Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbeverare

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IL RACCONTAFIABE - Seguito al "C'era una volta …"

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

Vado a cavallo però, quando vo ad abbeverare le bestie. - Io vo in carrozza con la signora, quando porto il bambino. - Se fossi grande, non mi picchierebbero! - Neppur me, se fossi grande! La padrona chiamava dalla finestra, lo stalliere chiamava dalla stalla. - Fannullona! - Fannullone! E scapaccioni e strilli su in casa; e scapaccioni e strilli giù in istalla. Pochi giorni dopo, egli vide passare davanti la scuderia la ragazza che piangeva: - Che hai? - La signora mi ha mandata via. - Vado via anch'io. Andiamo insieme? - Dove? - Dove ci portano le gambe, Cammina, cammina, cammina, si spersero in mezzo a un bosco. Si faceva buio, e non riuscivano a trovare la strada. Cominciarono a strillare: - Ah, mamma mia! Come faremo? - Perché piangete, ragazzi? - Nonnina, dateci aiuto! Abbiamo smarrita la strada. - Non mi riconoscete? - Non vi abbiamo mai vista. - Sono la Fortuna. Che volete? Chiedete e vi sarà dato. I ragazzi si consultarono, imbarazzati. - Che chiedere? Ricchezze? Gliele ruberebbe il primo che capitava; non si potevano difendere. Se potesse farci diventar grandi, e darci un po' di denaro, tanto da non dover star a servizio in casa altrui! - Nient'altro? - Nient'altro. - Prendete; mangiate queste due focacce, e poi schiacciate queste due noci. Vedrete. E sparì. Mangiarono le focacce e si addormentarono. La mattina, svegliandosi, si avvidero di esser cresciuti di una ventina d'anni almeno; ma non si riconoscevano. - Chi siete? Che fate qui? - Sono una boscaiola. Faccio legna. E voi? - Sono un boscaiolo; faccio carbone. - Ho una noce: è la Fortuna. - Ne ho un'altra anch'io. Le schiacciarono e ne sgusciarono fuori tante monete d'oro, nuove di zecca. - Questa è la mia dote. - E questa è la mia. Si sposarono, e lavoravano da mattina a sera. Lei faceva legna e lui faceva carbone. Ma era una vita dura. Pure mettevano sempre qualcosa da parte. - Ci servirà per quando saremo vecchi. Spesso si lamentavano: - Che vitaccia! E contavano i quattrini già messi da parte. Erano molti, non però ancora abbastanza da potere passar bene la vecchiezza. - Quando saremo vecchi, ci riposeremo. - C'è ancora tempo, marito mio. Una notte udirono rumore attorno alla capanna, e voci cupe che dicevano: - Tu qua; tu là; io dalla porta, tu dal tetto! - Oh, Dio! Sono i ladri. Marito e moglie si sentirono gelare. Uno scassinava la porta, uno sfondava il tetto: - Non vi muovete o siete morti! Dove sono i quattrini? Erano più morti che vivi soltanto per lo spavento di quelle facce barbute che gli appuntavano i pugnali alla gola: - Dove sono i quattrini? - Eccoli lì. I ladri fecero repulisti e andarono via. La mattina dopo marito e moglie non avevano forza di lavorare e piangevano in mezzo al bosco: - Poveri a noi! Come faremo? - Che avete, buona gente? Perché piangete? - Ah, nonnina! La notte scorsa siamo stati spogliati dai ladri! - Non mi riconoscete? Sono la Fortuna. Chiedete e vi sarà dato. Marito e moglie si consultarono, imbarazzati: - Che chiedere? Il meglio sarebbe stato una tranquilla vecchiezza, con tanto da non stentare fino alla morte. - Nient'altro? - Nient'altro. - Ecco qui. Mangiate queste due pere e vedrete. In questa borsa poi ci sarà sempre del denaro. Più ne spenderete e più ne troverete. Prima che le dicessero grazie, era sparita. Marito e moglie mangiarono ognuno la sua pera e si addormentarono. Allo svegliarsi, strascicavano i piedi. E si ricordavano di ogni cosa passata. - Che sciocchi! Abbiamo rifatto la stessa vita! Non metteva conto. Ricordi, moglie mia? - Ricordi, marito mio? Erano tornati ad abitare la loro casa d'una volta. Si mettevano al sole davanti la porta e stavano lì lunghe ore a guardare i bambini che facevano chiasso. - Ricordi, moglie mia? - Ricordi, marito mio? - Che sciocchi! Abbiamo rifatto la stessa vita. Non metteva conto. Già, farne un'altra sarebbe stato lo stesso. Fanciulli, giovani, vecchi! O poveri o ricchi, s'invecchia tutti; e tutti dobbiamo morire! Spendevano e spandevano; mangiavano bene, si prendevano ogni sorta di divertimenti, e non avevano nessun pensiero dell'avvenire; la loro borsa era sempre piena; più quattrini ne cavavano e più ce n'era. Sarebbero stati felici, se non li avesse angustiati il pensiero fisso della morte. Ogni giorno che passava, era un passo verso la sepoltura. Non se ne davano pace. Una mattina stavano seduti, al solito, davanti la porta per godersi il sole. - Chi sa, marito mio, se rivedremo il sole domani! - Eh, chi lo sa, moglie mia! Videro accostarsi una vecchina: - Fate la carità! - Siete più vecchia di noi; quant'anni avete? - Gli anni miei non si contano. Non può contarli nessuno. La guardavano sbalorditi. - E camperete molt'altri anni ancora? - Finché ci sarà mondo. - Chi siete? - Non mi riconoscete? Sono la Fortuna. Chiedete e vi sarà dato. Prima di mill'anni, non ripasserò da queste parti. Marito e moglie si consultarono, imbarazzati: - Che chiedere? Gioventù, ricchezze, tutto passava, tutto andava via. Se non si potesse morir mai! L'unica felicità sarebbe questa. - Se non chiedete altro; vi sarà concessa. - Non chiediamo altro. - Ecco qui. E porse una boccettina con poche gocce di un liquore rosso dentro, che pareva sangue. - Bevete, e vedrete. Prima che potessero dirle grazie, era sparita. - Berrò io il primo. - No, berrò io. - Sono il marito; devo bere il primo. - Sono donna, perciò tocca a me. - Facciamo come l'altra volta; dividiamo le gocce. - Dividiamole; sarà meglio. Le divisero e bevvero. Si sentirono diventare quasi di acciaio. - Oh, che felicità, moglie mia! Non morremo mai! - Oh, che felicità, marito mio! Non morremo mai! Passarono più di cento anni. Marito e moglie erano sempre gli stessi, curvi, canuti, tutti grinze, senza denti, coi piedi strascicanti, e ogni giorno stavano lunghe ore davanti la porta, al sole, a guardare i bambini che facevano il chiasso: - Ricordi, moglie mia? - Ricordi, marito mio? Ma non erano però così contenti come avevano creduto di dover essere. Tutto cangiava attorno a loro, tutto moriva attorno a loro. Non si potevano affezionare a nulla e a nessuno, che già se lo vedevano portar via dalla morte. Passarono più di mille anni. Marito e moglie erano sempre gli stessi, impresciuttiti; ma ora, sedendo davanti la porta al sole, non badavano più ai bambini che facevano il chiasso; non ripetevano più: Ricordi, marito mio? Ricordi, moglie mia? Sbadigliavano: - Oh, Dio, che noia! - Sempre la stessa storia! Non ne potevano più. Avevano visto tante e tante cose, tanta gente, tanti avvenimenti: guerre, fami, pestilenze, feste d'ogni sorta, cose belle, cose tristi, tante, tante, tante! Ma, infine, gira e rigira un continuo nascere, un continuo morire; gira e rigira, sempre quella! Non ne potevano più; si sentivano sazii di esser vissuti tanto, stanchi di vivere ancora. - Che facciamo, moglie mia! Io vorrei morire. - Anch'io. Chiamiamo la morte. Se non la chiamiamo, non viene. E la chiamarono ad alta voce: - O Morte! O Morte! Accorse, scheletrita, con la falce in mano. - Che volete da me? - Vogliamo morire. - Non posso toccarvi; la Fortuna non vuole. Si sentirono stringere il cuore. Passarono altri cento anni. Marito e moglie erano sempre gli stessi, impresciuttiti; ma ora non si vedevano più neppure avanti la porta per godersi il sole: erano sazii anche di esso che appariva tutte le mattine dalla stessa parte e andava a coricarsi tutte le sere nella stessa parte. Il sole però non si annoiava mai, non si stancava mai! - Noi no, è vero, moglie mia? - Sì, è vero, marito mio! - E la Fortuna non si vede più! - Dovrà ripassare. Ripasserà. L'attesero altri cent'anni. Finalmente rivenne e non al solito da vecchina, ma sotto l'aspetto di bellissima donna, con lunga veste cosparsa di oro, di perle, di diamanti. Non la riconobbero. - Chi siete? - Sono la Fortuna. Chiedete e vi sarà dato. - Ah Fortuna, Fortuna! Non vogliamo nulla; vogliamo morire! - Va bene; uno oggi e subito subito, l'altro fra cent'anni. - Perché non insieme? - Non si può; uno oggi, subito subito, l'altro fra cent'anni. - Marito mio, per amor tuo, scelgo di morire io fra cent'anni. - Moglie mia, per amor tuo, cedo il posto quest'oggi. - Non siete più a tempo! A rivederci fra altri cento anni. E per cento anni, marito e moglie leticarono continuamente: - La colpa è tua. A quest'ora saremmo bell'e morti e dormiremmo in pace sottoterra! - La colpa è tua! Ah! Perché non abbiamo lasciato andare le cose pel verso loro. Contavano i giorni, le ore, i minuti, e leticavano fin sul conto di essi, tanto smaniavano di veder arrivare la Fortuna. - Eccomi. Chiedete e vi sarà dato. - Ah, Fortuna, Fortuna! Non vogliamo niente: vogliamo morire; non ne possiamo più! - Vado a chiamare la Morte. I vecchietti, contentissimi, imbandirono una bella tavola, e indossarono gli abiti di festa. La gente, meravigliata, domandava: - Che vi accade, vecchietti? - Oggi le cose tornano ad andare pel verso loro. É il verso giusto, tenetelo a mente! E caddero bocconi, freddi stecchiti. La Morte era arrivata senza ch'essi se ne accorgessero. Fiaba oscura, nespola dura La paglia e il tempo ve le matura.

Le Fate d'Oro

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Perodi, Emma 1 occorrenze

Egli stava seduto sulla rena, accanto ad una piccola gora d'acqua, sperando di ottener soccorso dai viaggiatori che erano costretti a fermarsi in quel punto per abbeverare i cammelli. - Oh! - esclamava - se potessi an- dare alla Mecca, avrebbero termine i miei tormenti; laggiù potrei trovare da impie- garmi e non mi mancherebbe il pane. - Le lacrime scendevano copiose lungo le guance di Saaud, perchè aveva fame e non aveva nulla da mangiare. Mentre stava disteso, immergendo le dita nell'ac- qua, sentì un rumore di sonagli che fen- deva l'aria, e intese una voce, che gli diceva: - Alla Mecca presto vai, Consolato tu sarai! - Saaud tirò un profondo sospiro: non era facile andare alla Mecca; bisognava potersi unire ad una carovana.... e come fare? Era titubante; ma essendogli venuto fatto di bere una sorsata d'acqua, si sentì su- bito nell'anima una buona dose di coraggio, e udì di nuovo il rumore dei sonagli in di- stanza. Questa volta erano davvero le so- nagliere dei cammelli, e una comitiva di arabi si avvicinava. Saaud sperò in loro e li attese con ansietà. Dopo poco, cammelli e uomini erano riuniti intorno alla gora, tutti intenti a dis- setarsi, poiché venivano di lontano e l'ac- qua era mancata loro durante il viaggio. Un arabo guardò Saaud e la cintura dalla fibbia lucente, che gli aveva colpito l'immaginazione. - La zia ha bisogno di una fibbia come questa; dammela - disse l'arabo che voleva portarla a sua moglie. Saaud provò dispiacere, ma non osò di opporsi a quell'uomo dalla brutta grinta. - La zia ha bisogno di questo ricamo per il suo giubbetto, - disse un secondo arabo, togliendo il colletto a Saaud. Fortunatamente la camicia del ragazzo era troppo stracciata per tentare la cupidi- gia dei viaggiatori, e così non gliela tolsero. Gli arabi partirono, lasciando Saaud ancora disteso in riva alla gora. Egli non ebbe il coraggio di doman- dar loro se erano diretti alla Mecca. Saaud era disperato e credeva di do- ver morire di fame, quando sentì di nuovo un rumore di sonagli e una voce che gli diceva: - Alla Mecca presto vai, Consolato tu sarai! - Il ragazzo si alzò e vide poco lungi da sè alcuni rimasugli di cibo. Egli si mise a mangiare di quegli avanzi, ma pensò di non finirli tutti e di serbare qualche cosa per il giorno dopo; poi fece alcuni passi, senza sapere da qual parte dirigersi, e fu ben lieto di scorgere tre uomini vestiti alla foggia dei pellegrini, i quali, benché fos- sero uno cieco, l'altro sordo e il terzo stor- pio, si figurò che andassero alla Mecca a ba- ciar la sacra pietra. Per questo s'inchinò dinanzi a loro, ma essi tennero alta la testa, perché erano compresi della santa missione che stavano per compiere e non volevano aver nulla di comune con un ragazzetto come Saaud. Il cieco, che lo sentì raccomandarsi di far la strada in loro compagnia, gli disse: - Vattene. - Il sordo, che non poteva udirlo ma che vide il suo gesto supplichevole, gli mostrò il bordone, senza profferir parola. Lo storpio fece finta di non accor- gersi di lui, e tutti e tre andarono avanti per la loro via. Saaud stava per scoppiare in pianto, quando sentì la stessa voce accompagnata dal rumore dei sonagli, che gli diceva: - Alla Mecca presto vai, Consolato tu sarai! - E allora, invece di buttarsi in terra e piangere sconsolato, seguì i pellegrini a una certa distanza. Quando essi fecero sosta per riposare durante la notte, egli si fermò pure, ac- canto al fuoco che i pellegrini avevano acceso per tenere a distanza le bestie fe- roci. Saaud, sdraiatesi in terra, si addormentò e dormì così profondamente che al suo de- starsi i pellegrini non c'erano più. Egli trovò per terra alcune pagnotte di pane duro e un secchio che conteneva un po' di latte inacidito. Mangiò il pane, bevve il latte e si ripose in cammino per ritrovare le tracce dei pellegrini. Lo accompagnava sempre il rumor dei sonagli e la voce squillante che ripeteva: - Alla Mecca presto vai, Consolato tu sarai! - Egli seguì la voce squillante, poiché non aveva altra guida nello sterminato de- serto di sabbia. Cammina, cammina, egli giunse a una prateria ove alcuni pastori facevano pasco- lare il gregge. Essi lo rifocillarono con cibo e bevande, ma quando chiese loro dov'era la Mecca, gl'indicarono vagamente un punto verso oriente. E Saaud camminò ancora, finchè una sera stanco, rifinito si gettò a dormire so- pra alcune rocce. Allorché si destò la mat- tina, il sole illuminava una città, che gli parve tutta adorna di giardini e di palazzi; e vedendo una moschea maestosa, che s'er- geva nel centro di essa, esclamò, guardan- dosi la camicia strappata: - Questo non è posto per me! Tor- nerò dai buoni pastori e li pregherò di farmi guardare il gregge. - E subito volse le spalle alla città, che aveva vista risplendere ai primi raggi del sole nascente. In quel momento sentì la voce dell'Imamm che, dall'alto della mo- schea, chiamava i fedeli alla preghiera, e gli parve che quella voce dicesse: - Saaud, torna indietro! - Saaud si fermò, e la voce ripetè: - Saaud, torna indietro! - E la terza volta sentì dire distinta- mente: - Saaud, torna indietro. - E Saaud obbedì e si diresse verso la città, anzi verso la moschea, e s'inginoc- chiò e baciò il Hadji, col cuore pieno di speranza. Ma la sua qualità di Hadji non gli dava nè vesti nè pane. Per questo egli andava vagando tutto afflitto, quando sentì un uomo che diceva: - Reggimi il cavallo, debbo andare alla bottega del sarto. - Tutti i ragazzi arabi sanno reggere un cavallo; così Saaud prese per la bri- glia il destriero, che era della razza di Ko- chlani e contava duemil'anni di esistenza. - Tesoro mio!. Gioia mia! Come sei bello, come hai il piede agile! - escla- mò Saaud. - Ti voglio bene, o destriero, benché tu non mi appartenga, e vorrei strigliarti, abbeverarti, prepararti un mor- bido letto. - Il padrone del cavallo era uscito di bottega e ascoltava le parole del ragazzo. - Come sai che è un buon cavallo? - gli domandò. - Mio padre ne possedeva molti come questo; - rispose Saaud - ma egli è morto e non ho nessuno che pensi a me. Se al- meno trovassi lavoro! - T'impiegherò nelle mie scuderie, se vuoi, - disse Abdelazis, così chiamavasi il proprietario del cavallo. - Seguimi! - Com'era contento Saaud in mezzo a quei bei cavalli arabi, ai quali dava da mangiare, accarezzandoli come se fossero fratelli suoi! Ed essi lo capivano e gli ri- spondevano nel loro linguaggio. Saaud era davvero tanto contento che aveva dimen- ticato i sonagli, la voce misteriosa e il grido dell'Imamm. Un giorno un povero puledro cadde malamente e doveva essere ammazzato. Saaud a quel pensiero piangeva a calde la- crime, e Abdelazis, che lo vide, gli disse: - Vorresti che te lo regalassi? - Se fosse possibile! - disse Saaud tremante dalla gioia. - Prendilo - disse Abdelazis. Quella povera bestia pareva a Saaud una creatura di paradiso, più bella di tutti i Kochlani, più nobile dei discendenti del cavallo di Salomone. Bisogna dire che era un nobile animale, e Saaud seppe curarlo così bene che le gambe riacquistarono la perduta agilità; le ferite si rimarginarono, e la coda e il pelo divennero morbidi come seta, e lucenti come cristallo. Saaud era altero del suo puledro, cui pose nome Fior della Mecca. In quel tempo una carovana di mer- canti, diretta verso l'estremo Oriente, passò per la città. I mercanti andavano a scam- biare la loro merce con le stoffe e le gemme della Persia e dell'Indostan. Essi erano amici di Abdelazis e videro il ca- vallo di Saaud. - Prendetelo e vendetelo vantaggio- samente, - disse il padrone narrando che Saaud non possedeva altro che quel pu- ledro. In quel momento a Saaud parve che l'aria fosse piena di suoni e una voce gli ripetesse: - Consolato tu sarai! - E il ragazzo cinse con le braccia il collo del cavallo, piangendo: tuttavia il padrone aveva ordinato che lo lasciasse andar via, e Saaud ubbidì; ma prima di separarsi da Fior della Mecca gli fece mille carezze. In quel momento echeggiò la voce dell'Imamm, chiamando i fedeli alla pre- ghiera, e il fanciullo sentì dire: - Consolato tu sarai! - Saaud pensava sempre al suo cavallo e non sapeva consolarsi di averlo perduto. Dopo un certo tempo i mercanti tornarono. Saaud li interrogò timidamente sulla sorte del suo cavallo. - Esso è piaciuto al sovrano della Persia, che lo ha pagato una bella somma, e ora è nelle stalle imperiali ornato d'oro, di frange di seta e di perle, - gli dissero. - Ma il cavallo non vuol lasciarsi mon- tare da nessuno e neppure accostare. Per- chè lo hai così mal domato? - Egli è docile come un agnello; - disse Saaud - basta che senta la mia voce perchè obbedisca. - Il sovrano di Persia voleva assoluta- mente che il bel cavallo fosse domato, e aveva ordinato ai mercanti che gl'invias- sero chi poteva domarlo. - Ci vuoi andar tu? - domandò il padrone a Saaud. Questi baciò la veste del padrone. - Fior della Mecca, - rispose - è un Kochlani e non ubbidisce altro che a me. - Saaud partì, ma Saaud ora era ricco. Aveva un lungo seguito di cammelli, e ve- stiva di seta; portava una camicia di fi- nissimo lino; mangiava Kora-Kausch e be- veva Kusha. Dopo un lungo e felice viaggio giunse a Ispahan, che gli parve bellissima con i molti palazzi, i giardini fioriti e i canali rigonfi di acque. Quando giunse alle scuderie imperiali il cuore di Saaud batteva forte. Le porte si spalancarono e si trovò davanti al suo cavallo, che nitriva e raspava il terreno. - Mia bellezza! Mio tesoro! - escla- mava Saaud; e Fior della Mecca saltava dalla gioia, udendo la voce del padrone. Il puledro posò la testa sulla spalla di Saaud e poi gli s'inginocchiò davanti, e questi lo sciolse, gli saltò in groppa e il cavallo si mise a galoppare così veloce- mente che non pareva toccasse il terreno. Traversò Chaur Bang e andò a fermarsi vicino al sovrano di Persia, che colà pas- seggiava. Saaud prese il cavallo per la briglia e lo portò ai piedi del sovrano. - Che abile cavaliere tu sei! - disse questi. - Voglio che tu entri al mio ser- vizio e tu educhi questo cavallo a ub- bidirmi come ubbidisce a te. - Saaud fece un profondo inchino e non si separò più dal suo Fior della Mecca. Gli fu assegnato un palazzo e visse felice e contento come un re. Nel giardino del palazzo c'era una fontana, ed ogni sera egli udiva un rumore di sonagli e una voce ben nota che pareva l'eco dei tempi passati. Una sera di lume di luna vide sorgere dalla colonna d’acqua della fontana una strana figura, che gli stendeva la mano. Era la sua Fata protettrice: era la Fata dell’acqua.

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I PREDONI DEL SAHARA

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

Rizzarono le loro tende fuori dai duar onde essere più liberi, poi Ben, El- Haggar ed i due beduini si recarono ai pozzi per abbeverare ampiamente i cammelli e fare le loro provviste d'acqua. I pozzi del Sahara sono tutti eguali. Vengono scavati da una corporazione speciale detta dei R' tassa, e con sistemi assolutamente primitivi, sicché la loro durata è breve. Fanno un buco nel terreno, lo allargano a poco a poco, puntellandolo, onde le sabbie non cedano, e foderandolo con tronchi di palmizi vuoti. Simili opere sono poco solide e le sabbie, franando a poco a poco, finiscono presto per riempire i pozzi facendo scomparire l'acqua. Quelli però di Beramet erano ancora in ottimo stato e potevano fornire acqua in quantità e anche eccellente, cosa piuttosto rara, essendo essa per lo più un po' salmastra. I cammelli furono dapprima lasciati bere a sazietà, poi furono costretti a ingurgitare altra acqua mediante un imbuto cacciato sulle loro narici, operazione poco piacevole di certo per quei poveri animali, ma necessaria onde aumentare la loro provvista interna. Alla sera, un pò dopo il tramonto, la carovana, aumentata di due mehari, ossia cammelli corridori, acquistati dal marchese, e ben provvista d'acqua e di viveri, lasciava Beramet, prendendo la via del sud. Il deserto pareva che fosse diventato più arido ancora. Non più rocce, non più magre erbe, non il più piccolo animale: sabbia, e sempre sabbia, avvallata confusamente in larghe ondulazioni, e poi sabbia ancora. "Mi sembra che il deserto si abbassi considerevolmente," disse il marchese, il quale cavalcava a fianco di Ben. "Forse questo sarà il fondo dell'antico mare," rispose l'ebreo. "Ah! Credete anche voi che anticamente il Sahara fosse coperto d'acqua?" "Tutti lo affermano, signore." "Eppure gli scienziati ne dubitano, mio caro Ben. L'altitudine media del deserto è di quattrocento metri sul livello del mare, quindi ammetterete che l'acqua non doveva salire a tanta altezza, se, come si dice, comunicava coll'oceano." "Vi sono però delle bassure considerevoli, marchese." "Non lo nego, ma sono relativamente poche." "Quale spiegazione danno dunque gli scienziati?" "Affermano che il Sahara, al pari dei deserti del Turkestan e di Gobi, non sia già diventato tale pel ritiro delle acque, bensì a causa di. sollevamenti geologici avvenuti in epoche antiche e che la sabbia si sia formata per azione disgregante, operata superficialmente sulle rocce dall'aria e dalle piogge." "Può essere, marchese," disse Ben Nartico. "Gli strati rocciosi sono abbondantissimi nel Sahara e anche d'una durezza poco considerevole. Ah!" "Che cosa avete?" "Guardate quella roccia isolata che sorge dinanzi a noi." "La vedo." "È la roccia d'Afza la bella." "Ne so meno di prima." "È una storia che nel Sahara tutti conoscono." "Ma che io ignoro, Ben." "Ricorda una terribile vendetta." "Allora me la racconterete." "Sì, quando ci fermeremo, marchese. Per ora marciamo." Il deserto manteneva la sua desolante uniformità e anche il suo intenso calore. Una calma assoluta regnava su quelle sconfinate pianure. Se qualche colpo d'aria giungeva a lunghi intervalli, era d'altronde così ardente che non si desiderava, perché pareva togliesse il respiro. Quella prima marcia, dopo la partenza da Beramet, si prolungò fino all'alba, desiderando il marchese di guadagnare via onde poter raggiungere la carovana almeno a Marabuti. Appena sorto il sole, furono alzate le tende e tutti vi si rifugiarono per prepararsi la colazione e prendere poi un pò di riposo. Mentre Rocco s'occupava dei piatti forti, consistenti per lo più in una zuppa di legumi ed in frittelle di farina, Esther preparò un delizioso moka che offrì ai suoi compagni assieme ad alcuni bicchierini di vecchio Cognac, liquore che il marchese non si era dimenticato di portare. "Alla fermata ci siamo, amico, e la storia della rupe mi è ancora ignota," disse il marchese a Ben. "Ve la narrerò io, marchese," disse Esther. "Allora il racconto avrà maggior pregio. Afza deve essere stata una donna, è vero?" "E una delle più belle del deserto." "Qui si nasconde qualche cupo dramma." "Una vendetta che vi darà un'idea dei costumi degli abitanti del Sahara," disse Esther, e poi cominciò "Un giorno presso quella roccia sorgeva un duar circondato da bellissimi datteri, perché allora i pozzi non erano ancora stati rovinati ed il terreno non era diventato sterile. "Voi già sapete che quando l'acqua viene a mancare, il deserto riprende i suoi diritti e tramuta anche le più belle oasi in una pianura arida, sulla quale non spunta più l'erba. "Quel duar era abitato da un beduino, che si chiamava Alojan, un uomo audace, intrepido cacciatore e che tutti conoscevano nel Sahara. "Alojan era felice perché oltre a possedere numerosi cammelli, possedeva pure la più bella donna del deserto, Afza, una Tuareg che aveva pagato quasi a peso d'oro sul mercato d'Anadjem. Disgraziatamente quella felicità non doveva durare a lungo; Allah aveva disposto diversamente. "Un giorno Alojan, mentre inseguiva un'antilope, giungeva in una bassura sabbiosa, dove il terreno era coperto di lance spezzate, di sciabole insanguinate e di cadaveri. Una battaglia doveva essere avvenuta in quel luogo fra tribù di Tuareg avversarie. Alojan, temendo di venir sorpreso dai vincitori, stava per tornarsene al suo duar, quando gli giunse agli orecchi un lamento. Si spinse fra i cadaveri e scoprì a terra un giovane guerriero che respirava ancora. "Alojan era valoroso e anche molto generoso. Raccolse il ferito, lo caricò sul suo cammello e lo trasportò nel suo duar, ove lo curò come se fosse stato un fratello. "Dopo quattro lunghi mesi di convalescenza quel giovane, che si chiamava Faress, era completamente guarito. "Tu ormai non hai più bisogno delle mie cure", gli disse il generoso Alojan. "Se vuoi tornare presso la tua tribù, io ti condurrò e ti lascerò anche se con dispiacere; ma se vuoi rimanere nel mio duar, sarai per me un fratello; mia madre sarà anche la tua, e mia moglie ti sarà sorella". "O mio benefattore", rispose il giovane guerriero, "ove troverei dei parenti come quelli che tu mi proponi? Senza di te io non sarei più vivo e la mia carne avrebbe servito di pasto agli uccelli da preda e le mie ossa sarebbero rimaste senza sepoltura sulle sabbie ardenti del deserto. Giacché lo vuoi, io rimarrò presso di te, per servirti tutta la vita." "Devo però dirvi che Faress era stato indotto a rimanere da un motivo meno puro; era l'amore che cominciava a sentire per la bella Afza, amore nato dalle cure che ella gli aveva prodigato. "Erano passati altri due mesi, quando Alojan, che non aveva avuto il minimo sospetto, incaricò Faress di scortargli la madre, la moglie e due fanciulli fino ad un'oasi, dove contava di piantare il suo duar. "L'occasione fa il ladro, come si dice. Faress, non sapendo resistere, pose la tenda su un cammello, vi collocò la madre coi due fanciulli e li mandò innanzi, dicendo che li avrebbe presto raggiunti con Afza. "La vecchia attese a lungo, e non vide più giungere né l'uno, né l'altra. Faress, salito su un rapido cavallo, aveva portato Afza presso la sua tribù. "Alla sera, quando Alojan giunse alla nuova oasi, trovò la madre piangente, seduta presso una palma. "Dov'è Afza?" le chiese con voce terribile. "Io non ho veduto né tua moglie, né Faress;" rispose la vecchia."È da questa mattina li attendo." "Allora per la prima volta un sospetto attraversò il cuore e il cervello del tradito. Aiutò la madre ad alzare la tenda, prese le sue armi, salì sul suo mehari e corse disperatamente attraverso il deserto; finché giunse presso la tribù di Faress. "All'entrata del duar si fermò presso una vecchia che viveva sola. Scorgendolo, costei lo guardò a lungo con stupore, dicendogli "Perché non vai dallo sceicco della tribù? Oggi è giorno di festa e non si nega ospitalità a nessuno straniero, fosse anche un nemico." "E perché si fa festa?" chiese Alojan. "Faress El-Meido, che era rimasto sul campo di battaglia e che era stato pianto per morto, è tornato conducendo con sé una bella donna e oggi si sono celebrate le nozze." "Alojan dissimulò la rabbia tremenda che lo divorava e attese pazientemente la notte. "Quando tutti gli abitanti dei duar dormivano, strisciò senza far rumore sotto la tenda di Faress, e prima che questi aprisse gli occhi, con un colpo di scimitarra gli spiccò la testa dal busto. "Afza si svegliò, e Alojan l'afferrò prontamente dicendole: "Seguimi!" "Imprudente!" esclamò la donna con voce tremante pel terrore che la invadeva. "Va', fuggi, prima che i parenti di Faress ti uccidano." "Silenzio, donna" disse Alojan, con voce minacciosa. "Alzati, invoca Dio e maledici il demonio che ti ha spinto ad abbandonare il tuo sposo ed i tuoi figli." "Afza, che aveva veduto un terribile lampo balenare negli occhi del tradito, cercò di gridare al soccorso, ma venne afferrata strettamente e portata sul cammello. "L'allarme però era stato dato, e il padre di Faress e due dei suoi figli si erano slanciati sulle tracce di Alojan. "Questi, vedendosi inseguito da vicino, impugnò le sue armi e si difese come un leone. Nel frattempo Afza, liberatasi dai suoi legami, si unì agli inseguitori, scagliando sassi contro Alojan, e uno dei sassi lo colse alla testa, ferendolo. "Nondimeno Alojan uccise i due fratelli di Faress e riuscì ad atterrare anche il padre. "Io non uccido i vecchi," disse, quando lo vide a terra. "Riprendi il tuo cavallo e ritorna fra i tuoi." "Poi riafferrata Afza, si rimise in viaggio dirigendosi verso il suo primiero duar, senza aver detto una parola alla sua donna. "Quando giunse presso la rupe che avete veduto, da uno dei suoi servi che era ancora rimasto nell'oasi, fece chiamare il padre ed i fratelli della moglie, che abitavano poco discosti, e raccontò loro quanto era avvenuto. "Padre;" disse poi, quand'ebbe finito, "giudica tua figlia." "Il vecchio s'alzò senza dire verbo, trasse la scimitarra e la testa della bella Afza ruzzolò al suolo. "Compiuta la vendetta, Alojan rovinò i pozzi onde tutte le piante morissero, li riempì di sabbia, poi salito sul suo cammello scomparve fra le dune del deserto, né più si seppe nulla di lui. "La rupe però è rimasta a ricordare la vendetta del povero cacciatore del deserto sulla infedele Afza."

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