Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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La tecnica della pittura

253992
Previati, Gaetano 4 occorrenze
  • 1905
  • Fratelli Bocca
  • Torino
  • trattato di pittura
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Se dessi troppa tempera abbi che di subito scoppierà il colore e creperà dal muro. Sia savio, e pratico».

Pagina 124

Pagina 193

«Quando vuoi lavorare in muro (che è il più dolce e il più vago lavorare che sia), prima abbi calcina e sabbione, tamigiata bene l’una e l’altra. E se la calcina è ben grassa e fresca, richiede le due parti sabbione, la terza parte calcina. E intridili bene assieme con acqua, e tanta ne intridi che ti duri quindici dì o venti. E lasciala riposare qualche dì, tanto che n’esca il fuoco: chè quando è così focosa scoppia poi lo ’ntonaco che fai. Quando se’ per ismaltare, spazza bene prima il muro, e bagnalo bene, chè non può essere troppo bagnato; e togli la calcina tua ben rimenata a cazzuòla a cazzuola; e smalta prima una volta o due, tanto che venga piano lo ’ntonaco sopra il muro. Poi quando vuoi lavorare abbi prima a mente di far questo smalto bene arricciato, e un poco rasposo. Poi secondo la storia o la figura che de’ fare, se lo intonaco è secco, togli carbone, e disegna e componi e cogli bene ogni tua misura battendo prima alcun filo, pigliando i mezzi degli spazi».

Pagina 59

Poi abbi il tuo pennello di setole grosse in mano, intingilo nell’acqua chiara; battilo e bagna sopra il tuo smalto; e al tondo, con un’assicella di larghezza di una palma di mano, va fregando su per lo ’ntonaco ben bagnato acciò che l’assicella predetta sia donna di levare dove fosse troppa calcina, o porre dove ne mancasse, e spianare bene il tuo smalto. Poi bagna il detto smalto col detto pennello, se bisogno n’ha; e colla punta della tua cazzuola, ben piana e ben pulita, la va fregando su per lo ’ntonaco. Poi batti le tuo’ fila dell’ordine, e misura lo prima fatto allo ’ntonaco di sotto. E facciamo ragione che abbi a fare per dì solo una testa di santa o di santo giovane, sì come è quella di Nostra Donna santissima. Come hai pulita così la calcina del tuo smalto, abbi uno vasellino invetriato, chè tutti i vaselli vogliono essere invetriati, ritratti come il migliuolo o ver bicchiere, e vogliono aver buono e grave sedere di sotto acciò che riseggano bene che non si spandessero i colori. Togli quanto una fava d’ocria scura (che sono di due ragioni ocrie chiare e scure), e se non hai della scura togli dalla chiara macinata bene, mettila nel detto tuo vasellino, e togli un poco di nero, quanto fosse una lente, mescola colla detta ocria. Togli un poco di bianco sangiovanni quanto una terza fava: togli quanto una punta di coltellino di cinabrese chiara; mescola con li predetti i colori tutti insieme per ragioni e fa il detto colore corrente e liquido con acqua chiara, senza tempera. Fa un pennello sottile acuto di setole liquide e sottili che entrino su per un bucciuolo di penna d’oca: e con questo pennello atteggia il viso che vuoi fare (ricordandoti che divida il viso in tre parti, cioè la testa, il naso, il mento con la bocca) e dà col tuo pennello a poco a poco, squasi asciutto, di questo colore che si chiama a Firenze verdaccio, a Siena bazzèo. Quando hai dato la forma al tuo viso e ti paresse o in le misure o come si fosse, che non rispondesse secondo che a te paresse: col pennello grosso di setole, intinto nell’acqua, fregando su per lo detto ’ntonaco puoi guastarlo e rimendarlo».

Pagina 61

Racconti 3

662751
Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1905
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
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«No, no, abbi pazienza, il diritto no ... In ogni caso ... Si fanno tante e tante cose senza averne punto il diritto!» «Perché poi possiate dire: "Era matto! ... " Il suicidio dovrebbe essere ammesso dal codice, come uno dei piú alti diritti umani». «Pretendi un po' troppo!» «Ci dovrebbe essere un'opera pia, un istituto governativo dove ognuno potesse trovare pronti a sua disposizione i mezzi piú rapidi per ammazzarsi. Sarebbe l'unica benefica istituzione sociale». «Io credo che tu esageri un po'!» risposi sorridendo. «Nell'avvenire, quando la scienza avrà completamente trionfato contro i pregiudizi religiosi e civili, la carità pubblica dovrà provvedere a questo. Oggi siamo in piena barbarie. Ci si vuole annegare in un fiume?.. Ed ecco le barche di salvataggio! Ci si butta da un quarto piano? E si sopravvive storpiati! Si prende un veleno? E i medici si affrettano a lavarci lo stomaco, se la sventura vuole che parenti od amici o guardie di pubblica sicurezza ci portino a un ospedale! Ci si dà un colpo di pistola? E la palla devia, ci fa stare qualche mese tra la vita e la morte infliggendoci tormenti ineffabili, per poi lasciarci in vita e toglierci il coraggio di ritentare! ... È un'infamia! E parliamo di civiltà!» Non sorridevo piú, ma ridevo, tanto mi sembrava buffo quel che Rossi diceva con indignazione e disprezzo, serissimo. «Ho letto che in America e in Inghilterra abbiano messo su qualcosa di simile!» «Tentativi di speculazione privata, a pagamento! - rispose Rossi. - E chi ha bisogno di ammazzarsi spesso non possiede un soldo! Siamo sempre là! Privilegi! Ingiustizie!» «Ma perché ti scalmani tanto? Non hai intenzione di ammazzarti spero» soggiunsi io. «Sí, e l'idea di non riuscire il colpo mi fa esitare, mi tormenta ... quantunque ... » «Quantunque ... » «Quantunque l'occupazione di scegliere il miglior modo di ammazzarsi sia l'ultima, anzi l'unica ineffabile gioia del suicida; l'assaporo da due mesi. E voialtri asini, che credete nel famoso istinto della conservazione, vi figurate intanto che chi si ammazza operi in un istante di sconvolgimento mentale! Da due mesi, giorno e notte, io non mi occupo d'altro che di trovare il miglior mezzo, cioè il piú rapido, il piú sicuro - questo è l'importante - di farla finita ... » «E sei come quel condannato a cui era stato concesso di sceglier lui l'albero dove dovevano impiccarlo, e non ne trovava uno di suo gusto!» «Non era un suicida costui!» rispose Rossi trionfalmente. «Hai ragione! Voglio augurarti però che ti accada come a costui». «Non ti sembra una mostruosità questa di non avere la certezza di potersi ammazzare in santa pace?» «Che ragione hai tu di volerti ammazzare! Sei giovane, sei ricco, sei colto, con la lieta prospettiva di un bel avvenire ... » «Ah! tu non sai, tu non puoi sapere!» egli esclamò dolorosamente. «Confidati con me; forse posso aiutarti a superare facilmente ostacoli e difficoltà che ti figuri insormontabili. Che diamine! Io credo che tutti i suicidi, se potessero rivivere, riconoscerebbero il loro torto di aver diffidato della vita!» Rossi ammutolí. Scrollava la testa, sorrideva ironicamente, e camminava assorto in quella sua trista fissazione. Io, al suo fianco, mi perdevo in mille congetture per indovinare che cosa potesse afflíggerlo tanto da spingerlo a pensare al suicidio. Ero ormai convinto che egli parlava seriamente, e ne sentivo gran pena. Lo conoscevo molto bene da poter applicare a lui il proverbio: «Chi la dice non la fa!» Né mi passava pel capo che un odiatore delle donne, come Rossi soleva orgogliosamente proclamarsi, potesse essere caduto nella pania di un amore, di una passione tale ... Eppure egli si è ucciso per un amore infelice! ... Lo avevo incontrato una mattina, elegantissimo, allegro, sto per dire, piú giovane - aveva trenta anni! - Mi era venuto incontro, stendendomi la mano, quasi avesse sentito gran piacere nel vedermi per caso: «Sai? - mi disse. - Ho trovato, finalmente!» «Che cosa?» «Niente. Vieni a casa mia, domani, alle 10@. 10. Non mancare; t'attendo». E mi lasciò con una lunga stretta di mano. I suoi occhi brillavano di contentezza. Egli era cosí tranquillo, che io non badai a riflettere intorno a quelle oscure parole: «Ho trovato, finalmente!» E poi ero soprappensiero per un mio affare. Povero Rossi! Non dimenticherò mai l'orrendo spettacolo del suo corpo carbonizzato dalla corrente elettrica. Dalla sua finestra, egli aveva steso due capi di fil di ferro al filo di trazione del tranvai! ... Oh! ... Era irriconoscibile! Carbonizzato a dirittura! Fortunatamente il suo testamento poté essere annullato. Egli lasciava tutta la sua sostanza, parecchia, allo stato, per l'istituzione dell' Opera Pia dei suicidi ! Ma forse, riflettendo bene - poiché nessuno potrà mai impedire che piú avvengano suicidii - l'istituzione di quell' Opera pia ... Non vorrei dire una sciocchezza ... Sto zitto! - Pietro Lavigna fece anche meglio. Accese un sigaro e andò via.

IL Santo

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Fogazzaro, Antonio 1 occorrenze

- Abbi pietà, parliamo un poco! - Hm! Hm!" Noemi sospirò nella sua lingua nativa: "Oh, mon Dieu!" E si rassegnò con un secondo sospiro: "Avanti! Cosa puoi dirmi che tu non abbia già detto in quattr'ore?" Il tuono ruggì ma Jeanne oramai non se ne curava più. "Domattina andremo al monastero" diss'ella. "Ma sì, va bene!" "Andremo noi due sole?" "Ma sì, è già inteso!" La voce piagnolosa tacque un momento e riprese: "Tu non mi hai mica promesso, ancora, che qui in casa non dirai niente?" "Dieci volte te l'ho promesso!" "Sai, non è vero, cosa devi dire per quello svenimento di ieri sera, se ti domandano?" "Lo so!" "Devi dire che quel Padre non è lui, che ho perduta una illusione e che mi sono sentita male per questo." "Ma mio Dio, Jeanne, queste son venti, delle volte!" "Come sei cattiva, Noemi! Come non mi vuoi bene!" Silenzio. La voce di Jeanne riprende: "Dimmi quello che pensi. Credi proprio che mi abbia dimenticata?" "Non rispondo più." "Rispondi, invece! Una parola sola! Dopo ti lascio dormire." Noemi pensa un poco e poi risponde asciutta, per finirla: "Ebbene, credo di sì. Credo che non ti abbia mai amata!" "Questo lo dici perché te l'ho detto io" ribatte Jeanne, aspra, senza lagrime nella voce. "Tu non puoi saperlo!" "Bon, ça!" brontolò Noemi. "C'est elle qui me l'a dit et je ne dois pas le savoir!" Silenzio. La voce flebile: "Noemi." Nessuna risposta. "Noemi, ascolta." Niente. Jeanne si mette a piangere e Noemi cede. "Ma, Santo cielo, cosa vuoi?" "Piero non può sapere che mio marito è morto." "bene. E allora?" "Allora non può sapere che sono libera." "E dunque?" "Stupida! Mi fai venire una rabbia!" Silenzio. Jeanne sa bene quale specie di rabbia è la sua. L'amica pensa troppo come lei stessa che vorrebbe tanto essere contraddetta nel suo presentimento doloroso, avere una parola di speranza. Rise un riso lieve, forzato: "Noemi, fai l'offesa, adesso, apposta, per non parlare." Silenzio. Jeanne riprende, mansueta: "Senti. Non credi che avrà della tentazioni?" Silenzio. Jeanne non si cura, stavolta, che Noemi non risponda. Esclama: "Sarebbe bella che proprio adesso non avesse più intenzioni!" Il suo sdegno è tanto comico che Noemi, pure molto scandolezzata, non può a meno di ridere; e ride anche lei. Noemi ride; però anche la sgrida di queste sciocchezze enormi che dice senza riflettere. Perché Noemi conosce Jeanne e sa che Jeanne in questo momento non è la vera Jeanne, conscia e signora di sé; o forse è la Jeanne più vera ma non certo quella che starà a fronte di Piero Maironi se mai s'incontrano. Il tuono tace e Jeanne vorrebbe vedere il tempo che fa, ma le pesa di scendere dal letto, teme di sentirsi male, teme il dubbio di non poter salire fra qualche ora al monastero. Teme poi anche le difficoltà che gli ospiti farebbero se il tempo fosse troppo cattivo; le preme dunque di sapere come si dispone il cielo. Bisogna che scenda Noemi, la schiava cui ben di rado riescono vittoriose le ribellioni. Noemi scende, apre la finestra, esplora il buio con la mano distesa. Minute frettolose goccioline le titillano la mano. Il buio si varia un poco agli occhi di lei. Ella distingue, lì sotto, Santa Maria della Febbre, grigia sul campo nero. Le si rischiara la nuvolaglia pesante, vi nereggiano su le braccia della quercia imminente a destra, i profili delle montagne. Le minute frettolose goccioline titillano titillano la mano distesa, che si ritrae. Jeanne domanda: "Dunque?" "Piove." Ella sospira: "che noia!" come se avesse a piovere in eterno. E le goccioline prendono maggior voce, riempiono di sommesse parole la camera, si affiochiscono ancora. Jeanne non ha inteso le sommesse parole, non ha inteso che l'uomo di cui ha pieno il cuore giace svenuto sulla petraia deserta che la pioggia lava. A mattina inoltrata la signora Selva, un po' inquieta per non avere ancora veduto comparire né l'una né l'altra delle due Signore, entrò pian piano nella camera di sua sorella. Noemi era quasi vestita e le accennò di tacere. Jeanne dormiva, finalmente. Le due sorelle uscirono insieme, si recarono nello studio di Giovanni che ve le attendeva. Dunque? Don Clemente era proprio l'uomo? Marito e moglie desideravano sapere, per regolarsi. Giovanni non dubitava più e sua moglie dubitava ancora. Noemi Noemi doveva sapere! Giovanni chiuse l'uscio, mentre Maria, interpretando il silenzio di sua sorella per una conferma, insisteva: "ma davvero? ma davvero?" Noemi taceva. Avrebbe forse tradito il segreto dell'amica nell'intento di cospirare con i Selva per la sua felicità, se non l'avesse trattenuta il dubbio di un disaccordo con i Selva e anche il senso di qualche cosa di malfermo in sé stessa. Probabilmente i Selva, cattolici, non desideravano che l'uomo fuggito dal mondo vi ritornasse. Lei, protestante, non poteva pensare così. Almeno non lo avrebbe dovuto. Lei doveva pensare che Iddio si serve meglio nel mondo e nel matrimonio. Lo pensava, ma non si nascondeva che se il signor Maironi adesso sposasse Jeanne non lo potrebbe stimare molto. Insomma era meglio tacere la strana Verità. "Cosa pensate?" diss'ella." Che quell'ecclesiastico di ieri sera, che è passato davanti a noi dopo tutta quella vostra mimica, fosse l'amante antico? È quello il vostro don Clemente? bene, non è lui." "Ah! Proprio no?" esclamò Giovanni fra sorpreso e incredulo. Sua moglie trionfò. "Ecco!" diss'ella. Ma Giovanni non si diede per vinto. Domandò a Noemi se fosse ben certa di quello che diceva, e come potesse spiegare il tramortimento della signora Dessalle. Noemi rispose che non c'era da spiegar niente. Jeanne soffriva di anemia ed era soggetta ad accessi di spossatezza mortale. Giovanni tacque, poco persuaso. Se proprio era stato così, come poteva Noemi affermare con tanta sicurezza che don Clemente non era l'uomo? Nelle parole, nel fare, nel viso di sua cognata, Giovanni sentiva qualche cosa di poco chiaro, di poco naturale. Maria s'informò della notte. Come l'aveva passata la signora Dessalle? Inquieta? Ma di quale inquietudine? "È stata inquieta! Che vi debbo dire?" fece Noemi, un po' seccata. E si accostò alla finestra aperta come per spiare le intenzioni delle nuvole. Giovanni fece un passo verso di lei, risoluto di venire a capo delle sue reticenze. Ella lo presentì e si affrettò ad un rifugio, a chiedergli il suo pronostico del tempo. Il cielo era tutto coperto, grandi nuvole basse traboccavano dai dorsi di Monte Calvo sopra i Cappuccini e la Rocca. L'aria era tepida, il fragore dell' Aniene, forte. Giù in basso il curvo nastro della strada di Subiaco traspariva fosco di mota fra i fogliami degli ulivi. Giovanni rispose: "Pioggia." Noemi domandò subito quanta strada ci fosse dal villino ai Conventi. A Santa Scolastica venti minuti. Perché lo domandava? Udito che Jeanne intendeva andarvi con Noemi quella mattina stessa, Maria protestò. Con un tempo simile? L'ultimo tratto bisognava farlo a piedi. Non potevano aspettare, rimandare a domani, a dopo domani? "Quando te l'ha detto?" chiese Giovanni, quasi brusco. Noemi esitò e poi rispose: "Stanotte." Comprese, nel dire la parola, che suggeriva sospetti, specie dopo quell'attimo di esitazione; e attese un assalto, incerta se resistere o cedere. "Noemi!" esclamò Giovanni, severo. Ella lo guardò, soffusa il viso di un lieve rossore. Non disse neppure - che c'è? -; tacque. "Non negare!" ripigliò suo cognato. "Questa signora ha riconosciuto don Clemente. Non negare, dillo, è un dovere di coscienza per te! Non è possibile di permettere che s'incontrino!" "Quello che ho detto è vero" rispose Noemi, ferma oramai della via che terrebbe. Nella sua voce senza sdegno, quasi sommessa, era una implicita confessione di non aver detto la Verità intera. "Non lo ha riconosciuto? Però tu, qualche cosa sai!" "So qualche cosa" rispose Noemi "sì, ma non posso dire quello che so. Vi dico solo di far avvertire subito don Clemente che la signora Dessalle e io si va stamane a visitare i Conventi. Altro non vi dico e vado a vedere se Jeanne si è svegliata." Ella uscì di volo. I Selva si guardarono. Che significava questo voler avvertire don Clemente? Maria lesse nel pensiero di suo marito qualche cosa che le dispiacque, che non avrebbe voluto gli venisse alle labbra. "Scrivi questo biglietto a don Clemente, intanto" diss'ella. Ma Giovanni, prima di scrivere, volle pur dire quello che pensava. Per lui vi era una sola spiegazione possibile. Don Clemente era veramente l'uomo. Noemi aveva promesso alla signora Dessalle di non dirlo ma voleva impedire l'incontro. Maria esclamò vivacemente: "Oh Noemi, mentire, no!" e poi arrossì, sorrise, abbracciò suo marito come se temesse di averlo offeso. Perché appunto Giovanni si era offeso una volta di certe parole sfuggite a lei sulla poca sincerità degl'italiani e adesso un'ombra di quella nube poteva forse ritornare per effetto della sua esclamazione. Egli fu punto infatti, più dall'abbraccio che dalla protesta, e arrossì pure, ricordando, e sostenne che al posto di Noemi anche Maria avrebbe negato. Maria tacque, uscì dallo studio, brillandole negli occhi una lagrima importuna. Giovanni si compiacque, in principio, di avere rintuzzata una tenerezza offensiva e si mise a scrivere il biglietto per don Clemente. Non l'aveva finito di scrivere e il suo corruccio gli era già diventato rimorso. Si alzò, uscì in cerca della moglie. Era nel corridoio con Noemi che discorreva piano. Volse tosto il viso a lui, lo intese, gli sorrise con gli occhi ancora umidi, gli fé cenno di accostarsi e di parlar sotto voce. Che c'era? C'era che Jeanne voleva partire subito per Santa Scolastica. Noemi avvertì ch'era appena svegliata e che questo subito significava un'ora e mezzo, almeno. Ma bisognava mandare a Subiaco per una carrozza, poiché Jeanne non era in grado di fare a piedi che lo stretto necessario, l'ultimo tratto di via. Un tocco di campanello richiamò Noemi. Jeanne l'aspettava, impaziente. "Che cameriera pettegola!" diss'ella, tra sorridente e crucciata. "Cosa sei andata a raccontare a tua sorella?" Noemi la minacciò di andarsene. Jeanne giunse le mani, supplichevole. E le domandò fissandola negli occhi, scrutandone l'anima: "Come mi pettino? Come mi vesto?" Noemi rispose sbadatamente: "Ma come vuoi!" L'altra batté il piede a terra, sbuffando. Allora Noemi capì. "Da contadina" diss'ella. "Sciocchissima creatura!" Noemi rise. Jeanne gemette il solito ritornello: "Non mi vuoi bene! Non mi vuoi bene!" Allora Noemi si fece seria, le domandò se volesse proprio riprenderselo, il suo Maironi. "Voglio esser bella!" esclamò Jeanne. "Ecco!" Ella era veramente bella così, nella sua veste da camera di un giallo ardente, con il suo fiume di capelli bruni, cadenti un palmo sotto la cintura. Era molto più bella e più giovine che la sera prima. Aveva negli occhi quella intensità di Vita che prendevano un tempo quando Maironi entrava nella stanza dov'era lei, quando anche solo ella ne udiva il passo nell'anticamera. "Vorrei la mia toilette di Praglia" diss'ella. "Vorrei comparirgli davanti col mio mantello verde foderato di pelliccia, adesso in maggio. Vorrei che vedesse subito quanto sono ancora la stessa e quanto voglio essere la stessa. - Oh Dio Dio!" Gettò le braccia, con un subito slancio, al collo di Noemi, le impresse la bocca sulla spalla, soffocando un singhiozzo, mormorò parole che Noemi non poteva distinguere. "No no no" diceva "sono pazza, sono cattiva, andiamo via, andiamo via." Alzò il viso lagrimoso. "Andiamo a Roma" diss'ella. "Sì sì" rispose Noemi, commossa "andiamo a Roma, partiamo subito. Adesso domando a che ora c'è un treno." Jeanne l'afferrò di colpo, la trattenne. No, no, era una pazzia, cos'avrebbe detto sua sorella? Era una pazzia, era una cosa impossibile. E poi, e poi, e poi ... Si coperse il viso, si mormorò dentro le mani che le bastava di vederlo, di vederlo un solo momento, ma che partire senza vederlo non poteva, non poteva, non poteva. "Andiamo!" diss'ella, dopo un lungo silenzio, scoprendosi il viso. "Vestiamoci! Mi vestirò come vorrai tu; di sacco, se vorrai, di cilicio." Ell'aveva ricuperato il suo sorriso cruccioso di prima. "Chi sa?" disse. "Forse mi farà bene di vederlo vestito da contadino." "Io guarirei subito" mormorò Noemi; e arrossì, sentendo di aver detto una grossa falsità. Quando la signora Selva bussò all'uscio per avvertire che la carrozza era pronta, Jeanne pregò Noemi, con umiltà comica, di lasciarle mettere il grande cappello Rembrandt che prediligeva. Le nere ali piumate, curve sul viso pallido, sui neri fuochi degli occhi, sull'alta persona avvolta in un mantello scuro, parevan vive dell'anima stessa di lei, cupa, appassionata e altera. Ella sentì, nel dare il buongiorno a Maria Selva, l'ammirazione che destava. La sentì anche negli occhi di Giovanni, ma diversa, non simpatica. Appena lasciatolo per scendere con Noemi al cancello dove la carrozza aspettava, le domandò se avesse detto niente, proprio niente, a suo cognato. Avutane una risposta rassicurante, mormorò: "Mi pareva." Fatti pochi passi, le strinse forte il braccio, esclamò lieta come per una scoperta improvvisa: "Però sono ancora bella!" Noemi non le dava retta. Noemi si domandava: il nome Dessalle avrà detto qualche cosa al quel frate? Lo avrà egli udito da Maironi? Se Maironi gli ha raccontato di questo amore, non potrebbe avere taciuto il nome della signora? In fondo ell'aveva un'acuta curiosità di conoscere l'uomo che aveva ispirato a Jeanne un sentimento così forte ed era scomparso dal mondo in un modo così strano. Ma lo avrebbe voluto vedere da sola. Era uno sgomento di pensare che i due s'incontrassero senza qualche preparazione. Almeno poter prima parlare a questo frate, a questo don Clemente, accertarsi che sa, informarlo se non sa, apprendere da lui qualche cosa di quell'altro, il suo stato d'animo, le sue intenzioni! Basta, pensò salendo in carrozza, faccia la Provvidenza! E assista questa povera creatura! Nel metter piede a terra dove comincia la mulattiera, Jeanne propose timidamente, come chi prevede un rifiuto e lo riconosce ragionevole, di salire ai Conventi sola, colla guida di un monello corso da Subiaco dietro la carrozza. Il rifiuto venne infatti e vivacissimo. Non era possibile! Che mai le veniva in mente? Allora Jeanne supplicò di essere almeno lasciata sola con lui, se lo avesse trovato. Noemi non seppe che rispondere. "E se ti precedessi?" diss'ella. "Se domandassi del Padre Clemente? Se cercassi di capire cos'è, cosa fa e cosa pensa il tuo..." Jeanne la interruppe, esterrefatta. "Il Padre? Parlare al Padre?" esclamò squadernandole ambedue le mani sul viso come per turarle la bocca. "Guai a te se parli al Padre!" S'incamminarono lentamente per la sassosa mulattiera. Jeanne si fermava spesso, presa da tremiti, vibrando come un filo teso al vento. Porgeva allora in silenzio a Noemi le mani gelate perché sentisse e le sorrideva. Nel mare delle nebbie correnti a monte comparve, curioso anche lui, l'occhio smorto del sole.

CAINO E ABELE

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Perodi, Emma 1 occorrenze

Ella lo trattenne e gli disse: Alessio, abbi compassione di me; sarò la tua schiava, amami. Ti farò felice. Ho in serbo tesori di tenerezza e li spargerò tutti sul tuo petto. Alessio, amami! Ne riparleremo, - rispose lui e avvolgendosi nel mantello breve, si mise a camminare cantarellando. Costanza rimase a guardarlo per un pezzo, mentre si allontanava fra le piante d'appio e le palmette, ferma e rigida come una statua; poi umiliata, a testa bassa tornò accanto a Maria. Nella notte seguente non dormì mai. Stendeva le braccia in cerca di lui, protendeva le labbra e lo vedeva nelle tenebre sempre dinanzi, con quel ghigno di sprezzo sulle labbra, quegli occhi affascinanti e quei muscoli di uomo forte. Se le veniva fatto di figurarsi che la stringesse fra le braccia poderose, sentiva un brivido correrle per la schiena e intravedeva mille voluttà ignorate nella breve vita coniugale. Oh! se mi amasse! - diceva mordendosi le mani, e le parole sprezzanti di lui tornandole alla memoria acuivano i suoi spasimi amorosi. Era "una febbre violenta che l'aveva assalita, uno di quei ribollimenti improvvisi del sangue che si verificano nelle nature ardenti, condannate a una lunga castità. Così smaniò tutta la notte e all'alba girava per la casa silenziosa iu attesa di Alessio, da cui non osava sperare 0126 conforto, spinta da un desiderio prepotente a rivederlo a implorare da lui la felicità. Nella mattina non potè mai parlargli, perché il padrone era insieme con Alessio, sorvegliandone e dirigendone il lavoro, e in quell'attesa la smania di Costanza si convertì in spasimo. Appena ella vide il padrone uscir fuori della villa, entrò di corsa nella stanza ov' era Alessio, e, senza parlargli, gli buttò le braccia al collo, baciandolo furiosamente sulla bocca. Strega, vattene! - le diceva Alessio senza però respingerla, lusingato da quell' ardente passione che aveva destato nella donna e infiammato dai baci di lei. Costanza non gli dava retta e continuava a coprirlo di carezze. Ora lo baciava sul collo, su quella linea scura che lo circondava come un nastro e diceva fra i baci : Come sei bello! Amore! Vita mia! Da quel momento die ella non si vide più respinta, correva di continuo da Alessio a baciarlo. Ma quei baci non smorzavano il fuoco che la consumava; erano a quella fiamma nuovo alimento. Un giorno Alessio le disse fissandola: Dimmi, strega, quando si fanno le nozze? Ella credè impazzire, benché fosse preparata a quella domanda. Stasera, durante il pranzo del padrone; aspettami nella grotta dopo la capanna del bagno; non ti far vedere da nessuno, sii prudente. Egli fece un gesto come per dire che lasciasse fare a lui: non era un novizio, e con la testa le indicò la porta. Al tramonto s'incontrarono nella grotta, ove l'acqua del mare penetrava nei giorni di burrasca, lasciandovi un letto d'alghe. E su quel letto umido, odoroso e cosparso di conchiglie e di frammenti marmorei, quelle due creature quasi selvagge si unirono senza pronunziare 0127 una parola. Costanza tenne tutte le sue promesse, e quando si lasciarono ebri ancora, egli le disse brevemente : - A domani sera, strega. Ah! dunque tu mi desideri ancora! - ella esclamò trionfante. Alessio non rispose e si allontanò sollecitamente per raggiungere la distesa delle alte piante di fichi d'India, fra le quali era più facile camminare senza esser veduto. Costanza lentamente tornò a casa pallida, con gli occhi ardenti; e salita in camera sua si gettò in ginocchio a pregar la Madonna che proteggesse il suo amore e le serbasse Alessio. Ella non aveva neppure il sospetto di commettere un sacrilegio, tanto la sua religione era impastata di reminiscenze pagane penetrate nella sua coscenza col sangue e di superstizione alimentata giornalmente dalla ignoranza. Nei primi tempi Alessio non mancò mai ai convegni e ora s'incontrava con la Costanza nella grotta marina, ora sotto le lunghe rame di una carrubba, che li avvolgeva col suo fogliame scuro, ora in una casupola abbandonata a poca distanza della villa. Poiché egli fu sazio delle carezze ardenti della donna, si fece pregare, supplicare, e quelle suppliche sollecitavano la sua vanità. Spesso le dava un convegno e poi mancava. Costanza dava in ismanie, pregava la Madonna, poi faceva le carte per vedere se era tradita e non riacquistava la pace altro che quando lo stringeva fra le sue braccia frementi di passione e lo vedeva desideroso di lei. In questo tempo Velleda giunse alla villa e Costanza non l'accolse ostilmente, perché sperava di avere maggior libertà ora che la signora si sarebbe occupata di Maria. Velleda, con la sua grazia tranquilla esercitò subito una specie di fascino su quella creatura quasi 0128 selvaggia. La signora era inoltre delicata, e la bellezza parla sempre alle anime meridionali e le induce alla simpatia. Poi Velleda non era superba; anzi parlava a Costanza con bontà e non le diceva di uscire quando talvolta divertiva Maria narrandole novelle meravigliose, che la contadina ascoltava a bocca aperta, che la distraevano dal pensare ad Alessio e l'aiutavano a trascorrere meno angosciosamente le ore in attesa dei convegni. Alessio aveva terminato di lavorare alla villa e Roberto lo aveva generosamente ricompensato. Ma la generosità del padrone invece di commuovere quell' anima pervertita; gli dette sete di maggiori guadagni. Allo stabilimento lavorava di più e era pagato meno. Fu allora che si diede a sobillare i compagni, spingendoli a chiedere un aumento di salario. Il malcontento, nato nell'officina dei fusti, si propagò ben presto ai magazzini, e un sabato sera, mentre Roberto era occupato a firmar lettere nello studio, si presentò un guardiano ad annunziargli che una deputazione di otto operai chiedeva di parlargli. A Roberto non erano sfuggite le mene e i chiacchierii di quegli ultimi giorni e capì subito di che si trattava, ma dette ordine che passassero. Alla testa degli operai era Alessio ed a lui gli altri lasciarono la parola. - Noi non possiamo continuare a lavorare alle condizioni di prima. - disse. - Vogliamo un aumento di salario. Lo stabilimento prospera e noi abbiamo diritto a viver meglio. Roberto s'era alzato e dominava tutti con l'alta persona. La sua bella calma non lo abbandonava. Non posso dare aumenti e anche se potessi non cederei mai dinanzi al tuo " voglio ". Alessio. Tu guadagni più degli altri e mi fa specie che tu osi lamentarti. - Io difendo i diritti dei miei compagni e sono con 0129 loro solidale. Se non abbiamo la promessa di un aumento, lunedì nessuno di noi si presenterà al lavoro. Ebbene; lo stabilimento rimarrà chiuso, - rispose Roberto. - Potete andare, e con un gesto della mano indicò agli operai la porta. Fuori gli altri attendevano e quando Alessio riferì la risposta avuta, si udirono fischi e grida. Roberto non s'intimorì per questo. Uopo aver firmato le lettere, guardò la pendola sospesa al muro e vedendo che indicava l'ora del desinare, si alzò, prese il cappello e traversato il piazzale uscì dalla porta dello stabilimento, passando in mezzo alla turba eccitata. Nessuno lo salutò, ma nessuno osò torcergli un cappello. Il lunedì mattina neppur un operaio andò al lavoro; ma il giovedì già cento si erano raccomandati per venire riammessi e il lunedì successivo anche Alessio tornava, insieme con gli altri della deputazione. In quella settimana aveva fatto baldoria e spesso alla sera era andato a cercar Costanza nella grotta per chiederle danaro, che ella gli dava tutta lieta, dicendogli : Prendi; tutto quello che ho è tuo: non sono tua io? Pochi giorni dopo che era terminato lo sciopero, Roberto aveva trovato Alessio in combriccola insieme con altri operai nell'ora del lavoro e aveva sorpreso queste parole : Abbiamo dovuto chinar la testa, ma verrà il giorno che la chinerà lui. Il padrone aveva fissato Alessio per fargli intendere di aver capito tutto, ma non aveva aperto bocca. Però, essendosi accorto in seguito che molti lavoravano svogliatamente, aveva chiamato Alessio e gli aveva detto : Se l'ordine e la disciplina non ritornano nello stabilimento, tu sarai licenziato. 0130 Perché io? - aveva domandato sfrontatamente Alessio. Perché tu sei il mal seme, che occorre estirpare. Ti ho ammonto più volte, ho cercato di ricondurti sulla buona via; tutto è stato inutile, peggiori sempre. Alessio era andato via borbottando. La sera dopo Roberto, tornando da Castelvetrano a cavallo seguito da un guardiano aveva sentito due palle fischiargli all'orecchio. Non aveva fatto denuncia, anzi aveva ingiunto al guardiano di tacere, ma la mattina dopo s'era rinchiuso insieme con Alessio nello studio e gli aveva detto : Tu hai voluto uccidermi ieri sera. Se ritenti il colpo e sei più fortunato, vai in galera, perché io ho scritto un rapporto del fatto, designandoti come colpevole. Per ora non ti denuncio, ma ti mando via. Esci subito. Alessio non aveva detto una parola a sua discolpa e se n'era andato. Alla fine della settimana erano licenziati i suoi amici, e da quel giorno l'ordine, la disciplina e il rispetto per il padrone avevano regnato nello stabilimento. Però da quel momento era incominciata una vita d'inferno per Costanza. Alessio non aveva trovato lavoro non voleva andarne a cercare a Marsala e viveva alle spalle di lei. Prima le aveva finito tutti i risparmj, poi le aveva preso le gioie, e se la donna non si mostrava arrendevole, egli stava giorni e giorni senza farsi vedere. Più volte le aveva chiesto di farlo entrare di notte alla villa, per non esser sorpresi nella grotta o in aperta campagna, ma ella si era sempre rifiutata per timore d'essere scoperta dal padrone. Dopo la partenza di Roberto aveva ceduto ed Alessio era stato diverse notti nella camera di Costanza, salendo da una scala di corda che ella gettava già dopo le undici prima che la signora sciogliesse i cani e si ritirasse in camera. Un indugio di Velleda nella sera fatale aveva 0131 portato all'arresto d'Alessio, e ora nella camera che le rammentava tante voluttà, la selvaggia contadina in preda alla smania malediceva la signora e con la mano alzata in alto minaccioso, diceva: Madonna, fate che possa soffrire quanto soffro io!

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