Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Antropologia soprannaturale Vol.I

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

La denominazione adunque di filosofia o scienza teoretica è poco esatta, riuscendo a un dire teoria teoretica , e la denominazione di filosofia o scienza pratica non è pure senza inesattezza e ambiguità, convenendo anzi dirla filosofia o scienza o teoria della pratica (1). Pratica vuol dire azione, e perciò la pratica si può dividere in tanti modi in quanti si possono dividere le azioni. Se le azioni non si fanno a caso nè divise, ma molte insieme varie e congiunte, con regole a cui obbediscano, per conseguire qualche effetto, queste azioni diventano un' arte (2). Le arti adunque appartengono alla pratica , e le scienze appartengono alla teoria ; nè si devono mai confondere queste due cose. L' uso però ha ristretto il significato del vocabolo arte a segnare solamente un complesso di azioni ed abito di porle, dalle quali si ha qualche produzione o formazione esterna: e tali sono le arti meccaniche e le liberali. Ma delle azioni legate insieme a uno scopo, si dànno anche senza che producano e formino nulla di esterno; e tali sono le operazioni intellettive e morali: anche queste, perciò che sono azioni, appartengono alla pratica e talora si denominano arti . Così la logica si suol dire che è un' arte, e arte della perfezione fu intitolato un libro che tratta della morale bontà; sebbene, accuratamente parlando, la logica che s' insegna non è l' arte stessa, ma la scienza dell' arte del pensare, e il libro del Pallavicini è la scienza dell' arte, e non l' arte della perfezione. Altra cosa è dunque essere artista, e altra essere scienziato: chi sa la teoria dell' arti meccaniche non ne prese con questo l' abito, non sa l' arte; e il giudicare di pittura o di poesia o di altra arte liberale fu sempre tenuto per cosa interamente diversa dal saper dipingere o poetare. E può avervi un fortissimo e dirittissimo pensatore senza che abbia mai apprese le regole logiche; e l' uomo probo e virtuoso può ignorare la definizione della virtù: come per l' opposto non è forse vero che chi sa la dottrina morale per filo e per segno sia poi talora lontano assai dal renderla in pratica, e che un filosofo sia spesso costretto di dire: video meliora proboque, deteriora sequor ? Queste poche osservazioni soprabastano a fare notare la differenza dell' azione dalla cognizione , della pratica dalla teoria . La Teologia è scienza, e la Religione è azione: l' una è cognizione , l' altra è culto : l' una appartiene alla teoria, l' altra alla pratica (1). Il teologo è quello che conosce le dottrine intorno a Dio: ma l' uomo religioso è quello che conforma la vita a tali dottrine, ed è assiduo in dar opera al culto della divinità. Nè il teologo è sempre uomo religioso; nè l' uomo religioso è sempre teologo. La Teologia è quella scienza che tratta di Dio. Essa si divide in naturale e soprannaturale . La Teologia naturale è quella che tratta di Dio in quanto può essere conosciuto dalle forze naturali della ragione umana e questa è una parte della filosofia: la soprannaturale è quella che tratta di Dio in quanto è conosciuto soprannaturalmente, e questa si chiama strettamente Teologia. Noi dobbiamo render chiara questa distinzione, il che faremo nel capitolo seguente, stabilendo in esso i confini della filosofia o dottrina naturale, e mostrando per che via si stenda oltre que' confini la Teologia rivelata. L' uomo, nel conseguire le varie maniere di cognizioni di cui è capace, ha bisogno di alcuni mezzi, ed è limitato a certe condizioni. In ragione poi che questi mezzi più gli abbondano e che quelle condizioni meglio si adempiono, più l' uomo s' arricchisce di cognizioni. Noi supponiamo dati all' uomo i mezzi necessari al suo naturale sviluppo ed adempite quelle condizioni a cui è legato, quando cerchiamo i confini a cui può giungere il suo senno naturale, o, che è il medesimo, quando cerchiamo i confini della filosofia. Una di queste condizioni, per le quali l' uomo può svilupparsi, sono gli oggetti esterni che irritano i suoi sensi e vi cagionano le sensazioni: un' altra è de' segni (una lingua), coll' aiuto de' quali possa dirigere e fermare il suo pensiero negli astratti (1): una terza è una società dalla quale prende almeno degli eccitamenti al pensare, e nella quale si conservano e tramandano le cose una volta pensate. Ma dati all' uomo, o anzi alla umanità, tutti questi mezzi, quanto può ella procedere innanzi nel cammino della cognizione? Dove è il punto, al quale si deve fermare? Quali sono, in una parola, i confini della filosofia? Ciò che abbiamo detto nel primo capitolo, intorno alla natura della umana cognizione, ci spiana la via a trovare la risposta conveniente a questa domanda. L' uomo non percepisce se non delle cose sensibili. La percezione è la condizione richiesta a poter formarsi delle idee positive delle cose. Dunque l' uomo non può avere naturalmente idee positive se non di quelle cose che naturalmente fanno una impressione sostanziale ne' suoi sentimenti, ossia che egli percepisce . L' uomo non percepisce se non il mondo sensibile e l' anima propria; il primo, oggetto dell' esperienza esterna; il secondo, oggetto dell' esperienza interna. Dunque la cognizione dell' uomo non comprende altre idee positive se non quelle delle cose materiali e dello spirito suo proprio. Vi sono alcune operazioni della mente che l' uomo può esercitare sopra quelle idee positive primitive e da esse cavarne alcune altre: queste medesime operazioni possono essere ripetute sopra il prodotto delle prime; e di nuovo possono ripetersi sopra il secondo prodotto; e così via indefinitivamente. Le operazioni della mente di cui parlo, sono: 1 l' analisi, 2 la sintesi, 3 l' integrazione. Coll' analisi si scompongono le idee, e così di una se ne fanno molte. L' astrazione , che propriamente consiste nello scomporre formalmente le idee, cioè nel dividere essenza da essenza, non è che un ramo dell' analisi stessa. La sintesi compone e lega più idee insieme, e così fa nascere le idee complesse; e anch' essa può legarle formalmente , cioè di più essenze farne una sola, ovvero solo materialmente , quasi per una justaposizione. La sintesi e l' analisi non portano la mente nostra fuori del materiale delle idee positive che sono la base di tutto il loro lavoro: ma fuori al tutto delle idee che la mente possiede, quasi per salto, la mente viene tratta dalla facoltà della integrazione. L' integrazione è come una facoltà indovina: essa slancia la mente a nuovi oggetti non mai percepiti e, non potendone conoscere la natura, ne mostra però la necessità: cioè dalla cognizione dell' effetto ella conchiude alla causa, di cui non ebbero ancora nissun indizio i sensi; ella va sino alla causa prima, dal relativo va all' assoluto, e scuopre Dio (1). Ma questa facoltà divinatrice non può produrre però, come abbiamo veduto, se non idee negative : essa è fonte della Teologia naturale. I confini della Teologia naturale sono segnati nell' idea che naturalmente aver possiamo di Dio, già dichiarata più sopra (1). La facoltà integratrice dell' intendimento , cioè quella facoltà che ascende dall' effetto alla causa, è il fonte della teologia naturale, come ho detto, e il limite di questa potenza segna pure il limite della scienza a cui essa dà l' esistenza. Il principio della Teologia naturale è l' idea dell' essere in universale , idea che non fa noto l' essere reale se non inizialmente, e che si può dire vuota , perchè non contiene nessuna determinazione positiva del medesimo, senza materia, perfettamente formale. Questa idea, applicata all' universo che cade sotto i nostri sensi esterni ed interni, mostra in sè la necessità di una causa di questo universo, per siffatto modo che noi acquistiamo la persuasione della sussistenza di questa Causa. Il concetto di questa causa (non mai sentita sostanzialmente e però incognita al tutto nel suo modo di essere); l' analisi di questo concetto; i ragionamenti che sulla medesima s' istituiscono; le proposizioni singolari che se ne derivano; ecco tutta la Teologia naturale. Ella è una scienza ideale7negativa, com' è il concetto naturale di Dio sua base. Ora veniamo a quella che si dice Teologia rivelata . Io esporrò, con quella chiarezza che mi saprò meglio, le dottrine della tradizione cristiana intorno alla divina rivelazione, quanto sarà uopo all' intendimento di questo libro. Fra le cose da Dio rivelate dicono i teologi cristiani avercene di quelle che non eccedono i confini della ragion naturale, le quali però fu utilissimo l' essere rivelate per la troppa difficoltà che avevano di essere trovate dal senno naturale e con certezza e pure da errore. Il che anche se gli uomini avessero fatto, e l' avessero da sè stessi ragionando trovate, non l' avrebbero fatto però che dopo lungo spazio di tempo; quando, per la necessità che di quelle verità avevano, bisognava loro conoscerle fin da principio e sempre averle alla mano, se salvar si volessero. La rivelazione poi di questi veri alcuni teologi l' hanno chiamata formale , volendo essi esprimer con ciò che la forma o il modo onde queste verità si fecer palesi è soprannaturale, ma che le cose stesse, la materia di questo sapere non trapassa i limiti del naturale ragionamento. Per un' altra cagione furono rivelate altresì cose, a cui forse il senno naturale poteva giunger da sè, vale a dire perchè queste sono indivisibili da quelle altre di un ordine superiore che eccedono al tutto le forze dello spirito umano, stretto nel circolo delle cose naturali. Giacchè i soprannaturali misteri sono veramente un compimento delle cognizioni naturali, le quali ne sono come i lineamenti e gli sbozzi vuoti di quelli; e quelli come i colori che si mettono sopra le linee dei contorni, o come la carne con cui si rimpolpa e si adegua l' ossatura ignuda di uno scheletro. I veri soprannaturali insomma suppongono e si richiamano ai veri naturali: e a quel modo onde non si può percepire intellettivamente l' elemento reale delle cose se non si abbia insieme l' elemento ideale, così similmente non potrebbe l' uomo essere atto a percepire le cose misteriose della divinità se non fosse ragionevole, ossia se non avesse in sè l' essere ideale, mezzo d' ogni cognizione e percezione intellettiva. Ma dopo di tutto questo, noi vogliamo riflettere che ciò che divide e parte la teologia rivelata dalla naturale non è propriamente la rivelazione puramente formale , ma bensì la materiale . Perchè se non ci fossero state comunicate se non verità, le quali non eccedessero le forze naturali del nostro intendimento, queste non avrebbero per avventura avuto virtù di sollevare l' uomo a uno stato sopra natura; nè altro sarebbe stato se non un aiutarlo a formare più presto, più facilmente e con più sicurezza una teologia e una religione naturale, e nulla più. Iddio in questo caso non avrebbe fatto coll' uomo se non l' ufficio di un sovrano paziente; giacchè di sè non avrebbe mostrato o comunicato nulla più di quello che un savio umano potesse conoscere. Ora la persona che comunica delle notizie, è indifferente se resta ignota, e per chi riceve le notizie non c' è altro interesse che quello che nasce dalla qualità delle notizie stesse. Le cognizioni naturali adunque intorno a Dio, o comunicate agli uomini da qualche savio sorto nel mezzo di loro, o da un angelo, o da Dio stesso (restando questi nascosto), si restano le medesime e non fanno per questo che un ordine soprannaturale di cose sia in mezzo dell' umano genere costituito. E` adunque necessaria una rivelazione materiale , perchè s' abbia una Teologia rivelata che per la sua materia sia distinta dalla Teologia naturale . E qui conviene dichiarare meglio questa materia propria della Teologia rivelata: perocchè insorge facilmente una difficoltà sulla possibilità stessa di una tale teologia, che è questa. Noi non possiamo avere nuove cognizioni senza che abbiamo nuove percezioni , perchè, come abbiamo detto, la percezione è il fondamento di tutte le cognizioni positive che aver possiamo delle cose reali. Ora di Dio noi non abbiamo la percezione in questa vita, il quale, secondo l' insegnamento della cristiana teologia, non si vede che nella vita futura. Non avendo adunque nuova percezione, in virtù della rivelazione, come possiamo aver cognizioni veramente nuove e di un genere essenzialmente diverso da quelle della teologia naturale? Questo argomento dimostrerebbe la impossibilità di una teologia rivelata senza la percezione di Dio, quando non ci fossero altre cognizioni che le positive . Ma ciò che pochi osservano, e che pure è degno della più attenta osservazione, si è che vi hanno, oltre le positive, delle cognizioni che abbiamo chiamate negative o ideali7negative , e che pure sono vere e preziosissime. Ora è appunto questa maniera di cognizioni che viene accresciuta dalla divina rivelazione, anche in questa vita, e di questo accrescimento nasce la Teologia rivelata. Conviene che mostriamo come ciò possa essere: ciò che avviene al cieco nato che acquista il vedere, ci darà la via di farci intendere. Se un cieco nato ricuperasse la vista, egli acquisterebbe, con questo nuovo senso, delle percezioni interamente nuove, di cui prima non si poteva formare imagine alcuna. Egli in queste nuove percezioni della luce e de' colori avrebbe acquistato il fondamento di una serie di cognizioni veramente positive che prima non aveva. Egli allora, con queste nuove sensazioni della vista che venne acquistando, si spiegherebbe tutti i molti discorsi che aveva sentito prima intorno agli oggetti colorati e lucenti. Ma prima di acquistare la facoltà di vedere, quali dovevano a lui sembrare que' discorsi? Intendevali egli? o erano a lui del tutto oscuri e nulli? Que' discorsi, che udiva fare intorno la luce e i colori, non erano prima nè intieramente chiari per lui, nè intieramente oscuri, sicchè fossero composti di suoni al tutto vani e nulla significanti. Egli è certo che delle parole luce , e colore nulla ne intende: nulla ne intende, dico, di positivo ; ma tuttavia intende che esser devono qualche cosa, intende che debbono esser cose che agiscano sullo spirito e vi producano delle sensazioni: non intende la specie di sensazioni che sono, ma intende il genere delle sensazioni, a cui appartengono. Intende ancora che quella specie di sensazioni che formano, non ha nulla di simile colle sensazioni de' suoni od altre da lui sofferite; poichè per intendere questo gli basta osservare che anche le varie specie di sensazioni, che egli patisce, sono tali che non hanno fra loro nessuna similitudine, cioè che i suoni sono interamente diversi dagli odori o da' sapori, non convenendo che in un elemento ideale e non reale, cioè nel genere ideale (1). Tutte le cognizioni insomma che egli acquista della luce, con sentire a parlare di lei, non sono tolte dalla sensazione reale della luce stessa, della qual sensazione egli è privo; ma sono tolte dalla relazione di una cosa che si chiama luce colle sue idee generiche e universali: il che è ciò che mi fa dar loro l' appellazione di cognizioni ideali7negative . La luce dunque e i colori nella loro specie rimangono per lui perfettamente incogniti, perchè non ne riceve l' azione reale nel suo senso, che sola può produrre le idee specifiche. Questo non aver l' idea specifica della cosa è la parte oscura, misteriosa, inintelligibile dei discorsi che vengono fatti dagli uomini intorno alla luce e ai colori. Ma dopo di ciò, egli acquista tuttavia, come dicevo, della luce delle idee generiche e universali. Se non sapesse altro se non che questa luce è qualche cosa, materia di sensazioni che egli non possiede, egli ne saprebbe oggimai qualche cosa e tanto da poter pensarvi. Ma egli oltracciò può conoscere molte altre proprietà della luce e dei colori, risultanti dalle relazioni di essa luce e colori colle cose, di cui ha la percezione, o colle sensazioni di cui è in possesso. Egli può sapere che luce e calore si trovano spesso insieme, e che col calore del sole che egli prova gli altri che hanno sana la vista provano quell' altra sensazione che si chiama della luce (1). Può sapere che la luce è un corpo leggiero e celere (secondo la credenza comune); giacchè di corpo, di leggerezza e di celerità anche egli ha idea: e può eziandio calcolare le leggi di questa celerità e leggerezza, se egli fosse matematico, come il celebre cieco Nicolò Sanderson che spiegò nell' Università di Cambridge l' ottica di Newton. Può sapere che un fascicolo di luce si spezza in sette fascicoli, passando per un prisma di vetro o per altro mezzo prismatico, perchè il prisma di vetro o di acqua e le idee di passaggio e di divisione sono a lui note per gli altri sensi. Insomma può conoscere intorno alla luce un infinito numero di verità, quante possono essere per avventura le relazioni ch' ella si abbia coll' altre cose che cadono sotto i sensi da lui posseduti e colle sensazioni dei medesimi. Questa è la parte chiara per lui della idea negativa della luce e dei colori. Ora dall' esservi in un' idea negativa , quale è quella che può avere un cieco de' colori, della oscurità e della luce, dell' inintelligibilità e insieme una generale e ideale concezione, nascono i misteri : cioè delle proposizioni che, sebbene chiare nei loro termini , tuttavia nel loro nesso riescono inesplicabili e misteriosi per quelli che hanno puramente idee negative delle cose, delle quali si ragiona. Così, per esempio, è un vero mistero per un cieco nato questa proposizione che gli dice un veggente, e gliela dà per vera:« Io percepisco una torre prima di avvicinarmi ad essa, ma essendo ancora lontano da lei più di trecento passi, e mi accorgo che sulla torre stanno delle campane appese, e sulla sua sommità una palla e una croce«. - Il cieco intende benissimo il significato di questa proposizione, egli intende ancora il senso di tutte le parole di cui ella è composta, perchè sa che cosa voglia dire percepire , che cosa è torre, distanza, campane, sommità, palla, croce. Ma che per ciò? Intende egli per questo come una simile affermazione sia possibile? Non gli sembra anzi un assurdo il percepire una cosa che nè si palpa, nè si odora, nè si assapora, nè si ode? Questo per lui è al tutto impossibile: non può imaginarsi in nessun modo la spiegazione di questo enimma: egli può solo crederlo a chi l' afferma, intenderlo non mai. Per questa ragione l' astronomia pel cieco nato è un puro mistero e non può impararla se non per via di fede a quelli che veggono le stelle e gli parlano de' loro apparimenti e movimenti. Ora lo stesso avviene circa la teologia rivelata, relativamente alla parte sua materiale . La rivelazione ci narra cose nuove di Dio, cioè di un Essere che noi non percepiamo in questa vita, di che la oscurità e la chiarezza insieme di cui si mescolano le verità rivelate, e l' esser la fede alla rivelazione la base di tutta la rivelata teologia. Questa dottrina è nelle divine Scritture perpetuamente insegnata. Esse non dànno all' uomo, finchè si trova in questa vita, il potere di percepire pienamente Iddio stesso, che è chiamato un Dio nascosto nell' antico Testamento; e nel nuovo è rappresentato in un padrone che, dopo aver distribuiti diversi capitali da trafficare a' suoi servi, se ne è partito per un viaggio in lontane regioni. Era questo un vero della tradizione più remota, come ce ne fa fede quella sentenza che si sta nell' Esodo: « Nessuno vedrà Iddio e vivrà« (1). » E S. Giovanni dice espressamente: « Nessuno ha mai veduto Iddio: l' Unigenito Figlio che è nel seno del Padre egli l' enarrò« (2). » Questo ultimo passo di S. Giovanni non può essere più acconcio all' uopo nostro, e alla similitudine del cieco, di cui abbiamo fatto uso. Egli ci dice manifestamente che, non avendo nessun uomo veduto mai Iddio, quello che ci narrò tante cose intorno alla divinità da lui veduta e a noi nascosta, è quegli che sta nel seno di Dio, che è Dio stesso, che è l' Unigenito Figliuolo di Dio Padre, e a cui perciò sono aperti e palesi tutti i tesori della divinità, in cui comunica. Tale è la rivelazione che venne fatta di una cosa a noi non percettibile, cioè di Dio, da tale che l' ha percepita: rivelazione che necessariamente deve riuscirci parte chiara e parte oscura e inesplicabile, che deve contenere per noi de' meravigliosi misteri, ai quali non possiamo altro che credere, come il cieco è astretto di credere a quelli che veggono, intorno alle proprietà e alla natura de' colori e della luce. Che cosa dunque più ragionevole, che più necessario della fede? Che più ragionevole che il cieco presti fede al veggente circa gli oggetti della vista? Egli deve certamente per l' udito raccogliere la narrazione che gli è fatta intorno alle cose colorate e visibili, perchè questa è l' unica via di venire in qualche cognizione, sebbene oscura e misteriosa, di esse. Ora rispetto alla divina natura i ciechi siamo noi, il veggente, che ci parla è Dio stesso, è Gesù Cristo suo Unigenito. Tale è il sistema della fede cristiana, della fede cieca: nulla di più ragionevole, nulla di più evidentemente necessario della fede cieca. Dal non percepire noi Iddio in questa vita, ma solo sentire ciò che ne vien parlato da chi lo vide, deve succedere necessariamente, che in ciò che ci vien narrato di Dio a noi appariscano delle oscurità e dei misteri. Ma questi lungi dal togliere o diminuire la ragionevolezza dell' assenso che noi diamo alle divine cose, sono anzi nuove prove della verità delle cose rivelateci: perocchè è la ragione quella che ci mostra la necessità, che a quelli che sono privi di un senso debbano riuscir misteriosi e inesplicabili que' discorsi che odono intorno agli oggetti di quel senso di cui mancano (1). D' altra parte questa fede ingrandisce infinitamente l' uomo, perchè lo avvisa che egli è limitato nelle sue percezioni e che vi hanno delle nature, degli esseri, vi ha un essere infinito, che si toglie intieramente al suo sentimento. Questo lo allarga nelle immense regioni che egli non conosce, ma che però con questo viene a sapere che esistono, e lo impedisce di restringere miseramente il tutto a sè stesso, chiudendosi nella sua piccola sfera, quando ha una natura creata per non avere limiti di sorte alcuna. L' Infinito poi volle in quest' atto di fede prestato alla sua parola, a questa sua parola misteriosa e inesplicabile, ricevere dall' uomo il più accettevole sacrificio: perocchè con quel medesimo atto l' uomo e nega sè stesso, confessando la propria limitazione, e confessa Iddio, riconoscendolo, anche non visto, per quell' infinito Essere che pur è. La materia della Teologia rivelata adunque primieramente è formata di alcune proposizioni intorno a Dio che, relativamente a noi, fino che siamo in questa vita, non riescono che in cognizioni ideali negative; e le quali comprendono necessariamente de' misteri, cioè delle affermazioni, nelle quali, sebbene s' intendano i termini, presi in separato, e anco si concepisca il nesso de' medesimi, tuttavia non si sa spiegare nè intendere come questo nesso sia realmente tale, perchè l' intendere come esigerebbe la percezione dell' oggetto, di cui si afferma, la quale a noi manca. Oltre queste verità poi, la Teologia rivelata comprende un' altra specie di verità, cioè le verità non razionali, ma positive ossia storiche, come la creazione, l' incarnazione, e altre storie sacre, cioè quei fatti che Iddio ha operato cogli uomini, i quali fatti non sono in sè stessi necessarii, ma dipendenti dalla divina volontà e arbitrio. Le idee o concezioni di questi fatti sono, almeno in gran parte, positive e non eccedono la cognizione che si fonda sulle percezioni che naturalmente abbiamo delle cose. Ma ciò che è soprannaturale in essi si è l' essere realmente avvenuti questi fatti, poichè l' avvenir loro, piuttosto che il non avvenire, dipese non da una legge della natura, ma da un decreto della divina volontà. E oltre ciò il miracoloso che in essi si racchiude, come pure il sistema dei medesimi, i fini o l' intendimento, a cui furono ordinati e operati. Si può adunque dire che la Teologia rivelata, in quanto si divide dalla naturale, compongasi di due maniere di verità, cioè: 1 di verità necessarie , le quali sono nella concezione dell' uomo ideali7negative ; e 2 di verità contingenti , la concezione delle quali è positiva , cioè tale di cui hassi la percezione. Ciò che abbiamo detto fin qui della fede, base della Teologia rivelata, rende chiara quella verità che si contiene nel sistema della cristiana teologia, cioè: « che la fede può aversi anche in un uomo che non si trovi attualmente in istato di grazia« (1). » E veramente le idee o concezioni che porge la rivelazione, posto che sieno communicate agli uomini, non hanno niente che ecceda la facoltà apprensiva della ragion naturale, appunto perchè tutto ciò che hanno in sè di soprannaturale è negativo, cioè non è che indicato con segni o idee naturali e note, come in ragion d' esempio in un problema determinato d' algebra le incognite sono espresse con quantità perfettamente cognite in un certo modo legate insieme fra loro. Sicchè per questa parte ciò che la rivelazione propone a credere può essere ricevuto nelle menti di tutti gli uomini che non hanno ancora la grazia, come in vero a tutti gli uomini fu ordinato da Cristo che fossero predicate. E certamente tanto quelli che assentono alla dottrina esternamente rivelata che vien loro annunziata, quanto quelli che la rifiutano, la concepiscono, la ricevono egualmente nelle menti, e intendono egualmente quelle proposizioni di verità che vengono loro poste innanzi: e appunto perchè egualmente concepiscono quelle verità le giudicano altresì, e gli uni hanno merito portando d' esse un giudizio favorevole, gli altri hanno demerito portandolo contrario. La semplice concezione adunque di queste verità non eccede i confini della ragion naturale, perchè non si dànno con esse nuove percezioni, nè per avventura nuove idee specifiche, ma solo si scuopre ed insegna nuove relazioni delle idee già note, un nuovo nesso onde risultano delle verità recondite, le quali pur non si veggono, come diceva, in sè stesse, ma ne' loro elementi, o termini co' quali sono quasi come in cifra e in enimma disegnate (1). Oltre la concezione delle verità rivelate per avervi fede in un uomo egli deve formare il giudizio col quale assente e dà credenza alle medesime. Or anche questo può esser fatto dalla naturale sua facoltà di giudicare e potenza di volere: giacchè la rivelazione esterna a cui presta l' assenso può essere concepita, come diceva, colle forze naturali: e a concezioni che non eccedono la virtù naturale di conoscere il dar l' assenso non è atto soprannaturale e non eccede la natural virtù del volere: non è atto molto diverso da quello che fa il cieco nato, per continuarci colla nostra similitudine, quando crede alle parole di quelli che gli parlano de' colori. Egli è bensì vero che il termine ultimo a cui finisce quest' atto è oggetto soprannaturale, ma, come diceva, l' esser concepito colle potenze che s' usano per le cose naturali gli toglie il dare, che farebbe se fosse altramente, all' atto del credere una soprannaturale energia. Perocchè l' atto di questa fede non prende l' elemento soprannaturale che implicitamente, all' istesso modo come chi dicesse« io credo a tutto ciò che afferma Tizio«; col quale atto se Tizio afferma cosa sopra natura, viene a darsi fede anche a questo per un cotal conseguente, senza però bisogno che queste cose soprannaturalmente sieno da colui concepite come tali (2). Indi è che le Divine scritture dicono: « anche i demoni credono« (3) »: mostrando con ciò non averci bisogno della grazia semplicemente per credere. E Gesù Cristo dice: [...OMISSIS...] . Le verità proposte dalla rivelazione esterna da credersi agli uomini sono, come abbiamo veduto, parte ideali7negative (verità necessarie, il dogma della Trinità, ecc.), parte positive (verità contingenti, la venuta di Cristo, ecc.), cioè tali di cui si ha o si ebbe la percezione, come della Chiesa, dell' umanità di Cristo, ecc.. La concezione di queste verità, abbiamo detto, non eccede le forze della ragione naturale, e l' assentire alle medesime non eccede le forze della naturale volontà. Ma tutto ciò non basta però ancora a caratterizzare e distinguere compiutamente la fede naturale dalla fede soprannaturale. Non è ancora indicata quella nota che tocca la sua essenza, cioè che indica che cosa sia questo essere di soprannaturale, che ha la fede di che parliamo. Perocchè se v' ha una fede naturale, può darsi anche un amore naturale, forse in grado minore ma pure un amore, possono darsi anche delle opere naturali e buone fatte in conseguenza di quell' amore. Egli è adunque da ricercarsi in che essenzialmente differisca la fede soprannaturale dalla naturale; ed essendovi due fedi, così due giudizi pratici, due amori, due maniere di operazioni naturali e soprannaturali, è da vedere qual sia quella essenza del giudizio pratico, dell' amore e dell' opera soprannaturale, della quale è privo il giudizio pratico, l' amore e l' opera naturale. Per veder questo, che cosa è, io domando, l' ordine naturale? che cosa è un' operazione dell' uomo naturale? - Quella operazione che l' uomo fa colle forze della sua natura, o spontaneamente, o stimolato e mosso da degli agenti naturali, come sono tutte le cose che compongono quest' universo e che per la via de' sensi influiscono sull' uomo, e un' operazione naturale. Tutte le cose dunque dell' universo sensibile che ci circonda, e noi stessi in esso, con tutte le mutue azioni che derivano da questo complesso di enti e i loro effetti, è ciò che forma quello che si chiama l' ordine naturale . Se dunque una cosa estranea a quest' ordine, una cosa superiore al medesimo, se Dio in una parola entra colla sua azione in quest' ordine, con una azione dico di tal fatta che non è l' azione di nessuna delle forze degli esseri creati; quest' azione di Dio introdotta nell' universo è un elemento soprannaturale, cioè d' un genere suo proprio, un elemento inconfusibile colla natura, e infinitamente superiore alla medesima. Ora applichiamo adunque questa nozione all' operare morale dell' uomo, secondo il cristiano sistema. Quando l' uomo concepisce delle verità, assente praticamente alle medesime, ama le azioni a quelle rispondenti, le produce e fa tutto ciò colle sue forze, o mosso dai naturali stimoli della bellezza naturale di quelle verità e di quelle azioni, dai beni che n' aspetta, o da altri eccitamenti esteriori quali si sieno; allora egli opera naturalmente perchè nessun agente estraneo alla natura delle cose create, nessuno stimolo divino, che eccede (la natura) ha influito in lui e lo ha mosso. E converso, se noi, la nostra volontà subisce l' azione di uno stimolo diverso da tutti quelli degli oggetti naturali, soprannaturale in una parola, verso il quale ella è passiva, dal quale è sollecitata e mossa, in tal caso comincia in noi uno stato nuovo, noi siamo entrati nell' ordine soprannaturale, in quell' ordine che nella lingua della cristiana teologia si appella l' ordine della grazia : allora la nostra azione, sebben nostra, ma per lo stimolo che l' ha mossa si suol pur chiamare, e a ragione, soprannaturale. Di questo stimolo parlano le sacre carte, quando narrano la conversione di S. Paolo: « Ti è duro, dice Cristo, calcitrare contro lo stimolo« (1); » e nel discorso di Santo Stefano al Concilio degli Ebrei, questi sono chiamati duri, che resistono al pungolo dello Spirito Santo: « Duri di cervice e incirconcisi di cuori e di orecchi, voi sempre resistete allo Spirito Santo, come i padri vostri, così anche voi« (2). » E conviene osservare, che se non si trattasse qui di un' azione interna di Dio nell' anima dell' uomo, di un' azione reale ; mai dentro l' uomo esser ci potrebbe niente di veramente soprannaturale, e lo spirito dell' uomo non sarebbe mai veramente sollevato a Dio e con lui congiunto, per quali si fossero gli emblemi esterni, i segni, le parole, le cerimonie, i riti. Tutte queste operazioni esteriori, dove nulla fosse operato nell' animo umano di nuovo e di diverso da ogni cosa naturale, sarebbero segni di religione e apparenze, non mai formerebbero una religione interiore nell' uomo, diversa veramente dalla naturale. Quindi l' operazione di Dio nell' interiore dell' uomo, questa operazione di grazia è un dogma del Cristianesimo, è propriamente quel dogma fondamentale su cui il Cristianesimo stesso si erige come sopra sua base, è quel dogma col quale la religione soprannaturale comincia, è l' essenza di essa religione soprannaturale, quella essenza che ricercavamo, di cui non v' è nulla di simile nella natura, nulla di simile in una fede, in un assenso, amore ed operazione naturale. Tutte le divine Scritture sono piene di questa grande verità, e lo stabilirla è lo stesso scopo delle Scritture, perchè è il medesimo che lo stabilire una religione soprannaturale. [...OMISSIS...] E Gesù Cristo mostrò che non si potea essere Maestro in Israello senza conoscere questa operazione interiore di Dio, quando parlando con Nicodemo dello spiritual nascimento che avviene per essa, gli disse: « Tu sei maestro in Israello ed ignori tai cose?« (2). » Pelagio poi, che il primo insorse nella Chiesa contro l' operazione interiore della grazia, sebbene ammetteva tutti gli esterni doni di Dio e la rivelazione stessa, a malgrado di questo fu stimato distruggere l' essenza del Cristianesimo e non ne lasciare che il nome vuoto di significato, perocchè toglieva via l' azione interna di Dio nelle anime. « Hanc debet Pelagius , » dice S. Agostino parlando di questa reale interna azione, « gratiam confiteri, si vult non solum vocari, verum esse Christianus (3) ». L' essenza del Cristianesimo è d' essere una religione soprannaturale, e l' essenza d' una religione soprannaturale dell' uomo è la reale azione della grazia nell' anima umana (4). Che diremo dunque del protestantesimo che nei nostri tempi s' è risoluto a negare i misteri cristiani, e a negare qualunque azione soprannaturale nell' interiore dell' uomo, riducendo tutto così alle forze della natura? Che egli non è più cristianesimo, ch' egli non ha più diritto di tenerne il nome, che i suoi seguaci sono usciti dalla grande comunione della cristiana società. Ma gli stessi cattolici non insuperbiscano per questo, non sieno soddisfatti del solo aver questo nome: io veggo fra noi stessi una quantità di persone irrigidite nella carità, dissipate, estenuate nella fede, a cui mancan quasi le forze da sollevarsi oltre il confine della natura, e che pare non sappiano oggimai più spingere i lor pensieri a concepir pure una potenza invisibile sì ma tuttavia infinita, posseditrice dell' uomo, la qual signora di sua natura v' insinui luce e calore, e non sappiano più credere a questa potenza: delle persone insomma che parlano e pensano alla religione, ma i lor pensieri e le parole non si ravvolgono mai che al di fuori da quel sacrosanto segreto dove ha la religione stessa sua sede e regio abitacolo: e parlano e pensano i riti del culto o la morale umana, o gli effetti salutari che dalla religione ridondano nella società: ma tuttavia la religione stessa, che in una divina real virtù ed efficacia consiste, che Agostino appella interna, occulta, mirabile ed ineffabile (1), non veggono mai, non la prendono mai veramente ad oggetto de' loro pensieri e de' loro religiosi ragionamenti. Il perchè oggimai, chi non vuole ingannarsi a sapere, non se alcuno si chiama cristiano, ma se è veramente, conviene far uso di questa tessera:« Chi dà fede ad una non ideale ma reale azione di Dio nell' anima per la quale questa sia mossa alla fede, carità e buone opere, questi tiene la cristiana dottrina; ma colui, il quale ammettendo anche l' esterna rivelazione, non presta però vera credenza a quella interna divina operazione, non professa punto il cristianesimo« (2). La fede che abbiamo fin qui descritta è bensì una vera fede come la chiama il Concilio di Trento, ma non è necessario che sia sempre anche una fede viva . Della fede viva parlò il Concilio Arausicano quando definì contro i Semipelagiani la necessità della grazia anche per il principio della fede (3): della fede viva parlò pure il Concilio di Trento, quando fece questo canone: [...OMISSIS...] V' ha dunque una fede che è opera di Dio nell' uomo, colla quale, se l' uomo non resiste colla sua mala volontà, viene conferita la grazia della giustificazione, e onde germoglia la nostra eterna salute. Di tal fede è che fu detto: [...OMISSIS...] . L' esito adunque di questa fede è la salute eterna (7). Cristo poi enumera e dichiara gli effetti di questa fede viva , e anche in generale della fede, nel capo XIV di S. Giovanni. Il primo di questi effetti è una specie di onnipotenza che vien data al vero credente: [...OMISSIS...] . Il secondo effetto è l' efficacia che da una tal fede acquista l' orazione, mezzo universalissimo di ogni grazia: [...OMISSIS...] . Questi due primi effetti della fede vengono dalla fede stessa (2), ma il terzo effetto non viene dalla fede come fede, ma dall' esser fede viva , cioè dall' aver congiunta la carità. Perciò Gesù Cristo continua a dire, così esponendo il terzo effetto che sono le buone opere: [...OMISSIS...] . Il quarto effetto è l' unione con Dio per mezzo dello Spirito Santo: [...OMISSIS...] . Nelle quali parole sono dichiarate le proprietà di questo ultimo effetto, cioè una consolazione , una perseveranza , un amore incessante della verità , un lume o cognizione tutta soprannaturale, una vicinanza , un possesso . Che cosa è dunque che fa sì, che l' assenso nostro a quelle verità sia soprannaturale? qual' è quella nota, quel carattere pel quale un assenso naturale si distingue da un assenso soprannaturale? Se noi consideriamo la differenza fra la fede morta e viva (l' assenso che si dice dato naturalmente alla verità rivelate, e l' assenso che si dice dato alle medesime soprannaturalmente) nei suoi effetti, essa consiste nell' essere questo assenso pratico ed operativo ; e nell' esser quello puramente speculativo e sterile : il primo perciò scompagnato da opere buone, e il secondo di opere buone fornito. [...OMISSIS...] E ecco in che modo descrive questo Apostolo i due assensi, l' uno solo speculativo e l' altro pratico, che si dà alle verità rivelate colla nostra fede: [...OMISSIS...] . Nel quale passo si vede come l' addentrarsi col pensiero nella legge divina, il meditarla, è il mezzo pel quale l' uomo rende pratico il suo assenso; mentre il solo crederne, quasi di volo, la verità, e così leggermente vedutala passar oltre, non può metterla nel cuore profonda, e farle di là portare i buoni effetti delle opere. Ma perchè questa meditazione della legge? questo riguardare in essa con attenzione e con assiduità? Certamente a percepirne la bellezza, a suscitarne in noi l' amore: questo amore, che come è effetto del meditarla, così è anco dello stesso meditarla insaziabilmente cagione: perchè noi non possiamo torci dal vagheggiare ciò che amiamo; ed è per alcune faville d' amore che spande nell' animo che la divina grazia ci rende meditativi della santa legge e delle cose divine, nè mai sazi di contemplarle. San Paolo, descrivendo la fede viva, la chiama « una fede che opera per la carità (2). » Ed è questa quella fede di cui dice che «« vive il suo giusto« (3). » Le opere buone adunque, la carità che le produce, e quel giudizio pratico che è il principio della carità (4) son tre caratteri che accompagnano la fede viva o soprannaturale. Io credo però che la fede che rimane in un uomo battezzato abbia qualche cosa di particolare, e in un senso più proprio ancora si possa chiamare morta . Il Battesimo ha impresso in lui il carattere indelebile , che rende tanto più colpevole e riprovata la sua incredulità. Oltracciò, s' egli è stato messo alla grazia, se ha ricevuto lo Spirito Santo, io credo probabilmente che nel suo spirito rimangano delle traccie profonde di questi doni soprannaturali, le quali aggravano la sua condanna: traccie che si possono in qualche maniera chiamare soprannaturali, perocchè trassero l' origine da un soprannaturale principio, e che forse in qualche maniera autorizzano a nominare in lato senso soprannaturale ancora quella fede morta che gli rimane. Riassumendo ciò che abbiamo detto, la Teologia dunque appartiene alla teoria, la Religione alla pratica: il principio della teologia è l' essere ideale, il principio della religione è l' essere reale: la Teologia appartiene all' ordine delle cognizioni, la Religione all' ordine delle azioni. La Teologia naturale è composta di cognizioni negative e a cui giunger può il naturale ragionamento degli uomini: la Teologia rivelata è composta di cognizioni negative anch' esse, ma tali a cui, quanto alla parte materiale della rivelazione, il naturale ragionamento non giunge, ma sono positivamente comunicate agli uomini. La Teologia rivelata si oppone adunque alla naturale, come si oppone il naturale (razionale) al positivo . La religione naturale all' incontro si oppone alla religione soprannaturale, come si oppone il naturale (l' azione naturale) al soprannaturale (all' azione soprannaturale). Stabilendo noi questo concetto della religione soprannaturale, egli è evidente che non facciamo consistere la sua base in nulla di esteriore all' uomo: ma che poniamo il fondamento nell' uomo interiore come lo chiama S. Paolo (1). Così Gesù Cristo avvertiva che questa religione (e la chiamava regno di Dio per la possanza che esercita Iddio nelle anime) non si poteva additare in nessun luogo esterno, nè dire: ecco qui, ecco là il regno di Dio; perchè stava al di dentro dell' uomo. [...OMISSIS...] Nè solamente la Religione soprannaturale è al di dentro dell' uomo, ma anche in generale il concetto stesso di religione sparisce e si annulla, ove si tolgano via gli atti di un culto interiore che presti l' uomo alla divinità. Quindi i riti esterni del culto per sè soli non formano, in modo alcuno, una religione, se non vi si accompagnano i sentimenti dell' uomo. Questi sentimenti poi non possono non essere appoggiati a una credenza, a delle cognizioni e opinioni intorno le cose divine, in somma ad una qualunque teologia. Questa dottrina poi che sottostà alla Religione, questa teologia, vera o falsa, che è sempre dalla religione supposta, può risultare o di pure idee negative, o essere anco vestita di simboli, rappresentazioni, miti. Ma questo addobbamento e talora questo ingombro di figure e immagini non costituisce che la parte accessoria e accidentale della teologia medesima, una parte che ha bisogno della prima, come il ricamo suppone il drappo, sopra cui si rileva, o il colore suppone il corpo, dal quale viene rimbalzato agli occhi di chi lo mira. Le quali cose ho voluto toccare per rimuovere quei falsi concetti di religione che furono proposti ne' nostri tempi. La quale religione è poi assai agevol cosa combatterla, quando si descrive per quella che non è, e, creato un ente odioso o frivolo o assurdo, si denomina poi esso medesimo Religione: come vediamo nei nostri tempi avvenire senza posa ne' libri di quelli che o la religione non istudiano o non l' amano. Ecco pertanto i due falsi concetti che furono dati della religione negli ultimi tempi, concetti a cui la distruzione di ogni Religione assai facilmente seguirebbe, se potesser valere. Beniamino Constant la ridusse al solo sentimento religioso, e la divise così dalla dottrina, da una teologia che deve servire di sostegno e giustificazione di quel sentimento, giacchè questo sentimento deve essere ragionevole: altramente l' esser cieco, sarebbe il medesimo, che renderlo dispregievole e arbitrario. Vittore Cousin (1) la ridusse alla parte simbolica della teologia, separando da questa le pure concezioni e denominando queste filosofia : non riflettendo che un simbolo cessa anco di essere simbolo, se nulla segna o rappresenta; e che quindi i simboli non possono mai stare dalle pure concezioni divisi, sebbene queste possano (fino a certo segno) star divise da quelli. Oltrachè egli dà il nome di religione a quello che non è veramente che una teologia . La Religione non è dunque una pura speculazione, una pura teologia: molto meno è ammasso di simboli. La Religione non è nè pure un puro sentimento , scompagnato da concezioni e credenze . Ma la Religione è un culto interiore; essa è« degli atti interni di adorazione e preghiera che si porgono alla divinità, e che nascono in conseguenza d' idee e credenze (talora involte in imagini e simboli ), dalle quali idee , quasi da luce calore, escono i sentimenti che sono poi cagione prossima di quelle interiori azioni di culto: le quali azioni (pel natural nesso dell' interno dell' uomo coll' esterno) si producono anche all' esterno e prendono la forma di preghiere vocali, riti e cerimonie religiose, che, quando sono abbracciate da tutto un popolo, diventano popolari e pubbliche«. Non si possono scompagnare e dividere gli elementi che formano la Religione, senza distruggere la Religione medesima. Essa non esiste se non allorquando esistano le azioni interiori di culto, e perciò queste sono la sua base e, se si vuole così, la sua essenza: ma esse azioni sono legate necessariamente : 1. ai sentimenti; 2. alle idee; e accidentalmente (se mi si permette di così dire, che meglio si direbbe per una loro conseguenza ) ai riti esteriori. La Religione adunque aggiunge alla Teologia , è qualche cosa più di lei, è cosa che la perfeziona e compisce, riducendola alla pratica, come l' azione reale compisce il disegno mentale, e l' idea di una casa che hassi a fabbricare colla erezione stessa della casa viene adempita. Non convien dunque straziare il concetto della Religione, separandolo da quelle parti che gli sono essenziali o concomitanti o accessorie. Se tutti per tanto gli elementi indicati entrano nel concetto generale della Religione, ove poi si discenda al più speciale della religione soprannaturale , scuopresi un nuovo elemento che conviene aggiungere ai precedenti, e che forma la differenza, per la quale la soprannaturale religione dalle altre naturali si divide e distingue: e questa è quella azione reale che Dio stesso opera nello spirito dell' uomo. Il perchè questa religione abbraccia di più della naturale; è quell' elemento divino che si suole appellare col nome di grazia , è quello che corona e compisce tutta la serie degli altri elementi, e reca questo tutto , per così dire, che religione si nomina, all' ultimo suo perfezionamento. Il perchè gli elementi che entrano a formare il concetto della religione soprannaturale, riassumendoli qui tutti, sono i seguenti: 1. Una Teologia , ossieno delle idee intorno alla divinità (1). Non è poi essenziale che queste idee sieno vestite di simboli e imagini. 2. De' sentimenti religiosi, nati in virtù di quelle idee. 3. Delle azioni religiose e interiori, cioè di culto. Queste azioni vengono naturalmente a prodursi anche al di fuori in riti e cerimonie, per le quali nasce il culto esterno (2). 4. Un' azione divina , che congiunge lo spirito umano ad intima e reale unione colla divinità. Recherò in prova di questa tesi quello che io credo il più autorevole raccoglitore della cristiana tradizione, S. Tommaso d' Aquino. Eccone la dottrina. Le potenze dell' anima, dice S. Tommaso, sono molte; ma l' essenza dell' anima è unica: quelle dunque sono diverse da questa, ma da questa derivano come tralci da un unico ceppo. Come poi l' essenza dell' anima è il principio comune delle potenze, così le potenze sono altrettanti principii delle varie maniere di operazioni che alle singolari potenze convengono. Ora le operazioni o azioni son buone o cattive, morali o immorali; e questa bontà o malizia delle azioni si deve riferire e riportare ai principii delle azioni stesse: quindi le potenze sono la sede delle virtù e dei vizii. Ma nell' ordine soprannaturale la grazia per sè considerata non è già una virtù od un vizio particolare, ma bensì il principio e la radice di tutte le soprannaturali virtù (1). Il perchè la grazia deve informare e perfezionare lo stesso principio delle potenze, cioè l' essenza dell' anima, giacchè le singolari potenze sono solamente la sede delle virtù singolari, e non di ciò che è il comune fonte di tutte. Ecco le sue parole: [...OMISSIS...] . Fermiamoci a sola quest' ultima parola di creazione che si applica dalle divine Scritture all' effetto che fa nell' uomo la grazia. S. Giacopo dice: « Volontariamente ci ha generati colla parola di verità, acciocchè siamo un cotal principio di una creatura sua« (3). » Nelle quali parole è mirabile quanto chiaramente sia espressa la nuova esistenza che riceve l' uomo dalla grazia. Non si contenta di dire che diventiamo per la grazia una creazione di Dio, ma si bene dice il principio di una creatura, per esprimere che è tutto nuovo ciò che pone la grazia, fino il principio dell' uomo dalla grazia rinnovato: e non dice diventiamo , ma siamo , cioè cominciamo ad essere , come le creature che ricevono l' essere dalle mani del Creatore, le quali pur allora sono , non trapassano da uno stato all' altro, non diventano diverse da quello che erano prima. E questo è parlare costante degli scrittori del nuovo Testamento, massime di S. Paolo. Egli afferma che noi siamo creati in Cristo Gesù (1): parla dell' uomo nuovo creato nella giustizia e nella santità della verità (2): e ripete frequente che siamo creature nuove (3). Non si poteva trovare una parola più vera di questa, più acconcia a esprimere l' operazione mirabile della grazia nella essenza dell' anima umana (4). Nella essenza dell' anima adunque, nell' IO è la operazione della grazia: in questo IO che è l' identico soggetto di tutte le potenze, perchè io medesimo che penso, sono quello altresì che vuole, che ama, che patisce, che opera: diverso è l' atto del mio pensare da quello del mio volere, diverso è il mio patire dal mio fare; ma non diverso, ma sempre identico e unico sono IO, a cui tutti questi atti appartengono, come a loro soggetto e principio. Conviene pertanto ascendere alla concezione di questo sentimento sostanziale, radicale e comune alle potenze tutte, che col nome di IO si segna; e allora solo si ha concepita quella essenza dell' anima, di cui parliamo, e dove in prima si eseguisce la mirabile operazione della divina grazia. Dottrina cristiana è che l' anima sia il soggetto della grazia in quanto essa appartiene alla specie delle nature intellettuali o razionali (5). Indi è che la grazia non è propria che dell' uomo, e non degli esseri inferiori: essa è qualche cosa di più eccellente a tutto ciò che ha l' uomo per natura; e perciò perfeziona l' uomo nella parte sua più elevata, sollevandolo via più su. Ma or da questa dottrina, che la grazia influisca immediatamente nell' uomo in quanto egli è intellettivo, riceve nuova luce una verità filosofica di molto valore, cioè che« l' intelletto, propriamente parlando, meglio che una potenza si deve chiamare un elemento della essenza dell' anima umana«. Ciò che non meno è conforme alle dottrine dell' Angelico, che alle ricerche ideologiche da me tentate e rese pubbliche. Il che gioverà che veggiamo in un distinto paragrafo. Che questo sia pensiero dell' Aquinate, si può rivelare dal seguente ragionamento: L' anima umana è di una specie diversa da quella de' bruti pel solo intelletto . Ora, secondo l' Angelico, il fondamento della specie delle cose è la loro essenza . Dunque l' intelletto appartiene all' essenza dell' anima umana. La proposizione minore di questo sillogismo è dottrina espressa dell' Angelico dottore. [...OMISSIS...] e non per qualche potenza solamente e per qualche accidente, appunto perchè è intelligente. Questa dottrina poi consuona al tutto con quella che io ho esposta nella Ideologia . Tra le essenze delle cose io ho messo in primo luogo quelle appunto che chiamo specifiche , perchè costituiscono le specie delle cose (2): ed è di queste che parla S. Tommaso. E facendoci in particolare alla intelligenza umana, io ho dimostrato che questa intelligenza non è che la visione costante dell' essere ideale ; che l' essere ideale, collo starsi presente e quasi affisso perpetuamente allo spirito nostro, crea in lui la ragione la quale non è altro che la potenza di usare dell' essere mentale, giacchè ogni ragionamento non è altro, ridotto all' espressione sua semplicissima, se non un' applicazione, un uso che fa il nostro spirito dell' essere ideale, di questa idea maravigliosa che è l' idea di tutte le idee, o secondo la frase aristotelica, la specie di tutte le specie ; poichè ciò, per cui ogni altra idea è idea, è per esservi mescolata la concezione dell' essere, tolta la quale, è tolta ogni idea, ogni pensiero (1). Ora se l' intelletto è formato da una visione permanente, non si dà in lui discorso da una cosa a un' altra; ma la sua indole è quella di avere il guardo fisso e immobile sempre a quel medesimo oggetto: il che non è proprio delle potenze. Perocchè la potenza , come indica il suo nome, esige una certa sfera, nella quale si muova, passando da uno stato all' altro, da quello di mera potenza a quello di atto, e cessando da questo, senza punto cessar essa nè distruggersi: il che è proprio, fra le potenze intellettive, della ragione . L' intelletto all' opposto è perfettamente immobile, e, se non gli viene mutato l' oggetto, egli per sè nè si rimuove da quel guardare equabilmente in esso, nè può in alcun modo rimuoversi o veder altra cosa, consistendo esso stesso in questa immobilità, per legge di sua natura (2). L' azione adunque della grazia nell' anima è un' azione nella parte sua intellettiva, è l' intelletto che nell' uomo viene accresciuto con quell' azione; e per questo alcune espressioni delle divine Scritture sembra quasi che parlino di un intelletto nuovo che l' uomo acquista mediante la grazia. Quando il reale Salmista diceva, a ragione di esempio: « Dammi intelletto e imparerò i tuoi comandamenti« (3); » non era che gli mancasse l' intelletto comune agli uomini tutti, ma dimandava quell' intelletto che aggiunge la grazia. Neppur dimandava egli un aumento della potenza della ragione , perchè questa gli veniva rinforzata e rinnovata per sè stessa, quando l' intelletto, da cui ella nasce, fosse invigorito e accresciuto: e perciò dice:« imparerò i tuoi comandamenti«; parole che esprimono appunto l' ufficio della ragione che è quello di ragionare e discorrere sulle cose e rilevarne i loro rapporti. Più ancora è chiara questa domanda del principio intellettivo, essenza della umanità, in queste altre parole del medesimo salmo: « dammi intelletto » (questa è l' essenza dell' anima intellettiva) «e io scruterò la tua legge » (questa è la ragione rinforzata che ne consegue), «e la custodirò in tutto il mio cuore« » (questa è la efficacia dell' amore che si aggiunge sempre a quella cognizione, non fredda, ma tutta calda, che si ha per grazia) (4). L' analisi delle idee dimostra, che il primo elemento intellettivo che concepir si possa in una natura, è la visione dell' ente. Per ciò, ove questa visione mancasse, non rimarrebbe più in quella natura niente d' intellettivo e di razionale (1). Un' anima, ove non fosse nulla d' intellettivo e di razionale, sarebbe un' anima irragionevole, qual' è quella dei bruti. Ciò posto, in Ideologia non vi hanno che due sistemi, l' uno che fa nascer l' uomo animale bruto e che gli dà la potenza di diventar ragionevole, di diventar uomo; questo fu il sistema de' sensisti: l' altro che fa nascer l' uomo uomo, cioè ragionevole; questo è il sistema che ammette congenita nello spirito umano l' idea dell' essere perchè non v' ha nulla d' intellettivo prima di questa idea; sicchè per lo meno conviene ammettere d' innato questa idea, acciocchè nell' uomo ci abbia l' elemento intellettivo. L' assurdità del primo di questi due sistemi si pare da sè stessa. Il secondo solo poi è compatibile insieme col sistema del cristianesimo, il quale suppone sempre che l' uomo sia uomo, cioè dotato del principio intellettivo fino dai primi istanti della sua esistenza. La Religione cristiana suppone che fino da quei primi istanti egli sia altresì suscettibile di accogliere la grazia in sè medesimo, il che è quanto dire, di partecipare della congiunzione colla divinità. Ora abbiamo veduto nell' articolo precedente che la grazia opera immediatamente nel principio intellettivo dell' uomo e esalta questo principio, l' illustra, lo reca all' intima unione coll' Essere Primo, che, nobilissima natura come è, non può comunicare immediatamente se non con ciò che vi ha di più nobile nell' uomo, con quell' elemento razionale, del quale S. Agostino non trovava nulla di più elevato, fuori che lo stesso Dio, e che riconosceva come un raggio della stessa divinità (2). Sebbene l' azione della grazia si operi nella parte intellettiva dell' anima, tuttavia essa è un' azione non ideale , ma reale . La distinzione dell' azione ideale dalla reale è quella stessa che passa tra l' idea e la cosa : l' azione ideale è quella che accompagna le idee nella mente, la reale è l' azione delle cose sussistenti. L' idea è fredda e non è un agente , ma un oggetto : la cosa è un agente, ha forze sue proprie. L' idea non è che una cosa possibile, una possibilità, un primo iniziamento della cosa: ma la cosa è una realità, una sussistenza, una cosa non solo iniziata, ma compita per modo che ha ricevuto l' essere in sè stessa. Non ci inganni il parerci che in molti casi grande sia la potenza delle idee. Convien riflettere che, quando si tratta di idee positive cioè di idee di cose, di cui abbiamo avuto la percezione, di cose che hanno agito sui nostri sensi, allora all' elemento intellettuale e ideale si mescolano degli altri elementi reali. Una cosa che ha realmente agito sopra i nostri sentimenti, lascia nei medesimi le reliquie della sua reale azione; e da questo residuo di azione reale si deriva la potenza che sembrano avere su di noi le idee positive delle cose. Si consideri quanto questo vestigio o effetto, che lasciano in noi le cose reali che hanno operato nei nostri sentimenti, valga a muoverci e a eccitarci. Primieramente quando la cosa reale, che supponiamola cosa buona (delle cose male si può dire il medesimo, rivolgendo il discorso in opposito), eccitava i nostri sentimenti ad appetirla, allora la nostra volontà fu mossa fortemente, ella se ne è dilettata, ha fortemente voluto. Questa volontà che fu così una volta mossa, si conserva piegata e inclinata di amore verso quella cosa; ella si ricorda di avere amato, di avere goduto; vorrebbe amare, vorrebbe godere ancora: la volontà in tale stato è già deliberata, non ha bisogno di forte spinta a ciò; l' idea della cosa non le serve già per darle movimento, ma ricordarle di eccitare in sè stessa quella grata percezione, per dirigere e mantenere quel suo movimento. Questa piega, questa mozione abituale della volontà è bensì mantenuta e pressata invece che dalla idea (possibilità della cosa) dalla memoria della percezione (1), e degli affetti dilettevoli, de' godimenti di cui questa fu alle volte accompagnata: ma la memoria ossia il ritenimento della percezione non è l' idea, è qualche cosa di più reale, di una impressione lasciata in noi dalla cosa reale, la quale impressione colorisce, per così dire, e incarna la pura idea. Si aggiunge alla piega della volontà e al vestigio che rimane in noi della percezione avuta, il giocare della fantasia o imaginativa, la quale ha virtù di risuscitare quel vestigio e rinnovare la percezione sensitiva . Poichè la fantasia, come ho mostrato, non è che un senso interiore, pel quale l' anima, come stimolo interno, eccita nell' organo sensorio dei movimenti simili a quelli che furono in lui eccitati dagli stimoli esterni dietro ai quali seguitano le sensazioni: sicchè le imagini o fantasmi sono vere sensazioni e simili di natura alle percezioni sensitive. Or anche questa della fantasia è azione reale e non ideale, e si aggiunge alle idee, nascendo contemporaneamente con esse. Quindi è che si spiega quella potenza, che pare sì smisurata, delle idee nell' uomo. La idea della ricchezza, a ragione di esempio, quante reminiscenze, quante imagini non richiama! E in quelli che ne hanno la passione, quanto decisa e fortemente piegata non è la volontà! Che se si spogliasse l' idea della ricchezza di ogni imagine, di ogni reminiscenza, di ogni affetto per lei contratto; se non se ne avesse che una pura idea astratta, come dicono, e come diciamo noi, negativa; se non si conoscesse se non per un segno, per una parola, come la si amerebbe? Che attrattive avrebbe mai una tale ricchezza per noi? Quanto non sarebbe fredda e nulla al muoverci una tale idea di ricchezza? Le idee dunque, per sè sole, sono fredde, e tanto più fredde e inefficaci a muovere la nostra volontà, quanto più sono astratte e negative, cioè tali che non ci dànno la rappresentazione positiva della cosa, ma ce la segnano solo e contraddistinguono (2). Le idee ci fanno semplicemente conoscere le cose, e il semplicemente conoscerle non è ancora l' esser noi congiunti con loro, nè il soffrire da loro un' azione sostanziale, cioè che venga dalla loro sostanza in noi prodotta. L' idea non è propriamente un' azione, ma il termine di un' azione: nell' idea quindi l' azione è finita, il moto non si propaga di più. Tutt' all' opposto è di un agente a noi applicato: in questa congiunzione di noi con un ente sussistente che in noi agisce, c' è l' atto in atto, per così dire, non l' atto già finito; e qui noi lo troviamo in quel momento, nel quale l' atto è vivo per produrre il suo termine. Or dunque distinta così l' azione ideale dall' azione reale, e veduta la inefficacia di quella e la viva efficacia di questa, diciamo che la operazione divina della grazia, sebbene si compia nell' intelletto, tuttavia è un' azione reale . Questa differenza fra l' azione ideale e l' azione reale, è quella stessa che pone la divina Scrittura tra la legge di Mosè e la grazia di Gesù Cristo. Di nessuna cosa è così sollecita la divina Scrittura quanto di farci notare questa distinzione, e dimostrarci quanto la legge di Mosè fosse inefficace per muovere la volontà dell' uomo, e quanto efficace fosse la grazia di Cristo. La ragione di questa inefficacia è appunto questa, cioè che la legge non faceva che presentare alla mente delle idee , la fredda cognizione dei doveri: ma la grazia di Gesù Cristo aggiunge a queste idee una forza che elle per sè non hanno, le infiamma, le rende veramente possenti nell' uomo. Egli è con ciò che S. Giovanni mostra quanto Gesù, il Legislatore nuovo, vincesse Mosè, il legislatore antico, in eccellenza e quanto sia più sublime la legge nuova sopra la legge vecchia. [...OMISSIS...] Tutta la lettera di S. Paolo ai Romani non è che un mirabile commentario di questa verità fondamentale dell' Evangelio. Il non aver distinta l' azione ideale dall' azione reale travolse i Pelagiani nel loro errore, che loro impedì il distinguere la legge dalla grazia : e quindi negarono la grazia perchè, non potendo concepirla, non sapevano risolversi ad ammettere altro che la sola legge , una cognizione del bene, ma non un aiuto interiore e possente che rendesse attiva e vivace questa cognizione. E veramente S. Agostino non negò loro che la grazia si potesse chiamare anche col nome di dottrina ; perocchè, operando essa nell' intelletto, ricever può anche questo nome. Ma ciò che negò loro fu, che questa dottrina fosse pura dottrina, puro e freddo conoscimento: era dottrina che teneva della percezione, che toccava, che produceva un sentimento, un' anima nuova piena di virtù e di forza da operare. [...OMISSIS...] La giustizia consiste nel dare a tutti il suo: la virtù consiste nell' adesione della volontà [all'] ordine dell' essere. Chi non vive secondo quest' ordine, chi non dà a tutti il suo, è vizioso e ingiusto. Ora quest' ordine richiede che noi stimiamo e amiamo Iddio per quello che [egli è], principio e fine di tutte le cose, l' essere stesso, il necessario, l' assoluto. Questo è il capo di tutto il sistema morale, come l' Essere divino è il capo dell' universo, il perno su cui tutto si mantiene e muove. Ma questo Essere, che deve esser l' oggetto d' un infinito amore, e verso cui dobbiamo esaurire tutti gli affetti del nostro cuore che non può amare nessun' altra cosa se non per lui, come per lui ella esiste, nessuno l' ha mai veduto, mai percepito. Egli è rimosso da questo mondo, egli si tiene occulto e invisibile agli occhi nostri: noi non ne abbiamo che una idea, e una idea negativa; ella è composta questa idea della relazione di Dio colle creature, ma appunto per questo le creature stesse ricorrono alla mente, si mescolano nel concetto di Dio, e ci mettono a pericolo di dare ad esse quell' adorazione e quell' amore, che noi dovremmo riserbare al solo Creatore. Una idea pura, negativa, senza percezione della cosa, senza rappresentazione nè imagine, è languida e fredda per sè stessa, non ha virtù di mettere in noi un efficace e vivo sentimento. Intanto sotto ai nostri sensi è continuamente l' universo creato: egli gl' inebria con tutte le sue delizie, li rapisce con tutta la sua vaghezza, li incanta, li distrae, li assorbe con tutta la sua infinita varietà e fecondità. Tanti beni, tutti sensibili, tanti mali, pure sensibili (perocchè anche questi cooperano colla loro vivissima molestia a renderci più avidi e più perduti dietro ai beni), esercitano in noi un' azione tutta reale , tutta efficace, contro la quale non ha schermo il nostro cuore che sembra simile a galeotto di leggera barchetta nuotante in mezzo alle onde immense di un oceano tempestoso. Come mai adunque quella forza che può venire all' uomo da quella tenue e sottilissima idea della invisibile e incomprensibile divinità, varrà a vincere gli impulsi delle passioni sommosse e gli eccitamenti di tanti beni umani presenti, visibili, irruenti continuamente sopra i suoi sensi, e, in una parola, esercitanti nel sentimento dell' uomo un' azione realissima? Come l' amore di questi beni, così vicini e attivi, sarà minore, più debole e cedente all' amore di quel Dio rimoto, che l' uomo nè pur positivamente conosce, perocchè la idea negativa non che dia il sentimento della cosa, ma non dà nè pure una vera cognizione della sua natura? Come insomma questi due amori, delle creature e del Creatore, potranno essere subordinati, quando vengano in collisione fra loro, per forma che quello a questo ubbidisca? (1). E questa collisione, nello stato presente della umanità, è continua. Si vede nei sensi dell' uomo una inordinazione manifesta: le sensazioni gli promettono più che non possano attenere. Non c' è uomo, neppure fra i mondani e alieni dalla religione, il quale non riconosca che le sensazioni illudono; che questa illusione viene dissipata dalla realtà; che questa « realtà delle cose », come confessava un uomo che se n' era voluto scapricciare, è « trista e fredda (2) »; e che è piuttosto il gioco della fantasia che abbellisce il futuro quello che seduce e imbaldanzisce l' uomo di speranze, che non la realtà del godimento presente, circoscritto, breve, avvelenato di segreto angore. E quindi la perpetua confessione che si ha dalle labbra di quelli che pure nella illusione e della illusione stessa vivono; cioè la confessione di Salomone: [...OMISSIS...] . Che dunque nelle sensazioni vi sia un principio illusorio, una inordinazione (perocchè questo è una inordinazione, l' infondere una vana speranza), è una verità di fatto, testimoniata dagli uomini di tutti i partiti e di tutte le opinioni. Ella è quella verità che agli uomini, i quali estinsero la morale nel piacere e fecero della sapienza un' arte di vivere con maggior copia di dilettazioni, suggerì lo strano sistema di pascere l' uomo di una continua illusione e di raffrenare i suoi appetiti appunto per questo di poter così maggiormente godere, tementi che, col procacciarsi solo tutti i diletti reali, l' uomo si disingannasse delle cose sensibili e svanisse per lui quell' errore, giudicato da lor fortunato, col quale il senso solleticato moderatamente promette, ove gli si dia più e più, di pervenire a un paradiso d' interminabili voluttà, e ripete l' antichissima menzogna: « Eritis sicut Dii ». E in quest' opera della seduzione e dell' inganno che viene da' suoi sensi all' uomo, ha gran parte la volontà dell' uomo, così piegata, aggirata e determinata a voler conseguire una felicità assoluta e piena, chè senza questa non gli pare di poter reggere: e quindi, ove non n' abbia una reale, essa precipita a crearsene una colla immaginazione e la trova appunto nelle cose sensibili, soli beni reali che a lei presenti la natura. Che se la volontà non avesse già quest' abito e questa irresistibile piega che la porta a volere un bene assoluto e infinito; e il senso non avesse in sè quella inordinazione, ma la sensazione non imbaldanzisse l' uomo a sperare e promettersi da lei più di quanto può mantenere; in tal caso l' uomo sarebbe sì inclinato alle creature, ma non istrabocchevolmente e inordinatamente, nè farebbe di ciò onta al Creatore, col mettere le creature nel posto suo e amarle come bene finale. E l' amore, apprezziativamente sommo, del Creatore potrebbe sussistere, sebbene più languido, senza venire in collisione con quello delle creature. In tal caso, fino che l' uomo fosse privo della vista di Dio, sarebbe imperfetto e limitato, non però reo per questo necessariamente, nè disordinato, come non può non essere nella condizione, in cui egli si trova presentemente. Egli è adunque impossibile alle forze naturali dell' uomo l' amare Iddio, di cui ha solo una fredda idea , a preferenza delle creature, di cui ha la percezione , e il raffrenare, il metter ordine, con quest' alto amore, all' amore seducente delle creature. E questa ragione del percepirsi, del vedersi gli uomini, e non Dio, apporta S. Giovanni a dimostrare, esser più facile l' amore del prossimo che quello di Dio: [...OMISSIS...] . La morale adunque alle forze naturali dell' uomo è impossibile, almeno per quella parte che riguarda Iddio: e come l' universo, privato di Dio, è senza principio, senza sostegno che il regga, non si può concepire; così la virtù morale, mozza di quel rispetto che riguarda Iddio, è troncata della sua parte capitale, è morta, è nulla per se stessa. Perocchè finalmente tutti gli amori verso le creature debbono terminare in Dio attualmente per essere perfetti, e debbono terminare in Dio virtualmente, debbono almeno non contraddire all' amor di Dio, per non essere delitti. Confessano questa impossibilità della morale religiosa i figliuoli stessi degli uomini. Non parlo di quelli che non hanno pudore di scoprirsi manifestamente inimici dell' Essere Supremo, i quali mostrano col fatto loro che non sanno levarsi ai doveri morali che hanno Dio per oggetto. Parlo di quelli che riconoscono e confessano la esistenza di un Creatore e conservatore del tutto, e che ne parlano con riverenza; parlo di quelli che sono i più dotti, che più s' affaticano nella ricerca della verità, che si mostrano più avidi di cognizioni e che fanno dei sistemi di morale. Tutto questo sapere, tutte queste notizie del loro intelletto valgono forse a sollevarli a Dio? Questo Dio si fa loro anzi così alto, che disperano di arrivarlo giammai. E veramente manifestano una segreta disperazione di conseguire la parte religiosa della morale quei tanti scrittori moderni che, con pensieri pieni di umana benevolenza, sicchè in leggere i loro scritti si prova una grata sensazione, e una cotal nobiltà di concetti vi si gusta per entro, pure sono tutti solleciti di schivare, siccome scoglio, le idee religiose, di restringere tutta la morale alle relazioni degli uomini fra di loro e, lasciato da parte non solo Dio, ma ben anco in gran parte l' uomo individuo, non parlano che di una morale sociale, come essi la chiamano, quasi che la morale non fosse più che una certa decenza del vivere esteriore, un certo pudore, o a dirlo più francamente, una certa finissima finzione. Molti di questi scrittori riducono la morale agli interessi umani, non difficili per vero ad amarsi: molti la ripongono nei sentimenti naturali; e nè pur questi prescrivono cosa impossibile. La religione però la descrivono sempre come una cosa tutta di diversa natura dalla morale, una cosa indipendente da questa, come questa la vogliono indipendente da quella. Insomma la relazione che l' uomo ha con Dio e i doveri essenziali che ne conseguono è una pagina che interamente cancellano e radono dal codice de' doveri: segno certissimo di una cotale disperazione che entra loro nell' animo di adempiere sì sollevati doveri, e pur chiarissima confessione del sentirsi mancar le forze a vincere quella potenza che esercita su di essi la continua percezione e azione delle cose reali esteriori e che li strappa e travolge da quella altezza, a cui la tenue e solo abbozzata idea di Dio, qual l' abbiamo pure, impone con autorevolissimo e severo comando. Quello che dissi dell' idea di Dio, impotente nelle nostre menti a muoverci in quell' amore che a un tanto Essere si conviene, può dirsi delle idee astratte della giustizia. Ogni qualvolta tutto ciò che vi ha di bello in un' azione non è altro che la giustizia, e l' azione contiene tutte le altre parti contrarie e ripugnanti ai nostri sentimenti, quell' azione per l' uomo naturale ha un' arduità insuperabile. Non è già che non sia autorevole quella idea del giusto, non è ch' ella non intimi chiaramente all' uomo ciò che è giusto e onesto; egli glielo intima con ogni chiarezza, e questa intimazione è sì severa, sì assoluta, che l' uomo ben capisce come nè pure la distruzione dell' universo sarebbe ragione atta a scusare l' infrazione della legge; niente insomma potrebbe mutare o la deformità o l' eterno bello di quella azione. Ma tutto questo addita una pura idea, sicchè è attissima a insegnargli ciò che deve fare, ma dopo ciò non è però che una pura idea, ella non ha alcuna forza reale, ella non può di più che pronunziare una sentenza: l' uomo in cospetto di questa idea si sente fiacco, impossente, reo e nulla trova che il rialzi dalla sua fiacchezza e dalla sua reità. Questa autorità e questa impotenza delle idee della giustizia, divise che sieno da ogni altro elemento reale, è stata sempre intesa, sempre sperimentata, sempre confessata da tutti gli uomini. Fra le stesse frivolezze delle scene comiche si manifesta questo gran vero, questo vero fatale, un doppio sentimento, di approvazione che riscuote la giustizia veduta (idea della giustizia), e di assoluta impotenza quando si viene al fatto. Il comprovano questi eleganti versi di Plauto: [...OMISSIS...] . Il « video meliora proboque, deteriora sequor » di Ovidio è un detto reso comune per la sua notoria verità; e esprime benissimo [la differenza] fra il veder le norme coll' intelletto, al qual fine basta l' azione ideale (l' idea in noi), e il seguirle colla volontà, al quale fine la volontà ha bisogno di essere mossa da un' azione reale , da uno stimolo che realmente la solletichi e impella. E qui è anche la spiegazione di quella terribile sentenza che ha pronunciato S. Agostino sulle virtù del gentilesimo, quando ha detto: « che quelle virtù si riducevano a essere de' vizii, vinti con altri vizii maggiori«; » per esempio, la intemperanza frenata dall' avarizia, la incontinenza doma dall' ambizione o dalla vanità, la crudeltà repressa dalla vana gloria. Aveva veduto il grande uomo che gli antichi moralisti, disperati d' indur gli uomini ad amare la virtù puramente per sè stessa, vi avevano opposti degli emolumenti umani, dei fini secondarii; che l' onesto e il retto si operava nel mondo allora che fosse accompagnato con delle reali utilità, e dove di esterne utilità venisse a sprovvedersi la virtù, erano forse tutti presti gli uomini a cantar i notissimi versi di Bruto: [...OMISSIS...] La grazia non fa solamente l' effetto di impellere nuovamente l' umana volontà al bene morale, come uno stimolo esterno che, dato il suo colpo, si ritira, senza incorporarsi stabilmente in noi. Iddio, con quell' azione che si chiama grazia, si unisce realmente con noi e permane con noi unito, sicchè in noi è per la grazia qualche cosa di divino che prima non esisteva, congiunto e quasi concorporato colla essenza dell' anima nostra. [...OMISSIS...] Questa azione divina, continua e immanente della grazia nell' anima, dà all' anima una stabile energia, la solleva a un potere che prima non aveva; il che è quanto dire gli aggiunge una nuova potenza, in virtù della quale può quello che non può per sè sola, senza la grazia. E S. Tommaso trova questo procedere di Dio coll' uomo sapiente e soave e tutto conforme a quella savissima dispensazione con cui tutto governa, e muove le sue creature al loro ultimo bene. Infatti sembrerebbe che Iddio avesse potuto spingere l' uomo alla operazione del bene con degli attuali eccitamenti, o anche con una continua azione sopra di lui, ma tale che in lui non fosse creata per questo una nuova attività, ma agisse Iddio come causa efficiente , e l' uomo come un oggetto tutto passivo verso di quella causa. Non volle: ma preferì di unire all' uomo la sua virtù, come una causa formale ; cioè dispose dare alla essenza dell' anima una nuova forma, una nuova attività; il che è quanto dire di creare in lei una nuova potenza di operare, rilevando così la natura stessa umana a uno stato e condizione di eccellenza intima e soprannaturale. [...OMISSIS...] Vi sono nello spirito delle potenze che hanno bisogno di esser mosse da altre potenze, che in ragione di attività sono ad esse superiori: per cagione di esempio, l' intelletto ha bisogno di essere mosso dalla volontà o dall' istinto. Vi sono delle altre potenze le quali non sono mosse da una potenza superiore, ma in esse è il principio del moto. Queste le ho chiamate principii attivi . Non tutte le potenze sono principii attivi, sebbene tutti i principii attivi o no, come ha detto San Tommaso, PRINCIPIA ACTUUM, si possano dire, per quanto mi pare, potenze. I principii attivi sono tanti quanti sono i sentimenti; perocchè la osservazione mostra che a ogni potenza passiva ne corrisponde una attiva, a ogni sentimento un istinto, ossia un' attività conseguente. Ora nell' uomo, fino che resta nello stato naturale, vi sono due sentimenti essenzialmente diversi, cioè soffre, è passivo da due nature che agiscono in lui e di diversa natura, i corpi e l' idea dell' essere . Indi due attività, cioè l' istinto animale e la volontà (1). Ora, operando Iddio con un' azione reale nella essenza dell' anima, vi produce un sentimento nuovo, e quindi un principio nuovo di agire che è quello che viene chiamato l' istinto dello Spirito Santo . Questo sentimento è essenzialmente diverso dai due primi, perocchè l' agente o stimolo, che lo produce, è essenzialmente da' due primi diverso; egli non può nascere da que' due primi; non v' è facoltà nell' uomo che il possa muovere o suscitare, ma si suscita e nasce da sè stesso improvviso, o più tosto da quell' Agente divino che ne è l' autore. Egli è dunque veramente non una mera potenza, ma un vero principio nuovo di azione, che vien creato nell' uomo da Dio, con quella influenza che egli esercita nell' anima. L' anima, l' IO, di quanto maggior forza si sente tocco, quanto più prova in sè un sentimento maggiore, tanto più trovasi pieno di vita e di valore: il sentimento che lo invade, lo diffonde, lo ingrandisce, lo afforza; pari alla grandezza, alla profondità, alla forza del sentire sorge altresì in lui la potenza e l' audacia. Il che si vede ne' sentimenti di ogni genere: indi le millanterie dell' ubbriaco, indi l' ardimento dell' innamorato, indi le imprese più temerarie dell' ambizioso e del mercatante, indi il coraggio, l' eroismo di chi si sacrifica per la patria e di chi muore per la giustizia, indi tutto ciò che v' ha e v' ebbe di grande, di nobile, di stravagante e di furente sopra la terra: tutto provenne dalla viva forza di qualche sentimento straordinario che invase l' uomo e, invadendolo, lo avvalorò, gli aggiunse quelle forze che non aveva, il trasse di sè, il rese di sè stesso maggiore. Anche uomini i più inerti, i più dappoco, si videro talvolta tramutati improvvisamente in altri esseri, se una forte passione si potè metter dentro in essi e signoreggiarli. Insomma sebbene il sentimento sia una passione , tuttavia egli produce sempre nell' uomo una corrispondente azione : il sentimento è il generatore dell' istinto , e questa attività, che s' ingenera in noi dal sentimento (giacchè noi stessi finalmente non siamo che un sentimento, e quindi il NOI è ingrandito, ingrandendosi il sentimento), è della stessa natura e forza del sentimento che l' ha prodotto, e come quello è debile o forte, nobile o vile, d' un ordine superiore o d' un ordine inferiore. Or ciò posto, ed essendo il sentimento naturalmente pari allo stimolo che il genera, egli è manifesto che quell' unione reale che fa Dio nella essenza dell' anima, deve ingrandire il suo sentimento fondamentale, che è quanto dire deve ingrandire lei medesima, e questa vena di sentire che a lei s' aggiunge, deve esser di un' indole al tutto superiore a ogni sentimento, infinitamente più nobile, infinitamente più possente. Indi il principio di azione , che aggiunge la grazia nell' uomo, forza è che sia supremo, nobilissimo, potentissimo. E con ciò si spiegano le maraviglie che nel loro vivere mostrano i servi di Dio. Ho detto che il NOI è un sentimento, che colla parola NOI esprimiamo l' essenza nostra, e quindi che l' essenza nostra è un sentimento (3). Questo sentimento essenziale l' ho chiamato fondamentale . Ho detto pure che l' azione della grazia è reale; e ho definita l' azione reale che viene esercitata in noi, quella che viene operata nella nostra facoltà del senso , a differenza dell' azione ideale che non è che il presentarsi dell' idea all' intelletto. Quindi l' azione divina opera nel sentimento . Ho detto che solo il senso intellettivo è atto a ricevere l' azione divina in noi: quindi ho detto che la grazia opera immediatamente nell' intelletto. Ho detto pure che l' intelletto è un elemento della essenza dell' anima nostra: quindi la grazia opera nella essenza dell' anima, e essendo questa un sentimento fondamentale, la grazia opera nel nostro sentimento fondamentale. La grazia accresce il NOI, questo fondamental sentimento, lo estende, lo eleva, lo approfonda: a cui alludendo S. Paolo, dice: [...OMISSIS...] . A malgrado di tutto ciò, della prima operazione della grazia in noi, noi non abbiamo coscienza alcuna. Per intendere la ragione del non essere noi consapevoli della prima operazione della grazia, conviene riflettere alle cose seguenti, le quali chi bene le avrà intese, sarà facile il persuadersi che tanto è lungi che ciò possa recar meraviglia, che anzi non potrebbe essere altramente, e si accorda colle leggi generali dello spirito umano. Primieramente, noi non abbiamo un' attuale coscienza di nessuna cosa di quelle che avvengono in noi, di nessuna mutazione, di nessun sentimento, se non a condizione che noi ci raccogliamo in noi stessi e ci badiamo a quel sentimento. Non badandoci noi, non ponendovi noi attenzione, sarebbe in noi tuttavia quel sentimento, ma noi non ne avremmo coscienza, sarebbe come se non fosse, nascerebbe, s' ingrandirebbe, cesserebbe, e noi non l' avremmo saputo e non ne conserveremmo alcuna memoria. Ora questo raccoglierci che noi facciamo sopra i sentimenti da cui siamo affetti, questo darvi la nostra attenzione, è un atto diverso da quello del sentimento stesso, e a quello posteriore; è un atto che suppone il sentimento, che rende questo sentimento oggetto della riflessione. Indi quelle leggi dello spirito umano che ho esposte altrove, sebbene in altre parole e che si possono anche proporre così:« Tutti gli atti primi dello spirito umano per sè sono privi di coscienza: nessuno de' primi sentimenti ha in sè la coscienza«. - E perchè ogni atto dello spirito è primo relativamente a quelli di una più alta riflessione, consegue ancor più universalmente, che« ogni atto dello spirito nostro è incognito a sè stesso«. Sicchè ogni atto viene illustrato da un altro atto da lui diverso, che lo mostra allo spirito e glielo fa conoscere; e quell' atto stesso che lo illustra e lo rende noto allo spirito nostro ha pur bisogno di un altro atto dello spirito che illustri e chiarisca lui stesso; altramente egli si rimarrebbe inatteso e dimentico. Ciò posto, è reso manifesto come anche il sentimento primo che in noi suscita l' azione divina, deve essere per sè stesso privo di consapevolezza in quel primo istante, nel quale egli nasce. Ma rimane un' altra questione a farsi. Se per sè stesso è privo di consapevolezza, non potrà egli essere percepito da noi, essere illustrato con un atto secondo del nostro spirito, con una riflessione sopra di lui? Non potremo in tal modo rendere presente la nostra attenzione e quasi spettatrice al farsi di quella operazione divina, e così procacciarcene la coscienza? Rispondo osservando primieramente che ciò non può avvenire quando la operazione della grazia si fa ne' bambini; perocchè questi non hanno ancora acquistato l' arbitrio delle loro potenze e non sanno rivolgere l' attenzione sopra ciò che avviene in sè stessi (2). Quando poi si fa negli adulti, è da distinguersi l' atto stesso della mutazione che nasce nell' uomo al primo cominciare ad avere la potenza soprannaturale creata in lui dalla grazia, da questa potenza già ottenuta. Il passare che fa l' uomo dal non aver la grazia all' averla, dal non aver all' aver in sè quella potenza soprannaturale che, col primo operare della grazia nell' uomo, nasce e si crea; questo passaggio maraviglioso non è osservabile in noi, perchè non è nè pur sensibile. Per quanto sembri maravigliosa questa proposizione, ella non riuscirà incredibile a chi osserva che ella dipende da una legge generale, a cui è soggetto il sentimento: la quale è questa, che« non si può sentire l' atto onde noi cominciamo a esistere«, con quell' atto onde noi veniamo naturati, cioè pigliamo la natura o la essenza: come medesimamente non si può sentir quello onde si disfà la nostra natura, o poniamo giù la stessa nostra [vita] o, se avvenir potesse, ci annulliamo. Perciò il bambino non può sentir l' atto onde vien concepito e comincia a essere, perchè in quell' atto ancora non è, e egli ha bisogno di essere già per sentire. Allo stesso modo non può esser sensibile l' atto del morire, perchè esso non è che un disfarsi, un annullarsi della nostra potenza di sentire animale: il che non è un adoperare questa potenza, ma un porla giù. (1). E veramente in un istante, nel quale sentissimo, non saremmo ancor morti, non avremmo ancor fatto l' atto del morire (2): quest' atto del morire non è fatto prima che noi siamo morti, e, prima di essere fatto, non può esser sentito; e, quand' egli è fatto, noi oggimai non siamo più esseri sensitivi e però nol possiamo sentire. Il che è confermato anco dall' esperienza in ciò che avviene negli accidenti, nei quali cessa subitamente in una parte del corpo la potenza di sentire, chè ciò avviene senza dolore, e l' apopletico si trova morto della metà, senza che egli medesimo sappia come gli sia ciò accaduto. Ma egli d' altra parte pare manifesto che il cessare di sentire non è sentire; anzi sarebbe contraddizione, se fosse. E questa osservazione dell' accidentato è notabile in questo che prova essere insensibile a noi non solo la cessazione di tutta intera la potenza di sentire, ma ben anco di una sua parte: e certo quella parte che cessa, in cessando, non si sente, sebbene l' altra parte che rimane può risentirsene a quel cessamento. Il medesimo è dell' accrescersi la potenza sensitiva: questo crescere non è materia di senso alcuno, e quindi il nostro corpo cresce, si rinforza o risana senza che noi sappiamo come; sebbene dopo cresciuto, rinforzato, risanato, godiamo dell' accrescimento, delle forze e della sanità. Applichiamo ora questa legge del sentire alla potenza soprannaturale, creata in noi dall' azione divina. Coll' azione divina viene creata in noi una nuova potenza: questa potenza comincia a esistere in noi quando prima non esisteva, ed ella è un elemento, una parte della nostra essenza. Per la legge esposta adunque deve essere necessariamente insensibile questo primo effetto della grazia in noi, perchè la grazia agisce, come dicemmo, in modo di creatrice, non fa altro che creare, che mettere in noi una potenza nuova, che ingrandire la nostra essenza. Dell' atto dunque di questa mutazione non possiamo avere alcuna coscienza, perchè non abbiamo di lui alcun sentimento (1). Lo stesso si può provare considerando la natura di ogni potenza. Io ho dimostrato che ogni potenza è un atto7primo : per esempio, la potenza di sentire è un primo sentimento che modificato si cangia negli atti secondi che si dicono atti verso al primo, il quale si dice potenza (2). Ora l' effetto della grazia è di produrre in noi una nuova potenza di sentire, un primo sentimento. Ora se questo sentimento è primo, se avanti di lui non vi ha nessun altro senso in quel suo genere e tutte le sensazioni partono da lui, come da principio; egli è evidente che, prima che quell' atto primo sia prodotto, non vi può essere senso alcuno di quella specie. Quell' azione adunque della grazia, colla quale si genera in noi la potenza soprannaturale o il primo soprannaturale sentimento, non è sensibile, nè può essere oggetto della nostra consapevolezza. Quando però la potenza, di cui parliamo, primo effetto della grazia, è già in noi formata, allora ella è sensibile a noi, perchè anzi è ella stessa un primo sentimento, un sentimento essenziale e fondamentale. Tuttavia non è così facile l' avvertirsi in noi immediatamente e l' averne coscienza. Perocchè avviene appunto di esso quanto abbiamo osservato avvenire di ogni altro sentimento primo e fondamentale in noi, che egli, essendo immanente e costituendo la nostra immutabile essenza, è oltremodo difficile a rendersi oggetto della nostra osservazione; mentre sono assai facili a osservarsi gli atti suoi, cioè le particolari sensazioni che da quel sentimento primo nascono, non essendo che sue modificazioni, verso alle quali egli è soggetto, e atti suoi, verso i quali egli prende nome di potenza. Nell' uomo naturale due sono i sentimenti fondamentali, l' animale e l' intellettivo; i quali piuttosto sono due parti di uno stesso sentimento fondamentale che si esprime col monosillabo IO. Ho già dimostrato altrove quanto l' uno e l' altro di que' sentimenti sieno difficili ad avvertirsi chiaramente e distintamente in noi: e sebbene il senso comune assai bene li ammetta e riconosca, tuttavia nei libri de' filosofi si trovano pressochè continuamente obliati. Ho dato ragioni, per le quali è tanto difficile osservarsi in noi il sentimento fondamentale corporeo, nel Nuovo Saggio , Sez. V: ho dato pure le ragioni, per le quali è difficile osservarsi in noi l' idea dell' essere che è lo stimolo del sentimento fondamentale intellettivo pure nel Nuovo Saggio , Sez. V: all' incontro quanto sia facile osservare in noi le sensazioni e le idee acquisite. Queste dottrine, che sarebbe troppo lungo qui ripetere, e per le quali mi riporto ai luoghi dove le ho trattate, vanno applicate al sentimento fondamentale soprannaturale. Per esse si parrà ragion manifesta dell' essere tanto difficile a osservare quel sentimento, e quindi a averne coscienza: mentre all' opposto non è punto difficile l' avvertire in noi e l' aver coscienza de' suoi effetti, quali sono i frutti dello spirito che l' Apostolo enumera ai Galati, dicendo: [...OMISSIS...] . Noi abbiamo veduto che, sebbene la divina rivelazione ci narri della natura divina delle cose assai più eccellenti di quelle che noi possiamo trovare col lume naturale, tuttavia non avendo noi mai avuta la percezione di Dio, noi non possiamo intendere di lui se non tanto quanto si comprende in un concetto negativo (2). Tuttavia questo concetto negativo ci contraddistingue Dio. Avendo in noi la operazione divina, la grazia, il primo suo effetto o atto si compie col mettere in noi, da parte sua, una viva fede alle cose rivelate, col muovere l' animo nostro a una piena e soave adesione a tutte le cose che intorno a Dio si contengono in quel concetto negativo di Dio. In quel concetto negativo di Dio poi si contengono virtualmente anche le notizie di Dio positive: e la grazia inclina e rende vaghissimo l' uomo di penetrare in quelle misteriose e occulte verità, delle quali tanto gli tarda lo scoprimento. Quest' uomo, tocco dall' azione della grazia, è divenuto il diletto « che sta dietro la parete e che riguarda cupidamente per le fenestre e rimira per le aperture de' cancelli« (1). » La grazia gli mostra qualche tenue lume, qualche particella delle infinite bellezze che gli stanno velate e nascose. Così la fede rende: I. da una parte efficace nell' uomo il concetto di Dio ideale7negativo che per sè è freddo e impotente (2); II. dall' altra fa travedere e quasi indovinare in esso alcuna cosa di ciò che tien questo concetto nel suo seno profondamente nascosto. In tal modo la idea di Dio, che nell' uomo privo della grazia è nulla verso all' idea delle cose sensibili, diventa per la grazia potentissima, a tale che può l' uomo nell' animo suo erigere veramente un tempio a quella divinità, la cui azione sente in sè stesso, e preferire il sommo Essere, anche nell' affetto e nelle azioni della sua vita, a tutti gli esseri lusinghevoli della terra. Sebbene adunque l' azione divina sia reale, tuttavia ella non è tale che comunichi Dio sè stesso all' uomo del tutto svelatamente ; ma è un' azione esercitata mediante le idee negative , somministrate all' uomo dalla rivelazione e mediante una cupidità che nasce nell' uomo di vedere il positivo altresì che quelle idee negative suppongono e annunziano, senza che il manifestino. Con quest' azione vengono rinforzate quelle idee negative e vien ringagliardita la forza del desiderio di percepire il positivo occulto, intorno al quale viene infuso però un sentimento, una profonda persuasione, una sicurezza maggiore di qualunque sicurezza, che in quell' occulto stassi l' OGNI BENE. Questa parte occulta di Dio, questa misteriosa essenza è propriamente l' oggetto della fede, ed il veicolo della grazia, lo stimolo divino, la punta, quasi direi, della divina sostanza, con cui Dio tocca l' uomo. Perocchè in questa parte occulta l' uomo percepisce però il concetto del TUTTO; e sebbene l' uomo non distingua niente o poco di ciò che è in questo tutto, egli sa però che ivi è il TUTTO. Il TUTTO, cioè tutto l' essere , tutto il bene sono sinonimi. Questo concetto che, sebbene indistinto, il tutto contiene, può rendersi nell' uomo vivo e possente, e ciò senza limite alcuno, appunto perchè nel concetto del TUTTO non v' è alcun limite: ed è di questo concetto di cui si serve propriamente la grazia divina per signoreggiare l' uomo, per sollevarlo, per renderlo potentissimo sopra tutte le sue passioni. L' uomo dunque colla fede soprannaturale non percepisce Iddio distintamente , ma lo percepisce indistintamente come il TUTTO, l' ogni bene. Questa percezione, sebbene oscura, abbraccia però quanto può l' uomo desiderare, perchè abbraccia tutto; e perciò l' uomo con questa percezione non ha a desiderare altra cosa fuori di essa, e solo ha da desiderare che ella stessa si renda distinta, più chiara e più compiuta. Quando questa percezione si fa viva e più sensibile, accade quella contentezza, di cui molto parla Santa Teresa, la quale all' uopo nostro dice acconciamente così: [...OMISSIS...] E ancora parlando d' un certo stato dell' anima, dice: [...OMISSIS...] Nella fede adunque soprannaturale c' è anche una percezione di Dio , se così è lecito chiamarla, sebbene iniziale e solamente indistinta ; e questa è la base che sostiene tutta la vita spirituale, cioè soprannaturale. L' Apostolo mette per base di tutto l' ordine soprannaturale la Fede in quelle parole: « Senza la fede è impossibile di piacere a Dio (3) »: e in quelle altre: «« Il mio giusto vive di fede« (4); » per modo che senza la fede il giusto, quegli che è tale non agli occhi degli uomini, ma a quelli di Dio, secondo l' ordine soprannaturale, non può esistere, gli manca onde essere e onde vivere. Questa è quella fede viva dalla quale l' Apostolo fa nascere la soprannaturale giustizia e che descrive come quel mezzo o istrumento generale, col quale operando la grazia divina conduce gli uomini all' adempimento della eterna loro predestinazione: ed è a questa fede viva che attribuisce come a principio e origine tutte le virtù. [...OMISSIS...] A queste dottrine dell' Apostolo consuona tutto il Vangelo; particolarmente S. Giovanni che in questa sentenza riassume quanto abbiamo fin qui esposto: « A quanti l' hanno ricevuto (Gesù Cristo) egli diede loro LA POTESTA` di diventar figliuoli di Dio (ecco la grazia che dà la potenza); a quelli che CREDONO (ecco il primo atto di questa potenza, la fede) nel NOME SUO« (2): » (ecco la natura della fede che è quella di ravvivare e rinforzare la idea negativa di Dio, la quale, come altrove dicemmo, chiamasi acconciamente nelle divine Scritture il « nome di Dio ») (3). Con ragione adunque S. Tommaso afferma la fede essere « il primo atto, nel quale la grazia si manifesta« (4). » Ed essendo questo primo atto necessario a tutti gli altri atti della grazia in noi abitante, si può dire che sia l' atto universale della grazia, un atto presupposto da tutti gli altri susseguenti, i quali a quel primo atto si appoggiano e partono da lui, come da radice: sicchè ottimamente si enumerano gli atti cristiani in quell' ordine in che li pose S. Paolo: Fede, Speranza e Carità; nel quale la fede rimane la prima e condizione delle due seconde. Per questa cagione è che si suole chiamare tutto il complesso della religione cristiana col nome di Fede , dicendosi la fede cristiana, la propagazione della fede, ecc.. Ma tutto ciò apparirà più manifesto, se noi faremo un' analisi accurata dell' atto della fede e troveremo gli elementi onde la fede risulta. La fede risulta da due elementi, la percezione divina incipiente , e l' assenso della nostra volontà, col quale solo si compie l' atto della fede. Consideriamo separatamente, l' uno dopo l' altro, questi elementi, riassumendo le cose dette sin qui. Iddio opera, con un' azione reale ed occulta, nella essenza dell' anima: fin qui tutto nasce senza di noi. Questa azione produce, crea nella nostra essenza, senza che noi n' abbiamo coscienza, un elemento nuovo, un sentimento fondamentale nuovo. Ricercando più profondamente che cosa sia questo sentimento, troviamo che è un sentimento, pel quale cominciamo a percepire Iddio come il TUTTO, l' Essere sussistente per sè stesso: percezione che ha necessariamente in sè dell' infinito e una specie di onnipotenza. Questo sentimento creato in noi è la creazione dell' uomo soprannaturale (1); come il sentimento fondamentale animale7ideale, è la creazione dell' uomo naturale; perchè questi sentimenti sono sostanziali , cioè costituenti l' IO, la essenza specifica, la sostanza dell' anima. E` singolare e degno di ogni attenzione il riscontro che vi ha fra l' ordine naturale e l' ordine soprannaturale dell' uomo, fra il sentimento che costituisce l' uomo un essere ragionevole, e il sentimento che costituisce l' uomo un essere congiunto a Dio. Tutti due questi sentimenti sono formati dall' unione dell' ESSERE allo spirito umano: il primo è la unione dell' essere ideale , il secondo dell' essere reale . La idea dell' essere data all' uomo il rende intellettivo; l' Essere stesso (Iddio), agente nell' uomo, solleva quest' essere intellettivo a una specie nuova d' intelligenza, quale è la soprannaturale: la prima è una concezione , la seconda una percezione (sebbene solo incipiente in questa vita): la prima è come una delineazione dell' essere, la seconda è il compimento, il realizzamento dell' essere nell' uomo (2). Procediamo innanzi. Posto nell' uomo un nuovo sentimento fondamentale, dovea esser data all' uomo una nuova potenza , perchè a ogni sentimento corrisponde un istinto, a ogni potenza passiva ne corrisponde una attiva: questa è la potenza soprannaturale, una nuova volontà. Il primo atto di questa volontà è la fede, come abbiamo detto. Questa consiste propriamente nell' assenso che si dà a ciò che quel sentimento soprannaturale ha percepito di Dio (3) e forma un tale assenso il secondo elemento , col quale si compie l' atto del credere. La cristiana dottrina insegna che nei bambini è sufficiente alla salute quel primo elemento della fede, che viene dato da Dio gratuitamente col battesimo, quella operazione della grazia, quella potenza di volere, sebbene non condotta all' atto; ed è ciò che si chiama virtù infusa della fede, fede abituale . Negli adulti, i quali possono muovere le loro potenze ai loro atti, si richiede altresì una fede attuale . Quindi Cristo disse: [...OMISSIS...] E ancora disse che pregava per solo quelli che credeano (2); esigendo così questo primo atto della fede per riconoscerli per suoi e metterli a parte delle ulteriori sue grazie. Ecco come Sant' Agostino ragiona di questa potenza di credere : [...OMISSIS...] . Ecco come Sant' Agostino descrive la formazione in noi dell' atto della fede, parte per la operazione di Dio, e parte per la cooperazione nostra. [...OMISSIS...] Succede adunque questo fatto del credere così. Iddio dà la percezione incipiente di sè stesso: qui non c' è ancor riflessione, appartiene all' ordine della cognizione diretta, ma è più che semplice cognizione ideale, perchè è percezione , sebbene solo incipiente. Questa percezione (nel ricevere la quale noi siamo interamente passivi, come in ricevere tutte le cognizioni dirette) è lucida, bella, dolce, tutta conveniente e adattata alla nostra natura: indi il sentimento di affetto verso a queste cose conosciute e percepite, che sorge in noi fornito di [quelle] soavi persuasive di cui parla S. Agostino, le quali inclinano (1) l' animo nostro a prestare adesione e fede piena anche a ciò che nelle cose percepite non è se non virtualmente e oscuramente compreso. E qui si leva in noi la riflessione, la quale rimira in quelle cose, e si pone nell' animo nostro la questione, se sono credibili, o no. Noi dobbiamo concludere questo giudizio in un modo affermativo; e non solo speculativamente ma praticamente altresì, perchè si formi in noi e si compia l' atto di fede. Ora questo è atto proprio della volontà nostra ed è soggetto alle leggi, a cui sono soggetti gli atti della volontà, esposte da noi più innanzi: fino a certo termine ella opera liberamente e può sospendere o negare l' assenso; ma ove la dilettazione, eccitata dalle cose divine conosciute e percepite, si acuisse oltre a certo grado, l' assenso sarebbe inevitabile, non più libero, sebbene volontario. Questo assentimento non è solamente dato per motivi di credibilità, prodotti da cognizione ideale, ma principalmente per un motivo di credibilità veniente da percezione immediata: è una certezza pratica, una sicurezza sperimentale che toglie ogni dubbio, e che è più ferma ben sovente di ogni ragionamento, perchè giunge a t“r via fino il poter di dubitare (3). La fede adunque è un giudizio pratico, non un puro giudizio speculativo: è un giudizio, con cui non solo affermiamo Dio e le cose divine, ma con cui gli diamo la nostra stima: è un atto di giustizia verso Dio da noi conosciuto e sperimentato, e non un conoscimento, ma un RICONOSCIMENTO volontario di ciò che conosciamo, quel riconoscimento, nel quale abbiamo veduto che s' inizia nell' uomo ogni moralità (4): la fede dunque è il principio della morale cristiana, cioè il primo suo atto. Questa questione si spiana, a mio parere, ove si schierino qui nel loro giusto ordine tutti i passi dello spirito che precedono, che costituiscono e che susseguono altresì l' atto della fede. Ecco qual è l' ordine loro: 1. Cognizione rivelata di Dio ex auditu (operazione esterna naturale). 2. Percezione di Dio (1), o lume efficace, uscente da quella cognizione rivelata, massime dalla parte che in essa è misteriosa (operazione che si fa nell' essenza dell' anima). 3. Sentimento conseguente o dilettazione soave e sublime, uscente da quella percezione, che ci persuade la verità delle cose percepite (2). 4. Potenza di credere e di operare santamente, effetto di quel sentimento (3). 5. Atto volontario del credere, giudizio pratico sulla verità ed eccellenza delle cose conosciute e percepite: atto di stima, il riconoscimento di Dio come luce, verità e autorità infinita, col quale atto se l' uomo non ricalcitra colla sua mala volontà (1), conseguitano l' amore, e le operazioni sante e meritorie con cui la fede diviene viva. 6. Amore che conseguita a quell' atto di stima pratica. 7. Operazione santa che seguita all' amore. L' uomo non comincia a operare colla sua volontà se non al quinto passo, col dare l' assentimento suo alle verità rivelate e interiormente sentite: per questo si dice che la fede è il primo atto della grazia. Dicendo ciò, per grazia s' intende la potenza del credere, prodotta in noi soprannaturalmente dall' azione della grazia. Essendo nostra questa potenza, uscendo dall' essenza dell' anima nostra, nostri devono essere gli atti di questa potenza, e per essere nostri devono procedere dalla nostra volontà: quindi la fede è il primo atto della potenza in noi creata dalla grazia, perchè è il primo atto della nuova nostra volontà. Tuttavia alla fede precedettero quei quattro passi che ho descritti, e fra questi il terzo, cioè una dilettazione o inclinazione (involontaria) della volontà; e questa fu chiamata da molti carità . Quelli che così l' hanno chiamata fecero precedere alla fede la carità: ma questa carità non è che un' inclinazione, come dicevo (involontaria, o certamente) non libera, e l' atto non è completo ancora, ma incoato, giacchè non si completa se non coll' assenso, nel quale sta la fede. Questa opinione pertanto che cominci la giustificazione dalla carità e non dalla fede, non parmi esatta e nè pure sana, avendo espressamente dichiarato il Sacrosanto Concilio di Trento, che la fede è il principio della umana salute, il fondamento e la radice di ogni giustificazione (2). I principii della morale naturale dimostrano, che la morale s' incomincia col giudizio pratico : che questo giudizio pratico è libero : ma che, dato il giudizio pratico o stima dell' oggetto, conseguita necessariamente il grado dell' amore verso il medesimo oggetto. Che, dato il grado dell' amore , è determinata conseguentemente anche l' azione esterna, tutta consenziente alla efficacia di quell' amore. Questo è quanto somministra la ragione naturale, quando si fa a investigare la natura della moralità umana. Applichiamo ora questa dottrina alla morale teologica e soprannaturale, e veggiamo se batton d' accordo con essa i documenti della cristiana tradizione. Nella morale teologica e soprannaturale abbiamo veduto che il primo atto morale, il giudizio pratico o stima dell' oggetto dell' azione morale (che qui è Dio) è la fede. Or se è che la rivelazione va d' accordo con que' supremi principii della morale naturale, dee conseguitare, che a quel giudizio pratico della fede conseguiti necessariamente l' amore, e le opere: e questo è appunto nè più nè meno la cristiana dottrina. Udiamo il Concilio di Trento ragionare su questo indissolubile nodo tra la fede viva , la carità e le buone opere , e vediamolo distinguere questa fede, che in un giudizio pratico consiste, da quella fede, che non consiste se non in un giudizio speculativo, il quale non è punto per sè morale. [...OMISSIS...] Questo nodo indissolubile tra la fede, la carità e le opere, sicchè data l' una di queste tre cose, non è in balìa dell' uomo il dividerne le altre due, spiega la ragione, per la quale nelle divine Scritture la salute eterna ora è attribuita assolutamente alla fede, ora assolutamente alla carità, e ora assolutamente alle opere buone. Della fede si dice: [...OMISSIS...] . Della carità poi si dice: [...OMISSIS...] Delle opere poi si dice: [...OMISSIS...] S. Giovanni, in un luogo della sua prima lettera, riassume questi tre generi di atti, cioè la fede, la carità, e le opere esteriori, e li dà per segni dello Spirito Santo in noi, cioè della grazia che sta nella essenza dell' anima e da questa per conseguente li distingue: [...OMISSIS...] . Ho già mostrato come nelle verità rivelate intorno a Dio si trovi una profonda oscurità e de' necessarii misteri (1). Iddio vi è celato e la grazia stessa non ne dà che una percezione incoata e indistinta: indi il gran desiderio dei santi che si squarci il velo e apparisca la bella faccia del Signore, il cupio dissolvi , e l' assiduità delle orazioni e delle contemplazioni per ire innanzi in quella notte oscura, dalla quale par loro di essere circondati. La fede però ha pure il suo lume, ed essa risponde a ciò che è la ragione pratica nell' ordine naturale. Il lume della ragione è l' essere ideale (3), il lume della fede l' essere reale: il lume della ragione è l' essere iniziale, il lume della fede l' essere compito, assoluto, Dio (4). Fra queste tenebre e questa luce cammina il cristiano nella vita presente per un alto ordine della divina Provvidenza, acciocchè cioè colle tenebre meriti di più, credendo, e colla luce più gli si acuisca il suo desiderio della eterna luce e sia da questo saggio di visione e da questo desiderio sostenuto e avvalorato nelle sue operazioni e nella sua aspettazione. Talora questo lume interiore della grazia si chiama cognizione , come allorchè Gesù Cristo disse: [...OMISSIS...] Talora poi questo lume è chiamato visione , che equivale a quello che io dico percezione , ed è una comunicazione dell' essere reale fatta al senso, e non solo idealmente all' intelletto. Gesù Cristo disse: [...OMISSIS...] . E S. Giovanni: [...OMISSIS...] . Consistendo la cognizione, propriamente parlando, nella concezione dell' essere ideale, farà maraviglia che si chiami cognizione nella divina Scrittura anche il lume della grazia che ci fa percepire l' essere reale; mentre sembrerebbe che solo gli convenisse il nome di percezione o di sentimento . Ma due ragioni si possono rendere del chiamarsi propriamente anche cognizione il lume che ci viene dato dalla grazia. La prima di queste due ragioni è, che la grazia opera mediante la cognizione ideale negativa di Dio , ella non fa che rendere viva ed efficace questa idea di Dio che non eccede la natura del puro conoscere , nel che sta appunto la natura della fede. Quindi è che l' operazione della grazia vien detta nelle divine Scritture anche un insegnare che fa Dio all' uomo, come in Isaia: [...OMISSIS...] . E Geremia non dice che Iddio darà una legge nuova, ma che la stessa legge, invece di scriverla sulle pietre, la scriverà ne' cuori, e così ognuno saprà da sè, per interiore ammaestramento di Dio, non per dottrina comunicata al di fuori dell' uomo. [...OMISSIS...] Egli è dunque acconcissimamente detta un insegnamento la operazione della grazia; giacchè non aggiunge idee nuove alla mente, ma solo rinforza e colorisce, per così dire, le idee che già abbiamo per la ragione e per la esterna rivelazione. Che se talora nella divina Scrittura si parla di una legge nuova data da Cristo, la novità di questa legge non istà tanto in aver date specie nuove, quanto in aver rinnovate, ravvivate, svolte le vecchie e compite, secondo quello che disse Gesù Cristo: [...OMISSIS...] La seconda ragione, per la quale si può dire cognizione il dono della grazia, si è che l' essere reale che si percepisce per la grazia, non è che il compimento dell' essere ideale ; e quindi non distrugge, ma compisce nella nostra mente l' essere ideale, senza il quale l' essere reale non si potrebbe all' intelletto nostro comunicare. Quindi sebbene nelle cose create la percezione sensitiva differisca essenzialmente, e non di solo grado, dalla cognizione , tuttavia ciò non si avvera trattandosi di Dio che è l' Essere stesso , del quale la cognizione e percezione non differiscono, se non di grado. Nelle cose create colla cognizione concepiamo l' essere stesso, quando colla percezione sensitiva non percepiamo punto l' essere , ma una sua appartenza, una sua accidentalità, una certa sua azione. Il contrario avviene rispetto a Dio, perchè è sempre l' essere che conosciamo o percepiamo; e quindi la percezione non differisce dalla cognizione essenzialmente, ma per gradi: sicchè, come noi abbiamo detto più sopra, la cognizione non è che un principio di percezione, e che la percezione è un grado di più, un finimento e perfezionamento della cognizione. L' essere insomma è essenzialmente conoscibile , e per ciò con ragione la percezione dell' essere stesso può dirsi cognizione . Per questo Cristo in S. Giovanni, volendo dire che gli Apostoli avevano il lume della grazia, la percezione del Verbo, disse che conobbero veramente (1); rinforzando con quel veramente il conobbero , quasi ad additare un grado di più intera cognizione. Il qual grado nuovo di cognizione che si aggiunge per grazia, viene espresso anco da Cristo in quelle parole: [...OMISSIS...] . Una interiore rivelazione adunque è l' operazione della grazia, per cui nelle idee che hanno tutti gli uomini, l' uomo illuminato da Dio vede ciò che gli altri punto non veggono. Da questo che abbiamo ora detto s' intende quale sia il carattere distintivo delle due cognizioni naturale e soprannaturale, in questa vita. Hanno tutte e due lo stesso fondamento, cioè i lineamenti fondamentali sono i medesimi: questi lineamenti sono le idee pure e negative di Dio. Nella cognizione naturale queste idee restano così nude, come traccie sottili di un disegno a contorni. Nella cognizione soprannaturale quelle idee non restano svestite e fredde, ma esce da esse un sentimento (percezione) che le avviva e mette in esse qualche cosa del positivo: il che è ciò che nelle divine Scritture si chiama intendere col cuore (3). Per questo sentimento l' uomo della grazia percepisce e vede in quelle idee ciò che in quelle medesime idee non vi percepisce nè vede l' uomo della natura. Quindi questi conosce e non conosce la stessa cosa che conosce quello, cioè ha lo stesso oggetto nella mente, ma non gli è rivelato allo stesso modo . Con questa osservazione si spiegano quelle parole di Dio in Isaia: [...OMISSIS...] . E quelle di Cristo, che alludono appunto al passo d' Isaia: [...OMISSIS...] . Già ho mostrato in che consiste questa imperfezione, cioè nell' esser essa indistinta , sebbene tale che noi ci accorgiamo di percepire con essa TUTTO L' ESSERE, TUTTO IL BENE. L' oscurità di questa percezione indistinta è insegnata nelle divine Scritture con una figura assai acconcia. Si distingue la faccia di Dio dalla schiena di Dio. Chi vede un uomo in ischiena, il percepisce, ma indistintamente, perchè è dalla faccia principalmente che si distingue un uomo dall' altro e che si acquista dell' uomo una ben chiara notizia. Ora parimente in questa vita si percepisce veramente Iddio pel lume della grazia, ma quasi in ischiena ; nell' altra vita poi si percepisce la stessa sua faccia , il che forma il lume della gloria. Questa figura è nell' Esodo. Mosè, desideroso di vedere Iddio, avevagli detto: Mostrami la tua gloria. Iddio gli rispose: [...OMISSIS...] Questo favore che veniva fatto a Mosè, esprimeva la operazione della grazia del Redentore, la quale, sebbene non dia la visione della faccia divina (la percezione completa ), tuttavia dà la visione della schiena di Dio ( la percezione incoata e indistinta ) (7). Conviene che dichiari il significato che io aggiungo a questa parola deiforme . Iddio fa più operazioni nell' universo: conserva le cose, ciò che è un continuo crearle, dà loro il moto, la vita, il senso, l' intelletto. Tuttavia nessuna di queste operazioni può dirsi deiforme , ma solo la operazione della grazia . Non è già che Iddio non faccia tutte quelle opere; chè anzi nessuno le potrebbe fare fuori di lui; e non è neppure che Iddio, anche colla sua essenza, non si trovi realmente in tutte le creature e tutte le creature in lui: egli vi si trova, ed è vero a capello quanto disse il poeta Arato, citato da S. Paolo: « In lui viviamo e ci moviamo e siamo« (1). » Ma tutto questo non fa sì ancora che tale intima azione di Dio nelle creature si possa chiamare deiforme (2). Per operazione deiforme io intendo una operazione che non solo ha per principio Iddio, ma che essa stessa e il suo termine è Dio. Della operazione della grazia Iddio è il principio e anche il fine, è la causa e anche l' effetto, per così dire: e perciò questa operazione è deiforme . La operazione sopra tutte le altre deiforme è la incarnazione del Verbo, la causa o principio della quale incarnazione fu la Triade augustissima, e il termine suo fu il Verbo incarnato. La operazione deiforme, avendo per iscopo la comunicazione della divina sostanza, non può operarsi che in esseri dotati di senso e di intelligenza, perchè la sostanza di Dio è vita e luce. Per ciò tutte le operazioni che Dio facesse relativamente alle creature non dotate di sentimento e di intelletto, per quantunque divine fossero e tali che solo alla potenza di Dio convenissero, come la creazione, non sarebbero però deiformi ; perchè in esse non vi sarebbe una comunicazione della divina sostanza, della vita, e della luce di Dio stesso. La maniera adunque diretta di conoscere la operazione deiforme, è il percepirla, l' esperimentarla. Conviene sentire Iddio, conviene sentirlo operante in noi: conviene sentire in noi qualche cosa che non si possa confondere con nessuna delle creature e che sia evidentemente qualche cosa di più di qualunque essere parziale; che non possa essere assolutamente altro che Dio stesso. Chi sente in sè stesso una operazione tanto grande, che non è comparabile a cosa alcuna, al saggio della cui immensità l' uomo è vinto e come annichilato, una operazione che è tutto e può tutto (e niente può contro lei o fuori di lei); questi ha in sè stesso una cotal percezione del sommo Essere , una comunicazione e, per così dire, un suo toccamento. Quanto insomma l' anima sente, deve essere tal cosa che sia evidentemente Dio (1); allora la operazione è deiforme. I Santi Padri provano, che l' operazione della grazia nell' uomo è deiforme , appunto dal sentimento che l' uomo soffre in essa. Essi fanno questa argomentazione. L' uomo non può essere pienamente accontentato se non da un bene compiuto, da un bene infinito, da Dio. Ma l' uomo giusto che ha la divina grazia, sente d' aver qualche cosa in sè stesso, che pienamente il sazia e accontenta. Dunque egli ha Dio, egli possiede Dio. Prima farò qualche osservazione su questo argomento de' Padri, rivolta a far osservare quanto una siffatta dottrina convenga a capello con tutto ciò che insegna un' accurata filosofia dello spirito umano, come pure con quanto io ho di sopra espresso intorno alla grazia: di poi recherò i luoghi de' Padri stessi. Di sopra io dissi che l' uomo per la grazia percepiva realmente Iddio; ma che però questa percezione nella vita presente non era che incoata e imperfetta. Ho esaminato in che consisteva questa imperfezione, e ho rilevato consistere nell' essere principalmente indistinta . Restava a cercare quale fosse questa essenza (1) che noi percepivamo, che costituiva la percezione indistinta . Ed entrato in questa ricerca, trovai che essa consisteva nel percepire noi una tal cosa, nella quale sentivamo solamente questo, che in essa era TUTTO L' ESSERE, TUTTO IL BENE, senza poter però determinare nessun bene particolare, nessun bene che avesse similitudine cogli altri beni da noi realmente percepiti. Ora è per una ricerca filosofica sullo spirito umano che si trova non poter l' uomo giammai pienamente soddisfare e quietare, come in suo termine, il suo appetito, se non perviene al possesso di TUTTO L' ESSERE, di TUTTO IL BENE. Nessuna cosa, nessun bene particolare, qualunque sia, può fermare e saziare veramente il desiderio della umana natura, perchè questa può sempre, dopo un bene già posseduto, immaginarsene, ossia proporsene un altro che ancor non possiede; e così portare d' una in altra cosa all' infinito il suo appetito, senza che possa mai trovare posa. La ragione di ciò fu esposta da me nei Principii della Scienza Morale , e nasce dalla natura della idea dell' essere che è la forma dell' uomo come essere intelligente, e quindi è il mezzo o istrumento ond' egli conosce. L' appetito, di natura sua, tende a ogni bene che gli venga proposto. Ora il bene vien proposto all' uomo dalla sua cognizione; un bene che conosce, già lo appetisce per natura. Ora la cognizione dell' uomo è tale che non ha limiti, perchè, dopo aver conosciuta una cosa, niente osta che non si proceda alla cognizione di un' altra: e ciò per la idea dell' essere che essendo perfettamente indeterminata , non è limitata a nessun essere particolare, ma a ognun de' possibili, qualsivoglia, si estende. Come dunque la facoltà razionale non finisce di conoscere, se non fino che l' essere (l' oggetto conoscibile) è esaurito, così parimente l' appetito della natura umana non finisce, se non quando tutto l' essere gli è dato per suo oggetto e pascolo. L' uomo dunque, per insegnamento della stessa filosofia, non si può acquetare se non percepisce L' ESSERE stesso dove è tutta la essenza e quindi tutta la pienezza dell' essere. Ma ciò appunto è che si trova per esperienza nella vita spirituale, nella quale si sente di percepire una pienezza di essere, ove nulla manca e tutto si comprende, e medesimamente una cosa che perfettamente appaga e sazia. Or la pienezza dell' essere non è che in Dio, perchè è appunto l' essere stesso, l' essere per essenza. Indi è che con ragione si può conchiudere, percepirsi Dio stesso nella operazione della grazia; e ciò per due vie, egualmente certe e che fortemente conchiudono, le quali son queste. L' esperienza, il sentimento nella vita spirituale depone che si sente in sè cosa ov' è il TUTTO, ove nulla manca dell' essere. Dunque si sente in sè Dio: l' operazione è deiforme . L' esperienza, il sentimento depone nella vita spirituale che si prova una perfetta soddisfazione e pienissimo appagamento dell' umano desiderio. Ma la filosofia dimostra che il desiderio della umana natura non si acquieta perfettamente mai, se non gli si dà per oggetto cosa, ove nulla manchi e ove sia tutto l' essere. Dunque si sente nella operazione della grazia tutto l' essere, dunque si sente Dio stesso, dunque l' operazione è deiforme . Udiamo ora i Padri della Chiesa. Didimo osserva che è frase della Scrittura il dire alcuni pieni di Spirito Santo. Or egli così argomenta. L' uomo non si empisce da nessuna creatura: dunque quello Spirito, che per la grazia inabita nell' uomo, è Dio stesso. Ecco le sue parole: [...OMISSIS...] . E poco appresso: [...OMISSIS...] . Fu detto che si può conoscere l' operazione della grazia esser deiforme, dall' imprimere essa nelle anime nostre de' segni al tutto divini, dal darci il senso di tal cosa che non può essere se non Dio stesso. Ora, se ciò bastasse a costituire la operazione deiforme, anche nella mente umana, sebben posta nell' ordine naturale, una tale operazione si rinverrebbe. Perocchè nella mente umana vi è per lume e forma la idea dell' essere, la quale ha dei caratteri che non possono convenire se non alla divinità, come l' immutabilità, l' eternità, l' autorità di suprema legislatrice, ecc. (1). Rispondo esser vero che quella idea ha de' caratteri divini e da ciò essere stati indotti i Platonici e alcuni Padri della Chiesa, che ne hanno seguita la dottrina, a divinizzarla, a dichiararla anch' essa Dio. Io però sostengo essere ciò avvenuto per non avere bastevolmente conosciuta e osservata la distinzione fra l' essere ideale e l' essere reale . Che se si fosse conosciuta una tale distinzione, sarebbe stato facile a conoscere chiaramente che il lume della ragione, ossia l' idea dell' essere, non è Dio, e noi in esso non percepiamo Dio, ma solo una cosa divina, una cotale appartenenza che si può chiamare anche similitudine della divinità: laddove nel lume della fede noi percepiamo e sentiamo Dio stesso, e non la sua similitudine. Ragione di ciò si è che il vocabolo Dio è sostantivo ed esprime quindi una sostanza; onde noi non percepiamo Dio, se non percepiamo una sostanza, che è quanto dire un essere reale e sussistente, non una idea, una possibilità. Dio deve essere un BENE reale , anzi tutto il bene, come diceva, tutto l' essere, e non punto una idea. L' idea dell' essere adunque, come sta naturalmente nelle menti nostre, non si può dire Dio, perchè manca della sussistenza. Questa ragione è recata in mezzo anche da' più santi Padri: non sarà inutile che io la illustri e confermi colle loro testimonianze. S. Cirillo nel dialogo VII della Trinità, dalle frasi che vengono usate dalle divine Scritture in commendazione degli uomini che posseggono la grazia divina, i quali sono detti talora templi di Dio , talora essi stessi Dei ; argomenta e conchiude che Dio deve agire realmente e colla stessa sua sostanza nelle anime loro, e non puramente mediante idee o similitudini. Ecco le sue parole: [...OMISSIS...] . S. Basilio nota espressamente la differenza fra l' idea e l' essere reale che opera in noi, e che ci imprime quello che egli chiama il carattere divino : ecco il passo. [...OMISSIS...] E perchè questo divino carattere non si tolga per una pura idea, soggiunge: [...OMISSIS...] . E prima ancora di S. Basilio e di S. Cirillo, il celebre cieco di Alessandria Didimo aveva egregiamente distinto l' ordine ideale, a cui appartengono le scienze, dall' ordine reale, a cui appartiene lo Spirito Santo; e mostrato quanto gran differenza ci corra fra il partecipare di quelle e di questo. Il luogo, di cui parlo, è bellissimo e lo recherò tradotto in nostra lingua. Dopo aver detto che si usa dire di un uomo, tanto esser lui pieno di scienza , quanto esser pieno di Spirito Santo ; prosegue a mostrar la differenza che passa fra il partecipare queste due cose così:« Essendo lo Spirito Santo partecipabile, come è partecipabile la sapienza e la disciplina, convien però avvertire, che egli possiede una sostanza che non istà già ne' vuoti nomi della scienza, ma che SUSSISTE egli medesimo buono, con tale natura che santifica e che empie di beni tutte le cose: secondo la quale natura diconsi anche alcuni esseri pieni di Spirito Santo, come è scritto negli Atti degli Apostoli (II): [...OMISSIS...] . Finalmente io non posso omettere l' autorità di Origene notabilissima appunto in questo, perchè un de' Platonici, i quali solevano, come dissi, confondere l' essere ideale col reale, le idee colle cose; fonte, chi ben guarda, di forse tutti o dei più errori del Platonismo. Ora all' uopo nostro Origene, cadendogli di parlare della inabitazione che fa Dio nelle anime sante, scorto dal lume rivelato, lascia la solita confusione delle idee colle realtà, e entra benissimo a distinguere ciò che sussiste realmente, e ciò che non è che una idea o scienza; e dice che Dio è partecipato dagli uomini, come per essi si partecipa di una scienza, a ragion di esempio, della medicina (e quindi formalmente , perocchè le notizie informano oggettivamente lo spirito): ma con questo divario tuttavia, che Dio è anche una sostanza , quando la medicina non è nulla più di un essere ideale . Udiamo lui medesimo: [...OMISSIS...] . Or, dopo aver detto questo, così acconciamente soggiunge, distinguendo la natura ideale della scienza medica dalla reale sostanza dello Spirito Santo. [...OMISSIS...] Dalle cose dette sin qui si può conchiudere, a quale sistema si deva attenersi circa la relazione dello spirito intelligente colla divinità: perocchè tre ve ne possono essere in questo; e sono i seguenti. Il primo sistema è platonico; e in esso si fa DIO anche il lume dalla ragion naturale. Con un tale sistema si riduce tutto all' esser reale e si perde di vista l' essere ideale . Il secondo sistema, opposto al primo, è di quelli che negano, che sia Dio anche ciò che si sente per la operazione della grazia; ma vogliono che noi partecipiamo per essa solamente di una similitudine di Dio, e non più: e questo sistema è di una celebre scuola di Teologi (1). Con un tale sistema si riduce tutto all' essere ideale e si perde di vista l' essere reale . Il terzo sistema è quello che noi seguiamo, e che stimo più conforme alla verità e alla ecclesiastica tradizione: è quello che stabilisce il lume della ragione non esser più che una appartenenza, o se si vuole anco una incoata similitudine di Dio, ma non Dio stesso; il lume poi della fede essere la stessa divina sostanza. Quindi l' ordine naturale esser costituito dall' essere ideale ; l' ordine poi soprannaturale esser costituito dalla partecipazione dell' essere reale : e quest' ordine essere un compimento e perfezionamento di quello, come l' essere reale non è che un compimento e perfezionamento dell' essere ideale . Che Iddio operi nell' anima, nell' ordine della grazia, come causa efficiente , è fuori di controversia: i teologi però sono divisi, se Iddio operi anche come causa formale . Io credo essere necessario di chiarir bene il significato di questa parola, causa formale . Per causa formale, o forma di una cosa, si suole intendere universalmente quell' elemento che entra in una cosa, per la quale la cosa è posta in atto. Ma questa definizione è generale, e si possono distinguere più specie di cause formali, dalla quale accurata distinzione verrà piena luce alla materia che abbiamo alle mani. Causa formale o forma di una cosa si chiama, in primo luogo, quell' elemento costitutivo della cosa stessa, per modo che esso, con le altre parti aggiunte, è la cosa stessa, il quale origina nella cosa la sua propria naturale attività: come sarebbe in un corpo, la sua forma sostanziale è quella energia onde esso sussiste; come forme accidentali sono quelle particolari attività a lui inerenti ond' egli si attua a degli atti accidentali. In questo senso parimente l' anima è la forma del corpo. Ora Dio non può essere, in tal modo, forma di nessuna creatura, perchè non può trasformarsi in alcuna creatura, nè in nessuna parte di una creatura. Questo è ciò che insegnano i maestri della Chiesa, quando, ragionando sul dogma della Incarnazione, avvisano che non si deve già credere che il Verbo siasi tramutato in sostanza umana, ma sì congiuntosi alla umana natura senza sofferire in sè nessuna passione: e il medesimo dicono dello Spirito Santo che si unisce ai redenti per la grazia. Il contrario de' Manichei che sostenevano una porzione della divinità collo spiracolo della vita, narrato dal Genesi, essersi trasformata nella umana natura: contro il quale errore scrive S. Agostino (1). Nella incarnazione però avvenne questo, che il Verbo assunse la natura umana in una sola persona; e questa è la massima unione fra le possibili della divinità coll' uomo, perchè fu tale che Cristo dicendo ego , quest' ego suonava il Verbo stesso così parlante. In tale congiunzione il Verbo si poteva dire bensì forma del Cristo, ma non era forma perciò di una creatura, perchè Cristo, nome personale, non significa una creatura. Una seconda maniera di causa formale , volgarmente, si reputa essere una cosa estranea che agisce in un' altra e la modifica e conforma a sè: in ragion d' esempio, il fuoco che entra nel ferro, lo infiamma, e quel fuoco nel ferro si piglia per una forma che il ferro ha ricevuto. Ma qui, sottilmente parlando, hassi a distinguere il corpo estraneo entrato, dal corpo da lui modificato, e la modificazione che questo riceve dalla causa che gliela produce: il che il volgo però non suol fare. Ora la modificazione stessa è una forma (un atto nuovo), di cui la cosa viene informata: ma il corpo eterogeneo a lei aderente, e non con lei contemperato e immedesimato, non è più che una causa efficiente, a vero dire, che ha però con quella forma uno strettissimo nesso, e che per ciò vien detto anche forma o causa formale , in quanto che imprime la forma (1). Ora non è dubbio, che Iddio opera in modo nell' anima, che egli sia causa efficiente, di somigliante natura, cioè tale che imprima la forma; e a questo si riferiscono le similitudini che usano le Scritture e i Padri, paragonando lo Spirito Santo ora al fuoco che riscalda la materia, in cui entra, ora agli aromi che si attaccano ed aderiscono alle vestimenta, onde sembra che queste stesse tramandino il grato olezzo da sè. Ecco due passi di S. Basilio e di S. Cirillo. [...OMISSIS...] Un' altra similitudine usata da' Padri e dalla Chiesa stessa ne' suoi riti per adombrare l' unione di Dio con noi, è quella del vino mescolato coll' acqua; la quale però non deve così strettamente intendersi, da credere che lo Spirito, significato nel vino, abbia sofferto qualche mutazione, ma bensì l' acqua. Il santo Massimo martire dice che Cristo [...OMISSIS...] Di una terza maniera di causa formale ci viene data notizia dalle sensazioni. Noi colle sensazioni percepiamo i corpi, cioè sentiamo la loro attività operante sullo spirito nostro, ove restano alcuni effetti sensibili di quell' attività operante, cioè restano le sensazioni che dànno la percezione dei corpi. Conviene riflettere che, nell' atto della sensazione, il corpo attivo operante sopra il nostro spirito termina realmente colla sua azione nel nostro spirito; sicchè il termine della nostra passione e della sua azione è uno e il medesimo. Indi quella unione , fra il paziente sensitivo, e l' agente sensibile, osservata dagli antichi, per la quale, con ogni ragione, può dirsi che l' agente , in quanto è attualmente sensibile e operante, come tale, sullo spirito, si renda forma del senso . Ma qui è da osservare con attenzione quanto sono per dire. Il corpo sensibile non è punto sensitivo, non sente punto sè stesso: quindi le sensazioni che produce non appartengono a lui, non sono il termine della sua attività, come tali. Il termine comune adunque, fra il corpo sensibile e l' essere sensitivo, è l' attività , cioè il moto delle parti, moto ove è numero e estensione; ed è per questo che io ho chiamata questa parte reale della nostra percezione de' corpi, chiamando le sensazioni stesse, la parte fenomenale (2). Ora la parte reale della percezione de' corpi non si divide dalla fenomenale, se non per una operazione dell' intelletto, al qual solo per ciò appartiene una conoscenza veritiera, sebbene limitata, di questi agenti che si dicono corpi . Ciò posto, nelle sensazioni il corpo, in quanto è sensibile , non è vera forma dell' anima, ma solo forma fenomenale, o apparente, come tale, all' anima stessa: in quanto poi esso è attivo , anzichè causa formale, è piuttosto causa efficiente: e, in tal causa, è a dir di lui quello che si è detto, parlando della seconda maniera di cause formali . Ora Iddio non può essere causa formale7fenomenale dello spirito umano perchè essendo egli semplicissimo, non gli si può attribuire cosa alcuna che non gli appartenga, senza che egli cessi dall' essere Dio: come, a ragion di esempio, se noi volessimo attribuirgli qualche umano sentimento, il concetto in noi suscitato e prodotto, che ne uscirebbe da questa aggiunta, non si potrebbe più chiamare Dio, secondo il valor comune della parola: a differenza di ciò che avviene ne' corpi, ai quali attribuiamo i colori, i sapori e le altre sensazioni e così formiamo ciò che si dice il corpo fenomenale. Ma nulla di ciò potrebbe avvenire in quanto alla idea di Dio, che se apparisse diverso da quello che è, nulla più vi sarebbe di divino, ma tutto si distruggerebbe il suo concetto. Per intendere la natura di questa quarta maniera di causa formale, è necessario ricorrere alla teoria dell' intendimento. L' intendimento, ove pensi un qualche oggetto reale, cioè da lui percepito, ha per termine della sua operazione l' oggetto stesso e non una qualche sua similitudine o idea. Quando io dico: - date anche a me di quelle frutta che voi mangiate - ; io non dimando già l' idea delle frutta, ma dimando le frutta stesse, di che altri mangia. Questo fatto, per quanto difficile sia da spiegarsi, è innegabile e ovvio. Conseguentemente a questo fatto si può stabilire questa verità, che, in virtù della funzione del giudizio o come io la ho anche appellata, del verbo, l' uomo intelligente col suo atto termina negli oggetti stessi reali. Questo è quanto dire, che gli esseri stessi reali sono oggetto dell' atto dell' uomo intelligente. Or come è possibile ciò? Io ho dichiarata questa grande verità nella Ideologia (1) dimostrando ivi che l' essere è l' oggetto essenziale dell' intelletto, cioè che l' essere ha questa singolare virtù, ossia attitudine, di poter venir ricevuto da un ente sensitivo, e che venendovi ricevuto, cioè percepito, egli fa nascere in quell' essere sensitivo l' intendimento, la cui funzione essenziale non è altro che la percezione appunto dell' essere . Ho dimostrato ancora che l' essere, ove sia percepito solo inizialmente , prende il nome di idea dell' essere o di specie (2), o di essere ideale o potenziale, ed è il lume della ragione e produce l' intelletto umano . Con questo essere iniziale , o lume, l' intendimento conosce tutte le altre cose anche reali, ossia sensibili. Che se l' essere stesso viene percepito non solo inizialmente , ma finitamente , questa percezione è la percezione di Dio; e in tal caso Dio stesso è la forma dell' intendimento. Questa percezione dell' essere così finito, cioè terminato, o è indistinta , ed è quella della grazia, come si percepisce Iddio in questa vita; o è distinta , ed è quella della gloria, come si percepisce Iddio nell' altra vita. Per ben conoscere la natura della causa formale, di cui parliamo, conviene fare le osservazioni seguenti: 1. Che quando lo spirito pensa un oggetto reale, questo oggetto nulla soffre dal pensiero; e che se questo oggetto è contingente, nè pure nulla opera nella mente: e tuttavia è indubitabile che quell' oggetto è il termine dell' attenzione del soggetto pensante e sensitivo insieme. 2. Che se questo oggetto è necessario, cioè l' essere stesso , allora questo opera nella mente, ed è per sè termine e oggetto della mente: il che si rileva osservando che la natura dell' intendimento è tale, che ella riceve passivamente la forma sua, cioè l' essere , e che quindi l' essere deve indubitamente esser attivo in lei. 3. Che quindi conviene separare l' essere, che opera nella mente, dall' essere reale sensibile e contingente: e che questa separazione si può fare osservando che, quando noi pensiamo un essere contingente, noi contrassegniamo quell' essere con ciò che di lui abbiamo percepito co' sensi nostri. Prima cioè della operazione nostra intellettiva, noi non abbiamo percepito dell' essere se non ciò che fu da lui operato nei nostri sentimenti: questa è operazione reale dell' essere stesso. Ma con questa sola operazione noi non conosciamo ancora quell' ente; noi non lo conosciamo in sè, come uno degli esseri. Tutto ciò adunque che abbiamo percepito non è l' essere, come tale, ma delle appartenenze, delle affezioni dell' essere. La mente poi è quella che supplisce l' essere da sè nella percezione intellettiva; per aver questa adunque non è maraviglia se non si esiga una nuova operazione di quell' ente nella mente nostra, ma bensì è necessario che si supponga l' operazione che soffre la mente dall' essere stesso, che le imprime appunto l' idea dell' essere. 4. Che questa recettività dell' essere nella mente è proprietà dell' essere stesso. 5. Conviene avvertire diligentemente che è proprio solo di questa forma una rilevantissima particolarità: ed è che ella, sebbene si unisca con uno spirito sensitivo, siccome sua forma , tuttavia ella non si mescola punto nè si confonde collo spirito stesso, ma si rimane perfettamente immune dalle qualità di lui, e colle sue proprie inconfusibili e inalterabili. 6. Finalmente questa forma, col pure unirsi collo spirito, agisce in lui, giacchè dallo spirito è sentita ; ed è perciò anche un agente, una causa efficiente. Ora come forma di questa natura, nulla ripugna che Iddio si unisca allo spirito umano. S. Tommaso dice espressamente che nell' altra vita la forma , colla quale i beati intendono, è Dio stesso (1). E poichè lo stesso Santo dice, che la vita eterna comincia col battesimo (2), pare che questo santo Dottore non fosse del tutto contrario che anco in questa vita per la grazia Iddio stesso divenisse forma dell' anima: e pare, cercando il fondo del suo pensiero, quando egli diceva che Dio nella operazione della grazia era causa efficiente e non formale, non avesse altro in vista, se non di ben distinguere la percezione che s' hanno i beati nell' altra vita, acciocchè non fosse confuso il lume della gloria con quello della grazia (3). Ed è degno di attenzione, questo, che nelle divine Scritture si applicano le stesse maniere di dire tanto al lume della gloria, come al lume della grazia: anzi lo stesso vocabolo di gloria viene adoperato talora a significare quella manifestazione che fa di sè Iddio in questa vita a' Santi suoi; come, a cagione di esempio, ne' passi seguenti: « Tutti peccarono, e abbisognano della gloria di Dio« (4). - « E non ti ho io detto che, se crederai, vedrai la gloria di Dio?« (5). » E l' Apostolo dice la « gloria futura , » per distinguere quella del cielo dalla grazia che si ha in questa terra (6). E quando egli vuol parlare del presente, dice la « gloria della grazia (7). » Nelle quali maniere è solo da osservarsi questo, che la gloria della grazia in questa vita è tutta di Dio; laddove in cielo la gloria di Dio ridonda in noi: ossia, secondo il sentimento dello stesso Apostolo, l' uomo in questa vita ha bensì la gloria di Dio in sè, ma nascosta e velata, la quale poi nell' altra vita non fa che scuoprirsegli e rivelarglisi (1). Ma ciò, che merita ancor più osservazione, si è la frase di vedere Iddio , che si applica egualmente alla visione beatifica e alla visione o percezione di Dio che si ha per la grazia, come il mostrano apertamente i luoghi delle Scritture, più sopra da me riferiti (2), e altri che potrei recare. E questa frase di vedere Iddio è ancora più propria dell' altra di percepire Iddio; poichè la percezione sensitiva si fa tanto col tatto, quanto coll' occhio; ma la percezione del tatto, non è tanto manifestazione oggettiva, come quella che si fa coll' occhio. Poichè l' oggetto non tocca l' occhio e non si mesce con lui, ma rimane dall' occhio lontano e diviso: laddove lo stimolo del tatto colle sue qualità tattili s' immedesima coll' organo senziente. Ora meglio sta il dire che Iddio si vede, appunto perchè, sebbene si unisce, tuttavia non si confonde coll' anima, ma rimane da lei distinto, come è l' oggetto dal soggetto. Il perchè questa frase di vedere Iddio esprime assai acconciamente quell' essere Iddio, rispetto all' anima dotata di grazia, non una causa puramente formale, ma una causa oggettiva formale. Egli è in questo senso pertanto di causa formale oggettiva , che i Padri hanno detto, Dio essere formalmente congiunto colle anime dalla grazia rigenerante. Non sarà inutile sentire alcuna loro testimonianza di questa verità. S. Basilio osserva, nelle Scritture usarsi comunemente la frase che lo Spirito Santo sia in noi . Egli dunque dimanda, in che modo sia in noi, e risponde così: [...OMISSIS...] S. Atanasio parimenti fa forza su quelle parole di S. Pietro, colle quali afferma il santo Apostolo che noi veniamo fatti « partecipi della divina natura«. » Queste parole infatti, intese semplicemente e letteralmente, importano che la divinità diventi forma del nostro spirito. Ma sentiamo il grande Atanasio: [...OMISSIS...] Di che egli argomenta che lo Spirito Santo sia Dio (2). Il medesimo concetto viene pure espresso da S. Cirillo con altre parole: [...OMISSIS...] . Nè sembrami che inettamente lo stesso Padre dichiari quella qualità della divina natura cui l' uomo riceve dalla grazia, col paragonare Iddio a dell' oro e l' uomo a una statua dorata (1); poichè nella indoratura ci ha lo stesso oro, e non già qualche altra cosa, solamente prodotta dall' azione dell' oro. E veramente se Iddio non fosse formalmente congiunto coll' uomo in virtù della grazia, non potrebbero avere un senso vero queste espressioni della Scrittura: « l' uomo esser fatto consorte della divina natura, essere deificato »; come indicano quelle efficacissime parole approvate da Cristo stesso: « voi siete Dii ». Là dove, se la congiunzione fra l' uomo e Dio è formale, queste maniere di dire ricevono un senso tutto proprio e verissimo. La quale è comune osservazione dei Padri, massime Greci, dei quali ho recate già non poche acconcie testimonianze (2). Nè solo i Padri della Chiesa attestano che, nel senso sovra esposto, Iddio diventa forma dell' anima; ma esprimono inoltre quelle qualità di questa forma e quelle condizioni che furono da noi toccate, le quali in queste due si possono ricapitolare: 1 Che, sebbene Iddio operi in noi a tale da essere forma del nostro spirito, tuttavia questa azione di Dio non ha nessuna reazione sopra Dio: sicchè il nostro spirito punto non reagisce in Dio stesso. La quale condizione si verifica massimamente, perchè Iddio opera come Creatore, e il Creatore fa la cosa prima che sia, e quindi non patisce niente dalla cosa stessa. Il celebre cieco di Alessandria, Didimo, nella sua grande opera sullo Spirito Santo, esprime questa condizione assai acconciamente, dando alla divina natura la proprietà di essere capibile , e non quella di esser capace , cioè la proprietà di essere ricevuto, ma non quella di ricevere essa in sè cosa alcuna dall' anima ove inabita. [...OMISSIS...] (Ecco la ragione del non patir egli nulla dalle creature, in cui opera; ciò nasce pel suo modo di operare in attività di Creatore). 2 Che, sebbene Iddio si renda forma dell' uomo, tuttavia Iddio non si confonde coll' uomo: il che avviene, perchè è forma oggettiva , nel qual genere di forme non vi ha alcuna mistione o confusione, perchè l' oggetto ha per sua propria natura una cotale opposizione al soggetto , che non si può giammai con lui mischiare, fino che si rimane oggetto , sebbene esso agisca nel soggetto e di sè lo informi. Questa maniera di operare di Dio nell' uomo viene dalle Scritture e da' Padri dichiarata colla similitudine di un suggello, che opera improntando la imagine nella cera o in altra materia molle e si unisce con quella materia fino al contatto; e tuttavia riman sempre distinto, per sua natura, dalla materia che suggella. S. Paolo usa di questa similitudine in quel luogo agli Efesi: [...OMISSIS...] . E commentando queste parole S. Girolamo, dice così: [...OMISSIS...] . S. Basilio che usa spesso la medesima similitudine del sigillo chiama Dio « imagine effettrice d' imagine (5) »: il che conviene principalmente al Verbo che è imagine del Padre, e che, unendosi con noi, viene sentito dall' anima nostra e così l' anima nostra riceve la impressione e la imagine di lui. Egli è questa la distinzione che si deve fare fra l' oggetto e il soggetto. Allorquando noi soggetto contempliamo un oggetto (il verbo), avvi quest' oggetto, in cui termina la nostra azione, ma anche il soggetto ha sofferto una passione da quell' oggetto; e questa modificazione, questa passione sofferta dalla percezione dell' oggetto, è la imagine che viene in noi prodotta e che si può chiamar soggettiva. Sicchè il santo Dottore con quella espressione «eikon eikonopoios», ottimamente espresse la distinzione che sempre sussiste tra l' oggetto operante (Dio) e noi soggetto che riceviamo la sua operazione. E perchè si veda essere mente dei Padri, che quest' oggetto dello Spirito intelligente, che imprime l' imagine quasi a guisa di suggello, nella operazione della grazia, è Dio stesso immediatamente operante; odasi ancora S. Cirillo in uno de' suoi dialoghi con Ermia, che non lascia luogo a dubbiezza. Egli dice adunque così: [...OMISSIS...] . Nel qual passo si toglie ogni cosa di mezzo fra lo Spirito Santo, e lo spirito dell' uomo santificato. Da ciò che abbiamo fin qui ragionato risulta che negli uomini santi la stessa sostanza divina (2) opera immediatamente, e con essi formalmente si congiunge. Egli non sarà però inutile che io ancora un po' mi trattenga a provare colle testimonianze dell' antichità cristiana quello che in questa materia è il vero principale e di tutti il più degno da notarsi ben colla mente, cioè che Dio non è alcun' altra forma della mente, ma quella che abbiamo chiamata oggettiva . Si può intendere che è necessario che sia così, e non altramente, da tutto ciò che abbiam detto. Poichè, in primo luogo, abbiam detto che Dio nella operazione della grazia non agisce in altra parte dell' uomo, ma nella essenza sua e propriamente nell' intelletto che è l' elemento più nobile dell' essenza umana. Ora ciò posto, basta sapere la natura dell' intelletto per intendere che Iddio non può altro che farsi suo oggetto: conciossiachè la natura dell' intelletto è tale, che non riceve altra operazione se non quella de' suoi oggetti; giacchè cogli oggetti appunto si forma l' intelletto; e ogni altra operazione nello spirito dell' uomo sarebbe fuori dell' intelletto per la stessa definizione dell' intelletto. Ora coerente a questa dottrina, che appartiene tutta alla tradizione cristiana, è quello che fanno i Padri e Maestri della Chiesa, descrivendo la partecipazione che del Verbo di Dio fa l' uomo della grazia, colla similitudine della partecipazione delle scienze e delle idee: della quale similitudine non si può trovar nulla di più accomodato e di più vero. Poichè se l' intelletto è la sede delle scienze e delle idee, e il Verbo di Dio opera nell' intelletto, forza è che questa operazione avvenga appunto per le idee e nelle idee, o più generalmente avvenga in virtù di percezioni intellettive: con questa sola differenza che l' intelletto, fino che ha semplici idee, non vede più che un iniziamento dell' essere (essere ideale), laddove avendo il Verbo, ha tale idea, che non è solo idea, ma insieme sostanza e completamento dell' essere (essere reale). Udiamo adunque quanto acconciamente parlino i Padri della inabitazione del Verbo di Dio nell' uomo, togliendo la similitudine dalle scienze e cognizioni. Già innanzi (1) ho recati i passi dell' Alessandrino Didimo, di Origene e di S. Basilio, dove questi Padri parlano della inabitazione del Verbo nell' uomo, somigliandola a quella delle idee nella mente nostra e mostrandone la differenza. A quelli aggiungerò un altro bel passo di Didimo (2), riferito anche da S. Girolamo, dove toglie a dichiarare il modo onde lo Spirito divino ammaestra gli uomini: [...OMISSIS...] . - Se è dunque come la scienza, che Iddio viene partecipato da noi, egli si unisce a noi a modo di forma oggettiva dello spirito nostro. Lo stesso prova la similitudine del suggello adoperata a spiegare l' azione di Dio nell' anima giusta: solamente che nel suggello si mostra altresì non essere Iddio che si presenta al nostro spirito una pura e tenue idea, ma una specie operante e sostanziale nel nostro spirito, come uno stimolo che vi lascia un' impressione e vi suscita un real sentimento. Didimo mostra appunto che nel simbolo del suggello e della imagine da quello impressa si contiene un' analogia coll' altro modo di spiegare l' azione della grazia in noi tolto dalla partecipazione delle cognizioni, perocchè dice così: [...OMISSIS...] . Ricapitolando la prova dedotta dalla natura dell' intelletto, noi abbiam detto col sentimento dei Padri della Chiesa: L' intelletto non viene formato e non riceve altra azione che da' suoi oggetti: Iddio opera immediatamente nell' intelletto: Dunque Iddio si presenta allo spirito dell' uomo come oggetto, o sia si unisce all' uomo come causa formale oggettiva. Alla medesima conclusione possiamo venire, sempre camminando sulle vestigie dei Padri, ove pigliamo a considerare la cosa da parte della natura divina. Ecco l' argomentazione: Dio è l' essere: Ma l' essere non è partecipato che dall' intelletto, perocchè il farsi quest' essere visibile a uno spirito, è il medesimo che crearvi un intelletto: Dunque Iddio non può essere partecipato dall' uomo immediatamente che coll' atto del suo intelletto, che dall' essere appunto è formato. Questo ragionamento è evidente e irrepugnabile. Da esso si ricava questa bella verità:« Che se l' intelletto umano è formato dalla vista iniziale dell' essere (idea dell' essere in universale), questo intelletto, e l' uomo per esso, vien elevato alla dignità di uno stato soprannaturale con nulla più che essergli accresciuto il grado di quella vista dell' essere che ha per sua natura, cioè col venirgli mostrato l' essere non più solo inizialmente (idealmente), ma terminatamente , col termine della sua reale sussistenza (realmente): il che è Dio. Di qui è che essendo la forma dello spirito umano la idea dell' essere in universale, i Padri acconciamente dicono che lo Spirito Santo perfeziona in noi la forma , o che tiene luogo della forma. Si oda S. Basilio: [...OMISSIS...] . S. Agostino parla dell' intelletto o mente dell' uomo naturale colle medesime espressioni di quelle che usa parlando della mente dell' uomo soprannaturale. Egli dice nel libro delle LXXXIII questioni, che la mente dell' uomo considerata nel suo stato naturale, « nulla substantia interposita ab ipsa veritate FORMATUR (2) ». Io ho già dimostrato che questa verità , di cui parla S. Agostino, e che informa la mente umana, è l' idea dell' essere universale (3). Ora come si esprime il Santo Dottore parlando dell' uomo elevato allo stato soprannaturale? Egli nel libro III della Trinità (4) dice appunto così: « Iustificando FORMATUR a Deo iusti mens « ». Nello stato naturale la forma dell' uomo è la verità , l' essere ideale, la idea dell' essere: nello stato soprannaturale la forma dell' uomo è Dio stesso, l' essere reale terminato, sussistente (5). La forma dunque che si sopraggiunge all' uomo, che entra a partecipare della grazia divina, non è che quella che formava la sua natura, ma completata, elevata, mutata nella sostanza divina. Conviene riflettere di nuovo, a maggiore confermazione di ciò, che le cose create non possono informare la mente umana nel loro modo di essere reale , ma che la informano mediante il loro modo di essere ideale (mediante le idee); il quale è concepito dalla mente indipendentemente dalla realtà delle cose. All' incontro in Dio il modo reale è congiunto siffattamente al modo ideale , che è impossibile immaginarlo scongiunto, senza distruggere Dio stesso: sicchè non vi può aver idea di Dio (modo ideale) senza avere la percezione della sostanza di Dio (modo reale). Sicchè Iddio non può informare la nostra mente colla sua idea, senza che la informi con sè stesso: a differenza appunto di tutte le altre cose che non possono informare la nostra mente di sè stesse, ma di sole le loro idee. Di Dio dunque non si dà idea pura (positiva), ma si dà solo la percezione della sua sostanza. O convien dunque negare all' uomo della grazia ogni partecipazione di Dio, il che è contro all' autorità delle divine Scritture e di tutta la cristiana tradizione; o conviene accordare queste due proposizioni: 1. che Iddio è forma oggettiva dello spirito elevato allo stato di grazia; 2. e che Dio è forma oggettiva non già col suo modo ideale, come sono le altre cose, ma si bene con sè stesso immediatamente, colla sua propria sostanza. S' intenderà chiaramente la ragione di questa dottrina, considerando che Dio è l' essere stesso sussistente ; che perciò è per necessità, è per essenza, è per la stessa definizione. Per potere adunque conoscere Iddio, conviene conoscer[n]e la sussistenza. Ma io ho dimostrato che colle idee pure non si conosce che la possibilità sola delle cose Quindi è impossibile colle pure idee conoscere Dio, e non si può altro conoscerlo che avendone la stessa percezione. Quanto ho detto ha una riprova in quella dottrina comune de' Teologi, i quali insegnano che in Dio non vi ha distinzione fra l' essere e la essenza : mentre in tutte le altre cose si distingue l' essere dalla essenza , potendosi pensare la essenza di una cosa, senza che la cosa necessariamente sia. Conciossiachè che cosa è l' essenza? Pigliamo la nostra definizione:« ciò che da noi si pensa nella idea di una cosa.« - La essenza adunque è il modo ideale dell' essere. Che cosa è poi l' essere [reale] di una cosa? L' essere è l' atto della cosa, cioè l' atto onde la essenza è, sussiste. Or, ciò che dicono i Teologi sulla indivisibilità della essenza dall' essere nella natura divina, non è dunque ciò appunto che noi dicevamo sulla indivisibilità [in Dio] del modo ideale e del modo reale? Risulta adunque dalla teologia che di Dio non si può dare una idea pura positiva, ma che si può dar solo la« immediata sua percezione intellettiva«; e che senza di questa l' uomo non può avere nessuna reale e positiva comunicazione con la divinità. O convien dunque negare all' uomo della grazia qualunque reale cognizione e comunicazione della divinità: o conviene concedere che questa comunicazione delle anime giuste con Dio è immediata , che hanno la percezione di Dio , che Dio stesso colla sua propria sostanza si rende forma oggettiva di esse. Ai Padri della Chiesa non sono sfuggiti questi ragionamenti; e credo che la dottrina esposta sia ne' visceri stessi della cristiana religione. S. Cirillo pone questo inconcusso principio: « non si può partecipare per mezzo della creatura ciò che supera la creatura« (2) ». Il medesimo afferma in un altro luogo: quando noi siamo fatti partecipi, come dicono le Scritture, dello Spirito Santo, [...OMISSIS...] . Or dunque secondo questo principio, non per mezzo della idea pura si conosce Dio, ma per Dio stesso sussistente; perocchè l' idea pura che noi aver possiamo di Dio, non è Dio, ma è una creatura anch' essa, perchè limitata, è un lume creato. Qui batte quello che tante volte ripetono i Padri, massime Greci, che la comunicazione di Dio alle anime giuste si fa senza mezzo , «amesos», e che non si può col mezzo di nessuna cosa creata, e però nè pure di nessuna idea, dare alle anime la santificazione: come tante volte ripete S. Cirillo di Alessandria (4). Questo vero è tanto da loro ribadito e chiarito, che non rimane il più piccolo [luogo] a dubitare della loro mente: almeno a me, dopo aver considerati i loro detti, è stata tolta via ogni dubitazione su di ciò. I Padri riconoscono in Dio una cotale relazione essenziale colle creature, di diverso modo in ciascuna delle tre divine Persone. A quel modo che, essi dicono, che il Verbo divino è un cotal pensiero del Padre, col quale non solo ha pensato sè, ma tutte le creature altresì, e così pensandole, con quell' atto stesso della eterna generazione le ha create (5); così dicono parimente che, collo stesso atto della eterna spirazione, non solo il Padre e il Figliuolo ha amato sè, ma ha amato, infuso l' amore, santificate le anime sante; sicchè la stessa sostanziale persona dello Spirito Santo sia una cosa identica colla stessa virtù santificatrice dei giusti. [...OMISSIS...] - Così S. Cirillo (6). Quindi, come al Figliuolo conviene sostanzialmente il nome d' imagine , così allo Spirito Santo conviene sostanzialmente quello di dono (1). Una operazione più immediata di questa non si può concepire, ed è questa sola che può comunicare la cognizione di Dio all' uomo. Questa singolare proprietà di Dio solo, di essere conoscibile per sè stesso e non per nessun altro mezzo, sparge una luce viva, a mio parere, sopra un brano del grande Basilio, che, senza aver prima ben concepita nella mente questa dottrina, parrebbe oltremodo oscuro. Nel brano, di cui parlo, S. Basilio dice che, per conoscere Iddio, noi dobbiamo riceverne in noi medesimi la impressione, il carattere, ma che questo carattere, parlando di Dio, non è come le idee che si ricevono dalle altre cose, ma è un carattere vivo e efficace: col qual passo si distingue manifestamente il conoscere delle altre cose colla idea , che è un segno freddo e imperfetto, e il non potersi aver di Dio questa imperfetta impressione, il non potersi aver di Dio l' idea; ma sì bene solo il potersi aver di lui la immediata percezione viva ed efficace, come sono sempre le percezioni, giacchè con esse noi soffriamo dalle cose un' azione reale. Ecco il luogo assai notabile del santo Dottore: [...OMISSIS...] . Essendo questo un vero comune e famigliare de' teologi cristiani, non addotto in controversia da nessuno, mi basterà l' averlo indicato. [...OMISSIS...] . Quindi si può dire che l' operazione di Dio è una ; ma il modo della medesima è trino . Egli è principio costante de' maestri della cristiana dottrina, che l' operazione di Dio non si distingue da Dio stesso. Quindi, come Iddio è uno e trino, così la divina operazione deve essere una e trina: come Iddio è uno nella sostanza, trino nel modo in che sussiste questa sostanza, così l' operazione stessa di lui deve essere una, ma trino il modo della medesima. Confermiamo l' una e l' altra verità coi testimonii della tradizione. Dell' unità della operazione divina, dogma fermissimo, così dice l' undecimo Sinodo Toletano: [...OMISSIS...] . E S. Basilio: [...OMISSIS...] . Che poi il modo dell' operazione sia trino, si autentica dalle diverse preposizioni che la divina Scrittura adopera nell' indicare l' operazione del Padre e del Figliuolo e dello Spirito Santo. Perchè parlando del Padre, il più si dice che« il Padre opera«, in caso retto: ma per indicare l' operazione stessa appartenente al Figlio, si usa della preposizione per , dicendosi che« il Padre opera per lo figliuolo«: e medesimamente la stessa operazione si attribuisce allo Spirito Santo mediante la parola in , dicendo che« il Padre opera per lo Figliuolo nello Spirito Santo«. Le quali particelle sono acconcissime a indicare non già una operazione diversa, ma un diverso modo , onde le tre divine persone entrano a produrre la medesima e semplicissima operazione. Sono costanti i Padri in questa maniera di esprimersi circa la divina operazione. A ragion d' esempio, in questo luogo di S. Atanasio, dove egli afferma l' unità della divina operazione, mostra ancora in che diverso modo concorra ciascuna delle divine persone in essa, mediante le accennate preposizioni: [...OMISSIS...] . E S. Ilario: [...OMISSIS...] . Nè questo trino modo dell' operazione divina può togliere l' unità della medesima, perchè come riflette S. Cirillo Alessandrino, « colà dove è identità di natura, sotto nessun rispetto divisa, ivi pure l' azione non può esser divisa, eziandio che s' intenda farsi quell' azione da alcuno in modi varii e diversi« (3) ». Se l' universo è l' opera delle tre divine persone, e se l' operazione di queste, sebbene una in sè stessa, è tuttavia trina nel modo; apparisce manifestamente ragionevole e consentanea a sè stessa la dottrina dei Maestri della Chiesa, i quali insegnano che nell' universo risplende il vestigio della Santissima Trinità: perocchè conviene che l' effetto sia simile alla sua cagione. E questa è appunto la ragione, che dà S. Tommaso d' Aquino, del trovarsi sparse nell' universo le traccie di una causa una e trina (4). Per trovare quale sia il vestigio più completo della Trinità nell' universo, o, a dir meglio, per trovare una formola che esprima completamente il più che esser possa la traccia che la Santissima Trinità impresse di sè nelle cose, in creandole, a me parve di tenere il metodo seguente. In primo luogo osservai l' essere creato sotto tutte le sue forme e modi possibili. Poi cominciai a classificare queste forme e questi modi; e riducendoli di classe in classe, li venni [riducendo] ne' generi reali (1), primi irriducibili l' uno all' altro, nè aventi sopra di sè altra essenza generica, ma solo la essenza universale, l' essere . Ora questa operazione mi condusse a rinvenire tre forme primitive e originali, inconfusibili fra di loro, che riconobbi esser le tre forme, di cui era informato l' universo, ossia i tre modi dell' essere creato . Queste tre forme o modi dell' essere sono: 1. l' essere reale ; 2. l' essere ideale ; 3. l' essere morale . L' essere reale vidi che costituiva il sentimento , e che i corpi non erano che la sua materia (2): vidi che l' essere ideale (le idee) costituiva la cognizione : e che l' essere morale costituiva la ricognizione pratica o riflessione (3). M' accorsi che l' essere reale è l' essere in quanto è sussistente ; che l' essere ideale è l' essere stesso in quanto è conoscibile ; che l' essere morale è il medesimo essere cognito in quanto è amabile . Mi si manifestò parimente che l' essere reale era quello che conosceva e che amava; e che l' essere ideale era il mezzo, pel quale l' essere reale amava ciò che aveva conosciuto (l' amabile); e che l' essere reale, in quanto conosceva e amava, si diceva aver le facoltà d' intendere e di volere. Ancora osservai che gli uomini riserbavano all' essere reale propriamente il nome di essere o di ente ; che all' incontro all' essere [ideale] davano più di frequente il nome di verità ; e all' essere [morale] quello di bene : e che l' essere, il vero, e il bene erano appunto stati i tre elementi, a cui l' antica filosofia aveva ridotte tutte le supreme nature dell' universo. Ora questa io credo essere appunto la formola che più completamente di tutte esprima il vestigio della Trinità, del quale è segnato il mondo. S. Agostino nel libro VI della Trinità (1) parla dei vestigi di lei nelle cose create, e trova questo vestigio in ogni creatura per questo, che qualsiasi cosa non esiste se non a tre condizioni, cioè: 1. che sia un qualche cosa ; 2. che sia informata di qualche specie ; 3. e che tenga in sè qualche ordine , cioè che sia ordinata a qualche fine (2). Di che conchiude « esser necessario che, contemplando il Creatore coll' intelletto per quelle cose che sono state fatte, veniamo all' intelligenza della Trinità, di cui nella creatura apparisce, come è degno, [un] vestigio« (3) ». E queste tre condizioni e modi d' ogni essere creato, come osserva S. Tommaso sono indicate in quelle parole del libro della Sapienza (4): « Tu hai disposte le cose tutte in misura, numero e peso« ». « - « Perocchè, dice il santo Dottore, la misura si riferisce alla sostanza della cosa limitata da' suoi principii, il numero alla specie, e il peso all' ordine« (5). » Le quali tre condizioni di ogni esistenza S. Agostino le nomina altresì con questi tre nomi di modo, specie e ordine : e dall' entrare necessariamente somiglianti elementi in ogni essere, induce la conseguenza che ogni essere, di sua natura, è buono. « Questi tre [elementi], dice egli, ove son grandi, ivi sono beni grandi: ove piccoli, ivi sono beni piccoli: ove nulli, non v' è nessun bene. E per egual modo, ove que' tre elementi sono grandi, ivi sono delle nature grandi; ove piccoli, ivi sono delle nature piccole: ove nulli, non v' è nessuna natura. Dunque, conchiude, ogni natura è buona. » Il primo elemento indicato da S. Agostino, che ogni cosa « unum aliquid est », è manifestamente ciò che noi chiamiamo l' essere reale . Il secondo elemento che ogni cosa « aliqua specie formatur », merita più attenta investigazione e analisi. Nell' Ideologia , a cui mi devo riferire e rimettere spesso in questo trattato, io ho dimostrato che la specie non è che il rapporto che ha la cosa colla idea (7); non è quindi che la cognoscibilità della cosa, non è che la cosa stessa in quanto è conoscibile, l' oggetto del pensiero. Ho dimostrato che la qualità comune di più cose (fondamento della specie) non è che la proprietà che hanno quelle cose, sebbene più, di essere conosciute con una sola e medesima idea della mente (1). Questa dottrina, che si rileva esser verissima da una perscrutazione profonda della natura della specie, è anco consentita e indicata manifestamente dal senso comune degli uomini, i quali per nominare una classe di cose dicono una specie , usando questa parola, che nella sua forza etimologica non altro significa se non una vista delle cose ( species, aspectus ); mostrando con ciò di credere che, appunto perchè la mente con una sola vista o sguardo o con una sola idea insomma tutte quelle cose conosce, per questo quelle cose formano una classe da sè, distinta dalle altre cose. Di che si rende manifesto che se noi rimovessimo dall' universo l' intelletto che contempla le cose, se noi ne togliessimo via le idee; i generi e le specie delle cose perirebbero. Ma, innoltrandoci di più, troviamo ancora che le cose, senza i generi e le specie, non si possono nè pur pensare; a tale che ci sembra che, anco rimosse le idee, le cose riterrebbero le loro specie. Ma questo è un sembrarci ingannevole: e ciò avviene per ragione che non si possono rimuovere le idee delle cose, come dicevo, senza annientare le cose stesse; poichè fino che noi concepiamo una cosa, concepiamo insieme la sua pensabilità, o cognoscibilità (2). Il che dimostra che la cognoscibilità della cosa è un elemento intrinseco alla cosa stessa, sicchè ella può aver sempre la idea, e quindi medesimo l' ha, se può averla; parlandosi qui d' idee possibili. Havvi dunque un rapporto essenziale e inalterabile fra la cosa reale e la cosa ideale, o l' idea sua; e quella non può star senza questa che intimamente considerata si trova essere il suo principio, ciò che la rende possibile, senza di che, cioè senza esser possibile, non è pensabile, e molto meno esistente. Da tutte queste cose apparisce che la specie di S. Agostino, propriamente parlando, è l' essere ideale della cosa, e che non si può attribuirla alla cosa stessa, senza inchiudervi un rapporto essenziale e primitivo col suo essere ideale . Veniamo al terzo elemento di S. Agostino, l' ordine che hanno le cose a un fine. L' ordine delle cose non ha prezzo alcuno se non a una condizione, che egli sia percepito da una intelligenza, dalla quale possa essere apprezzato. Io ho trattato a lungo questo vero nel libro de' Principii della Scienza Morale , a cui mi richiamo. Ivi mi sono fatta la obiezione:« che se la intelligenza apprezza l' ordine o la perfezione delle cose, conviene che quest' ordine abbia un prezzo antecedentemente all' atto della intelligenza che lo apprezza«. - Ma ho dimostrato che, sebbene l' ordine e la perfezione della cosa si concepisca da sè, anche antecedentemente all' atto particolare di una intelligenza che lo apprezza, anche a tutte le intelligenze create fosse nascosto; tuttavia vi ritiene, in quell' ordine, la proprietà intrinseca di essere apprezzabile, e quindi esso inchiude un rapporto fondamentale ed essenziale con una intelligenza possibile. E veramente l' ordine di cui parliamo, suppone un rapporto di fine e di mezzo, e un rapporto non è che un essere ideale , e non esiste punto per sè solo fuori della mente (1). Di più l' ordine, di cui parliamo, suppone de' fini e de' mezzi: ma io ho dimostrato che il concetto di fine non si trova se non negli esseri intelligenti e, completamente, in Dio solo (2). L' ordine completo adunque non si dà se non nelle intelligenze, nelle persone. Ma la personalità non si forma che dalla volontà , che è la parte attiva della intelligenza. Dunque il compimento dell' ordine esige delle volontà ordinate, cioè consenzienti alla verità. L' ordine morale adunque è ciò a cui tende ogni ordine, e senza il quale nessun ordine ha merito, ma riuscirebbe una sconciatura, un disordine. L' ordine adunque di S. Agostino completamente si esprime nella nostra formola colla espressione di essere morale . S. Agostino stesso, in un bel passo del libro che scrisse contro i Manichei sulla natura del bene, si accostò a questi nostri pensamenti. Perocchè, enumerando egli que' tre elementi di tutti gli esseri, invece di dire la specie , dice « ciò per cui si discernono le cose « », che è appunto quello che noi abbiamo più sopra detto: e invece di dire l' ordine , sostituisce la perifrasi, « ciò che è degno di approvazione o di riprovazione « », espressione che è sommamente propria dell' ordine morale. Non sarà inutile che io rechi tutto insieme il luogo importante del santo Dottore, anco perchè in esso deduce la Trinità della causa appunto dalla Trinità, per così dire, dell' effetto. Ecco le sue parole fatte italiane: « Ogni cosa che è, altro è per ciò onde consta, altro per ciò ONDE SI DISCERNE, altro per ciò onde ha convenienza. Se adunque qualsivoglia creatura ed è in qualche modo, e da ciò che al tutto non è grandemente si allontana, e conviene con sè stessa nelle sue parti; forza è dire che anche la causa di lei sia trina per siffatto modo che sia , che sia questa cosa , e che sia AMICA DI SE` STESSA ». (Si noti qui che egli ha bisogno di ricorrere ad una espressione tolta dall' ordine morale, cioè all' amore, per esprimere il suo pensiero). «Or la causa, cioè l' autore della creatura diciamo esser Dio. Fa d' uopo adunque che vi abbia la Trinità, della quale una perfetta ragione non può trovare nulla di PIU` PRESTANTE (ciò corrisponde alla sostanza, all' essere reale), nulla di PIU` INTELLIGENTE » (ciò corrisponde all' essere ideale), «nulla di PIU` BEATO » (ciò corrisponde all' essere morale)«. E di qui conchiude il santo Dottore che « nella investigazione della verità non vi possono essere più di tre generi di questioni, cioè se una cosa sia; se ella sia questo o altro; e se ella sia da APPROVARSI O DA RIPRENDERSI (1) ». Il perchè è manifesto che, compiutamente, non si trovano le traccie della Santa Trinità nelle creature, se non pigliandole tutte insieme, e non rimovendo dall' universo o l' intelligenza o la volontà, il modo ideale o il modo [morale] dell' essere; e che se nelle nature materiali appare qualche segno di Trinità, anche considerate da sè sole, ciò non è se non perchè non si giunge giammai ad astrarre da loro la conoscibilità e la ordinazione all' essere morale: qualità che non si possono veramente t“r via interamente, senza che siano tolte con esse insieme e rese al tutto impossibili le stesse nature (2). Sebbene d' una trina forma sia impresso l' universo, e risplenda ovunque luminosamente il carattere di una causa trina e di una trina operazione che lo produsse; tuttavia l' uomo, come dice l' Aquinate, senza la divina rivelazione non avrebbe avuto nelle creature sufficiente argomento da indurne la cognizione del mistero della santissima Trinità. La ragione di ciò si è che ben diverso è il poter inferire dalla trina forma delle cose una causa pure trina e una trina operazione di questa causa (la possibilità di che viene conceduta da S. Agostino e dallo stesso Aquinate); e il poterne dedurre il mistero delle tre divine persone sussistenti in una sola sostanza. Perocchè inducendo dalla trinità dell' effetto la trinità della causa, non si perverrebbe che a imaginare una causa, la quale fosse fornita di quella specie di trinità, di cui fornito si scorge l' effetto, e nulla più. Ora la Trinità divina è cosa interamente diversa da quel trino modo in che sussiste l' essere creato, ossia l' essere senza più. E veramente l' essere reale , l' essere ideale , e l' essere morale non formano già tre persone, nè sono unite in una sola sostanza: che anzi l' essere ideale nelle creature non è mai una persona, ma solo l' oggetto di una persona (soggetto), e quindi medesimo una forma che non sussiste da sè, ma che sussiste come aderente all' essere reale. L' essere morale parimente non è che una forma accidentale dell' essere reale intelligente, e quindi tale che in sè non ha veruna sussistenza propria e personale. Quindi nell' uomo, che è l' unico essere personale, di cui abbiamo esperienza, non vi è che una persona, la quale si regge dalla sostanza, sebbene abbia la sua base e la sua qualità dalla forma intellettuale7morale, di cui è informata quella sostanza (1). All' incontro il mistero della santa Trinità, che propone da credere la cattolica fede, consta di una sostanza, nella quale sono tre personali sussistenze, cioè tre distinte persone. Era dunque impossibile dall' effetto, cioè dall' universo, conoscere il mistero della santissima Trinità di Dio, sua causa. Prevedo ciò che [si] risponderà: - Se dall' effetto, cioè dall' essere creato, come da quello che ha tre modi, si può salire tant' alto fino a indurne la necessità di una causa che abbia pure tre modi, non deve essere impossibile, ragionando, il trovare altresì la Trinità divina. Perocchè venuti a questo punto che la causa prima abbia tre modi, già non è più possibile fermarsi qui col ragionamento, ma qui appuntandosi, si può spingersi più in alto, così argomentando: - La causa prima deve avere tre modi di esistenza. Ma essa non può avere niente di accidentale in sè, ed è assurdo l' ammettere che alcuno di questi tre modi fosse una forma accidentale. Non vi è dunque altro sistema che eviti l' assurdo, non vi è altra supposizione a farsi possibile, la quale nel medesimo tempo sia atta a spiegare l' esistenza dell' universo, se non il mistero della santissima Trinità, quale viene proposto dalla cristiana dottrina la quale insegna i tre modi in Dio essere altrettanti reali sussistenze, essere tre persone in una natura. Benissimo, io dico. Accordo che, ove non si ammetta il mistero della Trinità cristiana, nulla si spiega, e tutto l' universo è un enigma impenetrabile. Che per ciò? Avrebbe per questo la ragione sola trovata la soluzione di questo enimma? No certamente; perchè per ricorrere al mistero della santissima Trinità, se si vuol anco come a una ipotesi per ispiegare sufficientemente l' esistenza del mondo, bisognava poter concepire questo mistero, perchè non si ricorre mai a una ipotesi, se questa ipotesi non si concepisce. Ora la ragione non poteva e non può concepire il mistero della santa Trinità, e la sola fede lo ha proposto a credere. Era dunque impossibile che la ragion naturale ricorresse da sè a questo mistero per ispiegare il mondo, perchè non avrebbe giammai potuto pensare che una sostanza in tre persone fosse possibile. A quello stesso modo come il cieco nato non può pensare la possibilità dei colori, senza che gli vengano in qualche modo notificati da coloro che li vedono: e per ciò da sè solo, se dei colori non avesse giammai udito parlare, non potrebbe mai il cieco nato aver ricorso a colori per ispiegare qualsiasi fatto della natura giunto a sua notizia, sebbene la sola esistenza de' colori fosse la supposizione adatta a rendere di quel fatto ragione e convenevole spiegazione (1). E vedo che qui si può fare un' altra istanza. Le divine Persone hanno la causalità delle cose create secondo il modo del loro procedere (2): sicchè l' atto, onde il Padre ha generato il Verbo, è quello stesso, onde ha create le cose; e medesimamente l' atto, onde il Padre e il Figliuolo hanno spirato lo Spirito, è quello onde hanno amato le cose: sicchè nel Verbo divino il Padre pronunciò anche le creature, e nello Spirito le amò, e pronunciandole e amandole le creò. Posto questo principio, così si può ragionare: - L' atto, onde il Padre generò il Figliuolo, è un atto diverso da quello, onde il Padre e il Figliuolo spirarono lo Spirito Santo. Non è dunque vero il principio che una unica operazione sia quella colla quale Dio opera, creando le cose. Di poi, se l' effetto di queste operazioni interiori sono due persone distinte, cioè il Figliuolo e lo Spirito Santo; perchè parimente nell' effetto esteriore, cioè nel mondo, non si vedranno le traccie delle distinte persone? Per rispondere acconciamente all' istanza che mi si fa, dividerò le questioni: e prima parlerò della pluralità delle operazioni; poi dell' indurre che si fa da queste, doversi avere nell' universo sparse delle traccie adeguate della santissima Trinità. Cominciamo adunque dal chiarire le idee sul modo del divino operare. Primieramente è da osservarsi che gli atti , coi quali procedono le divine persone e che i Teologi chiamano nozionali , non sono già atti che abbiano movimento e progresso, come sono tutte le operazioni e gli atti, dei quali noi abbiamo esperienza nelle cose create. Direi quasi che essi si chiamano atti impropriamente, ove si osservi il valore che noi sogliamo attribuire a questa parola atto , che inchiude l' idea di passaggio da uno stato all' altro, inchiude principio dell' atto, mezzo e fine. Nulla di questo nella santissima Trinità; perocchè essa ab aeterno immutabilmente sussiste, nè si può assegnare in essa un prima e un poi. Quegli adunque che si chiamano atti nozionali nella santissima Trinità, non sono che le nozioni stesse, le stesse relazioni sussistenti, le stesse persone, da noi riguardate e considerate imperfettamente secondo l' imperfetto modo nostro di vedere le cose divine: perocchè, come dice S. Agostino, « tutto ciò che si può dir di Dio, non può mai riguardar altro se non una di queste due cose, la sostanza o la relazione « (1) »: perocchè non v' ha altro in Dio se non queste due cose (2). V' ha dunque in Dio, propriamente parlando, un purissimo atto che forma la sostanza, e quest' atto unico sussiste in tre persone, cioè ha in sè tre relazioni sussistenti, tre termini, ciascuno de' quali s' identifica colla sostanza, cioè è la sostanza medesima: ma in quanto que' termini della sostanza si oppongono e escludono fra sè scambievolmente, intanto distintamente nella sostanza stessa sussistono. [...OMISSIS...] Insomma il Padre è l' essenza sotto questa relazione che genera; il Figliuolo é l' essenza sotto questa relazione che è generata; lo Spirito Santo è l' essenza medesima sotto questa relazione che è spirata. Il considerare poi l' essenza sotto queste tre relazioni non è puramente opera della mente che le concepisce, ma è necessità della cosa, perchè quelle sono relazioni inerenti e intrinseche all' essenza stessa divina e costituenti tre divine persone. L' atto dunque, onde sussiste il Padre, non è diverso dall' atto, onde sussiste l' essenza divina; e così pure l' atto onde sussiste il Figliuolo e lo Spirito Santo. Vi ha dunque un solo atto, ma v' hanno in quest' atto tre relazioni sussistenti, in virtù del medesimo atto: per modo che i Teologi dicono, che la essenza nelle cose divine si piglia per la forma «( quo aliquid est et operatur ) (2) »; e che la divina natura è la potenza generatrice, cioè il principio onde il generante genera; « quo generans generat (3) ». Quinci si vede la differenza che passa fra la processione delle persone, e la creazione delle cose. Le operazioni, onde procedono le persone, non sono già una terza cosa media fra la natura divina e le divine persone: ma o si vogliono considerare anteriormente alla processione delle persone, e, in tal caso, non è che la potenza di produrre le persone, e questa potenza è la stessa natura divina, come è detto (4); ovvero si considerano questi atti nelle persone stesse, e, in tal caso, non differiscono dalle relazioni, cioè a dire dalle persone (5), perchè le persone non sono che relazioni. Gli effetti dunque degli atti nozionali, non diversi dagli atti nozionali stessi, cioè le persone, non escono dalla divina sostanza, ma nella divina sostanza si contengono e in essa sussistono. All' incontro le creature non si identificano già coll' operazione divina che le ha prodotte, nè colla divina sostanza; ma sono qualche cosa di separato e di esteriore alla stessa divina sostanza. La divina sostanza non esiste senza le persone, perchè sussiste nelle persone, come le persone nella sostanza; ma essa si pensa bensì sussistente nelle persone antecedentemente e indipendentemente dalle creature. Le creature adunque presuppongono le divine persone già procedute e sussistenti come loro causa. Quindi nella processione delle persone non viene prodotta nessuna natura nuova, ma non si fa che una comunicazione della natura divina che già è increata. Non essendo dunque una sostanza nuova che si produce, ma una sola relazione che procede, non è necessario che operi la sostanza vestita, per così dire, di tutte le sue relazioni, ma sol di quella relazione che consiste in quel modo di comunicazione di sè, a cui tende. E per ciò se questo modo è quello di generazione, non è necessario e nè pur possibile che operi la sostanza se non vestita di quella relazione che la costituisce generante (della quale relazione vestita è Padre): e se questo modo è quello di spirazione, non è necessario e neppur possibile che operi la sostanza divina se non vestita di quella relazione che la costituisce spirante (della quale vestita è principio dello Spirito, Padre e Figliuolo). Ma dovendo procedere da Dio non una relazione, ma una sostanza, è necessario che operi come sostanza, non in quanto ha una relazione, ma in quanto è sostanza, cioè in quanto le ha tutte in sè le sue relazioni. E quindi nella produzione delle creature non entra una sola persona, ma tutte e tre, sebbene ciascuna di esse in diverso modo, cioè nell' ordine in cui procede: onde avviene che la operazione creante si possa dire, come diceva, una e trina. Questa dottrina è enunciata da S. Tommaso con queste parole: [...OMISSIS...] . Ma soggiunge però dopo di ciò, che le tre persone concorrono a questa unica loro azione del creare in modo diverso , pari al modo del loro procedere; sicchè Iddio Padre operò la creatura pel suo intelletto e pel suo amore, cioè pel suo Verbo e per lo Spirito Santo. La ragione adunque data da S. Tommaso, per la quale la produzione delle cose create esige la cooperazione di tutta la santissima Trinità, è degna di ogni osservazione, ed è, per ripeterlo, perchè in una tale operazione non si tratta di produrre una forma o una perfezione, ma si tratta di cavare dal nulla tutto, la sostanza stessa della cosa, la sua specie, il suo ordine. Quindi si vede manifesto che se l' essere generante o spirante è proprio di singolari persone, il produrre le cose create non è proprio delle singolari persone, ma è comune a tutte tre, in quanto è atto della sostanza divina a tutte tre comune; e quindi non c' è cagione da inferire che nell' effetto, cioè nell' essere creato, le traccie delle divine persone si devano vedere adeguate e realmente distinte. Ciò che si è provato dalla natura della operazione creante, si potrebbe egualmente provare dalla natura dell' essere creato. Perocchè la natura di questo essere è limitata in modo, che per la sua limitazione non può ricevere delle relazioni personali a lei intrinseche e in lei sussistenti; non è atta a comunicarsi in tal forma e a riflettersi sopra sè medesima. Ma mi asterrò dall' aggiungere a questo cenno una dimostrazione che in un ragionamento difficile m' involgerebbe e menerei troppo a lungo il paziente mio leggitore (1). Nome proprio di Dio è quello di vita , la sua essenza è vita. Non è vera vita ove non è sentimento. Il sentimento adunque in Dio è essenza divina. Il Padre è l' essenza divina, un sentimento, un IO che conosce sè stesso. Questa essenza, in quanto è conoscente è sapiente , e perciò la sapienza conviene all' essenza divina, e non alle persone, perchè è comune a tutte e tre. Ma l' essenza, in quanto è cognita, in quanto è affermata, essa è l' oggetto di sè, conoscente sè stessa. Ora questo oggetto che non è la sapienza, ma l' oggetto della sapienza, è in un modo diverso interamente da quello che sono gli oggetti della mente nostra. Gli oggetti della mente nostra sono forme accidentali di essa mente, i quali, come oggetti, a noi non appartengono, fossimo anche noi stessi, perocchè noi come oggetti della nostra mente non abbiamo alcuna sussistenza propria, non alcun sentimento, non alcuna coscienza: noi non esistiamo che come soggetto che ha, ossia che vede degli oggetti. Tutt' altro è in Dio. L' essenza divina, come oggetto di sè, ha un sentimento che la fa sussistere senza cessare di essere oggetto, ella è un IO7OGGETTO. Questa sussistenza, questa essenza nella relazione di oggetto è il VERBO, e in opposizione a questo oggetto, l' essenza, in quanto è conoscente, è il PADRE. Così non è l' essenza sola, che ha generato il Figliolo per modum intellectus , come dicono le Scuole, ma è il Padre che ha generato, cioè l' essenza nella relazione di conoscente un oggetto, non qualunque, ma un oggetto sussistente. Se l' essenza conoscesse sè solamente, non esisterebbe ancora come Padre, perchè non sussisterebbe il Figliuolo: ma conoscendo sè come oggetto sussistente, avente la vita (1), il sentimento come oggetto, il Padre ha generato, e il Figliuolo per questa generazione esiste. L' essenza divina conoscente, sapiente, ama sè stessa, e in questo sta la santità. L' amore adunque e la santità è comune alle tre divine persone, in quanto appartiene all' essenza divina. Ma l' essenza divina generante (conoscente e pronunciante sè stessa come sussistente, come oggetto) è una e la medesima coll' essenza divina generata (oggetto della conoscenza, vitalmente sussistente). Ora questa essenza divina, una, generante e generata, ama sè stessa e, in quanto ama sè stessa, è carità e santità. Ma ella stessa come amabile, come amata, come termine dell' amore, sussiste. Nel che ci ha questa differenza fra l' amore che abbiamo noi di noi stessi, e l' amore che ha di sè il Padre e il Figliuolo. Noi sussistiamo come amanti; ma, come amabili e amati, non siamo più che una forma intellettiva accidentale, non siamo che un termine dell' amore, non esistente in sè stesso, ma solo nell' amore dell' amante. All' opposto in Dio l' essenza divina, come amabile e amata, sussiste (2), ella ha un sentimento, è un IO come amato. Questa essenza intesa e sussistente come amata, è lo SPIRITO SANTO. L' essenza amata è la stessa essenza intesa e pronunciata, come pure è la stessa essenza conoscente. Ma questa unica essenza sussiste come conoscente, conosciuta, e amata. E sussistendo in queste tre relazioni, in questi tre diretti sentimenti, essa acquista le proprietà di generante, generata, e spirante e spirata: essa è Dio insomma, Padre, Figliuolo e Spirito Santo (3). Il Padre adunque non è solamente la Potenza , ma la potenza viva, sussistente, generante, per via d' intelletto, il Figliuolo. Il Figliuolo non è adunque, semplicemente la Sapienza ma è l' oggetto vivo sussistente: il termine della sapienza del Padre (1). Lo Spirito Santo non è semplicemente la Carità , ma bensì il termine, vivo, sussistente della carità del Padre e del Figliuolo. Queste tre relazioni vive, sussistenti, sono tre persone, perchè ciascuna è « una sostanza intelligente IN QUANTO (questa espressione esprime la relazione costituitiva della persona) contiene un principio attivo, indipendente (cioè supremo) e incomunicabile« (2). » Ciascuna è suprema e indipendente, perchè tutte e tre sono perfettamente eguali, perchè sono non una sostanza diversa, ma la sostanza medesima numericamente una, e quindi non v' è maggiore o minore in esse, signore e servo, fine e mezzo; ma ciascuna è egualmente massima, egualmente dominante e operante, egualmente fine unico di tutte le cose. E con ciò si chiarisce la dottrina di quelle qualità che i teologi chiamano appropriate , e non proprie , delle divine persone. Perocchè si attribuisce, in ragion di esempio, al Padre la potenza e tuttavia egli solo non è potenza; si attribuisce al Figliuolo la sapienza , e tuttavia egli solo non è sapienza; s' attribuisce allo Spirito Santo la bontà , e tuttavia egli solo non è bontà: ma tanto il Padre, quanto il Figliuolo, quanto lo Spirito Santo è potenza, è sapienza, è bontà. La ragione dell' appropriarsi alle singole persone ciò che non è proprio, è perchè questi appropriati, sebbene non sieno le persone, ma anzi appartengano all' essenza, tuttavia si concepiscono da noi come fossero la via, per la quale le persone si costituiscono, e, nel nostro modo di veder le cose, troviamo una somiglianza fra la potenza e l' essere il Padre principio fontale della Triade, fra la sapienza e l' essere il Figliuolo una parola interiore del Padre, fra la bontà e l' essere lo Spirito Santo l' amore del Padre e del Figlio: e non ci avviene di riflettere molto che ciò che formano le persone, non sono la potenza, la sapienza, e la bontà, ma le relazioni sussistenti in queste tre cose come nella essenza divina. Di che si può conchiudere che la traccia della Santissima Trinità, che risplende nell' essere creato, non consiste già nel vedere nell' universo cosa appartenente a ciò che è proprio delle singole persone, ma bensì negli appropriati , i quali generi di cose si riducono come in loro fonte nelle proprietà della Trinità augustissima, dopo che la rivelazione ce le ha proposte a credere. Dalla definizione che abbiamo data dell' operazione deiforme apparisce la differenza che passa fra un' operazione semplicemente divina e un' operazione, oltre divina, anche deiforme . Abbiamo detto che operazione divina è ogni operazione, che abbia per principio e causa Dio; ma che un' operazione è deiforme, quando non solo Dio è il principio e la causa di quella operazione, ma è anche il termine, e, per così dire, l' effetto (1). Quindi la creazione è bensì una operazione divina, ma non è punto una operazione deiforme (2): perchè l' effetto, cioè le creature, non sono Dio, nè Dio è formalmente unito alle creature nell' ordine naturale. L' operazione della grazia all' incontro abbiamo detto essere non pur divina, ma ben anche deiforme , perchè con essa Dio si congiunge formalmente all' uomo (3): e quindi l' operazione deiforme appartiene all' ordine soprannaturale. La sostanza divina si unisce formalmente coll' uomo giusto. Ma la sostanza divina sussiste non in altro che in tre persone indivisibili, ciascuna delle quali è la sostanza stessa divina con una relazione, che la costituisce in persona. Dunque anche le tre persone dell' augustissima Trinità si uniscono formalmente all' uomo giusto. Ora se questa operazione della Trinità nell' uomo è tale, che l' uomo ne abbia un trino sentimento deiforme, rispondente alla Trinità delle persone; questa operazione si può acconciamente chiamare triniforme . Dall' essere dunque la santa Trinità termine della operazione della grazia e forma dell' anima santa, ci parve poter acconciamente chiamare questa operazione non solo deiforme, ma anco triniforme. Già ho detto che l' operazione deiforme si conosce essere nell' uomo dal sentimento ineffabile che produce (1), sentimento ove si sente Dio: dottrina questa della tradizione cristiana. I Padri della chiesa, dietro le divine Scritture, ci dicono lo stesso della operazione triniforme. E` una manifestazione interiore, un sentimento della santissima Trinità in noi quella che ci fa sperimentare e percepire appunto, sebbene imperfettamente in questa vita, la Triade augustissima. Mi restringerò al testimonio di S. Agostino, in tanta abbondanza di documenti. Egli parla così: [...OMISSIS...] . Ma perchè si veda meglio, come si conosca che Dio nell' uomo santo esercita una trina7deiforme operazione, conviene por mente alle cose seguenti. Se un divino sentimento, un sentimento onde sentiamo operare in noi qualche cosa d' ineffabile, di supremo, d' infinito, è quello che comincia a farci percepire Iddio; converrà che anche questo sentimento sia uno nella sua essenza, ma trino ne' suoi modi. Tentiamo adunque l' analisi di quel sentimento al tutto ineffabile e che è ignoto all' uomo animale, il quale ci rivela Iddio. Abbiamo detto che la natura, l' essenza di questo sentimento, che sorte da Dio in quanto è oggetto del nostro spirito, è di farci sentire una cotale forza, indistinta però, ma che tutte le forze e che tutte le cose racchiude, a cui non manca niente, che ci riempie perfettamente, ci sazia e perfettamente accontenta, che insomma con esso noi sentiamo e talora siamo consapevoli di percepire non una o altra parte dell' essere o del bene, ma sì TUTTO l' ESSERE, TUTTO IL BENE. Ora questo sentimento del TUTTO ha tre forme o modi. Il primo modo è di sentire una potenza o forza che opera in noi, invisibile, ma irrepugnabile, somma, intima nella nostra personalità; sentesi la presenza in noi di tal cosa che ci invade e domina sostanzialmente; e si sente in questa affezione tanto gran cosa che non è possibile neppure concepire niente che a lei sia opposto, perchè ella è come creatrice, cioè ha un vigore precedente alle altre cose, che di quel precedente vigore solo in qualche modo partecipano. Nella grandezza di questa forza si sente il tutto : e questo modo di sentire è il fonte del timore di Dio. Il secondo modo del sentimento del TUTTO è mediante una notizia di Dio, un' idea, una concezione, sebben negativa, nel che sta la fede. In questa notizia e pensiero di Dio noi veggiamo tanta bellezza, che l' intelletto nostro n' è rapito e vinto: sentiamo che è superiore a tutto quell' idea, che è insieme sostanza, cibo dell' anima che la sazia, la compisce a segno, che non le resta che desiderare se non il più e più profondarsi in quel pensiero, il più e più vagheggiare quella notizia, il venirne pienamente in possesso, alla qual solo l' uomo si chiama trabocchevolmente felice. Il terzo modo del sentimento del TUTTO è quando da quella notizia si diffonde e spande largamente in noi una luce che trae a sè irresistibilmente colla sua bellezza ineffabile la volontà e l' amor nostro, e ci prende allora tale un amore che è qualche cosa di pieno, di sostanziale, una manna che ci pasce, un vino che ci letifica: nutrimento e delizia incomparabile dell' anima ebbra e affogata come in pelago di amore, ove siffattamente riposa e quieta ogni suo desiderio, che sente non restargli altro a bramar e tutto possedere nel solo amore. Sentimento adunque di una forza e di una forza onnipossente che opera in noi: sentimento di una verità , ma di una verità sussistente che brilla vivamente nel nostro intendimento: sentimento finalmente di un amore che si diffonde e cattiva colla dolcezza di un gaudio ineffabile la nostra volontà: queste sono le tre forme o modi, in cui si appalesa in noi il sentimento soprannaturale e deifico, di cui parliamo. E si osservi bene la natura di questo triplice sentimento. Non vi è, si può dire, sentimento umano (1) che non sia trino , perciocchè in ogni umano sentimento si può distinguer sempre e la forza che l' uomo sperimenta ricevendo la notizia dell' oggetto del sentimento, e la notizia stessa, e l' affetto che esce da questa notizia. Ma questa trinità di ogni sentimento non è nulla più che quel carattere di trina forma, di cui abbiamo già detto essere suggellato e stampato l' universo e ogni cosa in esso; il qual carattere non è punto un vestigio adeguato della divina Trinità, ma solo un cotale adombramento e sparuta traccia di lei. Perocchè la percezione o idea dell' oggetto di questi sentimenti umani è finalmente la sola cosa che realmente tocchi l' anima, e l' amore, che ne proviene non è che una conseguenza di quell' oggetto e non ha nulla di sè, e se voi rimovete un solo di questi tre elementi, il sentimento stesso svanisce. All' incontro nel sentimento soprannaturale l' anima percepisce tre volte la stessa cosa, cioè tanto nel sentimento della forza, come nel sentimento della notizia, come nel sentimento dell' amore, acquista sempre una cotale persuasione che in ciò che percepisce ci abbia il TUTTO, e che ivi nulla manchi dove ha il suo sentimento: perocchè non le è possibile immaginare nè cosa maggiore, nè cosa che non sia nulla verso a ciò cui ella sperimenta. Indi avviene che tanto le divine Scritture, come i Santi uomini che hanno descritti questi fatti soprannaturali, di cui fu consapevole il loro spirito, parlando separatamente ora di uno e ora di un altro di questi tre modi del sentimento, usassero di ciascuno le stesse espressioni, dicessero di tutto possedere e tutto comprendersi in quel sentimento e nulla mancarci. E pure interamente diverso sembra il sentimento di una potenza e quello di una verità, e [quello] di un amore: ma quando queste cose vanno all' infinito, si compenetrano, per così dire, fra loro e in ciascuna di esse è ogni cosa. In ragione d' esempio, quando toglie la divina Scrittura a far l' elogio della sapienza , tutto dà a lei, nè rifinisce di enumerare i beni che in sè contiene, perchè tutti li contiene; ed è detta ella sola atta a far l' uomo beato: [...OMISSIS...] . Medesimamente nel nuovo Testamento Gesù Cristo nella cognizione pose la vita eterna, il che è dire ogni bene: tanto è il prezzo dato alla cognizione da Cristo! Egli disse: [...OMISSIS...] . Dunque le Scritture, quando parlano di sapienza , di cognizione di Dio , mettono in quest' unica cosa tutti i beni; nè sembra che sia punto nè poco necessario altro all' uomo. Ma quale maraviglia di ciò, se è detto altresì nelle Scritture che Dio è VERITA`; se ha detto lo stesso Verbo divino: [...OMISSIS...] . La sapienza e la cognizione appartengono all' intendimento: l' amore appartiene al cuore dell' uomo: sono certamente cose differenti, per quanto l' una possa nascere dall' altra. E pure le divine Scritture parlano in certi luoghi dell' amore, dell' unico amor di Dio, ed è in questo che affermano contenersi tutte le cose, avere un prezzo infinito, e in questo solo l' uomo bearsi, nè di altro avere uopo. Si legge che se l' uomo dovesse dare tutta la sostanza di casa sua per l' amore, dispregerebbe quella sostanza per l' amore: [...OMISSIS...] . Ed è a considerarsi che si parla dell' amore, senza aggiungervi nulla di più, perchè l' anima posseduta dall' amore ed ebbra in lui già perde quasi fino la specie dell' oggetto amato, o non l' avverte più, ma nuota in una affezione amorosa, semplicissima, e non sente altra cosa ormai che amore: l' intelletto le è come per niente, e l' amore le è tutto, perchè tutto le si trasforma in amore, quasi in una sostanza nuova che è amore; di che il chiamare che fa il Diletto non più con altro titolo che con quello di amor suo , mentre non ama oggimai più altra cosa, ma l' amore stesso. Ma questo amore essenziale, questa trasformazione in amore dell' oggetto amato, si può anche mentire: e indi fu l' idolatria dell' amore, indi le personificazioni dell' amore ne' poeti e negli amanti terreni; personificazioni che hanno l' esagerazione solita che fa sempre l' uomo degli affetti suoi, ma che addita un principio profondo rivelato dalla coscienza, un principio che ha una verità in Dio, nell' amore divino. Parlando adunque del solo amor divino, dove solo veramente avviene il fatto che accenno, di sentire tutto [unificato], per così dire, tutto sussistente nel solo amore, non è maraviglia se alcuni rispettabili autori, come Giovanni Gersone, giungessero fino a dire che si dava amore senza cognizione (1): al che nondimeno il più de' Teologi si opposero, come contrario all' amore razionale e umano. Ma si può fare una conciliazione di queste opinioni, acconciamente spiegate che sieno. Perocchè è da considerarsi che, rimanendo il solo amore nell' anima e smarrendosi la notizia precedente di Dio (il quale smarrimento non è altro che un non rifletterci più, un non porvi più attenzione), non è per questo che l' uomo ami senza cognizione, perchè l' amore stesso gli è cognizione, anzi cognizione vivissima e sperimentale (2); perchè in quell' amore è tutto, e quindi anche luce, fulgentissima luce, perchè è, a dirlo nuovamente, la percezione stessa di Dio, fatta sotto la forma di amore (3). E qual meraviglia di ciò, se la Scrittura dice espressamente che Dio è CARITA`? [...OMISSIS...] Non è tutto in questa carità senza bisogno di altro? Indi è che nelle Scritture si parla talora dell' amore, senza aggiungere alcuna determinazione di oggetto, quasi l' essenza stessa dell' amore a tutto sopperisse. Cristo disse della Maddalena « Le si rimettono molti peccati, perchè ha amato molto« (5) »: non disse perchè ha amato molto Iddio, o me, ma semplicemente, perchè ha amato giacchè vi ha un amore che è essenzialmente amore di Dio, nel quale amore si avverano appunto quelle parole di S. Fulgenzio: « Che si ama Iddio con Dio, perchè coll' amore si ama l' amore, che è Dio« (6) ». E in questo senso è vero che un tale amore basta a sè stesso, senza bisogno della precedente notizia dell' oggetto amato, che viene da lui come abbandonata per ritirarsi in sè solo; giacchè trova una nuova notizia e migliore in sè stesso, dove niente hassi a desiderare e tutto è luce. A ciò forse si riferiscono quelle parole di Cristo: « Lo Spirito spira ove vuole: e tu odi la sua voce, e non sai onde venga o dove vada« (1) »: il che parmi esprimere appunto quel non attendersi più quella notizia che prima cagionò l' amore, e il tutto concentrarsi e saziarsi di sè medesimo. Or, se talora nella cognizione dell' intelletto si sente il tutto, e lo si sente pure nell' affezione della volontà; gli è evidente che si sente la stessa cosa in due modi, in due forme; vi si sente lo stesso Dio, ma per guisa che il primo affacciarsi di questo sentimento è cosa interamente diversa, ma l' interiore di lui è il medesimo, perchè è il ricettacolo di ogni bene. Nè può mancare la sussistenza , ove il tutto si sente. Il perchè è a dirsi che, in que' due modi sentendosi Iddio, sentesi veramente nell' un modo la persona del Verbo, e nell' altro quella dello Spirito Santo. Quindi Gesù Cristo disse così di sè e del Padre: [...OMISSIS...] . Dello Spirito Santo parimente dice nello stesso capo di S. Giovanni: [...OMISSIS...] . Egli è anzi osservazione costante che nelle divine Scritture le Persone divine attribuiscono a sè stesse l' inabitare nella mente dell' uomo, e che non è accomunata questa prerogativa mai a nessun altro essere: di che è venuto l' adagio teologico che « sola Trinitas menti illabitur ». Dello stesso sentimento è tutta la cristiana tradizione. Recherò solo uno o l' altro passo de' Padri per non esser infinito, dove parlano della inabitazione delle tre divine persone nell' uomo. S. Cirillo d' Alessandria dice così: [...OMISSIS...] . S. Ambrogio pure dice: [...OMISSIS...] . S. Anastasio: [...OMISSIS...] . Finalmente S. Basilio dice delle divine persone l' una tirar seco l' altra, [...OMISSIS...] . Iddio può essere partecipato dall' uomo in diversi gradi, non mai pienamente, perchè egli è incomprensibile. Neppure i Santi che più prendono della divina sostanza, giungono a tutta in sè riceverla e concepirla, travalicando essa la capacità di ogni creatura. Sebbene l' uomo in cielo per la gloria e in terra per la grazia si faccia partecipe della divina sostanza in diversi gradi, tuttavia non è per questo Iddio divisibile: tutta la diversità della misura, in che l' uomo prende di Dio e ne fruisce, ha origine dalla parte dell' uomo, dall' essere questo più o meno capace di partecipare della divinità. Nondimeno l' uomo che partecipa di Dio deve partecipare di tutto Iddio, perchè altrimenti non si potrebbe dire che fosse Dio quello di che partecipa; ma di tutto Dio può partecipare in un modo più e men pieno. Non è mio intendimento di stendermi qui a dichiarare questa verità, già insegnata comunemente dai teologi. Tuttavia ne dirò una parola, perchè non sembri una cotale contraddizione questa di percepire tutto Dio, ma non percepirlo in modo pieno. Non è difficile intendere che nulla contraddizione v' ha in ciò, allorchè si consideri semplicemente che Iddio non è che l' essere, l' essere necessario, tutto l' essere. Ora è facile di vedere che il concetto del TUTTO può essere concepito superficialmente, o anche più o meno intensamente nella nostra mente. Il concetto del tutto è semplicissimo e ognuno lo intende a prima giunta. A malgrado però che s' intenda questo concetto con tanta facilità, io posso mettere più attenzione in questo concetto e colla mia forza pensante posso meglio internarmi in esso e attingere una vista più chiara di lui. E nondimeno è sempre il tutto che io ho contemplato, tanto contemplandolo io superficialmente, come contemplandolo intensamente. Ciò che ho detto dei gradi della mia cognizione e della mia forza pensante, dicasi di quella potenza onde l' uomo percepisce Iddio: e si vedrà che secondo la virtù di questa potenza, o secondo che Iddio farà di essere da questa potenza più o men penetrato, l' uomo ne parteciperà altresì più o meno. Di qui è manifesto che: 1 Iddio non si può dire parteciparsi dall' uomo, se l' uomo non sente tutto l' essere sussistente (1); 2 che questa partecipazione del tutto può aver diversi gradi. Nessuna maraviglia adunque che la natura divina si percepisca dall' uomo, ma non così intensamente, che si distinguano in essa le tre divine persone. A poter percepire le tre divine persone si richiede di percepire la divina natura in un certo grado eccellente e più intenso. Mi spiego tosto. Quando è che noi possiamo dire di percepire Iddio? di sofferire quella operazione deiforme di cui parliamo? Allora quando noi sentiamo in noi un sentimento tutto di suo genere, diverso da ogni sentimento che venir possa in noi eccitato dalle nature finite, un cotal sentimento sublime, infinito, ove sentiamo tal cosa che il tutto essenzialmente comprende: il sentimento, come dicevo, del TUTTO. Quando all' incontro è che noi possiamo dire di percepire le persone divine? Di sofferire quella operazione che chiamiamo triniforme ? Allora quando questo sentimento del tutto si fa triplice in noi: allora quando in noi sentiamo tre cose, tre sussistenze, e in ciascuna sentiamo egualmente che c' è il tutto. Ora che cosa vi ha di ripugnante nel concepire che noi abbiamo bensì il sentimento di una tal cosa, dove essere il tutto indubitatamente sentiamo, e tuttavia non abbiamo questo sentimento medesimo in tre modi o forme diverse? Nulla vi ha in ciò di ripugnante; e non osta il sapere che Dio ha tre sussistenze, perchè coll' averne un sentimento solo, la limitazione della partecipazione divina è tutta da parte nostra, ella si fa in noi e non in Dio: cioè è una limitazione nostra il non partecipare della distinzione delle persone e solo avere di tutte un sentimento confuso della divina sostanza. La possibilità, la nessuna assurdità che in questa supposizione si trova, si farà più manifesta allorquando si considererà che, sebbene in sè stesse le persone non sono realmente distinte dalla divina sostanza, tuttavia noi colla nostra mente, pel limitato nostro modo di concepire, possiamo pensare la natura di Dio, e non le persone. Di che possiamo prendere facile esperimento in noi stessi: e prova convincentissima son tutti quelli che ammettono il monoteismo , e tuttavia rifiutano la Trinità , come i Maomettani e gli Ebrei. E perchè ciò? Non per altro se non per una troppo limitata e tenue cognizione che abbiamo della divina natura: perciocchè se noi perfettamente conoscessimo questa natura, non potrebbe stare che non conoscessimo parimente le tre persone in che essa natura sussiste. Ed ora, che ripugnanza può averci mai che questa divisione delle persone dalla natura, che avviene nella nostra mente per la sua limitazione e perchè imperfettamente conosce quella natura, avvenga altresì nel sentimento nostro appunto per la ragione stessa della limitazione del nostro sentimento, pel modo incompleto e non abbastanza pieno, pel quale noi sentiamo la natura divina comunicarsi a noi nell' ordine della grazia? E anzi nè pur si può dire che l' operazione sia triniforme per sentirsi in essa non pure la natura divina, ma quegli attributi di lei che alle singole persone si sogliono appropriare. E veramente una cotale trinità ha essenzialmente ogni puro sentimento intellettivo: perchè in ogni sentimento intellettivo e sentesi una forza che ci fa passivi, ed una specie ed una bellezza ed amabilità che nella specie rifulge. Il che tutto si avvera in ogni sentimento soprannaturale dell' essere assoluto . Noi siamo consci in esso di essere passivi d' una potenza infinita, di godere di una sapienza che è degna di ogni amore . Ma il sentir questo non è ancora il sentire le persone divine in noi: perchè la potenza, la sapienza, e l' amore sono attributi comuni a tutte e tre egualmente le persone, e non si appropriano alle singole persone che per una cotale somiglianza che hanno col modo del loro procedere, siccome detto è innanzi, e non sono quelle loro proprietà, dalle quali vengono costituite. Conviene adunque perchè sentiamo in noi una operazione soprannaturale che dir veramente si possa triniforme , che percepiamo le proprietà delle persone, che percepiamo un essere infinito agente in noi con una forza infinita e sussistente, una specie prima o conoscibilità sussistente, e un amore o amabilità di quella specie prima pure sussistente: nel qual caso solo percepiremo tre sussistenze e in ciascuna il medesimo tutto, il tutto in tre modi, quasi per tre vie, ci inabisseremo nel medesimo infinito e assoluto essere. La dispensazione della divina provvidenza nell' opera dell' innalzare l' uomo di grado in grado alla sua perfezione e congiungerlo con Dio, tiene un modo tutto acconcio all' indole dell' umana natura. E però come la natura umana è composta di corpo e di spirito, e lo spirito riceve la materia delle sue cognizioni e l' occasione delle sue operazioni dai sensi; così anche nell' ordine sopra natura la divina Sapienza ha così provveduto, e di mano in mano che gli uomini riceverono l' esterna rivelazione, ebbero anche nell' interiore anima un lume corrispondente di grazia, mediante il quale percepirono spiritualmente quelle invisibili cose che loro venivano dalla rivelazione narrate. Questo si accorda e torna a un medesimo con quello che abbiamo per innanzi dimostrato, cioè che la fede è il fondamento del lume interiore (1), e la fede si appoggia e insiste su quelle idee negative della divinità, che la divina rivelazione ci somministra: il che è ciò che insegnava l' Apostolo, dicendo, che la fede viene dall' udito, cioè dalla esterna rivelazione che per l' udito si riceve (2). Ora la rivelazione delle divine verità fu data agli uomini per una serie successiva di secoli: non tutta svolta nelle sue parti a principio, ma a principio solo quasi ravviluppata come germe, e di mano in mano disviluppata. E` così che ci descrive l' Apostolo la mirabile dispensazione delle divine verità comunicate agli uomini, non tutte in un tratto, ma di tempo in tempo, secondo il bisogno e la capacità del genere umano a riceverle; fino che venne la pienezza de' tempi, la comparsa del Messia, di quell' Unigenito di Dio Padre che doveva rivelare ogni verità, completare ogni rivelazione, e con essa insieme rendere pieno e perfetto altresì quel lume interiore dell' anima, col quale solo la divina sostanza si attinge e percepisce. Ecco com' egli descrive a' suoi nazionali quest' ordine della divina sapienza: [...OMISSIS...] . Dalle quali parole si vede che tutte le antiche profezie e rivelazioni non erano che preparazioni alla venuta del Figliuolo, pel quale i secoli furono fatti e al suo servizio adattati (aptavit); e quindi quelle antiche rivelazioni, date pel ministerio degli Angeli, non erano che un crepuscolo del sole di giustizia che doveva apparire. E veramente la comunicazione della luce spirituale che a Dio piacque di fare all' umanità di mano in mano, nelle divine Scritture è rassomigliata al nascere e crescere di un giorno, che prima è l' alba, e poi s' arrosa e indora il cielo, e per gradi tutto si illumina fino che il sole stesso sorge e giunge rapidamente al meriggio: similitudine acconcissima a rappresentare non meno l' incremento successivo delle verità esteriormente rivelate, che quel della luce corrispondente, colla quale le anime partecipano delle cose divine (2). Osservando i gradi che distinguer si possono nella cognizione di Dio, si vede che essa comincia colla unità di Dio e cogli attributi che appartengono alla divina natura; e che fino che la cognizione della divinità è imperfetta, non eccede questi confini, nè si estende oltre al conoscere un Dio uno. Ma perfezionandosi la cognizione della divinità, è necessario che entri in essa altresì la cognizione delle persone, che diviene il compimento di quella cognizione; giacchè quella natura altissima non sussiste, se non appunto in tre distinte persone. Questo progresso della cognizione intorno a Dio viene eccellentemente descritto da S. Ilario, nel suo primo libro della Trinità, raccontando per quali passi egli pervenne alla fede cattolica. Dagli errori de' filosofi e del volgo pagano, col lume della ragione, passò all' unità di Dio: indi s' imbattè nei libri di Mosè, e da quelli attinse la cognizione dell' essenza divina consistente nell' essere, della sua eternità, infinità, incomprensibilità e inenarrabil bellezza: conosciuti i quali attributi, gli nacque in cuore un vivo desiderio di conoscere più innanzi Iddio, e una speranza della immortalità, e di poter godere per sempre della contemplazione di un tanto Essere: e allora fu che la divina Provvidenza gli mise fra le mani il Vangelo di S. Giovanni, dove lesse la generazione del Verbo, e per questa tutto il misterio della Santa Trinità gli fu disvelato. [...OMISSIS...] Quindi essendo il cristianesimo il compimento e perfezionamento della divina rivelazione, fu dato in esso tutto quel più che si può conoscere di Dio, cioè il mistero della Trinità delle Persone: dottrina propria e fondamentale dell' Evangelio. [...OMISSIS...] Perciò i Cristiani sono battezzati nel nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo. Tanto alto non ascese la dottrina mosaica, la quale non dava di Dio una cognizione ancora così compiuta, come l' Evangelio. Il mondo tutto cadeva nella idolatria. Iddio scelse il popolo ebraico, acciocchè si conservasse sulla terra la cognizione dell' unico vero Dio. Quindi l' intendimento della legge mosaica è primieramente quello di conservare intatto il popolo ebreo dalle idolatriche abbominazioni e di mantenere una sana dottrina intorno alla divinità (2). La base adunque del Giudaismo è propriamente l' unità di Dio, la dottrina della sua natura e de' suoi attributi (3). Nè per questo egli è men vero che in tutto l' antico Testamento vi abbiano delle traccie manifestissime della Trinità delle divine persone. Ma del più di queste traccie si può dire quello che detto abbiamo di quei vestigi della Trinità che si ravvisano sparsi nell' universo: i quali vestigi, sebbene sieno per sè manifesti a chi conosce già l' alto mistero, sono chiusi a chi nol conosce, poichè non insegnano il mistero direttamente, ma solo lo suppongono come una spiegazione di fatti che, senza lui, rimarrebbero inesplicabili. Così, a ragione di esempio, esaminando l' essere , si trova, che egli non puossi concepire se non trino, cioè fornito di tre modi, il reale , l' ideale , e il morale . Or questa è tal notizia dell' essere, che chi avesse una forza bastevole di ragionare, facilmente vedrebbe que' tre modi potersi ridurre se non in tre principii originari sussistenti in una sola sostanza divina. Ma chi ha tanta forza di mente che basti a fare questo ragionamento? Nessun uomo, il quale non sappia prima per fede il mistero della Trinità, come viene proposto dal cattolico insegnamento. Medesimamente quando Mosè, narrando la creazione, si esprime così: « Disse Iddio: sia fatta la luce, e la luce fu fatta« »; egli viene con ciò a dire che Iddio fece la luce e le cose tutte colla sua parola : ma chi può salire tant' alto fino a pensare che questa parola sia una persona divina? (2) Solo colui che ha ricevuto già la rivelazione e la fede, che la parola di Dio sussiste, che essa è una persona. Nè per questo è men vero, che non vi è altra via da intendere in un modo ragionevole quelle parole di Mosè, dove comparisce una parola di Dio creante, fuor di quello di supporre che questa parola sia una cosa, una sussistenza . Ma qual degli uomini non si sarebbe piuttosto appagato di dichiararsi inetto a spiegare la verità letterale della mosaica narrazione, ovvero non avrebbe tentato di dare a Mosè una spiegazione qualunque, deviando dalla forza della parola, anzichè poter giungere a immaginare la possibilità di una parola sussistente, di cui non ha mai avuto esempio alcuno sott' occhio nè trovasi un sì singolar fatto nell' universo? Nei libri mosaici adunque, e negli altri dell' antico Testamento, la Trinità vi è supposta per tutto (3), ad essa continuamente si allude, si menzionano gli appropriati delle persone; ma in nessun luogo si dànno chiaramente le proprietà personali, in nessun luogo vi è direttamente insegnata e [posta] come in base di tutto quel sistema religioso che all' Ebraico popolo fu assegnato. Il perchè giudiziosamente Dionigio Petavio, dopo aver recati tutti i migliori argomenti che dall' antico Patto si possono trarre in prova della Trinità, conchiude che quei passi hanno più forza di persuadere la Trinità ai Cristiani, che di convincerne gli Ebrei; perocchè i primi hanno il lume della fede che li scorge a intendere la forza di quei luoghi, il qual lume manca a questi secondi (1). Essendo adunque il fondamento dell' ebraica rivelazione l' unità della natura divina, e il fondamento della rivelazione evangelica la Trinità delle divine persone, nella quale la cognizione che Dio diede agli uomini fu completa e procedendo in bell' accordo l' interna operazione della grazia coll' esterna rivelazione ne' suoi progressi, essendo questa che opera e si avviva nell' uomo per quella; apparisce manifesto che la grazia, la quale santificò gli uomini avanti Cristo, si può acconciamente chiamare deiforme , e riserbare alla grazia del Redentore il titolo di una grazia deitriniforme . In quell' antico tempo, per quella grazia sua propria, si manifestava nell' uomo una potenza divina che rendeva superiore alle cose tutte la legge di Dio nel suo cuore e un sentimento di aspettazione, una speranza che prometteva il possesso del TUTTO, e ne dava qualche caparra. Conciossiachè non tutti gli Ebrei servirono per un basso timore; ma ebbe luogo in alcuni anche un timore ragionevole e un amore, i quali furono resi liberi per la grazia, come dice S. Agostino (2): grazia che ottennero per aver bene usato del primo aiuto dato loro insieme colla legge, umiliandosi, confessandosi incapaci di adempirla e dimandando a Dio ciò che essi non potevano. E che questa grazia dovesse esser deiforme, cioè dovesse dare all' animo di que' santi un sentimento di Dio, da questi due capi si può rilevare, che quei santi operavano tutto in virtù della fede, come mostra S. Paolo (3), la quale è pure un sentimento di Dio; e che questo sentimento dava loro una fortezza superiore a tutte le cose della natura e a quello stesso della vita, e pienamente li soddisfaceva. Il quale effetto non può prodursi che mediante un cotal saggio che l' uomo piglia di quell' ESSERE che avendo tutto in sè è a tutto superiore, e non v' ha cosa che messa al suo confronto non invilisca. Or chi non dirà che un sentimento superiore a tutte le cose e veramente divino non movesse Abramo che sacrifica il proprio figliuolo, e non parlasse in cuore a Giobbe, allorchè egli diceva di Dio: «Anche se mi ucciderà, io spererò in lui? (1) ». Tuttavia questa fortezza degli antichi giusti che mostra in essi un elemento soprannaturale e infinito, non è tal cosa che esiga una comunicazione delle divine persone; ma, per quanto a me pare, un' operazione che lascia bensì nell' uomo un effetto che sentesi manifestamente non poter essere prodotto da nessuna cosa creata, ma che sorte solo dalla fede di Dio, non dalla fede delle tre distinte persone sussistenti nella divinità. La fede all' incontro delle tre persone è il foco onde raggia, per così dire, la grazia del nuovo Testamento, la quale porta quel triplice effetto e si manifesta in quel triplice modo che più sopra ho descritto (2). Quando il Verbo si manifestò agli uomini fatto carne e costituito dal suo eterno Padre Capo e Redentore dell' uman genere, egli dapprima mostrò sè medesimo; di poi fece conoscere il Padre; e lo Spirito fu, per così dire, l' ultimo a essere chiaramente, distintamente e universalmente conosciuto per Dio dagli uomini (3). Gesù Cristo attribuisce a sè l' aver manifestato il nome del Padre suo agli uomini: « Ho manifestato, dice egli, il nome tuo agli uomini che hai dato a me dal mondo« (1) ». E questa era la missione che aveva ricevuto Cristo d' istruire e salvare gli uomini: la quale missione egli prosegue a descriver così, seguitando a parlare coll' eterno Genitore: [...OMISSIS...] Cristo adunque era mandato dal Padre per istruire gli uomini e rivelare loro la dottrina della salute, e senza lui « quanti vennero, dice egli stesso, furono rubatori e ladroni, e le pecore non li hanno uditi« (3) ». Quindi partendo da Cristo la cognizione della salute, egli è come la luce, la quale mostra le altre cose, ma ella si presenta da sè, è visibile per sè stessa: [...OMISSIS...] . Finalmente egli si annunzia come il principio della divina rivelazione, chiamando sè stesso appunto: il principio parlante ; quasi direbbesi il principio della parola: « Principium, qui et loquor vobis (io. VIII) ». Essendo Cristo chiamato l' Angelo del gran consiglio, cioè il ministro, o il mezzo onde gli uomini sono illuminati e salvati; i Padri della Chiesa insegnano che era il Verbo quello, che, anche nell' antico Testamento, comunicava all' uomo le verità sante, la legge, le profezie (6). Ma il Verbo non faceva questo immediatamente da sè, si bene pel mezzo degli Angeli suoi: dal che S. Paolo, nella Lettera agli Ebrei, trae buon argomento di mostrare l' eccellenza della nuova legge sopra l' antica, vantaggiandosi quella da questa di tanto, di quanto Gesù Cristo è maggiore degli Angeli (1). Le figure poi e imagini, che gli Angeli componevano, e nelle quali rappresentavano sè stessi o il Verbo, non erano punto la sostanza divina, come dice S. Agostino, e ben lungi dal poterne dare una positiva idea (2). Nulladimeno assai acconciamente si attribuisce al Verbo ogni rivelazione, ed anche l' antica, e ciò per quella appropriazione che abbiamo spiegata più sopra (3), cioè perchè essendo egli la parola del Padre, il modo del suo procedere per via di parola intellettiva ha similitudine col rivelare , che è appunto un parlare di Dio agli uomini. E d' altro lato questo parlare di Dio agli uomini è una cotal traccia del Verbo che riesce inesplicabile fino che non si ha la cognizione del Verbo divino sussistente; a quel modo come inesplicabile rimane il lume della nostra ragione, e quel dire di Dio, col quale Mosè afferma essersi create le cose. Il perchè sebbene prima di aver ricevuta la cognizione della seconda persona della santissima Trinità, questa persona in quegli antichi modi di rivelazione non poteva pienamente conoscersi; tuttavia nel tempo dell' Evangelio, in cui abbiamo quella notizia e quella fede, noi conosciamo manifestamente, essere stato il Verbo quel principio che in ogni tempo, quasi però occultato dietro una parete, fece sentire agli uomini la sua voce e comunicò loro le verità della salute. Ciò che dico del principio della rivelazione antica, può dirsi anche delle cose stesse rivelate. Certo in questa rivelazione si conteneva tutto ciò che spettava al Messia e fino la sua divinità era patentemente stata indicata (4). Tuttavia questa era cosa così grande, così incredibile, era tanto fuori del pensare umano, che vi avesse in Dio una seconda persona e che questa s' incarnasse, che egli è da credere, il comune degli Ebrei avere avuta la fede della divinità del Messia e dell' esser egli la seconda persona della santissima Trinità, piuttosto implicitamente che esplicitamente. Essi credevano cioè implicitamente che il Cristo sarebbe stato Dio e il Verbo di Dio, in quanto che credevano che egli sarebbe stato il Redentore del mondo, che sarebbe stato tutto ciò che era necessario perchè fosse tale, tutto ciò che avrebbe voluto Dio che fosse: sebbene poteva voler Dio che fosse ciò che essi non potevano giungere da sè stessi a pensare, molto meno ad imaginare, come fu veramente, avendo così ordinato che il figliuolo di Abramo e di Davidde fosse ad un tempo il Figliuolo di Dio e Dio come Dio Padre. In tal modo erano salvati, come dice S. Agostino, anche gli antichi per la fede in Gesù Cristo (1), ma per una fede implicita, per la fede nel Verbo incarnato, non ancora manifesto, ma occulto: di che avveniva che il Verbo occulto si può dire fosse nell' antico tempo il principio della rivelazione, non meno che della salute degli uomini. In tal modo ancora ricevono un senso chiaro non pochi passi de' Padri che affermano, la cognizione del Verbo appartenere solo al tempo del Vangelo. In ragione d' esempio S. Cirillo Alessandrino dice così: [...OMISSIS...] . E in questo passo vedesi ad un tempo come la cognizione di Dio trino appartiene al Vangelo, e come di questa cognizione il principio è la cognizione del Verbo (4). Conosciuta la diversità della rivelazione antica e della rivelazione evangelica, si può anche conoscere la differenza fra la grazia evangelica e la grazia dell' antico tempo. Giacchè abbiamo stabilito che la grazia non è che una cotale energia che si aggiunge alle verità divine da noi credute: le quali verità in noi dall' essere solo speculative si fanno pratiche e ingenerano nell' uomo un sentimento potente, il quale è di natura deiforme, cioè fa sentire Iddio. Or abbiamo già veduto che la fede, primo atto della grazia, nell' antico Testamento era radicata nell' Unità di Dio, nel nuovo nella Trinità; e che quindi se in quel tempo l' operazione della grazia era un sentimento di Dio uno (deiforme), in questo è un sentimento di Dio uno e trino (deitriniforme). Ora la fede nella Trinità, base dell' Evangelio, comincia dalla cognizione e fede del Verbo divino; il perchè l' operazione della grazia nel nuovo Testamento consiste, in primo luogo, nella comunicazione del Verbo. Nelle divine Scritture ci è descritta questa comunicazione del Verbo colle anime, come una vera inabitazione della seconda divina Persona in noi (2). S. Paolo dice appunto, che Cristo abita per la fede in noi (3). E qual maggiore e più intima comunicazione di Cristo con noi di quella che descrive Cristo stesso, quando prima della sua passione pregò pe' suoi Apostoli e per quelli che avrebbero ricevuta la fede del Redentore mediante la parola di quelli? Egli disse così: [...OMISSIS...] . Non vi possono esser parole che più di queste valgano ad esprimere la comunicazione intima di Cristo co' suoi eletti, e quanto sia stretta, quanto immediata e veracemente formale. Paragona in queste parole Cristo, l' inabitazione sua negli eletti all' inabitazione sua nel celeste suo Padre: del che non si può dar maniera più efficace a esprimere l' unione massima delle possibili, giacchè Cristo come Dio è una cosa sostanzialmente col Padre, e come uomo è unito personalmente col Verbo che è una sostanza stessa col Padre, di cui ha perciò la visione beatifica, cioè la massima intuizione comprensiva del Padre. Egli da questa stessa unione di lui col Padre toglie il tipo, al quale debbono conformarsi gli eletti, nell' unione fra loro, unione che nel Verbo viene a compirsi sicchè sieno consumati nella unità più perfetta: vuole che dove è egli, sieno essi pure, nè solo ama esser egli in essi, ma essi altresì in lui, l' uno e gli altri internatisi scambievolmente: e vuol dare loro quella chiarezza che il Padre ha dato a lui avanti della costituzione del mondo, la qual non è diversa dalla stessa divina sostanza che è pur la sola cosa, che ha ricevuto dal Padre, e nella quale ogni cosa è racchiusa. Ora chi può intendere, senza sforzo e violenza fatta alle parole, quelle ineffabili parole di Cristo, e non riconoscere, che egli abita formalmente nelle anime de' suoi Santi, i quali perciò appunto sono chiamati altrettanti Cristi nelle Scritture? Io sarei infinito se volessi riferire i luoghi innumerevoli del Vangelo e le similitudini acconcissime della veste e delle membra, del capo e del corpo, e altre tali che si usano per esprimere quella ineffabile unione che fa Cristo co' giusti suoi, massime ove si parla del quasi mescolamento dei discepoli col Maestro che si fa nel pane eucaristico e nel vino, e misterioso e pur verissimo contemperamento. Ma non lascierò di rammentare quella del tralcio e della vite; e mi si dica se può trovarsi modo di esprimere con più efficacia l' unione al tutto sostanziale e formale di Cristo co' seguitatori suoi: [...OMISSIS...] . Qui si parla di un' unione di sostanza, per la quale due parti formano un tutto solo. Tale è il congiungimento della persona del Verbo incarnato cogli uomini eletti che il seguono: il compimento di quella grazia, di cui scrisse S. Giovanni, « che la legge è stata data per Mosè, e che la grazia e la verità è stata fatta per Gesù Cristo« (1). » E veramente anche nell' antico Testamento i Santi che ci vissero, parteciparono della grazia del Redentore, nel quale avevano la fede. Ma la loro grazia non conteneva la comunicazione in essi della persona stessa divina del Verbo, ma solo dei doni spirituali che venivano loro compartiti. Questo conseguita da ciò che abbiamo detto, che la loro fede nell' uomo Dio venturo era implicita, e perciò non avevano nel loro spirito quella cognizione del Verbo, nella quale nasce la comunicazione appunto del Verbo stesso agli uomini. Non vedevano il sole di giustizia, perchè non era ancor nato sull' orizzonte, ma ne vedevano i raggi che facevano il cielo albeggiante e lucente, più o meno, secondo i vari tempi, ne' quali vivevano. Non poteva quindi comunicarsi ad essi la stessa divina persona, perchè non nota, non manifesta; ma bensì far loro sentire la sua possente e salutifera operazione in essi. Cristo creava in essi un sentimento che era deiforme, perchè niente era a lui comparabile: e in questo sentimento era quell' alta idea della divinità che gli empiva di un santo timore, gli eccitava all' adorazione e nessuna cosa anteponevano a Dio, nessuna posponevano alla sua offesa. Ma se tutto questo era Dio che sentivano in esso, non era però il Verbo, la seconda Persona sussistente nel seno del Padre: perocchè per sentir questa, conviene sentire la luce della verità come una cosa piena e sussistente. I doni si dividono secondo le idee che servono loro di base. L' idea della grandezza divina, per esempio, e della perfezione della sua giustizia, diviene madre di un sentimento, perchè afforzata dalla grazia: e così ogni attributo della divinità è fonte di un qualche dono. Il rispetto che intendevano doversi a Dio, moveva nei Profeti quell' altissimo sdegno, quel zelo divoratore che li spingeva talora a far scendere il fuoco dal cielo che incenerisse i bestemmiatori, e a chiamare le belve feroci dalle foreste che li divorassero. Un tale spirito usciva da un sentimento altissimo, acceso nell' animo non immediatamente dal possesso della Sapienza incarnata, che ogni idea e ogni cognizione comprende, ma da un' idea parziale, da un attributo particolare di Dio, altamente conosciuto, la quale conoscenza era però un dono della stessa occulta sapienza. A quanto fu detto sin qui si moverà contro il sembrare che alcuni grandissimi Santi, che furono nell' antico tempo, dovessero aver ricevuta l' unione col Verbo divino. E veramente S. Giovanni ci dice, che Isaia vide la gloria di Cristo, e che parlò di lui quando disse: « Accieca il cuore di questo popolo, e aggrava i suoi orecchi e chiudi i suoi occhi« (1) »: la quale gloria di Cristo non pare dover poter essere se non la sua stessa divinità (2). Così pure Cristo del Patriarca Abramo: « Abramo, padre vostro, esultò per vedere il mio giorno : lo vide e ne giubilò« (3) »: nelle quali parole il vocabolo giorno equivale appunto a chiarezza e gloria, e viene parimente a significare quella divinità, della quale Cristo era chiaro, prima che fosse stato fatto il mondo, appresso il Padre suo (4). Ora ciò io punto non nego (5): solo affermo che questo fu favore straordinario conceduto a' quei pochi personaggi dell' antico tempo, per singolarissimo privilegio: come accadde nel nuovo Testamento, che taluno sia stato innalzato fino a vedere Cristo glorioso e le magnificenze dell' altra vita; il che veggiamo nelle Scritture essere stato conceduto solo per grazia grandissima a S. Stefano, all' Apostolo Paolo e notabilmente a S. Giovanni. Per altro se l' uno o l' altro degli antichi ebbero la percezione del Verbo, la differenza fra il congiungimento del Verbo co' cristiani e con quei Santi antichi è però questa: che quel congiungimento fu dato per via di eccezione e solo di passaggio; ma il congiungimento che si fa dei redenti col Verbo divino, mediante il battesimo e la fede e i sacramenti, è costituito stabilmente per una cotal legge, è permanente, non [solo] attuale, ma altresì abituale. Quindi è che Gesù Cristo a nulla è più inteso, quanto a far ben notare e osservare questa permanenza di lui ne' Santi suoi e de' Santi suoi in lui. Egli raccomanda di averla sommamente a cuore e di non dar cagione col peccato che s' interrompa giammai una così stabile unione, che viene rappresentata appunto in un connubio indissolubile dell' anima con Cristo, della chiesa con lui suo sposo. « PERMANETE in me, dice Cristo, e io in voi. Siccome un tralcio non può portar frutto da sè stesso, se non PERMANE nella vite; così nol potete nè pur voi, se non PERMANETE in me« (1) ». Dove il permanere , tante volte ripetuto, dimostra esser esso la parola caratteristica, colla quale Cristo vuol far notare la stabilità , da parte sua, di quella unione già, per così dire, connaturata fra lui e i suoi eletti, e saldata per legge ferma. E prosegue ancora ripetendo lo stesso vocabolo più e più volte: [...OMISSIS...] . E` dunque solenne questa parola di PERMANERE Cristo in noi e noi in Cristo, nel nuovo Testamento; ed è inaudita nell' antico: perchè questa permanente unione dell' uomo col Verbo di Dio è la ricchezza del nuovo tempo di grazia. Questa unione stabile o abituale, dice Cristo, non si ottiene che colla fede al Vangelo: « E voi non avete, diceva egli agli Ebrei, la parola del Padre in voi PERMANENTE, perchè voi non credete a questo che egli ha mandato« (3) ». E via più si conferma e salda questa unione col Sacramento del pane e del vino di Cristo: « Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna, ed io lo risusciterò nell' ultimo giorno. - Chi mangia la mia carne e beve il sangue PERMANE in me e io in lui« (4) ». E finalmente Cristo dà appunto questa PERMANENZA in lui per nota da contraddistinguere i discepoli suoi: « Se PERMARRETE nel mio sermone, dice, sarete VERAMENTE miei discepoli« (5) ». Questa verità è inchiusa nelle stesse denominazioni date dalla Scrittura e tradizione cristiana alle persone del Figliuolo e dello Spirito: il primo de' quali si nomina parola, ragione, verbo ; e la parola appunto e la ragione è il mezzo onde si manifestano e rivelano le verità, e onde si apprendono: il secondo è appellato spirito della santità , o Spirito Santo , quasi aura che spira nelle anime i santi sentimenti e vi infonde la santità stessa. Del Verbo, principio della rivelazione, fu parlato (2): ora qualche cosa dello Spirito, a mostrare che esso è riguardato nella cristiana teologia come il principio della religione e propriamente della religione interiore, della santità. I Padri Greci dànno allo Spirito Santo, non già come un' appropriazione, ma come sua proprietà, la forza santificatrice (vis santificatrix, «e agiastike dynamis»). S. Basilio lo dice espressamente l' origine della santificazione ( «agiasmu genesin»); e ancora: viva sostanza, arbitra della santificazione (1). Nè vi ha dubbio che il santo Dottore parli di proprietà , e non di qualità appropriata , perchè espressamente si spiega e, fatta la distinzione delle cose proprie e delle appropriate, in quelle mette l' essere il divino Spirito una sostanza santificante. Ecco come egli ragiona nella lettera che scrisse al conte Terenzio, dopo distinta la sostanza dalla persona: [...OMISSIS...] . Cinque secoli dopo, S. Giovanni Damasceno chiamava pure lo Spirito Santo: « virtù santificante per sè sussistente (3). ». Or questo viene a battere con ciò che dice S. Agostino là dove mostra che è proprietà dello Spirito l' esser dono , cioè che è quanto dire l' essere amore santificante : di che ne trae la ragione del non potersi dire generato, ma solo spirato, perchè dice: [...OMISSIS...] . Or hassi a portar oltre questa dottrina: al che ci fa il ponte questa denominazione di dono , che ab aeterno può darsi al divino Spirito. L' esser donabile agli uomini, diciamo noi, l' essere diffonditore di santità non può esser se non con quell' atto stesso, col quale egli è, con quell' atto, con cui procede dal Padre e dal Figliuolo, perocchè aver non vi può in lui distinzione di atti. Ma l' atto onde egli è, il fa essere l' amore nozionale del Padre e del Figlio, la santità loro. Di quel medesimo amore dunque onde si amano il Padre e il Figliuolo, di quella medesima santità onde il Padre e il Figliuolo sono santi, partecipano anco i Cristiani; sicchè è uno il principio di santità in Dio e in noi. Ora udiamo parlare i Padri della Chiesa di ciò; udiamo che cosa dicano dell' esser lo Spirito appunto in Dio santità. [...OMISSIS...] E S. Fulgenzio tenendo la traccia del Vescovo d' Ippona, dopo recati i passi di Agostino, così conchiude: [...OMISSIS...] . E` adunque proprietà intrinseca e costitutiva dello Spirito Santo, secondo le dottrine tradizionali della Cattolica Chiesa, tanto l' essere lui la santità o carità nozionale del Padre e del Figlio, come l' essere il principio della santità o carità nostra. Sicchè la nostra carità è una partecipazione della carità che ha Dio a sè stesso, e, come abbiam detto più sopra coi SS. Agostino e Fulgenzio, amiamo Dio con Dio, nè con altro si può amare, poichè con altro non si può nè pur concepire, se non con sè stesso. Indi esprimendo Cristo il suo desiderio al Padre che i suoi discepoli ricevessero lo Spirito Santo, dice così: [...OMISSIS...] . Questa verità consegue dalla precedente. La santità, la carità, tutto ciò che vi ha di morale insomma, ha la sua sede nella volontà (4). Ora lo Spirito Santo è la santità stessa, la carità originaria (5) che informa l' anima nostra. Dunque esso opera nella volontà . Nè meno opera per questo nell' essenza dell' anima, come il Verbo, perocchè anche la volontà si radica nell' essenza dell' anima. L' essenza dell' anima intellettiva è a un tempo passiva e attiva: in quanto è passiva, riceve le specie delle cose, il che costituisce l' intelletto; in quanto è attiva, riconosce le cose, le vuole, le ama, il che costituisce la volontà. All' incontro il Verbo, che è la intelligibilità dell' essere, risiede nell' intelletto, e ivi opera, ivi si manifesta. Egli è per questo che la terza persona della Santissima Trinità fu chiamata Spirito , come osserva S. Tommaso, poiche « il nome di Spirito nelle cose corporee sembra importare una cotale impulsione e mozione: or poi è proprio dell' amore muovere e impellere la volontà dell' amante nell' amato« (1) ». Abbiamo veduto che l' operazione della grazia non è già una pura operazione ideale , ma è una operazione reale . Noi veggiamo per natura l' essere ideale , e questo costituisce il lume della nostra ragione: ma solo per grazia abbiamo la percezione dell' essere reale . L' essere ideale, e il reale, è egualmente oggetto del nostro intelletto, ma in quanto percepisce quello, chiamasi propriamente intelletto: e in quanto percepisce questo più acconciamente direbbesi senso intellettivo. L' essere ideale, l' idea dell' essere, è una produzione in noi che si attribuisce al Verbo, ed è quello di cui s' intendono pur dette quelle parole di S. Giovanni, che il Verbo è « la luce, la quale illumina ogni uomo veniente in questo mondo« (2) ». Tuttavia l' essere ideale, sebbene sia effetto del Verbo, tuttavia non è il Verbo stesso, perchè privo, come l' abbiamo noi ingenito, di sua propria sussistenza. L' Essere reale all' incontro sussiste, ed è il Verbo. Ma come può egli entrare in noi? Forse colla comunicazione delle verità rivelate? No certamente con queste sole, perchè queste non appartengono che all' ordine ideale, e le verità teologiche possono essere sapute e intese anche da quelli che non sono punto nè poco in grazia. Veggiamo adunque in qual altro modo. Si osservi prima di tutto che anche rispetto alle verità e percezioni naturali, noi conosciamo e percepiamo in due modi, cioè con una cognizione diretta e necessaria, e con una cognizione riflessa e volontaria: con quella siamo passivi, con questa siamo attivi; con quella riceviamo l' essere ideale delle cose, ma con questa giungiamo alla loro sussistenza; quella poco ci affetta e muove, verso di questa che vede i pregi o i difetti delle cose e li rende volontariamente nell' animo efficaci. Si consideri la differenza che passa fra la semplice conoscenza di una persona, e quella conoscenza particolare che ha di lei il suo amatore. Quanti pregi vi trova questi, che tutti gli altri non trovano, fino a crearne di quelli che non esistono! E qual prezzo dà alla bellezza e alle grazie di quella persona, quanto maggiore di quello che i non innamorati punto non danno loro! Che è ciò? Certamente è l' amore in questo che assottiglia e affina l' occhio dell' anima e la contemplazione; la volontà insomma, che muove la riflessione e la tiene occupata nell' oggetto desiderato, e la sforza, col continuo vagheggiare, di attingere, gustare e applicare a sè il più che possa di quella amabilità, alla cui esca è stato preso il suo cuore. Ciò che degli innamorati, dicasi di [ogni] amore e di ogni odio. La volontà amante è quella che penetra molto addentro nell' oggetto amato, e ne conosce i pregi, sa per cognizione sperimentale i piaceri che indi si possono derivare: e se questo amore è retto, egli conduce ad assaporare un diletto vero e salutare. Tal accade a chi è vago della sapienza e della virtù, a chi s' innamora del ben fare, di una scienza o di un' utile impresa: più che vi pensa, più l' ama, più conosce meglio il prezzo della bell' opera; e questa è conoscenza tutta comunicata dalla forza della volontà che si pose nella cosa amata e a lei per così dire si diede benevolmente in braccio, come a suo bene. Ora s' applichi questo modo del procedere dello spirito umano nell' ordine naturale all' ordine sopra natura, s' applichi questa legge alla cognizione del Verbo divino. Il Verbo comincia egli ad operare nel nostro intelletto: a lui si presenta. Con questo mostrasi che egli fa in noi, è ancora entrato in noi? No certamente, perchè il NOI esprime la nostra persona , e la personalità nostra risiede nel nostro principio attivo, cioè nella nostra volontà intellettiva. Conviene adunque che il Verbo sia ricevuto dalla nostra volontà: allora egli è entrato in NOI, allora mette la sua sede nella nostra personalità . Questo è quello che vogliono dire quelle parole di Cristo: « Ecco, io sto all' uscio e batto: se alcuno udirà la mia voce e mi aprirà la porta, io entrerò a lui e cenerò con lui, ed egli con me« (2) ». E` il medesimo che dire:« Io mi presento all' intelletto: ora sta alla volontà che aderisca a me e a me si congiunga: senza questo, non sono entrato nell' uomo, sono fuori della porta«: l' uomo è la sua volontà, l' uomo è la persona dell' uomo. - Cristo adunque non entra se non in chi gli apre la porta colla volontà consenziente alla verità, come dice S. Paolo; il che comincia col prestare orecchio, coll' udire volontariamente la sua voce. Quell' udire è già un principio del giudizio pratico, una disposizione al medesimo: e quella parola è usata altre volte da Cristo, come quando rimprovera gli Ebrei di non aver udita la voce del Padre (2); o quando dice che le pecore odono la voce del loro pastore (3). Medesimamente è mostrato assai di frequente, che il Verbo non viene già nelle anime nostre per forza, ma per volontà egli s' invita per così dire, come ha fatto con Zaccheo, ma non ci viene se non venendo di buon animo ricevuto. E questa parola di ricevere è consacrata nelle Scritture per indicare appunto il buono accoglimento che fa l' uomo colla sua volontà al Verbo, quando il Verbo vuole entrare in lui. « Egli venne, dice S. Giovanni, alle sue proprie cose, e i suoi non lo hanno RICEVUTO« (4) ». E tosto per dimostrare che non s' incorporano col Verbo se non quelli che il vogliono, che il ricevono, soggiunge: « Ma quanti IL RICEVETTERO, a tanti diede podestà di rendersi figliuoli di Dio (5) ». E in altro luogo Cristo dice: «« Chi RICEVE me, RICEVE Colui che mi ha mandato« (6) » cioè il Padre. Ricevere adunque, secondo il parlare delle Scritture, è aderire a Cristo, è riconoscerlo volontariamente pel Redentore, è fare quell' atto di fede , col quale abbiamo detto cominciare la grazia in noi e che è azione della nostra volontà. Quelli che non hanno questa cognizione riflessa, volontaria e pratica del Verbo, nella Scrittura sacra sono detti tenebre (7). « La luce, dice S. Giovanni, luce nelle tenebre, e le tenebre non l' hanno compresa« (.). » Il che è quanto disse Cristo: « Il mio sermone non cape in voi (9) ». S. Paolo pure dice: «« Eravate un tempo tenebre, ma ora siete luce nel Signore ». A cui soggiunge: «« Camminate adunque siccome figliuoli della luce: e il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità« (10) »: perocchè dietro a quell' atto primo, a quel giudizio pratico che [segue] alla volontà, [vengono] (11), come abbiamo tante volte detto, immancabilmente i buoni affetti e le buone operazioni. E questo parlare nelle Scritture è comune, d' intendere per tenebre la volontà che ricusa di riconoscere ed aderire alla verità, e s' accieca da sè stessa (1), e per luce la volontà che si mette dentro nella verità e si compiace di lei. Nè può essere maniera di parlare più propria e verace di questa; perocchè l' uomo non si può dire già illuminato per le cognizioni ideali del suo intelletto, ma solo per la cognizione volontaria, colla quale cognizione la luce della verità entra veramente in lui, perciocchè l' uomo non è già l' intelletto, ma l' uomo, per ripeterlo ancora, è la volontà, quando dicendo« uomo«, s' intende dire la persona dell' uomo; perocchè, a dirlo di nuovo, la persona sta in un principio attivo e nel più alto principio attivo che trovisi in una natura. Egli è questo che insegna appunto il Redentore, quando fa dipendere l' essere l' uomo tutto o illuminato o tenebroso, dall' essere o luminoso o ottenebrato l' occhio dell' uomo: [...OMISSIS...] . L' occhio è appunto la volontà dell' uomo in quanto figge lo sguardo intellettivo nella verità e così s' alluma; o lo toglie dalla verità e rifiuta di accoglierne il lume, e quindi stesso di amarlo e seguirlo nelle opere della vita. Or dunque se la luce del Verbo si riceve in noi con un atto della volontà, e se è nella volontà appunto che il divino Spirito esercita la sua azione (3), movendola al riconoscimento del Verbo; egli è manifesto che il Verbo non entra nell' uomo nè vi fa sua sede se non per un' azione che convenevolmente allo Spirito Santo si attribuisce. Questa è dottrina che compare luminosamente nelle divine Scritture e che viene continuamente insegnata dalla Chiesa. S. Atanasio appunto da' testimonii delle Sacre Scritture prova che lo Spirito Santo può assomigliarsi a un suggello il quale imprime nelle anime nostre l' effige del Verbo; similitudine, pare a me, acconcissima a mostrare come il Verbo sia in noi non già solo idealmente, ma per un' operazione reale, per una vera percezione della sua sostanza. Usa anco della similitudine dell' unguento che unge l' anime nostre appunto col divin Verbo quasi con ottimo unguento: [...OMISSIS...] . Ora esser gli uomini fatti« dei«, non è altro, secondo il parlare delle Scritture e de' Padri, che un essere la natura umana sollevata sopra l' ordine della natura e messa nell' ordine soprannaturale per una reale congiunzione con Dio che è il principio dell' ordine soprannaturale, come la natura umana è il principio dell' ordine naturale. Ma basti fin qui, dovendo noi farci ancora su questa materia più sotto dove ci cadrà di parlare dell' ordine nel quale le divine persone operano e si manifestano nelle anime nostre. Solo conchiuderò con un passo di S. Tommaso acconcio all' uopo nostro, cioè a mostrare che dee concorrere insieme il nostro intelletto e la nostra volontà, al ricevimento del Verbo in noi, venendo in noi questo per l' ammettere che fa la nostra volontà la mozione dello Spirito Santo, e dietro questa mozione volere, ricevere, amare il Verbo. Dimanda l' Aquinate se il dono della sapienza sia nell' intelletto o nella volontà; ed ecco come risponde: « La sapienza, che è dono, ha la sua causa, cioè la carità, nella volontà, ma l' essenza l' ha nell' intelletto« (1) ». E veramente la sapienza è il Verbo, la cui sede è nell' intelletto: ma l' uomo non l' ha, no 'l partecipa veramente fino che colla volontà non ha voluto averlo e parteciparlo, cioè con una riflessione, che è bensì intellettiva, ma che dalla volontà sua bene inclinata è cagionata e mossa. Abbiamo detto che la santificazione dell' uomo è opera dello Spirito Santo, il quale ci fa percepire il Verbo. Ma questo ha bisogno di spiegazione, perocchè non sempre la santificazione dell' anima si opera in egual modo (2). Un effetto talvolta è prodotto da una causa in modo, che nell' effetto stesso può vedersi l' impressione, l' imagine della causa: sicchè la causa si fa, o in tutto, o in parte, forma dell' oggetto, in cui esercita l' operazione. Talora all' opposto la causa produce bensì l' effetto, ma senza lasciarvi la propria imagine, per così dire, scolpita e senza informare di sè l' oggetto. Il calore del sole in gran parte è certamente cagione della vegetazione delle piante, ma in nessuna maniera dalla sola vegetazione delle piante noi potremmo farci la minima idea del sole, se noi nol vedessimo, nol conoscessimo per altro mezzo. Ora io dico, che anche nella santificazione dell' anima non sempre la persona dello Spirito Santo opera in modo da congiungersi come forma con l' anima, ma solo lascia talora in essa degli effetti suoi, dei doni, i quali però non sono la sua stessa persona. Dico ancora che, in tal caso, la santificazione si attribuisce bensì allo Spirito Santo, ma solo per appropriazione , e non come una proprietà . All' opposto, quando la persona dello Spirito informa l' anima umana, allora è proprietà dello Spirito la santificazione: ed ecco perchè passi questa differenza. Se la persona dello Spirito non informa l' anima, ma solo nell' anima vi hanno i suoi doni, in tal caso l' effetto di questa operazione non è lo Spirito stesso, perchè non è lo Spirito stesso che personalmente e immediatamente sia congiunto coll' anima: quindi l' operazione non è deiforme , ma solo divina , secondo la definizione data da noi a queste parole. Si attribuisce adunque questa operazione allo Spirito non come a forma, ma come a causa o principio di questo effetto. Ora è cosa ferma nella teologia cristiana che la causa o il principio delle operazioni ad extra , come le chiamano, cioè che portano effetti fuori della Santa Trinità, non si possono attribuire all' una più che all' altra persona, se non per quella che si dice appropriazione e che abbiamo più sopra spiegata, e che sono comuni veramente alla Santissima Trinità. Ove dunque lo Spirito stesso non si faccia forma dell' anima, la santità dell' anima non si potrebbe dire Spiriti7forme , ma solo deiforme; e non si reputerebbe allo Spirito se non come una appropriazione . - Un ragionamento di egual maniera si convien fare circa la comunicazione del Verbo. Abbiamo detto, che nell' antico Testamento il Verbo non si comunicava personalmente : egli era occulto , se non forse a pochi Santi, ai quali si comunicò talora, ma non in modo permanente e per legge, ma in modo passeggiero e per una eccezione e privilegio. Tuttavia anche nell' antico Testamento il Verbo oltre la rivelazione esterna comunicò dei lumi interiori alle anime, di quei doni, di cui parla Davidde, ove dice di Cristo, che ricevette dei doni per gli uomini (2). Questi doni non erano la personale presenza di Dio, ma erano certe idee, dalle quali raggiava luce e vita, che divenivano il fondamento e come il fuoco di quegli spiriti parziali (3), che animavano i profeti ed i patriarchi e li facevano operare santamente e sublimemente. Or però come queste idee , che mercè lo Spirito che le avvivava, divenivano tante parole interiori, [tanti] tocchi dell' anima; così essi non erano però il Verbo di Dio che tutte le contiene e produce, il quale si rimaneva come in occulto. Quindi queste illustrazioni e lumi distribuiti a quegli antichi Santi non formavano propriamente un' operazione che si potesse dire verbi7forme , ma solo dei7forme ; nè si possono riputare al Verbo come a sua propria causa, ma solo a lui attribuire per appropriazione , in quel senso che abbiamo dichiarato (1). Quindi è ancora che, non essendo nell' antico Testamento nè il Verbo nè lo Spirito personalmente forma delle anime sante, ma provenendo quei doni parziali d' intelletto e di volontà di cui erano fornite quelle anime sante, dalla essenza divina che in esse operava, qualche Padre ne parla come se al Padre eterno appartenessero, giacchè il Padre, come principio della Triade, è quello che comunica la divina sostanza alle altre due persone, e a lui si suole applicare in modo particolare quanto dalla divina sostanza, senza vestigio di distinte persone, proviene (2). Ora io debbo dimostrare che la distinzione che io fo' fra i doni della persona e la persona stessa, non è nuova, ma è cosa che appartiene al deposito della cattolica tradizione. Quanto al Verbo divino, il modo stesso di parlare di S. Paolo convalida questa distinzione. Egli dice che Cristo diede dei doni agli uomini (3): ed enumerando questi doni, soggiunge che diede alcuni Apostoli, alcuni Profeti, altri Evangelisti, altri Pastori e Dottori. Dice ancora che a ognuno è stata data la grazia secondo la misura della donazione di Cristo (4). Altro è il dono dunque, e altro è il donatore: il donatore è un solo, sempre Cristo; i doni sono molti e varii. Ma che è di questo donatore? Egli stesso è stato a noi donato, ed è per lui che abbiamo le altre cose, secondo la dottrina dell' Apostolo: [...OMISSIS...] . Agli uomini dunque è stato dato il Figliuolo, la sapienza personale: e agli uomini sono stati dati altresì de' varii doni, delle varie rivelazioni, o illustrazioni o grazie. Queste non si debbono certo, secondo l' Apostolo, confondere con quello, come ciò che è parziale non si deve confondere col tutto, e un solo raggio non si può prendere per il sole. La stessa distinzione, fra la persona dello Spirito e i suoi doni , è stabilita dalle Scritture e dai Padri. Ecco come S. Epifanio la nota nelle parole dell' Apostolo. Dice così:« Il solo Spirito Santo, procedente dal Padre e dal Figlio, è nominato e spirito di verità, e spirito di Dio, e spirito di Cristo, e spirito di grazia. Poichè egli impartisce il bene a ciascuno in modi vari: ad altri lo spirito di sapienza, ad altri lo spirito di profezia, ad altri lo spirito di discrezione, ad altri lo spirito dell' interpretazione, e gli altri doni: e, come parla l' Apostolo, « uno e il medesimo spirito [è] che divide ai singoli, siccome vuole« (2) ». Altro è dunque lo spirito che dà i doni, e altro i doni suoi. Ora i Padri insegnano che non solo i doni dello spirito, ma lo spirito stesso viene dato alle anime: [...OMISSIS...] dice S. Basilio parlando dello Spirito Santo, [...OMISSIS...] . Nel qual passo chiaramente sono distinte le efficenze , o beni, o doni dello spirito, dallo spirito stesso, e si dice che non solo quelle, ma ben anco questo è dato alle anime. Tutti i doni dello Spirito Santo, che costituiscono la santità e che S. Paolo chiamò « charismata meliora » (dei quali soli noi favelliamo), si riducono dall' Apostolo nella carità . E in vero, non sarebbe difficile mostrare, con una diligente analisi di tutti i doni e grazie, delle quali parliamo, [come] essi non sono che carità sotto diverse forme, in diverse attitudini, in diverse relazioni. Ridotti così i doni tutti che santificano l' uomo alla carità, sarà più facile veder la ragione e il fondamento di quella distinzione che or ora abbiamo posta fra il comunicare che fa Iddio alle anime solo dei doni , e il comunicare che fa loro altresì la stessa persona del Santo Spirito, l' amore sussistente del Padre e del Figliuolo. Perocchè i Teologi cristiani distinguono in Dio un amore essenziale , il quale entra nell' essenza divina, e quindi è comune a tutte e tre le persone, e un amore personale , che costituisce la persona dello Spirito Santo. Ora il primo non forma una sussistenza da sè, il secondo è un amore sussistente, una persona; il primo è amore, ma il secondo è, come lo chiama il Petavio (1), il termine del mutuo amore del Padre e del Figliuolo; il primo è come la via, il secondo è il fine, a cui la via mette. Or l' uno e l' altro di questi amori vengono comunicati all' anima: il primo forma i doni, il secondo è la stessa persona dello Spirito, di cui l' anima si fa partecipe. Or quando è che si può dire, riceversi dall' anima i doni , e quando riceversi lo stesso Spirito ? L' anima, come abbiamo veduto, è essenzialmente viva, è sentimento. Non può dirsi che l' anima abbia ricevuto la persona stessa dello Spirito Santo se non allora che lo Spirito Santo sostanzialmente abbia operato in essa, abbia prodotto in essa un sentimento, del quale egli stesso sia la forma , un sentimento, per cui l' anima senta l' amabilità di Dio per modo che quest' amabilità sola, rimossa ogni altra considerazione, sia il TUTTO, sia per ciò qualche cosa di sussistente per sè colla pienezza dei doni. Nè per questo consegue la necessità che l' uomo ne abbia coscienza: giacchè altro è l' averne sentimento ed operare altresì dietro a quello; altro l' averne coscienza, il saperlo dire a sè stesso, il poter rendersi conto delle proprie operazioni. Quanti semplici e virtuosi cristiani non operano costantemente dietro un sentimento profondo che è in loro, al quale non hanno mai riflettuto, e del quale interrogati non saprebbero render ragione nè conto alcuno, molto meno farne l' analisi? Anzi qual uomo rozzo è mai che conosca, quali sieno i principii, dietro i quali egli opera e si dirige nel corso della sua vita? E anche l' uomo educato alle scienze e dato al meditare conosce egli mai perfettamente sè stesso? Conosce tutte le molle segrete che pur operano nel suo cuore? Tutti i movimenti e gli affetti e gli istinti che continuamente sono in azione nel fondo e talor, può dirsi, nell' abisso dell' anima sua? E quelli che più acutamente ritorcono lo sguardo in sè stessi, e che sono avvezzi a far abitualmente la disanima più scrupolosa delle proprie azioni e de' proprii affetti, con quanta fatica e assidua osservazione non pervengono a conoscere quel poco che di sè conoscono: conoscenza che si accresce bensì in essi ogni giorno, ma che l' acquisto di maggior lume, ottenuto in un giorno successivo accusa l' ignoranza del precedente? Nè pure è necessario che chi ha il fonte dei doni, abbia tutti i doni in sè spiegati e manifesti. Poichè lo Spirito Santo abitante nelle anime emette di sè quei doni che vuole, e quei che vuole li tiene nascosti; « spira ove vuole« », come dice Cristo. Nè meno avviene ciò per l' inabitazione del Verbo nelle anime: il quale sebbene sia tutta la sapienza del Padre, pure non comunica alle anime ove inabita, se non quei lumi e cognizioni particolari che a lui piace, e gli altri gli occulta alla riflessione dell' anima. Il che insegna appunto l' Apostolo là dove dice, che « in Cristo sono tutti i tesori della sapienza e della scienza NASCOSTI« (1) »: non nascosti certamente a sè stesso, ma nascosti alle riflessioni delle anime, nelle quali abita Cristo, le quali anime, dice, per consolarsene il cuore, devono essere istrutte nella carità e in tutte le dovizie della pienezza dell' intelletto (2). Or dunque, ove il sentimento di soprannaturale carità, di cui parliamo, non sia un sentimento TOTALE e che accusi nell' anima qualche cosa di sussistente, non si può dire che sia sentimento spiriti7forme ; non si sente in esso la persona dello Spirito Santo: si sente bensì un amor divino; ma quando non si sente la persona, quell' amore non è l' amore nozionale , è solo l' amore essenziale di Dio, è la divina sostanza che si fa sentire, ma in modo imperfetto, sicchè rimane insensibile, OCCULTA, la persona dello Spirito Santo: egli allora non si può nominare che dei7forme . Tuttavolta per l' appropriazione si attribuisce quel sentimento allo Spirito Santo e a lui si riduce come via a suo termine, a sua perfezione: sicchè quel sentimento non ha che a rendersi più perfetto, più integro per essere quello del divino Spirito. In tal caso, il divino Spirito è il principio della santità per appropriazione: all' opposto, ove lo Spirito Santo si comunichi all' anima personalmente, egli è il santificatore di lei con quella santità che gli è proprietà personale. Che la persona del Verbo non fosse comunicata spiritualmente agli uomini innanzi la sua venuta in carne, pare reso manifesto dalle cose dette fin qui (3), e particolarmente da quel principio più sopra stabilito: che la rivelazione interiore va di un accordo perfetto colla rivelazione esteriore (1). Quanto alla persona dello Spirito Santo, quello che abbiamo detto dimostra che essa non può essere percepita prima e indipendentemente dal Verbo, perocchè ella è l' energia del Verbo, quasi un calore, un affetto, che esce spirato da quella luce, resa oggetto divino del nostro sentimento (2). Non sarà però inutile che confermiamo questa dottrina, secondo il metodo seguito fin qui, co' passi dei Padri della chiesa e de' teologi. Ecco come favella un teologo de' più chiari, che ha illustrato assai questa materia, e che mostrasi sempre profondo nel ricercare ben addentro i più sinceri sentimenti de' Padri: [...OMISSIS...] . E di qui S. Cirillo toglie la spiegazione di quelle parole di Gesù Cristo: che quello che è il più piccolo nel Regno dei cieli era però maggiore di Giovanni (3). Egli trovava la ragione di tali singolari parole di Cristo in questo, che i cristiani, che sono nel regno di Cristo, cioè della chiesa, hanno in sè lo Spirito Santo personalmente; il contrario di que' santi che appartenevano all' antico Testamento, de' quali era ancora il Precursore, dotato bensì dei doni dello Spirito in tale abbondanza da vincere tutti gli antichi santi, ma non ancora in possesso della stessa persona dello Spirito Santo, perchè non erano ancora aperte le porte del cielo (1). Il che sebbene basterebbe a provare il mio assunto, tuttavia la chiarezza ond' è posta questa dottrina nel passo seguente dello stesso grande Vescovo di Alessandria, mi trae a riferirlo, e spero che mi sarà volentieri conceduto di farlo dal lettore. Dopo aver egli recate quelle parole di S. Giovanni: « che lo Spirito non era ancor dato, perchè Cristo non era ancora glorificato« (2) »; le quali contengono precisamente quanto noi qui sosteniamo si fa la questione: Se dunque non avevano lo Spirito i Profeti o, se l' avevano, per che altro modo l' avevano? E scioglie la questione colla distinzione appunto fra i doni e lo Spirito stesso. Ecco le sue parole: [...OMISSIS...] . Il Verbo apparito in carne umana agli uomini, si annunziò loro per quella divina persona che è, Figliuolo Unigenito di Dio Padre. A questo annunzio, a questa esterna rivelazione, compimento e spiegazione di tutte le rivelazioni fatte precedentemente per lo spazio di quattro mila anni agli uomini, corrispose la rivelazione interna, colla quale si manifestò il Verbo alle anime, diede alle anime credenti la percezione di sè stesso. E` questa la grazia della nuova legge, quella di cui dice S. Giovanni: « la legge fu data per Mosè; la grazia e la verità fu fatta per Gesù Cristo« (2) ». In tal modo il Verbo divenne forma delle anime, e quell' operazione della grazia che prima non era che deiforme , cominciò a essere verbiforme . Questa comunicazione del Verbo alle anime de' suoi, fatta ancor prima della sua morte, veniva comunicata dalla virtù delle sue divine parole e dello stesso suo umano sembiante, a quell' anime che prestavano fede a quelle e si lasciavano muovere dalla dolce vista di lui. Della grazia che usciva dalle sue parole, dice Cristo: « Già voi siete mondi pel sermone che ho parlato con voi (4) »; e tosto soggiunge: «« Rimanetevi in me e io in voi« (5) »; attribuendo appunto all' effetto delle sue parole la cognizione sua soprannaturale co' discepoli suoi. Dice ancora che la permanenza nel suo sermone era la nota caratteristica de' suoi discepoli: « Se voi rimarrete nel mio sermone, sarete veramente miei discepoli« (6) ». Nelle quali parole quell' avverbio veramente è atto a dare gran forza alla denominazione di discepoli , ed esprime propriamente l' immediato imparare che fa da Cristo l' anima per una comunicazione tale, che dà fino l' immortalità, che non viene se non dall' unione e percezione di Cristo stesso: [...OMISSIS...] . Della grazia poi che usciva dal suo sembiante, e per la quale veniva pur data, a chi n' erano fatti degni, la visione o percezione del Verbo; ecco come ne parla Cristo in quel colloquio con Filippo, che ho più sopra riferito e che qui di nuovo giova rammemorare. Aveva dimandato l' Apostolo Filippo a Cristo che mostrar gli volesse il Padre. Gesù Cristo si fa maraviglia, perchè non s' accorgeva che, vedendo lui, si vedeva il Padre stesso: il qual vedere non si può riferire alla semplice vista della umanità di Cristo, ma sì bene alla vista interiore della sua divinità, perchè non è nel corpo di Cristo visibile immediatamente il Padre, ma si bene nel Verbo, la cui visione o percezione veniva spirata e impressa pure dalla visione della divina umanità del Redentore, da cui usciva una virtù soprannaturale e misteriosa. Risponde adunque Cristo così alla dimanda di Filippo: [...OMISSIS...] . E dice: non credete; per indicare che quella visione di cui si parlava, fondavasi nella fede; che era una visione imperfetta, incipiente; che era quel conoscere insomma, di cui parla S. Paolo, ove dice che « conosciamo in parte e in parte profetiamo« (2) », cioè vediamo a segni e a enimmi (3). Ma per vieppiù provare che la persona del Verbo, quando egli apparì e si manifestò in carne umana, si unì formalmente a quelli che credevano alle sue parole, consideriamo quali sieno i caratteri da noi assegnati a quel sentimento che produce in noi l' operazione della grazia, nel qual sentimento percepiamo una divina persona. Questi caratteri, come risulta da ciò che fu detto, sono due, il primo che con quel sentimento noi dobbiamo sentire tale cosa, nella quale noi troviamo il TUTTO. Il secondo, che non è se non conseguenza del primo, si è che quel sentimento dee essere cotale che ci faccia sentire una cosa sussistente , e non puramente ideale. Ora Cristo ci fa notare questi due caratteri nella comunicazione che fece di sè a' suoi discepoli. La divina rivelazione aveva date agli antichi delle cognizioni e notizie separate della divinità: ma Cristo dichiara espressamente che egli comunicò tutto a' suoi discepoli, quanto aveva udito dal Padre: « TUTTE le cose che io udii dal Padre mio, le feci a voi note« (4) ». I Padri spiegano acconciamente questo passo, dicendo che voleva dire che Cristo fece nota ossia comunicò la propria persona agli Apostoli. Perocchè qual è il valore di questa misteriosa parola, udire dal Padre? Vuol dire sapere , e sapere vuol dire essere dal Padre, procedere da lui, come dice S. Agostino (1); perocchè il sapere del Figlio non è diverso dal suo essere. Ora se Cristo avesse detto: Io vi feci note molte cose che ho udite dal Padre, poteva intendersi che non avesse comunicata la sua stessa persona, ma solo alcuni lumi e cognizioni. Ma dicendo che ha fatte note agli Apostoli tutte le cose , non si può intendere altramente se non che gli abbia loro comunicata la propria persona ; perocchè essa sola è tutte le cose procedute [dal] Padre, avendo il Figlio nella sostanza divina ricevuta dal Padre le cose tutte. Nè quella frase di render note le cose , si può spiegare altrimenti che di una comunicazione sostanziale, giacchè la natura divina non ci si fa nota per altra via, come ho mostrato più sopra (2), se non per la percezione, e non si può conoscere per via di idee pure. Il passo citato di nostro Signore: [...OMISSIS...] ; si vedrà più chiaramente significare: [...OMISSIS...] , ove con lui si confronti un altro passo, pure di Cristo, cioè quello nel quale egli favella al suo divin Padre così: [...OMISSIS...] . Che cosa sono le parole di Cristo date a lui dal Padre? Certo quelle cose che egli ha udite dal Padre. E che sono le cose udite dal Padre? L' essere suo di Figliuolo dal Padre generato. Non dice« alcune parole ricevute dal Padre«; ma dice« le parole«, che è quanto« tutte le parole, « omnia quae audivi »«. Ora che cos' è« tutte le parole ricevute dal Padre«, se non tutto il suo essere, tutta la sua persona? Or tutte queste parole le ha comunicate a' suoi discepoli: ha comunicato loro la sua persona. Ma a qual fine ha comunicato a' suoi discepoli le parole date a lui dal Padre? Perchè intendessero, tutte le cose date a lui dal Padre essere dal Padre. Che è,« tutte le cose date a lui dal Padre essere dal Padre?«. La sua generazione, l' essere generato. Che cosa è« l' essere generato?«. L' essere Figliuolo del Padre, avere ricevuta la natura del Padre. Ha adunque date a' discepoli suoi le parole ricevute dal Padre, perchè conoscessero che egli era la persona del Figlio. Che cosa dunque è che volle far conoscere a' suoi discepoli? La propria persona, la generazione eterna. Qual è il mezzo onde la fa conoscere? Non altro che la propria persona: questa immediatamente lucente nelle anime sono quelle parole ricevute dal Padre, che fanno conoscere che tutta quella persona viene generata dal Padre. Ecco il grande scopo di tutta la predicazione di Cristo, far conoscere sè agli uomini, e in sè il Padre: ecco il peculiare ufficio della sua grande missione. Viene confermata simigliante interpretazione del passo di Cristo: « Tutte le cose che io ho udito dal Padre mio, le feci io note a voi«, dalla seguente osservazione. In che modo Cristo poteva aver comunicato agli Apostoli la notizia di tutte le cose udite dal Padre? In che modo si può spiegare con semplicità questo detto, che gli Apostoli sapessero le cose tutte, giacchè Cristo le sapeva tutte? So bene che ove vogliasi far violenza alle parole e sostenere che il tutte non voglia dir tutte, può trarsi agevolmente dalla difficoltà: ma questo non è uno spiegare le parole di Cristo, ma un sostituirne a quelle delle altre. In che maniera dunque di nuovo io chiedo, poteva dirsi con verità, che agli Apostoli tutte le cose fossero rese note? Certo ciò non poteva essere, ove s' intendano le verità prese singolarmente, staccate e distinte le une dalle altre: in questo modo anzi ci assicurò Cristo che gli Apostoli non le sapevano, perchè, dopo aver detto che tutte le cose udite dal Padre aveva rese note, disse ancora: « Ho molte altre cose a dirvi, ma non le potete portare di presente« (1) ». Qui dice che ha molte cose ancora da dir loro; e prima aveva pur detto che TUTTE le aveva loro fatte note. Si badi a quel TUTTE, che significa il complesso delle stesse verità. Il Verbo era quello che le aveva tutte in sè: comunicato il Verbo, era vero che avea loro comunicate tutte le verità, perchè esso stesso il Verbo era tutte insieme le verità. Perciò in altro luogo, in luogo di dire che aveva comunicate agli Apostoli tutte le verità, dice in singolare, che aveva loro dato il sermone del Padre, il quale tutte le conteneva. « Io ho dato loro il tuo sermone« - « Il tuo sermone« è LA VERITA` (2) », la quale abbraccia eminentemente tutte le notizie. E per dimostrare che questo dar il sermone del Padre a' suoi discepoli voleva dire dar loro sè stesso, segue mostrando gli effetti che ne vennero dall' aver dato il sermone del Padre ai discepoli; cioè che il mondo trattasse loro come lui, appunto perchè egli era in essi: [...OMISSIS...] . Eccoli dunque di un' altra origine, dopo che ebbero in sè il sermone del Padre: non sono più del mondo, sono originati da Dio, come il Figliuolo è nato dal Padre. Con quale efficacia maggiore si può spiegare che il Verbo si congiunse colla stessa persona dell' uomo? L' uomo col Verbo in sè, è già nato da Dio, non [può] più esser del mondo. Nascere indica il principio della personalità: l' uomo adunque, la persona dell' uomo ha un principio che viene da Dio, e questo principio è la base della personalità dell' uomo (1). Conviene adunque dire che il Verbo unito formalmente nell' uomo abbia eccitato nell' uomo un' attività suprema, la quale appunto perchè mossa dal Verbo, non è dal mondo, ma da Dio stesso. Nè paia strano ciò che affermiamo, che chi vede il Verbo, dove sono tutte le notizie, non abbia però tutte queste notizie in sè distinte, perchè varii sono i gradi della percezione del Verbo, non solo in terra, ma perfino in cielo (2) e, come dicono i Teologi, la visione del Verbo importa bensì che si percepisca ciò che è formalmente nel Verbo, ma non ciò che ci sta eminentemente , come le notizie di tutti i possibili e contingenti. Il secondo carattere, a cui si conosce il sentimento Verbi7forme, abbiamo detto essere, che in esso l' uomo sente la sussistenza della verità o del Verbo divino. E veramente S. Giovanni dice, che egli « era vita e la vita era luce degli uomini« (3) ». Ora la vita è sentimento, e chi nulla sente, non ha vera vita: il sentimento è la potenza di percepire l' essere reale e sussistente (4). La luce del Verbo adunque non è una luce ideale, ma l' essere sussistente da noi percepito. In nessun luogo poi più chiaramente risplende questa verità, come in quelli dove Cristo paragona sè stesso al cibo, o anche parla del cibo eucaristico. Un cibo che sazia veramente l' anima, non può essere una cosa ideale: il sentirsi paghi e sazi non è altro che il sentire in sè stessi una sussistenza, un bene che ci riempie: [...OMISSIS...] . E spiega in che maniera si chiami pane di vita, cioè perchè dà la vera vita, la pienezza della vita, che è quanto dire la pienezza del sentimento; e il sentimento, la vita, per essere piena, deve essere immortale. Onde soggiunge: [...OMISSIS...] . E qual è questa vita? Una vita fondata nell' azione stessa di Cristo, una vita che noi riceviamo da Cristo, come Cristo riceve la sua vita dal Padre. Quest' alta e ineffabile comparazione non si oserebbe pur a pensare, se Gesù Cristo stesso non avesse detto: [...OMISSIS...] . L' esser mandato dal Padre è ricevere l' essere del Padre. Dice adunque: come un' operazione del Padre è quella che dà a me l' essere e la vita, così un' operazione mia ne' miei diletti è quella che dà loro la vita. - Questa vita è ciò che vi ha di più sollevato ne' discepoli di Cristo e costituisce per ciò il loro essere personale (3) soprannaturale: e indi è che la similitudine di Cristo è sommamente vera ed espressiva, quasi dicesse: come il Padre dà a me l' essere personale, così io do a' miei diletti l' essere loro personale. - E questa personalità, che noi riceviamo dall' unione con Cristo, è significata assai acconciamente in assaissimi luoghi delle Scritture e, fra gli altri, in quello di S. Paolo che dice: « Vivo io? non più io, ma vive in me Cristo« (4) ». Non già che noi ci cangiamo nella persona di Cristo, o la persona di Cristo in noi, ma sì bene Cristo vive in noi, nella nostra personalità, e però la nostra vita personale non è più prodotta dalle nostre forze naturali, ma dalla forza di Cristo che colla sua sostanziale presenza opera ineffabilmente in noi e vi suscita un sentimento tutto nuovo, un' attività più nobile di gran lunga di tutte le altre nostre attività naturali. Già abbiamo detto che il Verbo non si percepisce, se non per una operazione dello Spirito Santo, che muove soavemente la nostra volontà e questa il nostro occhio intellettivo a contemplare e percepire la bellezza appunto della sostanzial verità. Ma abbiamo detto ancora, che questa operazione dello Spirito Santo non è sempre la persona stessa dello Spirito Santo, ma che a quella persona divina si attribuiscono gli effetti spirituali che riguardano i movimenti della volontà nostra e gli affetti santi, per appropriazione (5). Se dunque la percezione del Verbo si fa per la fede, anche prima della morte di Cristo dovevano di natural conseguenza esserci anche questi doni od effetti spirituali, di cui parliamo. E certo l' aver gli Apostoli lasciato tutto e seguito Cristo era amore e fede che a lui prestavano. Pietro dice a Cristo in ragione d' esempio: « Tu hai le parole di vita eterna; e noi crediamo e conosciamo che tu sei Cristo Figliuolo di Dio« (1) ». Certo, era l' amore che gli faceva parlare così, era lo Spirito Santo, del quale dice S. Giovanni: « Lo Spirito è quello che testifica che Dio è verità« (2) ». Ma sebbene lo Spirito Santo, con quell' amore spirato a Pietro, illustrasse la persona del Verbo e mostrasse in esso avervi le parole vitali; tuttavia non era ancor venuta la persona stessa dello Spirito Santo, perchè Cristo non era ancora reso glorioso, dicendo S. Giovanni espressamente così: [...OMISSIS...] . Quella energia dello Spirito Santo, che illustrava il Verbo nelle menti, si attribuiva al Figliuolo stesso, prima che la persona dello Spirito si comunicasse formalmente agli uomini, perchè emanava da lui e non costituiva da sè sola nel sentimento degli uomini una persona sussistente: e ciò a quello stesso modo, come abbiamo detto, che i doni del Verbo si attribuivano al Padre prima che la persona del Verbo fosse comunicata agli uomini, cioè prima che venisse in carne umana (4). Quindi anche il Verbo viene chiamato Consolatore, in quel passo: « Io pregherò il Padre, e darà a voi un altro Paracleto cioè Consolatore, acciocchè PERMANGA con voi in eterno« (5) ». Dove Cristo usa quella parola permanga , per indicare che egli stesso era il loro consolatore, fino che stava con essi visibile nella carne mortale; ma che poi sarebbe con essi in altro modo, cioè invisibile o colla sua divinità: ma che per questo non sarebbe loro mancata ogni piena di consolazione, perchè la persona dello Spirito Santo nelle anime loro sarebbe stato un fonte di gaudio perenne e inesausto che sarebbe ridondato in essi per la visione non più esterna, ma bensì interiore, del Verbo. Onde dice: « Non vi lascierò orfani: io verrò a voi«. E tosto appresso:« Ancora un poco e il mondo già più non mi vede; ma voi mi vedete, perchè io vivo e voi pure vivete« (6) ». Nelle quali parole viene a dire, che la vista interiore del Verbo rimarrà in essi anche sottratta ai loro occhi corporei la divina sua umanità; perchè egli è vivente ed essi pure vivono, cioè partecipano della stessa vita, sentono in sè la vita di Cristo e così veggon Cristo. Quindi il Padre celeste era chiarificato anche prima che discendesse lo Spirito Santo sopra gli Apostoli, perchè la persona del Verbo bastava a chiarificarlo, cioè a renderne nota la maestà nelle anime degli uomini: « In questo, dice, il Padre mio è stato chiarificato, che apportiate abbondantissimo frutto, e vi facciate miei discepoli« (1) ». E spiega tosto dopo, che ciò avviene per l' amore dicendo: « Siccome il Padre ha amato me, così ed io pure ho amati voi. PERMANETE nella mia dilezione« ». - La quale dilezione si attribuisce appunto allo Spirito: ma egli fa vedere che qui non parla ancora della dilezione sola come sussistenza, ma di una dilezione, che si appoggia e inerisce alle sue parole, giacchè continua così: « Se osserverete i miei precetti, PERMARRETE nella dilezione mia, siccome anch' io ho osservato i precetti del Padre mio e PERMANGO nella dilezione di lui« ». E perchè la dilezione di Cristo era certo personale, alla quale si raffronta quella de' discepoli che non è ancor personale; manifestamente apparisce, che quella dilezione che non è ancor personale, si considera da Cristo come una via a quella che è personale, un iniziamento di questa in che quella termina e si completa. La quale distinzione fra la dilezione de' discepoli, divina sì, ma non personale, e la personale, ancor più chiaramente è marcata nelle parole di Cristo che susseguono: « Ho parlato a voi queste cose, acciocchè il gaudio mio sia in voi, e il gaudio vostro si compia« (2) ». Ho parlato queste cose, cioè vi ho comunicate queste verità, ve le ho date a sentire, vi ho dato a sentire me stesso che sono verità. E perchè? Per comunicarvi il mio gaudio. Che è il gaudio suo in noi? Il gaudio suo in noi è la grazia sua, dice S. Agostino, che diede a noi pur quando ci elesse innanzi alla costituzione del mondo (3). Il gaudio suo e il gaudio nostro è dunque il medesimo: il gaudio nostro è una comunicazione del gaudio suo, come la dilezione nostra è una comunicazione della medesima dilezione sua. Ma in altro modo quel gaudio è in lui, in altro modo è in noi: il gaudio di Cristo è eterno, perfetto, sussistente; il gaudio nostro da lui comunicatoci non è sempre, nè necessariamente sussistente. Quindi, dopo aver detto che aveva parlate quelle cose, acciocchè il suo gaudio fosse in noi, soggiunge: « e acciocchè il vostro gaudio si compia« ». Prima adunque è in noi il gaudio, poi il compimento del gaudio. Non dice:« acciocchè si compia il suo gaudio perchè è sempre completo (4); ma dice: «« acciocchè si compia il gaudio vostro« ». Il gaudio nostro adunque è il gaudio di Cristo, il gaudio che viene dalle parole di Cristo: ma egli è o incipiente, o già pieno. Che cosa è il gaudio pieno? Il gaudio sussistente, altrimente non sarebbe pieno; la percezione adunque della sussistenza dello Spirito Santo in noi. Che cosa è il gaudio incipiente? Il gaudio che viene dalle parole di Cristo prima che discenda in noi lo Spirito Santo personalmente. Questo si spetta a Cristo, dalla percezione stessa di Cristo ancor non differisce, non è un altro modo nuovo di percepire: quello è lo Spirito Santo, è una percezione nuova, o, per dir meglio, un nuovo modo di percepire che noi facciamo il tutto. Come v' ha adunque una gradazione nel gaudio che esce dal Verbo, e solo il termine di questo gaudio, la pienezza sua è ciò che costituisce il sentimento dello Spirito nelle anime; così vi ha anco una gradazione di luce che esce dal Verbo, e solo la pienezza di questa luce è ciò che forma il sentimento dello Spirito nelle anime. La luce del Verbo fino che non è arrivata alla sua pienezza, non costituisce un modo di percepire nuovo nelle anime: è indivisa una tal luce dal Verbo stesso percepito. Quanto il Verbo è più sentito dalle anime nostre, o, che è il medesimo, quanto è più luminoso in esse, tanto più è chiarificato il Padre. Quando adunque Cristo diceva al Padre: « Io ti ho chiarificato sopra la terra« (1) »; mostrava con questo che anche il Figliuolo era chiarificato, giacchè è la sua chiarezza [che] fa vedere il Padre. Tuttavia il Figliuolo [prega] di essere chiarificato ancora, dimanda che sia completata la sua chiarezza appunto perchè sia più e più chiarificato il Padre: « Padre, dice, viene l' ora, chiarifica il Figliuol tuo, acciocchè il Figliuol tuo chiarifichi te« (2) ». Che cosa dimanda qui dunque il Figliuolo se non un aumento di luce? E quanta luce? Quanta di più non si può, una luce piena, una luce infinita: « E ora chiarificami, o Padre, appresso te stesso di quella chiarezza, che io ebbi prima che fosse il mondo, appresso te« ». Non dimanda certo questa chiarezza per ragion sua o del Padre, dove non ebbe mai adombramento veruno; ma la domanda per cagion degli uomini, domanda che una tal luce sia resa visibile agli uomini. Or questa luce infinita, che dimanda, è una luce eterna e divina; dimanda pe' suoi diletti la persona dello Spirito Santo. Egli rannoda questo discorso alla pienezza del gaudio che, come abbiam detto, indica appunto lo Spirito Santo personalmente comunicato, dicendo: [...OMISSIS...] . Questa gradazione di luce, che ammette la percezione personale del Verbo, è anche espressa in quelle misteriose parole che Cristo pronunciò nel cenacolo, uscito Giuda: [...OMISSIS...] . Le quali parole si possono interpretare di una maggiore luce di carità diffusasi nelle anime de' suoi Apostoli, dopo l' eucaristia, e la partita del demonio che trovavasi nel traditore. E` però notabile quel modo di chiarificazione che Cristo annunzia dover egli avere dal Padre suo. Dice che Dio lo chiarificherà in sè stesso: questa maniera esprime una chiarificazione non già esterna, ma tutta interiore, la chiarificazione che nasce a Cristo quando gli uomini conoscono e sanno che egli è Dio nel seno del Padre. Il sapere questo, l' aver questo lume nell' anima, dal penetrare in qualche modo nella generazione del Verbo, è tutto ciò che ci può essere di più grande nella cognizione, nella percezione di Dio stesso; e il solo Spirito Santo dà alle anime una tale intima cognizione. La frase è ripetuta nell' orazione di Cristo surriferita, dove parla non di gloria esteriore, ma di quella chiarezza ch' egli ha appo il Padre da tutta la eternità. Nella percezione adunque del Figlio è indivisibile una luce e un amore, ma questa luce e questo amore non costituiscono una percezione da sè diversa da quella del Figlio, fino che non diviene una luce e un amore tale, che lo si senta pieno e sussistente: allora quella luce e quell' amore forma da solo una cotale percezione, ed è quella che diciamo la percezione dello Spirito Santo. Tuttavia anche prima che quella luce e carità tocchi in tal modo il suo termine, essa allo Spirito Santo si appropria, perchè è un avviamento nell' anima al medesimo Spirito Santo; ed è anche in questo senso, che il Verbo divino dice: « Io sono la via« (2) ». S. Paolo distingue parimente i due gradi della santificazione dell' uomo, che noi fin qui abbiamo cercato distinguere: il primo consistente nella percezione del Figliuolo, per la quale diveniamo figliuoli di Dio; il secondo consistente nella percezione dello Spirito che illustra e attua vieppiù la percezione del [Verbo], e innalziamo con confidente amore a Dio le nostre voci di figliuoli. Così l' Apostolo tocca questi due gradi, scrivendo ai Galati: [...OMISSIS...] . Con questo solo la salute dell' uomo è assicurata, l' uomo è figliuolo di Dio. Ma lo Spirito Santo viene appresso e perfeziona quest' opera; prosegue l' Apostolo: « Ma poichè siete figliuoli » (ecco che precede l' essere fatti figliuoli), «Iddio mandò lo Spirito del Figliuol suo » (prima mandò il Figlio, or qui manda lo Spirito del Figlio) «nei cuori vostri » (la sede degli affetti, la volontà) « che grida: Abba, Padre« (1) ». Conchiuderò questo articolo con un' osservazione volta a levare una difficoltà che potrebbe sorgere nell' animo de' lettori. Nell' antico Testamento, abbiamo detto, i doni del Figliuolo, cioè le illustrazioni mentali non sono più che operazioni deiformi nelle anime sante, appropriate al Verbo; ch' esse però, come in loro causa, si riferivano al Padre, principio della Trinità. Abbiamo detto il medesimo dei doni dello Spirito Santo. Or poi resosi cognito il Figliuolo dopo incarnatosi, i doni dello Spirito Santo si riferiscono allo stesso Verbo, o anche al Padre. Or qui è da osservare la differenza che passava tra il riferirsi al Padre, o al Verbo, nell' antico tempo, quei doni, e il riferirsi ora. Ora il Figliuolo, e per esso il Padre, è conosciuto; e si ricevono in una percezione indistinta dal Figliuolo medesimo que' doni allo Spirito appropriati (2). Quindi la percezione del nuovo Testamento appartiene, propriamente parlando, alle persone divine, quando la percezione nell' antico apparteneva solo con proprietà alla divina natura. E` però degno di osservazione come nel nuovo Testamento medesimo si distinguano alcune grazie o doni dello Spirito come venienti dal Padre; e alcune grazie o doni come uscenti dal Figlio. Ciò è a dire, tutte le buone disposizioni della volontà umana precedenti alla fede in Cristo, alla cognizione del Figliuolo, le quali buone disposizioni inclinavano gli animi a udire docilmente e a dar fede alle parole di Gesù Cristo, Gesù le attribuisce al Padre suo: là dove i doni che susseguono la cognizione e la fede in Gesù Cristo, si fanno scaturire dal Figliuolo, cioè dalla cognizione e fede di lui. Le prime appartengono all' antico Testamento e sono grazie deiformi: le seconde appartengono al nuovo, e si possono dire grazie verbiformi. Cristo parla appunto di quelle grazie dispositive del Vangelo in questa maniera: « Ognuno che udì dal Padre mio e imparò, viene a me« (1) ». E acconciamente dice, udì ; perchè chi ode la voce di uno, non è necessario che vegga la persona che parla: la qual forza della parola, udì , si rileva da queste altre parole dette da Cristo: « Voi nè avete mai udita la sua voce, nè veduta la sua specie« (2) »; quasi dica: non avete udita la sua voce manifestatavi da Mosè e da' Profeti, e molto meno avete veduto il suo volto, come l' ho veduto io. Indi mette fra le male disposizioni a ricevere la sua parola il non prestar fede a Mosè, non potendo capire il significato spirituale e interno delle sue parole: « Se prestaste fede a Mosè, forse credereste a me pure, poichè Mosè scrisse di me« (3) ». Fra le buone disposizioni poi a udire la sua legge, si è la prima la volontà del bene in generale, l' amore della giustizia stessa naturale: [...OMISSIS...] . Dalla buona disposizione della volontà dice che procede quella della luce volontaria, colla quale si sa conoscere se è bene o male ciò che viene annunziato. [...OMISSIS...] . E` forse difficile il conoscere e accertarsi che la sua dottrina sia da Dio? No certamente: basta avere una buona volontà, basta desiderare il bene sinceramente, basta avere la fede implicita, e quindi volere implicitamente fare tutto quello che Dio fosse per manifestare. [...OMISSIS...] Nulla più ci vuole: la disposizione buona della volontà, l' implicito desiderio di fare la volontà del Padre. A questi doni e grazie dispositive a ricevere il Vangelo, che al Padre si attribuiscono, appartiene quel passo: [...OMISSIS...] . Sebbene le parole di Gesù Cristo, colle quali ebbe promesso lo Spirito Santo, [dovessero adempirsi] solo dopo ch' egli fosse salito al cielo sedente alla destra del Padre; tuttavia una grave difficoltà nasce a spiegare quell' atto e quelle altre parole di Cristo, onde dopo risorto, apparito in mezzo al cenacolo, soffiò la prima volta verso gli Apostoli e disse: « Ricevete lo Spirito Santo: i peccati di quelli a cui voi li rimetterete, sono rimessi, e a cui li riterrete, sono ritenuti« (1) ». E certo fu quello un dar loro lo Spirito Santo; ma il fine di quella comunicazione del Santo Spirito fu il darlo come fonte dell' autorità di legare e di sciogliere, non come forma della loro santità. Il dono della potestà di legare e di sciogliere che rimane nei sacerdoti, anche dopo perduta la grazia coi peccati, appartiene a un ordine di cose ben diverso da quello della santità. Ove non si voglia dire che perpetua è questa potestà nella Chiesa, appunto perchè perpetua è la santità di lei, pigliando la Chiesa tutta come esercitante pei suoi ministri il ministero penitenziale. Certo è insieme che molti doni incomparabilmente maggiori furono conferiti agli Apostoli da Cristo risorto, come il gaudio, la pace e l' intelligenza delle divine Scritture. Ma la promessa dello Spirito Santo non fu ancora compita prima d' ascendere al cielo; non disse già Cristo ai suoi: Ricevete lo spirito in maggiore abbondanza, ma disse semplicemente: « Ed io mando il promesso del Padre mio in voi« (2) »; facendo così manifestamente intendere che questo promesso del Padre suo non era ancora in essi venuto. Sebbene adunque nella percezione del Verbo sieno sempre uniti dei doni o grazie che allo Spirito si appropriano, perchè alla volontà appartengono, come la dilezione (1); tuttavia lo Spirito stesso fu promesso da Cristo e mandato, come dicevamo, solo il giorno della Pentecoste. Pigliamo i due caratteri, dai quali abbiamo detto conoscersi, se un sentimento in noi sia sentimento di una persona divina, i quali sono: 1. la totalità; 2. e la sussistenza. Gesù Cristo caratterizza sempre quello Spirito che promise di mandare colla totalità , e lo distingue da quegli spiriti o doni parziali che ha compartito egli a' suoi Apostoli mentre viveva, o dopo la sua risurrezione. Egli dice: [...OMISSIS...] . - Questa è la comunicazione di sè che fece il Verbo. Soggiunge: [...OMISSIS...] . Nelle quali parole di Cristo due cose si devono notare: 1. Che quello Spirito è uno Spirito universale, che ha in sè tutte le cose, ed è atto a infondere le notizie tutte. 2. Che lo Spirito non insegna cose diverse da quelle che ha insegnate il Figliuolo; ma quelle stesse le suggerisce alle anime: « omnia quaecumque dixero vobis », come dice il sacro testo. Poichè anche Cristo aveva insegnate tutte le cose, come detto abbiamo (3). [...OMISSIS...] Perocchè anche nella percezione del Figliuolo tutte le notizie si comprendono; è anche con questa percezione che si percepisce il TUTTO, e il medesimo TUTTO, perchè il TUTTO è un solo, e non può essere due. Tanto dunque il Verbo, come lo Spirito insegnano alle anime in cui risiedono tutte le cose , ma le insegnano in diverso modo . E qual è questo diverso modo? Risulta dalle parole di Cristo: il Verbo le insegna in un modo diretto , le dà all' intelletto la prima volta; lo Spirito le insegna in un modo riflesso , fa sì che la nostra attenzione volontaria si porti di nuovo, aderendo, a quelle verità che sono già in noi: il Verbo insegna quindi la verità che nella cognizione diretta e percezione consiste (4); lo Spirito illustra quelle verità, il che è l' operazione della riflessione e massime di una riflessione innamorata della verità, su cui si porta e ripiega (5). Tutto questo dice Cristo con quelle parole, « che lo Spirito insegnerà tutte le cose« ». Ma in che modo? Suggerendo tutte quelle cose che io stesso vi avrò dette: « Suggeret vobis omnia quaecumque dixero vobis ». Questo suggerire alla mente le verità, per la mente non già nuove, ma in lei esistenti, è un eccitare la mente a piegarsi sopra di sè, eccitarla alla riflessione, a porre una nuova attenzione a ciò che ha già in sè prima ricevuto. Questo operare dello Spirito, mediante la riflessione sul Verbo percepito dall' uomo santo direttamente, viene espresso ancora dalle seguenti parole di Gesù Cristo: « Io ho ancora molte cose da dirvi; ma non le potete sostenere ora« ». Fin qui dice Cristo che ha molte cose da dire agli Apostoli in separato, perchè in complesso prese, gliele aveva dette tutte, contenendosi tutte nella luce loro data, nel Verbo: « tutte le cose, che ho udito dal Padre mio, le feci note a voi« ». E ora è la riflessione quella che trae le conseguenze implicitamente contenute in un principio, quella che analizza le idee e ne osserva, a parte a parte, gli elementi, di che esse si compongono, che sono le cognizioni distinte, le cognizioni particolari (1). Ora chi insegna all' anima nostra a penetrare colla riflessione nel Verbo percepito? a vedere in esso le verità distinte? La potenza di far questo ce la dà lo Spirito Santo, che, come dice S. Paolo, scruta tutte le cose, anche le profondità di Dio (2). E questo parimente viene a dir Cristo, soggiungendo, dopo aver detto: « Ho ancora molte cose a dirvi« », queste altre parole: «« Ma quando verrà quello Spirito di verità egli vi insegnerà ogni verità« »: ve la insegnerà in un modo riflesso. Perocchè insegnerà forse qualche cosa che non sia in me? Darà qualche notizia che non sia contenuta come in suo principio in quello che vi ho detto? Non già: « conciossiachè non parlerà da sè stesso (cioè cose nuove), ma parlerà tutto quello che udirà » (cioè quello che udirà da me, essendo io che dò la verità, la verità stessa sussistente), «e le cose avvenire annunzierà a voi« ». E sèguita ancora nello stesso sentimento: « Egli illustrerà me, perchè riceverà del mio, e lo annunzierà a voi« (3) ». Lo Spirito Santo adunque non fa che illustrare in noi la percezione del Figliuolo, renderla questa percezione possente, luminosa, feconda di tutte le verità che nel suo seno contiene e porta. Sapere non è il medesimo che conoscere di sapere: si sanno molte cose, e non si sa di saperle. Questo è un fatto che io credo di avere stabilito indubitatamente nella Ideologia. Or che è sapere di sapere? non è altro appunto che riflettere sopra quello che si sa. Ora la percezione del Verbo fa sapere il Verbo; ma la percezione dello Spirito Santo fa sapere che si sa il Verbo, fa che noi ci accorgiamo di saperlo, e ne tiriamo di quella nostra cognizione appunto molte conseguenze. Questo è quello che insegna S. Giovanni dove afferma: [...OMISSIS...] . Altro adunque è il tenerci noi in Cristo e Cristo in noi, ed altro è il conoscerlo : il tenerci in Cristo è aver Cristo, ma il conoscerlo si fa coll' aver lo Spirito Santo: per aver Cristo basta una percezione , per conoscere che lo percepiamo è necessaria una riflessione . Lo stesso sentimento espresse Cristo quando, parlando del giorno in cui i suoi discepoli dovevano ricevere lo Spirito Santo, dice così: « In quel giorno CONOSCERETE che io sono nel Padre mio, e voi in me, e io in voi« (2) ». Non dice già che in quel giorno essi saranno in lui ed egli in essi, no, perchè già sono: ma dice, che il conosceranno . E che è l' essere in Cristo e Cristo in essi? L' avere la percezione di Cristo, il sentimento, la visione di Cristo. Che l' avessero già questa percezione e visione, si raccoglie ancora più chiaramente dalle parole di Cristo che precedono le surriferite, perchè aveva detto: « Ancora un poco, e il mondo già non mi vede: voi poi mi vedete, perchè io vivo e voi vivete« ». Lo vedevano adunque, lo percepivano anche sottratto dai loro occhi corporei, lo vedevano con degli occhi che il mondo non aveva. E a mal grado di ciò, soggiunge, che però solamente in quel giorno, nel quale riceverebbero lo Spirito Santo, conoscerebbero di vederlo, conoscerebbero l' intima unione fra lui ed essi, e come egli era in essi, ed essi in lui. Qual più manifesto luogo per mostrare che l' illustrazione dello Spirito Santo si fa per via di riflessione? E innumerevoli sono i passi del Vangelo di S. Giovanni che confermano la stessa dottrina, appunto quel di San Filippo. Egli dimanda che gli mostri il Padre, perchè non sa di vederlo nel Figliuolo. E Cristo risponde appunto chiedendogli come possa fare questa interrogazione, se vede da tanto tempo il Figliuolo? Poco prima [aveva detto] a' suoi discepoli, ch' egli andava a preparare loro il luogo; e quindi disse ancora positivamente che essi sapevano dove egli andava e sapevano la via d' andarvi (3). E questa via che sapevano i suoi discepoli, era egli stesso, come spiega tosto appresso: il Padre che era in lui, era il luogo dove andava, perchè egli aveva in sè il Padre e tutto il Paradiso, la felicità che risulta dalla verità e dalla vita: « Io, disse, sono la via, la verità, e la vita« ». E sebbene Cristo così positivamente dica, che i discepoli suoi sapevano la via e il luogo ove andava, tuttavia esce uno di loro, cioè Tommaso, che facendosi tutto nuovo di ciò come se nulla ne sapesse, gli dimanda: « Signore non sappiamo dove tu vai: e come possiamo sapere la strada?« » come tu dì. Interrogazione che mostra chiaro, come Tommaso ignorasse di sapere tuttavia quella strada e quel luogo, ignorava di conoscere Cristo Via, e il Padre a cui andava; ciò che pur Cristo avea detto esser da essi conosciuto. Ma sebbene lo conoscessero, tuttavia Cristo risponde: [...OMISSIS...] . Dice che l' hanno già veduto e tuttavia promette che lo conosceranno : che è ciò se non un dir loro, che vi ha dunque un modo nuovo di conoscerlo, cioè per cognizione riflessa, per la quale sapranno anche di conoscere ciò che sanno? (1). Dichiarato così in che modo lo Spirito insegni ogni verità, coll' illuminare cioè in noi, mediante il movimento della volontaria riflessione, l' ogni verità che è in noi precedentemente; passiamo all' altro carattere della percezione dello Spirito, ch' ella cioè sia un sentimento pel quale noi sentiamo non già una tenue idea, ma una verace sussistenza . Che, col sentimento dello Spirito Santo, noi non sentiamo puramente l' essere ideale, ma qualche cosa di reale, di sussistente, si rileva per conseguenza dalla totalità di quel sentimento. Poichè se quel sentimento è totale, cioè si sente in esso il tutto, se ci sazia perfettamente, non può essere che sostanziale la sua forma. E ora, che ci sazii interamente, è insegnato nel discorso tenuto da Cristo colla donna di Samaria, nel quale paragona lo Spirito Santo a dell' acqua viva che estingue a pieno la sete dell' uman cuore: [...OMISSIS...] . Quella parola, dono , è caratteristica nella Scrittura e propria dello Spirito Santo, come già osservarono i Padri. Or ecco come descrive quell' acqua, ch' egli voleva dare alla donna, desiderandola essa e chiedendola: [...OMISSIS...] . Nelle quali parole si noti quella del FONTE: altro è l' acqua, altro è il fonte: Cristo dà l' acqua, e questa diverrà poi nell' anima un fonte. L' acqua che dà Cristo, sono quelli che abbiamo nominati più sopra doni o grazie dello Spirito, ma il fonte è lo Spirito Santo; quelli sono un avviamento, un arra di questo; questo è il compimento di quelli. Il fonte è perenne e stabile, può attingersi acqua quanta sen vuole: il che esprime quella potenziale totalità di notizie e di grazie che nella persona dello Spirito Santo si comprendono e che si attingono colla buona volontà dell' uomo successivamente senza fine, cioè senza che mai si dissecchi il fonte. E dice: « Un fonte saliente alla vita eterna« ». Viene quell' acqua dall' alto e in alto ritorna: quell' alto è il Padre stesso onde quella fiumana di acqua derivasi; quell' alto è il luogo, di cui disse: « Vado a prepararvi il luogo« »; appunto allora quando andava al cielo per mandare di lassù lo Spirito. E questa abbondanza e quasi direi ridondanza di acqua viva, cioè di acqua che dà la vita e spegne la sete, propria della persona del Santo Spirito, è indicata più volte da Cristo, come là dove dice: [...OMISSIS...] . Dopo le quali parole, l' Evangelista soggiunge: [...OMISSIS...] . E medesimamente in più luoghi si dà allo Spirito questa proprietà di saziare pienamente, come là dove si distingue il « gaudio« » dal «« gaudio pieno« (2) », si distingue la « vita« » dalla «« vita più abbondante« (3) », si distingue la « chiarezza« » ricevuta dal Figlio, dalla «« chiarezza infinita e piena« (4) »; e finalmente, dopo aver Cristo consumata l' opera datagli dal Padre e santificati i suoi, ancor prega per essi, ancor dimanda al Padre che li santifichi nella verità, e desidera che siano essi pure là ove è egli insieme con lui (5). Questo compimento sovrabbondante dell' opera è il carattere appunto, a cui si distingue l' opera dello Spirito Santo. Un' altra prova che la percezione dello Spirito è di cosa reale sussistente, si trae da quel vero posto da noi già innanzi, che l' azione ideale non ha virtù di muovere gran fatto la volontà nostra, ma sì bene solo l' azione in noi di cosa reale (6). Ora quali sono gli effetti della percezione dello Spirito? Efficacissimi: il fatto l' ha mostrato, e la promessa di Cristo si è avverata. Egli aveva detto, prima di salire al cielo, in accomiatandosi dagli Apostoli: [...OMISSIS...] . Ecco il proprio effetto dello Spirito personalmente ricevuto, la virtù, cioè la fortezza, il coraggio, il zelo di testificare il nome di Cristo anco a fronte di mille pericoli, e della morte e de' supplizi: [...OMISSIS...] . A chi darà testimonianza di Cristo lo Spirito Santo? Agli Apostoli stessi che l' avranno ricevuto. Ora il dare testimonianza è proprio della persona , nè alle cose con proprietà di parlare conviene. Il terzo argomento adunque a provare, che nella percezione dello Spirito noi sentiamo una cosa reale e sussistente, è l' attribuirsi [a lui] dalle divine Scritture degli atti personali , che non alle idee , ma alle sussistenze sole possono convenire: come a ragion d' esempio, quando S. Paolo dice che lo Spirito domanda per noi con gemiti inenarrabili (3); che egli grida nel nostro cuore: Abba, Padre (4); che egli scruta le cose profonde di Dio (5); che egli diffonde in noi la carità e fa altre simili operazioni. Noi sentiamo in tutti questi passi supporsi sempre lo Spirito in noi come una persona sussistente: e anzi di più un principio operante nella nostra stessa personalità, sicchè gli effetti che in noi cagiona, a lui stesso si attribuiscono, appunto per essere fatti noi con lui una cosa sola, essendo egli la forma nostra e noi da lui informati. Ciò che viene espresso in questo mirabile modo di esprimersi che usa Cristo: « Chi è nato dalla carne, è carne; e chi è nato dallo spirito, è spirito« (6) ». Ciò che viene a dire, che chi ha la volontà attaccata alla carne, riceve da essa un istinto carnale, il principio attivo che costituisce la personalità viene ingenerato appunto in lui dalla carne: là dove la volontà, ove opera lo Spirito Santo e a cui essa consente, ha un altro principio attivo più elevato, eccitato in lei dall' azione del Santo Spirito e che s' identifica col principio operante dello Spirito stesso; ed è questa la nuova personalità acquistata dall' uomo santo per la santificazione dallo Spirito comunicatagli. Finalmente ai passi della sacra Scrittura aggiungerò qualche luogo de' Padri, ove si vegga esser pur questo loro sentimento che la venuta personale dello Spirito Santo fosse stata riserbata da Cristo a farsi il giorno della Pentecoste e non prima. S. Agostino così parlò in un sermone da lui tenuto al popolo nella seconda festa di Pentecoste: [...OMISSIS...] . Nulla di più chiaro di questo passo che non ha bisogno di commenti a provare la nostra proposizione. Osserverò bensì come S. Agostino nota con grande cura la PERMANENZA dello Spirito Santo, il che conferma e ribadisce quello che noi abbiamo più sopra tolto a provare, cioè esser carattere distintivo della grazia del nuovo Testamento la PERMANENZA della percezione divina, sia del Verbo, sia dello Spirito (2). Or qui S. Agostino assai acutamente aggiunge l' osservazione, che questa PERMANENZA non è propria dei doni e grazie particolari che anche attuali si posson chiamare; ma si è propria della congiunzione nostra colla persona divina, la quale è grazia universale e abituale . I doni poi e le grazie particolari e attuali stanno bensì insieme colla persona (3); ma l' unione della persona rimane costante, le grazie e doni passano e vengono in maggiore o minore abbondanza. Indi si spiega perchè, sebbene Cristo non cessasse mai dall' essere unito co' suoi discepoli, neppure nel tempo in cui si operava la sua passione e la sua morte; tuttavia descriva quel tempo, come tempo di grave pericolo e tentazione pe' suoi. Il che era per la diminuzione de' doni e grazie che, togliendosi la sua presenza divina, sebbene solo esteriormente, ne proveniva agli Apostoli; e per la permissione data all' inimico in quell' ora di operare più potentemente e liberamente. Quindi la predizione di Cristo sulla caduta di Pietro e fuga de' discepoli; quindi le parole: « Questa è l' ora vostra, e la podestà delle tenebre« (1) ». Le quali tenebre indicano anco la sottrazione de' lumi, che in quel tempo facevasi all' anime buone; e quindi finalmente l' orazione, onde raccomandò al Padre i discepoli per quel tempo che egli li abbandonava andando alla passione e morte: [...OMISSIS...] . Le divine Scritture dicono manifestamente che il Figliuolo è quegli che fa conoscere agli uomini il Padre: [...OMISSIS...] . E in altro luogo Cristo, rispondendo a Tommaso che gli domandò dove egli andasse, avendo prima Cristo favellato d' un andar suo in certo luogo misterioso, così gli dice: [...OMISSIS...] . L' operazione del Figliuolo nelle anime è di far loro conoscere Iddio Padre; sicchè sul fine della sua vita Cristo disse all' eterno Genitore: [...OMISSIS...] . Ma chi trae al Figliuolo? Chi fa sì che noi percepiamo quella verità sussistente nella quale si vede il Padre? Chi ci dà, chi porge alle nostre menti questa verità divina? Questa è l' operazione che fa nelle anime il Padre stesso. Nel Vangelo è di frequente data questa dottrina. Eccone i luoghi principali. [...OMISSIS...] E poco appresso, togliendo a spiegare quel detto de' Profeti, che saranno tutti capaci di venir ammaestrati da Dio medesimo, così nel commenta: [...OMISSIS...] . E nello stesso capitolo dice l' Evangelista che, sapendo Cristo che alcuni non credevano alle sue parole e conoscendoli disse: [...OMISSIS...] . Cristo diceva parimenti, che i suoi discepoli era stato il Padre, che glieli aveva dati: [...OMISSIS...] . Dice ancora che è opera del Padre la fede (6): ch' egli non faceva niente da sè stesso (7); che egli parlava le cose che udiva dal Padre (.); che la sua dottrina non era sua ma di chi l' aveva mandato (9); che il vero pane celeste, cioè egli stesso, è dato agli uomini dal Padre (10); in assaissimi luoghi finalmente dice di essere stato mandato dal Padre. Tuttavia il Padre a questo mondo non è visibile dall' anima per sè stesso, ma solo pel Figliuolo: e in questo non vedersi del Padre propriamente consiste la fede. A questo mondo non si vede il Padre, il Principio della Trinità immediatamente, ma si prova però il suo agire in noi e si crede ciò che del Padre ha rivelato il Figliuolo: la gloria futura consisterà nel vedere immediatamente e svelatamente il Padre. Perciò al Padre si attribuisce da Cristo la proprietà dell' essere nei cieli : e volendo descrivere la gloria celeste degli angeli, egli dice appunto così: « I loro Angeli veggono sempre la faccia del Padre mio che è ne' cieli« (11) »: additando questo come la nota caratteristica della visione beatifica; siccome pure allorquando vuole indicare che egli è comprensore e gode della visione beatifica, usa dire, che vede il Padre (1). Qui ancora è la ragione perchè Cristo, dopo aver detto che chi manterrà il suo sermone, sarà amato dal Padre, non soggiunge che il Padre verrà a lui, ma che verranno insieme: « ad eum veniemus, et mansionem apud eum faciemus »; appunto perchè non il Padre in sè, ma il Padre viene in noi nel suo Figliuolo. Quindi poco innanzi aveva manifestato lo stesso sentimento in altre parole, dicendo: « Chi ama me, è amato dal Padre mio: e io l' amerò e gli manifesterò me stesso« ». Invece di dire, che gli si manifesterà il Padre, o che verrà col Padre, dice, che gli manifesterà sè stesso: il che era quanto dire che gli manifesterà anche il Padre che si vede in lui. Per la stessa ragione ancora non dice, che egli esaudirà le preghiere de' suoi discepoli semplicemente acciocchè il Padre suo sia glorificato, ma ci aggiunge il modo di questa glorificazione, cioè nel Figliuolo: [...OMISSIS...] . Da tutte queste parole del Vangelo risulta, 1 che il Padre è quello che manda il Verbo nelle anime, le quali nel Verbo conoscono il Padre; 2 che il Padre tira le anime al Verbo. Queste due cose rientrano nello stesso: il Verbo è la specie, la conoscibilità di Dio, per così dire, la [sua] luce. Nel ricevere noi questa specie, questa luce divina che illumina il nostro spirito, noi siamo passivi, noi la riceviamo, perchè una potenza occulta, irresistibile, infinita, ce la presenta, egli ce l' attacca, per così dire, allo spirito. Questa passività nostra e in conseguenza questa potenza infinita che mette nelle anime nostre la luce, il Verbo, noi la sentiamo; e il sentimento di questa potenza occulta è il sentimento del Padre. Dopo però che noi abbiamo questa luce, e dopo che per la rivelazione esterna noi sappiamo che questa luce procede dal Principio che la manda, e prestiam fede a questo; allora noi veggiamo nel Verbo il Padre, cel veggiamo perchè la rivelazione esterna ci ha detto esservi, e perchè il sentimento interiore ci dice altro essere la luce, e altro la forza onde cominciò a esserci presente la luce. E veramente, nell' analisi di qualunque sensazione si distingue la sensazione dalla forza o causa che l' ha in noi prodotta; e per la sensazione è che si conosce questa forza, sebbene questa forza sia stata quella che ha prodotto la sensazione. La forza dunque, causa delle sensazioni, è anteriore alle sensazioni, nell' ordine delle realtà; ma nell' ordine delle idee, o percezioni nostre, la sensazione precede la cognizione della forza che l' ha prodotta, andando noi col pensiero dall' effetto alla causa. Ciò che dico delle sensazioni, deve applicarsi a tutte le specie intellettive, idee e percezioni: solamente con questa differenza, che le sensazioni non sono che modificazioni di noi stessi, e quindi non hanno nulla in sè di reale e oggettivo, mentre la specie, o percezione intellettiva, è oggettiva essenzialmente, e oltre il rendere noi passivi, è anche in sè qualche cosa di indipendente al tutto da noi, sui quali ella opera. Egli è dunque evidente che, se è vero che il Verbo entra nelle anime nostre, vi opera, vi produce un deiforme sentimento; conviene che per lui veniamo anche in cognizione di quel principio che affigge in noi il Verbo e che [deve] esser realmente diverso dal Verbo stesso: si vede in questo che la specie, come specie, è diversa dalla potenza di agire, sebbene in quella si trovi poi anche la forza, e in questa anche la specie. Il Verbo dunque è il principio della conoscibilità del Padre: ed è questo che dicono quelle parole con le quali Cristo, interrogato chi egli era disse: « Il Principio che a voi parlo« ». Non disse solamente il Principio ma il Principio parlante ; per indicare appunto, che egli è il Principio di ogni cognizione e che qualsiasi cosa sappia l' uomo dal Padre, non può saperla che per lui (1). Le cose dette eccitano desiderio di sapere più avanti in una materia sì recondita e alta: nella quale però nulla è più da raccomandarsi che la sobrietà del sapere, la quale consiste nel non presumere di investigare ciò che non si può. Checchè però ci sia dato da Dio di poter conoscere in tale argomento, è cosa da averla come un tesoro; giacchè la minima parte di cognizione, come dice l' Angelico, che aver si possa intorno a cose sì degne e alte, come le divine, è più desiderabile di ogni altra certissima cognizione che si abbia delle cose inferiori (2). Mettiamoci adunque più addentro nella materia, rivolgendo però il discorso, più che ad altro, a dare tale chiarezza alle cose dette, per la quale apparisca assai manifesto quanto ciò che abbiamo detto sia conforme alla cattolica verità (3). In prima dunque è da considerarsi che non parliamo di una manifestazione del Padre per segni e figure esterne, nel qual modo non è dubbio essersi lui manifestato più volte agli uomini: ma parliamo di quella rivelazione interiore che l' augusta Trinità fa di sè nelle anime sante per la grazia, benchè ad altre più e ad altre meno: manifestazione che abbiamo chiamata deitriniforme , perchè porta in noi un sentimento triplice e di tal modo che in ciascuno qualsivoglia dei tre modi di questo sentimento noi abbiamo un sentimento tale, in cui non manca nulla, un sentimento onde siamo consci di sentire tale sussistenza, ove nulla manca e che è tutto l' essere , è Dio. Ciò posto, egli è manifesto che si vuol distinguere il modo di questo sentimento, che chiameremo il sentimento del TUTTO, dallo stesso TUTTO che in ciascun modo egualmente si sente. Questi modi di sentire corrispondono ai modi diversi onde il TUTTO sussiste; e sussistendo il tutto in tre modi, cioè come principio conoscente e amante (Padre, generante), come conoscibile (Figlio generato), e come amabile (Spirito, spirato), in tre modi pure si sente. Ora ciò che si dice si è, che noi non possiamo ricevere il tutto cognosibile , che è il medesimo che dire l' essere essenzialmente conoscibile, il Verbo, se non nella sua relazione col principio , da cui procede; perocchè la conoscibilità di una cosa suppone e chiama la mente che la conosce. Laonde col solo vedere la conoscibilità dell' essere, questa relazione, noi intendiamo che aver ci dee il principio da cui provenga: e questo è il Padre. Se fosse possibile che noi percepissimo l' essere in quanto è conoscibile , senza la sua relazione necessaria coll' essere quale conoscente , noi allora non vedremmo il Figliuolo, perchè il Figliuolo è questa relazione appunto che ha l' essere conoscibile, la relazione cioè intrinseca di avere chi conoscendolo, il rende conoscibile, ossia lo genera. Se all' incontro noi percepiamo questa relazione, egli è manifesto che in essa veggiamo anche la relazione della Paternità che è quella del generare , cioè del conoscere in modo che l' oggetto cognito sussista come cognito; siccome abbiam detto più sopra. Questo è ciò che dicono i Padri. [...OMISSIS...] E quando i singoli il conoscono e percepiscono? Non prima, secondo il santo Dottore, che essi abbiano conosciuto e percepito che egli è da un altro. Checchè abbiano conosciuto prima di ciò non si può dire che abbiano ancora conosciuto il Verbo, eziandio chè abbiano conosciuto cosa che si approprii al Verbo: poichè il Verbo è una relazione, la relazione di essere generato dal Padre. Ecco le parole del santo Vescovo: [...OMISSIS...] . Quindi quando il Verbo è nelle anime, egli vi è, nè vi può essere altramente, che come esistente dal Padre: onde è necessario che il Padre lo mandi nelle menti; e se si dice che egli viene, egli viene, ma come mandato, e però non si può conoscerlo senza che in lui si conosca la necessità del principio da cui è, cioè il Padre. Quindi i Padri della Chiesa dicono del Verbo, che è mandato nelle anime sante, mentre del Padre non si legge mai che sia mandato, perchè egli anzi non può essere ricevuto nelle nostre menti che tale come è, cioè come principio mandante. [...OMISSIS...] E` dunque necessario che il Verbo venga nelle anime nostre come mandato , perchè possiamo dire d' averlo in noi, e altresì fu necessario che come mandato s' incarnasse. E quindi è che Cristo ha potuto applicare alla sua incarnazione quelle parole: « Io sono uscito dal Padre e venni nel mondo« (3): e quelle altre:« Io venni in nome del Padre mio« (4) »; cioè egli ha potuto esprimere colle stesse espressioni l' eterna sua generazione e la sua generazione nel tempo , perchè egli apparì nel tempo come mandato dal Padre: onde l' incarnazione non fu che un comunicarsi alla umanità come generato dal Padre (5); fu, quasi direbbesi, un generarsi o, per dir meglio, un apparir generato nella umanità. Si dice dunque mandato Cristo, perchè viene nell' umanità, opera e si dà a conoscere nella sua qualità di eternamente mandato , che equivale al dirsi Figlio di Dio (6). E conoscendosi come mandato e come tale ricevendosi nelle anime nostre, in lui necessariamente si sente il mandante che opera nelle anime pel suo Verbo. Vero che in questa vita non ci viene svelato il modo di questa missione o generazione; e quindi il Padre nol veggiamo propriamente come generante , e come tale solo il crediamo , perchè ci è rivelato dalle parole del Figlio, e perchè nel generato il sentiamo. E di qui è che la santissima Triade rimane il gran mistero della fede, perchè il principio di lei è occulto in questa vita, e quindi non si può intendere il modo della generazione e della spirazione, che solo spiegherebbe il nodo del mistero. Gesù Cristo disse costantemente che le sue parole avrebbero ricevuto lume e splendore dalla venuta dello Spirito Santo; che questo divino Spirito avrebbe reso nelle anime testimonianza di lui, e avrebbe fatto via più conoscere lui stesso; venendo, la divina sua persona sarebbe stata dallo Spirito chiarificata: cioè le anime, nelle quali abita Cristo, come dice S. Paolo (1), ricevendo lo Spirito, avrebbero potuto percepire il Verbo in una luce più viva, fornito di una gloria più manifesta; visione che avrebbe eccitati e mossi i suoi discepoli a far conoscere Cristo ancora agli altri e dare di lui al mondo tutto testimonianza. Ecco le sue parole: [...OMISSIS...] . Ed egli è per questo che il divino Spirito si chiama Spirito della verità, che è il medesimo come dire,« Spirito del Verbo divino«, perchè emana dal Verbo come calore da luce. E` dunque l' impressione dello Spirito Santo nelle anime un cotale affetto di amore, una cotale gioia della verità che si diffonde nell' anima, pel quale affetto l' anima contempla e imbeve e s' innebria della luce della verità; e questo amoroso sentimento egli stesso è pieno di verità, e solo esso sazia e empisce il bisogno dell' anima intelligente. Per questo è che lo Spirito divino dà chiarezza nelle anime al Verbo divino. Indi in quella sublime orazione che fece Cristo nel cenacolo prima della sua passione, con quelle parole: « Padre, viene l' ora, chiarifica il tuo Figliuolo, acciocchè il tuo Figliuolo chiarifichi te« (1) »: egli domandava al Padre la venuta dello Spirito Santo e adempiva la promessa fatta prima agli Apostoli, quando aveva loro detto: [...OMISSIS...] . Di che si vede quale ruota, a così dire, di perpetuo movimento luminoso e gaudioso si giri nelle anime beate di quei santi che hanno in sè stessi la Trinità. Poichè l' amore è sempre in attività dentro essi a contemplare la sapienza, nella quale si vede il principio di lei come infinito e necessario. Alla vista del quale l' anima si congiunge più ed è tratta alla sapienza sussistente che emana di sè un amore infinito; il quale torna a riflettersi in quella sapienza che è lume che mostra l' eterno primordiale principio altissimo, il quale operando perpetua questa dilettosa vicenda e quasi ondulazione di recondito e secretissimo godimento. Conciossiachè la fede negativa della Trinità che si ha per la rivelazione esterna, non è ancora l' immensa azione interiore e il positivo sentimento delle persone divine. Ma allora quando lo Spirito da principio operando dà l' efficacia a quelle idee negative che già in essa erano [per la rivelazione esterna], un tutto veramente positivo si percepisce, e tosto già comincia quella perpetua azione e circolare rivolgimento dei[trini]forme che è una cotale partecipazione ineffabile della vita di Dio (3). Laonde, come dice S. Cirillo di Alessandria, quella pienezza che emana dal Padre e dal Figliuolo pel solo Spirito Santo sta in noi: non già quasi che egli imprimesse, a maniera di ministro, cose che altrui e non a sè appartengono, e facendo in noi di ministro le veci; ma perchè egli porta nella sua propria natura la natura propria degli altri due (1). Abbiamo fin qui distinto la rivelazione esteriore e la rivelazione interiore ; quella comune a tutti gli uomini perchè non richiede ad essere percepita se non le potenze naturali dello spirito umano, questa propria di quelli a cui Iddio comunica la grazia che trasporta l' uomo in uno stato soprannaturale e l' accresce di nuove potenze; quella tutta ideale, tutta composta di idee negative , questa effetto di una reale azione sull' uomo, composta di sentimenti, di percezioni; quella perciò tale che fa conoscere Iddio per certe relazioni colle cose naturalmente cognite, questa che fa conoscere Iddio per esperienza, immediatamente, per una comunicazione della sua propria sostanza fatta a noi. Or questa rivelazione interiore è tutta composta di sentimenti e percezioni: ma siccome noi abbiamo la facoltà di riflettere su tutti i sentimenti che noi proviamo, così possiamo anco riflettere sopra di lei ed osservare, almeno fino a un certo segno, ciò che avviene in noi in quella soprannaturale comunicazione, massime nel tempo delle grazie speciali e attuali, e finalmente mettere in parole queste osservazioni e ordinarle in corpo di scienza. Or questa è la Teologia mistica che dicono dottrinale : mentre la stessa comunicazione con Dio la dicono sperimentale , e anch' essa veramente si può dire scienza, perchè Iddio è un oggetto per sè conoscibile, e quindi, a differenza dell' altre cose, il sentir lui, come abbiam detto, è conoscerlo, e anzi non si dà di lui altro vero conoscerlo che pure il sentirlo (2). Di qui si vede sufficientemente la differenza fra la Teologia rivelata (3) o comune, e la teologia mistica o segreta; che sono come le due parti di quella cognizione che possono avere gli uomini di Dio in questa vita (4). Le parole non si intendono se non si sa che cosa significhino. Per intendere le parole che udiamo proferire, conviene dunque: 1 aver l' idea della cosa significata dalla parola; e 2 sapere altresì che questa parola fu istituita a significare quella idea. Or come abbiamo noi le idee delle cose? Noi non conosciamo propriamente le cose, cioè non ne abbiamo le idee positive, se non mediante le percezioni delle medesime, cioè mediante quei sentimenti che esse hanno cagionato in noi (1). Ora il sentimento della grazia, il sentimento deiforme è tal sentimento che è al tutto distinto da ogni altro, e tanto distinto, quanto è distinto Iddio da tutte le cose create. Dunque chi non ha questo sentimento, questa percezione, non può avere l' idea corrispondente: dunque quand' anco fossero trovate e istituite delle parole a significare quei sentimenti e percezioni, queste parole non avrebbero alcun valore positivo per tutti quelli che non avessero ricevuto in sè stessi e provati quei sentimenti. Con questo si spiega quello che dice S. Paolo d' aver udito (nel suo celebre ratto) delle arcane parole che non lice all' uomo di proferire (2): il che vuol dire delle parole che l' uomo non può usare, perchè sarebbero inintelligibili, giacchè gli uomini non hanno le idee corrispondenti alle medesime, perchè non provarono quei sentimenti a cui quelle idee si riferiscono; giacchè come il medesimo Apostolo dice, [...OMISSIS...] . Con questo medesimo parimente è chiaro, perchè delle stesse cose divine in tanto altro modo giudica il mondo e il cristiano, a segno tale che il mondo e il cristiano usano a giudicare due criteri diversi e opposti, e ognuno ha la sua propria sapienza, e l' una non intende l' altra; e per così dire si sono presenti, e non si veggono: quindi la sapienza del mondo giudica insania la sapienza del cristiano, la sapienza del cristiano stima manifestamente pazzia la sapienza del mondo. Ciò nasce perchè il mondo e l' uomo cristiano delle stesse cose non han già gli stessi sentimenti, le stesse percezioni: giacchè le cose divine si comunicano ineffabilmente e segretamente all' anima dell' uomo sollevato all' ordine soprannaturale e vi diffonde un sentimento nuovo, maraviglioso, del quale l' uomo del mondo è al tutto privo, non eccedendo il sentimento suo i confini della natura, e però non avendo di Dio e delle cose divine se non un' idea negativa: di che è quella sentenza dell' Apostolo, che « l' uomo animale non percepisce quelle cose che sono dello Spirito« (2) ». Colla dottrina medesima parimene s' intendono certi luoghi misteriosi delle divine scritture; come quello dove si legge: « Al vincitore darò la manna nascosta, e gli darò una bianca pietruzza e sovr' essa scritto un nome nuovo, che nessuno sa se non quegli che riceve la pietruzza« (1) ». Ora quella manna nascosta è appunto il dolce sentimento della grazia, nascosto a tutti quelli che nol provano: e il nome nuovo indica quella nuova natura che ha ricevuto l' uomo passando dall' ordine naturale al soprannaturale (2): e il non saper leggere questo nome altri ch' egli solo, è appunto quell' essere egli solo conscio di ciò che passa nel più riposto segreto del suo spirito, dove nessun occhio creato può mettersi a spiare ciò che ivi succeda, ma è perfettamente impenetrabile fuorchè a Dio solo, perchè è l' essenza intellettiva dell' uomo (3), sulla quale non può agire nessuna creata sostanza (4). Indi è che i Santi, come non s' intendono se non fra loro e hanno una lor propria lingua, così formano fra loro altresì una particolare società secondo la dottrina della Scrittura. L' Apostolo Paolo di questa società, che talora chiama una Società di spirito (5), dice così: [...OMISSIS...] . E S. Giovanni la descrive con quelle parole: [...OMISSIS...] . Ecco qua, lo stesso vincolo onde gli uomini si associano col Padre e col Verbo suo, è quello onde gli uomini si associano anco fra loro, una stessa carità li lega a Dio e fra loro, perchè appunto l' associarsi e l' essere fra loro legati non è altro che il trovarsi tutti simili in questo appunto, cioè nell' essere con Dio consociati, Dio essendo la forma e quindi medesimo il semplicissimo nodo a tutti comune, in che si semplificano ed unificano. Del quale effetto il principio è la fede; lo insinua S. Giovanni nelle riferite parole, con le quali promette di predicar Cristo, appunto perchè indi ricevendo la fede, possano avere insieme con lui quella segreta e tutta spirituale società e comunicazione che hanno insieme i soli credenti (1). Quindi s' intende ragione, per la quale i Padri insegnano che perfetto teologo non può esser mai di quelli che non congiungono allo studio la santità della vita e l' esperienza de' veri eterni: perocchè, privo di questa, l' uomo non potrebbe intendere tutta quella parte di cui parliamo, di segreta e sublimissima teologia. Un' altra scienza si potrà sapere senza la bontà della vita; quella delle cose soprannaturali e divine, no: perocchè di questa una grande e la miglior parte nasce dallo sperimento che l' uomo ha di Dio, il quale non comunica sè stesso a cui non fa degno (2). La Teologia è dunque dottrina comune e dottrina segreta. Indi è che le stesse parole delle due Teologie hanno una significazione infinitamente diversa, non opposta però, ma nell' una più profonda che nell' altra; cioè meno profonda significazione hanno intese da quelli che non ne ricevono che il suono esteriore e il significato negativo, e più immensamente, intese da quelli che ne sentono in sè e ne sperimentano l' interior virtù e valore. I primi hanno una cognizione naturale, il cui principio è l' idea : i secondi hanno una cognizione soprannaturale, il cui principio è il Verbo di Dio, che si dà loro a percepire mediante una sua reale azione che fa in essi. Una parola esprime una sola idea , ma se unitamente a questa parola havvi la percezione della cosa, significata, questa percezione è tale che non l' avrebbero potuta dare nè pure un milione di parole. Imperocchè che avvicinamento è fra le parole e le cose? Che possono far le parole se non risvegliare le percezioni avute delle cose? Ma chi è privo di queste percezioni, tutte le parole son vane, o certo non dànno che un assai freddo e tenue significato. Chi non avesse mai avuta la senzazione della luce, per aver gli occhi velati, potrebbe assai più facilmente conoscere ciò che fosse la luce in un istante col trargli da sopra gli occhi il velo, che non facesse in molti anni, parlandogli continuamente della luce, e tenendogli tuttavia bendati gli occhi. Così un atto istantaneo di esperienza vale più di un secolo di parole, di segni, e di imagini che non abbiano nessuna vera similitudine colla cosa che vogliono esprimere. La parola« Dio«, per esempio, racchiude ella sola e vale assai di più per un uomo, a cui Dio siasi degnato di palesarsi interiormente, che non delle biblioteche intere di volumi, cui a leggere non bastino le vite di molti uomini, per chi non ha mai avuto interna comunicazione e percezione delle divine cose. Questi nella lettura di tanti volumi raccorrà sì un gran numero di idee, ma nessuna di esse è Dio, in nessuna ha percepito la divina natura, tutte queste idee non gli dànno che semplici relazioni, insufficienti affatto a prestare un vero conoscimento dell' Ente Supremo: egli crederà di sapere grandi cose intorno a Dio, perchè ha pure pronto alla mano un subisso di distinzioni sottili, un profluvio di parole, un fonte inesausto insomma di pompose e dotte disputazioni. Ma che fa tutto ciò? L' uomo idiota, a cui ha parlato Dio stesso, ne sa più di lui (2). In questo consiste la sublime semplicità del Vangelo: ella è fatta per tutti gli uomini, perchè non ha bisogno di troppe parole, nè di troppe distinzioni e studiate sottigliezze, in pochissimi detti si può raccogliere. Sì bene ha bisogno dell' esperienza che dia il vero e immediato valore a quei pochi detti; giacchè poche ed anche una sola parola intesa in questa maniera racchiude in sè più scienza e più sapienza di quella che possano raccorre tutti gli uomini che sono vivuti e che vivranno unque mai sopra la terra, insieme presi. Non è evidente che dovrebbe usare più parole e più sottigliezze, più ingegno, il cieco che volesse parlare della luce, anzi che quelli che la vede cogli occhi suoi? E tuttavia quello dopo tanto parlare nulla direbbe a proposito, o certo nulla che egli stesso intendesse del proprio discorso. Con ragione adunque dice il pio autore del libro dell' Imitazione: [...OMISSIS...] . Indi è che la filosofia puramente naturale, ove voglia mettersi a parlare come maestra delle materie soprannaturali della cristiana Teologia, suole snaturare questa dottrina coll' introdurre in essa delle sottigliezze perniciose e false, delle interminabili dispute, dei raggiri implicatissimi di parole; perocchè ella crede di conoscere, per una cotal sua presunzione, ma veramente non ha mai conosciuto, non ha mai veduto la materia, in che temerariamente pon mano, ed è veramente il cieco che giudica dei colori. Indi le eresie tante nate dal Platonismo ne' primi tre secoli della Chiesa: quelle nate dall' Aristotelismo, cominciando da Ario (2) fino a...; e l' incredulità ne' più recenti secoli, germinata dalla confusione delle idee filosofiche, prodotta dalle scuole moderne. Indi i lamenti incessanti dei Padri, fino dai primi secoli, contro la filosofia cui chiamano infettrice e interpolatrice della verità (1); perchè colla filosofia insieme entravano nelle sacre cose le questioni interminabili, la moltitudine delle insulse parole e l' affettazione di una umana e veramente puerile dottrina: e così periva la semplicità, la maestà, la pace, l' evidenza della dottrina evangelica. Perciò S. Gregorio taumaturgo diceva: [...OMISSIS...] . Il Nazianzeno parimente deplora il vedere esser sottentrate nella chiesa le fallacie sofistiche e un male augurato artificio di arte aristotelica, e altre tali cose, siccome cotali piaghe d' Egitto (3). E nel carme della sua vita egli dipinge i filosofi e le loro disputazioni, nella chiesa introdotte a gran danno della Teologia (4). Da tutto ciò finalmente apparisce la ragione del modo grave, placido e sicuro, col quale s' insegna la dottrina evangelica: l' opposto dell' insegnamento filosofico, il quale è querulo, ansioso, incerto e burrascoso. Non avviene ciò solamente perchè la dottrina di Cristo procede da una autorità infallibile: ciò basta bensì a renderla certa in sè stessa, ma non a farla credere con fermo assenso e molto meno a farla intendere. Se il Verbo stesso colla sua azione reale non operasse nelle anime, le sole parole esteriori aventi un significato negativo sarebbero sempre soggette a una intelligenza continuamente variabile, a delle interpretazioni indefinitamente diverse e di continuo rimutabili (1): per creder loro si torcerebbero a significare un senso umano e naturale: altramente non si presterebbe punto loro fede. Questo è ciò che è appresso i protestanti. Il magistero adunque della chiesa non è già formato solo dal deposito della rivelazione, ma sopra tutto è sostenuto e reso possibile dalla grazia. Questo è ciò che significano le parole di Cristo: « Io sarò con voi sino alla consumazione de' secoli« ». E quelle altre dello Spirito Santo: « E io pregherò il Padre, ed egli darà a voi un altro Paracleto, acciocchè permanga con voi in eterno« (2) ». Perocchè lo Spirito e il Verbo sono che fanno l' azione reale nell' anima e la collustrano. Al filosofo, cioè all' uomo nell' ordine naturale, non [è data] la percezione interiore di Dio: non ne ha che l' idea negativa. Supponendolo in questo stato, egli è privo di fede, egli nega dunque tutto ciò che eccede i sensi crassi o le facoltà del suo spirito: il che è quanto dire che egli cade quasi direi naturalmente nella incredulità e nella empietà. Egli è certo che se il nostro spirito non fosse mai stato collocato in questo mondo, o non avesse ricevuto le impressioni delle cose sensibili, e tuttavia ne sentisse parlare, nulla ne intenderebbe o, se ne intendesse, negherebbe fede al narratore. Non è adunque che la filosofia sia per sè stessa mala cosa. [...OMISSIS...] E` bensì da incolparsi la inclinazione dell' uomo a negar fede a ciò che non conosce; su di che dovrebbe almeno sospendere il giudizio, e non partire nelle sue sentenze da quel pregiudizio pieno di presunzione, che niente sia, o sia possibile, se non ciò che non eccede i confini del suo sapere. Questa presunzione di giudicare, ed esser pronti a rifiutare ciò che non sanno, è l' errore de' filosofi; e di questo incolpa gli uomini del secolo San Paolo, ove dice che bestemmiano quelle cose che non conoscono (1). Nè v' ha un' assoluta necessità che così avvenga, ma pure così avviene il più per l' innata malignità che è nel cuore dell' uomo a quelli i quali dànnosi tanto alle scienze naturali, che tutta la loro confidenza in quelle ripongono e credono che tutto lo scibile si acquisti pei loro studi; quando la speculazione naturale ha corte le ali nelle regioni divine, se non soccorre la soprannaturale rivelazione e manifestazione che Dio fa agli uomini di sè stesso. Quindi è che fin gli Apostoli parlarono della filosofia presso a poco come fosse un equivalente di empietà: [...OMISSIS...] . E nulladimeno S. Paolo non rinunzia già alla sapienza, ma vuole il vero sapere, quel sapere reale che nelle cose divine sta appunto, non in vane idee , ma in vere percezioni soprannaturali. Ecco qual genere di sapienza propone l' Apostolo a quei di Colosse: [...OMISSIS...] . Vuole adunque l' Apostolo non solo la sapienza, ma ogni sapienza; e tuttavia esclude la filosofia come una fallacia: vuole la pienezza, e non la vanità: vuole le cose, e non le parole. Egli viene appunto a essere quello stesso che dice il libro Dell' Imitazione le cui parole abbiamo surriferite: [...OMISSIS...] E il medesimo Apostolo aveva descritta questa cognizione e percezione reale, non dell' orecchio al di fuori, ma dell' anima al di dentro, poco innanzi al luogo citato, dicendo a quei fedeli di Colosse che li voleva istrutti [...OMISSIS...] . Ecco dov' è la pienezza dell' intendimento, ecco tutte le ricchezze, i tesori tutti della sapienza e della scienza: stanno non nelle idee semplicemente, ma nella comunicazione che fa Cristo e lo Spirito di sè alle anime, nelle quali prende ad abitare. Da tutto questo si può conchiudere che la filosofia è buona nelle cose umane, perchè di queste ha le percezioni, ossia la materia del ragionare. Ma se ella si applica alle cose sovrannaturali prima della fede, non può che rovesciare negli errori: ella diventa quella « scrutatrice della maestà » che, come dicono le Sacre Carte, «« resta oppressa dalla gloria« (1) ». Gli uomini del secolo adunque, ristretti dentro il circolo delle cognizioni naturali, non sanno che esista altra cognizione delle cose divine se non quella che consiste nelle idee . Tutta la loro sapienza nelle idee è contenuta, cioè in idee negative e vuote, atte bensì a dare occasione a grande apparato di scienze, perchè atte a ingenerare innumerevoli parole e dispute e a riempire biblioteche intere di scientifiche ricerche. All' opposto l' uomo di Dio sa per esperienza che vi ha un altro genere di cognizione e di sapienza, consistente non già in pure idee, ma in sentimenti e perciò in reali percezioni, di cui egli ha sperimento. Questa sperienza gli dice, che vale più una sola percezione della cosa, di tutte le parole, le dispute, le scuole e le biblioteche della terra. La sua scienza pertanto di Dio consiste nel fatto , è una cognizione positiva , piena, soddisfacente, operante. Questa non è un fonte di tante parole, perchè le parole finiscono ove si è conseguita la cosa che si cercava colle parole. Indi nell' uomo di Dio, che ha in sè stesso una tale misura a cui confrontarla, nasce una cotal freddezza e indifferenza per quell' apparato di scienza esteriore fucata, verbosa, ambiziosa, conghietturale ed incerta, di cui solo fa pompa l' uomo del secolo perchè crede che sola essa esista e che fuori d' essa non siavi altro sapere. Indi è che la letteratura e la pietà non sono cose che vadano sempre insieme, ma bene spesso stanno dissociate e disgiunte. Ecco come S. Paolo parla della scienza, cui egli professava di sapere: [...OMISSIS...] Ecco le due sapienze a confronto: quella degli uomini, consistente in suono di parole, in gonfiezza di discorso, in lusinghe di persuasione: quella di S. Paolo, in fatti, nella virtù di Dio operatrice dentro l' anime, nello spirito e nella potenza soprannaturale. Ma negli uomini non capendo la sapienza di Dio, essi accusano appunto per questo quelli che alle divine cose sono applicati, di voler sperdere le scienze dalla terra e rimettere in fitte tenebre il genere umano (2). Per altro consente l' Apostolo che lo si stimi privo di ogni sapienza? No certo: anzi per fermo crede di essere savio e di parlare pur anch' egli una sua sapienza; e soggiunge alle surriferite parole: [...OMISSIS...] . Ecco come agli uomini del secolo tutta resta occulta questa sapienza, e per ciò la dice ad essi tutta in ombra e in misterio, poichè la sola comunicazione interiore, che fa Cristo ai suoi, è quella che segretamente e senza romore di parole la comunica: come seguita a mostrare il medesimo Apostolo, insegnando quivi medesimo che l' uomo non può conoscere se non le cose umane, e il solo spirito di Dio le divine; il quale per ciò deve essere dato all' uomo, perchè quelle divine cose l' uomo conosca: il perchè la sua dottrina chiamala altresì« dottrina di spirito«. Dall' essere questa dottrina interiore di spirito totalmente diversa dalla scienza umana, viene appunto l' umiliazione dell' uomo e la glorificazione di Dio, come insegnano le divine Scritture: giacchè queste mostrano che tutto il sapere puramente umano non è atto a rendere l' uomo a Dio accetto, e che Iddio ha una occulta virtù, per la quale rende immantinente i semplici e gli idioti più savi agli occhi suoi di quei savi del mondo che con immense fatiche e studii hanno tutta la loro vita nelle speculazioni delle umane lettere consumata; e dichiara questi savi uomini veramente idioti, e gli idioti suoi veramente savi, ed egli il solo maestro e il solo verace datore di sapienza. E veramente non consistendo l' acquisto di questa sapienza nelle doti e nell' opera dell' uomo, ma bensì in un' operazione occulta che fa Dio nell' anima (1), alla quale dà il sentimento di sè; egli è manifesto che anche quelli che sono di piccolo spirito o che non hanno tempo da applicarsi agli studii, possono acquistare senza fatica: e di questo si compiace appunto Cristo, dicendo di essere stato mandato dal Padre suo a predicare a' poverelli (2). E` manifesto parimenti che questa sapienza può averla chi è ancora fanciullo e alla vista degli uomini inesperto e imperito: e in questo pure splende la gloria di Dio, la quale viene celebrata in quel Salmo citato da Cristo medesimo, che « dalla bocca de' fanciulli e lattanti hai cavato la lode perfetta« (3) ». E finalmente vedesi in generale ragione, onde Cristo ringrazia il Padre celeste di aver dato questo modo onde la operazione divina risplenda sopra tutta la possa dell' uomo, dicendo: [...OMISSIS...] . Non fa dunque meraviglia, dopo di ciò, se i savii della terra, rivendicandosi di queste verità, accusino gli uomini pii e cristiani teologi di voler annottare il secolo; giacchè il principio della scienza e il principio della pietà sono diversi: quello è idea , questo sentimento sostanziale e soprannaturale; e il sentimento soprannaturale è tal luce che il mondo non la comprende: « et tenebrae eam non comprehenderunt (5) ». E qui possiamo anco stabilire, dopo tutto ciò che detto è, con accuratezza la differenza tra il principio della religione, e quello della morale naturale. Il principio della religione è la grazia (1): il principio della morale naturale è la legge . La legge è nell' ordine delle idee, la grazia nell' ordine de' sentimenti; quella mostra teoreticamente alla mente ciò che si deve fare, questa è pratica, fa fare ciò che si deve. Gli uomini possono, fino a un certo segno, praticare la morale naturale riguardante i loro simili, perchè di questi hanno la percezione: ma quella parte della morale che riguarda Iddio resta per essi, almeno nella massima e spezial parte, vuota e ineseguibile. Faceva uopo che Iddio stesso si comunicasse agli uomini, acciocchè infondesse in essi il suo amore prevalente su tutti gli altri amori (1). Quindi è che gli uomini del secolo, trattando la morale, non parlano quasi altro che delle relazioni degli uomini che hanno scambievolmente tra loro; e molti a queste solo restringono la morale. D' altro lato gli uomini religiosi, per la propria imperfezione e limitazione e non già per difetto della religione, sembrano talora occuparsi talmente di Dio che rimangono meno pronti a curare le relazioni che li legano cogli altri uomini e meno solleciti di eseguire gli ufficii umani. Ma ove ciò nasca semplicemente dalla limitazione delle forze umane (2), e non da qualche malvagità (nel qual caso non sarebbero nè pure veri religiosi), ben presto a un tale difetto viene posto riparo. Perocchè appena l' uomo religioso riflette alle relazioni che lo legano co' suoi simili, egli si dà tutta la premura di eseguirle, e se prima per una cotale astrazione di mente le obbliava, poi tutto vi si dedica, e non solo le eseguisce appieno, ma fa ancora prodigi di carità che si sono veduti sempre farsi da' santi, e mai da altri fuorchè da' santi. Onde non si richiede se non di lasciare al principio religioso un pò di tempo ad essere appplicato, sviluppato, [perchè] possa influire su tutto l' uomo e [trarre] le sue conseguenze per mezzo degli atti successivi della riflessione; ed egli produce indubitatamente anche ogni migliore effetto morale rispettivamente agli uomini singoli e alla società. Del resto che gli uomini religiosi sieno privi di un affetto ingiusto sia verso i loro simili, sia verso le cose umane, non hassi a riputar male, se è cosa giusta e conforme alla verità; ma oltracciò si può dimostrare una tesi singolare, ma certissima,« che le stesse cose umane vantaggiano e prosperano di più ove sieno amate di un amore ragionevole e moderato, anzichè di una passione ingiusta e smodata«. Non è però maraviglia che popoli staccati dall' ordine religioso, di cui hanno sentito lungamente l' influenza, non precipitino tostamente all' ultima depravazione e empietà: poichè essi ritengono ancora del lume ricevuto, col quale assai bene conoscono la nobiltà e utilità della scienza morale. Anzi non è nè pur maraviglia che si sia veduto presso i protestanti in questi ultimi secoli uno studio di promuovere la morale, almeno come scienza, e in quella parte però che riguarda gli uomini; giacchè non più occupati dal principio religioso, ebbero tutta la loro attenzione libera per collocarlo nelle umane conseguenze e negli interessi di questa vita. Ma se pur mancano del principio religioso, che è il capo della morale, e se la loro morale però non si può considerare giustamente se non come acefala ; tuttavia le loro diligenze e studi sono commendevoli sotto un punto di vista, e sono utili a quelli che hanno il principio religioso, i quali fanno a gran senno a servirsene, come dee esser loro proprio e naturale l' abbracciare e distendere ogni sorta di bene. Vero è che havvi anco l' errore opposto a quello della morale naturale; ma egli non cade se non in quelli che, in luogo del principio religioso, non hanno in sè stessi che una simulazione di esso. Questi sono quelli che hanno una falsa pietà, vani, ipocriti e superstiziosi: questi col pretesto del principio religioso che pur non hanno, si dispensano dall' eseguire i doveri morali verso i loro simili. E contro costoro si sdegnò e tuonò sì alto lo stesso Uomo7Dio. Questi sono i veri distruggitori della morale; e la divina Provvidenza per provvedere incontro al male che fanno questi, si vale altresì dell' errore opposto, e permette che degli uomini, che hanno abbandonato il principio religioso, promuovano quella morale che loro ancor rimane e nella quale, da una cotale loro naturale onestà mossi, tutti si convertono (1). Di vero questa questione fu sempre fra gli increduli e i credenti: ma nei nostri tempi si è messa al nudo, non la si può più dissimulare, ciascuno la si propone direttamente e senza involture. I Riformisti del secolo XVI sono deviati dal principio religioso, ma la loro deviazione pareva piccola nei suoi cominciamenti; non dicevano di distruggere la fede, distruggevano la fede di soli alcuni articoli che stavano nel deposito del cattolicesimo; ma pretendevano ancora di credere alla Scrittura e alla [divina] ispirazione di questa: infatto però la fede soprannaturale era perduta per essi, perchè n' era perduto il principio (1). Scossa d' adosso l' autorità della chiesa, erano veri naturalisti ossia razionalisti di principio, perchè, abbandonata la tradizione, non restava modo d' interpretare la Scrittura, che colla pura ragione naturale; e la pura ragione materiale fatta giudice ultima delle verità religiose, che cosa potevasi farsi dei misteri? Quello stesso che abbiam detto avvenire alla filosofia naturale. Il protestantismo non era che il principio della filosofia naturale, applicato alla religione soprannaturale: questa non poteva reggere in faccia a tal principio, e il protestantismo divenne appunto come la filosofia un sinonimo di razionalismo, di empietà. Infatti oggidì i protestanti, che si sono più avanzati nello sviluppo progressivo del loro sistema, prendono a sostenere scopertamente, « che ogni soprannaturalismo è assurdo e che oggimai conviene ridurre ed emendare la Bibbia stessa, interpretandola in modo da restringere tutto ciò che ella insegna dentro i confini della semplice ragion naturale«. Quelli che videro questa conseguenza irrepugnabile e non ebbero coraggio di abbracciarla, come quella che parve loro un assurdo e un abisso, sono dati addietro, son venuti al cattolicesimo. Indi le ultime conversioni di non pochi valentuomini che dal protestantesimo rientrarono nella chiesa. Or non ci ha più mezzo fra questi due estremi: due soli sistemi sono concepibili, il naturalismo e il soprannaturalismo: il primo è l' empietà, il secondo è la fede [cattolica]: chi sta per quello, sta per l' abolizione di ogni religione soprannaturale, chi per questo, entra nella cattolica chiesa. Invano fuori della chiesa cattolica si cercherebbe ciò che veramente sia e per poco ciò che si dica soprannaturale; e quelli che ancora esitano tra questi due partiti non ne hanno alcuno, e la società gli ha lasciati lungamente dietro di sè solitari e negletti. Uno di questi protestanti che apertamente si pose dalla parte del razionalismo ed escluse ogni principio soprannaturale, è il signor Giulio Augusto Wegscheider. Nè sarebbe da farne parola, se si dichiarasse per un seguace della filosofia, senza più: ma egli insegna pubblicamente Teologia dogmatica nella università Federiciana di Hala, e stampò il suo testo in un libro da lui intitolato, « Institutiones Theologiae christianae dogmaticae »; della quale ben sei edizioni furono fatte nell' anno 1.29 (1). Ora in questo fa un continuo citare, o anzi accennare co' numeri, luoghi della divina Scrittura: ma non per altro se non per correggerla ed emendarla dove ella esce dai limiti della sana ragione (2), la quale sana ragione sta di casa nel cervello del teologo nostro, e per istiracchiarla e torcerla dove può e crede potere, a dire nulla più di quello che a lui par bene che ella dica: giacchè questo appunto mette per principio d' interpretazione, d' intenderla in modo conforme alla sana ragione e di far sì che ella dica solamente quello che può essere utile alla morale, quale nella mente egli l' ha concepita. Insomma nella mente sua egli ha posto una norma precedente, colla quale ha stabilito determinare ciò, che la Scrittura deve dire: la Scrittura non è letta per imparare la verità che ella annunzia agli uomini da parte di Dio, ma viene citata al tribunale dell' uomo per essere giudicata dalla legge che l' uomo si è formata da sè stesso nella mente sua e al rigore di quella emendata. La qual norma è questa:« che ogni detto, il quale parli di cosa che ecceda le forze della natura creata, si deve emendare o interpretare sanamente, cioè in modo che non parli più se non di cosa naturale; e ciò perchè questo solo è utile alla vita umana e ai progressi della morale naturale«. - Il giudizio dunque è fatto prima di aprire i libri delle Scritture: non si cerca sapere se nelle Scritture s' insegna qualche fatto o verità che ecceda le forze della natura, ma cercasi di far sì che elle al tutto non la insegnino, e di riprenderle e castigarle se mai la insegnano. Questo è il metodo notato da S. Atanasio ne' suoi avversarii, [...OMISSIS...] . Ma non sarà inutile che udiamo i fondamenti di quel suo razionalismo (2) che ci presenta come il frutto dei lumi e delle scoperte dei nostri tempi civilissimi. Ecco gli argomenti co' quali si sostiene (3): nessuno di essi è nuovo e non risoluto: ma gli errori rimettono, e conviene che sia nella chiesa chi abbia la pazienza di richiamare alla memoria le loro soluzioni. « Come tutti gli altri animali sono forniti di tali forze, colle quali possono ottenere i fini della loro natura; così senza dubbio , mediante la ragione, per la quale gli uomini superano gli animali, è stato a questi dato il potere d' intendere e di eseguire quelle cose che valgono a ottenere i supremi fini del genere umano, cioè a osservare i doveri e a coltivare la religione«. Tutte le facoltà degli animali si riducono al senso, pel quale non si esigono che degli oggetti materiali. L' uomo fornito d' intelligenza può estendersi oltre tutto l' universo materiale, può avere degli oggetti nobilissimi. Sarà dunque buono argomento di escludere la comunicazione dell' uomo con Dio questo, che perchè l' animale bruto non può godere dell' essere infinito, limitato come è ai sensi materiali, per questo non possa goderne nè pure l' uomo fornito di una intelligenza che non ammette confini? Non è forse quest' essere infinito un oggetto così reale come qualunque altro? O piuttosto non è egli l' oggetto più reale di tutti? E perchè Dio si tiene nascosto, non potrà mai rivelarsi alle sue creature? Sarà necessariamente fra queste e il loro Creatore un tal muro filosofico di separazione? Se la filosofia è quella che erige un tal muro, è migliore, a dir vero, la semplicità dell' uomo incolto, d' una tale sapienza. Ma la ragione, se avesse bisogno di Dio per illustrarsi, sarebbe una potenza imperfetta: l' uomo sarebbe un essere imperfettamente congegnato, perchè non basterebbe a sè stesso. - Che dunque? v' ha qualche essere in tutto quanto è ampio l' universo, che basti a sè stesso? Può trovarsene un solo che, isolandolo dagli altri, possa sussistere? Ed è per questo male ideato e congegnato dal Creatore, perchè ogni essere ha questa sua estrinseca limitazione di aver bisogno per esistere e per vivere di qualche cosa fuori di lui? E in quanto alla ragione, èvvi una sola facoltà che possa far senza de' suoi oggetti? E` imperfetto l' occhio, perchè ha bisogno del sole per vedere? E` imperfetto l' orecchio, perchè senza il fluido aereo, che ondula e trema intorno a lui, non può menomamente ottenere il fine, pel quale è stato dall' eterno artefice fabbricato? E qual ripugnanza vi ha che ci sia nell' uomo una potenza sublime che abbia per oggetto Dio, immediatamente Dio, per soddisfarsi e trovarsi veramente giunta al suo fine? Che è, che ci descrive tanto lontano questo Dio da noi? Che si teme tanto di avvicinarcelo? Che si vuol ostinatamente escluso dalle sue opere, sicchè non possa conversare con esse, sotto pena di commettere un assurdo filosofico? E` questa la scoperta de' nuovi savi? Di un tal regalo fanno essi presente alla nostra povera umanità, a cui si presentano con tante promesse, con tanta baldanza? Consentirà loro l' umanità di lasciarsi così privare del sommo suo bene, di Dio? Il possesso del quale, se fosse un' illusione, è della stessa verità migliore; il che essendo un assurdo [per] conseguente hassi a conchiudere: non è dunque illusione, è verità. « Come l' uomo perviene a essere consapevole della ragione e del dovere, egli è in necessità di considerare la ragione come la suprema forza di conoscere, i decreti della quale egli deve serbare in tutti i pensieri e le azioni. E quegli che, spregiato questo principato dell' umana ragione, pone essere tanta l' autorità della rivelazione, che dicesi comunicata a certi uomini in un modo soprannaturale, che debbasi ad essa consentire, senza muover dubbio, per un cotal cieco istinto o sentimento; questi toglie e rovescia la vera natura dell' uomo e la sua dignità«. Vedesi qui il perpetuo vezzo de' protestanti, il far dire cioè a' cattolici quello che mai non dissero. Se amore di verità li guidasse nelle loro ricerche, la prima cosa si darebbero tutta la cura di ben conoscere con ogni accuratezza le opinioni de' cattolici e di sporle con tutta fedeltà: ma, in luogo di ciò, pigliano a combattere quelle opinioni che nella loro immaginazione credono essere sentenza cattolica, e pur non sono. Così qui posso osservare che giammai i cattolici non tennero, nè dissero che si debba credere alla rivelazione divina per« un istinto e sentimento CIECO«: anzi dissero con Cristo che si doveva sempre camminare nella luce (1); che si doveva dare alla rivelazione un ossequio ragionevole (2); e che Cristo era la luce cui le tenebre non hanno compresa (3). Spieghiamo queste sentenze veramente cattoliche. Parliamo prima della rivelazione esterna , e poi della rivelazione interna . S' insegnò sempre appresso i cattolici che, prima di credere alla rivelazione esterna, erano necessari dei segni o delle prove certe che ella venisse da Dio. Questo non è un credere ciecamente, questo non è un rinunziare alla ragione: poichè è sicuramente la ragione quella che esamina e giudica del valore di que' segni o prove certe, alle quali si conosca che è Dio quegli che ha parlato. Ma dopo di essersi convinti di ciò, di nuovo è la ragione stessa quella che ha suggerito di fare questo semplice ragionamento: Iddio è stato quegli che ha parlato. Iddio non può ingannare nè ingannarsi. Dunque si può credere sicuramente a lui senza pericolo di prendere errore. - Non è questo, dettato di ragione naturale? Il credere dunque a Dio, dopo conosciuto prima, per mezzo della ragione, che egli ha parlato, non è un ubbidire alla ragione stessa? E si dirà questo un rinunziarvi, un credere ciecamente? Quante volte l' uomo non tiene per guida un simile principio che non è altro veramente che uno dei principii della ragione? Non dico solo ogni qualvolta l' uomo appoggia il suo ragionare su qualche grave autorità; ma dico che l' uomo segue un somigliante principio in tutte le scienze, nessuna esclusa, nelle quali, verificata una proposizione, va avanti e ne tira le conseguenze, supponendo oggimai per vera la prima, e non torna indietro ogni passo a riprovarla, ma le conseguenze le dà per certe e per dimostrate con questo solo supposto, che sia certo e dimostrato il principio onde provengono. Sarà egli necessario trovare una nuova dimostrazione diretta per ogni nuova conseguenza che si cava da un principio? O non basterà anzi il sapere che ella è conseguenza discendente da un principio certo per mettere anch' essa fra le cose dimostrate e certe senza più, dandole una pienissima fede? E il dar fede alle parole di Dio, che è se non un ammetter per certa la conseguenza d' un principio pur certo? Questo modo di ragionare, sebben comune alle scienze tutte, vedesi più manifestatamente nelle matematiche, scienze che giova recare in esempio come quelle che hanno forma di un rigoroso procedere e in ispecial modo. Or che si fa perpetuamente nell' algebra, se non assicurarsi prima di alcuni assiomi, principii, e del metodo, e poi, abbandonate al tutto le idee, seguitare con un meccanismo di segni e di operazioni e finalmente trovare un risultamento, il quale si ha senza più per certo? Si vede forse una ragione diretta e immediata di questo risultamento? Nessuna. Come lo si tien dunque per certo? Unicamente perchè si giudica che quel metodo, col quale si sono mutati di mano in mano e trattati que' segni, non possa fallire, si crede alla infallibilità di quel metodo: e su questa fede si ha per indubitato quel risultato. Nella rivelazione invece si crede alla infallibilità di Dio. Se si approva di abbandonarsi alle veracità di quel metodo di trovare la verità, perchè si disapproverà il credere alla veracità di Dio? La ragione adunque è quella che si prende per guida nel credere a Dio: ma si badi, diciamo la ragione , e non gli sviamenti della ragione . Conviene ben distinguere tra il lume della ragione e l' uomo che abusa di questo lume. Non vi ha sicuramente niente che sia superiore al lume della ragione e che possa giudicare di questo lume, il quale giudica di tutto. Ma stia avvertito l' uomo di non attribuire a sè stesso questa infallibilità, questa supremazia che è solo propria di quel lume che in lui risplende, e del quale se fa buon uso, perviene alla verità; ma se fa un mal uso, precipita nell' errore. Si attenda dunque: non trattasi di sottomettere alla rivelazione il lume della ragione, trattasi di sottomettervi l' uomo stesso; è questi che ha bisogno di essere istruito, corretto, scòrto, acciocchè non faccia mal uso del lume della sua ragione. I cattolici non vogliono dir altro, quando insegnano che è uopo sottomettere la ragione alla rivelazione, credere a Dio: è il medesimo che se dicessero: quando che voi avete verificato che Dio ha parlato, e poi nelle cose udite da lui trovate qualche difficoltà che non potete sciogliere, voi dovete credere tuttavia. Perchè il trovare questa difficoltà niente altro dimostra se non che voi, o uomo, nel far uso della vostra ragione siete limitato e circoscritto. Certamente la ragione per sè è infallibile; ma voi, o uomo, non siete già la ragione, voi non ne fate che uso. Ora chi è probabile che sappia meglio far uso del lume della ragione, voi, o Dio che parla? - Questo ragionamento persuade all' uomo quella stessa modestia e ritenutezza verso Dio, che ogni discepolo è obbligato di usare verso un suo maestro, ogni giovinetto verso un vecchio savio e sperimentato che lo ammaestri. In quanto alla rivelazione interiore poi deve considerarsi quanto segue. Le funzioni della ragione sono due (1), la percezione e la riflessione . La riflessione è quella onde nascono i ragionamenti e quindi le scienze dimostrative. Ma ad ogni riflessione sopra le cose percepite necessariamente deve precedere la percezione. La percezione è una funzione semplice, immediata, colla quale il nostro spirito percepisce, a primo tratto, gli oggetti che a lui vengono presentati. La percezione adunque non ammette ragionamento e dimostrazione : ella però non è meno certa della riflessione, perchè gode della evidenza , la quale evidenza è anzi il principio della dimostrazione stessa (2). Se la percezione adunque manca di dimostrazione, non devesi per questo dir cieca, nè escludere dalle funzioni ragionevoli, giacchè essa ne è anzi la prima e quella che somministra la materia a tutte le operazioni della riflessione. Ciò premesso, la rivelazione interna si fa, secondo il sistema cattolico, come noi abbiamo lungamente esposto, mediante una percezione interiore di Dio. Non è vero adunque che si presti fede a lei ciecamente, ma anzi con una evidente luce e irrefragabile. Questo spiega quel darsi fede dagli uomini al Vangelo pure la prima volta che l' hanno udito annunziare, senza dubbi, senza lunghe disamine e prove esteriori, e tuttavia il dar quella fede (3) in tal modo è a Dio gradevole e conducente alla salute eterna, secondo le divine Scritture: il che certo non sarebbe, se quel credere subitaneo fosse un operare con cieca temerità, perocchè a Dio niente piace di tutto quello che è cieco, temerario, irragionevole. Ma [è] vero che chi non ebbe questa percezione, non la può intendere; e questa è la ragione perchè i filosofi del secolo sono pronti in negarla, e a dichiararla stolta e veniente da un cieco e superstizioso entusiasmo (4). « L' umana mente, soggetta alle leggi innate del pensare, è necessitata di riferire tutto ciò che percepisce coll' aiuto de' sensi ovvero che trova col pensiero e colla meditazione, o prossimamente a qualche causa del mondo sensibile, ovvero a delle origini nascoste nella mente stessa. E per ciò è colpa di stolta arroganza il voler negare queste origini, e fingere un evento soprannaturale e miracoloso, di cui non si può assegnare in alcun modo un certo carattere, per questo che di un qualche avvenimento osservato nella natura egli non seppe veder subito la causa, o non iscoperse le origini recondite, nella facoltà dell' anima, della vera religione tra gli uomini rinvenuta«. Qui si dà colpa altrui di stolta arroganza. Ora egli starebbe a vedere se nel ragionamento surriferito ci fosse per avventura dell' arroganza aggiunta a della stoltezza di che si dà colpa altrui. In quanto alla stoltezza, l' affermare che nel sistema di quelli che seguono un vero soprannaturalismo, si finga la causa soprannaturale, e che si finga e inventi questa causa solo per questo motivo che non se ne vede subito una causa naturale o le origini recondite nelle facoltà dell' anima; parmi che non sia gran fatto indizio di buon senno. Poichè se udiamo tutti quelli che rettamente seguono la religione soprannaturale del cattolicismo, non credono già essi di fingere arbitrariamente una causa superiore alla natura, ma credono di essere necessitati ad ammettere una tal causa da prove certe, riconosciute tali o piuttosto suggerite loro dalla ragione: e perciò non stimano punto di essere mossi a questo unicamente dal non conoscere la causa naturale del fatto che trattasi di spiegare, perocchè sanno bene anch' essi (e ci vuol poco a saperlo) che delle cause, che restano occulte nella natura troppe ci sono, e quanto poco sia quello che noi conosciamo dei misteri naturali verso a quello che ignoriamo. Ora il signor professore di Hala ignora questo sistema de' cattolici (e in tal caso parla di ciò che ignora, il che è stoltezza), oppure conosce il sistema cattolico, e vuol dir loro quelle sue parole: Voi credete e affermate di porre una cagione soprannaturale, mossi da motivi e argomenti di ragione; ma non è vero, voi non fate che fingerla e inventarla ciecamente questa ragione. - Non parmi che si possa fare un maggiore oltraggio a' cattolici quanto parlando loro così, nè che si possa mostrare animo più villano e più arrogante. Perocchè o i cattolici affermano di fare ciò che non credono, e in tal caso mentiscono a tutto il mondo perpetuamente (e il signor professore di Hala si arroga di poter entrare ne' loro petti, spiarvi le loro intenzioni e credenze nascoste, accusarle altresì al mondo come contrarie alle loro parole, trovandosi queste conformi a ragione; e quelle, sulla fede del signor professore che solo ha un acume che penetra i segreti del cuore, cieche o stolte); ovvero i cattolici non solo affermano, ma anche credono di essere mossi da gravi e ragionevoli motivi per ammettere una causa veramente soprannaturale; e in tal caso la questione è interamente sul territorio della ragione e consiste in definire e sapere, se questi motivi ragionevoli ci sono, come opinano i cattolici, o non ci sono, come opinano i razionalisti. V' hanno adunque due parti, e nessuna di esse intende punto rinunziare alla ragione, che sarebbe il medesimo che darsi vinta; ma anzi ciascuna di esse pretende di seguitare essa sola la ragione e la verità, e accusa l' altra parte di non seguitarla, ma di abbandonarla, travolgendosi nell' errore per un cotale sragionare che fa o sia per fare un mal uso di essa ragione. Ecco la questione: ragionatori da una parte e ragionatori dall' altra. L' arma è pari, quest' arma è sempre la ragione per tutti e due gli osti. Or che fa il nostro professore? Chi vincerà in questa lotta secondo la sua sentenza? Se egli seduto pro tribunali pronunziasse questa sentenza che la parte de' cattolici usa male quest' arma della ragione, e chi la usa bene sono i così detti razionalisti loro avversari, sarebbe pur non poca arroganza; perocchè non è un nudo sentenziare che stia bene a privata persona eziandio che professore in università, ma anzi il disputare recando in mezzo quelle ragioni che provino il torto della parte contraria. Ma non è questo che fa il professore razionalista: ma egli in cambio di dirci che i cattolici usano male della ragione, vi dice che essi non ne usano punto, ma seguono un istinto cieco e non fanno [che] fingere ad arbitrio in luogo di ragionare. Ora il dir questo non veggo quanto modesto possa essere nè quanto secondo l' equità; perocchè è un dire: Non è vero che vi abbia nè pur lizza fra i cattolici e i razionalisti, i cattolici non trattano punto nè poco l' arma della ragione, vi hanno rinunziato; sono i soli razionalisti che della ragione fanno uso, essi soli sono i padroni del campo, non hanno in presenza avversarii di sorta, anzi non esistono altri uomini se non essi soli, perocchè i cattolici, in quanto tali, seguono un cieco istinto, il che è l' operar della bestia: sicchè i razionalisti non solo hanno la palma, ma la posseggono pacificamente, e in tutto il mondo non vi ha nè può essere chi loro la contrasti, nessuno più fiata contro essi, nessuno osa opporre loro la minima ragione, perocchè chi opponesse anche solo una minima ragione al sistema razionalistico, già non sarebbe più vero che avesse condannato sè stesso ad ammettere per un istinto cieco e senza visione una causa soprannaturale, ciò che il signor professore di Hala gentilmente afferma degli avversari suoi e de' razionalisti. Or grave e recisa sentenza è ben questa del signor professore! Ma è ella forse accompagnata dai motivi del giudicato? Nessun motivo s' adduce di essa perchè quella sentenza è tutta compresa in questo poco:« I soprannaturalisti rinunziano alla ragione, dunque han torto«. La ragione dell' aver torto è tutta nell' affermazione precedente, « che rinunziano alla ragione«: la quale viene supposta dal nostro autore, come quella che costituisce il sistema soprannaturalistico esposto da lui appunto così, che consista« nel rinunziare alla ragione«. E supposto per bell' e conceduto che il sistema degli avversari consista in un rinunziamento da lor fatto alla ragione, la conseguenza che ne trae il signor professore scorre dirittissima ed evidente: chi ha rinunziato alla ragione, ha torto, o anzi egli non ha nè torto nè ragione, perchè non è più uomo, ma bestia; non è possibile alcuna disputa con costui. Se l' esporre in questo modo il sistema degli avversari sia sapienza e modestia, o piuttosto matta arroganza, io non dico, ma il dica qualsivoglia protestante o cattolico, greco od arabo, ch' io lascio al comune senso deciderlo. Solo di far questa osservazione non mi posso tenere: il contentarsi di pronunziare col tuono il più deciso delle sentenze non sorrette da alcuna prova è ragionare questo? Intende che tale sia il metodo de' razionalisti, i quali dichiarano il ragionamento l' unica scorta sicura dell' uomo? Ovvero basta aver fatta questa dichiarazione per avere poi il diritto pienissimo di sragionare, o anzi si riserbano i razionalisti di sostituire al ragionamento un franco asserire? Distruggono adunque il ragionamento stesso? Che fa il nostro professore di filosofia razionale? Vuole che il mondo creda alla sua parola? Sostituisce adunque l' autorità sua a quella della chiesa? In tale alternativa io mi attengo alla chiesa. Ma oltre all' essere affatto gratuita e ignuda di ogni prova la sua asserzione, che il sistema de' soprannaturalisti consista in un rinunziamento che fanno alla ragione, è ella vera, è ella probabile, è ella possibile? Come abbiamo detto, se è vero [che] i soprannaturalisti rinunziano alla ragione, essi non disputano più con nessun avversario, perchè il disputare è, questo solo, un usare, bene o male, della ragione. Perciò i razionalisti dovrebbero essere pacifici possessori del campo, nessuno al mondo potrebbe loro contraddire; e gli uomini tutti o dovrebbero essere razionalisti, o rinunziare alla natura umana, al che ben pochi possono esser disposti, se non piuttosto pochi credono di esser disposti, perocchè ripugna che tali veramente siano. Ora è egli vero? Non vi ha nessuno che disputi con cotesti che si dicono razionalisti, perchè con assai modestia pretendono di far essi soli uso della ragione? Il fatto per avventura li smentisce, perocchè tutti i cattolici sostengono di credere ragionevolmente a un principio soprannaturale e che il razionalista sragioni; i cattolici disputano, i cattolici pubblicano continuamente delle scritture, stampano de' libri contro il razionalismo: il che, ragione o torto che si abbiano, non potrebbero far certamente, se non fosse vero, ciò che offerma il professore della università Fridericiana, che avessero rinunziato all' uso della ragione, e, in luogo di questa, avessero tolto a unica guida un cieco istinto. Era dunque facile il vedere che il supporre tanti milioni di avversarii, quanti sono i cattolici, aver rinunziato alla ragione, è qualche cosa di così improbabile, che l' affermarlo senza prove, in un libro a stampa dimostra una troppo grande presunzione e opinione di sè. Perocchè a conoscere, come diceva, l' improbabilità o piuttosto l' assurdità di somigliante proposizione, pur bastava l' osservare che i cattolici non istanno già muti come i pesci, ma fanno sentire la voce e pretendono di rifutare i sofismi dei naturalisti. Il che è almeno un pretendere alla ragione; e chi pretende d' aver ragione, non può incolparsi di non far nessuna stima della ragione e d' averla ceduta tutta ai loro avversari. Finalmente se vero fosse il sistema dei soprannaturalisti, come egli il presenta, a che lo sbracciarsi tanto in ribatterlo, come fa il nostro teologo razionale? A che l' addurre tanti argomenti? E` forse per mostrare di avere ragione? Ma se gli avversarii, come egli sostiene, hanno già rinunziato da sè medesimi alla ragione, lasciandola tutta come merce spregiata e di nessun pregio agli avversarii, e per sè ritenendo solo il cieco istinto? Si è forse il nostro acuto professore condannato da sè medesimo a rivolgersi in una perpetua contraddizione nella quale più seco combatte che cogli avversarii? Ma lasciamo ciò e passiamo a vedere un altro esempio inarrivabile di modestia che dànno i razionalisti nella maniera di maneggiare le loro disputazioni. In primo luogo, chi sono gli avversari del signor professore di Hala? Abbiamo detto i cattolici, cioè circa duecento milioni di uomini, anzi tutti quelli che, almeno in teoria, credono a un principio veramente soprannaturale: il che è quanto dire quasi tutto il genere umano, eccettuato il signor professore di Hala con alcuni rari come portenti, usciti in questo estremo periodo dallo spirante protestantismo. Ora parrà verisimile che il genere umano in corpo abbia rinunziato alla ragione, che è quanto dire all' umanità? Ma via, poichè questo non è; poichè il genere umano protesta contro al signor professore; poichè il signor professore medesimo, rinunziando necessariamente alla matta pretenzione che l' avversario gli cada ai piedi prima di combattere, si trae in campo e piglia il tuono della disputa e mette in mezzo argomenti, gioverà vedere il modo onde una tale disputazione si può convenevolmente avviare. Poichè se ambedue le parti pretendono d' usare della ragione e ciascuna vuol essere quella che ne usa meglio, quale mai viene a essere l' apparato di una somigliante tenzone? Due schiere d' uomini egualmente formate, e l' arma eguale. Da una parte io veggo uomini gridanti che, dopo aver fatto un sano uso della ragione, hanno avuto per risultamento che una causa soprannaturale non può essere: dall' altra parte veggo parimenti uomini gridanti alla lor volta che, dopo aver fatto anch' essi un sano uso di ragione, hanno avuto per risultato che una causa soprannaturale ed è possibile e v' hanno certi argomenti di doverla amettere di fatto. Ora la sana ragione da qual parte starà? Se io bado alle loro parole, i primi si chiamano razionalisti e vogliono possedere la ragione in esclusiva loro proprietà; simili a quel pazzo che diceva tutti gli uomini dover ben presto perire, perchè voleva respirare lui solo l' aria tutta dell' atmosfera. Ma se bado alle parole dei secondi, questi pretendono che i primi sieni pregiudicati e che restringano gratuitamente lo spirito umano entro sè stessi e il circolo delle materiali sostanze. Che cosa decidere fra tali contendenti? Non sembrerebbe dover essere secondo l' equità che, avendo io uomini da una parte e uomini dall' altra, i quali pretendono del pari di far uso della ragione e aver diritto di seguitare ciò che ella lor detta, io calcolassi imparzialmente la probabilità che può esservi, o che ambe le parti s' ingannino, o che l' una delle due dica il vero? Ora certo è che, non potendo io discernere uomo da uomo, e però dovendo riconoscere in ciascuno un diritto eguale di far uso della sua ragione, procederò equamente, ove io stabilirò questo principio: Nel fare un ragionamento, se molti insieme riescono ad avere un medesimo risultato, cresce la probabilità che il risultato sia vero in ragione che cresce il numero di questi uomini ragionatori che nel medesimo convengono: e, viceversa, la probabilità del risultato contrario sarà al più in ragione del numero di quelli che in quel risultamento medesimo non convengono (1). Il qual principio applicato a giudicare del naturalismo o razionalismo e del soprannaturalismo, quale risultamento mi dà? In favore del soprannaturalismo, immenso numero di uomini ragionatori: contro di esso, sì piccolo numero che svanisce e si può trascurare verso a quel primo; sicchè non rimane solo una probabilità, ma una vera certezza morale pel soprannaturalismo. Una frazione del piccolo corpo di questi votanti contro il soprannaturalismo è per avventura anche il nostro signor professore dell' Università Fridericiana; giacchè egli non è che un ragionatore solo, è uno dei tanti che tutti egualmente s' appellano alla ragione e stimano di fare di essa un uso sano e verace. Or che doveva consigliargli la virtù della modestia e della giustizia, volendo ragionare di un argomento, nel quale tutto il genere umano è interessato e tutto in corpo veramente pronunzia? Di prendere il suo posto, di presentarsi come una minima frazione di un minimo corpo, di portare il suo granello di arena, cioè di deporre modestamente il suo voto, aspettando per avventura che si faccia lo scrutinio e che esca la sentenza. Tiene quest' ordine ragionevole e savio il nostro professore razionale? E` questo il tuono, col quale si presenta nella discussione e trattazione di una tanta causa? Propone un voto? Eh! ben altro: egli non parla come uno dei mortali che non può se non far uso della ragione, sempre in pericolo di farlo bene o male; egli vi parla in nome della sana ragione, parla come fosse la ragione personificata, e come tale non esita, non teme di pronunziare sentenza assoluta, dicendovi non solo che non si dà alcun elemento soprannaturale, ma che non si può dare. E a tutti quelli, i quali non si contentano del suo giudicato, che è quanto dire tutti gli uomini, fuor solo dei filosofi razionali, e che stimano non aver egli seguito la sana ragione, egli per sanzione del suo giudizio imprime in fronte la nota di arroganza e di stoltezza! Ma sebbene in questo raffrontamento della società umana da una parte, co' razionalisti dall' altra, noi non abbiamo fatto altro che mettere a testa ragionatori con ragionatori, uomini a cui la ragione dice una cosa, con uomini a cui la ragione medesima dice tutto il contrario, e che s' onorano scambievolmente del titolo di stolti e di traviati dal sentiero della verità e della ragione; tuttavia il nostro professore si querelerà probabilmente con noi quasi l' avessimo citato piuttosto al tribunale dell' autorità che [a quello] della ragione, e quindi ci dirà al suo solito non volerne sapere di autorità alcuna, perocchè quello dell' autorità è un cieco procedere quello dell' autorità, ed egli colla sola ragione combattere. Ma che è l' autorità che voi odiate tanto, se non la ragione di un altro essere ragionevole? La mia ragione è per gli altri un' autorità: la ragione degli altri è per me un' autorità: ciò che a ciascun uomo è ragione a tutti gli altri è autorità. Che contrarietà può aversi dunque all' autorità il nostro professore, egli che mostrasi così tenero della ragione? Egli dice di combattere colla ragione sola. Ma questo è un non capire il senso della parola ragione , e quello della parola autorità ; perocchè chi dice lui combattere colla ragione? Lo dice egli medesimo. Or ciò non prova altro, se non che la sua opinione è per lui ragione: ma agli altri uomini può esser ella più che opinione, può esser più che autorità? Vi ha dunque nel nostro professore razionalista non poca oscurità e confusione d' idee che gli impedisce un retto e sicuro uso della ragione. Ma il professore razionalista dirà di tenere così, perchè la sua ragione gli dà per validi certi particolari suoi argomenti. - Debbono essere ben forti e risplendere di una evidentissima luce questi argomenti se possono dare a lui il diritto di credersi più ragionevole dell' intero genere umano, e del senso comune che gli dà torto (1). Non voglio però contendergliene la possibilità, prima che vediamo quali sieno questi argomenti, e se per avventura fossero atti a persuadere anche noi stessi colla loro evidenza. Nelle parole del professore di Hala, che noi abbiamo di sopra recate fedelmente tradotte dal latino e che stiamo ora ora qui esaminando (2), niun argomento si trova, se non questo che egli afferma e mostrasi persuasissimo della verità di questa proposizione: che la umana mente è necessitata di riferire tutto quello che percepisce coll' aiuto de' sensi, ovvero che trova col pensiero, e colla meditazione, a qualche causa naturale, cioè a qualche causa nel mondo esterno o nell' interno dell' anima. Il professore mette questo principio per inconcusso, e indi trae la condanna del soprannaturalismo e la prova del razionalismo. Ecco tutto l' argomento. Ma che è quella proposizione? Ella non prova già il razionalismo, è a dirittura il razionalismo stesso; poichè il razionalismo non è se non il sistema che afferma non potere l' umana mente trasportarsi a oggetti fuori della natura materiale e delle leggi stesse della mente. Il signor professore adunque suppone dimostrato ciò appunto che vuol dimostrare; e dopo aver messo per certissimo tale principio, che non è altro se non l' assunto stesso che aveasi a provare, facil cosa gli riesce il tirarne quella conseguenza, che dunque il suo assunto è certo, ciò che è quanto un dire che il ragionamento puòsignor professore, se ragionamento può chiamarsi, zoppica viziato di quel peccato logico che si chiama petizione di principio . Ma tant' è, l' umana mente, dice il signor professore, è necessitata di riferire tutto ciò che percepisce coll' aiuto de' sensi o che trova col pensiero e colla meditazione a qualche causa del mondo sensibile, ovvero a delle origini nascoste nella mente stessa: è arrogante e stolto chi contraddice. Poichè il signor professore razionalista non dà ragione del suo affermare, bisognando forse che la sana ragione gli suggerisca il canone di quel primo emendatore del Vangelo, alla cui santa anima ha dedicato il suo libro (1): che fu quel celebre: « stat pro ratione voluntas ». Non sarà inutile tuttavia che veggiamo noi quanto credito possa godere quella risoluta asserzione. Ella è tolta di peso dal celebre autore della filosofia critica in Germania. Veramente la filosofia critica , legata insieme colla teologia dogmatica , è il più bel nodo del mondo; questa di necessità deve venir criticata fino a che non ne rimanga più cica, e il nome« dogmatica « sul frontespizio di un tal libro mostra, che il razionalismo non può dire la prima parola, senza cozzare con sè stesso. Ma la filosofia critica, nemica essenzialmente di ogni dogma, essenzialmente protestante, anzi l' ultimo parto, il beniamino della religione riformata, spirata, come Rachele, in partorendolo, perchè la critica filosofia non conosce altra religione che sè stessa; questa filosofia, dico, seguita con tanta servil devozione dal nostro professore, è ella un' autorità, od una ragione? Se si considera come autorità , ella è già decaduta: in Germania stesso ha dato luogo ad altri e altri sistemi di filosofia; e in nessun luogo della terra, che io sappia, viene più insegnata, senza almeno averla sottomessa a notabili modificazioni. Vuol dunque che noi rinunziamo all' autorità di una dottrina, che conta diciotto secoli, nei quali ha convertito e mutato il mondo, per curvare il collo [a una filosofia] che, data dal torbido 1719, e che è oggimai decrepita? Se poi vuole che consideriamo la filosofia critica come ragione , se vuole che noi entriamo nell' esame di lei, noi rimandiamo il nostro professore a quei luoghi dove abbiamo trattato a lungo questo argomento e dimostrato: 1. Che l' uomo ha innata la visione dell' essere, colla quale egli è in contatto con qualche cosa di diverso da sè, e diverso dalla natura materiale. 2. Che per mezzo di quest' essere, col quale la mente umana è in comunicazione, l' uomo si vede fatto per un essere veramente e realmente infinito, fuori di tutta la natura finita e capace di conoscerlo e di goderlo. 3. Che quindi è falso ciò [che] pretende Kant, finire tutta l' attività dello spirito umano entro la sfera de' sensi e delle leggi soggettive del suo intendimento, mentre l' intendimento stesso è essenzialmente oggettivo , cioè è tale facoltà che ci spinge fuori di noi e ci fa tendere in un oggetto infinito. 4. Quindi che è un puro errore baldanzoso ad un tempo e sommamente tristo per gli uomini quello che toglie ad annunziar Kant, quando pretende facendo da correttore a bacchetta della ragione e dello spirito umano, d' imporre a lui confini oltre a' quali non possa stendersi e di serrarlo entro a leggi coniate arbitrariamente da una fantasia diretta nelle sue invenzioni dalle analogie tolte dalle materiali sensazioni (1). « Essendovi più religioni volgarmente dette positive che si attribuiscono l' onore d' una rivelazione divina soprannaturale e miracolosa, non v' ha modo e via da esaminarle (quando non si voglia preferire l' una all' altra con cieco arbitrio), se non di paragonare quelle dottrine con quelle altre che, per la natural via della retta ragione, si sono conosciute intorno a Dio e alla sua volontà, e di conformarle a una tal norma, senza alcuna superstizione. Perocchè chi ricusasse di adoperare questa norma di verità a esaminare la religione che si spaccia per soprannaturale, dovrebbe forte temere, non forse qualche demone o uomo che piglia la persona di legato di Dio e toglie a vendergli false e male sentenze, dandogliele per vere ed oneste, gli imponga da credere per rivelati dei dogmi indegnissimi dell' essere supremo«. Questo argomento in gran parte ruota e gira sul falso, sulla supposizione cioè che i soprannaturalisti ricusino di usare la ragione in discernere la vera dalla falsa rivelazione. Ma se vi abbia qualche setta di fanatici al dì d' oggi, i quali si appiglino a creder vera una religione pel criterio d' un interno furore di fantasia, e a un tale loro matto furore nelle cose loro religiose si lascino governare, io non vo' dire. Dico bensì che se una tal setta vi ha, questa è separata e condannata dalla Chiesa cattolica: dico che nessun uomo che vive la confonderà mai colla cattolica Chiesa, nè si sbraccierà a rifiutarla, come mostra di fare il nostro professore di Hala. I soprannaturalisti cattolici adunque si richiamano a lui come d' ingiustizia e di oltraggio che loro fa, mettendoli così nel mazzo di tali fanatici o veramente furiosi, e credono di poter dire del signor professore che sì villanamente li tratta, non dover esser per avventura la sua religione razionale molto amica della buona morale nel fatto, giacchè il calunniare e vilipendere è cosa dalla buona morale ripresa e proibita. Di poi havvi inesattezza nell' argomento del signor professore, dove dice che non c' è altra via di riconoscere se una dottrina religiosa è buona, fuor solo quella di confrontarla colla dottrina suggerita dalla retta ragione. Non è necessario punto che la dottrina rivelata si confronti colla dottrina della retta ragione punto per punto: basta solo che si confronti e convalidi colla retta ragione il principio supremo e generale onde la rivelazione si deduce, cioè l' essere veramente rivelata da Dio agli uomini; e poi egli è manifesto che tutta la religione si può prenderla a chiusi occhi, perchè non può essere che vera e conforme alla retta ragione, anche ovecchè a noi, come quelli che siam fallibili e limitati nel far uso della ragione, sembrasse il contrario. Convien dunque aver ben fermate colla ragione queste due cose: 1. la rivelazione divina è un fatto certo; 2. queste dottrine son quelle contenute in quella rivelazione. Ciò in un modo inconcusso dimostrato, è la ragione quella che mi spingerà a pigliare come certe e ammettere senz' altro esame, ma con interissima fede, tutte quelle dottrine, eziandio che dei misteri contenessero, cioè delle verità al mio debol vedere superiori di lunga mano. Ella è la retta ragione che mi insinua questa modestia, dicendomi: chi ti ha parlato è l' Essere Supremo, è la ragione stessa; questo ti basti, sottomettiti; perocchè la ragione tua non è che un raggio di quella cui tu partecipi; e se tu, ragionando, ti trovi discordare da quella ragione suprema, quale dubbio che ciò non avvenga dal tuo corto vedere, anzichè da falsità dell' Ente divino? Non sei tu fallibile? Non trovi da per tutto misteri, da per tutto difficoltà gravissime nella stessa natura? Non ti accade di prendere ogni giorno qualche sperienza della limitazione del tuo ingegno? E quante volte, anche in convivendo cogli uomini, non deferisci al maggiore di te sulla sua autorità, senza che possa tu ben vederne ragione? E non credi tu ciecamente a tutti gli artisti e periti nelle arti loro? - Questa è la modestia sapiente dei soprannaturalisti: i razionalisti all' incontro si contentano di tacciarli di arroganza e di stoltezza: ma io non veggo dove stia arroganza maggiore, quanto in contendere con Dio e disputare se egli ha ragione o se ha torto. Dipoi è egli nè anco possibile quel mezzo che chiama« unico« il nostro professore, di confrontare le dottrine rivelate su quelle della retta ragione? Ciò supporrebbe che la ragione di chi deve fare questo confronto fosse già fornita d' una religiosa dottrina, in tutte le sue parti compita e perfetta e lontanissima dall' andar soggetta al minimo dubbio. Ma che? qual ragione, qual uomo ha mai potuto dire di possedere una tale dottrina? Di essersi formato colle sole forze del suo ingegno il tipo, l' ideale della religione? Vi fu mai un tal genio sulla terra? Vi può essere? Forse che qualche filosofo se n' è vantato: ma dove è rimasta la religione mirabile di questo filosofo? Quale è, che n' è divenuto? Si può dare arroganza maggiore di quella di colui che si vantasse di ciò? E il professore nostro pretende di più, che ogni uomo deva far così, giacchè ogni uomo deve pure avere una religione e una religione sicura. Mirabile opinione che egli ha della ragione degli uomini! Ma se questo ideale della religione è in ogni mente, come può esistere più alcuna discordia in materia di religione? Il fatto veramente conferma la teoria del nostro professore: sono essi d' accordo gli uomini nelle idee religiose? non c' è che una religione al mondo? Nè io nego già che l' uomo non possa sentire la bontà intrinseca di una religione divina: purchè il voglia, purchè sia retto il suo cuore, può sicuramente sentire quanto ella sia a lui conveniente, quanto ella risponda ai nobili voti della sua intelligente natura; e se si vuole, questo è un giudicare della religione. Ma dico che lo spirito umano a fare questo giudizio della religione non ha già uopo di avere un tipo di religione perfetta in sè medesimo: non ha uopo di posseder prima la perfettissima dottrina religiosa: basta solo ch' egli abbia un principio, una regola, una norma innata, nella quale virtualmente si contiene ciò che è retto, onesto e degno di Dio; ma in modo tale che egli non avrebbe mai potuto fecondare questo germe e trarre da questo principio innato quella perfetta religione che gli bisognasse. Così per giudicare della bellezza, non è necessario avere ogni bellezza effigiata nella mente, nel qual caso non riuscirebbero punto più nuove e dilettevoli le tavole dipinte, a ragione di esempio da egregi artisti, nè queste apprenderebbero più all' uomo cosa alcuna in genere di pittura, perocchè egli saprebbe tutto precedentemente. Ma il fatto è questo, che l' uomo al vedere i quadri di Raffaello o i marmi di Canova la prima volta, ne rimane ammirato e ne trae una viva dilettazione: e questa dilettazione e approvazione che egli ne fa, col quale giudizio approva e riconosce quelle bellezze dipinte e scolpite e quindi è la sua intelligenza che gli fa nascere quel diletto. Ma per far ciò non è già necessario che nello spirito dell' uomo sieno state precedentemente quelle bellezze, e le maggiori ancora (l' ideale loro); ma solo che lo spirito portasse in sè un principio, una regola, su cui giudicarle. Così è nella religione medesimamente: non è necessario che nello spirito, dell' uomo, perchè possa vedere la dignità e santità di una religione, vi abbia quella religione stessa bella e formata, o anzi il suo ideale; basta che vi abbia la regola da giudicarla. La qual regola finalmente non è poi altro che il lume stesso della ragione, e come ho dimostrato, l' idea dell' essere , la quale informa la nostra intelligenza. Nè manco dal sentire, approvare e giudicare noi le bellezze delle eccellenti pitture, statue, poesie, musiche e ogni altro genere di bellezza, può trarsi la conseguenza, che dunque noi possediamo il principio onde noi potremmo formarci noi stessi quegli egregi dipinti, quei marmi parlanti, quelle poesie e musiche che tanto ci incantano e ci trasportano. Perocchè altro è il poterle riconoscere, quando ci sono date, e altro è il produrle in atto nella nostra mente: il perchè l' esserci presentati quegli eccellenti lavori è a noi utilissimo dono, e dalla contemplazione di quelli noi impariamo cose nuove e perfezioniamo le regole inferiori dell' arte, le quali altro non sono che applicazioni della regola suprema, la quale nuda e sola esiste da sè nel nostro spirito, e non ha bisogno di educazione: ma la quale non ci presenta alcuna bellezza, ma aspetta che glie ne vengano offerte per aver materia a cui applicarsi. Quindi medesimamente sebbene noi abbiamo la regola suprema onde giudicare della bontà d' una religiosa dottrina, tuttavia non ne viene che noi potremmo mai da noi stessi dedurre da quella regola essa dottrina religiosa: ma quella regola, come pura forma, se ne rimarrebbe del tutto inutile e infeconda, fino che non fosse data all' uomo quell' alta e divina religione, alla quale applicandosi quella regola, come a sua materia, quella trova in essa il proprio soddisfacimento, sviluppo e compimento. Ed è vero dunque che la nostra retta ragione è atta a giudicare di una buona o mala religione e deve farlo: ed è vero insieme che la nostra ragione non potrebbe per questo tuttavia comporci e somministrarci una religione perfetta e agli umani bisogni interamente corrispondente. « Nessuna rivelazione, appoggiandosi sull' istoria e testimonianze altrui, può produrre a noi una persuasione tanto certa, come quella che nasce dalla ragione, i cui decreti si appalesano all' uomo nella sua propria coscienza. E quanto più la religione sarà piantata e impressa nella coscienza dell' umana mente, tanto più sperimenterà l' uomo la sua benefica virtù nelle varie vicissitudini della vita.« Il nostro professore vi accerta che la storia e le testimonianze altrui non possono produrre una persuasione così certa, come quella della ragione. Che prove reca di ciò? La sua parola? Basterebbe a noi di negare gratuitamente ciò che gratuitamente afferma. Certo che la sua proposizione non è consentita universalmente dagli uomini: e l' affermarla con sì grande sicurezza non pare modestia, nè pare un aver tolto a seguir ragione, sebbene si pretenda che questa sia la sola buona guida. Noi tuttavia non ricuseremo di citare, seguitando, come abbiam fatto fin qui, il nostro razionalista alla ragione. E diciamo così: Il verificare se la storia e la testimonianza altrui possa produrre negli uomini una persuasione tanto certa come quella della ragione, non si può fare che interrogando il fatto stesso. Ora vi ha alcuno di quelli, i quali non furono mai a Roma e che non conoscono questa città se non sull' altrui testimonianze, che dubitino dell' esistenza di Roma? O si può dare persuasione più ferma e certa di quella di costoro? O v' ha alcuno il quale dubiti non forse sia una favola che Cesare o Cicerone abbia esistito? E il quale se ci fosse, non s' inviasse all' ospizio de' pazzi? Sebben che a noi è troppo questa persuasione universale; perchè dov' ella fosse anche solo in pochi, basterebbe a provar falsa la proposizione che l' istoria e la testimonianza altrui non possa produrre una persuasione altrettanto certa quanto quella della ragione. Ma se noi volgiamo il discorso a parlare di persuasione religiosa, ci cresce in mano assai d' argomento. Perocchè potè mai la ragione sola persuadere agli uomini qualche verità di persuasione così immobile e sicura come potè fare la religione? Peneremo noi a trovar prove o indizi della fermezza di persuasione che induce nelle anime la fede religiosa, massime la cristiana cattolica? Non si è sempre veduto in que' milioni di fedeli che conta questa religione, una tale persuasione che esclude qualsivoglia esitazione? E che perciò sta salda contro la morte e in presenza de' patiboli? Che supplizii e tormenti non si sono adoperati a provare se si poteva svellere o smuovere dal cuore de' fedeli questa persuasione? E che risultamento se n' ebbe, non in uno o due, ma in numero innumerevole d' uomini, in secoli diversi, ne' savi e dotti egualmente che negli idioti? S' ebbe un risultamento medesimo, di ridersi de' supplizii e de' carnefici, e di autenticare e suggellare col sangue quella loro invincibile persuasione della verità. Diede mai la ragione sola tale mostra di sè, diede tali segni e sì palmare dimostrazione della sua possanza sulla persuasione dell' uomo? O non anzi si è veduto la persuasione venuta dalla sola ragione umana esser sempre languida e inefficace a far il bene, sia a resistere fortemente, messa alla prova? E il professore di Hala poteva ignorare che di tutte le cagioni atte a produrre nell' uomo persuasione, quella della fede religiosa si trovò, nell' esperienza, essere di tutte la più efficace sugli uomini in ogni tempo e in ogni luogo della terra? E se non ignora questo fatto universale, che non si può ignorare da chicchessia, che affermava dunque in tuono sì dogmatico una proposizione che ripugna all' evidenza di tali fatti? E si credeva dispensato da sorreggerla e munirla d' alcuna prova? Ma pare che qui ci sia nè sana ragione, nè senso comune, nè pudore. Dirà per avventura che sebbene il fatto gli sia contrario, egli non ama i fatti, ma vuol teorie: giacchè i razionalisti deducono dalle leggi della mente le loro dottrine a priori e non dall' osservazione e dall' esperienza di ciò che avviene realmente nella natura e nell' umana vita: e quindi egli dirà che la sua sana ragione condanna a priori tutti i secoli e tutte le nazioni, perchè gli uomini si sono indotti ad ammettere la persuasione religiosa, cioè una persuasione storica, anzichè prestar fede alla ragione sola, e che questa ha diritto, e non quella, di signoreggiare la persuasione umana. Bene sta. Io avevo già preveduto meco medesimo che batteva qui il professore. La ragione adunque ha sola il diritto di produrre una persuasione al tutto certa negli uomini? Ma quale ragione, secondo il professore? Una ragione che si oppone alla storia, che è quanto dire una mezza ragione, o meno ancora; poichè se alla ragione togliamo via i fatti e la storia, ella si rimane per avventura come quel gigante Polifemo, a cui s' è cavato un occhio, e non ne aveva di più. Tale è la ragione dei razionalisti: un gigante, a dir vero, ma senz' occhi. Nemmeno può esser la ragione che commenda il signor professore di Hala, quella che hanno seguita i filosofi, o dell' antichità, o de' tempi nostri. Perocchè se ne' filosofi la ragione ha prodotto quella fermissima persuasione che il professore le attribuisce come suo esclusivo diritto, io mi credo di dover dubitare che se tal persuasione fu ferma veramente, non fosse ella però troppo certa e conforme alla verità: conciossiachè v' ebbe mai generazione d' uomini, i quali più sformatamente discordassero e combattessero fra loro, de' filosofi? Ora quale certezza può avere ove non vi sono due capi che convengono in pensare allo stesso modo e in affermare certe le istesse medesime [cose]? Tolgasi pur l' esperimento dai tempi moderni; cerchisi pure quanta certezza potè indurre la ragione de' protestanti e de' razionalisti. La variazione perpetua del protestantismo, venuta a tale che mise i protestanti stessi in disperazione di poter mai convenire fra loro, dimostra assai bene la confidenza che si può avere nella sana ragione. Dove andò a finire presso a' protestanti tanto variare e rimutare continuo di opinioni? A che condusse quella disperazione che nacque in loro, dopo aver tentato tante volte di accordarsi, di non potersi oggimai più insieme intendere e trovarsi nella medesima sentenza? Una tale disperazione produsse una conseguenza singolare che è da considerarsi con la più grande attenzione. Essi vennero dicendo a sè stessi in questa maniera:« Noi non possiamo in nessuna cosa essere insieme d' accordo: l' uno è persuaso che sia vero ciò che l' altro si persuade essere falso: noi non possiamo tenere una regola di fede nè comune nè che ci duri un anno: noi vogliamo variar sempre e non possiamo a meno di così fare. Ebbene, non potendo esser concordi in nissuna cosa, siamo almeno concordi e costanti in questo, nel mutar sempre, cioè nel non essere mai concordi, mai costanti, nell' avere ciascuno di noi il diritto di poter continuamente innovare e pensare diversamente da quello che gli altri pensano e che egli medesimo aveva pensato«. - Non si creda uno scherzo questo; questo è un fatto; una somigliante transazione è quell' unica che unisce i protestanti, l' unico loro modo di unione, e questo, singolare, a dir vero, e nuovissimo. E questo trattato di unione è appunto, a dir vero, nè più nè meno, il razionalismo, del quale il nostro professore di Hala si fa maestro. Strano viaggio dello spirito umano! La discordia irreparabile, continua, perpetua, disperata delle opinioni, che doveva pure mostrare qual confidenza meritasse, per la scoperta del vero, la ragione individuale e parziale, produsse in quella vece un sistema tutto opposto, nel quale si mette per solo e unico canone questo:« la sola ragione può indurre una certa persuasione della verità«. Tale e tanta è la cecità e tale l' orgoglio degli uomini! Se la verità non può essere discorde da sè medesima; e se il vedersi cento uomini divisi in cento sentenze contrarie dimostra evidentemente che novantanove di essi almeno sono nell' errore, e quindi non vi è se non la centesima parte di probabilità che la ragione di questi cento uomini abbia trovato il vero, e meno ancora di questa centesima parte, perchè potrebbero essersi ingannati anche tutti cento; egli è pure singolare che si osi dare alla sola ragione individuale la forza di persuadere con piena certezza, e che più fieramente vantino una tal forza coloro, i quali sono più degli altri ravvolti nelle perpetue dissensioni: e ciascun di essi parli con tuono sì alto e sicuro d' infallibil maestro, immemore delle migliaia di sistemi contrarii al suo, che pure il dovrebbe fare un po' dubitare di sè medesimo. Che se alcuni aprono gli occhi, in tanta cecità, e s' avveggono della natural conseguenza che procede dalla disparità di tanti sentimenti; necessariamente ad un irreparabile scetticismo si abbandonano, ad un feroce rinnegamento di quella stessa ragione che prima essi stessi avevano idolatrato, e alla vita materiale, nella quale preferiscono spensierati oggimai di rinchiudersi e riposarsi. A dir vero quella spaventevole discordia che ritrae ciascuno dal fidarsi, come a sicura guida, alla sola ragione individuale, non si rinviene nelle testimonianze istoriche, come si rinviene nelle opinioni filosofiche. Il perchè se il carattere della verità è concordia, convien dire che nella storia assai più riluce questo carattere di verità, che nei placiti dell' umana ragione, e per ciò che le storiche verità, munite di quel sentimento, abbiano eziandio più diritto d' indurre entro l' uomo persuasione certa, che le deboli forze della ragione individuale. Il che è quanto dire che la ragione stessa, pigliata nel suo ampio significato, ci conduce alla storia e concilia a lei la nostra fede: mentre questa ragione medesima ci fa sommamente diffidare e ci mette in iscredito la ragione de' razionalisti, una ragione mozza e sfiancata, una ragione altera e ambiziosa, una ragione che si isola da sè stessa e si sfornisce degli istromenti, coi quali soli potrebbe pervenire alla verità; cioè finalmente una ragione che non è ragione, ma che è l' uomo che fa la ragione, che mente a sè stesso e ad altrui e s' imbriaca del proprio mentire. Non è bisogno d' altre parole a mostrare l' inefficacità di una tale ragione, o piuttosto la sua funesta efficacia nelle cose dell' umana vita. Una sola ragione intiera e perfetta può ad un tempo essere efficace al bene, sostenitrice e consolatrice dell' uomo nelle necessitudini della vita: ma questa ragione è quella che fa un continuo e solo uso delle storiche e pratiche verità, e che addita la religione rivelata come il solo asilo ove l' uomo trovi la pace, la sicurezza e la stabilità fuori delle irrequiete e sempre mai tempestose fluttuazioni del proprio cuore abbandonato a sè stesso, e della propria mente girovaga, senza guida nè stella che la conduca. « Che vi abbia una rivelazione soprannaturale, s' intende dimostrare da quelle cose che si leggono in qualche libro che si dà per scritto in modo soprannaturale: e pretendesi di conciliar fede a questo libro da questo appunto ch' egli contenga una soprannaturale rivelazione. Qui havvi un circolo: si pone per dimostrato ciò che si vuole dimostrare«. L' argomento è irrepugnabile nel sistema dei protestanti; ma non ha valore alcuno nel sistema dei cattolici. I protestanti cominciano e finiscono col libro della Bibbia: questo è certamente un circolo vizioso. Essi dicono: l' unica regola di fede è la Bibbia. Si domanda loro: come provate che la Bibbia sia ispirata e l' unica regola di fede? Essi non avendo altra autorità che la Bibbia stessa, debbono ricorrere ai fatti contenuti nella Bibbia per dimostrare che la Bibbia è ispirata ed è la regola della fede. Questo è ciò che faceva conoscere a S. Agostino la necessità di una Chiesa infallibile che conservasse la Bibbia stessa, e che ne attestasse l' ispirazione della medesima, e che faceva dire a questo gran Padre: « Io non crederei alla Scrittura, se non mi movesse a ciò l' autorità della Chiesa« ». Era un po' più logico dei dottori riformati. Nel sistema cattolico adunque il circolo rimane evitato. Poichè i cattolici dicono:« Noi crediamo alla Bibbia, non sull' autorità della Bibbia, ma sull' autorità della Chiesa che ci dà la Bibbia. Noi abbiamo un' autorità infallibile, vivente, che si conserva sulla terra perpetuamente, avendo detto Cristo: « Io sarò con voi fino alla fine dei secoli « ». Ma come so io, si dimanda, che quest' autorità della Chiesa cattolica è verace, che esiste questo divino magistero vivente nei maestri della chiesa? Lo so io forse per altro se non per parole e i fatti di Cristo che sono tutti contenuti nella Bibbia? - Sì, certamente: io ne ho delle altre prove. I primi fedeli hanno creduto agli Apostoli sulla loro parola, per verbum eorum anche prima che il nuovo Testamento fosse scritto. Dunque v' ebbero degli argomenti e validi, ove non si vogliano condannare tutti i primi cristiani e con essi il cristianesimo. Gli argomenti che si hanno in favore della parola evangelica , non sono solamente validi singolarmente presi, ma è nel loro complesso, nel loro accordo mirabile e stupendo che sfolgoreggiano di una luce quasi concentrata da mille punti in un solo foco, e sforzano l' assenso umano. Il sistema del cristianesimo tutto insieme preso, sistema che non può essere finto da mente umana, perchè abbraccia il principio del mondo e si continua e consuma con tutta la serie degli avvenimenti, è quel solo che spiega la storia dell' umanità, che dà ragione di tutti i fatti più importanti avvenuti al mondo, che è conforme alla natura di Dio, che interpreta i bisogni dell' uomo e li soddisfa pienamente. Le profezie, i miracoli, la diffusione per tutta la terra della religione della Croce, la sua conservazione, i suoi mirabili effetti, tutte le circostanze insieme prese, e conosciute anche pei soli monumenti della storia accertati colla critica, e finalmente l' autorità del genere umano; tutto questo insieme ha un peso tanto grave, tanto importante, tanto solenne, sopra chi non ha lo spirito malamente preoccupato, che non può a meno di strappare da lui un pienissimo assentimento. Ma a tanti argomenti poi, illustrati dagli apologisti del cristianesimo, nel sistema cattolico, si sopraggiunge la grazia , la quale finisce di vincere e trionfa ragionevolmente dell' uomo. Dico ragionevolmente , perchè la grazia è luce interiore e compimento della stessa ragione: di che il sistema cattolico non può essere più uno, più coerente e logico, più serrato e inattaccabile, perchè perfettamente più consentaneo con sè medesimo. « La persuasione di una soprannaturale miracolosa e immediata rivelazione di Dio non si può conciliare coll' idea di Dio eterno, sempre costante a sè stesso, onnipotente, onniscio e sapientissimo, dalla virtù del quale eternamente attiva e fornita di ottimi consigli noi poniamo giustamente dipendere l' esistenza e la conservazione e la perpetuità di tutte le cose della natura. Perocchè in primo luogo quella differenza che volgarmente si pone fra le operazioni di Dio immediate e le mediate , si deve intendere non in sè, ma secondo l' umana maniera di giudicare; non potendo essere che l' uomo conosca menomamente la vera via e il modo della divina attività col contemplare i singoli effetti di lei apparenti nella natura delle cose. Le operazioni di Dio si possono dire immediate per sè, per questa ragione che non sono circoscritte da limite di tempo e di luogo, di tal modo che le cose che Dio fa, le fa tutte in un solo e primo suo atto, nè ripetonsi quasi nelle varietà de' tempi e di luogo: sebbene l' umana mente, astretta ai confini del tempo e dello spazio dal proprio suo modo di conoscere, non sappia comprendere in un solo sguardo quell' universale e quasi simultaneo operare di Dio, ma vegga solo le singole parti di lui, secondo che si palesano nel succeder del tempo e nel variar degli spazii, giusta la legge di causalità innata alla mente. Di che avviene che tutte le cose che Dio opera per sè immediatamente, l' uomo rettamente giudichi operarle mediatamente, cioè in un modo conveniente al tutto, alle leggi del suo proprio pensare. In secondo luogo se havvi nella natura qualche effetto che le forze di essa natura sebben limitate non possano produrre, per piccolo che sia quest' effetto, mostra però abbastanza una imperfezione non necessaria nella natura, e per ciò anche in quello che ha fatto la natura. In terzo luogo chi volesse affermare che un qualche avvenimento, per essere oltremodo mirabile, non si possa spiegare colle forze naturali, questi dovrebbe conoscere perfettissimamente tutte le leggi della natura. Il che non può cadere in uomo, e però non può conciliarsi nè pure in questo modo colla sapienza divina una rivelazione miracolosa: poichè se nessuno può a certi segni conoscere una tale rivelazione, ella non è neppure atta a fare il divino essere palese, perchè lascia l' uomo in dubbio e non si può ingerirgli una ben certa persuasione«. Quando la ragione d' innumerevoli e, fra questi, dottissimi uomini, sentenzia in un modo contrario a ciò che pare alla ragione mia, allora è cosa ben rara che, senza offendere la modestia, io possa parlare in tuono assoluto e pronunciare la mia sentenza come una indubitabile verità, senza nè pur fare menzione di sentenze opposte alla mia, dispettosamente trasandandole, quasi con quello: «Non ragioniam di lor, ma guarda e passa ». Ora il fatto è, che una moltitudine innumerevole di uomini di tutti i secoli, e fra questi tali che furono giudicati da tutto il mondo cima d' ingegni e di dottrina, non ebbero mai dubitato che la persuasione di una soprannaturale miracolosa e immediata rivelazione ripugni all' idea che si deve avere di Dio. Egli sarà perciò assai, se all' udir pronunciare dal nostro professore la sentenza assoluta e perentoria che« ripugna«, altri vi tenga dal dare a lui traccia di non piccola presunzione. Ma noi mettiamoci nei suoi argomenti giacchè qui tre ne reca in mezzo; e cominciamoci dal riassumerli in brevi e chiare parole. Il nostro professore sostiene ripugnante coll' idea di Dio la persuasione di una soprannaturale miracolosa e immediata rivelazione, perchè: 1 Il pensare che Dio operi mediatamente ripugna all' idea di Dio, giacchè Iddio fa tutto immediatamente , cioè con un atto semplicissimo, eterno, fuori dello spazio e del tempo: ed è l' uomo quello che, essendo soggetto per la legge del suo pensare allo spazio e al tempo, giudica che Dio operi successivamente e con varie azioni, e quindi mediatamente . Il perchè se si prende la parola secondo le leggi del pensare umano, Iddio opera sempre mediatamente ; se si prende in sè stessa, opera sempre immediatamente . Quindi non si dà questa distinzione di operazioni mediate e immediate, ma tutte le operazioni divine sono egualmente mediate e immediate. 2 Una rivelazione miracolosa ripugna ancora all' idea di Dio, perchè suppone che egli non abbia fatto la natura con sapienza, in modo che essa non abbia bisogno di tali aiuti miracolosi. 3 Ripugna in terzo luogo, perchè Iddio avrebbe fatto una cosa inutile, non potendo l' uomo discernerla con certezza dagli effetti naturali. Ora in quanto al primo di questi argomenti, io comincio a far osservare che tutti quei dotti teologi di ogni secolo, i quali hanno ammessa la distinzione fra le operazioni immediate e mediate di Dio, hanno tutti saputo, nessuno eccettuato, che Dio tutto ciò che fa lo fa in un atto solo, semplicissimo ed eterno: e questa è una verità ovvia in tutte le teologie, e non punto una scoperta, per avventura, del signor professore di Hala, o di quei filosofi, da' quali egli ha copiati i suoi argomenti (1). E pure questi nuovi sapienti ci dicono le sentenze più comuni con tanta gravità e con tuono sì solenne, che sembrano annunziare alla terra le verità più inaudite. Sebbene adunque tutti i mentovati teologi sapessero che Dio opera tutto con un atto solo e eterno, tuttavia non si sono tenuti per questo dal partire le divine azioni in mediate e immediate ; sicuramente perchè non vedevano nessuna opposizione e contrarietà fra queste due proposizioni, e che Dio opera con un atto semplice fin da tutta la eternità, e che quell' atto per la diversità de' suoi effetti si divida in azioni mediate e immediate . Or questo fa creder che il signor professore di Hala combatta per avventura una dottrina che non si è punto dato cura d' intendere: solito vizio, come abbiamo detto, del più de' protestanti, presso cui il disprezzo de' cattolici tiene solitamente quel luogo che tener dovrebbe lo studio accurato e fedele delle loro dottrine. Non è dunque vero, diremo al signor professore, che quando noi parliamo di azioni di Dio immediate e mediate, ci opponiamo punto alla verità, la quale per noi è un dogma, che l' operare divino è semplice e coeterno con lui. Noi non facciamo che considerare quest' unico atto nei suoi diversi effetti; ed essendo molte le relazioni di quest' unico atto con questi effetti, perchè i suoi effetti son molti, noi chiamiamo quest' atto medesimo nelle varie sue relazioni azioni di Dio ; le quali azioni non indicano moltiplicità di atti, ma solo moltiplicità di relazioni e di effetti di un atto medesimo. Ora queste sono quelle che noi denominiamo poi mediate e immediate , senza che ciò punto ripugni per nulla all' idea dell' operar divino unico e semplicissimo. Un altro sbaglio mostra di prendere parimente il signor professor di Hala nell' assegnare il fondamento di questa distinzione di azioni mediate e immediate. Pare che egli supponga che i soprannaturalisti cattolici chiamino mediate le azioni di Dio in quanto sono vestite dallo spazio e dal tempo; e che la parola d' immediate si riservi a significar quelle che sono immuni dallo spazio e dal tempo. Ma sebbene i cattolici ammettano una successione nelle cause, e però, oltre la causa prima, ammettano delle cause subordinate; tuttavia l' ordine di queste cause, per la concorrenza di Dio, nol fanno dipendere dal tempo, ma dicono che tutta la serie delle cause è da Dio percepita, creata e conservata con quell' atto eterno, col quale egli fa tutte le cose: giacchè, come dice S. Agostino, Iddio percepisce il tempo senza tempo; e non vi è dubbio alcuno che questo modo onde Iddio percepisce, non distrugge punto nè poco la vera subordinazione delle cause in fra loro e la loro temporale successione, poichè questa successione di tempo non si trasporta già con ciò in Dio, ma si lascia nell' effetto dell' operazione divina, nelle creature, in una parola, nelle cause subordinate. Ma queste dottrine cattoliche non possono essere intese da un uomo che si è intestato nel razionalismo critico, bevuto però come si beve un dogma filosofico, cioè per la via della materiale memoria, non della ragione: un critico che fa del tempo e della causalità nulla più che altrettante leggi dello spirito, altrettante forme soggettive, senza che si possa provare alcuna loro oggettiva realità (1), deve naturalmente negare la subordinazione delle cause, e quindi le cause mediate e immediate; perocchè questi nega altresì a dirittura che si possa provare l' oggettiva realità di ogni causa (2). Ciò però che è strano ed antilogico, si è la ragione che si adduce di questo negarsi la causa mediata (tolta via la quale il panteismo è irreparabile, conseguenza tirata già dal criticismo ), cioè a dire il non potersi comporre questa coll' eterno e semplice operare di Dio. La qual ragione non avendo sicuramente alcun peso, forza è dire che cada tutto il sistema. E che non abbia peso quella ragione, si mostra da ciò che ho detto esser dottrina della cattolica teologia, cioè poter essere l' effetto (la creatura) soggetto al tempo, senza che però sia soggetto al tempo l' operare della causa (Dio) che l' ha prodotto; come pure poter darsi degli agenti intermedii, senza che cessi di operare in tutti essi, creandoli a ogni istante, la causa prima e sempiterna. Di che si concluda che ciò che mosse il nostro professore razionale a produrre quell' argomento, si fu solo il non aver avuto ragione che bastasse a pur intendere chiaramente quale fosse la sentenza cattolica delle cause mediate e immediate. La stessa mancanza di cognizione sufficiente per parlare con qualche senno in tale argomento, dimostra egli nel far consistere la rivelazione miracolosa in un' azione immediata di Dio. Sarà difficile che egli possa provare essere sentimento comune della Chiesa cattolica che la rivelazione sia opera immediata di Dio. Può darsi che trovi di ciò qualche parziale autorità, la quale fors' anco, bene interpretata, gli cesserebbe dall' esser favorevole. Ma il sentimento comune, e, per mio avviso, il legittimo sentimento della Chiesa si è, che Iddio non diede la rivelazione esterna immediatamente, ma sì bene mediante degli Angeli, come dice S. Paolo, i quali sono anch' essi creature di Dio e entrano a formar parte della natura, se s' intenda per natura non la materiale solo, ma tutta la natura creata, il sistema intero dell' universo. E Cristo stesso, che pure è Dio, se si considera solo come ministro della rivelazione esterna e non della grazia, può dirsi che tanto ufficio esercitasse come uomo, o almeno col mezzo dell' umana facoltà della loquela, e quindi intervenendo la sua natura umana, quasi direi, fra gli uomini e il Verbo. Giacchè adunque in nessuna maniera la ragion sana del signor professore potè recarlo tanto innanzi da poter formarsi un giusto concetto di ciò che si debba intendere per azione immediata di Dio; io mi farò brevemente a esporglielo secondo il fondo de' cattolici insegnamenti. Ogni qualvolta l' uomo non prova quello che abbiamo [detto] sentimento deiforme (1), la percezione dell' infinito, percepisce solo qualche cosa di creato e di finito. Questo elemento creato e finito che percepisce, questo termine limitato, qualunque sia, della sua percezione, non è Dio che sente, perocchè Dio è illimitato e infinito. Questo elemento o termine adunque che non è Dio e che viene sentito e percepito dall' uomo, questo è ciò che sta fra lui e Dio; e sebbene Dio operasse, tuttavia dicesi che la sua operazione è mediata, perchè la cosa prossimamente sentita dall' uomo, anzi la cosa unica da lui sentita, non è Dio. Che se all' incontro la stessa percezione dell' uomo è deiforme, cioè tale che contiene una cotal pienezza illimitata, insomma il tutto , allora solo si dice acconciamente operar Dio senza mezzo, perchè egli stesso è divenuto forma dello spirito umano. E le divine Scritture e i Padri ravvisano questa maniera di operare di Dio nella grazia , come ho più sopra dimostrato. Certo duro è un siffatto discorso a un filosofo razionale, anzi inintelligibile: ma egli potrà intenderlo, se vorrà. E che gli bisogna per intenderlo? Che creda. « Non intenderete, se non crederete« »: dice Dio nella Scrittura (2). Ma crederà contro ragione? No: egli crederà a quegli uomini fedeli e illuminati, i quali gli testimoniano di provare in sè tale sentimento; e la loro testimonianza ha tutti i caratteri che può desiderare l' arte critica più rigorosa, veracità, scienza, moltitudine e consentaneità di testimoni, spassionatezza, eccetera. La ragione in tal modo lo condurrebbe alla fede, la fede all' esperienza, e l' esperienza lo farebbe pervenire all' intelligenza. Perciò i giusti (che hanno testimoniato indarno la verità) giudicheranno le nazioni (1). Ma veniamo al secondo argomento. Nel secondo argomento ci si presenta pur nell' esposizione stessa qualche cosa più tosto di ridicolo che d' assurdo. Dice: se havvi nella natura qualche effetto che le forze della natura nol possan produrre, esso mostra un' imperfezione non necessaria nella natura. Che cosa vuol dire il signor professore con tali parole: se havvi nella natura qualche effetto? Intende dire se havvi un effetto per sè naturale? Se intende così, certo che vi avrebbe difetto nella natura, se un effetto naturale non potesse essere prodotto dalla natura. Se poi intende« se havvi un effetto soprannaturale apparente nella natura«; che difetto può essere questo che la natura non possa produrre ciò a cui non si estendono le sue forze? Che difetto sarà per un sasso il non vegetare? Che difetto a una pianta il non sentire? Che difetto a un bruto il non intendere? Che difetto in una parola sarà alla natura intera il non poter far ciò, a cui ella non è ordinata, che è contrario alle sue leggi, e per cui fare non ha punto di natural virtù? Or s' ella è così, chi dunque disse mai al signor professore che i cattolici per avventura ammettono di tali assurdi? Chi lo ha persuaso, non dico di attribuire altrui, ma pur solo di pensare così vane sciocchezze, perocchè io credo che penerà assai di trovare in tutto il mondo un uomo così semplice, o più tosto così stupido, che abbia mai detto« Iddio aver formata la natura in modo da non esser sola capace di produrre i suoi effetti naturali«, e perciò aver egli bisogno di venirla soccorrendo a quando a quando, siccome una inferma, con frequenti miracoli? - La sua sana ragione par che assai poco l' aiuti non solo a conoscere e riferire fedelmente le opinioni altrui; ma nè a fingerle tali che siano tampoco verisimili, anzi pur solo intelligibili!!! Il terzo argomento del nostro autore è fondato sopra una difficoltà tante volte proposta e tante risoluta, che per accertarsi che un evento superi le forze della natura, sia necessario conoscere perfettamente queste forze, ciò che nessun uomo può. A lui era ben facile, degnandosi di aprire alcuno de' tanti cattolici scrittori che trattarono questa materia, trovare al suo dubbio una sufficiente risposta. Noi ci conterremo in poche osservazioni. In primo luogo non è necessario conoscere tutte le forze e leggi naturali, singolarmente prese, per accertarsi, che l' avvenimento sia miracoloso: sovente egli basta conoscere che la natura è limitata; e ciò basta ogniqualvolta trattasi di un tale effetto che porta in sè i vestigi di una forza infinita e però certamente sopra le forze possibili di una creatura. Tale sono: la creazione, le profezie; tali le operazioni interiori della grazia, tali le illustrazioni dell' intelletto a conoscere le cose lontane o quelle che altri ha chiuse nel segreto dell' animo. Parimenti soventi volte basta conoscere parzialmente una legge della natura e non tutte; e ciò ogniqualvolta l' avvenimento è direttamente contro quella legge, come apparisce nel miracolo del quatriduano, dell' apparire o scomparire di un uomo, e generalmente del rendere il proprio corpo fornito delle qualità de' corpi gloriosi, ecc.. Finalmente è da avvertire che di tali circostanze sono forniti i miracoli, generalmente parlando, come quelle delle subitanee guarigioni, che per lo meno inducono un sommo grado di probabilità e una morale certezza, la quale deve bastare a ogni uomo ragionevole; giacchè [è] dietro a una somma probabilità e morale certezza che ciascuno dirige le più gravi azioni della vita, e crede tuttavia di operare prudentemente. E l' esperienza ha mostrato che il sommo grado della probabilità, per dir poco, che mostravano in sè certi fatti miracolosi ha bene spesso ingerito la più alta persuasione dell' intervento di una forza soprannaturale, anche in quelli degli spettatori che si trovavano coll' animo interamente alieni dal prestar fede a dei fatti soprannaturali. Ma ciò che è sommamente necessario finalmente a poter discernere in fra tutte la dottrina che viene da Dio si è la buona disposizione della volontà. [...OMISSIS...] E la Chiesa cattolica per ciò può dire a quelli che non intendono la verità divina e salutare delle sue voci, quello stesso che diceva il suo Fondatore a quegli increduli che non rifinivano di domandargli argomenti e prodigi in confermazione della sua parola: [...OMISSIS...] . Riassumendo in breve e raccogliendo sotto un solo punto di vista tutto ciò che di più importante al nostro uopo abbiamo detto distesamente in varii luoghi intorno all' uomo, noi abbiamo veduto che il soggetto uomo nomina sè stesso col monosillabo IO. E come i vocaboli son quelli che dimostrano quali sieno le comuni opinioni, quelle cioè che vengono dagli uomini tutti generalmente assentite, per ciò basterà analizzare il significato che sta annesso a questo monosillabo IO per rivelare quello che per comune sentenza (2) si contiene nel concetto del soggetto appellato uomo . IO« uomo« veggo l' essere, Io veggo la verità (3), ma io non sono l' essere, io non sono la verità che pur veggo. Privo dell' essere, privo della vista della verità, l' IO ancora potrebbe sussistere, sebbene non potrebbe pensare se stesso perchè il pensiero non è altro che la vista dell' essere (4). L' IO che vede l' essere è intelligente, e senza l' essere, come si diceva, è privo d' intelligenza. Precedentemente adunque all' intelligenza è il concetto dell' Io, e un tal concetto quindi non può racchiudere che la nozione di un sentimento cieco, non essendo ancora illuminato dal lume della verità. Quest' Io sentimento, concepito privo d' intelligenza, la riceverebbe tosto che gli fosse dato di veder l' essere , che diventa in tal modo sua forma , ciò che lo adduce al suo più nobile atto. Un Io sentimento come l' abbiamo dedotto, privo d' intelligenza, è un Io animale; fornito d' intelligenza, si chiama uomo . Nel concetto dell' uomo adunque precede il concetto di animale a quello della facoltà intellettiva, e quindi acconciamente l' uomo viene definito un animale intelligente (1). L' essere che gli è dato a vedere è dunque nell' uomo, ma non è l' uomo; e l' uomo commette una usurpazione ogniqualvolta egli attribuisce a sè quelle prerogative che solamente all' essere sono dovute. L' usare di quest' essere che l' uomo vede, l' applicarlo ai sentimenti, cioè il considerare i sentimenti in relazione coll' essere, questo è ragionare . L' essere nell' uomo naturalmente si trova in uno stato molto imperfetto, cioè a dire l' uomo fino che non oltrepassa l' ordine della natura, non vede l' essere che imperfettamente, inizialmente, in un modo universale, indeterminato, senza una sussistenza in sè e per ciò come possibile. Quest' essere possibile e indeterminato che l' uomo vede per natura e che applica poi ai sentimenti, l' abbiamo chiamato essere ideale , ovvero modo ideale dell' essere . L' essere nell' uomo prende un nuovo stato allorchè l' uomo vien sollevato dall' ordine naturale all' ordine soprannaturale: quest' essere opera nell' uomo non più in un modo puramente ideale , ma in un modo sostanziale e reale; l' uomo prova allora un vero sentimento, non più una tenue idea; prova l' azione dell' essere reale che si manifesta in tal modo a lui presente; non è più solo la possibilità indeterminata dell' essere che ha in sè, ma la sussistenza medesima: insomma allora l' idea si cangia in percezione . L' essere reale che percepisce l' uomo in un tale stato, non è però limitato, ma bensì è determinato dalla propria sussistenza; non è possibile, ma tuttavia è universale in quanto il tutto [in] lui si trova; non è iniziale, ma anzi è completo. Quest' essere completo e reale è Dio stesso, il quale a questo mondo non si mostra se non in un cotal modo velato, e solo nell' altro si vede svelatamente e con pienezza. Ora chi considera bene la natura dell' essere naturalmente impresso nelle anime nostre, che anche si chiama« verità«, vedrà che non disconvenientemente si può dire esser egli una similitudine di Dio, sebbene non Dio stesso. Questo consegue dalle dottrine da noi esposte. Noi abbiamo spiegato in che consista il concetto di similitudine: abbiamo detto che due cose sono simili quando hanno una qualità comune: che non esistendo niente di comune fuori della mente, questa qualità comune non è che una eguale relazione che hanno le due cose colla mente, cioè con un' idea, onde si conoscono egualmente le due cose e si paragonano insieme: che perciò stesso l' idea si può dire la similitudine della cosa conosciuta, come acconciamente la chiamarono gli antichi (2). Ciò premesso è da considerarsi che noi conosciamo non solo le creature, ma Dio stesso colla vista dell' essere: per ciò questo essere di cui ci serviamo a conoscere Iddio convien che sia una similitudine di Dio. [...OMISSIS...] . Anzi dico di più che se noi conosciamo tutte cose coll' essere, quest' essere però che forma il lume della nostra mente, ha più similitudine con Dio che colle creature. Poichè che cosa è Dio? Dio è appunto l' essere: con questo è detto tutto, non conviene aggiungergli cosa alcuna, chè sarebbe un guastarne il concetto: nulla si può dire più di quello che insegnano i teologi cattolici, cioè che l' essenza di Dio consiste nell' essere . Questa grande verità Dio stesso l' ebbe comunicata a Mosè nell' antico Testamento, ingiungendogli di dire: « QUEGLI CHE E` mi ha mandato a voi« (4) ». Questa stessa verità insegnò pure il Verbo incarnato, dicendo: « Se non credete che IO SONO, morrete ne' vostri peccati« (5) ». Tutti i Padri commentano con delle sublimi riflessioni questi luoghi profondi delle Scritture dove si legge che l' essere è appunto Dio stesso. L' autore del celebre libro Dei nomi divini fa appunto osservare, dietro tali traccie di dottrina che dànno le Scritture, « come a Dio non conviene già la denominazione di ente sotto qualche aspetto particolare, ma semplicemente, e che egli abbraccia e occupa non già l' essere in un modo determinato, ma tutto l' essere« (1). » E ora l' essere è anche ciò che cade nella nostra mente prima di tutte le altre cose, poichè esso solo è intelligibile per sè medesimo, sicchè esso forma la nostra intelligenza. Di che Massimo, commentatore di quel libro sublime dei Divini nomi , trova la ragione del dare a Dio l' essere prima di ogni altra qualità, come la vita, la sostanza, ecc., in questo che « la mente, pur col suo primo posarsi, intende l' essere e pensa innanzi a tutto lo stesso essere e di poi considera essere in un cotal modo queste altre cose« (2) ». Conciossiachè era ragionevole che prima si desse a Dio ciò che prima cade nella nostra mente e per sè stesso s' intende; conciossiachè la natura divina deve certamente avere questa proprietà dell' essere la prima a doversi intendere, l' intelligibile per sè stessa, e però deve convenire con quell' essere che luce incommutabilmente nelle nostre menti. S. Bonaventura parla a lungo e profondamente in più luoghi delle sue opere della relazione che passa fra l' essere che forma il lume della nostra ragione e l' essere divino, e vi trova il più stretto nesso, trova [che] l' essere, col quale conosciamo le cose, non ci potrebbe prestare questo mirabile servigio di renderci note le cose tutte, gli esseri tutti, se egli non fosse una similitudine e una cotale partecipazione del sommo e perfetto essere. Perocchè assai acconciamente riflette l' acutissimo e santo Vescovo che non potremmo conoscere che i varii esseri, cui noi percepiamo, sono più o meno imperfetti, se in qualche modo non avessimo in noi il tipo della perfezione, se non potessimo consultare nel segreto delle nostre menti, in un modo maraviglioso e recondito, l' essere perfettissimo, poichè solo l' idea di ciò che è perfetto in qualsivoglia genere ci può aiutare a scorgere e conoscere e giudicare i varii gradi di perfezione delle cose che a quel genere appartengono. Egualmente si dica del giudicarsi che si fa dei pregi e difetti degli esseri, il qual nome di esseri abbraccia tutti i generi delle cose. Dice adunque il santo Cardinale così: [...OMISSIS...] . E perciò il santo Dottore dice questo essere, luce delle menti, una similitudine di Dio che in noi sta di continuo. « Essa ha, » (dice egli parlando della memoria, come quella che ritiene le verità sempiterne che tutte si trovano nell' unica idea dell' essere, come io ho mostrato nella Ideologia), «essa ha presente a sè stessa una luce incommutabile, nella quale si ricorda delle immutabili verità. E così apparisce nelle operazioni della memoria ch' essa... [che l' anima è imagine e somiglianza di Dio; per tal modo presente a sè stessa e avente Dio presente che e attualmente lo intende e potenzialmente è capace di parteciparlo«] (3) ». Nel qual passo sembra che il santo Dottore prenda la parola imagine per indicare il medesimo presso a poco che significa la parola similitudine. Nel lume della mente adunque, che è l' idea dell' essere in universale, si contiene una cotale similitudine di Dio: e la ragione intrinseca colla quale ciò si prova si è quella che abbiamo indicata, cioè che nell' essere da noi concepito non si trova che puro essere senza alcuna limitazione o aggiunta di sorta alcuna, il che medesimamente si può dire di Dio che è essere sincerissimo e purissimo, nè ha meschianza di alcun' altra cosa in sè: di che è, come dice S. Giovanni Damasceno, che [...OMISSIS...] . In questa sincerità e semplicità dell' essere che sta di continuo al nostro spirito presente, noi poniamo la similitudine di lui con Dio. E questa sincerità e purità dell' essere mentale e dell' essere divino merita che sia da noi attentamente contemplata. E` appunto perchè Iddio non è altro che essere , che Dio è tutto: in questo vocabolo si esprime tutto per modo che qualunque cosa si volesse aggiungergli che diversasse da lui, già non sarebbe un accrescerlo, ma un limitarlo, un diminuirlo. Il grande Abate di Chiaravalle nell' opera che scrisse al suo discepolo Eugenio III e che intitolò Della Considerazione , fa una riflessione simile a questa. Egli parla di Dio nella seguente maniera: [...OMISSIS...] . Or dunque nel solo e puro essere si trovano tutte le cose, e ove si volesse mescolare con lui altra cosa, non sarebbe che un mescolargli il nulla, poichè fuor dell' essere non è veramente che il non7essere, il nulla. Ora in questo noi dicevamo consistere la similitudine che passa fra quell' essere che è innato nelle nostre menti e Dio, in questa sincerità e purità: poichè tanto Dio quanto l' essere ideale innato in noi niente hanno in sè di diverso e, per così dire, di eterogeneo, ma sono impermisti e semplicissimi. Di questo è che anche nell' essere ideale si trova tutto, e dalla sola sua nozione potrebbe dedurre la cognizione di tutte le cose chi tanto valesse per forza dialettica, perocchè qualunque anche minima notizia dell' essere basta per sè a dedurne ogni notizia maggiore e a determinare, per così dire, il problema di trovare l' ordine intrinseco dell' essere, nel qual ordine tutte le divine verità e tutte le cose, come parti di esso ordine, si comprendono. Il che è l' effetto della somma semplicità e individualità dell' essere stesso, il quale non può essere mai partito dal suo tutto. E però chi ne riceve un raggio solo anche tenuissimo, riceve però tal cosa, la quale suppone e chiama per necessaria illazione, cioè per intrinseca sua esigenza e necessità, l' intero a cui ella si appartiene, e dal quale ella è, relativamente al soggetto che la percepisce, in certo modo, staccata. E questa è la ragione appunto, per la quale l' essere innato nella mente ha l' attitudine in sè di farci conoscere tutte le cose, o anzi piuttosto riconoscerle e quasi richiamarcele alla memoria: dal qual fatto è nata la reminiscenza de' Platonici. Perocchè veramente il fatto della cognizione, chi attentamente lo osservi siccome avviene e l' analizzi, mostra avvenire per siffatto modo che sembra piuttosto un ricordarci che noi facciamo di cosa già prima conosciuta e appresso dimentica, che non sia un ricevere una interamente nuova notizia. [...OMISSIS...] . E questa osservazione si può portar oltre, e estenderla alla sola cognizione de' primi principii, che non sono altro finalmente se non l' essere innato nelle varie sue applicazioni; ma sì anco alle cognizioni tutte in universale ed alla stessa percezione, almeno considerate in quanto sono cognizioni . Perocchè che è il conoscere e percepire una cosa, poniamo che essa sia anche contingente? Non altro se non vedere il rapporto di quella cosa (cioè dell' azione fatta da essa ne' miei sensi) coll' essere a me innato. E che è vedere questo rapporto? Non è altro se non accorgersi che vi ha convenienza fra l' azione da me sofferita nel senso e l' essere a me innato; cioè accorgersi che l' azione da me sofferita suppone un essere che la faccia, e quindi è un' appartenenza dell' essere, traendone così per illazione che l' essere suo corrispondente deve sussistere. Col conoscere adunque quella cosa contingente io non faccio che ravvisare nella sua azione sopra di me un atto dell' essere che io già conosco; non è che un riconoscere adunque in atto, e in un atto particolare, ciò stesso che io prima conoscevo in potenza e in un modo universale, perchè era nel mio spirito (1). Ma dunque se nell' essere ideale si trovano e sono già contenute tutte le cose in quanto sono possibili (2), in quel modo che la condizione è contenuta nel condizionale, la conseguenza nel principio; onde è che io non posso da lui solo svolgere la cognizione di tutte le cose? E ho bisogno che le cose stesse mi feriscano e portino in me un cotal sentimento di sè stesse, acciocchè io quasi mi svegli da un mio letargo e apra gli occhi a riconoscere che quelle cose erano anche prima in quella nozione, che in me luceva dell' essere, contenute e comprese? Ciò nasce appunto dalla mia tardità, da un cotal letargo della mia potenza di ragionare e prima di tutto dalla debolezza del mio occhio intellettivo che prende sì poco dell' essere e in cui non può quindi attingere ciò che pure vi sta, se non dopo di aver ricevuto l' impressione delle cose reali nei sensi e aver confrontate queste impressioni con quell' essere e vedutane la loro convenienza e uniformità con esso. Il che avviene in quella guisa appunto che negli enimmi, de' quali quando ci è comunicata la soluzione tutto ci riesce chiarissimo e vediamo come le circostanze indicate indicavano quella soluzione e altra non ne potevano ricevere; e tuttavia noi non l' abbiamo saputa trovare prima di udirla, per mancarci quel grado di perspicacia, che non è altro che una maggiore e più intima visione della cosa, la quale ci sarebbe stata necessaria per trovare il conveniente scioglimento dell' enimma proposto. Ora il grado di perspicacia dato alla natura umana dal Creatore non è tale, che nell' essere possa penetrar tanto da vedervi le cose determinate e compite, ma di aver bisogno per veder queste che le cose stesse agiscano nel nostro sentimento e ci lascino delle modificazioni, che sono altrettante traccie e segni di sè stesse, coll' aiuto delle quali noi interpretiamo l' ordine e la natura dell' essere in noi rispondente (1). Fissata così la similitudine che passa fra l' essere innato, che abbiamo detto anche iniziale perchè da noi si vede solo inizialmente, e l' essere divino che è l' essere completo, consistente nell' essere l' uno e l' altro puro e semplice essere; sarà facile di vedere la verità di quella proposizione da noi più sopra proferita, cioè che l' essere innato non solo è una cotale similitudine di Dio, ma altresì che egli ha più similitudine con Dio che non sia con tutte l' altre cose limitate che con esso essere noi conosciamo. Perocchè è manifesto che nessuna delle cose limitate è puro e sincero essere, ma ha in sè una limitazione, e quindi una cotale imperfezione, una potenzialità e una contingenza; condizioni che appartengono al non essere, le quali rendono quelle cose dissimili dal purissimo essere che è la luce delle menti. Anzi se noi attentamente consideriamo la maniera, colla quale noi veniamo a conoscere le cose contingenti, ci apparirà che si può dire in un senso verissimo, e l' hanno detta tutti i filosofi e i teologi, cioè che Dio solo E`, e le altre cose non sono veramente. Ecco come si spiega assai facilmente questa strana sentenza coi principii della nostra filosofia. Acciocchè noi percepiamo una cosa qualsiasi, egli è necessario che noi riceviamo la sua azione e impressione nel nostro sentimento, ed è questa impressione e sensazione che in noi produce ciò che ci fa indurre esistere la cosa che ci ha modificati: tale è la nostra percezione delle cose, e la cognizione loro è pure determinata dal fantasma o sensibile impressione rimasta nel nostro sentimento dalla loro azione su di noi. Questo discorso è così generale che vale per Dio stesso. Se non che il toccarci di Dio è un toccare proprio e distinto da ogni altra modificazione che noi riceviamo dalle altre cose. Questo è il toccamento dell' essere stesso, e ciò appunto che modifica quello che io chiamo senso intellettivo o spirituale, e non è diverso dall' intelletto se non perchè s' aggiunge un toccamento reale di un essere sussistente. Sicchè questo oggetto determina, specifica o piuttosto informa e costituisce di sè una potenza, quella dell' intelletto o del sentimento intellettivo, in una parola, la potenza dell' essere. Ora si consideri che in questa potenza niente altro opera nè può operare: essa è per tal modo esclusivamente la potenza dell' essere, e a ricevere questo solo destinata, che se un' altra cosa agisse in lei, sarebbe già per questo solo un' altra potenza, nascendo da questo la sua definizione, che essa è la potenza che presiede alla percezione dell' essere. Tutte le altre cose adunque, agendo in noi, non agiscono se non in sentimenti loro proprii, i quali sentimenti parimenti sono informati e costituiti dai loro oggetti o più veramente da quelle cose che colle loro azioni servono ai medesimi di materia. Or dunque, se col solo intelletto si percepisce l' essere, se nessun' altra cosa agisce nell' intelletto e se non percepiamo cosa alcuna se non in quanto opera su di noi, ne viene conseguentemente che delle cose tutte noi non sentiamo già l' essere, ma puramente la loro azione e che solamente per lo percepire che facciamo questa loro azione noi attribuiamo poi loro l' essere di nostro proprio moto: e così quelle che sono azioni in noi, ci diventano altrettanti esseri, non perchè, come dicevamo, noi le percepiamo come esseri, ma perchè noi le supponiamo tali, prestando e somministrando, quasi direi, noi stessi colla nostra intelligenza l' essere a tutte le cose e così costituendo in cotal modo le cose e facendole esistere. Quindi è che se non esistessero esseri intelligenti di nessuna specie, nessun ente sarebbe: il che spiega in qualche maniera quello che la teologia insegna, la creazione degli esseri nascere per un atto della intelligenza divina, cioè pel Verbo, luce di tutte le intelligenze (1); perocchè veramente la conoscibilità delle cose è ciò che le costituisce cose, e per la quale si possono chiamare enti (2). Senza la conoscibilità loro non sarebbero che come azioni o termini del solo essere, termini che non si potrebbero in alcun modo confondere coll' essere stesso, il quale, come dicemmo, è purissimo e impermisto, e rimarrebbero quindi da lui infinitamente distinti, sebbene per lui e in lui solo esisterebbero. Quindi è che la conservazione delle cose è veramente una continua creazione, e che noi, come dice la Scrittura, siamo, ci moviamo e viviamo in Dio (1); e che Dio porta tutte le cose colla sua parola (2); e che le cose tutte fuori di Dio sono vanità, sono tratte dal niente e sono niente (3). Platone, a cui piace di vestire le sue dottrine con imagini prese dalle cose sensibili, paragona le cose tutte alle ombre e Dio al corpo che produce l' ombra, e accusa di stoltezza gli uomini, i quali pigliano quelle ombre vane per cose reali e a quelle in luogo che a queste volgono i loro affetti (4). E una tale similitudine delle ombre dopo averla trovata Platone, fu ripetuta da tutta l' antichità; il quale consentimento prova la verità che in lei si riconosceva. Videro o certo travidero gli antichi savii questo vero, cui l' ideologia da noi esposta mette nella luce più patente, che altro è l' essere, e altro le azioni dell' essere e i termini di queste azioni: e videro che in tutte le cose contingenti ciò che noi percepiamo propriamente non è mai l' essere, ma unicamente sono azioni e passioni (5); e che queste azioni varie non sono l' atto primo (il quale è unico ed è l' essere stesso); e che perciò esigono un essere primo e supremo onde procedessero (6). Da questo conchiudevano che alle cose, appunto perchè mostrano in sè d' aver bisogno di essere prodotte, in una parola perchè mostrano la loro contingenza , non propriamente, ma quasi per opinione (1) si applica la parola di esseri, che solo propriamente conviene all' essere primo, per sè, non prodotto da altri, cioè a Dio. Perciò S. Girolamo: [...OMISSIS...] . Il perchè l' autore dell' Ipognostico (3) dice che anche dell' altre cose si può dire che abbiano la esistenza, ma non come si dice di Dio, il quale non ha PRINCIPIO del suo essere: laddove quelle, coll' aver preso da lui il principio di ciò che sono, cominciarono a essere. Il quale principio preso da Dio è appunto quel primo atto che, come dicevamo, le creature non hanno in sè stesse, ma loro viene in qualche modo attribuito. Il che pure esprime medesimamente il magno Gregorio, là dove, parlando delle create cose, dice: [...OMISSIS...] . E ciò rende luce su quella appellazione che Cristo dà a sè stesso di essere lui il principio, EGO PRINCIPIUM, che è quanto dire il primo atto e però l' atto universale (5). Questa è dottrina comune dei savii (1), la quale esige però non piccola fatica a così ben penetrarne chiaro il senso da non punto equivocare e prendere errore. Perocchè se Dio è quel primo atto onde tutte le cose sussistono, pare che egli si mescoli e confonda colle cose stesse: il che sarebbe non pure un dannoso errore, ma ben anco un manifesto assurdo l' affermarlo, perocchè si distruggerebbe con ciò quel Dio, che è appunto Dio per questo, che egli è tutto essere sincerissimo e da ogni mistura mondissimo. Di che è necessario tenere la dottrina del santo martire Massimo, che congiunge due veri, i quali sembrano fra loro opposti, e pure nol sono. Perocchè comincia egli dal dire che Dio si fa l' essere di tutte le cose. [...OMISSIS...] Il che S. Massimo segue poi a dichiarare più lungamente. Perocchè dopo aver detto che, rispetto alle cose che sono e si formano, Iddio è di tutte la sussistenza ed è tutte le cose, soggiunge: [...OMISSIS...] . Chi scruta adunque la natura delle cose create, chi bene attende a quello che realmente noi percepiamo quando di esse riceviamo la percezione, manifestamente conosce, che esse non sono l' essere, che esse non sono, e non ci si fanno conoscere se non come azioni e termini dell' essere (3): e che questa loro cotale vacuità, questa loro contingenza, questa deficienza di essere, ci conduce a vedere la necessità dell' essere, cioè di un primo atto immobile e universale il quale e le abbia create e le venga creando di continuo, cioè sostenendo, perchè non ricadano nel nulla. La quale mi pare una dimostrazione della divina esistenza così ferma e invincibile che nulla più: perocchè l' Essere supremo apparisce la condizione e l' origine di tutto l' universo, e ogni mente è costretta a pensare Dio prima di ogni altra cosa, come quello che è il mezzo della cognizione. Perocchè l' ente supremo è assai più certo, evidente e necessariamente esistente dello stesso universo o spirituale o materiale, che pur nessuno revoca in dubbio, perchè nessuno finalmente può nè vuole rinnegar sè medesimo. Tutto ciò prova che l' idea dell' essere, il quale luce nelle nostre menti, ha una vera similitudine [più] con Dio che colle creature, perchè le creature non sono l' essere, e Dio è l' essere, e l' essere è quello che nelle nostre menti risplende. Ma proseguiamo a rilevare i diversi tratti di questa maggiore similitudine che ha l' idea dell' essere con Dio, di quello che l' abbia colle creature. Fino che noi consideriamo la pura e sincera nozione dell' essere senza aggiungervi cosa alcuna, noi troviamo che quest' essere semplice non può non essere, perocchè [è] assurdo e contradditorio il dare all' essere il predicato di non essere. Quindi egli è necessariamente immutabile e eterno. Ora questa immutabilità e eternità si ravvisa egualmente nell' ordine delle idee e nell' ordine delle cose appartenenti alla divinità: il che costituisce una nuova similitudine fra l' idea dell' essere innata nella nostra mente e Dio. All' incontro tutte le altre cose non sono l' essere: non ripugna adunque per esse il non sussistere, quando anzi sussister non possono senza che l' essere a ciò [le] aiuti e spinga. Quindi la contingenza delle cose porta in esse la possibilità di mutazione e di una vicenda di nascimenti e di distruzione: il che le rende dissimili come dall' essere sussistente, così dall' essere ideale. E da questa mutabilità appunto delle cose e difformità loro dalla natura e proprie condizioni dell' essere i savii antichi conchiudevano, che ad esse non appartiene propriamente l' essere e il denominarsi enti. Eraclito, secondo la testimonianza di Plutarco, diceva non poter noi entrar due volte nello stesso fiume; e simigliantemente nessuno poter toccare due volte la mortale sostanza soffermata quasi in un medesimo stato, perchè essa per un continuo e repentino impeto di mutazione di subito si dissipa e di bel nuovo si raccoglie: o anzi non di nuovo e non di poi, ma nell' istante medesimo esiste e finisce, se ne viene e se ne va. E che è dunque, soggiunge, ciò che veramente è? Per fermo quel solo che è sempiterno, che non ha nascimento nè morte e a cui nessuna vice di tempo reca mutazione (3). Nel dichiarare il qual vero è in più luoghi delle sue opere Sant' Agostino, e particolarmente nel trattato XXXVIII sopra di S. Giovanni, in occasione di spiegare quelle parole di Cristo: « Se voi non crederete che io sono« ». Ivi fra le altre cose dice: [...OMISSIS...] . Per tutte queste considerazioni si rende quindi manifesto, che se le cose assolutamente parlando non sono l' essere, e se all' incontro la luce della mente è l' essere stesso semplicissimo, quelle non possono avere con questa luce quella vera e propria similitudine che ha colla medesima l' essere divino, cioè l' essere semplicissimo, assoluto, sussistente. E qui si chiederà in che modo il nostro spirito possa conoscere le cose, se non vi ha similitudine vera e propria fra le cose e l' idea colla quale il nostro spirito conosce le cose. E qui rispondo che perciò appunto noi per conoscere le cose contingenti abbiamo bisogno del senso e di un senso diverso al tutto dalla potenza intellettiva, perchè questa è troppo alta, e le cose contingenti non hanno alcuna proporzione con lei, sicchè esse non possono esservi ricevute. Sicchè è un' altra potenza, un altro senso quello che le percepisce, e per restringerci alle cose corporee, è il senso animale. Ricevute poi nel nostro senso animale, cioè a dire ricevuta la passione che esse vi cagionano con una reale azione, NOI che siamo pur quelli stessi, che come animali sentiamo e come intelligenti vediamo l' essere, diventiamo come i mediatori fra le cose contingenti e l' essere, diventiamo l' anello col quale si congiungono quelle a questo, veggiamo quelle e veggiamo questo, e veggiamo il rapporto fra quelle e questo. Allora annunziamo a noi stessi questo rapporto, il che è pronunciare la parola interiore ossia il verbo, e diciamo: questa passione è l' effetto di un essere; ossia qui dove c' è questa passione, c' è un essere operante: in tal modo diamo l' atto dell' essere, il primo atto a quelle passioni che per sè non sono se non atti secondi i quali perciò presuppongono il primo: e in dicendo così noi veggiamo tanti varii esseri quanta è la varietà delle passioni; ma conosciamo che tutti questi esseri non hanno se non la forza di un solo essere che li sostenti, cioè l' essere puro, fonte e creatore di tutti. Così è che al sentimento delle cose noi aggiungiamo un' operazione dello spirito che noi diciamo percezione intellettiva e che gli antichi chiamavano anche opinione . Perocchè è con questa dichiarazione che abbiam data, che rendesi facile a intendere quell' antica dottrina che abbiamo più sopra toccato sol di passaggio, cioè, che« le cose divine e sempiterne, dicevamo, e tutte, come io ho mostrato, si riducono all' essere ideale e reale, si conoscono mediante la mente; ma le cose contingenti o soggette a nascere e morire, si conoscono pel senso e per la opinione«. Togliamo dall' antichità un altro luogo dove sia espressa questa dottrina. Eusebio nell' opera della Preparazione evangelica (1) toglie a esporre la dottrina di Platone intorno a Dio, e comincia dicendo essere stata sentenza di quel filosofo ateniese, che « a Dio è proprio di essere, e delle altre cose è proprio di non essere« ». E poi seguita a narrare la platonica dottrina in questo modo: [...OMISSIS...] (cioè quello che si genera e muore e veramente non è) (1). Un' altra riflessione non posso ommettere qui. Le cose tutte, dicevano questi antichi savii del gentilesimo non meno che quei del cristianesimo, non sono veracemente, perchè di Dio solo è ogni essere, essendo egli solo tutto l' essere, e in breve e semplice parola, più della quale non si può andare, essendo l' ESSERE (2). E tuttavia le cose si fanno credere all' uomo come esistenti, cioè a dire l' uomo, dimenticandosi del primo essere, si ferma negli esseri secondi e in essi talora finisce colla sua mente: il che è un dar loro quello che solo a Dio è proprio, è un divinizzare le creature. Quindi ebbe sicuramente la profonda sua origine l' idolatria della natura e di tutte le cose create. Ora a ciò viene l' uomo tirato e lusingato da quella apparenza di esistenza che mostrano le creature stesse; e indi è che tutte le cose stesse per questa faccia di esistenza che mostrano, la quale è come una maschera e bellezza vana che seduce e trae a crederle qualche cosa per sè stesse, sono chiamate ora« vanità«, e ora« menzogna«, e che Dio solo è detto dai Padri essere verità. Questa dottrina s' incontra di frequente in S. Agostino; ma io mi restringerò qui a recare in mezzo solo un passo tolto dal libro intitolato Della cognizione della vera vita , per non essere infinito. Vi si dice adunque di Dio così: [...OMISSIS...] . Dalle quali cose apparisce, che l' essere impresso nella mente è una similitudine di Dio: che quell' essere ideale è più simile a Dio che non sia alle creature: che per ciò Dio si conosce immediatamente in virtù di quell' essere, ove che a noi si manifesti; ma che le cose contingenti non si percepiscono in questa pura nozione dell' essere, ma in un loro proprio sentimento; il qual sentimento sarebbe cieco e incognito se il nostro spirito non lo richiamasse all' essere stesso e non lo considerasse come un' azione sua, come un suo termine (2), e così lo illustrasse. Egli è mediante questa operazione che fa la mente che si predica l' essere di Dio e delle creature univocamente, come ho altrove affermato. Questa univocazione del nome di essere applicato a Dio e applicato alle creature, deve intendersi per modo che l' essere, che affermiamo comune, non sia tale se non nel concetto che noi possiamo avere delle creature e di Dio: perocchè noi non possiamo avere concetto di nessuna cosa se non a questa condizione che vi uniamo la nozione dell' essere, la quale in tal modo diventa comune. Laddove se noi vogliamo considerare Dio e le cose in sè, nella loro propria sussistenza, noi dobbiamo ben chiaramente accorgerci, che l' essere non si può applicare alle creature se non come loro sostegno e causa, ma non come elemento, il quale entri a comporle. Perciocchè l' essere non è proprio se non di Dio solo (4). E` dunque per l' imperfezione, nella quale sussiste l' essere nella nostra mente, che noi l' applichiamo indifferentemente a Dio e alle creature: il quale essere se fosse da noi in perfetto modo veduto, nol potremmo applicare più alle creature, quasi che esse lo avesser da sè, ma vedremmo piuttosto in lui, incommunicabile come egli è e indivisibile, le creature stesse come in loro causa e radice sussistere. Perocchè l' essere che è nella nostra mente, per sì tenue modo il veggiamo che è piuttosto un iniziamento di essere che l' essere stesso, e per ciò sotto questo aspetto, quasi diversando dall' essere, non disconviene applicarlo alle creature; e anzi applicandolo al Creatore non ci dà la piena notizia di lui (5). La quale non si può avere, come abbiamo mostrato, se non in percependo la stessa sussistenza sua, nella quale l' essere ideale viene compiendosi e unificandosi coll' essere reale. La volontà dell' uomo tende al bene conosciuto. Tanto adunque si stende l' affetto della volontà, quanto si stende il bene conosciuto. Perocchè fatta la volontà, come si diceva, pel bene, non può mettere un limite alle sue proprie forze, ma ove che un bene le apparisca, ivi necessariamente deve tendere coll' affetto del desiderio, e non può non volere qualsivoglia bene, se non a condizione di considerarlo sotto aspetto di male, cioè come impeditivo di bene maggiore: sicchè il movimento dell' umana volontà non è mai appieno e necessariamente quietato, se non ha t“cco e ottenuto il bene conosciuto. Chi vuol dunque vedere quanto si allarghi il pelago dell' umano desiderio, basterà che misuri quali e quanti sieno i beni che può conoscere: la sfera della volontà è quella medesima dell' intendimento. Ora l' intendimento è formato dall' idea dell' essere in universale e però non ha limite alcuno se non l' infinito. Perocchè, dopo aver conosciuto quali e quanti si vogliano degli esseri finiti, l' uomo può pensare e foggiarsene sempre degli altri, perchè nessuna eccellenza o quantità di beni finiti può mai adeguare l' essere universale, col quale l' uomo pensa, e però ha sempre mai in sè onde pensarne degli altri, e finchè non è pervenuto a pensare un essere al tutto senza limiti e da ogni parte infinito, resta sempre all' uomo un progresso d' intendimenti senza misura nè fine (1). Quindi come il moto dell' intelletto non trova posa e termine se non giunto nell' infinito essere, così parimente la volontà non può interamente cessare dal suo moto e desiderio se all' infinito bene non sia pervenuta. Tale è costituita la natura umana: e tale è pure la natura di qualsivoglia essere intelligente e volitivo. Or poi la volontà non si unisce pienamente al bene se non per una cognizione reale; non potendola soddisfare pienamente una congiunzione solo incoata, quale è quella dell' essere ideale (2). Premesse queste notizie sull' intrinseca natura dell' uomo e delle sue potenze, apparisce manifestamente che l' uomo costituito nell' ordine puramente naturale sarebbe stato imperfetto, perchè non avrebbe avuta giammai la congiunzione reale di quel sommo bene a cui la sua volontà è indeclinabilmente volta e nel quale solo può appieno saziare il suo desiderio: come pure il suo intendimento per trascorrere di una in altra cognizione di tutti gli esseri finiti, non avrebbe ottenuto giammai riposo alcuno, ma infaticabilmente si sarebbe aggirato in continua mutazione di oggetti da lui contemplati e non trovato cibo a sè proporzionato veramente in nessuno (1). Nè io voglio affermare per questo che l' uomo, anche lasciato da Dio nello stato naturale, sarebbe stato al tutto misero, o che sarebbe necessariamente scaduto a cercare nelle creature una felicità a lui impossibile di ritrovare rendendosi in qualche modo colpevole. Ma dico solo, e ciò appar manifesto dalla natura dell' essere e del bene in universale a cui tende in lui l' intendimento e la volontà, che gli sarebbe mancato il più e il meglio di quella felicità e tutta quella dignità morale, di cui la sua natura è capace, e che però sarebbe stato imperfetto. Indi appare sì conveniente all' uomo, come conveniente parimenti a Dio, le cui opere son tutte perfette, come dicono le Scritture, che l' uomo fosse non pure fornito d' intelligenza, ma ben anco costituito in grazia, solo mezzo onde possano essere compiutamente soddisfatte le supreme sue esigenze e riempita l' immensa capacità della stessa sua intelligenza. La grazia perfeziona nell' uomo e compisce l' essere a lui presente. L' essere che in quanto è veduto naturalmente dall' uomo, è una similitudine di Dio, quando è compiuto dalla grazia riceve una nuova nobiltà, un nuovo carattere, che può ricevere acconciamente e propriamente la denominazione d' imagine di Dio. Conviene ben determinare il valore di questa parola imagine per conoscere la verità di ciò che io dico: nel che seguiremo S. Tommaso che pone sempre grande accuratezza nel precisare il significato delle parole le quali egli usa. Dice adunque il santo Dottore, che ogni imagine è una similitudine ; ma tuttavia non qualsivoglia similitudine basta ad avere concetto d' imagine (1). L' imagine è una similitudine delle più perfette: e in che poi mette egli questa perfezione maggiore della similitudine per la quale essa prende convenientemente il nome d' imagine? In due note, sottilmente assegnate da S. Tommaso, dietro le ecclesiastiche tradizioni. La prima è che la similitudine riguardi la specie, cioè l' essenza specifica della cosa (2), perchè se le cose fossero simili solamente in qualche parte non riguardante la specie, l' una non potrebbe essere imagine dell' altra. La seconda, che l' imagine sia espressa, cioè cavata dalla cosa di cui essa è imagine; sicchè un fratello non direbbesi imagine del fratello, ma bensì direbbesi il figliuolo essere imagine del padre: e così parimente una testa idealmente dipinta non direbbesi acconciamente ritratto di chichessia, eziandio che si abbattesse a essere simile al volto reale di un uomo; perchè noi congiungiamo sempre col concetto d' imagine questa relazione di lei colla cosa imaginata, la quale fece da originale o modello onde l' imagine si ritrasse. Chiarito così il significato della parola imagine , parmi essere facile il vedere la verità della nostra proposizione: che la grazia nell' uomo è una vera imagine di Dio. E veramente l' essere che costituisce la naturale intelligenza dell' uomo, sebbene similitudine di Dio, non si può però chiamare propriamente imagine, se non potenzialmente, nel qual senso lo chiamano talora imagine i Padri (1). Egli non è se non un lume che precede la imagine, che la rende possibile, che le prepara la via e quasi direi ne fa nell' uomo il disegno a nudi contorni, il quale aspetta poi di essere dal sommo e eterno Artista realmente eseguito (2). E veramente l' essere in universale innato nella mente non è Dio, non è nè pure propriamente parlando una nozione di Dio: egli per ciò non può essere un' imagine di Dio, perchè nè è simile a Dio nella specie, nè è un segno della specie divina. Un segno della specie o natura divina è la concezione dell' essere divino che col lume naturale si può fare in un modo negativo, ma ella non importa una vera imagine, appunto perchè è negativa e nulla viene espresso in essa della divina natura. Oltracciò questa concezione, se si vuol anche chiamarla imagine, non è connaturata nell' uomo, ma acquisita e aderente come una pura idea. E noi favelliamo di quella imagine che sta impressa o può essere impressa nella stessa natura dell' uomo. Dicemmo che l' essere universale non è simile a Dio nella specie, nè ad un segno della specie divina. E veramente l' essere innato non può essere simile a un segno della natura divina, perchè la natura divina non ha segni naturali che sieno atti a rappresentarla, come la figura rappresenta l' uomo o un altro animale (4). Non può poi essere simile a Dio stesso in quanto alla specie, perchè la specie di Dio non è che la sostanza di Dio, ossia la divina sussistenza; e nell' essere noi non vediamo nè percepiamo alcuna realità, alcuna sussistenza, ma puramente una idealità che è quanto dire una possibilità di essere: dal che è intieramente aliena e dissimile la divina sostanza, che ha il sussistere per sè e in sè medesima. Or dunque qual cosa potrà essere imagine di Dio? Qual cosa potrà somigliar a Dio in quanto alla sua stessa specie o sostanza? Chi potrà avere qualche cosa di simile col sussistere stesso di Dio? Certamente perchè una cosa sia vera imagine dell' altra, questa imagine deve avere qualche cosa di comune coll' altra appartenente alla natura dell' altra. Questa è dottrina ferma della filosofia, non meno che della cristiana tradizione. [...OMISSIS...] E S. Giovanni Crisostomo parimente osserva: che nessuno a cui fosse ignoto l' oro potrebbe vedere la natura di questo metallo rimirando l' argento, appunto perchè una natura non si fa già vedere mediante un' altra natura diversa (2). Ora che cosa può Iddio aver di comune con qualche altro essere? Può forse avvenire che una parte della sostanza appartenga, sia posseduto da altri in proprio, come elemento o parte comune? Impartibile è la divina sostanza, e per ciò essa o deve trovarsi tutta, o non può trovarsene una sola parte, siccome può avvenire negli esseri creati che hanno delle qualità comuni e delle qualità proprie, appunto perchè non sono perfettamente semplici. Indi è a dire, che non può esistere una vera imagine di Dio se questa imagine non sia Dio stesso avendo in sè tutta intera la divinità: perchè rispetto a Dio non vale l' esempio delle creature delle quali si danno imagini che partecipano della sostanza o natura delle cose ritratte, ma non di tutto, e solo di una parte, e talora anche accidentale e tenue, ma bastevole però a sentire il segno della sostanza, come avviene de' corpi mediante le loro figure. Indi è che i maestri delle teologiche dottrine insegnano concordemente, non darsi di Dio se non una vera, propria e piena imagine, e questa essere il Verbo eterno che possiede in comune col Padre e collo Spirito Santo tutta intera la divinità dal Padre, ab aeterno ricevuta. Perciò dice S. Ilario: [...OMISSIS...] . Il perchè gli Ariani e altri eretici che detraevano alla divinità del Figliuolo, furono convinti di errore dai Padri pur con questa sola parola di imagine, attribuita dalla divina Scrittura al Figliuolo, che dimostravano non potersi punto nè poco dire imagine di Dio se non avesse tutta la natura sostanziale di Dio. E da questa sola dottrina, che vi ha una sola imagine di Dio e questa stessa è Dio, si rendono chiare quelle parole di Cristo: « Filippo, chi vede me, vede anche il Padre mio« (2) ». Imperocchè, se il Figlio è diverso di sostanza dal Padre, in che maniera si può vedere il Padre nel Figlio? Che se una statua di legno non può conoscersi in una statua di pietra, perchè non è della stessa sostanza; e se non una pietra nel legno e non il legno in una pietra si vede per la diversità delle sostanze, conseguente cosa è che Dio Re dell' universo si conosca nel suo Figliuolo consostanziale. Conciossiachè in quelle cose che sono della medesima specie, appena vedute, si ha notizie anche di quelle non vedute, per ciò appunto che sono consostanziali (3). Dalle quali tutte cose manifestamente apparisce, che Dio solo può essere vera imagine di sè stesso e che a nessuna creatura compete un titolo tanto eccellente. Or di qui tuttavia apparirà che per la grazia invece viene nell' uomo impressa l' imagine divina. Ciò risulta dalle cose esposte nel libro precedente, dove abbiamo mostrato, tenersi, secondo l' ecclesiastica tradizione, che la grazia si faccia mediante un' operazione reale di Dio nell' anima umana (4): per la grazia essere Iddio formalmente congiunto coll' uomo (5) e quindi diventar lui un vero tempio di Dio. Lo stesso vero apparirà fornito di maggior luce ove si consideri insegnare l' ecclesiastica tradizione, che il principio della rivelazione soprannaturale è il Verbo divino, l' imagine del Padre, sia in un modo occulto, come nell' antico Testamento, sia ancor più nel nuovo, nel quale parla il Verbo manifesto (7). Di più ancora, [ciò apparirà, se si considera] che il Verbo divino si fa ancora per opera dello Spirito Santo il principio della santificazione e della grazia (1). Perocchè lo Spirito Santo non fa, come insegnano i Padri, se non chiarificare e quasi accendere il Verbo nelle anime nostre. La relazione esterna è quasi simile ad esca preparata nel f“co di volta elittica, la quale s' accende agevolmente se nell' altro f“co della volta si mettano dei carboni accesi: oppure è simile a face che collocata innanzi a terso specchio pur col suo accendersi accende altresì nello specchio la stessa [face] e fa brillare una luce eguale a sè. Tale lo Spirito Santo pur coll' entrare nell' anima vi accende in essa il Verbo, che è quanto dire la vera imagine di Dio Padre. Egli è per questo, come abbiam veduto, che lo Spirito si paragona a un suggello che, impronta, per mezzo della fede che vi accende, nell' anime il Verbo, nel quale, cioè in Cristo, credendo, dice l' Apostolo Paolo, siete improntati collo Spirito di promissione santo (3). E ancora: E non vogliate contristare lo Spirito Santo « di Dio, nel quale siete suggellati pel giorno della redenzione« (4) ». Il perchè Didimo scriveva: [...OMISSIS...] . Quindi è che non pochi Santi insegnano che l' imagine di Dio nell' uomo non si dà se non per lo Spirito Santo, perocchè appunto allo Spirito Santo si attribuisce la grazia e il segnare le anime colla comunicazione del Verbo, de' quali recherò solo S. Cirillo di Alessandria: [...OMISSIS...] . Da tutte le quali cose apparisce che l' imagine di Dio non è l' uomo, se non perchè essa imagine è nell' uomo, a quella guisa che l' imagine di Cesare sulla moneta è sulla moneta, e non è la moneta materialmente considerata: la quale imagine di Cesare sulla moneta è tratta appunto da S. Agostino a significare l' imagine di Dio impressa nelle anime nostre (1). Apparisce per conseguenza esser la grazia quella che nell' uomo mette questa imagine, ad esser quest' imagine, di cui l' uomo si adorna, una partecipazione dell' unica e vera imagine della sostanza divina, il Verbo eterno. A queste verità si riferiscono le parole di S. Paolo: « Quelli che egli ha presciti, ebbe anche predestinati, acciocchè si facessero conformi all' IMAGINE del Figliuol suo« (2) »: a cui soggiunge l' Apostolo: « Acciocchè egli sia primogenito fra molti fratelli« ». Nelle quali parole si vede espresso il modo onde noi diveniamo imagini di Dio, cioè per diventar fratelli che facciamo del solo vero natural Figlio di Dio, di quello perciò che è solo naturale imagine del Padre, a cui noi ci rendiamo conformi appunto con affrattellarglici. Questa è dottrina comune de' Padri, ed è espressa da Prudenzio in que' versicoli: [...OMISSIS...] Conveniente cosa era sì al bisogno dell' umana natura e sì alla divina bontà che l' uomo fosse da Dio costituito in un ordine soprannaturale (3). E che in tal modo fosse costituito da Dio Adamo, è dottrina tradizionale della Chiesa. Nè vi era ragione perchè s' interponesse tempo in mezzo fra lo stato naturale e il soprannaturale dell' uomo, nè nulla vi ha di repugnante che Iddio nel medesimo istante desse all' uomo la natura e la grazia. Anzi non si dubiterà di ciò ove si facciano le seguenti considerazioni. In primo luogo, il lume della grazia congiunto a quello della natura non forma già due lumi o due vite, ma un lume solo e una vita sola: conciossiachè il lume soprannaturale può dirsi che è l' essere medesimo più manifestamente veduto, veduto di più forte luce a segno di percepirne, in qualche modo, la sostanza. Ed egli è pur verosimile che, volendo Iddio dare all' uomo luce e vita, gliel' abbia data in quella misura che gli bisognava e non già partita, cioè glien' abbia data prima una porzione insufficiente, per dover poi dargliene un' altra e così soddisfare al bisogno rimasto non adempito colla prima: quasi come chi non ha a pagare la somma intera di un tratto, che soddissfa al suo creditore pagandolo in tre rate. Il che non si può pensare di Dio. In secondo luogo a ciò consuona la narrazione, chi ben la consideri, che si fa nella divina Scrittura della istituzione dell' uomo. Perocchè dottrina fermissima della Chiesa è, come si disse, che Adamo ebbe da Dio non meno la grazia che l' intelligenza. Ora, dove si narrano queste due cose nel Genesi? Si descrivono forse due operazioni distinte di Dio, coll' una delle quali egli desse all' uomo il lume dell' intelligenza e coll' altra quel della grazia? Nessun vestigio di distinzione di questi due atti si ritrova. Vi si dice bensì che, dopo l' uomo di terra, Iddio soffiò in lui lo spiracolo della vita (1). Queste sole ed uniche parole si usano a narrar tutto ciò che l' uomo ricevette da Dio oltre il corpo (2). Ora o convien ammettere che in quello spiracolo di vita, che Dio soffiò in faccia di Adamo, si contenesse unitamente l' intelligenza e la grazia, oppure convien dire che il racconto del sacro storico sia manchevole e non narri pienamente l' istituzione divina dell' uomo primitivo, che è pure il massimo oggetto di cui tratta quel sacro libro. Perocchè se quelle parole: Iddio spirò nella faccia di lui lo spiracolo della vita; si devono intendere della sola intelligenza naturale, ove è la grazia datagli pur da Dio? o se si intende solo della grazia, ove è la narrazione dell' intelligenza, di cui l' ha fornito? Sicchè quello spiracolo di vita (3) si deve intendere non meno del lume naturale che del soprannaturale, che, ove sono insieme , non formano che uno e medesimo lume, perchè sono pur uno e medesimo essere. E quelle parole che seguono: « E l' uomo fu fatto in anima vivente« »; si devono intendere non meno della vita del corpo che di quella dell' anima: anzi ogni vita comprendono quelle parole e l' animale e l' intellettiva e, almeno in genere, la divina o di grazia. Perocchè tutte queste sono quasi altrettanti gradi di partecipazione d' una medesima vita: di che risulta che Dio fece vivo Adamo in quella maniera che gli bisognava essere vivo; diede a lui una vita non difettosa, ma piena, compita in tutte le sue parti; gli diede insomma quella pienezza di vita che alla capacità dell' umana natura si conveniva e alla sapienza dell' ottimo Creatore, le cui opere sono sempre perfette, come dice la Scrittura. Finalmente si può comprovare lo stesso vero da quel principio che pone l' angelico Dottore, fedele seguace anche in questo del gran Vescovo d' Ippona, cioè: [...OMISSIS...] . E veramente questo è secondo l' ordine di un sapiente operare, e tale costantemente apparisce in tutte le altre cose il modo dell' operare divino, cioè di porre a principio i germi di tutte le cose e quindi commetterne al tempo il loro sviluppamento, senza bisogno di rimettere quasi di bel nuovo la mano all' opera sua per t“rne via l' imperfezione. Quindi nel seme è racchiusa la pianta intera, quindi nell' embrione è già contenuto tutto l' animale. L' esser piccole le nature e nei loro esordii, non toglie loro l' esser in cotal modo perfette. E tale certamente fu da Dio fin dal momento costituito questo universo, sì nelle parti sue che Dio vide esser buone dopo averle create, sì nel suo tutto che vide essere buono assai. Le quali denominazioni di buone e di assai buone indicano manifestamente quella perfezione compiuta di che parliamo: perocchè Iddio non avrebbe semplicemente data l' appellazione di bontà alle cose, se fossero state manchevoli e disgiunte da quel Dio, a cui son fatte e il quale solo è buono. Di qui è che S. Tommaso conchiude che l' Angelo doveva essere stato creato in grazia; e che egualmente si può conchiuder dell' uomo, e dice che l' uomo ad un tempo coll' intelligenza deve aver ricevuto la grazia, quale seme e principio di tutto ciò, in che si doveva poscia sviluppare l' umana natura nell' ordine soprannaturale (2). E tutte queste cose dànno aiuto, perchè si dia un senso preciso e luminoso a quelle parole del Genesi, colle quali si narra appunto l' istituzione prima dell' uman genere: « Facciamo, dice Iddio, l' uomo a imagine e similitudine nostra« (1) ». Dove pare che per similitudine venga espressa l' intelligenza e per imagine la grazia: usa due parole a significare i due semi, per così dire, posti nell' uomo a principio dai quali germinassero poi i due ordini, il naturale, dico, e il soprannaturale (2). La quale dichiarazione sembra potersi confermare anche da ciò che il sacro storico, dopo aver detto che Dio si propose di formar l' uomo a imagine e similitudine sua e narrato come lo formasse, soggiunse: « E Iddio creò l' uomo a imagine sua, a imagine di Dio lo creò« (3) ». Dove non replica più la parola similitudine come quella che era già contenuta nella parola imagine: e questo che il fece a sua imagine il replica due volte, quasi per mostrare che in essa è tutto il nerbo e la perfezione della dignità umana. Ma io non dò tuttavia questa interpretazione per sicura: e se più si vuole, al mio intento giova egualmente e forse meglio, che quelle due parole d' imagine e di similitudine non si cerchi distinguerle e separarle, ma si prendano tutte due insieme per un cotal superlativo, che venga a dire un' imagine assai simile (4). Poichè con questo aumento di forza nel significato della parola si viene a dire, che non una semplice similitudine era messa nell' uomo da Dio, ma un' imagine assai somigliante, cioè non la sola intelligenza ove sta la similitudine, ma anco la grazia che rende questa similitudine una vera e viva imagine per la partecipazione appunto del Verbo, prima e sola imagine della divina sostanza. Nella quale interpretazione verrebbe ottimamente espressa quell' unità del lume naturale e soprannaturale, e si porrebbe questo come un cotal grado maggiore, un cotal perfezionamento di quello, che è ciò appunto che noi diciamo; il perchè questa interpretazione di buona voglia alla precedente noi preferiamo. E fatta una cosa sola di quella imagine e similitudine che accenna la Genesi, torna vero che quest' impronta non si scancella dall' anime interamente per lo peccato, dopo il quale rimane la natura umana e in essa il lume dell' intelligenza, come osserva S. Agostino. Ma questa cotale impronta non è veramente detta imagine con intera proprietà della parola (1). All' opposto se si voglia separare l' una cosa dall' altra e pigliare il primo grado di lume cioè il lume naturale per una similitudine, e al secondo grado di lume cioè al soprannaturale riserbare il nome d' imagine; in tal significato imagine di Dio è solo il Verbo, e l' uomo è per la partecipazione del Verbo, come dicevamo. In questo senso della parola imagine, che è il più vero, dice S. Ambrogio: « Nisi per imaginem Dei (per il Verbo) ad imaginem Dei esse non potes (2) ». S. Cirillo d' Alessandria nel medesimo sentimento così si esprime: [...OMISSIS...] . S. Atanasio parimente: [...OMISSIS...] . Indi è che S. Basilio chiama il Figliuolo imagine effettrice d' imagine (2), perchè egli, imagine di Dio vera, produce in noi la stessa imagine sè a noi comunicando: di che egli è come un suggello rispetto all' anima nostra e lo Spirito Santo è quello che lo usa sigillando in noi quella che viene chiamata anco faccia o volto di Dio (3). E di qui si sente il valore di quelle parole che disse Cristo parlando di sè stesso: « Hunc enim Pater signavit Deus (4) »; volendo dire: questo è il suggello improntato di Dio Padre che suggella l' anime mettendovi l' effige divina. E pare che il peccato di quel Cherubino di cui dice Ezechiele per ischerno: Tu sei il suggello della similitudine (5); fosse appunto questo, di aver usurpata quella prerogativa che al solo Verbo divino si addice, d' essere vera imagine di Dio e suggello che impronta la stessa imagine nelle intelligenze. E per conciliare questi Padri e molt' altri, i più della Chiesa Orientale, che potrei addurre (6); i quali sostengono che « l' imagine di Dio nell' uomo è solo il Verbo coll' anima dell' uomo congiunto« », con S. Agostino al quale non piace udire che l' imagine di Dio si spenga col peccato, ponendola perciò appunto quest' imagine non solo nella Grazia, ma ben anco nella natura dell' uomo; per fare, dico, questa conciliazione, senza mutare il significato vero e proprio della parola« imagine«, ecco qual mi sembra la via sicura e coerente colle teologiche dottrine. Il Verbo solo è l' imagine di Dio. Nell' uomo adunque preso naturalmente havvi l' imagine di Dio a quel modo che nella natura delle cose v' hanno i vestigi della Trinità. Questa è sicuramente la mente di S. Agostino e di S. Tommaso, i quali sostengono essere nell' uomo naturale l' imagine di Dio, non meno in quanto alla divina natura che alle persone (1). Ora i vestigi delle Persone divine sparsi nella natura eziandio ragionevole non sono tali se non per una cotale appropriazione che noi facciamo di quelle qualità all' origine delle divine Persone, e non perchè siano veramente atte a rappresentarle (2). Medesimamente l' imagine di Dio uno e trino è nella mente umana per una cotale appropriazione che noi facciamo. Ma là dove si parla di un' imagine non per appropriazione, ma secondo la proprietà della parola, l' imagine di Dio è nell' uomo per la Grazia, allora quando si fa nell' uomo l' operazione deiforme, e si compie quest' imagine mediante l' operazione triniforme, nella quale il Verbo a noi si comunica. Iddio creò l' uomo in tutte le sue potenze perfetto: lo rese immantinente attivo e parlante (3). Ma l' uomo con tutte le sue potenze non aveva in sè la propria felicità, appunto perchè le potenze non sono che mezzi di ottenere questa felicità, non sono che un vaso che dimanda di essere riempito. L' uomo non trovava dunque in sè stesso se non un vuoto: ma poteva egli forse meglio trovare il bene che lo satollasse nella natura? No, la natura, l' intero universo materiale era minore di lui, dotato d' intelligenza: e egli stesso, tanto eccellente, era pur solo una capacità, come dicevamo, una capacità infinita. Questa creatura adunque aveva un essenziale bisogno di Dio perchè fossero pienamente appagate le sue brame (1). I filosofi trovano strano che la creatura abbia bisogno del suo Creatore, e vogliono che essa pur basti a sè stessa. Ma quanto sono lontani dal conoscere la natura umana! Che questi sieno esseri così insociabili fra di loro, i quali non possano avvicinarsi, agli occhi della filosofia? Anzi qual ferocia d' animo muove i filosofi a decretare sì crudele separazione? Proibire alla creatura di accostarsi, rifugiarsi nel seno del suo Creatore? Proibire al Creatore di accogliere la creatura che a lui rifugge, o vietargli di trastullarsi a suo senno con essa, di non addomesticarsi amorevolmente all' opere delle sue mani? Che enti sono questi, che dicono all' Eterno che li ha formati: « ritirati da noi, noi non vogliamo la scienza delle tue vie?« (2) ». Ma e dove si ritirerà il Creatore, se deve uscire dalle creature? Vi ha cosa o luogo che non sia da lui creato? E uscendo da tutta la creatura, questa potrà sussistere da sè sola? Non si trova contro natura o inconveniente che il padre conversi coi figliuoli suoi e i figliuoli col padre, che conversino gli amici fra loro: e la filosofia razionale avrà finalmente scoperta questa sì grande verità, che a Dio solo sia proibito di manifestarsi palesamente agli uomini da lui tratti dal nulla, sotto pena di essere dichiarato stolto, perchè non ha formato gli uomini in modo da non dover avere bisogno di lui? Che dissennatezza, o piuttosto che furore è codesto? Imperocchè i selvaggi non hanno giammai pensato cose nè tanto goffe nè tanto ripugnanti nè tanto stomachevoli come queste dei filosofi naturali. Niente adunque di più confacevole alla natura dell' ordine soprannaturale alla natura congiunto; il quale non è poi altro se non un cotale compimento di perfezione che esige necessariamente la limitazione di essa natura, la qual solo coll' unirsi col suo Creatore ottiene la sua ultima cima e perfezione, e coronata, quasi da Dio, acquista consistenza, dignità, partecipa di quegli attributi divini nei quali solo risiede la nobiltà e l' eccellenza (3). E perocchè le opere di Dio sono tutte perfette, come dice la Scrittura, ed egli è senza modo sapiente ed ottimo, perciò non poteva tener l' opera sua dentro i termini di un finito e limitato bene; ma doveva naturalmente volgerla a un bene infinito, a sè ordinandola e congiungendola. Di che la Scrittura dice « aver Egli operate tutte le cose per sè stesso« »; chè veramente il dare un altro fine alle cose men grande che un infinito, sarebbe stata causa dissonante dall' infinita sua potenza, sapienza e bontà; e con questo fine, ogni universo che gli fosse piaciuto creare, grande o piccolo, conteneva tuttavia la dote di una somma perfezione e di un valore impregiabile (2). Ed ora questa comunicazione loro quasi per una cotal legge naturale riusciva come l' apice alle creature sue, per la quale Egli medesimo congiunto e direi quasi il comignolo dell' universo doveva finire nella« grazia«, cioè in una comunicazione interna e reale. La quale grazia attribuendosi allo Spirito Santo, avviene che il Santo Spirito riceva dai Padri la denominazione di « forza perfezionatrice« (3) », come quello che tutte le opere di Dio ultima e perfeziona (4). Non solo adunque non è indegno della sapienza divina l' aver creato il mondo con un bisogno essenziale del suo Creatore, ma Dio stesso non poteva anzi far altro, se pur voleva che nel mondo fossero degli esseri intelligenti, per la necessità che hanno questi di ricercare incessantemente un infinito; ma se anche avesse potuto fare altramente, non sarebbe stato il farlo condecente alla sua somma bontà, e perciò immensamente diffusiva. Se però era uopo che Dio si comunicasse ad Adamo, il modo però del farlo conveniva che fosse soave, come è tutto l' operare divino e accomodato in tutto e per tutto all' umana natura. Per ciò come l' uomo ha una parte di sè interiore consistente nell' anima intellettiva, e una parte esteriore, cioè il corpo sensitivo; e come questo corpo sensitivo col quale l' uomo è in comunicazione coll' universo materiale, è ordinato a dover essere ministro all' anima delle notizie delle cose e eccitamento alle sue nobili operazioni: così conveniva che anche il Creatore influisse nella creatura per questa via esteriore e per essa, quasi direi, si introducesse nell' anima, quasi pei meati proprii di questa natura, mista di materia e di spirito. E però il Genesi ci dipinge Iddio che va diportandosi per lo giardino della delizia, quasi a pigliarvi l' aria che spira dopo il meriggio, probabilmente con aver prese forme simili alle umane e fors' anco le forme stesse che furono poi della umanità assunta dal Verbo. Tutta quella descrizione che fa il Genesi del Creatore che conversa colla sua creatura, mostra cosa somigliante a un padre che vive dimesticamente in mezzo della sua famiglia e tratta con soavità e dignità insieme co' suoi figliuoli. Questo Dio non era il Dio inacessibile nè qualche cosa di straniero e di remoto in lontanissima regione, ma era unito col mondo e consociato coll' uomo e temperata la maestà sua da corporali sembianze, velato l' abisso della sua gloria dentro umili forme; si dava a contemplare dall' uomo a quel modo che si contempla il sole d' infra un vetro appannato od infra i vapori nell' aria diffusi. In tal maniera Dio si era adattato al bisogno dell' uomo, restringendosi e circoscrivendosi per essere accessibile ed acconcio all' umana bassezza: ma questo cotale esterno adattamento che faceva il Creatore di sè per avvicinarsi alla sua creatura e che il rendeva, quasi direbbesi, una parte della natura stessa, un essere connesso con tutti gli altri esseri, quasi il supremo anello della catena, non toglieva però a lui di potersi manifestare altresì nella propria grandezza della divinità, giacchè da quelle limitate apparenze egli diffondeva e le parole della vita e le opere della maestà, e indi il pieno dominio esercitava su tutto l' universo, e quanto egli voleva od occultamente od in manifesto modo operava. Questa sua sensibile e quasi direi corporal presenza nella natura doveva secretamente e in palese influire sopra di essa natura conscia della prossimità del suo Creatore (1): era un glutine quella divina presenza, per così dire, che attaccava e infra sè commetteva le parti dell' universo, era un aroma, una virtù corroborante, conservatrice di tutte le cose, onde queste ritraevano un vigore e una speciale vitalità che impediva loro la corruzione; e ivi finalmente risiedeva la mente provvida, a cui ogni cosa obbedendo rendeva un' armonia, più soave d' ogni più squisito concento alle spettatrici celestiali intelligenze (2). Il Creatore adunque in quest' abito, per così dire benignissimo e affabilissimo si interteneva coll' uomo, col mostrarsi a lui e favellargli, lo ammaestrava lo sollevava e ingrandiva. L' uomo non riceveva già solo ne' suoi orecchi i nudi suoni delle parole del Creatore, atti a eccitargli alcune idee, nè solo aveva la sensibile apprensione del Dio, che gli si manifestava, ma quelle parole erano vitali, e vitale era pur la vista e ogni sensibile percezione di Lui: cioè a dire quelle parole e quelle percezioni erano ministre di grazia interiore, la quale, purchè l' uomo avesse aperto l' adito del suo cuore, entrava abbondante, e tenendo però una cotal proporzione coi segni sensibili ai quali ella era per una cotal legge annessa. E questi erano i sacramenti del tempo dell' innocenza, dove pure veggiamo la grazia venire inserita per la via de' sensibili segni, siccome ad uomini, cioè ad esseri intelligenti, a cui è dato un corpo qual mezzo del loro sviluppamento e della loro perfezione, si conveniva. In tal modo uno è il disegno dell' Altissimo, una e sempre del medesimo tenore la sua sapienza e provvidenza pel bene del genere umano, una provvidenza, dico, sempre egualmente adattata all' umana natura. Sicchè Colui che ci ha dato i sacramenti nella legge evangelica dimostra d' essere il medesimo con quello che ha istituito da principio l' uomo dell' Eden: e come ora, così in quel primo tempo, ebbe la divina grazia co' segni esteriori accompagnato. Dal medesimo stile si riconosce la stessa mano. La grazia non entra propriamente nell' uomo, se l' uomo, con un assenso della sua volontà, non la riceve in sè medesima. Quindi per quantunque doni avesse Adamo da Dio ricevuti, doveva però accrescere in sè la santità e la grazia con degli atti successivi di buon volere. Vi aveva dunque una scala di meriti per la quale Adamo doveva ascendere, fino a essere confermato in grazia e nella immortalità. Sembrerebbe potersi dire che fra i segni sensibili a cui è fissa la grazia, gli atti della volontà onde l' uomo vi corrispondeva e gli aumenti successivi della grazia medesima, esistesse quasi un' armonia prestabilita. La volontà dell' uomo segue di pari passo lo sviluppamento dell' intelligenza. Sebbene Iddio avesse comunicato all' uomo, favellandogli, tutte quelle notizie di cui egli abbisognava, tuttavia restava all' uomo ancora di fare un grande uso di sue potenze intellettive colle quali acquistare molte cognizioni sperimentali e di riflessione. Dalla percezione de' suoi sensi e da quanto aveva udito da Dio, ebbe Adamo la scienza diretta: restava a lui a scomporre, ad analizzare questa scienza, e in una parola a cavarne tutto ciò che possono dare di distinzione, di lume e di ampiezza tutti quegli ordini delle varie riflessioni, il cui numero è indefinito. Tutto ciò modificava e perfezionava in lui le notizie dei beni sotto i varii aspetti ne' quali il bene all' uomo si presenta; e quindi venivano perfezionandosi continuamente gli atti della sua volontà. Allo sviluppo dell' ordine naturale dell' intelligenza e dell' amore corrispondevano, come abbiamo detto, i doni della grazia. Non è dunque a credere che la mente di Adamo fosse arrivata già nel primo istante alla percezione del sommo bene per tal modo, che questa non potesse ricevere nella sua mente maggior lume e evidenza, e farsi continuamente più attuale, più immediata: anzi doveva venir componendosi lo stesso concetto del bene in modo via più concreto, per un' induzione che movea dai beni sensibili, e conduceva al soprasensibile. Così il bene, in ragione di bellezza, si doveva comporre nella mente di Adamo prima dalle bellezze sensibili, e quindi dalle spirituali; e in queste stesse quasi per gradini di una scala ascendere al bello perfetto e ideale che pur trovava realizzato e in istato di sostanza nel suo sommo Fattore. Il quale progresso dalla bellezza terrena a una celeste e divina è quello che vide già Platone essere sommamente conforme all' umana intelligenza, e che mi ricorda di avere io espresso in alcuni versi sullo stato di Adamo, i quali, se la memoria non erra, furono questi: [...OMISSIS...] Or dove giungeva la mente col concetto, indi traeva la volontà il suo amore; e all' intelleto e amor naturale si accompagnava forse sempre un intelletto e un amore infuso per grazia, la quale grazia mostrava nell' idea la sussistenza del sommo bene e ne dava l' intima e beante comunicazione. E per questa via l' uomo doveva pervenire al sommo della perfezione morale e dell' unione con Dio: la quale unione, ove divenuta fosse per tal modo piena e compita, io penso che allora l' uomo quasi deificato avrebbe acquistate le doti della immobilità nell' unione con Dio, nell' immortalità e nella suprema beatitudine. Ma che questo corso di cognizioni, di affetti, di grazie si avesse per Adamo a trascorrersi, il provano altresì quelle parole colle quali il Genesi assegna il fine prossimo e più basso pel quale l' uomo fu creato e messo dentro il paradiso: [...OMISSIS...] . In queste parole viene descritto l' uomo come il padrone dell' Eden, come il Re dell' universo, come quello che colla sua maestà rappresentava Iddio, del quale portava l' imagine in fronte, alle altre creature sulle quali esercitava appunto per questo una pienissima signoria (1). Acciocchè poi questo piccolo dio della terra riconoscesse che egli era sottomesso al Dio del cielo, al Creatore del tutto, gli fu dato il fatale precetto. Ora in tutta questa descrizione apparisce che l' uomo fu posto, per così dire, in basso luogo rispetto a Dio, fu rivolto a lavorare e governare gli esseri privi di intelligenza; quindi doveva cominciare, e da questo primo fine della sua creazione, assai angusto, a dir vero, verso all' immensa capacità della sua anima, doveva poi per suo merito sollevarsi di mano in mano e sempre più congiungersi al suo creatore, togliendo la faccia dal ben finito e levandola più e più all' infinito e divino. A lui era dunque conceduta da prima quella felicità, se così vuol chiamarsi, che può dare la pienezza dei beni naturali a un' anima pura e innocente: ma in quest' anima dovevano poi risvegliarsi da sè altri desideri, altri bisogni, altri voti maggiori, tosto che la meditazione avesse rivelata a se stessa l' immensa sua capacità e l' infinito oggetto pel quale solo veramente era stata creata. La differenza fra l' ordine della santità e della grazia corrispondente nell' uomo innocente, e l' ordine della santità e della grazia nell' uomo redento, è il seguente. La grazia nell' uomo primitivo doveva perfezionare la natura e la natura di grado in grado perfezionata doveva passare a uno stato sempre più eccellente, doveva ognor più spiritualizzarsi, senza giammai, per così dire, tornare indietro. Doveva quindi per aumento di sapienza, di santità e di grazia accrescersi continuamente la vita, anche quella che consisteva nell' unione dell' anima col corpo, fino che questa vita doveva rendersi inamissibile: il che sarebbe avvenuto in quel tempo che si fosse resa inamissibile e piena anche la grazia e la fruizione di Dio. Noi ripugniamo alla morte, e ripugniamo eziandio che sappiamo per fede che dopo la morte ci sta preparata una nuova vita per Cristo: ma, come dice l' Apostolo, noi non vorremmo essere spogliati ma sopravvestiti, acciocchè dalla vita venga assorbito quanto vi ha in noi di mortale (2). Questo desiderio dell' umana natura veniva soddisfatto nello stato d' innocenza. Non avevamo bisogno di morire per essere ammessi alla visione di Dio, ma passavamo a tanta visione d' un passaggio soavissimo, la quale veniva a noi come una veste di gloria che ci sopravvestiva senza bisogno di spogliarci delle membra del corpo e deporre la vita della natura. Anzi ciò che vi aveva di difettoso nella vita naturale, ciò che vi aveva di mortale, veniva, secondo la calzante espressione dell' Apostolo, assorbito dalla vita, cioè da quella vita piena di Dio la quale nulla ha in sè di mortale e della quale venivamo fatti partecipi come di un cotale indumento di gloria e di incorruzione. Il contrario avviene nella condizione dell' uomo peccatore: perciocchè l' uomo peccatore fu condannato alla morte e non può andar vana la parola divina. Quindi il Redentore non tolse direttamente a camparlo dalla morte, ma a mettergli un seme di salute nell' anima, il quale, anche dopo morte, lo avvivasse e facesse risorgere con un corpo nuovo, cioè non più col corpo del peccato, alla morte soggetto. Qui veniva a battere quello che disse Cristo a Nicodemo: « Se alcuno non sarà rinato nuovamente, non può vedere il regno di Dio« (2) ». E` necessaria un' altra generazione: non è più ristorabile l' uomo vecchio, questo si deve abbandonare alla sua distruzione: tutta la speranza sta in un nuovo nascimento, in una nuova orditura e ricomposizione dell' umana natura. E il nascimento nuovo, cioè il principio della nuova vita che l' uomo deve ricevere, non è più dalla carne e dal sangue, non comincia dall' imperfetto per andare al perfetto, ma discende da Dio e viene dal perfetto a vivificare l' imperfetto. Non è il corpo, come nel tempo primo dell' uomo innocente, che manoduce lo spirito, e gli è ministro aiuto e compagno nell' acquisto della perfezione della vita: è lo spirito quello che domina e salva il corpo stesso. Nell' età dunque dell' innocenza tutto era in armonia nell' uomo, tutto si perfezionava, nulla si distruggeva, tutto l' uomo con tutte le sue parti procedeva all' acquisto dell' incorruzione e della vita beata. Di presente l' uomo non può sopravvivere, l' uomo deve perire, perchè è l' uomo del peccato. Solo in una delle due parti però dell' uomo, cioè nell' anima, Iddio che vuole pur salvo quell' uomo stesso che deve perire, con ammirando consiglio nasconde un germe vitale, cioè la grazia del Redentore; asconde anzi sè stesso, e in questo germe si accolgono tutte le speranze dell' uomo, tutti i suoi beni. In che adunque consiste, nello stato in cui ora è l' uomo, la santità? Nella fede, per mezzo della quale egli eseguisce quanto diceva a Dio Giobbe: « Eziandio se tu mi ucciderai, io spererò in te« (3) ». L' uomo spera nel suo Dio, sebbene sappia che lo darà in preda alla morte. Adamo si tolse da Dio quando gli prometteva l' immortalità: e Cristo e il suo discepolo confida in Dio quando sa pure che lo uccide. Anzi tanto confida, che egli si unisce colla giustizia di Dio medesimo contro di sè e contro tutto ciò che è macchiato di peccato, e tripudia che sia devoto alla morte tutto ciò che si è rivoltato al suo Creatore, e segue magnanimamente Colui che invitandolo a sè, gli dice: [...OMISSIS...] . Tanto è più sublime la virtù e la grazia dell' uomo peccatore, in Cristo, che non fosse quella dell' uomo innocente in Adamo! (2). Il perchè dice S. Paolo: che la conversazione dell' uomo cristiano è nei cieli. Non è come quella di Adamo sopra la terra. L' uomo cristiano sa che la terra è maledetta e non è più sua abitazione permanente, e deve andar cercandone una futura (4). Coll' intenzione pertanto del suo spirito il cristiano è già morto alle cose terrene le quali a lui tornano di peso e noia infinita, non foss' altro, perchè gli si sono fatte muro di separazione dal suo Dio, il quale si è allontanato da una natura prevaricata: sospira perciò il termine della sua peregrinazione, il rompimento de' suoi ceppi per essere con Cristo risorto per non più morire giammai, col quale il cristiano già vive fin di qua giù per una santa e inconfusibile speranza. Di che allontanato e staccato co' suoi affetti da ogni cosa sensibile, egli non cerca nè chiede che le celesti e spirituali, come quelle nelle quali ritrova anche la salute stessa della sua porzione corporea, la salvazione di tutto l' uomo. Di questi sentimenti è tessuto il Nuovo Testamento, e S. Paolo li esprime ben sovente con una forza maravigliosa: [...OMISSIS...] . Questa vita del cristiano nascosta, la quale non è altro che Cristo stesso, è appunto quel seme della grazia gittato nelle anime, la qual grazia è il Verbo stesso cui noi portiamo nell' essenza dell' anima, ma ancora velato, e che si rivelerà in noi alla morte nostra, apparendoci visibile Iddio siccome egli è. Il perchè sebbene nella prima istituzione dell' umanità in Adamo fosse fornito di grazia e nell' essenza della sua anima Iddio realmente esercitasse una segreta azione, tuttavia questo Dio che abitava nell' essenza dell' anima dell' uomo, non diffondeva però a prima giunta tanto la sua virtù per le potenze, in modo da investirne anche il corpo, fino a partecipargli l' incorruzione e quella spiritualità che lo rendesse definitivamente immortale: ciò che avviene nella seconda istituzione della umanità fatta in Cristo risorto, dopo che l' umanità prima progenerata da Adamo fu distrutta colla morte. L' umanità dunque riassunta e ricostruita dalla sua distruzione è simile all' umanità prima rispetto all' anima, in quanto che nelle due umanità non havvi peccato alcuno: ma non è simile rispetto al corpo, perocchè la grazia di cui è fornita l' umanità rifabbricata da Dio, si vantaggia tanto sopra l' antica, che di grazia è ricolma e trabocca sicchè il corpo stesso n' acquista e partecipa le doti degli spiriti, le quali sono principalmente l' incorruzione e la vita immortale. Indi è che l' Apostolo paragona l' uomo rigenerato in Cristo al primo creato in quanto allo spirito, dicendo: [...OMISSIS...] . Ma in quanto al corpo, il qual corpo non esiste rinnovellato se non dopo la risurrezione, mostra il vantaggio del secondo uomo sopra quel primo in queste parole: [...OMISSIS...] . Cioè a dire, nel primo uomo il corso della vita moveva dal corpo animale e andava allo spirito rendendosi ognor più spirituale, dall' imperfetto al perfetto: nel nuovo Adamo la vita procede dallo spirito, e va dal perfetto a vivificare l' imperfetto. E continua: [...OMISSIS...] . Così la grazia trionfa senza fine nell' uomo nuovo, spiegando tutta la sua forza rinnovellatrice: nell' uomo antico Iddio colla grazia non aveva che da aiutare la natura, ma qui egli ha da creare una nuova natura, qui fa tutto la grazia, e rigenera, e perfeziona; in quell' antico uomo la grazia non faceva che una parte e la natura era supposta e data precedentemente alla grazia per soggetto. Vero è che anche quella natura dell' uomo primo era operazione di Dio e Dio ne veniva glorificato; ma quell' operazione non era che divina . L' operazione di Dio all' incontro onde l' uomo viene rifatto, ricreato (giacchè è chiamato dall' Apostolo, una nuova creatura) è tutta operazione deiforme ; e qui sta ciò che il medesimo Apostolo chiama la gloria della grazia di Cristo. Questa seconda operazione è infinitamente più gloriosa a Dio della prima, cioè della creazione, perchè essenzialmente santa, sicchè tutte le cose si rendono obbedienti in tal modo alla santità: in una parola l' operazione divina della prima creazione aveva per termine la natura limitata, l' uomo; ma l' operazione deiforme della seconda ha per termine Dio nell' uomo: sicchè questa operazione è tanto più grande e a Dio più gloriosa da parte dell' oggetto, quanto è dell' uomo più grande Iddio. Nella prima istituzione adunque dell' uomo due erano i principii, sebbene contemporanei, la natura che veniva dalla potenza creante di Dio, e la grazia che veniva dalla potenza santificante e rendeva perfetta quella natura. Nella seconda istituzione uno solo è il principio, la grazia, e questa è creatrice insieme e perfezionatrice dell' uomo nuovo. Tutto qui fa la grazia, tutto qui è Dio, il principio, il mezzo e il fine: benchè l' uomo poi, venuto il tempo della libertà, possa corrispondere o no all' opera della grazia. Quella grazia antica insomma assorbiva bensì colla sua vitale virtù ciò che vi aveva di mortale nell' uomo, secondo l' espressione di S. Paolo: ma questa grazia nuova assorbe la stessa morte , come aveva predetto Osea: [...OMISSIS...] . Sebbene non era condecente all' infinita bontà del Creatore che avesse creato l' uomo abbandonandolo alla propria natura senza aggiungergli la grazia; tuttavia non è assurdo di supporre l' uomo in tale stato: ed è una di quelle supposizioni che aiutano ad analizzare ciò che si compone di più principii e a vedere che cosa a' singoli principii si debba attribuire. Così fanno i matematici quando spogliano i corpi di certe loro qualità anche essenziali per calcolare l' una dopo l' altra tutte le semplici forze di cui sono forniti. Supponiamo adunque l' uomo nelle pure condizioni naturali, non privo però degli stimoli esterni, senza i quali le sue potenze inerti e quasi raggomitolate in sè non avrebbero potuto avere nissuno sviluppamento: e fra questi stimoli esteriori uopo è che gli supponiamo data altresì la favella, colla qual solo vien tratta all' azione la sua potenza di riflettere e di astrarre, e quindi esce in atto la sua libertà, ligata senza di ciò e nulla operante; la qual favella, tale che gli bastasse, non potrebbe mai trovare egli medesimo. L' uomo può concepirsi in questo stato: e tuttavia privo di ciò che spetta a un ordine di cose divino o soprannaturale. Quale adunque sarebbe stato il grado di libertà che avrebbe avuto l' uomo in questo stato? Avrebbe egli avuto in sè tanto di vigore da mantenere fedelmente la legge morale? O anzi per un cotal mancamento di forze sarebbe egli stato necessitato a peccare? Rispondendo a sì fatta questione, in primo luogo osservo, che certamente non avrebbe peccato l' uomo posto nel detto stato di natura pura, se non ne avesse avuta nessuna cagione impellente (1), cioè se non gli fossero insorte tentazioni che il lusingassero di volgersi dal retto e giusto operare al torto e ingiusto. Ciò posto, veniamo a vedere quali tentazioni di peccare potevano darsi all' uomo in quello stato. Dalla teoria morale da noi esposta (2) risulta manifestamente che tutte le tentazioni di peccare, a cui può soggiacere una creatura intellettiva, si possono ridurre ad una sola formola e semplicissima, cioè« la tentazione si dà allora quando il bene soggettivo si trova in collisione del bene oggettivo«. Il bene oggettivo è il bene in quanto è bene, in quanto è mostrato dalla ragione: e il riconoscerlo praticamente per tale è l' essenza dell' obbligazione morale. Il bene soggettivo è il bene non considerato in sè stesso, ma considerato relativamente al soggetto che lo percepisce. Il bene oggettivo adunque è il fondamento della Morale : come il bene soggettivo è il fondamento della Eudemonologia , ossia scienza della felicità. Fino a tanto che quello che è bene oggettivo fosse egualmente anche bene soggettivo, egli è evidente che il soggetto non avrebbe alcuna tentazione che il togliesse dall' ammetterlo e amarlo per quel bene che è. Parimente se il bene oggettivo fosse indifferente, quanto al rimanente, al soggetto, e non gli fosse nè di noia nè di particolare piacere, egli è indubitato che il soggetto uomo sarebbe fedele al bene oggettivo e lo ammetterebbe e riconoscerebbe per quello che vale; perciocchè tale è l' indole della natura ragionevole che il bene oggettivo è già per questo solo suo bene e le è naturalmente dilettoso il fare un atto di giustizia e dare al bene conosciuto quel prezzo che egli pur merita. In questi due casi adunque non ci sarebbe cagione alcuna dalla quale la natura ragionevole fosse incitata a t“rsi dalla giustizia rendendosi ingiusta. Tutto adunque il cimento di violare le leggi della giustizia, a cui può esser messa una natura intellettiva e volitiva sì come è l' uomo, sta qui, quando da una parte la ragione gli presentasse il bene oggettivo, e dall' altra il sentimento fosse affetto da un bene soggettivo, e questo bene soggettivo avere o seguire non si potesse senza disconoscere e ripudiare il bene oggettivamente considerato, il bene in sè, il bene estimato col giusto suo prezzo e valore. In tal caso quindi la legge morale intima che non si deve stimare e seguire praticamente il bene se non per quello appunto che vale in sè: dall' altra il sentimento cieco suggerisce e persuade di seguire il bene non per quello che è, ma per quello che attualmente e momentaneamente diletta senza più. Queste due voci, della verità dall' un canto, della inclinazione sensitiva dall' altro, sono quelle che generano nell' uomo il combattimento morale e che formano l' essenza della tentazione. E ora dunque si domanda: L' uomo della natura non guasta sarebbesi mai scontrato a tal bivio nella sua vita dove, se avesse voluto seguitare la regola del bene oggettivo, gli convenisse privarsi in tutto o in parte del bene soggettivo (1) e quindi avesse provato una tentazione? E se questa tentazione si fosse trovata, di che natura e di che forza essa era? Poteva mai crescere in tal modo da dover vincere il valore della libertà di cui era l' uomo fornito? In quanto alla prima di queste dimande, io rispondo che essendo i beni soggettivi creati limitati, poteva, anzi doveva, avvenire che si desse collisione fra loro, cioè che l' uomo non li potesse avere e godere tutti insieme. E quindi che gli bisognava farne scelta, sì per sè, che per gli altri uomini: la qual scelta non poteva farla con altro che colla ragione di cui era fornito, e doveva essere ragionevole, cioè gli conveniva per obbligazione morale di scegliere il bene che nel complesso suo e finale risultamento fosse il migliore, e il maggiore, e il più perfettivo della sua natura, così in ordine allo sviluppamento di sue potenze, e sì in ordine al grado del suo godimento. Ciò è quanto dire che doveva stimare i beni soggettivi in un modo oggettivo, secondo quel valore appunto che avevano fra loro estimati e pesati sulle bilancie della ragione: per la quale stima solamente quei beni soggettivi si rendevano onesti, ossia di dignità morale forniti. Ora fino a che si fosse trattato di dover fare scelta tra beni soggettivi presenti, nessuna collisione cader poteva tra essi di tal natura che mettesse l' uomo in cimento di moralmente fallire: imperocchè era egualmente in tal caso interessato l' appetito dell' uomo a scegliere il complesso maggiore di beni e la morale sua coscienza; perocchè questa gli precetteva di scegliere il più che potesse del bene, e l' appetito nulla di meglio poteva volere. Ma ove si fosse trattato di paragonare insieme dei beni presenti con dei beni futuri, allora si poteva trovare in una cotale discordia l' appetito sensitivo e la ragione. Perocchè l' appetito di sua natura è cieco, e senza previdenza; e la ragione sola mette a calcolo il futuro. Quindi l' appetito con subitaneo moto persuade l' uomo al godimento istantaneo: la ragione tempera e regge questa persuasione inconsiderata che l' appetito vorrebbe ingerire, e impera la virtù della temperanza, ovecchè il presente bene impeditivo sia di un futuro e maggiore. In questa collisione pertanto non poteva l' uomo vincere, sempre, colla sua volontà ragionevole il torto suggerimento dell' appetito? facoltà che presiede alla soggettività del bene, senza più, e quindi essenzialmente priva di moralità? Rispondo che, trattandosi di beni naturali e sensibili (1), ciò poteva fare certamente il libero arbitrio dell' uomo fornito di una perfetta natura. Perocchè sebbene i beni presenti esercitassero una reale azione sull' appetito dell' uomo, e i beni futuri solo un' azione ideale , e sebbene questa fosse minore di quella (2); tuttavia la volontà ragionevole poteva sempre dominare e frenare la reale azione che esercitavano i beni presenti sul movimento dell' appetito. E ragione di ciò si è che la provvida natura fornì alla ragione uno strumento o un' arme da contrapporre al senso esteriore che presiede ai beni presenti e reggerne la veemenza; e questo è un senso interiore, cioè l' imaginazione, la quale nello stato di una natura perfetta stava in balia della volontà, la quale imaginazione presiede ai beni futuri. Ora trattandosi di beni naturali, l' uomo poteva sempre imaginarli, che è come un renderglisi presenti e l' eccitare in sè quella stessa azione reale, che, se presenti fossero, per la via degli organi esterni, ecciterebbero. Il perchè così mirabilmente fu costituita l' umana natura che essa due come sensorii avesse, l' uno riguardante le cose presenti, e l' altro le assenti; e l' uno de' quali, cioè quello delle cose assenti, potesse colla sua virtù equilibrare di continuo la violenza dell' altro, cioè di quello delle cose presenti; e che il primo fosse dato in pieno dominio della ragione, sicchè a questa facoltà che doveva essere la regina e signora di tutte le altre non mancasse tanto di polso da poter far eseguire coll' opera i suoi decreti. Fino a tanto adunque che si considera l' uomo entro la sfera delle cose naturali, e in cui egli non ha che a scegliere fra beni de' quali egli ha positiva cognizione ed esperienza, non poteva la sua virtù essere cimentata per modo da tentazione alcuna che egli col suo libero arbitrio resister non potesse: anzi piuttosto è da credere che assai difficilmente potesse peccare in tale stato, nel quale, per la lucidezza e prontezza della sua mente, non poteva mai errare il calcolo di ciò che più gli giovasse in questi suoi temporali interessi. E così si deve intendere, per mio avviso, la sentenza dell' Aquinate che dice: [...OMISSIS...] . Nelle quali parole espressamente parla il Santo Dottore di un ordine di cose secondo la natura , ciò che corrisponde al caso, nel quale noi abbiamo considerato fin qui l' uomo naturalmente perfetto. In un tale stato l' uomo (al quale Dio non si fosse comunicato con una manifestazione positiva) dotato come era di nobilissima intelligenza e di un profondo sentimento, avrebbe senza dubbio, quasi per un cotal peso di tutta la sua natura, cercato di Dio nascosto; egli avrebbe tentato, per così dire, di trovare nell' intimo dell' universo e di sè stesso un sostegno e fondamento delle cose tutte, e non trovandolo, sarebbe andato al di là della natura stessa, al di là di sè stesso; avrebbe pensato la possibilità, la necessità di un Essere occulto che facesse tutto esistere, che rendesse tutto possibile: avrebbe anzi veduto che a tutte le cose mancava l' essere per sè e che pure l' essere gli risplendeva alla mente e gli faceva risplendere le cose tutte, e che pur dell' essere che lo illuminava e in cui le cose sussistevano, gli era maravigliosamente occulta la sussistenza, non partecipando egli che di un' aurora, che gli additava, senza mostrargli, la piena luce del sole. Egli avrebbe pertanto creduto al grande Essere a lui occulto dietro una misteriosa cortina, lo avrebbe adorato senza conoscerlo positivamente, e sarebbesi forse anco messo addentro di mano in mano e perduto in un sentimento abituale di profonda adorazione. Ma tutto ciò non esigeva da lui alcuna privazione, alcun sacrificio, se non anco era quanto di più dilettoso e di più solenne poteva desiderare e agognare la sua eccellente natura. Nè pur qui adunque, cioè nella sua relazione col Dio, naturalmente a lui noto, avrebbe l' uomo della natura incontrata difficoltà alcuna in essere giusto e in rettamente operare. Ma facciamo ora entrar l' uomo della natura in una positiva comunicazione con Dio: Iddio in qualche modo gli favelli e gli dia un precetto positivo, col quale venga imposto all' uomo una privazione, gli si ingiunga un sacrifizio di cosa appetita dalla sua natura: e non gli sia tuttavia comunicata alcuna grazia soprannaturale. Varrà il suo libero arbitrio a mantenere questo precetto? Certo varrebbe la sua ragione a conoscerne l' obbligazione, varrebbe la sua volontà a volerlo speculativamente: ma avrà eziandio tanta forza da imperare alla propria natura e a volerlo praticamente? Qui parmi di dover ricorrere al principio toccato di sopra:« la volontà razionale può vincere il senso e appetito di una cosa allorquando ella può contrapporre un altro senso e un altro appetito di forza almeno equivalente a quel primo«. Ora il senso e appetito che l' uomo può contrapporre ai beni presenti desiderati dalla natura è il senso imaginario col quale appetisce attualmente i beni futuri. Ciò stabilito, sono da vedere le condizioni del precetto positivo che si pone dato da Dio all' uomo. Se con quel precetto vien comandata all' uomo una privazione e sacrifizio cotale che l' uomo possa vincere colla libera volontà assistita dalla sua imaginativa virtù, egli potrà farlo: ma se l' imaginazione non gli bastasse a ciò, agevolmente rimarrà vinto. Il sacrifizio comandato è un male reale, presente: conviene dunque che colla imaginazione egli possa proporsi e rendersi efficacemente presente o un male maggiore nel quale inevitabilmente incorrerebbe non accettando quel sacrifizio, ovvero un tal bene che gli piaccia ottenere più che non gli dispiaccia il male che gli è offerto a sostenere. Così le Scritture dicono che Cristo stesso per sostenere la croce si propose innanzi a contemplare il gaudio che da quei patimenti gli sarebbe derivato (1). Ora all' uomo felice per l' affluenza di tutti i beni naturali e per la mancanza di ogni male non poteva essere desiderio di un bene che vincesse la ripugnanza di una privazione? Se si parla di un bene soprannaturale, in uomo privo di grazia , questo era puramente ideale e senza alcuno esperimento e quindi inetto a essere rappresentato nella sua imaginativa. Un tal bene perfettamente incognito, da lui sperato, pare che per sè stesso non sarebbe stato sufficiente da contrappesare l' avversione del male presente e tutto di sensibile sperienza. Pure poteva da lui essere imaginato un cotal cumolo di beni a lui noti, a cui quel bene incognito paragonato, gli paresse maggiore; e così vincere con questa imaginaria apprensione il male debito d' incontrare: purchè però due cose si fossero avverate, cioè per primo che fosse pervenuto a dar fede alla promessa di un tal bene; e secondo che un uomo già naturalmente felice ne avesse potuto concepire un vero desiderio (2). Ma se la speranza di un bene maggiore poteva dar forze alla volontà di sottomettersi a qualche sofferenza, ha poi in sè questa forza anche il timore di abbattersi in un male minacciato? L' uomo naturalmente felice non ha pigliato ancora sperienza di male veruno. Quindi sebbene egli abbia una cotal concezione tutta ideale del male, come di una cotal privazione o cessazione del bene che sperimenta; tuttavia la sua volontà non può punto nè poco far giocare in favore della giustizia l' imaginazione. Perocchè l' imaginazione, è un senso interiore e però non ha per suo stimolo il male ideale, ma il male reale e quel male reale che fu sperimentato nei sensi. Perocchè questa facoltà dell' imaginativa non ha altro ufficio nè potere se non di rinnovare internamente le sensazioni o più generalmente i sentimenti già sofferiti: e per ciò la libera volontà dell' uomo innocente e beato non poteva da questa parte far uso, come di forza ausiliare, della imaginaria potenza, e poco quindi avrebbe potuto ire innanzi per questa via del timore di un male minacciato. Quindi nella storia di Adamo, fra Dio che minaccia la morte e il demonio che promette scienza, immortalità e deificazione, il demonio aveva il partito migliore, perocchè prometteva un bene , men buono l' aveva Iddio minacciando un male : perchè del bene l' uomo avendo sperienza, poteva venire eccitato da esso imaginariamente, quando il male non poteva essere da lui se non idealmente concepito, il che lascia la libertà slenata a segno che non trova onde attingere forza e prender l' armi alla difesa. Il che non toglie però punto la sua autorità e augusta dignità alla legge divina: nel mentre che scuopre una limitazione e conseguente debolezza dell' umana natura. Se non che in Adamo questa debolezza era confortata dalla grazia, per la quale poteva, se avesse voluto, mantenere egualmente il divino comandamento: perchè, come abbiamo veduto, la grazia appartiene all' ordine dei sentimenti reali , dai quali la libera volontà trae le sue forze (1). E or qui un' osservazione si dee fare intorno all' intrinseca e necessaria limitazione di ogni natura finita, e per conseguente intorno altresì ai limiti che sono posti ad ogni libertà naturale di qualsivoglia creatura ragionevole. Ogni creatura ragionevole, per quanto eccellente ella sia, angelica, e sovrangelica, è limitata tuttavia in questo che ella non può volere nè l' assoluta infelicità propria, nè l' assoluta propria annichilazione. Ora ogni natura contingente, non essendo necessaria nè avendo in sè un prezzo infinito e incondizionato, egli è evidente che il prezzo della sua esistenza o quello della sua felicità è sempre inferiore al prezzo della legge morale il quale è infinito, incondizionato, eterno, ed è Dio stesso. Per ciò la legge morale esige e senza alcuna eccezione dimanda di essere preferita a tutto, fosse anche colla perdita totale della propria esistenza e della propria felicità: e questa esigenza è assolutamente obbligatoria, e di un' assoluta e intrinseca necessità morale, perocchè mai in nessun caso e per qualsivoglia danno, può essere la legge morale posposta e lasciata indietro a cosa alcuna. Egli è vero che l' ottimo Autore delle creature intelligenti non può permettere giammai una sì fiera collisione: ma tuttavia ella si lascia concepire; e la semplice concezione sua è sufficiente a poter trarre di ciò la seguente conclusione: [...OMISSIS...] : al qual termine non giunge veramente nessuna creata volontà. Indi è che nel fondo di ogni creatura esiste sempre una fallacità, esiste un difetto di pienezza di bontà morale: esiste una cotal limitazione non pur fisica, ma (quello che deve esser fonte inesausto di umiliazione alla creatura nel cospetto del Creatore) esiste una limitazione morale, benchè in nessun modo imputabile (2). E forse di questa limitazione morale altresì può intendersi quel passo di Giobbe ove dice che Iddio « trova la pravità negli Angeli suoi« (3) ». Di che conchiude che se vi ha questa deficienza di bontà morale nella natura angelica, molto più ella vi ha nell' uomo, il quale, oltre all' esser mosso dal principio razionale, è tirato e mosso altresì da un principio animale, attività cieca e inetta a percepire la luce della legge morale. Nel qual passo di Giobbe egli pare non parlarsi già di uomini particolari, ma della stessa natura umana e angelica, giacchè toccansi le condizioni comuni di queste nature, e in queste condizioni della stessa natura si fonda il ragionamento: [...OMISSIS...] . E qui pure giace sicuramente il senso più profondo e più vero di quell' alta parola di Cristo: « Uno solo è buono, Iddio« (2) ». Perocchè egli solo ha una volontà così ferma e immutabile nel bene, come è ferma e immutabile la legge stessa, mentre la stessa natura divina incommutabile è egualmente e la legge e la volontà della legge, onde questa volontà pareggia la legge perfettamente, le dà tutto ciò che le conviene e quindi sola adempie veracemente tutta la giustizia. Ciò che poi è mirabile, ciò che fa sentire la dignità sublime della grazia, si è il considerare che l' operazione deiforme della grazia rompe, per così dire, le angustie in cui sono le creature, toglie via, quasi direbbesi, i loro limiti, sana e giustifica questa cotale pravità, intesa nel senso sovraesposto, che rimane in fondo di tutte le creature, ove si considerino per sè sole. Conciossiachè la grazia opera nell' essenza dell' anima, ed è Dio stesso che all' anima formalmente si congiunge. Ora per una cotale unione l' esistenza dell' uomo partecipa dall' esistenza divina un cotal prezzo infinito, perocchè come dice S. Paolo, « chi aderisce al Signore è un solo spirito (5); e la Scrittura dice dei Santi: «« Voi siete dei« (6) ». Questa divinità partecipata fa sì che, desiderando la propria conversione, oggimai desiderino qualche cosa d' infinito, che sia Dio in essi il termine del loro desiderio, come è Dio in essi il termine della deiforme operazione. Lo stesso dicasi del desiderio della felicità. Non è più un desiderio vago, non è più un desiderio di una felicità universale: l' unica loro felicità è la giustizia stessa, è Dio stesso. Quindi la volontà della giustizia s' immedesima colla volontà di essere felici, perocchè questa felicità è oggimai determinata e tutta prefinita dalla sola giustizia trovata nella divina essenza. Quindi Adamo come quegli che era creato in grazia, poteva attingere forze alla sua libera volontà per essere compiutamente giusto. In Cristo dove non havvi altro che una persona e questa è il Verbo di Dio, egli è evidente che l' appetito, se così può chiamarsi, della conservazione e felicità di questa persona ha per oggetto Iddio. Ma questa stessa dirittura di affetti, che nasce per l' unione ipostatica in Cristo, nasce per l' unione sostanziale nei cristiani: tutto l' amor dei quali terminando in sè stessi, viene a terminare in Dio, per questo che sono fatti una cosa con Dio: « Io in essi dice Cristo parlando al Padre, e tu in me, acciocchè sieno CONSUMATI in una cosa sola« (2) ». Di gran valore e proprietà è quella parola, consumati ; poichè esprime una cotale consumazione di tutto ciò che vi è di naturale nella creatura, ridotto e quasi stemperato in Dio il quale è l' ultimo fine della creazione, acciocchè come dice S. Paolo, « Iddio sia tutto in tutte le cose« (3) ». Considerata dunque la creatura sola senza aiuto di grazia, egli è evidente potersi sempre concepire soggetta a cotal tentazione, alla qual vincer non basti il grado di sua libertà naturale: tentazione che, come detto è, procederebbe non da alcun precetto naturale, ma da un qualche precetto positivo che Iddio le imponesse e col quale le ingiungesse qualche sacrifizio; massime se il premio promesso non fosse che soprannaturale. In questo caso, l' appetito assai facilmente si renderebbe insensibile al freno della ragione: ed è sotto questo punto di vista che San Tommaso, con altri maestri in divinità, mostrano la necessità della grazia, perchè sia conservato nell' uomo l' ordine delle potenze, cioè la ragione dominante e il senso ubbidiente; ubbidienza che fanno derivare da quel rinforzo che riceve la ragione da Dio coll' essere a lui unita e sottomessa per grazia. Ecco le parole dell' Angelico Dottore: [...OMISSIS...] Il che sicuramente si deve intendere nel caso della tentazione da noi sopradescritta, che si potrebbe chiamare extranaturale ; perocchè, fuori di questo caso, abbiam già udito poco sopra S. Tommaso mesimo insegnarci, che l' uomo, colla sola natura integra, poteva però evitare ogni peccato sì mortale che veniale. E in tal modo parmi che debbansi conciliare e concordare fra sè questi due luoghi dell' Angelico, che a prima fronte sembrano fra di loro pugnare (2). Dalla quale dottrina dell' Angelico conviene qui tirare intanto questa conseguenza che ci gioverà poscia in futuro, cioè: che la grazia di Adamo innocente era perfettiva di tutta intera la natura umana. Perocchè per natura umana s' intende il complesso de' principii che entrano a comporre l' umanità. Se dunque la grazia saldava e rinforzava, anzi pur completava l' ordine , in cui debbono tenersi questi principii, sia di soggezione all' essere divino, sia di subordinazione fra loro; egli è manifesto che giovava mirabilmente a tutto il complesso di questi principii, mantenendo in loro e completando il giusto ordine: il che è quanto dire, giovava e nobilitava la natura umana. Adunque l' umana natura per la grazia acquistava un tal prezzo, pel quale si faceva possibile un' assoluta giustizia come partecipazione della giustizia divina, della quale dicono le Scritture: « La tua giustizia è giustizia in eterno« (1) ». E tal prezzo aveva Adamo innocente. Ma quale fu poi questa grazia di Adamo, considerata relativamente alla sua efficacità? S. Agostino dice che questa grazia fu un cotal dono, una cotal potenza, l' uso della quale fu lasciato al libero arbitrio dell' uomo (2). La ragione, dice il santo Dottore, per la quale il primo uomo non ricevette questo dono di Dio (cioè la perseveranza nel bene), ma fu lasciato in suo arbitrio il perseverare o non perseverare, si fu che la volontà sua, istituita senza alcun peccato e senza aver nulla in sè stessa che per mala concupiscenza resistesse, aveva tali forze che cosa degna parea che si dovesse commettere a tanta bontà e a tanta facilità di vivere bene l' arbitrio del perseverare (3). Questa grazia adunque era come una potenza nuova data all' uomo (4), il qual uomo poi poteva o adoperarla o no, a suo piacimento: era un cotal sentimento, pel quale poteva resistere, se avesse voluto, all' appetito, e frenare i suoi movimenti in sacrifizio e in obbedienza del Signore; suppliva questo sentimento soprannaturale posto nell' uomo alla debolezza del bene puramente ideale, quale era la giustizia che imponeva di ubbidire a Dio eziandio con qualche sacrifizio; e questo bene ideale in un cotal modo lo realizzava e avvalorava: come appunto l' imaginazione può rendere efficace su di noi un bene futuro, di cui si abbia avuto sensibile esperienza. Or dunque quest' arma, questa virtù messa nelle mani dell' uomo, era indubitatamente atta a farlo vincere la tentazione, purchè avesse voluto adoperarla. La stessa specie di grazia, secondo S. Agostino, era stata data agli Angeli e colla medesima grazia alcuni hanno perseverato nel bene, e altri sono scaduti: non già per diversità della grazia, ma sì dell' uso che il loro libero arbitrio ne fece. Ecco come Agostino dichiara la cosa: [...OMISSIS...] . Con quella stessa grazia adunque colla quale alcuni Angeli perseverarono, colla stessa altri decaddero: e con quella stessa grazia, avendo la quale, Adamo, decadde, con quella stessa poteva perseverare. E` una medesima grazia, sempre appieno sufficiente, ma talora adoperata dall' uomo e talora lasciata inoperosa: come una spada bene affilata che sempre vale per sè a tagliare eziandio che si lasci nel fodero dimenticata. All' uomo insomma costava tanto l' usare della grazia e l' attingere forze da lei, quanto gli costava alzare il braccio, muovere i piedi a camminare o attinger acqua alla fonte per dissetarsi: la forza di muoversi non gli manca e ha pure il fonte innanzi che gorgoglia: in lui sta l' usare o non usare di tali beni. Egli è per ciò, cioè per la natura di questa grazia lasciata nel libero arbitrio dell' angelo e dell' uomo da potersi usare o non usare, che S. Agostino dice, che Iddio in quella prima costituzione dell' uomo volle fare sperimento dello stesso arbitrio dell' uomo e vedere che cosa l' uomo gli avrebbe dato col suo proprio arbitrio di soggezione e di ubbidienza: [...OMISSIS...] . E come togliea a fare sperimento di ciò che far potesse il libero arbitrio dell' uomo? Forse perchè questo arbitrio fosse abbandonato a sè solo? No, giacchè aveva in sua compagnia la grazia: ma sì bene, secondo la mente del santo Dottore Agostino, perchè questa grazia era una forza, una potenza che non operava se lo stesso arbitrio, facendone uso, non la faceva operare in sè e fruttare. [...OMISSIS...] Quella grazia adunque di Adamo e degli Angeli era una grazia potenziale , affidata alle mani della creatura, nella quale stava il ridurla all' atto e cavarne i buoni effetti (2). Ma qui uscirà taluno dicendo: per questo uscire della grazia da quello stato di potenza alla sua attuale operazione, non era forse mestieri di un nuovo aiuto soprannaturale dato all' uomo? Di una di quelle grazie che chiamano attuali ? - Rispondo, e parmi secondo la mente del Dottore della grazia, se io nulla intendo, che perchè quella grazia potenziale operasse, si richiedeva che operasse il libero arbitrio, il quale in questo era lasciato a sè stesso. Or però quando dico che il libero arbitrio era lasciato a sè stesso, non escludo l' aiuto che Dio come Creatore e conservatore delle creature presta loro, non meno, acciocchè possano sussistere che operare: sicchè Iddio, come prima causa, cooperare e muovere doveva sicuramente il libero arbitrio dell' uomo che facesse buon uso della grazia. Oltre questo aiuto presente e continuo di Dio, il quale sta nell' ordine naturale, la grazia stessa pur col passare dalla potenza al suo atto non è che Dio operante in un ordine soprannaturale; perocchè la grazia non si può muovere, nè dare aiuto e forza al libero arbitrio, se non per virtù di Dio: essendo la grazia un' operazione deiforme . Ma tuttavia egli non è assurdo il pensare che il primo movimento nascesse dal libero arbitrio rinforzato dalla grazia abituale e mosso da Dio solo come Creatore, e dietro quel primo e tenue moto che il libero arbitrio cominciava, e mediante una volontà tendente alle cose soprannaturali in quella maniera che per natura e per grazia fossero conosciute, la grazia stessa si attuasse via più speculando e traendo innanzi a fine di sostenere via più l' arbitrio che in tal modo prendeva le sue forze da lei. Sicchè il consenso alla grazia nasceva dal libero arbitrio, rinforzato però dalla grazia abituale e con questo consenso stesso si attuava la grazia e rendevasi operatrice. Insomma il libero arbitrio dell' uomo in quel tempo era sano e naturalmente inclinato alla onestà naturale e di più soprannaturalmente per grazia, cioè inclinato anco al bene soprannaturale. Ora dall' uso di un tale libero arbitrio dipendeva la sorte dell' uomo, come quella degli Angeli. E questo soprannaturale abito di grazia veniva mantenuto e alimentato, per così dire, dalla presenza sensibile della divinità in mezzo alla natura, siccome dicevamo, quasi per l' uso d' un cotale sacramento. Dopo il peccato la volontà umana rimase, perocchè appartiene alla natura dell' uomo: ma le sue forze vennero meno; perocchè il senso animale prese baldanza e si falsificò; e tutte le altre potenze si addebolirono e alterarono; e nella parte stessa superiore del soggetto umano entrò una certa superbia e lusinga di ritrovare una cotal pienezza di felicità e quasi una divinità in sè medesimo. Sicchè come bisognò ricreare l' uomo animale già preda della morte, così bisognò pure che Dio ricreasse una volontà nuova nell' uomo: e questa è l' opera della grazia di Gesù Cristo. Perciò la volontà del bene, nell' ordine della grazia del Redentore, S. Agostino l' attribuisce interamente a Dio sì per riguardo alla potenza che all' atto conseguente alla potenza. [...OMISSIS...] L' atto adunque dell' operare bene, secondo il santo Dottore, nello stato di Adamo innocente viene attribuito al libero arbitrio: nello stato all' incontro dell' uomo riparato viene più attribuito alla grazia. La ragione di ciò consegue da tutto ciò che fu detto. L' atto si attribuisce sempre alla potenza onde esce. Ora nello stato d' innocenza questa potenza era il libero arbitrio dell' uomo, perocchè questo libero arbitrio era retto, cioè tendente naturalmente al bene morale, cioè inclinato secondo l' ordine del bene oggettivo. E questa inclinazione era il principio dell' atto buono: dunque l' atto buono aveva il suo principio nella buona inclinazione originaria naturale (sebbene avvigorita altresì dall' abito della grazia) dell' umano arbitrio. All' opposto l' arbitrio dell' uomo peccatore è essenzialmente disordinato, cioè ha perduto quella naturale rettitudine, non è più volto al bene secondo la considerazione oggettiva, ma anzi ha un' originaria tendenza infetta da disordine, perchè non interamente secondo l' ordine oggettivo (1). Nell' arbitrio adunque dell' uomo infetto ancora dal peccato originale e non rinato nel battesimo, vi ha bensì il principio dell' atto cattivo, e non il principio dell' atto veramente e compiutamente buono. Quindi è necessario che la grazia del Riparatore sia tale che non solamente avvalori il libero arbitrio, ma vi inserisca a dirittura il principio degli atti buoni, raddrizzandolo e piegandolo debitamente all' ordine oggettivo del bene: e quindi è che dal Santo Dottore Agostino si attribuisce alla grazia non solo la potenza del bene, ma gli atti stessi, e che la grazia opera nell' uomo tutto, cioè tanto il volere, quanto anche il perfezionare. Nascendo adunque nell' uomo riparato il principio del bene non già dalla propria natura, ma immediatamente da Dio autore della grazia, avviene che le forze morali dell' uomo riparato, secondo il medesimo S. Agostino, sieno tanto maggiori di quelle dell' uomo innocente, quanto la grazia è più forte della natura: il che è un dire, quanto Dio è più forte dell' uomo. L' abbattimento adunque e il mancamento della natura umana diede a Dio occasione di far risplendere tutta la gloria della sua possanza e della sua misericordia, facendo sì che nell' uomo infermo e nullo, si trovasse maggior fortezza e costanza di virtù che nell' uomo intero e per ogni sua parte perfetto. [...OMISSIS...] E non è già che l' impulso della grazia di Cristo ascenda tanto e prenda questo grado di vigore subitamente e in tutti i cristiani egualmente o gli eletti, pel quale vigore questi già sieno sempre così sollecitati e propriamente necessitati a dover il bene operare. Il dir questo non è sicuramente la mente del santo Padre che ora ci serve di guida. Ma che il fondo dei suoi pensieri io reputo che sia questo: che venendo il principio del bene operare nell' uomo riparato non dall' arbitrio, ma dalla grazia, il che è quanto dire da Dio; questo principio di bene operare, a cui convenevolmente tutte le buone azioni e l' attual volere si attribuisce, è di sua natura onnipotente , e non di forze limitate, come la libertà naturale dell' uomo integro; e per ciò è cotale quel principio onnipotente del bene che può sempre produr nell' uomo una invitta e felicissima necessità dell' operare il bene e talora la produce eziandio nella vita presente. La necessità adunque del bene operare, colla quale, come con carattere proprio, segna il santo Dottore e contraddistingue la grazia di Cristo da quella di Adamo innocente, riguarda la natura e condizione propria della grazia di Cristo, e non il suo costante effetto nell' uomo, perocchè questo effetto della necessità dell' operare essa non è necessitata a produrlo, ma ha bensì sempre virtù di produrlo: e il produrlo realmente è una speciale predilezione che usa Dio con certe anime predilette sue amiche (2). La volontà dunque dell' uomo, come Dio la fece a principio, era retta sì nell' ordine naturale, di tutta quella rettitudine che può avere la natura umana, e sì nell' ordine soprannaturale, di quel rinforzo che riceve la volontà umana dalla grazia. Ora una volontà pienamente retta è un supremo principio di operare nell' uomo: perocchè se vi avesse un altro principio che sorvolasse la volontà e si mettesse a imperare sopra lei, già la volontà con questo non sarebbe più retta, perocchè è proprietà necessaria alla sua rettitudine che ella non si lasci volgere da alcun altro principio soggettivo, ma sì che ubbidisca solo al principio oggettivo della legge di Dio. Ora la persona dell' uomo non viene costituita che nel principio supremo che opera nell' uomo, secondo la definizione che ne abbiamo data. Adunque quel pregio che aveva la volontà di essere retta era un pregio personale del primo uomo, cioè che nobilitava la sua persona. E perchè quando alla persona come a causa si può attribuire il bene e il male, allora si dice che l' uomo merita o demerita; perciò il bene morale, di cui il primo uomo si abbelliva e fregiava, era a lui giusta cagione di merito. Ma la dignità morale di che si fregiava il primo uomo non era solamente un bene della sua persona, ella era anche un bene della sua natura. E veramente si consideri ciò che forma la persona e ciò che forma la natura; e si troverà che queste due cose in Adamo erano in perfetto accordo e l' una, per così dire, rientrava nell' altra, sicchè i beni dell' una non potevano essere altro che i beni dell' altra. Mi spiegherò più chiaramente. La persona è una relazione che sussiste nella natura intelligente, cioè è quel principio supremo di operare che è mai sempre in una natura intelligente, e che di natura sua deve dominare gli altri principii tutti della natura stessa. Per natura all' incontro non s' intende quel solo principio attivo che ha la relazione di supremazia verso gli altri, ma s' intendono tutti i principii attivi individuamente connessi fra loro, senza riguardo alcuno al loro ordine, ossia alla relazione che ha l' uno coll' altro. Ciò posto, se un principio attivo qualsiasi che entra a costituire una natura acquista qualche grado di perfezione, si può dire a ragione che quella natura si è perfezionata. Ma acciocchè si possa dire essersi perfezionata altresì quella persona, conviene che il detto perfezionamento sia avvenuto o ridondato nel principio supremo che è il principio di attività personale. E perciò si deve distinguere il perfezionamento della natura dal perfezionamento della persona: e per la stessa ragione si deve distinguere il bene della natura dal bene della persona. A cagione di esempio, se l' uomo ha o acquista una perfetta sanità di corpo, egli ha o acquista un bene di natura: ma la sua personalità è ella per questo, necessariamente per questo, più perfetta? Se insieme colla sanità del corpo egli si fosse reso vizioso nello spirito, la sua persona avrebbe anzi perduto che guadagnato di perfezione, di bene. E viceversa se un uomo si rendesse più virtuoso nel tempo stesso che incontrasse una malattia, egli avrebbe, assolutamente parlando, perfezionata la sua persona nel tempo stesso che la sua natura avrebbe sofferto. Sebbene adunque non ogni bene della natura intelligente sia anche di necessità bene della persona, e viceversa non ogni bene della persona sia anche bene di tutta intera la natura; tuttavia si dà il caso che il bene della persona ridondi in bene di tutta intera la natura. Ecco quando si può dar luogo a questo caso, e quale sia il bene personale che gode di questo vantaggio. I principii attivi che entrano a costituire un individuo intelligente, per es. l' uomo, possono essere più o meno legati fra di loro, sebbene ciascuno si distingua dagli altri. E se si considera la natura umana nel suo ideale, cioè nel suo stato perfetto senza alcun guasto, si vede chiaramente che il principio attivo supremo deve possedere in sè una forza, colla quale domini e governi gli altri principii ordinati ad essere a lui soggetti. Questa prevalenza di forza nel principio attivo supremo, ossia personale, e questa relativa debolezza e sudditanza dei principii inferiori, costituisce appunto un legame che stringe questi a quello ed è il vero ordine intrinseco alla natura umana. Or questa prevalenza del principio personale è sicuramente un pregio e perfezione della persona stessa; ma egli non è meno un pregio e una perfezione della natura intera: perocchè tutti i principii che la costituiscono sono nel loro posto e senza alcuna discordia fra essi formano quella giusta e conveniente armonia, da cui la natura tanto riceve di nativa bellezza e nobiltà. Ora quest' ordine, quest' armonia di natura era nel primo uomo costituita da Dio perfettamente e decorava non meno la sua persona che la sua natura. Di che si vedrà ragione per la quale la morale dignità di Adamo, quella cioè in cui fu costituito, dovesse passare a' figliuoli suoi. E di vero, ciò che passa per generazione nei figliuoli è la natura. Perciò i figliuoli di Adamo innocente conveniva che portassero in nascendo quello stesso bene morale che era connaturale in Adamo, cioè che era in lui non pur bene della persona, ma bene della stessa umana natura. La grazia data da Dio al primo uomo era perfettiva, come abbiamo veduto, non pure della sua persona, ma ben anco della sua natura (1). Perocchè quella dignità morale che risiedeva nella personalità del primo uomo non decorava meno la natura sua, e ad un tempo colla natura, quasi divenuta con essa una sola cosa individua, gli era stata data. Essendo tale pertanto la legge della costituzione umana, che la natura umana non dovesse esistere se non completata dalla grazia di cui abbisognava, accadeva che questa natura, neppur comunicandosi per la propagazione, scadesse dalla sua perfezione in cui il Creatore tenerla voleva, ma che tutta intera e completa in diversi individui si venisse moltiplicando (2). Abbiamo veduto come l' anima intelligente si crea nell' uomo in venendo questo generato, cioè in virtù della visione dell' essere ideale che riceve il principio senziente nell' animale, il quale, ammesso a questa congiunzione dell' essere, partecipa tantosto l' intelligenza, e l' immortalità e la spiritualità (3). Ora la grazia non è che l' essere stesso mostrato all' uomo nella sua reale sussistenza , cioè con un grado di luce nuova e veramente divina. Perocchè quest' essere che così si realizza si muta in Dio. L' essere adunque che risplendeva innanzi all' anime di Adamo e de' suoi figliuoli non era l' essere puramente ideale, ma quest' essere con un cotal modo di realtà che il rendeva potente e di tutta la natura maggiore, che il rendeva insomma soprannaturale e divino. S. Tommaso insegna che, l' uomo ove fosse stato confermato in grazia e messo al premio della visione beatifica di Dio, non avrebbe da quell' ora più generati figliuoli (1). Però tutto quel tempo, nel quale sarebbe avvenuta la moltiplicazione del genere umano, l' uomo avrebbe meritato con degli atti virtuosi senza venire però ancora confermato in grazia. Il contrario insegnano le Divine Lettere essere avvenuto degli Angioli, i quali col primo atto meritorio furono al loro termine di perfetta beatitudine. E una tale dottrina scaturisce anche dalle nozioni della natura dell' Angelo e dell' uomo. Perocchè abbiamo veduto che la natura umana è intelligente e animale ad un tempo; e che la sua intelligenza è la inferiore di tutte nella gerarchia delle intelligenze, perocchè la natura di lei sta nel veder l' essere nel modo il più imperfetto, cioè al tutto indeterminato. Or poi per ispingersi innanzi da una cognizione così tenue dell' essere a una cognizione più intera e perfetta, essa naturalmente è fornita dei soli sensi animali i quali le fanno percepire solo degli esseri materiali: ed ella è costretta di usare di queste così limitate sue percezioni a sollevarsi all' intendimento degli esseri più nobili e di Dio stesso. Intendimento che non può mai pienamente conseguire per la tenuità e imperfezione del mezzo ch' ella adopera a pervenirvi; perocchè nè nella creatura materiale, nè in sè stessa e negli atti suoi trova mai cosa che tenga vera e propria similitudine cogli esseri più nobili, cioè cogli Angeli e con Dio. Di questo passo lento e improporzionato al gran viaggio è costretto di andare l' uomo considerato entro i limiti dell' ordine naturale. Ben è vero che la grazia il fornisce di un mezzo troppo più sublime e che troppo più innanzi il reca nella cognizione dell' essere assoluto. Ma la grazia stessa è data in modo che tiene proporzione al grado della natura: perocchè la grazia non fa che aggiungere splendore ed efficacia alle concezioni naturali, fino a tanto che nella vita presente l' uomo dimora; splendore ed efficacia che rende l' uomo senza dubbio più sapiente di prima in quanto alla profondità, dirò così, delle sue cognizioni e all' acutezza della sua vista spirituale per discernere dentro a esse il divino che gli si rivela; ma splendore però che non aggiunge alla sua mente percezioni interamente nuove di nature nuove. In somma come l' essere indeterminato che costituisce la specie umana è la vista più imperfetta dell' essere stesso, e però non fa che produrre tale specie di esseri intelligenti che è inferiore fra tutte le specie di esseri dotati d' intelletto; così la grazia congiunta a principio colla natura dell' uomo doveva essere la più tenue di tutte le grazie di cui fossero fornite le altre specie intellettive più eccellenti dell' umana. All' incontro la natura angelica, secondo la notizia che ce ne danno le divine lettere, non aveva un mezzo così limitato di perfezionare la sua cognizione dell' essere come sono i sensi animali di cui l' uomo è fornito. Ma in luogo di questi vedeva l' essere già per natura assai più perfettamente dell' uomo, cioè vedeva l' essere e nell' essere poteva scorgere immediatamente molte sue determinazioni, le quali sono ciò che i teologi chiamano specie infuse . Potevano adunque vedere dell' essere non pure il principio, come il vede l' uomo per natura, ma anche molti termini dell' essere stesso. Non già che gli Angeli vedessero da principio, per natura, o per grazia, il termine essenziale e assoluto dell' essere, cioè Dio: ma come essi cercavano nell' essere ideale, quasi in uno specchio che loro rifletteva l' essere reale, tutto ciò che a loro piacesse di trovarvi aguzzandovi la loro vista intellettiva; così vi potevano cercare dentro e le altre cose create e sè stessi e il Creatore. E l' amor loro che volgeva la loro volontà in questo ricercamento dell' oggetto della loro contemplazione, poteva essere giusto, recando la loro intellettiva attenzione di preferenza in Dio, od essere ingiusto preferendo di contemplare i pregi di altra cosa che Dio non fosse. E così avvenne che quelli, i quali dentro all' essere ideale che chiarissimamente risplendeva innanzi le loro menti, cercarono la divina essenza, ve la trovarono, e con quell' atto medesimo col quale perfezionavano la loro cognizione, conseguivano altresì il merito della virtù e in un cotal merito della virtù il premio della beatitudine. Laddove quelli che con ingiusto affetto cercarono nella chiara vista che avevano dell' essere ideale innanzi sè stessi che Dio, a questo preferendosi, commisero peccato nel tempo medesimo che abbuiarono il loro intelletto, col trattenerlo dalla contemplazione della luce divina; e non poterono poi più isguardare nella faccia divina a loro amica e ridente, ma solo nella faccia divina turbata e irata in essi: vista sommamente spaventevole, e onde ogni creatura per necessità di natura atterrita rifugge. Sicchè l' angelica natura pure col primo passo pervenir doveva o alla somma felicità o alla somma miseria. Non così è, siccome dicevamo, della natura umana, l' intendimento della quale non vede già nell' essere che gli sta innanzi tutto ciò che vuole, ma anzi non ci vede nulla se l' esperienza del senso animale non lo aiuta a vedervi alcune cose, il qual senso non lo può aiutare che assai debolmente e limitatamente, come detto è. Sicchè gli rimane sempre da fare un lungo viaggio innanzi che pervenga alla cognizione intuitiva di Dio, sebbene aiutato dalla grazia, perocchè anche questa procede con quella gradazione che la natura (1). Per la stessa ragione è che l' uomo anche peccando non perviene d' un tratto all' ultimo termine della malizia. Perocchè essendo graduata la sua cognizione e rimanendosi ella sempre imperfetta, rimansi graduato ancora il suo merito e il suo demerito che tien dietro alla cognizione. Poniamo che il suo peccato consista in disubbidire immediatamente a Dio. Ora egli è evidente che la gravezza di questo peccato non è tanta quanta è la grandezza e maestà del supremo Essere in sè stesso considerato; ma sì quanta è la grandezza e maestà di quest' Essere nella concezione dell' uomo che lo concepisce. Sicchè quanto l' uomo ha più di cognizione di Dio, tanto egli ha più di reità; e n' ha meno quanto la concezione del sommo essere è in lui più imperfetta. Fermata questa norma di giudicare della gravezza dei falli dell' uomo, egli è manifesto che la limitazione della cognizione nell' uomo ne limita il suo demerito, e che il graduato conoscere dell' uomo rende altresì graduato questo demerito stesso, il quale non è mai sommo se non allora che somma sia la sua cognizione. Di che avviene che l' uomo stesso, il quale potè offendere Iddio quando lo conosceva con un dato grado di cognizione, conoscendol poi con più gradi, si penta di averlo offeso. Sicchè Iddio per convertir l' uomo non ha talora che a donargli grazie di conoscerlo più sperimentalmente: di modo che coll' accrescergli la cognizione soprannaturale e sperimentale della divina natura, può talora salvarlo. Non così poteva avvenire degli Angeli, nei quali la cognizione naturale era massima nel primo atto e, corrispondente a questa cognizione naturale, era pur massima in essi la cognizione che loro derivava dalla grazia; secondo il principio che noi abbiam posto, che la grazia è proporzionata e come pedissequa della natura. Se dunque l' Angelo, col primo uso della sua volontà, poteva dare intero compimento alla sua cognizione di Dio, movendo l' intelletto a riguardarne la stessa essenza; l' uomo all' incontro non può mai giungere a questo, ma solo ad acquistare di mano in mano qualche grado maggiore della divina cognizione. E però l' Angelo col primo atto abusando della massima cognizione e della massima grazia (1), non gli rimase più onde riceverne alcun' altra maggiore che il potesse salvare (2). Ma nell' uomo fino che vive in terra può esser sempre messa una cognizione e una grazia maggiore, e con essa convertirsi: salvo che se abusasse dell' ultima delle grazie ch' egli può ricevere, perocchè allora nascerebbe quel peccato contro allo Spirito Santo di cui disse Cristo: « Che non sarà rimesso nè nel presente secolo nè nel futuro« (3) »; peccato in tutto simile a quello degli Angeli. Queste ragioni, nascenti dalla natura degli uomini e da quella degli Angeli, rendono ragione del mistero espresso dall' Apostolo con quelle parole: « Non sollevò gli Angeli, ma sollevò (apprehendit) il seme di Abramo« (4) ». Questa proposizione è naturale conseguenza della dottrina esposta nei due articoli precedenti. Perocchè non potendo l' uomo trasfondere ne' figli ciò che non ha egli medesimo per costituzione di natura, non può comunicarlo. Ora quando l' uomo innocente dava l' esistenza a dei suoi simili, non doveva ancora essere confermato in grazia, come vedemmo, e però nè pure i nati da lui potevano ricevere per nascimento quest' ultimo grado di perfezione. Ma se i nati dell' uomo innocente non ricevevano per generazione dal padre la confermazione della grazia divina, ricevevano però la grazia originale, come detto è. Ora la cristiana dottrina insegna che il contrario avviene della grazia del Redentore, la quale non passa nei figliuoli per la naturale generazione. Ora di che deriva adunque questa differenza? Ond' è che la grazia primitiva aveva questa singolar natura di essere ingenerata, per così dire, nei figliuoli, e non così la grazia riparatrice? La ragione di tale differenza sta pur sempre in quella gran distinzione fra la persona e la natura: la prima incomunicabile, comunicabile la seconda; cioè la grazia originale non era solamente affissa alla persona, ma era affissa anche a tutta la natura umana, come abbiamo veduto; sicchè per lei avveniva che tutte le potenze dell' uomo fossero indirizzate a un ordine soprannaturale, standone queste soggette senz' alcuna contraddizione nè repugnanza. All' incontro la grazia riparatrice è personale, cioè è affissa alla persona, ossia al principio supremo della natura umana, l' intellettiva volontà; e le altre potenze inferiori rimangono tuttavia ricalcitranti e ribellanti alla signoria di quella grazia, che però non sono da lei nella vita presente intieramente dominate e ristorate, ma tengono sempre la nativa corruzione che le mantiene ree di morte. Or ciò che è della persona non passa nel figliuolo, ma sol quello che è della natura. Il che vieppiù manifestamente apparisce ove si consideri il modo onde la umana natura mediante la generazione si comunica. Perocchè l' uomo genera non in quanto è persona umana, ma in quanto è individuo animale: sicchè il progresso della formazione dell' uomo nella generazione è dall' imperfetto al perfetto. Ed essendo l' uomo, considerato come animale, ancora disordinato e guasto, sebbene egli stesso come umana persona abbia ricevuta la grazia e la santificazione del Redentore, non può naturalmente produrre che un animale pure guasto e disordinato. Ed ora niente ripugna che un tale animale riceva il lume dell' intelligenza, perocchè questo lume non lo innalza già a stato di dignità morale e soprannaturale, potendo stare l' intelligenza anche insieme colla colpa. Ma sarebbe stato ripugnante e contradditorio che un essere moralmente disordinato fosse stato dotato contemporaneamente della grazia divina; perocchè questa non può stare col disordine morale e col peccato, giacchè la grazia è una comunicazione di quella natura divina abborrente essenzialmente da ogni peccato. E che l' uomo tosto che generato avesse in sè naturalmente un disordine morale, apparisce da questo, che l' appetito animale per suo disordine non ubbidisce da principio perfettamente alla ragione. Sicchè se l' uomo nascesse puramente coll' animalità senza ragione, dir non si potrebbe che in lui ci avesse deformità o guasto morale, ma solo alcun disordine fisico. Ma appunto col ricevere a un tempo stesso l' animalità e l' intelligenza, sorge in lui un disordine veramente morale per lo squilibrio di quelle due potenze, cioè a dire per la insubordinazione della prima alla seconda. Sicchè quella che genera è una natura guasta, e però genera una natura guasta: e questo guasto nella natura generata di natura sua è morale; e si richiede che Dio per un' azione esterna e sua propria vi porti riparo, non potendosi più comunicare la grazia pel veicolo della naturale generazione, ma convenendo che Iddio per nuovo straordinario dono l' affigga all' elemento intellettivo dell' uomo, nel quale vi è la verità ossia l' essere risplendente: essere che non è dato all' uomo per virtù propria della generazione, ma solo per una legge annessa da Dio alla generazione medesima, e il qual essere perciò non può mai venir macchiato nè alterato, perocchè è un' appartenenza a Dio medesimo (1). Sicchè risultando l' umana natura da un soggetto e da un oggetto, e venendo il primo formato dalla generazione, e il secondo venendo dato da Dio stesso, quantunque secondo una legge permanente; il punto di salute, e dove si poteva rappiccare la grazia era ciò che dava Dio all' uomo e non ciò che dava l' uomo all' uomo in generandolo. Di che apparisce che l' uomo doveva prima essere generato e poi redento, e che non poteva in uno colla generazione ricevere la grazia riparatrice. Un' altra dimanda si fa presente al pensiero: se i meriti e le grazie acquisite di Adamo innocente fossero dovuti passare nei figliuoli; e se no, per qual ragione passar non dovessero, quando pur passava la grazia originale? La cristiana dottrina risolve negativamente la questione: e il perchè anche qui giace nella intrinseca natura della cosa. La legge della generazione porta che passi nel figliuolo la natura del padre e della madre, ma non lo stato accidentale in che questa natura si trova nel padre e nella madre. La generazione è un' operazione animale, come abbiam detto, subordinata a certe leggi fissate dall' Autore dell' essere animale. Tutte le circostanze particolari e accidentali che entrano, o nella materia di cui si compone il generato, o negli organi generanti, o nel meccanismo dell' operazione medesima, tutto ciò insomma che realmente influisce in questa grande e arcana operazione, entra a determinare le accidentali qualità che ricever deve la natura nell' individuo generato: ciò che in esso resta sempre immutabile sono i principii costitutivi di questa stessa natura, che non è altro ella stessa che il complesso appunto di principii attivi individualmente congiunti. Ora tutti i meriti e le grazie acquisite del primo uomo innocente non avrebbero in lui accresciuto il numero de' principii attivi costituenti la sua natura; ma solo avrebbero sviluppati e perfezionati questi principii medesimi originariamente in esso esistenti. Come non è necessario che nascano i figliuoli coi detti difetti accidentali del padre; per esempio, non è necessario che da un uomo zoppo o senza braccia nascano altrettanti zoppi o monchi; così parimenti non è necessaria legge di natura che nascano i figliuoli coi pregi accidentali dei loro padri. Per questo gli adulti non generano già adulti, nè da uomini di grandi cognizioni nascono dotti i fanciulli: nè per la stessa ragione le virtù de' padri passano necessariamente ne' figli. Ma quello che è necessario per legge di generazione si è: che i principii attivi, che entrano a formare la natura de' padri e tutto ciò che traggono seco necessariamente, passino ne' figliuoli (1). Di che nasce che da uomini nascono uomini (nei quali vi sono per natura i due principii della volontà e dell' istinto); e che da bruti nascono bruti (nei quali non v' è che un principio solo, l' istinto). Se poi dei lunghi abiti di virtù acquistati dai genitori e delle abbondanti grazie possano giungere a migliorare intrinsecamente i principii attivi dell' umana natura e quindi influire sulla stessa generazione; se le lunghe virtù e i meriti dei padri insomma possano migliorare le schiatte, come pure se i vizii de' maggiori possano degradarle (il che io molto sospetto); questa è questione sottile e degna di essere chiarita colle più perseveranti e diligenti osservazioni sull' andamento delle famiglie e alterazioni che in un lungo corso di secoli ricevono le progenie. Ma per vantaggiosa che possa essere una tanta ricerca all' umanità, non è del mio ufficio nè delle mie forze il qui trattarla, giovandomi solo l' averla accennata (1). Si deve dunque distinguere i principii attivi, che entrano nella umana natura, dal loro sviluppamento. In quanto ai principii attivi si può distinguere 1. il loro numero, 2. la potenza di ciascuno, e 3. il loro ordine o scambievole armonia. In quanto al numero abbiamo già detto che la natura umana costituita nell' ordine naturale ne ha due, l' istinto e la volontà: e che costituita nell' ordine soprannaturale ne riceve un terzo, che è la volontà stessa operante dietro una percezione soprannaturale. In quanto alla potenza intrinseca di ciascheduno, questo è data per le leggi a cui soggiace la natura e la generazione, e ho manifestato di sospettare che possa essere accresciuta o diminuita per l' influenza degli abiti virtuosi o viziosi, e in generale pel bene e pel male a cui può soggiacere l' umanità nelle tante e sì varie sue vicende. In quanto al loro ordine, l' essere questo perfetto, mediante una perfetta subordinazione dei principii attivi, costituisce la perfezione dello stato morale dell' uomo. Questi tre elementi si debbono calcolare da chi vuol conoscere la perfezione maggiore o minore della costituzione umana. Ma oltre la perfezione annessa alla costituzione dell' uomo, havvi la perfezione del suo sviluppamento: la costituzione umana è formata dai principii attivi; il suo sviluppamento dall' uso ed esercizio dei medesimi. La perfezione che può conseguire l' uomo col suo sviluppamento, cioè col suo usare de' propri principii attivi, o appartiene alla persona o appartiene alla natura. Nell' uno e nell' altro caso è una perfezione accidentale: perfezione accidentale della persona, perfezione accidentale della natura. Io chiamo perfezione della persona quella che consiste e risiede nel principio personale, cioè nel principio supremo dell' uomo, nel principio morale. All' incontro perfezione della natura io dico quella che riguarda qualsivoglia principio attivo che forma parte dell' umana natura. Conviene afferrare bene questa distinzione fra perfezionamento della persona e perfezionamento della natura. Egli è manifesto che tutte le potenze dell' uomo possono svilupparsi e perfezionarsi e che la perfezione dell' una non è già sempre condizionata alla perfezione dell' altra; ma che l' una si avvantaggia e perfeziona talora senza dell' altra, se non anche a spese dell' altra. Però ogni sviluppamento e perfezione dell' uomo, come animale, non tiene già la proporzione e la norma onde l' uomo si sviluppa e si perfeziona come essere intellettivo. Anzi non di rado avviene che chi diede opera a conservare più studiosamente la sanità e le forze corporali si trovi aver negletto la coltura delle forze dello spirito, e che gli uomini più dotti e perspicaci non sieno già sempre i più sani e i più robusti. Medesimamente lo sviluppo e perfezionamento delle forze intellettive non va già sempre innanzi d' un passo collo sviluppo e perfezionamento morale dell' uomo: e non è infrequente che chi ha fatto tesoro di più cognizioni e ha rese le sue facoltà intellettuali più perspicaci e più pronte, si trovi aver trascurato la propria moralità e non data la sufficiente coltura al principio morale che in lui risiede. Or la coltura e il perfezionamento del principio morale forma la perfezione della persona: laddove il coltivamento e sviluppo della parte intellettiva o animale dell' uomo non forma che una perfezione della natura; perocchè il principio morale è il supremo principio attivo che sia dell' uomo, in che abbiamo detto consistere la personalità. Dissi che la perfezione della persona non solo differisce dalla perfezione della natura, ma talora si trovano queste due perfezioni in vera opposizione fra di loro. Questa verità che può parere assai singolare a chi non vi ha mai riflettuto, si rende manifesta mediante un' osservazione che fa colla solita sua acutezza S. Tomaso, cioè: che fra le virtù ve ne hanno di quelle che non esigono alcuna imperfezione nella natura; ma che ve ne hanno altresì di quelle che suppongono e richiedono per esistere una qualche imperfezione della natura. Delle prime il santo Dottore reca in esempio la carità e la giustizia: e in esempio delle seconde adduce la fede e la speranza, le quali suppongono che manchi il conoscimento o il possesso di ciò che si crede e spera; come pure la penitenza e la compassione, la prima delle quali suppone essere preceduto il peccato e si forma dal dolore, la seconda nasce dalla partecipazione dei mali altrui (1). E veramente non c' è dubbio che il rammaricarsi de' propri falli, il compatire alla miseria altrui, il credere e lo sperare le cose da Dio rivelateci sulla sua parola, sono altrettanti atti morali e meritorii, i quali per ciò ci accrescono la perfezione della persona. E tuttavia come si potrebbero fare questi atti perfettivi della nostra personalità, se non ci fosse data occasione a farli da quei difetti di natura che ne formano come la materia o l' oggetto? Per quanto possa parere altrui strana questa opposizione che talora s' incontra tra il perfezionamento della persona dell' uomo e quello della sua natura, egli è però un fatto innegabile e nessun filosofo di buona fede potrà sicuramente dissimularlo. La ragione di ciò si è che la natura umana, come la natura di qualsivoglia altra cosa creata, contiene in sè medesima una necessaria ed essenziale limitazione, la quale per ciò nè pur Dio stesso avrebbe potuto fare che non ci fosse. E una tale intrinseca e naturale limitazione impedisce che la natura umana sia suscettibile di ogni ingrandimento e perfezionamento, e l' assoggetta alla surriferita ed altrettali linee di confine: dimodochè, perfezionandosi da una parte, conviene che si renda imperfetta dall' altra, e fra queste due quantità, l' una delle quali cresce mentre l' altra scema secondo una certa legge, fissa e determina un maximum di bene totale, oltre il quale non si può andare. Della quale limitazione noi abbiamo trattato più lungamente altrove (2). Ora qual è l' ordine che devono avere fra loro la perfezione della persona e quella che è semplicemente perfezione della natura? Ove si abbia a mente in che noi abbiamo fatto consistere la persona umana, non sarà difficile avvedersi che la natura deve servire alla persona e non viceversa, e che la perfezione della persona vale infinitamente di più di quella che è semplicemente perfezione di natura, anzi è la sola che costituisca il vero pregio di tutto l' uomo. Perocchè la personalità risiede nel più nobile e più alto principio che nella natura umana si trovi, cioè in quel principio volitivo che è ordinato a seguire la verità e che perciò ha un prezzo assoluto e un potere di fatto e di diritto sopra tutte le altre potenze che compongono l' uomo e che da quel supremo principio devono essere mosse e guidate. Sicchè ove ci avesse difetto nel principio supremo, tutto l' uomo sarebbe con questo disordinato e guasto: quando avendovi difetto solamente nelle potenze inferiori, niuna delle quali per sè è morale, l' uomo però non si potrebbe dire assolutamente corrotto e disordinato perocchè la sua personalità sarebbe sana, e l' IO (1) non ubbidirebbe già, ma riterrebbe la sua dignità di comandare o almeno di non servire ad altre potenze. E qui di passaggio mi si permetta osservare l' illusione e l' inganno che si fanno gli uomini per ragione di queste due distinte perfezioni della persona e della natura. Si vedono sopra la terra gli uomini divisi in due parti. Una parte è intesa a cercare la perfezione della persona; un' altra parte intesa a cercare quella perfezione che è semplicemente della natura. E gli uni e gli altri vanno in cerca di un bene di cui godere: gli uni e gli altri tentano di acquistare una grandezza, della quale possano compiacersi in sè medesimi: perocchè ogni uomo, qualunque sia, vuol sempre esser felice, grande, perfetto; vuole almeno poter esser creduto e potersi creder tale. Intanto quelli, che non si affaccendano se non a conseguire una perfezione e una grandezza che appartiene alla natura ma non alla persona, sono manifestamente ingannati: perocchè la perfezione a cui volgono l' animo e le fatiche, migliora sì alcune parti dell' uomo, ma non l' uomo stesso. Tutti quelli che si mostrano infaticabilmente industriosi e zelanti per crescere sè stessi o anche gli altri uomini di beni materiali e che non altro mirano che a poter aumentare l' agiatezza, la prosperità, le delizie della vita, o se si vuole anche tutti i progressi delle scienze e la coltura dell' intelletto, a esclusione della cultura morale pratica, e che si fermano qui nè voglion conoscere alcun altro bene dell' uomo di ordine a questi superiore; tutti costoro, dico, procacciano una perfezione all' umanità, ma che non si può dire mai giungere al miglioramento dell' uomo come persona, ma solo ad un cotal miglioramento dell' uomo come natura. Senza far dunque questa distinzione, essi si vengono lusingando di meritare giustamente il nome di filantropi, e si arrogano di essere essi soli che promuovono gli avanzamenti progressivi e l' ingrandimento della specie umana. Ma chi bene e imparzialmente considera i loro intendimenti, trova che nasce bensì un vantaggio dai loro sforzi anche alla umana personalità per un effetto indiretto della maggior perfezione della natura: effetto dal genere di uomini dei quali parliamo non inteso nè apprezzato nè preveduto. Ma che però questi uomini allora quando essi astraggono dal perfezionamento veramente morale, per non avere in vista che il solo perfezionamento materiale dell' umanità, non innalzano bastevolmente le loro intenzioni e non si propongono un fine abbastanza nobile dei loro utili travagli; cioè non tendono a rendere grande e perfetta veramente la persona umana che è quanto dire tutto l' uomo, ma sola una parte della sua natura. E che s' illudono quindi se si persuadono di lavorare alla vera grandezza e alla vera perfezione dell' uman genere. E se intesi alla perfezione della natura, questi uomini che fin qui abbiamo descritto, si facessero coscienza di non nuocere mai alla perfezione della persona umana, un preclaro beneficio farebbero colle loro oneste fatiche e studi all' umanità. Ma ove si consideri che noi parliamo di quei soli, i quali non altra perfezione conoscono possibile nell' uomo se non quella che abbiamo nominata perfezione della natura, e che quindi disconoscono o non badan punto o certo niente apprezzano la perfezione veramente morale e personale; non sarà difficile avvedersi che nei loro tentativi e nelle loro imprese la perfezione della persona dovrà venir ben sovente posta a pericolo e sacrificata alla perfezione parziale della natura, che sola si vuole e s' intende. Conciossiachè, come di sopra abbiamo detto, queste due maniere di perfezione non sempre vanno di un perfetto accordo fra loro: ma l' una può cadere in collisione coll' altra per l' intrinseca limitazione della natura umana. In tutti questi casi di collisione, colui che non ha mai afferrato il pregio della perfezione morale e che tutto ripone nella perfezione della natura, non dubiterà [di lasciare] che quella prima venga soprafatta e distrutta da una cieca avidità che lo porta verso la seconda. Nè questo è un avvenimento peregrino e raro: perocchè egli è tanto universale che costituisce anzi egli solo quella grande classificazione di tutti gli uomini in buoni e cattivi. Non esagero punto: si consideri la cosa con diligenza. Non sono pur i soli filantropi quelli che vogliono il bene della natura umana: anche gli egoisti il vogliono almeno per sè stessi. Tutti dunque gli uomini, nessuno escluso, appunto perchè sono uomini, hanno voglia del bene, tutti cercano una perfezione ed altresì un ingrandimento. Qual è dunque la differenza per la quale alcuni sono detti buoni, ed alcuni altri sono detti cattivi? Non è altra che questa, che alcuni i quali sono detti buoni, ogni qualvolta si accorgono trovarsi in collisione la perfezione della natura e la perfezione della persona, antepongono questa a quella. Dimodochè ciò che vogliono per assoluto, a qualunque costo e senza condizione alcuna, è la perfezione della persona: ciò poi che vogliono con un volere relativo e a condizione che niente soffra la dignità personale, è la perfezione della natura. Ed al contrario che alcuni, i quali sono detti cattivi, preferiscono questa a quella: sicchè ciò che vogliono per assoluto e a qualunque condizione è una qualche perfezione o bene di natura; il qual loro volere assoluto, così determinato, impedisce che possano veramente volere il bene consistente nella dignità della persona, perocchè questo bene non si può volere se non assolutamente, e chi il volesse relativamente e sotto condizioni, non lo vorrebbe punto. Quelli adunque che vogliono in primo luogo il bene della persona e subordinatamente a questo il bene della natura, sono i buoni: quelli che non vogliono il bene della persona, sebben vogliano il bene della natura, sono i cattivi. Trasportiamo questa teoria nell' ordine soprannaturale, vestiamola col linguaggio della religione: noi avremo nelle due classi sovraccennate i figliuoli di Dio e i figliuoli degli uomini, i cittadini delle due città, i figli della luce e delle tenebre. La divina scrittura, parlando dei figliuoli degli uomini, fa nascer d' essi i giganti cui descrive come uomini potenti, uomini avidi di gloria, intraprendenti, fondatori di città, conquistatori, re (1). Or poi di essi, che pure avevano tante doti di natura, tuttavia dice che non ha eletti questi il Signore, ma li ha riprovati (2). Qui veggiamo da una parte uomini, i quali tendevano certamente ad una cotal loro perfezione, che risplendevano sopra gli altri per coraggio, intraprendenza, forza corporale, avvedimento e molti altri pregi; e dall' altra che tuttavia sono riprovati dall' Eterno. Ciò nasceva perchè la perfezione cui questi tendevano di conseguire e di promuovere non era la perfezione della persona, ma solo la perfezione di alcune parti della natura, la quale non si può dire semplicemente e assolutamente perfezione dell' uomo. Ora questa divisione grande del genere umano, queste due stirpi originali, dette di Dio e degli uomini, non cessarono mai, ma si perpetuarono e si perpetuano, sviluppandosi l' una accanto all' altra, senza venir meno sino alla fine dei secoli. E i due sistemi, tanto in teoria come in pratica, seguiti da queste due gran fazioni dell' umanità sono così opposti fra loro, così irreconciliabili, così esclusivi, che i loro seguaci non possono mai aver pace insieme: ed indi la perpetua lotta, che sempre si sc“rse e che non può mai cessare, de' malvagi e de' buoni (3). Veduto quale sia l' ordine della perfezione della persona e della perfezione della natura, resta a vedere in che modo e con che legge di relazione fra lor si sarebbero queste due perfezioni sviluppate e conseguite dagli uomini innocenti. Certo è che fino che gli uomini fossero rimasti innocenti, nessuno di essi, di spontaneo moto, avrebbe cercato la perfezione della natura a scapito della perfezione della persona; e che per ciò queste due perfezioni non si sarebbero trovate, quanto a sè, in lotta fra loro, ma con bella armonia sarebbero procedute. Nè meno si vede cagione (senza che fosse intervenuta una legge positiva), per la quale l' uomo fosse addotto in necessità di coltivare la perfezione della persona a spese e scapito della perfezione della natura, e può fors' anco [dirsi] che questa cagione per sè non sarebbe nata giammai (1). Tuttavia non è ripugnante allo stato di uomini innocenti che questi in grado diverso avessero dato opera all' una e all' altra perfezione e che alcuni si fossero dati più a sviluppare e perfezionare le parti della natura e altri si fossero applicati più di proposito a conseguire il pregio risiedente nella persona: senza però che i primi in perfezionando la natura guastassero il pregio della dignità personale; nè che i secondi coll' amore e collo studio tutto messo in aumento di questo pregio guastassero e corrompessero le altre parti della natura. In tanto però quelli che si fossero dati più di proposito al perfezionamento della persona, avrebbero fatto più degli altri tesoro di perfezione morale, di meriti e di virtù, e quindi avrebbero fatto più celere il loro viaggio verso alla somma perfezione umana a cui tutti pure eran volti. Di che s' intende come gli uomini, ancorchè innocenti tutti, pure si sarebbero distinti infra loro anche per li diversi gradi del merito morale, come pure per li diversi gradi dello sviluppamento delle altre parti della natura. E non è già che quelli, i quali avessero atteso più a lungo degli altri alla perfezione della natura, non avessero anche in ciò facendo raccolto del merito morale e con esso arrecato un poco di perfezione alla propria persona. Perocchè non poteva loro mancare la temperanza, la rettitudine e la giustizia, come nè pure una retta intenzione di obbedienza alla maestà del Creatore. Ma questo merito sarebbe lor venuto per indiretto e avrebbe illustrata la loro persona quasi come lume riflesso; quando quei primi che si fossero dati a contemplare le cose della sapienza, della virtù e la divina natura per collocare in essa direttamente tutto il loro amore, si dovevano guadagnare un merito diretto e molto più sublime e di un passo più celere giungere sicuramente all' altezza di tutta la personale perfezione. Or qui il pensiero naturalmente ci porta a dimandare a noi stessi: in che ordine gli oggetti si sarebbero offerti all' attenzione umana e le potenze dell' uomo si sarebbero sviluppate e perfezionate? E se, considerando come l' uomo è costituito, a lui fosse stato proprio e connaturale di dar tosto mano a perfezionare direttamente la propria personalità, o anzi se dovea prima prendere a sviluppare e perfezionare le altre parti di sua natura; e solo in fine, accorgendosi e quasi scoprendo in sè medesimo più chiaramente la personale dignità, si fosse volto a lavorare intorno a questa e occupatosi a perfezionarla? La divina Scittura, non meno che l' esame della costituzione dell' uomo, dà per risposta che sarebbe succeduto lo sviluppo diretto della persona in ultimo, e dopo essersi l' uomo alquanto occupato nello sviluppamento e perfezionamento delle altre parti della sua natura. Imperciocchè in quanto a quello che ci dice circa una tale questione l' esame della umana costituzione, vedesi manifestamente che le potenze più pronte a muoversi nell' uomo e le prime a svilupparsi sono quelle della sensibilità animale. Le quali si trovano pur in contatto, per così dire, coi loro oggetti, che è tutta la natura materiale la quale circonda l' uomo appena che esiste, e lo stimola con infinite sensazioni a porre in esercizio tutti i suoi sensi. Sicchè l' attenzione sua è tratta primieramente fuori di sè e volta all' universo materiale che le sta presente; e non può sicuramente pensare a se stesso, ai suoi atti interni, all' anima sua che non cade punto sotto i suoi sensi, se non in un secondo tempo e con un atto di riflessione, quando di ciò gli venga data alcuna occasione, dopo aver già fatto uso de' sensi suoi e sviluppate le sue facoltà anche intellettive sulla materia che gli fu posta e messa innanzi dall' universo materiale. E questo è quello che risulta ancora, come dicevo, dalla divina Scrittura. Perocchè Iddio, dopo creati gli uomini, non disse già loro direttamente: coltivate la vostra personalità, linguaggio che non avrebbero potuto intendere; ma disse: « Crescete e moltiplicatevi e riempite di voi la terra e sottomettetevela e dominate sui pesci del mare e sui volatili del cielo e su tutti gli animali che si muovono sopra la terra« (1) ». Nelle quali parole è descritto lo sviluppamento e perfezionamento non ancora della persona, ma della natura umana. E dice ancora la Scrittura medesima che il Signore Iddio, dopo aver fatto l' uomo, il prese e il pose nel giardino di piacere, perchè lo lavorasse e lo custodisse (2). Dove pure si vede che l' opera che viene immediatamente assegnata all' attività umana in quei primi momenti non fu direttamente lo studio della sapienza e la contemplazione dell' essenza divina, ma fu il lavoro materiale dell' agricoltura, la formazione e incremento della umana società e gli usi tutti che la società umana cavar potesse dall' universo materiale, dai bruti, dalle piante e dai minerali, in aumento della perfezione naturale dell' uomo, il quale veniva con ciò costituito signore e imperante su tutta la natura. All' opposto l' opera molto più grande e più sublime del perfezionamento personale prendeva il suo principio nell' essere servo obbediente di Dio. E col progresso del tempo Iddio aveva lasciato all' uomo stesso, nel quale aveva rinserrato la sua imagine e similitudine e fornitolo di tutte le facoltà più nobili, a scoprire in sè e quasi dissotterrare un universo più grande del materiale e un giardino da coltivare più vago dell' Eden; aveva lasciato a lui di rinvenire quasi direbbesi a caso, la via della celeste contemplazione, scoperta la quale, sarebbe allora cominciato in lui quell' arbitrio, di cui parlammo, di dedicare sè stesso o più direttamente al lavoro del perfezionamento della persona, o di continuarsi come prima nella occupazione rivolta al perfezionamento solo della natura. Dissi però che a questo perfezionamento della persona fin da principio Iddio non aveva lasciato di dargli una indiretta spinta. Poichè dopo di avergli donati in cibo tutti i vegetabili che produceva la terra, soggiunse però dandogli un precetto di obbedienza: [...OMISSIS...] . Nelle quali parole il chiama all' obbedienza, la quale perfezionare doveva appunto la sua persona con un merito morale. Ed è degno di osservazione che questa perfezione o merito personale che Iddio intendeva di promuovere nell' uomo con quel precetto, doveva promuoversi a scapito o certo a mortificazione della natura, perocchè la natura veniva impedita dal dilettarsi e nutricarsi di quel frutto bello a vedersi e soave a mangiarsi, il quale eccitava in essa natura un appetito di sè che domandava di essere soddisfatto. Ma per la limitazione, che abbiamo accennata, dell' essere creato, quella perfezione personale che procedeva dall' obbedienza di un precetto positivo, non poteva in alcun modo acquistarsi se non a condizione che la natura ne rimanesse rattristata e cassa nelle sue voglie. Egli è dunque manifesto che l' umanità prima avrebbe atteso alla perfezione della natura direttamente e solo indirettamente alla perfezione della persona: ma che col progresso del tempo l' umanità sarebbe volta e applicata direttamente alla perfezione della persona; dal qual punto avrebbe fatti rapidissimi progredimenti verso l' altissimo suo fine. E poichè la ragione per la quale non avrebbe atteso a principio direttamente a coltivare la perfezione della persona, sarebbe stata perchè l' attenzione sua e con questa la sua volontà e le sue forze rimanevansi occupate degli oggetti esterni sottoposti per natura alla sua sensibilità e alla sua contemplazione, a cui la cognizione di sè stesso sarebbe succeduta poscia quasi come una scoperta; per ciò è da credere che i figliuoli dei primi uomini, dopo fatta già questa scoperta, sarebbero stati più direttamente educati e volti al perfezionamento personale, approfittando essi in tal modo del progresso fatto dai loro padri. Il che però non avrebbe tolto in nessun d' essi l' arbitrio di attendere a uno o ad altro ramo, ad una o ad altra maniera di perfezione, secondo che fosse più loro piaciuto; rimanendo in tal modo le differenze fra gli uomini de' meriti e delle specie di perfezione o pregi acquistati. Distinta adunque la perfezione della persona da quella che non è se non perfezione della natura, e trovato che nello stato innocente lo sviluppo e ingrandimento dell' una si verrebbe facendo a lato dell' altra, più o meno, secondo l' arbitrio della umana volontà, nasce la dimanda: se queste due perfezioni sieno di tale indole da poter crescere di lor natura sempre più indefinitamente. In quanto alla perfezione della natura io credo che si possa rispondere affermativamente. E del credere io alla indefinita perfettibilità della natura, la ragione è questa. Tale perfettibilità si estende a sottomettere tutto il mondo materiale all' uomo, cioè a trar da lui e dalle cose tutte in lui comprese gli usi tutti che possono prestare ai bisogni, ai piaceri, e ad ogni maniera di servigi che l' uomo possa da esse bramare. Di più consiste questa perfettibilità a riempire tutta la terra di uomini quanti ne può capire, e di questi uomini come di una sola famiglia concordissimi fra di sè, formare la più pacifica e virtuosa società che possa essere, dalla quale nascano agli individui tutti gli agi e i piaceri sociali. Consiste ancora nell' acquistare una perfetta cognizione di tutte le cose create di modo che ciascun degli uomini abbia ricca la mente di una scienza perfetta e appagata quella curiosità che li porta a bramare di conoscere l' indole delle cose quant' ella si stenda. Or se dei due primi punti non può sicuramente affermarsi che essi presentino all' umanità un campo tutto indefinibile a percorrere, benchè non vi ha dubbio che il presentino sì fattamente vasto che l' occhio umano non può fissarli confini; il terzo punto però, cioè quello che riguarda il sapere, pare che offerisca all' umanità un viaggio al tutto indefinitamente lungo. Perocchè la natura creata non solo è vastissima e profondissima materia al sapere dell' uomo, ma può dirsi a ragione che ella non ha fondo, conciossiachè si avvolge tutta di infiniti, e il vestigio della divinità che l' ha creata ove che sia risplende per modo che ogni pensamento umano vi si perde e smarrisce senza trovarne l' uscita: nè appieno si può giammai conoscere la creatura, se appieno non si conosce quel Creatore che non solo l' ha creata una volta, ma che di continuo la sostiene e la crea, e, per così dire, la nutrica di sè medesimo. Basta domandarne ai matematici che pure hanno alle mani la sola materia più esteriore e superficiale della natura, quale è la quantità , e pure a ogni passo si offre loro incontro quella terribile idea dell' infinito che li sgomenta e li fa trovar fuori di tutti i limiti delle cose reali. Che dirò della fisica, della fisiologia e della patologia? Nelle quali scienze, ove non si considerino alla superfice, ma con occhio profondo e metafisico, mirasi il volto della natura tanto maestoso, tanto pauroso e i suoi intendimenti così segreti, e le sue leggi così auguste e il suo principio un mistero così inesplicabile che pare assai più proporzionato all' intelligenza di una deità che a quella dell' uomo. Quanto poi al perfezionamento personale, si può egli considerare o nell' ordine della sola natura, o anco nell' ordine della grazia. Nell' ordine della natura questo perfezionamento personale io lo tengo di un progresso, al tutto indefinito, sotto ogni aspetto in cui si considera l' atto morale. L' atto morale, come ho mostrato nel libro dei Principii della Scienza Morale (1), risulta da due elementi, la legge e la volontà; e migliore è l' atto morale quanto la legge è più grave, e quanto è più ferma l' adesione della volontà. Or sia da parte della legge, sia da parte dell' adesione della volontà, la perfettibilità morale è indefinita. E veramente la legge non nasce che dalla cognizione dell' oggetto verso il quale si pratica l' atto morale. Or gli oggetti verso i quali si praticano gli atti morali sono Iddio e l' uomo: onde le due leggi supreme della morale imperanti l' amor di Dio e degli uomini. Ma la cognizione di Dio nell' ordine naturale può sempre mai crescere indefinitamente, non solo perchè Iddio, infinito di natura, è per sè inesausto fonte all' uomo di cognizione; ma perchè l' uomo colle forze naturali, sebbene possa crescere sempre nel conoscimento di Dio, tuttavia non può attinger mai tanto di questo conoscimento che appieno lo soddisfaccia e lo bˆi: vi ha dunque una gradazione indefinita nella cognizione che l' uomo può naturalmente acquistare della divina natura: ciò trae seco che la legge di onorare Iddio si renda per l' uomo sempre indefinitamente più grave e tale che egli possa esercitare verso Dio un maggior grado di amore e di riverenza, il che aggiunge all' atto suo di continuo un maggior grado di merito. Dalla parte poi dell' adesione della volontà non si vede modo parimenti di assegnare alcun termine al crescimento d' amore della medesima. Perocchè non essendo ella mai appieno soddisfatta e sazia del possesso di Dio che naturalmente potesse avere, non c' è ragione che ella mai si fermasse nel suo sforzo di vie più con vivo amore possederlo. Senza chè l' umana natura e l' umana volontà ha ella stessa in sè qualche cosa d' immenso e d' indefinito; nè mai accade che noi possiamo assegnare un grado di affetto tanto grande, che un altro maggiore non si possa pensare possibile di cader nell' uomo. Il perchè pare a non dubitarsi che la perfettibilità personale dell' umana natura sia pur essa suscettibile di un progresso al tutto indefinito, il quale non potrebbe interrompersi se non per morte. E il medesimo avviene tuttavia all' umanità; sebbene vestita della grazia del Riparatore. Perocchè fino a tanto che l' uomo vive, l' uomo può sempre accumulare un numero maggiore di meriti e crescere in perfezione di virtù. In quanto all' ordine soprannaturale noi ragioneremo nell' articolo seguente. La differenza fra gli aumenti successivi della grazia nello stato presente dell' umanità e nello stato primitivo, consiste in questo che il crescere della grazia nell' umanità presente non può giammai essere tale che ci rechi senza morte alla visione beatifica di Dio: laddove nello stato primitivo non v' aveva morte, e convenia passare allo stato di gloria per successivi incrementi della grazia. La ragione per la quale l' uomo non può ora congiungersi pienamente al Sommo Bene se non intervenendo la morte, è fondata nella natura della grazia del Redentore: la quale, come abbiamo detto, non è affissa alla natura, ma alla persona; e non tutte le parti della natura vengono perciò da essa medicate e redente, ma la parte animale rimansi sempre disordinata e sempre perciò degna di essere data preda alla morte. E la visione piena di Dio non istà nell' uomo con tale disordine; sicchè l' uomo non è atto a veder Dio fino che veste la carne del peccato. Perocchè quando dico uomo, dico prima un animale, e poscia gli aggiungo l' intelligenza e la grazia quasi su quel primo fondamento: onde sarebbe assurdo il dire che un animale corrotto potesse esser levato alla piena partecipazione e visione della divinità. Ma così non era degli uomini innocenti: la loro natura perfetta, la grazia affissa alla natura, la parte animale dell' uomo non ritrosa a seguire a suo modo l' altezza dell' intelletto e della volontà, la quale teneva dietro alla grazia fedelissima. Allora tutto l' uomo congiungevasi a Dio per grazia, nè egli aveva nulla a distruggere in sè medesimo, ma tutto era degno di vedere svelatamente la faccia di Dio. Egli è dunque a vedere come sarebbe probabilmente seguito questo discuoprimento graduato del volto di Dio all' uomo, col quale questo sarebbe stato pienamente inebbriato di beatitudine. Gli aumenti della grazia avrebbero tenuto una cotal proporzione cogli aumenti dei meriti morali. Ora il corso della crescente perfezione morale abbiam veduto esser doppio, cioè l' uomo avrebbe cresciuto di perfezione morale e di meriti tanto per la via di una più chiara notizia che avrebbe acquistato di Dio, oggetto principale de' suoi atti morali, come per la maggior forza dell' adesione della volontà nell' atto buono e morale. A questo doppio progresso di moralità e di merito corrisponder dovea una doppia successione o serie dei gradi della grazia. Si rifletta bene che il merito morale può aversi grande assai anche con una tenue o almeno indistinta cognizione dell' oggetto dell' atto morale: anzi egli avviene ben sovente che con meno cognizioni vada congiunta una maggiore bontà morale. Avviene ancora sovente nello stato presente dell' umanità che il buon volere e quindi il merito morale si congiunga con un errore della mente e coll' ignoranza: e quante volte non avviene che una coscienza erronea dia occasione di acquistare un merito? Certo colui, il quale fa un penoso sacrifizio, credendolo a Dio gradito e in sè stesso virtuoso, non perde il suo merito, eziandio che quell' opera riguardata per sè stessa non avesse alcun pregio, o fosse inopportuna e fuori di luogo. Nella fede pure v' ha sempre un' ignoranza ed oscurità: e di questa ignoranza appunto nasce in gran parte il merito di essa fede; sicchè colui, il quale non ha bisogno d' altro argomento a credere che l' autorità della divina rivelazione, va innanzi, per merito di fede, a quell' altro che viene sostenendo la sua credenza con degli argomenti tratti dalla ragione umana, ed ha bisogno di ricorrere a questi per rimuovere da sè ogni dubitazione. Nello stesso tempo però che si dà questa specie di merito da desumersi e misurarsi dal grado di energia della volontà buona, indipendentemente dal grado della cognizione o anche in proporzione opposta a questa; si dà anche un' altra specie di merito che tiene proporzione col grado di luce e di cognizione di cui gode la mente contemplante, dietro al quale grado di lume tende direttamente la buona volontà che insieme colla chiarezza di quell' oggetto s' innalza e si sublima. Or all' una e all' altra di queste due specie di merito, come dicevamo, corrisponde una grazia, e nelle due specie al grado del merito il grado d' aumento della grazia. La differente natura di queste due grazie apparisce ove si consideri che quella, la quale ha relazione al merito della volontà senza che abbia rispetto alla perfezione del conoscimento, è più positiva, per così dire e ha più ragione di premio: quando l' altra che s' aumenta proporzionalmente a quel merito che cresce di pari passo colla cognizione, procede per una legge, quasi direbbesi, più naturale e men dipende da un positivo atto di Dio che rimunera o certo che si compiace dell' opera buona della sua creatura. In ragione d' esempio: a colui che contempla la natura divina di una contemplazione amorosa per volontà di via più onorarla e servirla, viene crescendo di mano in mano non meno il lume che l' affetto con essa la grazia. Ma questo accrescimento pare che sia un cotal effetto naturale della sua contemplazione medesima; pare che il conoscere gli cresca unicamente per la virtù del contemplare, e l' affezionarsi gli cresca unicamente per la virtù del conoscere: benchè infatti la grazia si associ all' atto del contemplare e dell' amare, ed ella stessa il sollevi in un ordine soprannaturale e il faccia crescere di più e più lume e calore. All' opposto la virtù di quello che merita piuttosto anzi coll' efficacia della volontà che coll' aiuto del conoscimento, la virtù del semplice fedele il quale pochissimo conoscendo delle cose divine, pure mantiene la giustizia e cerca ovecchessia di fare ogni cosa ch' egli creda dover piacere a Dio; questa virtù non pare che produca di sè stessa aumento di grazia, per modo che quell' uomo virtuoso ne rimanga più e più abbellito e perfezionato: ma l' aumento della grazia che quest' uomo riceve par che sia più un dono spontaneo di Dio il quale vuol premiare con essa la fedeltà che gli piace di quell' uomo semplice cui distingue perciò e decora coi doni suoi. Tuttavia, chi ben considera, anche gli aumenti di questa grazia si legano colla natura degli atti virtuosi di quell' uomo. E come questi atti traggono più il loro merito dalla volontà che dall' intelletto, così anche la grazia che si accresce a quest' uomo è diretta più a crescere la perfezione della sua volontà che le notizie del suo intelletto. Di che si può fermare il carattere che segna e distingue non meno quei due meriti che queste due grazie; cioè il primo merito trae dall' aumentata luce dell' intelletto, e la grazia che a questo consegue è perfettiva del lume intellettivo; il secondo merito trae più dall' energia della volontà, e la grazia che a questo consegue è più perfettiva della volontà. E così dicendo, non intendo già che manchi nella prima intieramente la volontà, e nella seconda intieramente l' intelletto; i quali due elementi dell' azione umana e morale non possono mai mancare: ma intendo dire che nel primo caso domina più l' intelletto e i gradi di merito si computano secondo i gradi di luce ch' egli acquista; nel secondo caso domina più la volontà e i gradi di merito si computano secondo i gradi dell' energia che questa acquista. Il che nulla vieta che la grazia, che illumina l' intelletto, non si rifletta altresì a corroborare la volontà; nè che la grazia, che da prima corrobora la volontà, non abbia virtù di schiarire poscia l' intelletto medesimo. Ora nello stato degli uomini innocenti, io mi penso che per queste vie dell' intelletto e della volontà gli uomini pervenissero al pieno possesso di Dio; e alcuni di essi per l' una via, altri per l' altra prima vi pervenissero. Ciò è consentaneo con quello che abbiamo detto dei due modi nei quali l' uomo può vedere Iddio, cioè in forma di cognizione e di amore. Perocchè così io penso meco medesimo che crescendo nell' uomo quella grazia, che mostra Iddio all' intelletto, questa per successivi aumenti potea pervenire fino a mostrare sì chiaramente Iddio fino a che l' uomo vedesse di Dio lo stesso Verbo, che è quanto dire la stessa sussistente divina conoscibilità: e che crescendo nell' uomo quella grazia che raccende l' amore della sua volontà, ella potesse pervenire a segno sì che l' uomo vedesse in questo amore lo stesso Spirito Santo, ossia la sussistente divina amabilità. E di vero ho già dimostrato che quel conoscimento di Dio che l' uomo ha per grazia, è un principio della visione di Dio (2), il cui termine è il Verbo: e quell' amore onde l' uomo per grazia ama Iddio è un principio di quel possesso il cui termine è lo Spirito Santo. E ora egli è manifesto che giunto l' uomo o alla visione del Verbo o al possedimento dello Spirito, egli è pervenuto con questo solo alla visione beatifica della divina essenza; conciossiachè nulla si pare che distingua le persone dall' essenza nella deità. Di che doveano poscia conseguirne a una tal visione tutti quelli effetti che di lei son proprii, cioè a dire la beatificazione dell' intera umanità, la quiete del desiderio nel suo termine, e dalla pienezza riboccante di gloria onde ebbrio è lo spirito, un travasamento anche nelle inferiori potenze, e quella cotale spiritualizzazione, di cui parla l' Apostolo, del corpo stesso (3). Il che tutto però doveva avvenire, secondo che a me pare, di una maniera oltremodo soave e appieno conveniente alla costituzione della umana natura. Noi abbiamo descritto il modo del conversar d' Iddio colle sue creature innocenti, cioè vestito di alcune forme sensibili e forse non diverse dalle umane. Dal Creatore così circoscritto e reso accessibile agli uomini di recente usciti dalle sue mani, i quali non avrebbero altramente potuto sostenerne la maestà, ricevevan essi gli ammaestramenti e i precetti e i consigli che loro abbisognavano. Ma non solo le vocali parole del Creatore risonavano ai loro orecchi, e per essi nelle menti e nei cuori; ma egli cadeva ancora sotto gli altri loro sensi, conversando con esso lui come con un Signore simile a loro. Da tutte queste sensazioni che ricevevano immediatamente dal Creatore velato e atteggiato alla loro capacità, usciva la grazia, che per la via dei sensi entrava nelle loro anime e le condecorava, in un modo non dissimile a quello onde la grazia esce da quei segni sensibili che nella legge di Cristo si chiamano Sacramenti. E per questa grazia poi cresceva in essi la percezione di Dio medesimo, e quel loro Creatore conversante in forma da cadere sotto i loro sensi, sempre più rendevasi sensibile e visibile al loro intendimento: sicchè quei veli sensibili onde il Signore si avvolgeva, si rendevano, per così dire, sempre men densi e lasciavano ognor più penetrare la vista spirituale dell' uomo a percepire la faccia di Dio, cioè la divina essenza. Certo è che anche la umanità del nostro Signore Gesù Cristo tramandava di sè certi cotali raggi divini, sicchè per essa si potea travedere la sua divina natura. Per questo egli diceva a Filippo: « Filippo, chi vede me, vede anche il Padre mio« (1) ». E si faceva maraviglia di non essere ancora conosciuto: « Io sono con voi da tanto tempo, e ancora non mi avete conosciuto?« (2) ». Perocchè le parole di Cristo, l' aspetto e i modi suoi avrebbero dovuto tutti insieme mostrare agli uomini, se ben disposti fossero stati, la sua divinità. Il Creatore adunque conversante in forme sensibili colle sue creature innocenti, avrebbe, in un somigliante modo, cioè per via di parole e di sensazioni, secondate dagli interiori doni di grazia, più e più manifestato e rivelato sè stesso agli uomini, fino a tale che questi avrebbero percepito coll' intendimento la stessa divina essenza; nè, mentre l' intendimento si levava e afforzava a ciò, sarebbero periti i loro sensi, i quali pure dall' oggetto divino sarebbero stati pasciuti, fortificati, perfezionati. E perchè l' uomo fosse preservato da ogni maniera di separamento mentre succedeva nel suo intelletto questo successivo aumento di divino lume e nei sensi esterni questo avvaloramento e perfezionamento, doveva anche nell' interno del corpo umano ricevere aiuto e nutrizione vitale; il che gli avveniva col mangiare il frutto dell' albero della vita, che era anch' esso un sacramento di quella età, dando all' uomo non pure un cibo di corporea sostanza, ma insieme con essa un dono soprannaturale d' incorruzione, una grazia e una virtù speciale (3). Il perchè gli uomini innocenti dovevano essere forniti di quella perfezione, della quale la mente di Platone trovò convenire a delle divinità minori. Perocchè avendo voluto quel filosofo ideare degli esseri forniti di corpo e di anima, i quali fossero altrettanti dei, cioè a dire esseri perfetti, attribuì loro l' immortalità e introdusse il sommo Dio a parlare agli dei da lui formati, in questo modo: Voi che siete nati allo stato di deità, or vedete di che grandi opere io sia padre o facitore. Queste opere sono indissolubili per cenno mio; sebbene tutto ciò che è colligato, di sua natura possa disciogliersi. Ma egli non è punto buon consiglio disciogliere checchè è colligato con ragione e con sapienza. Pure voi, sebbene nati immortali, tuttavia non potete essere anche indissolubili. Ma nulladimeno non verrete disciolti nè i fati della morte vi uccideranno: chè i fati non saranno più vigorosi del mio consiglio, il quale è un vincolo più forte a mantenervi perpetuamente che non siano que' fati, coi quali foste colligati allorquando venivate generati (1). Sicchè il vigore che lo faceva immortale era dato al corpo dall' albero della vita; e le parole e sensazioni che riceveva da Dio erano segni che a lui servivano come d' altrettanti mezzi ed aiuti co' quali pervenire alla visione beatifica di Dio medesimo. Ciò che abbiamo detto mostra quale era e doveva essere lo stato morale degli uomini innocenti secondo le cristiane tradizioni e le tradizioni de' popoli. Di più quello stato in cui abbiamo contemplata l' umanità, non è solamente dato dalle tradizioni, ma egli è altresì un ideale di perfezione che dalla natura dell' uomo viene suggerito e proposto alla mente contemplante. La quale mente, tosto che ha un concetto, non può a meno di discernere in esso le parti imperfette e le perfette e imaginare e aggiungere tutto ciò che gli manca: e quel concetto recato così all' ultima perfezione ideale di lui propria è dilettevole spettacolo alla stessa mente contemplatrice. Solamente v' ha questa differenza fra l' ideale stato dell' uomo a cui la mente cerca di sollevarsi, e quello che ci narra la cristiana verità, che la prima colla sua contemplazione non eccede i confini dell' essere ideale , quando la seconda ci parla di uno stato che appartiene all' essere reale : cioè la seconda è una storia che racconta realizzato quello che il pensiero non poteva venir ideando che come possibile. Veduta pertanto l' ideale perfezione dell' umanità e il suo realizzamento nella storia de' primi uomini creati da Dio innocenti in mezzo a questo universo sensibile di cui erano costituiti regi, rimane di abbassare ora lo sguardo a considerare lo stato della umanità presente, a rilevare se con quello che dovrebbe essere consente quello che è. Dico quello che dovrebbe essere , perocchè, supponendo accordato che l' uomo e il mondo sieno l' opera di Dio, egli è manifesto che non si dovrebbe trovarvi difetto alcuno, ma che in essa opera tutto dovrebbe essere perfettamente ordinato, e l' uomo e le altre nature di tale guisa fatte e disposte che nulla si potesse pensare di meglio; giacchè egli è evidente che un Essere sapientissimo ed ottimo che possa fare tutto quello che concepisce, non deve produrre se non cosa la più perfetta che cada in pensiero di chicchessia. Altramente se l' operazione di Dio non producesse un' opera conforme all' ideale della perfezione, egli è manifesto che un altro artefice potrebbe concepire più nobilmente ed eseguire l' opera dietro una più eccellente idea di quello che facesse Iddio: ciò che ripugna, e il tipo della perfezione non poteva sicuramente mancare alla mente divina, nè la divina volontà aver altra norma di operare che quel tipo, a realizzare il quale non trovava ostacolo alcuno, attesa la somma potenza dell' operante. Ora se l' opera di Dio non può essere altro che un realizzamento dell' ideale perfezione, e se l' uomo e le altre cose tutte sono veramente opere di Dio, come ammettono tutti quelli a' quali noi rivolgiamo il discorso; noi dovremmo, isguardando l' umanità e l' universo che la circonda, trovarla fornita al tutto della perfezione che abbiamo accennata descritta come a lei propria. Ma è ella dunque in uno stato così desiderabile l' umana specie? Vediamolo brevemente. Che la umanità sotto il peso di gravi mali e di molteplici sofferenze, non è cosa che esiga troppe parole per essere provata. L' esperienza della vita che ciascun mortale ha preso in sè medesimo e quella che ha potuto cavare dallo spettacolo de' suoi simili, è una prova troppo dura e troppo convincente a riconoscere che dalle lagrime della culla al sospiro della morte quaggiù l' uomo non varca che un mare di guai, di minore angoscia se breve è il viaggio; benchè neppure è dato all' uomo il sollievo della brevità della vita, che per legge di natura ama la vita e con essa la prolungazione delle sue fluttuazioni e de' suoi patimenti. Quando si considera gli ampi voti del cuore umano e quella felicità indefinita e immortale a cui aspira continuamente l' anima dell' uomo, e si paragona coll' immensità di questi desideri nati e contemperati coll' uomo l' estrema limitazione di quest' essere medesimo che non può mai realizzare de' suoi voti nè anco la minima parte, ma li trova tutti contrariati, illusi, scherniti, e non ha in sua mano nè il fuggire i mali, nè il procacciarsi nè anco i beni più frivoli, che pur dipendono dagli accidenti; egli par sovente giuoco maligno, un trastullo crudele della natura stessa, acconciamente chiamata da un savio del paganesimo matrigna e non madre, la quale con una mano gli sparga in cuore immensi desiderii e speranze, coll' altra percuotendolo delle più inattese sciagure, produca lo spettacolo di un essere fatto per una somma felicità che lotta indarno con una somma sciagura. Nè notizie più confortanti noi raccogliamo circa lo stato della umanità se la consideriamo sotto l' aspetto morale. Noi abbiamo parlato della corruzione morale congenita con noi nella prima parte di quest' opera, e abbiamo descritto lo stato dell' umanità sotto questo lato considerata seguendo la scorta dell' osservazione (1). Aggiungeremo sole poche parole a conferma di ciò che ivi abbiamo detto. In ogni città, dice Bayle, vi è patibolo e spedale: ecco in breve tutta la umanità. Gli uomini riflessivi di qualunque secolo sono stati altamente colpiti al vedere quell' inclinazione al male che nasce coll' uomo, che opera in lui prima ancora dell' uso della ragione, che infaticabilmente lo aggrava e precipita a tutti i disordini della immoralità. Cicerone non finisce di stupirne e ne fa in più luoghi la descrizione tutta al vero: [...OMISSIS...] . Tale è il fatto dello stato dell' uomo: l' uomo ha in sè stesso e nelle cose che lo circondano una fonte inesausta di mali fisici e morali. Or questo fatto innegabile, veduto sempre, confessato sempre e che ha parlato sempre altamente nella coscienza dell' uman genere, di tutti i popoli e di tutte le sètte, ha pur sempre anco prodotto la più grande maraviglia nei filosofi di buona fede, privi della rivelazione, i quali hanno confessato di trovare in esso qualche cosa di solenne, di portentoso, di inesplicabile. La ragione di questa maraviglia, e di questa somma difficoltà in assegnare una conveniente e verosimile spiegazione di quel fatto, sta in quelle dimande o questioni singolari che un tal fatto offre alla mente di chi lo considera e che sono principalmente le seguenti: La natura in tutte le opere sue si mostra sempre consentanea con sè medesima, e piena di sapienza e di bontà. Or come nel solo uomo, che pur sembra il suo capo d' opera, può esser mancata a sè stessa? Forse nella produzione dell' uomo fece ella uno sforzo che vinse le sue proprie forze? Perocchè altramente come si spiega la contraddizione che racchiude la natura umana? Da una parte quest' uomo appena entra nel mondo delle cose reali, ignora sè stesso, è impotente, pieno di bisogni, sempre in cimento di morire senza conoscere d' esser vissuto: egli campa per accidente, e ogni passo che fa, ogni respiro con cui assorbe l' aure della vita, è anco un passo che lo avvicina alla morte, e un respiro di meno che gli rimane: con grandi fatiche e fra patimenti allevato e suoi ed altrui, egli non esiste quasi per far altro che per cercare i mezzi di vivere, giacchè alla massima parte del genere umano non sopravanza tempo se non per spenderlo nel sudore della sua fronte; senonchè questo tempo stesso viene sovente rapito da tante specie d' infermità che in varie e crudeli guise straziano i corpi già destinati al supplizio della morte. E son pochi i morbi che distemprano e dilacerano i corpi, che gli uomini non vi aggiungano la propria crudeltà contro sè stessi: le divisioni e discordie, innalzandosi e gonfiandosi gli uni sopra gli altri, e rincrudelendo di più maniere, di che le guerre, le schiavitù, le tirannidi. E di fianco a questo stato delle cose sta pure nell' uomo, inseritovi da natura, un focosissimo ardore della libertà, l' anelito dell' amore, il bisogno indeclinabile della felicità, un sospiro alla vita, una vita incorrotta e immortale. Quella natura che ha messo in noi questi indettamenti, or come ci ha poi fatti così infelici? Che maligno diletto potea rallegrarla a donarci sì alti e sì implacabili desiderii, i quali dovesser poi esser tutti frustrati? O è ella una stessa autrice colei che parla nel fondo dell' uomo di grandezza, di pace e di beatitudine; e colei che ha poi formato l' uomo stesso pieno di abbiezione, di inquietezza e di miseria? O pure che l' uomo tragga l' origine non da un solo principio, ma da due opposti, il principio del bene e quello del male? Egli è vero che anche gli animali sono soggetti al dolore: ma privi come sono d' intelligenza essi nè conoscono, nè posson bramare una felicità che si stenda nella eternità e che si sollevi alla dignità morale. Il loro dolore come il loro piacere sono de' fenomeni inerenti alla loro natura e che passan con essa. Nel solo uomo tutto mostra dovervi essere uno spirito immortale ordinato a una spirituale e immortale felicità: nel solo uomo può aver luogo la deformità morale: e solo in esso la morte è una contraddizione col voto e coll' indole della sua natura. Chi adunque può giustificare la natura? E se la natura non si giustifica, se si ammette in essa stoltezza e malignità, non vi ha dunque più una intelligenza divina che presiede all' universo? Ed ella stessa che è questa natura tanto sapiente in ogni fil d' erba e ogni vile insetto, e tanto stolta nell' uomo? O chi la limita nel suo sapere, e nel suo volere, e nella sua possa? - Queste interrogazioni resero pensosa tutta l' antichità e fecero la disperazione di tutte le scuole de' filosofi. Nè meno i mali dell' uomo, ove si considerino senza il lume della rivelazione, sono difficili a conciliarsi colla giustizia di Dio: perocchè sotto un Dio giusto, come dice un Padre della Chiesa, nessuno innocente può essere misero. Or dunque come è misero il bambino prima ancora che conosca le cose che lo circondano, e che acquisti l' arbitrio della sua volontà? Come può esser misero colui che nacque ebete di mente e non potè mai usare a sua voglia le proprie potenze? Come può essere misero anche quell' uomo che condusse una vita benefica e virtuosa e che tuttavia perì oppresso dalle sventure? Se l' uomo per natura è innocente, come poi per natura è misero? E che l' uomo nasca colpevole, può egli cadere in mente ad uomo alcuno? Chi può concepire che l' uomo prima di essere abbia peccato? O chi può spiegare in che modo nel fanciullo di pochi giorni sia entrata la colpa? Le due questioni proposte sin qui si offeriscono alla mente considerando il fatto rispetto allo stato eudemonologico dell' uomo. Ma il suo stato morale non reca meno d' imbarazzo e difficoltà a spiegarsi. Perocchè, chi può assegnar l' origine, esclusa sempre la rivelazione, d' una tanta inclinazione al male, da cui l' uomo viene senza posa impulso? Una legge che porta nel suo cuore gli intima di essere giusto: e una propensione della sua natura lo sospinge incessantemente nella ingiustizia. Questa propensione intorbida i suoi pensieri, mette in tumulto i suoi affetti e la sua volontà: o non vede più la luce, e va barcolloni per le vie della iniquità; o la vede, e tuttavia non può seguitarla, ma ubbidisce alla violenza d' una forza che lo soverchia e lo padroneggia. Chi ha messo nell' uomo questa reità così potente? Se egli è il figlio della natura, o d' Iddio, si può credere che la natura o Dio gusti inserendo in una creatura, fatta per la virtù, un seme che frutta la immoralità e che egli stesso è immorale? Queste dimande l' uomo le ha sempre fatte a sè stesso; s' assottigliò per rispondersi, stupì della difficoltà che trovava a soddisfarsi, si indegnò seco medesimo, disperò di riuscirvi. E pure l' uomo non può vivere senza farsi qualche risposta a queste dimande, e in mancanza di una verità, inventa un sistema che con ogni sforzo d' ingegno vuole imporre per vero non solo agli altri ma anche a sè medesimo. I sistemi però inventati a spiegare il disordine dello stato presente dell' uomo, sono degni di ogni attenzione; poichè da una parte attestano il fatto di questo disordine e provano quanto abbia colpito la riflessione de' più grandi filosofi; dall' altra mostrano l' impotenza della filosofia a spiegare la condizione dell' uomo reale a lui medesimo. Uno dei sistemi di cui parliamo, fu quello che trovando nell' uomo due principii contradditorii, cioè l' aspirazione a una immensa felicità e con essa una somma impotenza di ottenerla ed una somma miseria, dissero che la cagione di quest' essere non poteva esser unica e che si erano avvenuti a formare l' uomo due principii interamente contrarii, il principio del bene e quello del male, indipendenti, supremi, eterni, essenzialmente nemici. Tale è il sistema de' Manichei e di un gran numero di sètte e di nazioni. Un altro sistema è quello abbracciato da Platone. Come il sistema de' Manichei pare che avesse più risguardo al male fisico e alle questioni che da lui nascono, così quel di Platone pare che più togliesse di mira le questioni che nascono dal male morale inviscerato nell' umanità. Egli veniva imaginando che le anime umane, prima d' essere inserite nei corpi, fossero state abitatrici degli astri e che avendo colà peccato fossero poi per giusta punizione di Dio legate nelle carceri dei corpi. Cicerone, che espone questo sistema e che non lo attribuisce tanto a Platone quanto alla più remota antichità, dice così: [...OMISSIS...] . Un terzo sistema che ha grande affinità col Platonico, è quello della trasmigrazione delle anime, tolto a seguire e reso celebre da Pitagora, per la quale trasmigrazione gli spiriti, passando per varii corpi e secondo varie leggi, venivano appurandosi. Tutti questi tre sistemi si perdono colla loro origine nelle tenebre della più remota antichità. Nel passo seguente di un dotto autore che tratta della religione dell' Indo, si trovano tutti questi tre sistemi avviluppati insieme in quelle religiose tradizioni. [...OMISSIS...] . Altre tradizioni, tolte egualmente secondo ogni apparenza dal Bramaismo, ci parlano di una ribellione di spiriti o di angeli acciecati come Brama dall' orgoglio e come lui precipitati nell' abisso. Aggiungono che Iddio creò il mondo visibile perchè nella sua misericordia egli volle dare un mezzo agli spiriti caduti di ritornare a lui. Cominciò allora il tempo, e con esso le trasmigrazioni delle anime che già prima erano puri spiriti (3). Qui si vede a un tempo la dottrina de' due principii di Manete, quella di Platone sul peccato commesso dagli spiriti prima di essere inseriti nei corpi, e la trasmigrazione delle anime di Pitagora: o certo almeno tutte quelle dottrine vi hanno grande analogia con quelle indiane. Le tre opinioni sopra esposte si trovano nei libri dei filosofi vestite di forme filosofiche e acconciate a modo di sistema. Ed esse hanno bensì subita l' azione della meditazione filosofica, ma nel loro fondo sono più antiche del nascimento della filosofia; sono opinioni popolari tradizionali, e dal popolo i filosofi le presero e le si appropriarono, lavorandole e riducendole per quanto seppero ad espressioni scientifiche (1). I filosofi stessi però giammai non si contentarono del proprio lavoro e si trovarono sempre impacciati con quelle opinioni tradizionali alle quali essi non trovavano nulla da sostituire di meglio; e tuttavia vedevano toccar esse tali punti, sui quali gli uomini volevano assolutamente o sapere o almeno credere qualche cosa. Lasciando adunque i filosofi per ora e ricorrendo al fonte ond' essi stessi attinsero, cioè alle tradizioni de' popoli, veggiamo se in queste nulla si trova di uniforme e di consentaneo nella faraggine delle favole, ove si abbia qualche raggio di luce che renda una verisimile ragione del grande fatto di cui parliamo, cioè dello stato misero e triste della specie umana. Tutte le tradizioni e tutte le mitologie si accordano in questo che narrano nel principio delle cose l' esistenza di una età d' oro, tempo di felicità e di virtù, dalla quale poi gli uomini sono scaduti per qualche loro mancamento. Per ciò con ragione dice Voltaire: La caduta dell' uomo degenerato è il fondamento della teologia di quasi tutti i popoli (2). Conviene adunque distinguere e separare tutte le frasche, per così dire, di che è stato imboschito questo fatto semplice e fondamentale dalla stemperata e strampalata imaginazione dei popoli e considerare lui solo che per tutto uguale si trova; come pure convien separarlo da tutte quelle invenzioni e ingegnose giunte, colle quali si pretese di spiegare il modo onde quel primo fallo che degradò gli uomini sia avvenuto, e come egli potè infettare e nuocere il genere umano sì fattamente fino a tanto in giù degradarlo. Il che ove si faccia, ritenendo quella sola parte della tradizione che intorno a questa materia si trova uniforme e costante fra tutti i popoli, si cava questo risultamento, che nelle tradizioni e credenze di tutti i popoli della terra per cagione del gran fatto della condizione misera e trista dell' umanità si assegna un peccato primitivo e originale. Non è mio intendimento di recare qui tutti i documenti storici che provano questa verità, i quali d' altra parte oggi son resi comuni: ma mi restringerò a un cenno sulla credenza indiana, la quale colla illustrazione che ha ricevuto dalle recenti scoperte ha viameglio dimostrato, che il fondo di tutte le tradizionali dottrine è il medesimo e che si trova sempre in questo fondo il peccato originale. La più antica religione (dice uno scrittore che toglie a esporre le diverse religioni o credenze dell' Indo) la quale si confonde coll' origine stessa delle cose, è quella che fu rivelata da Brahmƒ, il creatore del mondo, e da esso prende il nome di Brahamaismo. Brahmƒ (1) è la prima persona della Trinità indiana, Dio padre che s' incarnò il primo per venire ad annunziare la sua dottrina avanti ben molti secoli. Gli uomini allora vestiti d' innocenza e di pietà offerivano a lui de' sacrificii puri come i loro cuori, le primizie dei frutti, il latte dei loro greggi e non mai vittime di sangue. Ma questo culto sì semplice e sì commovente non potè durare sopra la terra. Gli uomini divenuti peccatori ne scancellarono fin l' ultima traccia; ed ecco perchè oggidì non si trova nè pur vestigio di qualche tempio dedicato a Brahmƒ. Ma nè le tradizioni popolari, nè i sistemi filosofici soddisfacevano pienamente al terribile problema dell' origine del male. I filosofi avevano fatto la critica alle dottrine popolari e sebbene avessero preso da esse il meglio di loro filosofie, tuttavia le sdegnavano, pretendevano di essere usciti dal volgo e sollevati a più alte regioni: avevano appunto contrapposti i loro sistemi filosofici alle opinioni popolari e preteso di supplire con essi a ciò che ad esse mancava. Ma dopo aversi dato questo vanto, veniva il momento, in cui sentivano la voce della propria coscienza, che diceva loro i sistemi da loro inventati non esser meglio soddisfacenti delle comuni credenze ch' essi avevano rigettate e benanco dileggiate; e confessavano talora ingenuamente mancar loro il modo di rispondere a quelle questioni che pure la natura umana faceva incessantemente a sè medesima. Così Platone, dopo avere insegnato con tanta sicurezza i peccati commessi dall' anime abitatrici delle stelle, s' accorgeva poi di non aver fatto con ciò che un cotal sogno filosofico, e scrivendo a Dionisio di Siracusa che l' aveva interrogato su questo argomento, confessava seriamente di non sapere che rispondere, e di non aver mai trovato alcuno che lo illuminasse in una materia così oscura e misteriosa (1). Per due ragioni i popoli e i filosofi non potevano uscire dal labirinto della strana questione sull' origine del male. Primo perchè lo scioglimento di una tale questione dipendeva dalla notizia di un fatto , di cui i racconti tradizionali avevano col procedere de' secoli alterate e confuse in mille maniere le circostanze; il che rendeva incredibile e inverosimile il fondo stesso del fatto, reso antichissimo e narrato in modi sì varii e sì contraddicenti fra loro e sovente anche del tutto assurdi. Ciò che dava buon appicco ai filosofi di rigettarlo, a' quali parea d' ingrandirsi e nobilitarsi col negar fede a ciò che aveva vista di essere una favola di donnicciuole. Secondo perchè quel fatto, quando pur si fosse conservato nelle tradizioni de' popoli senza alterazione alcuna, tuttavia egli riuscir doveva cosa oltremodo misteriosa e oscura. Sicchè il voler spiegare con quel fatto l' origine del male era cosa superiore alle forze della ragione naturale o certo della filosofia; nè vi aveva un' autorità infallibile che potesse comandare alla ragione stessa una cieca credenza al medesimo e alla spiegazione che per suo mezzo si dava all' esistenza del male fisico e morale sopra la terra. Egli è vero che il peccato originale (che come ognuno si accorge è il fatto di cui parliamo) fu nel suo fondo creduto da tutti i popoli, come abbiamo osservato, quasi per istinto, per un bisogno di credere pure qualche cosa che desse ragione dello stato miserabile della umanità. Ma questo peccato originale che colla spontaneità de' popoli veniva creduto, reggeva poi alla riflessione? Quante difficoltà non presentava a chi si ponea a ragionarvi sopra? Quanti misteri non involgeva che ributtava la filosofica ragione, voglio dire quella ragione che non soffre mai di trovare un mistero superiore alle sue forze e che negherebbe il sole di mezzogiorno anzichè confessare la propria limitazione. Primieramente il peccato originale è congiunto colla storia di uno stato della umanità infinitamente diverso dal presente, nel quale Dio e l' uomo conversavano insieme, per così dire, a tu per tu, stato di cui non si può avere esempio e già esso solo difficile a credersi. Di poi in che modo il peccato del padre poteva passare nei figliuoli? O come questi esser rei prima ancora che venissero in possesso dell' uso della ragione? E come castigati d' un peccato che non fu in loro arbitrio il non ricevere e che essi stessi non commisero? Egli è evidente che, acciocchè gli uomini potessero credere a questo fatto e alla spiegazione del male che da questo fatto dipende, non ci voleva meno che la testimonianza di un' autorità infallibile, incontro alla quale la ragione umana dovesse ammutolire e ragionevolmente dovesse dire seco medesima: io non veggo l' uscita di questo intrico: il peccato originale che mi si propone è per me un mistero, ma finalmente l' autorità che me lo annunzia è infallibile. Le mie forze sono limitate: se io non veggo come il peccato si possa propaginare e derivare nei figliuoli, non è per questo che non possa essere e che io medesimo non potessi vedere se crescessero le mie forze. Or come io veggo per certo che l' autorità che me l' annunzia non può fallire, così m' è forza di ammettere questo fatto del peccato originale, eziandio che egli involga in sè un altro misterio. Era adunque necessaria un' infallibile autorità che annunziasse agli uomini quel gran fatto che contiene la spiegazione dell' origine del male, perchè la facesse lor credere, perchè la facesse creder loro ragionevolmente, la facesse credere a tutti, la facesse credere non colla sola spontaneità, colla quale credono gli uomini che ancor sono nello stato d' infanzia, ma con una credenza che potesse tenersi ferma contro la riflessione degli uomini già avanzati e inciviliti. Perocchè un' autorità infallibile ben provata è forte contro all' esame di qualsivoglia riflessione, nè questa potenza critica, che tutto tende a distruggere ciò che non partecipa dell' infinito e dell' eterno, può addentrarla sventarla ed offenderla. Posto dunque che nel peccato originale sia la soluzione del gran nodo che presenta la questione dell' origine del male, egli è manifesto che nissuna filosofia, quando anche avesse conosciuto l' esistenza di questo peccato, era in grado di ammaestrare gli uomini di una tanta verità e di farla lor credere, perchè sarebbe sempre stata sprovveduta di autorità sufficiente cioè di un' autorità infallibile, chè meno non si richiedeva per infondere negli uomini la ferma credenza a una cagione sì misteriosa contenente in sè tanti elementi che ripugnavano all' assenso di una piena persuasione. Per questo dice acconciamente Lattanzio, che [...OMISSIS...] . Ora essendo all' uomo cosa di prima necessità il conoscere un tanto vero senza il quale rimane un enigma a sè stesso, un enigma insostenibile alla propria natura, che pur vuol sapere di sè qualche cosa e col quale solo egli può tranquillare l' animo suo, tentato altramente di negar fede alla sapienza della natura, alla giustizia e all' esistenza stessa di Dio, i quali sono i fondamenti della morale; egli è manifesto il bisogno che v' ebbe di una divina rivelazione coll' autorità della quale il mondo intero potesse essere certificato di questo dogma del peccato originale; il quale assicurato nella credenza degli uomini servisse come di base ben ferma a fabbricarvi su la morale conveniente all' uman genere nello stato in cui ora si trova caduto. E questa certa notizia dell' origine del male fermata nella credenza degli uomini è uno di quei sommi beni che diede loro il cristianesimo, che è quanto dire l' unica religione vera che fu sempre al mondo. Poichè questa si presentò al mondo con un' autorità divina e dopo avere persuaso l' umanità che era in nome di Dio che parlava, annunziò il dogma del peccato originale, che venne ricevuto senza più avervi difficoltà sulla parola di Dio. Così fu la Fede quella che soccorse al bisogno degli uomini a cui non poteva soccorrere la ragione umana. La qual fede vinse, per così dire, la stessa ragione dell' uomo, convincendola della sua limitazione e della sua impotenza a satisfare alle questioni essenziali che l' uomo le rivolgeva, al bisogno supremo di conoscere sè stessa, di sapere che ha l' umanità, e di operare in conformità e coerenza della cognizione di sè stessa. Se non che egregiamente dice S. Agostino che « la fede prepara l' uomo alla ragione e la ragione conduce alla intelligenza e alla cognizione« (1) ». Poichè quelle verità stesse che da prima son credute dagli uomini come altrettanti misteri sull' autorità di Dio che le rivela, venendo poi meditate dalla ragione medesima si vengono alquanto chiarendo, e la ragione che prima non vi rinveniva che fitte tenebre e apparenti assurdi, finisce collo scoprire in esse un abisso di luce e cava dal loro seno delle stupende cognizioni e trova che in esse si nasconde il più profondo della stessa scienza, e che quello scuro che da prima mostravano al di fuori non veniva tanto dall' essere quelle verità al tutto inaccessibili alla ragione, quanto dall' essere difficili e non asseguibili dalla ragione senza lunghe meditazioni e fatiche, e ciò che è più difficile a conoscersi è bene spesso la parte più sublime e vitale del sapere. Laonde se la fede non avesse fermata l' attenzione dell' uomo in verità così alte e preclare, queste sarebbero state perdute per la umanità: conciossiacchè l' uomo non si sarebbe giammai fermato a pensare lungamente e faticosamente in cosa a cui non prestava fede e nella quale nulla cagione il persuadeva di trovarvi nascosto profondamente un tesoro; ma sarebbe ricorso a vie più facili invenzioni e ipotesi e avrebbe queste continuamente rimutate; come quelle nessuna delle quali il poteva lungamente accontentare, senza pervenire giammai al fermo della salutare verità. Ma la fede mise l' uomo a dirittura in possesso dei veri più necessarii e degni, e così l' uomo ebbe la materia sulla quale esercitare poi la sua meditazione, materia raccomandata troppo bene all' attenzione di sua ragione dalla fede medesima che aveva persuaso l' uomo ivi dentro contenersi il più pregiato e il più recondito della sapienza. E il dogma del peccato originale può servire appunto di esempio di questo servigio che presta la fede alla ragione. Perocchè questo peccato che ricevono i bambini pur nell' atto di esser generati e che consiste in una vera macchia dell' anima, come dicono i teologi, non già solo in una esteriore e legale imputazione (2), in una macchia che rende l' anima giustamente degna di eterna dannazione, è tal cosa di che sembra nel primo annunciarsi che non possa darsi nulla di più strano e assurdo. E tuttavia ove si mediti lungamente, egli viene perdendo sempre più di quello strano e incredibile che nella prima faccia dimostra, e finalmente si perviene a trovare che egli non ripugna punto nè poco alla natura umana nè alla natura del male morale; e che tutta quella apparente assurdità che parea contenere non aveva altra cagione se non il non conoscere noi a fondo la natura intima dell' uomo e quella della sua moralità: e in nostra ignoranza a giudicare della possibilità del peccato originale con dei pregiudizii e con dei principii falsi intorno alla volontà dell' uomo e alla malizia o bontà della medesima. Il che io spero di dover dimostrare nel seguente capitolo, nel quale non farò altro che esporre il dogma del peccato originale; non ignudo, ma vestito e corredato di tutte quelle cognizioni intorno all' uomo e alla sua dignità o pregio morale che somministra la ragione filosofica. Le quali cognizioni gli t“rranno d' attorno per avventura tutto quel duro e aspro che ripugna alla ragione di coloro che non l' hanno se non per poco e superficialmente considerato. Gli espositori della verità cristiana dicono che il peccato originale è una « macula« » dell' anima. Egli è evidente che non si deve intendere la parola « macula« » materialmente, perocchè nell' anima non si dànno macchie nel senso proprio e materiale: dicendosi macchia in questo senso a quell' imbratto di colore che rompe e deforma la candidezza o comechesia il colore naturale di un corpo. E` dunque in senso traslato che si piglia la parola macchia quando si applica all' anima, e viene a dire una macchia morale, una deformità morale che deturpa e disgrega quell' ordine e bellezza di giustizia, di cui l' anima doveva altramente essere decorata. Egli è evidente che nella sola concupiscenza animale non può consistere peccato alcuno, perocchè il peccato è una macchia morale (1) e ogni moralità esige una natura intellettiva e volitiva. Ora nella sola concupiscenza animale non vi è possibilità di cognizione e di volizioni, ma solo sensazione e istinto cieco. Dunque nella sola concupiscenza animale non possono trovarsi le condizioni del peccato. Chi dicesse il contrario, dovrebbe attribuire moralità e immoralità anche alle bestie, nelle quali v' è l' animalità, contro il senso comune e la cristiana dottrina. Che nella nozione di peccato debbano avere luogo i due elementi della legge e della volontà , è cosa universalmente consentita da' savii (1). Ma nel fatto del peccato originale alcuni trovano questi due elementi essere stati in Adamo, e di questo sono soddisfatti senza più. Ma il venire imputato al bambino uno sregolamento della sola volontà del suo antenato Adamo, non sarebbe che la imputazione estrinseca del Caterino e del Pighio o di chichessia; sistema escluso da ogni cattolica teologia. E come, in tal caso, si avverrebbe quello che ha deciso il Concilio di Trento, che il peccato originale non è solo comune, ma proprio dei singoli bambini che nascono? (2). Il disordine adunque della volontà di Adamo potè essere cagione della propagazione del peccato nei bambini (3): ma perchè il peccato sia proprio di questi e non a questi solo imputato; perchè sia una macchia morale che contamina l' anima loro; conviene che il disordine del peccato sia altresì nella loro propria volontà. E perciò acconciamente dice Gaetano de Fulgure, che il peccato originale [...OMISSIS...] . Ciò che ha in sè di difficile questa sentenza tutto si dissipa colla chiara distinzione del volontario e del libero . Fino che non si conosceva che la volontà si può trovare in uno stato di necessità e in uno stato di libertà (5), questa materia rimase involta nelle maggiori tenebre. Ma le questioni intorno alla grazia, eccitate nella Chiesa in occasione delle dottrine di Baio e di Giansenio, condussero a fissare l' attenzione sopra la volontà istintiva, cioè in uno stato non ancora libero, e a conoscere che non si può confondere con una tale volontà il libero arbitrio propriamente detto. Dopo di ciò fu facile di concepire che la volontà poteva esistere nell' uomo fino dai primi momenti di sua esistenza e anteriormente al suo libero arbitrio; e che questo l' uomo lo acquista di poi a un tempo che acquista le cognizioni e che viene sviluppando il suo intendimento, poichè solo dopo che è in possesso della cognizione di più cose, egli può scegliere fra esse ciò che meglio gli aggrada: e veramente sarebbe un errore manifesto a supporre che vi avesse un tempo in cui l' uomo fosse, e tuttavia non avesse la potenza della volontà, ma l' acquistasse poi in isviluppandosi: il che sarebbe un mutare di natura, e da non uomo cominciare ad essere uomo. Come sarebbe pure un errore a pensare che nei primi momenti di sua esistenza l' uomo si trovasse privo dell' intelletto. Ora se vi ha la potenza della volontà in un bambino, ella è però evidentemente priva di libertà, in uno stato legato e necessitato. Ammessa poi una potenza di volere nell' uomo fino dai primi momenti della sua esistenza, forza è di ammetter pure un primo atto volitivo, o piuttosto questo è ammesso tostochè è ammessa quella. Conciossiacchè una potenza è essa stessa un atto primo, e ove ciò non fosse, non s' intenderebbe più che fosse, sarebbe un nulla, una parola priva di significato, o al più la possibilità di una potenza, e non una vera potenza. Così io posso concepire in un soggetto qualsivoglia, poniamo in un bruto, la possibilità che egli venga a conoscere e volere, per opera di Dio: ma questa possibilità meramente passiva non costituisce in lui nessuna potenza di conoscere e di volere: non è che un affermare che la onnipotenza di Dio potrebbe per avventura dargli la potenza conoscitiva e volitiva. A chi avrà ben inteso quanto abbiamo esposto altrove sulla natura della volontà e delle potenze in generale, non rimarrà dubbio intorno alla verità di ciò che qui affermiamo intorno alla volontà (1). Questa dottrina intorno al primo atto della volontà è connessa colla teoria dell' intendimento; perocchè ogni volizione suppone una cognizione, e una volizione primitiva dimanda dinnanzi di sè e come suo termine una primitiva e originale cognizione. Questa primitiva cognizione o concezione, se si vuol meglio, è l' atto che costituisce la natura dell' intelletto; perocchè essendo l' intelletto una potenza, anch' essa deve esser un atto primitivo, secondo il principio accennato, ingeneratore di tutti gli atti successivi. Ogni atto poi dell' intelletto esige un oggetto; di che la necessità medesimamente di un oggetto primitivo dell' intendimento che sia il primo cognito e pel quale si conoscano le altre cose. E fatta poi diligente inquisizione intorno a questo oggetto primordiale per conoscere che possa essere, abbiamo trovato che egli è l' ESSERE INDETERMINATO: indi la notizia chiara della potenza, che l' uomo ha fino dal primo suo esistere, di conoscere e di volere e degli atti primitivi che racchiudono queste potenze e le costituiscono. Perocchè avviene che la potenza di conoscere sia la potenza di veder l' essere e la potenza di volere sia la potenza di appetire l' essere. Avviene ancora che l' atto primitivo ed essenziale della potenza di conoscere sia determinato dallo stato imperfetto nel quale l' essere originalmente è presentato all' uomo da vedere, cioè nello stato d' INDETERMINAZIONE; e da questo oggetto stesso sia determinato l' atto della potenza di volere. L' elemento conoscitivo adunque e volitivo che costituisce la natura umana e che entra nella sua definizione (2), sotto un aspetto si può dire un atto e sotto un altro una potenza . Egli è atto relativamente a quella parte di essere che fin da principio è scoperta e presente allo spirito umano: ed è potenza relativamente a quella parte di essere che non è ancora scoperta e presentata da vedere e appetire allo spirito, che viene presentata poi da sentimenti e che forma l' oggetto delle sue cognizioni acquisite e corrispondenti volizioni. Ora conosciuta in tal maniera la natura della volontà, consistente in una costante appetizione dell' ente conosciuto (sicchè da prima non essendo conosciuto l' ente che in universale, non è che un atto o tendenza universale ad appetire, poscia conoscendosi degli esseri particolari si sviluppa in altrettante volizioni di questi); non è più impossibile il concepire la possibilità di un disordine nella volontà fino dalla prima esistenza di questa. E veramente la volontà (volizione rispetto all' essere conosciuto per natura , e potenza di volere rispetto agli esseri non conosciuti per natura, ma coll' aiuto dei sensi) si può considerare o dalla parte del suo oggetto , o dalla parte del soggetto uomo, di cui essa è atto. Egli è evidente che la volontà può venire alterata e mutata intrinsecamente tanto per mutazione che nascesse nel suo oggetto naturale e primo, come per alterazione del soggetto volente, l' IO, l' uomo stesso. Lasciando qui di parlare di quella alterazione che potrebbe sofferire la natura della volontà da una mutazione dell' oggetto suo naturale, possiamo ancor concepire la possibilità che la volontà soffra nella sua natura una cotale alterazione e disordine dalla parte del soggetto a cui appartiene. Perocchè se l' uomo, l' IO, soggetto della volontà, è difettoso e guasto, e se è soggetto a delle perverse suggestioni, egli par naturale che dovrà fare anche della sua volontà un uso torto e sregolato. Come ciò avvenga, io dirò più sotto, parendomi qui aver detto abbastanza perchè si possa concepire la possibilità di un disordine nella potenza di volere, considerata anche nel suo stato primitivo anteriore a qualunque suo sviluppamento. Fatto così luogo a concepire la possibilità di un guasto della volontà anche in un bambino, egli perde tutto ciò che aver possa di più duro, come dicevamo, la sentenza che esige come elemento essenziale alla nozione giusta del peccato originale una prava affezione nella volontà dell' uomo, sebbene appena generato e non ancor venuto al libero uso delle proprie potenze. E non può essere altramente dall' istante che il peccato originale non si dice già con questo nome di peccato per una cotal metafora o traslato, ma s' intende cosa che, come ha definito il Concilio di Trento, ha in sè la vera e propria ragione di peccato (1): il che è quanto dire di cosa immorale e per ciò di cosa essenzialmente volontaria. Quindi è che S. Tommaso insegna che il peccato originale non è una mera privazione, ma un abito corrotto (2), e l' abito è sempre una cotale disposizione delle potenze; e poi cercando a qual potenza principalmente appartenga quest' abito corrotto, trova che alla potenza della volontà, come quella appunto che presiede alle cose morali. Ecco alcuni passi del Santo Dottore, tutti consentanei alla sentenza che abbiamo proposta. [...OMISSIS...] Ma sebbene il peccato originale tocchi la volontà e deve consistere sicuramente in una stortura della volontà, tuttavia non può consistere in qualunque stortura della volontà, non può essere semplicemente la inclinazione al male della volontà umana. E veramente nei rigenerati dal battesimo rimane la inclinazione al male della volontà, e tuttavia è definito dal Concilio di Trento che il battesimo ha efficacia di t“rre dall' anima pienamente la macchia del peccato. [...OMISSIS...] Dunque la mala inclinazione della volontà, secondo il dogma cattolico, non costituisce da sè solo l' essenza del peccato originale. Abbiamo veduto che il peccato originale non può consistere nella concupiscenza animale considerata per sè sola (2), e che non può consistere nella sola mala inclinazione della volontà. Ma esso non può consistere nè anco nella lotta che hanno insieme la concupiscenza animale e la volontà. E veramente questa lotta, per la quale lo spirito concupisce contro la carne e la carne contro lo spirito, come dice la Scrittura (3); rimane nell' uomo anche dopo il battesimo, il quale pure è di fede che toglie dall' uomo tutto ciò che ha vera e propria ragion di peccato, come definisce il Tridentino. Il quale così soggiunge: [...OMISSIS...] . Dunque questa battaglia non è punto, secondo la cattolica fede, ciò che costituisce il peccato originale. Fin qui le nostre ricerche ci condussero a vedere che cosa non è il peccato originale, cioè come egli non sia nè una macchia nel senso materiale della parola, nè il puro istinto animale, nè la sola inclinazione al male della volontà, nè la lotta fra la concupiscenza e la volontà. Abbiamo trovato nulladimeno anche qualche cosa di positivo intorno alla natura del peccato originale, cioè che egli deve essere una macchia morale dell' anima e che per conseguente deve affettare anche la volontà dell' individuo che nasce e non la sola volontà del primo padre dell' uman genere che attualmente lo commise. Dobbiamo adunque ora seguitare la ricerca per comporci, se ci riesce, la notizia positiva di questo misterioso peccato originale. Se il peccato originale non consiste nella sola mala inclinazione della volontà, ma pure questa inclinazione mala è qualche cosa di essenziale nel peccato originale, converrà cercare da qual principio proceda questa mala piega della volontà, che cosa è che urge questa potenza e la inclina verso il male. Trovandosi questa inclinazione mala nell' uomo fino da' primi istanti della sua esistenza, questa inclinazione non nasce da un atto sopraveniente della sua libertà, ma questa piega è nata in lui anteriormente all' uso della sua libertà, e all' acquisto delle cognizioni che attinge da' sensi. Ora se la volontà non si piega da sè stessa liberamente nè da un essere esteriore che agisca nell' uomo, conviene che nella stessa natura umana vi sia un principio cattivo che seduca la volontà e la inclini al male. Poichè la volontà è una potenza che come tale non è inclinata nè da una parte nè dall' altra, e conviene perciò che qualche principio naturale la inclini, se questa inclinazione, come dicevo, è necessaria e non libera. Per questo un peccato che sia nell' uomo fino dai primi momenti della sua esistenza deve procedere da un disordine della stessa umana natura. E questo rende ragione del perchè S. Paolo dica che noi siamo figliuoli d' ira PER NATURA (1): e del perchè comunemente il peccato originale sia chiamato dai Padri anco naturale . Per questo S. Giovan Grisostomo il chiama radicale (2), toccando la radice dell' uomo, cioè il principio soggettivo: e S. Agostino dichiara che esso trasfondersi « occulta tabificatione naturae ». Veduto che il peccato originale ha per primo seggio l' intima natura umana, conviene che noi veggiamo come il peccato si abbatta nella natura e che dichiariamo l' ordine della umana corruzione. Per natura umana intendiamo il complesso delle potenze che si trovano nell' uomo, non meno che il nesso che tutte le unisce in un solo soggetto. Ora perchè il peccato appartiene all' ordine razionale, conviene che esaminiamo l' uomo principalmente come soggetto intellettivo e nello stato in che Dio l' ebbe posto sulla terra: indi quale sconcerto abbia prodotto nell' uomo la colpa. E richiamando quello che abbiamo detto intorno a ciò, l' uomo è soggetto intellettivo per la visione dell' essere indeterminato. La volontà è l' inclinazione verso il bene conosciuto; e perchè ogni essere è bene, è la tendenza verso ogni essere conosciuto. Indi nell' uomo vi ha un atto primo d' intelletto e un atto primo di volontà. Quello è l' idea dell' essere indeterminato: questo è la tendenza appunto indeterminata verso quest' essere. La natura umana adunque ha nel suo seno fin dall' origine un intelletto e una volontà in atto, e da questi risulta e si crea come da' suoi proprii costitutivi elementi. Ma Iddio, oltre aver dato all' uomo in sul principio la contemplazione costante dell' essere ideale indeterminato, gli ha dato altresì la percezione di sè stesso, essere sussistente e assoluto. Indi una nuova tendenza della volontà, la quale naturalmente doveva quasi direi, precipitarsi verso la pienezza dell' essere offertasi da concepire all' intendimento. Questo primo e veemente moto della volontà rispondente alla grazia divina (2), fu l' originale inclinazione al bene dell' uomo innocente, e quello stato di originale giustizia, nel quale era costituito e col quale dovevasi propaginare. L' uomo fu costituito da Dio perfettamente fino dal primo istante, nè fu un tempo anteriore, nel quale egli fosse posto nel solo ordine di natura e non anco in quel della grazia. Quindi nel primo uomo per la sua stessa costituzione la volontà trovavasi edotta, non solo in quell' atto primo che termina nell' essere ideale e indeterminato, ma si bene anche in quello che termina nell' essere assoluto e completo. La volontà in tal modo si era volta fin dal principio con un atto pieno e, come diceva, precipitata in quell' oggetto che è il TUTTO, del quale cercava di pienamente sfamarsi, per così dire, e bearsi. Se la volontà dell' uomo primo si fosse terminata solo all' essere ideale indeterminato, non ci sarebbe stata cagione di volere di più, almeno per molto tempo. Ma coll' aver conosciuto e gustato l' assoluto, doveva nascere in essa un bisogno tutto nuovo, una necessità di esso e senz' esso uno sforzo di cercarlo per tutto, una incontentabilità, una affogata brama e tendenza di completarsi con un suo atto che il tutto abbracciasse. Così noi veggiamo che l' uomo educato in piccolo e ristretto cerchio di cose, è pago nè sa bramar oltre perchè oltre non conosce: ma tratto fuori del suo paesuzzo o fatto discendere dalla sua montagna e dai tugurii passato nei palazzi e dalla scarsezza di tutte le cose nell' abbondanza, non avviene poi che restituito nell' umile e povera vita che faceva prima trovi la pace e il suo cuore gli sembri oppresso e per poco soffocato dall' angustia del casolare e dal ristretto numero di oggetti che lo circondano e che cagionano in lui poche, e sempre uguali e perciò noiose sensazioni. Conciossiachè la volontà sua ritiene ancora le brame che in lei sviluppatesi in essa nello stato di vivere dovizioso e ampio in cui era passato e nel quale aveva tratti da sè de' nuovi voleri e soddisfattili. E ora egli avvenne appunto così che la volontà del primo uomo mossa originariamente dall' oggetto assoluto, fu poi privata dopo il peccato di questo oggetto. Perocchè essendosi Iddio ritirato dall' uomo, non fece più nella sua mente quell' azione deiforme che abbiamo di sopra descritta; gli tolse la sua grazia, gli sottrasse il senso dell' essere sussistente: non lasciandogli che l' oggetto del solo intendimento naturale, cioè la tenue idea dell' essere e questo indeterminato. Ma nel tempo medesimo che alla volontà attuata e piegata verso l' infinito fu sottratto il suo oggetto, ella però rimase così piegata e così attuata: e non trovando più l' oggetto reale infinito perchè sottrattole, il suo atto, col quale il cercava, diede nel vƒno e tentò di trovarlo da per tutto, quando non era più in alcuna parte in ch' ella potesse colpire e giungere. Sicchè la volontà di Adamo doveva rimanere con una brama infinita che non poteva essere appagata e che pure voleva ad ogni costo essere; e però con un bisogno di fingere a sè stessa quell' oggetto che non aveva, e nutricarsi, per così dire, di vento, cioè di sue vuote finzioni: e questo ancorchè null' altro fosse avvenuto se non se sottrarsi l' oggetto infinito, posto a lei nella sua prima costituzione, da dover per inclinazione spontanea volare. Ma a ciò si sopraggiunse un atto di libero arbitrio, col quale l' uomo stesso stolse la volontà dall' oggetto infinito resosi a lei naturale e la piegò verso la finzione del bene, cioè verso il frutto vietato, il mangiare del quale per la menzogna del demonio fu creduto atto a render l' uomo sapiente e trarlo in istato via migliore ancora che non sia quello stesso della grazia di Dio. Sicchè liberamente l' uomo volse la volontà che dava nel bene reale, a dover dare col suo atto nel vƒno del bene finto, cioè falsamente imaginato, col quale atto anco la facoltà di eleggere , non solo quella di volere, fu storta, e datale mala piega, datole un abito vizioso; e quindi procedette principalmente e direttamente il guasto del soggetto stesso a cui la facoltà di eleggere appartiene (1). Per sopraggiunta accade che nel mangiamento del frutto l' istinto animale medesimo si rinforzò e alterò, venendone alterata e pervertita la materia del sentimento animale. Sicchè nacque in lei un' aspettazione (2) esagerata e ingannatrice, la quale doveva a sè rapire naturalmente la volontà che voleva un tutto e non aveva più ove rinvenirlo, (toltolesi dinnanzi il tutto reale ); e l' istinto alterato o la concupiscenza si presentava ella, quasi direi, ogni bene promettendole a ribocco sopra quello che potesse desiderare e portare. E si consideri che, parlando noi di senso, di volontà e d' intendimento, consideriamo queste potenze nel loro primo atto in quanto determinano la costituzione del soggetto, l' ordine intrinseco del medesimo e di quelle abitudini di cui questo primo atto è vestito; e non già nelle loro operazioni. Quindi pertanto si potrà formarsi il concetto del disordine avvenuto nel soggetto uomo mediante il primo peccato: ed ecco in che guisa. Egli è manifesto che l' atto onde Adamo peccò fu atto di libera volontà. Ora atto di libera volontà non è già un atto puramente della potenza, ma è atto immediatamente del soggetto (3). Perocchè l' uomo, collo scegliere liberamente, ha da una parte quello che l' intendimento retto gli rappresenta di vero, e dall' altra quello che la concupiscenza gli rappresenta di falso bene: e come in mezzo egli a ciò che gli offrono innanzi queste sue potenze, sceglie quella parte che più egli vuole. L' energia dunque della sua libertà viene dal soggetto immediatamente, e sceglie fra i risultamenti delle potenze e quindi è superiore alle potenze stesse e per così dire le signoreggia. Questa forza intima del soggetto è per sè stessa cieca, per così dire, perchè non ha altra ragione che pur sè sola: ma ella può sottomettersi all' intendimento retto e illuminarsi, ovvero può sottomettersi all' intendimento fallace e al senso e può illudersi da sè medesima. Or dunque quell' atto tutto libero, tutto procedente dal soggetto di Adamo fu quello che ingegnerò nel soggetto medesimo, in questa forza intima e primitiva che è il fonte della libera energia o piuttosto è ella stessa la libera energia, una mala disposizione e propriamente un ISTINTO di piegarsi al male, convalidato dalla remozione nell' intendimento dell' essere sussistente, e dall' accrescimento e alterazione d' impulso nel senso animale (1). Il perchè convien dire che come l' atto della libera energia, che è atto immediato del soggetto, fu cagione della rovina delle potenze dell' intendimento e della sensibilità, così viceversa il guasto di queste potenze reagì sul soggetto stesso e rese la sua forza volitiva debole e tarda e comecchessia oltremodo difettosa nel suo operare. Riassumendo adunque, l' ordine del guasto originale nella natura umana è il seguente. Il peccato cagione di questo guasto nacque con un atto libero, col quale l' uomo mangiò il frutto e così disubbidì a Dio. L' energia prima e elettiva propria del soggetto, togliendosi dal bene percepito anche soprannaturalmente e violentandosi alla finzione del bene, esorbitò, pigliò un nuovo peso verso il male e propriamente un ISTINTO del male (inclinazione al male morale) (2). La volontà già edotta in quell' atto che ha per iscopo l' essere completo (tutto l' essere, Iddio) e quindi bisognosa di un bene infinito; poi privata di questo, fu volta a cercare di fingersi una infinità di bene nelle creature (inclinazione al falso) (3). L' istinto animale finalmente fu reso violento e senza il freno delle potenze superiori, distratte, traviate e congiurate con lui. Il difetto della volontà e del senso reagisce sul guasto del soggetto, come il guasto di questo perverte la volontà e lascia il senso senza freno. Perocchè la volontà vuota di beni reali e bisognosa di essi non può aiutare al bene la energia radicale del soggetto, ma lasciarla pesare verso il male; la violenza del senso animale, quella aspettazione istintiva , menzognera, di un immenso e perpetuo piacere, deve trarre a sè la forza del soggetto e snervarne la facoltà di eleggere, come abbiamo detto avvenire per alterazione che nasca nella materia del sentire (4). Quindi vi ha una mutua perniciosa influenza fra questi tre principii dell' uomo: 1 il principio soggettivo elettivo; 2 la volontà; 3 l' istinto animale: per modo che ciascuno esercita un' azione corruttrice sull' altro, che aggrava il male della umana natura. Abbiamo detto che il peccato originale infetta e guasta la natura umana; or diciamo ch' egli corrompe lo stesso soggetto umano che lo riceve: ella è una conseguenza delle cose dette fin qui. Abbiam veduto che la volontà è piegata al male fino dal primo istante della esistenza dell' uomo; e ciò per un principio seduttore giacente nella natura stessa dell' uomo. Ora in quel primo momento non ancora è sviluppata la libertà umana, nè vi ha alcun atto riflesso della volontà con la quale l' uomo possa correggere l' inclinazione al male dell' atto primo e diretto. La volontà in quel primo tempo non ha che un atto solo, anzi nè pure propriamente un atto ma un abito: e questo è l' abito per conseguente dell' uomo. Conciossiachè la potenza attiva, in cui il soggetto principalmente risiede, è l' atto prevalente, e molto più se egli è unico, della volontà. Egli riman dunque il soggetto stesso infetto e peccante. Si consideri la conseguenza che deve nascere dal guasto della parte animale. Esso basta a spiegare l' infettamento del principio costituente il soggetto uomo: perocchè, come abbiamo detto, la concupiscenza animale tira e rapisce a sè la forza intrinseca e radicale del soggetto, e così la indebolisce e la perverte: e la volontà cercatrice e al tutto bisognosa del bene di cui è privata, lungi dal poter aiutare il soggetto, dal non darsi giù e farsi suddito al senso, anzi fattasi al medesimo infida consigliatrice, lo persuade a ciò e lo impelle. Perocchè è in quel bene vago e illusorio che con tanta baldanza le promette il senso materiale, che ella si persuade di poter riparare la sua perdita e felicitarsi, nè ha verun' altra cosa in che menomamente sperare, massime innanzi che l' uomo conosca i beni ideali e astratti. E un tal guasto, che per tal modo ridonda dalla natura, cioè dalle potenze nel soggetto, non si dee far già per intervallo di tempo; di modo che vi abbia un tempo nel quale le potenze sieno corrotte e non il soggetto, e vi abbia un altro tempo [in cui] la corruzione del soggetto veniente dalle potenze sia già compita: ma forza è che in un tempo medesimo e comincino a essere le potenze e in esse il lor guasto, e la comunicazione di questo guasto fatta al soggetto. Di che la ragione è che il soggetto non ha un' esistenza da sè, divisa dalle potenze; ma egli comincia a esistere con queste e in modo a queste consentaneo. Ciò che non sarà difficile d' intendere a chi si rammenta il modo onde abbiamo descritta la produzione del soggetto: il quale abbiamo detto per sè subitamente esistere tosto che sia dato un sentimento, una materia o un oggetto di sentire. E finalmente, in terzo luogo, anche lo stesso guasto delle potenze si attribuisce al soggetto, ove egli pure è infetto, per quella unità e armonica comunicazione che le potenze hanno col soggetto nel quale risiedono. E` adunque il peccato originale una infezione della natura per la disarmonia (1) e l' intimo guasto delle potenze, dalle quali la natura risulta: è una infezione del soggetto perchè essa va a infettare e depravare quel principio supremo di tutte le potenze, quel punto più eminente della natura umana che costituisce propriamente il soggetto, l' IO dell' uomo. Da tutto ciò che è stato detto si fa palese una via di conciliare la sentenza de' Tomisti, i quali insegnano che il peccato originale risiede primieramente nell' anima stessa e dall' essenza dell' anima trapassi a contaminare le potenze; colla sentenza di San Anselmo (2), di Giovanni lo Scoto (3), e altri (4), i quali sostengono il peccato originale aver sua sede primieramente e propriamente nella potenza della volontà. Questi secondi facevano risiedere il peccato originale nella potenza della volontà per la ragione che abbiamo toccata di sopra, che la sola volontà è la potenza morale, e che tutto ciò che nell' anima vi è di morale esser vi dee per cagione della volontà; e che perciò anche il peccato, essendo morale, e non è altro, come si definisce anche da S. Tommaso, che una stortura della volontà, egli deve nella volontà come in sua propria e primitiva sede ritrovarsi: ragione irrefragabile ed evidente. E tuttavia non è men vera la sentenza di quelli che abbiamo nominati, i quali vogliono che nell' essenza dell' anima, anzichè nelle sue potenze, il peccato originale s' incominci: e il contrastare di questi a quelli parmi una di quelle battaglie delle scuole, le quali collo schiarire de' vocaboli o coll' approfondire la materia vanno intieramente a pacificarsi. Conviene dunque sapere che dall' essenza dell' anima, secondo la dottrina di S. Tommaso, fluiscono le potenze. Se dunque per essenza dell' anima s' intende il principio delle potenze, egli è manifesto che, parlando dell' uomo, ciò che costituisce una tale essenza è quel principio stesso che noi abbiamo chiamato il soggetto, l' Io. Ora il soggetto l' abbiamo fatto risultare da due elementi, cioè da un principio sensitivo e da un principio operativo (giacchè il passivo e l' attivo non si possono mai dividere insieme) (1). E questo principio operativo del soggetto abbiamo detto che è una volontà primitiva e propriamente una facoltà di eleggere , che abbiamo distinto dalla potenza comunemente detta volontà; che questo principio operativo e volitivo costituisce l' essenza dell' anima, il soggetto, e non v' ha niente di attivo a lei anteriore nell' uomo. Or ecco la sede del peccato originale: ella non è nella volontà comune (potenza), ma nella volontà primitiva, la quale costituisce il soggetto uomo e con esso l' essenza dell' anima. Egli è dunque anche vero che il peccato originale risiede nell' essenza dell' anima. Io spiegherò qui sotto in che senso dica il Dottore angelico che il peccato originale macchi prima l' essenza dell' anima che la volontà; e qui mi basterà solo di notare che il Santo Dottore riconosce così necessaria la perversione della volontà a costituire il peccato che, tolta questa, è tolta l' essenza del peccato e che per ciò il peccato non comincia se non dove questa comincia, sicchè tutto ciò che di dispositivo vi può essere nell' uomo antecedentemente al guasto della volontà non è ancora peccato. E veramente cercando egli ciò che vi ha di formale nel peccato originale, comincia dallo stabilire questo principio: [...OMISSIS...] . E poi immediatamente soggiunge: [...OMISSIS...] . Nelle quali parole la mente del santo Dottore manifestatamente si appalesa. Perocchè ci riconosce in esse che non può avervi formal peccato prima che non sia storta la volontà: e per ciò qualunque infezione e guastamento fosse nell' anima anteriore allo storcimento della volontà, ciò non sarebbe peccato ancora se non materiale, cioè a dire materia del peccato sopraveniente e non essa stessa peccato. E mi gioverà aver fatta questa osservazione a schiarimento di ciò che mi converrà dire parlando più sotto della trasfusione del peccato di origine. Abbiamo veduto che il peccato originale è peccato della natura umana. E abbiamo veduto che egli è peccato altresì del soggetto umano. Or egli è manifesto da sè stesso che il peccato originale si fa peccato anche della persona, poichè il soggetto uomo, in tutti quelli che per naturale generazione discendono da Adamo, è una persona. Egli è per ciò che il Concilio di Trento definì essere il peccato originale non solo comune della specie, ma proprio di ciascuno che nasce (6). E S. Agostino nel medesimo senso dice: [...OMISSIS...] . Ed è per questo che il peccato originale tocca la persona, che ha tutta la sua proprietà la espressione del Grisostomo che chiama questo peccato radicale : conciossiachè la persona si può veramente considerare, sotto un aspetto, come il principio, la virtù, la radice della natura umana. Dalle cose dette noi potremo racc“rre finalmente una conveniente definizione del peccato originale. Perchè noi abbiamo veduto: che il peccato originale non è già una mera negazione o una mera privazione della grazia. Che esso non è già puramente un disordine nella natura animale, conciossiachè l' animalità non ha per sè stesso niente che sia bene o male morale. Che tuttavia il disordine dell' istinto animale, in quanto è congiunto individualmente al soggetto umano, si fa materia alla reità di questo soggetto. Che il peccato originale risiede nella natura intellettiva e volitiva dell' uomo: e principalmente in una stortura abituale della volontà (6), ma di quella volontà primitiva che entra come un elemento essenziale della natura umana e che costituisce il principio attivo del soggetto uomo e ancor più della persona (7). Di che abbiamo conchiuso che il peccato originale infetta la stessa personalità dell' uomo e che perciò, oltre al chiamarsi naturale, deve poter ricevere anche l' appellazione di peccato personale. Ora col nome di concupiscenza noi denomineremo in generale qualunque conversione dell' uomo al bene commutabile in onta di Dio (2): e dopo di ciò ecco la definizione che noi proponiamo del peccato originale: Il peccato originale è una cotal concupiscenza e inclinazione al male della volontà (non già solo dell' istinto animale) in quanto questa volontà è la suprema parte attiva dell' uomo, e però quell' elemento nel quale risiede la personalità umana. Noi abbiamo definita la imputazione delle azioni quello attribuirsi che si fa alla persona le azioni morali come a loro causa (3). Per ciò non vi è imputabilità dove il principio da cui muove l' azione non sia la persona. Ma il peccato originale abbiamo veduto essere anche personale, cioè infettare la stessa persona e ricevere da questa la sua qualità di vero e formal peccato come da suo primo principio formale. Per ciò è manifesto il perchè per cui il peccato originale venga imputato all' uomo che per generazione lo contrae. Ma di qual genere è ella l' imputabilità del peccato originale? Noi abbiamo distinto due specie di imputabilità, la imputabilità del peccato e la imputabilità della colpa (4). Noi abbiamo detto, quando la persona umana colla sua volontà è opposta alla legge, allora vi è peccato . Se questa opposizione della volontà è libera allora vi è colpa , cioè allora il peccato è imputabile a colpa (5). Or egli è manifesto, che il peccato di origine non si contrae già per un atto di libera volontà, ma si contrae solo per un atto di volontà personale sì, ma non libera, del qual atto non è in potere dell' uomo far senza, ma anzi egli vien generato e naturato in quell' atto; sicchè non è già un atto posteriore alla sua esistenza, ma è contemporaneo e congiunto con quell' atto medesimo, col quale da principio esiste. Dunque il peccato originale non può essere imputabile di quell' ultimo genere d' imputabilità che abbiamo accennato, ma sol di quel genere d' imputabilità che spetta al peccato che non è colpa personale: ad Adamo poi che lo commise liberamente fu imputabile eziandio a colpa. Egli è così che conviene intendere l' angelico Dottore quando, parlando dell' imputabilità del peccato originale, la riferisce sempre in Adamo: a quel modo che l' errore di una mano o di un piede s' imputa all' uomo o all' anima che mosse quella mano o quel piede. Si deve intendere che il santo Dottore parli del primo e del perfetto genere d' imputabilità, cioè della imputabilità a colpa: perocchè anche il peccato s' imputa alla persona, ma in altro modo, e talora non si diede a questo secondo modo il nome d' imputabilità. Ecco i passi dell' Aquinate: [...OMISSIS...] . E applicando questo principio al peccato di origine, così dice: [...OMISSIS...] . Sicuramente non voleva S. Tommaso con queste parole t“rre quella imputabilità del peccato originale che viene alla persona generata in esso dall' esserle peccato proprio: conciossiacchè è intrinseco alla natura del peccato che la persona che lo possiede abbia da lui vituperio e macchia di reità: il che è appunto quel genere d' imputazione che noi troviamo essere nel peccato originale e che è essenzial cosa in ogni peccato. Lo stesso si dica delle due specie di demeriti che corrispondono alle due specie d' imputabilità (2). Ognuno ben vede quale de' due appartenga al peccato di origine. Dopo fatta la sposizione della dottrina del peccato originale, egli è facile intendere come la rivelazione risponda alle tre grandi questioni che l' infelice stato dell' umanità offre al pensiero, che la filosofia non ha mai potuto sci“rre e che pur sono di tanta necessità all' uomo di saperne il risolvimento (3). Alla seconda questione che dimanda: come convenga alla giustizia dalle mani della natura, risponde la rivelazione che non la natura il fece tale, ma si corruppe da sè medesimo. Alla prima questione: come l' uomo possa essere uscito così misero divina che sia soggetto ai dolori e alla morte anche il bambino che non ha ancor commesso alcun peccato attuale, la rivelazione risponde che anche in quel bambino, pur colla sua medesima generazione, entrò una infezione segreta e intima che pervertì la sua morale natura e storse la sua volontà, rendendolo per tal modo di un volere perverso, e che è la pena di questa morale corruzione in tutti quei mali a cui va soggetto (1). Alla terza questione finalmente che cerca l' origine di quella perpetua lotta e contraddizione che l' uomo prova in sè medesimo, sempre sbattuto fra una legge augusta che gli intima il bene e un incalzante e perpetuo movimento che lo caccia al male, la rivelazione risponde esser quella legge impressa da Dio e non possibile a cancellarsi, ed essere quel funesto stimolo opposto alla legge la stessa ribellione dell' uomo al suo Creatore, ribellione mutata in una infelice servitù e in un istinto lagrimevole che il precipita al male. E così è sciolto il gran nodo e spiegato il grande enigma della natura umana. Questa proposizione è della fede cattolica. [...OMISSIS...] . Come abbiamo distinte due imputazioni, due meriti e due demeriti, così abbiamo distinte altresì due maniere di retribuzioni, di premii e di pene: l' una che consegue al peccato e che abbiamo nominata retribuzione e pena di fatto, l' altra che consegue alla colpa e che abbiamo nominata retribuzione e pena di diritto (1). La prima di queste due pene che si può dire anche pena naturale, perchè viene da sè come natural conseguenza del fallo commesso, è quella che appartiene al peccato originale. E veramente noi abbiamo detto che questo peccato è della natura e che essendo annesso alla natura come un cotal morbo, viene colla natura trasmesso, e per ciò una tal pena viene naturalmente comunicata. Abbiamo veduto che il principio supremo dell' uomo, la personalità, è quella che vien lesa dalla corruzione originale. Egli è appunto per questo che la corruzione originale ha la propria e vera ragion di peccato, sicchè l' infezione della persona è ciò che vi ha di formale nel peccato originale. Abbiamo veduto che anche tutte le potenze dell' anima sono state vulnerate dal peccato originale. Ora questa lesione e questo deterioramento delle potenze, quando si considera da sè solo, cioè prescindendo dal principio supremo costituente la personalità dell' uomo, allora non costituisce propriamente alcun peccato, ma solo ciò che si chiama la materia del peccato. Ove però questo guasto sia unito alla deformità della persona, allora forma una cosa sola col guasto personale per l' unità individua che formano le potenze col loro principio supremo: allora anche il guasto delle potenze partecipa la ragione di peccato: allora nell' uomo si considera una sola grande e universale corruzione, la qual tutta è morale e tutta insieme dicesi peccato originale: e solamente per astrazione della mente si può considerare il guasto delle potenze a parte dal guasto della persona, chiamando quello la parte materiale del peccato. Nè solo il guasto delle varie potenze si considera come formante un solo peccato di origine col guasto della persona; ma le stesse operazioni che fa l' uomo impulso e mosso dall' originale colpa si possono considerare come comprese nel peccato di origine. Di che si vede ragione onde nelle divine Scritture si dica che l' uomo è concepito non solo nel peccato, ma nei peccati: [...OMISSIS...] . Or da quello che fu esposto apparisce come le potenze, non solo prese in relazione con loro e col soggetto principio di esse, ma ben anche considerate singolarmente, soffrono dalla infezione originale una intrinseca alterazione e deterioramento. Considerate poi in relazione col soggetto che è il loro principio, le potenze ricevettero dalla infezione originale la disarmonia , per la quale non si trovarono più egualmente sottomesse al soggetto medesimo: e ciò era degno, dopo che l' uomo si era sottratto dalla soggezione a Dio (2). Una evidente prova di fatto di questo cotale indebolimento che ricevette la signoria del soggetto sulle potenze, e della prevalenza presa da queste su di quello, si ha in ciò che il soggetto trovasi impacciato e legato nell' operare delle potenze: di maniera che a ogni potenza, per così dire, riesce di tirare a sè il soggetto e interessarlo tutto, per così dire, dell' affare suo; quasi come un debole principe che vien guadagnato facilmente dai partiti e prende impegno degli interessi parziali, prodigando in servigio di essi la sua autorità e potenza che dovrebbe essere riservata solo all' interesse generale. Così, a ragione di esempio, l' istinto animale suol talora esercitare una tal forza sul soggetto che il soggetto o è impedito dall' usare della ragione, o vien tratto a usarne in servigio dello stesso appetito e, per affetto dato a questo, anche a traviare il ragionamento in errori e fallacie. Se il soggetto avesse un proprio sentimento sì forte e dignitoso, in cui trovasse più nobil diletto che in quello che a lui dà o promette l' istinto animale, non abbasserebbe mai sè stesso mendicando la sua felicità da questo istinto e nell' interesse di questo riponendo tutto l' interesse proprio. Or solo in tal caso egli potrebbe essere signore dell' istinto animale, facendone quel conto, nè più nè meno, ch' egli si merita: in tal caso egli avrebbe una indipendenza dall' istinto animale e potrebbe lasciar operare l' istinto animale, senza prendere egli parte nella operazione, senza mettere in azione la forza propria a vantaggio di quell' istinto e senza muovere a favore dell' istinto la potenza razionale. In tal caso avverrebbe ancora che le operazioni di istinto animale nell' uomo non potrebbero turbare, nè alterare o impedire la intelligenza ne' suoi esercizii; e che anche nelle massime commozioni del senso animale una tranquillissima calma e un' attività imperturbata regnerebbe nella mente. E infatti l' istinto animale non ha veruna diretta comunicazione colla intelligenza, e queste due parti sono due essenze separate, l' una delle quali, per così dire, non sa niente dell' altra e per ciò non può agire l' una sull' altra nè sturbarsi a vicenda. Ma mediatore fra esse è il soggetto, ed è questo che comunica con l' una e coll' altra e che muove l' una e l' altra (1): ed è perciò che quando l' istinto animale ha tirato a sè e guadagnato il soggetto, allora per mezzo del soggetto muove a sua voglia e turba l' intelligenza (1). Egli è per questo che nell' uomo perfettamente costituito dalla natura le massime dilettazioni animali non potevano menomamente turbare l' uso della intelligenza. Egli è per questo medesimo che nel divino Redentore i movimenti della natura animale non impedivano quelli della razionale, ma che gli uni e gli altri erano tenuti indipendenti come a lui piaceva. [...OMISSIS...] . E per contraddistinguere questa passione ammodata di Cristo che non trascorre fuori dei limiti della sensibilità animale nè va appunto a dominare la ragione, separandola da quella passione smodata a cui va soggetto l' uomo corrotto, i teologi inventarono il nome di propassione e dissero che quella di Cristo era una propassione, e una passione quella degli altri uomini (3). Un' altra prova della debolezza della forza del soggetto si è che ove le potenze inferiori non riescano a tirare a sè e disporre del soggetto stesso, stando questo saldo in opporsi a ogni smoderato lor desiderio, allora si partono da lui e operano senza sua dipendenza, rifiutandosi a ogni soggezione. Sicchè o tirino esse il soggetto nei proprii interessi, o nol tirino, mostrano egualmente che egli è troppo debole ed esse troppo forti, perocchè o lo hanno legato, o esse almeno vanno sciolte da lui. E perchè il soggetto umano è persona, le potenze, se operano d' accordo colla persona, hanno un atto personale, ed essendo riprovevole questo atto, il male che fanno è personale: o dove il loro operare dall' intenzione della persona discorda, ivi cessa dall' essere personale e rimane solo un disordine materiale. S. Agostino, parlando delle conseguenze del peccato originale, le distingue secondo le potenze passive e attive dell' umana intelligenza; e nelle potenze passive trova essere la piaga dell' ignoranza , e nelle potenze attive la difficoltà di fare il bene (1). Vi fu altri che, analizzando la difficoltà di fare il bene, trovò che ella nasce da tre infelici principii, cioè dalla malizia che impiaga la volontà , dalla debolezza che impiaga quella interna forza per cui l' uomo è atto alle cose difficili, e che fu detta irascibile ; e finalmente dalla concupiscenza che offende l' inclinazione al diletto, detta concupiscibile (2). Ora perchè tutti questi danni, in quanto riguardano la parte morale dell' uomo, ricadono tutti in detrimento e perversione della sua volontà , per ciò noi ci tratterremo solo a raccogliere qui in poche parole ciò che ebbe a soffrire la libertà umana dal peccato originale (3). Il potere della libera volontà nello stato dell' uomo innocente si stendeva non solo alla virtù naturale, ma ben anche alla soprannaturale. Ma il potere di operare soprannaturalmente venendo all' uomo conferito dalla grazia, egli è manifesto che, sottratta la grazia, l' uomo non ebbe più questo potere. E in ordine appunto alla virtù soprannaturale si devono intendere molti luoghi di S. Agostino, ove sembra dire che sia perito il libero arbitrio dell' uomo. L' uomo non potè più operare cosa alcuna di buono in quell' ordine dal quale era decaduto e nel quale non era in conseguenza di sua natura, ma solo in conseguenza di un dono sopraggiunto alla sua natura gratuitamente da Dio (4). Nello stesso ordine di cose soprannaturali si devono principalmente intendere quelle parole di Cristo: « Senza di me non potete far nulla« (5) »; e quegli innumerevoli luoghi delle divine Scritture ne' quali si afferma la necessità della grazia divina per qualsivoglia opera salutare, eziandio per le parole e pei pensieri (6). E ciò perchè sebbene l' uomo nell' ordine naturale possa fare qualche cosa colle forze della natura, purchè Dio lo aiuti come autore della natura, mantenendogli l' esistenza e le forze coi loro atti; pure questo qualche cosa è detto nulla nelle Scritture, perchè è un vero nulla per l' uomo, conciossiachè è nulla al fine di esso uomo, cioè all' eterna salute che è come il frutto, a portare il quale l' uomo fu creato. Perciò Cristo illustra il suo detto: « voi senza di me non potete far nulla« »; colla similitudine del tralcio che non può far nulla senza essere inserito nella vite. Questo far nulla del tralcio reciso dalla vite equivale a non portare il suo frutto: ed il tralcio della vite veramente non fa nulla se non vegeta e non produce il suo frutto, sebbene gli rimangono tuttavia le proprietà del legno secco e sia idoneo per avventura a certi usi e ad ardere. Cristo dichiarò ancora il suo pensiero in quei luoghi, nei quali, invece di dire che non potevano far nulla, disse in ragione di esempio: « Nessuno può venire a me se non gli è dato dal Padre mio« (1) »; o usò altre simili espressioni che evidentemente trattano dell' eterna salute degli uomini, del bene completo spettante all' ordine soprannaturale. Che cosa poi sia quest' ordine di cose superiore alla umana natura, appare manifestamente da ciò che abbiamo detto nel libro I di questa opera, dove lungamente abbiamo dei due ordini naturale e soprannaturale tenuto ragionamento: e le cose quivi ragionate or più che mai ci bisogna rammemorare. Conciossiachè risulta da quanto colà fu detto che la operazione soprannaturale fa due cose nell' uomo: 1 o dà delle notizie nuove; 2 o dà nuova luce e forza alle notizie naturali. E applicando questa distinzione alle cose morali, ne verrà che il lume della grazia produrrà nell' uomo che lo partecipa 1 delle obbligazioni nuove , le quali corrispondono alle nuove notizie da lui per tal lume acquistate; 2 e certe modificazioni circa le obbligazioni vecchie, cioè circa le obbligazioni che aveva l' uomo di eseguire i precetti naturali, di modo che egli debba, avuta la grazia, eseguire i precetti naturali in un modo nuovo (soprannaturale): le quali modificazioni corrispondono alla nuova luce aggiunta alle notizie precedenti e naturali. Or, ciò posto egli è evidente che, essendo perito nell' uomo col peccato tutto che aveva di soprannaturale, esso uomo perdette il potere non meno di eseguire i precetti naturali in modo soprannaturale. Ed è questa dottrina come evidente in sè stessa, così conforme alla mente dell' angelico Dottore, il quale, dimandandosi se l' uomo possa adempiere i precetti della legge colle sue forze, risponde: [...OMISSIS...] . I precetti adunque naturali si possono eseguire in qualche parte, ma non già in un modo soprannaturale, e solo in un modo naturale: altramente il libero arbitrio dell' uomo sarebbe interamente perito, contro la definizione del sacrosanto Concilio di Trento. E qui conviene avvertire che l' uomo, il quale si trova nell' ordine della natura, e a cui perciò è impossibile l' operare nulla nell' ordine soprannaturale, poichè in ciò fare non ha nè meno la facoltà, non è obbligato di eseguire i precetti naturali in un modo soprannaturale, conciossiachè, come dice il Concilio di Trento, Iddio non comanda le cose impossibili. Chè se l' uomo, che si trova nell' ordine della natura, fosse obbligato ad eseguire i precetti naturali in un modo soprannaturale, in tal caso egli peccherebbe ogniqualvolta operasse il bene naturale: il che è contrario a quanto è stato definito dalla Chiesa nella condanna di quella proposizione: Che tutte le opere degli infedeli sono peccati (2). Egli è bensì vero che la virtù naturale non porta alcun effetto soprannaturale e perciò non dà all' uomo in alcun modo l' eterna vita, la quale consiste nella visione di Dio; ma se l' uomo che fedelmente eseguisce la legge della natura viene escluso dal celeste regno, il quale aver non si può che per la grazia di Gesù Cristo, non ne siegue da questo che egli debba venire anche positivamente punito con giudizio proprio e speciali supplizii destinati a farvi scontare le sue buone opere naturali. La quale dottrina, sebbene noi sappiamo spiacere a certi Teologi di stretta sentenza, tuttavia noi la teniamo, intimamente persuasi di aderire con essa ai sentimenti della Chiesa cattolica e alle decisioni dell' Apostolica sede. E forse la divergenza delle opinioni fra i teologi che trattano di queste materie nasce dal non essersi ancora dopo tante dispute sufficientemente chiarite le idee elementari della controversia: il che vogliamo provarci a far qui noi brevemente. Ma prima, o simultaneamente, rendiamo ragione della nostra sentenza. La difficoltà che trovano gli avversarii è nel precetto dell' amore di Dio. Perocchè, dicono essi, egli è necessario che i precetti stessi naturali, acciocchè sieno bene eseguiti, si facciano pel motivo dell' amore di Dio. Ma l' amore di Dio è certo non potersi avere se non per dono di Dio stesso. E perciò l' uomo senza la grazia non può eseguire i precetti naturali pel giusto motivo; e in questa mancanza di motivo è il peccato che lo condanna anche allora quando egli adempie la materialità del precetto naturale. Ora noi crediamo che in questa materia si deva primieramente esaminare la vera natura del precetto di amare Iddio. Egli è espresso in queste parole: « Amerai il Signore Dio tuo di tutto il cuore tuo e in tutta l' anima tua, e in tutta la mente tua« (1) ». Egli è il medesimo che dire che l' uomo deve amare Iddio con tutte le sue forze, cioè con tutta la facoltà di amare che ha l' uomo, o, come è in S. Marco, con tutta la sua virtù, la quale risulta dalle forze del cuore, della mente e della stessa vita animale. Perciò in questo precetto non si comanda già all' uomo che ami Iddio con quelle forze che egli non ha: nè gli si comanda che egli impieghi all' amore divino quelle facoltà o potenze che non sono ordinate a questa operazione. Perocchè se tutte le potenze, anche di altra natura non ordinate all' operazione dell' amore, soggiacessero al precetto di amare Iddio, converrebbe che questo precetto obbligasse anche le pietre e gli animali, i quali hanno pure delle forze e delle potenze, ma il cui oggetto non è Dio conoscibile e amabile. Sarebbe ciò contro la natura delle cose: e questa oppugnazione della natura non può essere nella legge che viene da Dio, il quale è l' autore di essa natura. Laonde ciò che è comandato all' uomo si è di amare Iddio con tutto il potere che egli ha, sia questo potere naturale, sia soprannaturale. E perchè la grazia aggiunge una cotal forza alla essenza dell' anima congiungendola con Dio, della quale partecipano tutte le potenze; per questo in virtù della grazia viene ordinato all' amore divino il cuore, la mente, e l' anima, e a tutte e tre queste parti dell' uomo viene aggiunto un potere dalla operazione della grazia di tendere soprannaturalmente in Dio. Se ciò non fosse, ne verrebbe anche un altro assurdo, che la quantità del divino amore non potrebbe crescere, nè diminuire negli uomini: ovvero che in quell' uomo nel quale il divino amore non fosse pervenuto al sommo, cioè a tale che non potesse più crescere, per quantunque grande fosse il suo amore, non valesse nulla, ma sempre in lui esistesse il peccato e la violazione di quel massimo precetto di amar Dio con tutto il cuore, con tutta l' anima, e con tutta la mente. Il che è sommamente assurdo e sommamente contrario alla cattolica verità, la quale ci ammaestra anzi a credere che anche il giusto, fin che trovasi in questa vita, può crescere sempre in amore, e cresce e crescerebbe tuttavia ove anco la vita sua fosse lunga come quella de' Patriarchi e più. Or che è ciò? Ciò nasce da questo che l' uomo non è obbligato di amare Iddio con quel potere che egli non ha, ma sì solo con tutto quello che egli ha; e che l' amore può crescere perchè può continuamente crescergli questo potere con un grado maggiore di grazia che Dio gli conferisca. E perciò nessuna maraviglia che vi abbiano molti giusti i quali, amando disugualmente Iddio, sieno nondimeno tutti giusti, perocchè tutti amano Dio col potere che hanno e tutti adempiscono il precetto che loro comanda di amare Iddio con quel cuore, con quell' anima e con quella mente che hanno. Perocchè quel precetto non dice amerai Iddio col cuore, coll' anima e colla mente; ma dice col cuore tuo, coll' anima tua, colla mente tua: che è quanto dire con quelle parti e facoltà che tu hai. E una dottrina contraria a questa addurrebbe, per mio avviso, ogni uomo in disperazione: perocchè qual uomo mai potrebbe vivere con buona fiducia di adempire il gran precetto dell' amore se fosse altramente? Or posto che abbiamo questo fondamento, egli mi par certo altresì e consentaneo agli insegnamenti dell, Apostolica sede, avervi un duplice amor divino, l' uno naturale, e l' altro soprannaturale. Egli è notabile la proposizione condannata da Pio V: [...OMISSIS...] . Dunque è vera la contraria, che la distinzione di un doppio amore, naturale e gratuito o soprannaturale, ha suo ragionevole fondamento. Vero è che l' amor naturale e l' amore soprannaturale non è ben descritto ed espresso in quella proposizione: conciossiachè la natura dell' amor naturale non consiste già in questo che si ami Iddio come autore della natura, ma che lo si ami con forze e facoltà naturali, insomma con amore naturale. Conciossiacchè può Iddio amarsi come autore della natura, e tuttavia amarsi soprannaturalmente, se ciò si fa per istinto dello Spirito Santo. E questa è una di quelle distinzioni per mancanza delle quali io dicevo non essersi ancora intieramente chiarite le idee elementari di questa controversia. Il perchè non pochi teologi ritennero che fosse uopo la grazia per amare Iddio anche come autore della natura: e bene e ottimamente così ritennero secondo il loro intendimento, perocchè intesero di un amor di Dio, il quale si riferisse bensì all' autore della natura, ma fosse insieme un amore supremo, un amore sufficiente alla salute; ciò che è quanto dire un amore soprannaturale (1). L' amore dunque naturale di Dio consiste in amare Dio colle forze naturali, in amarlo come naturalmente il conosciamo. E certo è che esiste nella umana natura un potere di amar tutto ciò che l' uomo conosce come buono. Ma l' uomo può conoscere naturalmente Dio e conoscerlo come bene; perciò sarebbe affatto gratuito e contrario a ciò che insegna l' osservazione intorno alla umana natura il dire che questo bene che naturalmente conosce, nol possa altresì amare a quel modo che l' uomo ama qualunque altro bene tosto che da lui è conosciuto. Egli è vero bensì che la cognizione che l' uomo può avere di Dio per natura è sommamente tenue, perocchè essa non si appoggia a nessuna percezione, ma finisce tutta in una cognizione che abbiamo chiamata ideale7negativa, e che abbiam di sopra diligentemente descritta. Egli è vero ancora che un oggetto, che non si conosce se non mediante una cognizione così tenue e imperfetta, non si può amar vivamente; perocchè sebbene si conosca per bene sommo e infinito, tuttavia il modo di questa cognizione fa sì che questo bene sommo e infinito sia presente al nostro spirito debolissimamente e non vi eserciti se non una minima azione: un' azione che noi abbiamo chiamata ideale per distinguerla dall' azione che fanno su di noi le cose reali, cioè le cose di cui abbiamo la reale percezione. E tutto ciò prova la poca efficacia che deve avere questo amor naturale di Dio: ma non prova già che questo amore naturale non esista: prova la necessità della grazia perchè l' amore di Dio domini stabilmente nelle anime nostre: prova finalmente che questo amore non può reggersi a lungo contro a delle forti tentazioni, delle quali tentazioni è piena la vita umana, che le percezioni delle sensibili cose colla loro violenza tirano e governano a loro talento. Ma non prova già che alla forza che ha la natura umana di amare e che fa suo oggetto tutte le cose anche solo idealmente concepute, non possa punto fare suo oggetto anche Dio medesimo. S. Agostino dice che la natura invita ad amare Iddio e invita non solo quelli che hanno l' abito della grazia, ma tutti indistintamente gli uomini. « Il cielo e la terra, egli dice, e tutte le cose che in essi si contengono, ecco da ogni parte mi dicono che riami, nè cessano di dirlo a tutti acciocchè sieno inescusabili« (1) ». E il medesimo ripete di continuo la divina Scrittura intesa a far delle cose create scala al Creatore, come specialmente in quel sublime passo di Giobbe che comincia: « interroga i giumenti e ti ammaestreranno; e i volatili del cielo e ti daranno cenno« (2) ». Dove l' uomo è sollevato a considerare la grandezza del Creatore dalle cose dell' universo. Or se l' uomo ha questa cognizione di Dio, se da questa cognizione esce il debito di amarlo e ne sente la convenienza e suprema necessità; onde poi si dirà che per solo questo oggetto, il maggiore di tutti, gli sia impossibile fare un atto di amore, quando pure ha per natura il poter amare ogni altro oggetto che conosca sotto specie di bene? Egli è vero che il grado e la qualità dell' amore non è in proporzione dell' oggetto conosciuto, ma del modo di conoscerlo , come dicevamo: ma ciò non prova se non che l' amor naturale è tenue e inefficace, sebbene è amore. Egli è di questa inefficacia che deve parlare S. Agostino; è dell' amore soprannaturale che ei vuole alludere quando, dopo aver detto che il cielo e la terra il chiamavano ad amar Dio, soggiunge: « Ah! da più alto tu fai misericordia a cui fai misericordia, e misericordia farai a cui la farai: chè altramente il cielo e la terra parlano ai sordi le lodi tue« (3) ». Perocchè quelli che non hanno la grazia non possono intendere appieno le voci della natura, le quali certamente chiamano ad amar Dio non solo naturalmente, ma soprannaturalmente ancora: e così le intendevano i Santi, i quali da ogni oggetto naturale venivano innalzati ad atti di amor di Dio soprannaturale. Dopo di tutto ciò ancor resta a vedere se sia cosa del tutto sicura che i precetti naturali non si possano onestamente compire se non pel motivo dell' amore di Dio, e che adempiti senza questo motivo contengano una reità, una colpa. E intanto mi par di poter affermare come cosa certa che quell' uomo, il quale non abbia se non le sole forze della natura, tutto al più non possa essere obbligato se non ad adempire i precetti naturali pel motivo di un naturale amore di Dio, il quale abbiamo veduto esser possibile. Perocchè in tal modo egli dà al Creatore tutto quell' onore e quell' ossequio supremo del quale egli è capace, nè più esige dalle sue creature l' ottimo degli enti. Ma dopo di ciò io sostengo che nè pur tutto questo sia necessario, acciocchè l' esecuzione del precetto naturale sia interamente buona; ma che basti che il precetto naturale si eseguisca per amore della giustizia. Egli è vero che l' amore della giustizia si può, in un cotal senso, prendere per un amore di Dio, perchè Iddio è la verità e la giustizia stessa: e dove si prenda in tal senso, accordo anch' io che ogni precetto naturale, perchè sia onestamente eseguito e non abbia in sè alcun morale mancamento, debba essere adempito pel motivo dell' amor di Dio. Ma più propriamente parlando, mi sembra doversi distinguere l' amore di Dio e l' amore della giustizia: perocchè la giustizia, come noi naturalmente la veggiamo, non è che un ente ideale, una regola della mente nostra, una idea, e propriamente la grande, la prima idea, l' idea dell' essere in universale. Ora un' idea non è ancora Dio, perocchè Dio è anche una sussistenza. Egli è vero che quell' ente medesimo che da noi idealmente si concepisce, ha una sussistenza in sè che noi non veggiamo e che veggendola noi ci si rivelerebbe in forma divina e lo percepiremmo allora come Dio. Ma fino a tanto che lo percepiamo idealmente, non lo percepiamo come Dio, e ciò che facciamo per la riverenza e l' amore che riscuote da noi questo ente ideale, non si può, a tutto rigore, dire che noi il facciamo ancora per riverenza e amore di Dio; sebbene divina sia quella forza che riscuote da noi tanta riverenza e tanto amore. Ove non contendo di parole, come dicevo, e se si voglia mi accompagnerò a quelli che dicono operarsi da noi per amore di Dio tutto ciò che si opera da noi per amore della giustizia: purchè però mi si conceda di denominare l' amore della giustizia un amore di Dio mediato , e l' amore di Dio come essere sussistente, un amore di Dio immediato . Ciò adunque che io accorderò sarà questo solo, che perchè nel modo di eseguire i precetti naturali non ci abbia peccato, è necessario che essi si eseguiscano per un amore di Dio mediato . Che se poi si eseguiscono per un amore di Dio immediato , allora l' operazione nostra non solo non ha in sè stessa alcuna immoralità, ma ella ha un grado di perfezione: e questa è la perfezione della giustizia naturale. Che se poi essi si eseguiscono pel motivo dell' amor di Dio immediato e soprannaturale, l' operazione nostra ha conseguita la perfezione anche nell' ordine soprannaturale. Ciò che mi persuade questa dottrina è non solo la ragione dell' assurdo che ne seguirebbe se vera fosse la contraria, cioè che Dio giustissimo punisce le operazioni fatte per l' amore della giustizia; ma ben ancora il parermi solo fra tutte consentanea alle decisioni della Chiesa. Consideriamo le proposizioni condannate da Alessandro VIII intorno al peccato filosofico. Esse sono le seguenti: [...OMISSIS...] . Se queste proposizioni sono condannate, dunque convien dire che sieno vere le contrarie: dunque un atto umano contrario alla retta ragione è un' offesa di Dio per sè, senza bisogno che colui che lo commette conosca Dio o a lui pensi. Ora un atto umano contrario alla retta ragione è lo stesso che un atto contro alla giustizia: dunque chi pecca contro la giustizia, offende Iddio senza più; la deformità dell' atto va a offendere Dio stesso appunto perchè Dio è la giustizia. Se dunque ciò è vero, sarà vero, altresì al contrario che quegli che opera in ossequio della giustizia, opera in ossequio di Dio (2); che il suo atto terminando nella giustizia, termina in Dio stesso e che perciò non può essere disaggradevole a Dio. Egli è che Dio non è conosciuto nel suo essere sostanziale e reale, ma dal momento che si conosce la verità e la giustizia, egli è con questo solo conosciuto almeno nel suo essere ideale: e questa cognizione della verità è comune a tutti gli uomini. Il perchè egli è certo che tutti gli uomini in questo senso conoscono Iddio per natura, sebbene molti il possano ignorare nella sua sostanziale e personale sussistenza (3). Egli pare dunque certo che nell' ordine della natura l' uomo, il quale opera pel motivo della giustizia naturale, non pecca nè in quanto alla sostanza del precetto, nè in quanto al modo. Si dirà probabilmente che consistendo la giustizia nell' amare le cose secondo quello che meritano e il lor merito essendo determinato dal modo della loro esistenza, non si può amare nessuna cosa legittimamente se non in Dio, perchè dipende da Dio l' esistenza di ogni cosa. - Ma rispondo che la obbligazione che abbiamo di amare le cose non è proporzionata all' esistenza delle cose come ella è in esse, ma come questa loro esistenza è nella nostra cognizione. Or in quelli che non conoscono Dio come essere sussistente o che attualmente non ci pensano, basta come dicevamo che le operazioni loro sieno riferite in Dio mediante quello che abbiamo chiamato l' amore mediato , cioè l' amore della giustizia, la quale luce sempre presentissima nelle anime intelligenti; perocchè in questa disposizione di operare è compreso virtualmente anche l' amore di Dio immediato. Si ripiglierà dicendo: che l' uomo essendo a principio costituito in uno stato di grazia, si trovò obbligato con ciò stesso a praticare la virtù anche nell' ordine soprannaturale. Or l' uomo si rese impotente a ciò col peccato. Ora egli è dunque sua colpa se gli mancano le forze a praticare la virtù soprannaturale. - Ragionevole è la istanza; e io non nego che l' uomo sia riprovevole in causa del mancargli le forze soprannaturali. Ma tutto ciò che ho detto non riguarda la causa dell' operazione, ma riguarda l' operazione stessa, e l' operazione non è punto difettosa se vien fatta per la giustizia. Vero è che gli manca un pregio, cioè la grazia: ma questo mancamento rifondesi nel peccato originale, è un elemento, una parte del peccato originale stesso. L' uomo cioè che nasce col peccato originale, operando giustamente secondo la legge naturale, non si aggrava già di un nuovo peccato; ma non resta nè meno di essere peccatore nella sua origine. E questa risposta credo poter soddisfare a qualsivoglia ragionevole avversario. Da tutte le quali cose consegue che all' uomo, sebbene infetto dal peccato originale, rimane qualche parte di libero arbitrio con cui può fare degli atti di virtù naturale (1). Sarebbe poi un entrare in altra ricerca chi si facesse a stabilire qual grado di forza s' abbia una cosifatta libertà, e per farne un cenno, dico che questo grado di libertà non si può con una universal misura definire, poichè varia nei varii uomini. Solo due cose si può dire in universale, la prima che in qualche modo definisce questo grado negativamente; e la seconda positivamente. Negativamente si viene in qualche modo a definire il quanto di questa libertà dicendo, che ella è poca e non tale che valga a vincere gravi tentazioni: ciò che consegue dalle dottrine già da noi esposte (2). Ove dunque la causa della virtù sia congiunta con quella della felicità ossia de' beni temporali, l' amore della virtù non riceve alcuna scossa e può operare. In ragione di esempio, la santità del giuramento nel caso di Regolo e il dovere di difendere la patria erano sostenuti e congiunti coll' amor della patria e della gloria e mediante questa alleanza di beni temporali e reali potè vincere la grave tentazione de' supplizi che gli vennero minacciati (1). Ma questa grave tentazione non l' avrebbe probabilmente vinta col solo motivo dell' onesto e del giusto, quando nessun altro motivo di amor temporale non fosse concorso ad aiutarlo in ciò. Dove adunque l' amore della giustizia non è combattuto da veruna tentazione, egli è uno stimolo sufficiente all' uomo per operare: ma dove abbia incontro delle tentazioni forti, l' uomo con lui solo non regge, vincendo l' amore della cosa reale sopra l' amore della cosa ideale, sebbene tanto più nobile e autorevole; ed è necessario in questo caso che il forte urto che produce contro il proposito della giustizia l' amore della cosa reale sia eliso da qualche altro amore pure di cosa reale acciocchè la giustizia prevalga. Positivamente poi si può in qualche modo determinare il grado di forza della naturale libertà dell' uomo, dicendo che egli è pari a quel grado di forza che può avere od acquistare nei diversi uomini l' amore della giustizia. Or quest' amore della giustizia varia di forza secondo le indoli naturali degli uomini, le educazioni e le abitudini contratte. E a tutte queste cose si deve aver riguardo ove vogliasi determinare in qualche modo quanto l' uomo colle forze naturali possa essere giusto (2). Certo che si ha per dimostrato da una funesta e universale esperienza che l' uomo non vale a reggersi giusto colle forze naturali per tutta la vita, nè per molto tempo, nè relativamente a tutti i precetti naturali; conciossiacchè troppe sono le tentazioni e troppo violente. E ciò basta a poter affermare che ogni uomo anche nell' ordine della virtù naturale è infermo e aggravato d' ingiustizia. Abbiamo veduto che pel peccato originale rimase infiacchita la forza della libertà con la quale l' uomo esercita la virtù naturale. Ora ci rimane a dichiarare meglio la natura di questo infiacchimento. Ogni atto onesto si pone in virtù di un giudizio di special natura che noi abbiamo chiamato giudizio pratico (1). La forza dunque della libertà non è altro che la forza di formare questo giudizio pratico a favore della virtù. Egli rimarrà dunque spiegato come la libertà sia stata vulnerata e indebolita, allorquando avremo dichiarata la ragione perchè in noi sia scemata la forza di formare il giudizio pratico in favore della legge della giustizia. Il giudizio pratico è quello pel quale noi in sull' atto dell' operare nostro, diciamo, considerate tutte le circostanze del momento, che qui e ora sia più bene per noi l' azione onesta, che la sua contraria: conciossiacchè, come abbiamo veduto, ciò che noi giudichiamo essere più bene per noi, tutto ponderato, nell' istante in cui operiamo, quello indubitatamente operiamo. Pratico adunque è quel giudizio che è il più particolare di tutti, e che precede prossimamente l' azione; cioè quel giudizio che determina del bene particolare, del bene risultante da tutte le circostanze in cui ci troviamo. E questo è ciò che il distingue dal giudizio speculativo, il quale è universale e non calcola le circostanze tutte dell' istante in cui cade l' operazione: ma solo ha riguardo all' oggetto e alle circostanze idealmente e specificamente considerate. Quindi è ancora che il giudizio speculativo non suole riguardare che una classe di bene, per esempio il bene onesto: come sarebbe che uno dicesse: si deve fare la tal cosa, la legge comanda la tal' altra; ovvero il bene eudemonologico, come chi dicesse: è utile questa operazione, è velenosa questa specie di frutti. Ma all' incontro il giudizio pratico abbraccia tutte le specie di beni, e, consideratele tutte, conchiude dicendo: qui e ora è meglio che faccia questo. E da questa differenza fra il giudizio speculativo e il giudizio pratico si vede la ragione per la quale il giudizio pratico si trova molte volte in opposizione collo speculativo; e quindi qui è altresì la spiegazione di quel verso che è tanto ripetuto, perchè descrive un fatto solenne della natura umana: « Video meliora proboque, deteriora sequor ». Il giudizio speculativo dice, a ragione d' esempio: la legge comanda di non fare la tale azione. L' uomo che trascinato dalla passione la fa, non ignora questo giudizio speculativo e parziale, cioè riguardante il bene onesto. Ma egli nell' atto dell' operare contrappone a quel giudizio speculativo un giudizio pratico il quale dice così: è vero che io perdo facendo questa azione il bene onesto, ma dall' altra parte il diletto che ha congiunto è tanto grande che io lo preferisco al bene onesto, e per ciò giudico che, nel momento presente, per me sia meglio il farla. Questo è un giudizio ingiusto ed in ciò sta la reità dell' azione: ma egli appare però da tutto questo come la facoltà che ha l' uomo di peccare, sia preceduta dalla facoltà di errare volontariamente: poichè tale doveva essere il nesso fra il conoscere e l' operare in un ente ragionevole; per modo che ogni colpa è figlia di un errore (1). A conoscere dunque onde procede l' infiacchimento della libertà relativamente alla naturale virtù, conviene investigare quali sieno le cagioni che sebbene l' uomo conosca speculativamente il diritto e l' onesto, e sebbene egli sappia altresì che il bene onesto non ha comparazione con altro bene alcuno, ma possegga una somma e infinita dignità; tuttavia nell' atto di operare preferisca a esso il bene eudemonologico quale di presente gli apparisce. Or ciò nasce dall' apparirgli questo bene sommamente vivace, quando l' onesto nol percepisce che assai languidamente, e ciò per quelle ragioni che abbiamo accennato altrove lungamente. Il primo male conseguente al peccato di origine dalla parte di Dio è la perdita della grazia. A cui consegue la morte dell' anima. Perocchè abbiamo definita la vita una incessante produzione del sentimento. E abbiamo anche veduto che la grazia è una percezione incipiente di Dio, il quale collo starci aderente all' anima e operante in essa colla sua propria sostanza, vi suscita continuamente un sentimento deiforme, il quale è propriamente la vita soprannaturale dell' anima intelligente. Perocchè l' anima in quanto ha il sentimento animale, intanto non vive come intellettiva, ma unicamente come sensitiva, ovvero soggetto animale: ed egli non sarebbe assurdo il dire piuttosto che di questa vita vive il corpo e non l' anima, sicchè, distrutto il corpo, anche l' anima sensitiva non è più (1). Or vero è che l' anima intellettiva naturalmente concepisce l' essere ideale, ma questa sola tenuissima e uniforme concezione non gli dà un sentimento di cosa reale e tutto al più è un cotal principio di sentimento, e non un sentimento intero. Perciò l' anima intelligente senza la grazia non ha più per natura che un principio di vivere, ma le manca la vita intera, e per ciò dicesi morta. A intender meglio questo vero si consideri primieramente che l' anima col solo essere indeterminato non vede ossia non sente nessun essere finito; e l' essere e perciò il sentimento che le può venire dall' unione con l' essere indeterminato, è egli stesso al sommo confuso e indefinito. In secondo luogo, l' anima colla vista di questo solo essere, non discerne sè stessa, ma tutta esiste, per così dire, nel suo oggetto. In terzo luogo, ella non ha alcun movimento, ma solo quell' atto immanente pel quale esiste, e quel qualsivoglia principio di sentimento è pure immanente, nè racchiude un' azione, ma un cotal principio di azione che non va più là, che non si compisce. Or a un tal principio di sentimento non si può dare il nome di vita, la quale abbiamo fatta consistere non in un principio di sentimento, ma in un sentimento compito e anzi in una incessante produzione di questo sentimento; nelle quali parole viene descritta una azione incessante e che, per così dire, continuamente si rinnova e si finisce. Or perchè l' azione che produce o della quale è il sentimento sia compita, perchè nell' anima vi abbia, per così dire, un moto continuo, non è sufficiente che essa anima possegga il solo essere indeterminato e ideale, ma è necessario che soffra l' azione di un essere reale, dalla quale azione l' anima riceve un sentimento compito e comincia da questo il suo moto che consiste principalmente in un continuo passaggio della sua attenzione, ossia della sua attività dall' essere reale all' ideale e dall' ideale al reale, e dall' idea al sentimento e dal sentimento all' idea. Ora cessando nell' anima l' azione degli esseri finiti e materiali colla morte del corpo, ove Dio non le sia presente, cader si deve necessariamente in quel cotale immobile sopimento che ragionevolmente cessazione della vita, ossia morte si può denominare. E perchè la vita animale è precaria e non propria dell' anima, quindi è che l' anima priva della grazia non ha anche unita al corpo se non una vita effimera e porta in sè stessa la morte (1). Tutto questo ha luogo anche considerando l' anima umana come semplicemente priva della grazia, sebbene difformata non fosse da nessun proprio peccato. Che se ella, oltre esser priva della grazia, sia anche peccatrice, come avviene nell' uomo infetto dalla original colpa, allora vi ha nell' anima anche un' avversione, come abbiam detto più sopra, dalla verità e da Dio, che pur è sua vita: e in questo doppio senso giustamente il peccato originale è dichiarato dal Concilio di Trento morte dell' anima (2). Un' altra conseguenza del peccato di origine, considerato dalla parte di Dio, si è che l' uomo viene rimesso a una provvidenza generale e di mezzo, in luogo di esser governato da una provvidenza speciale e di fine. L' uomo innocente era il fine dell' universo: Iddio faceva di lui le sue delizie, stava congiunto intimamente con lui e quindi aveva di lui una provvidenza immediata e veramente di fine, sicchè tutte le cose dell' universo erano ordinate e volte a servire quest' uomo, delizia di Dio e in cui era Dio. Ma dall' uomo peccatore Iddio si separò: la causa dell' uomo da quell' ora non fu più la causa stessa di Dio. L' uomo peccatore non poteva essere vero fine dell' universo, poichè Dio solo è fine, e intanto l' uomo era fine dell' universo, in quanto partecipava di Dio e era fatto una sola cosa col Creatore. Rimase adunque l' uomo una semplice creatura: fu abbandonato alle proprie forze: la natura stessa e tutti gli esseri che la compongono furono abbandonati alle sue forze e l' uomo si trovò esposto a tutti quegli accidenti che potevano naturalmente intervenire dall' azione simultanea di tutte le innumerabili forze degli innumerabili esseri creati che esistono. Se la cosa fosse rimasta così, l' universo avrebbe perduto il suo fine; ogni straordinaria provvidenza sarebbe cessata dal mondo, e del mondo e dell' uomo sarebbe avvenuto tutto ciò che avessero prodotto il complesso delle forze naturali con tutti i loro ordini e collisioni. Ma essendo fra la umanità predestinato un Individuo che non doveva essere macchiato di peccato, e congiunto della massima congiunzione con Dio e di congiunzione indistruttibile; avvenne che questo Uomo rimase il vero Capo e il vero fine dell' universo: e questo fu l' Uomo Redentore anche degli altri uomini. Perocchè Iddio conservò per quest' uomo la sua provvidenza speciale, o piuttosto specialissima, e così tutti gli altri uomini decaduti, come tutte le altre cose dell' universo divennero mezzo alla grandezza, alla felicità e alla gloria di quest' Uomo7fine. Di che accadde che molti uomini furono sanati dal peccato e ricongiunti con Dio, appunto perchè anche questo era necessario, acciocchè l' Uomo7fine riuscisse il più grande, il più felice, il più glorioso che esser potesse. Conciossiacchè egli desiderò che fossero associati a lui i suoi simili; e non potevano essergli associati se prima non venivano giustificati: e giustificati che furono, ripresero anch' essi lo stato e la condizione di fine insieme con quegli che era fine per sè stesso e che chiamava altri in parte di questa sua dignità. Ma considerandoli però come peccatori, essi, come dicevamo, maggior grado non tengono che di mezzo : e per ciò fino che sono peccatori, di tanto la divina provvidenza a loro soccorre e provvede, di quanto è uopo perchè servano acconcissimamente al fine , a cui sono subordinati. Per la massima gloria adunque di Cristo sono stabiliti tanto quelli che si salvano come quelli che periscono. Se non che i primi passano a esser fine insieme con Cristo coll' uscire dallo stato di peccato; ed i secondi rimangono eternamente puri mezzi. Ai primi per ciò è destinata una piena beatitudine e soprannaturale che non può loro fallire, e nello scorgerli a questa consiste la speciale provvidenza che guarda sopra di loro e veglia a questo scopo tutti gli avvenimenti (1): ai secondi poi viene amministrata nella vita presente quella misura di beni e di mali che più conviene, acciocchè servano nel miglior modo alla gloria de' buoni: e nella futura parimenti vien fatto di loro ciò che valga a rendere più magnifico e glorioso il regno del prediletto di Dio Padre e degli amici suoi. Di che apparisce che la provvidenza universale e di mezzo, che sola presiede al governo di quelli che hanno in sè il peccato, contiene questi tre scapiti: a ) Che essi considerati nello stato di peccato rimangono in preda ai mali naturali e alla morte, perchè nessuna provvidenza soprannaturale li difende da quelli. Laddove i giusti non vengono sottomessi ai mali se non con certa misura e con un certo modo di amorosa predilezione; assicurandoci le divine Scritture che Iddio si serve a questo fine del ministero degli Angeli (2). I peccatori all' incontro di loro natura non hanno alcuna virtù soprannaturale che temperi e guidi in lor favore le forze della natura e delle creature tutte, se non per accidente, cioè in quanto ciò potesse tornare bene ai giusti (1). b ) Ed essendovi fra le creature anche degli esseri malefici, cioè i demonii, i quali sono forniti di forze atte a nuocere alla umanità, viene in conseguenza che l' uomo pel peccato originale rimane altresì in balìa dei demonii e, come dicono le Scritture e i Padri, sotto la servitù e potestà del diavolo (2). Tanto più che l' uomo del peccato originale è fatto speciale conquista del demonio, come di quello che fu il tentatore e la cagione della lamentevole caduta che tolse il genere umano di Dio. c ) Dai quali principii procedono alcune conseguenze che ci dànno lume a far probabile conghiettura dello stato dell' anima la qual passi all' altra vita macchiata del peccato originale senza più. Perocchè le conghietture che si possono fare dal detto sono le seguenti: PRIMO. - L' anima che macchiata dal peccato originale passa all' altra vita, è priva di ogni visione di Dio, perchè priva di ogni grazia o comunicazione colla divina sostanza. SECONDO. - Essa è morta, cioè a dire esclusa dalla vita eterna; il che è quanto dire priva di quella vita che nasce dalla reale percezione di Dio, la quale è eterna, perchè Iddio che la produce colla sua azione nell' anima è eterno; ed essendo vita eterna, è sola vera vita. TERZO. - Essa è esclusa dal consorzio di Gesù Cristo e dei Santi, perchè priva di Dio non può aver comune l' oggetto della loro felicità e quindi non può formare una società, una unità con essi, giacchè questa sociale unione viene dall' unità dell' oggetto comune del loro godimento, ciò è quanto dire che è esclusa dal regno de' cieli. QUARTO. - L' anima divisa dal corpo col solo peccato originale, quell' anima deve essere in un cotale stato che possiam dire di assopimento, nel quale trovasi priva di sentimento e di vita, e non ha che un principio di vita e un principio di sentimento, portando di più un' inclinazione a rifuggire dalla verità e dalla vita. QUINTO. - L' anima in tale stato è esposta all' azione delle creature, come dicevamo, anche le più malefiche, ma essendo essa priva di corpo e non avendo che la sola vista dell' essere universale, non pare dover essere suscettiva dell' azione delle forze a lei nemiche. Perocchè il sentimento materiale non lo ha più, e l' intellettuale è tale che nessun essere creato può alterarlo, conciossiacchè nell' intelletto non ha virtù di operare che Dio stesso. Sicchè converrebbe supporre che all' anima per essere tormentata dai demonii, fosse aggiunto un cotal corpo. E ciò crediamo avvenire coll' anime ree di peccati attuali, dicendoci le divine Scritture che esse ardono nel fuoco, ma rispetto a quelle anime che sono aggravate dalla sola colpa originale, riteniamo assai probabile che non sia. SESTO. - Senonchè colla risurrezione dei corpi esse racquistano i corpi. Il riacquistare poi che fanno dei corpi è un aggiungersi loro un sentimento di cosa reale. Io non so in che stato questi corpi verranno raggiunti a quelle anime: non certo in istato glorioso, perchè la gloria viene dalla unione con Dio. Anche lo stato dunque di cotesti corpi risorti par verisimile dover essere un effetto dell' universal Provvidenza, cioè a dire essi saranno tali quali li vogliono le leggi universali che presiedono al gran patto del risuscitamento dei corpi. Io inclino a credere che essi corpi verranno ripristinati in buono stato, d' una bontà però loro naturale. E ciò che mi fa creder questo verisimile si è il general principio che mi guida in tutto questo discorso delle pene de' fanciulli morti senza battesimo o più generalmente di quelli cui non altra colpa danneggia che originale, il quale è: « la pena essere meglio negativa che positiva, cioè dipendere dall' abbandono che fece Dio di essi a sè medesimi e alle forze e leggi naturali« (1) ». Conosciuta ora l' indole e la natura del peccato di origine, conviene che esponiamo la dottrina della sua propagazione. E a tal fine ci è bisogno cominciare dal riassumere ciò che abbiamo detto circa il modo onde l' animale si propaga, e onde si propaga l' uomo, considerato secondo la natura. Abbiamo dunque veduto che negli animali generanti vi ha una cotal massa carnosa, la quale unita con essi forma parte de' loro corpi e vive in questo stato di parte. Ma staccata da essi per la generazione, non muore, anzi quella vita, che aveva prima, acquista una virtù e attività maggiore, per la quale sussiste da sè, ossia forma un animale nuovo, indipendente dai primi, da' quali provenne (1). Così si costituisce il soggetto sensitivo. Ma se questo soggetto sensitivo, per legge da Dio fissata, è ordinato a dover avere anche la visione dell' ente, egli si fa con ciò un soggetto ragionevole. E tale avviene il nascimento dell' uomo, al quale, tosto chè è naturato come soggetto sensitivo, è presente l' ente; conciossiacchè l' ente per legge costitutiva, come dissi, è fatto presente alla natura umana: e perciò moltiplicandosi i soggetti sensitivi nella natura umana, è dato loro di veder sempre l' ente, ossia, che è il medesimo, di essere incontanente intellettivi. Ma abbiamo ancora veduto che l' ente a principio si congiunse alla natura umana in un modo perfetto, cioè che si diede a vedere ad essa natura non solo nella sua forma ideale, ma ben ancora nella sua forma reale e sussistente (3). Ciò è quanto dire che l' uomo venne a principio costituito non solo in un ordine naturale, ma ben anco in un ordine soprannaturale. Perocchè tutte le nature, in quanto sono create, costituiscono ciò che si chiama l' ordine della natura. Ma la sostanza del Creatore è essenzialmente distinta dalla natura ed è superiore ad essa. Per ciò la percezione della sostanza del Creatore è ciò che costituisce l' ordine soprannaturale. Or l' ente universale in quanto non è puramente ideale, ma si dà a vedere ben anco come reale e sussistente, non è altro che il Creatore istesso, Dio. Perciò si dice che quegli esseri creati, i quali non solo concepiscono l' essere nella sua forma ideale e massime in uno stato indeterminato, ma percepiscono altresì la stessa sussistenza e realità di quest' essere sono costituiti in un ordine soprannaturale. E tale fu Adamo, come abbiamo provato. All' opposto, privo lo spirito umano della percezione dell' essere nella sua sussistenza e realità e solo fornito della concezione dell' essere ideale e in uno stato d' indeterminazione, egli trovasi esser posto dentro i confini della natura: perocchè l' essere ideale si può dire creato nel modo in cui è veduto dall' uomo, cioè in quanto egli è separato dalla real sussistenza e in quanto è privo de' suoi termini o determinazioni. Fino a che pertanto la natura umana si trovò congiunta coll' ente completo, ella fu fornita di tutto ciò che appartener potesse alla sua natura, e altresì della grazia. E perchè questa grazia nel modo detto era congiunta per legge costitutiva alla natura umana, ella doveva essere annessa di conseguente a tutti gli individui ne' quali si fosse moltiplicata questa natura: ed è per ciò che i figliuoli di Adamo innocente avrebbero ereditata dal padre la grazia santificante. Perocchè Iddio e l' uomo erano congiunti in modo da formare, per così dire, una cosa sola: cioè Iddio si comunicava all' uomo ove che si trovasse o cominciasse a esistere il soggetto animale umano (1). Or avendo Adamo peccato cioè ribellatosi a Dio, egli perdette la vista della divina sussistenza, cioè la grazia; e, morto all' ordine soprannaturale, non gli rimase che la natura. Egli fu da quel momento che l' essere universale non fu congiunto alla natura umana che idealmente, non più in una forma divina, ma creata e naturale. Si può qui domandare se questa perdita che fece la natura umana della grazia e di Dio, sia avvenuta dalla parte di Dio, cioè per essersi Dio tolto da lei, o dalla parte dell' uomo, cioè per essersi la volontà rivolta da Dio e non trovato più il modo di vederlo, a quel modo che l' uomo che volta le spalle in faccia al sole nol vede più. Egli è certo essere ripugnante alla divina natura che essa faccia copia di sè ad esseri suoi nemici. Lo Spirito Santo, dice la divina Scrittura, non abita in corpo soggetto a peccato (2). Però giustamente può dirsi che Iddio fece colla natura umana prevaricata quello di che minacciò gli ebrei: « Io asconderò la faccia mia ad essi e starò a vedere a che mali termini da loro soli si condurranno« (3) ». Ma con non minore verità si può dire che la privazione di Dio nacque perchè si stolse l' uomo da Dio, perchè l' uomo si mise in uno stato, nel quale egli sarebbe ripugnante e intrinsecamente assurdo che vedesse Iddio, come sarebbe ripugnante che vedesse il sole chi si cavasse gli occhi. Conciossiacchè Iddio si vede coll' occhio della buona e retta volontà: e però il pervertire la propria volontà, cioè il darsi ad amar la creatura in luogo del Creatore, e cercare in quella anzichè in questo la propria felicità, è un rendersi impossibile la vista del Creatore, un accecarsi. E perduta una volta tal vista del Creatore, ristretto lo spirito dell' uomo nelle sole creature, non gli è più possibile di rilevarsi e trovare con gli occhi suoi dell' animo quell' oggetto d' infinito bene che ha perduto, il quale è tale che, cessando un solo istante di vederlo, non si può veder più. Perocchè la volontà non può esser tratta da cosa incognita, e perduto una volta il sentimento di Dio, la divina sostanza le rimane come un bene incognito che non può essere più appetito o desiderato: sicchè non le restano all' appetire e desiderare se non i beni materiali; perocchè il sentimento di questi non cessa, e non cessando, essi beni rinnovellano continuamente le loro impressioni sull' uomo e le producono di nuovo. E nella stessa maniera perchè l' uomo tornasse a gustare di Dio, converrebbe che Dio medesimo riagisse nell' uomo e eccitasse in lui nuovamente il sentimento della divina sostanza (1). Egli è per questo che i santi Padri riconoscono una cecità volontaria e anche peccaminosa, ove questa cecità appartenga a una volontà personale. [...OMISSIS...] . Questa cecità si chiama nelle divine Scritture cecità del cuore, per distinguerla dalla cecità dell' intelletto; conciossiacchè il cuore vien preso per la sede della volontà. Il perchè dove la cecità consiste in un traviamento della volontà, e ove questa volontà sia personale, come dicevamo, acconciamente quella cecità si può chiamare peccato. E con quest' avvertenza si devono intendere alcuni passi di S. Agostino, nei quali chiama peccato la cecità originale, come pure la concupiscenza; siccome a cagion d' esempio nel passo seguente: [...OMISSIS...] . La natura umana adunque dopo la commissione del peccato rimase: 1 privata di Dio: 2 con una irreparabile gravitazione della volontà verso il bene creato e avversione dall' increato che più non percepiva. Or essendo questo stato proprio, come abbiam veduto, della umana natura, egli doveva necessariamente ripetersi in altrettanti individui, in quanti essa natura si moltiplicava. E perciocchè questa cecità e questa mala piega della volontà personale ha in sè ragion di peccato, per ciò qui s' intende la necessità che v' avea della trasfusione nei posteri del peccato adamitico. La ricerca come passasse da un uomo nell' altro il peccato originale diede cagione alla celebre questione dell' origine dell' anima. Per ciò non vorrà essere inutile che qui frammettiamo alcune considerazioni sopra un tal punto, valendoci ciò a render più chiara e più piena la trattazione nostra della trasfusione del peccato, che dopo questo quasi episodio riprenderemo. Tre furono le principali opinioni, nelle quali si partirono gli scrittori ecclesiastici circa il sapere come cominci l' anima intellettiva in un uomo che vien generato. Altri sostennero che le anime tutte furono create da Dio a principio e mandate o venute poscia ne' corpi nuovamente ingenerati: e di questa sentenza fra gli altri fu pure Origene. Altri pretesero che come il corpo ingenerava il corpo, così simultaneamente l' anima ingenerasse di sè un' altra anima, e per tal modo che l' uomo intero, anima e corpo, fosse naturalmente ingenerato: e questa sentenza tenne Tertulliano, Apollinare e, per testimonianza di S. Girolamo, quasi tutta la Chiesa occidentale (1). Altri finalmente opinarono che le anime fossero create immediatamente e per singola da Dio e da Dio infuse ne' corpi, mano mano generati: e di questa sentenza fu pure Innocenzo III, che così esprime la origine dell' anima intellettiva: « infundendo creatur, creando infunditur ». Così pensò anche Pietro Lombardo. La prima di queste tre opinioni fu al tutto di qualche autore particolare e non seguìta. Circa lo scegliere fra le altre due stettero in forse i più bei genii della Chiesa. S. Agostino, che chiama una tale questione caliginosissima , per quanto bilanciasse col suo raro ingegno, non potè mai venire a capo, sia per l' una, sia per l' altra parte (2); e invitava chi più di lui avesse potuto conoscere in questa parte a dargli in ciò aiuto di ammaestramento (3). La maggior parte degli antichi non vollero parimente decidersi, ma lasciarono in dubbio tal controversia (4). S. Fulgenzio pure dice la cosa dubbiosa (5): dubbiosa la trova Cassiodoro (6): dubbiosa il grande S. Gregorio. Ecco il luogo in che quest' ultimo ne parla in una lettera che scrive a Secondino: [...OMISSIS...] . Tal parve forte e non così facile a risolversi una questione siffatta a quei sommi uomini. Nè è da credere che loro sfuggissero quelle ragioni ovvie che si presentano in siffatta materia alla mente di ciascheduno. Ma essi vedevano molto addentro nella cosa, e però non si decidevano leggermente. E questa incertezza e dubbiezza in siffatta questione passò, quasi direi, per ecclesiastica tradizione, a tale che fu tenuta da taluno qual parte della cattolica verità. Così S. Isidoro Ispalense non dubitò di porre fra le cose da doversi tenere per fede, che l' origine dell' anima fosse incerta (1). Nel IX secolo la questione era nel medesimo stato, come si può vedere da un luogo di S. Prudenzio Vescovo di Troyes, che citeremo più abbasso. Solo due secoli dopo Ugone di S. Vittore tolse a provare: « probabilius animas ex traduce non esse (2) ». Colle quali parole mostravasi non darsi da lui la cosa per al tutto assicurata. Nel secolo susseguente però S. Tommaso d' Aquino insegnò: « haereticum esse dicere, quod anima intellectiva traducatur cum semine (3) ». E dopo di lui si ritenne per cosa certa e fu universalmente ammesso da' Teologi, che non venisse propaginata col corpo, ma creata da Dio. Egli è però da considerarsi che la sentenza ricevuta universalmente da' Teologi, sull' autorità principalmente dell' Angelo delle scuole, non è precisamente quella di cui trattavasi e questionavasi dai Padri, e che però non può dirsi che essi abbiano al tutto recisa o sciolta quell' antica questione. Perocchè due cose diverse sono a dimandarsi:« se l' anima sebbene spirituale si propagini in un modo spirituale simultaneamente al propaginarsi che fa il corpo dal corpo«; e domandarsi:« se l' anima si propagini mediante la generazione corporea, di maniera che il corpo ingeneri l' anima«. La prima era la questione dei Padri: ed ecco come ella viene accuratamente espressa dal luogo indicato da S. Prudenzio che viveva nel secolo IX sotto Carlo il Calvo: [...OMISSIS...] . All' incontro la seconda di quelle due questioni si può dire che non fosse nè pure mai messa in controversia. Nel IV secolo Prudenzio riprende la sentenza che l' anima venga generata dal corpo, non come dubbio, ma come certo errore. E non avrebbe parlato con tale sicurezza, se avesse inteso di toccare la questione che S. Agostino dichiarava superiore alle forze del suo intendimento. Ecco i versi del poeta cristiano: [...OMISSIS...] . Medesimamente il luogo del libro degli Ecclesiastici Dommi (6) attribuito a Gennadio, scrittore del secolo V, che si trova citato nella Somma di S. Tommaso, si riferisce all' opinione del venire le anime dai corpi, dichiarando erroneo l' affermarsi che le anime ragionevoli si seminino per l' unione de' corpi. Lo stesso e nulla più è riprovato dall' Angelico Dottore in quell' articolo cui egli intitola come questa dimanda: Se l' anima intellettiva sia cagionata dal seme? Nel quale articolo è da osservarsi come egli non trae punto le obbiezioni che fa alla sua sentenza dall' autorità di S. Agostino e degli altri Padri, quasi avessero lasciata la questione dubbiosa, ma anzi da ragioni naturali. Il che dimostra, che egli non intendeva di dichiarare già eretica quella sentenza che da S. Agostino e da' Padri antichi non era stata provata riprensibile: perocchè se voleva questo, il santo Dottore, che è sempre sommamente studioso di conciliare la sua dottrina con quella di S. Agostino e dell' antichità cristiana, ne avrebbe fatto indubitatamente parola. Se non che dalle ragioni stesse che apporta si fa manifesto, che egli altro non condanna in quell' articolo se non il farsi produr l' anima dalla materia; giacchè ecco come egli dice. Riferirò le sue stesse parole, perchè si renda evidente la verità che asserisco. [...OMISSIS...] Egli è manifesto da questa prima ragione, che l' assurdo che vuol dinotare qui S. Tommaso si è quello che noi dicevamo fuori di controversia, cioè che la materia non ha virtù a produrre lo spirito. Udiamo la seconda ragione del santo Dottore: [...OMISSIS...] Anche in queste parole si par chiaro, che tutto l' assurdo che si fa rilevare consiste nella incommunicabilità dell' intelligenza colla materia corporea anche sensitiva: perciocchè il principio intellettivo non fa uso di alcun organo corporeo alla sua operazione; e perciò il corpo non può agir nulla nell' intellettivo principio. Udiamo l' ultima ragione che reca l' Aquinate: [...OMISSIS...] . Il quale argomento viene a dire così: Se il corpo producesse l' anima, o l' anima dovrebbe essere una sostanza corporea, oppure una modificazione, un atto del corpo stesso. Sostanza corporea l' anima non è: e non è nè pure una semplice modificazione o atto di un corpo, poichè un tal atto non è sostanza per sè. Dunque l' anima non può esser fatta dal corpo. Ma per condurre la cosa all' evidenza e rimuovere ogni dubbio sulla partizione che abbiamo fatta della questione, volgarmente una, in due diverse, basterà recitare qualche passo di S. Agostino e mostrare che quando si tratta di dedurre l' anima dall' anima, niente risolve (2), e piuttosto il tengo favorevole, che contrario (3). Laddove quando trattasi di dedurre l' anima da corporea materia, è risoluto in negarlo come un errore manifesto e pernicioso. Pigliamo sott' occhio la lettera che il santo Dottore scrive a Ottato, il quale aveva proposta a S. Agostino la questione dell' origine dell' anima e ricercato il suo parere. Si veda adunque in qual parole tale questione era proposta. Dimandavasi: se le anime nascano per propagazione come i corpi e vengano da quell' una che nel primo uomo fu creata? (4). Parlasi dunque di trar l' anima dall' anima; e non altro. Or su questa ecco come si tiene in bilico S. Agostino. Egli dice: [...OMISSIS...] . Egli è dunque questo il costante modo di pensare di S. Agostino, quando si tratta di propaginare l' anima dall' anima. Ma vuolsi vedere all' incontro, come egli la senta quando trattasi di una propaginazione dell' anima materiale? Il santo Dottore avvertì benissimo che alcuni materializzavano l' anima col farla venire dai corpi, e fa colpevoli di questa sentenza i seguaci di Tertulliano, de' quali ecco come ragiona: [...OMISSIS...] . Or che cosa qui soggiunge il santo Dottore? Ecco le sue parole: [...OMISSIS...] . Or dunque non era dubbioso S. Agostino se l' anima nascesse dal seme corporeo, che è la proposizione chiamata eretica da Tommaso. Ma ciò che non trovava assurdo, sebbene oscurissimo e inintelligibile, era che l' anima potesse propaginarsi dall' anima. Il primo diceva un errore sopra ogni altro pernicioso, un sogno e sino una pazzia; nel secondo vedeva un mistero. Il perchè, tosto dopo ripreso l' errore di Tertulliano, soggiunge: [...OMISSIS...] . Intorno alle quali cose conchiude che [...OMISSIS...] . Dalla storia della questione dell' origine dell' anima fin qui esposta apparisce, aver essa avuto tre periodi. Il primo anteriore al pelagianismo, nel quale essa non fu mai trattata di proposito, nè sottoposta a un rigor teologico. Il secondo, che comincia da Sant' Agostino, indottovi a trattarne per cercare un modo di spiegare la propagazione del peccato originale, e che non venne a capo d' altro se non di dichiarare la questione insolubile; e questa sua sentenza fermò ogni altra investigazione e fu tenuta per indubitabile almeno sette secoli. E il terzo, a cui diedero luogo gli scolastici, i quali, si può dire, diedero nuovo movimento agli intelletti che da tanto tempo riposavano; periodo che toccò il suo colmo in S. Tommaso, il quale, omessa ogni altra ricerca, tolse a dichiarare essere sentenza condannata dalla Chiesa di dire che le anime si propagano come i corpi (1). E dopo tanta autorità ognuno tenne la cosa per definita: senza però badare che S. Tommaso non condannò la sentenza se non a quel modo che veniva attribuita a Tertulliano e Apollinare (2) e che induceva irreparabilmente nel materialismo, il quale è certamente riprovato dal giudizio ecclesiastico. Ed egli è appunto perchè rimane, anche dopo la trattazione dell' angelico Dottore, una via alla disputa non chiusa dal giudizio perentorio della Santa Chiesa, che degli eccellenti teologi dichiararono la dottrina della quotidiana creazione delle anime non essere punto cosa di fede; fra i quali è l' Estio (3), il Berti (4), il De Rubeis (5), il Noris (6), e il Bellarmino (7). E così sarebbero rimaste le cose, se lo spirito umano non avesse ricevuto nei tempi moderni una nuova scossa e movimento dalle scuole de' filosofi: il che diede luogo a un quarto periodo nella storia della questione che noi trattiamo. A questo diedero origine le ricerche dei naturalisti (ai quali la filosofia moderna deve il suo primo movimento inquisitivo, come già nella Grecia) intorno alla generazione e allo sviluppo dei germi. Perocchè par loro di ritrovare i germi sì delle piante, che degli animali, non crearsi mai, ma non altro fare che svilupparsi, come quelli che sono ravviluppati gli uni negli altri continuamente: sicchè nelle ovaie delle prime femmine fosser già posti da Dio tutti i germi delle piante e degli animali che dovevan poi nascere. Cosa a cui la impercettibile lor piccolezza non fa punto di ostacolo, dopo che si è conosciuta la divisibilità per poco indefinita della materia e la sottigliezza a cui ella può pervenire, come vedesi nella luce e suoi colori e nella diffusione degli odori e negli animaletti microscopici (1). Or questo sistema de' germi involti diede cagione a Leibnizio di immaginare che a questi germi fossero già annesse le anime fino da principio e così gli animali tutti esistettero creati da Dio a principio, a tale che altro non facesse la generazione se non edurli alla luce e dar loro il successivo e convenevole crescimento. Quasi nello stesso pensiero caddero molti altri filosofi contemporanei di Leibnizio, tra quali lo Swammerdam, il Malebranche, il Baile, il Picarne, l' Hartst”ocker, e altri. Vero è però che Leibnizio affermava, riguardo all' uomo, che non preesistessero nella prima madre se non delle anime sensitive e animali, dotate bensì di percezione e di senso, ma prive di ragione, cui acquistassero poi mediante la generazione (2). Ma confesso di non sapere come egli intendesse che quelle facessero un tale acquisto: in che sta appunto tutto il forte della questione (3). Leibnizio fu seguitato dal Canzio (4) ma principalmente da Cristiano Wolfio, il quale però suppone inchiuse nell' ovario di Eva le anime spirituali e però intellettive, e non già puramente animali e sensitive (5). Si andò finalmente ancora più in là e si arrivò sino a dire che le anime inchiuse nel corpo di Adamo o di Eva ricevettero da Dio, insieme coi primi parenti, il precetto, e lo hanno insieme con lui, sebben men gravemente, violato (6). Non si può confondere in alcuna maniera col sistema Leibniziano e Wolfiano l' opinione da noi proposta sopra l' origine dell' anima. Perocchè sebbene noi supponiamo vera la preesistenza dei germi, tuttavia questi non sono già per noi dei piccoli animaletti, nè molto meno degli omicciuoli, ma de' puri germi, i quali diventano poi animali da sè per la generazione. Se non che noi abbiamo dato di questa una spiegazione tratta dalla natura dell' animale cui abbiam definito: un sentimento che sussiste da sè, in quanto esso si considera come principio senziente (1). Or noi abbiamo veduto che questo sentimento in ogni animale ha per materia il continuo, il quale non ha parti, e però tanti sono i sentimenti semplici quanti i continui. Il continuo però è divisibile, formandosi di un continuo solo due o più continui minori: e però se questi minori continui sien tali che possano sussistere come materia di sentimento (il che dipende da certe leggi fisiche, chimiche e animali), in tal caso la divisione del continuo ha fatto nascere due sentimenti per sè sussistenti, i quali, considerati come senzienti, sono altrettanti animali. Così ho spiegato la generazione negli animali più imperfetti come i polipi, i quali per diventare di un animale solo due o più, basta segarli con certa avvertenza in due o tre parti, senza bisogno di far altro. Perocchè le parti che ne nascono sono tali che corrispondono alle leggi fisiche, chimiche e animali che presiedono alla conservazione della materia animale; cioè a dire, le parti che si fanno di un animale solo ciascuna ha in sè un cotale equilibrio di forze per le quali si può conservare nello stato suo e non perdere quel tessuto e quella organizzazione che è necessaria a conservare l' animalità. Secondo gli stessi principii: 1. di una divisione che succede nella materia del sentimento; e 2. di un equilibrio o sistema di forze che conservasi nella materia divisa; spiegasi anche ogni altra maniera di generazione che avviene nelle diverse specie di animali più perfetti. Dove si vede che il seme del maschio non è, assolutamente parlando, necessario alla generazione; e forse anche negli animali perfetti esso non fa se non dare al germe quell' attività e forza vitale, per la quale, anche staccato nel debito modo dalla madre, possa avverarsi quell' equilibrio di forze, di cui abbiamo ragionato, il qual valga a conservare quella massa carnea staccata dalla madre in istato normale, cioè atto a conservare la vita e il sentimento e avere un dato particolare sviluppamento. Chè ove anche alcune particelle del seme virile si apprendano al germe e con esso lui s' impastino (forse delle parti sottilissime e quasi un' aura vitale che da esso spiri), la cosa però sarebbe la medesima: poichè queste particelle non sarebbero mai morte, ma vive e col vivo germe contemperate, sicchè dal maschio e dalla femmina, come da una sola carne, si staccherebbe quella vivente materia che, appena staccata e unita, sarebbe un animale. Generato così l' animale, che non è se non il costituirsi un sentimento da sè, a cui è inerente di sua natura il principio senziente; non è più difficile il concepire come il principio che è senziente diventi anche intellettivo, dopo che è stato ritrovato, essere l' intelletto null' altro che il sentimento dell' ente. Perocchè solo che si renda l' ente percettibile, egli è già con questo prodotto anche il percipiente: ciò che è conseguenza di quel principio, che ove si dà in natura la percezione, nella percezione si comprende il percipiente; come nel sentimento si comprende il senziente. Ora nella generazione umana noi diciamo succedere contemporaneamente, che l' animale si costituisca col precidersi e confondersi delle parti che costituiscono l' embrione; e che si costituisca l' intelligente principio coll' essere data al medesimo la veduta dell' essere. La quale veduta è già da principio conceduta all' umana natura a sola condizione che questa si costituisca nella sua parte organica: ed è data perciò a tutti i discendenti del primo uomo con quell' atto stesso con cui fu data al primo uomo. In tal modo non è che l' animale e molto meno l' anima intelligente preesista nei padri, ma bensì in essi esistono i germi o rudimenti, i quali in virtù della generazione stessa dell' umana natura, tal quale la fece Iddio da principio, si costituiscono poi naturalmente quasi sarei per dire in uomini. Egli è difficile conciliare molti passi delle divine Scritture colle opinioni da questa diverse; e confesso che la maniera nella quale i seguaci di quelle opinioni hanno tentato di conciliare con le medesime i luoghi delle Divine Scritture, non mi pare scevra di un cotale sforzo, e quasi direi che li traesse dal senso loro più ovvio e naturale. Tuttavia non essendo paruto a S. Agostino di trovare passo nelle Scritture che assolutamente recidesse la questione e che non potesse essere altramente inteso, io non vorrò dire il contrario. Ma sottoporrò a qualunque uomo equo e ai teologi di buona fede qualche testo, perchè veggano se non forse egli dalla nostra sentenza dell' origne dell' anima venga a ricevere l' interpretazione più piana e naturale. Iddio dopo aver creato l' universo, come dice la Genesi che riposò da ogni opera che aveva fatto (1): e in memoria di questo suo riposo stabilì il settimo giorno, dedicato al Signore, nel quale era interdetto agli Ebrei qualsiasi opera materiale e servile, a ricordo appunto di quella cessazione dal creare che Iddio aveva fatto, compita ch' ebbe l' opera dell' universo. Ora non è vero, che se si fanno a Dio creare continuamente dell' anime intieramente nuove, conviene fare una eccezione a quel gran riposo del sabbato e a quei passi tutti dove si legge che il cielo e la terra e ogni parte dell' universo era stata compita, sicchè non restava più altro a Dio che il conservare? O conviene almeno dare a quel luogo solenne una interpretazione sottile e tirata dalla lungi? In un altro luogo dice la Scrittura che Iddio fece a un tratto tutte le cose: « Fecit omnia simul (1) ». Le quali parole pure nella sentenza nostra vengono ad avere il più naturale significato. Perocchè in essa con quell' atto di Dio, che Mosè esprime con questa frase: « Inspirò nel suo volto lo spiracolo della vita« (2) »; verrebbe ad avere dato il principio intelligente alla umana natura e perciò a tutti i suoi individui; conciossiacchè quell' atto significherebbe propriamente aver dato l' ente a percepire ad essa natura. E questa interpretazione appunto dell' « inspiravit in faciem eius spiraculum vitae », è la sola, per quanto io ne capisco, che possa render chiara e giustificativa ragione di una maniera di dire così sublime. Perocchè se per quello spiracolo della vita (3), s' intende l' ente percepibile, allora nulla ha in sè che tiri al panteistico quell' espressione o che favoreggi l' assurdo sistema delle emanazioni. Conciossiacchè l' ente è veramente una appartenenza della divinità, un cotal raggio del Verbo divino; e però egregiamente si dice che questo ente è spirato da Dio medesimo e corrisponde a quell' altro passo di Giobbe: « Negli uomini vi è lo spirito, e la ispirazione dell' Onnipotente dà l' intelligenza« (4) ». All' incontro quelli che intendono per lo spiracolo della vita l' anima umana in quanto è soggetto, e non l' oggetto di quest' anima, l' ente, questi e devono sfuggire d' intendere quelle parole alla lettera e deviarle dal loro ovvio significato, o far l' anima una particella emanata dalla divina sostanza. E qui di passaggio siami lecito l' osservare che conviene intendere colla stessa avvertenza certe espressioni dei Padri della Chiesa, nelle quali fanno l' anima umana quasi una particella di Dio. Nell' anima vi è l' ente, e questo è il divino dell' anima, questo un riflesso, uno spiro di Dio: l' anima non è l' ente ma il vede, e per questo ella è così sublime, per questa sua congiunzione con un elemento divino, e attribuita a lei, quasi direi contenente ciò che spetta al contenuto, son date a lei delle divine attribuzioni. Per questa S. Giustino nel dialogo con Trifone chiama l' anima « Reginae mentis particula (1) ». Taziano allo stesso modo dice dell' uomo che è una porzione di Dio (2). Delle espressioni uguali si trovano in Clemente Alessandrino (3) e in S. Ireneo (4). Tertulliano dice che l' uomo è animato dalla divina sostanza (5): espressione con cui egli commenta il soffio divino della Genesi. L' autore delle false Clementine dice pure che l' anima ha una stessa sostanza con Dio (6). E Sinesio nelle sue poesie non dubita di chiamarla: Semente di Dio, scintilla del suo spirito, figlia, parte di Dio stesso. Nella sentenza da noi proposta ricevono parimenti un ragionevole significato alcune singolari espressioni de' Padri: come quella di S. Metodio che dice « il seme umano contenere, per così dire, una parte divina di potenza creatrice« (7) ». Perocchè ciò viene a dire pel seme essere il germe condotto a farsi animale intelligente, cioè a ricevere tale stato, nel quale possa vedere quell' ente che Dio ha fatto visibile fin dal principio agli individui della umana natura. E maggior verità e evidenza pure riceve quel dire del Genesi: « Tutte le anime che sono uscite dal femore di Giacobbe« (.) ». E quelle di S. Paolo ove dice che Levi fu decimato nei lombi di Abramo (9). E chi volesse sostenere che Dio crea di tutto punto l' anima e la mette nel corpo viziato, parmi che, di buona fede parlando e senza prevenzione alcuna, incorrerà una difficoltà grandissima nel conciliare in modo persuadente la giustizia e bontà divina con questo fatto. Perocchè questa sostanza spirituale non potendo uscire dalle mani del Creatore se non pura, senza alcuna colpa precedente, innocente e perfetta, difficil cosa è il pensare che ella, senza alcuna sua colpa precedente, sia condannata nel carcere di un corpo corrotto e astretta per necessità e violenza di esso corpo a rendersi fino dal primo momento della sua esistenza peccatrice. Io so bene che si suole assottigliarsi per dare una plausibile risposta a tanta difficoltà: ma so ancora non potersi dissimulare che in quelle risposte, se io punto nulla intendo, manifestasi più che altro uno sforzo di salvare la teoria preconceputa. Il perchè il dottissimo Gazzaniga, dopo aver recate queste soluzioni (1), ingenuamente soggiunge così: [...OMISSIS...] . All' opposto nella nostra sentenza Iddio diede l' intelligenza alla natura umana con quel soffio, col quale animò Adamo, e poscia non fece se non lasciare che essa natura si moltiplicasse per se stessa. Perocchè supponendo che in quel primo atto Iddio avesse posto, per così dire, visibilmente innanzi alla umana natura l' ente, dalla parte di Dio era fatto tutto, e solo restava a fare da parte della natura umana, cioè a generare; perocchè ciò che venia generato da questa natura avea sempre dinnanzi da sè l' ente, onde attinge l' intelligenza e nasce per tal modo l' anima intellettiva. Si consideri ancora che solo supponendo vera la nostra sentenza, prende sua forza quella ragione per la quale S. Tommaso risponde alla difficoltà, come l' anima venendo non dall' uomo, ma da Dio, ricever possa per eredità il peccato originale. Perocchè la sua risposta è questa: [...OMISSIS...] . Ora che cosa è l' umana natura? Non certo il solo corpo, ma il corpo e l' anima insieme, e principalissimamente l' anima intellettiva che costituisce la specifica differenza di questa natura. Or dunque sarebbe egli vero che per virtù del seme si traduca l' umana natura, non traducendosi se non il corpo, sebben disposto in modo idoneo a ricever l' anima? Non veggo in che modo. All' incontro se il principio senziente, che si traduce pel seme, è già di natura sua, tosto che è costituito, ammesso alla visione dell' ente e così costituito intellettivo, prende un senso verissimo il dire che la natura umana si traduce per virtù dell' umana semente. Si consideri ancora come solo nella nostra sentenza si senta tutta la verità di quel celebre passo di San Paolo: « Eravamo PER NATURA figliuoli d' ira« (1) ». Perocchè la nostra natura, per dirlo di nuovo, è composta di corpo e di anima, e questa ne è la parte principale e formale, mentre il corpo non è che la parte materiale. Il solo corpo non siamo noi , ma l' anima anche sola può pronunciare questo monosillabo NOI: al corpo non appartiene l' ordine morale, e però solo nell' anima si trova giustizia o peccato. Or come, in senso proprio e stretto, potrebbesi dire che per la nostra stessa natura (2) fossimo figliuoli d' ira, se l' anima è di sua natura creata pura e monda e solo rimane viziata non per la sua origine divina, ma pel corpo nel quale s' introduce o dove si crea? All' incontro se l' anima si produce insieme coll' uomo in virtù di quell' ente che è legato coll' umana natura, egli è nel più stretto senso della parola che noi siamo figliuoli d' ira per natura, cioè per lo stesso nostro nascimento (3), per le leggi che presiedono al contemporaneo nascimento del corpo insieme e dell' anima, in una parola dell' uomo. Chiamo ancora ad osservare quelle altre parole dell' Apostolo, dove toccando in che modo tutti gli uomini nascano infetti da peccato dice: « Che il peccato entrò in questo mondo per un solo uomo - NEL QUALE tutti hanno peccato (4) ». E il sacro Santo Concilio di Trento dice: «« Che NELLA PREVARICAZIONE DI ADAMO tutti hanno perduto l' innocenza« (5) ». Quel testo dell' apostolo che i Concilii ecumenici hanno ripetuto o parafrasato merita tutta l' attenzione. Egli è evidente che si esprime in esso una congiunzione fra il padre dell' uman genere e i suoi discendenti siffatta, per la quale possa passare il peccato dall' uno negli altri. Tutti i Padri, su questa autorità di S. Paolo e altre somiglianti delle divine Scritture, parlano di una unione e comunanza fra il genere umano e Adamo loro capo. Ora tutti questi luoghi dei Santi Padri e quelli delle Scritture sui quali insistono non possono essere intesi nel loro vero significato, in tutta la loro forza, se non allora quando sia ben chiarita la natura di questa comunione e unione di tutti noi con Adamo. Udiamo a ragione di esempio S. Ambrogio. Egli dice: [...OMISSIS...] . Or resta a vedere in che modo appunto io fossi in Adamo, in lui peccassi, in lui fossi scacciato dal paradiso; in che modo tutti gli uomini non fossero che quell' uno e solo Adamo. Alcuni proposero una unione morale o sociale. [...OMISSIS...] . Usa anche S. Tommaso la similitudine delle membra che sono colpevoli e punite del peccato commesso dal capo. Ma egli è evidente che questi esempi, sebbene giovino a far concepire una cotal congiunzione fra i posteri e il primo padre, tuttavia non giungono a dimostrare l' intrinseca ragione della trasfusione del peccato originale e la inerenza interna di questo peccato al fanciullo che nasce di nuovo: come confessa anche il valente Domenicano Pietro Maria Gazzaniga (4). Perocchè non si può dir seriamente che una mano sia colpevole o che una mano si punisca; ma solo per un cotal modo traslato: e la imputazione che si fa ai membri di una società pel peccato del capo, in cui essi non abbiano avuta alcuna parte, nè l' abbiano potuto impedire, non può essere vera imputazione morale, ma solo una cotal imputazione legale per la quale sono involti in una pena che, considerata intrinsecamente, o non è pena, ma disgrazia, come una famiglia incendiata per negligenza di un membro che appiccò il fuoco alla casa; o se ella si dà per pena, è pena ingiusta. Vi ha dunque bensì fra i discendenti di Adamo e il padre una unione morale e sociale: ma questa, eziandio che bastasse a spiegare in qualche modo la trasfusione della pena, non basterebbe però a rendere una ragione plausibile della trasfusione del peccato (1). Altri proposero una unione intellettiva fra il genere umano e Adamo, cioè consistente nell' unità della natura o specie. Giacchè il comunicare più individui nella natura, come abbiamo altrove notato, non è altro che l' avere una stessa relazione coll' intelletto che tutti li percepisce con una sola idea o specie, la quale è appunto il fondamento della natura comune (2). Quest' unione di specie è toccata universalmente dai Padri. S. Ambrogio dice: [...OMISSIS...] . Ma ne è pur questa unione intellettuale, o di una medesimità di specie, sebbene vera, e atta anch' essa a facilitarci il modo d' intendere l' unione nostra fisica con Adamo, non è però bastevole a rendere ragione della trasfusione del peccato. Perocchè una tale unione è vera nell' ordine delle idee e non nell' ordine delle realità: e il peccato all' incontro appartiene a questo secondo ordine, non al primo. Nè fa bisogno in ciò insistere molto, quando si può dire essere cosa di fede o prossima a [esser] di fede, che il comunicare nella specie non basta a comunicare nel peccato: perocchè se bastasse, Cristo stesso che comunica nella specie, doveva esser soggetto al peccato. Ma la cattolica dottrina anzi insegna che Cristo ne fu immune: e ciò non per alcun privilegio, ma sì bene perchè egli non fu concepito per opera umana, ma dello Spirito Santo. Sicchè è intrinseco nella dottrina cattolica il principio che solo per la generazione si trasfonda il peccato e che in questa vi abbia un' unione non pur morale o sociale, non pur intellettiva o di specie, ma fisica fra il padre ed il figlio. Ora hassi a considerare che quest' unione, perchè sia vera, deve succedere fra la natura del generante e la natura del generato. E parlandosi di uomini, questa natura è un composto sostanziale di anima e di corpo, e non è il solo corpo: e perciò perchè vi abbia fra l' uomo generante e l' uomo generato l' unione di che parliamo, conviene che tutto l' uomo che genera sia legato e comunicante con tutto l' uomo che vien generato, altramente le due nature non hanno legame fisico insieme ma pur solo lo ha una parte della natura generata, la quale nè costituisce la detta natura, nè riceve il nome con cui la medesima natura si appella. Vi ha dunque una terza unione fra i posteri e il primo parente, e questa è fisica, unione e comunicazione di natura con natura: e questa sola rende un' acconcia ragione della trasfusione del peccato originale. Questa è intrinseca al sistema cattolico, per quanto a noi pare: questa è indicata nei passi delle divine Scritture e massime in quelli di S. Paolo: e per misteriosa che ella sia, non si può in alcun modo rifiutare. Or ella non può, se io nulla intendo, aver luogo se non nella sentenza dell' origine dell' anima che noi abbiamo proposta. Perocchè venendo l' anima creata di tutto punto da Dio, essa non comunicherebbe fisicamente con Adamo, col quale non rimarrebbe in comunicazione se non la bruta materia. E dico la bruta materia , perocchè quel Dio che creasse l' anima intelligente, creerebbe anche l' anima animale conciossiacchè non vi sono nell' uomo due anime, ma un' anima sola. Egli è vero che la sentenza da noi proposta non occorse fosse alla mente con tutta chiarezza degli uomini grandi dell' antichità: ma S. Agostino però diceva, che egli non proferiva giudizio sull' origine dell' anima, poichè non riputava impossibile che altri dopo lui trovasse il modo di ben accertare questa origine (1); e d' altro lato non deve recar molta meraviglia che dopo trascorsi tanti secoli, dopo fatte tante investigazioni e tentativi, dopo accresciute le scienze di tante osservazioni positive, venga acquistando luce qualche verità metafisica che prima solo si travedeva. E certo si travedeva, sebbene non si potesse chiarire interamente e liberare dalle difficoltà che si affacciavano: si travedeva, dico, scorti dalle autorità delle Scritture e dai dogmi cattolici che nel loro seno racchiudono le più profonde notizie della natura umana, ma che non è necessario sempre il penetrarle, ma solo il credere i dogmi stessi. In tanto colla fede de' dogmi si conservano nel mondo quelle notizie, fino a tanto che quasi direi uscendo dal profondo dell' oscurità in cui sicuramente si custodivano e venendo a galla secondo l' ordine della divina Provvidenza, sono donate agli uomini da quel Dio che rende sempre più splendida la parola del suo Verbo e ai bisogni degli uomini nei varii tempi diversamente la apparecchia. E che almeno oscuramente la verità di cui parlo si trovi deposta negli scritti di quelli che dànno testimonianza nella successione de' tempi alla cattolica verità, mi varrà a provarlo tutti quei passi dove i Padri della Chiesa parlano della comunicazione reale e fisica di Adamo co' suoi figliuoli, e in questa ripongono la vera ragione della trasfusione del peccato, dentro ai quali passi e quasi direi come sostrato potrà vedersi giacere la nostra dottrina. Si ponga attenzione primieramente a questo passo del gran Vescovo d' Ippona, dove accenna quella congiunzione fisica di cui parliamo: [...OMISSIS...] . Si noti in che modo S. Agostino dica qui che tutti nella natura di Adamo erano un solo uomo; ecco il modo: «ILLA INSITA VI QUA EOS GIGNERE POTERAT ». Il medesimo Santo Dottore parla di questa congiunzione fisica nel libro I dell' Opera imperfetta in questo modo: [...OMISSIS...] . Nelle quali parole il Santo Vescovo confessa che in quella esistenza de' figli nei lombi de' Padri, toccata dall' Apostolo, si nasconde un vero profondo e misterioso; che ci confessa di avere bensì il desiderio di vedere e penetrare, ma che pure non ispiega: ed esorta tuttavia Giuliano, contro cui scrive, a tenerlo per fede, quantunque per argomento d' intelletto nol vegga (1). La stessa parola solenne di originale che si dà al peccato adamitico mostra la congiunzione fisica e propria di cui parliamo, secondo la quale origine , dice S. Agostino, tutti erano in quell' uno e questi tutti erano quell' uno, quando in se stessi ancora non erano (2). E questa origine, per mostrare che è la origine generativa del figlio al padre, è chiamata dallo stesso santo Dottore seminale . [...OMISSIS...] E chi considererà tutto il parlare delle Scritture, troverà che nelle stesse frasi, nelle parole, nella lingua scritturale insomma vi è inserita e supposta la sentenza dell' origine dell' uomo da noi indicata: così che questa sentenza, per misteriosa e difficile che possa parere, forma per così dire il fondo dell' eloquio biblico. Si consideri, a ragion di esempio, come i figliuoli sono, secondo quelle maniere di parlare, il padre stesso. Che cosa è il popolo ebreo? E` Abramo ovvero Giacobbe. Che cosa sono i discendenti di Davide? E` Davidde stesso. Giacobbe ossia Israello è quello che entra nella terra promessa; e tutto ciò che gode o soffre la discendenza di questo patriarca, è Giacobbe che il soffre, e che il gode (5). « A te darò questa terra« » dice Iddio ad Abramo (1). « Ti farò regnare in sempiterno« » dice Dio a Davvidde (2). Nei figli è il padre stesso il quale si moltiplica. « Io farò crescere te oltre modo, dice Iddio ad Abramo, e porrò te nelle genti« (3) ». I figliuoli son chiamati ancora il seme del padre e talora la scintilla (4). Si dice che tutte le generazioni saranno benedette in Abramo, volendo dire nel suo gran figliuolo Cristo (5). Egli è per questa maniera di vedere il padre propaginato nel figlio, che le divine Scritture parlano di Cristo sotto i nomi di Adamo, di Abramo, di Davidde e di Salomone, e questa è la chiave per la quale somiglianti profezie si possono letteralmente interpretare, e senza bisogno di alcuna stiratura. Or solamente nella sentenza sull' origine dell' anima da noi esposta tutti questi passi delle divine Scritture si fanno chiarissimi: altramente l' interpretazione loro ha bisogno di una certa condiscendenza, che tutti non sono presti egualmente di concedere. Finalmente si consideri ancora un passo dell' Apostolo, de' molti che potrei addurre, e sarà questo: « Siccome tutti muoiono in Adamo, così e in Cristo tutti saranno vivificati« (6) ». Ora in che modo nasce la vivificazione di Cristo? Per la rigenerazione. E in che modo la morte? Per la generazione. Or la rigenerazione si fa, come abbiamo altrove veduto, perchè Cristo ci comunica un principio nuovo vitale. Simigliamente la generazione ci deve comunicare un principio di morte spirituale. Questi due principii sono indicati dall' Apostolo in quel passo: « Il primo uomo fu fatto in anima vivente; e il secondo in spirito vivificante« (.) ». Per la generazione adunque si ha l' anima che dà la vita naturale: per la rigenerazione si ha lo Spirito Santo che dà la vita soprannaturale. La prima, infetta di peccato e morta: il secondo, incorruttibile giustizia e immortalità. Nella prima al soggetto è dato una imperfetta visione dell' ente: col secondo una incipiente visione di Dio (9). Nella medesima sentenza della origine dell' anima cadono a terra tutte quelle obbiezioni che i Pelagiani e i filosofi fanno contro il peccato originale e che troppo a lungo ci menerebbe il riferirle. Ma non credo però inutile anzi necessario il mostrare quanto si avvantaggi quest' opinione sopra quella degli scolastici: il che farò toccando le difficoltà che implica quest' ultima sentenza e di cui va immune la nostra. Al che fare destineremo un apposito paragrafo. Una sentenza di Aristotele, che non posso mai a meno di ammirare ove che la consideri, si è quella ove trattando della generazione degli animali e facendo venir tutto dal principio generatore, continuamente applicando all' uomo la sua dottrina, conchiude con queste parole: « Rimane adunque che il solo intelletto venga dal di fuori« (1) ». Questa sentenza direbbe tutto, se invece di dire l' intelletto, dicesse il lume dell' intelletto (2). Poichè la parola intelletto può racchiudere anche il principio soggettivo; laddove ciò che viene dal di fuori è il solo oggetto , dal quale, nella nostra sentenza, viene edotto all' atto anche il soggetto percipiente. Gli scolastici adducono in loro favore questo luogo di Aristotele; ma egli non può valere, preso nel senso in cui lo dice Aristotele, se non nel sistema delle tre anime separate, le quali sono giustamente rifiutate dalla Scuola (3). Insegnando dunque questa, che l' anima intellettiva è creata di tutto punto da Dio, quest' anima stessa, come essi dicono, racchiude anche dell' anima sensitiva e della vegetabile. Però in questo sistema non è più il solo intelletto che venga dal di fuori, come dice Aristotele, ma è ben anco il principio del sentire e del vegetare, in una parola l' anima tutta con tutte le sue parti e potenze. Ma esponiamo brevemente il sistema della Scuola intorno all' origine dell' anima umana; e poi additiamo le difficoltà che esso involge. Dicono adunque gli scolastici, che in primo luogo l' embrione è animato da un' anima nutritiva o vegetabile; ma che questa nello sviluppo dell' embrione si corrompe e a lei succede un' anima sensitiva; e finalmente si corrompe anche questa, e Dio allora vi crea un' anima intellettiva, la quale ha in sè le proprietà anche delle due precedenti. Ora su questa dottrina primieramente osservo, che l' anima vegetabile par cosa del tutto abbandonata: e però in questa parte non credo che nessuno t“rrà a difendere oggidì la sentenza scolastica. In secondo luogo il progresso delle osservazioni sullo sviluppo del feto umano, fa credere inverisimile che esso venga animato con anima umana solo dopo tanti giorni dalla concezione, come pone Aristotele, ma che piuttosto abbia l' anima sin dal principio del concepimento. Opinione che viene anche ricevendosi dalla Chiesa, giacchè ora certo in molti luoghi non si tralascia di battezzare, ove ciò sia possibile, anche l' aborto, almeno sotto condizione. Finalmente si consideri come torni forte a dover credere che prima s' abbia un' anima sensitiva nel feto, la quale si corrompe e perda; e poi v' abbia quella che Dio vi crea in suo luogo. Perocchè a qual fine un' anima sensitiva, se ella non è fatta se non per corrompersi? Forse per apparecchiare il corpo a ricevere l' intellettiva? Ma egli può essere apparecchiato senza lei, nel punto che l' anima intellettiva non entra se non dopo che ha sgombrato la sensitiva: perocchè altramente si troverebbe un istante, nel quale si troverebbero due anime in un corpo, l' una sensitiva e intellettiva l' altra. Dunque quando l' anima intellettiva entra nel corpo, essa non trova già un corpo animato da un' anima, ma il trova privo di anima; e un corpo privo di anima non ha bisogno di un' anima per apparecchiarsi a essere tale. Conciossiacchè corpo privo di anima non può avere altra disposizione che quella che consiste in un cotal ordine delle sue particelle materiali, ed ogni altro atto che appartenga alla vita anche animale, il deve ricevere dall' azione dell' anima intellettiva, che ha in sè anco la virtù sensitiva. Oltre ciò, se l' anima sensitiva si corrompe e si perde, in che modo avviene essa questa corruzione? Si fa in un istante o per successione di tempo? Se per successione di tempo, vi sarà dunque nel feto un' anima mezzo corrotta e mezzo non corrotta prima che entri l' anima intellettiva. E questo stato di mezza morte, questa vicissitudine a cui andrebbe soggetto il feto, non la mostrerebbe alla osservazione? E che nessun osservatore n' abbia mai trovato indizio? Ancora, l' anima intellettiva entrerà quando l' anima sensitiva è corrotta tutta, o quando è corrotta una parte? Se quando è corrotta tutta, dunque entrerà nel feto già morto. Se quando è corrotta una parte, dunque vi sarà un momento, nel quale il feto avrà in sè un' anima intellettiva e un' anima sensitiva mezzo corrotta. Se poi l' anima sensitiva si corrompe in un istante e in quel medesimo istante entra l' anima intellettiva, come mai il feto non darà nessuno indizio di questa gran metamorfosi? L' anima sensitiva è pur anima vera e propria del feto: or come si potrà ella staccare da lui, come si potrà corrompere e perir l' anima che è sua propria, senza che egli punto nol senta? Mutar l' anima a un corpo è egli poco? Sopravvenendo poi in un istante l' anima intellettiva, quale immenso passaggio! qual salto! un essere tramutato in un punto da bestia in uomo! Ma vi ha di più. Vi ha egli un modo possibile a concepirsi nel quale un' anima sensitiva perisca, se non corrompendosi il corpo a cui è aderente? Noi appronfondendo la natura dell' anima sensitiva, abbiamo trovato che essa è indivisile dal corpo, che forma la sua materia: che la materia del sentire e il principio senziente non formano che una sola individua natura, e che l' una ripugna a immaginarsi senza l' altra. Ora dato adunque un corpo animato, una materia del sentire, è dato pure un principio sensitivo, un' anima. Ma questo principio sensitivo non è mica cosa che si possa staccare da quella materia, perchè staccata non ha da sè sussistenza. Essa è passiva e il corpo a cui aderisce è attivo: ella nulla può adunque soffrire se non dal corpo, giacchè l' azione del corpo è appunto quella che le dà la sussistenza. Sarebbe adunque non solo superiore alle forze create, ma al tutto assurdo e contradditorio l' ammettere che un' anima perisca, restando intatto e senza alcun detrimento il suo corpo; perocchè questo corpo animato continua nella sua azione medesima, se egli non si disorganizza e guasta. Egli è qui che batte anche la dottrina di Aristotele, che definisce l' anima sensitiva un atto del corpo. Se ella è un atto del corpo (definizione ricevuta dalla Scuola), è il corpo che deve soffrire immutazione e stogliersi dal suo atto, perchè l' anima sensitiva cessi di essere. Nè vale il dire che gliene vien data un' altra; perocchè prima si cerca come si corrompa la prima. Tanto più che il corpo animato non riceve nè più nè meno dall' anima intellettiva, perocchè questa non comunica col corpo in quanto è intellettiva, ma solo in quanto è sensitiva. Il corpo dunque non fa che cangiar forma, non punto diversa di natura, ma solo di numero. Ed è egli ciò possibile? E` egli ciò concepibile? Sarebbe come se si dicesse che una pera, a ragion di esempio, viene spogliata di quella forma e qualità di pera bergamotta, poniamo, per darle una forma in tutto eguale alla prima nè più nè meno! Non è un tal cangiamento di forme assurdo anche secondo i principii medesimi della Scuola? Conciossiacchè la forma è unica, e non viene individualizzata se non dalla materia: sicchè tai cangiamenti di forme non si possono intendere, quando non si immaginassero queste forme come tante camicie uguali, e il cangiar di forme che le sostanze fanno, si prendesse per un cangiare di camicie. Io non intendo se non un solo cangiamento di forme possibile, ed è quello appunto che descrive Aristotele medesimo, per successive corruzioni e generazioni. Ma il cangiamento dell' anima sensitiva e la sostituzione dell' anima intellettiva non serberebbe nè pure la legge imposta dal duce degli scolastici alla generazione di nuove forme. Perocchè nella corruzione e successiva generazione di Aristotele gli elementi sostanziali della cosa rimangono ed è la loro forma che solamente cangia. Laddove l' anima che viene creata da Dio nulla ritiene, nella sentenza scolastica, della precedente, e nasce non per generazione, ma per creazione: oltre che non è possibile che a lei si attribuisca un successivo formarsi come nella generazione. E pure la Scuola è sollecita di applicare all' origine dell' anima i principii della generazione aristotelica (1). E finalmente noi dunque non abbiamo l' anima che abbiamo ricevuto dai nostri padri per generazione: non abbiamo nè pure ricevuto da essi l' animalità nostra, mentre quella che avevamo ricevuta da essi, è perita: non abbiamo tratto dall' origine se non la pura materia bruta e inanimata di cui è composto il nostro corpo; ed in tal caso, nè pur questa, perocchè la materia bruta e inanimata si cangia continuamente nei corpi umani mediante le sempre nuove particelle che questi ricevono e da sè emettono. In tal caso sarebbe convenuto meglio, che Iddio avesse comandato ai primi padri, che prendessero a comporre e effigiare delle statue di creta e di loto, come aveva fatto egli stesso con Adamo, e che poi infondesse Iddio le anime in queste statue; perocchè questo modo di moltiplicazione sarebbe stato, in un tal caso assai più semplice e nessuna anima sarebbe con esso andata a male. Ma l' assurdo maggiore che voglio far notare nell' ipotesi scolastica si è, che per la infusione dell' anima intellettiva che succede alla sensitiva, è perduta l' identità dell' uomo. Perocchè in un animale o in un uomo, quando gli si cangi l' anima, non è più quel desso, ma è un altro: il perchè i genitori non avrebbero per figlio se non il feto fino che ha l' anima sensitiva; ma quando egli riceve l' anima intellettiva il loro figlio è perito, e non rimane più che un figlio di Dio. Conciossiacchè l' identità dell' animale e dell' uomo non consiste se non nell' identità del sentimento e della coscienza; e l' identità del sentimento e della coscienza dipende dall' identità dell' anima. Cangiate dunque l' anima, un altro sentimento, un' altra coscienza, un altro animale, un altro essere ne è divenuto, e non più quello che fu conceputo dal padre. Che se questo nuovo essere è venuto da Dio, se è venuto da Dio immediatamente non solo l' intelletto, ma ben anco la sua facoltà di sentire, insomma il principio intelligente e senziente, che è tutto ciò che vi ha di formale non solo nell' uomo ma anche nell' animale, come questa nuova creatura di Dio potrà trovarsi viziata dal peccato dell' origine, quando l' origine sua è purissima? E se vi avesse alcuno a cui piacesse di negare questa verità evidente, che l' identità dell' animale e dell' uomo consiste nell' identità del sentimento, e volesse farla consistere piuttosto nella identità delle particelle materiali, per soprabbondanza e non per necessità, io chiamerò costui a considerare, che come di sopra ho detto, in nessuna maniera si può provare l' identità materiale delle particelle che compongono un corpo umano, le quali sono in un continuo movimento e partono dal medesimo per dar luogo a delle nuove. Se non che io giungo fino a dubitare, che una tale sentenza rinserri delle conseguenze, le quali non si possano sostenere, salva la verità della cattolica fede: anzi tali io tengo che siano anche quelle che ne ho finora dedotte, chi ben addentro e senza prevenzione le considera. Ma tale poi soprattutto parmi che deve essere riputata la seguente. Io tengo intrinseco alla fede cattolica essere, che il peccato originale passi per generazione e perciò nell' atto della generazione. Io potrei addur qui una nube di definizioni e di testimonianze che autenticano questa sentenza: ma mi limiterò ad addurre, ciò che ha dichiarato il Concilio di Trento, il quale afferma che il peccato passa nel figlio nell' atto del concepimento. Io recherò le sue stesse parole, nè pur traducendole, perchè non si trovi cagione forse di cavillare sul volgarizzamento. Eccole quali sono: [...OMISSIS...] . Ecco adunque, che mentre sono concepiti gli uomini, dice il Concilio, ricevono l' ingiustizia. Dopo la conceziione il seme paterno non ha più da fare cosa alcuna; e cresce il feto da sè nel seno materno. Ora supponendo che il feto appena concepito non abbia che un' anima sensitiva, egli non potrebbe essere soggetto capevole di peccato e di ingiustizia, meglio che una bestia qualunque; argomento insuperabile, dove non si voglia eludere con delle sottili e vane distinzioni. Di più, quell' anima sensitiva non è quella che resta all' uomo, ma ella va perduta e ne entra un' altra creata di tutto punto da Dio. Dunque, quando ancora quell' anima sensitiva fosse soggetto capevole di peccato, andando essa a perire, perirebbe con essa il peccato ricevuto dai padri. E sebbene l' anima nuova che viene infusa da Dio, dopo quei tanti giorni assegnati dalla sentenza aristotelica (2), venisse viziandosi e corrompendosi pel contatto del corpo in cui viene infusa, come liquore da un vaso infetto; tuttavia l' ingiustizia in essa anima non comincerebbe se non allora allora, e non nell' atto del concepimento: e quindi in questo solo punto, cioè quaranta o venti giorni dopo il concepimento, comincerebbe ciò che avesse propria e vera ragione di peccato. Conciossiacchè tutto ciò che precedentemente vi fosse nel corpo non potrebbe essere che sensitivo e qualsivoglia altra qualità vogliasi imaginare, ma non mai cosa che abbia propria e vera ragione di peccato. Nè basta il dire, che tale istinto e morbosa affezione della carne animale diventa poi cagione di peccato nell' anima intellettiva che sopraviene perocchè inclina questa al peccato; giacchè ciò sarebbe al tutto contro la mente del Concilio Trentino, il quale definì che sebbene la concupiscenza e il fomite che rimane dopo il battesimo inclini al peccato e per questa cagione si chiami dall' Apostolo peccato (1), tuttavia non è questa il peccato originale, perocchè ella non è peccato in senso vero e proprio, come è il peccato originale. Sicchè nella sentenza scolastica il vero peccato originale non si trarrebbe dai parenti, ma dai parenti si trarrebbe solo una cotal mala affezione della carne, che produce poi il peccato nell' anima, quando Iddio la vi crea. E il dir questo non saprei come non fosse un affermar cosa contraria alla cattolica fede circa il peccato originale, ed alla mente dell' Ecumenico Concilio di Trento. Io ho parlato fin qui della sentenza scolastica a quel modo che la espone l' Angelico Dottore (2). Il più dei teologi moderni si contentano di dire, che Dio crea e infonde l' anima nel corpo, senza parlare del tempo e del modo in che succede questa creazione e infusione. Ma egli è manifesto che dove anche si supponga, che venga creata e infusa nell' atto del concepimento, molte delle difficoltà sopra indicate sussistono egualmente in tutta la loro forza, e principalmente l' ultima. Perocchè se egli è vero, come è verissimo, che nell' uomo non vi ha se non un' anima, la quale è sensitiva insieme e intellettiva, sarà pur vero che nell' atto del concepimento Iddio crea tutto ciò che vi ha nell' uomo d' intellettivo e di sensitivo; e che per ciò i parenti non somministrano che la pura materia bruta e inanimata. Or dunque ciò che viene da' parenti non è nè l' uomo nè l' animale, non siamo NOI che siamo figliuoli dei padri nostri, perchè questa parola NOI indica la nostra coscienza, il nostro sentire, e tutto il nostro intelletto e la nostra animalità. NOI dunque non abbiamo l' origine da Adamo, ma da Dio, e non possiamo per ciò trarre da Adamo alcun peccato, ma tutto al più possiamo venir viziati in virtù dell' azione che sopra di noi esercita una materia bruta, che essa, e non noi, è venuta da Adamo. Ne verrebbe parimente l' assurdo, che essendo l' uomo un animale come tutti gli altri, ed anzi il più perfetto di tutti, tuttavia egli solo nel generare farebbe meno di quello che fanno tutti gli altri animali. Perocchè tutti gli altri animali in generando producono ne' lor figliuoli delle anime sensitive e animali, mentre l' uomo sebbene abbia una maniera di generare simile alla loro, tuttavia non potrebbe produrre neppure un' anima sensitiva e animale, giacchè Iddio crea l' anima umana da sè intellettiva e sensitiva a un tempo: e all' uomo sarebbe solo riservato come diceva, quel tanto che farebbe un vasaio, il quale mentre fabbrica colle sue dita una statua di molle terra, Iddio suo compagno di operazione le fabbricasse interiormente l' anima. Il che, se così pure avvenisse, non potrebbe succedere che per un miracolo; terzo assurdo che contiene la sentenza che confutiamo. Conciossiacchè, giacchè l' uomo è pure un animale come gli altri ed ha pur come gli altri la facoltà generativa, solamente per un miracolo potrebbe essere la virtù di questa sospesa e impedita dal produrre almeno un' anima sensitiva. Sicchè quelli che ammettono che le anime umane sieno create e infuse nell' atto del concepimento, sono costretti di non ammettere già un miracolo solo, facendo intervenire Iddio Creatore nella natura e accusandolo così di non aver fatta questa natura a sufficienza perfetta, ma due, l' uno del crear l' anima, l' altro d' impedire la potenza generativa dell' uomo dal produrne una ella, come fanno tutti gli altri animali. Se non che dovendo esser questa potenza generativa nell' uomo continuamente sospesa, e non potendo giunger essa mai a produrre un animale, cioè un corpo animato, ma solo a somministrare della materia bruta, da essere animata da un' anima che Dio stesso crea e v' infonde; perchè Iddio dar pure all' uomo una tale potenza? Ad effigiare e comporre una massa senz' anima non è necessario deputare una potenza e un apparato generativo; ma una forza meccanica ed esterna è sola bastevole a ciò. Avrebbe dunque Iddio operato in questo solo e unico fatto della natura stoltamente; poichè avrebbe posta una potenza inutile, anzi una potenza che serve d' impaccio, impedimento, e la cui azione gli conviene contrariare e sospendere con dei continui prodigi. Una difficoltà si affaccia alla mente contro la nostra sentenza dell' origine dell' anima, quando questa non s' abbia perfettamente compresa. E io intendo qui di risolverla, appunto perchè ciò mi dà luogo ad agevolare la conveniente intelligenza della medesima. Si dirà adunque: l' anima sensitiva non sussiste per sè, ma solamente unita al corpo, di maniera che, distrutto il corpo, anche quella è dissipata e distrutta. Or come passa questa a sussistere da sè? E se diventando intellettiva, non si fa sussistente, ella rimarrà materiale o mortale? Ma io rispondo: L' anima sensitiva, ove il corpo a cui aderisce distruggasi, ella pure si strugge e si dissipa: ciò è verissimo. Ma perchè nasce questo suo dissipamento? Perchè le vien tolta la materia del suo sentire, e senza materia di sentire non vi ha sentimento, senza sentimento non vi ha principio senziente, e senza principio senziente non vi ha anima, perocchè esso principio è l' anima stessa. Cioè a dire, nel sentimento fondamentale che costituisce l' essenza dell' animale, io ho distinto due elementi, cioè il principio e il fine, il senziente, e il sentito. L' animale si distrugge perchè è distruttibile il termine del sentimento, il sentito; ma non v' è altra maniera in cui concepir si possa dissolvibile l' animale, come dissi di sopra; sicchè se il termine o la materia del sentire non sofferisse alcuna alterazione, il principio senziente per sè non cesserebbe mai, e sarebbe immortale. Io non dubito adunque di chiamare spirituale l' anima delle bestie, considerata nel suo principio, e solo dalla parte del suo termine è materiale. Io non dubito di chiamare l' anima, considerata come principio senziente, spirito, e questa mia maniera di parlare è conforme a quella delle divine Scritture che dicono: « lo spirito di ogni carne« (1) ». Or dunque se il principio senziente per sè non perisce, ma solo per il termine suo, ossia per la cosa sentita; che sarà ciò che il possa rendere al tutto immortale? Basterà cioè che gli si dia un termine, il quale sia di natura sua indistruttibile e eterno. Perocchè avendo egli questo termine, allora il connubio fra il senziente e il sentito è fatto per guisa che non può più venir dissipato; e quel principio senziente che solo non può sussistere, congiunto con questo termine, non può perire, non venendogli mai meno qualche cosa cui senta. Or questo appunto succede in darsi che si fa la intelligenza al principio senziente, perocchè non è altro che un dargli a sentire l' ENTE, il quale è di natura sua eterno, immutabile, necessario, universale e fornito di altri caratteri divini. Un principio che senta l' ENTE, sussiste eternamente, perchè ha sempre un oggetto da sentire, che non gli può venire mai meno. E se questo principio, oltre avere per cosa sentita l' ente, abbia per cosa sentita anche la materia corporea, in tal caso esso è un' anima intellettiva e animale a un tempo, la quale ha due termini, uno eterno e industruttibile, e l' altro distruttibile. Venendo dunque a perire la materia corporea, quest' anima non si dissipa nè distrugge, ma rimane sussistente per sè, cioè per l' oggetto a cui è aderente e cui sentendo ha sua vita (2). Ed egli, chi ben considera, fu da un consimile ragionamento che fu provata la immortalità e la semplicità dell' anima dai maggiori filosofi dell' antichità e dai Padri della Chiesa. Perocchè essi indussero queste sue preclare doti da qualche cosa di sublime, d' immortale, di eterno, a cui la trovarono essere aderente. Fu perchè la videro dotata della cognizione della verità e della giustizia, dell' ordine e del bene, che la dichiararono di stirpe divina e partecipante dei pregi di questi oggetti a cui ella aderisce; e per ciò della loro immateriale e eterna consistenza. E ora che abbiamo fatto noi, se non meditare appunto la natura della verità, della giustizia, del bene, dell' ordine, e trovare che tutte queste cose si accolgono in una sola, cioè nell' ENTE universale, luce semplicissima, di cui è partecipe e dove sussiste l' anima intelligente? Sicchè quando noi abbiamo detto, che l' anima umana è intelligente, immateriale, sussistente per sè, appunto perchè è congiunta coll' ente, noi abbiamo con una sola parola indicato quello che tutta l' antichità ha predicato con molte; e abbiamo ridotto alla formola più precisa e più filosofica i vaghi e alquanto indeterminati ragionamenti della filosofia ancora immatura e la sapienza comune del genere umano. A confermare queste affermazioni non sarà inutile che io rechi qualche passo fra i moltissimi che potrei addurre degli antichi savi, nei quali si parla appunto di questa cognazione dell' anima colle cose eterne, che essi nominavano anche Dei, appunto perchè vedevano come quell' elemento che rende l' anima immortale sia divino, e non trovavano nè come unificarlo, nè come preciderlo dalla divinità. Iamblico, raccoglitore di dottrine antichissime, dice così: [...OMISSIS...] . Si sostituisca in questo passo alla parola Dio e alla parola cose divine l' ENTE IN UNIVERSALE, e si avrà appunto espressa la nostra teoria. Altrove il medesimo autore dice: [...OMISSIS...] . Finalmente aggiungerò ancora un passo di Iamblico, degno di considerazione all' uopo nostro: [...OMISSIS...] . Il che è un esprimere quanto più si possa al vivo la natura dell' anima, formata da un principio senziente, soggetto, e da una cosa divina, oggetto: le quali due parti sono così coerenti tra sè che nulla più; sicchè di due, senza mescolarsi, o confondersi punto, fanno risultare una sola natura. Ora i platonici di tutti i tempi e con essi molti altri filosofi, e con essi il comun dire medesimo parlò sempre nella stessa sentenza (2). Da ciò che abbiamo detto risulta, che Adamo peccando commise un peccato personale, come sono tutti i peccati attuali liberi. Che questo guasto della persona in Adamo guastò e corruppe la natura. Che la natura guasta fu comunicata ai posteri per generazione. Che nei posteri la natura guasta, aggravando e torcendo la volontà personale, guastò la persona (6). Ora la natura è una cui egualmente partecipano molte persone. Or questa natura o che è moralmente sana, o moralmente infetta. Essendo dunque stata infetta già col primo peccato, gli altri peccati non possono più infettarla e rimangono solo peccati personali senza più. La quale ragione viene esposta egregiamente dal Dottore angelico in queste parole: [...OMISSIS...] . Tuttavia chi sostenesse avervi nei padri talora delle disposizioni morali perverse, le quali vengono comunicate ai figliuoli per generazione, sicchè anche i figli rimangono maggiormente inclinati a certi vizii (2), siccome pure avervi delle buone abitudini morali che sembrano conservarsi in certe schiatte e tramandarsi per eredità; questi non terrebbe forse cosa contraria alla esperienza (3), nè sottosterebbe punto contro a quella decisione apostolica con la quale fu condannata questa proposizione di Baio: [...OMISSIS...] . Nel fanciullo la natura è quella che infetta la persona . Per natura abbiamo detto intendere il complesso dei costitutivi dell' uomo. In modo più proprio però la natura, che trae l' origine da nascere , significa le prime [qualità] costitutive dell' uomo con una relazione alla loro origine; quasi si definisce la parola« natura« con dire: ciò che si porta nascendo. Or per vedere adunque quel principio contenuto nella natura umana che va a pervertire colla sua azione la volontà, converrà cercare appunto nel nascimento dell' uomo, in ciò che per primo egli ha e riceve dall' origine, la causa prossima del peccato originale; perocchè questa sarà quella stessa causa prossima e istrumentale per la quale egli vien concepito. Ora la causa istrumentale e prossima, che muove il germe al suo sviluppo, è il seme paterno. E la tradizione cristiana di pieno consenso attribuisce appunto a una mala qualità del seme il ricevere che fa la natura generata in sè una cotal corruzione e disordine che ridonda nella volontà, ove così in uno colla generazione si forma il peccato. Le divine Scritture parlano senza ambiguità di questa rea qualità, che viene anco chiamata immondezza del seme umano. Giobbe deplorando la malizia della umanità, dimandava: « E chi può far mondo ciò che è stato concepito da un seme immondo?« (3) ». E di cui perciò tanta è la miseria che la corruzione abita ne' primi stami e rudimenti stessi di sua natura? E Davidde deplorava di esser stato concepito dalla madre sua « nelle iniquità e nei peccati« (4) ». A spiegazione e commento delle quali parole, Innocenzo III dice: « il corpo si concepisce corrotto e fedato nato da semi corrotti e fedati« (5) ». Un segno che infetto era il mezzo della generazione, e col quale Iddio volle mantenere la cognizione e la fede del peccato originale, fu la circoncisione; e quelli si avevano per soggetti alla morte presso gli Ebrei che non subivano questa ceremonia, indicandosi per tal modo e il principio del male e la necessità di una originale riformazione della natura umana. Questa infezione del seme è fisica , e perciò non è che in essa stia la propria e vera ragione di peccato, ma bensì la ragione istrumentale del peccato. Perocchè questa infezione fa sì che l' uomo nasca guasto nella sua parte animale, e ricevendo così un istinto animale alterato, questo istinto animale tira a sè le forze della volontà soggettiva, e in questo piegamento della volontà la ragione del peccato si assolve. Vi ha dunque, 1. la infezione del seme paterno: 2. l' istinto animale alterato, ossia la concupiscenza animale che viene prodotta nel generato: 3. la volontà stessa inclinata e condiscendente tutta alla concupiscenza: e in quest' ultima parte trovasi, come dicevamo, un vero e proprio peccato abituale. Niente adunque ripugna, anzi sembra consentaneo alla cattolica verità l' ammettere una morbosa qualità nel seme; purchè non si faccia consistere in essa l' essenza del peccato originale: niente ripugna che si ammetta una morbosa qualità della carne, ossia un' alterazione dell' istinto animale, purchè non si confonda con essa la piega della volontà, che sola può esser sede di moralità. E parmi che certi teologi parte si sieno male spiegati, parte sieno stati troppo severamente intesi in questa parte. Così Enrico di Gand, a cui si appone di far consistere l' essenza del peccato originale in una morbosa qualità della carne, si esprime pur chiaramente quando dice: [...OMISSIS...] . Delle quali parole si può egli dar nulla di più chiaro e di più preciso? Ed egli pare che questa morbosa qualità della carne tanto meno doveva essere occasione di censura, quanto che tutte le Scritture son piene di questo stesso sentimento, fino a chiamare carne lo stesso peccato originale, sicchè essere nella carne, nello stile di S. Paolo, vale essere ancora nel peccato originale (2). E S. Agostino secondo lo spirito di esse Scritture dice, che il peccato originale « è una cotal affezione di mala qualità e come una malattia« (3) ». E altrove parimente disse, che il corpo trasse pel peccato originale una qualità morbosa e pestilente (4). Alcuni per questa mala qualità intendono la concupiscenza stessa. Ma se per concupiscenza s' intende quell' insulto che fa la carne allo spirito quando, occupandolo di sè tenta di trarlo giù dalla sua padronanza e assudditarlosi, egli è manifesto che la concupiscenza deve essere piuttosto un effetto di quella morbosa qualità della carne. Perocchè se la carne è fatta così superba e stimolante, ella deve avere indubitatamente sofferita un' alterazione pari appunto a quella che ha sofferita la cute dello scabbioso o di colui che soffra delle insolite pruriginose sensazioni (1). Nè si potrebbe immaginare nella carne questo effetto senza pensar in essa esser succeduta appunto una morbosa alterazione: ed è questa che assai agevolmente s' intende potersi contrarre per via di generazione; come succede di tutti i mali gentilizii, i quali vanno comechessia a portare la loro corruzione contagiosa nelle prime radici della vita. Per ciò S. Agostino dice che Adamo peccando viziò in sè come in radice la propria stirpe (2). Nè però mai s' intenda, come qui sopra ho avvertito, che in questa alterazione morbosa della carne stia l' essenza del peccato originale, ma solo lo stimolo che dalla natura è applicato alla volontà, del quale stimolo questa viene sedotta e tolta dai beni intellettivi per bearsi degli animaleschi. Confermano questa dottrina tutte quelle maniere efficacissime di dire che usa la divina Scrittura; nelle quali l' uomo peccatore si dice nato di carne. In S. Giovanni è scritto: « Ciò che è nato di carne è carne; e ciò che è nato di spirito è spirito« (3) ». Che cosa vuol dire qui essere carne, se non essere peccatore, cioè schiavo della carne? E che cosa esprime quell' essere nato di carne, se non venire la nostra schiavitù dalla carne appunto male condizionata e violenta; il che è quanto dire avere in sè un' alterazione fisica indebita? E si noti quella frase esser carne , la quale indica che il soggetto, in luogo di applicare la sua forza più lungamente alle cose intellettive, si abbandona tutto a percepire la materia sensibile e da essa trae la sua esistenza: secondo ciò che detto abbiamo più sopra, che il principio senziente trae il suo essere dal termine sentito. Il medesimo sentimento esprime S. Paolo in tanti luoghi, nei quali alla carne attribuisce tutta l' origine del male. [...OMISSIS...] . Ora una tal carne, di cui anche più sopra aveva detto: « Io so che non abita in me, cioè nella carne mia bene alcuno« (2) », sarà ella la carne di Adamo innocente? O non si dirà anzi una carne alterata, impestata dal peccato? Anteriore dunque alla concupiscenza è una morbosa e pestifera qualità della carne, che si trasmette per generazione e che è la cagione prossima della concupiscenza, come la concupiscenza è la cagione prossima della stortura della volontà ossia del formal peccato. Or ciò posto, io non vedrei altresì che si potesse riprendere come contraria alla fede l' opinione di quelli ai quali par verisimile che nel frutto vietato da Dio ad Adamo potesse ascondersi un cotal veleno, il quale contaminasse l' uomo e principalmente ammorbasse la potenza generativa (3). Tale opinione, sostenuta da un' antica tradizione presso gli Ebrei (4), a me sembra verisimile e conforme a quelle leggi, secondo le quali Iddio suole governare le sue creature. Dirò di più, quando si dovesse fare in tal materia delle conghietture, più volte essermi passato per la mente che Iddio potesse aver permesso al demonio di prendere sua sede in quel frutto vietato appunto, e che insieme colle particelle di quel frutto, le quali si devono essere convertite nella carne e secondo la loro propria natura andate per avventura a unirsi colla seminale sostanza, il demonio avesse potuto trovare l' adito nel corpo dell' uomo peccatore e tenerlo come sua conquista e passare egli stesso per il mezzo della generazione in tutti i figliuoli di Adamo, travagliandoli appunto principalmente e insultandoli per via di carne. Or non sarebbe questo conforme a quel dire che fanno le divine Scritture, che tutta l' umanità fu pel mangiamento di quel primo frutto in potestà del demonio e che ogni carne fu da lui posseduta? Non mostra la santa Chiesa negli esorcismi che fa al bambino prima di battezzarlo, tener essa che dentro lui stia il demonio? Non gli dice, soffiandoli in volto: Escitine, o maledetto diavolo? E quanto naturale intendimento non riceverebbero pure quelle parole di Cristo: [...OMISSIS...] . Da questa morbosa qualità del seme adunque, dalla quale rimane infetto l' embrione, prima conseguenza è, come dicevamo, la concupiscenza, ossia un sentimento animale che agisce con forza sulla volontà soggettiva e tutta a sè ne tira l' attività, per modo che ella rimane distolta e avulsa dai beni intellettivi. Perciò i Padri parlano della concupiscenza come di cosa costitutiva del peccato stesso originale. Ma ella si deve intendere esser tale solo considerata come vittoriosa sulla volontà, sicchè la volontà le sia serva: cessando poi dall' essere peccato tosto che la volontà soggettiva e personale riprenda le redini e torni a signoreggiare sopra di lei colla forza della grazia divina; poichè allora lo stimolo della concupiscenza, sebbene rimanga, non serve che ad accrescere il merito della vittoria. Perciò il serafico Dottore esaminando un passo del Maestro delle Sentenze, dove afferma che il peccato originale sia la concupiscenza, dice egregiamente che ciò si può sostenere, purchè s' intenda non qualunque concupiscenza, ma quella che in sè racchiude la privazione della debita giustizia (1). La concupiscenza considerata nel fanciullo abbiamo detto esser cagionata da una morbosa qualità di cui è infetta la carne, nella quale egli fu generato. Ora egli sembra, che se la concupiscenza si considera nei generanti, ella possa essere stata, anzi che effetto, cagione in buona parte della morbosa qualità propagata nei figliuoli. Questo è ciò che S. Agostino dice tanto di frequente: in ragione di esempio, in un luogo così parla: [...OMISSIS...] . E S. Tommaso sulle vestigia del suo Maestro: [...OMISSIS...] . Nè mi farebbe maraviglia che la voluttà annessa alla generazione fosse partecipata dal generato, in quanto prima la massa carnea di cui egli è composto formava parte di essi, e poi diviso ed acquistato un essere da sè, non morì però mai, ma restò con quel vigore di vita e con quel sentimento che in lui fu suscitato e acceso pure in generandolo. Sicchè la causa istrumentale e prossima della trasmissione nei figliuoli del peccato originale è la morbosa qualità del seme paterno e la concupiscenza che accompagna l' atto della generazione, ove questa si faccia per via di esso seme paterno. Le quali due cose mancarono nella generazione di Cristo: perocchè, non essendo intervenuto in essa opera di uomo, non ebbe luogo l' effetto che suol produrre il seme guasto nella madre a un tempo e nel figlio, cioè la carnale concupiscenza. Il che apparisce assai più chiaro nel sistema de' germi inviluppati gli uni negli altri; perocchè in questo sistema, sebbene il germe da cui dovea poscia svilupparsi Cristo, passasse di parente in parente per tutta la serie de' suoi ascendenti, tuttavia rimanendosi egli sempre inviluppato fino al momento, in cui fu depositato nel corpo purissimo di Maria Vergine Immacolata, fu protetto per modo, che non venne mai tocco nelle generazioni antecedenti da seme umano, e così non potè contrarre mai, nè pure se ne fosse stato capace, alcuna macchia o infezione. Così si trovano conciliate e insieme contemperate le sentenze apparentemente diverse intorno alla ragione per la quale Cristo naturalmente fu immune da peccato. Perocchè innumerevoli sono i luoghi de' Padri co' quali affermano che ciò fu perchè non vi intervenne uman seme; e molti pure e evidenti sono quelli nei quali si legge che fu perchè non vi intervenne alcuna concupiscenza. Questo secondo sentimento ripete assai di sovente S. Agostino, come a ragion di esempio là dove dice: [...OMISSIS...] . Considerando adunque l' alterazione e il guasto del seme umano come cagione di questa concupiscenza, è vero l' uno e l' altro, che Cristo fu immune dal peccato perchè non ci intervenne l' uso del seme, e non quella concupiscenza che accompagna quest' uso. Quella concupiscenza adunque è propriamente la cagion prossima della trasfusione del peccato, che accompagna il concepire in virtù dell' uman seme; non altra, se ella essere vi potesse. E con ciò io credo di cogliere la mente del Dottor della grazia, il quale non si potrà provare che in nessun luogo parli di altra concupiscenza se non di quella che accompagna appunto la umana seminagione: il che dimostra nel passo sopracitato, chiamandola non puramente concupiscenza, ma concupiscenza di uomo che con femmina si accoppia, « concumbentis concupiscentia ». E ancor più precisamente altrove dichiara il suo pensiero determinando di quale concupiscenza egli parli, dandole l' epiteto di concupiscenza seminatrice . E per ciò dice di Cristo che quantunque anche egli sia secondo la carne seme di Abramo, perocchè la Vergine Maria ond' egli tolse la carne fu di quel seme propagata, tuttavia egli non fu sottoposto all' azione di quel seme, non venendo da viril seme concetto, e libero rimanendosi dal legacciolo della seminatrice concupiscenza (1). Ricapitolando ora e paragonando ciò che abbiam detto sulla natura e sulla trasfusione del peccato originale, noi abbiam parlato sì in quella trattazione, che in questa del principio di esso peccato e ne abbiamo parlato in modo diverso. Perocchè parlando della natura, noi abbiamo posto il principio del peccato originale nella personalità dell' uomo: e parlando della trasfusione, abbiamo posto questo principio nella rea qualità e concupiscenziale del seme virile. Colà abbiamo detto che il peccato prima è nella persona ossia nella volontà soggettiva: e qui abbiamo mostrato il disordine originale cominciare dalla carne ossia dall' animalità. Colà abbiamo fatto discendere il peccato dal punto superiore della umana natura e condottolo a contaminare le potenze subordinate: e qui abbiam fatto nascere il disordine nel punto inferiore di tutti, cioè nella carne dell' uomo, e l' abbiamo fatto ascendere e comunicare la sua infezione alle altre potenze più nobili, deturpando ultimamente l' altissima di tutte, cioè la volontà soggettiva. Insomma colà abbiamo assegnato al peccato un principio diverso e opposto da quello che gli abbiamo assegnato in quest' ultima trattazione. Come si conciliano e stanno insieme queste dottrine? La natura umana ha veramente due estremi, che sono, quasi direi, i due poli della medesima: il più nobile è ciò che forma la personalità, e il men nobile è ciò che forma l' animalità. Ora la generazione della umana natura procede dalla parte men nobile alla più nobile, dall' imperfetto al perfetto, dall' animale alla persona. Questo processo risulta da tutto ciò che abbiamo detto intorno all' umana generazione, la quale è una operazione animale sicchè ha virtù di formar l' animale. Ma essendo da Dio congiunto con questo animale per ferma legge l' ente percettibile, egli non può essere formato questo animale se non a condizione che veda l' ente: e per ciò all' operazione generativa, che di natura sua non avrebbe virtù se non di produrre un animale, tiene dietro, immediatamente la percezione dell' ente, mediante la quale il principio senziente in quell' animale si eleva a stato di soggetto intellettivo e di persona; il che succede senza progressione alcuna di tempo , ma è contemporaneo l' animale e l' uomo. Nasce adunque la formazione dell' uomo mediante una mozione animale dall' imperfetto al perfetto. Ora comunicandosi il disordine adamatico per generazione, di che è che si chiama originale , egli deve in producendosi nell' infante tenere lo stesso ordine e processo che tiene l' infante stesso in generandosi e formandosi. Quindi è che egli deve cominciare a infettare e corrompere le parti basse e da queste passare il suo disordine alle più sublimi. Il che è ciò che esprimono le Scritture collocando nella carne tutto il fonte del male morale dell' uomo e usando di questa parola carne a significare il nido, quasi direi, di tutte le tentazioni e il complesso di tutti gl' inimici contro lo spirito della virtù e della giustizia. « Perocchè la carne, dice S. Paolo, concupe contro lo spirito e lo spirito contro la carne: conciossiacchè queste due cose si contrariano insieme, pericolandone la vostra libertà« (1) »; della quale la baldanza della carne vorrebbe pure spogliarvi. In questo senso adunque, parlando della trasfusione del peccato, noi abbiamo messo il suo principio nella parte più bassa della umana natura, per la quale entrato il disordine si comunicò alle altre. Ma convien riflettere, che questo disordine fino che si resta nelle parti basse dell' uomo, non ha vera e propria ragion di peccato, nè però peccato si può denominare. Ma bensì può dirsi principio di peccato , in quanto che egli produce nell' uomo uno stimolo che tenta la sua volontà, e come priva di aiuto e di forze, qual' è la volontà di quello cui manca la grazia, la trae agevolmente dalla sua e la fa quietarsi nella vita animale e nella carnale dilettazione. Egli è però certo, che il formal peccato non è prodotto nell' uomo se non da quel punto che questa volontà soggettiva non ha piegato e ceduto al dilettico animale. E però noi abbiam detto, che il peccato non comincia se non nella volontà soggettiva, nella più alta parte dell' uomo, che è quanto dire nella personalità: perciocchè tutto il male che precede al guasto della personalità non è cosa per sè morale, ma fisica e animale, essendo sola la persona la vera e propria sede di ogni bene e di ogni male morale. Sebbene adunque il disordine cominci nell' uomo prima della sua personalità, tuttavia solo in questa e con questa comincia propriamente il peccato . Quando poi la personalità stessa ha allettato in sè il disordine, rendendo con ciò morale quello che prima era fisico e animale, allora la persona comunica per così dire l' immoralità propria alle potenze subordinate e tutto diventa immoralità, tutto peccato nell' uomo. La concupiscenza è peccato, l' ignoranza e la cecità di cuore è peccato, come dicono a una voce i Padri. Relativamente dunque al peccato di che vengono infette le potenze dalla volontà personale, prima e propria sede del peccato, noi abbiam detto che il principio del peccato originale risiede nella persona, nella più alta parte dell' uomo, e che da quest' apice discende e macchia le parti inferiori. Se si considera dunque il disordine in generale, il suo principio è nella parte più bassa dell' umana natura. Se si considera poi l' immoralità di questo disordine, il suo principio è nella parte più alta di essa natura. E questo ci valga a conciliare, a legare insieme e a ricapitolare quanto abbiamo detto sul principio del peccato originale in questo e nel capitolo precedente. Trovata la cagione prossima del peccato originale, egli è facile render ragione perchè anche i figli di coloro che sono rigenerati nel santo battesimo, ricevano il peccato originale. La grazia del santo battesimo non è che personale , cioè non riforma che la persona, come abbiamo accennato e come più a lungo dimostreremo nel libro seguente. Il disordine originale all' incontro contamina non meno la persona che la natura. Riformata adunque la persona col battesimo, rimangono le altre parti della natura umana ancora disordinate. A queste parti disordinate dell' umana natura appartiene principalmente la facoltà generatrice, e quindi la causa prossima e istrumentale per la quale s' insinua nel neonato e vi si eccita il peccato originale rimane viziata anche nei fedeli battezzati. Il perchè una natura corrotta produce una natura corrotta e che ha pur bisogno di essere rigenerata. Questa ragione adduce S. Agostino contro i Pelagiani che dimandavano perchè se il peccatore genera il peccatore, anche il giusto non generi il giusto. [...OMISSIS...] . La quale medesima ragione adduce in altre parole S. Tommaso, il quale afferma rimanere il peccato originale, materialmente preso, negli stessi battezzati; [...OMISSIS...] . Dalla natura del peccato originale, dottrina fondamentale della Chiesa Cattolica (4), si spiega lo spirito di questa, e per l' opposto lo spirito da cui è animato il mondo. La Chiesa professa che l' uomo nasce corrotto per natura: e quindi il figliuolo della Chiesa riceve da questa dottrina un sentimento di umiltà che lo accompagna in tutti i suoi passi. Il mondo niente ode più mal volentieri quanto la dottrina del peccato originale: egli fa di tutto per ritorcere gli occhi da questa profonda piaga dell' umanità, e dice volentieri: l' uomo nascere uomo, ovvero le indoli formarsi per la educazione senza più. Dell' ignoranza pertanto, in cui il mondo si tiene volontariamente del peccato originale, è effetto a un tempo e cagione lo spirito di superbia di cui sempre è gonfio il figliuolo di questo secolo. Quanto più lo spirito del mondo prevale anche nel mezzo delle nazioni cristiane, tanto più si vede allontanarsi e rimuoversi la memoria del peccato originale, massime dai libri di educazione; e dipingersi in essi in quel cambio l' uomo sempre con dei lieti e ridenti colori, ma, ohimè! purtroppo menzogneri, e simili per avventura a quelli che facevano si bello e desiderabile il pomo di Eva. La Chiesa col peccato originale insegna, che ciò che portiamo di corrotto fino dalla prima origine è la carne; e deduce da essa il fomento d' ogni peccato. [...OMISSIS...] . Per questa dottrina che possiede la Chiesa, avviene che il suo spirito sia di mortificazione della carne e di penitenza: e ciò a tal segno da desiderare fino la distruzione totale della carne, riguardando tale distruzione come l' abolizione del peccato e la liberazione dell' anima dai ceppi di una tediosissima schiavitù. Fino poi che questa felice distruzione non sia avvenuta, il figliuolo della Chiesa si propone di non prendere giammai a principio del suo operare il desiderio della carne, di non riconoscere nè pure la carne quasi come parte di sè, ma di riguardarla già come fosse al tutto morta. Questo è il proposito che si fa nel battesimo, questo è il sentimento che esprime S. Paolo là dove dice: [...OMISSIS...] . Or questa è nuova cagione per la quale il mondo non riceve o rifiuta di considerare la dottrina del peccato originale, la quale gli è troppo triste e malinconiosa, eziandiochè vera. Indi lo spirito del mondo si fa uno spirito di solazzo, di gaiezza e di accontentamento appunto della carne, così dalla Chiesa ripresa e vituperata. Il peccato originale adunque è quella gran dottrina la quale mette quella grande separazione che pure è tra l' operare della Chiesa e del mondo. Egli è manifesto che il peccato originale è il fatto solenne della umanità, il quale determina il vero e proprio suo stato. Or la morale deve esser acconcia al soggetto per il quale ella è fatta: e però un fatto che modifichi l' uomo, soggetto della morale, egli è evidente che deve recare una modificazione corrispondente in tutta la morale dottrina. Ma la filosofia non è stata solita di considerare i fatti solenni che hanno modificata la natura umana e hanno condotto l' uomo a essere quello che è: ma ha preso in veduta la natura umana astrattamente presa senza più. E il fatto del peccato originale tanto più lo ha negletto che esso è un fatto soprannaturale per così dire, cioè a dire un fatto che si lega con un ordine di cose soprannaturali e con una primitiva e immediata comunicazione col Creatore; e per la stessa ragione questo fatto fu di sua natura proprietà della cristiana teologia. Quindi principalmente nacque il carattere che divide la morale de' filosofi dalla morale cristiana. Perocchè quelli non poterono considerare l' uomo se non imperfettamente nelle sue qualità universali e comuni date dalla sua natura: laddove la rivelazione e religione cristiana lo considera fornito di tutti i suoi accidenti e alterazioni da lui sofferte e nei varii stati nei quali egli si trovò di fatto. Egli è perciò che la predicazione del Cristianesimo tende direttamente a sorreggere e riformare la umana natura in quelle parti, nelle quali fu più vulnerata dal peccato originale: onde è suo proprio carattere di inveire contro la superbia e la carnalità, e di soprammodo promuovere la virtù dell' umiltà e della castità, nomi peregrini e al tutto insoliti in bocca alla filosofia. Di più la morale teologica mettendo tutta la forza, per la quale divien possibile all' uomo di resistere contro all' ingiustizia cui gli vien suggerendo la concupiscenza originale, nella grazia del Redentore che solo vinse e riparò il peccato originale; avviene che rivolga la sua morale predicazione principalmente a indurre e consigliare l' uomo di provvedersi di questa grazia nell' orazione e nei sacramenti della Chiesa. Ed egli è per queste vie, di domare la carne colla penitenza e colla grazia, che la morale cristiana trae l' uomo alla reale virtù, mettendo la scure alla radice del male e insegnando quello che diceva di pur fare l' Apostolo: [...OMISSIS...] . Questo scopo determinato e che batte il sodo e nel vero dell' uomo, è appunto ciò che manca alla morale filosofica. Essa vi propone dei bellissimi precetti, ma tutti vaghi e universali, i quali non discendono ad applicarsi allo stato dell' uomo infermo e caduto sì come egli è, e non insegnano onde attinger egli possa le forze da rilevarsi; non gli fanno nè conoscere il suo male, nè il rimedio del medesimo; e finalmente da una parte non ha coraggio di proporgli tutta intera la virtù, temendo di sgomentarlo; dall' altra non la conosce: perchè una tale morale è essa stessa l' opera di quel medesimo uomo infermo e scaduto cui solo può guarire e rilevare un medico maggiore di lui, un altro essere sopraumano che tenda a lui soccorrevoli delle braccia piene di pietà e di misericordia. Le dottrine cattoliche da noi esposte sul peccato originale mi chiamano a lumeggiare meglio con esse una osservazione altrove per me fatta, cioè che la divina rivelazione, ossia quel complesso di dogmi che forma la sostanza della fede cattolica, suppone sotto di sè e accenna una filosofia, il ricercamento della quale Iddio commise alla umana ragione da lui stesso sovvenuta e aiutata, acciocchè col trovare i principii e le ragioni delle verità, dia essa ragione un tributo alla fede, la quale acquista di continuo una vie maggior luce e bellezza. Così noi veggiamo nelle divine Scritture e nei libri de' Padri della Chiesa che contengono il deposito della fede, parlarsi di verità le più sublimi e recondite colla massima precisione e sicurezza: e tuttavia confessare assai di sovente di non avere ragione naturale con la quale provarle, ma solo l' autorità di Dio che le ha fatte conoscere agli uomini. Tuttavia mettendosi poi l' ingegno umano a partito, procedendo innanzi le investigazioni filosofiche della umana natura e della divina, e a questo fare venendo stimolati principalmente i maestri stessi della Chiesa dalla disposizione della divina Provvidenza, la quale permette che gli eretici o gli infedeli o tutti quelli che si fanno nemici a Cristo, insorgano contro alle verità rivelate e accampino contro di esse delle obiezioni cavate dalla ragione naturale; allora, dico, si vanno trovando e scoprendo altresì tali verità naturali, le quali e valgono a ribattere le opposizioni avversarie e sorreggono o fiancheggiano mirabilmente gli stessi dogmi rivelati, mostrandoli di un perfetto consentimento ed accordo coll' intima natura delle cose e resi fin necessarii da questa natura delle cose ben conosciuta, di modo che l' ordine stesso delle cose naturali diverrebbe un assurdo, non che un enigma inesplicabile, quando quell' ordine di verità soprannaturali non fosse. Insomma, come ho detto ancora, la verità rivelata è un cotal compimento della verità naturale e presuppone questa sotto di sè, a quel modo che una dipintura suppone sotto di sè la tela sopra di cui è lavorata; e molte dottrine rivelate, o non sono misteriose se non perchè rimangono ancora a trovarsi quelle naturali verità che formano come l' addentellato a cui esse si continuano, o certo, trovate queste, cessano dall' essere difficili a credersi, e come che sia sublimi si fanno però tali che riesce sommamente difficile a non credersi. Il che forma una manifestissima prova della verità della divina rivelazione. Perocchè non può esser l' opera degli uomini una dottrina che gli uomini, i quali per molti secoli l' hanno insegnata, confessano inesplicabile e di cui non dànno altra prova che la divina rivelazione: una dottrina che tuttavia nel correre dei secoli acquista sempre più luce: una dottrina che per quantunque nuove verità naturali si scoprano, ella non si trova mai in contraddizione con alcuna: una dottrina che anzi si mostra in mirabile accordo colla filosofia più che questa si approfondisce e che perciò mostra supporre sotto di sè la più profonda filosofia, quasi un suo preliminare: quindi una dottrina che non potè essere annunziata se non da un Essere che fosse già in possesso precedentemente di una tale filosofia, che ad essa dottrina forma quasi direi un sotterraneo e tutto occulto fondamento. Queste generali osservazioni ricevono appunto lume dal dogma del peccato originale. Esso è annunziato nelle divine Scritture come un fatto, nè si pone cura ad accompagnarlo di alcuna ragione. Egli anzi alla ragione umana di prima giunta si presenta siccome il più mostruoso assurdo o certo come un impenetrabile mistero. Tuttavia la Chiesa lo insegna costantemente, non adducendone altra prova che l' autorità di Dio rivelante; e sicura di questa sola fede, sebbene alla ragione apparentemente contraria, lo proclama in modo che il toglie anzi ad uno de' principali cardini di tutto il suo insegnamento. I Padri della Chiesa, quelli stessi che sono riputati come ingegni naturali i più straordinarii, confessano di non poter penetrare la oscurità di questo mistero. S. Agostino stesso, la cui mente era considerata da un filosofo dei nostri tempi inimicissimo della religione (1), dichiara che « come non vi era nulla che fosse più noto del peccato originale per la predicazione della Chiesa, così non vi aveva nulla che fosse più secreto e nascosto all' intelligenza« (2) ». Questo gran Padre, dopo le più profonde meditazioni sopra questo argomento, non trovava che sempre nuovi imbarazzi. La natura del peccato originale lo sconfidava di penetrarla e piegava la fronte dicendo che vi si inchiude una occulta giustizia di Dio (3). La propagazione di esso peccato non gli era men forte nodo, e traendolo nella questione dell' origine dell' anima, il faceva perdersi in quest' altro labirinto, giacchè da una parte non poteva concepire alcun modo onde le anime potessero propaginarsi; e dall' altra « confessava di non poter spiegare a sè medesimo, come mai l' anima possa trarre il peccato da Adamo, se essa stessa non viene pure da Adamo« (4) ». Or dunque se la ragione umana nel suo massimo vigore non poteva dare alcun suffragio al dogma del peccato originale, non è egli evidente che questo dogma, conservato pur dalla Chiesa senza dubitazione alcuna, non poteva venire dagli uomini, ma da una sapienza più sublime? Dico da una sapienza più sublime, perocchè quantunque questo dogma non presentasse alla ragione se non un inesplicabile mistero, tuttavia da una parte la ragione stessa non potè mai trovare in nessun tempo un principio evidente che fosse in evidente contraddizione con esso, e dall' altra oggimai io credo non essere difficile d' accorgersi che si possa dare e che veramente si dia una filosofia, la quale rechi molta luce sulla stessa dottrina dell' original peccato e faccia in essa dileguarsi molte di quelle nubi che l' ignoranza umana vi vedeva, o piuttosto vi produceva. E se questa filosofia si dà veramente, parmi che a lei dovesser far buon viso tutti i cattolici. Perocchè l' accordo perfetto in cui ella verrebbe a trovarsi col Cristianesimo, e segnatamente con questo terribile dogma del peccato originale che essi credono per fede, dovrebbe fare a lei appo loro buona raccomandazione e prova efficace di sua verità. All' opposto persuasa colla virtù delle sue prove intrinseche una tale filosofia a coloro i quali discredono la cristiana religione e per troppo forte nodo hanno il peccato originale, essa dovrebbe avvicinare costoro, quanto può ragione naturale, al cristiano insegnamento. Sicchè la filosofia e la teologia si darebbero così insieme mano e l' una aiuterebbe l' altra in vantaggio degli uomini. Ora, egli è appunto questa filosofia la quale giace occulta nelle viscere della cristiana teologia, che noi ci siamo proposto di aiutare perchè venga alla luce: facendo ancor noi, (se ci è permesso di usare in altro senso la frase di Socrate) l' ufficio, quasi direi, di levatrice. E veramente tutta la dottrina del peccato originale riceve chiarissima luce da due verità filosofiche, le quali noi abbiamo provato con ragioni naturali e che costituiscono per così dire la teoria filosofica dell' uomo, cioè: 1. Che si ha una distinzione reale tra l' esservi nell' anima un sentimento ed un' idea qualunque, e l' avvertenza di quel sentimento e di quell' idea. Di modo che vi possono essere e vi sono nell' anima dei sentimenti e delle idee di cui l' uomo non ha nessuna avvertenza per molto tempo, acquistandola poi mediante l' uso della sua riffessione. 2. Che l' uomo fino dal primo istante del suo esistere ha un sentimento fondamentale e l' idea dell' essere universale, dei quali però egli non ha ancora avvertenza. Dai quali due elementi succede poi tutto lo sviluppo umano, perocchè tutte le sensazioni che riceve appresso non sono che modificazioni di quel primo sentimento; e tutte le idee che egli acquista e i ragionamenti che fa, non sono che i sentimenti veduti in rapporto coll' idea dell' essere, o rapporti di rapporti. Ben provate queste due verità, tutto ciò che ha di più oscuro la natura del peccato originale si chiarifica. Perocchè non è più un assurdo apparente, ma anzi una verità chiarissima di dire, che nel fanciullo appena nato vi abbia una volontà verso l' essere in universale, la quale sia piegata e tirata dalla violenza del sentimento animale; sebbene questa volontà non sia libera. Ed or, ciò posto, una immoralità si trova nell' uomo fino dalla prima sua esistenza, la quale ha ragione di peccato , sebbene non abbia ragione di colpa , perocchè a formare il peccato abbiamo detto bastare la volontà , a formare poi la colpa esigersi altresì la libertà . Ora ciò che è peccato nell' infante, considerato in lui solo, niente vieta che si chiami colpa, considerato in relazione colla prima libera volontà che il cagionò, cioè colla volontà di Adamo (1). Egli è per ciò che con molta assennattezza, per nostro avviso, Vincenzo Palmieri in un suo libro scrisse così: [...OMISSIS...] . Da questo passo apparisce che il citato professore di Teologia dogmatica sentì lo stretto nesso che aveva la questione filosofica dell' origine delle idee col dogma teologico del peccato originale, e che questo portava la risoluzione di quella nel suo seno. Egli è vero che l' acuto teologo che ciò vide, non potè però indicare un sistema delle idee innate che potesse al tutto reggersi e sostenersi contro gli avversarii; perchè non ne aveva altri che quello di Cartesio e quello di Malebranche: ma ciò non toglie che egli intravedesse la verità che noi tocchiamo. Il peccato non accennava se non la necessità di un sistema filosofico che ammettesse qualche cosa d' innato, ma non diceva che solo una diligente e fedele investigazione della natura della mente umana doveva poi trovare che cosa fosse questo che d' innato; e questa ricerca da noi affrontata ci condusse alla teoria della naturale intuizione dell' essere in universale. Si dica il medesimo circa la questione dell' origine dell' anima, che ha pure un così stretto rapporto, sebben filosofica, col dogma puramente teologico della trasfusione del peccato originale. Il dogma della trasfusione poteva egli essere inventato da chi non conosceva la soluzione di quella prima questione? Ma si consideri la soluzione che noi ne abbiamo dato; e poi quanta luce, ci si dica, non manda fuori di sè un insegnamento sì strano a prima giunta come quello che dichiara originario un peccato? Quel maestro che lo insegnò il primo, non doveva essere qualche gran cosa, se confidò agli uomini un risultamento che non poteva dare se non una dottrina, che non sarebbe stata nota se non quando il mondo fosse ben vecchio? Delle riflessioni simili a queste mi potrebbe somministrare la dottrina della Chiesa intorno alla maniera nella quale ella insegna che i fanciulli vengono mondati dal peccato originale nel santo battesimo. Perocchè la Chiesa chiaramente e costantemente insegna ed ha sempre insegnato, che nel battesimo non solo vien rimesso il debito contratto dalla natura umana con Dio, ma che viene purificata l' anima stessa del fanciullo dalla macchia originale e che in quest' anima viene infusa la grazia dello Spirito Santo e gli abiti delle virtù teologiche della fede, della speranza e della carità. Ma cerca ella la Chiesa di spiegarci come avvenga tutto ciò nell' anima del fanciullo che non dà ancora nessun segno esterno di uso di ragione? Non cerca: solo ci dice che questo è la verità e ci ingiunge di crederlo. - Ma non è egli una tale dottrina opposta al pensare comune degli uomini e apparentemente assurda anche agli occhi della filosofia che non iscopre in quel bambino appena nato nè idee, nè volontà, nè perciò discernimento e amore del bene e del male? - Di tutto questo non si dà veruna pena la Chiesa: non risponde a tali obbiezioni se non solo con queste parole: Chichessia ciò non crede, sia anatema. I maestri poi anche più insigni della religione cristiana parlando di ciò confessano assai spesso la loro ignoranza ed è loro frequente in bocca: così è, ma in che modo ciò sia la ragione lo ignora, perocchè vi giace un mistero. Non si è parlato così solamente nei primordii del cristianesimo, ma dai più gran genii dei secoli moderni: e quando è venuto a questo punto lo stesso Bossuet, ha dovuto conchiudere con queste parole: « Egli è questo il mistero dello Spirito Santo« ». A me pare di veder ben chiaro l' impronta di un magisterio divino in questa maniera di enunziare le più sublimi verità e apparentemente contrarie alla ragione come altrettanti fatti indubitabili senza fornirli di loro ragioni e spiegazioni: il ciò farsi per molti secoli e il venir solo in ultimo col progresso delle scienze trovate quelle ragioni che rendano quei misteri chiari, o certo che li dimostrino, anzi che contrarii alla ragione, ad essa medesima necessarii e d' essa nobile finimento. E veramente quando si conosce lo stato del fanciullo a quel modo che egli risulta dai principi filosofici per noi dimostrati, non ci rende egli manifesto come la infusione delle virtù teologiche e il raddrizzamento e sollevamento a Dio della volontà possa aver luogo? E poichè ho toccato di sopra una parola di Bossuet da lui proferita nella celebre disputa che tenne col ministro Claudio, non sarà inutile che io arrechi ancora un passo dello stesso insigne prelato, tolto dalla relazione di quella medesima disputa. Questo passo mi varrà a dimostrare due cose: 1 Come il gran Vescovo di Meaux colla sua solida mente giunse a vedere il rapporto strettissimo della dottrina della Chiesa colla questione filosofica intorno alla natura dell' anima intelligente, e come quella dottrina della Chiesa richiedeva assolutamente che questa questione si risolvesse in modo che l' anima dovesse avere una comunicazione primitiva e naturale colla verità: 2 Mi varrà a mostrare quanto cautamente la sana mente di quel prelato toccasse questa risoluzione, non buttandosi perciò nel sistema delle idee innate di Cartesio (come poco avvedutamente vedemmo fare più sopra un teologo italiano), ma anzi si contenesse dentro a' giusti limiti, non avanzando più di quello che la necessità richiedesse ed esigesse di quelle cattoliche dottrine delle virtù infuse. Perocchè avendo ridotto il ministro protestante e strettolo a confessare che sviluppandosi nel fanciullo battezzato la ragione, questo non può premettere alla fede delle verità che gli sono proposte da Santa Chiesa alcun esame e alcuna dubitazione, ma deve crederle subitamente; e che il mezzo onde può far ciò non è altro che la fede infusa nel battesimo; restava a levare la difficoltà che faceva il protestante, come questa fede infusa potesse essere ragionevole nel fanciullo, senza esame e non facendo uso della ragione. Or ecco come l' egregio prelato si fa a rispondere: [...OMISSIS...] .

Scritti vari di metodo e pedagogia

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

E no; ch' essa vive immortale anche dove ne sono scancellate dall' errore le sue sembianze: e mentre questo ha creduto d' occupare il seggio di quella nel cuore degli uomini, egli non ha fatto che togliere le sue imagini esteriori ond' abbelliva, per così esprimermi, la superficie dell' umanità, e rendeva visibile al di fuori la sua bellezza divina; ed il vizio, grazie all' Altissimo, non è forse ancora che un legger fango che cuopre al di sotto l' ottimo colore dell' oro incorruttibile. E sono forse pochi o dubbiosi i segni di vita che nei nostri tempi materiali ha dato ancora la pietà dal suo ritiro profondo nel cuore degli uomini? Non ha la Chiesa di Gesù Cristo abbracciato e stretti al suo seno tanti figliuoli traviati, che rattemperarono i suoi dolori? non hanno rivolti a lei gli sguardi della speranza tanti infelici? E quelli che rimanevano per tanto tempo da lei divisi, e che avevano da' loro stessi padri ricevuto l' infelice retaggio di tanta divisione, non hanno sentito negli estremi pericoli della loro virtù il bisogno della loro madre sempre tenera e sempre sospirosa sopra di loro? Duro è all' umana natura sentirsi strappare tanto dalla virtù, che non si possa oggimai più ingannare sulla sua perdita e ch' ella debba confessare a se stessa, senza escusazione veruna, di non esser più virtuosa. Così si discioglie il protestantismo da se medesimo, come perisce il naufrago gittato dall' onde sopra una spiaggia disabitata; e l' incredulo da lui generato torna indietro come fanciullo piangente smarrito in una immensa foresta per essersi allontanato dalla sua madre. E che conforto di letizia non debbe aver portato al capo della Chiesa di Gesù Cristo il vedere che quando innalzando la sua voce di pace e di universale benevolenza proclamò agli uomini inaspriti tuttavia dalle recenti fazioni, e ancor ringhiosi sui beni caduchi di questa terra, universale perdono dal cielo, a condizione di universale perdono fra loro e di scambievole compatimento in nome del comun Redentore, trovò mille schiere che risposero alla sua voce colle lor voci di compunzione e di ravvedimento, ed il mistico corpo di Cristo, la cui prima legge è d' avere un cuor solo ed un' anima sola, si rinforzò di santi proponimenti, si rabbellì di nuove grazie e di nuove virtù? Nessuno forse avrebbe preveduto il frutto raccolto dal Giubileo pubblicato da Leone XII, se fino l' estremo oriente non si fosse mosso a darne dei segni, e la capitale del protestantismo non avesse solennizzato il grido di pace e di riconciliazione. Finalmente qual sintomo di vita più manifesto che questi uomini che si sollevano improvvisamente su tutto ciò che pensa e che opera sulla terra; che si francano da tutti i pregiudizi e quasi non fossero mai stati al contatto per così dire de' loro simili sembrano abitatori di regioni più pure e più innocenti: di questi uomini che accusano qualche cosa in se stessi che gli sforza di alzar la voce, e di chiamare in giudizio il lor secolo; di questi uomini che con una parola resa potente dal zelo de' primi tempi della Chiesa ci atterriscono, senza avvilirci, e ci annunziano, come dicevo, l' ira del cielo sopravveniente, insegnandoci ad un tempo la via di declinarne lo scoppio! E è certamente l' educazione delle venienti generazioni uno di que' preziosi mezzi che possono mettere il mondo al coperto dalle estreme sciagure, e fargli acquistare un aspetto meno odioso, per così dire, agli occhi dell' Onnipotente: è l' educazione quella che può cogliere i frutti della vittoria e riparare le devastazioni della guerra: quella che può ridurre di bel nuovo all' aperta luce la timida virtù rinserrata ne' cuori, e restituire ad essa l' imperio intero del mondo sì visibile che invisibile: è l' educazione quella di cui si contesta il bisogno da tutti, e si sente nella stessa misura che quello della religione: quella che si domanda ai pastori de' popoli, e che i sapienti che trattano la causa degli uomini sollecitano qual mezzo di salute, acciocch' egli non giunga forse troppo tardi, e quando già il male sia divenuto irreparabile. Ma egli parmi che, quanto è vantaggioso che si senta altamente l' importanza delle salutari istituzioni, altrettanto è necessario che venga indicata la maniera di eseguirle, o almeno che ne sieno disegnate le basi su cui se n' eriga con solidità l' edificio; conciossiachè una fabbrica fatta a caso rovina, o è disagiata, od inopportuna. Ed è tanta la scarsezza di questo sapere il modo di ben eseguire, che talora sembra fino che con soverchia severità sia sgridato il genere umano dai più ardenti zelatori della virtù e della religione, perch' egli non faccia tant' opere salutari e necessarie. Non è egli tanto che non voglia fare, ma è più tosto ch' egli non sa: egli è sì poco operoso perchè nell' esecuzione dell' opere gli si contrappongono tali ostacoli, che fanno assai ben conoscere come per ottenere alcun fine non basta averlo semplicemente affissato coll' occhio, se non si ha posto altresì attenzione e diligenza ne' mezzi; è perchè egli è stordito da una moltitudine di ragionamenti veri e falsi, generosi e vili, religiosi ed ipocriti, filosofici ed empi, che il confondono ed il lasciano indeterminato, ed istupidito. Il che tutto interviene nelle istituzioni sociali a' dì nostri, dove le opinioni ed i pregiudicii fanno insieme una lotta incessante, e l' affrontamento di circostanze imprevedute rende inutile, o dannoso fors' anche per gli effetti accessorii che produce sull' uomo, ciò che utilissimo pur dovrebb' essere ed è, considerato solo l' effetto suo principale, o per dir meglio l' effetto preso direttamente di mira dalla istituzione. E tuttavia gli effetti nocevoli, che quasi indirettamente escono dalle accessorie parti di una ben intenzionata istituzione sociale, non debbono produrre nell' animo smarrimento; nè l' istituzione per questo debbesi riprovare, o traviar dal diritto suo fine. E` solo l' opera del savio, guidata dalla esperienza de' tempi, quella che debbe occuparsi nell' ordinar meglio quelle parti accessorie che essendo poco avvedutamente ideate, e trascurate nel disegno generale, generano i mali effetti. L' intenzione all' incontro di tutta l' opera, ed il fine suo debbe ritenersi in tutta la sua purezza, e perfetta eccellenza, nè debbesi transigere colla umana corruzione. Egli anzi diventa necessario in tal caso di fissar bene ciò che ha di ottimo e perciò d' immutabile l' istituzione; perchè questo solo, ma questo interamente si conservi; e le riforme non cadano che sul rimanente. Ed ella è questa l' idea che mi conduce a sviluppare in questo saggio la prima legge, e secondo il mio avviso immutabile della Educazione: la quale perciò in tutte quelle istituzioni sociali che alla educazione debbon servire sempre è necessario di ritenere: mutando solo le altre parti: e questa si è l' unità della medesima. Dopo che fu detto che l' educazione dell' uman genere debb' essere accompagnata dalla Religione, bisogna dire ancora ch' ella debbe essere una e coerente con se medesima. Questa massima sola è quella che mette sulla via ad ottenere quella prima, cioè che l' educazione sia religiosa. Tutti proclamano questa sì luminosa e suprema verità, perchè addita lo scopo a cui si debbono rivolgere le sollecitudini di quelli che hanno il potere di ordinare l' umana educazione, ma non la determinarono abbastanza perchè sia al tutto facile l' eseguirla: nessuno all' incontro predica questa seconda dell' unità che pure fa un passo innanzi e ci porta sulla strada per eseguir quella prima; conciossiachè questa dimostra il modo onde quello scopo ottener si debba: modo che lasciato all' arbitrio varia in tanti modi quanti sono gli educatori; e mentre tutti credono d' ottenerlo nessuno l' arriva per freddezza, o per poco savio ardore di conseguirlo il trapassa. Egli è per questa funesta esperienza, la quale dimostra come gli uomini durano fatica ad ottenere lo scopo che si propongono perchè non sanno il modo di ottenerlo, chè la moltitudine de' superficiali si scandolezza ed attribuisce al fine propostosi il difetto che non è cagionato se non dall' ignoranza dei mezzi. Quindi si dividono in vari partiti gli uomini; e gli uni escludono quasi la religione dall' educazione, perchè ad essa attribuiscono i mali di cui non sono cagione che quegl' imperiti che nell' educazione non seppero bene introdurla: altri all' opposto, retti e costanti nel desiderio del bene, la religione non abbandonano giammai: ma in quella vece troppo confidenti nei mezzi di conformare ad essa l' educazione, non si danno grande briga di questi; e pigliano quelli che trovano i primi, talor anche malamente concepiti, cui per rispetto al fine a che intendono s' assuefanno a riguardare come religiosi e rispettabili; mentr' essi non hanno forse di religioso e di rispettabile che l' ottima intenzione de' loro inventori; e in questa loro opinione fermissimi, sono pronti di sacrificare con animo a dir vero generoso, ma d' una generosità agli umani bisogni meno che non si vorrebbe opportuna, tutti gli altri vantaggi umani, che per la povertà appunto di que' mezzi, vengono irragionevolmente perduti. Or egli adunque è tempo di porre diligenza e studio a rinvenire questi mezzi in un modo sapiente senza abbandonare quel fine, che certamente, quando anche non fosse possibile conseguirlo altro che col sacrificio del tutto, sarebbe un guadagno inestimabile, come guadagno inestimabile è ottenere quanto solo è bene. Sì; della necessità della religione l' uman genere è persuaso: egli n' è persuaso ad un segno che n' è smanioso ed irrequieto pel bisogno ch' egli ne sente. Non ci chiede adunque che ci affaccendiamo a persuaderlo che sia bene ciò, di che tutte le sue stesse agitazioni lo dimostra impaziente; dimanda che gl' insegniamo un modo saggio di soddisfare a questo bisogno; un modo che non esiga da lui un sacrificio superiore alla sua debilezza e non necessario; un modo che riconcilii la religione con tutto ciò ch' essa non condanna; un modo finalmente, mediante il quale accanto alla religione fiorisca quanto può rendere ampiamente benevola la società degli uomini, e quanto può donare al maggior numero di questi una vita men disgustosa, e può sciogliere gl' ingegni a deliziarsi per i giardini vastissimi della verità, nel tempo stesso che s' umiliano sotto la immensa luce di lei che li vince e li signoreggia. E a tal fine io credo che convenga cominciare dallo stabilire nella educazione l' unità: il che parrà forse una conseguenza opposta a quella che altri s' avvisa di tirare dalle premesse. Ma in vero egli è impossibile che la religione non pugni colle istituzioni, delle quali ella non sia la madre, o nelle quali essa non sia bene immedesimata. Non solo adunque debb' essere religiosa l' educazione, ma debb' essere, per dir così, unicamente religiosa . L' unità della educazione religiosa, non si ha che col rendere l' educazione religiosa interamente. Questo è il primo passo, che gli uomini debbono far con coraggio: se il faranno, dileguate le vane chimere che loro traversano il sentiero della luce, essi si vedranno ben presto fuori di queste loro tenebre, fuori di quest' aria grave e nebbiosa, in regioni più pure e salubri, s' avvedranno con una gioia improvvisa, come il Cristianesimo sia quello che forma il bene degli uomini anche in questa vita: e si maraviglieranno di avere con tanta diffidenza e lentezza ricevuta tanta felicità. Educazione religiosa: ecco ciò che tutti richiedono; unità d' educazione religiosa: ecco ciò che pochi considerano, e che può solo soddisfare quella richiesta universale. La religione in fatti è quel solo principio che può dare all' educazione umana l' unità; ed è perciò che l' idea della vera educazione umana è germinata, si può dire, e fiorita al mondo dallo spirito del Cristianesimo. Veramente prima che il mondo ricevesse la parola della vita e della salute, l' uman genere pareva più tosto simile ad un' immensa boscaglia dove senz' arte e senz' opera di ragione crescevano a caso tronchi infruttiferi, e pruni selvaggi, mentre ora pare un giardino ridotto dalla mano industre dell' agricoltore alla più util coltura, pieno di ben tirati colti, e di piante domestiche e mansuete. In fatti fu il Cristianesimo quello che additò e chiaramente scoperse all' uomo quell' ultimo fine, al quale debbe rivolgere tutto se medesimo, e senza il quale egli non può che errare in uno inestricabile labirinto senza luce, nè filo, ignaro della riuscita a cui lo portino gl' incerti e ciechi suoi passi. Il Cristianesimo adunque diede l' unità all' educazione primieramente perchè pose in mano all' uomo il regolo, onde misurare le cose tutte, o sia il fine ultimo a cui indrizzarle. Il Cristianesimo insegnò che bisognava rivolgere tutti gli studi e le diligenze dell' ottima educazione a questo altissimo scopo, di porre in mente al giovanetto altamente impresso e piantato quel vero: DIO SOLO E` BENE ASSOLUTO: tutti gli altri beni nell' uomo o fuori, ricchezze, potenza, onore, scienza, non gli valgono se non in tanto che giovano a farlo più puro e più verace adoratore dell' Eterno. E santo Ignazio che pose tal concetto in testa al libro degli « Esercizii » lo chiamò fondamento, poichè di qui la scienza del prezzo di tutte le cose, su cui la vita cristiana s' edifica. Il Cristianesimo dà ancora l' unità all' Educazione umana in un altro modo. Oltre renderla una coll' indicare il fine unico a cui debbe tutte le sue cure rivolgere, la rende una altresì collo spirito d' unità che nella medesima infonde. Perciocchè non si vuole già credere, che nella educazione basti l' insegnamento delle cose. Anzi tutta la forza di lei si spiega mediante due sommi precetti: 1 Che tutta l' istruzione morale sia condotta a pochissimi e generalissimi principii: 2 Che questi sieno infusi nell' uomo non in modo storico, ma morale; sicchè lo rechi ad operare consentaneo a quei pochi e risplendenti principii. E veramente la brevità e la pochezza delle sentenze, e quasi assiomi, dà più nerbo e costanza alle medesime, e fa l' uomo di carattere energico e solido. Nè ciò toglie punto all' integrità, nè alla vastità della scienza che si vuole comunicare, ma non fa che diffinire alcuni punti eminenti ed a piena veduta, i quali accennino in che luogo sia ogni strada e veicolo di quella quasi ampia città del sapere. Così egli avviene che le dottrine acquistino ordine e legame fra loro, che è quanto dire che acquistino quello spirito e quella vita che non risulta giammai da più membri divisi, ma sì da membri bene compaginati insieme, e composti in attitudine adatta, quasi direi, alle vitali funzioni. Egli è una scienza smembrata e positiva, in quel senso che positiva dicesi la materia, quella che invanisce l' uomo lasciandolo tuttavia ignorante; mentre sembrano molte le cognizioni da lui possedute perchè sono sminuzzolate e trite, se si può dire, cioè perchè non trovano un' idea grande spirituale che tutte le abbracci in se stessa, le congiunga, le unizzi. Il Cristianesimo adunque colla sua spiritualità, coll' ampiezza delle sue idee che travalicano ogni materiale ristringimento, spira per così dire l' anima nelle dottrine, v' infonde l' ordine , stringe le loro parti fra loro, ed ecco un altro modo onde questa religione divina porta nella educazione umana l' unità. E questo avviso seguiva Bossuet ispirato dalla Religione, quando ammaestrando il Delfino riduceva tutt' i suoi vari precetti a tre soli elementi fermati con tre parole, Pietà, Bontà, Giustizia: le quali parole per ripeterle ch' egli faceva dovevano suggellarsi, e quasi conficcarsi nel cuore e nella mente del suo allievo (1). L' efficacia poi con cui queste massime sono fondate in lui lo rende energico, di condotta eguale, e forte agli assalti degl' inganni e degl' ingannatori. Funesto vizio dei nostri dì, figliato da un' ampiamente diffusa superbia, è l' opinione, che basti sapere la massima per eseguirla, e ove l' hai detta se la ripeti e la inculchi, s' adonta ognuno che t' ode. Ma l' uomo ha la mente, luogo del vero, ha l' animo, sede degli affetti, ed ha intorno il corpo, ossia cotesta mole crassa, istromento dell' animo e della mente. Con la sola istruzione il precetto non va più là della mente; colla meditazione, onde si suscitano gli affetti, esso se ne viene al cuore e lo signoreggia; colle abitudini regolate esso si ripiega, dirò così, anche al corpo, facendolo pronto esecutore delle conseguenti azioni. La massima virtuosa vuole essere signora di tutto l' uomo, se ha da renderlo virtuoso: se essa non si manifesta che nelle abitudini corporee, è una pura materialità: se con sole le affezioni dell' animo, è la vana sensibilità priva di radice: se sta solo nella cognizion della mente, è la ridicola virtù filosofica sinonimo a menzognera superbia. E questo è il terzo modo onde la religione cristiana comunica unità alla educazione; cioè col chiamare ad unità tutte le potenze che si trovano nell' uomo, col volerle tutte ordinate fra loro all' unico fine, sì che armoniosamente e secondo la natura di ciascheduna si muovano insieme a conseguire o partecipare il sommo bene al quale l' uomo tutto è ordinato. Laonde, riassumendo, in tre maniere secondo l' intenzione e lo spirito del Cristianesimo vuole avere unità l' educazione degli uomini: unità nel suo fine , che è il principio stesso di ogni unità, ed il carattere essenziale dell' educazione cristiana; unità nelle dottrine , alle quali si fa applicare la gioventù o sia nel sistema degli oggetti della istruzione; e finalmente unità nelle potenze che debbon tutte venir penetrate, per così dire, ed attuate dalle apprese dottrine o sia unità nel metodo d' insegnamento. Consideriamo a parte ciascuna di queste tre specie d' unità , dalle quali solamente possiamo ricavare l' imagine di una educazione degna di popoli civili perchè cristiani, ed opportuna agli universali e pressanti bisogni dei nostri tempi. E già movendo dalla prima fondamentale specie d' unità penetriamo tutta l' altezza di quel concetto che dà la Religione nostra della umana Educazione. Poichè non essendo essa medesima Religione altra cosa se non la educazione che dà Iddio alla Umanità, certamente ella presta il primo, unico e sommo esempio di ogni altra vera Educazione: cioè qualunque educazione in cui qualche precettore o genitore allevi la gioventù sua, non vuole essere, secondo i cristiani principii, che imitazione del modo col quale Dio alleva gli uomini per la pietà, ovvero una applicazione, o (mi si conceda dire) una particolare attuazione di quella comune e divina Educazione (1). Fissando adunque la luce dell' intelletto ben addentro nella Religione possiamo ritrarre e conoscere il modo e la regola di cavare dall' uomo il male e innestarvi il bene, a che para qualunque Educazione. E qui debbe osservarsi l' errore e il difetto di ogni altro modo di allevare la gioventù. Poichè non è difficile rilevare, che la differenza fra lo spirito della Educazione cristiana, da quello della Educazione mondana, o come la chiamano ridevolmente filosofica , giace in questo che la Religione dimanda una Educazione intera , e il senno de' mondani si appaga di una Educazione smozzicata e imperfetta. E avviene questo appunto per la natura di quell' unico fine che propone all' uomo l' Evangelio; perocchè questo fine, Iddio, è così grande che è infinito, e perciò rinchiude in se stesso tutte le cose; egli è quell' idea così generale di che l' universo intero non forma che una imperfetta espressione; egli è quella vita così potente, da cui quanto vive succhia, quasi direi, tutto ciò per cui vive; egli è quell' essere così assoluto, onde ogni altro essere pende, e nulla può avere esistenza se non in quanto a quel primo assomiglia: per lui solo finalmente esiste il tutto, a lui tende il tutto, con lui si spiega e si rischiara il tutto alle innumerabili intelligenze. Egli è dunque conforme alla natura del Cristianesimo di pigliar sempre a norma in tutte le cose sue quel principio, che il bene nasce da causa intera, e il male da qualunque minimo difetto. E ciò posto, per vedere alcun bene nell' uomo, come sarebbero alcune buone qualità di suo corpo o di suo spirito, agilità della persona, sanità delle membra e vigorìa, ovvero molta suppellettile di cognizioni, e vivacità d' ingegno e prontezza, la Religione non ancora punto se ne loda, nè se ne piace: ma considera se tutte queste separate qualità e pregi sieno per modo tale ordinati nell' uomo che a lui veracemente giovino, e che il rendano più perfetto nel tutto. Il mondo all' incontro, o la così detta filosofia, si applaude e trionfa di qualunque pregio e qualità separata vegga risplendere nel suo allievo, e dimenticando di considerare i difetti, di vedere come quelle qualità stieno fra loro disunite ed in combattimento, come, apportando d' un lato alcun bene, accrescano dall' altro molti mali, s' inganna ed illude, e pensa d' essere la generatrice di uomini grandi, mentre n' è la guastatrice, e la produttrice non di giuste forme, ma di mostri. Nel quale fatto, chi sottilmente mira, vedrà che ciò segna grande debilezza d' intendimento e lume d' intelletto falso perchè troppo piccolo, cioè perchè non capace a vedere il tutto della cosa. Simile a questo sarebbe l' errore di quei meccanici i quali occupati in ciascuna ruota, o molla, o anello particolare, non considerassero l' effetto totale della macchina, e venissero in così matto pensiero, che riputassero dover esser tanto più rara macchina quella che costruiscono, quanto le ruote, le molle, gli anelli fossero di più forza e maggiori, senza avere nessun rispetto alla proporzione vicendevole, e a quella mutua azione, che comunicata e unita insieme per un certo temperamento e ordine nel quale ad un tempo tutto si muove, confluisce a quell' effetto unico a cui la macchina è ordinata, e senza cui non varrebbe nulla, ancorchè i suoi ingegni particolari avessero mille pregi in se stessi, e, se vuoi, fossero d' oro e gemmati e grandi a piacimento. E questa fiacchezza di mente, che prostra quello spirito vanaglorioso del mondo vantatore di tanto avvenimento, la quale non giunge giammai a rallargarsi e considerare le cose nel loro totale, ma le considera sempre l' una partita dall' altra, e in questa piccolezza di vedere sempre finisce e si chiude, nasce per fermo (chi considera l' origine della cosa) dal disordine degli affetti. Poichè questo è certo effetto delle affezioni, tirar via tutta la nostra mente dalle altre cose e occuparla solo nell' oggetto del nostro amore o dell' odio: di cui avviene che quegli che ha troppo affetto ad alcuno oggetto particolare si fa cieco a tutti altri non per meno di naturale vigorìa d' intendimento, ma per iscemo di attenzione. Di che agevolmente si spiega come gli stessi angeli perspicacissimi e d' intendimento acutissimi potessero errare a tal segno le ragioni delle proprie forze, che volessero tenerla contro Dio: non già perchè, se avessero voluto posatamente prestare attenzione alle forze divine e alle loro, non n' avessero sentita la improporzione e inteso chiaro quanto l' esito del loro combattimento doveva essere infelice, e però non tentabile: ma fu perchè la passione della propria eccellenza sì fattamente li prese ed accecò che si ristrinsero a contemplare se stessi, e la grandezza di Dio più non misurarono. Ed in questo modo anche l' uomo il più intelligente s' abbaglia ed oscura, e si fa male accorto, stupido, vero ignorante. Di che sta il germe nella stessa limitazione della natura, che si abbandona a se medesima (1); quello cui toccò Paolo in quelle alte parole: « « Quando sarà venuto ciò che è COMPLETO, si manderà fuori ciò che è PARZIALE » » (2). Di questo modo si concilia quella contradizione che appare ne' sofisti di questo e di tutti i secoli, dei quali alcuni mostrano grande vigore d' ingegno, ed insieme appaiono pieni d' ignoranza. Nè con questo vengono per noi condannati gli affetti: ma come abbiamo distinta la scienza di questo mondo e quella di Dio da ciò che quella di questo mondo si limita ed impicciolisce nei particolari, mentre quella di Dio o della Religione mira il complesso delle cose e l' affetto del tutto; così parimenti tengono lo stesso modo gli affetti di que' falsi sapienti e dei veraci. Que' falsi sapienti consumano i loro affetti nelle cose particolari, ristringendo tutta la possa del loro cuore ad alcuni oggetti, e però sconoscendo ed odiando tutti gli altri, e fissi a que' particolari, quasi a caso poscia trapassano e trabalzano, per così dire, sopra altri qui e qua confusamente: laddove gli affetti dei savii veraci, cioè dei cristiani, sono sgradati in bell' ordine sopra le cose tutte, che tutte insieme le considerano, e distribuiti alla misura del loro rispettivo valore, pesando il valore delle cose singole colla ordinazione loro agli scopi generali, e gli scopi generali sottomettendo all' universalissimo, il quale è loro bilancia unica, e però non mai variabile: di che viene la loro costanza e sicurezza d' animo e d' intendimento. Intima è dunque questa relazione della mente e dell' animo, degli affetti e delle cognizioni: e quelli e queste sono soggetti allo stesso ordine, e partecipano delle stesse imperfezioni. Laonde non è maraviglia se i savii della terra sono così parziali negli affetti come nelle cognizioni: negli affetti, abbandonati a se stessi, sono tirati qua e là dagli accidenti, s' avventurano ad ogni lusinga, non temono, non disaminano, correnti al laccio di ogni passione, cui non essi prendono, ma da essa son presi: nelle cognizioni ammettono e rigettano quelle che loro più piacciono ovvero dispiacciono: quelle che più s' accordano co' loro affetti, o che con essi discordano: ed a capriccio contraffanno nelle vane loro imaginazioni la incommutabile verità. I savii cristiani all' opposto reputano, che quanto sta fuori di loro sia fornito di cert' ordine fisso, immutabile, dipendente dalla prima cagione e non dal loro arbitrio: al quale ordine gli uomini sono tenuti di conformare la loro mente, se vogliono partecipare della verità, e di conformare il loro cuore, se vogliono godere della pace. Non è la verità l' opera della umana intelligenza; ma la intelligenza è l' opera della verità (1). Però a qualunque cosa loro si presenti danno quell' affetto, il quale ella merita, considerata nella sua relazione con quel tutto che hanno sempre innanzi agli occhi: però il loro affetto lungi dal turbare il loro intendimento, o dall' affaticarlo, procede con quello a sì bella concordia, che l' affetto stesso al vero intendimento delle cose quasi li manuduce. Ecco dunque in questo ragionamento indicato il supremo principio della buona Educazione cavato dallo spirito di verità proprio del Cristianesimo. Questo principio o scopo ultimo della Educazione viene ad essere il seguente: SI CONDUCA L' UOMO AD ASSIMIGLIARE IL SUO SPIRITO ALL' ORDINE DELLE COSE FUORI DI LUI, E NON SI VOGLIANO CONFORMARE LE COSE FUORI DI LUI ALLE CASUALI AFFEZIONI DELLO SPIRITO SUO. Questo principio è altamente radicato nella natura dello spirito dell' uomo, che io rassomiglierei ad uno specchio atto a ricevere l' imagini delle cose e di tutte ornarsene. Coll' atto del suo intendere egli non dà, ma riceve; egli è interamente passivo rispetto alla verità, come la verità è meramente attiva rispetto a lui: la sua mente non crea qualche cosa, ma più tosto viene in essa qualche cosa creata quand' essa intende: l' azione della prima verità sopra di lui è ciò che forma la sua intelligenza: l' azione degli altri esseri è ciò che produce le sue cognizioni (1). E nel medesimo tempo tal principio si appoggia e fonda in quest' altra verità che le cose fuori dell' uomo, pigliate così in cumulo, com' io ora le piglio, sono più possenti di lui: sicchè egli per necessità dipende da esse, come esse non dipendono da lui. E però quando egli vorrà uniformarsi e accordarsi ad esse, egli troverà pace; ma se egli vorrà pretendere che le cose si adattino e si acconcino alla forma sua, egli come di matta opera e impossibile, ne caverà guerra perpetua e sconfitta, e continuo dolore che il farà misero. Ora qui sta a vedere quale sia l' ordine delle cose fuori di noi per aggiustare a quelle le menti e gli animi, di cui si studia la cultura. E anche in ciò differisce dallo spirito male avveduto del mondo quello del Cristianesimo. Poichè lo spirito del mondo o togliendo dalla natura Dio, o a lui non pensando, o pensando mozzamente a quello che gli convenga, non può concepire la grande unità e semplicità dell' ordine di tutte le cose; ma introduce in esse il disordine e lo scisma. All' incontro i cristiani camminando al giorno della fede vedono colla mente loro tutte le cose composte in un ordine solo risplendente di mille pregi, ma accolti tutti in perfettissima unità, mirando alla quale non è lor conceduto giammai di limitare i pensieri fermandoli dal loro corso in qualche oggetto sparso in sulla via che percorrono, ma sono costretti a portarli d' un tratto quasi con rapidissimo volo all' ultimo anello della catena di tutte le cose, alla ragione ultima, a Dio. In quest' ordine perfettissimo, perchè recato alla perfetta unità, noi consideriamo come essenziale e necessario questo gran principio e fondamento di tutto l' ordine, come quello che lo origina, assegnando a tutte le altre cose il loro posto, la loro forma, il loro inclinamento, e all' incontro consideriamo tutte le altre cose particolari come accidentali all' ordine, cioè come quelle che partecipano bensì l' ordine e in questo modo vengono ordinate, ma che non l' hanno in sè, che non ordinano. Quello che ordina adunque tutte le cose, e perciò anche lo spirito dell' uomo quasi specchio come dicevo delle cose, non può essere altro che il Signore e formatore delle cose tutte; di che nasce un altro principio della buona Educazione, che può esprimersi così: NELLO SPIRITO DELL' UOMO LA COGNIZIONE E L' AMORE DI DIO DEBBE INTRODURSI COME ESSENZIALE E NECESSARIO; LA COGNIZIONE E L' AMORE DELLE ALTRE COSE COME ACCIDENTALE: DIO COME PRINCIPIO ORDINATORE DI TUTTE LE ALTRE COSE, E LE ALTRE COSE COME QUELLE CHE DEBBONO DA LUI RICEVERE LA ORDINAZIONE. Si debbe osservare come questo principio sia generale: egli abbraccia tutte le cose, egli le ordina; e nessuna parte dell' educazione sfugge ad una regola così estesa, ma tutto ciò che può essere argomento d' istruzione riceve da essa il suo vero indirizzamento: e per essa s' impone al savio educatore, che fino da' primissimi avviamenti s' abbia posto innanzi tutta la tavola o il disegno compiuto dell' opera sua, o almeno che come savio navigatore, fino dallo sciogliere, sappia il porto a cui gli bisogna approdare. Di questo stesso principio poi non difficilmente apparisce come quella Religione che il pose sia divina, perciocchè agli uomini tutti divinamente amica e benefica; il contrario di ciò a cui mena lo spirito di coloro, che insozzano fino le parole che usurpano, e che hanno sì vilificate le bellissime voci di filosofo e di filantropo. Poichè in quel principio ponendo come accidentali tutte quelle cose che tutti gli uomini non possono avere e possedere egualmente, come neppur le cognizioni naturali, e ponendo il solo possedimento di Dio essenziale alla umana felicità e perfezione, viene aperto l' adito di questa a tutte le condizioni e maniere di uomini, ciò che tanto bene si conveniva al padre di tutti gli uomini. Si mettano adunque nell' animo degli allievi, come sovranamente benefiche e umane, e apportatrici della amicizia, e rimovitrici delle mondane e filosofiche diseguaglianze, e consigliatrici della umiltà ai più grandi di cotesta terra, quelle parole alte, e divine dell' Evangelio: «PORRO UNUM EST NECESSARIUM » (1). Uno è il necessario: e di quest' uno si può beare e ingrandire il minimo della terra, sì come il massimo, quest' uno è vietato solo all' orgoglioso sofista, perchè quegli che reputa di sapere assai, sia riconosciuto l' unico ignorante, e chi presume essere l' ordinatore delle cose, sia privato ancora della partecipazione dell' ordine. E qui non è ancora il tutto. Il lume della nostra religione si spande vie più largamente nel nostro intelletto. Non si contenta di mostrarci in che ordine noi dobbiamo concepire disposte tutte le cose, se non ci apre altresì il modo nel quale il nostro spirito può aggiustarsi compiutamente all' ordine risplendente nelle medesime. Conoscere Dio qual sommo principio regolatore di tutte le cose, e conoscere che dipendenza abbiano queste dal medesimo, com' egli sia necessario, e tutto il resto opera sua, arbitraria, ed accidentale, come però tutto voglia essere rivolto a lui, e come tutto, quando è congiunto e ordinato a lui, consegua perfezione e ordine, è cosa a cui giunge anche il nostro naturale ragionamento; già mosso e svegliato dai raggi della cristiana Religione. Quello a cui fare non giunge virtù naturale di nostro spirito è a vedere il modo secretissimo, onde può l' uomo venire a cotesta perfezione che abbiamo descritta, in cui domini nel suo intelletto e nel suo amore Dio con quello stesso imperio assoluto e con quella piena supremazia onde domina nella natura. Qui è dove la Religione dischiude il suo grande arcano, apre i suoi tesori reconditi a tutto il senno naturale, e spiega la magnificenza di una sua nuova creazione. Qui primieramente essa narra all' uomo un gran fatto, la caduta morale di tutta la sua specie avvenuta nello stipite. Passa con volto irato a pronunciare una sentenza ineluttabile di morte contro all' uomo il quale ravvolge nella propria rovina tutta la natura; giacchè debb' essere per quella terribil sentenza tolto, distrutto, annullato tutto insieme il grande sistema di cose fondato da Dio nella natura di Adamo, e in tutto quello che era fatto per essa. L' esecuzione della inevitabile sentenza è tuttavia sospesa. Questo breve indugio è ciò che presta luogo ad una tutta nuova ordinazione di cose: la quale lasciando intatto il decreto della distruzione di tutto l' ordine primitivo, e lasciando che la terra si trasporti via come una tenda di pastori, e che i cieli si mutino come un vestimento, consegue però che tutte le cose di quel primo sistema, che dirò il sistema del sensibile, dopo la loro distruzione ritornino alla vita; ma non più come principali parti del nuovo sistema, ma come accessorie, inservienti a questo sistema nuovo infinitamente maggiore del primo. Come nel primo avrebbero dovuto gli uomini partecipare della perfetta natura del comun padre che veniva loro comunicata per mezzo della naturale generazione; così nel nuovo, un uomo che non aveva ricevuto la natura corrotta di Adamo per mezzo della generazione ond' essa si propaga, ma che aveva ricevuto questa natura per mezzo di una nuova formazione, opera immediata dello spirito divino, doveva essere egli nuovo capo e stipite di tutti quegli uomini che verrebbero da lui propaginati per una generazione intatta dalla carne e dal sangue, ma tutta spirituale, opera di quello stesso spirito, che formando il suo corpo nel seno di una figliuola di Adamo, aveva rifabbricata l' umana natura, o più tosto, come ape che trae miele da fiore velenoso, cavatala dalla vecchia, a cui era stato non condonato, ma differito l' eccidio. Questo nuovo Adamo fino dal primo istante di sua esistenza, non fu già abbandonato a se stesso, anzi confirmato in grazia, riempiuto dei tesori della scienza e della sapienza di Dio, congiunto in una persona colla divinità. Per cui potè dire, alludendo al suo nascimento non fatto secondo la legge della umana generazione, ma da una vergine in modo divino, quelle parole preparategli da un profeta: [...OMISSIS...] . E questo nuovo fonte, questo nuovo stipite del genere umano, impervio a' corrompimenti, rafferma la seconda famiglia che da lui si deriva, acciocchè non tema la corruzion della prima. Perciocchè dipendendo tutta la sostanza e la essenza della umana specie dal ceppo, rassicurato questo che non si corrompesse, come avvenne al primo, era rassicurata e saldata tutta la specie: conciossiachè il guasto di qualche fogliuzza, o il taglio di qualche ramoscello non distrugge giammai la pianta, quando rimane pieno di virtù e di vita il pedale. Ora questo secondo ceppo della nuova generazione degli uomini divino ed umano, anzi Dio e Uomo, aveva in sè infinito valore e merito da solvere il debito contratto con Dio dalla prima natura umana, al cui pagamento era stato accordato un respiro, anzi di più aveva merito in sè da compensare a Dio il dono di questa mora conceduta al pagamento; la quale non sarebbe potuta convenire colla giustizia di Dio; quando Dio non avesse scorto di doverne venir compensato, e scorto che ne verrebbe compensato soprabbondantemente. Questo sublime misterio pertanto, disvelamento e confusione della nostra ingenita superbia, ci mostra tutta la famiglia degli uomini considerata da Dio come una cosa sola, e presa, nel consiglio delle sue divine ed eterne ragioni, in solido (3), e questo sì nell' ordine della natura costituito in Adamo, che nell' ordine della grazia fondato in Gesù Cristo, e ci dice con sentenza, ove sta un abisso di lume, che come nell' ordine primitivo noi non potevamo conseguire la perfezione della nostra natura, se non per via della generazione naturale di Adamo, così nell' ordine succeduto a quello noi non possiamo conseguire la perfezione della nostra nuova natura, o sia della grazia, se non in virtù della generazione soprannaturale di Gesù Cristo, nel quale sono state rinnovate tutte le cose. Debbesi adunque nella educazione degli uomini aggiungere, al sopra esposto, questo altro principio, il quale contiene il modo o il mezzo, per cui quanto propone quel primo si consegua, cioè per cui quasi direi cadano sopra il nostro spirito i raggi della verità delle cose, e vi si riflettano; vi si rifletta Dio come ordinatore di tutte le cose, e le cose come ordinate. LA NATURA PRIMITIVA DEGLI UOMINI NON PUO` ESSERE RIPARATA SE NON DOPO LA SUA DISTRUZIONE: E OGNI ASSIMILAMENTO IN NOI DELL' ORDINE DELLE COSE, CIOE` OGNI NOSTRA PERFEZIONE, NON SI PUO` IN NESSUN ALTRO MODO CONSEGUIRE, CHE NELL' ORDINE NUOVO DELLA GRAZIA, CIOE` INCORPORATI A GESU` CRISTO. Per le quali cose s' adagia quaggiù la pietà della Religione sì per l' unico necessario , a tutti aperto, che stabilisce; come per l' unico modo di conseguirlo a tutti egualmente comune, anche spregiati, e li consola; e dice negli orecchi e nel cuore di coloro che non possono ricevere l' Educazione de' palagi e delle reggie, ma quella della stalla e del solco, ch' essi hanno ond' essere sì perfetti uomini, sì felici e, può essere, vie più ancora di tutti i molti invidiati, a cui sono appagate mille curiosità, e data tutta quella erudizione che gli uomini ammirano, e mettono in conto di egregia fortuna. Ma la stessa Religione poscia condiscende ai bisogni ed alle infermità della non adulta e perfetta natura umana. Ella sa bene, che l' uomo in questa vita, dove il considera come sempre fanciullo, non può essere col suo spirito attuato continuamente nel solo Dio, e però tempera il gran precetto di dovere sempre orare e vegliare in sì dolce modo, che non divieti l' uso delle cose umane, degli amminicoli necessari a questa povera vita, nè altresì delle cognizioni intorno alle opere di Dio, quando però queste cose nell' animo dell' uomo tengano continua soggezione e avviamento a quel solo fine di tutte le cose, per quell' unico mezzo. E lo stesso disporle sotto di lui e per lui, c' insegna che è un onorarlo, e adorarlo, e invocarlo. Qui dunque s' intende primieramente esser dalla dottrina della Religione concedute all' uomo tutte le altre parti della Educazione, oltre quella dello spirito, e come necessarie da essa approvate e commendate, ma nel medesimo tempo accortamente indirizzate. Nelle quali parti della vita dell' uomo per questo medesimo apparisce, che la Religione distingue quello che è necessario per l' acconcio mantenimento di questa vita, da quello che non è necessario. Quello che è necessario lo pone come suo naturale precetto considerato qual mezzo bisognevole a quel preclaro fine a cui il Signore ha formata la vita presente, precetto, come si vede, relativo e non assoluto, cioè non venuto da pregio che abbia in sè la vita, ma da pregio di quel fine stesso a cui la vita è volta. In quello che non è necessario la Religione piena di condiscendenza e di dolcezza pone certo spazioso e dilettevole campo alla umana volontà. E dove finisce il precetto ivi comincia il consiglio di quella Religione, che non si riposa se non vede condotti alla piena loro statura i suoi avventurati figliuoli; a ciascuno de' quali torna tanto di consiglio in precetto, quanto di lume spirituale ad esso è largheggiato. Dove s' aprono le bellissime sollecitudini della cristiana Carità. La quale non contenta che l' uomo nel suo spirito accolga l' ordine perfetto delle cose, e nel principio di quest' ordine si rallegri e si beatifichi, il persuade ad adoperarsi ancora perchè tutti gli altri suoi simili vengano a parte della stessa avventura, e anche a loro sia data la perfezione. Così la Religione perfeziona l' uomo coll' empirlo di gioia, di quella gioia che ritrae dal sommo principio dell' ordine: e questa gioia cerca diffondere immensamente, e così produce l' amore. Che se nello stato primitivo della incorrotta natura umana la religiosa benevolenza si sarebbe adagiata più tosto nella compiacenza della comune felicità, e l' occupazione dello spirito nello studio delle cose create sarebbe più veramente rimasto un arbitrario diletto; nella condizione all' incontro in cui si trova l' uomo presentemente, il toglie da ogni ozio, e lo stimola ad una operosa azione non solo in beneficio di se medesimo, ma in beneficio di tutti, coi quali è sortito a comune natura e scopo. L' uso adunque di tutte le cose fuori della divinità, e però le cognizioni di tutte quelle cose, vogliono essere adoperate a condurre la umana gracilità passo passo alla robustezza riposta nella congiunzione con Dio; facendo esse a lui quel servigio che a' fanciulli, i quali non hanno ancora appresa l' arte dello stare ritti in sulla persona e camminare spediti, fanno gli appoggi da' lati e l' assistenza delle guidatrici. Di cui viene un altro principio grande e fondamentale di tutta la umana Educazione, il quale insegna a regolare gli abiti che si vogliono fare apprendere, e le cognizioni che si vogliono dare di tutte le altre cose fuori di Dio, e che suona così: SI DIA LA COGNIZIONE DI TUTTE LE COSE, PERCHE` SIA ADOPERATA TANTO QUANTO ABBISOGNA LA PROPRIA DEBOLEZZA E IMPERFEZIONE PER ANDARSENE A DIO, E QUANTO PUO` GIOVARE ALLA INFERMITA` DEGLI ALTRI, ALLA QUALE VUOLE LA CARITA` CHE SI SOCCORRA (1). Questo principio suppone, come apparisce, che l' uomo quanto viene maggiormente perfezionandosi, cioè sollevandosi a Dio, tanto meno abbia bisogno di sostenere la infermità sua colle cose umane, e questo vero splende manifestamente nella vita de' più perfetti rivolta sempre a segregarsi quanto è loro più possibile da tutte le sensibili cose. Ed ancora questo principio pone come dovere nostro, che non diamo ricreamento e conforto alla nostra umanità dalla vaghezza o coattitudine dei terreni oggetti più di quello che richieda la nostra imperfezione: e non vogliamo impacciarci con essi oltre questa misura sotto il pretesto, che tutto può essere rivolto in bene: mentre il solo uso di quelle cose per la loro naturale acconcezza a dilettarci è un indugio alla rapida corsa verso il fine che ci è proposto. E la dottrina di questo successivo lume crescente nelle menti cristiane, e di questo scemamento della necessità di naturali ricreazioni si comprende in quelle maravigliose parole di Paolo: [...OMISSIS...] (1). Ma nel medesimo tempo, che quel principio nega o limita a noi medesimi l' uso e lo studio delle creature, suscita in noi un infinito ardore, e genera una infinita attività e una infaticabile energia per soccorrere collo studio e colla pratica delle medesime alla infermità maggiore o minore di tutti gli altri. Di che viene la purissima sorgente di quel travaglio, che pone il cristiano nelle cose umane. Questa sorgente non è la vana curiosità degli uomini mondani, o la vana speranza di riposare in quelle cose quasi in veraci beni l' animo loro, che ben sanno non avervi in quelle alcuna cosa che ristori, anzi che non affatichi e prema quello spirito eccelso che vive in cuori divinizzati: questa sorgente è la carità de' nostri simili, sorgente fecondissima di studi e di azioni, e di giammai finiti magnanimi movimenti. Epperò nel suesposto principio è la ragione della sentenza che scriveva Paolo a que' di Filippi: [...OMISSIS...] . Ecco come apre la Religione l' adito alla instituzione de' giovanetti in tutte quelle cose che apprezza il mondo e commenda, e che sono alla vita presente o necessarie od utili. Ma ecco da che diverso lato venga all' inculcamento di questa instituzione in tutte le lodate industrie la Religione, e da che diverso lato venga a questo il mondo. Ecco da che profonda origine la Religione cristiana tragga questa sentenza, che il mondo propone così superficialmente, e o senza ragione, o per la sola ragione del suo ammorbato istinto. Ecco radici profonde e salde che dà essa Religione a tutti i nobili studi e alle lodate occupazioni; mentre il mondo viene a farle crescere senza radici, e senza suolo fermo, per così dire, ove si abbarbichino, e posino: di che a lungo processo di tempo la coltura del mondo debbe quasi incattivire e tralignare in barbarie, e quella radicata nella pietà maturare a più squisito ricolto. E queste cose tutte senza fasto di parole, ma con ogni semplicità, brevità, ed altezza, ci aveva già il Maestro divino insegnate con quell' impareggiabile comandamento: [...OMISSIS...] . Il primo di questi precetti segna l' ordine che debbe tenere lo spirito dell' uomo rispetto al Creatore, il secondo l' ordine che debbe tenere rispetto alle creature; e con ciò è dato regolamento a tutte le cognizioni ed all' uso di tutte le cose. E questa sapienza medesima fu sempre lo spirito della cristiana educazione, cominciando dai primi discepoli fino al presente Sommo Sacerdote della nostra Religione, che pose queste stesse parole in capo a tutto il regolamento degli studi da lui poco fa pubblicato (2). E tutti quelli che hanno carico della educazione dovrebbero imitarlo, e dar questa radice agli studi. Egli dovrebbe essere scritto questo fondamento della umana felicità e sapienza in sull' ingresso di tutte le Università, e di tutti i luoghi dove si alleva la gioventù, se ne fosse degna la leggerezza di cotesto mondo che s' annoia di tutto ciò che gli sia di frequente ripetuto: nè solo il proprio carattere ma il carattere comune degli uomini espresse quell' Ateniese che dannò Aristide coll' ostracismo per la noia d' udirlo sempre appellato giusto. E che questo precetto della carità si debba adempire tenendoci incorporati al nostro mediatore, l' abbiamo da lui medesimo quando ci disse, il precetto della Carità fraterna non esser d' altri, ma proprio suo; e quando il chiamò nuovo , e non più udito al mondo, benchè fosse stato intimato da Mosè: [...OMISSIS...] ; cioè in virtù dello spirito, che secondo la legge della generazione spirituale da me solo viene comunicato. E s' osservi come nel semplicissimo precetto della carità, che forma l' anima, per così dire, di tutto il Cristianesimo, sieno già indicate e comprese tutte le specie di unità di cui debbe esser fornita la perfetta educazione. Perciocchè in quelle semplicissime parole de' precetti della cristiana Carità non è solamente assegnato il fine di tutte le cognizioni, il quale ordina le stesse cognizioni; ma ben anche è richiesto, che quest' ordine morale che ricevono le cognizioni tutte dal supremo fine a cui è necessario che vengono indirizzate, penetri tutto intiero l' uomo; giacchè in quelle parole non s' ingiunge solo di conoscere, nè solo di amare, ma di operare altresì: perchè con tutto il cuore , con tutta l' anima , e con tutte le forze , cioè con tutto l' uomo, e con tutta la vita sua (2) si vuole onorato ed amato Iddio. Da quanto è fin qui detto apparisce in che differisca principalmente lo spirito della educazione antica, il quale veniva dagli ecclesiastici e però procedeva da' sensi della Religione cristiana, dallo spirito della educazione moderna il quale in gran parte trasse dai novatori non solo laici ma irreligiosi. Lo spirito della educazione antica tendeva all' unità degli oggetti, perchè tutto riduceva, come a un solo fine e principio, a Dio: lo spirito della educazione moderna all' opposto tende alla moltiplicità degli oggetti, perchè considerando le cose naturali e sensibili senza riferirle alla loro cagione primitiva, esse si disgregano e spargono fra di loro; e l' essere disordinate è ciò che le moltiplica (1). Lo spirito è semplice e riduce tutte le cose che si considerano in ordine a lui ad unità: la materia è composta, e considerata sola è subbietto di divisione. Nè io sono qui per contendere a cotestoro quel vanto, che fatto da uno di essi, esprime l' intendimento di tutti, cioè che il loro spirito attendendo alle cose materiali, e a queste attaccando l' affetto loro, promuove l' uso di queste cose per il bene della presente vita (2). Pur troppo i figliuoli di questo secolo sono nella generazione loro più prudenti, cioè più sagaci nel ritrovare que' mezzi che possono essere a' loro scopi opportuni, di quello che sieno i figliuoli della luce (3); ma sgraziatamente non vale la loro sagacità, poichè con nessuna sagacità o prudenza si può rinvenire quello che non è nella natura: con nessuna sagacità o prudenza si può rinvenire nelle cose sensibili appagamento. Indarno dunque le passioni più violente diventano ministre di un accorgimento diabolico: indarno il figliuolo delle tenebre schernisce la freddezza, l' inerzia, e il poco spirito dell' uomo fedele al Signore: quegli va finalmente a perdere e questi a vincere: è la bontà stessa della causa che dà a questo secondo un compiuto trionfo, e che dimostra che le forze umane non valgono a mutare la verità o la natura delle cose, e che tutto l' avvedimento, tutta la possibile attività, giunga pur anco al furore, finalmente svanisce, se l' uom non venga aiutato dalla natura della cosa che imprende, cioè da una forza fuori di lui (1). Laonde non ci farà nessuno inganno alla mente il celere promuovimento avvenuto nei tempi recenti di tutte le arti ed industrie meccaniche o materiali, che riguardano gli usi della presente vita. Poichè mentre da una parte mi si dimostrano accresciute quelle cose, dall' altra mi si fanno innanzi gli uomini più irrequieti e infelici (2). Ma omesso ancora questo, ciò che forse mi sarebbe facile di dimostrare fino all' evidenza, non mi sembra in vero spregevole dimanda per l' amico degli uomini quella, se sia più utile sapere molte cose separate, e le une dalle altre sconnesse, ovvero se più giovi saperne meno, ma collegate a perfetto ordine: o, il che torna a un medesimo, se si debbano prezzare più le cognizioni dal loro numero, ovvero dalla scelta e qualità loro (1): e credo che qualunque assennato non dubiterà che il valore della scienza per l' umana felicità sia riposto maggiormente nell' essere cognizioni compiute ed elette, che nell' essere molte. Ciò non ostante concediamo che per quel limite che ha ricevuto dalla propria natura il nostro spirito, quanto più attende ad una cosa, tanto sia minore ad un' altra: concediamo perciò che quegli il quale attenderà maggiormente a porre l' ordine nelle cognizioni sarà più tardo ad accrescerne il numero, e viceversa, chi studia la moltiplicità delle medesime più difficilmente conseguirà l' ordine. Di questo si spiegherà come lo spirito moderno abbia potuto accrescere le arti che risguardano l' universo materiale nel tempo che ha distrutte, imbarbarite, e confuse le scienze che riguardano l' universo spirituale, la Filosofia e la Teologia, lo studio dell' Uomo e di Dio. Nelle quali scienze anche quel poco che ha studiato fu un guasto, perchè v' introdusse dottrine materialistiche, incapaci di levarsi ai concetti dello spirito: e volle portare anche in esse quella divisione del lavoro che frutta mirabilmente in tutte le arti risguardanti la materia per la divisibile natura di questa, ma che è al tutto opposta alle scienze degli spiriti, la cui natura consiste nella semplicità e nella indivisibilità. Tuttavia potrei ancora mostrare, che i maggiori avanzamenti di quest' arti meccaniche non sono già dovuti a coloro che si vanno nella strada opposta alla Religione (1), e potrei mostrare che senza le scienze dello spirito con brevissimo ripiegamento gli uomini verrebbero a struggere quell' arti medesime, di cui si vantano autori per non so quale contrasto delle medesime arti e degli stessi uomini troppo insopportabili a se medesimi. Ma mi contenterò più tosto osservar solamente come lo spirito della pietà, il quale primieramente ingiunge ordine alle cognizioni ponendo il principio di quest' ordine in Dio, viene ben presto a commendarne la moltiplicità, o sia ad eccitare ancora i variati studi delle arti materiali, dando all' uomo per istimolo acutissimo a tali industrie la vicendevole Carità. Ed è solo il difetto nella prima natura umana, se non luce ovunque di questa dolcissima carità tutta la potenza. Ma dove la considereremo in generale com' essa è diffusa ne' membri del regno di Dio, troveremo che non si dà passione alcuna la quale possa essere più veemente, forte, vasta, inflessibile di questa, e che più nella umanità abbia posto di vita e di energia (2). Il perchè se l' uomo da se stesso è così scarso di naturale vigore che espandendolo dirò così in estensione, gli manca poscia da profondare, e ponendosi in molte cose umane è tenuto indietro dallo studio di quell' ordine che a quelle ne viene coll' introdurvi la divinità: supplì a questo la stessa bontà divina, accrescendo con questa novissima e potentissima passione della carità le forze umane, e per essa creando nell' uomo un altro uomo maggiore del primo. E di nuovo, se la Religione incoraggia tutte le scienze e le arti, anche quelle ch' hanno per iscopo gli onesti godimenti di questa terra, non è però ch' ella abbandoni giammai l' unico principio a cui le richiama, e col quale quasi con timone tutte insieme ad un solo termine le governa. Il perchè questa ampiezza e moltitudine di cognizioni dalla Religione promossa e voluta, non si ferma a ragunarle insieme schierandole, quasi direi, l' una appresso l' altra materialmente, e nè pure s' appaga solo di raggiunger ciascuna con quella prima scienza della pietà. Ma lo stesso spirito di ordine e di deduzione dallo spirito della nostra Religione s' insinua e s' innoltra anche nelle scienze inferiori fra di loro, ed insieme le collega e raggiunge quant' è più possibile strettamente; sicchè la vera e cristiana idea di una enciclopedia, se con questo greco nome si voglia chiamato il corso di tutte le cognizioni umane, non sarebbe già limitata ad un semplice rammassamento di esse cognizioni in forma di vocabolario; ma ad una distribuzione e colleganza fra esse, secondo i loro naturali e legittimi vincoli. Questo stesso regolamento ed intrecciamento è desiderato in quella dirò così minore enciclopedia che formar debbe la scienza peculiare di alcun uomo venuto a compita educazione, il disegno della quale conviene all' educatore di avere innanzi agli occhi fino a principio come al dipintore i cartoni del quadro. Si può dire esser questo troppo arduo alla maggior parte degli educatori. Ed io concedo che i più fanno l' opera loro in parti, e senza disegno fisso danno, per così dire, de' tratti e delle pennellate e conducono quasi a caso il lavoro. Ma di qui appunto la principale imperfezione in cui si tiene ancora l' arte dell' educare. E non vedo che possa essere sperato di più se non da rarissimi e mirabili precettori, quando a dilineare il disegno di una tale educazione non concorra l' opera di molti, ed il senno e la mano di chi è incaricato dalla Provvidenza a procacciare il bene della cristiana società. Può essere messo in questione, come fu messo per molti, se l' educazione pubblica si debba anteporre alla privata, o la privata alla pubblica. Tutte due hanno loro vantaggi particolari, nè può l' una all' altra comunicarli. Secondo mio parere queste due dovrebbero cospirare in uno medesimo, non parendomi sufficiente l' una o l' altra sola all' educazione umana nella sua perfezione considerata. Ciascun uomo ha qualche cosa di comune con tutti gli altri uomini, cioè la natura e i fini a cui è destinata questa natura: ha delle altre cose comuni co' suoi connazionali, cioè il carattere nazionale, e i negozii della nazione: ha qualche cosa di comune co' membri della propria famiglia, cioè la schiatta, e dalla schiatta molti nativi impulsi, eredità di tradizioni, e tutto lo stato suo, e gl' interessi della casa. Finalmente qualunque uomo ha qualche cosa di segregato e di proprio, il temperamento, il genio, il fine dell' individuo. Queste quattro qualità e disposizioni dell' uomo hanno dato per mio avviso origine a quattro sistemi di educazione: a cui si possono ridurre tutti gli altri, perchè tutti convengono colle loro intenzioni e scopi nell' uno o nell' altro di que' primi quattro, o medesimamente in più d' uno di quelli. E tali quattro sistemi partiti secondo la parte dell' uomo alla coltura della quale direttamente si rivolgono, sono i seguenti. Alcuni posero per ottima certa educazione che essi chiamarono cosmopolitica , la quale mette per base l' uomo cittadino di tutto il mondo: bella sentenza, se, divisa da tutte l' altre verità, non contenesse l' annullamento di tutti i vincoli naturali colla nazione, colla famiglia, con se stesso; e in questo errore parmi piegare una setta di filosofi nella Germania. Altri furono colpiti vivamente dalla bellezza dell' amor di una patria: ma volendo che questo solo amore fosse coltivato, e facendo sacrificio a questo sì lusinghevole amore d' ogni altro rispetto, perdettero l' uomo quanto a' suoi tre altri legami coll' umanità, colla famiglia, con se medesimo. Questi celebrarono come sola buona una educazione pubblica e nazionale: e a questo error si conduce il difetto delle educazioni de' popoli antichi, principalmente de' Lacedemoni e de' Romani, meno quello di questi che di quelli, perchè più vasta aveano la patria: e a questo vizio medesimo caddero i repubblicani moderni male avveduti imitatori degli antichi, ciechi seguitatori di ciechi. E Danton che nel 1793 diceva « « egli è il tempo di ristabilire questo gran principio, che i fanciulli appartengono alla repubblica avanti di appartenere ai lor genitori » » non solo violava tutte le leggi della natura, ma introduceva la pubblica schiavitù, e dava l' imagine di una società che lungi dal proteggere i diritti della famiglia e dell' individuo, distruggeva quella, opera della natura, coll' impotente arbitrio di una legge umana, e metteva questo ne' ferri, vile istrumento, e più impotente ancora a ottener cosa stabile, sufficiente però a tormentar uomini in nome della società, giusta il capriccio di quelli che casualmente più in essa potessero. Ma vi furono poi alcuni cui lusingò l' aspetto della familiare felicità, e pensarono che dove avessero allevati i giovani buoni massai, e tutti occupati nell' ingrandimento della propria casa, avrebbero toccato l' apice del perfetto educare. Ma quanto è utile cosa la cura domestica, altrettanto è difettoso se il padre di famiglia ignora d' essere fratello a tutti gli altri uomini, di avere interessi comuni col popolo dov' egli vive, e di dovere alcuna cosa a se stesso o anzi in se stesso alla umana dignità. E questa mancanza cominciò ad apparire principalmente quando furono cominciati ad introdursi i feudi, e a moltiplicarsi le case ove fosse parte della suprema autorità: e da questo guasto si vogliono guardare più sottilmente le nazioni governate da una sola famiglia. Finalmente non mancarono di quelli che senza veruno rispetto nè al genere umano, nè alla patria, nè al sangue hanno confinata ogni educazione nell' egoismo, e di questo peccato sono lordi, chi ben li considera, i predicatori della illimitata Libertà ed Uguaglianza, cioè de' predicati diritti dell' individuo verso alla società: e la menzogna di costoro toccando gli estremi, nel mentre che affettano universale amore, sciolgono non solo il legame che lega ciascuno con tutta la comunanza degli uomini, o quello che il sottopone all' autorità della nazione, ma il dolce vincolo ancora che il piega sotto la signoria del genitore, da cui ebbe attinto la cara esistenza. Ed allo stesso balzo rovina ognuno che pose la perfezione dell' umana vita in passeggera voluttà: e fra questi sì Epicuro che Aristippo, sì il salvatico Rousseau che il molle Elvezio: i quali per due opposte vie cozzano e s' infrangono allo scoglio stesso; chè, come suona il proverbio, gli estremi vanno a toccarsi. La Religione cristiana all' opposto, perfetta, ed acconcia a tutta l' umana natura, perchè venuta dall' autore stesso della natura, non dimette nessuna di quelle quattro quasi parti dell' uomo senza il suo proprio e proporzionato coltivamento. Essa nel tempo che intima all' uman genere una legge comune e cattolica, viene dando i suoi particolari insegnamenti al cuore del cittadino, a quello del padre di famiglia, e santificando l' amore di se stesso nol lascia solo e tirannico, ma il conduce a bella fratellanza e concordia cogli altri amori. Su questa sapienza può solo venire perfezionandosi l' arte della umana educazione. Ed ella sarà perfetta, quando digerita in quattro parti (delle quali nessuna venga intralasciata per cieco partito ed esclusivo amore all' una od all' altra di esse), la prima di queste quattro parti sia accomunata a tutto l' uman genere, perchè rivolta ad educare la qualità agli uomini tutti comune: la seconda a perfezionamento e non a distruzione della prima, appaia comune e pubblica della nazione: la terza che è quasi fabbrica rialzata sulle due prime e aggiustata a quelle, formi l' educazione particolare della famiglia; e l' ultima finalmente, che è come gli ornamenti ed i finimenti dell' edificio, e che non potrà dare quasi altri che ciascun uomo a se medesimo, sia quella che renda il maraviglioso lavoro formato sul crescente uomo, simigliante a quell' opera limata di perfetto artefice che può oggimai uscire dall' officina, ed essere posta nel decoroso luogo per cui era stata con tanta industria fusa o scolpita. E ben vedo quanto stiamo lontani dalla perfezione di questo desiderio. Restringendo perciò l' animo nostro a quello che concedono i tempi, si possono quelle quattro parti della completa educazione adunare in due, cioè nella nazionale o pubblica, la quale tenga in sè le due prime, e nella famigliare o privata, che unisca le due seconde. La privata in vero, per quanto è detto, non può nè debbe essere uniforme; e a buon diritto essa vuole aggiustarsi alle circostanze della casa, dell' allievo, ed eziandio del precettore. Poichè io credo esser una trista e irragionevole pretensione quella che gli uomini tutti debbano uscire d' una medesima stampa; ma a cui pur tanto inclinano certi scrittori, e certi Ministri sistematici, nei quali sembra quasi fissa tale opinione, che s' informino gli uomini colle pretelle. E così parimenti nessuno troverà assurdo che v' abbiano diversi ed ottimi precettori, e che ognuno posseda un suo proprio metodo ottimo relativamente a lui che l' adopera. Al quale se tu fai pigliare un metodo non suo, ancorchè in se stesso migliore, non trovi più il metodo ottimo, cessando d' essere tale ove sia usato da quello alla natura ed all' indole del quale esso non è accomodato. Laonde l' educazione famigliare può bensì avere alcuni lineamenti simili, tolti, come abbiamo detto più sopra, da quel primo disegno che ne ha posto l' educazione pubblica, ma non può essere uguale ed uniforme nel compimento privato di quel disegno: allo stesso modo come più quadri disegnati dalla medesima mano, se vengono coloriti da mani diverse, danno sugli stessi contorni molte accidentali varietà. L' educatore privato adunque dovrà bene imbersi dello spirito della educazione pubblica, e quella non distruggere, ma sopra quella edificare con metodi però che sieno i migliori nella sua mano, e i migliori a' bisogni e alla destinazione del suo allievo. Da questo apparisce come la perfetta educazione privata (parlando in genere, cioè del comune delle famiglie) suppone già la perfezion della pubblica, e che mirabile vantaggio e beneficio dieno que' pastori dei popoli alla privata educazione, i quali regolano sapientemente la pubblica, ch' è come l' atrio di tutta intera l' educazione. E ciò tanto è più possibile e da noi sperabile, quanto che questa educazione pubblica può e debbe essere uniforme e con leggi generali stabilita. Ma se cerchiamo da quale difetto si debbe maggiormente guardare la educazione pubblica, non dubito dire ch' egli sia dallo spirito individuale. Lo spirito individuale di necessità deforma e costringe quella educazione che, dovendo essere pubblica, cioè adattata a tutti i sudditi di un principe o membri di una nazione, debbe altresì prescindere da tutto quello ch' è individuale. Il particolare uomo è quasi sempre parziale e incompleto ne' suoi avvisi; egli si è formato un modo peculiare di sentire e di pensare, nè forse veruno si schiva da porre più o meno ne' giudizi qualche cosa del suo, oltre il vero. Laonde non è ragionevole nè umano il persuadersi, che dai giudizi di un solo uomo possa dipendere talora l' educazione d' innumerevoli, e sulla forma accidentale di un solo spirito sieno informati innumerevoli altri spiriti, i quali da natura tengono varietà d' inclinazioni e di doti. E non è questa, generalmente parlando, la ragione per cui tanto si pena a trovare dei buoni testi scolastici che servano a' maestri non meno che a' discepoli per guida delle lezioni? E` egli per amore soverchio di risparmio questa scarsezza de' buoni testi? Non già; mentre con tanta magnificenza sono universalmente nutriti gli studi ne' nostri tempi. E` per mala intenzione de' reggitori? Di ciò non può cadere sospetto nel più disgraziato mortale. Tal difetto è solo, io mi credo, cagionato dall' essere que' testi, nella più parte, opera di qualche persona peculiare, non di molte. Oltre vedere in essi l' impronta del carattere particolare sempre ristretto e scomodo a' più, perchè in contradizione col maggior numero degli umani caratteri, non sarà maraviglia, anzi necessità, che coteste opere formate per la gioventù riescano se vuoi diligentissime sì nella esecuzione, ma povere incredibilmente e streme nel concetto generale e nella stessa sostanza dell' opera. Poichè chi conosce a pieno il modo onde quegli che ha la cura generale di tali cose può scegliere alcun uomo particolare alla composizione d' un testo, vede quant' egli venga in pericolo d' ingannarsi, mentre non potrebbe mai ingannarsi eleggendone molti. Senza noverare tutte le circostanze a cui pende la destinazione di una persona alla composizione d' un simile libro, io mi rimetto alla buona fede di quelli che avvisano la cosa nel fatto; e sono certo che quelli mi confesseranno come, tutto ciò venendo dalle più prossime informazioni e dalla pratica accidentale che una persona più tosto che un' altra tiene con chi nella cosa influisce, la scelta può e debb' essere apposta non al migliore per lo scopo, ma a colui che per gli accidenti migliore apparisce. Laddove scegliendo tal corpo di persone alle quali facciano testimonianza solenne, non già private informazioni di singoli eziandio che di persone poste in dignità, ma le voci di tutta la nazione e le opere loro onde inchiarirono, è cosa impossibile che sul tutto di questo corpo cada l' errore. Sono alcuni che ci oppongono non essere poi necessario a formare una grammatica, od anzi qualunque libro scolastico, ingegno profondo e vasta dottrina. Anzi queste doti essere nocevoli, perchè chi le ha non si suole inclinare ai bisogni dei fanciulli: essere più adattato al componimento d' un libro per la gioventù un ingegno mediocre, più giudizioso che penetrante, più paziente che dotto, più perito nella pratica della pedagogia, che nella teorica: per mancanza appunto di queste qualità patirsi generalmente difetto di testi scolastici facili e acconci alla debilezza dell' intelletto fanciullesco. Io non esaminerò le cagioni di questo universale difetto di testi scolastici e d' altri libri elementari, dei quali nessuna nazione io credo che si possa dir molto ricca, se pur i libri elementari non si contino, ma si pesino. Risponderò più tosto, all' obbiezione proposta, con più ragioni. E primieramente sembrami dover notare un errore dannosissimo e reso al nostro tempo quasi universale, che il più gran pregio di un libro o di un metodo sia la facilità colla quale presenta le dottrine. Questo errore, confesso, è molto seducente; specialmente a uomini di costumi rammolliti ed insofferenti di una seria applicazione. La facilità colla quale si presenta una dottrina sembra altrettanta luce sparsa sulla medesima. E mediante un insegnamento tutto scorrevole e facile avviene che agli uomini, non parlo solo dei giovanetti, sembri di venir diportandosi nel gran campo del sapere senza trovar ai lor passi ostacolo alcuno, e misurandone coll' animo tutta l' ampiezza, anche prenderne la possessione. Perciò una facilità sì fatta lusinga l' amor proprio: conciossiachè occulta tutte le difficoltà e i nodi della dottrina, tanto importuni e molesti a chi ha grande presunzione di se stesso: un sì dolce oblìo, di tutto ciò che può arrestare il volo del pensiero e far dubitare delle proprie forze intellettuali, è pure un caro servigio; simile a quello che rende il vino all' infelice, assopendolo in profonda dimenticanza su tutti i suoi mali, almeno fino alla veglia importuna. Sì soave diletto, sì beata tranquillità letteraria, che certi sapienti si procacciano coll' evitare diligentemente tutte le difficoltà che inquietar li potessero, apportando incertezza sull' opinione della propria penetrazione non usa ad urtare in qualche villana durezza, armoneggia eccellentemente collo spirito di un secolo, in cui si teme tanto di esser turbato, di esser eccitato da quel letargo morale, onde si preferisce l' indifferenza alla verità, e l' epicureismo alla virtù. Tutto si lega; e l' universo morale ha le sue leggi generali quanto il fisico: quella dei nostri costumi sarebbe la legge della facilità, per la quale si rigetta ad un tempo la virtù, perchè non tanto facile quanto si vorrebbe a praticare, e la sapienza perchè non tanto facile quanto si vorrebbe a comprendere. Povera umanità! inorridisce, [...OMISSIS...] al pensiero di ciò, che i nostri rozzi antenati chiamavano col nome di virtù e di sapienza: ma ella si compone appositamente una virtù facile ed una sapienza scorrevole! Quando si ricerca con tanta delicatezza ne' testi scolastici la facilità , che adunque si fa se non un' applicazione dello spirito generale del secolo in cui viviamo? Per altro non cerco di oscurare la questione; anzi di chiarirla. Concedo dunque che la facilità sia un pregio desiderabilissimo, ove ella consista nella espressione, e nella chiarezza assoluta de' pensieri. Ma ciò ch' io avverto si è, che si confonde questa specie di facilità con un' altra che consiste, come dicevo, nell' escludere delle parti rilevanti di verità, come quelle che sembrano troppo gravi, e inducenti a seria meditazione, e nell' evitare tutto ciò che può produrre un picciolo ostacolo, qualche cosa d' insolito e di misterioso, innanzi a cui la mente umana sia costretta di umiliarsi e di deporre la presunzione, o pure di affaticare, e di vincere la rilassatezza, e con ciò conoscere che v' hanno al mondo delle cose delle quali non si può giudicare se non dopo uno studio lento e faticoso. Nè voglio per questo che si aggravino più del necessario le menti de' fanciulli; ma sì, che per soverchia delicatezza e amore di questa seconda specie di facilità, non si privino della verità solida e necessaria. Vi sono delle cose le quali sembra che nulla abbiano di profondo e che la loro natura sia per così dire di essere superficiali: tali sono le cose esterne e materiali, le quali col primo sguardo della mente tutte si assorbono e si comprendono: e perciò lo studio di queste si può fare con celerità dilettevole, giacchè una mente felice in breve tempo ne trascorre molte, e tutte bene le comprende, e le ripone qual ricco tesoro. Tutt' altro è il procedere del pensiero nelle verità morali, perciocchè la natura di queste ha una certa profondità inesauribile che col primo sguardo non si attinge: di che è necessario insistere a lungo sopra ciascuna: e quanto più vi s' insiste e vi si penetra, tanto più vi si sentono e scuoprono cose che da prima non s' erano scorte nè sospettate, e così con lento grado si va ad intendere la natura intima di tali verità, la quale non è mai tanto investigata che non tenga ancora al suo fondo alcun che di secreto e di misterioso, che alla mente meditatrice incute riverenza e virtuosa curiosità. Ma una tale lentezza di meditare è aborrita dall' uomo presuntuoso e dal materiale; perciocchè il primo è costretto di raffrenare i suoi troppo confidenti pensieri; e al secondo, sparso nella superficialità della materia, sembra anzi un gioco d' imaginazione che vera realtà quell' universo morale, la cui natura è tutta interiore, e tanto più reale quanto più occulta ai sensi e manifesta allo spirito. Egli è perciò che tutti i sofisti degli ultimi tempi tanto si affaticarono d' impoverire e distruggere la metafisica, col pretesto ch' ella è composta di questioni troppo difficili, anzi giudicate da essi insolubili, e più ancora (giudicando di ciò che confessano non conoscere) inutili. Sollevarono dunque gli uomini da un' improba fatica? Non fecero che raddoppiarne loro il carico: giacchè non potendo questi prescindere da quelle questioni, col far loro dimenticare tutto ciò che ne avevano meditato le generazioni precedenti, gli obbligarono a tornare a capo col gran lavoro, e ricominciare lo studio dagli elementi. Questo spirito di superficialità col pretesto di facilità fu introdotto pur troppo nelle scuole: che furono ridotte ad occuparsi quasi interamente di oggetti materiali e a sorvolare sulle cose morali colla stessa leggerezza, onde si può fare con quelle. E non è a dire quanto tale superficialità sia nociuta alla Religione; e sembra assai probabile che il popolo cristiano del secolo illuminato, se udisse recitare dal pergamo un' omelia di Agostino o di Cipriano, dimanderebbe: Che argomento tratta o che religione insegna quest' oratore? Il principio adunque della facilità, in questo senso intesa, non può esser quello che regola la formazione de' testi scolastici; poichè volendo secondo questo principio tor via tutto ciò che torna oscuro alla mente del giovanetto, bisognerebbe torre tutto ciò che ha relazione colla dottrina della religione ed anche colla dottrina morale: poichè tutto ciò è difficile necessariamente, ed ha in sè dell' oscurità non solo per un giovanetto, ma per un adulto ancora e per un sapiente. Dio non ha educato il genere umano al sublime suo fine col tor via dalle sue istruzioni tutto che fosse difficile, oscuro, e misterioso, anzi col comunicargli tutto ciò, perchè fosse perpetua ed inesausta materia di sua meditazione. Non pensò Gesù, quando ammaestrava i suoi uditori, a rimuovere da' suoi discorsi quel difficile che consisteva nel sublime della verità, anzi tutti i suoi discorsi quanto semplici nella espressione, tanto li disse sublimi e profondi nella materia; perciocchè se l' uomo nello studio delle cose fisiche va dai particolari a' generali, nello studio all' incontro delle cose morali e metafisiche viene dai generali a' particolari: si sviluppano queste dottrine nella sua mente, come si sviluppa dal suo picciolo germe la pianta, la quale tutta intiera, benchè raggruppata e ravvolta, in quello si conteneva. Si spandano adunque negli animi e nelle menti de' fanciulli delle grandi verità, eziandio che tosto non le comprendano, perciocchè sono come sementi, che si sviluppano nel corso di loro vita; sono verità, che quantunque oscure diventano poi feconde madri di luce; che si fanno alimento alla intelligenza per la stessa loro oscurità, la quale viene cangiandosi in luce più pura, quanto più a lungo sono state soggetto di meditazione. Or poi, premesse queste cose sul principio della facilità, io tengo come cosa chiara ed aperta, che dovendosi fare scelta d' alcuna persona, a cui commettere la composizione di qualche libro scolastico, non si debba tenere ad unica regola la vicinanza di questa persona alla mente ed all' indole de' fanciulli. Che se così fosse, il miglior compositore de' libri de' fanciulli sarebbe un fanciullo. Se dunque non basta questa qualità di sapere impicciolirsi alle menti fanciullesche, è da vedere che cosa si richieda sopra ciò a formare un buon libro per i fanciulli. Ora io dico che a questo conviene bensì l' impicciolirsi, ma che dopo ciò debba essere tanto più acconcio compositore quell' uomo che è più grande. Imperciocchè da prima i piccioli uomini sono i più pregni di pregiudizi, e stanno fissi a certe loro abitudini e foggie di pensare loro proprie e quasi ammanierate: per cui quanto l' uomo sarà più ristretto nel suo pensare, tanto più rovineremo in quello sconcio che di sopra fu tocco, di voler conformare uomini da natura variatissimi non alla foggia che più loro conviene, o per dir meglio a quella quasi larga e vantaggiata forma del vero, ma tutti ad un misero e rannicchiato modello, arbitrario ed accidentale. Di poi non si creda così legger cosa possedere le chiavi del cuore umano, il quale è precipuamente da allevare nella gioventù, ed al quale tutti gl' ingegni dell' educazione sono da volgere: poichè quantunque nei fanciulli questo cuore sia tenero e semplice, è tuttavia cuore umano, e tiene i germi di tutte le umane inclinazioni, ed ha le sue molteplici pieghe e sinuosità, ed aditi riposti, e viste variatissime; e dentro alle regioni di simil cuore non può mettersi sicuramente se non quell' uomo, il quale sappia di molto filosofare, ed abbia di molto osservato sopra se stesso e altrui, e colla perspicacità della mente rilevate le molle delle nostre operazioni. Dal che quanto si trovi star lungi un mediocre uomo, ancorchè molto presumente di se stesso, o molto bene altrui veduto per dolcezza di parole e di atti, si fa manifesto da quelle sottili osservazioni fatte sulla gioventù da uomini sagacissimi, le quali quanto utili e necessarie, appariscono altrettanto lontane dalla mediocrità degl' ingegni. Ma che a comporre un libro da usare in tutte le scuole di uno Stato si esigano molti lumi e consumato senno, oltre le ragioni dette, si prova anche dalla natura di tutti i compendii o breviarii delle scienze. Poichè quegli che intende ben addentro che cosa si richieda a dettare un ottimo compendio di scienza, confessa che questo appare bensì cosa breve nella mole e leggiera nella semplicità dello stile, ma che suppone studio assai profondo della scienza stessa: dalla quale bisogna spremere il puro succo, e cogliere, quasi direi, ciò che ha di più spirituale; e perciò è necessario conoscerla molto, e saperla rivolgere, e maneggiare, e atteggiare da tutti i lati, come cosa in tutto propria. E questo sentimento comune a' veraci dotti è però tale, cui non s' arriva a capire giammai dai ristretti uomini di cui parliamo, i quali si tengono gran maestri di compendii, e sorridono di chi ci trova tai nodi. Ma la ragione principale della necessità di molto senno nella composizione dei libri scolastici non fu ancora da me toccata. Tale necessità consegue naturalmente al sistema cristiano della educazione di sopra esposto: quando la leggerezza e la facilità nel proporre libri per la gioventù è conseguente al sistema contrario. Questo sistema, mi si lasci dire, falso filosofico, oltre trascorrere su tutte le cose con grande agilità per la naturale presunzione che alleggerisce le menti, considera tutti gli oggetti della educazione squarciati e smembrati, e senza la naturale soggezione dell' uno all' altro: il sistema cristiano all' opposto li vuol collegati ed uniti. Perciò il primo toglie la dignità sua a ciascuno di quegli oggetti, e, staccandoli dal suo gran tutto, li presenta come cosa da poco e di facile riuscimento. Il sistema cristiano all' incontro, volendo che ciascun oggetto appaia membro del gran corpo di cognizioni a cui appartiene, suggerisce ai pastori dei popoli di far lavorare anche qualunque picciolo membro di questo corpo scientifico da tali e tante persone che sieno atte ad avere sempre presente il tutto, e sappiano perfezionare ogni parte sopra un disegno generale. Ed allorchè qualunque membro, ancorchè per se stesso picciolo, si considera in questo raggiungimento col suo tutto, egli acquista una cotale grandezza e dignità, a cui non rifugge certo di piegarsi anche l' uomo sommo e dottissimo. Ma senza questo incitamento, come pretendere che le grandi menti s' abbassino agli studi giovanili? E con che profitto si daranno a ciò? E con che speranza? Nè gli studi privati di un sapiente otterrebbero, come ho notato, di supplire al bisogno di una nazione, nè la concordia di molti sapienti a questo fine è possibile senza che quegli, a cui spetta la direzione de' pubblici studi, li chiami e raguni insieme. E di vero se un sapiente lavorasse da se stesso, e non chiamato, al bene della pubblica educazione, nè avrebbe ove raggiungere il suo lavoro al sistema generale, nè saprebbe aspettarsi alcun frutto dalle sue fatiche, o frutto lievissimo (1). Ma formato il collegio di quelli che la voce di tutta la nazione proclama dotti insieme e pii, come potrebb' essere che questo collegio non si ponesse con tutte le forze a corrispondere all' onorata sua destinazione? Non è proprio de' grandi, il concedo, seguire le cose picciole: ma la formazione de' testi scolastici non sarebbe più cosa picciola, quando tutti i testi insieme formassero questo gran tutto che ragioniamo, e quando la fatica avesse a scopo non il privato e momentaneo giovamento, ma il giovamento dello Stato, dal quale ogni cuore virtuoso è toccato, e più è toccato quello de' grandi. E se la pubblica munificenza sparge tesori nella educazione, quale ricchezza più utilmente sparsa che in rimunerare questi dotti insieme adunati alla formazione del piano della educazione nazionale, e dei testi ad essa necessari? Poichè l' aspettazione di un largo e giusto premio alle loro fatiche, sarebbe anch' essa non picciolo eccitamento ad addurre la mente di questi savi alla nobile occupazione: specialmente se il premio fosse grande sì, ma commensurato meno al tempo speso, che all' opera conseguita. Chè molta forza anche sopra l' animo degli uomini dotti ha quel lucro onorato che accresce loro i mezzi e gli agi o della vita, o degli studi. La quale spesa tanto meno dovrebbe rincrescere quant' essa non è continua, anzi cotale che fatta una volta consegue un' opera lodevolissima, e durevole. La quale ancora toglie molti altri dispendii, non gravi a dir vero, ma pel loro numero e per la loro continuità più dannosi a mio credere alla economia, fatte le ragioni compiute. Poichè, donde nasce il bisogno di mutare con frequenza libri, e regolamenti nelle scuole, se non dal concedere troppo agli arbitrii di questa e di quella persona, e però dall' esser le cose abbandonate a' modi di vedere particolari, i quali variano in infinito, e non regolate su quello permanente della comune verità? Nè solo ciò debbe avvenire quando, per avventura, si stia troppo aderenti al voto della persona incaricata di questi affari, che per quanto sia rispettabile è sempre una; ma ben ancora per quel difetto così solito fra gli uomini, che corrono a moltiplicare le disposizioni all' intervenire de' casi particolari senza calcolare l' effetto generale delle medesime, e ciò in dipendenza o dall' essere accaduto forse un solo accidente, e perciò dalla possibilità e non dalla probabilità che si rinnovi; o dalle relazioni degl' inferiori. E oltre essere nobile, utile, dignitoso e per avventura anche economico, questo collegio di uomini che la voce pubblica ha segnati per veri dotti, congiungerebbe un politico vantaggio notabilissimo. Per esso collegio verrebbero i membri che lo compongono interessati con accorgimento e raggiunti alle cose pubbliche, e riceverebbero una buona direzione a comune vantaggio i loro ingegni; perciocchè quando in quest' opera fossero impegnati, col bene di questa fisserebbero le loro idee, altramente vaghe, e talora nocevoli. E quantunque finita la ricevuta incombenza dovessero cessare a questo collegio gli emolumenti, tuttavia potrebbe rimanere una consulta o collegio onorario, il quale si udisse nelle innovazioni che fosser proposte a miglioramento; fissando a' particolari consulti certo premio particolare. Data la formazione di questo piano generale delle scuole, l' occupazione de' naturali officiali dello Stato si ridurrebbe a provvederne l' esecuzione; al che sono acconci i particolari, conciossiachè non si tratta che d' eseguire ciò che fu dai molti concepito. Ma la dignità dell' opera, l' ampio bene da questa aspettato, l' onore e il lucro promesso a questi dotti, non sono i soli eccitamenti onde le grandi menti s' impegnano a pensare a' fanciulli; nel che, impegnate che fossero, riuscirebbero maravigliosamente nell' appareggiarsi a loro, non al modo di quelli che s' abbassano perchè non sanno elevarsi, ma di quelli che s' abbassano per condurre od avvicinare i minori alla propria altezza. La Religione nostra ha un modo di far chinare i sommi uomini a tutte misure, nuovo e suo particolare. Questo inchinamento luce nel fondatore della Religione, il quale essendo veracemente grande, mostrò di fare sue delizie i fanciulletti, e ne lo ingiunse a tutti i discepoli suoi. [...OMISSIS...] Non andò egli in cerca di quell' abbassamento naturale e a dir vero ignobile delle menti mediocri e ristrette; ma egli precettò l' abbassamento nobilissimo, cioè l' abbassamento volontario comune al grande e al picciolo, poichè comune a coloro che hanno carità. Amore è quello che c' impicciolisce utilmente alla misura de' giovanetti, non già nativa imperfezione e imperizia. E qui appare nuova luce, e mirabile, uscir fuori dallo spirito della cristiana Religione. Nel collegio adunque di questi dotti regni questo spirito: vi regni solo ed intero: senza di ciò il piano non sarà mai perfettamente acconcio a' bisogni degli uomini; e più o meno converrà alle loro necessità, secondo che più o meno vi regnerà: nè questo spirito del cristianesimo, che è quello dell' unica vera grandezza, vi potrà tenere intero dominio, se il carico delle elezioni si dia a sole persone secolari, il più delle quali professano il cristianesimo senza averne il pieno studio ed il finito intendimento, e perciò ne sfuggono le più vere conseguenze, e pongono così arbitrario limite nella pratica di esso, che converrebbe a istituzione prodotta dall' arbitrio umano, ma non a religione proclamata dalla parola divina. La proposta però di una dotta assemblea, a cui sia commessa la composizione de' testi per le pubbliche scuole, sarebbe vana se non vi s' aggiungesse una saggia organizzazione. Nella quale la cosa principale si è questa, che tale adunanza abbia un uomo sopra gli altri grande che la presieda e che ne diriga i lavori. Conciossiachè sì come un solo letterato non darà mai alle scuole pubbliche de' testi perfetti, così un' assemblea di letterati non li darà pure giammai, quando un solo dirigendola non dia alla medesima l' unità, e non sappia esserne dirò così l' anima che l' avviva. E veramente il progetto proposto richiede che tutti gli oggetti dell' istruzion giovanile dimostrino un bell' ordine, un legame fra loro, che insomma formino una perfetta unità. Ed a questo ottenere egli è necessario che v' abbia una mente sola che ne concepisca il generale disegno, e ne getti per così dire l' abbozzo. Tale piano debb' essere un' istantanea creazione d' ingegno sublime, d' ingegno che percipiendo e misurando d' un tratto tutti i rispetti, ne sente l' unica e indivisibile armonia che da tutti risponde, e la contempla col pensiero, e l' affissa, e la fura per così dire al secreto suo spirito, e la mette in parole. Così l' opera d' un grande artista se non è creata da un atto semplice della mente, non può attingere quella perfezione che sta in una unità indivisibile, in una unità che tutte le relazioni in sè aduna e comprende. Perciò indarno nell' opera di cui parlo si stancherebbero molti ingegni, se fra essi non ve n' avesse un solo potente, che tutta affissandola e ritraendola con una sola vasta intuizione dalla idea esemplare della sua mente, ne dimostrasse manifesto il modello, che divenisse regola e guida sicura a tutti gli altri che insieme con lui alla stessa impresa sono chiamati cooperatori. Allora dunque tale edificio può riuscire perfetto, quando una gran mente ne pone le basi immutabili e necessarie: ed un' assemblea sopra quelle unanimemente il lavora; quando il maggior numero dei voti di tale adunanza non prevale che sulle parti accessorie e sulla esecuzione dell' opera; e non sull' idea fondamentale, a cui solo qualche rarissimo può sollevarsi; ed è così semplice di sua natura che concepita che sia, il mutare è guastarla. Ma come ritrovare quest' uomo singolare, questo savio che gitti tal fondamento? Non è questo in potere de' governanti; conciossiachè la sola Provvidenza è quella che spedisce alle nazioni ne' momenti di sua clemenza uomini sì preziosi. Egli è perciò dovere di cercare mai sempre quest' uomo eminente fino a tanto che si rinvenga; perciocchè altramente si correrebbe rischio di peccare contro alla divina Provvidenza stessa, la quale potrebbe mandarlo, e per la negligenza degli uomini, egli rimanersi oscuro e disconosciuto; così quella li punirebbe colla privazione del gran bene che loro offeriva, e ch' essi verrebbero indirettamente a ricusare. Fino poi che questi non si ritrova egli è necessario mettere alla direzione della detta assemblea quegli che si reputa fra tutti il migliore, il quale potrà presentare una proposizione alla volta, cominciando dalle più generali, di quelle che servir debbano a direzione nel componimento dell' opera di cui parliamo. Così a ragione d' esempio, la prima proposizione o regola che questi presentar dovrebbe, sarebbe appunto quella che « tutti i testi delle scuole formassero insieme una perfetta unità, sicchè ciascuno riuscisse ad esser parte d' un opera medesima e l' uno congiunto coll' altro si dessero scambievolmente lume e giovamento, facilitando a vicenda l' apprendere al giovanetto ». La seconda proposizione o regola generale per la formazione dell' opera di cui parliamo potrebb' essere appunto quella della triplice unità; cioè dell' unità del fine, a cui tutti i testi debbono armoniosamente tendere, dell' unità del sistema o della catena che debbono mostrare le verità fra di loro, e dell' unità del metodo o delle diverse potenze che si debbono tutte istruire e proporzionatamente perfezionare nell' uomo. E così discusse queste generali proposizioni proseguir dovrebbe a discutere ordinatamente tutte le altre che servissero di direzione all' opera de' testi scolastici; collo stabilimento successivo delle quali regole s' otterrebbe di dare un regolar movimento all' opera a cui molti ingegni concordemente dovessero lavorare. Ma ora è da confessare che il privato istruttore non può avere una educazione pubblica così savia ed intera, come vorrebbe esser questa di cui ho messo innanzi un desiderio, sopra cui rilevare l' edificio della educazione privata; e non essendo posto tal fondamento da' legislatori, egli debbe per quanto è possibile venirlosi formando da se medesimo. Perciò egli non sembrerà al tutto inutile il toccare, come ordinar potrebbe questo lavoro, o quest' opera, dirò quasi, temporanea. E il concetto che n' esporrò, eziandio che imperfetto, sarà nondimeno foggiato sullo spirito di unità a cui conduce, parte con aperto e parte con insensibile impulso, la Religione nostra, che tiene sempre a fisso scopo la perfezione di tutto l' uomo, nel che dimostrasi eretta sopra di una divina «androposofias». Questo adunque mi conduce a considerare sì gli studi primi, come gli ultimi della gioventù, quali anelli d' una catena medesima e parti proporzionate d' un solo tutto, la perfezione dell' uomo. L' uomo nato alla società e vivuto nella società co' suoi simili fin dalla culla, con voce di natura è chiamato a due scopi, o a due operazioni. Primo egli è chiamato a perfezionare la sua natura, a crescere nel corpo e nello spirito, a studiare l' armonico sviluppo di tutte e due queste parti, fino a ch' esso, composto di quelle, sia giunto al suo natural compimento. Sviluppato e cresciuto, egli debbe pensare ad apprendere il modo di occuparsi nel bene pubblico. Ecco i due atti ed intendimenti della educazione: formare l' uomo; e l' uomo formato rivolgere al bene de' più. La prima cosa si ottiene con tutta quella educazione che muove dagli studi primi sino alla fine del Liceo; la seconda cosa è proposta negli studi della Università. Per formare compiutamente l' uomo, primo atto dell' educazione, non si debbe trascurare nulla degli oggetti connessi coll' uomo, e questi sono due principali, Dio, e se stesso, ed in parte anche la Natura. Vale a dire non si debbe trascurare in quella prima opera della educazione tutto ciò che di Dio, di se stesso, e della Natura, giova a lui di sapere, perchè possa essere bastevolmente formato. E per ciò stesso non si vogliono trascurati gli aiuti a queste cognizioni. All' incontro nella educazione data all' uomo per lo migliore della società, secondo atto dell' educazione, quantunque anche a questo giovino varie cognizioni, tuttavia il sostanziale consiste che si approfondi in alcun ramo particolare. Poichè se il bene di noi stessi consiste nell' opera nostra, e perciò se bisogna che rispetto a noi siamo instruiti ed esercitati in tutto che ci risguarda; il bene all' incontro della società non risulta da un solo, ma dall' opera di molti, e perciò non importa che ciascuno sia educato in tutti i ministerii che risguardano la società (ciò che non sarebbe possibile) ma in alcuna professione particolare: bastando che tutti insieme i membri della società, i quali si vogliono considerare come una persona morale, possedano tutte l' arti a lei utili e necessarie, e perciò che rispetto al bene pubblico abbia una educazione compiuta questa morale persona. Laonde se nelle università alcuni studiano di proposito Dio, come quelli che sono educati nella Teologia, altri l' Uomo come quelli che sono applicati alle Leggi, altri la Natura come quelli che sono intesi alle Matematiche e alla Medicina; questa partizione non è punto riprovevole, ma conforme al fine. E tuttavia, perchè ciascuna di queste arti frutti bene ai molti per cui è posta, ella vuole essere innestata sopra l' uomo già ben formato e compiuto per se medesimo. Il che recide un nuovo sofisma di certi cortissimi filosofi, i quali vedendo che quest' arti e scienze utili alla società potevano stare divise, e la formazione all' incontro dell' uomo si stava tutta unita, cominciarono copertamente a vilipendere questa, e spacciandosi unicamente solleciti della filantropia , proclamarono come sole lodevoli quelle scienze che fossero rivolte propriamente al ben pubblico, e in questo modo furono condotti a cadere in tale follezza, che l' uomo dovesse esser posto a far bene altrui quando nol sapeva fare a se stesso, e rovinarono il primo fondamento della educazione, la legge naturale della quale è questa: CHE L' UOMO SI FORMI, E POI SI ADOPERI. In tutti gli studi adunque del giovane fino al compimento della filosofia dovranno concorrere insieme la cognizione di Dio, la cognizione di se stesso, e la cognizione della Natura in quella parte che si avvincola a quelle due prime fondamentali, come pure la notizia dei mezzi all' acquisto delle medesime. Le quali dottrine tutte possono entrare nell' uomo, quasi per diversi aditi, per le diverse sue facoltà. Laonde seguendo i passi della natura bisogna considerare quelle facoltà che si sviluppano prima, quelle che si aprono dopo, e secondo che esse appariscono e quasi naturalmente nell' uomo fioriscono, dare loro coltivamento. Poichè indarno altri si sforza di andare contro alle leggi della natura, la quale non cede a noi, e della temerità nostra, se cozziamo con essa, per molti mali si vendica e ci castiga. Noi adunque seguaci della natura cercheremo prima di coltivare in modo speciale la Memoria, appresso l' Imaginazione, in fine l' Intelletto; poichè in quest' ordine si maturano le nostre facoltà. La Memoria riceverà la sua cultura principalmente negli studi della Grammatica, la Immaginazione in quelli della Rettorica, l' Intelletto nella Filosofia. E` però accuratamente a considerare, che le separate culture della Memoria, della Imaginazione, dell' Intelletto, non sono altro che i mezzi, per cui formiamo il cuore dell' uomo, che è quanto dir tutto l' uomo. Sarà dunque meglio detto che in tutto il curricolo degli studi non ci occupiamo d' altro affare, che di formare il cuore dell' uomo, ma nella Grammatica per mezzo della Memoria, nella Rettorica per mezzo dell' Imaginazione, nella Filosofia per mezzo dell' Intelletto. E venendo a partire più divisatamente la prima parte di questi studi, che nominai Grammatica, per non usare vocaboli insoliti, ma con cui voglio intendere sottosopra tutto ciò che viene compreso nelle scuole elementari, e ancora nelle prime quattro scuole del nostro Ginnasio, questi studi abbracciano due parti: 1 i mezzi all' acquisto delle cognizioni, cioè le lingue, tre delle quali a me paiono necessarie, la italiana, la latina e la greca, consanguinee tra loro e non soverchiamente difficili, se se n' allevia lo studio per questa lor parentela, non messa ancor bastantemente a profitto nell' istruzione; e 2 le stesse cognizioni. Per la lingua italiana facciam pure assai conto di quel sapore sincero e tutto soave che si sente ne' fiorentini scrittori, ed usiamo delle loro grammatiche, conciossiachè è lor nativa tal grazia di favellare, che noi forestieri da Firenze più difficilmente a gran pezza conseguiamo per arte; venendo a loro tal dono non so dir io se più dall' aure soavi de' colli o dall' acque dell' Arno, ma certo da una cotal vaghezza di liberale natura. E mi piacerà che sia fatto uso altresì, per dettare al fanciullo, di qualche raccolta di frasi sì della lingua italiana che della latina, e delle particelle messe insieme dal Tursellino, cioè di que' nessi del discorso che il rendono dolce e di soave andamento pe' naturali tragetti dell' uno nell' altro pensiero. Per la lingua greca, non solo giova quel metodo che vi ha trovato il Daponte, ma ancora è lodevole la breve grammatica che noi usiam nelle scuole. Pel Dizionario poi meriterebbe di essere più conosciuto quello del Nitz che tiene continuo risguardo alle origini delle parole (1), e che mi parrebbe assai comodo anche in Italia, se dalla lingua tedesca ci fosse tradotto. La connessione poi di queste lingue, che sono i mezzi alle cognizioni, colle cognizioni stesse, oltre nascere per quel general vincolo del loro fine che vorrà esser fatto conoscere al giovanetto, si stringerà vie più per tutte quelle sentenze e que' tratti che si fanno tradurre, per esercizio, da una in altra lingua: i quali vogliono esser pensatamente eletti, ed acconciati a tutto il rimanente dello insegnamento, e spiegati al discepolo non pure nelle parole, ma nelle cose ancora. E in quanto alle cose, come abbiamo veduto, a tre soli oggetti tutte si riducono, Dio, l' Uomo, la Natura. In quanto alla cognizione di Dio vorrei che in tutte le scuole fosse letta la Scrittura con apposita distribuzione de' libri e apposite noticciuole ai medesimi; e vedine la distribuzione. Nelle Scuole Elementari poni gli storici: nelle prime quattro scuole del Ginnasio dispiega i morali dell' antico testamento: alla Rettorica dischiudi le poetiche amenità de' Profeti e dei Salmi: apponi alla Filosofia il Vangelo, e nella Università fa studio le Apostoliche Lettere e gli Atti. Vorrei intralasciata la Cantica, l' Apocalisse, e tutti i luoghi, che i Pastori della Chiesa giudicassero da intralasciare. E perchè nelle divine scritture non composte pel solo uso de' fanciulli, ma per la stessa educazione dell' uman genere, la cui vita si protende nel successo de' secoli, non è quell' ordine di dottrina, ove le verità si veggano rannodate e dedotte in un regolare sistema, ma v' è questo sistema qua e là sparso in brani, secondo il beneplacito della sapienza dell' altissimo Educatore, perciò a questa lezione scritturale si unirà altro libro sopra la Religione che la insegni in ordine naturale a' fanciulli, rivolto a loro appianare l' intelligenza della Scrittura. E quest' opera vorrei divisa in sei parti. Nella prima vi si considerasse la Religione come rivelata , cioè fosse un raccolto semplice delle rivelate verità, o un catechismo da essere usato nelle scuole elementari. La seconda parte continuandosi alla prima risguardasse la Religione come giusta , o pure come il fonte della giustizia, scaturendo questo fonte dalla stessa dottrina della fede sposta nella prima parte, e quindi deducendo la morale generale, ed un trattatello proprio pei giovanetti. Nella terza parte poi la nostra Religione apparisse come bella , e servisse all' uso della Rettorica; e queste bellezze della Religione fosser tratte sì dalla profondità de' dogmi, che dalla santità dei morali precetti. Per la Filosofia fosse la parte quarta, e trattasse della Religione come sapiente , e ne sviluppasse il vasto e meraviglioso sistema fondato in soli due uomini Adamo e Gesù Cristo, e rivolto per un mezzo divino a riparare alla corruzione della primitiva natura umana, non già col ristorar quella stessa che volle essere abbandonata alla maledizion ricevuta, ma col fondare sulla sua distruzione una natura nuova vincente la prima per infinito numero di maravigliose magnificenze. Nella Università poi si dovesse far uso della quinta e della sesta parte di quest' opera, cioè i due primi anni della quinta che contemplasse la Religion come vera , presentandola col corredo delle sue prove, non tanto per gli studiosi che nutriti alla fede ne sentono nel fondo della pura coscienza la verità, e splende in loro il lume di Dio, quanto per munirli contro agli sgraziati aggressori di lei: e i due ultimi anni, della sesta che ammira la Religion come utile non solo all' altra vita, ma pur agli usi della presente, dove imprendessero i riguardi dovuti all' autorità ecclesiastica, e in una parola il modo ond' usar bene, secondo la guisa delle lor varie professioni, questa Religione, perchè ella ottenesse il maggior bene nella società e conseguisse a pieno la lode che le dà Paolo: « « La pietà è utile a tutto avendo promessa della vita presente, e della futura » » (1). Il catechismo gioverà che sia il medesimo, o tale che s' accordi a pieno a quello della Diocesi, perchè l' insegnamento delle Scuole e della Chiesa proceda d' un medesimo modo. Ciascuna parte poi di quest' opera abbia riguardo e si rannodi alle parti corrispondenti della Scrittura. Qui forse gioverebbe che non essendo ancora quest' opera compilata indicassi qualche fonte onde cavarne la sostanza. Ma mi smarrisce d' una parte la moltitudine degli scritti in questi argomenti, dall' altra la scarsezza di quelli che al nostro uopo s' acconcino. Ne nominerò tuttavia alcuni, non intendendo di approvare con ciò tutto quello che in sè contengono. Potrebbesi usare in luogo della prima parte il nostro catechismo; e foggiar la seconda sulle « Istruzioni per la gioventù » del sig. Gobinet; la terza sul « Genio del Cristianesimo » del sig. Chateaubriand; la quarta su' « Pensieri » di Pascal; la quinta sull' « Apologia » di M. Tassoni; la sesta sugli scritti di que' due lumi del nostro secolo, il conte De Maistre, ed il sig. Bonald. Ma tali libri, ancorchè eccellenti, a pieno non soddisfaranno per più ragioni, e fra queste perchè non sono composti sopra disegno generale, perchè molte dottrine ch' essi contengono non sono state ancora comprovate bastevolmente, o perfezionate dalla pubblica discussione, e perchè finalmente la posteriore non contiene nè suppone le precedenti, come vorrebbe avvenire nel nostro concetto, acciocchè chi studia, poniamo, la Religione come bella , non rimanga di studiarla insieme come giusta e come rivelata , e chi la studia come sapiente venga insieme a ripetere quanto n' ha imparato delle sue bellezze, de' suoi precetti, e de' suoi dogmi, e dicasi lo stesso dell' altre sue parti. Lo studio dell' uomo si dovrà dare ai giovanetti nella Storia: e così la Storia non sarà una vana curiosità, ma sarà volta al fine di tutta l' educazione, la formazione del cuore umano. Con questo fine e su questo disegno dovranno essere formati i Testi di storia, che vorranno nello stesso tempo concatenarsi con gli altri oggetti. Essi sieno quattro, l' uno sempre continuazione all' altro: il primo contenga un compendio di Storia Universale; il secondo un compendio di Storia particolare della Nazione; il terzo la storia della Provincia; e il quarto la Storia della Letteratura. Il primo di questi potrà giovare per la Grammatica; il secondo e il terzo per la Rettorica; e il quarto per la Filosofia. Nella Storia Universale vi potrebbe avere una parte da principio che contenesse nude le epoche principali di tutta la storia cogli anni e i luoghi; e questa sarebbe quella picciola Storia, Cronologia, e Geografia da usare nelle scuole Elementari. Di poi potrebbero succedere tre altre parti; l' una delle quali contenesse la Storia Universale più polposa della prima, dove con maestrevoli tocchi fossero posti in veduta e lumeggiati i grandi uomini, innalzati i buoni, depressi i pravi, eccitato l' amore alla virtù, commosso l' odio nel vizio; e questa parte suddivisa in due, cioè nei tempi avanti e dopo Cristo, potrebb' essere acconcia alle due prime scuole del Ginnasio. Nell' altra parte, secondo il pensiero di Bossuet, vi vorrei trattata la successione della cristiana Religione cominciata in Adamo sino ai nostri tempi, e mostrato l' ordine stabilito da Dio che tutti gli avvenimenti servano alla gloria della sua Chiesa, e al bene de' suoi eletti (1); e questa che si lega colla prima sia per la terza scuola. Nella terza parte di Storia che serve per la quarta scuola del Ginnasio sieno dipinte le successioni degl' imperii e quasi una istoria delle umane società. Ma nel medesimo tempo che quest' opera debbe essere scritta con semplicità di stile e chiarità di pensieri, come particolarmente addimanda la tenerezza della gioventù, s' avverta che non tiene già lo scopo del Discorso sopra la Storia Universale, il quale è tutto rivolto alla formazione di un protettore della Chiesa e di un principe, ma debbe in quella vece avere a fine la informazione di un cristiano e di un suddito. Questo libro vuol essere dettato non solo con moltissimo senno, ma ben ancora con istile scelto e lingua legittima e tale ch' egli sia in un tempo medesimo sorgente d' istruzione di cose e di parole, e scusi ogni altro libro di lettura nelle grammatiche. Dopo conosciuta in tal modo la Storia Universale e dopo essersi formata quasi una dipintura de' più grandi fatti nella mente, dopo aver imparato altresì il modo di cavarne profitto al miglioramento dell' uomo, potrà il giovane arrivato agli studii della Rettorica posarsi più agiatamente nella Storia della patria e di tutta la monarchia, e in modo particolare di quella provincia e città a cui appartiene. Questa storia che è meno lode sapere che disonore ignorare, avvincola il cuore di molte dolci affezioni, ed il nutre di patrii esempi, i quali suscitano l' emulazione, e l' attitudine stessa ad operare le cose confacenti al ben della patria. Nella Filosofia poi succede la Storia de' progressi dello spirito umano, e tanto maggiormente questa storica narrazione de' pensamenti degli uomini potrà essere utile, quant' ella metterà più in mostra l' incredibile debilezza e fallacia del loro ingegno e il dominio cieco delle passioni, fino nelle menti più perspicaci, che in se stesse, e non nei lumi della divina rivelazione confidarono. E la varietà delle opinioni in tutte parti della filosofia insegnerà alla troppo celere e confidente gioventù la cautela in giudicare, la tardità in condannare, la larghezza in comportare opinioni contrarie alle proprie, e il pericolo dello stringersi soverchiamente ad alcuno degli umani sistemi: dalle quali virtù nasce la urbanità e la dolcezza delle dispute, la facilità della convivenza, e la scoperta stessa della ritrosa verità. E questa storia torrà molto di lusso al Testo che poi si dovrà formare della Filosofia, il quale vorrà esser in tal modo composto che si possa aggiungere e quasi inserire nella storia stessa, giacchè egli debbe insegnare a portar giudizio delle diverse opinioni, e dare in mano il filo per non ismarrire nell' infinito labirinto delle umane disputazioni. La Filosofia e la Storia della filosofia sono indisgiungibili, ed è necessario dirò così che si mescano insieme. Gli errori sono quelli che spingono nella maggior sua luce la verità, la quale annunziata sola e senza la contrapposta falsità non rimane nella mente che fornita d' una sua luce modesta e niente viva e risaltante, giacchè egli è da' confronti che viene scossa e tirata la maggior forza della nostra attenzione. D' altro lato ad una grande ed alta verità la mente non arriva d' un salto; ma l' è necessario a ben conoscerla di fare quella scala medesima che suol fare nel rinvenirla: e quando si sono osservate le gradazioni che ha prese la luce di quella verità nelle menti degli uomini; quando si studiò cioè la storia di quella verità, allora si può fondatamente sperare d' averla concepita e penetrata a sufficienza: altramente ella non sarà ricevuta più addentro che nella memoria, o s' ella verrà mettendosi ancora nell' intelletto ci starà tutta inerte, senza vita, senza moto, e sarà come persona mezzo sconosciuta che in casa si alberghi, delle cui vicende poco si conosce, poco delle circostanze ond' è circondata. Ed io credo esser questa una ragione per cui decadano le più fiorenti scuole della filosofia quando sono già da lungo tempo stabilite; poichè nello stabilirle è l' ingegno quello che si mette in movimento mediante le dispute e le contese; ma quando una questione ha prevalso, allora viene consegnata alle memorie degli uomini come cosa già approvata, e così la vi si alloga come il fabbro ripone nell' armadio un lavorìo già compito, intorno a cui non gli resta più a fare, dov' esso a lungo stanziando irrugginisce e si guasta. Tale è la storia della scolastica: i suoi principii stagnarono per così dire nelle memorie, e tosto imputridirono. La sola Storia può salvare la Filosofia da questo decadimento, se si sa congiungerla alla medesima come ministra fedele: perciocchè essa è quella che fa rivivere gli autori delle grandi verità, che trasporta noi nel mezzo alle loro contese, che mette insomma il nostro ingegno in azione; e che il fa venire alle verità da se stesso, mettendolo su quella via che alle stesse conduce, non già trasportandovelo d' un tratto, e quasi per aria, senza ch' egli tocchi nè veda il sentiero onde altri ci va co' suoi piedi; questo secondo modo non è che insegnamento della memoria, giacchè questa è disposta a ricevere le verità, sebbene non veda per che lato si possa alle stesse venire; l' ingegno all' incontro non vi giunge mai di sì gran salto, ed ha bisogno di andarci, passo passo facendo. Per la qual cosa nè la Storia, nè la Filosofia sola dà una sufficiente istruzione alla studiosa gioventù; ma l' una e l' altra è necessaria; e perchè ottengano il loro fine debbono essere fatte l' una per l' altra. Senza la Filosofia la Storia è cieca, e fassi un noiosissimo andirivieni dello spirito umano, una successione d' opinioni tutte di egual peso, o più tosto di egual leggerezza, senza che vi si distingua giammai per entro la verità dall' errore, e che si possa l' una sentenza all' altra preferir con ragione. Senza la Storia, la Filosofia diventa così secca, così gratuita, così lontana dalle forze di un ingegno ancor nuovo, che non può ch' essere ricevuta sterilmente dalla memoria, e giacere in essa come un penoso ingombro, ovvero come un semenzaio di dubbi, e d' inquietudini interminabili a quello spirito, che cerchi di fecondare da se medesimo quelle verità, alle quali gli uomini non sono mai giunti se non trapassando per le verità intermedie, e spesso per tutto lo smisurato campo degli errori e dei sogni. La Storia dunque si può dire il veicolo della Filosofia, pel quale essa viene ricevuta ne' giovani e non ancora addestrati intelletti; la Filosofia all' incontro può dirsi la luce della Storia, la face che rischiara quelle vie, percorse dallo spirito umano, tortuose, mal tracciate, cupe. La Storia della filosofia poi, oltre esser così intimamente a questa raggiunta, sarà connessa con le parti precedenti di questi libri di storia, e da tutti insieme apparirà la concorrenza della potenza, della scienza e della Religione alla comune felicità. E in tutta questa storia dovrà essere per bel modo inserita la Cronologia e la Geografia antica e moderna, fornendo questi due lumi della storia di loro carte e tavole, nelle quali per amena maniera si faccia viaggiare e trascorrere il giovanetto. Lo studio poi della Natura è doppio, poichè o si considera nelle qualità fisiche, o nelle qualità metafisiche ch' ella porge. Queste seconde sono proprie veramente della Filosofia, e s' immedesimano colle dottrine dello spirito, sia di quel Sommo, autore della natura, sia di qualunque spirito conoscitore della medesima. Però alla Filosofia queste investigazioni sono riserbate. Ma considerando la natura ne' suoi fisici apparimenti, a due classi questi si riducono; poichè o riguardano le quantità delle cose, o le loro qualità. Questo studio della natura perciò potrà essere in due opere digerito. La prima delle quali conterrà le cose matematiche, la seconda le fisiche. La scienza matematica avrà tre parti: l' aritmetica all' uso di tutta la Grammatica, la geometria all' uso della Rettorica, l' algebra all' uso della Filosofia. Certo io credo che non si debba così tosto, come si suole, introdurre i giovani nell' Algebra, ma bensì prima nella Geometria, non operando l' ingegno umano per salto, come per salto non opera nessuna cosa nella natura; ed essendo la Geometria atta al ragionamento, e però acconcia preparazione a filosofare, quando nell' Algebra non abbiamo un ragionamento continuo, ma solamente a principio della operazione, dopo il quale il calcolatore pare abbandonato ad un cieco meccanismo. Conviene che la mente del fanciulletto sia fatta discorrere e ragionare di continuo a quel modo che si fa colle cose della vita, e questo è proprio de' metodi geometrici degli antichi, tanto lodati da quel solido spirito di Newton. Ma riguardo all' Algebra, certo è da sperar grandemente che si possa ridurre tutto il calcolo in un corso più regolare ed ordinato e far che gli Elementi che si danno al tempo della Filosofia si raggiungano meglio a quella scienza del calcolo che forma lo studio della Università. Il che sembra si potrà ottenere allora, che queste scienze, che pur tanto hanno avanzato a' dì nostri, si faranno vie più vicine a toccare la perfezione: giacchè è da confessare che se rapidi furono i loro passi, e grande lo spazio percorso; quella rapidità però fu vinta e smarrita nel campo immenso della natura, e nei profondi misteri della quantità. Ma quando la scienza sarà prossima alla perfezione, si potrà pensare a disporla in un ordine elegante e semplice, giacchè non si può mettere insieme un vago edificio, quando prima non siano preparate a parte a parte tutte le pietre ritagliate, e tutte le sculture, che il debbono comporre e adornare. E allora sarà tolta via quella scienza di mezzo che ora si chiama Introduzione al calcolo, e verrà un corso solo e continuo su principii semplici ed uniformi dal principio sino alla fine; alla qual perfezione il Calcolo delle Funzioni analitiche pare che colla sua purezza e generalità già schiuda la via, o la faccia almen travedere. Di poi l' opera che riguarda la qualità della natura potrà partirsi in due, cioè in una piccola Storia Naturale e nella Fisica; la prima da darsi nella Rettorica a guisa di gradevole intrattenimento, e l' altra nel corso della Filosofia; dovendo essere la prima gradino alla seconda. Anche questi testi tanto saranno migliori quanto avranno maggiore connessione con tutti gli altri delle scuole a cui appartengono, sicchè servano a più scopi ad un tempo. In essi, oltre le cose insegnatevi, fiorisca e splenda la nitidezza della lingua e della elocuzione, e principalmente la Storia Naturale sia un esempio della proprietà delle parole, ed un fonte di diletto alla Imaginazione, che nella Rettorica si coltiva: e tutto poi s' accordi e quasi consuoni alla religiosa bontà. Come poi nella Grammatica oltre lo studio delle cose fu necessario lo studio delle lingue, istrumenti al conseguimento delle cognizioni, così l' uso di queste lingue già apprese è dato nella Rettorica, dove s' appara in che modo quelle acconciamente s' adoperino sì con legata che con soluta orazione a persuadere o convincere, facendo questo studio sugli esempi degl' Italiani, Latini e Greci scrittori, interpetrati co' sussidii della Geografia e della Cronologia date nelle scuole antecedenti e composte non senza questo stesso intendimento, e della Archeologia, di cui in questa occasione si daranno le nozioni necessarie; e tentando la imitazione di que' Maestri di bello scrivere per componimenti italiani, latini e greci con versi e prose. Nel che avrassi cura di non insegnare già tanto il pomposo ed il vano declamare; quanto il parlar giusto, ragionevole, efficace, e a tutti gli usi della vita proporzionato e confacente. E qui non posso tenermi, che io non chiami i precettori ad osservare un vizio dannosissimo che guasta le scuole di umane lettere; vizio che quasi passato per eredità e suggellato dalla lunga consuetudine si fece fors' anche caro altrettanto, quant' egli è deforme e sconvenevole, e voglia il Cielo che non sia di noia l' udir parlare contro lui, come contro cosa antica e reverenda. Ma io parlerò anche col pericolo di tirarmi sopra lo sdegno de' retori, e de' giovani loro ascoltatori. E comincerò osservando come il risorgimento delle lettere dopo i secoli di ferro movesse da una imitazione degli antichi esemplari; nè da altro muover potesse. Ed erano quelli esemplari di altissima eloquenza, e di squisita poesia: ma di qui appunto è che il male di cui parlo trovò dov' entrare nella italiana letteratura, e di questa nell' europea. Allora quegli esemplari di bellezza dovevano commuovere ad ammirazione, e quasi trarre fuori di sè per istupore, dimostrando l' apice dell' arte umana, ed un' estrema coltura dello spirito; perciocchè queste cose venivano dimostrate ad uomini quasi frenetici per bisogno d' intendere e di sentire, ma tanto in giù caduti dall' antica dignità sociale che più al basso scendere non si poteva; a cui perciò non che arridesse speranza di toccar sì alte cime di perfezione per opere d' ingegno e di favella, conveniva muovere i passi a ritornare pur una linea in su dalla valle profonda dell' ignoranza nella quale erano precipitati. Sicchè il parlare di Marco Tullio, ed il cantare di Publio Virgilio non sol parer dovevano cose singolari o stupende, come parranno fino che negli uomini rimarrà fiore di senno e di gentilezza, ma interamente miracolose; giacchè nè sentivano in se medesimi, nè in persona viva vedevano indizio di tanta delicatezza in sentire, di tanta altezza in concepire, di tanta perfezione in esprimersi; e però mancava loro un esempio che rendesse possibile alle loro imaginazioni quello, che vedevano in fatto: per il che dovevano imaginarsi che quelle scritture fossero opere di gente tutta d' altra natura ed indole dalla loro. E questo spiega quella non so quale incredibile riverenza, anzi pure vera superstizione, che al tempo del risorgimento delle lettere universalmente si vide per la sapienza greca e latina, e per la greca e latina letteratura; e il riferir quelle sentenze de' vetusti filosofi talora sì triviali e comuni, come oracoli atti a tagliare pel peso di loro autorità ogni più incerta questione, e ciò senza discernimento d' una all' altra autorità, purchè l' autore della sentenza con nome latino o greco si proferisse, e antichissimo fosse, o paresse: questo spiega quella sozza mistura delle autorità profane colle autorità sacre; quel miscuglio di Aristotile e di Platone con Cristo; e de' libri d' Ipocrate e di Galeno coll' Evangelio: questo spiega il paganesimo mescolato colla religione cristiana: e qui ancora quelle prediche mezzo favolose e mezzo vere, ove all' autorità di Mercurio Trismegisto succede quella di Paolo e di Pietro; quelle sculture in sulle facciate de' templi che ancor vediamo piene di fatti greci e romani alternati cogli ebraici, e le teste degl' imperatori idolatri confuse con quelle dei santi; e sul gusto medesimo le sfingi ed i grifi, e, con peccato minore, tutti gli eroi della seconda età delle favole: spiega finalmente quello stile di pensare e d' esprimersi in cui sono mescolati tanti contrari elementi, inamicabili; quello come Caos intellettuale, di cui pare tipo verissimo la « Divina Commedia », lavoro maraviglioso e fors' unico fra i monumenti dello spirito umano, ma ad un tempo così strano insieme e portentoso. E di questo Caos sono uscite l' arti recenti della bellezza, e specialmente l' arte della parola signora e quasi regina di tutte l' altre. Ma sono esse tratte pienamente da quel confuso miscuglio? è essa divisa pienamente dalle tenebre del paganesimo, la luce cristiana? è separata la verità dall' errore, la superstizione dalla pietà, e dal vizio la virtù? Questo è ciò di cui dubito, e di cui credo aver ragione di dubitare quand' io vedo ancora gli scrittori del paganesimo spiegati nelle pubbliche scuole promiscuamente cogli scrittori cristiani; e interpolati i loro costumi ai nostri; e le loro false virtù senza alcuna maraviglia poste al lato dell' evangeliche se non forse talor preferite. Non paiono ancora care a molti e venerate le inezie della mitologia? quasi che l' umanità che ha rinunziato coll' intelletto al falso culto degli Dei si senta pur dopo tanti secoli vincolata da una antica materiale impressione stampata da' padri e tramandata per generazione ne' figliuoli? No, non si purga mai nell' uomo istantaneamente una macchia impressionata da' secoli, ma con lentezza travasandosi d' uno in altro sangue, si scema e s' illanguidisce fino che forse dopo mille generazioni s' annienta. Saranno essi gli esemplari dei cristiani eroi, gli eccellenti comandanti di Cornelio Nipote? l' amore di una gloria consistente nella prepotenza e nella oppressione: l' amor di una patria producente l' odio degli stranieri; cogl' inimici la vendetta, cogl' impotenti la crudeltà: nelle prosperità la baldanza, nelle calamità la disperazione, il suicidio: son questi i documenti degni di una generazion d' uomini rinnovellata e ricreata nel sangue del Giusto? E pur la narrazione di Cornelio è il primo latte che s' istilla nelle menti dei giovanetti, e gli scritti dell' ambizioso Cicerone susseguono a confortare di precetti quegli esempi: e questa morale del gentilesimo s' ammira e s' encomia in cospetto della cristiana gioventù! Intanto il giovanetto tituba coll' animo diviso fra il precettore quando gl' interpreta i classici antichi, ed il precettore medesimo quando in altr' ora gli spiega co' santi precetti il Catechismo; e nel suo cuore discendono due elementi eterogenei, irreconciliabili, i quali si giacciono in quello non per formare giammai alcuna unità, ma come due germi consegnati ad un terreno ferace perchè si sviluppino al sopravvenire di favorevoli circostanze, ed a vicenda tendano di sottrarsi l' umore e d' isterilirsi. Ed in tal modo alla ventura riman commesso quale de' due germi avrà nella vita occasione di più precoce e più potente sviluppamento, se il germe cristiano, sicchè col vigore delle poste radici vada a vincere la mala semenza che gli cresce da lato; o il germe pagano sicchè strugga e spenga coll' avide e tenaci papille la semenza buona ma troppo tarda a mettere, e debile troppo: o pure lasciandosi tutt' e due in tenue vita, rimangano l' uno dall' altro ammorbati e invaniti. Avevano già i Padri della Chiesa preveduto il danno che ai grandi interessi dell' umanità apportava la gentilesca letteratura; e n' avevano scoperta ed inseguita con eloquenti parole la menzogna che in quella si nascondeva, il fermento della vecchia malizia; intanto che lavoravano d' altra parte a torre all' Egitto le sue ricchezze per arricchirne la casa di Dio; cioè a creare una nuova letteratura tutta innocente, tutta cristiana, nella quale fossero le bellezze dell' antica ripiantate senza il veleno corrompitore: e già l' eloquenza cristiana, già la cristiana poesia porgeva al mondo nuovo diletto, nuova meraviglia, dove tutta miravasi la sublimità del genio umano sollevato insino al cielo, e coronato la fronte di raggi divini. Poichè i Padri avevano ben veduto che senza una letteratura non poteva stare l' umanità; ma questa nasceva come spontanea espressione dell' umanità stessa; e come l' umanità si rinnovellava per l' Evangelio, così doveva per esso rinnovellarsi la letteratura che n' esprimeva la condizione e lo stato. Ma non ebbero tempo i primi Padri di condur l' opera a perfezione, perocchè giunti i Barbari in sul mondo civile spensero ogni lume di lettere, e l' umanità misero in tal condizione ch' ella tanto avesse a pensare alla sua esistenza, che più tempo non le sopravanzasse da pensare ai suoi ornamenti. E volsero dieci secoli prima che l' umanità trovasse questo tempo, quest' ozio, in cui fatta sicura di non perire, si rivolgesse alla gentilezza delle lettere e delle arti; ed allora, come dicevo, prendendo l' uomo la via che prima e più facile trova aperta da pervenire al suo scopo, si diede all' imitazione delle lettere antiche, anzi che alla creazione di nuove lettere; e si converse anzi ai greci ed ai romani che ai cristiani scrittori, sia perchè quella letteratura pareva più formata ed intera che la cristiana, ancor giovane e ne' suoi principii interrotta dalle pubbliche calamità; sia perchè la corruzione del secolo cercasse più terrene e più profane dilettazioni; sia finalmente perchè il genere umano, miseramente immalinconito dalle sventure di tanti secoli, sentisse potentemente il bisogno d' una più indulgente ilarità e gaiezza, che rasserenasse i suoi aggravati e profondamente intenebrati pensieri. Per questo forse dopo avere san Carlo Borromeo cercato di surrogare alla profana letteratura la sacra, e in luogo di Cicerone sostituire nelle sue scuole la spiegazione del Catechismo romano; si consigliò di rimettere nell' insegnamento il classico antico, come necessario a dar lustro alle nuove lettere, come miniera di ricchezze non ancora intieramente scavata ad adornamento della Chiesa; e specialmente come una storia di ciò che fu l' umanità, perchè al suo confronto risplendesse maggiormente ciò che è, per potenza dell' Evangelio. E quest' ultima ragione non cesserà mai di rendere necessario lo studio della letteratura idolatra, finchè l' uomo soggiaccia a quella legge intrinseca a sua natura, per la quale solo mediante i confronti egli può conoscere le misure delle cose. E quindi non si potrà giammai proporre che sieno rimossi i Classici greci e latini dalla cristiana educazione; ma che sieno a' principii cristiani sottomessi, e con questi giudicati, e censurati, e spiegati ai fanciulli; che sia in somma l' istruzione de' Classici antichi accordata coll' istruzione del Catechismo; sicchè tutto formi quella unità che è la gran regola di tutta l' educazione, che la rende forte, che dà all' animo del giovanetto una forma sicura ed unica; e non lascia in esso delle confuse traccie ed incerte, degli elementi discordi, dei semi della morte sparsi a piene mani fra i germi della vita. E perciocchè come dissi la stessa letteratura italiana non è ancora monda al tutto di que' vizi pagani, perchè figliuola di quell' antica falsa e quasi direi lisciardiera, sicchè ritiene alquanto de' modi e costumi sozzi della sua madre; perciò gli scrittori stessi della classica letteratura italiana vanno cautamente letti a' giovani, e come gli antichi debbono essere preparati loro appositamente con iscelta e con corredo di note e d' osservazioni, che chiami e castighi la loro morale ed il loro spirito colla severa legislazione e collo spirito de' cristiani. E di questa necessità i Gesuiti maestri s' erano accorti, i quali ci diedero molti classici latini saviamente acconciati per l' istruzion giovanile; nel che tuttavia rimane ancora un lavoro non sì leggero a condursi alla perfezione desiderata. E più ancora a questo scopo gioveranno le note saviamente poste, che la scelta de' luoghi da spiegarsi alla gioventù raccomandata da Quintiliano. Perciocchè un autore mozzato e tronco, non può giammai essere esempio di perfetta bellezza, e le menti de' giovani non si possono pienamente ammaestrare di tutte le finezze ed i secreti dell' arti, dove non sia scoperta e visibile ai loro occhi tutta intera l' opera dell' eccellente artefice; giacchè solo nel porre il tutto è la perfezione dell' arte; e le altezze maggiori dell' ingegno si discuoprono sentendo il pieno accordo maestrevolmente ritrovato di tante parti. Ma questa piena intelligenza non è però cosa da fanciulli: il perchè sembra da rimettersi questo studio all' Università, accontentandosi di far sentire nelle scuole dell' Umanità a' giovanetti quasi alcuni sorsi di quella bellezza, di che potranno abbeverarsene pienamente venuti ad età più matura, come riposo fra' gravi studi delle scienze sociali. E volendo istituita nell' Università questa pubblica scuola di letteratura, ella verrà ad essere il compimento di una educazion letteraria: giacchè nella Umanità si schiude l' animo del giovanetto, se lo dispone a sentir la bellezza delle lettere, e se lo invoglia delle medesime, porgendogli quel dolce ch' egli può utilmente assaggiare: nella Filosofia dove si fa più maturo per ingegno gli si apre innanzi nella Storia della letteratura, intrecciata a quella dell' altre scienze e specialmente della Filosofia, tutto il campo o il giardino, per dir così, delle lettere; e nella Università finalmente gli si fa conoscere a pieno tutto l' artificio di qualche grand' opera letteraria, leggendola tutta pubblicamente ed interpretandola. E un gentile spirito italiano pur testè desiderava questa cattedra nell' Università, e voleva che si restringesse all' interpretazione di qualche opera nazionale, come ne' secoli precedenti appresso di noi fu in costume, e si lamentava, perchè così bello costume fosse mancato, con queste parole: [...OMISSIS...] . Ma tornando al corso della Filosofia, in esso oltre studiarsi l' Uomo colla Storia della letteratura, si studia colla Psicologia: la Natura oltre studiarsi coll' Algebra e colla Fisica, si medita nell' Ontologia e nella Cosmologia: le quali scienze uniscono in sè, o richiamano allo studio di Dio, che nella Teosofia sarà appositamente, quanto è conceduto allo spirito umano, contemplato. E qui di bel nuovo s' osservi l' unità e quasi direi la società, che la Filosofia debbe stringere con tutti gli altri studi minori non solo, ma ben anche maggiori. La Filosofia debb' avere una tal colleganza colle scienze dell' Università ch' ella sia veramente il loro sostegno, anzi la loro generatrice. Da essa debbono quelle, per così dire, apprendere la favella, giacchè sino che gli scienziati non ricupereranno una scienza e una lingua comune, non s' intenderanno giammai, e le innumerabili opinioni, delle quali un idoneo linguaggio è il solo conciliatore, rimarranno così contrarie in apparenza come non sono talora in realtà, e continueranno a tener gli uomini tanto divisi, tanto inimici fra loro senza cagione. Ma il legame più intimo che abbia la Filosofia colle scienze della Università è quello che la rannoda alla Teologia, nella quale debbe finalmente terminarsi e quasi rifondersi, perchè due scienze separate esser veramente non possono, mentre hanno un medesimo oggetto. Egli è vero che quest' unico oggetto sotto due forme e in due modi si manifesta, cioè col lume della ragione e con quello della rivelazione: ma questi due modi hanno una troppo stretta parentela fra loro perchè non si ravvicinino, giacchè egli sembra che l' uno non possa interamente stare senza dell' altro, e certo nel fatto giammai non istette. Ed a preparare questo desiderabile congiungimento o almeno questa pacificazione fra due scienze che sono fatte l' una per l' altra, sembra che sia tratta in luce la combattuta teoria del senso comune, o della ragione della specie, o dell' autorità, come che la si voglia nominare, toccando la quale un nobile ricercatore dell' antica sapienza scriveva, [...OMISSIS...] . Le quali parole esortano gli uomini alla libera comunione del sapere, a mettere insieme ciò che sa ciascuno, ciò che ciascuno seppe, per farne un pubblico e ben assicurato tesoro; terminando questa molesta proprietà esclusiva d' una scienza individuale, per la quale l' individuo aspira a nulla meno che alla tirannia sulla specie intelligente, e i molti individui disputantisi lo stesso scettro imaginario, alla distruzione fra loro: e le nazioni ed i secoli pugnan pur fra loro in tanto pazza e in tanto feroce battaglia. Perchè in quelle parole non è fatta menzione delle tradizioni de' primi padri, che hanno fecondato lo spirito umano? perchè non è fatta menzione di Dio, e di ciò ch' egli ha detto agli uomini nel primo tempo, onde fu suscitata la prima volta l' umana spontaneità? chi fu la prima cagione di quello spontaneo movimento? Chi offerse un oggetto sublime da contemplare all' intuizione immediata dell' uomo? (1). Egli è rispondendo a queste interrogazioni che si scuopre la via per la quale verrà tempo che il filosofico ed il teologico insegnamento non saranno che due parti d' una medesima scienza, l' una delle quali all' altra si continui, e la filosofia sarà allora l' amica del genere umano, giacchè sarà il risultamento di ciò che prima disse la rivelazione, di che poi s' accorse la spontaneità eccitata, cui fecondò finalmente la riflessione degli individui, sviluppò, schiarì, e in lucido ordine espose. Ma bastino queste poche linee ond' ho procacciato delineare un disegno di pubblica educazione, sopra la quale si potesse appoggiare e rilevar la privata. In questa è necessario preveder colla mente tutte le circostanze dell' allievo, della famiglia onde nacque, delle facoltà dell' ingegno suo, de' suoi sensi o arditi naturalmente e generosi, o placidi e attemperati: e da queste cose quasi recarsi co' suoi intendimenti a indovinare quelle destinazioni alle quali possa essere sortito dalla natura. A tutti adunque que' vari posti ai quali egli fosse sortito, o credere lo si potesse, sarà cura dell' educatore privato d' apparecchiarlo; e così di fornire il suo cuore di tutti quei nervi, e di tutti quegl' istrumenti che gli potessero venire opportuni ne' vari casi occorrenti di questa vita. Poichè se non si debbe formare l' alunno a cose fuori di tutte le possibilità, tuttavia rallargarlo si conviene alle cose massime, che da lui si possa aspettare o la patria o la umanità. Di pervenire dunque a questo non è altra regola ch' io sappia, se non lo sguardo acuto e precorrente del savio precettore, che nello stato dell' animo di lui, e in tutte le circostanze che l' attorniano, intravede i successi avvenire. Ma fermati con questo avvedimento i confini della istruzione, estesi quant' è necessario perchè provvedano al detto fine, ed avvisata la piega da darsi a tutti gli studi, e virtù esteriori, nelle quali fa più bisogno esercitare l' alunno (poichè delle interiori che il formano non si può ometterne alcuna) converrà dopo ciò porre all' opera la mano con quel metodo stesso ch' è già in principio di questa scrittura toccato. Cioè il metodo vorrà essere intero ed uno, come intera ed una volle essere l' istruzione delineata. L' interezza dell' istruzione vedemmo consistere nella concorrenza de' vari oggetti ben avvincolati fra loro ad un solo termine; l' interezza del metodo nella concorrenza di tutte le umane facoltà in ciascun oggetto, sicchè quella cosa che l' intelletto apprende anche il cuore senta, e l' opera manifesti. E a questo fine notammo in principio queste tre parti dell' uomo e quasi organi: l' Intelletto, il Cuore, la Vita: dovendo l' Intelletto trovare il Cuore che gli risponda, e dal Cuore procedere ogni virtù ad abbellire la Vita. E a far ricevere all' Intelletto le cognizioni, principale qualità del precettore è d' avere l' idea maturata e chiara, e le parole agevoli, nette, espressive. Nè tanto vale la chiarezza stessa, quanto la perfezione e interezza dell' idea, se pure può avervi idea non perfetta, degna d' essere appellata chiara. E ciò nonostante havvi una certa affettazion di chiarezza, che io più tosto direi superficialità, della quale chi ne volesse esempio potrebbe trovarlo negli scritti di Loke, e vie più in quelli di Condillac, come pure di tutta la loro scuola, la quale tiene un linguaggio che pare chiarissimo, e che promette di render dotti con lieve fatica, ma che non lascia finalmente nell' animo che una povertà estrema d' idee, con una immensa presunzion di sapere, e con una pure immensa temerità di pronunciare. E ad iscansare questa apparenza di chiarezza assai più nocevole della stessa oscurità, non bisogna sorvolare troppo lievemente in sulle idee principali, ma rivolgerle da tutte bande, fissarle, e precisarle co' loro caratteri, sicchè non si possano scambiare con altre: e avere attenzione, che la parola in progresso di ragionamento non venga insensibilmente a pigliar due sensi, e a generare in questo modo le fallacie. Questa diligenza nell' aggiustare e perfezionare le idee, forma la solidità del pensare e la logica pratica. Giova a questo fine la massima toccata di sopra di non mutare troppi autori, accontentandosi di libare qualche fiore in ciascuno, ma, come faceva il Bossuet col suo reale allievo, trascorrere tutti gli autori interi da capo a piedi, spurgando però innanzi quei luoghi che per mollezza o pravità di massima non sono da leggere a' giovanetti, e poi leggendo ed interpretando tutto il resto ne' vari tempi del curriculo degli studi, divisi come dicevo. Ma perchè le cose buone insegnate piglino stanza nel cuore del giovanetto, due quasi strumenti si vogliono porre in uso; la qualità dello stile nell' insegnarle, e quell' arte di renderle care, che assai procede dalla discrezione delle indoli. Nello stile giova studiare principalmente quattro doti, dalle quali, quasi da quattro corde, svegliare quella soave armonia, onde si muove possentemente il giovanil sentimento: Abbondanza, Amenità, Tranquillità, Tristezza. Coll' Abbondanza si vestono le cose di molti colori, si presentano in molti aspetti, e s' infonde dirò così il modo o l' arte di maneggiare l' idea come più piace, e quindi di andare fino al fondo delle cose. Di questa utilità sono lontanissimi coloro, i quali schiavi del sistema non riconoscono più l' idea stessa s' ella non è collocata in una tale postura; e la credono un' altra allorchè tu gliela presenti in altro modo, e ti spregiano quello stesso concetto, che collocato per filo e per segno dentro a certo loculo da loro fissato ti lodavano a cielo come cosa nuova e profonda. All' incontro ella è nobilissima dote quella di potere padroneggiare l' idea, e volgerla a piacimento: e per questa facilità di riconoscere l' idea stessa da qualunque lato tu gliela volgi, gl' ingegni italiani sono singolari dagli altri, che più desti e più pronti mostrano una non so quale agevolezza mirabile nella varia celerità delle loro menti. E di questa abilità di trovare ed amare egualmente l' idea in qualunque veste, per così dire, s' avvolga, o a qualunque genere d' altre idee s' accompagni e consocii, nasce quella che io chiamo scienza delle convenienze; per cui quasi con tatto finissimo si sente in tutte le cose quello che conviene, e senza chiedere sempre rigorosa dimostrazione, che tanto spesso non si può avere, altri cammina con passo franco e sicuro, ed acquista l' attitudine del reggere una moltitudine conforme alla natura de' più, giacchè i più ubbidiscono anzi alle convenienze sentite, che alle verità ragionate: e perciò s' accontentano ed appagano assai sovente per l' osservanza d' alcune cose minute, pel rispetto d' alcune inclinazioni, d' alcune abitudini, d' alcuni sentimenti, onde risultano i genii delle nazioni, permalosa cosa e irritabile, e nè pur trattabile colla stessa giustizia, ma sì con quella scienza del convenevole, di cui ragioniamo. Molto intesero la convenienza delle cose in antico i Romani: e quando si leggano con questa avvertenza le orazioni di M. Tullio vedrassi che tatto fino della convenienza doveva avere e quest' uomo, e quel Senato. Nè quasi altra maestra può avervi, o v' ebbe (chi bene addentro considera) che facesse a pieno capire nell' animo degli uomini, non il sommo jure , ma anzi quel quasi rallentamento di esso e indolcimento che il compie, e che non è altro che il senso delle cose convenienti, se non l' Abbondanza della facondia. L' Amenità poi dello stile reca una cotale freschezza nelle menti, e aiutando le solleva dalla fatica dell' applicare. In questa Amenità studiavano desiderosamente gli antichi; perciocchè conoscevano che se il loro discorso avessero reso dolce e aggradevole, avrebbero già preparato e guadagnato l' altrui animo al ricevimento delle dottrine. Sono in questo maravigliosi i Greci ed impareggiabili, che tutto rendono grato al pensiero; e basta che noi entriamo ne' gravi argomenti versati co' dialoghi di Platone, perchè ne paia di ritrovarci nella verzura di un prato fioritissimo e dilettosissimo, anzichè in sugli scogli di filosofiche contenzioni. I Latini anch' essi bevvero di quella greca vena di dolce Amenità, ma non poterono deporre al tutto la gravezza del carattere, e quasi il ferreo delle armi debellatrici. Ma i nostri scrittori del Trecento nati fra la mollezza de' più vaghi colli d' Italia, e spiranti le più dolci aure della vita, furono formati da natura a soavità ed amenità di stile impareggiabile, che si sposa forse meglio che ogni altro colla greca spontaneità. Parlava nelle bocche sì de' Greci che di que' buoni antichi Fiorentini la natura quasi ancora nuova ed innocente: e la natura è amena, e spira ameni pensieri e amene parole. Di tutta questa Amenità dello stile che ha le chiavi del cuore, sono lontanissime tutte l' altre nazioni: e quando s' ingegnano d' imitarla, ne fanno il ritratto, ma non ne conseguono giammai la carne e la vita. Ed è lontano di ciò il secolo stesso tutto frettoloso e impaziente e accidioso, perchè crede perdere il tempo se non accresce tesoro alla mente, e non sa ch' è in noi ancora un nobile senso interno da coltivare, e che le sole cognizioni della mente non ci rendono più felici nè migliori senza che questo senso del vero pratico sia bene educato e ben conformato, poichè quelle sono ciò che è molto peso d' oro all' avaro, a cui non è cuore, nè senno d' usarlo. Tra noi però non è ancora spregiata al tutto questa virtù del soave andamento dello stile: e per essa meritò bene della nazione Giuseppe Taverna per le « Letture de' Fanciulli » e per quegli « Idillii », ne' quali con lentezza di dolce parlare, quasi palpeggiando il cuore del fanciulletto, vi induce la virtù. Nè si può dire quanto questa Amenità di favellare, congiunta a certa semplicità, faccia pacato e tranquillo l' animo: terzo ufficio dello stile del precettore, il quale con ciò acquista la terza lode che in esso desideriamo, e che abbiamo denominata Tranquillità. Colla quale benigna disposizione che lo stile trasfonde nell' animo, questo si rende tutto acconcio a investigare posatamente la verità, a riceverla spassionatamente, e vagheggiarla con suo grande agio e diletto. Laddove lo stile rapido e focoso per l' incalzamento e quasi contrasto delle idee porta nell' animo una faticante ansietà, un' inquietudine, ed ancora un cotale offuscamento della mente, che la rende inetta o ad assicurarsi del vero, o a disaminarne le parti, o a guastarne la beltà. Nè io stimo meno una certa non so qual Tristezza, cui renda lo stile, ma non qualunque Tristezza. Perciocchè ve n' ha una perniciosa e nera che porta dolore e inquietudine: ma ve n' ha una altresì spontanea e pura, la quale nasce dalla verità del nostro stato umano, ed è tutta ad esso conforme e decente. Essa toglie quelle lusinghevoli promesse che l' Amenità stessa dello stile presenta all' animo giovanile, tanto credulo alle lusinghe d' una sensibile felicità, che in queste cose mortali gliela fanno aspettare vanamente costante; e nel tempo medesimo che attrista alquanto la natura corporea, solleva immensamente la natura spirituale a migliori e più dignitose speranze: e questa tinta di mestizia accompagna dovechesia il linguaggio della verissima Religione e ne segna quasi il lembo estremo, di cui pur tutto il rimanente aspetto si volge lieto e lucente. E così si compie lo stile che s' insinua nel cuore degli allievi di un precettore non solo ma di un precettore cristiano. In questo stile pertanto debbono essere scritti tutti i testi delle pubbliche scuole, ed egli potrà essere di regola onde scegliere gli antichi autori e trovare il modo di comentarli. E dopo ciò al precettore è necessaria la cognizione delle indoli, onde risulta quella delle ragioni e dei motivi che hanno maggior forza a muovere peculiarmente gli animi de' giovanetti affidatigli. Nel che ognuno sa quello che fu sottilmente scritto per tanti savi, sicchè è vano su di questo più oltre ragionare. Ma la cosa principale è quella di ridurre la vita del giovane in perfetta concordia cogl' insegnamenti. Se volessimo rilevare le contradizioni, che si danno nelle comuni educazioni, troveremmo cose ridevoli e dolorose. Poichè non sono più frequenti le buone massime pronunciate, che frequente non sia per l' opera stessa degli educatori l' esercizio delle cattive (1). E non niego che sia facile al precettore l' intonare meravigliose sentenze agli orecchi dell' allievo, difficile il farle eseguire. Perchè se per intonarle basta a lui il conoscerle, perchè riesca a farle eseguire debbe tenerne egli stesso la pratica, e precedere coll' esempio. Ma quanto è più difficile, e quanto è più trascurata questa seconda parte dell' educazione, che la vita non contradica in nessuna cosa giammai ai precetti, tanto è più rilevante, anzi è come il frutto d' ogni educazione. Ma il precettore perchè ci riesca vuole esser tale, che ne castighi severamente se stesso, e che educhi se stesso insieme col giovane: il che dimanda in lui e tale fortezza di mente da vedere le conseguenze pratiche de' precetti, e tale costanza di animo da non comportare giammai d' incorrere in alcuna contradizione. La vita dunque debbe rendere quell' ordine stesso, e quella unità in tutta la sua disposizione che abbiamo veduto esser necessaria nelle dottrine: la preziosità del tempo chiede che questo si pesi quasi in sulla bilancia dell' orafo, e che di ogni particella se ne approfitti; preceda in tutte l' opere quasi capitana la Religione, e tutta la varietà degli altri studi, e delle altre occupazioni disposte bellamente per la giornata, la seguano come ancelle ubbidienti e fedeli: non sia preterito un dì, nel quale la meditazione delle cose celesti non ricrei lo spirito, e non lo indirizzi al suo fine, e lo spirito indirizzato al suo fine indirizzi tutte l' altre cose, e seco le trasporti a rendere gloria al suo Autore. L' ordine della vita laborioso e pieno, fedelmente custodito per lungo tratto di tempo, ordina altresì tutto l' uomo, l' abitua alla fatica e, quello che è più, non a fatica capricciosa, ma tutta regolata dalla ragione, e questa stessa ordinata fatica reca la sì utile calma e tranquillità dello spirito. Ma per quello che riguarda la pietà mi rimetto a ciò che ho scritto più distesamente nel libro « Della Educazione Cristiana » (1). Adunque lo spirito della nostra Religione vuole che consideriamo l' uomo tutto insieme: vuole che tutto in esso armoniosamente proceda. Debbono armoneggiare le scienze, debbono armoneggiare le facoltà. L' armonia delle scienze è la somma legge nel trattato degli oggetti della educazione: l' armonia delle facoltà è la somma legge nel metodo. Queste leggi pertanto s' abbia in vista la pietà dei Principi cristiani chiamati dalla Religione alla educazione de' loro popoli, ai quali fidatamente indirizzerò queste sacre parole: « « Poichè questa è la sapienza vostra, e l' intendimento in faccia a' popoli; acciocchè udendo tutti quanti questi precetti, dicano: Ecco un Popolo saggio ed intelligente, una gente grande » » (2). Tale è la vera grandezza de' Principi e delle Nazioni. Come la giustizia è il primo e il maggiore tra i doveri dei governi civili, così ella reca loro altresì la massima consistenza ed utilità. La giustizia infatti è quella che solo può procacciare al Governo la pubblica opinione e il rispetto: gli dà una dignità morale che non può dargli la potenza e la forza: lo innalza al dissopra dei partiti, e lo rende atto a reggerli, temperarli e conciliarli. Credo dunque di non ingannarmi dicendo, che qualunque questione politica dev' essere considerata prima di tutto dal lato della giustizia. Oso anche dire di più, che questa via conduce a trovare con facilità delle soluzioni inaspettate, così vantaggiose sotto tutti gli aspetti, che per trovarne di migliori invano si logorerebbe il cervello in calcoli laboriosi l' utilitario più perspicace. E` dunque desiderabile, che anche la questione della libertà dell' insegnamento si esamini spassionatamente sotto questo aspetto principale, specialmente dopo che essa fu riconosciuta e proclamata come un diritto in molte costituzioni politiche. Vero è che non si vide ancora attuata mai, ma non ci vuol molto a scoprirne la ragione. Le leggi fondamentali negli Stati moderni sono quelle che s' eseguiscono meno, perchè l' altre leggi devono eseguirle i popoli, e le leggi fondamentali devono eseguirle i Governi. I popoli sono obbligati all' esecuzione delle leggi comuni da' Governi; i Governi non hanno alcuno al dissopra, che li costringa a dare esecuzione alle leggi costituzionali, di cui anche si usurpano la interpretazione. Ci sarebbe l' opinione pubblica che potrebbe fino a un certo segno moverli a ciò, ma questa va assai lenta a formarsi, e non è mai formata sopra una cosa, di cui niuno ha un' idea chiara. E le cose di cui il pubblico abbia un' idea chiara quante sono? Appena col corso dei secoli una nazione perviene a formarsi un' idea chiara d' alcune poche questioni riguardanti i suoi più immediati interessi: e non si può pretender tanto da nazioni ancor novizie nel regime costituzionale. Fino a tanto dunque, che il popolo non ha inteso con sufficiente chiarezza un qualche articolo dello Statuto, egli soffre in pace, che il Governo lo dimentichi, ovvero accetta facilmente per buone tutte le scuse che gli siano date della dimenticanza, presumendo che il Governo intenda meglio di lui, e che le ragioni barbugliate saranno ottime. Ora la lingua più popolare di tutte è certamente quella della giustizia, e anche per questa cagione crediamo utile di determinare colle norme del diritto la libertà dell' insegnamento; chè la questione così trattata acquisterà qualche grado di maggior distinzione e chiarezza nelle menti dell' universale. E, prima di tutto, che cos' è la libertà? Fino che questa parola rimarrà indefinita, continuerà ad essere il pomo della discordia. E` tempo d' uscire d' ambagi. La libertà è « l' esercizio non impedito dei propri diritti ». I diritti sono anteriori alle leggi civili. Il fondamento della tirannia è la dottrina che insegna il contrario. Le leggi civili possono essere giuste, ovvero ingiuste, e in questo caso, con un' altra parola, sono tiranniche. Se le leggi civili non offendono i diritti, che sono ad esse precedenti, e si limitano a proteggerne l' esercizio, acciocchè da niun ostacolo esso venga impedito, sono giuste, e il popolo che vive sotto queste leggi è libero. Se le leggi civili pretendono di essere superiori a quei diritti che esistono prima di esse, pretendono d' esserne esse le fonti, d' esserne le padrone, sono ingiuste, e il popolo che ha un Governo fondato sopra una tale teoria, dell' onnipotenza della legge civile, è schiavo. Che poi questa teoria sia professata da un monarca o da alcuni maggiorenti, o da due Camere stabilite da una Costituzione, o da un Governo popolare, questo perfettamente è il medesimo: sotto tutte queste forme il Governo è perfettamente il medesimo. Sotto tutte queste forme il Governo è ugualmente una tirannide, quando la massima, su cui esso è fondato e da cui prende la norma di tutto il suo operare, è una massima ingiusta e tirannica, perchè invece di riconoscere e di rispettare i diritti anteriori, e anzi di tutelarli, gli annienta tutti in una volta. Veduto che cosa sia la libertà universale, dobbiamo vedere che cosa sia la libertà dell' insegnamento, e lo vedremo, applicandone quella definizione. La libertà dell' insegnamento è « l' esercizio non impedito del diritto d' insegnare e d' imparare ». Che esista un diritto d' insegnare agli altri, e d' imparare dagli altri, anteriore alla legge civile, quest' è facile a dimostrarsi. L' uomo ha il diritto di adoperare a fini onesti tutte le potenze dategli dal Creatore, purchè il modo con cui le adopera sia inoffensivo a' suoi simili. Infatti il Creatore col fornire l' uomo di varie ed utili potenze dimostrò la sua volontà, che le esercitasse a fini onesti, e coll' esercitarle e svolgerle ne accrescesse il vigore e si procacciasse tutti quei vantaggi e beni che esse sono atte a dargli. Altrimenti il Creatore avrebbe operato senza un fine, avrebbe date inutilmente all' uomo tante nobilissime facoltà. E quanto sia prezioso l' esercizio e l' uso delle proprie potenze, ognuno può intenderlo, quando consideri che è già un bene in se stesso, e che è il mezzo universale con cui s' acquistano tutti quanti gli altri beni. Se dunque l' uomo mette impedimento all' uso inoffensivo ed onesto delle potenze d' un suo simile, viola il naturale diritto e lo viola tanto più gravemente quant' è maggiore l' impedimento ch' egli vi pone. Il che dimostra che c' è effettivamente un diritto alla libertà in generale, cioè: « all' esercizio non impedito delle proprie potenze ». E da questo diritto generale discende quello della libertà dell' insegnamento, poichè uno dei più nobili e santi usi, che si possono fare delle proprie potenze, si è quello d' insegnare altrui cose utili e vere, e d' impararne da tutti. Egli è chiaro, che il diritto d' imparare da tutti è correlativo al diritto d' insegnare: e che offendendosi il primo si offende anche il secondo: perchè colui che impedisce all' uno d' insegnare, impedisce all' altro d' imparare da lui che insegnerebbe, se non ne fosse impedito. E` dunque manifesto che c' è un diritto naturale sacro ed inviolabile alla libertà dell' insegnamento. Questi sono principii semplici e innegabili; ma la questione si complica, e si rende difficile, quando si viene all' applicazione, non tanto per se stessa, quanto a cagione de' sofismi, ne' quali ella fu involta dalle passioni degli uomini prepotenti, ambiziosi, interessati. Noi vogliamo tentare di restituirle, se ci vien fatto, le più semplici forme. I limiti d' un diritto sono quegli estremi, oltre ai quali il diritto cessa di esistere, o, in altre parole, sono le condizioni alle quali esiste il diritto. Queste condizioni devono contenersi in un' esatta definizione del diritto particolare di cui si tratta. Così se noi riprendiamo la definizione data della libertà d' insegnamento « l' esercizio non impedito della propria potenza d' insegnare in modo onesto e inoffensivo »avremo i seguenti limiti essenziali alla detta libertà: 1 Limite . - La mancanza del sapere necessario: poichè, colui che non sa, è privo della potenza dell' insegnamento, che è il fondamento, dirò così, materiale del diritto; 2 Limite . - La mancanza d' onestà dell' insegnamento: non c' è infatti un diritto d' insegnare il male o l' errore; 3 Limite . - La mancanza d' inoffensività nel modo d' insegnare: non c' è un diritto d' insegnare, quando per poter insegnare si dovesse disturbare altri che attualmente insegnano, o si esercitasse qualche violenza per avere dei discepoli, il che sarebbe una lesione del diritto d' imparare. Laonde il diritto di insegnare non esiste se non alle seguenti condizioni; che ci sia: 1 scienza in colui che insegna; 2 onestà in ciò che s' insegna; 3 inoffensività nel modo di insegnare. L' esercizio non impedito del diritto d' insegnare così circoscritto, ecco quello che forma la libertà naturale giuridica dell' insegnamento, anteriore a tutte le leggi civili. Questi sono principii semplici che discendono dal comune diritto di ragione (1): chi può metterli in dubbio? Potranno metterli in dubbio certamente due generi di persone, che sgraziatamente non mancano d' esistere e di agitarsi nella umana società. Il primo genere consta di tutti quelli che non riconoscono l' autorità della morale. Costoro in conseguenza dell' assoluta loro negazione d' ogni morale, non possono ammettere che il naturale diritto d' insegnare abbia per condizione, che ciò che s' insegna sia onesto. Coll' annullar questo limite, essi falsano il concetto della libertà, sì in generale e sì in particolare di quella d' insegnare; e alla libertà vera sostituiscono una libertà bastarda d' insegnare tutto ciò che di erroneo può cadere in un cervello disordinato, e che di perverso può ascendere da un cuore corrotto. Il secondo genere consta di tutti quelli che asseriscono, anche con ostentazione, di ammettere una morale: ma la morale che ammettono è dimezzata, accomodata alle loro passioni, e a' loro interessi, non ricevuta qual è, qual dev' essere, ma fattasi da se medesimi a mano, secondo il lor proprio gusto. Snaturano costoro quel limite morale della libertà d' insegnamento di cui parliamo, e compariscono in sulla scena pubblica anch' essi come partigiani d' una libertà bastarda: non di rado più bastarda ancora di quella de' primi; poichè questi non riconoscendo morale di sorta, vogliono che tutto, e il bene e il male, possa essere insegnato da tutti, laddove i moralisti ad uso dei propri interessi, proclamano molte volte la libertà d' insegnare il male, e impediscono poi ipocritamente la libertà d' insegnare il bene. Da queste due specie di libertà bastarde è da tener conto, per non confondere i nostri pensieri. A queste condizioni il diritto alla libertà dell' insegnamento è universale, cioè hanno diritto d' insegnare ai loro simili tutti indistintamente gli uomini dentro i tre limiti indicati. Ma poichè questi limiti non si verificano sempre, e non si osservano da tutti, o non si possono osservare, perciò il diritto d' insegnamento, che in teoria è universale, nel fatto esiste in diversi gradi nei singoli uomini, o nelle singole società insegnative che essi formano tra loro. Considerato dunque non nella sua possibilità astratta, ma nelle sue varie attuazioni, il diritto d' insegnamento diviene concreto . La rivoluzione francese nello stesso tempo che distrusse molti abusi, ebbe per effetto di recare il dispotismo de' Governi civili al più alto punto, di concentrare in essi tutti i poteri con un' assoluta negazione de' limiti morali, e d' insegnar loro a confiscare con molt' altri diritti naturali anche quello della libertà d' insegnamento. In questo modo i Governi istituiti per la tutela dei diritti di tutti gli uomini, diritti che preesistono per natura e per ragione all' istituzione dei civili Governi, divennero i più tremendi nemici di tali diritti, che a se soli riserbarono, spogliandone le intere nazioni. Questa spogliazione scandalosa ed iniqua, se poteva da principio essere tollerata dai popoli ingannati e sorpresi da promesse mendaci e da frasi sofistiche ed entusiastiche, come quella che « tutti i cittadini nascono figli della patria, e però devono tutti essere educati dalla lor madre », non può durare tuttavia nello stato della presente civiltà. Laonde non pochi degli uomini più illuminati già deferirono alla pubblica opinione un tant' abuso di potere, e ogni dì si rende sempre maggiore il numero di coloro che protestano e domandano con coraggio ai Governi la restituzione di questa preziosa libertà perfidamente da essi usurpata. Questa minorità crescente è destinata senza dubbio a divenire una maggioranza forte, alla quale i Governi civili dovranno, o di buona o di mala grazia, abbandonare quanto tengono al presente di mal acquisto: e il pericolo allora sarà che si spoglino i Governi anche delle loro legittime attribuzioni all' insegnamento. Poichè ogni qualvolta s' ottiene qualche cosa con una lotta accanita di partiti, quand' anco non si tratti d' una lotta violenta e incerta, s' ottiene con eccesso: ed è per questo che la società civile oscilla tra un eccesso e l' altro, perchè i Governi non sanno cedere a tempo quello che è giusto, e con una cieca resistenza producono l' ira che toglie loro anche più del giusto. Mentre dunque c' è tempo si studi il problema del diritto speciale d' insegnamento, e si definisca qual parte di questo diritto appartenga a ciascuna di quelle persone giuridiche che accampano su di esso qualche pretesa. Quando a ciascuna sia lasciato lealmente ciò che le appartiene, s' avrà ottenuta una conciliazione, e per questa parte cesserà la società di essere agitata. Le persone giuridiche, sieno individue o sieno sociali, che pretendono d' avere un qualche diritto di insegnare o d' influire nell' insegnamento, sembra che in Italia almeno possano essere ridotte a sei, quali sono: 1 La Chiesa Cattolica; 2 I dotti; 3 I padri di famiglia; 4 I benefattori che col proprio danaro mantengono le scuole; 5 I Comuni e le provincie; 6 Il Governo. Esaminiamo dunque il diritto speciale che può competere a ciascuna di queste persone giuridiche, secondo i principii di ragione. La Chiesa Cattolica non ha solamente quel diritto alla libertà dell' insegnamento, che può competere a qualunque società onesta in virtù del diritto naturale, del quale solo abbiamo parlato fin qui, ma ella ha oltracciò un diritto d' insegnare agli uomini fondato sopra un titolo più augusto, cioè sopra un decreto di quel Re, davanti al quale tutti i re e tutti i Governi civili e lo stesso mondo, dice la Bibbia, sono un momento della bilancia, o una gocciola di rugiada che cade il mattino sul terreno (1). Gesù Cristo infatti diede agli Apostoli e a' Vescovi loro successori il comando e il diritto d' ammaestrare le nazioni con queste parole: « « Andate, ammaestrate tutte le genti » » (2). E le genti sono composte di Governi e di governati. Laonde la Chiesa Cattolica ha un dovere e un diritto divino d' ammaestrare universalmente tutti, e governati e Governi. La dottrina poi, che la Chiesa ha il dovere e il diritto di comunicare a tutti gli uomini, grandi e piccoli, è quella che le ha confidato il Salvatore, e che essa non può nè perdere nè alterare, avendole egli a questo fine promesso d' esser sempre con essa. [...OMISSIS...] Dal che deriva, che questo diritto soprannaturale d' insegnamento è esclusivo alla Chiesa Cattolica, cioè a quella parte della Chiesa Cattolica, a cui fu da Gesù Cristo affidato, e che si chiama Chiesa docente . Poichè essendo la prima condizione del diritto d' insegnamento, che chi insegna abbia la scienza , quelli soli possono insegnare con autorità nella Chiesa Cattolica, a' quali Gesù Cristo consegnò e guarentì inviolato il deposito della sua dottrina, e questi sono i Vescovi, il primo dei quali è il Romano Pontefice, e tra i sacerdoti, quelli soli, che a esercitare un tale ufficio sono autorizzati e mandati dai Vescovi. Ogni qual volta dunque alcun altro, fuori di questi, pretendesse d' arrogarsi l' autorità d' insegnare la dottrina del Salvatore, o di dare la missione per questo insegnamento, quantunque costui fosse un potente monarca, un governo civile, di qual si voglia forma o costituzione, altro nome non potrebbe ricevere che quello di violatore del diritto divino della Chiesa, d' usurpatore e d' impostore. Vediamo ora quali diritti più speciali circa l' insegnamento appartengano alla Chiesa, in conseguenza del diritto generale che ella ha, il quale, come dicemmo, è nello stesso tempo un dovere d' ammaestrare tutte le genti nella dottrina del Salvatore. La dottrina del Salvatore comprende il dogma, la morale, e tutti i mezzi utili a conseguire l' eterna salute: dottrina che viene tramandata di mano in mano, sia oralmente, sia per mezzo di scritti, i principali dei quali sono quelli che furono dettati da alcuni Santi, che ebbero l' assistenza dello Spirito Santo, e il dono dell' inerranza, riconosciuti per tali dalla Chiesa Cattolica, e raccolti in una Collezione che si dice Bibbia o Sacra Scrittura. Il primo diritto dunque più speciale della Chiesa Cattolica riguardo all' insegnamento è quello di predicare al popolo, e d' insegnare dalle cattedre a persone studiose le scienze dogmatiche e le morali, e i mezzi di conseguire l' eterna salute. La morale naturale è compresa nella morale soprannaturale, come i primi elementi sono contenuti in una scienza compiuta, e però errano coloro, i quali facendo una distinzione tra la morale filosofica e la teologica, quasi fossero due morali totalmente separate, pretendono spogliare la Chiesa Cattolica del magistero della prima, lasciandole solo quello della seconda. Costoro o dimostrano una ignoranza molto grossolana, ovvero sono uomini di mala fede. Da questo primo diritto della Chiesa Cattolica deriva un secondo, ed è quello di vegliare sopra ogni altro insegnamento, e su tutta l' educazione dei fanciulli, e oltracciò su tutti i mezzi coi quali i fedeli comunicano tra loro le dottrine, il principale dei quali è la stampa. Se dunque la Chiesa Cattolica rinviene in tutto ciò qualche cosa che possa essere o contrario alla vera dottrina di cui essa sola conserva intemerato il deposito, o di pregiudizio all' eterna salute dei suoi figliuoli, essa ha il diritto, il dovere e l' autorità d' avvisarli del pericolo, e d' impor loro l' obbligazione di guardarsene, e di punirli altresì colle pene sue proprie se disubbidiscono alle sue materne prescrizioni. Un terzo diritto speciale della Chiesa Cattolica si è quello d' istruire ed educare essa sola i suoi propri ministri, e d' ascrivere al Clero quei fedeli che ne creda degni, e chiamati da Dio al ministero sacerdotale. Dovendo essa tramandare il sacro deposito della salutare dottrina di generazione in generazione sino alla fine del mondo, è chiaro che tocca a lei sola a scegliere le mani fedeli a cui confidarlo, e che ella sola è quella che può farlo passare in altre mani perchè ella sola ha in proprio la scienza di cui si tratta, ed ella sola altresì ha la missione e la facoltà di mandar altri, come questa facoltà l' ebbe pure Gesù Cristo compresa nella sua missione, onde egli disse: « A quel modo che il Padre ha mandato me, così anch' io mando voi »(1), cioè colla facoltà di mandar altri che vi succedano. Finalmente c' è un quarto diritto non meno essenziale alla Chiesa degli altri tre, ed è che ella sola può applicare i suoi ministri all' insegnamento, essendo d' essenza dell' organismo della Chiesa Cattolica, ch' essa sola possa disporre liberamente dei suoi ministri, i quali d' altra parte sono legati ai Vescovi con solenne promessa d' ubbidienza emessa da essi nell' atto di ricevere l' ordinazione. Tali sono i diritti essenziali della Chiesa Cattolica riguardo al pubblico e privato insegnamento: e questi diritti non recano pregiudicio alla libertà dell' insegnamento, anzi ne costituiscono una parte essenziale. Il che si vede tostochè si rammentino le condizioni di questa libertà. La prima di queste si è, che chi insegna abbia la scienza di ciò che insegna. Ora trattandosi della dottrina rivelata, la sola Chiesa, come dicevamo, n' è la depositaria, e però a lei sola s' aspetta d' autorevolmente insegnarla, non rimanendo agli altri fedeli che il dovere di professarla, e la facoltà di propagare intorno a ciò quello che hanno imparato dalla Chiesa, o attinto alle fonti dalla Chiesa approvate senza nulla aggiungere di contrario a quello che insegna la Chiesa stessa. La seconda condizione si è, che ciò che s' insegna non sia erroneo e pernicioso. Se dunque la Chiesa veglia sulla dottrina, e impedisce che s' insegni quello che è contrario alla rivelata verità, ella con ciò non entra nell' altrui diritto d' insegnare, non pregiudica la libertà dell' insegnamento, perchè questa libertà cessa appunto lì dove incomincia la Chiesa a far uso della sua autorità di maestra. Si può aggiungere qui un' osservazione, ed è che la Chiesa, di fatto, lungi dall' offendere la libertà dell' insegnamento, fu quella che ne assunse, sola al mondo, la tutela, proteggendo tutte le opinioni innocue, e interdicendo con molti suoi atti agl' ingegni indiscreti l' arbitrio di condannarle e di vituperarle. Ammesse queste dottrine, che niun cattolico può negare, salva la sua fede, ne vengono queste conseguenze: 1 Tutti coloro, che sotto qualunque pretesto, impedissero alla Chiesa Cattolica l' esercitare questi suoi diritti, sieno essi o persone private o pubbliche, sieno governati o governi, offendono il libero esercizio dei diritti della Chiesa intorno all' insegnamento. E qualora i Governi civili ad un fine così riprovevole, abusando del potere civile che hanno in mano, promulgassero delle leggi, ovvero facessero intervenire la forza, commetterebbero un atto di dispotismo e di tirannide contro la libertà dell' insegnamento consistente, come dicemmo, nel libero esercizio del diritto d' insegnare; 2 Qualora un Governo civile s' arrogasse il diritto d' insegnare la dottrina religiosa, o di pronunciare sentenze in questa materia, sotto qualunque pretesto, o di obbligare i suoi governati a tenere o insegnare piuttosto una dottrina che un' altra, indipendentemente dalla Chiesa Cattolica, o impedisse loro di tenere o di professare quella della Chiesa, esso non solo offenderebbe il libero esercizio d' insegnare proprio della Chiesa, ma di più dispoticamente e tirannicamente si usurperebbe l' altrui diritto all' insegnamento, e sarebbe il nemico di questa libertà; 3 All' incontro, qualora un Governo civile impedisse ai suoi governati d' insegnare dottrine religiose contrarie a quelle della Chiesa Cattolica, non offenderebbe con questo la libertà dell' insegnamento, anzi la proteggerebbe. Poichè la libertà dell' insegnamento è inerente al diritto d' insegnare, e dove non c' è questo diritto, non vi può esser quello che non ne sia impedito l' esercizio, nel che consiste unicamente la vera libertà; 4 Qualora un Governo civile indipendentemente e contro la volontà dei Vescovi eleggesse al pubblico insegnamento dei sacerdoti, lederebbe manifestamente il quarto degl' indicati diritti della Chiesa Cattolica. Su di che dobbiamo fare questa osservazione, che fino a tanto che i Governi civili professano sinceramente e di buona fede il cattolicismo, è naturale che i Vescovi vedano di buon occhio, che egli si prevalga dei sacerdoti per un così utile ufficio, e tali Governi sono sicuri di operare colla tacita annuenza della Chiesa stessa. Ma se viene un tempo, in cui il Governo civile, di mala fede, si faccia il protettore di tutti i preti indisciplinati, scorretti e ribelli ai loro Vescovi: se per un bastardume di liberalismo distribuisca i posti più gelosi e più importanti della pubblica istruzione a' sacerdoti che lungi dal corrispondere ai doveri della loro santa vocazione, conducono una vita secolaresca, abbandonando anche i segni esteriori del loro stato, e vergognandosi delle vesti sacerdotali, o sdegnandole: in questo caso certa cosa è, che i Vescovi sono obbligati di ricordarsi della loro divina autorità sopra i propri ministri, e devono sollecitamente riprendere con più di forza le briglie che si sono forse allentate nelle loro mani in tempi di più fede e di più benevolenza dei Governi verso la Chiesa, protestando da una parte contro l' indegna usurpazione di tali Governi, usando dall' altra tutte le armi spirituali date loro da Cristo contro i sacerdoti ostinati, che loro ricusano la promessa ubbidienza; 5 Ma ancora maggiore si rende l' usurpazione del Governo civile, quand' egli s' arroga oltracciò di decretare indipendentemente da' Vescovi, quai sacerdoti devano attendere all' istruzione religiosa, e alla cura spirituale dei pubblici stabilimenti d' educazione. Questo lede non solo il quarto, ma anche il primo de' diritti speciali riguardanti l' insegnamento che abbiamo indicati. L' essere il Governo quello che contribuisce gli stipendi a' tali direttori spirituali non l' autorizza punto ad usurparsi l' autorità vescovile, alla qual sola appartiene per diritto divino l' istruzione religiosa e la cura delle anime, e ne' collegi e fuori de' collegi. Con questi modi dispotici, dunque, il Governo lede nelle sue parti più vitali la libertà dell' insegnamento, e merita il titolo di Governo al sommo illiberale . Salvi dunque gli accennati diritti della Chiesa intorno alla rivelata dottrina, le altre parti dell' istruzione e dell' educazione, sia pubblica sia privata, non sono punto d' esclusivo diritto del Clero, ma questo rimane rispetto ad esse nel diritto comune del libero insegnamento. E questo diritto comune importa, che come a nessuno può essere conteso l' insegnare, quando si verifichino le tre condizioni avanti indicate, così non possa esser conteso o impedito l' esercizio di un tale diritto nè anco al Clero nè secolare, nè regolare. Contro colui che vi ponesse impedimento, sia egli un privato, o sia un Governo, il Clero non reclamerà come Clero, ma reclameranno i sacerdoti come uomini per l' offesa libertà naturale. Al prudente e conscienzioso discernimento poi di quelli che hanno il diritto di scegliere i maestri, sia per sè, sia per altri (e vedremo in appresso chi siano cotesti) appartiene il conoscere su di chi nelle circostanze particolari giovi meglio che cada la loro scelta, appunto perchè deve esser libero anche il diritto d' imparare, che è correlativo a quello d' insegnare. Solo quelli che sanno possono insegnare agli altri, verificandosi solo in essi la prima condizione del diritto d' insegnare. Infatti il diritto è sempre una facoltà d' operare: dove dunque manca la facoltà fisica, manca il diritto, che è una facoltà morale, che s' innesta sulla facoltà fisica. Perciò lo stesso diritto che abbiamo attribuito alla Chiesa Cattolica, l' abbiamo fondato sulla facoltà che ella sola ha di comunicare la dottrina di Cristo, perchè sola la possiede in proprio. Che dunque i dotti abbiano un naturale diritto d' insegnare, non fa bisogno d' altra prova, essendo questo lo stesso diritto universale di cui abbiamo di sopra dimostrato la esistenza. Da questo diritto generale ne consegue ai dotti un altro speciale, che riguarda il modo dell' insegnamento, il diritto cioè d' insegnare con quel metodo ch' essi credono più opportuno. Infatti il metodo è scienza anch' esso, e a quelli a cui spetta il tutto per giusta conseguenza deve spettare anche la parte. Sarebbe una patente contraddizione concedere ai dotti il libero diritto d' insegnamento, e poi pretendere che essi non possano insegnare, se non con un solo metodo, e questo imposto loro da una mano invisibile, poichè quando il Governo lo impone, non si sa chi lo imponga. Quelli dunque che mettono qualche impedimento all' esercizio del diritto d' insegnare che hanno i dotti, e che s' arrogano l' autorità di stabilire preventivamente un dato metodo, obbligando tutti i dotti della nazione a seguirlo se vogliono insegnare, offendono la libertà dell' insegnamento. Consegue da questo, che i Governi civili, i quali stabiliscono un insegnamento ufficiale, hanno tre doveri da adempire riguardo ai dotti; il primo di non mettere all' esercizio del loro diritto d' insegnare alcun impedimento; il secondo di lasciar loro la libertà di seguire nell' insegnamento quei metodi che credono migliori; il terzo d' eleggere all' insegnamento ufficiale i maestri e istitutori imparzialmente tra i più dotti e degni che possono rinvenire. Diciamo qualche cosa di ciascuno di questi tre doveri che devono adempire i Governi, che vogliono acquistarsi meritamente la lode di liberali in questa materia. Mancano apertamente a questo dovere primieramente quei Governi che si riservano il monopolio dell' insegnamento. Poichè, supponendo anche che tali Governi eleggessero all' insegnamento ufficiale i più dotti, non è presumibile che i dotti nella nazione sieno appunto tanti, quanti i maestri ufficiali, nè più, nè meno, o che, fuori della classe dei maestri ufficiali, tutti gli altri cittadini sieno perfettamente ignoranti. Se dunque questo non si può supporre, rimane, che il Governo col suo monopolio leda il diritto al libero insegnamento di tutti que' dotti, che non si trovano nel novero de' suoi maestri ed istitutori. Il governo civile monopolista dell' insegnamento lede il diritto, di cui trattiamo, tanto se lo fa per via di leggi , quanto se lo fa semplicemente per via di atti arbitrari; perchè facendo servire le stesse leggi alla lesione, invece che alla protezione dei diritti de' cittadini, egli abusa d' una più veneranda autorità, qual è la legislativa; e l' infrazione dei diritti fatta per via di leggi è costante, universale, quanto s' estende la legge sistematica e irreparabile; e finalmente havvi un attentato di trasformare l' infrazione stessa del diritto in diritto, snaturando la natura delle cose, dico in diritto legale, sancito dalla forza pubblica, che in tal caso viene adoperata a sostegno dell' ingiustizia e ad oppressione de' cittadini. In secondo luogo mancano a questo dovere anche quei Governi, che, quantunque non si riservino il monopolio dell' insegnamento, tuttavia impediscono direttamente o indirettamente che i dotti esercitino con libertà il loro natural diritto d' insegnare. A questa specie di Governi, per lo più poco sinceri, appartengono quelli i quali con una cert' aria di libertà onesta ragionano in questo modo: « Noi vogliamo che a tutti sia libero l' insegnare, ma vogliamo che quelli che insegnano pubblicamente ricevano da noi la licenza, e la paghino, e prima di ricevere la licenza dieno delle prove della loro scienza. Le prove poi della scienza tocca a noi Governi lo stabilirle ». E su questo principio tali Governi stabiliscono una serie di prove più o meno difficili, più o meno costose ai candidati, più o meno lucrose al Governo e agli ufficiali del Governo; esaurite le quali, i candidati devono stare alla mercè degli esaminatori ufficiali dai voti dei quali impareranno a conoscere se siano tanto dotti da poter insegnare, o se non abbiano ancora acquistata quella misura di dottrina che ha tassata il Governo, o piuttosto che di volta in volta viene tassata dagli esaminatori, senza la quale misura opinabile e subbiettiva nissuno può insegnare. Se sia vero che questo sistema non mette alcun impedimento al libero esercizio del diritto d' insegnare, non è difficile il vederlo senza molte riflessioni; pure facciamone alcune. Primieramente da noi si concede che il frapporre impedimento d' insegnare a chi non sa, non è ledere la libertà dell' insegnamento come risulta dalle cose precedentemente ragionate: e però, se veramente questo solo facesse un Governo, niuno potrebbe dire, ch' egli perciò offendesse la libertà dell' insegnamento. Ma se il Governo, col pretesto di far questo solo , fa molto più, quel principio vero nol può purgare dalla lesione dei diritti naturali de' cittadini, ch' egli commette di fatto sotto quel pretesto. Ora il Governo può egli esser certo di escludere dall' insegnamento co' suoi provvedimenti i soli ignoranti? Può egli esser certo di non recare ad un tempo impedimento e danno ai dotti? E` egli necessario, per escludere gl' ignoranti dall' insegnamento, che il Governo civile aumenti leggi e disposizioni? Per incominciare da quest' ultima domanda, sembra affatto inutile, che il Governo civile si prenda tante pene, stante che gl' ignoranti o s' escludono da se stessi da un tale ufficio, che non possono compiere, o rimangono esclusi dall' istinto e dall' interesse di quelli, che bramando d' imparare, e avendo il diritto di scegliersi i precettori, non vogliono certo, almeno in generale parlando, sceglierli tra i più ignoranti, ricorrendo a quelli che non possono insegnare loro cosa alcuna. Una libera concorrenza adunque, aiutata da altri mezzi onesti, di cui parleremo a suo luogo, basta ad ottenere, che gl' ignoranti s' astengano dalla presunzione di fare i maestri di quel che non sanno. Si può di poi dubitare grandemente se il Governo possa fare la cerna che si propone de' dotti dagli indotti; se esso abbia qualche mezzo sicuro, col quale gli riesca di dare un taglio così netto fra dotti e ignoranti, che tra quelli che egli dimette come ignoranti, non rimangano alcuni che tali non sono, e tra quelli che egli corona per dotti, non se ne rinvengano dell' altra specie. Il prudente Governo deve conoscere le sue proprie forze e i suoi propri mezzi, e non accingersi a fare l' impossibile. Che se poi si considerano le accennate guarentigie, che per lo più i Governi, di cui parliamo, domandano a quelli, a cui essi si riservano di concedere il permesso d' insegnare, sarà facile il vedere, come le medesime, dalla prima fin all' ultima, violino apertamente il diritto che hanno i dotti al libero insegnamento. Già non è solo un impedimento, ma qualche cosa di più, questo solo che il Governo dica a tutti i dotti della nazione: « Io non riconosco punto il diritto naturale che voi avete all' insegnamento, se non siete dichiarati dotti da me con un brevetto ». Obbligare tutti i dotti della nazione a presentarsi al Governo, cioè a persone, che più fortuitamente che altro lo rappresentano in questa bisogna, per essere da tali persone dichiarati dotti a sufficienza per insegnare, per insegnare dico qualunque cosa, incominciando dall' abbici sino alle scienze più speculative, piuttosto che un impedimento, ha l' aria di un' impertinenza. Il Governo con questa pretesa da una parte obbliga tutti i dotti ad un atto di non piccola umiliazione, dall' altra gli obbliga ad un atto non troppo modesto, obbligandoli a farsi avanti per dirgli: « Eccoci, noi siamo dotti, approvateci ». Questa doppia condizione, che il Governo pone alla libertà dell' insegnamento, la condizione d' un atto umiliante, e in pari tempo la condizione d' un atto manchevole di dignità e di modestia, può considerarsi già come un atto di preventiva ripulsa, che il Governo manda ai veri dotti, ed ai migliori tra i dotti della nazione. Non basta però: i dotti, per ricevere l' approvazione governativa, devono subire esami ed altre prove distribuite in una serie più o meno lunga, quale piace di stabilirla ai Governi civili. Questo nuovo impedimento, posto al libero esercizio del loro diritto, è ancora più gravoso del primo. Con questo il Governo viene a dire a tutti i dotti della nazione: « Voi, che pretendete di esser dotti, e perciò d' avere il diritto d' insegnare, io vi obbligo, prima che possiate esercitare il vostro naturale diritto, a farvi discepoli, e ad essere esaminati come fanciulli ». E da chi esaminati? L' esaminatore, che fa da giudice e da maestro, e l' esaminato che fa da scolare e da giudicato, hanno la natural relazione di superiore e d' inferiore. Conviene dunque, che il Governo faccia l' una di queste due cose, o che stabilisca per esaminatori di tutti i dotti, che possono venire a presentarsi all' esame, persone dottissime, le cime della sapienza nazionale, in paragone alle quali, tutti gli altri possano essere ragionevolmente riguardati come semplici scolaretti, ovvero, non facendo questo, conviene che egli obblighi anche i più dotti a farsi scolari de' meno dotti di essi. La prima di queste due cose è tanto difficile, che non credo ci possa essere Governo tanto povero d' intelligenza d' aver il coraggio d' affermare, che quelli che egli stabilisce esaminatori e giudici in tali esperimenti, sieno i più sapienti tra quanti ci possono essere nella nazione. Quando anco il Governo avesse il buon volere di far una tale scelta ottima, è impossibile che i dotti principali vogliano prestarsi al penoso e ingrato ufficio di esaminatori e di giudici degli altri dotti. Il Governo dunque in questo sistema chiama per la necessità della cosa molti, che sono o possono essere più dotti degli esaminatori ufficiali, a subire l' esame e a ricevere la sentenza da questi men dotti di essi. Ma c' è qui patentemente lesione del diritto del libero insegnamento, anche se si considera solo una cosa, cioè che « il diritto d' insegnare sta in proporzione diretta della dottrina, e in quella vece il Governo fa nascere una condizione di cose, nella quale il diritto d' insegnare si trova in proporzione inversa della dottrina », di maniera che adopra in tali casi la sua autorità a far sì che quelli che ne sanno meno insegnino a quelli che ne sanno di più: il che equivale a un togliere il diritto ai dotti e darlo agli ignoranti. La perdita del tempo, gl' incomodi, le noie degli atti ufficiali, le brighe di molte formalità, sono tutti impedimenti posti da tali Governi alla libertà dell' insegnamento. Vengono in fine le spese: spese di viaggi per trasportarsi nel luogo degli esaminatori e dei giudici, e per ivi dimorare fuor di patria il tempo necessario alle prove prescritte: spese d' esami, spese d' attestati, spese di propine, spese di comparse e di formalità, spese e tasse di brevetti e di patenti d' approvazione: sono tutti impedimenti posti al libero diritto che hanno i dotti d' insegnare. Sembra che si voglia con tutto ciò piuttosto che provare la loro scienza, provare la loro borsa. Intanto è evidente, che per quanta scienza o anche sapienza avesse un cittadino, ogni esercizio del diritto naturale di insegnare gli sarebbe interdetto, quando fosse povero. Concludiamo, che in tali Governi non c' è punto la libertà dell' insegnamento, e l' esercizio del diritto naturale d' insegnare non vi è protetto, nè lasciato intatto; ma in molte maniere dalle leggi o disposizioni governative violato. Tuttavia è necessario intendere anche quelle ragioni, che si adducono a giustificazione di tali arbitrii governativi, da quelli che vi hanno interesse. Dicono che tali prove ed esperimenti non si fanno dai Governi collo scopo di porre impedimento all' insegnamento pubblico dei dotti, ma solo per allontanare dal medesimo gl' ignoranti. A questo è facile rispondere che non basta nel Governo la buona intenzione di non mettere impedimento ai dotti, ma conviene che non ce lo metta di fatto. Che se poi il Governo fa quello che non ha intenzione di fare, lungi che ciò lo scolpi, maggiormente lo incolpa. Poichè qual Governo sarà mai quello che vuol fare una cosa e non sa farla, e fa in quella vece la sua contraria? Dicono, in secondo luogo, che non è a presumersi che i primi dotti dello Stato si diano alla professione del pubblico insegnamento: però essi non riceveranno danno da tali leggi e disposizioni. Ma si risponde, che la legge è fatta per tutti, e che se molti uomini dotti non si danno all' insegnamento, questo nasce appunto a cagione che tali disposizioni umilianti, gravose e pedantesche, lungi d' incoraggiarli a dedicarsi a così utile ufficio, li ripulsano, e li disgustano del medesimo. Essa è forse una delle principali cause, per la quale in detto ufficio si ha a lamentare una moltitudine d' uomini mediocri per non dire inetti. D' altra parte, che il legislatore o il Governo, che assume la tutela del pubblico insegnamento, presuma in massa così male di tutti quelli ai quali soli egli riserva la facoltà d' insegnamento, e che su questa presunzione egli formi i suoi regolamenti e le sue leggi, non è certo cosa onorevole pel corpo insegnante della nazione, nella quale in questo modo il diritto d' insegnare sarebbe riservato dalla legge ai soli mediocri, come i soli, che, a giudizio del Governo stesso, a lui si rivolgono per averne la necessaria approvazione. Un Governo civile obbligando tutti i maestri ed istitutori a seguire un unico metodo da lui stabilito per ogni ramo d' istruzione, non è solo violatore del natural diritto al libero insegnamento che hanno i dotti, ma di più è nemico del progresso , e però quando si voglia chiamarlo col proprio nome (giacchè è necessario opporre nomi veri a nomi usurpati, co' quali si lavora di continuo a pervertire l' opinione pubblica), esso merita a buona ragione i titoli di Governo illiberale e stazionario . E` illiberale, perchè opprime la libertà giuridica dell' insegnamento: è stazionario, perchè inchioda il naturale svolgimento dei metodi, intorno ai quali non si dà più alcun progresso possibile nei metodi, dal momento che il Governo non vuole che si usi altro che il suo. « Eccovi, dice ai dotti, eccovi l' unico, l' immobile, il perfettissimo metodo che voi tutti dovete seguire, se pure vi piace insegnare, e, se non vi piace il mio metodo, v' obbligo a commettere la viltà di sagrificare quello che voi credete essere verità e scienza al mio volere, ovvero vi spoglio del vostro diritto all' insegnamento ». Il Governo che colle sue leggi e co' suoi decreti osa metter fuori una tale e tanta pretesa, l' una delle due, o deve credere, che il suo metodo sia l' estremo parto dell' umano ingegno, dopo il quale esso ingegno sia rimasto spossato ed esaurito, ovvero, se crede che in quanto al metodo ci potrebbe pur essere qualche ulteriore miglioramento, collo stabilire quel punto fisso, al quale devono tutti gl' insegnanti sostare, si dichiara inimico della scienza che sta al di là della meta da lui prestabilita, e però nemico del progresso. I metodi dell' insegnamento non si possono certo perfezionare se non per mezzo di liberi, assidui, e non contrastati esperimenti, che facciano i dotti, delle diverse maniere di comunicare il sapere, che essi concepiscono e che possono concepire essi soli. A ragion d' esempio, supponiamo, che il signor Girard avesse dovuto seguire un metodo determinato impostogli dal Governo civile, che cosa sarebbe divenuto di quest' uomo, e de' lumi ch' egli arrecò nell' arte dell' insegnare? Il povero sig. Girard sarebbe restato un uomo ordinario, uno de' volgari maestri che escono dalla forma stabile del metodo governativo, dalla quale la sapienza del Governo intende che devano uscire tutti uguali, quanti sieno per essere i maestri della nazione, salve però le pulighe, che ci rimangono nel gettarli. Così questo grand' uomo sarebbe stato perduto per la società, e la società avrebbe perduto con esso il frutto di tante sue amorose e ingegnose sollecitudini nella difficile arte dell' istruire e dell' educare. Quanti genii perduti! Quanti germi fertilissimi non si devono lamentare compressi e diseccati nelle nazioni da Governi così illiberali e stazionari! I Governi di questa fatta, che restringono tutto l' insegnamento nelle pastoie d' un solo metodo arbitrario, ch' essi elevano fino alla dignità d' una legge, a cui poi esigono che si presti una superstiziosa venerazione, sembrano al tutto persuasi che uno stesso metodo possa essere buono ugualmente per tutti gl' insegnanti. Ma chi non sa, che l' indole varia degli ingegni e delle naturali abitudini fa sì, che un metodo buono in certe mani, non sia più buono in altre, nelle quali un altro all' incontro sarebbe ottimo? Ora, quando i Governi dànno prova di non sapere nè pur questo, come è poi sperabile ch' essi d' altra parte abbiano la sapienza necessaria per trovare e decretare almeno un metodo ottimo in se stesso, se non ottimo relativamente a tutti i precettori? E qui s' avverta, che collo stabilire che fa il Governo un unico metodo d' insegnamento, egli proscrive spietatamente tutti gli altri. Quelli, a cui il metodo decretato non piacesse, sono irremissibilmente esclusi dall' insegnamento. Quelli che, dopo essere entrati nell' insegnamento, s' allontanassero in qualche parte dal metodo prestabilito, bene o male che il facciano, sono rei davanti il Governo, e per conseguenza sono molestati, rimproverati, puniti dal Governo, o dallo sciame de' suoi impiegati, a cui è commessa la vigilanza sull' esecuzione del metodo prescritto: onde non il bene o il male, il profitto o la mancanza di profitto della scuola, è ciò che si premia o che si punisce; ma la formalità del metodo legale diviene il grand' oggetto della pubblica autorità e de' suoi rigori! Un male ne tira un altro. Sovente nel metodo decretato si nasconde una fonte inesausta di vessazioni e di persecuzioni legali a persone le più benemerite, o che potrebbero rendersi tali: e molti eccellenti ingegni impauriti all' aspetto di questo tormento, o si rappicciniscono e ingretiscono, se sono abbastanza vili d' animo o bisognosi di pane, o s' astengono dall' applicarsi a una carriera resa così miserabile, se hanno l' animo nobile e non gl' incalza il bisogno di vivere. In tal modo il Governo si toglie ogni mezzo per conoscere e incoraggiare il vero merito degli istitutori, e invece di prendere un tono veramente benevolo e rispettoso verso di essi, non gli rimane che il piacere di trattarli come gente meccanica e dispregevole, dopo aver egli stesso contribuito a renderla tale. Cotesti Governi dunque alla ferula, che gli antichi maestri usavano cogli scolari, sostituiscono una ferula più crudele ancora pei maestri medesimi, e il loro liberalismo consiste bene spesso nel proibire severamente la prima, e nel maneggiare la seconda per diritto e per traverso, se non sui corpi, sugli animi e sulla stessa dignità umana. Questo dovere d' ogni Governo che mantiene un insegnamento ufficiale, ha il suo fondamento nella giustizia distributiva . Forse qualche Governo, o qualche governiale per lui, dirà (e non sono certo i soli Governi civili che così sragionano, ma pur anche i governiali): « Io ho il diritto d' eleggere gli istitutori ufficiali: dunque posso eleggere chi voglio, e niuno può lamentarsi ». A tutti quelli che hanno pretese così arroganti in un secolo di civiltà, conviene rispondere: « Voi fondate la vostra illazione sopra un diritto indeterminato di eleggere gli istitutori; ma sappiate che diritti indeterminati non ce ne sono: non c' è mai il diritto se non è definito da certi confini. Non si nega dunque, che voi abbiate il diritto d' eleggere gl' istitutori ufficiali, ma si aggiunge che questo vostro diritto non esiste se non ristretto dentro i limiti della giustizia distributiva: al di là comincia tosto il dispotismo, e la lesione dei diritti altrui ». Infatti il Governo è stabilito per amministrare i diversi rami che gli appartengono in modo da ottenere la migliore amministrazione possibile, e il bene pubblico che può provenirne. E però la nazione governata ha il diritto di pretendere ciò dal suo Governo; e se nol fa, è leso il diritto della nazione. Anche l' insegnamento ufficiale, posto che sia un ramo di Governo, deve essere condotto nel miglior modo possibile. Ma questo dipende dalla più giusta scelta degl' istitutori e maestri; e la miglior scelta è quella de' più dotti e idonei. Dunque quest' è un dovere giuridico del Governo civile. Ammesso questo dovere, resta a cercarsi in che modo il Governo possa adempirlo, come possa riuscire a collocare nell' insegnamento ufficiale i più dotti e idonei; e questo è certamente il punto più difficile, e dove più deve spiccare la sapienza governativa. Ma in generale è necessario d' ammettere le seguenti massime. 1 La maniera, colla quale devono essere eletti gl' istitutori ufficiali, non è arbitraria di maniera, che il Governo creda d' aver compìto il suo dovere eleggendoli in qualunque sia guisa, come se si trattasse d' un padrone che prende a suoi servitori quelli che vuole; 2 Le prove legali usate fin qui per riconoscere la scienza dei candidati, prove che arrecano umiliazioni, molestie e spese ai candidati, non conducono a trovare i migliori, ma piuttosto servono ad allontanarli dall' insegnamento, per le ragioni indicate di sopra; 3 I Governi devono stabilire de' metodi i più semplici possibili, co' quali pervengano a conoscere preventivamente quali siano i più dotti e degni d' essere eletti a maestri e istitutori invitando e allettando questi a un così nobile e santo ufficio, con modi rispettosi, cortesi, generosi, e non rendendo loro difficile e grave l' assumerlo, sia ponendo loro tra piedi impacci, incomodi e spese; sia ancor più, accogliendo quelli che vogliono darsi alla buon' opera dell' insegnamento con alterezza d' inquisitori e di giudici criminali, e con villana diffidenza; 4 Se il Governo lasciasse veramente libero a tutti l' esercizio del diritto d' insegnare, e tenesse nello stesso tempo un occhio imparziale ed amorevole sopra tante scuole ed istituzioni che nascerebbero da se stesse in tutte le parti della nazione, quando non fossero compresse o isterilite dal dispotismo governativo o dalla presunzione di scienza che hanno i governanti, gli sarebbe facile ritrovare non pochi maestri che, avendo già fatto il loro tirocinio in tali scuole, e date prove della loro probità, scienza ed attitudine all' insegnare, potrebbero essere da esso invitati a prendere un posto nell' insegnamento ufficiale, a ciò traendoli con emolumenti, onorificenze e vantaggi maggiori di quelli che possono avere in istabilimenti o scuole non ufficiali. Il Governo darebbe in tal modo uno stimolo, e questo produrrebbe un movimento in tutti quelli che si sentono chiamati all' ufficio dell' istruzione e dell' educazione, un movimento, dico, verso all' insegnamento ufficiale, un desiderio di distinguersi, per essere poi eletti od onorificamente invitati dal Governo stesso a prendervi parte. L' Inghilterra (di cui non lodiamo ogni cosa, come fanno certi signori entusiastici), l' Inghilterra, dico, con savio accorgimento, lungi dal mostrarsi ostile agli insegnanti, incoraggia gli stessi maestri privati, dando spontaneamente sovvenzioni e premi a' migliori di essi, e particolarmente premia con assegni in danaro coloro, che sotto di sè vengono formando degli assistenti o de' monitori, come colà si chiamano, i quali poi diventano anch' essi, dopo aver imparato coll' esperienza, buoni maestri; 5 Il Governo deve guardarsi dal pericolo che le elezioni e le promozioni de' maestri e degli istitutori ufficiali non siano fatte per via delle consorterie: non ci vogliono nè consorterie metodistiche, nè consorterie universitarie, nè consorterie di maestri, nè altra generazione di consorterie. Se il Governo civile abbandona fiaccamente in mano a certe consorterie le elezioni degli istitutori ufficiali (e si può dire lo stesso degli impiegati d' ogni dicastero) la giustizia distributiva è bell' e sagrificata all' interesse della consorteria stessa. E oltre che l' insegnamento ufficiale si dissecca e isterilisce in un circolo vizioso, è anche questo una fonte inesausta di discordie, di invidie e di partiti accaniti, che rendono il Governo stesso sempre più debole e sempre più odioso. Ma quest' è un pericolo così grave che gioverà ci torniamo anche sopra. I padri di famiglia hanno dalla natura e non dalla legge civile il diritto di scegliere per maestri ed educatori della loro prole quelle persone, nelle quali ripongono maggior confidenza. Questo diritto generale contiene i diritti speciali seguenti: 1 Di far educare i loro figliuoli in patria o fuori, in iscuole ufficiali o non ufficiali, pubbliche o private, come stimano meglio al bene della loro prole; 2 Di stipendiare appositamente quelle persone, nelle quali essi credono di trovare maggior probità, scienza e idoneità; 3 Di associarsi più padri di famiglia insieme istituendo scuole dove mandare in comune i loro figliuoli. Il diritto che hanno i padri di famiglia di far istruire ed educare da chi giudicano meglio la loro prole non è indeterminato, nel qual caso non sarebbe diritto, ma racchiuso entro alcuni limiti, oltre i quali cessa. Primieramente anche i genitori devono rispettare ne' loro figliuoli i diritti connaturali agli uomini tutti, diritti inalienabili ed assoluti. Perciò i padri di famiglia non hanno alcuna facoltà giuridica di dare o di far dare ai propri figliuoli un insegnamento che gli pervertisca, e se un Governo civile prende sotto la sua tutela questi diritti dei figliuoli, senza invadere, con questo pretesto, la sfera dei diritti paterni, egli esercita una legittima autorità, e adempie ad un suo dovere, perchè il Governo è istituito principalmente per tutelare i diritti di tutti. In secondo luogo, il diritto dei genitori è limitato dal diritto che ha la Chiesa Cattolica all' insegnamento. Come non possono i Governi arrogarsi nessuna autorità su questo insegnamento, così neppure i padri di famiglia: ma e padri e Governi devono dipendere con docilità dal magistero stabilito sopra la terra da GESU` CRISTO (1). In terzo luogo, il diritto che hanno i padri di famiglia di scegliere i maestri e gli educatori che credono migliori, non dà loro il diritto di prescrivere alle persone che eleggono o stipendiano a tale ufficio i metodi e le maniere dell' insegnamento: questo deve rimanere in piena libertà de' maestri stessi e degli educatori. E` vero che i padri possono giuridicamente parlando ridurre a convenzione la maniera dell' insegnare, nel qual caso gl' insegnanti coll' accettare una tale convenzione rinuncierebbero al proprio diritto: ma questo sembra inconveniente, generalmente parlando, come segno di sfiducia dato agl' istitutori, e una viltà da parte degl' istitutori stessi, che sono tenuti, senza bisogno di convenzione, di seguire quel metodo che stimano migliore e a non abbandonarlo per motivi di basso interesse. Riguardo, non di meno, alla parte educativa, dovendo essa venir condotta parte dai genitori, i quali non possono mai commetterla totalmente ad altrui mani, e parte dagli educatori, conviene, e che questi deferiscano ragionevolmente a quelli, e che gli uni e gli altri si mettano in pieno accordo e procedano con una perfetta coerenza ed unità. Finalmente il diritto de' genitori non è una facoltà arbitraria e capricciosa ma temperata dalla ragione e dalla morale: è una facoltà di fare del bene ai figliuoli, e non di far loro del male. I Governi monopolisti dell' insegnamento, come pure tutti quelli che concedono una libertà d' insegnamento di solo nome, inceppando in effetto con innumerevoli formalità e pesi l' esercizio del diritto di insegnare, come abbiamo veduto nel capitolo precedente, ledono anche il diritto dei padri di famiglia, a cui impediscono la piena libertà d' esercitarlo. Poichè è chiaro, che questo rimane tanto più vincolato nella scelta delle scuole e dei maestri, quanto più dal Governo si mettono impedimenti alle scuole e all' esercizio della professione di maestro. Vi hanno tra noi dei dottrinari, che riconoscono nei padri il diritto di fare istruire i loro figliuoli da persone di loro fiducia, scelte senza impedimento, ma poi aggiungono: « Ciò non ostante per al presente non conviene lasciare questa libertà ai padri di famiglia, perchè non ne sanno usare, hanno molti pregiudizi imbevuti nel tempo passato. Conviene dunque per ora privarli di quella libertà, fino che sieno formati alle nuove idee della giornata: allora poi gliela concederemo ». Quelli che così ragionano sono falsi liberali , il che è quanto dire non liberali , sono teste inconseguenti, senza principii. Col loro ragionamento distruggono ad un tempo il concetto del diritto e quello della morale: l' utilitarismo solo, sotto la parola d' opportunità , è rimasto nel fondo di questi animi, e fors' anco senza che il sappiano essi medesimi, perchè gli uomini inconseguenti senza saperlo non hanno numero. Infatti, qual principio seguono mai costoro? Nissuno per ripeterlo. Seguono forse il principio della libertà? Come mai, se suppongono che la libertà non sia qualche cosa in natura, ma una cosa che emana da essi, e in quella misura che essi a loro beneplacito concedono agli uomini ed ai cittadini? Come? se credono di poter disporre a loro arbitrio senza scrupolo alcuno della libertà di tutti, ed esser in facoltà di restringerla e di risecarla, e secondo l' opportunità del sistema del partito che seguono ora concederne una parte maggiore, ora una minore, e in tali modi e forme, che venga a favorire soltanto una consorteria, e non tutti quelli che n' hanno dalla natura il diritto? « Noi non vogliamo favorire una consorteria, ci rispondono; ma vogliamo, che prima di tutto i padri stessi acquistino sentimenti liberali, e sieno affezionati per istima di cuore al sistema costituzionale. Allora la libertà d' istruire ed educare i loro figliuoli, lasciata pienamente ai padri di famiglia, sarà opportuna, e noi loro la concederemo ». Ma, cari signori, volete voi da vero che i padri di famiglia acquistino sentimenti liberali? In che dunque fate consistere questi sentimenti liberali, che volete vedere in altrui, se voi stessi siete despoti fino nei più intimi visceri? Non è egli questo stesso un atto di orribile dispotismo il disporre dei diritti naturali dei padri, il vincolarli, l' impedirne l' esercizio, col pretesto, che non sono ancora divenuti come voi liberali? Non volete dunque la libertà, se non a favore di quelli che sono liberali come voi. Poichè chi siete voi, quando escludete tutti i padri di famiglia, se non una consorteria, anche piccola, di dottrinari? E per dottrinari intendo tutti gli uomini inconseguenti del giusto mezzo , e dell' opportunità. Di più considerate, buona gente, quanto il vostro principio di liberalismo, calante e crescente secondo l' opportunità, sia fatto tutto all' uso ed al comodo dei despoti i più sformati. Non istarebbe bene, anche in bocca di qualunque monarca o Governo il più assoluto, questo vostro ragionamento? « Noi riconosciamo pienamente la libertà come un diritto, ma dipendentemente da noi: la concederemo quando, a nostro giudizio (notate bene: a nostro giudizio come appunto dite voi) sarà opportuno il concederla: il popolo non è ancora adesso maturo ». Che cosa è il popolo se non i padri di famiglia? Quando voi dunque, signori dottrinari, negate la libertà naturale ai padri di famiglia, la negate al popolo: dite quello stesso che possono dire, e che dicono effettivamente i più assoluti Governi. Voi dunque avete l' assolutismo nel cuore e nella corata; e potete formolare il vostro liberalismo così: « Noi aspettiamo che i padri di famiglia diventino liberali, e allora diverremo liberali anche noi, cioè non impediremo la loro libertà. Per intanto vogliamo impedire la libertà altrui, contentandoci di riconoscerne il diritto colle parole ». Ecco il vostro liberalismo. Duole solamente di dover osservare che questo stesso ragionamento in bocca d' un Governo assoluto potrebbe essere vero ed onesto, quando esso non può essere tale sul vostro labbro. Il Governo assoluto non ostenta liberalismo, si crede obbligato di fare da tutore di quelli, che, non sapendo ancora usare della propria libertà, questa non varrebbe loro cosa alcuna. Se dunque un tal Governo giudica ed opera di buona fede, potrà ingannarsi, ma non sarà nè inconseguente, nè inonesto. Ma voi! Voi abborrite l' assolutismo, se vi si dà ascolto, voi riconoscete la libertà come un diritto di questo popolo, voi vivete in una nazione nella quale si dice che la libertà è la base del Governo, dove c' è infatti la libertà della stampa, la libertà di fare il male, d' essere empi e scostumati, senza alcun pericolo di perdere con tutto ciò il titolo di onorevoli. E poi avete tanta paura, che i padri di famiglia non siano liberali abbastanza per esercitare il loro diritto naturale di fare istruire ed educare i loro figliuoli da chi vogliono, e supplicate il Governo di circondarli d' impacci e di ritorte, acciocchè non possano esercitare liberamente questo loro diritto? E` questo un essere coerenti ed onesti? Volete dunque fare servi e schiavi tutti i padri di famiglia, per renderli così liberali al modo che siete voi! Il vostro spirito non è punto inclinato al liberalismo: voi evidentemente non tendete ad altro che a fare dei proseliti alla vostra consorteria , e per questo volete disporre voi soli dell' istruzione e dell' educazione, acciocchè questa consorteria, fatta potente, possa regnare con piena libertà; giunti poi all' intento vostro, allora troverete l' opportunità di gridare a tutti i vostri servi: « Non è vero che adesso siete liberi? ». Secondo voi, tutta la questione dipende dall' opportunità . Ma chi è che giudica dell' opportunità? Siamo noi, ci dite. Ma non ci siete altri che voi al mondo? E se altri giudicassero diversamente da voi? Certo che i padri di famiglia di cui voi portate un giudizio così abbietto, e che volete spogliati della libertà dell' istruzione e dell' educazione da darsi a' loro figliuoli, non potrebbero giudicare come voi, perchè giudicherebbero contro se stessi. Voi pretendete di fare la legge, e che essi la subiscano. Se dunque le opinioni intorno all' opportunità vanno divise, quale prevalerà? Voi dite: la nostra. Sia pure, ma dall' istante che vi sono opinioni contro opinioni, e non c' è nessun giudice che possa dirimere la lite, se prevarrà la vostra, prevarrà perchè siete più forti. Se in un altro momento vi trovaste più deboli, prevarrà la contraria opinione, e ancora sarebbe una prevalenza di forza. Voi dunque, lasciando la via del diritto per quella dell' opportunità, riducete la cosa a questo termine, che non sia più la ragione quella che impera nella società, ma la forza. Volendo dunque sostituita al diritto l' opportunità, che cosa fate, se non inaugurare il dominio della forza? E siete liberali? Se liberali vuol dire uomini senza principii giuridici, che vogliono regnare sul popolo in virtù della forza bruta, ogni qualvolta glie ne sia data loro l' opportunità , ve lo concedo. Ma veniamo alle strette, veniamo al fatto positivo. Qual è la ragione intima per la quale giudicate che i padri di famiglia non siano ancora abbastanza liberali per far buon uso del loro diritto naturale, di far istruire ed educare i loro figliuoli da chi loro ben pare? e che si deva perciò impedire la loro libertà, con vincoli posti appositamente per questo dal Governo civile? Ecco la ragione che voi non dissimulate. I padri di famiglia, attesi i sentimenti da cui al presente sono animati, se fossero liberi di scegliere le scuole e i maestri, metterebbero la loro confidenza nel clero regolare e secolare: è dunque opportuno impedirlo, acciocchè l' insegnamento diventi laico: e diverrà tale sicuramente quando noi prendiam tempo per insinuare nella vegnente generazione altri sentimenti. Il liberalismo adunque de' nostri signori si manifesta sempre più: tutto finisce in una intolleranza religiosa, e in un' ostilità al clero. Dico in un' intolleranza religiosa, perchè fino a tanto che ci sarà religione, si porrà sempre dai padri di famiglia una maggior confidenza negli istitutori ed educatori ecclesiastici, che non sia in istitutori laicali: è cosa naturale ed inevitabile, e basta a vederla il senso comune: la speranza di fare che il clero perda la confidenza a segno d' essere posposti, in così moralissimo e religiosissimo ufficio, al laicato, non può fondarsi ragionevolmente, se non sulla speranza di distruggere la religione. Dio mi guardi dall' attribuire questo pensiero agli avversari che abbiamo preso ad impugnare: siamo anzi persuasi che essi ne sono lontanissimi. Ma la conseguenza logica non è meno inevitabile. Qualunque siano i principii politici che prevalgono in una data nazione (purchè per principii politici non s' intenda, con mala fede, principii d' empietà) qualunque sia la forma del Governo, costituzionale o no, se si conserva la religione cattolica nell' animo de' cittadini, il clero sarà sempre il loro confidente, e in generale crederanno, che esso, dedicato come è per vocazione e per ufficio a tutto ciò che è santo, e che è intemerato, presti loro una assai maggiore malleveria per l' istruzione e l' educazione della loro amata prole, che non possano prestarla uomini secolari involti e spesso ingolfati nei pericoli, negli interessi, nelle brighe del mondo, e da queste continuamente divisi e distratti. Non rimane dunque per venire a capo di secolarizzare l' istruzione e l' educazione, se non l' espediente unico di distruggere il Cattolicismo, o di calunniare e di avvilire così fattamente il clero, che diventi l' obbrobrio degli uomini, e l' abbiezione della plebe. Ma poichè è ferma nostra opinione, che non è in potere de' dottrinari, nè di altri di distruggere in Italia la Cattolica Religione, e che la calunnia e la persecuzione non otterrà che l' effetto contrario, quello cioè di purificare, di ringiovanire, d' avvalorare il clero; perciò crediamo del pari, che non verrà mai l' opportunità , che aspettano cotesti signori, di lasciare inviolati i diritti de' padri di famiglia, e di non impedire la loro libertà di esercitarli. E` vano dunque sperare d' ottenere una sincera e piena libertà d' insegnamento da codesti nostri dottrinari dell' opportunità, giacchè l' opportunità loro non può venire: e guai alle nazioni, a cui venisse una tale opportunità! Ma, e la forma costituzionale del Governo non sarebb' ella messa a pericolo, dicono alcuni, se i padri di famiglia potessero far allevare i loro figliuoli da chi loro ben piacesse? Anzi consolidata. La forma costituzionale, se non offende la libertà giuridica di nessuno, se rispetta, se tutela i diritti di tutti, sarà amata da tutti: la cosa è naturale, gli uomini amano il bene che godono, e non il male che soffrono. Ma se voi, miei signori costituzionali, vi servite di questa forma di Governo per non lasciare al popolo altro che una libertà di nome, e una licenza di fatto, se sotto quella forma non rispettate più i diritti altro che secondo l' opportunità; se ad una consorteria accordate la libertà di dominare , parte colla forza, parte colle leggi fatte da essa, parte colla frode e col raggiro, e intanto mettete le manette ai padri di famiglia, e perseguitate quel ceto di cittadini, che è e sarà sempre il più rispettato di tutti i ceti, voglio dire il clero; se in una parola domandate all' ingiustizia e all' empietà la forza per fondare il sistema costituzionale, come è possibile, che voi lo facciate amare, questo sistema, e che lo rendiate desiderato? Non seminate voi stessi, così operando, l' odio e l' avversione del medesimo? E non raccoglierete quello che avrete seminato? Non siete voi che così confermate, moltiplicate, e in qualche modo giustificate i pregiudizi, anche ingiusti, contro la costituzione dello Stato, giacchè gli uomini, non molto atti a distinguere, attribuiranno ad essa quello che dovrebbero imputare forse solo alla vostra imprudenza, per non dire di peggio? Insomma, o credete che la forma costituzionale si deva fare amare e stimare da tutti i cittadini concordi spontaneamente , o la volete impor loro colla forza e col raggiro. Nel primo caso dovete mutare contegno, e cessare dall' opporvi alle libertà giuridiche di tutti. Nel secondo caso, come potrete voi aspirare al titolo di liberali, se non pensate che a imporre colla forza e coll' astuzia le vostre proprie opinioni politiche agli altri cittadini, costringendoli a diventare costituzionali col dichiarare loro che devono deporre le proprie opinioni e prendere le vostre, se vogliono partecipare anch' essi della libertà di cui al presente voi soli vi reputate degni, e v' erigete in giudici di quelli che sono degni? Ma per tornare a quello che dicevamo da principio, tutto il male sta in questo, che a voi, signori nostri, manca ogni principio di morale e di diritto. Voi l' avete in bocca il diritto, ma mostrate di credere che esso sia fatto a modo di calzetta, che ora si fa larga ed ora stretta. Poichè se « la libertà non è altro che il libero esercizio del proprio diritto », o convien negare che il diritto sia qualche cosa di sacro e d' inviolabile, o convien ammettere che anche inviolabile e sacra sia la libertà naturale e giuridica, di cui parliamo. Ma mettersi al disopra del diritto stesso, e credere di poterlo un dì restringere e l' altro dì allargare, non è questo uno scambiare il diritto coll' utilità e di più con un' utilità fallace? Il principio di quelli che usano la parola diritto nel suo vero significato, e non si servono di essa per coprire onestamente l' utilitarismo, è questo: « Il diritto è inviolabile, sempre, da tutti ». Il vostro principio è quest' altro: « Il diritto va rispettato secondo l' opportunità ». Merita forse questo neppure il nome di principio? Se è un principio, è il principio del dispotismo il più selvaggio, come dicevamo. Il Governo che si attribuisce di potere rispettare i diritti dei cittadini solamente secondo l' opportunità , può commettere qualunque concussione, oppressione, atto di barbarie secondo l' opportunità . Non c' è dunque qui il giusto mezzo: o il rispetto del diritto deve essere anteposto all' opportunità, o l' opportunità anteposta al rispetto del diritto. Nel primo caso non potete senza contraddizione riconoscere la libertà dei padri di famiglia come un diritto, e poi impedirne loro l' esercizio, consultando l' opportunità (già s' intende l' opportunità che risulta dal vostro particolare giudizio che imponete per legge a tutti). Nel secondo caso confessate che il dispotismo è quello che veramente volete salvo, e che gli avete mutato nome chiamandolo libertà, costituzione e simili. Un lamento universale di tutti gli uomini probi e onesti accusa il nostro secolo d' uno spirito di materialismo (1), che guasta profondamente le parti più vitali dell' individuo e della società. E veramente, benchè il materialismo dal secolo scorso in qua sembri aver perduto nell' ordine speculativo, s' è diffuso però immensamente nell' ordine pratico, ed è penetrato in tutte le relazioni della vita. Per questa via si è messa nelle menti la persuasione, che chi paga un altro uomo per qualche ufficio, acquisti una illimitata autorità su di lui e sull' ufficio, qualunque sia, che viene affidato alle sue mani contro uno stipendio assegnatogli. Col qual principio gli uomini che ricevono uno stipendio grande o piccolo, diventano veri servi. Il che è cosa tanto più sconvenevole, quant' è più nobile e liberale l' ufficio che sostengono. E pochi sono gli uffici più nobili e più liberali di quello di maestri e d' istitutori della gioventù. E` dunque a stabilirsi prima di tutto questo principio, che i maestri e gli educatori non devono esser trattati come servi , da chi dà loro lo stipendio, ma con riverenza e gratitudine pel servizio che rendono alla società. Premesso questo principio generale, è necessario che dividiamo in tre categorie quelli che suppliscono alle spese delle scuole e istituti educativi: poichè altri vi suppliscono per puro spirito di beneficenza; altri per ispirito di speculazione, traendo da tali scuole ed istituti guadagno per sè; altri finalmente suppliscono alle dette spese non del proprio, ma come amministratori del danaro altrui. Di ciascuna di queste tre categorie di persone si può domandare quali diritti loro competano riguardo all' insegnamento. Come abbiamo difeso i diritti che hanno i dotti all' insegnamento, e sostenuto che un Governo liberale dee lasciarne libero l' esercizio, così del pari diciamo, che tutte le anime generose che vogliono far del bene, e, per non uscire dal nostro argomento, vogliono istituire e mantenere del proprio scuole e collegi d' educazione, n' hanno un naturale diritto, e deve esserne lasciata loro la piena libertà d' esercitarlo. Deve loro essere ancora lasciata la libera scelta de' maestri ed istitutori, salvo il dovere morale che loro sempre rimane d' eleggerli con saviezza. Ma questo diritto ha egli de' limiti? Ripetiamo che nessun diritto ne è senza. Quali dunque sono? Non si dà diritto d' insegnare se non entro i tre limiti generali, indicati a principio, cioè che chi insegna abbia scienza , insegni cose oneste , e in un modo inoffensivo . Questi benefattori dunque sono obbligati di scegliere i maestri e gl' istitutori tra persone che abbiano il diritto naturale d' insegnare, cioè tra persone dotte e fornite di quella moralità che si richiede a insegnare cose oneste, e in un modo inoffensivo. I diritti dunque de' benefattori devono essere conciliati con quelli della Chiesa Cattolica e de' dotti e in tal modo quelli riescono temperati da questi. Abbiamo anche veduto, che è un diritto de' dotti lo stabilire i metodi dell' insegnamento. Non devono dunque i benefattori imporre a loro arbitrio il metodo che seguir devono i maestri nelle scuole; ma su questo punto dee valer anche pei benefattori quello che abbiamo detto parlando de' padri di famiglia. A certuni la libertà, che noi desideriamo, sembrerà soverchia. Ma quelli che così la pensassero, sospendano la loro sentenza, fino che abbiano inteso l' intero nostro pensiero: dopo aver letti questi nostri cenni fino alla fine considerino l' intero del sistema, e la relazione delle diverse sue parti. Avendo noi diviso l' influenza sull' insegnamento tra sei persone giuridiche, assegnando a ciascuna la sua porzione, egli è evidente, che intendiamo che coesistano tali diritti tutti insieme, e questa coesistenza simultanea è appunto quella, che per la stessa natura della cosa li modera reciprocamente e naturalmente nel loro esercizio, e gli armoneggia insieme. E per fare un cenno di questa specie di naturale limitazione anticipiamo qui qualche osservazione di quel più che diremo poi parlando de' diritti del Governo civile. Il Governo civile ha anch' egli de' diritti, che si riferiscono alcuni direttamente, altri indirettamente all' insegnamento, e anch' esso dee avere la piena libertà d' esercitarli, perchè la libertà è da per tutto dov' è il diritto, non essendo ella altro che « l' esercizio non impedito del diritto ». Facciamo dunque cenno di due soli de' diritti del Governo, riservandoci a parlar degli altri a suo luogo, e subito apparirà quanto essi, esercitati sapientemente, limitino nel fatto e legittimamente la facoltà che abbiamo data ai dotti, ai padri di famiglia e ai benefattori d' insegnare o d' istituire scuole e stabilimenti educativi. Uno di questi diritti del Governo, date certe condizioni, è quello d' istituire un insegnamento ufficiale. Ora l' insegnamento ufficiale limita di fatto e legittimamente gli altri insegnamenti in due modi; il primo colla concorrenza, per la quale si limitano i diritti delle varie persone reciprocamente, e al Governo non mancano i mezzi di rendere, se egli è savio, l' insegnamento ufficiale migliore degli altri. A cui s' aggiunge, che quando gli alunni delle altre scuole vogliono passare alle scuole ufficiali, il Governo ha il diritto, non già d' imporre loro condizioni arbitrarie, ma sì d' avere da essi una prova, che li dimostri istruiti al pari degli altri alunni dell' insegnamento ufficiale, di cui aspirano ad essere condiscepoli; cioè di far subire ad essi, prima d' ammetterli, un esame che a dimostrare ciò sia sufficiente: il che dee eccitare i presidenti dell' altre scuole ad emulare l' eccellenza dell' insegnamento ufficiale. Il secondo diritto del Governo è di non ammettere negli impieghi, se non quelli che abbiano le cognizioni necessarie alla carriera in cui vogliono entrare. Questo non dà mica al Governo il diritto di escludere dagli impieghi a priori e in universale tutti quelli che non sono stati istruiti nelle sue scuole, e nè pure di sottomettere gli altri ad esami arbitrari e indeterminati, ma sì bene ad esami sufficienti per riconoscere con pratica certezza se gli aspiranti, in qualunque luogo e modo sieno stati ammaestrati, abbiano le cognizioni richieste a quella carriera di pubblici impieghi. Certo, che per fare tutto questo, senz' arbitrio, il Governo deve definire avanti con precisione la sfera e la natura di queste cognizioni, ed esigerle egualmente da quelli che escono dalle scuole ufficiali e dalle altre: ma entro questa sfera l' esame dovrà essere egualmente rigoroso e concludente per tutti. A noi sembra che questi soli due mezzi legittimi, per tacere degli altri, potrebbero avere grande efficacia ad impedire che sorgessero scuole e stabilimenti d' educazione troppo imperfetti, a malgrado che niuna legge li proibisca. Poste dunque queste provvidenze governative, non vedo che difficoltà ci possa essere a lasciare interamente libera la beneficenza. Che male ne seguirà, se ognuno che voglia col proprio danaro far del bene, istituisca scuole e stabilimenti educativi a suo piacimento e senza formalità burocratiche? Egli è chiaro, che se quelle e questi non saranno tali che istruiscano i giovanetti tanto da renderli capaci di sostenere l' esame richiesto, sia per passare nelle scuole ufficiali, sia per essere introdotti ne' pubblici affari, assai pochi vorranno mandare a quelle scuole i loro figliuoli. Non intendiamo punto di dire che anche quelli che dal mantenimento di scuole e collegi traggono guadagno, non possano unire a questo fine, d' un onesto guadagno, un sentimento di beneficenza. Ma il nostro discorso essendo rivolto a dichiarare come un savio Governo civile possa fondare i suoi regolamenti esterni intorno all' insegnamento sui diritti naturali, non possiamo tener conto di quelle disposizioni interne dell' animo che non sono punto manifestate con un segno e una prova esteriore. Convien dunque che distinguiamo la classe de' benefattori da quella degli speculatori colla prova di fatto che ce ne danno; e così alla classe de' benefattori si dovranno ascriver quelli che non ritraggono guadagno per sè dalle scuole o istituti, che mantengono in tutto o in parte del proprio, e alla classe degli speculatori quelli che ne traggono a se stessi guadagno. Quando dunque sia dimostrato, che le scuole non danno compenso alcuno al benefattore che le mantiene del proprio, o se da esse si trae qualche cosa, questo non agguaglia la spesa necessaria a mantenerle, e non fa che diminuire la spesa del contribuente, ma non toglierla del tutto, allora colui che le mantiene va ascritto tra i benefattori; quando poi il reddito, che rendono le scuole istituite da qualche persona o società eccede la spesa necessaria, e l' eccedente va a profitto dell' imprenditore di esse, costui deve computarsi tra gli speculatori. Per speculatori dunque intendo solo quegl' individui o persone morali che, mettendosi all' impresa d' una scuola o d' un collegio, ne conducono l' amministrazione a conto proprio, e a tal fine stipendiano maestri e istitutori, e fanno l' altre spese occorrenti, esigendo da' discepoli, o da' convittori, una retribuzione o pensione, calcolata a intento di cavarne guadagno per se stessi. Non si comprendono in questa classe i maestri o istitutori che ricevono stipendio, ma si comprende in essa anche un maestro, se a suo nome e per conto suo facesse andare l' economia d' uno stabilimento di scuole. Del pari non si comprendono quegli stabilimenti che, essendo fondazioni benefiche (sotto il qual nome intendo uno stabilimento o collegio, che stia da sè con esistenza perpetua), hanno un' amministrazione propria, e gli avanzi che vi si facessero, restassero a vantaggio e incremento dell' opera, o della fondazione stessa. Veduto quali siano gli speculatori, diciamo, che questi, come tali , non hanno diritto alcuno naturale sull' insegnamento, o ad influire in esso: non hanno nè il titolo della dottrina, nè il titolo della paternità, nè il titolo della beneficenza. Il titolo della dottrina vale per insegnare: il titolo della paternità vale per la scelta de' maestri e degli istitutori dei propri figliuoli: il titolo della beneficenza vale per istituire scuole e collegi. Il titolo della speculazione non vale per nulla di tutto questo, e però ad essi non compete nessun diritto naturale all' insegnamento, nè ad influire in esso. Ridotta così la questione, è chiaro, che essa già non appartiene più a quella della libertà dell' insegnamento, ma rimane una questione riguardante le industrie, che può essere esaminata sotto il lato morale, sotto il politico e sotto l' economico o finanziario. E` chiaro in secondo luogo per giusta conseguenza, che, qualora anche il Governo civile il giudicasse opportuno (ecco dove può, e dove deve entrare l' opportunità), egli potrebbe proibire affatto tutte queste speculazioni, senza offendere il principio della libertà dello insegnamento. In terzo luogo è certo ancora, che molte ragioni militano per la proibizione assoluta di questo genere d' industrie, benchè non ci dissimuliamo la difficoltà di determinare il modo con cui si potrebbero sopprimere. E` infatti evidente, che c' è qualche cosa di sconveniente e di repugnante nel far servire l' istruzione e l' educazione della gioventù ad una speculazione economica, nella quale ciò che ha una natura così nobile e santa, com' è la comunicazione della scienza e della virtù agli uomini, diviene un semplice mezzo ad un fine materiale. Che anzi l' opera d' istruire e di allevare i giovanetti è per se stessa d' indole tutta caritativa, e solamente allora ella conserva la sua dignità e procede col decoro e coll' onore dovutole quando è affidata a persone virtuose che l' assumono per impulso di carità, e co' più elevati e generosi sentimenti. Queste, e queste sole, danno nel loro carattere morale, provato col fatto del disinteresse, una guarentigia certa alla società, che l' opera virtuosa deva ben riuscire. A che può guidare di sua natura il fine dell' interesse temporale, se non a ritrarre il maggior guadagno possibile dalla speculazione? Perciò lo speculatore (presciendendo da una virtù personale straordinaria) farà talora delle cose buone, talora delle cose cattive, secondo che gli suggerirà la politica dell' opportunità: egli vorrà piacere troppe volte più ancora ai tristi che ai buoni, cioè ogniqualvolta da quegli spererà un guadagno maggiore e un maggior incremento della sua industria: sceglierà quelle dottrine, quelle massime educative, che più secondino all' andazzo de' tempi, e vorrà maestri e istitutori conformi a questo suo bisogno. Così gli stabilimenti insegnativi ed educativi non avranno per fondamento nessun principio fermo e inconcusso di verità, di giustizia, di dovere e di diritto, se non per un accidente delle circostanze. Aggiungete a questo, che l' interesse consiglia gli speculatori a dare un' importanza esagerata a tutte quelle superficialità, e mostre esteriori, che fanno stupire la moltitudine dell' abilità e del sapere dei giovanetti: l' educazione così si rende apparente e ciarlatanesca, e manca di solidità: l' uomo così non si forma, ma piuttosto si disforma e corrompe: s' avranno dunque giovanetti pieni di vanità, con un sapere indigesto e ciarliero, senza un vero carattere morale, non utile a se stessi, non alla patria. Tali stabilimenti di speculazione vivendo necessariamente della pubblica opinione, è naturale, che l' imprenditore per procacciarsela, sia inclinato ad adoperare tutte quelle arti che gliela possono accaparrare. E non mancano certamente i mezzi onesti e disonesti, non manca la stampa, non mancano i giornali, non mancheranno dunque gli elogi ampollosi e mendicati. Così sorge una celebrità fattizia, frutto d' innumerevoli menzogne, bassezze, adulazioni, camarille e collusioni. E tra questi mezzi non è l' ultimo certamente quello di denigrare abilmente, o di ribassare, la fama degli altri stabilimenti simili, e non tanto i confratelli di speculazione che si rispettano, perchè hanno causa comune, quanto gl' istituti fondati sulla beneficenza e sul diritto. All' incontro tutte le istituzioni benefiche in mano d' amministratori fiduciosi o legali, e molto più gli uomini generosi che non hanno in mira alcun guadagno, devono sostenere con tali speculatori una lotta troppo ineguale. Essi non saprebbero abbassarsi ad adoperare arti maligne ed astute, e non trovano punto in sè a gran pezza quella attività smaniosa che tutto tenta e tutto sommove per dare ai propri stabilimenti una fama: il solo fine del bene della gioventù raccoglie tutto il loro pensiero e le loro facoltà. Anzi i benefici e i virtuosi non sanno neppure difendersi dagl' ingiusti attacchi che loro possono venir fatti, o quand' anche lo sapessero è loro infinitamente molesto il discendere a tali zuffe indecorose, che non possono riguardare solamente le cose, ma prendono necessariamente un' indole personale. Proibendo dunque la speculazione sull' educazione e sull' istruzione della gioventù, il Governo civile tutelerebbe il diritto degli uomini benefici, e quello de' padri di famiglia, togliendo da' loro occhi una seduzione funesta o molesta. Sono lontanissimo, lo ripeto, dal voler dire, o dal credere, che tutti gli speculatori facciano uso delle arti sopra accennate: convengo anzi che ce ne possono essere di buoni. Ma il Governo, lo ripeto, non può fondare le sue leggi sulle eccezioni o su quello che può avvenire, ma su quello che è conforme alla natura delle cose, ed è verisimile che avvenga. Pure, si dirà, che anche le industrie devono lasciarsi libere. Ma, anche quando sieno tali che invece di vantaggio rechino generalmente pregiudizio alla società? Specialmente nell' ordine più elevato, qual è quello della dottrina, della morale, della religione? Che se il Governo civile trova difficile o inopportuno venire al taglio di cui abbiamo parlato fin qui, reputo che egli debba esigere da tali speculatori valide guarentigie del buon andamento dello stabilimento, e che questo non sia punto nuocere alla libertà dell' insegnamento, poichè altro è speculazione , come dicevamo, ed altro è insegnamento . Ci vogliono delle guarentigie, acciocchè questo non sia sacrificato a quella, essendo flagrante il pericolo. Ma queste guarentigie sono difficili a determinarsi; e tutte sarebbero inutili, se non ci fosse in primo luogo una moralità e religiosità non comune nello speculatore. Ma questa da una parte è quasi impossibile accertarsi con prove esterne o legali, dall' altra è inquisizione delicata, odiosa e molesta. Che se il governo si riserberà la facoltà di concedere la licenza di aprire tali stabilimenti solo a persone distinte per conosciuta probità e religione, c' entrerà l' arbitrio, e si griderà all' ingiustizia. Se poi la concederà a tutti quelli contro i quali non ci sia un carico di notoria immoralità o un delitto, si ricadrà negli inconvenienti che abbiamo sopra notati. La concederà dunque a condizione che lo stabilimento non abbia mai per capo lo stesso imprenditore economico, ma un' altra persona nominata liberamente dal Governo stesso, a cui sia affidata intieramente la direzione dello stabilimento per tutto ciò che riguarda l' istruzione o l' educazione? Forse questo sarebbe l' espediente più sicuro. Ovvero il Governo, oltre prestabilire certe norme generali per tali stabilimenti, ricorrerà a visite, inquisizioni e cose simili? Ma torneremo in tal caso alle infinite e moleste indagini, alle pedanterie, alle formalità burocratiche. C' è dunque tanta difficoltà a impedire gl' inconvenienti, che possono trar seco con tutta probabilità le imprese di speculazione economica sull' educazione della gioventù, che mi sembra questa una nuova prova di quello che dicevamo essere desiderabile che cessino affatto. Questi altro diritto non hanno che quello d' amministrare coscienziosamente l' avere altrui. Essi non possono amministrare le sostanze temporali destinate a beneficenza, come se ne fossero padroni. Anzi quelli che sono chiamati a goderne il beneficio, devono esserne considerati come i veri proprietari: ed è conveniente che gli amministratori diano loro guarentigie sufficienti della loro amministrazione e dispensazione. Come la nazione ha diritto di pretendere che le siano date sufficienti guarentigie dell' amministrazione governativa, così la provincia ha lo stesso diritto verso l' amministrazione provinciale, e il Comune verso la comunale, e il popolo, a cui favore cade o cader può la beneficenza, può richiederne dalle congregazioni di carità, e da ogni amministrazione di fondi destinati a beneficenza. S' aggiunge che anche tutti quelli, i cui diritti sono implicati in tali amministrazioni, e possono da esse essere violati, hanno giusta ragione di richiedere, per quello che riguarda l' insegnamento, delle guarentigie sufficienti. Dalle leggi d' un savio e giusto Governo, intorno all' istruzione ed all' educazione, dovrebbero risultare in un modo diretto o indiretto tutte queste diverse guarentigie. Ma il punto più importante e delicato riguarda la nomina dei maestri. Su questo punto devono esser date guarentigie: 1 Alla Chiesa pel suo diritto all' insegnamento coll' educazione cristiana; 2 Ai dotti pel diritto di preferenza in ragione della dottrina, probità e idoneità; 3 Ai padri di famiglia la cui figliolanza è chiamata a godere il beneficio di tali istituti. Per arrivare a questo, io credo, che il metodo da tenersi nell' elezione de' maestri e degl' istitutori in tali stabilimenti, qualora non sia determinato dalla volontà espressa del fondatore e benefattore, converrebbe che fosse sapientemente prefinito, evitando i due scogli egualmente pericolosi dell' influenza in tali elezioni degli amministratori economici, e dell' influenza d' un corpo di persone immutabili. Converrebbe dunque secondo noi: 1 Che quelli a cui è commessa l' amministrazione dei beni dello stabilimento, non avessero alcuna parte nella nomina o scelta de' maestri e istitutori; 2 Che la detta scelta dipendesse bensì dal giudizio di un certo numero di persone dotte e probe, ma non sempre dalle stesse, ma variate di volta in volta, o per via di sorte, o in altro modo senza regola fissa, come si dirà in appresso, e che dovesse avvenire l' elezione in tal modo, che nella buona riuscita fosse impegnato il loro onore. Noi abbiamo posta in questo modo la questione perchè si pone così comunemente; l' abbiamo posta così per avere l' occasione di osservare, che, così posta, involge un equivoco. Infatti, che cosa s' intende per Comune? Non altro che quel gruppo di persone che lo rappresenta, e come suo rappresentante lo governa. Che cosa s' intende per Provincia? Non altro che quel gruppo di persone che la rappresenta, e come suo rappresentante tratta i suoi interessi. Ma non è da farsi illusione. Altro è il governo comunale, ed altro il Comune, altro il Consiglio provinciale e altro la Provincia. La questione dunque si riduce a quest' altra: « Qual è il diritto circa l' istruzione e l' educazione che compete a que' gruppi di persone, che sono designati a rappresentare i Comuni e le Provincie? ». Questa distinzione è necessaria, perchè la rappresentanza può essere illusoria o effettiva. E` una ricerca di alta politica quella del modo, nel quale si possono avere rappresentanze politiche effettive e non di puro nome, e finora non fu sciolto il problema, almeno nella pratica. La nostra opinione si è, che sono effettive le sole rappresentanze reali, e che sono illusorie le rappresentanze meramente personali. In altre parole: sono effettive quelle rappresentanze che rappresentano gli interessi, e non sono tali quelle che rappresentano le persone. Se mi si domandasse oltracciò, quando ci sia questa rappresentazione degli interessi in quel gruppo di persone che presiedono alla società, e la governano, e quando non ci sia, risponderei: « C' è la rappresentanza degli interessi quando quel gruppo di persone che rappresenta la società, abbia in sè compendiati gli interessi di tutti; di maniera, che, se prendono una deliberazione, la quale sia vantaggiosa agl' interessi del gruppo de' rappresentanti, ella debba di necessità riuscire vantaggiosa anche agl' interessi complessivi di tutta la società rappresentata, e se prendono una risoluzione che sia nocevole agli interessi complessivi della società rappresentata, questa deliberazione di necessità riesca proporzionatamente nocevole agli stessi interessi del gruppo dei rappresentanti che la prendono ». Allorquando può aver luogo il contrario, cioè allorquando quelle disposizioni che giovano ai rappresentanti possono esser nocive ai rappresentati, e quelle disposizioni che sono nocive ai rappresentanti, possono essere vantaggiose ai rappresentati, allora essi non rappresentano gl' interessi di tutti, ma rappresentano le nude persone. Ora questa rappresentazione vera, lo ripeto, non è stata ancora mai trovata in pratica, ed è riserbato il trovarla, e il ridurla all' atto, agli ulteriori progressi della società umana. Noi dunque tratteremo la nostra questione partendo dal principio che finora nè l' amministrazione de' Comuni, nè quella delle Provincie, nè quella dello Stato è veramente rappresentativa, benchè ne abbia il nome, e dietro questo nome si teorizzi, e dietro queste teorie si operi: di che poi avviene che l' effetto non corrisponda alla aspettazione. Crediamo doversi distinguere la rappresentanza comunale dalla rappresentanza provinciale come istituzioni di natura grandemente diverse. Il Comune è una vera società di persone, che convivono intimamente unite sul medesimo suolo, e in una continua relazione tra loro: è dunque naturale e necessario, che essa abbia un capo e un Consiglio sul luogo, che la rappresenti e la governi. Tale fu il primo Governo di diritto sociale, il nucleo di tutti i Governi di questa classe. Non si può dire lo stesso della Provincia. Che tutti i Comuni d' una nazione abbiano un vincolo, che siano associati, e che questa associazione di Comuni abbia un capo supremo e un governo, questo pure s' intende utile e necessario a costituire una nazione. Ma da per tutto, dove c' è un sovrano e un Governo generale di diritto sociale, c' è anche o ci deve essere quell' associazione dei Comuni, e non si vede necessario, che sieno costituiti de' corpi intermedi aventi un' autorità di diverso genere e in parte indipendente dal Governo generale. Si dee concepire dunque il Consiglio provinciale come un semplice organo e un aiuto del Governo generale per provvedere agl' interessi speciali delle Provincie, senza che abbia in diritto altra autorità che consultiva, e questo per non scindere l' unità del governo dello Stato e indebolirlo. Tale mi sembra che debba essere ed anche che in fatto sia il concetto del Consiglio Provinciale. Consideriamo dunque a parte il diritto dell' autorità comunale e il diritto del Consiglio provinciale. Ogni governo sociale, grande o piccolo, non è istituito se non per supplire a ciò che non possono fare e non fanno le famiglie e gl' individui, che compongono la società a cui presiede. Non ha dunque nè il diritto nè l' ufficio d' impedire l' attività dei governati, ma di supplire a quello a cui essa non può giungere e di regolarla affinchè non nascano collisioni e danni. Deriva da ciò che i Governi devono lasciare illesi e proteggere tutti que' diritti che sono per loro natura anteriori ad essi. L' autorità comunale dunque, qualunque diritto possa avere, diritto dico derivante dal suo concetto, circa l' insegnamento e l' educazione, deve come lo stesso Governo generale rispettare e lasciar intatti: 1 Il diritto della Chiesa Cattolica; 2 Il diritto de' dotti; 3 Il diritto de' padri di famiglia; 4 Il diritto de' benefattori e di tutte le istituzioni benefiche, che dopo la morte de' benefattori acquistarono un' esistenza per sè. Quel diritto, che l' autorità comunale può esercitare circa l' insegnamento e l' educazione, qualunque sia, è posteriore a tutti questi quattro generi di diritti: ella non deve esser ostile ai medesimi, anzi deve considerarli tutti come preziosa ricchezza del Comune stesso a cui presiede. A malgrado però che i diritti di quelle quattro persone giuridiche sieno mantenuti illesi e liberi, può avvenire che non sia ancora supplito ai bisogni del Comune stesso circa l' istruzione e l' educazione. L' autorità comunale dunque non può intervenire in quelle scuole e istituzioni d' educazione che già esistono nel Comune, e che non sono di sua fondazione, le quali devono rimanere perfettamente libere; ma se queste non bastano, ella ha il diritto di aggiungere altre scuole e collegi, quanti se ne richiedono a supplire al detto bisogno della popolazione comunale. E questo diritto esso lo ha come rappresentante de' padri di famiglia. Che se la rappresentazione fosse vera ed effettiva questo diritto non avrebbe altri limiti che i sopraccennati, e il governo generale dovrebbe lasciarlo integro e liberissimo. Ma che non ci abbia ancora nei Comuni un' autorità che si possa dire veramente rappresentativa degli interessi complessivi del Comune, i Governi stessi, dico anche i costituzionali, se ne mostrano persuasi, poichè sentono la necessità di tutelare il Comune contro l' autorità comunale. A ragione d' esempio essi mettono un limite alle spese comunali, essi si riservano l' approvazione delle spese che l' autorità comunale decreta. Non è egli evidente, che quest' atto di autorità tutoria sarebbe superfluo, quando quel corpo di persone che decreta tali spese rappresentassero fedelmente tutti gl' interessi del Comune? In tal caso sarebbe lo stesso come se gli stessi proprietari tutti insieme lo decretassero. Quando ciò fosse, la spesa non potrebbe mai eccedere, poichè se ci possono essere tra i proprietari alcuni prodighi non può esser mai prodigo tutto il corpo dei proprietari, chè l' attacco ai propri interessi è assai più comune tra gli uomini, che non sia la noncuranza de' medesimi. La necessità dunque che l' autorità tutoria del Governo eserciti una continua vigilanza sull' economia del Comune è una prova evidente, che l' autorità comunale non è organizzata in modo da rappresentare e compendiare in se stessa gl' interessi di tutti. Quelli che si lasciano prendere alle parole e alle forme, credono che quando si può dire: « Qui c' è un corpo di rappresentanti »non ci sia da cercar altro, non importi più esaminare come questo corpo sia composto, se esso sia un corpo di rappresentanti nominali, o reali ed effettivi. In conseguenza di questo equivoco, essi bramerebbero sciogliere subito i Comuni, e non solo i Comuni ma anche le Provincie, da ogni autorità tutoria del Governo generale. Io credo che l' intervento di questa si potrà diminuire di mano in mano che si perfezionerà la maniera di organizzare l' autorità comunale, rendendola una rappresentazione che s' approssimi sempre più a rappresentare veramente tutti gl' interessi. Credo che un uomo assennato direbbe al Governo che si mette per questa via: « Sciogliete pure l' autorità comunale da' vincoli superflui, ma vi resti bene in mente, che altro è questa autorità, ed altro i Comuni stessi, e per isciogliere dalla tutela quell' autorità, non crediate di rendere libero il Comune: anzi se non procedete con prudenza, potrebbe avvenire, che con questa vostra apparente liberalità il Comune stesso, contro la vostra intenzione, si trovasse sottoposto a una servitù maggiore ». Noi non siamo punto gli amici della centralizzazione, ma non bramiamo neppure che il Governo si disciolga in tante repubblichette del medio evo. Il Governo centrale deve essere forte, e in pari tempo tutti i governati devono godere della maggiore libertà. Saper distinguere ciò che appartiene alla forza del Governo, e non alla libertà de' governati, e ciò che appartiene alla libertà dei governati, e non alla forza del Governo: nulla cedere di questa, e nulla usurpare di quella: ecco una delle parti principali e delle più difficili della sapienza politica. Da questo il lettore intende, che, quantunque noi concediamo alle autorità comunali d' istituire scuole e collegi entro i limiti, che abbiamo indicati, non crediamo però che esse debbano andarsene sciolte da ogni tutela e riscontro del Governo centrale. E questa tutela è più necessaria ne' Comuni piccoli, che ne' grandi, poichè ne' primi per la scarsezza di persone istruite e capaci cade l' autorità più facilmente in mani inette, e bene spesso è il caso; o di un piccolo partito, quello da cui dipende l' elezione dei rappresentanti, se così si vogliono chiamare, del Comune. Vediamo dunque una disposizione utile, che il Governo obblighi i Comuni, che vogliono istituire scuole, a istituire prima quelle che sono più necessarie al Comune stesso, e solamente dopo di queste le altre meno necessarie. Crediamo ancora che il Governo non debba abbandonare totalmente l' elezione di tali maestri all' autorità comunale, ma debba obbligarla a quelle condizioni e a quel metodo d' elezione, che ne guarentisca la scelta migliore. Queste condizioni e questo metodo, secondo noi, dovrebbe essere fisso, e non mutabile, come sono mutabili le amministrazioni comunali. Se all' arbitrio di queste ne fosse abbandonata la scelta, verrebbero soventi volte eletti da un' amministrazione de' maestri, che sarebbero stati rifiutati dall' amministrazione precedente, o che si vorrebbero esclusi dall' amministrazione seguente. D' altra parte l' abilità de' maestri e de' professori non può essere, universalmente parlando, valutata con giudizio proprio dalle persone, che costituiscono le amministrazioni comunali: queste devono informarsi da altre: non giova dunque lasciare, che l' elezione dei maestri dipenda da informazioni e raccomandazioni casuali: convien meglio che sia tracciata una via sicura, acciocchè il Comune abbia delle guarentigie d' una buona scelta contro l' autorità comunale. Finalmente crediamo che debbano esser messi de' limiti all' autorità comunale, sia che si tratti di licenziare i maestri già eletti a tali scuole, sia per rispetto all' ingerenza che la detta autorità possa prendere nell' andamento delle scuole. Il Governo deve proteggere i maestri legittimamente eletti, e non permettere che vengano licenziati da un momento all' altro e senza giusti motivi: dee proteggere la loro libertà nell' uso de' metodi, e nella condotta delle scuole, e non abbandonarli alla mercè d' opinioni accidentali, che possono esser capricci, puntigli, personali antipatie, o goffaggini. Altrimenti l' ufficio di maestro e d' istitutore sarebbe avvilito, e prenderebbe l' aspetto d' una ignobile servitù (1). Abbiamo già detto qual concetto noi ci facciamo del Consiglio provinciale: è un corpo di persone, che danno informazioni e consigli al Governo, e discutono e porgono petizioni a favore della provincia che rappresenta. Non crediamo dunque che gli possa competere, in virtù del concetto della società civile, nessuna facoltà decretoria: e che il Governo centrale non potrebbe cedergliene una parte, senza grave detrimento della sua propria perfezione, essendo la forza legittima del Governo centrale il primo elemento della forza della nazione. E appunto perchè tale è l' indole del Consiglio provinciale, avviene che questo non sia permanente, ma una semplice consulta che s' unisce a certi tempi secondo il bisogno. Noi crediamo dunque conseguentemente, che ad esso, come tale, non ispetti nessun diritto nè d' istituire scuole o stabilimenti, nè di averne la direzione o sopraintendenza, ma soltanto quello di proporre al Governo quanto possa esser necessario ed utile alla provincia stessa intorno all' insegnamento. Col nome di scuole provinciali dunque, se così piace chiamarle, altro non si può intendere, secondo noi, se non quelle scuole o quei collegi ufficiali che il Governo giudica opportuno di istituire in ogni provincia. Siamo pervenuti alla parte più difficile e più controversa di questa trattazione: la parte che dee prendere il Governo civile nello insegnamento. Egli è chiaro che la questione riceve una soluzione diversa, secondo che si parte da un concetto diverso dello Stato. Infatti lo Stato si può concepire e fu concepito in tre diverse maniere: o come una signoria , o come una tutela , o come un' amministrazione sociale . Si può concepire come una signoria , tanto se si suppone che il signore che vi presiede sia una sola persona individuale, quanto se si suppone che il signore sia una persona collettiva: per concepirlo in questo modo basta attribuire al Governo i diritti che ha un signore sopra i suoi servi. Si può concepire lo Stato come una tutela , e del pari la persona, che n' è investita, può essere tanto un individuo, quanto una collezione d' individui; e per concepirlo in questo modo basta attribuire al Governo i diritti che le leggi attribuiscono a un tutore di pupilli. Finalmente si può concepire lo Stato come una Società , la quale abbia un' amministrazione o governo proprio e veramente sociale . Tra gli Stati, che ci furono al mondo, e che ci sono anche al presente, non mancarono e non mancano di quelli che furono e sono ordinati con norme derivanti da ciascuno di questi tre principii o concetti fondamentali. Ma egli è chiaro che i primi due concetti non costituiscono popoli liberi: solamente quando uno Stato sia ordinato secondo il terzo concetto, la nazione gode della libertà politica. Noi dunque, abbandonando i due primi concetti, intendiamo di ricercare soltanto « qual diritto d' influire nell' insegnamento abbia il Governo d' uno Stato che sia fondato sul principio della libertà ». Ristretta così la questione, resta a vedere (e questo è il più importante) come s' intenda la libertà. Poichè secondo le diverse opinioni che gli uomini si formano di questa libertà, portano anche diversi giudizi, così in questa questione dell' insegnamento come in tutte le altre. Ora noi abbiamo dichiarato fino al principio che per libertà non intendiamo altro che « il libero esercizio dei diritti di tutti », e che ogni altra libertà erroneamente si chiama con questo nome, e acciocchè non nascano equivoci, dee chiamarsi licenza . Se dunque il Governo civile vuole essere un Governo liberale, e si crede obbligato di governare secondo il principio della libertà, è manifestamente necessario ch' egli consideri i diritti di tutti i governati come anteriori a' suoi propri, e che la sua azione non usurpi su di quelli cosa alcuna, ma li seguiti. Riguardo dunque a quello che un Governo di tal natura può fare circa l' insegnamento, si divide da se stessa la questione in due sezioni. Poichè si può domandare: « qual contegno il Governo civile debba tenere circa ai diritti di quelli che hanno qualche ragione d' influire nell' insegnamento »; e « che cosa possa fare di più il Governo civile circa l' insegnamento, dopo aver usato il dovuto riguardo ai diritti de' governati ». Un Governo civile che abbia per suo principio la libertà, ha tre doveri verso i diritti di tutti: 1 Di non offenderli, o diminuirli, nè per mezzo di leggi, nè in altro modo; 2 Di tutelarli; 3 Di proteggerli e aiutarne l' esercizio. Oltre di questi ha un quarto dovere, quello della tolleranza entro una certa sfera d' azione. Avendo noi dunque distinte cinque persone giuridiche aventi ragione d' influire nell' insegnamento, cioè la Chiesa Cattolica, i dotti, i padri di famiglia, i benefattori e i Comuni, vediamo come il Governo civile debba esercitare i doveri di lasciare illesi, e di tutelare e di proteggere i diritti di ciascuna di esse, riservandosi solamente la maniera di regolarli, acciocchè possano coesistere, ed essere simultaneamente esercitati, senza collisioni reciprocamente dannose. Questo che è il più luminoso e il più assoluto di tutti i diritti, è anche quello che oggidì, e in certi Stati di nuovo pelo, suscita le più calde opposizioni e le più calde difese. E deve esser così, perchè in opera di religione l' indifferenza esterna e affettata è molta, ma l' indifferenza interna non ci può essere: chi non l' ama, l' odia cordialmente. [...OMISSIS...] Tosto dunque che noi abbiamo parlato de' diritti, che ha la Chiesa Cattolica all' insegnamento, s' intese il rumore di chi acerbamente se ne doleva, e quel dolore si versò in menzogne e in villanie. Convien dunque, che noi vi ritorniamo sopra per l' importanza dell' argomento, e però ci rifaremo a dire ancora qualche cosa in difesa de' diritti della Chiesa Cattolica, poi parleremo dei doveri del Governo civile verso i medesimi, e in fine parleremo della tolleranza che può praticare relativamente all' insegnamento non cattolico. Abbiamo dunque detto, che alla Chiesa Cattolica, cioè al Papa ed agli altri Vescovi, appartiene il diritto d' insegnare autorevolmente la dottrina del Salvatore che comprende il domma, la morale e tutti i mezzi utili all' eterna salute, e che « « non rimane agli altri fedeli se non il dovere di professarla, e la facoltà di propagare intorno a ciò quello che hanno imparato dalla Chiesa , o attinto alle fonti dalla Chiesa approvate, senza nulla aggiungere di contrario a quello che insegna la Chiesa stessa » ». Questa dottrina cristiana cattolica fece venire i brividi a un articolista d' un giornale che esce in Piemonte, e che ha per iscopo di illuminare la nazione sulle vere teorie dell' insegnamento, e per troppa voglia di comunicare anche a' suoi lettori l' orrore, da cui si sentia scosse tutte le fibre, l' articolista falsificò quello che noi avevamo detto: « « Ogni laico, per cristiano e pio che egli sia (così egli espose il nostro concetto), insegnando qualche cosa della religione, sarà violatore del diritto divino, usurpatore, impostore » ». Ma un laico che sia cristiano e pio, non assume mai d' insegnare la religione autorevolmente: intende soltanto di propagare la dottrina che egli professa, e ha imparato dalla Chiesa, senza nulla aggiungere del suo di contrario alla medesima. E questa è appunto la facoltà che noi abbiamo lasciata anche ai laici. Senza dunque trattenerci a rispondere all' autore di quell' articolo, noi ci limitammo a circonvenirlo di falsità nel riprodurre la nostra dottrina. Pure, a una smentita di questa sorte, la faccia dell' articolista non si mutò, e anzi con un secondo articolo, invece di rettificare le sue falsificazioni le confermò, e di più, essendo egli anonimo, ci rimproverò di « « lavorare all' ombra del mistero e dell' impunità » » (1). Si direbbe a tanta minaccia, che sotto la larva si copre uno avvezzo a maneggiare la ferula. E` dunque necessario che rintuzziamo, non dico le villanie personali, ma gli errori insinuati nel pubblico con tanta pervicacia. Dice dunque l' articolista (2), che la nostra teoria della libertà dell' insegnamento « « finisce col ridurre il diritto ad un uomo solo in terra » ». Noi abbiamo distinto la dottrina religiosa dalle altre scienze: abbiamo detto che le altre scienze hanno diritto d' insegnarle liberamente tutti quelli che le sanno, i quali, per brevità di locuzione abbiamo raccolti sotto la denominazione di dotti: questo non è ridurre il diritto ad un uomo solo. Abbiamo detto in secondo luogo, che la sola Chiesa Cattolica « « firmamento e colonna della verità » » ha ricevuto da Gesù Cristo il diritto d' insegnarla autorevolmente , di maniera che nessun fedele ha diritto d' insegnare il contrario. Ora se la Chiesa Cattolica è composta d' un uomo solo, in tal caso sarà vero che questa dottrina (e non ogni dottrina) dovrà essere insegnata da un uomo solo: ma se il Papa e i Vescovi non sono un uomo solo, in tal caso l' articolista avrà dedotta una falsa conseguenza. Di poi è pur singolare quest' importanza che l' articolista attribuisce all' essere piuttosto molti che un solo quelli che insegnano, quasichè dal numero dipendesse la verità e la bontà della dottrina. Noi abbiamo riconosciuto i diritti d' insegnare una dottrina qualunque in tutti quelli che la possedono; ma crediamo che un solo che insegni quello che sa, valga meglio d' una moltitudine che insegna quello che ignora. Pure s' intende, che trattandosi d' investigazioni e di dottrine umane, le quali vanno in maggior parte per l' incerto e pel congetturale, sia desiderabile che molti abbiano il diritto di metter fuori le proprie opinioni: i maestri umani sono tutti piuttosto discepoli che maestri: nello stesso tempo che insegnano qualche cosa che credono essere verità, può sopraggiungere ad ogni istante un altro che gli convinca d' errore, ovvero aggiunga al loro insegnamento qualche parte essenziale dai primi ignorata. Ma il nostro discorso è tutt' altro, perchè riguarda la sola verità religiosa. Ed è a proposito di questa, che l' articolista si spaventa al pensiero che si riduca « « il diritto d' insegnare ad un uomo solo in terra » ». Il suo è certamente un timor panico, a cui noi non avevamo dato occasione. Ma ora gli daremo forse occasione di un timor vero: ascoltateci. Sì, un uomo solo appunto ha il diritto d' insegnare la religiosa dottrina; e quest' uomo è quegli che ha potuto dire, e che ha detto infatti: « « Un solo è il vostro Maestro » » (1). Ecco ridotto da Gesù Cristo il diritto d' insegnare le verità che riguardano l' eterna salute ad un uomo solo. Non siamo da tanto da riformar noi questa dottrina, nè siamo disposti per piacere al nostro articolista da rinunziarvi. Quest' unico Maestro del mondo è stato egli che ha mandato il Papa e i Vescovi a ripetere la sua dottrina per tutti i secoli e a tutti gli uomini divisi in re e ministri, in governanti e governati, e non a inventarne una nuova. Argomentammo dunque non esserci bisogno, e non essere neppur possibile, che il diritto sia conceduto ad altri. E perchè? Perchè se altri, qualunque fossero, volessero insegnare un' altra dottrina loro propria, non avremmo de' maestri, ma solamente de' ciechi, che condurrebbero altri ciechi nella fossa. Come dunque sarebbe ridicolo il concedere al cieco il diritto di vedere quello che non può vedere, così è del pari ridicolo il concedere il diritto d' insegnare le verità religiose, col giudizio proprio, ad uomini che non hanno ricevuto la missione e la scienza dal maestro, e che non possono dire che spropositi, se non ripetono la scienza del maestro. E questo maestro non ha avuto nemmanco difficoltà a dire a un uomo solo queste parole: « « E tu una volta convertito, conferma i tuoi fratelli » » (2). Così ha dato ad un uomo solo, cioè al Romano Pontefice, il diritto supremo di confermare i suoi fratelli nella fede, che è quanto dire nella scienza della salute. Ma non così la intende il nostro articolista [...OMISSIS...] . Parlate del diritto di natura, quando si tratta d' una dottrina che riguarda l' eterna salute degli uomini? E` forse pel diritto di natura che si consegue l' eterna salute, o per la grazia del Redentore? Capisco, voi vi formate un paradiso col diritto di natura, che stia da una parte del Cielo, e che abbia a suo fianco il paradiso della grazia: e v' adirate, perchè noi ne ammettiamo un solo, e diciamo, che c' è una dottrina sola religiosa, come non c' è che un solo paradiso, e un solo maestro di questa dottrina di grazia, e i banditori della medesima sono quelli, che il maestro ha destinati. « « Con questo, voi gridate, si calpesta ogni diritto di natura che è pur essa una rivelazione della volontà di Dio » ». Ma noi ignoriamo perfettamente questo vostro diritto di natura in virtù del quale si possa insegnare una dottrina religiosa contraria a quella insegnata da Gesù Cristo e dalla Chiesa, e che questo diritto di natura sia anche esso una rivelazione della volontà di Dio. Se fosse vero quanto voi asserite converrebbe dire, che le volontà di Dio sieno due, contraddittorie l' una all' altra; converrebbe dire, che la volontà di Dio sia in contraddizione colla volontà di Gesù Cristo. Aggiunge l' articolista, che « « così non sarebbe salvata l' umanità » ». Colla sola dottrina e grazia di Gesù Cristo non sarebbe salvata l' umanità! ma col suo diritto naturale , che concede a tutti d' insegnare una dottrina, che mette l' umanità sopra una strada contraria a quella mostrata da Gesù Cristo, con questo, si sarebbe salvata l' umanità! Noi credevamo, e crediamo ancora, per la grazia di Dio, che l' umanità non abbia che un Salvatore solo, e che questo sia Gesù Cristo. Ma ora un giornale, che rappresenta, in qualche modo, l' insegnamento in Piemonte, insegna per lo contrario « « così non sarebbe salvata l' umanità »! ». E come poi sarebbe salvata, se non è salvata per l' insegnamento e per la grazia di Cristo? Sarebbe salvata coll' attribuire a tutti il diritto d' insegnare l' opposto di quanto insegnò Cristo, e di quanto insegna la Chiesa, e ciò perchè altramente « « sarebbe un calpestare ogni diritto di natura che è pur essa una rivelazione della volontà di Dio » ». Ogni diritto di natura dunque si riduce a poter insegnare una dottrina contraria alla cristiana cattolica, e così è bell' è salvata l' umanità [...OMISSIS...] . Dal che si arguisce che negare il diritto d' insegnare una dottrina contraria a quella di Cristo è negare la terra all' albero dell' umanità, e però è un ucciderla, se la si lascia colla sola dottrina religiosa del divino Maestro! Ci sono dunque degli uomini, a cui sembra che si tolga loro la terra sotto i piedi, se si manifesta un desiderio che sieno chiuse le scuole dell' empietà; anzi ancor meno, perchè noi non abbiamo detto nemmeno tanto: abbiamo solo detto, che la Chiesa ha in proprio il diritto d' insegnare autorevolmente la dottrina che riguarda l' eterna salute, perchè è la sola che la possiede e n' ha missione, e non abbiamo aggiunto una sola parola su di quello che può riguardare un insegnamento di fatto e di tolleranza. Pure all' articolista che dice, che coll' attribuire alla sola Chiesa l' insegnamento di ciò che riguarda l' eterna salute, « « non ne sarebbe salvata l' umanità » », noi siamo anche disposti a rispondere che ha ragione. Sì, è vero, non sarebbe salvata l' umanità , ma sapete quale umanità non sarebbe salvata? L' umanità guasta e peccatrice. V' ha una scuola, che è tutto zelo e fuoco per difendere i diritti di questa umanità. Quest' umanità del peccato è appunto quell' albero che si vuole sviluppare, e a cui si teme che manchi sotto la terra. L' umanità quale l' ha fatta il peccato, l' umanità superba, carnale, ribelle al Creatore, perduta: ecco l' albero di questi maestri, che tentano d' impossessarsi dell' insegnamento. Cristo è certamente venuto a perdere quest' umanità perduta, salvando l' umanità stessa col perderla: è venuto a creare colla sua grazia un' umanità nuova e a distruggere la vecchia. [...OMISSIS...] Ha dunque ragione in questo senso l' articolista, lo ripetiamo: colla grazia e colla dottrina di Gesù Cristo si stabilisce la teocrazia, e « « così l' umanità non ne sarebbe salvata » », ma distrutta; se non che a questa distruzione, secondo S. Paolo, succede la vera salute: [...OMISSIS...] . Ecco l' albero nuovo dell' umanità che prospera e fruttifica da diecinove secoli, e a cui non manca nè la terra, nè il cielo. Ma non è questo l' albero dell' articolista e della sua scuola; egli vuol coltivare quello che è venuto a sterpare e diradicare Gesù Cristo, per sè, e per mezzo degli operai da lui mandati nella sua vigna. C' è dunque una umanità vecchia, figlia della corruzione, e c' è una umanità nuova, rigenerata dalla grazia di Gesù Cristo; e queste due umanità non possono certamente stare assieme, ma s' odiano a morte e perpetuamente si combattono, poichè ciascuna di esse vuol prevalere sull' altra, e vanta i suoi diritti. Per questo ha detto Gesù Cristo: « « Non sono venuto a portare la pace, ma la spada » » (1). Alcuni dunque prendono partito per la prima e ne vantano il diritto di natura, cioè della natura corrotta: alcuni altri prendono partito per la seconda, e credono che sotto l' ali della grazia si possa riparare dalla perdizione la natura stessa. Ed ecco la ragione delle nostre dispute, della discordanza d' opinione tra la scuola dell' articolista e la nostra. Del resto, chi sarà di noi due il retrivo, chi il progressista? L' avvocato dell' umanità vecchia e fradicia, o l' avvocato dell' umanità nuova, rinnovellata da Gesù Cristo? A quale apparterrà il vero progresso? L' albero dell' umanità vecchia fu già sviluppato a pieno senza contrasto pel corso di quattro mila anni, prima che discendesse dal Cielo il padrone del campo colla scure nelle mani, quando le foglie e le frutta di quell' albero aveano ammorbata tutta la terra. Ora non è oggimai più quella stagione, ma il tempo è venuto in cui si dee sviluppare l' albero nuovo, il quale non invecchia giammai, e non inverminirà come l' antico. Alla coltura di questa pianta gloriosa sono chiamati tutti quelli che vogliono fare il bene: tutte le nazioni della terra si ricovreranno sotto la sua ombra, e vivranno de' suoi frutti di vita. Alcuni pochi riguardano indietro alla pianta antica, e sperano di farne rinverdire le secche radici: vana ed insensata speranza! L' articolista chiama il suo sensato lettore a stupirsi insieme con lui del dare che noi facciamo alla Chiesa Cattolica il diritto all' insegnamento « « non già solo per la religione, sono sue parole, ma eziandio per la morale che è pure la scienza di tutti i diritti e di tutti i doveri » ». Di maniera che pare che egli sarebbe disposto di concedere alla religione la scienza d' alcuni doveri, e d' alcuni diritti, ma accordarle la scienza di tutti!? Oh, questo merita l' abbominio o le risa del suo sensato lettore! Gesù Cristo dunque si sarà limitato a insegnare a' suoi discepoli un solo bocconcello della morale, e per l' altra parte avrà detto agli uomini: « « Fate quel che volete, che non m' importa che adempiate tutti i vostri doveri, mi basta che ne osserviate alcuni, e ordino alla mia Chiesa d' ammaestrarvi solo a mezzo, e di non correggervi o castigarvi quando non trasgredite quei doveri morali, a cui io mi sono limitato » ». Questa è nuova! Pretendere in fatti che Gesù Cristo si sia contentato d' insegnare una sola parte della morale, e non tutta, è una di quelle foggie d' empietà, che solo ne' nostri tempi si sono udite, nelle quali non si sa decidere se la sciocchezza sia minore o maggiore dell' empietà stessa, e che pure, a quanto pare, si vogliono infiltrare nello spirito dell' insegnamento, e a questo par che tendano gli sforzi di certi antesignani del medesimo. A malgrado però di costoro, Gesù Cristo promise e diede alla sua Chiesa lo spirito di verità, che « « insegna ogni verità » » (1) non l' una o l' altra verità morale, ma ogni verità, tutta la verità . Di più le diede la facoltà di sciogliere e di legare, non limitata a nessun genere speciale di peccati. [...OMISSIS...] Non può esser più chiaro: questo potere dunque si estende a tutta la morale. Che se deve la Chiesa giudicare dell' infrazione delle leggi quant' elle mai possono essere, a lei dunque è commessa « « la scienza di tutti i doveri e di tutti i diritti » », e non già d' una parte. [...OMISSIS...] Infatti la morale è una cosa indivisibile, o tutta, o nulla. La compiutezza è il carattere che distingue la vera morale dalla falsa, la pretesa morale del mondo dalla morale di Gesù Cristo. Gli uomini del mondo pretendono di avere il titolo di uomini morali a buon mercato, e perciò si fabbricano delle morali, che contengono soltanto alcuni doveri, e quando osservano questi, allora, alzando la testa vi dicono: « Noi siamo uomini morali, uomini probi, uomini onesti ». E` ben naturale, che costoro vogliono essere maestri di morale: guai ad essi se dovessero essere giudicati con un' altra morale non fatta apposta da essi medesimi! E per maggior comodità essi non hanno una sola morale, ma ne hanno molte, ciascuna delle quali si ritiene qualche brandello della morale intera, ma unito insieme con altre cosarelle, che non sono morali. Qual meraviglia dunque che poi dicano superbamente alla Chiesa Cattolica: « E che? Voi pretendete d' essere la sola maestra della morale? Voi che avete un' unica morale, quando noi ne abbiamo molte? Voi che non conoscete tanti e tanti di quei diritti e di quei doveri che noi soli abbiamo inventato e inventiamo ogni giorno, in virtù di quella libertà di pensare, che produce frutti sempre nuovi di libertà d' oprare! Certi doveri della vostra morale gli abbiamo cancellati, e però non sono più doveri. Siamo dunque anche noi maestri di morale. E però è conseguente che ci sieno di quelli che si adirino all' intendere che nessuno abbia il diritto d' insegnare una dottrina morale contraria alla morale della Chiesa Cattolica. Il combattimento non è più tra l' articolista e noi, ma tra le morali fatte a brani, e la morale intera: tra lo spirito d' una morale cenciosa, qual è la mondana, e lo spirito della morale regalmente vestita di Gesù Cristo. Tutti questi principii, di cui si fa banditore il nostro articolista, principii quanto perniciosi, altrettanto privi di coerenza e di scientifico valore, sono un regalo, che ora, nella sua età decrepita e semimorta, fa il protestantismo alla povera Italia, che raccoglie le ciarpe vecchie come roba nuovissima, e pur troppo è nel Piemonte ch' egli fonda le sue vane ed illusorie speranze (1). Se la povera Italia sapesse fare la debita stima de' suoi grandi uomini ascoltandoli, non si lascierebbe a tali ciance ingannare, e non più leggiera e scema, ma seria e signora diverrebbe. Già il protestante Sismondi esprimeva il pensiero, che il nostro articolista ora ricopia, cioè che la morale sia una scienza, di cui tutti possono fare i maestri, e non la sola Chiesa Cattolica. [...OMISSIS...] Ma già da più anni questo autore protestante ha trovato in Italia un uomo che gli rispose con evidenza di ragione, e questi fu un laico, che lo stesso articolista nomina bensì con onore, ma di cui non segue i principii, uno di quei laici che si gloriano d' essere i discepoli della Chiesa Cattolica e perciò ne sanno tanto più de' maestri del mondo. L' articolista infatti asserisce che « « Se un Manzoni avesse voluto insegnare un po' di religione e di morale, secondo noi, sarebbe stato violatore del diritto della Chiesa » » (2). Perciò noi rimanderemo l' articolista a leggere Alessandro Manzoni ed è negli scritti di Alessandro Manzoni che egli troverà quello stesso, che ora, detto da noi, gli fa tanto afa. E` Alessandro Manzoni quegli che gl' insegnerà, come nessun laico possieda l' autorità, e anzi non abbia neppure la possibilità di fare il maestro in opera di morale, indipendentemente dalla Chiesa, non essendoci, nè potendoci essere un' altra morale, nè una completa morale fuori di quella che con autorità sua propria insegna la medesima Chiesa di Cristo. Poichè Alessandro Manzoni è appunto quel laico che, rispondendo al protestantismo, il quale, per organo de' suoi scrittori, censura la Chiesa per essersi insignorita della morale, scrive: [...OMISSIS...] . E con somma nettezza questo grand' uomo espose lo stato della questione su questo punto, che s' agita tra i protestanti e i razionalisti da una parte, e i cattolici dall' altra scrivendo così: [...OMISSIS...] . Voi signor articolista, che difendete, a favore d' Alessandro Manzoni, il diritto d' insegnare la morale, indipendentemente dal magistero della Chiesa, considerate bene tutte queste parole, che sono sue, e vedete che cosa egli stesso vi risponda: vedete a quali condizioni egli conceda ai preti e ai semplici fedeli la facoltà d' insegnare la morale. Concede ai preti d' insegnarla con autorità condizionata e sottomessa , quando n' abbiano avuto dalla Chiesa l' incarico ossia la missione, che è quello che abbiamo detto noi, e per cui menate scalpore: concede ai laici d' insegnarla senza autorità, quando abbiano l' intenzione sincera di non dipartirsi dall' insegnamenti della Chiesa , che è l' altro punto della nostra tesi, che vi eccitò lo sdegno. Che mai vi giova dunque l' aver profanato il nome, col citarlo sì fuor di proposito, di quell' Alessandro Manzoni, che così patentemente vi condanna? Avvertite ancora, che quella morale, di cui Alessandro Manzoni, con tutti gli altri cattolici, attribuisce il magisterio alla sola Chiesa, scrivendo contro i protestanti, è appunto quella che voi definite « « la scienza di tutti i diritti e di tutti i doveri » », immaginandovi forse che per esser ella la scienza di tutti i diritti e di tutti i doveri, per questo tutti gli uomini dovessero avere il diritto e la facoltà d' insegnarla. Anzi da questo appunto dovevate inferire il contrario: e sotto questo aspetto d' una scienza completa e totale, di tutti i diritti e di tutti i doveri, prova Alessandro Manzoni ch' essa non può appartenere in proprio, se non alla sola Chiesa Cattolica. Poichè una verità o l' altra di morale non è la morale; e se è una verità, è già nella morale della Chiesa Cattolica contenuta, come il meno nel più. Il che con quanta profondità ed evidenza di ragioni, con quanta nobiltà di sentimenti non prova ampiamente il grand' uomo! Duolmi di non potere qui trascrivere tutto intero il terzo capitolo delle « Osservazioni sulla morale cattolica » (1), e di vedermi incapace a scegliere tra tante bellezze, ciascuna delle quali pare che meriterebbe la preferenza. Quivi, ognuno che voglia ricorrervi, troverà a pien dimostrato, che la così detta morale filosofica, supponendola anche priva d' errori, altro non è che una porzione della morale della Chiesa Cattolica, e, come egli la definisce, « « la collezione ordinata, ma implicitamente subordinata d' alcune verità morali » », quando la morale di cui ha il magistero la Chiesa, è « « la scienza perfetta e assoluta, che ne comprende l' ordine intero » »; quivi rinverrà messa a nudo, con sommo acume e vastità di vedute l' imperfezione, l' insufficienza, l' incertezza, l' impotenza della morale naturale. E con quanto nerbo poi non accenna egli le contraddizioni e gli errori, e fino i destini dei diversi sistemi di morale umana, opera di quegli uomini che hanno voluto farsene maestri indipendentemente dalla Chiesa, o di quelli che non poterono giovarsi del beneficio della Chiesa per essere vivuti in tempi, ne' quali non era ancora stata fondata la Chiesa. Che per riguardo alle altre dottrine, nelle quali ci manca la scienza perfetta, si riconosca in tutti il diritto di andarne in cerca, acciocchè trovandone tutti un qualche granello concorrano ad aumentare quanto se ne possiede, questo s' intende, specialmente che gli errori, nelle scienze profane, non sono così perniciosi. Ma che, possedendosi già per un dono speciale di Dio compiuta e perfetta, ed anzi elevata ad una dignità soprannaturale, quella scienza morale, che è all' uomo assolutamente necessaria e nella quale l' errare è un perdersi, si voglia nondimeno riconoscere un diritto d' inventarne e insegnarne un' altra, la quale non potrebbe essere, se non erronea, quando non sia nella prima compresa, questo non saprei come chiamarlo se non una stoltezza. Conchiudiamo con le parole del Manzoni citato dal nostro articolista. [...OMISSIS...] I diritti della Chiesa Cattolica, tra quali quello dell' insegnamento, sono assoluti, perchè dati da Gesù Cristo, da una potestà cioè che è superiore ad ogni altra. Tutte le potestà della terra hanno dunque un assoluto dovere di rispettarli. In questi Stati poi, ne' quali la costituzione politica dichiara che « « la Religione Cattolica è la sola Religione dello Stato » », il Governo, anche in virtù della legge fondamentale, per la quale esiste, e da cui ripete l' autorità, deve riconoscere l' esistenza dei diritti della Chiesa Cattolica in tutta la sua estensione. Se infatti riconoscendo una parte di essi, ne disconosce e nega un' altra parte, cade in contraddizione con se stesso e in aperta lotta colla costituzione dello Stato. E qui non si dà una via di mezzo: o conviene riconoscere la Chiesa e la Religione Cattolica tutta intera, quale la ha istituita Gesù Cristo, o facendovi qualche eccezione, la si offende e nega tutta, perchè si nega l' assoluta autorità divina di Gesù Cristo. Sotto l' assolutismo si è inventato, dagli adulatori del potere, un gius canonico bastardo, il quale non mirava ad altro che a contraffare e corrompere il gius canonico vero, coll' intento di trasportare una parte dell' autorità della Chiesa nel Governo civile. La Chiesa, che piena di moderazione, cede molte volte nel fatto per evitare mali maggiori alle anime de' fedeli, non può rinunziare in massima alcuna parte de' suoi diritti divini: quest' è l' origine della vera lotta tra il potere civile e l' ecclesiastico, poichè ogni altra lotta fuori di questa non è una lotta seria, può essere un dissidio, un disparere momentaneo, ma non una lotta. Nessuna infatti delle grandi lotte tra la Chiesa e lo Stato ebbe mai altra cagione: da una parte l' usurpatore, dall' altra il difensore dei diritti usurpati. La lotta si combatteva tra la forza fisica dello Stato e la forza morale della Chiesa. La Chiesa contrapponeva armi spirituali, le quali certamente aveano e doveano avere virtù di muovere delle forze fisiche, come lo spirito muove la materia: l' assolutismo combatteva colla forza bruta e coll' astuzia. In ognuna di queste grandi lotte la Chiesa parve sempre perdente, perchè la violenza produce un pronto e doloroso effetto sopra il debole e l' inerme, ma infine del conto la Chiesa lacerata trionfò sempre in questo senso, ch' ella non cedette mai nella massima per questi diciotto secoli alcuno dei suoi diritti; e ciò per la semplice ragione che non può cederli senza distruggersi, e non può distruggersi perchè Gesù Cristo le ha promesso una eterna esistenza. Ma la forza bruta che crede di poter tutto, si sdegna tanto più ed entra in terribili convulsioni vedendo di non poter mai vincere l' inerme. Questo stato di cose, questa irritazione crescente co' secoli è l' eredità che l' assolutismo lasciò al costituzionalismo de' nostri tempi; l' eredità che questo incautamente raccolse senza il beneficio dell' inventario ed aggravò di nuovi debiti. Non può dunque eccitare meraviglia quell' astio profondo, quel livore che imprudentemente manifestano contro la Chiesa Cattolica e i suoi diritti alcuni falsi costituzionali, poichè sono i successori legittimi degli assolutisti, salvo che l' assolutismo precedente riteneva ancora certe forme di buona creanza, quando l' assolutismo de' falsi liberali è ineducato e villano. Mentre lo spirito d' una savia Costituzione dovrebbe condurre a una moderazione e conciliazione delle opinioni di tutti i cittadini, e degli opposti partiti, costoro l' applicano a inacerbire e a tormentare le piaghe antiche e sanguinose, e aprire così il varco a nuove discordie. Ne' due articoli precedenti abbiamo indicato un esempio parlante di ciò che diciamo: noi abbiamo difeso la libertà de' dotti, de' padri di famiglia, de' benefattori: noi abbiamo riservati i diritti della Chiesa, e la libertà che deve avere nell' esercitarli. L' articolista, a cui abbiamo in essi risposto, dopo aver falsificati i nostri concetti, continuando a falsificarli dice, che tutta questa libertà, che noi concediamo alle nominate persone giuridiche, è nulla, e ci colloca tra « « coloro che una cosa sola al mondo ritengono per funesta e maledetta, l' umana libertà » » (1). E questo perchè? Per l' unica ragione che vogliamo anche conservato il diritto che la Chiesa Cattolica ha ricevuto da Gesù Cristo all' insegnamento. Il difendere questo diritto della Chiesa è lo stesso che ritenere per funesta e maledetta l' umana libertà. Eccovi uno di quelli che ripongono l' umana libertà tutta quant' è nel distruggere i diritti della Chiesa Cattolica. Quelli che insorgono contro questi diritti, ecco gli amici dell' umana libertà. Tutto il resto è indifferente. Pur troppo questo strano principio, che non è un principio, ma un impeto di stolta passione, è quello che giace nel fondo di tante discussioni giornalistiche, che muove tante penne e tante lingue. Questo è il maggior pericolo a cui possa soggiacere la Costituzione d' uno Stato: qualunque Governo eccitato, premuto, spinto da tali oratori a commettere sempre nuovi atti di dispotismo e d' ostilità contro la Chiesa, qualora non sappia, innalzandosi al disopra di essi col suo pensiero, opporre una invincibile fermezza, altro non farebbe che preparare indubitatamente la rovina dello Stato e di quella forma di Costituzione che è incaricato di conservare. Gli adulatori gli fanno credere, come l' hanno fatto sempre credere ai Governi assoluti che hanno tolto a lottare colla Chiesa, che le sue forze sieno maggiori di quel che sono, e perciò egli si avventura temerariamente in quelle lotte, dalle quali i popoli escono spossati e corrotti, e i Governi screditati e odiati. La rovina non è certamente immediata, sopravverrà per cagioni o interne od esterne che sembreranno accidentali; ma ella non può fallire quando il tempo e l' ora sia suonata. Il citato articolista asserisce che l' idea cardinale della nostra teoria si riduce a volere che lo Stato dia guarentigia alla Chiesa nel punto dell' insegnamento, e non la Chiesa allo Stato (1). Benchè non sia questo il nostro concetto, tuttavia potremo rispondergli, che le guarentigie deve darle il forte al debole, e che è ridicolo pretendere che il debole debba dare guarentigie al forte. Sarebbe come se il leone domandasse guarentigia all' agnello. Le guarentigie dunque lo Stato le ha già, e le deve avere nella sua forza, ed è contro questa forza che tutti i cittadini, e per sè e per la loro religione, dimandano guarentigie, è contro questa forza che si domandano le Costituzioni, acciocchè non rimanga disordinata questa forza, e quasi come un astro uscito dalla sua orbita non perturbi l' ordine della giustizia. Le guarentigie dunque che si domandano non sono fisiche, ma morali, le quali devono temperare e regolare il potere fisico del Governo. E se egli riconosce pienamente e sinceramente i diritti della Chiesa, questa è una guarentigia morale non solo data alla Chiesa, ma data a tutti i cittadini e ai loro diritti, data allo Stato medesimo, e dirò di più, è una guarentigia che il Governo dà a se medesimo. Poichè se il Governo è saggio temerà assai più se stesso che non la Chiesa inerme, la quale gli oppone una forza morale a maggior utilità e a maggior dignità di lui medesimo, che la Chiesa non vuole già il decadimento dello Stato, ma ne vuole la perfezione. Ed oltre di ciò quant' altre guarentigie morali non dà la Chiesa in virtù della sua propria costituzione al Governo civile in questa materia dell' insegnamento? Il suo insegnamento non è ignoto, non incerto, non vacillante, non è una dottrina, di cui si vada in cerca, che si inventi alla giornata, che si muti come le opinioni degli uomini, incominciando dai cagnotti dei Governi fino ai più serii filosofi. Ella è una dottrina che si conosce e si sperimenta pel corso di dicianove secoli, che si è predicata e si predica dall' alto dei tetti a tutte le nazioni del mondo: che sta scritta in migliaia di libri a tutti aperti, che niun Governo può ignorare, che niun privato può accrescere, o diminuire, o alterare, senz' essere condannato dalla Chiesa medesima: è una dottrina che ha salvata la società umana quando si discioglieva, che ha incivilito il mondo, che ha ricostruito ella stessa colle sue mani e perfezionato quei Governi che ora inorgogliti la disprezzano e la conculcano. Contro questa dottrina si osa ora dai saputelli di certi giornali, organi d' un liberalismo servile, domandare guarentigie a favore dei Governi, quasi che non fosse ella stessa questa dottrina insegnata da Dio medesimo la più ferma e la più splendida guarentigia non solo data ai Governi, ma al genere umano, se pur si deve chiamare una guarentigia quella verità e santità di dottrina che è la stessa salute. E da chi si può domandar guarentigie contro questa dottrina, o a favore di qual altra dottrina? Da quelli certamente che fanno consistere tutta la libertà umana nel potere liberamente imbestialire contro la dottrina salutare del Redentore, e chiamano inimici della libertà umana quelli che la diffondono. A favore dunque e a nome dell' errore e della morte si domandano guarentigie contro la verità e la vita. Come se altri domandasse delle guarentigie alla sanità a nome e a favore del colèra. Può forse il Governo civile dare alla Chiesa per riguardo al pubblico insegnamento una guarentigia simile a quella che la Chiesa offre a lui nella sua stessa dottrina? Qual è dunque la dottrina del Governo civile? Niuno lo sa: niuno sa qual dottrina egli farà insegnare: non esiste un corpo di dottrina che possa dirsi: « Questa è la dottrina del Governo ». E se niuno ancora sa o può sapere qual dottrina il Governo civile farà insegnare oggi; si saprà forse qual dottrina farà insegnare domani? Lo stesso Governo è il primo ad ignorarlo. Mutabile come è il Governo, egli non può avere, neppure se lo volesse, una dottrina stabile e consistente sulla quale si possa far conto. Il Governo può designare le scienze in generale col loro nome, può dire: « Queste e queste scienze s' insegneranno », ma non può mica determinare con precisione quali dottrine, quali opinioni, quai sistemi s' insegnino in ciascuna scienza: tutto è mutabile, dipende dai professori, dalle circostanze, dai tempi, dai partiti stessi, che nei Governi casualmente, e temporaneamente prevalgono. Non sarà dunque cosa ragionevole e desiderabile che il Governo, che per sua natura non ha dottrina definita, e la dee prendere alla giornata, dia alla Chiesa Cattolica (se pur non è il suo nemico) una qualche guarentigia almeno col riconoscere pienamente il sacrosanto diritto del libero insegnamento, che essa ha ricevuto da Gesù Cristo? Ma il nostro articolista ha egli neppure la facoltà di parlarci di guarentigie reciproche della Chiesa e dello Stato? Egli, che fa consistere la rovina di tutta la libertà umana nella difesa che noi facciamo del diritto che ha la Chiesa Cattolica all' insegnamento; e la conservazione della libertà umana, per lo contrario, nel poter straziare e distruggere i diritti divini di questa Chiesa; come potrà senza contraddirsi proporre che la Chiesa e lo Stato si guarentiscano reciprocamente i propri diritti? Dove se ne andrebbe allora la sua libertà umana, secondo il suo concetto? Ma si lasci per un poco da parte la Chiesa. Il sistema costituzionale riposa tutto su quest' unico principio generale, che « il potere nelle mani di chi lo tiene, potendosi convertire ugualmente a vantaggio e a danno de' cittadini, è necessario che questi abbiano delle guarentigie contro l' abuso ». Dall' intima natura dunque di questo sistema di governo nasce la necessità delle guarentigie da prestarsi dal potere alla nazione. Ora le nazioni cattoliche considerano la sanità della dottrina religiosa e morale come la più preziosa delle loro ricchezze, e la causa principale della loro civiltà e del loro progresso. Ma in qual maniera potrà il potere dare qualche guarentigia su questo punto, il più importante di tutti, a un popolo cattolico? Dirà egli forse semplicemente: « Fidatevi di me? »Sarebbe lo stesso che ricusarsi di dargli guarentigia alcuna, lo stesso che rinnegare il sistema costituzionale, e rimettersi di colpo nel sistema dell' assolutismo. Un popolo cattolico dirà ancora ad un tale governo: « E chi siete voi, che io mi debba fidare di voi? siete un' idea astratta, di cui non so che farne, siete un gruppo di persone, rimutabile di giorno in giorno, che non possono pensar tutte al medesimo modo. E qualunque possiate essere, ditemi prima di tutto se voi siete il giudice e il maestro della dottrina dommatica e morale. O mi rispondete di sì, e in tal caso voi non professate la religione cattolica, che insegna, come suo domma, non appartenere ai Governi civili il giudizio e il magistero della fede cattolica. Pretendete dunque di essere giudice e maestro d' una dottrina religiosa che non professate e non conoscete. E volete che io, nazione cattolica, mi fidi di voi? Ovvero confesserete di non essere giudice e maestro della cattolica dottrina. In questo caso, se voi, o Governo, non siete giudice e maestro, dovete dunque subire il giudizio di quella potestà, che ha ricevuto la giurisdizione religiosa da Gesù Cristo, e comportarvi come suddito e da discepolo della medesima. Per altro nessun Governo di popoli cristiani osò mai di asserire d' essere il giudice e il maestro della cristiana religione, conscio che se lo dicesse non sarebbe creduto, e si renderebbe ridicolo in faccia ai popoli: non osa dirlo neppure lo Czar della Russia, neppure la Regina o il Parlamento d' Inghilterra. I Governi usurparono bensì di fatto non rare volte quest' ufficio di giudice in cose dommatiche: promulgarono anche in tali materie placiti e sentenze, fecero insegnare dottrine anticattoliche: pure niun di essi osò mai dichiarare apertamente d' averne la potestà, la quale supporrebbe nientemeno che l' infallibilità. Operano dunque cotesti Governi contro la propria coscienza; sanno nel fondo del loro cuore d' essere usurpatori d' una potestà che loro non ispetta; ma hanno la forza in mano e la forza bruta è superba; la forza bruta non intende ragione e fa quello che le attalenta. Ecco la necessità delle guarentigie. E` dunque ragionevole, che il popolo cattolico ne domandi al potere civile in tanto pericolo. Ma quali possono essere queste guarentigie? Per quanto si cerchi, non se ne trova alcun' altra, se non che il Governo « riconosca, lasci libero, protegga il diritto, che ha la Chiesa Cattolica, come maestra e giudice della dottrina dommatica e morale dell' insegnamento ». Questa guarentigia non è dunque data solamente alla Chiesa, ma è data ai popoli, ed è una conseguenza legittima e necessaria del sistema costituzionale che tutto si fonda sul principio generale delle guarentigie. Certamente col primo articolo dello Statuto Sardo si voleva dare al popolo piemontese la guarentigia, di cui parliamo. Ma in tutti quelli organismi politici, ne' quali non si trova nessun' autorità indipendente incaricata di conservare la Costituzione e di interpretarla, un articolo così breve e sugoso rimarrebbe una guarentigia illusoria e cartacea, qualora la disposizione che contiene non venisse trasfusa e applicata nelle altre leggi dello Stato, e che la rendano viva ed efficace nella pratica. Per riguardo dunque all' insegnamento, a quale condizione si potrà dire, che il popolo abbia dal Governo una vera guarentigia, che sarà insegnata nelle pubbliche scuole una dottrina sana e veramente cattolica? Non basta certo a mettere in atto questa guarentigia, che il Governo dica semplicemente: « La dottrina, che io fo insegnare, è perfettamente cattolica »; ma conviene che egli soffra che sia giudicata per tale dal giudice competente e dal legittimo maestro della medesima: in una parola, è necessario che nelle sue leggi e nelle sue ordinanze riconosca esplicitamente il giudice e il maestro costituito da Gesù Cristo entro la sfera della religione da lui fondata. Ma quand' è che un Governo civile riconoscerà veramente questo giudice e questo maestro? Solamente allora che egli riconosce l' ordine gerarchico della potestà istituita da Gesù Cristo nella sua Chiesa; quell' ordine gerarchico, che la « Rivista delle Università e dei Collegi » con parola insolente e con ispirito protestantico chiama « teocrazia gerarchica » (1). Non è un riconoscerlo l' ammettere la massima generale, e poi declinare dalle conseguenze. Non basta dire in astratto, che c' è un tribunale e un magistero istituito da Gesù Cristo; bisogna di più confessare, ch' esso risiede nell' Episcopato, del quale è capo il Sommo Pontefice. Se questo lealmente si confessa, se a questa confessione sono coerenti le leggi riguardanti l' insegnamento, quali conseguenze se ne avranno? Certamente le seguenti. Si riconoscerà l' Episcopato come il Corpo insegnante dello Stato in opera di religione: non solo il Corpo insegnante ufficiale e legale, ma oltre di ciò anche un Corpo insegnante indipendente, poichè queste due qualità non si contraddicono. Ogni insegnamento riguardante il domma e la morale cattolica discenderà come da sua legittima fonte da questo gran corpo, e a questo gran corpo ritornerà ogni insegnamento in questa materia per via della debita subordinazione. Il Governo non farà che mettersi a lato di questo Corpo augusto, come un protettore e come il rappresentante legittimo del Corpo dei fedeli, che al fianco de' suoi pastori gli aiuta in ogni maniera, affinchè possano meglio adempire il divino, benefico e paterno loro ministero. Si riconoscerà in questo Corpo insegnante il diritto di visitare liberamente le scuole ufficiali, per conoscere le dottrine che vi s' insegnano, e trovatene di quelle che divergono dalla dottrina cattolica, di riferirne al Governo stesso, acciocchè sia tolto un sì grave inconveniente, nasca egli da libri che si adoperano nelle scuole, o dalle lezioni vocali di maestri o irreligiosi, o troppo imperiti in opera di religione. Il Governo civile d' una nazione, nella quale la religione cattolica è l' unica religione dello Stato, è obbligato a far questo lealmente; e a fare che le leggi, i decreti, le circolari, i provvedimenti d' ogni sorta siano in perfetta armonia con questi principii. Il Governo d' una nazione, nella quale non ci fosse una religione dello Stato, ma diversi o tutti i culti fossero ammessi ugualmente, sarebbe ancora obbligato a fare altrettanto relativamente alle comunità dei cattolici. Un Governo leale , che adempisse con onoratezza questi suoi doveri, torrebbe di mezzo qualunque discordia tra lo Stato e la Chiesa su questo punto dell' insegnamento; l' Episcopato, il resto del Clero, i fedeli si troverebbero indissolubilmente uniti col Governo; la forza morale della Chiesa diverrebbe una alleata utilissima al consolidamento delle libere istituzioni consacrate dalla religione. Ma tra le tenebre viene l' uomo inimico, e soprasemina la zizzania. Il genio del male favella parole ingannevoli negli orecchi di quelli che siedono al timone degli Stati. Egli dice loro: « Guardatevi dal clero, perchè il clero è un partito politico ». Quando dice questo, il genio del male mente al suo solito. Il clero non è un partito politico; ma egli ne prende le apparenze, tostochè il Governo gli niega i suoi essenziali diritti. Uomini di Stato, se voi trattate il clero gelosamente come se fosse un partito politico, lo rendete tale voi stessi (1). Se all' incontro voi lo trattate lealmente , come clero, qual è per la sua situazione, non mostrate di averlo in conto di un partito, il clero sarà sempre clero, e non mai un partito: non sarà altro che quell' istituzione religiosa che ha fatto Gesù Cristo; istituzione aliena dalla politica fin che questa si limita ai negozi temporali e suoi proprii, è tuttavia istituzione che renderà ai Governi indirettamente de' continui e inapprezzabili vantaggi; poichè il clero col suo proprio santo ministero ammollisce e toglie l' asprezza di tutti i conflitti, concilia rispetto alle leggi, cementa gli animi de' cittadini, e, unendo questi, fortifica la nazione, e aggiunge così una secreta consistenza e stabilità ai Governi senza mostrarlo pure in apparenza. Dice loro ancora: « Se voi riconoscete lealmente i diritti del clero cattolico, e lo proteggete nell' esercizio dei medesimi, il clero diverrà potente e vi leverà di mano le redini ». Il genio del male mente di nuovo, per gettare la discordia e la divisione tra il potere civile ed il clero, ispirando a quello una vana gelosia di questo. Questa paura del Governo da una parte è una viltà, è un' inconsapevolezza delle proprie forze: dall' altra non nasce, se non in quei Governi che covano de' progetti sinistri alla religione ed alla morale. Questi temono che la Chiesa e il clero colla sua influenza ne impediscano loro l' esecuzione. I Governi, all' incontro, leali, che altro non bramano che il bene, che hanno per norma delle loro azioni de' principii di morale, di giustizia e di religione, e che non intendono di sacrificare questi sommi beni dell' umanità agl' interessi temporali mal calcolati (perchè l' utilitarismo calcola sempre male); questi Governi vedono di buon occhio l' influenza che esercita il clero sui fedeli entro la sfera della religione e della morale, e la considerano come vantaggiosissima: non pensano neppure alla possibilità ch' essa possa venire in collisione coll' autorità del Governo, perchè il Governo non vuole offendere la Chiesa, ma proteggerla, non vuol pubblicare delle leggi empie e contrarie ai suoi dommi, o alla sua morale, ma savie e religiose; non vuole impedire l' Episcopato nell' esercizio del suo sacro ministero, e così non gli viene l' occasione di vessarlo, di perseguitarlo e sbandeggiarlo; non vuole spogliare la Chiesa de' suoi beni temporali, ma lasciare a ciascuno il suo; insomma non è mosso da alcuno spirito ostile, tendente a sovvertire la pubblica morale, a promuovere l' opinione antireligiosa, e ad abolire ne' popoli quel sentimento di rispetto verso le cose sacre, senza il quale lo stesso ordine pubblico si sovverte, e a conservarlo è poi uopo accampare una forza fisica spaventevole, d' infinito aggravio ad una nazione, armando la metà de' cittadini contro l' altra metà. La Chiesa adunque e il clero, per la stessa natura dell' istituzione, si trovano in un perfetto accordo co' buoni Governi: per la stessa cagione i cattivi Governi considerano l' una e l' altro come loro nemici, e par loro di fare altrettante prodezze quante volte possono cagionarle qualche molestia o qualche danno. Degli scrittori ostili alla Chiesa, specialmente storici, come il Giannone, il Botta, il Colletta ed altri tali, hanno celebrato colle lodi più esagerate alcuni principi e ministri, che hanno rotto molte lancie contro la Chiesa, e così hanno contribuito non poco a diffondere il pregiudizio che in queste braverie consista la gloria del regnare. La vanità di altri principi e quella di altri ministri si è gonfiata, sperando di poter ottenere a buon mercato di simili elogi, non già colla prudenza governativa o col valor militare, ma con fare i prepotenti a man salva contro persone inermi, e quindi lo spirito irreligioso ed antiecclesiastico passò per una eccellente massima di governo. L' infamia duratura aspetta questi miserabili amici d' una gloria passaggiera. Ma il genio del male bisbiglia ancora una parola più seducente negli orecchi de' governanti: « Temete, dice loro, il potere della Santa Sede, e per velare il vostro astio, con un' accorta parola chiamatela una Corte straniera , la cui influenza è nocevole all' indipendenza dello Stato ». Niente di meglio che l' indipendenza dello Stato; qual buon cittadino vorrebbe sacrificarla? o chi v' ha mai detto di sottomettere il vostro Stato a quello di Roma? La Chiesa non vi comanda questo; piuttosto vi fa ella stessa un dovere di conservare l' indipendenza dello Stato, che v' è affidato da governare, da qualunque altro Stato temporale. Ma avvi buona fede in voi, quando fate le viste di confondere due cose, che voi stesso sapete che sono distinte ed immensamente separate l' una dall' altra? E chi è che non sappia, che altro è lo Stato temporale di Roma, e altro la Santa Sede Apostolica? Se dunque avete da fare, a ragion d' esempio, un trattato di commercio collo Stato Romano, cercate pure senza riguardo i vostri interessi, come fareste con qualunque altro Stato temporale, e farete benissimo a farlo. Ma quando si tratta della Santa Sede, del Papa, come Papa, egli è il supremo di tutti i cristiani cattolici, e siete perciò obbligati a riconoscerlo per tale, se pur non siete protestanti, o se non volete che i cattolici siano protestanti, il che sarebbe una contraddizione. Non potete mica dire, che il Papa come Papa sia un principe straniero, perchè Papa non vuol dire principe temporale, ma vuol dire Vicario di Gesù Cristo su tutta la terra. Onde il Papa, che vive su questo globo, è sempre nel suo Stato. Trattasi d' uno Stato spirituale e non d' uno Stato temporale: la sua autorità limita bensì il vostro potere: ma solo nelle cose religiose e morali. Dirò meglio, essa non limita il vostro potere, ma limita salutarmente il vostro arbitrio, poichè nessun Governo può avere in nessun caso autorità sulla fede religiosa, e se egli ci vuol mettere la mano, fa un atto di arbitrio e non d' autorità; la sola superbia è quella che non soffre siano messi limiti a' suoi arbitrii. Quando dunque il Papa vi dice sull' autorità ricevuta da Gesù Cristo: « Questa cosa è illecita secondo la legge di Gesù Cristo »; allora voi non potete più dire ad una nazione cattolica, che ella sia una cosa lecita, perchè ha parlato il giudice competente, e non dovete vessare i cittadini costringendoli a credere piuttosto a voi, che al Papa loro unico superiore: non esiste nessuna potestà, nè legislativa, nè ministeriale nello Stato, che possa far questo. In tal modo si fa chiaro, che non è possibile alcuna seria collisione colla Santa Sede, se i Governi sono leali, e non confondono a bella posta le idee. La scusa dunque di non voler dipendere da un principe straniero svanisce da se stessa, si svela da sè come un miserabile sofisma, con cui i falsi politici vogliono ingannare e confondere l' opinione popolare. Per riassumere dunque in poche parole quello che dicevamo, il segno sicuro, al quale si può conoscere, se un Governo civile dice la verità quando afferma di voler conservato il cattolicismo, e quando dice di più, di considerare la religione cattolica come religione dello Stato, si riduce a vedere, se egli rispetti e riconosca nel fatto la gerarchia della Chiesa Cattolica, quale l' ha istituita Gesù Cristo. Il Governo che opera in modo da mostrare di non riconoscere questa autorità gerarchica, non è cattolico, ma è protestante. 1 Importanza per la società umana . Che l' uomo semplice e primitivo non ha bisogno della filosofia, bastandogli avere opinioni e sano criterio naturale. Ma sollevandosi, per uno sviluppo spontaneo, alla sfera di riflessioni più elevate: 1 diviene difficile il ragionare e facile l' errore; 2 quindi la seduzione delle passioni, che vogliono essere giustificate, travia l' umana mente. - Fino che la mente è traviata e protettrice de' vizii, l' animo non può guarire. - Allora è necessario applicare, a sanare il malore dell' umanità, il farmaco d' una scienza più alta, esposta con precisione, provata con rigore. - Alternativa d' una corruzione e d' una risanazione, d' una sofistica che tien dietro alla corruzione, e d' una scienza sempre più profonda che fa rinsavire le menti illuse. L' ultima vicenda si fa di quella sofistica che pone in dubbio e nega gli ultimi principii delle cose. Tale è questa del nostro tempo. - Tutto si è negato, tutto posto in dubbio (Descrizione dello stato delle menti del secolo passato, e in parte del presente, ecc.). - A questa malattia non può rimediare che la filosofia, cioè la scienza dei principii, delle ragioni ultime . Questo è quello che poco si conobbe; finora si credette che la filosofia non fosse che speculazione dissociata dalle conseguenze pratiche. - All' incontro tutti i mali dei nostri tempi vengono dalle erronee dottrine filosofiche, cioè da quella sofistica che risponde alla filosofia , come contraria a contraria, ecc.. - Sono da toccare principalmente i mali della Germania e le minacciose conseguenze, ecc.. Quindi altri errori d' alcuni i quali credono che basti una filosofia superficiale, e che non sia necessario entrare ne' visceri delle principali questioni. 2 Importanza per le scienze . S' aggiunge che le scienze tutte hanno una tendenza di costituirsi in forma rigorosa. A questo presta mano la filosofia, la quale se non è formata, e se ad essa si lascia sostituire la sofistica, accade che il veleno sia portato in tutte le scienze, ecc.. 3 Importanza per la religione . La religione stessa ogni dì ne abbisogna (Avversari - Teologi cattolici). Che la religione Cattolica abbisogni oggidì di una sana e potente filosofia si scorge osservando la sua condizione, sì relativamente a' suoi nemici che la odiano, sì relativamente a' fedeli che la venerano ed amano. Rispetto a' suoi nemici basta considerare che tutte le eresie del Settentrione vanno a finire convertendosi nel razionalismo , che è quanto dire in un sistema di filosofia, con cui si combatte la religione positiva. - Di più, tutti gli assalti dati alla religione dagl' increduli nel secolo scorso e che continuano tuttavia, non le si danno con altr' arme che con quelle di una falsa filosofia. - Conviene adunque combattere ad armi pari per giovare a' traviati, i quali non ammettono altri argomenti. Dunque è necessaria una filosofia, ecc.. Che se si volge lo sguardo all' interno della Chiesa, noi vediamo da una parte il popolo, a cui già si propagano ogni dì più i lumi, e le cui facoltà si sviluppano a gran passi: egli domanda quindi dalla religione un nutrimento accomodato a' suoi bisogni; al quale scopo sommamente giova che la filosofia rechi anche nella religione il suo metodo logico, che concateni le verità rivelate in modo che le une colle altre si sostengano reciprocamente e che renda più possente quella facoltà della ragion teologica che conduce il fedele a penetrare sempre più addentro nelle verità religiose. Che se da un' altra parte consideriamo lo stato scientifico della teologia, noi sentiamo un lamento universale a cagione del metodo che ancor manca in una scienza così sublime, e del vestito ancor rozzo in che ella si mostra; il che la rende disamorata, ecc.. - Ora a questo mancamento la sola filosofia può rimediare. - San Tommaso così la ristorò sulla fine del medio evo, ecc.. Introduzione cavata dai sentimenti che debbono nascere in un giovane professore chiamato alla cattedra di filosofia normale. - Difficoltà e gravità dell' incarico. Per vincere queste difficoltà la prima cosa è d' intendere bene quale sia lo scopo che la Sovrana provvidenza si prefigge di ottenere con questa cattedra, quale sia l' ufficio dell' istitutore, quanta la sfera del suo insegnamento, quali le viste che egli deve conseguentemente proporsi. Qui non trattasi d' insegnare la filosofia ai giovanetti, che la prima volta sentono le lezioni di questa scienza. - Differenza fra l' insegnamento elementare , e l' insegnamento normale: difficoltà di quello, difficoltà di questo. Nell' insegnamento elementare trattasi di infondere nelle menti le prime nozioni filosofiche, e nell' insegnamento normale di sviluppare queste nozioni entrando nelle questioni più elevate. - Nell' insegnamento elementare è indispensabile di dare qualche peso all' autorità del precettore, perchè, ecc.; nell' insegnamento normale l' autorità del precettore dee essere del tutto esclusa, altro non dee prevalere che la forza del ragionamento. - Sì, io non posso, non debbo, non voglio pretendere che voi prestiate alcuna fede alla mia parola, dovete voi stessi ragionare meco - noi dobbiamo studiare insieme - conforto ed aiuto che deve venire da ciò. Insomma non trattasi propriamente di ammaestrare, ma di far sì che gli uditori si ammaestrino da se medesimi: non trattasi di insegnare le verità, ma di condurre gli uditori a trovarle queste verità da se stessi - Scorsa sul metodo socratico, col quale sono scritti i libri di Platone - eccellenza ed opportunità di questo metodo pel caso nostro. Conclusione, che l' unica via, per la quale si crede di poter condurre al suo scopo l' insegnamento normale, si è quella di « prendere per argomento del medesimo l' esposizione del metodo filosofico e le sue applicazioni a' diversi sistemi ». Non è che con questo noi vogliamo escludere i sistemi: l' uno di essi deve esser vero: noi vogliamo pervenirci per una via irrecusabile, quella d' una logica rigorosa. - Di più, ognuno dei più celebri sistemi ha qualche cosa di buono, noi non vogliamo ricusarne la parte buona. - Relazione dell' Eclettismo colla via che noi ci proponiamo di seguitare nelle nostre lezioni (sincretismo). Nesso colla lezione precedente; noi resteremo tanto più contenti dell' argomento stabilito, quanto più considereremo l' importanza di un buon metodo di filosofare. Necessità e importanza del metodo, delle definizioni generali di esso. - Il metodo è la via , ecc.. - Il metodo è lo stromento, ecc.. Qui si cominci a fare la storia del Metodo. Il vero metodo indigeno all' Italia. - Carattere dell' ingegno italiano, fatto pel metodo - Galileo. Il carattere dell' ingegno italiano consiste nella chiarezza: l' Italiano, se non vede chiaro, non s' appaga. - Quindi è inclinato e si compiace: 1 del raziocinio matematico , e 2 del raziocinio sperimentale . - Questi furono accoppiati eminentemente in Galileo (Converrebbe ricorrere alle sue opere, e cavarne di que' canoni sì lucidi di pensare che egli sparge da per tutto. Sarebbe bene, per andar breve, che leggesse qualcheduno de' principali elogi fatti al Galileo, per es. quello del Frizi; ovvero almeno prendesse l' operetta che ha per titolo: « Il Galileo proposto per guida alla gioventù studiosa », di Monsignor Colangelo, Napoli). L' ingegno inglese è simile, ma s' innalza meno aperto alla natura spirituale. In Bacone vi ha lo stesso intento che in Galileo, ma Bacone è legato dagl' idoli dell' immaginazione , dai quali è sciolto il Galileo. Oltre di che: 1 non mette le mani nella scienza, onde non è matematico, nè fisico; 2 quindi i suoi precetti hanno spesso del vago , dovendo supplire coll' immaginazione filosofica alla pratica che gli manca. Conviene attingere qualche esempio dalle sue opere, p. es. la sua classificazione degli esperimenti assai mal fatta, e fatta più a tastone che a vista chiara. - Ora il metodo dee sempre cominciare a formarsi coll' esercitare l' ingegno nelle ragioni matematiche e negli esperimenti fisici, perchè in questi esercizi gli errori si trovano, e questi servono a vedere dove si è messo il piede in fallo. Le disposizioni degli scienziati che impedirono di propagarsi il buon metodo furono: 1 La riverenza superstiziosa ad Aristotele . Esempi di opposizioni ch' ebbe da ciò il Galilei si possono vedere nella « Storia del progresso », ecc., del Powel, stampata a Torino [...OMISSIS...] ; 2 La pigrizia degl' ingegni , abituati a tutto decidere per autorità; fomentata specialmente dallo studio delle leggi umane, dell' antichità classica, ecc.; e 3 La confusione fatta tra l' autorità divina ed umana [...OMISSIS...] ; 4 La superbia de' vecchi dotti , che non vogliono imparare da' giovani. Carattere dell' ingegno inglese. - Bacone. Le scienze fisiche debbono tutti i loro progressi al metodo rigoroso introdotto da que' due sommi uomini [...OMISSIS...] . Le scienze filosofiche debbono il loro poco sviluppo e i loro grandi errori al non essersi applicato ad esse lo stesso metodo. - Scorsa sui sistemi più celebrati. Cagioni perchè alle scienze filosofiche non fu applicato il giusto metodo. - Disposizioni degli scienziati. - Qualità delle scienze filosofiche a cui è più difficile applicare il metodo con rigore. - Imperfezione de' metodi stessi. - Critica di Bacone (mancante di alcuni canoni importanti pel metodo filosofico - De Maistre). Tentativi imperfetti per applicare il buon metodo nelle scienze filosofiche. Italiani - Campanella, Ricotti, Venturi (G. B.), Araldi, Caluso, Beccaria, Verri, Filangeri; Inglesi - Reid; Francesi - Jouffroi; Tedeschi - privi al tutto di metodo, benchè potenti d' ingegno, non poterono che inventare de' sistemi mostruosi. - Gioberti, loro seguace, privo di metodo. Conclusione. - Essere nostro intendimento di ristaurare il metodo filosofico in tutta la sua estensione, e di fedelmente e costantemente seguirlo in tutte le investigazioni filosofiche che noi faremo insieme. Noi sappiamo ora a che dobbiamo tendere, miei signori, ad applicare il vero metodo d' investigazione alle ricerche filosofiche: il che noi faremo esponendo le regole del metodo, e poi applicandole alla soluzione de' principali problemi della filosofia. Ma noi non dobbiamo trascurare quelle quistioni accessorie che deve avere in prima discusse e risolte colui, che intende entrare nel filosofico arringo, che vuol filosofare egli stesso, e che vuol insegnare altrui a filosofare, ecc.. Di queste ne si presentano già qui sul principio due importantissime: quella della libertà del pensare , e quella della libertà dell' insegnamento . Della libertà del pensare - com' ella sia assurda intesa volgarmente - com' ella abbia dell' importanza, se, mutandole la forma, si converta in quest' altra: « Quale autorità può aver l' uomo sopra l' altro uomo d' imporgli una qualche dottrina? ». La si scioglie dimostrando: 1 Che l' uomo non ha alcuna autorità d' imporre una dottrina all' altro uomo per sè, ecc.. 2 Che un' autorità infallibile può, ecc.. - Autorità divina - Autorità della Chiesa (1) - Non si dà mai collisione vera tra essa e la Ragione - collisioni apparenti. - E` lo stesso diritto che ha la verità sull' uomo, venga ella da qualunque fonte all' uomo comunicata. - Non impedisce la vera libertà del filosofare. - Vantaggio, che ritrae dall' autorità la libertà filosofica. 3 Sebbene l' autorità umana non abbia diritto assoluto di imporre una dottrina, tuttavia dee muovere l' attenzione, ed inclinare l' animo. - Ragionevolezza di ciò. 4 Vi hanno delle cose su cui tutti gli uomini convengono - Senso comune, Autorità del genere umano infallibile - perchè - Gli uomini convengono nella logica, e quindi nel metodo, benchè poscia nol seguano - Quindi lo sforzarsi di stabilire il buon metodo e di tenerlo costantemente, ecc. non lede la vera libertà del pensare - Mettere gli uomini sulla via della concordia. Della libertà dell' insegnamento - Conseguenze della dottrina applicata alle intenzioni di un savio governo come protettore degli studi. Dee procurare che tutti conoscano la verità filosofica senza ledere la sana libertà del pensare. - Il miglior segno di essere pervenuti alla verità è quello della concordia spontanea delle opinioni. - Questa non si ottiene coll' imporre una dottrina, ma col propagare il metodo per rinvenirla. - L' autorità che dirige gli studi può esigere che si segua un metodo logico, perchè su questo nel loro fondo vi ha consenso universale - Parlando di metodo filosofico non intendiamo la parte tecnica o materiale del metodo delle singole scienze, ma unicamente la parte logica. - Noi entreremo in questa via - così ci solleveremo sopra tutti i sistemi - l' imparzialità - Vantaggio e gloria che trarrà di ciò il Piemonte, ma quando dico Piemonte non intendo dividerlo dall' Italia. No, l' Italia non è che una sola famiglia, ecc.. - L' italia, patria del vero metodo, chiamata a stabilirlo e mantenerlo nella Filosofia com' ha fatto nelle scienze naturali. - Primato in questo degli Italiani, ecc.. Noi abbiamo veduto l' importanza, la necessità del metodo filosofico: or non conviene che ce la esageriamo. - Una verità esagerata è un errore. - Una delle regole principali che dee dirigere il filosofo, è la moderazione. - La moderazione risulta dal complesso, dalla totalità delle vedute. Sacrificano ad un' idea sola tutte le altre quelli che riducono al metodo tutta la filosofia. - Cousin; passi. - Assurdità di questo sistema (Una via senza un termine a cui conduca, un mezzo senza un fine, un istrumento, ecc.). Origine di questo errore. - Si vide che l' oggetto della filosofia non sono le cose fisiche (percettive), ma, oltre le cose fisiche, nella condizione presente, l' uomo non apprende che le idee, le quali contengono le ragioni delle stesse. Quindi l' inclinazione di restringere la filosofia alle idee. Ora lo studio delle idee non può condurci ad altro che a trovare l' ordine, ossia il concatenamento che hanno fra esse. Ora il concatenamento delle idee è appunto ciò che presenta il metodo di andare dall' una all' altra. Quindi si conchiude che tutto l' oggetto della Filosofia è il metodo. Questo è propriamente il razionalismo filosofico . - Se si penetra nel suo fondo ci si trova la mancanza di fede, dico d' una fede filosofica nella realità di un Dio. Quindi si vuol fare un Dio7idea - Gioberti - Hegel [...OMISSIS...] (1). Affine a questo sistema, ma meno funesta, e in parte vera, è la definizione della logica che alcuni danno, volendo « ch' ella non sia già l' arte che insegna a trovare o dimostrare il vero, ma a ragionar bene , sia poi il vero o il falso a cui conduca ». Nella letteratura e nelle arti si applicò il sistema del razionalismo, mettendovi a principio quel celebre detto di Goethe « l' arte per l' arte ». [...OMISSIS...] Lo scopo della Scuola normale di Filosofia è il metodo: il metodo è l' organo della Filosofia, non è tutta la Filosofia: questa si trova coll' applicazione del metodo alle principali questioni. Quindi già stabilimmo che lo scopo della scuola normale non dee essere il solo metodo, ma il metodo colle sue applicazioni. Ma vi ha egli nessuna norma che ci diriga in queste applicazioni? Ecco l' argomento della presente lezione, che solo può rendere manifesto quale debba essere l' intero scopo dello studio che dobbiamo fare insieme, e solo farci conoscere l' indole e la sfera del filosofico magistero che voi siete chiamati a esercitare. Noi non siamo di quegli che non ammettono nulla di vero e di certo anteriormente alla filosofia: noi ammettiamo delle verità indubitabili, delle certe evidenze comuni a tutti gli uomini, anche a quelli che non pervennero alla riflession filosofica. Queste sono la guida di tutta l' umanità al suo fine , queste debbono essere anche la guida del filosofo. - Convien dunque dirigere la filosofia al fine dell' uomo - la moralità - (Si dimostri che nella moralità propriamente si accoglie il fine dell' uomo, giacchè la felicità non può l' uomo darla a sè stesso, ma aspettarla; quand' egli è moralmente buono). Or noi abbiamo veduto (Lez. I) che la Filosofia è necessaria, è importante appunto perchè viene in soccorso dell' uomo, quando la debolezza della sua mente e del suo cuore dà luogo a sofismi, che vorrebbero rapirgli le verità più salutari ecc.. Queste verità, in fine del conto, hanno valore perchè o contengono il fine morale dell' uomo, o ne sono i prossimi mezzi. Quindi tutta la Filosofia dee volgersi a mantenere contro il sofisma le verità più necessarie all' uomo, acciocchè conseguisca la sua alta destinazione illustrandole ed ordinandole. Ora queste verità, o sono ontologiche cioè quelle che dichiarano come sono gli enti; o deontologiche , che dichiarano come debbano essere e come in ispecie dee esser l' uomo, acciocchè sia retto e in sua natura perfetto. In queste seconde si contiene propriamente il fine dell' uomo, che è la perfezione morale e la conseguente felicità. Ma le cognizioni delle prime ne sono il mezzo prossimo, perocchè la natura dell' anima a ragion d' esempio ne dimostra la dignità, e rende evidente la verità e la necessità della morale. - Se dunque dividiamo la Filosofia in due gran parti, nell' Ontologia e nella Deontologia, noi potremo trovare un segno a cui dirigere le nostre ricerche, e principalmente il magistero filosofico riguardante sì l' Ontologia e sì la Deontologia. Il magistero filosofico nella sfera della Ontologia dee tendere a indurre le menti degli uditori a raggiungere un positivo concetto dello spirito . - Come da questo dipenda tutto il buon esito della scuola. - Difficoltà a fare che questo concetto sia retto , separando lo spirito affatto dalla materia, e sia positivo , non arrestandosi a definizioni negative. Il magistero filosofico nella sfera della Deontologia dee tendere a mettere in onore la virtù, e a farla conoscere come il sommo bene, anzi il solo bene (quello a cui tutti gli altri si riferiscono, o da cui scaturiscono). Introduzione - in cui si dica che dovendo noi 1 esporre il metodo, 2 applicarlo alle diverse scienze filosofiche, s' intende, a fin di maggior chiarezza e brevità, di ridurre il metodo in alcune regole o canoni, ciascuno de' quali darà materia ad una o più lezioni. La prima regola - L' osservazione preceda il ragionamento. Dimostrazione diretta, tratta dalla definizione del ragionamento « un' operazione dello spirito colla quale la mente trova una verità in altre e per mezzo di altre verità ». Il ragionamento adunque suppone delle verità apprese immediatamente, le quali sieno la base del ragionamento stesso. - Le verità che formano la base de' ragionamenti possono essere dedotte da altri ragionamenti, ma finalmente conviene arrestarsi alle primitive se non si vuol perdersi in un progresso all' infinito, il quale è assurdo, ecc.. - Le altre scienze si fermano co' loro ragionamenti a verità mediate; la filosofia muove il suo ragionare dalle verità immediate perchè, ecc.. S' illustra con esempi. Vedi l' « Antropologia », Introduzione, ecc.. - Giustificazione di alcuni detti comuni, come « coecus non judicat de colore », ecc.. Dal trascurarsi questa regola in filosofia procedono innumerevoli errori: perocchè accade che si cominci la filosofia dal ragionare, invece che dall' osservare: ma il ragionare suppone necessariamente una materia su cui rivolgasi: indi è che quelli, i quali procedono con questo metodo, suppongono molte opinioni senza accorgersi di supporle; quando la filosofia non deve supporre cosa alcuna, ma tutto provare, tutto esaminare, sia poi col raziocinio, o colla coscienza, ecc.. Esempi. Obbiezione - E qui alcuni oppongono un loro pregiudizio che è che « tutto si dimostri col raziocinio » - Confutazione diretta di questo errore. - Confutazione delle funeste conseguenze. Questa è una via che conduce necessariamente, 1 In inestricabili labirinti e sottigliezze, perchè a ) Si accumula ragionamenti sopra ragionamenti senza fermarsi giammai, onde i sistemi giganteschi, oscuri, ecc.. b ) Si sottilizza eccessivamente, come accadde nel decadimento della scolastica, onde le inutili e inconcludenti dispute, ecc.. 2 Allo scetticismo. V. « Nuovo Saggio », lez. VI, p. 1. Ciò che dà l' intuizione sono i principii del ragionamento, e principalmente i quattro di cognizione , di contraddizione , di sostanza e di causa . - Esporre brevemente questi principii deducendoli dall' essere ideale , e mostrare che non può venire con essi in contraddizione il reale coll' ideale , perchè quello non è che una realizzazione di questo: dunque nè pure la percezione coll' intuizione. Ogniqualvolta paresse il contrario, vi ha errore. Esempi - Se si percepisce un effetto e non se ne percepisce la causa, non si dovrebbe conchiudere che la causa non esiste, ma si deve conciliare la percezione coll' intuizione mostrandola limitata, e non atta a dare tutto ciò che si vede necessario nell' intuizione. - Se delle esperienze fisiche paressero provare una contraddizione nell' essere, per es., che lo stesso corpo nelle stesse circostanze riscalda e raffredda, deve dirsi che le percezioni sono imperfette ed escludono qualche circostanza. - La percezione adunque deve sempre andar d' accordo coll' intuizione. Il ragionamento del pari deve andar d' accordo con l' una e con l' altra: coll' intuizione, perchè il ragionamento non è che una serie di proposizioni legate, secondo le norme somministrate dall' intuizione dell' idea dell' essere. Quindi, se il ragionamento riuscisse al contrario, egli è erroneo. Esempio. Le antinomie di Kant nella « critica della ragion pura ». - Medesimamente è da dirsi rispetto alla percezione, perchè questa va d' accordo, come si è provato, coll' intuizione che adduce necessità. Sono dunque erronei tutti i ragionamenti che negano la percezione. Esempio: - Idealismo che nega i corpi percepiti come stranieri a noi. - Scettici, che negano la propria esistenza. - Il principio di Cartesio, « Cogito, ergo sum », voleva fondare la filosofia sulla percezione , solida base, ma non sufficiente perchè la filosofia cerca la base ultima, che è l' intuizione. Prima parte, Logica. - Dottrina degli errori che suppongono sempre qualche oscurità e confusione nel nesso delle idee. [...OMISSIS...] Che cosa si fa quando si prende a sciogliere una questione? - Non si fa che studiare le condizioni del problema per rinvenire il rapporto che hanno coll' ultima conclusione che la scioglie: a tal fine è necessario 1 Conoscere tutte le condizioni. - Ma se lo stato della questione non è esposto chiaramente, talora qualcheduna ne rimane taciuta. 2 Conoscerle con verità. - Ma se lo stato della questione non è esposto con chiarezza, si fraintende, non s' intende la condizione per quella che è, ma si crede che sia una condizione diversa da quella che è. 3 Non aggiungere condizioni che la questione non ha. - Ma talora se ne aggiungono appunto perchè non si conosce bene lo stato della questione. 4 Conoscere i nessi delle condizioni fra loro. 5 Non proporre la questione in modo ch' ella già contenga nel suo seno o supponga la soluzione falsa , per es., la questione di D' Alembert « qual sia il punto di comunicazione fra lo spirito ed il mondo esteriore »suppone che fra lo spirito ed il mondo vi abbia una relazione di spazio , il che è falso: quindi la questione stessa è assurda. 6 Non proporre due questioni mescolate invece di una. 7 Non proporre una questione invece di un' altra. Seconda parte, Dialettica. - Lo stato della questione finalmente rimane oscuro e intralciato per difetto del linguaggio - o troppo abbondante - o equivoco - o ambiguo, ecc.. Rispetto alla Lezione XIX si deve parlare: 1 Dell' uso dei sinonimi nel linguaggio filosofico. - Talora i sinonimi esprimono lo stesso concetto principale coll' aiuto di una nuova relazione. - Se dunque, occorrendo più sinonimi, si crede che si segnino più concetti principali, nasce la confusione delle idee, onde innumerevoli errori, per es., l' idea dell' essere viene denominata essere possibile, essere ideale, oggetto, ente universale, o universalissimo, lume, forma della ragione, primo noto, ecc.. Molti rimangono imbarazzati da queste diverse denominazioni per non intendere che tutte esprimono lo stesso concetto principale. 2 Delle definizioni o proposizioni equipollenti. - Qui si può addurre, per es., le diverse definizioni dell' idea, confutando l' obbiezione di quelli che dicono che noi attribuiamo vari e diversissimi significati alla parola idea . Alla lezione XX si può recare in esempio della decimaterza regola, il sistema di quelli che credono avere spiegata l' origine delle idee col dare all' uomo semplicemente una facoltà di conoscere. La facoltà di conoscere esprime un concetto sintetico, il quale fino che non è analizzato non soddisfa alla ricerca filosofica. - Le qualità occulte dei peripatetici peccavano dello stesso vizio. LEZIONE XXI. - In esempio della regola decimaquarta si può addurre la maniera, nella quale si provano i quattro principii del ragionamento. Pigliato come primo noto ed evidente l' essenza dell' essere, l' artifizio della dimostrazione consiste nel pervenire, sostituendo una proposizione all' altra equivalente, a dimostrare che ciascuno di quei principii fa un' equazione col primo noto. LEZIONE XXII. - In esempio della decimaquinta regola si può arrecare la parola reale usata dal Gioberti in due significati, l' uno come opposto di possibile , e l' altro come sinonimo d' entità; onde dice talora il possibile in quanto è reale. Rispetto alla Lezione XXIII le faccio trascrivere qui un articolo che trovo nelle vecchie mie carte sull' argomento. In primo luogo osserverò, che chi parla di una cosa deve almeno sapere fin dal principio darne una qualche definizione, la quale, tuttochè non sia perfetta, deve però potere caratterizzare e contradistinguere la cosa di cui egli parla, sicchè non la si possa scambiare con verun' altra. Altramente, nè egli potrebbe sapere di che parla, nè altri intendere le sue parole. Ora può l' uomo parlare senza sapere di che? O senza che il sappiano quelli che l' ascoltano? Non vedo come ciò possa essere. Concedo bensì che altri può pronunziare dei suoni e non intenderli, dei suoni dico che in bocca di chi gl' intende sarebbero altrettante parole, ma questi suoni proferiti da chi non ne intenda il significato, come da un pappagallo, da un stornello, da un organetto, sono rumori e strepiti non parole, non atti di parlare umano. E se chi parla sa di che parla, e lo sanno e l' intendono quelli che l' ascoltano, conviene adunque dire che una qualche definizione dell' oggetto, intorno a cui si volge il suo ragionamento, egli l' abbia per lo meno in mente, od ancora l' abbia data espressamente, o in ogni caso l' abbia supposta nelle menti dei suoi uditori, abbia supposto cioè, che a quella parola che esprime la materia del discorso, per esempio alla parola virtù , s' egli parla della virtù, essi affiggano di comune consentimento un qualche significato, e quindi l' abbiano definita in qualche modo a se stessi; perciocchè è definire una cosa il pronunciare anche dentro di noi qual sia il significato che noi attribuiamo a quel vocabolo, col quale esprimiamo quella cosa. Laonde, se colui che ragiona, per esempio della virtù, è già in necessità di far una di queste due cose, o di darne la definizione o sottointenderla; il più delle volte, parmi, si converrà assai meglio ch' egli la dica a dirittura espressamente anzi che sottointenderla, perchè così rimuoverà fino dal principio le male interpretazioni dei vocaboli e le inesattezze che ne nascono dei concetti. Se spesso vuol essere utile il far ciò, nei trattati scientifici è al tutto necessario; poichè in essi l' autore toglie a dire per ordine tutto ciò, che si deve sapere intorno alla cosa di cui si tratta; e perciò non si può in somiglianti trattazioni sottointendere cosa alcuna; che il sottointendere non è un dire per ordine, e neppure un dire; ma sibbene egli converrà di cominciare, nell' esporre una scienza, dal dare prima le notizie necessarie all' intelligenza delle altre che poi seguiranno e quindi replicarsi queste di mano in mano: e la prima di tutte, quella di cui tutte l' altre hanno bisogno per essere intese, è appunto una qualche definizione della cosa, giacchè ogni notizia della cosa suppone dinanzi di sè, per essere intesa, che la cosa stessa in qualche modo sia conosciuta. Tuttavia non voglio dire con ciò, che la sentenza di quelli, che negano doversi, o potersi cominciare dalla definizione, sia priva di ogni verità; dico solo che ha bisogno di qualche spiegazione; perchè intesa in un senso essa non si può ammettere. Ecco adunque che cosa io trovo di vero e che di falso in questa sentenza. Una cosa si può definire in più maniere. Si può dar di essa una definizione generale e imperfetta, e delle definizioni più speciali e più finite. Ora, acciocchè gli uomini intendano ciò che si dice quando si parla, è necessario ch' essi abbiano una definizione della cosa, almeno generale, almeno esterna, e tratta da qualche relazione di essa; ma però tale che segni la cosa, e che valga a distinguerla da tutte l' altre, a isolarla per così dire, sicchè essa non si possa più coll' altre avviluppare o tramutare. Se una tale definizione mancasse e non se n' avesse che una vaga ed inetta a caratterizzare la cosa, il ragionare salterebbe necessariamente d' uno in altro argomento quasi a caso, e chi favella si esporrebbe a ricevere quel rimprovero che si suole gittar contro a chi ragiona, come si dice, a vanvera o all' impazzata « voi non sapete quello che vi dite ». Le quali parole non vogliono già significare che l' uomo parli veramente quello che non sa, perocchè questo è impossibile, non è parlare, ma esse vogliono dire che colui si crede ragionare di una cosa e in quella vece ragiona di un' altra, e uscendo, come si suol dire, dal seminato, intramette altre ed altre materie che non hanno alcuna connession nè proposito, ed egli per errore, scambiando l' una cosa coll' altra, crede che lo si abbiano. E qui anzi è uno de' maggiori fonti degli errori, nei quali altri incappa favellando. Per questo difetto appunto, di non aver la cosa ben definita, avviene di trovarsi cangiata in mano la materia, e di dire d' una cosa ciò che non ad essa, ma bensì ad un' altra che ad essa è affine e prossima, e colla quale perciò la si confonde, appartiene. Se la definizione adunque non determina bene la cosa, e se non teniamo questa cosa così ben determinata e contrassegnata innanzi agli occhi in tutto il corso del ragionamento, non possiamo mantenere il filo, nè fare che le parole colpiscano direttamente nel segno, ma elle cadranno or qua or là sparpagliandosi fuori della cosa che si doveva prendere in mira e perderannosi vanamente. Dopo di ciò, sebbene una qualche definizione o espressa o sottintesa sia sempre necessaria dal principio alla fine di un discorso, e questa debba esser vera e propria per fissare la cosa; tuttavia, come dicevo, non è ancora necessario che in sul principio questa definizione sia al tutto perfetta, o che esprima ben distinte tutte le proprietà della cosa; anzi qui appunto io mi faccio con quelli che giudicano questa compiuta definizione potersi solo avere nella fine della scienza come un risultato e quasi direi una ricapitolazione della scienza intera, e non al principio dove non sarebbe intesa per avventura, ma solo dovrebbe esser creduta sull' autorità di chi la presenta; il che non può essere che difettoso; chè veramente, quanto meno in alcun trattato si rende necessaria l' autorità dello scrittore (parlando di scrittori umani), quanto meno lo scrittore esige di fede alla sua parola, tanto più è buono il suo metodo e il suo trattare coi lettori più riverente e più dilicato. Poniamo dunque di dovere scrivere un trattato sull' uomo: non è possibile che il comune degli uomini, a cui si parla, conosca tutte le proprietà intime dell' uomo e le abbia ben distinte, onde una definizione che le contenesse espressamente riuscirebbe al lettore gratuita e per riceverla dovrebbe fare un atto di fede. All' incontro a tutti sarà facile di definirsi l' uomo all' ingrosso, di dare al vocabolo uomo un valore suggerito dal proprio sentimento; ognuno saprà definir l' uomo almeno per un essere simile a se stesso: definizione certamente ancora imperfetta, e dove le proprietà dell' uomo non sono analizzate e scomposte; ma dove però sono tutte espresse e contenute come in germe. Tanto è ciò vero, che gli basterebbe che ciascuno poi meditasse sopra di se stesso, sopra quel sentimento che costituisce a lui la natura umana, perchè egli giungesse con tale osservazione o meditazione a trovare e separare tutti quegli elementi, ond' egli risulta; tutti quei principii che nel sentimento del suo essere stanno uniti insieme in perfetta unità; tutte le proprietà in una parola della natura umana. Trovati poi e a parte a parte osservati questi elementi, principii, e qualità dell' uomo, egli potrà classificarli, ordinarli, gli uni sotto gli altri, congiungerli in somma co' loro nessi naturali, e così rifare e ricomporre quell' uomo che prima si aveva scomposto, così ritornarsi dalle parti al tutto, dalla moltiplicità all' unità dell' essere uomo, il che è quanto dire che potrà, seguendo il filo di quella prima definizione imperfetta, moversi, istituire delle osservazioni e esperienze, che gli dieno tutte quelle cognizioni che aver si potranno dell' oggetto definito. Pretendere all' incontro, che si istituiscano delle osservazioni e esperienze senza una precedente definizione, nè espressa nè sottointesa della cosa che si osserva, è pretendere che non si debba studiare, cioè che non si debba nè sperimentare, nè osservare con arte, ma bensì a caso e senza traccia: il che, a voler parlare propriamente, non è sperimentare nè osservare, parole che suppongono qualche fine e qualche oggetto nell' osservatore e sperimentatore; è solo un prestarsi a ricevere delle impressioni o sensazioni della cosa fortuite, senza che queste possano mai darci un risultato scientifico; poichè elle sono scompagnate da ogni lume di ragione, che le metta a profitto del sapere. Ove dunque si abbia una definizione vera, sebbene imperfetta, la quale serva di filo conduttore nello studio che si fa intorno ad una cosa, per es., intorno all' uomo, allora si può coll' osservazione trarne tutte le altre cognizioni che vengono a costituire la scienza, la scienza di quella cosa, e con questa completarne la definizione. E nel vero, acciocchè la definizione sia compiuta e piena, quanto più esser può, conviene che nasca dalla scienza perfetta, conviene, come dicevo, che riunisca in sè e ricapitoli tutta la scienza stessa. V' hanno adunque due definizioni, tutte due vere e proprie: ma l' una sommamente imperfetta, cioè indistinta, e l' altra sommamente perfetta, cioè a pieno distinta: l' una che si deve sempre supporre fino da principio del ragionamento, e l' altra, che si va col ragionamento stesso lavorando sempre più e perfezionando sino alla fine. Si potrà avere un esempio di questo progresso nella serie delle formule, che io ho usate per esprimere la legge morale (1), la prima delle quali messa in queste parole « segui il lume della ragione », sebben vera e propria, era la più imperfetta di tutte, la quale ricevette però nel progresso un continuo sviluppo e perfezionamento, che la mutò in forme migliori, più distinte, più espresse e luminose. La definizione esprime l' essenza della cosa (1). Questa proposizione è vera secondo me in tutta l' estensione dei termini, purchè si prenda la parola essenza in quel significato che io le attribuisco, e che credo esserle attribuito dal senso comune, cioè per significare ciò che si pensa coll' idea della cosa (2): e non le si dia un senso arbitrario, come fanno a mio credere i filosofi moderni, che intendono per la parola essenza qualche cosa di intimo, di misterioso, d' inesplicabile, che costituisce il fondo delle cose sussistenti. Ora, se la definizione esprime l' essenza della cosa, e la definizione deve sempre venir supposta fino dal principio in ogni trattazione, come un filo conduttore col quale si conduce diritto l' argomento, egli è manifesto, che il principio di ogni scienza è l' essenza di quella cosa sulla quale la trattazione si volge. In questo modo ogni scienza viene ad avere un principio semplice; ed è l' unicità di questo principio che forma l' unicità della scienza: tante debbono essere le scienze quanti i principii, e in quel modo che i principii sono ordinati gli uni sotto gli altri, così le une alle altre debbono essere sotto ordinate le scienze. Ecco quali sono le basi di una giusta partizione delle scienze; ecco la regola secondo la quale si può disporre lo scibile umano nel suo ordine nativo, vero, necessario. Ove le umane cognizioni fossero trattate in quest' ordine, esse riceverebbero una assai maggiore semplicità, verrebbe sgombrata una farragine immensa di ripetizioni, di nessi artificiali e falsi, tornerebbe un aumento mirabile di facilità nell' apprenderle, di luce, di evidenza, ed è questo gran lavoro che resta ancora a fare per intero ai dotti, a por mano al quale è desiderabile che oggimai si rivolgano. Egli è poi, quando un discorso non perde mai di veduta l' essenza della cosa, quando tutto ciò che vi si dica esce da essa essenza, che egli soddisfa appieno: allora la questione è posta bene, è portata al suo termine: nulla resta più ad obiettare, nulla a desiderare. Per questa lezione mi pare che La possa trovare materia abbondante nel « Nuovo Saggio », dove si parla della volontà come causa degli errori; e così pure nei trattati morali, specialmente in quello della « Coscienza » dove si torna sullo stesso argomento. Si può cominciare dallo stabilire che il filosofo deve esser guidato in tutti i suoi passi dall' amore della verità. - Dimostrare quanto facilmente all' amore della verità si associ qualche altra passione, e principalmente l' amore della gloria, il desiderio di inventare cose nuove. Se poi l' animo è dominato da altre passioni, s' aggiunge una segreta tendenza, per la quale l' uomo brama di trovare che sia vero ciò che favorisce le sue passioni e aborrisce di trovare il contrario. - Perciò la regola tanto inculcata dai pittagorici e dai platonici di accostarsi a filosofare coll' anima purgata, dove si può fare un cenno delle purgazioni istituite da questi filosofi, le quali avevano un fondo di verità, benchè anche mescolate di arbitrario e di superstizioso. - Quindi passar a dimostrare che l' animo quand' è purgato, cioè non è mosso da altra passione che dall' amore del vero, procede colle due regole dell' umiltà filosofica e del coraggio. L' umiltà filosofica consiste in una ragionevole diffidenza di se stesso, e in una stima dei filosofi precedenti. - La superbia filosofica all' opposto consiste nella presunzione di sè, e nel disprezzo di quelli che hanno filosofato nei tempi anteriori. - La filosofia non può esser l' opera di un individuo, ma sibbene l' opera lenta e faticosa dei secoli, quindi la ragionevolezza dell' umiltà dell' individuo che non è che un anello quasi infinitesimo della serie dei pensatori. - Storia degli errori, in cui incapparono i più grandi intelletti. - Altra ragione dell' umiltà filosofica, ossia della diffidenza di se stessi. - Vantaggi dell' umiltà filosofica per la scienza e per l' umanità. Ella sola mette a profitto tutta l' eredità delle cognizioni lasciateci dai nostri padri, e lega le diverse generazioni umane fra loro: in bocca dell' umile si sente filosofare l' umanità intera, non l' individuo. Il coraggio filosofico consiste in una moderata e ragionevole confidenza nelle proprie forze, e in una moderata e ragionevole diffidenza dell' altrui autorità umana: consiste ancora nell' intraprendere grandi fatiche per giungere al vero. - Al coraggio filosofico è opposta l' inerzia e la viltà che spegne lo spirito d' investigazione. Esempio del coraggio filosofico sono le varie fatiche fatte dai più grandi filosofi per giungere al vero e fondare le scienze: meditazioni, vigilie, astinenze, viaggi, ecc.. Quelli che hanno una stima superstiziosa verso i filosofi precedenti, non osando sottoporre ad una prudente critica le loro sentenze e giurando in verbo magistri , non possono ragionevolmente essere annoverati fra i filosofi: perchè nè sono in caso di aggiugner nulla alla scienza, nè hanno l' animo pur di tentarlo. Il perfetto filosofo deve unire in sè le due virtù dell' umiltà e del coraggio filosofico, perocchè la prima lo conduce a prendere esatta cognizione di quanto il mondo possiede di scienza prima di lui; la seconda gli mette nell' animo il proponimento di tentare con tutte le sue forze di accrescere alquanto il patrimonio degli avi. La prima produce in lui uno spirito di conciliazione fra le diverse opinioni conciliabili, onde si fa seguace di un giudizioso eclettismo; la seconda produce in lui lo spirito di investigazione che il difende da ogni vizioso sincretismo. Dimostrare che dalle due regole dell' umiltà e del coraggio filosofico nascono due regole più speciali, che sono: 1 non doversi pronunciare un giudizio temerario, che si riduce ad affermar ciò che non si sa; 2 non dover esitare a pronunciare ciò che si sa. Infatti a queste due si riducono le cause prossime degli errori. E quanto alla prima egli è evidente che se non si affermasse mai se non quando si conosce bene la cosa, difficilmente si commetterebbero errori. Ma invece di voler veder la cosa coll' occhio della ragione prima di pronunziare, la si crea coll' occhio della fantasia e si pronunzia quest' idolo invece del vero. - Si illustri la cosa coll' esercizio del metodo che usano i sensisti, dimostrando quanto a torto essi si chiamino la scuola sperimentale. Non si dà esperienza che non abbia queste due parti: la parte del fenomeno sensibile, la parte di ciò che vi aggiunge la ragione. Il fenomeno sensibile non basta a costituire un' esperienza: convien che ciò che vi aggiunge la ragione sia secondo la verità; e questo è appunto quello che manca ai sensisti; poichè dalla sensazione saltano alla cognizione arbitrariamente e fantasticamente: pronunciano, non ciò che dà loro il senso, ma ciò che dà loro la fantasia. Vedono essi forse la cognizione nella sensazione? non la possono vedere perchè non c' è. Dunque pronunziano quello che non vedono, quello che non sanno, il loro giudizio è temerario. Qui si passi a dedurre queste due altre regole che vengono quai corollarii: 1 Il filosofo prima di pronunciare deve rendere un conto esatto a se stesso dei propri ragionamenti per assicurarsi ch' egli sa ciò che pronunzia. 2 Per far questo egli deve ridurre il suo pronunciato a rigorosa dimostrazione, esposto in proposizioni esattamente connesse l' una coll' altra, badando che fra una proposizione e l' altra non resti fuori alcun anello intermedio, giacchè, ove manca l' anello, ivi è un falso arbitrario, ivi si passa da una proposizione all' altra senza ragione, e perciò temerariamente. Obiezione. In tal caso il filosofo potrà pronunziare pochissime sentenze. - Risposta. Sì, ma quelle poche saranno verità: la filosofia si purgherà dagli errori un poco alla volta e acquisterà una solida base - Qui si entra a parlare del sistema degli accademici, i quali dicevano che il filosofo si deve contentar di trovare ciò che è probabile, senza pretendere di giungere alla certezza. Si dimostri che questo sistema non è che un' esagerazione di una verità. L' esagerazione consiste nell' escludere qualunque certezza; ma la verità importantissima consiste nel riconoscere che ben sovente il filosofo particolare deve contentarsi del probabile, quando non arriva a formarsi delle sue opinioni una dimostrazione rigorosa. Si faccia vedere quanto gran campo possa prendere il metodo accademico, e come ciascuno deve usarne secondo che più o meno gli riesce di giungere al vero dimostrato. - Ancora, che un tal metodo è utilissimo per la disputa urbana, nella quale il filosofo deve rispettare l' altrui opinione anche dov' egli crede di possedere la certezza, benchè possa sforzarsi di dimostrarla altrui. Nella storia degli Accademici premessa alle opere di Cicerone in molte edizioni « cum notis variorum » si troverebbe molta materia. La seconda regola è più difficile da svolgersi, poichè converrebbe fare una delicata osservazione sull' esitanza di molti filosofi nel persuadersi della forza di certe dimostrazioni, per es., vi hanno alcuni i quali non trovano mai una prova che per loro sia convincente dell' esistenza di Dio. Questa loro esitanza non nasce già perchè la dimostrazione non abbia in se stessa tutta la forza, ma perchè, dipendendo la persuasione dalla volontà, manca loro il coraggio e la forza di aderire ad essa coll' animo pienamente assenziente. - Altro esempio si può trarre dalla « Teodicea », dove si dimostra che, per quelli che ammettono la esistenza di Dio, deve logicamente cessare ogni dubbio sulla giustizia e bontà, colla quale egli dispone delle cose umane: eppure ciò non si verifica in molti, non perchè manchi la dimostrazione logica, ma perchè non vi danno un pronto assenso, e quindi tengono sospeso il giudizio, mentre dovrebbero darlo. Introduzione . - Tratta dall' importanza della questione - Stato della questione - Ella è una questione di fatto: perciò si debbono applicare le regole di metodo che riguardano la verificazione dei fatti - La prima regola si è, che l' osservazione preceda il ragionamento - A qual classe di fatti appartiene la questione che vogliamo trattare? Due specie di fatti vi sono. I fatti esterni che appartengono all' osservazione esterna; e i fatti interni, che appartengono all' osservazione interna. La questione nostra appartiene all' osservazione interna. Conviene adunque esaminare colla osservazione interna, se il senso conosca qualche cosa. Il conoscere ed il sentire sono fatti interni. Convien dunque riflettere sopra di essi; osservarli attentamente e paragonarli per conoscere se si identificano, o se sono fatti diversi, l' uno de' quali non si possa ridurre all' altro. Già il senso comune coll' applicar loro due vocaboli distinti mostra di distinguerli; ma non adoperiamo l' autorità del senso comune, ma l' osservazione nostra propria. L' osservazione ci dimostra, che la sensazione è sempre particolare. - Si illustri con esempi e si dimostri che è un' illusione il credere che nelle sensazioni vi sia qualche cosa di universale, illusione che nasce all' uomo, perchè egli, avendo dei concetti universali all' atto del sentire, gli unisce alle sensazioni, e se ne compone degli oggetti sensibili, ne' quali vi sono sensazioni e concetti universali; e in questo consiste la sagacità del filosofo nel dividere coll' analisi ciò che ha unito nella sintesi, e nel distinguere quale elemento sia mera sensazione, e quale elemento sia concetto o pensiero, dando il suo ad ogni potenza senza attribuirvi nè più nè meno. - Qui si insisterà dimostrando che il soggetto uomo e la sua attività radicale è una, la quale però muove molte potenze contemporaneamente a produrre un unico risultato per via di sintesi, il quale essendo unico, se non si pone molta attenzione, si attribuisce ad una sola delle potenze che l' hanno prodotto, e così si cade in errore. Ora alla potenza del senso non si dee attribuir che solo ciò che è sensazione e nulla più: e se si trova un altro elemento che non sia sensazione, ma altra cosa per esempio concetto, in tal caso si dee attribuire ad un' altra potenza e non a quella del sentire. Veduto che la sensazione è particolare e non universale, si deve inferirne primieramente che per lo meno vi sono alcune cognizioni che non sono sentite; perocchè vi sono indubitatamente alcune cognizioni universali. Qui si dimostra l' esistenza di queste cognizioni universali confutando i nominali, e specialmente Stewart, che pretendono che l' ufficio degli universali si compia per mezzo di nudi vocaboli [...OMISSIS...] . Stabilito che alcune cognizioni almeno sono universali, discende la conseguenza, che almeno queste non sono sensazioni, e che, se il sentire tuttavia è conoscere, dunque il conoscere non è più una cosa sola, non è una facoltà identica, ma sono facoltà genericamente distinte. In tal caso la parola conoscere attribuita al sentire mancherebbe di significato, e così la pensa infatti Aristotile, il quale dice che la cognizione che si ha per via di sensi non si chiama cognizione se non per una certa similitudine che ha colla cognizione vera (si mostri brevemente quanto sia incomoda e antifilosofica una tal maniera di parlare). Ma stabilito che vi hanno alcune cognizioni almeno, che sono universali, convien vedere quali siano queste cognizioni, e quali siano le cognizioni particolari che ci rimangono, le quali sole, se pure esistono, si possono attribuire ai sensi. Ora primieramente la cognizione dell' essenza delle cose appartiene agli universali, perchè le essenze sono sempre universali. A ragion d' esempio, l' essenza dell' uomo non è ella stessa nessun uomo particolare. Dunque tutte le essenze che si conoscono sono cognizioni che certamente non si possono attribuire ai sensi. Dunque se vi ha una cognizione somministrata dai sensi, mediante questa cognizione non si conoscerà l' essenza di nessuna cosa. Ma una cosa di cui non si conosce l' essenza in nessun modo, non si può neppur affermare, poichè per affermare una cosa conviene in qualche modo conoscere che cosa è, e conoscere che cosa è una cosa, è conoscerne l' essenza. Dunque se egli è vero che i sensi ci somministrano qualche cognizione, questa cognizione è però tale che nè ci fa conoscere che sia una data cosa, nè ci dà la possibilità di affermarla. Avete veduto, miei signori, qual conseguenza legittima da ciò proceda? La conseguenza legittima si è, che i sensi non ci fanno conoscere niente; poichè se ci facessero conoscere qualche cosa, noi sapremmo che cosa ella sia. Ora il sapere che cosa sia, è sapere l' essenza della cosa. Ma siamo convenuti, che i sensi non ci possono far conoscere l' essenza della cosa, perchè l' essenza della cosa è universale e i sensi non danno che particolari. Ancora, se i sensi ci facessero conoscere qualche cosa, noi potremmo affermarla o negarla. Ma noi siamo convenuti, che i sensi non ci danno la possibilità di affermare cosa alcuna e però nè pure di negare. Se dunque i sensi non fanno conoscer niente, convien dire che il senso corporeo nulla conosce. Convien dir ancora, che se si spoglia la cognizione dell' elemento universale, si annulla affatto la cognizione stessa, e perciò se ci rimane qualche cosa, quello che rimane non è più cognizione, poichè non si dà cognizione senza cognito, non è cognizione quella che non ci fa conoscer nulla. Voi mi direte che i sensisti deducono dai sensi le idee. - Qui si dimostri che le idee non sono che le essenze ideali delle cose, e che però se non possono far conoscere le essenze, non fanno conoscere nè pur le idee. L' illusione dei sensisti nasce perchè la sensazione o l' immagine serve all' uomo per dirigere il suo pensiero e per fissarlo: quindi da tali filosofi si crede or che la sensazione sia l' oggetto del pensiero, ora, poco coerenti con se stessi, che sia il pensiero stesso. Ma questo anche esigendo un lungo sviluppo, potrebbe dare argomento ad un' altra lezione. Dimostrare che il senso niente conosce, e però non è una facoltà di conoscere, è confutare il sensismo. Infatti il sensismo non consiste mica in escludere la cognizione, ma in attribuirla ad una facoltà a cui non appartiene. Nei sistemi sensistici adunque si ritiene e talora campeggia il ragionamento: ma questo vi rimane in aria, introdotto arbitrariamente senza congrua spiegazione. Talora accade, che il ragionamento prenda in quei sistemi un amplissimo campo, e che si cangi in idealismo ed in razionalismo. Allora il sensismo vi giace ancora, ma rimane nascosto; e gli autori di quei sistemi ricevono quasi per ingiuria l' appellazione di sensisti. Tanto più conviene svelare quel sensismo che in essi si giace nascosto; e per isvelarlo convien definir bene che cosa sia il sensismo. Definizione. - Tutti quei sistemi che attribuiscono al senso qualche cognizione vanno macchiati di sensismo. Dunque non è sufficiente a purgarli dalla taccia di sensismo il dire che non tutte le cognizioni si traggono dai sensi. E per vedere quali questi sieno, convien stabilire il carattere proprio della cognizione, e poi esaminare se le produzioni, che si attribuiscono da vari filosofi ai sensi, abbiano questo carattere: perchè in tal caso essi fanno che ciò che è cognizione sia prodotto dai sensi. Ora il carattere proprio della cognizione è l' oggettività. Dunque tutti quei sistemi filosofici, i quali distinguono l' atto del sentire dall' oggetto del sentire invece di distinguere il principio dell' atto del sentire dal termine del medesimo atto, peccano di sensismo. - Spiegazione di questa proposizione. Questi sono: 1 Tutti quelli che prendono le sensazioni per altrettante idee, o che prendono le idee per un aggregato di sensazioni. - L' idealismo di Berkeley è un sistema di questo genere. Infatti ne' suoi dialoghi fra Filonous e Filhylas, ne' quali pubblicò il suo sistema, egli altro non fa che partire da questa definizione del corpo: « Il corpo è un aggregato di sensazioni ». - Quindi mostra che le sensazioni sono modificazioni dell' anima, e non cose esteriori, e ne induce che dunque non esistono realmente i corpi, ma solo le idee, prendendo manifestamente la parola idea per un aggregato di sensazioni. 2 Quelli che aggiungono altri fonti soggettivi di cognizioni, ma lasciando però intatta la sentenza che anche le sensazioni sieno o anche costituiscano le idee coi loro aggregati - Così fa la filosofia scozzese. Reid, malcontento di veder ridotti i corpi esterni a puri fenomeni, dichiara di non saper rispondere agli argomenti di Berkeley se non supponendo che nell' uomo, oltre i sensi esterni, vi sia una speciale facoltà o tendenza naturale, che lo obbliga ad ammettere i corpi esterni come reali. Questo dimostra che il filosofo scozzese non giunse a conoscere che l' errore di Berkeley consisteva nel sensismo, e quindi ritenne il sensismo sorreggendolo coll' aiuto di un nuovo istinto di una facoltà soggettiva. 3 Quelli che dichiarano che tutto ciò che viene a priori è soggettivo, e tutto ciò che viene dall' esperienza è oggettivo. Tale è Galuppi, il quale nella Lettera filosofica XIV definisce gli empirici quelli che non ammettono altri elementi nella cognizione che gli oggettivi! - Qui è da farsi la strada, che viene naturalissima, a confutare quanto dice Galuppi nella citata lettera contro il nostro sistema. 4 Quelli che riducono il ragionamento alla stessa forma e natura della sensazione, cioè che prendendo la sensazione per modello, il cui carattere è di essere soggettivo, riducono anche le altre potenze dell' anima ad essere meramente soggettive. Tale è Kant. - Leggasi il primo libro della « Teodicea ». 5 Quelli che credono di poter fare una sola cosa dell' oggettivo e del soggettivo, con che dimostrano di non conoscere la differenza che corre fra il carattere proprio della sensazione che è il soggettivo, e il carattere dell' intelligenza che è l' oggettivo: i quali non si possono guardare dal sensismo appunto perchè non conoscono la differenza immensa che passa fra il sentire e l' intendere. Tale è il sistema di Hegel e di Gioberti. Questi filosofi immaginosi pongono una loro idea (giacchè così chiamano Iddio), la qual sia ad un tempo soggetto ed oggetto, e dalla quale procedano l' intelletto, il senso e la natura, a quel modo come il particolare procede dal generale. 1 In cui si riassumono le regole di metodo che più importano aver presenti nello studio della psicologia, e sono: I La scienza comincia da una definizione volgare (non analizzata), ma giusta, di ciò di cui si vuol trattare; II Le scienze di percezione usano per primo loro istrumento o modo di conoscere l' osservazione; III Le scienze di percezione interna, una delle quali è la psicologia, usano per primo loro istrumento o modo di conoscere l' osservazione interna. 2 Spiegazione e difesa del primo principio. Spiegazione - La definizione volgare (non analizzata) può semplicemente indicare l' oggetto, cioè determinarlo in modo che non si confonda con altri (per via di relazioni, definizioni negative), o anche esprimerne l' essenza positiva . Quando l' oggetto è tale che si può conoscere per via di percezione, allora la definizione volgare da cui deve incominciare la scienza, benchè non analizzata, deve esprimere l' essenza positiva . Difesa - Obbiezione: Non si possono conoscere le essenze delle cose - Risposta tratta dallo stabilire che cosa è l' essenza . - Delle essenze conoscibili e non conoscibili. Le prime solo sono nominabili, ed atte ad essere argomento dell' umano sapere; altre non sono. Varie specie d' essenze conoscibili, Vedi « Nuovo Saggio » (1). 3 Spiegazione e difesa del secondo principio. 4 Spiegazione e difesa del terzo principio. 5 Quarto principio. - Per trovare il vero è necessario osservare ciò che il lavoro della mente aggiunge o toglie all' oggetto. 6 Definizione volgare dell' anima umana, da cui conviene incominciare la Psicologia. « L' anima è il principio del sentire, dell' intendere e dell' operare di quell' essere che pronuncia se stesso col monosillabo Io ». 7 Applicazione del quarto principio alla definizione non analizzata dell' anima. - Si scevera dall' Io ciò che appartiene alla natura dell' anima e ciò che vi aggiunsero le operazioni della mente. . « La psicologia è una scienza di percezione. Il principio della psicologia è la percezione di noi stessi ». 9 L' anima in ciascun uomo è unica. - S' argomenta dalla coscienza dell' Io. 10 Difficoltà. - Questione dell' identità. - L' anima è unica e identica, benchè abbia più facoltà. 11 Continuazione della stessa questione. - L' anima è unica e identica, benchè abbia più atti. - Ogni facoltà è unica, benchè abbia più atti. - Qual sia il principio che moltiplica le facoltà, quale il principio che moltiplica gli atti di una stessa facoltà. 12 Se sia vero, come sostiene Condillac, che le facoltà dell' anima non siano innate, ma acquisite. - Distinzione fra le facoltà e i principii d' operare. 13 Unità dell' anima in generale. - Il principio sensitivo d' operare, se è diviso, forma un' anima a sè. - Unità e identità dell' anima umana, dove i due principii sono uniti (dalla coscienza). 14 Immaterialità dell' anima umana. 15 Spiritualità dell' anima umana (per escludere l' idea ch' ella sia un punto matematico). - Dell' anima noi abbiamo un concetto positivo e non meramente negativo. 16 Immortalità dell' anima umana. 17 Durazione perpetua dell' anima provata da due principii: I L' uno cosmologico « niuna cosa creata può annichilarne un' altra »; II L' altro teologico « Iddio non annulla ciò che una volta ha creato ». 1. Dell' anima sensitiva de' bruti. - S' incomincia l' analisi di quest' anima (principio senziente - termine sentito). 19 Del nesso tra il senziente e il sentito - si combatte il principio ontologico7materialista, che « una sostanza non può inesistere nell' altra ». - Varietà di maniere onde una cosa può inesistere, o esser legata sostanzialmente con un' altra. 20 L' animato non si può produrre - è dato in natura. 21 Continuazione. - Legge ontologica del sintesismo: « una cosa ha la sua esistenza condizionata ad un' altra ». 22 Il principio senziente, che per esistere è condizionato al sentito, da poi che esiste ha un' attività sua propria. - Istinto animale. - Istinto vitale. - Istinto sensuale. 23 Si continua l' analisi dell' anima sensitiva dei bruti (1 sentimento d' estensione; 2 sentimento d' eccitazione; 3 perpetuità dell' eccitazione, ossia organismo). 24 Semplicità dell' anima dei bruti. 25 Principio sensifero. - Sua identità col sentito. - Esistenza del corpo esterno e naturale. - Distinzione di corpo e di materia. 26 Base di una classificazione specifica degli animali - la natura dell' eccitamento fondamentale stabile dipendente dall' organizzazione. 27 Sviluppo dell' animale. - Modificazione accidentale del sentimento d' eccitazione. 2. Malattie dell' animale. - Contrasti che trova il principio istintivo a dar luogo all' eccitamento perpetuo normale. 29 Moltiplicazione dell' animale. - L' animale non può dividersi, ma moltiplicarsi. 30 Generazione spontanea. - Ipotesi della animazione de' primi elementi. 31 Dell' anima umana. - Distinzione dell' anima dallo spirito puro. - L' anima per esser tale dee animare, ossia dar vita a ciò che non l' ha. 32 Delle diverse definizioni della vita. - Vita comunicata. - Vita propria (condizionata all' animato). - Vita del corpo (comunicata). - Vita dell' anima sensitiva (propria). - Vita del principio sensitivo (altra propria, altra comunicata). - Vita dell' anima intellettiva (propria). - Vita soprannaturale dell' anima intellettiva (comunicata). 33 Nesso del principio sensitivo coll' anima intellettiva. - Percezione fondamentale. 34 Spiegazione del modo come l' anima intellettiva influisce sopra il corpo. - Virtù del percipiente sul percepito. 35 L' anima intellettiva informata dall' essere in universale. 36 L' essere in universale si riduce in Dio, come in una sua appartenenza. 37 L' essere in universale è la verità. - Ogni verità si vede dall' uomo nella verità prima ed essenziale. 3. L' uomo dalla verità è scorto al bene assoluto. - Niun altro bene può saziare l' uomo. 39 L' uomo è fatto pel godimento di Dio, a cui è condizione il riconoscerlo per quello che è (Religione). 40 Il pieno possesso di Dio non si ha che nell' ordine soprannaturale, nel quale Iddio si comunica realmente e sostanzialmente all' uomo. Cominciare dallo stabilire per principio che le menti finite, quantunque abbiano per loro oggetto la verità, tuttavia per la limitazione degli atti con cui la conoscono v' intramischiano del soggettivo, e così in qualche modo la spezzano e la limitano: il che però non le conduce necessariamente in errore; perchè hanno sempre la facoltà altresì di depurare le proprie cognizioni da ciò che coll' atto d' apprenderle v' hanno intramischiato di straniero ed eterogeneo. Questo si scorge in tutti gli atti del conoscere umano, quando a parte a parte si considerano fuor che in quell' atto ultimo col quale l' intelletto emenda e compie la deficienza degli atti precedenti, il quale è quello che cerca e perviene all' assoluto. - Hanno bisogno tutti gli atti precedenti di esser in qualche modo emendati, fino che il pensiero è giunto all' assoluta cognizione. Per fare intendere come ciò sia, convien discendere alle speciali funzioni dell' intendimento; e per non andar troppo a lungo limitiamoci all' analisi ed alla sintesi. Analisi . - Dimostrare come l' analisi dello spirito divide le cose che sono in se stesse indivisibili. 1 Divisione dei relativi. - Pensa lo spirito la causa senza badare all' effetto - il contingente senza il necessario - il sentito senza il senziente - l' inteso senza l' intelligente, ecc., e viceversa. Ora egli è chiaro che le une di queste cose nel fatto non istanno senza l' altre; e però conviene, se non si vuol prendere errore, che sopravenga la facoltà del conoscimento assoluto a riunire tali cose considerate in separato, e così emendare la cognizione smembrata, e in quanto smembrata altresì falsa, se non fosse poscia corretta. - Dal non avere i filosofi sempre emendata e completata la cognizione che divide i relativi nacquero molti sistemi falsi come quelli de' sensisti e soggettivisti che credettero di poter cavare l' idea di necessità da quella di contingenza, quando questa suppone quella, e viceversa, ecc.. Gli esempi qui abbondano, con un po' di meditazione. 2 Divisione degli astratti. - Questi sono pensati soli dalla mente e considerati come altrettanti enti. Ma la facoltà emendatrice dimostra che non sono che enti di ragione . - Molti degli Scolastici errarono, perchè convertirono quelli che sono puri enti di ragione in veri enti compiuti, e si perdettero così nelle sottigliezze dialettiche come in un inestricabile labirinto. Sintesi . - La mente colla sintesi unisce tutto ciò che vuole, anche ciò che non è unito in se stesso. Quindi tutti que' sistemi, il cui errore consiste nella confusione di cose affini; e principalmente poi l' errore degli errori, il panteismo, che tutto avvolge e confonde in una sola sostanza. - Ogni qual volta adunque la mente unì per suo comodo, per comodo de' suoi ragionamenti, in una sola concezione o in una sola formola più cose che non sono unite in natura, la facoltà emendatrice dee correggere e disfare questa unione, acciocchè non rimanga l' errore. Questo accade principalmente ogni qual volta si applica lo stesso vocabolo a cose intieramente diverse, unendole in una sola classe, p. es., quando s' applica a Dio ed a Salomone l' appellativo di sapiente; supponendo così che Iddio e questo Re appartenessero alla stessa classe di sapienti. Allora sarebbe irreparabile l' errore, se la facoltà emendatrice con una riflessione più elevata non soccorresse dimostrando che la parola sapiente applicata a Dio ha un altro senso d' allorquando s' applica all' uomo; disfacendo così quella comunità di sapienza che s' era supposta, e secondo la quale si favellava. NB . Allorquando considero l' anima colla coscienza di se stessa ed involgo la coscienza nella stessa essenza dell' anima, allora commetto una di queste sintesi erronee che si vogliono disfare. - Questo per la Lezione VII. In questa lezione si dovrebbe fare una critica delle diverse definizioni dell' anima dimostrando che quelle che si censurano definiscono l' anima da cose estranee ad essa, e confirmando la propria definizione col senso comune dandone una spiegazione conveniente. Prima classe. - Sistemi che confusero l' anima colla materia. Seconda classe. - Sistemi che ridussero l' anima umana ad un soggetto senziente. Terza classe. - Sistemi che riposero la natura dell' anima nelle idee, ossia confusero il soggetto coll' oggetto. Quarta classe. - Sistemi che confusero l' anima umana con Dio. Quinta classe. - Sistemi che la riposero bensì nel soggetto, ma errarono tuttavia nel determinarne la natura. La questione dell' identità, benchè proposta nella lezione precedente, giova che si riproponga in questa; perchè è questione difficilissima ad intenderne bene lo stato [...OMISSIS...] . La questione dell' identità, che si riferisce alla moltiplicità degli atti, si è « come l' anima in quanto fa un dato atto non debba esser diversa dall' anima in quanto fa un altro atto, ma debba essere identica ». Egli pare che l' esser principio d' un atto sia altra cosa che l' esser principio d' un altro; che si debbano moltiplicare i principii e però le anime. Questa difficoltà si dee far sentire collo svolgerla lungamente. La risposta poi sta nel ben separare il principio degli atti dagli atti, il quale come tale non è determinato a nessun atto particolare nè speciale, e mostrare come questi si cangino, mentre quello conserva la sua identità. I principii prossimi degli atti sono le facoltà, e però la questione cade propriamente sull' identità delle singole facoltà. - Il dubbio che nasce, e che si dee levare, si è « se forse ciò che si chiama facoltà sia una collezione di principii e non un unico principio ». Il dubbio nasce perchè sembra che si trovino le facoltà col considerare ciò che hanno di comune più atti: ond' alla causa di ciò che hanno di comune si suppone che presieda una sola facoltà. Ma ciò che diciamo comune è un' astrazione; onde pare che anche le facoltà sieno astrazioni. - Convien provare che la cosa non è così; ma che la facoltà è causa di tutto l' atto, e non dell' elemento comune che in esso si trovi. Le facoltà sono certi principii d' azione che contengono virtualmente una specie astratta di atti , e che gli producono quando ne hanno lo stimolo od eccitamento opportuno. - Si prova che non è assurdo il concetto di tali virtualità, e che è ammesso dal senso comune e dall' osservazione del fatto. La virtualità specifica e semplice è sempre uguale, faccia ella più atti o meno: e qui si dee rinvenire l' identità delle facoltà rispetto alla moltiplicità de' loro atti, che sono aggiunte che vengono fatte alle facoltà, non mutazioni di esse. Conviene avvertire: 1 Che la moltiplicità numerica degli atti ha per ragione la moltiplicità degli stimoli o eccitamenti individuali applicati alle facoltà o potenze che vengono tratte ai loro atti secondi. 2 Che la varietà accidentale degli atti della stessa facoltà ha per ragione le accidentali diversità ne' detti stimoli, o anche le disposizioni abituali delle facoltà stesse. 3 Che la varietà poi delle facoltà ha per sua cagione la diversità specifica delle virtualità che costituiscono le facoltà, ossia anche la diversità specifica degli atti secondi determinati dai loro termini. (E` necessario aver qui a mano la dottrina delle specie e de' generi, quale è data nel « Nuovo Saggio »). Per questa lezione parmi che si possano raccogliere de' pensieri dall' ultimo libro dell' « Antropologia » e specialmente a faccia 494, nella nota, e faccia 519 - 522 dove si distinguono i principii d' operare delle persone. Esporre il sistema condillacchiano sulla genesi delle potenze, e confutarlo con gli indicati cenni, darebbe sufficiente materia alla lezione. Quando non bastasse questa materia, si potrebbe soggiungere alla confutazione di Condillac qualche altra difficoltà che si presenta nell' ammettere le potenze innate. Eccone la principale: « Nello stato primitivo dell' anima, cioè anteriormente ai suoi atti secondi, niuna facoltà s' è ancora manifestata. Le facoltà sono modi diversi dell' operare del medesimo soggetto. Ora fino a tanto che quest' operare non è passato al suo atto, l' attività rimane immersa nell' essenza dell' anima. Essendo questa essenza semplice, non si vede in che modo i modi del suo operare possano essere in essa distinti, e non piuttosto confusi in un' attività sola, principio unico di tutti gli atti futuri ». Si risponde esser vero che l' anima è semplice. Ma, consistendo questa semplicità nel ridursi tutta la sua attività ad un solo soggetto, non è tolta la semplicità di questo dal risultare composto di più atti primi semplici l' uno subordinato all' altro. Ora questo è appunto il caso dell' anima umana. Ella ha due atti primitivi: l' uno superiore, ed è l' atto che la rende intellettiva, l' intuizione dell' essere; l' altro inferiore, ed è l' atto del sentimento fondamentale - corporeo. Ora questi due sono atti distinti per la loro natura, e però sono innati. La distinzione poi delle altre potenze nasce dall' applicarsi questi due primi principii a diversi termini, e in diverso modo; e però possono dirsi prodotte e acquisite le potenze speciali. « Ricordati sovente », dice Giovanni Gersen, « di quel proverbio delle sacre carte: che la vista non si sazia per vedere, nè per sentire s' empie l' udito » (2). In fatti, non già le cose che noi leggiamo ci giovano per se medesime, ma la disposizione dell' animo, che dentro di noi in certo modo le cuoce e muta in nutrimento, è profittevole. Perciò una cotale delicatezza nello scegliere i libri, non accontentarsi di veruno, o volerne di troppi, e sperare di trovare ognora lumi migliori nei recenti, e in quelli che per avventura non si hanno, ma si sentono nominare, appalesa lievità di pensare, o mal uso formato. E' vuol dire, che non si guastano nè intendono bene que' che si leggono, che non si vede l' estensione e l' applicazione delle massime che quelli insegnano. Bisogna persuadersi di questo: a trovare eccellenti precetti, che pure abbraccino i bisogni tutti della vita, non è gran fatto difficile all' età nostra. E non è da gran tempo il Vangelo di GESU` Cristo in mano di tutti? Se non ce ne accontentiamo, manchiamo di riflessione e di vigore nell' intenderlo, amarlo, ed usarlo. Soli i due precetti della carità non contengono tutta la legge? San Giovanni ripeteva sempre quell' amarsi a vicenda (1): ei vedeva la forza e l' ampiezza di tale sentenza. Quelli all' opposto che l' ascoltavano, non penetravano nel midollo; perciò alla ripetizione si annoiarono, e il richiesero di cose nuove. E altrettanto avviene d' ordinario. Si addimandano nuove cose, perchè non si masticano, nè assaporano le vecchie; e perciò di esse non sentesi altro che la nausea della vecchiezza. I Cristiani primitivi non avevano tanti libri come noi, e ne sapevano tuttavia di virtù più che noi. Per nulla dire de' filosofi antichi, molti fondatori di ordini e società religiose non lasciarono regola veruna scritta a' discepoli loro, e si osservò, che la tradizione vocale serba più freschezza e spirito alle dottrine. Nell' Antico Testamento Iddio diede agli Ebrei scritta la legge sulle tavole di pietra; ma in Geremia promise, che il Messia la scriverà nel cuore (2). Quindi GESU` Cristo non lasciò cosa alcuna in iscritto, e fu sollecito in quel cambio di mandare a' suoi Apostoli lo Spirito divino dal cielo. Sentite, a questo proposito de' libri, i sentimenti del gran patriarca San Giovanni Grisostomo: [...OMISSIS...] . Così la sente ancora Sant' Agostino nel libro primo della « Dottrina cristiana », dove mostra, che al perfetto vivente in grazia nè pure le sacre Scritture fanno bisogno, essendo la carità, che non cessa nè pure in cielo, sola necessaria, la quale anche le cose non necessarie fa utili. Ed ella è dunque ben pazza cosa l' insuperbirsi, come fanno i savi del mondo, per molti libri, i quali sono un rimedio alla nostra ignoranza; come è cosa pazza pavoneggiarsi di quelle vesti, che rammentano all' uomo la propria nudità, ed il proprio peccato. Oltrechè, come fanno i buoni, è cosa ben giusta, che almeno di questo secondo rimedio, che il Signore ci dà ne' buoni libri, profittevolmente usiamo, leggendoli con ispirito, con gusto, insomma con quella cristiana carità, che assennatamente riflette, e in tutto si edifica. Sono adunque nello stato nostro utili i libri, se di essi sappiamo nutrire lo spirito. [...OMISSIS...] A questo fine fuggite ne' libri ogni lusso: partiteli tutti in due classi. Gli uni vi formino una piccola libreria, nella quale abbiate il pascolo dell' anima vostra. Degli altri, se qualcheduno fra i migliori vorrete leggere, non sarà male, quando non perdiate mai l' amore ed il gusto a que' primi. Quali poi saranno que' primi? Le divine Scritture, il « Catechismo romano », alcune opere de' Padri, tutti i libri che si adoprano nella Chiesa, e le più sicure memorie de' Santi, specialmente de' primi tempi, come sarebbero gli « Atti sinceri de' Martiri », e i « Costumi dei primitivi Cristiani ». E se volete avere un bel corso di « Vite de' Santi », non saprei suggerirvi opera scritta con maggior saggezza di quella del signor Albano Butler, che dal francese del signor Godescard si rende pur ora italiana (3). Appartiene però ancora a ciascun cristiano in particolare la storia ecclesiastica della sua diocesi, perchè sappia chi ci abbia recato il lume dell' evangelio, per mezzo di quai Santi si sia diffuso, e successivamente mantenuto o aumentato (1). A direzione poi particolare dello spirito le opere di S. Francesco di Sales, il « Combattimento Spirituale » del P. Scupoli, e il libro « Dell' Imitazione » sono i primi. Se pochi altri ne vorrete, vi sovvenga nella elezione di quel ricordo scherzevole che dava un vero saggio (2), cioè che gli autori migliori incominciano da S , volendo dire che sono i Santi. In quanto alla sacra Scrittura, i nostri antichi Cristiani ne erano insaziabili, nè mai i Padri sono tanto eloquenti come allora, quando inculcano la lettura di questa lettera preziosa, dall' Onnipotente scritta agli uomini. Mirabile è l' ardore che avevano d' intenderla a propria e altrui edificazione anche le donne stesse, come veggiamo in Paola, in Eustochio, in Fabiola, delle quali Dame romane parla S. Girolamo. Accuserò io i moderni di non leggere le Scritture? Gli accuserò più tosto di leggerle poco santamente. Le leggono con freddezza, e come qualunque altro libro umano; pare quasi che si leggano per giudicarle, e non per esserne giudicati. Voi leggetele senza posa, e abbiatevi a regola nella lettura quanto v' insegna l' aureo Gersen nel capitolo quinto del libro primo della « Imitazione di Cristo », che altri non può dirne meglio. E` però a distinguere nella santa Scrittura da libro a libro; poichè nè a tutti, nè a tutte le età conviene lo stesso cibo. Così i Cristiani antichi, e gli Ebrei stessi proibivano la lettura di certe parti della « Bibbia » a' giovani. Generalmente attenetevi al Vangelo di GESU` Cristo, e al « Nuovo Testamento » tutto. Questo è il libro soprammodo fatto per noi che viviamo nel tempo della grazia; questo la chiave e il lume di tutte le antiche carte; e questo venìa raccomandato a preferenza degli altri dagli antichi Padri. [...OMISSIS...] Quanto agli antichi libri poi, i « Salmi » e i « Proverbi » sono di somme istruzioni fecondissimi; e lo stesso santo dottore Basilio disse una volta agli abitanti di Cesarea in una sua omelia: [...OMISSIS...] . Onde anche le varie parti della Scrittura a varie maniere di persone sono specialmente accomodate; sebbene diverse parti di lei idonee sieno a ciascuno, sì come i « Salmi » e il « Testamento Nuovo ». Per altro in questo studio vi sarà vantaggiosissimo qualche esperto conduttore. Il Direttore di tutti gli uomini è GESU` Cristo, e tanto è più savio ciascuno, quanto più ode questo Direttore. [...OMISSIS...] Di fatto, certa disposizione sincera del cuore, un vero amore della verità santa, e una vera indifferenza a tutte le altre cose, ci rendono facile udire la voce di questo Direttore, che in mille modi ci parla. Tante volte non si può avere un Sacerdote che ci diriga, fornito delle tre gran doti richieste da S. Francesco di Sales ad un valevole Direttore; cioè della Dottrina, della Prudenza, e della Carità (4); ma GESU` Cristo, che di tutto questo ha la pienezza, non ci manca mai. La principal cosa adunque è di rendere l' animo nostro capace della istruzione. Senza di questo nè pure un uomo fornito di tutte le doti ci potrebbe dirigere. Poichè tutta la virtù sta nell' ubbidire. E chi non ubbidisce al maggiore, come ubbidirà al minore? Da questo però, che non solo ogni perfezione, ma ben anche ogni bontà di vita consiste nell' ubbidire a quanto i superiori c' impongono, dovete conoscere il pregio infinito dell' ubbidienza, e di più, che nella sincera disposizione di ubbidire consiste ogni vantaggio, che un Direttore ci potrebbe apportare. Quando disse il nostro Signore: « Se alcuno vuol venire dopo di me, anneghi se stesso, e prenda la croce sua e mi segua » (1), allora parlò di questa disposizione di animo, per cui siamo sommessi ai nostri superiori; sieno tali o per la natura loro, o per l' offizio, o per la elezione nostra. A Dio e ai pastori da lui stabiliti nella sua Chiesa noi dobbiamo assoggettare la nostra volontà. E perchè non v' ha cosa più eccellente della volontà umana, per questo non v' ha sacrifizio più a Dio gradito nè più a lui dovuto di quello, con cui la volontà nostra a lui si sottomette. Questa è la negazione di noi medesimi come precetto. Se poi eleggiamo qualche persona opportuna, a cui sottometterci in tutte le nostre operazioni, e da cui esser diretti in cambio di dirigerci da noi medesimi; questa è un' ubbidienza di consiglio. Alla quale se ci obblighiamo per voto, entriamo in quella che si dice perfezione religiosa. Della ubbidienza di consiglio tutta è formata la vita di GESU` Cristo. Poichè egli umiliò se stesso fatto ubbidiente sino alla morte, e morte di croce (2). E tant' è vero che ciò consiste nella negazione e rinunzia della propria volontà, che Cristo dicea nell' orto: «. In due cose adunque sta il pregio dell' avere una persona che ci diriga, cioè nel soggettamento elettoci per nostro volere, e nel facilitamento che tiriamo da' suoi consigli a vivere santamente. Per altro S. Francesco di Sales v' insegna ad esercitare l' ubbidienza verso di tutti, e a sentire anche da per tutto la voce del Signore (1). E voi felice se esercitar sapete l' una e l' altra di queste virtù, e felice in particolar modo se sapete rinvenir quel consigliere esperto, quell' amico fedele, quella guida sicura, che fra le migliaia ci avvisano i Santi di ricercare, e che lo Spirito divino chiama « medicina della vita e della immortalità, e tesoro più ricco d' ogni ammasso d' oro e d' argento » (2). L' educazione altrui è un affare gravissimo, se riguarda la religione. Poichè con essa sono affidate alla nostra attenzione le anime, il prezzo delle quali è in qualche modo infinito. Perciò nella cura delle povere ragazze che prendete, viene ad essere a voi dato un tesoro in deposito, che vi dee fare e temere e vigilare a custodirlo fedelmente. Sono oltrecciò queste anime giovani e innocenti, di cui il nostro Signore parlò con sì grande affetto, [...OMISSIS...] . Ecco quanto incarico abbiate! Se per negligenza vostra quest' anime soffrono danno, voi siete entrata mallevadrice. E sapete che cosa dice il divino Spirito a chi ha tolto sopra di sè malleveria di anime? [...OMISSIS...] . Le quali cose voglionsi credere dette non già a sconfortarci di prendere la cura d' altrui; sì bene a confortarci di prenderla con ardore. Perciocchè noi ai soggetti dobbiamo la nostra diligenza, non già la loro guarigione (1). Così Dio diceva ad Ezechiello, a cui era stato commesso l' offizio di ammonire gl' Israeliti: [...OMISSIS...] . Così parimenti il Savio nei « Proverbi » insegna a liberar se medesimo appunto col mezzo di non trascurare attenzione da parte nostra nè fatica, perchè l' amico si debba risentir dal suo sonno. Che anzi Dio, il quale diè precetto a ciascuno del suo fratello, a pigliarci tali cure di carità ci chiama in molti luoghi nelle Scritture. Così prima d' impaurirci dallo scandalezzare i fanciulli colle parole surriferite, ci incoraggia a edificarli, [...OMISSIS...] . Vedete se a tali parole dobbiamo avere fiducia, che ci darà anche forze valevoli a sostenere il carico. Dio medesimo è che prendiamo in cura. E quando mandò Ezechiello agli Israeliti, missione dura e difficile, gli disse ancora così a confortarlo: [...OMISSIS...] . All' opposito, a voi è destinata d' istruire una famigliuola dolce e pieghevole. Fate però cuore. Avrete dal Signore, che v' esorta a prendere il peso, la grazia necessaria a portarlo, e secondo la misura della grazia quella della gloria. Perciocchè in Daniele leggiamo: [...OMISSIS...] . Al nostro tempo (diciamolo senza riguardo) si sogliono prendere comunemente le cose della religione con non so quale indifferenza e lievità di spirito. Perchè Iddio rendette frequenti i misteri suoi, le sue dottrine, gli uffizi della perfezione, per questo con ingratitudine si dimentica il pregio loro, se le riguarda quai volgari cose, e si smarrisce coll' assuefazione la forza dell' impressione, la vivezza del concepire. All' incontro nelle prime età della Chiesa, i Cristiani pieni dello spirito di verità vedean le cose nella loro giusta misura, tutto nella Chiesa trovavano santo, tutto di grandezza immensa, e richiedente una fedeltà e rigore sommo. Se quegli avessero eletto donna, a cui affidare comechessia l' educazione di una parte della greggia di Cristo, dopo delle preghiere a Dio, sarebbero venuti alla scelta cauti e circospetti; avrebbero chiesto de' buoni testimoni di sua vita, dei saggi di specchiata condotta, di conosciuta virtù, di frugalità, di lavoro delle mani, di carità, ritiratezza, orazione, di tutto in somma quello che forma la cristiana vita. Tante diligenze non si usano adesso: ma tanto maggiormente però vi bisogna riflettere e rispondere alla vocazione. Come pensava e diceva S. Paolo della Chiesa di Corinto, voi avete a dire della piccola vostra congregazione: « Io sono gelosa di voi per zelo di Dio. Poichè vi ho sposato a un uomo solo, a Cristo, e con intenzione di presentarvi a lui come pura vergine » (1). Che dunque fare? Apparecchiarvene. Per non rimuovermi dai luoghi sopraccennati della Scrittura, sentite di Ezechiello quando Dio il mandò a riprendere gl' Israeliti: [...OMISSIS...] . Questo è il volume della legge. Iddio l' ha dato anche a voi, e vi comanda mangiarlo. Se ubbidirete, ve ne farà sentir la dolcezza. Ma se nol mangiate, non potrete avere nè adempire missione alcuna non solo determinata e peculiare, ma nè pure ordinaria e generale, di cui qui si parla. D' ora innanzi meditate adunque più addentro nella santa legge. In una parola fate quello che disse GESU` Cristo di se medesimo: « Io santifico me stesso per essi » (1). GESU` Cristo era santissimo, e non bastò. Si rese sacerdote e vittima, il che vale in quel senso santificarsi , cioè « entrare nel Sancta per mezzo del proprio sangue, ritrovata una redenzione eterna » (2); redenzione non già sua, ma nostra. Così compiè tutto quello che poteva fare per le sue pecore. Compitelo dunque anche voi, essendo egli il modello. Voi non siete santa come lui. Avete dunque due maniere di santificarvi per le fanciulle affidatevi. L' una di crescere nella virtù e nella fervidezza dello spirito, l' altra di sofferire tutti i dispiaceri e travagli e anche persecuzioni, che aveste la grazia d' incontrare, offerendovi così in sacrificio tutta insieme con Cristo, « affinchè esse pure sieno santificate nella verità » (3). Sentenza è di S. Agostino, che la obbligazione di esercitare la carità verso altrui è merito d' ottenerla anche verso se stessi (4). Perciò quanto alla prima santificazione voi siete aiutata dall' offizio stesso che avete preso. Fatelo dunque con tutta cura. « Correte in questa e in quella parte, affrettatevi, svegliate quelle vostre amiche ». Senza dubbio avrete da incontrare difficoltà e fatiche; ma « vi siete legata colle parole della vostra bocca ». Se voi non le affronterete con forza « non iscapperete come daino dal laccio, e come uccello dalle mani dell' uccellatore ». Avrete ancora dei gravi dispiaceri, veggendo talvolta il riuscimento cattivo delle vostre fatiche, e l' asprezza del vincere indoli ritrose. Vi sovvenga perciò, che d' altra parte vi sarà aggiunta della fortezza. [...OMISSIS...] Sarannovi fatte ancora delle dicerie, date delle molestie, e supponiamo ancora che veniate perseguitata o per malizia, o per errore. Quanto alla prima cagione, qual conforto non ci dà Cristo quando ci disse: « Il mondo gli ha odiati perchè non sono del mondo, sì come io non sono del mondo? » (6). E a malgrado dell' odio del mondo così aveva detto innanzi GESU` Cristo parlando al padre: « Adesso poi vengo a te: e tali cose dico essendo nel mondo, affinchè abbiano in se stessi compito il mio gaudio » (7), cioè « il gaudio del nostro Signore » (.). Quanto a' buoni, anche Ezechiello preso dallo spirito fu legato dai domestici, credutolo forsennato: ma fu Iddio che dispose così, come gli aveva detto (1); e fu per un fine grande, come sono tutti quelli d' Iddio, cioè di profetare nella figura di quelle catene la schiavitù di Gerusalemme. Tenete fermo, che « Iddio dispone soavemente tutte le cose » (2). Quindi da tutte, qualunque sieno, anzichè venirci dolore, ce ne verrà grande allegrezza, e « il gaudio nostro sarà compito ». E si avverranno queste cose prosperamente in voi, se le domanderete al Signore. Il buon vostro padre non vi può niegar nulla, ma voi siete nel dolce obbligo di domandargliele. [...OMISSIS...] Oltre la continua preghiera, e a tempi stabiliti, raccoglietevi un fascicolo di brevi orazioni da dire spesso per la giornata, adattate all' uopo, e che possano cadere in acconcio alle varie circostanze in cui vi trovate. Eccovene a ragione di esempio alcune tratte dalla Scrittura, e dall' uso della Chiesa: 1 Il segno della croce, che viene dagli Apostoli, e in tutte le cose l' adoperavano i primi Cristiani. Poi queste altre: 2 « Crea, o mio Dio, in me un cuor mondo » (4). 3 « Non rigettarmi dalla tua faccia » (5). 4 « Rendimi la letizia del tuo Salvatore » (6), che è appunto quel gaudio sovraccennato. 5 « Signore, tu aprirai le mie labbra, e la mia bocca annunzierà le tue lodi » (7). 6 « Come tempera il giovinetto le sue inclinazioni? coll' osservare le tue parole » (.). 7 « Benedetto sei, o Signore: insegnami le tue giustificazioni » (9), cioè le sublimi ragioni, con cui si può confondere ogni temeraria censura, che gli empi fanno alla divina provvidenza. . « Togli il velo a' miei occhi, e considererò le meraviglie della tua legge » (1). 9 « L' anima mia al suolo è distesa: dammi vita, secondo la tua parola » (2). 10 « Assonnò vinta dal tedio l' anima mia: colle tue parole dammi vigore » (3). 11 « Dammi intelletto, e studierò e osserverò con tutto il cuor la tua legge » (4). 12 « Togli gli occhi miei da ogni vanità della terra » (5). 13 « A chi mi dileggia dirò, nelle tue parole aver io posta la mia speranza » (6). 14 « Non toglier mai di mia bocca la parola di verità » (7). 15 « Ti ringrazio, o Signore, perchè sono partecipe di tutti quelli che ti temono », per la comunione dei Santi (.). 16 « Insegnami la bontà, la disciplina, e la scienza » (9). 17 « Nel tuo verbo ho riposta la mia speranza » (10). 1. « Se meditato non avessi alla tua legge, nell' afflizione sarei perita » (11). 19 « Configgi col tuo timore le mie carni » (12). 20 « Il Signore si è il mio Pastore: ei mi ha collocata in paschi ubertosi » (13), cioè nella sua Chiesa. 21 « A te il povero si abbandona: tu sarai l' aiuto dell' orfano » (14). E tante altre simiglianti, adoperate da' Santi, come son quelle di S. Filippo Neri; raccomandandovi anche in ciò di non variare sì spesso, ma di dire quella che vi suggerisce lo spirito ne' vari momenti, con tutto il fervore e la simplicità del cuore. La educatrice debbe essere specchio alle sue giovani, come Cristo è a lei: altrimenti edificherebbe con una mano, e distruggerebbe coll' altra. Ascolti ancora l' Apostolo: [...OMISSIS...] . « In tutte l' opere vostre siate precellenti », dice l' « Ecclesiastico » a quelli che presedono a qualche adunanza. Andate innanzi in tutto. Non trasgredite adunque mai nè per freddezza di stagione, nè per noia che v' assalga, nè per piacere, nè per dolore parte veruna della regola prefissavi a principio. Non errate l' ore prescritte. Nè le giovani che educate, nè le femmine cooperatrici s' accorgano mai, s' egli è possibile, che siate stanca o affannata; non fate lamento; porgetevi sempre egualmente ilare con loro, rigorosa con voi, saggia con tutti; che è quella bontà , quella disciplina , quella scienza , che dimandate a Dio nella giaculatoria decimasesta di sopra proposta. Il Savio aduna tutte le lodi di donna perfetta nell' epiteto forte (1). Però se avete affanni e noie (2), cercate il momento di ritirarvi sola, e col Signore sfogatevi pure senza timore, lamentatevi, e ditegli, che siete quella miserabile che sentite d' essere. Egli sì vi risponderà nel fondo del cuore parole divine che vi ritorneranno la serenità, l' alacrità, e più forze che prima: [...OMISSIS...] . Non potendovi ritirare a lungo, vi aiuteranno in ciò le giaculatorie terza, quarta, nona, decima, decimaterza, decimasettima, decimaottava, decimanona, che potete dire col cuore in brevissimo tempo. Costante in questo pensiero, d' essere con voi stessa severa in ogni cosa che appartenga al vostro incarico, porrete peculiare attenzione in alcuni doveri particolari. Secondo mio parere gioverebbe, che a voi stessa riserbaste tutto quello che appartiene all' istruzione di spirito: sopra l' altre cose vigilando, in modo però, che non avvenga nè si faccia cosa senza che voi l' abbiate preveduta e approvata. Gli offizi dell' istruzione spirituale possono ridursi a questi: leggere, insegnare, confutare, consigliare, esortare, riprendere, e castigare . Dal modo di leggere pende buona parte del profitto che si tira dalle letture. Non sarà dunque inutile di farne un piccolo cenno. Nel leggere si vuole accompagnare la lezione in bel modo e spontaneo colla voce e col gesto, sicchè il senso venga, per quanto è possibile, ad apparire e sporgere con quella forza, che egli ha, nè più, nè meno: e tenga la sua propria indole. Se adunque voi leggete loro alcuna cosa da muovere al riso, non le inducete a serietà col portamento: se qualche cosa seria, non apparisca nel modo di esprimerla cosa alcuna da riso. Checchè sia quello si legge, farassi sentire spiccato, battendo le lettere raddoppiate, serbando la puntatura, dando energia al concetto. Onde vedete, che non è al tutto facilissimo uffizio far bene non che l' istruzione, ma nè pure la lezione spirituale. S. Benedetto volle, che chi leggesse nel refettorio si apparecchiasse con una orazione apposita (1); e ciò perchè vedeva da un canto, che il leggitore ha molta parte al profitto degli uditori se con ispirito legge; dall' altro, che leggendo con ispirito da produrre questo profitto, facil cosa è, che sottentri anche in ciò furtivamente qualche poco di vanità. Nella Chiesa, ove tutto è grave, decoroso e perfetto, esemplare sommo della vita regolata, v' ha un Ordine apposito per leggere, cioè il Lettorato, a cui però non è commessa la lettura dell' Epistola, di cui n' ha offizio il Sottodiacono; nè a questo la lettura del Vangelo è affidata, la quale al Diacono si appartiene. Quanto all' istruire , l' « Ecclesiastico » dice: [...OMISSIS...] ; e notate tutte le parole della sentenza. Ma chi crederebbe oggidì, che l' offizio di istruire fosse quello, che a S. Agostino fece versare lagrime, sommamente scontento di se stesso quando ordinato prete se ne provò, per le difficoltà che sentì d' incontrare ad adempierlo quale ei bramava, sì come ne scrisse a Valerio vescovo (3), scongiurandolo di volerlo lasciar alcuni giorni sino alla prossima Pasqua in ritiro per apparecchiarsene colle preghiere e lo studio? E fra l' altre cose dice così: [...OMISSIS...] E fate ragione, se S. Agostino così dicea (1), che dovremo dir noi? Non badate dunque se gli spensierati si prendano come celia cosa tale: non falliremo a stare sempre attaccati a' primi maestri. Rispetto al modo voi dovete impicciolirvi alla misura altrui, e distribuire a tutte secondo lo stomaco, per così esprimermi, di ciascheduna, a cui latte, a cui minuzzoli di pane, a cui cibo più solido. Fate sempre precorrere il pensiero alle parole, parlate a rigore d' espressione, con placidezza, ilarità, e spirito. Frapponete qualche racconto, di cui è avida la tenera età, e qualche piacevolezza, acciocchè con moderato riso si ricreino, e non istanchino di troppo le forze della mente. Fate nel tempo dell' istruzione che abbiano fra mano un lavorìo, perchè difficilmente possono star fermi i fanciulli senza muoversi in qualche modo, e se non assegnate il movimento, movendosi come loro viene voglia, si divagano. Se poi a qualche tratto del vostro discorso, che le colpisce, ristanno dal lavoro, e si mettono in atto di maggior attenzione; lasciate facciano così, che tanto è meglio. Del rimanente in tutto ciò vi rimetto all' aureo opuscolo di S. Agostino, « Del modo di catechizzare gl' idioti », per me reso volgare (2). Sebbene in esso non tutto sia adatto pel caso nostro, essendo diverse le circostanze, tuttavia ne caverete meravigliosa istruzione bene meditandolo. Specialmente apprenderete ivi, con qual gusto si debba porsi ad istruire, e quanto tal gusto giovi a farci uscir l' istruzione spontanea e fervente. Quanto al vostro confutare , non è già un venire a tenzone con perverse opinioni e ostinate: ma tutto l' affare sarà in risolvere qualche difficoltà proposta, o qualche erroruzzo di non perfetta intelligenza. La massima principale che in ciò vi conduca sia questa, di trascegliere fra molte risposte, che talora dar potrete, quella che maggiormente acquieti ed illumini chi propose la difficoltà. Sovente uno schiarimento maggiore delle cose dette, un esempio, un racconto, una parabola, dileguerà dalle menti giovanili ogni difficoltà. Talora sarà meglio eludere la risposta, o pure far loro un argomento appoggiato solo su' lor principii, secondo che la circostanza dimanda. Sì dell' una che dell' altra maniera ce ne diede esempio Cristo stesso. Vedete in S. Matteo, c. XX e XXII, e in S. Giovanni, c. X. Fino a qui de' vostri offizi come maestra. Ora toccheremo alcuna cosa del consigliare , che è, più che altro, uffizio di amica. Avete accolte quelle pargolette; fate altresì di appareggiarvi a loro. Resa quasi una del loro numero, abbiano esse con voi tutta l' amichevole confidenza. Allora s' apriranno con voi de' loro animi, e voi potrete accorrere co' salutari consigli. Potete bensì darne alcuno di moto proprio, senza esserne chiesta; ma sarà più vantaggioso avvezzandole a dimandare. Se il vostro consiglio sarà sì dolce, sì amico e saggio, che esse partano da voi contente, vi torneranno altre volte. E questa è gran via per far del bene. Dite loro di spesso questo detto dello Spirito Santo: [...OMISSIS...] . D' una cosa finalmente vi avverto, che potete benissimo consigliare dove è precetto, ma guardatevi dal precettare là dove è consiglio. In questo anche S. Paolo usava somma avvertenza, come potete vedere nell' Epistola I ai Corinti, c. VII, e nella II, c. VIII. L' esortare ha una gran forza sugli animi. Li fortifica, gl' infiamma, li fa operare. Per questo S. Paolo raccomanda spesso tale offizio a Timoteo e a Tito. Dovete farlo con sommo calore, persuasione e autorità. Quando parla una persona, che mostra di non avere il menomo sentore di dubbio di quanto dice, anzi di essere penetrata di zelo ardente, difficile è che l' uditore possa resistere, in guisa che ei non entri poco o molto nei sensi dell' esortante. L' esortazione però, come dice Paolo, sia sempre congiunta coll' edificazione e colla consolazione (3). Di più, avendo voi a fare con docili fanciulline, non avverrà che offendiate mai il loro amor proprio esortandole a virtuosa condotta. Perciò state sicura, che più che sarete in sull' esortarle, farete più bene. Fatelo dunque spessissimo, anzi continuo. Vengo all' offizio di sorella, che è quello di riprenderle ne' mancamenti. Lo spirito di dolcezza deve brillare in tutto; qui poi come in sua sede. Nè la dolcezza escluderà la forza. Il riprendere debb' essere come il « favo di mele in bocca al leone » (1). Farete la cosa con energia se sarete addolorata del mancamento loro, mettendovi ne' lor piedi. Ecco Ezechiello mandato a rimproverare gli Ebrei: [...OMISSIS...] . Ora saranno ben picciole dispiacenze, ma nulla ostante gioverà che facciate sentire alle fanciulle un dispiacere da vera sorella, non già amaro nè ostinato, ma dolce e facile a rasserenarsi dove ne venga tolto il motivo. Quanto alle regole del correggere, tenete quell' avviso di S. Agostino, di non farlo, trattandosi della privata correzione, a norma solo del male commesso, ma della disposizione dell' animo a cui si fa: a quello stesso modo che non si vuole già mangiare a ragione della bontà del cibo, ma della forza che ha lo stomaco di digerire. Il fine unico debb' essere il vantaggio. Onde si vuol fare in quella maniera che giovi: e parimenti cercare i luoghi, i tempi, e tentare gli aditi più facili de' cuori, e sempre con carità, dolcezza e gaudio della corretta. Per altro è pur malagevole anche questo offizio a farlo bene; e leggete la lettera novantesimaquinta di S. Agostino diretta a Paolino e a Terasia se volete vedere quanto ei per sè n' era turbato. [...OMISSIS...] Quanto al gastigare , è l' uffizio di madre. Anche qui vi bisogna spiare le varie indoli delle giovani, e calcolare il vantaggio che ne prendete. A questa norma attemperate i castighi. Quello però che potete ottenere coll' istruzione, col consiglio, coll' esortazione, colla correzione, non vogliate ottenerlo mai con un castigo: quello che potete avere con una correzione leggiera, non vogliate con una forte. Quello che potete con una occulta, nol vogliate con una pubblica: quello che con una pubblica, non con un castigo; e parimenti quello cui conseguir basta un leggiero o celato castigo, non tentate di averlo con un pubblico e grave. Tutto insomma sia ragionevole, circospetto, richiesto. [...OMISSIS...] Mi restano a dire poche cose sull' altra parte del vostro ministero, che è quella di sopravvegliare agli uffizi, che non prendete a far voi medesima. Questa vigilanza risguarda sì le donne assistenti che le fanciulle. Colle assistenti donne contenetevi sì come consorella affettuosissima. Non ostentare mai superiorità, tenerle in dovere colla voce, ma più coll' esempio, grave ed amabile contegno, parlare che nulla abbia di superfluo e nulla di mancante. Tutto quello che dite tenga in sè o istruzione o sincero amore verso di loro, senza che nè l' una produca noia, nè l' altro mostri affettazione. Se voi condirete con qualche buon sale il vostro discorso, tornerà ancora più caro. Sempre poi sia famigliarissimo, pieno di stima verso di tutte. E` grande e bella ed utilissima cosa mostrare vera stima a tutti. Faceva così s. Paolo coi fedeli. [...OMISSIS...] E non si può credere quanto incoraggi altrui a far bene mostrar di presumere a vantaggio di loro, che opereranno lodevolmente. Colle fanciulle poi a un di presso dovete fare lo stesso. Osservate ogni cosa, rimediate tosto a' piccioli sregolamenti che non si sono potuti evitare colla previdenza, e tutto ciò manco sia fatto con azione diretta e faticosa, di quello che sia con indiretta e soave. La donna forte del Savio regge la casa sua coll' attività, non co' gridori nè colla forza, ed ogni cosa va bellamente. « Ella cinge di fortezza i suoi fianchi e fa robusto il suo braccio » (3); e dopo averla esso Savio lodata per l' opere, che pare ella faccia quasi in silenzio, così dice del suo parlare: « Con saggezza apre ella la bocca sua, e la legge della bontà governa la sua lingua ». Dalla pratica della virtù sembra inferire, che ella abbia appreso a virtuosamente parlare. Così avvierete bene la famiglia, e rassomiglierà ad una macchinetta. Messa in movimento seguirà a rivolgersi portata dal primo moto senza bisogno quasi di altra spinta, ma bensì di molto vigilare a rimovere i filuzzi o sassolini o come che sia i piccioli intoppi d' ogni maniera, che mettendosi fra le ruote la potessero rallentare, o rompere, o fermare. « Il regno de' cieli è somigliante ad un tesoro nascosto in un campo. Scoperto il luogo da alcuno, questi nol dice a veruno; ma se ne va tutto allegro, vende quanto ha, e compera il campo » (1). Or se di qui debbe pigliar regola l' uomo cristiano, forte dubbio s' affronta: Se l' uomo vende tutto per solo il cielo, come vivere? come tener gli amminicoli della vita? come fare alcune azioni di vita civile, mangiare, bere, dormire, camminare, parlare? Pur è così: tutto debb' essere venduto pel tesoro nascosto nel campo. Ma udite bene. Può comperare, anzi è costretto di comperare ancora il campo, ma lo compera a cagion del tesoro, può, cioè, anzi ha l' uomo necessità di fare delle cose, che di loro natura spirituali non sono, ma farle a lui conviene per lo scopo spirituale, che in esse vi mette. Anzi col lume del nostro unico maestro traggo avanti il mio discorso, e vi dico a piena fiducia, che voi dovete non solo cercare in ogni cosa lo spirito, ma la perfezione dello spirito. [...OMISSIS...] Chiudiamo il ragionamento, e diciamo: nessuno dunque entrerà in quel regno celeste, se non vorrà farsi il più picciolo, cercando quella perfetta semplicità, umiltà ed innocenza, di che la natura medesima fa dono ai fanciulli. Egli basta dunque essere cristiani a dover sapere, che il pregio vero di qualunque azione nostra è quello d' essere volta a Dio, e d' essere investita perciò nel celeste tesoro. Vi sia dunque nell' animo fitta questa somma e incommutabile massima della dottrina di nostro Signore, che ad ogni uomo conviene attendere alla sublimità, e alla somiglianza con Dio: non venendo ciò mai in opposizione colle oneste condizioni degli uomini. Non vi vergognate pure di dire con ogni franchezza, che nella educazione delle ragazzine vi proponete di farle sante e perfette quanto è da voi. Ecco l' altezza e la nobiltà del cristiano pensare. Conosciuto ora di che natura sia l' edifizio che prendete ad erigere, delineate il disegno. Abbia quasi due piani: le verità cristiane, e le virtù. Formiamo adunque breve trattato ne' fogli seguenti sì delle verità da insegnare, che delle virtù da infondere. La intelligenza è quel dono magnifico di Dio, che distacca infinitamente l' uomo disopra degli animali tutti, e per cui è fatto ad immagine e similitudine della divinità (1). [...OMISSIS...] Mirate dunque la nobiltà umana! vedete l' altissimo fonte di lei ascendendo in sull' orme di questo gran Dottore nella somiglianza con Dio formata dalla intelligenza da lui a noi comunicata, sopra la quale non v' ha nulla fuori che Dio, e sotto alla quale pure nulla, fuori che cosa infinitamente da lei distante. Quanto dunque è per noi da educare quella illustre facoltà, e la cultura di lei con ogni amore studiare! Dipoi considerando a' disordini e alle sregolatezze umane, facile è avvedersi, che quasi sempre divengono da ignoranza, o ignoranza hanno congiunta. Eh! se gli uomini fossero più dotti, egli sarebbero ancora migliori. La morte stessa di Cristo fu figliata da trista ignoranza, e non sarebbe avvenuta, se « quegli avessero compreso che si facessero » (1). E sembra che basti conoscere Iddio perchè dolcemente spinti veniamo ad amarlo! Di più ancora dicono nella nostra sentenza quelle parole: « La vita eterna non è che conoscere un solo vero Dio, il Padre, e Gesù Cristo mandato al mondo da lui » (2). In queste apparisce come una viva cognizione torni quasi ad una cosa medesima coll' amore, e proprio col godimento di Dio. Qual raccomandazione più grande ad una pia istruzione? Di qui molti Santi, di zelo e d' esperienza pieni, facevano dell' insegnamento tal conto, che desideravano sempre un predicare tutto a famigliare ammaestramento; e ben sapevano quanto indi vantaggio se ne coglieva. Adunque proponete di volerle bene ammaestrate e dotte. Avvi modo, chi sa farlo, che continua sia l' istruzione: preziosa cosa: e solo con essa s' ottiene quanto S. Paolo diceva a' Colossesi: « La parola di Cristo abiti in voi con pienezza » (3). Le cose poi da insegnare loro, quanto allo spirito, si possono, come a me pare, ripartire acconciamente in tre capi: Della vita civile: della Dottrina cristiana, e di un più perfetto insegnamento . [...OMISSIS...] Questo insegnate alle fanciulle vostre. E fate loro intendere come ciò sia: come le nostre azioni, se fatte non sono in nome di Gesù, non abbiano che merito naturale, il quale è nulla per la vita eterna. Mostrate, che un' azione fatta in nome di Gesù Cristo vuol dire fatta per dare piacere a lui, per fare la volontà sua, e quasi per incombenza ricevuta da lui medesimo, fatta ancora insieme con lui o sia rivestiti di lui e spogli d' Adamo, cioè dell' uomo del peccato, e quindi fatta per virtù della grazia sua, fatta in somma rendendo per mezzo di Cristo grazie a colui, che è Dio di Cristo uomo, e che è padre di Cristo Dio, e il quale ci mandò Cristo Dio e Uomo in una congiunto . Dopochè ben a dentro loro avete impressa tale istruzione intorno alla comune vita, esponete, che cosa da essa ne consegua. Primieramente di essa viene, non avere già più per l' uomo cristiano azione veruna onesta in questo mondo, la quale sia veramente bassa e ignobile; anzi essere grandi e nobilissime tutte, perchè tutte possono e debbono essere sante e valgono la vita eterna, e perchè il discepolo di Cristo le fa, come dicemmo, con esso lui insieme. « Dunque non v' abbia alcuna fra voi, soggiungerete, la quale si lamenti della condizione sua, o ricusi di fare alcuno offizio per la ragione che a voi sembri vile, non avendo esso che una viltà apparente, e agli occhi di quelli che della nostra santa legge poco bene si conoscono. Quando GESU` Cristo lavorava in bottega o in casa di Giuseppe, credeva bensì il volgo che egli facesse mestiere plebeo, ma in sostanza faceva allora uffizio infinitamente più illustre innanzi alla verità di Dio di quello che facesse il romano imperatore. Non è vile cosa alcuna, la quale possa essere santa, e la quale non canserebbe di farla GESU` Cristo stesso: è vile, ignobile, e degno di sprezzo il solo fasto del mondo, e qualunque cosa che offenda Dio ». Tali massime riposte nel loro cuore, daranno di bonissimi frutti. Ma di questa generale dottrina conviene, perchè bene l' assaporino, fare loro delle applicazioni a tutte le opere della vita. Di spesso accade, che la virtù e la perfezione ci sia mostrata, ma non ci sia indicata la via d' andarvi. Voi poi dovete anzi prenderle per mano e condurvele. Per esempio, intorno al mangiare ammaestratele del modo come si mangia, unendo insieme col cibo del corpo quello dell' anima. In primo luogo persuadetele, che il mangiare per sè è azione che non aggiunge dignità veruna all' uomo, poichè anche gli animali, direte loro, mangiano come noi. Appresso andate più avanti. Osservate, che il mangiare discuopre la nostra infermità. Tutti i bisogni nostri ci mostrano limitati e miseri. Quando la fame ci avvisa di prender cibo, ci avvisi anche che abbiamo peccato. Perocchè sebbene anche non peccando l' uomo avrebbe mangiato, tuttavia non avrebbe avuto il dolore e la morte che gli viene del non mangiare. Onde siamo fatti schiavi del cibo, perchè l' uomo col cibo tentò schivare di essere servo di Dio. Potete poi sopra ciò aggiungere, che il mangiare a noi sarà non solo di disonore, ma altresì di colpa se non l' useremo secondo suo legittimo fine. Il fine del cibo è di supplire alla nostra necessità. Quanto al diletto del palato fate loro comprendere, che è pure cosa vilissima, e che Iddio ce l' ha dato per confortarci nella miseria che abbiamo di prendere cibo; ma molto più per farci esercitare la virtù di ordinarlo a lui o a lui sacrificarlo: non volendoci sì nell' uno che nell' altro caso dilettare altro che d' Iddio, benchè potessimo dilettarci ancora di qualcos' altro. Quindi venite più in particolare bel bello sponendo i cinque vizi, ne' quali si può cadere mangiando, distinti da S. Gregorio nei Morali: [...OMISSIS...] . I quai modi tutti bello è che illustrati sieno cogli esempi della Scrittura, cui lo stesso Santo ivi appresso somministra. Dopo ciò si possono indicare i modi così generali, come particolari di ripararci da somiglianti vizi. Finalmente mostrerete con bel modo come il nostro Signore apportò veramente a noi, per così dire, la pietra filosofale (spiegando loro che cosa s' intendea per essa) onde possiamo fare oro da tutte cose le più spregiate o indifferenti. Di qui i modi delle virtù intorno al cibo contrari a que' cinque vizi. In fine persuaderete una bella indifferenza per qualunque maniera di cibo, l' amore alla sobrietà, e a quelle virtù. Deplorerete la tristezza umana di servirsi sì poco di quest' arte preziosissima di Cristo. Narrerete che cosa erano le antiche agapi cristiane, e perchè si chiamavano con questo greco nome che significa dilezione . E a modello finalmente proporrete loro GESU` Cristo stesso: quando pregato da' suoi discepoli a prendere un po' di conforto, sebben dopo lungo viaggio, rispose: « Il mio cibo è fare la volontà di colui, che mi ha mandato, e di compiere l' opera sua » (1). E se lo figureranno commensale, e così anche rammenterete que' primi fedeli, i quali « spezzando il pane per le case, prendevano cibo con gaudio e simplicità di cuore, lodando Iddio » (2), e loro mostrerete come questo gaudio e questa simplicità giovi alla stessa salute del corpo assai più che la crapola e l' intemperanza , di cui aprirete gli effetti funesti. Nè tutte queste cose, ed altre simiglianti, che saranno vostro dolce studio, facendo in voi tesoro di esempi, di fatti, di similitudini, e d' ogni lume del discorso, le direte già loro così tutte in una fiata talchè n' abbiano sopraccarico, ma ora l' una or l' altra trarrete fuori a tempo e luogo acconcio. E quando le legherete loro in mente con qualche arguta sentenza, o dove venga bene anche con alcuna puntura contro de' vizi; quando le stempererete loro nell' animo con più distese parole, secondo l' opportunità e la voglia che vedrete in esse di sentirvi parlare. Poichè dovete esser sollecita di prepararle sempre vogliose, e di non parlare loro (almeno a lungo) se non quasi pregata; come ponendo osservazione nel Vangelo si vede che faceva quasi sempre il sommo nostro Maestro. Alla stessa maniera sappiano di tutte le parti della vita. Così otterrete con ogni verità, che « la legge di Dio sia lucerna a' loro piedi » (3); otterrete che di tutto traggano merito, e però la loro vita sia tutta orazione , colla quale impetrino nuove grazie. Sono da meditare singolarmente a quest' uopo le lettere di Paolo e di Pietro che traboccano non solo di concetti sublimi intorno lo stato e la vita cristiana, ma sì ancora d' immagini e di simboli i più vivi ed opportuni a facilitare la intelligenza del cristiano spirito, a distinguerne la bellezza, e a tenere delineati e freschi, dirò così, i precetti nella memoria. Aggiungete lo studio de' libri sapienziali e de' « Salmi », mirabile libro, che giova a tutto, e a cui sì spesso richiama il « Nuovo Testamento ». A maggiore vostra regola ed esempio rechiamo tuttavia un altro saggio di questa familiare istruzione sulle cose della comune vita, ed egli sia intorno al dormire. Puossi cominciare a descriver lo stato dell' uomo preso dal sonno. Egli non fa più uso di ragione, giace inerte, simile ad uomo raggiunto da morte; per cui i poeti sogliono dire il sonno fratello di morte. E` il sonno cosa comune alle bestie. Quindi da non attaccarvi per nulla affetto umano, da prendere per la sola necessità, nè dormire di più del necessario, da che viviamo tanto meno, quanto dormiamo. Allora per tanto che andiamo a riposo, ricordiamoci della morte, effetto della colpa, della quale morte esso è sì viva immagine. Quando poi ci svegliamo è da sovvenirci della futura risurrezione, effetto de' meriti di Cristo. Avanti Cristo ci dovea il sonno sembrare la morte; dopo Cristo la morte a noi dee sembrare un sonno. Per questo Cristo della figliuola di Jairo capo di una sinagoga dicea: « Non è morta la fanciulla, ma dorme » (1); e in mille luoghi colla stessa immagine c' indolcisce il nostro divino Salvatore la morte. Quindi anche presso noi cristiani ne venne il nome greco di cimiteri , che italianamente suona dormitori . Ma guai se mentre Cristo rese a noi un sonno la morte, noi ci rendessimo una morte il sonno, e morte dell' anima! Questo potrebbe avvenire se fossimo dormiglioni usando il sonno a fomentare la nostra pigrizia e poltroneria contro il precetto di Cristo: « Vigilate in ogni tempo facendo orazione » (2). - « Lo spirito veramente è pronto, ma la carne è stanca » (3). E bene, dorma quanto è necessario la carne, ma vegli lo spirito. - Si faccia dall' uom cristiano, come la Sposa de' sacri Cantici, che cantava: « Io dormo, e veglia il mio cuore » (4). E voi insegnerete, che se terranno il loro cuore chiuso nella giornata ad ogni perverso affetto, se prima di coricarsi faranno orazione, se si metteranno dormendo nelle braccia di Cristo, egli che deve essere il loro cuore e il loro spirito farà la scolta sopra di esse contro al nemico, che pure « s' aggira intorno come leone ruggente cercando cui divorare » (5). Direte ancora, che dormendo col corpo vigilavano col cuore que' Profeti e Santi, a cui nel sonno rivelava Iddio le cose future ed i suoi segreti. Che vigilava col cuore il figliuolo d' Iddio alloraquando navigando sul lago di Genesarette, [...OMISSIS...] : loro narrerete finalmente del poco dormire che fa la donna forte ne' « Proverbi » descritta (7), delle vigilie degli antichi cristiani; e come la santa Chiesa nel ripartimento delle ore notturne e diurne dà l' immagine della vita del cristiano, che veglia sempre ed òra, di cui mi verrà in acconcio di parlare altra fiata. E finalmente direte, la quiete del corpo presa nella pace del Signore quaggiù rappresentare ancora quella quiete dell' anima che in cielo si assaggia nel gaudio divino: tal quiete essere veramente santa, veramente una orazione, perchè fatta col fine di ristorare il corpo, e rimetterlo in istato di servire e lodare Iddio attualmente, e perciò merita e impetra; per il che anche sobriamente dormendo puossi conservare il precetto della continua vigilanza e della continua preghiera; che molto pur giova la sobrietà del vitto ad aver men bisogno del dormire, e a dormire più santamente secondo quello di s. Pietro: « Siate sobrii, e vegliate » (1), ed altri sì fatti documenti consegnerete nell' anime loro, che vi somministreranno in copia le sante Scritture, e i Padri e scrittori ecclesiastici. In somma si vestano o spoglino, passeggino o stieno, parlino o tacciano, sieno sole o in altrui compagnia, facciano de' mestieri nobili o de' servili, si divertano, lavorino, studino, qualunque cosa operino nella vita, esse sappiano altresì dalla bocca vostra come convenga operarlo a utilità del loro spirito, come amarlo a fine di questa utilità solamente, e nella memoria arricchita d' una raccolta di sentenze, d' esempi, di fatti da voi uditi spesse volte ripetere con efficacia sopra i loro atti quotidiani, abbiano argomento continuo di meditazione, ed « un' armatura di Dio », per esprimermi con Paolo, « contro alle insidie del diavolo » (2). Così soleano fare i fervorosi cristiani de' primi tempi. [...OMISSIS...] Nel capo precedente ho parlato di quella dottrina, che può essere argomento alle vostre famigliari conversazioni. Oltre a questo poi è bisogno avere delle ore stabilite e conservate diligentemente, nelle quali diate la istruzione ordinata della Dottrina cristiana , o sia il Catechismo . In generale avvertite, che questa dottrina non è punto vostra, ma di Cristo. Appresso considerate come l' uomo peccando era traboccato nell' ignoranza, e perciò nella morte, essendo « la vita eterna il conoscere Iddio » (1); ma che per mezzo del Vangelo « si spoglia quell' uomo vecchio e si veste il nuovo , cioè si veste un uomo che si rinnovella a conoscimento, secondo l' immagine di colui che il creò » (2). E questo conoscimento è solo la salvezza dell' uomo. GESU` Cristo erede dell' eterno regno, ha fatti noi pel Vangelo suoi coeredi. Descrivete questa eredità con acconci argomenti e similitudini, innamorandole del paradiso, svogliandole dell' altre cose, e facendo lor venire il salutare timor dell' inferno. Ora dottrina tale toglie loro le infinite pene, e le rende eternamente ed immensurabilmente felici. In somma pingete la necessità, la bellezza, la perfezione, e la bontà di questa dottrina con ogni colore. E quando vi venga il destro, descrivendo la deformità del mondo prima di Cristo, assomigliatelo ad una notte , nella quale Cristo mandò gli Apostoli suoi a predicare quasi folgori per lo splendore e la celerità dell' opera loro (3): lo riformò e raggiornò « sgombrandovi l' opere delle tenebre, ed apportandovi l' arme della luce » (4); di cui l' una è essa dottrina, di cui ragioniamo: « ragguagliando con mirabilissimo artifizio divino tutti gli uomini in un solo ». Perciocchè dice Paolo a' Colossesi, che nel rinnovellamento dell' uomo « non havvi più Greco, nè Giudeo, circonciso, nè incirconciso, Barbaro, nè Scita, servo, nè libero; ma Cristo è ogni cosa ed è in tutti » (5). Queste sono sublimi cose, e sta in voi abbassarle e porgerle loro quando e come le possano ricevere; non tutte a principio, bensì divise in brani e particelle adattate. Dal conoscere che non è nostra cotesta dottrina, nè tolta dalla terra, ma che essa è di Cristo e dal cielo discesa, ne viene, che dobbiate essere esatta assai nelle parole, ritenendo le sicure della cattolica fede, senza volere dar loro troppo sottili dilucidazioni di propria mente; e in quanto a' precetti morali, non esagerare mai nè in più nè in meno, per non produrre de' falsi giudizi sulla gravità de' peccati; appresso risecare tutto quello che è controverso; non potendo voi asserire di esso con sicurezza che sia di Cristo. [...OMISSIS...] Il quale Spirito Santo, che solo può custodire in noi con ogni sicurezza questo prezioso deposito, e colla vita e collo zelo e col cuore e colla bocca chiamare lo deve il cristiano maestro ad abitare dentro di sè. Dopo aver poi mostrata a queste, che chiamerò figliuoline vostre in Cristo, l' altissima preziosità di quella dottrina, e la bellezza singolarissima, e finalmente la bontà infinita, sono da destare in esse sensi di gratitudine verso un Dio sì buono: buono non solo per aver egli rivelata e portata agli uomini tanta ricchezza, ma sì ancora per aver avuto special cura di esse, senza padre e senza madre com' erano, e raccoltele in luogo dove possano a tutto lor agio e con frequenza sentire e mettere in pratica sì preziose verità, salvandole dall' avversario di tutte l' anime. Indi quella casa ove abitano la farete loro riguardare come casa di Dio, dove egli quasi padre di famiglia apre loro scuola di paterne istruzioni, e facile arringo di sante virtù. E se il « poter udire e custodire la divina parola è più beata cosa che lo stesso esser madre di Dio », come insegnò Gesù (2), e se esse hanno ricevuto questo immenso beneficio d' udirla, si guardino dal non volerla, a malgrado di ciò, custodire: il che sarebbe loro maggiore condanna. Tornate spesso sopra il divino beneficio dell' averle raccolte e provvedute; [...OMISSIS...] . Ora in fine so, che dovrete abbassarvi a quelle menticine tenere ancora, e a cui propriamente è mestieri mollificare e tritare il cibo cominciando da' primissimi rudimenti, e facendo loro apprenderli prima quasi per consuetudine di memoria che non sia per chiara intelligenza: e so altresì che tal cosa riesce faticosa e importuna. Ma l' amore di Cristo rende questo abbassamento lievissimo e dilettosissimo. Oh! non dee per avventura bastare a un cristiano l' esempio del suo Signore, che « s' impicciolì tanto con tutti noi »? [...OMISSIS...] E santo Agostino nell' aureo libro sovraccennato del « Catechizzare i rozzi » di ciò ne conforta meravigliosamente col cap. X. Ma chi ama Cristo, e tien presente il modello, non ha bisogno d' altro conforto. Parrebbe addomandare la natura di questo mio discorso, che vi delineassi la forma e l' ordine delle dottrine, che dovete fare alle fanciulle vostre. Ma poichè il pregio di questa forma e di quest' ordine consiste, come ho accennato, nel non rimuoversi dalle vestigia dei « Santi, a' quali fu data la fede sola una volta » (2): avete già alle mani que' quattro capi, cioè il Simbolo Apostolico , i Sacramenti , il Decalogo , e l' Orazione del Signore , ai quali da' nostri padri fu ridotto il cattolico insegnamento. Questi adunque porgono il filo del ragionare, questi i confini, questi il richiamo e la ricapitolazione di tutte le cose che insegnerete. Perciocchè qualunque cosa insegniate, dovete sempre ritornare a quelli. E quanto allo svolgimento di tali dottrine, siamo provveduti del « Catechismo Romano », opera messa insieme da varii dotti nel secolo XVI per decreto del sacro Concilio di Trento, e approvato da' Sommi Pontefici. Tale opera fatta pe' parrochi, non si può veramente dare in mano di fanciulle. Se dunque chiedete come fare a stemperar loro questo cibo, rispondo doversi premettere innanzi tratto la meditazione della dottrina. Vi bisogna poi conoscere la capacità dell' intelletto delle vostre discepole, l' indole, quai cose influiscano a tenerle più raccolte, quali lor facciano impressione maggiore, come debbano concepirsi le cose, e apparecchiarle acciocchè siano meglio accolte. In somma studiare le varie forme degli animi con diligenza, ciò che insegna anche il Romano Catechismo a' parrochi (1). Appresso raccoglietevi, e invocate il Santo Spirito, purificate l' intenzione, protestate dinanzi a Dio che non volete insegnare errore, e che qualunque v' uscisse di bocca ignorandolo, tale il rigettate, nè all' onor vostro pensare, ma a profitto di chi vi ascolta. Masticando poi fra voi quelle dottrine, anzi pure dirò così ruminandole, le faciliterete, apparecchierete espressioni e parole proprie, naturali ed atte a loro istillarle. Pe' libri avete quelli che il vostro Vescovo approvò nella diocesi, e dà in mano ai catechisti suoi, come anche giovarvi potrete delle dichiarazioni vocali del vostro Parroco, che sarà bene con diligenza seguire. Solo due cose aggiungerò ancora al capitolo. La prima che l' istruzione sì del dogma che della morale sia intessuta colla Storia Sacra, e su questa io direi, usando una similitudine tolta ai lavori donneschi, come su tela distesa si rilevi il dogma e i precetti della vita quasi ricamo. Conciossachè quanto creder si deve consiste principalmente in due uomini, che sono Adamo e Gesù Cristo, e per questa maniera si vede la grande unità e continuità della religione cristiana come in quadro meraviglioso risplendere nella Chiesa di Cristo, da Adamo venuta insino a noi invitta e immacolata. Per questi sacri racconti più salde si figgono nelle menti singolarmente de' fanciulli le rivelate verità, più dolci vanno al cuore, e si fanno non meno regola che pungolo ed eccitamento alle virtuose operazioni. Colla storia si fu che i primi padri mandarono ne' figliuoli il dogma e la morale prima ancora che fosse scritta la legge. Onde il Signore, determinato d' incenerire la Pentapoli, giudicò di fare che Abramo il conoscesse: [...OMISSIS...] . Così ne' « Proverbi » e ne' « Salmi » quanto e come spesso non si raccomandano a' padri questi racconti e queste tradizioni! Quando poi Dio volle che 'l suo popolo avesse legge scritta, che fece egli, se non ordinare a Mosè il « Pentateuco », dove è appunto alla legge la storia congiunta? Su queste vestigie de' primi Santi della Chiesa, anzi di Dio stesso, tanto essendo avvenuto per suo comando, camminarono anco i primi maestri della legge di grazia nelle loro istruzioni, come facile è di vedere sia ne' quattro libri dell' Evangelio, sia negli « Atti Apostolici », nelle « Apostoliche Epistole », ne' « Sermoni » e « Omelie » dei santi Padri, ne' lor « Catechismi », che alcuni n' abbiamo pe' catecumeni, e nelle cinque « Catechesi di S. Cirillo a' battezzati »; singolarmente poi nel libro nominato avanti di sant' Agostino. L' altra cosa è il fine di tutto l' insegnamento, lo spirito e il frutto, a corre il quale volger si dee l' attenzione. [...OMISSIS...] Alla doppia carità adunque, fine e pienezza di tutte le Scritture (2), rivolgete e conducete continuo l' insegnamento. Che è poi questa carità? [...OMISSIS...] Tutto adunque se ne vada a questo, a farle amare la parola d' Iddio, a migliorar la vita, [...OMISSIS...] . L' Apostolo Paolo nel capitolo XII della sua maravigliosa « Lettera a' Romani » insegna anch' egli il gran conto che far si deve della cognizione. Poichè da prima con breve tocco, ma da insigne maestro, effigia la vita cristiana, dicendola un' ostia de' nostri corpi: e dopo distinta co' suoi caratteri di vivente, santa, gradevole a Dio , all' ultimo egli l' appella altresì ragionevole ossequio: riassumendo, io mi credo, e quasi ricapitolando in questa sola nota qualunque cosa, che o di lei disse o dir si potrebbe. Conciossiachè riconosce l' Apostolo nella ragionevolezza quasi un fonte, da cui tutti i pregi a quell' ostia si derivano, come maggiormente apparisce da quanto segue: [...OMISSIS...] . Chi ha dunque rinnovellata colla grazia la propria intelligenza ha riformato se stesso. Nella mente dunque, nel senno della intelligenza sta il vivo fonte della vita cristiana. Ed eccovi, ond' egli è che viene incontanente S. Paolo a dettar regole intorno al sapere: [...OMISSIS...] . Di gran senso è l' uso di quella voce traslata di sobrietà , virtù che regola l' uomo circa gli alimenti. Paragona il sapere all' alimento, e di qui mostrane l' eccellenza. Dacchè sì come l' alimento conserva la vita, la sanità, la robustezza ed ogni pregio al corpo, così simigliantemente fa la dottrina all' anima. Ma nel tempo stesso, che intendo di conciliare a questa parte, in cui tratto dell' istruzione cristiana più sublime, l' animo vostro, mi conviene così guarentir l' opuscolo, e per così dire assieparlo, che non vi entri non pure errore, ma nè anche pericol d' errore, acciocchè voi favorevolmente disposta nè a quello aderiate, nè in questo corriate rischio. Al che opportune mi occorrono le parole di S. Paolo: « non sapere più là, che sia opportuno sapere, ma sapere a sobrietà ». La sobrietà insegna di nutrirsi de' cibi quanto è mestieri al corpo. A ciò ottenere si vuole in prima risguardare alla qualità del cibo, di poi al masticarlo, e finalmente al digerirlo sì, che in succhi salubri si tramuti. Quanto allo sceglierlo ed apparecchiarlo non ogni genere di animali si nutre dello stesso cibo, nè ogni animale lo vuole per egual modo disposto. Perciò nuovamente è da vedere la natura di quello, a cui esso si dà, e s' appresta. Ora la natura delle vostre fanciulle è primieramente di esser cristiane, appresso membri della Chiesa discente, non già della docente, di essere donne a cui si conviene meditare in silenzio sull' esempio di Maria quanto è loro insegnato, di esser fanciulle, e di condizione bassa, persone che faranno forse poi servigio nelle famiglie signorili, o prenderanno il velo in qualche monistero, ovvero farannosi madri di famiglia in povere case. Come a cristiane dite loro che se « avranno fame e sete della scienza della salute, ne saranno altresì satollate » (1). Facciano prima ogni cosa per assaporare quella sapienza, e nutricarsene; di poi non vogliano sapere altro, e principalmente sprezzino tutto quello, che a questo è contrario. Col primo di questi insegnamenti stillate in esse la virtù della docilità , per la quale l' uomo si apre a comprendere quanto di vero, di buono, e di bello vede od ascolta. Col secondo sradicate il pernicioso vizio della curiosità circa quelle cose, che non edificano. Quanto è fuori o della fede, o della carità è bello di ignorare al Cristiano. Così S. Cipriano dicea in certa lettera ad Antoniano: [...OMISSIS...] . E ben vi dico che i primi nostri padri col fresco precetto di Cristo (2) e degli Apostoli (3) non solo poco conto faceano di una dottrina che di Cristo non fosse, nè si curavano punto d' apprenderla, ma fin anzi di non apprenderla si curavano moltissimo, e si sequestravano da quelli, che o insegnavano errori colla bocca, o colla vita li professavano. Vi sia dunque frequente sulle labbra quella sublime preghiera del reale Profeta. « Rivolgi gli occhi miei, perchè non veggano la vanità . » Egli non volea nè pure vederla. Questa è quella grande virtù della Semplicità , che solo tiene fitti gli occhi nel bene, e lo fa senza nè anche dare al male uno sguardo. Come poi non debbono amare di saper nulla di quanto è fuori della fede e della carità, così quello che non intendono di quanto è dentro non deve turbarle. Ma cessando dalla inquieta sollecitudine d' intendere alcuna cosa difficile, con tutta pace la meditino meglio, e, non riuscendo a ottenerne chiara conoscenza, pongan giù l' ardore di saperla con eguale contentezza, facendone sacrifizio a Cristo, a cui ogni ragione si deve sottomettere, anco traendo di là argomento di umiliarglisi dinanzi, e confessare la propria meschinità. [...OMISSIS...] Voi dovete dunque scerre questo cibo come più loro giova. La regola è in S. Paolo subito appresso alle parole allegate. [...OMISSIS...] E in vero se insegnerete loro cosa sopra il lume della loro fede, o non trarranno profitto non capendo l' istruzione nella lor mente, o ricaveranno svantaggio, volendo pure intendersela col lume naturale, e perciò capendola male o angosciandosi per accorgersi di non capirla. Oltracciò segue Paolo a mostrare come ciascun cristiano occupa nella Chiesa posto ed uffizio diverso, essendo i vari membri a varie funzioni destinati. Secondo le funzioni Dio dà la fede, e secondo queste funzioni fa bisogno la dottrina. Or voi sapete chi sieno, di qual tempra, e a che destinate le vostri giovani donzelle. Sapete dunque anche come scerre lo spirituale nudrimento. Ben è vero che non pigliasi talora crudo quel cibo, che cotto e ben condito utilmente si mangia. A voi dunque sta di farne la più acconcia preparazione: ma di ciò è abbastanza. Per quello che fa al masticare, codesto cibo dell' intelletto è come del corporeo. In bocca si fa la prima digestione. Ciò vuol dire, che come vedemmo Ezechiello sentir dolce quel volume anche dopo averlo mangiato (2), quasi la dolcezza sua in bocca gli ritornasse; così avvezzar si debbono le fanciulle a far riflessione a tutto quello che havvi nella sacra dottrina da voi loro spiegata, non sopra svolazzandovi coll' ingegno senza posare in alcun luogo. Rendetele d' uno spirito sodo e riflessivo, non tenue e leggero. « Nella mia meditazione il fuoco si rinfiamma », havvi nella Scrittura (3), e il fuoco vuol dire l' amor di Dio. Nè intendo già, che le costringiate a meditazione lunga e sforzata in ore fisse. Ciò sarebbe loro gravoso, arido, intollerabile, poichè nè per l' età, nè pel sesso hanno bastevol forza di raccorsi e di lavorare colla mente in punti assegnati. La meditazione prescritta dunque sia breve: ma quel ch' io bramo si è un abito di riflettere naturalmente sopra di tutto, e quindi un meditare sempre senza gravezza. Finalmente il cibo vuole esser ben digerito. Questa è la cosa che più rileva. Questo dà la misura vera di esso cibo. Tanto se ne mangi, quanto si ha forza di convertirlo in nutrizione. Or che è questa forza? Quella carità di cui è detto al fine del capitolo precedente. Ella fa, che il cibo che mangiasi non vada a male, ma sia di quello, di cui Cristo dicea: « Procacciatevi non quel cibo che perisce, sì quello che fino alla eterna vita permane » (4). Dico la carità di Dio, e del prossimo. Quanto alla prima Paolo, vaso d' elezione, rapito al terzo cielo, uditore d' arcane parole che uomo non può favellare, diceva ai Corinti: [...OMISSIS...] . Tali cose adunque menino a Cristo, ad esso crocifisso; in esse si pensi a lui. Tutte quelle cose pertanto, nelle quali Cristo non si trova, sono quelle di cui leggesi nell' Ecclesiastico: « Non volere lambiccarti il cervello in cose superflue » (3). Ora tornate a leggere il passo dell' Apostolo, e vedete quale umiltà operi nell' uomo l' amore di Dio, mercè del quale la scienza « non gonfia ma edifica ». Quanto poi all' amor del prossimo dice novellamente il Dottor de' gentili: [...OMISSIS...] . E in questo capo intero vi porge Paolo la scienza come sorgente di tutte le virtù, e tutte le virtù trae fuori quasi a farle corteggio. Quando adunque innanzi ci diede a misura della scienza la fede , parlò di una fede che « opera per mezzo della carità » (5). Ma in questo passo, che ultimamente ho citato del cap. XII della lettera ai Romani, voi scorgerete singolarmente la carità del prossimo nella umiltà riposta, e quindi vedrete come la duplice carità non solo renda operativa la scienza a gloria d' Iddio e a vantaggio dell' uomo, ma contenga altresì l' antidoto contro al veleno, che essa scienza suol mandar fuori occultamente a danno nostro: e quindi come la scienza sceverata da ogni pernicioso elemento, per mezzo di sola la carità torni utilissima. Adunque date alle vostre zitelle tanta scienza e non più quanta vedete che hanno forza da ben digerirla, o sia da cangiarla nel salutevolissimo nudrimento dell' anima. Fermate le regole della moderazione nell' insegnamento, richiedesi, che delle cose stesse da insegnare diciamo alcun poco sopra quelle di stretta necessità; e ciò così in generale, che abbiasi onde assumere, come da serbatoio di varie cose, quanto a' particolari usi viene bisognevole. E per aver un filo, che sicuri ci conduca e ci scorga in tanta ampiezza di dottrina, e diversità di vie, caviamo qualche picciolo brano della « Scrittura », libro a tutti i bisogni, e fontana inesauribile d' acque salutari. E sia il luogo da noi scelto il cominciamento del capo quarto della lettera, che scrisse Paolo dalle carceri romane alla Chiesa di Efeso, capitale dell' Asia Minore, cominciando dal primo fino al sedicesimo versicolo di quel capo. Parmi acconcio questo luogo, come quello, in cui si dà la nozione ben fondata e chiara della Chiesa di Cristo, di cui siamo membri. Ed ho fermamente l' avviso, che il conoscere bene addentro questo nostro stato, sia il nerbo di tutta la cristiana istruzione. Oh! quanto poco si sente la dignità e la vera dolcezza della nostra professione! Noi cristiani siamo di presente come a dire sparpagliati, e gli uni scuciti dagli altri: perciò non sentiamo bastevolmente qual forza ci lega e aduna insieme, e ci dovrebbe formare una cosa sola per lo scambievole amore. Quando i fedeli colà ne' tempi primi e felicissimi erano più pochi e ferventi, in un solido corpo fra di loro si sentivano fortemente compaginati, e raggiunti in un sol corpo, nelle membra armonioso, e avente un capo solo, ed un medesimo spirito! Oh consensione ammirabile che quella era di volontà! oh armonia soave di funzioni! oh carità e pace invidiabile di cuori! A quella prima immagine perciò della Chiesa di GESU` Cristo noi dobbiamo tenere l' occhio ben fermo, e operarla in noi stessi. A questo di certo è necessario richiamare i fedeli, come faceano gli Apostoli e i più grandi padri, a considerare continuo quali essi sieno fatti dalla redenzione di GESU`, e per quale porta entrati in questa santa città o regno di Cristo, o mistico corpo di lui. Porrò adunque da prima le parole dell' Apostolo, e poi verrò estendendo un cotal picciolo commentario di quelle; acciocchè voi vi abbiate un esempio del come possiate bellamente introdurre le vostre discepole alle nobili dottrine della fede, mediante il legger loro e lo spiegare acconciamente, in sulle vestigie dei santi maestri, i luoghi più opportuni delle divine Scritture. Questo studio egli è quasi abbandonato dalle nostre cristiane, ma nei secoli più fioriti le donne fedeli leggevano i divini oracoli colle spiegazioni che ne avean date i Vescovi, i quali soleano pubblicare in libri le spiegazioni dette al popolo acciocchè più largamente giovassero. Or voi perita nella lingua latina e di ogni buona erudizione fornita, egregiamente fate ad imitare le Eustochio e le Paole; e voglia il Cielo che altre ed altre vi vengano dietro; acciocchè il popol santo ritorni, come già fu, illuminato e fervente. Or le parole dell' Apostolo sono le seguenti. [...OMISSIS...] Letto dunque questo brano dell' Apostolo, voi prenderete a dichiararlo. Io raccorrò qui solo alcune delle cose, che potreste opportunamente trar fuori in simiglianti istruzioni, e a distinzione maggiore le compartirò in alcuni articoli. « « Io dunque, che sono ne' ceppi, vi scongiuro nel Signore, che camminiate degnamente in quella vocazione , onde siete stati chiamati ». » Nella parola di vocazione , se bene considerate, si ricapitola in certo modo tutto il mistero dell' umana salute sposto innanzi da Paolo nel capitolo secondo della lettera stessa, a cui qui riferisce. Date le nozioni della Chiesa di Cristo, e dichiarato com' essa cominciasse in Adamo penitente, e seguisse in sino a noi dividendosi a mano a mano in tre gran parti, cioè nella Chiesa Militante, nella Purgante, e nella Trionfante, e qui messo in vista l' ammirabile corpo, che tutte e tre compongono insieme, è a trattenersi precipuamente sulla Militante come il principio, da cui quell' altre due si staccarono, crescendo alla perfetta loro grandezza. Dirassi di questa, che il pregio e la beltà sua non istà tanto nel numero de' suoi membri, quanto nella eccellenza che trae origine da Cristo: e come, sia ella o non sia numerosa, Cristo tuttavia sposo di lei amorosissimo dispone in suo bene, e per suo amore tutte l' altre cose di questo mondo. Appare questa bellissima verità dallo scarso numero de' giusti dalla creazione insino al diluvio, al tempo del quale la sola famiglia di Noè salvata dall' acque formava forse la Chiesa di GESU` Cristo: a' quali giusti però servivano tutti i tristi, esercitando la loro pazienza, e mettendo a tutte prove la loro virtù, che in tal modo cresceva, e più meritava. Appresso tornarono a corrompersi gli uomini insieme con quasi tutta la loro propagazione fino che il Verbo si chiamò Abramo dalla Caldea, e in tutto il mondo, adoratore degli idoli e schiavo de' demoni, scelse quella famiglia a sua Chiesa ed a suo peculiare dominio, e con essa come e' fosse un altro uomo (vedete già fino d' allora immagine del Cristo venturo!) patteggiare, e nominarla la « funicella della sua eredità » (1). A questa generazione singolarmente si fecero vedere i prodigi di sua onnipotenza e misericordia, fur mandati profeti continui, consegnate nelle mani di lei le promesse d' un Redentore. Ma i figliuoli di que' Patriarchi erano anche essi razza umana immalvagita nella radice. Si mostrarono dunque ciechi, ingrati, di dura cervice, di cuori incirconcisi secondo l' espressione della Scrittura, nè si arresero agli infiniti benefizi di Dio, anzi nè i portenti gli scossero se non momentaneamente, e i profeti accolsero con mal piglio, battendoli, lapidandoli, ed uccidendoli; e finalmente lo stesso figliuolo dell' eterno padre, il Redentore del mondo, lo disconobbero, oltraggiarono, e confissero in croce. Quindi il misterio del gran ripudio della Nazione Ebraica, a compimento degli oracoli profetici, e la gran VOCAZIONE delle genti alla salute dell' Evangelio. Ecco di che vocazione parla S. Paolo. « Per la qual cosa », aveva già detto innanzi (2), « ricordevoli siate », o Efesini, « che voi un tempo eravate gentili, e secondo l' origine carnale detti incirconcisi » per contumelia « da quelli che circoncisi s' appellano secondo la carne per la manofatta circoncisione », pegno della predilezione di Dio. « Voi eravate in quel tempo senza Cristo, alieni dal consorzio d' Israello », cioè dalla famiglia prescelta, « e ospiti de' testamenti », perchè solo come ospiti potevate essere ricevuti nella ebraica chiesa essendo il patto di Dio stretto colla stirpe sola d' Abramo, « senza la speranza della promessa del Salvatore », consegnata a' Patriarchi, « e senza Dio in questo mondo », avendone smarrita la traccia. « Ma adesso in Gesù Cristo siete fatti da presso, voi che una volta stavate da lungi, in virtù del sangue di Cristo. Perciocchè egli è nostra pace e unione che delle due cose n' ha fatta una », cioè dei gentili e de' giudei convertiti al Vangelo, « dissolvendo la muraglia di mezzo », la divisione, che fra gli Ebrei eletti da Dio, in peculiar suo popolo, e i Gentili lasciati a se stessi vi aveva, rappresentata dalla parete, che nel tempio di Gerusalemme tenea dal luogo santissimo divisi i laici, e così distruggendo le inimicizie e le divisioni fra gli uomini assunte in quella sua carne , che diede in preda alla morte. Parole di profondi sensi ripiene! Ma con questi sensi soli si può fare acconcia spiegazione di quella vocazione , di cui parla Paolo in questo luogo, mostrandola primieramente infinito beneficio, e doppiamente, se si può dire, gratuito, non essendo noi tutti della nazione eletta, ma delle perdute. « Edificati adunque sopra il fondamento degli Apostoli e dei Profeti, pietra maestra e angolare essendo lo stesso Gesù Cristo » (1), la nostra vocazione è questa, d' innalzarci sopra sì ferma pietra in tempio santo del Signore, e di non infrangerci e spiccarci da questo edificio nobilissimo e divinissimo. Per questo Paolo dopo aver detto, che dobbiamo camminare nella nostra vocazione, la quale ci chiama ad essere tempio vivo d' Iddio, ce ne viene insegnando il modo colle surriferite parole. Colle quali l' Apostolo primieramente esclude da noi la superbia , dacchè com' è scritto ne' Proverbi (2): « fra superbi v' hanno sempre delle altercazioni »; e pone ogni umiltà, cioè sì l' interna come l' esterna. Appresso ne caccia l' ira , di cui si dice ne' Proverbi (3): « L' uomo iracondo provoca risse », e chiama in suo luogo la mansuetudine mitigatrice delle brighe e serbatrice della pace; ancora allontana l' impazienza , che se non si vendica come l' ira, mostra però vista di partire lamentandosi all' altrui vessazioni, ed avvicina la pazienza , che secondo l' Apostolo S. Giacomo « fa l' opera perfetta » (4); per ultimo poi spurga lo « zelo inordinato ». Conciossiachè nè per superbia, nè per ira, nè per impazienza solamente, ma nè anche per inconsiderato fervore e zelo si può romper la pace. Per questo aggiunge: « sopportandovi gli uni gli altri nella carità », attendendo l' ora ed il luogo opportuno da fare avvertito il fratello de' falli; e quanto a certi difettuzzi, di cui non si corregge (perciocchè qual uomo arriva a torseli tutti?), sopportandosi scambievolmente con vera carità ed indulgenza. Tolti via questi quattro vizi, e introdotte le opposte virtù, e tutto ciò coll' occhio rivolto all' unità degli uomini, che ne è il fine, « solleciti », così dice l' Apostolo, « di conservar l' unità dello spirito », sorgerà da ciò quella beata pace, che come dolce legame vincolerà tutti i cuori, e come un legame solo, perciocchè è pace della stessa specie in tutti, cioè in tutti una partecipazione di quella di GESU`, che sorpassa ogni senso. Questo vincolo solo della pace avvera quell' unica vocazione, nella quale siamo chiamati da Dio: sebbene quaggiù di tale pace altro che un cotal saggio non possa esserne fatto quasi a fior di labbra, ed è in cielo che l' uomo se ne pasce a ribocco. Ora questa VOCAZIONE UNICA, questa PACE Cristo addomandò per noi all' eterno Padre [...OMISSIS...] . Per mezzo adunque di queste virtù dall' Apostolo annoverate, e di questa pace, che da esse stilla per così dire qual mele e come olio odoroso dilata per tutto la fragranza sua, è fatta e vien mantenuta la unione delle membra fra loro, e coll' unico spirito che le avviva. Quindi l' Apostolo segue immediatamente a descrivere questa doppia unione colle riferite parole: « Un solo corpo e un solo spirito sì come chiamati siete in una sola speranza della vostra vocazione ». Ma non si possono esercitare rettamente quegli atti di virtù fra le membra, nè si possono ordinare all' abbondanza della vita o sia all' unità dello spirito, se non si conosce in che esse membra fra di loro sono differenti, e in che si convengono. Conciossiachè è proprio delle unità formate di diverse parti, che queste parti abbiano alcune cose comuni fra di loro, e alcune cose proprie. Perciò l' Apostolo trapassa quindi a descrivere ciò che vi ha di comune in questo corpo della Chiesa, e ciò che vi ha di proprio. Quanto a quello che v' ha di comune dice così: Un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio e Padre di tutti, che è sopra di tutti, e fra tutte le cose, e in tutti noi . Di fatti in un corpo, perchè vi sia unità e perfetta armonia, abbisognano tre cose. Primieramente, che egli abbia uno stesso capo; appresso che le membra sieno tutte al capo incorporate; infine poi che le operazioni di questo corpo non si distruggano le une coll' altre, ma anzi sieno indirizzate ad un solo fine , la perfezione del corpo stesso. Ora l' unità del capo viene espressa dall' Apostolo con dire un solo Signore . E questo nostro Signore, come spiega egli stesso nella prima a' Corinti, è GESU` - « E il solo Signor nostro Gesù Cristo » (1) è veramente il capo , come dice di sotto al vers. 15. Veniamo poi a Cristo incorporati e congiunti per l' abito della fede, che è pure unica in tutti, e questo insieme coll' abito delle altre virtù il riceviamo dentro a noi nel cristiano battesimo: pure unico; poichè da un solo istituito, da un solo avvalorato, in nome di un solo Dio conferito. Che se avessimo senza il battesimo la fede, questa, unita che fosse al proposito del battesimo, a Cristo ci incorporerebbe, per dir così, mentalmente, o, a esprimermi meglio, ci farebbe accostare e disporre alla vera incorporazione che pel battesimo si fa. Il battesimo adunque sia reale, o, ne' casi estremi, di desiderio, rigenera l' uomo, e dà a lui la vita spirituale; e di questa vita nuova Paolo diceva a' Galati: « E vivo non già io, ma vive in me Cristo; e la vita che io vivo nella carne, la vivo nella fede del figliuolo di Dio ». Adunque e la fede ed il battesimo sono di necessità per esser l' uomo raggiunto con questo capo. All' adulto la fede prima del battesimo, al bambino il battesimo prima della fede. All' adulto anche l' atto della fede, al bambino l' abito solamente. Senza l' atto della fede l' adulto non trae dal battesimo il vantaggio della salute, perchè non esercita le opere della vita. Per mezzo poi della fede ricevuta dalla grazia del battesimo si principia in noi, come dice S. Tommaso, « la vita eterna » (2), quella vita eterna, che si termina e perfeziona colla gran fruizione di Dio. Tale è la perfezione ultima del mistico corpo, di cui parliamo, tale il fine delle sue operazioni, la terza cosa che a questo corpo dona unità. Quindi Paolo la soggiunge dicendo: « Un solo Dio e padre di tutti, che è sopra tutti, e fra tutte cose, e in tutti noi ». Adombrano chiaramente queste parole la Trinità, perciocchè « essere sopra di tutti » è proprio del Padre, fontale principio delle altre due persone a cui compete stare sopra tutto; « essere fra tutte le cose » è proprio del Figliuolo, cioè della sapienza, che « tocca da un' estremità all' altra con possanza » (3); e « stare in tutti noi » dello Spirito Santo, di cui noi siamo templi (4). E dice innanzi tratto Dio , per indicarci questi fare la nostra beatitudine infinita ed unica, di conserva a cui facciamo cammino seguendo la voce che ne chiama; e appresso padre , per confortarci, avvisandoci, che colui, che acquieta i desiderŒ nostri col beato godere, è quegli stesso che ci ama con paterno affetto, e a sè ci scorge; anzi dice padre di tutti , cioè tanto di Cristo come di noi, tanto del capo come delle membra, acciocchè riconosciamo l' amore, che ci vuole mercè del nostro capo, e i doni che dobbiamo aspettare di ricevere da Cristo unigenito figliuol suo come Dio, e primogenito come uomo. Voi dovete fermarvi assai, secondo l' uopo, su questi tre vincoli della cattolica società, mostrando la infinita nobiltà che le viene dal suo principio, dallo scopo a cui tende, e dalla abbondante vita che ne consegue. Dopo avere l' Apostolo noverate le giunture, che uniscono le membra in un solo tutto, e fatto vedere come questa unità sia stretta ed intima; annovera le proprietà che distinguono i membri l' uno dall' altro. Esse sono formate dalle varietà della grazia; la quale parte, come abbiamo detto, da unico principio, da Cristo, fu il primo passo dentro a noi col Battesimo e colla Fede, e termina coll' unione di Dio in cielo. E` sempre quella stessa grazia; ma formalmente variata nella misura e materialmente anche nelle operazioni che ha per oggetto. Quindi prosegue Paolo: « Ma a ciascheduno di noi è stata data la grazia, secondo la misura della donazione di Cristo ». Mostra qui la varietà delle membra dalla diversa abbondanza di vita che ricevono dal capo. Di qui si vede come giovò di premettere quanto a tutte le membra è comune anche a mettere in chiaro come ciascun membro è diverso. L' Apostolo adunque vuole, che questo modo, onde tutti i membri sono uniti in un corpo col capo, ed onde ciascuno è distinto, ben si consideri. Poichè venendo tutto da Cristo in gratuito dono, nessuno ha ragione nè d' insuperbire se assai possede, nè di lamentare, o invidiare altrui se possede poco; e questa è grande ragione di stare umili, mansueti, pazienti, sopportatori degli altrui difetti, che sono le quattro virtù innanzi proposte. E maggiormente segue a mettere in chiaro i motivi, che le persuadono. Egli soggiunge: « secondo la donazione di Cristo ». E appresso: « Per la qual cosa dice il Salmo (1): Asceso in alto ne menò schiava la schiavitù, distribuì doni agli uomini. Ma che è quell' ascese, se non che prima anche discese alle parti infime della terra? Colui che discese è quegli stesso che ascese sopra di tutti i cieli per empiere tutte le cose ». Colle quali parole recando un testo di Davide, spiega onde traesse Cristo per noi tali doni. A voi è noto, dice l' Apostolo, come non potete essere regalati di doni spirituali se non da Dio. Cristo dunque, che ve li regalò, è Dio. Come adunque se è Dio, Davide dice che ascese? Vuol dire che prima discese, perchè Iddio altrimenti non poteva ascendere. Ma come poteva Iddio discendere? Apparentemente, o a meglio dire, quanto all' esteriore maestà, congiungendo a sè l' uomo intimamente, e così scendendo « per un poco di tempo di sotto agli angeli » (1). Di più, quest' Uomo reso insieme Dio mediante l' unione permanente del Verbo, è propriamente e realmente quegli che s' è umiliato. Competeva, alla sua natura, che per se stessa contiene un bene morale infinito perchè connessa col Verbo, infinita santità, infinita gloria; competeva, dico, non un posto sulla terra, ma nel più alto de' cieli sopra tutti gli angeli. Si può dire adunque che questo Uomo Dio nascendo in terra siasi umiliato infinitamente; ma di più, egli volle tenere quaggiù figura e aspetto presso il mondo « dell' ultimo fra gli uomini » (2). Nè contento d' essere abbassato di sotto a tutti col patibolo della croce, scese nel sepolcro, e fino a' luoghi inferiori; di dove ne cavò l' anime giuste dell' Antico Testamento dentro a quel luogo prigioniere. In questa maniera, dice Davide, secondo la lettera ebraica, « ricevette doni per gli uomini ». Da chi li ricevette? Certo da quello, che è Dio e padre di tutti, e di lui primieramente è Dio come Uomo, e Padre come Dio. Ma Paolo invece di riportare la lettera ebraica tradusse « ha dati doni agli uomini », come hanno varie versioni. E conveniva però meglio all' Apostolo così riferire quel passo notissimo; chè il senso non viene cangiato, ma spiegato all' uopo; mostrando in un solo tratto e la profezia e lo avveramento di quella. Chè di fatti al tempo di Paolo avea già il Verbo distribuiti questi doni ricevuti per gli uomini. Ma come mai bisogno aveva il Verbo di ricevere doni? Avea bisogno: non per sè, che come Dio aveva tutto dal Padre per necessità di natura, e come uomo per necessità di merito o sia di perfezione di volontà mediante l' unione; se pure fra questi doni non si conti l' unione medesima. La necessità di ricevere doni o grazie era per gli uomini, che niente meritavano; e ciò vuol dire di ricevere facoltà di distribuire i doni. Ma come non aveva egli tale facoltà? Egli sarebbe stato contro la giustizia divina il felicitare quell' uomo, che meritava infelicità sempiterna. Era l' uomo inimico di Dio, schiavo del demonio; come dunque regalarlo? Che fece pertanto il Verbo? « Ascese in alto », risponde il Profeta, « menò schiava la schiavitù ». Ci narra il suo trionfo, a detta di Paolo, per farci intendere la sua battaglia. Perciocchè l' Apostolo così argomentò: « Che è quell' ascese, se non che prima discese nelle parti più infime della terra? » Coll' umiliazione adunque Cristo guadagnò il trionfo per se stesso, cioè l' ascensione sopra tutti i cieli, e menò seco schiava la captività. Dove notate, che non dice i captivi , ma la captività; indicando in questo modo, che ancor più fece di quello che abbisognava, e più conquistò di che fosse necessario conquistare in terra. Chè aver menata seco la captività captiva viene a dire, che non solo non vi ha oggimai più alcuno prigione che non possa liberarsi, ma che nè pure vi potrebbe essere. Così quella parola captività indica un valore ed una conquista infinita; poichè per quanti fossero peccati e delitti, poniamo numero infinito, ancora nessun uomo potrebbe di necessità esser prigione, mentre fino la possibilità d' una necessaria prigionia, la prigionia stessa condusse via dal mondo. Ma considerate insieme altra conseguenza che qui se n' esce, cioè che se anche gli uomini tutti si dannassero, ancora Cristo avrebbe menata schiava la captività , vale a dire, avrebbe fatta quell' opera infinita. Poichè dice la captività , non i captivi . Cattività vale lo stesso che esser gli uomini nelle mani del demonio, in modo che non solo alcuno non uscisse, ma nè pure uscirne potesse. Per il che in quello stato di cose non potea Cristo distribuir doni. Cristo poi fece, che tutti si potessero salvare. L' opera dunque di Cristo è infinita, e la salvazione degli uomini particolari è altra opera, che non tocca la infinità di quella prima, e rispetto a quella è come un accidente. Condotta dunque schiava la schiavitù , cioè data all' uomo coll' amicizia dalla parte d' Iddio la possibilità di salvarsi; possiede Cristo la facoltà di distribuire i doni suoi, cioè la salute stessa, in varia abbondanza. Francato dunque da questa schiavitù infernale, da questa necessaria dannazione, per un tratto d' infinito amor gratuito di Cristo, e pel trionfo di lui sopra l' inferno venuto in sua mano il cuore dell' uomo; nel solo arbitrio di Cristo ora è riposto di eleggere uomini a salvamento. Può Cristo distribuire tali doni a sua volontà, avendo fatto per avere questa facoltà quello che fece. E` però certo che egli ne distribuisce in copia secondo il pietoso eterno decreto di suo Padre. Anzi l' Apostolo dice francamente: « Diede doni agli uomini ». O Efesini, voi stessi il vedete continuamente; là dove Davidde nel tempo primo non volle dire di più se non che « ha ricevuto dei doni per gli uomini », o sia il potere di compartirne. Ne compartisce adunque, e ne compartisce secondo la grandezza del suo amor per gli uomini, secondo la bontà e tenerezza del suo cuore. Onde chi potrà diffidare di lui, se ama salvarsi? Peraltro considerate che questi sempre sono doni , cioè non cose dovute; e in primo luogo questi doni sono appunto i meriti. Per questa maniera « empiuto ha egli tutte le cose ». Dagli altissimi cieli fino alle parti più infime della terra ha riempiuto tutto della sua gloria; e ciò quanto al suo trionfo. Quanto poi alla salute umana, si può dire a ragione, che « la terra era inane e vota » (1), ed egli la illuminò, ordinò, abbellì, riempì di se stesso. Trionfò in somma conducendosi seco schiava la schiavitù; e salvò gli uomini distribuendo loro i suoi doni. Questi doni tutti sostanzialmente consistono nell' unica grazia, di cui parla Paolo. Chi n' ha più, chi n' ha meno secondo la misura della donazione di Cristo . Ma oltre distinguersi nella Chiesa cotesti gradi di grazia, che più tosto sono a Dio conosciuti che agli uomini, si distinguono ancora varii uffizi e dignità, a cui questi gradi sono ordinati. Doppiamente poi si ordina la grazia all' uffizio e dignità esteriore, che ciascuno tiene nella Chiesa, vale a dire, o dando ad ogni cristiano la possibilità di occupare acconciamente il suo posto, o largheggiando a lui non solo la possibilità di ciò fare, ma il fare stesso. Quella prima maniera di grazia, che sufficiente si può appellare, Cristo a tutti la dona; perciocchè, come l' Apostolo in altro luogo afferma, « Iddio dà colla tentazione il profitto a poterla sostenere » (2). Ma il fatto stesso dell' opera è tal grazia, che non a tutti è conceduta. Perciò Paolo a' Corinti (3) accenna « diversità di doni, diversità di ministeri, e diversità di operazioni ». Pei doni s' intendono le abilità a trattare bene il proprio ministero; per ministeri gl' incarichi a ciascuno affidati; e per operazioni il buon uso di quei doni, ordinato, mercè l' amore d' Iddio, al giusto eseguimento dei ministeri. Sola quest' ultima grazia, che diremo efficace , giova a santificar se medesimi; l' altre più tosto sono date all' altrui santificazione, e all' adornamento della Chiesa. Come poi per queste diverse misure di efficace grazia l' uomo fassi più o meno grato a Dio, viene composta in tal modo una mirabile ma invisibile gerarchia nella Chiesa, che nella sua miglior parte sta in cielo: così per quelle diverse abilità ed uffizi, che rendono rispettabile l' uomo agli uomini, si crea una gerarchia bellissima e visibile quaggiù in terra. Ora di cotesta visibile gerarchia, Paolo tocca i principali gradi dicendo: « Ed egli stesso altri diede apostoli, altri profeti, altri evangelisti, altri pastori e dottori ». A cui li diede? Agli uomini diede questi doni; e così parlando, mostra quello che testè osservavamo, essere tali ministeri non doni a chi li possiede, ma doni agli altri: vantaggiosi a coloro che da questi traggono la salute. Ora di tai ministeri andando sull' orma dell' Apostolo, si conviene considerare nella Chiesa in terra due ordini di dignità, una passeggiera e l' altra permanente. Quanto all' ordine passeggiero, novera S. Paolo i tre gradi di Apostoli, Profeti e Evangelisti. Tolte queste parole secondo le origini significano mandati, nunziatori del futuro, e nunziatori di buona novella . Ma parlando di una dignità della Chiesa s' intendono i mandati di Dio. [...OMISSIS...] Nella parola mandato poi non si dichiara nè limita autorità: quindi s' intendono sovente con questa voce i mandati per eccellenza, quelli che hanno ricevuta autorità maggiore: fra questi il primo è Cristo. Egli è chiamato nella Scrittura: « colui che dee esser mandato » (1). Nell' Antico Testamento fur mandati a dar la legge gli Angeli, Mosè ed Aronne. Paolo nella sublime lettera agli Ebrei dimostra peculiarmente che Cristo è superiore a que' tre ministri dell' Antico Testamento. Quanto a Mosè ed Aronne (poichè gli angeli non appartengono alla Chiesa che milita in terra), tutti e due erano mandati: « E mandai Mosè ed Aronne » (2). Ma come erano quelli mandati? Questa grande missione od apostolato racchiude tre uffici o dignità, cioè la dignità sacerdotale, la legislativa e la pastorale. Erano sacerdoti, onde nel Salmo XCVIII si dice: « Mosè ed Aronne suoi sacerdoti » (3). E quando Paolo scrivendo agli Ebrei, chiama Cristo « Apostolo e Pontefice della nostra confessione » (4), paragona bensì col titolo di Apostolo Cristo a Mosè, e col titolo di Pontefice ad Aronne, ma ciò è fatto prendendo il nome di Apostolo non in quel senso comune nel quale si dice tale anche Aronne, come vedemmo, ma in un senso di maggior dignità ed eccellenza. Poichè certo è che nel titolo di Apostolo dato a Mosè si comprendeva anche quello di Pontefice: distingue poi a chiarezza maggiore, e per torre ogni dubbio in sulla trascendente dignità di Cristo. Perciocchè recati in mezzo i tre ministri dell' antica legge, cioè gli Angeli, poi Mosè Apostolo, finalmente Aronne Pontefice: primo lo dimostra superiore senza confronto agli Angeli; e sebbene gli Angeli sieno superiori a Mosè, tuttavia lo vuole anche mostrare a Mosè superiore. Segue per ugual ragione a mostrarlo in ultimo anche superiore ad Aronne, sebbene Aronne sia minore di Mosè. Di fatti dice di Mosè, che « era servo fedele in tutta la casa di Dio », dipingendolo il maggiordomo o il fattore in tutta la casa con quel testimonio grandissimo tratto da' « Numeri » (1). In quest' aspetto generale considera adunque Mosè. Laonde quando appresso paragona Cristo ad Aronne, non fa altro che considerare Cristo superiore a lui nel peculiar incarico di Pontefice. Quello poi che Paolo aggiunge « della nostra confessione », a detta di S. Tommaso d' Aquino (2), si può intendere per quel primo sacrifizio spirituale , di cui sopra parlammo. Di fatti Cristo offerse non cose fuori di sè, ma se stesso. Essendo poi solo egli di interminato valore, solo era sacrifizio degno di Dio; là dove non così quello di qualunque altro uomo. Quindi egli abolì il sacerdozio di Aronne: egli sacerdote veramente unico, e sacerdote « in eterno secondo l' ordine di Melchisedecco » (3). Mosè oltre di ciò aveva nelle sua missione e apostolato l' uffizio di Profeta o interprete rispetto a Dio, e di legislatore o luogotenente di Dio rispetto agli uomini, là dove Aronne era solo profeta rispetto a Mosè, e luogotenente di Mosè rispetto agli uomini. Però Iddio, così dice a Mosè nell' « Esodo » (4): [...OMISSIS...] . Ma di Mosè propriamente era la portentosa verga, colla quale fra' miracoli guidava il popolo, altro suo gregge. Ell' era quella stessa verga, di cui qual pastore di vere pecore soleva far uso, e Aronne l' adoperava come ministro suo: mentre a lui solo aveva Iddio comandato di pigliarla in mano (7) per adempire gli ordini suoi. E s' ella dicesi verga d' Iddio sovente nelle « Scritture », è perchè sì Mosè che Aronne altro non erano finalmente che garzoni d' altro pastor maggiore padron della greggia, al quale Davide rivolgeva il discorso dicendo: « Guidasti il tuo popolo come un branco di pecore per le mani di Mosè e di Aronne » (1). E questo egli è pur Cristo che di sè disse: « Io sono il buon Pastore » (2): pastore veramente buono, che fra' pericoli di questa vita ci conduce nella promessa terra del cielo colla verga della grazia, che solo per la sua potenza è detta di ferro ne' « Salmi » (3). Nell' apostolato di Mosè adunque v' avevan i tre uffizi di Sacerdote dei Sacerdoti , di Legislatore e di Pastore . Lo stesso è in Cristo, ma in grado eminente, e in fonte, da cui tali doni agli uomini si derivano. Come Pontefice fu predetto da Mosè colla storia misteriosa di Melchisedecco spiegata divinamente da Paolo nel cap. VII della « Lettera agli Ebrei ». Come Legislatore nel cap. XVII del « Deuteronomio », [...OMISSIS...] . Come Pastore finalmente nei « Numeri » (4): [...OMISSIS...] . Preghiera, che Iddio esaudì per allora col dare Giosuè a capo del popolo, sì nel nome che nell' uffizio bella figura di Cristo. Così ancora quando il Signore mandò Mosè, questi non si acquetava, sebbene udisse: « Io sarò nella tua bocca, e ti insegnerò quello che dovrai dire » (5). Poichè ardendo di desiderio dell' altro Apostolo maggiore di lui, verso il quale egli si conosceva un nulla, importunò Iddio, e disse ancora: « Ti scongiuro: Signore, manda colui che sei per mandare ». Nel qual titolo di mandato , o Apostolo per eccellenza, racchiuse qui Mosè tutti i pregi e gli uffizi di Cristo. Ecco dunque quale è e come eccellente l' Apostolato di Cristo. Ora Cristo, trascelti dodici de' suoi discepoli, comunicò loro sì grande titolo di Apostolo. Dopo risorto poi disse: « Come mandò me il padre, anch' io mando voi » (6). L' Apostolato adunque dei dodici Apostoli è tutto simile a quello di Cristo, è partecipazione di esso, e partecipazione a cui Cristo non pose limiti. Oltre poi a questa generale missione, per cui gli Apostoli divennero luogotenenti di Cristo presso gli uomini, diede loro in particolare i tre uffizi o dignità di sopra annoverate. Primieramente li fece Sacerdoti, cioè partecipi dell' unico suo sacerdozio, conferendo loro la potestà di consecrare il pane ed il vino, obblazione monda, accettevole, degna d' Iddio, infinita: e glielo comandò nell' ultima cena (1): quando avendo per la virtù di sue parole nel proprio corpo e sangue convertito il pane ed il vino, e fra loro diviso, disse quelle memorabili parole: « Fate questo in mia commemorazione ». E poichè non era tale obblazione meramente legale e priva di un suo vigore, ma anzi d' infinita efficacia; per questo a' mandati suoi aggiunse l' altra facoltà divina ignota agli Apostoli dell' antico tempo, [...OMISSIS...] . Ma singolarmente a Pietro commendò tutto il gregge. Poichè a questo, iterata tre volte quella tenera inchiesta: « Se egli lo amava », anche tre volte quasi a premio della sua sincera risposta dissegli, che pascesse il suo gregge: le due prime colle parole: « Pasci i miei agnelli », e la terza (imperciocchè Pietro la terza volta gli si dimostrò ancora più caldo amatore) con quelle: « Pasci le mie pecore »; indicando con ciò che non solo pascer dovea gli agnelli figli alle pecore, cioè la plebe fedele, ma gli altri pastori altresì, che rispetto a Cristo e qui a Pietro ben s' appellano pecore. Dalle quali cose tutte s' intende come Cristo desse agli Apostoli del Nuovo Testamento la maggiore dignità possibile e senza limiti: imperciocchè Cristo non ne pose alcuno, e come nel ministerio così nella gloria simiglianti li descrisse a se medesimo (7). Bensì gli Apostoli stessi, i quali aveano da Cristo la facoltà di mandare, come Cristo l' aveva dal padre suo, perchè spediti al modo di Cristo, posero limiti a' loro successori. I successori degli Apostoli non furono già messi amministratori in tutta la casa di Dio quale fu Cristo come figliuolo, Mosè come servo nell' Antico Testamento, e gli Apostoli nel Nuovo come amici, anzi tenenti le veci e rappresentanti la persona del Figliuolo. Ebbero i successori degli Apostoli una limitazione, avendo essi il solo carico di reggere e ampliare la Chiesa sull' apostolico fondamento, non quello di fondarla, che Cristo avea dato agli Apostoli (1). Or quegli, a cui è commessa totalmente la fabbrica d' una casa, ne forma il disegno come a lui ne sembra, ed è posta nell' arbitrio suo tutta la disposizione dell' edifizio; all' incontro gli altri cooperatori debbono lavorare sul disegno fatto a principio dall' architetto, e debbono accomodarsi tutti alle incombenze particolari loro imposte. Agli Apostoli commesso era di fabbricare tutta la casa della Chiesa novella, avute a ciò le istruzioni da Cristo: in loro perciò era piena l' autorità, e secondo la sapienza che li reggeva disposero fino a principio tutto il disegno; a' successori all' incontro convenne di lavorare in sulle traccie lasciate dagli Apostoli, ed esercitare ciascuno quel peculiare incarico a loro sortito, a cui di muratori, a cui di manovali, a cui d' altro. Vero è che l' unico sapiente architetto fu Cristo (2). Ma come Mosè fece ogni cosa secondo l' esemplare veduto sul monte (3), così gli Apostoli, come dicevamo, facevano tutto secondo quello che avevano veduto in Cristo, e che lo spirito di lui veniva loro suggerendo; nè operavano a capriccio, ma seguendo Cristo fino a morte, come a Pietro era stato prenunziato (4). Gli Apostoli adunque erano limitati, se così dir si potesse, da sola quella sapienza, che in essi albergava. Ma non è questo accurato parlare. Poichè la sapienza che non ha limiti non limita, là dove l' ignoranza che per sè è nulla, ristringe e impicciolisce l' umana volontà. Somma è dunque l' apostolica dignità. L' Apostolo per eccellenza è Cristo, e i dodici per la partecipazione dell' apostolato di Cristo; Mosè e gli altri messi dell' Antico Testamento più tosto rappresentavano questo apostolato, che non sia ne partecipassero, come l' esterna Chiesa loro affidata era, più che la Chiesa stessa, figura della gran Chiesa, benchè lo spirito interno e l' essenza fosse una medesima. Quanto alla dignità di Profeta dicemmo già secondo la greca origine significare predicitore , là dove Evangelista annunziatore di buona novella. Apparisce in ciò, che come quell' uffizio conveniva all' Antico Testamento, quando ancora il mondo non avea la salute, così questo al Nuovo si avviene, in cui è predicato il sanatore dell' umana infermezza, e l' inventore della perduta felicità. E quando nell' Antico Testamento d' un Profeta si legge che evangelizza, si scorga la similitudine cogli Evangelisti del Nuovo. Prima della venuta di Cristo era diviso il mondo fra i Gentili e gli Ebrei. Nelle tenebre, in cui giacevano le genti inquiete, angosciose, infelici, senza Dio in questo mondo , andavano esse in cerca nell' avvenire di un qualche conforto: chè alcuno nel presente non ne vedevano. Così l' uomo, che non può co' beni presenti appagarsi, è sospinto dal desiderio alla speranza e alla espettazion del futuro. Qual maraviglia, considerando questo fatto, se si veggono i gentili così proclivi a dare orecchio agl' indovini di mille maniere, agli oracoli, e a tutta la loro superstizione, che chi ben a dentro la mira, su questa speranza in gran parte si erigeva? Era per tal modo il Messia l' espettazione non solo di que' Santi, che sparsi per le nazioni e istruiti da Dio con peculiar cura sapevano di lui; non solo di quei sapienti, che meditando sopra se stessi ritraevano per ultimo frutto di loro speculazioni la ignoranza umana, e la miseria, e la necessità palmare d' un inviato dal cielo; ma ben anco l' espettazione era delle nazioni in generale, che sordamente angosciate dall' infinito bisogno che l' umana natura v“ta di beni sentiva, senza conoscerlo il desideravano, l' aspettavano. Questa io credo principale origine de' falsi profeti presso agli uomini fuori d' Israello, i quali prima di Cristo sempre avidissimi e frenetici di scoprire il futuro si dimostrarono. Ma presso gli Ebrei la profezía non fu finzione, ma verità, e d' origine divina. Colla segregazione di questo popolo dall' altre nazioni idolatre Iddio radunò la sua Chiesa in un corpo visibile, mentre avanti ell' era dispersa e disgregata pel mondo, e forma non aveva ad occhi umani di peculiar società. Dalla chiamata di questo popolo doppio vantaggio ne scaturì. Si provvide alla dignità del Messia, e alle prove della sua verità, col sequestrare dall' altre quella generazione di cui voleva discendere. Appresso si provvide alla salute del mondo, stabilendo e apparecchiando con divina sapienza un popolo, che dovesse ricevere questo Messia, e con tutto rigore e scrupolo conservar le prove della verità sua, e mostrarle al mondo tutto. In qual maniera adunque preparossi Iddio questo popolo? « Tutte queste cose », dice Paolo, « avvenivano a lui in figura » (1). Aveva anche questo popolo, perchè porzione egli pure di massa corrotta, e quindi del presente scontentissimo, quella curiosità somma delle future cose, per cui alle pagane superstizioni ognora inchinava. Era tale propensione e amor del futuro d' una parte a lui nocevole, perchè facile il rendeva a venire ingannato. Per l' altra gli fu vantaggiosa: poichè vegliando Iddio alla sua custodia, sempre lo sceverò da' Gentili; e quantunque volte peccasse, con acri gastighi ammonendolo, il facea risentire dell' inganno in cui si trovava. La divina sapienza oltre ciò gli mandò dei veri profeti; e così a bene rivolse quella inclinazione medesima, che da lei era non senza sì grande fine predisposta. Oltre di ciò salvandosi ogni uomo per Cristo, il solo nome in terra, sotto cui si fosse posta una speranza di salvamento; qualunque cosa Iddio facesse manifestare a vantaggio dell' uomo, dovea riguardare il Cristo, dovea essere Profezìa. Per questo Paolo: « Tutte le cose a questo popolo accadevano in figura ». E qualunque uomo ottenesse grazia di qualche divina illustrazione ad insegnamento del popolo fu chiamato presso gli Ebrei ora veggente, ed ora profeta (2). Ma fra gli uomini inspirati dell' Antico Testamento, o vero fra i profeti, si possono discernere quelli che danno una dottrina, e quelli che fanno profezie, o spiegano la dottrina, ma non la danno. La dottrina, o sia la Legge nell' antico patto fu data dal solo Mosè come profeta e bocca del Verbo. Nel nuovo, dal Verbo stesso incarnato come Profeta e Sapienza d' Iddio. Mosè avea comandato di non aggiungere nè torre nulla alla legge sua (3). Il perchè nel « Deuteronomio » dà agli Ebrei per indizio di riconoscere il falso profeta del secondo genere: se egli detrarrà alla legge, e così li rimoverà dal loro Iddio (1). Ma quando nel capo XVIII di questo libro stesso prenunzia il grande Profeta simile a lui, e dice espresso: « Lui ascolterai »; allora non dà più agli Ebrei per indizio di riconoscere l' ingannatore il rimuoverli dalle cerimonie legali, l' aggiungere o il detrarre dalla sua legge, il torgli da Dio; ma solo la verificazione delle profezie, di cui egli stesso è autore (2). Cristo era adunque il gran Profeta e Legislatore simile a Mosè, ma da Mosè tanto distinto quanto Dio è dall' uomo. In questo Profeta riposavano e terminavano tutti i doni del Santo Spirito, al dire d' Isaia (3), come i fiumi s' allettano e riposano nel mare onde escono. Cristo dunque sommo de' profeti, Profeta per eccellenza, quegli da cui gli altri profeti furono ispirati; scopo e termine fisso alle loro predizioni; Cristo solo forma la prova della loro verità, perchè in Cristo si videro verificate. Per opposito essi formano la prova della verità di Cristo, non solo perchè ciò che è detto da profeta, cui l' avvenimento confermi le sue profezie, vuole esser vero; ma ancora perchè avendo Cristo profetato pel loro ministerio, la verificazione delle loro profezie prova lucidamente la dote di vero e sommo Profeta in Cristo. Che poi Cristo abbia per mezzo de' profeti parlato, da tutto ciò si argomenta, da cui si fa chiara la sua divinità. Ma veggiamo qual differenza v' abbia tra le dignità di Profeta e di Apostolo. Se Mosè si può dire, secondo il concetto di S. Paolo, l' Apostolo dell' antico patto, ecco come Dio lo distingueva dagli altri profeti (4): « Se saravvi tra voi un profeta del Signore » (sono parole rivolte ad Aronne e Maria, che si ergevano per invidia contro a Mosè), « io gli apparirò in visione, o gli apparirò in sogno. Ma non così al mio servo Mosè, il quale in tutta la mia casa è fedelissimo. Perciocchè io a lui parlo bocca a bocca ». Questa espressione, che sembra significare: con tutta chiarezza, mostra assai acconciamente la viva somiglianza resa da Mosè cogli Apostoli del Testamento nuovo, che dalla propria bocca di Gesù udirono le dottrine. « Ed egli chiaramente e non sotto enimmi o figure vede il Signore ». E nel « Deuteronomio » (5) si rende a Mosè simile encomio. Sembra dunque che l' Apostolato di cui parliamo in questo consista, nell' avere dalla stessa bocca di Dio l' istruzione e l' inviamento. Consonano a ciò le parole, che Cristo ai dodici rivolgeva: « A voi è dato d' intendere il mistero del regno d' Iddio: ma per quelli che sono fuori, tutto si fa per via di parabole » (1). Paolo nella « Epistola a' Galati » volendo dimostrar se stesso Apostolo egualmente ai dodici (2), comincia dicendo, non essere egli « stato eletto » a tal dignità « dagli uomini nè per mezzo d' uomo, ma da Gesù Cristo e da Dio Padre, che risuscitò Gesù Cristo da morte ». E appresso segue: « Or vi fo sapere, o fratelli, come il Vangelo che è stato evangelizzato da me non è cosa umana. Perciocchè non hollo io ricevuto, nè l' ho imparato da uomo, ma per rivelazione di Gesù Cristo »: e ancora conferma il medesimo mostrando, che appena chiamato quale Apostolo delle genti non andossi già egli in Gerusalemme dagli Apostoli a impararlo; ma tostamente in Arabia, indi si tornò a Damasco, e solo trascorsi tre anni fu a Gerusalemme dagli Apostoli a visitar Pietro, col quale rimase quindici giorni, e, fuori di Giacomo, nessuno altro degli Apostoli avea veduto, oltre a Pietro. Di poi si condusse ne' paesi della Siria e della Cilicia, e, quattordici anni passati, fu di nuovo a Gerusalemme per rivelazione a confrontare col collegio apostolico il Vangelo fra le nazioni predicato, non già al fine di verificarlo, ma di autorizzarlo presso gli uditori suoi pel mirabile consenso con quello degli altri (3). Or poi sebbene la profezia, come è detto, propria cosa fosse dell' Antico Testamento; non di meno tal dono apparve anche nel Nuovo. Ciò avviene a edificazione; e non è più però alla Chiesa così sustanziale come era prima di Cristo. Il perchè appresso S. Matteo si legge: « Tutti i profeti e la legge profetarono sino a Giovanni » (4). Onde quando Cristo disse: « Ecco, che io mando a voi profeti e sapienti e scribi » (5), s' intende esser detto alla maniera degli Ebrei, i quali per profeti toglievano qualunque veggente, e per la natura dell' antico patto aveano ragione. Ora Cristo mandò loro gli Apostoli, che erano profeti per eminenza, come Mosè tra' profeti del Testamento Antico; ed occupavano però il posto degli antichi profeti con assai vantaggio. Il perchè Cristo mandò loro non solo profeti, ma più che profeti. Questi ancora della futura gloria e dell' avvenire della Chiesa profetavano, come avevano udito da Cristo, e come lo spirito loro suggeriva. Venne ancora nel Nuovo Testamento un nuovo genere di profezie, cioè lo spirito d' interpretare i profeti antichi. [...OMISSIS...] Quello Spirito Santo adunque che nel patto antico facea predire le cose del Messia, nel nuovo le fa interpretare; e tanto quegli uomini antichi, del cui mezzo si servì, come questi, di cui si serve, non malamente mi pajono chiamati profeti, perchè sì gli uni sì gli altri colle profezie confermano Cristo; i primi proferendole, e dilucidandole i secondi. Ma l' incarico maggiore di questi profeti mandati da Cristo è d' annunziare al mondo quella buona novella, che una volta solo si profetava. Come adunque gli Apostoli occupano, ma con dignità maggiore, il luogo di Mosè; così gli Evangelisti tengono il luogo de' profeti, e profeti si possono chiamare, non differendo nell' oggetto di cui favellano, ma solo nel tempo: mentre annunziano questi venuto colui, che quelli futuro prenunziavano. Sostanzialmente sono persone dallo stesso spirito inviate a ben degli uomini. Che poi non sia delle predizioni sustanzial bisogno nella Chiesa, da questo s' intende, che essendo Cristo il fonte della verità, e la pietra di paragone, a cui di ogni vero si fa il saggio; già non dobbiamo, a provare gl' insegnamenti che dati ci vengono, al futuro ricorrere, ma solo all' esemplare passato appareggiarli. [...OMISSIS...] E per la ragione medesima noi veggiamo in Isaia (3) Iddio argomentare co' Gentili, mostrando loro, come gli Dei non sanno rispondere a loro inchieste, non possono coi predicimenti aprire le grandi mire della provvidenza ne' successi delle nazioni, e profetando un Cristo, a cui que' successi si riferiscono, giustificarla; nè avendo essi Gentili nè i loro Dei cosa alcuna ad opporre con verità in questa disputa, così soggiunge: [...OMISSIS...] . Dice adunque, senza profeti esser le genti, e però vivere tristi senza speranza del futuro, senza Dio in questo mondo. Alla fine promette, che non da' loro Iddii avranno questi profeti sì bisognevoli all' uomo nella condizione di quel tempo, ma che egli sarà il primo , il quale colla possanza sua faralle partecipi di Sionne. Pur non dice loro di dare oggimai un Profeta , bensì un Evangelista: che veniva a dire non dovere esser le genti chiamate a lui nel tempo del predicimento, ma dell' annunzio della buona novella. Dice bensì che tale Evangelista darallo a Gerusalemme; ma prima dice che a Gerusalemme si rivolteranno le genti, anzi si ridurranno intorno tutte a Sionne, monte sopra il quale è « costituito Re Gesù Cristo », come è scritto ne' Salmi, « a predicare il precetto di Dio » (1). Tengono adunque nel nuovo patto gli Evangelisti quel luogo, che i Profeti nell' antico; ma hanno uffizio e più lieto e più splendido. Quest' Evangelista poi, di cui per eccellenza Isaia parla, egli è il Cristo, che insieme è buona novella, e apportatore di lei. Egli è quegli, in bocca di cui disse appresso lo stesso Profeta: « Il Signore mi ha mandato ad evangelizzare a' poveri » (2), passo, cui leggendo Cristo nella Sinagoga di Nazarette, adattò a se medesimo (3). Egli è quegli, di cui in un capitolo antecedente avea detto lo stesso Profeta: [...OMISSIS...] . Dall' altezza dunque di Sion Cristo evangelizza Sionne e Gerusalemme, e mostrando se stesso alle città di Giuda, dice altamente: « Ecco il Dio vostro », nel che la grande e fortunata novella consiste. E l' annunzia con alta e sonante voce, acciocchè possa essere anco lontano inteso, cioè da' Gentili, detti « lontani » da Paolo (5), che nelle città di Giuda sembrano raffigurati, le quali, benchè fuori della città santa, pur l' adito hanno e la vicinanza ad essa per l' unità dello stipite suo che le rende tutte una tribù. Non solo poi fa bisogno che forte e sonante tragga la voce, ma la tragga « nella sua fortezza », cioè da grazia accompagnata; fortezza a' profeti non data mai, perchè non avevano essi schiava condotta la schiavitù degli uomini, e ricevuti dei doni da compartire; ma propria di Cristo, e da lui mandata dietro alla voce di quelli, a cui partecipò l' incarico di evangelizzare. Questa voce simigliante alle trombe che annunziano dopo di sè il venir d' un esercito numeroso, si dice in un Salmo sublime: « Il Signore darà la parola e il comando: evangelizzeranno un esercito numeroso » (1). Evangelisti ancora si chiamano in senso più stretto quei quattro santi uomini destinati a scrivere l' Evangelo, e alcuni altri che in sul principio della Chiesa avevano grande spirito e dono di miracoli, ed erano dagli Apostoli eletti ad evangelizzare con ampia podestà secondo che lo spirito suggeriva; a ragion d' esempio il diacono Filippo, che negli « Atti apostolici » è pure chiamato col nome di Evangelista (2). La ragione, per cui S. Paolo a' Corinti (3) mette gli Apostoli ed i Profeti, e lascia d' annoverare gli Evangelisti, può essere perchè, come dicemmo, gli Evangelisti non erano altro che un supplemento agli Apostoli, che non poteano esser per tutto; a cui provvedere furono eletti anche i diaconi, e però dicendo Apostoli hassi a intendere, co' loro compagni , come sarebbero stati Silla e Barnaba compagni a Paolo. Di fatti proprio era de' Profeti, come spiega Paolo, edificare la Chiesa già credente; là dove era proprio degli Apostoli ed Evangelisti chiamare alla fede, e fondare così la Chiesa (4). Quando Cristo adunque dice agli Ebrei che loro manderà dei Profeti, invece di dire che manderà degli Evangelisti, a loro parla assai dolcemente sì come a suo popolo, e mostra che egli non vuole fondare fra essi Chiesa nuova, nè introdurre nuova religione; ma solo compiere e perfezionare l' antica. Spiegati questi ampi e generali uffizi della Chiesa nascente; ora è a dire di quelli, che essendo istituiti a conservarla e fregiarla vie più di pio decoro, permangono sino alla fine. Questi non sono da Paolo specificati, ma solo tocchi colle parole di pastori e dottori , che esprimono in genere tutto l' ecclesiastico durevole ministero. Per dirne alcun poco è a sapere, come anco l' antico Israele ebbe due tempi o quasi epoche come ebbe il nuovo. Conciossiachè lasciando età più rimota e cominciando da Mosè, d' onde il popolo ebraico ritrae forma di regolata e compiuta società; troviamo, che da quel legislatore e profeta principale fino ad Esdra, cioè pel corso d' anni mille, mandò Iddio i profeti suoi, i quali con istraordinaria missione, colle profezie, e coll' inculcamento della legge reggessero l' Ebraica Chiesa; trapassato il qual tempo, furono solo reggitori ordinari e permanenti. Così nella Chiesa a principio v' ebbero gli Apostoli , i Profeti , e gli Evangelisti; e appresso, cessate queste dignità, rimasero i pastori e dottori . La ragione perchè nell' antica Chiesa fu sì lungo il tempo della missione straordinaria, e sì breve nella nuova, è molteplice. Primieramente essendo oggetto unico dell' istruzione del mondo in tutti i tempi Cristo, questo oggetto allora era futuro, come ora è passato. Non poteva essere dunque senza straordinario dono, che nell' antico tempo di questo oggetto si favellasse, fino che da straordinari mandati non fosse stato predetto tutto ciò, che esser predetto dovea. Ma queste cose a predirsi del Messia ed erano molte, e voleva la dignità di lui che da lunga serie di uomini ispirati fosse descritto; come anche ciò richiedeva la necessità che Cristo avesse prove di molte guise, replicate, evidenti; ciò che dimandava anche il bisogno dell' umana imbecillità, essendo a questa acconcia l' istruzione gradata, e lenta, e quasi a sorsi, sì come di oggetto arduo e spirituale. All' incontro nel Nuovo Testamento Cristo non più si profetizza, ma si narra: e se v' ebbe bisogno a principio di straordinari commissari per fondare la Chiesa tutta spirituale, com' ella è, di GESU` fra uomini che avevano lo spirito affisso alla carne, e quasi da essa assorbito, di straordinario potere appresso non fu bisogno per reggerla. L' essere stata poi fondata con sì rapido e maraviglioso eseguimento, sì come piacque alla virtù divina, per una parte domandò uomini fuori dell' usato sì per autorità e potere, che per doni di spirito, dall' altra abbreviò il tempo di sì fatto bisogno. Ed a quel modo che la lunga missione de' Profeti confirmava meglio la religione, così la religione e la potenza del capo suo meglio appariva quant' era più breve la mission degli Apostoli. Ma aggiugnete ragione di maggior peso. Nell' antico Israello si può dire messo straordinario qualunque uomo, a cui avesse Iddio data podestà soprannaturale; non così nel nuovo. Poichè nel nuovo anche l' ordinaria dignità di soprannatural potere è fornita. Sono ordinari ministri quelli che o con ordine stabilito e continuo si succedono e permangono sinchè dura la Chiesa, o sieno questi messi da Dio, o dalla Chiesa stessa istituiti. De' primi nell' antico Israello erano i Sacerdoti, de' secondi i sapienti e gli scribi che da Esdra cominciarono. Ma nè i sapienti, nè gli scribi faceano nulla sopra natura, nè i Sacerdoti atto facevano, a cui effetto soprannaturale conseguitasse: il perchè i Sacerdoti nostri sopra quelli sommamente s' innalzano per la consecrazione del pane e del vino, e per gli effetti di questo divino sacrifizio, che vengono disponendo a' fedeli con divino potere. Questione è degli eruditi diffinire il tempo a cui si debbano richiamare i Sapienti e gli Scribi . Quanto agli Scribi (non de' profani , ma di quelli che sacri o ecclesiastici si nomano), forse derivano da Mosè stesso nella prima loro origine, come vogliono alcuni (1), e da Esdra furono solo ristorati: e forse diffinirne il tempo dipende dall' idea più o meno larga, che di essi altri si forma. Noi di quelli parliamo, che nella sacra Storia dopo Esdra compariscono. Certo questo uomo illustre dagli Ebrei è detto « Principe dei Dottori della legge », e affermano i Rabbini ch' egli stabilisse in Gerusalemme scuola d' interpreti, acciocchè la legge giammai non dovesse per falsa intelligenza essere contraffatta. Tornano tali Scribi a un medesimo coi Legisperiti, e forse un po' differiscono non nella qualità dell' uffizio, ma nel grado di dignità. I Sapienti riuscivano una cosa medesima co' Farisei ambiziosi di tali titoli, che loro dava il vulgo, benchè appresso vollero piuttosto essere chiamati con più coperto titolo « discepoli de' Sapienti ». Questi molto insistevano sulle tradizioni loro, che premettevano di pregio alla Legge; là dove gli Scribi più tosto attendevano all' interpretazione di essa legge. A questo proposito veggiamo nel capo XI di S. Matteo, che i Farisei apponevano a Cristo il mangiare e 'l conversare co' pubblicani e co' peccatori: cosa disdicevole alle loro consuetudini; là dove gli Scribi gl' imputavano la bestemmia, peccato contro la legge. Erano bensì nel tempo di Cristo e gli uni e gli altri della stessa pece macchiati; rigidi con altrui, larghi con se medesimi; imponitori di importevoli pesi, mentre, come dice il Vangelo, non sollevavano essi di terra una paglia (2). L' uffizio però d' ambidue era buono. Tanto le legittime tradizioni e costumanze, come la scritta dottrina si doveano curare; dicendo Cristo, che questa conveniva serbare, e quelle non trasandare. Paolo poi nella prima a' Corinti (1) nomina una terza maniera di dottori, che sottili indagatori erano dagli Ebrei appellati, e interpretavano la Scrittura con istudiate allegorie, e sottigliezze fredde: e questo modo d' esporla è dannato da Paolo in quella a Timoteo (2) come generatore di quistioni e altercazioni infinite. Per questo Cristo non fe' parola di costoro quando disse: « Ecco io mando a voi profeti e sapienti e scribi » (3). Ma a chi poi Cristo dicea così? Appunto a' Farisei e a' Legisperiti, a que' sapienti e scribi. Ben da ciò si vede quanto questi Savi di Cristo avanzino quelli. Poichè come quegli erano mandati al popolo, e in risguardo ad esso popolo sapienti e scribi s' appellavano; così que' di Cristo fur mandati anche a' sapienti e scribi, e a rispetto di loro altresì si voleano appellare in tal modo. Il vocabolo di dottori poi fu anche appresso gli Ebrei di significato generale; con cui si nomavano tanto i sapienti, che i legisperiti o gli scribi. Quindi Paolo nella prima a' Corinti (4) accenna col solo nome di dottori l' uffizio, che nel luogo che abbiam fra mano dell' « Epistola agli Efesini » indica con due, di pastori e dottori . Con queste due parole adunque esprime ogni governamento della Chiesa: e di più ce ne mostra la natura. Poichè il reggimento ecclesiastico istituito da GESU` è così dolce, come di pastore che corregge il gregge. E` di nulla ha più cura se non ch' ei cresca e prosperi: mai non l' offende, nol castiga mai troppo aspramente: e se travia qualche pecora, e' va con gran destrezza a raggiungerla, pigliarla senza nuocerle, se la reca in ispalla, e torna così al branco. Tutt' altro è questo reggimento che quel de' re della terra, che dominano su' soggetti (5), e che governando civilmente e non spiritualmente, usano ancora la forza meccanica, non quella solo di persuasione e di amore. All' incontro l' unica arma in mano al pastore evangelico, l' unica verga è la voce: con questa apre la verità, con questa svela il falso, con questa lega e condanna. In somma i reggitori ecclesiastici non sono monarchi; sono pastori; non sono re , ma sono maestri degli uomini . Cristo poi, dice il Dottor nostro, li ha spediti « per lo perfezionamento de' Santi ». Ecco il fine di tutte le cose, la santificazion degli uomini. Qual bontà non è ella questa di Dio di avere il tutto fatto pe' suoi eletti? [...OMISSIS...] Ma se tutto ha fatto perchè gli eletti fossero santificati, a qual fine poi quest' opera stessa? Ogni santità degli eletti è di Cristo; da esso la ricevono si può dire a prestito, non a proprio. Tutto adunque tornar debbe a Cristo stesso, perchè tutto è di Cristo: e quando Paolo dice, che avemmo in dono tutte le cose, aggiunge però in Cristo; perchè nessuna cosa può darla così a noi che la tolga a sè, ma se stesso dà a noi, e così ci dà tutto, perchè tutto in sè possede. Cristo veramente è lo stesso « splendore della gloria e la figura della divina sostanza (2): è la virtù e la magnificenza di Dio » (3). Dio adunque è l' ultimo fine di tutte le cose, e tutte cose ha fatto per sè (4). [...OMISSIS...] Cristo adunque è quegli, nel quale Dio vuole essere per noi glorificato. La santità nostra dee fruttare gloria a Cristo qual capo dei fedeli, e la gloria di questo capo gloria a Dio. A Cristo poi si riferiscono quaggiù tutte le cose in due modi, come in due modi è con noi: nel suo corpo reale, cioè nella Eucarestia, e nel suo corpo mistico, cioè ne' fedeli che fanno la Chiesa. Quindi è rivolta tutta la Chiesa col reggimento suo a questi due scopi: a Cristo nel pane e nel vino, e a Cristo in se stessa. Ell' ha perciò due potestà, l' una deputata al primo di questi corpi, l' altra al secondo, la prima costituisce l' Ordine sacro , l' altra la ecclesiastica Giurisdizione . Quanto alla prima dice Paolo: « in opus ministerii », per « l' opera del mistero »; quanto al secondo, « in aedificationem corporis Christi », per « l' edificazione del corpo di Cristo ». L' una di queste potestà Cristo la conferì alla Chiesa quando pochi momenti innanzi la passione sua consecrò, e distribuì il pane, e appresso fatto il simigliante del calice aggiunse: « Fate questo in mia commemorazione » (1). L' altra podestà da Cristo fu promessa prima di sua morte (2), ma conferita agli Apostoli poscia che fu risorto, [...OMISSIS...] . E con grande ragione disse queste parole solo dopo risorto. Poichè a Cristo si debbe conformare in tutto la Chiesa. Cristo ha le primizie in tutto, in tutto la precede; il primo egli de' risorgenti: nella sua risurrezione soltanto risurse la Chiesa a eterna vita. Ei la trasse con sè del sepolcro, risurgendo, e perciò con quest' atto acquistò sopra lei ogni potere. Quindi allora solo convenìa che partecipasse agli Apostoli tal podestà sopra il suo mistico corpo, là dove la podestà sul suo corpo reale andava bene che gliela conferisse quando non era ancor morto, ma morire poteva: non essendo altra cosa la sacra cena che una immolazione del divino agnello. E poichè alla podestà del governar la Chiesa è necessario che sia congiunto divino lume, nell' atto di darla agli Apostoli soggiunse ancora: « Ricevete lo Spirito Santo » (4), e: « Io sono con voi sino alla consumazione del mondo », non muojo più, non m' è tolta più mai quella podestà, che come uomo mi ho guadagnata morendo, perciò nè pure mancherammi giammai la sposa mia, la mia Chiesa, voi miei ministri non avrete a temere nulla in governarla, perchè io v' ho dato questo potere mio indeficiente, questa mia divina autorità e virtù. Per tanto la prima di queste due podestà, che ha l' incarico del ministero , costituisce la natura del Sacerdozio. Sacerdote è quegli, « che offerisce a Dio doni e ostie » (5), e chi avesse la sola facoltà di consecrare sarebbe sacerdote perfetto. Essendo poi l' unico dono, e l' unica ostia accettevole GESU` Cristo, l' unico sacerdozio vero è il suo, tutti gli altri sacerdoti non possono essere mezzani fra Dio e gli uomini. L' altra podestà dell' edificazione del corpo mistico di Cristo è quella, che forma propriamente i Vescovi, questi fur posti « a reggere la Chiesa di Dio » (1), questi sono i pastori e i dottori , questi gli sposi della Chiesa, i compiuti esemplari di GESU` Cristo. Per questo non si può dare Vescovo senza Chiesa, come non si dà sposo senza sposa; poichè Vescovo vuol dire appunto quegli che ha Chiesa, come sposo vuol dire quegli che ha sposa. Ma se il Vescovo presiede al mistico corpo di Cristo, se il capo di questo corpo non è altri che Cristo stesso, se perciò Cristo come uomo è anch' egli membro di questo corpo, quel membro nobilissimo, che agli altri membri dà l' unione in un corpo e la vita: chiaramente apparisce come la Podestà vescovile suppone la sacerdotale, la podestà sul corpo suppone quella sul capo: poichè senza il capo più corpo non vi ha: non si comanda al corpo altro che pel suo capo: a quello solo ubbidisce: non si santifica il corpo altro che col sacrifizio del capo: quello solo è la nobil vittima di salute: non discende nè podestà alcuna nè grazia alle membra se non per la via del capo: da lui hanno tutto, in guisa che in lui spirano, in lui vivono per mirabile modo e nascosto. Onde conviene che solamente il Sacerdote, che ha podestà di sacrificare Cristo, e placare in tal modo Iddio, e che può così agli uomini dar salute, e quasi guadagnarli a somiglianza di Cristo col gran sacrifizio; possa sopra di loro esercitare autorità. Per questo i pastori hanno sempre obbligo di pregare e sacrificare per le pecore. Or questa podestà sopra il corpo reale di Gesù, fonte e radice della episcopale, contiene tutti gli uffizi necessari per sì fatto sacramento. [...OMISSIS...] Tutti questi uffizi sono bisognevoli al sacramento eucaristico, e tutti uniti negli Apostoli gl' istituì Cristo, quando loro diede podestà sopra il suo corpo reale. Perchè poi i fedeli formano il compimento e la pienezza del corpo di Cristo, come le membra quella del capo, o come il vestimento quella del corpo (2): per questo il Vescovo è denominato compimento del Sacerdozio . Ben è vero, che Gesù Cristo è così perfetto in se stesso, che dalle membra nessuna perfezione ritrae, ma loro solo comunica: a differenza della testa nel corpo umano, che senza l' altre membra non vive. Tuttavia avendo voluto congiungere a sè degli altri uomini, in questi estende e dilata la propria santità, loro comunicandola: è sempre quella santità stessa, ma in molti trasfusa in molti risplende. Dai Santi adunque riceve Cristo il compimento da lui voluto e preordinato, non perchè egli perfettissimo non sia, ma per l' opera della sua bontà, per la quale volle patire a redenzione di molti. E come i fedeli da Cristo ogni perfezione ricevano, nulla Cristo dai fedeli, mostrasi nel Vangelo stesso: là dove la Chiesa viene rappresentata, secondo i Padri, nella veste di Cristo, che ricevette in sul Taborre dal corpo, cui vestiva, candidezza di neve (1). Per questa parte adunque Cristo è veramente un corpo in tutte sue parti perfetto, nè la veste aggiunge al corpo veruna cosa, se non un certo fornimento esteriore, che parte alcuna non forma della sustanza del corpo stesso. Ma per tornare alla similitudine delle membra e del capo, in che dunque consiste questa pienezza di podestà vescovile? a che è rivolta questa autorità in sulle membra di Gesù Cristo? Coll' autorità in sul capo, cioè col sacrifizio, unisce e riconcilia l' umanità alla divinità: o almeno pone il fonte e la possibilità di questa riconciliazione. Del resto prosegue Paolo spiegando quel vescovile potere così: [...OMISSIS...] . Adunque lo scopo di quella podestà, che il corpo mistico risguarda di Gesù, si è quello, di fare che le membra non pure sieno unite al capo, ma sieno della proporzione stessa del capo. Molte parti ha un corpo (2). Queste diverse parti sono nella Chiesa di Dio i diversi doni e' diversi ministeri (3): ognuna necessaria, ognuna vantaggiosa all' altre, ognuna nobile perchè cooperante a formare l' armonia del tutto (4). Ma nel corpo non solo ci vogliono membra che lo compongano, ma è conveniente che tengano proporzione al capo: sicchè essendo il capo da adulto, non sieno le gambe o le braccia da fanciullo. Il corpo della Chiesa è perfetto: il suo capo è Cristo compito in tutte le cose. Egli giunse anche coll' età sua al mondo alla compita misura di uomo, perchè nel suo corpo reale avesse esempio il mistico. Poichè adunque questo nostro capo è della grandezza perfetta, così debbono ancor le membra venir crescendo sino che membra si formino di uomo adulto e compito. Questo avviene colla carità, cioè col perfetto eseguimento dei precetti divini, come insegna Paolo nella prima a' Corinti. Poichè nel capo XII descrive le membra di questo corpo, i doni, e i ministeri; e nel seguente parlando delle operazioni, o sia « de' doni spirituali (1), della via più eccellente », della carità, mostra, che doni e ministeri nulla sono senza questa che gli avviva: essi soli formano i membri morti. Ma chi al mondo arriverà a crescere colla carità sino a perfezione? Quella perfezione che fa le membra proporzionate al capo consiste nella mancanza di ogni colpa, quantunque diversi sieno i gradi del merito come diversa è la qualità ed il vigor delle membra. Chi però morisse imperfetto (ma senza colpa grave), chi morisse cioè bensì membro vivo, ma non cresciuto ancor pienamente, non reso pura carità di Dio: e' si purgherebbe nel fuoco fino a che cresciuto al giusto segno cogli altri Santi si unisse alla gloria. Pur troppo solo in cielo il corpo di Cristo è adulto! quaggiù siamo sempre attorniati d' alcuna imperfezione, che sembra quasi necessaria alla fragile umana natura: quaggiù ancora siamo come in quel tempo della gioventù destinato al crescimento di nostra statura. Questo tempo cessa, uscendo noi della Chiesa militante colla morte: que' mancamenti e difetti non gravi in quell' altra vita si purgano col fuoco. [...OMISSIS...] Quando adunque sarà da noi lavata ogni colpa ed imperfezione, e quando cesserà il nostro tempo di crescimento, allora saremo quei membri di giusta misura, quali Iddio ci aveva destinati ab eterno, che bene s' avvengono al capo, non più fanciulli ma interamente formati. Acciocchè ci rendiamo tali, Cristo pose i governatori della Chiesa. Ecco il fine della podestà di giurisdizione: essere fatti membri acconci pel Cielo. Per lo che a quella foggia che il corpo reale di Cristo in questa vita (1) venne crescendo, cresce in questa terra il suo mistico corpo. Qui si rende adulto, quanto può essere uomo perfetto, per la fermezza della medesima fede: in Cielo poi per la cognizione del Verbo , non più per ispecchio o enimma, ma faccia a faccia. Questa fede è quella che ne giova acciocchè « « non più siamo fanciulli vacillanti, e portati qua e là da ogni vento di dottrina pei raggiri degli uomini, per le astuzie onde seduce l' errore; ma seguendo la verità nella carità, andiamo crescendo per ogni parte in lui, che è il capo, cioè Cristo » ». Ecco adunque come crescono le membra: crescono per la fedel carità che ci incorpora in Cristo, e ci fa partecipe del suo già compito accrescimento. Quanto non è a dire di questa carità fondata nella fede, che schermisce il credente dall' errore, il rende adulto, e dopo morte gli mostra svelato lo stesso Dio? « Dal quale capo , prosegue Paolo, tutto il corpo compaginato e commesso per via di tutte le giunture di comunicazione, in virtù della proporzionata operazione sopra di ciascun membro prende l' aumento proprio del corpo per sua perfezione mediante la carità ». Nel che nuovamente si mostra come ogni ingrandimento e nutrimento di questo corpo viene dal capo, cioè Cristo. Le giunture poi, per cui è somministrato quel nutrimento, sono i Sacramenti della Chiesa, veicoli di grazia, li quali mediante la carità comunicano proporzionatamente l' aumento loro alle membra. Dice mediante la carità , perchè senza questa nulla valgono i Sacramenti. Questo è il sommo precetto, il germe degli altri. Chi non ama Gesù è anatema (2): non v' ha per lui giuntura che l' attenga al corpo, dacchè essere non può. Dice proporzionata , non meno cioè alla quantità dell' amore, che alla qualità del membro, poichè ognuno ha d' uopo della grazia per lo stato suo, e questa tanto gli è donata, quanto egli ama. Non è questo il luogo ov' io mi trattenga di più sui Sacramenti: basta qui avere imparato da Paolo come essi sieno le giunture dei membri al capo, i canali di grazia, di vita, e di perfezione. Soggetta a' Vescovi è l' amministrazione de' Sacramenti, perchè ha per fine l' edificazione del corpo mistico di Gesù Cristo: per questo stesso il Vescovo deve necessariamente essere Sacerdote, conciossiachè fra questi Sacramenti v' è quello del corpo e del sangue di Gesù Cristo, opera sacerdotale. Rimane a dire in quest' ultima parte della pratica della virtù. Ella s' esercita verso Dio, verso se medesimi, e verso gli altri. Primamente parleremo de' due primi risguardi, e appresso del terzo. Ogni atto di virtù verso Dio si può agevolmente raccogliere sotto questo solo titolo di Divozione; giacchè tutto si contiene nella dedicazione che si fa di sè a Dio, la quale viene espressa nella origine della parola. Non deve essere parte nell' uomo, che a Dio non sia devota, o dedicata: non tempo, in cui dalla unione con Dio ci possiamo dividere. Questo è il precetto dell' amor divino, questo il fine ed il voto dell' umana natura, che anela alla felicità, all' unione con Dio. Ma questa unione non si può avere compiutamente altrove che in Cielo. Quaggiù l' infermità di nostra natura non ci permette di stare attuati mai sempre in pura contemplazione. La congiunzione dell' anima con questa mole crassa ed inferma di corpo rende quella incapace di perfettissimo contemplare: la carne ne patisce (1), e gli obbietti esterni e corporei la strappano d' ogni parte da tale raccoglimento e meditazione sublime. Gesù però recando la perfezione della Legge e della Vita insegnò, che noi dobbiamo, malgrado di questo, tenere il vivere de' celesti per imagine del viver nostro, se nol possiamo conseguire compiutamente, dobbiamo tuttavia affaticarci per conseguirlo nella parte maggiore che per noi è possibile. « Vegliate », dic' egli con grande animo, « in ogni tempo, orando » (1). « Vegliate ed orate » (2). « Senza intermissione pregate » (3); le quali cose, a dir vero, sono all' uso de' beati del Cielo. Questo precetto della vigilanza cristiana, della continua preghiera, con quello si aduna del camminare alla presenza divina, col quale insegnò Dio ad Abramo a conseguire la perfezione. [...OMISSIS...] In vero colui che riflette Iddio essere in ogni luogo, e astante ad ogni suo atto, questi consapevole ogn' ora di qual compagno egli s' abbia, e di che dignità sia fornito, di che autorità, di che giustizia, di che bontà; non saprebbe peccare giammai. Ed in questa innocenza alla fine ritorna ogni cosa; e in essa si raccoglie veramente la abituale divozione. « Mi basta », diceva il buon S. Filippo a' giovanetti, « che voi non facciate peccati »; avvegnachè chi ha la coscienza monda, tiene altresì un animo sereno, una mente tranquilla, la pace, e Dio con sè. Esigete dunque, e commendate sopra ogni particolare ancorachè virtuosissima pratica questa astinenza da' peccati. Con questa, avendo il cuore puro da strani affetti, e privo dell' inquietudine de' rimorsi, si può volgere anche attualmente con grande soavità sè stessi a Dio, esser frequenti nell' attuale preghiera e continui nell' abituale, cioè nello spirito di preghiera. Chi nello spirito di orazione rimane, rimane in Dio, “ra sempre. A conseguire poi l' abito d' avere sempre il Signore innanzi alla mente, molte meditazioni conducono, e qui ne toccherò alcune. Chi pensa, che tutte cose da lui dipendono, che egli empie il cielo e la terra (5), che si trova tanto dall' empio come dal giusto, così nei sommi come negli infimi luoghi (6), che in somma il tutto ha creato di nulla (7): questi colle cose esteriori avrà ancora presente l' onnipotenza: Dio primo essere, Dio verità e fortezza, umiliatore degli enti tutti, anguste creature sue di sotto alla sua grandezza. Chi medita la sua provvidenza, la quale leggiadramente « scherza nell' orbe dell' universo (.), la quale tocca da una estremità all' altra, e soavemente tutte le cose dispone », sebbene con disegni rimoti dall' umano vedere (1); questi avrà ognor in sugli occhi la sapienza infinita e la bontà: Dio conservatore, e consolatore de' buoni. Chi ravvisa sparsi nelle creature de' pregi, ma imperfetti o limitati, e unisce questi e li perfeziona colla sua mente fino a illimitabile perfezione: costui in tutte le cose visibili trova una scala, che lo solleva al perfettissimo esemplare di tutto, a cui la ragionevol natura aspira e tende (2). Chi non conversa con persona al mondo senza contemplare in essa la divinità, che in quella o colla giustizia o colla misericordia sarà un giorno glorificata: senza compatir per conseguenza i suoi difetti, che Dio permette, senza congratulare a' suoi pregi, che Dio colla sua grazia produce: questi non sarà dalle persone distratto dal suo Signore, ma tratto anzi a star sempre con lui. In tutte le cose dell' universo si può sentire la voce del nostro maestro Gesù. [...OMISSIS...] Quando nella primavera si abbellisce la natura pomposamente, la terra si ricopre di erbe, gli alberi di foglie, scorrono limpide le acque, cantano canori gli uccelli: noi di ragione forniti intendiamo, che anche l' uomo viene invitato dal suo Signore a rinnovellarsi, e unire la più bella sua voce di lode nel concento che fanno al Creatore le inanimate e irragionevoli cose. Quando la state fa biancheggiar le sue messi, e il sole colla nuova sua forza va conducendo tutti i frutti alla loro maturità, e a' corpi stessi degli animali dà uno sviluppo maggiore; pensiamo di maturarci ancor noi per quel tempo in cui l' agricoltore celeste ci spiccherà per riporci nella sua dispensa. E allorchè già viene l' autunno, il tempo delle frutta e della ricolta; veniamo in noi eccitando i santi desiderŒ del nostro fine, e i sospiri verso quel celeste ripostiglio, dove saremo serbati eternamente senza ritrarre giammai macula o corruzione. Finalmente nell' invernale stagione qual meditazione più ovvia che quella della caducità di tutte le cose umane, della instabilità di tutte le umane apparenze, del fine di coloro, i quali a queste s' affidano, e del proporre ed effettuare l' intero distaccamento da tutti i beni momentanei e ingannevoli? Così da per tutto ci parla la sapienza nel succedere delle stesse visibili cose ed esteriori, quando noi l' ascoltiamo, e sappiamo intendere le sue gravi parole. E quanto poi non c' istruisce coll' aspetto del mondo morale, delle passioni, e de' traviamenti degli uomini, colle avventure e cogli accidenti della vita, co' beni, co' mali, cogli avvenimenti a seconda ed a ritroso del cieco nostro ed avventato volere! Quest' è un campo, ove fare voi stessa, e far fare altrui innumerevoli considerazioni, che tutte come tante strade mettono in Dio. Camminerà parimente presente al Signore, chi forma sì fatta consuetudine, per cui ad ogni suo atto consulti ed interroghi l' eterna Verità, e ami di fare il meglio in tutte le cose; non però perdendo il tempo a questionar con se stesso sopra minuzie, quale sia migliore; perchè tal modo molti avviluppa, facendo il peggio, mentre ne indugiano a trovar che cosa sia il meglio. A chi non fa cosa, che prima colla divina legge non l' abbia affrontata , sta Dio presente; e ciò è dovere, non v' ha dubbio, dell' uomo cristiano: costume però tanto difficile da formare quanto è bello e perfetto. Ancora se noi fisseremo il pensiero in quello che dice Giovanni, che tutto nel mondo « è concupiscenza degli occhi, concupiscenza della carne, e superbia della vita » (1); e se persuasi saremo della guerra perpetua che fa il mondo a Cristo, e come queste due parti giammai non si fanno fra sè, nè s' intendono in modo alcuno: terremo allora continuamente vita e contegno di soldati viventi in campo e in guardia dell' inimico. [...OMISSIS...] Gl' inimici nostri sono da fuori, e da dentro. Quelli consistono nella lusinga delle cose fuori di noi, questi siamo noi stessi: quelli si vincono colla mortificazione esteriore, questi colla interiore. Non è forse tanto faticoso vincer quelli; ma superar sè medesimo è la cosa più ardua di tutte: in questa è la sequela di Cristo: « Chi vuol venire dopo di me anneghi sè medesimo, tolga la sua croce e mi segua » (3). Questo annegamento di sè stessi, questa mortificazione interiore, che ne riduce alla bella perfetta conformità del nostro volere col divino senza mai prevenirlo, ma susseguendolo quasi come ombra segue il suo corpo, e come raggio il suo astro: quest' arte sincera della cristiana vita è ciò, in cui si vuole con tutte forze occuparsi. La mortificazione esterna è sola una sussidiaria, una serva di questa. In ciò avete a scorta il gran santo Francesco Salesio. Con ciò conseguite, che se sempre avrete nemici, abbiate altresì sempre vittorie; e se c' insegue dovunque con mille artifizj l' avversario, dovunque ci stia sempre presente con mille ajuti il comune difensore GESU`. Aveano i Cristiani de' primi secoli le recenti imagini di Gesù Cristo ancora vive in sugli occhi. La misteriosa sua vita, il suo divino conversare, la dolorosa morte, la gloriosa risurrezione, le istruzioni de' quaranta giorni erano rimaste vivamente segnate ne' loro animi, e rendevano loro Gesù ognor presente, ognor sui labbri: faceano ch' ei fosse l' oggetto di loro intrattenimenti, la consolazione di loro angustie, il caro argomento de' lor canti, e di tutti i loro trastulli lo scopo ed il condimento. Lo stato miserabile del mondo a que' tempi ingolfato in cieche sozzure di paganesimo faceva risplendere più la bellezza, la luce, la perfezione del nuovo istruttore celeste: le persecuzioni rendeano necessaria una unione più continua e più stretta con quel primo martire compagno ed esempio a' loro dolori, e fonte di loro robustezza: gli Apostoli vicini, che predicavano quel Gesù che veduto avevano e toccato colle loro mani, da cui tanti atti d' amore, tanti saggi della più dolce amicizia aveano divinamente ricevuto, imprimevano altamente in que' bei tempi la presenza del loro Signore in tutte le cose. Erano di Cristo piene le loro prediche, di Cristo piene le loro lettere, di Cristo piene le loro vite. « Innanzi a' cui occhi », scrivea Paolo ai Galati, « fu dipinto Gesù Cristo tra voi crocifisso (1), dipinto » colla mia predicazione, « tra voi crocifisso » nella persecuzione che sofferiste, anzi egli con voi. Oh famigliarità che aveano col nostro Signore! Oh santissima dimestichezza, vera fratellanza con questo amabile Dio, in cui il maestro, il padre, l' amico, tutto trovavano; e fuori di cui cosa alcuna non volevano ritrovare! Adesso Gesù Cristo al più de' Cristiani è lontano: e anche a molti de' buoni si rappresenta più come Dio che come uomo: e sembra che si tema, per dire così, di accostarsegli. Non si discorre di lui con quella frequenza, non con quell' ardore nelle unioni nostre: si ha quasi ribrezzo ad aprirci con ingenuità vicendevolmente, e dire i sensi amorosi, che pur da molti si nutrono di dentro per lui: l' unirsi a caso fuori della chiesa o delle ore stabilite, proporre d' intuonare qualche cantico al nostro Signore, proporre di fare a lui orazioni, e così occupare quel tempo del conversare; parrebbe cosa fuori del costume, e se ne avrebbe ripugnanza, o anche superata e proposta la cosa, verrebbe accettata con freddezza e con titubanza; se pure taluno non si trovasse che ne ridesse. Comunemente i Cristiani nostri hanno, è vero, divozioni particolari, pratiche a' Santi, formole in onore di qualche particolare oggetto religioso. Commendabili sono queste, se dalla Chiesa approvate; ma chi può negare che non per difetto di esse, ma talvolta per imperfezione di chi le usa, molti non sieno trattenuti in queste pie usanze, e quasi tenuti indietro e indugiati dall' adito alla fonte della divozione, alla cognizione e al vagheggiamento immediato di Gesù, al cui onore quelle pratiche pure si riferiscono? Quanto è bello, quant' è utile pensare sempre a Gesù! e sulle vestigie apostoliche lui fissare in tutte le cose! e non solo rammentar che è Dio, il che più tosto ci sbalordisce e ci perde; ma averlo presente qual uomo, qual uno di noi, uno vestito dello stesso corpo: uomo suggetto veramente alle umane infermità, fuor del peccato, che con noi gusta e patisce, ci compassiona, ci conforta, ci allegra, c' incoraggia, ci ajuta, ci riprende, ci minaccia; e in tutto fedele, in tutto amico, presente in tutto, compagno, partecipe. Ah sì! illanguidita è presso a molti la divozione di Gesù! Io vorrei che ogni cosa si facesse per ristorarla e raccenderla dai Cristiani. Alle vostre ragazzine parlate spesso di questo dolce maestro, abbiano nell' orecchio il nome di Gesù, l' abbiano nelle loro occupazioni presente, intervenga egli a tutti i loro divertimenti. Se voi potete far loro prendere quest' abito d' imaginarsi Gesù a loro compagno indivisibile in tutti i luoghi, i momenti, le opere della vita; elle hanno già conseguito egregiamente l' uso della presenza divina, della cristiana vigilanza, della incessante preghiera, del dolce e abituale raccoglimento: questo è il più bel modo di tutti. Giova ancora per rimanere in ispirito d' orazione, come ci è comandato, l' uso ben disposto d' ogni parte di tempo, e la frequenza di brevi orazioni, e di tratti momentanei d' affetto a Dio. Se qualche ritagliuzzo di tempo avanza fra l' una e l' altra delle opere esteriori; non l' ozio, ma la preghiera lo occupi. Le brevi preci, di cui ho toccato anche sopra, tanto usate dagli antichi solitari d' Egitto, come santo Agostino riferisce, sono anche da questo santo Dottore commendate, perchè eccitano viva e spessa attenzione, e non lasciano raffreddare l' affetto, come avviene frequente in orazioni prolungate. Per le quali cose, questa innocenza della vita, questo vegliare sopra se stessi, e camminare in presenza di Dio con annegamento del proprio volere, e conformità al divino; è, non v' ha dubbio, l' apparecchio più eccellente e più bello all' attuale adorazione. Quel Cristiano, che in ispirito d' adorazione si tiene, apre sempre la bocca sua in modo gradito al Signore. Questo insegnava Gesù alla Samaritana quando diceva: « I veri adoratori adoreranno il Padre in ispirito e verità » (1). Sono qui delineate le proprietà tutte del vero adoratore: lo spirito riguarda l' interno affetto, la verità l' esterior forma della preghiera. Se nel discorso, che in suo cuore tiene, l' adoratore di Dio pone cosa, che o disconvenga alla maestà sua, o proporzione non serbi coll' umana bassezza, che non si faccia bene all' infinita misericordia, e alla viva nostra confidenza, ovvero che offenda la giustizia e la fede, o che supponga una credenza vana, e non degna di Dio, la verità vien meno, manca un principal distintivo di vera adorazione. Ma colui che prega Iddio in ispirito , cioè col cuore bene per ogni parte disposto, questi prega in Dio che è spirito, e però anche la forma di sua orazione ne uscirà acconcia e vera. Questo è quello spirito, di cui Cristo disse: « Lo spirito è ciò che vivifica, la carne non giova nulla » (2). Suppone tale spirito intera rinunzia a quello che spirito non è, a quello che non è Dio, perchè ciò nulla giova; ciò è carne, ciò è mondo, ciò è peccato. Di queste cose parlava Paolo a' Romani quando scrivea (3): « « Io vi scongiuro, o fratelli, per la misericordia di Dio, che presentiate i vostri corpi ostia viva, santa, a Dio gradevole » ». L' ostia ed il sacrifizio suppone cosa, che si strugga in onore della divinità. Avanti Cristo s' immolavano corpi di buoi, di pecore, e d' altre bestie. E or l' uomo che cosa sacrifica? Sè stesso. Dovrà dunque struggere quanto in sè v' ha di buono? No: ma quanto v' ha di cattivo, quanto dalla carità viene escluso, il corporeo, il carnale. Le fiamme di questa carità incenerir debbono appunto tutte le altre cose, esse sole ardere. Così l' uomo si purifica, e si rende spirito, e in ispirito prega, e tanto meglio prega, quanto in tal modo è meglio purificato. Tale sacrifizio più vivamente splendeva ne' martiri, che, secondo il letterale incoraggiamento apostolico, offerivano i propri corpi, e con essi ogni mondano possesso. Ma la virtù, l' interiore mortificazione, con cui si rinunzia alle cose nostre, e a noi stessi; e finalmente quell' apparecchio alla morte, per cui in essa non altro veggiamo che lo scioglimento del nostro corpo quale vittima alla giustizia, e tale volonterosamente s' incontri: questo fa, che pur noi, sacrificate le vane cose che ci aderiscono, siamo resi puri, resi spirito, emulatori de' martiri. Non basta dunque il moto de' labbri nella preghiera, e 'l componimento del corpo; non la scelta del luogo, o l' esterno apparato: l' affetto dell' animo si richiede: affetto tanto più puro, quanto è la vita; se pur in sull' atto della preghiera la grazia divina non operi alcuno de' suoi mirabili effetti in chi prega. Iddio non ci ha lasciati però senza guida, anche rispetto alla forma della preghiera: acciocchè come lo spirito ottimo suol produrre ottime forme di preghiera, così da buone forme di preghiera sia eccitato ed aiutato lo spirito, s' egli al tutto non è perfetto. Guida a noi data è la Chiesa; ella c' insegna a pregare con ogni verità . Nella Chiesa ogni Cristiano ha pascolo sì abbondevole, che s' egli a quello si nutre, altro non brama. Perchè dunque o ricercare nuove pratiche divote, o anteporre le private alle pubbliche, se in quelle della Chiesa abbiamo qualunque cosa che a Dio convenga, qualunque che alla propria santificazione confaccia? Non niego libertà al vostro cuore di sfogarsi con quelle orazioni spontanee, che egli vi suggerisce; queste assai volte sono frutti dello spirito di Dio; e però allo spirito, e alla Verità conformi: ma parlo di molte pratiche esteriori particolari. Le quali, se anche rette fossero e vere; saranno sempre false, ove verranno anteposte alle pubbliche, o per quelle queste posposte; essendo sconvolto l' ordine che d' anteporre comanda ciò che ha più pregio. Poichè, lasciate le altre cose, tanto queste più giovano quanto più giova la preghiera di molti sopra quella d' un solo (1). Santa poi oltracciò essendo la Chiesa, chi a questa si unisce nell' orare, santifica la propria orazione: e a' difetti propri riparando colla comune virtù, e col fervore de' molti, fortifica fuormisura l' efficacia della preghiera. Parliamo adunque al Signore colla bocca della Chiesa, e pregheremo secondo la VERITA` . Ma è però vero, che nulla varrebbe usare a pubbliche funzioni, e recitare preci ecclesiastiche, quando la favella del cuore non s' aggiungesse. Poichè si direbbero cose vere e giuste, ma non in modo al tutto giovevole. Si adorerebbe Iddio in verità, ma non in ispirito; si peccherebbe come coloro, a cui fu detto: Questo popolo mi onora colle labbra; ma il loro cuore è lontano da me (1). Riprova molte invenzioni di pietà lo stesso Agostino, [...OMISSIS...] . E chi non sa quanto il moltiplicare fra noi di certe pratiche religiose porse occasione alla malizia o alla grossezza degli eretici di enfiare le gote sclamando, accusando, e calunniando la Chiesa? Per serrare la bocca a' quali, quanto è possibile, comandava Paolo, che « non solo dal male s' astenessero » i fedeli, « ma anche dall' apparenza del male » (3). Nè da ciò s' inferisca, che meriti alcuna disapprovazione la Chiesa o il Sommo Pontefice, il quale, secondo il precetto dell' Apostolo: « Provate tutte le cose, tenete quello che è buono » (4), non rigetta veruna di quelle pratiche inventate dalla cristiana pietà, che dopo esame maturo buone rinvenga, anzi coll' autorità apostolica le commenda quali aiuti ed amminicoli novelli, che il Santo Spirito aggiunge alla pietà illanguidita, e alla carità, pel succedere de' mali tempi infermata. Qui si ragiona soltanto de' trovati dello spirito particolare, e che la Chiesa o tollera se li conosce, o ancora li condannerebbe se li conoscesse; ma veruna approvazione non ebbero. Quelle prime sono venerabili, e se le calunnia l' eretico, è a suo gran danno: queste seconde, sebbene lo spirito spiri ove vuole (1), tuttavia restano incerte al comune de' fedeli, alle altre senza dubbio alcuno da posporsi; e se il buon cristiano le esamina avanti di praticarle, quest' è a sua lode, e a salute. Anzi anche quando la Sede Apostolica approva nuove forme di preghiere, lascia però sempre al retto spirito de' fedeli farne il discreto e ragionevole uso che si conviene, lascia loro di pregiar più quelle, che per antichità, solidità, dignità e istituzione hanno eccellenza maggiore: e tanto è saggia, che mentre ella ama ed impone ad ogni fedele che alle grandi sorgenti s' accosti, non chiude però a nessuno le picciole vene e gli spruzzi d' acque, quando sieno puri e salutari. Non però sono queste necessarie giammai, come il rigagno non è necessario a chi ha il fiume; e pur giovano principalmente a chi non sa, per propria imperfezione, all' abbondanza delle maggiori pienamente abbeverarsi. La Chiesa, come dice Agostino, non è aggravata da importevoli pesi servili, come la Sinagoga da sue cerimonie. Ella è libera: ella signora: pochissimi, manifestissimi sono i suoi sagramenti, cioè le sue funzioni essenziali. Ma che immenso frutto trae quel Cristiano, che pone lo studio suo nello intendere quelle semplici voci della Chiesa, gravi di sensi, e le cerimonie e gli emblemi e le espressioni che variamente li vestono! L' Orazione dominicale, l' angelica Salutazione, il Credo, la Salveregina: ecco pochissime , e manifestissime formole. Che semplicità, che facilità, e brevità! E pure, chi dentro vi penetra, oh in che ampiezza di cose interna la mente e il cuore! Il Sacrifizio della Messa, gli Uffizi pubblici, e i Sacramenti: ecco pochissime, manifestissime e uberrime istituzioni! In queste non che esser vi possa anima tanto arida, che satollar non si debba; ma non ve n' ha alcuna nè pure sì affettuosa e fervente, che sappia tutta abbracciare e pascere la pinguezza degli affetti divini in esse contenuti, e de' modi d' avvicinarsi ed intimarsi per Cristo con Dio. Ma sulle bellissime e semplicissime forme di preghiera, che mette in bocca la Chiesa a' Fedeli, non farò io discorso: solo un cenno farò della orazione del Signore, come eccellentissima di tutte. E questo picciolo cenno torrò da antica e pubblica spiegazione. Essa è conservata nel Sacramentario di Gelasio Papa, pubblicato dall' egregio uomo Cardinal Tommasi nel 16.0, e riprodotto dal Muratori nell' « Antica Liturgia Romana ». Si costumava di leggere tale spiegazione a' Catecumeni sotto la Messa qual Prefazione della dominicale preghiera. Raccomandata è dall' antichità sua, dal libro da cui è tratta, e da' bei sensi di cui è piena. [...OMISSIS...] Parleremo ora de' soli esercizŒ principali della cristiana pietà, cioè, come fu indicato innanzi, del Sacrosanto Sacrifizio; poi degli UffizŒ di Chiesa, e all' ultimo alcun poco de' Sacramenti. [...OMISSIS...] Se si riguarda però alla eccellenza e sublimità di questo divino Sacrifizio, ell' è tale, che nè pure in cielo non si dà alcuno atto di culto più augusto: gareggia per questo la terrestre Gerusalemme colla celeste, nè a' cori degli angeli può increscere di scendere dall' empireo, e assistere in terra al Sacerdote ne' divini misteri occupato, adorando intorno all' ara un' ostia, che l' uomo tratta colle mani sue, e colla sua bocca si mangia e si bee. Ecco fonte copiosa di vive acque! Qui ogni pietà si può dissetare. Ecco pane angelico! Di lui si può nutrire a piena abbondanza qualunque sopraumana divozione. Che manca qui di grande, che manca di santo, di dolce, di benefico, misericordioso, e commovente? che cosa fuori di questo si può cercare o trovare di religioso, di pio, ed utile, e buono, e bello, e ricco ed eccelso, che già in questo eminentemente non sia, dove la sorgente è di ogni santità, grazia, amore, bellezza ed altezza? [...OMISSIS...] Deh come potrà andare in cerca con molto studio e quasi lambiccandosi il cervello di nuove divozioni, di strane forme di culto, colui, il quale sappia d' averne già in questo solo atto, da Gesù instituito, sì abbondevole pascolo, che non solo pel suo povero e angusto cuore, ma per quello di tutti gli angeli del Cielo ne sia trabocchevolmente d' avanzo? Quale adunque sia l' ubertà e la ricchezza delle pochissime e manifestissime pratiche da Gesù Cristo instituite, e per mano de' santi Vescovi della Chiesa successivamente tramandateci, non punto s' intende: ovvero, per meglio dire, essendo queste purissime, divotissime, celesti, in cui s' esercita la Fede, la Speranza si pruova, e lo spirituale Amore, l' amor sceverato da strani affetti, si fa necessario: non vengono penetrate dagli uomini grossi e imperfetti, ed eglino non trovano in esse, come dice il Gersen, o da appagare la curiosità, o da pascere la leggerezza, o da satollare i sensi crassi ed oscuri, che solo cose visibili e corporee appetiscono, e oltre queste niente trovano, niente veggono. Per sì grande infermità, postergate o poco curate o non istimate almeno a giustizia le sante istituzioni di Cristo, si studiò spesso di comporre più materiali invenzioni, in cui essendo alcuna cosa o un nome di santità, credesi d' esercitare il culto divino, e si nutrica invece sua la propria carnalità. Vorrei per tanto richiamare lo spirito di costoro alla santissima e sapientissima intenzione della madre comune, della cattolica Chiesa. La quale sebben condiscenda di richiamare gl' imperfetti cristiani cogli esteriori aiuti alla spiritual divozione: tuttavia e ripruova le divozioni false o indegne della divina Maestà; e regola quelle, le quali, non essendo principali e tali che contengano il fine della divozione, a quelle precipue, che il fine racchiudono di ogni culto, si ordinano e riferiscono. Onde ne' Santi adora essa l' autore della santità; e nelle imagini venera il santo oggetto, che per esse è figurato o dipinto; e nelle reliquie onora quella spoglia, che, sebben di carne, fu già il tempio di Dio, e un giorno, ricomposta a vita, verrà riedificata novellamente in una casa, ove la divina gloria abiterà eterna; ed in tutte le sante cose e le pie memorie esalta e glorifica il Signor de' Signori, il Dominatore de' Dominanti: al quale è dovuto l' onore e la gloria, e da cui non è lecito nè rimuovere una scintilla di amore, nè qualunque particella di culto senza ingiustizia e senza punizione. Chi ama dunque d' essere nella divozione perfetto pensi d' udire bene la Messa, e di gustare degnamente questo divin Sacrifizio. Ogni dì, s' egli se ne dia cura, parragli nuovo; perchè imparerà nuove cose, in frequentandolo, nuovi affetti sentirà; gli parrà ogni dì più dolce, ogni dì conoscerà qual v' abbia distanza fra questa e le altre divozioni serve di questa: compiangerà coloro, che assistono alla Messa indivoti, che l' hanno per cosa triviale; perchè resa frequente dalla profusa generosità del Signore: insomma ogni dì formerà bei desiderŒ di poter penetrar meglio in quest' atto di culto, meglio incorporarsi alla vittima che s' immola, meglio unirsi alla comunion de' Santi, che per mano del Sacerdote fa all' Infinito un dono, niente minore di quello, che a lui conviene: finalmente imparerà sempre più quella verità, che la divozion grata a Dio non è posta in moltitudine o varietà di pratiche, ma nella VERITA` e nello SPIRITO . Nè si deve credere, che colui, che assiste alla Messa non abbia parte nell' atto del Sacerdote. Poichè è così: che Cristo offerto nella Messa offerisce, e sacrificato sacrifica: in persona poi di Cristo il Sacerdote; ma unita in Cristo al Sacerdote la Chiesa tutta, ed ogni fedele, e segnatamente colui che è presente. Per la qual cosa chi ascolta la Messa deve pensare all' atto che fa egli stesso, e non credersi solo testimonio, ma ministro nell' offerire insieme col Sacerdote, e colla Chiesa, e con Cristo; e in questo pensiero udirà ottimamente la Messa: ottimamente, in questo spirito tenendosi, l' udirà anche colui, che non sa accompagnare il Sacerdote nelle diverse orazioni, e viene facendo altre sue preci: come fanno gl' idioti. Sono adunque due cose principali nella Messa, cioè l' Offerimento dell' ostia, che si fa a Dio qual supremo Signore di tutte cose; e la Consecrazione, ovvero immolazione della medesima ostia. Questa è proprio atto del Sacerdote in persona di Cristo; quella di ogni cristiano presente alla Messa. Il che si ricava dalle stesse parole del Sacerdote. Poichè proferendo le parole della consecrazione in singolare come se Cristo solo parlasse, all' incontro offerisce in plurale come si vede nel canone. [...OMISSIS...] Ricorda poi questa offerta fatta in numero plurale quel tempo, nel quale il Diacono distribuiva al popolo il sangue, dopo che il Sacerdote avea dato il corpo. E dicevano quelle parole il Sacerdote ed il diacono insieme (come ancora nella Messa cantata è in uso), affinchè quello che il Sacerdote avea ministro e compagno nella distribuzione, avesse compagno anche nell' offerta. Che se innanzi in offerendo il pane disse in numero singolare, fece egli solo per gli astanti, ed offerì veramente prima per li suoi peccati, e poi per quelli del popolo (1). Queste parole perciò, o questo sentimento almeno, dovrebbe essere proferito ed espresso dagli astanti insieme col Sacerdote. Plurali poi sono altresì le parole che succedono: « « In ispirito d' umiltà ed animo contrito veniamo da te accolti, o Signore, e il Sacrifizio oggi si faccia al cospetto tuo per modo che a te sia gradevole, Signore Iddio » ». Le quali non solo insieme col Diacono, ma con tutti i presenti certamente s' intendono dette. E queste significano, che dopo essere già offerto il pane ed il vino pel sacrifizio, si esibisce e presenta sè medesimi a Dio quai vittime insieme con Cristo. Poichè solo unito a Cristo l' uomo può fare di sè grato dono e grata ostia a Dio. E che ciò sia il senso dell' orazione si ricava dal libro di Daniello; donde sono tratte le parole e il concetto. In esso i tre forti giovani Ebrei salvati in Babilonia da ardente fornace, fra le fiamme, dove di sè facevano offerta, cantavano appunto così: [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] E per doppia ragione il Sacerdote chiama quel Sagrifizio suo, e dei presenti. Prima, perchè tutti l' offeriscono; dipoi, perchè si porge in Sagrifizio insieme con Cristo, e il Sacerdote, e gli astanti. L' una e l' altra di queste cose indicate nelle dette orazioni, sono più chiaramente espresse nel Canone, la parte più antica ed augusta della Messa, compilato da parole di Cristo, da tradizioni Apostoliche, e da pie istituzioni di santi Pontefici. Poichè in esso, tolta fuori la consecrazione, tutte le orazioni d' offerta sono plurali. [...OMISSIS...] Nella quale orazione tutti gli astanti offeriscono; e « SagrifizŒ illibati » si dicono non solo il pane e il vino, ma i cuori offerti al Signore. Si dicono illibati ed immacolati , spiega Innocenzio III, perchè ciascuno si deve offerire senza macchia nè di cuor nè di corpo: che il cuore abbisogna purgato da iniquità, ed il corpo da immondezza (1). Onde quest' aggiunto è principalmente posto pel sacrifizio interiore dell' animo. Appresso poi preghiamo il Signore perchè si rammenti dei circostanti tutti, pe' quali offeriamo il Sacrifizio di lode e propiziazione, e nuovamente di quelli, che lo offeriscono. E, fatto ricordo della comunione co' Santi del Cielo, uniti a' quali preghiamo e adoriamo Iddio, stende il Sacerdote le mani sue sopra il calice e sopra il pane, a quella guisa che nell' Antico Testamento esso Sacerdote ponea le mani sulla vittima: volendo con tale rito indicare, come egli stesso ad essa si congiungeva e con essa a Dio dedicavasi ed offerivasi (1). [...OMISSIS...] Ben è pertanto a meditare e pregiare per noi un sì bello offerimento della servitù nostra, e di tutta la cattolica famiglia: essendo questo il Sacrifizio che dà la salvezza: mentre niente ci varrebbe la stessa morte di Cristo, fuori che a condanna, se di quella non partecipassimo bevendo lo stesso calice, tenendo i suoi vestigi, e colla croce in ispalla porgendoci pronti e di dare il sangue per la legge sua e di sacrificare la concupiscenza nostra all' onore della sua legge. Ora anche dopo la consecrazione, favellando del pane e del vino sacrato, pregasi, che con propizio e sereno volto risguardi Iddio su quelle cose divine, e le riceva quasi doni d' Abele, sacrifizŒ d' Abramo, e di Melchisedecco; in quanto che nè pure il sacrifizio di Cristo, non che quegli antichi, ci potrebbe giovare cosa alcuna, se non unissimo il sacrifizio di noi stessi come que' Santi fecero, mercè un cuore spirituale, e conformato in ogni cosa a Cristo. Di questa grazia per la stessa ragione se ne prega già avanti Iddio, là dove dopo nominata l' offerta di nostra servitù, segue così: « La quale obblazione, o Dio, ti preghiamo, che tu ti degni di farla benedetta » (noi stessi così veniam benedetti in essa), « ascritta » (al numero delle cose aggradite: noi veniam con ciò ascritti in Cielo), « rata » (cioè valida ad ottenerci gloria: veniamo con ciò numerati tra i legittimi fratelli di Cristo, per cui patì, fra i molti per cui effuse il sangue), « ragionevole » (vengono in tal modo in noi ordinate le facoltà inferiori sotto all' imperio di ragione), e « accettevole » (per sì fatto modo che non solo qui su l' altare venga il corpo e il sangue di Cristo, ma venga questo) « a noi » (a vantaggio nostro, sicchè a noi incorporato, in noi più non vegga il Padre celeste quanto ha di spiacevole, e di schifoso, ma vegga Cristo, vegga gratissima cosa e accettevolissima) (2). Questi offerimenti di noi, e rinunzie alla vita, e a quanto è nella vita per Cristo, sono ciò che rendono verissimo Sacerdote qualunque cristiano cattolico; come dice Tertulliano (1) in consonanza cogli apostolici insegnamenti. Poichè sacerdote è chi sacrifica a Dio. E sebbene Cristo solo per sua eccellenza sia il Sacerdote eterno giusta l' ordine di Melchisedecco, e solamente immolando sè stesso abbia reso all' Altissimo gradevole Sacrifizio: tuttavia ed ogni Sacerdote, qual ministro di Cristo, in persona sua rinnovella detto sacrifizio della croce; e di più ogni Cristiano con Cristo incorporato pel battesimo, partecipa del sacerdozio suo, in quanto può offerire ed immolar sè stesso colla contrizione, col distaccamento di sè e coll' umiltà. Questa distanza però v' ha fra Cristo, il Sacerdote, e 'l Laico fedele, che Cristo è Sacerdote per sè in eterno; gli altri partecipano del Sacerdozio suo: che il Sacerdote poi ne partecipa sì altamente, che può offerire ed immolare, non che sè stesso, lo stesso Cristo; il Laico all' incontro solamente in tal modo, che non immolare, cioè consacrare, ma può offerire Gesù Cristo, e immolare o sacrificare sè medesimo, struggendo in sè quanto non sia puro amore di Gesù Cristo. Dalla quale unione, come dicea, di noi colla vittima sacrosanta, è il massimo frutto della Messa. [...OMISSIS...] Laonde offerisce il discepolo di Cristo sè stesso in tutto a lui conformato « osservando i precetti suoi, tenendosi nella sua carità » (1): e in questa unione di sacrifizio pregando il Padre, non può non ottenere quanto egli brami, nè altro e' brama se non le cose del suo Signore. Or poi cotesta unione nasce non solo per mezzo del Sacrifizio, con cui noi ci diamo a Dio; ma ben anco per mezzo del sacramento, con cui Dio e Cristo in sue carni ed in suo sangue si dà a noi da mangiare. [...OMISSIS...] E tale comunione di Cristo a noi forma la terza parte principale della Messa. Ell' è così quasi una vicenda di divino amore ineffabile, che dopo avere offerto noi a Dio in sacrifizio Cristo, e con Cristo noi stessi (cose per altro tutte sue), esso Iddio tutte ce le restituisce, e sè stesso a noi si dona in tutto nostro potere e in nostra natura: unendosi con noi sotto specie di cibo, e con noi immedesimandosi: per cui questo convito chiamossi con vera ragione: « Principio in noi della divina sostanza » (3). Oh amore immenso! Oh carità smisurata di Dio! Contraccambio, vicenda, gara di divina benevolenza! nella quale l' uomo, che niente ha, prima si fa comparire ricco d' altrui ricchezza a poter presentare Iddio di tesoro degno di Dio, e poi si ritorna questo tesoro: quasi non perchè Dio benefichi; ma giocando, come a dire, di liberalità, paia regalato e beneficato, e poi ridonando e ribeneficando vinca non per l' eccellenza del dono, ma per l' eccellenza del contraccambio! Il che dee mettere nell' uomo quella confusione, che s' esprime dal Sacerdote, quando, ricevuto il pane, e perduto, e smarrito nella grandezza del divin dono, dimanda al Signore: « « Che ti darò, Signore, per tutte cose che tu m' hai regalate? » » e non sapendo che, soggiunge: « « Riceverò il calice del salutare, e il nome invocherò del Signore » ». Cioè, non darò: che non ho cosa a dare; ma seguirò a ricevere i benefizŒ tuoi; ed essere, come da nuove onde di divina misericordia, nuovamente coperto ed inabissato. Ad un così benedetto convito pertanto, ad una sì divina mensa imbanditaci dal Signore colle sue carni « incontro a quei che ci tribolano », tutti ne invita e ne chiama l' amorosissimo convitatore. [...OMISSIS...] Gli ardentissimi desiderŒ poi di Gesù, che cioè si nudriscano a questa cena e si satollino seco i discepoli suoi, nella santa Chiesa passarono, la quale mai sempre di cotesto angelico cibo mostrossi, a così dire, famelica ed insaziabile. Nominollo spesso le delizie sue, la sua vita, la sua fortezza, il suo tesoro, il misterio della sua pace, il suo regale indumento, la porpora sua nel sangue tinta del suo Signore, il sommo suo bene, l' altissima sua bellezza, le care reliquie di Cristo, di Cristo l' ombra sotto a cui siedono i desiderosi di lui, il principio della sostanza divina nell' uomo, l' ostia della salute del mondo, le divine ricchezze, il singolar sollievo dell' amata nell' assenza dello sposo, il presagio carissimo della divina misericordia e dell' eterna rimunerazione. Basta accostarsi alle memorie de' Santi d' ogni tempo per ammirare e l' avidità incredibile che a questo pane celeste avevano, e le dolcezze che ne sentivano, e le grazie che ne cavavano. Basta ancora leggere le orazioni della Messa pertenenti al comunicare, perchè si comprenda, essere desiderio grandissimo della Chiesa, che gli uditori tutti, se potesse essere, della Messa ogni dì partecipassero col Sacerdote alla sacra mensa, sì come avveniva ne' tempi primitivi a ragione beatissimi: in cui tanto era il fervor de' Cristiani, che potean dire con verità, il corpo ed il sangue di Cristo essere loro cibo cotidiano: e tanta venerazione s' aveva all' ineffabile Sacrifizio, che non si teneva degno di starvi presente chi degno ancora non fosse di comunicare del divino nudrimento. Nel canone IX degli Apostolici si comanda, che tutti i fedeli, i quali, udite le Scritture, non persistono all' orazione, e alla comunione, vengano divisi: e lo stesso si trova in altri documenti dell' antica disciplina. Allo spirito della quale, poichè non possiamo alla lettera, noi ci dobbiamo conformare. Assistere cioè alla Messa così mondi, raccolti, ferventi, da essere degni di comunicare ogni dì; e tanto spesso comunicare, quanto spesso amiamo di ricevere cosa di tutte desiderabilissima, giovevolissima. Intorno alla quale frequenza di comunione cercando S. Bonaventura come ella giovi, assai acconciamente disse, [...OMISSIS...] . In somma tanto è giovevole comunicare, quanto bene noi siamo disposti: come cibo, il quale, ancorachè eccellentissimo, nulla giova; anzi può dar morte a chi ne sopracarichi uno stomaco indisposto e ammalato. E tanto è a dolere in questo fatto dei nostri dì, che manifestando il Concilio di Trento quel voto della Chiesa, che tutti comunicassero coloro che assistono al sacrificio, il santo Sinodo non dice desidera , ma desidererebbe , quasi non osando di formare in tai tempi tal desiderio, di cui pure una volta, vergogna nostra! non si formava nè un desiderio, nè una speranza; ma un precetto, o per lo meno un universale costume. Essendo adunque « le cose sante pe' santi, le cose monde pei mondi » (2); tremenda verità dice Paolo, allorchè risguardo agli indegni parla così: [...OMISSIS...] . Cioè a dire: Ricevendo il corpo santissimo si testifica il sacrifizio. Perchè sebbene sia Cristo intiero sotto ciascuna specie, non potendo oggimai esser diviso quegli che risorto da morte non muore più, ma regna eterno in Cielo a destra del Padre: tuttavia nel pane si considera il solo corpo, nel vino il solo sangue, acciocchè rappresentandosi corpo e sangue divisi, imitino la violenta morte del Signore. Dunque ogni volta che alcuno presume di ricevere il pane eucaristico, riceve Cristo sacrificato, e in suo aiuto invoca ed usa la morte di Cristo. Così la testimonia ed annunzia: ed esprime, che e' la vuole a quel modo, che la volle Cristo in salute propria e del mondo; poichè fa quell' atto che pose Cristo perchè l' uomo se n' applichi il merito. Chi adunque tiene in quest' atto un animo reo ed indegno, simile a Giuda tradisce il Maestro, e più neramente che d' un bacio: il vende agli appetiti suoi, e non per altra ragione il vuol morto: non vuole il sacrifizio che salva, ma il sangue del giusto, che al Cielo grida vendetta. E` reo dunque del corpo e del sangue del Salvatore, abusando di sua morte: e in questo sacrilegio si può dire del Salvatore come i figliuoli di Giacobbe dissero del fratello: « Una pessima fiera lo ha divorato ». Perciò un tal cristiano, non pensando quello che fa, e disconoscendo il cibo che prende, si beve e mangia la sua condanna (2). Non è questo partecipare alla cena divina: conciossiachè (come dicea Paolo di chi mangiava le cose immolate agli idoli) non si può partecipare in un tempo alla mensa del Signore e a quella dei demoni (3). Doppia maniera dunque è di mangiare il corpo di Cristo: altra colla bocca, e altra collo spirito. Può alcuno mangiare il divino corpo colla bocca senza che collo spirito se ne pasca. Non è proprio dire che questi si nutre di Cristo, bensì che trangugia la sua condanna. Non si dice propriamente che partecipa a mensa divina, ma ad una mensa umana, e, rispetto al frutto ch' egli ne porta, diabolica. Ecco l' orazione, con cui nella Messa il Sacerdote, e quelli che con esso comunicano, ringraziano il Signore: [...OMISSIS...] . Col corpo vedemmo e toccammo le specie di Cristo, che è dono temporale: Cristo stesso coll' animo si riceve, e colla mente pura e divota. [...OMISSIS...] Adunque chi crede in lui, e crede, che questo pane sia Cristo a salute nostra sagrificato, e non lo tiene quale altro cibo; chi ne mangia non col corpo ma collo spirito, questi ha vita eterna. Nudrire l' anima nostra di Cristo è essenziale a salute: con questo Cristo tutto promette, senza questo dichiara che non possiamo avere la vita in noi. E questo spiritual nudrimento è pur quello stesso, che nell' altra vita si gusterà; e di cui Cristo disse nell' ultima cena: [...OMISSIS...] Altrove ancora paragona la beatitudine del Cielo ad una cena e ad un convito nuziale (2). Nè il regno di Dio è egli cibo o bevanda corporea, ma spirituale, cioè giustizia e pace e gaudio nello Spirito Santo (3). E` adunque il cibo eucaristico rinovazione, figura e saggio: e segna passate cose, presenti e future. Rammenta e rinnova la passione di Gesù; figura la grazia, e l' autor suo a noi dato a pascere; e presagisce la rimunerazione futura, l' eterna vita. E` poi il cibo vero, e ne ha tutti gli effetti. Mantiene la vita in virtù del sangue di Cristo, accresce e rinforza in virtù della grazia, che in noi aumenta; e soavemente diletta sì per imagine de' celesti diletti come per una parte di quelli che in lui si pregustano. [...OMISSIS...] Al mangiare pertanto che il nostro corpo fa le specie sacramentate, l' anima bene disposta riceve dentro a sè Cristo, e a Cristo s' incorpora. Sebbene niente valga quella corporale nutrizione senza questa spirituale; tuttavia a quella questa è connessa: essendo stato conforme alla sapienza del divino inventore di questo banchetto, che come nell' uomo quanto v' è di essenziale e pregevole è la natura intelligente, ma questa però non è sfornita di veste corporea; così il cibo, che all' anima si presta, di corporea forma sia circondato. Allora però, che s' assiste alla Messa, e non si partecipa del Sacrifizio insieme col Sacerdote, si possono eccitare ciò nulla ostante in noi de' pii desiderŒ ed affetti a quel divino alimento, e alla comunione del Sacerdote unirsi col cuore: il che chiamasi comunicare spiritualmente . E sebbene questo non sia sacramento: può però dare abbondevol frutto di grazia, secondo il merito di quell' atto. Ma perchè impariamo come degnamente ci dobbiamo accostare alla divina mensa; dicendo Paolo, che « ogni uomo provi prima sè stesso » (1); dopo avere osservata quella fervorosa frequenza dell' antica Chiesa al santo Altare, è anche da vedere la riverenza sua, e la severa cura, affinchè nissuno indegno ad esso non si avvicinasse. E` certissimo, a chi ricerca l' antica disciplina, essere stato sempre fermo giudizio della Chiesa, che l' angelico pane non si debba ricevere da quelli, che o conservata non hanno la innocenza del battesimo, o avendola con mortale peccato perduta, non l' abbiano con virtù e col Sacramento di penitenza racquistata. E questo è detto ancora e dichiarato nel Concilio di Trento (2). Ma se osserviamo al modo della penitenza antica; di cui, se mutata è la lettera, non fu nè sarà mai abrogato lo spirito; noi possiamo in quell' augusta severità de' Canoni di penitenza ravvisare assai bene, quanto sia enorme fallo di chi mangia indegno il pane santo, e che mondezza e riverenza da noi esiga l' Altare. Poichè i peccati pubblici, e tal fiata ancora gli occulti, si vedeano espiati con pubblici atti di pentimento, prima che si ammettessero a comunione i peccanti: e molti anni, e talora l' intera vita si separavano dal consorzio de' divini misteri. La quale penitenza andava per certi gradi, secondochè proprio è dell' uomo, che tutto ad un tratto non si converta. Primo era il grado de' piangenti , i quali sulla porta della chiesa, non potendo entrarvi, si buttavano a' piedi del popolo fedele che entrava al Sacrifizio per dimandare co' pianti caritatevole aiuto di sue orazioni. Divenivano poscia ascoltanti: così detti perchè negli ultimi luoghi della chiesa stavano udendo la spiegazione delle sante dottrine. Elli poi se n' uscivano di conserva co' catecumeni. Così stimavasi che avessero poco compreso i doveri contratti nel battesimo quelli che gli aveano infranti, e perciò avessero bisogno di nuova istruzione intorno al vivere de' battezzati. Passavano dopo alcun tempo al grado dei prostrati , i quali entrando in chiesa quando li chiamava il Diacono, si prostravano innanzi al Vescovo, ed ei pregava su loro insieme con tutta l' adunanza fedele; ma prima che cominciassero le preci del Sacrifizio erano licenziati. In ultimo ascendevano al grado de' consistenti , chiamati così perchè a loro era conceduto finalmente assistere a' misteri, ma non ancora però parteciparne. Chi crederebbe oggidì, che a questa esteriore e pubblica penitenza, venuta di tradizione apostolica, si vedessero in quel felice tempo sommessi gli stessi personaggi più illustri, più ricchi e potenti? Fra gli altri ricordo il notissimo fatto dell' imperador Teodosio, non meno cristianissimo che potentissimo; a cui S. Ambrogio in Milano pubblicamente ricusò la comunione, solo pel castigo inconsiderato e troppo universale dato a Tessalonica città ingrata e colpevole di gravi insulti alla imperiale podestà. Il pio imperadore più grande nella umiliazione di sè stesso, che nelle vittorie con cui avea pur allora raffrenati i nemici dell' Impero, fu visto piangere fra i pubblici penitenti. [...OMISSIS...] Molti altri esempŒ simiglianti non mancano di personaggi chiarissimi. E` però a vedere, come questa disciplina nella Chiesa mutasse senza che sofferisse cangiamento il suo spirito. Quello spirito di penitenza è fondato nell' opera stessa di nostra redenzione: nè può mutare. Ei venne da Cristo, che S. Girolamo chiamò il « principe della penitenza, e 'l capo di coloro, che per la penitenza si salvano » (1). Laonde volle mai sempre la Chiesa penitenti, e sempre vi furono. Ma quanta sapienza non si vede nel modo, con cui il Signore provvide la Chiesa sua in ogni tempo di pubblici penitenti? Vi fece comparire ne' secoli primi la penitenza de' Martiri; cessati i Martiri, ecco la Penitenza de' SolitarŒ, i quali ne' deserti d' Asia e di Africa fecero, in mezzo alla pace della Chiesa, fiorire un novello modo di Martiri per austerità e mortificazioni incredibili. In quel tempo di pace ebbero luogo anche nella Chiesa tutti i Canoni di Penitenza, i quali non vennero meno, fino che i barbari, scompigliando ogni cosa, nuove e gravissime tribolazioni alla Chiesa apportarono, e di tribolazione ai Santi. Ma non furono dimenticati o dismessi i Canoni penitenziali senza che il Signore provvedesse a risarcirne la Giustizia sua. Che ne' secoli XII e XIII, cresciuta la durezza del cuor de' laici, e l' ignoranza de' cherici; suscitò degli uomini maravigliosi, un Francesco, un Domenico, un Brunone, un Bernardo, uno Stefano di Grammont, un Norberto, un Alberto, ed altri tai Santi; i quali apersero pubbliche case di penitenza, e trassero un numero grande di uomini a vita mortificata, e a pubblica professione di patimenti e di asprezze. Così in quel freddo tempo riparò la misericordia alla giustizia, facendo istituire innumerevoli monasteri, e fondare severissimi ordini religiosi. E ancora questi durano: e Dio li muta, li riforma, li accresce secondo i bisogni. Quanto alla disciplina poi della comune penitenza, se la Chiesa ne mitigò il rigore, fece con quel senno medesimo con cui un tempo il pose; nè cangiò lo spirito. E non raccomanda essa ancora a' suoi ministri lo studio degli antichi canoni per regolarsi nell' amministrazione della penitenza collo spirito stesso? E vorrebbe pure, che tutti i fedeli ne prendessero notizia, per conoscere l' enormità de' peccati, e la purezza desiderata in comunicando. Sicchè alli buoni nulla è tolto da quella mutazione di disciplina, perchè tengono lo stesso spirito; ma per li cattivi oggidì è rimosso uno scandalo, o pietra d' inciampo, perchè verrebbero da loro trasandate quelle severe ordinazioni per lo poco fervore, e produrrebbero nuove colpe. Perciò, dalla frequenza del comunicare in antico, nessuno pretenda di persuadere il comunicare frequente agli indisposti, e nessuno da quel rigore si creda di potere impaurire e rimovere i disposti. Ciascuno pensi, che non ci è comandata tale frequenza prima che la rettitudine della vita. Vivi in modo di potere comunicare ogni dì; ma in ragione sempre di tuo ben vivere comunica. Dottrina è di S. Francesco di Sales, che a comunicare ogni ottavo giorno convenga non cadere in peccati gravi, nè avere affetto a' leggeri, e sopra ciò grande desiderio del comunicare; ma per comunicare ogni dì bisogni di più avere superata la maggior parte delle cattive inclinazioni, e farlo a consiglio del direttore (1). [...OMISSIS...] Il desiderio poi e la fame di questo divino cibo è altresì requisito necessario di chi se ne pasce. Nulla più abborre che la sazietà. Con queste cose sentirete tutti i Santi a incoraggiarvi allo spesso comunicare. San Filippo col rinfiammare in Roma l' amore alla frequente comunione, e secondo l' esempio suo altri piissimi uomini migliorarono in molte parti i costumi; e per cooperare a detta frequenza, Buonsignore Cacciaguerra, compagno di S. Filippo, scrisse in quel tempo il suo divoto libro della Comunione. [...OMISSIS...] Mi sono allungato parlandovi del Sacramento della Comunione qui, dove il discorso fu della Messa, perchè elle sono cose congiunte. Il comunicare poi alla Messa si fa all' intenzione della Chiesa, che, come fu detto, ordina in plurale le orazioni del Sacerdote, supponendo, che con esso comunichi il popolo: si fa alla natura del Sacrifizio, che dal Sacerdote per sè e pel popolo s' offerisce; onde è ragione che egli e 'l popolo ne partecipino: si fa in fine al vantaggio di chi si comunica, poichè in comunicando alla Messa gode i frutti del Sacramento, e insieme del Sacrifizio, offerendo a Dio la gran vittima di espiazione e di lode, e da Dio avendo un cambio così ineffabile e prezioso. Cantare a Dio lodi, non solo singolarmente, ma in unione di molti, e con vicenda di cori; celebrare con più o meno solennità, ed ancora con musiche, ornamenti, cerimonie le divine perfezioni, e i divini benefizŒ: è cosa conforme non che al dovere, ma ben anco alla inclinazione, ed alla retta natura degli uomini. Per questo l' antichità tutta e tutto il mondo fu sempre pieno di religiosi costumi: sebbene solo nella famiglia de' giusti, special cura del Signore, si trovi il culto puro da superstizione ed empietà, e gradito all' Eterno. Negli uffizŒ della Chiesa alcune cose, come il canto degl' inni, i giorni festivi, le sacre pompe, le orazioni, i sacrifizŒ, non sono nuovi per intero: avvegnachè tutte le genti antiche usavano, sebbene impuramente, tai cose. Si conosce però di qui, come in sostanza queste pratiche si fondano nella ragione delle cose; mentre anche quelli, che abbandonarono il vero Dio e confusero le verità tutte di religione, ebbero però, chiariti da un po' di lume di natura e di ragione che loro rimase, riti somiglianti. Ma quantunque il culto esterno si fondi in natura ed in ragione; tuttavia la Rivelazione sola cel purga, cel nobilita e perfeziona, e cel dichiara rato ed accetto al Signore. Una somiglianza più vicina, nè solo nell' esterno ma nello spirito stesso, hanno i nostri uffizŒ con quei dell' Antico Testamento. Ivi la partizione del dì e della notte all' uso delle preghiere (1). Ivi il salmeggiare, che tutto avemmo da que' Santi antichi (2). Ivi i cantici, e gl' inni (3); ivi le lezioni delle Scritture; ivi le acque lustrali, il balsamo, l' olio, e gli stromenti di musica, e i lumi accesi, e gl' incensieri, e le are, e l' ordine de' Sacerdoti; e assaissime altre cerimonie conformi alle nostre. Le Mosaiche però erano molte pel numero, gravi per rigore, e mere figure di quell' esemplare veduto da Mosè in sul monte; e però, quanto alla lettera loro, convenivano solo a quella Gerusalemme, che è serva, e madre di servi; non alla celeste madre nostra, che è libera (4). E non di meno chi si fa dentro nel loro spirito, come hanno fatto i Santi in tutti i tempi, si udirà agevolmente in que' riti una voce sola, e un solo costume con noi. Perchè sempre uno fu lo spirito di quella adunanza di giusti, che cominciata in Adamo penitente, terminerà col mondo. Fu adunque quando Cristo fondò il nuovo Israello, che dall' antico scelse alcune cose convenienti, e ne fece passare l' uso agli Apostoli: sebbene anche queste le lasciò loro come cose sue, non come cose altrui. Del cantare inni e salmi, dice Agostino (1), abbiamo del Signore stesso o degli Apostoli i documenti, gli esempŒ, i precetti. Sentiamo in fatti, che dopo l' ultima cena, « detto l' Inno, uscirono sul monte Oliveto » (2). E Paolo esorta que' di Efeso ad essere nelle loro adunanze pieni di Spirito Santo. [...OMISSIS...] Questo ancora raccomanda a que' di Colosse (4), e vuole che escano sì fatte lodi del cuore, ed essi sieno portati a quelle da interiore esultanza di santo spirito, da pienezza di pace di Cristo, da abbondanza di sua parola, che schiumi per dire così, e travasi dal petto ricolmo. Ecco in poco quando l' orare e 'l salmeggiare è ben fatto. Scrive ancora a' Corinti (5): « « Qualunque volta vi adunate insieme, ciascuno di voi ha il salmo, la dottrina, la rivelazione, la lingua, l' interpretazione: tutto giovi ad edificare » ». L' egregio Baronio ravvisa in queste parole effigiata la forma dei nostri uffizŒ (6). Poichè ecco quanto abbiamo negli uffizŒ: i salmi; di poi le lezioni , che rispondono alla dottrina; i responsorŒ , che tengono luogo della rivelazione , perchè con questi ci desidera la Chiesa il possesso dei beni celesti, operando ciò, che udimmo prescritto nelle lezioni, od almeno questo è il loro uso solito (7). Invece poi della lingua abbiamo l' Evangelio, per la manifestazione del quale ne' tempi primi era dato il dono delle lingue; e per l' interpretazione del medesimo, che allora si facea da que' fratelli che più sentiano interiore illustrazione e fervore a parlare, or noi abbiamo le Omelie de' Padri, nelle quali l' Evangelio si dichiara. E poichè molti in que' primi tempi di amore infiammati ardevano di manifestare nell' adunanza quanti intorno all' Evangelio sentivano pii sentimenti: per questo Paolo tempera e regola quel fervore, insegnando che lo spirito de' profeti è soggetto a' profeti (1). Non si vede di questo traccia nel Mattutino, ove chi legge le Lezioni dimanda prima benedizione al Superiore, indicando con ciò, che ogni zelo, ed ogni esultanza di spirito se è da Dio, è pure tranquillo, ragionevole, mantenitore dell' ordine, sommesso a' maggiori? Tengono dunque ancora i nostri uffizŒ que' primi delineamenti messi dagli Apostoli; e sopra quelli di mano in mano furono regolate e compite le preci secondo i bisogni: e con leggi e rubriche fu reso costante e uniforme il numero, l' ordine, il modo di esse: e tutto recato a stabilità ed esattezza. Ogni Cristiano venuto nel Tempio alla pubblica orazione forma parte di quella adunanza di Sacerdoti e di popolo fedele che prega ivi raccolta. E` dunque necessario o conveniente, che tal Cristiano sappia che cosa e' preghi cogli altri, e che cosa dica quell' adunanza di cui è membro. La Chiesa oltre di questo è madre al Cristiano: e quante belle cose a lui non dice, quanti bei sensi a lui non esprime ne' sacri templi? Non sono segni di idee solamente le parole: anche gli atteggiamenti della persona indicano gl' interiori sensi. E ancora per mezzo delle cose esterne l' uomo rappresenta e parla: formando di quelle simboli ed imagini di quanto ha nell' animo. Non lascia pertanto la Chiesa di favellare in tutti tre questi modi: e non meno a Dio, supplicandolo, che a' suoi figliuoli insegnandoli e innamorandoli delle cristiane verità. Poichè in essa come in perfetta persona tutto è armonioso e decente, le parole, le cerimonie, gli adornamenti. Con tutto parla. Quanto dicono le parole sue agli orecchi, tanto pongono i suoi riti sotto gli occhi. E sì come grave matrona al decoroso discorso fa convenire decoroso atteggiamento, nè alle gravi parole, e a' nobili cenni discorda l' abito ricco e maestoso, sicchè da tutto quello che è in lei nasca il concetto medesimo di gran donna a chi la sente e vede, e dal parlare, e dall' accennare, e dal vestire: così parimenti è nella Chiesa del Signore, dove le orazioni, i riti, e l' esteriore apparato armoniosamente consuonano, e danno a divedere di che qualità donna ella sia o che risguardiamo il contegno suo in trattando con Dio, o in trattando con noi. Ignominioso è dunque al Cristiano non intendere, quanto può, il linguaggio della madre sua, sì piena di sapienza e di tenerezza: al quale linguaggio ella studia di avvezzare i balbettanti suoi figli, e cui eglino debbono apprendere se vogliono esser di sua famiglia. Impariamo adunque il linguaggio della madre, studiamo di ben penetrare i sensi della pubblica preghiera. Che questa è a Dio carissima: a questa ci giova conformare la privata, che allora è fatta rettamente quando somiglia a quella. Sugli esteriori oggetti adunque della Chiesa, sulle cerimonie, e sulle sue vocali preghiere alcuna cosa dirò: perchè qui non manchi qualche nozione sopra quella triplice lingua, nella quale la Chiesa esprime i suoi alti concetti. Al cominciamento della Cristiana Società ne' tempi Apostolici e' pare, che le chiese fossero le case de' fedeli. Così dalla lettera di Paolo a Filemone veggiamo, che la Chiesa avea luogo nella casa di questo fedele: ivi tenevansi le sacre adunanze. Surte poi le persecuzioni, spesso non poteano avere luoghi costanti, nè agiati. S' adunavano que' pii nelle arenarie, nelle caverne, usavano singolarmente raccogliersi a' sepolcri de' Martiri. Ivi facevano loro Stazioni, ivi ricevevano i Sacramenti. La perfezione poi di que' primi padri nostri li rendeva in vero meno bisognosi di chiese pel culto divino. Essi stessi erano i tempŒ di Dio. E il martire Giustino dimandato dal Prefetto di Roma in che luogo i Cristiani s' adunassero, rispondea: che dovunque pareva meglio erano soliti di congregarsi, perchè l' ineffabile Dio de' Cristiani non è circoscritto, nè ristretto da luogo, ma invisibile essendo riempie il Cielo e la Terra; e dappertutto è adorato dai fedeli (1). Tali congregazioni di tali adoratori formavano le chiese vere, costrutte di vive pietre, opere artifiziose del fabbro divino, e sacrate dall' eterno pontefice: delle quali chiese le materiali non danno che un emblema: ed è per questo, che il Vescovo consacra i templi murati con alcune bellissime e simboliche cerimonie, che alludono ai templi vivi. I luoghi però usati da que' Cristiani per le sacre unioni, o fossero nelle case private, o ne' sotterranei e nelle catacombe, o talora in luoghi spartati ed eretti appositamente; essi veniano disposti in forma di cappelle, o chiesuole semplicissime, di solito rozze, ma piene di decoro e santità. Ivi l' altare, ivi le reliquie de' martiri, ivi delineate e scolpite con rozza opera in sulle pareti e 'n sulle sepulture imagini di sacre verità, storie, simboli, ed iscrizioni, come più suntuosamente si fa nelle nostre. E fu allora quando a Dio piacque di convertire Costantino Imperadore, e dare così pace alla Chiesa per trecento e più anni vessata e sbattuta da' feroci Signori del mondo, che si videro alzarsi al vero Dio templi maestosi; ed i sacri vasi formati di legno divenire d' oro e d' argento: e d' oro risplendere il tetto, le muraglie, i sacri addobbi, le vesti de' Sacerdoti: e statue insigni, e pitture preziose ornar la casa del Signore. Del quale spettacolo niente si potea dare di più commovente e consolante pe' buoni. Poichè dopo tempi tristi e d' ingiustizia verso l' Eterno, apparivano giorni pii, ne' quali in onore al Signore dell' universo si dedicavano le cose da lui create e dagli uomini tenute in pregio, che prima s' usurpavano a fomentar o la umana superbia, o la diabolica superstizione. Di questo tempo per la Chiesa felice in tutto il mondo s' onorò Iddio con gran templi e ricchi; come veggiamo per grazia divina anche a' dì nostri. Osservarono alcuni, come nelle chiese semplicità a decente mondezza unita più eccita divozione sincera: mostrando essa al cuore come il nostro Dio non ama grandezze umane, nè fasto: ma ama interiore affetto, purezza e sincerità di tutto e non maschera; e fino povertà di mondane cose; come povera vita fu quella di Cristo. In questo avvi ad osservare, che l' ornamento della chiesa si considera, o rispetto a Dio, o rispetto all' uomo. Rispetto alla maestà divina nessuno onore è troppo, e sarebbe ragione che tutte le ricchezze del mondo giovassero ad onorarlo. La dignità del tempio viene sostenuta con ciò, che gli uomini reputano dignitoso: quelle ricchezze dunque si mettono in chiesa non già per dare a queste il prezzo che non hanno, ma anzi per farle a quello servire, che di ogni pregio è fornito: apparendo anche in ciò la bontà di quegli uomini pii, che da sè togliendo tali vanità, al Signore ne hanno fatto sacrifizio. Sono perciò le ricchezze delle chiese trofei, che Gesù ha portato sovra il mondo. Così nell' antico patto le egiziane dovizie servirono, per comando del Signore, alla vera religione degli Ebrei. Rispetto all' uomo: quanto egli è più infermo e più soggetto a' sensi, tanto ha maggior bisogno d' essere tratto a Dio per mezzo di esteriori oggetti, quasi per gradi che a Dio l' innalzino. Quindi la pompa della chiesa, la soavità della sacra musica, e delle altre esteriorità ecclesiastiche a quello stato della chiesa più abbisogna e più conviene, nel quale gli uomini sono più raffreddati e aderenti alle mondane cose; come inverso de' primi tempi è a dire de' nostri. Quanto l' uomo è più perfetto più ama la solitudine degli oggetti esteriori, perchè lo tolgono da' penetrali di sua mente, ove si tiene in gioconda pace nascosto: ma se è dissipato, alcuni oggetti esteriori possono dare a lui motivo di raccogliersi. Quindi regola di S. Agostino è questa, che « « allora è buono l' uso delle cose umane, quando negli inferiori oggetti non veniamo intoppati, ma solo dilettati de' superiori » ». Per la quale non meno la semplicità antica si commenda, che la pompa presente si giustifica. Per altro, molto si lagnano i Padri del veder le chiese riccamente apparate di cose umane: nude e sfornite di cose divine, dello spirito e delle virtù de' Cristiani. Quegli ornamenti sono buoni, ma questi migliori; nè quelli sono cari a Dio senza questi. Quando dunque venite in alcun tempio ampio e dovizioso, godete allora della gloria divina fra gli uomini; godete, che il Signore abbia tratte a sè quelle ricchezze del mondo, e fatte servire al culto suo; godete, perchè gli uomini infermi che stimano quelle cose, da quelle vengono bel bello stimando Dio, a cui quelle cose tributano onore. Se poi vi fate dentro alle chiese semplici e povere, come quelle dei Cappuccini, vi tornino a mente i bei tempi primi: e godete in esse il vostro Dio immediatamente senza ingombro o senso di cosa mondana; e tenete egualmente venerabile e ricco quel luogo, dove abita la vera ricchezza, il Signore. Con quegli ornamenti adunque Madre Chiesa v' insegni a levarvi alla divina Maestà: con questa semplice povertà v' insegni a sprezzare la mondana vanità. Sono nelle chiese, oltre agli ornamenti, delle altre cose; e farò qui un piccolo cenno delle principali, notandovi di che cosa possano essere figure o segni. L' altare è la mensa su cui si fa il Sacrifizio. Rappresenta il desco, a cui cenò Cristo quando consecrò prima il pane e il vino. E come quello effigiava la croce, così l' altare nostro è imagine anche della croce, su cui patì. Per questo a' tempi apostolici gli altari erano costrutti di legno. Ancora più propriamente per l' altare si esprime Cristo stesso; avvegnachè, essendo il merito di suo sacrifizio opera del suo spirito, Cristo fu veramente e altare e vittima e sacrificatore. Onde Giovanni dice, che l' altare è Cristo (1). E perchè Cristo nelle antiche carte detto è pietra angolare, fianco dell' edifizio, che unisce le due muraglie del tempio, cioè gli Ebrei e i Gentili (2), e ancora pietra perchè percossa co' patimenti sgorgò acque di salute (3), e pietra perchè ad essa s' infrangono e spezzano quelli che in lei cozzano; già per antica legge gli altari si fanno di marmo, e si sacrano coll' olio, perchè Cristo è l' Unto, di cui era imagine il sasso, su cui Giacobbe sparse l' olio ed eresse a monumento, sopra del quale dormendo, come Cristo in sulla croce, avea veduto la scala degli Angeli, che congiungeva insieme la terra ed il cielo (4). Nell' altare s' inseriscono reliquie di Santi, specialmente martiri, pel consorzio che hanno con Cristo fatti una cosa con lui nel Sacrifizio; e le tre tovaglie benedette dell' altare rappresentano pure le vestimenta di Cristo, che sono i Santi suoi. I candelieri accesi, e il Crocifisso nel mezzo, mostrano i popoli credenti uniti dalle due parti opposte, giudaica e gentile, a quello che elevato in alto trasse a sè ogni cosa. A pie' dell' altare stanno de' gradini, che sono le virtù, per cui si va a Cristo. Prima di ascenderli nella Messa il Sacerdote fa la confessione de' peccati, e recita a vicenda col ministro, e un tempo già con tutto il popolo, l' opportuno Salmo « Giudicatemi Signore » (5), col quale prega, che, abbattuti gli avversarŒ, mandi a lui la sua luce e la sua verità, per essere da queste condotto nel santo suo monte, ne' diletti suoi tabernacoli. [...OMISSIS...] L' uso delle cose necessarie nella Messa e nelle altre funzioni facilmente apparisce. Laonde dirò delle loro mistiche significazioni, essendo queste atte a nudrire divozione, conforme all' intenzione della Chiesa, desiderosa che tutto e in tutti i modi spiri edificazione e pietà. Dunque nel Calice s' imagini di vedere il sepolcro nuovo del Signore; nella Patena la pietra rivoltata sopra la bocca del monumento: il corporale sia la sindone monda, ove Giuseppe d' Arimatea involse il corpo del Signore. Le vesti poi del Sacerdote tutte alludono a vestimenta spirituali. La bianca cotta indica l' innocenza di una vita sacerdotale. L' ammitto è l' elmo della salute, che guarda il capo dall' avversario, e protegge il collo o sia gli organi della voce, onde facile è il peccare. Il camice mostra il vestito tutto mondo della santità; il cingolo in particolare la virtù della purità; il manipolo, drappo con cui una volta s' asciugavano le lagrime, significa la penitenza, che, seminando in pianto, coglie frutti di letizia. La stola, che pendente dal collo s' incrocicchia in sul petto, segna la fortezza, o la veste d' immortalità acquistata per la croce di Cristo, e la pianeta finalmente raffigura il giogo della soave sua legge, cioè la carità, che dal Vescovo nella ordinazione s' appella abito sacerdotale, e nel Vangelo veste nuziale soprapposta alle altre, perchè a tutte dà compimento e perfezione. Nella tonicella poi del Soddiacono è l' imagine delle interiori virtù, come nella dalmatica del Diacono delle esteriori: poichè si spetta a' Diaconi la cura de' poveri, e debbono essere assistiti da' Sottodiaconi, cioè da ministri incorrotti pieni d' interior santità. Il piviale finalmente dimostra la grave e santa conversazione de' superiori ecclesiastici, che abbraccia la carità di Dio e del prossimo. Ora i colori diversi de' sacri indumenti si conformano alle feste, che con essi si celebrano. Il bianco indica letizia, gloria, gaudio; il rosso segna il sangue de' Martiri, e il fuoco del Santo Spirito; il violaceo significa mestizia e passione; il nero morte: il verde poi è un colore medio, che s' usa in alcune Domeniche meno solenni forse qual indice della nostra speranza. Le conche poi dell' acqua benedetta, che anticamente erano certe urne con una fontana posta in mezzo all' atrio delle chiese, ove si lavavano le mani e la faccia i fedeli avanti entrare in chiesa, figurano la lavanda interiore, e lavano da veniali peccati chi n' ha dolore, in virtù di benedizione fatta su quelle acque dal Sacerdote. D' alcune altre cose, che sono in chiesa, cade di toccare nel capo seguente. Dalla meditazione de' riti e delle cerimonie dalla Chiesa usate quali cose e quante non impara il Cristiano! Raccoglie da quelle gli alti sensi di essa Chiesa verso a Dio, ed eccita in sè stesso que' sincerissimi e perfetti atti di culto. Vede ancora in quelle, il che non è a dire quanto sia giovevole, una cotal forma bellissima di cristiano conversare in questo mondo, gastigato alle regole di perfetta vita; mentre, dovunque e' si trovi il Cristiano è nel tempio del Dio suo, e quasi ministro, per dire così, insieme cogli altri fratelli suoi, e con tutte le creature dell' universo, esercita atti di religione. Tuttavia non vengono per avventura sotto questo aspetto bastevolmente considerate le ecclesiastiche cerimonie. E pure verissimo è, che nella Chiesa si ha quel trattare vicendevole, che a Cristiani perfetti conviene: e così perfette essa l' ha poste, perchè convenienza avessero con sè, col carattere de' suoi ministri, e coll' altezza delle cose divine. Or facciamoci addentro alcun poco nel loro spirito. Che diversità fra queste e le cerimonie del mondo! Alcuni distintivi delle cerimonie della Chiesa paragonati a' corrispondenti delle cerimonie del mondo ne mostreranno, quanto le une dalle altre si dispaiano. Il primo carattere delle cerimonie di Chiesa è la SINCERITA`. Essendo santa essa Chiesa, sinceri sono quegli atti con cui la santità appalesa. Oltracciò sono fatti a Dio, col quale non si scherza, poichè vede nell' interiore del cuore. E se nel mondo l' interesse sospinge gli uomini a finzione esterna, qui gli spinge ad esterna sincerità, come la sola che ottenga favore. Perciò le ecclesiastiche cerimonie sono ancora semplici e naturali . Per esempio: levarsi in piedi al Vangelo dopo essere stati seduti all' Epistola, per dimostrare prontezza di sostenerlo e difenderlo quali prodi soldati di Gesù: stare in piedi nella Domenica al recitare delle antifone di Maria, in memoria del Signore risorto; e usare positura ritta ogni qual volta vogliamo significare solennità ed esultanza: genuflettere, a indizio di mestizia e lutto, quasi col lasciare cadere il corpo, dimostrando di confessare la caduta dell' anima, o l' umana abbiezione dinanzi alla Divinità: piegare il capo in segno di riverenza, battersi il petto in atto di pentimento, variare la voce come si fa nella Messa, adoperandola talora alta, talora sommessa, alcuna volta al tutto segreta secondo i misterŒ proferiti, i quali si vogliano fare intendere od a' ministri soltanto, od a tutto il popolo, o vero dall' unico Sacerdote si trattano con Dio in alto raccoglimento, conforme alle intime cose, sacrosante, e misteriose che esprimono (1), ed altrettali atteggiamenti, riti, e cerimonie, i quali, nati, per così dire, insieme colla cosa ch' esprimono, non hanno sforzo veruno nè affettazione, e mostrano in sè medesimi la propria sincerità e verità . Sieno adunque anche gli atti di noi Cristiani, in trattandoci nella vita civile, così semplici, facili, sinceri, acconci, e proprŒ alle opere che trattiamo, e in un tempo così espressivi e decorosi. Tutto altro è il trattare del mondo, simulato, artifizioso, ed insulso. Altro carattere di questo trattare esteriore nella Chiesa è il BELL' ORDINE, la quiete, la placidezza , con cui tutto si move. Ogni cosa è bene disposta e regolata. Sono prescritti a' Sacerdoti i movimenti e gli atti più minuti, perchè ogni picciola sconcezza si fa grave in quel luogo. La distribuzione de' ministri, cominciando dal Pontefice insino a' turiferarŒ, agli ostiarŒ, a' lettori; le incumbenze assegnate a ciascuno, accordo insieme e varietà, ed un succedere di nuovi oggetti bene fra sè congiunti, rende ciò che è santo anche dilettoso e ammirabile a' sensi. Così queste sacre funzioni esprimono il fervore dell' uomo cristiano, che nasce da serena mente, quieta, e tutta pace: edificano colla pietà, non agitano colla passione. Che distanza dal tumulto, dal fracasso, e confuso agitamento delle mondane feste, le quali mescolano o sconvolgono tutto l' esteriore e l' interiore dell' uomo! E se noi mireremo alla gravità ed alla MAESTA` del sacerdotale apparato, principalmente in festa solenne, facilmente diremo, che quel così augusto spettacolo, e quel grave portamento, quegli ampli addobbi de' Sacerdoti e del Tempio ci parlano di Dio; e che mentre glorificano Dio insegnano al Cristiano chi sia lui stesso, che Signore serva, e che servigio sia il suo. Insegnano, che a lui sommamente disconviene in ogni tempo piegarsi alle scurrilità del mondo; ma sempre al grave contegno attenersi e dignitoso. E perchè i mondani uomini sono avvezzi nelle loro smorfie, e in certi loro attucci, colle idee picciolissime che queste cose presentano non sogliono capire le gravi e somme verità, nè prezzare le ecclesiastiche cerimonie: non potendo dilatare il pensare ed il cuore a quelle grandi cose, nè reputarle perciò belle o dilettevoli; ma sì tenerle, come le altre cose di Dio, austere, penose e secche. E loro avviene questo come a colui, che ode dignitosissimo personaggio favellare, ma non intende la lingua in cui favella. Noi all' incontro, che intendiamo e gustiamo questi riti maestosi, veggiamo nel Sacerdote, che ascende l' altare, l' umanità ascendere al « Sancta Sanctorum », a Cristo; quando lo bacia intendiamo ch' ei bacia Cristo, saluto usato anticamente a' re; quando incensa le obblazioni, le reliquie, l' altare, sappiamo che adora con quest' atto in tutte quelle cose Iddio, veggiamo i vortici del profumo odoroso ascendere in alto, e in quelli ci vengono a mente i nostri preghi che ascendono a Dio per Cristo; e per Cristo, giusta la frase scritturale, si odorano dal Padre, essendo Cristo il solo odore in cielo gradito. E così nella pompa de' doppieri e de' torchi accesi e de' candelabri, ove splende il fuoco che Cristo venne a mettere in terra, e nel trono del Pontefice, e nelle schiere de' ministri, e nell' ordine de' Sacerdoti, e nella turba de' cantori, e ne' suoni degli organi, e in tutto il lento e variato procedere della cerimonia ci troviamo agevolmente colla mente in Cielo, nella corte di Dio, nel tempio del sommo Pontefice; d' intorno al quale gli Angeli con divini riti celebrano eterno giorno festivo. Il quarto carattere delle cerimonie ecclesiastiche è quello di RIVERENZA, di cui sono piene verso tutti i membri della Chiesa, cioè i fedeli che a quelle assistono, e di quelle sono gran parte. Ciò pure insegna come dobbiamo portarci a vicenda. San Paolo esortava a prevenirsi scambievolmente in rendersi onore (1). Ora, poichè i ministri sacri in chiesa non trattano solo con Dio, ma ben anco tra sè, e talora col popolo; così come con Dio la maestà e la dignità è richiesta, i Cristiani trattando fra sè hanno legge di scambievole riverenza. Rispetto e riverenza può essere dato tanto dagli inferiori a' superiori, come dai superiori agl' inferiori, e ancora da uguali ad uguali. Questo rispetto di tutti fra tutti nella chiesa apparisce in tanti inchini, che si fanno i sacerdoti e cherici. Verso il superiore il mostrano le benedizioni dimandate prima di leggere, i baci della mano fatti dal ministro, l' essere tutto il coro regolato a suo esempio: poichè nessuno siede prima di lui, nè si alza prima che egli alzato non sia, e in altri simili segni di onore: i preti stessi si stanno in coro regolati secondo la dignità o l' età. Ma se il Cristiano venera nel maggiore l' autorità divina; il maggiore altri non trova nell' inferiore che un fratello suo compartecipe della stessa cristiana adozione. Onde quale umiltà e dolcezza non dimostra il Pontefice stesso in tutta sua pompa in onor degli astanti? Viene alla celebrazione della Messa, e si pone prima di tutto a' piè dell' altare; fa una accusa pubblica de' suoi peccati, e sente rispondere in bocca del popolo: Iddio ti faccia misericordia . Dopo offerito il pane ed il vino e' si volge agli astanti, li chiama fratelli, li prega di orazioni, perchè il Sacrifizio comune sia accettato dal Signore. Dimanda anch' egli ad un Sacerdote la benedizione prima di leggere le lezioni nel Mattutino. E per tutto s' umilia di sotto agli altri, quando prende aspetto d' uomo; benchè in figura di Dio venga nella funzione stessa altamente onorato. Quella cerimonia però, che più al vivo mostra l' onore, di cui fa la Chiesa degni tutti i Cristiani, si è l' incensamento, il quale non pure al celebrante e al clero, ma al popolo stesso viene dato, perchè si tengono tutti pieni di Dio, templi vivi, come essere dovrebbono, del Santo Spirito. Cessiamo forse d' esser tali fuori di chiesa? No. Ecco adunque l' onore, in che reciprocamente, se cristiani siamo, ci dobbiamo tenere. Quanto civile, umano, riverente non è dunque il tratto dell' uom cristiano? quanto lontani ci conviene essere ne' nostri modi dallo sprezzo, dalla non curanza, dalla freddezza verso a nessuno, non che io dica dalla presunzione, dall' alterigia, e dall' insulto, che sono pur le belle costumanze di questo mondo? Ma il carattere precipuo, più soave e più bello delle cerimonie ecclesiastiche si è il quinto, cioè l' essere piene di amore , LA CARITA`. Oh bellissima unità di cuori, che spirano le funzioni di chiesa! che concordia e carità non adorna i sacri riti? Nella Chiesa, tolte di mezzo tutte distinzioni e separazioni mondane, forma un corpo solo nell' unione al comune capo Gesù, il re col suddito più abietto. A vicenda colà si prega e canta. E perchè i due cori in nulla cosa sembrino salmeggiando divisi, nell' antifona, alla fine del salmo, s' uniscono concordi ad esprimere perfetta consensione di anime. Nella Messa poi quai soavi parole non usa il Sacerdote ciascuna volta che parla agli astanti? Quando li saluta si volta ad essi allargando le mani sue in atteggiamento di abbracciare, e loro dice: Sia con voi il Signore. Essi rispondono all' incontro: Sia pure collo spirito tuo. E tale saluto forma preparazione alla preghiera, poichè la preghiera accetta è quando il Signore è con quelli che pregano, ed essi nel Signore sono uniti, per cui al Dominus vobiscum segue l' Oremus , cioè l' invito a pregare insieme. Altra volta esortali ad innalzare gli animi al Cielo, essendo oggimai vicino il Sacrifizio, a rendere grazie, e cantare in una con lui e cogli Angeli: « Santo, Santo, Santo il Signor degli Eserciti », e benedire colui, che già in nome del Signore sen viene. Questo pio consorzio di affetti si va poi accrescendo in perfezionando il Sacrifizio. E quando il Sacerdote divide l' Ostia in due parti, e un frammento ne stacca, e con tre segni di croce lo ripone nel calice, dice allora a tutti: « La Pace del Signore sia sempre con voi ». E già messo nel calice il pezzetto, aggiunge: « Questa meschianza e questa consecrazione del corpo e del sangue del nostro Signore Gesù Cristo torni a noi, che siamo per riceverlo, a vita eterna; così sia ». Colla quale cerimonia rappresentando il ricongiungimento del corpo col sangue di Cristo, cioè la nuova ed eterna vita da lui per la risurrezione racquistata; si prega, che noi, membra sue, parimente partecipiamo di questa immortale vita del glorificato nostro Capo. Nel quale istante il Sacerdote, dimentico quasi che pur siamo in terra, ov' è solo principio d' eterna vita, quasi trasportato in Cielo a quel tempo, in cui l' opera di nostra salute sarà perfetta e compita, prega alla Chiesa di Dio Pace; e pace a tutti i fedeli desidera dal Signore: e bacia l' altare per riceverla da Cristo, che l' altare rappresenta, e abbraccia il Diacono, e a lui la comunica: il Diacono poi al Clero la reca, che tutto pure a vicenda si viene abbracciando, da cui l' abbracciamento un tempo passava anche al popolo: rito pieno di affabilità, e santissima amicizia, dopo il quale non più dovrebbe rimanere alcuno rancore negli animi, non più avvenire una rissa in sulla terra fra' battezzati, e solo Amore regnare, Concordia, Pace di Cristo. Il perchè, se le sacre cerimonie si guardano rispetto all' animo della Chiesa, si trovano pure e sincere , in sè stesse sono belle e ordinate , verso Dio sono gravi e maestose , verso i fedeli sono piene di rispetto e d' amore . Che se, in trattando fra noi nella vita, queste cose serbassimo, noi toccheremmo ogni perfezione di un conversare cristianissimo e amabilissimo. Chi mira all' ordine delle preghiere, che la Chiesa usa, può acconciamente dire colla Cantica, che il Signore ha ordinato in lei la carità (1). Veggiamolo brevemente. La Chiesa, come abbiamo toccato di sopra, regolò fino da tempo antichissimo le sue preghiere nelle diverse ore del giorno e della notte. Partito il dì, e così pure la notte in dodici ore, ad ogni terza ora era l' orazione. Le ore più solenni però del giorno furono Terza, contandosi dallo spuntare del sole, Sesta, Nona, e Vespro o duodecima. Introdotto poi il costume di orare anche al principio del dì e della notte, ne vennero Prima e Compieta . Queste ore sono santificate anche da' fatti della Passione di Cristo. A Prima fu condotto da Pilato: a Terza crocifisso colle lingue de' Giudei, flagellato, coronato di spine: a Sesta inchiodato in croce: spirò a Nona e scese agl' Inferi: a Vespero si depose di croce: e a Compieta fu collocato nel monumento. Col sovvenirsi de' quali fatti può assai agevolmente santificare queste ore anche chi non dice i salmi delle Ore canoniche. Gli OffizŒ divini, come sono al presente, si possono ancora dividere in tre parti: nel Mattutino, col quale principiamo il giorno; nelle Ore diurne, con cui fra il giorno si prega; e nella Compieta, che chiude la giornata. Ognuna di queste parti ha il suo cominciamento opportuno. [...OMISSIS...] Quando cominciamo il giorno, non ancora distratti da occupazioni terrene, nè sbattuti da tentazioni del dì, apriamo più degnamente i labbri a lodare Iddio. Nel giorno, fra tante cure e pericoli, ci bisogna un peculiare sostegno divino ad ogni passo, e questo si chiede colla seconda preghiera. Alla sera, dopo avere passato il giorno tutto negli affari di questa vita, dove è molto difficile non esser qualche volta caduti, che cosa evvi di meglio che a Dio tornare in quella notturna quiete, e pregarlo, come si fa col principio di Compieta, che e' ci voglia ricondurre ad esso e ritenere il suo sdegno. I padri nostri hanno diviso il Salterio di Davidde ne' sette giorni della settimana per modo, che dentro a ciascuna si svolgeva cantando tutto quel libro. Poichè, lasciando essi le voci gentilesche de' giorni, li chiamarono tutti ferie , ossia vacanze: intendendo di mostrare con questo vocabolo, come i Cristiani dovevano vacare sempre dalle terrene cose, e riposarsi in contemplare le divine, e cantarle. Come poi gli Ebrei dal loro Sabbato numeravano i giorni, così i Cristiani dalla Domenica presero a numerare le loro ferie. E come il Venerdì presso gli Ebrei veniva chiamato anche Parasceve, ovvero preparazione al Sabbato, così i Cristiani ritennero all' ultima feria il nome ebraico di Sabbato: volendo mostrare con questo, che la festa degli Ebrei altro non era che uno apparecchio alla cristiana. E sì come alla Domenica, che significa giorno del Signore, celebravano e celebrano il risorgimento, col quale un Cielo nuovo e una Terra nuova apparì, e cantavano in questo giorno il più solenne cantico, quello de' tre fanciulli di Babilonia; così nel Sabbato rammentavano e rammentano la fine del mondo vecchio, e dicevano il Cantico, che Mosè disse moriente. La Feria sesta serbò sempre la grande memoria del sangue del Signore in quel giorno sparso, ed in essa s' intonò il Cantico di Abacucco, dove è accennata la croce. Della quinta è propria prerogativa l' istituzione in essa fatta della Cena eucaristica, e in quella si può ricordare ancora l' istituzione degli altri Sacramenti, dove s' onora il più grande. In fatti, il Cantico Mosaico, composto dopo il passaggio del mare Rosso, che a questo giorno è stabilito, conviene, come diremo più sotto, al battesimo. Negli altri giorni altri argomenti si ricordano e onorano, come la creazione, e il gran decreto della redenzione, l' umana impossibilità a risorgere dal primo peccato, e la morte sua pena; la consolazione del Santo Spirito, e di sua grazia; pe' quali giorni si leggono i Cantici d' Isaia, d' Ezechia, e di Anna. In tali argomenti può pascere santamente il suo spirito, chiunque ne sia informato, ne' diversi giorni della settimana con pia meditazione, e così unirsi alla Chiesa orante, sebbene non reciti il Breviario, e non sappia punto di latino. Gli Ebrei nel primo giorno di ciascun mese celebravano certa festa solenne, chiamata da loro Neomenia , ossia luna nuova . In luogo di questa noi abbiamo fra l' anno sparse le feste della Madonna, rassomigliata dalla Chiesa per la sua spirituale bellezza alla luna. Ogni mese poi, nel primo giorno non impedito da festa maggiore, noi suffraghiamo i defunti. Occorrono oltracciò in ciascun mese alcune feste, delle quali brevemente diremo appresso. Nel tempo, in cui la Chiesa nostra era in sul primo svolgersi, pochi erano ancora i Santi del Nuovo Testamento, e perciò poche le nostre feste. Fra settimana si recitava, come è detto, il Salterio, cioè gli OffizŒ feriali , che sono uffizŒ di penitenza e di apparecchio alla Domenica, grande giorno del Signore. Ma venne di mano in mano la Chiesa arricchendo sempre più di glorie e di eroi, da prima in ispecial modo co' Martiri, e appresso coi Confessorì: e da questi nuovi acquisti ebbe sempre nuove ragioni di allegrezza. Il perchè, festa a festa aggiungendo, e solennità a solennità, è pervenuta Chiesa santa in uno esaltare continuo ogni giorno nuovi trionfi, ogni giorno nuove azioni di grazie, nuove memorie de' suoi prodi. Il quale perenne succedere di fasti gloriosi quale gaudio non dee produrre ne' fedeli, ammirando le inesauribili ricchezze divine ne' Santi suoi, e la inesprimibile varietà e preziosità di abbellimenti, con cui la sposa di Gesù in ciascun giorno quasi a foggie novelle si ammanta! Ogni giorno dunque Chiesa santa esulta; e questo suo esultare crescerà insino alla fine de' secoli. Non dà egli un tanto rallegrare qui in terra imagine del Cielo? In fatti la numerosità delle feste, dice S. Bernardo, spetta ai cittadini e non agli esuli (1). Il perchè v' ebbero de' santi uomini, che, desiderosi più del pianto, proprio di questo pellegrinaggio, che della letizia propria del Cielo, hanno mostrato desiderio, se essere potesse, che minorato fosse il gran numero degli uffizŒ de' Santi, e avessero luogo que' delle ferie. Noi poi e nelle feste de' Santi la magnificenza ammiriamo del regno di Cristo, che ci dà quaggiù un cotale saggio di celeste gloria, ed amiamo lo spirito di que' virtuosi, i quali preferiscono alla consolazione lo squallore ed il pianto, come più proprio a noi, Chiesa che milita in fra cotanti avversarŒ. E` però di grandissimo vantaggio quell' avere ogni giorno sott' occhio novelli esemplari di virtù maravigliose. Che se noi venissimo in tutto il corso dell' anno seguendo dietro le orme sue la Chiesa, oh di quante alte cose meditazione faremmo! Di tutte le verità, le istorie, i motivi, le strade che ne scorgono a Dio. Vi dirò in poco che argomento tolga la santa Chiesa a meditare o celebrare ne' varŒ tempi dell' anno. Apre l' anno Chiesa santa colle quattro Domeniche d' Avvento, colle quali, sì come ne' quattro mill' anni precorsi a Cristo si apparecchiò il mondo a ricevere il grande ospite suo, così la Chiesa noi apparecchia al natale del Signore. Quindi questo divino Sole, che appresso sorge, regola l' anno ecclesiastico, per così esprimermi, come il sole materiale regola l' anno terreno. Qual migliore tempo di questo da meditare la caduta dell' uomo primo, l' impotenza della natura e della legge a rilevarlo, le profezie e promesse di Riparatore, e sopra tutto l' opera della divina incarnazione? Così preparati, ci nasce il Salvatore, viene circonciso, datogli il nome di Gesù, e a' pastori, e a' Magi si palesa: intanto freme la Sinagoga, e la parte delle tenebre si sbrama nel sangue degl' innocenti, mentre se ne fugge in Egitto il cercato Infante. Tali cose nella festa del Natale, della Circoncisione, dell' Epifania e degl' Innocenti si ricordano. Qual pascolo non abbiamo noi nella considerazione dell' umile presepio del Signore, dell' adempimento della Mosaica Legge, della forza del nome di Gesù, dell' annunzio di sua venuta fatto agli Ebrei, della chiamata de' gentili, del malo ricevimento e della riprovazione della nazione santa, colla quale però ci rimane la dolce speranza di riunirci nella fede in fine del mondo, e finalmente della guerra eterna che le tenebre hanno colla luce, il mondo con Gesù Cristo? Nella festa di S. Giuseppe abbiamo sotto gli occhi i doveri di pudico sposo, di vigile padre, e tutta la vita privata del Signore. Nelle sei Domeniche, che seguono dopo l' Epifania, la cecità de' Giudei, e i misteri di predestinazione, e di Grazia. Considerato fino a qui quanto spetta a Cristo e a' doni suoi, succede la considerazione di noi stessi, i danni del peccato d' origine, la moltiplice corruzione del corpo e dell' animo umano, la lotta fra lo spirito e la carne, l' ignoranza, e la necessità della penitenza; le quali cose tutte come apparecchio alla Quaresima cadono nella Settuagesima, Sessagesima, e Quinquagesima, che precedono la Quadragesima. In questa la morte; la natura e i rimedŒ delle tentazioni, il laborioso battesimo, che purga le macchie contratte dell' anima, cioè il Sacramento accompagnato alla virtù della Penitenza: la detestazione della passata vita, la scelta del confessore, la soddisfazione dovuta a Dio, i veri propositi, e i mezzi di non tornare al vomito, sono i frutti di questo sacro tempo. Alla Domenica di Passione incomincia il ricordo delle ultime memorande geste del Salvatore. Che esempio del sommo penitente! l' ubbidienza sua sino alla morte di croce, e tutto lo spettacolo del suo patire cade nella seguente settimana. Poi risorge Cristo dai morti, primizie dei dormienti. Quale mutazione di scena! che frutti consolanti ci promettono le nostre pene offerite al Signore! Abbiamo fatta nel battesimo una prima risurrezione dell' anima morta, nella penitenza una seconda; l' ultima, in cui risorge il corpo, simile a quella di Cristo, compirà la vita nostra in Cielo. Dopo Pasqua ecco il lavacro battesimale, dove s' imbiancano i Catecumeni, ed è la porta degli altri Sacramenti. Il nostro spirito quindi appresso si può nutrire colle verità intorno la Chiesa che milita, purga, e trionfa, facendocene luogo le settimane che seguono alla Pasqua fino all' Ascensione, prima della quale conversò Cristo in terra co' discepoli suoi. La festa di Pentecoste annunzia i doni del Santo Spirito, sublime oggetto a cristiani desiderŒ, pe' quali il Vangelo in tutto il mondo fu scritto in sui cuori degli uomini. Dopo tale solennità adunque il tempo è di pensare all' incremento maraviglioso del Regno di Cristo in terra, al sangue de' martiri, agli scritti dei dottori, alla vita de' confessori suoi, da cui fu fecondato, illuminato, santificato. La Domenica della santissima Trinità, il giorno solenne del Corpusdomini danno grandi cose alla mente. Quest' ultimo ci chiama ancora a riflettere in sulla dignità sacerdotale, e sulla Gerarchia ecclesiastica. Il rimanente dell' anno, che viene dopo la Pentecoste, è acconciamente occupato ne' mezzi, co' quali lo Spirito Santo ci si dona, e nelle opere sue fatte in tutti i tempi. Le Scritture ispirate, le virtù infuse nell' anima della fede, speranza e carità, la preghiera ardente, e in particolare coll' occasione delle feste della Croce, di Maria, degli Angeli e de' Santi abbiamo onde istruirci intorno a' varŒ culti di nostra divozione. Nel giorno, in cui si commemorano li morti nella pace di Dio, occupi il cuore nostro e la nostra mente quella Chiesa purgante. Nelle letture poi de' libri di Giobbe, di Tobia, di Giuditta, di Ester, de' Maccabei, de' Profeti, che fa susseguentemente la Chiesa, impariamo tutte le morali virtù, la pazienza, il savio governo della famiglia, l' eroico e santo coraggio, la prudenza, la fedeltà alla legge santa con iscapito perfin della vita, la provvidenza, con cui il Signore regge la Chiesa sua vigile sopra di lei fino al dì del giudizio, del quale i pubblici uffizŒ trattano nell' ultima Domenica dell' anno ecclesiastico. Non v' ha dunque più bella cosa, che tenere dietro alla Chiesa. Con lei si percorrono nell' anno tutti i dogmi suoi, tutto il sistema di sua fede, tutto il corredo di sue virtù, tutti i mezzi di praticarle, e tutti i frutti ed i premŒ promessi dal Signore. La nostra vita spirituale tiene alcuna similitudine alla corporea, e ci bisogna in quella altrettanto, dirò così, che ci bisogna in questa. Anche in quella dobbiamo primieramente nascere, e a questo Cristo ci ha fornito il Battesimo; dobbiamo crescere, a cui istituì la Confermazione; perchè ci nutriamo, pose l' Eucaristia; ammalandoci dello spirito, ci fornì la Penitenza e l' Estrema Unzione, ordinata la prima a torre il morbo, e la seconda a torre le reliquie del morbo, o la debilezza della convalescenza. E avendo l' uomo nella corporea vita una società, egli la si trova avere anche nella spirituale, e quest' è la Chiesa. Ma perchè alcuno si congiunga a tale società, ha bisogno prima della vita corporea, e poi della spirituale. A questi due fini perciò sono indiritti i Sacramenti del Matrimonio e dell' Ordine. Non è mia intenzione di esporvi qui le dottrine de' Sacramenti, che trovate con ogni facilità in ottimi libri. Farò tuttavia quasi una scorsa in sul Battesimo, col quale in noi s' incomincia la vita eterna, per darvi esempio del modo, con cui giova studiare in questa materia: e a tal fine mi basterà di porgervi quasi un indice di materie, o poco più, per non ingrossare maggiormente il volume senza bisogno. Sarà dunque bello ed utile studio se voi entrerete a conoscere quasi la storia stessa de' Sacramenti, e qui del Battesimo; e cercherete di osservare le figure, e le predizioni sparse nell' Antico Testamento. E` necessario di poi che veggiate ben chiaro la differenza di tutti gli altri battesimi, e di quello stesso di Giovanni da quello di Cristo. Finalmente fermandovi in questo lavacro vivificatore delle anime consiste ogni migliore studio in penetrarne lo spirito, conoscerne gli effetti, e bene intendere quali gravità di promesse in esso per noi si fanno. Queste promesse, da S. Agostino chiamate non pure voto ma il « massimo voto nostro » (1), a' primi Cristiani erano sacri ritegni da peccare, e l' infrangerle si avea, come è, per sommo infortunio (2); riputando dopo il Battesimo più alta la caduta, più difficile il risorgimento, più dura la debita penitenza. Per questo era prolungato il catecumenato: si dava luogo con ciò a' nuovi cristiani di rafforzarsi nella virtù, prima di promettere a Dio vita solennemente cristiana. Dal Battesimo poi scaturisce il sistema tutto di nostra salvezza, il cumulo de' nostri doveri: conosciuto lui, conosciamo lo stato nostro, la nostra nativa infermezza, l' acquisita nostra dignità, alla quale dignità tutte cose sono sommesse e dell' inferno e del mondo. Ma quanto alle promesse, che fanno i Cristiani nel Battesimo, uso antichissimo è, che di tempo in tempo si rinnovino (3). I tempi più accomodati a questo sono: al toccare il libero uso di ragione; e se i giovanetti nol fanno, è peccato degli educatori: il giorno anniversario del battesimo nostro, la festa della dedicazione della Chiesa; essendo quella festa nostra, poichè noi col Battesimo siamo stati fatti le pietre vive del divino tempio (4); e le vigilie della Pasqua e della Pentecoste, nelle quali la Chiesa battezza i catecumeni. Ora a questo proposito parrebbemi assai convenevole e utile una cosa, che qui non voglio preterire. La Chiesa, per ricordare i fatti illustri della bontà divina, che a lei diedero o fondamento o splendore, stabilisce pubbliche feste. Ogni Cristiano ha per simile modo de' fatti privati della divina bontà, i quali all' anima sua peculiarmente apportarono o salute o aumento di grazia. Imiterebbe adunque la Chiesa utilmente il Cristiano, se come la Chiesa celebra i fatti pubblici con pubbliche solennità, così celebrasse egli i privati con solennità private. La principale di tutte essere dovrebbe l' anniversario del suo battesimo. Quanto vantaggioso e bello non sarebbe, come a me ne pare, se i genitori o gl' istruttori facessero celebrare a' loro giovinetti in questo anniversario un domestico giorno festivo da santificare coi santi propositi, colle rinnovate promesse, colla penitenza e col cibo eucaristico, quasi tempo da cui norma prendesse ed esempio l' anno intero, e s' innovasse la vita, aggiungendo anche esteriori segni di letizia, e qualche insolita ma pia ricreazione? Quanto al modo di formare cotesta famigliare solennità, potendo essere vario secondo varietà di circostanze, purchè tutto spiri pietà, compostezza, e santa letizia, non mi fermerò io a descriverlo. Dirò solo, che utile sarebbe ricordarsi in tal giorno i riti, con cui ne venne conferito il Battesimo. Quante belle cose non contengono quelle cerimonie! L' essere lavati nell' acqua in nome della Trinità augustissima dimostra l' effetto primo del Battesimo, lavare il peccato. Ma or che sono queste acque, che hanno tale potestà? che toccano il corpo, e mondano l' anima? [...OMISSIS...] Quelle acque dunque traggono loro potere dal sangue di Gesù. Quando Cristo morì e scese nel sepolcro, morì allora l' uomo vecchio e fu seppellito. Così Paolo. L' uomo vecchio fu insieme con Cristo crocifisso, perchè il corpo del peccato si distrugga, e al peccato non serviamo più mai (2). E questo primo effetto del Battesimo, era specialmente rappresentato dal Battesimo conferito per immersione, mostrando in quello, per così dire, come il figliuolo dell' uom peccatore si sommerga e si seppellisca. L' essere poi tratti da quell' acqua indica la nascita dell' uomo nuovo. [...OMISSIS...] Per questo Cristo dopo risorto comandò agli Apostoli di andare pel mondo battezzando l' uman genere. Prima non era ancora questo uscito con lui dal sepolcro. Poichè insieme con Cristo otteniamo le grazie, e nessuno il previene: essendo egli le primizie in tutto. E poichè nel Battesimo il Santo Spirito dandosi a noi ci applica i meriti di Cristo, gli Apostoli attesero di ricevere lo Spirito stesso prima d' andare battezzando nell' acqua e nello Spirito Santo. Se la Chiesa adunque battezza nelle vigilie di Pasqua e di Pentecoste, insegna con ciò, come il Battesimo ha sua virtù dalla morte e risurrezione di Cristo, e come dal Santo Spirito viene questa virtù a nostra santificazione usata. Ma veggiamo qual sia l' uomo nuovo che surge, morendo il vecchio. Come il vecchio è l' uomo partecipe della malizia, ed erede del peccato d' Adamo; così il nuovo è il consorte della virtù, e dell' eredità di Cristo. Gesù Cristo, assunto sacerdote, fece sè stesso vittima. Frutto del suo sacrifizio fu la corona di re sopra tutte le podestà nemiche. Ogni Cristiano ora è chiamato a parte di suo sacerdozio e di suo regno. Per questo la Chiesa unge in sulla fronte colui che battezza, secondo l' antichissimo uso di ugnere i Re e i Sacerdoti. Avanti il Battesimo poi l' ugne in sul petto e fra le spalle in figura di croce, come s' ungevano gli antichi atleti, in segno di quella pugna, che coll' arma della croce e' vincerà, e per cui sarà coronato: gli dà il lume acceso, additandogli come debba risplendere nel fuoco di carità quale continuo olocausto al Dio suo. La veste bianca, di che il copre, simboleggia risurrezione e gloria, la bellezza e la purità di questo sacerdozio e di questo reame. Quel sacerdozio, che riceviamo, ci dedica al culto divino, imprimendo in noi questo carattere indelebile di essere persone destinate a servire alla divina gloria eternamente: questo reame ci fornisce di sua grazia, con cui superiamo gli avversarŒ santificando e ricevendo gloria noi stessi. Quella destinazione, o carattere, che al culto di Dio ci consacra, nol possiamo perdere più mai: possiamo però perdere la grazia, che ci mette a parte della gloria e della corona. Ogni Cristiano sarà sempre sacerdote, perchè una volta per sempre al culto divino è sacro: ma perderà la corona di re ricevuta nel Battesimo se strenuamente non combatte. Checchè però abbiamo, l' abbiamo in Cristo, cioè come porzione di suo corpo, perchè unico è il sacerdozio, e unico il regno da lui posseduto, di che ci chiama a parte nel possesso. Ciò s' esprime dalla Chiesa con quella cerimonia del mettere che fa il Sacerdote il lembo della stola sua sopra il fanciullo che battezza, volendo mostrare di coprirlo della stessa veste immortale da sacerdote e da re, di cui Cristo è fornito. Stando in questo regio e sacerdotale ammanto la dignità possibile d' uomo, cui non scemano gli esteriori mali, il Signore nel Battesimo non si curò di torci le umane miserie, mentre nulla con ciò ci avrebbe aggiunto o di grandezza o di nobiltà. Considerati i riti sacri, de' quali la Chiesa accompagna il Battesimo, desiderereste voi forse avere a mano qualche cantico od inno, con cui ringraziare nel giorno anniversario del Battesimo nostro il Signore, e lodare le sue misericordie. Questo ce lo indica Paolo. Egli mostra, scrivendo a' Corinti, che tutte cose avvenivano agli Ebrei in figura delle nostre (1). Ora egli vuole, che noi veggiamo viva rappresentazione del Battesimo nel passaggio dell' Eritreo. Nel Battesimo veniamo battezzati in Gesù Cristo; e per li meriti suoi, mentre l' acqua ci lava il corpo, lo Spirito Santo ci lava l' anima. Cristo adunque era in quel passaggio rappresentato da Mosè, l' acqua dal mare, lo Spirito dalla nube. [...OMISSIS...] E quanto acconcio non è il titolo di mare Rosso a quelle acque battesimali, che la fede vede rosseggiare del sangue di Cristo? e che come gran mare recano salute a tutto il popolo eletto in ogni parte della terra? Per quelle acque, in cui si sommerse l' orgoglioso Faraone, trovò scampo il pellegrino Israello, fuggente la schiavitù d' Egitto verso la terra promessa, come uscimmo noi vivi di quelle acque, nelle quali il demonio e il peccato abbiam seppellito. Perciò quale cantico più accomodato da intonare al giorno anniversario del Battesimo nostro di quel Mosaico, che tutto Israello cantò salvato da' nemici e dalle onde in sulla opposta sponda dell' Eritreo, dopo di sè lasciando tanti orgogliosi nemici affogati? Sì, sì; nello anniversario del nostro Battesimo diciamo anche noi uniti collo spirito a tutti i battezzati della terra: [...OMISSIS...] . E a questo luogo in che tenero tratto profetico non entra il vate ispirato, accennando il deserto che loro rimaneva ancora a percorrere, dopo scampati alle acque, prima di toccare la terra santa? Quanto acconcio è a noi, che scampata nel Battesimo la morte, pure militiamo ancora fra mille rischi, e traendoci per lo deserto di questo mondo dobbiamo arrivare alla patria? Ma dopo ciò a Dio si rivolge nuovamente e prosegue: [...OMISSIS...] . Così Mosè dallo scampo di quel primo pericolo vola a chiedere aiuto all' ultimo passo, che metta in terra sicura e felice: così noi pel Battesimo scampati a principio dalle zanne avversarie, prendiamo occasione di quella prima misericordia a chieder l' estrema, per la quale ha suo prezzo la prima. Or se sì alta canzone degnamente canteremo al mondo, potremo cantarla altresì in Cielo, a grato ricordo delle ottenute grazie divine (1). Dopo avere trattata un po' largamente la virtù, che s' esercita verso Dio, origine e fondamento di tutte virtù cristiane, mi resta a fare alcun cenno delle virtù, che si praticano con sè e cogli altri: delle prime toccherò in questo capo, delle seconde nel capo seguente. Ora le virtù rispetto a se stessi mi parve di raccorle sotto il titolo posto qui sopra del Contegno delle vergini , poichè la bella Verginità, precipua di tutte, dietro a se stessa ne conduce quelle altre, quasi sua bella accompagnatura e corteggio. La verginal purezza, dice s. Agostino (2), per questo dalle Scritture è commendata come pregio altissimo, perchè è divota a Dio; dallo spirito ella debbe nascere; da amore dell' amico e sposo suo: e così, quantunque virtù de' corpi, ella s' eleva a grado di virtù spirituale. Il cuore della Vergine vuole essere sgombro da ogni affetto di terra, odiatore di peccato, e a tutte cose indifferente, fuori che a Dio, che tiene in sè stessa. Non parlo solo di quella Verginità consacrata per voto, ma di quella consacrata per affetto, che a tutte le cristiane donzelle vuole essere comune. Si tenga questa origine della verginal ricchezza, e s' intenderanno i bei costumi della vergine cristiana. Sono pertanto consuetudini e virtù di questo stato illustre e nella Chiesa di Dio onorato la modestia negli atti, e la verecondia così cauta e così dignitosa, che non pure in presenza altrui, ma in sua propria sa arrossire e vergognare; la custodia degli occhi, della lingua, delle orecchie, delle mani, di tutti i sensi, suggellati colla croce di Gesù ad ogni impurità. Bell' esempio è la sposa de' Cantici; le mani di cui stillano mirra, liquore che preserva da corruzione; le labbra sono fasciate con nastro vermiglio, segnacolo di verecondia ne' detti; dimostrano mondezza gli occhi suoi di colomba; negli orecchi i pendenti d' oro son contrassegno di purità; e paragonasi il suo naso a' cedri del Libano, legno incorruttibile (3). Ogni licenza appanna la lucidezza di simile gemma, oscura la bellezza di candore vergineo, e fra gli scherzi umani, dove anche non si perda, difficile è, dice il Salesio, che di questo fregio della castità non ne vada l' ineffabile freschezza ed il fiore. Adunque la Vergine ama il ritiro, e pratica la fuga della umana conversazione: ella teme e trepida ad ogni sentore di pericolo, e questo vergineo trepidare produce la Vigilanza . Stassi la vergine, secondo la similitudine del Vangelo, desta, accinta le reni, e in mano tenente la lampada in aspettando lo sposo. Quel cingolo de' lombi indica la Temperanza, che scema al corpo il fomento della concupiscenza; quell' ardente lucerna dimostra la Carità, che accresce allo spirito forze contro alle lusinghe delle sensibili cose. Quanto il Digiuno non gode di stare colla castità quasi padre o nutricatore! Quanto la Mortificazione non le sta assiduamente da presso come sorella prestatrice di sostegno! Non ama la Vergine nè di vedere nè d' esser veduta, non prende piacere di nessuna cosa di terra: l' abbigliamento delle vesti è netto, ma tutto semplice, dimesso, conformato a sincerità, a gravità, a modestia: non conosce amicizie esclusive, e non conosce o le dolci lettere, o i regaluzzi e le smorfie: da tutto staccata, e in tutto grave, ella pienamente adempie l' apostolico precetto « d' usare così del mondo come se non ne usasse » (1). Di piaceri però non è privata; ma essi traggono da più alta fonte; le discendono dal celeste amico. Spesso si troverà in sua stanza occupata nella orazione, spesso in pie letture, spesso nell' altezza del meditare. Imitatrice degli Angeli in terra vivrà col corpo, e in Cielo collo spirito. Guardiana però e quasi sentinella di questo tesoro verginale, perchè o non si perda egli o non invanisca, si è Umiltà che suole sempre essere a lato della cristiana Verginità. [...OMISSIS...] La vergine del Signore sente la propria infermità; sa che quanto possiede è dono: e come quegli, che riceve doni, ha più a piegarsi e confondersi davanti a lui, che li dona, quanto i doni sono più rari; così del dono stesso della purità ha la vergine donde abbassarsi davanti al Dio suo. Ella sa l' esempio di Maria, in cui la Verginità e l' Umiltà così bella gara faceano, che dubbia restava la prova; sa l' esempio del vergine per eccellenza, di Cristo, che chiama tutti a sè perchè tutti da sè imparino la Mansuetudine e l' Umiltà (3). O anima piamente pudica, non se' mandata ad imparare l' umiltà dal peccatore pubblicano: se' mandata a chi è più innocente di te: se' mandata a chi è più santo, a quello, per cui tu se' santa. Ecco il Vergine esempio de' vergini, cui umile rese non l' ingiustizia ma la carità: quella carità, che « non emula, nè si gonfia, nè cerca le cose proprie » (1). Non può aver ribrezzo d' andarsene la santa vergine ad apprendere da questo l' abbassarsi: è scuola conforme alla dignità sua: qui troverà umiliato l' autore della purità, non pel fascio del peccato, ma per lo peso della carità: davanti a lui vedrà sè stessa spoglia di tutto, se a lui renda quanto da lui ebbe, posseditrice solo di un germe doloroso di corruzione; e da lui imparerà a vestire le stesse immondezze de' fratelli suoi, imparerà ad amare ancora la confusione, il vilipendio, l' affliggimento di quella carne, che allora comincia ad esser buona quando comincia ad essere mortificata per la carità o per la fede: perchè allora luce in lei quella Fortezza, che rende la vergine di Cristo inespugnabile a' nemici, e in tutti i combattimenti invitta. Questa verginità illustre, che fiorisce sulla somiglianza di Cristo, consociata alla Umiltà, è quella di cui, al dire de' Padri, si formavano i martiri, e per cui un' Agnese ed altre tali eroine prima, per dir così, d' esser della vita in possesso, attesa la tenera età, ne' tormenti la prodigarono (2). E` dunque la santa verginità da virtù circondata. Ha la temperanza seco, ha l' orazione, ha seco il santo timore, il pio ritiro, l' incorrotto digiuno, ha la nausea delle cose terrene, il gusto delle celesti, è protetta principalmente dall' umiltà, guernita dalla fortezza, esercitata dalla carità. Non si parla di stretta giustizia a chi crederebbe indegno di sè mancare alla misericordia. Ma di questo amore a' prossimi, che si può dire l' arte stessa o la professione della Vergine di Cristo, qui alcun poco è a parlare, soffermandoci principalmente a considerare di questa carità la PRUDENZA: perchè non sia fatua, ma savia quella vergine, che la esercita. Non parlerò pertanto della carità del prossimo distesamente: troppi ne sono e frequenti i trattati. Ognun sa, che il precetto è questo, che Cristo disse il suo (1); ognun sa la sentenza apostolica, che portare i pesi uno dell' altro è adempiere a tutta la legge cristiana (2). Ci sono dati intorno a questo primo comandamento di Cristo gli esempi, i precetti, le promesse. Di lui ridondano le sacre carte, e ad esse principalmente vi mando. Beete pure a quel fonte della carità, empitevi, inebriatevi. Avete Giovanni a maestro, avete Paolo. Il loro stesso modo di scrivere è eccitamento di amore. Io vi farò considerare pertanto sola una cosa, cioè quello di Paolo stesso: che la carità « si fa tutta a tutti »: ch' ella non si spande solo in eroiche azioni e grand' atti; ma ella si gode e s' intertiene ancora in cose più minute e triviali, nelle più inosservate e neglette, ivi talora giace più grande dove meno apparisce, ivi più sicura ove più nascosta. Ella è saggia, e non opera a caso, ella è sinceramente generosa, e non cerca nè i suoi capricci, nè i suoi piaceri. Voi vedete, che con questa magnanima virtù a lato io vi conduco fuori da quello stesso stanzino, dove nel capo anteriore condotta v' avea all' orazione, e vi faccio uscire in mezzo agli uomini, in mezzo alla società. Sì; se la donzella cristiana ama il ritiro, sa però scegliere quello che meno ama a persuasione della carità. Carità non è solo pascere gli affamati, o vestire i nudi: carità è ancora non dispiacere senza bisogno a nessuno. Non permette la Prudenza della carità che alcuno infranga le relazioni dello stato in cui si trova. E` la fanciulla cristiana in numerosa famiglia? Carità è non vivere a capriccio per seguire una perfezione imaginata: la perfezione è nel vivere a seconda degli altri, nel dispiacere a veruno, piacere a tutti. Carità è accomodarsi di buon volere agli usi innocenti, alle costumanze di quelli fra cui si vive, e fino a' loro gusti, se un dovere nol vieta, e prevenirli ancora con amorevole ingegno. Ma s' io meno vita comune mi conviene omettere molta orazione e molta mortificazione. - Orazione più bella e più grata a Dio è, per non dispiacere altrui, diminuir l' orazione. Mortificazione più meritoria è quella della volontà, che nel vivere comune si fa da colei, che amando più la stanza, sceglie prima l' onesta conversazione. Non dico la cerca, ma la sceglie quando a fare questa scelta attenzione di non ispiacere altrui la conduce, e di non ledere dovere di stato in cui è posta, e di non provocare dicerie. Se questi riguardi della civil carità non vi sono, segua la vita amata dal proprio fervore. - Ma nella vita comune mi dissipo lo spirito, trovo scandali ed occasioni di cadute, nè posso giugnere ad emendarmi. - Conosca adunque tale giovane, che questo non è amore di vita più perfetta, il quale l' attrae dall' esercizio d' una virtù più forte, più virile, più meritoria quale è quella della vita comune, ove la carità de' prossimi è in uso continuo, per non esserne capace, ad una vita più parziale e sequestrata. Non è dunque la perfezione che cerca, mentre la impaurisce una virtù più salda e perfetta. Vuol la vita che ha più nome di perfezione, e lascia la pratica della più perfetta virtù. Di poi, se onesta e pia è la casa della cristiana fanciulla, questa fragilità di solito è colpa, che nella solitudine porterà seco; conviene sradicarla, non metterla sana e salva a dormire, perchè ella ben presto si desta. Se poi la famiglia è un po' mondana, o anche libera, allora il riserbo è un dovere. Ma in ogni caso si fortifichi la cristiana donzella: la disposizione dell' animo, non tanto le occasioni al di fuori, nuoce alla vita. Pure, se in questa fortezza tardi procede, che altra regola le si può dare di suo contegno nell' umano consorzio fuor di quella di Cristo: « Se il tuo occhio ti scandalezza cavalti, e gettal via »? (1). Sì bene; le fanciulle si privino di quanto è loro pericolo d' inciampo. Pur se nel viver comune ed onesto la carità le regge, il Signore non le abbandona; mentre anzi ha loro posti i vincoli che altrui le lega, perchè abbiano esse dei doveri da esercitare, dei meriti da ottenere. - Ma io mi sento chiamata a stato religioso. - E bene: se la vocazione è provata, la ascolti e l' abbracci la pia donzella. Non poniamo a lei ostacolo di scegliere uno stato prima che l' altro; ma vogliamo che dello stato, in cui vive, serbi le leggi. La scelta stessa però di stato migliore non può esser da Dio, se in quella o si preterisce qualche dovere della società, o altri debbe patirne. Non trattenga però la pia giovane un terreno e falso dolore, che vegga in altrui, della sua felice elezione; ma bensì un danno vero e grave, che cagionasse il suo divisamento a quelli, co' quali è per naturali legami congiunta. Ma s' ella non è chiamata al chiostro, dimostri al mondo qual sia la conversazione dell' illibato Cristiano. In questo studi come in bel ramo numerosissimo di fronde, le quali colla spessezza emulano la grandezza degli atti della carità più magnifica. Con questo studio della religione sono nobilitate e rese sante le relazioni ed i mutui offizŒ del viver civile. E qui appunto, giacchè spesso da altri si trapassa, a me sarà caro un poco di fermarmi. Veggiamo dunque le regole colle quali la cristiana legge santifica i costumi, e le maniere sociali, e tutto il conversare degli uomini fra di loro. Dico, che gli uffizŒ del vivere civile, suggeriti agli uomini da natura, possono avere due fonti, cioè il piacer proprio, o l' altrui. Piacevole in vero ci è naturalmente la compagnia; essendo noi alla compagnia degli altri formati da natura; piacevoli ancora nell' uso ci si rendono que' bei tratti, e que' gentili portamenti, e tutte quelle leggiadrie, che usate vengono nelle nobili brigate al mondo. Non parlo, come vedete, di nulla che sia peccato in sè medesimo; intendo sempre qui favellare degli atti indifferenti del vivere, e per sè stessi innocenti. Ora conceduto, che questo trattar compagnevole nella pura teoria potesse al Cristiano piacere riferendone a Dio l' uso, asserisco però a tutta fiducia, che quando il civile convivere si tiene mossi da piacere proprio che se ne senta, allora ne debbe essere per lo meno sospetto. Dobbiamo vedere dentro di noi da che ci venga questo piacere; poichè egli può nascere o da certa sensibile amicizia che si eccita in mezzo a questi affabili modi, o da amore proprio lusingato dell' altrui compitezza e buon garbo, o finalmente da quella ambizioncella, per cui si desidera altrui piacere con doti esteriori o di avvenenza di corpo, o di eleganza di vesti, o di vivacità di parlare. Tutte coteste fonti di diletto sono guaste, o poco nette, e per lo meno non eccedono le propensioni naturali. Sì, ve lo concedo: nulla di questo muova il Cristiano a civiltà, egli sia pure morto al mondo, non ami avere piacere, non che di peccato, ma nè pur di quello che superiore a natura non sia, cioè di Dio. Per quanto si possano fare sottili scuse a simili compiacenze, e porre de' limiti, resterà sempre vero, che il cuore di chi le accoglie non è ancora crocifisso bastevolmente con Cristo, morto a se stesso: ei spera ancora qualche cosa dagli uomini: egli in somma è soffermato quaggiù da amore poco puro, non ha cangiate in sè stesso le inclinazioni naturali con quelle di Cristo. Che se io guardo alle conseguenze di questo umano piacere, ond' uomo è tratto ad affabil contegno, al tutto le veggo disopportabili e ree. Voglio adunque che il pio Cristiano non sia mosso a piacevolezza di vivere cogli altri da gusto umano, e suo proprio, da cui sono mossi gli altri; anzi che egli ogni sensibile amore tolga di sè, ogni vezzo dell' amor proprio, ogni gherminella dell' ambizione. Tutto quello che è nel mondo, dice Giovanni (1), è concupiscenza di occhi, concupiscenza di carne, e superbia di vita. Nulla dunque di questo sia fine al Cristiano, nulla ami di quanto è al mondo, e viva nel mondo senza partecipare del mondo. Così in sulla distruzione d' ogni sensibile umano affetto, in sul distacco da quanto è in terra s' innesti appunto in esso la legittima carità. La « carità », il dirò di bel nuovo, « non cerca quello che è suo » (2). E bene: non conversi con altrui il Cristiano per cagione di proprio piacere; conversi per rendere bello ed onesto piacere agli altri. Or quando onesto è questo piacere, quando legittimo? Varie sono le cose, che altrui possono dar piacere; ora egli è bello ed onesto, se apportiamo piacere colla virtù. Così ci insegnò anche Cristo a vivere cari agli altri: « Splenda la luce vostra in faccia agli uomini, sì che essi la veggano, e ne glorifichino il Padre celeste » (3). La virtù ha veramente una così amabile vista, che tutti, purchè la veggano, non possono se non amarla grandemente e ammirarla. Egli è questo quel bello « Amore figliuolo di Sapienza », di cui parlano le « Scritture », più grazioso assai e leggiadro di quello del mondo (4). E tale è l' ornamento, con cui il Cristiano piace al Cristiano. Lo insegnava alle cristiane donne Pietro, loro l' insegnava Paolo. [...OMISSIS...] Dirà taluno per avventura, che questa bellezza interiore dell' anima raccorrà lode e premio da Dio che la vede, giusto e per noi troppo sufficiente estimatore: ma non dagli uomini. Pure e l' animo tutto pudibondo, e che in tutto ama Dio, ben si dimostra al di fuori. Di qui anzi nasca la virtù della cristiana conversazione. E quale amabilissima e santissima virtù? Una virtù, io dico, che tutti, anche i tristi, saranno costretti di commendare: virtù solida, virtù sincera, virtù consentanea a sè medesima, che di sè non fa mostra, ma in sua propria modestia con più dolce lume risplende, virtù che niente esagera, che niente sprezza, che non giudica, che sopporta, che sa rendere ragione di sè, che studia di non uscire in nulla o meno che può dall' umano vivere pel compatimento dei deboli, che s' occupa in favore d' altrui, e negligenta sè stessa con dignità per soddisfare agli altrui desiderŒ, che fa dei servigi a tutti, sobria, grave, parca nelle parole, niente curiosa, ilare, e non rotta al riso, di nulla sollecita fuorchè di fare sempre contenti quelli co' quali vive anche ne' piccioli comodi della vita; virtù umana, dolce, compassionevole, che evita di prestare altrui occasione di scandalo e di dicerie per loro bene e non perchè ella le tema, che porta le altrui debolezze senza stento e con piacere; virtù in somma, che, essendo tutta in Dio fissa e a Dio raggiunta, con divina saviezza vive cogli uomini in sull' esempio dell' amabile conversazione di Gesù, e, mentre è bastevole ad ogni atto di eroica carità, sa raccorre, come ape ingegnosa, anche dalle più minute e giornaliere circostanze della vita, dolci succhi di carità, e formarne mele soavissimo ad altrui e a sè stessa. Oh quanto non torna amica e cara la santità di quel Cristiano, che, con sè stesso rigido, pensa con ogni dolcezza e benignità degli altri! che ignora per fino i difetti loro, di loro virtù si consola ed edifica, da tutti pronto ad apprendere, tutti ascolta, non ammette prevenzione, vede con facilità il vero ovunque ei sia, e pare che nella bocca degli altri con maggior piacere il trovi che nella propria, sagace in prevedere gli altrui incomodi, destro in toglierli, agli infelici s' unisce compiangendo, a' felici congratulando, sostiene talora senza un segno di noia i più noiosi racconti, e le altrui debolezze, gli altrui torti non saprebbero mutare nel suo volto il cortese, usato sorriso! Tutto semplice, grave, sincero, pieno di un franco e nobile tratto, alle leggi attemprato altrove per noi descritte (1); ei rende, un sì vero Cristiano, amabile agli uomini la nostra virtù. E quale atto maggiore di carità? quale più bell' oggetto della Prudenza, della Carità? (2). Onde quest' è ch' io dico: colla propria virtù dovere il Cristiano piacere altrui; non già cogli ornamenti o colle arti del mondo. Poichè allora veracemente giova piacendo. Insisterà alcuno, che se all' interna ornatura non si aggiungerà un poco degli umani vezzi ed ornamento di vestito, non sarà la cristiana donzella piacevole al mondo. Due cose aggiungerò a risposta: la prima, ch' ella non debbe desiderare, come dicea, d' essere piacevole se non per la virtù, e pe' modi di sua carità; e che colei, la quale in tal modo piace a Dio, piace anche a quelli che sono di Dio. A coloro, cui altro non diletta che il puzzo di carne, debbe abborrire ella di piacere. Allora quanto piace a' tristi, tanto spiace a' buoni. Non s' esercita con quelli carità piacendo, ma loro spiacendo; purchè si spiaccia non per altro che per la virtù, cioè pel monile più ricco e più bello di femmina santa. Avvi però nelle maniere sopra descritte della cristiana conversazione assai cose, a dir vero, che anche i mondani debbono amare e lodare, non solo per quello insuperabile segreto testimonio, che forza d' eterna giustizia astringe le anime umane di dare a virtù; ma perchè quella soave carità è anche tutta umana, e appaga molti naturali affetti e desiderŒ, studiando di renderli contenti in tutto quello che può, e stende una sedula ed amorosa cura fino nelle cose più minute, purchè non contrarie a virtù. Tuttavia essendovi tre modi, pe' quali si può dar piacere agli altri uomini, cioè colla virtù, colle cose per sè indifferenti come sono i fregi del vestire, ed ancora co' peccati, co' peccati si piace a' tristi, colla virtù aDio ed a' buoni, colle cose indifferenti poi alle persone naturali o spirituali mezzanamente. Co' peccati grave male è piacere, colle virtù gran bene: nell' uso delle cose indifferenti poi ha luogo una particolare saviezza per la quale nè si usino perchè si amino, nè si usino di più di quello che giovassero ad edificare, quasi funicelle per le quali attenendosi i deboli salgano mano mano a gustare cose migliori. Ma perchè non si erri in sì difficile affare, questa regola è fermamente a tenere, che in queste tali cose che vanamente piacciono si eviti la sconcezza, non si cerchi la raffinatezza . Questa regola tennero i Santi: e piace leggere come quella santa Edwige duchessa di Polonia, che anche a noi appartiene (1), usando veste troppo logora per amore di povertà, e udendo come a una sorella del monastero ove s' era ritirata quella spiacea, incontanente rispose: Se quest' abito vi spiace, son presta a correggermi del mio fallo , e lo mutò volentieri in un migliore. Carità è in vero evitare quello, che agli occhi non solo de' tristi, ma degli uomini naturali è difforme, per non dar luogo senza bisogno a noia, od occasione di mali parlari; come carità è ancora sfuggire quel ricercato e affettato ornamento che i vani vanamente diletta, perchè e col primo modo si toglie un disgusto come suole la carità, e col secondo si toglie un gusto vano come carità ancor più eccellente costuma. In somma in tai cose non si dia occasione nè di spiacere, nè di piacere a veruno: mentre e l' uno e l' altro è un male. Così la Prudenza della carità ricongiunge quanto puote il più insieme gli uomini, e amandoli tutti a tutto ha riguardo, anche alle loro debolezze, cercando nè di offenderle, nè di fomentarle: ad opportuna occasione poi anzi di toglierle.

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