto a portarle via il gozzo. "Oh che brao scior Controlòr! Oh che brao scior Controlòr! Oh che piasè! Oh che piasè!" E lo fece sedere, lo soffocò di offerte. "On poo de torta! On poo de crocant! Car el me scior Controlòr! On poo de vin! On poo de rosoli! - Ch'el me scüsa neh", soggiunse perché il marmocchio s'era messo a miagolare. "L'è el me nevodin. L'è el me biadeghin." Pasotti fece molte cerimonie, avendo già nello stomaco, oltre alle ciliege di don Giuseppe, anche la birra del Gilardoni; ma dovette finire col rassegnarsi a rosicchiare una dannata torta di mandorle, mentre il piccino si attaccava al gozzo della nonna. "Povera signora Cecca! Due volte madre!", disse pateticamente, a quella vista, il sarcastico bargnìf, ridendo nello stomaco. Dopo averle chiesto notizie del marito e dei discendenti fino alla terza generazione, mise in campo la signora Teresa Rigey. Come stava quella povera donna? Male! Proprio tanto male? Ma da quando? E c'era stata qualche cagione? Qualche commozione? Qualche dispiacere? Gli antichi si conoscevano, ma ce n'erano stati dei nuovi? Forse per la Luisina? Per quel matrimonio? E don Franco non veniva mai a Castello? Di giorno, no, va bene; ma ...? Come quando il chirurgo va interrogando e tastando un paziente in cerca dell'occulto posto doloroso, che il paziente risponde tanto più breve e trepido quanto più la mano indagatrice si appressa al punto e, appena essa vi arriva, trasalendo si sottrae; così la signora Cecca andò rispondendo al Pasotti sempre più breve e cauta, e a quel ma, posto delicatamente dove le doleva, scattò: "On poo de torta ancamò! Scior Controlòr! L'è roba d'i tosann!" Pasotti sacramentò in cuor suo contro i "tosann" e la loro torta di miele, creta e olio di mandorle, ma credette utile d'ingoiarne un altro boccone e tornò poi a toccare, anzi a premere, il tasto di prima. "So de nagott, so de nagott, so de nagott!", esclamò la signora Cecca. "Ch'el proeuva a ciamagh al Pütin! Al scior Giacom! E a mi ch'el me ciama pü nient!" Ancora! Pasotti brillò in viso all'idea di avere il malcapitato sior Zacomo nelle granfie. Così brillerebbero gli occhi di un falco allegro all'idea di ghermir un ranocchio e di tenerselo fra gli artigli per giuoco e spasso. Egli se ne andò poco dopo, contento di tutto fuorché della torta di creta che aveva sullo stomaco. Casa Puttini, simile nella sua piccola faccia signorile al piccolo vecchio padrone che la governava in abito nero e cravattone bianco, stava poco più giù della orgogliosa mole di casa Pasotti, sulla via di Albogasio Inferiore. Il falco vi andò dopo pranzo, verso le cinque, con una faccia maligna. Bussò all'uscio e stette in ascolto. C'era, c'era il ranocchio disgraziato, litigava, secondo il solito, con la perfida servente. Pasotti bussò più forte. "Verzì!", disse il signor Giacomo, ma la Marianna non voleva saperne di scendere ad aprire. "Verzì! Verzì! Son paron mi!" Tutto inutile. Pasotti bussò da capo, picchiò come una catapulta. "Chi xelo sto maledeto?", vociferò il Puttini; e venne giù soffiando "apff! apff!" ad aprire. "Oh, Controllore gentilissimo!", diss'egli, battendo le palpebre e alzando pateticamente le sopracciglia. "La perdona! Quela fatal servente! No go più testa! No ghe digo gnente cossa che nasse in sta casa." "L'è minga vera!", gridò Marianna dall'alto. "Tasì!" E qui il signor Giacomo incominciò a raccontare i suoi guai, rimbeccando a ogni tratto le proteste della serva invisibile. "Stamatina, La s'imagina, vado a Lugan. Vegno a casa zirconzirca a le tre. Su la porta, La varda qua, che xe de le giozze. Tasì! - No ghe bado, tiro drito. Son sul pato de la scala per andar in cusina; ghe xe de le giozze. Zito! - Cossa gala spanto? digo. Me sbasso, meto un deo in tera; tasto; xe onto; snaso, el xe ogio. Alora ghe vado drio a le giozze. Tasto, snaso, tasto, snaso. Tutto ogio, Controllore gentilissimo. O 'l xe vegnudo, digo, o 'l xe andà via. Se el xe vegnudo lo gà portà el massaro e alora le giozze co semo fora dela porta le gà d'andar in suso, se el xe andà via vol dir che quela maledetissima ... La tasa! ... Lo gà portà a vender a San Mamette e alora le giozze le gà d'andar in zoso. E mi torna in drio e vaghe drio a ste giozze e drio e drio, e rivo a la porta; Controllore mio gentilissimo, le giozze le va in zoso. Quela b ..." A questo punto la voce della serva scattò come la sveglia d'un orologio e non ci fu più "tasì!" che valesse a fermare quello stridente getto continuo di parole rabbiose. Ci si provò Pasotti e, non riuscendo, uscì dai gangheri anche lui con un "O fiolonona!" e proseguì a tirarle improperi, a ciascuno dei quali il signor Giacomo faceva un sommesso accompagnamento di gratitudine. "Sì, linguazza, bravo, ghe son obligà. Sì, stria, bravo. Impiastro, sì signor. Ghe son obligà, Controllore gentilissimo, ghe son propramente obligà." Quando la Marianna parve sopraffatta e chetata, Pasotti disse al signor Giacomo che aveva bisogno di parlargli. "No go testa", rispose l'ometto. "La me perdona, me sento mal." "Eh no go tescta, no go tescta!", vociò la Marianna rediviva. "Ch'el ghe disa inscì ch'el coo el l'avarà perduu a andà de nott a trovà i tosann a Castell!" "Tasì!", urlò il Puttini; e Pasotti, con un ghigno diabolico: "Come come come?". Visto ch'egli entrava in furore, lo afferrò per un braccio, con parole di pace e d'affetto, lo trascinò via, se lo portò a casa, chiamò sua moglie; e per chetare il povero ranocchio, per pigliarselo comodamente fra gli artigli, intavolò un tarocchino in tre. Se la signora Barborin giuocava male, il signor Giacomo, meditando, ponderando e soffiando, giuocava peggio. Era un giuocatore timidissimo, non si metteva mai solo contro gli altri due. Stavolta si trovò in mano, appena seduto, carte così straordinarie che fu preso da un accesso di coraggio e, come dice il linguaggio del giuoco, entrò. "Chi sa che giuocone ha!", brontolò Pasotti. "No digo ... no digo ... ghe xe dei frati che spasseza in pantofole." Il "no digo" del signor Giacomo significava ch'egli teneva in mano carte miracolose; e i frati in pantofole erano, nel suo gergo, i quattro re del giuoco. Mentre si accingeva a giuocare palpando ciascuna carta e aguzzandovi gli occhi su, Pasotti colse il suo momento, sperando, per giunta, fargli perdere il giuoco. "Dunque", diss'egli, "mi racconti un poco. Quando è andato a Castello di notte?" "Oh Dio, oh Dio, lassemo star", rispose il signor Giacomo, rosso rosso, palpando le carte più che mai. "Sì, sì, adesso giuochi. Parleremo dopo. Tanto, io so tutto." Povero signor Giacomo, sì, giuocare con quello spino in gola! Palpò, soffiò, uscì dove non avrebbe dovuto, sbagliò a contare i tarocchi, perdette un paio di frati con le relative pantofole, e malgrado il giuocone, lasciò alcune marchette negli artigli di Pasotti che ghignava e nel piattino della signora Barborin che ripeteva a mani giunte: "Cos'ha mai fatto, signor Giacomo, cos'ha mai fatto?". Pasotti raccolse le carte e si mise a scozzarle guardando con una faccia sardonica il signor Giacomo che non sapeva dove guardare. "Sicuro", diss'egli. "So tutto. La signora Cecca mi ha raccontato tutto. Del resto, caro deputato politico, Lei ne renderà conto all'I. R. Commissario di Porlezza." Così dicendo, Pasotti porse il mazzo al Puttini perché alzasse. Ma il Puttini, udito quel nome minaccioso, si mise a gemere: "Oh Dio, oh Dio, cossa disela, no so gnente ... oh Dio ... l'Imperial Regio Commissario? ... Digo ... no savaria per cossa ... apff!" "Sicuro!", ripeté Pasotti. Aspettava una parola che gli facesse un po' di lume; e significò a sua moglie, additando col pollice prima l'uscio e poi la propria sua bocca, che andasse a pigliar da bere. "Anca quel benedeto ingegner!", esclamò, quasi parlando tra sé, il signor Giacomo. Come un pescatore raccoglie stentatamente a sé la lunga lenza pesante, scossa, egli crede, dal grosso pesce lungamente insidiato, e tira e tira e finalmente scorge venir su dal fondo due grandi ombre di pesci invece d'una sola, palpita, raddoppia di cautela e d'arte; così Pasotti, all'udir nominare l'ingegnere, si meravigliò, palpitò e si dispose a estrarre con la più squisita delicatezza di mano il segreto del signor Giacomo e del Ribera. "Sicuro", diss'egli. "Ha fatto male." Silenzio del signor Giacomo. Pasotti insistette: "Ha fatto malissimo." Ecco la signora Barborin che tutta sorridente porta vassoio, bottiglia e bicchieri. Il vino è rosso cupo, con trasparenze di rubino in corpo e il signor Giacomo gli fa un viso non ancora tenero ma benevolo. Il vino ha un aroma di austera virtù ed il signor Giacomo lo fiuta amorosamente, lo guarda commosso, lo torna a fiutare. Il vino ha una pastosa pienezza ch'empie palato e anima di sapore, il vino è appunto quel giusto, virtuoso amarone che l'aroma annuncia e il signor Giacomo lo sorseggia nel desiderio che non sia liquido e fuggevole, lo mastica, lo pacchia, se lo spalma per la bocca; e quando di tanto in tanto posa il bicchiere sul tavolino, non lo lascia però né con la mano né con gli occhi imbambolati. "Povero ingegnere!", esclamò Pasotti. "Povero Ribera! È un buon galantuomo, ma ..." E tira e tira, il disgraziato signor Giacomo cominciò a venir su, dietro all'amo e al filo. "Mi propramente", diss'egli, "no volea. El me gà fato zo. "Vegnì", el dise, "percossa mo no volìo vegner? Mal no se fa, la cossa xe onesta." Sì, digo, me par anca a mi; ma sto secreto! "Ma! La nona!" el dise. Capisso, digo, ma no me comoda. "Gnanca a mi", el dise. Ma alora, digo, che figura fémoi, Ela e mi? "Quela del m ...", el dise con quel so far de bon omo a la vecia, "che cossa vorla?, el xe propramente per el mio temperamento." Alora vegno, digo." Qui si fermò. Pasotti aspettò un poco e poi, con prudenza, tirò il filo. "Il male si è", diss'egli, "che a Castello se ne sia parlato." "Sì signor; e me lo son imaginà. Tase la famegia, tase l'ingegner, taso mi che s'intende, ma no taserà el piovan, no taserà el nonzolo." Il parroco? Il sacrestano? Adesso Pasotti capì. Trasecolò; non si aspettava un affare così grosso. Versò da bere al malcapitato signor Giacomo, gli cavò facilmente tutti i particolari del matrimonio e cercò di cavargli pure i progetti degli sposi; ma questo non gli riusciva. Si mise a scozzar le carte per continuar il giuoco e il signor Giacomo guardò l'orologio, trovò che mancavano nove minuti alle sette, ora in cui era solito caricare il suo pendolo. Tre minuti di strada, due minuti di scale, non aveva più che quattro minuti per congedarsi. "Controllore gentilissimo, La ghe fazza el conto, la xe cussì, no ghe xe ponto de dubio." La signora Barborin, vedendo un contrasto, ne domandò a suo marito. Pasotti si accostò le mani alla bocca e le gridò sul viso: "El voeur andà a trovà la morosa!". "Cossa mai! Cossa mai!", fece il povero signor Giacomo diventando di tutti i colori; e la Pasotti che per un miracolo aveva udito, aperse una bocca smisurata, non sapeva se dovesse credere o no. "La morosa? Oh! Quanti ciàcer! Minga vera, sür Giacom, che hin ciàcer? El podarìss ben avèghela per quell, disi minga, l'è minga vècc, ma insomma!" Capito che voleva proprio andarsene, cercò trattenerlo, aveva dei marroni di Venegono che stavan cuocendo, li offerse. Ma né i marroni né gl'improperi di Pasotti valsero a vincere il signor Giacomo che partì con lo spettro dell'I. R. Commissario nel cuore e insieme con una sensazione molesta nella coscienza, con un vago malcontento di sé ch'egli non sapeva spiegare a se stesso, col dubbio istintivo che le ingiurie della perfida servente fossero preferibili, in fin de' conti, alle moine di Pasotti. Invece costui aveva gli occhi ancora più brillanti dell'usato. Pensava di andar a Cressogno subito. Camminatore instancabile, contava di potervi arrivare alle otto. L'idea di andare dalla marchesa con la sua grossa scoperta in pectore , di fare il misterioso, di metter fuori un po' alla volta le paroline più suggestive e di farsi strappare il resto, lo divertiva moltissimo. E preparava già per il proprio piacere un discorsetto blando, ammolliente, da posare poi sulla ferita della impassibile dama per modo ch'ella non potesse dissimularla e che nessuno avesse a lagnarsi di lui, neppure Franco. Andò in cucina, si fece accendere la lanterna perché la notte era molto scura, e partì. Incontrò sulla porta il suo mezzadro ch'entrava. Il mezzadro lo salutò, portò in cucina un gran canestro di frutta, aiutò la serva a metterle a posto, sedette al fuoco e disse placidamente: "È mort adess la sciora Teresa de Castell".

Bene, temo che la mia Luisa, in fondo, abbia le tendenze del suo papà. Me le nasconde, ma capisco che le ha. Te la raccomando, studiala, consigliala, ha un gran talento e un gran cuore, se io non ho saputo far bene con lei, tu fa meglio, sei un buon cristiano, guarda che lo sia anche lei, proprio di cuore; promettimelo, Franco." Egli lo promise sorridendo, come se stimasse vani i timori di lei e facesse, per compiacenza, una promessa superflua. L'ammalata lo guardò, triste. "Credimi, sai", soggiunse, "non sono fantasie. Non posso morire in pace se non la prendi come una cosa seria." E poi che il giovane ebbe ripetuta la sua promessa senza sorridere, soggiunse: "Una parola ancora. Quando parti di qua, vai a Casarico dal professor Gilardoni, non è vero?" "Ma, questo era il piano di prima. Dovevo dire alla nonna che andavo a dormire da Gilardoni per fare poi una gita insieme alla mattina; adesso lo sai come sono venuto via." "Vacci lo stesso. Ho piacere che tu ci vada. E poi ti aspetta, non è vero? Dunque ci devi andare. Povero Gilardoni, non è più venuto dopo quella pazzia di due anni or sono. Lo sai, non è vero? Luisa te l'avrà detto?" "Sì, mamma." Questo professor Gilardoni che viveva a Casarico, da eremita, si era molto romanticamente innamorato, qualche anno prima, della signora Teresa e le si era timidamente, reverentemente proposto per marito, ottenendo un tale successo di stupore da togliergli poi il coraggio di ricomparirle davanti. "Povero uomo!", riprese la signora Rigey. "Quella è stata una stupidità grande, ma è un cuor d'oro, un buon amico, tenetevelo caro. Il giorno prima che gli venisse quell'accesso di pazzia, mi ha fatto una confidenza. Non te la posso ripetere, e anzi ti prego di non parlargliene se non te ne parla lui; ma insomma è una cosa che potrà, in certi casi, aver molta importanza per voi altri, specialmente se avrete figli. Se Gilardoni te ne parla, pensaci prima di dirlo a Luisa. Luisa potrebbe prender la cosa non come va presa. Delibera tu, consigliati con lo zio Piero e poi parla o non parla, secondo la strada che vorrai prendere." "Sì, mamma." Si picchiò all'uscio, sommessamente, e la voce di Luisa disse: "È finito?" Franco guardò l'ammalata. "Avanti", diss'ella. "È ora di andare?" Luisa non rispose, cinse con un braccio il collo di Franco. S'inginocchiarono insieme davanti alla mamma, le piegarono il capo in grembo. Luisa faceva ogni sforzo per trattenere il pianto, sapendo bene che bisognava evitare alla mamma ogni emozione troppo forte, ma le spalle la tradivano. "No, Luisa", disse la mamma, "no, cara, no", e le accarezzava il capo. "Ti ringrazio che sei sempre stata una buona figliuola, sai; tanto buona; quietati; son così contenta; vedrai che starò meglio. Andate dunque; datemi un bacio e poi andate, non fate aspettare il signor curato. Dio ti benedica, Luisa; e anche te, Franco." Chiese il suo libro di preghiere, si accostò il lume, fece aprire le finestre e l'uscio della terrazza per respirar meglio e mandò via la fantesca che si preparava a tenerle compagnia. Usciti gli sposi, entrò l'ingegnere per salutar sua sorella prima di andare in chiesa. "Ciao, neh, Teresa." "Addio, Piero. Un altro peso sulle vostre spalle, povero Piero." "Amen", rispose pacificamente l'ingegnere. Rimasta sola, la signora Rigey stette ascoltando il rumor dei passi che si allontanavano. Quelli gravi di suo fratello e del signor Giacomo, la coda della colonna, non le lasciavano udire gli altri ch'ella avrebbe voluto accompagnar con l'orecchio quanto era possibile. Un momento ancora e non intese più nulla. Ebbe l'idea che Luisa e Franco si allontanavano insieme nell'avvenire dove a lei non era dato seguirli che per pochi mesi o forse per pochi giorni; e che non poteva indovinar niente, presentir niente del loro destino. "Poveri ragazzi", pensò. "Chi sa cosa avranno passato fra cinque anni, fra dieci anni!" Stette ancora in ascolto, ma il silenzio era profondo; non entrava per le finestre aperte che il fragor lontano lontano della cascata di Rescia, di là dal lago. Allora, supponendo che fossero già in chiesa, prese il suo libro di preghiere e lesse con fervore. Si stancò presto, si sentì una gran confusione in testa, le si confusero alla vista anche i caratteri del libro. La sua mente si assopiva, la volontà era perduta. Presentiva una visione di cose non vere e sapeva di non dormire, comprendeva che non era sogno, ch'era uno stato prodotto dal suo male. Vide aprirsi l'uscio che metteva in cucina ed entrare il vecchio Gilardoni di Dasio, detto "el Carlin de Dàas", padre del professore, agente di casa Maironi per i possessi di Valsolda, morto da venticinque anni. La figura entrò e disse in tono naturale: "Oh sciora Teresa, la sta ben?". Ella credette di rispondere: "Oh Carlin! Bene e voi?", ma in fatto non aperse bocca. "Ghe l'hoo chì la lettra", riprese la figura agitando trionfalmente una lettera. "L'hoo portada chì per Lee." E posò la lettera sul tavolo. La signora Teresa vide chiaramente e con un senso di vivo piacere questa lettera sudicia e ingiallita dal tempo, senza busta e con la traccia di una piccola ostia rossa. Le parve dire: "Grazie, Carlin. E adesso andate a Dasio?". "Sciora no", rispose il Carlin. "Voo a Casarech dal me fioeu." L'ammalata non vide più il Carlin, ma vide ancora la lettera sul tavolo. La vedeva chiaramente eppure non era certa che vi fosse; nel suo cervello inerte durava l'idea vaga di altre allucinazioni passate, l'idea della malattia sua nemica, sua padrona violenta. Aveva l'occhio vitreo, la respirazione penosa e frequente. Un suono di passi affrettati la scosse, la richiamò quasi del tutto in sé. Quando Luisa e Franco si precipitarono in camera dalla terrazza, non si accorsero, causa il paralume della lucerna, che la fisionomia della mamma fosse stravolta. Inginocchiati accanto a lei, la coprirono di baci, attribuirono all'emozione quel respiro affannoso. A un tratto l'ammalata sollevò il capo dalla spalliera della poltrona, tese le mani avanti, guardando e indicando qualche cosa. "La lettera", diss'ella. I due giovani si voltarono e non videro niente. "Che lettera, mamma?", disse Luisa. Nello stesso punto notò l'espressione del viso di sua madre, diede un'occhiata a Franco per avvertirlo. Non era la prima volta, durante la sua malattia, che la mamma soffriva di allucinazioni. All'udirsi domandare "che lettera?" ella capì, fece "oh!", ritirò le mani, se ne coperse il viso e pianse silenziosamente. Confortata dalle carezze de' suoi figli, si ricompose, li baciò, stese la mano a suo fratello e al signor Giacomo, che non avevano inteso affatto cosa fosse accaduto e accennò a Luisa di andar a pigliar qualche cosa. Si trattava di una torta e di una bottiglia preziosa di vino del Niscioree, regalata con altre parecchie, tempo addietro, dal marchese Bianchi che aveva per la signora Rigey una singolare venerazione. Il signor Giacomo, non vedendo l'ora di svignarsela, incominciava a dimenarsi, a soffiare, guardando l'ingegnere. "Signora Luisina", diss'egli vedendo uscire la novella sposa. "La scusa, son propramente per domandar licenza ..." "No, no", lo interruppe con un fil di voce la signora Teresa, "aspetti un poco." Luisa scomparve e Franco scivolò pure fuori dalla stanza dietro sua moglie. La signora Teresa parve presa da uno scrupolo, accennò a richiamarlo. "Ma cosa mai!", fece l'ingegnere. "Ma, Piero!" "Ma cosa?" Le antiche tradizioni austere della sua famiglia, un sottile senso di dignità, forse anche uno scrupolo religioso perché gli sposi non avevano ancora assistito alla messa della benedizione nuziale, impedivano alla signora Teresa di approvare che i giovani si appartassero e insieme di spiegarsi. Le sue reticenze e la bonarietà patriarcale dello zio diedero agio a Franco di sottrarsi ai richiami senza rimedio alcuno. La signora Teresa non insistette. "Per sempre!", mormorò dopo un momento come parlando fra sé. "Uniti per sempre!" "Nualtri", disse l'ingegnere rivolgendosi in dialetto veneto al suo collega nel celibato, "nualtri, sior Giacomo, de ste buzare no ghe ne femo." "Sempre de bon umor, Ela, ingegnere pregiatissimo", rispose il signor Giacomo a cui la coscienza diceva che aveva fatto delle "buzare" peggiori. Gli sposi non ritornavano. "Signor Giacomo", riprese l'ingegnere, "per questa notte, niente letto." L'infelice si contorse, soffiò e batté le palpebre senza rispondere. E gli sposi non ritornavano. "Piero", disse la signora, "suonate il campanello." "Signor Giacomo", fece l'ingegnere senza scomporsi, "dobbiamo suonare il campanello?" "L'idea de la signora Teresa pare propramente questa", rispose l'omino navigando alla meglio tra il fratello e la sorella. "Però mi no digo gnente." "Piero!", insistette la signora. "Ma insomma", riprese suo fratello senza muoversi. "Lei, cosa farebbe? Lo suonerebbe, questo campanello, o non lo suonerebbe?" "Oh Dio!", gemette il Puttini. "La me dispensa." "Non La dispenso un corno." Gli sposi non ritornavano e la mamma, sempre più inquieta, ricominciava: "Ma suonate, dunque, Piero!" Il signor Giacomo, che moriva dalla voglia di andarsene s non poteva andarsene senza salutar gli sposi, incoraggiato dall'insistere della signora, fece uno sforzo, diventò rosso rosso e buttò fuori la sua sentenza: "Mi sonaria." "Caro signor Giacomo", disse l'ingegnere, "mi stupisco, mi sorprendo e mi meraviglio." Chi sa perché, quando era di buon umore e gli capitava in bocca uno di quei sinonimi, li infilzava tutti e tre. "Però", conchiuse, "suoniamo." E suonò molto discretamente. "Sentite, Piero", disse la signora Teresa. "Ricordatevi bene che adesso, quando partite voi, deve partire anche Franco. Ritornerà alle cinque e mezzo per la messa." "Oh povero me!", fece lo zio Piero. "Quante miserie! Insomma, sono marito e moglie, sì o no? Bene bene bene", soggiunse, perché sua sorella si inquietava. "Fate tutto quello che volete, ecco." Invece degli sposi entrò la fantesca portando la torta e la bottiglia e disse all'ingegnere che la signora Luisina lo pregava di uscire un momento sulla terrazza. "Adesso che viene un po' di grazia di Dio, mi mandate fuori", disse l'ingegnere. Egli scherzava, con la solita serenità di spirito, forse non comprendendo bene lo stato grave di sua sorella, forse per certa sua naturale disposizione pacifica verso tutto che fosse ineluttabile. Uscì sulla terrazza dove Luisa lo aspettava con Franco. "Senti, zio", diss'ella, "mio marito dice che certo la nonna scoprirà tutto subito, ch'egli non potrà più stare a Cressogno, che se la mamma fosse in buone condizioni si potrebbe venire da te a Oria, ma che così, pur troppo, non è possibile. Allora dice che si potrebbe mettere all'ordine una camera qui, in fretta, alla meglio; lo studio del povero papà, si diceva noi. Cosa ti pare?" "Hm!", fece lo zio, che non accettava facilmente le novità. "Mi pare una risoluzione molto precipitosa. Fate una spesa, mettete la casa sossopra per una cosa che non può durare." La sua idea fissa era quella di aver tutta la famiglia a Oria, e questo ripiego della camera gli faceva ombra. Temeva che se gli sposi si accomodavano a Castello finissero con restarvi. Luisa si studiò di persuaderlo che non si poteva fare altrimenti, che né la spesa né l'incomodo sarebbero stati grandi, che suo marito, quando avesse a uscir di casa, andrebbe difilato a Lugano e ritornerebbe con i pochi mobili strettamente necessari. Lo zio domandò se Franco non potrebbe invece mettersi a Oria e starvi fino a quando vi potessero scendere la mamma e lei. "Oh, zio!", fece Luisa. S'ella avesse saputo del campanello, si sarebbe ancor più meravigliata di una proposta simile. Ma il buon uomo aveva qualche volta di queste idee ingenue che facevano sorridere sua sorella. Luisa non durò fatica a trovare argomenti contro l'esilio di Franco e ad adoperarli con calore. "Basta", fece lo zio non persuaso, ma placido, allargando le braccia in arco, nell'atto di un Dominus vobiscum più caritatevole, più disposto a cinger di tenerezza le povere creature umane. "Fiat. Oh, e se occorre", soggiunse volgendosi a Franco, "come stai a quattrini?" Franco trasalì, s'imbarazzò. "È il nostro papà, sai", gli disse sua moglie. "Papà niente affatto", osservò lo zio, sempre placidamente. "Papà niente affatto, ma quel ch'è mio è vostro, ecco; vuol dire dunque che vi munirò un poco secondo le mie forze." E ricevette l'abbraccio commosso de' suoi nipoti senza corrispondervi, quasi seccato da una dimostrazione superflua, seccato che non accogliessero più semplicemente una cosa tanto semplice e naturale. "Sì, sì", diss'egli, "andiamo a bere ch'è meglio." Il vino del Niscioree, rosso chiaro come un rubino, delicato e gagliardo, blandì e pacificò le viscere dell'impaziente signor Giacomo, che in quegli anni di oïdium ben di rado bagnava le labbra nel vin pretto e beveva cupamente vin Grimelli di acquosa memoria. "Est, est non è vero, signor Giacomo?", disse lo zio Piero vedendo il Puttini guardar devotamente nel bicchiere che teneva in mano. "Qui almeno non c'è pericolo di crepare come quel tale: et propter nimium est dominus meus mortuus est. " "A mi me par de resussitar", rispose il signor Giacomo, adagio adagio, quasi sottovoce, guardando sempre nel bicchiere. "Allora, un brindisi agli sposi!", riprese l'altro, alzandosi. "Se non lo fa Lei, lo farò io: Viva lü e viva lee E nün andèm foeura d'i pee. Il signor Giacomo vuotò il bicchiere, soffiò molto e batté molto le palpebre in segno dei vari sentimenti che tumultuavano nell'animo suo mentre l'ultimo aroma e l'ultimo sapor del vino gli si perdevano in bocca; offerse la sua servitù alla signora Teresa riveritissima, la sua devozione alla sposina amabilissima, la sua osservanza allo sposo compitissimo; si schermì, menando le braccia e la testa, dai ringraziamenti che gli fioccavano addosso, e preso il cappellone, presa la mazza, si avviò umilmente, soffiando con un misto di compiacenza e di rammarico, dietro la mole placida dell'ingegnere pregiatissimo. "E tu, Franco?", chiese subito la signora Teresa. "Vado", rispose Franco. "Vien qua", diss'ella. "Vi ho accolto così male, poveri figliuoli, quando siete ritornati dalla chiesa. Sai, m'era venuto uno de' miei accessi; lo avete ben capito. Adesso mi sento tanto benino, tanto in pace. Signore, Vi ringrazio. Mi pare d'avere messa la casa in ordine, d'avere spento il fuoco, d'aver dette un po' di orazioni e di andar a dormire, tutta bella contenta; ma non così presto, sai, caro, non così subito. Ti lascio la mia Luisa, caro, ti lascio lo zio Piero; so che li amerai tanto, vero? Ricordati anche di me, però. Ah Signore, come mi rincresce di non vedere i vostri figli! Quello sì. Hai da dar loro un bacio per la povera nonna, tutti i giorni. E adesso va', figlio mio; ritorni alle cinque e mezzo, non è vero? Sì, addio, va'." Gli parlava carezzevole, come a un bambino che non capisce ancora ed egli piangeva di tenerezza silenziosamente, le baciava e ribaciava le mani, godendo che Luisa fosse presente e vedesse; perché nella sua immensa tenerezza per la mamma vi era la immensa gioia di essere divenuto un solo con la figlia e come un'avidità di amar tutto che sua moglie amava, con la stessa forza. "Va'", ripeteva mamma Teresa, temendo anche la commozione propria: "va', va'." Egli obbedì, finalmente; e uscì con Luisa. Anche stavolta Luisa tardò molto a ritornare, ma le anime più sante hanno le loro lievi debolezze e quantunque la fantesca non facesse che andare e venire dalla cucina al salotto, la signora Teresa, tocca dalle dimostrazioni d'affetto che le aveva prodigate Franco, non le disse mai di suonare il campanello.

Forse a tua nonna dispiace che io vi abbia raccolti, forse le sarà più facile, poi, di riconciliarsi con voi. Perciò, posto che non ci vediamo più, ti prego, appena morto io, se le cose non saranno ancora accomodate, di fare qualche passo." Franco si alzò, abbracciò lo zio con le lagrime agli occhi. "Testamento", riprese lo zio, "non ne ho fatto e non ne faccio. Il poco che ho è di Luisa; non occorre testamento. Vi raccomando la Cia; fate che non le manchi un letto e un tozzo di pane. Per i funerali bastano tre preti che mi cantino un requiem di cuore; il nostro, l'Introini e il prefetto della Caravina; c'è mica bisogno di farne cantare cinque o sei per amor del candirott e del vin bianch. Per il mio vestiario lasciamo fare a Luisa che saprà dove metterlo a posto. Il mio orologio a ripetizione lo prenderai tu per mia memoria. Vorrei lasciare un ricordo anche a Maria, ma come si fa? Potrai pigliar un pezzo della mia catena d'oro. Se hai una medaglietta, un crocifisso, glielo attacchi al collo con la mia catena. E amen." Franco piangeva. Era una gran commozione di sentire lo zio parlar della sua morte così serenamente come di un affare qualsiasi da condur con giudizio e onestà; lo zio che discorrendo con gli amici pareva tanto attaccato alla vita, che diceva sempre: "Se se pò schivà quella tal crepada!". "Oh e adesso contami!", diss'egli. "Che lavoro speri di trovare?" "Per ora, nell'ufficio d'un giornale a Torino, mi scrive T. Forse in avvenire si troverà qualche cosa di meglio. Se poi al giornale non potessi vivere e se non trovassi altro, ritornerei. Per questo bisogna tener la cosa segretissima, almeno per il primo tempo." Quanto al segreto, lo zio era incredulo. "E le lettere?", diss'egli. Per le lettere era combinato che Franco scriverebbe a Lugano fermo in posta, che Ismaele porterebbe alla posta di Lugano le lettere della famiglia e ritirerebbe quelle di Franco. E che si doveva dire ai conoscenti? Si era già detto che Franco andava a Milano il giorno otto per affari e che sarebbe stato assente forse un mese, forse anche più. "Questo dover infinocchiar la gente non è la più bella cosa del mondo", disse lo zio, "ma insomma! Io ti abbraccio adesso, neh, Franco, perché so che domani mattina parti per tempo e oggi difficilmente saremo soli. Dunque addio. Ti raccomando tutto da capo e non dimenticarti di me. Oh, un'altra cosa. Tu vai a Torino. Io, come impiegato, ho inteso servire il mio paese. Non ho cospirato, non vorrei cospirare neanche adesso, ma al mio paese ci ho sempre voluto bene. Insomma, salutami la bandiera tricolore. Ciao, neh!" Qui lo zio aperse le braccia. "Verrai anche tu, zio, in Piemonte", gli disse Franco alzandosi commosso da quell'abbraccio. "Se posso appena guadagnarmi quel che strettamente bisogna, vi faccio venire tutti." "E no, caro. Son troppo vecchio, non mi muovo più." "Ebbene, verrò io questa primavera con duecentomila miei amici." "Eh sì! Düsent mila zücch! Belle idee, belle speranze! Oh, è qui, signorina Ombretta Pipì?" Ombretta Pipì, così Maria era chiamata in casa nei momenti di buon umore, entrò impettita e grave. "Buon giorno, zio. Mi dici l'Ombretta Pipì? Suo padre la prese e la posò sul letto dello zio che la raccolse a sé sorridendo, se la fece sedere sulle gambe. "Venga qua, signorina. Ha dormito bene? E la bambola, ha dormito bene? E il mulo, ha dormito bene? Ah non c'era? Tanto meglio. Sì, sì, adesso vengo con l'Ombretta. E un bacio, niente? E un altro, no? Allora bisogna proprio dire: Ombretta sdegnosa Del Missipipì, Non far la ritrosa E baciami qui." Maria lo ascoltò come se udisse i versi per la prima volta; e poi, fuori a ridere, a saltare, a battere le mani. E lo zio rideva come lei. "Papà", diss'ella facendosi seria, "perché piangi? Sei in castigo?" Si aspettavano alquante visite, in quel giorno, di conoscenti che avevan promesso di venire a congedarsi da Franco prima della sua partenza per Milano. Luisa fece il miracolo di accender la stufa in Siberia, come lo zio chiamava la sala, e vi si trovarono insieme donna Ester, i due indivisibili Paoli di Loggio, il Paolino e il Paolon, il professor Gilardoni che vi sofferse di una trepidazione, di una inquietudine continua perché Luisa, non avendo ancora allestito il bagaglio di Franco, andava e veniva dalla camera dell'alcova, chiamava Ester ogni momento ed Ester era quindi sempre in moto, quando passava dietro al professore, quando gli passava davanti, quando a destra, quando a sinistra. Al pover'uomo pareva di stare in un turbine magnetico. Ecco capitare, molto inattesa perché dopo la perquisizione non s'era più veduta, anche la signora Peppina. "Oh cara la mia süra Lüisa! Oh car el me sür don Franco! L'è vera ch'el voeur propi andà via?" Adesso è il Paolino che si dimena un poco sulla sedia perché ha l'idea che la süra Peppina sia mandata dal marito per vedere chi c'è e chi non c'è intorno all'uomo sospetto, nella casa scomunicata. Vorrebbe andarsene subito col suo Paolon, ma il Paolon è più grosso. "Come se fa adèss con sto vioròn chì ch'el capiss nagott?", pensa il Paolino, e, senza guardare il Paolon, gli dice sottovoce: "Andèmm, Paol! Andèmm!" Il Paolon stenta infatti molto a capire ma finalmente si alza, se ne va col Paolino, piglia la sua sulle scale. Franco ebbe lo stesso pensiero del Paolino e salutò la signora Peppina con mal garbo. La povera donna ne avrebbe pianto perché voleva tanto bene a sua moglie e teneva in gran concetto anche lui; ma capiva la sua avversione; la scusava in cuor suo. Appena osava guardarlo di tempo in tempo, umile, con un'aria di cane bastonato. Si tolse la Maria sulle ginocchia, le parlò del suo buon papà, del suo caro papà che andava via. "Chi sa che dispiasè, neh ti poera vèggia? Chi sa che magòn? Poer ratin. Andà via el papà! On papà de quella sort!" Franco discorreva col professore ma udiva e fremeva d'impazienza. Fu contentissimo che la Veronica venisse a chiamarlo. Lo volevano nell'orto. Vi discese, trovò il signor Giacomo Puttini e don Giuseppe Costabarbieri ch'eran venuti per salutarlo ma, informati dal Paolino e dal Paolon, desideravano non farsi vedere dalla süra Peppina. Anche il suolo dell'orto scottava loro i piedi. Mentre il piccolo eroe magro si difendeva, soffiando, dagl'inviti di Franco a salire in casa, il piccolo eroe grasso girava vivacemente la testa e gli occhietti come un merlo di buon umore, a guardar ora il monte ora il lago, quasi per un'abitudine di sospetto. Scorse una barca che veniva da Porlezza. Chi sa? Non potrebb'essere l' I. R. Commissario? Benché la barca fosse ancora lontana, pensò subito di cavarsela, pensò di andar col Puttini a visitar il Ricevitore per aver la fortuna di non trovar la süra Peppina in casa. Scambiati con Franco saluti sommessi e frettolosi, i due vecchi leproni trottarono via a testa bassa e Franco rimase nell'orto. L'aria era mite, il picco di Cressogno saliva senza neve, tutto glorioso di sole, nel sereno, il sole dorava ancora le coste giallognole della Valsolda picchiettate di ulivi, mentre dall'altra parte del lago scendevano sino all'acqua, nell'ombra azzurrognola, i grandi padiglioni bianchi della Galbiga nevosa e del Bisgnago. Franco stette a guardare col cuore grosso il caro paese dei suoi sogni, de' suoi amori. "Addio, Valsolda", pensò. "E adesso voglio salutare anche voialtre." Voialtre erano le sue piante, gli aranci amari, l' olea sinensis , il nespolo del Giappone, il pinus pinea, che verdeggiavano a giusti intervalli lungo il viale diritto, fra le aiuole degli erbaggi e il lago; erano i rosai, i capperi, le agavi che uscivano a pender sopra l'acqua dai fori praticati nel muro. Tutte piccole vite, ancora; il colosso della famiglia, il pino, non misurava tre metri; piccole, pallide vite che parevano sonnecchiare nel pomeriggio invernale. Ma Franco le vedeva nell' avvenire come le aveva pensate piantandole col suo fine sentimento del grazioso e del pittoresco. Ciascuna portava in sé una intenzione di lui. Le nobili pianticelle del viale, sorgendo sugli erbaggi, dovevano significare una certa finezza di spirito e di cultura nella modesta fortuna della famiglia. Gli aranci avevano il compito speciale di dare al quadretto una intonazione mite e gentile; il dovere del nespolo era di alzare e allargar le braccia frondose sopra un futuro sedile; i rosai e i capperi del muro verso il lago dovevano dire a chi passava in barca la fantasia d'un poeta; le agavi vi avrebbero risposto, in un accordo minore, agli aranci, compagni di esilio; finalmente gli alti destini del pino erano di spiegar un grazioso ombrello sulla breve oasi, di porre il suo accento meridionale sopra l'accordo delle agavi e degli aranci, di incorniciar con la sua verde corona il piccolo seno azzurro di Casarico. Addio, addio! Pareva a Franco che le pianticelle gli rispondessero tristemente: "Perché ci lasci? Che sarà di noi? Tua moglie non ci ama come te". Intanto la barca veduta da don Giuseppe aveva camminato e passava davanti all'orto, alquanto discosto dalla riva. V'erano un signore e una signora. Il signore si alzò in piedi e salutò con voce squillante: "Addio, don Franco! Evviva!". La signora sventolò il fazzoletto. Erano i Pasotti. Franco salutò col cappello. I Pasotti! In Valsolda di gennaio! Che ci venivano a fare? E quel saluto! Pasotti che dopo la perquisizione non si era fatto più vedere, Pasotti salutar così? Che voleva dir ciò? Franco, perplesso, salì in casa, diede la notizia. Tutti stupirono e sopra tutti la süra Peppina: "Ma comè? El dis de bon? El sür Controlòr? Poer omasc! Anca la süra Barborin? Poera donnètta!". Si commentò il fatto. Chi supponeva una cosa e chi un'altra. Dopo cinque minuti Pasotti entrò strepitando, trascinandosi dietro la signora Barborin carica di scialli e di fagotti, mezza morta dal freddo. Povera creatura, non sapeva dir altro che "dò ôr! dò ôr in barca!" mentre suo marito schiamazzava ghignando negli occhi diabolici: "Le fa bene, le fa bene! Le ho cacciato giù un bicchierino di ginepro a Porlezza. Ha fatto smorfie d'inferno, ma sta benone!". La povera sorda, indovinando che parlava del ginepro, girava gli occhi per il soffitto, rifaceva le smorfie di Porlezza. Pasotti non era mai stato così espansivo. Baciò la mano a Luisa, abbracciò l'ingegnere e Franco accompagnando gli atti con effusioni e profluvi di sentimento. "Carissima donna Luisa! Signora ammirabile e perfetta. Car el me Peder! Car el me re de coeur! Il mondo è grande ma on alter Peder el gh'è propri no, va là! E questo don Franco! Caro il mio Francone! Pensare come t'ho veduto io! In sottane e grembialino. Quando andavi a rubar i fichi al prefetto della Caravina! Sto baloss chì!" Il "baloss" non faceva il viso più incoraggiante del mondo ma l'altro non se ne dava per inteso. Altrettanto poco poteva intendersi sua moglie con le signore che l'interrogavano. "Come l'ha mai faa, süra Pasotti", le gridava la signora Peppina, "a vegnì in Valsolda de sto temp chì?" "Oh dèss, la capiss nient, poera donnètta." Per quanto anche Luisa ed Ester le gridassero nelle orecchie la stessa domanda, per quanto ella spalancasse la bocca, la sorda non capiva, andava rispondendo a caso: "Se ho mangiàa? Se voeui disnà chì?". Intervenne Pasotti, disse che in ottobre egli e sua moglie eran partiti per un richiamo di affari, senza fare il bucato, che sua moglie lo andava seccando da un pezzo per questo benedetto bucato, che finalmente si era risolto di accontentarla e di venire. Allora donna Ester si voltò verso la Pasotti a far l'atto di lavare. La Pasotti guardò suo marito che le teneva gli occhi addosso e rispose: "Sì sì, la bügada, la bügada!". Quell'occhiata, l'impero che lesse negli occhi del Controllore fecero sospettare Luisa che vi fosse sotto un mistero. Questo mistero e le inesplicabili espansioni di Pasotti le suggerirono un altro sospetto. Se fosse venuto per loro? Se nelle cause di questa improvvisa venuta ci avesse parte il viaggio del professore a Lodi? Avrebbe voluto consultarsi col professore, dirgli di fermarsi fino a che i Pasotti fossero partiti; ma come parlargli poi senza che se ne avvedesse Franco? Intanto donna Ester prese congedo e il professore che aveva ottenuto il perdono della capricciosetta, perfidetta signorina, a patto di non domandare il paradiso, ebbe licenza di accompagnarla a casa. I Pasotti non potevano salire ad Albogasio Superiore fino a che il mezzadro, fatto avvertire subito, non avesse posto loro in ordine e riscaldata almeno una stanza. Parlò subito di piantare un tarocchino in tre con l'ingegnere e Franco. Allora se ne andò anche la signora Peppina e la Pasotti chiese a Luisa di ritirarsi un momento, la pregò di accompagnarla. Appena fu sola coll'amica nella camera dell'alcova si guardò attorno con due occhioni spaventati e poi sussurrò: "Sèm minga chì per la bügada neh, sèm minga chì per la bügada!". Luisa la interrogò silenziosamente, col viso e col gesto, perché a parlar forte in sala avrebbero udito. Stavolta la Pasotti capì, rispose che non sapeva niente, che suo marito non le aveva detto niente, che le aveva imposto la storia del bucato ma che del bucato a lei non importava nulla. Allora Luisa prese un pezzo di carta e scrisse: "Cosa sospetti?". La Pasotti lesse e poi cominciò una mimica complicatissima. Scrollamenti del capo, stralunamenti d'occhi, sospiri, invocazioni al soffitto; pareva che si combattesse dentro di lei una gran battaglia di timori e di speranze. Finalmente fece "ah!", afferrò la penna e scrisse sotto la domanda di Luisa: "La marchesa!". Lasciò cader la penna, stette a contemplar l'amica. "L'è a Lod", diss'ella sottovoce. "El Controlòr l'è staa a Lod. Speri comè!" E poi scappò in sala temendo esser sospettata da suo marito. Finito il tarocco, Pasotti si accostò a una finestra, disse forte qualche cosa sugli effetti della luce crepuscolare e chiamò Franco. "Bisogna che tu venga stasera da me", gli disse piano, "devo parlarti." Franco cercò schermirsi. Partiva l'indomani mattina per Milano, lasciava la famiglia per qualche tempo, gli era difficile passar la sera fuori di casa. Pasotti replicò ch'era assolutamente necessario. "Si tratta del tuo viaggio di domani", diss'egli. "Si tratta del tuo viaggio di domani!" Appena partiti i Pasotti per Albogasio Superiore, Franco riferì questo colloquio a sua moglie. Egli n'era stato turbatissimo. Pasotti sapeva, dunque; non avrebbe fatto tanti misteri se non avesse inteso alludere al viaggio di Torino. E Franco era seccatissimo che Pasotti sapesse. Ma in che modo? L'amico di Torino poteva essere stato imprudente. E adesso che voleva da lui, Pasotti? C'era forse in aria qualche altro colpo della Polizia? Ma Pasotti non era l'uomo da venire ad avvertirnelo! E tutto quel voltafaccia di amabilità? Non si voleva ch'egli andasse a Torino, forse. Non si voleva che trovasse una strada buona, un modo di sottrarre sé e i suoi alla povertà, ai commissari e ai gendarmi! Pensa e ripensa, non poteva essere che questo. Luisa n'era poco persuasa, in cuor suo. Temeva altra cosa; non dubitava però neppur lei che Pasotti sapesse di Torino e ciò scompigliava tutte le sue supposizioni. Insomma non c'era che andare e udire. Franco andò alle otto, Pasotti lo ricevette colla più affettuosa cordialità e gli fece le scuse di sua moglie ch'era già a letto. Prima d'entrar in argomento volle assolutamente che pigliasse un bicchiere di S. Colombano e una fetta di panettone. Col vino e col dolce Franco dovette inghiottire, suo malgrado, molte dichiarazioni di amicizia, i più sperticati elogi di sua moglie, di suo zio e di lui stesso. Vuotato finalmente il bicchiere ed il piatto, il mellifluo bargnìf si mostrò disposto ad entrare in materia. Erano seduti a un tavolino, l'uno in faccia all'altro. Pasotti, appoggiato comodamente alla spalliera della seggiola, teneva tra le mani un fazzoletto rosso e giallo di foulard, lo andava palpando. "Dunque", diss'egli, "caro Franco, come ti dicevo, si tratta del tuo viaggio di domani. Ho inteso dire oggi a casa tua che parti per affari: si tratta di vedere se io non ti porto un affare anche più grosso di quello che hai a Milano." Franco, sorpreso da questo inaspettato esordio, tacque. Pasotti chinò gli occhi sul fazzoletto senza restare di maneggiarlo e riprese: "Il mio caro amico don Franco Maironi si può immaginare che se io entro in argomento intimo e delicato, ho una ragione grave di farlo, sento il dovere di farlo e sono autorizzato a farlo". Le mani si fermarono, gli occhi brillanti e acuti si alzarono a quelli torbidi e diffidenti di Franco. "Si tratta, mio caro Franco, del tuo presente e del tuo avvenire." Ciò detto, Pasotti posò risolutamente il foulard da banda. Appoggiate le braccia e giunte le mani sul tavolino entrò nel cuore dell'argomento tenendo sempre gli occhi su Franco che, raccolto alla sua volta indietro sulla spalliera, lo guardava pallido, in una ostile attitudine di difesa. "È dunque un pezzo che io, per l'antica amicizia verso la tua famiglia, ho in mente di far qualche cosa onde metter fine a un dissidio dolorosissimo. Anche tuo padre, povero don Alessandro! Che cuor d'oro! Che bene mi voleva!" (Franco sapeva che suo padre aveva una volta minacciato Pasotti col bastone perché s'intrometteva troppo nelle faccende di casa sua.) "Basta. Avendo saputo che tua nonna era a Lodi, domenica scorsa mi son detto: dopo tanti dispiaceri che hanno avuto i Maironi, forse questo è il momento. Andiamo, tentiamo. E sono andato." Pausa. Franco fremeva. Che razza d'intercessore gli era capitato? E chi aveva chiesto intercessioni? "Debbo dirlo", riprese Pasotti, "sono contento. Tua nonna ha le sue idee, ha un'età in cui le idee difficilmente si cambiano, ha il carattere che sai, molto fermo, ma insomma il cuore c'è. Ti vuol bene, sai. Soffre. Vi è una lotta continua, dentro di lei, fra i suoi sentimenti e i suoi principii; anche, se vuoi, tra i suoi sentimenti e i suoi risentimenti. Povera marchesa! È penoso di vedere come soffre; ma insomma piega, piega. Certamente non bisogna mica aspettarsi poi troppo. Piega ma non fino a spezzare ciò che la sostiene, i suoi principii, voglio dire: sopra tutto i suoi principii politici." Gli occhi di Franco, le mascelle inquiete, un sussulto di tutta la persona dissero a Pasotti: non toccar questo punto, bada a te! Pasotti si fermò; gli era forse venuto in mente il bastone del fu don Alessandro. "Ti capisco", riprese. "Credi che non ti capisca? Io mangio il pane del Governo e devo tenermi chiuso nel cuore ciò che penso, ma del resto son con te, sospiro il momento in cui certi colori cederanno il posto a certi altri. Tua nonna non è così e, sfido, bisogna pigliarla com'è. Se si vuol venire a un accomodamento bisogna pigliarla com'è. Si può combattere come ho combattuto io, ma ..." "Tutto questo discorso mi pare inutile", esclamò Franco, alzandosi. "Aspetta!", riprese Pasotti. "Il diavolo non sarà poi forse tanto brutto! Siedi, ascolta!" Franco non volle saperne di sedersi ancora. "Sentiamo!", diss'egli con voce vibrante d'impazienza. "Intanto la nonna è disposta a riconoscere il tuo matrimonio ..." "Grazie!", interruppe il giovane. "Aspetta! ... e a farvi un assegno molto conveniente; per quel che ho capito, fra le sei e le ottomila svanziche all'anno. Non c'è male, eh?" "Avanti!" "Aspetta! Non c'è niente di umiliante. Se ci fosse una condizione umiliante non sarei venuto a proportela. La nonna desidera che tu ti occupi e che tu dia una certa guarentigia di non immischiarti in affari politici. Vi è un modo decoroso di combinare una cosa e l'altra, questo lo devo riconoscere, benché, te lo dico chiaro, io avessi proposto alla nonna un partito diverso. L'idea mia era ch'ella ti mettesse alla testa degli affari suoi. Ne avevi abbastanza per non poter pensare ad altro. Però, anche l'idea della nonna è buona. Conosco fior di giovinotti che pensano come te e che sono nella carriera giudiziaria. È una carriera molto indipendente e molto rispettata. Una parola tua e tu sei ascoltante al Tribunale." "Io?", proruppe Franco. "Io! No, caro Pasotti! No! Non mi si manda, taci! la Polizia in casa, non si fa bestialmente destituire un galantuomo che ha la sola colpa di essere zio di mia moglie, taci ti dico! non si cercano oggi tutte le vie di affamare la mia famiglia e me, per offrirci domani del pane sporco. No, sai, no, grida pure, per fame no, viva Dio, nessuno mi prende! Dillo pure alla nonna e tu ... e tu ... e tu ..." Pasotti aveva sicuramente un sangue di derivazione felina, cupido, fine, prudente, carezzevole, pronto alla simulazione ma soggetto alla collera. Era venuto interrompendo l'invettiva di Maironi con proteste sempre più violente; a quest'ultima apostrofe, sentendo arrivar un nembo di accuse che tanto più lo irritavano quanto più le indovinava, balzò egli pure in piedi. "Fermati!", esclamò. "Che maniera è questa?" "Buona sera!", disse Franco, pigliando il cappello. Ma Pasotti non intendeva lasciarlo partire così. "Un momento!", diss'egli battendo e ribattendo affrettati pugni sul tavolino. "Voialtri vi fate delle illusioni, voialtri sperate molto in quel testamento e quello non e un testamento, quello è un pezzo di carta straccia, quello è il delirio di un pazzo!" Franco, ch'era già presso all'uscio, si fermò, tramortito dal colpo. "Che testamento?", diss'egli. "Via!", riprese Pasotti freddo e beffardo. "C'intendiamo bene!" Una vampa di collera riaccese il sangue a Franco. "Ma no!", diss'egli. "Fuori! parla! Cosa ne sai tu di testamenti?" "Ah!", fece Pasotti con ironica dolcezza. "Adesso va benissimo." Franco l'avrebbe strozzato. "Sono stato a Lodi, non te l'ho detto? Dunque so." Franco, fuori di sé, protestò di non capire niente. "Oh già!", riprese Pasotti, beffardo più di prima. "Lo informerò io il signore. Sappia dunque che il signor professore Gilardoni, il quale non è affatto amico Suo, si è recato in fine di dicembre a Lodi, e si è presentato alla marchesa con una copia senza valor legale di un preteso testamento del povero Suo nonno. In questo testamento Ella, signor don Franco, è istituito erede universale con accompagnamento di offese atroci alla moglie e al figlio del testatore. Ecco che adesso Ella sa. Del resto il signor Gilardoni è stato fedele alla consegna, ha detto di esser venuto di suo capo, senza farne saper niente a voi." Franco ascoltò, livido come un cadavere, sentendosi oscurar la vista e l'anima, raccogliendo tutte le sue forze per non smarrirsi, per dare una risposta degna. "Hai ragione", diss'egli. "Anche la nonna ha ragione. Chi ha torto è il professor Gilardoni. Egli mi ha mostrato quel testamento tre anni sono, la notte del mio matrimonio. Gli ho detto di abbruciarlo e ho creduto che l'avesse fatto. Se non lo ha fatto, mi ha ingannato. Se si è recato a Lodi per quella bella impresa che dice, ha commesso una indelicatezza e una stoltezza enorme. Voi avete avuto ragione di pensar male di noi. Ma sappilo bene! Io disprezzo il danaro della nonna quanto il danaro del Governo: e siccome questa signora ha la fortuna di essere la madre di mio padre, mai, capisci, mai, e adoperi ella pure contro di noi tutte le bassezze, tutte le perfidie che vuole, mai non userò una carta che la disonora! Sono troppo superiore a lei! Va' e dille questo a nome mio e dille che si riprenda le sue offerte perché le sdegno! Buona sera." Lasciò Pasotti sbalordito e se n'andò tutto tremante di sovreccitazione e di collera, dimenticò di ripigliar la sua lanterna, discese al buio, a gran passi, non sapendo né curando affatto dove mettesse i piedi, esclamando di tempo in tempo, buttando fuori ciò che aveva dentro di rovente: pezzi d'ira contro il Gilardoni, pezzi di accusa contro Luisa. Lo zio era andato a letto per tempo e Luisa aspettava Franco nel salottino con Maria che teneva alzata perché suo padre potesse averla un poco, l'ultima sera. La povera Ombretta Pipì aveva cominciato presto a infastidirsi, a far una boccuccia grossa, un visetto piagnoloso, a domandar con una vocina dolente: "Quando viene, papà?". Ma ell'aveva una mamma unica al mondo per consolare gli afflitti. Ombrettina non teneva da un pezzo scarpettine sane e le scarpettine, anche in Valsolda, costavano denari. Pochi, sì, e quando ce n'è pochissimi? Ma ell'aveva una mamma unica al mondo per calzare gli scalzi. Proprio il giorno prima, Luisa, cercando in granaio un pezzo di corda, aveva trovato fra vecchie sciarpe, casse vuote e seggiole rotte, uno stivale di suo nonno. Lo aveva posto a rammollire nell'acqua, s'era fatta prestare trincetto, lesina e forbice. Prese ora il venerabile stivale che fece spavento a Ombretta e lo posò sulla tavola. "Adesso gli reciteremo l'orazione funebre", diss'ella con quel brio voluto che neppure un'angustia mortale poteva toglierle, se le bisognava. "Prima, però, domanderai al tuo signor bisnonno il permesso di prenderti il suo stivale." Ella fece che Maria giungesse le mani e recitasse questa filastrocca guardando comicamente il soffitto: Caro signor bisnonno benedetto, Questo stival, se Lei non se lo mette, Lo doni alla Sua Ombretta, Che aspetta con gran fretta Un paio di scarpette E Le scocca su in cielo un bel bacetto Alla pianta del piede con rispetto. Venne poi una poco riverente fantasia come ne nascevan tante nel cervello di Luisa, una bizzarra storia dell'angioletto che lustra gli stivali in paradiso e che un giorno, per voler pigliare senza permesso un pezzetto di pan d'oro, aveva lasciato cadere sulla Terra lo stivale del bisnonno. Maria si rasserenò, rise, interruppe la mamma con cento domande sul pan d'oro e sullo stivale rimasto in Paradiso. Che ne farebbe di quello il bisnonno? La mamma le spiegò che il bisnonno lo avrebbe applicato perdi dietro all'imperatore d'Austria onde buttarlo giù dal cielo, se ve lo incontrava. In quel momento entrò Franco. Luisa vide subito che gli occhi e la fronte segnavano tempesta. "Dunque?", diss'ella. Franco rispose concitato: "Metti a letto Maria". Luisa osservò che aveva tenuta la bambina alzata per aspettarlo, perché stesse un po' con lui. Franco replicò "ti dico di metterla a letto" tanto aspramente che Maria si mise a piangere. Luisa si fece rossa ma tacque. Accese un lume, prese la bambina in braccio, la porse silenziosamente a suo padre per un bacio, che fu freddo, e la portò via. Franco non la seguì. Si arrabbiò di veder quello stivale e lo gettò in terra. Poi sedette, piantò i gomiti sulla tavola, si strinse il capo fra le mani. L'amara idea che Luisa fosse complice del Gilardoni gli era lampeggiata in mente subito, mentre Pasotti parlava, col ricordo di quel "cosa, silenzio?", di quel "basta!" e del racconto della bambina. Egli aveva dentro a sé come un vortice dove questa idea spariva girando e ricompariva sempre più basso, sempre più vicino al cuore. "Dunque?", tornò a chiedere Luisa, rientrando. Franco la guardò un momento in silenzio, la scrutò. Poi si alzò e le afferrò le mani. "Dimmi se sai niente!", diss'egli. Ella indovinò, ma quello sguardo e quel modo la offesero. "Come, se so niente?", esclamò accesa in volto. "Me lo domandi così?" "Ah tu sai!", gridò Franco, gittando da sé le mani di lei e levando le braccia in alto. Ella presentì ciò che veniva, il sospetto della sua complicità col professore, la propria smentita, l'offesa mortale, irrimediabile che Franco le avrebbe fatto se, nell'ira, non avesse creduto alla sua parola, e giunse le mani spaventata. "No, Franco, no, Franco", diss'ella sottovoce e gli gettò le braccia al collo, volle chiuder coi baci le labbra di lui. Ma egli fraintese, credette che volesse domandar perdono e la respinse. "Lo so, sì, lo so", diss'ella tornando appassionata al suo petto, "ma l'ho saputo dopo, quando era cosa fatta, ne ho avuto sdegno come te, più di te!" Ma Franco aveva troppo bisogno di sfogarsi, di offendere. "E come vuoi che ti creda?", esclamò. Ella indietreggiò con un grido, poi gli fece ancora un passo incontro, gli stese le braccia. "No", supplicò straziata, "dimmi che mi credi, dimmelo subito subito perché altrimenti tu non sai, tu non sai!" "Cosa, non so?" "Tu non sai come sono io che ti amerò ancora ma non vorrò più essere moglie per te, che potrò soffrir tanto ma non cambiare, mai più! Capisci cosa vuol dire mai più? Egli la trasse a sé, la sottile persona ansante, le strinse le mani da rompergliele e disse con voce soffocata: "Ti crederò, sì, ti crederò". Luisa che lo guardava lagrimosa chiese una parola migliore. "Ti crederò" disse, "ti crederò? "Ti credo, ti credo." Lo credeva davvero ma dov'è ira è sempre anche orgoglio. Non volle subito arrendersi del tutto; il suo accento fu piuttosto d'un uomo compiacente che d'un uomo convinto. Restarono ambedue silenziosi, tenendosi per le mani, cominciarono a sciogliersi l'un dall'altro via via con un impercettibile moto. Fu Luisa che infine, dolcemente, si staccò del tutto. Sentiva la necessità di troncar quel silenzio, parole calde non ne trovava, parole fredde non ne voleva, si mise a raccontare senz'altro come avesse saputo dal Gilardoni del malaugurato viaggio a Lodi. Parlava con voce tranquilla, non propriamente fredda ma triste, stando seduta alla tavola in faccia a suo marito. Mentre riferiva le confidenze del professore, Franco si riaccendeva, la interrompeva continuamente: "E non gli hai detto questo? - E non gli hai detto quello? - Non gli hai detto stupido? - Non gli hai detto bestia?". La prima volta Luisa lasciò correre, poi protestò. Aveva già detto di essersi sdegnata per lo sproposito del Gilardoni; pareva quasi, adesso, che suo marito ne dubitasse! Franco si chetò ma di mala voglia. Quando il racconto fu terminato si scagliò ancora contro il filosofo balordo, tanto che Luisa lo difese. Era un amico, aveva errato gravemente, gravissimamente, ma con buona intenzione. Dove andavano a finire le massime di Franco, la carità, il perdono delle offese, s'egli non perdonava neppure a chi aveva voluto fargli del bene? Ella pensò, qui, cose che non disse. Pensò che Franco perdonava moltissimo quando a perdonare c'era follia e gloria e perdonava pochissimo quando c'erano semplicemente ottime ragioni di farlo. Franco a udirsi parlar da lei di carità, s'irritò, non osò dire che si sentiva superiore a un attacco simile, ma ritorse poco generosamente il colpo. "Ecco!", esclamò con una reticenza piena di sottintesi. "Tu lo difendi! Già!". Luisa ebbe un sussulto nervoso delle spalle, ma tacque. "E perché non parlare, tu?", riprese Franco. "Perché non raccontarmi tutto subito?" "Perché quando rimproverai Gilardoni egli mi supplicò di tacere ed io credetti, com'era anche vero, che fosse inutile, a cosa fatta, darti un dispiacere così grande. L'ultimo dì dell'anno, quando sei andato in collera, volevo dirtelo, volevo raccontarti ciò che mi aveva confidato Gilardoni, te lo ricordi? E tu non hai assolutamente voluto. Non ho insistito anche perché Gilardoni ha detto alla nonna che noi non ne sapevamo niente." "Non lo ha creduto! Naturale!" "E se io parlavo cosa ci poteva far questo? Così Pasotti avrà ben capito che tu non sapevi niente!" Franco non replicò. Allora Luisa gli chiese di raccontarle il colloquio e stette ad ascoltarlo senza batter ciglio. Ella indovinò, con l'acume dell'odio, che se Franco avesse accettato di entrare negl'impieghi, sarebbe venuta fuori l'ultima condizione: separarsi dallo zio, da un impiegato destituito per ragioni politiche. "Certo!", diss'ella, "avrebbe voluto anche questo! Canaglia!" Suo marito trasalì come se quella scudisciata avesse toccato il sangue anche a lui ... "Adagio", diss'egli, "con queste parole! Prima, è una supposizione tua; e poi ..." "È una supposizione mia? E il resto? E offrirti una viltà simile?" Franco che aveva risposto a Pasotti con furore, rispose ora mollemente a sua moglie. "Sì sì sì, ma insomma ..." Adesso era lei che diventava violenta. L'idea che la nonna osasse proporre loro l'abbandono dello zio la faceva quasi impazzire. "Almeno questo", diss'ella, "mi consentirai: che pietà non ne merita! Dio mio, pensare che questo testamento c'è ancora!" "Oh!", esclamò Franco. "Torniamo da capo?" "Torniamo da capo! Hai tu il diritto di pretendere che io neanche pensi, neanche senta come non piace a te? Sarei vile, meriterei di essere una schiava, e non voglio poi essere né una cosa né l'altra." La ribelle intravveduta, sentita qualche volta da Franco attraverso l'amante, la creatura dall'intelletto forte sopra l'amore e orgoglioso, non potuta mai conquistare interamente, gli stava ora di fronte, tutta vibrante nella coscienza della sua ribellione. "Va bene", disse Franco parlando a se stesso. "Sarebbe vile, sarebbe schiava. Si ricorda Ella nemmeno più che domani vado via?" "Non andar via. Resta. Eseguisci la volontà del tuo povero nonno. Ricordati quello che mi hai raccontato sulla origine della sostanza Maironi. Restituisci tutto all'Ospitale Maggiore. Fa giustizia." "No!", rispose Franco. "Chimere! Il fine non giustifica i mezzi. Il vero fine poi, per te, è colpire la nonna. Questa storia dell'Ospitale è il mezzo di giustificarlo. No, non mi servirò mai di quel testamento. L'ho anche dichiarato a Pasotti, con parole da farmi sputare in faccia se cambiassi! E parto domattina." Seguì un lungo silenzio. Poi le due voci ripresero il dialogo, gelate e tristi come se nell'uno e nell'altro cuore vi fosse adesso qualche cosa di morto. "Hai pensato", disse Franco, "che farei anche disonore a mio padre?" "In che modo?" "Prima per la forma oltraggiosa delle disposizioni e poi perché farei supporre la complicità di mio padre nella soppressione del testamento. Già, tu non le capisci queste cose. Che te ne importa?" "Ma non è necessario parlar di soppressione. Può darsi che il testamento non sia stato trovato." Nuovo silenzio. La stessa candela di sego che ardeva sulla tavola aveva una espressione lugubre. Luisa si alzò, raccolse da terra lo stivale del bisnonno e si dispose a incominciar il suo lavoro. Franco andò ad appoggiar la fronte alle invetriate della finestra. Vi rimase un pezzo, assorto nella contemplazione delle ombre della notte. Poi disse piano, senza volgere il capo: "Mai mai l'anima tua non è stata tutta con me". Nessuna risposta. Egli si voltò, adesso, e domandò a sua moglie, affatto senza collera, con la dolcezza inesprimibile che aveva nei momenti di depressione fisica o morale, se gli era accaduto, fin dal principio della loro unione, di mancare verso di lei. Gli fu risposto un impercettibile: "No". "Allora forse non mi amavi come ho creduto?" "No no no." Franco non era sicuro di aver inteso bene e ripeté: "Non mi amavi?" "Sì sì, tanto." Lo spirito di lui si rialzò, un'ombra di severità gli rientrò nella voce. "E allora", diss'egli, "perché non mi hai dato tutta l'anima tua?" Ella tacque. Aveva prima tentato invano di riprendere il lavoro. Le mani tremavano. E adesso veniva questa domanda terribile! Doveva o non doveva rispondere? Rispondendo, rivelando per la prima volta cose sepolte in fondo al cuore, avrebbe allargata la scissura dolorosa; ma poteva non essere leale? Il suo silenzio durò tanto che Franco le chiese ancora: "Non parli?". Ella raccolse tutte le proprie forze e parlò. "È vero, l'anima mia non è mai stata interamente con te." Tremò nel dir così, e Franco non respirava più. "Mi sono sempre sentita diversa e staccata da te", riprese Luisa, "nel sentimento che deve governare tutti gli altri. Tu hai le idee religiose di mia madre. Mia madre intendeva e tu intendi la religione come un insieme di credenze, di culto e di precetti, ispirato e dominato dall'amor di Dio. Io ho sempre avuto ripugnanza a concepirla così, non ho mai potuto veramente sentire, per quanto mi sforzassi, questo amore di un Essere invisibile e incomprensibile, non ho mai potuto capire il frutto di costringer la mia ragione ad accettare cose che non intende. Però mi sentivo un desiderio ardente di dirigere la mia vita a qualche cosa di bene secondo un'idea superiore al mio interesse. E poi mia madre mi aveva talmente penetrata, con l'esempio e con la parola, de' miei doveri verso Dio e la Chiesa, che i miei dubbi mi davano un grandissimo dolore, li combattevo quanto potevo. Mia madre era una santa. Ogni atto della sua vita corrispondeva alla sua fede. Anche questo poteva molto sopra di me e poi sapevo che la maggiore afflizione della sua vita era stata l'incredulità di mio padre. Ho conosciuto te, ti ho amato, ti ho sposato, mi sono confermata nel proposito di diventare, nelle cose di religione, come te, perché tu eri come mia madre. Ma ecco, un po' alla volta, ho trovato che tu non eri come mia madre. Debbo dire anche questo?" "Sì, tutto." "Ho trovato che tu eri la bontà stessa, che avevi il cuore più caldo, più generoso, più nobile della terra, ma che la tua fede e le tue pratiche rendevano quasi inutili tutti questi tesori. Tu non operavi. Tu eri contento di amar me, la bambina, l'Italia, i tuoi fiori, la tua musica, le bellezze del lago e delle montagne. In questo seguivi il tuo cuore. Per l'ideale superiore ti bastava di credere e di pregare. Senza la fede e senza la preghiera tu avresti dato il fuoco che hai nell'anima a quello ch'è sicuramente vero, ch'è sicuramente giusto qui sulla terra, avresti sentito quel bisogno di operare che sentivo io. Tu lo sai, già, come ti avrei voluto in certe cose! Per esempio, chi sente il patriottismo più di te? Nessuno. Bene, io avrei voluto che tu cercassi di servirlo proprio davvero, poco o molto, il tuo paese. Adesso vai in Piemonte ma ci vai sopra tutto perché non abbiamo quasi più da vivere." Franco accigliatissimo, fece un atto iracondo di protesta. "Se vuoi", disse umilmente Luisa, "mi fermo." "No, no, avanti, fuori tutto, è meglio!" Egli rispose tanto concitato, tanto sdegnoso, che Luisa tacque e solo ripigliò il suo discorso dopo un altro "avanti!". "Anche senz'andare in Piemonte ci sarebbe stato da fare in Valsolda, in Val Porlezza, in Vall'Intelvi quello che fa V. sul lago di Como, mettersi in relazione colla gente, tener vivo il sentimento buono, preparare tutto ciò ch'è bene preparare per il giorno della guerra, se verrà. Io te lo dicevo e tu non ti persuadevi, mi facevi tante difficoltà. Questa inerzia favoriva la mia ripugnanza al concetto tuo della religione e la mia tendenza ad un altro concetto. Perché religiosa mi sentivo anch' io moltissimo. Il concetto religioso che mi si veniva formando sempre più chiaro nella mente era questo, in breve: Dio esiste, è anche potente, è anche sapiente, tutto come credi tu; ma che noi lo adoriamo e gli parliamo non gliene importa nulla. Ciò ch'egli vuole da noi lo si comprende dal cuore che ci ha fatto, dalla coscienza che ci ha dato, dal luogo dove ci ha posto. Vuole che amiamo tutto il bene, che detestiamo tutto il male, e che operiamo con tutte le nostre forze secondo quest'amore e quest'odio , e che ci occupiamo solamente della terra, delle cose che si possono intendere, che si possono sentire! Adesso capisci come concepisco io il mio dovere, il nostro dovere, di fronte a tutte le ingiustizie, a tutte le prepotenze!" Più Luisa procedeva nel definire ed esprimere le proprie idee, più si sentiva contenta di farlo, di esser finalmente sincera, di porsi con franchezza sopra un terreno proprio e fermo; più si spegneva dentro di lei ogni sdegno contro il marito, più le saliva nel cuore una tenera pietà di lui. "Ecco", soggiunse, "se si trattasse solamente di questo dispiacere circa la nonna, non credi che avrei sacrificato mille volte l'opinione mia piuttosto che affliggerti? Bisognava bene che ci fosse sotto qualche altra cosa. Adesso sai tutto, adesso l'anima mia l'ho messa nelle tue mani." Ella lesse sulla fronte di suo marito un dolor cupo, una freddezza nemica. Si alzò, mosse adagio adagio verso di lui, a mani giunte, fissandolo, cercando gli occhi che la evitavano e si fermò per via, respinta da una forza superiore, benché egli non avesse detto una parola né fatto un gesto. "Franco!", supplicò. "Non mi puoi amare più?" Egli non rispose. "Franco! Franco!", diss'ella, tendendogli le mani giunte. Poi fece l'atto di avanzare. Egli si tirò bruscamente indietro. Stettero così a fronte in silenzio, per un eterno mezzo minuto. Franco teneva le labbra serrate, si udiva la sua respirazione frequente. Fu lui che ruppe il silenzio. "Quello che hai detto è proprio il tuo pensiero?" "Sì." Egli teneva le mani sulla spalliera d'una seggiola. La scosse con violenza e disse amaramente: "Basta". Luisa lo guardò con tristezza indicibile e mormorò: "Basta?". Egli rispose con ira: "Sì, basta basta basta basta!". Tacque un istante e riprese duramente: "Sarò un neghittoso, un inerte, un egoista, tutto quello che vuoi, ma non sono poi un bambino da venirmi a quietare con due carezze dopo avermi detto tutto quello che mi hai detto! Basta!". "Oh Franco, ti ho fatto male, lo so, ma mi è costato tanto di farti male! Non puoi prendermi con bontà?" "Ah, prenderti con bontà! Tu vuoi ferire e che ti si prenda con bontà! Tu sei superiore a tutti, tu giudichi, tu sentenzii, tu sei la sola che intende cosa Dio vuole e cosa non vuole! Questo no, sai, del resto. Di' pure di me quello che ti piace ma lascia stare le cose che non capisci. Occupati del tuo stivale, piuttosto!" Egli non voleva vedere in sua moglie che l'orgoglio, e la sua stessa collera gli era nata quasi tutta d'orgoglio, d'amor proprio offeso, era una collera impura che gli offuscava la mente e il cuore. Sì la moglie che il marito avrebbero creduto poter essere accusati di tutto fuorché d'orgoglio. Ella tacque, riprese il suo posto, tentò riprendere il lavoro, maneggiava nervosamente gli strumenti senza saper bene che si facesse. Franco se n'andò in sala, sbattendo l'uscio dietro di sé. Nel buio della sala, abbandonata dopo le cinque, si gelava; ma Franco non se n'accorse. Si buttò sul canapè, si diede tutto al suo dolore, alla sua collera, a una facile, violenta difesa mentale di se stesso contro la moglie. Siccome Luisa si era levata, fosse pure con certi temperamenti, contro lui e contro Dio, gli faceva comodo di confondere in cuor suo la propria causa con quella dell'altro muto, terribile Offeso. La sorpresa, l'amarezza, l'ira, le buone e le cattive ragioni gli fecero prima una turbinosa tempesta nel cervello. Poi si sfogò a immaginare pentimenti di Luisa, domande di perdono, magnanime risposte proprie. A un tratto udì Maria gridare e piangere. Si alzò per andar a vedere cos'avesse, ma era senza lume. Allora attese un poco pensando che andrebbe Luisa. Non udì alcun movimento e la bambina piangeva sempre più forte. Si accostò pian piano al salotto, guardò per il vetro dell'uscio. Luisa teneva le braccia incrociate sulla tavola e il viso appoggiato alle braccia. Non si vedevano, al lume della candela, che i suoi bei capelli bruni. Franco si sentì cadere la collera, aperse l'uscio e chiamò a mezza voce con certa severa dolcezza: "Luisa, Maria piange". Luisa levò il viso pallidissimo, prese la candela e uscì senza dir parola. Suo marito la seguì. Trovarono la bambina a sedere sul letto, tutta piangente, spaventata da un sogno. Quando vide suo padre gli stese le braccia supplicandolo con la voce grossa di pianto: "No via, papà, no via, papà!". Franco se la strinse in braccio, la coperse di baci, la chetò, la ripose nel letticciuolo. Ella si teneva stretta una mano del papà, non la voleva in alcun modo lasciare. Luisa prese un'altra candela sul suo tavolino da notte, volle accenderla e non le riusciva, tanto le tremavano le mani. "Non vieni a letto?", le chiese Franco. Ella rispose "no" tremando più di prima. Franco credette indovinar in lei una supposizione, un timore, e se ne offese. "Oh, puoi venire!", diss'egli sdegnoso. Luisa accese il lume e disse più pacatamente che doveva lavorare alle scarpette. Uscì e solamente sulla soglia mormorò: "Buona notte". Franco rispose asciutto: "Buona notte". Ebbe un momento l'idea di spogliarsi, l'abbandonò subito poiché sua moglie stava alzata a lavorare. Tolse una coperta, si coricò vestito, dalla parte del letticciuolo onde potersi tenere una manina di Maria che non dormiva ancora, e spense il lume. Che dolcezza, quella manina cara! Franco la sentiva, bambina, la sua figliuola, innocente, amorosa bambina e la immaginava donna, tutta sua nel cuore, tutta unita a lui nelle idee come nei sentimenti, immaginava che quella manina stretta volesse compensarlo del dolore datogli da Luisa, dirgli: papà, tu e io siamo uniti per sempre. Dio, gli venivano i brividi a pensare che forse Luisa vorrebbe educarla nelle sue idee e ch'egli sarebbe lontano, non ci potrebbe far niente! Pregò il Signore, pregò il Maestro così dolce ai bambini, pregò Maria, pregò la santa nonna Teresa, pregò la sua propria mamma di cui sapeva ch'era stata tanto pura e tanto religiosa: "Custodite, custodite la mia Maria!". Offerse tutto se stesso, la felicità terrena, la salute, la vita purché Maria fosse salva dall'errore. "Papà", disse Ombretta. "Un bacio." Egli si sporse dal letto, si chinò a cercar con le labbra il caro visino e poi le disse di tacere, di dormire. Ella tacque un minuto e chiamò: "Papà". "Cosa?" "Non ho mica il mulo sotto il guanciale, sai, papà." "No, no, cara, ma dormi." "Sì, papà, dormo." Tacque un altro minuto e poi: "La mamma è a letto, papà?" "No, cara." "Perché?" "Perché ti fa le scarpette." "Le porto anche in Paradiso, io, le scarpette, come il bisnonno?" "Taci, dormi." "Contami una storia, papà." Egli si provò ma non aveva la fantasia né l'arte di Luisa e s'imbarazzò presto. "Oh papà", disse Maria con l'accento della compassione, "tu non sai raccontar le storie." Questo lo umiliò. "Senti, senti", rispose, e si mise a recitare una ballata di Carrer, Al bosco nacque, povera bambina, Gerolimina, rifacendosi, dopo quattro strofe che ne sapeva, sempre da capo, con intonazioni sempre più misteriose e abbassando via via la voce in un bisbiglio inarticolato, fino a che Ombretta Pipì, cullata dal metro e dalla rima, entrò con essi nel mondo dei sogni. Quando la udì dormire in pace gli parve così crudele di lasciarla, gli parve d'essere un tal traditore che vacillò nel suo proponimento. Si rimise subito. Il dolce dialogo con la bambina gli aveva alquanto pacificato e rischiarato lo spirito. Incominciò ad aver coscienza di un altro dovere che oramai gl'incombeva di fronte alla moglie: mostrarlesi uomo a costo di qualsiasi sacrificio, nella volontà e nell'azione, difendere, contro lei, la propria fede con le opere, partire, lavorare e soffrire; e poi ... e poi ... se Iddio santo vorrà che il cannone tuoni per l'Italia, via, avanti, e venga pure una palla austriaca che la faccia piangere e pregare anche lei! Gli sovvenne di non aver dette le sue preghiere della sera. Povero Franco, non gli era mai successo di recitarle a letto senz'assopirsi a metà. Sentendosi abbastanza tranquillo, pensando che Luisa tarderebbe forse molto a venire, ebbe paura di addormentarsi e si domandò cosa direbbe se lo trovasse addormentato. Si alzò pian piano, disse le sue preghiere, accese quindi il lume, sedette alla scrivania, si pose a leggere e si addormentò sulla sedia. Fu svegliato dagli zoccoli della Veronica che scendeva le scale. Luisa non era ancora venuta. Entrò poco dopo e non espresse alcuna meraviglia di veder Franco alzato. "Sono le quattro", diss'ella. "Se vuoi partire manca mezz'ora." Occorreva partire alle quattro e mezzo per essere sicuramente a Menaggio in tempo di pigliar il primo battello che veniva da Colico. Invece di andar a Como e quindi a Milano come s'era annunciato ufficialmente, Franco doveva scendere ad Argegno e salire a S. Fedele, calare in Svizzera per la Val Mara o per Orimento e il Generoso. Franco accennò a sua moglie di tacere, di non svegliare Maria. Poi, ancora con un silenzioso gesto, la chiamò a sé. "Parto", le disse piano. "Ieri sera sono stato cattivo, con te. Ti domando perdono. Dovevo risponderti diversamente, anche avendo ragione. Tu conosci il mio temperamento. Perdonami. Almeno non serbarmi rancore." "Per parte mia non ne sento affatto", rispose Luisa con dolcezza, come uno che facilmente è benigno perché si sente superiore. Gli ultimi preparativi furono fatti in silenzio, il caffè fu preso in silenzio. Franco andò ad abbracciare lo zio che non aveva salutato la sera, poi entrò solo nell'alcova, si inginocchiò al lettuccio di Maria, sfiorò col labbro una manina che pendeva dalla sponda. Ritornando in salotto vi trovò Luisa con lo scialle e il cappello, le domandò se veniva a Porlezza anche lei. Sì, veniva. Tutto era pronto, la borsa a mano l'aveva Luisa, la valigetta era in barca, l'Ismaele aspettava alla scaletta della darsena con un piede sullo scalino e un piede sulla prua del battello. La Veronica accompagnò i viaggiatori col lume, diede il buon viaggio al padrone, tutta compunta, avendo odorata la burrasca. Due minuti ancora e il pesante battello spinto da Ismaele con la remata lenta e tranquilla "di viaggio" passava sotto il muro dell'orto. Franco mise il capo al finestrino. Passarono, nel chiaror fioco della notte stellata senza luna, i rosai, i capperi, le agavi pendenti dal muro, passarono gli aranci, il nespolo, il pino. Addio, addio! Passarono il Camposanto, la "Zocca de Mainé", la stradicciuola fatta tante volte con Maria, il Tavorell. Franco non guardò più. Non c'era il solito lume, quella notte, nel casottino del battello ed egli non poteva vedere sua moglie, che non parlava. "Vieni a Porlezza per le carte del notaio", diss'egli, "o proprio per accompagnar me?" "Anche questo!", mormorò Luisa, tristemente. "Ho voluto esser leale con te fino all'estremo e tu te ne sei offeso. Mi domandi perdono e poi mi dici queste cose. Capisco che non si può esser fedeli alla verità senza soffrire molto, molto, molto. Pazienza, ormai ho preso questa strada. Se son venuta per accompagnarti, lo saprai. Non farmi abbassare a dirlo adesso!" "Non farmi abbassare!" esclamò Franco. "Io non capisco. Siamo tanto diversi in tante cose, del resto. Dio mio! come siamo diversi! Tu sei sempre così padrona di te stessa, sai sempre esprimere i tuoi pensieri così esattamente, li conservi sempre così netti, così freddi!" Luisa mormoro: "Sì, siamo diversi". Non parlarono più né l'uno né l'altro fino a Cressogno. Quando furono vicini alla villa della nonna, Luisa parlò e cercò che il discorso non cadesse fino a che la villa non fosse passata. Si fece ripetere tutto l'itinerario stabilito, suggerì di pigliar la sola borsa a mano perché la valigia imbarazzerebbe troppo da Argegno in poi. Ne aveva già parlato con Ismaele e Ismaele s'incaricava di portarla a Lugano e di spedirla a Torino di là. Intanto la villa della nonna con le sue suggestioni sinistre, passo. Ecco il santuario della Caravina, adesso. Due volte, durante i loro amori, Franco e Luisa s'erano incontrati alla festa della Caravina l'otto settembre, sotto gli ulivi. E passò anche la cara piccola chiesa cinta d'ulivi sotto le rupi paurose del picco di Cressogno. Addio, chiesa, addio, tempo passato. "Ricordati", disse Franco quasi duramente, "che Maria deve dire le sue preghiere ogni mattina e ogni sera. È un comando che ti do." "Lo avrei fatto anche senza comando", rispose Luisa. "So che Maria non appartiene solo a me." Silenzio fino a Porlezza. L'uscir dalla cala placida della Valsolda, il veder altre valli, altri orizzonti e il lago segnato dalle prime brezze dell'alba, traevano i due viaggiatori ad altri pensieri, li facevano pensare, senza che ne sapessero il perché, all'avvenire incerto precorso da bisbigli annunciatori di grandi cose, che passavan di furto per il pesante silenzio austriaco. Si udì qualcuno gridare dalla riva di Porlezza e Ismaele si mise a remar di lena. Era il vetturino, il Toni Pollìn, che gridava di far presto se non si voleva perdere il vapore a Menaggio. Ecco gli ultimi momenti. Franco abbassò il vetro dell'usciolino, guardò quell'uomo come se avesse un grande interesse di udirne le parole. Quando approdarono si voltò a sua moglie. "Esci anche tu?" Ella rispose: "Se credi". Uscirono. Una carrettella era sulla riva, pronta. "Guarda", disse Luisa, "che nella borsa troverai da far colazione." Si abbracciarono, si scambiarono un bacio rapido e freddo davanti tre o quattro curiosi. "Fa che Maria", disse Franco, "mi perdoni di esser partito così", e furono le ultime sue parole perché il Toni Pollìn insisteva, "presto, presto!". La carrettella partì di gran trotto e con un gran fracasso di frustate per la stretta, scura viuzza di Porlezza. Franco viaggiava sul Falco, da Campo verso Argegno, quando pensò di prender qualche cosa. Aperse la borsa e gli balzò il cuore vedendo una lettera con questo indirizzo di carattere di sua moglie: "per te". L'aperse avidamente e lesse: Se tu sapessi cosa mi sento io nell'anima, quel che soffro, come sono tentata di lasciar qui le scarpette delle quali m'intendo assai meno che tu non creda, e di venir da te a rinnegar quello che t'ho detto, non saresti così duro con me. Debbo aver molto peccato contro la Verità perché mi sieno così difficili e amari i primi passi che faccio seguendo lei. Tu mi credi orgogliosa e io stessa mi credevo molto suscettibile: adesso sento che le tue parole umilianti non potrebbero trattenermi dal venirti a cercare. Ciò che mi trattiene è una Voce dentro di me, una Voce più forte di me, che mi comanda di tutto sacrificare fuorché la mia coscienza della verità. Ah, io spero un premio di questo sacrificio! Io spero che possiamo un giorno essere uniti con tutta l'anima. Esco in giardinetto a coglier per te la brava rosellina che abbiamo ammirata insieme ier l'altro, che ha sfidato e vinto gennaio. Ti ricordi quanti ostacoli erano fra noi quando la prima volta ebbi un fiore dalle tue mani? Io non t'amavo ancora e tu già pensavi a vincermi. Adesso sono io che spero di conquistare te. Mancò poco che Franco lasciasse passare Argegno senza muoversi dal suo posto.

ATTRAVERSO L'ATLANTICO IN PALLONE

682209
Salgari, Emilio 9 occorrenze

"Che qualche nuova corrente ci abbia presi?" "Non lo credo, ma è un fatto, però, che noi ci avviciniamo alla costa africana, descrivendo una linea obliqua. Che l'aliseo vada ad urtare contro il Capo Verde, prima di piegare verso l'occidente? Sarebbe una bella fortuna, amico mio." "Se giungeremo in tempo ad avvistarla." "Perché?" "Perché cadiamo, e rapidamente Mister Kelly." "Ancora!" esclamò l'ingegnere, con accento di dolore. Si chinò sul bordo della navicella e fece un gesto di rabbia. "Miserabili!" esclamò. "Quei naufraghi ci hanno rovinati." "Che si siano riaperti gli strappi?" "Non credo, ma il gas sfugge attraverso le cuciture." "Volete, signore, che vada a spalmarle di vernice?" chiese il mozzo. "È inutile, Walter: fra mezz'ora saremmo da capo. Rinforziamo i fusi col gas che ci rimane." "Quanta zavorra ci rimane da gettare?" "Circa duecento chilogrammi. Aiutatemi, amici." "Una parola, Mister Kelly. Se si introducesse il gas nei palloncini interni, non si otterrebbe un effetto migliore e più durevole?" "Avete ragione, O'Donnell. L'idea è buona e non so come mi sia sfuggita. Affrettiamoci, che l'oceano ci è vicino." Il Washington cadeva. Il suo gas, dopo tanti giorni. perdeva rapidamente la sua forza ascensionale, come un uomo che un lungo digiuno sfinisce. Scendeva di minuto in minuto, descrivendo delle larghe oscillazioni e virando frequente di bordo. Gli aeronauti che udivano sempre più distinti i muggiti delle onde, diedero prontamente mano alla manovra, che doveva essere l'ultima, perché dopo non doveva rimanere nella navicella più di un metro cubo d'idrogeno. L'ingegnere, aiutato dai suoi amici, aprì le due manichette dei palloncini e lasciò sfuggire l'aria, provocando una nuova e più rapida caduta dei fusi e introdusse, invece di quella, l'idrogeno che ancora possedeva. La forza ascensionale del Washington si manifestò bruscamente, come per incanto. L'aerostato, che si trovava già a soli venticinque o trenta metri dall'oceano, fece un balzo immenso nell'aria elevandosi a duemilacinquecento. Il lancio in mare della pompa premente, che non era più di nessuna utilità, ora che i palloncini interni non potevano più ricevere l'aria, e di alcune casse vuote, lo portò a 3000 metri. Quel salto straordinario ebbe il vantaggio di far trovare una nuova corrente aerea, che spingeva diagonalmente, sopra gli alisei, in direzione della costa africana. La speranza, per un momento perduta, cominciò a rinascere nei cuori degli aeronauti. La velocità di quella corrente era molto considerevole, più forte di quella che spirava anteriormente, poiché toccava i settanta chilometri all'ora. Essendo lontani circa quattrocento chilometri dalla costa africana, potevano giungervi prima delle quattro pomeridiane. "Come dormirei volentieri sotto un frondoso albero!" esclamò O'Donnell. "E forse questa sera potrò distendere le mie gambe sopra un soffice e fresco tappeto d'erba!" "Se il vento non cambia direzione, noi ceneremo in Africa, O'Donnell" aggiunse l'ingegnere. "E accenderemo un bel fuoco!" "E fors'anche vi metteremo sopra un arrosto. La selvaggina abbonda in Africa" "Mangerei una bistecca di leone, Mister Kelly. Ma dove cadremo?" "Nella Senegambia, se manteniamo la rotta attuale." "C'è pericolo di venire massacrati dai negri?" "No: quei negri sono sudditi francesi e non ardiranno toccarci." "Hurrah per la Senegambia, dunque!" "Non ci siamo ancora." "Ci giungeremo, Mister Kelly: il cuore me lo dice." "Ma il cuore sovente s'inganna, O'Donnell." Intanto il Washington continuava la sua corsa verso la costa africana, mantenendo la diagonale che pareva dovesse passare nei pressi del Capo Verde. Per quanto il gas continuasse a sfuggire attraverso le cuciture, pure si manteneva a quella grande altezza mercé i due palloncini, che serbavano la forza ascensionale sempre a quel livello. Alle due, O'Donnell, che puntava dì frequente il cannocchiale verso l'est, volendo scoprire la costa africana, segnalò delle macchie grigiastre che apparivano sulla superfìcie dell'oceano e verso il nord a una grande distanza. "L'Africa!" esclamò con voce alterata dalla commozione. "Di già?" chiese l'ingegnere. Prese il cannocchiale che O'Donnell gli porgeva e guardò attentamente nella direzione indicata. "Sì," diss'egli "laggiù si stende il continente africano. Quella striscia che si vede al nord dev'essere il Capo Verde." "E quelle isole?" chiese O'Donnell. "Sono quelle che si stendono dinanzi alla foce del Gambia: Santa Maria e Sanguonar, ne sono certo." "Dunque noi ci troviamo ora? ... " "A 13o 30o di latitudine e a 19o di longitudine." "Troveremo dei bianchi laggiù?" "Sì, e numerosi. I francesi hanno parecchie fattorie sulle isole degli Elefanti, degli Ippopotami degli Uccelli e di Saffo, e una importantissima ad Albreda; e ne hanno pure gl'inglesi lungo il fiume, e posseggono una piccola colonia, quella di Bathurst, sull'isola di Santa Maria." "Mi spiacerebbe cadere nelle loro mani, Mister Kelly. Voi sapete che sono ricercato dalla polizia." "Cadremo su territorio francese o sulle terra del piccolo reame di Bar. Ecco la foce del fiume, chee comincia a disegnarsi nettamente. Fra venti minuti ci libreremo sopra le isole dell'estuario." "No, Mister Kelly." "Perché?" "Mi pare che il vento abbia fatto un salto, come dicono i marinai." "Ma ci spinge sempre all'est." "No, Mister Kelly" disse O'Donnell con voce soffocata. "Pieghiamo verso il sud."

Temo che la paura gli abbia sconvolto il cervello." "Lo credete, O'Donnell?" chiose l'ingegnere, con emozione. "Temo: mi guardava in modo da farmi venire i brividi." "Affrettiamoci a issarlo, allora ... Chi avrebbe sospettato che quel negro fosse così pauroso? Eppure mi aveva dato qualche prova di coraggio." "Questo viaggio lo ha scombussolato." "Tuttavia, quando gli feci la proposta di seguirmi, egli accettò con grande gioia. Mi spiacerebbe assai avergli causato una disgrazia simile." "Sarà forse una esaltazione momentanea, causata dalla paura. Vi assicuro però che quel mostro faceva venire la pelle d'oca anche a me, per non dire che mi gelava il sangue. Per Giove e Saturno! Che occhi! Non li dimenticherò mai, dovessi vivere mille anni! Orsù, issiamo quel povero Simone."

"Che Kelly abbia trovato il modo di dirigere gli aerostati? ... " "L'ingegnere ci farà perdere le scommesse." "A vantaggio nostro che abbiamo scommesso per lui! ... " "By God!" "Sapristi!" "Hurrah!, Hurrah!" Un alto grido scoppia da tutte le parti, e una carica di applausi frenetici rimbomba, coprendo i muggiti delle onde, che si frangono con furore contro la spiaggia, e le grida degli aiutanti. Quei due ammassi di seta si sono distesi sotto la spinta dell'idrogeno che s'ingolfa attraverso i tubi, e le forme che assumono strappano a tutti grida di meraviglia. Non sono i soliti palloni, che sembrano fiaschi rovesciati: sono due fusi immensi, lunghi quasi quaranta metri, con un diametro di quindici al centro, che si alzano lentamente con un leggero ondeggiamento, tendendo le corde che gli aiutanti, in numero di trenta, tengono con mani robuste. Al di sotto di quei due fusi, che rammentano le forme dei sigari avana, appeso a una lunga asta che occupa il centro dello spazio lasciato dai due aerostati, ma a una distanza di tre metri dal loro lato inferiore, si agita una specie di battello, lungo trenta piedi, già carico d'una infinità di oggetti, di pacchi, di sacchetti, di botti, di casse, ma costruito d'un metallo leggero e che si direbbe argento. Ancora pochi minuti e quell'immensa macchina spiccherà il volo sopra i flutti muggenti dell'Atlantico. L'emozione degli spettatori è al colmo. Ognuno dimentica le scommesse e tiene gli occhi fissi su quei due palloni, che sempre più si gonfiano, mentre gli aiutanti eseguono delle manovre misteriose con certe pompe. Si direbbe che iniettino, nell'interno dei due aerostati, un gas speciale o qualche cosa di simile. Ma quell'emozione prende enormi proporzioni quando si vede apparire l'ardito aeronauta, uscito allora dal caseggiato dove si fabbrica l'idrogeno. E un bell'uomo sui trentacinque anni, di statura alta, slanciato, con la fronte spaziosa, gli occhi neri e lampeggianti, i lineamenti energici. Indossa un semplice costume di lana bianca ed è seguito da un giovane negro di diciotto o vent'anni, vestito come lui. Un "hurrah" immenso scoppia: gli spettatori agitano pazzamente i berretti, i cappelli, i fazzoletti. "Viva Kelly!" "Viva il Washington!" "Hurrah ... Hurrah! ... " L'ingegnere, giunto in mezzo al recinto, fa spiegare sulla poppa di quell'imbarcazione argentea che deve servirgli da navicella, la bandiera stellata degli Stati dell'Unione, provocando da parte dei suoi compatrioti entusiastici evviva, poi con rapido sguardo esamina il suo magnifico apparecchio aereo, e volgendosi verso il pubblico, dopo aver reclamato con un gesto energico il più assoluto silenzio, dice: "Ho cercato, ma invano, un terzo compagno che mi segua in questo grande viaggio aereo attraverso l'oceano. Se qualcuno di voi si sente il coraggio di salire sul mio Washington, offro un posto." Un silenzio glaciale accoglie le parole dell'aeronauta: l'entusiasmo s'è estinto ad un tratto. Gli spettatori si guardano in viso l'un l'altro; ma nessuno emette un sì. Applaudire quel coraggioso, sta bene; ma accompagnarlo, seguirlo sull'oceano su quella macchina capricciosa in balia del vento, per perire forse nei flutti, è un altro affare! Nessuno si sente in vena di morire per la scienza. Kelly attende un minuto, poi balza nella navicella, seguito dal giovane negro, gridando: "Pronti al comando! ... " Ad un tratto un uomo si slancia attraverso la massa del pubblico, aprendosi il passo con spinte irresistibili, balza sopra il recinto e si precipita verso l'ingegnere, gridando: "Cercate un compagno: eccomi!" La folla per un momento raffreddata, si riscalda come per incanto chi è quel giovanotto che osa affrontare la morte? Nessuno lo sa; ma deve essere un coraggioso, e gli audaci sono e devono essere ammirati. Gli "hurrah" prendono proporzioni tali da assordare; gli applausi scoppiano dovunque, tutti agitano i cappelli e i fazzoletti, tutti urlano, si agitano, si dimenano come ossessi. Ma d'improvviso, mentre l'ingegnere sta per dare il comando di "Via tutti!" e i suoi trenta aiutanti stanno per abbandonare le funi, si odono delle grida di rabbia: "È lui!", "Addosso, policemen," "Prendiamolo!", "Fermate! ... Fermate!" Quindici o venti policemen, guidati da alcuni capi, si precipitano nel recinto, correndo verso il pallone, ma ormai è troppo tardi. Il vascello aereo, libero, s'innalza maestosamente, trasportando con sé l'ingegnere, il suo negro e quello sconosciuto, giunto all'ultimo momento. "Scendete!" gridano i policemen, che sembrano furiosi. Uno di loro con un salto si aggrappa a una fune pendente dalla navicella; ma il vascello aereo, che deve avere una potenza ascensionale immensa, lo trascina con sé. Il pubblico scoppia in una clamorosa risata. Lo sconosciuto però, che pare si aspettasse un simile colpo di scena, si curva sul bordo della navicella e taglia la fune con un rapido colpo di coltello, facendo capitombolare sconciamente l'agente di polizia, e rovescia sul capo degli altri un sacco di zavorra, accecandoli. Una guardia estrae il revolver e lo punta in alto; ma il pubblico, che s'è riversato nel recinto come una fiumana, glielo strappa di mano, per tema che guasti quella meravigliosa nave aerea. Un ultimo immenso grido riecheggia: "Hurrah! Hurrah per Kelly! Viva il Washington!" I due palloni erano allora tanto alti che già parevano due sigari: si videro per alcuni istanti rasentare un grande nuvolone che si estendeva sopra l'oceano, poi sparire verso il nord, in direzione di Terranova. Quasi contemporaneamente una rapida nave a vapore, un incrociatore della Real Marina, usciva precipitosamente da Sidney e si slanciava sulle tracce degli aeronauti.

"Mi pare, che abbia modificato la rotta, Mister Kelly" disse l'irlandese, che aveva preso un cannocchiale, puntandolo sullo steamer. "Non mi spiacerebbe andare a bere un bicchiere di Bordeaux su quel legno." "Disgraziatamente non possiamo discendere, O'Donnell" disse l'ingegnere. "Bisognerebbe aprire le valvole e lasciare sfuggire una certa quantità di gas; e questo è troppo prezioso per noi." Il transatlantico, che doveva aver scorto il vascello aereo, il quale si librava in un'atmosfera purissima, aveva modificato subito la sua rotta e si dirigeva verso gli aeronauti per portare a loro soccorso. Senza dubbio il suo equipaggio credeva che fossero stati spinti sull'oceano da qualche uragano, e accorreva per raccoglierli. "Approfitteremo per dare notizie ai nostri amici d'America" disse l'ingegnere, strappando alcuni foglietti dal suo libricino e coprendolo di una calligrafia fitta. Lo steamer ingrandiva a vista d'occhio. Era uno di quei superbi transatlantici che dalle coste dell'Europa si recano in America e viceversa, compiendo il viaggio in una dozzina di giorni e anche meno. Misurava quasi cento metri, portava quattro alberi e due ciminiere, le quali vomitavano torrenti di fumo misto a scorie. Il ponte era pieno di passeggeri, i quali seguivano ansiosamente la rotta dell'aerostato. Le loro grida, data la calma che regnava sull'oceano, giungevano distintamente agli orecchi degli aeronauti. In capo a mezz'ora lo steamer che filava verso l'ovest, fu quasi sotto al Washington trecento voci s'alzarono, gridando: "Scendete! Scendete!" L'ingegnere si curvò sulla prua della navicella, agitando la bandiera degli Stati dell'Unione e gridando: "Buon viaggio! Andiamo in Europa!" Lo sentirono. Un "hurrah" immenso s'alzò dal transatlantico, e quei trecento passeggeri si misero a sventolare i fazzoletti, mentre il capitano faceva ammainare tre volte la bandiera in segno di saluto. "Desiderate qualche soccorso?" chiese il comandante, imboccando il portavoce. "Grazie, signore" rispose l'ingegnere: "abbiamo il necessario. Vi prego solo d'incaricarvi della mia posta." Aveva avvolto le lettere in un astuccio di tela e le aveva poi richiuse in una scatola di latta. Gettò il pacco, che cadde in mare a venti braccia dallo steamer. Una scialuppa fu calata dalla gru di babordo assieme a due marinai, i quali s'impadronirono della scatola, ritornando a bordo. "Buon viaggio!" gridarono i passeggeri affollati sulla tolda. "Grazie, signori" rispose l'ingegnere, vivamente commosso. Poi, mentre un nuovo e più formidabile "hurrah" salutava gli intrepidi, il transatlantico riprese la rotta, filando verso l'ovest. Per alcuni minuti si videro i passeggeri sventolare entusiasticamente i loro fazzoletti e si udirono le loro grida, poi, avendo l'aerostato ripreso la sua marcia ascensionale a causa della dilatazione dell'idrogeno, lo steamer impicciolì rapidamente, e tutte quelle voci si cambiarono in un lontano sussurrio. "Dove andrà quello steamer?" chiese O'Donnell che non era meno commosso dell'ingegnere. "A Boston, è probabile" rispose Kelly. "Almeno lo suppongo dalla sua direzione o dal nostro incrocio in queste latitudini." "Vi confesso, Mister Kelly, che ho provato una forte emozione in questo incontro. Mi è parso d'aver trovato un lembo dell'America o dell'Europa." "Vi credo, O'Donnell" Intanto l'aerostato continuava a salire, riscaldandosi l'aria: superò dapprima i mille metri, poi i duemila: ma giunto ai duemila cinquanta si arrestò. L'ingegnere che pareva in preda ad una certa agitazione e che non staccava gli occhi dal barometro, corrugò più volte la fronte e represse un sospiro. La forza ascensionale del Washington cominciava a diminuire e non raggiungeva più la grande elevazione di prima. Il gas sfuggiva attraverso i pori della seta quantunque questa fosse stata tessuta con la massima cura. Se la grande corrente si fosse mantenuta stabile come il primo giorno, spingendoli verso l'Europa, l'ingegnere non si sarebbe inquietato, possedendo ancora quattrocento metri cubi d'idrogeno immagazzinato nei cilindri e circa settecento chilogrammi di zavorra da gettare; ma ora che l'aerostato veniva trascinato verso l'equatore, per esser poi forse respinto verso le coste americane dagli alisei, o verso l'Atlantico meridionale, la cosa era diversa, e quella grande traversata cominciava a diventare assai problematica. Tuttavia non disperò, e nulla disse per non impressionare il suo compagno. Confidava sempre sui grandi mezzi che aveva ancora disponibili. L'aerostato, dopo aver raggiunto i 2500 metri, si mise a filare verso sud-est con maggior velocità di prima, avendo incontrato una corrente più fresca. Ora si avanzava a 700 metri per minuto primo, avvicinandosi sempre più al tropico del Cancro. L'oceano, dopo la scomparsa del transatlantico, era ridivenuto deserto. Perfino gli uccelli marini erano scomparsi. Però di quando in quando si vedeva apparire a fior d'acqua qualche pesce-cane, e si vide anche un pesce martello di dimensioni ragguardevoli. Essendo il sole assai ardente, O'Donnell tese sopra il battello una tenda, per riparare anche il negro, il quale continuava a dormire profondamente. A mezzodì l'ingegnere fece il punto e constatò che l'aerostato si trovava a 36o 7o di lat. nord e a 32o 5o di long. ovest. "Dove ci troviamo?" chiese O'Donnell. "Sui paralleli della Virginia," rispose Kelly. "Tanto siamo discesi?" "Purtroppo." "A quale distanza dalle coste americane?" "A 1250 miglia, in linea retta: ma dovete tener conto della curva rientrante che il continente descrive dal Capo della Nuova Scozia al Capo Hatteras." "E dall'Isola Brettone!'' "In linea retta distano 800 miglia. "Abbiamo percorso un bel tratto. Mister Kelly, in poco più di due giorni." "Non dico di no. O'Donnell. Disgraziatamente, questa marcia così rapida non ci ha avvicinati all'Europa, anzi ci ha allontanati" "Se l'aerostato seguisse il nostro parallelo senza deviare, dove andrebbe a terminare?" "Nei pressi dello stretto di Gibilterra." "Entrerebbe allora nel Mediterraneo?" "Sì: ma invece il vento continua a spingerci verso il sud-est e ci porterà quindi sulle coste dell'Africa. "Ebbene, cadremo in Africa invece che in Europa. L'Atlantico l'avremo ugualmente attraversato." "È vero: ma possiamo cadere su di una costa deserta o in mezzo a qualche tribù di selvaggi." "Bella occasione per farci credere figli del cielo e farci nominare sceicchi di qualche grande tribù." "Zitto!" "Che succede?" "Simone si sveglia."

"Che Mister Kelly, nel momento che il pallone si alzava, ci abbia gettato degli oggetti galleggianti? Ho veduto dei salvagente fra le casse della scialuppa. Orsù, non debbo rimanere qui in eterno: se i pesce-cani mi spiano, possono tagliarmi in due anche qui." Rabbrividì a quel pensiero, pure si fece animo e si diresse, procurando di non far rumore, verso quell'oggetto che le onde trastullavano. In pochi istanti lo raggiunse e lo ghermì strettamente. "Non mi ero ingannato!" mormorò, respirando più liberamente. "Grazie, Mister Kelly, di aver pensato a me ! " L'oggetto che aveva afferrato era uno di quei grandi cerchi di sughero, avvolti in tela grossa e robusta e che le navi usano portare attaccati alle murate, per gettarli ai marinai o ai passeggeri che cadono accidentalmente in mare. Sorreggono comodamente una persona per quanto sia pesante, mantenendola a galla anche in mezzo alle più grandi ondate. Ma se l'ingegnere aveva pensato a dare un punto d'appoggio ai due naufraghi, non aveva dimenticato di fornirli di mezzi di difesa contro i formidabili assalti dei mostri marini. Infatti, O'Donnell trovò appesi al salvagente due lunghi e affilati coltelli, due di quei bowie-knives usati dagli americani del Nord. "Se gli squali vorranno mangiarmi, avranno un osso duro da rodere." disse l'irlandese, passandosi le armi nella cintola. "Orsù, in viaggio, e cerchiamo di seguire il pallone." Si passò il salvagente sotto le ascelle e, meravigliosamente sorretto da quell'anello di sughero, si spinse verso il sud, gettando però degli sguardi inquieti sulle acque circostanti e fermandosi di tratto in tratto ad ascoltare se qualche mostro lo seguiva. Le detonazioni erano cessate, ma ormai sapeva che l'aerostato si trovava verso il sud, e ciò gli bastava. Era certo che in quel momento l'ingegnere stava sacrificando il suo gas per discendere verso la superfìcie dell'oceano. Aveva percorso circa seicento metri, quando vide verso il sud, ma quasi a fior d'acqua, balenare un lampo, e poco dopo intese una debole detonazione. "To'!" esclamò. "Che vi sia una nave laggiù, o che l'ingegnere sia già disceso?" Si arrestò, guardando attentamente in quella direzione, e gli parve di distinguere, sul fondo azzurro del cielo, che cominciava a tingersi dei primi riflessi dell'aurora, una massa oscura sospesa a breve distanza dalla superficie dell'oceano. "Dev'essere il Washington" mormorò. "Quale salasso avrà dovuto fare ai palloni Mister Kelly per abbassarsi così presto! Fortunatamente c'è la riserva nei cilindri e la zavorra è ancora abbondante. Dannato polipo! E stato la causa di tutte le nostre disgrazie e della fine orribile del povero Simone. Per mille merluzzi! Sento gelarmi il sangue quando penso a quel tronco umano che ho visto sollevarsi sulle onde e quel ... " S'arrestò bruscamente, girando intorno lo sguardo spaurito. Gli era sembrato di sentire un rauco sospiro e un tonfo sordo. "Qualche pesce-cane?" mormorò battendo i denti. "Che sia destinato anch'io ad avere per tomba lo stomaco di uno squalo? Ventre di balena! C'è da impazzire, anche senza essere paurosi." Stette in ascolto parecchi minuti, trattenendo perfino il respiro: ma non udì più nulla. Credendo di essersi ingannato, riprese le mosse verso il sud, nella cui direzione cominciava già a scorgere il Washington che pareva ancorato a breve distanza dalla superficie dell'oceano. L'onda larga, investendolo e coprendolo di spuma, lo stancava, paralizzandogli le forze, che cominciavano ad esaurirsi. Si sentiva le estremità irrigidirsi a poco a poco e provava una grande oppressione al petto, che gli rendeva penoso il respiro. Tuttavia, la paura di venire assalito da qualche torma di squali affamati, lontano dall'aerostato, lo spingeva a tirare innanzi senza prendere riposo. Il Washington spiccava ora nettamente sul fondo madreperlaceo dell'orizzonte, avvicinandosi rapidamente l'alba, ma pareva che la distanza non scemasse mai. Per maggior disgrazia, la paura invadeva poco a poco il disgraziato irlandese, il quale credeva di udire dietro di sé i rauchi sospiri dei mostri marini e temeva che s'avvicinassero sott'acqua. Allora ripiegava le gambe e si arrestava in preda a un'angoscia indescrivibile, impallidiva come un morto e, malgrado il freddo che quel bagno prolungato gli procurava, si sentiva scendere sulla fronte grosse gocce di sudore. "Arriverò vivo al Washington o lascerò le mie gambe in quest'oceano?" si chiedeva ad ogni istante, con terribile perplessità. Alle cinque il sole apparve bruscamente sull'orizzonte, inondando l'oceano di raggi abbaglianti. O'Donnell respirò e salutò l'astro con un vero e proprio grido di gioia. "Almeno potrò vedere qualcosa e scorgere forse a tempo gli squali." disse. Guardò verso il sud. L'aerostato non era lontano che un miglio, e nella navicella scorgeva l'ingegnere, il quale alzava le braccia come per incoraggiarlo a fare presto. Raddoppiò gli sforzi e avanzò in quella direzione, respirando a grande fatica. Ma, percorsi tre o quattrocento metri, si arrestò con i capelli irti e il viso sconvolto da un'inesprimibile angoscia. A venti passi aveva scorto un punto nerastro emergere dalle onde e poi una larga pinna natatoria, che era subito scomparsa. "Gran Dio!" esclamò. "Ecco il nemico!" Abbandonò il salvagente, impugnò il bowie-knife e si tuffò. L'acqua era limpida, e si poteva scorgere, a grande profondità, un pesce di grosse dimensioni. Guardò a destra e a sinistra e vide una grande ombra che pareva s'immergesse venti o trenta metri più lontano. La seguì con gli occhi smarriti finché poté, poi tornò in superficie, aggrappandosi al salvagente. Non vide nulla. Aveva scambiato qualche grosso delfino con uno squalo, o lo squalo non l'aveva ancora visto? Si sa che questi terribili mostri, specialmente i tintoreas ci vedono assai male, e poteva darsi che il mostro che si trovava in quelle acque non avesse scorto la preda umana. O'Donnell rimase parecchi minuti immobile, con gli orecchi tesi e gli occhi ben aperti, poi si decise a riprendere il faticoso esercizio. Comprendeva che ormai la sua salvezza non dipendeva che dalla sua rapidità, perché lo squalo non avrebbe tardato a scoprirlo. Fece un ultimo e disperato appello alle proprie forze e si spinse innanzi con la maggior velocità possibile, ma procurando, nello stesso tempo, di non far rumore. Alle sei non era che a cento passi dal Washington, il quale si trovava trattenuto dalle due àncore a soli sessanta metri dalla superficie dell'oceano. L'ingegnere aveva calato le guide-ropes, alle cui estremità pendeva l'ancorotto a patte, che non era stato più staccato dopo l'abbordaggio con la nave dei morti. "Coraggio, O'Donnell!" gli gridò Kelly. "Ancora uno sforzo e siete salvo." "Vengo, Mister Kelly." rispose l'irlandese che era esausto. "Ma dov'è Simone? È morto ... ?" "Mor ... to." rispose O'Donnell, rabbrividendo. "Forse che ... " L'ingegnere si era bruscamente interrotto, gettando un grido di terrore.

"Malgrado la nostra rapida corsa, devono distare ancora di qualche migliaio e più di miglia; e poi credo che l'uragano ci abbia spinti verso il sud." "Ma qual cosa supponete che sia dunque?" "La distanza è troppa e l'oscurità fitta, per discernere qualche cosa; ma io temo che sia un incendio." "Un incendio!? Dove?" "Forse di una nave." "Per San Patrick! Una nave brucia in mezzo all'uragano! Una nave che brucia in mezzo all'uragano! Quale terribile situazione per l'equipaggio!" "Potrebbe pur essere qualche vulcano, O'Donnell." "Un vulcano in mezzo all'Atlantico! Che cosa dite, Mister Kelly?" "E perché no, amico mio?" "Se dite che siamo lontani da tutte le isole, dove volete che posi questo vulcano? Sulle onde forse?" "Sul fondo dell'oceano." "Ma, che io sappia, nessun vulcano fu segnalato in mezzo all'Atlantico." "Ebbene, che importa? Non può essere sorto da un momento all'altro, forse in questa notte? Credete voi che il fondo dell'Atlantico sia tranquillo? No, O'Donnell: s'agita sovente la sotto la spinta dei fuochi interni, subisce talora delle modificazioni, s'alza o s'abbassa, e nel 1811 formò perfino un'isola vulcanica nei pressi delle Azzorre, al largo di San Michele." "Un'isola!" "Sì, quella chiamata Sabrina, che si elevò sull'oceano per trecento metri, ma che poi fu demolita dai flutti. Un'altra pure ne emerse in quei paraggi dopo una abbondante eruzione di vapori, di fumo e di fuoco, durante un terremoto; ma subito scomparve." "Vi sono quindi delle isole vulcaniche in quest'oceano?" "Forse che le Azzorre, le Canarie, Ascensione, S. Elena e Tristan da Cunha non sono di origine vulcanica?" "Anche le Bermude?" "No, O'Donnell: quelle sono state formate dai coralli." "Se, come mi dite, il fondo dell'Atlantico subisce delle modificazioni e s'agita, si può prestare fede agli antichi scrittori circa la scomparsa dell'Atlantide." "E perché no?" "Ma credete che sia realmente esistito quel continente? E, prima di tutto, che cos'era quest'Atlantide di cui ho udito vagamente parlare?" "Un'isola immensa, grande, secondo gli antichi, come la Libia e l'Asia minore riunite, e che si estendeva al di qua delle Colonne d'Ercole, ossia dello Stretto di Gibilterra, e che altre isole minori congiungevano ad un continente. Tutti gli scrittori antichi ne fanno parola, e ciò fa supporre che sia realmente esistita o che esista tutt'ora." "Che esista? Dove mai, Mister Kelly?" "Ve lo dirò poi. Omero nella sua Odissea l'accenna; Esiodo nella sua Teogonia, Euripide nei suoi drammi, Solone nella grande epopea da lui ideata, Platone, Strabone e anche Plinio ne parlarono. Sembra che gli Atlantidi giungessero nel Mediterraneo, spinti dal desiderio di altre conquiste e che cercassero di sottoporre al loro dominio la Grecia; ma sarebbero stati respinti dai primitivi Ateniesi. Avrebbero però invaso parte del Mediterraneo, l'Egitto, l'Africa settentrionale e le coste della Tirrenia, ossia dell'attuale Italia e alcune parti dell'opposto continente. Si dice che in quella grande occasione regnasse una potente schiatta di re e che numerose tribù la occupassero. In una certa epoca, però, dopo violenti terremoti e diluvi, l'isola sarebbe stata inghiottita con tutti i suoi abitanti. Anche i cartaginesi fanno menzione di un'isola deliziosa: anzi avevano deciso di andare ad occuparla, nel caso che un disastro avesse distrutto la loro repubblica." "Ma in quale modo venne inghiottita?" "Si sono date diverse spiegazioni. Alcuni credono a causa di un tremendo terremoto; altri, fra i quali Bory de Saint-Vincent e Mantelle, due eminenti scienziati, credono che sia stata subissata dall'irrompere nell'oceano delle acque di un grande lago salato dell'Africa, forse quello del Sahara, che sembrerebbe il letto d'un antico mare." "Io però la penso diversamente, O'Donnell; e credo che l'Atlantide esista ancora. Sarà o sembrerà una enormità, ma io ritengo che gli antichi fossero, in fatto di cognizioni geografiche, ben più innanzi degli europei del 1400 e anche del 1500. Si dice che quell'isola si estendeva al di là delle Colonne d'Ercole e che numerose altre isole più piccole la univano ad un continente. Ebbene, gettate uno sguardo sulla carta del nostro globo. Che cosa vedete all'occidente dell'Europa?" "L'America" disse O'Donnell. che prestava grande attenzione alle parole dell'ingegnere. "E dopo, l'America? "Ma possibile!" "Aspettate: che cosa vedete?" "Le innumerevoli isole dell'Oceano Pacifico?" "E poi?" "Il grande continente asiatico-europeo!" esclamò O'Donnell. "Io dunque concludo che l'Atlantide degli antichi era l'attuale America, che le isole che la univano all'opposto continente sono quelle dell'Oceano Pacifico e che quell'opposto continente è quello asiatico-europeo, il solo che gli antichi greci potevano conoscere." "Dunque gli antichi conoscevano la rotondità del globo." "Sì, O'Donnell: io ne sono convinto e affermo che essi conoscevano la nostra Terra meglio che gli europei del 1400." "Ma quei terremoti e quei diluvi, quelle terre subissate?" "Quei terremoti, quel grande cataclisma può essere avvenuto, può avere inghiottito qualche isola, come può, invece, aver fatto sorgere le Azzorre e le Canarie, che sono, come ho già detto, d'origine vulcanica. Chissà? Forse gli antichi navigatori, spaventati da quel cataclisma, non ardirono più avventurarsi sull'Atlantico, e l'America rientrò nel buio e fu dimenticata fino all'epoca in cui Colombo e Caboto e via via gli altri grandi navigatori la fecero ancora conoscere alle popolazioni europee."

"Che qualche pescecane di gran mole lo abbia inghiottito?" "Un pescecane non può avere tale gola da assorbire un cono che contiene duecento trenta litri." "Sarà una balena." "Nemmeno, poiché la balena ha il canale tanto stretto da non poter inghiottire dei pesci più grossi del nostro braccio." "Sarà un capodoglio. So che quei cetacei hanno delle gole enormi." "A quest'ora ci avrebbe trascinati sottacqua o avrebbe troncato la fune." "Ma quale mostro volete che sia?" "Non lo so." "Che cosa decidete di fare? Tagliare la corda e abbandonare l'ancora?" "Sarebbe una grande imprudenza perdere uno dei nostri coni. Manderò Simone a vedere." "Lui! ... quel pauroso! ... Con il vostro permesso, andrò a vedere io, Mister Kelly." "Ci sono trecentocinquanta metri da discendere, e voi non potete tentare una così pericolosa impresa, O'Donnell. Simone è agile come una scimmia delle foreste africane e può toccare il cono senza stancarsi." "Ma come salirà poi?" "Lo solleveremo noi fino alla navicella, ritirando la fune. Orsù, Simone, prendi una rivoltella e và a vedere che cosa accade laggiù."

Non lo sappiamo, ma sembra che l'ardito ingegnere, interrogato in proposito, non abbia negato: vedremo. %NOTE: (1) (Appartenente al partito irredentista clandestino irlandese Sinn Fein.) (2) Botte bislunga per vini e liquori.

I MISTERI DELLA GIUNGLA NERA

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Salgari, Emilio 12 occorrenze

. - Bisogna che io abbia in mia mano la testa del capitano Macpherson. Il sergente ruppe in uno scoppio di risa. - Pazzo, non sai che il capitano non è più qui? - Tremal-Naik s'alzò. - Il capitano non è più qui! - esclamò con disperazione. - Dov'è andato? - Non te lo dirò. - Ma non sai adunque, che io ho giurato di portare ai thugs la sua testa? - Ne faranno a meno. - No, Bhârata, no! ... Bisogna che compia la mia missione! Dov'è il capitano? ... Voglio saperlo, dovessi rovistare tutta l'India dall'Himalaya al capo Comorin. - Non sarò certamente io che dirò dove egli sia. - Ah! ... - esclamò Tremal-Naik. - Tu lo sai? - Lo so. Tremal-Naik alzò la rivoltella mirando l'indiano in fronte. - Bhârata, - gli disse con voce furente. - Parla! - Puoi ammazzarmi, ma dalla mia bocca non uscirà sillaba. Sono un sipai! - Bada, Bhârata, che non si ritorna più, una volta scesi nella tomba. - Uccidimi se vuoi. - È la tua ultima parola? - L'ultima. Tremal-Naik aveva steso il braccio armato. Già la canna s'era fermata a pochi passi dalla fronte del sergente, già stava per far partire il colpo, quando al di fuori echeggiò un fischio che si ripeté tre volte. - Nagor! - esclamò Tremal-Naik, che aveva riconosciuto il segnale dei thugs. Rimise nella cintura la rivoltella, afferrò Bhârata turandogli con una mano la bocca, e lo gettò al suolo. - Non fare un gesto, - gli disse, - o ti uccido davvero. Lo legò solidamente con una corda, lo imbavagliò, poi corse ad una finestra, alzò la persiana e rispose al segnale con tre fischi differenti. Dietro ad un cespuglio s'alzò una forma umana, la quale strisciò svelta svelta in direzione del bengalow. Si arrestò proprio sotto la finestra, alzando la testa. - Nagor! - bisbigliò Tremal-Naik. - Chi sei? - chiese il thug, dopo qualche istante di esitazione. - Tremal-Naik. - Devo salire? Tremal-Naik guardò a destra e a manca con attenzione e tese l'orecchio. - Sali, - disse poi. Il thug gettò il laccio che si fermò ad un gancio della finestra, ed in un baleno giunse sul davanzale. Era un uomo assai giovane, poco più che ventenne, alto, magro, dotato di una agilità straordinaria e, a quanto pareva, di un coraggio a tutta prova. Era quasi nudo, unto di recente d'olio di cocco, tatuato come gli altri settari e armato di pugnale. - Sei libero? - chiese egli. - Lo vedi, - rispose Tremal-Naik. - I sipai? - Dormono. - Il capitano? - Quell'indiano mi ha detto che non è più qui. - Che abbia sospettato qualche cosa? - chiese il thug, coi denti stretti. - Non lo credo. - Bisogna sapere dove è andato. Il figlio delle sacre acque del Gange vuole la sua testa. - Ma il sergente non parla. - Parlerà, lo vedrai. - Or che ci penso, questi uomini m'hanno fatto trangugiare una bevanda che mi ubbriacò e mi fece parlare. - Qualche limonata di certo, - disse il thug sorridendo. - Sì, è una limonata. - La faremo bere al sergente. Balzò nella stanza, gettò uno sguardo su Bhârata che attendeva tranquillamente la sua sorte, prese un bicchiere ripieno d'acqua e preparò la stessa limonata che il capitano Macpherson aveva fatto bere a Tremal-Naik. - Trangugia questa bevanda, - diss'egli al sergente, dopo di avergli tolto il bavaglio. - Mai! - rispose Bhârata, che aveva già indovinato di che cosa si trattava. Il thug gli prese il naso fra le dita e lo strinse forte. Il sergente, per non morire asfissiato, fu costretto ad aprire le labbra. Bastò quel momento, perché la limonata gli fosse versata in bocca. - Ora saprai ogni cosa, - disse Nagor a Tremal-Naik. - Hai paura dei sipai? - gli chiese il cacciatore di serpenti. - Io! - esclamò il thug, ridendo. - Mettiti dinanzi alla porta e fa' fuoco sul primo uomo che tenta salire la scala. - Conta su di me, Tremal-Naik. Nessuno verrà ad interrompere il tuo interrogatorio. Il thug prese un paio di pistole, guardò se erano cariche e uscì mettendosi in sentinella dinanzi alla porta. Il sergente cominciava allora a ridere ed a parlare senza arrestarsi un sol istante. Tremal-Naik, sorpreso, ascoltava quel torrente di parole, e raccolse a volo il nome del capitano Macpherson. - Bravo sergente, - diss'egli. - Dov'è il capitano? - Bhârata nell'udire quella voce, si era arrestato. Guardò Tremal-Naik con due occhi che scintillavano e chiese: - Chi mi parla? ... Mi pareva di aver udito la voce di un thug ... ah! ... ah! ... Non vi saranno più thugs fra breve. Il capitano lo ha detto ... e il capitano è un uomo di parola ... un grand'uomo che non ha paura. Li assalirà nei loro covi ... Li distruggerà colle bombe ... Sarà bello vederli scappare coll'acqua alle calcagna ... ah! ... ah! ... ah! ... - E andrai anche tu a vederli? - chiese Tremal-Naik, che non perdeva parola. - Si che ci andrò e verrai anche tu! ... Ah! ... ah! ... sarà uno spettacolo bellissimo. - E sai tu dov'è il loro covo? - Sì che lo so. L'ha detto Saranguy. - Ah! ... miserabili! ... - esclamò Tremal-Naik. - Ma anch'io saprò qualche cosa da te. - Egli aveva bevuto la limonata, - ripigliò il sergente, - e narrò tutto. - E c'era il capitano, quando Saranguy parlò! - chiese Tremal-Naik, fremendo. - Ma sì, e partì subito per sorprenderli nel covo. - Per Raimangal forse? - No, no! - esclamò vivamente il sergente. - I thugs sono forti e occorrono molti uomini per ischiacciarli. - È andato a Calcutta? - Sì, a Calcutta, al forte William! ... E armerà un bastimento ... e imbarcherà tanta gente ... e tanti cannoni ... ah! ... ah! ... che spettacolo bellissimo. Il sergente tacque. I suoi occhi si chiudevano, si aprivano, ma tornavano a chiudersi per quanto facesse per tenerli aperti. Tremal-Naik capì che l'oppio a poco a poco faceva il suo effetto. - So quanto volevo sapere, - mormorò. - Ed ora, a Raimangal!

. - Dove vuoi che abbia trovato degli uomini, di notte, in mezzo alla jungla? - Ve ne sono, Saranguy, e più d'uno. - Non ti credo. - Hai udito parlare dei thugs'? - Gli uomini che strangolano? - Sì, di quelli che adoperano il laccio di seta. - E tu dici che sono qui? - chiese Tremal-Naik, affettando terrore. - Sì, e se cadi nelle loro mani ti strangoleranno. - Ma perché sono qui? - Sai chi è il capitano Macpherson? - Non lo so ancora. - È il nemico più spietato che abbiano i thugs. - Comprendo. - Noi facciamo a loro la guerra - La farò anch'io. Odio quei miserabili. - Un uomo coraggioso come te, non è da rifiutarsi. Verrai con noi quando batteremo la jungla, anzi ti metterò a guardia di uno strangolatore che è caduto in nostra mano. - Ah! - esclamò Tremal-Naik, che non riuscì a frenare il lampo di gioia che balenò negli occhi. - Avete un thug prigioniero? - Sì, ed è uno dei capi. - Come si chiama? - Negapatnan. - E io veglierò su di lui? - Sì, veglierai su di lui. Tu sei forte e coraggioso e a te non scapperà. - Sono persuaso. Basterà un pugno per ridurlo all'impotenza, - disse Tremal- Naik. - Vieni sulla terrazza. Tra poco vedrai Negapatnan e forse avremo bisogno del tuo coraggio. - Per che farne? - chiese Tremal-Naik con inquietudine. - Il capitano ricorrerà a qualche mezzo violento per farlo parlare. - Capisco. Diventerò carceriere ed all'occorrenza torturatore. - Sei molto perspicace. Vieni, mio bravo Saranguy. Entrarono nel bengalow e salirono sulla terrazza. Il capitano Macpherson vi era di già, fumando una sigaretta, sdraiato indolentemente in una piccola amaca di fibre di cocco. - Mi rechi qualche novità, Bhârata? - chiese egli. - No, capitano. Vi conduco invece un nemico acerrimo dei thugs. - Sei tu, Saranguy, questo nemico? - Sì, capitano, - rispose Tremal-Naik, con accento d'odio naturalissimo. - Sii allora il benvenuto. Sarai anche tu dei nostri. - Lo spero. - Ti avverto che si arrischia la pelle. - Se la giuoco contro le tigri, posso giuocarla contro gli uomini. - Sei un brav'uomo, Saranguy. - Me ne vanto, capitano. - Come ha passato la notte Negapatnan? - chiese Macpherson, rivolgendosi al sergente. - Ha dormito come uno che ha la coscienza tranquilla. Quel diavolo d'uomo è di ferro. - Ma si piegherà. Va' a prenderlo; comincieremo subito l'interrogatorio. Il sergente fece un mezzo giro sui talloni e poco dopo ritornava conducendo Negapatnan, solidamente legato. Il thug era tranquillissimo, anzi un sorriso sfiorava le sue labbra. Il suo sguardo si posò subito, con curiosità, su Tremal-Naik, il quale si era messo dietro al capitano. - Ebbene, mio caro, - disse Macpherson con accento sarcastico, - come hai passata la notte? - Credo di averla passata meglio di te, - rispose lo strangolatore. - E cos'hai deciso? - Che non parlerò. La mano del capitano corse all'impugnatura della sciabola. - Che sieno tutti eguali, questi rettili? - gridò egli. - Pare che sia così, - disse lo strangolatore. - Non dirlo così presto, però. Ti dissi che posseggo dei mezzi terribili. - Non abbastanza terribili pei thugs. - Dei mezzi che martirizzano al punto da invocare la morte. - Mezzi che non valgono i nostri. - Lo vedremo quando ti contorcerai fra gli spasimi più tremendi. - Puoi cominciare subito. Il capitano impallidì, poi un'ondata di sangue gli salì al volto. - Non vuoi proprio parlare, adunque? - gli chiese con voce strozzata dall'ira. - No, non parlerò. - È la tua ultima risposta? Bada ... - L'ultima. - Sta bene, ora agiremo. Bhârata? Il sergente s'avvicinò. - C'è un palo nel sotterraneo? - Sì, capitano. - Legherai solidamente quell'uomo. - Bene, capitano. - Quando il sonno lo vincerà, lo terrai desto a colpi di spillo. Se fra tre giorni non parlerà, farai macerare le sue carni a colpi di frusta. Se si ostina ancora, verserai dell'olio bollente, goccia a goccia, sulle sue ferite. - Fidatevi di me, capitano. Aiutami, Saranguy. Il sergente e Tremal-Naik trascinarono via lo strangolatore, il quale aveva ascoltato la sentenza senza che un muscolo del suo volto trasalisse. Discesero una scala a chiocciola molto profonda ed entrarono in una specie di cantina molto vasta, sostenuta da volte, ed illuminata da una feritoia aperta a fior di terra, difesa da solide sbarre di ferro. Nel mezzo ergevasi un palo, a cui fu legato lo strangolatore. Bhârata vi pose accanto tre o quattro spilli lunghi e colla punta acutissima. - Chi veglierà? - chiese Tremal-Naik. - Tu, fino a questa sera. Poi un sipai ti darà il cambio. - Va bene. - Se il nostro uomo chiude gli occhi, pungi forte. - Ti obbedirò, - rispose Tremal-Naik con calma glaciale. Il sergente risalì la scala. Tremal-Naik lo seguì con lo sguardo fino che poté, poi, quando ogni rumore cessò, si sedette di fronte allo strangolatore che lo fissava tranquillamente. - Ascoltami, - disse Tremal-Naik abbassando la voce. - Hai anche tu qualche cosa da dire? - chiese Negapatnan, beffardamente. - Conosci Kougli? Lo strangolatore udendo quel nome trasalì. - Kougli!- esclamò. - Non so chi sia. - Sei prudente, sta bene. Conosci Suyodhana? - Chi sei tu? - chiese Negapatnan, con manifesto terrore. - Uno strangolatore come lo sei tu, come lo è Kougli, come lo è Suyodhana. - Tu menti. - Ti do una prova che dico il vero. La nostra sede non è nella jungla, né a Calcutta, né sulle rive del sacro fiume, ma nei sotterranei di Raimangal. Il prigioniero rattenne a gran pena un grido, che stavagli per uscire dalle labbra. - Che sia vero che tu sei dei nostri? - chiese egli. - Non ti ho dato le prove? - È vero. Ma perché sei venuto qui? - Per salvarti. - Per salvare me? - Sì. - Ma come? Con qual mezzo? - Lascia fare a me e prima di mezzanotte sarai libero. - E fuggiremo assieme. - No, io rimango qui. Ho un'altra missione da compiere. - Una qualche vendetta? - Forse, - disse Tremal-Naik con aria tetra. - Ora silenzio e aspettiamo le tenebre. Lasciò il prigioniero ed andò a sedersi ai piedi della scala, aspettando pazientemente la notte. La giornata lentamente passò. Il sole scomparve dietro l'orizzonte e l'oscurità divenne profonda nella cantina. Era il momento opportuno per agire. Fra un'ora e forse meno, il sipai doveva scendere. - All'opera, - disse Tremal-Naik, alzandosi bruscamente e traendo dalla cintola due lime inglesi. - C'è da fare? - chiese Negapatnan, con emozione. - Devi aiutarmi, - rispose Tremal-Naik. Taglieremo le sbarre della feritoia. - Non s'accorgeranno che tu mi hai aiutato a fuggire? - Non s'accorgeranno di nulla. Sciolse i legami che stringevano il corpo, le braccia ed entrambi i piedi del prigioniero, e assalirono vigorosamente i ferri, cercando di non fare rumore. Tre sbarre erano state di già divelte e non ne rimaneva che una, quando Tremal- Naik avvertì uno scalpiccìo che veniva dalla scala. - Fermati! - diss'egli rapidamente. Qualcuno scende. - Il sipai forse? - Certo è lui. - Allora siamo perduti. - Non ancora. Sai gettare il laccio? - Giammai fallii il colpo. Tremal-Naik sciolse il laccio che portava stretto attorno al corpo, nascosto dal dubgah e glielo diede. - Mettiti presso alla porta - gli disse, estraendo il pugnale. - Il primo che appare, uccidilo. Negapatnan ubbidì prendendo il laccio nella mano dritta. Tremal-Naik si mise di fronte a lui, dietro allo stipite della porta, col pugnale alzato. Il rumore andava avvicinandosi. D'un tratto un lume rischiarò la scala e apparve un sipai, con una scimitarra sguainata. - Attento, Negapatnan, - bisbigliò Tremal-Naik. La faccia del thug divenne terribile. Gli occhi mandavano sinistri bagliori. Le labbra lasciavano a nudo i denti, le nari si dilatavano. Pareva una bestia assetata di sangue. Il sipai si arrestò sull'ultimo pianerottolo. - Saranguy! - chiamò. - Scendi, - disse Tremal-Naik. - Non ci si vede più. - Va bene, - rispose, e varcò la soglia della cantina. Negapatnan era lì. Il laccio fischiò nell'aria e si strinse così fortemente attorno al collo, che il sipai cadde al suolo senza emettere un lamento. - Devo strozzarlo? - chiese il thug, ponendo un piede sul petto del caduto. - È necessario, disse Tremal-Naik, freddamente. Negapatnan tirò a sé il laccio. La lingua del sipai uscì un palmo dalle labbra, gli occhi schizzarono dalle orbite e la pelle da bronzina divenne nera. Agitò per qualche istante le braccia, poi si irrigidì. Era morto. - Che la dea Kâlì abbia il suo sangue, - disse il fanatico, sciogliendo il laccio. - Spicciamoci, prima che scenda qualche altro. La feritoia fu nuovamente assalita e la quarta sbarra fu spezzata. - Passerai? - chiese Tremal-Naik. - Passerei per una feritoia molto più stretta. - Sta bene. Ora legami solidamente e imbavagliami. - Il thug lo guardò con sorpresa. - Io legarti? E perché? - chiese. - Perché non si sospetti che io sono uno dei tuoi. - Ti capisco. Sei più astuto di me. Tremal-Naik si gettò in terra presso al cadavere del sipai, e Negapatnan lo legò e lo imbavagliò. - Sei un brav'uomo, - disse il thug. - Se un giorno avrai bisogno di un amico fedele, ricordati di me. Addio. Si slanciò verso la feritoia, dopo di essersi armato delle pistole del sipai, vi si issò e scomparve. Non erano trascorsi ancora dieci secondi, che s'udì un colpo di fucile ed una voce gridare: - All'armi! Un uomo fugge!

. - Ed io, credi che non abbia sofferto nella mia jungla, lontano da te? Credi tu che non abbia provato dei tormenti, quando colpito al petto dal pugnale degli assassini, languivo impotente nel fondo di un'amaca? - Che? ... Tu pugnalato? - Sì, ma ora non porto che la cicatrice. - E tu sei venuto ancora in quest'isola maledetta? - Sì, Ada, e ci sarei venuto anche se avessi saputo di non ritornare mai più vivo nella mia jungla. Un miserabile mi aveva confessato che tu correvi il pericolo di venire sacrificata alla divinità di questi uomini. Poteva io rimanere nella jungla nera? Partii, anzi volai, scesi in queste caverne e piombai in mezzo all'orda. Appena ti ebbi strappata dai loro artigli fuggii e qui mi nascosi coi miei compagni. - Non siamo adunque soli qui? - No, abbiamo il prode Kammamuri e Darma. - Oh! io voglio vederli questi tuoi compagni. - Kammamuri! Darma! Il maharatto e la tigre s'accostarono al padrone. - Ecco Kammamuri, - disse Tremal-Naik, - un vero valoroso. Il maharatto cadde ai piedi della giovanetta baciandole la mano che le porgeva. - Grazie, mio buon amico, diss'ella. - Padrona, - rispose Kammamuri, - mia buona padrona, io sono tuo schiavo. Fa' di me quello che tu vuoi. Sarò felice di perdere la mia vita per la tua libertà e ... S'arrestò di botto balzando in piedi. Tremal-Naik, malgrado il suo straordinario coraggio, rabbrividì. Un lontano fragore erasi improvvisamente udito e andava avvicinandosi rapidamente. - Giungono? - si chiese Tremal-Naik, stringendo colla sinistra la mano della fidanzata ed afferrando colla destra una pistola. La tigre mandò un sordo brontolìo Il rumore s'avvicinava sempre. Passò sopra le loro teste facendo tremare le volte della spelonca, poi cessò tutto d'un colpo. Padrone, - mormorò Kammamuri, - spegni il fuoco! - Tremal-Naik ubbidì e tutti e quattro si seppellirono nelle tenebre. Il medesimo fragore tornò a ripetersi, ripassò sulle loro teste e come prima cessò presso al pozzo. Ada tremò così forte, che l'indiano se ne accorse. - Sono qui io a difenderti, - le disse. - Nessuno scenderà quaggiù. - Ma cos'è? - chiese Kammamuri.- Ne sai nulla, Ada? - Questo rumore l'ho udito ancora, - rispose con un filo di voce la giovanetta. - Non seppi mai cosa significasse, né chi lo producesse. La tigre emise un secondo brontolìo e guardò fisso fisso la gola del pozzo. - Kammamuri, - disse Tremal-Naik - qualcuno si avvicina. - Sì, la tigre lo ha udito. - Rimani presso Ada. Io vado a vedere se scendono. La giovanetta s'aggrappò a lui, tremando per fortissimo spavento e: - Tremal- Naik! Tremal-Naik! - mormorò con voce appena percettibile. - Non temere, Ada, - rispose l'indiano, che in quell'istante avrebbe pugnato contro mille uomini. Si svincolò dalle braccia della fidanzata, e s'avvicinò al pozzo col coltellaccio fra i denti e la carabina armata. La tigre lo seguiva, brontolando. Non aveva fatto dieci passi che udì in alto un lieve crepitìo. Passò la mano sulla testa di Darma come per raccomandarle silenzio, e s'avvicinò con maggior precauzione, arrestandosi sotto l'apertura del pozzo. Guardò su, ma l'oscurità era troppo fitta per distinguere qualche cosa. Tendendo bene l'orecchio, raccolse un lieve bisbiglio. Si sarebbe detto che alcune persone parlavano presso il muricciuolo. - Eccoli, - mormorò egli. - A noi due, Suyodhana. - Non aveva ancora terminato che un bagliore illuminò la sovrastante spelonca. Per quanto fosse stato rapido, Tremal-Naik scorse, chinati sul pozzo, sei o sette indiani. Puntò rapidamente la carabina e drizzò la canna verso il parapetto che stavagli di fronte. - Sono qui sotto, - disse una voce. - Ho scorto il nostro uomo, - disse un'altra. Tremal-Naik premette il grilletto. La detonazione fu coperta da un clamore spaventevole. Uno scroscio rimbombò sul pozzo e ogni fragore improvvisamente cessò. Tremal- Naik scaricò una delle sue pistole. Un'esclamazione di rabbia gli sfuggì. - Ah miserabili! - gridò. Kammamuri e Ada si slanciarono, di comune accordo, verso di lui. - Tremal-Naik! - esclamò la giovanetta, prendendogli una mano.- Sei ferito? - No, Ada, non sono ferito - rispose l'indiano forzandosi di parere calmo. - Quello scroscio? ... - Hanno rinchiuso il pozzo, ma usciremo di qui, o mia Ada, te lo prometto. Accese la torcia e trasse la fidanzata lontano, facendola sedere sul cachemire. - Sei stanca, - le disse dolcemente. - Cerca di riposare, mentre noi cerchiamo un passaggio. Finché ci siamo noi, non correrai pericolo alcuno. La giovanetta affranta da tante emozioni, malgrado l'imminenza del pericolo, lo ubbidì e si coricò sullo scialle. Tremal-Naik ed il maharatto si diressero verso le pareti e si misero a scandagliare con profonda attenzione, colla speranza di trovare qualche passaggio che permettesse a loro la fuga. Cosa strana, incomprensibile: al di là della parete s'udiva di quando in quando un cupo fragore, eguale a quello poco prima udito e che faceva mugolare la tigre. Era da una mezz'ora che cercavano, percuotendo le rocce col coltello e scrostandole, quando s'accorsero che la temperatura dell'antro erasi cangiata, diventando assai calda. Tremal-Naik e il maharatto sudavano come se fossero in una stufa. - Cosa vuol dir ciò? - si chiedeva il cacciatore di serpenti, assai inquieto. Scorse un'altra mezz'ora, durante la quale la temperatura continuò ad elevarsi. Pareva che dalle roccie uscissero vampe di fuoco. In breve, quel calore divenne insopportabile. - Ma che vogliano arrostirci? - domandò il maharatto. - Non capisco più nulla, - rispose Tremal-Naik, liberandosi del dubgah. - Ma da dove viene questo calore? Se continua così, cuoceremo. - Affrettiamoci. Ripresero gli scandagli, ma fecero il giro della caverna senza avere scoperto passaggi. Tuttavia, in un angolo, la roccia risuonava come se fosse vuota. Si poteva intaccarla coi coltelli e scavare una galleria. I due indiani tornarono presso la giovanetta, ma questa dormiva. Si consigliarono brevemente sul da farsi e decisero di procedere immediatamente alla loro liberazione. Impugnati i coltelli assalirono vigorosamente la roccia, ma ben presto dovettero sostare. La temperatura era diventata ardente e morivano di sete. Cercarono se vi fosse qualche pozza d'acqua, ma non ne trovarono una sola goccia. Ebbero paura. - Dovremo morire in questa spelonca? - si chiese Tremal-Naik, gettando uno sguardo disperato su quelle rupi, che a poco a poco si calcinavano. In quell'istante un misterioso mormorio si fece udire sopra le loro teste ed un enorme pezzo di rupe si staccò dalla volta, cadendo a terra con grande fracasso. Quasi subito, da quel crepaccio, piombò giù furiosamente un largo sprazzo d'acqua. - Siamo salvi! - urlò Kammamuri. - Tremal-Naik, - mormorò la giovanetta, svegliata dal precipitare della cascata. L'indiano si lanciò verso di lei. - Cosa vuoi? - le chiese. - Soffoco ... l'aria mi manca. Cos'è questo intenso calore che mi dissecca? Un sorso d'acqua, Tremal-Naik, dammi un sorso d'acqua. - Il cacciatore di serpenti la prese fra le sue robuste braccia e la portò presso alla cascata, dove il maharatto e la tigre bevevano a lunghi sorsi. Colle mani fece una specie di conca che riempì di acqua e l'accostò alle labbra della giovanetta, dicendole: - Bevi, Ada, ve n'è per tutti. Le porse parecchie volte da bere e poi, a sua volta, si dissetò. D'improvviso la tigre emise un rauco miagolio, indi cadde pesantemente al suolo, dibattendosi furiosamente. Kammamuri, spaventato, si slanciò verso la belva, ma le forze tutto d'un tratto gli mancarono e cadde supino cogli occhi stravolti, le mani raggrinzate e le labbra coperte di bava sanguigna. - Pa ... drone! ... - balbettò, con voce spenta. - Kammamuri! - gridò Tremal-Naik, - grande Siva! ... Ada! ... Oh mia Ada! ... La giovanetta come la tigre e Kammamuri aveva gli occhi sbarrati, la spuma alle labbra e la faccia spaventosamente alterata. Agitò le mani cercando di aggrapparsi al collo dell'indiano, aprì la bocca come se volesse parlare, poi chiuse gli occhi e si irrigidì.. Tremal-Naik la sostenne e mandò un urlo straziante. - Ada! ... Aiuto! ... Aiuto! ... Fu l'ultimo suo grido. La vista gli si offuscò, i muscoli gli si irrigidirono, una violenta commozione lo scosse dal capo alle piante, vacillò, si raddrizzò, indi cadde come fulminato sulle ardenti pietre della caverna, trascinando seco la fidanzata. Quasi nel medesimo istante sopra il pozzo s'udì uno schianto, ed una turba d'indiani precipitò nella spelonca, gettandosi sui quattro fulminati.

. - Credi tu che il suonatore abbia relazione coi misteriosi abitanti di Raimangal? - Lo credo. - Chi sospetti che siano quegli uomini? - Sono poi uomini? - Non credo che siano le anime dei morti. - Allora saranno pirati, - disse Aghur. - E quale interesse possono avere, per assassinare i miei uomini? - Chissà, forse quello di spaventarci e di tenerci lontani. - Dove supponi che abbiano le loro capanne? - L'ignoro, ma oserei dire che ogni notte si radunano sotto la fosca ombra del banian sacro. - Sta bene, - disse Tremal-Naik. - Kammamuri, prendi i remi. - Cosa vuoi fare, padrone? - chiese il maharatto. - Recarmi al banian. - Oh! Non farlo, padrone! - gridarono a un tempo i due indiani. - Perché? - Ti ammazzeranno come hanno ammazzato il povero Hurti. Tremal-Naik li guardò con due occhi che mandavano fiamme. - Il cacciatore di serpenti non tremò mai in sua vita, né tremerà questa sera. Al canotto, Kammamuri! - esclamò egli, con un tono di voce da non ammettere replica. - Ma, padrone! ... - Hai paura forse? - chiese sdegnosamente Tremal-Naik. - Sono maharatto! - disse l'indiano con fierezza. - Va' allora. Questa notte io saprò chi sono quegli esseri misteriosi che mi hanno dichiarato la guerra: e chi è colei che mi ha stregato. Kammamuri prese un paio di remi e si diresse verso la riva. Tremal-Naik entrò nella capanna, staccò da un chiodo una lunga carabina dalla canna rabescata, si munì di una gran fiasca di polvere e si passò nella cintola un largo coltellaccio. - Aghur, tu rimarrai qui, - diss'egli, uscendo. Se fra due giorni non saremo ritornati, verrai a raggiungerci a Raimangal colla tigre o con Punthy. - Ah! padrone ... - Non ti senti il coraggio bastante per venire laggiù? - Del coraggio ne ho, padrone. Volevo dire che fai male a recarti in quell'isola maledetta. - Tremal-Naik non si lascia assassinare, Aghur. - Prendi con te Darma. Potrebbe esserti utile. - Tradirebbe la mia presenza ed io voglio sbarcare senza esser veduto, né udito. Addio, Aghur. Si gettò la carabina ad armacollo e raggiunse Kammamuri, che lo attendeva presso ad un piccolo gonga, rozzo e pesante battello, scavato nel tronco di un albero. - Partiamo, disse. Saltarono nel battello e presero il largo, remando lentamente ed in silenzio. Un'oscurità profonda, resa densa da una nebbia pestilenziale che ondeggiava sopra i canali, le isole e le isolette, copriva le Sunderbunds e la corrente del Mangal. A destra ed a sinistra si estendevano masse enormi di bambù spinosi, di cespugli fitti, sotto i quali si udivano brontolare le tigri e sibilare i serpenti, di erbe lunghe e taglienti, confuse, amalgamate, strette le une alle altre in modo da impedire il passo. In lontananza però, sulla fosca linea dell'orizzonte, spiccavano qua e là alcuni alberi, dei manghi carichi di frutta squisite, dei palmizi tara, dei latania e dei cocchi dall'aspetto maestoso, con lunghe foglie disposte a cupola. Un silenzio funebre, misterioso, regnava ovunque, rotto appena appena dal mormorìo delle acque giallastre che radevano i rami arcuati dei paletuvieri e le foglie del loto e dal fruscio dei bambù scossi da un soffio di aria calda, soffocante, avvelenata. Tremal-Naik, sdraiato a poppa, col fucile sottomano, taceva e teneva aperti gli occhi fissandoli ora sull'una e ora sull'altra riva, dove udivansi sempre rauchi brontolii e sibili lamentevoli. Kammamuri, invece, seduto nel mezzo, faceva volare il piccolo gonga il quale lasciavasi dietro una scia di una fosforescenza ammirabile, da far quasi credere che quelle acque corrotte fossero sature di fosforo. Ogni qual tratto, però, cessava di remare, ratteneva il respiro e stava alcuni istanti in ascolto, chiedendo di poi al cacciatore di serpenti se nulla avesse udito o veduto. Era di già mezz'ora che navigavano, quando il silenzio fu rotto dal ramsinga, che si fece udire sulla riva destra, ma così vicino, da sospettare che il suonatore si trovasse a un centinaio di passi di distanza. - Alto! - mormorò Tremal-Naik. Non aveva ancora terminata la parola, che un secondo ramsinga rispose al primo, ma ad una distanza maggiore, intuonando una melodia malinconica, quanto era brillante e viva l'altra. La musica indiana si basa su quattro sistemi che hanno un'intima relazione colle quattro stagioni dell'anno ed a ciascuno di essi viene applicato un tono e modo particolare. È malinconica nella stagione fredda, viva ed allegra nel ringiovanire della stagione, languida nei grandi calori d'estate e brillante nell'autunno. Perché mai quei due istrumenti suonavano così contrariamente? Era forse un segnale? Kammamuri lo temeva. - Padrone - diss'egli, - siamo stati scoperti. - È probabile, - rispose Tremal-Naik, che ascoltava attentamente. - Se ritornassimo? Questa notte non fa per noi. - Tremal-Naik non ritorna mai. Arranca e lascia che i ramsinga suonino a loro piacimento. Il maharatto riprese i remi spingendo innanzi il gonga, il quale non tardò a giungere in un luogo dove il fiume stringevasi a mo' di collo di bottiglia. Un buffo d'aria tiepida, soffocante, carica d'esalazioni pestifere, giunse al naso dei due indiani. Dinanzi a loro, ad un tre o quattrocento passi, apparvero molte fiammelle che vagolavano bizzarramente sulla nera superficie del fiume. Alcune, come fossero attirate da una forza misteriosa, vennero a danzare dinanzi alla prua del gonga, allontanandosi dipoi con fantastica rapidità. - Eccoci al cimitero galleggiante, - disse Tremal-Naik. - Fra dieci minuti arriveremo al banian. - Passeremo col gonga? - chiese Kammamuri. - Con un po' di pazienza si passerà. - È male, padrone, offendere i morti. - Brahma e Visnù ci perdoneranno. Arranca, Kammamuri. Il gonga, con pochi colpi di remo raggiunse la stretta del fiume e sboccò in una specie di bacino, sul quale si intrecciavano i lunghi rami di colossali tamarindi, formando una fitta volta di verzura. Colà galleggiavano parecchi cadaveri che i canali del Gange avevano trascinato fino al Mangal. - Avanti! - disse il cacciatore di serpenti. Kammamuri stava per ripigliare i remi, quando la volta di verzura, che copriva quel cimitero galleggiante, s'aprì per dar passaggio a uno stormo di strani esseri dalle ali nere, i trampoli lunghissimi, i becchi aguzzi e smisurati. - Cosa c'è di nuovo? - esclamò Kammamuri sorpreso. - I marabù, - disse Tremal-Naik. Infatti un centinaio di quei funebri uccelli del sacro fiume, calavano, starnazzando giocondamente le ali, posandosi sui cadaveri. - Avanti, Kammamuri, - ripeté Tremal-Naik. Il gonga spinto innanzi, e dopo una buona mezz'ora, attraversato il cimitero, trovossi in un bacino assai più ampio, completamente sgombro, che veniva diviso in due bracci da una aguzza punta di terra, sulla quale spiccava un grandissimo e singolare albero. - Il banian! - disse Tremal-Naik. Kammamuri a quel nome fremette. - Padrone! - mormorò, coi denti stretti. - Non temere, maharatto. Deponi i remi e lascia che il gonga s'areni da sé sull'isola. Forse c'è qualcuno nei dintorni. Il maharatto ubbidì sdraiandosi sul fondo del canotto, mentre Tremal-Naik, armata per ogni precauzione la carabina, faceva altrettanto. Il gonga, trasportato dalla corrente che facevasi lievemente sentire, si diresse, girando su se stesso, verso la punta settentrionale dell'isola Raimangal, sede degli esseri misteriosi che avevano assassinato il povero Hurti. Un silenzio profondo regnava in quel luogo. Non si udiva nemmeno lo stormire dei giganteschi bambù, essendo cessato il venticello notturno, né le note dei ramsingo. Il fiume stesso pareva che fosse diventato d'olio. Tremal-Naik di quando in quando, però, alzava con precauzione la testa e scrutava attentamente le rive, per nulla rassicurato da quel silenzio. Il gonga si arenò, con un lieve strofinìo, a un centinaio di passi appena dal banian, ma i due indiani non si mossero. Passarono dieci minuti d'angosciosa aspettativa, poi Tremal-Naik ardì alzarsi. Prima cosa che gli diede nell'occhio, fu una forma nera, confusa, distesa fra le erbe, ad una ventina di metri dalla riva. - Kammamuri, - mormorò. - Alzati ed arma le tue pistole. Il maharatto non se lo fece dire due volte. - Cosa vedi, padrone? - chiese egli con un filo di voce. - Guarda laggiù. - Eh! ... - fe' il maharatto, sbarrando gli occhi. - Un uomo! - Zitto! Tremal-Naik alzò la carabina prendendo di mira quella massa nera che aveva l'apparenza d'un essere umano sdraiato, ma l'abbassò senza scaricarla. - Andiamo a vedere cos'è, Kammamuri, - diss'egli.- Quell'uomo non è vivo. - E se fingesse d'essere morto? - Peggio per lui. I due indiani sbarcarono, dirigendosi quatti quatti verso quell'individuo che non dava segno di vita. Erano giunti ad una diecina di passi, quando un marabù si alzò rumorosamente volando verso il fiume. - È un uomo morto, - mormorò Tremai-Naik. - Se fosse ... Non terminò la frase. In quattro salti raggiunse quel cadavere; una sorda esclamazione gli uscì dalle labbra contorte per l'ira. - Hurti! - esclamò. Infatti quel cadavere era Hurti, il compagno dell'indiano Aghur. L'infelice era disteso sul dorso, colle gambe e le braccia raggrinzate, probabilmente per lo spasimo, la faccia spaventosamente scomposta e gli occhi aperti, schizzanti dalle orbite. Le ginocchia erano rotte e insanguinate ed egualmente i piedi, segno evidente che era stato trascinato per qualche tratto sul terreno, forse quando era ancora agonizzante, e dalla bocca sbarrata uscivagli d'un buon palmo la lingua. Tremal-Naik sollevò lo sventurato indiano per vedere in qual luogo era stato colpito, ma non trovò sul corpo di lui alcuna ferita. Esaminandolo però meglio, vide attorno al collo una lividura assai marcata e dietro il cranio una contusione, che pareva prodotta da una grossa palla o da un sasso arrotondato. - L'hanno stordito prima e poi strangolato, diss'egli, con voce sorda. - Povero Hurti, - mormorò il maharatto.- Ma perché assassinarlo e in questo modo? - Lo sapremo, Kammamuri, e ti giuro che Tremal-Naik non lascierà impunito il delitto. - Ma temo, padrone, che gli assassini siano molto potenti. - Tremal-Naik sarà più potente di loro. Orsù, ritorna al canotto. - E Hurti? Lo lascieremo qui? - Lo getterò nelle sacre acque del Gange domani mattina. - Ma le tigri, questa notte lo divoreranno. - Sul cadavere di Hurti veglia il cacciatore di serpenti. - Ma come? Non ritorni tu? - No, Kammamuri, io rimango qui. Quando avrò sbrigato le mie faccende, abbandonerò quest'isola. - Ma tu vuoi farti assassinare. - Un sorriso sdegnoso sfiorò le labbra del fiero indiano. - Tremal-Naik è un figlio della jungla! Ritorna al canotto, Kammamuri. - Oh mai, padrone! - Perché? - Se ti accade una disgrazia, chi ti aiuterà? Lascia che t'accompagni e ti giuro che ti seguirò dove tu andrai. - Anche se io mi recassi a trovare la visione? - Sì, padrone. - Rimani con me, prode maharatto, e vedrai che noi due faremo per dieci. Seguimi! Tremal-Naik si diresse verso la riva, afferrò il gonga a tribordo e con una violenta scossa lo rovesciò, calando a picco. - Cosa fai? - chiese Kammamuri, sorpreso. - Nessuno deve sapere che noi siamo qui giunti. E ora, a noi lo svelare il mistero. Cambiarono la polvere alle carabine ed alle pistole, onde essere sicuri di non mancare al colpo, e si diressero verso il banian, la cui imponente massa spiccava fieramente nella profonda tenebra.

Se ci muore prima che abbia confessato, è una grande disgrazia. - Non morrà così presto, te l'assicuro. - Parlerà? - Bisogna che parli. Hai udito tu, che Ada è forse agonizzante? Bisogna che sappia tutto, dovessi estrargli tutto il sangue dalle sue vene a goccia, a goccia. - Non credere, padrone. Il miserabile può avere mentito. - Siva voglia che sia così. Se la mia Ada muore, sento che non le sopravviverò Guarda che destino crudele! Amarla, essere riamato e non poterla far mia. Oh! ma lo sarà, lo giuro su tutte le divinità dell'India. - Calma, padrone. Ecco che il nostro uomo comincia a dar segno di vita. Lo strangolatore ritornava in sé. Un fremito scosse le sue membra che sembravano irrigidite, alzò lentamente la testa rigata da grosse goccie di sudore, i suoi lineamenti poco prima orribilmente alterati si ricomposero e finalmente aprì gli occhi fissandoli sul cacciatore di serpenti. Aprì la bocca come se volesse parlare, ma la lingua non emise suono alcuno; solamente un sordo brontolìo, una specie di gemito soffocato, gli risuonò in fondo alla gola. - Manciadi, parla! - disse Tremal-Naik. Il torturato non rispose. - Vedi quel fuoco? Se tu non sciogli la lingua, ricomincio le torture - Parlare? - ruggì Manciadi. - Mi hai ... rovinato ... non potrò più camminare ... Uccidimi se vuoi ... ma non parlerò. - Manciadi non irritarmi, perché non avrò pietà alcuna. - Ti odio ... ma la tua Ada ... la donna che tu ami ... morrà! ... Quale gioia, al pensare ... che proverà i miei stessi tormenti ... Mi pare di udire le sue urla ... guardala là ... legata sulla fiammeggiante pira ... Suyodhana sogghigna ... i thugs le danzano intorno ... Kâlì sorride ... Ecco le fiamme che l'avvolgono ... Ah! ah! ah! ... Il miserabile proruppe in un satanico scroscio di risa, a cui fece eco il primo tuonar della folgore, che scosse la capanna fino alle fondamenta. Tremal-Naik si gettò, come un forsennato, sull'indiano. - Tu menti, - urlò. - Non è possibile! non è possibile! - È vero ... la tua Ada sarà bruciata ... - Dimmi tutto! lo voglio, te lo comando! - Mai! Tremal-Naik, pazzo d'ira e di disperazione, tornò ad afferrarlo per trascinarlo accanto al fuoco. Kammamuri intervenne. - Padrone, - gli disse arrestandolo, - quest'uomo non può subire una seconda tortura e morrà. Il fuoco è insufficiente a farlo parlare, proviamo il ferro. - Cosa vuoi dire! - Lascia fare a me; parlerà, lo vedrai. Il maharatto passò nella stanza attigua e poco dopo ricomparve portando una specie di trapano alla cui estremità aveva applicato due spiragli opposti, d'acciaio temperato, con due punte, lontane l'una dall'altra, un centimetro. - Cos'è quella roba lì? - chiese Tremal-Naik. - Un cava stoppacci, - rispose il maharatto. - Ora mi vedrai adoperarlo e ti giuro che nessun uomo, per quanto sia forte e caparbio, può resistere a simile prova. I maharatti se ne intendono. Afferrò il piede dritto del prigioniero e applicò sul pollice le due punte dello spirale. - Attento, Manciadi, che incomincio. Le due spirali si sprofondarono nelle carni. Il maharatto guardò in volto il torturato, tutto coperto di un gelido sudore. - Debbo continuare? - gli chiese. Manciadi die' in un sussulto. Kammamuri riprese la tortura. Il torturato, scosso da una terribile commozione, mandò un urlo disperato. - Confessa o proseguo, - disse il maharatto. - No ... non proseguire ... Confesso tutto ... - Lo sapeva io che tu avresti parlato. Spicciati, se non vuoi che ricominci sull'altro piede. Dov'è la vergine della pagoda sacra? - Nei ... sotterranei, - mormorò con voce semi-spenta Manciadi. - Giurami sulla tua divinità che non c'inganni. - Lo ... giuro ... su ... Kâlì. - Avanti ora. Qual pericolo corre? Di', su, tutto. - M'avevano ordinato ... Ah! cani ... - Tira avanti. - Una condanna pesa ... su Ada ... Kâlì l'ha dannata a morire ... Il tuo padrone l'ama ... essa lo riama ... Ebbene, uno dei due ... bisogna che muoia. M'avevano qui ... mandato per assassinarlo ... Ho mancato al colpo ... - Avanti! Avanti! - esclamò Tremal-Naik, che non perdeva una sillaba. - Non mi vedranno ... indovineranno la sorte che ... mi è toccata ... sapranno che tu ... sei ancor vivo ... Ebbene, uno dei due ... bisogna che muoia ... Ada è in loro ... mano ... morrà ... abbruciata ... Kâlì l'ha condannata. - Orrore! Ma io la salverò! ... Un sorriso ironico agitò le labbra del torturato. - I thugs sono ... potenti, - balbettò. - Ma Tremal-Naik sarà più potente di loro. Odimi, Manciadi. Io so che il banian sacro conduce nei sotterranei; è d'uopo che sappia il segreto per scendere. - Ho parlato ... troppo. Puoi uccidermi, giacché ... sono agonizzante ... ma non ... dirò altro. Lasciami morire ... - Devo ricominciare? - chiese Kammamuri. - So quanto mi occorre, - disse Tremal-Naik. - Parto! - Questa istessa notte? - Non hai udito tu? ... Domani potrebbe essere troppo tardi. - La notte è oscura e tempestosa. - Tanto meglio; approderò senz'essere veduto. - Padrone, andare a Raimangal è come andare incontro alla morte. - In questa notte, Kammamuri, non m'arresteranno nemmeno i fulmini del cielo. Darma! La tigre. che stava accovacciata nella stanza attigua, s'alzò mugolando e venne a collocarsi vicino al padrone. - Andiamo al canotto, buona bestia, e prepara i tuoi artigli. - Ed io, padrone, cosa devo fare? - chiese Kammamuri. Tremal-Naik pensò alcuni istanti, poi disse: - Quell'uomo è ancora vivo e probabilmente non morrà; veglierai su di lui. Chissà, forse potrebbe esserci ancora utile. - E vuoi partire senza di me? - Tu lo vedi, non puoi seguirmi. Se lasciamo solo quell'uomo, domani sarà morto. Ti attendo al canotto. Tremal-Naik s'armò della carabina, delle pistole e del coltellaccio, si munì di un'ampia provvista di polvere e di palle ed uscì a rapidi passi. La tigre gli si mise dietro balzando a destra ed a manca, mescendo i suoi ruggiti agli urli del vento e al rombo dei tuoni. - La notte non è buona, - disse Tremal-Naik, guardando le tempestose nubi, - ma nulla m'arresterà. Ah! potessi giungere in tempo da salvarla. Povera Ada! D'un tratto una secca detonazione giunse ai suoi orecchi, seguita dall'abbaiar lugubre di Punthy. - Cos'è? - si chiese Tremal-Naik, sorpreso. Guardò verso la capanna e scorse Kammamuri che gli veniva incontro correndo. Era armato fino ai denti e sulle spalle portava i remi del canotto. - Cos'è successo? - chiese il cacciatore di serpenti. - Kammamuri ha vendicato Aghur, - rispose il maharatto. - Hai ucciso Manciadi, forse? - Sì, padrone, con una pistolettata. Quell'uomo ci era d'impiccio; ora almeno potrò seguirti. - Kammamuri, sai che forse non ritorneremo mai più nella jungla? - Lo so, padrone. - Sai che a Raimangal ci attende la morte? - Lo so, padrone. Tu vai a sfidarla per salvare la donna che tu ami ed io ti seguo. Meglio morire al tuo fianco che solo nella jungla. - Ebbene, mio prode Kammamuri, seguimi! Punthy veglierà sulla nostra capanna.

. - Forse quegli uomini sperano che il miserabile abbia compiuto il delitto. - E se noi arrivassimo tardi? ... Grande Siva, qual terribile colpo! Io non sopravviverei, lo sento, alla catastrofe. - Calma, padrone. Chissà, forse Manciadi ha esagerato. - Possa essere vero. Mia povera Ada, potessi ancora rivederti. - Zitto, padrone; parlare è imprudente. - È vero, Kammamuri: silenzio. Tremal-Naik si sdraiò a prua a fianco della tigre e Kammamuri a poppa, col remo in mano, cercando di dirigere il canotto. L'uragano allora raddoppiava di violenza e alla notte oscura era successa una notte di fuoco. Il vento ruggiva tremendamente nella jungla, curvando con mille gemiti e mille scricchiolii i giganteschi vegetali e torcendo in mille guise i cento tronchi dei banian, i rami dei palmizi tara, dei latania, dei pipal e dei giacchieri, e fra le nubi scrosciava incessantemente la folgore che veniva giù, descrivendo abbaglianti zig-zag. Il canotto trascinato dal vento e dalla corrente straordinariamente gonfia, filava come una freccia, dondolandosi spaventosamente fra i gorghi, cozzando e tornando a cozzare contro le molteplici isolette e contro la moltitudine d'alberi che andavano disordinatamente alla deriva. Kammamuri si sforzava, ma invano, di mantenerlo sulla buona via e Tremal-Naik cercava di calmare la tigre, la quale, spaventata da tutti quei fragori e da quell'abbagliante chiarore, ruggiva ferocemente, lanciandosi dall'uno all'altro bordo della imbarcazione con grande pericolo di rovesciarla. Alle dieci di sera Kammamuri segnalò un gran fuoco che ardeva sulla riva del fiume a meno di trecento passi dalla prua del canotto. Non aveva ancora terminato di parlare, che si udì il ramsinga suonare tre volte e su tre diversi toni. - Allerta, padrone! - gridò, dominando colla voce tutti quei formidabili fragori. - Scorgi nessuno? - chiese Tremal-Naik, tenendo stretta pel collo la tigre colla mano sinistra e impugnando colla destra una pistola. - No, padrone, ma il fuoco fu certamente acceso per vedere chi va o viene. Stiamo in guardia; il ramsinga ha segnalato qualche cosa. - Prendi la carabina. Forse daremo battaglia. Il canotto s'avvicinava rapidamente al fuoco, il quale bruciava un ammasso di bambù secchi, rischiarando come in pieno giorno le due rive del fiume. - Padrone, guarda! - disse d'un tratto Kammamuri. - Zitto! - bisbigliò Tremal-Naik, serrando la bocca alla tigre. Due indiani si erano improvvisamente lanciati fuori da un cespuglio di mussenda. Portavano il laccio attorno al corpo e tenevano una carabina in mano. Sui loro petti, si scorgeva distintamente il serpente azzurro colla testa di donna. - Guarda laggiù! - gridò uno di essi. - Vedi? - Sì, - rispose l'altro. - È un ammasso di canne che va alla deriva. - Lo credi? - E perché no? - Temo che nasconda qualche cosa. - Non vedo nulla sotto. - Taci! ... To'. Mi sembrò di avere udito ... - Un ruggito, vuoi dire? - Precisamente. Che ci sia una tigre là in mezzo? - Buon viaggio. - Adagio, Huka. L'uomo che Manciadi deve strangolare ha una tigre. - Questo non lo sapeva. E vuoi tu, che là sotto ci sia il nostro uomo colla sua bestia? - Potrebbe darsi. Quell'uomo è astuto ed audace. - Cosa conti di fare? - Scovarlo con un colpo di carabina. Mira molto basso. Kammamuri e Tremal-Naik avevano udito distintamente il dialogo. Vedendo i due indiani alzare le carabine, si gettarono prontamente nel fondo del canotto. - Non rispondere, padrone, - disse il maharatto, o siamo perduti. Due colpi di carabina rintronarono forando i bambù. La tigre fece un salto emettendo un furioso miagolìo. - Ferma, Darma! - disse Tremal-Naik, rovesciandola. - Che la dea mi fulmini! - gridò uno dei due indiani. - È lui. - Da' il segnale, Huka! - comandò l'altro. - Ah! miserabile! Qualche cosa di lampeggiante brillò al disopra del canotto seguito da uno scroscio formidabile che soffocò l'acuta nota del ramsinga. Tremal-Naik e Kammamuri, che si erano alzati, furono violentemente atterrati mentre la tigre gettava un secondo miagolìo ancor più furioso del primo. - Padrone! - esclamò Kammamuri. - La folgore! Tremal-Naik, ancora istupidito dall'influenza della scarica elettrica s'alzò ginocchioni. Un grido di rabbia gli sfuggì. - Maledizione! ... Abbruciamo! Infatti i bambù, percossi dalla folgore, avevano preso fuoco e abbruciavano rapidamente. - Siamo perduti! - esclamò Kammamuri. - Nel fiume! Nel fiume! - Non muoverti, se ti è cara la vita. Tremal-Naik prese fra le braccia l'ammasso di canne e con uno sforzo disperato le gettò nel fiume. - È lui! - gridò una voce.- Fuoco! Huka! ... Due altre detonazioni rimbombarono. Tremal-Naik udì le palle fischiare ai suoi orecchi. - Da' il segnale, Huka! - Siamo perduti, padrone! - gridò Kammamuri. - Non muoverti, - disse Tremal-Naik. - Afferra la tigre. Si slanciò a poppa e mirò l'indiano Huka che accostava alle labbra il ramsinga. Lo scoppio della carabina fu accompagnato da un tonfo e da un grido. Huka, colpito in fronte dall'infallibile palla del cacciatore di serpenti, era precipitato nel fiume. Il suo compagno esitò un momento, poi fuggì a rompicollo attraverso la jungla, suonando furiosamente il ramsinga che aveva raccolto da terra. Tremal-Naik gli sparò dietro una pistolettata, ma senza riuscire a colpirlo. - Fallito! - gridò egli, gettando con collera l'arma. - Siamo scoperti! - Cosa facciamo, padrone? - chiese Kammamuri. - Mi pare che ogni speranza di approdare a Raimangal sia perduta; il ramsinga metterà in allarme tutti gl'indiani. Maledetta folgore! ... - Andiamo innanzi lo stesso, Kammamuri. Questa notte non ci arresteranno tutti gl'indiani delle Sunderbunds. Da' mano ai remi ed arranca con quanta forza hai; forse arriveremo prima che i miserabili possano prepararsi a riceverci. Io terrò d'occhio le due rive del fiume e abbatterò quanti si mostrano a portata della mia carabina. Avanti! Kammamuri voleva aggiungere qualche parola, forse qualche consiglio, ma Tremal- Naik non gliene lasciò il tempo. - Se hai paura, sbarca, - gli disse. - Io e la tigre andremo innanzi. - Ti seguo, padrone, e Siva ci protegga. Afferrò i remi, si sedette a mezza barca e si mise a remigare con tutte le sue forze. Il canotto, sotto quella potente spinta, discese la fiumana con rapidità vertiginosa, balzando sulle onde. Tremal-Naik, caricata la carabina, si mise a poppa cogli occhi fissi sulle due rive. La tigre si era accovacciata ai suoi piedi e brontolava sordamente ad ogni baleno. Passarono dieci minuti. Le rive, che fuggivano rapidamente dinanzi agli occhi dei due indiani, erano coperte di bambù che tuffavansi nella corrente e da rade palme tara, la maggior parte delle quali abbattute o spezzate dalla furia dell'uragano. D'un tratto Tremal-Naik, che seguiva attentamente il corso del fiume scorse al sud un razzo elevarsi a grande altezza. Quantunque il vento continuasse a ruggire e la folgore a scrosciare, udì distintamente lo scoppio. - Un segnale forse? mormorò egli. - Arranca, arranca Kammamuri! Un secondo razzo si elevò sulla riva opposta descrivendo una lunga parabola. - Padrone? - interrogò Kammamuri. - Avanti, mio prode maharatto. - Siamo stati segnalati. - La mia Ada corre un pericolo: avanti! Attenta, Darma: l'ora della pugna s'avvicina. Il fiume allora correva più rapido restringendosi a mo' di collo di bottiglia; Tremal-Naik s'accorse di essere vicino al cimitero galleggiante. Senza sapere il perché, provò un fremito. - Adagio, Kammamuri. Sento che corriamo un pericolo. Il maharatto rallentò la battuta delle pagaie. Il canotto continuò a filare ed entrò in mezzo al bacino, coperto dalla fitta volta dei tamarindi e dei manghieri. L'oscurità divenne profonda, tanto che i due indiani non vedevano più lontano di cinque passi. Il canotto urtò contro la massa dei cadaveri, ed un tonfo, come di un corpo che s'inabissa, rispose al primo urto. - Padrone, hai udito? - chiese Kammamuri. - Sì, qualcuno si è gettato in acqua. Tremal-Naik si curvò sul fiume per vedere se qualcuno s'avvicinava al canotto, ma nulla scorse. Il canotto per la seconda volta urtò. - Qualcuno passa, - disse una voce che giunse fino ai due indiani. - Che sieno loro? - Oppure dei nostri? L'appuntamento è per la mezzanotte. Tremal-Naik a quella parola "mezzanotte" provò un colpo al cuore. - Mezzanotte! - mormorò, con voce tremante. - L'appuntamento per la mezzanotte! Quale sospetto! - Olà! - gridò una di quelle voci. - Chi passa? - Non rispondere, padrone, s'affrettò a dire Kammamuri. - Al contrario, risponderò. Bisogna che sappia tutto. - Ti perdi. - Chi parla? - chiese Tremal-Naik. - Chi passa? - domandò invece la voce. - Indiani di Raimangal. - Affrettate, che la mezzanotte non è lontana. - Cosa si farà a mezzanotte? - La vergine della sacra pagoda sale sul rogo. Tremal-Naik soffocò un urlo che stava per sfuggirgli dalle labbra. - Siva, Siva, abbi pietà di lei! mormorò. Poi, dominando la sua commozione, chiese: - Non è morto, adunque, Tremal-Naik? - No, fratello, poiché Manciadi non è ancora tornato. - E la Vergine verrà abbruciata? - Sì, alla mezzanotte. Il rogo è pronto e la fanciulla salirà nel paradiso di Kâlì. - Grazie, fratello, - rispose con voce soffocata Tremal-Naik. - Una parola ancora. Hai udito il ramsinga? - No. - Hai veduto Huka? - Sì, accanto al falò. - Sai dove si brucierà la Vergine? - Nei sotterranei, mi pare. - Sì, nella grande pagoda sotterranea. Affrettati che la mezzanotte non deve essere lontana. Addio, fratello. - Arranca, Kammamuri, arranca! - ruggì Tremal-Naik. - Ada! mia povera Ada! Un singhiozzo lacerò il suo petto e soffocò la sua voce. Kammamuri afferrò i remi e si mise ad arrancare con disperata energia. Il canotto sfondò violentemente la massa dei cadaveri ed uscì dalla parte opposta. - Presto! ... presto! - disse Tremal-Naik, fuori di sé. - A mezzanotte salirà il rogo ... Arranca, Kammamuri! Il maharatto non aveva bisogno di essere eccitato. Arrancava così furiosamente, che i muscoli minacciavano di fargli scoppiare la pelle. Il canotto attraversò il bacino ed entrò rapido come un dardo nel fiume. Tosto apparve l'estrema punta di Raimangal col suo gigantesco banian i cui smisurati rami si contorcevano in mille guise sotto i possenti soffi della burrasca. Un lampo ruppe le tenebre mostrando la riva completamente deserta. - Siva è con noi! - esclamò Kammamuri. - Avanti, maharatto, avanti! - disse Tremal-Naik, che s'era gettato a prora. Il canotto spinto innanzi a tutta velocità s'arenò sulla sponda, uscendo d'un buon terzo dall'acqua. Tremal-Naik, caricatosi in furia delle munizioni, Kammamuri e la tigre si slanciarono a terra, raggiungendo il tronco principale del banian sacro. - Odi nulla? - chiese Tremal-Naik. - Nulla, - disse Kammamuri. - Gl'indiani sono tutti nel sotterraneo. - Hai paura a seguirmi? - No, padrone, rispose con ferma voce il maharatto. - Quando è così, scendiamo anche noi. La mia Ada o la morte! S'aggrapparono ai colonnati e raggiunsero i rami superiori, avvicinandosi alla smezzata sommità del tronco. La tigre con un salto solo li raggiunse. Tremal-Naik guardò giù nella cavità. Al chiarore dei lampi scorse delle tacche, che permettevano di discendere. - Andiamo, mio prode maharatto. Io ti precedo. E si lasciò calare nel tronco, scendendo silenziosamente. Il maharatto e Darma lo seguirono da vicino. Cinque minuti dopo i due indiani e la tigre si trovavano nel sotterraneo, in una specie di pozzo semi-circolare scavato nella viva roccia, sei metri sotto il livello delle Sunderbunds.

. - E strangolato che abbia Tremal-Naik, cosa dovrò fare? - Raggiungermi a Raimangal: va'! Manciadi toccò una seconda volta la polvere colla fronte e si allontanò colla dritta sul calcio d'una pistola. - Decisamente, - disse il bengalese, - il figlio delle sacre acque del Gange è un grande uomo! Il fanatico non pensò nemmeno al doppio assassinio che stava per commettere. Suyodhana così aveva ordinato, e Suyodhana parlava in nome della mostruosa divinità alla quale tutti loro avevano consacrato il loro braccio e la loro vita. Attraversò lentamente il bosco dei giacchieri e giunse allo stagno, presso il quale stava sdraiato, colla carabina sulle ginocchia, la futura vittima. - Hai veduto l'elefante? - gli chiese Aghur. - Non ancora, ma ho scoperto le sue traccie, - disse l'assassino guardandolo con due occhi che mandavano sinistri bagliori. - Cos'hai che mi guardi così? - domandò Aghur. Il bengalese non rispose e continuò a guardarlo. - Hai scoperto qualche cosa di strano? - Sì, - rispose Manciadi. - Aghur, ti ricordi cosa ti dissi un'ora fa? - L'indiano parve sorpreso ed inquieto. Forse presentiva la catastrofe. - Allorché mi parlasti della morte? - Sì. - Me lo ricordo, - rispose Aghur. - Non ti sembra crudele morire a vent'anni, quando l'avvenire forse sorride? Non ti sembra atroce abbandonare questa terra indorata dal sole e profumata dall'olezzo di mille fiori, per scendere nella tomba, nell'oscurità, nel mistero? - Sei pazzo? - domandò Aghur. - No, Aghur, non sono pazzo, - disse l'assassino avvicinandoglisi fino a toccarlo. - Guarda! - Aprì la tunica che coprivalo e mise allo scoperto il suo petto tatuato del serpente colla testa di donna. - Cos'è? - chiese Aghur. - L'emblema della morte. - Non capisco. - Tanto peggio per te. Il bengalese sciolse il laccio che teneva nascosto sotto la tunica e lo fece fischiare attorno alla sua testa. - Aghur! - gridò, - Suyodhana ti ha condannato e devi morire! L'indiano comprese allora tutto. Balzò in piedi colla carabina in mano, ma gli mancò il tempo di puntarla sul traditore. Un fischio tagliò l'aria e il poveretto, stretto alla gola dal laccio, la cui palla di piombo lo percosse fortemente alla nuca, stramazzò a terra. - Assassino! ... - urlò egli con voce strozzata. - Aghur! - disse lo strangolatore con accento funebre. - Saluta un'ultima volta il sole che ti accarezza, respira un'ultima volta quest'aria che corre sulle Sunderbunds, invia l'estremo saluto ai tuoi compagni e scendi nella tomba. - Kammamuri! ... Padrone! ... - balbettò Aghur, dibattendosi. Il fanatico afferrò solidamente il laccio e soffocò la voce della vittima con una violenta strappata, poi gli si gettò sopra e col pugnale lo trafisse. - Muori, ché la dea lo vuole! - gli gridò un'ultima volta Manciadi. Aghur, col volto cinereo, gli occhi schizzanti dalle orbite cacciò fuori un rauco gemito e cercò di risollevarsi, ma ricadde. - E uno, - disse il fanatico, lanciando un guardo feroce sull'assassinato. - Ora, pensiamo all'altro. E s'allontanò a rapidi passi, mentre uno stormo di marabù calava sul cadavere ancor caldo dell'infelice Aghur.

. - Se mi vede tornare, crederà che io abbia abbandonato Kammamuri e mi spaccherà la testa con una palla di carabina. Quell'uomo non ischerza. Aprì adagio adagio i bambù e guardò verso il nord. A quattrocento passi di distanza scorse la capanna ed accanto ad essa Tremal-Naik in piedi, colla carabina in mano. - Ah! - esclamò il miserabile. - Ucciderlo non sarà tanto facile, ma Manciadi è più furbo di un cacciatore di serpenti. Ripigliò la corsa verso l'est, trottando furiosamente per sei o sette minuti, poi si slanciò nella pianura. La capanna stava alla sua destra e Tremal-Naik gli mostrava un fianco. Con un po' d'astuzia poteva avvicinarsi e cogliere la vittima alle spalle. La sua risoluzione fu prontamente presa. Si mise a strisciare fra le erbe come un serpente, allungandosi quanto poteva onde non venire scorto da Tremal-Naik e procurando di non far rumore. Però, il venticello che sfiorava la piantagione, curvando dolcemente le alte cime dei bambù, produceva un leggiero stropiccio, sufficiente per coprire lo strisciare di un uomo. Così avanzando e soffermandosi per tendere gli orecchi e guardare Tremal-Naik che pareva non s'accorgesse di nulla, riuscì a guadagnare la capanna. Con uno scatto da tigre si rizzò. Un sorriso atroce sfiorava le sue labbra. - È mio, - mormorò con un filo di voce. - Kâlì mi protegge. Camminò in punta dei piedi lungo le pareti della capanna e si fermò a dieci passi da Tremal-Naik. Diede un ultimo sguardo alla jungla e non scorse nessuno. Un secondo sorriso, più crudele del primo, apparve sulle labbra ed i suoi occhi scintillarono come quelli di un gatto. Un secondo ancora e la vittima sarebbe caduta per non più rialzarsi. Fece fischiare rapidamente il laccio attorno a sé e lo slanciò facendo un balzo avanti. Tremal-Naik piombò al suolo come un albero sradicato dal vento, ma, per un caso fortuito, una mano era rimasta presa nel laccio. - Kammamuri! - gridò il disgraziato, afferrando coll'altra mano la corda e tirando a sé con disperata energia. - Muori! muori! - urlò l'assassino, trascinandolo sul suolo. Tremal-Naik mandò un secondo grido. - Kammamuri! aiuto! - Eccomi - tuonò una voce. Manciadi digrignò i denti con furore. Sul limite della piantagione era improvvisamente apparso il maharatto: dinanzi, correva, con balzi giganteschi la tigre, fiancheggiata da Punthy. Un lampo squarciò la notte seguìto da una fragorosa detonazione. Manciadi fece un salto di dieci passi e s'avventò all'impazzata verso la riva vicina. Un secondo sparo rimbombò e Manciadi piombò nel fiume, scomparendo fra i gorghi.

Pare che quel dannato Negapatnan abbia attraversato la foresta, passando di albero in albero. - E non rimase alcuno nel bosco? - Sì, quattro sipai. - Fin dove sei andato tu? - Fino all'estremità opposta della foresta. - Devi essere stanco. Bevi questa limonata, che ti farà bene. Così dicendo gli porse la tazza. Tremal-Naik la vuotò tutta d'un fiato. - Dimmi un po', Saranguy, - ripigliò il capitano, - credi tu che ci sieno dei thugs nella foresta? - Non lo credo, - rispose Tremal-Naik. - Non conosci tu nessuno di quegli uomini? - Io conoscere ... di quegli uomini! - esclamò Tremal-Naik. - E perché no? Tu hai vissuto molto tempo fra i boschi. - Non è vero. - Eppure mi dissero che ti hanno veduto parlare con un indiano sospetto. Tremal-Naik lo guardò senza rispondere. I suoi occhi a poco a poco si erano accesi e risplendevano come due carboni infiammati; la sua faccia era divenuta d'una tinta più cupa e i lineamenti gli si erano alterati. - Che hai da dire? - dimandò il capitano Macpherson, con accento lievemente beffardo. - Thugs! - balbettò il cacciatore di serpenti, agitando pazzamente le braccia e rompendo in uno scroscio di risa. - Io parlare con un thug? - Attento, - mormorò Bhârata, all'orecchio del capitano. - La limonata fa il suo effetto. - Orsù, parla, - incalzò Macpherson. - Sì, mi ricordo, ho parlato con un thug sull'orlo della foresta. Ah! ... ah! ... E credevano che io cercassi Negapatnan. Che stupidi ... ah! ... ah! ... Io inseguire Negapatnan? Io che tanto ho lavorato per farlo scappare ... ah! ... ah! ... E Tremal-Naik, in preda ad una specie di allegria febbrile, irresistibile, rideva come un ebete, senza più sapere cosa dicesse. - Avanti, capitano! - esclamò Bhârata. - Sapremo tutto. - Il miserabile è perduto, - disse il capitano. - Calma, capitano, e giacché è in vena di parlare, stuzzichiamolo. - Hai ragione. Olà, Saranguy ... - Saranguy! - interruppe bruscamente il povero ebbro, sempre ridendo. - Non sono Saranguy io ... Che stupido che sei, amico mio, a credere che io porti il nome di Saranguy. Io sono Tremal-Naik ... Tremal-Naik della jungla nera, il cacciatore di serpenti. Non sei stato mai tu nella jungla nera? Tanto peggio per te; non hai visto nulla di bello. Oh che stupido che sei, che stupido! - Sono proprio uno stupido, - disse il capitano, frenandosi a gran pena. - Ah! tu sei Tremal-Naik? E perché hai cangiato nome? - Per allontanare ogni sospetto. Non sai che io volevo entrare al tuo servizio? - E perché? - I thugs così volevano. M'hanno donato la vita e mi daranno anche la vergine della pagoda ... La conosci tu la vergine della pagoda? No, tanto peggio per te. È bella sai, molto bella. Farebbe impazzire Brahma, Siva e anche Visnù. - E dov'è questa vergine della pagoda? - Lontana di qui, molto lontana. - Ma dove? - Non te lo dico. Tu potresti rubarmela. - E chi la tiene? - I thugs, ma me la daranno in isposa. Io sono forte, coraggioso. Farò tutto ciò che essi vorranno per averla. Negapatnan intanto è liberato. - Devi forse compiere qualche ... - Compiere? ... Ah! ... ah! ... Devo ... capisci, portare una testa ... ah! ... ah! ... Mi fai ridere come un pazzo. - Perché? - chiese Macpherson, che cadeva di sorpresa in sorpresa, nell'udire quelle rivelazioni. - Perché la testa che devo troncare ... ah! ... ah! ... È la tua! ... - La mia! - esclamò il capitano, balzando in piedi. - La mia testa? - Ma ... sì ... sì ... A Suyodhana! - Chi è questo Suyodhana? - Come? non lo conosci tu? È il capo dei thugs. - E sai dove ha il suo covo? - Sì, che lo so. - Dove? - A ... a ... - Parla, dimmelo, - urlò il capitano balzandogli addosso e stringendogli furiosamente i polsi. - Tanto curioso sei tu? - Sì, sono curioso di saperlo. - E se non volessi dirlo? - Il capitano, in preda ad una tremenda eccitazione, lo afferrò a mezzo corpo e lo alzò. - Sotto c'è il fiume, - gli disse. - Se non me lo dici ti getto giù. - Tu vuoi burlarti di me. Ah! ... ah! ... - Sì, è vero, voglio burlarmi di te. Dimmi dov'è Suyodhana. - Che stupido che sei. Dove vuoi sia, se non è a Raimangal? - Ah! ... Ripetilo! ... ripetilo! ... - A Raimangal t'ho detto. Il capitano Macpherson gettò un grido, poi ricadde sulla sedia mormorando: - Ada! ... Oh! mia Ada! Sei salva finalmente! ...

Questa capanna altre volte sì gaia, sì ridente, mi sembra che abbia l'aspetto funebre d'un sepolcro. Povero Aghur! Soffocò un singhiozzo e si sdraiò sull'amaca, nascondendo il viso fra le mani. Kammamuri s'appoggiò allo stipite della porta, cogli occhi fissi sulla jungla, mormorando a più riprese: - Povero padrone! Passarono tre lunghe ore senza che il maharatto si muovesse. Il suono acuto del ramsinga lo strappò dalla sua immobilità. - Funebre tromba! - mormorò egli con rabbia, - ancora una disgrazia adunque? Fai bene ad avvertirmi. Fece più volte il giro della capanna guardando attentamente in mezzo alle erbe, ma non scorse nulla di nuovo. Rientrò traendosi dietro Darma e Punthy, barricò la porta e vi si stese di dietro, in maniera da essere svegliato al menomo urto. Passarono parecchie ore senza che nulla accadesse. Kammamuri, sempre più inquieto, non chiudeva gli occhi e di frequente s'alzava per affacciarsi, con grande precauzione, alle finestrine. Verso la mezzanotte la luna tramontò lasciando la jungla nella più perfetta oscurità. Proprio allora Punthy abbaiò tre volte. - Qualcuno s'avvicina, - mormorò Kammamuri. - Punthy l'ha udito. Entrò nella stanza di Tremal-Naik. Questi dormiva profondamente e in sogno parlava dell'infelice Ada. Punthy fece udire tre altre volte un sordo ringhio e si slanciò verso la porta mostrando i denti. Anche la tigre udì qualche cosa, poiché fece udire un sordo brontolio. Kammamuri, dopo di essersi munito di un paio di pistole, andò a spiare a tutte le finestrine ma senza essere capace di veder nulla, né di udire nulla. Ebbe per un istante l'idea di sparare una pistolettata per ispaventare colui o coloro che ardivano avvicinarsi alla capanna, ma per non svegliare Tremal-Naik e per la tema che questi volesse slanciarsi all'aperto, si trattenne. Qualche ora dopo, mentre passava dinanzi ad un pertugio, gli sembrò di vedere, al sud, una striscia di fuoco e di udire un leggiero sibilo, seguito da una sorda detonazione, ma non ne seppe di più. - Quale mistero, - mormorò egli, tremando di terrore. - Se questa notte non succedono malanni, è segno che Siva e Brahma ci proteggono. Rimase sveglio parecchie ore, poi cedendo alla fatica ed al sonno s'addormentò. Né il cane né la tigre diedero alcun altro segnale durante il resto della notte. Al mattino, ansioso di sapere qualche cosa, si affrettò ad uscire. Ciò che prima colpì i suoi sguardi, fu un pugnale infisso per terra, a pochi passi dalla capanna, e che tratteneva una carta azzurrina. - Oh! - esclamò egli, indietreggiando. - Qualcuno adunque ha osato spingersi qui? ... S'avvicinò con precauzione e quasi con ripugnanza a quelli oggetti e tremando li raccolse. Il pugnale era di acciaio brunito, d'un metallo che lasciava vedere le venature, d'una forma particolare e con delle strane incisioni sulla lama. Aprì la carta e vi scorse disegnato un serpente colla testa di donna I'emblema misterioso degli indiani di Raimangal, e sotto alcune righe d'una scrittura rossa. - Cosa significano queste righe? - si chiese il maharatto. - Qui sotto c'è un mistero, che il padrone svelerà. Fece accovacciare Darma e Punthy e corse da Tremal-Naik. Lo trovò seduto dinanzi ad una delle finestre, colla testa fra le mani e lo sguardo triste, volto verso i nebbiosi orizzonti del sud. - Padrone, - disse il maharatto. - Cosa vuoi? - chiese l'indiano con voce sorda. - Lascia i pensieri e guarda questi oggetti. Vi è un mistero da decifrare. Tremal-Naik si volse come a gran fatica. Una contrazione nervosa alterò i tratti del suo volto, nel mirare il pugnale che Kammamuri gli mostrava. - Cos'è? - chiese egli, rabbrividendo. - Chi ti ha dato quell'arma? - L'ho trovata dinanzi alla capanna. Leggi questa lettera, padrone. Tremal-Naik gliela strappò vivamente di mano, gettandovi sopra un avido sguardo. Ecco quanto lesse: Tremal-Naik La misteriosa divinità che impera tremenda su tutta quanta l'India, t'invia il pugnale della morte. Basta una scalfittura della sua punta avvelenata, perché tu scenda nella tomba. Tremal-Naik, tu devi scomparire dalla superficie della terra: la divinità lo vuole. Solo a questo prezzo puoi arrestare la folgore che sta per piombare sul capo di colei che fu condannata. Questa sera, al calar del sole, Manciadi attende il tuo cadavere. Suyodhana. Tremal-Naik nel leggere la lettera era diventato pallido. - Che? ... - esclamò egli. - La mia vita! ... La mia vita per arrestare la folgore che sta per piombare sul capo di colei che fu condannata! ... Cosa significa questa minaccia? Morire? Io! - Padrone, - mormorò Kammamuri, che tremava in tutte le fibre.- Corriamo un gran pericolo, lo sento. - Non aver paura, Kammamuri, - disse Tremal-Naik.- I miserabili cercano di spaventarci, ma io sfido la misteriosa divinità che impera tremenda su tutta l'India. Ah! Essi vogliono la mia vita? La loro divinità mi comanda di scendere nella tomba e m'invia il pugnale! Tremal- Naik non sarà così stupido da servirsene, né ... S'arrestò di botto. Un pensiero terribile gli era balenato nella mente. Tornò a guardare la lettera. Uno stupore doloroso si dipinse sul suo volto. - Grande Siva! - esclamò con voce soffocata. - Una folgore sta per piombare su colei che fu condannata! ... Kammamuri! - Padrone? - Una donna fu condannata ... Se fosse ... - Chi? padrone, chi? ... - L'hanno in loro mano ... - Ma chi? ... - Ada! - esclamò con accento straziante l'indiano.- Oh! mia povera Ada! ... Kammamuri! ... Kammamuri! ... Tremal-Naik si slanciò come un pazzo fuori della capanna e rientrò orribilmente trasfigurato. - Padrone, è impossibile che l'uccidano, - disse Kammamuri. - E se fosse vero? E se quei mostri la uccidessero? Orrore! orrore! ... Siva, oh mio dio, veglia su di lei! Veglia sulla mia povera Ada! - Un singhiozzo lacerò il petto del cacciatore di serpenti. - Cosa fare? - balbettò egli fuori di sé. - Sì, lo sento, i mostri l'hanno condannata ... non vogliono che ella ami alcun mortale ... uno di noi bisogna che muoia. Ma no, non voglio che ella muoia, così giovane, così bella! ... E dovrò io adunque morire? Mai, mai, è impossibile, l'amo troppo per scendere nella tomba senza averla prima veduta un'ultima volta, senza dirle che io muoio per lei. Tremal-Naik si contorse come un serpe, afferrandosi il capo fra le mani. D'improvviso scattò in piedi come una tigre che sta per avventarsi sulla preda. Un sinistro lampo guizzava nei suoi occhi. - L'ora della vendetta è suonata! - diss'egli con intraducibile accento.- Ada, io vengo! ... A me, Darma! La tigre d'un balzo fu alla porta della capanna, facendo udire il suo formidabile mugolìo. Tremal-Naik, strappata da un chiodo una carabina, stava per uscire, quando Kammamuri l'arrestò. - Dove vai, padrone? - gli chiese egli, abbrancandolo a mezzo corpo. - A Raimangal per salvarla prima che me la uccidano. - Ma non sai che laggiù v'è la morte? Non sai che a Raimangal vi sono forse mille di quegli uomini, che bramano il tuo sangue? Tu ti perdi, padrone, e forse uccidi colei che tu ami, credendo di salvarla. - Io! ... - Ma sì, padrone, tu la uccidi. Al primo tuo apparire, la folgore scoppierà ed abbatterà quella donna. - Gran dio! - Calmati, padrone, ascoltami. Lascia fare a me e vedrai che noi sapremo tutto. Chissà, forse quegli uomini hanno voluto solamente spaventarti. Tremal-Naik lo guardò come trasognato. Forse Kammamuri aveva ragione. - L'ora non è ancora giunta per recarsi nell'isola maledetta, né tu sei ancora tanto forte per lottare contro di loro, - continuò il maharatto.- Essi vogliono il tuo cadavere, hanno scritto; ebbene, essi lo avranno. ma sarà un cadavere che respirerà ancora e che salterà alla gola dell'assassino del povero Aghur. Lascia che io ti guidi, padrone; i maharatti sono furbi, tu lo sai. - Cosa vuoi dire? - chiese Tremal-Naik, che a poco a poco si arrendeva. - Voglio dire che a noi occorre un uomo che confessi ogni cosa, per sapere ciò che si dovrà fare. Se sarà necessario, domani partiremo per Raimangal. - Ci occorre un uomo? - Sì, padrone, e quest'uomo sarà Manciadi. Ascoltami con attenzione. Questa sera, al calare del sole, io ti porterò nella jungla e tu fingerai di essere morto. Io e Darma ci imboscheremo a pochi passi da te, onde non ti accada disgrazia. Arriva il brigante che assassinò Aghur; noi ci lanciamo su di lui e lo facciamo prigioniero. M'incarico io di fargli confessare il luogo dove nascondono la donna che tu ami e farlo parlare sul numero e sui mezzi dei nostri nemici. Tremal-Naik prese le mani del maharatto e le strinse affettuosamente. - Rimarrai? - chiese Kammamuri, con gioia. - Sì, rimarrò - disse Tremal-Naik, emettendo un profondo sospiro. - Ma domani, sia pure solo, andrò a Raimangal. Sento che un pericolo minaccia Ada. - No solo, - disse Kammamuri. - Io e Darma ti accompagneremo. Ora calma ed occhi bene aperti: questa sera avremo in nostra mano Manciadi. Kammamuri lasciò il padrone che si era seduto sulla soglia della porta, in preda a mille angoscie ed a tetri pensieri, e si recò al fiume ad armare il canotto. Durante la giornata nulla accadde di nuovo. Kammamuri si recò parecchie volte nella jungla, armato sino ai denti, sperando di scorgere qualcuno, forse lo stesso Manciadi, ma non vide anima viva, né udì alcun segnale o rumore. Alle sette il sole radeva l'orizzonte occidentale. Era il momento d'agire. - Padrone, - disse il maharatto, che si stropicciava allegramente le mani, - non perdiamo tempo. Proprio in quel momento, al sud, echeggiò il ramsinga. - La canaglia si avvicina, - disse Kammamuri. - Animo, padrone, io ti porto nella jungla. Non una parola, non il più piccolo movimento se non vuoi mandare a male l'imboscata. Appena l'assassino compare, la tigre lo atterrerà. Afferrò il padrone, se lo caricò sulle spalle dopo di avergli cacciato sotto l'ampia fascia un paio di pistole e si diresse, barcollando, verso la jungla. Il sole spariva dietro le gigantesche piantagioni dell'occidente, quando giunse ai primi bambù. Depose Tremal-Naik, che conservava l'immobilità di un cadavere, fra le erbe, poi curvandosi su di lui: - Padrone, non un movimento, - gli disse. - Appena la tigre si slancierà su Manciadi, sorgi e tura la bocca al miserabile. Forse vi sono degli altri indiani nei dintorni. - Lascia fare a me, - bisbigliò Tremal-Naik. Tutto passerà liscio. Kammamuri s'allontanò, colla testa china sul petto, come un uomo addolorato. Quando giunse alla capanna un secondo squillo di tromba echeggiava fra i bambù spinosi della jungla. - È ancora lontano Manciadi, - diss'egli. - Tutto va bene. Entrò nella capanna s'armò di pistole e d'un coltellaccio, poi uscì guardando attentamente verso il fiume e verso la jungla. - Darma, seguimi diss'egli. La tigre con un salto lo raggiunse e tutti e due si slanciarono a rompicollo verso il sud, nascosti da una piccola piantagione di mussenda e di indaco. In meno di cinque minuti raggiunsero i bambù e s'imboscarono a sette od otto passi da Tremal-Naik. Un terzo squillo di tromba, ma più vicino, ruppe il profondo silenzio che regnava nelle Sunderbunds. - Buono, - mormorò Kammamuri, impugnando una delle due pistole. - Il miserabile ci sta vicino. Guardò il padrone. Pareva un vero cadavere: era coricato su di un fianco, colla testa nascosta sotto un braccio. Avrebbe ingannato anche un marabù, anche uno sciacallo. D'un tratto un magnifico pavone si alzò fra i bambù, volando via rapidamente. Kammamuri passò una mano sulla tigre che fiutava l'aria ed agitava la coda a mo' dei gatti. - Non muoverti, Darma, - le sussurrò. Un secondo pavone s'alzò emettendo un grido di spavento. Manciadi si avvicinava strisciando come un serpe, senza produrre il più piccolo rumore. Forse temeva di cadere in un'imboscata e s'avanzava con mille cautele. Kammamuri s'alzò sulle ginocchia, tendendo la mano armata di pistola. Là, di faccia, scorse i bambù a muoversi impercettibilmente, poi uscirono due mani ed infine una testa d'un giallo lucente. Kammamuri sentì la fronte imperlarsi d'un freddo sudore. Quella testa era di Manciadi, l'assassino del povero Aghur. - Darma, - mormorò. La tigre si era alzata raccogliendosi su se stessa; non aspettava che il comando per avventarsi. Manciadi guardò Tremal-Naik con due occhi che mandavano cupi lampi e diede in un orribile scroscio di risa. Il cacciatore di serpenti non si mosse. L'indiano allora uscì dai bambù, col laccio in mano, e fece alcuni passi verso il finto cadavere. - Darma, afferralo! - esclamò Kammamuri, saltando in piedi. La tigre fece un balzo di quindici passi e piombò come un fulmine sull'assassino, che fu violentemente atterrato. Tremal-Naik rialzandosi si scagliò su di lui e con un formidabile pugno lo stordì. - Tieni saldo padrone! - gridò il maharatto, accorrendo. - Fracassagli una gamba per impedirgli di muoversi. - È inutile, Kammamuri, - disse Tremal-Naik, trattenendo la tigre.- L'ho mezzo accoppato. Infatti l'indiano, colpito in fronte dal pugno d'acciaio del cacciatore di serpenti, non dava più segno di vita. - Là, così va bene, - disse Kammamuri. - Ora lo faremo parlare. Non uscirà vivo dalle nostre mani, te lo giuro, padrone, e Aghur sarà vendicato. - Non parlare così forte, Kammamuri, - mormorò Tremal-Naik, tornando ad allontanare la tigre che voleva sbranare il prigioniero. - Credi che vi sieno degli altri indiani nei dintorni? - Potrebbero esservi. Orsù, il cielo si oscura rapidamente e minaccia un uragano. Portiamolo nella capanna. Kammamuri prese per le gambe Manciadi, Tremal-Naik lo afferrò pei polsi e partirono correndo, nel mentre che giganteschi nuvoloni neri s'alzavano con rapidità vertiginosa, dal sud. Pochi minuti dopo giungevano alla capanna sbarrando la porta dietro di loro.

Alle nove la baleniera passava dinanzi a Kiddepur, grosso villaggio che sorge sulla riva sinistra del fiume, e pochi minuti più tardi giungeva in vista di Calcutta, la regina del Bengala, la capitale di tutti i possedimenti inglesi delle Indie, colla sua linea imponente di palazzi, colle sue pagode, colle sue cupole, coi suoi bizzarri campanili, colle sue capanne, coi suoi squares e col forte William, la più grande e robusta fortezza che abbia la penisola, e che ha bisogno d'almeno diecimila uomini per essere difesa. Tremal-Naik era balzato in piedi come spinto da una molla e guardava con occhio stupefatto quell'agglomeramento straordinario di fabbricati, di giardini e di vascelli. - La nave? - chiese, con accento selvaggio.- Dov'è la nave? - Là! ... Là.! ... guarda! ... - esclamò un thug. Tremal-Naik guardò nella direzione indicata e vide a poca distanza dalle cateratte che mettono l'acqua nei fossati del forte William, una fregata di forme svelte, ma assai impoppata, attrezzata a barco, ed armata di numerosi cannoni, vomitare nubi di fumo dal camino che sembrava troppo stretto. Sul ponte andavano e venivano soldati di fanteria e marinai, affacendati a stivare botti ed a ritirare le gomene sciolte dai gavitelli. Si capiva anche a prima vista, che la nave preparavasi a partire. Tremal-Naik provò una stretta al cuore. - Presto, ragazzi! ... presto! ... - esclamò egli con accento disperato. I thugs raddoppiarono i loro sforzi. La baleniera, spinta innanzi dalle sei pagaie manovrate con forza sovrumana, non correva più, volava. I bordi gemevano sotto i colpi vigorosi e l'acqua rimbalzava fino sulla poppa. - Presto! ... presto! ... - gridava Tremal-Naik, completamente fuori di sé. Ad un tratto emise un urlo straziante. - Ada! ... Ada! ... Perduto! ... tutto è perduto! ... La fregata aveva abbandonato il molo e scendeva maestosamente il fiume, vomitando nubi di fumo e mandando lunghi fischi. I thugs, sfiniti, impotenti di più oltre lottare, si erano arrestati guardando con occhio feroce la nave, che passava a duecento passi dalla imbarcazione. - Tutto è perduto! - urlò un di loro, tendendo il pugno. - No, no! ... - esclamò Tremal-Naik. Si curvò, raccolse la carabina, l'armò e diresse la canna sulla fregata. Sul ponte di comando aveva veduto un uomo e l'aveva subito riconosciuto: era il capitano Macpherson. Già aveva imbracciato l'arme, già stava per far partire il colpo, quando un thug lo atterrò. - Tu vuoi farci assassinare, - disse lo strangolatore, disarmandolo. Tremal-Naik si rialzò cogli occhi accesi, le pugna alzate, il viso stravolto. - Ma non sai tu, miserabile, che se i thugs perdono Raimangal io perdo la mia Ada? - urlò egli. - Calmati, Tremal-Naik. Vi sono altre navi che si recano nelle Sunderbunds. - Quali? - Guarda quella cannoniera. Imbarca cannoni e botti di polvere. Non vedi sul picco la bandiera inglese? Tremal-Naik vide infatti una grande cannoniera, ancorata dinanzi alla spianata dello Strand, che preparavasi a partire. Un pennacchio di fumo usciva dal camino. - Se fosse vero! ... - mormorò egli con voce tremante. - Al molo! al molo La baleniera con quattro arrancate approdò dinanzi a Kuti-Bazar. Proprio nel medesimo istante, un canotto montato da un quartier-mastro della Reale Marina prendeva il largo. - Ohe! Hider! - gridò un thug. Il quartier-mastro, indiano pur egli, si volse. - Olà, amici, dove andate? - chiese egli tornando a riva. - Chi è quel marinaio? - chiese Tremal-Naik. - Un affiliato, gli fu risposto. Hider in quel frattempo era sbarcato. Era un bell'uomo di alta statura, sui quarant'anni, con una barba nerissima e folta, occhi lucentissimi e membra muscolose. Tra le labbra teneva una corta pipa e fumava vigorosamente. - Amici miei, - disse, avvicinandosi, - qui succedono delle cose assai gravi. - Lo sappiamo, - disse Tremal-Naik. - Chi sei tu? - chiese il quartier-mastro, con diffidenza. Tremal-Naik gli mostrò l'anello che portava in dito. Il marinaio cadde in ginocchio. - Ordina, inviato di Kâlì, - disse con voce tremante. - Conosci il capitano Macpherson? - Forse più di te. - Sai dove conduce la fregata? - Nessuno sa ove vada la Cornwall, ma io ho un sospetto. - La conduce a Raimangal. - Il quartier-mastro scagliò la pipa a fracassarsi sui sassi. - A Raimangal! ... - esclamò egli. - A Raimangal hai detto? - Sì, egli va ad assalire Suyodhana. - Lo sospettavo. Ho fatto imbarcare due affiliati sulla Cornwall. - Che ordini hanno? - Di vegliare e di informarci di quanto succede, appena potranno disertare. - Allora siamo perduti. Il quartier-mastro non rispose. Non trovava parole. - Cosa fa quella cannoniera che si sta armando? chiese Tremal-Naik. - Ci rechiamo a Colombo. - Bisogna che cada in nostra mano. - Cosa vuoi fare della Devonshire? - Per raggiungere la Cornwall prima che getti l'ancora a Raimangal. - E colarla a fondo? - Questo è affar mio, - disse Tremal-Naik. - Comanda. - Quanti affiliati ci sono a bordo della Devonshire? - Siamo in sei. - L'equipaggio ammonta a ... ? - Trentadue uomini. - Bisogna imbarcare almeno dieci affiliati. - È impossibile! - esclamò Hider. - Con sei affiliati non si conquista la cannoniera. - Lo so. - Cosa imbarcano ora? - Cannoni. - E poi? - Delle provviste. - Imbarcheranno delle botti di biscotto e di acqua, suppongo. - È vero. - Sta bene. Invece di botti di biscotto imbarcheranno delle botti contenenti dei thugs. Puoi fare questa sostituzione tu? - Dirigo io l'armamento della Devonshire. - Una parola ancora. Quando si parte? - A mezzanotte, mi disse il capitano. - Credi tu che si raggiungerà la Cornwall? - Forzando molto la macchina si potrebbe raggiungerla. - Mi basta. A questa sera, Hider.

. - Non v'è in India che la Cornwall che abbia lo sperone ad angolo retto. Tremal-Naik in preda ad un'indicibile emozione, emise un grido di trionfo. - Dove va? - chiese egli con voce stridula. - Osserva bene. - Sempre all'est. Gira l'isola, al di fuori, temendo forse di non trovare acqua bastante nel canale. - Sei certo? - Certissimo. - Sicché la incontreremo? ... - Al di là dell'isola, se ci inoltriamo nel canale. - Governate in modo da incontrarla. - Ma ... - disse Hider. - Silenzio, comando io. Tremal-Naik lasciò la lunetta e discese nel quadro di poppa; Hider si collocò invece alla ruota del timone. La cannoniera, che camminava tre volte di più della fregata, non impiegò molto a girare l'isola. Alle dieci del mattino usciva dal canale formato da Raimatla e le terre vicine, celandosi dietro l'estrema punta di un isolotto deserto, che sorge di fronte a Jamera. Hider con un solo sguardo si assicurò che la nave nemica era ancora lontana. - Tremal-Naik! - gridò. Il cacciatore di serpenti apparve sul ponte, ma non era più lo stesso uomo di prima. La tinta bronzina della sua pelle era diventata olivastra quanto quella di un malese; gli occhi apparivano assai ingranditi, mediante segni biancastri ben tracciati; i denti, poco prima bianchi come l'avorio, erano diventati neri come quelli del più arrabbiato masticatore di betel. Così sfigurato, con un cappellaccio di fibre di rotang sul capo, una cotonina rossa ai fianchi, due lunghi kriss (pugnali serpeggianti a punta avvelenata) sospesi alla cintura, era affatto irriconoscibile. - Mi riconosci? - chiese al quartier-mastro che lo guardava con ammirazione. - Ti riconosco perché a bordo non ho visto malesi. - Credi che il capitano mi riconoscerà? - No, non è possibile. - Dimmi ora, come si chiamano i due affiliati imbarcati sulla Cornwall. - Palavan e Bindur. - Terrò in mente questi nomi. Fa' mettere in mare un'imbarcazione. Ad un cenno del quartier-mastro la yole fu calata. - Cosa vuoi fare? - chiese dipoi. - Aspettare qui la fregata e poi salire a bordo. - Ed io? - Tu andrai a nasconderti nel canale di Raimangal. Alla prima detonazione che odi, uscirai in mare e mi raccoglierai. Afferrò una corda e discese nella yole la quale rullava vivamente sotto le ondate. La cannoniera emise un fischio sonoro e s'allontanò rapidamente. Un'ora dopo non era più che un punto nero sull'orizzonte, appena visibile. Quasi nel medesimo istante, al sud, appariva un altro punto, sormontato da un pennacchio di fumo. Tremal-Naik lo guardò. - La fregata! - esclamò. - Ada, dammi la forza di compiere la mia ultima impresa. Poi sarai mia sposa ... e saremo finalmente felici! ... Afferrò i remi e si mise ad arrancare furiosamente, allontanandosi dall'isola le cui coste cominciavano a confondersi coll'azzurro del cielo. La fregata si avanzava forzando la macchina e ingrandiva a vista d'occhio. Tremal-Naik continuava a remare cercando di tagliare la via. A mezzodì cinquecento passi appena dividevano la yole dalla Cornwall. Era il momento aspettato dal cacciatore di serpenti. Attese che un'onda inclinasse la yole, poi si gettò violentemente a babordo e la rovesciò, aggrappandosi alla chiglia. - Aiuto! ... aiuto! ... - gridò con voce tonante. Alcuni marinai si slanciarono sulla prua della fregata, poi una imbarcazione montata da quattro uomini fu calata in mare e si diresse verso il naufrago. - Aiuto! ... ripeté Tremal-Naik. L'imbarcazione volava sulle acque nel mentre che la fregata rallentava la sua corsa. In cinque minuti fu presso la yole. Il naufrago afferrò le mani che un marinaio gli tendeva e salì a bordo borbottando: - Grazie, ragazzi! I marinai ripigliavano i remi e ritornarono alla Cornwall. Una scala fu gettata ed il falso malese grondante d'acqua, cogli occhi abilmente stravolti, fu condotto in presenza dell'ufficiale di quarto. - Chi sei? - gli domandò questi. - Paranga di Singapura, - rispose Tremal-Naik, guardandosi attorno con curiosità. - Appartenevi a qualche nave? - Sì, all'Hannati di Bombay, calata a picco quattro giorni or sono, a cento miglia dalla costa. - A mare tranquillo? - Sì s'era aperta una falla sotto poppa. - E l'equipaggio? - Si è annegato. Le imbarcazioni erano avariate e appena calate in acqua andarono a picco. - Hai fame? - Sono dodici ore che ho mangiato il mio ultimo biscotto. - Olà, mastro Brown, conducete questo povero diavolo in cucina. Il mastro, un vecchio lupo di mare con una barba grigia, cavò di bocca il suo mozzicone di sigaro mettendoselo delicatamente nel berretto, e, preso per mano il falso malese lo condusse sotto prua. Una pentola ripiena di fumante zuppa fu messa dinanzi a Tremal-Naik, il quale l'assalì vigorosamente. - Hai un buon appetito, giovanotto, - disse il mastro, studiandosi di sorridere. - Ho lo stomaco vuoto. A proposito, come si chiama questo vascello? - La Cornwall. Tremal-Naik, guardò con sorpresa il lupo di mare. - La Cornwall! - esclamò. - Ti spiace il nome forse? - Tutt'altro. - E allora! - Mi ricordo che su di una fregata che portava un nome simile, si erano imbarcati due indiani miei amici. - To'! che combinazione! E si chiamano? - L'uno Palavan, e l'altro Bindur. - Questi due indiani sono qui, giovanotto. - Qui a bordo? - Sì, a bordo. - Bisogna che li veda. Oh! Quale fortuna! - Te li mando subito. Il mastro risalì la scala e poco dopo due indiani si presentavano a Tremal-Naik. L'uno era lungo, magro, dotato d'una agilità da scimmia; l'altro di mezzana statura, membruto, più somigliante ad un malese che ad un indiano. Tremal-Naik si guardò d'attorno per vedere se erano soli, poi tese la mano dritta mostrando a loro l'anello. I due indiani caddero ai suoi piedi. - Chi sei? - chiesero con voce soffocata. - Un inviato di Suyodhana, il figlio delle sacre acque del Gange - rispose Tremal-Naik, sottovoce. - Parla, comanda, la nostra vita è nelle tue mani. - Corriamo pericolo di essere uditi? - Tutti sono sul ponte, - disse Palavan. - Dov'è il capitano Macpherson? - Nella cabina; dorme ancora. - Sapete dove va la fregata? - Tutti lo ignorano. Il capitano Macpherson ha detto che lo dirà quando saremo giunti a destinazione. - Dunque anche gli ufficiali non sanno nulla? - Assolutamente nulla. - Quindi uccidendo il capitano si spegnerà con lui il segreto. - Senza dubbio, ma noi temiamo che la fregata si rechi a Raimangal ad assalire i fratelli. - Non vi siete ingannati, ma la fregata non sbarcherà i suoi uomini. - Ma come? ... Perché? ... - La faremo saltare in aria prima che arrivi all'isola. - Quando tu lo vorrai, daremo fuoco alle polveri. - Quando giungeremo a Raimangal, secondo i vostri calcoli? - Verso la mezzanotte. - Quanti uomini ci sono a bordo? - Un centinaio. - Sta bene. Alle undici ucciderò il capitano, poi faremo saltare il vascello. Una parola ancora. - Parla. - Bisogna che il capitano, alle undici, dorma profondamente. - Verserò un narcotico nella sua bottiglia di vino, - disse Palavan. - Si potrà giungere alla sua cabina senz'essere veduti? - La cabina comunica colla batteria. Questa sera la porta sarà aperta. - Basta così. Alle undici verrete a prendermi qui. Tremal-Naik si rimise a mangiare. Divorò di poi un beefsteak capace di nutrire tre persone, vuotò una dietro l'altra, parecchie tazze di eccellente gin, si fece dare una pipa, poi si arrampicò su di un'amaca e vi si sdraiò mormorando: - Salire sul ponte non è prudente. Il capitano potrebbe riconoscermi. Cercò di addormentarsi, ma lo stato del suo animo era troppo agitato. Mille e mille pensieri si cozzavano tumultuosamente nel suo cervello. Pensava alle vicende passate, pensava alla sua adorata Ada, ed al momento in cui finalmente, dopo tante sofferenze, dopo tanti pericoli, la rivedrebbe e la farebbe sua sposa, e all'ultimo colpo che stava per giuocare. Cosa strana, incomprensibile per lui; ogni qualvolta pensava all'assassinio che stava per commettere, si sentiva invadere da un sentimento per lui nuovo. Si avrebbe detto che quel delitto gli faceva orrore. Le ore scorsero così, lente, lente. Nessuno era disceso nella cabina, né egli ardiva mostrarsi sul ponte. Persino i due affiliati non si erano più fatti vedere. Tremal-Naik cominciava a provare qualche timore e si domandava se era toccata, ai due thugs, quella disgrazia. Alle otto il sole scese all'orizzonte e la notte calò rapidamente sulle azzurre onde del golfo di Bengala. Tremal-Naik, in preda alla più viva ansietà, salì la scala e sporse la testa sul ponte. Soldati e marinai erano in coperta, alcuni affollati a prua cogli occhi fissi fissi all'oriente ed altri arrampicati sulle griselle, sulle coffe, sulle crocette e sui pennoni. A poppa scorse degli uomini che stavano armando alcune imbarcazioni. Guardò sulla lunetta. Quattro ufficiali passeggiavano fumando e chiacchierando con vivacità. Il capitano Macpherson non c'era. Ritornò nell'amaca ed aspettò. La suoneria di bordo batté le nove, poi le dieci e quindi le undici. L'ultimo tocco non era ancora cessato, che due ombre scendevano silenziosamente la scala. - Presto, - disse una voce imperiosa. - Non abbiamo un minuto da perdere. Abbiamo Raimangal in vista. Tremal-Naik riconobbe i due affiliati. - Il capitano?- domandò con un filo di voce. - Dorme, - rispose Bindur. - Ha bevuto il narcotico. - Andiamo. Nel pronunciare questa parola la voce di Tremal-Naik tremava. Provò un brivido tanto forte, che lo scombussolò. Palavan aprì una porticina ed entrarono nella batteria, arrestandosi dinanzi ad una seconda porta che mettevano nel quadro di poppa. - Siete risoluti? - chiese Tremal-Naik. - Abbiamo messo la nostra vita nelle mani della dea Kâlì. - Avete paura? - Non sappiamo che cosa sia la paura. - Uditemi. I due thugs s'avvicinarono a lui cogli occhi fiammeggianti. - Io vado a uccidere il capitano, - diss'egli con voce triste. - Tu, Bindur, scenderai nella Santa Barbara e accenderai un bel fuoco. - Ed io? - chiese Palavan. - Voglio fare qualche cosa anch'io. - Tu ti fornirai di tre salva-gente, poi verrai da me. Andate e che la vostra dea vi protegga. Tremal-Naik afferrò una scure, varcò la soglia e penetrò nella cabina illuminata da una lanterna di talco. Prima cosa che vide fu uno specchio che riflesse la sua immagine. Nel mirarsi ebbe paura. La sua faccia era orribilmente stravolta, irrigata da grosse goccie di sudore e gli occhi fiammeggianti come le lame di due pugnali. Abbassò lo sguardo su di un letto coperto da una fitta zanzariera. Un leggiero sospiro giunse fino a lui. - È strano, - mormorò. - Non ho mai provato nulla di simile. Fece tre passi e con mano tremante sollevò il velo. Il capitano Macpherson era sdraiato sul letto e sorrideva. Senza dubbio quell'uomo sognava. - I thugs, lo vogliono, - mormorò l'indiano. Alzò sull'addormentato la scure, ma la riabbassò subito come se le forze gli fossero improvvisamente mancate. Si passò una mano sulla fronte e la ritrasse bagnata. Si guardò attorno con profondo terrore. - Cos'è? - si chiese, sorprese, stupito. - Avrei io paura? ... Chi è quest'uomo? ... Cos'è questa terribile emozione che mi scuote? ... Tornò ad alzare la scure e per la seconda volta la abbassò. Non gli era mai accaduto una cosa simile. Gli parve che una voce interna gli mormorasse che quell'uomo era per lui sacro, che quel sangue che stava per versare non era sangue straniero. - Ada! Ada! - esclamò quasi con rabbia. Ad un tratto impallidì indietreggiando vivamente. Il capitano s'era alzato a sedere e lo guardava con due occhi sbarrati. - Ada! ... - esclamò Macpherson con viva emozione. - Chi pronuncia il nome di mia figlia! ... Tremal-Naik, pietrificato, spaventato, era rimasto immobile. - Ada! - ripeté il capitano. - Il nome di mia figlia! ... Poi s'accorse della presenza dell'indiano. - Cosa fai tu qui, nella mia cabina? - chiese. Un lampo attraversò il cervello di Tremal-Naik; un terribile sospetto gli era entrato nel cuore. - Ma chi siete voi? - chiese con voce strozzata. Di quale Ada intendete parlare? Della mia forse? - Della tua! ... - esclamò il capitano stupito. - Parlo di mia figlia! ... - Dov'è? - Dov'è? ... Nelle mani dei thugs! ... - Possente Brahma! ... Se fosse vero! ... Una parola, capitano, un nome, vi prego! ... Come si chiamava vostra figlia? - Ada Corishant. Tremal-Naik si nascose il volto fra le mani emettendo un grido d'orrore. - La mia fidanzata! ... Ed io stavo per ucciderle il padre! ... Ah! ... l'orribile trama! ... Poi cadendo ai piedi del letto esclamò: - Perdono! ... perdono! ... Il capitano, stupito, guardava Tremal-Naik chiedendosi se sognava o se era desto. - Ma spiegati infine! ... - esclamò. Tremal-Naik, colla voce rotta dai singhiozzi, in poche parole gli svelò la trama infernale di Suyodhana. - E tu sai dov'è mia figlia? - chiese il capitano che era già balzato in piedi, pallido per l'emozione. - Sì, ed io vi condurrò dove si trova, - disse Tremal-Naik. - Ritornamela e ti giuro che se ella ti ama sarà tua. - Ah! grazie, capitano! La mia vita è vostra. - Non perdiamo tempo; corriamo a Raimangal. Io stavo appunto per recarmi ad assalire i thugs nel loro covo. - Un istante: ho due complici a bordo e forse stanno per far saltare la nave. - Li appiccheremo. Uscirono correndo e salirono sul ponte. - Quattro uomini nella Santa Barbara e si arrestino i traditori che stanno per far fuoco alle polveri. Invece di quattro, venti uomini si precipitarono nei depositi delle munizioni. Poco dopo s'udirono due tonfi seguiti da alcuni spari. - Si sono gettati in mare, - disse un ufficiale lanciandosi sul ponte. - Che si anneghino, - disse il capitano. Sono sicure le polveri? - Ai traditori è mancato il tempo di spezzare i barili. - Iddio ci protegge! ... A tutto vapore al Mangal! ...

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