Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNICT

Risultati per: abbi

Numero di risultati: 12 in 1 pagine

  • Pagina 1 di 1

Cipí

206588
Lodi, Mario 1 occorrenze
  • 1995
  • Edizioni E. Elle
  • Trieste
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
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Ed ecco che un giorno il vento, ansante per avere spinto sin lí dalla montagna una pigra nuvola nera, riprese fiato sopra il tetto e Cipí e Passerì gli gridarono: — O buon vento, aiutaci a svelare il mistero del signore della notte ai nostri amici che non ci credono, abbi pietà di tante mamme che piangono! Il vento si asciugò il sudore, scrollò il capo e brontolò: — Quel mascalzone se la merita davvero una lezione! — Ci aiuti dunque? — chiesero trepidanti Cipí e la passeretta. — Ora non posso perché ho molto da fare ma appena finito il mio lavoro vi prometto che vi aiuterò —. Poi si buttò nel cortile per vedere se era pulito e poiché da tanto tempo il custode non lo scopava, buttò in aria la polvere, i pezzi di carta e le foglie secche, brontolando. E se ne andò spingendo la nuvola nera. — Com'è buono il vento! — sussurrò Passerì felice al suo compagno. — Chissà però fin quando dovremo aspettare. — Ci vuole pazienza, — rispose Passerì, — chi è nel giusto deve saper attendere.

Pagina 104

I ragazzi della via Pal

208247
Molnar, Ferencz 2 occorrenze
  • 1929
  • Edizioni Sapientia
  • Roma
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
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Caro Boka, ti prego soltanto di una cosa: abbi la bontà di credermi che è vero quello che ho scritto e non credere che sia una bugia che io voglio prendervi per il naso come spia delle Camicie Rosse. Io te lo scrivo perchè voglio tornare tra voi e meritare il vostro perdono e sarò il vostro fedele soldato e non importa se mi degradi da tenente perchè io torno volentieri come soldato semplice perchè non c'è più tra voi nessun soldato semplice se Nemeciech è malato e il cane di Giovanni sarebbe l'unico soldato, ma quello è un cane di guerra che può raccogliere soltanto i feriti mentre io sono un soldato. Se questa ultima volta mi perdoni ancora e mi riprendi, allora io vengo oggi e combatto per voi con voi nella battaglia e nell'ardore della mischia mi distinguerò così tanto che le mie colpe saranno cancellate. Ti prego molto di farmi sapere da Maria se devo venire o no, e se mi farai sapere di venire allora verrò prestissimo perchè mentre Maria è da te sul campo con questa lettera, io sto in via Pal dentro il portone del numero 5 e aspetto la risposta. Credimi tuo fedele amico Ghereb». Quando Boka ebbe finito la lettera capì che Ghereb non mentiva e che s'era cambiato tanto da meritare d'essere ripreso. Accennò all'aiutante Ciele di avvicinarsi. — Aiutante... — gli disse — suonate il segnale di tromba numero 3 che tutti accorrano presso il generalissimo. — Qual'è la risposta? — chiese Maria. — Lei attenda — rispose con voce imperiosa il comandante. La trombetta squillò e a quell'appello i ragazzi sbucarono fuori timidamente di dietro le cataste. Non capivano che significasse quest'adunata impreveduta. Ma poichè il generalissimo se ne stava calmo al suo posto, presero coraggio e si allinearono in ordine militare davanti al capo. Boka lesse loro la lettera, poi chiese: — Dobbiamo riprenderlo? I ragazzi, non si può negarlo, erano bravi figliuoli. Tutt'insieme risposero: — Sì! Boka si rivolse alla vera donna e disse: — Riferisca che può venire. Questa è la risposta. La vera donna sembrava molto stupìta di tutta la cosa, fissò l'armata, i berretti rosso-verdi, le armi... Poi scappò via dalla porticina. — Richter! — gridò Boka. E Richter uscì dalle file. — Ghereb sarà messo accanto a te — disse il generalissimo — Tu lo sorveglierai. Al primo atteggiamento sospetto lo rinchiudi nella capanna. Ma non credo che giunga a tanto. Tuttavia un po' di prudenza non nuoce mai! Come vedete dal messaggio, oggi non vi sarà battaglia! Tutto quanto è stato preparato per oggi, rimane per domani. Se essi non cambiano l'ordine di battaglia, anche per noi rimane lo stesso... Voleva continuare l'allocuzione quando la porticina, che dopo l'uscita della cameriera nessuno aveva rinchiusa, si spalancò con una pedata e Ghereb comparve con viso raggiante e felice come colui che può mettere il piede nella Terra Promessa. Ma quando vide tutta l'armata diventò serio; s'accostò a Boka e portò la mano al berretto salutando: egli portava il berretto rosso-verde dei ragazzi di via Pal. — Signor generale, mi presento — disse. — Sta bene! — rispose Boka senza molte cerimonie — Andrai con Richter, per ora come soldato semplice. Vedrò come ti comporterai durante la battaglia ed allora potrai riavere forse il tuo grado. Dopo questo si rivolse all'armata: — A voi tutti proibisco nel modo più assoluto di parlare a Ghereb del suo fallo. Egli intende riparare e noi gli abbiamo perdonato. Nessuno gli rinfacci neanche con una parola, nessuno gli ricordi la sua colpa. Ed anche a lui proibisco di parlarne, perchè tutto ciò è sepolto. Dopo di che si fece silenzio e tutti dicevano tra sè: «Però questo Boka è un ragazzo in gamba e merita proprio di essere generalissimo!» Allora Richter si mise a spiegare a Ghereb il compito di domani, durante l'azione. Boka conferì con Ciele. E mentre chiacchieravano così pianamente, ecco che la sentinella, che se ne stava sempre in cima allo steccato, ritirò d'un tratto la gamba che penzolava dall'altra parte, e con viso sgomento e balbettando annunciò: — Signor generale, il nemico! Boka balzò fulmineo alla porticina e chiuse a chiave. Tutti guardavano Ghereb che se ne stava pallido come un morto accanto a Richter. Boka lo investì: — Hai mentito ancora? Ancora? Ma Ghereb non riusciva a rispondere tant'era sorpreso. Richter lo afferrò per un braccio: — Che cos'è ciò? — chiese Boka. Ed allora Ghereb riuscì a balbettare a fatica: — Forse... forse... m'avevano visto sull'albero ed hanno voluto ingannarmi così... La sentinella s'era sporta verso la strada e poi era balzata giù dallo steccato, aveva impugnato la sua arma e s'era schierata con gli altri sodati. — Le Camicie Rosse son qui! — disse. Boka andò alla porticina e l'aperse: uscì coraggiosamente in istrada. Le Camicie Rosse s'avvicinavano davvero, ma erano soltanto tre: i due Pastor con Sèbeni. E quando scorsero Boka, Sèbeni cavò dal di sotto della giacca una bandiera bianca e la sventolò verso Boka gridando da lontano: — Siamo ambasciatori! Boka rientrò nel campo, un po' avvilito d'avere incolpato Ghereb con soverchia facilità. Ordinò a Richter: — Lascialo andare! Sono soltanto degli ambasciatori con bandiera bianca! Perdona, Ghereb! II povero Ghereb respirò liberato: quasi quasi c'era caduto! Ma la lavata di testa toccò alla sentinella. — E tu... — gli gridò Boka — guarda bene prima di dare l'allarme, oca spaventata! E ordinava: — Tutti alle fortezze! Con me non restino che Ciele e Colnai! Avanti! L'esercito si allontanò a passo di marcia e scomparve dietro le cataste: l'ultimo berretto rosso-verde spariva proprio quando gli ambasciatori bussavano alla porticina. L'aiutante di campo aperse. I tre portavano camicie e berretti rossi: erano disarmati e Sèbeni innalzò la bandiera bianca. Boka sapeva come ci si deve comportare in tal frangente. Prese la propria lancia e l'appoggiò allo steccato per essere disarmato anche lui. Colnai e Ciele seguirono, senza parlare, il suo esempio, anzi Ciele spinse il suo zelo fino a deporre anche la tromba. II maggiore dei Pastor si fece avanti e disse: — Ho l'onore di parlare col comandante? — Sì — rispose Ciele —. Egli è il generalissimo. — Veniamo con un'ambasciata — disse il Pastor — ed io sono il capo della missione. Veniamo per dichiararvi la guerra in nome del nostro comandante Franco Ats. Quando egli pronunciò il nome del comandante tutti e tre portarono la mano alla visiera del berretto. Anche Boka e i compagni salutarono per cavalleria. Il maggiore dei Pastor continuò: — Noi non vogliamo attaccare il nemico di sorpresa. Saremo qui alle quattordici e mezza in punto. Questo avevamo da dire. Aspettiamo la risposta. Boka sentiva che il momento era importantissimo. E rispose con voce un po' tremante: — Accettiamo la dichiarazione di guerra. Ma bisogna che ci mettiamo d'accordo su una cosa. Io non voglio che la battaglia degeneri in baruffa. — Neanche noi... — disse cupo Pastor; e abbassò, come faceva sempre, il mento sul petto. — Intendo — continuò Boka — usare tre modi soli di combattimento: bombe di sabbia, lotta regolare e scherma di lancie. Conoscete le regole? — Sì. — Chi è costretto a toccar terra con le spalle è vinto e non può più combattere se non con i due altri mezzi. D'accordo? — D'accordo. — Con le lancie non si deve nè picchiare nè trafiggere, ma soltanto parare. — Precisamente. — E due non possono attaccare uno solo: soltanto le squadre debbono affrontare le squadre. Accettate? — Accettiamo. — Allora non ho altro da dire. Salutò; ed anche Ciele e Colnai, messisi sull'attenti, salutarono. Gli ambasciatori ricambiarono il saluto. Poi Pastor aggiunse: — Debbo chiedere ancora una cosa. Il nostro comandante ci ha incaricati d'informarci di Nemeciech. Abbiamo sentito dire che è malato. Se è vero, abbiamo l'incarico di andarlo a trovare perchè si è comportato con tanto coraggio che noi dobbiamo rendergli onore. — Abita in via Racos numero 3. E' molto malato. A questo seguì un saluto muto. Sèbeni sollevò ancora la bandiera Bianca e Pastor ordinò: — March! L'ambasciata uscì e di sulla strada intese lo squillo della tromba con la quale il generalissimo richiamava l'esercito per comunicare l'accaduto. L'ambasciata s'avviò frettolosa verso la via Racos: si fermò davanti alla casa di Nemeciech. Chiesero ad una ragazzina che era sul portone: — Abita qui un certo Nemeciech? — Sì — disse la ragazzina; e indicò loro l'appartamento a pianterreno dove abitava Nemeciech. Sulla porta c'era una targhetta azzurra con la scritta: Andrea Nemeciech - Sarto. Entrarono, salutarono. Dissero il motivo della loro visita. La madre di Nemeciech, una povera donnina magra e bionda che assomigliava molto al figlio, o meglio, alla quale il figlio assomigliava molto, li condusse nella stanza dove giaceva, disteso nel suo letto, il soldato semplice. Anche qui Sèbeni alzò la propria bandiera bianca ed anche qui il maggiore dei Pastor si fece avanti: — Franco Ats ti manda il suo saluto — disse — e ti augura una pronta guarigione. Il biondino, che giaceva pallido e spettinato, si levò a sedere a queste parole. Sorrideva di contentezza e la sua prima domanda fu: — Quand'è il combattimento? — Domani. Allora si avvilì: — Non ci potrò essere ancora! L'ambasciata non rispose. Uno alla volta strinsero la mano di Nemeciech, e il maggiore dei Pastor, quello dal viso cupo e selvaggio chiese commosso: — Mi perdoni? — Ti perdono — disse piano il biondino; e si mise a tossire. Tornò a giacere e Sèbeni gli aggiustò il cuscino sotto la testa. Poi il Pastor disse: — Ora ce n'andiamo! L'alfiere sollevò la bandiera bianca e tutti e tre uscirono passando dalla cucina dove trovarono la madre di Nemeciech che disse loro piangendo: — Siete dei bravi ragazzi... Volete bene al mio povero figliuolo... Per questo vi dò una tazza di cioccolata... I componenti dell'ambasciata si guardarono: la cioccolata li seduceva molto. Ma il maggiore dei Pastor sollevò la testa bruna e facendosi forza, disse: — No. Non possiamo prendere la tazza di cioccolata! March! E uscirono a passo di marcia.

Abbi pazienza fino allora! Ora anche la curiosità li sospingeva: Boka non voleva confessare a chi somigliasse il ragazzo con la lampadina. Tirarono a indovinare, ma il presidente vietò loro anche questo affermando che non bisognava incolpare nessuno. Scesero dall'altura e proseguirono carponi nell'erbaccia. Giunsero in riva al laghetto: qui potevano alzarsi in piedi perchè i giunchi ed i cespugli erano così alti che coprivano le loro stature. Boka impartì gli ordini con sangue freddo: — Da qualche parte ci deve essere una barchetta. Io esplorerò la riva destra, con Nemeciech. Tu, Cionacos, esplora la sinistra. Chi primo trova la barchetta si ferma ed aspetta. Si avviarono in gran silenzio. Ma dopo pochi passi Boka trovò la barchetta tra i giunchi. — Aspettiamo qui — disse. Aspettarono che Cionacos fatto il giro completo del laghetto, giungesse dall'altra parte. Sedettero sulla riva e si misero a fissare il cielo stellato. Poi si misero ad ascoltare se riuscissero ad afferrare qualche parola dall'isola. Nemeciech volle fare sfoggio d'intelligenza: - Ora metto l'orecchio per terra — disse — e... — Lascia in pace l'orecchio — disse Boka —. Non sentiresti niente. Ma se ci curviamo vicino alla superficie dell'acqua, forse udremo. Ho visto dei pescatori discorrere tra loro da una riva all'altra del Danubio, a questo modo. Alla sera l'acqua porta bene la voce. Si curvarono sullo specchio dell'acqua ma non riuscirono a distinguere altro che voci confuse. Intanto Cionacos era giunto. — La barchetta non c'è! — Non ti spaventare — disse Nemeciech —; noi l'abbiamo trovata! E si diressero verso la barchetta. — Saliamo? — Non qui — disse Boka —. Rimorchiamo la barchetta molto lontano dal ponte, dall'altra parte. Se ci vedono e vogliono raggiungerci, che abbiano un percorso lungo da fare. Questa prudenza piacque molto agli altri due. Si sentirono rinfrancati dalla presenza di un capo così intelligente e così preveggente. — Chi ha dello spago? — chiese il presidente. Cionacos ne aveva. Nelle tasche di Cionacos c'era sempre un po' di tutto. Non esiste bazar che possieda tale varietà di oggetti quanti trovano posto nelle tasche di Cionacos: temperino, spago, biglie, maniglia di porta, chiodi, stracci, taccuino, cacciavite e Dio sa cos'altro ancora! Cionacos trasse lo spago di tasca e Boka legò con questo l'anello che c'era a prua della barchetta. Quindi si misero a rimorchiare l'imbarcazione, tenendo però gli occhi sempre fissi all'isoletta. Quando giunsero al posto scelto per tentare la spedizione a bordo della carcassa, udirono ancora i fischi di prima; ma non se ne spaventarono più. Oramai sapevano che questo non significava se non il cambio delle sentinelle sul ponte. E non avevano più paura anche perchè sentivano d'essere in pieno combattimento. Questo accade anche ai veri soldati nelle vere battaglie: finchè non hanno incontrato il nemico, ogni ombra li impaurisce. Ma quando la prima palla ha fischiato all'orecchio, prendono coraggio, si esaltano e dimenticano di correre forse verso la morte. Primo salì Boka, sulla barchetta; secondo Cionacos. Nemeciech camminava sulla riva melmosa. — Sali, marmocchio! — Salgo — disse Nemeciech, ma sdrucciolò; s'afferrò a una canna di giunco che non lo sorresse e piombò nell'acqua senza una parola. S'immerse fino alla gola, ma si contenne dal gridare. Si rialzò in piedi sgocciolante d'acqua, s'aggrappò ad un'altra canna. Cionacos, ridendo, chiese: — Hai bevuto, marmocchio? — No, non ho bevuto — rispose il biondino con viso spaventato e, inzuppato e infangato com'era, montò sulla barchetta. Era ancor bianco dalla paura. — Non credevo di dover fare un bagno, oggi — disse piano. Non c'era tempo da perdere: Boka e Cionacos afferrarono i remi e staccarono la barca dalla riva. La barca pesante scivolò pigra sull'acqua e mosse lo specchio dello stagno. I remi si tuffarono silenziosi e la pace era così completa che si udiva il batter dei denti del piccolo Nemeciech rannicchiato a prua. La barchetta approdò alla riva dell'isola. I ragazzi scesero in fretta e si nascosero dietro un cespuglio. — Fin qui ci siamo — disse Boka —. Ed iniziò l'ultima avanzata; gli altri due, dietro. — Non possiamo abbandonare la barchetta — disse il presidente —. Se la scoprono non c'è via di ritirata. Sul ponte ci sono le sentinelle. Cionacos, tu rimani alla barchetta. Se qualcuno s'accorge della barchetta, due dita in bocca ed un fischio de' tuoi! Allora noi ripiegheremo di corsa, saltando nella barchetta. Cionacos tornò, carponi, fino alla barca e in cuor suo si rallegrava della probabile occasione di emettere un fischio, de' suoi! Boka e il biondino continuarono l'avanzata, lungo la riva. I cespugli erano più alti; i due poterono alzarsi in piedi. Si fermarono e scostarono le fronde degli arbusti; scorsero così il centro dell'isoletta, una radura dove stava seduto l'esercito delle camicie rosse. Il cuore di Nemeciech si mise a galoppare. Il biondino si strinse a Boka. — Non aver paura! — gli sussurrò il presidente. Nel mezzo della radura c'era una grande pietra sopra la quale era stata posata la lampadina. Attorno alla lampada erano accovacciate le Camicie Rosse. Accanto a Franco Ats c'erano i due Pastor ed accanto al minore dei Pastor c'era qualcuno che non aveva la camicia rossa... Boka sentì che il biondino cominciava a tremare accanto a lui. — Vedi? — chiese. — Vedo — rispose Boka con tristezza. Accanto alle camicie rosse stava seduto Ghereb! Non si era sbagliato dunque, osservando dall'altura! Era proprio Ghereb che camminava in su e in giù con la lampadina. I due fissavano con raddoppiata attenzione la compagnia delle camicie rosse. La lampada illuminava stranamente i Pastor, i loro visi cupi. Tutti tacevano: il solo Ghereb parlava. Doveva riferire qualcosa che interessava molto gli altri perchè tutti erano curvi verso di lui. Nel gran silenzio serale anche i due ragazzi della via Pal poterono percepire le parole di Ghereb: — ...al campo si accede da due parti... Si può entrare dalla via Pal, ma è difficile perchè i regolamenti prescrivono che chi entra deve sprangare la porta dietro di sè. L'altro ingresso è dalla via Maria. La porta della segheria è sempre spalancata; e di lì, attraverso le cataste di legname, si può giungere al campo. Ma lì, tra le viuzze, ci sono le fortezze... — Lo so — disse Franco Ats a voce bassa e con un tono che fece rabbrividire quei della via Pal. — Infatti, tu ci sei stato — continuava Ghereb —. Nelle fortezze ci sono le vedette che danno subito l'allarme se qualcuno si avvicina per le viuzze tra il legname. E non mi pare prudente entrare da quella parte.... Si trattava dunque di invasionse! Le camicie rosse volevano entrare nel campo! Ghereb diceva: — La miglior cosa sarebbe che ci mettessimo d'accordo prima. Stabilito quando venite, io entro per ultimo sul campo e lascio aperta la porta: non la sprango. — Sta bene — concluse Franco Ats —. — In nessun modo vorrei occupare il campo quando è deserto. Faremo la guerra con tutte le regole. Se saranno capaci di difendere il campo, benissimo. Se non riescono a difenderlo, l'occuperemo noi, issando la nostra bandiera rossa. Non lo facciamo per avidità, lo sapete bene... Intervenne uno dei Pastor: — Lo facciamo per avere un luogo dove giocare alla palla. Qui non si può e in via della Libertà bisogna sempre leticare per il posto. A noi occorre un campo di giuoco e niente altro! Avevano decisa la guerra per motivi simili a quelli dei veri soldati. Ai russi occorreva il mare; e fecero la guerra ai giapponesi per questo! Le Camicie Rosse avevano bisogno di un campo dove giocare alla palla e poichè non potevano averlo in altro modo, intendevano conquistarlo con la guerra. — Allora siamo d'accordo, — disse Franco Ats, capitano delle camicie rosse — che tu dimenticherai di chiudere la porta sulla via Pal. D'accordo? — Sì! — disse Ghereb. Al povero piccolo Nemeciech doleva il cuore. Se ne stava lì, col suo abito fradicio, fissando con occhi spalancati le camicie rosse sedute attorno al lume e tra loro «il traditore»! Il suo strazio era così grande che quando dalla bocca di Ghereb uscì il «sì» definitivo che chiudeva ogni speranza, Nemeciech si mise a piangere. Piangeva sommessamente e mormorava: — Signor presidente... Signor presidente... Signor presidente... Boka volle calmarlo: — Andiamo! Col pianto non si conclude niente! Ma anche la sua voce era strangolata: era pur una cosa dolorosa questa di Ghereb! D'un tratto, ad un cenno di Franco Ats, le camicie rosse balzarono in piedi. — A casa! — disse il capitano. Avete tutti le vostre armi? — Sì! — risposero tutti ad una voce e sollevarono da terra le loro lunghe lancie di legno che portavano in cima una sottile bandieruola rossa. — Avanti! — comandò Franco Ats. Le armi in fascio, tra i cespugli. E s'avviarono tutti, con Franco Ats alla testa, verso l'interno dell'isola. E anche Ghereb andò con essi. La radura rimase deserta con nel centro la pietra e sulla pietra la lampadina accesa. Si udivano i loro passi che s'allontanavano sempre più, perdendosi nel folto. Boka si mosse: — E' il momento! — disse, e cavò di tasca il cartone rosso nel quale già era infilata una puntina da disegno. Scostò i rami del cespuglio e disse al biondino: — Aspettami qui! Non ti muovere! E balzò nella radura dove poco prima erano state le camicie rosse. Nemeciech trattenne il fiato. Boka s'accostò al grande albero che era sul margine della radura e che copriva col suo ampio fogliame tutta l'isoletta: attaccò il cartone al tronco e poi s'avvicinò alla lampadina. Aperse la finestrina e soffiò sulla candela. La Luce si spense e in quel momento Nemeciech perse di vista anche Boka; ma i suoi occhi non s'erano ancora abituati all'oscurità quando Boka gli era già tornato vicino: — Via! Corrimi dietro, più presto che puoi! E si misero a galoppare verso la riva, verso la barchetta. Quando Cionacos li vide, montò a bordo e appoggiò il remo contro la riva per essere pronto a staccare di colpo l'imbarcazione. I due ragazzi saltarono pronti nella barchetta. — Via! — ordinò Boka. Cionacos puntò il remo e spinse ma la barchetta non si mosse. Giungendo, avevano approdato con troppo impeto e la barchetta era per metà in secca. Bisognava scendere, sollevare la prua e spingerla in acqua. Intanto le camicie rosse eran tornate sulla radura ed avevano trovata spenta la loro lampadina. Sulle prime credettero che l'avesse spenta il vento, ma quando Franco Ats s'accorse che lo sportello era aperto: — Qui c'è stato qualcuno! — esclamò, e la sua voce fu così forte che la intesero anche i ragazzi nella barchetta. La lampada fu riaccesa ed allora si trovò anche il cartello appeso al tronco: I RAGAZZI DI VIA PAL SONO STATI QUI! Le camicie rosse rimasero allibite; ma Franco Ats gridò: — Se sono stati qui, ci devono essere ancora! Inseguiteli! Emise un lungo fischio. Le sentinelle accorsero dal ponte e riferirono che di lì nessuno era passato. — Allora sono venuti con la barchetta! disse il Pastor più piccolo. E mentre i tre ragazzi si affaticavano per smuovere la barchetta; udirono il comando che si riferiva ad essi: — Inseguiteli! Proprio quando risonò questa parola, Cionacos riuscì a spingere in acqua la barchetta: con un balzo fu a bordo anche lui. Afferrarono immediatamente i remi e remarono a gran forza verso la riva. Franco Ats dava a gran voce i suoi ordini: — Vender, sull'albero: osservazione e informazione! Fratelli Pastor, via per il ponte e aggirateli, da destra e da sinistra! Circondati! Prima che essi abbiano fatte le loro cinque o sei remate, certo i Pastor campioni di corsa, avranno già fatto il giro del lago, ed allora non c'è scampo nè a destra nè a sinistra. E se giungono prima dei Pastor, la vedetta in cima all'albero può seguirli con lo sguardo e comunicare la direzione presa! Dalla barchetta si vedeva il fanalino, in mano a Franco Ats, muoversi sulla riva dell'isoletta. Poi uno scalpiccio sul ponte: i Pastor che lo varcavano di corsa! Quando la barchetta giunse all'altra sponda, la vedetta raggiungeva il suo posto d'osservazione in cima all'albero: — Approdano! — urlò la voce dall'albero — E la voce del capitano rispose pronta : — All'attacco! Tutti! Ma già i tre ragazzi della via Pal galoppavano disperatamente: — Non devono raggiungerci — disse pur mentre correva Boka —. Sono in molti più di noi! Corsero a precipizio, attraverso strade, praterie, girando boschetti: Boka in testa, gli altri due dietro. Erano diretti alla serra. — Dentro, nella serra! — rantolò Boka, e corse alla porticina. Per fortuna era aperta. Scivolarono dentro e si nascosero. Fuori era silenzio. Forse gli inseguitori avevano perdute le traccie. I tre ragazzi ora riposavano un poco. Si guardavano attorno: le pareti e il tetto di vetro dell'edificio strano lasciavano trapelare il lontano chiarore della città. La grande serra era un luogo nuovo ed interessante! Si trovavano nell'ala sinistra della costruzione: c'erano alberi piantati dentro gran vasi verdi, alberi con larghe foglie. Dentro lunghi cassoni vegetavano mimose e felci. Sotto la cupola del corpo centrale s'ergevano palmizi con fronde a ventaglio e tutta una foresta di flora tropicale. In mezzo a questa foresta c'era una piscina con dentro dei pesciolini dorati, e vicino una panchina. Poi magnolie, lauri, aranci, ed enormi felci. Un profumo intenso carico d'aromi, rendeva pesante l'aria. E nell'altra ala, quella riscaldata a calorifero, l'acqua gocciolava sempre. Le goccie colavano sulle larghe foglie carnose e quando una foglia di palma si mosse sotto il peso di queste goccie ai ragazzi parve di scorgere qualche strano mostro equatoriale sbucare da questa foresta calda ed umida, in mezzo ai vasi verdi. Si sentivano al sicuro e cominciavano a pensare al modo di uscire. — Purchè non ci chiudano dentro! — mormorò Nemeciech che s'era seduto ai piedi d'una grande palma e si sentiva bene nella località riscaldata perchè era inzuppato fino alle ossa. Boka lo rassicurò: — Se non hanno chiuso ancora la porta, non la chiuderanno più. Stavano seduti ed ascoltavano: nessun rumore. Certo a nessuno sarebbe venuto in mente di cercarli qui. Si alzarono e si mossero a tastoni tra gli alti scaffali, zeppi di piante, di erbe odorose e di grandi fiori. Cionacos andò a cozzare contro uno scaffale e inciampò. Nemeciech volle essere premuroso: — Fermati — disse — ti faccio luce! E prima che Boka avesse potuto impedirglielo aveva cavato di tasca i fiammiferi, ancora asciutti malgrado il bagno, e ne aveva acceso uno. La fiammella divampò ma si spense subito perchè Boka l'aveva strappata dalla mano dell'imprudente. — Merlo! — diceva Boka furioso — Non sai che sei in una serra? Che qui anche le pareti sono di vetro...? Di certo avranno visto la luce. Si fermarono e si posero in ascolto. Boka aveva ragione: le camicie rosse 6 avevano veduto la luce divampare, rischiarare per un istante tutta la serra. Ed ecco si udivano già i loro passi sui ciottoli. Anch'essi si dirigevano alla porta dell'ala sinistra. Franco Ats diede gli ordini: — I Pastor per la porta di destra — gridò — Sebeni per quella di mezzo, io per di qui! I te della via Pal si nascosero in un baleno. Cionacos si mise disteso sotto uno scaffale, Nemeciech, con la scusa ch'era bagnato di già, fu mandato nella piscina. II biondino si calò nell'acqua fino al mento e nascose la testa sotto una grande felce. Boka fece appena in tempo a ritirarsi dietro il battente che si apriva. Franco Ats entrò col suo seguito: teneva in mano il fanalino. La luce di questo cadde sulla porta vetrata in modo che Boka poteva vedere benissimo Franco Ats, ma questi non poteva vedere Boka nascosto dietro la porta. E Boka osservò bene il capitano avversario, ch'egli aveva veduto soltanto una volta da vicino, nel giardino del Museo: bel ragazzo, Franco Ats, col viso tutto acceso dall'ardore del combattimento. Ma subito si allontanò: percorse con gli altri le stradicciuole della serra e nell'ala di destra guardarono anche sotto gli scaffali; ma a nessuno veniva in mente di cercar nella piscina. Cionacos poi scampò dal pericolo d'essere scoperto perchè quando stavano per esaminare anche sotto lo scaffale dov'egli si trovava, il ragazzo che Franco Ats aveva chiamato Sebeni, disse: — Se ne sono andati da un pezzo, per la porta di destra... E poichè si avviava in quella direzione, tutti gli altri, nel fervore della ricerca, lo seguirono. Attraversarono la serra, ed alcuni sordi tonfi dissero che anch'essi non avevano troppi riguardi per le terraglie. Uscirono. Nuovo silenzio. Cionacos sbucò fuori: — Un vaso m'è capitato in testa e sono pieno di terra! E si mise a sputare con molto zelo la terra che gli era entrata in bocca. Secondo apparve Nemeciech: uscì dalla piscina come un mostro acquatico. Era bagnato come un cencio e gocciolava tutto: — Passerò tutta la vita in acqua? — diceva — Cosa sono? Una rana? Si scosse tutto come un cagnolino bagnato. — Non ti lamentare — disse Boka —. Almeno ora non potrai più accendere fiammiferi di certo. Ma andiamo... Nemeciech sospirò: — Come vorrei già essere a casa! Ma, pensando alle accoglienze che avrebbe avuto a casa vedendo il suo vestito in quello stato, corresse: — No. Non vorrei essere neanche a casa! Ritornarono correndo verso l'acacia dove avevano scavalcato lo steccato. Cionacos s'arrampicò sull'albero, ma prima di mettere il piede sullo steccato si rivolse verso il giardino: — Vengono! — esclamò. — Su, all'albero! — ordinò Boka. Cionacos tornò sull'albero ed aiutò anche i compagni a salire. S'arrampicarono quanto più in alto riuscirono e quanto la resistenza dei rami consentiva. Sarebbe stato seccante essere presi quando stavano per essere in salvo. La banda delle camicie rosse giunse sotto l'albero con corsa rumorosa. I ragazzi si rannicchiarono tra le foglie come tre uccellini spaventati. Tornò a parlare quel Sebeni che nella serra aveva guidato i suoi sopra una falsa pista: — Li ho visti scavalcare lo steccato! Questo Sebeni doveva essere il più stupido fra i nemici, e perchè era il più stupido era anche il più turbolento ed era lui che parlava e gridava di continuo. Le camicie rosse che eran tutti ottimi ginnasti, in pochi balzi, sono al di là dello steccato. Franco Ats è rimasto per ultimo e prima di uscire spegne la lampada. Mentre si arrampica sull'acacia per poi passare sullo steccato, gli cadono addosso, da Nemeciech fradicio, alcune goccie d'acqua. — Piove — disse; e si asciugò il collo. — Eccoli laggiù! — disse Sebeni; e tutti si misero a correre. — Se non ci fosse stato questo Sebeni ad aiutarci — disse Boka — ci avrebbero presi da un pezzo. Ora sentivano d'essere definitivamente scampati da ogni pericolo. Avevano creduto di riconoscerli in due ragazzi che se n'andavano pacificamente per i fatti loro e s'erano messi ad inseguirli: quei due, spaventati, s'eran dati a scappare. E allora le camicie rosse, urlando selvaggiamente, via, all'inseguimento. II rumore della corsa si perdette lontano. Scesero dallo steccato e respirarono di soddisfazione quando tornarono a sentire la pietra del marciapiede sotto le loro scarpe. Incontrarono una vecchietta barcollante; poi altri passanti. Erano di nuovo in città: ogni pericolo era scomparso. Erano stanchi ed affamati. Passarono davanti all'orfanotrofio le cui finestre illuminate guardavano verso la sera buia: una campanella annunciò che là dentro si stava per andare a cena. Nemeciech batteva i denti. — Facciamo presto — disse. — Aspetta — disse Boka —. Tu prendi il tram per andare a casa. Ti do i soldi. Mise la mano in tasca. Ma il presidente non aveva che sette soldi. Nella sua tasca non c'erano che sette soldi di rame e l'elegante calamaio tascabile ricoperto di pelle, dal quale colava un filo d'inchiostro azzurro. Cavò i sette soldi macchiati d'inchiostro e li diede a Nemeciech: — Non ne ho altri! Ma Cionacos cavò fuori due soldi; e il biondino aveva un soldo portafortuna che aveva con sè in una scatoletta per pillole. Tutto sommato si arrivava a dieci soldi. Con questi, il biondino salì sul tram. Boka si fermò in mezzo alla strada: aveva ancora il cuore gonfio per il tradimento di Ghereb. Se ne rimaneva triste e taceva. Ma Cionacos che non sapeva ancora niente era allegro e disse: — Attenzione, signor presidente! — e quando Boka lo guardò, mise due dita in bocca e fischiò da rompere i timpani. Poi si guardò attorno come uno che si sia finalmente sfogato. — L'ho tenuto finchè ho potuto, ma ora non ne potevo più! Prese a braccetto il malinconico Boka e, dopo tante avventure, s'avviarono stanchi verso la città, lungo il grande viale...

Il libro della terza classe elementare

210515
Deledda, Grazia 1 occorrenze
  • 1930
  • La Libreria dello Stato
  • Roma
  • paraletteratura-ragazzi
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Allora il povero cieco alzò la voce, implorando: - Gesù, figlio di Davide, abbi pietà di me. - Il Divin Maestro udì la preghiera, si fermò, e comandò che l'infelice gli fosse condotto davanti e gli disse: - Che cosa vuoi che ti faccia? - Signore, fa che io veda! - fu la risposta. - Vedi! - replicò Gesù; - la tua fede ti ha salvato. - E subito il cieco riacquistò la vista e si unì alla turba, glorificando Iddio.

Pagina 190

Il giovinetto campagnuolo I - Morale e igiene

215495
Garelli, Felice 6 occorrenze
  • 1880
  • F. Casanova
  • Torino
  • paraletteratura-ragazzi
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Abbi sempre la coscienza per guida delle tue azioni: essa ti fa conoscere ciò che è bene e male; ciò che è vizio o virtù; ciò che è giusto od ingiusto. Essa ti insegna a diventare uomo, a farti cioè onesto, utile a te stesso, alla famiglia ed al prossimo. Interroga sempre la tua coscienza, esegui i suoi consigli, se vuoi essere buono, virtuoso e felice.

Abbi dunque caro il sale. Sospendine una formella, o mettilo, se è in polvere, in un sacchetto, alla portata del bestiame, affinchè lo possa leccare a volontà, e regolarsene l'uso in ragione del bisogno.

Pagina 111

Ma abbi a compagni nuotatori abili, e fidi, e ricorda quel che ti dissi dei bagni. In questi esercizi non far lo spaccone, e il bravaccio. Nel saltar siepi, o fossi, scavalcar muri, nuotare, e rampicar sulle piante, non devi affrontare pericoli senza bisogno: ciò sarebbe temerità, e non coraggio. Infine lavora. Il lavoro, già te l'ho detto, è necessità, è dovere; ma è pur anche una ginnastica che ti dà appetito, salute, robustezza, ed allegria.

Pagina 116

Sàppiti dunque regolare, così nel lavoro, come nel riposo, e nel sonno: abbi moderazione in tutto. Dormi di notte, e veglia di giorno. Coricarsi presto, e levarsi per tempo è buona regola. Le ore del mattino han l'oro in bocca. Riposa la domenica. Dopo una settimana di continue fatiche, il riposo della domenica è necessario. Il corpo ritempra le forze, e si prepara a nuovi lavori. Anche l'anima gode di raccogliersi in Dio, e si conforta di oneste distrazioni. L'uomo non vive di solo pane.

Pagina 118

Abbi cara la patria, come ti è cara la madre, e obbedisci alle sue leggi. 12. Godi del benessere altrui, e studia di migliorare la tua condizione. 13. Povero o ricco, lavora: il lavoro è dovere, è gioia, è salute, è ricchezza. 14. Non crederti sapiente da te stesso: ascolta il savio, e diverrai più savio. 15. Tra gli uomini onesti, e tra quelli che sanno più di te, procura di farti un amico: avrai trovato un tesoro. 16. Sii modesto nei desiderii, calmo nella prosperità, forte nella sventura. 17.Cura il buon nome, che val più dell'oro: e fa di meritarlo. 18.Abbi ognora presente che niuna azione, buona o cattiva, sfugge agli occhi di Dio, e al giudizio della tua coscienza.

Pagina 60

Se non sai l'arte utilissima del nuoto, abbi chi ti assista, e ti aiuti in caso di bisogno. Ricòrdati del povero Nanni, che, inesperto al nuoto, si annegò; e di Gian Pietro che, quantunque fosse buon nuotatore, se la vide brutta assai, quando volle gettarsi nell'acqua, poco dopo aver mangiato.

Pagina 77

le straordinarie avventure di Caterina

215670
Elsa Morante 1 occorrenze
  • 2007
  • Einaudi
  • Torino
  • paraletteratura-ragazzi
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Abbi pietà di me! I denti dei tre briganti battevano per la paura. Caterí ne sentiva il rumore, di sotto al tavolino dove s'era nascosta, e di dove guardava la scena con un occhio solo. Intanto, che cosa accadeva nell'animo di Tit? Egli guardò la trombetta d'argento che giaceva sul tavolino, e i suoi occhi s'intenerirono: — Che cosa avrebbe fatto, lei? — chiese come a se stesso. E d'improvviso si volse: — Quella è la finestra, — disse. — Saltate per di là, carte moschicide. Levatevi di qua, divoratori di brodo. E se vi farete vedere ancora da queste parti... — Ma non fu necessario che Tit finisse la minaccia, perché i tre, senza pugnali e senza barba, erano già fuori della finestra.

Pagina 43

Al tempo dei tempi

219481
Emma Perodi 1 occorrenze
  • 1988
  • Salani
  • Firenze
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Figlio mio, abbi dunque pazienza, costanza e fermezza! - La voce tacque, ma il giovane Principe si sentì consolato, e ogni volta che parlava col fabbro (sempre parlavano della lite, perchè, si sa, la lingua batte dove il dente duole) gli ripeteva: - Nessuno ci può aiutare, se non il re di Spagna. Lui solo ci può far rendere giustizia. Ci vuol pazienza, costanza e fermezza! - Il fabbro, a forza di sentir questo, si convinse che, di fatto, il Re solo poteva far rinsavire i giudici e, zitto zitto, di nascosto anche alla moglie, vende un'altra casa e le annunzia che deve partire per certi suoi affari. Invece s'imbarca per la Spagna, sbarca a Barcellona, piglia pratica alla Sanità e se ne parte per Madrid. Al palazzo non conosceva nessuno e non era vestito come le persone di Corte; per questo tutti lo sbirciavano con disprezzo, ma egli non ci badava. Era giorno d'udienza e il Re riceveva tutti. Dopo lungo aspettare il fabbro fece passare l'ambasciata al Re, disse che veniva da Palermo e fu ricevuto. Appena alla presenza del Re, che era nientemeno che Carlo V, disse, gettandosi in ginocchio: - Maestà, grazia per il principe di Cattolica! - Il Re lo guardò maravigliato perchè non pareva davvero un Principe, e lo invitò a rialzarsi ed a parlare. Il fabbro allora cavò fuori tutte le carte che comprovavano le ragioni del Principino e le copie delle sentenze. Il Re, senza indugio, le esaminò, chiamò un suo giureconsulto a esaminarle, poi un altro ancora, e vedendo che si commetteva a Palermo certe nefandezze, esclamò: - Povero me, come sono ben servito! Così si amministra in Sicilia la giustizia in mio nome? - Proprio così, Maestà, - rispose il fabbro - soltanto chi ha quattrini ha ragione, anche quando commette una sfacciata usurpazione. - Ma questo non accadrà più, - assicurò il Re, e preso penna, carta e calamaio, scrisse una lettera per il Vicerè che doveva esser comunicata ai giudici, la munì del suo reale suggello e consegnandola al fabbro, disse: - Tenete, andate in Sicilia e abbiate fiducia che nessuno oserà più trasgredire agli ordini miei. - Il fabbro, tutto consolato e pieno di speranza tornò a Palermo, consegnò la lettera del Re al Vicerè, fece riaprire la causa, ebbe di nuovo una sentenza contraria e non se ne curò. Però il Principino se ne afflisse molto, e la notte dopo che fu pronunziata la sentenza, non riuscì mai a dormire. Sempre invocava la madre ed esclamava: - Madre mia, ma la giustizia è proprio morta a Palermo? Come, non è rispettata neppure la volontà del Re? Come, dovrò vedere quel perfido abate godersi i beni della mia famiglia e non potrò neppure rimborsare quest'eccellente popolano dei sacrifizi che fa per me? Non vedi, madre mia, che s'è disfatto di tutto quel che possedeva; non vedi che stenta per mantenere tuo figlio? Non credi che questo sia uno strazio per me? - L'infelice, dopo questa invocazione sentì un alito freddo sfiorargli il viso e due labbra gelate si posarono sulle sue, e quindi la solita voce affettuosa pronunziò lentamente queste parole: - Figlio mio, abbi pazienza, costanza e fermezza. Io pregherò per te. - E suggellando la promessa con un lungo bacio, si allontanò. Il fabbro sbraitava per la sentenza dei giudici, e tante ne disse che stavano per arrestarlo; ma il Vicerè non lo permise perchè aveva nelle mani la lettera del Re e temeva qualche guaio serio. Il Principino, intanto, a tutti gli sfoghi del suo benefattore, rispondeva invariabilmente con le parole della madre: - Ci vuol pazienza, costanza e fermezza! - Ma che pazienza! - gridò una volta il fabbro. - Te lo faccio vedere io che cosa ci vuole! - E vende l'ultima casetta che possedeva con la bottega e tutto, e se ne va in Ispagna di nuovo. La moglie, che fino a quel momento non s'era lagnata e le era parso tutto giusto quel che il marito aveva fatto per il Principino, quando vide chiuder la bottega e dovette lasciar la casa, divenne una vipera. - Mio marito è pazzo - diceva a chi non voleva sentirla - è pazzo da legare! S'è mai veduto che un padre dia fondo a tutto quello che ha, riducendo la famiglia alla miseria, per far valere i diritti di uno che non è neppur suo parente? Ecco qui, la nostra Angelina, non per vantarmi, era la ragazza più ricca di tutto il rione, e ora ha appena la camicia! Chi se la piglierà così nuda bruca? Nessuno. Ed ella ci rimprovererà sempre di averla sacrificata. - Non lo farò mai, mamma, - disse la fanciulla. - Io sono felice e non mi dispiace punto di non trovar marito. Sto bene così. Non vi pentite di quel che avete fatto per il Principino; io vorrei col mio lavoro, aiutarlo. - Angelina era abilissima nel fare ricami sulla tela, riproducendovi cacce, cortei reali e tante altre cose, che davano un pregio singolare alla biancheria. Ella si mise a lavorare e lavorava per le nobili dame e guadagnava tanto da campare sè e la madre mentre il fabbro viaggiava per la Spagna. Il Principino s'era rimesso a lavorare pure, e così la moglie del fabbro non mancava di nulla. Ecco che il fabbro sbarca a Barcellona, giunge a Madrid e si presenta al Re. - Maestà, il Vicerè di Sicilia ne fece un bel conto della vostra lettera! - Il Re si turbò. - Che sentenza hanno pronunziato i giudici? - domandò. - Una bella sentenza! Hanno dichiarato che l'abate ha tutto il diritto di valersi dei beni del principe di Cattolica e che il Principino è un truffatore. E l'abate se la gode nel palazzo e il Principino tira il mantice e suda a battere da mane a sera il ferro sull'incudine! - Al Re vennero i brividi nel sentir questo. Poi incominciò a gridare e a battere i piedi. Prese la corona e la scaraventò contro il muro dicendo: - Che mi vale questa corona se non sono Re in Palermo -

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