Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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LE NOVELLE DELLA NONNA. Fiabe fantastiche

679050
Perodi, Emma 8 occorrenze
  • 1992
  • Newton Compton Editori s.r.l.
  • prosa letteraria
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Essi erano ciechi di rabbia e dissero: - Abbi giudizio, borioso maledetto, perché se tu ci minacci, ti spoglieremo di ciò che costituisce la tua superbia! - Se avete il coraggio, fatelo pure, - rispose Ciapo alzando il roncolo che portava alla cintura e ponendosi a difesa del suo tesoro. I fratelli, pazzi di furore, vedendogli in mano quel ferro, estrassero i coltelli e lo crivellarono di ferite, cessando soltanto quando Ciapo cadde morto davanti a loro. Una risata maligna echeggiò in quel momento dietro a una siepe. Era il Diavolo che rideva dalla contentezza e se ne andava felice dell'opera sua. Prima di giungere in Bibbiena, lasciò le vesti di Frate cercatore, e prendendo l'aspetto di un mercante di buoi, entrò in una osteria e chiese da cena. La serva gli portò in tavola un par di rocchi di salsicce, una frittata e un fiasco di vino. Mentre il Diavolo mangiava, entrò un uomo tutto commosso, narrando che i vecchi Sbrigoli erano crepati a tavola dal troppo mangiare e dal troppo bere. Il Diavolo si strofinò le mani e ordinò alla serva un altro fiasco di vino, ma di quello vecchio, stravecchio. Mentre sorseggiava il primo bicchiere entrò nell'osteria un altro uomo, annunziando che il conte Marco, mentre cavalcava per recarsi a una sua villa, dopo aver rubato la bella Nicolina Verri, era stato sorpreso dalla piena, guadando l'Archiano, ed era morto. - Anche la ragazza? - domandò il Diavolo. - S'intende, e il cavallo pure, - rispose l'uomo. - Il cadavere del conte Marco è stato ripescato, ma nessuno ha avuto ancora tanto coraggio da portare la notizia del disastro al padre suo. Il Diavolo, dalla contentezza, scese nell'orto e ballò come un burattino. Quando si fu rimesso a tavola, altri giunsero nell'osteria raccontando che i due fratelli Dovizii avevano ucciso Ciapo, e poi, dallo spavento del delitto commesso, si erano dati alla fuga. Il Diavolo mandò un grido di gioia e chiese che gli portassero un fiasco di vin santo. Intanto la gente era sgomenta da quel succedersi di disgrazie e di delitti in poche ore, e si faceva il segno della croce temendo che fosse prossimo il giorno del giudizio. Il Diavolo centellinava l'ultimo bicchierino di vin santo quando Gesù Cristo si presentò sull'uscio. - Satana, - disse, - la giornata è trascorsa e tu devi tornare alle fiamme dell'Inferno. - Son pronto, Nazzareno, - rispose Satanasso asciugandosi la bocca, - ma ti assicuro che non farò il viaggio solo. Porto meco tutti quelli che ti eran cari in questo paese. - Quali arti diaboliche hai tu impiegato per condurre a te quelle anime timorate di Dio? - domandò Gesù Cristo. - Un mezzo semplicissimo: li ho beneficati. Tu mi avevi proibito di tormentare gli Sbrigoli, i Verri e i Dovizii, e io non ho trasgredito la tua volontà; invece di molestarli, li ho arricchiti. Questo fatto ti servirà d'esempio, Nazzareno. Tu saprai un'altra volta che per perdere gli uomini vi è un mezzo ben sicuro; quello di beneficarli. Addio! E il Diavolo fece un lancio e sparì nell'oscurità della notte. Mentre Gesù Cristo, afflitto dalla dannazione di quelle anime, riprendeva il pellegrinaggio, alla luce delle torce vide recare sopra una barella il cadavere del conte Marco, che riportavano al palazzo. Poi, ammanettati in mezzo ai soldati, scòrse i due fratelli Dovizii. Il Signore si coprì la faccia e pianse esclamando: - Il Diavolo è più potente di me! - Come raccontate bene, Regina! - esclamò Vezzosa. Vi si starebbe a sentir degli anni. Me l'avevano detto che non ci era nessuno che narrasse le novelle come voi, ma non ci credevo. Ora non posso più dire così, ed è un piacere davvero l'ascoltarvi. - La mamma, - rispose la Carola, - ci fa parer corte le veglie d'inverno, e se tu ci fai bene attenzione, ogni novella contiene uno o più ammaestramenti. Io lo dico sempre, ai miei figliuoli, che son ben felici di avere una nonna come lei. Cecco aveva una voglia matta di unire le sue lodi a quelle altrui, ma la presenza delle donne di fuori lo tratteneva e avrebbe taciuto se la Vezzosa non l'avesse stuzzicato dicendo: - Scommetto che di quanti siamo qui, il solo che non piglia gusto alle novelle della Regina, è Cecco. Lui, assuefatto in città, deve ridere delle nostre fandonie. - Io? - rispose Cecco arrossendo. - Sì, proprio voi; al reggimento disimparate tutte le usanze del paese, e invece di sentir raccontare volentieri i fatti veri o immaginarî che riguardano il Casentino, leggete i fattacci che stampano i giornali. Ne ho visti tanti che sono ritornati da fare il soldato, e tutti avevan cambiato pensiero e disprezzavano ciò che prima piaceva loro. - Vi sbagliate, Vezzosa, - rispose Cecco vincendo il ritegno. - Io sono stato volentieri sotto le armi, perché ho imparato a montare a cavallo, a puntare un cannone, a sopportare le fatiche delle marce, e, all'occorrenza, sarei buono anch'io a difendere il nostro paese, che non è il Casentino solo, ma bensì tutta l'Italia. Ma anche quando ero nelle grandi città, il mio pensiero si volgeva sempre qui, e non vedevo il momento di tornare a casa per abbracciare la mia vecchietta e aiutare i fratelli. Io non credo che si possa essere buoni soldati, se non si comincia dal fissare le proprie affezioni a una casa, a un pezzetto di terra, e da queste non si estendano a una regione e poi alla grande patria, che il soldato deve essere pronto a difendere. - Cecco, voi parlate come un libro e non l'avrei mai creduto; ma già siete figliuolo della Regina. Godo davvero di sentire che voi siete rimasto un buon casentinese anche sotto le armi; vuol dire che alla vostra casa e alla vostra mamma siete affezionato davvero. Cecco non rispose, ma scambiò con la Regina uno sguardo pieno d'affetto. - Quand'è mamma che ci racconterete un'altra novella? - domandò la Carola. - Domenica, se non c'è nulla in contrario. - Allora, Vezzosa, non mancare domenica prossima; e siccome sarà entrato il carnevale, dopo la novella farete due salti. Avverti le compagne, e Cecco suonerà l'organino. - Cecco ballerà, - disse Vezzosa. - In paese non ce n'è tanti dei ballerini come lui, ed è meglio che suoni chi non può dimenar le gambe. Il bell'artigliere non poteva soffrire che quella ragazza si occupasse sempre di lui, e per levarle ogni speranza disse: - Su di me non ci contate, io non so ballare. - Si vedrà! - rispose Vezzosa che non voleva darsi per vinta. Per dare un'altra piega al discorso, Cecco disse: - Si può sapere, mamma, quello che ci racconterete domenica? - Se posso rammentarmene bene, vi racconterò la novella di Adamo il falsario; me la raccontava sempre la mia nonna; ma sono tanti e tanti anni che può essermi uscita di mente. - Oh, ve la rammenterete, nonna! - esclamò l'Annina, - voi non dimenticate mai nulla, e domenica saprete farvi onore davanti a molta gente! Poi balleremo e voi ci starete a vedere. - Io andrò a letto, bimba; alla mia età si ha bisogno di riposo. - Ora ne avete bisogno davvero, andate a letto, mamma. La vecchia, aiutata da Cecco, si alzò e andò in camera. Quando il bell'artigliere fu tornato in cucina, Vezzosa gli si piantò davanti, dicendogli: - Siamo tutte donne sole; vi dispiace, Cecco, di accompagnarci? Egli non poté rifiutarsi e uscì fischiando; ma invece di mettersi accanto alla Vezzosa, com'ella avrebbe voluto, s'imbrancò con i bambini, e con lei non scambiò altro che la felice notte sull'uscio di casa.

Sono io che ho accarezzato le tue manine colpite dalle nerbate, io che ho chiamato gli altri angioli ad allietare col canto le lunghe ore di prigionia; abbi dunque fiducia in me. - In te solo, angiolo bello! - rispose Lavella sorridente. L'angiolo le posò in grembo un liuto e sparì. La ragazza, consolata da quelle buone parole, trasse dal liuto alcuni accordi, ed accompagnando il suono con la voce, si mise a cantare una dolce canzone provenzale. - Sentite, canta quella dispettosa! - diceva alle sue donne Chiarenza. - Le avverrà come alle cicale: dopo aver cantato un mese, creperà. Le donne, per adulare la signora, risero di quella stupida facezia, ripetendo: - Creperà! Creperà! - ma non sapevano il truce significato di quelle parole, perché non capivano il pensiero di madonna Chiarenza. Quella perfida donna, che conosceva le qualità di certe piante malefiche, col pretesto di far respirare l'aria fresca del mattino a Selvaggia, andava nei boschi con la figlia e non si faceva seguire altro che a distanza dalle sue donne. Ella cercava sul terreno quelle piante velenose, e quando le aveva trovate, le nascondeva fra i mazzi di fiori. Poi, quando giungeva a casa, pestava quell'erbe e le univa al cibo che mandava a Lavella. Ma la ragazza, appena il cibo le era presentato, lo deponeva per terra e lo sminuzzava alle formiche ed ai topi, i quali lo riportavano nei loro ripostigli, e si guardava bene dal mangiarne, aspettando l'angiolo che non la lasciava mai digiuna e ogni notte volava sulla finestra della camera in cui Lavella era prigioniera, recandole frutti dei boschi e miele odoroso. - Come sta Lavella? - domandava ogni mattina madonna Chiarenza alla servente che le recava il cibo. - È bianca come un giglio e rossa come un garofano, - rispondeva la donna. La Contessa, udendo quella risposta, si mangiava le mani. Come mai tutto il veleno che le metteva nel cibo non le produceva nessun effetto? Questo fatto ella non sapeva spiegarselo, se non che col tradimento della donna alla quale affidava il cibo destinato a Lavella, e per questo disse: - Da mangiare glielo porterò io! E glielo portò infatti quel dì stesso; ma la mattina dopo, quando aprì la camera, Lavella cantava come una capinera e stava meglio di lei. Chiarenza, furente, prese per un braccio la figliastra e la fece uscire da quella prigione nella quale sospettava che alcuno penetrasse a sua insaputa, e, fattale imboccare una scala, le ordinò di salire su su fino in cima. Lavella la ubbidì, e la Contessa saliva dietro a lei, e tanti erano gli scalini che, giunta in cima, aveva la lingua fuori. In vetta a quella scala c'era una specie di soffitta, senza finestre, chiusa da una porta di ferro con tre chiavistelli e tre chiavi, una differente dall'altra. - Qui, carina, non avrai visite, - le disse in tono canzonatorio. E, senza aggiunger altro, uscì, chiuse i tre chiavistelli, girò le tre chiavi, e quando fu giunta in fondo alla scala serrò pure la porta della torre e andò a preparare il cibo avvelenato per la figliastra. Verso sera, quando salì nella torre per portarglielo, sentì partire un canto dolcissimo dalla prigione, e supponendo qualche tradimento, fece gli scalini a due a due per scoprirlo; ma quando giunse in cima tutta trafelata, il canto cessò a un tratto e nella prigione non trovò che Lavella. Allora le venne in mente che la figliastra fosse una strega, ma non per questo rinunziò a offrirle il cibo avvelenato, anzi la costrinse a mangiarlo in sua presenza. Ma Lavella, che rammentava bene la raccomandazione dell'angiolo, lasciavasi cader di mano pane e companatico nel portarlo alla bocca, e i topi correvano a frotte e pulivano il pavimento senza che la Contessa si accorgesse di nulla. Ella uscì dalla prigione pensando che quella volta Lavella era bell'e spacciata, perché non era possibile che tutto il veleno che ella aveva messo nel cibo, non producesse l'effetto voluto; ma mentre usciva dalla porta, l'angiolo entrava da una fessura che si apriva nel muro, e faceva vedere alla ragazza che i topi più ingordi, quelli che avevano mangiato il cibo recato dalla Contessa invece di portarlo nei nascondigli, si contorcevano sul pavimento dagli spasimi. - Ma che ho fatto alla Contessa perché mi voglia veder morta? - diceva la povera ragazza piangendo. - Nulla, Lavella, non piangere. In breve tu sarai consolata ed ella pagherà il fio di tanta perfidia, - le rispondeva l'angiolo. - Preparati a una grande gioia. Senti, - aggiungeva stando un momento in orecchio, - il corno echeggia su queste balze; uno dei valletti di tuo padre viene ad annunziare il suo prossimo ritorno . Sii forte, Lavella, non ti rimane altro che una prova da sormontare. L'angiolo, dopo averla così confortata, sparì, e Lavella si rasciugò le lacrime e tese l'orecchio per afferrare il suono del corno, che le annunziava la prossima liberazione. La torre ove la Contessa teneva rinchiusa la figliastra era l'ultima del castello e guardava il valico del monte; perciò, essendo dalla parte opposta della via, i suoni del corno vi giungevano debolmente; ma Lavella sentì bene che a un tratto cessarono, segno quello che il ponte levatoio era stato calato e il valletto si trovava già fra le mura del palazzo. Poco dopo che ella aveva cessato di udire i suoni del corno, sentì un rumor di chiavi e di chiavistelli e vide entrare la matrigna con gli occhi fuori della testa. Lavella si alzò, la matrigna fece un passo addietro spaventata e fuggì via senza neppure voltarsi. Tuttavia non mancò di chiudere la porta e di lasciare la ragazza a marcire in quella torre. - Non è crepata! È una strega di certo; - borbottava la perfida donna scendendo le scale, - ma se non crepa stanotte, non so più liberarmi di lei. Quella sera Lavella fu al solito visitata dall'angelo che le portò gran copia di fragole odorose e di profumati lamponi, e prima di lasciarla le diede un vasetto, raccomandandole di sciogliersi i capelli, e di ungerli bene avvolgendosi in essi a guisa di manto. Dopo la consueta preghiera, Lavella si ristorò con quei frutti freschi e quindi si distese sulla nuda terra, avendo cura di avvolgersi nei capelli unti prima col balsamo. Non s'era ancora addormentata, che sentì un forte rumore alla porta. Le pareva che qualcuno vi accatastasse fascine sopra fascine. Ma non per questo si spaventò, poiché le parole dell'angiolo le risuonavano ancora all'orecchio e sperava nel ritorno del padre per essere liberata. Ella si addormentò dunque fiduciosa, ma dopo poco fu destata da un crepitare fortissimo di legname. Aprì gli occhi e vide che la porta era in fiamme e queste si spingevano con furia dentro la prigione. Lavella non si perdé d'animo. Balzò in piedi, si avvolse nei capelli e con un lancio varcò quel rogo acceso accanto alla porta della prigione; quindi si diede a scender le scale per fuggire. Ma giù trovò la porta della torre chiusa e le convenne di fermarsi. Ogni tanto sentiva crollare un pezzo di muro e incominciava a dubitare che fosse giunta la sua ultima ora. Ma a un tratto la porta fu aperta e una turba di uomini si precipitò sulla scala per salire in vetta alla torre e abbatterla affinché il fuoco non si comunicasse al restante del castello. Però, appena la videro, rimasero come inchiodati, credendola un'apparizione, ed ella approfittò di quel momento di timore, per farsi largo ed uscire. Appena fu fuori si diede alla fuga, e trovando abbassato il ponte levatoio, perché era stato sonato a stormo e i terrazzani giungevano già per dar mano a spengere l'incendio, ella corse per la campagna e andò ad appostarsi in un bosco, poco lungi dalla strada per la quale il conte Beltramo doveva giungere. A un certo momento della notte la torre cadde con grandissimo fracasso e la contessa Chiarenza, che stava dalla sua finestra a guardare l'incendio, esclamò: - Questa volta la perfida è ben sotterrata fra i rottami, e il conte Beltramo non saprà rinvenirvela. Dirò che è fuggita, e nessuno potrà contraddirmi! La perfida Contessa, che aveva vegliato tutta la notte attendendo che la torre crollasse, si coricò; ma il rimorso le impedì di dormire, e all'alba era già alzata e si faceva acconciare dalle sue donne, alle quali raccontava che Lavella aveva appiccato il fuoco alla torre ed era fuggita. Esse fingevano di credere al racconto, e, per adulare la signora, dicevano che Lavella così doveva finire, perché era insubordinata, altera e sprezzante. I suoni del corno, che salivano dalla valle, fecero impallidire Chiarenza. Nonostante ella si fece animo e, terminatasi di acconciare, mosse incontro al suo signore, dando la mano a Selvaggia. Madonna Chiarenza attese il Conte nella grande sala d'armi e quando lo vide comparire fece per abbracciarlo; ma egli la respinse, e con piglio severo le chiese: - Dov'è mia figlia? - Eccola! - rispose la perfida donna spingendogli nelle braccia Selvaggia. - Io non intendo parlare di questa, - disse il Conte, - ma di Lavella, così dolce, buona e leggiadra. - Ahimè, signor mio! Quella insubordinata mi ha dato molta pena nella vostra assenza. Ed io, per restituirvela come me l'avevate consegnata, avevo stimato bene di tenerla chiusa nella torre; ma neppur là dentro ho potuto custodirla, poiché ella vi ha appiccato il fuoco ed è fuggita. - Madonna, voi siete una perfida, - disse il Conte. - Che cosa avete fatto a Lavella? Se l'infelice è perita per mano vostra, voi pure perirete. - Più che rinchiuderla io non potevo fare, e chiamo il Cielo a testimonio delle mie intenzioni. - Non bestemmiate! - urlò il Conte, e fattosi sulla porta fece un cenno. Pallida, con i capelli disciolti, le vesti bruciate, comparve Lavella. La Contessa mandò un grido vedendola, ma ricompostasi subito disse: - Vedete che è vero quello che vi dicevo; prima ha dato fuoco alla torre, e poi è fuggita. - No, non sono io che ho appiccato l'incendio, ma colei che mi voleva morta, - rispose Lavella pacatamente. - Il Signore, la Vergine Santissima e il mio angelo custode, mi hanno salvata dal veleno che ponevate nei miei cibi, e dall'incendio. Che cosa vi ho fatto, madonna, per meritare il vostro odio? - Sentite, signor mio, come mi accusa quella sfrontata; fatela tacere! - disse Chiarenza. Lavella, colpita da quelle parole, abbassò gli occhi e tacque, e il conte Beltramo non sapeva se credere al racconto delle sevizie patite, fattogli da Lavella, o alle accuse che la moglie aveva formulate contro di lei, quando Selvaggia, che era uscita per un momento, entrò con una fetta di torta in mano, nella quale poneva avidamente i denti. Chiarenza fece un lancio, le strappò la torta di mano e poi aprendole la bocca, smarrita dal terrore, le gridava: - Sputa! Sputa! È veleno! - Ecco il cibo che voi preparavate per Lavella; osereste negare il vostro delitto? - disse il Conte. Chiarenza non l'udì. Inginocchiata accanto alla figlia, la guardava ansiosamente e le poneva le dita in gola per farle rigettare la torta avvelenata. Ma Selvaggia, da gialla che era si era fatta livida. - Aiuto! Salvatela! - urlava la Contessa. Accorse padre Uguccione, le dette subito alcuni farmachi, ma Selvaggia, invece di riaversi, si contorceva come i topi nella prigione di Lavella, e strillava come se la uccidessero. La figliastra se ne stava in disparte, guardando atterrita quella scena in cui riconosceva la giustizia di Dio. Selvaggia spirò fra atroci dolori e la madre se la strinse fra le braccia cercando di rianimarla col suo fiato. Il Conte fece atto di trascinare via la moglie, ma Lavella, guardandolo pietosamente, gli disse: - Non vi pare che ella sia abbastanza punita della sua perfidia? - Hai ragione, - rispose il Conte. - Lasciamola al suo dolore e al suo rimorso; e tu, figlia mia, va' a farti bella, perché fra poco giungerà il bel cavaliere Guglielmo degli Ubertini, colui che vestì i tuoi colori alla giostra di Bibbiena, per domandarti in isposa. Lavella uscì, e quelle stesse donne che avevano dimostrato per lei tanto odio quando Chiarenza la torturava, le furono d'attorno facendo a gara ad acconciarla e a proclamarla bella. Gli sponsali si fecero quel giorno stesso con molta pompa, e Lavella sentiva dintorno a sé un coro di voci celestiali, che gli altri non udivano. La contessa Chiarenza compose la figlia nella bara, e mentre la sala echeggiava di suoni e di liete conversazioni, lei sola assisteva ai funerali della figlia. Il giorno dopo, madonna Chiarenza partiva per ordine del marito e andava a rinchiudersi in un convento di Arezzo, mentre Lavella, figlia e sposa felice, restava signora del castello. La novella non dice come finisse Chiarenza, ma si sa che Lavella si mantenne sempre buona e leggiadra, e visse lungamente a fianco dello sposo, al quale die' numerosa figliuolanza. - Ma quanto patì quella poverina! - osservò l'Annina, quando la nonna ebbe terminato di narrare. - Bambina mia, - replicò la vecchia, - ogni creatura che resta senza madre è da compiangere, e Dio non vi faccia mai provare una matrigna. Appena ebbe pronunziato quel nome, Cecco diventò rosso, e, facendosi forza, domandò alla cognata e ai fratelli: - Dunque, la volete o no in casa la Vezzosa? - Come sarebbe a dire? - rispose Maso. - Io, ormai, ho fatto proposito di sposarla, - riprese l'artigliere. - Se l'accettate in casa e la mamma nostra è contenta, la sposo subito; se no mi cerco un poderetto, prendo meco la nostra vecchina, e la sposo lo stesso. Lavoreremo come cani da principio, ma non avrò più il martirio di saper quella povera ragazza nelle mani della matrigna. - La nostra vecchia non uscirà di casa! - dissero tutti in coro. - E allora? - domandò Cecco che aveva fatto una provvista di coraggio. - Senti, - disse Maso dopo aver riflettuto. - Noi si ha bisogno almeno di un po' di roba, e non possiamo caricare il podere di una nuova famiglia. Capisco che a te vada giù male di veder patire Vezzosa, ma finché si piange soli, le lacrime non sono amare come quando si piange in compagnia. - Ma quella ragazza soffre, - osò dire la Regina. - Allora che devo dire? Sposala, e facciamola finita, - replicò Maso. - Lo sai che tocca a te a chiederla? - osservò la vecchia. - L'avrei da sapere; non ho già chiesto tutte le cognate? - Chiedila, dunque, e fai contento Cecco. - Ebbene, la chiederò. Cecco non poté dire una parola, e, per nascondere i lucciconi, abbracciò la sua vecchia.

. - Credo che tu abbia scelto bene; ma appunto perché Vezzosa è superiore alle cognate, abbi riguardo di non offenderle, e cerca di non cambiare in avversione l'affetto che esse hanno per lei. La conversazione fu interrotta dai nipotini, che correvano a chiedere alla nonna la novella. - Ve la narrerò, - diss'ella, - tanto più che domenica starete senza; domenica è il gran giorno di festa. - Ma domenica balleremo! - esclamò l'Annina. E portata sull'aia una sedia per la Regina, andò a chiamare la mamma, le zie, Vezzosa e tutti gli uomini, i quali, terminato che ebbero la partita, si aggrupparono intorno alla vecchia massaia. - Stasera ho soggezione, - disse la Regina. - Finché raccontavo a quelli di casa e a qualche ragazza, ero sicura di trovare indulgenza; ma ora è un altro affare. - Ma noi sappiamo, - disse la Maria, - che avete molta abilità nel raccontare, e due persone più, due meno, non devon mettervi soggezione. Nell'inverno me ne struggevo di venire a veglia, ma non mi sono mai attentata di accompagnare Vezzosa. - Avete fatto male, - rispose la vecchia. E avrebbe voluto aggiungere che se fosse andata a veglia da loro, forse avrebbe evitato tanti attriti con la figliastra, alla quale sapeva che ella faceva rimproveri continui per quell'onesto svago domenicale; ma la Regina, che era donna prudente, tacque su quello scabroso argomento, e prese a dire: - Diverse centinaia di anni fa, c'era a Stia, che allora si chiamava Staggia, un bellissimo castello di un ricco e ospitale signore della famiglia Guidi, il quale avea nome Romano. Questo signore, benché toccasse già la trentina, non aveva preso moglie e viveva lontano dalle guerre, dilettandosi soltanto di poesia. Per questo aveva riunito nel castello una quantità di poeti, i quali gareggiavano fra loro per dilettarlo e ottenere la sua benevolenza e i suoi favori. Ma essi eran tutti mediocri verseggiatori, e il conte Romano, che era uomo molto dotto, non si appagava di quello che essi scrivevano e si guardava bene dal dare a uno di quei tanti la preferenza. Ora avvenne che da Firenze, sua patria, fosse fuggito un nobile cittadino, per nome ser Bindo de' Bindi, il quale era il più grande e gentile poeta di quel tempo. Appena il conte Romano seppe della fuga del poeta, e conobbe il luogo ove si era rifugiato, pensò di offrirgli ospitalità, e, senza informare nessuno dei proprî divisamenti, partì per il castello di Nipozzano sulla Sieve, ove ser Bindo si tratteneva da alcuni giorni. Soltanto lasciò l'ordine che fosse fatto sloggiare da una vasta e spaziosa camera del castello uno dei tanti verseggiatori che erano a Staggia, e che quella camera venisse arredata con ricchi tappeti e mobili di molto pregio. Il conte Romano partì dunque con numerosa scorta di valletti e di famigli, recando seco un cavallo in più e due muli onde caricare le valigie dell'ospite desiderato. Ser Bindo, vedendo giungere quel signore, lo accolse con ogni sorta di cortesie, e siccome il soggiorno di Nipozzano, per la sua troppa vicinanza con Firenze, non gli pareva molto sicuro, accettò di buon grado l'offerta e, ringraziato l'amico che l'aveva ospitato, caricò le sue robe sulle mule e partì per il castello di Staggia. Bisogna sapere che ser Bindo, prima che gli capitasse fra capo e collo tutto quel malanno che lo costringeva alla fuga, aveva incominciato un poema diviso in canti, di cui ne aveva scritti sette. Questi canti egli li aveva letti agli amici raccolti a veglia in casa sua, e la lettura di essi era bastata perché tutta Firenze sapesse che ser Bindo aveva scritto una cosa tanto pregevole da vincere tutti i poemi dell'antichità. Ora, quei sette canti erano stati riposti con molta cura in una busta di cuoio, e questa busta era rinchiusa a sua volta in una certa valigia più piccola delle altre. Ser Bindo, volendosi assicurare che quella valigia era ben legata, la tastò da tutte le parti prima di partire, e, non fidandosi di alcuno, prese da sé la mula per la briglia. La stagione era la meno favorevole dell'anno a un viaggetto attraverso l'Appennino. Nel marzo, di solito, imperversano fortissimi venti e spesso piove o nevica. Quel giorno appunto, mentre il conte Romano e il suo ospite passavano la Consuma, si scatenò una tremenda bufera. Il vento soffiava impetuoso, l'aria s'era fatta a un tratto oscura come se fosse notte, l'acqua scrosciava e i fulmini non cessavano un momento solo di squarciare le nuvole e facevano somigliare il cielo a un mare di fuoco. Il conte Romano, assuefatto alle intemperie del nostro Casentino, non se ne meravigliava, e messosi a riparo sotto una quercia, aspettava che il temporale cessasse. I valletti e i famigli avevano imitato l'esempio del loro signore, quindi non v'era che ser Bindo che si ostinasse a rimaner nel mezzo della via reggendo a stento il cavallo che montava e la mula che conduceva a mano. Un fulmine scoppiò con grandissimo fracasso a pochi passi da ser Bindo, il cavallo s'impennò, e il cavaliere, per non cader di sella, lasciò la briglia dell'altro animale, il quale, imbizzarritosi pure, si diede a correre per la scesa, e ser Bindo, per quanto lo inseguisse, non riuscì a riacchiapparlo. - I miei canti! I miei canti! - gridava il poeta tutto desolato dalla fuga della mula. Ma aveva voglia di urlare e di smaniare! I tuoni coprivano la sua voce e i compagni non potevano udirlo. Ser Bindo, spaventato nel vedersi avvolto in un turbine di neve, lasciò di inseguire la mula e si rifugiò anch'egli sotto un albero. Passò il temporale, i lampi cessarono di illuminare il cielo coperto di nuvole, e il conte Romano, avventuratosi di nuovo con i suoi sulla via, si diede a chiamare e a cercare ser Bindo. Egli lo trovò a riparo di un macigno, ritto accanto al cavallo e tutto piangente. - Quale sventura vi ha colpito? - domandò il Conte al poeta, mentre i valletti si guardavano fra di loro ammiccando ser Bindo e ridendo, poiché supponevano che piangesse dalla paura del temporale. - I miei canti! I miei canti! - ripeteva il poeta smarrito. - Tutta la mia fama, la gloria mia, se l'è portata via quella mula maledetta! Io sono rovinato. Il conte Romano ebbe pietà di tanto e sincero dolore e fece cercare la mula dai servi; ma tutto fu inutile, e, per evitare di esser di nuovo sorpresi dalla bufera, dovettero tutti proseguire il cammino, abbandonando la mula alla propria sorte. Quell'abbandono costò molto dispiacere al poeta, il quale non sapeva rinunziare ai sette canti del poema su cui aveva sudato tempo. Egli si pentiva di avere lasciato Nipozzano e soprattutto di non essersi messo addosso quel manoscritto, senza il quale non avrebbe saputo continuare l'opera intrapresa. Ser Bindo giunse, dunque, molto a malincuore a Staggia; il paesaggio invernale gli pareva triste, e il castello una vera prigione. Appena poi ne ebbe oltrepassata la pesante porta ferrata e ebbe veduto una doppia fila di gente, stranamente vestita, che il conte Romano salutò, dicendo al nuovo ospite: "Eccovi i miei poeti!" il fiorentino si sentì ribollire il sangue nelle vene. È bene dire che ser Bindo aveva una speciale avversione per la ciurmaglia di fannulloni; e, in genere, i poeti da strapazzo appartenevano a quella categoria. In antico era uso che alla stessa tavola, all'ora di pasto, sedessero tanto il signore, quanto l'ultimo famiglio. Soltanto la differenza di grado si vedeva dalla diversità del posto. In capo tavola, vicino al signore, stavano le persone di riguardo, come ser Bindo; in fondo, la gente di nessun conto, come i poetastri. Ma anche questi udivano i discorsi che il signore faceva; e infatti la ciurmaglia dei poetastri udì il racconto del temporale, dello smarrimento della mula, e udì le lamentazioni di ser Bindo sulla perdita de' suoi canti. - Io non potrò più scrivere un verso, - diceva l'infelice, - finché quei canti non saranno di nuovo in mano mia. La loro perdita mi affligge tanto, che io non saprei più esser poeta. Avete sentito dire, signor di Staggia, che quando l'uomo perde il filo di una idea non è più capace di nulla, finché non l'ha ripreso? Ebbene, in questi sette canti sta il filo del mio grandioso poema, ed io non potrò riafferrarlo finché non li avrò sott'occhi. Tutti quei poetastri, che fino a quel giorno erano stati fra di loro come cani e gatti, udendo queste parole si scambiarono uno sguardo d'intesa, e appena tolte le mense si riunirono a combriccola in una stanza appartata del castello e stabilirono di muovere sul far del giorno alla ricerca della mula, affinché i sette canti del poema non capitassero mai più nelle mani di quel presuntuoso, che il signore trattava da pari a pari. Infatti, appena fu calato il ponte levatoio del castello di Staggia, i poetastri si misero in cammino, e giunti a un certo punto presero ognuno una direzione differente per meglio cercare la mula. Uno di essi, quello appunto che avea più livore contro ser Bindo per essere stato sloggiato per dato e fatto di lui dalla bella camera che occupava prima, esplorando il terreno a fianco della via maestra, rinvenne la mula mezza sotterrata dalla neve e morta stecchita in un fosso. Ciapo, che così era nominato il poetastro, vi scese con molta precauzione, rinvenne la valigia che ser Bindo aveva descritta, e, aprendola, trovò in essa la busta che conteneva i canti del famoso poema. In sulle prime ebbe voglia di gridare per attrarre l'attenzione dei compagni, ma subito un pensiero maligno gli traversò la mente. Perché non teneva per sé quei canti? Per ora poteva nasconderli in qualche luogo, e quando fosse passato un poco di tempo, per non destar sospetti, andarsene da Staggia alla Corte di un altro signore e gabellarli per suoi. Così avrebbe acquistata fama, onori e denari, senza torturarsi il cervello. - Così, così farò; - disse fra sé, - sarei un bello stupido se non mangiassi la pappa che trovo già scodellata. E senza impensierirsi per la cattiva azione che commetteva, ripose la busta nel farsetto, gettò manate e manate di neve sulla mula, affinché nessuno la potesse scorgere, e finse di cercare ancora, sempre avvicinandosi al luogo ov'erano gli altri compagni. - Quella mula doveva essere indemoniata, - diss'egli allorché li ebbe raggiunti. - Non si trova per quanto si cerchi, e di lei non c'è traccia. Intanto s'era fatto tardi e la comitiva, intirizzita dal freddo, fece ritorno al castello, dove disse di essere andata a caccia, invece che alla ricerca della mula. Ser Bindo e il suo ospite risentivano troppo gli strapazzi del viaggio per potersi mettere in campagna; ma il Conte aveva disposto che fosse dato un premio a quello dei suoi terrazzani che avesse riportato la mula, viva o morta, al castello; e questa notizia l'aveva fatta bandire a suon di tromba per tutta la terra di Staggia. Ciapo rideva fra sé e sé, sentendo i banditori che si sgolavano, e appena giunto nel palazzo si rinchiuse nella nuova camera che gli era stata assegnata, e togliendo con molta fatica due mattoni di sotto il letto, vi nascose la busta. Poi andò a cena, e gongolava vedendo l'abbattimento di ser Bindo e la desolazione che gli cagionava la perdita dei suoi canti. Gli altri poetastri, udendo bandire il premio per tutta la terra, avevano avuto una rabbia da non dirsi. Ormai non potevano più mettersi in campagna, poiché si sarebbero imbattuti nei terrazzani del conte Romano, i quali, più cogniti di loro del paese, avrebbero certo rinvenuta la mula. Ciapo, per non essere scoperto, diceva che avevano ragione, che quella risoluzione del Conte era una vera disdetta, che sarebbe stato tanto meglio se la mula fosse caduta in loro potere, per fare un dispetto a quell'intruso di fiorentino, tanto superbioso dell'opera sua. Quella sera i poetastri si separarono tardi, e appena Ciapo fu in camera, dette un'occhiata ai mattoni per assicurarsi che non erano stati rimossi, e poi, stanco morto, si addormentò come un ghiro. Ma il riposo fu di breve durata perché fece un sogno spaventoso e gli parve di vedere quei sette canti trasformarsi in altrettanti serpenti, avviticchiarglisi addosso e stringergli la gola in modo da soffocarlo. Gettò un grido, balzò dal letto, e al lume della luna, che penetrava in camera sua attraverso ai vetri, non vide né canti né serpenti. - È un fatto, - disse, - che quando uno è molto stanco dorme male. E col cuore che gli batteva ancora forte dallo spavento, ritornò a letto, e questa volta dormì fino alla mattina. Prima del mezzogiorno udì un gran scalpiccìo nel cortile. Si affacciò e vide là molti terrazzani che recavano la mula sopra una barella. Il Conte, avvertito, scese, e scese pure ser Bindo: il primo bramava di leggere i sette famosi canti, mentre l'autore desiderava di averli fra mano per incominciare l'ottavo e condurre a termine tutto il poema, col quale intendeva di sferzare i vizî de' suoi ingrati concittadini. Essi si curvarono sulla mula per afferrare la valigia, ma questa non v'era più, e sulla soma del morto animale non rinvennero che roba di vestiario e altri amminnicoli. - Sono rovinato! Sono morto! - urlò ser Bindo, sgranando sui terrazzani, che avevano recato la mula, certi occhi da spiritato. Ciapo, sull'alto della scala, osservava quella scena sorridendo. - Chi di voi ha osato impadronirsi della valigia? - domandò il conte Romano. - Noi non abbiamo preso nulla, - dissero umilmente i terrazzani. - Vedremo, - replicò il Conte. E, furente d'ira, ordinò che tutti quelli che avevano riportata la mula fossero rinchiusi in una prigione buia, umidissima e sotterranea, finché non avessero confessato il misfatto. Ser Bindo avrebbe voluto intercedere per loro, ma era più morto che vivo per quella speranza delusa, e fu assalito dal freddo e dalla febbre. Intanto il corpo della mula venne gettato in uno dei fossati del castello, e i terrazzani tenuti in prigione. Quella notte il conte Romano, che per il solito dormiva come un ghiro, non poté prendere sonno. Rivolta di qua, rivolta di là, gli pareva che nel letto ci fossero le spine, e ogni tanto sentiva una voce interna che gli diceva: - Ma sei proprio sicuro, conte Romano, di non aver colpito il giusto pel peccatore? E questa voce lo tormentava. Intanto che il Conte vegliava, le mogli e le figlie dei terrazzani, imprigionati da lui, passarono la lunga notte invernale piangendo e smaniando. A giorno esse si recarono a un piccolo oratorio, dove era conservata con molta venerazione una immagine miracolosa della Madonna, e togliendosi i pendenti dagli orecchi e i vezzi dal collo, li deposero sull'altare dicendo: - Vergine santa, restituiteci i nostri mariti. Non abbiamo di prezioso che queste gemme e noi ve le offriamo. La Vergine ebbe compassione delle lacrime delle donne e fu commossa dell'offerta che esse facevano. Ma prima di rivolgersi al Conte, volle impietosire Ciapo. Egli dormiva ancora, quando la Vergine gli apparve e gli disse: - Se tu hai cara la salvezza eterna, devi restituire i setti canti del poema di ser Bindo, affinché quell'infelice poeta, quel disgraziato esule, compia l'opera incominciata e tanti poveri innocenti rivedano la luce del sole. La visione era bellissima, poiché la Madonna, che un insigne artista aveva dipinta sul muro dell'oratorio, si presentava a Ciapo non irata in volto, ma con espressione benigna di supplica, e sulla testa le riluceva una corona d'oro, e dal collo le pendevano vezzi di perle e di ambra trasparente. Ciapo si destò, ma non aprì gli occhi, temendo che la bella visione sparisse come un sogno, e sentendo la dolce voce della Madre di Dio che gli parlava con tanta gentilezza, disse: - Madonna, io farò quanto tu mi comandi per compiacerti, e i sette canti del poema ritorneranno dentro oggi a chi li compose e li vergò. Sparì la Vergine dopo aver udita questa solenne promessa di Ciapo; ma questi, aprendo gli occhi alla luce, rise della promessa e del sogno, e invece di restituire ciò che aveva involato, passò la giornata a comporre un'ode in ottava rima, nella quale magnificava la generosità del conte Romano a fine di cattivarsi l'animo del Conte stesso. Quel giorno ser Bindo non comparve a pranzo. Egli era così debole da non reggersi ritto e aveva invano cercato di alzarsi dal letto per assidersi alla mensa del suo ospite. Questi si mostrava accigliato, e allorché Ciapo, tolte le mense, volle recitargli l'ode composta in suo onore, il Conte glielo impedì con mal modo, dicendogli: - Cessa, poetastro, dal gracidare. I tuoi versi mi annoiano. Va' a dirli a chi ti pare, ma non tediarmi più con la tua noiosa presenza. Era lo stesso che se gli avesse detto, chiaro e tondo, di far presto le sue valigie e di sloggiare dal castello. Ciapo capì benissimo, e stabilì di non restare un giorno di più là dov'era. In breve egli riunì le sue robe, tolse di sotto i mattoni la busta e, chiesto un cavallo al signore, gli fece i suoi saluti e se ne andò. Egli aveva appena discesa l'erta del castello, che vide attraverso la via un bove furibondo, il quale gli andò addosso a testa bassa, quasi volesse sollevarlo sulle corna. Smarrito dal terrore, Ciapo spinse il cavallo sulla proda di un fosso, ma il bove lo incalzava sempre più furibondo, e pareva che mirasse con le corna al farsetto, nel quale il poetastro teneva riposti i canti di ser Bindo. - Cavallo mio, salvami! - esclamò Ciapo. - Se riuscissi a portare in salvo questo tesoro e ad assicurarmi la fortuna e la gloria, darei anche l'anima al Diavolo! Non aveva finito di pronunziare queste parole, che il cavallo fece un lancio, varcò il fosso e si diede a corsa sfrenata. Il bove, per seguirlo, fece un lancio, ma invece di toccar la sponda opposta, precipitò nel fosso e vi rimase. Corri corri, Ciapo giunse verso sera al castello di Poppi, e chiese l'ospitalità. Il Conte, che era persona molto generosa, gliela concesse, e s'intrattenne dopo cena a parlare col nuovo venuto, cui dette una camera per riposare fino alla mattina, sentendo che voleva riprendere il viaggio per recarsi a Spoleto. In quella notte Ciapo fu assalito da un timore che non sapeva spiegarsi. Gli pareva che cento braccia lo afferrassero, che cento bocche gli gridassero: - Restituisci i manoscritti all'esule poeta, e non far morire tanti innocenti! Eppure nella camera non c'era nessuno, e se anche prestava l'orecchio, non udiva nessuna voce. Gli è che le braccia che lo afferravano erano invisibili, e le voci gli parlavano al cuore e non all'orecchio. Ciapo, che non aveva spento la lucerna e si era coricato col farsetto per meglio custodire la busta, guardò da tutti i lati per vedere se scopriva un nascondiglio nella parete, e non vide nulla. Intanto le braccia lo stringevano sempre più, e cento voci minacciose gli ripetevano: - Restituisci i manoscritti all'esule poeta, e non far morire tanti innocenti! - Mai! - esclamò Ciapo. - Satana, aiutami tu! A un tratto si videro molte fiamme invadere la camera e circondare il poetastro. Le braccia cessarono di stringerlo, le voci di parlargli al cuore, e nella parete a fianco del letto si aprì una specie d'imposta che lasciò vedere una cassa di ferro. Ciapo ripose dentro a quella la busta che conteneva i canti, e la cassa si richiuse con fracasso, l'imposta sbatacchiò, e nessun occhio umano avrebbe potuto trovarne traccia. Intanto ser Bindo, desolato per la perdita fatta, si struggeva come una candela, e i poveri terrazzani rinchiusi nelle prigioni del castello di Staggia vedevano sospesa di continuo sulla loro testa la tremenda pena di cui li aveva minacciati il conte Romano. Questi non osava ordinare che i terrazzani fossero messi a morte, e una notte che era seduto accanto al letto del poeta agonizzante, vide la immagine miracolosa della Vergine apparirgli e guardarlo con occhi supplichevoli, stendendo verso di lui le mani in atto di preghiera. Quella visione lo colpì, e nel momento istesso ser Bindo, con voce fievolissima, gli disse: - Messere il Conte, io mi accorgo che la mia fine è prossima. Ormai la gloria non mi alletta più e sento di essere staccato completamente dai beni terreni. Restituite la libertà ai terrazzani che tenete prigionieri; essi sono innocenti, poiché non avevano alcun interesse di defraudarmi de' miei canti. Io sono certo che il colpevole è già lungi, ma anche a lui, in questo estremo momento, io perdono. - Il colpevole è Ciapo! - disse il Conte, che ebbe in quell'istante come una rivelazione. E senza indugiare, ordinò ad alcuni uomini di salir subito a cavallo e ricondurglielo vivo o morto, volendo sollevare, con la vista dei canti, i momenti estremi del morente. E appena il sole indorò le vette dei monti, ordinò che la prigione fosse aperta ai suoi terrazzani e che essi venissero rimessi in libertà. Intanto Ciapo ingrassava per il dispetto fatto a ser Bindo, e, strada facendo per recarsi a Spoleto, ripeteva: - Que' canti non li avrò io, ma neppur lui, poiché li custodisce il Diavolo. Ora, mentre ser Bindo languiva nel castello di Staggia, capitò colà un vecchio e santo frate francescano, il quale, udita la ragione del malore dell'esule, disse che avrebbe ricorso all'aiuto del santo di Assisi per consolarlo. E per ottenere quell'aiuto, digiunò e pregò con fervore. Il frate, dopo questo, proseguì la via per recarsi alla Verna e chiese l'ospitalità al signore di Poppi. Questi, naturalmente, gliela diede e gli assegnò la camera abitata pochi giorni prima da Ciapo. Era costume del francescano di farsi dare l'aspersorio e di benedire ogni stanza che doveva abitare anche per una notte sola. Egli benedì pure la camera di Poppi, e quando la parete che conteneva il nascondiglio del Diavolo fu spruzzata dell'acqua santa, avvenne un fatto strano. L'imposta del muro si spalancò con fracasso, la cassa di ferro s'aprì, la busta cadde per terra e da quella incominciarono ad uscire tanti fogli. Naturalmente il frate raccolse busta e carte, e, appena vi ebbe gettato gli occhi, si accòrse che su quelle carte erano scritti i sette canti rimati da ser Bindo. La notte parve lunghissima al frate, perché non vedeva l'ora e il momento di portare una consolazione all'esule infelice, e appena giorno si rimise in cammino, e un passo dopo l'altro giunse a Staggia. Era sera quando fu ammesso nella camera del morente, il quale, vedendo la busta in mano al frate, non ebbe la forza di parlare né di stendere le mani per riceverla. Pianse, invece, lungamente, amaramente, l'infelice, e quelle lacrime lo sollevarono molto. Il giorno dopo stava assai meglio; la settimana seguente poté alzarsi, e un mese dopo che ser Bindo era di nuovo in possesso dei sette canti del poema, già dava mano all'ottavo, e senza interruzione portava a termine l'opera grandiosa. E ser Ciapo? Si dice che la sua anima irrequieta abbia abitato per anni e anni il nascondiglio del Diavolo nella camera del castello di Poppi. Infatti, in quella camera nessuno ci voleva dormire, perché dicevano che si sentiva una voce lamentevole talvolta, e talvolta stizzosa, che diceva per ore e ore: "Che cosa ho fatto mai! Che cosa ho fatto mai!" Ora quella stanza è murata da più di cent'anni, e qui la novella è finita. - Nonna, noi vogliamo una promessa, - disse l'Annina accostandosi alla vecchia e guardando dietro di sé per vedere se i fratelli e i cugini la seguivano per mostrare che ella aveva il diritto di parlare a nome di tutti. - Sentiamola; che cosa chiedi? - disse la Regina. - Vedete, questi piccinucci, benché si divertano tanto a sentirvi raccontare, pure fanno fatica a star desti fino a quest'ora. Da qui avanti non ci potreste dire la novella di giorno, sull'aia, prima che suoni l'avemmaria? Ora le giornate sono lunghe, ed essi si levan coi polli e coi polli vorrebbero andare a letto. - La tua domanda sarà esaudita, - rispose la nonna. - Ma staranno buoni, di giorno, quei monellucci, o non si alzeranno venti volte per correre dietro anche a una mosca che voli? - Non per nulla sono la maggiore di tutti. Io saprò tenerli fermi, e vi prometto che nessuno vi disturberà, rispose l'Annina con molto sussiego. Dopo questo breve colloquio, la matrigna di Vezzosa si alzò, ringraziò la Regina e le fece mille complimenti per la novella; quindi cominciarono gli addii alla sposina. Tutte le donne di casa Marcucci la vollero baciare, tutti gli uomini vollero dirle una buona e affettuosa parola, ed ella, commossa da tante dimostrazioni di simpatia, piangeva e rideva nel tempo stesso. - Via, è ora di andare a letto! - disse Momo per tagliar corto a quell'intenerimento che vinceva anche lui. I bambini accompagnarono Vezzosa per un pezzetto di strada, dicendole: - Domenica non te ne andrai! Anche Gigino le zampettava accanto, reggendola per la sottana e ripetendo ciò che sentiva dire agli altri. In mezzo a tutta quella gente che manifestava liberamente la gioia che sentiva, Cecco solo stava zitto e seguiva Vezzosa a testa bassa. - Sei forse pentito? - gli domandò la ragazza, quando i bimbi l'ebbero lasciata. - Pentito! - esclamò egli. - Sono così felice, che non posso parlare. Non sai che mancano otto giorni soli a domenica? - Sette, non otto, - disse Vezzosa guardandolo affettuosamente, - e fra sette giorni porteremo lo stesso nome e saremo uniti nella gioia e nel dolore. - Nella vita e nella morte, - rispose Cecco in tono solenne, stringendole la mano.

La donna se ne andò scorbacchiata, rifiutando di accettare i necci e il vino, e Cecco si accostò a Vezzosa per dirle: - Sai, fra tre domeniche è Pasqua; ci hai poco più da tribolare, abbi pazienza! Ella gli rivolse uno sguardo pieno di gratitudine e non disse nulla. Il martirio era per finire, e ormai la pazienza non le mancava più.

Abbi pietà di un povero poeta! - Tu non m'ispiri pietà alcuna. Domani mettiti il liuto a tracolla e va altrove a cercar fortuna. Ti giuro che se domani tu non sei molte miglia lontano dai domini dei Guidi, io torno e ti precipito nel trabocchetto, che ben sai dove sia, e quanti felloni pari tuoi abbia inghiottiti! - Pietà! - supplicava ser Grifo con un fil di voce. Il conte Oberto, camuffato della armatura del suo antenato, fece un gesto di sdegno e disse: - Ho parlato. A buon intenditor poche parole! E facendo lo stesso rumore di ferro, uscì dalla stanza col doppiere in mano e richiuse l'uscio. Il conte Bandino e il conte di Poppi avevan udito tutto ed esclamarono: - Tu hai fatto benissimo la parte dell'ombra! - Lo credo, e se domani quel viso di zucca non è lontano molte miglia, vuol dire che si prepara a partire per un viaggio più lungo, per non tornar più. - Misericordia, lo scherzo è forse andato tropp'oltre! - disse il conte di Poppi, che era di animo meno crudele degli altri. - E se male incoglie a questo poeta, madonna Margherita se ne affliggerà, poiché ella ha compassione di lui. - Ringrazia Iddio e san Fedele che in un modo o in un altro te ne ho liberato, - rispose il conte Oberto. I tre signori scesero, e, dopo aver deposta l'armatura nella sala d'armi, ciascuno andò a coricarsi nella propria camera. La mattina dopo il conte di Poppi dormì lungamente, e quando il suo servo entrò in camera per aiutarlo a vestirsi, gli narrò che il cappellano, il quale dormiva in una stanza poco distante da quella di ser Grifo, udendolo gridare nella notte era accorso, e lo aveva trovato in terra, con gli occhi fuori della testa, pronunziando parole sconnesse e facendo atto di volere fuggire. Il prete, credendolo insatanassato, aveva preso nella cappella la croce e l'acqua santa e con questa l'aveva asperso, pronunciando le preci contro lo spirito maligno; ma tutto era stato inutile. Ser Grifo urlava più che mai e si trascinava bocconi sul pavimento come una bestia. Fino a giorno il cappellano era rimasto presso il poeta senza riuscire a calmarlo, e allora aveva chiamato in aiuto il cerusico, che, visitato il malato, aveva scrollato la testa, assicurando che non aveva febbre né alcun male palese e si trattava di qualche cattiva influenza. Il conte di Poppi, udendo questa narrazione rimase perplesso e domandò al servo: - E ora come sta ser Grifo? - Al solito; ma il cerusico lo ha lasciato perché le donne della nostra padrona lo hanno chiamato per visitarla. - E tu mi serbavi per ultimo questa notizia, villano che non sei altro! Che m'importa di ser Grifo quando madonna Margherita è ammalata! E terminando di vestirsi in un battibaleno, il conte di Poppi andò a visitare l'inferma. I due cugini, che non erano angustiati come il loro parente, vollero veder con i propri occhi in che stato fosse ser Grifo. Essi salirono nella camera di lui e seppero mostrarsi afflitti del male che lo aveva còlto. Il poveretto smaniava come una bestia e non li riconobbe. Egli batteva la testa contro le pareti, e due uomini robusti non riuscivano a impedirgli di farsi danno. - Voglio andarmene! - urlava. - Se il conte Guido mi trova qui alla mezzanotte, mi precipita nel trabocchetto. Lasciatemi! Ma i due servi, credendolo impazzato, invece di cedere alle sue preghiere, lo reggevano nel letto, e pregarono i signori di scendere e mandar loro altri due compagni, per tentare se fra tutti potevano legarlo. - L'abbiamo conciato bene! - disse Bandino mentre scendevano la bellissima scala. - Io credo che quel poetastro sia bell'e spacciato. - Meglio per lui, - rispose Oberto. - La tomba credo sia preferibile a una vita come la sua. Anche a Dante pareva che il pane altrui sapesse di sale, e quello era un poeta; figurati come deve parer amaro a questo inettissimo verseggiatore! I due signori non pensavano più a ser Grifo dopo quella breve visita. La malattia della contessa Margherita e le smanie del loro cugino li occupavano ben altrimenti; e il palazzo era tutto sottosopra per il pericolo che correva la castellana, la quale era stata colta da una febbre calda, e il suo bel volto, di consueto bianco e vermiglio, era acceso come un tizzo, mentre la sua bocca sorridente non pareva dir altro, che: - Signore mio, aiutatemi! Il marito, cui rivolgeva continuamente questa supplica, non sapeva che cosa farle, e il cerusico meno di lui. Intanto la febbre bruciava la contessa ogni giorno più. In questo frattempo ser Grifo era stato avvolto in un lenzuolo, messo in una cassa e portato, senza che nessuno lo piangesse, nel sotterraneo dove solevano seppellire i signori, perché sapevano che era di sangue nobile. Il povero poeta aveva passata tutta una giornata a gridare ed a sbatacchiarsi volendo fuggire. Sull'imbrunire le smanie erano cresciute, e quando aveva sentito scoccare il primo colpo della mezzanotte, s'era chetato a un tratto, chiudendo gli occhi. - È morto, - avevan detto quelli che gli erano intorno; e chiamato in fretta il prete lo avevan fatto benedire. Il giorno dopo, senza avvertire neppure il signore, lo avevano messo nel sotterraneo. Intanto al palazzo giungevano tutti i parenti della contessa Margherita. Chi da Stia, chi da Pratovecchio, chi da una parte e chi dall'altra, e tutti portavano seco i loro cerusichi, perché i messi che avevan recato loro la notizia della malattia, avevano aggiunto che messer Biagio, il cerusico di casa, non ne capiva nulla. Ognuno di questi cerusichi suggeriva un rimedio, ma la febbre non cedeva, e la notte del terzo giorno la contessa spirò. Il marito pareva più nel mondo di là che di qua, tanto era il dolore di vedersi separato da una così bella, virtuosa e cara compagna, e dimenticò tutto, meno che di renderle tutti gli onori che spettano a gentildonna. Egli ordinò che la bellissima salma fosse rivestita del ricco abito d'argento e di seta celeste che indossava il dì delle nozze: che i biondi e lunghi capelli fossero racchiusi in una reticella d'oro e perle orientali; che ai piedi le fossero messe scarpe di raso ricamate; che al collo, ai polsi, alla vita e sulla fronte le brillassero le gemme di cui soleva adornarsi nei dì dei torneamenti e delle feste solenni. Quando il bel corpo fu adorno in questo modo, egli stesso pose fra le mani di Margherita un bellissimo crocifisso di smalto e la fece portare dai paggi nella sala di arme dov'era inalzato un catafalco di drappo nero e d'oro circondato di faci ardenti. Gli armigeri, vestiti di maglia, stavano a guardia del catafalco; i monaci salmodiavano e l'immensa sala era piena di dame, di cavalieri, di famigli e di terrazzani. Il Conte seguiva la salma della sua sposa, tutto vestito a lutto e con un volto così stravolto da far pietà. Appena giunse in sala egli si gettò in ginocchio e vi rimase sino a sera. Tutto il contado correva a vedere la bellissima signora; e la gente che usciva di sala aveva pietà della giovane, morta nel fior degli anni, ma più ancora ne provava per quel fiero signore singhiozzante accanto al cadavere della sua Margherita. Infatti il Conte pareva ridotto un mucchio d'ossi, senza energia, senza volontà. Per due giorni la castellana rimase esposta nella grande sala, e il Conte pregò sempre accanto a lei; pregò e pianse. In quei due giorni il signor di Poppi, col pensiero sempre rivolto alla sua carissima, non si accòrse che ser Grifo mancava, ma quando giunse l'ora di chiudere Margherita in una cassa per trasportarla nell'avello di famiglia, il Conte disse: - Chiamatemi ser Grifo; da lui voglio sia vergata una pergamena da porsi in una custodia d'oro, affinché i lontani nepoti sappiano che questo è il cadavere della più bella, più cortese e più virtuosa fra le donne. - Signore, ser Grifo non può venire, - rispose uno dei servi. - È vero! - avevo dimenticato che fosse ammalato! - esclamò il Conte. - E come sta al presente? - Non possiamo sapere come stia, perché ci ha lasciati, - replicò il servo. - E quando è partito? - Son quattro dì, signore, che lo racchiudemmo nella cassa la quale ponemmo poi nell'avello dei conti Guidi in San Fedele. - Morto! - esclamò il Conte. - Sì, morto; ma non sappiamo se arrabbiato o insatanassato. Egli non ha ricevuto neppure i sacramenti, ed è spirato a mezzanotte precisa. Il Conte ebbe un brivido, ma non aggiunse parola. Ora la notizia di quella morte lo colpiva doppiamente, facendogli nascere nell'anima il rimorso che il povero ser Grifo fosse morto in seguito a quell'atroce burla; e poi, quell'uomo secco, giallo e di animo semplice al pari di un bambino di nascita, non era forse una delle persone che Margherita apprezzava, e non aveva forse più volte raccomandato di trattarlo umanamente per riguardo alla sventura che lo aveva colpito al pari di tanti e tanti nobili, che gli odi di parte condannavano ad andare raminghi per il mondo? Il conte di Poppi cacciò questi pensieri per dedicar soltanto la mente alla sua dilettissima, e non potendo valersi più dell'opera di ser Grifo, chiamò un suo cancelliere dal quale fece scrivere la pergamena. Poi, dopo avervi apposto il suo sigillo, la racchiuse con le sue mani in una custodia finamente lavorata da un abilissimo orafo fiorentino. Terminati tutti questi preparativi, si formò il corteo, che dal palazzo doveva recare la salma della Contessa all'abbazia di San Fedele, traversando il paese. La cassa della bellissima donna, che pareva dolcemente addormentata, era stata lasciata dischiusa, e il volto era coperto soltanto da un sottil velo, come le signore solean portare in testa. Precedevano il corteo i monaci dell'abbazia, vestiti di bianco secondo la legge di san Romualdo, loro fondatore; venivano dopo i preti, gli araldi, gli uomini d'arme, e, attorno alla salma, i paggi e il lungo stuolo dei parenti, e per ultimo i terrazzani, che piangevano ripensando alla bontà e cortesia dell'estinta. Il corteo era lunghissimo e lo accompagnava il suono delle campane di tutte le chiese della rocca e dei castelli vicini. Quando giunse in chiesa, la cassa fu deposta nel centro della navata e i frati salmodiarono per un bel pezzo, mentre il conte di Poppi, seduto solo sotto il baldacchino di drappo, guardava ora il volto della sua donna illuminato dalle faci, ora il posto vuoto accanto a sé dov'era solito vederla. Terminata la cerimonia, la cassa venne assicurata a una fune, fu tolta la grande lapide marmorea che ne chiudeva la bocca, e dopo che il Conte ebbe lungamente baciato la sua donna, la bella salma fu calata giù, nello scuro avello, che accoglieva le ossa di tanti e tanti della famiglia Guidi. Appena un rumore sordo annunziò che la cassa aveva toccato il suolo, un becchino scese per una scaletta di pietra a fine di sciogliere le funi e collocare il coperchio alla cassa, ma non era giunto ancora in fondo che gettava un grido d'angoscia. Credendo che gli fosse venuto male o che si fosse ferito nel trascinare la cassa, un secondo becchino scese in fretta, ma anche questi si mise a gridare come se lo ammazzassero, e cadde producendo un tonfo sordo. Intanto in chiesa tutti s'erano fatti gialli dalla paura, e chi scappava di qua chi di là, senza poter uscire, perché la porta dell'abbazia era chiusa. Il conte di Poppi, turbato anch'egli dal suo doloroso raccoglimento, si alzò e rivolse il passo alla bocca dell'avello. In un momento gli furono accanto Oberto e Bandino, anzi, il primo prese una delle faci che erano infilate agli angoli del catafalco e precedé gli altri nel sotterraneo. Ma appena ebbe scesi gli scalini, gettò egli pure un grido e fece per voltarsi a risalire, ma s'imbatté nei cugini che gl'impedivano il passo. - Ma Oberto! - esclamò il signore di Poppi, - pensa chi sei e dove siamo. - Lasciami risalire! - supplicava l'altro atterrito e sgomentato. Ma il vedovo Conte, per rispetto al cadavere calato allora nell'avello, costrinse il suo parente a scendere insieme con lui. Peraltro anche il conte di Poppi rimase inchiodato in fondo alla scala, perché quel che vide era cosa da mettere spavento a chiunque. Ser Grifo, pallido come un morto, con gli occhi infossati nell'occhiaie, l'alta e magra persona avvolta in un lenzuolo bianco, stava curvo sulla cassa che accoglieva il cadavere della bella contessa Margherita e piangeva fissandola. In terra giacevano tramortiti i due becchini. - È resuscitato! È resuscitato! - diceva Oberto. Il conte di Poppi considerò il poeta per un momento e disse: - Anima buona, ritorna nel regno dei morti, ti farò dire delle messe per la tua salvezza. Il poeta piangeva sempre, con gli occhi rivolti sulla morta. - Anima buona, ritorna nel regno della morte, e lascia a me la cura di piangere sulla salma della mia diletta. - Parli a me, Conte? - domandò ser Grifo. Nell'udire quella voce, Oberto, cui il cugino non contendeva più il passo, risalì in chiesa preceduto da Bandino. Ser Grifo allora narrò al Conte che, destatosi dopo un lunghissimo assopimento, s'era trovato in quell'avello oscuro, dove, a tastoni, aveva fatto sforzi inauditi per sollevare la lapide che lo chiudeva, e quando ormai era ridotto a rassegnarsi a morir d'inedia, aveva veduto aprire il sotterraneo e calarvi la cassa. Il poeta, piangendo, aggiunse: - Ma allorché ho veduto per chi si dischiudeva quest'avello, ti giuro, nobile Conte, che avrei preferito rimanesse sempre chiuso e morirvi fra gli strazi della fame. Appena il Conte ebbe sciolta la fune che legava la bara della Contessa, la baciò sulle guance, e, scuotendo fortemente i due becchini, li fece alzare e risalì la scala dell'avello. Il conte Oberto e il conte Bandino avevano già narrato che ser Grifo era risuscitato, e la gente che empiva la chiesa stava in grande trepidazione attendendo il ritorno del poeta, del Conte e dei becchini. Primo a presentarsi fu il signor di Poppi, che fu accolto da un mormorìo di soddisfazione; ma quando comparve ser Grifo, con quel viso di cadavere e avvolto nel lenzuolo bianco, la gente incominciò a urlare e molte donne caddero prive di sentimento. Il Conte, per calmare lo spavento dei suoi terrazzani, pose una mano sulla spalla dell'infelice, che si reggeva a stento, e insieme con lui traversò la chiesa. Giunti che furono al palazzo, lo fece ristorare con buone bevande e con cibi, e da quel giorno lo tenne sempre al suo fianco, ascoltandolo con le lacrime agli occhi quando esaltava in versi le virtù e la bellezza della sua dilettissima. Ogni giorno il Conte e il poeta scendevano nell'avello dell'abbazia di San Fedele, mentre i frati a coro pregavano per l'anima della defunta; e ogni giorno bagnavano di nuove lacrime quella salma bellissima che la morte non era riuscita ad offendere. Il signor di Poppi, dopo la sua vedovanza, aveva cessato di compiacersi della compagnia dei suoi cugini e spendeva la vita nel sollevare i bisognosi, nelle preci e nei ricordi di un breve e lieto passato, che rimpiangeva incessantemente. Ogni volta che usciva, lo accompagnava ser Grifo, che la gente del contado non chiamava più col suo nome. Da tutti egli era designato con quello del "Morto risuscitato!". Egli sopravvisse al Conte, e quando morì davvero, non si trovò chi lo volesse sotterrare. Perciò lo lasciarono nella camera attigua alla cappella, sul letto stesso dov'era morto, e allorché la carne fu consunta e non vi rimasero che le ossa, vi fu un prete che le raccolse in una piccola urna e le depose in terra santa. Peraltro v'è chi dice che nel palazzo di Poppi si aggiri ancora nelle notti burrascose un'ombra avvolta in un lenzuolo bianco, che da tutti è chiamata il "Morto risuscitato". Io però non l'ho mai veduta e non ho mai conosciuto nessuno che mi potesse dire di averla mirata con i suoi occhi. Gli sguardi di tutti i bambini si diressero involontariamente dal lato in cui sorge il grande palazzo, ma l'oscurità impediva che attraverso le finestre se ne scorgesse l'alta torre. - La novella è terminata, - disse Cecco, - e spero che vi sarà piaciuta tanto da invogliarvi di udirne un'altra la vigilia della Befana. - Davvero! - risposero in coro i bambini. - Quella sera, - disse la Regina, - vi racconterò appunto la storia della calza della Befana. Sono molti anni che non l'ho più narrata, e in questi giorni ci penserò per non dimenticarmi neppure una parola. - E quando torneremo a casa troveremo le calze che avremo appese al camino, tutte piene, - disse uno dei bambini invitati. - Di che? Di cenere e carbone, oppure di zuccherini? - domandò Cecco. - Quando ero piccino sapevo sempre quel che mi avrebbe portato la Befana. - Come si fa a indovinarlo? - domandò l'Annina allo zio. - Non è difficile. La sera, prima di addormentarsi, si ripensa a quel che abbiamo fatto nell'anno, e se non ci rammentiamo impertinenze grosse, cattiverie con i fratelli, rispostacce alla mamma, possiamo star sicuri che la calza sarà piena di bei regali; se invece la memoria ci dice che fummo oziosi, cattivi, impertinenti, quella benedetta calza non conterrà altro che fuliggine, cenere e carbone. Fate questo discorsetto con voi stessi, e vedrete che l'arte dell'indovino la imparerete subito. Era tardi, e i bimbi si separarono, dopo aver ringraziato la Regina. Cecco ricondusse la mamma in camera, e quando furono soli le buttò le braccia al collo e ambedue si baciarono forte forte. - Così potessi baciarti sempre, figlio mio! - disse la buona vecchia. - Ma almeno Iddio mi ha concesso la grazia che tu ritornassi prima che io lasci il mondo per sempre, e lo ringrazierò di questo favore finché le mie labbra potranno parlare. Cecco era commosso e per distrarla le disse: - Ora pensate a rammentarvi bene la novella della calza della Befana, perché voglio che vi facciate onore, avete capito? E con un nuovo bacio si separò dalla madre.

. - Abbi pazienza, si tratta di giorni, e poi nulla ci separerà più, - diceva ella guardandolo serenamente con quegli occhi sinceri e pieni di fiducia nel loro avvenire. Cecco se ne andava più consolato, ma poco dopo l'impazienza lo spingeva di nuovo a casa di Vezzosa. Verso il venerdì, la Maria incominciò a migliorare, e le prime parole che disse furon queste: - Vezzosa, non mi scorderò mai di quello che hai fatto per me! Momo gongolava tutto, un po' dalla felicità di veder migliorare la moglie, un poco perché quella malattia gli aveva dato ragione. Egli lo diceva sempre, alla Maria, che Vezzosa aveva un cuore d'oro, e Maria sosteneva che era perfida. Ora della bontà della ragazza era convinta anche lei, e il pover'uomo, che aveva sofferto assai per la loro inimicizia, era tutto lieto nel saperla svanita. Il sabato e la domenica era continuato il miglioramento della Maria, e la sera della festa ella stava tanto benino, che fu lei che spinse Vezzosa ad andare a veglia dai Marcucci. - Ti svagherai un po', n'hai tanto bisogno, povera figliuola! - le disse. Vezzosa esitava; ma poi, vedendo che la matrigna, verso sera, aveva preso sonno, le preparò tutto il necessario accanto al letto, e raccomandando alle sorelline di non lasciarla, uscì. - Ecco Vezzosa! - urlarono i bimbi Marcucci, appena la scòrsero dall'aia, per avvertire quelli di casa della venuta di lei; e scherzando la trattennero, socchiudendo l'uscio per aspettare che Cecco venisse a prenderla. Dopo pochi istanti comparve il bell'artigliere e, infilato il braccio della sposina nel suo, le raccomandò di non aprir gli occhi altro che quando glielo avesse detto lui. Vezzosa rideva di tutto quell'apparato, ma si prestò volentieri a far quel che voleva Cecco, e lo seguì a occhi chiusi. - Ora guarda! - diss'egli. Ed ella guardò e die' un grido di meraviglia. La lunga tavola sulla quale desinavano i Marcucci era coperta di una bella tovaglia di bucato, e su questa vi erano asciugamani, federe, grembiuli di seta, calze, pezzuole con le frange colorate, fazzoletti da naso, un bel cappello di paglia finissimo, e tante altre cose. Accanto a ogni oggetto era collocato un cartellino col nome del donatore, e i piccini si mettevano in punta di piedi per indicare il proprio regalo, dicendo: "Questo è mio! Questo è mio!". - Dunque tutti, tutti avete pensato a me? - domandò Vezzosa commossa. - Tutti, - rispose la Carola, - per dimostrarti quanto siamo felici di vederti entrare in casa; e poi, - soggiunse sottovoce, - anche per farti vedere quanto ti stimiamo, dopo quello che hai fatto per la matrigna. - Era dover mio! - disse semplicemente Vezzosa. La Regina era rimasta nel canto del fuoco lasciando che ciascuno mostrasse alla sposina il regalo che le faceva. Quando tutte le esclamazioni di sorpresa furono cessate, la vecchia si alzò e disse a Vezzosa di seguirla. Le due donne salirono le scale e si fermarono sulla porta della camera della Regina, che era stata tutta trasformata per accogliere la sposa. - Mamma, ma che cosa avete fatto? - esclamò Vezzosa. - Questa è stata sempre la camera vostra e ora ve ne volete privare? La vecchia rispose: - Figlia mia, quando sarò morta, tu penserai a me in questa camera, e ti rammenterai che a questo mondo ti ho chiesto una cosa sola: quella di render felice il mio Cecco. - Oh! per questo non temete! - esclamò la ragazza. - Io non ho unito il mio regalo a quelli del resto della famiglia, perché non potevo portarlo giù. Ma qui in quest'armadio ci sono sei paia di lenzuola senza rinnovare, che ho filate e tessute con le mie mani: sono tue. - Grazie! Grazie, mamma! Come farò a rendere a voi, a tutti, il bene che mi fate? - S'aspetta la novella! - urlavano i bambini di fondo alla scala. Le due donne scesero, e la Regina, per contentare i nipotini, prese a dire: - Tanti, tanti anni fa, un certo conte Alessandro di Romena sposò una signora di fuorivia. La contessa era piuttosto bruttina e malaticcia, e s'annoiava sempre, lontana dalla sua famiglia, in questi paesi dove c'erano pochi divertimenti. Madonna era figlia di un siniscalco dell'Imperatore, era cresciuta alla Corte, e le pareva di esser sepolta viva, dovendo abitare il castello di Romena. Il marito, non sapendo che cosa fare per divertirla e non vederla più sbadigliare, scrisse al suocero che gli mandasse uno di quei buffoni che i signori solevano tenere alla Corte e che chiamavano giullari. Il suocero non rispose nulla, ma in capo a tre mesi comparve a Romena un ometto piccino piccino, tutto vestito di panno a strisce rosse e gialle, con una gobba che pareva un popone e un berretto in testa tutto coperto di sonagli. Cavalcava sopra un cavallino piccolo piccolo, e quando arrivò al castello disse con piglio altero all'uomo che era a guardia del ponte levatoio: - Dimmi, villano, dov'è il tuo signore? - Dove gli pare, - rispose l'altro, - e non si scomoderà di certo per te. - Guarda con chi parli! Io sono Riccio, il celebre Riccio, e giungo d'oltralpe per divertir la tua padrona. Ho costretto più volte baroni e Conti a inchinarsi dinanzi a me e a baciarmi la gobba; saprò imporre cosa anche più umiliante a un paltoniere pari tuo. Il gobbo parlava con tanta arroganza, che il fante non osò rispondergli per le rime, e, chiamato un compagno, fece avvertire il signore di Romena dell'arrivo di Riccio. L'ometto intanto era sceso da cavallo e passeggiava nel cortile del palazzo battendo fieramente gli sproni sulle lastre di pietra, senza scomporsi, osservando che a uno a uno erano giunti, per vederlo, molti fanti, famigli e valletti, e si reggevano la pancia dalle risa. Finalmente comparve anche il signor di Romena. - Chi ti manda, gobbo? - gli domandò. Riccio finse di non vederlo e continuò a batter gli sproni sul lastrico. - Chi ti manda, gobbo? - ripeté il Conte. Il giullare pareva non sentisse. - Parlo con te, sai, e non sono uso di domandar le cose due volte, - disse il conte di Romena, prendendolo per il braccio e scotendolo forte. - Neppur io sono uso di rispondere quando non mi sento chiamare, signore. Io ti ho fatto dire che mi chiamo Riccio e non gobbo. - Ma sei gobbo e anche gobbo reale! - disse il Conte. - Anche tu sei pelato come una zucca, e se io ti chiamassi pelato non mi risponderesti certo. Il Conte non rise a questa facezia, ma fanti, famigli e valletti sparirono dietro le porte per dare sfogo all'ilarità. Riccio disse allora chi lo mandava e che veniva da Milano, sua patria; poi presentò al Conte la lettera del suocero. - È inutile, signore, che tu l'apra e la sbirci, perché scommetto che se tu la guardassi un anno non capiresti neppur da che parte si legge. - Le lettere non sono occupazione degna di signori, - disse il Conte sprezzantemente. - Lo so che la pianta grassa, cosidetta ignoranza, cresce e vegeta nei castelli, e per questo permetti a un poverello, nato in un tugurio, di decifrare codesta lettera. Ma questo non è luogo opportuno per leggere; non supponevo mai, dopo un così lungo viaggio, di essere ospitato sotto la cappa del cielo, nella reggia di tutti i vènti. Dimmi, è così ospitale il conte di Romena? Il Conte, che sapeva esser concesso ai giullari di parlare liberamente anche a duchi ed a re, non si offese di ciò che diceva Riccio, e lo invitò a salire nella sala dov'era la contessa Berta. Questa stava rincantucciata in un seggiolone, sotto l'ampia cappa del camino, con l'occhio fisso sulla fiamma come persona stanca e annoiata. Le dame stavano in disparte intente a ricamare. Appena il giullare entrò, fece una comica riverenza abbassando la testa e ponendo in evidenza l'enorme gobba. Bastò quella mossa per dileguare la tristezza della signora e farla ridere di cuore. - Madonna, io posso inforcare quella lumaca del mio destriero e ritornare da tuo padre! - Perché? - domandò la contessa Berta. - Fui mandato qui per farti ridere; tu ridi e io parto. Non vorrei che con me tu mettessi in opera il proverbio: "Avuta la grazia, gabbato lo santo". È vero che non sono un santo, ma potresti in questo caso trattarmi come tale; e io ho gabbato molta gente, ma non fui mai gabbato. La Contessa continuò a ridere e il gobbo prese a dire: - Messere e madonna, eccomi qui nella vostra casa. Se volete che restiamo amici, dobbiamo fare i nostri patti. - Che patti? - esclamò il Conte. - Sarebbe bella e nuova che un giullare c'imponesse la sua volontà. Riccio non rispose, ma scrollò il berretto coperto di sonagli e si avviò verso la porta. - Dove vai? - domandò il Conte. - Dove mi pare. Tu mi hai chiamato perché facessi quello che tu non sai fare, cioè tenere allegra la tua sposa; tu vuoi da me un favore ma non permetti che io domandi un compenso, e io me ne vado. Siamo tutti pari: arrivederci! - E la lettera di mio suocero? - È inutile, messere, che io te la consegni, tu non sai leggerla. Io tornerò a chi l'ha scritta e dirò che venga a prendersi la figliuola se non vuole che crepi alle mani di un signore così prepotente. - Tu non partirai, gobbo maledetto! - A chi dici, messere? Tu sai che mi chiamo Riccio; se tu mi chiami gobbo, io ti chiamo pelato. A questo punto la Contessa rise, e risero tutte le dame presenti; il Conte soltanto fremé nel sentirsi burlato in presenza della moglie, e per tagliar corto a quel discorso che lo seccava, ordinò a Riccio di leggergli la lettera del suocero. Il giullare l'aprì, la rigirò da tutte le parti e poi lesse: Un giullar mi chiedesti per madonna, Che dal tedio si rode e si consuma, Ecco Riccio; se il cuci alla gonna, Di Berta, il tedio tosto ne sfuma. - Come leggi spedito! - disse il Conte. - Ci vuol poco; questi versacci sono miei, proprio miei e di nessun altro. Ora ho letto la lettera, che non è lunga, e ti snocciolerò la filastrocca de' miei patti. - Sentiamola! - disse la Contessa, che si divertiva a far parlare il giullare. - Voglio un letto di piume finissime, che mi permetta di riposar bene, perché la mia metà non può giacere sul duro. - E dov'è questa tua metà, che non la vedo? - Sei forse cieco? Eppure la porto bene in mostra; la mia cara metà è unita a me da legami indissolubili, ed io, meschino, debbo chinar la testa e sopportare tutte le noie che m'impone. - Questa tua metà, sarebbe forse la gobba? - domandò il Conte, il quale incominciava a divertirsi. - Non la chiamar così, signor mio! Fra i suoi difetti, v'è pur quello di essere permalosa, e freme a sentirsi dar quel brutto nome! Invece vuol essere chiamata amena Collinetta, o Collinetta amena, ed allora è tutta latte e miele. Ma, intanto, parlando e ciarlando, dimentico il meglio: avrò il letto di finissime piume? - L'avrai, - disse il Conte. - Passiamo al secondo patto: io ho bisogno di quattro vestiti all'anno; uno per stagione. - L'avrai pure; non ci vuole a vestir te, più stoffa che a vestire un bambino. - La quantità è niente, lo so pur io; - rispose Riccio, - ma siccome quando vestite me, vi conviene vestire anche l'amena Collinetta mia, così dovete sapere che ella è alquanto sofistica; vuole che il suo abito sia tutto imbottito di bambagia e che non faccia una grinza, altrimenti non mi dà pace né tregua. - Il nostro sarto ti farà i quattro vestiti, e Collinetta amena sarà contenta! - disse il Conte ridendo. - Passiamo al terzo patto, - soggiunse il giullare. - Collinetta amena ha lo stomaco delicato; i cibi ordinari non li digerisce, ed ha bisogno di brodi sostanziosi, di carni tenere, di caccia fine, di gelatine e pasticcini. Se mi prometti di trattarla bene, rimarrò, altrimenti mi conviene di partire. - Non dubitare, tu mangerai alla nostra tavola e Collinetta amena pure, dal momento che siete inseparabili. - Non vuol dir nulla questa vaga promessa. Mangiare alla tavola di un signore, non s'intende mangiare delicatamente come mangia il signore. Potresti dare a Collinetta amena da mangiar chiodi, e tu accomodarti lo stomaco con tordi e pernici. No, io voglio i patti chiari e intendo che la mia metà abbia lo stesso trattamento di madonna. - L'avrà, l'avrà! - esclamarono marito e moglie. - E ora è terminata la filastrocca dei patti? - Ci rimane il più e il meglio. Collinetta amena è previdente, essa pensa alla vecchiaia e non fida troppo sulla generosità dei grandi. Ogni anno essa vuole tant'oro quanto ella ne può contenere, perché bisogna che dica che ella vincola la sua libertà soltanto per un anno. - Madonna Collinetta avrà l'oro che chiede, - replicò il Conte, - e avrà tutto il resto; però, col patto che la tristezza non apparisca mai sul volto della mia sposa e che il castello di Romena echeggi sempre di risa. - S'intende! - rispose il giullare. E abbassando la testa fece fare alla gobba tre inchini. Questa mossa bastò, come la prima volta, per far ridere a crepapelle la Contessa e le sue dame. Col giullare era entrata davvero l'allegria nel castello di Romena, e quando egli vedeva che la Contessa era pensierosa, si permetteva di far burle d'ogni genere, e raccontava storielle così ridicole da costringerla a ridere. Se erano a mensa e si accorgeva che non rimaneva per lui nessun boccone prelibato, si alzava, e senza tanti complimenti lo prendeva dal piatto di madonna Berta; dopo pranzo si metteva a cantare con una voce quasi chioccia le bellezze di Collinetta amena, e sfogava i supposti tormenti del suo cuore con parole così buffe, accompagnate da gesti così ridicoli, che madonna Berta si smascellava dalle risa e doveva imporgli di tacere. A Romena tutti eran pazzi di Riccio e gli permettevano di parlar liberamente e di far quello che gli pareva. Il solo che non potesse vederlo era un certo messer Lapo, un poetastro lungo e secco come una pertica, e noioso, aiutatemi a dire noioso. Questo tale non rideva mai alle facezie del gobbo e lo schivava quanto più poteva. E il giullare, che voleva divertire i signori alle spalle di quel figuro, lo tormentava sempre e non si lasciava sfuggire qualunque occasione si presentasse per metterlo alla berlina. Questo messer Lapo era un uomo alquanto pauroso; aveva paura degli animali, aveva paura dei morti, delle streghe, e, soprattutto, degli spiriti. Ora Riccio, saputo questo, volle fargli una burla, e siccome dormiva in una camera vicina a quella del poetastro, una sera, mentre questi sfogava alla finestra il suo estro poetico cantando alla luna, s'introdusse in camera di lui e si nascose sotto il letto. Quando ser Lapo ebbe sfogato ben bene la voglia di cantare, chiuse la finestra e si coricò. Ma era appena nel primo sonno, che si destò di soprassalto sentendosi tirare le coperte. - Gli spiriti! - disse con un fil di voce. Le stratte alle coperte si ripeterono insistenti, e poi sentì una mano diaccia che gli toccava i piedi: - Sono morto, - urlò, e con tutti e due i pugni si diede a batter nella parete per destare Riccio. Ma Riccio non rispondeva e continuava a tirar le coperte, a smuover le panchette e a far l'ira di Dio. - Anime sante! vi farò dire una messa, due messe, dieci messe, ma lasciatemi in pace! Nulla. Il diavolìo aumentava, gli sgabelli andavano per terra, i vestiti volavano come pipistrelli, battendo nel viso di ser Lapo: pareva il finimondo, e l'infelice non osava aprir gli occhi e tanto meno scendere dal letto. Quando Riccio credé di averlo abbastanza impaurito, se ne andò a letto e dormì saporitamente. La mattina dopo il poetastro e il giullare s'incontrarono nella sala del castello in presenza de' signori. Ser Lapo aveva un viso giallo da far pietà e certi occhi tutti stralunati dalla paura. - Non hai dormito neppur tu, compare? - domandò Riccio. - No, - rispose brevemente l'altro, che non voleva parlare degli spiriti. - Madonna e messere, nelle nostre camere ci son gli spiriti! - disse Riccio. - La mia Collinetta amena è tutta ammaccata dai colpi che le hanno dato. - Dunque li hai sentiti anche tu? - domandò ser Lapo sgranando gli occhi. - Se li ho sentiti? Non mi hanno lasciato dormire un momento solo. - Perché non ti sei fatto vivo quando ho bussato nella tua parete? - Amico, la paura mi ha fatto morire la voce nella strozza. - Io non vi dormo più in quella stanza, con licenza di madonna e di messere, - disse Lapo. - Va' a dormire in Torre, - rispose il Conte. - E io neppure ci dormo, - disse Riccio. - Andrò in Torre anch'io. Bisogna sapere che il castello di Romena era fiancheggiato da molte torri, ma ve n'era una più alta delle altre, che guardava il pian di Campaldino, e che chiamavano soltanto Torre, mentre le altre avevano tutte un nome speciale. Così il gobbo e il poeta quel giorno stesso presero le loro carabattole e andarono a stare nella Torre. In essa non vi era altro che una stanza per piano. Lapo prese quella di sotto e Riccio quella di sopra. Intanto il giullare aveva avvertito i signori che la storiella degli spiriti era una burla preparata da lui al poeta per tenere allegra la nobile compagnia, e aveva pregato il Conte di dar ordine che nessuno, di notte, rispondesse, qualora Lapo si mettesse a urlare e chiedere aiuto. In quel giorno Riccio, approfittando dell'assenza di Lapo aveva smosso i mattoni che rispondevano sul letto del poeta e, chiappati sul tetto una diecina di pipistrelli, l'aveva rinchiusi in una cassetta. Quando fu notte e tutti erano a letto, Riccio alzò uno dei mattoni smossi, e, legati per una zampa i pipistrelli a un cordino, li spinse giù. Questi si abbatterono sul viso di ser Lapo e con le grandi ali sbatacchiavano sulle coltri, sul guanciale e facevano un vero diavolìo. Lapo, che dormiva con un occhio solo, si destò di soprassalto, e stava per balzare dal letto e correr su da Riccio, quando sentì questi che urlava: - Salvatemi! Ho i diavoli in camera! Mi scorticano vivo! Allora capì che era inutile ricorrere al buffone, e messa la testa sotto le coltri si raccomandò l'anima a Dio. Quando piacque a Riccio, i pipistrelli cessarono di sbatacchiar le ali sul letto di Lapo; ma questi non si riaddormentò più, e la mattina dopo disse al Conte che nella Torre non ci voleva più stare, perché c'erano i diavoli, e invocò la testimonianza di Riccio. - Guardami, signor mio, e ti accorgerai dal mio viso quello che io abbia passato stanotte. A centinaia sono comparsi i diavoli alati in camera mia e io ho gridato, ho tempestato, mi son fatto il segno della croce, ma tutto è stato inutile. Se non mi dài un'altra camera, io me ne torno oltralpe, da dove son venuto, - disse Riccio. La contessa Berta, che sapeva tutto, non poteva trattenere le risa, vedendo la faccia impaurita che faceva il giullare nel raccontar a sua volta le avventure della notte, e lo spavento vero che gli si leggeva negli occhi. - Ti darò un'altra camera e a te pure, messer Lapo, - disse il Conte. - Voi dormirete nelle stanze terrene, che mettono alle prigioni; queste sono vuote, e là non ho mai inteso dire che vi fossero spiriti né diavoli. Anche quel giorno il poeta e il buffone presero le loro carabattole e le portarono in due stanzoni quasi bui. Riccio faceva animo al poeta dicendogli: - Stasera, prima di andare a letto, faremo venir qui fra' Leonardo con l'acqua santa, e quando avrà benedetto le pareti non temeremo più di nulla. Riccio, nell'entrare in quegli stanzoni disabitati, aveva veduto uscirne impauriti una quantità di scarafaggi e la vista di quegli animali gli suggerì un'idea, che mise subito ad effetto appena fu solo, dando loro la caccia e acchiappandone una gran quantità. La sera, com'egli e Lapo avevano stabilito, fecero andar fra' Leonardo a benedir le camere, e poi ognuno si ritirò nella propria, lasciando socchiuso l'uscio che le poneva in comunicazione fra loro. Lapo andò subito subito a letto, perché era stanco morto della veglia delle notti precedenti, e s'addormentò; Riccio, invece, cavò con cura a uno a uno gli scarafaggi dalla cassetta ove li aveva riposti, adattò loro un moccolino sulla schiena, e poi li portò davanti l'uscio di ser Lapo, e, accesi che ebbe i moccolini, spinse gli scarafaggi dentro la camera del poeta. Poi socchiuse l'uscio in modo che gli animaletti non tornassero indietro, e si mise a gridare: - Aiuto! aiuto! Ecco i diavoli! Il poeta si destò, spalancò gli occhi e vedendo quella processione di lumicini impazzì quasi dalla paura, mentre Riccio continuava a urlare: - Ahimè! Amico, soccorrimi, dei piccoli diavoli mi salgono nel mio letto, mi camminano sulle carni, mi entrano in bocca, sono indiavolato anch'io! Ser Lapo non parlava per non aprir la bocca e non esporsi alla stessa sorte del compagno. S'era tirato le coltri fin sopra al capo e si raccomandava a tutti i santi del Paradiso, promettendo a san Francesco un pellegrinaggio alla Verna, e a san Jacopo di Campostella, uno in Gallizia, se avevano misericordia di lui e lo salvavano. Intanto Riccio urlava sempre: - Son dannato! Me ne sono entrati dieci in bocca, mi brucian le viscere, mi dilanian lo stomaco, mi strappano il cuore! Tutta la notte il buffone continuò a gridare e a smaniare, e quando fu giorno andò in camera di ser Lapo, facendo gesti di ossesso e boccacce e sgambetti, come se avesse davvero avuto cento e non dieci diavoli in corpo. Ser Lapo era più morto che vivo, e questa volta, senza vedere né messere né madonna, fece un fagottino e se ne andò da Romena per compiere il pellegrinaggio prima alla Verna e poi in Gallizia. Quello che ridessero la Contessa e il conte di Romena al racconto delle avventure di quella notte, fatto da Riccio, non si può dire con parole. La Contessa badava a dirgli basta, perché dal tanto ridere soffriva. E quest'avventura continuò a tenerla di buonumore per molto tempo e a rallegrare le veglie invernali. Intanto, l'anno pattuito per il soggiorno di Riccio al castello di Romena stava per terminare, e il giullare non si sentiva disposto a rimanere in quella solitudine. Egli era assuefatto alle Corti numerose, popolate di dame e di cavalieri, alle liete brigate, e sentiva che a lungo andare avrebbe perduta la vena comica in quel castello, dove convenivano poche persone e sempre le stesse. Voleva dunque andarsene e, senza prevenir nessuno, la mattina che compieva l'anno si presentò nella sala dov'erano messer Alessandro, madonna Berta, i loro valletti e le loro dame. - Salute alla compagnia! - disse Riccio entrando e agitando il berretto con i sonagli. - Salute a te! - rispose la Contessa. - Che vuol dir, Riccio, codesto saluto diverso dal solito? - Gli è, madonna, che oggi non è un giorno come tutti gli altri. - Come sarebbe a dire? Che io sappia, non ricorre nessuna solennità. - È giorno d'addio, madonna. È un anno che sono arrivato, e oggi, che termina l'anno, me ne vado. - Parli da senno? - Da senno, madonna; l'aria di Romena non mi si confà. - Ma tu sai, Riccio, che qui ti vogliamo bene e abbiamo mantenuto tutti i nostri patti. Hai avuto il morbido letto di piume per Collinetta amena, hai avuto quattro abiti di panno di velluto, hai avuto buoni bocconi ... - Sì, madonna; anche tu però hai avuto giorni lieti e hai imparato a ridere. - È vero. - Però Collinetta amena deve avere ancora tant'oro quanto ne può contenere. - È giusto; - rispose il Conte, - ma tu non ci lascerai, non è vero? - Io vi lascerò, e Collinetta amena vuole subito quello che le spetta. - Sia fatta la tua volontà! - disse il Conte; e presa una borsa d'oro da un forziere la fece scivolare dal collo nella gobba del giullare. Riccio intanto s'era messo una mano sotto il farsetto e guardava il Conte. - Non ti basta? - domandò messer Alessandro. - Collinetta amena può contenere altre monete, - rispose Riccio. Il Conte tornò al forziere, prese una manciata d'oro e la fece sparire nella gobba. Riccio tirò giù dall'imbottitura del farsetto una manciata di stoppa e disse al Conte: - Collinetta amena può contenere altre monete; signor di Romena, rammentati dei patti. Il Conte tornò al forziere, prese altro oro, e lo mise nella gobba; ma più lui ne buttava e più Riccio cavava capecchio. A farla breve, per empir la gobba ci volle tutto l'oro del forziere. Messer Alessandro era su tutte le furie e madonna Berta rideva. Quando la gobba fu piena zeppa di monete d'oro, Riccio si levò il berretto con i sonagli, e disse: - Collinetta amena contiene molte monete, ma l'allegria non si paga, e madonna, che ha imparato a ridere di cuore, riderà ancora per molti anni ripensando al falso gobbo. Salute alla compagnia e figli maschi! Dopo aver detto queste parole, uscì. Nel cortile, il cavallino, sul quale era giunto, era già sellato, un altro era carico della roba del giullare, e lo montava un villano. L'omino, nonostante il carico che aveva nella gobba, balzò presto in sella, perché aveva paura che il Conte si pentisse e gli riprendesse l'oro che gli aveva dato, e via. La contessa Berta rimase in sala a ridere e non dimenticò più la consuetudine presa di aprir la bocca alle franche e sonore risate, e tutte le volte che il Conte si lagnava di essere stato spogliato dal giullare, essa gli rispondeva: - L'allegria non si paga! La novella aveva messo tutti di buonumore, e Vezzosa aveva riso veramente di cuore. - Vedi se ti ho fatto dimenticare la tristezza di questa settimana? - disse la Regina a Vezzosa. - La novella mi ha fatto ridere, ma quel che ha dileguato la mia tristezza è stata la vostra accoglienza, la vostra bontà per me; io sono felice, felice, e non rammento più i brutti giorni passati. Ma ora dico come Riccio. Salute alla compagnia! e me ne torno a casa. Cecco e Maso uscirono insieme con Vezzosa, e per tutta la via non fecero altro che parlare del bel modo col quale la Regina narrava e della freschezza di mente di quella donna già tanto avanti negli anni. - È stata una benedizione per la nostra famiglia; - disse Maso, - cerca d'imitarla. Vezzosa sorrise e rispose: - M'ingegnerò. E corse su dalla malata.

La voce lamentevole, di un uomo sfinito, rispose: - Sono un povero vecchio; abbi pietà di me e non avrai penuria di fiorini. Aghinolfo gridò al vecchio: - Scendo a salvarti e, come ben capisci, arrischio per te la vita; ma tu saprai mantenere la tua promessa? - Per Adamo, di cui porto il nome, per Mosè, per tutti i patriarchi gloriosi del popolo d'Israele, te lo giuro! Il giovane signore capì che il vecchio era un ebreo; ma il pensiero di salvare un miscredente non lo trattenne dall'adempier la promessa. Legò il suo cavallo a un albero e, toltosi il mantello, scese giù sul terreno coperto di neve senza fermarsi mai, finché non fu giunto accanto al vecchio, il quale era tutto intirizzito e spossato. - Vieni, - gli disse. E dopo aver tolta la cintura che fermava attorno alla vita dell'ebreo il lungo gabbano foggiato all'orientale, ne dette a reggere un capo al vecchio, prese l'altro in mano e incominciò a salire il primo, trascinando dietro a sé, per la ripida salita, il vecchio ebreo. Questi scivolava, inciampava e sarebbe caduto di nuovo nel precipizio, se Aghinolfo fosse stato meno forte e meno assuefatto a salir per le montagne. Quando furono sulla via, il vecchio disse: - Ora hai salvato me, e ti sono grato; ma non hai compiuto che metà dell'impresa. Se non fai l'altra metà io non posso mantener la promessa. - Come sarebbe a dire? - domandò il Conte irato. - Non ti lasciar vincer dalla collera, - replicò il vecchio pacatamente. - Devi sapere che io montavo una mula per compiere il viaggio da Firenze a Romena, poiché mi dirigevo a quel palazzo. La mula è caduta insieme con me nel precipizio, ed essa porta nelle bisacce tutto ciò che ti ho promesso. Aghinolfo storse la bocca, perché gli pareva fatica, dopo aver tirato su il vecchio, di trascinarsi dietro la mula; ma la promessa di aver molti fiorini era sì lusinghiera, che affrontò senza fiatare anche quel disagio, e, come Iddio volle, scese. La neve aveva quasi ricoperto l'animale, così Aghinolfo dovette cercarlo a tastoni, e non gli ci volle poca fatica a farlo alzare, tanto più che era carico di roba e si moveva mal volentieri. Nonostante riuscì a ricondur la mula sulla via, ed albeggiava già quando, l'ebreo sulla mula, e Aghinolfo sul cavallo, si misero in cammino. Il vecchio, sbalordito dalla sua caduta, intirizzito dal freddo, non parlava. Aghinolfo aveva una paura matta che gli morisse per la strada, e ogni tanto si fermava alle case del contado e faceva ristorare Adamo con bevande e con cibi. Con molta fatica essi giunsero a Romena alcune ore dopo il mezzogiorno. Alessandro e Guido Pace, quando videro il fratello in compagnia del vecchio, si guardarono in faccia, e fu tanta l'allegrezza, che non poterono parlare. Maestro Adamo fece scaricare, in presenza sua, la mula, poi seguì il servo che si era caricato in spalla le bisacce; ma appena fu in camera cadde come un ciocco per terra e pareva morto. Non si può dire quante cure gli usassero i tre fratelli per fargli riprendere i sensi. Per lui fecero apprestare brodi sostanziosi, aprirono una botticella di vino prelibato, bruciarono grande quantità di legna, ma Adamo non dava segno di riaversi. Era pallido, smunto, e la lunga barba che gli scendeva sul petto pareva che circondasse il volto di un cadavere. Così rimase ad occhi chiusi per tre giorni interi, e durante quei giorni i tre fratelli sentivano svanire sempre più le speranze che avevano fondate sul vecchio. Aghinolfo però era il più desolato e rammaricavasi di essersi esposto a tanto disagio e a un così grande pericolo per tirar su da un precipizio un vecchio, che aveva già un piede nella fossa, se non tutti e due, e una mula zoppa. Egli guardava con cupidigia le pesanti bisacce che erano accanto al letto, ma poi lo assaliva il dubbio che invece di esser piene di fiorini, contenessero soltanto vile moneta di rame. La sera del terzo giorno Adamo aprì gli occhi, e i tre fratelli, nel vederlo ritornare alla vita, non poterono trattenere un grido di gioia. - Ho dormito, - disse il vecchio, - perché ne avevo bisogno. Quel maledetto Bargello fiorentino mi dava la caccia da più giorni, e m'impediva ogni riposo. Però gliel'ho fatta in barba, - aggiunse ridendo. - Il caso mi ha portato appunto in questo palazzo, al quale ero diretto quando precipitai nel burrone, e di qui, se voi mi porgete aiuto, o signori, io voglio farvi molto ricchi con grave danno di quella città di Firenze, che io odio. I tre fratelli s'erano stretti intorno al letto dell'ebreo e lo incitavano a parlare. Maestro Adamo narrò che, fuggendo da Brescia per sottrarsi alla persecuzione, si era rifugiato a Firenze con molte ricchezze e vi aveva esercitato il commercio delle pietre preziose. Un signore della famiglia degli Acciaiuoli, non potendo pagargli molte gemme acquistate da lui per donare alla sposa, lo aveva accusato di avergli venduto pietre false. Maestro Adamo era stato condannato a pagare una somma maggiore del suo avere, e così era stato rovinato. Allora, per vendicarsi della ingiustizia patita, erasi dato a coniar fiorini falsi, i quali avrebbero scemato il credito della moneta fiorentina nei paesi con i quali Firenze faceva i suoi traffichi, e a forza di pazienza era riuscito a fare dei conii perfetti. Di quei fiorini ne aveva già spacciati molti, e quando aveva saputo che i sospetti pesavan su di lui e che il Bargello era sul punto di arrestarlo, aveva fatto fagotto e si era diretto a Romena, dove i fiorentini, nemici dei Guidi, non lo avrebbero raggiunto. Quand'ebbe terminato di narrare, aprì le bisacce e fece cadere sul letto una pioggia di fiorini. - Belli! belli! - dicevano i tre fratelli mettendo le mani in quei mucchi di oro per avere il piacere di toccarli. - Molti sono di quelli coniati alla zecca, ma alcuni sono fabbricati da me, e in questi l'oro c'entra in piccolissima parte. Cercate di conoscere i buoni dai falsi, - disse l'ebreo. I giovani avari soppesavano le monete, se le mettevano sottocchio, le giravano e le rigiravano e poi dicevano: - Questa è buona, questa pure, questa ancora. E le porgevano al vecchio, che rideva di un riso maligno assicurando che fra quelle giudicate buone ce n'eran delle false. - Vedete, messeri, - disse a un tratto, - col mio segreto io posso farvi possessori d'immense ricchezze. In questo palazzo voi avrete certamente un sotterraneo. In quello costruirò un fornello per le leghe dei metalli; lì terrò i miei conii, lì lavorerò, e da Romena usciranno a centinaia e a migliaia i fiorini falsi che spenderò ad Arezzo, a Orvieto, nell'Umbria e in Romagna, e nelle vostre casse rientreranno soltanto fiorini buoni, perché io li distinguo a un piccolo segno speciale. Voi mi avete salvato dalla morte, ma io vi farò più ricchi di tutti quei ribaldi mercanti fiorentini messi insieme. La gioia dei tre signori era così grande che non potevano esprimerla a parole. Essi non si saziavano di rimuginare quelle monete, e il suono che producevano era più dolce al loro orecchio che quello del liuto toccato da mano appassionata. Il giorno dopo, maestro Adamo era sano ed arzillo come un giovanetto e, senza concedersi un momento di riposo, si diede subito a costruire il fornello ed a preparare la fabbricazione dei fiorini di similoro. Non era passato un mese dacché era giunto a Romena, che già spacciava ad Arezzo un sacchetto di quelle monete in cambio di tante gemme, che poi andava a rivendere a Perugia. E in grazia di questo scambio entrarono nel tesoro dei Guidi di Romena tanti fiorini di quelli buoni, che essi contavano con gioia, benedicendo l'ora e il momento in cui maestro Adamo era capitato al palazzo. Così andarono le cose per un certo tempo. Maestro Adamo fabbricava fiorini, li spacciava, ed intanto il tesoro dei suoi padroni aumentava ogni dì più. Ormai la stanza sottostante alla camera de' signori non poteva più contenere tante ricchezze, e dovettero sfondare un muro e collocarle anche in un'altra stanza. Però il Diavolo, che aveva insegnato a maestro Adamo a far l'inganno, aiutò anche un altro a scoprirlo. Ecco come andaron le cose. Naturalmente, la presenza di quell'ebreo al castello di Romena era stata osservata. È vero che i signori del palazzo per spiegare la permanenza in casa loro di quel miscredente, avevan detto che era un abilissimo medico, e ogni volta che partiva per ispacciare i fiorini falsi, dicevano che andava sui monti in cerca di piante, oppur si recava a Arezzo, a Perugia e anche a Roma per curar personaggi di alto affare. Peraltro, se questi pretesti eran buoni per la gente che lo vedeva soltanto da lontano, non erano egualmente buoni per quelli di casa, i quali vedevan bene che maestro Adamo passava la giornata e talvolta le notti nel sotterraneo. Fra i pochi servi di casa, c'era un tale addetto alla stalla, che doveva governare la mula del giudeo e per questo aumento di lavoro non aveva avuto mai neppur un centesimo. Costui, che aveva nome Marco, un poco per l'antipatia che gli ispirava quell'ebreo, che doveva esser riverito e servito più dei padroni stessi, un po' per non avere avuto mai da lui nessun regalo di danaro o di robe, incominciò a pedinarlo, e tutte le volte che maestro Adamo entrava o usciva dal sotterraneo, Marco trovava modo di vederlo e di sapere quel che portava in mano. Questo Marco, oltre al vedere che maestro Adamo portava talvolta nel sotterraneo delle verghe di piombo e ne usciva con sacchetti pieni di monete, aveva una volta sorpreso un discorso fra l'ebreo e il conte Aghinolfo, che gli aveva fatto nascere il sospetto che il medico non fosse altro che un falsario, perché Aghinolfo, rivolto al vecchio, gli aveva detto: - Quanto sarei curioso di conoscere il segno che vi fa distinguere quelli veri da quelli falsi! E l'ebreo aveva risposto: - È un segreto che voi conoscerete soltanto dopo la mia morte. Bisogna sapere che questo Marco era povero come Giobbe e per sua disgrazia s'era innamorato di una bella ragazza di una famiglia agiata. I parenti di Telda, quando gliela aveva chiesta in moglie, avevan detto un "no" tondo tondo, senza nascondergli che a uno spiantato come lui non avrebbero mai dato una ragazza che poteva accasarsi bene. Marco non si sgomentò per quella risposta; ma si persuase che bisognava mettere assieme un po' di soldi, cosa che non poteva fare finché serviva i signori di Romena, che eran larghi come una pina verde. Appena Marco ebbe sorpreso quel discorso fra il conte Aghinolfo e maestro Adamo, disse: - Se ho giudizio, arricchisco e sposo Telda. Pensa e ripensa, stabilì di prendere consiglio da un suo compare, più vecchio di lui, che godeva fama di astuto. Marco raccontò a questo tale dall'a alla zeta quel che aveva veduto a Romena dopo che vi era giunto maestro Adamo, e il compare disse: - È certo che quegli spilorci dei conti Guidi non terrebbero in casa a ufo un giudeo, se questo maestro Adamo non procurasse loro molto utile. Senza dubbio l'ebreo fabbrica le monete nel sotterraneo e poi le spaccia. - Fin qui c'ero arrivato anch'io; ma volevo sapere da te, - aggiunse Marco, - quale utile si può ricavare dalla scoperta di questo segreto. - Un utile grande, poiché la Signoria fiorentina ha sommo interesse di conoscerlo. - Ma io non posso andare a Firenze a rivelarlo. I miei padroni s'insospettirebbero se io fuggissi, e farebbero sparire maestro Adamo; io poi non potrei più tornare a Romena, e la Telda sposerebbe un altro. - Hai ragione, - replicò il compare. - A Firenze potrei andar io, ma la Signoria non si contenterà di sapere che a Romena si fabbricano i fiorini falsi: essa vorrà bensì aver nelle mani maestro Adamo, e qui non può venirlo a prendere senza fare una guerra. - Ma potrebbe farlo arrestare sul territorio della Repubblica! - esclamò Marco. - E dove? - Alla Consuma, per esempio, dove maestro Adamo va spesso non so a che fare, - disse Marco. - La cosa mi par difficile, ma intanto io andrò a Firenze. E il compar di Marco una mattina si avviò su per la Consuma con un pane in tasca e pochi soldi nella scarsella, e dopo tre giorni era a Firenze e informava la Signoria che a Romena si facevano monete false. Prima, peraltro, di rivelare il segreto, l'astuto villano s'era fatto dare una buona somma, e gliene fu promessa un'altra, dieci volte maggiore, se riusciva a dare il falsario nelle mani della giustizia. Il compare rifece tutto allegro la via e recò a Marco la buona notizia spartendo con lui, da buoni amici, il denaro avuto. - Ora il più difficile è di avvertire in tempo la Signoria quando l'ebreo va alla Consuma, - disse il compare a Marco. - Tu che sei in casa, se apri bene gli orecchi e gli occhi, ci riuscirai. Marco, per non perder l'occasione, si mostrò da quel momento premuroso e servizievole con maestro Adamo per meglio osservare quello che faceva. L'ebreo partiva spesso, ma prendeva sempre la via d'Arezzo, e Marco si mordeva le mani dalla rabbia, perché aveva timore di sentir dire che la sua Telda era andata sposa a un altro. Un giorno, però, che era nella stalla, capitò maestro Adamo a veder la sua mula, e, imbattutosi in Marco, gli domandò se per fare una ventina di miglia occorreva farla ferrare, perché dopo l'ultimo viaggio non era stata ferrata. - Secondo che miglia sono, - disse Marco che voleva saper dove andava. - Se deve camminare in piano non ce n'è bisogno, ma in monte sì. - In monte, - rispose l'ebreo. - Allora è meglio farla ferrare. - Conducila dunque dal manescalco domani, perché doman l'altro voglio partire, - disse l'ebreo. Appena questi fu uscito, Marco corse dal compare e gli disse che prendesse un cavallo, lo ammazzasse magari per via, ma che giungesse la mattina dopo a Firenze affinché in capo a due giorni i soldati della Signoria fossero alla Consuma per arrestare maestro Adamo. Il compare non si fece pregare, e, senza ammazzare il cavallo, in dodici ore giunse a Firenze e ne ripartì poco dopo con una schiera di uomini armati sotto gli ordini del Bargello in persona. Marco intanto era a Romena a struggersi dall'impazienza. Da una parte avrebbe voluto che maestro Adamo fosse partito subito, dall'altra che avesse aspettato per timore di perdere la somma che sperava di guadagnare. La mattina del terzo giorno maestro Adamo scese nella stalla per vedere se la mula era ferrata, la fece sellare, e poi la caricò di due pesanti bisacce e prese la via della Consuma. Marco, nel vederlo partire, era mezzo matto e non capiva più nulla. A momenti gli pareva di esser più felice dei santi del Paradiso, a momenti più angustiato dei dannati dell'Inferno; e più le ore passavano e più lui smaniava per saper qualche cosa. Ma lasciamolo smaniare a Romena e torniamo al compare con i soldati e il Bargello. Essi giunsero alla Consuma dopo venti ore di viaggio, perché non viaggiavano all'impazzata come il compare, e quando vedevano un'osteria si fermavano, e non ripartivano se non avevano mangiato, bevuto e ciarlato. Come Dio volle giunsero al valico, e allora il Bargello, che non voleva entrare sul territorio del Casentino, rimpiattò i suoi uomini in un bosco a poca distanza dalla via, e mandò il compare a scoprire se l'ebreo si vedeva. Passarono diverse ore e finalmente il villano tornò dicendo che quattro miglia più giù, in un luogo detto lo Spino dei Pomponi, aveva veduto in una macchia maestro Adamo rimpiattato. Il villano aggiunse che l'ebreo doveva aspettare qualcuno. Infatti poco dopo, sulla via che da Firenze mena in Casentino, comparve un giovine a cavallo, che, all'aspetto, pareva un artiere. Il Bargello lo fece arrestare e lo minacciò di morte se non diceva dove andava. Egli rispose che si recava dal conte di Poppi a portare certi drappi commessigli per la Contessa. Infatti egli recava drappi di seta preziosi. Ma nonostante questa risposta, il Bargello non gli concesse di continuare il viaggio, e, lasciati due uomini a guardia del giovine, si fece accompagnare dal villano al luogo ove si trovava maestro Adamo. Questi, appena lo scòrse, si trasse di tasca una boccetta di veleno e la trangugiò. Il Bargello fece frugar le bisacce, e, trovatele piene di fiorini falsi, che egli seppe distinguere dai buoni, ordinò che fosse preparato un rogo e vi fece porre sopra maestro Adamo agonizzante. In poco tempo le fiamme avvolsero il corpo dell'ebreo, e le sue ceneri andaron disperse ai quattro venti. Il Bargello, il compare, il giovine artiere e i soldati tornarono a Firenze, e la Signoria pagò al villano il prezzo pattuito per la consegna dell'ebreo; ma Marco non ebbe nulla, poiché il villano, tentato dalla somma ottenuta, pensò bene di non farsi più vedere a Romena e di comprare un poderetto verso Signa. Così Marco ebbe il dolore di veder andar la Telda all'altare con un altro, e provò il rimorso di essere stato cagione della morte di un uomo. Egli si accusava pubblicamente, e spese nel far dire delle messe, in suffragio dell'anima dell'ebreo, tutto quel poco che aveva. Siccome quelli che andavano alla Consuma dicevano di veder sempre allo Spino de' Pomponi l'ombra di maestro Adamo, così un vescovo, andato a Roma, ottenne un'indulgenza per tutte le persone che, passando da quel luogo, gettassero pietre ove fu eretto il rogo; e ancora si vede colà un monte di sassi, che si chiama: la Macìa dell'uomo morto. - Io so appena leggere, - aggiunse la Regina, - ma mi rammento di aver sentito dire che anche il poeta Dante, nell'Inferno, parla di questo maestro Adamo da Brescia, il quale era condannato a bramare un goccia d'acqua, e si vedeva scorrer davanti Li ruscelletti che da' verdi colli Del Casentin discendon giuso in Arno. E al poeta il falsario dice: Ivi è Romena, là dov'io falsai La lega suggellata del Battista, Perch'io il corpo suso arso lasciai. Ma s'io vedessi qui l'anima trista Di Guido o d'Alessandro o di lor frate, Per Fonte Branda non darei la vista. Fonte Branda, avete a sapere, era una fonte non lungi dalla terra di Romena dove l'ebreo aveva falsificato i fiorini per soddisfare la cupidigia dei tre fratelli. E ora la novella è finita, e tu, Cecco, suona l'organetto, e voi ragazzi, ballate: La vecchia Regina, dopo aver fatto questo gaio invito alla gioventù, si era alzata per andarsene a letto, ma la Carola era stata pronta a tagliare una fetta di schiacciata, e Vezzosa a offrirle un bicchier di vino, ringraziandola della novella. - Vengo a sentirvi per impararle, - aveva detto, - così quando sarò nonna anch'io, i nipotini mi staranno ad ascoltare a bocca aperta. - Ne devon passar degli anni prima di quel tempo, - aveva risposto la Regina, e s'era fermata a guardare la bella ragazza da vicino, pensando che non avrebbe sfigurato fra le sue nuore. Cecco prese la mamma dolcemente per un braccio e l'accompagnò in camera. - Non ti piacerebbe la Vezzosa? - gli domandò la madre sorridendo. - Mamma, - rispose Cecco scherzando. - Nessuna ragazza, per bella che sia, mi piace quanto voi. - Mattarellone! - disse la vecchia battendogli sulla spalla. Cecco scese e andò a collocarsi fra i suonatori sulla madia, e per quanto la Vezzosa e le altre ragazze lo invitassero a ballare, egli rifiutò dicendo che non voleva fare una brutta figura dal momento che non sapeva muovere le gambe a tempo. Quando scese per prendere un bicchier di vino, la Vezzosa gli si accostò e gli disse: - Sapete, Cecco, che cosa v'invidio? La vostra mamma. Beato voi che l'avete ancora; se sapeste qual disgrazia è di vedere al posto di quella che ci ha fatto tante carezze e ci ha voluto tanto bene, un'altra donna che non ci può soffrire! Cecco, che non aveva ascoltato la Vezzosa quando la domenica prima faceva il chiasso, né quando quella sera lo aveva ripetutamente invitato a ballare, ora non perdeva una parola di quello che ella gli diceva sulla afflizione costante di vedersi in casa una matrigna; e quella ragazza, che gli era parsa leggerina e un poco vanesia, gl'ispirava compassione, e l'avrebbe ascoltata ancora, se le ballerine e i ballerini non lo avessero costretto a riprendere il suo posto sulla madia e a sonare tutte le polche e i valzer del suo repertorio. Erano goffi a vederli ballare quelle danze esotiche, e tale apparivano a Cecco, il quale fatto un cenno ai suonatori, attaccò un trescone. Allora, smessa la scimmiottatura cittadina, quei bravi contadini presero a ballare con garbo e con grazia quel ballo paesano. La Vezzosa poi era così aggraziata nei movimenti, che Cecco, posato l'organino, fece un salto e, toltala al suo ballerino, ballò anche lui il trescone. Quando ebbero terminato, tutti gli dettero la baia, dicendo: - Guarda, guarda quello che non sapeva ballare! - Non so ballare infatti né polche né valzer perché quei balli vanno lasciati a chi ha imparato dai maestri e alla gente meno zotica di noi; ma il trescone lo facciamo fino da piccini, come giuochiamo alla ruzzola e a palla. Che volete, io son fatto così, e mi pare che ognuno debba fare il proprio mestiere, e che i contadini, anche nei balli, debbano far da contadini. Forse sbaglierò, ma anche negli abiti bisogna mantenere le antiche usanze, e le donne nostre mi paion più belle vestite di bordatino, con un bel grembiale davanti e lo sciallino incrociato sul petto, che con tanti fronzoli da cittadine, che non sanno portare. Mentre Cecco parlava, la Vezzosa teneva gli occhi bassi e arrossiva sentendo che quel rimprovero era diretto specialmente a lei. Verso le dieci il ballonzolo in casa Marcucci era terminato, e nonostante vi fossero molti uomini, pure Cecco, senza farsi tanto pregare, accompagnò a casa la Vezzosa e l'ascoltò mentre essa gli parlava dolcemente del dolore di non aver più la madre.

. - Abbi pietà dello stato mio ed io m'impietosirò delle tue sofferenze, - rispondeva l'ombra implacabile. La malattia del signor di Pratovecchio durò due settimane, e in quel tempo la Contessa apprese dalla bocca di lui, assalito dal delirio, tutto ciò che gli era accaduto. La gentil dama non sapeva a chi ricorrere per aver consiglio. C'era peraltro, su a Camaldoli, un frate che non poteva alzarsi mai dal suo strapunto, e perfino in chiesa lo portavano a braccia su quello. Egli non apriva mai gli occhi, ma in compenso parlava senza chetarsi un minuto solo. Si diceva che fra' Celestino avesse continue visioni, e comunicasse direttamente coi santi, onde a lui ricorreva tutto il contado e anche persone di alto lignaggio. A lui pensò di andar Manentessa, e fattasi preparare una mula e buona scorta, cavalcò un dì fino all'Eremo. La contessa di Pratovecchio fece come i monaci le avevan detto di fare, e, appoggiate le palme su quelle del frate, gli domandò: - Sapresti tu suggerirmi un rimedio per liberare il signor mio dalla persecuzione del Sire di Narbona? Egli fu ucciso a Campaldino e il suo cadavere rimase insepolto; il conte Selvatico lo ha cercato e gli ha dato sepoltura; ma siccome le membra erano disgregate fra di loro, egli ha fatto una confusione, e nella fossa di Amerigo di Narbona vi sono membra che al suo corpo non appartennero. L'ombra si è posta accanto al marito mio e non gli concede tregua né dì né notte se non rinviene tutte le ossa sue, che ancora rimangono esposte alla pioggia e al sereno. E il Conte, per questa persecuzione dell'ombra, si è ammalato e non ha requie. - Se vuoi salvare il tuo signore, - rispose di lì a poco il fraticello, - devi prendere il cero pasquale che è nella cappella del tuo castello, e recarti con quello, a mezzanotte, sul pian di Campaldino, nel luogo ov'è la tomba di Amerigo. Quella tomba tu la riscaverai con le tue mani e colerai, sulle ossa che vi son dentro, della cera. Se la cera si raffredda, puoi esser certa che le ossa appartengono al pio cavaliere, devoto della Santa Vergine; se invece si liquefà, è segno che sono le ossa di qualche dannato. Lo stesso farai con le ossa che giacciono insepolte là intorno; e quando avrai ricomposto tutto lo scheletro, il Conte riacquisterà salute. Amen. Manentessa lasciò larghi donativi all'Eremo e cavalcò fino a Pratovecchio, ove trovò il marito in uno stato tale da farne supporre prossima la fine. La coraggiosa donna cercò di calmarlo, e quando fu vicina la mezzanotte, vincendo la ripugnanza e la paura, uscì sola da una porticina del suo castello, col cero in mano, pregando, e si diresse verso il campo di battaglia. Dalla croce rozza piantatavi da Selvatico ella riconobbe la fossa del Sire francese, e con le sue dita delicate si die' a scavarla. Appena le ossa furono allo scoperto, fece la prova della cera e si accòrse infatti che la testa e la mano sinistra non appartenevano allo scheletro di Amerigo. Allora ella, tremante e smarrita, si diede a versar la cera sulle ossa sparse, e, dopo lungo cercare e dopo lunghe prove, ricompose lo scheletro; poi, fatta una croce delle braccia del morto, disse: - Ombra vagante, riposa in pace e non turbare più il sonno del signor mio! Durante le ricerche e le prove, la contessa di Pratovecchio aveva consumato tutto il cero pasquale, ed ella doveva tornare al suo palazzo al buio. Era una notte burrascosa, e fitte nuvole correvano da mezzogiorno a tramontana; il vento scrosciava fra il fogliame dei pioppi, che contornavano il campo cosparso di ossami. Manentessa si raccomandava l'anima a Dio e raddoppiava il passo per giungere presto al capezzale dell'infermo marito; ma prima che ella ponesse il piede sulla via maestra, si vide circondata da uno stuolo di ombre, tutte avvolte nei bianchi lenzuoli, le quali alzando verso di lei le palme, spoglie di carne, supplicavano: - Donna pietosa, com'hai dato sepoltura alle ossa di Amerigo, dalla pure a noi e salvaci da questo errare continuo in terra! Manentessa, salvaci! Ella si fece più volte il segno della croce, ma quelle non essendo ombre di dannati, non sparivano, e lo stuolo si faceva sempre più numeroso. Pareva che uscissero dalle viscere della terra, dal fondo dei fossi, dall'erba, dalle siepi, e la donna si sentiva afferrare per le braccia, di modo che il passo le era quasi impedito. - Lasciatemi, anime sante, - diceva ella, - il mio signore mi attende e io debbo andare a consolarlo! - Una promessa, facci una promessa! - gridavano le ombre con le voci fioche. - Ebbene, vi prometto di dar sepoltura a quanti scheletri io troverò. - Bada, Manentessa, di rammentarti di queste parole, - dissero le ombre. E lasciato libero il passo alla dama, tornarono a vagare nell'ampia pianura. Più morta che viva ella tornò al suo castello, ma appena fu penetrata nella camera dell'infermo marito, si sentì il cuore sollevato. Il conte Selvatico riposava col capo abbandonato sui guanciali, e nessuna visione incresciosa ne turbava il sonno. Allorché egli aperse gli occhi, la mattina seguente, domandò alla moglie: - Come mai, madonna, l'ombra del Sire francese mi ha dato tregua? - Gli è, signor mio, - replicò Manentessa, - che il suo corpo riposa in pace, ed io per amor tuo feci atto di cui non mi credevo capace. E costì ella raccontò al conte Selvatico come aveva fatto a rinvenire le ossa del Sire di Narbona. Peraltro ella non palesò al marito l'incontro con le altre ombre, e la promessa che le avevano strappata ma che non poteva mantenere, perché non c'erano più ceri pasquali nella cappella del castello. Furono fatte grandi feste per la guarigione del signore di Pratovecchio, ma intanto che Selvatico riacquistava la forza e la baldanza, la Contessa si faceva bianca come un giglio e si struggeva ogni giorno più. Questo dipendeva dalle angosce che pativa ogni notte, quant'era lunga, poiché appena ella si riduceva nella sua camera, lo stuolo delle ombre incontrate sul limitare del pian di Campaldino, le si faceva d'attorno, e con minacce e con preghiere le rammentava la promessa. - Non vi sono più ceri pasquali e non posso tentare la prova, - rispondeva. - Non importa, sotterraci, sotterraci! - gridavano le ombre. E la trascinavano a forza fuori della sua camera e del suo castello fino al pian di Campaldino, dove la costringevano a prender la terra e a coprirne i monti d'ossami. Quel lavoro durava più ore di seguito, e all'alba la povera perseguitata si riduceva mezza morta nel suo palazzo, dove celava a tutti le angosce della notte. Una febbre continua la limava, ma le ombre implacabili ogni notte la costringevano al duro lavoro, e in breve i mucchi d'ossami non furono più esposti al sole e al sereno, ed ella ebbe un po' di tregua. Ma allora ricominciarono le tribolazioni del signore di Pratovecchio. Una notte, mentre egli dormiva placidamente, sentì la voce del Sire di Narbona, la voce tremenda che lo aveva così a lungo turbato, che diceva: - Le mie ossa sono di nuovo sopra la terra; io non ti lascerò requie finché non le avrai riunite tutte in un sepolcreto. I predoni scavarono la fossa e rubarono il cerchio d'argento che portavo al polso destro; ricuperalo. Il conte Selvatico aprì gli occhi e vide a fianco del letto la solita ombra. Allora, rivoltosi a lei, così disse: - All'alba monterò a cavallo con i miei uomini e batterò i boschi per iscoprire i predoni e ricuperare il tuo anello. Ma facciamo un patto; lasciami otto giorni di tregua. - Accetto, - disse l'ombra, - fra otto giorni soltanto mi rivedrai, - e sparì. Il Conte si armò di tutto punto e partì infatti all'alba per i boschi di Prataglia, dove sapeva si annidavano i predoni, che facevano scorrerìe nel contado. Era seguìto da un forte drappello di gente, parte a piedi parte a cavallo. La Contessa lo accompagnava con le sue preghiere, ma era afflitta, molto afflitta di vederlo partire per una spedizione così pericolosa. Dopo lungo cavalcare per monti e per boschi, giunse il signor di Pratovecchio a un casolare basso e affumicato. In sulla porta vi erano alcuni uomini che, al vederlo, si barricarono nella capanna, e dalle finestrine incominciarono a scoccar dardi contro di lui e contro i suoi. - Arrendetevi! - gridò il Conte, che intanto aveva fatto circondar la capanna da ogni lato. Gli altri risposero con una pioggia di sassi. - Appiccate il fuoco! - ordinò il Conte. In un momento furono radunate molte fascine ai quattro angoli del casolare, e le fiamme in breve ne lambivano le mura. I predoni, vedendo che non restava loro più scampo, salirono dal camino sul tetto, e continuarono a lanciare dardi e tegole. Il conte di Pratovecchio abbatté la porta con l'asta, e quindi, precipitatosi in mezzo alle fiamme, si diede a cercare. Vi erano ammassate in quella stamberga spade, misericordie, elmetti, contesti d'oro, cinture di prezioso metallo, ma il Conte non si curava di tutti quei tesori. Cercava il cerchio d'argento del Sire di Narbona, che trovò ancora infilato all'osso attorno al quale era stato ribadito, e appena l'ebbe intascato uscì da quella voragine. Di lì a poco il tetto crollò con gran rumore, e i predoni caddero nelle fiamme trovandovi la morte. Allorché l'incendio fu spento, gli uomini del conte Selvatico rinvennero fra le ceneri gran copia di argento e di oro fusi, e molte pietre preziose. Essi caricarono tutto sopra una mula e cavalcarono verso Pratovecchio. Due giorni dopo il Conte e la Contessa si recarono in processione al pian di Campaldino, e quivi riuniti in una cassa di quercia i resti mortali del Sire di Narbona li deposero nella cappella della chiesa di San Giovanni Evangelista. Con l'oro e l'argento tolto ai predoni essi fecero scolpire a Firenze, da Giotto istesso, un mausoleo di marmo con l'effigie del Sire di Narbona, vestito della armatura e posto a giacere sulla cassa. Da quel tempo l'ombra del cavaliere non funestò più i sonni del conte di Pratovecchio, ma è certo che la pia Manentessa non riuscì con le sue mani a coprir di terra le ossa di tutti i morti di Campaldino, perché ancora si dice che chi viene a passar di notte in prossimità del campo, vede delle ombre avvolte in lenzuoli bianchi. Per anni e anni l'aratro non è mai passato su quei campi, che bevvero il sangue de' guelfi di Firenze e de' ghibellini di Casentino, ma ora che il piano è di nuovo coltivato, ogni tanto si trovano mucchi d'ossa bianche, sulle quali la contessa di Pratovecchio aveva sparso la terra. E qui la novella è finita. - Voi, babbo, - domandò l'Annina, rivolta a Maso, - voi che passate dal pian di Campaldino anche di notte, per andare alla fiera di Pratovecchio o di Stia, l'avete viste le ombre? - Io no; ho visto bensì qualche volta delle ombre nere sul terreno, ma eran le ombre dei pioppi. L'Annina tempestò di domande tutti gli zii a uno a uno, ma da tutti ebbe la medesima risposta. Ombre non ne avevan vedute. Cecco poi l'assicurò che i morti non tornano. - Ma io non ci passerei davvero, di notte, da Campaldino, - disse l'Annina, dopo che Cecco si fu sgolato a dimostrarle che le ombre non si vedevano. - Domani sera, - disse la Regina, - vi racconterò una novella più allegra. - Come si chiama? - domandarono i bimbi. - La Novella del frate zoppo; - rispose ella, - ora andate a letto e dormite in pace, come in pace riposa il Sire di Narbona.

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