Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Scultura e pittura d'oggi. Ricerche

266171
Boito, Camillo 28 occorrenze
  • 1877
  • Fratelli Bocca
  • Roma-Torino- Firenze
  • critica d'arte
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Il Roi, quantunque nella pittura abbia un poco di leccato e di pallido, nel delineare è tutto geometria; e il suo vasto cartone, dove si vede il corpo di re Manfredi portato innanzi a Carlo d’Anjou, non va solamente lodato per la bontà dei contorni, ma ben anche per la maestà dello stile.

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Gran peccato che Ippolito Caffi, felice e prontissimo ingegno, non abbia lasciato nessun ragionevole erede di quella sua arte di luci fantastiche, di nebbie, di lune, di bizzarrie, alle quali si presta tanto la città delle gondole. Povero amico, infaticabile e curioso! Voleva studiare i casi di una battaglia navale, voleva farsi il pittore delle glorie dell’armata italiana. È scomparso nel gorgo di Lissa!

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Si contavano sette specie principali di nei: l’appassionato stava all’angolo esterno dell’occhio, il galante nel mezzo della guancia (ci pare, se la memoria non ne tradisce, che lo Zezzo abbia messo uno di questi nei galanti sul viso di una dama, nel suo quadro ch’è esposto alla mostra permanente di belle arti); sul naso stava lo sfrontato, sul labbro il civettuolo, all’estremità della bocca il badante. Un neo grosso e rotondo era l'assassino; finalmente il neo simulato posto sopra un neo naturale era il complice. Ma la importanza di questo ultimo ci persuade a riferire la propria parola francese, difficile, per cagione della diversità dal femminile al maschile, a tradursi nella nostra lingua, la quale — oh sventura! — si presta meno dell’altra a queste sublimità delle finezze eleganti. Al tempo dunque di madama di Pompadour e di Pietro Longhi quel neo si diceva monche recéleuse, e può considerarsi come un parlante simbolo della società d’allora, che teneva il neo per una grande bellezza naturale, a questo patto per altro, che fosse un neo artificiale.

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Ha qualche rassomiglianza con la torre di Pisa, e può essere che questa rassomiglianza abbia fatto dire nell’Allgemeine Bauzeitung al Körber che la scala è del duodecimo secolo, castroneria madornale. La prima rampa, diritta, sale sotto la loggia terrena del palazzo; poi comincia la scala a lumaca, la quale è tutta aperta con archi portati da colonnine e seguenti per cinque giri lo sviluppo della spirale, che s’interrompe all’alto, lasciando luogo ad una ghirlanda di archi piantati orizzontalmente, i quali terminano con degna corona il bizzarro cilindro bucato. È notevole anche la costruzione: ciascuno dei gradini forma con un solo pezzo il nucleo centrale e insieme le testate del perimetro esterno, sulle quali poggiano le colonne e i balaustri, unendo così in un tutto il di fuori e il di dentro. Il nucleo poi è portato da una sola colonna, corrispondente a quella delle arcate del piano terreno, sotto il principio della spirale: concetto audacissimo e non senza pericolo, giacché molto tempo indietro fu creduto utile alla solidità di rassodare con muri codesto esile piede.

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La pupilla, immobile, fissa il vertice della lama, e sembra che un dialogo sepolcrale abbia luogo tra quella punta e gli occhi profondi. La testa è piegata in giù. Cascano disordinate sul fronte due ciocche di folti capelli rabuffati, ne’ quali le dita dovettero fare durante la lunga veglia un gran lavorìo di scompiglio; ed è scompigliata e malmenata la stoffa del breve mantello. Ma oramai alle tremende perplessità ed alle agitazioni febbrili pare succeduta la calma sinistra della risoluzione. Il giovine è appoggiato al tronco di un albero senza rami, più alto della figura. Certo, per uccidersi ha scelto il luogo deserto di un parco abbandonato. Nel tronco morto e nelle ortiche del terreno v’è una desolazione lugubre: l’ambiente della figura — cosa rarissima nella statuaria — è trovato con evidenza pittorica. Non si sa il perchè, ma si va pensando ad una mattina rigida, nebbiosa, cupa, senza aurora: una di quelle mattine, in cui ci si sente larve d’uomini in mezzo alle larve della natura.

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La bella fronte spaziosa è corrugata, le ciglia sono aggrottate, gli occhi guardano dal sotto in su, i labbri si serrano l’uno all’altro sdegnosamente, la barba grigia è scompigliata, i capelli bianchi sono rabuffati ed irti, la testa si avvalla nelle larghe spalle, un solo bottone chiude al petto con certe pieghe stirate l’abito di panno nero: tutta la figura insomma riesce un pochino artefatta, e pare che la vanità dell’uomo, il quale vuole uscire dalle vanità della vita, abbia bisogno di questo sfogo innocente.

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A primo tratto sembra la stanza di un giovine ch’esca appena dalla scuola, che non abbia mai fatto nulla, che sia impacciato e povero. Gli è che il Sorbi — Raffaele Sorbi, per chi non lo sapesse — non ha tempo di lavorare per sè, non ha tempo di pensare a sè. Gli spazzano la stanza di ogni cosa ch’esca dalla sua mano, appena egli ci ha messo sotto la cifra; ed egli fa presto, presto e bene, e quando ha cominciato un quadro, non si svaga, non divaga, ma lo finisce. Così nella sua stanza non si può vedere mai nulla. NuIla dies sine linea, ma neanche un segno perduto. Egli che ha dipinto delle tele grandissime, la sua Madre dei Gracchi, per esempio, schicchera de’ bozzetti più piccoli di un polizzino da visita con tre colpi di pennello. De’ suoi quadri non gli restano che certi studii di qualche figura, alti pochi centimetri, e de’ disegni in una cartella, pur piccoli, ma tracciati con rara sapienza de’ moti e della forma. Non ha neanche gli schizzi dell’insieme, neanche le fotografìe delle sue opere migliori.

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Di quella sua pretensione di derivare dall’antico pare che le si abbia una certa riconoscenza; e, mentre a Milano, a Venezia, a Firenze sembra fastidiosissima per monotonia e per freddezza, d’accanto alle cose romane antiche riesce, in grazia delle sue buone intenzioni, piacente no, ma tollerabile. Del resto a imitare adesso l’antico si diventa necessariamente accademici. Ridurre agli usi nostri quelle moli e quei concetti imponenti, piegare alle nostre misure quegli ordini e quelle vôlte, non è cosa che si possa fare senza una operazione di restringimento estetico, nè senza infinitissime storpiature e deplorabili sminuzzamenti. Codesta arte scolastica domina tuttavia in Roma, e negli ultimi anni ha prodotto la universale fama del Canina, disgraziatissimo restauratore di monumenti romani, del Poletti, infamissimo restauratore della basilica di San Paolo, e di altri, che non sono morti; ma sembra che le opere di tale arte, non disturbando la fantasia di chi guarda, le consentano di aggirarsi in pace in quel cerchio di idee e di sentimenti, nel quale la sublimità della Roma antica la tiene volentieri serrata. Se non che il detto pregio, tutto negativo, non basta, crediamo, a formare lo stile di Roma contemporanea.

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Ad una innanzi tutto che abbia indole romana, giacché nella città dove la tradizione antica si fece così tenacemente sentire persino nei secoli in cui sembrò rotta dovunque, il portare un modo straniero o italiano ad essa del tutto nuovo, sarebbe un bestemmiare la storia e seminare patate dove crescono palme.

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Che un forzierino, ageminato con minuti ornati arabi e con disegni di carte geografiche, sia vecchio e valga più oro di quel che pesi il suo ferro, o sia una ingegnosa falsificazione fatta a Venezia nel primo anno di questo secolo; che un leggìo da chiesa sia bisantino e abbia viaggiato da Costantinopoli a Rodi, da Rodi a Candia, da Candia a Venezia, o sia opera del XIV secolo e di fattura francese; che una Pace sia proprio la Pace di Maso Finiguerra descritta dal Vasari, o sia del Caradosso, o non sia nè di questo nè di quello; che un tal Punto di Burano appartenesse a Marino Faliero, e una tal ciabatta al papa Giulio II; che certa chiavetta del Medio Evo sembri la chiavetta di un baule moderno, o certi bronzi etruschi paiano fusi in questi anni ci importa poco davvero. Rispettiamo la patina, la ruggine, le ossidazioni d’ogni specie, le screpolature, le ammaccature, le smussature; vogliamo credere alle rughe e ai battesimi: ci basta per oggi nella storia la verosimiglianza, nell'arte lo stile.

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Ma quando le composizioni storiche od allegoriche, quando le copie dei celebri dipinti pigliano a pretesto la ceramica e intendono alla pittura, si chiede perchè il pennello, scansando l’impaccio delle curve e la volgarità dell’uso dell’oggetto, intorno al quale s’adopera, non abbia voluto darsi con più agio e con migliore risultato a colorire liberamente una superficie piana. Non è industria, perchè non serve al suo scopo: è arte impacciata, arte fuori di luogo. E non basta per fare che questa pittura diventi industriale che i colori non si vedano all’atto del dipingere, e che il fuoco solo li faccia sbalzar fuori nella fornace sulla terra smaltata, giacché nessuno si penserebbe di affermare che il dipingere a buon fresco è un’industria, sebbene anche lì l’artista, non vedendo il valore delle tinte, debba aiutarsi con la lunga pratica e aspettare dal tempo che la sua tavolozza riesca ad accordarsi e a brillare. I più begli anni, le più preziose opere della nostra maiolica ci mostrano codesta prepotenza burbanzosa dell’arte.

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Le Bue teste ed il Trovatore del 1865 furono uno scandalo: in quegli sgorbii, non più pensiero, non più composizione, non più disegno; il colore era da cadavere in putrefazione, la pennellata da scenografo che abbia fretta.

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Non c’è cosa al mondo, per nostra memoria, che ci abbia tanto insegnato quanto il Cervo che si specchia nel fonte. Quel cervo, il quale nella selva, avendo sete, si trattiene alla bella onda chiara come argento, e considera nell’acqua l’armonia del proprio corpo, e si compiace degli ampii rami, che gli coronano il capo, e si vergogna delle gambe stecchite e misere: quel cervo ammaestra a contemplare i rapporti delle forme; e il bimbo, il quale ha visto prima de’ cervi senza badare a nulla, grida: È vero, le gambe del cervo sono troppo sottili! Poi viene il dramma: i cacciatori, i bracchi, la fuga del cervo, la sua corsa precipitosa nel fìtto della foresta. Ed eccoci alla catastrofe, quando i rami delle corna s’impigliano nei rami bassi degli alberi, e il disgraziato animale con la testa prigioniera dimena invano le gambe, ed è ucciso; e così quello che il cervo stimava utile e dilettevole — traduce uno da Siena antico — fu cagione della sua morte, e quello che stimava sozzo e dannoso era stato più volte cagione del suo campamento.

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I Russi hanno cavato certo qualcosa dal codice di Manu, antico di più che tremila anni, il quale ordina all’uomo di torre donna ben fatta, che abbia l'andare di un cigno e d’un giovine elefante, il corpo coperto di molle lanugine, capelli fini, denti piccoli, membra soavi; e raccomanda al marito di non mangiare colla moglie nello stesso piatto, e di non guardarla quand'ella mangia, starnuta o sbadiglia. Questo desiderio della sanità, della bellezza e della compostezza nel corpo, viene da un molto fino sentimento dell’arte, e Roberto Fontana ha fatto bene di mostrarci l’esame estetico della giovane sposa. Ma il busilli stava nel modo. Era troppo facile sdrucciolare nella lascivia. Bisognava innanzi tutto che il soggetto non fosse il pretesto per mostrare una modella svestita; bisognava che la nudità paresse necessaria e semplice. Il Fontana ha dunque messo coi visi rivolti allo spettatore le donne vestite, e ha girato la fanciulla verso le donne. Ha combinato la luce in modo che non piombi sfacciatamente sul corpo, ma lo illumini radendone il profilo; sì che la parte più chiara sia quella che non si vede, e che le altre donne stanno appunto guardando. Le membra della ragazza sono inoltre gentili, non rotonde e sensuali; anzi è un tantino magretta, e così naturalmente atteggiata, che gli occhi la guardano con gusto, ma senza ombra di avidità. Insomma, il pittore — tanto giovine e già tanto furbo! — sa farci credere che ha messo innanzi al nostro sguardo quel nudo, quasi senza volerlo, perchè il soggetto glielo imponeva. La fanciulla ha i capelli sciolti dietro le spalle: i capelli castagni, di cui le treccie sono rammentate sovente nei mesti canti del popolo russo. Con la mano sinistra tiene un lembo della camicia, che le copre i piedi. Sta ritta, lasciando cadere le braccia lungo il corpo, e chinando un poco la testa. Sotto alla finestra, da cui si vedono i comignoli dei tetti e i fumaiuoli coperti di neve, sono sedute le attente esaminatrici: una di esse, vecchia grinzosa, lascia intendere che avrebbe qualche censura da fare; le altre, giovani e belle, ammirano, non senza una certa malizietta e invidiuzza. Queste espressioni sono fìnissimamente indicate; e le attitudini efficaci, varie, vive, non escono mai dalla misura e dalla schietta nobiltà dell’arte. L’esecuzione è corretta, solida, facile, briosa. Colui che guarda non assiste ad una commedia, che gli debba parere strana; ma ad un fatto vero, che gli sembra naturalissimo. La difficoltà della naturalezza era cresciuta in questo soggetto dalle foggie degli abiti, ricchi, smaglianti di colore, ma troppo bizzarri, massime nelle acconciature del capo. E il pittore è stato scrupolosamente fedele ai costumi, e, per fondo, ha dipinto una stanza tutta di legno, dove in una delle pareti serve di ornamento un altarino dorato, con alcuni santi bisantini stecchiti. Non basta: il Fontana ha indovinato la luce di quei tristi paesi settentrionali: è fredda, diffusa, viene proprio dal cielo biancastro, e si riflette davvero nel candor della neve. Ma quante belle sapienze, quante belle malizie dell’arte dobbiamo lasciare indietro! Vincere, con un soggetto così sdrucciolevole, tanti ostacoli, oltre quelli della composizione e della pittura — pudore, luce, abbigliamenti — sarebbe una maraviglia anche in un artista celebre e vecchio. Pensate un giovine ignoto: uno scolaro!

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Ma può darsi che il bizzarro Salvatore, al quale, naturalmente, non ispiacevano le donne amabili, sia andato a visitarne una, mentr’ella conversava piacevolmente con l’altra signora e col cavaliere vecchiotto, e, presa a un tratto la mandòla, abbia cominciato così a dire versi all’improvviso, la quale cosa si sa che egli faceva assai spesso e con prontissima grazia; e noi abbiamo già visto come la poesia, ch’egli recita, non possa essere nè la pesante e biliosa delle Satire, nè quella dei Lamenti, nè la melliflua e amatoria delle strofette per musica.

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Il dipingere bene è meno e più: meno, perchè si può dipingere bene con un certo difetto, con un certo squilibrio, volontario o involontario, di tecnica; e più, perchè bisogna che la maniera di esecuzione abbia un’indole ben personale al pittore e sicurissima. Conviene, insomma, che l’artista sappia, almeno materialmente, quel che egli vuole, e lo mostri.

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Vi è anche dà tenere in conto la luce; poichè una figura, su cui non possa battere il sole, vuole essere diversa da una che venga per molte ore avvivata dai raggi suoi; ed una statua, che abbia per campo l’azzurro del cielo, chiede altra massa ed altri contorni che non una, la quale stacchi sulla tinta opaca del marmo.

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Può darsi che il duca abbia chiesto a qualche artista o meglio a qualche vescovo o abbate di là dai monti il disegno per la sua chiesa; può darsi che gli sia stato mandato, come usavano fuori d’Italia sovente, quale opera di una confraternita o loggia di artefici o fors’anco di monaci. Gl’italiani poi avrebbero mutato nel disegno il coperto da acuminato in quasi orizzontale, cavate le cuspidi e modificate le sagome. Comunque sia, questa opinione è forse in fondo fallace al par di quella del Nava, ma apparisce più verosimile, e vince gli ostacoli della storia e dell’arte con qualche naturalezza.

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Certo, il padre non si è assicurato bene che il fanciullo non si possa muovere, e che, in uno sbalzo, la punta dello strumento non lo abbia troppo a ferire: pare più invaso dalla idea della propria invenzione in sè, che non dal pensiero del suo figliuolo, e la mano che tiene il braccio mostra meglio l’atto di una attenzione calma al di fuori, ma ansiosissima nell’animo, che non quello dello stringere e del tenere fermo. L’altra mano è stupenda: il dito mignolo preme sulla spalla del putto, il pollice e l’indice serrano con sicurezza e leggerezza di artista il manico del bistorino, di cui la sottilissima lama s’appoggia alla punta del dito medio. Jenner aggrotta le ciglia, serra l’uno contro l’altro i labbri: è il chirurgo, non è il padre: spietato nell’amore della scienza e nella coscienza del bene.

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Nel resto è strano che la Svizzera, la quale ha un quadro di marina con buona acqua, non abbia nè animali, nè paesaggi bellissimi. È rimasta forse impacciata dalla scuola che sopravvisse al Calarne, e che ora sembra farragginosa nella composizione e legnosa nella maniera.

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Notavamo come nel Canaris il Civiletti si fosse allontanato dalla sua propria indole estetica; e non è da dire quanto ci abbia rallegrato di vederlo rientrare in essa per mezzo del suo giovine Cesare, il quale sta a sedere con una gamba sull’altra, il braccio sinistro piegato sulla spalliera e la mano destra poggiata all’angolo del sedile, nudo, salvo le gambe, che sono coperte da un drappo di belle pieghe. Questo nudo riesce di sentimento raccolto, quasi timido, ma elegante; e la testa è piena di pensieri. La statua, che a primo tratto reca immagine di cosa antica, non afferra l’attenzione dello spettatore; ma poi, un po’alla volta, si conosce quanto v’ha in essa dello studio modesto del naturale e dello spirito dell’arte moderna; e, girando intorno, nei fianchi e di dietro le linee della figura s’accordano in belli e diversi aspetti, sicchè alla fine si gusta un amabile sapore di classicismo veridico.

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Che il Clessinger abbia vestito il suo Napoleone terzo da conquistatore romano, e il Canova abbia svestito di ogni drappo il suo Napoleone primo s’intende, giacché gl’imperatori e i Re, come sfuggono alle comuni leggi sociali, così possono, in qualche caso, sfuggire alle ragionevoli norme dell’arte; e la tradizione scusa il Canova ed il Clessinger, poichè i Romani stessi per adulare i regnanti e spesso i loro congiunti e favoriti trasmutavano il ritratto nel simulacro di un Dio.

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Ma se c’è uomo, il quale non sia mai uscito dalle consuete leggi sociali, non abbia mai tentato di, sovrapporsi alla nazione e al suo secolo, nè voluto atteggiarsi mai da redentore; se c’è uomo che nella gloria sia rimasto semplice e borghese, è il conte Camillo Benso di Cavour. Piuttosto noi capiremmo che il colonnello Bismarck, il quale ha creato una Germania contro il volere della Germania, fosse avvolto in un lenzuolo e avesse a’ piedi la figura allegorica del suo paese; ma chiedete un po’alla Germania se vorrebbe tollerare, all'imperatore se vorrebbe permettere e ad uno scultore tedesco se vorrebbe pensare una cosa tanto contraria ad ogni convenienza di politica, di arte, anzi di creanza. Il fatto è che di codesto Cavour di marmo i nostri nipoti non potranno dire: Ecco l’uomo che, compreso da un Re, secondato dalla nazione, ha cacciato via d’Italia gli stranieri, preparandola a diventare regina in Roma: aveva quell’aspetto, quel fare, che corrispondono alla sua vita laboriosa e modesta, la quale noi leggiamo nei libri, ed agli atti della sua politica liberale, ingegnosa, animosa, che la storia ci spiega, e di cui la nostra bella patria è monumento immortale. — Cavour col lenzuolo, che s’usa mettere nell’inferno a Virgilio! Lo stesso suo volto, mascherato in quella gonfia rettorica di panneggiamenti, muta carattere: non c’è più l’espressione; le fattezze svaniscono. Dov’è il Cavour per noi che lo abbiamo conosciuto? Dove sarà la memoria, non diciamo reale, ma morale e intellettuale del Cavour per i nostri figliuoli? La natura produce le sue opere in un insieme, di cui le parti sono strettissimamente annodate. Il sorriso del Cavour è immedesimato alla sua anima profonda; ma il suo sorriso non è più il suo senza il suo modo di muoversi e di vestirsi. L’arte non può scindere queste cose senza cadere nell'artificio vano e scolastico. Meglio una epigrafe sopra un obelisco che una immagine falsa.

Pagina 45

E il Borro ha fatto del ritratto di Daniele Manin una figura monumentale: non gesticola, non discorre; ascolta, pensa, e si crede di capire che codesto Presidente di Governo, codesto Dittatore abbia compiuto qualche grande atto generoso o s'appresti a compierlo. Certo, non si poteva sentire più nobilmente il nobilissimo tema.

Pagina 78

E dicono che il Benzoni della sua Innocenza, bambinetta con un cane ed un serpe, abbia cavato o, per meglio dire, fatto cavare più di un centinaio di copie.

Pagina 83

Lo scultore per poco che abbia da fare ha bisogno di aiuti; si piglia de’ ragazzi, i quali, mezzo fattorini, mezzo scolari, servono e insieme imparano: imparano nel modo migliore, cioè vedendo come opera il maestro, come il maestro si vale del modello vivo, come impronta i bozzetti, come circonda di creta l’armatura in legno ed in fil di ferro, dalle cose più volgarmente materiali salendo via via, se hanno ingegno, allo spirito dell'arte. Fatto sta che, salvo rarissime eccezioni, i grandi scultori uscirono da questi poveri principii e da famiglie oscurissime. La rinomanza di certi artefici, ricchi di allogazioni e di quattrini, viene alle volte tutta dall’opera ignorata e male ricompensata dei giovani, i quali non si sono ancora schiusa una via tra la gente; e qualcuno di questi, contento di una giornata sicura e di un bicchiere di vino — gli scultori per solito bevono volentieri — senza ambizione, ignorantissimo — gli scultori non di rado sono molto ignoranti — com’è vissuto, così muore nella caligine dell'obblio.

Pagina 84

Possiamo figurarci che abbia detto la sua fiacca difesa, la quale ci è riferita da Platone, che era presente, o sia lì lì per pronunciarla; possiamo figurarci che intorno gli stieno gli accusatori, quell’Anito riccone, quel Licone avvocato, quel Melito poeta tragico, e in faccia i cinquecentocinquantasei giudici, i quali per tre soli voti di maggiorità lo mandarono a morte. Mutata la scritta, mutato nella immaginazione dello spettatore l’ambiente, la stessa statua dice altre cose, reca sull’animo una impressione diversa. Il punto per lo scultore sta dunque qui, nel trovare un soggetto che, chi guarda, possa compiere da sè rapidamente e calorosamente; e il Monteverde, ad esempio, è ammirabile per ciò, meno nel suo Colombo e nel suo Genio di Franklin, che non nel suo Jenner famoso.

Pagina 88

E non vogliamo dire che la poesia abbia più merito e più difficoltà della pittura, nè la pittura della statuaria, intendiamo solo che hanno merito e difficoltà differenti. Per lo scultore v’è l’impaccio del trovare in così ristretto campo e dopo le infinitissime statue d’ogni tempo qualche cosa di nuovo; di concretare e di ravvivare l’allegoria; di collegare allo spirito moderno un’arte la quale parrebbe che dovesse aggirarsi soprattutto nelle memorie antiche. Ma, non guardando ad altro che ai monumenti, alzati in questi ultimi anni nelle piazze e nel Cimitero di Milano, che grettezza d’idee! Il contentarsi della sola figura dell’uomo, che s’intende onorare, è una saggia prudenza: l’ebbe il Corti nel cardinale Borromeo della piazzetta dell’Ambrosiana, buona statua; e avrebbe fatto bene ad averla il Grandi nel Beccaria, che sta in faccia al palazzo di Giustizia, figura cincischiata, ma vivacissima, poichè, quando volle in due lati del piedistallo mettere due bassorilievi con l'allegoria della Civiltà e del Tempo, fece cosa affettata ed oscura. Il Cavour, posto fra il pubblico giardino ed i vecchi Archi di Porta Nuova, fu poco fortunato. Si volle con due bozzetti diversi, ideati da due scultori di diversa maniera, accozzare una cosa sola: il Tabacchi mise al di sopra un Cavour tozzo, vestito de’ suoi panni, e il Tantardini al di sotto una figura di donna, mezza ignuda, che, voltando la schiena al riguardante, scrive il nome del grande Italiano. È la Storia, è l’Italia? Ne discussero un pezzo, sinché le piantarono in fronte una stella dorata.

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