Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Racconti 2

662734
Capuana, Luigi 16 occorrenze
  • 1894
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Può mai essere che io abbia sognato quel colloquio o che lo abbia fantasticato a occhi aperti e con tale intensità da crederlo, poi, realmente avvenuto? ... In che modo dunque io rivedo la signora vestita diversamente, con ampia vestaglia color crema, tutta spumante di pizzi rari, con le sottili dita delle bianchi ssime mani cariche di anelli, con quella grossa perla pendente da una stella di diamanti attaccata su la parte sinistra del petto, quasi sotto la spalla? ... In che modo ho negli orecchi il suono esotico della sua voce che dava alle parole della nostra lingua un fascino nuovo? E, finalmente, se non fosse stato vero, in che modo nel dialogo trovo accennati fatti che non ricordo e che pure debbono essere avvenuti? "Vi ho subito riconosciuto" ella diceva. "Perché lo avete taciuto?" "Perché non mi interessava di farvelo sapere, in quella casa, davanti alla persona che vi presentava a me". "E vi è dispiaciuto?" "No. È inutile dispiacersi di quel che non si può evitare. Io mi rassegno facilmente; filosoficamente direi, se non fosse un po' troppo per una donna". "Avreste voluto evitarmi potendo?" "Certamente. Gli uomini come voi sono una sciagura nella vita di una donna". "Perché?" "Perché presto affermano di amarla, illusi forse, o vanitosi d'ispirare un sentimento che lusingherebbe il loro amor proprio. Voi avete su la punta della lingua una dichiarazione che soltanto le convenienze di un primo colloquio v'impediscono di farmi". "Indovinate, in parte. Non le convenienze però, ma il timore di non esser creduto mi impedisce di parlare". "Attendete per ciò, è vero? occasione piú opportuna". "Ormai è impossibile". "Voi forse ignorate che ho marito". "No; vi chiamano signora, non signorina". "Capisco; il marito non vi sembra un ostacolo". "Non è mai tale, quando l'amore vuole". "Per certe donne, sí". "E per voi?" "Io ... io credo che l'individuo non ha altra norma di vita all'infuori di quella che la sua felicità richiede; e che di questa felicità è giudice inappellabile egli solo". Parlava lentamente e non perché l'esprimersi in italiano le richiedesse uno sforzo. Sembrava che ogni parola da lei pronunziata avesse un riposto significato e che ella volesse darmi tempo d'intenderlo bene, prima di risponderle. Ebbi fretta di mostrarle che avevo interpretato in favor mio la sentenza. M'interruppe: "Siete fatuo, come tutti gli uomini". È chiaro? È preciso? La presentazione, in quella casa da lei accennata, io non la ricordo affatto; ma la conversazione è fissata qui, parola per parola, col suono della voce, con l'accento, con l'atteggiamento di tutta la persona, coi fieri gesti della mano destra, dove uno stranissimo anello in forma di serpente si attorcigliava, flessibile, al dito medio simulando cinque o sei anelli, con la testa schiacciata che si piegava di lato alla radice dell'ugna. Tanti particolari non può averli inventati la mia f antasia ... Eppure io non sono certo che questa visita sia proprio avvenuta. Di quando in quando, un dubbio mi attraversava la mente: che quell'anello io lo abbia veduto, per caso, in un'altra mano, e che quelle parole io le abbia udite da un'altra bocca, in altra occasione ... o le abbia lette in qualche romanzo ... Perché? ... Perché non so spiegarmi il ricordo, nettissimo, precisissimo, di una passeggiata solitaria pel Viale dei Colli dove io la rividi alcuni giorni dopo, sempre come una sconosciuta il cui fascino mi attirava, ma senza che ancora sentissi un forte desiderio di avvicinarla, anzi provando un istintivo movimento di resistenza contro quel fascino. Non era sola quel giorno; ed io, seguitala un po', indovinando da alcune mosse che le tre signore parlavano di me, mi ero fermato, indispettito di riuscire , a quel che sembrava, importuno; e avevo interrotto la salita. Se fossi stato presentato a lei, se avessi avuto davvero quella conversazione con lei in casa sua, perché non l'avevo almeno salutata? Non confondo date. Tra il primo e il secondo incontro ci fu un intervallo di due o tre giorni ... Ma ogni volta che mi metto a ripensare il passato, la conversazione e l'incontro hanno lo stesso valore di realtà ... Sono tutti e due veri? Tutti e due falsi? ... Niente mi tratteneva in Firenze. Vi ero venuto per subitaneo e quasi inesplicabile capriccio: e non entravo in nessuna chiesa, non visitavo gallerie o musei, non mi fermavo davanti ai monumenti. Erravo per le vie con aria sbadata. Se non che, di tratto in tratto, mi accorgevo che tra le persone dei passanti ne ricercavo una, colei, che piú non avevo riveduta da una settimana. Ne ero invasato. Mi aggiravo per piazza dell'Indipendenza, attraversavo spesso la via Enrico Poggi smanioso di imbattermi in lei ... E mi sembra che mi domandassi spesso: "Perché non ritorni a casa sua? ... " Dunque c'ero stato; non potrei rammentarmi di questo, se non ci fossi stato davvero. Capisco quel che volete dirmi: la nostra memoria è labile! o tale confusione vi sembra spiegabilissima con qualche complicazione nervosa sopravvenuta ... Ma io non sono stato malato. I miei nervi hanno conservato sempre un equilibrio perfetto, prima e dopo ... Cioè fino a pochi mesi fa, fino al giorno in cui mi sono accorto che avveniva nella mia mente una confusione tra fatti soltanto pensati, immaginati, e fatti realmente accaduti. E, sul principio, l'esitazione, l'incertezza di giudizio erano rap ide, mi lasciavano tranquillo ... Poi, a poco a poco ... Ora non riesco piú a fare distinzione alcuna. E l'idea, il sospetto che io abbia davvero potuto commettere ... È orribile, dottore! ... Lasciatemi continuare. Ho il ricordo di un'altra conversazione con lei, su una terrazza, o nello studio di un pittore in via san Paolo ... - Un po' di incertezza anche qui, ma intorno al luogo. È naturale; l'immagine di lei scancella ogni altro particolare. Potevo vedere qualche cosa all'infuori di lei? ... Ed è ricordo di conversazione futile, quale tra persone che si trovano insieme la prima volta ... O ella finse di non avermi conosciuto prima, ed io fui costretto a secondarla per non infliggerle una smentita? "Preferite la pittura o la musica?" "Tutt'e due - risposi. - Certi quadri, come questo che abbiamo visto ora ora ... (O, dissi: come questo che abbiamo sotto gli occhi? ... Non importa ... Si parlava di un quadro che era un'armoniosa festa di colori, di una processione fiorentina del quattrocento? Sí, sí, mi pare appunto di questo ... ) Certi quadri sono anche una musica per gli occhi. Le due arti si confondono insieme talvolta. La pastorale del Beethoven non fa l'impressione di un paesaggio dipinto?" "Con un po' di buona volontà, sí". E sorrise. Questa volta portava un abito di colore azzurro cinereo, con sprone sul petto di seta chiara, lameggiata di oro, e collare della stessa stoffa; e sotto il cappellino di tulle nero con ricami gialli, i capelli arruffati su la fronte spiccavano con toni dorati piú ardenti, e gli occhi sembravano piú azzurri, piú limpidi, sorridenti come cieli di primavera. Com'è dunque che io potei dirle il giorno dopo - il giorno dopo, perché da prima riparlammo del quadro veduto insieme - com'è che potei dirle: "Voi siete di ghiaccio. Avete nel cuore le nevi della vostra Russia. Perché mi fate soffrire? Perché non mi dite una parola di speranza?" "Perché certe parole non si dicono mai; s'indovinano". Ebbi un sussulto, e le presi la mano inanellata. Non me la concedette, ma non la ritirò ... Questa indifferenza m'impedí di baciargliela. Guardai il serpentello col dorso punteggiato di rubini. "È un simbolo?" domandai. "Forse. Un'ammonizione, certamente: abbi prudenza!" Che fascino nella voce e nello sguardo! "Lasciatevi adorare!" esclamai. "Non posso vietarlo". "Che sarò per voi?" "Chi lo sa!" "Ci siamo incontrati invano?" "Può darsi". "Per me, no!" "Si dicono tante cose senza aver coscienza di dire una falsità!" Tremavo, intimidito dal suo sguardo glaciale, con un senso di ribellione e di furore in fondo al petto. Cosí devono tremare i leoni e le tigri sotto il fascino della domatrice che li percuote con lo scudiscio e li fa rannicchiare in un angolo della gabbia di ferro. "Sentite! - esclamai. - Mi avete attratto da lontano, per via di una forza misteriosa. Non pensavo affatto di venire qui. Un impulso improvviso mi suggerí: "Va' a Firenze!" E sono venuto e vi ho veduta lo stesso giorno del mio arrivo, quasi fossi accorso apposta per voi. Sono rimasto qui unicamente per voi ... Rompete l'incanto; liberatemi! Siete una maga?" L'amavo e la odiavo. Mi sentivo in piena balia di costei, e n'ero felice e avevo paura ... Ma è vero che io abbia avuto quest'altra conversazione con lei? ... In certi momenti mi sembra che io sia soltanto rimasto lunghe ore nella camera del mio albergo a fantasticare questi incontri, queste conversazioni, compiacendomi di creare le avventure di un romanzo possibile, dopo che il portoncino di via Enrico Poggi si era chiuso dietro a lei, ed ella era sparita e non avevo potuto rivederla. Non è incredibile? Eppure è cosí. Ma il resto? Sono dunque vissuto nove mesi in continuo sogno, in continua allucinazione? ... Se sapeste quel che provo qui alla fronte, e alla tempia! Una stretta, fiere trafitture! ... Non sono già pazzo, dottore? ... Ditemelo ... No; me lo direte all'ultimo, e tenterete di guarirmi ... O mi ammazzerò ... Non può durare a questo modo! Non dovrei dubitare; è assurdo. Si possono fantasticare alcuni fatti, intensamente, secondo il desiderio dell'istante, pensando: "Oh, se avvenisse cosí e cosí!" e credere per un momento che il desiderio vivissimo si fosse mutato in realtà ... Crederlo a lungo però, agire in conseguenza dell'avvenimento fantasticato e goderne e soffrirne e sentirne cosí sconvolta la vita, quasi tra esso e la realtà non ci fosse stato intervallo né contraddizione ... è anche piú assurdo! Non posso sospettare che io non l'abbia riveduta alle Cascine, in carrozza, con un bell'uomo che le parlava calorosamente, gesticolando, ridendo ... Che cosa le raccontava? Ella stava ad ascoltarlo quasi sdraiata, con la faccia rivolta verso di lui, stupita di quel che udiva; si scorgeva dagli occhi intenti e dai lievi accenni del capo. Si fermarono un minuto davanti al monumento del principe indiano; e fu cosí che io potei osservarla bene e notare che il pallore del mio volto e il fosco lampeggiare dei miei sguardi avevano attirato la sua attenzione. Perché anche questa volta ella finse di non riconoscermi? Perché anche questa volta io secondai la sua finzione? La vidi sparire allo svolto del viale; avevo la morte nel cuore. Chi era colui? Il marito o un amante? Dissi subito, risoluto: "Dovrà confessarmelo". Se io non mi fossi riconosciuto in diritto di domandarglielo, se io non avessi avuto la certezza che avrei potuto domandarglielo, avrei mai pensato: "Dovrà confessarmelo"? Intanto perché spesso mi nasce il dubbio se io sia andato quello stesso giorno in via Enrico Poggi? Ci sono andato, questo è certo; ma ho proprio suonato il campanello del portoncino? Sono stato ricevuto da lei? O la mia immaginazione ha creato il dialogo, che pure rammento parola per parola, tanto da riudire oggi la mia voce e quella di lei con le piú minute particolarità di accento e di gesti? Si può giungere a questo estremo d'illusione? Appena mi vide entrare ella fece una mossa di sorpresa ... Non ero piú capace di contenermi; quella sua mossa però m'impose di forzarmi ad essere calmo. "Mi permetterete un'indiscrezione" dissi. "Chi era colui? ... Ho indovinato". "Non siete maga per nulla. Sí, chi era colui?" "Un mio concittadino, di Pietroburgo". "Nient'altro?" "In ogni caso, è un segreto che mi riguarda". "Non vedete dunque che io fremo ... di gelosia?" "Avete torto. Soltanto il possesso di una donna può giustificare in qualche modo la gelosia. Bisogna essere barbari per essere gelosi. La creatura umana non può appartenere a nessuno: è libera. Esser gelosi significa esser padroni assoluti di un cuore, di un'anima. È bestiale ... scusate la cruda parola". "E impossessarsi violentemente di un cuore, di un'anima, maltrattarli, torturarli come lo chiamate?" "Io rispetto il diritto degli altri quanto il mio. Ho fatto forse qualche cosa per sedurvi? Due mesi fa ignoravo fin la vostra esistenza". "Voi sapete già quel che ha operato la vostra bellezza". "Me lo avete detto voi; non ho obbligo di credervi, perché non ho la possibilità di accertarmi se dite la verità o se mentite per raggiungere uno scopo qualsiasi". "Che cosa debbo fare per essere creduto?" "Niente. Non c'è modo di arrivare alla certezza". "Siete cosí scettica?" "Cosí ragionevole intendete dire". "Mi avete messo l'inferno nell'anima!" "Ci sono degli esorcismi, affermano i popi, per debellare l'inferno". La vedevo in nuovo aspetto. Sul bellissimo viso tremolava un'espressione di crudeltà, di maligna ferocia, di spietata raffinatezza nel godere del tormento altrui. I ceruli occhi limpidissimi sembravano intorbidati da improvviso rimescolamento fangoso. Ai lati delle rosee labbra apparivano due pieghettine lievi ma rigide che davano alla fisonomia il carattere ripugnante di una maschera. Rimasi a guardarla, interdetto. La trasfigurazione durò un baleno. Sorrise, mi stese una mano e soggiunse: "Siete un bambino!" Non avevo forza di risponderle. "Voglio essere creduto!" esclamai. "Voglio la luna!" rispose, contraffacendo il mio accento. "Che cosa debbo fare?" "Continuate ad amarmi! È assai lusinghiero per una donna". "Oh, Kitty!" Era la prima volta che la chiamavo per nome, e mi parve di rivelarle cosí l'immenso amor mio, come non avevo saputo mai fare fino a quel giorno. Sorrise nuovamente; ma tosto che feci atto di voler baciarle le mani, si rizzò in piedi, severa. Mi par di vederla qui, davanti a me, con le mani vietanti, col gesto di congedamento ... Dovrei dubitare? No, no! ... Per qual ragione avrei inventato questo significativo dialogo? Non una ma cento volte l'ho ripensato, senza mutarvi neppure una sillaba; e non una ma cento volte alla convinzione della realtà del fatto son seguiti sempre quel senso di perplessità, di incertezza, quella sensazione ineffabilmente dolorosa che mi stringe la fronte con un cerchio di ferro, che mi conficca due chiodi qui alle tempia ... Credete voi alla malia? Io sí. Credo che l'uomo possa acquistare, per via d'iniziazione, un quasi illimitato potere su la natura e sui suoi simili; benefico e malefico; malefico piú spesso, sventuratamente ... Avete letto il recente romanzo dell'Huysmans, Au de là . Non è un romanzo come gli altri; è storia antica e contemporanea nello stesso punto ... Oh! La mia fede nella magia non proviene soltanto da quel libro. I giornali francesi, mesi fa, hanno parlato a lungo dell'atroce vendetta di u no di questi maghi contro un infelice che era incorso nell'ira di colui, prete, a quel che dicevano ... Fate tacere per un momento i vostri pregiudizi scientifici, riflettete intorno al mio caso. Io ero a Napoli, tranquillo, spensierato ... e mi sento consigliare, mi sento anzi ordinare, non è eccessiva la parola: "Va' a Firenze!" Quella spiegazione che mi davo poco fa, la malia della melodiosa voce udita per caso nell'Acquario, è insufficiente. Mi si è presentata discorrendo, ed ho voluto manifesta rvela, perché debbo dirvi tutto quel che può aiutarvi nella diagnosi del mio male ... Ma la vera spiegazione è là; ne ho avuto coscienza sin dal giorno in cui dissi a Kitty: "Rompete l'incanto! Liberatemi!" Il mistero però non si schiarisce. Perché ella ha scelto me per sua vittima? Me ignoto a lei, lontano, che non posso averle fatto niente di male? ... Glien'ho fatto poi ... sono stato inesorabile, se è vero che ... Giudicherete ... Procediamo intanto ordinatamente, finché mi riesce. In poco piú di tre mesi, la mia passione era giunta al parossismo. La resistenza che colei mi opponeva, le scarse concessioni che si degnava di farmi, seguite subito da altre e piú vive resistenze, mi tenevano in uno stato di eccitazione di cui non può farsi nessuna idea chi non ha amato a quel modo. E la gelosia era sopravvenuta a metter legna al fuoco che mi divampava nel cuore, terribile! Ella aveva detto: "In ogni caso, è un segreto che mi appartiene". Dunque avevo indovinato! Qual altro genere di segre ti poteva mai esistere tra lei e quel giovane veduto in carrozza con lei alle Cascine? Avevo farneticato una settimana: cercarlo, domandargli impertinentemente: "Siete suo amante?" Insultarlo, sfidarlo ... E avevo insistito presso Kitty ... Mi aveva risposto ridendo. "Ah, non ridete, per carità!" le avevo detto supplicandola a mani giunte. Si era fatta seria tutt'a un tratto: "Io non metto la mia libertà alla mercè di nessuno! Con qual diritto pretendete di strapparmi una confessione, ammesso che ne abbia una da farvi?" "Vi amo!" "Non è una ragione per me". "Mi avete detto: "Continuate ad amarmi!"" "Visto che vi fa piacere!" "Che cosa sono dunque per voi?" "Uno che dice di amarmi". "Nient'altro?" "Anche questo è un segreto che mi appartiene. Può arrivare un giorno, un momento che stimerò opportuno di rivelarvelo". "Come siete crudele!" "Sincera piuttosto". E mentre ella pronunziava queste brevi risposte, mi fissava con gli occhi cerulei, limpidissimi, che però mi turbavano profondamente quasi rafforzassero l'opera della sua malia. Quel giorno sembrava proprio una maga, con quella scura vestaglia trasparente su fodera di seta gialla e con pizzi neri che le coprivano le mani e facevano risaltare gli anelli delle dita e i braccialetti ai polsi, di foggia stranissima, quasi rami attorti, di simboliche piante - immaginavo - con foglioline di smeraldi. Non erano state incoraggianti, subdolamente incoraggianti le sue parole? ... Allora io le domandai: "Lo avete riveduto?" "È stato qui mezz'ora fa". "Volete farmi la grazia di promettermi ... " "Che non lo rivedrò piú? ... E se lo amassi?" Mi avesse detto effettivamente lo amo, non avrei potuto sentirmi trafiggere con maggiore strazio. Impallidii, mi parve di morire! Ebbe pietà di me in quel punto? Mentí per confortarmi? "Non l'amo, no! ... Siete contento?" Scattai con tale impeto ch'ella non fece in tempo per impedirmi di prenderle una mano e di coprirgliela di baci. Dio mio! Com'era fredda quella mano! Infatti pareva esangue, tanto era bianca, senza traccia di vene sotto la pelle fina e lucente. Ho vivissimo il ricordo di questa sensazione di cosa ghiaccia ... Non è un'aberrazione della mia fantasia ... Eppure sono arrivato a dubitare anche di essa. Perché? Ecco: rammento di averla incontrata un giorno nei giardini di Pitti con le sue due amiche dell 'altra volta. Mi passò davanti senza guardarmi, e levava appunto in alto una mano per indicare non so che cosa; ed io, vedendo quella mano cosí bianca che pareva esangue, pensai cosí: "Dev'essere fredda come il ghiaccio! ... " Se l'avessi realmente baciata, avrei pensato: "È fredda come il ghiaccio!" Avrei ricordato la impressione ricevuta ... Ah, se poteste sentire che male mi produce questo cerchio qui! Se poteste sentire come mi si conficcano piú addentro i chiodi delle tempie! ... Vorrei non poter pensare! Soltanto non pensando avrei un po' di requie! ... Ma ci accostiamo alla fine. Sopporterò questa tortura; voi troverete un rimedio per addormentarmi il pensiero ... C'è un rimedio? Ah! ... Benissimo! Vivevo di odio, di gelosia, di amore sfrenato ... Avrei voluto fuggire lontano, ma non potevo. Restavo per lunghissime ore nella camera del mio albergo; mi aggiravo per Piazza dell'Indipendenza passavo e ripassavo davanti al fatale portoncino di via Enrico Poggi senza osare di stendere la mano al campanello, quasi quel portoncino non fosse mai stato aperto per lasciarmi entrare, e con l'angoscia che forse non si sarebbe aperto mai, mai per me! Non è strano che mi torturassi per questo, se ormai bastava che stendessi la mano al campanello per venire introdotto nel salottino azzurro, varcando l'andito coi busti, coi vasi di spetriste e di cactus, e in fondo, la vetrata medievale con vetri a colori? Passavo e ripassavo, sconvolto dal sospetto: "In questo momento forse egli è là! ... Forse la stringe tra le braccia! Forse ella si abbandona a lui, follemente! O, forse lo fa soffrire al pari di me, assaporando il maligno godimento della sua potenza di nuocere ... !" Suonai violentemente. Il campanello ondulò a lungo per l'andito, mentre io mi pentivo di essermi annunziato a quel modo; e il ritardo del servitore che doveva venir ad aprire mi faceva imaginare che ella avesse ordinato di fingere che nessuno era in casa. Invece ella mi accolse con aria lieta. "Oh! ... E venite qui cosí fosco?" "L'unico mezzo di farmi accorrere raggiante di felicità, voi lo sapete, è in mano vostra". "Non posso adoperarlo. Una fatalità mi perseguita ... " "Siete voi, voi, la terribile fatalità!" "È vero! E non so piú attristarmene, né commovermene. Contro l'ineluttabile non si combatte". La sua fisonomia aveva mutato espressione; la qual cosa mi faceva pensare che l'aria lieta con cui ella mi aveva accolto non fosse stata sincera. "Eravate ... sola?" "Sola ... coi miei pensieri, come dicono i personaggi di certi drammi". Voleva riapparir gaia ... E anche questo mi mise in sospetto. Guardavo attorno, se mai scoprissi nel salotto un indizio di disordine, nelle seggiole, nelle poltrone, non potuto riparare per la fretta ... Niente! "Che cercate con quegli occhi gelosi? Il vostro preteso rivale?" E, dopo una breve pausa, soggiunse: "Si è ucciso ieri; per me, ha lasciato scritto. Che pazzia! ... Voi non ne commettereste una simile ... " "Forse! ... " risposi cupamente. E la lasciai. Mi era parsa coperta dal sangue del misero che si era ucciso per lei. E non aveva nell'accento nessun fremito di compassione! Non una lagrima negli occhi azzurri limpidi, impassibili! Che terribile creatura era ella dunque? Aveva bisogno di sangue umano per le sue orrende incantagioni? "Forse!" mi era sfuggito. Ma sentivo che mi spingeva furiosamente verso l'abisso, verso la morte. Chi sa di quanti altri disastri era colpevole! ... Ed io non volevo morire! Amarla, possederla volevo, sentirla tremare sotto la forza della mia volontà, domarla ... annullarla, volevo! Annullarla! Per parecchi giorni fui sotto l'ossessione di questa idea! Vendicare gli altri e me, impedirle di esercitare sopra nuove innocenti creature la sua malefica influenza! Nello stesso tempo, mi sembrava di compire un gran sacrilegio attentando soltanto col pensiero alla sua perfetta bellezza. Chi ero io da pretendere di essere riamato da lei? Non era anche troppo ch'ella mi avesse permesso di continuare ad amarla e di ripeterglielo quante volte mi fosse piaciuto? "Può arrivare un giorno, un momento! ... " Non significava: "Sperate?" Cercai nei giornali la notizia di quel suicidio; nessuno ne faceva cenno. Aveva ella mentito? ... Riflettei che non mi aveva detto che colui si fosse ammazzato a Firenze o in qualche altra città italiana. Era tornato, probabilmente a Pietroburgo, lusingandosi di sfuggire al letale potere di lei ... Ma inutilmente! Ella aveva reciso il filo di quella vita come una inesorabile parca, da lontano! ... Neppure io avrei potuto evitarla, se tardavo ancora, se non mi decidevo ... E mi decisi, una no tte, dopo lungo dibattermi tra le smanie dell'insonnia e della passione che piú non distinguevo se fosse amore o odio, o l'uno e l'altro insieme. E mi immersi subito in un sonno cosí profondo da impensierire le persone dell'albergo. Quando risolsero di accertarsi se stavo male, erano le due pomeridiane. Mi sentivo calmo, e non me ne maravigliavo. Il mio primo pensiero, appena scosso dalla voce del cameriere, era stato: "Annullarla!" Certamente il mio spirito aveva continuato durante il sonno l'intenso lavorio della giornata precedente, e aveva maturato e rafforzato la mia decisione. Io non so qual uso voi farete della rivelazione che sto per farvi. Se la vostra professione di dottore v'impone dei doveri, adempiteli senza esitare. Ho preveduto questo caso. Qualunque cosa sia per accadere, non potrà mai raggiungere quel che dovrei continuare a soffrire tacendo ... Notate: ho la visione netta, evidentissima della terribile scena, come se fosse accaduta poche ore fa. Ciò non ostante ... Oh! È spaventevole, dottore! Aveva ella qualche tristo presentimento? Non si sedette accanto a me al solito posto, ma dietro al tavolino con la scusa di accendere una sigaretta. Io rifiutai quella che mi era stata offerta, sottilissima, troppo profumata pel mio gusto. "Non dite nulla? Che guardate? Questo spillone?" "Sembra un pugnaletto". "È un ornamento femminile di certe regioni del Caucaso." "D'argento?" "Di acciaio, e ben temprato". Tirò due o tre boccate di fumo, socchiudendo gli occhi deliziata, poi soggiunse: "Vi do una notizia che vi farà gran piacere". "Finalmente!" "Non quella che voi imaginate. Parto". Balzai in piedi, sbarrando gli occhi. "Non è vero!" balbettai. "Poiché ve lo dico!" "E io? ... " Ogni possibilità mi era passata per la mente all'infuori di questa ch'ella partisse, che si sottraesse cosí alla mia vendetta! ... Credetti che me lo annunziasse quasi ad irrisione, per sfida, mentre io non avrei potuto mai levarmi di addosso il funesto dominio del suo filtro, del suo misterioso potere, che forse avrebbe operato piú terribilmente da lontano ... Infatti, se ella mi avesse detto in quel momento, invece di: "Parto!" "Domani non spunterà piú il sole, tutto rimarrà sepolto in tenebra ete rna! ... " anche credendole, ne sarei stato assai meno atterrito. "E io? Io? ... " replicai. "Che volete che ne sappia? Farete quel che vi piacerà ... Mi dimenticherete, innanzi tutto". "Fatemi prima dimenticare! Datemi qualche vostra magica bevanda di oblio!" "Si dimentica cosí facilmente!" "Non quando si ama come io vi amo! Neppure in questo momento mi credete? E mi vedete agonizzare!" Parlavo a stento, ansavo; sentivo gorgogliarmi nel petto un rantolo di morte; gli occhi mi si erano annebbiati, un lentore mi invadeva. Dovetti appoggiarmi al tavolinetto per non cadere. "Ho visto uno dei vostri grandi attori fare qualche cosa di simile. Siete inarrivabili voialtri italiani nella espressione di certi stati d'animo". Era come dirmi: "Commediante!" Afferrai lo spillone, lo brandii minacciosamente. "Bravo! - esclamò - Ferite!" E si rizzò e mi offerse il seno coperto di trine. Ebbi la forza di sorridere, di rispondere con profonda dissimulazione "Sapete bene che non posso! ... Ah, Kitty!" "Non mi amate fino al delitto? Misero amore, il vostro!" Mi provocava, mi aizzava ... Era proprio sicura che non avrei potuto colpirla? Con una mano si tolse la sigaretta di bocca, esalò lentamente con voluttuosissimo godimento il fumo dalle labbra ristrette e dalle rosee narici, e aperse le braccia, ripetendo: "Ferite!" "Sí, è vero - dissi -. Se vi amassi in modo estremo ... " Mi accostai, scartai con una mano la trina, appuntai lo spillone in direzione del cuore ... " ... farei ... cosí!" Lo spillone era penetrato senza nessuna resistenza fino alla capocchia ... Non diè un grido ... Travolse gli occhi e mi si rovesciò addosso, con un lieve sussulto per tutto il corpo. Che cosa io abbia fatto dopo non so. Ricordo soltanto che passai la nottata presso San Domenico su la strada di Fiesole, seduto su un muricciolo, e che la luna inondava la campagna col suo pieno lume sereno, e che i grilli zirlavano? tra le erbe dei prati attorno e che un cane abbaiava, a intervalli, lontano. Ricordo che, a giorno alto, tornai a Firenze e che dovetti mettermi a letto con la febbre ... Volli leggere i giornali ... E vidi con stupore che nessuno di essi parlava dell'assassinio della bella signora russa in via Enrico Poggi. Tre giorni dopo, non interamente guarito, mi levai da letto, e mi feci condurre colà da un fiacchere, senza dare indicazione precisa ... La via era silenziosa, come al solito; tutti i portoncini chiusi; tutte le persiane delle finestre o chiuse o socchiuse ... Ne ssun indizio che in quella via, in quella nota casa fosse avvenuta qualche cosa di straordinario. Sapevo che gli assassini sentono una irresistibile attrazione verso i luoghi dov'essi hanno commesso un delitto, e pensavo: "È vero! È vero!" giacché un vivo impulso mi dominava, un'imperativo suggerimento mi diceva: "Scendi dal legno! ... Domanda a qualcuno ... Saprai!" E il terrore che mi invadeva non era quello di ottenere la certezza del mio delitto, ma l'opposto. Suonai replicatamente al portoncino. Nessuno venne ad aprirmi. Una donna che usciva dalla casa accanto si fermò a guardarmi esitante, poi mi disse: "Sa? Non c'è nessuno". "Abitava qui ... una signora ... " "È partita, da un pezzo. L'appartamento è sfitto". "Da un pezzo?" domandai stupito. "Eh! Da tre settimane, almeno". Mi sentii dare un tuffo al sangue ... E da quell'istante ho questo cerchio, qui, attorno alla fronte, e questi chiodi confitti nelle tempie ... Com'era possibile! Non l'avevo uccisa giorni addietro? Partita da tre settimane! ... O dunque? In che modo io sono vissuto questi ultimi due mesi? In che modo tutto quel che vi ho narrato si è andato formando nella mia mente con la suprema evidenza della realtà? Io la ho vista ... le ho parlato, ho udito la sua voce. È certo che ella abitava colà, in quel villino di via Enrico Poggi. È certo che io sono stato piú volte in quel salottino azzurro ... Visitai la casa, col pretesto di prenderla in a ffitto ... Non c'erano piú i mobili, niente; le nude pareti ... E c'era tuttavia il suo profumo, il profumo acutissimo di quelle sue sigarette ... Se non fossi stato colà altre volte, avrei potuto riconoscerlo? Il guasto è qui, nel mio cervello ... Dottore, liberatemi da questo cerchio alla fronte! ... Strappatemi questi chiodi dalle tempie! ... Non voglio impazzire! ... È orribile! ... Se non è morta, se ha potuto sopravvivere al colpo dello spillone conficcatole nel seno ... è lei, la maga, che continua a tormentarmi! ... Non crollate la testa ... È lei! ... Che male le ho fatto? L'amavo! ... Oh! Immensamente! ...

. - Non ricordo piú - rispose il dottore - chi abbia scritto: "Se venissero a riferirmi che un tale ha portato via il Colosseo, prima di rispondere: "È impossibile" andrei a vedere". Io la penso come costui; e gli scienziati, secondo me, dovrebbero comportarsi cosí. Fui puntuale, all'ora fissata; la donna arrivò poco dopo. Il severo studio del mio amico aveva due balconi, uno a levante, l'altro a mezzogiorno, e una larga ondata di sole lo invadeva in quel punto. "Ho avuto a stento il permesso" disse la evocat rice. "Da chi?" domandai. "Dai miei superiori - rispose semplicemente. - Questo signore è un incredulo - soggiunse rivolta al mio amico. - E gli spiriti non si mostrano volentieri a chi non crede". "Voglio credere - dissi. - Sono qui per questo". Costei - pensavo intanto - mette le mani avanti! E la osservai attentamente mentre si accingeva a disporre dietro la tenda del balcone l'orciolo con l'olio, la candela accesa e il piattino col sale. Nessun indizio di furberia su quel viso, ma una grande stanchezza, la stanchezza della miseria. "E chi vi ha insegnato?" le domandai. "Mia madre - rispose. - Stiano attenti. Gli spiriti non entreranno qui; attraverseranno il corridoio, passando davanti all'uscio". E si nascose dietro la tenda. Parlava con tale sicurezza, da spingermi a pensare: "Tu forse stai per vedere un prodigio!". Eravamo, il mio amico ed io, in piedi, in faccia all'uscio. A un tratto, il mio amico mi afferra una mano, e comincia a stringermela forte. Non mi distolsi dal guardare verso il corridoio, p ur comprendendo che quegli aveva paura. Io mi sentivo tranquillissimo, senza diffidenza ... Dieci minuti di intensa aspettazione ... e la donna uscí fuori dalla tenda. "Ha veduto?" disse. "No". "Non li hai veduti?" esclamò il mio amico quasi balbettando. Era pallido come un morto. "Sette - soggiunse. - Li ho contati; quattro donne e tre uomini ... come fatti di nebbia, con lunghe tuniche bianche ... Sono passati lentamente ... Ti ho stretto forte la mano nel terribile momento. E quella gran luce?" "Non ho visto nulla!" "Non crede! - disse la donna. - Per vedere bisogna avere la grazia ... " Forse è cosí: bisogna avere la grazia, come ella si esprimeva, cioè una disposizione naturale, una facoltà speciale ... Che ne sappiamo? E il mio amico è rimasto talmente convinto di non essere stato vittima di un'allucinazione, che è morto sospettando sempre della mia buona fede. Ha creduto che io abbia negato di aver visto per cocciutaggine di medico materialista. E non è vero -.

Ebbene, non ho potuto mai sapere con certezza se quella sera egli mi abbia detto la verità o si sia burlato di me con quest'altra improvvisazione. Non vorrei, però, che l'aver trascritto, alla peggio, queste ed altre sue storielle (ne lascio inedite parecchie) potesse essere creduto una specie di mia vendetta contro il povero dottor Maggioli, e menomarmi l'indulgenza dei lettori del Decameroncino .

. - Ho commesso l'infamia di contristare, calunniandola con indegni sospetti, la piú buona, la piú santa creatura che io abbia conosciuta in questo mondo. La morte è stata giusta privandomi di cosí gran tesoro; non ero piú degno di possederlo. Ho fatto anche peggio; sono stato assassino ... con l'intenzione soltanto; ma questa circostanza non significa niente. Ho goduto intera la malvagia sodisfazione che quel delitto mi avrebbe dato nel cas o che avessi avuto la forza di compirlo, e ne sento vivissimo rimorso, quasi lo avessi davvero compiuto. La giustizia umana non può colpirmi; io però non mi reputo meno assassino per ciò. Mi son giudicato da me, inesorabilmente, e mi son condannato alla pena che avrei meritata se la mano avesse già posto in atto quel che il pensiero si è lungamente compiaciuto di architettare con la piú raffinata malizia". "Oh, Tullio!" esclamai. "Ti meravigli di scoprir cascato tanto in basso colui che ha vagheggiato in tutta la sua vita i piú eccelsi ideali d'arte e di pensiero? La miseria dello spirito umano è cosí grande, che dovresti piuttosto maravigliarti di non vedermi cascato ancora piú in basso! Sappi però che, se non sono stato effettivamente assassino, la mia volontà non c'entra per nulla". Si fermò un istante, scosse la testa, strizzando un po' gli occhi, poi riprese: "Non riesco a spiegarmi neppur io come abbia cominciato a sospettare. Avrei dovuto reagire subito contro le prime impressioni prodotte da indizi riconosciuti fallaci. L'amor proprio, l'orgoglio lievemente feriti mi spinsero invece a dubitare di quel riconoscimento, a rimuginare quegli indizi, a ricercarne con intensa dolorosa voluttà altri nuovi. Forse li creò la mia fantasia, o forse un crudele destino mi ordí perfidi inganni con cento piccoli fatti facili ad apparire molto diversi da quel che essi erano i n realtà ... Mia moglie, innocente, e senza nessun sospetto, non poteva evitare certe circostanze che congiuravano fatalmente a dar corpo alle ombre e mettermi l'inferno nel cuore. Avrei dovuto chiederle spiegazioni, avvertirla, ammonirla; non volli, sperando di sorprenderla in qualche atto da non permetterle sotterfugio alcuno per continuare ad ingannarmi. E piú le mie ricerche, i miei agguati non ottenevano nessun convincente risultato, piú io m'ostinavo a immaginare che la sua diabolica malizia riusc isse a farmi sfuggir di mano l'atroce vendetta il cui proponimento mi aveva già invasato l'animo. Non posso diffondermi in minuti particolari; il ricordo mi è insopportabile ora che sono convinto del mio inganno. Importa soltanto che tu sappia la vendetta meditata giorno e notte contro il creduto suo complice. In quanto a lei, inattesamente, mi ero sentito a poco a poco sopraffare da compassionevole tenerezza; le perdonavo in grazia dell'amore che aveva avuto per me quando ancora ignoravo di essere amato da lei; le perdonavo per la sua bellezza, per la sua giovinezza, per l'inesperienza della vita, che avea dovuto agevolarne la trista caduta. Tutto il mio odio si concentrava su colui, sul creduto seduttore che non poteva avere scusa di sorta alcuna, che doveva aver operato il male sapendo di far male, e con lo sq uisito piacere di farlo a danno del mio onore, della mia felicità, anzi principalmente per questo. Volevo toglierlo dal mondo senza che si potesse mai scoprire qual braccio lo avesse colpito. E la lunga ricerca del mezzo arrivava talvolta fino a calmare i miei strazi. Avevo scelto l'arma: il rasoio. Da un mese mi mostravo in fidente relazione con lui. È inutile dirti il suo nome; è già molto l'averlo stimato capace di un'infamia; non voglio offenderlo ancora col far sapere ad altri che ho potuto crederlo ta le. Il peggior tormento prodotto dalla gelosia è quel non sentirsi mai sicuri, quel vivere di dubbi e di sospetti che si vorrebbero veder distrutti, e che si teme di veder distrutti perché un giorno essi potrebbero servire a farci raggiungere la paventata e pur desiderata certezza. Per ciò io attendendo il terribile momento in cui non avrei potuto dubitar piú, maturavo il mio disegno, lo studiavo nei minimi particolari dell'atto vibrante, e arrivavo al punto di sentire nella concezione del delitto la stessa selvaggia voluttà che mi avrebbe dato l'attuazione di esso quando l'istante della certezza sarebbe scoccato. Per le vie, nel mio studio, a letto accanto a lei fingendo di dormire profondamente, io assalivo l'odiato, gli sprofondavo nel collo l'affilata lama del rasoio che doveva recidergli la carotide con tale rapidità da non fargli quasi accorgere di morire; e sentivo su la mano convulsa il caldo schizzo del sangue, e udivo il rantolo della gola squarciata, e vedevo l'annaspare di quel corpo che stramazza va con sordo rumore sul selciato. Ho assaporato, per due lunghi mesi, dieci, venti volte al giorno, questa feroce gioia assassina; ho assistito dieci, venti volte al giorno, al tetro immaginario spettacolo di quella morte; e tale crescente evidenza esso aveva raggiunto all'ultimo, che io mi riscotevo, dall'impressione con lo stesso brivido di orrore e di brutale sodisfazione che mi sarebbe stato prodotto dalla realtà. Potrei dire di avere commesso non uno ma cento assassini, giacché ognuna di quelle ossessi onanti rappresentazioni era una variante sempre piú perfezionata, sempre piú efficace della precedente; e cosí, alla fine, fui talmente pago di quelle fantasticate sensazioni, da sentir venir meno il bisogno di attuare la mia vendetta; lo sforzo del pensiero avea esaurito ogni mia fisica energia. Mi ero cosí internamente compiaciuto di ammazzare pensando, da non provar piú nessun bisogno di altra sodisfazione materiale ... La realtà avrebbe, forse, potuto darmi sodisfazione piú sincera e piú acuta? Per questo, per questo soltanto, io non sono stato omicida nel volgare senso di questa parola! Appunto allora il caso mi faceva scoprire qual viluppo di incredibili circostanze era concorso a illudermi, a trarmi in inganno. Oh! ... È orribile! A che cosa mi era servito dunque l'aver tanto studiato, osservato, meditato? Ho chiesto perdono a mia moglie inginocchiato davanti la sponda del suo letto di morte. La intelligenza offuscata dal male le ha impedito di comprendere. Nei vaneggiamenti del delirio, ella r ipeteva continuamente: "Tullio, che cosa hai contro di me? ... Che ti ho fatto? Perché non mi ami piú?" Ed è morta con questo affettuoso rimpianto su le labbra". "Ebbene? - dissi io, vedendolo caduto in grave abbattimeno. - Tutto ciò è naturale, è umano". "Non può essere umano il delitto se rimane impunito! - egli esclamò, rilevando alteramente la testa. - Chi desidera la donna altrui, commette adulterio. Chi pensa di ammazzare, commette omicidio. Ed io mi sento omicida". "Tullio! Tullio!" lo rimproverai. "Non ho smarrito il senno! - egli riprese. - Per la pace del mio spirito, per la giustizia ideale ho voluto far questo: giudicarmi e condannarmi con la stessa imparzialità e serenità con che avrei giudicato qualunque persona accusata del mio stesso delitto. Domani l'altro partirò pel luogo da me scelto ad espiarvi la pena. La mia prigionia non differirà in niente da quella legale. Sarà dura, inesorabile, ed io diverrò tra pochi giorni il carceriere di me stesso ... " - Era pazzo il tuo Tullio Dani! - ripeté Lastrucci stato fin allora ad ascoltare intentissimo. - Ed ha finito di espiare? - Non ancora! - rispose Morani.

Ed ho sempre nell'orecchio il suono della sua voce, le inflessioni della sua parola che si modulavano in deliziosa melodi a, e mi commovevano e mi turbavano come una carezza spirituale anche nei momenti piú spietati delle mie gelose irruzioni; e all'idea che ella ha potuto sopportare rassegnatamente le torture che le ho inflitto per due anni, ora per ora, giorno per giorno, incessantemente, raddoppiando tanto piú la mia ferocia quanto piú la vedevo docile, rassegnata a quella tortura, e senza che io abbia mai potuto scoprire quali sentimenti si nascondessero sotto cosí incredibile docilità, sotto cosí inesplicabile rassegnazio ne, sento vacillarmi la ragione; e sento di odiar Gemma, ora che non è piú, per lo meno quanto l'ho amata ed adorata vivente. Ti sembra forse possibile che una donna rimanga la stessa, di fronte a un'inattesa e quasi improvvisa mutazione dell'animo di colui che le avea promesso la felicità e le dava l'inferno? Non dirmi: "Perché no?" Tenti invano d'illudermi e di consolarmi. Non voglio essere consolato. La mia sciagura è ormai irreparabile. Ella ha voluto andar via, senza darmi la sodisfazione di una risposta qualunque. Si è lasciata morire, impenetrabile al pari di quelle Sfingi che spalancano gli occhi privi di sguardo in faccia ai viaggiatori tra le arene che circondano le piramidi egiziane, e non interrogano né rispondono da mille e mille anni. Cosí lei. Ho quasi perduto, a furia di pensarci su, la nozione del tempo. La interrogo da quattro anni, o da un'infinità di anni questa misteriosa Sfinge che mi è stata davanti prima viva e mi sta egualmente davanti morta, e che da morta non risponde alle mie insistenti interrogazioni, come non rispose mai, mai, da viva! In certi momenti non saprei dirlo. Mi sembra che tutta la mia vita sia trascorsa in questo atteggiamento di continua interrogazione, in quest'ansiosa aspettativa di una risposta, in questa desolata disperazione di riceverla, un giorno! Ella ha voluto vendicarsi in questo modo, e non poteva trovarne un altro piú straziante e piú crudele. Se fosse stata rassegnata davvero, negli ultimi istanti, quando mi fissava in viso gli azzurri occhi già velati dall'agonia, dicendomi con un fil di voce: "Non ti vedo piú! Una nebbia mi circonda!" in quegli ultimi momenti almeno ella avrebbe dovuto dirmi una parola rivelatrice, una sola parola ... Niente! Fosse anche stata una parola di disprezzo, di odio, di maledizione, ne sarei stato sodisfatto; almeno avrei saputo qualche cosa, all'ultimo! ... Ma no, ha voluto andarsene muta, chiusa, senza uno sguardo, né un gesto, né una sillaba che mi rivelasse il segreto del suo cuore, del suo spirito. Ella! Ella che, prima, quando l'amavo e non ero ancora geloso, mi sembrava trasparente come un cristallo, limpida come un purissimo diamante. Allora mi bastava guardarla negli occhi per scoprire le piú lievi sfumatu re di sentimento nei fondi penetrali del suo cuore, per afferrare i piú rapidi pensieri che le illuminavano come lampi la mente, dietro quell'ampia fronte che sotto i neri capelli ondulati sembrava di finissimo avorio! E appena gli artigli del mostro dagli occhi verdi mi si conficcarono nel cuore, appena le prime mie ruvide mosse d'impazienza, di sospetto, di rimprovero le fecero intendere la divoratrice passione che cominciava ad invasarmi, ella mi apparve un'altra tutt'a un tratto. Il suo cuore si ottenebrò, ed io non potei piú leggervi nulla; la sua fronte diventò opaca, quasi la bella creatura vivente si fosse mutata in statua che non ha anima, ma soltanto linee e rilievo di bellezza, espressione esteriore che fa comprendere il concetto voluto significare dall'artista, ma che non penetra, non pervade il legno la creta o il marmo di cui essa è formata. Se non che, invece, io sapevo che dentro quella statua c'erano e il cuore e l'anima e lo spirito; e intanto, tra essi e me si opponeva, insuperabile, quel silenzio che pareva mi tenesse chiusa in faccia una porta di bronzo a cui invano picchiavo; di cui le mie mani, battendo, quasi sentivano il diaccio; e che non risonava neppure, tanto era solida, fusa tutta d'un pezzo. L'immagine di questa bronzea porta, in certi momenti, si mutava nella mia alterata immaginazione in cosa reale. E mentre il mio geloso furore provocato da un nonnulla (ora lo capisco) prorompeva in parole sconnesse, in urli, in gesticolazioni da mentecatto, e Gemma mi stava immobile davanti, senza mutar di colore, senza che nei bei occhi le si accendesse un baleno d'indignazione o di pietà, senza che le sue rosee labbra s'increspassero lievemente sotto il vituperio di accuse, di sospetti, di insulti che la investiva, io ero tentato di percuoterla al petto, dove mi sembrava fosse quella inespugnabile porta di bronzo ... E non mi spauriva l'idea di commettere anche un delitto! No, ella non ha avuto nessuna pietà di me! Se ne avesse avuta, si sarebbe difesa, avrebbe protestato, avrebbe pianto; avrebbe risposto alle accuse con altre accuse, ai sospetti con altri sospetti, agli insulti con altri insulti, a torto o a ragione, non voleva dir nulla ... No, no, ti ripeto, non ha avuto nessuna pietà di me! Si è vendicata con quel terribile silenzio, con quell'orrida rassegnazione, e senza mostrare, neppur con un cenno, che si stimasse vittima innocente ... della mia stolta gelosi a! Fece peggio! Mi nascose il suo male, si lasciò struggere a poco a poco; e soltanto pochi giorni prima della catastrofe, quando ogni sua energia era finalmente esaurita, soltanto allora mi annunziò con voce esile ma ferma: - Dino, mi sento morire! - Ed io, sciagurato, non lo credetti! E il giorno che non potei piú dubitare, ... sai tu qual fu il pensiero che mi sconvolse, che mi riempí gli occhi di infocate lagrime di rabbia? "Ella mi sfugge! Ella mi sfugge! Ella se ne va senza dirmi il suo segreto!" Ed è stato cosí! Cosí! E tu dici: "Era una santa!" Una santa senza pietà? Senza carità? Oh no! Il perdono non è muto ...

Non rimpiangerò neppure che il mio amico lo abbia distrutto dopo averne fatto amara prova. È bene che certe illusioni sopravvivano per consolare questa nostra misera vita e a lusingarci di crederla meno brutta che non è. Quando egli ebbe fatto parecchi esperimenti, fu atterrito dell'opera propria. L'impassibile rivelatore livellava tutti i pretesi gradi dell'amore, riduceva questo sentimento a cosí meschina realtà da disgustarne qualunque umana creatura. La donna piú bella e la piú deforme, la piú buona e la peggiore venivano poste allo stesso livello; tutta la poesia del sentimento era annullata, ridotta cosa soggettiva dell'amatore, pura opera dell'ingannatrice Maya ... Egli stesso non voleva crederlo, ma nel medesimo tempo non poteva dubitare. La donna che formava in quei giorni l'orgogliosa felicità della sua vita ... No, egli non riusciva a persuadersi che potesse essere anche lei uguale a tutte le altre! ... Ma se era? ... Nonostante questo, esitò parecchi mesi prima di risolversi allo esperimento. "La gelosia mi ha perduto! - egli diceva, raccontandomi il caso con le lagrime agli occhi. - Era avviticchiata al mio collo con le braccia ignude e mi baciava, ribaciata ... Feci uno sforzo supremo. Trassi di tasca la fatale armilla, e, prima ch'ella potesse capire che cosa intendessi di fare, gliel'avevo adattata alla parte superiore di un braccio. Le parve un elegante gingillo imitato dall'antico, mio regalo; e lo guardò commossa, con un senso di vanità che le sfavillava negli occhi e nel sorriso. Io tremavo, quasi commettessi in quel punto il piú vigliacco e il piú tremendo dei sacrilegi. E mentalmente pregavo che lo strumento, almeno questa volta, s'ingannasse o mentisse. "Che hai?" ella mi domandò, guardandomi con diffidenza. E siccome io avevo gli occhi fissi su l'armilla, ella portò la mano al braccio, premé la mollettina e buttò via quell'oggetto con orrore istintivo. Mi affrettai a raccoglierlo. Ella guardò il segno bianco lasciatole dalla pressione sul braccio, e mi prese per le mani interrogandomi sbigottita. "Che è questo? Che mi hai fatto?"" Egli fuggí via come un assassino. Volle però vedere quel che lo strumento aveva registrato. E soltanto allora ... ma era troppo tardi! Maya, la divina illusione - com'egli si espresse - si era dileguata sdegnosamente nella piú alta profondità dei cieli! - Infine, che cosa vide? Che scoperse? - domandò spazientita, la signorina Villotti. - Niente! - rispose, con equivoco sorriso, il dottore. - O dunque? ... - Ho voluto dirle, invece della mia, l'opinione di un altro intorno all'amore. E, se le piace, segua il consiglio del mio amico, faccia secondo il sapiente padre della chiesa da lui citato: creda nell'amore! Fermamente! È un'assurdità, ma non vuol dire ... Credo quia absurdum!

Come abbia avuto quella forza non lo so neppur io ... Ti volevo tanto bene in quel punto! - E dopo, ora? - dissi abbracciandola e coprendola di baci. Fece soltanto un gesto, un rapido indimenticabile gesto.

Non è un cattivo soggetto; non è possibile che abbia avvelenato la bambina lui stesso, a posta! Che male gli aveva fatto la innocente? ... Questa è la verità! - Si era alzata da sedere, rivolta verso quell'uomo che la fissava come uno stupido, con le mani sui ginocchi e la bocca semiaperta, meravigliato che sua moglie ora tentasse di scusarlo, di difenderlo, e mostrasse in viso il dolore di perderlo, se lo mandavano in galera. - Sedete - le disse il presidente. - Dite ai signori giurati: era geloso costui? Ve lo fece mai capire? Ve lo disse? - Signori, mi voleva tanto bene! Era geloso del morto! Non voleva che lo ricordassi, mai! Questo mi faceva pena. Non capivo in che modo fosse geloso di un morto. Io, come potevo dimenticare quella sant'anima? E poi, la bambina era il suo ritratto; tal quale, fin nel suono della voce; si chiamava Giovanna come lui ... Era possibile? Ma voleva che lo dimenticassi, che non lo nominassi piú! E odiava la bambina perché si chiamava Giovanna. La poverina, da un anno, non avea piú nome per lui. Le dava nomacci che mi facevano piangere, di nascosto. Guai, se se n'avvedeva! Erano urli, bestemmie! ... Come quel giorno che trovò sciorinati al sole i vestiti del morto, perché non si tarlassero. Dunque pensavo sempre a colui? Dunque volevo ancora bene a colui? "Io sono una malombra nella casa!" E si strappava i capelli, piangendo, bestemmiando i santi e la madonna. Spezzò sedie, piatti, ogni cosa! ... Io corsi a chiudermi in camera, atterrita. Allora lui cominciò a stracciare quei vestiti (nuovi, di panno fino; la sant'anima li aveva indossati poche volte!) li ridusse in pezzettini, e li buttò in istrada, ai porci, diceva! - Di quell'altro, in casa, non ci doveva piú rimanere neanche un chiodo affisso al muro ... niente! ... Ora il padrone era lui! Ora comandava lui! Ora voleva esser voluto bene lui! - venne a piangermi dietro l'uscio - Lo capivo? Voleva esser voluto bene lui! - Se gli volevo bene, Signore Iddio! ... Non lo vedeva? Che dovevo, che potevo mai fare per persuaderlo? E il nome della sant' anima non mi uscí piú dalle labbra; e tutto quel che l'era appartenuto lo nascosi, qua e là. - Che poteva importargliene lassú, in paradiso, dov'era? - E cosí costui si acchetò un pochino. Ma c'era la bambina; ma si chiamava Giovanna; e non voleva, no, che la chiamassi cosí, perché, diceva - era una fissazione, vergine santa! - non chiamavo lei, ma quell'altro; perciò la chiamavo cosí spesso. Che bisogno c'era di chiamarla cosí spesso a nome? Non intendeva forse? Si figurino! Una povera madre, che non potev a chiamare per nome la propria figliuolina orfana! Mi diventava piú compassionevole; non mi pareva piú quella, la poverina, senza il nome di suo padre che non l'aveva neppur vista nascere! Ma gli volevo bene; volevo contentarlo; il sacrificio era tutto mio; la bambina che ne capiva? E non ebbe piú nome; non ebbe piú il nome che le avevano scritto in fronte coll'olio santo. Era peccato mortale ... Ma io gli volevo bene! E anche il confessore mi confortava: "Fa a modo suo, per la pace della casa!" La pove ra giovane s'interrompeva spesso, volgendo la testa verso la gabbia dove ora suo marito smaniava, passandosi le mani su la faccia; e mentre dal cuore le sgorgava quello sfogo, senza ch'ella potesse frenarsi sotto gli occhi dei giurati pendenti dalle sue labbra, la invadeva il terrore, se mai la sua deposizione potesse nuocere a colui, e aggravarlo dinanzi i giudici. Ma era la verità! Dal posto dove il presidente l'aveva fatta sedere, in mezzo ai testimoni, ella sentiva raccontare dall'avvocato tutta la propria storia. Questi però la diceva in un'altra maniera, a modo suo. Ella capiva e non capiva; soltanto capiva che si trattava dell'altro marito. E tutte quelle parole che avevano suono chiaro, intonazione quasi di predica e ch'ella, non intendendole bene, vedeva quasi volare verso i giurati lanciate dai gesti larghi e solenni dell'avvocato, le suscitavano intanto lucidissima la visione di quei fatti, di quella giornata, di quel posto: la dolce sensazione del sole di primavera, del verde del prato, dei canti degli uccelli fra gli alberi e dei muggiti dei buoi lontani, mentr'ella scendeva la viottola che conduceva alla fontana ... E quegli, appostato dietro la siepe dei roveti, era sbucato a un tratto e l'aveva afferrata per la vita, prima ch'ella potesse gridare; e levatala di peso su la mula bardata, l'aveva rapita, come un ladro, di violenza, baciandola ansiosamente su la nuca, sui capelli, mentre ella si dibatteva indignata e impaurita. E la mula trottava, e gli alberi correvano vertiginosi attorno, quasi la terra girasse. E lui le andava dicendo: - Ora sei mia! Ora mi vorrai bene! Ora sei mia! - E lei rispondeva: - No! no! Che tradimento mi avete fatto! No! - E la mula trottava, quasi fosse d'intesa anch'essa, giú per la china fra gli ulivi, scansando la via battuta. E lei, pur rispondendo sempre di no, perché non gli voleva bene, perché non voleva saperne di lui, visto che alla mam ma non garbava, già provava, tra lo sdegno, una tenerezza strana, una commozione profonda, una pietà anche, pel forte che la rapiva a quel modo, perché l'amava e la voleva sua a ogni costo! - Ora sei mia! - E tornava a baciarla. Eppure, lei gridava sempre: - Assassino, che tradimento mi avete fatto! - Ma colui s'era accorto che non lo sgridava con lo stesso tono sdegnoso. Lei non resisteva più, non si dibatteva piú; domandava soltanto: - Dove mi portate? Che volete da me? Riconducetemi a casa mia! Lasciatem i andare! - Infatti, giunti davanti la grotta, tra i fichi d'India, egli saltò da cavallo, e tenendola sempre tra le braccia come una bambina, le disse solamente: - Ah, bella figliuola mia! Tu sarai la mia regina -. E lei piangeva, col viso fra le mani, e non rispondeva nulla; non le pareva piú di esser lei - Sarai la mia regina! ... - E l'avvocato continuava ad agitare le braccia, da predicatore, battendo i pugni sul tavolino, facendo la voce grossa. Era strano; ella non afferrava il significato di quelle frasi, di quelle parole cosí diverse dalle frasi e dalle parole usuali; ma nello stesso tempo capiva chiaramente, quasi le venissero destando nel cervello l'immagine, la rappresentazione di quel che esse raccontavano ai giurati: il passato di lei, il felice passato d'un anno e mezzo; sogno sparito subito via, quand'ella era diventata da vvero la regina di lui, e non solo gli aveva perdonato la violenza, ma gli voleva bene e l'adorava come s'adora Gesú Sacramentato! ... E la poverina non vedeva piú nulla, né il presidente, né i giurati, né il gran crocifisso in fondo alla sala, né la folla, né la gabbia, nulla, nulla! E non sentiva piú neppure la voce dell'avvocato che rimbombava tuttavia; ma piangeva silenziosamente, assorta nella luminosa visione d'un passato piú prossimo, finito cosí tristamente anch'esso, quando due uomini avevano portato via la cassa della morticina benedetta dal cappellano! ... E a lei era parso che le portassero via il cuore! ... La gente, affollata sull'uscio, per vedere daccosto quella bella giovane cosí stranamente due volte amata, aspettò un bel pezzo. La poverina, appresa la condanna, era svenuta gettando un urlo, con le braccia tese verso l'uomo che i carabinieri riconducevano in carcere ... E il presidente aveva detto, per conchiusione: - Ecco la donna! ... Ha dimenticato fin la bambina! ... Bella causa, caro avvocato! - Roma, 20@ 20 gennaio 1888@. 1888.

Quel primo mese del nostro matrimonio in che cosa differirà poi dagli altri, quando la vertigine della vita sociale, degli affari specialmente, riprenderà te e me, per quanto noi si abbia l'intenzione di menare vita modesta, come la nostra cond izione richiede? - E perché mai dovrebbe differire? - replicò Elvia. - Hai ragione ... Hai sempre ragione! ... Però ... - Un altro però? - Ricordi? Un giorno, in una delle nostre passeggiate in gran comitiva per la campagna, lo scorso autunno, tu mi facesti osservare quella villa mezza nascosta tra gli alberi, in cima a una collinetta, e mi dicesti sottovoce: "Colà!" Il lampo degli occhi e il sorriso finirono di esprimere l'intimo significato di quella parola. Vi ho ripensato parecchie volte, e un giorno - mi pare di avertelo raccontato - ho commesso la fanciullaggine di andare a visitare la villa turrita che, vista dallo stradone sembrava u n edifizio medioevale. - Non me n'hai detto mai nulla. - Probabilmente perché mi pareva di aver commesso una fanciullaggine. È una villetta dei primi anni di questo secolo. I mezzadri abitano al pianterreno. I padroni non vanno mai a villeggiarvi e neppure a visitarla di tanto in tanto. "Perché?" domandai. "Chi lo sa?" rispose la mezzadra. "E sarebbero disposti ad affittarla?" "Certamente. Abbiamo le chiavi noi, per dar aria alle stanze. Vuol vederle?" Sono cinque al primo piano e due al piano superiore, in quella che vorrebbe essere una torretta merlata; stanz e ariose, pulite, con discreta mobilia un po' invecchiata, di trent'anni addietro o poco piú. E un silenzio, una pace! Vista maravigliosa dal lato di levante, con tutti i colli laziali torno torno; da ponente, Roma con la cupola di San Pietro troneggiante nell'azzurro ... In una settimana, quella villetta potrebbe esser pronta a riceverci - concluse Aldo insinuante. - Sí, sí - rispose Elvia. - È una bella idea -. Aldo Sàmara aveva voluto lasciare a quelle stanze la impronta caratteristica del tempo in cui erano state mobiliate; ed eccettuata la camera degli sposi, esse erano rimaste quali egli le aveva trovate nella sua prima visita, senza spostar nulla, anche perché i mezzadri avevano raccomandato, in nome dei padroni, di conservare, per quanto piú era possibile, la disposizione degli oggetti che vi si trovavano. Non erano punto preziosi i tavolini, i canterali, i divani, le seggiole, le poltrone, le litografie e le incisioni in cornici di ebano, i quattro o cinque quadri a olio, di soggetto sacro, mediocrissime copie di originali del Guercino e di Carlo Dolci, i due specchi ridotti quasi inservibili dall'umido che ne avea macchiato e corroso l'argentatura. Eppure Elvia ed Aldo si erano adattati subito a quell'aria di vecchiezza - di stanchezza, diceva Elvia - quantunque si sentissero stranamente trasportati in un ambiente affatto diverso da quello delle loro case sorridenti di tutta la gaia freschezza dell'ammobiliamento moderno. Le prime due giornate eran passate come in sogno. I due giovani sposi avevano avuto appena tempo di dare un'occhiata al paesaggio e di fare qualche breve passeggiata all'aperto. Ma, il terzo giorno, nelle ore pomeridiane, una pioggerella fina, insistente, li aveva confinati in casa. Si erano un po' svagati leggendo alcuni capitoli di uno dei tanti romanzi nuovi comprati per quell'occasione, e le ombre della sera li avevano sorpresi dietro i vetri della finestra del salotto, silenziosi, intenti a guardare la pioggia che veniva giú piú fitta, velando e quasi sfumando la campagna attorno e i colli laziali lontani. Aldo avea cinto col braccio la vita di Elvia, ed ella si era abbandonata carezzevolmente col capo su la spalla di lui. Tutt'a un tratto, ella trasalí. - Che cosa è stato? - Niente ... Non so! - Intanto spalancava gli occhi spauriti, voltandosi a guardare nella stanza già invasa dall'oscurità. - Insomma? ... - fece Aldo. - Un brivido per tutta la persona, come se qualcuno mi avesse posato una mano diaccia su la spalla. - Chi sa che cosa fantasticavi! - Non pensavo niente, guardavo fuori. - Facciamo accendere i lumi -. Tutta la gran luce che due lumi diffusero poco dopo nel salotto non valse però a rassicurarla pienamente. Avevano ripreso la continuazione della lettura interrotta. Aldo leggeva ad alta voce, alzando, di tratto in tratto, gli occhi in viso a Elvia, che coi gomiti appoggiati sul piano del tavolino e col mento sul dorso delle mani congiunte, stava ad ascoltare. Evidentemente era un po' distratta. Due o tre volte, Aldo aveva notato che ella, pur restando immobile, girava le pupille attorno, con aria di diffide nte paura; e credette opportuno di sgridarla con dolce severità. - Non sei una bambina! ... Eh via! ... O ti senti male? - Sarei proprio imbarazzata - rispose Elvia - se dovessi spiegarti quel che provo ... Ora voglio dirtelo - soggiunse: - Ho provato qualcosa di simile sin dalla prima sera che arrivammo qui, nell'intervallo che tu, sceso a parlare col mezzadro, dovesti lasciarmi sola per qualche istante. - Che cosa provasti? - Un senso di freddo, come al contatto di persona disaggradevole ... invisibile. - Oh! ... - Sarà una ridicolaggine ... che vuoi che ti dica? ... Anche tu? ... - esclamò Elvia, vedendo diventare serio serio il marito e prendere l'atteggiamento di chi sta in osservazione di qualcosa d'insolito. Aldo tardò a rispondere. - Anche tu? - ella replicò afferrandolo, atterrita, per una mano. - Volevo spiegarmi - disse Aldo con qualche imbarazzo - che cosa può mai averti prodotto tale strana suggestione in questo salotto. La vecchia consolle? Lo specchio? Quei quadri anneriti e dai quali non si è potuto togliere la polvere resa aderente dal tempo e dall'umido? Il soffitto troppo alto? La tappezzeria nova delle pareti? I nervi di una giovine signora sono impressionabilissimi, la immaginazione troppo facile ad essere eccitata ... - Ma, cosí parlando, Aldo nascondeva a stento che aveva in quell'istante anche lui un'indefinibile sensazione di malessere, precisamente come pel contatto di persona disaggradevole, invisibile. Chiuse il libro, si alzò da sedere, e sforzandosi di sorridere, disse a Elvia: - Non piove piú! - E aperse la finestra. Il cielo era sereno. Le nuvole si addensavano sui monti in fondo all'orizzonte, e la luna inondava con la sua luce argentea la campagna, che esalava l'odore speciale dei terreni bagnati da pioggia recente. Richiusa l'imposta, egli prese Elvia sottobraccio, e la condusse nella sala da pranzo. La tavola era già apparecchiata per la cena. - Com'è curiosa questa villa, di sera! - esclamò Nannina, la donna di servizio, portando in tavola. - Perché dite cosí? - domandò Elvia. - Mah! ... - fece Nannina. - Anche lei? - pensò Aldo. Egli si era rammentato di un libro inglese letto anni addietro, col quale si pretendeva di dare una prova scientifica dell'immortalità dell'anima e dell'esistenza di Dio. L'autore, o gli autori - erano due, se mal non ricordava - credevano di aver dimostrato che fin i piú impercettibili movimenti del nostro pensiero, non che gli atti e le parole, vengono registrati e fissati nell'universa materia cosmica come sur una lastra fotografica, anzi meglio che su una lastra fotografica. E da questa nozione rimastag li chiara nella mente, rannicchiato nel suo cantuccio di letto e fingendo di dormire, egli era venuto fantasticando, durante la nottata, una probabile spiegazione di quel fenomeno ormai innegabile perché avvertito contemporaneamente da tre persone. Le pareti di quella casa dovevano essere certamente sature di misteriosi fluidi, di pensieri e di atti là registrati, e con tale forza da produrre terrificanti sensazioni rivelatrici. Gli erano rivenute alla memoria le notizie del mezzadro intorno all'abbandono i n cui i padroni lasciavano quella villa da anni ed anni, senza mai venire a darvi una fuggevole occhiata. Ora gli sembrava di non aver notato allora certe esitanze nelle risposte del mezzadro e della sua moglie, e si proponeva di interrogarli quella mattina, prima che Elvia si alzasse da letto. E durante la lunga nottata insonne non gli era anche parso di sentire una specie di formicolio dappertutto, nelle pareti, nella volta, dietro gli usci, nelle stanze accanto; un formicolio sordo sordo, che l'orecchio non percepiva ma che intanto non gli sembrava meno reale, quantunque percepito dai nervi di tutto il suo organismo quasi per immediato contatto? Egli s'interessava molto, da un anno in qua, di certi fenomeni di cui soltanto da poco tempo alcuni scienziati osavano spregiudicatamente di occuparsi, e cominciava a sospettare di trovarsi di fronte a qualcuno di tali fenomeni; giacché non poteva credere di essersi lasciato vincere dalla nervosità di Elvia e della donna di servizio per suggestione di seconda mano. - Hai dormito bene? - gli domandò Elvia vedendolo saltar giú dal letto. - Ho fatto tutt'un sonno. E tu? - Io non ho chiuso occhio. C'è mancato poco che non ti svegliassi. - Perché? - Non sgridarmi; avevo paura. - Ancora? - egli esclamò, fingendo di mostrarsi un po' in collera per questa debolezza femminile. - Intanto che tu ti vesti - poi soggiunse - scendo a fumar un sigaro all'aria aperta. Ti mando Nannina -. Non aveva potuto cavar nulla di bocca ai mezzadri. Quando essi avevano preso quella mezzadria, la villa stava chiusa e abbandonata da un pezzo. - Giacché i padroni non se ne curano, perché non abitate le stanze superiori? - Queste a terreno, capisce, sono piú comode per noi. - E dite, prima di me e della mia signora, nessun altro ha preso in affitto la villa? - Sí, quattro anni addietro, due forestieri, un vecchio con la figlia, bellissima creatura, che volle andar via dopo una settimana. - Perché? - Lo dissero forse; ma chi li capiva? Scapparono quasi, brontolando, facendo certi gesti! Già quel vecchio doveva essere mezzo matto. Andava attorno da mattina a sera, raccogliendo erbacce, riportandone a casa mazzi, fasci interi. La figlia dipingeva -. La giornata passò tranquilla. Elvia ed egli avevano quasi dimenticato le tristi impressioni della sera avanti, perché le stanze illuminate dal sole, assumevano durante il giorno aspetto gaio. Ma la sera, dopo il tramonto, sembrava si trasfigurassero; e non valeva l'accendere molti lumi. Qualcosa d'indefinibile, d'inesplicabile vibrava dalle pareti, dagli oggetti; si sarebbe detto anche dall'aria che vi circolava. Elvia, per vergogna di apparire bambinescamente paurosa, non osava di manifestare ad Aldo l'opprimente sensazione che la invadeva; ed Aldo si guardava bene dal confessarle la repugnanza che gli ispirava, di sera, tutta la casa, in qualunque stanza essi si intrattenessero fino all'ora di cenare e di andare a letto. Elvia si stringeva a lui, voleva esser presa tra le braccia, quasi per trovarvi un rifugio; ed egli era contento di tenerla cosí, di accarezzarla, di baciarla, di mormorarle dolci parole a interva lli ... Giacché, a mano a mano che la sera piú s'inoltrava, essi si sentivano costretti a restare silenziosi; e avevano ancora - pensavano - tante dolci cose da dirsi in quelle ore di raccoglimento, in mezzo alla gran pace della vasta campagna! Aldo non poteva piú dubitare che si trattasse di sensazioni reali. Elvia era un organismo solido, ricco di salute, come lui. Egli, è vero, si era occupato di fenomeni anormali, ma solamente leggendo quel che ne scrivevano, pro e contro, scienziati d'alto valore. Non si era mai provato a osservare direttamente, quantunque spesso invitato da persone che volevano iniziarlo ai misteri del magnetismo e dello spiritismo. Elvia lo aveva qualche volta graziosamente punzecchiato per questi suoi studi, mostrandosi pi uttosto incredula che no. Egli non poteva per ciò supporre che quel che essi e Nannina sentivano nella villa provenisse da eccessiva nervosità o da preconcetti capaci di alterare le ordinarie funzioni dei loro sensi. Avevano trascorso la intera giornata vagando per la campagna. Fatto colazione in una vaccheria, si erano inoltrati per sentieri e sentieroli verso le colline, cogliendo bellissimi fiori selvatici, fermandosi, per riposarsi, nelle case dei contadini incontrate qua e là, prendendo istantanee coi loro Kodak, fotografando ognuno un punto di vista diverso per sfida di vedere chi di loro due avrebbe saputo scegliere il paesaggio piú artistico; ed erano tornati tardi alla villa, un po' stanchi ma contentissimi del la bella escursione, e leticando allegramente intorno ai resultati delle pellicole dei rispettivi Kodak. Peccato che bisognasse attendere il ritorno a Roma per svilupparle! Intanto si erano seduti a tavola con grand'appetito, quantunque la cena non fosse ancora pronta. - Hai sonno? - domandò Aldo, scorgendo che sua moglie stentava a tener aperte le palpebre. - Elvia! ... Elvia! ... - egli gridò vedendole travolgere gli occhi fino al bianco. Ella non rispondeva. Rigida, eretta sul busto, con gli occhi chiusi e le sopracciglia corrugate, sembrava guardasse attentamente e vedesse a occhi chiusi. Aldo capí subito che si trattava d'un caso di catalessia spontanea e ne fu atterrito, non potendosi render conto della cagione da cui veniva prodotto, né delle conseguenze che avrebbero potuto seguirne. E continuava a chiamare, scotendola pel braccio: - Elvia! Elvia! - osservando ansiosamente gli atteggiamenti ch'ella prendeva quasi assistesse a uno spettacolo che la faceva inorridire. Poi le labbra di lei si agitarono; suoni inarticolati le uscirono di bocca. In piedi, con le mani sporte in avanti, ella indietreggiava, voltando il capo da una parte come per evitar di vedere. Diè un grido, cadde tra le braccia di Aldo che furon pronte a riceverla ... E riaperse gli occhi. - Perché? - domandò, stupita. - Ti sei lasciata sorprendere dal sonno - balbettò Aldo per non spaventarla. - Volevo metterti a giacere sul canapè -. Elvia non si rammentava di niente. Che cosa avea visto? Aldo non glielo domandò. Ma egli era ormai certo che in quella villa era dovuto accadere qualche terribile tragedia rimasta ignorata. Le pareti vibravano terrore. Si sentiva sopraffare anche lui dalla misteriosa forza ogni giorno piú. Sarebbe soggiaciuto alla catalessi pure lui? Con sua grande meraviglia, quella sera Elvia fu tranquillissima. Non mostrò di sentire nessuna impressione di paura durante la cena né dopo. Fu anzi piú allegra del solito; se non che, tutt'a un tratto, nell'alzarsi da tavola domandò - Dimmi: dove ho letto o dove ho veduto rappresentare ... - Che cosa? - È strano! - ella esclamò dopo breve pausa. - Mi torna in mente una scena di non so piú qual dramma, di non so piú qual capitolo di romanzo ... Come mai mi ritorna in mente cosí viva, cosí fresca, quasi l'avessi letta recentemente o veduta rappresentare? - Quale scena? - Mah! ... È strano! Mi sfugge ... Di quel marito che ordina alla moglie creduta colpevole: "Punisciti da te stessa!" E lei non vuol morire di veleno né di pugnale ... E vorrebbe gridare, chiamare aiuto; e urta agli usci chiusi a chiave, e picchia alle imposte delle finestre inchiodate ... e perde la parola e muor di terrore davanti all'inesorabile marito, che l'ha condotta in una villa lontana! ... Dove ho letto questo? O dove l'ho veduto rappresentare? ... È strano! È strano! - Lascia andare! - la interruppe Aldo. - Dimmi piuttosto un'altra cosa: Non ti sei già annoiata di star qui? - No. E tu? - Quell'inatteso fenomeno di serenità mise in maggior sospetto Aldo Sàmara. Gli parve di vedere la sua Elvia in balía delle misteriose forze spadroneggianti nelle stanze superiori della villa abbandonata, e volle sottrarla e sottrar se stesso al loro occulto potere. Tornati a Roma, egli soffrí per qualche tempo l'irragionevole ossessione di una malefica influenza che avrebbe nociuto a tutti e due; ma, dopo alcuni mesi di chiusa ansietà, ebbe a convincersi perfettamente che si era ingannato. - Soltanto, accadde - due o tre volte, a lunghi intervalli - che Elvia ripetesse, come quella sera: - Dimmi: Dove ho letto ... O dove ho visto rappresentare? ... È strano! È strano! - Da allora in poi, Aldo Sàmara ha riletto piú volte il libro di quei due scienziati inglesi, e metterebbe la mano sul fuoco per attestare che essi hanno ragione.

Non importa che tu sappia da chi, perché anche questo è un avvenimento ormai passato, quantunque abbia lasciato dolorose tracce nella mia vita. Avevo riveduto miss Nelly, fuggevolmente. Facevo rare e brevi apparizioni in casa Olgani. Tre sere avanti l'onomastico di sua madre, miss Nelly aveva avuto la precauzione di rammentarmi quella data; io non av rei potuto mancare alla festa senza mostrarmi scortese. C'eri anche tu quella sera. - E appunto allora - lo interruppe Diego Punzi - io mi convinsi che nel cuore di miss Nelly non c'era piú posto per me. Vi eravate rifugiati nel salottino in fondo, cosí stranamente illuminato con piccoli globi a colore ... Vi avevo visti sparire e non avevo resistito all'ansietà di sorprendere - ho vergogna di confessartelo - una parola, un gesto che potesse confermare il mio sospetto ... Eravate seduti in un angolo ... Non vi accorgeste di me ... Fu un istante ... Tu stavi a capo chino , con le mani strette accoste al mento e miss Nelly si asciugava gli occhi ... - È vero. "Ho bisogno di parlarle" mi aveva detto sotto voce. E con la scusa di mostrarmi un idolo giapponese, regalo di suo fratello alla mamma, arrivato da Lione il giorno avanti, mi aveva condotto nello strano salottino, dove quei piccoli lumi con globi a colore diffondevano fantastica luce attorno all'idolo istallato in un angolo su una specie d'altare. "Sono stata troppo dura e inconsiderata con voi - disse. - Volevo chiedervene scusa per lettera da Kiel; me n'è mancato il coraggio." "Eccesso di delica tezza da parte vostra" risposi. "Lasciatemi parlare - continuò. - Avevate ragione. Allorché una donna dice a un uomo quel che io ho osato di dire a voi l'altra volta, merita anche una risposta peggiore di quella che voi mi deste ... Ma io ero turbata da un'illusione; credevo che il mio contegno v'impedisse di aprirmi l'animo vostro, e pensai di porgervi un mezzo per vincere il ritegno che vi faceva indugiare. Mi attendevo uno scatto ... Invece, voi foste glaciale, riserbatissimo.. Quando, il mercole dí appresso, già stavate per parlare ... Oh, avevo sofferto tanto in quei giorni di intervallo! Mi ero sentita cosí avvilita, cosí offesa dalla vostra inattesa esitazione! ... E v'interruppi bruscamente, con la malvagia volontà di prendermi una rivincita ... Vi prego di perdonarmi; sono stata perversa. Me ne pentii quasi subito. L'orgoglio ci fa commettere tante cattive azioni!" "Ma niente affatto! ... " "Sí, sí! ... Ditemi che mi avete perdonato ... , che mi perdonate! Io non ho saput o indovinare quale sarebbe stata la risposta che stavate per darmi. Se fosse quella che mi ero lusingata di ricevere ... " "Ah, Nelly! - la interruppi, prendendole le mani che ella abbandonò tra le mie. - È stata una disgrazia! La mia risposta non era, forse, quella che io avrei voluto darvi e che voi desideravate, ma non tale però da precluderci l'avvenire; mentre oggi ... " Non mi resse l'animo di andare innanzi. Vidi riempirsi di lagrime quei begli occhi che mi fissavano con vivissima ansietà, e le sue labbra, improvvisamente impallidite, agitarsi per balbettare: "È dunque vero ... quel che mi hanno detto?" "Non voglio ingannarvi, non posso mentire; sarebbe pietà troppo crudele, e indegna di voi e di me". Ella pianse un po' in silenzio. Estremamente commosso, io la pregavo di frenarsi. Se qualcuno fosse venuto a sorprenderci? "La colpa è stata mia! ... Debbo scontarne la pena!" ella disse, asciugandosi lestamente gli occhi, e facendo sforzi per rimettersi. Io potevo padroneggiarmi a stento. I n quel punto ho capito come mai un'onesta persona possa talvolta lasciarsi indurre a commettere un'inesplicabile infamia. Pensavo all'"altra", avevo il cuore, o meglio, i sensi invasati dall'"altra", che fidava nella mia parola come io fidavo nella sua, e intanto ci mancò poco, assai poco, che io non mi lasciassi lusingare dalla circostanza di giocare una partita doppia con lei e con miss Nelly. E, guarda stranezza della vita! avrei fatto bene. Per comportarmi onestamente, mi sono, forse, lasciato scappar d i mano la felicità! - E forse - soggiunse Punzi - l'hai fatta perdere a un altro! - Mi è rimasto nella memoria l'idolo giapponese che ci guardava da quell'angolo con gli occhi di vetro enormemente spalancati, nelle cui pupille si riflettevano le fiammelle colorate dei lumi, e non ho potuto dimenticare le ultime parole di miss Nelly, quasi un singhiozzo: "Sempre tardi!" - Sempre tardi? ... Perché? ... - È il segreto di quell'anima dolorosa, ed io non ho ardito di domandarle una spiegazione. Sempre tardi! Potrebbe essere il motto di tante buone creature di questo mondo. Motto esplicativo di mille oscure tragedie della vita, non meno triste, anzi assai piú triste di quelle che finiscono con un veleno o con un colpo di pistola; tragedie che tormentano lunghe esistenze, e non hanno neppure il compenso di destare interesse e commozione attorno a loro. - Magro compenso! - esclamò Punzi. - Dopo, quando miss Nelly non era piú qua ed io non sapevo dove poter rintracciarla, ho sentito schiudersi nel mio cuore il germe nascosto di un affetto che avrebbe dato certamente un altro indirizzo alla mia vita. Ed ora che la so morta a Calcutta ... - È morta? - Lo ignoravi? ... Ora mi par di avere qualche cosa che mi si imputridisca nel cuore e vi spanda miasmi deleteri. - Oh, rassicurati! - fece Punzi. - "Vita mors est, et mors vita", ha detto qualcuno -.

Ed egli rispondeva: - Io almeno lo so con certezza di chi son figlio, quantunque figlio di Dio; mentre tant'altri non possono dire chi gli abbia fatto un braccio o una gamba. State zitti! - Per questa sua origine civile lo Sciancato assumeva una certa aria seria e dignitosa fra quei facchini, macellai, bottegai e uomini di campagna che andavano a sedersi insieme con lui su gli scalini del Collegio e facevano crocchio, ragionando del piú e del meno: della pioggia che non veniva, del carro nuovo del Lavecchia che presto si sarebbe mangiato alla taverna carro, mulo e sella con sonaglini e banderuola; d'ogni cosa insomma. - Qui, su questa gradinata, si legge la vita anche a Cristo, sia lodato e ringraziato; e Domineddio per ciò - sentenziava lo Sciancato - ci concia per le feste! Al giorno d'oggi non si fa che sparlare del prossimo e bestemmiare i santi e la Madonna. Quei che puzzano di lattime sono peggio dei vecchi. - Fai il predicatore, Sciancato? - Dico la verità, chi vuol sentirla. - L'altro giorno intanto tu ti lavavi la bocca di don Domenico, per via della casa. Quel galantuomo te la pagherebbe un terzo di piú e anche il doppio del prezzo. Perché non gliela dai? - Toccandogli il tasto della casa, lo Sciancato diventava piú giallo del solito e gli s'inaridivano subito le labbra. - Perché? Perché cosí mi piace. Venisse il re in persona, e non potrebbe dirmi: "Esci di lí". Se don Domenico ha la pancia grossa e piena zeppa di quattrini, a me non mi fa né caldo né freddo. Un tozzo di pane me lo so guadagnare. Benefattori, in tutti i casi, ce n'è sempre a questo mondo; ed io, quando capita, non ho punto vergogna di stendere la mano. Ma da quelle quattro mura uscirò soltanto coi piedi avanti, quando vorrà il Signore; i giorni dell'uomo sono in mano di Dio ... - Ecco, ora non la finisce piú! - Don Domenico gli avrebbe rotto anche l'altra gamba e lo avrebbe pagato per nuovo, se non fosse stato il timore della giustizia, e se sua moglie non lo avesse piú volte afferrato per una falda del vestito, quando veniva l'ingegnere a prender le misure, e lo Sciancato, seduto sullo scalino dell'uscio, con quel visaccio di marcia e quel piedaccio storto, zufolava quasi per provocarlo. - Almeno io non ho gli occhi uno a Cristo e l'altro a Maria! - brontolava sottovoce. - Se sono zoppo, egli è guercio; pari e patta. - E mentre l'ingegnere misurava da una cantonata all'altra, egli continuava a zufolare, serio e accigliato, o acchiappava mosche sui ginocchi. L'ingegnere con la mano in alto indicava ogni cosa, come sarebbe stato quando don Domenico avrebbe fabbricato: qui i terrazzini, lí la cantonata maestra, che doveva esser piantata dov'era la cantonata della casetta dello Sciancato; ma questi, vedendogli fare l'accenno col dito, brontolava un motto sconcio da bambini: - Strappalo e piantalo; Piantalo bene. In bocca ti viene! - O che siamo di carnevale? - gli domandò Pupo d'inferno che passava di là con la cassetta di mercerie al collo e sapeva la cosa. - Andiamo via, se no faccio qualche bestialità! - disse don Domenico che masticava bile da due ore. E d'allora in poi l'ingegnere non venne piú, perché era inutile; senza la casa dello Sciancato non si poteva murare neppure un sasso. - Finalmente don Domenico l'ha capita! - Lo Sciancato continuò a bandire, nella piazza e per le vie, tutti gl'incanti e tutte le gabelle; il vino vecchio e il vino nuovo; il pesce vivo vivo, a una lira; il cotone di Biancavilla arrivato quella mattina e bianco come spuma; l'argentiere di Sortino, che aveva tante belle galanterie, sotto il Monastero Vecchio, andassero a vedere; e il napolitano ch'era nella locanda del grammichelese e aveva mussoline e lanette, oh che bellezza! La sera tornava a casa rifinito; e mangiati quattro bocconi di pane e un'acciuga, o un po' d'aringa coll'olio, e bevuto due soldi di vino, vera grazia di Dio, se n'andava a letto. Gli pareva di essere un principe in quella cameretta affumicata, su quel pagliericcio bucherellato e quella graticciata che scricchiolava appena egli faceva un movimento. - Qui son vissuto e qui voglio morire. Don Domenico può darsi pace; non la spunta. Ho la testa dura, da quel mulo che sono -. E sghignazzava. Questo non era peccato. Sereno di coscienza, non faceva male a nessuno. Se don Domenico fidava nella propria pancia, nei propri quattrini e nei propri occhi uno a Cristo e l'altro a Maria, egli fidava nella beata Vergine e nel patriarca san Giuseppe. Tutto quel che veniva fatto a lui, povero sciancato, Gesú Cristo lo scriveva nel libro di lassú, dove nulla si cancella! ... - Ecco, ora mi sfonda il tetto buttando spazzatura dal finestrino di cucina! Buttati tu, con la tua panciaccia, se hai coraggio! Tutte le sere cosí. I tegoli erano diventati una bozzima; e quando pioveva, gli pioveva in camera quasi fosse stato a cielo scoperto: - Infamità! Ma i poveretti, si sa, non possono aver fatta giustizia; chi ha quattrini compera anche questa! - E intanto che don Domenico, dal finestrino di cucina, continuava a buttare bucce di cocomeri, cocci e spazzatura, e pareva che un esercito di topi ballasse sul tetto; lo Sciancato, per fargli dispetto, si metteva a urlare le sardelle vive vive a una lira, e il cotone di Biancavilla bianco come spuma, e la gabella della tenuta di Calcagno ... - E son tre voooci!! - Crepa! - rispondeva don Domenico. Invece crepava lui dalla rabbia, e diceva omnia maledicta del codice perché non aveva un articolo a posta per quella circostanza. - Glieli pagherei un terzo di piú del prezzo, e anche il doppio, quei quattro sassi che si reggono su con lo sputo. Ma la superbia se lo rode vivo quel pezzaccio di Sciancato! - Volete ammalarvi? - gli diceva la moglie che s'era tolta la parrucca per andare a letto e si avvolgeva la testa in un fazzoletto rosso di cotone. - La fabbrica, se non la faremo noi, la farà il figliuolo che è a Napoli e sarà presto dottore. - Quello lí non pensa che a sciupar quattrini, e non arriverà neppure a fare il maniscalco, ve lo dico io! E tornava allo Sciancato. - Lo speziale mi ha detto: - Dovreste prenderlo con le buone. - Proveremo -. Ma, dopo una certa tregua dal finestrino di cucina, il giorno che gli mandarono un piatto di maccheroni col sugo e un pezzo di carne di maiale, lo Sciancato rispose alla serva: - Ringrazio della carità. Se però lo fanno per la casa, dite pure ai vostri padroni che è tempo perso. Non gli vo' mangiare questi maccheroni a tradimento. - E intanto se li è mangiati! - Don Domenico avrebbe voluto tirarglieli, filo per filo, fuor della gola. E ricominciò dal finestrino di cucina, peggio di prima. E lo Sciancato in risposta, gli urlava le cipolle della Mula e il vino nuovo dello Scatà. Ma la notte che gli venne la febbre e sentiva spezzarsi il cranio, e quasi non capiva piú dove si trovasse, lo Sciancato si perdette di coraggio. - Avete la testa dura! - gli disse comare Angela del saponaio, come la chiamavano, vedendolo seduto due giorni dopo su lo scalino dell'uscio, mezzo morto. - Su mettetevi al sole -. E lo condusse per mano lí di faccia. - Avete la testa dura! - Egli accennò, col capo, che di quella cosa non ne voleva ragionare. Comare Angela non ne parlò piú; e la mattina dopo tornò, per vedere se era vivo o morto; e gli rifece il letto, gli spazzò la casa. - Solo solo, a questa maniera, potreste morire di stento come un cane, e nessuno se ne accorgerebbe. Dio non vuole. Dovreste averne scrupolo di coscienza. Occorre una donna in queste circostanze. - Abronunzio! Libera nos domine! - rispose lo Sciancato, col capo fra le mani e i gomiti sui ginocchi, pensoso. - Che intendete fare insomma? - La volontà di Dio! - Comare Angela continuava a ravviare la cameretta, e lo Sciancato la seguiva con gli occhi. - E voi, è vero che maestro Paolo il saponaio v'ha piantata? - S'è messo con Maricchia dello zi' Santo, colei che n'ha fatte piú della Chitella. A me non me n'importa niente. Sono nella disgrazia, la stella mi corse cosí! Quando stava con me però egli sembrava un signore con le camicie di bucato; non gli mancava un punto, né un bottone. M'ero lasciata lusingare da quel pendaglio di forca ... - È vero! È vero! - Meritava che io facessi come Maricchia che se lo spolpa vivo vivo. Se lo vedeste! Non si riconosce. L'altro giorno, incontratolo nel piano di San Pietro, gli schiaffai sul muso: "Ben ti stia!" Lo Sciancato stava a sentire, nicchiando a bassa voce per quel dolore alla schiena che lo portava alla sepoltura. Comare Angela intanto, seduta presso la finestra, faceva la calza con mani che andavano leste come il vento. Don Domenico, sul tardi, fumando tanto di pipa, l'aspettava dentro il portone; e appena la vedeva comparire, le andava incontro: - Se tu fai questo miracolo! - Mi par difficile. È piú duro del marmo - ella rispondeva. La signora scendeva fino a metà di scala per sentire qualche buona notizia. A comare Angela non premeva affatto recare presto buone notizie. Tutti i giorni se ne tornava a casa ora coll'orgiolino ripieno d'olio, ora con un po' di farina per farsi un piatto di lasagne, ora con quattro manate di fave o una bottiglia di vino; ed era una cuccagna, assai meglio di quando ella aveva con sé quel forca del saponaio. Don Domenico le prometteva anche una mantellina nuova di panno fino: - Ma prima devi fare il miracolo! - Tanto fiore di carità, da comare Angela, lo Sciancato non se l'aspettava davvero. - Se questa volta debbo andarmene al camposanto, a ingrassare i sedani dei padri cappuccini, faccio testamento, e lascio la casa a voi, comare Angela, ma con la scomunica di non rivenderla a colui dagli occhi uno a Cristo e l'altro a Maria. Già, se muoio senza testamento, se la prende il corbaccio del re, che non c'entra. - Vendetela e godetene voi! - gli rispose comare Angela, una volta ch'egli tornò a ripeterle la storia del testamento. - Io ci ho la mia e mi basta; vi è posto anche per altri ... - Allora ... - disse lo Sciancato. Ma non continuò, e si mise a ridere, impacciato, guardandosi le mani di cera gialla che parevano mani di morto, quantunque ora stesse assai meglio e andasse senza bastone a sedersi al sole, là di faccia. - Allora che cosa? - Egli cambiava discorso: - Ora che sto meglio, qui non ci verrete piú, comare Angela! - Non occorre -. Lo Sciancato rimase zitto. Rimuginava le parole di comare Angela, che erano santo evangelo. Poteva morire di stenti, come un cane, e nessuno se ne sarebbe accorto! Finché era stato giovane, non ci avea badato. Dalla sua mamma, colei che gli aveva dato il latte, fino a comare Angela, nessuna donna poteva vantarsi d'aver messo un piede in casa di lui. Quel po' di veleno se lo era sempre cucinato da sé. Rattoppare i vestiti, spazzare le stanze, lavare la biancheria ... aveva fatto ogni cosa da sé, meglio d'una donna. Ma ora questa malattia gli aveva rotto le ossa; si sentiva un rifinito ... - Allora che cosa? - tornò a domandare comare Angela dopo un pezzetto. - Giacché dite che in casa vostra c'è posto anche per altri ... - Oh, no, no! Dio me ne liberi! - Comare Angela si faceva il segno della santa croce: - No. Non voglio ricominciare. Fareste come quell'altro ... No, no! Io, io soltanto, so quante lagrime mi è costato quell'infamaccio! Sono cosí stupida, che se prendo affezione a uno ... - Egli s'era alzato dal sasso dove stava a sedere al sole e le si era fatto accosto, presso l'uscio; il cuore gli batteva forte. Era la prima volta che parlava di quelle cose con una donna, e si stupiva in quel momento, pensando che non gliene fosse mancato il coraggio. - Fareste anche voi come maestro Paolo il saponaio - ripeteva comare Angela a testa bassa, dondolandosi. - Potremmo pure metterci in grazia di Dio - egli conchiuse. Fu con questo tradimento che don Domenico ebbe la casa dello Sciancato, e comare Angela del saponaio si guadagnò la mantellina nuova di panno fino. - Non l'ho fatto per la mantellina - ella disse a don Domenico - ma per affezione alla sua famiglia. Il maggior sacrificio è vedermi dinanzi quello sgorbio giallo che mi fa rivoltare lo stomaco. - Zitta! - rispose don Domenico, ridendo; - le sessant'onze della casa te le mangerai tu, fino all'ultimo grano. Buon pro ti facciano! - - Ora che lo Sciancato sta con gli angioli del paradiso! ... - I macellai, i bottegai e gli sfaccendati di piazza del Mercato, seduti in crocchio sugli scalini del Collegio, si divertivano a canzonarlo: - Ora che lo Sciancato sta cogli angioli del paradiso, non guarda piú in viso gli amici. È vero, Sciancato? - Lí vi prudono le corna! - egli rispondeva gravemente. E quando bandiva le gabelle, o le tinche del Beviere, o i carciofi dell'Area del conte, aggiungevano: - Senti! Lo Sciancato s'è formato una voce ... una voce angelica davvero! - Lí vi prudono le corna! Però, un giorno, le corna se le sentí prudere lui; maestro Paolo il saponaio era tornato al posto antico, ed egli fu costretto ad andare a rannicchiarsi, coi suoi quattro cenci, nel tugurio che don Domenico dovea lasciargli abitare, giusta il contratto, fino alla morte. - Ben mi sta! Chi dà retta alle donne, s'impicca colle proprie mani. - Non disse altro. E continuò la solita vita, fino a che una mattina non vide i manovali sul tetto della sua casa; levavano via i tegoli, per poi buttarla giú. Rimase; quasi gli avessero scoperchiato il cuore. E dimenticò di andare in piazza del Mercato, e stette tutta la giornata a guardare. Ogni colpo di piccone se lo sentiva intronare nel cervello; a ogni sasso che volava via, sentiva strapparsi un brandello di viscere, senza poter versare una stilla di pianto, quantunque avesse gli occhi gonfi di lagrime e le pupille appannate. Dimenticò anche di mangiare; e il giorno dopo, quando i manovali buttaron giú le imposte della finestra infracidite dall'umido e rose dai tarli, gli parve di sentirsi afferrare pe' panni dal becchino e buttar giú nel carnaio dei Cappuccini; quel tonfo delle imposte su le macerie gli sembrò proprio il suo. La gente, vedendolo guardare con tanto d'occhi spalancati, lo canzonava: - Lo Sciancato si fabbrica il palazzo! - Ma egli non rispondeva, e continuava a fissare quella distruzione, quell'incredibile sacrilegio, sotto la pioggia fina e fredda che cadeva lentamente. La mattina dopo, trovatolo morto sullo sterro, nell'angolo dove una volta era il suo letto, alla vista di quel cadavere rattrappito, inzuppato d'acqua e intriso di mota, ma con viso di persona tranquillamente addormentata, i manovali ebbero paura. - Il destino lo chiamava qui! - sentenziò il capomastro. E un manovale aggiunse: - È mal'augurio per don Domenico! - Mineo, 28@ 28 maggio 1881@. 1881.

. - Eppure dicono che abbia i libri degli scongiuri, quelli dei frati. Se li rubò tutti lui, quando tolsero i conventi. - Ci credete? - rispondeva don Saverio stizzito. - E dicono che un teschio umano gli vada dietro per le stanze, quasi fosse un cagnolino. Vi è rinchiuso uno spirito, che parla e indovina il futuro. - Ci credete? - ripeteva don Saverio - Uuh! Uuh! Passa il lupo! - E spiegava la cosa: - Quello delle malie è dono particolare di Dio; ma occorre un maestro coi fiocchi per poter apprendere l'arte! Capite? - Voi lo trovaste il maestro coi fiocchi? - Non ne so nulla ... Io non c'entro in questo discorso -. E torceva il collo e gli occhi, facendo il modesto; ma quel suo risolino stentato lasciava intendere assai piú che non avesse l'aria di dire. - Fa pure il magnetismo, come lo chiamano. Addormenta le persone; e queste rivelano le malattie che hanno addosso e scrivono anche la ricetta -. Don Saverio scattava: - Ci credete, minchionaccio? Ve lo dico io che sia il magnetismo e come si faccia a guarire gli ammalati! Infatti, la figlia di mastro Cola aveva il male dei nervi, e ... voi m'intendete. Per virtú dello Spirito Santo! Frataccio briccone! Colei, sí, guarí, ma dopo nove mesi! - Questo non è vero; non dobbiamo dannarci l'anima, calunniando le persone. - Non è vero? Non è vero? - strillava don Saverio. E si dava con le dita su la bocca, per frenarsi di parlare: - Ho stomaco grande, compare! E se dicessi la sola metà di tutto quel che sta qui dentro ... Ah! non è vero? ... Datemi piuttosto una presa di rapé. - Si guastava il sangue cosí. E se lo guastava anche pensando che i galantuomini, invece di rivolgersi a lui come prima, facevano da loro stessi certi affari, tanto il mondo era corrotto! - Oggi le mamme vendono le proprie figliuole; e i mariti compiacenti tengono il sacco alle mogli. Nuovo re, nuova legge! Ed ecco la bella legge dei galantuomini: hanno tutti le amanti e le mantengono a viso scoperto, come tante regine! Una zitella onesta può morire di fame -. Faceva il moralista con le comari, andando ancora attorno per abitudine, con un po' di mercanzia che gli rimaneva in collo mesi e mesi; e bracava notizie da questa e da quella, rimpiangendo i bei tempi, quando tutti ricorrevano da lui, ch'era stato uno sciocco e non aveva saputo ingrassarsi a costo della gente! Padre Benvenuto, lui, sí, s'ingrassava come un maiale, restando chiuso in casa, poiché non doveva piú dir messa, né andare al coro, né confessare! E si era lasciato crescere di bel nuovo la barba da cappuccino, per illudere i grulli che accorrevano da ogni parte, anche da lontano, con muli carichi di frumento, di caci, di salami, d'ogni ben di Dio! Almeno lui, don Saverio, aveva oprato sempre in nome di Gesú e della Madonna, e non aveva mai avuto da fare col diavolo! Si era buscato il pane onestamente, contentandosi di quel pochino che gli veniva regalato, e dalla povera gente non aveva preso mai nulla. Aveva fatto tanta carità, e ora non trovava un cane che volesse farla a lui! Si era già ridotto a passare le giornate sul muricciolo fuori Porta, all'ombra degli alberi della passeggiata; o al sole chiacchierando coi contadini disoccupati, piú poveri di lui, che andavano a godersi allo stesso modo un'occhiata di sole per la quale non si pagava tassa. E una volta gli accadde di veder arrivare due carri carichi di gente e di roba, che venivano da Modica ed erano in viaggio da due giorni. - Scusate, compare; dove sta di casa padre Benvenuto? - Fu un colpo di coltello. Ma egli prese aria misteriosa, e trasse in disparte quell'uomo: - C'è meglio di padre Benvenuto, se voleste darmi retta! - Grazie, compare. Abbiamo una lettera per lui. - Insomma, di che si tratta? - Vedete quella ragazza? È diventata muta da un mese. E se le nominate Gesú Cristo e la Madonna, va subito in convulsione. - Siete cascato in buone mani, vi dico. Conosco persona che ne sa molto piú di quel frate. - Grazie, compare. Padre Benvenuto ci aspetta, e non vogliamo farci scorgere. Se mi conducete da lui, c'è un fiore anche per voi -. E il povero don Saverio dovette rassegnarsi a prendere quel fiore, una manciata di soldi, e condurre egli stesso quell'uomo, intanto che i suoi compagni avrebbero atteso lí, fuori il paese, staccando i muli dai carri. Gli tremavano le gambe nel salir le scale di colui che gli aveva rubato il mestiere: e quando fu alla presenza di padre Benvenuto - che pareva proprio un mago con la barbaccia nera, il berretto di velluto calcato fin sopra gli occhi e la sottana da prete sudicia di tabacco - non trovava le parole, quasi fosse andato a invocare aiuto e soccorso per conto proprio. E gli baciò la mano, e gli si raccomandò: - Si rammenti del povero don Saverio! Sono stato sempre buon servo di tutti. - Ma avete la lingua lunga; e questo è male! - Padre Benvenuto non gli rispose altro, secco secco, e lo mise fuori dell'uscio. E parve che queste parole gli avessero buttato addosso una malia! Da quel giorno in poi don Saverio non fu piú lui! Con febbri dietro febbri, che gli facevano battere i denti anche quando stava ad arrostirsi al sole davanti l'uscio della sua tana affumicata, egli deperiva, deperiva; e già sembrava un cadavere. - Come vi sentite, don Saverio? - gli domandavano le vicine. - Come Dio vuole! ... E come vuole la mala gente! - aggiungeva sotto voce. Ed era inutile che il dottore don Ortensio gli assicurasse: - È l'umido della casa. Questi sono reumi belli e buoni! - Ormai don Saverio era convinto che quei cani che gli rodevano le ossa e non gli davano tregua un momento, gli fossero stati mandati addosso da padre Benvenuto, per vendicarsi. Non glielo poteva cavar di testa nessuno! E un giorno lo confidò a un amico: - Mi ha buttato la malia! - E voi non sapete far nulla per voi stesso, con l'arte alle mani? - Non ce la posso con costui -. Si dichiarava vinto, sconfitto. E si lasciava morire, senza voler prendere nessun rimedio, quantunque il dottore gli dicesse che le medicine gliele avrebbe fatte dare per carità dalla farmacia dell'ospedale ... - Ah, signor dottore, c'è di mezzo una mala persona! - Non glielo poteva cavar di testa nessuno. E con questa convinzione nell'animo, una mattina, muovendo a stento le gambe, appoggiato a un bastone, col fiato ai denti, si trascinò fino a casa di padre Benvenuto. - Vi domando perdono! Ho avuto la lingua lunga, è vero! Vi domando perdono. - Siete ammattito? - Cacciatemi questi cani d'addosso! Non lo faccio piú. - Siete ammattito? - gli ripeté padre Benvenuto, vedendoselo cadere ai piedi in ginocchio. E pochi giorni dopo, al confessore che, dandogli il viatico, lo esortava: - Don Saverio, perdonate i vostri nemici, come perdonò Gesú Cristo! - Sissignore! - egli rispose con quel fil di voce di moribondo. - Anche a padre Benvenuto, che mi ha fatto la malia! Roma, gennaio 1889@. 1889.

. - Non abbia paura. È cosa da niente -. Gli parve opportuno confortarlo cosí, quantunque ignorasse la natura del male che stendeva lí come morta la bella signora. Il polso era fievolissimo, la temperatura del corpo glaciale. Una straordinaria tensione dei muscoli lo rendeva immobile, allungato. I denti serrati, le labbra contorte, gli occhi spalancati e senza sguardo, il pallore cadaverico davano a tutta la persona un'espressione terribile. - Scusi - disse finalmente il dottore; - che le è accaduto? - Colui guardava ansiosamente ora la donna ora il dottore, torcendosi le mani, agitando le labbra a una risposta che non poteva venir fuori. - La signora era sofferente da un pezzo? - risprese il dottore. - No ... È stato, - balbettò lo sconosciuto - è stato tutt'a un tratto ... a una cattiva notizia - soggiunse con qualche sforzo. - Capisco: crisi nervosa. - Salvatela, dottore! - Questi, che s'era completamente rimesso dall'improvviso sbalordimento e intendeva trar profitto dell'occasione per penetrare il mistero di quei due, avventurò qualche domanda, premettendo sempre uno "Scusi" dimesso e insinuante; ma non ne ricavò nessuna risposta precisa; pareva che colui non si raccapezzasse o non intendesse. Allora il dottore si decise a scrivere un paio di ricette. - Mandi subito qualcuno; attenderò. - Grazie! - Intanto il dottore si metteva a strofinare ora l'una ora l'altra mano della signora per richiamarvi il calore. - Va bene - esclamò, vedendo che le vesti e il busto erano slacciati. E chinò l'orecchio sul petto della malata, per ascoltarle il cuore. Ritmo lento, quasi impercettibile! ... - Forse gli ultimi guizzi d'una vitalità prossima a mancare? Parve che lo sconosciuto gli avesse letto questa interrogazione negli occhi, con impeto cosí disperato gli si buttò ai piedi, con le mani cacciate convulsamente fra i capelli irti: - Oh Dio! ... Dottore, salvatela! ... La vita di lei e la mia sono nelle vostre mani! ... Salvateci! - Il povero dottore era commosso; ma, pur troppo, non vedeva chiaro in quella crisi nervosa, che poteva mutarsi da un momento all'altro in trista catastrofe. E il suo imbarazzo aumentò quando scorse che il male resisteva ostinatamente ai rimedi portati con incredibile sollecituine dal servitore. Il polso rimaneva ancora fievole; la temperatura glaciale; la rigidezza di tutto il corpo allo stesso grado. Invano egli introduceva fra i denti serrati della malata la punta del cucchiaio per farle inghiottire qualch e goccia della pozione rianimante; invano le metteva sotto il naso la boccetta dell'etere che doveva servire a riscuoterla; invano le bagnava la fronte e le tempie con acqua fresca mista ad aceto. Sudava freddo anche lui, tornava a smarrirsi, e accennava a quel disperato di star zitto, di frenarsi. Tentava intanto di richiamarsi alla mente qualcosa che gli era balenato appena messo il piede in quella stanza e che gli era subito sfuggito ... - Ah, ecco! ... Aria! Aria! ... - Lo sconosciuto esitò un istante, quasi avesse paura dell'aria e della luce; poi spinse indietro il dottore che s'accingeva ad aprire l'imposta e la spalancò egli stesso ... - Salvatela! ... Salvatela! - tornò a balbettare. Il dottore era rimasto meravigliato di quel gesto di diffidenza con cui dallo sconosciuto gli era stato impedito di aprire le imposte. - Perché? - si domandava mentalmente. A questo punto, salí dall'atrio il raglio del muletto; e al dottore sembrò un avvertimento di persona amica che voleva metterlo in guardia contro un pericolo imminente. Scattò, per abitudine, dalla seggiola, e diede alcuni schiarimenti su quel che occorreva fare: insistere, insistere con quei rimedi. - Tornerò verso sera - aggiunse, affettando la tranquillità che non aveva. - Oh, no! Voi non uscirete di qui, dottore, prima ch'ella sia salva. Oh no, no! - E il tono della voce, l'espressione degli occhi, il gesto parvero al dottore poco rassicuranti. - Ma io, caro signore, ho altri malati - egli disse quasi supplichevole ... - Muoiano! ... Perisca il mondo intero, se costei ... ! - Non finí la frase; cominciò a darsi pugni in testa, a urlare, a piangere, ripetendo: - Moiano, muoiano! ... Perisca il mondo intero ... ! - Il povero dottore, che stava per fare un passo verso di colui, si sentí ricacciare bruscamente su la seggiola. Poi lo vide chinarsi amorosamente verso il volto pallido, dagli occhi aperti e fissi, chiamando: - Dora! Dora! ... Dora! - e voltarsi, angosciato, verso di lui: - Non mi ode! ... Salvatela, salvatela! ... Ditemi che la salverete! Ah dottore! ... - Pareva impazzito. Il muletto tornò a ragliare, prolungatamente, insistentemente. Questa volta il suo raglio aveva l'evidentissima intonazione del rimprovero. Il padrone se n'era dunque scordato? E, con l'abitudine della familiarità tra padrone e muletto, il dottore gli rispondeva, nel suo interno, quasi l'animale potesse udirlo: - Che vuoi che faccia, caro mio? Sono alle mani d'un pazzo! - I suoi sguardi intanto erano fissati sulla povera signora che rimaneva immobile sul letto, smorta, con gli occhi aperti, vitrei, le membra tese e irrigidite dall'assalto nervoso. La crisi durava da quattr'ore, e pareva volesse prolungarsi indefinitamente e andar a finire molto male ... - Per tutti! - rifletteva con profonda angoscia il dottore, che non sapeva piú a qual santo votarsi per far intendere un po' di ragione a quel furibondo, che si agitava, piangeva, si strappava i capelli, supplicava, invocava Dio e i santi, qualche volta anche il diavolo, con deplorabile confusione; e che lo spingeva poco garbatamente su la seggiola a ogni tentativo di alzarsi per scappar via ... - Ma scusi - gli diceva dolcemente; - lei pretende un miracolo! ... Bisogna che la crisi faccia il corso. Se ne persuada: non c'è pericolo. Nervi! ... Le donne, si sa ... La scienza è impotente. Se poi lei volesse un consulto ... Certamente, un consulto sarebbe opportuno, anche per mio sgravio di coscienza; quattro occhi veggono meglio di due -. Questa del consulto gli era parsa una bellissima idea; e vi picchiava e ripicchiava su, abbozzando un sorriso, scuotendo il capo in segno di grande approvazione, modulando la voce in toni insinuanti, persuasivi. Era come dire al muro. - Salvatela! ... Salvatela! - ripeteva quel trambasciato, smaniando piú di prima, abbandonandosi ad atti piú disperati e piú strani ... Il muletto tornò a ragliare. - Ahaa! Ahaa! Ihii! Ihii! Ahaa! Ahaa! ... - Non la finiva piú; pareva stesse per perdere la pazienza anch'esso. Ora che le imposte erano aperte, la sua voce montava fin lassú chiara, sonora; riempiva la camera. - Scusi! ... C'è quel povero animale! - disse il dottore pietosamente. Quegli, che aveva udito il raglio, si scosse, chiamò il servitore, diede ordini che il dottore non capí, e poi venne a piantarglisi davanti, col viso contratto, con gli occhi che gli schizzavano fuori dell'orbita ... - Non m'ingannate, dottore! Non m'ingannate per pietà! ... Vivrà? ... Vivrà? ... Guardi: se Dora ... - E, o per farsi intender meglio, o perché gli mancasse la forza di continuare, si precipitò verso un mobile, ne aprí rapidamente il cassetto e ne trasse un par di pistole dalle canne lucenti, che brandí mostrandole; poi fece atto di farsi saltare le cervella. Se non che il gesto fu cosí furioso, cosí imbrogliato, che il dottore capí anche: - Ma prima farò saltare le cervella pure a lei! ... Allibí, si sentí svenire. L'atto di contrizione in articulo mortis, gli salí alle labbra per istinto. E i suoi occhi si volsero, già mezzo appannati dal terrore, verso la donna giacente ... - Oh Dio! Oh Dio! ... È finita! - pensò il dottore, vedendo quell'aspetto che pareva decomporsi nel supremo sfacelo della morte. Un brivido diaccio gli guizzò per le vene da capo a piedi; e chiuse gli occhi per non vedere le maledette pistole dalle canne luccicanti, che quel pazzo furioso teneva sempre impugnate, attendendo. A un tratto, non vide né sentí piú nulla. Quanto tempo fosse rimasto lí come morto, egli non seppe mai dirlo; forse pochi istanti, forse qualche minuto ... Un secolo! egli credette rinvenendo, atterrito di sentirsi scuotere forte e chiamare ad alta voce: - Dottore! dottore! - Quella voce però era tremante sí, ma di gioia; come erano anche convulse di festosa impazienza le mani che lo scuotevano ... - Dottore! dottore! - Spalancò gli occhi, che gli si riempirono subito di lagrime, mentre il cuore gli sbalzava violentemente nel petto, e il sangue gli tumultuava nelle vene, cosí caldo ed allegro che gli faceva male. La bella signora, seduta sul letto, sorretta dai guanciali, con gesto di persona non ancora ben desta dal sonno, si passava le mani bianche e affilate sui capelli e sulla faccia: sorrideva dolcemente, e con languida voce diceva al giovine che stava ginocchioni davanti la sponda del letto: - Sentivo, vedevo tutto, e non potevo fare il minimo movimento. Lo spavento di questo signore ... - È il dottore! - la interruppe colui, stendendo una mano riconoscente al pover'uomo, che non osava ancora credere a se stesso. - Il suo spavento, la tua terribile minaccia ... Feci uno sforzo ... e, improvvisamente, mi sentii slegare. Quanto ho sofferto! - Oh, bene, benissimo! Me ne rallegro. Tanto meglio. Benissimo! ... - Il dottore si era levato in piedi, e si tastava per persuadersi che non sognava o delirava, ripetendo: - Tanto meglio ... benissimo! - con in corpo una gran fretta di scappar via, prima che sopravvenisse qualche altro malaugurato incidente. - Perdonate, dottore. Ero pazzo! - gli ripeteva lo sconosciuto. - Grazie, grazie! - Grazie di che? ... Non ho fatto niente -. E cercava di svincolarsi dall'abbraccio di colui, che ora pareva ammattito in modo opposto, dalla troppa gioia. - Bravo! Tanto meglio! ... A rivederli ... La signora si sente bene, è vero? È passata ogni cosa? - Sí, grazie ... - Pareva che anche la bella signora ridesse garbatamente della grande paura di lui. - Quel povero animale! - riprese il dottore, come cercando un pretesto. - Bisogna che io vada via ... I miei ammalati ... - Ah! il muletto! - esclamò il giovane, ricordandosi. E chiamò il servitore, che rispose di averlo ricondotto a casa del dottore, da un pezzo. - Non vuol dire, andrò a piedi -. Ma ce ne volle, prima che lo lasciassero partire. Dovette quasi lottare per farli persuasi che non avrebbe mai accettato un compenso. - Questo ricordo, almeno! - insistette lo sconosciuto, mostrando uno spillo elegantissimo tolto dalla propria cravatta, e che volle appuntargli alla cravatta con le sue stesse mani, fra le piú calde proteste di immensa riconoscenza, di eterna gratitudine ... - Noi partiremo domani l'altro, ma non dimenticheremo mai il nostro salvatore, mai, mai! - Sull'uscio lo fermò - Dottore, la prego, non dica niente a nessuno di quanto ha veduto. - Si figuri, anche pel segreto professionale! - E, piú che scendere, ruzzolò le scale. Al portone trasse un gran respiro. Nella via, trovò ancora la gente, che la lotta fra il muletto e il servitore aveva radunata. Gli raccontarono l'accaduto. - Povero muletto! - Il dottore, prima d'entrare in casa, volle visitarlo nella stalla. Gli si accostò, lo accarezzò, lo palpò: ma l'animale, mostrando di tenergli il broncio, non si voltò neppure, e continuò a masticar paglia, come se il padrone non parlasse con esso. Muletto vendicativo! Da quel giorno in poi non ragliò piú mai. Roma, 1890@. 1890.

Fortuna che nessuno ci abbia visti! Altrimenti chi sa quanti e quali paralipo meni alla leggenda del nostro sventuratissimo amore! Ho capito in questa occasione che l'amore può fin operare il miracolo della trasformazione fisica della persona che ama. Figurati se io posso essere disposto a giudicare benevolmente Amelia, io che ho avuto per cagion sua tanti dispiaceri, tante noie, tante seccature! ... Credo di essere diventato un po' verde dalla grande bile smossami da lei e dalla sua sciocchissima mamma. Se dunque io, cosí prevenuto contro di lei, ho dovuto riconoscere la straordinaria trasformazione avvenuta nella sua persona, vuo l dire che questa è proprio grande, ed evidentissima. Me ne rallegro con Amelia: tanto è vero che tutti i guai non vengono per nuocere! E cosí quando la nostra commediola finirà - presto, amo di lusingarmi; ogni bel gioco dovrebbe durar poco, e questo dura da un buon pezzetto! - Amelia dovrà restarmi grata di tal beneficio, quantunque involontariamente arrecatole; cosa assai rara, perché ordinariamente gli amori morti lasciano dietro un'eredità di odi, di sdegni ... " - Filosofeggi troppo, caro mio! - esclamò Bedini, ripiegando la lettera. - E poi, come mai la signorina Nerucci, l'antipatica, l'insoffribile signorina Nerucci è diventata ora Amelia, e non soltanto buona ma quasi bella, per te? E non vedeva l'ora di tornare a Roma per poter dire sul viso all'amico Efisio: "Eh via! Finitela! Sposatevi, se ne avete voglia; o fate all'amore tranquillamente, come gli altri fedeli cristiani, senza smorfie, senza posa per farvi compassionare!" Trovò Efisio Chiardi alla stazione. Pareva un uomo che stesse su le spine. Impaziente di ogni minimo indugio, vedendo che non si avvicinava nessun facchino, aveva preso lui una delle valigie del Bedini e si avviava verso l'uscita, quando questi gli disse: - Ma io ho bisogno di fermarmi al ristorante; ho proprio fame -. Chiardi non poté frenare una mossa di disappunto. - Ti dispiace? - fece il Bedini. - Se hai fretta ... - Sí, ho fretta di parlarti, di consultarti ... - Parlerai mentre io mangerò, se non vuoi prendere qualche cosa anche tu. - Grazie! - Che ti accade? ... Laggiú, a quel tavolino in disparte ... Dunque ... - soggiunse Bedini appena data l'ordinazione al cameriere. - Credi tu alla suggestione? - cominciò Chiardi. - Eccone qui una vittima! Mi guardi negli occhi? Ridi? Non c'è niente da ridere. A furia di sentirmi ripetere da tutti che sono un innamorato infelice, a furia di esser costretto, dalla mattina alla sera e dalla sera alla mattina, a dover pensare incessantemente alla mia fantastica disgrazia ... - Bene, bene! Ho capito! - Darei la testa ai muri! Vuol dire che era destinato cosí. - Risparmiati la testa! Non occorrevano tante precauzioni oratorie per farmi sapere che finalmente ... - Precauzione oratorie? - Come vorresti chiamarle? Hai voluto fare, al tuo solito, il misterioso, ma non ci sei riuscito. Ti confesso, giacché siamo a questo, che non ho mai creduto alle tue negazioni, e veggo con piacere che non mi sono ingannato. L'hai trovata bene: suggestione! Serbala per gli altri. Io intanto ora posso domandarti: e questi confetti, quando? È inutile stralunare gli occhi, fingere di arrabbiarti ... - Mi arrabbio seriamente! Suggestione, sí, caro Bedini. E se volessi darti a intendere che ne sia dispiacente, mentirei. Dicevo: "Darei la testa ai muri" pensando alla figura che farò presso molte persone ... Ma, infine, che dovrà importarmene, è vero? Rendo felice una creatura che merita di esser tale; e rendo felice anche me, perché non capita tutti i giorni essere amato fino al punto che sono amato io. Come sia accaduto, non saprei spiegartelo io stesso. Picchia oggi, picchia domani ... E un bel mattino mi sono svegliato, proprio cosí! innamorato cotto, con mia grandissima maraviglia ... Era destino! Se fosse diversamente, non avrei ora bisogno di te, della tua opera di amico ... Ti attendevo con impazienza; voglio uscir subito da questa situazione imbarazzante. Bisogna che qualcuno vada a spiegare ... vada a scusarmi ... Non è facile. Conto su la tua abilità diplomatica ... Io sono stato d'una crudezza sconveniente nel negare a tutti ... Era la verità. Oggi non piú ... Se non è suggestione questa ... ! Non ridere, te ne prego. - Meglio, meglio cosí! - esclamò all'ultimo Bedini, convinto che il suo amico non gli avrebbe fatto fare una parte ridicola quantunque si trattasse di commedia. E il giorno dopo, verso le cinque, si presentava alla signora Nerucci lieto e sorridente, sicuro di apportarle una bella e inattesa notizia. Aveva creduto opportuno per finezza diplomatica, pigliarla molto larga, ed era rimasto interdetto vedendo scattar infuriata la signora Carlotta appena egli aveva pronunciato il nome di Efisio Chiardi. - Quel che ha fatto costui è un'infamità senza nome! - Rifletta, signora mia! - Ammogliato, con figli! Che cosa si era immaginato dunque? ... - Signora! Ammogliato, chi? - Lui! Lui! ... L'abbiamo scoperto per caso. - Non può essere! - Con un tegame, di cui ora si vergogna ... Al suo paese, ad Oneglia! - Il povero Bedini non sapeva che cosa rispondere. Il contegno misterioso del Chiardi lo rendeva perplesso. Gli sembrava però impossibile che il suo amico avesse potuto spingere la sfacciataggine fino al punto di mettere in mezzo anche lui e in una faccenda cosí delicata ... Ma la signora Carlotta gli chiudeva la bocca ripetendogli: - Infamità senza nome! Per fortuna, mia figlia è già rinsavita, e sposerà, tra un mese, un gentiluomo degno di lei! - Bedini uscí di casa Nerucci rallegrandosi che la diplomazia lo avesse salvato dall'apparire complice di un brutto inganno, furioso contro Chiardi ... ammogliato con un tegame di cui si vergognava, come gli aveva affermato la signora Carlotta. Efisio Chiardi lo attendeva al Caffè del Parlamento, con una tazza di caffè che gli si era freddato davanti e in mano un giornale inglese illustrato di cui sfogliava distrattamente le pagine, senza neppure guardarle. - Hai fatto presto! - gli disse. - Senti! ... Se è vero ... - balbettò Bedini. - Che cosa? - Se è vero che tu hai moglie e figli ... - Io? - Al tuo paese. - Io? ... - Intanto sappi che la signorina, tra un mese, sposa! ... - Oh, Dio! ... Ma è un'infamità! - Cosí dice pure la signora Carlotta! - Chi ha potuto inventare? ... - Certe cose non s'inventano! - Ma che moglie! Che figli! Sono scapolo, scapolissimo! ... Te lo giuro! - Tanto, è inutile che tu ti affanni a protestare ... Sarà, che posso dirti? un pretesto per giustificare il voltafaccia suo e della sua figlia ... Non è pensata male! ... Oh le donne! - Ma come? Deve finire cosí? Ora che io ... - Ti consolerai, va' là, anche tu! Ci si consola di tutto a questo mondo! - No, devo scolparmi; non voglio che mi si creda capace di cosí vigliacca azione! E non voglio, no! no! lasciarmi rubare la felicità ... Io l'amo ... capisci ... io l'amo ora! - Amerai un'altra. Chiodo scaccia chiodo! In quanto a scoprire donde sia venuta fuori questa fandonia ... - Calunnia! - urlò il Chiardi, dimenticando di essere in un caffè. - Zitto! Non far voltare la gente ... Lascia fare a me. - Chi è costui? ... Tu lo sai: il nome! Ce la sbrigheremo tra noi due! - Il mio stupore era tale in quel momento, che ho dimenticato di domandare alla signora Carlotta chi sposava sua figlia. - Lo saprò; non sarà un mistero! - Vuoi aggiungere ridicolo a ridicolo? Lasciami fare. E se scopro qualcosa di losco, giacché devi anche ammettere che tutto questo può essere avvenuto semplicemente, naturalmente ... - Appiopparmi moglie e figli che non ho? ... Semplicemente? Naturalmente? ... Bedini! Tu hai voluto mettermi alla prova! Indovino? Di'? Hai voluto convincerti se amo davvero Amelia ... - Non fantasticare; niente affatto. Hai moglie - e brutta da vergognartene - e figli ... secondo la signora Carlotta ... E vi è chi ti libera dal commettere un delitto di bigamia ... secondo la signora Carlotta. Non ho inventato niente; non ho voluto metterti alla prova ... E sii omo! Chi sa se tu non debba un giorno ringraziare colui che forse ti impedisce di fare una grande sciocchezza. Suggestione, hai detto. Dunque la tua volontà non c'entra punto; il tuo cuore, nemmeno. La tua vanità, s cusa, probabilmente per molta parte; il calcolo, inconsapevolmente, un pochino ... E se poi la suggestione finisse? E tu ti ritrovassi allo stato di prima? - Ero un imbecille allora, un cieco ... Non può finire cosí! Non deve finire cosí! Vedrai! Vedrai! - Lasciami fare, ti ripeto. Dammi due, tre giorni di tempo. Tu lo sai; quando mi metto in testa di scoprire una cosa! ... Ai curiosi succede come ai grandi scienziati o ai grandi inventori: il caso li aiuta in modo sorprendente. Era stato Babolani, il gran chiacchierone Babolani. Due giorni dopo se ne vantava con Bedini incontrato per caso. - Che vuoi, caro mio! Quella ragazza mi faceva pena. Allora pensai: "Non c'è altro modo di guarirla". E dissi al padre ... Non ho detto una bugia sai? ... Efisio Chiardi ha moglie e figli ... ma non è lui, il nostro Efisio. Di Oneglia però; credo che in quel paese si chiamino tutti Efisio e tutti Chiardi. Non lo credi? ... Ed è andata bene, magnificamente! L'amico Chiardi dovrà accendermi un bel cero di ringraziamento ... È andata anche, se vogliamo, troppo bene. La signorina, lo sai? pr ende marito ... Si è consolata presto; se pure non lo prende per dispetto, per vendetta; le donne sono capaci di tutto! Guarda com'è il mondo! Ho confidato a cinque o sei persone: "Dicono che Efisio Chiardi ha moglie al suo paese; cosí brutta, ch'egli se ne vergogna, e figli ... Che ne sapete?" E tutte e sei, via, dai Nerucci a farsi un merito della scoperta. Guarda com'è il mondo! ... Se non fosse stato a fin di bene ... Perché ridi? ... Che pensi? - Rido - rispose Bedini - perché mi accorgo che in questo mondo si fanno piú commedie che non se ne scrivano. - E piú divertenti dovresti aggiungere - disse Babolani. - Secondo -. Per Chiardi non fu davvero molto divertente questa qui. Ma egli ora fa il bravo; e quando incontra a braccetto del marito colei che avea giurato di essere sua o di nessun'altro, si consola come da scampato pericolo, esclamando - Oh! Era troppo brutta! E diventerà peggio! ... Se la goda! -

Se non mi volete piú in casa, potrò guadagnarmi il pane, quantunque non abbia né babbo né mamma. Andrò a fare la serva. - A fare la serva? Don Peppantonio non poteva sentirglielo dire. - Figliaccia di mamma senza cuore, non devi aver cuore neppur tu, se pensi di abbandonarci dopo che per allevarti e per tirarti su ci siamo tolti il pane di bocca! - Don Peppantonio intanto la guardava sottecchi, intenerito. Se non fosse stata presente la megera di sua sorella, avrebbe anche fatto una carezza alla povera figliuola che singhiozzava in un canto. - Ecco ora le lagrimette! - brontolava donna Rosa. Don Peppantonio voleva tagliar corto: - Dobbiamo dirlo, sí o no, il santo rosario? Aveva preso in mano la corona e s'era levata la tuba bianca, che teneva in capo anche per casa. - Dio ti salvi, o Maria, piena di grazie ... - - Santa Maria madre di Dio ... - rispondeva donna Rosa a bocca stretta, mentre andava rimettendo al loro posto piatti e bicchieri. Tegònia rispondeva sottovoce, con l'orecchio al figlio di maestro Mommo che dalla strada canticchiava: - Haiu accattatu lu 'ngannalarruni, 'ntintiri, 'ntontari vogghiu sunari ... - Ed era il segnale che quella notte si sarebbero parlati di dietro la porta. Don Peppantonio, ravviluppato fino agli occhi nel suo gran ferraiolo di panno turchino cupo, col vecchio cappello di felpa grigia calcato sopra il naso, entrò nella farmacia battendo i piedi pel freddo e mugolando un saluto. - Sedete - gli disse Vito che impastava pillole sul marmo del pancone. - Dove? Su le tue corna? - brontolò don Peppantonio. Infatti le quattro seggiole della farmacia erano tutte occupate. - Sedetevi qui - soggiunse il notaio Pace. - Io vado via. Non mi ringraziate neppure? - Poiché andate via ... Vorreste portarvi la seggiola dietro? - La farmacia era piena di sfaccendati entrati a ripararsi dalla tramontana che soffiava cosí forte da levar la pelle. L'arrivo di don Peppantonio aveva suscitato un sussurro di buon umore, e la sua risposta al notaio fece scoppiare una sonora risata. Don Peppantonio levò la testa e guardò attorno insospettito. - Avete pensato a confessarvi pel santo Natale? - gli domandò il canonico Stuto che soleva stuzzicarlo. - Che ve n'importa? - M'importa, per la salute dell'anima vostra. Siamo vecchi, caro don Peppantonio, e dobbiamo pensare che si muore. - Crepate, se vi fa piacere! - Sentite i violini della novena? Dovreste andare a cantare il magnificat con tutti gli altri. - Già, con tutti quei ladri di bottegai e di merciai che fanno in piazza la novena del Bambino per darla a intendere! La giusta novena per essi sarebbe non rubare nel peso. - Il Bambino Gesú però li aiuta ... - Vuol dire che è piú ladro di loro! Non mi fate dire sciocchezze -. E mentre tutti ridevano, egli conficcava il mento dentro il bavero del ferraiolo, soffiando, agitando le sopracciglia setolose, tornando a pestare coi piedi. - La novena don Peppantonio la celebra in campagna, a Jannicoco - disse Vito, arrotondando due pillole tra le dita. - E il bambino Gesú lo chiama dall'alto: "Ooo, don Peppantooonio!" - Eri tu, dunque! Eri tu! - urlò don Peppantonio, levandosi da sedere inviperito. - Se non ti rompo la testa io, non te la rompe nessuno! - Lo chetarono, lo rimisero a sedere. Vito e don Peppantonio erano come il diavolo e san Bernardo; non potevano trovarsi insieme un momento senza bisticciarsi. Alcuni giorni addietro, a Jannicoco, Vito lo aveva visto nell'orticino dietro la casa. Curvo, con la tuba in testa e in maniche di camicia, dava lenti colpi di zappa per non sciupare le piante tenerelle. Dall'alto della collina, nascosto dietro un albero, Vito s'era messo a gridare, ingrossando la voce: - Ooo don Peppantooonio! - Don Peppantonio, rizzatosi, aveva risposto: - Oh, ooh! ... Chi mi chiaama? - Ooo don Peppantooonio! ... - E don Peppantonio, irritato, spolmonandosi, con le mani attorno alla bocca: - Oh, ooh! ... Siete sordo? Che volete? - Andate a farvi ... friiiggere! Oh, oooh! - Vito aveva riso mezza giornata, ripensando i gesti furibondi e la litania di parolacce brontolata da don Peppantonio all'indirizzo del suo burlatore invisibile. Perciò don Peppantonio era scattato come una molla nella farmacia, riconoscendo chi si era divertito a canzonarlo a Jannicoco. - Via, via! queste sono giornate sante; dobbiamo perdonare le offese - gli diceva il canonico, ridendo fino ad averne la tosse. Don Peppantonio taceva; intanto pestava piú forte coi piedi, e scrollava la tuba di felpa grigia, guardando Vito di traverso. - Facciamo la pace. Volete una pillola di scialappa? - gli disse Vito serio serio. - Volete una mestolata di alchermes? - Questa, sí, dovresti darmela davvero. - Se non chiedete altro! ... Vito s'era accostato grattando col mestolo l'alchermes risecchito nelle pareti della boccia di cristallo. - Mi dai le grattature? - brontolò don Peppantonio. - È il meglio. Ecco qui. Vedete, se vi voglio bene? - Infine, non è cosa tua; lo rubi al tuo principale. - Questo è il ringraziamento! Perché, invece, non m'invitate a casa vostra per la vigilia di Natale? Verrei a giocare alle nocciole con Tegònia, che diventa piú bella da un giorno all'altro. Cosí non si annoierebbe, poverina! - Non devi neppur nominarla, capisci? - egli rispose, agitando minacciosamente la mano callosa e pelosa. La conversazione era tornata intorno al presepe che preparavano nella chiesa di santa Agrippina per la notte del Natale. Se ne dicevano meraviglie: - Il bue e l'asinello paiono vivi. - Sull'altare? - domandò don Peppantonio. - Certamente - rispose il canonico. - Gesú li volle vicini nell'ora della sua nascita per insegnarci l'umiltà. O che non siete cristiano? - Con tanto di battesimo, piú di voi. Ma il bue e l'asinello non ce li metterei su l'altare. - Chi ci mettereste? - Voi e un altro canonico; e varrebbe lo stesso. - Andate a confessarvi di questi peccatacci di maldicenza! - Domineddio li sa tutti, fino a uno, i miei peccati. Non me li fa commettere lui? - Voi bestemmiate. - Ve lo provo. Ieri vo a Jannicoco per quelle quattro ulive; quest'anno, sia ringraziata la divina Provvidenza, c'è pane per tutti ... Arrivo, levo il basto all'asino ... e comincia a piovere a dirotto, quasi non ci fossero ulive per terra che andavano perdute fra la mota! ... "Al signore piace cosí; facciamo la sua volontà!" dico io. E, per passare il tempo, comincio a recitare il santo rosario ... Al quarto mistero, spiove, e il cielo si rasserena. Cavo fuori i panieri, e mi metto a raccog liere le ulive; mi piangeva l'anima nello scavarle con le ugne fra il terreno smosso dall'acqua. Ed ecco la pioggia, piú forte di prima! "Al Signore piace cosí; facciamo la sua volontà!" ripeto io ... E rientro, e torno a recitare il santo rosario. Dopo tre ore di diluvio, spiove; il cielo si rasserena. Bravo! Grazie tante! ... Era già tardi. Metto il basto all'asino, sto per montare a cavallo ... e la pioggia ricomincia piú fitta, piú insistente. "Oh! ... Divertitevi pure, Signore! - mi sca ppa di bocca. - Rosario però non ne recito piú!" E attesi il sereno, con le braccia in croce, masticando pazienza, giacché Domineddio godeva a divertirsi a quel modo. - Che pretendevate? Un miracolo? - lo interruppe il canonico. - Lo fece il miracolo, appena fui a un terzo di strada, lusingato dal sereno. Aperse le cateratte del cielo addosso a me e al povero asino che non sapeva piú dove mettere i piedi. Quattro miglia sotto la pioggia, inzuppato come una spugna, fino alle prime case del paese! ... E, quando son lí, ecco il sereno, ecco il sole al tramonto che spunta tra le nuvole, lieto e luminoso, quasi intendesse burlarsi di me! ... Non feci bene a smontar dall'asino, a calarmi i pantaloni e a voltar la schiena al sole con un bel: "Baciami qui?" E aggiungendo la mimica alle parole, rivolte rabbiosamente le spalle al canonico, don Peppantonio s'era tirato su le falde posteriori del ferraiuolo, fra le risate di tutti gli astanti; poi s'era rimesso a sedere. - Il Signore ve ne chiederà conto dopo morte! - disse il canonico che non ne poteva piú dal troppo ridere. - Oh, ce la vedremo in paradiso, a quattr'occhi! Che mi potrà dire? - Per amor tuo, son nato povero, nel cuor dell'inverno fra il bue e l'asinello, in una misera grotta! - rispose il canonico in tono di predica, frenando a stento le risa. - Ed io, Signore, piú povero di voi, nel cuor dell'inverno, e senza bue e senz'asinello che mi scaldassero: ecco! - Sono stato messo in croce per te, pei tuoi peccati! - Una sola volta. Io, tutti i giorni, dal ricevitore, dall'esattore, dal bisogno, dalla tosse, dalla podagra, dalle febbri, per settant'anni, settanta! Ecco! E soggiungerò: "Voi, Signore, quando andavate pel mondo non dovevate pensare a niente, non facevate niente. Io, invece, zappare, arare, seminare, mietere, trebbiare, lavorare peggio di un animale, se non volevo crepar di fame. Voi, con tanto di faccia tosta, vi presentavate in casa altrui, e dovevano imbandir la tavola per voi e pei vostri discepoli. M ancava il vino? Mutavate l'acqua in vino. Io, invece, dovevo comprarlo, e mezzo aceto, quando per caso avevo i soldi da comprarlo". - Zitto! Non dite eresie! - lo interruppe il canonico. - Me le fate dir voi! Tutt'a un tratto, s'intese la campana della chiesa della Mercede che sonava l'avemmaria. Don Peppantonio si levò da sedere, si tolse di capo la tuba e, segnandosi, socchiudendo gli occhi, cominciò a recitare devotamente: - Angelus Domini annunciavit Mariae! - Perché non volete dargliela al figlio di mastro Mommo? - gli domandava Vito. - Perché cosí mi piace, - rispondeva don Peppantonio. - Bada a pestare! - Aspettate forse che venga a chiederla il barone Mondello? - Aspetto ... le corna che tu hai in testa. Hai capito? - Io gliela darei al figlio di maestro Mommo - insisteva Vito, ridendo sotto il naso. - Dagli tua sorella. - Se l'avessi! ... - Dategliela, don Peppantonio, dategliela avanti che nasca uno scandalo - aggiungeva il canonico Stuto con voce melata. Allora don Peppantonio scoppiò: - Lo scandalo lo date voi, che prima fate una visita alla moglie di don Paolo il sagrestano, e poi andate a dimessa e a bere il sangue di Cristo! ... Benedette le mani di Vittorio Emanuele che vi hanno tolto la pagnotta! - No, non voleva sentirne parlare dello stronzolo del figlio di mastro Mommo, che non sapeva dare tre punti a una ciabatta e non aveva di proprio neppure una forma! - Con che manterrà la moglie? Se deve crepar di fame, è meglio che Tegònia resti in casa nostra; almeno, lí, un tozzo di pane non le mancherà mai -. E un giorno che incontrò maestro Mommo, fuori Porta, sotto gli alberi del gran viale, gli disse: - Lo fate star cheto vostro figlio? O debbo mandarvelo a casa con le gambe rotte? - Maestro Mommo si era messo a ridere: - Cose da ragazzi! Che volete farci? - Ah, la intendete a questo modo! Vedrete -. Infatti la notte che Pietro condusse sotto la casa di Tegònia mastro Nunzio col violino e tutti gli altri della compagnia, appena il contrabasso cominciò a fare zun zun, don Peppantonio aperse a un tratto la finestra, e versò cert'acqua d'odore che il povero Pietro, tornato a casa, dovette rifarsi dalla camicia. Aveva dovuto anzi scappare, perché il vecchio arrabbiato era sceso giú con tanto di randello in mano, in mutande, e voleva rompergli le gambe davvero, come aveva promesso a mastro Mommo. Invece si b uscò una polmonite che per poco non lo portò via. E, dopo due mesi, allorché tornò al sole su gli scalini della chiesa del Collegio di Maria, con la tuba bianca calcata su le orecchie, imbacuccato nel ferraiuolo di panno turchino e cosí sfilacciato agli orli che pareva con la frangia, Vito gli disse: - Mi rallegro, don Peppantonio! Levatevi però di lí; il sole vi fa male -. E lo invitò a sedere nella farmacia dove erano riuniti il canonico Stuto e i soliti amici dello speziale, che volevano divertirsi. - Non lo capite? È il gastigo di Dio. Avete visto la morte con gli occhi, eppure siete sempre ostinato -. A queste parole del canonico, don Peppantonio si alzò la tuba su la fronte e aperse il ferraiuolo: - O che Domineddio deve prendersela con me, verme di terra? Bella valentia! Dovrebbe prendersela con un Dio pari suo; allora andrebbe bene. Contra folium quod vento rapitur! ... Credete forse che io non sappia il latino? Homo natus de muliere ... Lo so anch'io, perché dovevo farmi prete, e sono stato in seminario, mentre oggi i sacerdoti non capiscono quel che leggono e, meo, meo, catamèo, purché intaschino quattrini. Invece io lo capisco; e so che Giobbe gliele spiattellò chiare e tonde a Domineddi o. E fece benissimo; perché il Signore si abusa della propria potenza e ci manda addosso tanti malanni che non li sopporterebbe neppure un macigno. Egli se ne sta lassú, in paradiso, fra gli angioli e i santi che cantano e suonano, e fa orecchi di mercante quando gli gridiamo: "Dateci il pane quotidiano!" Già voi lo vedete; con questa mala annata, la povera gente muore di fame come le mosche; se uno ha un boccone di pane oggi, non è certo di averlo domani ... - State zitto! Non bestemmiate piú, se no vi si sprofonda il terreno sotto i piedi! - gli disse il canonico, che rideva piú degli altri. - E perché intanto andate a messa? Perché vi confessate? - aggiunse il notaio. - Perché? Perché altrimenti Domineddio mi manderebbe all'inferno. Che potrei fargli? E poi ... le cose sante e giuste piacciono anche a me. La messa e la confessione le ha ordinate Gesú Cristo; e il santo precetto della Pasqua, pure. Perciò ogni anno vo' a confessarmi da compare il prevosto e gli porto un bel mazzo d'asparagi ogni volta, fino a che non mi dà l'assoluzione. Quando compare prevosto, che prende il sole sulla terrazza, mi vede arrivare senza asparagi, mi domanda di lassú: "Compare, c'è nien te di nuovo?" "Niente, compare" E mi dà l'assoluzione dalla terrazza, e vado a farmi il santo precetto ... Che trovate da ridere? ... Ah, in questa farmacia si intirizzisce! - Fu appunto quel giorno che Vito, vedendolo addormentato su gli scalini della chiesa del Collegio di Maria, con la testa abbandonata sul petto, gli fece il brutto scherzo di mandare a dire a donna Rosa e a Tegònia che don Peppantonio era stato colpito da un accidente; e le due povere donne accorsero, senza neppure un fazzoletto in testa, urlando e piangendo - Fratello mio! Babbo mio! - Commedia da morir dalle risa. Don Peppantonio, svegliato a un tratto da quegli urli, accompagnò a calci e a pugni la sorella e Tegònia fino a casa, infuriato come un toro, con la tuba bianca di traverso, strascinando il ferraiuolo che gli era cascato da una spalla. L'accidente però gli prese davvero la mattina che donna Rosa andò a cercare Tegònia nella sua cameretta e non la trovò, perché la notte era scappata di casa con Pietro di mastro Mommo, e non si sapeva dove fossero andati a nascondersi quegli scellerati che le ammazzavano il fratello! Il povero don Peppantonio non se l'aspettava; e dal lettuccio guardava con occhi stralunati, e non capiva e non sentiva, come un tronco. Invano il prevosto gli urlava all'orecchio: - Compare, dite cosí "Gesú, Giuseppe e Maria, salvate l'anima mia!" Compare, perdonate a tutti! ... Stringetemi la mano! - Don Peppantonio non poteva piú stringergliela, rigido, inerte. Era già andato a fare i conti con Domineddio, come soleva dire. E mentre egli moriva, colei ch'era stata da lui raccolta appena nata - avvoltolata fra due cenci, dietro la porta grande del Monastero Vecchio, una fredda notte di gennaio, e poi allevata e cresciuta e amata come vera figliuola - mentre egli moriva, Tegònia, nella cameretta del mulino dello zi' Cola, domandava sorridendo al suo Pietro: - Mi vuoi bene? Roma, 27@ 27 dicembre 1882@. 1882.

Sentendo parlare d'un malato in fin di vita, pensava: - Sta a vedere, che la cassa abbia a servire per questo minchione! - E si decise la mattina in cui trovò mastro Noce di collo che bestemmiava peggio d'un turco: - Accadono tutte a me! C'era una bella occasione di dar via quel tabbútu del diavolo, ed è riuscito troppo stretto pel pancione del notaio Tirella! - Andiamo - disse don Stellario. - Se sarete ragionevole, lo prenderò io. - Voi? Che ve ne fate? - Dieci lire! - Mastro Croce gli diè un'occhiataccia. - Dieci lire. Lo faccio soltanto per voi; non siamo compari per nulla - soggiunse don Ilario ridendo. Mastro Croce mugolava bestemmie: - C'è il sangiovanni di mezzo! ... Se no, ve la darei io la giusta risposta, compare. - Quindici; e facciamola finita. - Neppure il costo delle tavole? Quattro tavole di abete, da cinque bolli; volete sentirlo? - Quindici e una bottiglia di vino. Lo porterete a casa domani mattina. È per rendervi un servizio -. Mastro Croce tenne duro. Due giorni dopo, don Stellario tornò all'assalto. - Siete ancora ostinato? Quindici lire e una bottiglia di vino. - Gli do fuoco piuttosto. - È per rendervi un servizio; dovreste persuadervene -. - Anche questa volta il povero mastro Croce tenne duro; ma don Stellario non si diè per vinto. E la spuntò il giorno che il falegname non sapeva dove dare il capo per pagare la pigione della bottega. - Venti lire, compare - gli disse in tono di preghiera -. Le tavole mi costano piú. - Quindici. - Levate via il vino? - E una bottiglia di vino, poiché mi scappò detto -. A quel prezzo, il tabbútu era proprio regalato. All'alba del giorno appresso don Stellario, che si era levato di buon'ora, andò lui stesso ad aprire il portone, sentendo il picchio del compare venuto con la cassa da morto. - Portatela su, nel camerone -. Donna Salvatrice strabiliò e si fece piú volte il segno della croce, vedendo entrare in casa quell'arnese di cui suo fratello le aveva parlato piú volte, senza mai comunicarle l'intenzione che aveva. - Che volete farne? Madonna dalla Stella! - Zitta; è bell'affare! - le sussurrò all'orecchio il fratello. - Quindici lire e una bottiglia di vino ... Bada, di quello guasto - soggiunse, abbassando ancora la voce. - Ah, compare! Mi levate di tasca per lo meno dieci lire! - disse mastro Noce di collo, prendendo danaro e bottiglia. - Il vino lo berrò alla vostra salute -. A desinare, quando si provò a berlo, mastro Croce fece le boccacce al forte sapore d'aceto: - Accidenti, compare ladro! - esclamò, versando il resto per terra. - Che ne faremo? - ripeteva donna Salvatrice nei primi giorni, imbroncita contro il fratello perché aveva fatto portare in casa quel mal augurio. - Servirà, fra cent'anni, per me o per te -. Don Stellario glielo diceva tranquillamente, riflettendo, senza malizia, che sua sorella avea cinque anni piú di lui. Gli pareva naturale che, nata prima, dovesse anche morire prima. E per confortarla, aggiungeva: - Intanto, è una cassa come un'altra; può servire a qualunque uso -. La verità era che a nessuno dei due, benché oltre la sessantina, passava pel capo che un giorno dovessero andarsene al camposanto, e lasciare la cantina con l'olio, la dispensa con le botti di vino, il magazzino coi cannicci ricolmi di grano e il morto sotterrato dietro la botte di san Francesco. Avevano salute di ferro, non erano mai stati gravemente malati; e si sentivano cosí attaccati a tutta quella roba ammassata in casa a prezzo di tante privazioni e di tanti stenti, da non pensare che finalmente una volta avrebbero dovuto distaccarsene, e lasciare per forza ogni cosa a quei due parenti lontani che ora essi non volevano neppure sentir nominare. - È una cassa come un'altra; vuoi capirlo? - Parve anche a donna Salvatrice una buona ragione. Cosí, un giorno, non sapendo dove riporre le filze di fichi secchi portate dai mezzadri, ella disse: - Le riporremo là -. Don Stellario gliele porgeva a una a una, osservandole, dando il parere intorno alla qualità dei fichi di quell'anno, che gli sembrava scadente. Poi le coprí di nepitella e rosmarino perché non s'intignassero come l'altra volta. E la cassa, piena zeppa, rimase socchiusa, quantunque avesse il coperchio rotondeggiante, da baule. - Solida! - conchiuse don Stellario, applaudendosi nuovamente dell'acquisto, dopo aver picchiato sul coperchio con le mani. Da qualche tempo però, quando egli e la sorella andavano in giro, per la solita ispezione notturna, passando davanti a quella cassa che dava subito nell'occhio pel colore dell'abete nuovo in mezzo ai mucchi di arnesi diversi già scuriti dal tempo e dalla polvere, sentivano tutti e due un brividino alla schiena. - Ah, don Stellario! - borbottava la sorella. - Dite quel che volete, ma questa cassaccia mi pare il mal augurio di casa nostra! Gli dava del voi per rispetto, perché era un uomo. - Sciocca! - egli rispondeva. - Sciocca! ... Sono già sei mesi che essa è qui. Dov'è il mal augurio? - E faceva la voce brusca, per celare la cattiva impressione che, con suo gran dispetto, cominciava a sentirne anche lui. Mastro Noce di collo, che non poteva perdonargli la bottiglia di vino inacetito e aveva la celia brutale, tutte le volte che il compare, andando alla messa del Rosario, si fermava per salutarlo, dopo il solito: - Benedicite , signor compare, - gli ricantava sempre la canzone: - Ce n'avete ancora di quel famoso moscadello? - E vedendolo ridere, aggiungeva subito - Avete fatto come i giudei con Gesú Cristo, dandomi il fiele delle quindici lire e l'aceto per giunta. Ma non c'è Dio lassú, se non vi riporrò io, con queste mie proprie mani, dentro quel tabbútu rubato! - Da principio, don Stellario si divertiva alle cattive parole del compare; non era una femminuccia da credere al mal augurio; e poi, poverino, bisognava lasciarlo sfogare. Si riprendeva forse la cassa, parlando cosí? E gli rispondeva: - Eh via compare! Acqua passata non macina piú! - Ora però che sentiva anche lui, ogni notte, quel brividino alla schiena vedendo la cassa stesa nel camerone, col coperchio socchiuso, quasi non fosse ripiena di fichi ma attendesse dentro qualcuno, don Stellario rideva agro; e una mattina, appena il compare ricominciò la trista celia, egli lo interruppe: - Volete finirla, compare Noce di collo? Dovreste anzi ringraziarmi! - E gli voltò le spalle, mentre colui gli brontolava dietro: - Anche ringraziarvi? - Il resto don Stellario non lo udí, e fu meglio. E da quel giorno in poi non mise piú piede nella bottega del compare. Non gli valse a niente. Egli andava notando un po' di debolezza alle gambe nel montare le scale di casa, un po' di affanno ai polmoni quando giungeva all'ultimo pianerottolo, quasi gli scalini si fossero raddoppiati. Eppure da piú di sessant'anni egli li aveva rifatti una diecina di volte al giorno, fino a una settimana addietro, senza ombra di fatica. - Che significa? E la mattina, perché mi levo con una specie di confusione nella mente e sto con quell'accapacciatura fino a tardi? - Azava le spalle, non voleva pensarci; intanto guardava con un po' d'invidia sua sorella che pareva fatta di acciaio, e si levava sempre prima dell'alba, e non stava un minuto con le mani in mano, e andava su e giú - in cantina, nella dispensa, nel magazzino del grano - senza mai riposarsi, quasi non le pesassero addosso cinque anni piú che a lui. No, non voleva pensarci! E poiché da un pezzo non andava in campagna, una mattina, anche per svagarsi, mise all'asina la vecchia sella sdrucita, dalle staffe e dal posolino che si reggevano a furia di spago, e partí per la Balata, quantunque il cielo minacciasse di piovere e la sorella gli avvertisse: - Non andate, con questo tempaccio! - A mezza strada, cominciò a piovigginare. Don Stellario buttatosi su le spalle il ferraiuolo, si alzò il cappuccio e tentò, a colpi di pungolo, far allungare il passo all'asina piú vecchia di lui e che metteva un piede davanti all'altro con gran flemma, scuotendo le orecchie alle insolite trafitture, senza però indursi ad andare piú lesta, quasi intendesse rimproverare al padrone la biada che non le dava. Poi lampi, tuoni, e le cataratte del cielo si apersero. Don Stellario cercava di ripararsi alla meglio, con quel ferraiuolo stravecchio e rapato che assorbiva l'acqua senza perderne nemmeno una goccia; e spiava torno torno la campagna, per iscoprire una casupola dove ripararsi, pentito di non aver dato retta alla sorella e d'essersi avventurato cosí alla sbadata. - Sarà meglio tornare addietro. Con questa lumaca, arriverei morto alla Balata! - Ma dové combattere un pezzetto prima che l'asina, sbalordita da quel diluvio, si persuadesse di voltare. Insomma, un disastro! Appena giunto a casa, dovette mettersi a letto; e non valsero a riscaldarlo né il bicchiere di vino bevuto, né la scottatura di tiglio preparatagli dalla sorella che non cessava di ripetergli: - Dovevate darmi retta! - Che conchiudi ora col brontolare? - rispose all'ultimo don Stellario, seccato. Si vedeva passare e ripassare davanti agli occhi la cassa da morto, e dentro gli orecchi gli zufolavano le male parole di mastro Noce di collo: - Dovrò mettervi io, con queste mie proprie mani, dentro il tabbútu rubato! - E batteva i denti, non per la febbre soltanto. Donna Salvatrice, vedendo da due giorni che suo fratello peggiorava e che le scottature non gli profittavano, una mattina cominciò a domandarsi se non era opportuno, anche per gli occhi della gente, chiamare un dottore. - Non gioverà, forse, e sarà una spesa! ... Ma per sapermi regolare ... - esclamò tristamente, pensando che sarebbe rimasta sola sola, nel caso d'una disgrazia del povero fratello. - Come ti senti? Debbo mandare pel medico? - Sei matta? - strillò don Stellario, sbarrando tanto d'occhi, quasi avesse sentito dirsi: - È finita per te! - E con uno sforzo si rizzò sul letto; ma la tosse lo costrinse a buttarsi giú. Era estenuato e con un febbrone da cavallo; pure non voleva né medici, né medicine! - Infreddatura; non si tratta d'altro. Le scottature di tiglio bastano. Sprecar quattrini pel dottore e pel farmacista? Impostori! Intrugli! Intrugli! Impostori! Senti? Hanno picchiato. Vogliono forse del vino -. Di tratto in tratto giungevano gli avventori consueti, e donna Salvatrice accorreva; e tornando presso il letto del malato, vi portava l'odore del vino mesciuto allora allora: - Quattro soldi. Era comare Pina la mineòla. Oggi se n'è venduto sette lire sole, di quello della botte della Madonna. - Ne rimangono ancora sei salme! Cola Nasca non si è piú fatto vedere? - Te l'ho detto: vuol pagarlo a tre lire il barile. Il prezzo è calato, pretende. - A dieci lire! Non lasciarti infinocchiare. - Tu bada a guarire, e la Madonna t'aiuti! - ripeteva donna Salvatrice, tutte le volte ch'egli entrava a ragionare di interessi. Di giorno in giorno intanto ella perdeva fede nella guarigione augurata al malato; e l'osservava da piè del letto, scuotendo tristamente il capo quando don Stellario non poteva vederla. - Poverino! ... Si è attirata addosso la jettatura con le sue stesse mani, comprando quella maledetta cassaccia da morto, quasi il cuore gli predicesse: dovrà servire per te! - E attraversando il camerone, nel passare davanti la cassa, donna Salvatrice, con le lagrime agli occhi, levava via ogni volta due, tre filze di fichi secchi e le riponeva in un armadio. - Bisogna sbarazzarla, pur troppo! - Ma non ne fiatava col fratello, per non spaventarlo. - Insomma, dovrà morire senza medico e senza confessore? - le disse un giorno comare Stella, tirandola da parte. - Non vuole! Non vuole! - Almeno il confessore! - soggiunse comare Stella. Vedendo entrare il prete in camera col pretesto d'una visita, il malato si perdette d'animo tutt'a a un tratto. - Don Stellario, son venuto qui per caso, per saggiare una partita di vino; saputo che state a letto ... Cosa da niente. Coraggio! - È inutile cercar d'ingannarmi - biascicò don Stellario con flebilissima voce. Poi rivolto alla sorella, mormorò: - Tu pensa a sbarazzare la cassa -. Fissava il prete paurosamente: - Ditemi la verità: non c'è piú speranza per me? - Le cose di Dio, se voi le volete, sono vera medicina! ... Non siamo al caso, no; non c'è pericolo per ora; ma ... - Capisco, capisco -. E parve rassegnarsi. Appena il prete avvertí donna Salvatrice che egli sarebbe tornato poco dopo col viatico e l'estrema unzione, per la camera del malato fu un gran tramenio. Le due donne volevano dare un po' d'assetto a quel canile, spazzare, spolverare per ricevere degnamente Gesú sagramentato; e a don Stellario, che le seguiva con lo sguardo sbalordito, sembrava che spogliassero anticipatamente la camera, vedendo portar via tutti gli oggetti ammonticchiati su per le seggiole e sul tavolino dove bisognava apparecchiare la cr edenza coi candelabri e le candele di cera. Comare Stella bruciò anche due pallottoline di zucchero per smorzare il tanfo. - Signore Dio! Con tante ricchezze! Questa camera pare un porcile - ella diceva da sé da sé. - Salvatrice! - chiamò il malato. Ella gli si accostò presso il viso, per risparmiargli di affaticarsi alzando la voce: - La cassa ... non occorre farla ricoprire di stoffa ... Spesa perduta! ... Hai capito? - Che cassa e non cassa! Tu starai bene. Ho fatto accendere una torcia alla Madonna dalla Stella, che ti farà il miracolo! - Non era vero; ma la pietosa bugia fu di buon augurio. Allorché don Stellario si sentí, come diceva, proprio ritornato dall'altro mondo e mise i piedi a terra, la prima cosa di cui domandò la sorella fu appunto della torcia. - Si è consumata tutta? - E sentito come la cosa era andata, se ne rallegrò assai. - Se ero destinato a morire, sarei morto lo stesso! - Il giorno che poté uscir di camera volle vedere innanzi tutto il tabbútu , che si trovava appunto a bocca spalancata, come lo aveva lasciato donna Salvatrice nella fretta di sgombrarlo dai fichi secchi. Don Stellario gli fece tanto di corna, e disse: - Ora ci rimetteremo i fichi -. La prima volta che fu in grado d'andare a messa, passando con gran soddisfazione davanti alla bottega di mastro Noce di collo, si fermò su la soglia: - Salute, compare! - Oh, oh, chi si vede! Benedicite , signor compare! Avete la ricetta di Paolo Maura? come dicono quelli di Mineo. - Quale ricetta? Mastro Croce lasciò di piallare, si cavò gli occhiali, tirò su una presa di tabacco, e restando presso il pancone, riprese: - Ascoltate bene. Paolo Maura, il poeta, aveva un compare; mettiamo che il compare foste voi. Una volta, come voi, quel compare cadde malato. Paolo Maura andò a visitarlo ... - Voi però, da me non ci siete venuto, brutto compare! - lo interruppe don Stellario. - Ho avuto torto. Dunque il poeta andò a visitarlo ... - Ho inteso. - E gli disse: "Compare, ecco una polizzina miracolosa piú di qualunque rimedio". Quell'amico - soggiunse mastro Croce, cambiando tono, - era piú tirchio di voi, e aveva un moscadello peggio del vostro, ma se lo teneva per sé. E ritorno al poeta: "Compare, - continuò - basta tenerla sotto il guanciale. Guai però a leggerla prima di esser guarito! Ammazza, caro compare." Guarito, colui volle subito vedere che mai contenesse la polízzina. Indovinate che c'era scritto; indovinate. C'era scritto: "Allegro, alle gro, signor compare! Le persone cattive non muoiono mai!" Ah! ah! ah! - - Avevo giurato di non tornarci piú in questa bottega. Ben mi sta - brontolò don Stellario voltando i tacchi. Quella conchiusione non se l'aspettava. Scampato cosí dall'orlo della sepoltura, era diventato piú rubizzo, e spesso scherzava intorno alla cassa da morto, che anzi gli aveva portato buona fortuna. Quell'anno infatti, raccolto straordinario. I coppi dell'olio straboccavano; i recipienti del vino pure, fino all'ultimo caratello, tanto che era occorso comprare un'altra botte, di seconda mano, non volendo spandere il mosto per le vie. I cannicci di grano poi minacciavano di scoppiare nel magazzino: fave, cicerca, fagioli, carrubbe, ceci ammonticchiati negli angoli, in mezzo, da per tutto; non si poteva fare un passo senza calpestare la grazia di Dio. - Hai visto, sciocca? Hai visto? - egli diceva alla sorella che si mostrava di tutt'altro umore. - La cassa è dunque destinata per me! - pensava spesso donna Salvatrice. Talvolta pareva, sto per dire, che ella volesse prendersela col Santissimo Salvatore e con la Madonna dalla Stella, perché non avevano lasciato correre quando suo fratello, arrivato proprio all'orlo della sepoltura, con viatico ed estrema unzione, si era bell'e rassegnato a morire; cattivo pensiero, che le passava per la mente quasi senza che ella ne avesse piena coscienza. Piú ella invecchiava, e piú s'aggrappava alla vita; e piú le veniva in uggia quella cassaccia ripiena di fichi secchi, che faceva ingom bro, stesa là nel camerone. - Portiamola in soffitta - disse una volta al fratello. - Sí, perché i topi si rosichino lassú cassa e fichi! - rispose don Stellario. Donna Salvatrice però si era fissata di non volerla piú lí; e tornava a insistere: - Portiamola in soffitta; qui impiccia troppo. - Qui si può tirar di scherma! - replicava il fratello che non capiva quella insistenza, a suo modo di vedere, irragionevole. E la picca lo faceva spropositare, perché nel camerone c'era affastellata tanta e tanta roba, che bisognava badar bene, attraversandolo, per non spezzarsi una gamba. Donna Salvatrice fu piú piccosa. Approfittando d'una gita in campagna del fratello, vuotò in fretta la cassa - aveva ribrezzo fino a toccarla - e chiamò comare Stella perché le desse una mano. - Ci vorrebbe un uomo - disse la vecchia. - È leggiera. Su, su! - Dopo una ventina di fermate e di rifiatate, arrivarono in soffitta, grondanti di sudore, ansimanti, stracche morte. Donna Salvatrice, bevuto un po' di vino, ne diede un dito anche a comare Stella, e questa generosità parve alla poveraccia un portento. - Ah! - La sorella di don Stellario si era sentita allargare il petto, non vedendo piú nel camerone la cassaccia del mal augurio; quasi, portato via il tabbútu , ella non dovesse piú morire, mai piú! - Addio fichi! - esclamò malinconicamente don Stellario quando si accorse del trasporto. In che modo avere tristi pensieri con tutta quella gente che, da una settimana, andava e veniva per la vendita all'ingrosso del vino, dei grani e del sommacco; con tutti quei quattrini, bianchi e dagli occhi rossi, che piovevano in casa da non dare neppure il tempo di contarli, metterli dentro i sacchetti e nasconderli qua e là, prima di seppellirli insieme con gli altri, nella buca dietro la botte di san Francesco? Cola Nasca faceva viaggi col carro carico di barili; e i venditori di sale d'Augusta, spacciata la merce per le vie del paese, affluivano a insaccare il grano, ingombrando il vicolo con le loro salmerie di muli, urlando, bestemmiando, mentre don Stellario sorvegliava il misuratore, e donna Salvatrice e comare Stella, con le granate, s'affaticavano attorno perché non andasse perduto neanche un chicco di farro o di grano marzuolo. Un giorno Cola Nasca era venuto coi carretti per vuotare, in una sola volta, la botte di san Francesco. Donna Salvatrice stava nella dispensa fin dall'alba, seduta in un canto presso la botte, con la tacca in una mano, e nell'altra il coltellino dal manico di ferro, da due soldi, per non farsi rubare nel conto da quell'imbroglione. A ogni sedici mezzine spillate, ella faceva un'incisione su la tacca di ferula lisciata e divisa in due, perché poi il Nasca prendesse la sua metà. Cosí non potevano sbagliare. Don Stellario appariva di tanto in tanto, tutto impolverato, e domandava: - A che punto siamo? - Otto salme; dieci salme. - Lassú abbiamo quasi finito. Rimangono soltanto i ceci a insaccare ... Ah, Madonna dalla Stella! - Egli aveva visto donna Salvatrice impallidire, stralunare gli occhi e piegare il capo da un lato; sarebbe cascata dalla seggiola, se Cola Nasca non l'avesse sorretta, gridando: - Signora! Signora! ... - Niente! Niente! ... Mancanza per debolezza ... Tappa il cocchiume, Cola ... Salvatrice! ... Sorella mia! - Le strofinava le mani e le tempia per farla rinvenire, chiamandola e scuotendole ora un braccio, ora l'altro. - Non è niente! ... Salvatrice! ... Tappa il cocchiume, Cola -. Donna Salvatrice, bianca come un cencio lavato, non rinveniva, non dava segno di vita. - Portiamola via di qui - disse il Nasca. - Sarà stato l'odore acuto del vino. Povera signora! - Invece le era scoppiata un'arteria, che non le aveva dato nemmeno il tempo di dire: Gesú! Don Stellario aggiravasi per le stanze dandosi pugni su la testa, non sapendo persuadersi di quella gran disgrazia piombatagli addosso cosí all'improvviso; e non voleva neppure affacciarsi nella camera della morta, quasi per continuare a credere che vivesse tuttavia. Pure, a sera inoltrata, si ricordò nella cassa che bisognava vuotare; e salí in soffitta, solo, con un lumicino che pareva facesse piú buio. - Ah! ... Ah, povera sorella mia! ... Era destinata per te! - E a ogni filza di fichi secchi che metteva dentro il sacco portato seco a posta, ripeteva quella nenia scuotendo il capo, senza una lagrima, con tono di voce che pareva canzonatura e non era: - Ah! ... Ah, povera sorella mia! - La mattina quando comare Stella venne a dirgli in camera, tutta atterrita: - Non c'entra! - Don Stellario, a primo colpo, non capí; e le spalancò in viso gli occhi stralunati, senza muoversi dalla seggiola, con le mani sui ginocchi. - Sissignore! Non c'entra! ... - ripeté singhiozzando la donna ... Don Stellario scattò: - Non c'entra? ... Bestia! ... In quella cassa? - Gli pareva un'enormità. E agitandole convulsamente le mani davanti al viso, le ripeteva: - Bestia! ... In quella cassa non entra? - L'ha detto il becchino -. Non ci mancava altro! - Possibile? ... In quella cassa? ... - È un po' stretta e corta, signore mio. - Tu sei piú bestia di tutti! - urlò don Stellario al becchino. Tremava da capo a piedi, diventato di bragia dalla rabbia. - Te l'ha detto mastro Noce di collo, eh? Levati di torno, bestia! C'entreresti anche te! ... Bestia! Bestione! ... - E si slanciò, spinto dal furore. Per un attimo esitò in faccia del cadavere che non poteva entrare nella cassa; poi cominciò a calcarlo con gran cautela, quasi per non fargli male: - Benedetta da Dio! Benedetta da Dio! - balbettava. - Eppure devi entrarci, sorella mia! ... Devi entrarci! - Calcava, calcava, abbassando il coperchio per prova. - Benedetta da Dio, devi entrarci! ... Ecco! Ecco, se c'entra, bestione! - esclamò rivolto al becchino - Benedetta da Dio! ... Requie materna! - E, data una girata alla chiave della serratura, si buttò ginocchioni davanti alla cassa, piagnucolando il suo latino: - Requie materna! Riscatta in pace! - Roma, novembre 1889@. 1889.

I PESCATORI DI BALENE

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Salgari, Emilio 7 occorrenze

. - Che abbia mangiato il moschetto? Eppure non è una bistecca. Si misero a frugare nelle macchie colla più grande attenzione, visitarono i crepacci, girarono i tronchi degli alberi per un bel tratto di bosco, ma sempre nulla: il fucile era proprio scomparso. - Che ne dici? - chiese Hostrup, che si grattava furiosamente la testa. - Io dico che questa sparizione ha del soprannaturale, - rispose Koninson. - Che l'orso abbia portato con sè l'arma? - E per che farne? - Non lo so davvero, Koninson. - Che sia venuto qui qualche indiano? - Non è possibile, poichè non vedo sulla neve che le tue traccie e quelle dell'orso. - E allora? - Che sia un orso ammaestrato? - Ma non vi sono serragli nei dintorni, che io sappia, signor Hostrup. - Ma vi possono essere degli indiani. - E voi credete ... - Io non credo nulla, ma dico che quell'orso può appartenere a qualche banda d'indiani. - E voi supponete che il birbante abbia portato il mio fucile ai suoi padroni? - Così deve essere. - Cosa dobbiamo fare? - Inseguire il ladro. - Ben detto, signor Hostrup. - Ecco qui le traccie che ha lasciato sulla neve. Ha disceso la riva, ed ha attraversato il fiume dirigendosi senza dubbio verso sud. Forse dietro a quella foresta sorge un accampamento di indiani. - Allora andiamo, ma ... e la nostra slitta? - La ritroveremo nel ritorno. - Ma i lupi la saccheggeranno. - Faranno un ben magro bottino, amico Koninson. Orsù, in cammino. Discesero la riva, attraversarono il fiume che in quel luogo misurava circa duecento metri di larghezza e risalirono l'opposto pendio entrando in un'altra foresta, sotto la quale scorrazzavano diversi lupi bianchi di dimensioni non comuni. Le traccie dell'orso furono ben presto ritrovate ed assieme ad esse l'impronta del calcio del fucile. - Si direbbe che quel birbante adopera la mia arma come un bastone - disse Koninson. - Deve essere un gran burlone! - rispose il tenente. - Ora che ci penso, che sappia anche adoperare il fucile? Non vorrei che ce lo scaricasse contro a tradimento. - Mi hai detto che non hai avuto tempo di ricaricarlo, quindi questo pericolo non esiste. Affrettiamo il passo e apriamo ben bene gli occhi. Si rimisero in cammino sempre seguendo le traccie del carnivoro ma, percorsi duecento metri, tutti e due tornarono a fermarsi in preda ad una certa inquietudine. Da una fitta macchia di pini e di abeti neri, usciva una grande cortina di fumo che strisciava lentamente sul campo gelato prolungandosi infinitamente, e in distanza si udivano delle voci umane. - Un accampamento? - chiese Koninson. - Senza dubbio! - rispose il tenente. - Andiamo innanzi? - Sì, ma con prudenza. Se sono indigeni potremmo venire scambiati per nemici e accolti molto male. - Vedete? - esclamò Koninson, - le traccie dell'orso si dirigono verso quell'accampamento. - Lo dicevo io, che quel burlone doveva essere ammaestrato. Gettiamoci dietro questi alberi e procediamo cauti. Stavano per eseguire quella prudente tattica, quando delle urla selvaggie scoppiarono alle loro spalle. Si volsero rapidamente l'uno puntando il fucile e l'altro impugnando la scure. Alcuni uomini, che si erano forse tenuti nascosti dietro i tronchi degli alberi o i mucchi di neve, correvano loro addosso agitando certe fiocine e certi ramponi di forma particolare ed alcuni vecchi fucili. Essi giunsero come un uragano fino a pochi passi dal tenente e dal fiociniere, poi si fermarono di colpo in un atteggiamento che nulla aveva di ostile, e uno di loro, il capo senza dubbio, facendo un passo innanzi, disse con voce abbastanza graziosa e in lingua russa: - Siate i benvenuti. I Tanana sono vostri amici!

Tutti sono saliti in coperta per vedere come stanno le cose al di fuori, sperando forse che quel cambiamento di tempo abbia portato anche una variazione alla situazione pericolosa in cui si trova il "Danebrog". Il campo di ghiaccio, durante quegli interminabili giorni di intensissimo freddo, ha subito delle modificazioni, ma non in meglio per i disgraziati prigionieri. La sua estensione, già prima considerevolissima, si è reduplicata per il continuo avanzarsi dei ghiacci trascinati dalla corrente polare verso la costa americana. Fin dove giunge lo sguardo non si vedono altro che altissimi "iceberg" di tutte le forme possibili ed immaginabili: alcuni ritti, tutti d'un pezzo e terminanti in una punta aguzza che scintilla stranamente fra quella semi-oscurità; altri pericolosamente inclinati e che parevano lì lì per piombare sul campo di ghiaccio, qua e là fessi o traforati come se vi fosse penetrato un immenso cuneo; poi più oltre strane cupole, alcune intere ed altre in parte diroccate dalla potente pressione dei ghiacci, e poi svelte colonne mantenentisi ritte per un prodigio di equilibrio; coni strani e piramidi elevate quanto quelle d'Egitto e poi archi, e finalmente massi enormi accatastati confusamente che parevano le rovine di grandiosi edifici diroccati da un tremendo cataclisma. Del mare nessuna traccia. Forse al di là di quella grande barriera di ghiacci ancora si frangeva sollevato dagli ultimi uragani, ma la distanza era tale che sarebbe stata una vera follia il volersi spingere fino laggiù attraverso a tutte quelle pericolanti guglie. - Siamo proprio accerchiati, e come! - esclamò il tenente. - Ci vorrebbero cento tonnellate di dinamite per aprirci una via. - Fortunatamente la nave resiste sempre! - disse il capitano. - Infatti non mi sembra che abbia sofferto; non ha fatto altro che sollevarsi un pò. - Speriamo che continui, se i ghiacci tornano a restringersi attorno a noi. - E i nostri magazzini avranno sofferto? - interrogò Koninson, guardando a babordo. - Non mi sembra - disse il capitano. - La neve li ha coperti ma non vedo alcuna fessura attorno ad essi. Domani, se il tempo ci permetterà, li visiteremo. - Sì, domani! - affermò il tenente. - Oggi non ci occuperemo che di festeggiare Natale. - E voi vi incaricherete del pranzo, signor Hostrup. - Grazie, capitano, cercherò di farmi onore. Ohè, ragazzi, mandate al diavolo i ghiacci e occupatevi di allestire in coperta una tavola che possa servire a tutti. - Mi metterò io alla loro testa! - disse il fiociniere. - Ehi, mastro Widdeak, al lavoro! I marinai, che altro non desideravano se non di dimenticare i loro lunghi patimenti, non si fecero pregare dai loro capi e tutti di buona voglia si misero alacremente al lavoro, mentre il tenente assumeva l'alta direzione della cucina. Alle 4 pomeridiane il ponte del "Danebrog" offriva uno spettacolo senza dubbio mai più visto in quell'alta latitudine. Koninson e Widdeak, aiutati dai marinai, avevano preparato una lunga tavola che si piegava sotto il peso dei tondi e delle bottiglie di rhum, che il degno tenente conservava da anni per qualche grande occasione. Tutto all'intorno, bandiere di segnali e bandiere di parecchie nazioni s'intrecciavano artisticamente, mentre verso poppa un piccolo pennone, che voleva essere l'albero di Natale, adorno di variopinte fasce, reggeva a grande stento bottiglie, pipe, pacchi di tabacco, coltelli e focaccie. - A tavola! - s'udì tuonare sotto coperta l'allegra voce del tenente. Il capitano, i fiocinieri, i timonieri, i gabbieri, che non aspettavano che quel segnale, si assisero ai loro posti e poco dopo appariva il tenente seguito da alcuni marinai che portavano fumanti pentoloni e casseruole da cui uscivano appetitosi profumi. - Evviva al sig. Hostrup! - urlò l'equipaggio. - Ragazzi miei, lasciate gli evviva in fondo alle vostre gole, - disse il tenente - e invece preparate i vostri denti e il vostro stomaco. I marinai, ai quali era tornato l'appetito, fecero grandissimo onore al pasto e soprattutto alle bottiglie che sparivano rapidamente. Una pazza allegria regnava fra tutti quei lupi di mare che in quel momento dimenticavano di trovarsi imprigionati quasi all'estremità del mondo abitabile e forse alla vigilia di qualche spaventevole catastrofe. Verso le 9 di sera, il tenente, che sembrava il più allegro di tutti, diede la stura alle sue due famose bottiglie ed empiendo fino all'orlo il suo bicchiere si alzò. - Capitano, un brindisi - gridò. - A chi? - domandarono i marinai. - Al nostro valoroso "Danebrog"! Amici, capitano, evviva al "Danebrog"! Il tenente vuotò tutto d'uno colpo la sua tazza, ma nè il capitano, nè i marinai lo imitarono. Si erano tutti, come un solo uomo, alzati guardandosi in viso con una viva ansietà e più di uno era impallidito. - Cosa succede? - chiese il tenente che nulla aveva avvertito. - La nave si è mossa! - disse il capitano, che curvo verso il tribordo, pareva ascoltare i rumori esterni. - Ed io ho udito un sordo boato - aggiunse Koninson. - Forse le pressioni? - chiesero i marinai. Uno scricchiolìo forte, seguito da una scossa che fece oscillare il liquido contenuto nei bicchieri e le lampade sospese al tetto della sala, li rese avvertiti che qualcosa di straordinario accadeva sul grande campo di ghiaccio. - Sono le pressioni! - esclamò il tenente vibrando un formidabile pugno sulla tavola. - E proprio oggi vengono a disturbarci, sul più bello del banchetto. Al diavolo i ghiacci! - Zitti tutti! - comandò il capitano. - Udite! Udite! Ognuno prestò orecchio. In lontananza si udivano strani muggiti che pareva provenissero da un immenso esercito di buoi, e sordi boati che parevano prodotti da esplosioni sotterranee. D'un tratto la nave si alzò bruscamente verso poppa e si udirono i corbetti gemere come se fossero stati potentemente stretti da un'immane tenaglia. - Fuori, fuori tutti! - disse il capitano. I marinai si slanciarono confusamente all'aperto senza badare al freddo che era bruscamente aumentato d'una buona diecina di gradi e si curvarono sulla murata di poppa spingendo ansiosamente i loro sguardi sul campo di ghiaccio. Nulla pareva che fosse accaduto attorno alla nave. Gli "iceberg", le piramidi, i coni e gli obelischi, occupavano le stesse posizioni e conservavano le loro inclinazioni; però al di là di quell'accatastamento di ghiacci si udivano delle sorde esplosioni e degli strani muggiti accompagnati da lunghi scricchiolii i quali, attraversando il campo, venivano a morire sotto la chiglia della nave che subiva delle forti vibrazioni. Senza dubbio all'estremità del banco succedeva una battaglia tremenda fra i ghiacci che la corrente polare trascinava verso sud e che cercavano di aprirsi la via furiosamente sospinti dagli "iceberg" che venivano dietro di loro. - Corriamo qualche pericolo? - chiesero i marinai al capitano la cui fronte si era rabbuiata. - Chi può dirlo? - rispose Weimar. - Temo però che passeremo una brutta notte. - Cosa dobbiamo fare? - chiese Koninson. - Nulla per ora; ognuno però porti il proprio sacco in coperta. - Perchè mai? - chiesero alcuni. - Perchè potrebbe darsi che la nave ... . Non finì. Un'esplosione formidabile che poteva paragonarsi allo scoppio simultaneo di mille pezzi d'artiglieria era avvenuta al di là della linea dei ghiacci, e il banco, malgrado la sua immensa estensione e il suo enorme spessore, erasi spaccato a metà lanciando in aria giganteschi spruzzi d'acqua ed ingoiando alcuni "icebergs". L'equipaggio, atterrito, diede indietro mandando un grido di terrore, - Presto, presto, - gridò il capitano - portate i vostri sacchi in coperta e tenetevi pronti a guadagnare i magazzini e le scialuppe. I marinai si precipitarono nella sala comune, raccolsero alla oscillante luce delle lampade i loro effetti e le loro armi e riguadagnarono la coperta. Una scena spaventevole accadeva allora sul campo di ghiaccio. Fra mille detonazioni, fra mille muggiti, fra mille fischi e mille crepitii, "icebergs", "hummocks", piramidi, cupole, coni e colonne s'inclinavano, si rialzavano, si cozzavano e si frantumavano lanciando ovunque i loro pezzi. Il campo, scosso in tutti i sensi, stretto da ogni parte dalla potente pressione dei ghiacci alla quale nessun corpo resiste, si sollevava or qua e or là fendendosi e vomitando l'acqua del mare. Si sarebbe detto che quella massa enorme, poco prima solida tanto da sostenere una intera città, si fosse tutta d'un tratto convertita in una massa d'acqua agitata da un furioso uragano. La nave, ora rialzata a poppa ed ora rialzata a prua, oscillava spaventosamente, come si fosse trovata in piena tempesta. I suoi fianchi scricchiolavano e minacciavano di cedere, i puntelli s'incurvavano, il ponte si piegava, la chiglia si spezzava urtata e stretta dall'avanzarsi dei ghiacci. L'equipaggio, spaventato, coll'angoscia al cuore, impotente a far fronte a quel nuovo genere di assalto, che nessuna forza umana poteva respingere, si teneva aggruppato a poppa, mentre i suoi capi, che anche in quel terribile frangente si studiavano di apparire calmi, curvi sulle murate seguivano ansiosamente l'alzarsi e lo spezzarsi dei ghiacci sotto i fianchi del legno. Per una mezz'ora, che parve lunga quanto mezzo secolo, il campo fu in piena confusione, poi successe una breve calma interrotta solo dai muggiti che acquistavano maggiore intensità; quindi, quando l'equipaggio cominciava già a sperare, si udì un altro spaventevole rombo seguito da mille scricchiolii, dal rovinare di "icebergs" e di "hummocks" e da una nuova e più formidabile convulsione del campo che parve si piegasse sotto il poderoso sforzo che veniva esercitato sui suoi confini. Il "Danebrog", che a poco a poco aveva ripresa la sua primiera posizione, si risollevò a poppa, indi cadde pesantemente nel suo cavo la cui crosta, sotto l'urto, s'infranse. S'udì tosto un crepitìo di legnami infranti e pochi istanti dopo, in mezzo al crollare dei ghiacci, ai rombi, ai muggiti e ai fischi, una voce gridare: - Si salvi chi può! I ghiacci hanno sfondato il "Danebrog"! Nell'udire quelle grida che annunciavano l'irreparabile perdita della valorosa nave, fiocinieri, timonieri e gabbieri, perduta completamente la testa, si gettarono confusamente verso le murate onde guadagnare i magazzini sotto i quali stavano le scialuppe. Il capitano e il tenente fortunatamente non avevano perduto il loro sangue freddo. Prevedendo a quale pericolo si esponevano i loro compagni su quel banco ancora in piena convulsione, che qua e là si apriva minacciando d'ingoiare chi si fosse arrischiato di attraversarlo, si slanciarono verso le murate gridando: - Indietro, fermi tutti! Il banco si apre! Infatti, a tribordo della nave, dal lato dei magazzini, proprio nel momento in cui i marinai stavano per slanciarsi giù, si era aperta una larga fenditura in fondo alla quale si vedeva spumeggiare furiosamente il mare. - Indietro - ripetè il capitano, respingendo violentemente i più vicini. - Volete farvi stritolare dai ghiacci? - Ma la nave affonda! - disse un gabbiere. - Non ancora! - gridò il tenente. - Tutti a poppa! Mastro Widdeak e Koninson spinsero i loro camerati verso poppa. - Signor Hostrup, - gridò il capitano, cercando di dominare colla voce lo sfracellarsi dei ghiacci - scendete nella stiva. Forse, coll'aiuto di Dio, potremo resistere fino a domani. Il tenente sparve nel ventre del legno seguito dall'inseparabile Koninson e poco dopo riappariva sul ponte. - Ebbene? - chiesero i marinai correndo verso di lui. - È finita per il "Danebrog"? - Non ancora! - rispose egli. - Non affondiamo? - No, almeno per ora. - Cos'è che ha ceduto? - chiese il capitano. - I fianchi del nostro povero legno sono stati sfondati dai ghiacci che ora si riuniscono attraverso la stiva. Il capitano lanciò un'imprecazione, ma riacquistando tosto la sua calma disse, volgendosi verso l'equipaggio che lo circondava. - Non scoraggiamoci, amici. La costa americana non è lontana e noi sapremo guadagnarla a dispetto dei ghiacci. Che ognuno rechi in coperta più viveri e più coperte che può, e si tenga pronto a lasciare la nave. Tenente, credete che potremo resistere sino a domani? - Si, se i ghiacci non cedono sotto il peso della nave. - L'acqua entra? - L'ho udita precipitare nella sentina. - Speriamo in Dio. Ditemi, tenente, vi sentireste capace di guadagnare i magazzini? - Lo tenterò, capitano, se è necessario. - È indispensabile, tenente. Là abbiamo le nostre scialuppe, le quali possono venire ingoiate da un momento all'altro. - Allora andrò ai magazzini, dovessi perdere ambo le gambe. Tu, Koninson, mi accompagnerai, se non hai paura. - Sono ai vostri ordini, sig. Hostrup! - rispose il coraggioso fiociniere. - Ma vi faccio osservare che fra la nave e i magazzini si è aperta una larga fenditura. - La attraverseremo, Koninson. - Affrettatevi dunque, signor Hostrup! - disse il capitano. - Un ritardo di pochi minuti potrebbe esserci fatale. - Vieni, Koninson - disse il tenente. Si diresse verso l'albero di maestra armato di una scure e con ma vigorosi colpi staccò la boma che poi, aiutato dal fiociniere, gettò sul campo di ghiaccio. - Ci servirà per passare il crepaccio! - disse al capitano che lo guardava senza comprendere. - Arrivederci ai magazzini, signor Weimar. - Dio vi guardi, signor Hostrup! - rispose il capitano con voce commossa. Poi gli si slanciò contro e gli strinse energicamente la destra. - Non so, - disse con un tono di voce in cui risuonava un triste accento - io mi sento in questo momento profondamente commosso. Che vi succeda qualche disgrazia? - Non lo credo - rispose il tenente sforzandosi, ma senza riuscirvi, di sorridere. - Addio, capitano, addio! Anche lui, senza sapere il perchè, era profondamente commosso. - Si direbbe che una disgrazia mi minaccia - mormorò, guardando con inquietudine i ghiacci che continuavano a oscillare e a rovesciarsi fra mille fragori. Si gettò ad armacollo il fucile, raccolse il sacco contenente le sue vesti e scavalcata la murata discese sul banco dove già lo attendeva Koninson, completamente equipaggiato. - Affrettiamoci tenente! - disse il fiociniere. - Qui corriamo il pericolo di essere ingoiati. Sento che il ghiaccio si spezza attorno alla nave. Si caricarono della boma e, camminando con precauzione e guardandosi ben bene d'attorno, si diressero verso la fenditura che non distava più di venti metri. Il gran banco sotto i loro piedi vibrava fortemente e si alzava e si abbassava come se sotto di esso il mare fosse diventato tempestoso. Di quando in quando dei lunghi segni bianchi, che annunciavano prossime spaccature, correvano da una estremità all'altra del banco con sinistri crepitii seguiti da sordi boati e tutto d'un tratto s'innalzavano delle colonne di ghiaccio in cerchi concentrici che tosto strapiombavano con indescrivibile fracasso. Dopo aver corso dieci volte il pericolo di venire sfracellati o ingoiati, i due intrepidi balenieri giunsero sull'orlo della frana attraverso alla quale gettarono l'albero. Il tenente vi si avventurò sopra, tenendosi solidamente aggrappato e raggiunse in breve l'opposta riva. Il fiociniere lo seguì e ben presto si trovarono dinanzi ai magazzini che erano coperti da un ammasso di neve indurita. - Mi sembra che non abbiano sofferto - disse il tenente dopo una rapida occhiata. - È vero - confermò il fiociniere. - Mano alla scure e non perdiamo tempo, amico Koninson. Sento dei fremiti correre sotto il ghiaccio, e ciò indica che può aprirsi un abisso sotto i nostri piedi. Dotati entrambi di una forza poco comune, in breve aprirono nella massa nevosa una specie di galleria, entro la quale arditamente si cacciarono finchè giunsero alla parete del magazzino che con due o tre colpi di scure sfondarono. - Le scialuppe? - chiese il fiociniere al tenente che lo aveva preceduto. - Eccole lì! - rispose l'interpellato, che si era cacciato in mezzo alle casse e ai barili che ingombravano il magazzino. - Saremo capaci di spingerle fuori? - Lo spero, Koninson, poichè poggiano sopra i curli. In quell'istante udirono sotto i piedi crepitare fortemente il ghiaccio e al di fuori raddoppiare le urla e le detonazioni. Alcune grida umane, che partivano senza dubbio dal "Danebrog", giunsero pure ai loro orecchi. - Presto, presto, Koninson! - gridò il tenente. - Forse la nave sta per affondare. - Eccomi, signore! - rispose il fiociniere, che era diventato pallido, pensando al grave pericolo che correvano il capitano Weimar e tutti gli altri. Afferrarono i bordi della grande baleniera e si misero a spingerla con disperata energia, mentre le detonazioni si succedevano con spaventevole frequenza facendo oscillare le pareti del magazzino. Dapprima non riuscirono a muoverla essendosi i curli saldati al ghiaccio, ma poi, dopo alcune vigorose scosse, la spinsero attraverso il magazzino cercando di dirigerla all'imboccatura della galleria. Il tenente, in preda ad una forte inquietudine che non riusciva a vincere, faceva sforzi sovrumani ed eccitava il suo compagno che non ne aveva proprio bisogno, poichè anche lui spingeva con una specie di rabbia, invaso da una vaga paura che ad ogni istante cresceva. Avevano già spinto la grande baleniera nella galleria, quando in mezzo all'orribile baccano prodotto dai ghiacci che le pressioni spaccavano e rovesciavano, s'udirono delle urla disperate venire dal luogo ove si trovava la nave. - Koninson! - esclamò il tenente con voce soffocata dall'emozione. - Tenente! - rispose il fiociniere che era diventato pallido come un cadavere. - Aiuto! Si salvi chi può! - s'udì urlare al di fuori. Il tenente e il fiociniere, atterriti, cogli occhi stravolti, si precipitarono fuori della galleria le cui pareti cadevano a larghi pezzi. Un grido sfuggì dai loro petti. Il "Danebrog", schiacciato dalle pressioni, andava rapidamente a picco. Già la sua prua era scomparsa e l'acqua del mare, alzatasi sopra il banco, saliva spumeggiando l'inclinato ponte del vascello, strappando tutto ciò che incontrava sul suo passaggio. I marinai, pazzi di terrore, dopo essersi rifugiati a poppa stavano saltando sul campo di ghiaccio dirigendosi a tutte gambe verso il crepaccio. - Capitano! Capitano! - gridò il tenente. - Accorriamo! Accorriamo! - esclamò Koninson, Stavano per slanciarsi verso il crepaccio, quando una scossa formidabile seguita da uno scoppio inaudito, paragonabile solo all'esplosione di una immensa polveriera, fece traballare il gran campo di ghiaccio che dapprima si curvò in alto e che poi si spaccò aprendo qua e là dei profondi baratri dai quali irruppe furioso il mare. Il tenente e il fiociniere, violentemente scossi, stramazzarono in mezzo alla neve. Quando si alzarono, il "Danebrog" e il suo valoroso equipaggio erano scomparsi! Il banco di ghiaccio, prima apertosi e poi richiusosi, li aveva per sempre inghiottiti!

Che il campo di ghiaccio ci abbia inghiottiti senza stritolare la capanna? Sarebbe un bel caso, signor Hostrup. - Ma poco allegro, fiociniere. Fortunatamente credo che non siamo sotto il banco ma sopra. - Ed allora chi ci avrebbe sepolti? - La neve. - Infatti, signor Hostrup, mi pare che l'aria cominci a mancare. La lampada che si spegne, i nostri polmoni che si affaticano e le nostre teste che girano, sono segni belli e buoni per farci credere che non c'inganniamo. - Proviamo ad uscire, finchè ci rimane qualche altra boccata d'aria. Koninson, che non si trovava bene fra quell'aria viziata, levò la pelle che chiudeva l'entrata e si trovò dinanzi ad una massa di neve che pareva dovesse elevarsi quanta era alta la capanna. Si provò i rasparla, ma non ne venne a capo: il freddo intenso l'aveva ridotta in solidissimo ghiaccio. - Hum! - esclamò. - La faccenda diventa seria, signor Hostrup. Siamo come murati e molto bene, a quanto pare. - Eppure bisogna uscire, Koninson, e senza perder tempo. - Proviamo ad aprire il buco che serviva d'uscita al fumo. - Proviamo, fiociniere. Sta saldo che io mi arrampico su di te. Koninson si piantò presso la lampada, colle gambe aperte e la testa curva e il tenente gli saltò agilmente sulle spalle. Strappò il pezzo di pelle che chiudeva l'apertura per impedire alla neve di entrare e di spegnere la lampada, ma si trovò in presenza di un blocco di ghiaccio che resistette a tutti i suoi sforzi. - Siamo proprio sepolti! - disse con ira. - E dunque, cosa facciamo? Sento che l'aria diminuisce rapidamente. - Non ci resta altro che aprire una galleria. - Ne avremo il tempo? - Te lo dirò più tardi. Affrettiamoci, mio povero amico, che gli istanti sono preziosi. Saltò a terra, afferrò un solido coltellaccio, e intaccò febbrilmente la neve che ostruiva l'uscita, mentre Koninson si poneva a lavorare ai suoi fianchi armato d'una scure. La neve, a causa del freddo eccessivo, aveva acquistato una durezza estrema, ma non poteva resistere ai colpi disperati dei balenieri, si staccava in larghi pezzi che venivano subito gettati nell'interno della capanna. Ma l'aria veniva sempre meno ed era da prevedersi che sarebbe completamente mancata prima del termine del lavoro. Già la lampada non mandava più che una fioca luce e i polmoni dei balenieri funzionavano furiosamente senza riuscire ad empirsi. Koninson, specialmente, di quando in quando provava dei capogiri e si sentiva mancare le forze. Avevano scavato quasi un metro di ghiaccio, quando il povero giovane che impallidiva sempre più si arrestò, lasciando cadere la scure. - Signor tenente! - mormorò con voce semispenta. - Io ... io ... non ne posso più ... - Coraggio, Koninson! - balbettò Hostrup che consumava i suoi ultimi resti di forza, menando coltellate furiose contro la crosta di ghiaccio. Il fiociniere tentò di rimettersi al lavoro, ma gli fu impossibile e si accasciò rantolando. In quell'istante la lampada si spense e una profonda oscurità regnò nella capanna. Il tenente emise un urlo di rabbia. - Bisognerà ... morire ... qui dentro!.. - rantolò, stringendo i pugni. Aveva perduta ormai ogni speranza e all'estremo di forze stava per cadere a fianco del fiociniere, quando un pensiero gli balenò nel cervello. Fece appello alla sua energia, si precipitò verso un angolo della capanna, afferrò il primo fucile che trovò sotto mano, l'armò rapidamente e puntandolo in alto fece fuoco. Alla detonazione formidabile che fece tremare le pareti staccando larghe croste di ghiaccio, Koninson si rizzò sulle ginocchia balbettando: - Signor ... Hostrup! ... Il tenente non rispose. Ritto in mezzo alla capanna, col capo in aria, gli occhi fissi sulla volta, colla bocca sbarrata, pareva che attendesse qualche cosa. Un leggero fischio si fece udire e subito dopo i due poveri balenieri, che poco prima si credevano perduti, respirarono dapprima stentatamente e poi a pieni polmoni. Koninson gettò un formidabile "oh!" di soddisfazione, mentre il tenente, malgrado il freddo, si tergeva il sudore che gli bagnava la fronte. - Avete aperto un foro con una palla? - chiese Koninson, accendendo la lampada. - Sì, fiociniere, e, come vedi, è stata una eccellente idea. - E venuta proprio a tempo, signor Hostrup. Mille grazie! Ah come respiro! - Respira più che puoi, poichè il buco potrebbe turarsi da un momento all'altro. - Scaricheremo ancora i fucili. - Purchè non ci crolli addosso la capanna. Credo che faremo bene ad aprirci una galleria e sbarazzarci del ghiaccio e della neve che ci seppelliscono. - Mano alla scure, adunque, signor Hostrup. Ora mi sento forte come un gigante. Non perdettero tempo; dopo due ore di accanito lavoro raggiungevano la superficie del campo, sul quale si erano stesi oltre tre metri di neve, che il freddo intenso aveva convertito in solidissimo ghiaccio.

. - Ora credo che una nave possa venire stritolata dalle pressioni dei ghiacci, per quanto abbia le costole salde. Ditemi, tenente, quale densità ha il ghiaccio? - Gli scienziati, dopo lunghi studi, l'hanno determinata al valore medio di 0,918, a 0o di temperatura. - Un'altra domanda, tenente. Perchè il mare gela solamente alla superficie? Se il freddo è intenso dovrebbe gelare anche in fondo. - Ora te lo spiego, curioso fiociniere. Quando la temperatura è scesa allo zero, lo strato d'acqua superiore di un mare, di un lago o di un fiume, raffreddandosi diventa più pesante rispetto agli altri strati che possiedono ancora del calore e allora precipita in fondo. Il secondo strato, occupando il primo posto, pure si raffredda e pure precipita, e così avviene pure di tutti gli altri. Quando a tutti è stato sottratto il calore, il primo strato gela ed essendo il ghiaccio un cattivo conduttore, impedisce o almeno ritarda molto il congelamento degli altri. Ecco perchè difficilmente un mare gela dalla superficie al fondo. - Secondo questa vostra teoria, i mari più profondi gelerebbero meno facilmente degli altri. - Certo, Koninson. - Ditemi, tenente, quale è la più bassa temperatura a cui gela l'acqua? - Secondo le ultime osservazioni questa temperatura sarebbe di 12 centesimali sotto zero per l'acqua limpida e tranquilla. - L'acqua del mare, che è salata, si solidifica meno facilmente di quella dei laghi e dei fiumi? - Sì, perchè prima deve separarsi dai sali. Oh!, cosa vedo! - Cosa mai? - chiese Koninson, curvandosi sulla murata e gettando uno sguardo sul mare. - Ancora le macchie oleose. - Siamo adunque sulle traccie delle balene. Ah!, se venissero a tiro del mio rampone! Il tenente non si era ingannato. Dinanzi alla prua del "Danebrog" erano ricomparse le macchie oleose che il nebbione aveva fatto smarrire. La bella nuova fu tosto recata al capitano, il quale ordinò tosto di seguirle per quanto lo permettevano i ghiacci, che erano sempre numerosissimi. Disgraziatamente non lo dovevano che per un breve tratto. Già da alcuni minuti la nuvola formatasi in cielo si era dilatata prendendo una tinta più fosca e minacciando di coprire il mare con un nebbione pari, se non maggiore, a quello del dì innanzi. Ben presto la costa americana, che non distava più che sei o sette miglia, scomparve, poi si coprì pure il sole. La nube continuò a scendere qualche ora dopo e finalmente si trovò a breve distanza dalla superficie del mare che aveva perduto la sua brillante tinta verdastra. A mezzodì un vento freddissimo cominciò a soffiare dal nord, abbattendo non pochi ghiacci male equilibrati e mettendo in movimento tutti gli altri con grande pericolo del "Danebrog" che poteva venire schiacciato. Tutto all'ingiro s'udirono allora tonfi, scoppi violenti e cozzi formidabili che diventavano, quanto più il vento cresceva, sempre più forti. Alle 2 il mare presentava uno spettacolo spaventevole. Lunghe ondate, come se fossero mosse da una forza misteriosa, correvano da nord a sud, colle creste coperte di candida spuma, accavallandosi disordinatamente e lanciando in aria giganteschi sprazzi che il vento tosto disperdeva e polverizzava. Sulle loro cime o nei loro avvallamenti, gli "icebergs", gli "hummoks", i "palks" e gli "streams" si dondolavano spaventosamente, ora tuffandosi ed ora tornando a galla; si urtavano furiosamente struggendosi reciprocamente e, lanciando ovunque frammenti, si rovesciavano facendo fuggire con acute strida gli uccelli marini che avevano piantato nei crepacci i loro nidi. Guai se uno di essi avesse urtato, con quell'impeto, i fianchi del vascello! I marinai, pallidi, col terrore negli occhi, seguivano attentamente i balzi disordinati di quelle montagne e ogni qualvolta una di esse minacciava di portarsi presso il vascello, sporgevano i buttafuori onde possibilmente respingerla. Alle 3, quando l'oscurità era maggiore, cominciò a cadere attraverso il nebbione una neve fitta che in pochi minuti coperse i ghiacci, la tolda e gli attrezzi del "Danebrog". Il freddo scese quasi tutto d'un colpo di altri 8 gradi! - L'affare diventa serio assai! - disse il tenente a Koninson. - Corriamo il pericolo di venire sfracellati. - E l'oscurità cresce sempre - disse il fiociniere, masticando rabbiosamente un mozzicone di sigaro. - Un gran brutto navigare è il nostro, con tutti questi ghiacci che pare abbiano una voglia matta di fare del "Danebrog" una frittata. Vedete la costa americana, signor Hostrup? - No, Koninson, e anche quella costa mi dà assai da pensare. Possiamo trovarci da un istante all'altro dinanzi a una delle numerose isole o scogliere che la cingono.. In quell'istante, tra i fischi del vento e i muggiti delle onde, si udì mastro Widdeak gridare con accento di terrore: - Abbiamo un "iceberg" a prua! Il capitano, il tenente e Koninson, malgrado i violentissimi beccheggiamenti del vascello, si slanciarono colà. A mezza gomena appena, attraverso il nebbione, si vedeva scintillare una gran montagna di ghiaccio la quale, urtata da tutte le parti dalle onde, pareva fosse lì lì per capovolgersi. - Vira, timoniere! - urlò il capitano. - Tutti ai bracci delle manovre! Il "Danebrog", che non era più che a venti o a trenta passi dall'"iceberg", virò prontamente sul posto, ma ricevette sul fianco tale colpo di mare che lo fece quasi rovesciare sul tribordo. Quasi nel medesimo istante si udì ancora mastro Widdeak urlare: - Bada, timoniere! Un altro "iceberg" dinanzi la prua! Infatti, dritto l'asta di prua, era improvvisamente apparso un altro "iceberg" e questo ancora più grande del primo. Era una specie di colonna alta almeno cento metri e grossa quasi altrettanto. - Siamo proprio circondati? - gridò il capitano con ira. Si slanciò alla ruota del timone, e mentre i marinai, ad un comando del tenente, si portavano tutti a prua armati dei buttafuori, diresse la nave in modo da passare fra le due montagne che erano distanti appena due gomene l'una dall'altra, manovra quanto mai pericolosa, poichè potevano proprio in quel momento perdere l'equilibrio e sfracellare il "Danebrog" assieme a tutti quelli che lo montavano. - State in guardia, capitano! - gridò il tenente, appena vide la nuova direzione presa dalla nave. - Gli "icebergs" non mi sembrano bene equilibrati. - Non temete, tenente! - rispose il capitano con voce ferma. - Che nessuno abbandoni i buttafuori! Il "Danebrog", spinto dal vento e dalle onde e guidato dalla ferrea mano del capitano Weimar, si avvicinò rapidamente alle due montagne le quali, violentemente urtate dalle acque che muggivano e rimuggivano, balzando e rimbalzando, oscillavano spaventosamente minacciando di urtarsi e di capovolgersi. Non mancavano più che poche decine di metri, perchè il "Danebrog" giungesse al pericoloso passo, quando dall'"iceberg" più grande caddero in mare parecchie centinaia di ghiacciuoli, ciò che indicava che stava per perdere l'equilibrio. Un urlo di terrore si alzò sul ponte della nave; i marinai che si erano raggruppati a prua, lasciarono il posto precipitosamente, gettando via i buttafuori. Alcuni si slanciarono verso le baleniere, ritenendo ormai imminente una catastrofe. Il tenente, che era rimasto intrepidamente sul castello di prua, si gettò in mezzo ai fuggiaschi alzando minacciosamente il buttafuori che teneva in mano. - Ai vostri posti! - urlò. - Il primo che pone una mano sulle baleniere lo ammazzo come un cane! - tuonò dal canto suo il capitano, che si teneva aggrappato alla ruota del timone. - Tutti a prua o siamo perduti! Koninson primo, mastro Widdeak secondo, poi tutti gli altri riguadagnarono i posti assegnati. Era tempo! Il "Danebrog" si era cacciato fra le due montagne di ghiaccio e una di queste, portata innanzi da un'onda, minacciava di spezzare i pennoni e le murate. I marinai, quantunque il terrore li agghiacciasse, ubbidirono di comune accordo. L'"iceberg" che avanzava sempre rollando spaventosamente, tutto d'un tratto s'inclinò verso la nave che gli passava di fianco ratta ratta e sfracellò i buttafuori mandando a terra gli uomini che li stringevano. Per la seconda volta i marinai abbandonarono i loro posti fuggendo a tribordo. Il capitano Weimar gettò un vero ruggito e il tenente, malgrado tutto il suo coraggio, impallidì. Entrambi credettero che questa volta pel "Danebrog" fosse proprio finita. Un'altra onda avvicinò di più la montagna di ghiaccio. Un pennone, quello di maestra, che sporgeva assai fuori dal bordo, fu smussato da un blocco di ghiaccio staccatosi dalla cima dell'"iceberg" - Si salvi chi può! - urlarono alcuni marinai, che avevano perduto completamente la testa. - Fermi! Fermi! Passiamo! - tuonò il capitano Weimar sempre ritto dietro la ruota del timone. Il "Danebrog", trasportato dal vento che soffiava con forza irresistibile, filava come una rondine marina quasi strisciando sul fianco della montagna. Due volte toccò, ma finalmente uscì dal pericoloso passo e si slanciò sulle onde furenti lasciandosi addietro i due "icebergs", i quali in brevi istanti scomparvero nel nebbione. Un grido di gioia s'alzò fra l'equipaggio, unito al grido di: "Viva il capitano"! Ma quel grido cessò quasi subito. Uno strano e formidabile fragore si era improvvisamente udito verso sud-est. Pareva che l'oceano si rompesse contro una costa che il nebbione non permetteva di vedere. - Tenente Hostrup! - gridò il capitano che aveva pure udito quel lungo muggito. - Cosa abbiamo dinanzi a noi? La costa americana forse? Il tenente salì sul castello di prua e guardò attentamente dinanzi, a babordo e a tribordo, ma altro non vide che furiosi marosi i quali trascinavano nei loro disordinati movimenti ghiacci di ogni dimensione, sfracellandoli gli uni contro gli altri. Si curvò più che potè verso l'acqua e tese attentamente gli orecchi. Fra i fischi del vento e i cozzi dei ghiacci udì distintamente un sordo muggito. - Sì, capitano - gridò. - Noi abbiamo vicina la costa o una scogliera. - Tutti ai bracci delle vele pronti a virare! - comandò il capitano, Il "Danebrog" per dieci minuti tirò innanzi, sempre orribilmente sballottato dalle onde, che saltavano sopra le murate inondando la tolda da prua a poppa. Ad un tratto, a breve distanza apparve una spuma biancastra e il muggito poco prima udito divenne così intenso da credere che la costa o le scogliere fossero a poche gomene. Il capitano Weimar stava per dare il comando di virare, quando avvenne un leggero cozzo che arrestò subito la marcia del "Danebrog". Il tenente e Koninson corsero a prua e si issarono, per meglio vedere, sul bompresso. Quasi subito avvenne un secondo urto e questa volta così forte da rovesciare tutto l'equipaggio. Una montagna d'acqua, varcate le murate, si precipitò sulla tolda atterrando tutto ciò che incontrava. Tra i fischi del vento ed i muggiti delle onde s'udirono due grida d'aiuto, poi più nulla. Quando i caduti si rialzarono, il "Danebrog" galleggiava ancora, ma due uomini mancavano. Il tenente Hostrup e il fiociniere Koninson, che al momento dell'urto si trovavano sull'albero di bompresso, erano stati trascinati via dal colpo di mare!

- Speriamo che la costa abbia un pendio più dolce e sia priva di scogli. Attraversarono la scogliera che misurava dieci o dodici metri di larghezza su venticinque o trenta di lunghezza e scesero dall'altra parte. Ivi il mare era più tranquillo, ma un gran numero di ghiacci lo ingombravano e tutti coperti da un alto strato di neve. Koninson si arrestò indeciso, - Farà un freddo terribile lì dentro!- disse. - La traversata durerà poco, fiociniere - rispose il tenente. - Non abbiamo che sei o settecento metri da percorrere. - E se quei ghiacci ci pigliano in mezzo e ci schiacciano la testa? - Cercheremo di evitarli. Orsù, non tardare un secondo di più, Koninson, se ti preme la pelle. Guarda, la scogliera sta per essere spazzata da quell'onda mostruosa. Coraggio, fiociniere, che Dio non ricuserà di aiutarci. Il tenente saltò in acqua per il primo; Koninson, dopo un pò di esitazione, lo seguì. Credettero tutti e due di morire gelati tanto quell'acqua era fredda, ma si fecero animo e ricominciarono a nuotare affrettando i movimenti. - Tene ... nte - balbettò Koninson. - Mi ... pare che ... mi si schiacci ... il petto ... - Nuota ... forte, fiociniere ... La costa non è lontana. - Auff ... ne ho ... per una settimana e ... - Sta zitto ... conserva le ... tue forze ... Ansando, rantolando, l'uno vicino all'altro, i due disgraziati avanzavano verso i ghiacci che pareva volessero ostruire il passo. Ben presto si trovarono fra due "palks" di non piccole dimensioni i quali dondolavano perpendicolarmente scricchiolando ad ogni colpo. Il tenente si cacciò arditamente nel canale da essi formato, spintovi anche dalle onde che, superata la scogliera, correvano ad infrangersi verso la costa, la quale era difesa da un grande banco tagliato in forma di sperone. Koninson lo seguì. Passato il canale, si cacciarono entro un altro formato da due piccoli "icebergs", dalle cui cime cadevano ad ogni istante pezzi di ghiaccio così sottili e acuti che parevano lame di coltelli. Più di uno cadde addosso ai nuotatori, lacerando le loro casacche. Dopo dieci buoni minuti giunsero finalmente ad una sola gomena dal banco di ghiaccio. Dietro a questo appariva confusamente, fra il nebbione, la costa che era senza dubbio quella americana. Era alta, dirupata, coperta da uno strato di neve e, a quanto pareva, deserta. Però sulla cima di quelle rupi, il tenente credette di vedere delle piante. - Co ... rag ... gio, Koni ... nson! - balbettò. - A ... van ... ti - rispose il fiociniere, che non ne poteva proprio più e che aveva le braccia paralizzate. Fecero un ultimo e disperato sforzo e si avvicinarono ancor più. Finalmente un'onda li prese e li portò abbastanza tranquillamente sul banco di ghiaccio ove rotolarono senza forze e irrigiditi, in mezzo alle nevi ed ai ghiacciuoli. Erano allora le 6 del mattino.

. - Che abbia differente sapore della bianca? - Non credo; del resto puoi ... - Zitto, signor tenente! - Cosa c'è ancora? - Udite! Il tenente tese gli orecchi e fra i cupi rimbombi dei ghiacci scivolanti dalla montagna, udì delle urla acute che rapidamente sì avanzavano. - Bah! Sono lupi! - disse. - Ma mi sembrano molti. - Abbiamo i nostri fucili, ragazzo mio. - Non ci assaliranno? - Forse, ma noi li respingeremo. Entriamo nella caverna e prepariamo la zuppa. Trascinarono con loro la slitta onde porre in salvo le provvigioni che ancora restavano e raggiunsero il ricovero, dentro il quale potevano difendersi contro l'attacco delle voraci bestie. Koninson accese la lampada, il tenente sciolse sulla fiamma un pò di neve e mise nella marmitta il lichene raccolto che ben presto cominciò a bollire, spandendo all'intorno un profumo appetitoso. Quando fu ridotto in una specie di pasta gommosa e nerastra, il tenente invitò il fiociniere ad assaggiarla. - Il colore non è rassicurante! - disse Koninson. - Ma il profumo è promettente. E l'assaggiò una, due, tre volte. - Eccellente! - esclamò. - Rammenta il sapore del manioca. E come si chiama dagli eschimesi, questa zuppa? - Trippa di roccia. - Evviva la trippa, adunque! La marmitta, vigorosamente assalita, fu ben presto vuotata. I due balenieri stavano per porre sotto i denti alcuni biscotti onde completare il pasto, quando un enorme lupo, dagli occhi scintillanti e dal pelo lungo e arruffato, fece il suo ingresso nella caverna emettendo un lugubre ululato. - Troppo ardito, mio caro! - disse il tenente afferrando il fucile. All'ululato del lupo fecero eco altri ululati che venivano dal di fuori. - Diavolo! - esclamò Koninson, prendendo l'altro fucile. - Abbiamo una banda dinanzi alla grotta. - Hanno fame quelle brutte bestie e forse calcolano di sfamarsi colle nostre polpe. - È ciò che vedremo. Il lupo, punto spaventato, non si muoveva e pareva invitasse i compagni a seguirlo; ma il tenente con un colpo di fucile lo abbattè. Alla detonazione e all'urlo di dolore emesso dal colpito, gli altri lupi invece di fuggire s'affacciarono all'entrata della caverna, mostrando minacciosamente i loro acuti denti e dardeggiando sui due balenieri sguardi ardenti. Koninson fece fuoco in mezzo al gruppo e fece cadere il più ardito. La banda intera si precipitò sul morto e lo fece a brani contendendoselo ferocemente. - Ah! - esclamò il fiociniere. - Il proverbio questa volta riceve una solenne smentita. - È vero! - disse il tenente. - Ora non si dirà più che lupo non mangia lupo. Orsù, mano alla scure e carichiamo quelle canaglie ... Gettando alte grida, si slanciarono in mezzo ai lupi i quali s'affrettarono a battere in ritirata arrestandosi però a breve distanza. - Pare che non abbiano voglia di lasciarci, signor Hostrup. - Ma noi partiremo lo stesso. Ho fretta di raggiungere la cima del colle. - In marcia, adunque. Caricarono i fucili, s'attaccarono alle corde della slitta e usciti dalla caverna, ripresero la faticosa ascensione. I lupi si misero a seguirli ad una distanza di trenta o quaranta passi, destando tutti gli echi delle montagne coi loro interminabili ululati. Per due ore, tirando e spingendo rabbiosamente la slitta che pareva diventasse sempre più pesante, seguirono quella specie di passaggio ma, giunti ad una certa altezza, si trovarono dinanzi ad una parete di ghiaccio che chiudeva la via e così elevata da non potersi superare. Dovettero deviare ed arrampicarsi sui fianchi della montagna più vicina, che erano i meno aspri, ma che tuttavia presentavano delle pendenze che talvolta parevano inaccessibili, lambendo certi burroni che solamente a guardarci dentro venivano le vertigini. I loro sforzi sovrumani però trionfarono di tutti quegli ostacoli e, verso le otto della sera, rattrappiti dalle immense fatiche e dal freddo che lassù si faceva sentire assai vivo, giunsero finalmente sul versante opposto della montagna dove si fermarono, spaziando gli sguardi sul panorama che si stendeva dinanzi a loro, per un tratto di moltissime leghe. Proprio sotto di loro la montagna scendeva rapida, affatto liscia, coperta da enormi lastre di ghiaccio sovrapposte a strati altissimi, senza abissi, senza valli, senza alberi. Più oltre, una pianura scintillante si apriva a perdita d'occhio, smarrendo verso sud, senza alture, senza capanne, senza boschi, senza un essere animato. A destra ed a sinistra, sulle due vicine montagne, due grandi ghiacciai, due veri fiumi di ghiaccio in movimento, scendevano verso la pianura vomitando di quando in quando degli "icebergs" del peso di parecchie centinaia di tonnellate, che il sole imporporava splendidamente. Una fitta nebbia, che il vento sbatteva a destra ed a sinistra e che talora lacerava, s'alzava dal fondo di profondi abissi, dentro i quali s'udivano muggire degli impetuosi torrenti. - Dove siamo noi? - chiese Koninson. - Sul fianco di una montagna - disse il tenente. - Lo vedo bene, signor Hostrup, ma io vorrei sapere in qual luogo: se vicini o lontani dalle terre abitate. - Vicini no di certo. Bisognerà giungere al Porcupine prima d'incontrare qualche tribù d'indiani. - È molto lontano questo fiume? - So che scorre verso sud, attraverso a questa immensa pianura, ma a quale distanza precisamente non lo so. - A qualche migliaio di chilometri no di certo. - No, ma a più di duecento sì. - Allora lo raggiungeremo. - Ne sono certo. Dove sono andati i lupi? - Pare che si siano stancati di seguirci, signor Hostrup. Certamente hanno capito che la nostra carne non era troppo buona per i loro denti. - Meglio così. Dormiremo più tranquilli. - Contate di rizzare la tenda qui? - E perchè no? Scendere è impossibile per le nostre gambe che non stanno più ritte e il luogo non mi sembra cattivo. - Sarà solido il ghiaccio? - Lo credo poichè non scorgo nessuna spaccatura, nè odo alcuno scricchiolìo. - Allora accampiamoci. Staremo un pò troppo freschi, ma ci siamo ormai abituati. Assicurarono la slitta perchè qualche colpo di vento non la facesse scivolare su quella ripida china, rizzarono la tenda appoggiandola ad un grossissimo masso di ghiaccio, una specie di "hummok" che pareva fosse rotolato dalla cima della montagna, ma che sembrava irremovibile, e si cacciarono sotto. La notte non doveva essere tranquilla sui fianchi di quella montagna, e con quei due ghiacciai vicini che non stavano un solo istante zitti. Parecchie volte, agitati da strani presentimenti e spaventati dalle detonazioni dei ghiacci che diventavano più intense, i balenieri uscirono per vedere se correvano qualche pericolo. Verso la mezzanotte però, affranti dalle fatiche e da quella quasi continua veglia, s'addormentarono profondamente. Non erano trascorse tre ore, quando il tenente fu improvvisamente destato da un formidabile boato che fece tremare il ghiaccio su cui posava la tenda. Aprì gli occhi e attraverso il tessuto scorse un vivo bagliore che pareva cagionato da un grande incendio. - Guarda! - esclamò. - Si direbbe che la montagna brucia. Alzò un lembo della tenda e strisciò all'aperto. Una superba aurora boreale, forse l'ultima della stagione invernale splendeva sull'orizzonte settentrionale lanciando attraverso la volta celeste immensi fasci di luce rossastra, i quali tingevano del colore del fuoco tutte le montagne, i ghiacciai e la gran pianura. Ma questo non era tutto. Si sarebbe detto che quella luce avesse avuto anche il calore del fuoco, poichè tutti i ghiacci delle montagne si fendevano in mille guise come se sotto di loro la terra si sconvolgesse e precipitavano a migliaia nella sottoposta pianura in un disordine spaventevole, sibilando, fischiando, tuonando e tutto abbattendo sul loro cammino. Il tenente balzò in piedi, ma si sentì subito atterrare. Anche i fianchi della montagna su cui si trovava erano in movimento, e quelle grandi lastre di ghiaccio, che poche ore prima parevano inchiavardate e sicurissime, si fendevano in tutti i versi e scivolavano giù per le chine. - Siamo perduti! - esclamò involontariamente. - Koninson! Koninson! All'erta! Il fiociniere si slanciò fuori della tenda, ancora mezzo addormentato. - Cosa succede? - chiese. La sua voce si perdette fra le detonazioni dei ghiacci. Si precipitò verso il tenente che, impotente e ormai rassegnato, aveva incrociato le braccia sul petto aspettando la morte che pareva ormai certa. - Fuggiamo, signore! - esclamò. - Dove? - Alla grotta. - È impossibile, la via è interrotta. - Allora siamo perduti. - Chissà! Speriamo in Dio. - Signor tenente ... Il fiociniere non proseguì. Una scossa violenta l'aveva atterrato assieme al tenente e alla tenda. Quasi subito udirono una detonazione paragonabile solo allo scoppio d'una mina di cinquecento chilogrammi di polvere e si sentirono trascinare verso il basso, dapprima lentamente e poi con una rapidità vertiginosa. Un lastrone di ghiaccio di dimensioni enormi e del peso di parecchie migliaia di tonnellate, su cui si trovavano i due balenieri, si era staccato e scendeva la montagna più rapido di un treno diretto, seco trascinando tutto ciò che incontrava sul suo cammino, fiancheggiato e seguito da un vero esercito di massi di ghiaccio che rimbalzavano in tutte le direzioni. I due balenieri, mezzo soffocati dalla rapidità della discesa, storditi dalle migliaia di ghiacciuoli che li percuotevano incessantemente, assordati dai fragori che produceva il lastrone nella sua corsa e che talora erano fischi stridenti e tal'altra ruggiti che sembravano emessi da fiere in furore, tentavano di mantenersi presso la slitta, ma brusche scosse, di quando in quando, li separavano violentemente lanciandoli a destra o a sinistra, innanzi e indietro a rischio di cadere in mezzo a tutto quel rovinio di massi che non avrebbe mancato di schiacciarli. Dopo un minuto, che ai due disgraziati parve lungo quanto un secolo, il ghiaccione toccò il piano. Si raddrizzò con un colpo tremendo che lo fece crepitare e fendere in più luoghi, indi continuò la corsa attraverso la pianura con un rullìo paragonabile a quello di una nave in un giorno di tempesta. Ad un tratto avvenne un potente urto. Il lastrone aveva cozzato contro una rupe che s'alzava di pochi metri sulla superficie del suolo, ma che presentava una resistenza incalcolabile. Il ghiaccione si rialzò come un cavallo che si inalbera sotto una violenta speronata, e ricadde spaccandosi in venti e più parti. I due balenieri, scaraventati innanzi da quei due urti, caddero in mezzo alla neve ove rimasero immobili come se fossero stati uccisi sul colpo.

. - Mi pare che non abbia delle buone intenzioni - disse Koninson. - Il birbante deve essere affamato e conta di satollarsi colle nostre carni. Eh, mio caro, sono troppo coriacee per il tuo ventricolo. - Stiamo in guardia, poichè mi ha l'aria di non lasciarci passare. Appoggiamo verso la riva destra. - Se si potesse piantargli due palle nel cranio? - È impossibile avere il polso fermo in questi canotti. Orsù, prendiamo il largo. L'orso non assaliva. Si accontentava di seguirli con due occhi che manifestavano un'ardente bramosia, agitando il capo da destra a sinistra, con quel moto che è particolare a tutti gli orsi, a qualunque razza appartengano. I due canotti erano già giunti presso la riva che in quel luogo disgraziatamente non offriva approdi essendo tagliata quasi a picco, quando l'orso si decise a muoversi. Fece alcuni passi innanzi e indietro, come se cercasse un buon punto, poi si gettò nel fiume con un sordo tonfo, sollevando una colonna d'acqua. - Presto, fuggiamo o siamo perduti! - gridò il tenente. - Attento ai ghiacci, Koninson, poichè se il tuo canotto si spezza l'orso non ti risparmierà. Fecero forza di remi e risalirono la corrente sperando di giungere in qualche punto della sponda che permettesse di approdare e di affrontare sul terreno solido il nemico che nel liquido elemento aveva dalla sua tutti i vantaggi possibili. Ma ben presto s'accorsero con vivo terrore, che quella gara con quell'abile nuotatore era impossibile. Infatti il feroce animale, che forse una gran fame animava, veniva innanzi con una velocità incredibile battendo furiosamente le sue larghe zampe e mostrando una larga bocca che, di quando in quando, richiudeva con colpi secchi da mettere i brividi. Certi momenti si slanciava quasi interamente fuori dell'acqua spiccando dei lunghi salti, come se trovasse un terreno solido, guadagnando in un colpo solo tre o quattro metri. La buona stella però, che fino allora aveva protetto i naufraghi, anche questa volta non li abbandonò. Infatti ad una svolta del fiume scorsero alcun isolotti che potevano offrire un rifugio o almeno un luogo propizio per affrontare l'animale. - Presto, Koninson! - disse il tenente che remava disperatamente. - Dirigiamoci laggiù e prendiamo subito terra. Con un ultimo sforzo si avvicinarono agli isolotti e si arenarono dinanzi al primo. Abbandonati precipitosamente i canotti, si slanciarono a terra portando con loro i fucili e la scure. L'orso non era lontano che trenta passi e raddoppiava gli sforzi temendo che l'agognata preda fosse per sfuggirgli. Vedendo i due uomini prendere terra e puntare i fucili, armi che senza dubbio non gli erano nuove, subito si tuffò. - Fugge forse? - chiese Koninson, che contava di regalarsi uno zampone d'orso per pranzo. - Non lo credo - rispose il tenente, tenendo il fucile sempre puntato. - Simili animali non abbandonano così facilmente una preda, quando sono affamati. Cercherà di avvicinarsi tenendosi sott'acqua per poi gettarsi contro di noi all'improvviso. - Bah! Avrà l'accoglienza che si merita. - Eccolo, Koninson! Mira giusto! Infatti l'orso era repentinamente riapparso a pochi passi dall'isolotto. Con un solo balzo si slanciò sulla riva tentando di risalirla. - Fuoco! - gridò il tenente. Le due detonazioni dei fucili si fusero in una sola. La belva, ferita, mandò un lungo nitrito che parve anzi un vero urlo e tornò a sommergersi, lasciando alla superficie un cerchio di sangue che rapidamente si allargava. - È morto! - gridò Koninson slanciandosi innanzi. - Non ti fidare! - disse il tenente. - Sta in guardia! L'avvertimento giungeva troppo tardi. Koninson si era già immerso nella corrente fino alle ginocchia, quando si sentì violentemente atterrare. L'orso, che spiava il nemico tenendosi sott'acqua, repentinamente si rialzò e urtò violentemente il fiociniere che non resse al colpo. - Aiuto, signor Hostrup! - gridò il disgraziato, tentando, ma invano, di rimettersi in gambe. - Non temere, ragazzo! - tuonò il tenente. L'orso, con una agilità che si sarebbe creduta impossibile in quel corpo tutt'altro che ben formato, stava per gettarsi sul fiociniere per dilaniarlo coi potenti artigli, ma il tenente gli si gettò coraggiosamente dinanzi. S'udì un colpo secco, seguito da un sordo grugnito. La belva, colpita mortalmente alla testa, si rovesciò nel fiume perdendo un torrente di sangue misto a brani di cervella, e sparve in mezzo ai gorghi. - Grazie, mio tenente! - disse Koninson con voce commossa. - Non dimenticherò mai questo colpo maestro. - Mi ringrazierai a pericolo finito! - rispose Hostrup, raccogliendo prontamente il fucile e disponendosi a caricarlo. - Come? Non è morto dunque? - Non è lui che ci darà ancora da fare, ma i suoi compagni. Guarda, mio povero amico, guarda sulla riva che ci sta di fronte. Koninson guardò nella direzione indicata e non potè trattenere un gesto di spavento. Da una collinetta che scendeva dolcemente nel fiume, tre forme biancastre scivolavano rapidamente sulla neve mandando dei grugniti punto rassicuranti. Erano tre altri orsi bianchi i quali, forse attirati dalle urla del compagno e dalle detonazioni, accorrevano a prendere parte alla lotta. - Corpo d'una balena! - esclamò il fiociniere impallidendo. - Ma questo è il paese degli orsi! Ci assaliranno? - Se son affamati come quello che abbiamo ucciso, non si accontenteranno di guardarci - rispose il tenente che cominciava a diventare inquieto. - Si potrebbe tentare la fuga? - Se la loro intenzione è quella di assalirci, l'acqua non li arresterà. Qui si tratta di mirare giusto e di picchiare sodo. Carica il tuo fucile e stiamo attenti. I tre orsi erano allora giunti sulla riva del fiume, ma non parevano avere molta fretta. Andavano innanzi e indietro lentamente, guardando i due uomini più con curiosità che con ferocia, senza decidersi a entrare nel fiume. Finalmente uno, il più grosso, s'immerse e nuotò in direzione degli isolotti, ma procedendo cautamente. Koninson e il tenente lo mirarono e gli scaricarono contro i fucili. La lezione parve sufficiente, poichè il carnivoro s'arrestò un momento, poi raggiunse i compagni zoppicando e perdendo sangue. Si fermarono ancora alcuni minuti sulla riva, indi s'allontanarono per la stessa via di prima, scomparendo dietro le rocce. - Buon viaggio! - gridò il fiociniere. - E tarda guarigione all'ammalato! - aggiunse il tenente. - Che il diavolo si porti questi affamati abitanti delle regioni artiche! - Fortunatamente che non erano di cattivo umore, quei signori dalla bianca pelliccia. E quello che abbiamo ucciso, dove è andato a finire? - La corrente l'ha portato chi sa mai dove, Koninson. - Che disgrazia che tanta carne sia andata perduta! - Bah! Ne troveremo dell'altra. - Ma le munizioni scarseggiano, signor Hostrup. Non ho più di quaranta colpi. - Ti basteranno per giungere al forte. Orsù, imbarchiamoci e proseguiamo il viaggio. Rimisero a galla i canotti, vi si cacciarono dentro e abbandonarono il gruppo d'isolette colla maggior sollecitudine, temendo di vedere ritornare gli orsi bianchi che forse si tenevano celati dietro le rocce. Fortunatamente i tre carnivori non si fecero vedere, sicchè poterono proseguire tranquillamente il loro viaggio costeggiando la sponda opposta che si manteneva così dirupata da non permettere la discesa ad alcun animale per quanto fosse fornito di solidi artigli. A mezzogiorno fecero una breve sosta dentro un profondo "fiord" che li teneva riparati dai ghiacci che la corrente continuava a trascinare, mangiarono alla meglio un pezzo d'orsacchiotto, poi ripartirono. Il viaggio fu però di breve durata, poichè ben presto si alzò sul fiume un nebbione così denso da non permettere più di discernere i ghiacci anche a pochi passi di distanza. Le due rive in breve scomparvero ai loro occhi. - Approdiamo - disse il tenente, che temeva pei fragili canotti. - Vedo dinanzi a noi un isolotto boscoso che ci offrirà un buon fuoco e un riparo contro il freddo della notte. - Non faremo cattivi incontri, spero. - No, ma veglieremo per turno. Hai veduto come nuotano gli orsi bianchi? Se qualcuno si aggira sulle rive e si accorge della nostra presenza, non ci penserà su due volte a farci una visita durante il nostro sonno. Presero terra all'estremità dell'isolotto che non aveva una estensione maggiore di trenta metri, tirarono a secco i canotti e si accamparono fra due alti pini. Koninson, dopo aver acceso il fuoco, fece una corsa attraverso quel brano di terra per assicurarsi che nessun animale fosse celato fra le piante, poi allestì la cena. Alle 10 di sera, quando il nebbione era più fitto, il tenente sì coricò accanto al fuoco sotto la guardia del compagno, cui spettava il primo quarto. Nessun incidente venne a interrompere il suo sonno. Alle due del mattino surrogò Koninson che cadeva dalla stanchezza. Nessun rumore fino allora era stato avvertito, all'infuori del gorgoglio della corrente che si rompeva contro l'isolotto e gli urti dei ghiacci. Ma verso le quattro, quando il nebbione cominciava ad alzarsi, il tenente, che si teneva seduto accanto al fuoco col fucile in mano, avvertì dei vaghi rumori che venivano dalla riva destra. Si alzò rapidamente e s'avvicinò al fiume curvandosi verso la corrente. Ben presto udì in mezzo al nebbione un lungo fischio che si ripetè parecchie volte. - Che animale è mai questo? - si chiese egli. - Un orso no di certo. Stette in ascolto e gli parve di udire degli scoppi di risa che era si avvicinavano ed ora si allontanavano. - Se non mi trovassi sul Makenzie, direi che sulla riva ci sono delle jene, ma le terre della Baia d'Hudson non hanno mai ospitato questi animali dei climi caldi. - Signor Hostrup! - disse in quell'istante il fiociniere che si era svegliato. - C'è della gente allegra, a quanto pare. Chi ride in questo brutto paese? - È ciò che io sto chiedendomi - rispose il tenente. - Sono persone o animali? - Persone senza dubbio. - Forse siamo giunti al forte senza accorgercene? - Io credo che sia ancora molto lontano. - Provate a chiamare. - Olà, chi ride? - gridò il tenente. Una specie di grugnito vi rispose, seguito tosto da risa sgangherate e un vociare di persone. - Senza dubbio ci sono degli Indiani - disse il fiociniere raggiungendo il tenente. - Ci saranno amici o nemici? - In questo paese non si può dire mai nulla, poichè le tribù indiane oggi rispettano i bianchi e domani sono capaci di assassinarli a tradimento. - Provatevi a interrogarli. Che lingua parlano gli abitanti di questa regione? - Una lingua che ben pochi conoscono, ma avendo essi frequenti comunicazioni coi forti della Compagnia comprenderanno l'inglese o almeno il russo. - Proviamoci. - Olà, chi siete e da dove venite? - chiese egli in inglese. - Co-yuconi, - rispose una voce forte e distinta. - Corpo d'un vascello sventrato! - esclamò Koninson, facendo un salto. - Io conosco questa voce! - È quella ... - Del capo Tanana che ci ha derubati. - Se è proprio lui che ha parlato, gli farò pagar caro il tradimento. Arma il fucile e teniamoci pronti a tutto.

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