Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbeveratoio

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UGO. SCENE DEL SECOLO X - PARTE PRIMA

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Bazzero, Ambrogio 2 occorrenze

Egli non conosceva quel luogo: guardò ancora attorno, e sospirò con invidia quasi religiosa: vide sulla grotta vicino a lui una rozza statuina di Madonna, vide un abbeveratoio coll'acqua traboccante, vide sette od otto agnellini. Da un uscio che si aperse nel fianco della casetta venne sulla gradinata di ciottoloni rotondi una figura di fanciulla, colla foggia montanara, il volto coperto da un panno: guardò giù la montagna, poi, non col passo della massaia che solerte si dà alle bisogne del mattino, andò all'abbeveratoio, cautissima nella rugiada e fastidiosa. Un agnello venne, ritroso e saltellante, bebbe e s'allontanò con graziose tresche: ella si diede ad inseguirlo, corse, venne quasi sotto alla rupe, senza veder Ugo. Ugo in quel momento proprio pensava: - Che vita incomincia per me? La montanina guardò ancora giù dalla montagna, stette un pezzo come pensierosa, e, piegando le ginocchia, disse: - Perdonami, madre! Io devo fuggire! - e stava per muovere il piede: si lasciò scappare questo lamento: - Non ho ancora pregato stamattina! - e si volse in due passi alla grotta, verso la statuetta. Vide Ugo, si avventò su di lui, supplicando ansiosissima e dolorosa: - Siete ferito? Siete salvo? - e buttò via il panno dal capo, lo raccolse per farne una fascia, sollevò la faccia a Dio. Era madonna Imilda! Quella lì vicino la casa di Agnese. Ugo non credette e lanciò innanzi le mani, come per stracciare una nebbia, gridando: - No! È crudeltà questa illusione! Lasciatemi morire! - Morire? morire voi! - ruggì Imilda. Così in lei, straziata sul subito la gioia affannosa del riabbraccio dalle parole deliranti di lui, l'amore cupido dell'infinito volle vincere il tempo, soperchiandolo colla intensità dell'anima. Non si può amare tutta una vita? Si impazzisce un'ora nella ebbrezza più prepotente e si muore. L'amore diventa furore. - Ugo! Ugo! - e la vergine se gli gettò in braccio, ammaliandolo con un modo procacissimo che sfidava Dio e gli uomini: - Se sapeste che tormento! E vi trovo quassù! Chi ve lo disse ch'ero qui? E voi volete morire! Ugo mio, io non credevo che tu avessi a dirmi così! - Ma sei proprio tu? - Ugo si storceva come sotto un incubo. - Sono io! Non mi senti? Ti bacio, ti mordo, ti voglio! - Imilda, la tua faccia è fiamma! - E voglio che bruci la tua. Ti discaccio la morte! - Io ti strappai al fuoco: tu al fuoco mi rigetti! - E poi, come se Ugo acquistasse coscienza: - Imilda, fuggimi, per carità! Perchè incominciare un nuovo tormento? Va! - Io fuggivo alla valle - sorrise Imilda: - per te! - Che ti dissi? Non dobbiamo vederci più! Se muoio, tu non devi saperlo: se vivo, ho un giuramento a compiere! Ti supplico: fuggimi! - Ed Ugo, rizzatosi, spingeva Imilda su quella stessa stradicciuola per cui Oberto doveva venire, e veniva, per condurre a Rupemala la sposa a vedere il padre per l'ultima volta: - Fuggimi! Tu non sai che cosa ho pensato di te! Ella trepidò. Ed egli: - Affrettati! - Non m'ami? - .... T'amo, sì! Ma tu qui vedresti un grande tormento! Oldrado e Guidinga verranno a ghermirmi tra poco! - ed Ugo barcollò. - Ugo! - gridò Imilda. E fu così potente la voce di lei, che il cavaliere si scosse, rattenendola e lamentando: - Questa è voce di paradiso! Imilda, non fuggirmi! Sono nell'affanno immenso! Non fuggirmi dalla terra! - Ugo, sono qui avvinghiata a te! Nessuno può rompere questo nodo fatale! - Nessuno? E chi ti dicesse chi io sono? - Nessuno! E nessuno lo può dire perchè tu sei Ugo! - Io devo dirlo. Sono vinto e vituperato. - T'amo! - Scomunicato e fuggente. - T'amo, e sono tutta tua! - Perchè m'ami? Che t'ho fatto per condannarmi così? - Ed io che t'ho fatto? - Ricordati Guidinga. - È così disperato l'amore! Chi ci resiste? Imilda nascose Ugo nella grotta, andò nella casetta e fu lietissima che mamma Agnese non ci fosse, perchè la stava stendendo dei pannilini in un pratello: i figli di Federigo dormivano ancora, colle membra rotte dal combattimento: Imilda tolse su del pane, dei cibi, delle vesti, e con gran cura involò da un pancone un suo cofanetto prezioso. Ritornò da Ugo, lo fece rifocillare, lo animò tutto, gli domandò: - Ugo, sei pronto? - A tutto, purchè tu mi baci! - rispose Ugo. - Ancora e sempre. - Ora mi trovo saldissimo. - Dunque decidi di me. - Dai morti non ebbi che strazio. Da te viva voglio la felicità! E qual'è? quella degli agi, dell'ambizione, del potere? Tu non sai com'è l'anima mia! come amore, memorie, gelosia, impotenza, strapotenza, come tremendi uragani l'abbiano squassata! Dammi un poco di pace! Io non so dirti...! Prima di tutto, per la salvazione nostra! andiamo dal romito di Malandaggio che non ci conosce.... - E quegli benedica le nostre nozze. - Poi.... O Imilda, ci abbiamo pensato? - Ugo fu come ghermito da un pensiero. - E di che temi dopo? Dio sa che tu sei mio, ch'io sono tua. Se così volle per tormentarci, questi istanti audacissimi di vita vincono tutti gli anni! - Imilda - dubitava fieramente Ugo: - non posso! non devo! - Come mi ami poco! Ma non vedi? Io fuggo anche da mio padre per te! - Se vuoi ch'io comandi, comando: fuggiamo! - esultò Ugo. - Sì, andremo lontano da Adalberto.... - Da Oberto! - Da tutti! Senti: ho pregato tanto. Oh lo sa la madre mia. Ugo, in questo cofanetto ho i suoi gioielli, fuggiamo lontano.... «Chi siete?» domanderanno. «Siamo esuli.» «Di che terra?» E diremo: «Il saracino Alzor disertò le nostre castella sulla riviera ligure.» Fuggiamo lontano. O mio Ugo, vivremo lontano da tutti! Ci benedica il romito. - Affermano i boscaiuoli ch'egli è profeta: ci predirà l'avvenire. - Ma chi più profeta del mio cuore? Ascolti, Ugo? Morremo d'amore! Tra le vesti Imilda aveva trafugato anche quelle dei figli di Agnese: Ugo si coperse con quei rozzi panni: Imilda si strinse a lui, dicendo: - Tu hai pane nella bisaccia? Quando sarà finito, lo domanderemo ai boscaiuoli, per pietà d'Iddio. - E s'incamminarono sulla montagna: nel primo torrente in cui s'abbatterono Ugo gettò il suo saio da cavaliero, e le calze, e gli usatti, esclamando: - Mi sento buono! E montanaro e montanara s'arrampicarono sempre più, sempre più obliando che c'era un mondo basso nel quale la gente viveva in tanta guerra, inconsci affatto che c'era un castello con un morto maledetto e vituperato dai nemici, che c'era una strada sulla quale camminava Oberto, ringhiando: - Che vita sarà la mia con Imilda? Quella di Imilda con Ugo doveva essere.... felice?

Se non ora quando

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Levi, Primo 1 occorrenze

Il secchio risalì pieno, Dov poté uscire, e si trovò in mezzo ad un plotone di soldati che, nudi fino alla cintura, si stavano lavando gioiosamente nell' acqua che avevano raccolta in un abbeveratoio. Sul terreno c' era un palmo di neve, scalpicciata e mezza sciolta dagli incendi della notte. Poco lontano altri soldati avevano acceso un fuoco e vi facevano asciugare gli abiti. Accolsero Dov con indifferenza bonaria: _ Ehi, zio! Da dove spunti? Di che reggimento sei? _ Per poco non ti tiravamo su dentro il secchio! _ Ve lo dico io, da dove viene: ha preso una sbornia e ci è caduto dentro. _ O ce lo hanno buttato. Di' , zio: sono stati i tedeschi a buttarti nel pozzo? o ci sei sceso tu per metterti al riparo? _ In questo paese si vedono delle cose strane, _ disse pensieroso un soldato mongolo. _ Ieri, in mezzo alla battaglia, ho visto una lepre: invece di scappare stava lì come incantata. E il giorno prima ho visto una bella ragazza in una botte .... _ Che cosa faceva nella botte? _ Niente. Stava lì nascosta. _ E tu che cosa hai fatto? _ Niente. Le ho detto "Buon mattino, panienka, mi scusi il disturbo", e ho richiuso il coperchio. _ O sei bugiardo o sei stupido, Afanasij; una lepre si fa arrosto, e con una ragazza si fa all' amore. _ Insomma, volevo solo dire che questo è un paese strano. Ieri la lepre, ieri l' altro la ragazza, e adesso salta fuori dal pozzo un soldato con i capelli bianchi. Vieni qui, soldato: se non sei un fantasma prendi un po' di vodka, e se sei un fantasma torna da dove sei venuto. Si avvicinò a Dov il caporale del plotone, lo palpò e disse: _ Ma tu non sei neppure bagnato! _ Nel pozzo c' è un' apertura, _ disse Dov; _ adesso ti spiego. Il caporale disse: _ Vieni con me al Comando: spiegherai tutto laggiù. Mezz' ora dopo Dov e il caporale ritornarono accompagnati da un tenente che portava al braccio la fascia dell' NKVD; al vederlo, i soldati interruppero le loro chiacchiere e ripresero a lavarsi. Il tenente disse a Dov di ridiscendere nel pozzo e di fare uscire tutti quelli che stavano nascosti. Vennero fuori uno per uno, nella luce bianca del cielo che minacciava altra neve, fra lo stupore silenzioso dei russi. Il tenente ordinò a due soldati di rivestirsi e prendere le armi, e fece scortare il drappello lungo il cammino inverso di quello che avevano percorso nella notte sotto la guida di Schmulek; li riportò cioè alle baracche del campo polacco. Qui trovarono Edek con Marian e quasi tutti i loro uomini; c' era anche Gedale con i gedalisti che non avevano seguito Schmulek. Sia i polacchi, sia gli ebrei erano stati disarmati, e la baracca dove essi erano rinchiusi era sorvegliata da due sentinelle russe. Per tutto il giorno non avvenne nulla. A mezzogiorno vennero due soldati e portarono pane e salsiccia per tutti; a sera arrivò una marmitta con zuppa calda di miglio e carne. I prigionieri erano più di cento, e nella baracca stavano stretti, protestarono con le sentinelle, venne il caporale e li divise in due gruppi, uno per baracca, per il che dovette raddoppiare la sorveglianza. Né il caporale né i soldati erano ostili; alcuni sembravano incuriositi, altri seccati, altri ancora avevano l' aria di volersi scusare. I polacchi erano inquieti, ed umiliati per aver dovuto consegnare le armi. _ Coraggio, Edek, _ disse Gedale. _ Il peggio è passato. Per male che vada, questi non ci tratteranno come facevano i tedeschi. Lo hai visto, con loro si ragiona _. Edek non rispose. Al mattino arrivò un bidone di surrogato di caffè, e poco dopo venne il tenente, accompagnato da uno scrivano. Sembrava di cattivo umore ed aveva fretta. Trascrisse i dati personali di tutti su un quadernetto da scolaro, e a tutti fece mostrare le mani, il palmo e il dorso, esaminandole con attenzione. Quando ebbe finito, ripartì i reclusi in tre gruppi. Il primo gruppo era costituito dalla maggior parte dei polacchi. _ Voi siete soldati, e continuerete ad essere soldati. Riceverete divise ed armi, e sarete inquadrati nell' Armata Rossa _. Ci furono commenti, mormorii, qualche protesta; le sentinelle abbassarono le canne dei mitra, e le proteste si spensero. _ Voi ci sarete utili in altro modo, _ disse rivolto al secondo gruppo. Questo era assai smilzo: ne faceva parte Edek con una mezza dozzina di ex studenti ed impiegati. _ Io sono il comandante di questo plotone, _ disse Edek pallido come la neve. _ Non c' è più plotone e non c' è più comandante, _ disse il tenente. _ L' Armia Krajowa è stata disciolta. _ Disciolta da chi? Disciolta da voi! _ No, no. Si è disciolta da sola, non aveva più ragione di esistere. La Polonia la stiamo liberando noi. Non avete sentito la radio? No, non la nostra, Radio Londra: sono tre giorni che trasmette un messaggio del vostro comandante. Vi saluta, vi ringrazia, e vi dice che la vostra guerra è finita. _ Dove ci manderete? _ chiese ancora Edek. _ Non lo so, e non mi riguarda. Io ho solo ordine di mandarvi al comando di zona; lì avrete tutte le informazioni che desiderate. Il terzo gruppo era costituito dai gedalisti più Schmulek, ossia da tutti gli ebrei più Piotr. Mendel non aveva notato prima, e notò allora, che Piotr aveva deposto la sua logora divisa di partigiano, quella che gli aveva vista indosso fin dal campo di Turov. Era alto e snello come Gedale, e indossava i panni borghesi che Gedale aveva sfoderati dopo il colpo di Sarny. _ Quanto a voi altri, _ disse il tenente, _ per ora non ci sono ordini. Civili non siete, militari neppure, non siete prigionieri di guerra, siete uomini e donne e non avete documenti. _ Compagno tenente, noi siamo partigiani, _ disse Gedale. _ I partigiani sono quelli che fanno parte dei reparti partigiani. Di partigiani ebrei nessuno ha mai sentito parlare, è una voce nuova. Voi non fate parte di nessuna categoria. Per adesso restate qui: ho chiesto istruzioni. Avrete il trattamento che spetta ai nostri soldati. Poi si vedrà. La banda di Gedale, ritornata dopo più di tre mesi allo stato puro originario, conobbe giorni d' inerzia e di sospetto. Verso la fine di gennaio, dalla finestrella della baracca videro partire i polacchi del secondo gruppo in mezzo alla neve che cadeva fitta. Per l' occasione, il tenente aveva fatto sbarrare le porte; dovettero accontentarsi di salutare Edek attraverso i vetri. Salito sull' autocarro, Edek agitò la mano verso di loro; l' autocarro partì con un sobbalzo, e Sissl scoppiò a piangere. A differenza dagli altri, Dov, Mendel, Arié e Piotr avevano appartenuto all' Armata Rossa, e non avrebbero avuto difficoltà a chiarire la loro posizione. Piotr non ebbe dubbi: _ Non hanno fatto distinzioni, e per me va bene così. È chiaro che all' NKVD in questo momento interessano solo i polacchi: Stalin non vuole partigiani polacchi fra i piedi. _ Ti hanno preso per un ebreo! _ disse Gedale divertito. _ Del resto, te lo sei meritato. _ Non lo so. Il tenente mi ha fatto due o tre domande, ha visto che rispondevo in russo e si è accontentato. _ Hm, _ disse Gedale, _ secondo me la tua faccenda non è ancora conclusa. _ Per me è conclusa, _ rispose Piotr. _ Io resto con voi. Neppure Dov ebbe dubbi, ma nel senso opposto. La sua decisione non era cambiata, anzi, era stata rafforzata dalle avventure più recenti; era stanco di combattere e di vagabondare, stanco di incertezze e di vita precaria, voleva tornare a casa, lui che una casa ce l' aveva. Una casa lontana, non toccata dalla guerra, in un paese che la distanza nel tempo e nello spazio aveva reso fiabesco: il paese delle tigri e degli orsi, dove tutti erano come lui, ostinati e semplici. In quel paese, che Dov non si saziava di descrivere, il cielo invernale era viola e verde: vi tremolavano le aurore boreali, e ne era scaturita quando lui era bambino la cometa terribile. Mutoraj, con i suoi quattromila abitanti confinati, nichilisti e samoiedi, era un paese unico al mondo. Dov se ne andò in silenzio, triste senza disperazione. Si mise a rapporto con l' intendenza russa, dichiarò la sua posizione militare e i suoi trascorsi, a loro richiesta stese in bella scrittura una relazione sulle circostanze in cui era stato prelevato da Turov, curato all' ospedale di Kiev e riportato in zona partigiana, ed attese. Dopo due settimane prese congedo da tutti, ed uscì decorosamente di scena. Quanto a Mendel ed Arié, sotto questo aspetto non si posero problemi, né alcun problema gli fu posto dai russi. Il fronte si era rapidamente allontanato verso ponente; il tenente dell' NKVD non si fece più vedere, e la sorveglianza intorno alle baracche si fece sempre più rilassata fino a sparire del tutto. La banda di Gedale, al completo, venne trasferita ai primi di febbraio in una scuola, nella cittadina di Wolbrom poco lontana, e qui abbandonata a se stessa: il presidio russo, che del resto era costituito soltanto da un vecchio capitano e da pochi soldati, non si curava di loro, se non per portare i rifornimenti prelevati dai magazzini militari: patate, rape, orzo, carne, sale. Il pane arrivava già pronto da un forno requisito, ma le operazioni di cucina dovevano essere svolte sul posto, e attrezzi nella scuola non ce n' erano né i russi ne avevano forniti. Gedale ne fece regolare richiesta, il capitano promise, e non arrivò niente. _ Andiamo in città e ce li procuriamo, _ disse Gedale. L' impresa si rivelò più facile del previsto. La cittadina era deserta e sinistra; doveva essere stata bombardata, e poi saccheggiata più volte, ma sempre con fretta. Nelle case smozzicate, nelle cantine, nei solai, nei rifugi antiaerei, si trovava di tutto. Non solo le marmitte, ma sedie, coperte imbottite, materassi, mobili di ogni tipo. Altri mobili arrivavano ogni giorno sul mercato che si era spontaneamente costituito sulla piazza principale. Cumuli di mobilio mezzo sfasciato venivano venduti come legna da ardere: l' offerta era grande e la quotazione bassa. In breve tempo la scuola venne trasformata in un ricovero abitabile, seppure poco accogliente; ma fornelli non ce n' erano, né nei locali né nelle vicinanze, e la zuppa doveva essere cotta su fuochi all' aperto, nel cortile, accanto alla pista di sabbia per il salto in lungo. In compenso, in una delle aule i gedalisti eressero un maestoso letto matrimoniale per Ròkhele Bianca e Isidor, sormontato da un baldacchino che avevano ricavato da coperte militari. Il capitano russo era un uomo malinconico e stanco. Gedale e Mendel andarono più volte a parlargli, per avere da lui qualche informazione sulle intenzioni delle autorità russe nei loro riguardi. Fu gentile, distratto ed elusivo; lui non sapeva nulla, nessuno sapeva nulla, la guerra non era finita, bisognava aspettare la fine della guerra. In guerra lui aveva perso due figli, e di sua moglie a Leningrado non aveva più notizie. Avevano da mangiare e da scaldarsi: aspettassero, come tutti aspettavano. Anche lui aspettava. Forse la guerra non sarebbe finita così presto; nessuno poteva saperlo, forse sarebbe continuata, chi sa? Contro il Giappone, contro l' America. Un permesso per andarsene? Lui non poteva dare permessi, era un' altra amministrazione; e del resto andarsene dove? Verso dove? C' erano in giro bande di ribelli polacchi e tedeschi, bande di briganti; su tutte le strade i sovietici avevano stabilito posti di blocco. Che non tentassero di uscire dalla città: non sarebbero andati molto lontano, i posti di blocco avevano ordine di sparare a vista. Lui stesso evitava di spostarsi, se non per obblighi di servizio; era già successo che i soldati sovietici si sparassero fra loro. Ma Gedale sopportava male la clausura. A lui, e non solo a lui, quel modo di vivere sembrava vuoto, umiliante e ridicolo. Uomini e donne svolgevano a turno le operazioni di cucina e di pulizia, e rimanevano valanghe di tempo libero; paradossalmente, con una città intorno, un tetto sul capo e una tavola attorno a cui mangiare, provavano un disagio indefinito, che era la nostalgia per la foresta e per la libera strada. Si sentivano inetti, stranieri: non più in guerra, non ancora in pace. A dispetto delle raccomandazioni del capitano, uscivano spesso, a piccoli gruppi. A Wolbrom la guerra era finita, ma continuava accanita non molto lontano. Attraverso la cittadina, e sulla strada di circonvallazione in terra battuta, passavano senza sosta, di giorno e di notte, i reparti militari sovietici diretti al fronte slesiano. Di giorno, piuttosto che un esercito moderno sembrava che passasse un' orda, una migrazione: uomini di tutte le razze, giganti vichinghi e lapponi atticciati, caucasici abbronzati e siberiani pallidi, a piedi, a cavallo, su autocarri, su trattori, su grandi carri trainati da buoi, alcuni perfino a dorso di cammello. C' erano militari e borghesi, donne vestite in tutti i modi possibili, vacche, pecore, cavalli e muli: a sera, le squadre si fermavano dove si trovavano, piantavano le tende, macellavano le bestie e arrostivano la carne su fuochi improvvisati. Questi bivacchi estemporanei brulicavano di bambini, infagottati in panni militari fuori misura; alcuni portavano pistole e coltelli alla cintura, tutti avevano la stella rossa appuntata sull' enorme berretto di pelliccia. Chi erano? Da dove venivano? Mendel e i suoi compagni si soffermarono a interrogarli: parlavano russo, ucraino, polacco, alcuni anche jiddisch, altri rifiutavano di parlare. Erano restii e selvaggi, erano orfani di guerra. L' Armata Rossa, nella sua avanzata attraverso paesi devastati, ne aveva rastrellati a migliaia, tra le macerie delle città, sperduti per i campi e i boschi, affamati e raminghi. I sovietici non avevano tempo di sistemarli nelle retrovie né mezzi per trasferirli più lontano: se li trascinavano dietro, figli di tutti, soldati anche loro, anche loro in cerca di preda. Si aggiravano intorno ai fuochi; alcuni militari davano loro pane, zuppa e carne, altri li cacciavano via infastiditi. Sorprendentemente diverse erano le truppe che attraversavano la città nelle ore buie. Mendel, che conservava il ricordo bruciante dei reparti accerchiati e fatti a pezzi nelle grandi battaglie di annientamento del '41 e del '42, stentava a credere ai suoi occhi. Ecco, era quella la nuova Armata Rossa che aveva spezzato la schiena della Germania; un' altra, irriconoscibile. Una macchina poderosa, ordinata, moderna, che sfilava quasi senza rumore per la via principale della città oscurata. Carri armati giganteschi montati su rimorchi dalle ruote gommate; cannoni semoventi mai visti né sognati prima; le Katijuse leggendarie, coperte da teli che ne nascondevano le fattezze. Frammiste alle artiglierie ed ai reparti corazzati marciavano anche squadre appiedate, in ordine chiuso, cantando. I loro non erano canti bellicosi, anzi melanconici e sommessi; non esprimevano sete di guerra, come quelli dei tedeschi, bensì il lutto accumulato in quattro anni di strage. Mendel, l' artigliere Mendel, assisteva al passaggio con l' animo scosso. Nonostante tutto, nonostante la sconfitta disastrosa e colpevole che lo aveva costretto alla macchia, nonostante il disprezzo e i torti che in altri tempi aveva subiti, nonostante Ulybin, era pure quello l' esercito di cui lui ancora portava addosso l' uniforme logora e stinta. Un "krasnoarmeetz": tale era ancora, anche se ebreo, anche se in cammino verso un altro paese. Quei soldati che passavano cantando, miti in pace e indomabili in guerra, quei soldati fatti come Piotr, erano i suoi compagni. Sentiva il suo petto sollevarsi per una piena di affetti che facevano lite: fierezza, rimorso, risentimento, reverenza, gratitudine. Ma un giorno udì gemiti uscire da una cantina; vi discese con Piotr, e vide dieci militi della Waffen-SS coricati sul ventre e seminudi: alcuni si trascinavano a forza di braccia, tutti avevano un taglio sanguinante a metà della schiena. _ I siberiani fanno così, _ disse Piotr, _ quando li trovano non li uccidono, ma gli tagliano il midollo _. Risalirono in strada, e Piotr aggiunse: _ Non vorrei essere un tedesco. Eh no, nei prossimi mesi non vorrei proprio essere un berlinese. Un mattino si svegliarono e trovarono, tracciata a catrame sulla facciata della scuola, una croce uncinata; sotto stava scritto: "NSZ _ Morte agli ebrei bolscevichi". Poco dopo, dalla finestra del primo piano, videro in strada tre o quattro giovani che parlavano fra loro e guardavano in su. La sera stessa, mentre erano seduti a mangiare, il vetro della finestra volò in schegge, e tra le gambe del tavolo piombò una bottiglia a cui era legata una miccia accesa. Il più pronto fu Piotr: in un lampo acchiappò la bottiglia, che non si era rotta, e la ributtò in strada. Ci fu un tonfo, e sul selciato si formò una pozza accesa che bruciò a lungo; la fiamma fumosa arrivava fino alla loro finestra. Gedale disse: _ Bisogna trovare armi e andare via. Anche trovare armi fu più facile di quanto si erano aspettato: vi provvidero, per vie diverse, Schmulek e Pavel. Nella sua tana c' erano armi, disse Schmulek: non molte ma ben conservate, sepolte sotto la terra battuta. Chiese a Gedale un accompagnatore, partì al tramonto e tornò all' alba con diverse pistole, bombe a mano, munizioni e un mitra. Dopo la morte di Jòzek, Pavel gli era subentrato nella funzione di furiere, e riferì che comperare armi al mercato era più facile che comperare il burro e il tabacco. Ne offrivano tutti, alla luce del sole; i russi stessi, sia i militari di passaggio, sia i civili che seguivano le truppe, vendevano armi leggere tedesche trovate nei depositi o sui campi di battaglia; altro materiale lo offrivano con disinvoltura i polacchi della milizia che i russi avevano frettolosamente messa in piedi. Molti di questi, appena arruolati, disertavano con le armi e raggiungevano bande che si preparavano alla guerriglia; altri vendevano o barattavano le armi al mercato. In pochi giorni i gedalisti si trovarono in possesso di parecchi coltelli e di una dozzina di bocche da fuoco scompagnate; non era molto, ma poteva bastare per tenere lontani i terroristi della destra polacca. A fine febbraio il capitano russo chiamò Gedale a rapporto, e lo tenne a parlare per più di un' ora. _ Mi ha offerto da fumare e da bere, _ riferì Gedale ai compagni. _ Non è così distratto come sembra, e secondo me ha ricevuto un' imbeccata. Ha saputo della bottiglia Molotov, dice che sono tempi difficili e che è preoccupato per noi. Che loro non sono in grado di garantire la nostra sicurezza, e che faremmo bene a proteggerci da soli: in altre parole, si è accorto delle armi e gli sta bene che noi le abbiamo. È naturale, l' NSZ gli deve piacere come a noi. Ha ripetuto che questo è un brutto posto; me lo aveva già detto l' altra volta, ma allora diceva che uscire di città era pericoloso, e invece oggi mi ha chiesto perché restiamo qui. "Potreste andare più avanti, ormai il fronte è lontano: più avanti, incontro agli alleati ...." Io gli ho detto che vorremmo andare in Italia, e di lì cercheremmo di passare in Palestina, e lui ha detto che facciamo bene, l' Inghilterra dalla Palestina se ne deve andare, e così pure dall' Egitto e dall' India: gli imperi coloniali hanno le ore contate. E in Palestina dobbiamo andarci noi, a costruire il nostro stato. Mi ha detto che lui ha molti amici ebrei, e che ha perfino letto il libro di Herzl: ma questo credo che non sia vero, oppure lo ha letto male, perché mi ha detto che in fondo anche Herzl era un russo, mentre invece era ungherese; io però non l' ho contraddetto. In breve: il capitano è uno che la sa lunga; ai russi fa comodo che noi andiamo a dare fastidi agli inglesi; e per noi è ora di partire. Ma niente permessi ufficiali: su questo argomento ha fatto subito macchina indietro. _ Ce ne andremo senza permessi, _ disse Line alzando le spalle. _ Quando mai abbiamo avuto permessi? Si udì la voce nasale di Bella: _ Quelli dell' NSZ sono dei fascisti e dei vigliacchi, ma c' è un punto su cui noi andiamo d' accordo con loro e con i russi: loro ci vogliono mandare via, e noi ce ne vogliamo andare. Pavel aveva preso l' abitudine di uscire dalla scuola di buon mattino e di non farsi più vedere fino a sera. Nel giro di pochi giorni l' atmosfera di Wolbrom era cambiata: adesso, sul flusso delle truppe dirette in Germania prevaleva il flusso inverso, di soldati che tornavano dal fronte. Alcuni andavano in licenza, ma per la maggior parte erano militari feriti o mutilati, appoggiati su stampelle di fortuna, seduti sui mucchi di calcinacci che fiancheggiavano le vie, con pallidi visi imberbi da adolescenti. Dai suoi giri di esplorazione Pavel non rientrava mai a mani vuote: sul mercato nero si trovava ormai di tutto. Portò caffè, latte in polvere, sapone e lamette da barba, polvere per budini, vitamine, tesori che i gedalisti non vedevano da sei anni o non avevano mai conosciuto prima. Un giorno si portò dietro uno spilungone dai capelli color sabbia, che non parlava né russo né polacco né tedesco, e solo qualche parola di jiddisch: lo aveva trovato sulle macerie della sinagoga di Wolbrom che recitava le preghiere del mattino, era un soldato ebreo di Chicago che i tedeschi avevano fatto prigioniero in Normandia e che l' Armata Rossa aveva liberato. Fecero festa insieme, ma l' americano non era bravo ad esprimersi ed ancora meno a bere; dopo il primo giro di vodka finì sotto il tavolo, dormì fino al mezzogiorno seguente, e poi se ne andò senza salutare nessuno. Per le strade vagabondavano ex prigionieri di tutti i paesi e di tutte le razze, e nugoli di prostitute. Il 25 di febbraio Pavel rincasò con cinque paia di calze di seta, e ne nacque un gran brusio eccitato: le donne si affrettarono a provarle, ma erano di misura tollerabilmente giusta solo per Sissl e per Ròkhele Nera; per l' altra Ròkhele, Line e Bella erano troppo grandi. Pavel fece tacere il brusio: _ Niente, non ha importanza, domani le cambio o ne porto delle altre. Ho altro da dirvi, ho trovato un camion! _ Lo hai comperato? _ chiese Isidor. No, non lo aveva comperato. Venne fuori che dietro alla stazione ferroviaria i russi avevano costituito un campo di rottami e di materiale smobilitato, e che qui si poteva trovare di tutto. Pavel non era pratico, bisognava che l' indomani stesso qualcuno andasse sul posto con lui. Chi era pratico di camion? Chi li sapeva guidare? La banda aveva fatto a piedi più di mille chilometri: non era forse ora di viaggiare in camion? _ Bisognerà pure pagarlo, _ disse Mottel. _ Non credo, _ disse Pavel. _ Il campo non è recintato, intorno non c' è che un fosso, e di sentinelle ce n' è una sola. L' importante è sbrigarsi: c' è già una quantità di gente che va e viene, proprio stamattina ho visto due ragazzi che si portavano via una motocicletta. Chi viene con me domani mattina? Avrebbero voluto andare tutti, se non altro per il diversivo. Line ed Arié fecero sapere che avevano guidato trattori; Piotr e Mendel avevano la patente militare, ed in più Mendel al suo paese aveva avuto occasione di riparare trattori ed autocarri. Gedale, con inconsueto abuso di autorità, disse che sarebbe andato lui perché era il capobanda, ma il più insistente era Isidor, che non poteva vantare alcun titolo. Voleva a tutti i costi andare con Pavel: per le macchine, per tutte le macchine, aveva una passione disinteressata ed infantile, e diceva che il camion avrebbe imparato a guidarlo in un momento. Andò Mendel, e vide che Pavel non aveva esagerato: nel campo rottami c' era veramente di tutto, non solo rottami. I russi, riforniti dagli Alleati di materiale militare di tutti i generi, non andavano per il sottile: non appena un' apparecchiatura o un veicolo davano qualche fastidio, lo scartavano e ne prelevavano uno nuovo. Altro materiale danneggiato arrivava giorno per giorno dalla zona di combattimento, su autocarri o per ferrovia; nessuno lo esaminava o controllava, veniva scaraventato nel campo e restava lì ad arrugginire. Nel lugubre cimitero metallico si aggiravano curiosi, esperti, e torme di ragazzini che giocavano a rimpiattino. I camion c' erano: di tutte le marche e in tutti gli stati di conservazione. L' attenzione di Mendel si appuntò su una fila di camion italiani; erano Lancia 3 Ro da trenta quintali, e sembravano nuovi: forse venivano da qualche deposito tedesco. Mentre Pavel cercava di distrarre la sentinella, offrendole tabacco e gomma da masticare, Mendel esaminò i veicoli più da vicino. Avevano addirittura ancora la chiave nel cruscotto e sembravano pronti a partire; Mendel provò a dare il contatto, ma non accadde nulla. Fu presto capito: i camion non avevano batteria, e non l' avevano mai avuta; i capicorda dell' impianto elettrico erano ancora coperti di grasso. Quando Pavel tornò, Mendel gli disse: _ Ritorna dal tuo uomo e tienilo occupato. Io vado a vedere se trovo in giro una batteria carica. _ Ma che cosa gli racconto? _ Arrangiati. Raccontagli di quando facevi l' attore. Mentre Pavel sforzava la sua memoria e la sua fantasia per intrattenere la sentinella senza insospettirla, Mendel prese ad esplorare metodicamente gli altri veicoli. Presto trovò quanto cercava, un autocarro russo della stessa portata dei Lancia, in condizioni relativamente buone: doveva essere arrivato da poco. Aprì il cofano e toccò i poli della batteria con la lama del coltello. Ci fu uno schiocco ed un lampo azzurro, la batteria era carica. Rientrò con Pavel alla scuola, le ore passavano lente, sembrava che la notte non venisse mai. Quando fu buio, presero le armi e tornarono al campo rottami. Della sentinella non c' era traccia, o dormiva nei pressi o era tranquillamente rientrata in caserma. Invece, fra le sagome buie dei veicoli e dei rottami si aggirava una popolazione furtiva: come termiti, smontavano e demolivano tutto quanto potesse dimostrarsi utile o commerciabile: sedili, cavetti, pneumatici, i motorini ausiliari. Alcuni sifonavano via il carburante dai serbatoi; Pavel si fece imprestare un tubo, fece altrettanto e versò un po' di nafta nel serbatoio del primo 3 Ro della fila. Poi Mendel smontò la batteria buona, ed aiutato da Pavel la trascinò all' autocarro. La rimontò, fece la connessione, salirono in cabina e Mendel girò la chiavetta. Cercò a tentoni la levetta dei fari, e i fari si accesero: "... e la luce fu", pensò tra sé. Li spense e fece l' avviamento: il motore partì subito, liscio e rotondo; rispondeva obbediente al pedale del gas. Perfetto. _ Siamo a posto! _ disse Pavel sottovoce. _ Vedremo, _ rispose Mendel. _ Bestioni come questo io ne ho riparati diversi, ma non ne ho mai guidato nessuno. _ Non hai detto che avevi la patente? _ Per averla, ce l' ho, _ disse Mendel fra i denti. _ A quel tempo la davano a tutti, c' erano i tedeschi a Borodinò e a Kaluga, sei mezze ore di lezione e via. Ma poi io ho solo guidato vetture e trattori; e di notte è un' altra faccenda. Adesso stai zitto, per favore. _ Solo ancora una cosa, _ disse Pavel, _ non uscire dalla porta. Lì c' è la garitta, ci potrebbe essere qualcuno. E adesso sto zitto. Con la fronte aggrottata, intento come un chirurgo, Mendel premette il pedale della frizione, ingranò la marcia e sollevò il piede: il camion si avviò con uno strappo selvaggio. Riaccese i fari, e col motore imballato si diresse lentissimo verso il fondo del campo, lungo una corsia sgombra. _ Non sperare che io cambi marcia. Cambio poi domani: per oggi andiamo avanti così. Il camion navigò fino al fossato, si inclinò in avanti e puntò maestosamente verso il cielo. _ Siamo fuori, _ disse Pavel aspirando l' aria piovosa: si accorse che da forse un minuto non aveva più respirato. Una voce gridò alle loro spalle: _ Stòj! Halt! _; Pavel si sporse dal finestrino e sparò una breve raffica verso l' alto, più per allegria anche per intimidazione. Arrivato sulla strada, Mendel raccolse tutto il suo coraggio ed ingranò la seconda ridotta: il ruggito del motore calò di un tono e la velocità aumentò leggermente. Nessuno li inseguì, e raggiunsero la scuola in pochi minuti. Gedale, armato anche lui, li aspettava in strada. Abbracciò Mendel ridendo e recitando la benedizione dei miracoli. Mendel, con la fronte imperlata di sudore a dispetto del freddo, gli rispose: _ Meglio l' altra, quella dello scampato pericolo. Non perdiamo tempo, partiamo subito. Svegliati di soprassalto, i gedalisti portarono giù i bagagli e le armi e si pigiarono nel cassone. Mendel riaccese il motore. _ Verso Zawiercie! _ gli gridò Gedale, che aveva preso posto accanto a lui nella cabina. Seguendo i cartelli indicatori che i russi avevano affissi alle cantonate, Mendel uscì di città e si trovò su una strada secondaria piena di buche e di pozzanghere. A grado a grado, e con parecchie grattate, imparò ad innestare le marce alte, e la velocità divenne discreta. Aumentarono anche gli scossoni, ma nessuno si lamentava. Superò una salita, imboccò la discesa: i freni rispondevano e si sentì rassicurato, ma la tensione della guida lo stravolgeva. _ Non resisto più per molto. Chi mi darà il cambio? _ Vedremo, _ urlò Gedale sul fracasso del motore e delle lamiere. _ Adesso pensa a uscire dall' abitato. A metà discesa incontrarono un posto di blocco: un tronco non sgrossato, appoggiato su due fusti ai lati della strada. _ Che cosa faccio? _ Non fermarti! Accelera! Il tronco volò via come una paglia e si udirono raffiche di mitra; dal cassone qualcuno rispose con colpi isolati. Il camion proseguì la sua corsa nella notte, e Gedale gridò ridendo: _ Se non così, come? E se non ora, quando?

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Vizio di forma

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Levi, Primo 1 occorrenze

Sinda, in mezzo al trambusto, aveva trovato un truogolo, che aveva servito un tempo come abbeveratoio per le bestie: lo trascinò sotto uno dei tubi, ma fu pieno in un attimo, e il liquido traboccò a terra imbrattandogli i piedi. Sinda lo assaggiò: sembrava latte, anzi crema, ma non era. Era denso e insipido, e saziava in un momento: Sinda vide che tutti lo ingoiavano avidamente, raccogliendolo da terra con le mani, con le pale, con foglie di palma. Risuonò dal cielo un rumore, forse un suono di corno, o forse un ordine pronunciato da quella fredda voce meccanica, ed il flusso cessò di colpo. Subito dopo, il rombo e il vento si gonfiarono oltre misura, e Sinda fu soffiato via a rotoloni in mezzo alle pozze vischiose; la macchina si sollevò, dapprima a perpendicolo, poi obliquamente, e in pochi minuti si nascose dietro le montagne. Sinda si rimise in piedi e si guardò intorno: il villaggio non sembrava più il suo villaggio. Non solo la fossa traboccava, ma il latte colava denso per tutti i vicoli in pendio, e grondava dai pochi tetti che avevano resistito. La parte bassa del villaggio era allagata: due donne erano affogate, e così pure molti conigli e cani, e tutti i polli. A galla sul liquido furono trovati centinaia di fogli di carta stampata, tutti uguali: portavano in alto a sinistra un segno rotondo, che forse rappresentava il mondo, e poi seguiva un testo diviso in articoli, e ripetuto in diversi caratteri e in diverse lingue, ma nessuno del villaggio sapeva leggere. Sul rovescio del foglio era una ridicola serie di disegni: un uomo nudo e magro, accanto un bicchiere, ancora accanto l' uomo che beveva il bicchiere, e infine lo stesso uomo, ma non più magro; più sotto, un altro uomo magro, accanto un secchio, poi l' uomo che beveva dal secchio, e infine lo stesso uomo coricato a terra, con gli occhi sbarrati, la bocca spalancata e il ventre esploso. Daiapi comprese subito il significato dei disegni, e convocò gli uomini sulla piazza, ma era troppo tardi: nei due giorni successivi otto uomini e due donne morirono, lividi e gonfi. Fu fatto un inventario, e si vide che, senza contare il latte che era andato perduto o si era mescolato con la terra o col letame, ne rimaneva ancora abbastanza per nutrire l' intero villaggio per un anno. Daiapi dispose che al più presto si cuocessero giare e si cucissero otri di pelle di capra, perché temeva che il latte della fossa si corrompesse a contatto con il terreno. Solo quando fu notte, Sinda, stordito da tutte le cose viste e fatte, e intorpidito dal latte bevuto, si ricordò di Diuka rimasta all' alpeggio con le capre. Partì all' alba dell' indomani, portando con sé una zucca colma di cibo, ma trovò le capre disperse, e quattro ne mancavano, e anche Diuka mancava. La ritrovò poco dopo, ferita e spaventata, ai piedi di un dirupo, insieme con le quattro bestie morte: le aveva soffiate giù il vento della Nutrice, quando aveva sorvolato il pascolo. Qualche giorno dopo, una vecchia, ripulendo il suo cortile dalle croste di latte seccato dal sole, rinvenne un oggetto mai visto prima. Era lucido come l' argento, più duro della selce, lungo un piede, stretto ed appiattito; ad una estremità era arrotondato a formare un disco con un grosso intacco esagonale; l' altra estremità costituiva come un anello, il cui foro, largo due dita, aveva la forma di una stella a dodici punte ottuse. Daiapi ordinò che si costruisse un tabernacolo di pietra sul masso erratico che stava presso il villaggio, e che l' oggetto vi fosse conservato per sempre, a ricordo del giorno della visita della Nutrice.

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Lilit

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Levi, Primo 1 occorrenze

Danuta lo vide dunque avviarsi verso la radura dell' abbeveratoio; lo seguì di lontano cercando di non fare troppo rumore, e quando lo vide allo scoperto con due lunghi passi gli fu addosso e lo intrappolò fra i cavi delle mani. Era piccolo ma fiero: aveva con sé quel suo arnese lucente, e tirò due o tre colpi contro le mani di Danuta prima che lei riuscisse a pizzicarlo fra l' indice e il pollice ed a buttarglielo lontano. Adesso che l' aveva catturato, Danuta si rese conto che non sapeva assolutamente che cosa farsene. Lo sollevò da terra tenendolo fra le dita: lui strideva, si dibatteva e cercava di mordere; Danuta, incerta, rideva nervosamente e tentava di calmarlo carezzandolo con un dito sulla testa. Si guardò intorno: nel torrente c' era un isolotto lungo pochi passi dei suoi; si sporse dalla sponda e vi depose il piccolino, ma questo, appena libero, si buttò nella corrente, e sarebbe certo annegato se Danuta non si fosse affrettata a ripescarlo. Allora lo portò da Brokne. Neppure Brokne sapeva che farsene. Brontolò che lei era proprio una ragazza fantastica; il bestiolino mordeva, pungeva e non era buono da mangiare, che Danuta gli desse il largo, altro da fare non c' era. Del resto, stava scendendo la notte, era ora di andare a dormire. Ma Danuta non volle sentire ragione, l' aveva preso lei, era suo, era intelligente e carino, voleva tenerselo per giocare, e poi era sicura che sarebbe diventato domestico. Provò a presentargli un ciuffo d' erba, ma lui girò la testa dall' altra parte. Brokne sogghignò che tanto domestico non era e che in prigionia sarebbe morto, e si stese in terra già mezzo addormentato, ma Danuta scatenò un capriccio d' inferno, e tanto fece che passarono la notte col piccolino in mano, a turno, uno lo teneva e l' altro dormiva; verso l' alba però anche il piccolino era addormentato. Danuta ne approfittò per osservarlo con calma e da vicino, ed era veramente molto grazioso: aveva viso, mani e piedi minuscoli ma ben disegnati, e non doveva essere un bambino, perché aveva la testa piccola e il corpo snello. Danuta moriva dalla voglia di stringerselo contro il petto. Appena si svegliò cercò subito di fuggire, ma dopo qualche giorno incominciò a farsi più lento e pigro. _ Per forza, _ disse Brokne: _ non vuole mangiare _. Infatti il piccolino rifiutava tutto, l' erba, le foglie tenere, perfino le ghiande e le faggiole. Ma non doveva essere per selvatichezza, perché invece beveva avidamente dal cavo della mano di Danuta, che rideva e piangeva dalla tenerezza. Insomma, in pochi giorni si vide che Brokne aveva ragione: era uno di quegli animali che quando si sentono prigionieri rifiutano il cibo. D' altra parte, non era possibile andare avanti così, a tenerlo in mano giorno e notte, un po' l' uno, un po' l' altra. Brokne aveva provato a fabbricargli una gabbia, perché Danuta non aveva accettato di tenerlo nella grotta: lo voleva avere sotto gli occhi e temeva che al buio si ammalasse. Aveva provato, ma senza concludere nulla: aveva divelto dei frassini alti e diritti, li aveva ripiantati in terra a cerchio, ci aveva messo in mezzo il piccolino e aveva legato insieme le chiome con dei giunchi, ma le sue dita erano grosse e maldestre, e ne era venuto fuori un brutto lavoro. Il piccolino, benché indebolito dalla fame, si era arrampicato in un lampo su per uno dei tronchi, aveva trovato una lacuna ed era saltato a terra all' esterno. Brokne disse che era tempo di lasciarlo andare dove voleva; Danuta scoppiò a piangere, tanto che le sue lacrime rammollirono il terreno sotto di lei; il piccolino guardò in su come se avesse capito, poi prese la corsa e scomparve fra gli alberi. Brokne disse: _ Va bene così. Lo avresti amato, ma era troppo piccolo, e in qualche modo il tuo amore lo avrebbe ucciso. Passò un mese, e già le fronde dei faggi volgevano al porporino, e di notte il torrente rivestiva i macigni di un sottile strato di ghiaccio. Ancora una volta Danuta fu svegliata in angoscia dall' odore del fuoco, e subito scosse Brokne per ridestarlo, perché questa volta l' incendio c' era. Nel chiarore della luna si vedevano tutto intorno innumerevoli fili di fumo che salivano verso il cielo, diritti nell' aria ferma e gelida: sì, come le sbarre di una gabbia, ma questa volta dentro erano loro. Lungo tutta la cresta delle montagne, sui due lati della valle, bruciavano fuochi, ed altri fuochi occhieggiavano molto più vicini, fra tronco e tronco. Brokne si levò in piedi brontolando come un tuono: eccoli dunque all' opera, i costruttori di ponti, i piccoli e solerti. Afferrò Danuta per il polso e la trascinò verso la testata della valle dove pareva che i fuochi fossero più radi, ma poco dopo dovettero tornare indietro tossendo e lacrimando, l' aria era intossicata, non si poteva passare. Nel frattempo, la radura si era popolata di animali di tutte le specie, anelanti ed atterriti. L' anello di fuoco e di fumo si faceva sempre più vicino; Danuta e Brokne sedettero a terra ad aspettare.

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