Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbeverarono

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L'orto in cucina - Almanacco 1886

300621
Dottor Antonio 1 occorrenze
  • 1886
  • Casa Editrice Guigoni
  • Milano
  • cucina
  • UNIFI
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I Giudei ricinsero d'isopo la spugna colla quale abbeverarono d'aceto il Redentore. L'isopo è di rito nelle benedizioni di chiese e camposanti. Non è ben certo che il nostro isopo sia quello ricordato dal re Davide: Asperges me hyssopo et mundabor. Si vuole che quell'isopo sia una pianta affatto scomparsa e non dei nostri paesi. Un canonico di Como stampò un volume per simile vertenza. Ma se il nostro non è il medesimo, è per lo meno un suo prossimo parente, perchè ne à le stesse proprietà. La massaja lo taglia in autunno lo fà seccare all'ombra in piccoli fascetti e lo conserva per gli usi culinari dell'inverno. Il suo aroma giusta il detto della salernitana colorisce graziosamente la faccia e dà buon umore. Hyssopus purgans herla est e pectore phlegma Ad pulmonis opus cum melle coquenda jugata Vultibus eximium fertur prestare colorem. Lattuga. — (Lactuca saliva, hortensis). Mil. Lattuga. - Fr. Laituc. - Ted. Lattich. - Ingl. Lettucc. La Lattuga prende il nome dal succo lattiginoso che contiene. È pianta erbacea annuale, di patria ignota, la più insipida delle insalate, se se ne eccettui il lattughin detta anche insalatina, da noi, forse perchè essendo assai tenera e primaticcia si mangia volentieri. Ve ne sono 3 varietà. Da noi se ne coltivano due, la comune e la romana. Vuol terra leggera ben lavorata e grassa e frequenti irrigazioni. Si semina da Marzo a Settembre, e la si preserva dai freddi coprendola. S'imbianca come l' endivia. Il suo seme migliore è quello di due anni. Nel linguaggio dei fiori: sonno. Fu sempre conosciuta la sua azione soporifera. Galeno ne mangiava tutte le sere per procurarsi il sonno. Dioscoride e Celso l'avevano come un succedaneo dell'oppio ed è forse per questa sua proprietà d'addormentare che venne chiamata Erba dei Filosofi. Era opinione che la lattuga accrescesse il latte alle nutrici, e ciò si crede anche oggi. Pitagora la chiamò Eunachion. La lattuga fù dai romani consacrata a Venere e pochi di loro per rispetto alla Dea ne mangiavano. Era tradizione che Venere dormisse al fresco nella lattuga. Adone ucciso da un cinghiale venne sepellito sotto la lattuga. Marziale scrive che la si mangiava dopo cena, per dissipare i vapori del vino. Svetonio ci tramanda che Augusto decretò una statua al suo medico Antonio Musa perchè costui colla lattuga lo guarì dalla ipocondriasi. In ogni tempo fu creduta verdura refrigerante e debilitante. La lattuga a poco a poco era caduta in dimenticanza tale che non era neppure più coltivata verso la fine del 1600. Alcuni medici vollero emulare il Musa di Augusto. E Lanzoni la vantò contro l'ipocondria, Breteuil nelle convulsioni, Gouan nella nefrite e nell'iterizia, Schelinger nell'angina di petto, Brassavola nell'idropisia, Hudellet nelle febbri intermittenti, terzane, quartane, ecc.; insomma una specie di manna. Oggi si mangia in insalata e si mette nelle zuppe e negli intingoli diversi. Si crede che non lavata, la lattuga sia più saporita.

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Se non ora quando

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Levi, Primo 1 occorrenze

Si fermarono nel folto presso un ruscello, abbeverarono il cavallo, lo legarono a un tronco, gli diedero l' erba da mangiare e si addormentarono. Quando si svegliarono, a metà pomeriggio, il fagotto era finito, il cavallo aveva brucato i pochi arbusti che si trovavano alla sua portata, e tirava sulla corda per arrivare un po' più lontano; doveva proprio avere una gran fame. Peccato che i sacchi contenessero farina e non biada: provarono a mettergli davanti un po' di farina, ma la bestia si impiastricciò il muso fino agli occhi e poi cominciò a tossire minacciando di soffocare. Dovettero lavarle la bocca e le froge nel ruscello, poi si rimisero in cammino. Si sentiva nell' aria un odore nuovo, fresco e dolciastro: le paludi non dovevano essere lontane. A mezza giornata di cammino da Nivnoe si imbatterono in una contadina anziana e decisero di attaccare discorso. Il cavallo? La donna lo considerò con occhio esperto: _ Eh, povera bestia. Non vale certo molto, è vecchio, stanco, ha fame, e mi sembra anche ammalato. Per la farina è un altro discorso, ma io offerte non ne posso fare perché non ho niente da offrire. Non doveva essere una sciocca. Squadrò i due con occhio altrettanto esperto; quindi, come in risposta a una domanda sottintesa, aggiunse: _ Non abbiate paura, ce n' è tanti come voi da queste parti. Forse anche troppi, ma i tedeschi qui sono pochi e poco pericolosi. Quanto al cavallo e alla farina, ve l' ho detto, io non ho niente da darvi, ma ne posso parlare con l' anziano del paese: sempre che siate d' accordo. Mendel aveva fretta di liberarsi dell' animale; a loro serviva poco o niente, ed anzi, sembrava che con la sua sola presenza stimolasse il malumore di Leonid, il suo spirito critico e la sua voglia di litigare. Si consultò brevemente con lui. No, niente intermediari, era chiaro che la donna avrebbe cercato di fare la sua cresta sull' affare, grossa o piccola. Ma entrambi provavano diffidenza ad entrare nell' abitato. _ Va bene, _ disse Mendel. _ Vedi di combinarci un appuntamento con questo anziano, a metà strada, in qualche luogo appartato: è possibile? _ Era possibile, disse la donna. L' anziano arrivò puntuale, al tramonto, in un capanno che la contadina aveva indicato. Era sulla sessantina, di poche parole, canuto e solido. Sì, lui, o per meglio dire il villaggio, era solvibile: avevano uova, lardo, sale e mele, ma il cavallo valeva poco _ Non c' è solo il cavallo, _ disse Mendel. _ C' è anche un carretto e sei sacchi di farina; due qui e altri quattro nascosti poco lontano insieme col carretto. _ L' affare non è chiaro, _ disse l' anziano: _ Il cavallo e due sacchi si vedono, ma quanto valgono un carro e quattro sacchi che sono nascosti nel bosco, e tu non sai dove, e non sai neppure bene se esistono? Quanto vale un tesoro sulla luna? Leonid fece un passo avanti e intervenne con durezza: _ Valgono quanto vale la nostra parola e la nostra faccia, e se tu non .... L' anziano lo guardò senza perdere la calma; Mendel posò la mano sulla spalla di Leonid e si interpose: _ Fra persone ragionevoli si finisce sempre con l' intendersi. Vedi, la merce è vicina alla strada, presto o tardi qualcuno la troverà, se la porterà via gratis e sarà un danno per noi e per voi; e se ricomincerà a piovere, la farina non resisterà molto tempo. E noi siamo di passaggio; abbiamo fretta di proseguire. L' anziano aveva occhi piccoli e scaltri. Li puntò successivamente sul cavallo, sui sacchi e su Mendel, e disse: _ È brutto avere fretta e dovere andare piano. Se tenete il cavallo, andrete piano come lui. Se lo vendete, e non vendete i due sacchi, con mezzo quintale ciascuno sulle spalle non andrete né in fretta né lontano: tutt' al più andrete a contrattare con qualcun altro. Non avete molte scelte. Mendel colse uno sguardo di Leonid, rapido ma carico di gioia maligna: era la rivincita della sconfitta agli scacchi. Gli argomenti dell' anziano erano forti, e lui avrebbe fatto meglio a non parlare della loro fretta. Non c' era che ripiegare: _ Va bene, vecchio. Veniamo al concreto. Quanto offri per quello che vedi? Per un quintale di farina e il cavallo? Il vecchio si grattò la testa spostando il berretto sugli occhi: _ Uhm, del cavallo è meglio non parlare. Non vale niente, nemmeno come carne da macello. Forse solo la pelle, se conciata a dovere. Quanto alla farina, non si sa da dove viene: non me l' avete detto, potreste anche dirmelo, e io potrei crederci o no; chi fa commercio ha il diritto di dire bugie. Può essere russa o tedesca, comprata o rubata. Io non voglio saperne nulla, e vi offro in cambio otto chili di lardo e una treccia di tabacco, prendere o lasciare; è roba che non pesa troppo, ve la potete portare dietro senza fatica. _ Facciamo dieci, _ disse Mendel. _ Dieci chili, ma allora senza tabacco. _ Dieci chili, e il tabacco per la pelle del cavallo. _ Nove chili e il tabacco, _ disse il vecchio. _ Va bene. E quanto offri per la roba che non si vede? Due quintali di farina e il carro? Il vecchio spinse il berretto ancora più basso: _ Non offro niente. La roba che non si vede è come se non ci fosse. Se c' è, la troviamo anche se tu non dici dov' è; e se anche lo dici, e dici la verità, magari andiamo e non troviamo più niente. C' è tanta gente in giro per la foresta; e non solo gente, anche volpi, topi, corvi: lo hai detto tu stesso, che qualcuno la può trovare. Se ti facessi un' offerta, al villaggio mi riderebbero dietro. Mendel ebbe un' idea: _ Ti faccio una proposta: una notizia contro un' altra notizia, roba che non si vede contro altra roba che non si vede. Noi ti diciamo dov' è il carro e tu ci dici ... insomma, per strada abbiamo colto certe voci, che a Nivnoe, o vicino a Nivnoe, o nelle paludi, c' è o c' è stata certa gente .... Il vecchio rialzò la visiera del berretto e guardò Mendel fisso negli occhi, cosa che non aveva ancora fatta fino a quel momento. Mendel insistette: _ È un buon affare, no? Non ti costa niente: è come se il carro e la farina te li regalassimo; perché ci sono proprio, non ti stiamo imbrogliando, parola di soldato. Con sorpresa di Mendel e Leonid, l' anziano si fece più sciolto, quasi loquace. Sì, un gruppo c' era, c' era stato: una banda. Cinquanta uomini, o forse anche cento, del luogo e non del luogo. Alcuni, una mezza dozzina, erano ragazzi del suo villaggio: meglio darsi alla macchia che finire in Germania, non è vero? Armati, sì, e anche in gamba, delle volte un po' troppo. Ma erano partiti, da pochi giorni, con le armi, i bagagli e qualche bestia. Che fossero partiti era meglio per tutti. Verso dove? No, questo lui non lo sapeva con certezza, non aveva visto niente; qualcuno però li aveva visti in cammino, e sembrava che marciassero in direzione di Gomel o di Zlobin. Se loro due prendevano il sentiero di Zurbin, era una scorciatoia; forse avrebbero potuto raggiungerli. Se ne andò, tornò dopo mezz' ora con il lardo, il tabacco e una stadera, affinché i due potessero controllare che il peso era giusto. A controllo ultimato, Mendel gli spiegò con precisione dove era nascosto il carro. Inaspettatamente, il vecchio cavò dalla bisaccia una dozzina di uova sode: disse che era un di più, un regalo che faceva loro, perché erano persone simpatiche; ed anche un indennizzo, perché sarebbe stato suo dovere d' ospitalità offrire loro da dormire, ma il consiglio del villaggio si era opposto. Li guidò fino al sentiero e si congedò, tirandosi dietro il cavallo con i due sacchi. _ Se non ci avesse riconosciuti per ebrei, stanotte avremmo dormito in un letto, _ borbottò Leonid. _ Può darsi, ma anche se ce l' avesse offerto, è da vedere se avremmo fatto bene a accettare. Non sappiamo niente di questo villaggio, che gente ci vive, cosa pensano, se hanno solo paura o se lavorano per i tedeschi. Non so, è solo un' impressione, ma mi sarei fidato di più della vecchietta che di questo anziano: più che un amico mi è parso un mezzo amico. Aveva fretta di liberarsi di noi; per questo ci ha dato le uova e ci ha insegnato la strada. E del resto, ormai abbiamo preso una decisione, non è vero? _ Quale decisione? _ domandò Leonid ostile. _ Di raggiungere la banda, no? _ È una decisione che hai preso tu. Non mi hai chiesto niente. _ Non c' era bisogno di chiedere. Sono giorni che se ne parla, e tu sei sempre stato zitto. _ E adesso non sto più zitto. Se vuoi andare con la banda, ci vai da solo. Io di guerra ne ho abbastanza. Tu hai le armi e io ho il lardo: a me va bene così. Me ne torno al villaggio, e un letto lo trovo, e non per una notte sola. Mendel si voltò e si fermò di netto. Non era preparato a far fronte alla collera; tanto meno alla collera di un debole, e in Leonid sentiva un debole. Neppure era preparato all' uragano di parole che Leonid, fino allora così silenzioso, gli soffiava sulla faccia. _ Basta: basta! Ti ho incontrato nel bosco, ma non ti ho sposato. Ho creduto che tu ne avessi abbastanza quanto me: mi sono sbagliato, pazienza. Ma per me basta, non faccio un passo di più. Vacci tu nelle paludi: hai avuto paura a dormire nel villaggio, e adesso mi vuoi portare con gente che non sai neppure che lingua parlino, e se ci vogliano con loro, e da dove vengano e dove vadano. Io sono di Mosca, ma le braccia le ho buone, e la testa anche; di fame non muoio piuttosto vado a lavorare in un kolchoz, o nelle fabbriche dei tedeschi. Non faccio più un passo e non sparo più un colpo, mai più. Non è giusto, non è giusto che uno .... E poi neanche tu sai quello che vuoi: te l' ho già detto, credi di saperlo e non lo sai. Fai l' eroe, ma anche tu vuoi quello che voglio io, una casa, un letto, una donna, una vita che abbia un senso, una famiglia, un paese che sia il tuo paese. Vuoi andare coi partigiani, credi di volerlo, ma non sai quello che vuoi e quello che fai, me ne sono accorto con la faccenda del cavallo. Sei uno che racconta bugie a se stesso. Sei uno come me. Sei un nebech, un disgraziato e un meschugge _. Leonid si piegò lentamente su se stesso e si sedette a terra, come se avesse sputato l' anima e non avesse più la forza di reggersi sulle gambe. Mendel era rimasto in piedi, più incuriosito e sorpreso che incollerito. Si accorse che aspettava quello sfogo da parecchio tempo. Lasciò a Leonid il tempo di calmarsi un poco, poi sedette accanto a lui. Gli toccò la spalla, ma il ragazzo si ritrasse di scatto come se lo avesse toccato un ferro rovente. Nebech è un uomo dappoco, inerme, inutile, da commiserarsi, un quasi-non-uomo, e meschugge significa matto, ma Mendel non si sentiva offeso, né tanto meno in vena di restituire l' offesa. Si stava invece domandando perché Leonid, la cui lingua madre era il russo, si fosse servito del jiddisch, che parlava con stento, in quella occasione: ma il jiddisch, tutti lo sanno, è un immenso serbatoio di insolenze pittoresche, ridicole o sanguinose, ognuna con la sua sfumatura specifica: poteva essere una spiegazione. "Un ebreo ti dà un pugno sul naso e poi grida aiuto", pensò, ma non enunciò il proverbio ad alta voce. Disse invece, con una voce così calma che ne stupì lui stesso: _ Si capisce: neanche per me è una scelta facile, ma credo che sia la migliore. Un uomo deve pesare bene le sue scelte _. Ed aggiunse con intenzione: _ ... e anche le sue parole _. Leonid non rispose. Era ormai quasi buio; Mendel avrebbe preferito camminare di notte, ma quel sentiero era disagevole e mal segnato. Propose di bivaccare sul posto, dal momento che la sera era tiepida e la notte corta; Leonid accettò con un cenno del capo. Si avvolsero nelle coperte, e Mendel era già quasi addormentato quando Leonid, come se continuasse un discorso iniziato da tempo, prese a un tratto a dire: _ Mio padre era ebreo, ma non era credente. Era nelle ferrovie, poi è stato accettato nel Partito. Ha fatto la guerra del '20 contro i bianchi. E poi mi ha messo al mondo, e poi lo hanno mandato in prigione, e poi alle isole Solovki, e non è più tornato. Ecco come stanno le cose. Era già stato nelle prigioni dello Zar, prima che io nascessi, ma da quelle era tornato. Lo hanno mandato alle Solovki perché dicevano che aveva sabotato la ferrovia: che se i treni non partivano era colpa sua. Ecco. Detto questo, Leonid si girò sull' altro fianco voltando la schiena a Mendel, come se l' argomento fosse concluso. Mendel pensò che quella era una strana maniera di scusarsi, e subito dopo convenne con se stesso che era tuttavia una maniera di scusarsi. Lasciò passare qualche minuto, e poi chiese timidamente a Leonid: _ E tua madre? _ Leonid grugnì: _ Adesso lasciami stare. Per favore lasciami stare. Per questa volta basta _. Tacque e non si mosse più, ma Mendel si accorse bene che non dormiva: fingeva soltanto. Insistere perché continuasse era inutile, anzi nocivo; come raccogliere un fungo appena spuntato. Gli si impedisce di crescere, e non si porta a casa niente. Camminarono per due settimane, a volte di giorno, a volte di notte, con la pioggia e col sole. Leonid non parlò più, né per raccontare né per dissentire: accettava cupo le decisioni di Mendel, come un servo svogliato. Incontrarono poca gente, un villaggio bruciato, e tracce sempre più abbondanti della banda che li precedeva: ceneri dei fuochi di bivacco ai margini della pista, orme nel fango essiccato, avanzi di cucina, qualche coccio e qualche straccio; quella gente non prendeva molte precauzioni per non farsi notare. Sul luogo di una sosta notarono addirittura un albero tempestato di pallottole: qualcuno si doveva essere esercitato al tiro al bersaglio, forse avevano fatto una gara. Raramente furono costretti a domandare indicazioni alla gente del luogo; sì, erano passati di lì, diretti dalla tale parte. Sbandati, o disertori, o partigiani, o banditi, a seconda dei punti di vista; comunque, ed a parere di tutti, gente che faceva la sua strada senza dare troppi fastidi né pretendere troppo dai contadini. Li raggiunsero una sera: li videro e li sentirono quasi allo stesso tempo. Mendel e Leonid si trovavano sulla sommità di una collina: videro le anse pigre di un grande fiume, senza dubbio il Dnepr, e poco lontano dalla sponda, a tre o quattro chilometri da loro, brillava un fuoco. Iniziarono la discesa, ed udirono spari, disordinati, di fucile e di pistola; videro lampi rossi, seguiti dai colpi più sordi delle granate a mano. Un combattimento? E contro chi? E allora perché il fuoco? O una lite, una rissa fra due fazioni? Ma in una pausa fra gli spari distinsero il suono di una fisarmonica e grida e richiami allegri: non era una battaglia ma una festa. Si avvicinarono cautamente. Non c' erano sentinelle, nessuno li fermò. Intorno al fuoco c' era una trentina di uomini barbuti, giovani e meno giovani, vestiti in molti modi diversi, vistosamente armati. La fisarmonica suonava una canzone dal ritmo alacre, alcuni lo accompagnavano battendo le mani, altri ballavano con furia, con tutte le armi addosso, piroettando sui tacchi, in piedi e accovacciati. Qualcuno doveva averli visti; una voce impastata ma tonante gridò assurdamente: _ Siete tedeschi? _ Siamo russi, _ risposero i due. _ Allora venite. Mangiate, bevete e ballate! La guerra è finita! _ Seguì, in funzione di punto esclamativo, una lunga raffica di parabellum, sgranata contro il cielo arrossato dal fuoco e dal fumo. La stessa voce, improvvisamente incollerita e rivolta nella direzione opposta, riprese: _ Stiooopka, cretino, figlio d' un corvo, porta bottiglie e gavette, non lo vedi che abbiamo ospiti? Era oramai scuro, ma si intravedeva che l' accampamento, assai sommario, si condensava intorno a tre centri: il fuoco, attorno a cui era un andirivieni chiassoso di uomini in festa; una grossa tenda, davanti alla quale dormicchiavano due cavalli legati a due cavicchi; più in disparte, tre o quattro giovani silenziosi che armeggiavano intorno a qualche cosa. L' uomo dalla voce tonante venne loro incontro tenendo in mano una bottiglia di vodka. Era un giovane colosso biondo, con i capelli tagliati a spazzola e con la barba arricciata che gli arrivava fino a mezzo il petto. Aveva un bel viso ovale dai tratti regolari eppure fortemente segnati, ed era ubriaco al punto che stentava a reggersi in piedi: sull' uniforme dell' Armata Rossa che indossava non portava gradi. _ Alla vostra salute, _ disse, bevendo un sorso dal collo della bottiglia. _ Salute a voi, chiunque siate _. Poi porse la vodka ai due, che bevvero e restituirono il brindisi. _ Stiopka, scemo, lumacone, arrivi con questa zuppa? _ Poi continuò, rivolgendosi a loro con un sorriso radioso e candido: _ Bisogna perdonarlo, forse ha bevuto un po' troppo, ma è un bravo compagno. Anche coraggioso, tenuto conto che è un cuoco; ma svelto no, eh no, non è tanto svelto. Oh, eccolo qui. Speriamo che la zuppa non si sia freddata per strada. Su, mangiate, poi andiamo a sentire se ci sono altre notizie. Contrariamente all' opinione del colosso, Stiopka non appariva né tanto lento né tanto sciocco. _ No, Venjamìn Ivanovic, non si riesce proprio. Hanno provato un po' tutti, a turno, ma la voce è sempre più debole. Non si capisce più niente, si sentono solo le scariche. _ Sono dei buoni a nulla, che li porti via il diavolo! Proprio oggi dovevano guastarla! Giudicate voi stessi: la guerra finisce, da un momento all' altro deve venire fuori Stalin a dire che andiamo tutti a casa, e questi figli di puttana mandano la radio kaputt .... Ma come, voi non sapete niente? Gli americani sono sbarcati in Italia, noi abbiamo ripreso Kursk, e Mussolini è in prigione. È in prigione, sì, come un merlo in gabbia; lo ha messo in prigione il re. Su, compagni, bevete ancora una volta: alla pace! Leonid bevve, Mendel fece mostra di bere, poi seguirono Venjamìn al posto radio. _ È proprio la radio dell' usbeco! _ disse a Leonid Mendel, che alla luce delle lanterne aveva visto le targhette dell' apparecchio: _ Ma è chiaro che con batterie come queste non poteva andare avanti tanto tempo. È già un miracolo che abbia durato fino adesso _. Mendel riuscì ad interporsi fra Venjamìn, che continuava a tempestare improperi e futili minacce, e i tre ragazzi addetti alla ricezione. Ne nacque un' arruffata discussione tecnica che si trascinò per parecchi minuti, spesso interrotta dalle intemperanze di Venjamìn e di altri barbuti che erano venuti a curiosare e a dire il loro parere. _ Di radio, io ne capisco poco, ma questi non ne capiscono proprio niente, _ borbottò Mendel a Leonid. Alla fine prese corpo la proposta di provare a sostituire l' elettrolita delle batterie con acqua e sale. Venjamìn la fece subito sua, convocò Stiopka , diede ordini confusi: venne l' acqua e il sale, l' operazione fu compiuta fra visi intenti, in un' atmosfera di attesa religiosa, e le batterie furono nuovamente connesse, ma la radio diffuse soltanto una stupida musichetta per pochi secondi e poi ammutolì definitivamente. Venjamìn era diventato di cattivo umore e se la prendeva con tutti. Si rivolse a Leonid, come se lo vedesse per la prima volta: _ E voi due, da dove saltate fuori? Russi? Proprio russi non sembrate; ma oggi ci passiamo su, anche se avete sfasciato la radio, perché oggi è un giorno di festa _. Mendel disse a Leonid: _ Vedremo domani, quando gli sarà passata la sbornia, ma mi pare che non si metta tanto bene. Furono svegliati l' indomani dai rumori pacifici del campo. I cavalli stavano pascolando sulla riva del fiume, uomini nudi si lavavano o diguazzavano nell' acqua bassa, altri si rammendavano i panni o facevano il bucato, altri ancora stavano sdraiati al sole, e nessuno sembrava curarsi di loro due. Erano in maggior parte russi, ma si sentivano anche grida e canti in lingue che Mendel non riuscì a individuare. A mattina avanzata venne Stiopka a cercarli: _ Mi vorreste aiutare? C' è un malato, là dentro la tenda; si lamenta, ha la febbre, e io non so che cosa fare. Volete venire con me? _ Ma noi non siamo medici ... _ obiettò Leonid. _ Neanch' io sono medico, e neppure infermiere, ma sono il più anziano della banda; e poi ho perso le armi quando abbiamo fatto l' assalto alla stazione di Klintsy, e allora mi fanno fare un po' di tutto, ma in battaglia non mi mandano più. Faccio anche la guida, perché questi posti li conosco bene, meglio di tutti, meglio di Venja stesso; facevo già la guida nel 191., per i partigiani rossi, proprio da queste parti, e non c' è sentiero, guado o strada che io non abbia percorso dozzine di volte. Insomma, mi dànno anche da curare i malati, e voi mi dovreste aiutare: ha la febbre, e la pancia dura come una tavola di legno. Mendel disse: _ Non capisco perché insisti proprio con noi. Io non me ne intendo più di un altro. Stiopka fece una faccia imbarazzata: _ È perché ... dicono che voialtri, fin dai secoli lontani, siate bravi a .... _ Noialtri non siamo diversi da voi. I nostri medici sono bravi quanto i vostri, non più e non meno, e un ebreo che non sia medico, e curi un malato, rischia di farlo morire tanto quanto un cristiano. Tutto quello che ti posso dire, è che io sono un artigliere, e di gente con la pancia aperta ne ho vista anche troppa, dopo i bombardamenti, e chi ha la pancia aperta non deve bere: ma questa è un' altra storia. Leonid intervenne: _ Mi pare che il vostro capo sia un tipo in gamba: perché non lasci fare a lui? Ci sarà pure un paese o un villaggio nelle vicinanze; il malato portatelo là, starà certo meglio che qui nel campo, e un medico finirà col trovarsi. Stiopka scosse le spalle: _ Venjamìn Ivanovic è in gamba per altre cose. È coraggioso come un demonio, sa molti trucchi e altri li inventa, sa farsi rispettare e anche temere, non è mai sfiduciato, ed è forte come un orso: ma è bravo solo per la battaglia. E poi gli piace bere, e quando beve cambia umore da un momento all' altro. Seguirono Stiopka al giaciglio del malato, per non scontentarlo. Era un tartaro che aveva disertato dalla polizia tedesca, e ancora ne vestiva la divisa. A Mendel non parve tanto grave: aveva bensì il ventre un po' teso, ma non provava dolore alla palpazione, ed anche la febbre non doveva essere molto alta. Il suo stato di nutrizione era buono; Mendel cercò di rassicurare Stiopka, gli consigliò di tenerlo a digiuno per un giorno e di non dargli medicine. _ Nessun pericolo, _ disse Stiopka, _ medicine non ce n' è. Avevamo un po' di aspirina ma l' abbiamo finita. Uscendo dalla tenda si imbatterono in Venjamìn. Era irriconoscibile: non era più né l' ospite facilone, ubriaco di vodka e di vittoria, né il grosso bambino deluso per la radio guasta. Era un esemplare umano temibile, un giovane guerriero dalle movenze pronte e precise, dal viso intelligente e dallo sguardo intenso ma illeggibile. _ Un' aquila, _ pensò Mendel fra sé, _ bisognerà stare in guardia. _ Venite con me, _ disse Venjamìn con autorità tranquilla. Si appartò con loro in un angolo della tenda, e chiese loro chi fossero, da dove venissero e dove andassero; parlava con la voce sommessa e sicura di chi sa di essere obbedito. _ Io sono artigliere, questo è un paracadutista. Siamo dispersi, ci siamo trovati per caso nei boschi di Brjansk. Abbiamo avuto notizia di questa banda, vi abbiamo cercati e vi abbiamo raggiunti. _ Da chi avete avuto notizia? _ Dall' usbeco che ti ha venduto la radio. _ Perché ci avete inseguiti? Mendel esitò per un istante: _ Perché vorremmo entrare nella banda. _ Siete armati? _ Sì: un fucile mitragliatore, una pistola tedesca e un po' di munizioni. Senza cambiare tono, Venjamìn si rivolse a Leonid: _ E tu, perché non parli? Leonid rispose con imbarazzo che lasciava parlare Mendel perché era il più anziano, e perché le armi erano sue. _ Le armi non sono sue, _ disse Venjamìn: _ Le armi sono di tutti: le armi sono di chi le sa usare _. Tacque per un momento, come se aspettasse una reazione; ma anche Leonid e Mendel rimasero silenziosi. Poi riprese: _ Perché volete venire in banda? Rispondete separatamente. Tu? Leonid, preso alla sprovvista, si sentiva la lingua legata. Aveva l' impressione di essere retrocesso alle interrogazioni scolastiche; peggio ancora, all' interrogatorio umiliante che aveva subito quando lo avevano arrestato e rinchiuso alla Lubjanka. Mormorò qualcosa sui doveri del soldato e sul desiderio di riabilitarsi dalla condizione di disperso. _ Tu sei stato prigioniero dei tedeschi, _ disse Venjamìn. _ Come lo sai? _ intervenne Mendel sorpreso. _ Le domande le faccio io. Ma glielo si vede in faccia. E tu, artigliere: perché vuoi venire con noi? Mendel si sentiva pesato come su una bilancia, e irritato di essere pesato. Rispose: _ Perché sono disperso da un anno. Perché sono stanco di vivere come un lupo. Perché ho un conto mio da saldare. Perché credo che la nostra guerra sia giusta. La voce di Venjamìn si fece ancora più sommessa: _ Ci avete trovati ieri in un giorno strano, bello e brutto. Un giorno bello, perché la notizia che avete sentita è vera, la radio l' ha ripetuta due volte, Mussolini è caduto. Ma non è detto che la guerra finirà presto; ieri sera ce lo siamo gridati nelle orecchie l' uno con l' altro, ciascuno convinceva gli altri, e ciascuno era pronto a farsi convincere, perché la speranza è contagiosa come il colera. Ieri sera eravamo in vacanza, ma noi i tedeschi li conosciamo: stanotte ci ho ripensato, e credo che la guerra durerà ancora a lungo. E ieri è stato anche un giorno brutto perché la radio si è guastata. È più grave di quanto voi pensiate: una banda senza radio è una banda orfana, sorda e muta. Senza la radio noi non sappiamo dov' è il fronte, e a Mosca non sanno dove siamo noi, e non possiamo chiamare gli aerei per i lanci: tutto viene attraverso la radio, le medicine, il grano, le armi, perfino la vodka. Con le notizie della radio arriva anche il coraggio. E siccome senza grano non si vive, quando manca bisogna prenderlo ai contadini, così una banda senza radio diventa una banda di banditi. Queste cose è bene che voi le sappiate, e che ci pensiate sopra prima di decidere. Ed è bene che sappiate anche qualche altra cosa. Che otto mesi fa eravamo cento, e adesso siamo meno di quaranta. Che nella nostra guerra non c' è mai un giorno uguale a un altro: si è un po' ricchi e un po' poveri, un giorno sazi e un giorno affamati. E che non è una guerra per chi ha i nervi deboli: veniamo di lontano e andiamo lontano, e i deboli sono morti o se ne sono andati. Pensateci sopra; e prima di darvi una risposta ci penserò sopra anch' io. Si udì uno squillo metallico. La zuppa di mezzogiorno era pronta, e Stiopka aveva suonato l' adunata battendo con un sasso contro un pezzo di rotaia appeso a un ramo. Tutti si misero in fila davanti alla marmitta, anche Venja, Mendel e Leonid, e Stiopka fece la distribuzione. Quasi tutti avevano finito di mangiare, e molti si erano già stesi al sole a fumare, quando dalla sponda venne una voce che gridava: _ Arrivano tronchi! _ Arrivavano, infatti, navigando lenti sul filo della corrente: grossi tronchi senza rami, sparsi, alla spicciolata. Venjamìn si avvicinò all' acqua e si fece attento. Domandò a Stiopka: _ Da dove vengono? _ Di solito vengono dal molo di Smolensk, trecento chilometri più a monte; si è sempre fatto così, costa meno che mandarli per ferrovia. Vanno giù in Ucraina, per armare le miniere. _ Si è sempre fatto così, ma adesso le miniere lavorano per i tedeschi, _ disse Venjamìn fregandosi il mento. In quel momento, alla svolta del fiume, apparve qualcosa di più grosso: era un convoglio di zattere legate in fila fra loro, forse una decina, che comparivano una dopo l' altra da dietro una lingua di terra boscosa. _ Bisogna acchiapparle, _ disse Venjamìn. _ È un mestiere che io non ho mai fatto, ma l' ho visto fare, _ disse Stiopka: _ Più giù, a un chilometro, c' è un ramo morto; se facciamo svelti, arriviamo in tempo. Ma ci vogliono degli spuntoni. In un attimo Venja fu padrone della situazione. Lasciò dieci uomini di guardia al campo, mandò altri dieci con le scuri ad abbattere e diramare alberelli, e scese rapidamente lungo la riva con quelli che rimanevano, fra cui Leonid e Mendel. Arrivarono al ramo morto prima del legname, e poco dopo giunsero i dieci con gli spuntoni, ma il convoglio era già in vista. _ Presto, chi è il più bravo a nuotare? Tu, Volodia! _ Ma Volodia, fosse un vero impedimento o cattiva volontà, non riuscì a liberarsi in tempo degli stivali: stava accoccolato a terra tutto contorto, congestionato in viso dallo sforzo, e Venja si spazientì. _ Buono a nulla, fannullone! Su, dammi quel legno _. In un attimo fu scalzo e nudo. Un po' a guado, un po' nuotando con una mano sola, attraversò l' acqua morta, ma quando ebbe raggiunto la punta erbosa che separava i due rami del fiume, il convoglio di zattere la stava già sorpassando. Lo si udì bestemmiare e lo si vide riimmergersi nella corrente; altri uomini lo seguirono con altri spuntoni. Nuotò veloce incontro alle zattere, perse le prime, riuscì a salire sull' ultima, e subito manovrò con la pertica in modo da deviarla sulla punta erbosa, dove si arenò nella melma: ma si vide subito che non vi sarebbe rimasta a lungo, le altre zattere, trascinate mollemente dalla corrente, tiravano sull' ormeggio, e un solo uomo non avrebbe potuto resistere. Senza fiato, Venja gridò agli uomini di salire ciascuno su una delle zattere; puntando forte ciascuno con la sua pertica sul fondo fangoso, riuscirono ad allontanare il convoglio dalla sponda, a risalire la corrente, ad aggirare la punta, ed a spingere trionfalmente il legname nell' acqua ferma del ramo morto. _ Va bene così, _ disse Venjamìn rivestendosi, _ vedremo, magari lo tireremo poi a riva e gli daremo fuoco; basta che non vada alle miniere. Torniamo al campo. Nella breve marcia di ritorno, Mendel gli si affiancò e si complimentò con lui. _ Lo so bene, per i tedeschi non è stato un gran danno _, rispose Venjamìn. _ Ma per gente come questa, non c' è niente di peggio che l' inazione. E niente di meglio che l' esempio. Asciugatevi, voi due, e poi venite da me alla tenda. Nella tenda, Venjamìn entrò subito in argomento: _ Ci ho pensato sopra, e non è facile. Vedete, a modo nostro noi siamo degli specialisti: conosciamo questa zona, siamo allenati. Avervi con noi sarebbe una responsabilità. Ammetto che voi siate buoni combattenti; noi, vedete, più che combattenti siamo gente di retroguardia, siamo guastatori, diversionisti. Ognuno di noi ha i suoi compiti, che non si imparano in pochi giorni. E poi .... _ Stamattina non parlavi così, _ disse Mendel. Venja abbassò gli occhi. _ No, non parlavo così. Ecco, io non ho niente contro di voi; ho avuto amici ebrei fin da bambino, altri li ho avuti come compagni a Voronez, al centro di addestramento, e so che siete gente come tutti gli altri, né meglio né peggio, anzi, forse anche un po' più .... _ A me basta così, _ disse Leonid. _ Se non ci vuoi ce ne andiamo, e sarà meglio per tutti. Non ci metteremo in ginocchio per .... Mendel lo interruppe: _ Io però voglio sapere da te che cosa è accaduto fra questa mattina e adesso. _ Niente. Non è accaduto niente, nessun fatto. È solo successo che ho sentito gente parlare, e che .... _ Siamo soldati, tu e io. Portiamo la stessa divisa, e io voglio sapere da te chi ha parlato e che cosa è stato detto. _ Non ti dirò chi ha parlato: non ha parlato uno solo. Per me, io vi accetterei, ma non posso impedire ai miei uomini di parlare; e non so se avreste le spalle sicure. Qui c' è gente di diverse idee, e svelta di mano. Mendel insistette: voleva sapere, parola per parola, quello che Venjamìn aveva sentito, e Venjamìn glielo ripeté, col viso di chi sputa un boccone di cibo guasto: _ Dicono che a loro gli ebrei piacciono poco, e ancora meno quando sono armati. Intervenne Leonid: _ Noi ce ne andiamo, e tu dirai a quei tuoi uomini che a Varsavia, in aprile, gli ebrei armati hanno resistito ai tedeschi più a lungo dell' Armata Rossa nel '41. E non erano neppure bene armati, e avevano fame, e combattevano in mezzo ai morti, e non avevano alleati. _ Come sai queste cose? _ chiese Venjamìn. _ Varsavia non è così lontana, e le notizie corrono anche senza la radio. Venjamìn uscì dalla tenda, parlò sottovoce con Stiopka e con Volodja, poi rientrò e disse: _ Le armi ve le dovrei togliere, e invece non ve le tolgo. Avete visto chi siamo e dove siamo, non vi dovrei lasciare partire, e invece vi lascio partire: un giorno con noi è stato poco, ma forse quello che avete visto vi servirà. Partite, tenete gli occhi aperti, e andate a Novoselki. _ Perché a Novoselki? Dov' è Novoselki? _ Nell' ansa dello Ptic, centoventi chilometri a ponente, in mezzo alle paludi di Polessia. Pare che là ci sia un villaggio di ebrei armati, uomini e donne. Ce ne hanno parlato i guardaboschi, quelli girano dappertutto e sanno tutto, sono il nostro telegrafo e il nostro giornale. Forse là le vostre armi vi saranno utili. Con noi non potete restare. Mendel e Leonid si congedarono, attraversarono il Dnepr su una zattera fatta di quattro tronchi legati insieme, e ripresero la strada. Camminarono per dieci giorni. Il tempo si era guastato, pioveva spesso, ora in rovesci improvvisi, ore in uno spolverio fine e penetrante che era quasi una nebbia; i sentieri erano fangosi, e i boschi emanavano un odore pungente di funghi che faceva già presagire l' autunno. I viveri incominciavano a scarseggiare; dovettero fermarsi di notte presso le rade fattorie a disseppellire patate e barbabietole. Nel bosco c' erano mirtilli e fragole in abbondanza, ma dopo una o due ore di raccolta la fame cresceva invece di diminuire; la fame e l' irritazione di Leonid: _ Questa è roba buona per scolari in vacanza. Solletica lo stomaco invece di riempirlo. Mendel rimuginava tra sé le notizie apprese al campo di Venjamìn. Che peso potevano avere? Raccontate così, senza un commento, senza una valutazione globale, erano irritanti come i mirtilli, e lasciavano la mente altrettanto affamata. Mussolini in prigione, e il re ritornato al potere. Che cosa è un re? Una specie di Zar, bigotto e corrotto, una cosa di altri tempi, un personaggio di fiaba con alamari, pennacchio e spadino, arrogante e vile; invece questo re d' Italia doveva essere un alleato, un amico, dal momento che aveva fatto catturare Mussolini. Era un peccato che in Germania non ci fosse più il Kaiser, se no forse la guerra avrebbe potuto finire davvero, come diceva Venjamìn da ubriaco. Che in Italia fosse caduto il fascismo era certo una buona notizia, ma che importanza poteva avere? Era difficile farsene un' idea: negli articoli della Pravda l' Italia fascista era stata descritta volta a volta come un avversario pericoloso e infido, o come uno spregevole sciacallo nell' ombra della belva tedesca; di certo, i soldati italiani sul Don avevano resistito poco, erano male equipaggiati e male armati e non avevano voglia di combattere, questo lo sapevano tutti. Forse anche loro ne avevano abbastanza di Mussolini, e il re aveva seguito la volontà del popolo, ma in Germania non c' erano re, c' era solo Hitler: era meglio non farsi illusioni. Se un re è un personaggio da favola, un re d' Italia è due volte da favola, perché l' Italia stessa è favola. Era impossibile farsene un' immagine concreta. Come si può condensare nella stessa immagine il Vesuvio e le gondole, Pompei e la Fiat, il teatro della Scala e le caricature di Mussolini che si vedevano sul Krokodìl, quella specie di bandito da strada con la mascella da iena, il fez col fiocco, il pancione da capitalista e il coltello in mano? Eppure era stato proprio quel re che ... mah, impossibile capire. Mendel avrebbe dato un patrimonio per avere una radio, ma era un puro modo di dire: da barattare non avevano più niente, salvo il mitra e la pistola, e quelli era meglio tenerli. Chissà se c' erano ebrei in Italia. Se sì, dovevano essere ebrei strani: come puoi figurarti un ebreo in gondola o in cima al Vesuvio? Ma ci dovevano pure essere, ci sono ebrei perfino in India e in Cina, e non è detto che ci stiano male. È da vedere se avevano ragione i sionisti di Kiev e di Kharkov, che predicavano che gli ebrei stanno bene solo in Terra d' Israele, e che dovrebbero partire dall' Italia, dalla Russia, dall' India e dalla Cina e radunarsi tutti laggiù, a coltivare gli aranci, a imparare l' ebraico e a ballare la Hora tutti in cerchio. Forse per la stanchezza, forse per l' umidità, la cicatrice fra i capelli di Mendel aveva cominciato a prudere. Gli stivali di Leonid si erano scuciti, e i suoi piedi diguazzavano nell' acqua e nel fango. Mendel sentiva alle spalle la presenza negativa di Leonid, il peso del suo silenzio: lo impedivano nel cammino più del fango. Non era più solo il fango della pioggia, il fango fertile che viene dal cielo, e va accettato alla sua stagione: a mano a mano che avanzano verso ponente si imbattevano sempre più spesso in un fango diverso, permanente, padrone dei luoghi, che veniva dalla terra e non dal cielo. Il bosco si era diradato, si incontravano radure estese, ma senza traccia di opera umana. La terra non era più nera né argillosa, bensì di un pallore di cadavere; benché umida, era magra, sabbiosa, e sembrava gemere acqua dal suo stesso grembo. Pure non era sterile: alimentava aiuole di canne, piante succulente che Mendel non aveva mai visto, e vasti cuscini di arbusti dalle foglie appiccicose, proni a terra come se annoiati del cielo. Si affondava nel terreno, o nelle foglie marcite, fino al malleolo: Leonid si tolse gli stivali ormai inutili, e presto Mendel lo imitò; i suoi tenevano ancora bene, ma era peccato consumarli. Al settimo giorno di cammino divenne un problema trovare un lembo di terra asciutta per passare la notte, benché la pioggia fosse cessata. All' ottavo giorno si fece difficile anche mantenere la direzione: non avevano bussola, il cielo schiariva di rado, e il sentiero era interrotto sempre più spesso da specchi d' acqua poco profondi, che tuttavia li costringevano a deviazioni snervanti. Era acqua ferma, limpida, dall' odore di torba, su cui galleggiavano foglie spesse e rotonde, fiori carnosi e qualche nido di uccello. Vi cercarono invano le uova: non c' erano uova, solo frammenti di guscio e piume macerate. Trovarono invece rane, in abbondanza: rane adulte grosse un palmo, girini, e ghirlande vischiose di uova di rana. Ne catturarono diverse senza difficoltà, le arrostirono su stecchi e le mangiarono, Leonid con l' avidità ferina del ventenne affamato, Mendel stupito di percepire in sé la traccia della repulsione atavica per le carni vietate. _ Come in Egitto al tempo di Mosè, _ disse Mendel tanto per avviare un discorso. _ Ma non ho mai capito come potessero essere una piaga: gli egiziani avrebbero potuto mangiarle, come facciamo noi. _ Le rane erano una piaga? _ domandò Leonid masticando. _ La seconda piaga: Dàm, Tzefardéà; tzefardéà sono le rane. _ E qual era la prima? _ Dàm, il sangue, _ rispose Mendel. _ Il sangue lo abbiamo avuto, _ disse Leonid sopra pensiero. _ E le altre? quelle che vengono dopo? Per aiutare la memoria, Mendel prese a canticchiare la filastrocca che si recita a Pasqua per divertire i bambini: "dàm, tzefardéà , kinìm, 'arov ..."; poi tradusse in russo: sangue, rane, pidocchi, belve, scabbia, peste, grandine, cavallette .... Ma si interruppe prima di finire l' elenco per chiedere a Leonid: _ Tu, da bambino, non hai mai fatto Pasqua? Si pentì subito della domanda. Pur senza smettere di mangiare, Leonid aveva distolto il viso da lui, e il suo sguardo si era fatto fisso e torvo. Dopo qualche minuto, con apparente incoerenza, disse: _ Quando hanno mandato mio padre alle Solovki, mia madre non lo ha aspettato. Non lo ha aspettato molto tempo. Mi ha messo in un orfanotrofio, è andata a vivere con un altro, e di me non si è più occupata. Mi veniva a trovare due o tre volte all' anno, con quell' altro. Era un ferroviere anche lui, e parlava sempre sottovoce. Forse aveva paura di finire anche lui alle isole; aveva paura di tutto. A quanto ne so, stanno ancora insieme. E io adesso ne ho abbastanza. Abbastanza di camminare verso non si sa dove. Abbastanza di sangue e di rane, e vorrei fermarmi, e vorrei morire. Mendel non rispose: si rendeva conto che il suo compagno non era di quelli che si guariscono con le parole; forse nessuno che avesse sulla schiena una storia come la sua sarebbe guarito a parole. Eppure si sentiva in debito verso di lui, in colpa, in mancanza, come se si vedesse qualcuno che annega in poca acqua e non chiama aiuto, e siccome non chiama aiuto lo si lasciasse affondare. Per aiutarlo, bisognava capirlo, per capirlo bisognava che lui parlasse, e lui non parlava che così, quattro parole e poi silenzio, con lo sguardo che sfuggiva il suo sguardo. Era pronto a ferire e pronto a essere ferito. Se lui Mendel avesse provato a forzare la mano? Poteva essere pericoloso: come quando si imbocca male una vite nel bullone e si sente la resistenza; se si sforza col cacciavite, il filetto si spana e la vite è da gettare. Se invece si ha pazienza e si ricomincia da capo, si avvita tutta senza fatica, e poi rimane ben salda. Ci vuole pazienza, anche per chi non ce l' ha. Specialmente per chi non ce l' ha. Per chi l' ha persa. Per chi non l' ha mai avuta. Per chi non ha mai avuto il tempo e l' argilla per costruirsela. Stava per rispondergli: "Se davvero vuoi morire, non ti mancherà l' occasione"; invece gli disse: _ Dormiamo. Almeno stasera abbiamo la pancia piena. Al nono giorno di cammino il sentiero era praticamente scomparso: lo si poteva riconoscere a tratti, sulle lingue di sabbia che correvano tortuose fra gli stagni, e questi si facevano sempre più ampi e confluivano fra loro. Il bosco si era ridotto a macchie isolate, e l' orizzonte che li circondava non era mai stato così vasto, in tutto il loro viaggio. Vasto e triste, intriso dell' intenso odore funereo dei giuncheti; sulle acque immobili si specchiavano nitide le nuvole rotonde, bianche, immobili nel cielo. Allo sciacquio dei passi dei due uomini qualche anitra si involava dai canneti schiamazzando, ma Mendel non volle sparare, per non sprecare colpi e per non segnalare la loro presenza. Si profilò un edificio di legno. Quando lo ebbero raggiunto, videro che era un mulino ad acqua, abbandonato e semidistrutto; la ruota a pale arrugginita pescava in un' acqua melmosa che si faceva strada in meandri attraverso le paludi. Doveva essere lo Ptic: Novoselki non poteva essere lontana. Dall' altra parte del fiume il terreno era più solido: si distingueva in lontananza una modesta altura rivestita di alberi scuri, querce od ontani. Trovarono una vecchia pista di boscaioli, invasa da rovi e foglie morte. Mendel si rimise gli stivali, Leonid rimase scalzo, con le sole pezze da piedi a protezione contro le spine. Dopo mezz' ora di cammino esclamò: _ Toh! vieni a vedere! _ Mendel si volse e gli vide in mano una bambola: una povera bamboletta rosa, nuda, mutilata di una gamba. La accostò al naso, e percepì un odore dell' infanzia, l' odore patetico della canfora, della celluloide; per un attimo, evocate con violenza brutale, le sue sorelle, l' amichetta delle sorelle che sarebbe diventata sua moglie, Strelka, la fossa. Tacque, trangugiò, poi disse a Leonid con voce piana: _ Queste cose non si trovano nei boschi. Sulla destra della pista c' era una radura, e nella radura videro un uomo. Era alto, magro, pallido e stretto di spalle; quando si accorse di loro cercò goffamente di scappare o di nascondersi: gli diedero una voce e lui li lasciò avvicinare. Era vestito di stracci e portava ai piedi un paio di sandali ricavati da copertoni d' auto; teneva in mano un fagotto d' erbe. Non sembrava un contadino. Gli domandarono: _ È qui il paese degli ebrei? _ Qui non c' è nessun paese, _ rispose l' uomo. _ Ma tu non sei ebreo? _ Sono un profugo, _ disse; ma l' accento lo tradiva. Leonid mostrò la bambola: _ E questa, da dove viene? Lo sguardo dell' uomo si spostò di un piccolo angolo: qualcuno stava avvicinandosi, alle spalle di Leonid. Era una bambina, bruna e minuta; gli prese la bambola dalle mani, dicendo tutta seria: _ È mia. Sei stato bravo a trovarla.

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I PREDONI DEL SAHARA

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

Calmata la sete, abbeverarono abbondantemente i cammelli, i mehari ed i cavalli, poi rizzarono le tende, avendo deciso di fermarsi un paio di giorni in quel piccolo Eden. Disgraziatamente quella felicità doveva essere di breve durata. Riposavano da quattro ore chiacchierando e fumando, godendosi quella frescura, quando videro Rocco, il quale si era spinto verso il margine settentrionale dell'oasi per cacciare una coppia d'ottarde, tornare di corsa. "Signore, in piedi e prendete le armi!" gridò, precipitandosi verso le tende. "I predoni s'avvicinano." "Quali?" chiese il marchese, prendendo il fucile. "Quelli che ci hanno lasciato poco fa?" "Non credo," rispose Rocco. "Questi vengono dal nord-ovest." "Che siano quelli che ci hanno dato la caccia?" disse El-Haggar. "Lo suppongo, ma sono cresciuti di numero. Devono essere per lo meno una trentina." "Fuggiamo, signore," disse El-Haggar. "E dove?" "Cercheremo un rifugio nell'oasi di Eglif. Fra ventiquattro ore vi possiamo giungere e là troveremo delle rocce che ci permetteranno di resistere meglio." "E anche Tasili, il mio fedele servo," aggiunse Ben, "e non sarà certo solo." "Fate le provviste d'acqua e ordinate la carovana," disse il marchese. "E noi andiamo a ritardare la marcia di quei predoni. Vieni; Rocco, venite Ben." "Ed io?" chiese Esther. "Non esponetevi per ora e poi la vostra presenza è necessaria qui," le disse il marchese. "Siete la più valorosa e prenderete il comando della carovana." Salì sul cavallo, imitato da Ben, mentre Rocco montava il mehari, e si spinsero verso il margine dell'oasi. Intanto i due beduini ed El-Melah riempivano precipitosamente gli otri e riordinavano i cammelli con grida e bastonate. I banditi, diventati prudentissimi, quantunque raddoppiati di numero, s'avvicinavano cautamente, tenendosi riparati dietro le dune. Non essendo però queste tanto alte da poterli coprire interamente, erano scesi dai loro mehari, tenendoci ora molto più alla loro pelle che a quella degli animali. "Mi pare che non si sentano troppo sicuri di prenderci," osservò il marchese, il quale si era arrestato dietro un gruppo di palmizi. "Si direbbe che abbiano paura." "O che vogliano invece attaccare contemporaneamente noi e la carovana?" chiese il marchese. "Avanti, amici! Tagliamo la via alla prima banda che gira al largo dell'oasi." Giunti a circa mezzo chilometro dalle prime palme, i banditi si erano divisi in due drappelli egualmente numerosi. Mentre uno muoveva direttamente verso l'oasi, coll'intenzione di dare battaglia e trattenere i tre cavalieri, l'altro s'era spinto verso l'est per girare intorno a quell'isolotto di verzura e sorprendere la carovana nella sua ritirata. "Rocco," disse il marchese, "va' ad unirti ad Esther e non lasciarla fino al nostro arrivo." "E voi, signore?" chiese il sardo. "Copriremo la ritirata meglio che potremo." Il sardo lanciò il mehari in mezzo alle palme, scomparendo dietro i folti cespugli. "Ed ora a noi, Ben," disse il marchese. Si volse e vide, a circa un chilometro, la carovana. Aveva già lasciato l'oasi e s'inoltrava nel deserto rapidamente, muovendo verso il sud. "A chi daremo battaglia?" chiese Ben. "Al drappello che cerca di girare l'oasi," rispose il marchese. Spronarono i cavalli attraversando l'oasi da occidente ad oriente e raggiunsero la punta estrema. nel momento in cui un primo drappello, composto di sedici predoni, passava a corsa sfrenata a circa duecentocinquanta metri. Fermarono i cavalli, scesero da sella, si appoggiarono al tronco d'una grossa palma e fecero fuoco simultaneamente. Un mehari ed un Tuareg, caddero fra le urla furibonde della banda. A quella prima scarica ne seguì una seconda, poi una terza che fecero cadere un altro uomo e altri due animali. "Cinque colpiti su sei palle! Un bel tiro!" gridò il marchese. I banditi, arrestati in piena corsa da quelle scariche terribili, si gettarono in mezzo alle dune, abbandonando i loro corridori. "Come li abbiamo fermati!" esclamò Ben. "Questi, ma non gli altri," rispose il marchese. "Stanno per piombarci alle spalle." Il secondo drappello, trovando la via sgombra, s'era spinto velocemente innanzi, occupando il margine dell'oasi. Alcuni spari rimbombarono, senza offendere i due coraggiosi europei, i quali si slanciarono sui loro cavalli e partirono al galoppo, salutati da una seconda scarica dei pari inoffensiva. "Che pessimi bersaglieri," disse il marchese. "Sono i loro fucili che valgono poco," rispose Ben. Vedendoli fuggire, i predoni si erano messi ad inseguirli vigorosamente, eccitandosi con alte grida e sparando di quando in quando qualche colpo di fucile, i cui proiettili non potevano certo giungere a buona destinazione a causa delle scosse disordinate dei mehari. Il marchese e Ben, attraversata; l'oasi in tutta la sua lunghezza, si slanciarono fra le dune di sabbia. La carovana aveva già percorso due miglia e continuava la fuga. Rocco ed Esther, la quale aveva fatto abbassare la tenda per essere più libera, stavano alla retroguardia, coi fucili in mano. "Cerchiamo di mantenere la distanza," disse il marchese, rallentando la corsa del cavallo. I predoni si erano nuovamente riuniti, vista l'impossibilità di sorprendere la carovana, ed eccitavano i loro mehari per guadagnare via. Quattro o cinque, meglio montati, in pochi minuti si trovarono a soli quattrocento passi dai fuggiaschi. "Ben," disse il marchese. "Arrestiamoli.". "Gli uomini od i mehari?" Si fermarono dietro una duna e incominciarono il fuoco. Bastarono dieci secondi a quei valenti bersaglieri per smontare tre uomini. I tre mehari, gravemente feriti, erano caduti a poca distanza l'uno dall'altro. Il marchese stava per ricominciare il fuoco, quando il suo cavallo s'impennò bruscamente mandando un nitrito di dolore, poi cadde sulle ginocchia posteriori, sbalzando di sella il cavaliere. "Marchese!" esclamò Ben, spaventato. "Un semplice capitombolo," rispose il corso, risollevandosi prontamente. "Hanno colpito solamente il cavallo." Gettò uno sguardo furioso sui Tuareg. Il predone che gli aveva mandato quella palla stava ritto sul suo mehari, col fucile fumante ancora teso. "Me la pagherai, briccone!" gridò il corso. Le parole furono seguite da uno sparo, ma non fu l'animale che cadde, bensì il cavaliere. Poi il corso guardò il suo cavallo. Il povero animale, colpito fra le zampe anteriori da un grosso proiettile, rantolava disteso sulla sabbia. "È perduto!" esclamò egli con rammarico. "Salite dietro di me e raggiungiamo la carovana," disse Ben. "Presto, i Tuareg arrivano al galoppo!" Il corso si slanciò sul cavallo, s'aggrappò a Ben ed entrambi partirono a corsa sfrenata, mentre i predoni, furiosi di vedersi sfuggire ancora una volta la preda, si sfogavano con imprecazioni e minacce senza fine.

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