Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Antropologia soprannaturale Vol.I

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

All' opposto la virtù di quello che merita piuttosto anzi coll' efficacia della volontà che coll' aiuto del conoscimento, la virtù del semplice fedele il quale pochissimo conoscendo delle cose divine, pure mantiene la giustizia e cerca ovecchessia di fare ogni cosa ch' egli creda dover piacere a Dio; questa virtù non pare che produca di sè stessa aumento di grazia, per modo che quell' uomo virtuoso ne rimanga più e più abbellito e perfezionato: ma l' aumento della grazia che quest' uomo riceve par che sia più un dono spontaneo di Dio il quale vuol premiare con essa la fedeltà che gli piace di quell' uomo semplice cui distingue perciò e decora coi doni suoi. Tuttavia, chi ben considera, anche gli aumenti di questa grazia si legano colla natura degli atti virtuosi di quell' uomo. E come questi atti traggono più il loro merito dalla volontà che dall' intelletto, così anche la grazia che si accresce a quest' uomo è diretta più a crescere la perfezione della sua volontà che le notizie del suo intelletto. Di che si può fermare il carattere che segna e distingue non meno quei due meriti che queste due grazie; cioè il primo merito trae dall' aumentata luce dell' intelletto, e la grazia che a questo consegue è perfettiva del lume intellettivo; il secondo merito trae più dall' energia della volontà, e la grazia che a questo consegue è più perfettiva della volontà. E così dicendo, non intendo già che manchi nella prima intieramente la volontà, e nella seconda intieramente l' intelletto; i quali due elementi dell' azione umana e morale non possono mai mancare: ma intendo dire che nel primo caso domina più l' intelletto e i gradi di merito si computano secondo i gradi di luce ch' egli acquista; nel secondo caso domina più la volontà e i gradi di merito si computano secondo i gradi dell' energia che questa acquista. Il che nulla vieta che la grazia, che illumina l' intelletto, non si rifletta altresì a corroborare la volontà; nè che la grazia, che da prima corrobora la volontà, non abbia virtù di schiarire poscia l' intelletto medesimo. Ora nello stato degli uomini innocenti, io mi penso che per queste vie dell' intelletto e della volontà gli uomini pervenissero al pieno possesso di Dio; e alcuni di essi per l' una via, altri per l' altra prima vi pervenissero. Ciò è consentaneo con quello che abbiamo detto dei due modi nei quali l' uomo può vedere Iddio, cioè in forma di cognizione e di amore. Perocchè così io penso meco medesimo che crescendo nell' uomo quella grazia, che mostra Iddio all' intelletto, questa per successivi aumenti potea pervenire fino a mostrare sì chiaramente Iddio fino a che l' uomo vedesse di Dio lo stesso Verbo, che è quanto dire la stessa sussistente divina conoscibilità: e che crescendo nell' uomo quella grazia che raccende l' amore della sua volontà, ella potesse pervenire a segno sì che l' uomo vedesse in questo amore lo stesso Spirito Santo, ossia la sussistente divina amabilità. E di vero ho già dimostrato che quel conoscimento di Dio che l' uomo ha per grazia, è un principio della visione di Dio (2), il cui termine è il Verbo: e quell' amore onde l' uomo per grazia ama Iddio è un principio di quel possesso il cui termine è lo Spirito Santo. E ora egli è manifesto che giunto l' uomo o alla visione del Verbo o al possedimento dello Spirito, egli è pervenuto con questo solo alla visione beatifica della divina essenza; conciossiachè nulla si pare che distingua le persone dall' essenza nella deità. Di che doveano poscia conseguirne a una tal visione tutti quelli effetti che di lei son proprii, cioè a dire la beatificazione dell' intera umanità, la quiete del desiderio nel suo termine, e dalla pienezza riboccante di gloria onde ebbrio è lo spirito, un travasamento anche nelle inferiori potenze, e quella cotale spiritualizzazione, di cui parla l' Apostolo, del corpo stesso (3). Il che tutto però doveva avvenire, secondo che a me pare, di una maniera oltremodo soave e appieno conveniente alla costituzione della umana natura. Noi abbiamo descritto il modo del conversar d' Iddio colle sue creature innocenti, cioè vestito di alcune forme sensibili e forse non diverse dalle umane. Dal Creatore così circoscritto e reso accessibile agli uomini di recente usciti dalle sue mani, i quali non avrebbero altramente potuto sostenerne la maestà, ricevevan essi gli ammaestramenti e i precetti e i consigli che loro abbisognavano. Ma non solo le vocali parole del Creatore risonavano ai loro orecchi, e per essi nelle menti e nei cuori; ma egli cadeva ancora sotto gli altri loro sensi, conversando con esso lui come con un Signore simile a loro. Da tutte queste sensazioni che ricevevano immediatamente dal Creatore velato e atteggiato alla loro capacità, usciva la grazia, che per la via dei sensi entrava nelle loro anime e le condecorava, in un modo non dissimile a quello onde la grazia esce da quei segni sensibili che nella legge di Cristo si chiamano Sacramenti. E per questa grazia poi cresceva in essi la percezione di Dio medesimo, e quel loro Creatore conversante in forma da cadere sotto i loro sensi, sempre più rendevasi sensibile e visibile al loro intendimento: sicchè quei veli sensibili onde il Signore si avvolgeva, si rendevano, per così dire, sempre men densi e lasciavano ognor più penetrare la vista spirituale dell' uomo a percepire la faccia di Dio, cioè la divina essenza. Certo è che anche la umanità del nostro Signore Gesù Cristo tramandava di sè certi cotali raggi divini, sicchè per essa si potea travedere la sua divina natura. Per questo egli diceva a Filippo: « Filippo, chi vede me, vede anche il Padre mio« (1) ». E si faceva maraviglia di non essere ancora conosciuto: « Io sono con voi da tanto tempo, e ancora non mi avete conosciuto?« (2) ». Perocchè le parole di Cristo, l' aspetto e i modi suoi avrebbero dovuto tutti insieme mostrare agli uomini, se ben disposti fossero stati, la sua divinità. Il Creatore adunque conversante in forme sensibili colle sue creature innocenti, avrebbe, in un somigliante modo, cioè per via di parole e di sensazioni, secondate dagli interiori doni di grazia, più e più manifestato e rivelato sè stesso agli uomini, fino a tale che questi avrebbero percepito coll' intendimento la stessa divina essenza; nè, mentre l' intendimento si levava e afforzava a ciò, sarebbero periti i loro sensi, i quali pure dall' oggetto divino sarebbero stati pasciuti, fortificati, perfezionati. E perchè l' uomo fosse preservato da ogni maniera di separamento mentre succedeva nel suo intelletto questo successivo aumento di divino lume e nei sensi esterni questo avvaloramento e perfezionamento, doveva anche nell' interno del corpo umano ricevere aiuto e nutrizione vitale; il che gli avveniva col mangiare il frutto dell' albero della vita, che era anch' esso un sacramento di quella età, dando all' uomo non pure un cibo di corporea sostanza, ma insieme con essa un dono soprannaturale d' incorruzione, una grazia e una virtù speciale (3). Il perchè gli uomini innocenti dovevano essere forniti di quella perfezione, della quale la mente di Platone trovò convenire a delle divinità minori. Perocchè avendo voluto quel filosofo ideare degli esseri forniti di corpo e di anima, i quali fossero altrettanti dei, cioè a dire esseri perfetti, attribuì loro l' immortalità e introdusse il sommo Dio a parlare agli dei da lui formati, in questo modo: Voi che siete nati allo stato di deità, or vedete di che grandi opere io sia padre o facitore. Queste opere sono indissolubili per cenno mio; sebbene tutto ciò che è colligato, di sua natura possa disciogliersi. Ma egli non è punto buon consiglio disciogliere checchè è colligato con ragione e con sapienza. Pure voi, sebbene nati immortali, tuttavia non potete essere anche indissolubili. Ma nulladimeno non verrete disciolti nè i fati della morte vi uccideranno: chè i fati non saranno più vigorosi del mio consiglio, il quale è un vincolo più forte a mantenervi perpetuamente che non siano que' fati, coi quali foste colligati allorquando venivate generati (1). Sicchè il vigore che lo faceva immortale era dato al corpo dall' albero della vita; e le parole e sensazioni che riceveva da Dio erano segni che a lui servivano come d' altrettanti mezzi ed aiuti co' quali pervenire alla visione beatifica di Dio medesimo. Ciò che abbiamo detto mostra quale era e doveva essere lo stato morale degli uomini innocenti secondo le cristiane tradizioni e le tradizioni de' popoli. Di più quello stato in cui abbiamo contemplata l' umanità, non è solamente dato dalle tradizioni, ma egli è altresì un ideale di perfezione che dalla natura dell' uomo viene suggerito e proposto alla mente contemplante. La quale mente, tosto che ha un concetto, non può a meno di discernere in esso le parti imperfette e le perfette e imaginare e aggiungere tutto ciò che gli manca: e quel concetto recato così all' ultima perfezione ideale di lui propria è dilettevole spettacolo alla stessa mente contemplatrice. Solamente v' ha questa differenza fra l' ideale stato dell' uomo a cui la mente cerca di sollevarsi, e quello che ci narra la cristiana verità, che la prima colla sua contemplazione non eccede i confini dell' essere ideale , quando la seconda ci parla di uno stato che appartiene all' essere reale : cioè la seconda è una storia che racconta realizzato quello che il pensiero non poteva venir ideando che come possibile. Veduta pertanto l' ideale perfezione dell' umanità e il suo realizzamento nella storia de' primi uomini creati da Dio innocenti in mezzo a questo universo sensibile di cui erano costituiti regi, rimane di abbassare ora lo sguardo a considerare lo stato della umanità presente, a rilevare se con quello che dovrebbe essere consente quello che è. Dico quello che dovrebbe essere , perocchè, supponendo accordato che l' uomo e il mondo sieno l' opera di Dio, egli è manifesto che non si dovrebbe trovarvi difetto alcuno, ma che in essa opera tutto dovrebbe essere perfettamente ordinato, e l' uomo e le altre nature di tale guisa fatte e disposte che nulla si potesse pensare di meglio; giacchè egli è evidente che un Essere sapientissimo ed ottimo che possa fare tutto quello che concepisce, non deve produrre se non cosa la più perfetta che cada in pensiero di chicchessia. Altramente se l' operazione di Dio non producesse un' opera conforme all' ideale della perfezione, egli è manifesto che un altro artefice potrebbe concepire più nobilmente ed eseguire l' opera dietro una più eccellente idea di quello che facesse Iddio: ciò che ripugna, e il tipo della perfezione non poteva sicuramente mancare alla mente divina, nè la divina volontà aver altra norma di operare che quel tipo, a realizzare il quale non trovava ostacolo alcuno, attesa la somma potenza dell' operante. Ora se l' opera di Dio non può essere altro che un realizzamento dell' ideale perfezione, e se l' uomo e le altre cose tutte sono veramente opere di Dio, come ammettono tutti quelli a' quali noi rivolgiamo il discorso; noi dovremmo, isguardando l' umanità e l' universo che la circonda, trovarla fornita al tutto della perfezione che abbiamo accennata descritta come a lei propria. Ma è ella dunque in uno stato così desiderabile l' umana specie? Vediamolo brevemente. Che la umanità sotto il peso di gravi mali e di molteplici sofferenze, non è cosa che esiga troppe parole per essere provata. L' esperienza della vita che ciascun mortale ha preso in sè medesimo e quella che ha potuto cavare dallo spettacolo de' suoi simili, è una prova troppo dura e troppo convincente a riconoscere che dalle lagrime della culla al sospiro della morte quaggiù l' uomo non varca che un mare di guai, di minore angoscia se breve è il viaggio; benchè neppure è dato all' uomo il sollievo della brevità della vita, che per legge di natura ama la vita e con essa la prolungazione delle sue fluttuazioni e de' suoi patimenti. Quando si considera gli ampi voti del cuore umano e quella felicità indefinita e immortale a cui aspira continuamente l' anima dell' uomo, e si paragona coll' immensità di questi desideri nati e contemperati coll' uomo l' estrema limitazione di quest' essere medesimo che non può mai realizzare de' suoi voti nè anco la minima parte, ma li trova tutti contrariati, illusi, scherniti, e non ha in sua mano nè il fuggire i mali, nè il procacciarsi nè anco i beni più frivoli, che pur dipendono dagli accidenti; egli par sovente giuoco maligno, un trastullo crudele della natura stessa, acconciamente chiamata da un savio del paganesimo matrigna e non madre, la quale con una mano gli sparga in cuore immensi desiderii e speranze, coll' altra percuotendolo delle più inattese sciagure, produca lo spettacolo di un essere fatto per una somma felicità che lotta indarno con una somma sciagura. Nè notizie più confortanti noi raccogliamo circa lo stato della umanità se la consideriamo sotto l' aspetto morale. Noi abbiamo parlato della corruzione morale congenita con noi nella prima parte di quest' opera, e abbiamo descritto lo stato dell' umanità sotto questo lato considerata seguendo la scorta dell' osservazione (1). Aggiungeremo sole poche parole a conferma di ciò che ivi abbiamo detto. In ogni città, dice Bayle, vi è patibolo e spedale: ecco in breve tutta la umanità. Gli uomini riflessivi di qualunque secolo sono stati altamente colpiti al vedere quell' inclinazione al male che nasce coll' uomo, che opera in lui prima ancora dell' uso della ragione, che infaticabilmente lo aggrava e precipita a tutti i disordini della immoralità. Cicerone non finisce di stupirne e ne fa in più luoghi la descrizione tutta al vero: [...OMISSIS...] . Tale è il fatto dello stato dell' uomo: l' uomo ha in sè stesso e nelle cose che lo circondano una fonte inesausta di mali fisici e morali. Or questo fatto innegabile, veduto sempre, confessato sempre e che ha parlato sempre altamente nella coscienza dell' uman genere, di tutti i popoli e di tutte le sètte, ha pur sempre anco prodotto la più grande maraviglia nei filosofi di buona fede, privi della rivelazione, i quali hanno confessato di trovare in esso qualche cosa di solenne, di portentoso, di inesplicabile. La ragione di questa maraviglia, e di questa somma difficoltà in assegnare una conveniente e verosimile spiegazione di quel fatto, sta in quelle dimande o questioni singolari che un tal fatto offre alla mente di chi lo considera e che sono principalmente le seguenti: La natura in tutte le opere sue si mostra sempre consentanea con sè medesima, e piena di sapienza e di bontà. Or come nel solo uomo, che pur sembra il suo capo d' opera, può esser mancata a sè stessa? Forse nella produzione dell' uomo fece ella uno sforzo che vinse le sue proprie forze? Perocchè altramente come si spiega la contraddizione che racchiude la natura umana? Da una parte quest' uomo appena entra nel mondo delle cose reali, ignora sè stesso, è impotente, pieno di bisogni, sempre in cimento di morire senza conoscere d' esser vissuto: egli campa per accidente, e ogni passo che fa, ogni respiro con cui assorbe l' aure della vita, è anco un passo che lo avvicina alla morte, e un respiro di meno che gli rimane: con grandi fatiche e fra patimenti allevato e suoi ed altrui, egli non esiste quasi per far altro che per cercare i mezzi di vivere, giacchè alla massima parte del genere umano non sopravanza tempo se non per spenderlo nel sudore della sua fronte; senonchè questo tempo stesso viene sovente rapito da tante specie d' infermità che in varie e crudeli guise straziano i corpi già destinati al supplizio della morte. E son pochi i morbi che distemprano e dilacerano i corpi, che gli uomini non vi aggiungano la propria crudeltà contro sè stessi: le divisioni e discordie, innalzandosi e gonfiandosi gli uni sopra gli altri, e rincrudelendo di più maniere, di che le guerre, le schiavitù, le tirannidi. E di fianco a questo stato delle cose sta pure nell' uomo, inseritovi da natura, un focosissimo ardore della libertà, l' anelito dell' amore, il bisogno indeclinabile della felicità, un sospiro alla vita, una vita incorrotta e immortale. Quella natura che ha messo in noi questi indettamenti, or come ci ha poi fatti così infelici? Che maligno diletto potea rallegrarla a donarci sì alti e sì implacabili desiderii, i quali dovesser poi esser tutti frustrati? O è ella una stessa autrice colei che parla nel fondo dell' uomo di grandezza, di pace e di beatitudine; e colei che ha poi formato l' uomo stesso pieno di abbiezione, di inquietezza e di miseria? O pure che l' uomo tragga l' origine non da un solo principio, ma da due opposti, il principio del bene e quello del male? Egli è vero che anche gli animali sono soggetti al dolore: ma privi come sono d' intelligenza essi nè conoscono, nè posson bramare una felicità che si stenda nella eternità e che si sollevi alla dignità morale. Il loro dolore come il loro piacere sono de' fenomeni inerenti alla loro natura e che passan con essa. Nel solo uomo tutto mostra dovervi essere uno spirito immortale ordinato a una spirituale e immortale felicità: nel solo uomo può aver luogo la deformità morale: e solo in esso la morte è una contraddizione col voto e coll' indole della sua natura. Chi adunque può giustificare la natura? E se la natura non si giustifica, se si ammette in essa stoltezza e malignità, non vi ha dunque più una intelligenza divina che presiede all' universo? Ed ella stessa che è questa natura tanto sapiente in ogni fil d' erba e ogni vile insetto, e tanto stolta nell' uomo? O chi la limita nel suo sapere, e nel suo volere, e nella sua possa? - Queste interrogazioni resero pensosa tutta l' antichità e fecero la disperazione di tutte le scuole de' filosofi. Nè meno i mali dell' uomo, ove si considerino senza il lume della rivelazione, sono difficili a conciliarsi colla giustizia di Dio: perocchè sotto un Dio giusto, come dice un Padre della Chiesa, nessuno innocente può essere misero. Or dunque come è misero il bambino prima ancora che conosca le cose che lo circondano, e che acquisti l' arbitrio della sua volontà? Come può esser misero colui che nacque ebete di mente e non potè mai usare a sua voglia le proprie potenze? Come può essere misero anche quell' uomo che condusse una vita benefica e virtuosa e che tuttavia perì oppresso dalle sventure? Se l' uomo per natura è innocente, come poi per natura è misero? E che l' uomo nasca colpevole, può egli cadere in mente ad uomo alcuno? Chi può concepire che l' uomo prima di essere abbia peccato? O chi può spiegare in che modo nel fanciullo di pochi giorni sia entrata la colpa? Le due questioni proposte sin qui si offeriscono alla mente considerando il fatto rispetto allo stato eudemonologico dell' uomo. Ma il suo stato morale non reca meno d' imbarazzo e difficoltà a spiegarsi. Perocchè, chi può assegnar l' origine, esclusa sempre la rivelazione, d' una tanta inclinazione al male, da cui l' uomo viene senza posa impulso? Una legge che porta nel suo cuore gli intima di essere giusto: e una propensione della sua natura lo sospinge incessantemente nella ingiustizia. Questa propensione intorbida i suoi pensieri, mette in tumulto i suoi affetti e la sua volontà: o non vede più la luce, e va barcolloni per le vie della iniquità; o la vede, e tuttavia non può seguitarla, ma ubbidisce alla violenza d' una forza che lo soverchia e lo padroneggia. Chi ha messo nell' uomo questa reità così potente? Se egli è il figlio della natura, o d' Iddio, si può credere che la natura o Dio gusti inserendo in una creatura, fatta per la virtù, un seme che frutta la immoralità e che egli stesso è immorale? Queste dimande l' uomo le ha sempre fatte a sè stesso; s' assottigliò per rispondersi, stupì della difficoltà che trovava a soddisfarsi, si indegnò seco medesimo, disperò di riuscirvi. E pure l' uomo non può vivere senza farsi qualche risposta a queste dimande, e in mancanza di una verità, inventa un sistema che con ogni sforzo d' ingegno vuole imporre per vero non solo agli altri ma anche a sè medesimo. I sistemi però inventati a spiegare il disordine dello stato presente dell' uomo, sono degni di ogni attenzione; poichè da una parte attestano il fatto di questo disordine e provano quanto abbia colpito la riflessione de' più grandi filosofi; dall' altra mostrano l' impotenza della filosofia a spiegare la condizione dell' uomo reale a lui medesimo. Uno dei sistemi di cui parliamo, fu quello che trovando nell' uomo due principii contradditorii, cioè l' aspirazione a una immensa felicità e con essa una somma impotenza di ottenerla ed una somma miseria, dissero che la cagione di quest' essere non poteva esser unica e che si erano avvenuti a formare l' uomo due principii interamente contrarii, il principio del bene e quello del male, indipendenti, supremi, eterni, essenzialmente nemici. Tale è il sistema de' Manichei e di un gran numero di sètte e di nazioni. Un altro sistema è quello abbracciato da Platone. Come il sistema de' Manichei pare che avesse più risguardo al male fisico e alle questioni che da lui nascono, così quel di Platone pare che più togliesse di mira le questioni che nascono dal male morale inviscerato nell' umanità. Egli veniva imaginando che le anime umane, prima d' essere inserite nei corpi, fossero state abitatrici degli astri e che avendo colà peccato fossero poi per giusta punizione di Dio legate nelle carceri dei corpi. Cicerone, che espone questo sistema e che non lo attribuisce tanto a Platone quanto alla più remota antichità, dice così: [...OMISSIS...] . Un terzo sistema che ha grande affinità col Platonico, è quello della trasmigrazione delle anime, tolto a seguire e reso celebre da Pitagora, per la quale trasmigrazione gli spiriti, passando per varii corpi e secondo varie leggi, venivano appurandosi. Tutti questi tre sistemi si perdono colla loro origine nelle tenebre della più remota antichità. Nel passo seguente di un dotto autore che tratta della religione dell' Indo, si trovano tutti questi tre sistemi avviluppati insieme in quelle religiose tradizioni. [...OMISSIS...] . Altre tradizioni, tolte egualmente secondo ogni apparenza dal Bramaismo, ci parlano di una ribellione di spiriti o di angeli acciecati come Brama dall' orgoglio e come lui precipitati nell' abisso. Aggiungono che Iddio creò il mondo visibile perchè nella sua misericordia egli volle dare un mezzo agli spiriti caduti di ritornare a lui. Cominciò allora il tempo, e con esso le trasmigrazioni delle anime che già prima erano puri spiriti (3). Qui si vede a un tempo la dottrina de' due principii di Manete, quella di Platone sul peccato commesso dagli spiriti prima di essere inseriti nei corpi, e la trasmigrazione delle anime di Pitagora: o certo almeno tutte quelle dottrine vi hanno grande analogia con quelle indiane. Le tre opinioni sopra esposte si trovano nei libri dei filosofi vestite di forme filosofiche e acconciate a modo di sistema. Ed esse hanno bensì subita l' azione della meditazione filosofica, ma nel loro fondo sono più antiche del nascimento della filosofia; sono opinioni popolari tradizionali, e dal popolo i filosofi le presero e le si appropriarono, lavorandole e riducendole per quanto seppero ad espressioni scientifiche (1). I filosofi stessi però giammai non si contentarono del proprio lavoro e si trovarono sempre impacciati con quelle opinioni tradizionali alle quali essi non trovavano nulla da sostituire di meglio; e tuttavia vedevano toccar esse tali punti, sui quali gli uomini volevano assolutamente o sapere o almeno credere qualche cosa. Lasciando adunque i filosofi per ora e ricorrendo al fonte ond' essi stessi attinsero, cioè alle tradizioni de' popoli, veggiamo se in queste nulla si trova di uniforme e di consentaneo nella faraggine delle favole, ove si abbia qualche raggio di luce che renda una verisimile ragione del grande fatto di cui parliamo, cioè dello stato misero e triste della specie umana. Tutte le tradizioni e tutte le mitologie si accordano in questo che narrano nel principio delle cose l' esistenza di una età d' oro, tempo di felicità e di virtù, dalla quale poi gli uomini sono scaduti per qualche loro mancamento. Per ciò con ragione dice Voltaire: La caduta dell' uomo degenerato è il fondamento della teologia di quasi tutti i popoli (2). Conviene adunque distinguere e separare tutte le frasche, per così dire, di che è stato imboschito questo fatto semplice e fondamentale dalla stemperata e strampalata imaginazione dei popoli e considerare lui solo che per tutto uguale si trova; come pure convien separarlo da tutte quelle invenzioni e ingegnose giunte, colle quali si pretese di spiegare il modo onde quel primo fallo che degradò gli uomini sia avvenuto, e come egli potè infettare e nuocere il genere umano sì fattamente fino a tanto in giù degradarlo. Il che ove si faccia, ritenendo quella sola parte della tradizione che intorno a questa materia si trova uniforme e costante fra tutti i popoli, si cava questo risultamento, che nelle tradizioni e credenze di tutti i popoli della terra per cagione del gran fatto della condizione misera e trista dell' umanità si assegna un peccato primitivo e originale. Non è mio intendimento di recare qui tutti i documenti storici che provano questa verità, i quali d' altra parte oggi son resi comuni: ma mi restringerò a un cenno sulla credenza indiana, la quale colla illustrazione che ha ricevuto dalle recenti scoperte ha viameglio dimostrato, che il fondo di tutte le tradizionali dottrine è il medesimo e che si trova sempre in questo fondo il peccato originale. La più antica religione (dice uno scrittore che toglie a esporre le diverse religioni o credenze dell' Indo) la quale si confonde coll' origine stessa delle cose, è quella che fu rivelata da Brahmƒ, il creatore del mondo, e da esso prende il nome di Brahamaismo. Brahmƒ (1) è la prima persona della Trinità indiana, Dio padre che s' incarnò il primo per venire ad annunziare la sua dottrina avanti ben molti secoli. Gli uomini allora vestiti d' innocenza e di pietà offerivano a lui de' sacrificii puri come i loro cuori, le primizie dei frutti, il latte dei loro greggi e non mai vittime di sangue. Ma questo culto sì semplice e sì commovente non potè durare sopra la terra. Gli uomini divenuti peccatori ne scancellarono fin l' ultima traccia; ed ecco perchè oggidì non si trova nè pur vestigio di qualche tempio dedicato a Brahmƒ. Ma nè le tradizioni popolari, nè i sistemi filosofici soddisfacevano pienamente al terribile problema dell' origine del male. I filosofi avevano fatto la critica alle dottrine popolari e sebbene avessero preso da esse il meglio di loro filosofie, tuttavia le sdegnavano, pretendevano di essere usciti dal volgo e sollevati a più alte regioni: avevano appunto contrapposti i loro sistemi filosofici alle opinioni popolari e preteso di supplire con essi a ciò che ad esse mancava. Ma dopo aversi dato questo vanto, veniva il momento, in cui sentivano la voce della propria coscienza, che diceva loro i sistemi da loro inventati non esser meglio soddisfacenti delle comuni credenze ch' essi avevano rigettate e benanco dileggiate; e confessavano talora ingenuamente mancar loro il modo di rispondere a quelle questioni che pure la natura umana faceva incessantemente a sè medesima. Così Platone, dopo avere insegnato con tanta sicurezza i peccati commessi dall' anime abitatrici delle stelle, s' accorgeva poi di non aver fatto con ciò che un cotal sogno filosofico, e scrivendo a Dionisio di Siracusa che l' aveva interrogato su questo argomento, confessava seriamente di non sapere che rispondere, e di non aver mai trovato alcuno che lo illuminasse in una materia così oscura e misteriosa (1). Per due ragioni i popoli e i filosofi non potevano uscire dal labirinto della strana questione sull' origine del male. Primo perchè lo scioglimento di una tale questione dipendeva dalla notizia di un fatto , di cui i racconti tradizionali avevano col procedere de' secoli alterate e confuse in mille maniere le circostanze; il che rendeva incredibile e inverosimile il fondo stesso del fatto, reso antichissimo e narrato in modi sì varii e sì contraddicenti fra loro e sovente anche del tutto assurdi. Ciò che dava buon appicco ai filosofi di rigettarlo, a' quali parea d' ingrandirsi e nobilitarsi col negar fede a ciò che aveva vista di essere una favola di donnicciuole. Secondo perchè quel fatto, quando pur si fosse conservato nelle tradizioni de' popoli senza alterazione alcuna, tuttavia egli riuscir doveva cosa oltremodo misteriosa e oscura. Sicchè il voler spiegare con quel fatto l' origine del male era cosa superiore alle forze della ragione naturale o certo della filosofia; nè vi aveva un' autorità infallibile che potesse comandare alla ragione stessa una cieca credenza al medesimo e alla spiegazione che per suo mezzo si dava all' esistenza del male fisico e morale sopra la terra. Egli è vero che il peccato originale (che come ognuno si accorge è il fatto di cui parliamo) fu nel suo fondo creduto da tutti i popoli, come abbiamo osservato, quasi per istinto, per un bisogno di credere pure qualche cosa che desse ragione dello stato miserabile della umanità. Ma questo peccato originale che colla spontaneità de' popoli veniva creduto, reggeva poi alla riflessione? Quante difficoltà non presentava a chi si ponea a ragionarvi sopra? Quanti misteri non involgeva che ributtava la filosofica ragione, voglio dire quella ragione che non soffre mai di trovare un mistero superiore alle sue forze e che negherebbe il sole di mezzogiorno anzichè confessare la propria limitazione. Primieramente il peccato originale è congiunto colla storia di uno stato della umanità infinitamente diverso dal presente, nel quale Dio e l' uomo conversavano insieme, per così dire, a tu per tu, stato di cui non si può avere esempio e già esso solo difficile a credersi. Di poi in che modo il peccato del padre poteva passare nei figliuoli? O come questi esser rei prima ancora che venissero in possesso dell' uso della ragione? E come castigati d' un peccato che non fu in loro arbitrio il non ricevere e che essi stessi non commisero? Egli è evidente che, acciocchè gli uomini potessero credere a questo fatto e alla spiegazione del male che da questo fatto dipende, non ci voleva meno che la testimonianza di un' autorità infallibile, incontro alla quale la ragione umana dovesse ammutolire e ragionevolmente dovesse dire seco medesima: io non veggo l' uscita di questo intrico: il peccato originale che mi si propone è per me un mistero, ma finalmente l' autorità che me lo annunzia è infallibile. Le mie forze sono limitate: se io non veggo come il peccato si possa propaginare e derivare nei figliuoli, non è per questo che non possa essere e che io medesimo non potessi vedere se crescessero le mie forze. Or come io veggo per certo che l' autorità che me l' annunzia non può fallire, così m' è forza di ammettere questo fatto del peccato originale, eziandio che egli involga in sè un altro misterio. Era adunque necessaria un' infallibile autorità che annunziasse agli uomini quel gran fatto che contiene la spiegazione dell' origine del male, perchè la facesse lor credere, perchè la facesse creder loro ragionevolmente, la facesse credere a tutti, la facesse credere non colla sola spontaneità, colla quale credono gli uomini che ancor sono nello stato d' infanzia, ma con una credenza che potesse tenersi ferma contro la riflessione degli uomini già avanzati e inciviliti. Perocchè un' autorità infallibile ben provata è forte contro all' esame di qualsivoglia riflessione, nè questa potenza critica, che tutto tende a distruggere ciò che non partecipa dell' infinito e dell' eterno, può addentrarla sventarla ed offenderla. Posto dunque che nel peccato originale sia la soluzione del gran nodo che presenta la questione dell' origine del male, egli è manifesto che nissuna filosofia, quando anche avesse conosciuto l' esistenza di questo peccato, era in grado di ammaestrare gli uomini di una tanta verità e di farla lor credere, perchè sarebbe sempre stata sprovveduta di autorità sufficiente cioè di un' autorità infallibile, chè meno non si richiedeva per infondere negli uomini la ferma credenza a una cagione sì misteriosa contenente in sè tanti elementi che ripugnavano all' assenso di una piena persuasione. Per questo dice acconciamente Lattanzio, che [...OMISSIS...] . Ora essendo all' uomo cosa di prima necessità il conoscere un tanto vero senza il quale rimane un enigma a sè stesso, un enigma insostenibile alla propria natura, che pur vuol sapere di sè qualche cosa e col quale solo egli può tranquillare l' animo suo, tentato altramente di negar fede alla sapienza della natura, alla giustizia e all' esistenza stessa di Dio, i quali sono i fondamenti della morale; egli è manifesto il bisogno che v' ebbe di una divina rivelazione coll' autorità della quale il mondo intero potesse essere certificato di questo dogma del peccato originale; il quale assicurato nella credenza degli uomini servisse come di base ben ferma a fabbricarvi su la morale conveniente all' uman genere nello stato in cui ora si trova caduto. E questa certa notizia dell' origine del male fermata nella credenza degli uomini è uno di quei sommi beni che diede loro il cristianesimo, che è quanto dire l' unica religione vera che fu sempre al mondo. Poichè questa si presentò al mondo con un' autorità divina e dopo avere persuaso l' umanità che era in nome di Dio che parlava, annunziò il dogma del peccato originale, che venne ricevuto senza più avervi difficoltà sulla parola di Dio. Così fu la Fede quella che soccorse al bisogno degli uomini a cui non poteva soccorrere la ragione umana. La qual fede vinse, per così dire, la stessa ragione dell' uomo, convincendola della sua limitazione e della sua impotenza a satisfare alle questioni essenziali che l' uomo le rivolgeva, al bisogno supremo di conoscere sè stessa, di sapere che ha l' umanità, e di operare in conformità e coerenza della cognizione di sè stessa. Se non che egregiamente dice S. Agostino che « la fede prepara l' uomo alla ragione e la ragione conduce alla intelligenza e alla cognizione« (1) ». Poichè quelle verità stesse che da prima son credute dagli uomini come altrettanti misteri sull' autorità di Dio che le rivela, venendo poi meditate dalla ragione medesima si vengono alquanto chiarendo, e la ragione che prima non vi rinveniva che fitte tenebre e apparenti assurdi, finisce collo scoprire in esse un abisso di luce e cava dal loro seno delle stupende cognizioni e trova che in esse si nasconde il più profondo della stessa scienza, e che quello scuro che da prima mostravano al di fuori non veniva tanto dall' essere quelle verità al tutto inaccessibili alla ragione, quanto dall' essere difficili e non asseguibili dalla ragione senza lunghe meditazioni e fatiche, e ciò che è più difficile a conoscersi è bene spesso la parte più sublime e vitale del sapere. Laonde se la fede non avesse fermata l' attenzione dell' uomo in verità così alte e preclare, queste sarebbero state perdute per la umanità: conciossiacchè l' uomo non si sarebbe giammai fermato a pensare lungamente e faticosamente in cosa a cui non prestava fede e nella quale nulla cagione il persuadeva di trovarvi nascosto profondamente un tesoro; ma sarebbe ricorso a vie più facili invenzioni e ipotesi e avrebbe queste continuamente rimutate; come quelle nessuna delle quali il poteva lungamente accontentare, senza pervenire giammai al fermo della salutare verità. Ma la fede mise l' uomo a dirittura in possesso dei veri più necessarii e degni, e così l' uomo ebbe la materia sulla quale esercitare poi la sua meditazione, materia raccomandata troppo bene all' attenzione di sua ragione dalla fede medesima che aveva persuaso l' uomo ivi dentro contenersi il più pregiato e il più recondito della sapienza. E il dogma del peccato originale può servire appunto di esempio di questo servigio che presta la fede alla ragione. Perocchè questo peccato che ricevono i bambini pur nell' atto di esser generati e che consiste in una vera macchia dell' anima, come dicono i teologi, non già solo in una esteriore e legale imputazione (2), in una macchia che rende l' anima giustamente degna di eterna dannazione, è tal cosa di che sembra nel primo annunciarsi che non possa darsi nulla di più strano e assurdo. E tuttavia ove si mediti lungamente, egli viene perdendo sempre più di quello strano e incredibile che nella prima faccia dimostra, e finalmente si perviene a trovare che egli non ripugna punto nè poco alla natura umana nè alla natura del male morale; e che tutta quella apparente assurdità che parea contenere non aveva altra cagione se non il non conoscere noi a fondo la natura intima dell' uomo e quella della sua moralità: e in nostra ignoranza a giudicare della possibilità del peccato originale con dei pregiudizii e con dei principii falsi intorno alla volontà dell' uomo e alla malizia o bontà della medesima. Il che io spero di dover dimostrare nel seguente capitolo, nel quale non farò altro che esporre il dogma del peccato originale; non ignudo, ma vestito e corredato di tutte quelle cognizioni intorno all' uomo e alla sua dignità o pregio morale che somministra la ragione filosofica. Le quali cognizioni gli t“rranno d' attorno per avventura tutto quel duro e aspro che ripugna alla ragione di coloro che non l' hanno se non per poco e superficialmente considerato. Gli espositori della verità cristiana dicono che il peccato originale è una « macula« » dell' anima. Egli è evidente che non si deve intendere la parola « macula« » materialmente, perocchè nell' anima non si dànno macchie nel senso proprio e materiale: dicendosi macchia in questo senso a quell' imbratto di colore che rompe e deforma la candidezza o comechesia il colore naturale di un corpo. E` dunque in senso traslato che si piglia la parola macchia quando si applica all' anima, e viene a dire una macchia morale, una deformità morale che deturpa e disgrega quell' ordine e bellezza di giustizia, di cui l' anima doveva altramente essere decorata. Egli è evidente che nella sola concupiscenza animale non può consistere peccato alcuno, perocchè il peccato è una macchia morale (1) e ogni moralità esige una natura intellettiva e volitiva. Ora nella sola concupiscenza animale non vi è possibilità di cognizione e di volizioni, ma solo sensazione e istinto cieco. Dunque nella sola concupiscenza animale non possono trovarsi le condizioni del peccato. Chi dicesse il contrario, dovrebbe attribuire moralità e immoralità anche alle bestie, nelle quali v' è l' animalità, contro il senso comune e la cristiana dottrina. Che nella nozione di peccato debbano avere luogo i due elementi della legge e della volontà , è cosa universalmente consentita da' savii (1). Ma nel fatto del peccato originale alcuni trovano questi due elementi essere stati in Adamo, e di questo sono soddisfatti senza più. Ma il venire imputato al bambino uno sregolamento della sola volontà del suo antenato Adamo, non sarebbe che la imputazione estrinseca del Caterino e del Pighio o di chichessia; sistema escluso da ogni cattolica teologia. E come, in tal caso, si avverrebbe quello che ha deciso il Concilio di Trento, che il peccato originale non è solo comune, ma proprio dei singoli bambini che nascono? (2). Il disordine adunque della volontà di Adamo potè essere cagione della propagazione del peccato nei bambini (3): ma perchè il peccato sia proprio di questi e non a questi solo imputato; perchè sia una macchia morale che contamina l' anima loro; conviene che il disordine del peccato sia altresì nella loro propria volontà. E perciò acconciamente dice Gaetano de Fulgure, che il peccato originale [...OMISSIS...] . Ciò che ha in sè di difficile questa sentenza tutto si dissipa colla chiara distinzione del volontario e del libero . Fino che non si conosceva che la volontà si può trovare in uno stato di necessità e in uno stato di libertà (5), questa materia rimase involta nelle maggiori tenebre. Ma le questioni intorno alla grazia, eccitate nella Chiesa in occasione delle dottrine di Baio e di Giansenio, condussero a fissare l' attenzione sopra la volontà istintiva, cioè in uno stato non ancora libero, e a conoscere che non si può confondere con una tale volontà il libero arbitrio propriamente detto. Dopo di ciò fu facile di concepire che la volontà poteva esistere nell' uomo fino dai primi momenti di sua esistenza e anteriormente al suo libero arbitrio; e che questo l' uomo lo acquista di poi a un tempo che acquista le cognizioni e che viene sviluppando il suo intendimento, poichè solo dopo che è in possesso della cognizione di più cose, egli può scegliere fra esse ciò che meglio gli aggrada: e veramente sarebbe un errore manifesto a supporre che vi avesse un tempo in cui l' uomo fosse, e tuttavia non avesse la potenza della volontà, ma l' acquistasse poi in isviluppandosi: il che sarebbe un mutare di natura, e da non uomo cominciare ad essere uomo. Come sarebbe pure un errore a pensare che nei primi momenti di sua esistenza l' uomo si trovasse privo dell' intelletto. Ora se vi ha la potenza della volontà in un bambino, ella è però evidentemente priva di libertà, in uno stato legato e necessitato. Ammessa poi una potenza di volere nell' uomo fino dai primi momenti della sua esistenza, forza è di ammetter pure un primo atto volitivo, o piuttosto questo è ammesso tostochè è ammessa quella. Conciossiacchè una potenza è essa stessa un atto primo, e ove ciò non fosse, non s' intenderebbe più che fosse, sarebbe un nulla, una parola priva di significato, o al più la possibilità di una potenza, e non una vera potenza. Così io posso concepire in un soggetto qualsivoglia, poniamo in un bruto, la possibilità che egli venga a conoscere e volere, per opera di Dio: ma questa possibilità meramente passiva non costituisce in lui nessuna potenza di conoscere e di volere: non è che un affermare che la onnipotenza di Dio potrebbe per avventura dargli la potenza conoscitiva e volitiva. A chi avrà ben inteso quanto abbiamo esposto altrove sulla natura della volontà e delle potenze in generale, non rimarrà dubbio intorno alla verità di ciò che qui affermiamo intorno alla volontà (1). Questa dottrina intorno al primo atto della volontà è connessa colla teoria dell' intendimento; perocchè ogni volizione suppone una cognizione, e una volizione primitiva dimanda dinnanzi di sè e come suo termine una primitiva e originale cognizione. Questa primitiva cognizione o concezione, se si vuol meglio, è l' atto che costituisce la natura dell' intelletto; perocchè essendo l' intelletto una potenza, anch' essa deve esser un atto primitivo, secondo il principio accennato, ingeneratore di tutti gli atti successivi. Ogni atto poi dell' intelletto esige un oggetto; di che la necessità medesimamente di un oggetto primitivo dell' intendimento che sia il primo cognito e pel quale si conoscano le altre cose. E fatta poi diligente inquisizione intorno a questo oggetto primordiale per conoscere che possa essere, abbiamo trovato che egli è l' ESSERE INDETERMINATO: indi la notizia chiara della potenza, che l' uomo ha fino dal primo suo esistere, di conoscere e di volere e degli atti primitivi che racchiudono queste potenze e le costituiscono. Perocchè avviene che la potenza di conoscere sia la potenza di veder l' essere e la potenza di volere sia la potenza di appetire l' essere. Avviene ancora che l' atto primitivo ed essenziale della potenza di conoscere sia determinato dallo stato imperfetto nel quale l' essere originalmente è presentato all' uomo da vedere, cioè nello stato d' INDETERMINAZIONE; e da questo oggetto stesso sia determinato l' atto della potenza di volere. L' elemento conoscitivo adunque e volitivo che costituisce la natura umana e che entra nella sua definizione (2), sotto un aspetto si può dire un atto e sotto un altro una potenza . Egli è atto relativamente a quella parte di essere che fin da principio è scoperta e presente allo spirito umano: ed è potenza relativamente a quella parte di essere che non è ancora scoperta e presentata da vedere e appetire allo spirito, che viene presentata poi da sentimenti e che forma l' oggetto delle sue cognizioni acquisite e corrispondenti volizioni. Ora conosciuta in tal maniera la natura della volontà, consistente in una costante appetizione dell' ente conosciuto (sicchè da prima non essendo conosciuto l' ente che in universale, non è che un atto o tendenza universale ad appetire, poscia conoscendosi degli esseri particolari si sviluppa in altrettante volizioni di questi); non è più impossibile il concepire la possibilità di un disordine nella volontà fino dalla prima esistenza di questa. E veramente la volontà (volizione rispetto all' essere conosciuto per natura , e potenza di volere rispetto agli esseri non conosciuti per natura, ma coll' aiuto dei sensi) si può considerare o dalla parte del suo oggetto , o dalla parte del soggetto uomo, di cui essa è atto. Egli è evidente che la volontà può venire alterata e mutata intrinsecamente tanto per mutazione che nascesse nel suo oggetto naturale e primo, come per alterazione del soggetto volente, l' IO, l' uomo stesso. Lasciando qui di parlare di quella alterazione che potrebbe sofferire la natura della volontà da una mutazione dell' oggetto suo naturale, possiamo ancor concepire la possibilità che la volontà soffra nella sua natura una cotale alterazione e disordine dalla parte del soggetto a cui appartiene. Perocchè se l' uomo, l' IO, soggetto della volontà, è difettoso e guasto, e se è soggetto a delle perverse suggestioni, egli par naturale che dovrà fare anche della sua volontà un uso torto e sregolato. Come ciò avvenga, io dirò più sotto, parendomi qui aver detto abbastanza perchè si possa concepire la possibilità di un disordine nella potenza di volere, considerata anche nel suo stato primitivo anteriore a qualunque suo sviluppamento. Fatto così luogo a concepire la possibilità di un guasto della volontà anche in un bambino, egli perde tutto ciò che aver possa di più duro, come dicevamo, la sentenza che esige come elemento essenziale alla nozione giusta del peccato originale una prava affezione nella volontà dell' uomo, sebbene appena generato e non ancor venuto al libero uso delle proprie potenze. E non può essere altramente dall' istante che il peccato originale non si dice già con questo nome di peccato per una cotal metafora o traslato, ma s' intende cosa che, come ha definito il Concilio di Trento, ha in sè la vera e propria ragione di peccato (1): il che è quanto dire di cosa immorale e per ciò di cosa essenzialmente volontaria. Quindi è che S. Tommaso insegna che il peccato originale non è una mera privazione, ma un abito corrotto (2), e l' abito è sempre una cotale disposizione delle potenze; e poi cercando a qual potenza principalmente appartenga quest' abito corrotto, trova che alla potenza della volontà, come quella appunto che presiede alle cose morali. Ecco alcuni passi del Santo Dottore, tutti consentanei alla sentenza che abbiamo proposta. [...OMISSIS...] Ma sebbene il peccato originale tocchi la volontà e deve consistere sicuramente in una stortura della volontà, tuttavia non può consistere in qualunque stortura della volontà, non può essere semplicemente la inclinazione al male della volontà umana. E veramente nei rigenerati dal battesimo rimane la inclinazione al male della volontà, e tuttavia è definito dal Concilio di Trento che il battesimo ha efficacia di t“rre dall' anima pienamente la macchia del peccato. [...OMISSIS...] Dunque la mala inclinazione della volontà, secondo il dogma cattolico, non costituisce da sè solo l' essenza del peccato originale. Abbiamo veduto che il peccato originale non può consistere nella concupiscenza animale considerata per sè sola (2), e che non può consistere nella sola mala inclinazione della volontà. Ma esso non può consistere nè anco nella lotta che hanno insieme la concupiscenza animale e la volontà. E veramente questa lotta, per la quale lo spirito concupisce contro la carne e la carne contro lo spirito, come dice la Scrittura (3); rimane nell' uomo anche dopo il battesimo, il quale pure è di fede che toglie dall' uomo tutto ciò che ha vera e propria ragion di peccato, come definisce il Tridentino. Il quale così soggiunge: [...OMISSIS...] . Dunque questa battaglia non è punto, secondo la cattolica fede, ciò che costituisce il peccato originale. Fin qui le nostre ricerche ci condussero a vedere che cosa non è il peccato originale, cioè come egli non sia nè una macchia nel senso materiale della parola, nè il puro istinto animale, nè la sola inclinazione al male della volontà, nè la lotta fra la concupiscenza e la volontà. Abbiamo trovato nulladimeno anche qualche cosa di positivo intorno alla natura del peccato originale, cioè che egli deve essere una macchia morale dell' anima e che per conseguente deve affettare anche la volontà dell' individuo che nasce e non la sola volontà del primo padre dell' uman genere che attualmente lo commise. Dobbiamo adunque ora seguitare la ricerca per comporci, se ci riesce, la notizia positiva di questo misterioso peccato originale. Se il peccato originale non consiste nella sola mala inclinazione della volontà, ma pure questa inclinazione mala è qualche cosa di essenziale nel peccato originale, converrà cercare da qual principio proceda questa mala piega della volontà, che cosa è che urge questa potenza e la inclina verso il male. Trovandosi questa inclinazione mala nell' uomo fino da' primi istanti della sua esistenza, questa inclinazione non nasce da un atto sopraveniente della sua libertà, ma questa piega è nata in lui anteriormente all' uso della sua libertà, e all' acquisto delle cognizioni che attinge da' sensi. Ora se la volontà non si piega da sè stessa liberamente nè da un essere esteriore che agisca nell' uomo, conviene che nella stessa natura umana vi sia un principio cattivo che seduca la volontà e la inclini al male. Poichè la volontà è una potenza che come tale non è inclinata nè da una parte nè dall' altra, e conviene perciò che qualche principio naturale la inclini, se questa inclinazione, come dicevo, è necessaria e non libera. Per questo un peccato che sia nell' uomo fino dai primi momenti della sua esistenza deve procedere da un disordine della stessa umana natura. E questo rende ragione del perchè S. Paolo dica che noi siamo figliuoli d' ira PER NATURA (1): e del perchè comunemente il peccato originale sia chiamato dai Padri anco naturale . Per questo S. Giovan Grisostomo il chiama radicale (2), toccando la radice dell' uomo, cioè il principio soggettivo: e S. Agostino dichiara che esso trasfondersi « occulta tabificatione naturae ». Veduto che il peccato originale ha per primo seggio l' intima natura umana, conviene che noi veggiamo come il peccato si abbatta nella natura e che dichiariamo l' ordine della umana corruzione. Per natura umana intendiamo il complesso delle potenze che si trovano nell' uomo, non meno che il nesso che tutte le unisce in un solo soggetto. Ora perchè il peccato appartiene all' ordine razionale, conviene che esaminiamo l' uomo principalmente come soggetto intellettivo e nello stato in che Dio l' ebbe posto sulla terra: indi quale sconcerto abbia prodotto nell' uomo la colpa. E richiamando quello che abbiamo detto intorno a ciò, l' uomo è soggetto intellettivo per la visione dell' essere indeterminato. La volontà è l' inclinazione verso il bene conosciuto; e perchè ogni essere è bene, è la tendenza verso ogni essere conosciuto. Indi nell' uomo vi ha un atto primo d' intelletto e un atto primo di volontà. Quello è l' idea dell' essere indeterminato: questo è la tendenza appunto indeterminata verso quest' essere. La natura umana adunque ha nel suo seno fin dall' origine un intelletto e una volontà in atto, e da questi risulta e si crea come da' suoi proprii costitutivi elementi. Ma Iddio, oltre aver dato all' uomo in sul principio la contemplazione costante dell' essere ideale indeterminato, gli ha dato altresì la percezione di sè stesso, essere sussistente e assoluto. Indi una nuova tendenza della volontà, la quale naturalmente doveva quasi direi, precipitarsi verso la pienezza dell' essere offertasi da concepire all' intendimento. Questo primo e veemente moto della volontà rispondente alla grazia divina (2), fu l' originale inclinazione al bene dell' uomo innocente, e quello stato di originale giustizia, nel quale era costituito e col quale dovevasi propaginare. L' uomo fu costituito da Dio perfettamente fino dal primo istante, nè fu un tempo anteriore, nel quale egli fosse posto nel solo ordine di natura e non anco in quel della grazia. Quindi nel primo uomo per la sua stessa costituzione la volontà trovavasi edotta, non solo in quell' atto primo che termina nell' essere ideale e indeterminato, ma si bene anche in quello che termina nell' essere assoluto e completo. La volontà in tal modo si era volta fin dal principio con un atto pieno e, come diceva, precipitata in quell' oggetto che è il TUTTO, del quale cercava di pienamente sfamarsi, per così dire, e bearsi. Se la volontà dell' uomo primo si fosse terminata solo all' essere ideale indeterminato, non ci sarebbe stata cagione di volere di più, almeno per molto tempo. Ma coll' aver conosciuto e gustato l' assoluto, doveva nascere in essa un bisogno tutto nuovo, una necessità di esso e senz' esso uno sforzo di cercarlo per tutto, una incontentabilità, una affogata brama e tendenza di completarsi con un suo atto che il tutto abbracciasse. Così noi veggiamo che l' uomo educato in piccolo e ristretto cerchio di cose, è pago nè sa bramar oltre perchè oltre non conosce: ma tratto fuori del suo paesuzzo o fatto discendere dalla sua montagna e dai tugurii passato nei palazzi e dalla scarsezza di tutte le cose nell' abbondanza, non avviene poi che restituito nell' umile e povera vita che faceva prima trovi la pace e il suo cuore gli sembri oppresso e per poco soffocato dall' angustia del casolare e dal ristretto numero di oggetti che lo circondano e che cagionano in lui poche, e sempre uguali e perciò noiose sensazioni. Conciossiachè la volontà sua ritiene ancora le brame che in lei sviluppatesi in essa nello stato di vivere dovizioso e ampio in cui era passato e nel quale aveva tratti da sè de' nuovi voleri e soddisfattili. E ora egli avvenne appunto così che la volontà del primo uomo mossa originariamente dall' oggetto assoluto, fu poi privata dopo il peccato di questo oggetto. Perocchè essendosi Iddio ritirato dall' uomo, non fece più nella sua mente quell' azione deiforme che abbiamo di sopra descritta; gli tolse la sua grazia, gli sottrasse il senso dell' essere sussistente: non lasciandogli che l' oggetto del solo intendimento naturale, cioè la tenue idea dell' essere e questo indeterminato. Ma nel tempo medesimo che alla volontà attuata e piegata verso l' infinito fu sottratto il suo oggetto, ella però rimase così piegata e così attuata: e non trovando più l' oggetto reale infinito perchè sottrattole, il suo atto, col quale il cercava, diede nel vƒno e tentò di trovarlo da per tutto, quando non era più in alcuna parte in ch' ella potesse colpire e giungere. Sicchè la volontà di Adamo doveva rimanere con una brama infinita che non poteva essere appagata e che pure voleva ad ogni costo essere; e però con un bisogno di fingere a sè stessa quell' oggetto che non aveva, e nutricarsi, per così dire, di vento, cioè di sue vuote finzioni: e questo ancorchè null' altro fosse avvenuto se non se sottrarsi l' oggetto infinito, posto a lei nella sua prima costituzione, da dover per inclinazione spontanea volare. Ma a ciò si sopraggiunse un atto di libero arbitrio, col quale l' uomo stesso stolse la volontà dall' oggetto infinito resosi a lei naturale e la piegò verso la finzione del bene, cioè verso il frutto vietato, il mangiare del quale per la menzogna del demonio fu creduto atto a render l' uomo sapiente e trarlo in istato via migliore ancora che non sia quello stesso della grazia di Dio. Sicchè liberamente l' uomo volse la volontà che dava nel bene reale, a dover dare col suo atto nel vƒno del bene finto, cioè falsamente imaginato, col quale atto anco la facoltà di eleggere , non solo quella di volere, fu storta, e datale mala piega, datole un abito vizioso; e quindi procedette principalmente e direttamente il guasto del soggetto stesso a cui la facoltà di eleggere appartiene (1). Per sopraggiunta accade che nel mangiamento del frutto l' istinto animale medesimo si rinforzò e alterò, venendone alterata e pervertita la materia del sentimento animale. Sicchè nacque in lei un' aspettazione (2) esagerata e ingannatrice, la quale doveva a sè rapire naturalmente la volontà che voleva un tutto e non aveva più ove rinvenirlo, (toltolesi dinnanzi il tutto reale ); e l' istinto alterato o la concupiscenza si presentava ella, quasi direi, ogni bene promettendole a ribocco sopra quello che potesse desiderare e portare. E si consideri che, parlando noi di senso, di volontà e d' intendimento, consideriamo queste potenze nel loro primo atto in quanto determinano la costituzione del soggetto, l' ordine intrinseco del medesimo e di quelle abitudini di cui questo primo atto è vestito; e non già nelle loro operazioni. Quindi pertanto si potrà formarsi il concetto del disordine avvenuto nel soggetto uomo mediante il primo peccato: ed ecco in che guisa. Egli è manifesto che l' atto onde Adamo peccò fu atto di libera volontà. Ora atto di libera volontà non è già un atto puramente della potenza, ma è atto immediatamente del soggetto (3). Perocchè l' uomo, collo scegliere liberamente, ha da una parte quello che l' intendimento retto gli rappresenta di vero, e dall' altra quello che la concupiscenza gli rappresenta di falso bene: e come in mezzo egli a ciò che gli offrono innanzi queste sue potenze, sceglie quella parte che più egli vuole. L' energia dunque della sua libertà viene dal soggetto immediatamente, e sceglie fra i risultamenti delle potenze e quindi è superiore alle potenze stesse e per così dire le signoreggia. Questa forza intima del soggetto è per sè stessa cieca, per così dire, perchè non ha altra ragione che pur sè sola: ma ella può sottomettersi all' intendimento retto e illuminarsi, ovvero può sottomettersi all' intendimento fallace e al senso e può illudersi da sè medesima. Or dunque quell' atto tutto libero, tutto procedente dal soggetto di Adamo fu quello che ingegnerò nel soggetto medesimo, in questa forza intima e primitiva che è il fonte della libera energia o piuttosto è ella stessa la libera energia, una mala disposizione e propriamente un ISTINTO di piegarsi al male, convalidato dalla remozione nell' intendimento dell' essere sussistente, e dall' accrescimento e alterazione d' impulso nel senso animale (1). Il perchè convien dire che come l' atto della libera energia, che è atto immediato del soggetto, fu cagione della rovina delle potenze dell' intendimento e della sensibilità, così viceversa il guasto di queste potenze reagì sul soggetto stesso e rese la sua forza volitiva debole e tarda e comecchessia oltremodo difettosa nel suo operare. Riassumendo adunque, l' ordine del guasto originale nella natura umana è il seguente. Il peccato cagione di questo guasto nacque con un atto libero, col quale l' uomo mangiò il frutto e così disubbidì a Dio. L' energia prima e elettiva propria del soggetto, togliendosi dal bene percepito anche soprannaturalmente e violentandosi alla finzione del bene, esorbitò, pigliò un nuovo peso verso il male e propriamente un ISTINTO del male (inclinazione al male morale) (2). La volontà già edotta in quell' atto che ha per iscopo l' essere completo (tutto l' essere, Iddio) e quindi bisognosa di un bene infinito; poi privata di questo, fu volta a cercare di fingersi una infinità di bene nelle creature (inclinazione al falso) (3). L' istinto animale finalmente fu reso violento e senza il freno delle potenze superiori, distratte, traviate e congiurate con lui. Il difetto della volontà e del senso reagisce sul guasto del soggetto, come il guasto di questo perverte la volontà e lascia il senso senza freno. Perocchè la volontà vuota di beni reali e bisognosa di essi non può aiutare al bene la energia radicale del soggetto, ma lasciarla pesare verso il male; la violenza del senso animale, quella aspettazione istintiva , menzognera, di un immenso e perpetuo piacere, deve trarre a sè la forza del soggetto e snervarne la facoltà di eleggere, come abbiamo detto avvenire per alterazione che nasca nella materia del sentire (4). Quindi vi ha una mutua perniciosa influenza fra questi tre principii dell' uomo: 1 il principio soggettivo elettivo; 2 la volontà; 3 l' istinto animale: per modo che ciascuno esercita un' azione corruttrice sull' altro, che aggrava il male della umana natura. Abbiamo detto che il peccato originale infetta e guasta la natura umana; or diciamo ch' egli corrompe lo stesso soggetto umano che lo riceve: ella è una conseguenza delle cose dette fin qui. Abbiam veduto che la volontà è piegata al male fino dal primo istante della esistenza dell' uomo; e ciò per un principio seduttore giacente nella natura stessa dell' uomo. Ora in quel primo momento non ancora è sviluppata la libertà umana, nè vi ha alcun atto riflesso della volontà con la quale l' uomo possa correggere l' inclinazione al male dell' atto primo e diretto. La volontà in quel primo tempo non ha che un atto solo, anzi nè pure propriamente un atto ma un abito: e questo è l' abito per conseguente dell' uomo. Conciossiachè la potenza attiva, in cui il soggetto principalmente risiede, è l' atto prevalente, e molto più se egli è unico, della volontà. Egli riman dunque il soggetto stesso infetto e peccante. Si consideri la conseguenza che deve nascere dal guasto della parte animale. Esso basta a spiegare l' infettamento del principio costituente il soggetto uomo: perocchè, come abbiamo detto, la concupiscenza animale tira e rapisce a sè la forza intrinseca e radicale del soggetto, e così la indebolisce e la perverte: e la volontà cercatrice e al tutto bisognosa del bene di cui è privata, lungi dal poter aiutare il soggetto, dal non darsi giù e farsi suddito al senso, anzi fattasi al medesimo infida consigliatrice, lo persuade a ciò e lo impelle. Perocchè è in quel bene vago e illusorio che con tanta baldanza le promette il senso materiale, che ella si persuade di poter riparare la sua perdita e felicitarsi, nè ha verun' altra cosa in che menomamente sperare, massime innanzi che l' uomo conosca i beni ideali e astratti. E un tal guasto, che per tal modo ridonda dalla natura, cioè dalle potenze nel soggetto, non si dee far già per intervallo di tempo; di modo che vi abbia un tempo nel quale le potenze sieno corrotte e non il soggetto, e vi abbia un altro tempo [in cui] la corruzione del soggetto veniente dalle potenze sia già compita: ma forza è che in un tempo medesimo e comincino a essere le potenze e in esse il lor guasto, e la comunicazione di questo guasto fatta al soggetto. Di che la ragione è che il soggetto non ha un' esistenza da sè, divisa dalle potenze; ma egli comincia a esistere con queste e in modo a queste consentaneo. Ciò che non sarà difficile d' intendere a chi si rammenta il modo onde abbiamo descritta la produzione del soggetto: il quale abbiamo detto per sè subitamente esistere tosto che sia dato un sentimento, una materia o un oggetto di sentire. E finalmente, in terzo luogo, anche lo stesso guasto delle potenze si attribuisce al soggetto, ove egli pure è infetto, per quella unità e armonica comunicazione che le potenze hanno col soggetto nel quale risiedono. E` adunque il peccato originale una infezione della natura per la disarmonia (1) e l' intimo guasto delle potenze, dalle quali la natura risulta: è una infezione del soggetto perchè essa va a infettare e depravare quel principio supremo di tutte le potenze, quel punto più eminente della natura umana che costituisce propriamente il soggetto, l' IO dell' uomo. Da tutto ciò che è stato detto si fa palese una via di conciliare la sentenza de' Tomisti, i quali insegnano che il peccato originale risiede primieramente nell' anima stessa e dall' essenza dell' anima trapassi a contaminare le potenze; colla sentenza di San Anselmo (2), di Giovanni lo Scoto (3), e altri (4), i quali sostengono il peccato originale aver sua sede primieramente e propriamente nella potenza della volontà. Questi secondi facevano risiedere il peccato originale nella potenza della volontà per la ragione che abbiamo toccata di sopra, che la sola volontà è la potenza morale, e che tutto ciò che nell' anima vi è di morale esser vi dee per cagione della volontà; e che perciò anche il peccato, essendo morale, e non è altro, come si definisce anche da S. Tommaso, che una stortura della volontà, egli deve nella volontà come in sua propria e primitiva sede ritrovarsi: ragione irrefragabile ed evidente. E tuttavia non è men vera la sentenza di quelli che abbiamo nominati, i quali vogliono che nell' essenza dell' anima, anzichè nelle sue potenze, il peccato originale s' incominci: e il contrastare di questi a quelli parmi una di quelle battaglie delle scuole, le quali collo schiarire de' vocaboli o coll' approfondire la materia vanno intieramente a pacificarsi. Conviene dunque sapere che dall' essenza dell' anima, secondo la dottrina di S. Tommaso, fluiscono le potenze. Se dunque per essenza dell' anima s' intende il principio delle potenze, egli è manifesto che, parlando dell' uomo, ciò che costituisce una tale essenza è quel principio stesso che noi abbiamo chiamato il soggetto, l' Io. Ora il soggetto l' abbiamo fatto risultare da due elementi, cioè da un principio sensitivo e da un principio operativo (giacchè il passivo e l' attivo non si possono mai dividere insieme) (1). E questo principio operativo del soggetto abbiamo detto che è una volontà primitiva e propriamente una facoltà di eleggere , che abbiamo distinto dalla potenza comunemente detta volontà; che questo principio operativo e volitivo costituisce l' essenza dell' anima, il soggetto, e non v' ha niente di attivo a lei anteriore nell' uomo. Or ecco la sede del peccato originale: ella non è nella volontà comune (potenza), ma nella volontà primitiva, la quale costituisce il soggetto uomo e con esso l' essenza dell' anima. Egli è dunque anche vero che il peccato originale risiede nell' essenza dell' anima. Io spiegherò qui sotto in che senso dica il Dottore angelico che il peccato originale macchi prima l' essenza dell' anima che la volontà; e qui mi basterà solo di notare che il Santo Dottore riconosce così necessaria la perversione della volontà a costituire il peccato che, tolta questa, è tolta l' essenza del peccato e che per ciò il peccato non comincia se non dove questa comincia, sicchè tutto ciò che di dispositivo vi può essere nell' uomo antecedentemente al guasto della volontà non è ancora peccato. E veramente cercando egli ciò che vi ha di formale nel peccato originale, comincia dallo stabilire questo principio: [...OMISSIS...] . E poi immediatamente soggiunge: [...OMISSIS...] . Nelle quali parole la mente del santo Dottore manifestatamente si appalesa. Perocchè ci riconosce in esse che non può avervi formal peccato prima che non sia storta la volontà: e per ciò qualunque infezione e guastamento fosse nell' anima anteriore allo storcimento della volontà, ciò non sarebbe peccato ancora se non materiale, cioè a dire materia del peccato sopraveniente e non essa stessa peccato. E mi gioverà aver fatta questa osservazione a schiarimento di ciò che mi converrà dire parlando più sotto della trasfusione del peccato di origine. Abbiamo veduto che il peccato originale è peccato della natura umana. E abbiamo veduto che egli è peccato altresì del soggetto umano. Or egli è manifesto da sè stesso che il peccato originale si fa peccato anche della persona, poichè il soggetto uomo, in tutti quelli che per naturale generazione discendono da Adamo, è una persona. Egli è per ciò che il Concilio di Trento definì essere il peccato originale non solo comune della specie, ma proprio di ciascuno che nasce (6). E S. Agostino nel medesimo senso dice: [...OMISSIS...] . Ed è per questo che il peccato originale tocca la persona, che ha tutta la sua proprietà la espressione del Grisostomo che chiama questo peccato radicale : conciossiachè la persona si può veramente considerare, sotto un aspetto, come il principio, la virtù, la radice della natura umana. Dalle cose dette noi potremo racc“rre finalmente una conveniente definizione del peccato originale. Perchè noi abbiamo veduto: che il peccato originale non è già una mera negazione o una mera privazione della grazia. Che esso non è già puramente un disordine nella natura animale, conciossiachè l' animalità non ha per sè stesso niente che sia bene o male morale. Che tuttavia il disordine dell' istinto animale, in quanto è congiunto individualmente al soggetto umano, si fa materia alla reità di questo soggetto. Che il peccato originale risiede nella natura intellettiva e volitiva dell' uomo: e principalmente in una stortura abituale della volontà (6), ma di quella volontà primitiva che entra come un elemento essenziale della natura umana e che costituisce il principio attivo del soggetto uomo e ancor più della persona (7). Di che abbiamo conchiuso che il peccato originale infetta la stessa personalità dell' uomo e che perciò, oltre al chiamarsi naturale, deve poter ricevere anche l' appellazione di peccato personale. Ora col nome di concupiscenza noi denomineremo in generale qualunque conversione dell' uomo al bene commutabile in onta di Dio (2): e dopo di ciò ecco la definizione che noi proponiamo del peccato originale: Il peccato originale è una cotal concupiscenza e inclinazione al male della volontà (non già solo dell' istinto animale) in quanto questa volontà è la suprema parte attiva dell' uomo, e però quell' elemento nel quale risiede la personalità umana. Noi abbiamo definita la imputazione delle azioni quello attribuirsi che si fa alla persona le azioni morali come a loro causa (3). Per ciò non vi è imputabilità dove il principio da cui muove l' azione non sia la persona. Ma il peccato originale abbiamo veduto essere anche personale, cioè infettare la stessa persona e ricevere da questa la sua qualità di vero e formal peccato come da suo primo principio formale. Per ciò è manifesto il perchè per cui il peccato originale venga imputato all' uomo che per generazione lo contrae. Ma di qual genere è ella l' imputabilità del peccato originale? Noi abbiamo distinto due specie di imputabilità, la imputabilità del peccato e la imputabilità della colpa (4). Noi abbiamo detto, quando la persona umana colla sua volontà è opposta alla legge, allora vi è peccato . Se questa opposizione della volontà è libera allora vi è colpa , cioè allora il peccato è imputabile a colpa (5). Or egli è manifesto, che il peccato di origine non si contrae già per un atto di libera volontà, ma si contrae solo per un atto di volontà personale sì, ma non libera, del qual atto non è in potere dell' uomo far senza, ma anzi egli vien generato e naturato in quell' atto; sicchè non è già un atto posteriore alla sua esistenza, ma è contemporaneo e congiunto con quell' atto medesimo, col quale da principio esiste. Dunque il peccato originale non può essere imputabile di quell' ultimo genere d' imputabilità che abbiamo accennato, ma sol di quel genere d' imputabilità che spetta al peccato che non è colpa personale: ad Adamo poi che lo commise liberamente fu imputabile eziandio a colpa. Egli è così che conviene intendere l' angelico Dottore quando, parlando dell' imputabilità del peccato originale, la riferisce sempre in Adamo: a quel modo che l' errore di una mano o di un piede s' imputa all' uomo o all' anima che mosse quella mano o quel piede. Si deve intendere che il santo Dottore parli del primo e del perfetto genere d' imputabilità, cioè della imputabilità a colpa: perocchè anche il peccato s' imputa alla persona, ma in altro modo, e talora non si diede a questo secondo modo il nome d' imputabilità. Ecco i passi dell' Aquinate: [...OMISSIS...] . E applicando questo principio al peccato di origine, così dice: [...OMISSIS...] . Sicuramente non voleva S. Tommaso con queste parole t“rre quella imputabilità del peccato originale che viene alla persona generata in esso dall' esserle peccato proprio: conciossiacchè è intrinseco alla natura del peccato che la persona che lo possiede abbia da lui vituperio e macchia di reità: il che è appunto quel genere d' imputazione che noi troviamo essere nel peccato originale e che è essenzial cosa in ogni peccato. Lo stesso si dica delle due specie di demeriti che corrispondono alle due specie d' imputabilità (2). Ognuno ben vede quale de' due appartenga al peccato di origine. Dopo fatta la sposizione della dottrina del peccato originale, egli è facile intendere come la rivelazione risponda alle tre grandi questioni che l' infelice stato dell' umanità offre al pensiero, che la filosofia non ha mai potuto sci“rre e che pur sono di tanta necessità all' uomo di saperne il risolvimento (3). Alla seconda questione che dimanda: come convenga alla giustizia dalle mani della natura, risponde la rivelazione che non la natura il fece tale, ma si corruppe da sè medesimo. Alla prima questione: come l' uomo possa essere uscito così misero divina che sia soggetto ai dolori e alla morte anche il bambino che non ha ancor commesso alcun peccato attuale, la rivelazione risponde che anche in quel bambino, pur colla sua medesima generazione, entrò una infezione segreta e intima che pervertì la sua morale natura e storse la sua volontà, rendendolo per tal modo di un volere perverso, e che è la pena di questa morale corruzione in tutti quei mali a cui va soggetto (1). Alla terza questione finalmente che cerca l' origine di quella perpetua lotta e contraddizione che l' uomo prova in sè medesimo, sempre sbattuto fra una legge augusta che gli intima il bene e un incalzante e perpetuo movimento che lo caccia al male, la rivelazione risponde esser quella legge impressa da Dio e non possibile a cancellarsi, ed essere quel funesto stimolo opposto alla legge la stessa ribellione dell' uomo al suo Creatore, ribellione mutata in una infelice servitù e in un istinto lagrimevole che il precipita al male. E così è sciolto il gran nodo e spiegato il grande enigma della natura umana. Questa proposizione è della fede cattolica. [...OMISSIS...] . Come abbiamo distinte due imputazioni, due meriti e due demeriti, così abbiamo distinte altresì due maniere di retribuzioni, di premii e di pene: l' una che consegue al peccato e che abbiamo nominata retribuzione e pena di fatto, l' altra che consegue alla colpa e che abbiamo nominata retribuzione e pena di diritto (1). La prima di queste due pene che si può dire anche pena naturale, perchè viene da sè come natural conseguenza del fallo commesso, è quella che appartiene al peccato originale. E veramente noi abbiamo detto che questo peccato è della natura e che essendo annesso alla natura come un cotal morbo, viene colla natura trasmesso, e per ciò una tal pena viene naturalmente comunicata. Abbiamo veduto che il principio supremo dell' uomo, la personalità, è quella che vien lesa dalla corruzione originale. Egli è appunto per questo che la corruzione originale ha la propria e vera ragion di peccato, sicchè l' infezione della persona è ciò che vi ha di formale nel peccato originale. Abbiamo veduto che anche tutte le potenze dell' anima sono state vulnerate dal peccato originale. Ora questa lesione e questo deterioramento delle potenze, quando si considera da sè solo, cioè prescindendo dal principio supremo costituente la personalità dell' uomo, allora non costituisce propriamente alcun peccato, ma solo ciò che si chiama la materia del peccato. Ove però questo guasto sia unito alla deformità della persona, allora forma una cosa sola col guasto personale per l' unità individua che formano le potenze col loro principio supremo: allora anche il guasto delle potenze partecipa la ragione di peccato: allora nell' uomo si considera una sola grande e universale corruzione, la qual tutta è morale e tutta insieme dicesi peccato originale: e solamente per astrazione della mente si può considerare il guasto delle potenze a parte dal guasto della persona, chiamando quello la parte materiale del peccato. Nè solo il guasto delle varie potenze si considera come formante un solo peccato di origine col guasto della persona; ma le stesse operazioni che fa l' uomo impulso e mosso dall' originale colpa si possono considerare come comprese nel peccato di origine. Di che si vede ragione onde nelle divine Scritture si dica che l' uomo è concepito non solo nel peccato, ma nei peccati: [...OMISSIS...] . Or da quello che fu esposto apparisce come le potenze, non solo prese in relazione con loro e col soggetto principio di esse, ma ben anche considerate singolarmente, soffrono dalla infezione originale una intrinseca alterazione e deterioramento. Considerate poi in relazione col soggetto che è il loro principio, le potenze ricevettero dalla infezione originale la disarmonia , per la quale non si trovarono più egualmente sottomesse al soggetto medesimo: e ciò era degno, dopo che l' uomo si era sottratto dalla soggezione a Dio (2). Una evidente prova di fatto di questo cotale indebolimento che ricevette la signoria del soggetto sulle potenze, e della prevalenza presa da queste su di quello, si ha in ciò che il soggetto trovasi impacciato e legato nell' operare delle potenze: di maniera che a ogni potenza, per così dire, riesce di tirare a sè il soggetto e interessarlo tutto, per così dire, dell' affare suo; quasi come un debole principe che vien guadagnato facilmente dai partiti e prende impegno degli interessi parziali, prodigando in servigio di essi la sua autorità e potenza che dovrebbe essere riservata solo all' interesse generale. Così, a ragione di esempio, l' istinto animale suol talora esercitare una tal forza sul soggetto che il soggetto o è impedito dall' usare della ragione, o vien tratto a usarne in servigio dello stesso appetito e, per affetto dato a questo, anche a traviare il ragionamento in errori e fallacie. Se il soggetto avesse un proprio sentimento sì forte e dignitoso, in cui trovasse più nobil diletto che in quello che a lui dà o promette l' istinto animale, non abbasserebbe mai sè stesso mendicando la sua felicità da questo istinto e nell' interesse di questo riponendo tutto l' interesse proprio. Or solo in tal caso egli potrebbe essere signore dell' istinto animale, facendone quel conto, nè più nè meno, ch' egli si merita: in tal caso egli avrebbe una indipendenza dall' istinto animale e potrebbe lasciar operare l' istinto animale, senza prendere egli parte nella operazione, senza mettere in azione la forza propria a vantaggio di quell' istinto e senza muovere a favore dell' istinto la potenza razionale. In tal caso avverrebbe ancora che le operazioni di istinto animale nell' uomo non potrebbero turbare, nè alterare o impedire la intelligenza ne' suoi esercizii; e che anche nelle massime commozioni del senso animale una tranquillissima calma e un' attività imperturbata regnerebbe nella mente. E infatti l' istinto animale non ha veruna diretta comunicazione colla intelligenza, e queste due parti sono due essenze separate, l' una delle quali, per così dire, non sa niente dell' altra e per ciò non può agire l' una sull' altra nè sturbarsi a vicenda. Ma mediatore fra esse è il soggetto, ed è questo che comunica con l' una e coll' altra e che muove l' una e l' altra (1): ed è perciò che quando l' istinto animale ha tirato a sè e guadagnato il soggetto, allora per mezzo del soggetto muove a sua voglia e turba l' intelligenza (1). Egli è per questo che nell' uomo perfettamente costituito dalla natura le massime dilettazioni animali non potevano menomamente turbare l' uso della intelligenza. Egli è per questo medesimo che nel divino Redentore i movimenti della natura animale non impedivano quelli della razionale, ma che gli uni e gli altri erano tenuti indipendenti come a lui piaceva. [...OMISSIS...] . E per contraddistinguere questa passione ammodata di Cristo che non trascorre fuori dei limiti della sensibilità animale nè va appunto a dominare la ragione, separandola da quella passione smodata a cui va soggetto l' uomo corrotto, i teologi inventarono il nome di propassione e dissero che quella di Cristo era una propassione, e una passione quella degli altri uomini (3). Un' altra prova della debolezza della forza del soggetto si è che ove le potenze inferiori non riescano a tirare a sè e disporre del soggetto stesso, stando questo saldo in opporsi a ogni smoderato lor desiderio, allora si partono da lui e operano senza sua dipendenza, rifiutandosi a ogni soggezione. Sicchè o tirino esse il soggetto nei proprii interessi, o nol tirino, mostrano egualmente che egli è troppo debole ed esse troppo forti, perocchè o lo hanno legato, o esse almeno vanno sciolte da lui. E perchè il soggetto umano è persona, le potenze, se operano d' accordo colla persona, hanno un atto personale, ed essendo riprovevole questo atto, il male che fanno è personale: o dove il loro operare dall' intenzione della persona discorda, ivi cessa dall' essere personale e rimane solo un disordine materiale. S. Agostino, parlando delle conseguenze del peccato originale, le distingue secondo le potenze passive e attive dell' umana intelligenza; e nelle potenze passive trova essere la piaga dell' ignoranza , e nelle potenze attive la difficoltà di fare il bene (1). Vi fu altri che, analizzando la difficoltà di fare il bene, trovò che ella nasce da tre infelici principii, cioè dalla malizia che impiaga la volontà , dalla debolezza che impiaga quella interna forza per cui l' uomo è atto alle cose difficili, e che fu detta irascibile ; e finalmente dalla concupiscenza che offende l' inclinazione al diletto, detta concupiscibile (2). Ora perchè tutti questi danni, in quanto riguardano la parte morale dell' uomo, ricadono tutti in detrimento e perversione della sua volontà , per ciò noi ci tratterremo solo a raccogliere qui in poche parole ciò che ebbe a soffrire la libertà umana dal peccato originale (3). Il potere della libera volontà nello stato dell' uomo innocente si stendeva non solo alla virtù naturale, ma ben anche alla soprannaturale. Ma il potere di operare soprannaturalmente venendo all' uomo conferito dalla grazia, egli è manifesto che, sottratta la grazia, l' uomo non ebbe più questo potere. E in ordine appunto alla virtù soprannaturale si devono intendere molti luoghi di S. Agostino, ove sembra dire che sia perito il libero arbitrio dell' uomo. L' uomo non potè più operare cosa alcuna di buono in quell' ordine dal quale era decaduto e nel quale non era in conseguenza di sua natura, ma solo in conseguenza di un dono sopraggiunto alla sua natura gratuitamente da Dio (4). Nello stesso ordine di cose soprannaturali si devono principalmente intendere quelle parole di Cristo: « Senza di me non potete far nulla« (5) »; e quegli innumerevoli luoghi delle divine Scritture ne' quali si afferma la necessità della grazia divina per qualsivoglia opera salutare, eziandio per le parole e pei pensieri (6). E ciò perchè sebbene l' uomo nell' ordine naturale possa fare qualche cosa colle forze della natura, purchè Dio lo aiuti come autore della natura, mantenendogli l' esistenza e le forze coi loro atti; pure questo qualche cosa è detto nulla nelle Scritture, perchè è un vero nulla per l' uomo, conciossiachè è nulla al fine di esso uomo, cioè all' eterna salute che è come il frutto, a portare il quale l' uomo fu creato. Perciò Cristo illustra il suo detto: « voi senza di me non potete far nulla« »; colla similitudine del tralcio che non può far nulla senza essere inserito nella vite. Questo far nulla del tralcio reciso dalla vite equivale a non portare il suo frutto: ed il tralcio della vite veramente non fa nulla se non vegeta e non produce il suo frutto, sebbene gli rimangono tuttavia le proprietà del legno secco e sia idoneo per avventura a certi usi e ad ardere. Cristo dichiarò ancora il suo pensiero in quei luoghi, nei quali, invece di dire che non potevano far nulla, disse in ragione di esempio: « Nessuno può venire a me se non gli è dato dal Padre mio« (1) »; o usò altre simili espressioni che evidentemente trattano dell' eterna salute degli uomini, del bene completo spettante all' ordine soprannaturale. Che cosa poi sia quest' ordine di cose superiore alla umana natura, appare manifestamente da ciò che abbiamo detto nel libro I di questa opera, dove lungamente abbiamo dei due ordini naturale e soprannaturale tenuto ragionamento: e le cose quivi ragionate or più che mai ci bisogna rammemorare. Conciossiachè risulta da quanto colà fu detto che la operazione soprannaturale fa due cose nell' uomo: 1 o dà delle notizie nuove; 2 o dà nuova luce e forza alle notizie naturali. E applicando questa distinzione alle cose morali, ne verrà che il lume della grazia produrrà nell' uomo che lo partecipa 1 delle obbligazioni nuove , le quali corrispondono alle nuove notizie da lui per tal lume acquistate; 2 e certe modificazioni circa le obbligazioni vecchie, cioè circa le obbligazioni che aveva l' uomo di eseguire i precetti naturali, di modo che egli debba, avuta la grazia, eseguire i precetti naturali in un modo nuovo (soprannaturale): le quali modificazioni corrispondono alla nuova luce aggiunta alle notizie precedenti e naturali. Or, ciò posto egli è evidente che, essendo perito nell' uomo col peccato tutto che aveva di soprannaturale, esso uomo perdette il potere non meno di eseguire i precetti naturali in modo soprannaturale. Ed è questa dottrina come evidente in sè stessa, così conforme alla mente dell' angelico Dottore, il quale, dimandandosi se l' uomo possa adempiere i precetti della legge colle sue forze, risponde: [...OMISSIS...] . I precetti adunque naturali si possono eseguire in qualche parte, ma non già in un modo soprannaturale, e solo in un modo naturale: altramente il libero arbitrio dell' uomo sarebbe interamente perito, contro la definizione del sacrosanto Concilio di Trento. E qui conviene avvertire che l' uomo, il quale si trova nell' ordine della natura, e a cui perciò è impossibile l' operare nulla nell' ordine soprannaturale, poichè in ciò fare non ha nè meno la facoltà, non è obbligato di eseguire i precetti naturali in un modo soprannaturale, conciossiachè, come dice il Concilio di Trento, Iddio non comanda le cose impossibili. Chè se l' uomo, che si trova nell' ordine della natura, fosse obbligato ad eseguire i precetti naturali in un modo soprannaturale, in tal caso egli peccherebbe ogniqualvolta operasse il bene naturale: il che è contrario a quanto è stato definito dalla Chiesa nella condanna di quella proposizione: Che tutte le opere degli infedeli sono peccati (2). Egli è bensì vero che la virtù naturale non porta alcun effetto soprannaturale e perciò non dà all' uomo in alcun modo l' eterna vita, la quale consiste nella visione di Dio; ma se l' uomo che fedelmente eseguisce la legge della natura viene escluso dal celeste regno, il quale aver non si può che per la grazia di Gesù Cristo, non ne siegue da questo che egli debba venire anche positivamente punito con giudizio proprio e speciali supplizii destinati a farvi scontare le sue buone opere naturali. La quale dottrina, sebbene noi sappiamo spiacere a certi Teologi di stretta sentenza, tuttavia noi la teniamo, intimamente persuasi di aderire con essa ai sentimenti della Chiesa cattolica e alle decisioni dell' Apostolica sede. E forse la divergenza delle opinioni fra i teologi che trattano di queste materie nasce dal non essersi ancora dopo tante dispute sufficientemente chiarite le idee elementari della controversia: il che vogliamo provarci a far qui noi brevemente. Ma prima, o simultaneamente, rendiamo ragione della nostra sentenza. La difficoltà che trovano gli avversarii è nel precetto dell' amore di Dio. Perocchè, dicono essi, egli è necessario che i precetti stessi naturali, acciocchè sieno bene eseguiti, si facciano pel motivo dell' amore di Dio. Ma l' amore di Dio è certo non potersi avere se non per dono di Dio stesso. E perciò l' uomo senza la grazia non può eseguire i precetti naturali pel giusto motivo; e in questa mancanza di motivo è il peccato che lo condanna anche allora quando egli adempie la materialità del precetto naturale. Ora noi crediamo che in questa materia si deva primieramente esaminare la vera natura del precetto di amare Iddio. Egli è espresso in queste parole: « Amerai il Signore Dio tuo di tutto il cuore tuo e in tutta l' anima tua, e in tutta la mente tua« (1) ». Egli è il medesimo che dire che l' uomo deve amare Iddio con tutte le sue forze, cioè con tutta la facoltà di amare che ha l' uomo, o, come è in S. Marco, con tutta la sua virtù, la quale risulta dalle forze del cuore, della mente e della stessa vita animale. Perciò in questo precetto non si comanda già all' uomo che ami Iddio con quelle forze che egli non ha: nè gli si comanda che egli impieghi all' amore divino quelle facoltà o potenze che non sono ordinate a questa operazione. Perocchè se tutte le potenze, anche di altra natura non ordinate all' operazione dell' amore, soggiacessero al precetto di amare Iddio, converrebbe che questo precetto obbligasse anche le pietre e gli animali, i quali hanno pure delle forze e delle potenze, ma il cui oggetto non è Dio conoscibile e amabile. Sarebbe ciò contro la natura delle cose: e questa oppugnazione della natura non può essere nella legge che viene da Dio, il quale è l' autore di essa natura. Laonde ciò che è comandato all' uomo si è di amare Iddio con tutto il potere che egli ha, sia questo potere naturale, sia soprannaturale. E perchè la grazia aggiunge una cotal forza alla essenza dell' anima congiungendola con Dio, della quale partecipano tutte le potenze; per questo in virtù della grazia viene ordinato all' amore divino il cuore, la mente, e l' anima, e a tutte e tre queste parti dell' uomo viene aggiunto un potere dalla operazione della grazia di tendere soprannaturalmente in Dio. Se ciò non fosse, ne verrebbe anche un altro assurdo, che la quantità del divino amore non potrebbe crescere, nè diminuire negli uomini: ovvero che in quell' uomo nel quale il divino amore non fosse pervenuto al sommo, cioè a tale che non potesse più crescere, per quantunque grande fosse il suo amore, non valesse nulla, ma sempre in lui esistesse il peccato e la violazione di quel massimo precetto di amar Dio con tutto il cuore, con tutta l' anima, e con tutta la mente. Il che è sommamente assurdo e sommamente contrario alla cattolica verità, la quale ci ammaestra anzi a credere che anche il giusto, fin che trovasi in questa vita, può crescere sempre in amore, e cresce e crescerebbe tuttavia ove anco la vita sua fosse lunga come quella de' Patriarchi e più. Or che è ciò? Ciò nasce da questo che l' uomo non è obbligato di amare Iddio con quel potere che egli non ha, ma sì solo con tutto quello che egli ha; e che l' amore può crescere perchè può continuamente crescergli questo potere con un grado maggiore di grazia che Dio gli conferisca. E perciò nessuna maraviglia che vi abbiano molti giusti i quali, amando disugualmente Iddio, sieno nondimeno tutti giusti, perocchè tutti amano Dio col potere che hanno e tutti adempiscono il precetto che loro comanda di amare Iddio con quel cuore, con quell' anima e con quella mente che hanno. Perocchè quel precetto non dice amerai Iddio col cuore, coll' anima e colla mente; ma dice col cuore tuo, coll' anima tua, colla mente tua: che è quanto dire con quelle parti e facoltà che tu hai. E una dottrina contraria a questa addurrebbe, per mio avviso, ogni uomo in disperazione: perocchè qual uomo mai potrebbe vivere con buona fiducia di adempire il gran precetto dell' amore se fosse altramente? Or posto che abbiamo questo fondamento, egli mi par certo altresì e consentaneo agli insegnamenti dell, Apostolica sede, avervi un duplice amor divino, l' uno naturale, e l' altro soprannaturale. Egli è notabile la proposizione condannata da Pio V: [...OMISSIS...] . Dunque è vera la contraria, che la distinzione di un doppio amore, naturale e gratuito o soprannaturale, ha suo ragionevole fondamento. Vero è che l' amor naturale e l' amore soprannaturale non è ben descritto ed espresso in quella proposizione: conciossiachè la natura dell' amor naturale non consiste già in questo che si ami Iddio come autore della natura, ma che lo si ami con forze e facoltà naturali, insomma con amore naturale. Conciossiacchè può Iddio amarsi come autore della natura, e tuttavia amarsi soprannaturalmente, se ciò si fa per istinto dello Spirito Santo. E questa è una di quelle distinzioni per mancanza delle quali io dicevo non essersi ancora intieramente chiarite le idee elementari di questa controversia. Il perchè non pochi teologi ritennero che fosse uopo la grazia per amare Iddio anche come autore della natura: e bene e ottimamente così ritennero secondo il loro intendimento, perocchè intesero di un amor di Dio, il quale si riferisse bensì all' autore della natura, ma fosse insieme un amore supremo, un amore sufficiente alla salute; ciò che è quanto dire un amore soprannaturale (1). L' amore dunque naturale di Dio consiste in amare Dio colle forze naturali, in amarlo come naturalmente il conosciamo. E certo è che esiste nella umana natura un potere di amar tutto ciò che l' uomo conosce come buono. Ma l' uomo può conoscere naturalmente Dio e conoscerlo come bene; perciò sarebbe affatto gratuito e contrario a ciò che insegna l' osservazione intorno alla umana natura il dire che questo bene che naturalmente conosce, nol possa altresì amare a quel modo che l' uomo ama qualunque altro bene tosto che da lui è conosciuto. Egli è vero bensì che la cognizione che l' uomo può avere di Dio per natura è sommamente tenue, perocchè essa non si appoggia a nessuna percezione, ma finisce tutta in una cognizione che abbiamo chiamata ideale7negativa, e che abbiam di sopra diligentemente descritta. Egli è vero ancora che un oggetto, che non si conosce se non mediante una cognizione così tenue e imperfetta, non si può amar vivamente; perocchè sebbene si conosca per bene sommo e infinito, tuttavia il modo di questa cognizione fa sì che questo bene sommo e infinito sia presente al nostro spirito debolissimamente e non vi eserciti se non una minima azione: un' azione che noi abbiamo chiamata ideale per distinguerla dall' azione che fanno su di noi le cose reali, cioè le cose di cui abbiamo la reale percezione. E tutto ciò prova la poca efficacia che deve avere questo amor naturale di Dio: ma non prova già che questo amore naturale non esista: prova la necessità della grazia perchè l' amore di Dio domini stabilmente nelle anime nostre: prova finalmente che questo amore non può reggersi a lungo contro a delle forti tentazioni, delle quali tentazioni è piena la vita umana, che le percezioni delle sensibili cose colla loro violenza tirano e governano a loro talento. Ma non prova già che alla forza che ha la natura umana di amare e che fa suo oggetto tutte le cose anche solo idealmente concepute, non possa punto fare suo oggetto anche Dio medesimo. S. Agostino dice che la natura invita ad amare Iddio e invita non solo quelli che hanno l' abito della grazia, ma tutti indistintamente gli uomini. « Il cielo e la terra, egli dice, e tutte le cose che in essi si contengono, ecco da ogni parte mi dicono che riami, nè cessano di dirlo a tutti acciocchè sieno inescusabili« (1) ». E il medesimo ripete di continuo la divina Scrittura intesa a far delle cose create scala al Creatore, come specialmente in quel sublime passo di Giobbe che comincia: « interroga i giumenti e ti ammaestreranno; e i volatili del cielo e ti daranno cenno« (2) ». Dove l' uomo è sollevato a considerare la grandezza del Creatore dalle cose dell' universo. Or se l' uomo ha questa cognizione di Dio, se da questa cognizione esce il debito di amarlo e ne sente la convenienza e suprema necessità; onde poi si dirà che per solo questo oggetto, il maggiore di tutti, gli sia impossibile fare un atto di amore, quando pure ha per natura il poter amare ogni altro oggetto che conosca sotto specie di bene? Egli è vero che il grado e la qualità dell' amore non è in proporzione dell' oggetto conosciuto, ma del modo di conoscerlo , come dicevamo: ma ciò non prova se non che l' amor naturale è tenue e inefficace, sebbene è amore. Egli è di questa inefficacia che deve parlare S. Agostino; è dell' amore soprannaturale che ei vuole alludere quando, dopo aver detto che il cielo e la terra il chiamavano ad amar Dio, soggiunge: « Ah! da più alto tu fai misericordia a cui fai misericordia, e misericordia farai a cui la farai: chè altramente il cielo e la terra parlano ai sordi le lodi tue« (3) ». Perocchè quelli che non hanno la grazia non possono intendere appieno le voci della natura, le quali certamente chiamano ad amar Dio non solo naturalmente, ma soprannaturalmente ancora: e così le intendevano i Santi, i quali da ogni oggetto naturale venivano innalzati ad atti di amor di Dio soprannaturale. Dopo di tutto ciò ancor resta a vedere se sia cosa del tutto sicura che i precetti naturali non si possano onestamente compire se non pel motivo dell' amore di Dio, e che adempiti senza questo motivo contengano una reità, una colpa. E intanto mi par di poter affermare come cosa certa che quell' uomo, il quale non abbia se non le sole forze della natura, tutto al più non possa essere obbligato se non ad adempire i precetti naturali pel motivo di un naturale amore di Dio, il quale abbiamo veduto esser possibile. Perocchè in tal modo egli dà al Creatore tutto quell' onore e quell' ossequio supremo del quale egli è capace, nè più esige dalle sue creature l' ottimo degli enti. Ma dopo di ciò io sostengo che nè pur tutto questo sia necessario, acciocchè l' esecuzione del precetto naturale sia interamente buona; ma che basti che il precetto naturale si eseguisca per amore della giustizia. Egli è vero che l' amore della giustizia si può, in un cotal senso, prendere per un amore di Dio, perchè Iddio è la verità e la giustizia stessa: e dove si prenda in tal senso, accordo anch' io che ogni precetto naturale, perchè sia onestamente eseguito e non abbia in sè alcun morale mancamento, debba essere adempito pel motivo dell' amor di Dio. Ma più propriamente parlando, mi sembra doversi distinguere l' amore di Dio e l' amore della giustizia: perocchè la giustizia, come noi naturalmente la veggiamo, non è che un ente ideale, una regola della mente nostra, una idea, e propriamente la grande, la prima idea, l' idea dell' essere in universale. Ora un' idea non è ancora Dio, perocchè Dio è anche una sussistenza. Egli è vero che quell' ente medesimo che da noi idealmente si concepisce, ha una sussistenza in sè che noi non veggiamo e che veggendola noi ci si rivelerebbe in forma divina e lo percepiremmo allora come Dio. Ma fino a tanto che lo percepiamo idealmente, non lo percepiamo come Dio, e ciò che facciamo per la riverenza e l' amore che riscuote da noi questo ente ideale, non si può, a tutto rigore, dire che noi il facciamo ancora per riverenza e amore di Dio; sebbene divina sia quella forza che riscuote da noi tanta riverenza e tanto amore. Ove non contendo di parole, come dicevo, e se si voglia mi accompagnerò a quelli che dicono operarsi da noi per amore di Dio tutto ciò che si opera da noi per amore della giustizia: purchè però mi si conceda di denominare l' amore della giustizia un amore di Dio mediato , e l' amore di Dio come essere sussistente, un amore di Dio immediato . Ciò adunque che io accorderò sarà questo solo, che perchè nel modo di eseguire i precetti naturali non ci abbia peccato, è necessario che essi si eseguiscano per un amore di Dio mediato . Che se poi si eseguiscono per un amore di Dio immediato , allora l' operazione nostra non solo non ha in sè stessa alcuna immoralità, ma ella ha un grado di perfezione: e questa è la perfezione della giustizia naturale. Che se poi essi si eseguiscono pel motivo dell' amor di Dio immediato e soprannaturale, l' operazione nostra ha conseguita la perfezione anche nell' ordine soprannaturale. Ciò che mi persuade questa dottrina è non solo la ragione dell' assurdo che ne seguirebbe se vera fosse la contraria, cioè che Dio giustissimo punisce le operazioni fatte per l' amore della giustizia; ma ben ancora il parermi solo fra tutte consentanea alle decisioni della Chiesa. Consideriamo le proposizioni condannate da Alessandro VIII intorno al peccato filosofico. Esse sono le seguenti: [...OMISSIS...] . Se queste proposizioni sono condannate, dunque convien dire che sieno vere le contrarie: dunque un atto umano contrario alla retta ragione è un' offesa di Dio per sè, senza bisogno che colui che lo commette conosca Dio o a lui pensi. Ora un atto umano contrario alla retta ragione è lo stesso che un atto contro alla giustizia: dunque chi pecca contro la giustizia, offende Iddio senza più; la deformità dell' atto va a offendere Dio stesso appunto perchè Dio è la giustizia. Se dunque ciò è vero, sarà vero, altresì al contrario che quegli che opera in ossequio della giustizia, opera in ossequio di Dio (2); che il suo atto terminando nella giustizia, termina in Dio stesso e che perciò non può essere disaggradevole a Dio. Egli è che Dio non è conosciuto nel suo essere sostanziale e reale, ma dal momento che si conosce la verità e la giustizia, egli è con questo solo conosciuto almeno nel suo essere ideale: e questa cognizione della verità è comune a tutti gli uomini. Il perchè egli è certo che tutti gli uomini in questo senso conoscono Iddio per natura, sebbene molti il possano ignorare nella sua sostanziale e personale sussistenza (3). Egli pare dunque certo che nell' ordine della natura l' uomo, il quale opera pel motivo della giustizia naturale, non pecca nè in quanto alla sostanza del precetto, nè in quanto al modo. Si dirà probabilmente che consistendo la giustizia nell' amare le cose secondo quello che meritano e il lor merito essendo determinato dal modo della loro esistenza, non si può amare nessuna cosa legittimamente se non in Dio, perchè dipende da Dio l' esistenza di ogni cosa. - Ma rispondo che la obbligazione che abbiamo di amare le cose non è proporzionata all' esistenza delle cose come ella è in esse, ma come questa loro esistenza è nella nostra cognizione. Or in quelli che non conoscono Dio come essere sussistente o che attualmente non ci pensano, basta come dicevamo che le operazioni loro sieno riferite in Dio mediante quello che abbiamo chiamato l' amore mediato , cioè l' amore della giustizia, la quale luce sempre presentissima nelle anime intelligenti; perocchè in questa disposizione di operare è compreso virtualmente anche l' amore di Dio immediato. Si ripiglierà dicendo: che l' uomo essendo a principio costituito in uno stato di grazia, si trovò obbligato con ciò stesso a praticare la virtù anche nell' ordine soprannaturale. Or l' uomo si rese impotente a ciò col peccato. Ora egli è dunque sua colpa se gli mancano le forze a praticare la virtù soprannaturale. - Ragionevole è la istanza; e io non nego che l' uomo sia riprovevole in causa del mancargli le forze soprannaturali. Ma tutto ciò che ho detto non riguarda la causa dell' operazione, ma riguarda l' operazione stessa, e l' operazione non è punto difettosa se vien fatta per la giustizia. Vero è che gli manca un pregio, cioè la grazia: ma questo mancamento rifondesi nel peccato originale, è un elemento, una parte del peccato originale stesso. L' uomo cioè che nasce col peccato originale, operando giustamente secondo la legge naturale, non si aggrava già di un nuovo peccato; ma non resta nè meno di essere peccatore nella sua origine. E questa risposta credo poter soddisfare a qualsivoglia ragionevole avversario. Da tutte le quali cose consegue che all' uomo, sebbene infetto dal peccato originale, rimane qualche parte di libero arbitrio con cui può fare degli atti di virtù naturale (1). Sarebbe poi un entrare in altra ricerca chi si facesse a stabilire qual grado di forza s' abbia una cosifatta libertà, e per farne un cenno, dico che questo grado di libertà non si può con una universal misura definire, poichè varia nei varii uomini. Solo due cose si può dire in universale, la prima che in qualche modo definisce questo grado negativamente; e la seconda positivamente. Negativamente si viene in qualche modo a definire il quanto di questa libertà dicendo, che ella è poca e non tale che valga a vincere gravi tentazioni: ciò che consegue dalle dottrine già da noi esposte (2). Ove dunque la causa della virtù sia congiunta con quella della felicità ossia de' beni temporali, l' amore della virtù non riceve alcuna scossa e può operare. In ragione di esempio, la santità del giuramento nel caso di Regolo e il dovere di difendere la patria erano sostenuti e congiunti coll' amor della patria e della gloria e mediante questa alleanza di beni temporali e reali potè vincere la grave tentazione de' supplizi che gli vennero minacciati (1). Ma questa grave tentazione non l' avrebbe probabilmente vinta col solo motivo dell' onesto e del giusto, quando nessun altro motivo di amor temporale non fosse concorso ad aiutarlo in ciò. Dove adunque l' amore della giustizia non è combattuto da veruna tentazione, egli è uno stimolo sufficiente all' uomo per operare: ma dove abbia incontro delle tentazioni forti, l' uomo con lui solo non regge, vincendo l' amore della cosa reale sopra l' amore della cosa ideale, sebbene tanto più nobile e autorevole; ed è necessario in questo caso che il forte urto che produce contro il proposito della giustizia l' amore della cosa reale sia eliso da qualche altro amore pure di cosa reale acciocchè la giustizia prevalga. Positivamente poi si può in qualche modo determinare il grado di forza della naturale libertà dell' uomo, dicendo che egli è pari a quel grado di forza che può avere od acquistare nei diversi uomini l' amore della giustizia. Or quest' amore della giustizia varia di forza secondo le indoli naturali degli uomini, le educazioni e le abitudini contratte. E a tutte queste cose si deve aver riguardo ove vogliasi determinare in qualche modo quanto l' uomo colle forze naturali possa essere giusto (2). Certo che si ha per dimostrato da una funesta e universale esperienza che l' uomo non vale a reggersi giusto colle forze naturali per tutta la vita, nè per molto tempo, nè relativamente a tutti i precetti naturali; conciossiacchè troppe sono le tentazioni e troppo violente. E ciò basta a poter affermare che ogni uomo anche nell' ordine della virtù naturale è infermo e aggravato d' ingiustizia. Abbiamo veduto che pel peccato originale rimase infiacchita la forza della libertà con la quale l' uomo esercita la virtù naturale. Ora ci rimane a dichiarare meglio la natura di questo infiacchimento. Ogni atto onesto si pone in virtù di un giudizio di special natura che noi abbiamo chiamato giudizio pratico (1). La forza dunque della libertà non è altro che la forza di formare questo giudizio pratico a favore della virtù. Egli rimarrà dunque spiegato come la libertà sia stata vulnerata e indebolita, allorquando avremo dichiarata la ragione perchè in noi sia scemata la forza di formare il giudizio pratico in favore della legge della giustizia. Il giudizio pratico è quello pel quale noi in sull' atto dell' operare nostro, diciamo, considerate tutte le circostanze del momento, che qui e ora sia più bene per noi l' azione onesta, che la sua contraria: conciossiacchè, come abbiamo veduto, ciò che noi giudichiamo essere più bene per noi, tutto ponderato, nell' istante in cui operiamo, quello indubitatamente operiamo. Pratico adunque è quel giudizio che è il più particolare di tutti, e che precede prossimamente l' azione; cioè quel giudizio che determina del bene particolare, del bene risultante da tutte le circostanze in cui ci troviamo. E questo è ciò che il distingue dal giudizio speculativo, il quale è universale e non calcola le circostanze tutte dell' istante in cui cade l' operazione: ma solo ha riguardo all' oggetto e alle circostanze idealmente e specificamente considerate. Quindi è ancora che il giudizio speculativo non suole riguardare che una classe di bene, per esempio il bene onesto: come sarebbe che uno dicesse: si deve fare la tal cosa, la legge comanda la tal' altra; ovvero il bene eudemonologico, come chi dicesse: è utile questa operazione, è velenosa questa specie di frutti. Ma all' incontro il giudizio pratico abbraccia tutte le specie di beni, e, consideratele tutte, conchiude dicendo: qui e ora è meglio che faccia questo. E da questa differenza fra il giudizio speculativo e il giudizio pratico si vede la ragione per la quale il giudizio pratico si trova molte volte in opposizione collo speculativo; e quindi qui è altresì la spiegazione di quel verso che è tanto ripetuto, perchè descrive un fatto solenne della natura umana: « Video meliora proboque, deteriora sequor ». Il giudizio speculativo dice, a ragione d' esempio: la legge comanda di non fare la tale azione. L' uomo che trascinato dalla passione la fa, non ignora questo giudizio speculativo e parziale, cioè riguardante il bene onesto. Ma egli nell' atto dell' operare contrappone a quel giudizio speculativo un giudizio pratico il quale dice così: è vero che io perdo facendo questa azione il bene onesto, ma dall' altra parte il diletto che ha congiunto è tanto grande che io lo preferisco al bene onesto, e per ciò giudico che, nel momento presente, per me sia meglio il farla. Questo è un giudizio ingiusto ed in ciò sta la reità dell' azione: ma egli appare però da tutto questo come la facoltà che ha l' uomo di peccare, sia preceduta dalla facoltà di errare volontariamente: poichè tale doveva essere il nesso fra il conoscere e l' operare in un ente ragionevole; per modo che ogni colpa è figlia di un errore (1). A conoscere dunque onde procede l' infiacchimento della libertà relativamente alla naturale virtù, conviene investigare quali sieno le cagioni che sebbene l' uomo conosca speculativamente il diritto e l' onesto, e sebbene egli sappia altresì che il bene onesto non ha comparazione con altro bene alcuno, ma possegga una somma e infinita dignità; tuttavia nell' atto di operare preferisca a esso il bene eudemonologico quale di presente gli apparisce. Or ciò nasce dall' apparirgli questo bene sommamente vivace, quando l' onesto nol percepisce che assai languidamente, e ciò per quelle ragioni che abbiamo accennato altrove lungamente. Il primo male conseguente al peccato di origine dalla parte di Dio è la perdita della grazia. A cui consegue la morte dell' anima. Perocchè abbiamo definita la vita una incessante produzione del sentimento. E abbiamo anche veduto che la grazia è una percezione incipiente di Dio, il quale collo starci aderente all' anima e operante in essa colla sua propria sostanza, vi suscita continuamente un sentimento deiforme, il quale è propriamente la vita soprannaturale dell' anima intelligente. Perocchè l' anima in quanto ha il sentimento animale, intanto non vive come intellettiva, ma unicamente come sensitiva, ovvero soggetto animale: ed egli non sarebbe assurdo il dire piuttosto che di questa vita vive il corpo e non l' anima, sicchè, distrutto il corpo, anche l' anima sensitiva non è più (1). Or vero è che l' anima intellettiva naturalmente concepisce l' essere ideale, ma questa sola tenuissima e uniforme concezione non gli dà un sentimento di cosa reale e tutto al più è un cotal principio di sentimento, e non un sentimento intero. Perciò l' anima intelligente senza la grazia non ha più per natura che un principio di vivere, ma le manca la vita intera, e per ciò dicesi morta. A intender meglio questo vero si consideri primieramente che l' anima col solo essere indeterminato non vede ossia non sente nessun essere finito; e l' essere e perciò il sentimento che le può venire dall' unione con l' essere indeterminato, è egli stesso al sommo confuso e indefinito. In secondo luogo, l' anima colla vista di questo solo essere, non discerne sè stessa, ma tutta esiste, per così dire, nel suo oggetto. In terzo luogo, ella non ha alcun movimento, ma solo quell' atto immanente pel quale esiste, e quel qualsivoglia principio di sentimento è pure immanente, nè racchiude un' azione, ma un cotal principio di azione che non va più là, che non si compisce. Or a un tal principio di sentimento non si può dare il nome di vita, la quale abbiamo fatta consistere non in un principio di sentimento, ma in un sentimento compito e anzi in una incessante produzione di questo sentimento; nelle quali parole viene descritta una azione incessante e che, per così dire, continuamente si rinnova e si finisce. Or perchè l' azione che produce o della quale è il sentimento sia compita, perchè nell' anima vi abbia, per così dire, un moto continuo, non è sufficiente che essa anima possegga il solo essere indeterminato e ideale, ma è necessario che soffra l' azione di un essere reale, dalla quale azione l' anima riceve un sentimento compito e comincia da questo il suo moto che consiste principalmente in un continuo passaggio della sua attenzione, ossia della sua attività dall' essere reale all' ideale e dall' ideale al reale, e dall' idea al sentimento e dal sentimento all' idea. Ora cessando nell' anima l' azione degli esseri finiti e materiali colla morte del corpo, ove Dio non le sia presente, cader si deve necessariamente in quel cotale immobile sopimento che ragionevolmente cessazione della vita, ossia morte si può denominare. E perchè la vita animale è precaria e non propria dell' anima, quindi è che l' anima priva della grazia non ha anche unita al corpo se non una vita effimera e porta in sè stessa la morte (1). Tutto questo ha luogo anche considerando l' anima umana come semplicemente priva della grazia, sebbene difformata non fosse da nessun proprio peccato. Che se ella, oltre esser priva della grazia, sia anche peccatrice, come avviene nell' uomo infetto dalla original colpa, allora vi ha nell' anima anche un' avversione, come abbiam detto più sopra, dalla verità e da Dio, che pur è sua vita: e in questo doppio senso giustamente il peccato originale è dichiarato dal Concilio di Trento morte dell' anima (2). Un' altra conseguenza del peccato di origine, considerato dalla parte di Dio, si è che l' uomo viene rimesso a una provvidenza generale e di mezzo, in luogo di esser governato da una provvidenza speciale e di fine. L' uomo innocente era il fine dell' universo: Iddio faceva di lui le sue delizie, stava congiunto intimamente con lui e quindi aveva di lui una provvidenza immediata e veramente di fine, sicchè tutte le cose dell' universo erano ordinate e volte a servire quest' uomo, delizia di Dio e in cui era Dio. Ma dall' uomo peccatore Iddio si separò: la causa dell' uomo da quell' ora non fu più la causa stessa di Dio. L' uomo peccatore non poteva essere vero fine dell' universo, poichè Dio solo è fine, e intanto l' uomo era fine dell' universo, in quanto partecipava di Dio e era fatto una sola cosa col Creatore. Rimase adunque l' uomo una semplice creatura: fu abbandonato alle proprie forze: la natura stessa e tutti gli esseri che la compongono furono abbandonati alle sue forze e l' uomo si trovò esposto a tutti quegli accidenti che potevano naturalmente intervenire dall' azione simultanea di tutte le innumerabili forze degli innumerabili esseri creati che esistono. Se la cosa fosse rimasta così, l' universo avrebbe perduto il suo fine; ogni straordinaria provvidenza sarebbe cessata dal mondo, e del mondo e dell' uomo sarebbe avvenuto tutto ciò che avessero prodotto il complesso delle forze naturali con tutti i loro ordini e collisioni. Ma essendo fra la umanità predestinato un Individuo che non doveva essere macchiato di peccato, e congiunto della massima congiunzione con Dio e di congiunzione indistruttibile; avvenne che questo Uomo rimase il vero Capo e il vero fine dell' universo: e questo fu l' Uomo Redentore anche degli altri uomini. Perocchè Iddio conservò per quest' uomo la sua provvidenza speciale, o piuttosto specialissima, e così tutti gli altri uomini decaduti, come tutte le altre cose dell' universo divennero mezzo alla grandezza, alla felicità e alla gloria di quest' Uomo7fine. Di che accadde che molti uomini furono sanati dal peccato e ricongiunti con Dio, appunto perchè anche questo era necessario, acciocchè l' Uomo7fine riuscisse il più grande, il più felice, il più glorioso che esser potesse. Conciossiacchè egli desiderò che fossero associati a lui i suoi simili; e non potevano essergli associati se prima non venivano giustificati: e giustificati che furono, ripresero anch' essi lo stato e la condizione di fine insieme con quegli che era fine per sè stesso e che chiamava altri in parte di questa sua dignità. Ma considerandoli però come peccatori, essi, come dicevamo, maggior grado non tengono che di mezzo : e per ciò fino che sono peccatori, di tanto la divina provvidenza a loro soccorre e provvede, di quanto è uopo perchè servano acconcissimamente al fine , a cui sono subordinati. Per la massima gloria adunque di Cristo sono stabiliti tanto quelli che si salvano come quelli che periscono. Se non che i primi passano a esser fine insieme con Cristo coll' uscire dallo stato di peccato; ed i secondi rimangono eternamente puri mezzi. Ai primi per ciò è destinata una piena beatitudine e soprannaturale che non può loro fallire, e nello scorgerli a questa consiste la speciale provvidenza che guarda sopra di loro e veglia a questo scopo tutti gli avvenimenti (1): ai secondi poi viene amministrata nella vita presente quella misura di beni e di mali che più conviene, acciocchè servano nel miglior modo alla gloria de' buoni: e nella futura parimenti vien fatto di loro ciò che valga a rendere più magnifico e glorioso il regno del prediletto di Dio Padre e degli amici suoi. Di che apparisce che la provvidenza universale e di mezzo, che sola presiede al governo di quelli che hanno in sè il peccato, contiene questi tre scapiti: a ) Che essi considerati nello stato di peccato rimangono in preda ai mali naturali e alla morte, perchè nessuna provvidenza soprannaturale li difende da quelli. Laddove i giusti non vengono sottomessi ai mali se non con certa misura e con un certo modo di amorosa predilezione; assicurandoci le divine Scritture che Iddio si serve a questo fine del ministero degli Angeli (2). I peccatori all' incontro di loro natura non hanno alcuna virtù soprannaturale che temperi e guidi in lor favore le forze della natura e delle creature tutte, se non per accidente, cioè in quanto ciò potesse tornare bene ai giusti (1). b ) Ed essendovi fra le creature anche degli esseri malefici, cioè i demonii, i quali sono forniti di forze atte a nuocere alla umanità, viene in conseguenza che l' uomo pel peccato originale rimane altresì in balìa dei demonii e, come dicono le Scritture e i Padri, sotto la servitù e potestà del diavolo (2). Tanto più che l' uomo del peccato originale è fatto speciale conquista del demonio, come di quello che fu il tentatore e la cagione della lamentevole caduta che tolse il genere umano di Dio. c ) Dai quali principii procedono alcune conseguenze che ci dànno lume a far probabile conghiettura dello stato dell' anima la qual passi all' altra vita macchiata del peccato originale senza più. Perocchè le conghietture che si possono fare dal detto sono le seguenti: PRIMO. - L' anima che macchiata dal peccato originale passa all' altra vita, è priva di ogni visione di Dio, perchè priva di ogni grazia o comunicazione colla divina sostanza. SECONDO. - Essa è morta, cioè a dire esclusa dalla vita eterna; il che è quanto dire priva di quella vita che nasce dalla reale percezione di Dio, la quale è eterna, perchè Iddio che la produce colla sua azione nell' anima è eterno; ed essendo vita eterna, è sola vera vita. TERZO. - Essa è esclusa dal consorzio di Gesù Cristo e dei Santi, perchè priva di Dio non può aver comune l' oggetto della loro felicità e quindi non può formare una società, una unità con essi, giacchè questa sociale unione viene dall' unità dell' oggetto comune del loro godimento, ciò è quanto dire che è esclusa dal regno de' cieli. QUARTO. - L' anima divisa dal corpo col solo peccato originale, quell' anima deve essere in un cotale stato che possiam dire di assopimento, nel quale trovasi priva di sentimento e di vita, e non ha che un principio di vita e un principio di sentimento, portando di più un' inclinazione a rifuggire dalla verità e dalla vita. QUINTO. - L' anima in tale stato è esposta all' azione delle creature, come dicevamo, anche le più malefiche, ma essendo essa priva di corpo e non avendo che la sola vista dell' essere universale, non pare dover essere suscettiva dell' azione delle forze a lei nemiche. Perocchè il sentimento materiale non lo ha più, e l' intellettuale è tale che nessun essere creato può alterarlo, conciossiacchè nell' intelletto non ha virtù di operare che Dio stesso. Sicchè converrebbe supporre che all' anima per essere tormentata dai demonii, fosse aggiunto un cotal corpo. E ciò crediamo avvenire coll' anime ree di peccati attuali, dicendoci le divine Scritture che esse ardono nel fuoco, ma rispetto a quelle anime che sono aggravate dalla sola colpa originale, riteniamo assai probabile che non sia. SESTO. - Senonchè colla risurrezione dei corpi esse racquistano i corpi. Il riacquistare poi che fanno dei corpi è un aggiungersi loro un sentimento di cosa reale. Io non so in che stato questi corpi verranno raggiunti a quelle anime: non certo in istato glorioso, perchè la gloria viene dalla unione con Dio. Anche lo stato dunque di cotesti corpi risorti par verisimile dover essere un effetto dell' universal Provvidenza, cioè a dire essi saranno tali quali li vogliono le leggi universali che presiedono al gran patto del risuscitamento dei corpi. Io inclino a credere che essi corpi verranno ripristinati in buono stato, d' una bontà però loro naturale. E ciò che mi fa creder questo verisimile si è il general principio che mi guida in tutto questo discorso delle pene de' fanciulli morti senza battesimo o più generalmente di quelli cui non altra colpa danneggia che originale, il quale è: « la pena essere meglio negativa che positiva, cioè dipendere dall' abbandono che fece Dio di essi a sè medesimi e alle forze e leggi naturali« (1) ». Conosciuta ora l' indole e la natura del peccato di origine, conviene che esponiamo la dottrina della sua propagazione. E a tal fine ci è bisogno cominciare dal riassumere ciò che abbiamo detto circa il modo onde l' animale si propaga, e onde si propaga l' uomo, considerato secondo la natura. Abbiamo dunque veduto che negli animali generanti vi ha una cotal massa carnosa, la quale unita con essi forma parte de' loro corpi e vive in questo stato di parte. Ma staccata da essi per la generazione, non muore, anzi quella vita, che aveva prima, acquista una virtù e attività maggiore, per la quale sussiste da sè, ossia forma un animale nuovo, indipendente dai primi, da' quali provenne (1). Così si costituisce il soggetto sensitivo. Ma se questo soggetto sensitivo, per legge da Dio fissata, è ordinato a dover avere anche la visione dell' ente, egli si fa con ciò un soggetto ragionevole. E tale avviene il nascimento dell' uomo, al quale, tosto chè è naturato come soggetto sensitivo, è presente l' ente; conciossiacchè l' ente per legge costitutiva, come dissi, è fatto presente alla natura umana: e perciò moltiplicandosi i soggetti sensitivi nella natura umana, è dato loro di veder sempre l' ente, ossia, che è il medesimo, di essere incontanente intellettivi. Ma abbiamo ancora veduto che l' ente a principio si congiunse alla natura umana in un modo perfetto, cioè che si diede a vedere ad essa natura non solo nella sua forma ideale, ma ben ancora nella sua forma reale e sussistente (3). Ciò è quanto dire che l' uomo venne a principio costituito non solo in un ordine naturale, ma ben anco in un ordine soprannaturale. Perocchè tutte le nature, in quanto sono create, costituiscono ciò che si chiama l' ordine della natura. Ma la sostanza del Creatore è essenzialmente distinta dalla natura ed è superiore ad essa. Per ciò la percezione della sostanza del Creatore è ciò che costituisce l' ordine soprannaturale. Or l' ente universale in quanto non è puramente ideale, ma si dà a vedere ben anco come reale e sussistente, non è altro che il Creatore istesso, Dio. Perciò si dice che quegli esseri creati, i quali non solo concepiscono l' essere nella sua forma ideale e massime in uno stato indeterminato, ma percepiscono altresì la stessa sussistenza e realità di quest' essere sono costituiti in un ordine soprannaturale. E tale fu Adamo, come abbiamo provato. All' opposto, privo lo spirito umano della percezione dell' essere nella sua sussistenza e realità e solo fornito della concezione dell' essere ideale e in uno stato d' indeterminazione, egli trovasi esser posto dentro i confini della natura: perocchè l' essere ideale si può dire creato nel modo in cui è veduto dall' uomo, cioè in quanto egli è separato dalla real sussistenza e in quanto è privo de' suoi termini o determinazioni. Fino a che pertanto la natura umana si trovò congiunta coll' ente completo, ella fu fornita di tutto ciò che appartener potesse alla sua natura, e altresì della grazia. E perchè questa grazia nel modo detto era congiunta per legge costitutiva alla natura umana, ella doveva essere annessa di conseguente a tutti gli individui ne' quali si fosse moltiplicata questa natura: ed è per ciò che i figliuoli di Adamo innocente avrebbero ereditata dal padre la grazia santificante. Perocchè Iddio e l' uomo erano congiunti in modo da formare, per così dire, una cosa sola: cioè Iddio si comunicava all' uomo ove che si trovasse o cominciasse a esistere il soggetto animale umano (1). Or avendo Adamo peccato cioè ribellatosi a Dio, egli perdette la vista della divina sussistenza, cioè la grazia; e, morto all' ordine soprannaturale, non gli rimase che la natura. Egli fu da quel momento che l' essere universale non fu congiunto alla natura umana che idealmente, non più in una forma divina, ma creata e naturale. Si può qui domandare se questa perdita che fece la natura umana della grazia e di Dio, sia avvenuta dalla parte di Dio, cioè per essersi Dio tolto da lei, o dalla parte dell' uomo, cioè per essersi la volontà rivolta da Dio e non trovato più il modo di vederlo, a quel modo che l' uomo che volta le spalle in faccia al sole nol vede più. Egli è certo essere ripugnante alla divina natura che essa faccia copia di sè ad esseri suoi nemici. Lo Spirito Santo, dice la divina Scrittura, non abita in corpo soggetto a peccato (2). Però giustamente può dirsi che Iddio fece colla natura umana prevaricata quello di che minacciò gli ebrei: « Io asconderò la faccia mia ad essi e starò a vedere a che mali termini da loro soli si condurranno« (3) ». Ma con non minore verità si può dire che la privazione di Dio nacque perchè si stolse l' uomo da Dio, perchè l' uomo si mise in uno stato, nel quale egli sarebbe ripugnante e intrinsecamente assurdo che vedesse Iddio, come sarebbe ripugnante che vedesse il sole chi si cavasse gli occhi. Conciossiacchè Iddio si vede coll' occhio della buona e retta volontà: e però il pervertire la propria volontà, cioè il darsi ad amar la creatura in luogo del Creatore, e cercare in quella anzichè in questo la propria felicità, è un rendersi impossibile la vista del Creatore, un accecarsi. E perduta una volta tal vista del Creatore, ristretto lo spirito dell' uomo nelle sole creature, non gli è più possibile di rilevarsi e trovare con gli occhi suoi dell' animo quell' oggetto d' infinito bene che ha perduto, il quale è tale che, cessando un solo istante di vederlo, non si può veder più. Perocchè la volontà non può esser tratta da cosa incognita, e perduto una volta il sentimento di Dio, la divina sostanza le rimane come un bene incognito che non può essere più appetito o desiderato: sicchè non le restano all' appetire e desiderare se non i beni materiali; perocchè il sentimento di questi non cessa, e non cessando, essi beni rinnovellano continuamente le loro impressioni sull' uomo e le producono di nuovo. E nella stessa maniera perchè l' uomo tornasse a gustare di Dio, converrebbe che Dio medesimo riagisse nell' uomo e eccitasse in lui nuovamente il sentimento della divina sostanza (1). Egli è per questo che i santi Padri riconoscono una cecità volontaria e anche peccaminosa, ove questa cecità appartenga a una volontà personale. [...OMISSIS...] . Questa cecità si chiama nelle divine Scritture cecità del cuore, per distinguerla dalla cecità dell' intelletto; conciossiacchè il cuore vien preso per la sede della volontà. Il perchè dove la cecità consiste in un traviamento della volontà, e ove questa volontà sia personale, come dicevamo, acconciamente quella cecità si può chiamare peccato. E con quest' avvertenza si devono intendere alcuni passi di S. Agostino, nei quali chiama peccato la cecità originale, come pure la concupiscenza; siccome a cagion d' esempio nel passo seguente: [...OMISSIS...] . La natura umana adunque dopo la commissione del peccato rimase: 1 privata di Dio: 2 con una irreparabile gravitazione della volontà verso il bene creato e avversione dall' increato che più non percepiva. Or essendo questo stato proprio, come abbiam veduto, della umana natura, egli doveva necessariamente ripetersi in altrettanti individui, in quanti essa natura si moltiplicava. E perciocchè questa cecità e questa mala piega della volontà personale ha in sè ragion di peccato, per ciò qui s' intende la necessità che v' avea della trasfusione nei posteri del peccato adamitico. La ricerca come passasse da un uomo nell' altro il peccato originale diede cagione alla celebre questione dell' origine dell' anima. Per ciò non vorrà essere inutile che qui frammettiamo alcune considerazioni sopra un tal punto, valendoci ciò a render più chiara e più piena la trattazione nostra della trasfusione del peccato, che dopo questo quasi episodio riprenderemo. Tre furono le principali opinioni, nelle quali si partirono gli scrittori ecclesiastici circa il sapere come cominci l' anima intellettiva in un uomo che vien generato. Altri sostennero che le anime tutte furono create da Dio a principio e mandate o venute poscia ne' corpi nuovamente ingenerati: e di questa sentenza fra gli altri fu pure Origene. Altri pretesero che come il corpo ingenerava il corpo, così simultaneamente l' anima ingenerasse di sè un' altra anima, e per tal modo che l' uomo intero, anima e corpo, fosse naturalmente ingenerato: e questa sentenza tenne Tertulliano, Apollinare e, per testimonianza di S. Girolamo, quasi tutta la Chiesa occidentale (1). Altri finalmente opinarono che le anime fossero create immediatamente e per singola da Dio e da Dio infuse ne' corpi, mano mano generati: e di questa sentenza fu pure Innocenzo III, che così esprime la origine dell' anima intellettiva: « infundendo creatur, creando infunditur ». Così pensò anche Pietro Lombardo. La prima di queste tre opinioni fu al tutto di qualche autore particolare e non seguìta. Circa lo scegliere fra le altre due stettero in forse i più bei genii della Chiesa. S. Agostino, che chiama una tale questione caliginosissima , per quanto bilanciasse col suo raro ingegno, non potè mai venire a capo, sia per l' una, sia per l' altra parte (2); e invitava chi più di lui avesse potuto conoscere in questa parte a dargli in ciò aiuto di ammaestramento (3). La maggior parte degli antichi non vollero parimente decidersi, ma lasciarono in dubbio tal controversia (4). S. Fulgenzio pure dice la cosa dubbiosa (5): dubbiosa la trova Cassiodoro (6): dubbiosa il grande S. Gregorio. Ecco il luogo in che quest' ultimo ne parla in una lettera che scrive a Secondino: [...OMISSIS...] . Tal parve forte e non così facile a risolversi una questione siffatta a quei sommi uomini. Nè è da credere che loro sfuggissero quelle ragioni ovvie che si presentano in siffatta materia alla mente di ciascheduno. Ma essi vedevano molto addentro nella cosa, e però non si decidevano leggermente. E questa incertezza e dubbiezza in siffatta questione passò, quasi direi, per ecclesiastica tradizione, a tale che fu tenuta da taluno qual parte della cattolica verità. Così S. Isidoro Ispalense non dubitò di porre fra le cose da doversi tenere per fede, che l' origine dell' anima fosse incerta (1). Nel IX secolo la questione era nel medesimo stato, come si può vedere da un luogo di S. Prudenzio Vescovo di Troyes, che citeremo più abbasso. Solo due secoli dopo Ugone di S. Vittore tolse a provare: « probabilius animas ex traduce non esse (2) ». Colle quali parole mostravasi non darsi da lui la cosa per al tutto assicurata. Nel secolo susseguente però S. Tommaso d' Aquino insegnò: « haereticum esse dicere, quod anima intellectiva traducatur cum semine (3) ». E dopo di lui si ritenne per cosa certa e fu universalmente ammesso da' Teologi, che non venisse propaginata col corpo, ma creata da Dio. Egli è però da considerarsi che la sentenza ricevuta universalmente da' Teologi, sull' autorità principalmente dell' Angelo delle scuole, non è precisamente quella di cui trattavasi e questionavasi dai Padri, e che però non può dirsi che essi abbiano al tutto recisa o sciolta quell' antica questione. Perocchè due cose diverse sono a dimandarsi:« se l' anima sebbene spirituale si propagini in un modo spirituale simultaneamente al propaginarsi che fa il corpo dal corpo«; e domandarsi:« se l' anima si propagini mediante la generazione corporea, di maniera che il corpo ingeneri l' anima«. La prima era la questione dei Padri: ed ecco come ella viene accuratamente espressa dal luogo indicato da S. Prudenzio che viveva nel secolo IX sotto Carlo il Calvo: [...OMISSIS...] . All' incontro la seconda di quelle due questioni si può dire che non fosse nè pure mai messa in controversia. Nel IV secolo Prudenzio riprende la sentenza che l' anima venga generata dal corpo, non come dubbio, ma come certo errore. E non avrebbe parlato con tale sicurezza, se avesse inteso di toccare la questione che S. Agostino dichiarava superiore alle forze del suo intendimento. Ecco i versi del poeta cristiano: [...OMISSIS...] . Medesimamente il luogo del libro degli Ecclesiastici Dommi (6) attribuito a Gennadio, scrittore del secolo V, che si trova citato nella Somma di S. Tommaso, si riferisce all' opinione del venire le anime dai corpi, dichiarando erroneo l' affermarsi che le anime ragionevoli si seminino per l' unione de' corpi. Lo stesso e nulla più è riprovato dall' Angelico Dottore in quell' articolo cui egli intitola come questa dimanda: Se l' anima intellettiva sia cagionata dal seme? Nel quale articolo è da osservarsi come egli non trae punto le obbiezioni che fa alla sua sentenza dall' autorità di S. Agostino e degli altri Padri, quasi avessero lasciata la questione dubbiosa, ma anzi da ragioni naturali. Il che dimostra, che egli non intendeva di dichiarare già eretica quella sentenza che da S. Agostino e da' Padri antichi non era stata provata riprensibile: perocchè se voleva questo, il santo Dottore, che è sempre sommamente studioso di conciliare la sua dottrina con quella di S. Agostino e dell' antichità cristiana, ne avrebbe fatto indubitatamente parola. Se non che dalle ragioni stesse che apporta si fa manifesto, che egli altro non condanna in quell' articolo se non il farsi produr l' anima dalla materia; giacchè ecco come egli dice. Riferirò le sue stesse parole, perchè si renda evidente la verità che asserisco. [...OMISSIS...] Egli è manifesto da questa prima ragione, che l' assurdo che vuol dinotare qui S. Tommaso si è quello che noi dicevamo fuori di controversia, cioè che la materia non ha virtù a produrre lo spirito. Udiamo la seconda ragione del santo Dottore: [...OMISSIS...] Anche in queste parole si par chiaro, che tutto l' assurdo che si fa rilevare consiste nella incommunicabilità dell' intelligenza colla materia corporea anche sensitiva: perciocchè il principio intellettivo non fa uso di alcun organo corporeo alla sua operazione; e perciò il corpo non può agir nulla nell' intellettivo principio. Udiamo l' ultima ragione che reca l' Aquinate: [...OMISSIS...] . Il quale argomento viene a dire così: Se il corpo producesse l' anima, o l' anima dovrebbe essere una sostanza corporea, oppure una modificazione, un atto del corpo stesso. Sostanza corporea l' anima non è: e non è nè pure una semplice modificazione o atto di un corpo, poichè un tal atto non è sostanza per sè. Dunque l' anima non può esser fatta dal corpo. Ma per condurre la cosa all' evidenza e rimuovere ogni dubbio sulla partizione che abbiamo fatta della questione, volgarmente una, in due diverse, basterà recitare qualche passo di S. Agostino e mostrare che quando si tratta di dedurre l' anima dall' anima, niente risolve (2), e piuttosto il tengo favorevole, che contrario (3). Laddove quando trattasi di dedurre l' anima da corporea materia, è risoluto in negarlo come un errore manifesto e pernicioso. Pigliamo sott' occhio la lettera che il santo Dottore scrive a Ottato, il quale aveva proposta a S. Agostino la questione dell' origine dell' anima e ricercato il suo parere. Si veda adunque in qual parole tale questione era proposta. Dimandavasi: se le anime nascano per propagazione come i corpi e vengano da quell' una che nel primo uomo fu creata? (4). Parlasi dunque di trar l' anima dall' anima; e non altro. Or su questa ecco come si tiene in bilico S. Agostino. Egli dice: [...OMISSIS...] . Egli è dunque questo il costante modo di pensare di S. Agostino, quando si tratta di propaginare l' anima dall' anima. Ma vuolsi vedere all' incontro, come egli la senta quando trattasi di una propaginazione dell' anima materiale? Il santo Dottore avvertì benissimo che alcuni materializzavano l' anima col farla venire dai corpi, e fa colpevoli di questa sentenza i seguaci di Tertulliano, de' quali ecco come ragiona: [...OMISSIS...] . Or che cosa qui soggiunge il santo Dottore? Ecco le sue parole: [...OMISSIS...] . Or dunque non era dubbioso S. Agostino se l' anima nascesse dal seme corporeo, che è la proposizione chiamata eretica da Tommaso. Ma ciò che non trovava assurdo, sebbene oscurissimo e inintelligibile, era che l' anima potesse propaginarsi dall' anima. Il primo diceva un errore sopra ogni altro pernicioso, un sogno e sino una pazzia; nel secondo vedeva un mistero. Il perchè, tosto dopo ripreso l' errore di Tertulliano, soggiunge: [...OMISSIS...] . Intorno alle quali cose conchiude che [...OMISSIS...] . Dalla storia della questione dell' origine dell' anima fin qui esposta apparisce, aver essa avuto tre periodi. Il primo anteriore al pelagianismo, nel quale essa non fu mai trattata di proposito, nè sottoposta a un rigor teologico. Il secondo, che comincia da Sant' Agostino, indottovi a trattarne per cercare un modo di spiegare la propagazione del peccato originale, e che non venne a capo d' altro se non di dichiarare la questione insolubile; e questa sua sentenza fermò ogni altra investigazione e fu tenuta per indubitabile almeno sette secoli. E il terzo, a cui diedero luogo gli scolastici, i quali, si può dire, diedero nuovo movimento agli intelletti che da tanto tempo riposavano; periodo che toccò il suo colmo in S. Tommaso, il quale, omessa ogni altra ricerca, tolse a dichiarare essere sentenza condannata dalla Chiesa di dire che le anime si propagano come i corpi (1). E dopo tanta autorità ognuno tenne la cosa per definita: senza però badare che S. Tommaso non condannò la sentenza se non a quel modo che veniva attribuita a Tertulliano e Apollinare (2) e che induceva irreparabilmente nel materialismo, il quale è certamente riprovato dal giudizio ecclesiastico. Ed egli è appunto perchè rimane, anche dopo la trattazione dell' angelico Dottore, una via alla disputa non chiusa dal giudizio perentorio della Santa Chiesa, che degli eccellenti teologi dichiararono la dottrina della quotidiana creazione delle anime non essere punto cosa di fede; fra i quali è l' Estio (3), il Berti (4), il De Rubeis (5), il Noris (6), e il Bellarmino (7). E così sarebbero rimaste le cose, se lo spirito umano non avesse ricevuto nei tempi moderni una nuova scossa e movimento dalle scuole de' filosofi: il che diede luogo a un quarto periodo nella storia della questione che noi trattiamo. A questo diedero origine le ricerche dei naturalisti (ai quali la filosofia moderna deve il suo primo movimento inquisitivo, come già nella Grecia) intorno alla generazione e allo sviluppo dei germi. Perocchè par loro di ritrovare i germi sì delle piante, che degli animali, non crearsi mai, ma non altro fare che svilupparsi, come quelli che sono ravviluppati gli uni negli altri continuamente: sicchè nelle ovaie delle prime femmine fosser già posti da Dio tutti i germi delle piante e degli animali che dovevan poi nascere. Cosa a cui la impercettibile lor piccolezza non fa punto di ostacolo, dopo che si è conosciuta la divisibilità per poco indefinita della materia e la sottigliezza a cui ella può pervenire, come vedesi nella luce e suoi colori e nella diffusione degli odori e negli animaletti microscopici (1). Or questo sistema de' germi involti diede cagione a Leibnizio di immaginare che a questi germi fossero già annesse le anime fino da principio e così gli animali tutti esistettero creati da Dio a principio, a tale che altro non facesse la generazione se non edurli alla luce e dar loro il successivo e convenevole crescimento. Quasi nello stesso pensiero caddero molti altri filosofi contemporanei di Leibnizio, tra quali lo Swammerdam, il Malebranche, il Baile, il Picarne, l' Hartst”ocker, e altri. Vero è però che Leibnizio affermava, riguardo all' uomo, che non preesistessero nella prima madre se non delle anime sensitive e animali, dotate bensì di percezione e di senso, ma prive di ragione, cui acquistassero poi mediante la generazione (2). Ma confesso di non sapere come egli intendesse che quelle facessero un tale acquisto: in che sta appunto tutto il forte della questione (3). Leibnizio fu seguitato dal Canzio (4) ma principalmente da Cristiano Wolfio, il quale però suppone inchiuse nell' ovario di Eva le anime spirituali e però intellettive, e non già puramente animali e sensitive (5). Si andò finalmente ancora più in là e si arrivò sino a dire che le anime inchiuse nel corpo di Adamo o di Eva ricevettero da Dio, insieme coi primi parenti, il precetto, e lo hanno insieme con lui, sebben men gravemente, violato (6). Non si può confondere in alcuna maniera col sistema Leibniziano e Wolfiano l' opinione da noi proposta sopra l' origine dell' anima. Perocchè sebbene noi supponiamo vera la preesistenza dei germi, tuttavia questi non sono già per noi dei piccoli animaletti, nè molto meno degli omicciuoli, ma de' puri germi, i quali diventano poi animali da sè per la generazione. Se non che noi abbiamo dato di questa una spiegazione tratta dalla natura dell' animale cui abbiam definito: un sentimento che sussiste da sè, in quanto esso si considera come principio senziente (1). Or noi abbiamo veduto che questo sentimento in ogni animale ha per materia il continuo, il quale non ha parti, e però tanti sono i sentimenti semplici quanti i continui. Il continuo però è divisibile, formandosi di un continuo solo due o più continui minori: e però se questi minori continui sien tali che possano sussistere come materia di sentimento (il che dipende da certe leggi fisiche, chimiche e animali), in tal caso la divisione del continuo ha fatto nascere due sentimenti per sè sussistenti, i quali, considerati come senzienti, sono altrettanti animali. Così ho spiegato la generazione negli animali più imperfetti come i polipi, i quali per diventare di un animale solo due o più, basta segarli con certa avvertenza in due o tre parti, senza bisogno di far altro. Perocchè le parti che ne nascono sono tali che corrispondono alle leggi fisiche, chimiche e animali che presiedono alla conservazione della materia animale; cioè a dire, le parti che si fanno di un animale solo ciascuna ha in sè un cotale equilibrio di forze per le quali si può conservare nello stato suo e non perdere quel tessuto e quella organizzazione che è necessaria a conservare l' animalità. Secondo gli stessi principii: 1. di una divisione che succede nella materia del sentimento; e 2. di un equilibrio o sistema di forze che conservasi nella materia divisa; spiegasi anche ogni altra maniera di generazione che avviene nelle diverse specie di animali più perfetti. Dove si vede che il seme del maschio non è, assolutamente parlando, necessario alla generazione; e forse anche negli animali perfetti esso non fa se non dare al germe quell' attività e forza vitale, per la quale, anche staccato nel debito modo dalla madre, possa avverarsi quell' equilibrio di forze, di cui abbiamo ragionato, il qual valga a conservare quella massa carnea staccata dalla madre in istato normale, cioè atto a conservare la vita e il sentimento e avere un dato particolare sviluppamento. Chè ove anche alcune particelle del seme virile si apprendano al germe e con esso lui s' impastino (forse delle parti sottilissime e quasi un' aura vitale che da esso spiri), la cosa però sarebbe la medesima: poichè queste particelle non sarebbero mai morte, ma vive e col vivo germe contemperate, sicchè dal maschio e dalla femmina, come da una sola carne, si staccherebbe quella vivente materia che, appena staccata e unita, sarebbe un animale. Generato così l' animale, che non è se non il costituirsi un sentimento da sè, a cui è inerente di sua natura il principio senziente; non è più difficile il concepire come il principio che è senziente diventi anche intellettivo, dopo che è stato ritrovato, essere l' intelletto null' altro che il sentimento dell' ente. Perocchè solo che si renda l' ente percettibile, egli è già con questo prodotto anche il percipiente: ciò che è conseguenza di quel principio, che ove si dà in natura la percezione, nella percezione si comprende il percipiente; come nel sentimento si comprende il senziente. Ora nella generazione umana noi diciamo succedere contemporaneamente, che l' animale si costituisca col precidersi e confondersi delle parti che costituiscono l' embrione; e che si costituisca l' intelligente principio coll' essere data al medesimo la veduta dell' essere. La quale veduta è già da principio conceduta all' umana natura a sola condizione che questa si costituisca nella sua parte organica: ed è data perciò a tutti i discendenti del primo uomo con quell' atto stesso con cui fu data al primo uomo. In tal modo non è che l' animale e molto meno l' anima intelligente preesista nei padri, ma bensì in essi esistono i germi o rudimenti, i quali in virtù della generazione stessa dell' umana natura, tal quale la fece Iddio da principio, si costituiscono poi naturalmente quasi sarei per dire in uomini. Egli è difficile conciliare molti passi delle divine Scritture colle opinioni da questa diverse; e confesso che la maniera nella quale i seguaci di quelle opinioni hanno tentato di conciliare con le medesime i luoghi delle Divine Scritture, non mi pare scevra di un cotale sforzo, e quasi direi che li traesse dal senso loro più ovvio e naturale. Tuttavia non essendo paruto a S. Agostino di trovare passo nelle Scritture che assolutamente recidesse la questione e che non potesse essere altramente inteso, io non vorrò dire il contrario. Ma sottoporrò a qualunque uomo equo e ai teologi di buona fede qualche testo, perchè veggano se non forse egli dalla nostra sentenza dell' origne dell' anima venga a ricevere l' interpretazione più piana e naturale. Iddio dopo aver creato l' universo, come dice la Genesi che riposò da ogni opera che aveva fatto (1): e in memoria di questo suo riposo stabilì il settimo giorno, dedicato al Signore, nel quale era interdetto agli Ebrei qualsiasi opera materiale e servile, a ricordo appunto di quella cessazione dal creare che Iddio aveva fatto, compita ch' ebbe l' opera dell' universo. Ora non è vero, che se si fanno a Dio creare continuamente dell' anime intieramente nuove, conviene fare una eccezione a quel gran riposo del sabbato e a quei passi tutti dove si legge che il cielo e la terra e ogni parte dell' universo era stata compita, sicchè non restava più altro a Dio che il conservare? O conviene almeno dare a quel luogo solenne una interpretazione sottile e tirata dalla lungi? In un altro luogo dice la Scrittura che Iddio fece a un tratto tutte le cose: « Fecit omnia simul (1) ». Le quali parole pure nella sentenza nostra vengono ad avere il più naturale significato. Perocchè in essa con quell' atto di Dio, che Mosè esprime con questa frase: « Inspirò nel suo volto lo spiracolo della vita« (2) »; verrebbe ad avere dato il principio intelligente alla umana natura e perciò a tutti i suoi individui; conciossiacchè quell' atto significherebbe propriamente aver dato l' ente a percepire ad essa natura. E questa interpretazione appunto dell' « inspiravit in faciem eius spiraculum vitae », è la sola, per quanto io ne capisco, che possa render chiara e giustificativa ragione di una maniera di dire così sublime. Perocchè se per quello spiracolo della vita (3), s' intende l' ente percepibile, allora nulla ha in sè che tiri al panteistico quell' espressione o che favoreggi l' assurdo sistema delle emanazioni. Conciossiacchè l' ente è veramente una appartenenza della divinità, un cotal raggio del Verbo divino; e però egregiamente si dice che questo ente è spirato da Dio medesimo e corrisponde a quell' altro passo di Giobbe: « Negli uomini vi è lo spirito, e la ispirazione dell' Onnipotente dà l' intelligenza« (4) ». All' incontro quelli che intendono per lo spiracolo della vita l' anima umana in quanto è soggetto, e non l' oggetto di quest' anima, l' ente, questi e devono sfuggire d' intendere quelle parole alla lettera e deviarle dal loro ovvio significato, o far l' anima una particella emanata dalla divina sostanza. E qui di passaggio siami lecito l' osservare che conviene intendere colla stessa avvertenza certe espressioni dei Padri della Chiesa, nelle quali fanno l' anima umana quasi una particella di Dio. Nell' anima vi è l' ente, e questo è il divino dell' anima, questo un riflesso, uno spiro di Dio: l' anima non è l' ente ma il vede, e per questo ella è così sublime, per questa sua congiunzione con un elemento divino, e attribuita a lei, quasi direi contenente ciò che spetta al contenuto, son date a lei delle divine attribuzioni. Per questa S. Giustino nel dialogo con Trifone chiama l' anima « Reginae mentis particula (1) ». Taziano allo stesso modo dice dell' uomo che è una porzione di Dio (2). Delle espressioni uguali si trovano in Clemente Alessandrino (3) e in S. Ireneo (4). Tertulliano dice che l' uomo è animato dalla divina sostanza (5): espressione con cui egli commenta il soffio divino della Genesi. L' autore delle false Clementine dice pure che l' anima ha una stessa sostanza con Dio (6). E Sinesio nelle sue poesie non dubita di chiamarla: Semente di Dio, scintilla del suo spirito, figlia, parte di Dio stesso. Nella sentenza da noi proposta ricevono parimenti un ragionevole significato alcune singolari espressioni de' Padri: come quella di S. Metodio che dice « il seme umano contenere, per così dire, una parte divina di potenza creatrice« (7) ». Perocchè ciò viene a dire pel seme essere il germe condotto a farsi animale intelligente, cioè a ricevere tale stato, nel quale possa vedere quell' ente che Dio ha fatto visibile fin dal principio agli individui della umana natura. E maggior verità e evidenza pure riceve quel dire del Genesi: « Tutte le anime che sono uscite dal femore di Giacobbe« (.) ». E quelle di S. Paolo ove dice che Levi fu decimato nei lombi di Abramo (9). E chi volesse sostenere che Dio crea di tutto punto l' anima e la mette nel corpo viziato, parmi che, di buona fede parlando e senza prevenzione alcuna, incorrerà una difficoltà grandissima nel conciliare in modo persuadente la giustizia e bontà divina con questo fatto. Perocchè questa sostanza spirituale non potendo uscire dalle mani del Creatore se non pura, senza alcuna colpa precedente, innocente e perfetta, difficil cosa è il pensare che ella, senza alcuna sua colpa precedente, sia condannata nel carcere di un corpo corrotto e astretta per necessità e violenza di esso corpo a rendersi fino dal primo momento della sua esistenza peccatrice. Io so bene che si suole assottigliarsi per dare una plausibile risposta a tanta difficoltà: ma so ancora non potersi dissimulare che in quelle risposte, se io punto nulla intendo, manifestasi più che altro uno sforzo di salvare la teoria preconceputa. Il perchè il dottissimo Gazzaniga, dopo aver recate queste soluzioni (1), ingenuamente soggiunge così: [...OMISSIS...] . All' opposto nella nostra sentenza Iddio diede l' intelligenza alla natura umana con quel soffio, col quale animò Adamo, e poscia non fece se non lasciare che essa natura si moltiplicasse per se stessa. Perocchè supponendo che in quel primo atto Iddio avesse posto, per così dire, visibilmente innanzi alla umana natura l' ente, dalla parte di Dio era fatto tutto, e solo restava a fare da parte della natura umana, cioè a generare; perocchè ciò che venia generato da questa natura avea sempre dinnanzi da sè l' ente, onde attinge l' intelligenza e nasce per tal modo l' anima intellettiva. Si consideri ancora che solo supponendo vera la nostra sentenza, prende sua forza quella ragione per la quale S. Tommaso risponde alla difficoltà, come l' anima venendo non dall' uomo, ma da Dio, ricever possa per eredità il peccato originale. Perocchè la sua risposta è questa: [...OMISSIS...] . Ora che cosa è l' umana natura? Non certo il solo corpo, ma il corpo e l' anima insieme, e principalissimamente l' anima intellettiva che costituisce la specifica differenza di questa natura. Or dunque sarebbe egli vero che per virtù del seme si traduca l' umana natura, non traducendosi se non il corpo, sebben disposto in modo idoneo a ricever l' anima? Non veggo in che modo. All' incontro se il principio senziente, che si traduce pel seme, è già di natura sua, tosto che è costituito, ammesso alla visione dell' ente e così costituito intellettivo, prende un senso verissimo il dire che la natura umana si traduce per virtù dell' umana semente. Si consideri ancora come solo nella nostra sentenza si senta tutta la verità di quel celebre passo di San Paolo: « Eravamo PER NATURA figliuoli d' ira« (1) ». Perocchè la nostra natura, per dirlo di nuovo, è composta di corpo e di anima, e questa ne è la parte principale e formale, mentre il corpo non è che la parte materiale. Il solo corpo non siamo noi , ma l' anima anche sola può pronunciare questo monosillabo NOI: al corpo non appartiene l' ordine morale, e però solo nell' anima si trova giustizia o peccato. Or come, in senso proprio e stretto, potrebbesi dire che per la nostra stessa natura (2) fossimo figliuoli d' ira, se l' anima è di sua natura creata pura e monda e solo rimane viziata non per la sua origine divina, ma pel corpo nel quale s' introduce o dove si crea? All' incontro se l' anima si produce insieme coll' uomo in virtù di quell' ente che è legato coll' umana natura, egli è nel più stretto senso della parola che noi siamo figliuoli d' ira per natura, cioè per lo stesso nostro nascimento (3), per le leggi che presiedono al contemporaneo nascimento del corpo insieme e dell' anima, in una parola dell' uomo. Chiamo ancora ad osservare quelle altre parole dell' Apostolo, dove toccando in che modo tutti gli uomini nascano infetti da peccato dice: « Che il peccato entrò in questo mondo per un solo uomo - NEL QUALE tutti hanno peccato (4) ». E il sacro Santo Concilio di Trento dice: «« Che NELLA PREVARICAZIONE DI ADAMO tutti hanno perduto l' innocenza« (5) ». Quel testo dell' apostolo che i Concilii ecumenici hanno ripetuto o parafrasato merita tutta l' attenzione. Egli è evidente che si esprime in esso una congiunzione fra il padre dell' uman genere e i suoi discendenti siffatta, per la quale possa passare il peccato dall' uno negli altri. Tutti i Padri, su questa autorità di S. Paolo e altre somiglianti delle divine Scritture, parlano di una unione e comunanza fra il genere umano e Adamo loro capo. Ora tutti questi luoghi dei Santi Padri e quelli delle Scritture sui quali insistono non possono essere intesi nel loro vero significato, in tutta la loro forza, se non allora quando sia ben chiarita la natura di questa comunione e unione di tutti noi con Adamo. Udiamo a ragione di esempio S. Ambrogio. Egli dice: [...OMISSIS...] . Or resta a vedere in che modo appunto io fossi in Adamo, in lui peccassi, in lui fossi scacciato dal paradiso; in che modo tutti gli uomini non fossero che quell' uno e solo Adamo. Alcuni proposero una unione morale o sociale. [...OMISSIS...] . Usa anche S. Tommaso la similitudine delle membra che sono colpevoli e punite del peccato commesso dal capo. Ma egli è evidente che questi esempi, sebbene giovino a far concepire una cotal congiunzione fra i posteri e il primo padre, tuttavia non giungono a dimostrare l' intrinseca ragione della trasfusione del peccato originale e la inerenza interna di questo peccato al fanciullo che nasce di nuovo: come confessa anche il valente Domenicano Pietro Maria Gazzaniga (4). Perocchè non si può dir seriamente che una mano sia colpevole o che una mano si punisca; ma solo per un cotal modo traslato: e la imputazione che si fa ai membri di una società pel peccato del capo, in cui essi non abbiano avuta alcuna parte, nè l' abbiano potuto impedire, non può essere vera imputazione morale, ma solo una cotal imputazione legale per la quale sono involti in una pena che, considerata intrinsecamente, o non è pena, ma disgrazia, come una famiglia incendiata per negligenza di un membro che appiccò il fuoco alla casa; o se ella si dà per pena, è pena ingiusta. Vi ha dunque bensì fra i discendenti di Adamo e il padre una unione morale e sociale: ma questa, eziandio che bastasse a spiegare in qualche modo la trasfusione della pena, non basterebbe però a rendere una ragione plausibile della trasfusione del peccato (1). Altri proposero una unione intellettiva fra il genere umano e Adamo, cioè consistente nell' unità della natura o specie. Giacchè il comunicare più individui nella natura, come abbiamo altrove notato, non è altro che l' avere una stessa relazione coll' intelletto che tutti li percepisce con una sola idea o specie, la quale è appunto il fondamento della natura comune (2). Quest' unione di specie è toccata universalmente dai Padri. S. Ambrogio dice: [...OMISSIS...] . Ma ne è pur questa unione intellettuale, o di una medesimità di specie, sebbene vera, e atta anch' essa a facilitarci il modo d' intendere l' unione nostra fisica con Adamo, non è però bastevole a rendere ragione della trasfusione del peccato. Perocchè una tale unione è vera nell' ordine delle idee e non nell' ordine delle realità: e il peccato all' incontro appartiene a questo secondo ordine, non al primo. Nè fa bisogno in ciò insistere molto, quando si può dire essere cosa di fede o prossima a [esser] di fede, che il comunicare nella specie non basta a comunicare nel peccato: perocchè se bastasse, Cristo stesso che comunica nella specie, doveva esser soggetto al peccato. Ma la cattolica dottrina anzi insegna che Cristo ne fu immune: e ciò non per alcun privilegio, ma sì bene perchè egli non fu concepito per opera umana, ma dello Spirito Santo. Sicchè è intrinseco nella dottrina cattolica il principio che solo per la generazione si trasfonda il peccato e che in questa vi abbia un' unione non pur morale o sociale, non pur intellettiva o di specie, ma fisica fra il padre ed il figlio. Ora hassi a considerare che quest' unione, perchè sia vera, deve succedere fra la natura del generante e la natura del generato. E parlandosi di uomini, questa natura è un composto sostanziale di anima e di corpo, e non è il solo corpo: e perciò perchè vi abbia fra l' uomo generante e l' uomo generato l' unione di che parliamo, conviene che tutto l' uomo che genera sia legato e comunicante con tutto l' uomo che vien generato, altramente le due nature non hanno legame fisico insieme ma pur solo lo ha una parte della natura generata, la quale nè costituisce la detta natura, nè riceve il nome con cui la medesima natura si appella. Vi ha dunque una terza unione fra i posteri e il primo parente, e questa è fisica, unione e comunicazione di natura con natura: e questa sola rende un' acconcia ragione della trasfusione del peccato originale. Questa è intrinseca al sistema cattolico, per quanto a noi pare: questa è indicata nei passi delle divine Scritture e massime in quelli di S. Paolo: e per misteriosa che ella sia, non si può in alcun modo rifiutare. Or ella non può, se io nulla intendo, aver luogo se non nella sentenza dell' origine dell' anima che noi abbiamo proposta. Perocchè venendo l' anima creata di tutto punto da Dio, essa non comunicherebbe fisicamente con Adamo, col quale non rimarrebbe in comunicazione se non la bruta materia. E dico la bruta materia , perocchè quel Dio che creasse l' anima intelligente, creerebbe anche l' anima animale conciossiacchè non vi sono nell' uomo due anime, ma un' anima sola. Egli è vero che la sentenza da noi proposta non occorse fosse alla mente con tutta chiarezza degli uomini grandi dell' antichità: ma S. Agostino però diceva, che egli non proferiva giudizio sull' origine dell' anima, poichè non riputava impossibile che altri dopo lui trovasse il modo di ben accertare questa origine (1); e d' altro lato non deve recar molta meraviglia che dopo trascorsi tanti secoli, dopo fatte tante investigazioni e tentativi, dopo accresciute le scienze di tante osservazioni positive, venga acquistando luce qualche verità metafisica che prima solo si travedeva. E certo si travedeva, sebbene non si potesse chiarire interamente e liberare dalle difficoltà che si affacciavano: si travedeva, dico, scorti dalle autorità delle Scritture e dai dogmi cattolici che nel loro seno racchiudono le più profonde notizie della natura umana, ma che non è necessario sempre il penetrarle, ma solo il credere i dogmi stessi. In tanto colla fede de' dogmi si conservano nel mondo quelle notizie, fino a tanto che quasi direi uscendo dal profondo dell' oscurità in cui sicuramente si custodivano e venendo a galla secondo l' ordine della divina Provvidenza, sono donate agli uomini da quel Dio che rende sempre più splendida la parola del suo Verbo e ai bisogni degli uomini nei varii tempi diversamente la apparecchia. E che almeno oscuramente la verità di cui parlo si trovi deposta negli scritti di quelli che dànno testimonianza nella successione de' tempi alla cattolica verità, mi varrà a provarlo tutti quei passi dove i Padri della Chiesa parlano della comunicazione reale e fisica di Adamo co' suoi figliuoli, e in questa ripongono la vera ragione della trasfusione del peccato, dentro ai quali passi e quasi direi come sostrato potrà vedersi giacere la nostra dottrina. Si ponga attenzione primieramente a questo passo del gran Vescovo d' Ippona, dove accenna quella congiunzione fisica di cui parliamo: [...OMISSIS...] . Si noti in che modo S. Agostino dica qui che tutti nella natura di Adamo erano un solo uomo; ecco il modo: «ILLA INSITA VI QUA EOS GIGNERE POTERAT ». Il medesimo Santo Dottore parla di questa congiunzione fisica nel libro I dell' Opera imperfetta in questo modo: [...OMISSIS...] . Nelle quali parole il Santo Vescovo confessa che in quella esistenza de' figli nei lombi de' Padri, toccata dall' Apostolo, si nasconde un vero profondo e misterioso; che ci confessa di avere bensì il desiderio di vedere e penetrare, ma che pure non ispiega: ed esorta tuttavia Giuliano, contro cui scrive, a tenerlo per fede, quantunque per argomento d' intelletto nol vegga (1). La stessa parola solenne di originale che si dà al peccato adamitico mostra la congiunzione fisica e propria di cui parliamo, secondo la quale origine , dice S. Agostino, tutti erano in quell' uno e questi tutti erano quell' uno, quando in se stessi ancora non erano (2). E questa origine, per mostrare che è la origine generativa del figlio al padre, è chiamata dallo stesso santo Dottore seminale . [...OMISSIS...] E chi considererà tutto il parlare delle Scritture, troverà che nelle stesse frasi, nelle parole, nella lingua scritturale insomma vi è inserita e supposta la sentenza dell' origine dell' uomo da noi indicata: così che questa sentenza, per misteriosa e difficile che possa parere, forma per così dire il fondo dell' eloquio biblico. Si consideri, a ragion di esempio, come i figliuoli sono, secondo quelle maniere di parlare, il padre stesso. Che cosa è il popolo ebreo? E` Abramo ovvero Giacobbe. Che cosa sono i discendenti di Davide? E` Davidde stesso. Giacobbe ossia Israello è quello che entra nella terra promessa; e tutto ciò che gode o soffre la discendenza di questo patriarca, è Giacobbe che il soffre, e che il gode (5). « A te darò questa terra« » dice Iddio ad Abramo (1). « Ti farò regnare in sempiterno« » dice Dio a Davvidde (2). Nei figli è il padre stesso il quale si moltiplica. « Io farò crescere te oltre modo, dice Iddio ad Abramo, e porrò te nelle genti« (3) ». I figliuoli son chiamati ancora il seme del padre e talora la scintilla (4). Si dice che tutte le generazioni saranno benedette in Abramo, volendo dire nel suo gran figliuolo Cristo (5). Egli è per questa maniera di vedere il padre propaginato nel figlio, che le divine Scritture parlano di Cristo sotto i nomi di Adamo, di Abramo, di Davidde e di Salomone, e questa è la chiave per la quale somiglianti profezie si possono letteralmente interpretare, e senza bisogno di alcuna stiratura. Or solamente nella sentenza sull' origine dell' anima da noi esposta tutti questi passi delle divine Scritture si fanno chiarissimi: altramente l' interpretazione loro ha bisogno di una certa condiscendenza, che tutti non sono presti egualmente di concedere. Finalmente si consideri ancora un passo dell' Apostolo, de' molti che potrei addurre, e sarà questo: « Siccome tutti muoiono in Adamo, così e in Cristo tutti saranno vivificati« (6) ». Ora in che modo nasce la vivificazione di Cristo? Per la rigenerazione. E in che modo la morte? Per la generazione. Or la rigenerazione si fa, come abbiamo altrove veduto, perchè Cristo ci comunica un principio nuovo vitale. Simigliamente la generazione ci deve comunicare un principio di morte spirituale. Questi due principii sono indicati dall' Apostolo in quel passo: « Il primo uomo fu fatto in anima vivente; e il secondo in spirito vivificante« (.) ». Per la generazione adunque si ha l' anima che dà la vita naturale: per la rigenerazione si ha lo Spirito Santo che dà la vita soprannaturale. La prima, infetta di peccato e morta: il secondo, incorruttibile giustizia e immortalità. Nella prima al soggetto è dato una imperfetta visione dell' ente: col secondo una incipiente visione di Dio (9). Nella medesima sentenza della origine dell' anima cadono a terra tutte quelle obbiezioni che i Pelagiani e i filosofi fanno contro il peccato originale e che troppo a lungo ci menerebbe il riferirle. Ma non credo però inutile anzi necessario il mostrare quanto si avvantaggi quest' opinione sopra quella degli scolastici: il che farò toccando le difficoltà che implica quest' ultima sentenza e di cui va immune la nostra. Al che fare destineremo un apposito paragrafo. Una sentenza di Aristotele, che non posso mai a meno di ammirare ove che la consideri, si è quella ove trattando della generazione degli animali e facendo venir tutto dal principio generatore, continuamente applicando all' uomo la sua dottrina, conchiude con queste parole: « Rimane adunque che il solo intelletto venga dal di fuori« (1) ». Questa sentenza direbbe tutto, se invece di dire l' intelletto, dicesse il lume dell' intelletto (2). Poichè la parola intelletto può racchiudere anche il principio soggettivo; laddove ciò che viene dal di fuori è il solo oggetto , dal quale, nella nostra sentenza, viene edotto all' atto anche il soggetto percipiente. Gli scolastici adducono in loro favore questo luogo di Aristotele; ma egli non può valere, preso nel senso in cui lo dice Aristotele, se non nel sistema delle tre anime separate, le quali sono giustamente rifiutate dalla Scuola (3). Insegnando dunque questa, che l' anima intellettiva è creata di tutto punto da Dio, quest' anima stessa, come essi dicono, racchiude anche dell' anima sensitiva e della vegetabile. Però in questo sistema non è più il solo intelletto che venga dal di fuori, come dice Aristotele, ma è ben anco il principio del sentire e del vegetare, in una parola l' anima tutta con tutte le sue parti e potenze. Ma esponiamo brevemente il sistema della Scuola intorno all' origine dell' anima umana; e poi additiamo le difficoltà che esso involge. Dicono adunque gli scolastici, che in primo luogo l' embrione è animato da un' anima nutritiva o vegetabile; ma che questa nello sviluppo dell' embrione si corrompe e a lei succede un' anima sensitiva; e finalmente si corrompe anche questa, e Dio allora vi crea un' anima intellettiva, la quale ha in sè le proprietà anche delle due precedenti. Ora su questa dottrina primieramente osservo, che l' anima vegetabile par cosa del tutto abbandonata: e però in questa parte non credo che nessuno t“rrà a difendere oggidì la sentenza scolastica. In secondo luogo il progresso delle osservazioni sullo sviluppo del feto umano, fa credere inverisimile che esso venga animato con anima umana solo dopo tanti giorni dalla concezione, come pone Aristotele, ma che piuttosto abbia l' anima sin dal principio del concepimento. Opinione che viene anche ricevendosi dalla Chiesa, giacchè ora certo in molti luoghi non si tralascia di battezzare, ove ciò sia possibile, anche l' aborto, almeno sotto condizione. Finalmente si consideri come torni forte a dover credere che prima s' abbia un' anima sensitiva nel feto, la quale si corrompe e perda; e poi v' abbia quella che Dio vi crea in suo luogo. Perocchè a qual fine un' anima sensitiva, se ella non è fatta se non per corrompersi? Forse per apparecchiare il corpo a ricevere l' intellettiva? Ma egli può essere apparecchiato senza lei, nel punto che l' anima intellettiva non entra se non dopo che ha sgombrato la sensitiva: perocchè altramente si troverebbe un istante, nel quale si troverebbero due anime in un corpo, l' una sensitiva e intellettiva l' altra. Dunque quando l' anima intellettiva entra nel corpo, essa non trova già un corpo animato da un' anima, ma il trova privo di anima; e un corpo privo di anima non ha bisogno di un' anima per apparecchiarsi a essere tale. Conciossiacchè corpo privo di anima non può avere altra disposizione che quella che consiste in un cotal ordine delle sue particelle materiali, ed ogni altro atto che appartenga alla vita anche animale, il deve ricevere dall' azione dell' anima intellettiva, che ha in sè anco la virtù sensitiva. Oltre ciò, se l' anima sensitiva si corrompe e si perde, in che modo avviene essa questa corruzione? Si fa in un istante o per successione di tempo? Se per successione di tempo, vi sarà dunque nel feto un' anima mezzo corrotta e mezzo non corrotta prima che entri l' anima intellettiva. E questo stato di mezza morte, questa vicissitudine a cui andrebbe soggetto il feto, non la mostrerebbe alla osservazione? E che nessun osservatore n' abbia mai trovato indizio? Ancora, l' anima intellettiva entrerà quando l' anima sensitiva è corrotta tutta, o quando è corrotta una parte? Se quando è corrotta tutta, dunque entrerà nel feto già morto. Se quando è corrotta una parte, dunque vi sarà un momento, nel quale il feto avrà in sè un' anima intellettiva e un' anima sensitiva mezzo corrotta. Se poi l' anima sensitiva si corrompe in un istante e in quel medesimo istante entra l' anima intellettiva, come mai il feto non darà nessuno indizio di questa gran metamorfosi? L' anima sensitiva è pur anima vera e propria del feto: or come si potrà ella staccare da lui, come si potrà corrompere e perir l' anima che è sua propria, senza che egli punto nol senta? Mutar l' anima a un corpo è egli poco? Sopravvenendo poi in un istante l' anima intellettiva, quale immenso passaggio! qual salto! un essere tramutato in un punto da bestia in uomo! Ma vi ha di più. Vi ha egli un modo possibile a concepirsi nel quale un' anima sensitiva perisca, se non corrompendosi il corpo a cui è aderente? Noi appronfondendo la natura dell' anima sensitiva, abbiamo trovato che essa è indivisile dal corpo, che forma la sua materia: che la materia del sentire e il principio senziente non formano che una sola individua natura, e che l' una ripugna a immaginarsi senza l' altra. Ora dato adunque un corpo animato, una materia del sentire, è dato pure un principio sensitivo, un' anima. Ma questo principio sensitivo non è mica cosa che si possa staccare da quella materia, perchè staccata non ha da sè sussistenza. Essa è passiva e il corpo a cui aderisce è attivo: ella nulla può adunque soffrire se non dal corpo, giacchè l' azione del corpo è appunto quella che le dà la sussistenza. Sarebbe adunque non solo superiore alle forze create, ma al tutto assurdo e contradditorio l' ammettere che un' anima perisca, restando intatto e senza alcun detrimento il suo corpo; perocchè questo corpo animato continua nella sua azione medesima, se egli non si disorganizza e guasta. Egli è qui che batte anche la dottrina di Aristotele, che definisce l' anima sensitiva un atto del corpo. Se ella è un atto del corpo (definizione ricevuta dalla Scuola), è il corpo che deve soffrire immutazione e stogliersi dal suo atto, perchè l' anima sensitiva cessi di essere. Nè vale il dire che gliene vien data un' altra; perocchè prima si cerca come si corrompa la prima. Tanto più che il corpo animato non riceve nè più nè meno dall' anima intellettiva, perocchè questa non comunica col corpo in quanto è intellettiva, ma solo in quanto è sensitiva. Il corpo dunque non fa che cangiar forma, non punto diversa di natura, ma solo di numero. Ed è egli ciò possibile? E` egli ciò concepibile? Sarebbe come se si dicesse che una pera, a ragion di esempio, viene spogliata di quella forma e qualità di pera bergamotta, poniamo, per darle una forma in tutto eguale alla prima nè più nè meno! Non è un tal cangiamento di forme assurdo anche secondo i principii medesimi della Scuola? Conciossiacchè la forma è unica, e non viene individualizzata se non dalla materia: sicchè tai cangiamenti di forme non si possono intendere, quando non si immaginassero queste forme come tante camicie uguali, e il cangiar di forme che le sostanze fanno, si prendesse per un cangiare di camicie. Io non intendo se non un solo cangiamento di forme possibile, ed è quello appunto che descrive Aristotele medesimo, per successive corruzioni e generazioni. Ma il cangiamento dell' anima sensitiva e la sostituzione dell' anima intellettiva non serberebbe nè pure la legge imposta dal duce degli scolastici alla generazione di nuove forme. Perocchè nella corruzione e successiva generazione di Aristotele gli elementi sostanziali della cosa rimangono ed è la loro forma che solamente cangia. Laddove l' anima che viene creata da Dio nulla ritiene, nella sentenza scolastica, della precedente, e nasce non per generazione, ma per creazione: oltre che non è possibile che a lei si attribuisca un successivo formarsi come nella generazione. E pure la Scuola è sollecita di applicare all' origine dell' anima i principii della generazione aristotelica (1). E finalmente noi dunque non abbiamo l' anima che abbiamo ricevuto dai nostri padri per generazione: non abbiamo nè pure ricevuto da essi l' animalità nostra, mentre quella che avevamo ricevuta da essi, è perita: non abbiamo tratto dall' origine se non la pura materia bruta e inanimata di cui è composto il nostro corpo; ed in tal caso, nè pur questa, perocchè la materia bruta e inanimata si cangia continuamente nei corpi umani mediante le sempre nuove particelle che questi ricevono e da sè emettono. In tal caso sarebbe convenuto meglio, che Iddio avesse comandato ai primi padri, che prendessero a comporre e effigiare delle statue di creta e di loto, come aveva fatto egli stesso con Adamo, e che poi infondesse Iddio le anime in queste statue; perocchè questo modo di moltiplicazione sarebbe stato, in un tal caso assai più semplice e nessuna anima sarebbe con esso andata a male. Ma l' assurdo maggiore che voglio far notare nell' ipotesi scolastica si è, che per la infusione dell' anima intellettiva che succede alla sensitiva, è perduta l' identità dell' uomo. Perocchè in un animale o in un uomo, quando gli si cangi l' anima, non è più quel desso, ma è un altro: il perchè i genitori non avrebbero per figlio se non il feto fino che ha l' anima sensitiva; ma quando egli riceve l' anima intellettiva il loro figlio è perito, e non rimane più che un figlio di Dio. Conciossiacchè l' identità dell' animale e dell' uomo non consiste se non nell' identità del sentimento e della coscienza; e l' identità del sentimento e della coscienza dipende dall' identità dell' anima. Cangiate dunque l' anima, un altro sentimento, un' altra coscienza, un altro animale, un altro essere ne è divenuto, e non più quello che fu conceputo dal padre. Che se questo nuovo essere è venuto da Dio, se è venuto da Dio immediatamente non solo l' intelletto, ma ben anco la sua facoltà di sentire, insomma il principio intelligente e senziente, che è tutto ciò che vi ha di formale non solo nell' uomo ma anche nell' animale, come questa nuova creatura di Dio potrà trovarsi viziata dal peccato dell' origine, quando l' origine sua è purissima? E se vi avesse alcuno a cui piacesse di negare questa verità evidente, che l' identità dell' animale e dell' uomo consiste nell' identità del sentimento, e volesse farla consistere piuttosto nella identità delle particelle materiali, per soprabbondanza e non per necessità, io chiamerò costui a considerare, che come di sopra ho detto, in nessuna maniera si può provare l' identità materiale delle particelle che compongono un corpo umano, le quali sono in un continuo movimento e partono dal medesimo per dar luogo a delle nuove. Se non che io giungo fino a dubitare, che una tale sentenza rinserri delle conseguenze, le quali non si possano sostenere, salva la verità della cattolica fede: anzi tali io tengo che siano anche quelle che ne ho finora dedotte, chi ben addentro e senza prevenzione le considera. Ma tale poi soprattutto parmi che deve essere riputata la seguente. Io tengo intrinseco alla fede cattolica essere, che il peccato originale passi per generazione e perciò nell' atto della generazione. Io potrei addur qui una nube di definizioni e di testimonianze che autenticano questa sentenza: ma mi limiterò ad addurre, ciò che ha dichiarato il Concilio di Trento, il quale afferma che il peccato passa nel figlio nell' atto del concepimento. Io recherò le sue stesse parole, nè pur traducendole, perchè non si trovi cagione forse di cavillare sul volgarizzamento. Eccole quali sono: [...OMISSIS...] . Ecco adunque, che mentre sono concepiti gli uomini, dice il Concilio, ricevono l' ingiustizia. Dopo la conceziione il seme paterno non ha più da fare cosa alcuna; e cresce il feto da sè nel seno materno. Ora supponendo che il feto appena concepito non abbia che un' anima sensitiva, egli non potrebbe essere soggetto capevole di peccato e di ingiustizia, meglio che una bestia qualunque; argomento insuperabile, dove non si voglia eludere con delle sottili e vane distinzioni. Di più, quell' anima sensitiva non è quella che resta all' uomo, ma ella va perduta e ne entra un' altra creata di tutto punto da Dio. Dunque, quando ancora quell' anima sensitiva fosse soggetto capevole di peccato, andando essa a perire, perirebbe con essa il peccato ricevuto dai padri. E sebbene l' anima nuova che viene infusa da Dio, dopo quei tanti giorni assegnati dalla sentenza aristotelica (2), venisse viziandosi e corrompendosi pel contatto del corpo in cui viene infusa, come liquore da un vaso infetto; tuttavia l' ingiustizia in essa anima non comincerebbe se non allora allora, e non nell' atto del concepimento: e quindi in questo solo punto, cioè quaranta o venti giorni dopo il concepimento, comincerebbe ciò che avesse propria e vera ragione di peccato. Conciossiacchè tutto ciò che precedentemente vi fosse nel corpo non potrebbe essere che sensitivo e qualsivoglia altra qualità vogliasi imaginare, ma non mai cosa che abbia propria e vera ragione di peccato. Nè basta il dire, che tale istinto e morbosa affezione della carne animale diventa poi cagione di peccato nell' anima intellettiva che sopraviene perocchè inclina questa al peccato; giacchè ciò sarebbe al tutto contro la mente del Concilio Trentino, il quale definì che sebbene la concupiscenza e il fomite che rimane dopo il battesimo inclini al peccato e per questa cagione si chiami dall' Apostolo peccato (1), tuttavia non è questa il peccato originale, perocchè ella non è peccato in senso vero e proprio, come è il peccato originale. Sicchè nella sentenza scolastica il vero peccato originale non si trarrebbe dai parenti, ma dai parenti si trarrebbe solo una cotal mala affezione della carne, che produce poi il peccato nell' anima, quando Iddio la vi crea. E il dir questo non saprei come non fosse un affermar cosa contraria alla cattolica fede circa il peccato originale, ed alla mente dell' Ecumenico Concilio di Trento. Io ho parlato fin qui della sentenza scolastica a quel modo che la espone l' Angelico Dottore (2). Il più dei teologi moderni si contentano di dire, che Dio crea e infonde l' anima nel corpo, senza parlare del tempo e del modo in che succede questa creazione e infusione. Ma egli è manifesto che dove anche si supponga, che venga creata e infusa nell' atto del concepimento, molte delle difficoltà sopra indicate sussistono egualmente in tutta la loro forza, e principalmente l' ultima. Perocchè se egli è vero, come è verissimo, che nell' uomo non vi ha se non un' anima, la quale è sensitiva insieme e intellettiva, sarà pur vero che nell' atto del concepimento Iddio crea tutto ciò che vi ha nell' uomo d' intellettivo e di sensitivo; e che per ciò i parenti non somministrano che la pura materia bruta e inanimata. Or dunque ciò che viene da' parenti non è nè l' uomo nè l' animale, non siamo NOI che siamo figliuoli dei padri nostri, perchè questa parola NOI indica la nostra coscienza, il nostro sentire, e tutto il nostro intelletto e la nostra animalità. NOI dunque non abbiamo l' origine da Adamo, ma da Dio, e non possiamo per ciò trarre da Adamo alcun peccato, ma tutto al più possiamo venir viziati in virtù dell' azione che sopra di noi esercita una materia bruta, che essa, e non noi, è venuta da Adamo. Ne verrebbe parimente l' assurdo, che essendo l' uomo un animale come tutti gli altri, ed anzi il più perfetto di tutti, tuttavia egli solo nel generare farebbe meno di quello che fanno tutti gli altri animali. Perocchè tutti gli altri animali in generando producono ne' lor figliuoli delle anime sensitive e animali, mentre l' uomo sebbene abbia una maniera di generare simile alla loro, tuttavia non potrebbe produrre neppure un' anima sensitiva e animale, giacchè Iddio crea l' anima umana da sè intellettiva e sensitiva a un tempo: e all' uomo sarebbe solo riservato come diceva, quel tanto che farebbe un vasaio, il quale mentre fabbrica colle sue dita una statua di molle terra, Iddio suo compagno di operazione le fabbricasse interiormente l' anima. Il che, se così pure avvenisse, non potrebbe succedere che per un miracolo; terzo assurdo che contiene la sentenza che confutiamo. Conciossiacchè, giacchè l' uomo è pure un animale come gli altri ed ha pur come gli altri la facoltà generativa, solamente per un miracolo potrebbe essere la virtù di questa sospesa e impedita dal produrre almeno un' anima sensitiva. Sicchè quelli che ammettono che le anime umane sieno create e infuse nell' atto del concepimento, sono costretti di non ammettere già un miracolo solo, facendo intervenire Iddio Creatore nella natura e accusandolo così di non aver fatta questa natura a sufficienza perfetta, ma due, l' uno del crear l' anima, l' altro d' impedire la potenza generativa dell' uomo dal produrne una ella, come fanno tutti gli altri animali. Se non che dovendo esser questa potenza generativa nell' uomo continuamente sospesa, e non potendo giunger essa mai a produrre un animale, cioè un corpo animato, ma solo a somministrare della materia bruta, da essere animata da un' anima che Dio stesso crea e v' infonde; perchè Iddio dar pure all' uomo una tale potenza? Ad effigiare e comporre una massa senz' anima non è necessario deputare una potenza e un apparato generativo; ma una forza meccanica ed esterna è sola bastevole a ciò. Avrebbe dunque Iddio operato in questo solo e unico fatto della natura stoltamente; poichè avrebbe posta una potenza inutile, anzi una potenza che serve d' impaccio, impedimento, e la cui azione gli conviene contrariare e sospendere con dei continui prodigi. Una difficoltà si affaccia alla mente contro la nostra sentenza dell' origine dell' anima, quando questa non s' abbia perfettamente compresa. E io intendo qui di risolverla, appunto perchè ciò mi dà luogo ad agevolare la conveniente intelligenza della medesima. Si dirà adunque: l' anima sensitiva non sussiste per sè, ma solamente unita al corpo, di maniera che, distrutto il corpo, anche quella è dissipata e distrutta. Or come passa questa a sussistere da sè? E se diventando intellettiva, non si fa sussistente, ella rimarrà materiale o mortale? Ma io rispondo: L' anima sensitiva, ove il corpo a cui aderisce distruggasi, ella pure si strugge e si dissipa: ciò è verissimo. Ma perchè nasce questo suo dissipamento? Perchè le vien tolta la materia del suo sentire, e senza materia di sentire non vi ha sentimento, senza sentimento non vi ha principio senziente, e senza principio senziente non vi ha anima, perocchè esso principio è l' anima stessa. Cioè a dire, nel sentimento fondamentale che costituisce l' essenza dell' animale, io ho distinto due elementi, cioè il principio e il fine, il senziente, e il sentito. L' animale si distrugge perchè è distruttibile il termine del sentimento, il sentito; ma non v' è altra maniera in cui concepir si possa dissolvibile l' animale, come dissi di sopra; sicchè se il termine o la materia del sentire non sofferisse alcuna alterazione, il principio senziente per sè non cesserebbe mai, e sarebbe immortale. Io non dubito adunque di chiamare spirituale l' anima delle bestie, considerata nel suo principio, e solo dalla parte del suo termine è materiale. Io non dubito di chiamare l' anima, considerata come principio senziente, spirito, e questa mia maniera di parlare è conforme a quella delle divine Scritture che dicono: « lo spirito di ogni carne« (1) ». Or dunque se il principio senziente per sè non perisce, ma solo per il termine suo, ossia per la cosa sentita; che sarà ciò che il possa rendere al tutto immortale? Basterà cioè che gli si dia un termine, il quale sia di natura sua indistruttibile e eterno. Perocchè avendo egli questo termine, allora il connubio fra il senziente e il sentito è fatto per guisa che non può più venir dissipato; e quel principio senziente che solo non può sussistere, congiunto con questo termine, non può perire, non venendogli mai meno qualche cosa cui senta. Or questo appunto succede in darsi che si fa la intelligenza al principio senziente, perocchè non è altro che un dargli a sentire l' ENTE, il quale è di natura sua eterno, immutabile, necessario, universale e fornito di altri caratteri divini. Un principio che senta l' ENTE, sussiste eternamente, perchè ha sempre un oggetto da sentire, che non gli può venire mai meno. E se questo principio, oltre avere per cosa sentita l' ente, abbia per cosa sentita anche la materia corporea, in tal caso esso è un' anima intellettiva e animale a un tempo, la quale ha due termini, uno eterno e industruttibile, e l' altro distruttibile. Venendo dunque a perire la materia corporea, quest' anima non si dissipa nè distrugge, ma rimane sussistente per sè, cioè per l' oggetto a cui è aderente e cui sentendo ha sua vita (2). Ed egli, chi ben considera, fu da un consimile ragionamento che fu provata la immortalità e la semplicità dell' anima dai maggiori filosofi dell' antichità e dai Padri della Chiesa. Perocchè essi indussero queste sue preclare doti da qualche cosa di sublime, d' immortale, di eterno, a cui la trovarono essere aderente. Fu perchè la videro dotata della cognizione della verità e della giustizia, dell' ordine e del bene, che la dichiararono di stirpe divina e partecipante dei pregi di questi oggetti a cui ella aderisce; e per ciò della loro immateriale e eterna consistenza. E ora che abbiamo fatto noi, se non meditare appunto la natura della verità, della giustizia, del bene, dell' ordine, e trovare che tutte queste cose si accolgono in una sola, cioè nell' ENTE universale, luce semplicissima, di cui è partecipe e dove sussiste l' anima intelligente? Sicchè quando noi abbiamo detto, che l' anima umana è intelligente, immateriale, sussistente per sè, appunto perchè è congiunta coll' ente, noi abbiamo con una sola parola indicato quello che tutta l' antichità ha predicato con molte; e abbiamo ridotto alla formola più precisa e più filosofica i vaghi e alquanto indeterminati ragionamenti della filosofia ancora immatura e la sapienza comune del genere umano. A confermare queste affermazioni non sarà inutile che io rechi qualche passo fra i moltissimi che potrei addurre degli antichi savi, nei quali si parla appunto di questa cognazione dell' anima colle cose eterne, che essi nominavano anche Dei, appunto perchè vedevano come quell' elemento che rende l' anima immortale sia divino, e non trovavano nè come unificarlo, nè come preciderlo dalla divinità. Iamblico, raccoglitore di dottrine antichissime, dice così: [...OMISSIS...] . Si sostituisca in questo passo alla parola Dio e alla parola cose divine l' ENTE IN UNIVERSALE, e si avrà appunto espressa la nostra teoria. Altrove il medesimo autore dice: [...OMISSIS...] . Finalmente aggiungerò ancora un passo di Iamblico, degno di considerazione all' uopo nostro: [...OMISSIS...] . Il che è un esprimere quanto più si possa al vivo la natura dell' anima, formata da un principio senziente, soggetto, e da una cosa divina, oggetto: le quali due parti sono così coerenti tra sè che nulla più; sicchè di due, senza mescolarsi, o confondersi punto, fanno risultare una sola natura. Ora i platonici di tutti i tempi e con essi molti altri filosofi, e con essi il comun dire medesimo parlò sempre nella stessa sentenza (2). Da ciò che abbiamo detto risulta, che Adamo peccando commise un peccato personale, come sono tutti i peccati attuali liberi. Che questo guasto della persona in Adamo guastò e corruppe la natura. Che la natura guasta fu comunicata ai posteri per generazione. Che nei posteri la natura guasta, aggravando e torcendo la volontà personale, guastò la persona (6). Ora la natura è una cui egualmente partecipano molte persone. Or questa natura o che è moralmente sana, o moralmente infetta. Essendo dunque stata infetta già col primo peccato, gli altri peccati non possono più infettarla e rimangono solo peccati personali senza più. La quale ragione viene esposta egregiamente dal Dottore angelico in queste parole: [...OMISSIS...] . Tuttavia chi sostenesse avervi nei padri talora delle disposizioni morali perverse, le quali vengono comunicate ai figliuoli per generazione, sicchè anche i figli rimangono maggiormente inclinati a certi vizii (2), siccome pure avervi delle buone abitudini morali che sembrano conservarsi in certe schiatte e tramandarsi per eredità; questi non terrebbe forse cosa contraria alla esperienza (3), nè sottosterebbe punto contro a quella decisione apostolica con la quale fu condannata questa proposizione di Baio: [...OMISSIS...] . Nel fanciullo la natura è quella che infetta la persona . Per natura abbiamo detto intendere il complesso dei costitutivi dell' uomo. In modo più proprio però la natura, che trae l' origine da nascere , significa le prime [qualità] costitutive dell' uomo con una relazione alla loro origine; quasi si definisce la parola« natura« con dire: ciò che si porta nascendo. Or per vedere adunque quel principio contenuto nella natura umana che va a pervertire colla sua azione la volontà, converrà cercare appunto nel nascimento dell' uomo, in ciò che per primo egli ha e riceve dall' origine, la causa prossima del peccato originale; perocchè questa sarà quella stessa causa prossima e istrumentale per la quale egli vien concepito. Ora la causa istrumentale e prossima, che muove il germe al suo sviluppo, è il seme paterno. E la tradizione cristiana di pieno consenso attribuisce appunto a una mala qualità del seme il ricevere che fa la natura generata in sè una cotal corruzione e disordine che ridonda nella volontà, ove così in uno colla generazione si forma il peccato. Le divine Scritture parlano senza ambiguità di questa rea qualità, che viene anco chiamata immondezza del seme umano. Giobbe deplorando la malizia della umanità, dimandava: « E chi può far mondo ciò che è stato concepito da un seme immondo?« (3) ». E di cui perciò tanta è la miseria che la corruzione abita ne' primi stami e rudimenti stessi di sua natura? E Davidde deplorava di esser stato concepito dalla madre sua « nelle iniquità e nei peccati« (4) ». A spiegazione e commento delle quali parole, Innocenzo III dice: « il corpo si concepisce corrotto e fedato nato da semi corrotti e fedati« (5) ». Un segno che infetto era il mezzo della generazione, e col quale Iddio volle mantenere la cognizione e la fede del peccato originale, fu la circoncisione; e quelli si avevano per soggetti alla morte presso gli Ebrei che non subivano questa ceremonia, indicandosi per tal modo e il principio del male e la necessità di una originale riformazione della natura umana. Questa infezione del seme è fisica , e perciò non è che in essa stia la propria e vera ragione di peccato, ma bensì la ragione istrumentale del peccato. Perocchè questa infezione fa sì che l' uomo nasca guasto nella sua parte animale, e ricevendo così un istinto animale alterato, questo istinto animale tira a sè le forze della volontà soggettiva, e in questo piegamento della volontà la ragione del peccato si assolve. Vi ha dunque, 1. la infezione del seme paterno: 2. l' istinto animale alterato, ossia la concupiscenza animale che viene prodotta nel generato: 3. la volontà stessa inclinata e condiscendente tutta alla concupiscenza: e in quest' ultima parte trovasi, come dicevamo, un vero e proprio peccato abituale. Niente adunque ripugna, anzi sembra consentaneo alla cattolica verità l' ammettere una morbosa qualità nel seme; purchè non si faccia consistere in essa l' essenza del peccato originale: niente ripugna che si ammetta una morbosa qualità della carne, ossia un' alterazione dell' istinto animale, purchè non si confonda con essa la piega della volontà, che sola può esser sede di moralità. E parmi che certi teologi parte si sieno male spiegati, parte sieno stati troppo severamente intesi in questa parte. Così Enrico di Gand, a cui si appone di far consistere l' essenza del peccato originale in una morbosa qualità della carne, si esprime pur chiaramente quando dice: [...OMISSIS...] . Delle quali parole si può egli dar nulla di più chiaro e di più preciso? Ed egli pare che questa morbosa qualità della carne tanto meno doveva essere occasione di censura, quanto che tutte le Scritture son piene di questo stesso sentimento, fino a chiamare carne lo stesso peccato originale, sicchè essere nella carne, nello stile di S. Paolo, vale essere ancora nel peccato originale (2). E S. Agostino secondo lo spirito di esse Scritture dice, che il peccato originale « è una cotal affezione di mala qualità e come una malattia« (3) ». E altrove parimente disse, che il corpo trasse pel peccato originale una qualità morbosa e pestilente (4). Alcuni per questa mala qualità intendono la concupiscenza stessa. Ma se per concupiscenza s' intende quell' insulto che fa la carne allo spirito quando, occupandolo di sè tenta di trarlo giù dalla sua padronanza e assudditarlosi, egli è manifesto che la concupiscenza deve essere piuttosto un effetto di quella morbosa qualità della carne. Perocchè se la carne è fatta così superba e stimolante, ella deve avere indubitatamente sofferita un' alterazione pari appunto a quella che ha sofferita la cute dello scabbioso o di colui che soffra delle insolite pruriginose sensazioni (1). Nè si potrebbe immaginare nella carne questo effetto senza pensar in essa esser succeduta appunto una morbosa alterazione: ed è questa che assai agevolmente s' intende potersi contrarre per via di generazione; come succede di tutti i mali gentilizii, i quali vanno comechessia a portare la loro corruzione contagiosa nelle prime radici della vita. Per ciò S. Agostino dice che Adamo peccando viziò in sè come in radice la propria stirpe (2). Nè però mai s' intenda, come qui sopra ho avvertito, che in questa alterazione morbosa della carne stia l' essenza del peccato originale, ma solo lo stimolo che dalla natura è applicato alla volontà, del quale stimolo questa viene sedotta e tolta dai beni intellettivi per bearsi degli animaleschi. Confermano questa dottrina tutte quelle maniere efficacissime di dire che usa la divina Scrittura; nelle quali l' uomo peccatore si dice nato di carne. In S. Giovanni è scritto: « Ciò che è nato di carne è carne; e ciò che è nato di spirito è spirito« (3) ». Che cosa vuol dire qui essere carne, se non essere peccatore, cioè schiavo della carne? E che cosa esprime quell' essere nato di carne, se non venire la nostra schiavitù dalla carne appunto male condizionata e violenta; il che è quanto dire avere in sè un' alterazione fisica indebita? E si noti quella frase esser carne , la quale indica che il soggetto, in luogo di applicare la sua forza più lungamente alle cose intellettive, si abbandona tutto a percepire la materia sensibile e da essa trae la sua esistenza: secondo ciò che detto abbiamo più sopra, che il principio senziente trae il suo essere dal termine sentito. Il medesimo sentimento esprime S. Paolo in tanti luoghi, nei quali alla carne attribuisce tutta l' origine del male. [...OMISSIS...] . Ora una tal carne, di cui anche più sopra aveva detto: « Io so che non abita in me, cioè nella carne mia bene alcuno« (2) », sarà ella la carne di Adamo innocente? O non si dirà anzi una carne alterata, impestata dal peccato? Anteriore dunque alla concupiscenza è una morbosa e pestifera qualità della carne, che si trasmette per generazione e che è la cagione prossima della concupiscenza, come la concupiscenza è la cagione prossima della stortura della volontà ossia del formal peccato. Or ciò posto, io non vedrei altresì che si potesse riprendere come contraria alla fede l' opinione di quelli ai quali par verisimile che nel frutto vietato da Dio ad Adamo potesse ascondersi un cotal veleno, il quale contaminasse l' uomo e principalmente ammorbasse la potenza generativa (3). Tale opinione, sostenuta da un' antica tradizione presso gli Ebrei (4), a me sembra verisimile e conforme a quelle leggi, secondo le quali Iddio suole governare le sue creature. Dirò di più, quando si dovesse fare in tal materia delle conghietture, più volte essermi passato per la mente che Iddio potesse aver permesso al demonio di prendere sua sede in quel frutto vietato appunto, e che insieme colle particelle di quel frutto, le quali si devono essere convertite nella carne e secondo la loro propria natura andate per avventura a unirsi colla seminale sostanza, il demonio avesse potuto trovare l' adito nel corpo dell' uomo peccatore e tenerlo come sua conquista e passare egli stesso per il mezzo della generazione in tutti i figliuoli di Adamo, travagliandoli appunto principalmente e insultandoli per via di carne. Or non sarebbe questo conforme a quel dire che fanno le divine Scritture, che tutta l' umanità fu pel mangiamento di quel primo frutto in potestà del demonio e che ogni carne fu da lui posseduta? Non mostra la santa Chiesa negli esorcismi che fa al bambino prima di battezzarlo, tener essa che dentro lui stia il demonio? Non gli dice, soffiandoli in volto: Escitine, o maledetto diavolo? E quanto naturale intendimento non riceverebbero pure quelle parole di Cristo: [...OMISSIS...] . Da questa morbosa qualità del seme adunque, dalla quale rimane infetto l' embrione, prima conseguenza è, come dicevamo, la concupiscenza, ossia un sentimento animale che agisce con forza sulla volontà soggettiva e tutta a sè ne tira l' attività, per modo che ella rimane distolta e avulsa dai beni intellettivi. Perciò i Padri parlano della concupiscenza come di cosa costitutiva del peccato stesso originale. Ma ella si deve intendere esser tale solo considerata come vittoriosa sulla volontà, sicchè la volontà le sia serva: cessando poi dall' essere peccato tosto che la volontà soggettiva e personale riprenda le redini e torni a signoreggiare sopra di lei colla forza della grazia divina; poichè allora lo stimolo della concupiscenza, sebbene rimanga, non serve che ad accrescere il merito della vittoria. Perciò il serafico Dottore esaminando un passo del Maestro delle Sentenze, dove afferma che il peccato originale sia la concupiscenza, dice egregiamente che ciò si può sostenere, purchè s' intenda non qualunque concupiscenza, ma quella che in sè racchiude la privazione della debita giustizia (1). La concupiscenza considerata nel fanciullo abbiamo detto esser cagionata da una morbosa qualità di cui è infetta la carne, nella quale egli fu generato. Ora egli sembra, che se la concupiscenza si considera nei generanti, ella possa essere stata, anzi che effetto, cagione in buona parte della morbosa qualità propagata nei figliuoli. Questo è ciò che S. Agostino dice tanto di frequente: in ragione di esempio, in un luogo così parla: [...OMISSIS...] . E S. Tommaso sulle vestigia del suo Maestro: [...OMISSIS...] . Nè mi farebbe maraviglia che la voluttà annessa alla generazione fosse partecipata dal generato, in quanto prima la massa carnea di cui egli è composto formava parte di essi, e poi diviso ed acquistato un essere da sè, non morì però mai, ma restò con quel vigore di vita e con quel sentimento che in lui fu suscitato e acceso pure in generandolo. Sicchè la causa istrumentale e prossima della trasmissione nei figliuoli del peccato originale è la morbosa qualità del seme paterno e la concupiscenza che accompagna l' atto della generazione, ove questa si faccia per via di esso seme paterno. Le quali due cose mancarono nella generazione di Cristo: perocchè, non essendo intervenuto in essa opera di uomo, non ebbe luogo l' effetto che suol produrre il seme guasto nella madre a un tempo e nel figlio, cioè la carnale concupiscenza. Il che apparisce assai più chiaro nel sistema de' germi inviluppati gli uni negli altri; perocchè in questo sistema, sebbene il germe da cui dovea poscia svilupparsi Cristo, passasse di parente in parente per tutta la serie de' suoi ascendenti, tuttavia rimanendosi egli sempre inviluppato fino al momento, in cui fu depositato nel corpo purissimo di Maria Vergine Immacolata, fu protetto per modo, che non venne mai tocco nelle generazioni antecedenti da seme umano, e così non potè contrarre mai, nè pure se ne fosse stato capace, alcuna macchia o infezione. Così si trovano conciliate e insieme contemperate le sentenze apparentemente diverse intorno alla ragione per la quale Cristo naturalmente fu immune da peccato. Perocchè innumerevoli sono i luoghi de' Padri co' quali affermano che ciò fu perchè non vi intervenne uman seme; e molti pure e evidenti sono quelli nei quali si legge che fu perchè non vi intervenne alcuna concupiscenza. Questo secondo sentimento ripete assai di sovente S. Agostino, come a ragion di esempio là dove dice: [...OMISSIS...] . Considerando adunque l' alterazione e il guasto del seme umano come cagione di questa concupiscenza, è vero l' uno e l' altro, che Cristo fu immune dal peccato perchè non ci intervenne l' uso del seme, e non quella concupiscenza che accompagna quest' uso. Quella concupiscenza adunque è propriamente la cagion prossima della trasfusione del peccato, che accompagna il concepire in virtù dell' uman seme; non altra, se ella essere vi potesse. E con ciò io credo di cogliere la mente del Dottor della grazia, il quale non si potrà provare che in nessun luogo parli di altra concupiscenza se non di quella che accompagna appunto la umana seminagione: il che dimostra nel passo sopracitato, chiamandola non puramente concupiscenza, ma concupiscenza di uomo che con femmina si accoppia, « concumbentis concupiscentia ». E ancor più precisamente altrove dichiara il suo pensiero determinando di quale concupiscenza egli parli, dandole l' epiteto di concupiscenza seminatrice . E per ciò dice di Cristo che quantunque anche egli sia secondo la carne seme di Abramo, perocchè la Vergine Maria ond' egli tolse la carne fu di quel seme propagata, tuttavia egli non fu sottoposto all' azione di quel seme, non venendo da viril seme concetto, e libero rimanendosi dal legacciolo della seminatrice concupiscenza (1). Ricapitolando ora e paragonando ciò che abbiam detto sulla natura e sulla trasfusione del peccato originale, noi abbiam parlato sì in quella trattazione, che in questa del principio di esso peccato e ne abbiamo parlato in modo diverso. Perocchè parlando della natura, noi abbiamo posto il principio del peccato originale nella personalità dell' uomo: e parlando della trasfusione, abbiamo posto questo principio nella rea qualità e concupiscenziale del seme virile. Colà abbiamo detto che il peccato prima è nella persona ossia nella volontà soggettiva: e qui abbiamo mostrato il disordine originale cominciare dalla carne ossia dall' animalità. Colà abbiamo fatto discendere il peccato dal punto superiore della umana natura e condottolo a contaminare le potenze subordinate: e qui abbiam fatto nascere il disordine nel punto inferiore di tutti, cioè nella carne dell' uomo, e l' abbiamo fatto ascendere e comunicare la sua infezione alle altre potenze più nobili, deturpando ultimamente l' altissima di tutte, cioè la volontà soggettiva. Insomma colà abbiamo assegnato al peccato un principio diverso e opposto da quello che gli abbiamo assegnato in quest' ultima trattazione. Come si conciliano e stanno insieme queste dottrine? La natura umana ha veramente due estremi, che sono, quasi direi, i due poli della medesima: il più nobile è ciò che forma la personalità, e il men nobile è ciò che forma l' animalità. Ora la generazione della umana natura procede dalla parte men nobile alla più nobile, dall' imperfetto al perfetto, dall' animale alla persona. Questo processo risulta da tutto ciò che abbiamo detto intorno all' umana generazione, la quale è una operazione animale sicchè ha virtù di formar l' animale. Ma essendo da Dio congiunto con questo animale per ferma legge l' ente percettibile, egli non può essere formato questo animale se non a condizione che veda l' ente: e per ciò all' operazione generativa, che di natura sua non avrebbe virtù se non di produrre un animale, tiene dietro, immediatamente la percezione dell' ente, mediante la quale il principio senziente in quell' animale si eleva a stato di soggetto intellettivo e di persona; il che succede senza progressione alcuna di tempo , ma è contemporaneo l' animale e l' uomo. Nasce adunque la formazione dell' uomo mediante una mozione animale dall' imperfetto al perfetto. Ora comunicandosi il disordine adamatico per generazione, di che è che si chiama originale , egli deve in producendosi nell' infante tenere lo stesso ordine e processo che tiene l' infante stesso in generandosi e formandosi. Quindi è che egli deve cominciare a infettare e corrompere le parti basse e da queste passare il suo disordine alle più sublimi. Il che è ciò che esprimono le Scritture collocando nella carne tutto il fonte del male morale dell' uomo e usando di questa parola carne a significare il nido, quasi direi, di tutte le tentazioni e il complesso di tutti gl' inimici contro lo spirito della virtù e della giustizia. « Perocchè la carne, dice S. Paolo, concupe contro lo spirito e lo spirito contro la carne: conciossiacchè queste due cose si contrariano insieme, pericolandone la vostra libertà« (1) »; della quale la baldanza della carne vorrebbe pure spogliarvi. In questo senso adunque, parlando della trasfusione del peccato, noi abbiamo messo il suo principio nella parte più bassa della umana natura, per la quale entrato il disordine si comunicò alle altre. Ma convien riflettere, che questo disordine fino che si resta nelle parti basse dell' uomo, non ha vera e propria ragion di peccato, nè però peccato si può denominare. Ma bensì può dirsi principio di peccato , in quanto che egli produce nell' uomo uno stimolo che tenta la sua volontà, e come priva di aiuto e di forze, qual' è la volontà di quello cui manca la grazia, la trae agevolmente dalla sua e la fa quietarsi nella vita animale e nella carnale dilettazione. Egli è però certo, che il formal peccato non è prodotto nell' uomo se non da quel punto che questa volontà soggettiva non ha piegato e ceduto al dilettico animale. E però noi abbiam detto, che il peccato non comincia se non nella volontà soggettiva, nella più alta parte dell' uomo, che è quanto dire nella personalità: perciocchè tutto il male che precede al guasto della personalità non è cosa per sè morale, ma fisica e animale, essendo sola la persona la vera e propria sede di ogni bene e di ogni male morale. Sebbene adunque il disordine cominci nell' uomo prima della sua personalità, tuttavia solo in questa e con questa comincia propriamente il peccato . Quando poi la personalità stessa ha allettato in sè il disordine, rendendo con ciò morale quello che prima era fisico e animale, allora la persona comunica per così dire l' immoralità propria alle potenze subordinate e tutto diventa immoralità, tutto peccato nell' uomo. La concupiscenza è peccato, l' ignoranza e la cecità di cuore è peccato, come dicono a una voce i Padri. Relativamente dunque al peccato di che vengono infette le potenze dalla volontà personale, prima e propria sede del peccato, noi abbiam detto che il principio del peccato originale risiede nella persona, nella più alta parte dell' uomo, e che da quest' apice discende e macchia le parti inferiori. Se si considera dunque il disordine in generale, il suo principio è nella parte più bassa dell' umana natura. Se si considera poi l' immoralità di questo disordine, il suo principio è nella parte più alta di essa natura. E questo ci valga a conciliare, a legare insieme e a ricapitolare quanto abbiamo detto sul principio del peccato originale in questo e nel capitolo precedente. Trovata la cagione prossima del peccato originale, egli è facile render ragione perchè anche i figli di coloro che sono rigenerati nel santo battesimo, ricevano il peccato originale. La grazia del santo battesimo non è che personale , cioè non riforma che la persona, come abbiamo accennato e come più a lungo dimostreremo nel libro seguente. Il disordine originale all' incontro contamina non meno la persona che la natura. Riformata adunque la persona col battesimo, rimangono le altre parti della natura umana ancora disordinate. A queste parti disordinate dell' umana natura appartiene principalmente la facoltà generatrice, e quindi la causa prossima e istrumentale per la quale s' insinua nel neonato e vi si eccita il peccato originale rimane viziata anche nei fedeli battezzati. Il perchè una natura corrotta produce una natura corrotta e che ha pur bisogno di essere rigenerata. Questa ragione adduce S. Agostino contro i Pelagiani che dimandavano perchè se il peccatore genera il peccatore, anche il giusto non generi il giusto. [...OMISSIS...] . La quale medesima ragione adduce in altre parole S. Tommaso, il quale afferma rimanere il peccato originale, materialmente preso, negli stessi battezzati; [...OMISSIS...] . Dalla natura del peccato originale, dottrina fondamentale della Chiesa Cattolica (4), si spiega lo spirito di questa, e per l' opposto lo spirito da cui è animato il mondo. La Chiesa professa che l' uomo nasce corrotto per natura: e quindi il figliuolo della Chiesa riceve da questa dottrina un sentimento di umiltà che lo accompagna in tutti i suoi passi. Il mondo niente ode più mal volentieri quanto la dottrina del peccato originale: egli fa di tutto per ritorcere gli occhi da questa profonda piaga dell' umanità, e dice volentieri: l' uomo nascere uomo, ovvero le indoli formarsi per la educazione senza più. Dell' ignoranza pertanto, in cui il mondo si tiene volontariamente del peccato originale, è effetto a un tempo e cagione lo spirito di superbia di cui sempre è gonfio il figliuolo di questo secolo. Quanto più lo spirito del mondo prevale anche nel mezzo delle nazioni cristiane, tanto più si vede allontanarsi e rimuoversi la memoria del peccato originale, massime dai libri di educazione; e dipingersi in essi in quel cambio l' uomo sempre con dei lieti e ridenti colori, ma, ohimè! purtroppo menzogneri, e simili per avventura a quelli che facevano si bello e desiderabile il pomo di Eva. La Chiesa col peccato originale insegna, che ciò che portiamo di corrotto fino dalla prima origine è la carne; e deduce da essa il fomento d' ogni peccato. [...OMISSIS...] . Per questa dottrina che possiede la Chiesa, avviene che il suo spirito sia di mortificazione della carne e di penitenza: e ciò a tal segno da desiderare fino la distruzione totale della carne, riguardando tale distruzione come l' abolizione del peccato e la liberazione dell' anima dai ceppi di una tediosissima schiavitù. Fino poi che questa felice distruzione non sia avvenuta, il figliuolo della Chiesa si propone di non prendere giammai a principio del suo operare il desiderio della carne, di non riconoscere nè pure la carne quasi come parte di sè, ma di riguardarla già come fosse al tutto morta. Questo è il proposito che si fa nel battesimo, questo è il sentimento che esprime S. Paolo là dove dice: [...OMISSIS...] . Or questa è nuova cagione per la quale il mondo non riceve o rifiuta di considerare la dottrina del peccato originale, la quale gli è troppo triste e malinconiosa, eziandiochè vera. Indi lo spirito del mondo si fa uno spirito di solazzo, di gaiezza e di accontentamento appunto della carne, così dalla Chiesa ripresa e vituperata. Il peccato originale adunque è quella gran dottrina la quale mette quella grande separazione che pure è tra l' operare della Chiesa e del mondo. Egli è manifesto che il peccato originale è il fatto solenne della umanità, il quale determina il vero e proprio suo stato. Or la morale deve esser acconcia al soggetto per il quale ella è fatta: e però un fatto che modifichi l' uomo, soggetto della morale, egli è evidente che deve recare una modificazione corrispondente in tutta la morale dottrina. Ma la filosofia non è stata solita di considerare i fatti solenni che hanno modificata la natura umana e hanno condotto l' uomo a essere quello che è: ma ha preso in veduta la natura umana astrattamente presa senza più. E il fatto del peccato originale tanto più lo ha negletto che esso è un fatto soprannaturale per così dire, cioè a dire un fatto che si lega con un ordine di cose soprannaturali e con una primitiva e immediata comunicazione col Creatore; e per la stessa ragione questo fatto fu di sua natura proprietà della cristiana teologia. Quindi principalmente nacque il carattere che divide la morale de' filosofi dalla morale cristiana. Perocchè quelli non poterono considerare l' uomo se non imperfettamente nelle sue qualità universali e comuni date dalla sua natura: laddove la rivelazione e religione cristiana lo considera fornito di tutti i suoi accidenti e alterazioni da lui sofferte e nei varii stati nei quali egli si trovò di fatto. Egli è perciò che la predicazione del Cristianesimo tende direttamente a sorreggere e riformare la umana natura in quelle parti, nelle quali fu più vulnerata dal peccato originale: onde è suo proprio carattere di inveire contro la superbia e la carnalità, e di soprammodo promuovere la virtù dell' umiltà e della castità, nomi peregrini e al tutto insoliti in bocca alla filosofia. Di più la morale teologica mettendo tutta la forza, per la quale divien possibile all' uomo di resistere contro all' ingiustizia cui gli vien suggerendo la concupiscenza originale, nella grazia del Redentore che solo vinse e riparò il peccato originale; avviene che rivolga la sua morale predicazione principalmente a indurre e consigliare l' uomo di provvedersi di questa grazia nell' orazione e nei sacramenti della Chiesa. Ed egli è per queste vie, di domare la carne colla penitenza e colla grazia, che la morale cristiana trae l' uomo alla reale virtù, mettendo la scure alla radice del male e insegnando quello che diceva di pur fare l' Apostolo: [...OMISSIS...] . Questo scopo determinato e che batte il sodo e nel vero dell' uomo, è appunto ciò che manca alla morale filosofica. Essa vi propone dei bellissimi precetti, ma tutti vaghi e universali, i quali non discendono ad applicarsi allo stato dell' uomo infermo e caduto sì come egli è, e non insegnano onde attinger egli possa le forze da rilevarsi; non gli fanno nè conoscere il suo male, nè il rimedio del medesimo; e finalmente da una parte non ha coraggio di proporgli tutta intera la virtù, temendo di sgomentarlo; dall' altra non la conosce: perchè una tale morale è essa stessa l' opera di quel medesimo uomo infermo e scaduto cui solo può guarire e rilevare un medico maggiore di lui, un altro essere sopraumano che tenda a lui soccorrevoli delle braccia piene di pietà e di misericordia. Le dottrine cattoliche da noi esposte sul peccato originale mi chiamano a lumeggiare meglio con esse una osservazione altrove per me fatta, cioè che la divina rivelazione, ossia quel complesso di dogmi che forma la sostanza della fede cattolica, suppone sotto di sè e accenna una filosofia, il ricercamento della quale Iddio commise alla umana ragione da lui stesso sovvenuta e aiutata, acciocchè col trovare i principii e le ragioni delle verità, dia essa ragione un tributo alla fede, la quale acquista di continuo una vie maggior luce e bellezza. Così noi veggiamo nelle divine Scritture e nei libri de' Padri della Chiesa che contengono il deposito della fede, parlarsi di verità le più sublimi e recondite colla massima precisione e sicurezza: e tuttavia confessare assai di sovente di non avere ragione naturale con la quale provarle, ma solo l' autorità di Dio che le ha fatte conoscere agli uomini. Tuttavia mettendosi poi l' ingegno umano a partito, procedendo innanzi le investigazioni filosofiche della umana natura e della divina, e a questo fare venendo stimolati principalmente i maestri stessi della Chiesa dalla disposizione della divina Provvidenza, la quale permette che gli eretici o gli infedeli o tutti quelli che si fanno nemici a Cristo, insorgano contro alle verità rivelate e accampino contro di esse delle obiezioni cavate dalla ragione naturale; allora, dico, si vanno trovando e scoprendo altresì tali verità naturali, le quali e valgono a ribattere le opposizioni avversarie e sorreggono o fiancheggiano mirabilmente gli stessi dogmi rivelati, mostrandoli di un perfetto consentimento ed accordo coll' intima natura delle cose e resi fin necessarii da questa natura delle cose ben conosciuta, di modo che l' ordine stesso delle cose naturali diverrebbe un assurdo, non che un enigma inesplicabile, quando quell' ordine di verità soprannaturali non fosse. Insomma, come ho detto ancora, la verità rivelata è un cotal compimento della verità naturale e presuppone questa sotto di sè, a quel modo che una dipintura suppone sotto di sè la tela sopra di cui è lavorata; e molte dottrine rivelate, o non sono misteriose se non perchè rimangono ancora a trovarsi quelle naturali verità che formano come l' addentellato a cui esse si continuano, o certo, trovate queste, cessano dall' essere difficili a credersi, e come che sia sublimi si fanno però tali che riesce sommamente difficile a non credersi. Il che forma una manifestissima prova della verità della divina rivelazione. Perocchè non può esser l' opera degli uomini una dottrina che gli uomini, i quali per molti secoli l' hanno insegnata, confessano inesplicabile e di cui non dànno altra prova che la divina rivelazione: una dottrina che tuttavia nel correre dei secoli acquista sempre più luce: una dottrina che per quantunque nuove verità naturali si scoprano, ella non si trova mai in contraddizione con alcuna: una dottrina che anzi si mostra in mirabile accordo colla filosofia più che questa si approfondisce e che perciò mostra supporre sotto di sè la più profonda filosofia, quasi un suo preliminare: quindi una dottrina che non potè essere annunziata se non da un Essere che fosse già in possesso precedentemente di una tale filosofia, che ad essa dottrina forma quasi direi un sotterraneo e tutto occulto fondamento. Queste generali osservazioni ricevono appunto lume dal dogma del peccato originale. Esso è annunziato nelle divine Scritture come un fatto, nè si pone cura ad accompagnarlo di alcuna ragione. Egli anzi alla ragione umana di prima giunta si presenta siccome il più mostruoso assurdo o certo come un impenetrabile mistero. Tuttavia la Chiesa lo insegna costantemente, non adducendone altra prova che l' autorità di Dio rivelante; e sicura di questa sola fede, sebbene alla ragione apparentemente contraria, lo proclama in modo che il toglie anzi ad uno de' principali cardini di tutto il suo insegnamento. I Padri della Chiesa, quelli stessi che sono riputati come ingegni naturali i più straordinarii, confessano di non poter penetrare la oscurità di questo mistero. S. Agostino stesso, la cui mente era considerata da un filosofo dei nostri tempi inimicissimo della religione (1), dichiara che « come non vi era nulla che fosse più noto del peccato originale per la predicazione della Chiesa, così non vi aveva nulla che fosse più secreto e nascosto all' intelligenza« (2) ». Questo gran Padre, dopo le più profonde meditazioni sopra questo argomento, non trovava che sempre nuovi imbarazzi. La natura del peccato originale lo sconfidava di penetrarla e piegava la fronte dicendo che vi si inchiude una occulta giustizia di Dio (3). La propagazione di esso peccato non gli era men forte nodo, e traendolo nella questione dell' origine dell' anima, il faceva perdersi in quest' altro labirinto, giacchè da una parte non poteva concepire alcun modo onde le anime potessero propaginarsi; e dall' altra « confessava di non poter spiegare a sè medesimo, come mai l' anima possa trarre il peccato da Adamo, se essa stessa non viene pure da Adamo« (4) ». Or dunque se la ragione umana nel suo massimo vigore non poteva dare alcun suffragio al dogma del peccato originale, non è egli evidente che questo dogma, conservato pur dalla Chiesa senza dubitazione alcuna, non poteva venire dagli uomini, ma da una sapienza più sublime? Dico da una sapienza più sublime, perocchè quantunque questo dogma non presentasse alla ragione se non un inesplicabile mistero, tuttavia da una parte la ragione stessa non potè mai trovare in nessun tempo un principio evidente che fosse in evidente contraddizione con esso, e dall' altra oggimai io credo non essere difficile d' accorgersi che si possa dare e che veramente si dia una filosofia, la quale rechi molta luce sulla stessa dottrina dell' original peccato e faccia in essa dileguarsi molte di quelle nubi che l' ignoranza umana vi vedeva, o piuttosto vi produceva. E se questa filosofia si dà veramente, parmi che a lei dovesser far buon viso tutti i cattolici. Perocchè l' accordo perfetto in cui ella verrebbe a trovarsi col Cristianesimo, e segnatamente con questo terribile dogma del peccato originale che essi credono per fede, dovrebbe fare a lei appo loro buona raccomandazione e prova efficace di sua verità. All' opposto persuasa colla virtù delle sue prove intrinseche una tale filosofia a coloro i quali discredono la cristiana religione e per troppo forte nodo hanno il peccato originale, essa dovrebbe avvicinare costoro, quanto può ragione naturale, al cristiano insegnamento. Sicchè la filosofia e la teologia si darebbero così insieme mano e l' una aiuterebbe l' altra in vantaggio degli uomini. Ora, egli è appunto questa filosofia la quale giace occulta nelle viscere della cristiana teologia, che noi ci siamo proposto di aiutare perchè venga alla luce: facendo ancor noi, (se ci è permesso di usare in altro senso la frase di Socrate) l' ufficio, quasi direi, di levatrice. E veramente tutta la dottrina del peccato originale riceve chiarissima luce da due verità filosofiche, le quali noi abbiamo provato con ragioni naturali e che costituiscono per così dire la teoria filosofica dell' uomo, cioè: 1. Che si ha una distinzione reale tra l' esservi nell' anima un sentimento ed un' idea qualunque, e l' avvertenza di quel sentimento e di quell' idea. Di modo che vi possono essere e vi sono nell' anima dei sentimenti e delle idee di cui l' uomo non ha nessuna avvertenza per molto tempo, acquistandola poi mediante l' uso della sua riffessione. 2. Che l' uomo fino dal primo istante del suo esistere ha un sentimento fondamentale e l' idea dell' essere universale, dei quali però egli non ha ancora avvertenza. Dai quali due elementi succede poi tutto lo sviluppo umano, perocchè tutte le sensazioni che riceve appresso non sono che modificazioni di quel primo sentimento; e tutte le idee che egli acquista e i ragionamenti che fa, non sono che i sentimenti veduti in rapporto coll' idea dell' essere, o rapporti di rapporti. Ben provate queste due verità, tutto ciò che ha di più oscuro la natura del peccato originale si chiarifica. Perocchè non è più un assurdo apparente, ma anzi una verità chiarissima di dire, che nel fanciullo appena nato vi abbia una volontà verso l' essere in universale, la quale sia piegata e tirata dalla violenza del sentimento animale; sebbene questa volontà non sia libera. Ed or, ciò posto, una immoralità si trova nell' uomo fino dalla prima sua esistenza, la quale ha ragione di peccato , sebbene non abbia ragione di colpa , perocchè a formare il peccato abbiamo detto bastare la volontà , a formare poi la colpa esigersi altresì la libertà . Ora ciò che è peccato nell' infante, considerato in lui solo, niente vieta che si chiami colpa, considerato in relazione colla prima libera volontà che il cagionò, cioè colla volontà di Adamo (1). Egli è per ciò che con molta assennattezza, per nostro avviso, Vincenzo Palmieri in un suo libro scrisse così: [...OMISSIS...] . Da questo passo apparisce che il citato professore di Teologia dogmatica sentì lo stretto nesso che aveva la questione filosofica dell' origine delle idee col dogma teologico del peccato originale, e che questo portava la risoluzione di quella nel suo seno. Egli è vero che l' acuto teologo che ciò vide, non potè però indicare un sistema delle idee innate che potesse al tutto reggersi e sostenersi contro gli avversarii; perchè non ne aveva altri che quello di Cartesio e quello di Malebranche: ma ciò non toglie che egli intravedesse la verità che noi tocchiamo. Il peccato non accennava se non la necessità di un sistema filosofico che ammettesse qualche cosa d' innato, ma non diceva che solo una diligente e fedele investigazione della natura della mente umana doveva poi trovare che cosa fosse questo che d' innato; e questa ricerca da noi affrontata ci condusse alla teoria della naturale intuizione dell' essere in universale. Si dica il medesimo circa la questione dell' origine dell' anima, che ha pure un così stretto rapporto, sebben filosofica, col dogma puramente teologico della trasfusione del peccato originale. Il dogma della trasfusione poteva egli essere inventato da chi non conosceva la soluzione di quella prima questione? Ma si consideri la soluzione che noi ne abbiamo dato; e poi quanta luce, ci si dica, non manda fuori di sè un insegnamento sì strano a prima giunta come quello che dichiara originario un peccato? Quel maestro che lo insegnò il primo, non doveva essere qualche gran cosa, se confidò agli uomini un risultamento che non poteva dare se non una dottrina, che non sarebbe stata nota se non quando il mondo fosse ben vecchio? Delle riflessioni simili a queste mi potrebbe somministrare la dottrina della Chiesa intorno alla maniera nella quale ella insegna che i fanciulli vengono mondati dal peccato originale nel santo battesimo. Perocchè la Chiesa chiaramente e costantemente insegna ed ha sempre insegnato, che nel battesimo non solo vien rimesso il debito contratto dalla natura umana con Dio, ma che viene purificata l' anima stessa del fanciullo dalla macchia originale e che in quest' anima viene infusa la grazia dello Spirito Santo e gli abiti delle virtù teologiche della fede, della speranza e della carità. Ma cerca ella la Chiesa di spiegarci come avvenga tutto ciò nell' anima del fanciullo che non dà ancora nessun segno esterno di uso di ragione? Non cerca: solo ci dice che questo è la verità e ci ingiunge di crederlo. - Ma non è egli una tale dottrina opposta al pensare comune degli uomini e apparentemente assurda anche agli occhi della filosofia che non iscopre in quel bambino appena nato nè idee, nè volontà, nè perciò discernimento e amore del bene e del male? - Di tutto questo non si dà veruna pena la Chiesa: non risponde a tali obbiezioni se non solo con queste parole: Chichessia ciò non crede, sia anatema. I maestri poi anche più insigni della religione cristiana parlando di ciò confessano assai spesso la loro ignoranza ed è loro frequente in bocca: così è, ma in che modo ciò sia la ragione lo ignora, perocchè vi giace un mistero. Non si è parlato così solamente nei primordii del cristianesimo, ma dai più gran genii dei secoli moderni: e quando è venuto a questo punto lo stesso Bossuet, ha dovuto conchiudere con queste parole: « Egli è questo il mistero dello Spirito Santo« ». A me pare di veder ben chiaro l' impronta di un magisterio divino in questa maniera di enunziare le più sublimi verità e apparentemente contrarie alla ragione come altrettanti fatti indubitabili senza fornirli di loro ragioni e spiegazioni: il ciò farsi per molti secoli e il venir solo in ultimo col progresso delle scienze trovate quelle ragioni che rendano quei misteri chiari, o certo che li dimostrino, anzi che contrarii alla ragione, ad essa medesima necessarii e d' essa nobile finimento. E veramente quando si conosce lo stato del fanciullo a quel modo che egli risulta dai principi filosofici per noi dimostrati, non ci rende egli manifesto come la infusione delle virtù teologiche e il raddrizzamento e sollevamento a Dio della volontà possa aver luogo? E poichè ho toccato di sopra una parola di Bossuet da lui proferita nella celebre disputa che tenne col ministro Claudio, non sarà inutile che io arrechi ancora un passo dello stesso insigne prelato, tolto dalla relazione di quella medesima disputa. Questo passo mi varrà a dimostrare due cose: 1 Come il gran Vescovo di Meaux colla sua solida mente giunse a vedere il rapporto strettissimo della dottrina della Chiesa colla questione filosofica intorno alla natura dell' anima intelligente, e come quella dottrina della Chiesa richiedeva assolutamente che questa questione si risolvesse in modo che l' anima dovesse avere una comunicazione primitiva e naturale colla verità: 2 Mi varrà a mostrare quanto cautamente la sana mente di quel prelato toccasse questa risoluzione, non buttandosi perciò nel sistema delle idee innate di Cartesio (come poco avvedutamente vedemmo fare più sopra un teologo italiano), ma anzi si contenesse dentro a' giusti limiti, non avanzando più di quello che la necessità richiedesse ed esigesse di quelle cattoliche dottrine delle virtù infuse. Perocchè avendo ridotto il ministro protestante e strettolo a confessare che sviluppandosi nel fanciullo battezzato la ragione, questo non può premettere alla fede delle verità che gli sono proposte da Santa Chiesa alcun esame e alcuna dubitazione, ma deve crederle subitamente; e che il mezzo onde può far ciò non è altro che la fede infusa nel battesimo; restava a levare la difficoltà che faceva il protestante, come questa fede infusa potesse essere ragionevole nel fanciullo, senza esame e non facendo uso della ragione. Or ecco come l' egregio prelato si fa a rispondere: [...OMISSIS...] .

Aristotele esposto ed esaminato vol. I

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

.] : onde rimane sempre distinta la causa dall' effetto; e se le anime nostre raccolgono i vestigi della sapienza sparsi nel mondo, non è che questi vestigi sieno le stesse idee che stanno nella sapienza e nell' anima della causa, ma è perchè le anime nostre prima di venire nel corpo hanno riguardato nell' Esemplare del Mondo qual è nella prima causa, e ora si ricordano di quello che hanno veduto a cagione delle similitudini di cui è abbellito l' Universo. Anche nel Cratilo Giove è detto « « il principe e il re di tutte le cose »; e « ch' esso sia la causa del vivere a noi e a tutte l' altre cose » » (1). Questa causa è l' Esemplare del Mondo vivente e operante, come avente la sua sede in una regia anima e mente. Ora si dice questo Giove dirsi figliuolo di Saturno per indicare che « « egli è prole d' un qualche gran pensiero » » (2), che è certamente quello con cui il Bene ossia Iddio produsse l' idee del Mondo quando s' accinse a crearlo (3). Attribuisce al padre di Giove « « la purità e la sincera integrità della mente » » (4), perchè nell' Esemplare non ci sono che pure idee scevre da ogni concrezione e realità. Iddio adunque è l' Essere, e questo perfetto, [...OMISSIS...] , e perciò è il Bene. Nelle idee c' è l' essenza, l' essere. Ma si devono distinguere due classi d' idee, appunto perchè l' essere si concepisce in due modi. Si concepisce un essere assoluto e un essere relativo. L' essere assoluto è in sè ultimato e non ne richiama alcun altro: quest' è a ragion d' esempio « l' idea del Bene »e tutte quelle idee che contengono le qualità di Dio, come la sapienza, la giustizia, la potenza, la vita, ecc., queste non possono mai mancare all' Essere, al Bene, a Dio, perchè lo costituiscono (5), e in parte corrispondono ai «ta prota noemata» d' Aristotele (6). Per questo mostra nel « Parmenide », che l' uno puro d' ogni altra cosa non può stare, e nel « Filebo » dice la Mente cognata colla Causa e dello stesso genere (7), e nel « Sofista » che al compiuto ente, [...OMISSIS...] , non può mai mancare l' attività, la vita, l' anima, la sapienza; ma per distinguere queste cose, quali sono nell' Ente assoluto, a diversità del modo in cui sono nel mondo, usa delle parole «alethos kinesin k. t. l.», e appresso dice che sono «os onta» (.). L' atto poi con cui è l' essere, e queste idee a lui essenziali, sembra un atto d' intelligenza, quella «megale dianoia» di cui nel Cratilo dice che Giove sia figlio, «ekgonos» (9). Così Iddio è tutto idea , ma non come prendiamo noi questa parola, cioè come la notizia della cosa separata dalla cosa, ma come avente valore di « essere », e di « essere per sè intelligibile », onde Iddio è puro essere e medesimamente è puro intelligibile e quindi di necessità intelligente, la «nus» stessa d' Aristotele (1); ma essendo Essere perfetto, ossia Bene, e non potendolo noi conoscere immediatamente, nè trovando Platone, come avrebbe desiderato, qualche maestro che avendolo veduto gliel' avesse rivelato, se ne compose il concetto per via di ragioni (2) e così fu obbligato a comporre questo concetto d' un certo numero d' idee organate, a quella prima dell' essere congiunte, benchè Iddio in sè sia semplicissimo e superiore alla verità ed alla cognizione umana ed all' essenza delle cose mondiali (3). Ma oltre queste idee che compongono, secondo le ragioni della mente umana, Dio, ci sono delle altre idee relative alle cose mondiali, che contengono l' essere e l' essenza di queste, non essendo le cose mondiali che un' imitazione dell' essere, una similitudine, un cotal simulacro, e non l' essere stesso. Il proprio essere oggettivo e vero l' hanno in Dio. Tutte queste idee dunque relative al Mondo sono quelle che costituiscono l' Esemplare del mondo, da Dio in se stesso col suo pensiero prodotto, quando volle creare il Mondo, ma non quelle che contengono l' essere stesso di Dio, il quale perciò è chiamato da Platone « « l' ottimo di tutti gli intelligibili che sempre sono » » (4), distinguendo così tra gl' intelligibili quelli che contengono l' essenza divina, da quelli che contengono l' essenza mondiale, ossia l' Esemplare. Nè pure è da credere che questo Esemplare, benchè sempiterno, sia stato prodotto con un atto di pensiero divino diverso da quello con cui creò il Mondo, ma con lo stesso atto fece essere l' uno in sè e creò l' altro fuori di sè, non essendo un tal atto del pensiero divino una semplice intuizione de' possibili, ma ad un tempo un atto di quella immaginazione e affermazione divina con cui Iddio pensando gli esistenti, li pone. Onde Platone descrive Iddio creante, dicendo, che « « facendo egli uso dell' esemplare effettua l' idea e la forza » » cioè ad un tempo fa uscire in opera la forma e la materia o natura reale della cosa, [...OMISSIS...] . La ragione della creazione del mondo è, dice Platone, l' essenziale bontà di Dio. Laonde volle che il mondo fosse, per quanto esser potesse, a sè similissimo. L' Esemplare dunque dovea essere sempiterno e contenere un contemperamento armonico di tutte le nature, dalle più eccellenti alle inferiori. L' ultima possibile delle nature, la materia corporea, non è di natura sua ordinata. Conveniva dunque che ricevesse un ordine. Ma se non ci fosse un' intelligenza che intendesse quest' ordine, era inutile ordinar la materia; un tutto in tal caso, comunque ordinato, non sarebbe stato migliore di un altro tutto. Era dunque necessaria un' intelligenza, e questa non potendo stare da sè, dovea avere un' anima in cui fosse. Il mondo dunque dovea risultare d' intelligenza, d' anima e di sentimento e di corpi ordinati; queste tre cose o piuttosto due (perchè l' anima è quella che ha l' intelligenza) congiunte insieme lo formavano « « un animale intelligente costituito dalla divina provvidenza »(1) ». L' Esemplare dunque è quest' animale nel suo essere oggettivo e sempiterno [...OMISSIS...] , il Mondo in verità, [...OMISSIS...] , l' essere, l' essenza stessa del mondo. Il mondo reale poi è quest' animale stesso nella sua copia od effigie [...OMISSIS...] . Dal che si vede che il mondo reale, anima e corpo, e noi stessi, anima e corpo, siamo, secondo Platone, al tutto distinti dall' eterno divino esemplare, e molto più da Dio stesso che lo vide. Secondo l' ordine logico, l' ordine di eccellenza, e anche, secondo Platone, cronologico, l' Anima del Mondo dovette esser creata prima. Essa è una specie di sostanza, media tra quella che è sempre la medesima e quella che è sempre un' altra , e lega in sè stessa queste due specie. [...OMISSIS...] . Questa descrizione dell' anima risultante da tre elementi ha una singolare analogia con quello che noi, non pensando a Platone, ma riguardando la stessa natura dell' anima, n' abbiamo detto negli « Antropologici » o sussistente avente due termini, semplice l' uno, esteso l' altro, di maniera che abbracciandosi essa quindi a ciò che è eterno, quinci a ciò che è temporaneo, mediatrice degli estremi, congiunge in sè le opposte nature. La sostanza dunque media di Platone, su cui tanto fu disputato, altro non è che il subietto stesso dell' anima, cioè quell' ente principio , chiamato anima, che finisce, col suo atto di essere, ne' due termini che dicevamo. Noi abbiamo osservato che, rimossi affatto i termini, il principio non è più, ed osserva una cosa simile lo Stallbaum, quando scrive che quell' essenza media di Platone, tolte le due nature che in sè medesima unisce, rimane un mero astratto, non è più cosa reale (1). Più difficile è il determinare che cosa intenda Platone per quel componente dell' anima che chiama il diverso «to thateron». Poichè non può con questo significare i corpi, parlando qui della formazione dell' anima anteriore all' esistenza de' corpi e d' ogni corporeo. Che anzi dopo aver descritta la formazione dell' anima del Mondo, venendo ai corpi, dice così: [...OMISSIS...] . Non si può intendere neppur la materia corporea, perchè è assurdo a pensare che l' anima si componga di ciò che è disordinato e qua e là a caso agitato e sbattuto (3), e informe, quando una tale materia informe, secondo Platone stesso, non può sussistere senza le sue forme, ma è un' astrazione della mente. Che anzi dicendo non che Dio facesse nell' anima già compiuta i corpi, ma tutto ciò che fosse corporeo, parlò vigilantemente, escludendo non meno i corpi dalla natura dell' anima che ogni corporea materia. Parmi dunque di non andare lontano dal vero dicendo che la «thateru physis» posta da Platone come uno dei due estremi elementi dell' anima, deva significare lo spazio puro. E benchè prima d' ora non mi fosse mai occorso alla mente una tale interpretazione di questa sentenza di Platone, tuttavia meditando la natura dell' anima umana, già da buon tempo mi ero convinto che lo spazio immensurato dovesse essere uno de' due termini essenziali all' anima, di che ho anche addotte le prove «( Antrop. 165 7 174; Psicol. 554 7 559, 703, 709) ». Ho dimostrato di più, che tale è la natura dell' estensione che ella non si può concepire se non essente in un semplice, e dal semplice, cioè dall' anima, contenuta «( Antrop. 94 7 97) ». Ora posto che lo spazio puro sia uno degli elementi dell' anima, non ha più difficoltà la sentenza di Filolao (1), seguita poi da Platone, che il corpo sia stato da Dio formato nell' anima. Poichè, come dice Platone stesso, lo spazio « « presta la sede a tutto ciò che si genera », [...OMISSIS...] », cioè alla materia corporea che generandosi diventa corpi (2). La materia è la nutrice della generazione, [...OMISSIS...] , laddove lo spazio n' è la sede, [...OMISSIS...] , cose che fa meraviglia essersi confuse in una da tutti forse i commentatori. Ma egli è difficile a dirsi come Platone concepisca questo spazio nell' anima scevra ancora dal corpo, se, come l' abbiamo descritto noi ne' « Psicologici », come una pura estensione immisurata ed immobile, o con aggiunta di qualche altra cosa. E a questa seconda sentenza ci atteniamo: giacchè crediamo difficile a provare che gli antichi avessero il concetto della pura estensione. Abbiamo veduto che Aristotele aggiungeva allo spazio, o piuttosto al luogo (chè egli confonde queste due cose), una forza attraente: e dice esser materia lo spazio preso come intervallo tra le grandezze. E quantunque al puro spazio, come noi lo concepiamo, possa convenire la denominazione di altro (altro cioè dall' idea), tuttavia non gli può convenire quella di diverso , di contrapposto a ciò che è sempre il medesimo , poichè lo spazio puro non mutandosi, non è diverso da sè stesso. Conviene dunque dire che quell' elemento dell' anima, che Platone chiama «thateron», non sia lo spazio puro, ma con qualche aggiunta. Ponendo egli dunque la vita e il principio d' ogni movimento nell' anima, convien dire che insieme collo spazio egli desse all' anima un sentimento soggettivo proprio bensì dell' essenza media, ma stendentesi anch' esso quanto lo spazio. Il che s' intenderà da tutti quelli, che conoscono la distinzione da noi esposta tra la sensazione soggettiva e la percezione intimamente a quella unita «( Ideol. 701 7 707; 722 7 747; .7. 7 900; 9.3 segg.) ». Come dunque noi, parlando del sentimento de' corpi, abbiamo distinto dal sentimento nostro proprio il diverso da noi percepito, e quello unito e conformato a questo per modo che dove c' è il diverso corporeo percepito, ivi sia anche la sensazione: così crediamo che si possa concepire il diverso di Platone; lo spazio percepito come un termine diverso dall' anima, consociato a un sentimento in questa che s' estende a tutto quello, il quale sentimento è vita e forza, proprietà innegabili ad ogni sentimento che ha natura di realità, come tante volte abbiamo detto. Ora a questo sentimento conviene certamente la qualità di diverso , avendo egli la virtù d' essere di continuo modificabile, date le condizioni che sono gli stimoli materiali, e anche in virtù dell' attività intellettiva e volontaria. Trovato questo principio sentimentale ed efficiente nell' anima, ivi ripose Platone un' intima azione vitale o moto continuo, e l' origine del moto all' altre cose (1), onde è a stupire, che Aristotele cercasse la causa del moto nelle idee, e non trovandocela ne biasimasse Platone, quasi a questi fosse impossibile render ragione dei movimenti mondiali. Andava in collera perchè non trovava la causa del moto dove non era, e dove non poteva essere in alcun modo. Trovato questo sentimento soggettivo, finiente nell' immensurato spazio, questo stesso spazio viene in certo modo ad essere tutto animato, e nella mutabilità del sentimento si trovava la natura del diverso , elemento dell' anima mondiale non ancora fornita di corpo. Ora questo sentimento soggettivo di natura sua mutabile, doveva contenere virtualmente tutte le potenze sentimentali dell' anima. Con questo si può facilmente illustrare il magnifico mito del Fedro, nel quale l' anima è assomigliata « « alla natura risultante da una biga subalata e da un auriga » » (2), dove il carro è la sostanza media che lega gli estremi, l' auriga rappresenta il medesimo , e i cavalli simboleggiano il diverso , cioè il sentimento e gli affetti che danno all' anima il movimento. E parimente supponendo che la natura del diverso , che Platone vuole uno degl' ingredienti dell' Anima del Mondo, sia il sentimento soggettivo, che s' estende a tutto lo spazio immensurato, s' intende, come Dio poteva, anche prima di creare il corpo, assegnare delle leggi armoniche a questo sentimento, quasi screziandolo di diversi istinti relativi allo spazio in cui finiva, e con questi disegnare nello spazio stesso de' luoghi diversi, con proporzioni tra loro di numeri e di figure geometriche e di movimenti (1), e come i discepoli di Platone, tanto minori del maestro, potessero poi definire l' anima « « un numero che si move da sè medesimo » » (2), o in altre maniere in cui si vede ritenuta qualche particella della dottrina, non tutta abbracciata la teoria del maestro. L' aver poi assegnato all' anima sola, senza il corpo, tutto ciò che spetta all' armonia e all' ordine di più cose connesse insieme, come il numero, la proporzione e somiglianti, dando al corpo l' esser sensibile, ma l' anima dicendo « « partecipe del raziocinio e dell' armonia degl' intelligibili sempre esistenti » » (3), prova da una parte l' alta mente di Platone che ben vide solo una sostanza semplice e vivente potere contenere in sè il numero e l' ordine, laddove l' esistenza del corpo bruto è solitaria, e di più per la continua divisione irreperibile, dall' altra conferma quanto dicevamo, che lo spazio, materia alle diverse figure geometriche, anch' egli poteva esistere solo nell' anima e da questa esser contenuto, non essendoci parte assegnabile in esso che non sia straniera a tutte le altre, e però incapace d' unire le altre ad unità, senza la quale unità niente esiste, poichè l' ente è per sua essenza uno. La pluralità dunque delle parti assegnabili nello spazio non esiste se non nell' anima, e neppure ciascuna di esse esiste, perchè ogni suo punto essendo fuori d' ogni altro, non può aver cogli altri unità. Ora, prima di proceder oltre vediamo che cosa sia l' altro elemento estremo dell' anima, il medesimo , ossia [...OMISSIS...] . Certamente quest' elemento è la materia ideale, come l' altro vedemmo essere la materia matematica , e medio tra loro sta il sentimento , che all' una e all' altra materia s' estende, di che egli dice esser l' altre con questa commiste [...OMISSIS...] : la materia ideale poi per Platone è indubitatamente l' ente (indeterminato) «to on» (1). Ora come dal sentimento unito collo spazio, Platone deriva la facoltà di sentire i corpi quando si presentano all' anima, così dal sentimento unito all' idea dell' essere cioè a quello, che è sempre identico, deriva la facoltà di conoscere, cioè d' intuire le idee determinate, e di ragionare. Questo ragionamento poi lo distingue in due, secondo l' oggetto intorno al quale si esercita; se si esercita intorno all' idee contenenti l' essere che è sempre il medesimo, e alle ragioni, nasce nell' uomo l' intuizione ( «nus») e la scienza ; se si esercita intorno alle cose mutabili, come i corpi od i sentimenti, e si esercita nel debito modo, nasce l' opinione vera e la fede vera . Dove si vede che Platone qui non parla più del suo mito della reminiscenza , ma, seriamente ragionando, in vece di dare all' anima le idee e notizie preconosciute, di cui all' occasione delle sensazioni non faccia che ricordarsi, le dà una vera potenza di procacciarsi nuove cognizioni e di ragionare. Costituisce poi questa potenza come noi appunto l' abbiamo costituita, ponendo cioè che l' anima per sua natura sia partecipe d' un primo identico , «tautu» (2), cioè di ciò che non è questo o quello tra le cose identiche, ma è l' identico stesso, «tautu genos», senz' altra determinazione, il che è quanto dire l' idea indeterminata (3), e che con questo primo identico ella conosca tutte l' altre cose identiche, cioè l' altre idee; e ponendo altresì che l' anima partecipi d' un primo diverso , cioè d' un sentimento terminante nell' estensione, col quale possa apprendere sensibilmente tutti i diversi, cioè i corpi, e in tal modo attingere la materia di altre cognizioni. E così col simile fa che si conosca e si apprenda il simile, secondo l' antico effato de' Pitagorici (4). Dalle quali parole e da tutta insieme la dottrina del Filosofo, si rileva: 1 Che l' anima conosce sempre per quel suo elemento che Platone chiama il Medesimo, e che vedemmo esser l' idea prima e universalissima. 2 Che nondimeno, se il mezzo del conoscere è un solo, gli oggetti del conoscere sono due, il sensibile, [...OMISSIS...] e il razionale, [...OMISSIS...] e la cognizione di quest' ultimo è intelligenza e scienza , [...OMISSIS...] la cognizione dell' altro è opinioni e persuasioni ferme e vere, [...OMISSIS...] . Laonde l' atto conoscitivo non è mai sensazione, benchè anche la sensazione possa divenire oggetto di cognizione, ma è sempre «logos alethes» e «kata tauton» (1); ma quando oltre essere «ho logos» l' operazione della mente, è anche «to logistikon» il suo oggetto, allora c' è intelligenza e scienza. 3 E` sempre tutta l' anima quella che conosce con un interno movimento, [...OMISSIS...] : onde non separa mai Platone le parti dell' anima, come a torto gli rimprovera Aristotele, e non ne fa più anime. 4 Essendo l' anima composta dell' identico e del diverso , ella di conseguenza ha due operazioni o movimenti che egli chiama cicli o giri, perchè con queste operazioni essa si rivolge intorno a se stessa, [...OMISSIS...] . Distingue dunque nell' anima il ciclo del Medesimo, [...OMISSIS...] , che produce l' intelligenza e la scienza, e lo chiama «eutrochos», e il ciclo del Diverso che vuol che sia retto, [...OMISSIS...] : il primo è il movimento dell' intelligenza, il secondo il movimento del sentimento. E con ragione Platone assomiglia questi movimenti spirituali a circoli; perchè qualunque cosa faccia il sentimento, egli lo fa in se stesso; il movimento parte dal sentimento e finisce nel sentimento; e così pure il ragionamento non esce e non può uscire di sè colla sua azione, ma partendo dall' idea e dalla cognizione ritorna e finisce sempre all' idea e alla cognizione, poichè la prima intuizione nella quale il soggetto parte per così dire da sè e va nell' idea, non è ancora movimento razionale, ma è l' atto costitutivo della razionalità. Questo poi costituito opera, per una certa riflessione, su di ciò che è in sè, cioè o sul sentimento o sulle idee, e come dice Dante « « sè in sè rigira » », soltanto che convien badare che quando si dice: « in sè »si dee intendere su di ciò che ha in se stesso. Veduto che cosa sia la natura del Diverso e la natura del Medesimo, di cui Platone compone l' anima, e come essi rispondano ai due termini dell' anima, cioè lo spazio sentito per natura, e l' idea universalissima; rimane a vedere di quella terza sostanza che li congiunge quasi nel mezzo di essi, [...OMISSIS...] , la quale certamente è il principio di essi due termini. Ma come il principio è indivisibile da' suoi termini, perciò dice Platone, che risulta da entrambi [...OMISSIS...] . Essendo dunque questa media sostanza che termina nelle due estreme e ad esse essenzialmente s' appoggia senziente secondo l' uno e l' altro termine, ossia unendo in sè il sentimento dell' uno e dell' altro termine, non può avere il sentimento dello spazio senza che lo percepisca anche coll' intendimento; onde in questa composizione dell' anima, ancorchè separata dal corpo, Platone pone una percezione intellettiva fondamentale, cioè la percezione intellettiva dello spazio, ad un tempo sentito ed inteso , e questa percezione è quella che dà all' anima, per così dire, una figura circolare, perchè essendo una per l' unità del principio che è la terza sostanza, si fa una anche per la riunione de' termini; giacchè ella col suo atto primo e costitutivo, dopo essersi divisa da una parte estendendo il suo atto all' idea, dall' altra allo spazio, continua il suo moto costitutivo ripiegando questi due in uno, e riunendo lo spazio e l' idea, fa che quello sia abbracciato da questa, il che noi chiamiamo percezione intellettiva fondamentale dell' anima separata. Descritto a questo modo l' interno ordine e costituzione dell' anima, niente vieta di concepire che il sentimento di quest' anima possa essere da certe leggi quasi screziato e variato, dotato di varie forze d' istinti relative a certe parti dello spazio, a certi conati, a certa successione di movimenti. Si consideri ciò che noi abbiamo esposto sulla legge cosmologica dell' armonia «( Psicol. 1537 7 159.) », e sull' altra che le corrisponde nell' anima umana «( Psicol. 1726 7 1779) », le quale due leggi del Mondo e dell' Anima corrispondendosi e sintetizzando, non ne formano, a dir vero, che una sola con due faccie o rispetti. Questa nobilissima verità, che l' anima abbia l' armonia in sè stessa, vide ed espose Platone nel « Timeo ». Solamente che noi considerammo l' anima già dotata di corpo, e in relazione col mondo corporeo; egli trova certe leggi d' armonica costituzione nell' anima prima ancora che questa sia immessa nel corpo. Il che gli è suggerito dall' opinione da lui professata, che l' anima abbia preesistito al corpo: opinione per vero erronea, ma che nel ragionamento di Platone annunzia, aver egli conosciute alcune verità nobilissime e profonde. Poichè da questo siamo assicurati, che egli vide doversi riporre il principio dell' armonia nel semplice, nel sensitivo ed intelligente, e non in qualsivoglia cosa corporea, onde dice dell' anima; [...OMISSIS...] , e dopo aver descritto com' ella armonicamente movendosi intenda i sensibili e gli intelligibili, aggiunge che in essa sola possono accadere tali cose (2). Egli vide ancora come per questa forza di sentimento armonico, di cui l' anima è per sè stessa dotata da Dio, ella era e dovea essere la dominatrice del corpo (1), e così mirabilmente spiega la virtù formatrice propria dell' anima «( Psicol. 17.7 7 1794) ». Certo che le leggi speciali dell' armonia nell' anima racchiuse sono d' una tanta grandezza, moltitudine e profondità che nè Platone le potè raggiungere, nè sono nè saranno esaurite dalle meditazioni di molti filosofi nel corso di molti secoli futuri. Ma una gran cosa è questo solo che da tempo così antico sia stato veduto, che esse si giacciono nell' intima costituzione dell' anima. Il primo pensiero sembra dovuto a Pitagora; il quale però, quando dal generale venne a specificare una tale armonia, si restrinse a considerare quella specie particolarissima di legge armonica che governa i suoni «( Psicol. 1565, 1566) ». Egli prese dunque la legge dell' armonia che si trova in un solo sensorio, cioè in una particolarissima facoltà dell' anima sensitiva e la universalizzò, prendendola per tipo, o tema d' ogni armonia non solo di tutta l' anima umana, ma anche de' corpi celesti e in una parola dell' universo. Questa maniera soverchiamente ristretta di concepire l' armonia che governa il creato, conteneva però come supposizione e base una gran verità, che « « l' anima e l' universo sono coordinati insieme da una mano sapientissima, quasi due corde unissone in due istrumenti » ». Che se questo principio è vero, come è indubitatamente, le principali leggi dell' armonia universale e di quella dell' anima devono essere le stesse. Se non che piuttosto che due armonie identiche, c' è tra l' anima e l' universo sintetizzante un' armonia unica e sola. Essendo dunque pervenuta a Platone per mezzo di Filolao la dottrina pittagorica dell' armonia, il suo pensiero rimase chiuso nelle angustie di questa tradizione (2). Non rimanendogli tempo, nella vastità delle ricerche in cui era occupato, di meditare una teoria più ampia per compiere la lacuna del suo sistema filosofico, accettò, come una vaga ipotesi, quella dottrina dell' armonia sonora , e ornandola di novi concetti e di elegantissimo linguaggio, l' applicò a dichiarare la costituzione dell' anima che dovea dar poi vita ed ordine alla macchina corporea dell' universo (1). Si fa adunque ad esporre gli istinti armonici che Iddio pose nell' anima in questo modo. Dice che dopo aver mescolati insieme i tre principŒ, cioè il Medesimo, il Diverso e l' Essenza, e di questi tre fatta una cosa sola, come spiegammo di sopra, distribuì in questo tutto le membra, dandogli il decoro d' un cotale spirituale organismo, e ciascuna delle dette membra riuscìa così composta di quei tre primi elementi (2). Con questo viene a dire, che la percezione intellettiva abbraccia lo spazio sentito e la sostanza media (3), giacchè solo per questa percezione può avverarsi, che in tutti gli istinti e modi d' operare dell' anima appariscano i tre elementi, da cui essa risulta. Le quali membra spirituali dell' anima vengono distinte secondo i numeri della doppia tetrade pittagorica formata dai sette numeri 1, 2, 3, 4, ., 9, 27 distribuiti nella serie de' pari e nella serie degli impari, avente ciascuna a capo l' unità: 1, 2, 4, . e 1, 3, 9, 27; le quali due tetradi rappresentano il sistema diatonico, composto di quattro ottave, più un intervallo di quinta e un tono intero (4). Per trovare poi le consonanze in queste quattro ottave, Iddio riempì d' altre porzioni della stessa sostanza trina ed una, gli intervalli tra i numeri della prima e della seconda tetrade, con due numeri medii, cioè col medio aritmetico e col medio armonico (5); onde ne risultano due serie di dieci numeri ciascuna, ossia una serie di venti numeri. Finalmente per trovare e distinguere i singoli toni e mezzi toni, da per tutto dove c' era l' intervallo di quarta, lo riempì con divisioni per toni interi, avanzandone il mezzo tono minore, la cui ragione è computata 256 .diviso . 243, e lo stesso, benchè nol dica Platone, convien supporre dell' intervallo di quinta, avanzandone il mezzo tono maggiore, la ragione del quale si computava 273 3 .fratto . . .diviso . 256. Così la sostanza trina ed una dell' anima fu distinta in membra rispondenti alle ragioni, in cui è compartito a consonanze, a toni e mezzi toni il Diagramma; e Platone per dimostrare meglio la grandezza di quest' armonica distribuzione dell' anima mondiale, a cui dovea rispondere il mondo visibile, prese ad esempio un Diagramma di tanta estensione, quale i Greci non usarono giammai nelle loro musiche, come già fu osservato da Adrasto presso Teone Smirneo (1). Così la sostanza una e trina, distribuita in altrettante membra per una serie di numeri rappresentanti ragioni armoniche, fu divisa da Dio tutta per lungo, di che si ebbero due serie, ciascuna dotata delle stesse proporzioni numeriche: delle quali due liste fece una croce decussata, e piegata, ciascuna lista a circolo, se n' ebbero due circoli intersecantisi ne' due punti opposti, i quali circoli rappresentano e rispondono al circolo equinoziale ed al zodiaco. Al primo, esteriore e molto più alto del secondo, attribuì la costanza e l' equabilità e lo fece movere verso la destra, cioè dall' occidente all' oriente, chiamando questo movimento « della natura del Medesimo »; all' altro, interiore e più basso e che fece movere verso sinistra, cioè dall' oriente all' occidente, attribuì la varietà e l' incostanza, chiamando il suo movimento « della natura del Diverso ». Al giro del Medesimo concesse il principato, poichè lo lasciò uno ed indiviso. Ma riguardo al circolo interiore, prima di ripiegare in circolo la lista numerica, ne tagliò via sei pezzi alle giunture de' numeri della doppia tetrade, e n' ebbe sette parti rispondenti ai sette numeri della medesima, ciascuna delle quali movendosi in giro, ne riuscirono le orbite dei sette pianeti, i tre primi e inferiori moventisi con eguale celerità, i quattro ultimi e superiori con celerità disuguali e da quelle de' primi e tra esse, ma pure secondo opportune ragioni. Ora di tutti questi sette orbicolari movimenti risulta quello che si dice il circolo del Diverso. Non è necessario a noi addentrarci in maggiori particolari circa questi armonici compartimenti, non consistendo in questi la parte solida della dottrina: questa sta nel principio generale, che l' anima è la dominatrice del corpo, e quindi che ella stessa lo adatta a sè stessa, l' informa, l' organizza, e il corpo in tutto le ubbidisce, di maniera che ogni movimento di questo all' anima è dovuto (1). Vediamo come ciò avvenga secondo la mente di Platone. Primieramente essendo nella sostanza dell' anima lo spazio immensurato, c' è il luogo dove Iddio poteva collocare il corpo. Di poi essendoci un primo sentimento, che s' estende a tutto lo spazio, c' è per così dire la morsa a cui attaccare il corporeo. Poichè il corporeo non è che il sensibile, e il sensibile non è che uno stimolo applicato con certe leggi fisse al sentimento primo, che eccitandolo lo modifica, così producendo in lui le sensazioni. Ora dato che un primo sentimento, qual è quello dell' anima, 1 soffra una violenza e così senta un altro principio diverso da sè che esercita su di lui la propria potenza; 2 e questa violenza non abbracci tutto lo spazio, ma essendo limitata disegni in esso co' suoi confini una figura; 3 ne nascano di conseguenza modificazioni o sensazioni nello stesso primo sentimento; 4 e tutto questo con quella stabilità di fisse leggi colle quali sogliamo avere le sensazioni esterne: dato questo, egli è evidente, che esistono quelle sostanze sensibili che noi chiamiamo corpi, e che n' è spiegata la creazione. Dice dunque Platone che [...OMISSIS...] . Nel qual luogo s' osservi che: 1 Dice che il corpo fu fatto da Dio tosto dopo ultimata la costituzione dell' anima, «meta tuto», onde qui non lascia che l' anima dell' universo viva gran tempo separata dal corpo, secondo l' ipotesi che altrove introduce delle anime viventi immuni da ogni concrezione materiale. 2 Dando a tutto l' universo corporeo un' anima sola, cade rispetto all' anima mondiale la censura che Aristotele fa ai Pitagorici e a Platone, cioè che questi credesse, ogni anima poter convenire ad ogni corpo. 3 Dicendo che l' anima del mondo si volse in se medesima quand' ebbe il corpo e diede principio alla durata della vita, ben dimostra che tutte le membra e i movimenti prima distinti nell' anima esprimevano non atti, ma potenzialità instintive. 4 Che tosto che l' anima mondiale ebbe il corpo, i suoi due movimenti spirituali cioè quello dell' intelligenza ossia del medesimo , e quello del sentimento ossia del diverso , rapirono colla loro potenza dominante il corpo, e in questo si rappresentarono coi due movimenti opposti del cielo delle stelle fisse che si move equabilmente, prendendo la legge dal moto dell' intelligenza, e del cielo solare7planetario, che si move con variati e molteplici modi, prendendo la legge dal moto del sentimento: onde nel mondo materiale comparve un simulacro sensibile del mondo spirituale e invisibile, un simulacro cioè del ciclo del medesimo e del ciclo del diverso , i due elementi di cui l' anima si compone. 5 Che quindi la causa efficiente e movente del mondo sensibile e fenomenico è il mondo invisibile e spirituale, e quello non è che una cotale copia e imitazione di questo. 6 Che all' anima dell' universo, dopo aver data la vita a tutto il mondo corporeo, compresi gli ultimi cieli, rimane ancora una parte sopramondana, circonfusa al mondo [...OMISSIS...] contenente il mondo (1), quella parte certamente che nel Fedro chiama sopraurania . Così il mondo corporeo non può rappresentare l' anima compiutamente; perchè quantunque ci vengano rappresentati sensibilmente i movimenti dei due elementi dell' anima, il diverso e il medesimo , quello del diverso col volgersi del cielo planetario, e quello del medesimo col volgersi del sommo cielo: tuttavia rimane ancora, al di là di tutto il cielo visibile, uno spazio infinito occupato dall' anima, dove non dice Platone se ci sia moto o quiete, e vuol forse significare ciò che non ha moto nè quiete, cioè l' essere puro, a cui nel Sofista nega ogni quiete ad un tempo ed ogni moto, d' entrambi de' quali generi esso è il contenente; cioè è genere maggiore di essi. E certo che ivi, fuori del mondo corporeo, nulla più v' ha di sensibile, come avea detto avanti (2), laonde a quel luogo si riferisce indubitatamente l' anima, in quant' è partecipe de' puri e primi intelligibili (3). Agli intelligibili appartiene l' esemplare del mondo chiamato da Platone «zoon aidion» (4). L' eternità che a questo solo divino esemplare conviene, non può appartenere all' animale generato, cioè al mondo (1). Ma acciocchè questo imitasse, per quanto era possibile, quell' eterno, fece « « una mobile imagine dell' eternità » »; fece, adornando ad una il cielo, un' eterna imagine « « fluente secondo il numero dell' eterno manente nell' uno »(2) ». L' eterno manente nell' uno è Dio; e della stessa permanenza è dotato anche l' esemplare del mondo in se stesso considerato. Ma poichè questo esemplare era da Dio pensato, affinchè a sua norma si potesse produrre il mondo reale, esso non dovea rappresentare l' eternità di Dio, ma il tempo, per solo il quale può il mondo imitare la divina eternità. Laonde nell' esemplare del mondo Iddio pensò l' imagine a cui doveva crearsi il tempo , e questa imagine che forma parte dell' esemplare dicesi imagine della eternità, [...OMISSIS...] ; cioè dell' uno eternamente immanente che è Dio, e dicesi eterna , appunto perchè appartiene all' esemplare [...OMISSIS...] ma dicesi nello stesso tempo mobile, [...OMISSIS...] , e progrediente secondo il numero, [...OMISSIS...] , perchè rappresenta la mutabilità e quasi scorrevolezza del mondo reale. Dove apparisce in che modo Platone dica ora immobili , ed ora mobili certi intelligibili: sono immobili in se stessi, ma nel loro seno hanno la mobilità esemplare della mobilità reale, copia di quella (3). Distingue dunque Platone anche qui quelle due specie d' intelligibili di cui abbiamo parlato di sopra: 1 il primo intelligibile, che è Dio, e tutto ciò, che in proprio appartiene a Dio; 2 il secondo intelligibile che è l' esemplare del mondo. Il mondo è l' imitazione di questo esemplare, come l' esemplare è l' imitazione o la similitudine di Dio, la più fedele, che fosse possibile, data la condizione che dovesse esser creato. Questa condizione importava che il mondo non potesse esser necessario, nè eterno, nè immutabile, ma volendo tuttavia Iddio renderlo simile per quanto esser potesse alla propria eternità e consistenza, gli diede la durata del tempo. Pose dunque nell' esemplare la contingenza, il numero, la successione, la mutabilità, ma tutte queste cose ve le pose in un modo eterno: di maniera che l' esemplare non fosse il subietto della mutazione, ma il disegno e il decreto di tutto ciò che dovea esser nel mondo, vero subietto di tali vicissitudini. La natura di Dio dunque nulla avendo di tali cose, non potea nè pure prestare di tali cose l' esempio, e però convenne che il pensiero divino imaginasse un esemplare a posta a cui similitudine creare il mondo, che a lui somigliasse, di maniera che non gli somigliava pienamente, ma quant' era possibile che gli somigliasse l' esemplare. L' esemplare dunque sebbene eterno in se stesso, perchè ab aeterno da Dio pensato, riceve dall' atto della divina volontà, che si determina a creare, una condizione che lo limita, e una natura relativa al creabile, oggetto di quell' atto di volontà; di che apparisce che l' esemplare e il mondo, appunto per questa natura relativa, si chiamano e sintesizzano, ma quello è subiettivamente immutabile, avendo solo in se la mutazione obiettiva (e tutto ciò che è obiettivo è immutabile), questo è subiettivamente mutabile, realizzando in sè quella obiettiva mutazione. A Dio dunque, dice Platone, e all' esemplare, come oggetto, non ispetta il fu, o il sarà, ma solamente l' E`. [...OMISSIS...] . Descritta così la formazione dell' anima e del corpo mondiale, narra la formazione delle specie d' animali minori, le quali sono tante quante ne vede Iddio nell' idea d' animale (2), e tutte comprese nell' esemplare del mondo, poichè non sarebbe perfetto se alcuna ne mancasse. E però ci doveva essere anche la generazione degli animali mortali, i quali non potevano essere formati immediatamente da Dio, perocchè in tal caso sarebbero stati immortalati anch' essi (3). Ma di quello tra tutti questi animali, al quale conviene in comune cogli immortali l' appellazione di divino (4), Iddio stesso somministrò il seme ed il cominciamento [...OMISSIS...] formando, delle reliquie di quella stessa sostanza, di cui aveva elaborata l' anima del mondo, un certo numero d' altre anime che distribuì ai grandi e per divina virtù immortali animali, cioè agli astri, un' anima seminale per ciascuno di essi, lasciando a cotesti divini il carico di generare con questo seme di divina provenienza gli animali razionali, formando i loro corpi, e alimentandoli; e quando si consumassero, ricevendo di novo in sè la materia (1). Poichè le anime per una certa necessità, e non per colpe precedenti devono essere copulate ai corpi (2). Non appartiene allo scopo del nostro discorso esporre qui più ampiamente per quali ragioni Platone volle distribuite da Dio le anime seminali ai corpi celesti, l' affinità o convenienza di ciascuna a ciascuno de' detti corpi, nè ci giova entrare a discutere se e come Platone ammettesse i pianeticoli. Allo scopo del nostro discorso basta d' indicare che il nostro filosofo seco stesso faceva ragione, che Iddio, creato il mondo, avesse in esso collocato la virtù generativa; per modo che l' astro avendo una soprabbondanza di vita, cioè non solo la vita mondiale sua propria, ma l' anima seminale che il rende atto alla generazione, nè mancandogli la corporea materia dalla sua anima e mente e virtù generativa dominata, abbia forniti e organizzati di sè gli animali, e tra essi l' uomo ragionevole da Platone chiamato «theosebestaton» (3), il quale poi, come pure gli altri, per una sua propria generazione, atteso il continuo aiuto della natura mondiale, si moltiplica (4). L' anima dunque dell' uomo, formata colla stessa sostanza dell' anima del mondo, e quindi de' tre elementi del medesimo , del diverso e della sostanza media, e ordinata colle stesse proporzioni armoniche (5), ha in sè medesima di continuo il doppio movimento ciclico del medesimo e del diverso che si fa senza strepito e suono, [...OMISSIS...] , ed è l' azione dell' interna sua vita di sentimento e d' intelligenza [...OMISSIS...] . Nè quest' intelligenza è priva di idee, poichè ancor prima che per la virtù organizzatrice degli astri a cui appartengono le anime seminali, queste ricevessero i loro corpi speciali e si moltiplicassero, Iddio mostrò ad esse anime seminali « « la natura dell' universo e le leggi fatali » », [...OMISSIS...] (2), e in queste l' equità con cui furono a principio create tutte allo stesso modo, rimanendo a ciascuna affidata la futura sua sorte, e come di esse si sarebbe formato quell' animale umano di tutti religiosissimo. Ma quando l' astro, poniamo la terra, mette in movimento una moltitudine di particelle di fuoco e d' aria e d' acqua e di terra per provvedere all' anima seminale dei corpi, allora quelle particelle rapite in turbine con movimenti molteplici per apprendersi ed accozzarsi assaliscono in folla ed in tumulto l' anima; di maniera che dalle percosse disordinate di questo fiume d' atomi rimangono in essa impediti e sconcertati nel loro corso i due circuiti del medesimo e del diverso , che costituiscono la sua vita sapiente, ed essa rimane allora del tutto stupida e smemorata, ond' è che l' uomo nasce in apparenza così ignorante. Poichè il circuito della natura del medesimo sopraffatto da un tal fiume entrante ed uscente di continuo dal corpo che si organizza, viene impedito e sospeso, l' altro poi del diverso perde la sua armonia, e quantunque nè l' uno nè l' altro possano esser distrutti perchè posti da Dio, tuttavia contrastati, l' uno s' arresta, l' altro, quello del sentimento, va come senza ragione, [...OMISSIS...] (3), finchè non si rimettano nel pristino stato. Così le cose tutte finite e nella loro materia e nella loro forma si creano; e non solo la forma dà il suo finimento [...OMISSIS...] ai singoli enti, ma dà un altro finimento alle cose tutte insieme, cioè un ordine sapiente, [...OMISSIS...] . Conviene dunque distinguere tre cose, secondo Platone, le idee eternamente da Dio pensate, intelligibili, le anime spirituali ed insensibili composte de' tre elementi, del medesimo , del diverso e della sostanza media, e finalmente i sensibili , i quali nascono quando le anime s' uniscono ai corpi e acquistano i sensorŒ, nascimento che in più luoghi descrive Platone (5). E` dunque singolare a vedere come Aristotele quando si fa a combattere le idee di Platone, non riferisce mai ad esse altro che i sensibili, tacendosi interamente dell' anima nel cui seno sono creati i corpi, onde dalla congiunzione di essa con questi poscia i sensi ed i sensibili fenomeni traggono l' origine. E qui conviene osservare come il diverso , secondo la mente di Platone, sia un genere più esteso di quello de' sensibili, perchè vien posto da Dio nell' anima avanti della produzione di questi. Vi ha dunque nell' anima qualche cosa di mutabile e molteplice che non è il sensibile corporeo; ma la materia appunto del diverso , che è nella natura dell' anima, riceve la sua continua rimutabilità, cioè la rimutabilità della sua forma, che esce dalla materia e vi entra di continuo, come dice Platone in altro luogo. Il che si intenderà facilmente, se si considererà la materia corporea tutta per la sua stessa essenza esser dentro all' anima contenuta (dove Iddio l' ha creata, inseparabile da questa, e però da questa ricevente l' unità, senza la quale dissipandosi s' annullerebbe, cioè diverrebbe un essere assurdo), e altresì dall' anima pienamente dominata. La ragione dunque, per la quale le diverse particelle di materia hanno di necessità un' estensione, si è perchè dall' anima la ricevono; ogni estensione essendo nell' anima, e non potendo esistere, fuori del semplice ed uno, estensione alcuna, di sua natura continua e non moltiplice, chè il continuo e il moltiplice involgono contraddizione. Ora, come la estensione, che è nell' anima, è quella stessa in cui è diffusa la materia e la forza corporea (1) ai cui elementi però è determinata dal Creatore la quantità e la figura: così anche l' anima dominando e movendo questa materia e questa forza corporea secondo i suoi proprŒ istinti, le dà, secondo Platone, quella configurazione che mostra d' avere, sia come corpo dell' animale massimo, che è l' universo, e degli animali maggiori in esso contenuti, che sono gli astri: sia altresì come corpo degli animali minori, e in tutte le generazioni di cose; e produce tutti i grandi e i minimi movimenti, fino a quelli delle coesioni e delle chimiche affinità. Così la materia riceve dall' anima non già propriamente la forma ideale, che non può essere un abito della materia, ma una copia e un' imitazione apparente ai sensi di quella forma ideale. E che le forme e la distribuzione dalla materia corporea e sensibile siano una copia, imitazione e partecipazione dell' idee ad esse relative, vedesi da questo che le forme s' intendono nelle idee, quando sono nel senso ricevute, e nelle idee si vede il loro essere eterno; ma nei corpi, all' incontro, essendo forme periture, non si vedono eterne, e però non sono l' essere immutabile, ma una sensibile espressione e rappresentazione dell' essere immutabile. E poichè quando le sensibili forme son vedute e così intellettivamente apprese nell' idea, nell' anima nostra intellettiva si fa una cotale soprapposizione e immedesimazione della copia sensibile coll' originale intelligibile: perciò anche le forme sensibili si dicono giustamente partecipare le idee nella mente nostra, e nell' atto della nostra percezione intellettiva di esse, e nella memoria, secondo la quale ne' discorsi intorno a tali cose ci esprimiamo. Le forme adunque e la distribuzione delle cose sensibili, essendo determinate dall' anima secondo le ragioni armoniche della sua interna costituzione, e l' anima essendo con una così perfetta sapienza ordinata da Dio secondo l' eterno esemplare, procede che noi dai sensibili andiamo alla cognizione dell' anima, e da questa all' esemplare, e da questo alla mente eterna, e da questa al Bene, cioè a Dio, e che affermiamo « « ch' ei v' abbia molto infinito nell' universo e fine sufficiente; ed una non ispregevole causa, ad essi soprastante, ordinatrice e temperatrice degli anni, delle stagioni e de' mesi, la quale a troppo buon diritto sapienza ed intelletto potrebbesi addimandare (1) » ». Le idee dunque sono partecipate in un modo dall' anima, e in un altro dai corporei sensibili, ed è per questo che da Platone, come dicemmo, sono assomigliate ad un giogo imposto da Dio all' anima ed alle cose, dal quale, insieme connesse, insieme comunicano. Ma all' anima, come a me pare, specialmente si dee riferire la presenza delle idee, «parusia», ai corporei sensibili la comunione , «koinonia» 2). Giacchè i sensibili colle loro forme imitano, come dicevamo, le idee loro corrispondenti, e le loro imagini nell' anima nostra colle idee, quasi direi, combaciandosi, diventano con esse una cosa, rispetto all' atto del nostro vedere, cioè un solo oggetto della nostra percezione (3). L' anima poi, avendole presenti senza che con esse si confonda, le intuisce. Ma poichè di certe idee, come di quelle della bellezza e della giustizia, essa sola partecipa in modo che in sè le realizza, perciò Platone esprime l' unione di tali idee coll' anima non solo col vocabolo di presenza , ma ancora con quello di abito , come nel Sofista, ove dice che l' anima diventa giusta e sapiente per la presenza e per l' abito di tali idee, [...OMISSIS...] (4). Pure la giustizia e la sapienza e simili entità come abito , sono accidentali all' anima, e quindi nasce la questione se la giustizia e la bellezza, come abito dell' anima, siano una similitudine e copia della giustizia e della bellezza, come le forme de' sensibili sono una copia di ciò che è nelle idee. La qual questione non oserei dire che si sia presentata chiaramente ed esplicitamente alla mente di Platone: ma dicendo che sono di quelle cose che possono essere presenti od assenti (1) all' anima, non c' impedisce di credere che la stessa essenza della giustizia possa divenire un abito dell' anima, non potendo la giustizia essere imitata senza che sia distrutta, giacchè l' imitazione della giustizia, se non è giustizia, non può essere che una simulazione di giustizia e però tutt' altro che giustizia. Le idee dunque, secondo Platone, non possono essere ricevute dalle cose inanimate e sensibili, perchè la loro essenza è di essere intelligibili . Non essendo dunque intese, non sono per sè stesse ricevute da' corpi, ma questi partecipano solo di alcune loro similitudini . Similitudini poi si dicono, perchè, ove per mezzo del senso sieno date all' anima, essa vede le immagini sensibili nelle idee corrispondenti; quelle dunque conducono l' anima a queste, e però si dicono similitudini di queste. E così l' anima è descritta da Platone come la mediatrice e il vincolo del mondo sensibile coll' intelligibile, con quello comunicando per mezzo del suo elemento del diverso , e con questo mezzo del suo elemento del medesimo . E quindi nel « Sofista » dice che [...OMISSIS...] (2). Ma secondo Platone questa comunicazione dell' anima intellettiva coll' essenza involge un' azione reciproca, perchè dice che il conoscere , che appartiene all' anima, è agire, e l' essere conosciuto , che appartiene all' essenza, è patire (3). E che conoscere sia agire, non ci può esser dubbio; ma noi neghiamo che all' agire corrisponda sempre il patire (4). Ma il patire che adopera qui Platone deve intendersi piuttosto del copulativo esser avuto (5), perchè sarebbe contrario a tutta la dottrina di Platone che l' essenza sofferisse qualche vera modificazione dall' anima, quand' ella è anzi «aei kata tauta hosautos»; quella che si modifica è l' anima, ricevendo l' atto del conoscere e una luce che diventa anche subiettiva per l' appropriazione naturale dell' intelligibile essenza, luce resa così indivisibile dall' anima stessa. Si consideri che, sotto la parola conoscere Platone comprende non meno il conoscere speculativo che il pratico , onde la virtù stessa è concepita da Platone come una scienza . Quindi il praticare, a ragion d' esempio, la giustizia, non è che un conoscere la giustizia, appropriarsi questa idea , che diviene così abito dell' anima e parte della sua propria natura. Conoscendo dunque l' anima le idee, parte in modo speculativo e parte in modo pratico, s' intende come il medesimo , che abbraccia appunto le idee, sia posto da Platone come elemento mesciuto e rimestato da Dio nella sostanza dell' anima. Onde nel Fedone dice che all' anima appartiene quell' essenza che si denomina « « ciò che è »(1) », il che è quanto dire l' essere che sta nell' idee. E questo è il germe dell' immortalità dell' anima. Laonde nel Fedone il nostro filosofo è tutto intento a dimostrare questo: che le cose sensibili e corporee non hanno alcuna stabilità, alcun vero essere, che il vero essere è sempre il medesimo, ma che col raziocinio all' anima si manifesta qualche cosa di ciò che veramente è, e perciò non può perire. Più dunque le riesce di sottrarsi alle illusioni e distrazioni sensibili, e di raccogliersi in se stessa, lasciato il corpo, più altresì ella comunica coll' ente, e quasi con mano l' apprende [...OMISSIS...] ; onde quando poi ella del tutto priva del peso corporeo sarà con ciò che mai non muore, si troverà continua, ricevendo dalla intima e non più impedita sua unione con quella eterna natura, la perenne immortale e stabile vita. E questo astrarsi dell' anima dal sensibile e vivere d' intelletto, dice Platone, che è uno stare con sè stessa [...OMISSIS...] , un raccogliersi in sè stessa [...OMISSIS...] , appunto perchè egli considera le idee così unite all' anima, che ne informino la natura. Onde distingue il considerare che fa l' anima gli esistenti per mezzo del corpo [...OMISSIS...] , dal considerarli per sè stessa [...OMISSIS...] , recandole il primo modo inscizia, e scienza il secondo. Onde la filosofia insegna all' anima « « di non creder nulla fuorchè a sè medesima, in quant' ella per sè stessa intende ciascuna di quelle cose che sono per se stesse »(1) », il che è quanto dire che le essenze devono essere conosciute immediatamente dall' anima e non per alcuna effigie o copia che gliele presenti. A malgrado di questo, non confonde Platone l' anima intellettiva coll' idee, onde si contenta di dire che ad essa è simile ciò che è divino, immortale, sapiente, cioè l' idee; [...OMISSIS...] ; e che l' anima virtuosa, la quale in questa vita si divide colla contemplazione e coll' amore dell' eterno dal corporeo, e segue la ragione e quel vero e divino, superiore all' opinione che in essa si trova, quando lascia per la morte il corpo, spera di migrare in quello a sè cognato [...OMISSIS...] ; laddove all' opposto quell' anima che parte da questa vita infetta del sudiciume corporeo, ricade in un altro corpo, acciocchè, quasi ivi seminata, rinasca, e rimane priva del consorzio della divina, pura e uniforme essenza: Accenna poi che Iddio pose gli astri, animali divini, col corpo di puro fuoco nella sapienza del potentissimo, cioè del medesimo (5): laddove dice che all' anime seminali « « mostrò la natura dell' universo e insegnò loro le leggi fatali »(6) »; di che si può dedurre, che la scienza innata, da Platone conceduta all' anime umane, sia la cognizione dell' esemplare del mondo o d' alcuna parte di esso. Non diede dunque Iddio, secondo Platone, a queste anime la visione di sè stesso, causa dell' esemplare; ma l' esemplare imitandolo imperfettamente, per questi vestigi sono condotte sempre con un' inclinazione veementissima al Bene stesso, che è appunto la causa delle idee che compongono l' esemplare, e quella che in sè contemplandole, le contiene e le rende vive ed efficaci creatrici del mondo. Così spiega Platone il tendere di tutti gli esseri umani al Bene, come una tendenza a Dio, oscuramente e quasi per enimma conosciuto, e pur incessantemente desiderato. [...OMISSIS...] . Quella insufficienza con cui l' uomo conosce il Bene, quell' augurarsi che sia veramente qualche cosa e pur dubitarne, quel tendere tuttavia in questo oggetto, così oscuramente e incertamente conosciuto, con tutta l' anima, con tutti gli atti della vita [...OMISSIS...] , questo facile ingannarsi del giudicare intorno all' utilità dell' altre cose, benchè più conosciute, a cagione della insufficiente cognizione che s' ha del Bene, essendo la misura e la norma secondo la quale devonsi giudicare, sono tratti sublimi d' una mente straordinaria. E quantunque l' idea del Bene rimanga così all' umana mente involta in una certa misteriosa caligine, pure a preferenza d' ogni altra si dee pregiare e cercare siccome la massima delle discipline [...OMISSIS...] . Niun' altra cognizione giova senz' essa, come niente pur vale il possedere tutte l' altre cose senza il Bene (2). E Platone parla di quel puro e perfetto Bene, che dee essere misura di tutti i beni e le cose, di cui si pervertirebbe il concetto se d' alcuna sua minima parte si diminuisse, poichè « « di niuna cosa può esser misura ciò che è imperfetto »(3) ». Ma per quali vie può dunque l' uomo pervenire a quella, se non compiuta (mentre si trova in questa vita e circondato da questo corpo) almeno sufficiente notizia del Bene a cui aspira? Partendo dai più eccellenti intelligibili dati all' anima umana, dall' idee più eccellenti di cui ella sia stata fatta partecipe. Noi dicemmo che l' oggetto proposto da Dio all' intuizione naturale dell' anima non è, secondo Platone, Dio stesso, ma il divino esemplare del mondo, che alcun' anima intuisce più perfettamente, alcun' altra meno. Da questa intuizione naturale l' anima per mezzo del raziocinio può innalzarsi ad una sufficiente cognizione del Bene, che è la causa del mondo, Iddio, atteso che in quest' esemplare ci sono i vestigi del divino suo autore ed è con esso intimamente connesso come effetto ottimo, per quanto può essere, d' una causa assolutamente ottima. Ma a tanto non perviene se non con vari passi del raziocinio, i quali addimandano quel continuo esercizio di meditazione e continuo sforzo della mente per astrarsi dal corporeo ed ascendere all' invisibile e all' ottimo, a cui Platone riserva il nome di filosofia. Primieramente conviene ben distinguere quattro gradi di cognizione, due appartenenti all' ordine delle cose visibili, e due a quello delle cose invisibili. Perchè le cose visibili si dividono in due classi: 1 le imagini; 2 le cose reali di natura o d' arte (4). Di qui due affezioni dell' animo [...OMISSIS...] , cioè l' affigurazione , «eikasia», che si riferisce all' imagini visibili delle cose, come quelle che si vedono riflettute da uno specchio d' acqua o nell' ombre, e la persuasione , «pistis», che si riferisce ai reali stessi corporei, e dicesi da Platone fede o persuasione, poichè intorno ad essi noi prestiamo fede alle passioni de' nostri sensorŒ e ce ne persuadiamo senz' altra ragione. Le cose invisibili ed incorporee del pari si dividono in due classi: 1 le cose conosciute mediante un raziocinio che parte da altre cose conosciute, come da supposizioni ammesse gratuitamente per vere, senza ascendere colla mente al primo principio ed evidente della cognizione; 2 il principio stesso conosciuto mediante un raziocinio che movendo da supposizioni, non ammette queste per vere, ma da queste ascende a trovare il principio evidente, dal quale poi, discendendo, si conoscono poi indubitatamente per vere le cose dedotte. L' affezione che nell' anima corrisponde al primo di questi due generi è chiamata da Platone cogitazione , «dianoia», quella che corrisponde al secondo è chiamata mente o intelligenza , «noesis» (1). Tutte queste quattro affezioni e funzioni dell' anima suppongono l' intuizione dell' essere. Quando conosciamo la cosa sensibile per mezzo di qualche suo ritratto esterno, come, per servirci dell' esempio che usa Platone stesso nel X della « Politeia », d' una dipintura, allora noi abbiamo prima la percezione sensibile di quella imagine, poi la percezione intellettiva ; da questa, l' idea della dipintura, e da quest' idea passiamo all' idea della cosa reale: tutte queste operazioni e l' affezione dell' animo conseguente sono comprese da Platone sotto la parola «eikasia». Quando conosciamo la cosa sensibile per se stessa, dopo la percezione sensitiva e la percezione intellettiva e l' idea della cosa , noi prestiamo fede alla sua esistenza, e tutte queste operazioni e la fede o persuasione conseguente sono comprese sotto la parola «pistis». Fin qui non c' è ancora il raziocinio, ma solo la percezione intellettiva sia del ritratto sensibile della cosa sensibile, che dicemmo l' affigurazione , sia della cosa stessa, e la conseguente persuasione o fede. Nel primo caso la notizia della cosa è più imperfetta perchè si fonda sulla percezione del ritratto; nel secondo è meno imperfetta, perchè si fonda sulla percezione della cosa: ma l' uno e l' altro fondamento non eccede l' ordine sensibile. Il raziocinio invece di cominciare dalla percezione sensitiva arrivando fino all' affigurazione e alla persuasione , parte dalla idea pura , e qui comincia il raziocinio, e percorre pure due stadii. Poichè primieramente l' idea da cui parte, suol esser cavata dalle percezioni precedenti, e però il primo stadio di questo nuovo lavoro s' incatena co' precedenti e anche fa uso de' sensibili, non come fondamento al raziocinio, ma come fanno i matematici, che in aiuto della mente tengono sott' occhio de' triangoli ed altre guise di figure sensibili, benchè ad esse non dirigano il pensiero, ma al triangolo stesso e all' altre figure ideali, delle quali le sensibili sono imperfetti simulacri. In questo stadio adunque il raziocinio partendo da tali notizie e supponendole vere, ne trae le conseguenze come appunto fa il matematico che suppone il pari e il dispari e le figure e le tre specie d' angoli ed altre cose simili, di cui, supponendo tali cose note a tutti, non domanda altre ragioni, ma da esse discende a cercar altre cose, quelle che vuol rinvenire; e questo è quel primo stadio del raziocinio che Platone chiama «dianoia». Alla formazione di questa specie d' intelligibile [...OMISSIS...] , secondo Platone « « l' anima è costretta a far uso di supposti [...OMISSIS...] non rivolgendosi verso il principio [...OMISSIS...] , perchè non può ascendere più su dei supposti » » e questo si fa nella geometria e nelle altre arti affini [...OMISSIS...] . Ma la Filosofia sta più su e ad essa appartiene l' altra divisione d' intelligibile [...OMISSIS...] . Questa porzione o specie d' intelligibili sono le ragioni ultime, e la ricerca di queste è così descritta da Platone: [...OMISSIS...] . Così distingue Platone la filosofia da tutte le scienze e le arti, avendo queste de' principŒ supposti , la sola filosofia il principio non supposto, evidente per sè, necessario, [...OMISSIS...] . Platone, con tutto il meglio dell' antichità, s' affida sempre al raziocinio, e distribuisce sempre il sapere umano entro l' ordine della riflessione : manca del tutto nell' antichità la teoria dell' intuizione primitiva, non riflessa e inconsapevole. In luogo di questa, di cui pure sentiva il bisogno, Platone introdusse a colmar la lacuna, il tipo ingegnoso della riminiscenza . Questa però non s' operava per via d' un semplice ricordarsi, ma imperfettamente per mezzo della percezione, perfettamente per mezzo del raziocinio riflesso . A questo dunque Platone assegna due gradi: l' uno, quello delle matematiche e dell' altre scienze, che non ascendono al sommo ed evidente principio; l' altro, quello della filosofia che vi ascende. La distinzione di questi due gradi ha per fondamento la distinzione tra due classi d' idee, ossia d' intelligibili, l' una più eccellente dell' altra. La classe inferiore delle idee è di quelle che si riferiscono immediatamente al mondo sensibile , e che l' uomo ha mediante la percezione ( specie piene, specie astratte ). L' acquisto di queste idee non importa ancora il raziocinare, ma l' affigurazione e la persuasione. Da queste idee inferiori prossime ai sensibili, di cui sono l' intelligibilità, move il raziocinio per due vie a diverso intento. Poichè o si parte da esse per arrivare ad altre idee parimenti inferiori, per arrivare alle idee ultime: queste sono le idee superiori . Come le idee inferiori sono quelle che manifestano il mondo sensibile e corporeo, così l' idee superiori sono quelle che manifestano il principio dell' universo, e le cose tutte che ad esso sono inerenti, e che l' anima, per questa via d' alto raziocinio, può arrivare, in qualche modo, a toccare: [...OMISSIS...] . Queste idee o intelligibili superiori sono lontanissimi da ogni sensibile, e la mente va ad esse senza fare alcun uso del sensibile, [...OMISSIS...] , laddove il sensibile avea luogo nell' ordine delle percezioni, ed anche nel primo grado del raziocinio, servendo i sensibili come di simulacri a quelle idee a cui la mente si rivolge, atteso che queste idee ai sensibili appunto si riferiscono, come accade a' matematici. Le idee superiori dunque sono quelle che manifestano nature spirituali e doti e qualità di queste, e che perciò non si riferiscono punto ai corpi. Vediamo quali queste sieno, e come la mente giunga per esse al principio dell' universo, procedendo sempre nei campi del mondo puro, scevra d' ogni concrezione sensibile, d' idea in idea; [...OMISSIS...] . Sono indubitatamente tali idee quelle del giusto , dell' onesto , del sapiente e simiglianti, le quali tutte insieme s' unificano in un modo occulto nell' essenza divina, ossia nel principio del tutto e non possono esser partecipate da alcun corporeo e sensibile, ma solo dall' anima per l' intelligenza. Da queste idee dunque vuole Platone, che il filosofo dialettizzando pervenga a quella qualunque notizia che l' uomo può acquistarsi della divinità. Poichè il lume pel quale l' anima intuisce quelle idee e per esse è scorta alla cognizione di Dio, è ciò appunto che Platone chiama il Figliuolo del Bene, come chiama Iddio il Bene, cosa più augusta di quelle singole idee e del lume stesso che all' uomo le dimostra. Descrive dunque il filosofo come colui che [...OMISSIS...] . Dove Platone distingue il divino , «to theion», da Dio, attribuendo la qualità di divino alle idee veramente essenti, «alethos onta», e massimamente ad alcune più eccellenti ordinate con ordine immutabile, [...OMISSIS...] , le quali sono indubitatamente quelle della giustizia, della virtù, della sapienza e simiglianti, poichè a queste conviene, a preferenza dell' altre, l' essere tutte ornate e secondo ragione, [...OMISSIS...] , essendo il raziocinio [...OMISSIS...] , quello che ritrova il giusto e l' onesto e altre tali idee. In secondo luogo poi attribuisce Platone l' attributo divino a tutti quegli enti che partecipano di tali idee contemplandole ed imitandole, cioè all' anima del mondo, poi agli astri che ne sono avvivati, finalmente al filosofo che mettendo tutta la sua mente e il suo cuore in esse, si rende ad esse simile. Poichè secondo Platone è la contemplazione pratica della giustizia, dell' onestà, della virtù e di somiglianti essenze, la causa per la quale l' uomo si rende giusto, onesto, virtuoso e in ogni maniera ornato: come noi pure abbiamo affermato, che il principio della morale non si può trovare altrove che in un primo atto volontario d' intendimento, pel quale l' uomo aderisce col suo principio, e con tutto se stesso alla verità delle cose, e che abbiamo chiamato ricognizione dell' essere (3). Questa è dunque la maniera nella quale Platone insegna che l' uomo imita tali essenze: la contemplazione di esse incessante, ma affettuosa, pratica, assoluta; [...OMISSIS...] . E perciò appunto che Platone vuole che il fine della filosofia sia pratico ed effettivo, e non di astratta speculazione, dà per ultima e suprema essenza, non questa del nudo essere ma quella del Bene; poichè quella del puro e indeterminato essere non presta che il principio della filosofia, ma l' essenza del Bene ne è lo stesso termine e finimento. Onde s' affatica Platone a rimovere la falsa opinione che la filosofia sia una speculazione sterile, e a dimostrare che il vero filosofo, posto al reggimento della cosa pubblica, è il solo atto, non pure a informare alla virtù sè stesso, ma anche tutto il popolo (1). Dal quale prima rimove gli impedimenti, come il pittore che ripulisce prima la tavola su cui deve dipingere, e poi lo istituisce alle virtù per modo che lo conduce fino a Dio, rendendolo teofilo. [...OMISSIS...] . Così dalla contemplazione e dall' amore di quelle supreme idee del giusto, dell' onesto, del prudente e simili, l' uomo va, secondo Platone, alla cognizione, alla contemplazione, all' amore di Dio stesso. Pure Iddio è tal cosa che sta ancora più su di quelle singole essenze (3). Avendo distinte tre specie d' anima (4), in rapporto a quel che è giusto per natura, quel che è per natura bello e onesto, quel che è per natura saggio e temperato [...OMISSIS...] (5), Platone mostra che l' idea del Bene è superiore a tali eccellentissime essenze. Poichè dice, che « « la giustizia stessa e l' altre cose tutte devono avvalersi dell' idea del Bene, affine di rendersi utili e convenevoli »(6) »: di maniera che l' idea del Bene è la stessa regola suprema e la misura della giustizia e dell' altre essenze tutte, di quella dell' onesto, del temperato, del sapiente, dell' utile; le quali perciò da quella dipendono e ne ricevono la legge e l' ordine, e tutto ciò che hanno di bene. Dimostra lo stesso contro coloro che riponendo il Bene nella sapienza [...OMISSIS...] fanno di quelle due cose una sola. Poichè acutissimamente dice che se costoro s' interrogano di qual sapienza parlino, qual oggetto le assegnino, sono costretti in ultimo di rispondere, che intendono « « della sapienza del Bene » ». In tal modo ricorrono al Bene per determinare quella sapienza nella quale dicevano di riporre il Bene. Suppongono dunque di conoscere il Bene prima della sapienza, e per mezzo di quello definiscono questa, non viceversa (1). Dall' idea dunque del Bene anche la sapienza procede, e egli n' è la ragione, onde senza la cognizione del Bene non giova, o piuttosto non esiste, nè la cognizione della giustizia, nè d' altra cosa, quantunque eccellente ella sia (2). Con un altro carattere nobilissimo distingue Platone il Bene da tutte le altre cose più eccellenti, ed è che il Bene è sempre amato per se stesso, onde non è possibile che nessuno intorno a lui voglia ingannarsi: [...OMISSIS...] . L' essenza del Bene, dunque, è l' altissimo Iddio superiore a tutte le cose più eccellenti e causa di tutte. Ma qual è l' essenza più vicina a lui? Quella che Platone chiama il Figliuolo del Bene che è la luce , per la quale l' umano intendimento conosce tutte queste cose; ed è d' idea in idea diretto ad argomentare qualche cosa al di là di tutte le idee, la prima ed ottima causa, in una parola, il Bene stesso, che perciò non è immediatamente intelligibile, ma dal lume e col lume suo figliuolo s' argomenta: poichè col lume s' ha il vedere, e col vedere si vede il lume e nel lume come nell' effetto si vede la causa, [...OMISSIS...] . Come tra tutti gli organi sensori la vista è quella che è sommamente partecipe del sole e del lume, così tra tutte le facoltà umane quella che riceve più il lume intelligibile è la mente «nus» (4), che intuisce le idee e il loro ordine. Ora che cosa è questo lume delle menti, effetto, ossia prole del Bene, che per mezzo di questo lume, ascendendo dall' effetto alla causa, si conosce? Platone risponde la verità e l' ente , [...OMISSIS...] (1). Il che noi abbiamo ripetuto nell' ideologia. E la verità e l' ente è il medesimo lume, che considerato in relazione alla mente dicesi verità, considerato in relazione all' oggetto stesso, dicesi ente. Il Bene, adunque è al di là del lume della mente umana, essendone la causa. [...OMISSIS...] . Il figliuolo del Buono, adunque, da Platone è chiamato ente, verità, cognizione, scienza , vocaboli che significano sempre il lume e la forma oggettiva della natura umana. Poichè l' ente [...OMISSIS...] o, come altrove lo chiama, l' essenza semplicemente detta, è la prima specie che illumina la mente umana; la verità [...OMISSIS...] è lo stesso ente, in quanto è esemplare delle cose reali e definite e queste lo imitano e così partecipandone diventano vere; la cognizione [...OMISSIS...] è l' effetto che consegue nell' anima che ha presente l' essere o la verità; la scienza [...OMISSIS...] è la cognizione più ferma ridotta alle ragioni ultime (3). Il Bene dunque è il sovraintelligibile per Platone, perchè sta più su dell' ente indeterminato e comune, più su della verità, più su della cognizione e della stessa scienza; pure se ne può avere una cognizione per analogia , perchè queste cose tutte date alla mente umana sono boniformi , ed hanno un' analogia ed un' intima relazione colla sua causa, il Bene essenziale, Iddio; e nell' uomo stesso che le partecipa colla mente e che, conformandosi ad esse con tutto sè, si rende giusto, onesto e temperato, rimane come dipinta e formata una certa imagine di Dio [...OMISSIS...] (1). Questa certa cognizione poi, quantunque analogica, negativa e raziocinativa, del Bene, è tuttavia così preziosa e importante, « « la massima disciplina o istituzione » » che possa avere l' uomo [...OMISSIS...] (2): poichè da questa notizia del Bene, come da regola suprema, si può giudicare del giusto e dell' onesto e d' ogni altra cosa pregevole. Il Bene poi non è solamente causa del suo Figliuolo, la luce delle menti umane, ma, senza cessar d' esser luce inaccessibile in sè stesso, è causa effettrice di tutte le cose, ond' anche per questo Platone lo rassomiglia al sole: [...OMISSIS...] . Dove parla manifestamente dell' essenza delle cose finite, di quelle essenze che tutte unite insieme costituiscono, come vedemmo, l' eterno esemplare del mondo, del quale si dice Iddio più antico (perchè da Dio, sebben ab aeterno , fu formato), e perciò stesso più potente [...OMISSIS...] . All' essenza infatti di Dio, che è quella della bontà, Platone attribuisce nel Timeo la causa della creazione del mondo [...OMISSIS...] . Affine dunque di rendere il mondo similissimo a sè stesso, Iddio creò delle intelligenze, e in servigio e gloria di queste, altre cose sensibili da dominarsi, ordinarsi ed effigiarsi, per quanto esser potesse, alla stessa similitudine. Le intelligenze poi le creò a sua imagine e somiglianza, ponendo davanti ad esse le idee a contemplare. Ora contemplando in queste ed ascendendo la mente dalle une alle altre fino alle somme, fino a quella della stessa virtù, cioè a quello che è « « per sua natura giusto, per sua natura bello, per sua natura sapiente » » e da queste finalmente ascendendo col raziocinio dell' analogia alla cognizione della Causa, ossia del Bene stesso; se con tutti se stessi, con tutte le azioni gli uomini a questo ineriscano, di maniera che riescano i costumi informati dall' amor di Dio, [...OMISSIS...] : in essi finalmente s' impronta e rifulge una cotale specie e squisita dipintura della divinità. Tale è l' ideale dell' uomo appieno educato e istituito alla virtù; ciò che Platone chiama «andreikelon» (1). Nel Filebo dove Platone espone la stessa dottrina, accenna quanto la natura divina sia superiore alle idee che noi contempliamo e che costituiscono la nostra mente e la nostra sapienza. Vede infatti il Figliuolo della Causa suprema in queste, onde dice: [...OMISSIS...] . E poco appresso chiama la mente cognata alla Causa e quasi dello stesso genere: [...OMISSIS...] . Ma quanto la mente e la sapienza umana ossia il complesso delle idee accessibili all' uomo sia inferiore del Bene stesso, causa del tutto, lo dimostra in questo modo. Pone per caratteri del Bene primo che sia perfetto (4), quindi sufficiente a se stesso , [...OMISSIS...] . E questa sua piena perfezione e sufficienza è un carattere così proprio di lui, che per esso si distingue da tutti gli esistenti (5), niun altro di questi potendo essere a sè medesimo sufficiente. Un altro carattere nobilissimo del Bene è ch' egli non può essere da niuno conosciuto senza che ad un tempo sia ed amato e cercato, e così fattamente che niun' altra cosa si ama e si cerca, se non per lui (6). Dopo stabiliti questi distintivi del Bene, mostra che nè il piacere nè la sapienza umana sono in separato sufficienti a sè stessi. Poichè niuno vorrebbe godere tutti i piaceri del mondo senza avere alcuna conoscenza nè memoria de' medesimi, che non sarebbe la vita dell' uomo ma del polmone o spugna marina, o della conchiglia. Niuno del pari s' appagherebbe d' aver sapienza e mente e scienza e memoria di tutte le cose, privo di ogni qualsiasi godimento, benchè anche insensibile alla molestia (7). All' incontro tutti, senz' eccezione alcuna, eleggerebbero ugualmente la vita del piacere [...OMISSIS...] unita e mista colla vita della sapienza [...OMISSIS...] che Platone chiama anche indifferentemente la vita della mente [...OMISSIS...] (1). Così della sapienza e della mente dell' uomo, la quale essendo insufficiente non è lo stesso Bene. [...OMISSIS...] . Distingue dunque la mente divina dalla mente creata , quella perfetta e sufficiente a se stessa, questa imperfetta e insufficiente a rendere beato l' essere finito. Il che ha bisogno di qualche dichiarazione. L' ente creato (secondo Platone, che a servigio del suo pensiero trae i concetti e il linguaggio dei Pitagorici) tutto ciò insomma che è creato, è il composto [...OMISSIS...] di due elementi, l' indefinito [...OMISSIS...] e il fine o finiente [...OMISSIS...] . All' indefinito appartiene la materia corporea, al fine l' anima, e però d' anima e di corpo il mondo si compone (3), animale razionale, che contiene altri animali in se, gli astri e l' uomo. Essendo dunque due gli elementi accoppiati insieme, la felicità dell' essere finito non può consistere nella vita della sola mente che appartiene alla sola anima, ma deve concorrere a render pago un tale essere anche la vita del piacere che appartiene al misto in quanto è fornito di corpo. Ma come il misto risulta da due elementi bensì, ma armonicamente tuttavia uniti e compaginati, così il pieno bene dell' ente creato deve risultare da un' armonica unione e contemperamento delle due vite, cioè della sapienza e del piacere, e di questo contemperamento armonico lungamente e sapientemente ragiona nel « Filebo ». Questo dunque è il solo bene di cui noi uomini e ogni altro ente creato abbiamo esperienza, un bene misto di sapienza e di piacere. Ma sebbene non abbiamo esperienza d' altro bene, non possiamo noi formarci in qualche modo il concetto d' un bene ancor più perfetto? Sì, risponde Platone, ma non per alcuna positiva esperienza; bensì per via delle ragioni , cioè raziocinando da quel bene che sperimentiamo; e così per analogia arriviamo ad una cognizione ideale e negativa dell' essenza stessa del Bene, che è quanto dire di Dio, il Bene stesso, ed ecco come. Poichè l' ente creato è composto d' infinitezza e di fine , ma questi, congiunti armonicamente, e così pure il bene di quest' ente è un accozzamento armonico di sapienza e di piacere , è manifesto che ci deve essere una causa che abbia così opportunamente collegati que' due elementi, e fattane uscire una sola essenza (4). Questa causa è cosa anteriore all' effetto, cioè all' accoppiamento de' due elementi (1) e per natura di entrambi più eccellente. Essendo dunque quella che dà l' essere e l' essenza e il bene a tutte le altre cose, conviene che ella sia il Bene stesso ed assoluto (1). Così dal bene imperfetto e partecipato, che si percepisce nel mondo e più o meno si esperimenta, vuole Platone che la mente ragionando, per una certa scala d' idee, ascenda al Bene stesso impercettibile e al di là di questo universo. Il primo lavoro adunque è quello di formarsi un concetto del Bene, di cui è suscettibile quest' universo, nel modo più perfetto. Questo concetto che risulta dal più perfetto contemperamento della sapienza e del piacere, conduce la mente nostra all' esemplare del mondo in cui, essendo opera perfettissima, è disegnato quel Bene. Onde, dopo aver lungamente mostrato per quali vincoli opportuni il piacere dee collegarsi alla sapienza, acciocchè ne esca la miglior vita, Socrate nel « Filebo » soggiunge: [...OMISSIS...] . Ma dopo di tutto ciò rimane il secondo lavoro della mente raziocinatrice. Poichè rinvenuto « « l' ideale del bene mondiale » », questo, dice Platone, non è che come un atrio della casa del Bene stesso. [...OMISSIS...] . Dal bene creato dunque vuole che s' ascenda alla notizia del bene increato, dall' effetto alla causa che non si può esperimentare quaggiù, ma argomentare, ed ecco per qual via. Primieramente questa causa deve essere una Mente, essendo composto con tant' ordine, convenienza e perfezione il Mondo e commiste in esso con tant' arte le due vite della sapienza e del piacere. Distingue dunque due menti: quella partecipata dall' ente creato e quella che è per sè Mente. Chiama questa « «vera e divina Mente », [...OMISSIS...] (1), Mente regia, [...OMISSIS...] (2), e questa, dice egli, è la Causa certo non ispregevole che adorna e dispone, [...OMISSIS...] . Quest' intelligenza, causa del mondo, non è composta de' due elementi dell' infinitezza e del finiente , essendo essa anzi la Causa e l' accoppiatrice di essi. Non avendo in sè alcuna cosa che sia di natura sua indefinita, per questo stesso è immutabile . Poichè l' indefinito è quello che riceve il più e il meno, [...OMISSIS...] , e però che ha la natura del variabile. La variabilità, ossia l' ammettere più e meno, è il fonte, secondo Platone, delle imperfezioni a cui soggiacciono le nature finite e composte, ed essa stessa è il primo difetto e il genere de' difetti. La Mente causa dunque non ha difetto, e quindi ha le due qualità del Bene, la perfezione e la sufficienza . Il piacere e il dolore della vita animale nasce dall' elemento dell' infinitezza che è massimamente il corporeo, e perciò tali affezioni sconvengono del tutto alla Divinità: non possono dunque entrare nell' essenza del Bene, la quale non è, nè può essere come il Bene del mondo, composta d' indefinito e di definito: il che fa ben intendere che la vita della pura contemplazione sia in sè la divinissima, [...OMISSIS...] . Ma quantunque il Bene perciò stesso sia al tutto semplice, tuttavia noi dovendone raccogliere la cognizione per via di raziocinio induttivo e analogico dal bene partecipato del mondo, che è composto, non possiamo concepirlo mediante una sola idea (5). L' idea stessa dunque del Bene, cioè, ciò che è per sè il Bene quaggiù ci manca. Possiamo in quella vece esprimerlo con una cotal formola razionale composta e quasi organata di più idee: e sono quelle idee eminenti che si vedono nel mondo partecipate, ciascuna delle quali dà una tale essenza che dee essere necessariamente compresa in quella del Bene nè può essere altrove, benchè non sappiamo come si fondano in quell' unica somma ed a noi inescogitabile essenza. Si ferma Platone nel « Filebo » a tre di queste idee che ci servono a conoscere, come possiamo, il Bene stesso. [...OMISSIS...] . Trattasi qui di quella mistione da cui risulta il bene dell' animale intelligente (non essendo altro il creato che questo), il quale è misto di piacere, che si riferisce al corpo animato, e di sapienza, che si riferisce all' anima pura. Ora dice Platone che in questo stesso bene misto si scorge la partecipazione di quelle tre essenze, cioè della verità, della commisurazione e della bellezza; e per sì fatto modo che, tolte via queste, non resta più nello stesso animale, ossia nel creato, nulla che abbia ragione di Bene. La ragione dunque perchè l' ente creato animato è buono, ossia ha il bene, consiste unicamente nella partecipazione di quelle tre essenze. Se noi dunque prendiamo queste tre essenze e separandole colla mente da ogni altro elemento, le consideriamo come fuse in uno, [...OMISSIS...] (e in questa fusione e unificazione com' ella sia, sta il mistero impenetrabile alla mente umana, onde Platone dice l' idea del Bene appena visibile, [...OMISSIS...] ) (1), noi così ci formiamo la cognizione del Bene puro . Dimostra adunque prima che acciocchè il bene del creato sia bene, è necessaria la verità . E quanto al primo elemento di quel bene, cioè alla sapienza, è facile vederlo, non dandosi nè sapienza nè scienza senza la verità, ma questa è necessaria anche ai piaceri che sono il secondo elemento, chè se non sono veri piaceri nè pur sono piaceri. [...OMISSIS...] . E dimostra che ci sono de' piaceri veri e dei falsi: i primi ordinati e moderati che si possono di conseguente comporre e mescere colla sapienza; gli altri disordinati che non potendosi mescere con essa nè sono veri, nè possono convenire in quel misto nel quale sta il bene della creatura. E prende Socrate a interrogare la stessa sapienza e mente, se loro bisognino, per formare il compiuto bene dell' ente creato, oltre i veri piaceri, anche i più veementi e grandissimi; le quali rispondono: [...OMISSIS...] . Dimostra poi, e da questo stesso deduce, che al bene creato è necessaria in secondo luogo la commisurazione o simmetria, senza la quale non può riuscire la concorde e pacifica mistione dei due elementi [...OMISSIS...] . La misura dunque e il commisurato [...OMISSIS...] è la seconda idea che si scorge nel bene finito: il commisurato è lui stesso il bene finito ricevuto che abbia la misura, e la misura , che è quell' idea che noi caviamo per astrazione da questo commisurato, e che si deve attribuire in proprio alla causa, cioè al Bene puro ed essenziale, misura di tutti i beni, e perciò stesso da sè essenzialmente misurato, [...OMISSIS...] chè, come già disse nella « Politeia », [...OMISSIS...] . Quindi la terza idea partecipata dal Bene, quella della bellezza. [...OMISSIS...] . Il bene dunque nell' ente creato si mostra sotto tre aspetti, ora di verità, ora di misura e commisurato, ora di bellezza: e nessuna di queste tre idee può abbandonar l' altra, chè c' è tra esse un naturale sintesismo; nè tuttavia si possono da noi unificare come si converrebbe a comporre l' unica e semplicissima idea del Bene stesso assoluto. A queste tre idee si riducono quelle tre altre di cui fa uso nella « Politeia » di ciò che è giusto, bello, prudente o temperato [...OMISSIS...] , poichè, come apparisce dall' ultimo luogo citato, riduce allo stesso il bello e la virtù [...OMISSIS...] , e perciò la giustizia e l' altre tre virtù cardinali (2); nè si dà il giusto e il prudente o temperato senza verità, misura e bellezza. Il Bene dunque è la verità, la misura e il misurato e il bello. e ciascuna di queste tre essenze è il Bene, che prende diverse forme ed aspetti (3), e nel mondo risplendono. Venendo dunque Platone in sulla fine del « Filebo » a classificare i diversi ordini di bene che sono nel mondo, li distribuisce nella scala seguente. Il primo luogo, dice, dee darsi alla misura [...OMISSIS...] e al misurato e ammodato [...OMISSIS...] e a qualunque altre cose tali, di cui convenga credere aver sortito una sempiterna natura [...OMISSIS...] ; e quest' altre cose sempiterne sono appunto quelle indicate, la verità, la bellezza, la giustizia, la prudenza ed ogni virtù. Tutte queste cose per sè stesse non appartengono al mondo o all' uomo, ma sono di spettanza alla causa, [...OMISSIS...] , e tutte insieme formano l' idea del Bene, [...OMISSIS...] , il quale nel mondo e nell' uomo, siccome in uno specchio, si riflette con diversi raggi in tutte quelle diverse idee supreme, l' una reciprocamente inserta nell' altra, che dicevamo. Tutto questo lume riflesso poi non è lo stesso Bene, ma il figliuolo del Bene, [...OMISSIS...] , nel quale e pel quale noi divinando [...OMISSIS...] acquistiamo una cognizione oscura bensì «( per speculum et in aenigmate ) », ma preziosissima e la più necessaria di tutte, del Bene stesso, colla quale sola misuriamo e giudichiamo tutto ciò che del Bene partecipa, e quelle stesse idee eterne, che al Bene ci conducono, e a questo di nuovo, come ad ultimo principio, riferiamo, e vediamo che senza quest' ultima idea non sarebbero. [...OMISSIS...] . Le quali sublimi parole non pronunzia Platone senza dar segno di quella sua solita riverenza e modestia, con cui parla delle cose divine e che s' addice tanto ad un uomo, specialmente privo della divina rivelazione. [...OMISSIS...] . Nel qual luogo è da notarsi come Platone riconosca chiaramente l' idea del Bene, non solo esser causa delle cose intelligibili, ma anche delle visibili; il che dimostra due cose: 1 che per « idea del Bene »intende l' essenza stessa del Bene, il Bene assoluto, Dio; 2 che nulla ammette fuori di Dio, che non abbia per causa Iddio. Questo dunque ha il primo luogo nell' ordine de' beni: il secondo è occupato dal tutto insieme, perfettamente ordinato, sia nel mondo, sia nell' uomo, cioè in quella perfetta composizione tra la sapienza e il piacere, onde risulta la felicità e la perfezione di tali animali intelligenti: è dunque «to xymmisgomenon». E di questo bene si deve intendere il passo che segue: « « Il secondo (bene) è circa il commisurato, e il bello, e il perfetto, e il sufficiente, e quante v' abbiano cose di questa generazione » » (2). Poichè il mondo e l' uomo a pieno virtuoso ha appunto queste qualità di commisurazione, bellezza, perfezione e sufficienza relativamente alla sua natura; e bene è del pari ogni altra cosa che le abbia in sè. Dipoi vengono i beni elementari, di cui questo bene composto, proprio dell' ente creato, si compone, e anche tra questi Platone cerca qual sia l' ordine di preminenza. Avea già detto che questi elementi buoni sono primieramente due, l' uno appartenente all' ordine intelligibile, e l' altro all' ordine sensibile, e che quello va di lunga mano preferito a questo, stante che abbia una stretta parentela col bene supremo. Ma non contento di ciò, spezza l' intelligibile in due, e all' uno dà le idee più sublimi, come appunto quelle dal cui complesso si arriva all' idea del Bene; e questo pone il primo bene degli elementari e il terzo della serie totale. Dice dunque « « se tu dunque porrai per terzo bene la mente e la sapienza [...OMISSIS...] , non andrai lontano dal vero, come io vaticino » ». Avea detto poco prima della mente che ella « « o è un medesimo colla verità, o certo di tutte le cose è la più simile e la più vera » » (3). Delle quali parole, le prime, cioè che la mente sia il medesimo colla verità, appartengono alla mente divina, alla Causa, al Bene: l' altre, cioè che la mente sia di tutte le cose la più simile alla verità e la più vera, appartengono alla mente creata o partecipata dagli animali divini e dall' animale umano. E questa è quella mente che pone terza nell' ordine de' beni, perchè sola non è sufficiente all' animale, benchè per essa comunichi colle cose divine, perchè egli non è pura mente, ma oltre a ciò ha per sua natura l' elemento dell' indefinito, [...OMISSIS...] , che deve essere dalla mente governato. Appunto per questo, oltre alla prima e più sublime delle facoltà intellettive, cioè alla mente che intuisce le più sublimi idee, s' aggiungono le scienze e le arti; e queste stesse talune sono pure e proprie della sola anima senza mescolanza d' alcun elemento attualmente sensibile, opere della mente e della ragione. A questo secondo genere d' intelligibili dà dunque il secondo luogo tra i beni elementari del creato; e il quarto nella classificazione totale: [...OMISSIS...] . E chiama scienze dell' anima, benchè alle sensazioni congiunte, anche questi piaceri (3): poichè non ammette punto per beni i piaceri sensibili, in quanto sieno scompagnati dalla cognizione e dalla verità, ma dall' essere a queste uniti e loro pedissequi ed inservienti [...OMISSIS...] deriva loro la qualità d' essere bene. Essi, dice, devono esser veri , [...OMISSIS...] . Il piacere dunque animale separato dalla cognizione è escluso da Platone dal novero de' beni, come quello che è indefinito, ma dall' idea, quando ne partecipa, riceve il suo finimento e da un' idea ancor superiore e finalmente dall' ultima che è misura suprema il finimento stesso è misurato (5), poichè le idee inferiori cioè più prossime ai reali sensibili, e il loro ordine dalle superiori e finalmente dall' ultima, che è quella del bene, ricevono la commisurazione. Conchiude dunque colla solita piacevolezza. [...OMISSIS...] . Se noi dunque vogliamo per conclusione e ricapitolazione di questo discorso segnare il principio ed il fine della filosofia platonica, e il corso di quell' arte del raziocinio che Platone chiama dialettica, e che conduce l' umana mente da quel principio passo passo finchè abbia raggiunto quel fine, diremo, con persuasione di non andare errati, che l' idea in universale, e propriamente l' essere ideale, [...OMISSIS...] è il principio, da cui vuole che si muova la filosofica disciplina, e il Bene, [...OMISSIS...] è il termine, a cui deve pervenire. Così descrive il filosofo dal principio e dal termine, quando lo dice « « amatore dell' ente e della verità » », [...OMISSIS...] . Ma torniamo oggimai ad Aristotele. Questo magnifico monumento filosofico non si trova nelle opere d' Aristotele, che mutilo a scarsi frammenti, insufficienti a ricomporlo, e guasti anche questi da un' esposizione infedele, sofisticamente tormentati piuttosto che discussi. Si direbbe, paragonando certi luoghi d' Aristotele, in cui parla delle dottrine di Platone, con altri che ancor si leggono nelle immortali opere di questo, che o gli scritti attribuiti ad Aristotele non fossero del discepolo di Platone, o avessero subite profonde alterazioni . Ad ogni modo ecco in che consistono le cardinali differenze tra i due sistemi, dalle quali dipendono tutte l' altre. 1 Secondo Platone, il mondo, e con esso il moto e il tempo, è cominciato per opera di Dio: secondo Aristotele è eterno, e Dio non fa che imprimergli ab aeterno di continuo il primo movimento; 2 Secondo Platone, il mondo è fatto nel tempo, secondo un eterno esemplare, il quale comprende tutte le idee, che si riferiscono al mondo; esemplare formato dalla mente divina per creare il mondo; secondo Aristotele, il mondo, essendo di sua natura eterno, non ha bisogno d' alcun esemplare, e però non ci sono le idee , che lo compongono, separate e indipendenti dal mondo; 3 Secondo Platone, le idee che si riferiscono al mondo come esemplari, sono intuite dalle menti create, che così ne partecipano; ma gli enti privi d' intelligenza, cioè i sensibili, non partecipano di esse, ma soltanto esprimono le loro similitudini , dalle quali, ricevute dall' uomo col senso, la mente trapassa alle idee , di cui quelle sono similitudini, ossia alle essenze de' medesimi sensibili, e per queste essi si conoscono. Aristotele nega, che gli enti reali e sensibili sieno similitudini, ma dà a loro stessi le specie o forme, che diventano intelligibili, tosto che l' anima che n' abbia il potere, le consideri in separato dalla materia, e così è, che ella conosce gli enti reali. Quindi Aristotele stabilisce, che tutte le cose mondiali sono composte di due elementi: 1 materia, [...OMISSIS...] ; 2 specie, [...OMISSIS...] (a cui si riduce anche il terzo elemento, la privazione ). Ma tutto questo complesso di enti, ciascuno composto di materia e di forma, che dicesi mondo, si muove in molte guise (1). Sebbene dunque nella sua supposizione d' un' eternità del mondo, egli non avesse bisogno di ammettere un ente creatore e ordinatore, tuttavia gli fu necessario di stabilire un principio , ed un fine del movimento del mondo e degli enti in esso contenuti: e quel principio non doveva essere mosso, altramente non sarebbe stato principio; doveva essere un primo motore immobile, [...OMISSIS...] , quel fine non potea essere che il Bene, [...OMISSIS...] , come aveva appreso da Platone. Ora i due elementi, di cui si compongono gli enti, e il principio e il fine del loro movimento, sono chiamati cause da Aristotele, e alla dottrina di queste quattro cause egli riduce tutta la metafisica (3). La prima causa dunque, ossia elemento, è la specie, o forma o essenza, [...OMISSIS...] . La seconda causa o elemento è la materia o il subietto , [...OMISSIS...] . La terza causa è il principio del movimento, [...OMISSIS...] , chiamata ancora causa efficiente, [...OMISSIS...] . La quarta causa è la finale, il fine del movimento, il Bene, [...OMISSIS...] . La materia è la realità in potenza, indeterminata, la forma è la sua determinazione, il suo termine, e però è un che determinato (9). Quantunque non possa esistere il solo indeterminato, tuttavia un ente determinato da una forma è in potenza ad altre forme, e così può passare da una forma all' altra; questo passaggio dallo stato di potenza a quello di atto è il movimento , la formola che esprime tutto ciò che si fa e si patisce nell' Universo. Ora questo passaggio, ossia questo movimento (1) dee avere la sua causa, e questa è il principio del moto ; dee avere anche un termine , e questo è il fine. Queste quattro e, colla privazione, cinque cause, sono considerate da Aristotele come i generi più estesi possibili. Ma ciascuna di queste cause generiche, quando si vuol determinare maggiormente e distribuire in generi minori e in ispecie e in individui, si può considerare sotto due aspetti che danno una diversa base d' eseguire una tale determinazione. Poichè: 1 ciascuna si può considerare nel suo effetto , in quanto può concorrere diversamente a produrlo, spezzandosi così quel genere unico in più classi e individui di cause; 2 e dopo ciò si può prendere ciascuna di queste cause, la più prossima all' effetto prodotto, e ascendendo ad una causa anteriore, e da questa ad un' altra pervenire a trovare la prima, la più remota di tutte l' altre. Si può dunque considerare ciascuno di quei generi di cause relativamente all' ultimo termine della sua azione in basso, e viceversa relativamente al suo primo principio in alto: distribuendosi in una serie dalla prima causa sino all' ultima. Consideriamo ciascuna di queste cinque cause, la materia, la forma, la privazione, la causa motrice e la finale sotto il primo aspetto, in quanto concorre in diverso modo a mettere in essere l' effetto. La materia , secondo Aristotele, non è mai priva della forma (2), ma esiste con questa formando l' ente singolare (3). Ora poichè questi sono diversi (4), perciò, secondo Aristotele, ci devon essere altrettante materie diverse che li moltiplicano. E poichè gli enti reali, oltre dividersi in individui, si classificano secondo le specie e i generi, così anche le materie (5). Le materie della stessa specie producono gli individui (è ciò che gli Scolastici chiamarono principio dell' individuazione), le materie di varia specie o genere appartengono ad individui di varia specie e genere. Così la materia degli astri è specificamente o genericamente diversa, secondo Aristotele, da quella, di cui si compone il mondo sublunare (1). Questa dottrina d' Aristotele intorno alla materia, non regge alla prova; poichè se le materie si distinguono tra di loro, hanno delle differenze, qualunque sieno: se hanno differenze, hanno delle forme, onde non trattasi più d' una materia prima, d' una pura potenza, che come tale, è indifferente a tutto. Se poi le materie si dividono anche specificamente o genericamente, partecipano dunque di forme specifiche e generiche. Aristotele dunque non giunse al concetto d' una prima materia e d' una pura potenza; ma il suo pensiero si fermò ad una materia non del tutto, ma solo in parte informata, e così potè trovare molteplice la materia. Se questa non fosse in parte informata non potrebbe avere il numero, che già è forma. Si fermò ad una potenzialità determinata a una certa classe di forme; ma questa determinazione della potenza è ella stessa una forma (2), quantunque non ultimata. Se la materia, secondo Aristotele, non può esistere nè concepirsi, senza la specie, e si parla di lei per via d' astrazione; della specie non osa dire il medesimo. In fatti riconosce una essenza immobile che appunto per questo dee essere pura specie secondo il suo principio; [...OMISSIS...] . E però anche alla sola specie dà la denominazione di «usia» (3) e di «to ti en einai» (4) come alla sostanza composta, denominazioni che nega interamente alla materia. Ma le forme degli enti singolari e composti non esistono se non in questi (5), e si classificano in dieci supremi generi che sono le categorie. Ci hanno dunque due generi di specie , secondo Aristotele: 1 Quelle che possono sussistere da sè stesse anche senza materia come il motore immobile e la mente; 2 Quelle che non possono sussistere che nella materia, come le specie di tutte le cose sensibili, sieno celesti o sublunari. Esamineremo forse in appresso qual sorta di purità Aristotele accordi al primo genere di queste specie, e se possano anche esse o no mescolarsi colla materia. Le categorie poi sono i generi formali che abbracciano le une e le altre; per esempio: sotto il genere di sostanza si comprendono tutte le sostanze singolari, siano pure forme o composte di materia e di forma. Poichè le categorie hanno per base della classificazione la nostra maniera di concepire per via di predicazione, sono una classificazione di predicati generalissimi; laddove la classificazione delle specie in pure e composte ha per sua base la natura delle forme stesse, è una classificazione di subietti . Venendo alle cause motrici e considerandole rispetto all' effetto che producono, queste si dividono da Aristotele primieramente in due: una causa interna alle cose che chiama natura , e una causa esterna che chiama arte (1). A queste ne aggiunge due altre, il caso e la fortuna , che nascono dalla privazione delle due prime, [...OMISSIS...] , e però presuppongono le due prime (3). Poichè quando la natura fallisce a produrre il suo effetto ordinario, si dice caso ; e quando all' uomo fuori della sua intenzione e aspettazione incontra per accidente qualche cosa, dicesi fortuna (1). Ma queste sono piuttosto cause rispetto al concepire dell' uomo che non conosce tutte le leggi della natura, che non vere cause. Quando poi l' uomo, volendo fare una cosa gliene riesce un' altra, il che dicesi fortuna, è caso anche questo, perchè è la natura che produsse quell' effetto inaspettato in vece dell' arte, onde il caso è un concetto più esteso della fortuna. La natura è dunque considerata da Aristotele come una causa motrice insita nelle sostanze composte di materia e di specie. Dalla materia in tal caso deve venire la forza del movimento, dalla forma la direzione del movimento: onde attribuisce il principio movente che dicesi natura , non meno alla materia ed alla forma che al composto. « « In un modo così si dice natura la prima subietta materia di ciascuna di quelle cose, che hanno in sè il principio del moto e della mutazione: in un altro modo la stessa forma e specie » »: ma questo per astrazione in quanto colla mente si considera la specie come altra cosa separata dalla materia (2). [...OMISSIS...] . Da questo apparisce, che i due principŒ d' ogni mutazione, la natura e l' arte , non sono entità diverse, secondo Aristotele, dai due elementi materia e specie , di cui risulta il mondo, ma sono virtù efficaci inerenti ai medesimi nell' ente composto (natura), e che oltracciò vi sono forme pure di materia, che danno origine all' arte , la quale è una causa fuori del composto (4). Del pari, la causa finale non differisce dalla forma . [...OMISSIS...] . La natura dunque, cioè il principio interno movente d' un ente naturale composto di materia e di forma, si muove verso un' altra forma ; e se niente osta, sempre verso la forma stessa: se non la consegue, dicesi caso . [...OMISSIS...] . Se poi c' è qualche impedimento, allora dicesi avvenire l' effetto per caso o per fortuna. E Aristotele per assegnare un fine agli agenti naturali dice non esser necessario che il movente deliberi, chè anzi l' arte stessa non delibera, operando abitualmente (1): [...OMISSIS...] . E veramente essendo il fine la forma , e questa, secondo Aristotele, essendo la medesima nell' arte e nella natura , nell' arte, cioè nella mente, separata dalla materia, nella natura unita colla materia, ma tuttavia dello stesso genere l' una e l' altra, conviene che tanto la natura quanto l' arte operino ugualmente pel fine. Dove si vede la profonda differenza, che passa da questa dottrina a quella di Platone; poichè questi nella natura sensibile non ammetteva la forma, ma la similitudine della forma riservata alla sola mente. Onde veniva la conseguenza che la natura sensibile non si poteva spiegare senza la mente , che le desse l' ordine e il fine, e a questo la dirigesse. Nel sistema d' Aristotele all' incontro la natura fa da sè, avendo la stessa forma in se stessa. Che la forma nella mente e ne' reali sia presa da Aristotele per la medesima, è chiaro da queste sue parole: [...OMISSIS...] (1). Il qual discorso nulla varrebbe o sarebbe sofistico, se la sanità e la casa senza materia non fossero identiche di numero colla sanità e colla casa reale e materiata. E veramente se fossero numericamente diverse, di maniera che ci fossero due forme, la reale e l' ideale (come in cert' altri luoghi sembra che dica Aristotele), s' incapperebbe nel sofisma del terzo uomo , di cui lo stesso Aristotele accusa ingiustamente Platone (2). Poichè se ci sono due specie della casa, devono aver qualche cosa di comune, e però ce n' abbisogna una terza che rappresenti la similitudine loro: e potendosi su questa fare lo stesso ragionamento che sulle due prime, si va all' infinito, nè si troverebbe mai l' ultima specie. Il che s' evita nel sistema di Platone, in cui la specie è una sola, e ne' sensibili c' è soltanto l' imitazione, la quale nella mente di chi conosce s' aduna insieme colla specie, su cui è stata esemplata. Onde la similitudine, che ha il sensibile colla specie, è la specie stessa imitata: di che anche a noi venne detto, che le idee sono la stessa similitudine (3). S' evita il sofisma del terzo uomo anche facendo, che la stessa numerica specie sia nella mente e nelle cose; ma questo sistema, nel quale ricaddero spesso i filosofi, tra i quali il fondatore della scuola tedesca (1), e appresso di noi il Gioberti conduce ad altri e gravissimi inconvenienti. Aristotele ad ogni modo prese questa via non giungendo a discernere la vera distinzione tra la specie , che solo alla mente appartiene, e il reale, come apparisce dal luogo citato, e come è necessario che sia, se deve mantenersi il suo ragionamento. Perocchè questo tende a dimostrare, che la natura ha in sè una virtù d' operare da sè convenevolmente ed ordinatamente, senza bisogno di ricorrere ad una mente che sia fuori di lei (bastando un primo Motore) per questo appunto che ha in sè la specie , come opera appunto l' arte, perchè ha la specie , sebben quella congiunta colla materia, e questa da ogni materia disgiunta. Alla materia dunque congiunta colla specie nell' ente composto, che è la sostanza perfetta, è inerente un principio di moto che tende a passare o a far passare un altro ente da una forma all' altra; quello che move, è il principio motore (natura), ossia la causa efficiente ; quella a cui arriva, è il fine ossia la causa finale . Aristotele dunque prende a spiegare l' operare della natura così. Alcune cose, dice, sono determinate dalla necessità , e la ragione di questa necessità è la materia (2); altre si fanno per un fine e la ragione dell' operare con un fine utile e buono è la forma o specie. Quando poi la natura pecca o se n' hanno effetti insoliti, questi s' attribuiscono al caso . Poichè l' operare secondo la forma può peccare, cioè non ottenere il fine, secondo Aristotele: e come la forma è nella natura ed è nell' arte , così si danno ugualmente peccati di natura e peccati di arte (3). La natura dunque, benchè legata in parte alla necessità che le impone la materia, ha in sè tutto ciò che le bisogna per operare ad un fine, il che Aristotele crede di dimostrare a questo modo: [...OMISSIS...] . Avendo dunque dato la forma alle cose materiali e sensibili e la medesima anche alla mente, trova Aristotele un problema importante, quello di rendere ragione perchè « « le cose naturali non abbiano intelligenza, e l' abbia l' anima » » (2), e risponde, che nella natura la materia è quella che acceca, per così dire, la forma, e le toglie l' intelligibilità, e di conseguenza al subietto che la possiede, l' intelligenza. Sono da osservare nel passo citato quelle parole: [...OMISSIS...] , poichè in questo sta il nerbo del suo discorso, su cui torna spesso in altri luoghi (3): suppone che le cause remote e prossime nella natura sieno già incatenate da sè, come sarebbero se fossero poste dall' arte . Onde deduce, che non è necessario preporre quest' ultima alla natura (4), e di conseguente non è vero quello che volea Platone, che fossero necessarie le idee, per ispiegare la natura ed il suo operare sapiente, e la sua tendenza a fini migliori. [...OMISSIS...] (1). Ma l' argomento di Aristotele pecca di circolo. Poichè si riduce a questo: « le forze della natura sono connesse e concatenate per modo che conducono un ente da uno stato o da una natura all' altra per una serie di azioni ed effetti di queste, e quindi di gradi determinati. Questa serie rimane la stessa, tanto se la prima forza riceve l' impulso da una mente, che vedendo tutta quella serie di cause e di effetti dà quell' impulso col fine d' ottenere l' ultimo effetto; quanto se quell' impulso è dato dalla natura stessa, dal caso, da una causa cieca insomma, che non delibera e non conosce il fine: questo fine s' ottiene dunque egualmente e nello stesso modo. Non è dunque necessario ricorrere ad una mente e ad un' arte precedente, perchè le forze e l' ordine loro esistono indipendenti dalla mente e dall' arte che si supponga dare ad esse, con un fine preveduto, l' impulso ». Dico che quest' argomento pecca di circolo, perchè considera l' arte o la mente unicamente come causa motrice e suppone che la natura esista da sè, così fatta come noi la vediamo, e che quando produce qualche cosa, non abbia bisogno d' altro che di un primo impulso. Ma è appunto questa la questione platonica: « se la mente eterna ossia il bene sia puramente un principio motore , e non anzi sia causa piena della natura stessa, e vero creatore ». S' egli è dunque vero, come sostiene Platone, che l' universo non esistesse, ma Iddio mosso dalla sola sua bontà l' abbia prodotto, egli accingendosi a quest' opera doveva indubitatamente concepire prima, secondo le regole d' un' assoluta sapienza, l' opera a cui volea por mano, e questo è l' Esemplare eterno composto tutto d' idee, conforme al quale ogni cosa fu fatta e si fa di continuo. In tale supposizione adunque le idee esemplari sono tutt' altro che « vaniloquii e poetiche metafore »: sono anzi sì alte cose a cui il volo d' Aristotele non pervenne. Ma di questo meglio in appresso. Ora veniamo al secondo aspetto in cui dicemmo (1) considerate da Aristotele le sue quattro o sei cause, cioè nel loro ordine, dalla più prossima all' effetto all' ultima più remota, ed è su questo che ci dobbiamo estendere. Tutte queste cause, come vedemmo, si riducono finalmente alle due elementari, materia e specie , perchè la causa motrice è inerente nel composto alla materia e alla specie, e dicesi natura , alla specie separata dalla materia, e dicesi arte . La privazione (2) poi nella natura e nell' arte dicesi caso e fortuna . Essendo dunque tutto per Aristotele materia e forma (subietto e predicato nell' ordine dialettico), quello che si dice dell' ultima materia e dell' ultima specie, vale anche per le ultime delle altre cause. Dice dunque che sussiste in natura il composto di materia e di specie , e che l' ultima materia, come l' ultima forma [...OMISSIS...] non sono prodotte (3). Dagli argomenti che adopera Aristotele a provare questa proposizione si potrà rilevare meglio che cosa intenda per materia ultima ed estrema. Egli argomenta dall' osservazione di ciò che nasce nei cangiamenti naturali: poichè il pensiero del nostro filosofo è così legato alla natura sensibile, che non può concepire un operare diverso da quello che cade sotto la sua esperienza, onde il suo ragionamento ha sempre come supposto il pregiudizio che « le leggi dell' operare naturale siano universali e assolutamente ontologiche ». Osserva dunque, che ogni cangiamento suppone tre cose: 1 il subietto del cangiamento, la materia [...OMISSIS...] ; 2 la causa movente [...OMISSIS...] ; 3 il fine o specie a cui tende il moto [...OMISSIS...] . Da questo deduce che il cangiamento suppone sempre il composto di materia e di forma, e che è sempre il composto quello che si cangia in un altro composto. Poichè se ciò che si cangia o diviene, non fosse il composto, ma ciascuno de' suoi elementi, cioè la materia a parte e la forma a parte, s' andrebbe all' infinito, poichè nella materia, o nella forma si dovrebbero di nuovo trovare quei tre elementi e condizioni necessarie del cangiamento, cioè si dovrebbe di nuovo distinguere in ciascuna di esse: 1 una materia subietto; 2 una forma termine del moto; 3 una causa movente; e in ciascuno di questi ugualmente. Convien dunque fermarsi a quella materia e a quella forma che costituisce da prima il composto, e in quest' unione soltanto rinvenire il cangiamento. Si produce, dunque, per esempio « la sfera di bronzo », ma non si produce a parte il bronzo, la materia, e a parte la sfera, la forma (1). Così avviene in fatti in tutti i cangiamenti e le produzioni della natura; e certo nella natura non si produce mai la forma in separato dalla materia, nè la materia in separato dalla forma: questo lo sapeva anche Platone, nè è prova d' ingegno maggiore averlo osservato. Laonde la conclusione che ne vuole cavare Aristotele contro le idee di Platone, non coglie punto questa sublime dottrina: [...OMISSIS...] . Vuole insomma Aristotele che tanto la causa efficiente , quanto la causa della cognizione delle cose reali sieno nelle stesse cose reali, perchè dice, se ci fossero specie fuori delle cose reali, queste nè potrebbero produrre o informare le cose reali, nè potrebbero farle conoscere (3), perchè sarebbero da esse dissociate, e cosa al tutto diversa da esse. Quindi spiega la produzione collocando un principio produttivo nelle cose reali, che produce non la materia sola, o la forma sola, ma altre cose reali composte di materia e di forma, e lo chiama natura , e spiega la cognizione delle cose collocando del pari in queste un principio conoscibile , cioè la forma, conoscibile cioè tostochè sia ricevuto in un' anima che sia atta a riceverlo scevro dalla materia. Dove osserveremo, di passaggio, aversi qui una nuova prova, che Aristotele ragiona come se la forma , che è nelle cose sensibili, fosse la stessa identica di numero con quella che, ricevuta nella mente, dicesi idea (a differenza di Platone che, ne' sensibili, non riconosce che un' effigie dell' idea) reputando che se fosse diversa e fuori di esse, non potrebbe far conoscere le cose stesse sensibili (4). In questa conclusione dunque e in tutta questa dottrina ontologica giace sempre nel fondo lo stesso vizio di circolo. Si suppone cioè quello che si vuol provare, che il mondo sia eterno, un' eterna successione di generazioni e corruzioni. Questo è quello che si deve provare. In quella vece, Aristotele lo suppone. Supposto questo, è chiaro che la maniera colla quale gli enti reali si cangiano e trasformano è l' unica maniera di produzione che ci sia nell' universalità delle cose. Se questa è l' unica maniera, dunque la forma e la materia stanno sempre unite, e così unite e formanti le sostanze composte, si vanno insieme permutando. Non è dunque più possibile che la forma o la specie abbia preesistito alla materia, e sia concorsa alla produzione del mondo. Non ci sono dunque le idee separate di Platone. Il mondo dunque è eterno e non creato da Dio, come vuole Platone: dunque di separato dalla natura non ci può essere una causa efficiente , ma solo una causa motrice che eternamente il mova. Legato dunque ai sensi e all' esperienza materiale, Aristotele suppose gratuitamente che stesse tutto qui, e che bastasse osservare come son fatti gli enti specialmente sensibili e materiali, per foggiare su di essi e sul loro operare una perfetta ontologia : le leggi dell' ente reale e finito divennero dunque nel pensiero di Aristotele, con un salto immenso, leggi dell' essere in tutta la sua estensione. Ma Platone non gli accorda il supposto, e così il sistema Aristotelico rimane senza alcuna solida base. Prima però di notarne più particolarmente i difetti, conviene che ne ultimiamo l' esposizione, accompagnandolo degli argomenti, dei quali Aristotele lo munisce e fiancheggia. Aristotele osserva, che « « tutto ciò che si produce, si produce di qualche cosa e da qualche cosa, ed è di specie il medesimo » » col producente (1): dal che deduce che il composto di materia e di forma produce altri composti della stessa specie, come l' uomo genera l' uomo. Deduce ancora che quella specie, che non si trova per anco in ciò che è in via di prodursi, deve preesistere nel producente (1). In questa sfera di cose naturali Aristotele non riconosce che una perpetua trasmutazione d' un composto in un altro della stessa specie, senza che mai sia possibile rinvenire l' origine del composto stesso, l' origine dico della materia, o l' origine della forma separata dalla materia. Questa specie è inseparabile dalla materia che informa, ma si separa di ragione, [...OMISSIS...] ; e però esiste nella mente pura da materia. Questo gli fa la via a riconoscere e spiegare un altro genere di produzioni, quelle dell' arte , a cui riduce quelle che vengono da una potenza d' operare e dal pensiero, [...OMISSIS...] . Chiama geniture , [...OMISSIS...] , le produzioni naturali, l' altre fatture, [...OMISSIS...] . Le produzioni dell' arte, dice, sono quelle « « di cui la specie è nell' anima » ». [...OMISSIS...] (5). L' anima che vuol produrre un effetto, per esempio la salute, trascorre col pensiero la serie dei mezzi fino che arriva ad uno, che è in suo potere di produrre, per esempio la frizione per produrre il calore. Allora colla sua potenza d' operare produce questo mezzo, il quale per una serie di effetti produce quello che cercava, la sanità, fine che era presente all' anima sin da principio. Il movimento dunque dell' anima, che dalla prima specie perviene a trovare l' ultima, la specie cioè di quel mezzo che è in suo potere di produrre, dicesi, secondo Aristotele, [...OMISSIS...] , e risponde a ciò che prima aveva detto [...OMISSIS...] : l' operazione poi che comincia da quest' ultima specie, producendo effettivamente il detto mezzo, dicesi [...OMISSIS...] , e corrisponde a quello che prima aveva detto [...OMISSIS...] (6). Da questo deduce che quantunque la sanità che vuol produrre coll' arte, sia nell' anima, sia cioè la stessa specie finale dell' anima (1), tuttavia essa sola non è la causa efficiente della sanità; produce solo il movimento del pensiero, [...OMISSIS...] , trova la specie ultima a cui si rattacca l' azione, per esempio la frizione; allora eseguendosi questa, comincia la vera produzione della sanità, [...OMISSIS...] . Ora se questa causa, cioè la frizione, fosse posta anche dalla natura o dal caso, s' avrebbe ugualmente la sanità, benchè non ci fosse la specie pura nella mente. Di più, quando trovata dalla mente l' ultima specie, la frizione nell' esempio addotto, questa si produce e con questa la sanità, non si produce la sola specie, ma la specie nella materia, cioè nell' uomo: la specie dunque non si genera sola, ma si genera il composto di specie e di materia. L' arte sola dunque nulla produce, ma abbisogna di materia. Ma basta forse la materia, per modo che a questa sovrapponga la specie, senza che quella non l' abbia in nessun modo? No, perchè se la frizione nel corpo umano produce il calore, e questo la specie della sanità, convien dire che questa specie era già in potenza nella materia, nè la materia era svestita al tutto di specie, ma n' avea una; e quel composto, prodotto il primo moto, la frizione, si trasmutava, per diverse trasformazioni, in modo da acquistar l' ultima, cioè la sanità. Dunque le specie non si producono sole; nè separate dalla materia, quali sono nella mente, sono cause efficienti delle cose di cui il mondo sensibile risulta (2). Stabilisce dunque Aristotele questa dottrina: « ciò che si trasmuta è sempre il composto de' due elementi, la materia e la specie ». Ma il primo movimento di questa trasmutazione può venire da tre principŒ; cioè o dal composto stesso, o dall' uno, o dall' altro de' due suoi elementi. Se il primo movimento viene dal composto, si hanno le produzioni della natura; se viene dall' elemento della specie sola, si hanno le produzioni dell' arte; se viene dall' elemento della materia, si hanno le produzioni del caso (1). [...OMISSIS...] . Tale è il sistema aristotelico. Ma di quante difficoltà non è egli circondato? - Molte n' abbiamo indicate: affrettiamoci ad esporre quelle che ci restano, e a rinforzare di nuovi ragionamenti quelle che sono già state sottoposte alla meditazione del lettore.

Epistolario ascetico Vol.III

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Questa certezza ci abbellirà e spargerà di fiori e di viole, e di gigli, tutte le nostre occupazioni, le quali per se stesse ci fossero pure ingrate, ma specialmente quelle che noi facciamo per amor di Dio e per amor del prossimo; e così aggiungerà vita alla nostra vita, e come noi dell' Istituto ci proponiamo di fare tutto per questi amori, tutto altresì ci ritornerà abbellito, e infiorato, e illuminato dal brillantissimo lume della vera vita. Coraggio adunque, mio carissimo, all' opera, all' opera! vincendo noi stessi, vinceremo i nostri nemici che ci vogliono offuscare quel cielo sereno, sotto cui dobbiamo e possiamo vivere, in cui astro fulgidissimo è il sole della giustizia, che « exultavit ut gigas ad currendam viam ». La carità, la pazienza, il compatimento, la fede, ma sopra tutto l' orazione, una tenera e perseverante orazione, ci arrecherà quella luce di cui abbisognamo per intendere praticamente tutto quello che ho scritto in questa lettera, traendola dalle divine carte, e ci confermerà in quei santi propositi, a cui l' uomo non può venire meno se non si abbandona alle tenebre della carne, e del sangue, e del demonio. Perocchè queste sole sono quelle cose che distolgono l' uomo dalla virtù e dalla giustizia, non mai alcuna ragione, alcuna intelligenza, alcuna virtù. Spero nel Signore, che quando verrò costì, vedrò la vostra faccia serena e lieta: così spero nel Signore, così ne lo prego. Ci consoleremo a vicenda, abbiamo entrambi delle afflizioni, abbiamo entrambi delle consolazioni, accomuneremo insieme le une e le altre, e faremo, o piuttosto Iddio farà in modo che prevarranno le seconde alle prime. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.50 Ho sempre apprezzato altamente le scritture di V. S. chiarissima, e appena saputo che l' annunziato suo libro era uscito alla luce, avea data commissione che mi fosse provveduto. Ed ecco che ora lo ricevo, doppiamente caro, dalla sua gentilezza, accompagnato da una cortese lettera. E` appunto uno di que' libri, ove si tratta di quegli argomenti nei quali sono consegnati i semi, così scarsi tutt' altrove, delle speranze che ci rimangono. Gli educatori e le educatrici, che io in qualche modo dirigo, e che già si giovarono della « Guida dell' educatore », profitteranno anche del nuovo ordine e della nuova perfezione ch' Ella aggiunse alle dottrine pedagogiche, colla gratitudine dovuta a chi, con tanto senno, lucidezza ed amore, porge così utili documenti e validi conforti alla laboriosa e difficile vocazione. Io ne ringrazio V. S. anche a loro nome. Ma con questo solo non mi parrebbe di averle significata compiutamente la mia gratitudine e la stima grande che ho sempre avuta della sua persona: un segno più certo Le sia dunque il pensiero che oso soggiungerle. Io sono persuaso che l' uomo (e molto più la società) non possa raccogliere nè anco in questa vita tutto il bene che la Provvidenza ha disposto per lui, se non a condizione, che egli, come a termine fisso, volga tutta la sua attività a' suoi eterni destini. Non trovo un altro punto d' appoggio così fermo che mai non ceda, dove puntar la leva per movere, in qualunque circostanza, l' uomo alla virtù, se non quello che è fuori di questa terra, un bene eterno. E` un sentimento intimo al cristianesimo espresso in quelle parole del Salvatore: « « Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno aggiunte » ». E mi sembra, che questo sia appunto quel più alto ordine di cose, ch' Ella m' accenna nella sua lettera « aver procurato d' insinuare negli animi senza che paia ». Rendendo piena giustizia alle sue intenzioni, mi si offriva qui all' animo spontanea la domanda; se non sarebbe naturale, non sarebbe almeno conveniente, che apparisse in tutta la luce, quel principio che dee pur reggere tutto l' uomo in ogni suo fatto, e al quale tutti gli altri principii vogliono essere subordinati, dal quale sono corroborati e santificati. Il rifiuto o l' indifferenza che ne mostra il mondo, potrebbe forse essere una ragione di più per insistervi. Ecco quanto affido alla sua saviezza ed alla sua benevolenza. Il grave argomento che Ella tratta sotto il titolo: « Ragionevolezza dell' uso delle punizioni »mi pare che dovrebbe ricevere delle importanti modificazioni, considerato in quell' ordine più sublime. Mi è non poco doluto che il mio celere passaggio da Firenze m' abbia privato del vantaggio di riveder Lei, e di conoscere di persona l' egregio Gino Capponi di cui ho tanta venerazione; e ben mi desidero, ma non ispero così presto, qualche altra fortunata occasione. [...OMISSIS...] 1.50 Duolmi di sentire dalla cara vostra del 26 corrente i difetti di alcuni nostri fratelli. Io voglio darvi alcune regole per arrivare a toglierli, se si può, e quando usati tutti i mezzi che sono in nostro potere, non si riesca, per licenziare dall' Istituto gli inosservanti. Le regole sono queste: 1 Il Superiore deve dimostrare una ferma volontà che tutte le regole sieno osservate. Se i fratelli sieno una volta ben persuasi che il Superiore vuole , state certo che non si prenderanno facilmente certe libertà; 2 Il Superiore deve dimostrare questa ferma volontà in un modo coerente, in maniera che da tutte le sue parole e da tutti i suoi atti chiaramente risulti, senza che sia mai trovato in contraddizione per ragione di parzialità o di fiacchezza; 3 Questa ferma volontà deve essere dimostrata con tutta la dolcezza, e l' amabilità di modi, e le dimostrazioni d' affetto; ma quella dolcezza deve cadere sul modo e non sulla cosa : deve stabilire la fermezza della volontà, non distruggerla; 4 Deve ancora questa fermezza essere dimostrata colle più chiare ed esplicite parole, senz' alcun timore o riserbatezza, cioè non conviene dire le cose a mezzo nè oscuramente, ma precise e bene determinate, e vale anche qui il proverbio: patti chiari e amicizia lunga ; 5 Il Superiore nel dimostrare questa fermezza di volontà in esigere l' osservanza e l' obbedienza, non deve escludere la discrezione , che consiste nel dispensare nei casi particolari da qualche regola, quando o il bisogno della salute, o altra buona ragione lo esiga; 6 Conviene che il Superiore parli aperto e senza riguardi, ma nello stesso tempo con mente fredda , protestando di non voler altro che il bene e l' emendazione; 7 Il Superiore non deve risparmiare le correzioni e le penitenze; ma deve prima ben accertarsi del fatto e prendere notizia delle circostanze. Deve ascoltare a testa fredda le giustificazioni, e se conoscesse d' aver preso uno sbaglio, deve tosto cedere, dando prove che lo moveva il solo zelo del bene e l' amore della giustizia. Deve anche distinguere i falli che traggono seco rilassatezza e conseguenze funeste, da altri falli accidentali e materiali, e rispetto ai primi deve essere inesorabile. Deve graduare la forza della riprensione e della penitenza, e, se non c' è emendazione, deve dichiarare al fratello francamente che va a scrivere al Provinciale e successivamente al Generale; i quali indubbiamente lo sosterranno a qualunque costo, anche a costo di licenziare il fratello dall' Istituto, se sarà necessario; . Se nelle correzioni il Superiore deve conservare al maggior segno la testa fredda, e dichiarare in un modo esplicito la sua volontà senza parole inutili che dicano di più di quello che esige il caso, le quali dimostrano qualche irritazione o riscaldo; in tutto il resto del tempo il Superiore deve dimostrare la più grande amabilità, famigliarità e umiltà, usando spesso qualche attenzione e graziosità a' suoi sudditi, specialmente a quelli che sono stati corretti, e si sono emendati, od hanno promesso emendazione. Già s' intende che questi atti gentili non debbono essere tali da rilasciare per nulla l' osservanza delle Regole, il che sarebbe contro il fine; 9 Finalmente il Superiore deve prestare aiuto e sostegno ai fratelli nell' esecuzione delle loro incombenze ed officii. Facciamoci dunque coraggio, o mio carissimo, e se siamo uomini, pensiamo che abbiamo vicino Iddio che aiuta sempre colla sua onnipotenza quelli che confidano in lui, e che operano per lui. 1.50 Quello che mi dite nella cara vostra è tutto vero. Un giovane che deve fare il Superiore ha pur troppo delle grandi difficoltà da superare, ed è solo con un grande aiuto ottenuto da Dio coll' orazione, con un' assidua vigilanza sopra se stesso, su tutti i suoi atti e su tutte le sue parole, ch' egli riuscirà in un tale e tanto ufficio. Nello stesso tempo questa prova gli riuscirà infinitamente utile per emendare e formare se stesso, se con grande spirito di Dio e con grande impegno la intraprende. I due perni del suo reggimento debbono essere: 1 disciplina ; 2 dolcezza. Disciplina , non lasciandosi per debolezza o per alcuna leggerezza rimuovere dal proposito di mantenere e far mantenere la perfetta osservanza in tutte le cose importanti, usando qualche volta nelle meno importanti la debita discrezione. Dolcezza , non potendo egli per la sua età far uso di molta autorità e rigore, e dovendo pure ottenere il fine assolutamente necessario della religiosa disciplina; la dolcezza, la persuasione, la ragionevolezza, l' affabilità de' modi, ma ferma ed irremovibile, è quell' arma a cui deve di continuo por mano, ed è un' arma così potente che può ottener con essa le più belle vittorie. Ma quando fosse necessario, avrà poi un' altra arma, quella di ricorrere ai Superiori maggiori, dando loro imparziali e chiarissime relazioni de' casi, ne' quali debbono intervenire per sostenerlo. Questo vi scrivo per incoraggiarvi, e perchè tali documenti vi saranno sempre utili. V' abbraccio intanto teneramente, e abbraccio con voi tutti cotesti carissimi, a cui prego dal Signore grazie e virtù da conoscere ed amare quanto sia bella e gradita a Dio l' opera della carità che esercitano. [...OMISSIS...] 1.50 Con una veneratissima sua lettera del 20 maggio p. p. Vostra Eminenza mi manifestava, come l' animo del Santo Padre non era punto cangiato in verso l' umile mia persona: « e come il desiderio di darmene una pubblica testimonianza si manteneva egualmente vivo: in prova di che per ben due volte Le aveva ordinato di scrivermi su questo proposito per manifestarmi questa sua disposizione, ed insieme farmi conoscere che manderebbe con tanto maggior compiacimento ad effetto le intenzioni già manifestate sulla mia persona, facendo io precedere qualche spiegazione declaratoria di quelle proposizioni, di cui hanno abusato gli avversari per sollevarmi contro la censura ». Grato a tali sentimenti dell' augusto Pontefice, nella mia risposta in data 30 maggio p. p. io esprimevo la profonda mia riconoscenza verso Sua Santità, e poi, rammentando i diversi atti co' quali avevo procurato di soddisfare al volere della Sua Santità medesima per quanto aveva potuto conoscerlo, dichiaravo di esser pronto a fare con egual docilità quanto per mezzo di Lei mi si richiedeva di nuovo: al qual fine pregavo Vostra Em.za d' indicarmi le proposizioni bisognose di quelle spiegazioni declaratorie che il Santo Padre desiderava. Non ricevendo pel corso di più mesi alcuna risposta, e dubitando che la mia lettera si fosse smarrita, ne ho replicata un' altra in data del 5 agosto p. p., raccomandandola a persona sicura; e in risposta a questa ieri ho ricevuta la veneratissima sua del 2. agosto, nella quale, senza far più menzione delle spiegazioni declaratorie, di cui già aveva espresso desiderio il Santo Padre, invece Ella mi dice che: « il desiderio esternatole da Sua Santità sarebbe, che io scrivessi un' operetta in opposizione a quella intitolata « Delle Cinque Piaghe » »: e di più mi aggiunge che: « questo passo dovrebbe, a senso dei discorsi di Sua Santità, appianarmi la via all' esecuzione di quei disegni, sui quali si era già aperto con me ». Eminenza, io non posso che ripetere quello che più volte ho detto, cioè: Che la mia maggior gloria e felicità è sempre stata e sarà sempre, Iddio così aiutandomi, nell' essere figlio divoto e ubbidiente alla Chiesa Romana, madre e Maestra di tutte le Chiese; Che in ubbidienza alla detta Chiesa io sono pronto a fare qualunque dichiarazione, correzione o ritrattazione che mi fosse richiesta dal Santo Padre; Che per fare alcuna delle dette cose, io ho bisogno che mi venga indicato quali siano in particolare le proposizioni, che richiedono spiegazione, correzione o ritrattazione: senza di che mi riesce egualmente impossibile il fare un' operetta in opposizione al noto libro. Onde non mi resta che tornare a supplicare, perchè mi si comunichi quello che in particolare io debba emendare, correggere o ritrattare. In quanto poi a quello che Vostra Eminenza soggiunge che « questo passo dovrebbe, a senso dei discorsi di Sua Santità, appianarmi la via all' esecuzione di quei disegni, sui quali si era già aperto con me », Eminentissimo Principe, io non ho mai scritto una linea, nè ho mai fatto un passo per appianarmi la via al Cardinalato. Io considero quest' onore come un peso spaventoso, non da desiderarsi ma da fuggirsi. Se l' avessi bramato assai probabilmente sarei già prima d' ora Cardinale: già fino dal 1.23 il Papa voleva nominarmi Uditore di Rota, e la persona che a nome del Papa me ne fece l' invito, mi assicurava che sarei stato ben presto Decano e poi Cardinale. Io non accettai nè questo invito nè altri posteriori. Fu la Santità di Pio IX che (essendo già pubblicate le due note operette) mosso dalla bontà del suo cuore, spontaneamente mi manifestò il suo fermo volere di elevarmi nel prossimo Concistoro ad una tal dignità. Io feci quello che potevo per declinare un tanto onore; ma obbligato ad accettarlo per ingiunzione di chi mi poteva comandare, io abbassai il capo e l' accettai. Non per lusinga della mia ambizione, come ora dicono i miei nemici, ma sulla parola del Papa io mi sottomisi alla gravissima spesa per fornirmi delle cose necessarie. Quelle carrozze ed altri oggetti, che ora sono in Roma, e che già mi rendono la favola del pubblico, non gli ho venduti sinora per rispetto alla parola del Sommo Pontefice. Ora però io mi sottometto con vero gaudio di spirito alla diversa disposizione che di me ha fatto la Provvidenza, e in breve darò gli ordini opportuni perchè sia venduta ogni cosa: non lasciando per questo di rimanere fermo e inalterabile il mio sincero attaccamento e la piena mia sommissione alla santa Sede Apostolica e al Sommo Pastore della Chiesa. Vostra Em.za in fine alla sua lettera mi domanda un esemplare di quello che ho scritto sulla legge Siccardi: mi duole di non poterla servire, perchè non ne ho. Ma sarà facile che costì Ella trovi il giornale di Torino intitolato l' « Armonia », dove furono appunto inseriti i quattro articoli che scrissi su quell' argomento. [...OMISSIS...] 1.50 M' accorgo dalla informazione che mi date del vostro interno, che il vostro adorabile Signore e carissimo sposo GESU` vi ha regalata assai in questi ultimi spirituali Esercizi, specialmente dandovi lume a conoscere voi stessa e quel segreto tarlo di vanità che, quuantunque non distruggesse intieramente il merito delle vostre buone azioni, tuttavia andava purtroppo corrodendole e rubacchiando una parte di quella mercede, che ad esse è promessa. Ora, per grazia di Dio, è scoperto, convien dunque impedirlo di rodere, e, appena si sente il picchiettare de' suoi denti, picchiare e scuotere; come appunto col tarlo materiale, che, se sta foracchiando un vecchio armadio o qualche altro arnese di legno, e se n' ode il tich, tich , col picchiar l' arnese o scuotendolo, la mala bestiola ristà dal suo tristo lavoro. Così devono fare i servi di Dio, perchè il pigliare il cattivello e ammazzarlo interamente pur troppo è cosa tanto difficile che par quasi un miracolo. Tuttavia se esso si fa continuamente tacere, senza lasciarlo in pace giammai, si muore poi da se stesso, quasi di morte naturale, e allora che felicità! Non regna più nell' anima che l' amor di Dio, vi regna libero e potente in ogni parte di essa, in ogni sua facoltà, in ogni sua azione, o patisca, od agisca. Voi felice, mia cara Bonaventura di GESU`, se arrivate a questo, ed anzi felice, perchè ci arriverete sicuramente, avendo con voi il vostro sposo sempre pronto ad aiutarvi, purchè in lui fedelmente ed intieramente confidiate, in lui, in lui solo. L' aver conosciuto dunque il difetto che si nascondeva nel secreto dell' animo è già una grazia grande. Ora poi vi lamentate che vi manchi un' altra conoscenza, cioè dite di non potere ancora abbastanza conoscere quel bene che è degno di tutto l' amore; ed avete ragione, avete ragione di dire che non lo conoscete abbastanza, perchè sapreste voi che cosa ne sarebbe se lo conosceste così, come voi vorreste e come egli è? Ne sarebbe quello che S. Agostino dice di se stesso, che egli sentiva talora un tale affetto, e in questo affetto divino un tal gaudio, che se fosse cresciuto più oltre, egli certo non saprebbe dire che cosa sarebbe stato, ma questo sapea dire che non sarebbe stata certo la vita presente. Capite che vuol dir questo? Se voi conosceste abbastanza quel bene, a cui aspira, ed a cui è consecrato tutto il vostro cuore, non sareste più qui, in una parola, sareste, senz' accorgervi, in paradiso. E` dunque giusto e ragionevole che voi accusiate la vostra ignoranza in questa parte, e che, conoscendo questa vostra ignoranza che si può dir sempre infinita, non lasciate nascervi più mai alcuna vanità dal saper voi molte altre cose, che non vi tolgono quella ignoranza grandissima del vostro bene, ne sapeste anche infinite: è giusto che vi lamentiate altresì di continuo col vostro sposo, che è la sapienza eterna, perchè non vi faccia conoscere un po' più, ed anzi molto più, di sè medesimo; perchè questi affettuosi lamenti sono a lui cari, ed egli non potrà resistervi, se li farete di continuo, ma cederà coll' accordarvi una comunicazione maggiore del suo essere amabilissimo. E poi questi lamenti che altro sono, a che altro tendono, se non a spingervi fuori delle angustie e della povertà di queste cose visibili e corruttibili? Sono in fine i desiderii della morte, famigliari a tutti i Santi, cominciando da S. Paolo che diceva: « desidero di esser disciolto e di trovarmi con Cristo », e venendo a tutti gli altri. Sapevano quel che desideravano. Ma io voglio che desideriate ancora più di meritare, che di godere, perchè anche Cristo, pregando il Padre pe' suoi discepoli, disse che egli non chiedeva, che fossero tolti dal mondo, ma solo preservati dal male; voglio che desideriate di servire a Cristo nei suoi pargoli più ancora che di goder Cristo, dicendo anche voi collo stesso Apostolo: « Io desidero di essere separato (dal godimento di Cristo) per la salvezza de' miei fratelli ». Tanto più che conoscerete maggiormente Cristo, quanto maggiormente vi affaticherete a pro di quelli pe' quali egli è morto in croce, perocchè niuna via più spedita di conoscerlo che quella di esercitare la sua carità: « Dio è carità, e chi rimane nella carità, in Dio rimane e Dio in lui ». [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.50 Non vogliate attribuire la scarsezza delle mie lettere a poca carità che io abbia verso di voi, perchè il Signore sa che io vi porto nel cuore e vi offerisco a Lui ogni giorno sull' altare, ma sì attribuitelo alla scarsezza che ho di tempo, alla debolezza delle mie forze, ed al sapere che siete provvedute di un Superiore pieno di sollecitudine e di zelo per l' incremento vostro in Gesù Cristo. Non di meno, ora che ritorna a voi dal suo viaggio d' Italia questo vostro Superiore e mio fratello carissimo in Cristo, non posso a meno di accompagnarlo colla presente, sì per ringraziarvi dei doni che mi ha mandato la vostra carità, e che mi sono pegno della vostra filiale devozione, e sì per rispondere brevemente alle tre importanti questioni che mi proponete, e di cui mi domandate la soluzione. Poichè quantunque sappia che in tali argomenti potete sentire la voce di chi vi dirige immediatamente, voce piena di sapienza e di spirito di Dio, tuttavia penso che il sentire le stesse cose da me, come desiderate e chiedete, se non vi torna di maggiore istruzione, vi deve almeno tornare di consolazione e di conforto nel bene, per quell' affetto in Gesù Cristo, e quell' ubbidienza che mi prestate. La prima questione adunque da voi propostami è: Come si può usare lo spirito d' intelligenza senza mancare alla semplice e cieca ubbidienza? La quale questione, come le altre due che le vengono in appresso, dimostrano il vostro discernimento in Cristo, perchè manifestano il desiderio che avete di essere istruite nelle cose più perfette; chè appartiene alla perfezione il saper congiungere ed armonizzare nelle azioni giornaliere quelle virtù che sembrano a primo aspetto opposte, quasi che si escludessero reciprocamente. E in fatti, quantunque niuna virtù possa giammai riuscire veramente opposta ad un' altra virtù, come una verità ad un' altra verità, tuttavia l' arte di unire tra loro in amichevole società quelle virtù che presiedono a facoltà e passioni aventi una tendenza contraria, e che vanno sempre abbinate e possedute solo dall' uomo perfetto, è quella appunto a cui si deve applicare chi allo studio della perfezione si è consacrato. Nel che avviene come nella musica, che quantunque la voce del contralto, poniamo, paia oppostissima a quella del baritono e del basso, tuttavia il perito compositore di musica, trovati i loro accordi, ne fa riuscire un' unica ed aggradevole armonia. Venendo dunque alla questione, dico, che la semplice e cieca ubbidienza si può ben congiungere e compenetrare coll' esercizio dello spirito d' intelligenza, e ciò in diverse maniere. Prima maniera . Conviene considerare che lo spirito di intelligenza si esercita tanto più quanto più è alta ed universale la ragione secondo la quale noi dirigiamo le nostre operazioni; chè, operare con ispirito d' intelligenza non vuol dir altro se non operare con ragione, senza lasciarsi mai muovere o perturbare da passione alcuna. Ora la più alta e la più universale di tutte le ragioni d' operare è quella di far sempre in ogni cosa la volontà di Dio; su di che penso che abbiate veduto un mio ragionamento a stampa, e l' abbiate anche letto. Ma chi fa l' ubbidienza con semplicità e purità, egli è certo di fare la volontà di Dio, il quale ha detto di tutti i Superiori ecclesiastici: « Chi ascolta voi, ascolta me ». Questa è una ragione semplice, ma efficacissima e sublimissima, e contiene tanto bene in sè stessa, che quando ella c' è, rende superflua qualunque altra ragione inferiore; e perciò l' ubbidienza si dice cieca , non perchè sia senza lume, ma perchè ne ha tanto, che non ha più bisogno di prenderne d' altronde, come chi dicesse che sta senza lume colui, che non accende le candele perchè risplende il sole. Seconda maniera . Oltre di ciò colui che obbedisce ciecamente e semplicemente, può esercitare lo spirito d' intelligenza nel modo di eseguire quello che gli viene comandato. Possono essere due persone che eseguiscono il comando del Superiore, ma una di esse lo eseguisca senza giudizio, senz' attenzione, senza spirito, senza rifletter bene a ciò che gli è comandato, e alla vera intenzione di chi comanda, l' eseguisca, ma di mala grazia, senza persuasione, e quasi per dispetto; l' altra poi eseguisca la stessa cosa cercando prima di tutto di ben intendere la mente del Superiore, poi studiando il modo migliore di eseguirla facendo quello che fa con impegno, come se fosse un affar suo proprio, desiderando di riuscire, usando la debita circospezione, mettendovi il buon garbo, trovandovi la sua contentezza, certissima di piacere a Dio. Questa seconda ubbidisce con semplicità e ad un tempo con ispirito d' intelligenza. Non ubbidisce come una macchina che si fa muovere con qualche ingegno, ma come una persona viva e intelligente. E di vero non può il Superiore quando comanda, prescrivere tutte quelle cose che riguardano il modo d' ubbidire, ma dà il comando, poi lascia fare al suddito, e il suddito che ha più spirito d' intelligenza si conosce subito, osservando il modo che egli tiene nell' eseguire quanto gli è comandato. Terza maniera . Accade spesso che il comando stesso sia più o meno generale, e lasci molte cose al buon giudizio di chi lo riceve. In tal caso il suddito deve osservare qual sia la sfera che gli determina il comando del Superiore, e dentro quella sfera egli è obbligato dalla stessa ubbidienza ad operare da sè, non però a capriccio, ma col suo criterio, che è quanto dire con ispirito d' intelligenza. Se voi considerate, mie carissime figliuole, i vari membri di un Istituto religioso, vedrete che tutti operano per ubbidienza, se hanno spirito, foss' anche il Generale dell' Ordine, perchè anch' egli è soggetto almeno al Papa; ma tuttavia l' ubbidienza lascia un campo libero a chi più a chi meno, ai Superiori un campo maggiore, agli inferiori uno minore. Entro questo campo libero ciascuno può e deve mostrare il suo spirito d' intelligenza. Così nella vostra Casa, cominciate dalla Superiora centrale, e venite giù agli altri uffizi della Casa insino all' ultimo, vedrete che tutti questi uffizi essendo subordinati l' uno all' altro, e quindi diretti dall' ubbidienza, possono tuttavia e devono essere esercitati con ispirito di intelligenza, perchè ad ogni ufficiale è prescritto di usare lo spirito d' intelligenza entro la sfera del suo ufficio in quanto è lasciato libero alla sua discrezione. Prendete anco a considerare un ufficio di carità verso gli esterni, come sarebbe quello di maestra o d' infermiera. E` l' ubbidienza che impone quest' ufficio, epperò il merito dell' ubbidienza accompagna tutte le azioni; ma tuttavia quanto spirito di intelligenza non ci vuole ad adempirlo con perfezione? Prendete a considerare anche dei comandi particolari, troverete che la maggior parte di essi lascia qualche larghezza di libertà, dove può aver luogo lo spirito d' intelligenza. Sia comandato ad alcuna di voi di scrivere una lettera e ve ne sia anche tracciato l' argomento; non vi resta ancora molta intelligenza da esercitare nello studiare quella lettera con senno e con intelligenza? L' ubbidienza adunque non suol mai determinare tutti gli atti della persona, il che sarebbe impossibile, ma ne restano sempre molti liberi in cui l' intelligenza può e deve avervi un luogo grandissimo. Quarta maniera . Lo spirito d' intelligenza si può esercitare in altro modo, ed è col fare ai Superiori che comandano, delle rispettose osservazioni, qualora sembri che nel comando che danno vi sia qualche cosa da osservare. Ma per fare queste rispettose osservazioni con vero spirito di intelligenza, ci vogliono tre condizioni: la prima, che non procedano da alcuna passione d' amor proprio, ma dal puro zelo del bene e della gloria di Dio; la seconda, che non sieno fatte con leggerezza, dicendo ogni cosa che venga in capo o in bocca senza avervi riflesso od esaminato bene l' affare; la terza, che sieno fatte con ispirito di sommissione, di modo che se il Superiore persiste nel suo comando, il suddito non se l' abbia a male, ma eseguisca con eguale alacrità e contentezza il comando. Che se si trattasse di un negozio molto importante per la gloria di Dio, e sembrasse proprio che la cosa non andasse bene come la vorrebbe il Superiore, si può ricorrere ad un Superiore maggiore; chè, questo non è contrario alla semplicità dell' ubbidienza, ma si debbe fare anche questo colle dette tre condizioni. I Superiori hanno piacere di sentire tali ingenue osservazioni dei loro sudditi, purchè tutto si faccia con ispirito di carità e di umiltà. Che se poi dopo tutto ciò avviene che quello che si deve fare e si fa per ubbidienza, porti qualche inconveniente (che non sia però mai un peccato), chi ubbidisce non perde nulla, anzi vi guadagna, perchè quell' atto d' ubbidienza contiene una mortificazione delle più grate a Dio. Chi mortifica sè stesso per ubbidire, sia perchè nega la propria volontà, sia perchè sacrifica il suo amor proprio e sottomette la stessa sua ragione ad una ragione superiore, che è quella di Dio onde viene il comando, questi ha dato un gran passo avanti nella via della santità. E su questa quistione basti il detto fin qui. La seconda è: In qual modo si può praticamente unire lo spirito di contemplazione alla vita attiva nelle opere di carità ? L' unione della santa contemplazione coll' esercizio delle opere di carità è l' intento del nostro Istituto; epperò noi non dobbiamo essere appagati fino a che non abbiamo ottenuto da Dio il lume di congiungere in noi queste due cose. E dico che da Dio dobbiamo ottenere la virtù di annodare insieme in tutta la nostra vita la contemplazione e l' azione, perchè non c' è nessun maestro che ci possa insegnare una scienza così sublime, se non quel Gesù Cristo che in sè ne mostrò un perfettissimo esempio. Perocchè questa scienza non consiste in altro se non nell' unione intima con Gesù Cristo, in una unione la più attuata possibile. Ed Egli per sua misericordia ne ha già preparati i mezzi nella sua Chiesa, prima ancora che noi nascessimo o lo sapessimo desiderare. Quali adunque sono i mezzi per ottenere questa unione intima, e continuamente attuata con Gesù Cristo, che non ci distoglie dalle opere di esterna carità, ma che anzi vi ci sprona ed aiuta? Il primo di tutti i mezzi è l' intenzione pura e semplice di cercare Gesù Cristo solo in tutti i nostri pensieri, parole ed azioni. Questa rettitudine d' intenzione si offende di qualsiasi altro affetto che influisca nelle nostre azioni, e resta da esso poco o molto macchiata. Quindi l' intenzione di cercare in tutto il solo Gesù Cristo non è perfetta, se l' uomo non ha rinunciato intieramente all' amor proprio e ad ogni sensualità. Dissi però che quell' intenzione, che cerca in tutto Gesù Cristo solo, rimane offesa da ogni affetto che influisca nelle nostre azioni sieno interne o sieno esterne, perchè un affetto od una sensazione, che non avesse alcuna influenza sui nostri pensieri volontarii, nè sulle nostre parole, nè sulle nostre opere (nel qual caso quell' affetto o quella sensazione sarebbe interamente opposta alla nostra volontà) non diminuisce niente la purità della nostra intenzione, ma piuttosto la eserciterebbe ed acuirebbe secondo il detto di Dio a san Paolo: « che la virtù si perfeziona nella tribolazione ». Il secondo mezzo, che viene in soccorso del primo, consiste nell' eseguire tutti gli esercizii di pietà, e principalmente il ricevimento de' Ss. Sacramenti e l' assistenza al Santo Sacrificio, col maggior fervore, tenerezza, gratitudine, sincerità ed intelligenza possibile; giacchè in questi esercizii avviene la special comunicazione fra Gesù Cristo e l' anima divota. Il terzo mezzo si è quello di sforzarsi continuamente a tener vivo nel cuore l' amore di Gesù Cristo, portando sempre il divino Maestro quasi dipinto davanti agli occhi dell' anima nostra, udendo le sue parole quali sono scritte nel Vangelo, contemplando le azioni da lui fatte nel corso della sua vita mortale e nella sua preziosissima morte (cose tutte che devono essere familiari ad una persona spirituale), facendo delle applicazioni delle sue parole e de' suoi esempii a noi stessi e a tutto quello che abbiamo a operare, considerando altresì come opererebbe egli nel caso nostro, e come egli vorrebbe che noi operassimo, consultando nei casi dubbii con sincero desiderio di conoscere e di fare unicamente ciò che è più perfetto e che più gli piace, ed ascoltando con riverenza ed amore la sua voce, quando egli parla dentro di noi. Il quarto mezzo è di vedere Gesù Cristo nei prossimi coi quali parliamo o trattiamo, proponendoci nel nostro trattare o parlare coi prossimi, di esser loro utili in Gesù Cristo, e di cavare da loro anche edificazione per noi stessi. Se noi abbiamo un vivo zelo per la salute delle anime, noi faremo tutto il possibile per acquistarle ed avvicinarle a Gesù Cristo; epperò saremo nemici di tutte le parole inutili ed oziose, e parimenti delle superflue conversazioni e di ogni vana curiosità. Ma per fare che ogni nostra parola, ogni nostra operazione sia indirizzata a migliorare gli altri e noi stessi, e quindi a portar frutti di vita eterna, ci vogliono due cose: la prima e principale è, che la carità sia sempre quella che ci diriga, e poi che domandiamo a Gesù Cristo il lume della sua prudenza, il quale moltiplica i frutti della carità. Un' anima che si propone in tutto quello che fa o che dice, il bene delle anime, sì delle altrui che della propria, starà sempre raccolta anche in mezzo a molte opere esterne, perchè il suo spirito è sempre inteso alla carità, e chi pensa sempre alla carità di Gesù Cristo, e non ha altro in cuore, è sempre raccolto in Gesù Cristo ed in Dio, perchè la Scrittura dice: « Dio è la Carità ». Ma per acquistare quest' abito ed ottenere che questi quattro mezzi fruttino un raccoglimento costante dello spirito, anche in mezzo alle esterne occupazioni, è necessario di fare degli sforzi a principio e mortificarsi molto e risolutamente in tutto quello che distrae la mente e si oppone al detto stato di raccoglimento e di presenza di Dio, è necessario domandare istantissimamente a Gesù Cristo la grazia; e solo colla perseveranza in una intensa orazione si può stabilire l' animo e fargli acquistare quella condizione permanente di quiete in Dio, la quale, se la volontà da se stessa non si dà al male, non si perde più per nessuna azione esterna. Convien sapere che quella potenza, la quale propriamente comunica con Dio e con Dio si congiunge, è una potenza diversa dalle altre con cui si opera esternamente; e però quando l' uomo è venuto ad un certo stato di contemplazione e di unione, allora egli opera colle sole potenze che risguardano le azioni esterne, senza impedire alla potenza suprema la sua quiete e il suo riposo in Dio. Onde si legge di certe persone sante, che mentre sembravano tutte occupate al di fuori, esse conversavano internamente col loro Dio e Creatore; e questa conversazione non le impediva, anzi le aiutava a far meglio quello che facevano al di fuori, come viceversa, quello che facevano al di fuori non le frastornava da quella interna affettuosa comunicazione. Un così desiderabile stato si suole acquistare da quelle anime fedeli e costanti, che da principio soffrono molto mortificandosi e pregano con intensità ed assiduità. E questo stato le Suore della Provvidenza devono cercare di ottenerlo nel tempo del Noviziato, dove hanno tutto il campo, se vogliono, di stringere questo intimo e indissolubile nodo con Dio, Sposo delle anime loro, nodo che deve poi durare tutta la loro vita. E quelle che non hanno finito d' ottenerlo nel Noviziato, devono procurare di ottenerlo al più presto. Ma oramai passiamo alla 3 quistione. Questa era: Come si può unire perfetto zelo e desiderio ardente di perfezionare la carità col perfetto distacco dalla propria stima e desiderio sincero dei disprezzi ed obbrobrii? E` questa una questione non meno difficile delle due precedenti, non dico difficile a risolversi in parole, ma a risolversi col fatto. Ma che cosa è difficile a Gesù Cristo ed a quelli che in Gesù Cristo sperano e ne lo pregano?... Per rispondere adunque anche a quest' ultima vostra dimanda, dico che è necessario supporre che nella persona ci sia il fondamento di una solida umiltà, la quale consiste nel non attribuire a se stessi quello che appartiene al solo Dio, od agli altri uomini, di modo che umiltà non è altro che giustizia. In fatti è giusto che l' uomo si reputi un nulla, perchè è tale, e che reputi Dio essere tutto: è giusto che l' uomo sappia ancora che la gloria non appartiene al nulla, ma al tutto, epperciò non voglia alcuna gloria per sè, ma voglia bensì procacciare a Dio solo tutta la gloria possibile: è giusto che l' uomo che sa queste cose, senta un certo rammarico quando viene lodato dagli uomini, perchè il nulla non può desiderare di esser lodato senza usurpazione, e che senta un gran diletto per l' opposto quando vede che gli uomini glorificano Dio. Ma l' uomo non essendo solamente un nulla, ma qualche cosa di peggio, cioè un peccatore (non solo per i peccati che ha commessi, ma perchè ne potea e ne può commetter di continuo, se Iddio non ha di lui compassione), perciò è giusto altresì che egli desideri di esser disprezzato, e che egli goda quando viene maltrattato dagli uomini. Questi sentimenti devono essere inconcussi e profondamente scolpiti nell' animo di una persona religiosa. Ma ella dee sapere anche un' altra cosa. Quantunque l' uomo sia un nulla, e di più soggetto ad ogni peccato, tuttavia Gesù Cristo per sua gratuita misericordia lo ha redento, lo salva, e lo riveste di se stesso per siffatto modo che il cristiano ha intorno gli ornamenti di Gesù Cristo; e questi sono più o meno ricchi e preziosi, secondo l' abbondanza delle virtù, dei meriti e della grazia. Sarebbe una gran pazzia che l' uomo trovandosi ricco di siffatti ornamenti, ne insuperbisse; mentre anzi, se pensa che tutti questi tesori gli sono stati dati gratuitamente e contro ogni suo merito, egli dee confondersi e attribuire a Dio solo anche la gloria dei medesimi, senza usurparne per sè la più piccola parte. Ma come Iddio donò all' uomo questi tesori di virtù e di grazia per un suo preveniente e gratuito amore, così egli, gli partecipa ancora una parte della sua gloria. Ora di nuovo l' uomo deve considerare questa gloria che gli viene attribuita, come gloria non sua, ma di Gesù Cristo, che per sua misericordia l' ha voluta diffondere anche ai suoi credenti, e loro partecipare. Ciò posto, le regole da tenere per unire insieme il desiderio di condurre a perfezione le opere di carità e il distacco dalla propria stima, e di più il desiderio sincero del disprezzo (cosa preziosissima), sono le seguenti: Non dare (generalmente parlando) agli uomini alcuna occasione di disprezzarci, almeno con alcun proprio fallo; ma quando, a malgrado di ciò, ci viene il disprezzo, noi dobbiamo riceverlo con allegrezza, come cosa assai cara, e ringraziarne il Signore, senza temere che da ciò proceda danno alle opere di carità, perocchè se anche qualche danno ne procede, questo è voluto dal Signore, per i suoi fini, e allora non dobbiamo averne dispiacere, ma confidare nella Provvidenza che saprà ricavare da quel danno altri beni maggiori. Non far mai nulla per acquistare applauso dagli uomini, che è un fine ignobilissimo; ma quando tuttavia quest' applauso viene da sè, attribuirlo a Gesù Cristo, a cui solo appartiene, e per conto proprio averne paura come di un pericolo, e per cautelarsene fare nel proprio interno atti di umiltà e di disprezzo di se stessi, protestando di non volerlo ricevere come una parte della mercede. Dopo di ciò, se quell' applauso può riuscire di utilità alle opere di carità, si può anche averne piacere, purchè se ne abbia piacere per questo solo fine, e senza alcun riguardo a se stessi, badando bene che non nasca in noi alcun sentimento di vanità o di pretesa, anzi preparandosi ad essere, dopo ricevuto l' applauso, più umiliati di prima e persuasi di non essere per quell' applauso divenuti nulla più di quei miserabili che eravamo prima. Accorgendosi che la lode sia esagerata averne dispiacere, anche perchè è contraria alla verità e giustizia, ed attribuirla al buon cuore di chi la dà, che non bada alla misura. Per conoscere poi se siamo distaccati da noi stessi, dobbiamo esaminare se godiamo delle lodi date altrui, e specialmente voi dovete esaminarvi se godete delle lodi che vengono date alle sorelle; chè sarebbe un gran difetto l' averne anche un minimo dispiacere od invidia. Conviene che cogli altri, e specialmente colle sorelle siate generose, ne consideriate assai più le virtù che i vizii, e procuriate che conservino la stima con mezzi sempre giusti; e ognuna deve declinare le lodi date a sè, facendo in modo che cadano invece nelle sorelle, dovendo ciascuna amar di essere la prima nell' impegno e nella sollecitudine di mettersi l' ultima. E questo non è difficile a farsi quando una persona considera i proprii difetti e le altrui virtù, astenendosi dal considerare o dal giudicare gli altrui difetti, come quelli di cui non appartiene ad essa il giudicare, ma al solo Iddio; il che insegnò Gesù Cristo con quelle parole: « Non vogliate giudicare, e non sarete giudicati ». E in fatti, l' esporsi al pericolo di giudicare a torto sinistramente de' proprii fratelli, è lo stesso che far loro un' ingiuria: onde per non esporci a commettere contro di essi un' ingiustizia, non c' è altra via che astenerci da ogni giudizio definitivo ad altrui danno. Non parlare nè dir cose che cadano in propria lode, il che è riprovato anche dagli uomini. E quantunque non si debba neppure parlare, senza buoni motivi, in biasimo di se stessi, tuttavia si deve cercare di coprire le proprie virtù, per quanto si può, agli occhi altrui, e qualche volta si può anche parlare con disprezzo di se stessi, purchè ciò si faccia con sincerità. E` poi lodevole il farlo, mossi sempre da un sincero sentimento, quando si parla colle sorelle, o con persone famigliari e senza affettazione. [...OMISSIS...] 1.50 Ho ricevuto la gratissima sua del 20 settembre, ed oggi anche la seconda del 23 detto. Da quest' ultima mi accorgo che Ella non deve aver ricevuto una mia, data di Caserta 3 luglio 1.49, colla quale rispondevo alla sua 11 giugno, che mi partecipava la risoluzione da Lei presa nei santi Esercizi d' entrare nel minimo Istituto della Carità. Avendo io conservato copia di quella mia risposta, mi permetta che gliela trascriva. Non m' era mai venuto in pensiero, che questa mia lettera si fosse potuta smarrire, e però mi astenni dal farle parola di questo argomento, essendo mio costume di esortare bensì ad abbracciare lo stato religioso in generale quelli che ve li posso conoscer chiamati, ma non eccitandoli perciò a scegliere l' Istituto della Carità, bramando di accogliervi unicamente quelli che vi sono « missi a Deo , » non mai chiamati da me; che Dio me ne guardi. Tuttavia avendo Ella eletto questo minimo Istituto ne' santi Esercizi colla debita ponderazione, io non credo di doverle tacere (poichè me ne domanda espressamente) esser mia massima, che quando una volta si è presa, dopo consultato Iddio, una deliberazione in cosa per se stessa buona od attenente alla perfezione, convenga perseverare nella medesima, e non lasciarsene debolmente svolgere, se non fosse per ragioni gravissime ed evidenti. E reputo una sottile insidia dell' inimico, il fare che l' uomo vacilli in quella deliberazione, fosse anche sotto pretesto e colore di far meglio. Tale è la mia ferma opinione, non solo per ciò che riguarda la vocazione ad uno o ad un altro Istituto religioso, ma ben anche in altre materie. E credo che questo si potrebbe confermare colla dottrina e coll' esempio de' Santi, ed altresì coll' esperienza, la quale mostra sovente, che gli uomini che mutano leggermente, anche sotto specie di meglio, non raccolgono poi gran frutto. Circa quello che mi domanda, se nel nostro Noviziato ella potrebbe attendere per quattro o cinque mesi ad ultimare il compendio dell' Alasia, le rispondo che in ciò non si farebbe difficoltà. Perchè quantunque siano esclusi dal nostro Noviziato, ordinariamente parlando, gli studi severi, tuttavia per qualche grave cagione e quando si tratta di poco tempo, il Generale può dispensare. Eccole, mio carissimo signore, il mio sincero sentimento circa quanto mi domanda: mi sono raccomandato a Dio prima di darlo, ed ho consultato qualche persona rispettabile. Ma ella ne faccia quel conto che crede. Prego di cuore Iddio che La empisca di lumi e di benedizioni: mi tengo anzi certo che lo farà. 1.50 Aspettavo che mi deste qualche relazione della vostra nuova posizione e del nuovo vostro ufficio, secondo che eravamo stati intesi, quando ci siamo ultimamente veduti. Ora ricevo infatti la cara vostra del 1 dicembre, nella quale mi dite alcune cose dell' essere vostro e dell' andamento della scuola. E per rispetto agli Esercizi spirituali, non dubitavo della vostra diligenza, non essendomi venuta parola in contrario, e nondimeno ho inteso con piacere quello che me ne dite. Continuate, e sopratutto datevi all' esercizio della presenza di Dio e dell' orazione incessante che si fa col cuore, mantenendovi nello spirito d' orazione , che è veramente quello che alimenta il fuoco interiore e dà la vita all' anima. Procuriamo di convincerci sempre più dell' infinito bisogno che abbiamo della grazia divina che ci sostenti e preceda, e accompagni, e sussegua; poichè chi è altamente persuaso di ciò, non cessa di gridare a Dio dal profondo del cuore per ottenerla e averla sempre in ogni atto, in ogni istante della propria vita. Mi pare poi di rilevare da quello che mi dite in appresso, che voi facciate sì con tutto l' impegno e lo zelo la scuola, ma piuttosto per rassegnazione che per amore. E pure io vorrei che la faceste proprio per amore . V' assicuro che in questo sta l' eccellenza della virtù. Sforzatevi di pervenire a quest' alta disposizione d' animo, che l' amore sia proprio quello che faccia tutto in voi, e vi renda tutto soave e grato. A questo fortunatissimo stato giungerete certamente colla grazia divina: 1 Se concepirete colla mente l' eccellenza della carità del prossimo, a cui la divina bontà ci ha chiamati: nella quale carità consiste la sicura e vivente sapienza, « supereminentem scientiae caritatem , » come dice S. Paolo: onde ogni opera di carità ha per questo solo un infinito valore; 2 Se nella carità verso il prossimo avrete per oggetto continuamente presente il divin Redentore GESU`, il quale disse: « « Qualunque cosa avrete fatta a questi miei minimi, l' avrete fatta a me stesso ». » Quali parole per chi ha viva fede! quale incoraggiamento a qualunque sacrifizio! L' amore dunque di GESU` Cristo cresca ne' nostri cuori, e con esso crescerà l' uomo interiore, e si farà adulto e robusto. Mi è rincresciuto assai ciò che mi dite nell' ultima parte della vostra lettera, nella quale pare che crediate di essere trattato con diffidenza dal vostro Superiore. Mio caro Marco, io non so certamente come la cosa sia; ma non vorrei che fosse una vostra illusione o tentazione. Io so di certo che cotesto vostro Superiore vi ama, e potrebbe essere che egli vi tenesse d' occhio con ispecial cura. Ma che per questo? Interpretate bene, riputate all' affetto che ha per voi la sua sollecitudine. Badate che qui non ci sia nascosto dell' amor proprio, il quale noi dobbiamo scoprire e combattere, come nostro infaticabile nemico. Fondiamoci, mio carissimo Marco, nel vero e solido fondamento dell' UMILTA`, diamo addosso a noi stessi: e quante cose allora, che prima ci offendevano, ci sembreranno innocenti, o frivolezze, o fors' anche motivi di giubilo! Sopra questa cosa procurate di esaminarvi e di fortificarvi, e scrivetemene ancora: poichè atteso l' amor che vi porto, vorrei vedere la più perfetta concordia e carità fra voi e il vostro Superiore; la quale è tanto facile e tanto dolce, quando si abbassi ogni amor proprio e si facciano trionfare i bei sentimenti di umiltà e di mansuetudine. [...OMISSIS...] 1.50 Due sistemi sono stati sperimentati circa la relazione degli ordini religiosi coll' Episcopato: quello della dipendenza dagli Ordinarii, e quello di una moderata indipendenza dai medesimi, quale fu stabilito dal sacro Concilio di Trento. Fu provato che un ordine religioso universale è alla Chiesa utilissimo, assai più utile di molti ordini particolari; e in pari tempo, che quello non può fiorire, anzi nemmeno esistere, con un' assoluta dipendenza dai diocesani. All' incontro esso trae seco facilmente l' incomodo di essere dai diocesani veduto con gelosia, insorgendo anche talora collisioni coi medesimi. Questo incomodo manca nelle Congregazioni particolari e diocesane, ma in quella vece l' esperienza dimostra che queste sono deboli, poco utili alla Chiesa, di breve vita anche senza corrompersi, e causa sovente di scissure col resto del clero diocesano; ma quello che più di tutto importa, lontane dall' evangelica perfezione, la quale esige essenzialmente una carità universale, un distacco dalla patria, dalla famiglia, da tutte le cose proprie, e un campo vasto, anzi illimitato di azione quant' è illimitato l' amor di Dio per gli uomini e la sua Provvidenza, e l' indifferenza perfetta a tutto ciò, a cui può esser chiamato un uomo dalla medesima Provvidenza, senza distinzione di luogo o d' uffici, e senza limitazione di pericoli e di travagli per la divina gloria. Egli è adunque da preferirsi senza paragone un ordine universale, benchè involga qualche incomodo, a Congregazioni particolari che con incomodi maggiori arrecano tanto minori beni; e però è da preferirsi la moderata indipendenza dalla giurisdizione vescovile e la stretta unione e sommessione al Capo universale della Chiesa, condizione necessaria ad un ordine universale. E dico moderata indipendenza , perchè il Vescovo è anch' egli in alcuna parte, benchè non in tutto, legittimo superiore dei religiosi che sono nella sua Diocesi e che hanno il privilegio dell' esenzione, assegnandogli sopra di loro il Concilio di Trento, come dicevo, una parte di giurisdizione. Ma voi mi domandate: non si potrebbero vincere le difficoltà e gl' incomodi che trae seco un ordine universale nelle sue relazioni coi reverendissimi Vescovi? Vi rispondo che, avendo noi sommamente desiderato una tal cosa sino dalla prima formazione dell' Istituto, abbiamo studiato di avvicinarci a conseguirla il meglio che noi sapemmo colle norme fissate intorno a ciò nelle Costituzioni. Ma tali disposizioni, acciocchè riescano nella pratica efficaci, richieggono due condizioni che non si sono finora dappertutto verificate. La prima è, che le relazioni tra i Vescovi e l' Istituto avessero per base comune i grandi principii della carità di Cristo: e la seconda, che i Vescovi, informati ben addentro della natura dell' Istituto, fossero solleciti della sua conservazione, come ne sono gli stessi superiori, e non pensassero soltanto ad approfittarne, senza darsi cura di coltivarlo e mantenerlo in florido stato. Infatti se partiamo dai grandi principii della carità cristiana, questa non si restringe nei limiti di una Diocesi, e un seguace di Cristo, che ne sia animato, si compiacerà di un bene maggiore, anche col sacrificio di un minore. E quindi un Vescovo che non deve amare la sua Diocesi particolare più della Chiesa universale, non potrà vedere di mal occhio che qualche religioso abbandoni la sua Diocesi per arrecare un bene maggiore al regno di Dio sopra la terra. E a questo fine intenderà facilmente essere necessario il lasciar libera la disposizione dei loro soggetti ai Superiori generali dell' Istituto, come quelli che meglio vedono dove possono produrre un maggior frutto al padrone della vigna. E così fecero sempre i santi Vescovi, che talora si privarono di eccellenti soggetti a fine di procurare la salute a popoli lontani. E` dunque necessario che, come i Superiori dell' Istituto sono obbligati dalla loro professione di promuovere coll' attività dell' Istituto medesimo il massimo frutto di carità, come lo si propose Gesù Cristo nel governo della sua Chiesa: « ut fructum plurimum afferatis »; così si propongano lo stesso i Vescovi secondo lo spirito dell' episcopato: e in tal modo questi e i Superiori dell' Istituto abbiano un solo ed unico fine, non arbitrario, ma dallo spirito del Vangelo additato e determinato. E questo è già una prima base della concordia desiderata, sulla quale si può facilmente edificare domum pacis . L' altra base è, come dicevo, che i Vescovi investendosi del governo stesso dell' Istituto, come ne fossero Superiori, e bene intendendone la natura, non pretendano da lui di quelle cose che esso non può fare senza guasto della religiosa disciplina, senza dissipazione dello spirito dei suoi membri, senza disorganizzazione del suo ordine interno: nel qual modo soltanto ne possono trarre un grande e permanente profitto. Perocchè se abbiamo una macchina congegnata artificiosamente, vano sarebbe sperare che essa produca a lungo l' effetto pel quale è inventata e fabbricata, qualora non si badasse punto a conservarla in buono stato; ma o adoperandola soverchiamente, o ad altro uso da quello per cui è fatta, si logorasse in breve tempo, disordinasse od infrangesse. E per conservarsi in suo buono stato, senza di che non può giovare, è necessario, che i Prelati abbiano la ragionevolezza di ascoltare intorno a ciò i Superiori, che sono quelli che conoscono davvicino le forze e l' abilità dei loro soggetti, e le forze e l' abilità delle singole Case e Famiglie religiose: come fanno i padroni di un gregge, che per la cura del medesimo ascoltano i pastori e i mandriani, e come fanno i possessori di case e di campi, che ascoltano gli architetti ed i fattori circa il modo di amministrarli, e s' attengono ai loro consigli, riuscendo questa deferenza a loro vantaggio. Questa massima adunque ragionevole di dover adoperare il corpo religioso colla debita discrezione e deferenza al giudizio de' Superiori, acciocchè egli si conservi nello spirito della perfezione e nella sua propria naturale organizzazione, è un' altra base su cui edificasi l' armonia desiderata fra esso corpo ed i reverendissimi Prelati della Diocesi a cui serve. Quando si convenga in questi principii e si verifichino queste due condizioni preliminari, le disposizioni, stabilite dalle regole nostre e dalle nostre Costituzioni, compiranno la detta armonia, ed oso dire altresì, che la renderanno perfetta ed inalterabile. Perocchè appunto col fine di facilitare ed ottenere questo desiderabilissimo intento viene da noi stabilito quanto segue: Che quando si è presa un' opera di carità, piccola o grande, difficile o facile, leggera o faticosa, non si abbandoni più per nessuna ragione umana, e si procuri di adempierla, accrescerla e perfezionarla in tutti i possibili modi. Questa costituzione assicura i reverendissimi Vescovi della stabilità dell' Istituto nelle loro Diocesi, e della sollecitudine dei Superiori di applicare i soggetti più idonei che si possono avere all' esecuzione delle opere assunte; Che i soggetti applicati ad un' opera di carità non si rimuovano da quella leggermente, cioè senza che lo richieda il bene spirituale degli stessi soggetti o quello delle stesse opere intraprese. Questa costituzione assicura i reverendissimi Vescovi della stabilità dei soggetti, non già di una stabilità illimitata e incondizionata, la quale sarebbe irragionevole e contraria alle due massime fondamentali di sopra stabilite, ma di una stabilità ragionevole, quale sola si può e si deve da essi desiderare; Che a tutte le opere di carità si preferiscano quelle desiderate dai Vescovi. Questa costituzione mette l' Istituto alla disposizione dei reverendissimi Vescovi, giacchè per essa l' Istituto si obbliga di fare tutto quel bene che essi bramano da lui, dentro i limiti delle sue forze e della sua possibilità; ed anche qui non si potebbe ragionevolmente desiderare di più; Che quando i Vescovi si degnano di affidare all' Istituto delle opere appartenenti alla gloria di Dio ed al bene della Chiesa e dei prossimi, l' Istituto le adempia in quei modi che bramano i Vescovi stessi; ed in questo egli riceve ben volentieri da essi i regolamenti e i metodi che volessero comunicargli; nè si ricusa di entrare anche con esso loro in positive convenzioni. Voglia, a ragion d' esempio, il Vescovo affidare all' Istituto il suo seminario; i membri dell' Istituto che ne assumono la direzione, si obbligano di governare il seminario in tutto e per tutto come piace a lui, e in questo gli sono pienamente soggetti. Lo stesso si dica delle altre opere che il Prelato della Diocesi volesse affidare all' Istituto: questo non userebbe, se non quella parte di libertà che il Vescovo stesso gli accordasse; neppure in questo io vedo come ragionevolmente si possa bramare di più. Considerate bene queste quattro costituzioni, sarà facile di cavare una conseguenza inaspettata ma pure verissima, e questa si è che il Vescovo può esercitare sopra l' Istituto una maggiore autorità, e ricevere maggiori servigi che non da sacerdoti secolari suoi diocesani. Vero è che i sacerdoti secolari della Diocesi hanno promesso ubbidienza al Vescovo; ma conviene vedere la cosa in pratica non in teoria, conviene vederla nel fatto e non in astratto diritto. I reverendissimi Vescovi non possono già in fatto dimandare tutto quel che vogliono ai loro sacerdoti diocesani; ma debbono usare con essi molti riguardi, e gli usano infatti, evitando le resistenze che prevedono di ritrovare. Queste resistenze procedono da una virtù imperfetta; ora dall' interesse temporale; ora dall' attacco alla famiglia, alla patria o al luogo in cui tali sacerdoti si trovano; ora dall' ambizione e da certi diritti di onore, nei quali venendo offesi si irritano, insorgono, resistono; ora da pretensioni acquistate per meriti e per dottrina; ora finalmente da inclinazioni o avversioni naturali a questo o a quell' altro ufficio. I membri dell' Istituto della Carità promettono al Signore nella loro stessa professione di essere indifferenti ad ogni opera buona, che loro venga ingiunta da esercitare; hanno per voto rinunziato ad ogni interesse temporale, ad ogni onore, alla patria, ai parenti; professano di amar l' umiltà senza mercede di onor temporale, e la carità illimitata. Non v' ha dunque cosa alcuna che non si possa loro liberamente comandare, salvo solo quelle limitazioni che trae seco l' infermità umana, la quale rimane sempre in ogni caso. E` dunque molto più ampia e più libera la sfera, in cui può spiegarsi l' autorità e la volontà del Vescovo, trattandosi dei membri dell' Istituto, che non sia dei suoi proprii sacerdoti diocesani. Che se egli è legato a doversela su di ciò intendere coi Superiori dell' Istituto, questo non pregiudica, anzi giova molto al bene da ottenersi; avendo egli, se così gli piace, negli stessi Superiori dell' Istituto altrettanti fedeli che lo aiutano a dirigere con più ordine e sicurezza il corpo dei sacerdoti soggetti, e gli danno una guarentigia maggiore di buon riuscimento. Vi abbia dunque carità e ragionevolezza, e vi avrà perfetta armonia; non vi avrà no, assoluto dominio dalla parte del Vescovo, ma non è questo che fa il bene nella Chiesa, dicendo l' Apostolo: « neque ut dominantes in cleris »; vi avrà da parte dei reverendissimi Vescovi una dominazione di carità, che nel fatto è la più potente per fare il bene, e vi avrà dalla parte dell' Istituto la più umile e perfetta sommissione, e quella servitù di Cristo, che non è disgiunta dalla libertà pure di Cristo. Se i reverendissimi Vescovi entrassero in questo spirito, ed io spero che presto o tardi sarà, dall' Istituto trarrebbero tutto quel maggior servizio che in Cristo possono desiderare. Tanto più che l' Istituto nel suo contegno esteriore non si distingue dal clero secolare, e brama di affratellarsi con questo e giovare e servire a questo, tirandolo, per quanto gli concederà il Signore, a quei sentimenti di perfezione che vengono insegnati dal Vangelo, e che l' Istituto si è proposto di praticare; senza inclinare egli stesso a quei sentimenti che fossero meno perfetti in alcuni sacerdoti secolari. [...OMISSIS...] 1.51 Ho letto io stesso con tenerezza la sua lettera. Ella si conforti pure nella misericordia di Dio, la quale è infinita. Questa parola infinita ci deve aprire il cuore ad ogni speranza. Ella e il suo figlio defunto discendono da santi genitori, e la stirpe de' santi non suol mai essere abbandonata dal Signore: il Signore può aver dato a quel suo figlio un ultimo sentimento, un solo atto della volontà, di quelli che salvano l' uomo. Forse ha disposto che questo tratto di misericordia rimanesse secreto, perchè questo mistero giovasse ad un tempo e a salvare quell' anima e a santificare Lei e tutta la sua famiglia. Le vie del Signore sono ammirabili e superiori al pensar nostro: dobbiamo adorarne la Maestà, e non dimenticarci ad un tempo degl' infiniti tesori della sua bontà. A questo riflesso costante aggiungiamo le preghiere (anch' io ne farò e farò fare): quelle che facciam al presente, stavano davanti alla mente divina prima che morisse suo figlio, e da tutta l' eternità le ascoltava. Ricordiamoci che non c' è nulla di più caro al Signore che una grande confidenza in lui. Questa confidenza è sempre coronata, ed è il miglior modo di onorare il Signore; poichè non gli si può dare più bella gloria, che quella di esaltare la sua bontà. Gusta ancora che noi ci accostiamo a lui coll' intermezzo di Maria santissima, a cui Ella è figlio divoto: che dubitar dunque con tale interceditrice? Rimuova il pensiero, per quanto mai può, dal figlio, abbandonandosi nelle mani di Dio e in quelle della Vergine: e in questo abbandono si conforti e incoraggi. Abbiamo bisogno di coraggio e di confidenza per andar avanti in questo misero mondo, e Iddio volle farne della speranza una virtù divina. Abbiamo bisogno altresì della tranquillità e della pace del cuore; e nella speranza cristiana questa pure si trova, perchè è qualche cosa di più di speranza. Gesù Cristo ci ha portato la sua pace, riposiamo in lui. La ringrazio di tutto ciò che mi scrive nella sua lettera, e prego Gesù Cristo stesso a ricompensarla. Colla sua saviezza, colla rettitudine delle sue intenzioni potrà giovare a queste difficili condizioni di cose pubbliche; ma in ogni caso, ancorchè gli sforzi de' buoni non riescano a bene, essi hanno fatto il loro dovere e n' hanno il merito, e di questo devon esser contenti, perchè è un bene impareggiabile. [...OMISSIS...] 1.51 La lettera che le Reverenze Vostre, tutte unanimi, si degnarono d' indirizzarmi, mi fece gustare, in leggendola, di quella dolcezza e giocondità di cui parla il Profeta Reale in quelle parole del Salmo: [...OMISSIS...] Se i conforti e le caritatevoli espressioni d' un amico in Cristo sono sempre soavissime e salutari, quanto più non riescono tali quelle che non vengono da un amico solo, ma da molti Padri e fratelli, uniti fra loro coi più sacri vincoli, e formanti una sola famiglia di servi del Signore, i quali concordissimi con un solo cuore, con una sola voce che risuona celeste sapienza, c' incoraggiano nelle avversità e ci si dimostrano quasi nostri compagni in essa, e, deplorandola come propria, vi arrecano quei documenti di consolazione celeste di cui fanno uso ancor prima con sè stessi per attenuare il partecipato dolore? Laonde come le Vostre Reverenze, animate da quella carità che arde così bella nel serafico Ordine, quasi trasformate in me, si risentono alle ingiurie, che a me va facendo il soverchio zelo di alcuni; così io mi sento mosso dalla riconoscenza e dalla carità reciproca, quasi trasformato in esse, essere divenuto del loro numero. Questa è quell' unione in Cristo che avvicina i lontani e che li fa abitare insieme collo spirito siccome fratelli. Perocchè non è tanto la convivenza de' corpi che celebrava il Salmista nelle citate parole, quanto quella degli spiriti: per questa è che noi siamo fratelli e che abitiamo insieme, e il luogo dove abitiamo è Cristo. Accettino dunque le Reverenze Vostre i miei sincerissimi e cordialissimi ringraziamenti dei sentimenti ed affetti che mi manifestano, e, quasi osava dire, le mie congratulazioni, perchè non solo esse alimentano, ne' loro animi, ma ben anco appalesano, e appalesandolo comunicano altrui quel fuoco di santa carità, che edifica col suo splendore e che solo è potente di unire in un solo corpo, pieno di onestà e di bellezza, i religiosi, quantunque in varii Ordini distribuiti, di cui è ricca la Chiesa, e tutti i servi di Dio; e non solo in un solo corpo, ma in un solo cuore e in un' anima sola. Perocchè tale deve essere l' esercito del Signore, e così si rende formidabile ai nemici di lui ed invincibile. E le Vostre Reverenze poi dicono nella loro venerata lettera una verità che io riconosco per esperienza, cioè che la presente tribolazione non manca punto del suo compenso. Primieramente il mio dolore si tempera quando penso che coloro che mi vanno assalendo, sebbene con modi poco decenti, sono mossi in qualche guisa dallo zelo per la purità della fede, cosa così preziosa che va a tutte le altre anteposta. Di poi considero che tali cose sono permesse da quell' Eterno nostro Signore e Creatore, senza il cui volere niente si fa, nè in cielo, nè in terra, e ogni cosa permette con altissimo consiglio, e da ogni cosa anche rea, sa cavare con infallibile effetto un bene maggiore; onde anche questo solo pensiero basta a dare all' animo nostro pienissima tranquillità e dirò anche consolazione in ogni avvenimento, benchè nell' apparenza sinistro. Nè manca il Padre comune di dare colla tentazione il provento, e di aggiungere forze a sostenerla, purchè in lui si confidi e lui si preghi. E quanto a me, non mi sarebbe facile l' enumerare quanti furono i vantaggi e i compensi oggimai raccolti, datami l' occasione dagli avversari. Perocchè quanti amici in Cristo mi si sono manifestati in questa occasione che non sapeva pur d' avere! quanti a me sconosciuti, anche persone ragguardevolissime, presero a petto la mia causa! e gli amici che già possedevo quanto più intimamente si strinsero a me e mi diedero prove d' un affetto cristiano maggior dell' usato! Non conto fra questi vantaggi le lodi pur troppo sempre pericolose al nostro amor proprio, colle quali in voce e in stampa molti cercarono di ristorarmi del biasimo degli avversari; ma conto fra i vantaggi più preziosi e più cari le tante orazioni che per me s' inalzarono al Signore da un gran numero di fedeli, studiosi e seguaci della caritatevole verità e della vera carità. E la lettera delle Reverenze vostre è di tutto ciò un nobilissimo documento. Che poi da tutti questi avvenimenti permessi dal Signore e intessuti di qualche amarezza e di molta dolcezza tragga profitto il mio povero spirito per servire il Signore con maggior fedeltà e maggiore alacrità e coraggio, il quale non si nutrisce che nelle lotte; questo è quello che ardentemente desidero; questo è quello che aspetto e spero dalle orazioni dei buoni e delle Reverenze Vostre particolarmente. E quando, ritornando sopra me stesso, mi sento quasi indifferente a questo che avviene intorno di me, e vedo gli amici tanto più amareggiati di me stesso, dubito quasi di cavare poco profitto da queste avversità, parendo che molto non giovi al profitto dello spirito quel dolore che così poco si sente. Ad ogni modo però confido che il Signore nella sua misericordia riguarderà piuttosto al mio desiderio di approfittare della tribolazione, desiderio che a lui solo debbo, piuttosto che al grado del patimento. [...OMISSIS...] 1.51 « Militia est vita hominis , » e chi nol sa? e chi non l' esperimenta? e a quale di noi manca il combattimento, la prova, l' arduo cimento? Quegli che ci ha assegnato il posto nell' esercito è un capitano che contrabbilancia alle forze nostre l' impeto del nemico; che ci somministra le armi; e quali armi? Le armi della fede. E a qual fucina temprate? A quella del divino amore. Non meritiamo dunque il rimprovero: « modicae fidei, quare dubitasti? » Anzi imbracciato lo scudo della fede, contro cui tutte le saette si spuntano, consoliamoci in quelle parole: « qui perseveraverit usque in finem, hic salvus erit », e in quell' altre: « in patientia vestra possidebitis animas vestras ». Acciocchè poi non ci venga meno la fede, preghiamo senza intermissione: preghiamo fino che otteniamo: « Omnis qui petit, accipit; et qui quaerit, invenit; et pulsanti aperietur ». Nell' orazione troviamo la forza, la consolazione, la tranquillità, il rimedio alle malattie dell' anima, il sollievo a quelle del corpo. Certo in quanto a queste ultime gran conforto possiamo avere anche dal pensiero che dobbiamo colla penitenza scontare le offese che abbiamo fatte a Dio; e anche da quell' altro che « levius fit patientia quidquid corrigere est nefas ». Del rimanente a me passò per la mente che vi potesse recare qualche sollievo il fare qualche passeggiata fino a stancarvi un po'; e però vi proporrei di venire a Stresa, ma prendendo il cammino inverso, cioè per la valle Vigezzo, la Canobbina, facendo un devoto pellegrinaggio a Nostra Mamma di Re, dividendo il cammino a marcie discrete: e quando poi foste qui, dove c' è tutta la comodità, vi consiglierei a fare alcuni bagni, e da tutta questa cura mi riprometto buon effetto. Coraggio dunque, concertate ogni cosa con cotesto Superiore, poi all' opera, dandomi avviso del risoluto. 1.51 Il sentire dalla vostra dell' 11 agosto che voi col dilettissimo Furlong occupate tutto il vostro tempo a vantaggio di cotesto popolo sedente nelle tenebre e nell' ombra della morte, mi produce una somma consolazione, considerando specialmente che la fatica che fa colui che è mandato dal Signore nel curare e pascere le anime, è il maggiore segno che possiamo dare a Dio della nostra carità; onde Cristo dopo aver domandato a Pietro se lo amasse, gli soggiunse per tre volte « « pasci il mio gregge » »; donandogli questo quasi in pegno dell' amor suo. Vero è che anche tutti gli altri uffici di carità imposti dall' ubbidienza ai membri dell' Istituto della Carità hanno lo stesso merito, perchè hanno lo stesso fine, e però si può dire che tutti esercitino la cura delle anime, perchè le loro fatiche tendono finalmente alla salvezza delle anime. Questo sublimissimo intento è l' effetto che deve produrre tutto il Corpo nostro, e però a questo effetto concorrono tutte le diverse membra, di cui il Corpo si compone, e i loro diversi uffizi. Onde avviene che tutti quelli che ben intendono questa gran verità, sono facilmente contenti di ogni uffizio, esercitandolo, qualunque sia, coll' intenzione di cooperare al bene morale e spirituale; è sempre la carità quella che vi si nasconde, come preziosa margarita: questa sola è amata da tutti, e da tutti quelli che l' amano, trovata. E ciò non ostante, coloro a cui Iddio ha dato la missione di lavorare immediatamente alla salute dell' anime e di predicare la divina parola, devono avere una speciale gratitudine alla divina bontà che a tanto li elesse; e sono simili a coloro che, lavorando nel fuoco, non possono a meno di riscaldarsi. E non solo bramo che voi e cotesti miei carissimi fratelli vi riscaldiate nell' impegno in cui siete di dover riscaldare gli altri, ma che v' incendiate altresì d' amor di Dio e del prossimo. A questo dunque attendete; e a tal fine mantenete pura l' anima vostra da ogni contagione di questo secolo, vivendo della vita nascosta in Gesù Cristo; la quale ha per intento di spogliarci d' ogni qualunque attacco alle cose sensibili per attaccarci totalmente alle invisibili. Da per tutto la cattolica fede trova contrasti, ma da per tutto ancora trova trionfi: « oportet ut veniant scandala . » Voi ne avete tanti sott' occhio in cotest' Isola, ma noi certo non ne difettiamo. Che anzi reputo in qualche modo migliore la condizione vostra che la nostra, mentre appresso di voi si edifica, sebben combattendo, e presso di noi si distrugge quello che è edificato e si combatte perchè non sia distrutto. Abbracciate tutti nella carità di Cristo i cinque compagni che vi mando, sui quali ho concepito grandi speranze. Diverranno operai zelantissimi per la divina gloria: che Iddio li difenda dal maligno. [...OMISSIS...] 1.51 Anch' io ho conosciuto che, come voi dite nella carta che m' avete scritto, il vostro difetto è la timidezza; e questa, parte v' impedisce il ragionamento rendendovi esitante, e parte v' impedisce l' operazione trattenendovi dal farla subito, intera e colla dovuta franchezza. Conviene che vi prefiggiate di vincere questo difetto e di rendervi per l' opposto santamente coraggioso. I mezzi di vincere o piuttosto di deporre la timidezza soverchia sono i seguenti: Il primo mezzo è non aver paura della timidezza medesima: perchè questa paura accresce assaissimo la timidezza stessa. Convien dunque non pensare alla propria timidezza e non rivolgere soverchiamente la propria riflessione sopra sè stesso quando si delibera o si opera, ma porre la semplice attenzione sul partito da prendersi e le ragioni solide pro o contra, e dopo averlo preso pensare all' operazione che s' ha da fare, e non ad altro. Il secondo mezzo è di raccogliersi qualche volta e considerare che il timore che sopravviene è irragionevole, e poi disprezzarlo; e anche avendone il sentimento, operare come se non ci fosse, nè ragionare più con esso, come si fa colle tentazioni. Il terzo mezzo è ragionare molto cogli uomini e specialmente con uomini grandi sotto ogni rispetto, e imitare i loro modi e la loro buona franchezza: ancora mettersi dentro nei negozii, avendo grand' impegno di ben condurli: e però non esser parco di parole in conversazione (purchè i discorsi sien buoni ed importanti), e sostenere anche delle questioni o scientifiche o d' altro genere, spiegandovi forza e impegno, senza asprezza, già s' intende. Chi ha grand' impegno di condur bene un affare, per la gloria di Dio, questi si dimentica del timore, e fa il fatto suo. Quarto mezzo . Conviene badare di non voler essere troppo perfetto, cioè falsamente perfetto, dandosi un soverchio fastidio di tutte le piccole ragioncelle, che vengono per la mente, e fermando il passo ad ogni lontano pericolo d' inconvenienti minimi; il che non facevano già i santi, nè farà mai cose grandi per la gloria del Signore colui che si obbligasse a questo; ma andrà sempre impacciato e dibattendosi tra le tele di ragno; non acquisterà mai la perfezione, che domanda un cuore largo, delicato solo quando si trattasse d' offesa contro i precetti o i comandamenti del Signore. Quinto mezzo . Una delle più potenti maniere di prendere coraggio è quella di persuadersi che la buona riuscita delle opere nostre non dipende da noi, ma da Dio, e quindi d' acquistare una grande, infinita confidenza in Dio, che opera in noi, quando noi operiamo per ubbidienza o per carità; ed allora egli cava la sua gloria anche dalla nostra debolezza, da' nostri errori, dalle nostre stesse mancanze. Sesto mezzo . Come conviene evitare l' asprezza, e ciò che veramente offende la carità, così conviene evitare la falsa mansuetudine , che è quella che non vuol mai venire a battaglia con nessuno, e vuole evitare tutti gli urti; quando all' incontro senza sostener battaglie e far testa al male, specialmente uno che dovesse essere Superiore, non riuscirà mai a procacciar molto gl' interessi della divina gloria e migliorar sè e gli altri. All' incontro l' uomo che per amor di Dio ha fatte delle battaglie, non può mancare d' acquistar ben presto il coraggio e il polso forte che gli è necessario. Settimo mezzo . Non credere che il sentimento del timore che coglie improvviso, debba subito scomparire, e non avvilirsi se ritorna dopo i più bei proponimenti e la speranza d' averlo vinto del tutto: perchè quel sentimento non si può scacciare se non con lungo tempo, ma si può operare come se non ci fosse, senza lasciarlo influire nelle nostre azioni, nelle quali dobbiamo dirigerci colla ragione e col calcolo, e non con altro. Questo deve cautelarci contro l' avvilimento, che potrebbe sopravvenire, quando si vedesse ritornare quel senso di timore che si credeva vinto; o si pretendesse di far più di quel che si può in un momento. Ottavo mezzo . L' orazione, e specialmente l' uso dei salmi, che ispirano tanti affetti di fiducia e d' aspettazione di cose grandi dalla bontà divina che ci ha in cura. - Con questi mezzi e colla costante volontà di proceder avanti con buon ordine, ci riuscirete. [...OMISSIS...] 1.51 Avreste fatto bene ad avvisarmi prima d' ora delle tentazioni e delle battaglie che vi dà il nemico dell' anima vostra. Iddio ne ha preavvertiti tutti quelli che egli chiama al suo più stretto servizio con queste parole: « Fili, accedens ad servitutem Dei, sta in iustitia et timore, et praepara animam tuam ad tentationem (Eccli., II, 1), » dove ci comanda di stare nella giustizia e nel timore dell' umiltà, e di apparecchiarci , certo colla buona volontà e coll' orazione. Nello stesso tempo ci ha confortati e assicurati, se noi così facciamo, del suo aiuto, ed anzi si trova scritto: « Beatus vir, qui suffert tentationem: quoniam cum probatus fuerit, accipiet coronam vitae, quam repromisit Deus diligentibus se (Iac. I, 12) ». Indarno taluno vorrebbe darsi alla sequela più intima di GESU` Cristo, pretendendo di non dover essere tentato e provato in varie guise; ma colui che fu chiamato a questa felice sequela è obbligato a respingere tali tentazioni colle dette armi della fede, dell' umiltà e dell' orazione; e quando lo fa, è beato , come Dio stesso ha detto per la bocca di san Giacomo, perchè diventa un servo di Dio provato . All' incontro, chi non lo fa, mette in grave pericolo l' anima propria, tanto se, cedendo alla tentazione, cade in peccato, quanto se, col pretesto di non poter resistere alla tentazione, pretesto ingiurioso a Dio, abbandona lo stato di perfezione; giacchè questo abbandono fatto con tanta viltà è una gravissima ingiuria a Dio vocante, della quale Dio solo è giudice e punitore. Ora voi, mio carissimo figlio, siete stato chiamato e già entrato ne' debiti modi nello stato della perfezione, e vi siete obbligato in esso in perpetuo e irrevocabilmente, da parte vostra , col vincolo sacro dei voti perpetui, dai quali non v' è più lecito di sciogliervi. Nè vi verrebbe a salvezza dell' anima l' esser dimesso dall' Istituto; chè i Superiori non possono dimettere alcuno se non allorquando la sua condotta lo rendesse dannoso al corpo de' suoi fratelli; onde questa stessa dimissione ricade a colpa di colui che viene dimesso, e con essa non si migliora già la sua condizione davanti a Dio, qualunque cosa appaia davanti agli occhi degli uomini. Io giudico dunque che voi non solo siete obbligato gravemente a respingere il pensiero di abbandonare l' Istituto, nel quale Iddio, per sua misericordia, v' ha fatto la grazia d' entrare; ma di più siete obbligato di mantenere la sacra promessa, che avete fatta a Dio medesimo in presenza della corte celeste, e a compiere la beata oblazione di tutto voi stesso, vivendo e morendo santamente in questo Istituto. Dovete dunque riconoscere nei pensieri che vi vengono la voce del maligno serpente, che v' insidia l' eterna salute, e vuol perdere l' anima vostra; e dovete respingere questa voce seduttrice, non essendo già connivente coi detti pensieri, nè coltivandoli, nè fiaccamente contenendovi quando vi assalgono; ma subito dovete discacciarli, e rivolgere il pensiero a cose più degne, e aprirlo ai dettami dello Spirito Santo, spirito di purità e di santità, castigando anche voi stesso, e stringendovi a Dio colle più fervorose orazioni, fino che sia passata e pienamente vinta l' infernal tentazione. Sotto specie di bene questa v' inganna facendovi credere che vi sarebbe più facile salvarvi in un altro stato: quasicchè per chi ha fede in Dio e conosce chi è Dio, l' abbandonare il posto, nel quale egli ci ha messi, non sia un buttarci all' inferno. Anche lo spaventarvi della perfezione che propose Gesù Cristo ai suoi eletti, e che tale quale l' ha egli insegnata, è proposta nell' Istituto, è un diabolico artificio che si fonda nella mancanza di fede; onde avviene che si crede poco all' efficacia degli aiuti che ci dà lo stesso GESU` Cristo che ci ha data la legge di perfezione, e si ha la stoltezza riprovevole di non volerli adoperare, e nello stesso tempo par che si creda che quella perfezione si consegua colle forze umane, delle quali, sentendosi poi deboli, si dispera. Ma chi ha fede e piena confidenza in Dio, ancorchè si senta debole, è fortissimo, ed il suo coraggio va crescendo ogni giorno di mano in mano che Iddio gli si rivela, e gli fa conoscere e sentire la sua potenza e misericordia. Lungi dunque da noi tanta bassezza, miseria e perversità da prender consiglio da quello che ben conosciamo, se pur non vogliamo ingannarci, essere lo spirito delle tenebre e della menzogna, e però essere il nemico più arrabbiato della perfezione evangelica; onde co' suoi mortiferi argomenti vorrebbe condurci al termine da essere scacciati dal paradiso della virtù evangelica, cioè dalla Religione. Al fine di vincerlo e svergognarlo, facendolo dare indietro, ecco le armi: Non ascoltare i suoi seducenti discorsi; e però ribattere subito , al primo sentore, tutti i pensieri i quali tendessero a farci perdere l' amore e la stima della nostra santa vocazione e dello spirito di consacrazione in questo Istituto; rinnovando spesso al Signore di voler vivere e morire in esso, con azioni molte di grazia a lui, che per pura misericordia vi ci ha condotto. Dar opera diligente ad arricchire la mente di santi pensieri, l' anima di santi affetti e la volontà di frequenti propositi di avanzare in ogni maniera di virtù, ma sopra tutto nell' umiltà , nella sofferenza e nella carità . Dedicarsi all' orazione come alla prima e alla più importante nostra occupazione, e fare tutto quello che si può da noi, per riscaldare in essa il nostro cuore e acquistare un gran zelo della maggior gloria di Dio, e di poter farlo conoscere agli uomini; sopratutto è necessario l' abito di frequenti e quasi continue giaculatorie. Amare gli uffici umili , come cosa grata al Signore, e riprendere in noi ogni movimento di superbia, di vanagloria e simile, dandosi alla perfetta ubbidienza , e godendo di questa come di cosa che piace a Dio e che ci ottiene indubitatamente le grazie più preziose per l' anima, facendo di conseguente grande stima di un' osservanza la più esatta che sia possibile. Evitare ogni parola oziosa coi compagni, e in quella vece servirsi della lingua per edificarli e santificarli, giacchè la santità che noi procacciamo in questo modo ad essi ritorna sopra di noi; e cooperare in ogni modo al progresso spirituale de' proprii compagni. Non avvilirsi mai, anche se ci occorresse di cadere, o di non fare quel profitto che speravamo; perchè la nostra emendazione viene a gradi per lo più, qualora Iddio non faccia qualche cosa di straordinario. Ecco dunque quello che dovete fare, mio carissimo fratello: spero che lo farete, e sarete consolato, ed io godrò della vostra consolazione. 1.51 L' incomodo d' un occhio che m' impedisce di leggere e di scrivere, unito alle occupazioni, fu cagione, che io differissi finora a riscontrare la pregiatissima sua lettera, e mi obbliga al presente di usare della mano di una fidata persona per istendere la presente. Del resto quest' incomodo non è gran cosa, ma una piccola croce che mi dà il Signore troppo inferiore a' miei meriti. Comprendo a pieno, mia pregiatissima Signora Baronessa, tutto ciò che deve soffrire il suo spirito allo spettacolo delle cose di questo mondo: nello stesso tempo conosco quanto sia immobile, inalterabile, infinito quel bene che si trova nella nostra Religione santissima, e come questo bene ci compensi di tutti gl' incomodi e le noie e i travagli, che ci vengono dalle cose terrene e corruttibili di cui siamo composti e in mezzo alle quali viviamo, e come noi stessi possiamo e dobbiamo partecipare dell' immutabilità di quel bene. Poichè anche l' anima nostra acquista una certa sostanza ed immutabilità, e quindi una pace stabile, quando si congiunge alle cose immutabili. Iddio sia il luogo della nostra perpetua abitazione; così tutte le cose che cangiano, rimarranno al di sotto del luogo dell' anima nostra. Io so, mia veneratissima Signora, che questi sono i suoi conforti, come sono i miei. Da molto tempo non ho da Roma nuova alcuna, spero nondimeno che lo stato delle cose pubbliche colà si vada migliorando. 1.51 Ecco finalmente la lettera che m' aspettava dal mio caro Setti. La lessi con vera consolazione: specialmente mi consolò il vedere, che la prova che aveste a sostenere, v' abbia persuaso che chi confida nel Signore non perisce in eterno. Conviene abbandonarsi a lui e temere sempre di noi stessi, ma senza alcuna sorte d' avvilimento: non assicurarsi mai di noi, di Dio sempre, in qualunque condizione ci ritroviamo. D' altra parte è necessario, mio caro, di conservare l' interiore tranquillo e non permettere che vi nasca tumulto, nè pur quando un certo tumulto d' affetti sembra buono e a buon fine diretto; perchè un certo confuso tumulto è spesso un' esaltazione dell' immaginativa sommossa dal demonio che si trasforma in angelo di luce e rende l' uomo inquieto, fisso ne' suoi pensieri, indocile, ostinato, angustiato, esclusivo, e di somiglianti cose ripieno, che sono grandissimi difetti ed impedimenti al compimento dell' opera della nostra salute e perfezione secondo la volontà di Dio. Godo dunque che amiate cotesta solitudine, dove avete trovato il riposo dell' anima, ma in modo però d' essere sempre pronto ad abbandonarla, quando l' ubbidienza ve lo imponesse. A questa condizione l' amore che avete ad essa è buono, utile e a Dio gradito. Ma senza questa condizione sarebbe un' illusione e per certo un inganno dell' inimico che è sottilissimo, prendereste il male per bene, e quella che è vostra propria, per cosa di Dio. Quando amaste cotesto luogo e cotesta vita, che ci fate, con attacco impeditivo dell' ubbidienza, benchè apparentemente per un fine e un intento buono e santo, quell' attacco vi pregiudicherebbe alla vera perfezione dello spirito. E sapete che cosa ne potrebbe avvenire? Che quello che ora appare un così forte attacco , dopo qualche tempo potrebbe non essere più nè pure un affetto , e convertirsi in avversione: nè è già la prima volta, che quelli che dicevano di volere per puro amor di Dio un certo genere di vita che credevano indispensabile per salvarsi l' anima, poi si cangiassero, prendendo sentimenti del tutto opposti, e per la stessa ragione del salvarsi l' anima ne volessero un altro tutto diverso e con un' uguale ostinazione. Onde mettiamo per inconcusso fondamento il principio che non falla e che non inganna di sicuro, quello della semplice ubbidienza. E non è già necessario di occupare la nostra mente di pensieri sull' avvenire, e di domandare a sè stessi che sarebbe di noi in questa o quella ipotesi; chè non ci sono pensieri più vani di questi, nè più atti a turbare la pace interiore e scompigliare l' immaginazione. All' incontro la bella semplicità che s' abbandona a Dio senza pensare all' indomani, ma che adempie alacremente tutti i doveri dell' oggi, ecco la maniera d' andare avanti in « pulchritudine pacis . » Pregate dunque, servite la Chiesa e la casa, edificate il prossimo, acquistate collo studio assiduo e ordinato le cognizioni necessarie per rendervi atto a esercitare i ministeri della predicazione e della confessione, abbiate un grande zelo delle anime del prossimo e un grande amore di fargli del bene in ogni modo, conservate un umore ugualmente lieto ed affabile con quelli con cui trattate, e del resto non pensate più avanti: Iddio ci pensa. Scrivetemi poi a quando a quando, se le cose vi continuano bene, come grandemente spero e prego.

Introduzione al Vangelo secondo Giovanni

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

L' effetto, cioè l' uomo, come essere vivente, razionale, abbellito di grazia, e in fine beatificato, ha la sua spiegazione compiuta nella vita che è nel Verbo, dalla partecipazione della quale, secondo diversi gradi, procedono all' uomo tutte quelle prerogative e tutti que' beni. Ma convien distinguere accuratamente questi gradi di partecipazione della vita del Verbo. Il Crisostomo, Cirillo Alessandrino, Teofilatto ed Eutimio (1) stimano che S. Giovanni dica nel Verbo è vita, per dimostrare che il Verbo conserva e governa le cose, non pure le crea, intendendo per vita quel vigore che il Verbo imprime in tutte le cose, e col quale le conserva e governa. Il dire che nel Verbo era vita esprime, secondo il Crisostomo, che il Verbo non solo potè creare, ma ben anco in lui rimane sempre una vita, quindi una causalità indeficiente, un flusso perpetuo delle cose senza alcun dispendio o diminuzione in lui stesso, nel quale la vita non cessa mai. E poichè la vita che è nel Verbo è pienissima, non solo reale, ma intellettuale e morale altresì; perciò l' Evangelista, secondo il Crisostomo, dicendo che nel Verbo è vita, viene a dire che egli non fa e produce le cose per una cieca necessità di natura, ma per volontà ed intelletto, onde anche sapientemente e santamente le governa. E` però da osservare che quanto a quel vigore onde si conserva in essere la materia non si può chiamar vita, o partecipazione di vita, perocchè la materia, come tale, è priva di vita, perchè è priva d' ogni sentimento. L' esistenza della materia, come suggerisce la filosofia, non è soggettiva, perocchè ella non è principio nè senziente nè intelligente: non è oggettiva, perocchè essa non è oggetto per sè sola e s' intende soltanto nell' oggetto o idea che vi aggiunge la mente. E` puramente un' esistenza terminativa , cioè la sua essenza è di essere termine d' un soggetto sensitivo. Nella materia non si scorge che la mera sussistenza senza relazione a se stessa, ma ad altro, cioè al soggetto sensitivo di cui ella è termine. Laonde S. Tommaso dice: « « Si conserva nelle parole premesse un ordine conveniente. Perocchè nell' ordine naturale delle cose, prima si trova l' essere (la mera sussistenza), e questo da prima insinuò l' Evangelista dicendo: « Nel principio era il Verbo », poi si trova il vivere, e questo è cio che segue: « In esso era vita », in terzo luogo si trova l' intendere, e di conseguente aggiunse questo: « E la vita era la luce degli uomini »(1) ». Così l' Evangelista addita che nel Verbo, fonte delle creature, si trovano causalmente ed eminentemente tutti i gradi di essere che si ravvisano nelle creature effetto di quella causa. I Manichei leggendo questo luogo con un' altra interpunzione da noi rifiutata, cioè: quod factum est in ipso (Verbo), vita erat, ne abusarono per sostenere i loro errori. Questi sono due: Il primo teologico, quello de' due principii, perchè dicevano che non tutte le cose erano fatte pel Verbo, ma quelle che erano fatte pel Verbo (riputando essi un sinonimo perfetto il dire fatte pel Verbo o nel Verbo) erano viventi, spiegando il soprallegato testo così: « era vita, cioè era vivente ciò che era stato fatto nel Verbo », dicendo poi che il niente era l' altra cosa, l' altro principio fatto, ma non dal Verbo, dicendo S. Giovanni che « « il niente era stato fatto senza il Verbo » et sine ipso factum est nihil (2) ». Il secondo filosofico, perocchè questi eretici dicevano che anche le pietre e i minerali tutti erano vita e però vivevano. A' quali due errori se n' aggiunge un terzo, che i Manichei, confondendo la vita sensibile colla vita intellettiva, attribuivano quest' ultima a tutti i viventi. Ora, che il luogo di S. Giovanni, nè pure letto come facevano tali eretici, suffragasse punto nè poco alla loro empia dottrina, apparisce da questo che, giusta il testo interpuntato a lor modo, le cose fatte nel Verbo non sarebbero solamente viventi, ma sarebbero vita, cioè assai più di quel che essi pretendono. Le cose partecipi della vita hanno una vita limitata, secondochè più o meno ne partecipano; ma la vita in se stessa non esprime alcun limite, di che consegue che l' esser vita a Dio solo appartiene, il quale non ha alcun limite nel suo vivere, e non partecipa già della vita, ma è vita egli stesso essenzialmente senza specie, gradi e confini: è la vita sussistente. Se dunque ciò che è creato fosse vita, sarebbe Dio; nè si scorgerebbero i diversi gradi della vita, come si scorgono ne' vari esseri di cui il mondo si compone. Ciò che è creato oltracciò non potrebbe soggiacere alla morte, perchè, essendo la vita, questa non può mai cessare di esser vita e passare ad uno stato di morte, perchè morte e vita si escludono a vicenda. Solamente quello che vien fatto partecipe della vita, ma che non è vita egli stesso, può venirne anco spogliato e morire. E` dunque impossibile che l' Evangelista abbia detto che ciò che è fatto pel Verbo fosse vita, e però niun vantaggio possono cavare i Manichei a favore de' loro errori da questo luogo di S. Giovanni, alla lor foggia interpuntato. Rifacendoci or noi a considerare il vigore che S. Giovanni Crisostomo attribuisce a tutte le cose, pel quale egli in certa maniera le considera come viventi, non però al modo de' Manichei, dobbiamo osservare che la materia, avendo natura e condizione di termine, e come tale essendo cosa inerte, conviene spiegare quell' attività che nondimeno in essa si manifesta. Primieramente ciò che esiste come termine suppone un principio, al quale sia termine e nel quale esista. Il qual principio non può esser altro che sensitivo, perocchè ciò che non sente, non può aver natura di principio, ma sol di termine. Non par dunque alieno dalla dottrina filosofica e teologica il supporre che Iddio ad ogni atomo di materia abbia congiunto un principio sensitivo, di diversa e contraria natura dalla stessa materia, pe' quali principii la materia sussista come termine, e dai quali riceva l' azione ed il movimento che in essa si scorge. Il che è mirabilmente accomodato a spiegare i fatti della natura. Non proverrebbe da questo che gli atomi nella materia fossero animali, giacchè l' animale suppone composizione ed organismo; ma solo che fossero animati. Nè sarebbero perciò intelligenti, perocchè i principii loro non più potrebbero essere che principii sensitivi, il cui sentire limitatissimo non avrebbe altro termine che quello dell' atomo stesso, non quale apparisce al di fuori a' nostri organi sensorii, ma qual sarebbe rispetto ai suoi principii medesimi. Nella qual sentenza, a cui suffragano i progressi delle scienze naturali e delle filosofiche, e che ottimamente si accomoda alla spiegazione dei fenomeni, la sentenza del Crisostomo, che vede nella vita che è nel Verbo quel vigore onde si conservan le cose, verrebbe nobilitata e resa più grave. Perocchè quel Verbo creatore, che in se stesso ha vita, creando le cose avrebbe come ritratto da sè il vigor vitale, e l' effetto meglio risponderebbe alla natura della sua cagione. La vita sensitiva è il sentimento semplice e cieco, perchè non illuminato dalla vista di alcun oggetto. Quindi, ove noi dall' effetto saliamo ad una causa corrispondente, non è necessario che nella causa creatrice di lei ravvisiamo la forma oggettiva. Considerando noi dunque, secondo il nostro modo d' intendere, l' essenza divina con un concetto anteriore logicamente a quello delle persone, la vita sensitiva si attribuisce da noi, come a causa, alla divina essenza, senza considerazione delle persone, e per approssimazione al Padre, nel quale l' essenza divina sussiste come nel principio fontale della Triade Augustissima. Ma se noi veniamo alla vita umana, cioè alla vita razionale, questa suppone una causa che sia oggetto, e però non si può concepire se non aggiungendovi la considerazione del Verbo che è per sè oggetto. E questo viene a dire l' Evangelista colle parole che seguono alle dichiarate sin qui: « « E la vita era la luce degli uomini » », cioè l' oggetto che informa ed illumina il loro spirito e così li rende intelligenti. Se il Sacro Scrittore non avesse avuto per iscopo d' insegnare la creazione ed istituzione degli uomini, egli non avrebbe detto che « « nel Verbo era vita » », poichè avrebbe in tal caso potuto dire egualmente che « era vita nel Padre e nello Spirito Santo », nei quali sussiste l' identica vita che nel Verbo. Ma perchè dunque preferì di dire che « nel Verbo era vita »? Perchè il suo intendimento era di favellare della vita in significato oggettivo, la quale, essendo per sè oggetto, fosse luce alle umane intelligenze, e così dichiarare come vengono costituite le menti umane. Ora la forma oggettiva della vita è propria del Verbo, perchè il Verbo è appunto l' essere come oggetto; benchè la sapienza e l' intelligenza soggettiva, che risulta dall' atto intellettivo che ha nell' oggetto il suo termine, sia comune ed identica in tutte egualmente le tre divine persone, come propria dell' essenza, considerata questa posteriormente alla processione delle persone. Laonde, se si considera lo spirito intelligente come effetto, e da questo si vuol salire a formarsi il concetto della causa, conviene pervenire non più alla semplice essenza di un Dio creatore, ma all' essenza considerata posteriormente (in ordine logico) al Verbo generato; che, essendo per sè oggetto, può solo divenir luce degli spiriti creati, e questi pure possono partecipare dell' essere in forma oggettiva, divenendo così intelligenti. Laonde il termine dell' umana intelligenza, che è l' essere ideale per sè oggetto, è un' appartenenza del Verbo divino, benchè non si possa dire lo stesso Verbo a cagione che l' essere a noi si manifesta come puro oggetto, e non come oggetto persona, quindi come oggetto ideale non sussistente e reale. A questa dottrina, che, relativamente all' uomo e non in sè, distingue le appartenenze del Verbo dal Verbo stesso, fu fatta quest' obbiezione: L' oggetto informante lo spirito umano, che dicesi appartenenza del Verbo, o è creato o increato: se increato, dunque è il Verbo stesso; se creato, egli non può essere un' appartenenza del Verbo, perchè tutto ciò che appartiene al Verbo è increato, non è fatto ma è eterno. Alla quale obbiezione risponde S. Tommaso d' Aquino colla seguente dottrina: « Conviene avvertire che qualche cosa si dice del Figliuolo di Dio secondo sè, come quando lo si dice Dio onnipotente e simiglianti cose. Qualche cosa poi si dice di lui rispettivamente a noi, come quando lo si dice Salvatore e Redentore. Qualche cosa ancora si dice di lui nell' uno e nell' altro modo, come quando lo si dice sapienza e giustificazione. Ora in tutte quelle cose che si dicono del Figliuolo assolutamente e secondo sè, non si dice che egli sia fatto: così non dicesi che il Figliuolo sia fatto Dio o sia fatto onnipotente. Ma in quelle che si dicono di lui per comparazione a noi, ovvero nell' uno e nell' altro modo, si può aggiungervi l' esser fatto, come secondo quel luogo a' Corinti (1): [...OMISSIS...] . Onde, sebbene sia stata sempre in esso la sapienza e la giustizia, tuttavia si può dire, ch' egli di nuovo è stato fatto a noi giustizia e sapienza. Secondo questo adunque Origene esponendo dice, che, quantunque in se stesso sia vita, tuttavia è stato fatto a noi vita, perchè egli ci vivificò giusta quello ai Romani: « Siccome tutti muojono in Adamo, così parimente in Cristo tutti saranno vivificati »(2). E però dice, che il Verbo che è fatto a noi vita, in se stesso era vita, acciocchè un tempo divenisse a noi vita, il perchè tosto soggiunge: « « E la vita era la luce degli uomini »(3) ». Ora posciachè le appartenenze del Verbo, siccome sarebbe la verità che naturalmente a noi risplende, l' essere ideale, sono rispetto a noi tali, quindi si può dire che sieno fatte, o create, o forse meglio concreate con noi, sebbene nel Verbo considerate e quindi rifuse nel Verbo stesso senza distinzione, non sieno fatte, nè create, nè concreate; ma eternamente sussistenti, perchè sono il Verbo stesso, ed hanno perduta la loro condizione di appartenenze del Verbo, dal Verbo distinte; non essendo tali che rispetto a noi. Ma noi dobbiamo vedere come la vita che era nel Verbo sia la luce degli uomini. Primieramente si consideri come la vita nel Verbo abbia forma di oggetto, giacchè il Verbo stesso è l' essere assoluto nella forma di oggetto7persona. Dalla forma di oggetto che prende la vita (e l' essenza di Dio tutta è vita non essendovi nulla in esso di morte, nulla che abbia il concetto di nuda sussistenza, o di puro termine, qual noi concepiamo essere la materia) comunicata dal Padre al Verbo, risulta la vita intellettiva comune e identica in tutt' e tre le divine persone. Di più l' essenza vitale di Dio, oggetto per sè noto, per sè inteso, è anche per sè amata, e quindi la vita per sè intesa, per sè amata, è sollevata dalla spirazione unica del Padre e del Figliuolo ad una esistenza personale, cioè è in pari tempo la persona del Santo Spirito, onde è la vita, il sentimento, il gaudio morale puro identico in tutte e tre le persone augustissime. Quindi la vita, che è nel Verbo una e semplicissima, tuttavia secondo il nostro modo di concepire è triplice: di semplice sentimento, che s' appropria al Padre che la comunica, con tutto il resto; la vita intellettiva, che s' appropria al Figliuolo non perchè ella non sia dell' essenza divina, ma perchè ha per condizione l' oggetto e la forma oggettiva dell' essere che è propria del Figliuolo o Verbo; la vita morale che è pure dell' essenza divina, ma per appropriazione attribuita allo Spirito Santo, perchè ella ha per condizione l' oggetto per sè amato, e la forma dell' amabilità dell' essere è propria dello Spirito Santo. Ora, ciò presupposto, come avviene che la vita che è nel Verbo sia la luce degli uomini? Ella non potrebbe esser luce se non fosse oggetto dello spirito umano, che informandolo lo rende intelligente. Ma quest' oggetto non è mero oggetto perocchè è vita7oggetto, e di più è oggetto vitale e sussistente per sè amabile e per sè amato. Da questo procede: 1 Che nelle parole di S. Giovanni « « e la vita era la luce degli uomini » » non trattasi più di narrare la creazione d' un mero essere sensitivo, come poteva essere la statua che il Genesi racconta fatta da Dio di terra; la statua, dico primachè Iddio v' ispirasse in faccia lo spiracolo della vita (giacchè, se si suppongono gli atomi materiali animati, come abbiam detto, quella statua poteva essere un essere sensibile, e, dividendosi l' uomo nelle Scritture sempre in due parti, e non in tre, chiamata l' una carne vivente perchè concupisce contro lo spirito, l' altra spirito; ella quella statua poteva essere la carne vivente); ma trattasi di spiegare come l' uomo venne costituito nell' ordine degli enti intellettuali e morali. 2 Che la creazione dell' essere meramente sensitivo non esige che la vita del Verbo si comunichi come luce, ma basta che venga comunicata una vita semplice dall' essenza di Dio creatrice, senza che la mente nostra in tal causa vegga la special forma dell' essere oggettivo, ossia dell' essere come Verbo. Onde S. Giovanni dice che « « la vita era luce degli uomini » », e non degli animali, delle piante o de' minerali [...OMISSIS...] 3 Ma la luce che viene dal Verbo non è mero oggetto perchè è vita7luce, e la vita è sentimento e quindi realità, non è dunque una mera idea. Non è dunque la nuda idea dell' essere quella vita, di cui parla S. Giovanni, che è la luce degli uomini. Che anzi quella vita, che è luce nel Verbo, non è solamente vita, sentimento, non è solamente luce7oggetto, onde la vita intellettuale, ma di più è vita7luce per sè amata nello Spirito Santo, onde viene la vita morale. Dunque S. Giovanni parla in questo luogo d' una luce compiuta, che santifica l' uomo e gli dà la sua ultima soprannatural perfezione. Quindi Gesù Cristo disse: « « Io sono la luce del mondo: colui che mi segue non cammina nelle tenebre, ma avrà il lume della vita »(2) ». E, dicendo: « « il lume della vita » », non solo unisce alla vita il lume, ma ben anco fa derivar questo dalla vita, giacchè la vita posta in genitivo, secondo il favellare orientale, indica « causato dalla vita », e propriamente « figliuolo della vita », ovvero avente la natura di vita: onde tali parole di Cristo rispondono a capello a quelle di S. Giovanni, che « « la vita era la luce degli uomini » ». Si chiama ancora da S. Giovanni Gesù Cristo « « il Verbo della vita » » in queste parole: « « Quello che fu dal cominciamento, quello che noi udimmo, che noi vedemmo cogli occhi nostri, che percepimmo e le nostre mani hanno contrettato del Verbo della vita »; (e la vita si è manifestata, e la vedemmo, e l' attestiamo ed annunciamo a voi questa vita eterna che era appresso il Padre e apparì a noi), «quello che vedemmo ed udimmo, l' annunciamo a voi »(1) ». Dove è da notare che l' espressione, « « Verbo della vita » » [...OMISSIS...] viene ad unire il lume alla vita, perocchè la parola verbo indica oggetto pronunciato, e l' oggetto, se è per sè oggetto, è luce della mente, onde significa un verbo che ha in sè vita, che ha natura di vita. E` anche da osservarsi in queste parole colle quali S. Giovanni commenta ciò che si legge nel suo Evangelio che abbiamo alle mani, che vi si dice che la vita era appresso il Padre, il che risponde alle parole: « Et Verbum erat apud Deum »; e dimostra la serie che tiene la narrazione dell' Evangelista a principio del suo Vangelo, cioè volendo egli annunziare che il Verbo della vita si è manifestato agli uomini, incomincia dal dire che era ab eterno appresso il Padre occulto agli uomini e che a questi si è manifestato nel tempo, quello stesso che stava prima del tempo appresso Dio; ed anche allora era essenzialmente vita ed eterna vita, ma non ancora vita a noi. Ma rimane fermo quello che dicevamo, che, rispettivamente alla nostra maniera d' intendere e di favellare, noi concepiamo che Iddio dev' essere in se stesso essenzialmente vita, anche prescindendo dalla considerazione e dalla cognizione del Verbo, onde si chiama continuamente nelle Scritture « « Iddio vivo »(2) », in contrapposizione degli Iddii morti e materiali degli idolatri; e S. Pietro usa la frase: « per Verbum Dei vivi (3) », attribuendo la vita a Dio, cioè al Padre onde il Verbo procede e onde riceve la divina natura; e il Salmista dice: « « Deus vitae meae »(4) »; e nel Deuteronomio dice Mosè al popolo che « Iddio è la sua vita (5) ». Ma quando si tratta della vita7luce degli uomini, allora non si può più intendere senza considerare Iddio come oggetto sussistente e vitale, e quindi è già un' iniziata cognizione del Verbo. E quantunque nella comunicazione a noi di questa vita7luce concorrano tutte e tre le persone divine, onde S. Paolo dice: « « colui che fu fatto da Dio a noi sapienza »(6) », attribuendo al Padre la missione del Figliuolo, perchè dal Padre viene generato e quindi anco mandato; tuttavia il termine di questa illuminazione vitale degli uomini è il Verbo, il quale è pure il termine dell' Incarnazione, benchè il principio di questa appartenga a tutta la Triade augustissima, ma del Padre sia propria in quanto è generatore. Il Verbo poi, a noi comunicatosi, emette e diffonde in noi, purchè non trovi in noi stessi ostacolo di peccato che lo impedisca, i doni dello Spirito Santo e lo stesso Spirito Santo che dal Padre e dal Figliuolo procede: con che si compie la nostra vita soprannaturale. Le quali cose premesse, sembra apparir più chiaro come queste parole di S. Giovanni, generali come sono, e tali in cui si parla degli uomini senza distinzioni, siano vòlte a dichiarare in che consiste qualsivoglia luce intellettiva dell' umana creatura. Qualunque raggio d' una tal luce, l' Evangelista c' insegna venire dal Verbo, perocchè questo è assolutamente detto esser la luce degli uomini. Non è egualmente detto in modo assoluto ed universale che il Verbo sia la vita degli uomini; perocchè non ogni vita è intellettiva, ma v' ha una vita animale, nella cui causa non è a noi necessario vedere l' oggetto7luce che si comunica, bastando che concepiamo una causa vivente qual' è l' essenza divina comune a tutte e tre le persone. Nulladimeno la vita animale non è la vita propria della creatura umana, essendo essa comune alle bestie; ma la vita propria dell' uomo è la vita intellettuale, la quale non si può spiegare senza supporre che innanzi allo spirito umano stia l' essere nella forma di oggetto, e però senza ricorrere ad una causa che sia ella stessa oggetto, e che all' uomo, come tale, si manifesti. Quindi dice S. Giovanni che la vita era la luce degli uomini. Or se si trattasse dell' essere meramente ideale, questo sarebbe luce, ma non sarebbe vita; perchè la semplice idea dell' essere non dà un sentimento reale, ma una pura intuizione. Qui non vi ha dunque quella « vita che è luce degli uomini ». Di che si deduce che, essendo « la vita che è nel Verbo la luce degli uomini », conveniva che questa fosse data nella prima istituzione del genere umano. Laonde, quando il Genesi narra: « « Il Signore Iddio formò adunque l' uomo del limo della terra, ed inspirò nella faccia di lui lo spiracolo della vita, e l' uomo fu fatto in anima vivente (1) » », conviene intendere per questo spiracolo della vita quella vita che è la luce e che è nel Verbo. E però è da dire, che il primo uomo fu costituito non già nel solo ordine naturale, al quale nulla più si esige che l' essere come oggetto ideale dato da intuire allo spirito; ma ben anco che fu costituito nell' ordine soprannaturale, al che si esige che l' essere come oggetto, dato ad intuire all' uomo come oggetto, sia reale, e quindi abbia in sè vita: onde al primo uomo fu fatta una cotale comunicazione dello stesso Verbo di Dio. E questo dichiara meglio in che modo l' uomo fu creato a imagine e similitudine di Dio secondo quelle parole: « « Facciamo l' uomo ad imagine e similitudine nostra, e presieda ai pesci del mare, e ai volatili del cielo, e alle bestie, e a tutta la terra, e ad ogni rettile che si muove sulla terra (2) » ». La quale imagine e similitudine di Dio, a cui fu fatto l' uomo, si vede primieramente in questo, che anche nell' uomo si riscontrano le tre forme dell' essere analoghe a quelle che in Dio costituiscono le tre divine persone: cioè la forma soggettiva, la forma oggettiva nell' essere che gli è dato ad intuire, e la forma morale nell' inclinazione e armonia di sè soggetto all' essere oggetto manifestato; e quindi anco le tre vite, reale, intellettuale, e morale che le due prime congiunge e nel cui abbracciamento affettuoso consiste. Ma la forma oggettiva dell' essere non è data all' uomo in modo da costituire una parte dell' uomo stesso, perchè l' uomo è puramente soggetto, e non può diventar oggetto, che sarebbe un diventare Iddio. E poichè l' oggetto essere è l' immagine dell' essere secondo il parlare delle Scritture, quindi i Padri osservano che l' uomo non si dice già l' uomo fatto imagine di Dio, ma fatto ad imagine, il che avviene perchè l' imagine di Dio è l' oggetto che egli intuisce secondo la sua primitiva istituzione (3). Quello che è propriamente chiamato imagine di Dio nelle scritture sante è il Verbo. Di Cristo dice S. Paolo: « qui est imago Dei (4) »; e altrove: « qui est imago Dei invisibilis (5) », dove quell' attributo d' invisibile, dato a Dio, indica chiaramente che Iddio si conosce pel Verbo, nel quale egli ha la forma di oggetto e però di lume, e appo Iddio invisibile stava il Verbo prima che si rivelasse. Perocchè, come dice S. Paolo stesso, « omne quod manifestatur lumen est (1) »; non potendovi essere altro che si manifesti se non il lume, il quale è visibile per se stesso, e l' altre cose per lui che le illumina. E posciachè quello che si conosce delle cose è la forma (2), chiamata anche figura [...OMISSIS...] che risponde all' idea, e non la materia o la mera sussistenza; perciò S. Paolo chiama Cristo figura, ossia, in greco, carattere : « qui cum sit splendor gloriae et figura substantiae ejus (3) ». Al che si riferisce altresì quello che già nelle antiche carte fu scritto della Sapienza, che « « ella è un vapore della virtù di Dio e una cotale emanazione sincera della chiarezza di Dio onnipotente; onde niente di macchiato incorre in essa, poichè è candore della luce eterna e specchio senza macchia della maestà di Dio e imagine della bontà di Lui (4) » ». Nel qual luogo sembra favellarsi della sapienza di Dio in quanto viene comunicata agli uomini: onde la sapienza oggettiva di Dio, che riducesi al Verbo, chiamasi « virtù di Dio », e la comunicazione di essa agli uomini « un vapore di tale virtù », la sapienza chiamasi « chiarezza di Dio onnipotente », e la comunicazione di essa « una cotal emanazione sincera »; la sapienza chiamasi « luce eterna », e la comunicazione « candore di quella »; la sapienza « maestà di Dio », la stessa maestà in quanto è comunicata « specchio senza macchia »; e finalmente la sapienza, in quanto ha in se stessa l' amabilità, che si riduce allo Spirito Santo, chiamasi « bontà di Lui », e la stessa bontà comunicata dal Verbo « imagine di essa bontà ». Ed ogni qual volta nelle divine scritture si nomina il volto o la faccia di Dio, queste metafore esprimono la conoscibilità di Dio; perocchè dal volto, o faccia, si conoscono gli uomini; e quindi tali espressioni nominano il Dio oggetto, il Dio conoscibile, il quale noi sappiamo essere il Verbo: onde molti Padri ottimamente interpretano quelle maniere di dire del divin Verbo, il quale è luce, o vita lucente per se stessa. L' uomo adunque fu istituito ad imagine di Dio, cioè colla percezione del divin Verbo, in quella maniera che spiegheremo in appresso, e quindi fu collocato in uno stato soprannaturale, dotato della divina grazia. E quantunque dalla parte dell' uomo non vi avesse alcun diritto a questo stato soprannaturale, nè la grazia costituisca un elemento di sua natura, nè tampoco un elemento di sua natura intelligente fosse una tale congiunzione di lui col Verbo, non appartenendo alla costituzione della natura umana se non la intuizione dell' essere ideale, senza la quale non potea essere intelligente, e però nè tampoco uomo; tuttavia dalla parte di Dio era convenientissimo, e di una necessità morale, che l' uomo uscente dalle divine mani fosse sublimato a tanta altezza, perocchè il Verbo era la luce degli uomini; e dando loro questa luce, si dava loro la vita altresì, perchè « nel Verbo era vita, e la vita era la luce degli uomini »: l' effetto così corrispondeva pienamente alla condizione della causa. L' Ecclesiastico così narra la istituzione de' primi uomini: « « Iddio creò l' uomo di terra e lo fece secondo la sua imagine. E ancora fece che si convertisse a quella, e secondo questa lo vestì di virtù. Gli diede copia di giorni e tempo, e gli diede il dominio di quelle cose che sono sopra la terra. Pose sopra ogni carne il timore di lui, e quasi signoreggiò le bestie ed i volatili. Creò da esso un ajuto simile a lui: diede loro consiglio e lingua, e occhi, ed orecchi, e cuore da pensare: e gli empì della disciplina dell' intendimento (1) » ». Le quali parole ben dimostrano che Adamo ed Eva furono dotati di doni soprannaturali, e di quello che è per natura sua soprannaturale, cioè della grazia, di modo che non l' idea mera dell' essere fu loro comunicata, ma altresì una incipiente visione del Verbo, nel quale è quella vita che è luce degli uomini. Ma qui si offerisce alla mente la questione: Se i primi uomini usciti recentemente dalla mano del loro fattore avessero impresso nelle loro anime il carattere, onde, non trovando ostacolo, provenisse la grazia e la loro santificazione. La qual questione si dee distinguere dall' altra: Se, avendo essi il carattere nell' animo loro, questo fosse uguale a quello che si riceve ora dagli uomini nel lavacro battesimale istituito da Gesù Cristo, o in che differisse. Lasciando per intanto questa seconda questione, parmi poter sciogliere la prima affermativamente: e ciò perchè il carattere, preso generalmente, essendo la manifestazione abituale del Verbo allo spirito umano, non poteva mancare a quelli che erano creature intelligenti di quel Verbo nel quale era la vita luce degli uomini. Ma, come vedremo poi in appresso quando tratteremo la seconda delle due questioni proposteci, questo carattere in Adamo ed Eva era potenziale, e però non indelebile; quando nel Cristiano è del tutto attuale ed indelebile; e forse per questo non si dice espressamente nelle Scritture che i primi Padri del genere umano avessero il carattere, riserbandosi questa parola a significare propriamente il carattere del Cristiano. E tuttavia questo luogo di S. Giovanni sembra acconcio a provare che si può in qualche modo attribuire un carattere divino ai primi uomini. I primi uomini avevano abitualmente la luce soprannaturale, e questa luce non è una mera idea, ma è vita, vita che sta nel Verbo. Dunque era loro data una cotal percezione del Verbo, nel che sta il carattere di cui parliamo. La stessa parola di carattere è propria del Verbo, che S. Paolo chiama «karakter tes ypostaseos autu» (1), da cui crediamo esser provenuta la denominazione di carattere, a quel primo effetto del battesimo che consiste in una cotal impressione del Verbo nelle umane menti. Il che riceve conferma dall' addotto passo dell' Ecclesiastico, dove sembra distinguersi con precisione ed esattezza il carattere impresso nell' intelligenza del primo uomo, dalla grazia santificatrice della sua volontà. Perocchè il primo è significato in quelle parole: « « che fece l' uomo secondo la sua imagine » », la quale imagine di Dio, come vedemmo, non è altro che il Verbo: [...OMISSIS...] la seconda, cioè la grazia abituale e santificante, è significata in quel che soggiunge, che, dopo averlo fatto secondo l' imagine sua, fece che a questa egli si rivolgesse e convertisse: « et iterum convertit illum in ipsam »; la qual conversione di Adamo all' imagine non pare potersi intendere altramente che della soave inclinazione della sua volontà ad amare e ad aderire all' imagine di Dio, secondo la quale era fatto, cioè al Verbo divino lucente nella sua intelligenza, al che fare non trovava ancora alcun ostacolo di peccato. Nè egli sembra che il « convertit illum in ipsam » si possa intendere della conversione a Dio di Adamo peccatore, perchè il sacro scrittore aggiunge in appresso la formazione di Eva: onde nel luogo da noi citato parla di Adamo, se non andiamo ingannati, in quel tempo in cui non aveva ancora peccato nè ricevuto da Dio l' ajuto che poi gli fece della sua compagna. Il che è confermato dalle parole, che seguono a quelle: « et iterum convertit illum in ipsam », le quali sono: « et secundum se vestivit illum virtute », accomodatissime a significare la grazia abituale. Nè l' essere stato vestito di virtù appartiene ad Adamo dopo il peccato, ma alla prima sua istituzione. Egli sembra che per questo appunto l' Apostolo chiami rinnovazione dell' uomo quella fatta da Cristo, il quale venne a togliere il peccato introdotto da Adamo nel mondo, e a restituire alla sua prima origine l' opera di Dio, benchè, in ciò facendo, l' abbia elevato ad una dignità e santità vie maggiore: « « Ora rinnovatevi nello spirito della mente vostra, dice S. Paolo a que' di Efeso, e vestite l' uomo nuovo che fu creato secondo Dio nella giustizia e nella santità della verità »(1) ». E a' Cristiani di Colossi dice: « « Spogliandovi l' uomo vecchio cogli atti suoi, e vestendovi il nuovo, quello che si rinnova nel conoscimento secondo l' imagine di lui che lo creò »(2) ». Vero è che questi luoghi si potrebbero intendere unicamente dell' uomo nuovo formato da Cristo, che fu una cotal creazione, senza ricorrere all' esempio di Adamo; ma tuttavia la parola « qui creatus est » sembra fare allusione alla creazione di Adamo stesso. Oltre di ciò, dicendosi « « l' uomo nuovo rinnovato nel conoscimento » [...OMISSIS...] «secondo l' imagine di lui che lo creò » », viene ad alludere manifestamente alla prima creazione dell' uomo, che dal Genesi è detto « « fatto ad imagine di Dio » ». Di più in questo luogo dell' Apostolo non si dice solamente « « l' uomo nuovo » », ma, secondo il testo originale, si aggiunge « « rinnovato nel conoscimento » », onde non si parla unicamente di una cosa nuova, ma di una vecchia ripristinata nella sua condizione primitiva di conoscimento. Il quale conoscimento secondo l' imagine di lui che lo creò, viene a significare « il conoscimento secondo il Verbo », giacchè l' imagine di Dio è il Verbo, e quindi viene a significare il carattere impresso nell' anima, che è pure il Verbo chiamato da S. Paolo « « carattere della sussistenza di Dio » ». Alla predetta sentenza potrebbe fare qualche difficoltà il luogo dove l' Apostolo scrive: « « Si semina un corpo animale, sorgerà un corpo spirituale. Se vi ha un corpo animale, vi ha del pari un corpo spirituale, siccome è scritto: Il primo uomo Adamo fu fatto in anima vivente (1), il novissimo Adamo in ispirito vivificante. Ma non è prima quello che è spirituale, sì quello che è animale; di poi quello che è spirituale. Il primo uomo dalla terra, terreno; il secondo uomo dal cielo, celeste. Quale il terreno, tali anche i terreni; e quale il celeste, tali anche i celesti. Laonde, siccome abbiamo portato l' imagine del terreno, portiamo anche l' imagine del celeste. E questo dico, o fratelli, perchè la carne e il sangue non possono possedere il regno di Dio, nè la corruzione possederà l' incorruzione (2) » ». Se questo luogo si potesse intendere di Adamo peccatore, la difficoltà sarebbe superata. Ma fanno ostacolo a ciò le citate parole del Genesi: « Et factus est homo in animam viventem », le quali dal sacro storico sono dette di Adamo quando fu creato innocente, di conseguente prima d' aver peccato. Convien dunque dire che l' intendimento dell' Apostolo qui sia quello di magnificare i doni e le grazie conferite all' umanità da Cristo sopra quelli che ebbe ricevuto Adamo quando fu creato. E questa sopraeccellenza dell' uomo in Cristo rinnovato sopra l' uomo da Dio creato, risulta dal contesto di tutto il luogo dell' Apostolo, e particolarmente da quelle parole: « Primus homo de terra terrenus, secundus homo de coelo coelestis ». Questo secondo uomo venuto dal cielo, e non cavato dalla terra, è il nostro Signor Gesù Cristo, come risulta chiaramente dal testo greco, che, invece di dire: « dal cielo celeste », dice: « « Signore dal cielo », [...OMISSIS...] . Onde viene a dire che il primo Adamo fu semplice uomo, ma il secondo Adamo fu Dio, fu il Verbo divino, proveniente non dalla terra, ma dal cielo sede di Dio; fu il Signore, [...OMISSIS...] , di tutte le cose ed anco dell' antico Adamo. Laonde il primo uomo trasse l' origine dalla terra corruttibile, benchè poi Iddio lo vivificasse col suo spiro e così lo rendesse anima vivente, partecipe della vita, non solo animale e intellettiva, ma di quella vera vita che era nel Verbo. Ma se quel primo uomo era anima vivente, non era però spirito vivificante, siccome è il Verbo divino; il quale non solo ha la vita, ma è vita egli stesso (1), e quindi la può dare, ed è quello che la dà agli altri, onde da S. Pietro è chiamato « « autore della vita »(2) », che equivale allo « « spirito vivificante » » di S. Paolo. Qa quello che è la vita non può mai mancare la vita; ma quello, che è solamente vivente, può morire, può perderla, com' è avvenuto ad Adamo: e perciò non era per se stesso incorruttibile ed immortale, come non era impeccabile. Era di natura sua corruttibile perchè formato di terra, la quale poteva sciogliersi in polvere, come la polvere che era stata raccolta a forma di uomo. Era peccabile perchè non era la stessa vita morale, ma questa vita l' aveva ricevuta da quello che era la vita; ed era stato collocato nel suo libero arbitrio di conservarla, o di fare miseramente getto di essa. [...OMISSIS...] . Così l' Ecclesiastico. Il nuovo uomo all' incontro è impeccabile perchè è Dio, è comprensore ad un tempo e viatore, è confermato in grazia come quello che è l' autore della grazia (4) e fu unto dal Padre (come uomo) e mandato nel mondo (come Dio) (5). Adamo non poteva dar la grazia a' suoi discendenti, ma il nuovo Adamo dà loro la grazia. Adamo non poteva dar loro l' immortalità, ma Cristo la dà loro: nell' uno e nell' altro senso egli è spirito vivificatore. Quindi anche la differenza fra la grazia data da Dio ad Adamo, e la grazia che è in Cristo e che Cristo comunica a' suoi seguaci. S. Agostino dice che la grazia data ad Adamo era un ajuto senza il quale l' uomo non poteva operare il bene soprannaturale, ma la grazia di Cristo, e comunicata al Cristiano da Cristo per mezzo del suo spirito, è un ajuto, col quale si opera il bene soprannaturale (6). Era l' uomo che operava in Adamo, non però senza la grazia: e la grazia di Cristo è Cristo stesso (7) che opera nel cristiano tutto il bene soprannaturale che fa il cristiano, non però senza il cristiano. [...OMISSIS...] , dice S. Paolo, [...OMISSIS...] . Non già che l' uomo non possa resistere alla grazia; l' uomo può volere il male. Ma quando il cristiano opera il bene, allora è Cristo, allora è la grazia di Cristo che opera in lui e con esso lui. Laonde quando S. Paolo esorta que' d' Efeso e que' di Colossi a vestire l' uomo nuovo, e spogliare il vecchio, allora per quest' uomo nuovo s' intende Cristo, e quelle parole equivalgono a quest' altre: « Induimini Dominum Jesum Christum (2) ». Il che viene ad indicare una cotale congiunzione fisica del Cristiano non solo col Verbo, ma col Verbo incarnato, il N. S. Gesù Cristo; connessione insegnata da Cristo stesso quando disse che egli era la vite e i suoi discepoli erano i tralci che dalla vite suggevano l' umore vitale di cui si nutrivano e vivevano (3). E` la vite il principale agente di tutte le operazioni del tralcio, benchè queste sieno operazioni del tralcio, senza il quale esse non sarebbero: onde chi opera nel cristiano le operazioni della vita soprannaturale è Cristo col cristiano, la vite col tralcio, non ego sed gratia Dei mecum . In Adamo innocente era l' uomo che operava colla grazia di Dio; nel cristiano è la grazia di Dio coll' uomo: in Adamo era l' uomo, ma senza la grazia non poteva nulla, auxilium sine quo; nel cristiano è la grazia di Dio, ma questa senza l' uomo nulla farebbe, auxilium quo . Lo stesso insegna l' Apostolo quando paragona la Chiesa di Gesù Cristo al corpo umano (4). Di questo mistico corpo Cristo è il capo, i fedeli sono le membra. La vita e le operazioni vengono dal capo unito alle membra, e quantunque le membra ricevano tutto dal capo, tuttavia anch' esse operano unite con lui. Ma rimane sempre che Cristo sia il capo onde ogni bene e ogni vita deriva. Con un' altra similitudine ancora si chiarisce quell' intimo nesso che ha Cristo con quelli che in lui sono incorporati. Tutti insieme formano un solo edifizio, una sola casa, ma Cristo è il fondamento che la sostiene (5). Questi diversi paragoni spiegano quella intima segreta unione che congiunge Cristo qual nuovo Adamo con quelli ch' egli genera spiritualmente alla vita eterna che è in lui. Ma prima di perscrutare più addentro cotesta unione, noi dobbiamo dimostrare alcune altre differenze che conseguono al principio da noi posto della differenza prima fra lo stato soprannaturale di Adamo e quello dell' uomo rigenerato in Cristo e da Cristo. Primieramente l' uomo incorporato a Cristo sente che non è egli che opera il bene, ma Cristo con lui, « non ego sed gratia Dei mecum, » e ciò pel merito della passione sofferta da questa grazia di Dio, « ut gratia Dei pro omnibus gustaret mortem (1) ». Essendo dunque Cristo che opera tutto il bene soprannaturale nel corpo de' fedeli di cui è capo, il fedele sente profondamente la verità che Cristo stesso gl' insegnò dicendo: « Sine me nihil potestis facere (2) », e sente nello stesso tempo che tenendosi in Cristo egli può tutto: « omnia possum in eo qui me confortat (3) ». « « Io sono la vite, voi i tralci: quello che si tiene in me, ed io in lui, questi porta molto frutto. Poichè senza di me non potete far nulla. Se alcuno non rimane in me, sarà gettato fuori siccome un tralcio, e si seccherà, e lo metteranno nel fuoco ed arderà. Se vi rimarrete in me, e le mie parole rimarranno in voi, qualunque cosa vorrete la dimanderete e vi avverrà. In questo è chiarificato il Padre, che voi apportiate il massimo frutto, e diveniate miei discepoli »(4) ». Dalle quali parole si ricava: 1 Che senza Cristo l' uomo non può far nulla. 2 Che tenendosi in Cristo l' uomo può portare molto frutto, anzi il massimo frutto e divenire discepolo di Cristo, parola altissima che dice tutto: può portare tutto il frutto che vuole, perocchè qualunque cosa voglia, egli anche la domandi, essendo l' orazione il segno della vera volontà cristiana, e domandata gli avviene. Ma non tutti quelli che si tengono in Cristo vogliono le stesse cose, e quindi non tutti acquistano lo stesso grado di santità, perocchè non a tutti è dato di ugualmente volerle e di dimandarle. Ma tutt' insieme il Corpo mistico di Gesù Cristo porta tuttavia il massimo frutto, secondo il calcolo infallibile del celeste agricoltore, e ciascuno porta il massimo frutto comparativamente al grado di volontà che gli è data, perchè tutta quella volontà che egli ha soprannaturalmente viene a pieno trasfusa nell' orazione ed adempita da Cristo, il quale è « « verità »(5) », cioè reale compimento dell' idea. E tuttavia niuno è forzato a tenersi in Cristo, e nè pure necessitato, qualora non sia confermato in grazia; onde Cristo dice a' suoi discepoli: « « Tenetevi in me, ed io in voi »(1) », a ciò esortandoli, perocchè la libertà di fare il male non è tolta agli uomini. Onde gli uomini possono col loro libero arbitrio staccarsi da Cristo, e non riceverne più la benefica e vitale influenza; e possono non distaccarsi da lui, e allora, rimanendo in lui, possono fare tutto il bene che vogliono e che domandano, perchè Gesù Cristo è quegli che lo vuole e lo domanda in essi e con essi. Onde da S. Giovanni questa unione si chiama anche società: [...OMISSIS...] . Da' quali due principii, che l' uomo non fa nulla di bene soprannaturale per sè, ma che tutto il bene lo fa Cristo in lui e con lui, e che Cristo con esso lui può fare tutto ed egli in Cristo apportare il più abbondevole frutto, procedono due sentimenti nel Cristiano: quello del proprio nulla e quello della propria grandezza dignità e potenza. Il sentimento del proprio nulla è luce a lui, perchè gli dà la consapevolezza della propria impotenza e nullità ad ogni bene, e della potenza di Cristo che in lui fa tutto e può tutto. Questo sentimento e questa luce di Cristo che ne rifulge, è l' origine, la prima la sommaria causa dell' umiltà cristiana, fondamento e condizione della virtù de' seguaci e discepoli del Salvatore. Come alla presenza d' un leone, un cagnolino chiuso con esso lui trema sentendo la nullità delle sue forze verso a quelle del generoso re della foresta; così ed assai più, ma in senso tutto diverso, il vero discepolo si sta annullato in se stesso e quasi tremante pel sentimento di Cristo, di quel Leone di Giuda che è in lui, con cui abita in un modo più vicino e più stretto che non il cagnuolo nella gabbia del leone, di quel possente che è in lui e con lui fa tutto il bene, quand' egli nulla può senza di lui, ed anzi non ha che la potenza del male: onde santamente e giustissimamente non pur non si pregia, ma odia e dispregia se stesso. E come il Leone potentissimo di Giuda divora, per così dire, nel cuore dell' uomo l' uomo stesso, facendo che s' annichili nell' umiltà: così in pari tempo usa di tutta la sua potenza, non al male, ma al bene, non alla morte, ma alla vita di quello entro cui vive ed opera; ma dandogli la propria vita immortale invece della sua mortale. Onde l' umiltà dell' uomo incorporato all' Uomo7Dio non è unita col timore riverenziale del suo redentore e vivificatore che in lui abita e con quel sentimento di timore che nasce sempre in presenza d' una immensa potenza anche benefica; ma bensì è unita con gran timor di se stesso di non istaccarsi forse dalla sua vita, cioè dallo stesso Signor nostro Gesù Cristo coll' arbitrio che gli rimane di operare il male. Quindi è che negli uomini santi, durante specialmente la visitazione superna e la comunicazione di lumi e di grazie gratofacienti, ne' quali momenti il sentimento della presenza di Cristo è più vivace, non si manifesta la tentazione di vanagloria e di superbia, quando anzi sono occupati e compresi da un sentimento indicibile di umiltà e si senton sospinti incredibilmente a glorificare Iddio: il che attestano essi medesimi, come si può vedere, fra gli altri scritti dei santi, nelle opere di S. Teresa di Gesù. Ora questo sentimento immenso d' umiltà, che è uno de' caratteri più meravigliosi della virtù cristiana, non era come in noi nel primo uomo Adamo, benchè fornito del carattere e della grazia; perocchè il carattere e la grazia in lui era d' altra natura lungamente diversa da quella che ha il carattere e la grazia di Cristo. Era l' uomo che operava in Adamo, benchè non senza la grazia. Adamo viveva d' una vita sua propria, naturale, benchè sublimata da doni soprannaturali. La sua natura era piena e perfetta, e n' aveva tutto il sentimento, n' aveva la gioia e la forza. Il cristiano non ha altra vita con cui opera e di cui fa stima che la vita di Cristo. La sua vita naturale nulla la stima, e non aspetta da lei quelle operazioni vitali colle quali ottenere il compiuto suo bene. Adamo era creato per godere della felicità naturale, entro i limiti della giustizia, e per passare poi gradatamente ad una felicità soprannaturale, che sarebbe stato un compimento di quella prima, e ciò di mano in mano ch' egli si fosse avanzato nella virtù e nel conoscimento ed amore di Dio, alla cui contemplazione poteva attendere se avesse voluto, e più o meno com' egli avesse voluto. La scelta lasciata al suo libero arbitrio era nell' occuparsi più o meno al godimento onesto de' doni naturali, ovvero più o meno alla contemplazione ed all' affetto delle cose celesti. La grazia gli era pronta se avesse voluto servirsene, la grazia accompagnava le sue azioni anche naturali mantenendone specialmente la rettitudine ne' rapporti con Dio: ma in quanto all' oggetto stesso diretto de' suoi affetti, rimaneva in suo arbitrio lo scegliere Iddio, o la natura retta ed onesta. Onde il carattere era in lui piuttosto potenziale, che attuale: il Verbo gli stava presente e Adamo potea rivolgersi al Verbo, piuttostochè fosse impresso nell' anima sua e la dominasse come principio operativo. Con che si incomincia a dare qualche soluzione alla questione propostaci innanzi (Lez. LIV, p. 139): qual differenza vi avesse fra il carattere indelebile de' primi uomini, e il carattere indelebile del Cristiano. E veramente leggiamo nel Genesi, dove descrive l' istituzione del primo uomo: [...OMISSIS...] . Nelle quali parole da una parte è detto che l' uomo fu fatto ad imagine di Dio, dall' altra non gli è assegnato altro che il dominio sulla natura, il nutrimento della natura, l' occupazione intorno la natura, e un limite posto con un precetto divino alle cose di cui doveva l' uomo cibarsi. Convien dunque riflettere che le operazioni dell' uomo possono essere ornate di due specie di moralità, sia naturale, sia soprannaturale: la moralità di forma, e la moralità d' oggetto. La moralità di forma è quella che rende l' azione buona ed ordinata, quantunque l' azione abbia per oggetto cosa materiale e non morale, come il mangiare e il moltiplicarsi (coll' accennarsi nel Genesi di queste due cose solamente, si volle dimostrare il modo come Iddio istituendo l' uomo provvide alla conservazione dell' individuo, e anche della stirpe sopra la terra): la moralità d' oggetto, all' incontro, è quando l' uomo si occupa direttamente d' un oggetto per sè morale, come di Dio, e della virtù prendendola per fine. Ora questa seconda specie di moralità era quella a cui Adamo doveva innalzarsi in appresso col suo libero arbitrio, ma non era quella in cui venne da Dio costituito. Perocchè Iddio nell' istituire l' uomo nulla fece di ciò che l' uomo potesse fare da se stesso: volle, secondo l' economia della divina sapienza, che l' uomo stesso divenisse l' autore della sua perfezione morale, e quindi lo costituì nell' infimo grado della moralità soprannaturale, quasi seme onde poi dovesse svolgersi la gran pianta. Tuttavia gli accennò il fine delle sue operazioni nella narrazione della creazione, che è da credersi comunicata ad Adamo in quelle parole « et requievit die septimo ab universo opere quod patrarat. Et benedixit diei septimo, et sanctificavit illum, quia in ipso cessaverat ab omni opere suo, quod creavit Deus ut faceret (1) ». La quale benedizione data al giorno settimo, chiamato la requie del Signore, e la santificazione del detto giorno, era o un precetto, o certo un invito a' primi padri di consacrare questo tempo al riposo dalle occupazioni terrene e alla contemplazione delle celesti e divine, ed accennava la requie perpetua e beata a cui eran chiamati dopo compito lo stadio delle occupazioni terrene. Una adunque delle principali differenze fra la condizione in cui da Dio fu posto Adamo, e la condizione del Cristiano, si è che in quello dominava ed operava la natura umana perfetta e felice in tutto il suo vigore, accompagnata però da quella grazia, colla quale, se avesse l' uomo voluto, poteva e non abusare de' doni naturali ubbidendo Dio, ed altresì sollevarsi a contemplare ed amare direttamente Iddio come supremo ed infinito oggetto di beatitudine; nel Cristiano all' incontro la natura umana sua propria non ha alcun valore, alcuna virtù, in ordine alla vita eterna: ei non è chiamato a nulla se non alla distruzione ed alla morte; ma in quella vece chi opera in lui è la natura umana di Cristo, natura perfetta, trionfatrice della morte. Perocchè, in un modo ineffabile e misterioso di cui ci verrà forse altrove occasion di parlare, l' umanità gloriosa di Cristo è in una comunicazione reale ed unione permanente con tutti quelli che hanno ricevuto il battesimo e gli altri sacramenti, onde vivono della vita di Cristo; e da questa vita procedono i loro atti e tutto il bene soprannaturale che fanno, sia di forma, sia d' oggetto, nè altro prezzano che questo bene. L' uomo cristiano adunque che si tiene in Cristo, sentendo che un altro e potentissimo opera in lui e con lui, ha una certa consapevolezza d' essere escluso ed annullato nelle operazioni della vita eterna: annullato cioè in questo senso ch' egli non è più il principio supremo onde partano le dette operazioni, ma partono da un altro principio verso al quale egli tiene ragione quasi di attivo istrumento. Quindi il fondamento profondo della cristiana umiltà. Ma a questo si aggiunge, quasi a rinforzo dell' umiltà stessa, che la vita naturale del figliuolo di Adamo peccatore è inferma, mortale, precaria, e di più ha qualche cosa di ripugnante a dilatarsi nell' infinito, e ad abdicare se stessa per lasciare il governo dell' uomo e il principio dell' attività alla vita di Cristo. Quindi la lotta fra la carne e lo spirito, e le grida del principio soprannaturale del Cristiano contro la propria animalità: « « Me uomo infelice! Chi mi libererà dal corpo di questa morte » », e soggiunge: « « La grazia di Gesù Cristo Signor nostro (1) » ». Perocchè la grazia è appunto quel principio supremo che s' aggiunge all' uomo, e questo principio è Cristo stesso che diviene così primo operatore delle azioni dell' uomo che non gli si oppone: onde l' uomo dominato da questo principio è divenuto uomo nuovo . Questo è il mistero della vita cristiana dichiarato ai Romani specialmente dall' apostolo Paolo, la qual vita non apparteneva nè punto nè poco ad Adamo ed Eva. Questi erano creati innocenti: peccarono essi stessi e la loro discendenza divenne serva del peccato. Ecco la base della grandezza cristiana: l' annullamento dell' uomo morale avvenuto pel peccato, l' essersi reso l' uomo inetto al fine per cui fu creato. Da questo principio muove S. Paolo nella sua meravigliosa lettera ai Romani: [...OMISSIS...] . Dice gli uomini in quello nel quale peccarono volendo dire gli uomini in quanto erano in Adamo, perocchè in Adamo era la natura umana che dovea poscia rifondersi in altri individui. Onde quella che peccò fu la natura umana in Adamo; per la qual cosa il peccato originale ne' posteri dicesi « peccato della natura », e gl' individui o suppositi diconsi aver peccato in quanto ricever dovettero la natura peccatrice. La natura poi si fa peccatrice perchè la natura umana non è solamente fisica, nè solamente intellettuale, ma ella è altresì essenzialmente morale, come quella che è fornita di volontà; e la volontà come natura morale può rendersi difettosa per un agente disordinato che la disordina, quale nel caso nostro è il corpo, la cui concupiscenza non è più in balìa totalmente della ragione libera, ma opera senza di questa in parte, e a dispetto di questa, in quanto che la volontà rimane a lei aderente e con esso lei legata in modo da esser sottratta alla dominazione dell' uomo, o per dir meglio alla libertà determinantesi pel bene; la qual forza della libertà, o è così fiacca che non sorge a combattere la volontà lusingata dalla concupiscenza, o, se sorge scossa dalla bellezza della virtù che gli dimostra innanzi l' intelletto, non ha polso da eseguire. Il che è quello che dice S. Paolo in persona propria parlando dell' uomo peccatore: [...OMISSIS...] . Di che induce l' esistenza in tutti gli uomini del peccato originale, come principio d' operare il male che prevale [...OMISSIS...] . La legge del peccato risiede dunque, secondo l' Apostolo, nelle membra del figliuolo di Adamo, e questa legge è la concupiscenza che, non vinta dalla grazia di Cristo, cattiva l' uomo, lo spoglia della sua libertà al bene perfetto: e questo debilitamento o spogliamento della libertà del bene, onde la volontà aderisce alla concupiscenza, è quello che chiamasi peccato originale nei posteri; peccato abituale, principio operativo del disordine, il quale però non ha la nozione di colpa, come insegna l' Angelico, perchè è nell' uomo che viene ingenerato alla vita, senza che sia in potestà dell' uomo stesso l' evitarlo. Non è già che l' Apostolo non conceda al libero arbitrio del figliuolo di Adamo il fare anche qualche bene naturale. Il concede [...OMISSIS...] . Ma primieramente l' Apostolo accusa i gentili di non aver fatto nè pur quel poco di ben naturale che avrebbero potuto fare con quelle forze morali che lor rimanevano, e perciò gli chiama inescusabili. E rispetto a questo gli accusa per due capi. Dice in primo luogo che col lume della ragione conoscevano Iddio, e colla loro volontà non lo riconobbero, anzi si sforzarono d' imbrattare e sfigurare il concetto di Dio che era in essi: [...OMISSIS...] . Egli è certo che se i gentili avessero conservato netto quel concetto della divinità che dava loro la ragione contemplatrice dell' universo, e ad essa fossero ricorsi per ajuto, ella avrebbe loro sovvenuto nella sua essenziale misericordia. Ma non avendo voluto far questo, s' aggravò d' assai la loro condizione morale. E prima di tutto s' oscurò il loro cuore insipiente, perchè datosi liberamente ad un male che potevano evitare: il quale così oscurato li precipitò nell' idolatria: [...OMISSIS...] . Così non ebbero il soccorso da Dio, onde solo potevano averlo, e Iddio li abbandonò al loro reprobo senso, il quale, già originalmente viziato, divenne per la volontaria corruzione viziato ancor di più e privo dell' unico faro che potevano avere, se avessero voluto, nel loro naturale intendimento, un concetto puro e sincero di Dio. Quindi le passioni ignominiose che descrive l' Apostolo (3). Dice in secondo luogo San Paolo che sono inescusabili perchè essendo tanto deboli e miseri, in vece d' umiliarsi riconoscendo il proprio stato, anzi s' insuperbivano, e i superbi si chiudono ogni adito alla divina misericordia. Già la superbia stessa delle loro immaginazioni era stata la causa dell' idolatria. Perocchè: « dicentes se esse sapientes, stulti facti sunt (4) ». Or questa stessa superbia soprastante, anzi crescente al colmo nel fondo della corruzione, faceva sì che, nel mentre essi erano tanto rei, pigliassero tuttavia l' aria di dottori e di giudici co' loro simili, co' quali giudizi condannavano se stessi: [...OMISSIS...] . Nel qual errore di condannare superbamente i proprii simili erano incorsi principalmente gli Ebrei, i quali condannavano fieramente i Gentili e vantavan se stessi d' avere la legge di Mosè che non osservavano. Di che raccoglie S. Paolo che tutti e Gentili e Giudei erano colpevoli, cioè non solamente erano macchiati originalmente del peccato ereditato dal primo padre, ma ben anco da' peccati loro proprii, e da quello principalmente, che più impediva che Iddio li soccorresse, della superbia, disconoscendo essi l' impotenza in cui erano di operare il bene, o gloriandosi e giudicando gli altri, invece di umiliare e giudicare secondo la verità se stessi: [...OMISSIS...] . Ma lasciando da parte i peccati attuali e liberi, osserva S. Paolo che quantunque colle forze morali, che rimanevano all' uomo, questi avrebbe potuto fare qualche bene secondo natural legge, tuttavia ciò non bastava a salvarlo perchè « bonum ex integra causa, malum ex quolibet defectu . » Tale è l' ordine morale, che egli è uno, semplice, tutto intero, e mancandone solo una parte viene distrutto. [...OMISSIS...] . Ora a questo è impotente per sè l' uomo concepito in peccato, e perciò l' uomo non può operare la propria salute che è il bene morale completo: non la potè il gentile perchè non seppe osservare compiutamente la legge naturale, non la potè l' ebreo perchè non seppe osservare compiutamente la legge mosaica: [...OMISSIS...] . Il figliuolo adunque di Adamo è nullo nell' ordine morale, perchè non può colle sue sole forze ottenere il verace bene morale nè nell' ordine naturale, e molto meno nel soprannaturale. Il sentimento, la ricognizione pienissima di questa verità è la seconda ragione che noi vogliamo esporre dell' umiltà cristiana. Questo sentimento non poteva essere in Adamo, appunto perchè, come dicevamo, aveva la natura intellettiva perfetta coll' integrità del suo libero arbitrio, vestito altresì della grazia che lo trasportava nell' ordine soprannaturale: onde in lui era il sentimento vivissimo delle proprie forze colle quali operava il bene. Certamente Adamo ancora aveva cagione di professare l' umiltà, come l' ha ogni creatura, anche il più sublime degli angeli: ma quella era un' umiltà lungamente diversa dalla cristiana, consistendo unicamente nel riconoscere i limiti della propria natura, e la intera dipendenza di questa natura sua dall' Essere Supremo, onde aveva tutto ricevuto, onde tutto riceveva di continuo colla conservazione, e d' onde doveva aspettare il rallargamento dei proprii limiti, a cui l' idea illimitata dell' Essere che gli splendeva innanzi lo chiamava, e Iddio gliene aveva dato l' arra ed il mezzo nella grazia conferitagli. Adamo riconobbe bensì i proprii limiti, ma non la compiuta sua dipendenza da Dio, e cercò altrove di completarsi ed estendere se medesimo, dando orecchio alla seduzione diabolica, che gli persuase poter diventare un Dio mangiando del frutto vietato. Invece adunque di ricorrere a Dio pel proprio ingrandimento e completamento, cercò questo nella creatura alla quale diede pazzamente una virtù misteriosa e divina di trasformare gli uomini in altrettante divinità. Fu probabilmente ingannato dalla grandezza della natura angelica che gli si diede a conoscere; della qual grandezza angelica non abbracciando colla limitazione umana i determinati confini, la credè onnipotente ed infinita: e a questa natura angelica egli credette probabilmente d' incorporarsi mangiando quel frutto dal demonio posseduto ed investito. Così, nel congiungersi al demonio per mezzo del cibo, aspirò alla somma grandezza fisica ed intellettuale, e dimenticò la grandezza morale a cui non si volse come ad oggetto; la qual grandezza morale e completa, che trae seco le due prime, gli era offerta nel congiungimento di lui con Dio, che avrebbe dovuto perfezionare coll' ubbidienza alla sua volontà e quindi coll' umiliarsi. Credette di arrivare alla dilatazione dei proprii confini senza por mente all' elemento morale, dove la vera grandezza consiste; e quindi senza bisogno d' umiliarsi e di dipendere dal suo creatore: il che secondava il sentimento delle proprie forze, quale la natura piena e perfetta a lui infondeva. Fin qui noi abbiam favellato del primo dei due sentimenti che abbiamo detto esser proprii del Cristiano, cioè dell' uomo incorporato in Cristo: abbiamo favellato del sentimento del proprio nulla onde s' origina l' umiltà cristiana; ed abbiamo veduto come un tale sentimento non poteva essere in Adamo innocente. Dobbiamo ora considerare il secondo sentimento, prodotto nel Cristiano dalla presenza in lui di Cristo, ed è quello della magnanimità . Come l' uomo cristiano sente di non poter nulla da sè solo, di avere una natura guasta che ricalcitra al bene morale perfetto, e che concupisce contro lo spirito; così sente ancora di possedere un nuovo principio di vita spirituale, il quale è lo stesso Signor nostro Gesù Cristo con esso lui meravigliosamente congiunto. L' uomo primitivo, Adamo, dotato di una natura umana perfetta, doveva ascendere dalla perfezione fisica alla intellettuale, e dalla perfezione intellettuale alla morale. La natura fisica come pure l' intellettuale era retta in lui, e la sua volontà era fornita di un dono di grazia col quale poteva innalzarsi alla percezione sempre maggiore di Dio per mezzo della fedele ubbidienza che avesse prestato alla sua volontà manifestatagli in un precetto positivo. Egli indugiò sulla via prescrittagli, e invece di percorrere indivisamente i tre gradi dell' azione animale, intellettuale e morale, si arrestò a' due primi, non fece il terzo dell' ubbidienza al creatore, si fermò a voler solo la propria grandezza fisica ed intellettuale, e per ottenerla, senza la suggezione alla legge morale, tentò di unirsi cogli angeli prevaricatori mangiando il frutto vietato di cui essi erano probabilmente in possesso. Tutt' altra è la via del Cristiano. Questa non incomincia dalla perfezione fisica o intellettuale, ma dalla morale. Quelle due prime non contano più nulla perchè guaste irreparabilmente. Ma ricuperata soprannaturalmente una nuova vita morale, questa è quella che risuscita, riconquista e restituisce all' uomo le due prime. Questa vita morale viene ricuperata dall' uomo colla sua congiunzione a Gesù Cristo, che è il pane disceso dal Cielo: e in questa vita morale e soprannaturale di Gesù Cristo, partecipata dall' uomo, consiste la nuova dignità dell' uomo, la sua grandezza, la sua potenza, e il sentimento che noi dicevamo della magnanimità cristiana. Il primo effetto di questa nuova vita che riceve l' uomo venendo incorporato a Cristo, si è il sentimento della potenza morale, col quale egli disprezza la vita precedente, fisica e intellettuale, e così si sente superiore alla morte. Questa superiorità alla morte veniva espressa da S. Paolo [...OMISSIS...] . Il disprezzo della vita fisica e di tutte le cose umane veniva espresso dall' Apostolo medesimo in quest' altre parole a que' di Filippi: [...OMISSIS...] . Il disprezzo della vita intellettuale nuda separata dalla morale, fu pure espresso da S. Paolo così a que' di Corinto: [...OMISSIS...] . Il secondo sentimento che si racchiude nella magnanimità del Cristiano è quello della ricchezza e della padronanza che il Cristiano sente d' aver ricevuto su tutte le cose della natura, perchè possiede Cristo che è il Signore della natura. A questo sentimento si riferisce primieramente il poter de' miracoli promesso alla fede di cui Cristo disse: [...OMISSIS...] . Ed ancora: [...OMISSIS...] . E di nuovo: [...OMISSIS...] . Ed anche: [...OMISSIS...] . Alla preghiera fedele è promesso tutto, senza ostacolo che possano fare le leggi della natura. Avviene però che il fedele rare volte cerca miracoli per sè, e quasi sempre li desidera perchè i popoli conoscano per essi la verità evangelica: egli che già crede non ne ha bisogno, e pel rimanente si contenta dell' ordinaria provvidenza di Dio, nelle cui mani sta; il suo unico desiderio è di possedere la santità, alla quale ottenere non fanno mestieri miracoli esterni. Onde, non desiderandoli, nè volendoli, nè pure può aver quella fede di ottenerli che li produce. Quindi i miracoli succedevano più frequenti al principio quando si dovea propagare il Vangelo, ed ancora accadono quando sembrano necessarii agli uomini apostolici per diffondere alle nazioni infedeli l' evangelica verità. Del rimanente può anche accadere che si desiderino i miracoli per aumento della pietà o per la glorificazione dei santi; e se sorge nel cristiano questo desiderio, e la fede con esso, e quindi dimanda il miracolo, questo avviene indubitamente, siccome avviene ancora ove il santo desiderio insorga nell' animo per qualsiasi altro onesto motivo, e quel desiderio sia semplice e produca una volontà assoluta d' ottenere il miracolo, una volontà santa che si trasfonda in orazione senza esitazione di sorta. Questa volontà santa, semplice ed assoluta di volere quella cosa miracolosa e di dimandarla conseguentemente senza esitazione, se non nasce per una speciale ispirazione di Dio o non vi abbiano i motivi addotti della propagazione del Vangelo o della glorificazione dei santi, suol trovarsi più facilmente nei santi uomini idioti che non sia ne' gran letterati, benchè santi anche questi, a cagione che questi ultimi, avendo più lumi intorno l' ordinaria Provvidenza, più in questa si confidano, e tanto di questa si assicurano e ne aspettano con pazienza lo svolgimento, che non vedono alcun assoluto bisogno di volere e di dimandare il miracolo, onde non ne hanno una volontà assoluta e non lo dimandano semplicemente e senza condizione a Dio. Nè perciò questi si tengono meno ricchi e padroni degli avvenimenti de' primi. Tutti gli uomini santi sentono di possedere in Cristo il tutto, e con esso tutte le cose di cui egli è Signore, onde S. Paolo: « Si Deus pro nobis, quis contra nos? » [...OMISSIS...] . Di che di nuovo l' Apostolo: « Habeo autem omnia et abundo (2)... » Laonde tutte le cose dell' universo avvengono dirette dalla Provvidenza al bene e al perfezionamento dei Santi: [...OMISSIS...] , dei quali ha detto Cristo non perirà un capello (4). Ma nel medesimo tempo l' uomo santo intende che il possesso ch' egli ha di tutte le cose, lo ha in Cristo e per Cristo che è in lui, onde si considera come un figlio di famiglia che è bensì padrone, ma subordinatamente al Padre che è il vero padrone, sentimento espresso dall' Apostolo in quelle parole ai Corintii: [...OMISSIS...] . E ancora i santi incorporati a Cristo si chiamano suoi coeredi , perchè, essendo Cristo l' erede, come quello che morì in forma dell' uomo vecchio e risorse uomo nuovo, ereditando tutto ciò che all' uomo vecchio apparteneva ed anzi tutte le cose, egli, formante un corpo solo coi fedeli sue membra, chiamò queste stesse a parte della regale e magnifica sua eredità. Il terzo sentimento della magnanimità cristiana si è il disprezzo delle ricchezze e di tutte le cose del mondo; perocchè l' uomo incorporato a Cristo e santo, non cura di possedere a titolo umano e con brighe e sollecitudini temporali poche cose ed incerte, quando sa di possederle tutte in Cristo, e d' averle pronte, senza darsene briga o fastidio, ogni qual volta gli bisognano al proprio fine soprannaturale che solo apprezza come vero bene. Di che egli sente la beatitudine della povertà proclamata da Cristo, alla quale fu promesso il regno de' Cieli (1); sente ancora quell' altra voce di Cristo: « Nolite ergo solliciti esse dicentes: quid manducabimus, aut quid bibemus, aut quo operiemur? haec enim omnia gentes inquirunt. Scit enim Pater vester, quia his omnibus indigetis. Quaerite ergo primum regnum Dei et justitiam ejus et haec omnia adjicentur vobis (2) ». Per le quali cose l' Apostolo descrive il ministro di Cristo con queste parole: « Sicut egentes, multos autem locupletantes: tanquam nihil habentes, omnia autem possidentes (3) ». A cui s' aggiungono le ricchezze non corrotte e non corruttibili promesse al Cristiano dalla voce di Cristo in un altro tempo, di cui potrà goderne senza timore e senza diminuzione di santità: [...OMISSIS...] Il quarto sentimento della magnanimità cristiana è la quiete nella condizione e nell' esercizio de' doveri del proprio stato, quando Iddio non muova e chiami all' opere straordinarie; e per l' opposto è l' intraprendenza e il coraggio perseverante nell' affrontare e condurre a termine le opere straordinarie a cui Iddio dà la mossa, e che mostra di volere. La quiete nasce nell' uomo incorporato a Cristo, rispetto ai beni umani ed al miglioramento di sua condizione, perchè sentendo di posseder Cristo è soddisfatto come del possesso del tutto. [...OMISSIS...] . Onde quelli che hanno in sè il sentimento di Cristo, non possono essere inquieti e solleciti per ottenere umani avanzamenti e ricchezze, ma vivono nel loro stato tranquilli. Ma nè pure il cristiano esce dalla sua quiete per intraprendere di proprio moto e senza conoscer prima la volontà di Dio opere straordinarie, benchè in se stesse sante e rivolte a glorificare Iddio. E ciò pel sentimento di umiltà, pel quale sa di essere un nulla e di nulla per se stesso capace. Di poi perchè non ignora che Gesù Cristo, che è in lui e il qual solo può fare in lui e con lui le cose grandi per la divina gloria, se le volesse, gliene darebbe l' impulso e gli manifesterebbe, cogli avvenimenti diretti dalla sua Provvidenza e in altri modi altresì, il suo volere. In terzo luogo perchè l' uomo non può sapere se un' opera anche buona in se stessa entri nel gran piano di Dio, e quindi sia un vero bene nel tutto, e quindi ancora Iddio la voglia far riuscire. [...OMISSIS...] . In quarto luogo perchè sa che tutte le cose, in qualunque modo egli operi, sono dirette dal Padre alla massima glorificazione del Figlio, ed anzi sono tutte date in mano del Figlio: onde questo effetto ch' egli tanto desiderava già viene ottenuto, o con lui se vuole Iddio, o senza di lui se non vuole. Ma quando lo spirito di Cristo, che è in lui, lo muove, quando la volontà di Dio si manifesta, quando si presenta quella necessità morale, di cui diceva S. Paolo: [...OMISSIS...] (4), allora l' intraprendenza, il coraggio, la perseveranza del Cristiano per la salvezza delle anime e per l' opera più stupenda di carità non ha limiti. Già egli mandato da Dio sente la sua immensa potenza in quel Cristo nel quale opera: egli superiore alla morte e a tutti i beni del mondo che disprezza, sapendo d' aver tutto ciò in sue mani, dice coll' Apostolo: « Omnia possum in eo qui me confortat (1) »: le difficoltà, le angustie, le infermità lo avvigoriscono: [...OMISSIS...] . Nè lo arretra o sgomenta il sentimento della propria debolezza, perchè confida in Cristo e non in se stesso, perchè sa e sente quello che dice l' Apostolo: « quae stulta sunt mundi elegit Deus, ut confundat sapientes: et infirma mundi elegit Deus ut confundat fortia: et ignobilia mundi et contemptibilia elegit Deus et ea quae non sunt, ut ea quae sunt destrueret: ut non glorietur omnis caro in conspectu ejus (3) ». E l' uomo incorporato a Cristo ripone veramente se stesso fra le cose che non sono, [...OMISSIS...] perchè egli non vive più della vita propria, cioè non conta più questa vita e non vuole operare secondo essa, ma vive in lui l' uomo nuovo Gesù Cristo, pel quale solo e col quale, siccome sua nuova vita, vuole operare e sa di potere. Laonde in questo sentimento del proprio nulla, viene esclusa la falsa umiltà, ed ha luogo la ricognizione de' doni di Cristo, e quella cotal maniera di gloria di cui l' Apostolo dice: « Qui autem gloriatur in Domino glorietur (4) ». Il che ha più significati: perocchè vuol dire di gloriarsi in quel Signore che fa tutto il bene in noi, attribuendone a lui solo la gloria di cui egli ci fa partecipi (5); vuol dire di gloriarsi non della nostra nullità o nelle cose vane e riprovevoli, ma di riporre la nostra gloria nell' essere uniti a Dio (6); vuol dire ancora di aspettare che quel Signore Gesù Cristo che è in noi già glorificato dal suo Padre celeste comunichi a noi egli stesso della sua gloria, senza che ce la prendiamo noi stessi, che non siamo conoscitori nè giudici del merito, nè nostro, nè altrui (7). Ora nè pure la magnanimità cristiana, sentimento nobilissimo da più sentimenti risultante, poteva essere nel primo uomo, perchè egli non era annientato per lasciare in sè luogo a Cristo; ma Adamo viveva della vita sua propria, benchè la sua mente avesse la percezione del Verbo, e secondo quella vita umana e limitata operava, e poteva, se avesse voluto, e onestamente operare, e sempre più spingersi a partecipare della vita intellettiva e della grazia del Verbo. Dalla congiunzione fisica7intellettuale7morale dell' uomo con Cristo, per la quale Cristo diviene il capo, i fedeli le membra che dal capo ricevon la vita e l' operazione, di maniera che Cristo è il principale operante nel Cristiano che non pone ostacolo cooperando alla mozione del capo, si viene ad intendere il valore di alcune formole solenni usate nelle divine Scritture e risonanti di continuo in bocca de' primitivi cristiani. Una di queste formole è quella « in Cristo »: [...OMISSIS...] Essere in Cristo Gesù è quanto dire essere inseriti in lui come il tralcio nella vite, e dice: ex ipso cioè ex Deo, perchè questa incorporazione è opera della santissima Trinità e s' attribuisce al Padre, dal quale procede il Verbo e con esso Verbo tutto ciò che al Verbo s' unisce e forma un corpo con lui, quasichè i fedeli stessi, divenuti una cosa col Figliuolo, e così divenuti Figliuoli anch' essi, procedessero essi pure dal Padre. « In Christo Jesu per Evangelium ego vos genui (2) ». Generare in Cristo è lo stesso che incorporare, inserire in Cristo. E si dice generare, perchè Cristo divenendo il principio supremo dell' operare, ossia suscitando per la sua congiunzione coll' uomo una nuova attività nell' uomo, superiore a tutte le altre ed atta a dominarle, l' uomo diviene con ciò una nuova persona, giacchè la base della personalità consiste nel principio intelligente supremo dell' operare. Onde S. Paolo considera l' uomo in Cristo come creato di nuovo, un uomo nuovo (3), una nuova creatura, che sola ha prezzo, nulla valendo tutto il resto [...OMISSIS...] . E poichè, rinnovata la personalità, creato un principio supremo e dominatore nell' uomo santo, ed incorruttibile, egli è come seme da cui dee rinnovarsi l' intera natura umana e tutto ciò che è fatto per essa, giacchè, ottenuto il fine, non possono, secondo la divina sapienza, mancare i mezzi, e il principale dee tirare a sè l' accessorio; quindi nel rinnovamento della parte superiore dell' uomo vede l' Apostolo giustamente la rinnovazione di tutto il mondo umano e la restaurazione di tutte le cose: [...OMISSIS...] , ed è quello che avevano già predetto gli antichi profeti (2). Il che fu l' eterno gran disegno di Dio, pel quale anche permise la caduta del primo uomo: « ut notum faceret nobis sacramentum voluntatis suae, secundum beneplacitum ejus quod proposuit in eo, in dispensatione plenitudinis temporum instaurare omnia in Christo, quae in coelis et quae in terra sunt, in ipso (3) ». Dove per quelle cose che sono ne' cieli s' intendono le spirituali, l' intelligenza e tutto ciò che è e si fa in essa, ossia la volontà intelligente, la quale va di cielo in cielo, di virtù in virtù, di perfezione in perfezione fino che, toltale intorno la benda corporea e tutte le macchie, perviene al cospetto di Dio nel Cielo de' Cieli. Per le cose poi che sono in terra deve intendersi il corpo umano, l' animalità e tutte le cose esterne che alla vita animale si riferiscono, le quali pure a suo tempo saranno restaurate, e già incominciano ad essere per la Provvidenza che le guida e rivolge a favore di quelli che amano Dio. E dice in ipso , perchè in Cristo sono tutte incorporate e formanti con esso lui un solo corpo, di cui egli è il capo e lo spirito vivificante; perocchè con Cristo non è solo incorporata l' anima, ma essendo Cristo non solo Dio, ma ancora uomo, e l' umanità di Cristo essendo composta necessariamente d' anima e di corpo, egli è di conseguente rettore, capo e vita non meno delle anime che de' corpi degli uomini, in un modo nel presente, in un altro più perfetto nel futuro, quando anco i corpi saranno intieramente rinnovati e perfezionati. Laonde S. Paolo anche nel tempo presente chiama i corpi de' Cristiani membra di Cristo [...OMISSIS...] . E non già che il corpo nella presente condizione sia pienamente riformato e fatto anch' egli degno della vita di Cristo; ma per la sua congiunzione collo spirito incorporato in Cristo, e per l' influenza dell' umanità di Cristo, come vedremo in appresso, acquista una cotale santificazione, e partecipa in qualche modo della stessa vita spirituale. Il che è quello che vuol dire S. Paolo conchiudendo: « Qui autem adhaeret Domino, unus spiritus est », non apprezzandosi il corpo come corpo, ma come partecipe d' una cotale spiritualizzazione, onde impedisce meno allo spirito di santificarsi, e alla santificazione di lui coopera. Rimanendo però nel corpo, fino che sta nella vita presente, qualche cosa di restìo e di materiale, onde anche soffre quanto più lo spirito a Dio si congiunga; conviene che a suo tempo venga distrutto e rinnovato colla risurrezione, al che si riferisce S. Paolo [...OMISSIS...] . Innumerabili sono le maniere di dire nelle quali ricorre nel favellare degli apostoli e de' loro discepoli l' espressione in Cristo, perocchè tutto ciò che è o che fa l' uomo cristiano, è in Cristo, lo fa in Cristo. [...OMISSIS...] ; e così di ogni altra cosa che avviene all' uomo soprannaturale, o che egli patisce, o che egli fa. Basta aprire le scritture degli Apostoli per abbattersi in questa fecondissima espressione in Christo, che egualmente ricorre ne' primi scrittori della Chiesa, nelle lapidi mortuarie cristiane, negli altari e nelle Chiese, in tutti i monumenti della cristiana tradizione. In questa solenne parola in Christo si contiene compendiato tutto il Cristianesimo, perchè esprime la reale mistica unione dell' uomo con Cristo, nella quale unione e incorporazione consiste il Cristianesimo in atto. Questa unione e incorporazione è il principio della pietà e scienza cristiana, perocchè il Cristianesimo, prima è pietà appartenente all' ordine attivo morale, e poscia è scienza appartenente all' ordine astratto intellettuale. Dal sentimento di questa incorporazione procede tutta la dottrina morale ed ascetica dell' uomo cristiano: questo sentimento è luce che lo illumina, perocchè è il sentimento di Cristo. L' unione e l' incorporazione reale dell' uomo con Cristo ha due parti. L' una e la prima e fondamentale è l' opera di Dio solo, è il fondamento della seconda; quella che si chiama anche la generazione spirituale, la nascita dell' uomo nuovo: è il congiungimento stabile che Cristo fa dell' uomo a sè; onde la nuova creatura. La seconda parte, propagazione ed effetto della prima, non è fatta dal solo Cristo, ma da Cristo coll' uomo, a cui s' è congiunto. L' uomo, acciocchè abbia luogo questa seconda parte della sua incorporazione a Cristo, acciocchè questa incorporazione abbracci totalmente l' uomo, dee non porre ostacolo all' operazione di Cristo e lasciarsi muovere spontaneamente secondandone gli istinti. La prima di queste due parti è l' impressione del carattere, di quel carattere che, secondo l' Apostolo, è il carattere della sussistenza di Dio; cioè del Verbo incarnato. La seconda è la diffusione nell' uomo della grazia abituale e santificante che viene dal carattere, cioè dal Verbo di Dio incarnato che emette il suo spirito nell' uomo che non resiste e lascia muovere la propria spontaneità da esso spirito. Dicevamo che l' impressione del carattere è fatta dal solo Cristo: questo si verifica a pieno nel bambino che non può opporre alcun ostacolo. Nell' adulto però, che è in condizione di operare colla sua volontà, quando viene battezzato (giacchè col battesimo, come noi diremo in appresso, s' imprime primieramente il detto carattere), si esige che almeno abbia l' intenzione di ricevere il battesimo di Cristo, o il battesimo datogli dalla Chiesa di Cristo: perocchè se egli o avesse intenzione semplicemente di subire quella funzione materialmente o la subisse con animo del tutto avverso a ricevere esso battesimo, non volendo anzi al tutto riceverlo, l' effetto dell' impressione del carattere non seguirebbe. Conviene adunque pel primo effetto, che nell' uomo non vi abbia la volontà avversa a riceverlo: e pel secondo, che vi abbia la volontà credente e docile al sentimento di Cristo, qualora questa vi possa essere; e se non vi può essere alcun atto di volontà, come nel bambino, conviene che vi abbia la volontà in potenza che riceve l' abito della fede e l' inclinazione ad essa senza ostacolo. Perocchè Cristo, che incorpora a sè il bambino, piega a sè abitualmente la volontà del medesimo, la quale si lascia piegare a quello che la tira, senza possibile resistenza. Laonde il carattere s' imprime nell' essenza dell' anima in quanto è intelligente, affettando la natura umana; la grazia poi informa la volontà dell' uomo, cioè l' essenza dell' anima in quanto è volitiva: e così tutto l' uomo rimane a Cristo congiunto, il che San Paolo chiama: « « vestire Cristo (1) » ». Ora da questa meravigliosa congiunzione dell' uomo con Cristo gli Apostoli e i loro successori derivarono, come dicevamo, tutti i precetti della morale e della perfezione cristiana quasi da un principio che nel loro seno tutti li racchiude, ed indi trassero argomento a tutte le loro esortazioni colle quali stimolavano i fedeli alla virtù cooperando a quel fondamento che già era in loro collocato della spirituale loro salvazione. E da prima da questa dottrina procedeva che la vita puramente naturale dell' uomo, cioè l' uomo vecchio, corrotto dal peccato naturale, non aveva più alcun valore, e però era condannato alla morte, e doveasi considerare come morto; laddove la vita novella, la vita di Cristo comunicata all' uomo era quella in cui doveva porsi ogni speranza, contenendo il seme dell' immortalità ed essendo veramente per sè immortale ed eterna. Onde S. Paolo diceva ai Romani [...OMISSIS...] . Sotto la parola carne e la parola corpo s' intende la vita naturale, adamitica, guasta dal peccato, onde nulla si può sperare perchè dannata alla morte, quando il bene e la salute dell' uomo sta nell' immortalità. Onde anche Cristo aveva detto: « Spiritus est qui vivificat, caro non prodest quidquam (3) ». E l' Apostolo: « Ergo, fratres, debitores sumus non carni, ut secundum carnem vivamus. Si enim secundum carnem vixeritis, moriemini: si autem spiritu facta carnis mortificaveritis, vivetis. Quicumque enim spiritu Dei aguntur, ii sunt filii Dei (4) ». Laonde queste due maniere esse in carne (1) ed esse in spiritu significano e contrappongono l' una all' altra le due vite: la vita naturale, mortale, corruttibile e corrotta ricevuta da Adamo per via di naturale generazione; e la vita di Cristo a noi comunicata per la generazione soprannaturale. Alle quali due maniere rispondono quest' altre: ambulare secundum carnem, cioè vivere secondo i desiderii della vita naturale e infetta dal peccato; e ambulare spiritu, cioè vivere secondo gli istinti della vita nuova di Cristo incorruttibile a noi comunicata. « Nihil ergo nunc damnationis est iis qui sunt in Christo Jesu, qui non secundum carnem ambulant (2) »: dove il qui sunt in Christo Jesu indica la prima fondamentale incorporazione con Cristo, e il qui non secundum carnem ambulant indica la cooperazione di colui che opera secondo gli istinti della nuova vita ricevuta dalla congiunzione con Cristo. Nulladimeno, quantunque chi vive della vita di Cristo non si considera più come fosse in carne, perchè rinunziò a questa vita carnale; tuttavia, fino che l' uomo vive, cammina in qualche modo nella carne, perchè questa non è tolta effettivamente del tutto, e combatte contro lo spirito. Onde S. Paolo dice di sè: « In carne enim ambulantes, non secundum carnem militamus », e ne rende la ragione dicendo: « Nam arma militiae nostrae non carnalia sunt, sed potentia Deo ad destructionem munitionum, consilia destruentes (3) »: nel qual luogo « il camminare nella carne »significa la condizione dell' uomo cristiano in questo mondo ancora impacciato colla vita animale corrotta, la quale sta sempre sull' assalire lo spirito, ma questo la combatte, non già contrapponendo alla carne armi carnali, ma spirituali, cioè tolte dalla vita di Cristo di cui egli partecipa, e di cui solo tien conto, come sua propria vita. La frase poi esse in spiritu, per opposto di esse in carne, significa appunto la perfetta incorporazione con Cristo, che si compie, come abbiamo detto, colla volontà consenziente e cooperante alla operazione di Cristo, nel che sta l' effetto della grazia. Perocchè lo spirito di cui si parla è lo spirito di Cristo, onde soggiunge: « Si quis autem spiritum Christi non habet, hic non est ejus (4) », e si chiama anche « « lo spirito della vita di Cristo ». Lex enim spiritus vitae in Christo Jesu liberavit me a lege peccati et mortis (5) », perocchè questo « spirito della vita », onde l' uomo viene avvivato quando è incorporato a Cristo anche colla sua volontà, è santo ed immortale. Ma conviene, perchè vi abbia questa vita nell' uomo, che Cristo stesso sia in noi spiritualmente, cioè che egli diffonda lo Spirito Santo che da lui e dal Padre procede nell' anima nostra: altrimenti non percipiamo Cristo secondo lo Spirito, ma solo secondo la carne. Il che dice S. Paolo così [...OMISSIS...] : il che è quanto dire, che solo col ricevimento della grazia di Cristo, e non per la sola impressione del carattere, e molto meno per una cognizione esterna priva della fede o della carità, si conosce Cristo spiritualmente, cioè partecipando del suo « spirito di vita », ma solo si conosce secondo la carne, la quale è morta e non dà la vita. E S. Paolo ripone appunto in questo la figliuolanza di Dio, non nella sola impressione del carattere battesimale, ma nella grazia che a lui consegue, se non trova ostacolo, in modo che l' uomo si lasci muovere dalla grazia, che è quanto dire dallo spirito di Cristo, e secondo questo operi: « quicumque enim spiritu Dei aguntur, ii sunt filii Dei (2) ». Ora da questa doppia vita che è nell' uomo viatore, cioè la vita adamitica, e la vita di Cristo in cui siamo incorporati, vengono primieramente due parti della Cristiana sapienza: l' una speculativa ed è la dottrina intorno la lotta mortale fra quelle due vite, fra que' due uomini, il vecchio ripudiato, ed il nuovo, e intorno la storia di questa lotta è gran parte della teologia: l' altra morale ed ascetica e contiene i precetti del combattimento spirituale. La lotta fra la vita adamitica chiamata carne e la vita di Cristo in noi chiamata spirito è descritta di frequente nelle divine scritture. Dice S. Paolo: « Caro enim concupiscit adversus spiritum: spiritus autem adversus carnem: haec enim sibi invicem adversantur: ut non quaecumque vultis illa faciatis (3) ». Le quali ultime parole indicano la libertà di fare senza ostacolo il bene limitato dagli istinti della vita adamitica guasta in noi dal peccato. Questi istinti sono così enumerati dall' Apostolo: « Manifesta sunt autem opera carnis: quae sunt fornicatio, immunditia, impudicitia, luxuria, idolorum servitus, veneficia, inimicitiae, contentiones, aemulationes, irae, rixae, dissensiones, sectae, invidiae, homicidia, ebrietates, commessationes, et his similia: quae praedico vobis, sicut praedixi, quoniam, qui talia agunt, regnum Dei non consequentur ». All' incontro lo stesso Apostolo enumera i frutti dello spirito di Cristo in questo modo: « Fructus autem spiritus est: caritas, gaudium, pax, patientia, benignitas, bonitas, longanimitas, mansuetudo, fides, modestia, continentia, castitas (1). » Ma l' Apostolo c' insegna altresì che la vita naturale ed adamitica dell' uomo non sarebbe così corrotta e non lotterebbe di tanta forza contro lo spirito di Cristo, qualora non intervenissero le potenze malefiche degli Angeli delle tenebre, le quali sono entrate nella natura umana e nel mondo materiale quando i primi parenti mangiarono il frutto vietato, dove, come crediamo, il demonio si accoglieva: « Induite vos armaturam Dei », dice a que' di Efeso, « adversus insidias Diaboli. Quoniam non est vobis colluctatio adversus carnem et sanguinem, sed adversus principes et potestates, adversus mundi rectores tenebrarum harum, contra spiritualia nequitiae in coelestibus (2) ». E dice in coelestibus per significare la parte superiore dell' uomo, cioè la volontà, col solo consentimento della quale si compie il peccato formale, cui tende produrre in noi il demonio. E chiama i demoni principi e podestà, e rettori del mondo di queste tenebre, perocchè il demonio divenne principe di questo secolo da lui conquistato colla seduzione de' primi parenti: onde la vita adamitica, appunto perchè infestata dal demonio, è abbandonata a lui, che era omicida fino dal cominciamento (3), essendo il suo costante intendimento quello di estinguere l' uomo. Ma l' uomo nuovo Cristo, immune al tutto dal peccato, non potè venire menomamente in balìa del demonio, e quindi ottenne una vita immortale, colla comunicazione della quale agli altri uomini crea in essi un' umanità nuova, una vita nuova non soggetta alla morte, e però eterna: « Renati », dice S. Pietro, « non ex semine corruptibili sed incorruptibili per Verbum Dei vivi et permanentis in aeternum; quia omnis caro ut foenum, et omnis gloria ejus tamquam flos foeni: exaruit foenum et flos ejus decidit. Verbum autem Domini manet in aeternum (4) ». Lo stesso S. Pietro poi raccomanda a' primi cristiani di osservare la sobrietà e la vigilanza, colle quali virtù si tiene in suggezione la carne, e ne dà per ragione: « quia adversarius vester diabolus tamquam leo rugiens circuit, quaerens quem devoret (5) », dimostrando così essere gli angeli ribelli quelli che rendono insolente la carne, e tentano di dare all' uomo il tracollo acciocchè consenta ai desiderii ed istinti della carne. E Cristo stesso insegna che il diavolo porta via il buon grano seminato dal celeste agricoltore e caduto in sulla via: la qual via rappresenta il cuore di colui che ascolta predicare la parola del regno e non la intende (1), e che lo stesso inimico dell' uman genere soprasemina le zizzanie nello stesso campo dove il padrone aveva seminato il buon grano (2). E lo stesso Cristo disse agli Ebrei: « Vos ex parte diabolo estis (3) » per indicare la loro consumata malizia comunicata loro dal diavolo, il quale, come voleva estinguer l' uomo, così voleva uccider Cristo; nel qual pensiero erano pur venuti gli Ebrei; e per indicare l' ultimo grado di malizia del discepolo traditore, gli dà il titolo stesso di diavolo: « ex vobis unus diabolus est (4) », quasi indicando l' individua unione che il diavolo aveva stretto coll' Iscariotta, nel quale e col quale operava, quasi direi a quel modo stesso come Cristo fa nell' uomo santo già in lui innestato. Perocchè il demonio possiede più o meno dell' uomo adamitico, e solo Gesù Cristo per se stesso è inaccessibile al demonio, onde potè dire: « Venit enim princeps mundi hujus, et in me non habet quidquam (5) ». Maria SS fu certamente immune da ogni invasione del diavolo per grazia singolare ricevuta dal Figliuolo di cui ella era Madre. Ma, universalmente parlando, ne' Santi stessi, ne' quali non vi ha nulla di dannazione, vi ha qualche porzione della loro parte inferiore molestata e in qualche modo posseduta dal demonio: onde la lotta che accresce il loro merito, le venialità, e il bisogno della purificazione col fuoco e colla morte. Fin a tanto però che il demonio non possiede la parte superiore dell' uomo, la volontà suprema, l' uomo è imperfetto, ma salvo tuttavia per Cristo, e non sarà in lui distrutto dal fuoco se non quello che avrà edificato di combustibile sopra il fondamento di Cristo che è in lui: [...OMISSIS...] . Posta questa lotta accanita fra l' uomo adamitico e l' uomo nuovo, cioè Cristo, nel cristiano, deriva la dottrina, come dicevamo, del combattimento spirituale. Questo combattimento ha due parti: l' una tende a rinforzare l' uomo nuovo, farlo crescere sempre più robusto e sicuro; l' altra tende a debilitare il nemico, cioè l' uomo adamitico, togliendogli la baldanza di nuocere. Ora S. Paolo enumera specialmente le armi che valgono per ottenere il primo effetto in queste parole: [...OMISSIS...] . Sono dunque queste armi, enumerate da san Paolo, e da lui chiamate anche « armi della luce »(2). 1 La castità espressa coll' espressione de' lombi succinti, che S. Pietro unisce alla sobrietà dicendo « Propter quod succincti lumbos mentis vestrae, sobrii perfecte sperate in eam quae offertur vobis gratiam, in revelationem Jesu Christi (3) »: e dice i lombi della mente, perchè la castità risiede principalmente in una mente pura, serena, ed aliena da ogni cosa carnale, il quale stato della mente, a cui ottenere assai conferisce la sobrietà, facilita oltremodo all' uomo l' innalzarsi alle speranze di quella grazia gloriosa che è offerta all' uomo, quando Gesù Cristo si manifesterà a lui nel punto della sua morte e nella fine dei secoli. E l' Apostolo aggiunge « succincti lumbos vestros in veritate », volendo significare come non basti una castità apparente, un esterno decoro, ma una vera castità che rifugge da ogni immondezza, non solo negli occhi degli uomini, ma in quelli di Dio e della propria coscienza. 2 La giustizia che quasi lorica cuopra tutto il corpo dell' uomo, quella rettitudine d' animo che è sempre disposto a dare a tutti il suo, nè fa mai a nessuno alcun torto. 3 L' affetto e la buona disposizione all' evangelio della pace, al che richiede l' Apostolo che l' uomo abbia i piedi calzati, come colui che dee viaggiare, cioè sia pronto a far viaggio per cagione dell' Evangelio o debba egli esulare per la persecuzione, o sia chiamato ad annunziare il Vangelo ad altre genti, ovvero venga da Dio chiamato all' altra vita, dove l' Evangelio della pace si compie nella magione del Dio della pace. E dicendo l' Evangelio della pace, dopo avere raccomandato la giustizia, viene ad inculcare la mansuetudine e la pace con tutti. 4 La fede, colla quale siccome con un saldo scudo si può spuntare tutte le saette delle fallacie e false argomentazioni de' falsi sapienti del mondo, e degli eretici, suscitate nelle loro menti e suggerite dall' iniquo, cioè dal demonio. E chiama queste saette di fuoco, per la loro sottigliezza e nequitosità, e per rammentare la perdizione a cui sono destinate nel fuoco eterno della malizia onde provengono. 5 La speranza che chiama galea di salute, ossia del salutare [...OMISSIS...] che è Gesù Cristo, perocchè la speranza è appoggiata alle promesse di Cristo. E che la galea, ossia l' elmo del salutare, sia la speranza, rilevasi da un altro luogo dell' Apostolo ove dice: [...OMISSIS...] . Ora l' elmo è un' arma difensiva che protegge la testa, perchè la speranza procede dalla mente, dove sta la fede in Cristo, ne' suoi meriti, e nelle sue promesse. 6 La cognizione e lo studio della parola di Dio, giacchè l' uomo cristiano nella virtù di questa parola fondata nell' infallibile e fedele autorità di Dio stesso trova tali ammaestramenti e tali sentenze con cui repellere tutti i sofismi e le tentazioni dell' inimico; di che abbiamo l' esempio di Cristo che alla trina tentazione diabolica oppose altrettanti detti delle divine scritture. 7 L' orazione e l' ossecrazione continua [...OMISSIS...] fatta collo spirito e non colle sole labbra [...OMISSIS...] e con ogni istanza [...OMISSIS...] . Questa assidua orazione dee farsi per sè e per tutti i santi, cioè per tutti i fedeli che costituiscono insieme un solo corpo di cui è capo Gesù Cristo, e particolarmente per i ministri evangelici, acciocchè Iddio conceda loro il dono della parola, e la fiducia di predicare liberamente l' evangelica verità e di aprirne agli uomini il mistero. . A cui s' aggiunge, qual conseguenza necessaria, la vigilanza cristiana nello spirito d' orazione, per la quale l' uomo sta continuamente svegliato a ricevere le divine comunicazioni ed attento sopra se stesso e su tutte le sue operazioni per evitare ogni offesa di Dio, ed ogni mal passo. « Igitur non dormiamus », dice in altro luogo l' Apostolo, « sicut et caeteri, sed vigilemus, et sobrii simus (1) », giacchè la mancanza di sobrietà impedisce non meno la vigilanza che l' orazione. L' orazione e la vigilanza furono congiunte insieme anche da Cristo quando disse: « Vigilate et orate ut non intretis in tentationem (2) ». L' uomo è composto d' una parte intellettiva e d' una parte animale che presta all' intendimento i segni delle cose reali col mezzo de' quali egli le pensa. L' unione individua di queste due parti costituisce la razionalità in cui risiede la natura umana. Ma nella parte intellettiva e dotata di attività, onde prende il nome di volontà, risiede la persona umana in quanto la volontà è un principio attivo supremo. Salvata la persona, è salvato l' uomo; perita la persona, è perito l' uomo. Laonde il demonio tende a pervertire la persona, e Cristo all' opposto a salvarla. Cristo la salva congiungendo alla persona, cioè alla parte suprema dell' umana natura, se stesso, dandole della propria vita. Il demonio cerca per opposto sedurla operando nell' animalità, e col gioco de' fantasmi traendola a pensare al male e allettandola a volerlo. Quindi due nemici dell' uomo: 1 il demonio co' sofismi che induce nel pensiero umano, togliendo i fantasmi che potrebbero indurre a pensare rettamente, e quindi a pensare la verità, il bene, e sommovendo de' fantasmi che, pel loro disordine, stravolgono e ottenebrano la mente umana e la fanno pensare malamente e conchiudere alla falsità ed al male; 2 l' animalità che incita l' uomo, non senza opera del demonio, ai diletti sensibili, distogliendolo dai diletti spirituali. Il primo di questi due nemici si combatte principalmente col rinforzare l' uomo nuovo mediante gli otto mezzi suggeriti dall' Apostolo e di sopra enumerati. Laonde S. Paolo li propone come armi acconcie a combattere le potestà malefiche, dopo aver detto che la nostra lotta, anzichè contro la carne e il sangue, è « contra spiritualia nequitiae in coelestibus (1) ». Il secondo nemico, cioè la carne, si combatte coll' estenuare di forze l' uomo vecchio. Perocchè, quantunque il demonio cerchi di stimolarlo e dargli una forza prevalente, tuttavia egli non può tutto in quest' opera, e l' uomo può mortificando la carne rendere inutili gli sforzi dell' inimico per rinforzarla, il qual nemico d' altra parte viene ad essere diminuito di potestà e di forze mediante gli otto mezzi enumerati. La seconda parte adunque del combattimento spirituale consiste nel scemare forze all' uomo vecchio in quanto contraddice e molesta l' uomo nuovo; e l' uomo vecchio chiamasi carne, non perchè la sola carne formi l' uomo, o perchè si debba intender per esso la sola vita animale, ma perchè nell' ordine naturale tutto l' uomo vive della vita animale, giacchè la sola animalità gli somministra il sentimento soggettivo, nel quale sta la vita, il quale sentimento soggettivo, radicalmente animale, si fa razionale per l' intuizione dell' essere, col quale ragiona sulle cose sensibili od astratte e quelle razionalmente appetisce. L' uomo nuovo all' incontro ha un nuovo sentimento soggettivo, come diremo in appresso, nel quale sta la sua vita, e quel sentimento è una partecipazione della vita di Cristo. Quindi adunque procede tutta la dottrina della mortificazione della carne, e della penitenza cristiana, la quale conviene ora che noi dichiariamo. Conviene dunque considerare che l' uomo col peccato si era reso inutile al gran fine pel quale Iddio l' aveva creato, che era quello d' unirsi a lui e così partecipare della sua santità e della sua beatitudine; e, reso inutile, l' uomo doveva morire, perocchè non è secondo la divina sapienza e perfezione che sussista una cosa senza fine. Per questo già all' intimazione del precetto dato ad Adamo vi era annessa la comminazione della morte [...OMISSIS...] . Della morte poi dell' uomo fu occasione il diavolo, il quale aveva tolto a correre una sfida con Dio. Perocchè Iddio, per mettere alla prova la soggezione e fede degli Angeli, aveva creato l' uomo così mortale e fragile, com' egli è di sua natura, e aveva promesso di renderlo immortale santificandolo e fin anco divinizzandolo (coll' unirlo ipostaticamente al suo Verbo), e così renderlo oggetto d' adorazione agli angeli stessi, che per natura sono tanto più eccellenti dell' uomo. Alla qual parola di Dio credettero gli angeli buoni, e furono confermati in grazia. Ma i prevaricatori, superbi della loro eccellenza di natura, non credettero al misterio della divina parola, e parve loro un intollerabile abbassamento il pensiero di dover adorare una creatura tanto ad essi inferiore. Che anzi si lusingarono di poter distruggere un essere così fragile, come vedevano esser l' uomo. Quindi impossessatisi d' un frutto pensarono che entrerebbero nell' uomo, quand' egli, spiccatolo dall' albero, ne mangiasse; giacchè il cibo convertendosi nel corpo animato dell' uomo, essi potevano entrare a man salva nell' animalità, ossia nella vita soggettiva di questo essere, e farne quel governo che si proponevano. Il che diede occasione a Dio di avvertir l' uomo del pericolo, dandogli il precetto di non mangiare di quel frutto, coll' avviso che se ne avessero mangiato, sarebbero morti: il quale precetto amorevole dalla parte di Dio era d' altra parte opportuno per dar all' uomo occasione di sollevarsi al Creatore prestandogli fede ed obbedienza: il che era un vantaggio che Iddio traeva dalla malizia degli angeli ribelli. Questi dunque, posti all' impresa d' indur l' uomo a mangiare di quel frutto, trovarono dapprima l' opposizione del divino comando, ma ingannarono ben presto la donna promettendole, se n' avesse mangiato, di divinizzare lei e suo marito; il che era una pungentissima tentazione all' uomo, che sentiva tutta la potenza della vita e il voto della natura intelligente d' innalzarsi fino ad una infinita e divina eccellenza. La donna, compresa da una parte della grandezza della natura angelica che le parlava, la quale è da credere ch' ella abbia conosciuta smisuratamente maggiore della propria, cioè dell' umana, e tale da non potersi dall' uomo misurare, quindi indefinitamente grande (1); dall' altra, sollucherata dalla grandezza della promessa e dalla pienezza di cui godeva della vita umana, tenendosi sicura soverchiamente del futuro, riuscendole anche molesta la mortificazione e l' umiliazione dell' ubbidienza, e allettata dal senso che le mostrava il frutto oltremodo bello ed appetibile, e dalla curiosità di farne la prova, falsamente conchiuse esser cosa migliore il divenire pari a Dio per grandezza naturale, cioè fisica, e intellettuale, come le prometteva di presente l' angelo, secondando alla propria inclinazione naturale, che non sia, opponendosi a questa, acquistare la perfezione morale coll' ubbidienza al divino comandamento intimatole in passato, la quale la obbligava ad una costante sudditanza a Dio medesimo. Vinta da questo falso consiglio, credette al seduttore, e negò fede all' eterna verità, e così cadde ella prima e poscia il marito nella colpa, e col frutto mangiato si unì colla grandezza diabolica da cui s' era data a sperare sì gran fortuna. Così da una parte l' uomo naturale si rese inutile al fine della creazione, onde Iddio non aveva più cagione di difenderlo dalla morte; e dall' altra era entrato il demonio a guastare e disordinare l' umana natura, che rimase in tal guisa, e per giustizia divina, e per fragilità umana, e per istrazio diabolico, soggetta alla morte. L' uomo naturale adunque fu reso inutile: condannato alla morte, posseduto dal diavolo, che altro non fa che vie più disordinarlo e guastarlo, e condurlo più prontamente alla morte e al peccato che è lo stimolo (1). Se così fossero restate le cose l' umanità sarebbe rimasta distrutta, e il demonio avrebbe vinta la sfida col Creatore. Ma il Creatore non poteva perdere, e questa momentanea vittoria del demonio era l' occazione, la via, il mezzo col quale il Creatore medesimo voleva dar compimento al suo misericordioso disegno. Egli spiegò dunque il mistero della sua eterna volontà cogli avvenimenti. Preservò dal peccato originale una donzella eletta da tutta la stirpe d' Adamo, nella quale nulla potesse il demonio: alla quale preservazione dall' infezione originale bastava che rimanesse incorrotto un menomo seme nell' uomo, trascurato forse dal demonio stesso, dal quale seme incorrotto passato di generazione in generazione uscisse a suo tempo la Vergine che doveva schiacciare il capo al serpente (2). In questa Vergine s' incarnò per opera di Spirito Santo il Verbo, e così l' uomo che ne nacque fu non solo uomo ma Dio ad un tempo. Quest' uomo aveva la natura umana perfetta, incontaminata, del tutto innocente: a lui non era dovuta la morte. Gli altri uomini morendo pagavano la pena del peccato; per essa erano disfatti da uomini perdendo la vita soggettiva; nè dalla morte v' aveva possibile ritorno. L' Uomo7Dio nacque passibile e mortale, come gli altri figliuoli di Adamo, quantunque, essendo Dio, se avesse voluto avrebbesi potuto rendere immortale e impassibile, e sottrarsi in qualsivoglia guisa alla morte ed alle sofferenze. Ora il far questo era un atto di gran virtù, perchè era un rinunziare generosamente al proprio; era un atto di virtù, perchè in tale stato d' Uomo7Dio aveva occasione di esercitare con maggior ampiezza tutte le virtù verso Dio e verso gli uomini; era un atto di umiltà e di soggezione a Dio, onde solo egli aspettava ogni esaltamento ed ogni gloria; ed era un atto d' amore verso gli uomini, di cui voleva partecipare la somiglianza e tutti i mali, eccetto il peccato, e così poter con esso loro più comodamente trattare, e istruirli sull' abisso in cui erano caduti e sulla necessità di convertirsi a Dio colla parola e coll' esempio. Ora, se questo era moralmente eccellente, era mestieri che l' Uomo7Dio, che doveva in sè accogliere tutta la grandezza morale che è la vera e compiuta grandezza, ciò che non aveva inteso l' uomo primitivo, pigliasse questa via sublime: e così fece. Ma il Padre, oltracciò, abbandonò quest' agnello innocente alla rabbia de' lupi. Gli uomini rei e schiavi del demonio non poterono sostenere la vista del giusto nel mezzo di essi. Essi dunque dissero e fecero quello che si trovava già scritto molti secoli prima nelle Scritture, le quali dovevano compirsi (1), e Iddio ve l' aveva fatto scrivere acciocchè apparisse che era il suo eterno decreto. Dissero: [...OMISSIS...] . Tutto ciò alla lettera gli uomini compirono col solo Giusto, il S. N. Gesù Cristo: « fecerunt quae manus tua et consilium tuum decreverunt fieri (3) ». Gesù Cristo espresse alla stessa guisa del libro della Sapienza il fatto dell' odio gratuito, con cui il perseguitarono gli uomini: odio tutto proprio di Cristo solo, perchè solo aveva la pienezza della giustizia, della santità e della divinità. Ai suoi parenti, che lo esortavano a recarsi nella Giudea per farsi conoscere, rispose: « Non potest mundus odisse vos: me autem odit: quia ego testimonium perhibeo de illo, quod opera ejus mala sunt (4) ». E altrove [...OMISSIS...] . Conviene anche osservarsi, che mentre Cristo diceva a' suoi parenti, quando ancora non credevano in lui: [...OMISSIS...] dice all' incontro ai suoi discepoli che già credevano e quindi erano incorporati con lui: [...OMISSIS...] . E più altre volte predice ai suoi seguaci che saranno trattati come lui, perchè « non est discipulus supra magistrum (6) », che anzi l' Apostolo pronuncia in generale che «omnes qui pie volunt vivere in Christo Jesu persecutionem patientur (7) ». Questa è la lotta fra l' uomo vecchio e il nuovo: quella lotta medesima che si manifesta nell' uomo rigenerato fra lui e quel rimasuglio d' uomo vecchio che ci rimane, fra lo spirito e la carne. Solamente che l' uomo nuovo, che vive della vita di Cristo ed opera secondo gli istinti di questa vita, non ha più in se stesso per avversario un altro uomo, ma solamente delle forze nemiche quali sono la concupiscenza e il demonio che più o meno vi si può maneggiare. All' incontro nella lotta fra Cristo e il mondo, cioè gli uomini malvagi, e lo stesso si dica della lotta fra i cristiani che sono in Cristo e i malvagi che li perseguitano, il combattimento non è della persona umana e delle forze nemiche, che appartengono alla natura dell' uomo ma non sono costituite in persona, ma bensì fra persone e persone, fra uomo ed uomo. La causa nulladimeno e la natura del combattimento è la medesima: salvo che nel primo caso tale combattimento è un fenomeno che si manifesta entro un individuo; nel secondo è un fenomeno che si manifesta in più individui, gli uni persecutori o insidiatori, gli altri perseguitati o insidiati. Esigendo dunque la perfezione della virtù, nel che consiste la grandezza morale, che l' uomo sia inteso unicamente a fare la volontà di Dio, e che dimentichi se stesso, cioè gli interessi proprii soggettivi, per non vivere che a seconda dell' oggetto; e quindi esigendo di aspettare ogni protezione, difesa, laude e gloria da Dio medesimo, che provvede magnificamente a' suoi servitori; esigendo finalmente che tutto ciò che appartiene al bene eudemonologico si brami e si aspetti come un effetto che fiorisce dal bene morale, di cui, secondo l' ordine ontologico, deve essere una cotale appendice e finimento, e non da se stesso senza la sua connessione naturale del bene morale: era mestieri che Cristo, destinato ad essere tipo e il realizzamento d' ogni perfezione, non provvedesse al proprio esaltamento, non usasse della divinità che possedeva a rendersi impassibile e glorioso, o a sottrarsi in altro modo dalle condizioni penali degli altri uomini, e quindi nè pure a togliersi dalla persecuzione che gli sarebbe fatta a cagione della sua giustizia odiata dal mondo maligno, che non riconosceva altra grandezza umana se non la fisica e l' intellettuale, ma che anzi sopportasse per la giustizia l' estremo dei patimenti e la morte. Il Padre celeste, per la ragione appunto che amava il Verbo incarnato d' un amore eterno ed infinito, doveva volere questa grandezza e perfezione morale di Cristo, in cui l' umanità doveva essere recata all' estrema altezza della eccellenza, la quale nel bene morale primieramente consiste. Questa dunque fu l' opera commessa dal Padre al Figliuolo mandato da lui nel mondo; questa volontà del Padre fu l' unica e costante regola della condotta di Cristo: [...OMISSIS...] . L' opera del Padre era l' uomo: quest' opera doveva essere condotta alla perfezione dal Figliuolo vestito dell' umana natura. « Non quaero voluntatem meam, sed voluntatem ejus qui misit me (1) »: cioè, io non cerco la mia volontà umana, soggettiva, non vo dietro all' istinto limitato dell' umanità; ma cerco la volontà perfettissima ed infinita di Dio Padre da cui procedo, e da cui sono mandato al mondo. Or questa volontà del Padre era ella una volontà positiva ed arbitraria? Voleva così il Padre perchè così era bene, ovvero era bene perchè così voleva il Padre? E se il Padre voleva così perchè era bene, qual è la ragione onde Cristo disse sempre esser venuto a far la volontà del Padre, in luogo di dire esser venuto a fare ciò che in se stesso era il bene perfetto, giacchè in tal caso l' esser bene ciò che faceva sarebbe stato una ragione del suo operare anteriore a quella della volontà del Padre, giacchè l' esser bene sarebbe stato la ragione dello stesso volere del Padre? Se poi la volontà del Padre era unicamente positiva ed arbitraria, non sarebbe ella stata una volontà senza ragione? e una volontà crudele, come quella che sommetteva il Figliuolo a tanto patimento senza una necessità? Per rispondere a questa difficoltà conviene prima di tutto riflettere, che non vi ha nulla di anteriore alla divinissima Trinità: non vi ha Dio, perchè Iddio è la Trinità; non vi ha l' essere, perchè l' essere è Dio; non vi ha l' ordine dell' essere, perchè appunto non vi ha l' essere, e l' ordine intrinseco e fondamentale dell' essere consiste nelle relazioni personali che costituiscono l' augustissima Triade; non vi ha dunque nè pure la forma morale dell' essere, perchè non vi ha l' ordine dell' essere di cui la forma morale è parte completiva. Ora questa forma morale è prima di tutto, nella sua assoluta ed originale perfezione, come persona, la persona dello Spirito Santo. Ora la persona dello Spirito Santo, che è l' essere oggettivo amato per se stesso, procede dal Padre per mezzo del Figliuolo per modum voluntatis, come dicono i Teologi, giacchè amare e volere suonano lo stesso, onde l' essere oggetto persona, amato ossia voluto per se stesso dalla sussistenza, cioè dal Padre, è lo Spirito Santo dove risiede l' assoluto bene morale, l' assoluta e personale santità. Vi ha dunque una volontà personale del Padre che è la spirazione che mette in atto lo Spirito Santo, nel quale la moralità essenziale come in proprio fonte si raccoglie. Non è anteriore adunque a questa volontà alcun bene morale, ma il bene morale originariamente da essa procede e si costituisce, ed è ad essa contemporaneo, ma secondo l' ordine logico posteriore. Convien dunque dire che la volontà del Padre, di cui parliamo, sia la ragione prima anteriore ad ogni moralità; ma, lungi da essere irragionevole ed arbitraria, è anzi quella che costituisce ogni ragione morale, ed è necessaria, come è necessaria nell' essere divino la spirazione del Santo Spirito che compisce e perfeziona la divinità sussistente in tre forme persone. A questa volontà per tanto si riferiva Gesù Cristo quando diceva di cercare non la volontà propria, ma la volontà di colui che lo ha mandato, di colui da cui egli stesso generato ab eterno aveva ricevuto di spirare, con una sola spirazione, lo Spirito Santo; di volere l' essere per sè voluto, per sè amato. Quest' essere adunque, in quanto è infinitamente amato, è l' oggetto della volontà del Padre e del Figliuolo, e la norma dell' operare di Cristo, il quale perciò doveva dare le massime ed esterne prove dell' amore verso l' essere stesso, sia in Dio dov' è assolutamente e per essenza, sia negli uomini dov' è contingente, relativo e partecipato. E quindi tale volontà del Padre, avendo una necessità morale, è chiamata da Cristo anche precetto, o mandato, e s' estende a tutte le azioni e passioni di quello che doveva esser tipo agli uomini di ogni perfezione: [...OMISSIS...] . E dice che questo mandato del Padre è la vita eterna, a cui riscontro sta la vita temporale; perocchè quel mandato essendo essenzialmente morale, contenente cioè la spirazione dello Spirito Santo che è il bene morale sussistente personalmente, esso dee contenere necessariamente la vita morale, la quale di natura sua è eterna. Con che in pari tempo dimostra, quanto il mandato del Padre valga più della vita temporale, la quale è passeggiera e momentanea, per modo che nulla si debba riputare il getto di questa pel guadagno di quella. Per adempire dunque questo mandato, e mostrare il suo amore al Padre (e nell' amore, come dicevamo, sta la forma morale dell' essere), Cristo non prezzò punto la temporale sua vita, e si soppose a quella passione che doveva essere l' estremo della morale eccellenza: [...OMISSIS...] . Il che è quanto dire che non moriva per necessità di giustizia, giacchè il demonio, che in lui non possedeva cosa alcuna, non aveva alcun diritto di conquista sopra di lui, e però non poteva dargli morte come agli altri uomini. Ma che egli nulladimeno moriva non costretto, ma per ispontaneo amore al Padre: il quale amore tuttavia era una necessità morale, e però un mandato del Padre, che, volendo in lui l' eccellenza morale, voleva l' amore e la prova suprema dell' amore, lo spontaneo sacrificio della vita. Onde la morte di Cristo fu al tutto spontanea ed effetto d' amore: ma, perchè questa spontaneità d' amore era la suprema eccellenza della virtù del Padre voluta nel suo Figliuolo umanato, perciò era ad un tempo stesso un mandato o precetto del Padre suo. Le quali due qualità, in apparenza opposte ma veramente armoniche, della morte di Cristo, cioè l' essere essa effetto di spontaneo amore e nello stesso tempo mandato del Padre che voleva questo amore nel Figliuolo, sono congiunte da Cristo anche in queste altre sue parole: « Propterea me diligit Pater, quia ego pono animam meam ut iterum sumam eam. Nemo tollit eam a me: sed ego pono eam a meipso; et potestatem habeo ponendi eam, et potestatem habeo iterum sumendi eam. Hoc mandatum accepi a Patre meo (1) ». E che il sacrificio dipendesse dalla sua libera volontà era stato già predetto anche da Isaia che aveva scritto di lui: [...OMISSIS...] . Ora, nelle citate parole di Cristo trovasi la conferma di quanto abbiamo detto: « Per questo, dice, mi ama il Padre, perchè io depongo l' anima mia per riprenderla ». Ora l' amore, che il Padre ha al suo Verbo come essenzialmente amabile ed amato, è la spirazione dello Spirito Santo; il Verbo, in quanto è oggetto amato, e non in quanto è Verbo cioè oggetto sussistente per sè cognito, è la persona dello Spirito Santo, la quale amabilità amata è l' essenza morale. Convien adunque che anche il Verbo incarnato, l' Uomo7Dio, fosse amato dal Padre, in quanto attuava la massima virtù morale, il massimo amore, di cui il sacrificio della vita temporale è il massimo atto, la massima prova: di maniera che il mandato dato a Cristo dal Padre è un atto di massimo amore del Padre verso il Figlio, è l' amore stesso del Padre e del Figliuolo formante la norma che doveva seguire l' umanità assunta dal Figliuolo. Ed ancora è da osservarsi, che non è solo volontà e mandato del Padre che il Figliuolo deponga spontaneamente la sua vita temporale acciocchè così eserciti la perfezione della virtù morale, ma è volontà del Padre altresì che poi la riprenda, e non più temporale, ma impassibile, gloriosa, resa vita eterna; e quindi il Figliuolo, a capello in accordo col Padre, non la dimette per dimetterla, ma per riassumerla dimessa; e in questo ancora è amato dal Padre, e in questo ancora ama il Padre: « Per questo mi ama il Padre, perchè io depongo l' anima mia per assumerla di nuovo. Nessuno me la toglie; ma io la pongo da me stesso, ed ho la potestà di riassumerla. Questo comandamento ho io ricevuto dal Padre ». Onde il comandamento del Padre si estende, non meno che alla morte, altresì alla risurrezione del Figliuolo: il male ed il bene per amore egualmente; e l' amore del Padre che vuole, è l' amore del Figliuolo che eseguisce; tutto il comandamento non è che amore: il bene eudemonologico qui tiene la naturale sua relazione col bene morale; non precede quello, è una sequela, un' appendice, un compimento di questo. Fra le ragioni, per le quali il Padre permise che il suo Figliuolo incarnato incontrasse la morte, si può annoverare anche quella, acciocchè apparisse manifesto dove tendesse l' uomo guasto dal peccato adamitico e in possesso del Demonio; a che conduceva lo sviluppo di un tal germe funesto; qual frutto era proprio di un tal albero. La profonda nequizia di un tal germe, la malizia diabolica che in esso operava, non sarebbe apparita intieramente agli occhi degli uomini; sarebbe stata nascosta, e quindi giudicata troppo più benignamente del merito, se non fosse pervenuta a commettere, in cospetto di tutte le nazioni, il deicidio. Laonde Simeone aveva predetto a Maria: « Ecce positus est hic in ruinam et in resurrectionem multorum in Isra‰l, et in signum cui contradicetur, et tuam ipsius animam pertransibit gladius, ut revelentur ex multis cordibus cogitationes (1) ». E forse, quando la turba rispondeva a Gesù Cristo che aveva detto perchè mi volete uccidere?, che nessuno lo voleva uccidere, ella non sapeva ancora il reo disegno de' principali della Sinagoga, e tuttavia Gesù Cristo rimprovera alla turba stessa che volesse ammazzarlo (2), per indicare che, quantunque la turba a cui favellava non avesse forse attuata una tale intenzione, tuttavia la portava virtualmente in se stessa nel peccato di cui era infetta. Non avendo adunque Cristo difeso se stesso, e il Padre suo avendolo abbandonato nelle mani degli uomini peccatori (3), egli fu crocifisso in odio della verità e della giustizia che predicava e che mostrava luminosissima e perfetta in se medesimo: il che rese Cristo il primo dei martiri e de' penitenti. Or, prima di avanzarci nel nostro ragionamento, consideriamo chi era Gesù Cristo. Egli era prima di tutto Dio, era il Verbo che costituiva la sua personalità; ma era ad un tempo uomo. E qual uomo era? In quanto era uomo senza peccato, egli era l' uomo innocente, il nuovo Adamo. Ma in quanto egli aveva voluto ricever la carne proveniente da Adamo, la carne passibile e mortale soggetta a tutte le infermità e dolori provenienti dal peccato, di cui egli non partecipava, egli era il Figliuolo dell' uomo . Con questa umile denominazione amò Gesù Cristo di chiamarsi (1); Figliuolo dell' uomo significava qualche cosa di più basso ed umile di uomo . Perocchè la denominazione uomo non involgeva il concetto di uomo decaduto dal primitivo suo stato, di uomo destinato alla morte; ma l' altra di Figliuolo dell' uomo indicava lo stato di decadimento, indicava il figliuolo del peccatore, indicava colui che soggiaceva alla pena del peccato. In questa condizione di uomo passibile e mortale, onde alcuni Padri si esprimono dicendo che aveva assunta la carne del peccato, egli poteva esercitare la massima virtù, rendersi l' esempio perfettissimo degli uomini, e morire calunniato e perseguitato per la giustizia, il che è appunto il maggiore esercizio e segno della morale perfezione. E tuttociò egli, ed il Padre suo, permise appunto che avvenisse. Ora, qual fu l' eterno disegno, l' ineffabile mistero che si racchiudeva in questa permissione? Ecco quanto conseguì dal fatto della morte di Cristo. La morte di tutti gli altri uomini era pura giustizia: pagato questo debito non avanzava loro nulla che potesse restituirli in vita, erano morti per sempre. Ma la morte di Cristo non era atto di giustizia, perchè non era giusto che l' innocente, il Santo, l' Uomo Dio patisse e morisse. Quest' uomo, e ad un tempo Dio, s' era abbandonato sino alla fine nelle mani del Padre suo; e per quella illimitata confidenza non aveva sottratto se stesso, come poteva, dai dolori; non aveva voluto dar nulla a se stesso, avea voluto tutto aspettare, tutto ricever dal Padre, perocchè questo era conforme alla norma della virtù, secondo la quale « « è migliore il dare che il ricevere »(2) ». Cristo non aveva mai pensato che a dare a Dio e agli uomini, in che consiste la generosità, una generosità illimitata ed eroica. Ma il Padre per un istante lo abbandonò, non lo protesse contro i suoi persecutori, lo lasciò spirare in sulla croce. E se mandò l' angelo a refocillarlo nell' orto, fu unicamente acciocchè non morisse nella tristezza e nell' agonia in cui era caduto, dando un ristoro fisico alla sua umanità languente acciocchè fosse riserbata al sacrificio della croce. Onde Cristo morì da parte sua due volte: sofferendo prima il supplizio del senso interno, cioè dell' imaginazione nel Getsemani; e poscia soffrendo il supplizio del senso esterno sul Calvario. Sicchè l' umanità in Cristo sofferì tutto ciò che poteva sofferire sino alla morte dell' una e dell' altra parte di cui risulta la facoltà sensitiva dell' uomo, cioè da parte della fantasia e da quella dell' esterno sensorio. Tutto questo senza che lo meritasse, perchè del tutto innocente, meritando anzi il contrario perchè pieno d' ogni santità. Ma il Padre è l' essenziale giustizia, e come giusto l' aveva invocato il Figliuolo quando aveva detto: « « Padre giusto, il mondo non ti conobbe, ma io ti ho conosciuto: e questi conobbero che tu mi hai mandato. E feci lor noto il tuo nome, e noto lo farò, acciocchè la dilezione colla quale tu hai amato me sia in essi, ed io sia in essi »(1). » Era dunque necessario che il Padre, come giusto, compensasse il Figliuolo di quanto aveva così ingiustamente tollerato e patito quasi fosse stato il massimo peccatore. I meriti del Figliuolo avevano d' altra parte un valore infinito, perchè unito ipostaticamente colla divinità in modo che si poteva dir veramente, per la comunicazione degli idiomi, che Dio stesso aveva patito ed era morto. Conveniva dunque, ad aggiustare queste partite della divina giustizia sbilanciate, 1 che l' umanità di Cristo, restituita alla vita non più mortale, fosse assunta agli onori divini, collocata nel più alto seggio alla destra del Padre; 2 che tutti i desiderii dell' umanità fossero appieno appagati, e posciachè fra questi ci aveva quella di dominare i suoi nemici, di esser fatta signora del mondo, anche questo doveva essere appagato. Queste due cose erano state predette e promesse al Figliuolo nelle antiche Scritture, e particolarmente nel Salmo che narra queste promesse così: « « Disse il Signore al mio Signore: Siedi alla mia destra fino a tanto che io ponga i tuoi nemici sgabello a' tuoi piedi. Il Signore emetterà da Sionne la verga della tua virtù: signoreggia nel mezzo de' tuoi nemici. Teco è il principio nel dì della tua virtù fra gli splendori della santità: ho generato te dall' utero prima del lucifero. Giurò il Signore e non si pentirà: Tu sei Sacerdote in eterno secondo l' ordine di Melchisedecco. Il Signore è alla tua destra: Egli stritolerà i regi nel giorno dell' ira sua: farà giudizio tra le nazioni: empierà di rovine ogni cosa: farà battere in sul terreno il capo di molti. Egli s' abbevererà al torrente della strada: perciò alzerà il capo »(2). » In questo magnifico e sublimissimo Salmo il Padre dice al Figliuolo che ha consumato il suo sacrificio, e che s' è abbeverato al torrente della tribolazione e della povertà: « Sorgi e siedi alla mia destra ». Ecco la prima parte della mercede dovuta al Figliuolo: l' assunzione all' immortalità ed alla gloria divina della sua divina umanità. E di questa parte Cristo aveva detto: « Ego te clarificavi super terram: opus consummavi quod dedisti mihi ut faciam: et nunc clarifica me tu Pater apud temetipsum claritate quam habui priusquam mundus esset apud te (1). » Le quali parole rammentano quelle di S. Giovanni: « In principio erat Verbum, et Verbum erat apud Deum, et Deus erat Verbum; » e vengono a dire: Io prima d' esser manifestato agli uomini, anzi prima che fossero gli uomini e il mondo, cioè ab eterno, ero Dio: io fui generato prima dell' astro della luce fra gli splendori della santità, come dice il citato Salmo, della tua stessa sostanza, ex utero . Ora tu dunque decora anche la mia umanità di questa stessa gloria divina ed infinita, che come Dio non ho mai perduta, siccome tu già prima della costituzione del mondo hai predestinato nel tuo altissimo e sapientissimo consiglio facendomi sedere glorioso appresso di te, cioè alla tua destra. Dove scorgesi che l' espressione adoperata da S. Giovanni al cominciamento del suo Vangelo, apud Deum, conviene, benchè in diverso significato, non meno alla divinità che all' umanità di Gesù Cristo, in quanto questa è indivisa dalla divina persona. Questa comincia nel tempo a fruire di tal gloria per una cotale partecipazione, quando il Verbo la fruì ab eterno ed essenzialmente. L' altra parte del compenso e della mercede dovuta a Cristo si è l' accontentamento di ogni naturale desiderio della sua umanità rispetto agli uomini co' quali ha comune la natura umana. Il desiderio naturale dell' uomo è quello di essere il signore e dominatore del mondo, e di aver tanta potenza da poter sottomettere pienamente a sè i suoi nemici. Il qual desiderio è malvagio qualora non sia sottomesso alla giustizia e si voglia soddisfare indebitamente e senza un legittimo titolo, come avviene; ma in se stesso è fondato nella natura, e però non punto nè poco riprovevole: quand' anzi è tale che innalza e nobilita l' umana natura. Quindi nel citato Salmo Iddio dà a Cristo in piena balìa il mondo: gli promette di porre i suoi nemici a sgabello de' suoi piedi, lo esorta a signoreggiare nel mezzo di essi: la verga, cioè la potenza di Dio, uscirà da Sionne che rappresenta la giustizia, il bene morale, facendo che dalla virtù morale proceda la forza; e dice che nel giorno del suo trionfo sarà seco il principio, cioè Dio Padre, che è essenzialmente il principato, non solo il principe. Ma in qual maniera l' Uomo7Dio si prevale di tanta potenza accordatagli, di quella potestà di cui Cristo stesso aveva detto « dedisti ei potestatem omnis carnis (1), » e ancora dopo la resurrezione: « data est mihi omnis potestas in coelo et in terra (2)? » Amando Cristo come uomo la natura umana che egli possedeva, doveva amarla anche in tutti i suoi simili. Quindi, secondando il suo naturale affetto, doveva, colla risurrezione di tutti gli uomini, restituire tutta la natura umana distrutta colla morte. In tal modo egli vinceva il demonio, disciogliendo il maligno disegno di perdere questa fragile e mortale natura, che pure Iddio come opera sua voleva conservata. Aboliva anche il peccato originale, in quanto esso consiste e procede dalla corruzione della carne, dando ai risorti, quanto a sè, qualora non abbiano peccati attuali, un corpo perfetto. Onde l' Apostolo: « Nunc autem Christus resurrexit a mortuis primitiae dormientium: quoniam quidem per hominem mors et per hominem resurrectio mortuorum. Et sicut in Adam omnes moriuntur, ita et in Christo omnes vivificabuntur (3). » E altrove dice che « purgationem peccatorum faciens, sedet ad dexteram majestatis in excelsis (4), » attribuendo alla gloria di Cristo che siede in cielo, e di là può render partecipi gli uomini della sua gloria, la purgazione dei peccati. Ma non bastava a Cristo il restituire al genere umano, già divenuto preda della morte, la vita sua propria: l' affetto, di cui ardeva verso Dio e verso i suoi simili, troppo più richiedeva. E` proprio della natura umana l' amicizia; niuna cosa più desidera l' uomo non corrotto quanto l' unione col suo simile: ciascun uomo sente di non essere tutta la natura umana, e che una parte di questa è in altri individui: a lui sembra dunque di completare in se medesimo la umana natura, qualora può congiungersi il più strettamente che egli possa con altri individui della natura stessa, e divenir quasi una sola cosa con essi. Ma i vincoli, coi quali gl' individui umani possono stringersi ed adunarsi insieme, sono limitati dalle condizioni della stessa natura. Uno, e forse il più intimo di questi vincoli, è il coniugale che dell' uomo e della donna fa una sola carne, in cui vivono due anime concordi. Questa imagine viene adoperata nelle Scritture per indicare la stabile, perpetua e reale unione di Cristo co' suoi santi in Cielo. Cristo, quale Sposo, celebra colà eterne nozze colla Sposa sua la Chiesa in istato di termine, che è la società dei predestinati già comprensori. Giovanni nell' Apocalisse descrive la visione avuta di questa Sposa dell' Agnello nell' atto ch' ella scendeva da Dio di Cielo in terra: [...OMISSIS...] Nel Cantico de' Cantici si cantano i casti amori, divini preludii in terra dello stabile indissolubile matrimonio la cui consumazione è la stessa beata eternità: quivi non cade infedeltà di sorta o raffreddamento d' affetto. Or, come il coniugio è tolto a simbolo delle nozze di Cristo e della Chiesa, così viceversa quest' unione mistica, essendo perfettissima e santissima, diviene l' esemplare del coniugio dell' uomo e della donna cristiana, partecipando Cristo ai suoi seguaci che si uniscono in matrimonio di quella grazia e santità spirituale che annoda lui ineffabilmente colla Chiesa beata. Laonde S. Paolo dice: [...OMISSIS...] Laonde Cristo in compenso, e mercè de' suoi meriti e ineffabili patimenti senza alcuna sua colpa sostenuti, potè dal genere umano cavarsi la Chiesa, cioè unire e incorporare a sè quel numero di uomini che a lui piace, e fra questi eleggere quelli che partecipino della sua gloria. « Ascendisti in altum, » avea detto il Salmista, « cepisti captivitatem; accepisti dona in hominibus (2). » Il qual luogo, commentato da S. Paolo, dice: « Unicuique autem nostrum data est gratia secundum mensuram donationis Christi. Propter quod dicit: Ascendens in altum captivam duxit captivitatem: dedit dona hominibus. Quod autem ascendit, quid est nisi quia et descendit primum in inferiores partes terrae? Qui descendit, ipse est et qui ascendit super omnes coelos ut impleret omnia (4). » Così Cristo in conseguenza della gloria ottenuta co' suoi patimenti e della signoria del genere umano, atteso l' amor suo verso di Dio suo Padre e verso gli uomini consorti della natura da lui assunta, divenne loro redentore dalla morte e dal peccato originale, loro maestro e salvatore da tutte le colpe attuali, e loro glorificatore. Quindi ebbe la dignità di mediatore e di sacerdote, non solo quella di Re, come soggiunge il Salmo sopra citato: « Juravit Dominus et non poenitebit eum: Tu es sacerdos in aeternum secundum ordinem Melchisedech (1). » La dottrina del sacerdozio di Cristo è profondamente esposta nella lettera di S. Paolo agli Ebrei. In essa dimostra l' Apostolo come questa dignità di Pontefice se l' acquistò Cristo e meritò col suo essere passibile e mortale, e la esercitò co' suoi patimenti coi quali fece il sacrificio di se stesso. [...OMISSIS...] Il che viene a dire che avendo Cristo patito ed essendo stato tentato, quando la giustizia divina non avea cosa da punire in esso, conveniva che la giustizia stessa, che non concede che l' innocente soffra alcuna pena, dèsse a Cristo un ristoro e compenso del patimento sofferto e non meritato; e questo fu il lasciargli podestà non solo di risorgere egli stesso impassibile ed immortale, ma di poter anco venire in ajuto de' suoi fratelli nei loro patimenti e nelle loro tentazioni. Dice ancora « Non enim habemus pontificem, qui non possit compati infirmitatibus nostris; tentatum autem per omnia pro similitudine absque peccato (3). » Dove è da considerare, esser così fatta l' umana natura, che dall' esperienza del patimento ella ritenga una positiva cognizione di esso, la quale, per la legge della simpatia che è fra individui aventi una stessa natura, rende lei compassionevole e pietosa: e la natura umana in Cristo volle subire le leggi, fra le quali anche questa, alle quali essa natura soggiace. E quantunque ogni cosa meritassero i suoi patimenti, a compensazione de' quali ogni suo desiderio doveva venire soddisfatto dal Padre; tuttavia, perchè doveva esercitare in ogni cosa la massima generosità ed essere a noi compiuto modello, volle avere la gloria e la vita dovutagli piuttosto come impetrata con umili preghiere, che per giustizia meritata: o certo nell' uno e nell' altro modo. Di che di nuovo S. Paolo: « Et quidem cum esset Filius Dei didicit ex iis quae passus est obedientiam: et consummatus factus est omnibus obtemperantibus sibi causa salutis aeternae, appellatus a Deo pontifex juxta ordinem Melchisedech (4). » Il sacrificio adunque di Cristo ebbe virtù di rimettere i peccati degli uomini, perocchè, come dice S. Paolo: « Eum, qui non noverat peccatum, pro nobis peccatum fecit » (soffrì d' esser trattato come un peccatore), « ut nos efficeremur justitia Dei in ipso (1); » ed essendo egli risorto dopo aver patito, ed entrato in cielo, ivi egli esercita un perpetuo sacerdozio, e può riconciliare e far partecipi della stessa gloria quanti uomini a lui piace. Perocchè, come dice di nuovo S. Paolo, egli è fatto sacerdote « « non secundum legem mandati carnalis, sed secundum virtutem vitae insolubilis »(2), » e soggiunge: « « Et alii quidem plures facti sunt sacerdotes, idcirco quod morte prohiberentur permanere: hic autem, eo quod maneat in aeternum, sempiternum habet sacerdotium. Unde et salvare in perpetuum potest accedentes per semetipsum ad Deum, semper vivens ad interpellandum pro nobis »(3) » Laonde il solo sacrificio della morte di Cristo, dalla quale risorse glorioso, fu accettevole ed efficace per sempre a rimettere i peccati e salvare gli uomini. [...OMISSIS...] Imperocchè è da considerarsi che i sacerdoti della nuova legge, sebbene molti, tutti partecipano dell' unico sacerdozio di Cristo, e non offrono se non la medesima oblazione, cioè il corpo ed il sangue di Cristo. Nel che ancora apparisce l' unità che tutti formano con Cristo, perocchè è sempre Cristo quello che in essi opera quando sacrificano, per modo che un solo Cristo in tutti essi è il vero sacrificatore e la vera vittima sacrificata. Il perchè niuno può essere sacerdote della nuova legge se non è battezzato, attesochè solo pel battesimo s' incorpora l' uomo con Cristo, e Cristo è nell' uomo. La morte dunque di tutto il genere umano satisfaceva alla divina giustizia, ma non salvava l' uomo, anzi lo distruggeva; e l' anima separata dal corpo rimaneva sempre sotto la medesima giusta dannazione. Ma la morte di Cristo, sostenuta da lui senza averla meritata, non era una soddisfazione che dovesse dar Cristo per i proprii peccati; ma era un credito ch' egli acquistava verso la divina giustizia, un credito infinito, col quale, dopo pagato il debito dell' uman genere, rimaneva ancora tanto avere, da poter regalarne gli uomini d' ineffabili doni e di prezzo infinito. La morte di Cristo adunque salvò il mondo perchè meritò la risurrezione di Cristo, glorioso Signore onnipotente, Re ad un tempo e Pontefice, secondo il giuramento interposto dall' eterno suo Padre. Quindi è che le sacre carte attribuiscono sempre la salvezza del mondo alla risurrezione di nostro Signor Gesù Cristo, che, come aveva detto il Salmo, ascendendo nell' alto menò captiva la captività, cioè tolse al demonio il dominio sopra gli uomini e li fece captivi a se stesso, ed ottenne copia di doni da distribuire agli uomini stessi da lui liberati per giusta conquista. Laonde Cristo stesso avea detto agli Apostoli che tornava loro conto ch' egli se ne andasse di questo mondo al Padre « Quia vado parare vobis locum. Et si abiero et praeparavero vobis locum, iterum venio et accipiam vos ad me ipsum, ut ubi sum ego et vos sitis (1). » Conveniva che Cristo fosse glorificato, acciocchè egli potesse far partecipi della sua gloria i suoi discepoli. Il ritorno di cui parla Cristo, nel quale viene a prendergli, a riceverli a sè, a collocarli là appunto dov' egli è (non dice dove sarà, perchè Cristo fu sempre appresso Dio, non solo come Verbo, ma ben anco, in un altro senso, come uomo godendo della visione beatifica, benchè questa non espandesse i suoi effetti gloriosi fuori della mente del Salvatore), questo ritorno è appunto la comunicazione della gloria da lui ottenuta, e si riferisce principalmente alla seconda venuta del Salvatore, quand' egli risusciterà i giusti, che in lui credono, e li ammanterà della sua propria gloria. Perocchè, dicendo iterum venio et accipiam vos, parla all' uomo intero e non alla sola anima. Tuttavia un altro ritorno di Cristo è anche quello che avviene alla morte del giusto che in lui crede, quando accoglie a sè l' anima sua, e le dà della sua vita ammettendola alla visione di Dio. Un terzo ritorno di Cristo è l' effusione dello Spirito Santo, il quale segna Cristo nelle anime in cui viene, e dà loro la caparra dell' immortalità e della risurrezione; e di questo ritorno parla Cristo poco appresso dicendo [...OMISSIS...] Dice che pregherà il Padre, mostrando che come uomo egli impetra per gli altri uomini il dono dello Spirito Santo, di cui siamo per conseguente obbligati all' umanità di Gesù Cristo, che dopo aver meritato di essere esaudito in ogni suo desiderio, pregò mosso dalla sua carità per noi, e il priego che manifestava il suo desiderio non poteva andare inesaudito. Dice che non li lascierà orfani, cioè senza Padre, perchè egli, che è il Figliuolo entrato già in essi e ad essi congiunto come il capo alle membra, sarà illustrato dalla luce del suo Spirito, e avranno coscienza di possederlo, e così di essere veramente figliuoli di Dio partecipando della Figliuolanza del Verbo incarnato a cui sono indivisamente uniti. Di che S. Paolo attribuisce al Santo Spirito la consapevolezza che noi abbiamo d' esser divenuti figliuoli di Dio: [...OMISSIS...] dice, [...OMISSIS...] Dice finalmente che i suoi discepoli al lume dello Spirito Santo lo vedranno anche quand' egli sarà partito dal mondo, quia ego vivo et vos vivetis, cioè perchè essi partecipano della stessa vita di Cristo; e il veder Cristo è un atto di questa vita. Dice del pari che conosceranno il Santo Spirito, perchè apud vos manebit et in vobis erit: giacchè lo Spirito Santo non si può conoscere se non per lo Spirito Santo, onde il mondo non lo vede e non lo conosce, perchè nol può ricevere, atteso l' ostacolo del peccato. Ripete ancora che torna conto a' suoi discepoli che egli se ne vada, perchè, venendo egli glorificato, manderà lo Spirito Santo caparra della loro gloria futura: [...OMISSIS...] Per le quali cose S. Paolo attribuisce alla risurrezione di Cristo la nostra giustificazione; giacchè, se questa fu meritata dalla Passione di Cristo, fu però attuata e compiuta mediante la risurrezione; per la quale Cristo acquistò la signoria sopra di noi, e potè fare di noi secondo l' amoroso suo cuore: « qui traditus est » (così l' Apostolo) « propter delicta nostra, et resurrexit propter justificationem nostram (4); » giacchè, se non fosse risorto Cristo, egli non poteva comunicarci di quella sua vita gloriosa, e quindi noi non saremmo risorti, ma rimasti sotto la condannazione del peccato. Medesimamente S. Pietro attribuisce alla risurrezione di Cristo la nostra rigenerazione: [...OMISSIS...] E deduce dalla risurrezione medesima di Gesù Cristo, la virtù che ha il battesimo di porre in noi il germe della vita che aspettiamo gloriosa: [...OMISSIS...] La qual dottrina consuona mirabilmente con quella di S. Paolo, che a' Colossesi scriveva: [...OMISSIS...] Imperocchè non bastava che si distruggesse il vecchio uomo adamitico, se non si faceva vivere l' uomo nuovo: il che Cristo fece comunicando all' uomo della sua vita nuova ricevuta nella risurrezione. Perocchè l' uomo incorporato a Cristo, e divenuto un membro di quello stesso corpo di cui Cristo è il capo, dovea partecipare di tutte le vicende del capo, e con lui morire, e con lui risorgere. Laonde L' Apostolo non dubitava dire: « « Si autem Christus non resurrexit, inanis est ergo praedicatio nostra, inanis est et fides vestra: invenimur autem et falsi testes Dei, quoniam testimonium diximus adversus Deum quod suscitaverit Christum, quem non suscitavit si mortui non resurgunt. Nam si mortui non resurgunt, neque Christus resurrexit. Quod si Christus non resurrexit, vana est fides vestra, adhuc enim estis in peccatis vestris. Ergo et qui dormierunt in Christo perierunt. Si in hac vita tantum in Christo sperantes sumus, miserabiliores sumus omnibus hominibus »(1). » Nel quale luogo S. Paolo argomenta la risurrezione dei morti dalla risurrezione di Cristo; perocchè gli uomini non avrebbero potuto risuscitare, se Cristo risorto non avesse acquistato la potestà di fare altresì risorgere quelli che partecipavano con esso lui della stessa natura umana. Ma particolarmente dalla resurrezione gloriosa di Cristo argomenta la risurrezione gloriosa di quelli che morirono in Cristo, cioè incorporati a Cristo, e che perciò con Cristo formano una sola cosa, un solo corpo, che dee esser tutto avvivato della stessa vita, o tutto giacere nello stesso stato di morte: onde, posta la risurrezione del capo, è giocoforza porre altresì la risurrezione delle membra. Di più dice senza questa risurrezione rimane lo stato di peccato, adhuc enim estis in peccatis vestris, e perciò è vana la predicazione dell' Evangelio, cioè della buona novella, e vana è pure la fede che ad esso si presta; perocchè, giacendo gli uomini prostrati dalla morte, non può dirsi rimesso il peccato a quelli, in cui ne dura la pena. Finalmente fa intendere che senza la risurrezione non v' ha più speranza nella vita futura, e quindi i Cristiani sarebbero i più miseri fra gli uomini, posciachè dovrebbero sperare unicamente nella presente, a' cui diletti hanno rinunziato, ed è da loro considerata piuttosto come morte che come vita. La qual dottrina consuona a capello con quella che è costante in tutti i libri dell' Antico Testamento, dove la speranza della vita futura trovasi sempre fondata nella fede della risurrezione, e non in altro. Laonde il libro della Sapienza, parlando de' giusti defunti, non commenda il loro stato pel presente godimento a cui fossero ammessi, ma per la speranza, perchè « spes illorum immortalitate plena est (2), » e perchè a suo tempo Iddio perdona ad essi, « et in tempore erit respectus illorum (3), » e l' incontaminato « habebit fructum in respectione animarum sanctarum (4), » cioè nella risurrezione. E il fanciullo maccabeo, che veniva tormentato, nella risurrezione pone ogni sua speranza, dicendo che: « Rex mundi defunctos nos pro suis legibus in aeternae vitae resurrectione suscitabit (5). » E ancor più efficace è quel luogo ove parlandosi della colletta di dodicimila dramme d' argento fatta da Giuda Maccabeo ed offerta in Gerusalemme, acciocchè vi si offerisse un sacrificio pe' morti in battaglia, a cui erano stati trovati sotto le tuniche doni degl' Idoli, il sacro storico dice in modo assoluto, che se non vi avesse la risurrezione sembrerebbe inutile il pregare pei morti per la remissione de' loro peccati. E le parole son queste: [...OMISSIS...] La qual dottrina offerisce a noi cristiani una difficoltà che dobbiamo sciogliere accuratamente. Tutta la nostra felicità, la nostra speranza di felicità, si fa per essa dipendere dalla risurrezione: la remissione stessa dei peccati, o la giustificazione si afferma dipendere dalla risurrezione medesima. Ora noi sappiamo per fede che l' anima separata dal corpo, se non ha macchia di peccato, viene ammessa alla visione di Dio, e che se essa porta seco delle macchie leggere viene addetta al fuoco che la purga e rimonda, e, tosto che è resa netta e pura del tutto, la visione beatifica le è conceduta prima della risurrezione dei corpi. Come dunque può dirsi col citato libro de' Maccabei, che sembrerebbe superfluo e vano pregare pei morti ut a peccatis solvantur, quando non dovessero risorgere, mentre pure giova intercedere per le anime purganti acciocchè cessi presto il tormento, e passino presto a godere Iddio? E come, ancor più, può egli sembrare al vero conforme quello che dice l' Apostolo, che, se non vi avesse la resurrezione de' nostri corpi, noi cristiani saremmo i più miserabili degli uomini, quando pure le nostre anime, anche prima della risurrezione, possono fruire del beato consorzio di Dio? Affine di risolvere queste apparenti difficoltà conviene por mente a due cose: 1 Quale sarebbe lo stato dell' anima separata dal corpo ed abbandonata intieramente a se stessa; a ciò che ella ha per natura sua, senz' altra aggiunta o azione esteriore: 2 Che cosa s' intende per la risurrezione, opera del nostro Gesù Cristo, che cosa s' intenda particolarmente pei giusti che risorgono. Quanto alla prima questione è da rispondere che l' anima umana, privata che sia del corpo, ove non le venga alcuna giunta dal di fuori, non venga fatta in lei alcuna azione da qualche agente a lei straniero, l' anima umana separata, da sè sola, primieramente non ha più alcuna sensazione, nè fantasma, nè può fare alcun atto sensitivo, al che si richiede l' organo corporeo; e di conseguente non può più raziocinare nè pensare a cose reali, nè ad astratti che hanno sempre bisogno di qualche segno sensibile per esser pensati. Ella dunque non ritiene se non l' intuizione immota dell' essere indeterminato, e gli abiti contratti nella vita precedente che la individuano, i quali abiti non passano giammai all' atto, perchè nulla vi ha che li tragga a questo. Laonde l' anima, senza alcun termine reale, non avrebbe alcun sentimento, in quanto questo si definisce per la forma reale dell' essere; e però sarebbe senza alcuna vita, eccetto il semplice atto intellettivo dell' intuizione che non si direbbe propriamente vita: l' anima così esisterebbe, ma non vivrebbe. Nel quale stato non essendo a lei possibile alcuna riflessione su di se stessa, nè alcuna coscienza, la sua condizione si potrebbe rassomigliare ad uno stato di perpetue tenebre, e di sempiterno sonno: onde i negri tartari (1) ed i luoghi bui (2) de' poeti, e il loro ferreo ed eterno sonno. Questa fu una delle cause per le quali alcuni filosofi, che non ricevettero il lume della rivelazione, e forse fra questi Aristotele, almeno secondo l' interpretazione di Pomponaccio e d' altri negarono l' immortalità dell' anima: e il loro errore fu di crederla annullata o disciolta, non distinguendo fra vita ed esistenza, e non conoscendo quell' atto intuitivo dell' essere, e quel deposito di abiti rimanenti nell' anima dalla precedente sua unione col corpo, che dà a lei un' esistenza intellettiva ed una individualità, sebbene non una vera vita nel senso che noi crediamo proprio di questa parola. Nello stesso errore era caduta, presso gli Ebrei, la setta dei Sadducei. Questi credevano che l' anima non soprastesse alla sua separazione dal corpo, o piuttosto la negavano (3); e ciò qual conseguenza dell' altro loro errore pel quale negavano la risurrezione. Ora Gesù Cristo, togliendo a confutare il loro errore, non toglie a stabilire la tesi generale che l' anima separata dal corpo viva; ma si limita a parlare degli uomini santi, e dice di questi che nella risurrezione vivranno per non più morire. Perocchè, avendo i Sadducei proposta la difficoltà di chi sarebbe nella resurrezione la donna che avesse avuto per mariti successivamente sette fratelli, Cristo risponde loro: « Filii hujus saeculi nubunt et traduntur ad nuptias: illi vero qui digni habebuntur saeculo illo, et resurrectione ex mortuis, neque nubent neque ducent uxores: neque enim ultra mori poterunt: aequales enim angelis sunt, et filii sunt Dei, cum sint filii resurrectionis (4): » e nulla disse dell' anima per sè sola considerata, nè tampoco de' reprobi che pure risorgeranno, ma « non in resurrectione vitae, sì in resurrectione judicii (5). » Ora dalle citate parole di Cristo si può raccogliere due cose: la prima, che la resurrezione è quella che dà ai giusti l' immortalità; la seconda è, che per la risurrezione i giusti sono figliuoli di Dio, tolti per conseguente da ogni pena o sequela del peccato, fatti simili agli angeli santi, spiritualizzati senza il legame o l' impaccio di un corpo materiale. Ma dopo di ciò Cristo continua provando a' Sadducei la verità della risurrezione de' giusti in questo modo: « Quia vero resurgant mortui, et Moyses ostendit secus rubum (1), sicut dicit Dominum Deum Abraham, et Deum Isaac, et Deum Jacob: Deus autem non est mortuorum sed vivorum: omnes enim vivunt ei (2). » Le quali parole confermano mirabilmente quello che dicevamo. Perocchè Cristo argomenta così: « Mosè disse che il Signore è il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe. Ora, se questi Patriarchi fossero morti, non si direbbe che il Signore fosse il loro Dio, perocchè il Signore è Dio de' vivi e non dei morti. Dunque questi Patriarchi sono viventi. Ma non potrebbero dirsi viventi, se un giorno non dovessero risorgere. Dunque convien dirsi che i morti risorgono ». Questo ragionamento fa dipendere la vita di que' Patriarchi dalla loro futura resurrezione. Perchè sono vivi? perchè risorgeranno. Dunque non sarebbero vivi se non dovessero risorgere. Dunque l' anima separata se non fosse destinata a risorgere, se non avesse in sè una ragione o un germe della sua futura palingenesi, troverebbesi in una condizione e stato di morte. Soggiunge però che a Dio tutti vivono, omnes enim vivunt ei, per indicare che Iddio ha virtù di far tornare a vita tutti quelli che egli vuole. Il che sembra accennare alla risurrezione universale sì dei buoni che de' cattivi; ma, dicendo che « tutti vivono a Dio »; parla d' una vita relativa a Dio, non d' una vita relativa a se stessi, non d' una vita soggettiva; e con ciò dimostra, che tutte le anime continuano ad esistere anche separate dal corpo, e però tutte possono essere ravvivate da Dio, in relazione al quale perciò vivono (3). Veniamo alla seconda questione: che cosa s' intenda per la resurrezione che opera nostro Signor Gesù cristo ne' giusti. Secondo la maniera di favellare delle divine scritture, sotto la parola risurrezione non s' intende solamente l' ultima palingenesi, quando gli uomini ricupereranno un corpo proprio, e i giusti un corpo proprio e glorioso che non più deporranno: si intende il nuovo uomo, s' intende Cristo che è nell' uomo e la cui vita è eterna. Coll' incorporazione dell' uomo in Cristo comincia nell' uomo la vita eterna: la vita adamitica e corruttibile perisce, ma sotto di questa ve ne sta un' altra nascosta come sotto la morta spoglia del serpente sta una pelle nuova e viva che si discuopre colla deposizione di quella. Laonde Cristo disse: « « Io sono la risurrezione e la vita: chi crede in me, benchè egli sia morto, vivrà; e ognuno che vive e crede in me, non morrà in eterno »(1). » Ora Cristo in altro luogo dice de' suoi discepoli parlando al Padre: « Ego in eis et tu in me (2). » Se dunque Cristo è la vita, e se egli è nei suoi discepoli, egli è conseguente che a questi non può mai venir meno la vita se non si tolgono dall' unione con Cristo: deve rimanere in essi una vita eterna, una vita che di sua natura non può perire. Onde Cristo assolutamente dice che « ogni vivente e credente in lui, non morirà in eterno ». Ma Cristo non è solo la vita, ma anche la resurrezione. Qui evidentemente il discorso si riferisce a due forme o maniere di vita; altramente chi ha la vita non avrebbe bisogno di risorgere. Altra è dunque la vita propria degli umani individui, la qual consiste nell' unione vitale dei proprii loro corpi colle loro anime; ed altra la vita che comunica loro Cristo, quando ad esso incorporati ne partecipano la grazia. Rispetto a questa maniera di vita, Cristo dice se stesso di esser la vita; rispetto alla prima, dice di esser la risurrezione . Quegli stesso che è la vita permanente negli uomini santi della nuova legge, è anche la loro risurrezione. Quella vita non può venir meno giammai, perchè « Christus resurgens ex mortuis jam non moritur, mors illi ultra non dominabitur (3). » Ma pure Cristo una volta morì; ed allora sono forse morti gli Apostoli e discepoli suoi ne' quali egli era? Sì, quel Cristo che era in essi morì: nel triduo della morte di Cristo, Cristo morì ne' suoi discepoli: i discepoli di Gesù Cristo in quel tempo ebbero in se stessi Gesù Cristo morto: nella stessa eucaristia che avevano ricevuto la vigilia della morte di Cristo, se si conservò in essi, vi aveva Cristo morto, il corpo separato dall' anima. Ma primieramente si consideri che la divinità non abbandonò giammai nè il corpo nè l' anima di Cristo, e che perciò la persona di Cristo non fu soggetta alla morte, perchè quella persona era il Verbo. Cristo dunque, sebben morto come uomo, era vivo come Dio ed aveva la podestà di riassumere la sua vita umana come aveva avuto la podestà di deporla. Cristo come Dio conservava il suo corpo immune dalla corruzione, lo conservava in suo potere, nè perciò permetteva che di lui si vestissero altri animali, come accade de' cadaveri degli altri uomini, ne' quali si generano i vermi ed altri minimi esseri viventi, quand' anzi può credersi che il divin corpo non avesse ricevuto nella Passione alcuna di quelle disorganizzazioni che impediscono assolutamente di vivere, eccetto l' emissione del preziosissimo Sangue. Di poi non sarebbe alieno dal credersi, che, quantunque Gesù Cristo avesse cessato di vivere della vita naturale dell' uomo, tuttavia vivesse l' anima sua della vita eucaristica, della qual misteriosa vita forse altrove ci accadrà di parlare più estesamente. Ma lasciando per un momento da parte questa misteriosa vita, conviene tuttavia distinguersi anche in Cristo primieramente due vite: la vita divina che aveva come Dio, la quale non gli potè giammai venir meno, perchè Iddio non muore; e la vita umana che consisteva nella unione dell' anima sua sacratissima col suo divinissimo corpo. Ora, quantunque Cristo nel triduo della sua morte si trovasse ne' discepoli suoi morto della vita umana, tuttavia viveva in essi colla divina, la quale è la prima causa della risurrezione che Cristo stesso attribuiva alla virtù di Dio, quando a' Sadducei diceva « Erratis nescientes scripturas, neque virtutem Dei (1), » e quando chiamava « figliuoli di Dio »i « figliuoli della resurrezione »(2). Ora la virtù, cioè l' onnipotenza di Dio, poteva certamente dare un termine reale alle anime separate, in qualunque maniera egli si compiacesse di farlo, il quale tenesse luogo del corpo, e così poteva farle vivere di vita soggettiva, benchè non della naturale. Imperocchè la vita dell' anima, generalmente considerata, altro non richiede se non un termine reale così ad essa congiunto, che con esso lei formi un unico soggetto, il quale possa, aggiungendosi le condizioni opportune, fare le operazioni vitali del sentire e del pensare su cosa reale. Ma questo termine reale può esser vario: onde le varie maniere di vita, e l' onnipotenza di Dio, come dicevamo, anche ad un' anima separata dal proprio corpo naturale può aggiungere un' altra realità, che tenga per essa luogo del proprio corpo. Il qual termine noi stimiamo sia, come toccammo, l' essere sacramentale di Cristo, giusta quelle parole: « « il pane che io darò, è la mia carne per la vita del mondo »(3), » cioè la mia carne, sotto forma di pane, di alimento, terrà luogo, farà le veci della vita del mondo. Si distinguano adunque oggimai quattro maniere di vita in Cristo e nei discepoli di Cristo: 1 La vita naturale, cioè l' unione del corpo umano naturale in un individuo soggetto; 2 La vita divina, misteriosa, eucaristica, che rimase nel triduo della morte di Cristo; 3 La vita spirituale di Cristo ancor viatore, qual ebbe prima della sua morte, la qual consisteva in una santificazione e divinizzazione di Cristo come uomo naturalmente vivente, cioè in una santificazione e divinizzazione della sua anima e del suo corpo uniti insieme individuamente, dal che proveniva la potenza che aveva di trasfigurarsi, come fece sul Tabor, e di glorificarsi quando avesse voluto, benchè volle piuttosto contenere questi effetti della sua divinità lasciando che il suo corpo e l' anima sua potessero patire, come abbiamo detto, e dividersi per morte; il che non toglieva che la vita immortale e gloriosa di Cristo non fosse in lui viatore, ma nascosta, quasi in germe, che a suo tempo sarebbesi sviluppata e manifestata, il che fu nella resurrezione; e 4 Finalmente la vita gloriosa dopo la resurrezione, e dopo l' ascensione al Cielo (due gradi della stessa vita), la quale è la stessa vita precedente attuata nella pienezza del suo vigore e dei suoi meravigliosi effetti. La prima di queste quattro maniere di vita era destinata alla morte in Cristo e ne' suoi discepoli: ne' suoi discepoli come conseguenza penale del peccato adamitico, pel quale la vita naturale degli uomini era divenuta corruttibile, ricalcitrante allo Spirito Santo, e preda del demonio: in Cristo, perchè Cristo per la sua magnanimità, come abbiamo detto, volle prendere su di sè la pena del peccato senz' alcun peccato, e così riuscire quel tipo perfettissimo di virtù morale, che il suo eterno Padre voleva che fosse ed apparisse in questo mondo. La seconda vita non venne mai meno in Cristo, nè pure nel tempo della sua morte e durante la dimora del suo corpo sacratissimo nel sepolcro. Che durante questo tempo Cristo e i suoi discepoli in lui incorporati vivessero della vita eucaristica sembra indicarsi da queste parole di Gesù Cristo «: Operamini non cibum qui perit, sed qui permanet in vitam aeternam, quem Filius hominis dabit vobis (1). » Il cibo adunque che Gesù Cristo non avea dato fino allora, ma che prometteva di dare, dice esser tale che non muore, non vien meno perchè permane nella vita eterna, e questo è il cibo eucaristico. E soggiunge questa ragione: « Hunc enim Pater signavit Deus (2) »: quasi voglia far intendere che quel Figliuolo dell' uomo, che Iddio segnò come sua proprietà anche morto quant' è alla vita naturale, non può non avere qualche altra maniera di vita, in modo che la vita soggettiva in lui duri eterna, e la possa comunicare a' suoi, dandosi loro sotto forma di cibo. Poco appresso soggiunge: « Non Moyses dedit vobis panem de coelo, sed Pater meus dat vobis panem de coelo verum. Panis enim Dei est, qui de coelo descendit, et dat vitam mundo (1). » Questo pane del Cielo è Gesù Cristo stesso, ma non nella sua vita naturale, ma nella sua vita eucaristica. I SS. PP., che interpretarono questo capo VI dell' Evangelista Giovanni, hanno inteso costantemente dell' essere eucaristico o sacramentale di Cristo, ciò che ivi si legge del pane celeste. Questo pane si dice dato dal Cielo, perchè Cristo, nella forma di cibo o di pane, non è più nel suo essere naturale umano, non è nella vita adamitica, ma in un modo miracoloso, soprannaturale; ha un altro essere, un' altra vita nascosta e al tutto misteriosa: e questa vita è per comunicarsi al mondo, dat vitam mundo: dà al mondo, che ha perduto la vita in Adamo, una vita di forma del tutto nuova; la quale rimane anche quando il mondo è morto della sua vita naturale, di quella vita che gli venia dalla terra e non dal cielo, che gli veniva dalla carne e dal sangue e non da Dio: « qui non ex sanguinibus, neque ex voluntate carnis, neque ex voluntate viri, sed ex Deo nati sunt (2). » Questa vita poi, che viene comunicata meravigliosamente agli uomini, ha condizione di cibo, perchè sia così ristorato l' antico modo col quale gli uomini si dovevano rendere immortali, cioè col mangiare del frutto dell' albero della vita: modo stabilito da Dio a principio e reso inutile dall' insidia del demonio. Ora, dovendo il demonio esser vinto e confuso in tutti i suoi tranelli, dispose l' Eterno di dare al mondo riconquistato un altro albero della vita, assai migliore del primo, e questo fu Gesù Cristo; e il cibo eucaristico, la vita di Cristo nascosta in esso, è il frutto di quest' albero. Il qual cibo noi possiamo acconciamente chiamarlo frutto, perchè fu impetrato da Cristo appresso il Padre e meritato colla sua passione e morte, di cui per questo pure è la vivente memoria, perchè egli dura e vive anche quando Cristo è morto nella sua umana natura. Alla qual vita nascosta ed eucaristica, che non vien meno, consuonano quelle parole dell' Apostolo « Qui in diebus carnis suae, preces supplicationesque ad eum qui possit illum salvum facere a morte, cum clamore valido et lacrymis offerens, exauditus est pro sua reverentia (3). » Ora dalla morte naturale Cristo non fu immune, non fu esaudito; e, quantunque ne sia poscia stato campato colla resurrezione, tuttavia questo non toglie che l' abbia sostenuta. Ma, se poniamo che Cristo, anche morto, vivesse d' un' altra vita occulta, e fuori dell' ordine naturale, qual è l' eucaristica; in tal caso egli fu esaudito, perchè non fu mai senza qualche maniera di vita. E` anche da osservarsi che questa maniera occulta di vita comunicandosi agli altri per modo di cibo, suppone che essi già vivano: ed è per ciò che l' eucaristia non si può ricevere se non da quelli che sono nati nelle acque battesimali. Dice Gesù Cristo di nuovo agli Ebrei « Ego sum panis vitae: qui venit ad me non esuriet: et qui credit in me non sitiet unquam (1) » Ed alla Samaritana avea detto il somigliante dell' acqua che ha pur forma di cibo: « « Si scires donum Dei, et quis est qui dicit tibi: Da mihi bibere; tu forsitan petisses ab eo, et dedisset tibi aquam vivam »(2). » E ancora: « « Omnis qui bibit ex aqua hac, sitiet iterum; qui autem biberit ex aqua, quam ego dabo ei, non sitiet in aeternum: sed aqua, quam ego dabo ei, fiet in eo fons aquae salientis in vitam aeternam »(3). » Quest' acqua è il premio della fede, onde dice: « qui credit in me non sitiet unquam; » e mescolata nel calice col vino si transustanzia anch' essa nel sangue di Cristo. L' acqua mescolata col vino non diviene una sola sostanza con lui, non si combina con esso lui chimicamente; e pure secondo i teologi nel calice insieme col vino diviene sangue di Cristo. Ed anche il pane eucaristico è farina impastata coll' acqua, come osserva S. Cipriano, di cui Innocenzo III cita questo testo: [...OMISSIS...] La fede è il principio della salute: essa dà il diritto al battesimo e agli altri sacramenti. Se questi non si possono ricevere, la fede, che ne produce il desiderio, salva l' uomo, dandogli il diritto di ricevere dopo morte quella vita da Cristo, che in terra non ha potuto ricevere da' sacramenti desiderati. Il sangue di Cristo si dee dunque ricevere misto coll' acqua viva della fede, come la farina pure divenuta pane per l' acqua. Per questo si suol dire giustamente che l' acqua nel calice rappresenta il popolo che si unisce strettamente e s' incorpora a Cristo, il che avviene per la fede viva di esso popolo: l' acqua rappresenta dunque il popolo credente, rappresenta l' atto o l' abito della fede, col quale il popolo aderisce a Gesù Cristo e si fa uno in se stesso. Ma della fede e delle altre virtù teologali, che uniscono a Cristo dando il diritto all' unione corporale con lui, parleremo in appresso. Cristo disse alla Samaritana: « Si scires donum Dei, » il che sembra alludere al mistero eucaristico, giacchè la stessa parola eucarestia, secondo l' interpretazione di valenti grecisti, significa buon dono, eccellente, ottimo dono, da «eu», bene, e da «charizomai», largior, dono (1); onde «charisterion», donum, e dono è chiamata l' Eucaristia dai più antichi Padri (2). Vero è che dono è anche la parola significativa dello Spirito Santo, ma questo suppone prima Cristo dal quale procede; e nell' Eucaristia, che è Cristo coll' essere e colla vita di cibo, si diffonde lo Spirito Santo, essendo quello il mistero dell' amore di Gesù Cristo. Il che è confermato dal contesto. Perocchè dicendo: « Si scires donum Dei, et quis est qui dicit tibi: da mihi bibere; tu forsitan petiisses ab eo, et dedisset tibi aquam vivam, » quasi voglia dire: « tu stessa domanderesti il dono dell' acqua viva, se conoscessi qual dono sia questo, e chi sia colui che a te domanda dell' acqua materiale: il quale è tale che potrebbe ben darti dell' acqua molto migliore a te ». Laonde il dono si riferisce all' acqua, e l' acqua, simbolo della fede, si riferisce all' eucaristico soprasostanziale alimento. Tornando dunque alle citate parole di Cristo [...OMISSIS...] esse si possono parafrasare in questo modo: « Chi verrà a me con disposizione di credere alle mie parole, non avrà più fame, perchè io lo accoglierò e gli darò finalmente me stesso a suo nutrimento, per guisa che egli vivrà della mia vita, di quella vita che io ho sotto forma di pane; e chi già crede in me, non avrà più sete, perchè io gli darò me stesso a sua bevanda per guisa ch' egli pure vivrà di quella vita che io ho sotto la forma di vino e di acqua col vino mista ». Accenna due semi della salute dell' uomo: le disposizioni alla fede, e la fede già ottenuta. Promette che l' uno e l' altro seme frutterà e recherà l' uomo alla vita eterna, perchè Cristo gli si darà in alimento, e sotto questa forma gliela comunicherà. Dice, che colui che mangierà o berrà questo nutrimento divino, non avrà più fame d' alcun altro cibo, nè sete d' alcun' altra bevanda; ma non avrà tuttavia sazietà dello stesso cibo, come si rileva dalle parole della stessa Sapienza che sembrano contrarie alle riferite di Cristo, e non sono: « qui edunt me adhuc esurient, et qui bibunt me adhuc sitient (1), » perocchè queste parlano della fame e sete della sapienza che non s' estingue, e quelle della fame e sete che s' estingue in quelli che sono satollati della sapienza e della vita di Cristo. E Cristo stesso dichiarò la cosa: quando, dopo aver detto alla Samaritana che chi berrà dell' acqua ch' egli darà non avrà più sete in eterno, soggiunge di ciò questa ragione: « sed aqua, quam ego dabo ei, fiet in eo fons aquae salientis in vitam aeternam . » Non è dunque a intendersi che non avrà più sete, quasi non voglia più bere di quest' acqua; ma non avrà più sete per penuria di essa acqua; non vi avrà più pericolo che quest' acqua gli possa mancare, onde debba sofferire una sete molesta perchè non soddisfatta del bramato umore: chè l' acqua, cioè la fede, che io gli darò, diverrà in lui stesso una fonte copiosa e perenne di acqua viva, a cui continuamente si abbevererà, e quest' acqua salirà fino alla vita eterna, giacchè dalla fede germinano le altre grazie, e la vita che comunicano e conservano i sacramenti, fra i quali in modo più che mai pieno l' eucaristico. Continuandoci ora a considerare il discorso di Gesù Cristo, che avevamo allegato, dopo aver detto: « Ego sum panis vitae, » poco appresso soggiunge: « Haec est autem voluntas ejus, qui misit me, Patris, ut omne quod dedit mihi, non perdam ex eo, sed resuscitem illud in novissimo die. Haec est autem voluntas Patris mei, qui misit me, ut omnis qui videt Filium et credit in eum, habeat vitam aeternam, et ego resuscitabo eum in novissimo die (2). » Questi due periodi cominciano egualmente: « Questa è la volontà del Padre che mi ha mandato », ma non è da credersi che ripetano la stessa cosa. Anzi essi manifestano le due maniere onde Cristo dà la vita agli uomini, delle quali abbiamo sopra toccato. Perocchè: A tutti gli uomini Cristo nell' ultimo giorno restituirà la vita naturale che aveano perduta per insidia del demonio col peccato del primo uomo; A quelli che sono predestinati alla eterna salute darà la vita eterna, e li risusciterà nell' ultimo giorno. Di vero egli dice, che tale è la volontà del Padre che lo ha mandato, che egli non perda nulla di ciò che gli ha dato. Ora, che cosa il Padre diede al Figliuolo? Lo dice altrove in quelle parole: « dedisti ei potestatem omnis carnis (3). » Ogni carne dunque è in potere del Figlio, il quale però integra ogni carne nell' ultimo giorno colla resurrezione. Egli non dice che ogni cosa che gli diede il Padre sarà da lui resuscitata nel giorno estremo. Parlando di ciò ch' egli resuscita nel giorno estremo, usa il genere neutro omne quod dedit mihi; ma parlando di quelli che hanno la vita eterna , usa del genere maschile omnis qui videt Filium et credit in eum . Il genere neutro si conviene alla natura, il genere maschile alla persona: il primo conviene alla carne, il secondo allo spirito. Cristo colla resurrezione ultima de' buoni e de' tristi reintegra tutta la natura umana, restituisce la vita a tutta la carne: « Haec est autem voluntas ejus, qui misit me, Patris, ut omne quod dedit mihi, non perdam ex eo, sed resuscitem illud in novissimo die . » Cristo, colla comunicazione della vita misteriosa che sta nella percezione e incorporazione di lui, salva le persone che gli sono state date dal Padre, e a queste, oltre l' aspettazione della resurrezione futura colla quale ricuperano quella vita che consiste nell' unione delle loro anime col loro corpo naturale, hanno oltracciò un' altra vita misteriosa, che noi crediamo consistere nella percezione di Cristo vivente sotto forma di cibo o di pane: [...OMISSIS...] Vedere il Figlio è percepirlo, averne la percezione, il che si consegue quando viene impresso nell' anima il carattere indelebile; credere nel Figlio è dare l' assenso volontario; e, se la fede è viva, è altresì un dare la ricognizione pratica e l' adesione al Figlio percepito. Questi, dice Cristo, ha la vita eterna . Ma se ha la vita eterna, qual bisogno avrà egli di essere resuscitato nell' ultimo giorno? Acciocchè alcuno possa esser resuscitato, conviene che sia morto: ma chi ha la vita eterna non è morto. Conviene dunque dire che l' uomo possa esser morto secondo una vita, cioè secondo la vita naturale, e possa tuttavia vivere d' un' altra vita migliore ed eterna, la quale egli ha qualora veda il Figliuolo di Dio e creda in Lui. Attesa questa vita eterna di cui l' anima è dotata per la grazia di Cristo, nel quale ella è incorporata, non s' avvera giammai dell' anime cristiane l' ipotesi, che noi facevamo più sopra, di un' anima cioè separata dal corpo, che non ritiene altro se non la sua propria natura, la quale, abbiam detto, esisterebbe sì ed avrebbe l' intuizione dell' essere e certi abiti conservati dalla sua precedente unione col corpo; ma non però avrebbe vita, in quanto la vita esprime « il sentimento d' una realità »; e però sarebbe del tutto priva d' ogni altra attività, di ogni altro atto, e molto più d' ogni consapevolezza. L' anima cristiana all' incontro, anche separata dal corpo, non riman sola, perchè è unita con Cristo; non riman senza vita, perchè ha la vita eterna: il cui termine reale era probabilmente nel triduo della morte di Cristo il suo corpo e il suo sangue sotto la forma di cibo e di bevanda; e, dopo risorto, è non solo il corpo di Cristo secondo l' essere sacramentale, ma ben anco secondo l' essere suo naturale glorioso. Ma nella vita presente l' uomo è incorporato a Cristo secondo la vita misteriosa e sacramentale solamente, perchè l' essere naturale e glorioso di Cristo gli rimane al tutto nascosto, acciocchè sia oggetto della fede, e s' avveri il detto del Signor nostro «: Beati qui non viderunt et crediderunt (1), » e l' uomo s' abbia quella beatitudine che altramente non avrebbe. Tutto in beneficio dell' uomo, anche la limitazione de' doni. Perocchè il non vedere Iddio e tuttavia credere alle sue parole con efficacia di opere, dà maggiore onore a Dio che credendo dopo aver veduto. Quell' atto contiene una intiera fiducia in Dio rivelante, un intero abbandono a lui come verità, ed è un atto di mente più ferma e libera e dominatrice dei sensi e delle loro apparenze che sogliono attirare e legare l' assenso dell' uomo. Onde nella fede v' ha un prezzo e una dignità morale maggiore che non sia nella semplice visione, e tutto l' intento divino è di condurre l' uomo alla maggiore perfezione dell' essere. Questa è la fede di quelli che sono già incorporati in Cristo: la fede dopo la percezione occulta di Cristo, colla quale si percepisce Cristo, nel suo essere sacramentale di cibo; la fede di cui disse Cristo «: Ut omnis qui videt Filium et credit in eum habeat vitam aeternam (2). » Prima dice videt filium, e poscia dice et credit in eum, perocchè a quella visione del Figlio soprastà la fede . Non è una visione che tolga la fede, quand' anzi le dà il fondamento, giacchè la fede è « « la sussistenza delle cose da sperarsi, l' argomento delle non vedute »(3); » definizione che conviene sommamente alla fede dell' uomo già incorporato con Cristo, nel quale Cristo percepito occultamente, e non nel suo corpo naturale nè glorioso, è la sussistenza delle cose da sperarsi, cioè della manifestazione di Cristo nel suo esser glorioso, ed è l' argomento inconcusso di questo esser glorioso di Cristo che nella vita presente non apparisce. Cristo disse ancora nella stessa conferenza cogli Ebrei: « « Nemo potest venire ad me, nisi Pater, qui misit me, traxerit eum: et ego resuscitabo eum in novissimo die. Est scriptum in Prophetis et erunt omnes docibiles Dei (1). Omnis qui audivit a Patre, et didicit, venit ad me. Non quia Patrem vidit quisquam, nisi is, qui est a Deo, hic vidit Patrem. Amen, amen dico vobis: qui credit in me habet vitam aeternam »(2). » Nelle quali parole Cristo descrive tutto il progresso pel quale l' uomo perviene a quella fede in lui, onde ha la vita eterna. Prima l' accenna in generale dicendo, che « niuno può venire a lui se il Padre che ha mandato Cristo non tragga l' uomo a Cristo »; e promette « che se il Padre lo trae, in qualunque modo lo tragga, Egli lo risusciterà nell' ultimo giorno ». Questo trarre a Cristo può anche in qualche modo intendersi di tutte le cose, come Cristo altrove disse «: Et ego si exaltatus fuero a terra, omnia traham ad me ipsum (3); » e in questo senso si possono interpretare le parole che seguono [...OMISSIS...] della universale resurrezione, allo stesso modo come abbiamo spiegato l' altre parole precedenti « ut omne quod dedit mihi non perdam ex eo, sed resuscitem illud in novissimo die . » Ma l' espressione del « trarre del Padre »abbraccia di più; come generalissima abbraccia ogni maniera di traimento, e specialmente di quelli che sono tratti a Cristo, acciocchè non siano solamente in potestà di Cristo, ma sieno salvati da Cristo, rispetto a' quali la promessa di Cristo « ed io lo risusciterò nell' ultimo giorno »dee intendersi della resurrezione beatifica e gloriosa. Se il Padre trae in questo significato a Cristo, la persona che è tratta non è ancora venuta a Cristo, non ancora incorporata con esso lui: ma è nondimeno in sulla via a questo felice termine. Il traimento adunque del Padre a Cristo comprende quelle grazie e quei doni che costituiscono la disposizione dell' uomo a credere in Cristo, e che perciò precedono la fede compiuta attuale ed abituale. Queste disposizioni non sono propriamente la rettitudine naturale del pensare e dell' operare, la naturale scienza, la naturale onestà. Questa non può essere che una cotale disposizione iniziale e remota, che sarà nondimeno anche questa valutata « in die cum judicabit Deus occulta hominum, secundum Evangelium meum per Jesum Christum (4). » E tuttavia anche questa si attribuisce convenientemente al Padre, a cui s' attribuisce la creazione; e conviene poi al Padre in proprio, in quanto il Padre genera il Figliuolo, e di conseguente tutte le appartenenze del Verbo, fra le quali è il lume della ragione umana, cioè l' essere ideale: si attribuisce al Padre altresì la conservazione e la provvidenza delle cose, onde viene a tutte le cose e nominatamente all' uomo il vigore pel quale durano in essere ed operano, ed ancora la ragione per la quale certi uomini sembrano incontrare nella vita minori tentazioni al mal fare. Ma le immediate ed efficaci disposizioni al ricevimento di Cristo e del suo Vangelo, pei Gentili erano le antichissime tradizioni orali, provenienti dalle primitive rivelazioni fatte da Dio ad Adamo, ed ai successivi Patriarchi prima che l' uman genere si separasse in nazioni, e per gli Ebrei erano le rivelazioni speciali e tradizioni orali e scritte consegnate alla famiglia d' Israele. Mediante queste rivelazioni e tradizioni divine, tanto i Gentili quanto gli Ebrei potevano avere qualche notizia del futuro Redentore del mondo, su cui si fondasse la fede in esso. E al Padre s' attribuiscono queste verità rivelate, perchè, essendo esse, come abbiamo detto (Lezione L, facc. 130), appartenenze soprannaturali del Verbo, benchè non ancora il Verbo stesso, a questo si riducevano, e il Padre che genera il Verbo e lo manda al mondo produceva con ciò stesso tuttociò che al Verbo appartenesse: onde Cristo non si contentò di dire: « Nemo potest venire ad me nisi Pater traxerit eum; » ma disse: « Pater qui misit me » quasi dica: Colui che a me è Padre ab eterno, e che agli uomini mi manda e mi comunica nel tempo. Dice nelle parole appresso che nessuno degli uomini vide il Padre, « nisi is qui est a Deo » perchè il Padre non è conoscibile e percettibile se non pel Figlio e nel Figlio, il quale n' è il Verbo che tutto lo comprende, e quindi n' è l' intelligibilità. Ma tuttavia dice che, se il Padre non si può vedere dagli uomini, tuttavia da essi si può udire, onde il profeta Isaia dice che « saranno tutti docibili », ossia atti ad essere ammaestrati da esso Dio Padre. Ora questi ammaestramenti dal Padre dati agli uomini che ancora non conoscono Cristo, dati specialmente avanti la venuta di Cristo, sono appunto quelle rivelazioni e istruzioni soprannaturali di cui abbiamo parlato, e che abbiam detto non essere ancora il Verbo, ma essere tuttavia appartenenze del Verbo. Ora queste, ricevute docilmente, umilmente, fedelmente dagli uomini, sono le disposizioni prossime ed efficaci che poscia li fa ricevere Cristo e credere in lui. Onde Cristo promette, con infinita bontà, che: « omnis qui audivit a Patre, et didicit, venit ad me . » Non basta che gli uomini odano dal Padre quello che loro insegna, quello che loro insegnò colle primitive rivelazioni, quello che insegnò agli Ebrei colle rivelazioni speciali fatte alla casa di Giacobbe; conviene ancora che imparino quanto il Padre insegna, acciocchè vengano a Cristo: cioè conviene che aggiungano la loro cooperazione, l' adesione della loro libera volontà, [...OMISSIS...] In tal caso vengano a Cristo. Il venire a Cristo sembra che sia una disposizione ancora precedente alla fede, precedente al credere in Cristo. Quando l' uomo udì dal Padre, quando l' uomo imparò ciò che il Padre gli favellò, allora egli va a Cristo, cioè nasce in lui il desiderio che sia completata quella scienza che gli ha insegnato il Padre, ed opera in conformità di quel desiderio, cercando quel completamento che ancora non ha, ancora non conosce, il quale completamento è Cristo. Postochè Cristo gli si annunzia; allora egli crede in Cristo, ed opera in conformità di quella fede. Giunto a questo punto la sua salute eterna è assicurata, promettendolo Cristo: « Amen, amen dico vobis, qui credit in me habet vitam aeternam . » Ma chi ha la vita eterna crede in Cristo, cioè continua a credere, e crede con maggior luce, cioè colla luce della vita eterna che oggimai egli possiede. Ora Cristo passa ad insegnare come questa vita eterna si formi nell' uomo, dicendo: [...OMISSIS...] Aveva detto che chi crede in lui ha la vita eterna, e poi dice di essere egli stesso pane di vita, di cui quegli che avrà mangiato, vivrà in eterno. Se la Fede basta per avere la vita eterna, come poi mette per condizione all' uomo per vivere eternamente, ch' egli mangi del pane della vita? E se questo pane della vita è il pane eucaristico, se è la carne di Cristo, come espressamente spiega lo stesso Cristo, « et panis quem ego dabo caro mea est; » sarà egli vero che colui che ha la fede e non ha ricevuto l' eucaristico pane non abbia la vita eterna? Questo sarebbe opposto a quanto aveva detto, perocchè Cristo aveva detto assolutamente e senza altre condizioni: « qui credit in me habet vitam aeternam . » E` dunque da dirsi che questa fede in Cristo trae seco per natural conseguenza il desiderio del battesimo e degli altri sacramenti, il qual desiderio, quando non può essere soddisfatto, basta all' uomo per l' eterna salute. Ma in tal caso, in qual modo Cristo dice assolutamente poco appresso: Se non mangerete la carne del Figliuolo dell' uomo e non berrete il suo sangue, non avrete la vita in voi: [...OMISSIS...] Queste parole sono assolute ed universali. Qui sembra occultarsi un grande mistero. E quantunque questo mistero rimarrà sempre in parte occulto, tuttavia sembra che Gesù Cristo medesimo ce l' abbia in parte svelato. Gesù Cristo ci dice che egli si comunica agli uomini in forma di cibo: che questo cibo è la sua carne: che questa carne sotto forma di pane e di bevanda dà la vita: che se non si ciba questo pane e questa bevanda non si può avere la vita in se stessi: e che il pane che egli darà è la sua carne per la vita del mondo, [...OMISSIS...] ovvero, come dice il testo greco « « è la mia carne che io darò per la vita del mondo » », [...OMISSIS...] quasi dicendo: quella stessa carne, che io darò a morte acciocchè il mondo viva, è il pane della vita; cioè quel pane che darà al mondo una nuova vita immortale ed eterna. Vi ha dunque una carne che Cristo abbandona alla morte; ma questa carne stessa, destinata alla morte, sarà il pane della vita eterna, cioè avrà una maniera di vita che non può venir meno; e questa darà la vita agli uomini, anche quando questi avranno perduta la loro vita naturale, la vita del mondo. Io darò dunque a morte la mia carne, ma nello stesso tempo darò un' altra vita, perocchè questa mia carne rimarrà sempre un pane vivo, un pane che dà la vita. Questo pane adunque dee dare la vita anche a quegli uomini che sono morti secondo la vita naturale ed adamitica. Il che importa che ci abbia un' azione, un effetto dell' eucaristia al di là di questa nostra vita naturale, sicchè le anime nostre anche separate vivano di quella vita che dà la carne di Cristo sotto forma di pane della vita, in un modo del tutto occulto e misterioso. E veramente Gesù Cristo disse agli apostoli, dopo istituito il sacramento eucaristico, ch' egli avrebbe bevuto un vino nuovo insieme con essi, quando fosse entrato nel suo regno: [...OMISSIS...] Il vino eucaristico che Cristo dichiara che avrebbe bevuto nel regno del Padre suo, lo dice « vino nuovo »perchè il suo corpo sarebbe stato glorioso: dice che lo avrebbe bevuto « con esso loro », per indicare la partecipazione ad essi della sua vita eucaristica: il vino eucaristico suppone anche il pane, come il sangue suppone il corpo; ma Cristo si limita ad accennare quell' umore che dà la vita al corpo naturale, giacchè era scritto: [...OMISSIS...] E poco prima aveva detto: [...OMISSIS...] Questo sangue, che è destinato da Dio pro piaculo animae, non è il sangue d' alcun animale, il quale non poteva che raffigurarlo; nè è il sangue dell' uomo corrotto: ma il sangue del Figliuolo dell' uomo che è insieme Figliuolo di Dio, Gesù Cristo Signor Nostro. Non si potea cibare qualunque altro sangue, perchè era sangue morto, e traendolo dal vivente, gli dava morte; ma Gesù Cristo irritò anche questa prescrizione legale compiendola, dando all' uomo il suo preziosissimo sangue in forma di vino, sangue vivo e vivificante, vero piaculum delle anime, sangue del nuovo ed eterno testamento. Oltre di ciò, parlando Cristo a' suoi discepoli, preferisce di parlar loro del sangue suo, che avrebbe bevuto nuovo nel suo regno sotto forma di vino, perchè l' assunzione del sangue era riserbata specialmente ai perfetti, ed ai sacerdoti, a' quali poi riserbolla la Chiesa diminuito il primo fervore dei fedeli, come quello che contiene in modo speciale le grazie più perfette, qual è l' allegrezza nel fare il bene significata dalla specie del vino che « laetificat cor hominis (3), » e la grazia della fortezza e del martirio significata nel sangue che Cristo il primo dovea spargere. Onde quelle parole erano conforto ad un tempo e robustezza aggiunta a' dolenti discepoli che doveano quanto prima vedere il loro Signore e Maestro barbaramente crocefisso. L' essere adunque eucaristico di Cristo, che vive in forma di pane e di vino, opera al di là di questa vita, e dà all' anima separata, come all' anima unita al corpo, una vita misteriosa in Cristo che non può venir meno giammai, perchè di sua natura è eterna. [...OMISSIS...] Questo pane è sempre vivo: « Ego sum panis vivus; » questo pane è vivo in modo che dà altrui la vita: « Ego sum panis vitae . » Cristo può esser dunque morto della sua vita naturale, ma non della sua vita eucaristica. Questo pane vivo è disceso dal cielo: « Ego sum panis vivus qui de coelo descendi » e perciò appunto non muore, perchè non è nato della terra: il cielo è il luogo della vita e non della morte: ciò che è dal cielo non soggiace alle leggi della terra, e perciò non muore, perocchè nè la terra nè le forze della terra, nè quelle dell' inferno non hanno potestà sulle cose del cielo: il corpo naturale di Cristo era venuto dalla terra perchè composto del sangue della Vergine, e però fu potuto abbandonare alla morte: ma il corpo eucaristico ha un essere soprannaturale, che viene unicamente dal Cielo, e però è vivente e vivificante: niuno lo può distruggere. Una dottrina così recondita e meravigliosa faceva stupire gli Ebrei che non la intendevano, e ne mormoravano dicendo: « Quomodo potest hic nobis carnem suam dare ad manducandum? (1). » E tuttavia Cristo non ritratta o spiega in senso traslato quanto aveva detto, ma lo conferma e rinforza dicendo e ripetendo: [...OMISSIS...] Nelle quali parole Cristo mette per condizione ad avere in se stessi la vita il mangiare la carne sua e bere il suo sangue: « Nisi manducaveritis carnem Filii hominis et biberitis ejus sanguinem non habebitis vitam in vobis . » Le parole sono chiare ed assolute, a tal che, prima che fosse deciso dalla Chiesa l' assunzione dell' Eucaristia non essere di necessità di mezzo alla salute (3), v' ebbero alcuni, come S. Agostino (4) e Innocenzo I (5), che ritennero non bastare all' eterna salute de' bambini ricevere il battesimo, se ancora non fosse data loro l' eucaristia. Ma ora è definito il contrario dall' infallibile autorità della Chiesa; e pure quelle parole di Cristo son così assolute ed universali, come quelle che inculcano la necessità del battesimo: [...OMISSIS...] Se dunque chi non mangia la carne del Figliuolo dell' uomo e bee il suo sangue non ha la vita in se stesso, e tuttavia chi muore col battesimo d' acqua, o di sangue, o di desiderio è certo che acquista la vita eterna, convien dire che quella comestione della carne e del sangue di Cristo, che non fece nella vita presente, gli verrà somministrata nella futura al punto della sua morte, e così avrà la vita in se stesso: giacchè, come abbiamo veduto, l' eucaristia ha degli effetti anche al di là di questa vita, e Cristo stesso disse che entrato nel suo regno glorioso egli l' avrebbe presa insieme co' suoi discepoli. In questo modo anche a' santi dell' antico testamento, quando Cristo discese al limbo, potè Cristo comunicare se stesso sotto la forma di pane e di vino, e così ravvivarli da quello stato di tenebre e di sonno in cui si trovavano; e, mettendoli a parte della propria vita eucaristica, renderli atti alla visione di Dio; la fede loro era per essi il titolo, con cui sono morti, di un diritto ad rem, che fu poscia effettuato da Cristo, quando diede loro il possesso delle cose in cui speravano, onde il loro divenne un diritto in re . Il medesimo dicasi di tutti que' Gentili che ebbero la fede nel futuro Salvatore del mondo, e che vissero senza peccato mortale, o pentiti n' ottennero il perdono. Lo stesso di que' Cristiani che muojono, benchè battezzati e mondi dal peccato attuale, senza aver ricevuto nella vita presente l' eucaristia, come accade a molti bambini, e come accadde a colui, a cui disse Cristo in Croce: « Hodie mecum eris in Paradiso (1). » La qual dottrina viene confermata dal sacrificio della messa. Perocchè in questo, dopo avvenuta la transustanziazione del pane e del vino nel Corpo e nel Sangue del Redentore, si prega che questo venga portato dall' angelo « in sublime altare tuum, in conspectu divinae majestatis tuae, » e che quanti partecipiamo di questo altare, « omni dono coelesti et gratia repleamur : » il che è la società e comunicazione nostra co' santi che sono in Cielo. Laonde Innocenzo III nella sua opera sulla liturgia, venuto a questo passo che incomincia: « Jube haec perferri, » appone al capitolo questo titolo «: De profunda quorumdam intelligentia verborum; » ed appresso scrive così «: Tantae sunt profunditatis haec verba ut intellectus humanus vix ea sufficiat pertractare . » Vede in quelle parole il mistero, e non osa quasi per riverenza svelarlo; non osa per la profondità sua investigarlo: perocchè veramente ella è questa una delle più arcane dottrine della cattolica Chiesa. Che se noi osiamo favellarne, è solo per la persuasione in cui siamo che così voglia Iddio in questo tempo. Quel sommo Pontefice nondimeno lo accenna colle parole di C. Gregorio Magno, di cui allega due testi, continuandosi in questo modo: [...OMISSIS...] (1). Dopo recati tali testimonii, Innocenzo III passa a spiegare quelle parole in un senso meno profondo, attestando però di nuovo l' alto mistero che esse nascondono con dire: [...OMISSIS...] Ma poscia, venendo a parlare di quell' altare sublime in cui il sacerdote prega che sia portata dall' Angelo l' eucaristia, dice: « Multiplex autem altare legitur in scripturis superius et inferius, interius et exterius » e si fa ad enumerare questi diversi altari superiori e celesti, ed inferiori e terreni, e fra questi dice che altare superiore è anche la Chiesa trionfante, altare poi inferiore la Chiesa militante [...OMISSIS...] Ed acconciamente pel sublime altare, di cui è fatta menzione nelle citate parole che pronuncia il sacerdote nella messa poco dopo la consacrazione, si può intendere la Chiesa trionfante, la quale è fatta partecipe degli stessi divini misteri, di cui si rende partecipe il credente viatore su questa terra, vivendo e l' una e l' altra dello stesso cibo, fruendo della medesima vita di Gesù Cristo. Qual ineffabile consorzio! Qual intima unione del Cielo colla terra! qual divino legame fra le cose visibili ed invisibili! Qual ammirando commercio fra la vita presente e la futura! Quale unità di tutto il Corpo di Cristo, la quale discende da questo corpo glorioso e si comunica non meno alle membra già partecipi della sua gloria che alle membra che ancor vivono di fede sperando! Ora nella Santa Messa, dopo che il sacerdote pregò Iddio perchè comandi che l' Angelo porti il pane e il vino della vita, che sta in sull' altare terreno, anche sull' altare celeste, cioè che la porti a' celesti comprensori, egli prega per le anime dei defunti non ancora pervenute allo stato di termine e che debbono purificarsi dalle leggiere macchie che da questa recaron seco nell' altra vita. Perocchè, se questo cibo vitale venga dato a quelle anime fedeli, esse saranno tantosto liberate dalla loro oscura prigione, ottenendo quella vita di Cristo colla quale nell' altra vita si è atti a vedere la faccia di Dio: giacchè questo cibo rimette i peccati leggieri, e monda le anime intieramente, « tamquam antidotum quo liberemur a culpis quotidianis, » come disse il Sacrosanto Concilio di Trento (1). Alla commemorazione poi delle anime purganti, segue l' orazione che incomincia: Nobis quoque peccatoribus, colla quale il sacerdote prega per sè, per gli assistenti, e per tutti i fedeli che costituiscono la Chiesa militante su questa terra, e dimanda che mediante il cibo eucaristico possiamo tutti aver qualche parte coi santi martiri ed altri comprensori celesti, in modo che, dopo esser vissuti quaggiù della vita nascosta di Cristo, possiamo in cielo godere della vita palese e a pieno manifesta. Così le tre parti in cui la Chiesa è divisa, cioè la trionfante, la purgante e la militante, conviene che vivano della stessa vita di Cristo, benchè in gradi e modi diversi, e che abbiano uno stesso mezzo con cui partecipare di questa vita. Conviene riflettere che il concetto del sacrificio fu sempre eguale dal principio del mondo, nè fu solo conservato presso gli Ebrei, ma presso tutte le genti. Questo concetto non involgeva solo l' immolazione della vittima alla divinità, ma ben anco acchiudeva la persuasione che della vittima immolata si cibassero, parte la divinità stessa, parte gli uomini che facevano il sacrificio. Si concepiva così che un solo cibo diventasse comune a Dio, od agli Dei, ed agli uomini, e per tal modo gli uomini partecipassero della stessa vita di Dio o degli Iddii. E Iddio presso il suo popolo mandava sovente il fuoco dal cielo ad assumere la vittima quasi egli stesso se ne nutrisse. [...OMISSIS...] si legge ne' libri de' Maccabei, [...OMISSIS...] Questo concetto costantissimo presso tutte le nazioni, non fu effettuato in antico se non simbolicamente; ma Cristo compiè il simbolo, e adempì la verità di quel concetto profetico. Se dunque era nell' antica tradizione, e nell' istinto della natura umana, che una vittima dovesse esser cibo comune a Dio ed agli uomini, era convenevole che Iddio divenuto uomo e glorificato partecipasse d' un alimento sacro di cui potessero altresì partecipare gli uomini, e questo alimento fu il pane ed il vino divenuti sua carne e suo sangue. E se Cristo glorioso ne partecipa, conveniva che tutta l' umanità gloriosa, che forma un solo corpo con esso lui, pure ne partecipasse: questo dunque è il cibo soprasostanziale di tutti i santi che ammantano Cristo, e compiscono il suo corpo santissimo. Quando parla Gesù Cristo del cibo eucaristico chiama se stesso « Figliuolo dell' uomo »: [...OMISSIS...] Abbiamo detto che questa era la denominazione più umile che poteva dare a se stesso. Ma egli era venuto a prendere la difesa dei figliuoli dell' uomo contro il demonio, a prendere la forma così bassa ed umile di figliuolo dell' uomo (espressione che allude alla generazione, nella quale il demonio aveva posto il guasto della natura umana e per la quale il peccato si propagava di padre in figlio, benchè Gesù Cristo, non concepito per umana generazione ma per opera dello Spirito Santo, ne andasse del tutto immune, come ne andava pure immune per essere in pari tempo Dio) per rinnovare e rialzare dal suo avvilimento lo stesso figliuolo dell' uomo, il quale in lui sussisteva perfetto e sublimato: perfezione e sublimità che voleva pure comunicare agli altri figliuoli degli uomini a cui s' era fatto fratello secondo la carne, a cui voleva pure esser fratello secondo la divinità. Quindi, in onta al demonio, egli esalta e magnifica quel figliuolo dell' uomo, che l' inimico aveva tanto umiliato e distrutto, e però egli dice: « Ut autem sciatis quia Filius hominis habet potestatem in terra dimittendi peccata (1); » dice ancora: « Dominus est Filius hominis etiam sabbati (2); » dice: « Mittet Filius hominis angelos suos et colligent de regno ejus omnia scandala (3); » dice: « Filius enim hominis venturus est in gloria Patris cum angelis suis, et tunc reddet unicuique secundum opera ejus (4): » e tante altre cose dice in onore della umana natura che il Demonio aveva tanto abbassata, ed egli era venuto ad innalzare. Ed è da considerarsi che egli non esaltava solo questa natura in un solo individuo di lei, cioè in se stesso, ma la voleva esaltata in molti individui che rappresentassero tutte le forme o specie di onore e di gloria di cui ella fosse suscettibile (1), giacchè invitava tutti gli uomini a partecipare di que' pregi, ed onori, e glorie che in lui primo dovevano essere, fino a dire: « Amen dico vobis, quod vos, qui secuti estis me, in regeneratione, cum sederit Filius hominis in sede majestatis suae, sedebitis et vos super sedes duodecim judicantes duodecim tribus Israel (2). » Ora, nello stesso modo parlando del cibo eucaristico, invece di dire: « Se non mangerete la mia carne, »ovvero: « se non mangerete la carne del Figliuol di Dio », dice: « Se non mangerete la carne del Figliuolo dell' Uomo », quasi volendo dire: Il figliuol dell' uomo fu corrotto dal peccato per insidia del diavolo: ora, a scorno del medesimo corruttore ed insidiatore, il figliuolo dell' uomo troverà il rimedio da riparare a' suoi danni in se stesso, non avrà bisogno d' uscire da sè per rinvenirlo. Il che tutto dimostra un ineffabile amore per l' umana natura, di cui Iddio si rende il campione prendendone la difesa: dimostra una delicatezza che provvede all' onore di questa natura tanto vessata dal suo perpetuo inimico, e quella cotal riverenza verso essa, di cui favella il Libro della Sapienza, ove dice: « Tu autem, dominator virtutis, cum tranquillitate judicas, et cum magna reverentia disponis nos (3). » E tuttavia la vita eucaristica è soprannaturale e divina. Il che Gesù Cristo fa intendere con quelle parole: « Sicut misit me vivens Pater et ego vivo propter Patrem, et qui manducat me et ipse vivet propter me . » Il Padre dà la missione al Verbo d' incarnarsi, in generandolo, ed il Verbo incarnato vive, tutto Dio e uomo, della vita del Padre: perocchè, come Verbo ha comune col Padre la vita, e come uomo partecipa, per l' unione ipostatica, di quella vita. Questa non è la vita naturale, ma la vita divina partecipata, la vita essenziale di cui dice S. Giovanni: « « In ipso vita erat ». » Questa vita è la sussistenza vivente nel Padre, conosciuta per essenza nel Figliuolo, amata per essenza nello Spirito Santo. Questa vita della persona divina di Cristo reggeva come principio supremo la sua natura umana, e nascondeva questa natura umana vivente della vita divina e da questa governata sotto la forma di cibo per potersi così comunicare agli altri uomini. Perocchè l' uomo non acquista il termine reale del suo sentimento, per il quale egli vive, se non per generazione e per nutrizione: in questi due modi il suo spirito si unisce alla corporea sostanza come a termine del suo sentire. Ora, essendosi guastato il primo modo, con cui si doveva propagare la vita naturale, per opera del demonio; restava intatto il secondo, giacchè l' albero della vita non fu potuto profanare nè dal demonio nè dall' uomo. Al frutto dunque dell' albero della vita, che nella prima istituzione doveva aggiungere all' uomo colla nutrizione un termine corporeo che lo avrebbe reso immortale, Iddio sostituì un altro cibo tolto dall' uomo stesso, cioè la carne ed il sangue di Gesù Cristo. E questa vita, misteriosa ed occulta, è quella vita colla quale il Padre provvide al Verbo incarnato, quando si consigliò di abbandonarlo rispetto alla vita naturale, nelle mani de' suoi crocifissori; quella colla quale il Padre esaudì il Figlio secondo le parole dell' Apostolo: « « Qui in diebus carnis suae, preces supplicationesque ad eum qui possit illum salvum facere a morte, cum clamore valido et lacrymis offerens, exauditus est pro sua reverentia »(1); » il qual clamore, le quali lagrime non potevano non essere pienamente esaudite; quella vita di cui rese grazie Cristo quando istituì il Santissimo Sacramento: « Dominus Jesus, in qua nocte tradebatur, accepit panem, et gratias agens fregit (2). » Essendo dunque questa vita divina, e per sè indipendente dalla carne e dal sangue ma per divino consiglio all' umanità di Cristo comunicata, Cristo dice, quasi a conclusione del suo insegnamento sull' eucaristico cibo: « Spiritus est qui vivificat, caro non prodest quidquam; verba, quae ego locutus sum vobis, spiritus et vita sunt (3), » volendo dimostrare due cose: che la vita, che sta nella sua carne e nel suo sangue, è vita divina; e che questa non si può ricevere se non per opera dello Spirito Santo, che è lo Spirito di Cristo: onde quelli che ricevono l' Eucaristia col peccato nell' anima, non ricevono, non possono ricevere quella vita. Laonde S. Agostino, spiegando le parole di Cristo, dice che non muore colui che riceve nell' eucaristico cibo [...OMISSIS...] E ancora dice: [...OMISSIS...] Laonde Cristo, che promette che non morranno quelli che mangeranno la sua carne e il suo sangue ma avranno in sè l' eterna vita, fa intendere chiaramente che egli parla di una manducazione colla quale l' uomo riceva rem sacramenti, e non solamente il sacramentum . Questo non è quel mangiare di cui parla Cristo; perchè « « Spiritus est qui vivificat, caro non prodest quidquam ». » Onde di nuovo S. Agostino, parlando di questo Sacramento [...OMISSIS...] Per mangiare adunque veramente il corpo e il sangue di Cristo, nel senso che intende Cristo colla voce mangiare, conviene esser membro del corpo di Cristo, e membro vivente. Non basta aver ricevuto il carattere indelebile nel sacramento del battesimo, o anche negli altri sacramenti che lo conferiscono, cioè nella Confermazione e nell' Ordine sacro; conviene ancora aver la grazia che ci rende membro vivo di quel corpo. Perocchè Cristo disse: « Qui manducat meam carnem et bibit meum sanguinem, in me manet et ego in illo . » Ora, se ivi è l' obice del peccato, questo, che di natura sua avverrebbe per la forza del Sacramento, non può avvenire, perchè « quae conventio Christi ad Belial? (4). » Onde Cristo in quelle parole esprime l' effetto della Santissima Eucaristia, quale essa per sua virtù arreca, prescindendo dall' accidentale impedimento che pone l' uomo. Il perchè S. Agostino dice che nelle citate parole di Cristo il Signore espone « quid sit manducare corpus ejus, et sanguinem ejus bibere . » E soggiunge: [...OMISSIS...] (5). Le quali parole del Santo Dottore vanno intese con buon senno. Perocchè anche chi ha ricevuto il battesimo colla grazia che di natura sua conferisce, questi è già membro vivente del corpo di Cristo, e però egli è in Cristo e Cristo in lui. Ma la Santissima Eucaristia conserva questa unione e mutua inabitazione come fa il cibo che conserva la vita in chi già l' ha: il che viene espresso da quella parola di Cristo manet ( in me manet et ego in illo ), che significa permanenza e continuazione. Di più, il cibo ristora ciò che il corpo vivente va perdendo ogni giorno; e questo fa pure l' Eucaristia togliendo i peccati veniali, in cui quotidianamente l' uomo incappa, rimettendo in lui e rifondendo nuova vita. In terzo luogo il cibo rende l' uomo adulto, e così fa l' Eucaristia dell' uomo nuovo e spirituale, facendo in lui crescere Cristo. In quarto luogo il pane rinforza, e il vino eccita e rallegra; e questi pure sono effetti dell' Eucaristia; la quale dà all' uomo la pienezza della vita, del sentimento, e dell' attività della vita, perchè pone nell' uomo Cristo corporalmente, lo pone tutto, il corpo, il sangue, l' anima e la divinità; laddove il battesimo congiunge l' uomo al corpo vivente di Cristo, ma non pone nell' uomo tutto lo stesso Cristo. In secondo luogo non è da credere che senza la reale manducazione del pane e del vino consacrato l' uomo possa per altra via venire in possesso di tutte queste grazie, e possa aver Cristo corporalmente in se stesso: ma egli può nondimeno salvarsi, perocchè il desiderio di pascersi del corpo e del sangue sacratissimo, e l' essere in istato di grazia, quantunque non glie ne dieno il possesso, e, per così dire, il diritto in re , tuttavia glie ne danno il diritto ad rem , il quale dopo la sua morte lo mette alla partecipazione reale del pane e del vino celeste. Ed ora noi possiamo più precisamente rispondere alla questione: « Che cosa s' intenda nelle divine scritture per risurrezione ». La qual parola riceve più significati dalle diverse maniere di vita a cui si riferisce. Perocchè noi abbiamo distinte in Cristo quattro maniere di vita di cui partecipa il Cristiano, a ciascuna delle quali si riferisce una maniera di risurrezione. E le vite da noi distinte furono: 1 la vita naturale che consiste nell' unione dell' anima col corpo; 2 la vita eucaristica; 3 la vita spirituale di Cristo viatore, che consiste per Cristo nell' unione teandrica dell' uomo con Dio, e pel Cristiano nella partecipazione della grazia di Cristo, per la quale l' uomo non solo percepisce il Verbo ma vi acconsente e vi aderisce colla sua volontà, ancora vivente della vita naturale; 4 la vita gloriosa cominciata per Cristo dopo la sua risurrezione e completata dopo la sua ascensione al Cielo, e che comincierà pel cristiano dopo la resurrezione del suo corpo. La terza e la quarta di queste vite, sono una sublimazione soprannaturale della prima, o, per dir meglio, hanno la prima per loro base e quasi subietto: la seconda, cioè l' eucaristica, è una vita miracolosa e misteriosa. Ciò premesso, per risurrezione nelle divine scritture s' intende: Talora quello che accade per la fede e pel battesimo che restituisce all' uomo la terza delle vite enumerate, cioè la vita della grazia. L' uomo, che nasce dal mal seme di Adamo, nasce corrotto, peccatore; e però si dice morto, cioè privo della vita spirituale. Egli ha bensì la vita naturale, ma soggetta irreparabilmente alla morte, di cui porta i germi in se stesso, e quindi egli non ha che una vita inutile al conseguimento del suo fine che è l' immortalità. Perduta la vita naturale, egli si rimarrebbe morto per sempre: l' anima sua cadrebbe in quello stato di tenebre e d' inazione che abbiamo descritto. L' uomo, che si fa Cristiano ricevendo il Vangelo, depone ogni sua confidenza nella sua vita naturale e corrotta, e si tiene rispetto a questa per morto, ponendo tutto il suo bene e il suo affetto nella nuova vita che egli acquista incorporandosi a Cristo, e vivendo della vita di Cristo. Questo è quello che insegna S. Paolo in quelle parole: [...OMISSIS...] L' immersione nelle acque battesimali rappresenta, secondo l' Apostolo, la morte dell' uomo naturale7corrotto, la morte del peccato. Perocchè Gesù Cristo colla morte del suo corpo naturale7innocente acquistò, come abbiamo veduto, il diritto di giustificare gli altri uomini, pei peccati dei quali la divina giustizia rimaneva soprabbondantemente soddisfatta; acquista il diritto di unirli a sè, com' egli tanto bramava a cagione della generosa sua carità, e quindi di fare che l' uomo morto alla vita soprannaturale risorgesse a questa vita formando un solo corpo con esso lui: e questo risorgimento è simboleggiato dall' uscita dell' acqua, in cui l' uomo era stato immerso quasi in sepolcro. Di che l' Apostolo deduce che l' uomo dee fare gli atti propri della vita nuova, non più dell' antica già deposta, [...OMISSIS...] E fa intendere che in questa vita spirituale noi abbiamo la caparra della futura resurrezione de' nostri corpi: perocchè Cristo, che è in noi, è risorto; onde anche noi risorgeremo alla vita naturale sublimata alla gloria quando deporremo la presente nostra vita naturale7corrotta, che noi dobbiamo già riguardare come morta e vivere come già fossimo risorti anche corporalmente: [...OMISSIS...] E come Cristo morì una volta della morte naturale, e oggimai più non muore; così noi morti al peccato viviamo di vita perenne: [...OMISSIS...] Anche l' Apostolo S. Pietro attribuisce il morir nostro al peccato alla morte di Cristo, e il nostro risorgimento alla vita della grazia ce lo rappresenta come un effetto della risurrezione del Signor nostro, colla quale gli fu dato il diritto di distribuire agli uomini la vita spirituale, germe della futura risurrezione de' loro corpo. E paragona il battesimo alle acque del diluvio, quando nell' arca « « pauci, idest octo animae, salvae factae sunt per aquam » ». E soggiunge: « « Quod et vos nunc similis formae salvos facit baptisma: non carnis depositio sordium, sed conscientiae bonae interrogatio in Deum per resurrectionem Jesu Christi, qui est in dextera Dei, deglutiens mortem ut vitae aeternae haeredes efficeremur, profectus in coelum, subjectis sibi angelis, et potestatibus, et virtutibus »(1). » La differenza fra la vita spirituale e la vita che il cristiano viatore riceve dalla percezione della santissima Eucaristia sta primieramente in questo, che nel battesimo egli acquista la percezione iniziale del Verbo, che lo segna col carattere indelebile, onde fluisce la grazia dello Spirito Santo se non trova ostacoli; e questa maniera di vita gli è comunicata dall' umanità di Cristo per un segreto contatto del suo corpo vivente e glorioso colle acque nell' atto che il battezzatore proferisce le parole, forma del Sacramento. Perocchè, come diremo in appresso, il corpo di Gesù Cristo emana una virtù vitale col solo suo contatto, e questo basta per legare a sè ed incorporare con una comunicazione di vita gli uomini. Laddove nell' Eucaristia l' uomo, incorporato già e vivente di Cristo, non gode del solo contatto invisibile e misterioso del corpo di Cristo, che comunica all' acqua quella virtù vivificatrice onde l' uomo vive di Cristo; ma l' uomo riceve in se stesso tutto l' Autor della grazia, il suo corpo e il suo sangue, e con essi insieme la sua anima e la sua divinità, in forma di alimento. E come l' alimento diviene nostro sangue e nostra carne, così avviene del corpo e del sangue di Cristo sotto gli accidenti del pane e del vino, sicchè un medesimo termine di sentimento e di vita corporea abbiamo noi ed ha Cristo; onde, come da fonte di ogni vita e di ogni grazia, ogni vita ed ogni grazia possiamo derivare. La seconda differenza si è che quell' uomo, che si nutre di questo cibo divino e lo fa suo alimento, non è l' uomo vecchio, ma l' uomo nuovo: è quest' uomo nuovo che, contenendo la virtù della vita di Cristo a sè comunicata colla fede e col battesimo, può mediante questa virtù alimentarsi di Cristo, cioè rendere termine del proprio principio vitale la carne ed il sangue di Cristo. Perocchè, come nella nutrizione comune se non vi avesse nell' anima, cioè nel principio senziente, nel principio soggettivo, la virtù nutritiva, non potrebbe rendere il cibo, preso per bocca, sua propria carne viva, e suo proprio vivo sangue, e non si direbbe che fosse un vero mangiare, un vero alimentarsi, come non è mangiare, non è alimentarsi quello d' una macchina inanimata (per esempio delle macine del mulino) che prende e stritola e fa passare da sè delle sostanze che rispetto agli animali si dicono alimentari; così del pari nella nutrizione eucaristica, se chi la prende non ha già la vita di Cristo, o per non essere battezzato o per essere attualmente morto alla grazia a cagione di peccati attuali, egli può premer bensì col dente le specie eucaristiche, secondo la frase di S. Agostino; riceve bensì il corpo e il sangue reale di Cristo dentro se stesso sotto il velame delle specie; il pane ed il vino consecrato passa per il suo corpo come per una macchina; riceve gli effetti fisici delle specie, ma non si nutre di quello che sta sotto le specie, non si nutre, non si alimenta, non s' impingua dello stesso corpo e dello stesso sangue di Cristo, e però propriamente il suo non è un mangiare la carne e bere il sangue del Salvatore. E però Gesù Cristo adopera queste parole di mangiare e di bere solo per indicare la manducazione e la bibita che fanno del Sacramento augustissimo le anime giuste, che se ne rincarnano e rinsanguinano veramente. Onde dice « Panis enim Dei est qui de coelo descendit, et dat vitam mundo (1), » e ancora: « Si quis manducaverit ex hoc pane vivet in aeternum (1). » Onde colui che non vive della vita eterna, egli è segno che non ha mangiato questo pane, benchè l' abbia materialmente ricevuto nella sua bocca, e fatto passare pe' suoi visceri. Dice ancora, per dimostrare la cooperazione dell' uomo alla nutrizione eucaristica, « Operamini non cibum qui perit, sed qui permanet in vitam aeternam, quem Filius hominis dabit vobis (2). » All' incontro il battesimo non suppone la vita, ma dà la vita a chi non l' ha ancora: perocchè il ricevere la vita non è un' opera del principio vitale, com' è la nutrizione, ma quella viene all' animale e all' uomo dal di fuori per una operazione anteriore al nuovo vivente ch' ella produce. Quindi se del battesimo è proprio ufficio il dare la vita di Cristo all' uomo che non l' ha ancora, onde si chiama generazione o nascita spirituale; egli è proprio effetto dell' eucaristia il conservarla, come faceva il frutto dell' albero della vita, e l' accrescerla, rendendo l' uomo bambino adulto e gagliardo, onde si paragona alla nutrizione o alimentazione. Quindi, il ricevimento dell' eucaristia non si dice un risorgere. Ma nondimeno la vita eucaristica ha il suo proprio risorgimento, e questo avviene quando l' uomo muore. Perocchè l' anima separata dall' uomo che muore riceve dalla vita eucaristica quella unione perenne con Cristo glorioso di cui disse Cristo: « Qui manducat meam carnem et bibit meum sanguinem in me manet et ego in illo (3); » e la quale, alla morte, presta « quel lume di gloria », di cui parlano i teologi, che rende l' anima atta a vedere Iddio faccia a faccia insieme con Cristo e quindi a fruire della eterna beatitudine. Questo è quello che promette Cristo in quelle parole: « Qui manducat meam carnem et bibit meum sanguinem habet vitam aeternam, et ego resuscitabo eum in novissimo die (4). » Egli ha la vita eterna, e tuttavia si promette che sarà resuscitato. Che bisogno di essere resuscitato ha colui che già vive, ed eternamente vive, perchè ha mangiato la carne e bevuto il sangue di Cristo? Egli vive, ma in questo secolo vive d' una vita nascosta, la quale si manifesta luminosissima solo alla morte, quando è tolto dagli occhi dell' anima il velame della carne corrotta, velame significato nel velo dell' antico tempio che impediva ai fedeli la vista e l' ingresso del Sancta Sanctorum . Onde, quando morì Gesù Cristo, questo velo fu scisso, perchè, entrato una volta in esso Sancta Sanctorum il nuovo ed eterno Pontefice secondo l' ordine di Melchisedecco, potevano e dovevano necessariamente entrarvi tutti coloro che con esso formavano una cosa, secondo il suo benigno decreto: [...OMISSIS...] Ora quell' anime, benchè separate dal corpo, le quali sono una cosa nel Figliuolo e nel Padre [...OMISSIS...] ; quelle in cui è il Figliuolo [...OMISSIS...] ; quelle che Gesù Cristo vuole che sieno là appunto dov' egli si trova al cospetto della nuda e svelata faccia di Dio [...OMISSIS...] , quelle che debbono vedere la gloria di Cristo [...OMISSIS...] , certo debbono altresì vedere Iddio faccia a faccia insieme con Cristo, partecipando della vita gloriosa di Cristo. Il passaggio da questa vita alla futura è dunque per costoro una vera risurrezione, e però s' adempie nel Nuovo Testamento, colla morte di Cristo, quanto egli aveva detto a Marta: « Ego sum resurrectio et vita; qui credit in me etiam si mortuus fuerit vivet (2). » Cristo disse di chi mangierà il suo corpo e berrà il suo sangue ch' egli lo risusciterà nell' ultimo giorno [...OMISSIS...] Ora vi hanno due giorni ultimi: l' ultimo giorno dell' uomo, e l' ultimo giorno del mondo. Cristo gli abbraccia entrambi col suo detto, e quindi egli accenna a due resurrezioni come effetto del cibo eucaristico: a quella che avverrà all' uomo fedele, tosto che sarà spirato e avrà deposto il peso della sua carne mortale; e a quella che avverrà nella fine dei secoli quando gli sarà restituita una carne gloriosa. Gesù Cristo ne' passi più sopra allegati tutto attribuisce alla fede. Egli prega per quelli che credituri sunt, vuole che questi sieno là dove è egli medesimo. Egli dice [...OMISSIS...] Attribuisce dunque alla fede, di cui egli è autore e consumatore (4), non a qualunque fede, quello stesso che attribuisce altrove alla manducazione ed alla bibita della sua carne e del suo sangue; e tuttavia dice che senza di questa non si può aver la vita in se stessi: [...OMISSIS...] Conviene dunque dire che chi ha la fede in Gesù Cristo mangi la sua carne e beva il suo sangue: perocchè senza di questo non possono aver la vita in se stessi; quando pure è certo, per testimonianza di Cristo, che « omnis qui videt Filium et credit in eum habet vitam aeternam . » Ma non tutti quelli che ebbero la fede in Cristo mangiarono, durante la lor vita mortale, del Figliuolo dell' uomo, nè bevvero il suo sangue: non la mangiarono tutti que' credenti che morirono prima dell' istituzione del Santissimo Sacramento dell' altare; molti, anche dopo questa istituzione, morirono nella fede di Cristo senza poterla ricevere. Convien dunque dire, che essi mangino la carne del Figliuolo di Dio e bevano il suo sangue dopo morti, e per esso risuscitino alla vita eterna. Gesù Cristo adunque parla prima della Fede, e poi del cibo eucaristico, per comprendere nel suo discorso anche tutti i santi dell' antico testamento, e tutti i credenti sparsi per le nazioni in tutti i tempi. Perocchè tutti questi si salvarono per la fede in Cristo venturo, o in Cristo già venuto. Onde l' Apostolo: « Fide intelligimus aptata esse saecula Verbo Dei, ut ex invisibilibus visibilia fierent (6): » cioè, acciocchè le cose invisibili, che sono l' oggetto della fede, la mercede promessa e la gloria futura, si avverassero, si adempissero e divenissero visibili, non più oggetto di fede, ma di visione e di esperienza. Di che soggiunge: [...OMISSIS...] Laonde troppa ragione aveano gli antichi santi di riporre la loro fiducia e speranza, non nella immortalità naturale dell' anima separata che non avrebbe potuto dare a se stessa nè luce nè azione, ma bensì nella risurrezione che avrebbe loro dato Iddio per Gesù Cristo, cioè nella restituzione di una vita ed attività soggettiva, in un termine nuovo del loro principio sensitivo e soggettivo, giacchè senza un termine reale non si dà, propriamente parlando, una vita attuale. In questa risurrezione delle loro anime li fa sperare S. Paolo, e non in altro. [...OMISSIS...] E pur que' santi dell' antico testamento dovevano rimanere colle loro anime separate lungamente nello stato di tenebre e d' inazione, cioè fino al tempo in cui Gesù Cristo avesse istituito il mistero della risurrezione, cioè il sacramento del suo corpo e del suo sangue, ed egli fosse entrato nel suo regno, perocchè dovevano essere perfezionati alla vita insieme con noi, dice l' Apostolo. [...OMISSIS...] « Deo pro nobis melius aliquid providente , » dice l' Apostolo; perocchè noi, che Iddio predestinò a vivere nel tempo della grazia del Salvatore, quando usciamo dalla vita presente senza macchia di peccato, siamo tantosto resuscitati alla vita eucaristica e gloriosa, e per questa vita vediamo Iddio; nè l' anime nostre separate hanno ad aspettare, come quelle degli antichi giusti, ad essere ammesse alla gloria. Oltre di ciò noi, oltre altri vantaggi sopra gli antichi, ancora in questa vita mangiamo il corpo e beviamo il sangue del Signore, e così abbiamo in noi quell' eterna vita, che alla morte nostra si rivela con luce fulgidissima, e che veniva simboleggiata da quelle faci che Gedeone aveva fatte nascondere ai trecento dentro a vasi di creta, rotti i quali esse apparirono (5). Quindi la Chiesa cattolica dà il nome di Viatico alla santissima Eucaristia che ricevono i moribondi, ed essi, quando il possano, ne tiene obbligati, acciocchè morendo abbiano quella vita eterna in se stessi, che è il germe della subitanea resurrezione delle loro anime, tostochè sono divise da' corpi. Il che dimostra che non convien troppo scrupoleggiare nel concedere la ripetizione del Viatico all' infermo che sopravvive qualche tempo, dopo averlo ricevuto la prima volta. E questa è altresì, oltre l' altre, una ragione che persuade a' Cristiani la frequente comunione che li tiene di continuo preparati alla venuta dello sposo, come le vergini prudenti (1), facendogli avere continuamente in sè quella vita che si manifesta nell' ora della loro morte. Il sacrosanto Concilio di Trento parla espressamente del convito celeste dell' anime separate, il quale viene pure espresso negli antichi monumenti cristiani, per indicare la beatitudine che gode l' anima in cielo; e sembra che il citato Concilio si giovi di questa ragione appunto per raccomandare a' fedeli la venerazione e l' uso della santissima eucaristia, o almeno che vi faccia allusione. Perocchè egli s' esprime così: [...OMISSIS...] Sulle quali notabilissime parole del sacrosanto Concilio egli è uopo che noi facciamo alcune riflessioni. Egli adopera la parola mangiare, tanto riferendola all' assunzione del corpo di Cristo in questo mondo, quanto riferendola a ciò che si farà in cielo dall' anime separate da' corpi: egli ammette adunque una manducazione del corpo di Cristo nell' altra vita che darà la beatitudine. Egli dice che le anime nostre, passate da questa vita senza macchia o purificate nel fuoco, saranno ammesse a cibare lo stesso pane degli angeli, che relativamente mangiano i viatori in terra . Cristo adunque nella vita futura si unirà alle anime in modo simile a quello col quale il cibo si assimila ed unisce di presente all' anime nostre divenendo nostra carne e nostro sangue. Non dice il Concilio semplicemente che nel celeste regno saremo uniti a Cristo, goderemo di Cristo, ma dice che lo mangeremo, e lo mangeremo siccome pane, cioè al modo del cibo, e che sarà lo stesso pane eucaristico che ora mangiamo in terra, [...OMISSIS...] Che anzi l' essere questo pane chiamato celeste nelle Scritture, del quale io intendo quel luogo di S. Paolo « Gustaverunt etiam donum coeleste (1) » e in figura, della manna è detto « Januas coeli aperuit, et pluit illis manna ad manducandum, et panem coeli dedit eis: panem angelorum manducavit homo (2) » nel libro poi della Sapienza, tutto applicabile più veramente all' Eucaristia che alla manna, si legge: [...OMISSIS...] e ne' tanti altri luoghi delle divine Scritture l' Eucaristia figurata nella manna è chiamata pane del cielo (4). Convien dunque dire che nel cielo si mangi questo cibo divino. E Cristo lo dice ancora più chiaramente parlando di que' servi fedeli che saranno trovati vigilanti alla venuta del loro Signore, per la quale s' intende da' Padri la morte: « Beati servi illi, quos cum venerit Dominus invenerit vigilantes. Amen dico vobis quod praecinget se, et faciet illos discumbere, et transiens ministrabit illis (5). » Questo è il convito che si fa ai Cristiani, che muojono giustificati, in cielo subito dopo la loro morte, e all' anime che escono pure d' ogni macchia dal fuoco del purgatorio. Cristo è quello che ministra alla mensa, come fece in terra co' suoi discepoli, ed è il cibo stesso ch' egli amministra. Ma perchè dice ministrerà il Signore a que' servi fedeli in passando? Questa misteriosa parola indica la risurrezione di cui parliamo, che avviene all' anima mondata subito dopo aver deposta la soma terrena, perchè Cristo nell' Eucaristia dall' essere suo nascosto, sub sacris velaminibus, come dice il Concilio di Trento, si apre e manifesta ed è mangiato absque ullo velamine . Al qual passaggio di Cristo, qual cibo, da uno stato nascosto ad uno stato palese risponde quella risurrezione dell' anima di cui dice Cristo che passa dalla morte alla vita [...OMISSIS...] E le due risurrezioni, cioè questa e la finale, sono distintamente annunziate da Cristo in questo luogo; perocchè, dopo aver detto che chi crede al Padre che lo ha mandato ha l' eterna vita e passa dalla morte alla vita, tosto aggiunge dell' altra resurrezione finale: « Amen, amen dico vobis, quia venit hora, et nunc est, quando mortui audient vocem Filii Dei: et qui audierint vivent (2). » E dice che già allora i morti udivano la voce del Figliuolo di Dio, et nunc est, benchè non dica che già allora risorgessero, ma che viveranno, et qui audierint vivent; perocchè a' santi defunti venne comunicata gradatamente la salute e la grazia di Cristo per que' gradi stessi pe' quali venivano comunicate agli uomini viventi in terra ne' giorni della vita terrena del Salvatore: onde alla predicazione di Cristo la luce uscente dalla sua parola dee essere splenduta altresì a quelli che erano al limbo. La parola transiens s' avvera ancora in un altro modo. Cristo nell' eucaristia passa pe' nostri corpi, come passa il cibo; e un simigliante passaggio, benchè continuo, è credibile che avvenga rispetto all' anime separate venendo in tal modo esse continuamente refocillate da nuovo cibo divino. Onde la parola pasqua, che viene a dire passaggio per indicare il passaggio dell' Angelo, che non sommise alla morte, ma lasciò in vita tutti quelli che avevano tinti gli stipiti delle loro abitazioni col sangue dell' agnello. Allo stesso modo, essendo tutti gli uomini condannati alla morte, l' Angelo della morte non può nulla su quelli che sono vitalmente incorporati a Cristo, perchè ognuno che crede, benchè muoja della morte naturale, pure non muore assolutamente parlando, ma transit a morte in vitam . Così la pasqua degli Ebrei è un segno parlante dell' Eucaristia. Ma qui si presenta una difficoltà sulla denominazione di pane degli Angeli data al cibo eucaristico. Gli Angeli non mangiano, non si nutrono di cibo come gli uomini. Come dunque si può dire che Cristo, la carne ed il sangue di Cristo, si renda cibo de' puri spiriti? E` vero che gli Angeli sono spiriti puri, ma essi hanno nulladimeno una relazione e un' azione sui corpi. Come i corpi sono il termine attivo della vita animale, di maniera che il principio sensitivo riceve da essi un' azione, per la quale egli ha il suo atto di sentire e di essere; così i medesimi corpi sono un termine passivo degli Angeli, di maniera che dagli Angeli essi corpi ricevono quell' attività per la quale possono agire nel principio della vita sensitiva corporea. Quindi gli Angeli possono benissimo esser congiunti al loro modo al corpo eucaristico di Cristo, ad un modo che non è certamente il mangiare dell' uomo, ma che, corrispondendo esattamente ed analogicamente al mangiare e all' alimentarsi dell' uomo, può colla stessa parola denominarsi, non avendo l' uomo altre parole, per significare quanto appartiene alle sostanze pure che non cadono sotto la sua esperienza, se non le analogiche che la propria esperienza gli somministra. Perocchè questa espressione cibo degli Angeli dee avere una verità, e non essere una pura imaginazione degli Ebrei, che, vedendo cadere la manna dal cielo, la dissero cibo degli Angeli che stanno in cielo, e un' imaginazione sarebbe per la manna, ma non pel vero pane celeste che da un altro cielo spirituale discese, e per ragione del quale Iddio permise che così gli Ebrei concepisser la manna, e questo si conservasse scritto ne' libri divini. Può ancora considerarsi che la parola Angelo, che significa mandato, non accenna alla natura ma all' ufficio, onde Angelo è detto nella divina scrittura S. Giovanni Battista, Angeli i Vescovi delle Chiese (1), Angelo del testamento Gesù Cristo medesimo in questo luogo di Malachia: « Ecce ego mitto angelum meum, et praeparabit viam ante faciem meam. Et statim veniet ad templum suum Dominator, quem vos quaeritis, et Angelus Testamenti, quem vos vultis (2). » Il qual Profeta dice pure del Sacerdote: « Labia enim Sacerdotis custodient scientiam, et legem requirent ex ore ejus, quia Angelus Domini exercituum est (3). » Ora il pane ed il vino eucaristico è soprattutto il cibo del Sacerdote, a cui dalla Chiesa venne riserbato in proprio il calice, specialmente essendo profetato dell' eucaristico cibo in questo modo: « Quid enim bonum ejus est, et quid pulchrum ejus, nisi frumentum electorum et vinum germinans virgines? (4). » Qui si farà da alcuno questa difficoltà. Ond' è che la Chiesa cattolica raccomanda sì caldamente di ricevere nell' ore estreme il Corpo di Cristo? Questo vien dato dopo la morte a tutti i giusti, in quella maniera misteriosa ed ineffabile che l' umana lingua non può a pieno spiegare, eziandio che non lo ricevessero prima di morire. La risposta si contiene nella stessa denominazione di Viatico che la Chiesa dà all' eucaristico nutrimento preso dagli infermi vicini a morte. E il Tridentino sopracitato lo dichiara assai nettamente con quelle parole: « et is vere eis sit animae vita ed perpetua sanitas mentis, cujus vigore confortati ex hujus miserae peregrinationis itinere ad coelestem patriam pervenire valeant . » Il passo di questa all' altra vita, che l' uomo fa colla morte, quant' è pericoloso, altrettanto è rilevantissimo, perchè da quello dipende l' eterna condizione dell' anima, onde niun mezzo si dee dell' uomo trascurare per averne ajuto e conforto. E di tutti validissimo è l' ajuto e il conforto del cibo eucaristico, del quale fu simbolo il pane e l' acqua recato dall' angelo al profeta Elia fuggente da Acabbo, di cui è scritto [...OMISSIS...] E veramente l' uomo non ha altra fortezza nè altra vera vita che quella che gli viene da Cristo, dall' essere incorporato a Cristo, dal vivere della vita di Cristo, dall' aver Cristo in se stesso. E la vita di Cristo, di cui l' uomo partecipa cibandone il corpo sacratissimo, è tanto potente che rimonda l' uomo da' peccati veniali e dagli stessi mortali, quando egli ne sia pentito, e non avendone coscienza, o non potendoli sottomettere al potere delle Chiavi, ne vada ancor debitore; perchè quella vita repelle e caccia da sè ogni impedimento, a meno che non osti la mala disposizione della volontà dell' uomo, per la quale disposizione malvagia l' uomo riceve il cibo divino senza riceverne tuttavia la vita. Si ponga oltracciò l' attenzione del pensiero in quelle parole del Tridentino « ut is vere eis sit animae vita . » E` chiamato vita non del corpo, ma dell' anima; avendo anche l' anima quella specie di morte naturale di cui abbiamo parlato, oltre la morte del peccato. Sicchè gli antichi giusti che non ebbero il vantaggio della Eucaristia, sostennero quello stato simigliante ad una morte dell' anima, nel quale, come abbiamo detto, si trovavano nel limbo in aspettazione di Cristo che li facesse risorgere. Ma anco fra i Cristiani, che muojono giustificati, si può credere che v' abbia una differenza secondo che muojono con aver ricevuto il Viatico o senza averlo ricevuto, non solo pel grado maggiore di santità e di unione col fonte della santità di cui quelli si vantaggiano, ma altresì rispetto alla condizione della loro morte. E per dare maggior luce a questo concetto, distinguiamo tre casi: 1 quelli che muojono col solo desiderio del battesimo senza averlo ricevuto realmente; 2 quelli che muojono giustificati dopo ricevuto il battesimo senza aver tuttavia ricevuto il Viatico; 3 quelli che muojono giustificati dopo aver ricevuto il Viatico. Egli è certo e ben definito che tutti e tre si salvano. Tuttavia i primi, che hanno un diritto alla vita, hanno la vita di diritto ma non ancora di fatto, e però passano in certo modo per quello stato di morte naturale dell' anima, dal quale incontamente vengono resuscitati da Colui che disse: « Io sono la resurrezione e la vita, chi crede in me eziandio che sia morto vivrà », e questi sono simili agli antichi giusti, colla sola differenza che gli antichi giusti rimasero lungamente in quello stato, laddove essi non fan che passarci istantaneamente. I secondi, che muojono rinati dall' acqua e dallo Spirito Santo, hanno di diritto e di fatto la vita dell' anima, ma non partecipano che inizialmente alla vita di Cristo, benchè rechino seco il diritto di entrare in possesso pienissimo di quella vita. Laonde, deposto che abbiano il corpo, essi non passano neppure per un istante per quello stato di morte naturale dell' anima, ma passano per quello stato di vita iniziale qual è quella che hanno ricevuto nel battesimo e che portano seco, dal quale Cristo immantinente sollevandoli dà loro la vita piena. I terzi, finalmente, avendo ricevuto Cristo effettivamente prima di morire, non soffrono che la morte del corpo, e nell' altra vita si trovano già con quella pienezza di vita che altro non esige se non d' illuminarsi e di manifestarsi, senza che l' anima loro passi per alcun grado inferiore. Rimane ora a dichiarare come, laddove gli uomini viatori cibano il corpo ed il sangue di Cristo che rimane loro occulto e velato, i comprensori celesti si nutrano dello stesso divino alimento senza che alcun velo ne contenda loro la vista [...OMISSIS...] Gesù Cristo, deposta la vita mortale e seppellito il divino suo corpo, poscia risorto, coll' ascensione al cielo si tolse agli occhi degli uomini. L' uomo, incorporato in Cristo, partecipa di tutte le vicissitudini di Cristo, e quindi è morto e seppellito e risorto e salito al cielo in ispirito con Cristo, come membro di Cristo. Il che egli fa colla vita interiore e novella da lui acquistata, venendogli impedito dal farlo compiutamente e corporalmente dall' ostacolo dell' uomo vecchio fino a tanto ch' egli vive ancora della vita adamitica e non ha deposto il corpo mortale; non ha ricuperato il nuovo e glorioso coll' ultima risurrezione: onde al presente dee fare tutte queste cose mediante la fede di cui vive (1), per la quale egli le fa senza averne la piena consapevolezza, e la chiara visione. Quindi la vita dei Cristiani che è in Cristo viene chiamata da S. Paolo vita nascosta . La qual vita si manifesterà, s' animerà di un vivissimo sentimento, brillerà d' una luce ineffabile, primieramente alla morte del corpo, quando avviene la prima resurrezione, che è quella dell' anima; poscia alla ricuperazione del corpo nostro proprio glorioso nella fine dei secoli, che sarà la seconda resurrezione. « Igitur, » così il Vaso d' elezione, « si consurrexistis cum Christo, quae sursum sunt quaerite, ubi Christus est in dextera Dei sedens: quae sursum sunt sapite, non quae super terram. Mortui enim estis, et vita vestra est abscondita cum Christo in Deo. Cum Christus apparuerit, vita vestra; tunc et vos apparebitis cum ipso in gloria (2). » Il che viene a dir così: Cristo il quale si tiene in voi è la vostra vita. Ma Cristo è nascosto presentemente all' esperienza de' vostri sensi, perchè questi sensi guasti e materiali non sono degni nè atti di vederlo o percepirlo, perchè non sono degni nè atti di vedere Iddio in cui è Cristo, nè è degna o atta di vederlo quella vita, quell' anima che dee presiedere a tali sensi: quindi Cristo, nostra vera vita, è nascosto al presente in Dio, alla cui destra egli siede. Tuttavia voi vivete, benchè non abbiate la consapevolezza di tutti i tesori che in quella vita, quasi involuti a forma di germe, sono nascosti e che debbono poi apparire in voi d' improvviso, quando vi apparirà in tutto il suo splendore. Dunque avete bisogno di credere tutto ciò, di credere alla vostra vita, di aspettarne la sfolgorante manifestazione: dovete altresì condurvi consentaneamente alla vostra vita immortale ed eterna: dovete rinunziare coll' affetto della volontà e colla stima alla vostra vita naturale e corrotta destinata alla morte, quasi morti con Cristo ed in Cristo, e non cercare, non assaporare se non le cose celesti, cioè a dire Cristo che siede alla destra del Padre in cielo e le cose tutte di Cristo, aspettando la meravigliosa manifestazione di Cristo in voi che vi è promessa. Onde in altro luogo dice [...OMISSIS...] E altrove l' Apostolo vuole che abbiamo fiducia nell' ingresso al Sancta Sanctorum, che è la parte più santa del tempio antico simboleggiante il cielo, dove Iddio e Cristo a noi si svela e la nostra vita occulta si manifesta: ingresso che ci fu aperto col sangue di Cristo, e del quale la carne mortale di Cristo era come il velo pendente che ne toglieva la vista; deposta la qual carne, quel velo è tolto, e noi possiamo entrare, purchè deponiamo anche noi la nostra carne, come ha fatto Cristo, la cui carne era innocente e solo per sua volontà ebbe condizione mortale e passibile, per aver voluto assomigliarsi a noi, la cui carne materiale, non solo mortale ma corrotta, è veramente un velo che impedisce l' ingresso e la vista del luogo santissimo: [...OMISSIS...] Cristo adunque incominciò egli a battere questa via nuova e vivente (perchè anche mentre siamo in sulla via viviamo ), che conduce nel più segreto ed augusto luogo del Santuario, per la quale c' invita ed esorta l' Apostolo di metterci. Di questa « vita nascosta con Cristo in Dio », di cui in questa terrena peregrinazione vive il cristiano, accenna ancora S. Pietro quando favella di quell' eredità preziosissima che si conserva nei cieli pe' fedeli, e che sta pronta per rivelarsi e manifestarsi luminosamente quando finirà la vita di ciascuno, e più pienamente ancora quando finirà il mondo: [...OMISSIS...] pel quale ultimo tempo s' intende non meno quello che è ultimo a ciascun uomo, che è il giorno della morte, quanto quello che è ultimo al mondo, che è quello della finale risurrezione. Vi ha dunque l' eredità immarcescibile conservata in cielo per noi [...OMISSIS...] , colassù palese, a noi ora nascosta: la quale eredità è Cristo, rispetto ai viatori invisibile, rispetto ai comprensori visibile e fulgente; sicchè, quando a noi pure apparirà tale, saremo manifestamente in Cielo. Ora, prima che noi entriamo ad investigare in che consistano i veli che di presente ci avvolgono il cibo eucaristico, e qual cangiamento nasce in noi alla remozione di tali veli; prima che ci facciamo a cercare quanto di questo sublime argomento sia dato a noi di conoscere, è prezzo dell' opera che noi tocchiamo quello che ci insegnano le divine lettere sul progressivo incremento della vita divina ed eterna degli uomini. Perocchè noi abbiamo veduto che anche quelli, che precedettero Cristo, vissero « sub testamento aeternae vitae (1), » anche dopo deposta la soma mortale; onde l' Iddio dei Patriarchi è Iddio de' viventi e non de' morti. Giova dunque dichiarare, quanto a noi è dato, la gradazione di queste vite. S. Paolo insegna che tutti i viatori vivono di fede, e la fede non è delle cose apparenti, ma di quelle che non cadono sotto il nostro sentimento. Ma la fede non è già pura tenebra, ma ella ha ancora della luce, la quale si fa piena allorchè nell' altra vita, cessando interamente la fede, sottentra la piena e lucidissima visione. Fino che questo non avvenga, gli uomini sulla terra possono avere ed ebbero una fede mescolata di maggiore o minor lume di sentimento divino, vi ha fede e cognizione insieme; cose che assai spesso S. Paolo congiunge; per esempio scrivendo a Tito si dice nel saluto apostolico di Cristo, « secundum fidem electorum Dei, et agnitionem veritatis, quae secundum pietatem est (2). » Per il che lo stesso S. Paolo distingue quasi più maniere di fede là dove dice: « ex fide in fidem (3). » « La giustizia di Dio, dice, si rivela nell' Evangelio di Cristo di fede in fede », quasi l' uomo passi per esso da una fede all' altra, da una fede di minor luce ad una fede di luce maggiore. Così il giusto gentile e il giusto giudeo, aderendo alla predicazione del cristianesimo, passarono d' una fede più oscura ad un' altra fede più lucente, perocchè nè anche il gentile poteva esser giusto senza credere. Laonde, non solo rispetto a' gentili, ma ben anco rispetto agli ebrei, la nostra fede è chiamata luce, chiarezza, gloria da S. Paolo, il quale anzi non dubita di scrivere così: « Nos vero omnes, revelata facie gloriam Domini speculantes, in eandem imaginem transformamur a claritate in claritatem tamquam a Domini spiritu (1) » nel qual luogo Giovanni Diodati traduce il vocabolo speculantes [...OMISSIS...] « contemplando come in uno specchio », che risponde ottimamente a quello: « videmus nunc per speculum (2). » E questa eccellenza, questa maggior luce della fede cristiana, sopra quella di coloro che erano avanti Cristo, consiste principalmente in questo: che nell' antico tempo, Cristo non essendo ancor venuto al mondo, non poteva operare colla sua umanità divina sulla nostra umanità e comunicarci, coll' unione fisica, benchè invisibile ed ineffabile, di lui a noi, parte di quella vita di cui gode egli stesso, e così ravvivare la nostra vita soggettiva. La qual comunicazione della vita umana divinizzata in Cristo mancava pure ad Adamo nello stato dell' innocenza; quindi un' altra differenza del carattere di Adamo, se così vogliamo chiamarlo, dal carattere dei Cristiani; perocchè quello non era che oggettivo, cioè la percezione iniziale del Verbo divino, ma questo, oltr' essere oggettivo, è anche soggettivo, perché è la percezione di Cristo oggetto come Verbo, soggetto come uomo . Vero è che il Verbo è l' oggetto ad un tempo persona, e anco la persona del Verbo può esser data all' uomo da percepire, ma soltanto alla mente, e però solo in modo oggettivo. Può bensì il Verbo assumere a sè la natura umana in un individuo, ma questa è l' incarnazione, nella quale la persona stessa del composto è la persona divina; com' è avvenuto in Cristo, nel quale il soggetto umano non è persona, giacchè la persona è il supremo principio operativo d' un individuo, e il supremo principio operativo in Cristo fu il Verbo. La persona divina adunque del Verbo, come a me pare, non può comunicarsi in modo soggettivo ad un individuo dell' umana natura se non incarnandosi in esso. All' incontro l' umanità di Cristo, per la virtù divina di cui è informata, poteva operare fisicamente e in modo soggettivo sull' umanità nostra, come un amico agisce sull' amico, e uno sposo sulla sposa; e la vita di Cristo come uomo assunto dalla divinità poteva operare sulla vita nostra soggettiva, e aggiungerle del suo vigore e della sua propria vitalità; perchè la vita si comunica, come si vede nella generazione, nella nutrizione, e meno palesemente in altri fenomeni ancora, specialmente in quelli dell' amore. Ora dal Verbo oggettivamente percepito può promanare in qualche modo lo Spirito: ma l' effetto di questo spirito sembra dover essere limitato a rendere il bene amabile all' intelletto; non a rinforzare e muovere immediatamente le facoltà inferiori operative soggettive. Laddove, per la congiunzione di Cristo a noi, per l' unione a noi del Verbo incarnato, cioè non meno del Verbo che dell' umana natura assunta dal Verbo, tutte le nostre potenze sono ad un tempo sollevate, corroborate, divinizzate, non solo le oggettive, ma le soggettive ancora. Il che è una notabilissima differenza fra la grazia di Adamo innocente e quella del Cristiano, cioè dell' uomo rinato in Cristo. E di questa vita soggettiva, a noi comunicata dalla vita umana7divina di Cristo, sono quelle parole di S. Paolo « in eamdem imaginem transformamur: » perocchè, come altrove dice: « Vivo autem, jam non ego, vivit vero in me Christus (1). » Altrove: « Mihi vivere Christus est (2). » Ed agli Ebrei: « Participes enim Christi effecti sumus: si tamen initium substantiae ejus usque ad finem firmum retineamus (3): » dove, quantunque il greco non dica substantiae ejus, ma solamente substantiae [...OMISSIS...] , tuttavia ottimamente la Volgata traduce substantiae ejus, apparendo, che si parla dall' Apostolo della sussistenza o sostanza di Cristo in noi, dalle prime parole del versetto: « participes enim Christi effecti sumus . » Per la partecipazione adunque della vita umana7divina di Cristo noi ci trasformiamo nella stessa imagine di Cristo, ci trasformiamo in qualche modo in Cristo, diveniamo in un certo senso altrettanti Cristi viventi in lui, tale essendo la forza di quella parola imagine , come abbiamo notato più sopra, ponendosi l' imagine per la stessa cosa incipiente, siccome in quel luogo: « Umbram enim habens lex futurorum bonorum, non ipsam imaginem rerum (4), » cioè non ipsa bona quasi in embrione, sentendo noi quello che sente Cristo, piacendoci quello che piace a Cristo, dispiacendoci quello che a Cristo dispiace, volendo quello che vuole Cristo diventiamo amabili al Padre che ama in noi le stesse cose che sono in Cristo e sono in noi, ama Cristo in noi. Onde il Salvatore disse de' suoi discepoli, promettendo loro la venuta personale del suo Spirito: « Venit hora, cum jam non in proverbiis loquar vobis, sed palam de Patre annuntiabo vobis. In illo die in nomine meo petetis. Et non dico vobis quia ego rogabo Patrem de vobis. Ipse enim Pater amat vos, quia vos me amastis, et credidistis quia ego a Deo exivi (5). » Queste dolcissime e benignissime parole disse Cristo a' suoi discepoli. Nelle quali è da osservare: 1 Che quel dire, ch' egli parlerà apertamente e palesemente del Padre, dimostra quanto sia illuminata la fede de' Cristiani per la partecipazione della vita soggettiva di Cristo sopra la fede degli antichi, e risponde a quella di S. Paolo: « in eamdem imaginem transformamur a claritate in claritatem, » o, come dice il testo greco: «apo doxes eis doxan». Questa chiarezza non è propria della fede degli Ebrei, ma solo de' Cristiani; perchè gli Ebrei avevano la notizia di Cristo che doveva venire al mondo, ma non potevano avere il sentimento di Cristo, perchè, non essendo ancora venuta al mondo la sua reale umanità, non poteva questa agire sull' umanità loro, come agisce realmente benchè misteriosamente sull' umanità nostra. Onde S. Paolo altrove dice, che Cristo venendo al mondo « illuminò la vita »: [...OMISSIS...] Quasi voglia dire: Vi era una vita anche avanti Cristo (sebbene anch' essa per Cristo), ma questa vita era oscura e non illuminata perchè non era soggettiva, ma soltanto oggettiva, per modo che il soggetto debole ed esile non poteva fare gli atti vitali di sentimento, cavandoli dall' oggetto, che non gli poteva dare l' immortalità soggettiva. Ma Cristo, per mezzo dell' Evangelio, cioè della fede e de' sacramenti, diede all' anima, cioè al soggetto, di quel sentimento immortale ch' egli aveva nella sua umanità congiunta ipostaticamente al Verbo, e così distrusse la morte, cioè quello stato dell' anima separata che rimane senza sentimento operativo perchè priva di un termine reale che formando con essa un solo soggetto la renda atta all' azione, benchè non si rimanga priva d' intellezione anche con un oggetto reale (il Verbo), e però di vita oggettiva; quindi distrusse la morte anche rispetto alla vita naturale, facendo che all' anima sia un tempo restituito un corpo glorioso colla risurrezione della carne. Vero è che agli Ebrei furono preannunziate molte cose di Cristo, e la fede che davano ad esse era soprannaturale. Era soprannaturale perchè queste cose stesse le percepivano oggettivamente in quell' esistenza oggettiva che hanno le cose nel Verbo per una interiore comunicazione del Verbo più o meno chiara, ma sempre mista di molta oscurità. Onde, quando venne Cristo al mondo si adempì la profezia: « Eructabo abscondita a constitutione mundi (1), » e Cristo potè dire: « Mandatum novum do vobis, ut diligatis invicem sicut dilexi vos, ut et vos diligatis invicem (2), » e potè rassomigliarsi al Padre di famiglia che « profert de thesauro suo nova et vetera (3). » Se le verità fossero state annunziate agli Ebrei solamente in parole esterne senza che queste fossero accompagnate da alcun lume interiore di fede, la loro condizione non si sarebbe potuta dire soprannaturale, benchè quella rivelazione fosse scaturita da una fonte soprannaturale; ma il lume interiore, donato in varii gradi a que' fedeli, faceva sì, come dicevamo, che percepissero nel Verbo quelle verità che venivano loro annunziate di fuori colle parole. 2 Ma, quantunque gli Ebrei vivessero per questa loro fede, tuttavia quella fede non dava loro la vita soggettiva, non li trasformava, come dice S. Paolo, nella stessa imagine di Cristo, non li toglieva dalla morte e dalla corruzione di sè come umani soggetti; onde coll' aver illuminata la vita, secondo San Paolo, Cristo distrusse la morte e la corruzione, [...OMISSIS...] E come potrebbe venir meno la vita soggettiva a quelli che sono amati dal Padre dello stesso amore del quale ama il suo Figliuolo diletto in cui si compiace, [...OMISSIS...] e le preghiere de' quali, fatte in nome di Cristo, sono accette ed esaudite: [...OMISSIS...] Le preghiere e i sacrificii degli antichi santi, ancor che fatte in nome di Cristo, non potevano salvarli dalla morte soggettiva, e dalla condanna al limbo: conveniva prima, che risorgessero e fossero edotti da quella cotal prigione, e perciò, che venisse Cristo e pregasse per essi, e fosse esaudito secondo il mandato che aveva ricevuto: [...OMISSIS...] Il perchè S. Paolo chiama la stessa legge antica, quantunque santa in se stessa: « ministratio mortis, ministratio damnationis (5), » perchè l' uomo non era avvalorato soggettivamente ad adempirla, e non adempita comminava la morte, nè l' uomo di conseguente si poteva salvare per l' adempimento perfetto di quella legge, ma per la fede in Colui che toglieva e cancellava i loro peccati, i cui meriti per la fede si sarebbero loro applicati. Quindi gli antichi fedeli vivevano di una vita oggettiva, ed avevano una certa speranza della vita soggettiva; ma non ancora la stessa vita soggettiva di Cristo. La qual vita de' santi Cristiani, chiamata bene spesso l' uomo nuovo, l' uomo interiore, viene altresì rassomigliata da S. Paolo ad un vestimento, e la mancanza di questa vita alla nudità della persona: similitudine acconcissima rispetto all' anima separata dal corpo, la quale priva di questo suo termine naturale rimane nuda, se non gli è dato da Dio soprannaturalmente qualch' altro termine reale (il quale secondo noi è l' essere eucaristico di Gesù Cristo), ed è trovata vestita se seco adduce questo termine ineffabile e misterioso, pel quale le è comunicata della vita di Cristo. Medesimamente questo termine reale della nostra vita interiore e spirituale è rassomigliato ad una casa, la quale rimane anche quando la casa temporanea del nostro corpo si discioglie: [...OMISSIS...] 3 Conviene in terzo luogo notare che le recate parole di Cristo si riferiscono allo Spirito Santo, il quale è quello che rende propriamente gli uomini, che colle loro volontà non si oppongono e potendo cooperano, figliuoli di Dio, onde passano, come dice S. Paolo, « a claritate in claritatem tamquam a Domini Spiritu: » il che si può intendere, tanto dell' ascendere di virtù in virtù, di perfezione in perfezione, di eccellenza ad eccellenza durante la presente vita, quanto del passaggio dalla chiarezza o gloria interna, che ha il giusto cristiano in questa vita, a quella chiarezza e gloria sfolgorante e completa che avrà nell' altra. 4 E poichè lo Spirito Santo è l' amore divino essenziale, e quindi diffonde in noi la carità, che riforma e santifica la nostra volontà, secondo quello: « Charitas Dei diffusa est in cordibus nostris per Spiritum Sanctum qui datus est nobis (2), » e ancora: « Ipse enim Spiritus testimonium reddit spiritui nostro, quod sumus filii Dei (3); » perciò Gesù Cristo dice che il Padre ama noi, perchè noi amiamo lui, [...OMISSIS...] giacchè non vi ha la vita soggettiva di cui parliamo dove non vi ha carità, almeno abituale, non avendovi ivi lo Spirito Santo che è quello che congiunge Cristo alle anime nostre nel modo della vita soggettiva. La carità poi (che è assai più d' un semplice affetto naturale ed accidentale, come lo Spirito Santo è assai più che semplicemente l' amore accidentale, essendo sussistente persona divina) ha per oggetto Cristo umanato, quale ci è proposto dalla fede; onde il Signore soggiunge al « quia me amastis, » quest' altra parola: « et credidistis quia ego a Deo exivi . » Nel qual vocabolo, exivi, non è solamente indicata la processione del Verbo dal Padre, ma ben anco la sua missione visibile nel mondo e la sua incarnazione, come dichiarano le parole che vengono appresso: « exivi a Patre et veni in mundum (1), » che rispondono a quelle di Giovanni: « Et Verbum erat apud Deum . » L' Evangelio adunque, cioè non la lettera ma lo spirito, aggiunse una gran luce alla fede antica, ed illuminò la vita spirituale e la scienza: « Quoniam Deus, qui dixit de tenebris lucem splendescere, ipse illuxit in cordibus nostris, ad illuminationem scientiae claritatis Dei in facie Christi Jesu (2). » E dice in facie Christi Jesu, perchè lo Spirito Santo che illumina l' anima, ha quest' effetto suo proprio di fare intendere, e sentire, e quindi amare Gesù Cristo, come abbiam detto, Dio e uomo, uscito dal Padre, mandato nel mondo dal Padre. Ora tutta questa chiarezza e luce ineffabile della vita cristiana è nondimeno velata in paragone di quella che rifulgerà alle anime nostre, quando sarà squarciato il velo de' nostri corpi: [...OMISSIS...] dice S. Paolo, [...OMISSIS...] Laonde nell' antico testamento vi era la fede, ma vi era un' altra fede da rivelarsi, la quale, appunto perchè doveva rivelarsi, aveva più di chiarezza; al presente poi la nuova fede è rivelata, e non rimane a rivelarsi altra fede, ma solo la gloria. Della fede, che era da rivelarsi e che si rivelò col Vangelo, dice S. Paolo: « Prius autem quam veniret fides, sub lege custodiebamur conclusi in eam fidem quae revelanda erat (4). » E nello stesso senso lo stesso Apostolo dice, che si rivelò in lui Cristo: [...OMISSIS...] Della gloria poi, e non più della fede che al presente resta a rivelarsi, dice S. Pietro: « qui et ejus, quae in futuro revelanda est, gloriae communicator (1). » E l' Apostolo de' Gentili afferma che la sua predicazione ha per oggetto « il mistero di Cristo », perocchè nella dottrina di Cristo rimane sempre una parte misteriosa a noi che siamo nella presente vita: [...OMISSIS...] dice a que' di Colosse, [...OMISSIS...] e tuttavia soggiunge « ut manifestem illud ita ut oportet me loqui (2) » perocchè questo mistero si può annunciare, credere e in parte anche manifestare, secondo quel modo di conoscimento che a noi è dato finchè siamo circondati dal corpo corruttibile; onde anche prima l' avea chiamato « mysterium quod absconditum fuit a saeculis et generationibus, nunc autem manifestatum est sanctis ejus, quibus voluit Deus notas facere divitias gloriae sacramenti hujus in gentibus, quod est Christus, in vobis spes gloriae, quem nos annuntiamus (3). » Nel qual luogo dicendosi che il mistero di Cristo fu manifestato ai Santi, e non dicendosi a tutti quelli cui fu predicato, ben s' intende che l' Apostolo parla d' una cognizione e manifestazione soprannaturale, per la quale i Santi dentro illustrati dal lume della fede intendono e penetrano nel recondito di tale mistero, quando quelli che non credono, nulla più ne capiscono che la lettera, la quale non è cognizione vera del mistero stesso, nè soprannaturale. Il che spiega l' Apostolo più ampiamente nella sua prima ai Corinti, dove, dopo aver detto che la sapienza di Dio nel misterio è nascosta e nessuno de' principali uomini del mondo la conobbe, soggiunge: « « Nobis autem revelavit Deus per Spiritum suum. Spiritus enim omnia scrutatur, etiam profunda Dei. Quis enim hominum scit quae sunt hominis, nisi spiritus hominis qui in ipso est? ita et quae Dei sunt, nemo cognovit nisi Spiritus Dei. Nos autem non spiritum hujus mundi accepimus, sed Spiritum qui ex Deo est, ut sciamus quae a Deo donata sunt nobis. - Animalis autem homo non percipit ea quae sunt Spiritus Dei: stultitia enim est illi, et non potest intelligere: quia spiritualiter examinatur. Spiritualis autem judicat omnia: et ipse a nemine judicatur »(4). » Dalle quali parole raccogliamo che la cognizione che ha il cristiano in questo mondo comprende il tutto; comprende tutto ciò che conoscerà con maggior luce all' altro mondo, perchè ha lo Spirito di Dio, che omnia scrutatur, etiam profunda Dei, di maniera che il cangiamento che succederà sarà una vera rivelazione, secondo l' etimologia della parola, un vedere le cose stesse che conosce, adesso sotto un velo, allora senza velo, giusta le parole citate dal Concilio, « eumdem panem Angelorum, quem modo sub sacris velaminibus edunt, absque ullo velamine manducaturi . » Quindi, per indicare quel passaggio dalla condizione presente del Cristiano alla futura, talora si nomina una rivelazione di Gesù Cristo. Parlando della seconda venuta di Cristo, dice il Vangelo: « qua die Filius hominis revelabitur (1). » E prima aveva detto dello stato presente del fedele, che ha in sè Cristo in un modo velato: « Non venit regnum Dei cum observatione, neque dicent: Ecce hic, aut ecce illic. Ecce enim regnum Dei intra vos est (2), » e quindi trapassa a favellare come questo regno di Dio, che viene senza attrarre l' osservazione degli uomini, si manifesti rifulgente alla gran venuta del Figliuolo dell' uomo. Medesimamente l' Apostolo promette requie a que' di Tessalonica, che avevano patito pel regno di Dio, « in revelatione Domini Jesu de coelo cum angelis virtutis ejus (3). » La ragione poi, perchè nelle divine scritture si parla più frequentemente e si promette la rivelazione di Cristo alla fine dei secoli, anzichè quella che avviene alla morte di ciascun fedele, mi sembra poter essere che quella è più solenne e compiuta per la risurrezione dei corpi, e doveva forse essere più inculcata come più maravigliosa: oltre di che, se quella gloria privata, dirò così, che ciascuno de' giusti Cristiani riceverà dopo morte, interessa il particolare; quell' ultima è cosa appartenente a tutta la Congregazione de' fedeli, a tutto il corpo della Chiesa. Talora poi il passaggio dalla condizione nostra presente alla gloria futura si appella « rivelazione nostra propria, rivelazione dei figliuoli di Dio, rivelazione della gloria in noi », come in questo luogo [...OMISSIS...] Le quali ultime parole, adoptionem filiorum Dei expectantes, redemptionem corporis nostri , ci avvisano che anche in questo luogo S. Paolo parla dell' ultimo compimento della gloria nostra, che sarà quando risorgeremo gloriosi, e non di quella gloria, quasi direi provvisoria, sebbene beatificante, che avranno le anime nostre separate dal corpo. Ed è da osservarsi che si chiama libertà, tanto quella che ora godiamo in Cristo: [...OMISSIS...] quanto quella che acquisteremo colla gloria finale: [...OMISSIS...] perchè ora la nostra libertà, perfetta quanto allo spirito, è nulladimeno unita ad una certa servitù quanto al corpo corruttibile. Similmente noi siamo già stati adottati figliuoli di Dio quanto allo spirito; [...OMISSIS...] ma, quanto al corpo aspettiamo tuttavia adoptionem filiorum Dei . Secondo la stessa maniera di parlare, nel giorno del Signore si riveleranno le opere nostre quali sieno alla prova del fuoco: [...OMISSIS...] Tutto è adunque nel Cristiano: tutto nella fede e nella cognizione spirituale di colui che è in Cristo secondo lo spirito della santità; ma tutto vi è velato, e in un modo sentimentale a cui non giunge o debolmente giunge la riflessione generatrice della coscienza. Quando poi deporremo il corpo, e più compiutamente quando riavremo un corpo glorioso, tutto sarà a noi svelato, manifesto, fulgente di gloria. Venendo ora alla vita eucaristica, quaggiù velata, colassù in Cielo palese, dico primieramente che i veli che ci nascondono al presente il corpo e il sangue glorioso di Cristo sono gli accidenti del pane e del vino, che soli cadono sotto i nostri sensi esteriori. Ora è da considerarsi che il pane e il vino consecrato (che non è più nè pane nè vino) fa cogli accidenti che conserva, ne' nostri organi sensorii e nell' interno del nostro corpo, gli stessi effetti fisici come non fosse consecrato, cioè come fosse ancora vero pane e vero vino. Ora, questi effetti fisici non sono gli effetti eucaristici. Il corpo adunque ed il sangue di Cristo si sta cotalmente nascosto sotto gli accidenti del pane e del vino, che naturalmente e per la fisica legge de' corpi non produce nessun effetto sul corpo nostro. Quando viveva Gesù Cristo in terra, il suo corpo passibile e mortale era sensibile ed operante ne' corpi degli altri uomini secondo le ordinarie leggi fisiche che presiedono alla mutua azione dei corpi fra loro: ma non così il corpo eucaristico di Gesù Cristo, nel quale tali leggi sono tutte sospese dall' onnipotenza divina, e però non è visibile, nè tangibile, nè odorabile, ecc.. Quindi procede che gli effetti eucaristici dipendono unicamente dalla volontà e podestà dello stesso nostro Signor Gesù Cristo, secondo quelle leggi che governano l' ordine morale. Di che avviene che quelli che non sono battezzati, e quindi incorporati a Cristo, non ne ricevono alcun effetto (se non gli effetti fisici degli accidenti); e lo stesso si dica di quelli che assumono il Santissimo Sacramento colla coscienza o colla volontà di peccato mortale (oltre il sacrilegio che commettono), perocchè « quicumque manducaverit panem hunc vel biberit calicem Domini indigne, reus erit corporis et sanguinis Domini ) (1). » Consegue ancora che gli effetti eucaristici vengano da Cristo prodotti ne' fedeli, che ricevono il suo corpo santissimo, secondo il tenore della loro disposizione; e però quelli che sono meglio disposti, e più e meglio cooperano cogli atti della loro volontà, ne ricevano in maggior copia, e in minore gli altri. I quali effetti sono primieramente operazione dello Spirito di Cristo che diffonde la carità nelle anime: ed è per ciò che Cristo disse, parlando dell' Eucaristia: « Spiritus est qui vivificat: caro non prodest quidquam: verba quae ego locutus sum vobis spiritus et vita sunt (2). » Ma egli conviene che noi esponiamo, per quanto ci è dato, in che modo Cristo col suo Spirito produca in colui che riceve il suo corpo ed il suo sangue cotesti maravigliosi effetti. E` dunque da considerare primieramente, che il supremo principio operatore in Cristo è il Verbo, il quale perciò non è soltanto persona divina, ma persona di Cristo, cioè persona divina incarnata; giacchè la persona d' un individuo intelligente è quel supremo principio operativo che è in esso. Ora, come la persona divina del Verbo unì a sè la natura umana? Certa cosa è che il Verbo per questa unione non sofferì passione, nè cangiamento alcuno, non essendone suscettibile, come quello che è immutabile, ed in cui non cadono accidenti di sorta. Ma è da riflettere, qual preliminare della dottrina che dobbiamo esporre, che le cose tutte esistono nel Verbo non solo idealmente, ma anche realmente, come abbiamo detto, in un modo oggettivo; e in questo modo oggettivo, come tutte l' altre cose, così esisteva nel Verbo anche l' umanità di Cristo. Ma qui non ci ha ancora l' incarnazione, non ci ha l' unione ipostatica: altramente il Verbo sarebbe stato congiunto con tutte le creature ipostaticamente, il che è assurdo. L' esistenza oggettiva è sempre divina; le cose create non hanno che un' esistenza soggettiva, o un' esistenza che alla soggettiva si riferisce (esistenza extrasoggettiva). Quindi le cose nella loro esistenza oggettiva, appartenenze del Verbo, non sono le cose quali esistono puramente a se stesse, dal che viene che sieno creature reali. L' esistenza oggettiva delle creature è reale pel Verbo (assolutamente reale), ma non è nelle creature stesse, la cui esistenza propria è soltanto soggettiva, di maniera che quella potrebbe essere nel Verbo (ed è il Verbo stesso) senza che queste ancor fossero. Laonde le creature per la sola esistenza oggettiva non sono a se stesse; e, quando esse sono (soggettivamente), allora esse non apprendono necessariamente il Verbo, sebbene il Verbo le abbia in sè oggettivamente, e l' esistenza oggettiva e soggettiva sieno due modi dello stesso ente. Acciocchè dunque il Verbo assuma a sè e si congiunga una creatura intellettiva in quanto questa è a se stessa, non basta ch' egli l' abbia oggettivamente, sebbene realmente, in sè; ma è necessario ch' egli si congiunga soggettivamente a quella creatura, o per dir meglio congiunga quella creatura soggettivamente a sè. Così fece incarnandosi, cioè congiungendo a sè la natura umana in individuo ipostaticamente. La mutazione, come dicevamo, non avvenne in lui, ma nella natura umana assunta, la quale trovò d' esser mossa e governata, come da suo proprio principio supremo, dalla persona del Verbo. La comunicazione di Dio soggettiva all' umanità è operazione dello Spirito Santo: quindi il Verbo s' incarnò per opera di esso Spirito: [...OMISSIS...] E Cristo chiama se stesso: « quem Pater sanctificavit et misit in mundum (2), » facendo precedere, non quanto al tempo ma quanto al concetto, la santificazione alla missione nel mondo, quasi venendo a dire santificò l' umanità di Cristo in modo che nello stesso tempo mandò in essa il Verbo, il quale a sè ipostaticamente unita l' assunse. Onde l' Apostolo chiama Cristo, « qui praedestinatus est Filius Dei in virtute secundum spiritum sanctificationis (1). » E la stessa parola Cristo significa l' unto del Signore, così venendo chiamato Colui che era stato mandato coll' unzione dello Spirito Santo, come avevano già preannunziato i Profeti: [...OMISSIS...] dice il Redentore in Isaia: [...OMISSIS...] E il Salmo: [...OMISSIS...] E all' udire il racconto che Pietro e Giovanni fecero del processo loro intentato dalla Sinagoga dopo la guarigione dello storpio alla porta del tempio di Gerusalemme, i primi discepoli dissero: « Convenerunt enim vere in civitate ista, adversus sanctum puerum tuum Jesum quem unxisti, Herodes et Pontius Pilatus cum gentibus et populis Isra‰l (4). » E S. Pietro alla famiglia del Centurione dice di Gesù: « Vos scitis - quomodo unxit eum Deus Spiritu Sancto et virtute (5). » Ora è da considerarsi che è proprio dello Spirito Santo l' agire in modo soggettivo, perocchè egli s' unisce come principio attivo alla volontà umana, e questa con esso lui unita s' innalza a riconoscere praticamente l' essere, e massimamente l' Essere assoluto, nel che sta la santificazione dell' uomo. Ora parmi che sia da credere che nell' umanità di Cristo la volontà umana fu talmente rapita dallo Spirito Santo ad aderire all' Essere oggettivo, cioè al Verbo, che ella cedette intieramente a lui il governo dell' uomo, e il Verbo personalmente ne prese il regime così incarnandosi, rimanendo la volontà umana e l' altre potenze subordinate alla volontà in potere del Verbo, che, come primo principio di quest' essere Teandrico, ogni cosa faceva, o si faceva dalle altre potenze col suo consenso. Onde la volontà umana cessò di essere personale nell' uomo, e da persona che è negli altri uomini rimase in Cristo natura. Dove è da osservarsi che tutte queste operazioni dello Spirito Santo quasi preambole all' incarnazione, e della stessa incarnazione o unione ipostatica, non furono già successive, ma contemporanee, compiute in un istante, nell' istante dell' incarnazione medesima. Il Verbo poi, incarnato così per opera dello Spirito Santo, estese la sua unione a tutte le potenze ed alla carne stessa, onde potè dire S. Giovanni che « « il Verbo si fece carne » »; come pure mandò lo Spirito Santo in esse e negli altri uomini, prima i doni e poscia la medesima persona che loro suggerisse praticamente quant' egli loro diceva quasi teoricamente. E la missione dello Spirito Santo santificatrice dell' umanità di Cristo è sempre procedente dal Verbo, sia quella che si concepisce logicamente preambola all' incarnazione medesima, sia quella che si concepisce logicamente posteriore a questa, venendo la prima dal Verbo separato, la seconda (identica alla prima) dal Verbo medesimo unito. E in un modo somigliante avviene la rigenerazione spirituale dell' uomo, salvo che l' operazione preambola dello Spirito Santo può precedere anche di tempo alla stessa rigenerazione, come accade negli adulti. Questi sono quei doni e quelle grazie, di cui parla il sacrosanto Concilio di Trento come dispositive alla giustificazione, nelle quali in prima la vocazione divina si contiene. [...OMISSIS...] Di poi viene la fede, di cui così lo stesso ecumenico e sacrosanto Concilio: [...OMISSIS...] Queste operazioni che lo Spirito Santo fa nell' adulto per disporlo alla giustificazione battesimale, le fa pure nel bambino, quanto alla sostanza, ma in altro modo occulto, per mozioni abituali della sua volontà e contemporaneamente alla giustificazione; di maniera che nello stesso istante che riceve questa pel battesimo riceve quelle grazie altresì. Nel battesimo poi, nel quale si compie la giustificazione, il Verbo si unisce come oggetto reale alla mente del battezzato, e, dove la volontà di questo non pone ostacolo ma è disposta a riconoscerlo, continua e compie la missione in essa dello Spirito Santo, colla quale egli viene santificato, adottato figliuolo di Dio, e coerede di Cristo. Onde il più volte citato Concilio dichiara che la giustificazione, che pel battesimo si conseguisce, « non est sola peccatorum remissio, sed et sanctificatio et renovatio interioris hominis per voluntariam susceptionem gratiae et donorum (2), » e l' unica causa formale della giustificazione [...OMISSIS...] Ma in quest' opera dello Spirito Santo il Verbo divino viene impresso nelle menti, come dicevamo, qual oggetto, non già qual soggetto; e però non è un' incarnazione, ma soltanto una congiunzione reale delle persone umane col Verbo incarnato, le quali persone sono come membra di quel corpo mistico di cui il Verbo è capo. Nulladimeno, atteso che questo capo, cioè il Verbo incarnato, influisce nelle membra la virtù dello Spirito Santo, prima di tutto la volontà di esse membra, dove risiede la loro personalità, è santificata, cioè tratta a riconoscere praticamente quel Verbo che percepisce; e perciocchè così acquista una nuova attività soprannaturale che non aveva prima, perciò la persona dicesi rinnovata, formatosi un uomo nuovo, nel che consiste la spirituale rigenerazione: « Voluntarie enim genuit nos, » dice S. Giacomo, « verbo veritatis ut simus initium aliquod creaturae ejus (1): renati, » continua S. Pietro, « non ex semine corruptibili, sed incorruptibili, per Verbum Dei vivi et permanentis in aeternum (2). » Or, come abbiamo detto già innanzi, crediamo assai probabile che la virtù vitale di Cristo si comunichi all' acqua battesimale per un segreto contatto del suo corpo glorioso, in virtù e nel momento nel quale sono pronunciate le parole, forma del Sacramento; e che l' acqua, toccando il corpo di lui che si battezza pella fede sua propria o in quella della Chiesa, comunichi la predetta virtù di Cristo, la quale passando dal corpo all' anima ed allo spirito, rinnova finalmente la superiore parte dell' uomo, imprimendo nella sua mente il Verbo. Ma nell' eucaristico Sacramento il pane ed il vino non è solamente toccato dal corpo di Cristo, ma assunto e transustanziato nella sua carne e nel suo sangue glorioso. Onde ricevendo questo Sacramento l' uomo non riceve soltanto l' influenza della virtù di Cristo, come nel battesimo, dove l' acqua rimane acqua, benchè diventi il veicolo della virtù di Cristo, e tocca il corpo momentaneamente e spontaneamente; ma si ricevono le stesse carni viventi e gloriose, e il sangue di Cristo dentro di noi (e per concomitanza altresì l' anima e la divinità), le quali restano dentro di noi qualche tempo, benchè non tocchino il corpo nostro, il quale è toccato solo dagli accidenti del pane e del vino. I quali accidenti operano tuttociò che operano il pane ed il vino non consacrati, venendo digeriti ed assimilati, e così passando in nostra nutrizione. Ma imperocchè sotto questi accidenti vi è il vero corpo e il vero sangue di Cristo, questo produce i suoi effetti spirituali nell' anima e nello spirito dell' uomo battezzato e ben disposto. Perocchè, se gli accidenti del pane e del vino sono a un contatto reale colle nostre carni, il corpo ed il sangue di Cristo, nascosto sotto quegli accidenti, trovasi a un contatto spirituale e corporeamente insensibile; e come la carne nostra è viva, e viva è pure la carne gloriosa di Cristo, per questo contatto spirituale si comunica della vita di Cristo alla nostra vita, in quella misura ch' egli vuole e secondo le disposizioni che in noi trova. Il battesimo fa due cose nell' uomo: 1 imprime il carattere indelebile; 2 conferisce la grazia santificante. Pel carattere indelebile l' uomo è posto in comunicazione col Verbo per mezzo della sua intelligenza essenziale; per la grazia l' uomo è posto in comunicazione collo Spirito Santo per mezzo della sua volontà essenziale. Essendo aperta, mediante il battesimo, questa comunicazione dell' uomo col Verbo e collo Spirito Santo, ricevendo gli altri Sacramenti, e soprattutto quello della SS. Eucaristia, egli riceve dal corpo e dal sangue del Signore gl' influssi dello Spirito Santo che è carità, « Deus Charitas est (1), » e indi anche se li deriva. In qual maniera questi effetti avvengano egli è cosa segreta: tuttavia non crediamo aliena dalla dottrina cattolica, che sola è verità, la seguente conghiettura. La carne ed il sangue di Cristo, in cui si è convertita la sostanza del pane e del vino, è termine del principio senziente di Cristo. Ora, questa carne e questo sangue, nel modo che è nell' Eucaristia, può divenir termine altresì del principio senziente dell' uomo che lo riceve. La sostanza del pane e del vino ha cessato intieramente d' essere sostanza del pane e del vino, ed è divenuta vera carne e vero sangue di Cristo, quando Cristo la rese termine del suo principio senziente, e così la avvivò della sua vita, a quel modo come accade nella nutrizione, che il pane che si mangia e il vino che si beve, quand' è, nella sua parte nutritiva, assimilato alla nostra carne e al nostro sangue, egli è veramente transustanziato, e non è più, come prima, pane o vino, ma è veramente nostra carne e nostro sangue, perchè è divenuto termine del nostro principio sensitivo. Concependo in questa maniera la transustanziazione, noi possiamo più facilmente ravvisare e determinare qual sia il Corpo di Cristo eucaristico. Perocchè, quantunque Cristo abbia un solo Corpo, al presente glorioso, tuttavia, avvenuta la transustanziazione, si può intendere che al Corpo glorioso si sia aggiunto qualche parte in esso incorporata, ed indivisa e del pari gloriosa. E questa parte aggiunta, cioè la sostanza del pane e del vino transustanziata, che forma una cosa sola col Corpo di Cristo glorioso, come una porzione della nostra carne e del nostro sangue forma una cosa sola col nostro proprio corpo, si può intendere che sia quella che diventa termine comune al principio senziente di quell' uomo che in grazia di Dio riceve il cibo eucaristico. Ma qui prima di proceder oltre dobbiamo sciogliere alcune obbiezioni. La prima, che secondo una tale dichiarazione non ci avrebbe nell' Eucaristia tutto il Corpo di Cristo. A cui si risponde che appunto perchè il Corpo di Cristo è unico ed indiviso, egli è necessario dove si trova una parte si trovi tutto; ma che la distinzione della parte dal tutto non si fa che rispetto alla operazione spirituale ed interna nell' uomo che riceve bensì tutto quel Corpo, ma non tutto quel Corpo diviene termine del suo principio senziente, ma unicamente quella parte che risponde a quel tanto che v' aveva di sostanza di pane e di sostanza di vino nella transustanziazione. Ancora ne verrebbe che in virtù delle parole divine questa sostanza del pane e del vino si transustanziasse in carne e sangue del Salvatore; ma il rimanente del corpo e del sangue vi rimanesse unito per concomitanza, il che non par contrario alla dottrina cattolica, secondo la quale è bensì di fede che tutta la sostanza del pane e del vino si transustanzia, ma non che si transustanzia in tutto il Corpo e in tutto il Sangue glorioso di Cristo, secondo le parole del sacrosanto Concilio che definì: [...OMISSIS...] dove dicesi: [...OMISSIS...] ma non dicesi: « In totam substantiam corporis et sanguinis Christi ». Un' altra obbiezione si cava dalla Psicologia. In questa fu da noi detto che se due principii senzienti avessero lo stesso termine, essi s' immedesimerebbero e ne diverrebbe un solo. Ora, sarebbe un assurdo, contrario alla fede ortodossa, il dire che il principio senziente di Cristo e quello del fedele che si comunica in grazia diventi un solo principio. A cui si risponde, che l' immedesimazione de' principii non ha luogo se non quando il termine corporeo sia totalmente identico. Ma nel caso nostro la cosa non va così; perocchè il principio sensitivo del fedele che si comunica in grazia non ha di comune col principio sensitivo animatore di Cristo tutto il corpo di Cristo, ma solo quella parte che risponde alla sostanza del pane e del vino transustanziata; e neppur tutta questa, ma una parte di questa, corrispondente a quegli accidenti del pane e del vino che passano nella nutrizione del fedele, e non a quella parte di essi che corrompendosi, senza passare in nutrizione, cessano dall' essere velo al corpo e sangue di Cristo, e tornata la sostanza materiale passa questa dal corpo del fedele per altra via. Quella parte di carne e di sangue di Cristo, che rispondeva prima della transustanziazione alla sostanza del pane e del vino, contiene propriamente, se vere sono le conghietture sopra esposte, quella vita eucaristica, che non cessò mai in Cristo neppure nel tempo della sua morte avvenuta nel suo corpo naturale, come abbiamo di sopra accennato, e per cui fu esaudito, come dice S. Paolo, quando pregò d' essere campato dalla morte: onde l' Eucaristia si chiama pane vivo, e non fu giammai pane morto come fu morto il suo corpo naturale. E il pane ed il sangue eucaristico, che è detto « novi et aeterni testamenti (1), » è l' oggetto di un sacerdozio, che da S. Paolo si asserisce fatto « secondo la virtù di una vita insolubile »: [...OMISSIS...] Ora, se la vita eucaristica di Cristo, oggetto del sacerdozio, si fosse sciolta anche per poco tempo, non sembra che si potesse chiamar più vita insolubile . Sebbene adunque questa denominazione d' insolubile convenga ottimamente alla vita gloriosa acquistata da Cristo dopo la risurrezione, tuttavia più pienamente luce la verità di quella parola, interpretandola dell' insolubilità della vita eucaristica, perocchè Cristo esercitò il suo sacerdozio prima della sua morte nell' ultima cena, ed era costituito sacerdote secondo l' ordine di Melchisedecco, che offerì pane e vino già prima della sua risurrezione gloriosa, e però fin d' allora era costituito tale « secondo la virtù della vita insolubile ». Onde a tutta ragione S. Ignazio martire, discepolo degli apostoli, chiama l' Eucaristia « pharmacum immortalitatis (3), » e il Santo Concilio di Trento lo dice « « un ineffabile e al tutto divino beneficio quo mortis ejus victoria et triumphus repraesentatur »(4). » Continuandoci dunque al discorso precedente, se egli è vero che il principio senziente di quelli che ricevono tutto Cristo nella Santissima Eucaristia riceva per termine quella porzione del corpo e del sangue di Cristo che risponde alla sostanza del pane e del vino che era prima della transustanziazione, s' intende come questo Sacramento sia dai Padri e dai Concilii chiamato « Signum unitatis (5), » e certo non un segno inefficace ma un segno efficace, cioè operatore dell' unità ch' egli segna, come sono segni efficaci tutti i Sacramenti di Cristo; cioè operatori nell' uomo di quel che segnano. La quale unità è doppia, cioè de' fedeli con Cristo e de' fedeli fra loro. L' unità di chi riceve il corpo di Cristo con Cristo diviene somma ed al tutto ineffabile. Perocchè, quantunque non s' identifichi Cristo con lui, come abbiamo detto, tuttavia una porzione della vita sensitiva di Cristo s' identifica in certo modo con una porzione della vita del fedele che riceve Cristo, perocchè queste due vite hanno una porzione del loro termine corporale identica: Cristo ed il fedele sentono come porzione del proprio corpo lo stesso corpo eucaristico. Questo sentimento non accade in quelli che non hanno ricevuto il battesimo, i quali non sentono che gli accidenti del pane e del vino, rimanendo in essi il corpo e il sangue di Cristo inefficaci, cioè non comunicando Cristo loro quel termine corporeo, in quanto è termine della vita di esso Cristo, e perciò non avvenendo la comunicazione delle due vite, la parziale identificazione dei due sentimenti. E ciò perchè lo spirito di questi non ha ricevuto la virtù che li rende atti a comunicare collo Spirito di Cristo, perchè non sono congiunti a quel Verbo che produce nei battezzati tale virtù soprannaturale, che giunge a percepire quell' umanità di Cristo che sta sotto gli accidenti. Perocchè l' uomo da sè solo non potrebbe mai comunicare colla carne e col sangue vivente di Cristo, che sta nascosta sotto il velo degli accidenti del pane e del vino, soli accessibili naturalmente al senso dell' uomo; ma l' uomo battezzato è già congiunto con Cristo, e Cristo in lui e con lui comunica necessariamente colla propria carne e col proprio sangue, e così l' uomo insieme con Cristo. Ora, la vita sensitiva di Cristo è intimamente e individualmente congiunta colla sua vita intellettiva, e la persona del Verbo è congiunta con entrambi in modo, che l' umanità intera di Cristo appartiene in proprio alla persona del Verbo, e non ha altra persona se non questa che tutta la regga e governi, qual principio supremo dell' unico Cristo. Quindi l' uomo che partecipa nel modo detto della vita sensitiva di Cristo, partecipa nello stesso tempo della virtù e della divinità di tutto Cristo, il quale nei giusti emette il suo Spirito di Carità, onde tal Sacramento è chiamato giustamente il Sacramento dell' amore, « vinculum charitatis (1). » E come l' amore ha più gradi, ma il massimo è quello per il quale gli amanti s' uniscono sostanzialmente in quella più stretta guisa che la natura loro concede, e godono l' un dell' altro in questa unione, quasi con un indiviso sentimento; così egli è manifesto, che essendo sostanziale e reale l' unione del fedele con Cristo mediante l' Eucaristia, fino ad avere in parte uno stesso termine della vita, che è la massima unione che si possa concepire secondo la natura umana e la condizione della vita presente; quindi questo Sacramento, com' è il massimo pegno dell' amore di Cristo verso gli uomini, così contiene il più intimo atto d' amore fra l' uomo giusto e Cristo. E quell' amore non è puramente ideale e spirituale, ma reale, sostanziale, soprannaturale e vitalmente corporeo. Dove cade in acconcio di commemorare il canone del Sacro Concilio di Trento, che dice: « Si quis dixerit Christum, in Eucharistia exhibitum, spiritualiter tantum manducari, et non etiam sacramentaliter ac realiter, anathema sit (1). » E` dunque da distinguere fra non battezzati, i quali non ricevono, assumendo l' Eucaristia, nè il Sacramento, nè la cosa del Sacramento, dai battezzati, i quali ricevono il Sacramento, e, se sono in grazia di Dio, anche la cosa del Sacramento . I primi non comunicano che cogli accidenti secondo le leggi fisiche e naturali, ma i secondi comunicano con Cristo: ma in diverso modo quelli che sono in grazia, e quelli che sono in disgrazia di Dio. I battezzati, che non sono in grazia, hanno il Verbo nella loro mente, la quale appartiene alla loro persona umana, ma non la costituisce; e però dall' avere l' impressione del Verbo non sono santificati, perchè il Verbo che è in essi non manda lo Spirito Santo, ossia la grazia di questo, nella lor volontà, che costituisce la loro persona. Laonde il Verbo impresso nella loro mente si completa, quasi direi, colla carne e col sangue che essi ricevono quasi in essi incarnandosi; ma tutto ciò nell' ordine della mente e del sentimento in cui non giace la santificazione. Perocchè è da osservare che quantunque l' acqua battesimale operi gli effetti soprannaturali per virtù del contatto segreto dell' umanità di Cristo, tuttavia nel battesimo non viene comunicata all' uomo la stessa umanità di Cristo, la stessa carne, o lo stesso sangue vivente, ma solo la virtù che esce dal corpo del Salvatore, la qual virtù è atta a comunicare la percezione del Verbo, onde Cristo ebbe a dire a S. Filippo: « Philippe, qui videt me » (cioè la mia umanità in modo soprannaturale) « videt et Patrem (2), » cioè « vede me come Verbo, e in me conosce il Padre mio di cui sono l' imagine ». Laonde colla Eucaristia si completa nell' uomo la comunicazione di Cristo incominciata nel battesimo, aggiungendosi la carne ed il sangue, cioè l' umanità di Cristo al Verbo che risplendeva nella mente, e tutto ciò, se l' uomo ha una volontà peccatrice, non a sua salute, ma a sua condanna. Questo è il primo effetto della SS. Eucaristia. Ma se l' uomo battezzato è in grazia, il Verbo emette in lui lo Spirito Santo, col quale santifica la sua volontà, dove giace la personalità dell' uomo, e quindi rimane santificata la persona dell' uomo. Allora poi che quest' uomo, ricevendo l' Eucaristia, riceve l' umanità vivente di Cristo, e si completa in lui il Verbo incarnato, questo Verbo incarnato emette lo Spirito Santo nell' uomo, non solo come luce, immediata operazione del Verbo, ma ben anco, per mezzo del suo corpo santissimo, come luce e sentimento e gaudio corporale. Quindi lo Spirito Santo emana alla santificazione dell' uomo da tutto Cristo, sempre venendo mandato dal Verbo. Ma se il Verbo prima non illustrava col divino Spirito se non la suprema parte della volontà dell' uomo, cioè la facoltà del riconoscimento pratico e l' intelligenza ad esso ubbidiente; di poi la volontà umana ed inferiore di Cristo comunica lo Spirito Santo anche alla volontà inferiore dell' uomo e la corrobora a sottomettersi alla volontà superiore, e il sentimento ed istinto sensitivo di Cristo comunica dello Spirito Santo al sentimento ed istinto animale dell' uomo e lo tempera dal male e lo governa al bene, e le carni e il sangue di Cristo comunicano pure del Santo Spirito alle stesse carni ed allo stesso sangue dell' uomo, e rendono l' uomo casto, sicchè tutte le parti di Cristo operano in tutte le parti dell' uomo, e s' avvera da parte di Cristo quant' egli disse nella orazione al Padre che pronunciò prima di patire: « Pater, venit hora, clarifica Filium tuum, ut Filius tuus clarificet te, sicut dedisti ei potestatem omnis carnis, ut omne quod dedisti ei det eis vitam aeternam (1). » E da parte del fedele allora si possono dire appieno verificarsi le parole dell' Apostolo ai Filippesi: « Et pax Dei quae exsuperat omnem sensum custodiat corda vestra et intelligentias vestras in Christo Jesu (2), » e quelle: « Hoc enim sentite in vobis, quod et in Christo Jesu (3); » onde dal sentimento di Cristo a noi comunicato s' apprende la sua umiltà, che non possono insegnare le parole degli uomini, seguitando a dire S. Paolo: « qui, cum in forma Dei esset, non rapinam arbitratus est esse se aequalem Deo; sed semetipsum exinanivit formam servi accipiens in similitudinem hominum factus et habitu inventus ut homo (4), » perocchè veramente effetti speciali dell' Eucaristia, in chi degnamente la riceve, sono la castità e l' umiltà. E perciocchè lo Spirito Santo si comunica alla volontà dell' uomo, e sono a questa soggiogate l' altre potenze inferiori; perciò fra la volontà, costituita in istato soprannaturale di grazia, e lo Spirito Santo è aperta una comunicazione, per la quale l' uomo, cogli atti della sua volontà stessa, può derivare maggiore o minor copia del Santo Spirito, di che la quantità di grazia, che i giusti ricevono, come dagli altri sacramenti, così ancora da questo della SS. Eucaristia, è varia secondo la loro disposizione e cooperazione. Onde della stessa giustificazione che si riceve nel battesimo, « quod est sacramentum fidei sine qua nulli unquam contigit justificatio, » il Tridentino dice che l' unica causa formale è la giustizia di Dio, « qua nos justos facit - justitiam in nobis recipientes, unusquisque suam secundum mensuram, quam Spiritus Sanctus partitur singulis, prout vult, et secundum propriam cujusque dispositionem et cooperationem (1). » E posciachè, consacrato il pane ed il vino, anche prima dell' uso, dimora sempre sotto quegli accidenti tutto intero Cristo; quindi da lui possono derivare i fedeli, anche senza riceverlo realmente, delle grazie spirituali (emettendo egli in essi i doni del Santo Spirito) col solo adorarlo di presenza, e col desiderio e col voto di riceverlo sacramentalmente: il qual modo di partecipare si chiama comunione spirituale. Laonde il Tridentino dice dell' uso che fanno i fedeli dell' Eucaristia: [...OMISSIS...] Rimane perciò fermo che nella comunione spirituale non si riceve il corpo di Cristo nè realmente, nè sacramentalmente; ma che se ne derivano le grazie dello spirito, se ne raccoglie frutto, se ne esperimenta l' utilità. Ancora un' altra differenza fra la comunione sacramentale e la spirituale è questa: che nella prima Cristo stesso opera ne' giusti che l' hanno ricevuto l' emissione dei doni del suo Spirito ex opere operato, e così il primo va incontro all' anima colla divina sua operazione, la quale ne sentirebbe l' effetto quand' anche l' uomo non fosse in grado, per malattia o per sopore, di fare alcun atto d' affetto volontario, dopo aver ricevuto il corpo di Cristo; laddove nella comunione spirituale è l' anima che cogli atti della sua volontà deriva a sè le grazie del sacramentato Signore. E qui si osservi che, quantunque il corpo che noi abbiamo ricevuto da Adamo sia guasto e destinato alla morte, e buono solo a farne un sacrifizio al Signore, secondo l' Apostolo: [...OMISSIS...] tuttavia quell' ostia stessa, cioè il corpo dei cristiani, si dice « ostia vivente, e santa, e a Dio piacente », perchè dai sacramenti di Cristo anche il corpo riceve un' influenza santificatrice, ma specialmente dal sacramento eucaristico nel quale lo stesso corpo glorioso del Signore s' inserisce in parte nel corpo nostro e vi mette un elemento d' immortalità. Il perchè l' Apostolo chiama non solo i nostri spiriti, ma ben anco i nostri corpi membra di Cristo e templi dello Spirito Santo: onde deduce qual insulto si faccia a Cristo colla fornicazione violando le sue membra e il suo tempio: [...OMISSIS...] Di che conchiude: « Glorificate et portate Deum in corpore vestro (5). » Laonde S. Pietro chiama il suo proprio corpo « « un tabernacolo » (6), » dimostrando così, ch' esso era una custodia del Verbo e dello Spirito. E S. Paolo dalla stessa dottrina trae più altri precetti morali (giacchè, come abbiam detto, il principio di tutta la morale cristiana è l' inabitazione di noi in Cristo e di Cristo in noi). E primieramente insegna ai cristiani di non contrarre matrimonio cogli infedeli pel rispetto che debbono avere a' proprii corpi santificati dalla dimora in essi di Cristo: [...OMISSIS...] Dallo stesso principio deduce l' amore e il rispetto che i mariti debbono avere alle loro mogli: [...OMISSIS...] Deduce ancora l' obligazione che i Cristiani si astengano dal partecipare alle vittime immolate agli idoli. Perocchè dice: [...OMISSIS...] Ma, quantunque il corpo de' Cristiani guasto dalle conseguenze del peccato d' origine riceva qualche influenza dalla grazia di Cristo, e coll' eucaristia riceva altresì qualche parte che in lui s' inserisce del corpo di Cristo; tuttavia il corpo animale è destinato a perire, perchè non può essere senza di ciò intieramente rigenerato: e però quell' elemento occulto di vita che quaggiù riceve da' Sacramenti, ma soprattutto dal Sacramento Eucaristico, è oggetto di fede, anzichè di piena e manifesta esperienza, e un saggio e un pegno della futura risurrezione; onde dice S. Paolo: « Quod autem nunc vivo in carne, in fide vivo Filii Dei, qui dilexit me et tradidit semetipsum pro me (3). » Ora il pane eucaristico non è solamente un vincolo d' unione del fedele con Cristo, ma ben anco de' fedeli fra loro. E come l' unione del fedele comunicante con Cristo ha due modi, l' uno de' quali si fa immediatamente per Cristo, l' altro per lo Spirito Santo che diffonde nell' anime la carità che da Cristo procede; così parimenti una duplice unione de' fedeli fra loro trovano i fedeli che ricevono degnamente Gesù Cristo nella SS. Eucaristia. L' unione del fedele comunicante con Cristo che si fa immediatamente per Cristo è fondata in due ragioni. La prima, che tutti ricevono lo stesso Cristo tutto intero. La seconda, che ciascheduno converte in termine della propria vita quella quantità della carne e del sangue di Cristo che risponde alla quantità della sostanza del pane e del vino che era prima della transustanziazione. L' unione del fedele comunicante con Cristo, che si fa per mezzo dello Spirito Santo, nasce dall' emissione dello Spirito e de' suoi doni che fa Cristo al fedele in quella misura che Cristo vuole e in proporzione della disposizione e della cooperazione dello stesso fedele. Queste due maniere d' unione che si formano o si perfezionano col ricevimento del Sacramento eucaristico sono indicate da S. Paolo in quelle parole: « Unum corpus et unus spiritus, sicut vocati estis in una spe vocationis vestrae (1). » Col sacramento della fede, cioè col battesimo, gli uomini incominciano ad essere membra del corpo mistico di Cristo; ma coll' eucaristia si connettono vieppiù col corpo di Cristo perchè una porzione di questo corpo, indivisa dal tutto, s' inserisce in essi quasi porzione di loro proprio corpo, e così vi ha una continuazione più piena di essi con Cristo. Ma l' essere essi divenuti corpo di Cristo non giova alla loro salute, anzi grandemente loro pregiudica, se, trovandosi essi in istato di peccatori con volontà avversa a Cristo, non ricevono l' unione dello spirito. Che se la volontà non pone ostacolo, in tal caso lo Spirito di Cristo in essi si diffonde, ed allora giova loro senza fine l' essere un corpo con Cristo, col quale diventano in pari tempo, per così dire, uno spirito. Per ciò adunque che riguarda l' Eucaristia, l' unione che forma di essi un corpo solo con Cristo (il qual corpo, sebbene reale, si dice mistico, che vuol dire occulto, perchè in questa vita non si vede ed è oggetto di fede) nasce dal divenire propria carne e proprio sangue del fedele quella porzione della carne e del sangue di Cristo che risponde alla sostanza del pane e del vino che era prima della consacrazione. E questo si fa in modo occulto, perchè il fedele non s' accorge che in lui rimanga una parte della carne e del sangue di Cristo, rimanendo questo velato sotto gli altrui accidenti, come rimane velato tutto il corpo reale di Cristo indiviso da quella piccola parte. Sicchè il corpo di Cristo rispetto al fedele non opera che spiritualmente, perocchè Cristo tutto intero nel suo corpo o condanna il fedele se in consapevole peccato, ovvero lo santifica comunicandogli lo spirito di santità. Ma ciò non toglie che rispetto a Cristo, questi non sia inserito nel fedele in parte col suo proprio corpo reale nel modo di essere eucaristico: e che un giorno, cioè dopo la vita presente, non si manifesti. Cristo adunque da parte sua tiene tutti i fedeli che si comunicano uniti al proprio corpo reale, quasi con altrettante funicelle, colle diverse porzioni del pane eucaristico che loro divide. Onde questa parola di dividere o frangere il pane sì di spesso ripetuta nelle scritture parlanti di questo sublime mistero. [...OMISSIS...] E nella moltiplicazione dei pani, in figura del sacramento eucaristico: [...OMISSIS...] E del pari nella seconda moltiplicazione dei pani: [...OMISSIS...] E la medesima espressione scrupolosamente inseriscono nella loro narrazione S. Marco (6) e S. Luca (7). Anche negli Atti Apostolici, facendosi uso della stessa parola solenne, vi si dice: « fragentes circa domos panem (.), » luogo che i sacri interpreti intesero dell' Eucaristia. Nella Liturgia Ambrosiana in quell' atto che il sacerdote spezza l' ostia dice: frangitur corpus Christi: la quale espressione, acciocchè non contenga errore, deve intendersi come la dichiarò il Sassi nella sua Dissertazione. Il corpo di Cristo adunque non può dividersi, ma niente vieta che una parte del corpo di Cristo nel suo essere eucaristico sia legata più strettamente delle altre col corpo del fedele che si comunica; e questa parte, che più strettamente si lega col corpo di un fedele, sia diversa da quella parte con cui più strettamente si lega il corpo di un altro fedele; e queste diverse parti, ciascuna delle quali è destinata alla nutrizione spirituale di un fedele rimanendo indivisa dall' intero corpo di Cristo, sieno corrispondenti a quella quantità della sostanza del pane che vi avea in ciascuna ostia prima della consacrazione: le quali parti si raffigurano in que' grani di frumento sparsi dal seminatore e cadenti altri sulla pubblica via, altri sulla pietra, altri fra le spine, ed altri finalmente sul buon terreno (1), giacchè Cristo altrove si chiama appunto grano di frumento (2). Tutti adunque i fedeli mediante l' Eucaristia s' attengono al corpo di Cristo e formano un sol corpo mistico e tuttavia reale con esso lui. Quindi sono altresì uniti strettamente fra sè, come le membra d' un solo corpo, che quantunque distinte non sono divise: [...OMISSIS...] Laonde, giusta l' esposta sentenza, la diversità delle membra del corpo mistico di Cristo troverebbe altresì un fondamento nella diversità di quella porzione eucaristica che ricevono, e che in ciascuno frutta diversamente secondo il terreno o secondo la qualità della pianta in cui viene innestata. L' unione poi dei fedeli fra loro, l' unione, dirò così, misticamente corporea, risulta dal partecipare tutti come cibo e nutrizione di una parte appartenente allo stesso corpo, e dal ricevere colla detta parte l' intero e identico corpo di Cristo in se medesimi, il quale non può separarsi da quella parte che ciascuno in modo più speciale si appropria. Ma soltanto l' unione che nasce dallo Spirito Santo è quella che unisce non la sola natura dell' uomo con Cristo, la quale s' unisce per la sopradescritta unione corporale, ma lo stesso uomo, la stessa persona dell' uomo: e che unisce in un solo spirito tutte le persone dei fedeli fra loro, perocchè dice San Paolo: « qui autem adhaeret Domino, unus spiritus est (4). » Questa unione spirituale che procede dalla corporale, come lo Spirito di Cristo procede da Cristo, fu quella che Gesù Cristo domandò al Padre nella sublime orazione che fece nel cenacolo: [...OMISSIS...] Cristo dunque, l' identico Cristo è ugualmente tutto in tutti, e tutte le parti di Cristo comunicano della loro virtù a tutte le parti dell' uomo, di che fu figura la maniera usata da Eliseo a risuscitare il figlio della Sunamitide. Perocchè narra la Scrittura: [...OMISSIS...] Essendo dunque il medesimo Cristo in tutti, tutti hanno, per lo Spirito Santo che in essi si diffonde, e sanno d' avere un solo ed identico bene infinito, tutti una sola vita immortale, quella che partecipano da questo bene che possedono cioè da Cristo, tutti un solo amore, una sola volontà. Onde de' primi fedeli si legge: « Multitudinis autem credentium erat cor unum et anima una (3). » Di che proveniva che, come avevano in comune Cristo che era l' unico loro bene, così volessero avere in comune anche l' altre cose che non reputavano beni se non in ordine a Cristo: [...OMISSIS...] E descrivendo questa unanimità e comunità di beni si fa dagli Atti Apostolici speciale menzione dell' Eucaristia, che n' era il fonte e la più efficace cagione, perchè si dice [...OMISSIS...] L' esemplare di questa unione che Cristo desiderava nei suoi fedeli era l' unione ch' egli aveva col Padre suo: ut sint unum sicut et nos . Il Verbo divino col suo Padre è unito colla natura che è identica nell' uno e nell' altro, ma è distinto quanto alla personalità. Così ne' fedeli deve restar distinta la personalità di ciascuno, ma debbono comunicare fra loro nella natura. Gli uomini, prescindendo dalla grazia, convengono nella medesima specifica natura, quindi la loro medesimezza appartiene al solo ordine ideale ed oggettivo, ond' essi, avendo il modo di essere soggettivo, non conseguono da questo di essere veramente unificati nè quanto alla persona, nè quanto alla natura. Ma il Verbo divino è oggetto non solo ideale, ma reale; onde il suo operare (in quanto trapassa l' ordine della natura e tende a perfezionarla compiendo le sue lacune e limitazioni senza distruggerla), è sempre perfetto e compiuto, e però vòlto a realizzare l' oggetto anche rispetto alle nature soggettive. E perocchè in tutti gli enti il principio ritrae la determinazione e l' attività sua dal termine immanente con cui è legato per sintesi ontologica, e il termine del principio intellettivo è l' oggetto; perciò il Verbo manifestandosi alle intelligenze le unifica anche realmente: perocchè, in quanto hanno per termine lo stesso Verbo, il principio intelligente che le costituisce soggettivamente viene determinato ed attuato nello stesso modo, e s' identifica non totalmente, ma in quanto ha quell' oggetto reale comune. In quanto poi il Verbo si manifesta diversamente e con diversi gradi di luce alle intelligenze finite, in tanto esse si distinguono fra loro. E nel battesimo già si dà questa segreta comunicazione del Verbo, e questa parziale identificazione, della quale S. Paolo scrive: « Unus Dominus, una fides, unum baptisma (1). » Ma Cristo non era solo Dio, ma anche uomo, in modo però che la personalità di quest' uomo risiedeva nel Verbo di Dio, onde il Verbo di Dio come persona reggeva l' umanità quasi potenza inferiore. Quindi anche l' umanità riceveva dal Verbo il divino istinto di unificare realmente gli uomini, ne' quali amava la similitudine della natura; e questo l' ottenne coll' istituzione del Sacramento eucaristico, nel quale tutti gli uomini acquistano per termine della loro vita sensitiva una porzione del corpo di Cristo indivisa dall' intero corpo, e quindi anche il principio sensitivo, base della natura umana, ha una identificazione parziale di natura, rimanendo distinte le persone. Onde aveva ben ragione Isaia di cantare predicendo le opere del Salvatore: « « Haurietis aquas in gaudio de fontibus Salvatoris, et dicetis in die illa: Confitemini Domino et invocate nomen ejus: notas facite in populis adinventiones ejus. - Exulta et lauda habitatio Sion: quia magnus in medio tui Sanctus Isra‰l »(2). » Dall' essere Cristo connesso coll' uomo, e l' uomo inserito in Cristo come tralcio nella vite ne' modi sopraddetti, ne viene che l' uomo sia connesso altresì coll' eterno Padre, nel seno del quale è il Figliuolo, e che è pure nel Figliuolo. [...OMISSIS...] Quindi la società dell' uomo con Cristo ordinata dal Padre, di cui dice l' Apostolo: « Fidelis Deus, per quem vocati estis in societatem Filii ejus Jesu Christi Domini nostri (3), » è società ad un tempo col Padre stesso, come insegna S. Giovanni: [...OMISSIS...] E si osservi quanto qui è proprio il vocabolo di società, la quale esige che più persone abbiano un bene posto in comune. Ora i fedeli con Dio e fra sè hanno in comune, e in comune godono il loro bene che è appunto Cristo, e il suo Corpo santissimo, ed il suo Spirito. E venendo a parlare dello Spirito che emette Cristo in quelli ne' quali egli dimora, primieramente diremo che questo è Spirito di vita soggettiva . Perocchè nell' essere senziente ed intelligente, considerando com' egli è ontologicamente costruito, si distinguono due estremi, il principio ed il termine . E benchè il principio (che è propriamente il soggetto) non sia senza il termine, tuttavia, posto ch' egli esista, ha un' attività sua propria colla quale può più o meno aderire al termine. Il che si scorge massimamente nelle creature intelligenti e libere, di cui l' atto soggettivo, che può essere di maggiore o minore intensità, è l' adesione dell' amore. Laonde, quantunque non si può dare l' atto soggettivo dell' amore se manchi l' oggetto cui amare, secondo l' adagio voluntas non fertur in ignotum; tuttavia, quando vi ha l' oggetto, questo può essere più o meno amato dal soggetto. Nell' ordine della vita soprannaturale, di cui parliamo, l' oggetto immediato è sempre Cristo. Ora l' atto soggettivo, col quale si ama Cristo conosciuto, è mosso dallo Spirito Santo. Questo Spirito è mandato dall' oggetto stesso, cioè da Cristo. Cristo adunque è l' autore immediato della vita oggettiva, fonte della soggettiva. Della vita oggettiva disse Cristo: « Haec est autem vita aeterna: ut cognoscant te, solum Deum verum, et quem misisti Jesum Christum (1), » e questa vita si dice oggettiva, non perchè non sia anch' essa un atto del soggetto (nel qual senso ogni vita è soggettiva), ma perchè è determinata necessariamente dalla sola percezione immanente e primitiva dell' oggetto, ove non vi ponga ostacolo la volontà che può rifiutarla, il quale oggetto Cristo ha lo Spirito Santo in se medesimo. Della vita soggettiva, opera speciale dello Spirito Santo, Cristo disse: « Et notum feci eis nomen tuum, et notum faciam » (mandando il Santo Spirito personalmente); « ut dilectio, qua dilexisti me, in ipsis sit, et ego in ipsis (2). » Nell' una e nell' altra vita opera lo Spirito Santo, che perciò si chiama « Spiritus vitae (3), » in quanto entrambe sono soggettive, atto del soggetto; ma nella prima lo Spirito opera inizialmente e quasi potenzialmente (con che vogliam dire che al sentimento dell' uomo lo Spirito non si manifesta come persona, ma in forma di doni semplicemente, e non distinto da Cristo). L' effetto dello Spirito Santo è di aggiungere forza all' attività soggettiva soprannaturale in modo che conosca più vivamente e perfettamente Cristo e le sue parole, e più grandemente ed efficacemente lo ami. Il Verbo si rimane distinto dal soggetto uomo in cui dimora per quella differenza che v' ha fra l' oggetto e il soggetto, la quale è categorica; lo Spirito Santo si rimane distinto solo come il creante e il creato, il movente e il mosso. Il soggetto mosso, nel nostro caso, sente la mozione, sente che vi ha in sè quello che non era prima, sente la carità, possiede le azioni sante; ma non iscorge per questo alcun oggetto nuovo, perchè lo Spirito non ha la forma oggettiva propria del Verbo. Onde Cristo disse: « Spiritus ubi vult spirat, et vocem ejus audis, sed nescis unde veniat aut quo vadat: sic est omnis qui natus est ex spiritu (4). » E S. Paolo distingue la mente dell' uomo, la quale ha l' oggetto per forma, dallo spirito che è a foggia d' istinto senza oggetto nuovo e suo proprio, onde dice: [...OMISSIS...] Ed altrove dice che lo Spirito prega nell' uomo, e dimanda quel che deve dimandare, quando l' uomo stesso non sa che cosa debba dimandare siccome si conviene (1). Lo Spirito si unisce dunque, e in certa maniera si mescola col soggetto che egli santifica, operando in lui in modo che il soggetto è insieme quello che opera. Onde Cristo attribuisce allo Spirito l' uomo nuovo, l' uomo nato alla santità; il qual uomo perciò si dice divenuto uno spirito con Dio: [...OMISSIS...] E S. Paolo: « Qui autem adhaeret Domino, unus spiritus est (3). » Onde lo stesso Apostolo dice, che lo Spirito in noi prega quando noi preghiamo: [...OMISSIS...] Ma, oltrechè lo Spirito viene dato « secundum mensuram donationis Christi (5), » come s' esprimono le Scritture, rimane sempre distinta la consapevolezza divina dello Spirito, dalla consapevolezza umana dell' uomo, nel quale lo Spirito si manifesta. E così pure si distingue la giustizia di Dio, « qua ipse justus est », dalla giustizia di Dio « qua nos justos facit (6); » perocchè, benchè sia una la giustizia e la santità ed identica, tuttavia sono diversi i soggetti che la partecipano o la possiedono, e n' hanno il sentimento o la consapevolezza. Come adunque Cristo unifica la natura umana, così il suo Santo Spirito unifica le persone umane nella più intima società ..........

Scritti vari di metodo e pedagogia

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Sono ne' nostri tempi due maniere di uomini egualmente bene intenzionati ed egualmente pieni d' amore dell' umanità, che rivolgendo i loro sguardi a questo spettacolo morale che il presente stato del mondo ci somministra, rimangono colpiti da affetti non pur diversi ma interamente contrarii; e mentre gli uni si ritraggono da quello spaventati, quasi da una scena di orrore che non possono sostenere, gli altri non finiscono di rimirarlo quale prospetto abbellito delle più ridenti imagini o più fecondo almeno di speranze inesauribili. I primi declamano in guisa di profeti che annunziano sventura; ed i secondi, incapaci di presentare alle menti degli uomini nè pur un' idea un po' funesta che li conturbi, imitano senza avvedersene la favolosa voce delle sirene, ed addormentano gl' infelici che varcano un immenso Oceano aperto ad ingoiarli, e che forse fra brevi istanti, immersi in un sopore profondo, debbono esser pasto de' mostri che nel suo seno egli alimenta. E come adunque uno spettacolo stesso può eccitare sentimenti e destare affetti così contrari in uomini che sono pure animati da uno stesso spirito, che ravvolgono gli stessi pensieri e partecipano agli stessi desideri? o si dovrà puramente attribuire tanta differenza nel giudicare ad un errore degli uni, o degli altri inconcepibile? Non già; chè chi è fornito de' medesimi sensi non può vedere le cose stesse dipinte di colori diversi; e se colui che ha lo sguardo più perfetto percepisce con più vivezza lo stesso colore, anche l' altro lo percepisce, e senza differire nella qualità del colore, differiscon nel grado, giacchè l' organo è formato in tutti sul tipo stesso, e v' ha la stessa disposizione ne' riguardanti. Laonde egli sembra più tosto che lo spettacolo cui l' uman genere presenta nei nostri tempi, abbia in sè qualche cosa che il renda quasi di due viste diverse, e simile, per così dire, ad un colore cangiante che si mostra mutato al solo mutare dell' angolo della luce sotto cui si riguarda. E duplice veramente si può dire che sia lo stato presente dell' universo morale. Egli riviene pur ora da un atroce combattimento nel quale se le schiere della virtù hanno portato pieno trionfo, egli fu però atroce e sanguinoso; ed il suo aspetto è simile ad uno spaventevole campo di battaglia sul quale i gridi della vittoria s' innalzino in mezzo ai monti di cadaveri ed ai fiumi di sangue, e le lagrime della gioia de' vincitori si mescolino a quelle che loro spreme una compassione involontaria ed un sentimento irresistibile di fratellanza coi periti. I vincitori stessi pur troppo si ritrovano indeboliti dal combattimento, e le loro file non sono piene: e solo dai secoli aspettar si può ai mali della guerra sostenuta un rimedio, se pur sapranno raccogliere i successori il frutto della vittoria. Avvi ragione adunque da spargere lacrime di dolore; ed insieme di educare in mezzo ad esse il ramoscello d' olivo che seminato da' travagli e dalla costanza de' presenti, cresce occulto alla pace degli avvenire, e rallegra il pensiero di quelli che rifuggendo dalle presenti sciagure, si protendono coll' animo loro, fatto a letizia, alle più ampie speranze del futuro, e par loro di vedere già sereno il cielo perchè s' accorgono del molto allentare della tempesta. Ma egli pare che il conflitto che fa il vizio colla virtù non sia che più terribile quando questo combatte, quasi direi, per disperazione; e che la divina provvidenza permetta le più gravi scosse perchè gli uomini animati dal pericolo abbiano finalmente il coraggio di sradicare quelle ultime radici dell' errore e del vizio che si conserverebbero altramente a lungo, od inosservate od anco amate dalle abitudini, o tutelate finalmente dai pregiudizi sempre pronti a trovare il modo di fare l' apologia de' vizi, e ad alimentare la speranza ingannevole di farli sussistere insieme e quasi di consociarli colla virtù. E` alla umana virtù pur troppo che la gramigna dell' errore e del vizio si abbarbica e si ristringe con avvolgimenti e ritorte infinite per essere con essa conservata: ed è sola la provvidenza quella che la conserva, prima perchè lo stesso ceppo della virtù non si schianti, e poi perchè la virtù stessa sia scossa e presso che ad essere sradicata perisca quel vizio tenace che sempre più ingrossando e serpeggiando l' avrebbe già isterilita e miseramente distrutta. Così nelle vie tanto superiori all' umane degli eterni consigli, egli è colla empietà de' suoi nemici che Dio purifica i suoi eletti dalle superstizioni, rivolgendo in tal modo il furore degli empi a rendere più pura e più splendida la divina sua religione; come è colle loro persecuzioni ch' egli purifica la sua Chiesa dagli affetti terreni, e che le fa conoscere d' una scienza viva e sperimentale ch' essa non è fabbricata sopra nessuna delle cose umane, ma sulla sola virtù della sua divina parola. Egli è per questo che non mai sì bella e sì fresca si mostra la sposa di Gesù Cristo che allorquando ella rialza il capo da una lunga oppressione; ed allora pare simile a quell' atmosfera che tutta lavata dai vapori viene irraggiata dal sole dopo una pioggia fecondatrice. Impotenti sforzi dei mortali contro l' Eterno! Egli nella creazione dell' universo si è prefisso un fine così vasto, così completo che per ottenerlo avea bisogno appunto anche di quelli stessi sforzi ben preveduti ch' avrebbero fatto gli uomini contro di lui! Così tutti, non esclusi nè pure gli empi, lavorano assiduamente a fabbricare la stessa casa. Legato l' ordine sociale all' ordine religioso non si poteva distruggere questo senza scavare i fondamenti anche di quello; ed il genio del male che vuole render l' uomo infelice nella sua coscienza, non può sostenere a lungo di vederlo felice nè pure nell' esterna sua vita: la quiete è per lui un tormento, come è all' odio un tormento la felicità! Così non so qual furore mena uomini che hanno abbandonato la religione per una via angustiosa a trovare tutto quel castigo che essi si possono dare dentro ai confini della vita presente, nello scompiglio dell' ordine sociale non meno che dell' ordine familiare. Egli succede allora quel discioglimento universale di tutti i legami che stringono gli uomini fra di loro, che noi veggiamo nella presente società; e l' uomo privo di tutte le affezioni e di tutte le abitudini si trova solo in mezzo agli uomini. Ma ridotti così gli uomini a non esistere che come individui sciolti da tutti i legami, e privi di tutti i punti d' appoggio, su' quali poteva riposare il loro cuore; eglino sentono tutta intera la forza di quella gravitazione che hanno verso Dio, verso questo centro delle intelligenze, e non possono a lungo stare in questo stato senza abbandonarvisi, come non può il corpo essere sostenuto a lungo da un turbine violento nel mezzo dell' aria senza cadere (1). Egli è poi questa mancanza di ogni sostegno in cui si ritrova il cuore umano dopo ch' egli fu isolato dalle sue antiche affezioni sociali e domestiche, che mi spiega questo bisogno universale di religione, che avventuratamente si fa sentire ai nostri tempi a pruove sì manifeste. L' ordine religioso è legato all' ordine sociale, ma non ai vizi della società. Ma come poche sono le persone di tanta penetrazione che sappiano distinguere questi da quello; non debbe riuscire maraviglioso, che un gran numero di loro, che desideravano tolti i vizi della società, si trovassero nelle schiere inimiche, e combattessero contro l' ordine sociale ad un tempo e contro l' ordine religioso. Essi si trovarono in sull' arme contro l' ordine sociale credendo di combattere i suoi vizi; e contro la religione stessa senza conoscere che questa non era punto la loro inimica. Tale sciagura toccò a' cristiani trascurati nello studiare intimamente la loro divina religione, ch' essi presero in fallo, avvisandosi sciaguratamente che ad essa appartenessero i mancamenti degli uomini. Ed egli fu il gran numero di cotesti, male istruiti e per ignoranza traviati figliuoli della Chiesa, che ingrossò le colonne de' nostri nemici, ed esse ci apparvero sì formidabili: quelli per altro ignoranti insieme ed ingannati non hanno giammai estinto interamente il fuoco religioso ne' loro cuori, perchè non vi hanno giammai estinto il germe della giustizia che è quello stesso della religione: e la maggior parte di essi resi poscia accorti dai successi delle cose abbandonarono le ingannatrici bandiere sotto le quali combattevano, e un' altra parte sembra pronta a lasciarle tosto che si tolga dalle menti illuse qualche errore di fatto, anzi che la empietà dai cuori non pervertiti, dove essa fu sempre impotente a stabilirvi il suo impero. Sciagurati que' pochi che datisi in preda al partito della menzogna, credendo da principio di trovarvi la verità, rimasero vittima della loro poca fede e precipitarono in quel fondo di perdizione, onde par loro impossibile rilevarsi! D' altra parte l' errore non istà che alla superficie dell' uomo; la verità sola penetra l' intimo del suo spirito. Questa verità che, spuntata maestosa come il sole sopra la terra insieme col cristianesimo, ne cacciò l' errore che non si potè sostenere alla virtù de' suoi raggi divini; questa verità che risplendette sull' uman genere per lo spazio di diciotto secoli sempre facendo progressi dentro alle vaste regioni dello spirito umano, senza che nessuna forza potesse allentare il fatale suo corso; questa verità che si mescolò per così dire colla coscienza stessa dell' uomo, che divenne una porzione della sua essenza, ed il primo elemento della sua vita; questa verità che le umane generazioni oggimai si trasfondono in uno colla natura dalla quale pare indivisibile; questa verità finalmente che penetrò l' uomo fino al suo fondo, che giunse a collocarsi al suo centro come gran base della sua esistenza e come punto intorno a cui l' universo, che l' uomo porta con se medesimo, si rivolga; questa verità insomma che è salda più che il firmamento e che esce dal grembo della eternità; sarà essa subitamente spenta nell' uman genere per l' opera infernale di pochi lustri tenebrosi? E no; ch' essa vive immortale anche dove ne sono scancellate dall' errore le sue sembianze: e mentre questo ha creduto d' occupare il seggio di quella nel cuore degli uomini, egli non ha fatto che togliere le sue imagini esteriori ond' abbelliva, per così esprimermi, la superficie dell' umanità, e rendeva visibile al di fuori la sua bellezza divina; ed il vizio, grazie all' Altissimo, non è forse ancora che un legger fango che cuopre al di sotto l' ottimo colore dell' oro incorruttibile. E sono forse pochi o dubbiosi i segni di vita che nei nostri tempi materiali ha dato ancora la pietà dal suo ritiro profondo nel cuore degli uomini? Non ha la Chiesa di Gesù Cristo abbracciato e stretti al suo seno tanti figliuoli traviati, che rattemperarono i suoi dolori? non hanno rivolti a lei gli sguardi della speranza tanti infelici? E quelli che rimanevano per tanto tempo da lei divisi, e che avevano da' loro stessi padri ricevuto l' infelice retaggio di tanta divisione, non hanno sentito negli estremi pericoli della loro virtù il bisogno della loro madre sempre tenera e sempre sospirosa sopra di loro? Duro è all' umana natura sentirsi strappare tanto dalla virtù, che non si possa oggimai più ingannare sulla sua perdita e ch' ella debba confessare a se stessa, senza escusazione veruna, di non esser più virtuosa. Così si discioglie il protestantismo da se medesimo, come perisce il naufrago gittato dall' onde sopra una spiaggia disabitata; e l' incredulo da lui generato torna indietro come fanciullo piangente smarrito in una immensa foresta per essersi allontanato dalla sua madre. E che conforto di letizia non debbe aver portato al capo della Chiesa di Gesù Cristo il vedere che quando innalzando la sua voce di pace e di universale benevolenza proclamò agli uomini inaspriti tuttavia dalle recenti fazioni, e ancor ringhiosi sui beni caduchi di questa terra, universale perdono dal cielo, a condizione di universale perdono fra loro e di scambievole compatimento in nome del comun Redentore, trovò mille schiere che risposero alla sua voce colle lor voci di compunzione e di ravvedimento, ed il mistico corpo di Cristo, la cui prima legge è d' avere un cuor solo ed un' anima sola, si rinforzò di santi proponimenti, si rabbellì di nuove grazie e di nuove virtù? Nessuno forse avrebbe preveduto il frutto raccolto dal Giubileo pubblicato da Leone XII, se fino l' estremo oriente non si fosse mosso a darne dei segni, e la capitale del protestantismo non avesse solennizzato il grido di pace e di riconciliazione. Finalmente qual sintomo di vita più manifesto che questi uomini che si sollevano improvvisamente su tutto ciò che pensa e che opera sulla terra; che si francano da tutti i pregiudizi e quasi non fossero mai stati al contatto per così dire de' loro simili sembrano abitatori di regioni più pure e più innocenti: di questi uomini che accusano qualche cosa in se stessi che gli sforza di alzar la voce, e di chiamare in giudizio il lor secolo; di questi uomini che con una parola resa potente dal zelo de' primi tempi della Chiesa ci atterriscono, senza avvilirci, e ci annunziano, come dicevo, l' ira del cielo sopravveniente, insegnandoci ad un tempo la via di declinarne lo scoppio! E è certamente l' educazione delle venienti generazioni uno di que' preziosi mezzi che possono mettere il mondo al coperto dalle estreme sciagure, e fargli acquistare un aspetto meno odioso, per così dire, agli occhi dell' Onnipotente: è l' educazione quella che può cogliere i frutti della vittoria e riparare le devastazioni della guerra: quella che può ridurre di bel nuovo all' aperta luce la timida virtù rinserrata ne' cuori, e restituire ad essa l' imperio intero del mondo sì visibile che invisibile: è l' educazione quella di cui si contesta il bisogno da tutti, e si sente nella stessa misura che quello della religione: quella che si domanda ai pastori de' popoli, e che i sapienti che trattano la causa degli uomini sollecitano qual mezzo di salute, acciocch' egli non giunga forse troppo tardi, e quando già il male sia divenuto irreparabile. Ma egli parmi che, quanto è vantaggioso che si senta altamente l' importanza delle salutari istituzioni, altrettanto è necessario che venga indicata la maniera di eseguirle, o almeno che ne sieno disegnate le basi su cui se n' eriga con solidità l' edificio; conciossiachè una fabbrica fatta a caso rovina, o è disagiata, od inopportuna. Ed è tanta la scarsezza di questo sapere il modo di ben eseguire, che talora sembra fino che con soverchia severità sia sgridato il genere umano dai più ardenti zelatori della virtù e della religione, perch' egli non faccia tant' opere salutari e necessarie. Non è egli tanto che non voglia fare, ma è più tosto ch' egli non sa: egli è sì poco operoso perchè nell' esecuzione dell' opere gli si contrappongono tali ostacoli, che fanno assai ben conoscere come per ottenere alcun fine non basta averlo semplicemente affissato coll' occhio, se non si ha posto altresì attenzione e diligenza ne' mezzi; è perchè egli è stordito da una moltitudine di ragionamenti veri e falsi, generosi e vili, religiosi ed ipocriti, filosofici ed empi, che il confondono ed il lasciano indeterminato, ed istupidito. Il che tutto interviene nelle istituzioni sociali a' dì nostri, dove le opinioni ed i pregiudicii fanno insieme una lotta incessante, e l' affrontamento di circostanze imprevedute rende inutile, o dannoso fors' anche per gli effetti accessorii che produce sull' uomo, ciò che utilissimo pur dovrebb' essere ed è, considerato solo l' effetto suo principale, o per dir meglio l' effetto preso direttamente di mira dalla istituzione. E tuttavia gli effetti nocevoli, che quasi indirettamente escono dalle accessorie parti di una ben intenzionata istituzione sociale, non debbono produrre nell' animo smarrimento; nè l' istituzione per questo debbesi riprovare, o traviar dal diritto suo fine. E` solo l' opera del savio, guidata dalla esperienza de' tempi, quella che debbe occuparsi nell' ordinar meglio quelle parti accessorie che essendo poco avvedutamente ideate, e trascurate nel disegno generale, generano i mali effetti. L' intenzione all' incontro di tutta l' opera, ed il fine suo debbe ritenersi in tutta la sua purezza, e perfetta eccellenza, nè debbesi transigere colla umana corruzione. Egli anzi diventa necessario in tal caso di fissar bene ciò che ha di ottimo e perciò d' immutabile l' istituzione; perchè questo solo, ma questo interamente si conservi; e le riforme non cadano che sul rimanente. Ed ella è questa l' idea che mi conduce a sviluppare in questo saggio la prima legge, e secondo il mio avviso immutabile della Educazione: la quale perciò in tutte quelle istituzioni sociali che alla educazione debbon servire sempre è necessario di ritenere: mutando solo le altre parti: e questa si è l' unità della medesima. Dopo che fu detto che l' educazione dell' uman genere debb' essere accompagnata dalla Religione, bisogna dire ancora ch' ella debbe essere una e coerente con se medesima. Questa massima sola è quella che mette sulla via ad ottenere quella prima, cioè che l' educazione sia religiosa. Tutti proclamano questa sì luminosa e suprema verità, perchè addita lo scopo a cui si debbono rivolgere le sollecitudini di quelli che hanno il potere di ordinare l' umana educazione, ma non la determinarono abbastanza perchè sia al tutto facile l' eseguirla: nessuno all' incontro predica questa seconda dell' unità che pure fa un passo innanzi e ci porta sulla strada per eseguir quella prima; conciossiachè questa dimostra il modo onde quello scopo ottener si debba: modo che lasciato all' arbitrio varia in tanti modi quanti sono gli educatori; e mentre tutti credono d' ottenerlo nessuno l' arriva per freddezza, o per poco savio ardore di conseguirlo il trapassa. Egli è per questa funesta esperienza, la quale dimostra come gli uomini durano fatica ad ottenere lo scopo che si propongono perchè non sanno il modo di ottenerlo, chè la moltitudine de' superficiali si scandolezza ed attribuisce al fine propostosi il difetto che non è cagionato se non dall' ignoranza dei mezzi. Quindi si dividono in vari partiti gli uomini; e gli uni escludono quasi la religione dall' educazione, perchè ad essa attribuiscono i mali di cui non sono cagione che quegl' imperiti che nell' educazione non seppero bene introdurla: altri all' opposto, retti e costanti nel desiderio del bene, la religione non abbandonano giammai: ma in quella vece troppo confidenti nei mezzi di conformare ad essa l' educazione, non si danno grande briga di questi; e pigliano quelli che trovano i primi, talor anche malamente concepiti, cui per rispetto al fine a che intendono s' assuefanno a riguardare come religiosi e rispettabili; mentr' essi non hanno forse di religioso e di rispettabile che l' ottima intenzione de' loro inventori; e in questa loro opinione fermissimi, sono pronti di sacrificare con animo a dir vero generoso, ma d' una generosità agli umani bisogni meno che non si vorrebbe opportuna, tutti gli altri vantaggi umani, che per la povertà appunto di que' mezzi, vengono irragionevolmente perduti. Or egli adunque è tempo di porre diligenza e studio a rinvenire questi mezzi in un modo sapiente senza abbandonare quel fine, che certamente, quando anche non fosse possibile conseguirlo altro che col sacrificio del tutto, sarebbe un guadagno inestimabile, come guadagno inestimabile è ottenere quanto solo è bene. Sì; della necessità della religione l' uman genere è persuaso: egli n' è persuaso ad un segno che n' è smanioso ed irrequieto pel bisogno ch' egli ne sente. Non ci chiede adunque che ci affaccendiamo a persuaderlo che sia bene ciò, di che tutte le sue stesse agitazioni lo dimostra impaziente; dimanda che gl' insegniamo un modo saggio di soddisfare a questo bisogno; un modo che non esiga da lui un sacrificio superiore alla sua debilezza e non necessario; un modo che riconcilii la religione con tutto ciò ch' essa non condanna; un modo finalmente, mediante il quale accanto alla religione fiorisca quanto può rendere ampiamente benevola la società degli uomini, e quanto può donare al maggior numero di questi una vita men disgustosa, e può sciogliere gl' ingegni a deliziarsi per i giardini vastissimi della verità, nel tempo stesso che s' umiliano sotto la immensa luce di lei che li vince e li signoreggia. E a tal fine io credo che convenga cominciare dallo stabilire nella educazione l' unità: il che parrà forse una conseguenza opposta a quella che altri s' avvisa di tirare dalle premesse. Ma in vero egli è impossibile che la religione non pugni colle istituzioni, delle quali ella non sia la madre, o nelle quali essa non sia bene immedesimata. Non solo adunque debb' essere religiosa l' educazione, ma debb' essere, per dir così, unicamente religiosa . L' unità della educazione religiosa, non si ha che col rendere l' educazione religiosa interamente. Questo è il primo passo, che gli uomini debbono far con coraggio: se il faranno, dileguate le vane chimere che loro traversano il sentiero della luce, essi si vedranno ben presto fuori di queste loro tenebre, fuori di quest' aria grave e nebbiosa, in regioni più pure e salubri, s' avvedranno con una gioia improvvisa, come il Cristianesimo sia quello che forma il bene degli uomini anche in questa vita: e si maraviglieranno di avere con tanta diffidenza e lentezza ricevuta tanta felicità. Educazione religiosa: ecco ciò che tutti richiedono; unità d' educazione religiosa: ecco ciò che pochi considerano, e che può solo soddisfare quella richiesta universale. La religione in fatti è quel solo principio che può dare all' educazione umana l' unità; ed è perciò che l' idea della vera educazione umana è germinata, si può dire, e fiorita al mondo dallo spirito del Cristianesimo. Veramente prima che il mondo ricevesse la parola della vita e della salute, l' uman genere pareva più tosto simile ad un' immensa boscaglia dove senz' arte e senz' opera di ragione crescevano a caso tronchi infruttiferi, e pruni selvaggi, mentre ora pare un giardino ridotto dalla mano industre dell' agricoltore alla più util coltura, pieno di ben tirati colti, e di piante domestiche e mansuete. In fatti fu il Cristianesimo quello che additò e chiaramente scoperse all' uomo quell' ultimo fine, al quale debbe rivolgere tutto se medesimo, e senza il quale egli non può che errare in uno inestricabile labirinto senza luce, nè filo, ignaro della riuscita a cui lo portino gl' incerti e ciechi suoi passi. Il Cristianesimo adunque diede l' unità all' educazione primieramente perchè pose in mano all' uomo il regolo, onde misurare le cose tutte, o sia il fine ultimo a cui indrizzarle. Il Cristianesimo insegnò che bisognava rivolgere tutti gli studi e le diligenze dell' ottima educazione a questo altissimo scopo, di porre in mente al giovanetto altamente impresso e piantato quel vero: DIO SOLO E` BENE ASSOLUTO: tutti gli altri beni nell' uomo o fuori, ricchezze, potenza, onore, scienza, non gli valgono se non in tanto che giovano a farlo più puro e più verace adoratore dell' Eterno. E santo Ignazio che pose tal concetto in testa al libro degli « Esercizii » lo chiamò fondamento, poichè di qui la scienza del prezzo di tutte le cose, su cui la vita cristiana s' edifica. Il Cristianesimo dà ancora l' unità all' Educazione umana in un altro modo. Oltre renderla una coll' indicare il fine unico a cui debbe tutte le sue cure rivolgere, la rende una altresì collo spirito d' unità che nella medesima infonde. Perciocchè non si vuole già credere, che nella educazione basti l' insegnamento delle cose. Anzi tutta la forza di lei si spiega mediante due sommi precetti: 1 Che tutta l' istruzione morale sia condotta a pochissimi e generalissimi principii: 2 Che questi sieno infusi nell' uomo non in modo storico, ma morale; sicchè lo rechi ad operare consentaneo a quei pochi e risplendenti principii. E veramente la brevità e la pochezza delle sentenze, e quasi assiomi, dà più nerbo e costanza alle medesime, e fa l' uomo di carattere energico e solido. Nè ciò toglie punto all' integrità, nè alla vastità della scienza che si vuole comunicare, ma non fa che diffinire alcuni punti eminenti ed a piena veduta, i quali accennino in che luogo sia ogni strada e veicolo di quella quasi ampia città del sapere. Così egli avviene che le dottrine acquistino ordine e legame fra loro, che è quanto dire che acquistino quello spirito e quella vita che non risulta giammai da più membri divisi, ma sì da membri bene compaginati insieme, e composti in attitudine adatta, quasi direi, alle vitali funzioni. Egli è una scienza smembrata e positiva, in quel senso che positiva dicesi la materia, quella che invanisce l' uomo lasciandolo tuttavia ignorante; mentre sembrano molte le cognizioni da lui possedute perchè sono sminuzzolate e trite, se si può dire, cioè perchè non trovano un' idea grande spirituale che tutte le abbracci in se stessa, le congiunga, le unizzi. Il Cristianesimo adunque colla sua spiritualità, coll' ampiezza delle sue idee che travalicano ogni materiale ristringimento, spira per così dire l' anima nelle dottrine, v' infonde l' ordine , stringe le loro parti fra loro, ed ecco un altro modo onde questa religione divina porta nella educazione umana l' unità. E questo avviso seguiva Bossuet ispirato dalla Religione, quando ammaestrando il Delfino riduceva tutt' i suoi vari precetti a tre soli elementi fermati con tre parole, Pietà, Bontà, Giustizia: le quali parole per ripeterle ch' egli faceva dovevano suggellarsi, e quasi conficcarsi nel cuore e nella mente del suo allievo (1). L' efficacia poi con cui queste massime sono fondate in lui lo rende energico, di condotta eguale, e forte agli assalti degl' inganni e degl' ingannatori. Funesto vizio dei nostri dì, figliato da un' ampiamente diffusa superbia, è l' opinione, che basti sapere la massima per eseguirla, e ove l' hai detta se la ripeti e la inculchi, s' adonta ognuno che t' ode. Ma l' uomo ha la mente, luogo del vero, ha l' animo, sede degli affetti, ed ha intorno il corpo, ossia cotesta mole crassa, istromento dell' animo e della mente. Con la sola istruzione il precetto non va più là della mente; colla meditazione, onde si suscitano gli affetti, esso se ne viene al cuore e lo signoreggia; colle abitudini regolate esso si ripiega, dirò così, anche al corpo, facendolo pronto esecutore delle conseguenti azioni. La massima virtuosa vuole essere signora di tutto l' uomo, se ha da renderlo virtuoso: se essa non si manifesta che nelle abitudini corporee, è una pura materialità: se con sole le affezioni dell' animo, è la vana sensibilità priva di radice: se sta solo nella cognizion della mente, è la ridicola virtù filosofica sinonimo a menzognera superbia. E questo è il terzo modo onde la religione cristiana comunica unità alla educazione; cioè col chiamare ad unità tutte le potenze che si trovano nell' uomo, col volerle tutte ordinate fra loro all' unico fine, sì che armoniosamente e secondo la natura di ciascheduna si muovano insieme a conseguire o partecipare il sommo bene al quale l' uomo tutto è ordinato. Laonde, riassumendo, in tre maniere secondo l' intenzione e lo spirito del Cristianesimo vuole avere unità l' educazione degli uomini: unità nel suo fine , che è il principio stesso di ogni unità, ed il carattere essenziale dell' educazione cristiana; unità nelle dottrine , alle quali si fa applicare la gioventù o sia nel sistema degli oggetti della istruzione; e finalmente unità nelle potenze che debbon tutte venir penetrate, per così dire, ed attuate dalle apprese dottrine o sia unità nel metodo d' insegnamento. Consideriamo a parte ciascuna di queste tre specie d' unità , dalle quali solamente possiamo ricavare l' imagine di una educazione degna di popoli civili perchè cristiani, ed opportuna agli universali e pressanti bisogni dei nostri tempi. E già movendo dalla prima fondamentale specie d' unità penetriamo tutta l' altezza di quel concetto che dà la Religione nostra della umana Educazione. Poichè non essendo essa medesima Religione altra cosa se non la educazione che dà Iddio alla Umanità, certamente ella presta il primo, unico e sommo esempio di ogni altra vera Educazione: cioè qualunque educazione in cui qualche precettore o genitore allevi la gioventù sua, non vuole essere, secondo i cristiani principii, che imitazione del modo col quale Dio alleva gli uomini per la pietà, ovvero una applicazione, o (mi si conceda dire) una particolare attuazione di quella comune e divina Educazione (1). Fissando adunque la luce dell' intelletto ben addentro nella Religione possiamo ritrarre e conoscere il modo e la regola di cavare dall' uomo il male e innestarvi il bene, a che para qualunque Educazione. E qui debbe osservarsi l' errore e il difetto di ogni altro modo di allevare la gioventù. Poichè non è difficile rilevare, che la differenza fra lo spirito della Educazione cristiana, da quello della Educazione mondana, o come la chiamano ridevolmente filosofica , giace in questo che la Religione dimanda una Educazione intera , e il senno de' mondani si appaga di una Educazione smozzicata e imperfetta. E avviene questo appunto per la natura di quell' unico fine che propone all' uomo l' Evangelio; perocchè questo fine, Iddio, è così grande che è infinito, e perciò rinchiude in se stesso tutte le cose; egli è quell' idea così generale di che l' universo intero non forma che una imperfetta espressione; egli è quella vita così potente, da cui quanto vive succhia, quasi direi, tutto ciò per cui vive; egli è quell' essere così assoluto, onde ogni altro essere pende, e nulla può avere esistenza se non in quanto a quel primo assomiglia: per lui solo finalmente esiste il tutto, a lui tende il tutto, con lui si spiega e si rischiara il tutto alle innumerabili intelligenze. Egli è dunque conforme alla natura del Cristianesimo di pigliar sempre a norma in tutte le cose sue quel principio, che il bene nasce da causa intera, e il male da qualunque minimo difetto. E ciò posto, per vedere alcun bene nell' uomo, come sarebbero alcune buone qualità di suo corpo o di suo spirito, agilità della persona, sanità delle membra e vigorìa, ovvero molta suppellettile di cognizioni, e vivacità d' ingegno e prontezza, la Religione non ancora punto se ne loda, nè se ne piace: ma considera se tutte queste separate qualità e pregi sieno per modo tale ordinati nell' uomo che a lui veracemente giovino, e che il rendano più perfetto nel tutto. Il mondo all' incontro, o la così detta filosofia, si applaude e trionfa di qualunque pregio e qualità separata vegga risplendere nel suo allievo, e dimenticando di considerare i difetti, di vedere come quelle qualità stieno fra loro disunite ed in combattimento, come, apportando d' un lato alcun bene, accrescano dall' altro molti mali, s' inganna ed illude, e pensa d' essere la generatrice di uomini grandi, mentre n' è la guastatrice, e la produttrice non di giuste forme, ma di mostri. Nel quale fatto, chi sottilmente mira, vedrà che ciò segna grande debilezza d' intendimento e lume d' intelletto falso perchè troppo piccolo, cioè perchè non capace a vedere il tutto della cosa. Simile a questo sarebbe l' errore di quei meccanici i quali occupati in ciascuna ruota, o molla, o anello particolare, non considerassero l' effetto totale della macchina, e venissero in così matto pensiero, che riputassero dover esser tanto più rara macchina quella che costruiscono, quanto le ruote, le molle, gli anelli fossero di più forza e maggiori, senza avere nessun rispetto alla proporzione vicendevole, e a quella mutua azione, che comunicata e unita insieme per un certo temperamento e ordine nel quale ad un tempo tutto si muove, confluisce a quell' effetto unico a cui la macchina è ordinata, e senza cui non varrebbe nulla, ancorchè i suoi ingegni particolari avessero mille pregi in se stessi, e, se vuoi, fossero d' oro e gemmati e grandi a piacimento. E questa fiacchezza di mente, che prostra quello spirito vanaglorioso del mondo vantatore di tanto avvenimento, la quale non giunge giammai a rallargarsi e considerare le cose nel loro totale, ma le considera sempre l' una partita dall' altra, e in questa piccolezza di vedere sempre finisce e si chiude, nasce per fermo (chi considera l' origine della cosa) dal disordine degli affetti. Poichè questo è certo effetto delle affezioni, tirar via tutta la nostra mente dalle altre cose e occuparla solo nell' oggetto del nostro amore o dell' odio: di cui avviene che quegli che ha troppo affetto ad alcuno oggetto particolare si fa cieco a tutti altri non per meno di naturale vigorìa d' intendimento, ma per iscemo di attenzione. Di che agevolmente si spiega come gli stessi angeli perspicacissimi e d' intendimento acutissimi potessero errare a tal segno le ragioni delle proprie forze, che volessero tenerla contro Dio: non già perchè, se avessero voluto posatamente prestare attenzione alle forze divine e alle loro, non n' avessero sentita la improporzione e inteso chiaro quanto l' esito del loro combattimento doveva essere infelice, e però non tentabile: ma fu perchè la passione della propria eccellenza sì fattamente li prese ed accecò che si ristrinsero a contemplare se stessi, e la grandezza di Dio più non misurarono. Ed in questo modo anche l' uomo il più intelligente s' abbaglia ed oscura, e si fa male accorto, stupido, vero ignorante. Di che sta il germe nella stessa limitazione della natura, che si abbandona a se medesima (1); quello cui toccò Paolo in quelle alte parole: « « Quando sarà venuto ciò che è COMPLETO, si manderà fuori ciò che è PARZIALE » » (2). Di questo modo si concilia quella contradizione che appare ne' sofisti di questo e di tutti i secoli, dei quali alcuni mostrano grande vigore d' ingegno, ed insieme appaiono pieni d' ignoranza. Nè con questo vengono per noi condannati gli affetti: ma come abbiamo distinta la scienza di questo mondo e quella di Dio da ciò che quella di questo mondo si limita ed impicciolisce nei particolari, mentre quella di Dio o della Religione mira il complesso delle cose e l' affetto del tutto; così parimenti tengono lo stesso modo gli affetti di que' falsi sapienti e dei veraci. Que' falsi sapienti consumano i loro affetti nelle cose particolari, ristringendo tutta la possa del loro cuore ad alcuni oggetti, e però sconoscendo ed odiando tutti gli altri, e fissi a que' particolari, quasi a caso poscia trapassano e trabalzano, per così dire, sopra altri qui e qua confusamente: laddove gli affetti dei savii veraci, cioè dei cristiani, sono sgradati in bell' ordine sopra le cose tutte, che tutte insieme le considerano, e distribuiti alla misura del loro rispettivo valore, pesando il valore delle cose singole colla ordinazione loro agli scopi generali, e gli scopi generali sottomettendo all' universalissimo, il quale è loro bilancia unica, e però non mai variabile: di che viene la loro costanza e sicurezza d' animo e d' intendimento. Intima è dunque questa relazione della mente e dell' animo, degli affetti e delle cognizioni: e quelli e queste sono soggetti allo stesso ordine, e partecipano delle stesse imperfezioni. Laonde non è maraviglia se i savii della terra sono così parziali negli affetti come nelle cognizioni: negli affetti, abbandonati a se stessi, sono tirati qua e là dagli accidenti, s' avventurano ad ogni lusinga, non temono, non disaminano, correnti al laccio di ogni passione, cui non essi prendono, ma da essa son presi: nelle cognizioni ammettono e rigettano quelle che loro più piacciono ovvero dispiacciono: quelle che più s' accordano co' loro affetti, o che con essi discordano: ed a capriccio contraffanno nelle vane loro imaginazioni la incommutabile verità. I savii cristiani all' opposto reputano, che quanto sta fuori di loro sia fornito di cert' ordine fisso, immutabile, dipendente dalla prima cagione e non dal loro arbitrio: al quale ordine gli uomini sono tenuti di conformare la loro mente, se vogliono partecipare della verità, e di conformare il loro cuore, se vogliono godere della pace. Non è la verità l' opera della umana intelligenza; ma la intelligenza è l' opera della verità (1). Però a qualunque cosa loro si presenti danno quell' affetto, il quale ella merita, considerata nella sua relazione con quel tutto che hanno sempre innanzi agli occhi: però il loro affetto lungi dal turbare il loro intendimento, o dall' affaticarlo, procede con quello a sì bella concordia, che l' affetto stesso al vero intendimento delle cose quasi li manuduce. Ecco dunque in questo ragionamento indicato il supremo principio della buona Educazione cavato dallo spirito di verità proprio del Cristianesimo. Questo principio o scopo ultimo della Educazione viene ad essere il seguente: SI CONDUCA L' UOMO AD ASSIMIGLIARE IL SUO SPIRITO ALL' ORDINE DELLE COSE FUORI DI LUI, E NON SI VOGLIANO CONFORMARE LE COSE FUORI DI LUI ALLE CASUALI AFFEZIONI DELLO SPIRITO SUO. Questo principio è altamente radicato nella natura dello spirito dell' uomo, che io rassomiglierei ad uno specchio atto a ricevere l' imagini delle cose e di tutte ornarsene. Coll' atto del suo intendere egli non dà, ma riceve; egli è interamente passivo rispetto alla verità, come la verità è meramente attiva rispetto a lui: la sua mente non crea qualche cosa, ma più tosto viene in essa qualche cosa creata quand' essa intende: l' azione della prima verità sopra di lui è ciò che forma la sua intelligenza: l' azione degli altri esseri è ciò che produce le sue cognizioni (1). E nel medesimo tempo tal principio si appoggia e fonda in quest' altra verità che le cose fuori dell' uomo, pigliate così in cumulo, com' io ora le piglio, sono più possenti di lui: sicchè egli per necessità dipende da esse, come esse non dipendono da lui. E però quando egli vorrà uniformarsi e accordarsi ad esse, egli troverà pace; ma se egli vorrà pretendere che le cose si adattino e si acconcino alla forma sua, egli come di matta opera e impossibile, ne caverà guerra perpetua e sconfitta, e continuo dolore che il farà misero. Ora qui sta a vedere quale sia l' ordine delle cose fuori di noi per aggiustare a quelle le menti e gli animi, di cui si studia la cultura. E anche in ciò differisce dallo spirito male avveduto del mondo quello del Cristianesimo. Poichè lo spirito del mondo o togliendo dalla natura Dio, o a lui non pensando, o pensando mozzamente a quello che gli convenga, non può concepire la grande unità e semplicità dell' ordine di tutte le cose; ma introduce in esse il disordine e lo scisma. All' incontro i cristiani camminando al giorno della fede vedono colla mente loro tutte le cose composte in un ordine solo risplendente di mille pregi, ma accolti tutti in perfettissima unità, mirando alla quale non è lor conceduto giammai di limitare i pensieri fermandoli dal loro corso in qualche oggetto sparso in sulla via che percorrono, ma sono costretti a portarli d' un tratto quasi con rapidissimo volo all' ultimo anello della catena di tutte le cose, alla ragione ultima, a Dio. In quest' ordine perfettissimo, perchè recato alla perfetta unità, noi consideriamo come essenziale e necessario questo gran principio e fondamento di tutto l' ordine, come quello che lo origina, assegnando a tutte le altre cose il loro posto, la loro forma, il loro inclinamento, e all' incontro consideriamo tutte le altre cose particolari come accidentali all' ordine, cioè come quelle che partecipano bensì l' ordine e in questo modo vengono ordinate, ma che non l' hanno in sè, che non ordinano. Quello che ordina adunque tutte le cose, e perciò anche lo spirito dell' uomo quasi specchio come dicevo delle cose, non può essere altro che il Signore e formatore delle cose tutte; di che nasce un altro principio della buona Educazione, che può esprimersi così: NELLO SPIRITO DELL' UOMO LA COGNIZIONE E L' AMORE DI DIO DEBBE INTRODURSI COME ESSENZIALE E NECESSARIO; LA COGNIZIONE E L' AMORE DELLE ALTRE COSE COME ACCIDENTALE: DIO COME PRINCIPIO ORDINATORE DI TUTTE LE ALTRE COSE, E LE ALTRE COSE COME QUELLE CHE DEBBONO DA LUI RICEVERE LA ORDINAZIONE. Si debbe osservare come questo principio sia generale: egli abbraccia tutte le cose, egli le ordina; e nessuna parte dell' educazione sfugge ad una regola così estesa, ma tutto ciò che può essere argomento d' istruzione riceve da essa il suo vero indirizzamento: e per essa s' impone al savio educatore, che fino da' primissimi avviamenti s' abbia posto innanzi tutta la tavola o il disegno compiuto dell' opera sua, o almeno che come savio navigatore, fino dallo sciogliere, sappia il porto a cui gli bisogna approdare. Di questo stesso principio poi non difficilmente apparisce come quella Religione che il pose sia divina, perciocchè agli uomini tutti divinamente amica e benefica; il contrario di ciò a cui mena lo spirito di coloro, che insozzano fino le parole che usurpano, e che hanno sì vilificate le bellissime voci di filosofo e di filantropo. Poichè in quel principio ponendo come accidentali tutte quelle cose che tutti gli uomini non possono avere e possedere egualmente, come neppur le cognizioni naturali, e ponendo il solo possedimento di Dio essenziale alla umana felicità e perfezione, viene aperto l' adito di questa a tutte le condizioni e maniere di uomini, ciò che tanto bene si conveniva al padre di tutti gli uomini. Si mettano adunque nell' animo degli allievi, come sovranamente benefiche e umane, e apportatrici della amicizia, e rimovitrici delle mondane e filosofiche diseguaglianze, e consigliatrici della umiltà ai più grandi di cotesta terra, quelle parole alte, e divine dell' Evangelio: «PORRO UNUM EST NECESSARIUM » (1). Uno è il necessario: e di quest' uno si può beare e ingrandire il minimo della terra, sì come il massimo, quest' uno è vietato solo all' orgoglioso sofista, perchè quegli che reputa di sapere assai, sia riconosciuto l' unico ignorante, e chi presume essere l' ordinatore delle cose, sia privato ancora della partecipazione dell' ordine. E qui non è ancora il tutto. Il lume della nostra religione si spande vie più largamente nel nostro intelletto. Non si contenta di mostrarci in che ordine noi dobbiamo concepire disposte tutte le cose, se non ci apre altresì il modo nel quale il nostro spirito può aggiustarsi compiutamente all' ordine risplendente nelle medesime. Conoscere Dio qual sommo principio regolatore di tutte le cose, e conoscere che dipendenza abbiano queste dal medesimo, com' egli sia necessario, e tutto il resto opera sua, arbitraria, ed accidentale, come però tutto voglia essere rivolto a lui, e come tutto, quando è congiunto e ordinato a lui, consegua perfezione e ordine, è cosa a cui giunge anche il nostro naturale ragionamento; già mosso e svegliato dai raggi della cristiana Religione. Quello a cui fare non giunge virtù naturale di nostro spirito è a vedere il modo secretissimo, onde può l' uomo venire a cotesta perfezione che abbiamo descritta, in cui domini nel suo intelletto e nel suo amore Dio con quello stesso imperio assoluto e con quella piena supremazia onde domina nella natura. Qui è dove la Religione dischiude il suo grande arcano, apre i suoi tesori reconditi a tutto il senno naturale, e spiega la magnificenza di una sua nuova creazione. Qui primieramente essa narra all' uomo un gran fatto, la caduta morale di tutta la sua specie avvenuta nello stipite. Passa con volto irato a pronunciare una sentenza ineluttabile di morte contro all' uomo il quale ravvolge nella propria rovina tutta la natura; giacchè debb' essere per quella terribil sentenza tolto, distrutto, annullato tutto insieme il grande sistema di cose fondato da Dio nella natura di Adamo, e in tutto quello che era fatto per essa. L' esecuzione della inevitabile sentenza è tuttavia sospesa. Questo breve indugio è ciò che presta luogo ad una tutta nuova ordinazione di cose: la quale lasciando intatto il decreto della distruzione di tutto l' ordine primitivo, e lasciando che la terra si trasporti via come una tenda di pastori, e che i cieli si mutino come un vestimento, consegue però che tutte le cose di quel primo sistema, che dirò il sistema del sensibile, dopo la loro distruzione ritornino alla vita; ma non più come principali parti del nuovo sistema, ma come accessorie, inservienti a questo sistema nuovo infinitamente maggiore del primo. Come nel primo avrebbero dovuto gli uomini partecipare della perfetta natura del comun padre che veniva loro comunicata per mezzo della naturale generazione; così nel nuovo, un uomo che non aveva ricevuto la natura corrotta di Adamo per mezzo della generazione ond' essa si propaga, ma che aveva ricevuto questa natura per mezzo di una nuova formazione, opera immediata dello spirito divino, doveva essere egli nuovo capo e stipite di tutti quegli uomini che verrebbero da lui propaginati per una generazione intatta dalla carne e dal sangue, ma tutta spirituale, opera di quello stesso spirito, che formando il suo corpo nel seno di una figliuola di Adamo, aveva rifabbricata l' umana natura, o più tosto, come ape che trae miele da fiore velenoso, cavatala dalla vecchia, a cui era stato non condonato, ma differito l' eccidio. Questo nuovo Adamo fino dal primo istante di sua esistenza, non fu già abbandonato a se stesso, anzi confirmato in grazia, riempiuto dei tesori della scienza e della sapienza di Dio, congiunto in una persona colla divinità. Per cui potè dire, alludendo al suo nascimento non fatto secondo la legge della umana generazione, ma da una vergine in modo divino, quelle parole preparategli da un profeta: [...OMISSIS...] . E questo nuovo fonte, questo nuovo stipite del genere umano, impervio a' corrompimenti, rafferma la seconda famiglia che da lui si deriva, acciocchè non tema la corruzion della prima. Perciocchè dipendendo tutta la sostanza e la essenza della umana specie dal ceppo, rassicurato questo che non si corrompesse, come avvenne al primo, era rassicurata e saldata tutta la specie: conciossiachè il guasto di qualche fogliuzza, o il taglio di qualche ramoscello non distrugge giammai la pianta, quando rimane pieno di virtù e di vita il pedale. Ora questo secondo ceppo della nuova generazione degli uomini divino ed umano, anzi Dio e Uomo, aveva in sè infinito valore e merito da solvere il debito contratto con Dio dalla prima natura umana, al cui pagamento era stato accordato un respiro, anzi di più aveva merito in sè da compensare a Dio il dono di questa mora conceduta al pagamento; la quale non sarebbe potuta convenire colla giustizia di Dio; quando Dio non avesse scorto di doverne venir compensato, e scorto che ne verrebbe compensato soprabbondantemente. Questo sublime misterio pertanto, disvelamento e confusione della nostra ingenita superbia, ci mostra tutta la famiglia degli uomini considerata da Dio come una cosa sola, e presa, nel consiglio delle sue divine ed eterne ragioni, in solido (3), e questo sì nell' ordine della natura costituito in Adamo, che nell' ordine della grazia fondato in Gesù Cristo, e ci dice con sentenza, ove sta un abisso di lume, che come nell' ordine primitivo noi non potevamo conseguire la perfezione della nostra natura, se non per via della generazione naturale di Adamo, così nell' ordine succeduto a quello noi non possiamo conseguire la perfezione della nostra nuova natura, o sia della grazia, se non in virtù della generazione soprannaturale di Gesù Cristo, nel quale sono state rinnovate tutte le cose. Debbesi adunque nella educazione degli uomini aggiungere, al sopra esposto, questo altro principio, il quale contiene il modo o il mezzo, per cui quanto propone quel primo si consegua, cioè per cui quasi direi cadano sopra il nostro spirito i raggi della verità delle cose, e vi si riflettano; vi si rifletta Dio come ordinatore di tutte le cose, e le cose come ordinate. LA NATURA PRIMITIVA DEGLI UOMINI NON PUO` ESSERE RIPARATA SE NON DOPO LA SUA DISTRUZIONE: E OGNI ASSIMILAMENTO IN NOI DELL' ORDINE DELLE COSE, CIOE` OGNI NOSTRA PERFEZIONE, NON SI PUO` IN NESSUN ALTRO MODO CONSEGUIRE, CHE NELL' ORDINE NUOVO DELLA GRAZIA, CIOE` INCORPORATI A GESU` CRISTO. Per le quali cose s' adagia quaggiù la pietà della Religione sì per l' unico necessario , a tutti aperto, che stabilisce; come per l' unico modo di conseguirlo a tutti egualmente comune, anche spregiati, e li consola; e dice negli orecchi e nel cuore di coloro che non possono ricevere l' Educazione de' palagi e delle reggie, ma quella della stalla e del solco, ch' essi hanno ond' essere sì perfetti uomini, sì felici e, può essere, vie più ancora di tutti i molti invidiati, a cui sono appagate mille curiosità, e data tutta quella erudizione che gli uomini ammirano, e mettono in conto di egregia fortuna. Ma la stessa Religione poscia condiscende ai bisogni ed alle infermità della non adulta e perfetta natura umana. Ella sa bene, che l' uomo in questa vita, dove il considera come sempre fanciullo, non può essere col suo spirito attuato continuamente nel solo Dio, e però tempera il gran precetto di dovere sempre orare e vegliare in sì dolce modo, che non divieti l' uso delle cose umane, degli amminicoli necessari a questa povera vita, nè altresì delle cognizioni intorno alle opere di Dio, quando però queste cose nell' animo dell' uomo tengano continua soggezione e avviamento a quel solo fine di tutte le cose, per quell' unico mezzo. E lo stesso disporle sotto di lui e per lui, c' insegna che è un onorarlo, e adorarlo, e invocarlo. Qui dunque s' intende primieramente esser dalla dottrina della Religione concedute all' uomo tutte le altre parti della Educazione, oltre quella dello spirito, e come necessarie da essa approvate e commendate, ma nel medesimo tempo accortamente indirizzate. Nelle quali parti della vita dell' uomo per questo medesimo apparisce, che la Religione distingue quello che è necessario per l' acconcio mantenimento di questa vita, da quello che non è necessario. Quello che è necessario lo pone come suo naturale precetto considerato qual mezzo bisognevole a quel preclaro fine a cui il Signore ha formata la vita presente, precetto, come si vede, relativo e non assoluto, cioè non venuto da pregio che abbia in sè la vita, ma da pregio di quel fine stesso a cui la vita è volta. In quello che non è necessario la Religione piena di condiscendenza e di dolcezza pone certo spazioso e dilettevole campo alla umana volontà. E dove finisce il precetto ivi comincia il consiglio di quella Religione, che non si riposa se non vede condotti alla piena loro statura i suoi avventurati figliuoli; a ciascuno de' quali torna tanto di consiglio in precetto, quanto di lume spirituale ad esso è largheggiato. Dove s' aprono le bellissime sollecitudini della cristiana Carità. La quale non contenta che l' uomo nel suo spirito accolga l' ordine perfetto delle cose, e nel principio di quest' ordine si rallegri e si beatifichi, il persuade ad adoperarsi ancora perchè tutti gli altri suoi simili vengano a parte della stessa avventura, e anche a loro sia data la perfezione. Così la Religione perfeziona l' uomo coll' empirlo di gioia, di quella gioia che ritrae dal sommo principio dell' ordine: e questa gioia cerca diffondere immensamente, e così produce l' amore. Che se nello stato primitivo della incorrotta natura umana la religiosa benevolenza si sarebbe adagiata più tosto nella compiacenza della comune felicità, e l' occupazione dello spirito nello studio delle cose create sarebbe più veramente rimasto un arbitrario diletto; nella condizione all' incontro in cui si trova l' uomo presentemente, il toglie da ogni ozio, e lo stimola ad una operosa azione non solo in beneficio di se medesimo, ma in beneficio di tutti, coi quali è sortito a comune natura e scopo. L' uso adunque di tutte le cose fuori della divinità, e però le cognizioni di tutte quelle cose, vogliono essere adoperate a condurre la umana gracilità passo passo alla robustezza riposta nella congiunzione con Dio; facendo esse a lui quel servigio che a' fanciulli, i quali non hanno ancora appresa l' arte dello stare ritti in sulla persona e camminare spediti, fanno gli appoggi da' lati e l' assistenza delle guidatrici. Di cui viene un altro principio grande e fondamentale di tutta la umana Educazione, il quale insegna a regolare gli abiti che si vogliono fare apprendere, e le cognizioni che si vogliono dare di tutte le altre cose fuori di Dio, e che suona così: SI DIA LA COGNIZIONE DI TUTTE LE COSE, PERCHE` SIA ADOPERATA TANTO QUANTO ABBISOGNA LA PROPRIA DEBOLEZZA E IMPERFEZIONE PER ANDARSENE A DIO, E QUANTO PUO` GIOVARE ALLA INFERMITA` DEGLI ALTRI, ALLA QUALE VUOLE LA CARITA` CHE SI SOCCORRA (1). Questo principio suppone, come apparisce, che l' uomo quanto viene maggiormente perfezionandosi, cioè sollevandosi a Dio, tanto meno abbia bisogno di sostenere la infermità sua colle cose umane, e questo vero splende manifestamente nella vita de' più perfetti rivolta sempre a segregarsi quanto è loro più possibile da tutte le sensibili cose. Ed ancora questo principio pone come dovere nostro, che non diamo ricreamento e conforto alla nostra umanità dalla vaghezza o coattitudine dei terreni oggetti più di quello che richieda la nostra imperfezione: e non vogliamo impacciarci con essi oltre questa misura sotto il pretesto, che tutto può essere rivolto in bene: mentre il solo uso di quelle cose per la loro naturale acconcezza a dilettarci è un indugio alla rapida corsa verso il fine che ci è proposto. E la dottrina di questo successivo lume crescente nelle menti cristiane, e di questo scemamento della necessità di naturali ricreazioni si comprende in quelle maravigliose parole di Paolo: [...OMISSIS...] (1). Ma nel medesimo tempo, che quel principio nega o limita a noi medesimi l' uso e lo studio delle creature, suscita in noi un infinito ardore, e genera una infinita attività e una infaticabile energia per soccorrere collo studio e colla pratica delle medesime alla infermità maggiore o minore di tutti gli altri. Di che viene la purissima sorgente di quel travaglio, che pone il cristiano nelle cose umane. Questa sorgente non è la vana curiosità degli uomini mondani, o la vana speranza di riposare in quelle cose quasi in veraci beni l' animo loro, che ben sanno non avervi in quelle alcuna cosa che ristori, anzi che non affatichi e prema quello spirito eccelso che vive in cuori divinizzati: questa sorgente è la carità de' nostri simili, sorgente fecondissima di studi e di azioni, e di giammai finiti magnanimi movimenti. Epperò nel suesposto principio è la ragione della sentenza che scriveva Paolo a que' di Filippi: [...OMISSIS...] . Ecco come apre la Religione l' adito alla instituzione de' giovanetti in tutte quelle cose che apprezza il mondo e commenda, e che sono alla vita presente o necessarie od utili. Ma ecco da che diverso lato venga all' inculcamento di questa instituzione in tutte le lodate industrie la Religione, e da che diverso lato venga a questo il mondo. Ecco da che profonda origine la Religione cristiana tragga questa sentenza, che il mondo propone così superficialmente, e o senza ragione, o per la sola ragione del suo ammorbato istinto. Ecco radici profonde e salde che dà essa Religione a tutti i nobili studi e alle lodate occupazioni; mentre il mondo viene a farle crescere senza radici, e senza suolo fermo, per così dire, ove si abbarbichino, e posino: di che a lungo processo di tempo la coltura del mondo debbe quasi incattivire e tralignare in barbarie, e quella radicata nella pietà maturare a più squisito ricolto. E queste cose tutte senza fasto di parole, ma con ogni semplicità, brevità, ed altezza, ci aveva già il Maestro divino insegnate con quell' impareggiabile comandamento: [...OMISSIS...] . Il primo di questi precetti segna l' ordine che debbe tenere lo spirito dell' uomo rispetto al Creatore, il secondo l' ordine che debbe tenere rispetto alle creature; e con ciò è dato regolamento a tutte le cognizioni ed all' uso di tutte le cose. E questa sapienza medesima fu sempre lo spirito della cristiana educazione, cominciando dai primi discepoli fino al presente Sommo Sacerdote della nostra Religione, che pose queste stesse parole in capo a tutto il regolamento degli studi da lui poco fa pubblicato (2). E tutti quelli che hanno carico della educazione dovrebbero imitarlo, e dar questa radice agli studi. Egli dovrebbe essere scritto questo fondamento della umana felicità e sapienza in sull' ingresso di tutte le Università, e di tutti i luoghi dove si alleva la gioventù, se ne fosse degna la leggerezza di cotesto mondo che s' annoia di tutto ciò che gli sia di frequente ripetuto: nè solo il proprio carattere ma il carattere comune degli uomini espresse quell' Ateniese che dannò Aristide coll' ostracismo per la noia d' udirlo sempre appellato giusto. E che questo precetto della carità si debba adempire tenendoci incorporati al nostro mediatore, l' abbiamo da lui medesimo quando ci disse, il precetto della Carità fraterna non esser d' altri, ma proprio suo; e quando il chiamò nuovo , e non più udito al mondo, benchè fosse stato intimato da Mosè: [...OMISSIS...] ; cioè in virtù dello spirito, che secondo la legge della generazione spirituale da me solo viene comunicato. E s' osservi come nel semplicissimo precetto della carità, che forma l' anima, per così dire, di tutto il Cristianesimo, sieno già indicate e comprese tutte le specie di unità di cui debbe esser fornita la perfetta educazione. Perciocchè in quelle semplicissime parole de' precetti della cristiana Carità non è solamente assegnato il fine di tutte le cognizioni, il quale ordina le stesse cognizioni; ma ben anche è richiesto, che quest' ordine morale che ricevono le cognizioni tutte dal supremo fine a cui è necessario che vengono indirizzate, penetri tutto intiero l' uomo; giacchè in quelle parole non s' ingiunge solo di conoscere, nè solo di amare, ma di operare altresì: perchè con tutto il cuore , con tutta l' anima , e con tutte le forze , cioè con tutto l' uomo, e con tutta la vita sua (2) si vuole onorato ed amato Iddio. Da quanto è fin qui detto apparisce in che differisca principalmente lo spirito della educazione antica, il quale veniva dagli ecclesiastici e però procedeva da' sensi della Religione cristiana, dallo spirito della educazione moderna il quale in gran parte trasse dai novatori non solo laici ma irreligiosi. Lo spirito della educazione antica tendeva all' unità degli oggetti, perchè tutto riduceva, come a un solo fine e principio, a Dio: lo spirito della educazione moderna all' opposto tende alla moltiplicità degli oggetti, perchè considerando le cose naturali e sensibili senza riferirle alla loro cagione primitiva, esse si disgregano e spargono fra di loro; e l' essere disordinate è ciò che le moltiplica (1). Lo spirito è semplice e riduce tutte le cose che si considerano in ordine a lui ad unità: la materia è composta, e considerata sola è subbietto di divisione. Nè io sono qui per contendere a cotestoro quel vanto, che fatto da uno di essi, esprime l' intendimento di tutti, cioè che il loro spirito attendendo alle cose materiali, e a queste attaccando l' affetto loro, promuove l' uso di queste cose per il bene della presente vita (2). Pur troppo i figliuoli di questo secolo sono nella generazione loro più prudenti, cioè più sagaci nel ritrovare que' mezzi che possono essere a' loro scopi opportuni, di quello che sieno i figliuoli della luce (3); ma sgraziatamente non vale la loro sagacità, poichè con nessuna sagacità o prudenza si può rinvenire quello che non è nella natura: con nessuna sagacità o prudenza si può rinvenire nelle cose sensibili appagamento. Indarno dunque le passioni più violente diventano ministre di un accorgimento diabolico: indarno il figliuolo delle tenebre schernisce la freddezza, l' inerzia, e il poco spirito dell' uomo fedele al Signore: quegli va finalmente a perdere e questi a vincere: è la bontà stessa della causa che dà a questo secondo un compiuto trionfo, e che dimostra che le forze umane non valgono a mutare la verità o la natura delle cose, e che tutto l' avvedimento, tutta la possibile attività, giunga pur anco al furore, finalmente svanisce, se l' uom non venga aiutato dalla natura della cosa che imprende, cioè da una forza fuori di lui (1). Laonde non ci farà nessuno inganno alla mente il celere promuovimento avvenuto nei tempi recenti di tutte le arti ed industrie meccaniche o materiali, che riguardano gli usi della presente vita. Poichè mentre da una parte mi si dimostrano accresciute quelle cose, dall' altra mi si fanno innanzi gli uomini più irrequieti e infelici (2). Ma omesso ancora questo, ciò che forse mi sarebbe facile di dimostrare fino all' evidenza, non mi sembra in vero spregevole dimanda per l' amico degli uomini quella, se sia più utile sapere molte cose separate, e le une dalle altre sconnesse, ovvero se più giovi saperne meno, ma collegate a perfetto ordine: o, il che torna a un medesimo, se si debbano prezzare più le cognizioni dal loro numero, ovvero dalla scelta e qualità loro (1): e credo che qualunque assennato non dubiterà che il valore della scienza per l' umana felicità sia riposto maggiormente nell' essere cognizioni compiute ed elette, che nell' essere molte. Ciò non ostante concediamo che per quel limite che ha ricevuto dalla propria natura il nostro spirito, quanto più attende ad una cosa, tanto sia minore ad un' altra: concediamo perciò che quegli il quale attenderà maggiormente a porre l' ordine nelle cognizioni sarà più tardo ad accrescerne il numero, e viceversa, chi studia la moltiplicità delle medesime più difficilmente conseguirà l' ordine. Di questo si spiegherà come lo spirito moderno abbia potuto accrescere le arti che risguardano l' universo materiale nel tempo che ha distrutte, imbarbarite, e confuse le scienze che riguardano l' universo spirituale, la Filosofia e la Teologia, lo studio dell' Uomo e di Dio. Nelle quali scienze anche quel poco che ha studiato fu un guasto, perchè v' introdusse dottrine materialistiche, incapaci di levarsi ai concetti dello spirito: e volle portare anche in esse quella divisione del lavoro che frutta mirabilmente in tutte le arti risguardanti la materia per la divisibile natura di questa, ma che è al tutto opposta alle scienze degli spiriti, la cui natura consiste nella semplicità e nella indivisibilità. Tuttavia potrei ancora mostrare, che i maggiori avanzamenti di quest' arti meccaniche non sono già dovuti a coloro che si vanno nella strada opposta alla Religione (1), e potrei mostrare che senza le scienze dello spirito con brevissimo ripiegamento gli uomini verrebbero a struggere quell' arti medesime, di cui si vantano autori per non so quale contrasto delle medesime arti e degli stessi uomini troppo insopportabili a se medesimi. Ma mi contenterò più tosto osservar solamente come lo spirito della pietà, il quale primieramente ingiunge ordine alle cognizioni ponendo il principio di quest' ordine in Dio, viene ben presto a commendarne la moltiplicità, o sia ad eccitare ancora i variati studi delle arti materiali, dando all' uomo per istimolo acutissimo a tali industrie la vicendevole Carità. Ed è solo il difetto nella prima natura umana, se non luce ovunque di questa dolcissima carità tutta la potenza. Ma dove la considereremo in generale com' essa è diffusa ne' membri del regno di Dio, troveremo che non si dà passione alcuna la quale possa essere più veemente, forte, vasta, inflessibile di questa, e che più nella umanità abbia posto di vita e di energia (2). Il perchè se l' uomo da se stesso è così scarso di naturale vigore che espandendolo dirò così in estensione, gli manca poscia da profondare, e ponendosi in molte cose umane è tenuto indietro dallo studio di quell' ordine che a quelle ne viene coll' introdurvi la divinità: supplì a questo la stessa bontà divina, accrescendo con questa novissima e potentissima passione della carità le forze umane, e per essa creando nell' uomo un altro uomo maggiore del primo. E di nuovo, se la Religione incoraggia tutte le scienze e le arti, anche quelle ch' hanno per iscopo gli onesti godimenti di questa terra, non è però ch' ella abbandoni giammai l' unico principio a cui le richiama, e col quale quasi con timone tutte insieme ad un solo termine le governa. Il perchè questa ampiezza e moltitudine di cognizioni dalla Religione promossa e voluta, non si ferma a ragunarle insieme schierandole, quasi direi, l' una appresso l' altra materialmente, e nè pure s' appaga solo di raggiunger ciascuna con quella prima scienza della pietà. Ma lo stesso spirito di ordine e di deduzione dallo spirito della nostra Religione s' insinua e s' innoltra anche nelle scienze inferiori fra di loro, ed insieme le collega e raggiunge quant' è più possibile strettamente; sicchè la vera e cristiana idea di una enciclopedia, se con questo greco nome si voglia chiamato il corso di tutte le cognizioni umane, non sarebbe già limitata ad un semplice rammassamento di esse cognizioni in forma di vocabolario; ma ad una distribuzione e colleganza fra esse, secondo i loro naturali e legittimi vincoli. Questo stesso regolamento ed intrecciamento è desiderato in quella dirò così minore enciclopedia che formar debbe la scienza peculiare di alcun uomo venuto a compita educazione, il disegno della quale conviene all' educatore di avere innanzi agli occhi fino a principio come al dipintore i cartoni del quadro. Si può dire esser questo troppo arduo alla maggior parte degli educatori. Ed io concedo che i più fanno l' opera loro in parti, e senza disegno fisso danno, per così dire, de' tratti e delle pennellate e conducono quasi a caso il lavoro. Ma di qui appunto la principale imperfezione in cui si tiene ancora l' arte dell' educare. E non vedo che possa essere sperato di più se non da rarissimi e mirabili precettori, quando a dilineare il disegno di una tale educazione non concorra l' opera di molti, ed il senno e la mano di chi è incaricato dalla Provvidenza a procacciare il bene della cristiana società. Può essere messo in questione, come fu messo per molti, se l' educazione pubblica si debba anteporre alla privata, o la privata alla pubblica. Tutte due hanno loro vantaggi particolari, nè può l' una all' altra comunicarli. Secondo mio parere queste due dovrebbero cospirare in uno medesimo, non parendomi sufficiente l' una o l' altra sola all' educazione umana nella sua perfezione considerata. Ciascun uomo ha qualche cosa di comune con tutti gli altri uomini, cioè la natura e i fini a cui è destinata questa natura: ha delle altre cose comuni co' suoi connazionali, cioè il carattere nazionale, e i negozii della nazione: ha qualche cosa di comune co' membri della propria famiglia, cioè la schiatta, e dalla schiatta molti nativi impulsi, eredità di tradizioni, e tutto lo stato suo, e gl' interessi della casa. Finalmente qualunque uomo ha qualche cosa di segregato e di proprio, il temperamento, il genio, il fine dell' individuo. Queste quattro qualità e disposizioni dell' uomo hanno dato per mio avviso origine a quattro sistemi di educazione: a cui si possono ridurre tutti gli altri, perchè tutti convengono colle loro intenzioni e scopi nell' uno o nell' altro di que' primi quattro, o medesimamente in più d' uno di quelli. E tali quattro sistemi partiti secondo la parte dell' uomo alla coltura della quale direttamente si rivolgono, sono i seguenti. Alcuni posero per ottima certa educazione che essi chiamarono cosmopolitica , la quale mette per base l' uomo cittadino di tutto il mondo: bella sentenza, se, divisa da tutte l' altre verità, non contenesse l' annullamento di tutti i vincoli naturali colla nazione, colla famiglia, con se stesso; e in questo errore parmi piegare una setta di filosofi nella Germania. Altri furono colpiti vivamente dalla bellezza dell' amor di una patria: ma volendo che questo solo amore fosse coltivato, e facendo sacrificio a questo sì lusinghevole amore d' ogni altro rispetto, perdettero l' uomo quanto a' suoi tre altri legami coll' umanità, colla famiglia, con se medesimo. Questi celebrarono come sola buona una educazione pubblica e nazionale: e a questo error si conduce il difetto delle educazioni de' popoli antichi, principalmente de' Lacedemoni e de' Romani, meno quello di questi che di quelli, perchè più vasta aveano la patria: e a questo vizio medesimo caddero i repubblicani moderni male avveduti imitatori degli antichi, ciechi seguitatori di ciechi. E Danton che nel 1793 diceva « « egli è il tempo di ristabilire questo gran principio, che i fanciulli appartengono alla repubblica avanti di appartenere ai lor genitori » » non solo violava tutte le leggi della natura, ma introduceva la pubblica schiavitù, e dava l' imagine di una società che lungi dal proteggere i diritti della famiglia e dell' individuo, distruggeva quella, opera della natura, coll' impotente arbitrio di una legge umana, e metteva questo ne' ferri, vile istrumento, e più impotente ancora a ottener cosa stabile, sufficiente però a tormentar uomini in nome della società, giusta il capriccio di quelli che casualmente più in essa potessero. Ma vi furono poi alcuni cui lusingò l' aspetto della familiare felicità, e pensarono che dove avessero allevati i giovani buoni massai, e tutti occupati nell' ingrandimento della propria casa, avrebbero toccato l' apice del perfetto educare. Ma quanto è utile cosa la cura domestica, altrettanto è difettoso se il padre di famiglia ignora d' essere fratello a tutti gli altri uomini, di avere interessi comuni col popolo dov' egli vive, e di dovere alcuna cosa a se stesso o anzi in se stesso alla umana dignità. E questa mancanza cominciò ad apparire principalmente quando furono cominciati ad introdursi i feudi, e a moltiplicarsi le case ove fosse parte della suprema autorità: e da questo guasto si vogliono guardare più sottilmente le nazioni governate da una sola famiglia. Finalmente non mancarono di quelli che senza veruno rispetto nè al genere umano, nè alla patria, nè al sangue hanno confinata ogni educazione nell' egoismo, e di questo peccato sono lordi, chi ben li considera, i predicatori della illimitata Libertà ed Uguaglianza, cioè de' predicati diritti dell' individuo verso alla società: e la menzogna di costoro toccando gli estremi, nel mentre che affettano universale amore, sciolgono non solo il legame che lega ciascuno con tutta la comunanza degli uomini, o quello che il sottopone all' autorità della nazione, ma il dolce vincolo ancora che il piega sotto la signoria del genitore, da cui ebbe attinto la cara esistenza. Ed allo stesso balzo rovina ognuno che pose la perfezione dell' umana vita in passeggera voluttà: e fra questi sì Epicuro che Aristippo, sì il salvatico Rousseau che il molle Elvezio: i quali per due opposte vie cozzano e s' infrangono allo scoglio stesso; chè, come suona il proverbio, gli estremi vanno a toccarsi. La Religione cristiana all' opposto, perfetta, ed acconcia a tutta l' umana natura, perchè venuta dall' autore stesso della natura, non dimette nessuna di quelle quattro quasi parti dell' uomo senza il suo proprio e proporzionato coltivamento. Essa nel tempo che intima all' uman genere una legge comune e cattolica, viene dando i suoi particolari insegnamenti al cuore del cittadino, a quello del padre di famiglia, e santificando l' amore di se stesso nol lascia solo e tirannico, ma il conduce a bella fratellanza e concordia cogli altri amori. Su questa sapienza può solo venire perfezionandosi l' arte della umana educazione. Ed ella sarà perfetta, quando digerita in quattro parti (delle quali nessuna venga intralasciata per cieco partito ed esclusivo amore all' una od all' altra di esse), la prima di queste quattro parti sia accomunata a tutto l' uman genere, perchè rivolta ad educare la qualità agli uomini tutti comune: la seconda a perfezionamento e non a distruzione della prima, appaia comune e pubblica della nazione: la terza che è quasi fabbrica rialzata sulle due prime e aggiustata a quelle, formi l' educazione particolare della famiglia; e l' ultima finalmente, che è come gli ornamenti ed i finimenti dell' edificio, e che non potrà dare quasi altri che ciascun uomo a se medesimo, sia quella che renda il maraviglioso lavoro formato sul crescente uomo, simigliante a quell' opera limata di perfetto artefice che può oggimai uscire dall' officina, ed essere posta nel decoroso luogo per cui era stata con tanta industria fusa o scolpita. E ben vedo quanto stiamo lontani dalla perfezione di questo desiderio. Restringendo perciò l' animo nostro a quello che concedono i tempi, si possono quelle quattro parti della completa educazione adunare in due, cioè nella nazionale o pubblica, la quale tenga in sè le due prime, e nella famigliare o privata, che unisca le due seconde. La privata in vero, per quanto è detto, non può nè debbe essere uniforme; e a buon diritto essa vuole aggiustarsi alle circostanze della casa, dell' allievo, ed eziandio del precettore. Poichè io credo esser una trista e irragionevole pretensione quella che gli uomini tutti debbano uscire d' una medesima stampa; ma a cui pur tanto inclinano certi scrittori, e certi Ministri sistematici, nei quali sembra quasi fissa tale opinione, che s' informino gli uomini colle pretelle. E così parimenti nessuno troverà assurdo che v' abbiano diversi ed ottimi precettori, e che ognuno posseda un suo proprio metodo ottimo relativamente a lui che l' adopera. Al quale se tu fai pigliare un metodo non suo, ancorchè in se stesso migliore, non trovi più il metodo ottimo, cessando d' essere tale ove sia usato da quello alla natura ed all' indole del quale esso non è accomodato. Laonde l' educazione famigliare può bensì avere alcuni lineamenti simili, tolti, come abbiamo detto più sopra, da quel primo disegno che ne ha posto l' educazione pubblica, ma non può essere uguale ed uniforme nel compimento privato di quel disegno: allo stesso modo come più quadri disegnati dalla medesima mano, se vengono coloriti da mani diverse, danno sugli stessi contorni molte accidentali varietà. L' educatore privato adunque dovrà bene imbersi dello spirito della educazione pubblica, e quella non distruggere, ma sopra quella edificare con metodi però che sieno i migliori nella sua mano, e i migliori a' bisogni e alla destinazione del suo allievo. Da questo apparisce come la perfetta educazione privata (parlando in genere, cioè del comune delle famiglie) suppone già la perfezion della pubblica, e che mirabile vantaggio e beneficio dieno que' pastori dei popoli alla privata educazione, i quali regolano sapientemente la pubblica, ch' è come l' atrio di tutta intera l' educazione. E ciò tanto è più possibile e da noi sperabile, quanto che questa educazione pubblica può e debbe essere uniforme e con leggi generali stabilita. Ma se cerchiamo da quale difetto si debbe maggiormente guardare la educazione pubblica, non dubito dire ch' egli sia dallo spirito individuale. Lo spirito individuale di necessità deforma e costringe quella educazione che, dovendo essere pubblica, cioè adattata a tutti i sudditi di un principe o membri di una nazione, debbe altresì prescindere da tutto quello ch' è individuale. Il particolare uomo è quasi sempre parziale e incompleto ne' suoi avvisi; egli si è formato un modo peculiare di sentire e di pensare, nè forse veruno si schiva da porre più o meno ne' giudizi qualche cosa del suo, oltre il vero. Laonde non è ragionevole nè umano il persuadersi, che dai giudizi di un solo uomo possa dipendere talora l' educazione d' innumerevoli, e sulla forma accidentale di un solo spirito sieno informati innumerevoli altri spiriti, i quali da natura tengono varietà d' inclinazioni e di doti. E non è questa, generalmente parlando, la ragione per cui tanto si pena a trovare dei buoni testi scolastici che servano a' maestri non meno che a' discepoli per guida delle lezioni? E` egli per amore soverchio di risparmio questa scarsezza de' buoni testi? Non già; mentre con tanta magnificenza sono universalmente nutriti gli studi ne' nostri tempi. E` per mala intenzione de' reggitori? Di ciò non può cadere sospetto nel più disgraziato mortale. Tal difetto è solo, io mi credo, cagionato dall' essere que' testi, nella più parte, opera di qualche persona peculiare, non di molte. Oltre vedere in essi l' impronta del carattere particolare sempre ristretto e scomodo a' più, perchè in contradizione col maggior numero degli umani caratteri, non sarà maraviglia, anzi necessità, che coteste opere formate per la gioventù riescano se vuoi diligentissime sì nella esecuzione, ma povere incredibilmente e streme nel concetto generale e nella stessa sostanza dell' opera. Poichè chi conosce a pieno il modo onde quegli che ha la cura generale di tali cose può scegliere alcun uomo particolare alla composizione d' un testo, vede quant' egli venga in pericolo d' ingannarsi, mentre non potrebbe mai ingannarsi eleggendone molti. Senza noverare tutte le circostanze a cui pende la destinazione di una persona alla composizione d' un simile libro, io mi rimetto alla buona fede di quelli che avvisano la cosa nel fatto; e sono certo che quelli mi confesseranno come, tutto ciò venendo dalle più prossime informazioni e dalla pratica accidentale che una persona più tosto che un' altra tiene con chi nella cosa influisce, la scelta può e debb' essere apposta non al migliore per lo scopo, ma a colui che per gli accidenti migliore apparisce. Laddove scegliendo tal corpo di persone alle quali facciano testimonianza solenne, non già private informazioni di singoli eziandio che di persone poste in dignità, ma le voci di tutta la nazione e le opere loro onde inchiarirono, è cosa impossibile che sul tutto di questo corpo cada l' errore. Sono alcuni che ci oppongono non essere poi necessario a formare una grammatica, od anzi qualunque libro scolastico, ingegno profondo e vasta dottrina. Anzi queste doti essere nocevoli, perchè chi le ha non si suole inclinare ai bisogni dei fanciulli: essere più adattato al componimento d' un libro per la gioventù un ingegno mediocre, più giudizioso che penetrante, più paziente che dotto, più perito nella pratica della pedagogia, che nella teorica: per mancanza appunto di queste qualità patirsi generalmente difetto di testi scolastici facili e acconci alla debilezza dell' intelletto fanciullesco. Io non esaminerò le cagioni di questo universale difetto di testi scolastici e d' altri libri elementari, dei quali nessuna nazione io credo che si possa dir molto ricca, se pur i libri elementari non si contino, ma si pesino. Risponderò più tosto, all' obbiezione proposta, con più ragioni. E primieramente sembrami dover notare un errore dannosissimo e reso al nostro tempo quasi universale, che il più gran pregio di un libro o di un metodo sia la facilità colla quale presenta le dottrine. Questo errore, confesso, è molto seducente; specialmente a uomini di costumi rammolliti ed insofferenti di una seria applicazione. La facilità colla quale si presenta una dottrina sembra altrettanta luce sparsa sulla medesima. E mediante un insegnamento tutto scorrevole e facile avviene che agli uomini, non parlo solo dei giovanetti, sembri di venir diportandosi nel gran campo del sapere senza trovar ai lor passi ostacolo alcuno, e misurandone coll' animo tutta l' ampiezza, anche prenderne la possessione. Perciò una facilità sì fatta lusinga l' amor proprio: conciossiachè occulta tutte le difficoltà e i nodi della dottrina, tanto importuni e molesti a chi ha grande presunzione di se stesso: un sì dolce oblìo, di tutto ciò che può arrestare il volo del pensiero e far dubitare delle proprie forze intellettuali, è pure un caro servigio; simile a quello che rende il vino all' infelice, assopendolo in profonda dimenticanza su tutti i suoi mali, almeno fino alla veglia importuna. Sì soave diletto, sì beata tranquillità letteraria, che certi sapienti si procacciano coll' evitare diligentemente tutte le difficoltà che inquietar li potessero, apportando incertezza sull' opinione della propria penetrazione non usa ad urtare in qualche villana durezza, armoneggia eccellentemente collo spirito di un secolo, in cui si teme tanto di esser turbato, di esser eccitato da quel letargo morale, onde si preferisce l' indifferenza alla verità, e l' epicureismo alla virtù. Tutto si lega; e l' universo morale ha le sue leggi generali quanto il fisico: quella dei nostri costumi sarebbe la legge della facilità, per la quale si rigetta ad un tempo la virtù, perchè non tanto facile quanto si vorrebbe a praticare, e la sapienza perchè non tanto facile quanto si vorrebbe a comprendere. Povera umanità! inorridisce, [...OMISSIS...] al pensiero di ciò, che i nostri rozzi antenati chiamavano col nome di virtù e di sapienza: ma ella si compone appositamente una virtù facile ed una sapienza scorrevole! Quando si ricerca con tanta delicatezza ne' testi scolastici la facilità , che adunque si fa se non un' applicazione dello spirito generale del secolo in cui viviamo? Per altro non cerco di oscurare la questione; anzi di chiarirla. Concedo dunque che la facilità sia un pregio desiderabilissimo, ove ella consista nella espressione, e nella chiarezza assoluta de' pensieri. Ma ciò ch' io avverto si è, che si confonde questa specie di facilità con un' altra che consiste, come dicevo, nell' escludere delle parti rilevanti di verità, come quelle che sembrano troppo gravi, e inducenti a seria meditazione, e nell' evitare tutto ciò che può produrre un picciolo ostacolo, qualche cosa d' insolito e di misterioso, innanzi a cui la mente umana sia costretta di umiliarsi e di deporre la presunzione, o pure di affaticare, e di vincere la rilassatezza, e con ciò conoscere che v' hanno al mondo delle cose delle quali non si può giudicare se non dopo uno studio lento e faticoso. Nè voglio per questo che si aggravino più del necessario le menti de' fanciulli; ma sì, che per soverchia delicatezza e amore di questa seconda specie di facilità, non si privino della verità solida e necessaria. Vi sono delle cose le quali sembra che nulla abbiano di profondo e che la loro natura sia per così dire di essere superficiali: tali sono le cose esterne e materiali, le quali col primo sguardo della mente tutte si assorbono e si comprendono: e perciò lo studio di queste si può fare con celerità dilettevole, giacchè una mente felice in breve tempo ne trascorre molte, e tutte bene le comprende, e le ripone qual ricco tesoro. Tutt' altro è il procedere del pensiero nelle verità morali, perciocchè la natura di queste ha una certa profondità inesauribile che col primo sguardo non si attinge: di che è necessario insistere a lungo sopra ciascuna: e quanto più vi s' insiste e vi si penetra, tanto più vi si sentono e scuoprono cose che da prima non s' erano scorte nè sospettate, e così con lento grado si va ad intendere la natura intima di tali verità, la quale non è mai tanto investigata che non tenga ancora al suo fondo alcun che di secreto e di misterioso, che alla mente meditatrice incute riverenza e virtuosa curiosità. Ma una tale lentezza di meditare è aborrita dall' uomo presuntuoso e dal materiale; perciocchè il primo è costretto di raffrenare i suoi troppo confidenti pensieri; e al secondo, sparso nella superficialità della materia, sembra anzi un gioco d' imaginazione che vera realtà quell' universo morale, la cui natura è tutta interiore, e tanto più reale quanto più occulta ai sensi e manifesta allo spirito. Egli è perciò che tutti i sofisti degli ultimi tempi tanto si affaticarono d' impoverire e distruggere la metafisica, col pretesto ch' ella è composta di questioni troppo difficili, anzi giudicate da essi insolubili, e più ancora (giudicando di ciò che confessano non conoscere) inutili. Sollevarono dunque gli uomini da un' improba fatica? Non fecero che raddoppiarne loro il carico: giacchè non potendo questi prescindere da quelle questioni, col far loro dimenticare tutto ciò che ne avevano meditato le generazioni precedenti, gli obbligarono a tornare a capo col gran lavoro, e ricominciare lo studio dagli elementi. Questo spirito di superficialità col pretesto di facilità fu introdotto pur troppo nelle scuole: che furono ridotte ad occuparsi quasi interamente di oggetti materiali e a sorvolare sulle cose morali colla stessa leggerezza, onde si può fare con quelle. E non è a dire quanto tale superficialità sia nociuta alla Religione; e sembra assai probabile che il popolo cristiano del secolo illuminato, se udisse recitare dal pergamo un' omelia di Agostino o di Cipriano, dimanderebbe: Che argomento tratta o che religione insegna quest' oratore? Il principio adunque della facilità, in questo senso intesa, non può esser quello che regola la formazione de' testi scolastici; poichè volendo secondo questo principio tor via tutto ciò che torna oscuro alla mente del giovanetto, bisognerebbe torre tutto ciò che ha relazione colla dottrina della religione ed anche colla dottrina morale: poichè tutto ciò è difficile necessariamente, ed ha in sè dell' oscurità non solo per un giovanetto, ma per un adulto ancora e per un sapiente. Dio non ha educato il genere umano al sublime suo fine col tor via dalle sue istruzioni tutto che fosse difficile, oscuro, e misterioso, anzi col comunicargli tutto ciò, perchè fosse perpetua ed inesausta materia di sua meditazione. Non pensò Gesù, quando ammaestrava i suoi uditori, a rimuovere da' suoi discorsi quel difficile che consisteva nel sublime della verità, anzi tutti i suoi discorsi quanto semplici nella espressione, tanto li disse sublimi e profondi nella materia; perciocchè se l' uomo nello studio delle cose fisiche va dai particolari a' generali, nello studio all' incontro delle cose morali e metafisiche viene dai generali a' particolari: si sviluppano queste dottrine nella sua mente, come si sviluppa dal suo picciolo germe la pianta, la quale tutta intiera, benchè raggruppata e ravvolta, in quello si conteneva. Si spandano adunque negli animi e nelle menti de' fanciulli delle grandi verità, eziandio che tosto non le comprendano, perciocchè sono come sementi, che si sviluppano nel corso di loro vita; sono verità, che quantunque oscure diventano poi feconde madri di luce; che si fanno alimento alla intelligenza per la stessa loro oscurità, la quale viene cangiandosi in luce più pura, quanto più a lungo sono state soggetto di meditazione. Or poi, premesse queste cose sul principio della facilità, io tengo come cosa chiara ed aperta, che dovendosi fare scelta d' alcuna persona, a cui commettere la composizione di qualche libro scolastico, non si debba tenere ad unica regola la vicinanza di questa persona alla mente ed all' indole de' fanciulli. Che se così fosse, il miglior compositore de' libri de' fanciulli sarebbe un fanciullo. Se dunque non basta questa qualità di sapere impicciolirsi alle menti fanciullesche, è da vedere che cosa si richieda sopra ciò a formare un buon libro per i fanciulli. Ora io dico che a questo conviene bensì l' impicciolirsi, ma che dopo ciò debba essere tanto più acconcio compositore quell' uomo che è più grande. Imperciocchè da prima i piccioli uomini sono i più pregni di pregiudizi, e stanno fissi a certe loro abitudini e foggie di pensare loro proprie e quasi ammanierate: per cui quanto l' uomo sarà più ristretto nel suo pensare, tanto più rovineremo in quello sconcio che di sopra fu tocco, di voler conformare uomini da natura variatissimi non alla foggia che più loro conviene, o per dir meglio a quella quasi larga e vantaggiata forma del vero, ma tutti ad un misero e rannicchiato modello, arbitrario ed accidentale. Di poi non si creda così legger cosa possedere le chiavi del cuore umano, il quale è precipuamente da allevare nella gioventù, ed al quale tutti gl' ingegni dell' educazione sono da volgere: poichè quantunque nei fanciulli questo cuore sia tenero e semplice, è tuttavia cuore umano, e tiene i germi di tutte le umane inclinazioni, ed ha le sue molteplici pieghe e sinuosità, ed aditi riposti, e viste variatissime; e dentro alle regioni di simil cuore non può mettersi sicuramente se non quell' uomo, il quale sappia di molto filosofare, ed abbia di molto osservato sopra se stesso e altrui, e colla perspicacità della mente rilevate le molle delle nostre operazioni. Dal che quanto si trovi star lungi un mediocre uomo, ancorchè molto presumente di se stesso, o molto bene altrui veduto per dolcezza di parole e di atti, si fa manifesto da quelle sottili osservazioni fatte sulla gioventù da uomini sagacissimi, le quali quanto utili e necessarie, appariscono altrettanto lontane dalla mediocrità degl' ingegni. Ma che a comporre un libro da usare in tutte le scuole di uno Stato si esigano molti lumi e consumato senno, oltre le ragioni dette, si prova anche dalla natura di tutti i compendii o breviarii delle scienze. Poichè quegli che intende ben addentro che cosa si richieda a dettare un ottimo compendio di scienza, confessa che questo appare bensì cosa breve nella mole e leggiera nella semplicità dello stile, ma che suppone studio assai profondo della scienza stessa: dalla quale bisogna spremere il puro succo, e cogliere, quasi direi, ciò che ha di più spirituale; e perciò è necessario conoscerla molto, e saperla rivolgere, e maneggiare, e atteggiare da tutti i lati, come cosa in tutto propria. E questo sentimento comune a' veraci dotti è però tale, cui non s' arriva a capire giammai dai ristretti uomini di cui parliamo, i quali si tengono gran maestri di compendii, e sorridono di chi ci trova tai nodi. Ma la ragione principale della necessità di molto senno nella composizione dei libri scolastici non fu ancora da me toccata. Tale necessità consegue naturalmente al sistema cristiano della educazione di sopra esposto: quando la leggerezza e la facilità nel proporre libri per la gioventù è conseguente al sistema contrario. Questo sistema, mi si lasci dire, falso filosofico, oltre trascorrere su tutte le cose con grande agilità per la naturale presunzione che alleggerisce le menti, considera tutti gli oggetti della educazione squarciati e smembrati, e senza la naturale soggezione dell' uno all' altro: il sistema cristiano all' opposto li vuol collegati ed uniti. Perciò il primo toglie la dignità sua a ciascuno di quegli oggetti, e, staccandoli dal suo gran tutto, li presenta come cosa da poco e di facile riuscimento. Il sistema cristiano all' incontro, volendo che ciascun oggetto appaia membro del gran corpo di cognizioni a cui appartiene, suggerisce ai pastori dei popoli di far lavorare anche qualunque picciolo membro di questo corpo scientifico da tali e tante persone che sieno atte ad avere sempre presente il tutto, e sappiano perfezionare ogni parte sopra un disegno generale. Ed allorchè qualunque membro, ancorchè per se stesso picciolo, si considera in questo raggiungimento col suo tutto, egli acquista una cotale grandezza e dignità, a cui non rifugge certo di piegarsi anche l' uomo sommo e dottissimo. Ma senza questo incitamento, come pretendere che le grandi menti s' abbassino agli studi giovanili? E con che profitto si daranno a ciò? E con che speranza? Nè gli studi privati di un sapiente otterrebbero, come ho notato, di supplire al bisogno di una nazione, nè la concordia di molti sapienti a questo fine è possibile senza che quegli, a cui spetta la direzione de' pubblici studi, li chiami e raguni insieme. E di vero se un sapiente lavorasse da se stesso, e non chiamato, al bene della pubblica educazione, nè avrebbe ove raggiungere il suo lavoro al sistema generale, nè saprebbe aspettarsi alcun frutto dalle sue fatiche, o frutto lievissimo (1). Ma formato il collegio di quelli che la voce di tutta la nazione proclama dotti insieme e pii, come potrebb' essere che questo collegio non si ponesse con tutte le forze a corrispondere all' onorata sua destinazione? Non è proprio de' grandi, il concedo, seguire le cose picciole: ma la formazione de' testi scolastici non sarebbe più cosa picciola, quando tutti i testi insieme formassero questo gran tutto che ragioniamo, e quando la fatica avesse a scopo non il privato e momentaneo giovamento, ma il giovamento dello Stato, dal quale ogni cuore virtuoso è toccato, e più è toccato quello de' grandi. E se la pubblica munificenza sparge tesori nella educazione, quale ricchezza più utilmente sparsa che in rimunerare questi dotti insieme adunati alla formazione del piano della educazione nazionale, e dei testi ad essa necessari? Poichè l' aspettazione di un largo e giusto premio alle loro fatiche, sarebbe anch' essa non picciolo eccitamento ad addurre la mente di questi savi alla nobile occupazione: specialmente se il premio fosse grande sì, ma commensurato meno al tempo speso, che all' opera conseguita. Chè molta forza anche sopra l' animo degli uomini dotti ha quel lucro onorato che accresce loro i mezzi e gli agi o della vita, o degli studi. La quale spesa tanto meno dovrebbe rincrescere quant' essa non è continua, anzi cotale che fatta una volta consegue un' opera lodevolissima, e durevole. La quale ancora toglie molti altri dispendii, non gravi a dir vero, ma pel loro numero e per la loro continuità più dannosi a mio credere alla economia, fatte le ragioni compiute. Poichè, donde nasce il bisogno di mutare con frequenza libri, e regolamenti nelle scuole, se non dal concedere troppo agli arbitrii di questa e di quella persona, e però dall' esser le cose abbandonate a' modi di vedere particolari, i quali variano in infinito, e non regolate su quello permanente della comune verità? Nè solo ciò debbe avvenire quando, per avventura, si stia troppo aderenti al voto della persona incaricata di questi affari, che per quanto sia rispettabile è sempre una; ma ben ancora per quel difetto così solito fra gli uomini, che corrono a moltiplicare le disposizioni all' intervenire de' casi particolari senza calcolare l' effetto generale delle medesime, e ciò in dipendenza o dall' essere accaduto forse un solo accidente, e perciò dalla possibilità e non dalla probabilità che si rinnovi; o dalle relazioni degl' inferiori. E oltre essere nobile, utile, dignitoso e per avventura anche economico, questo collegio di uomini che la voce pubblica ha segnati per veri dotti, congiungerebbe un politico vantaggio notabilissimo. Per esso collegio verrebbero i membri che lo compongono interessati con accorgimento e raggiunti alle cose pubbliche, e riceverebbero una buona direzione a comune vantaggio i loro ingegni; perciocchè quando in quest' opera fossero impegnati, col bene di questa fisserebbero le loro idee, altramente vaghe, e talora nocevoli. E quantunque finita la ricevuta incombenza dovessero cessare a questo collegio gli emolumenti, tuttavia potrebbe rimanere una consulta o collegio onorario, il quale si udisse nelle innovazioni che fosser proposte a miglioramento; fissando a' particolari consulti certo premio particolare. Data la formazione di questo piano generale delle scuole, l' occupazione de' naturali officiali dello Stato si ridurrebbe a provvederne l' esecuzione; al che sono acconci i particolari, conciossiachè non si tratta che d' eseguire ciò che fu dai molti concepito. Ma la dignità dell' opera, l' ampio bene da questa aspettato, l' onore e il lucro promesso a questi dotti, non sono i soli eccitamenti onde le grandi menti s' impegnano a pensare a' fanciulli; nel che, impegnate che fossero, riuscirebbero maravigliosamente nell' appareggiarsi a loro, non al modo di quelli che s' abbassano perchè non sanno elevarsi, ma di quelli che s' abbassano per condurre od avvicinare i minori alla propria altezza. La Religione nostra ha un modo di far chinare i sommi uomini a tutte misure, nuovo e suo particolare. Questo inchinamento luce nel fondatore della Religione, il quale essendo veracemente grande, mostrò di fare sue delizie i fanciulletti, e ne lo ingiunse a tutti i discepoli suoi. [...OMISSIS...] Non andò egli in cerca di quell' abbassamento naturale e a dir vero ignobile delle menti mediocri e ristrette; ma egli precettò l' abbassamento nobilissimo, cioè l' abbassamento volontario comune al grande e al picciolo, poichè comune a coloro che hanno carità. Amore è quello che c' impicciolisce utilmente alla misura de' giovanetti, non già nativa imperfezione e imperizia. E qui appare nuova luce, e mirabile, uscir fuori dallo spirito della cristiana Religione. Nel collegio adunque di questi dotti regni questo spirito: vi regni solo ed intero: senza di ciò il piano non sarà mai perfettamente acconcio a' bisogni degli uomini; e più o meno converrà alle loro necessità, secondo che più o meno vi regnerà: nè questo spirito del cristianesimo, che è quello dell' unica vera grandezza, vi potrà tenere intero dominio, se il carico delle elezioni si dia a sole persone secolari, il più delle quali professano il cristianesimo senza averne il pieno studio ed il finito intendimento, e perciò ne sfuggono le più vere conseguenze, e pongono così arbitrario limite nella pratica di esso, che converrebbe a istituzione prodotta dall' arbitrio umano, ma non a religione proclamata dalla parola divina. La proposta però di una dotta assemblea, a cui sia commessa la composizione de' testi per le pubbliche scuole, sarebbe vana se non vi s' aggiungesse una saggia organizzazione. Nella quale la cosa principale si è questa, che tale adunanza abbia un uomo sopra gli altri grande che la presieda e che ne diriga i lavori. Conciossiachè sì come un solo letterato non darà mai alle scuole pubbliche de' testi perfetti, così un' assemblea di letterati non li darà pure giammai, quando un solo dirigendola non dia alla medesima l' unità, e non sappia esserne dirò così l' anima che l' avviva. E veramente il progetto proposto richiede che tutti gli oggetti dell' istruzion giovanile dimostrino un bell' ordine, un legame fra loro, che insomma formino una perfetta unità. Ed a questo ottenere egli è necessario che v' abbia una mente sola che ne concepisca il generale disegno, e ne getti per così dire l' abbozzo. Tale piano debb' essere un' istantanea creazione d' ingegno sublime, d' ingegno che percipiendo e misurando d' un tratto tutti i rispetti, ne sente l' unica e indivisibile armonia che da tutti risponde, e la contempla col pensiero, e l' affissa, e la fura per così dire al secreto suo spirito, e la mette in parole. Così l' opera d' un grande artista se non è creata da un atto semplice della mente, non può attingere quella perfezione che sta in una unità indivisibile, in una unità che tutte le relazioni in sè aduna e comprende. Perciò indarno nell' opera di cui parlo si stancherebbero molti ingegni, se fra essi non ve n' avesse un solo potente, che tutta affissandola e ritraendola con una sola vasta intuizione dalla idea esemplare della sua mente, ne dimostrasse manifesto il modello, che divenisse regola e guida sicura a tutti gli altri che insieme con lui alla stessa impresa sono chiamati cooperatori. Allora dunque tale edificio può riuscire perfetto, quando una gran mente ne pone le basi immutabili e necessarie: ed un' assemblea sopra quelle unanimemente il lavora; quando il maggior numero dei voti di tale adunanza non prevale che sulle parti accessorie e sulla esecuzione dell' opera; e non sull' idea fondamentale, a cui solo qualche rarissimo può sollevarsi; ed è così semplice di sua natura che concepita che sia, il mutare è guastarla. Ma come ritrovare quest' uomo singolare, questo savio che gitti tal fondamento? Non è questo in potere de' governanti; conciossiachè la sola Provvidenza è quella che spedisce alle nazioni ne' momenti di sua clemenza uomini sì preziosi. Egli è perciò dovere di cercare mai sempre quest' uomo eminente fino a tanto che si rinvenga; perciocchè altramente si correrebbe rischio di peccare contro alla divina Provvidenza stessa, la quale potrebbe mandarlo, e per la negligenza degli uomini, egli rimanersi oscuro e disconosciuto; così quella li punirebbe colla privazione del gran bene che loro offeriva, e ch' essi verrebbero indirettamente a ricusare. Fino poi che questi non si ritrova egli è necessario mettere alla direzione della detta assemblea quegli che si reputa fra tutti il migliore, il quale potrà presentare una proposizione alla volta, cominciando dalle più generali, di quelle che servir debbano a direzione nel componimento dell' opera di cui parliamo. Così a ragione d' esempio, la prima proposizione o regola che questi presentar dovrebbe, sarebbe appunto quella che « tutti i testi delle scuole formassero insieme una perfetta unità, sicchè ciascuno riuscisse ad esser parte d' un opera medesima e l' uno congiunto coll' altro si dessero scambievolmente lume e giovamento, facilitando a vicenda l' apprendere al giovanetto ». La seconda proposizione o regola generale per la formazione dell' opera di cui parliamo potrebb' essere appunto quella della triplice unità; cioè dell' unità del fine, a cui tutti i testi debbono armoniosamente tendere, dell' unità del sistema o della catena che debbono mostrare le verità fra di loro, e dell' unità del metodo o delle diverse potenze che si debbono tutte istruire e proporzionatamente perfezionare nell' uomo. E così discusse queste generali proposizioni proseguir dovrebbe a discutere ordinatamente tutte le altre che servissero di direzione all' opera de' testi scolastici; collo stabilimento successivo delle quali regole s' otterrebbe di dare un regolar movimento all' opera a cui molti ingegni concordemente dovessero lavorare. Ma ora è da confessare che il privato istruttore non può avere una educazione pubblica così savia ed intera, come vorrebbe esser questa di cui ho messo innanzi un desiderio, sopra cui rilevare l' edificio della educazione privata; e non essendo posto tal fondamento da' legislatori, egli debbe per quanto è possibile venirlosi formando da se medesimo. Perciò egli non sembrerà al tutto inutile il toccare, come ordinar potrebbe questo lavoro, o quest' opera, dirò quasi, temporanea. E il concetto che n' esporrò, eziandio che imperfetto, sarà nondimeno foggiato sullo spirito di unità a cui conduce, parte con aperto e parte con insensibile impulso, la Religione nostra, che tiene sempre a fisso scopo la perfezione di tutto l' uomo, nel che dimostrasi eretta sopra di una divina «androposofias». Questo adunque mi conduce a considerare sì gli studi primi, come gli ultimi della gioventù, quali anelli d' una catena medesima e parti proporzionate d' un solo tutto, la perfezione dell' uomo. L' uomo nato alla società e vivuto nella società co' suoi simili fin dalla culla, con voce di natura è chiamato a due scopi, o a due operazioni. Primo egli è chiamato a perfezionare la sua natura, a crescere nel corpo e nello spirito, a studiare l' armonico sviluppo di tutte e due queste parti, fino a ch' esso, composto di quelle, sia giunto al suo natural compimento. Sviluppato e cresciuto, egli debbe pensare ad apprendere il modo di occuparsi nel bene pubblico. Ecco i due atti ed intendimenti della educazione: formare l' uomo; e l' uomo formato rivolgere al bene de' più. La prima cosa si ottiene con tutta quella educazione che muove dagli studi primi sino alla fine del Liceo; la seconda cosa è proposta negli studi della Università. Per formare compiutamente l' uomo, primo atto dell' educazione, non si debbe trascurare nulla degli oggetti connessi coll' uomo, e questi sono due principali, Dio, e se stesso, ed in parte anche la Natura. Vale a dire non si debbe trascurare in quella prima opera della educazione tutto ciò che di Dio, di se stesso, e della Natura, giova a lui di sapere, perchè possa essere bastevolmente formato. E per ciò stesso non si vogliono trascurati gli aiuti a queste cognizioni. All' incontro nella educazione data all' uomo per lo migliore della società, secondo atto dell' educazione, quantunque anche a questo giovino varie cognizioni, tuttavia il sostanziale consiste che si approfondi in alcun ramo particolare. Poichè se il bene di noi stessi consiste nell' opera nostra, e perciò se bisogna che rispetto a noi siamo instruiti ed esercitati in tutto che ci risguarda; il bene all' incontro della società non risulta da un solo, ma dall' opera di molti, e perciò non importa che ciascuno sia educato in tutti i ministerii che risguardano la società (ciò che non sarebbe possibile) ma in alcuna professione particolare: bastando che tutti insieme i membri della società, i quali si vogliono considerare come una persona morale, possedano tutte l' arti a lei utili e necessarie, e perciò che rispetto al bene pubblico abbia una educazione compiuta questa morale persona. Laonde se nelle università alcuni studiano di proposito Dio, come quelli che sono educati nella Teologia, altri l' Uomo come quelli che sono applicati alle Leggi, altri la Natura come quelli che sono intesi alle Matematiche e alla Medicina; questa partizione non è punto riprovevole, ma conforme al fine. E tuttavia, perchè ciascuna di queste arti frutti bene ai molti per cui è posta, ella vuole essere innestata sopra l' uomo già ben formato e compiuto per se medesimo. Il che recide un nuovo sofisma di certi cortissimi filosofi, i quali vedendo che quest' arti e scienze utili alla società potevano stare divise, e la formazione all' incontro dell' uomo si stava tutta unita, cominciarono copertamente a vilipendere questa, e spacciandosi unicamente solleciti della filantropia , proclamarono come sole lodevoli quelle scienze che fossero rivolte propriamente al ben pubblico, e in questo modo furono condotti a cadere in tale follezza, che l' uomo dovesse esser posto a far bene altrui quando nol sapeva fare a se stesso, e rovinarono il primo fondamento della educazione, la legge naturale della quale è questa: CHE L' UOMO SI FORMI, E POI SI ADOPERI. In tutti gli studi adunque del giovane fino al compimento della filosofia dovranno concorrere insieme la cognizione di Dio, la cognizione di se stesso, e la cognizione della Natura in quella parte che si avvincola a quelle due prime fondamentali, come pure la notizia dei mezzi all' acquisto delle medesime. Le quali dottrine tutte possono entrare nell' uomo, quasi per diversi aditi, per le diverse sue facoltà. Laonde seguendo i passi della natura bisogna considerare quelle facoltà che si sviluppano prima, quelle che si aprono dopo, e secondo che esse appariscono e quasi naturalmente nell' uomo fioriscono, dare loro coltivamento. Poichè indarno altri si sforza di andare contro alle leggi della natura, la quale non cede a noi, e della temerità nostra, se cozziamo con essa, per molti mali si vendica e ci castiga. Noi adunque seguaci della natura cercheremo prima di coltivare in modo speciale la Memoria, appresso l' Imaginazione, in fine l' Intelletto; poichè in quest' ordine si maturano le nostre facoltà. La Memoria riceverà la sua cultura principalmente negli studi della Grammatica, la Immaginazione in quelli della Rettorica, l' Intelletto nella Filosofia. E` però accuratamente a considerare, che le separate culture della Memoria, della Imaginazione, dell' Intelletto, non sono altro che i mezzi, per cui formiamo il cuore dell' uomo, che è quanto dir tutto l' uomo. Sarà dunque meglio detto che in tutto il curricolo degli studi non ci occupiamo d' altro affare, che di formare il cuore dell' uomo, ma nella Grammatica per mezzo della Memoria, nella Rettorica per mezzo dell' Imaginazione, nella Filosofia per mezzo dell' Intelletto. E venendo a partire più divisatamente la prima parte di questi studi, che nominai Grammatica, per non usare vocaboli insoliti, ma con cui voglio intendere sottosopra tutto ciò che viene compreso nelle scuole elementari, e ancora nelle prime quattro scuole del nostro Ginnasio, questi studi abbracciano due parti: 1 i mezzi all' acquisto delle cognizioni, cioè le lingue, tre delle quali a me paiono necessarie, la italiana, la latina e la greca, consanguinee tra loro e non soverchiamente difficili, se se n' allevia lo studio per questa lor parentela, non messa ancor bastantemente a profitto nell' istruzione; e 2 le stesse cognizioni. Per la lingua italiana facciam pure assai conto di quel sapore sincero e tutto soave che si sente ne' fiorentini scrittori, ed usiamo delle loro grammatiche, conciossiachè è lor nativa tal grazia di favellare, che noi forestieri da Firenze più difficilmente a gran pezza conseguiamo per arte; venendo a loro tal dono non so dir io se più dall' aure soavi de' colli o dall' acque dell' Arno, ma certo da una cotal vaghezza di liberale natura. E mi piacerà che sia fatto uso altresì, per dettare al fanciullo, di qualche raccolta di frasi sì della lingua italiana che della latina, e delle particelle messe insieme dal Tursellino, cioè di que' nessi del discorso che il rendono dolce e di soave andamento pe' naturali tragetti dell' uno nell' altro pensiero. Per la lingua greca, non solo giova quel metodo che vi ha trovato il Daponte, ma ancora è lodevole la breve grammatica che noi usiam nelle scuole. Pel Dizionario poi meriterebbe di essere più conosciuto quello del Nitz che tiene continuo risguardo alle origini delle parole (1), e che mi parrebbe assai comodo anche in Italia, se dalla lingua tedesca ci fosse tradotto. La connessione poi di queste lingue, che sono i mezzi alle cognizioni, colle cognizioni stesse, oltre nascere per quel general vincolo del loro fine che vorrà esser fatto conoscere al giovanetto, si stringerà vie più per tutte quelle sentenze e que' tratti che si fanno tradurre, per esercizio, da una in altra lingua: i quali vogliono esser pensatamente eletti, ed acconciati a tutto il rimanente dello insegnamento, e spiegati al discepolo non pure nelle parole, ma nelle cose ancora. E in quanto alle cose, come abbiamo veduto, a tre soli oggetti tutte si riducono, Dio, l' Uomo, la Natura. In quanto alla cognizione di Dio vorrei che in tutte le scuole fosse letta la Scrittura con apposita distribuzione de' libri e apposite noticciuole ai medesimi; e vedine la distribuzione. Nelle Scuole Elementari poni gli storici: nelle prime quattro scuole del Ginnasio dispiega i morali dell' antico testamento: alla Rettorica dischiudi le poetiche amenità de' Profeti e dei Salmi: apponi alla Filosofia il Vangelo, e nella Università fa studio le Apostoliche Lettere e gli Atti. Vorrei intralasciata la Cantica, l' Apocalisse, e tutti i luoghi, che i Pastori della Chiesa giudicassero da intralasciare. E perchè nelle divine scritture non composte pel solo uso de' fanciulli, ma per la stessa educazione dell' uman genere, la cui vita si protende nel successo de' secoli, non è quell' ordine di dottrina, ove le verità si veggano rannodate e dedotte in un regolare sistema, ma v' è questo sistema qua e là sparso in brani, secondo il beneplacito della sapienza dell' altissimo Educatore, perciò a questa lezione scritturale si unirà altro libro sopra la Religione che la insegni in ordine naturale a' fanciulli, rivolto a loro appianare l' intelligenza della Scrittura. E quest' opera vorrei divisa in sei parti. Nella prima vi si considerasse la Religione come rivelata , cioè fosse un raccolto semplice delle rivelate verità, o un catechismo da essere usato nelle scuole elementari. La seconda parte continuandosi alla prima risguardasse la Religione come giusta , o pure come il fonte della giustizia, scaturendo questo fonte dalla stessa dottrina della fede sposta nella prima parte, e quindi deducendo la morale generale, ed un trattatello proprio pei giovanetti. Nella terza parte poi la nostra Religione apparisse come bella , e servisse all' uso della Rettorica; e queste bellezze della Religione fosser tratte sì dalla profondità de' dogmi, che dalla santità dei morali precetti. Per la Filosofia fosse la parte quarta, e trattasse della Religione come sapiente , e ne sviluppasse il vasto e meraviglioso sistema fondato in soli due uomini Adamo e Gesù Cristo, e rivolto per un mezzo divino a riparare alla corruzione della primitiva natura umana, non già col ristorar quella stessa che volle essere abbandonata alla maledizion ricevuta, ma col fondare sulla sua distruzione una natura nuova vincente la prima per infinito numero di maravigliose magnificenze. Nella Università poi si dovesse far uso della quinta e della sesta parte di quest' opera, cioè i due primi anni della quinta che contemplasse la Religion come vera , presentandola col corredo delle sue prove, non tanto per gli studiosi che nutriti alla fede ne sentono nel fondo della pura coscienza la verità, e splende in loro il lume di Dio, quanto per munirli contro agli sgraziati aggressori di lei: e i due ultimi anni, della sesta che ammira la Religion come utile non solo all' altra vita, ma pur agli usi della presente, dove imprendessero i riguardi dovuti all' autorità ecclesiastica, e in una parola il modo ond' usar bene, secondo la guisa delle lor varie professioni, questa Religione, perchè ella ottenesse il maggior bene nella società e conseguisse a pieno la lode che le dà Paolo: « « La pietà è utile a tutto avendo promessa della vita presente, e della futura » » (1). Il catechismo gioverà che sia il medesimo, o tale che s' accordi a pieno a quello della Diocesi, perchè l' insegnamento delle Scuole e della Chiesa proceda d' un medesimo modo. Ciascuna parte poi di quest' opera abbia riguardo e si rannodi alle parti corrispondenti della Scrittura. Qui forse gioverebbe che non essendo ancora quest' opera compilata indicassi qualche fonte onde cavarne la sostanza. Ma mi smarrisce d' una parte la moltitudine degli scritti in questi argomenti, dall' altra la scarsezza di quelli che al nostro uopo s' acconcino. Ne nominerò tuttavia alcuni, non intendendo di approvare con ciò tutto quello che in sè contengono. Potrebbesi usare in luogo della prima parte il nostro catechismo; e foggiar la seconda sulle « Istruzioni per la gioventù » del sig. Gobinet; la terza sul « Genio del Cristianesimo » del sig. Chateaubriand; la quarta su' « Pensieri » di Pascal; la quinta sull' « Apologia » di M. Tassoni; la sesta sugli scritti di que' due lumi del nostro secolo, il conte De Maistre, ed il sig. Bonald. Ma tali libri, ancorchè eccellenti, a pieno non soddisfaranno per più ragioni, e fra queste perchè non sono composti sopra disegno generale, perchè molte dottrine ch' essi contengono non sono state ancora comprovate bastevolmente, o perfezionate dalla pubblica discussione, e perchè finalmente la posteriore non contiene nè suppone le precedenti, come vorrebbe avvenire nel nostro concetto, acciocchè chi studia, poniamo, la Religione come bella , non rimanga di studiarla insieme come giusta e come rivelata , e chi la studia come sapiente venga insieme a ripetere quanto n' ha imparato delle sue bellezze, de' suoi precetti, e de' suoi dogmi, e dicasi lo stesso dell' altre sue parti. Lo studio dell' uomo si dovrà dare ai giovanetti nella Storia: e così la Storia non sarà una vana curiosità, ma sarà volta al fine di tutta l' educazione, la formazione del cuore umano. Con questo fine e su questo disegno dovranno essere formati i Testi di storia, che vorranno nello stesso tempo concatenarsi con gli altri oggetti. Essi sieno quattro, l' uno sempre continuazione all' altro: il primo contenga un compendio di Storia Universale; il secondo un compendio di Storia particolare della Nazione; il terzo la storia della Provincia; e il quarto la Storia della Letteratura. Il primo di questi potrà giovare per la Grammatica; il secondo e il terzo per la Rettorica; e il quarto per la Filosofia. Nella Storia Universale vi potrebbe avere una parte da principio che contenesse nude le epoche principali di tutta la storia cogli anni e i luoghi; e questa sarebbe quella picciola Storia, Cronologia, e Geografia da usare nelle scuole Elementari. Di poi potrebbero succedere tre altre parti; l' una delle quali contenesse la Storia Universale più polposa della prima, dove con maestrevoli tocchi fossero posti in veduta e lumeggiati i grandi uomini, innalzati i buoni, depressi i pravi, eccitato l' amore alla virtù, commosso l' odio nel vizio; e questa parte suddivisa in due, cioè nei tempi avanti e dopo Cristo, potrebb' essere acconcia alle due prime scuole del Ginnasio. Nell' altra parte, secondo il pensiero di Bossuet, vi vorrei trattata la successione della cristiana Religione cominciata in Adamo sino ai nostri tempi, e mostrato l' ordine stabilito da Dio che tutti gli avvenimenti servano alla gloria della sua Chiesa, e al bene de' suoi eletti (1); e questa che si lega colla prima sia per la terza scuola. Nella terza parte di Storia che serve per la quarta scuola del Ginnasio sieno dipinte le successioni degl' imperii e quasi una istoria delle umane società. Ma nel medesimo tempo che quest' opera debbe essere scritta con semplicità di stile e chiarità di pensieri, come particolarmente addimanda la tenerezza della gioventù, s' avverta che non tiene già lo scopo del Discorso sopra la Storia Universale, il quale è tutto rivolto alla formazione di un protettore della Chiesa e di un principe, ma debbe in quella vece avere a fine la informazione di un cristiano e di un suddito. Questo libro vuol essere dettato non solo con moltissimo senno, ma ben ancora con istile scelto e lingua legittima e tale ch' egli sia in un tempo medesimo sorgente d' istruzione di cose e di parole, e scusi ogni altro libro di lettura nelle grammatiche. Dopo conosciuta in tal modo la Storia Universale e dopo essersi formata quasi una dipintura de' più grandi fatti nella mente, dopo aver imparato altresì il modo di cavarne profitto al miglioramento dell' uomo, potrà il giovane arrivato agli studii della Rettorica posarsi più agiatamente nella Storia della patria e di tutta la monarchia, e in modo particolare di quella provincia e città a cui appartiene. Questa storia che è meno lode sapere che disonore ignorare, avvincola il cuore di molte dolci affezioni, ed il nutre di patrii esempi, i quali suscitano l' emulazione, e l' attitudine stessa ad operare le cose confacenti al ben della patria. Nella Filosofia poi succede la Storia de' progressi dello spirito umano, e tanto maggiormente questa storica narrazione de' pensamenti degli uomini potrà essere utile, quant' ella metterà più in mostra l' incredibile debilezza e fallacia del loro ingegno e il dominio cieco delle passioni, fino nelle menti più perspicaci, che in se stesse, e non nei lumi della divina rivelazione confidarono. E la varietà delle opinioni in tutte parti della filosofia insegnerà alla troppo celere e confidente gioventù la cautela in giudicare, la tardità in condannare, la larghezza in comportare opinioni contrarie alle proprie, e il pericolo dello stringersi soverchiamente ad alcuno degli umani sistemi: dalle quali virtù nasce la urbanità e la dolcezza delle dispute, la facilità della convivenza, e la scoperta stessa della ritrosa verità. E questa storia torrà molto di lusso al Testo che poi si dovrà formare della Filosofia, il quale vorrà esser in tal modo composto che si possa aggiungere e quasi inserire nella storia stessa, giacchè egli debbe insegnare a portar giudizio delle diverse opinioni, e dare in mano il filo per non ismarrire nell' infinito labirinto delle umane disputazioni. La Filosofia e la Storia della filosofia sono indisgiungibili, ed è necessario dirò così che si mescano insieme. Gli errori sono quelli che spingono nella maggior sua luce la verità, la quale annunziata sola e senza la contrapposta falsità non rimane nella mente che fornita d' una sua luce modesta e niente viva e risaltante, giacchè egli è da' confronti che viene scossa e tirata la maggior forza della nostra attenzione. D' altro lato ad una grande ed alta verità la mente non arriva d' un salto; ma l' è necessario a ben conoscerla di fare quella scala medesima che suol fare nel rinvenirla: e quando si sono osservate le gradazioni che ha prese la luce di quella verità nelle menti degli uomini; quando si studiò cioè la storia di quella verità, allora si può fondatamente sperare d' averla concepita e penetrata a sufficienza: altramente ella non sarà ricevuta più addentro che nella memoria, o s' ella verrà mettendosi ancora nell' intelletto ci starà tutta inerte, senza vita, senza moto, e sarà come persona mezzo sconosciuta che in casa si alberghi, delle cui vicende poco si conosce, poco delle circostanze ond' è circondata. Ed io credo esser questa una ragione per cui decadano le più fiorenti scuole della filosofia quando sono già da lungo tempo stabilite; poichè nello stabilirle è l' ingegno quello che si mette in movimento mediante le dispute e le contese; ma quando una questione ha prevalso, allora viene consegnata alle memorie degli uomini come cosa già approvata, e così la vi si alloga come il fabbro ripone nell' armadio un lavorìo già compito, intorno a cui non gli resta più a fare, dov' esso a lungo stanziando irrugginisce e si guasta. Tale è la storia della scolastica: i suoi principii stagnarono per così dire nelle memorie, e tosto imputridirono. La sola Storia può salvare la Filosofia da questo decadimento, se si sa congiungerla alla medesima come ministra fedele: perciocchè essa è quella che fa rivivere gli autori delle grandi verità, che trasporta noi nel mezzo alle loro contese, che mette insomma il nostro ingegno in azione; e che il fa venire alle verità da se stesso, mettendolo su quella via che alle stesse conduce, non già trasportandovelo d' un tratto, e quasi per aria, senza ch' egli tocchi nè veda il sentiero onde altri ci va co' suoi piedi; questo secondo modo non è che insegnamento della memoria, giacchè questa è disposta a ricevere le verità, sebbene non veda per che lato si possa alle stesse venire; l' ingegno all' incontro non vi giunge mai di sì gran salto, ed ha bisogno di andarci, passo passo facendo. Per la qual cosa nè la Storia, nè la Filosofia sola dà una sufficiente istruzione alla studiosa gioventù; ma l' una e l' altra è necessaria; e perchè ottengano il loro fine debbono essere fatte l' una per l' altra. Senza la Filosofia la Storia è cieca, e fassi un noiosissimo andirivieni dello spirito umano, una successione d' opinioni tutte di egual peso, o più tosto di egual leggerezza, senza che vi si distingua giammai per entro la verità dall' errore, e che si possa l' una sentenza all' altra preferir con ragione. Senza la Storia, la Filosofia diventa così secca, così gratuita, così lontana dalle forze di un ingegno ancor nuovo, che non può ch' essere ricevuta sterilmente dalla memoria, e giacere in essa come un penoso ingombro, ovvero come un semenzaio di dubbi, e d' inquietudini interminabili a quello spirito, che cerchi di fecondare da se medesimo quelle verità, alle quali gli uomini non sono mai giunti se non trapassando per le verità intermedie, e spesso per tutto lo smisurato campo degli errori e dei sogni. La Storia dunque si può dire il veicolo della Filosofia, pel quale essa viene ricevuta ne' giovani e non ancora addestrati intelletti; la Filosofia all' incontro può dirsi la luce della Storia, la face che rischiara quelle vie, percorse dallo spirito umano, tortuose, mal tracciate, cupe. La Storia della filosofia poi, oltre esser così intimamente a questa raggiunta, sarà connessa con le parti precedenti di questi libri di storia, e da tutti insieme apparirà la concorrenza della potenza, della scienza e della Religione alla comune felicità. E in tutta questa storia dovrà essere per bel modo inserita la Cronologia e la Geografia antica e moderna, fornendo questi due lumi della storia di loro carte e tavole, nelle quali per amena maniera si faccia viaggiare e trascorrere il giovanetto. Lo studio poi della Natura è doppio, poichè o si considera nelle qualità fisiche, o nelle qualità metafisiche ch' ella porge. Queste seconde sono proprie veramente della Filosofia, e s' immedesimano colle dottrine dello spirito, sia di quel Sommo, autore della natura, sia di qualunque spirito conoscitore della medesima. Però alla Filosofia queste investigazioni sono riserbate. Ma considerando la natura ne' suoi fisici apparimenti, a due classi questi si riducono; poichè o riguardano le quantità delle cose, o le loro qualità. Questo studio della natura perciò potrà essere in due opere digerito. La prima delle quali conterrà le cose matematiche, la seconda le fisiche. La scienza matematica avrà tre parti: l' aritmetica all' uso di tutta la Grammatica, la geometria all' uso della Rettorica, l' algebra all' uso della Filosofia. Certo io credo che non si debba così tosto, come si suole, introdurre i giovani nell' Algebra, ma bensì prima nella Geometria, non operando l' ingegno umano per salto, come per salto non opera nessuna cosa nella natura; ed essendo la Geometria atta al ragionamento, e però acconcia preparazione a filosofare, quando nell' Algebra non abbiamo un ragionamento continuo, ma solamente a principio della operazione, dopo il quale il calcolatore pare abbandonato ad un cieco meccanismo. Conviene che la mente del fanciulletto sia fatta discorrere e ragionare di continuo a quel modo che si fa colle cose della vita, e questo è proprio de' metodi geometrici degli antichi, tanto lodati da quel solido spirito di Newton. Ma riguardo all' Algebra, certo è da sperar grandemente che si possa ridurre tutto il calcolo in un corso più regolare ed ordinato e far che gli Elementi che si danno al tempo della Filosofia si raggiungano meglio a quella scienza del calcolo che forma lo studio della Università. Il che sembra si potrà ottenere allora, che queste scienze, che pur tanto hanno avanzato a' dì nostri, si faranno vie più vicine a toccare la perfezione: giacchè è da confessare che se rapidi furono i loro passi, e grande lo spazio percorso; quella rapidità però fu vinta e smarrita nel campo immenso della natura, e nei profondi misteri della quantità. Ma quando la scienza sarà prossima alla perfezione, si potrà pensare a disporla in un ordine elegante e semplice, giacchè non si può mettere insieme un vago edificio, quando prima non siano preparate a parte a parte tutte le pietre ritagliate, e tutte le sculture, che il debbono comporre e adornare. E allora sarà tolta via quella scienza di mezzo che ora si chiama Introduzione al calcolo, e verrà un corso solo e continuo su principii semplici ed uniformi dal principio sino alla fine; alla qual perfezione il Calcolo delle Funzioni analitiche pare che colla sua purezza e generalità già schiuda la via, o la faccia almen travedere. Di poi l' opera che riguarda la qualità della natura potrà partirsi in due, cioè in una piccola Storia Naturale e nella Fisica; la prima da darsi nella Rettorica a guisa di gradevole intrattenimento, e l' altra nel corso della Filosofia; dovendo essere la prima gradino alla seconda. Anche questi testi tanto saranno migliori quanto avranno maggiore connessione con tutti gli altri delle scuole a cui appartengono, sicchè servano a più scopi ad un tempo. In essi, oltre le cose insegnatevi, fiorisca e splenda la nitidezza della lingua e della elocuzione, e principalmente la Storia Naturale sia un esempio della proprietà delle parole, ed un fonte di diletto alla Imaginazione, che nella Rettorica si coltiva: e tutto poi s' accordi e quasi consuoni alla religiosa bontà. Come poi nella Grammatica oltre lo studio delle cose fu necessario lo studio delle lingue, istrumenti al conseguimento delle cognizioni, così l' uso di queste lingue già apprese è dato nella Rettorica, dove s' appara in che modo quelle acconciamente s' adoperino sì con legata che con soluta orazione a persuadere o convincere, facendo questo studio sugli esempi degl' Italiani, Latini e Greci scrittori, interpetrati co' sussidii della Geografia e della Cronologia date nelle scuole antecedenti e composte non senza questo stesso intendimento, e della Archeologia, di cui in questa occasione si daranno le nozioni necessarie; e tentando la imitazione di que' Maestri di bello scrivere per componimenti italiani, latini e greci con versi e prose. Nel che avrassi cura di non insegnare già tanto il pomposo ed il vano declamare; quanto il parlar giusto, ragionevole, efficace, e a tutti gli usi della vita proporzionato e confacente. E qui non posso tenermi, che io non chiami i precettori ad osservare un vizio dannosissimo che guasta le scuole di umane lettere; vizio che quasi passato per eredità e suggellato dalla lunga consuetudine si fece fors' anche caro altrettanto, quant' egli è deforme e sconvenevole, e voglia il Cielo che non sia di noia l' udir parlare contro lui, come contro cosa antica e reverenda. Ma io parlerò anche col pericolo di tirarmi sopra lo sdegno de' retori, e de' giovani loro ascoltatori. E comincerò osservando come il risorgimento delle lettere dopo i secoli di ferro movesse da una imitazione degli antichi esemplari; nè da altro muover potesse. Ed erano quelli esemplari di altissima eloquenza, e di squisita poesia: ma di qui appunto è che il male di cui parlo trovò dov' entrare nella italiana letteratura, e di questa nell' europea. Allora quegli esemplari di bellezza dovevano commuovere ad ammirazione, e quasi trarre fuori di sè per istupore, dimostrando l' apice dell' arte umana, ed un' estrema coltura dello spirito; perciocchè queste cose venivano dimostrate ad uomini quasi frenetici per bisogno d' intendere e di sentire, ma tanto in giù caduti dall' antica dignità sociale che più al basso scendere non si poteva; a cui perciò non che arridesse speranza di toccar sì alte cime di perfezione per opere d' ingegno e di favella, conveniva muovere i passi a ritornare pur una linea in su dalla valle profonda dell' ignoranza nella quale erano precipitati. Sicchè il parlare di Marco Tullio, ed il cantare di Publio Virgilio non sol parer dovevano cose singolari o stupende, come parranno fino che negli uomini rimarrà fiore di senno e di gentilezza, ma interamente miracolose; giacchè nè sentivano in se medesimi, nè in persona viva vedevano indizio di tanta delicatezza in sentire, di tanta altezza in concepire, di tanta perfezione in esprimersi; e però mancava loro un esempio che rendesse possibile alle loro imaginazioni quello, che vedevano in fatto: per il che dovevano imaginarsi che quelle scritture fossero opere di gente tutta d' altra natura ed indole dalla loro. E questo spiega quella non so quale incredibile riverenza, anzi pure vera superstizione, che al tempo del risorgimento delle lettere universalmente si vide per la sapienza greca e latina, e per la greca e latina letteratura; e il riferir quelle sentenze de' vetusti filosofi talora sì triviali e comuni, come oracoli atti a tagliare pel peso di loro autorità ogni più incerta questione, e ciò senza discernimento d' una all' altra autorità, purchè l' autore della sentenza con nome latino o greco si proferisse, e antichissimo fosse, o paresse: questo spiega quella sozza mistura delle autorità profane colle autorità sacre; quel miscuglio di Aristotile e di Platone con Cristo; e de' libri d' Ipocrate e di Galeno coll' Evangelio: questo spiega il paganesimo mescolato colla religione cristiana: e qui ancora quelle prediche mezzo favolose e mezzo vere, ove all' autorità di Mercurio Trismegisto succede quella di Paolo e di Pietro; quelle sculture in sulle facciate de' templi che ancor vediamo piene di fatti greci e romani alternati cogli ebraici, e le teste degl' imperatori idolatri confuse con quelle dei santi; e sul gusto medesimo le sfingi ed i grifi, e, con peccato minore, tutti gli eroi della seconda età delle favole: spiega finalmente quello stile di pensare e d' esprimersi in cui sono mescolati tanti contrari elementi, inamicabili; quello come Caos intellettuale, di cui pare tipo verissimo la « Divina Commedia », lavoro maraviglioso e fors' unico fra i monumenti dello spirito umano, ma ad un tempo così strano insieme e portentoso. E di questo Caos sono uscite l' arti recenti della bellezza, e specialmente l' arte della parola signora e quasi regina di tutte l' altre. Ma sono esse tratte pienamente da quel confuso miscuglio? è essa divisa pienamente dalle tenebre del paganesimo, la luce cristiana? è separata la verità dall' errore, la superstizione dalla pietà, e dal vizio la virtù? Questo è ciò di cui dubito, e di cui credo aver ragione di dubitare quand' io vedo ancora gli scrittori del paganesimo spiegati nelle pubbliche scuole promiscuamente cogli scrittori cristiani; e interpolati i loro costumi ai nostri; e le loro false virtù senza alcuna maraviglia poste al lato dell' evangeliche se non forse talor preferite. Non paiono ancora care a molti e venerate le inezie della mitologia? quasi che l' umanità che ha rinunziato coll' intelletto al falso culto degli Dei si senta pur dopo tanti secoli vincolata da una antica materiale impressione stampata da' padri e tramandata per generazione ne' figliuoli? No, non si purga mai nell' uomo istantaneamente una macchia impressionata da' secoli, ma con lentezza travasandosi d' uno in altro sangue, si scema e s' illanguidisce fino che forse dopo mille generazioni s' annienta. Saranno essi gli esemplari dei cristiani eroi, gli eccellenti comandanti di Cornelio Nipote? l' amore di una gloria consistente nella prepotenza e nella oppressione: l' amor di una patria producente l' odio degli stranieri; cogl' inimici la vendetta, cogl' impotenti la crudeltà: nelle prosperità la baldanza, nelle calamità la disperazione, il suicidio: son questi i documenti degni di una generazion d' uomini rinnovellata e ricreata nel sangue del Giusto? E pur la narrazione di Cornelio è il primo latte che s' istilla nelle menti dei giovanetti, e gli scritti dell' ambizioso Cicerone susseguono a confortare di precetti quegli esempi: e questa morale del gentilesimo s' ammira e s' encomia in cospetto della cristiana gioventù! Intanto il giovanetto tituba coll' animo diviso fra il precettore quando gl' interpreta i classici antichi, ed il precettore medesimo quando in altr' ora gli spiega co' santi precetti il Catechismo; e nel suo cuore discendono due elementi eterogenei, irreconciliabili, i quali si giacciono in quello non per formare giammai alcuna unità, ma come due germi consegnati ad un terreno ferace perchè si sviluppino al sopravvenire di favorevoli circostanze, ed a vicenda tendano di sottrarsi l' umore e d' isterilirsi. Ed in tal modo alla ventura riman commesso quale de' due germi avrà nella vita occasione di più precoce e più potente sviluppamento, se il germe cristiano, sicchè col vigore delle poste radici vada a vincere la mala semenza che gli cresce da lato; o il germe pagano sicchè strugga e spenga coll' avide e tenaci papille la semenza buona ma troppo tarda a mettere, e debile troppo: o pure lasciandosi tutt' e due in tenue vita, rimangano l' uno dall' altro ammorbati e invaniti. Avevano già i Padri della Chiesa preveduto il danno che ai grandi interessi dell' umanità apportava la gentilesca letteratura; e n' avevano scoperta ed inseguita con eloquenti parole la menzogna che in quella si nascondeva, il fermento della vecchia malizia; intanto che lavoravano d' altra parte a torre all' Egitto le sue ricchezze per arricchirne la casa di Dio; cioè a creare una nuova letteratura tutta innocente, tutta cristiana, nella quale fossero le bellezze dell' antica ripiantate senza il veleno corrompitore: e già l' eloquenza cristiana, già la cristiana poesia porgeva al mondo nuovo diletto, nuova meraviglia, dove tutta miravasi la sublimità del genio umano sollevato insino al cielo, e coronato la fronte di raggi divini. Poichè i Padri avevano ben veduto che senza una letteratura non poteva stare l' umanità; ma questa nasceva come spontanea espressione dell' umanità stessa; e come l' umanità si rinnovellava per l' Evangelio, così doveva per esso rinnovellarsi la letteratura che n' esprimeva la condizione e lo stato. Ma non ebbero tempo i primi Padri di condur l' opera a perfezione, perocchè giunti i Barbari in sul mondo civile spensero ogni lume di lettere, e l' umanità misero in tal condizione ch' ella tanto avesse a pensare alla sua esistenza, che più tempo non le sopravanzasse da pensare ai suoi ornamenti. E volsero dieci secoli prima che l' umanità trovasse questo tempo, quest' ozio, in cui fatta sicura di non perire, si rivolgesse alla gentilezza delle lettere e delle arti; ed allora, come dicevo, prendendo l' uomo la via che prima e più facile trova aperta da pervenire al suo scopo, si diede all' imitazione delle lettere antiche, anzi che alla creazione di nuove lettere; e si converse anzi ai greci ed ai romani che ai cristiani scrittori, sia perchè quella letteratura pareva più formata ed intera che la cristiana, ancor giovane e ne' suoi principii interrotta dalle pubbliche calamità; sia perchè la corruzione del secolo cercasse più terrene e più profane dilettazioni; sia finalmente perchè il genere umano, miseramente immalinconito dalle sventure di tanti secoli, sentisse potentemente il bisogno d' una più indulgente ilarità e gaiezza, che rasserenasse i suoi aggravati e profondamente intenebrati pensieri. Per questo forse dopo avere san Carlo Borromeo cercato di surrogare alla profana letteratura la sacra, e in luogo di Cicerone sostituire nelle sue scuole la spiegazione del Catechismo romano; si consigliò di rimettere nell' insegnamento il classico antico, come necessario a dar lustro alle nuove lettere, come miniera di ricchezze non ancora intieramente scavata ad adornamento della Chiesa; e specialmente come una storia di ciò che fu l' umanità, perchè al suo confronto risplendesse maggiormente ciò che è, per potenza dell' Evangelio. E quest' ultima ragione non cesserà mai di rendere necessario lo studio della letteratura idolatra, finchè l' uomo soggiaccia a quella legge intrinseca a sua natura, per la quale solo mediante i confronti egli può conoscere le misure delle cose. E quindi non si potrà giammai proporre che sieno rimossi i Classici greci e latini dalla cristiana educazione; ma che sieno a' principii cristiani sottomessi, e con questi giudicati, e censurati, e spiegati ai fanciulli; che sia in somma l' istruzione de' Classici antichi accordata coll' istruzione del Catechismo; sicchè tutto formi quella unità che è la gran regola di tutta l' educazione, che la rende forte, che dà all' animo del giovanetto una forma sicura ed unica; e non lascia in esso delle confuse traccie ed incerte, degli elementi discordi, dei semi della morte sparsi a piene mani fra i germi della vita. E perciocchè come dissi la stessa letteratura italiana non è ancora monda al tutto di que' vizi pagani, perchè figliuola di quell' antica falsa e quasi direi lisciardiera, sicchè ritiene alquanto de' modi e costumi sozzi della sua madre; perciò gli scrittori stessi della classica letteratura italiana vanno cautamente letti a' giovani, e come gli antichi debbono essere preparati loro appositamente con iscelta e con corredo di note e d' osservazioni, che chiami e castighi la loro morale ed il loro spirito colla severa legislazione e collo spirito de' cristiani. E di questa necessità i Gesuiti maestri s' erano accorti, i quali ci diedero molti classici latini saviamente acconciati per l' istruzion giovanile; nel che tuttavia rimane ancora un lavoro non sì leggero a condursi alla perfezione desiderata. E più ancora a questo scopo gioveranno le note saviamente poste, che la scelta de' luoghi da spiegarsi alla gioventù raccomandata da Quintiliano. Perciocchè un autore mozzato e tronco, non può giammai essere esempio di perfetta bellezza, e le menti de' giovani non si possono pienamente ammaestrare di tutte le finezze ed i secreti dell' arti, dove non sia scoperta e visibile ai loro occhi tutta intera l' opera dell' eccellente artefice; giacchè solo nel porre il tutto è la perfezione dell' arte; e le altezze maggiori dell' ingegno si discuoprono sentendo il pieno accordo maestrevolmente ritrovato di tante parti. Ma questa piena intelligenza non è però cosa da fanciulli: il perchè sembra da rimettersi questo studio all' Università, accontentandosi di far sentire nelle scuole dell' Umanità a' giovanetti quasi alcuni sorsi di quella bellezza, di che potranno abbeverarsene pienamente venuti ad età più matura, come riposo fra' gravi studi delle scienze sociali. E volendo istituita nell' Università questa pubblica scuola di letteratura, ella verrà ad essere il compimento di una educazion letteraria: giacchè nella Umanità si schiude l' animo del giovanetto, se lo dispone a sentir la bellezza delle lettere, e se lo invoglia delle medesime, porgendogli quel dolce ch' egli può utilmente assaggiare: nella Filosofia dove si fa più maturo per ingegno gli si apre innanzi nella Storia della letteratura, intrecciata a quella dell' altre scienze e specialmente della Filosofia, tutto il campo o il giardino, per dir così, delle lettere; e nella Università finalmente gli si fa conoscere a pieno tutto l' artificio di qualche grand' opera letteraria, leggendola tutta pubblicamente ed interpretandola. E un gentile spirito italiano pur testè desiderava questa cattedra nell' Università, e voleva che si restringesse all' interpretazione di qualche opera nazionale, come ne' secoli precedenti appresso di noi fu in costume, e si lamentava, perchè così bello costume fosse mancato, con queste parole: [...OMISSIS...] . Ma tornando al corso della Filosofia, in esso oltre studiarsi l' Uomo colla Storia della letteratura, si studia colla Psicologia: la Natura oltre studiarsi coll' Algebra e colla Fisica, si medita nell' Ontologia e nella Cosmologia: le quali scienze uniscono in sè, o richiamano allo studio di Dio, che nella Teosofia sarà appositamente, quanto è conceduto allo spirito umano, contemplato. E qui di bel nuovo s' osservi l' unità e quasi direi la società, che la Filosofia debbe stringere con tutti gli altri studi minori non solo, ma ben anche maggiori. La Filosofia debb' avere una tal colleganza colle scienze dell' Università ch' ella sia veramente il loro sostegno, anzi la loro generatrice. Da essa debbono quelle, per così dire, apprendere la favella, giacchè sino che gli scienziati non ricupereranno una scienza e una lingua comune, non s' intenderanno giammai, e le innumerabili opinioni, delle quali un idoneo linguaggio è il solo conciliatore, rimarranno così contrarie in apparenza come non sono talora in realtà, e continueranno a tener gli uomini tanto divisi, tanto inimici fra loro senza cagione. Ma il legame più intimo che abbia la Filosofia colle scienze della Università è quello che la rannoda alla Teologia, nella quale debbe finalmente terminarsi e quasi rifondersi, perchè due scienze separate esser veramente non possono, mentre hanno un medesimo oggetto. Egli è vero che quest' unico oggetto sotto due forme e in due modi si manifesta, cioè col lume della ragione e con quello della rivelazione: ma questi due modi hanno una troppo stretta parentela fra loro perchè non si ravvicinino, giacchè egli sembra che l' uno non possa interamente stare senza dell' altro, e certo nel fatto giammai non istette. Ed a preparare questo desiderabile congiungimento o almeno questa pacificazione fra due scienze che sono fatte l' una per l' altra, sembra che sia tratta in luce la combattuta teoria del senso comune, o della ragione della specie, o dell' autorità, come che la si voglia nominare, toccando la quale un nobile ricercatore dell' antica sapienza scriveva, [...OMISSIS...] . Le quali parole esortano gli uomini alla libera comunione del sapere, a mettere insieme ciò che sa ciascuno, ciò che ciascuno seppe, per farne un pubblico e ben assicurato tesoro; terminando questa molesta proprietà esclusiva d' una scienza individuale, per la quale l' individuo aspira a nulla meno che alla tirannia sulla specie intelligente, e i molti individui disputantisi lo stesso scettro imaginario, alla distruzione fra loro: e le nazioni ed i secoli pugnan pur fra loro in tanto pazza e in tanto feroce battaglia. Perchè in quelle parole non è fatta menzione delle tradizioni de' primi padri, che hanno fecondato lo spirito umano? perchè non è fatta menzione di Dio, e di ciò ch' egli ha detto agli uomini nel primo tempo, onde fu suscitata la prima volta l' umana spontaneità? chi fu la prima cagione di quello spontaneo movimento? Chi offerse un oggetto sublime da contemplare all' intuizione immediata dell' uomo? (1). Egli è rispondendo a queste interrogazioni che si scuopre la via per la quale verrà tempo che il filosofico ed il teologico insegnamento non saranno che due parti d' una medesima scienza, l' una delle quali all' altra si continui, e la filosofia sarà allora l' amica del genere umano, giacchè sarà il risultamento di ciò che prima disse la rivelazione, di che poi s' accorse la spontaneità eccitata, cui fecondò finalmente la riflessione degli individui, sviluppò, schiarì, e in lucido ordine espose. Ma bastino queste poche linee ond' ho procacciato delineare un disegno di pubblica educazione, sopra la quale si potesse appoggiare e rilevar la privata. In questa è necessario preveder colla mente tutte le circostanze dell' allievo, della famiglia onde nacque, delle facoltà dell' ingegno suo, de' suoi sensi o arditi naturalmente e generosi, o placidi e attemperati: e da queste cose quasi recarsi co' suoi intendimenti a indovinare quelle destinazioni alle quali possa essere sortito dalla natura. A tutti adunque que' vari posti ai quali egli fosse sortito, o credere lo si potesse, sarà cura dell' educatore privato d' apparecchiarlo; e così di fornire il suo cuore di tutti quei nervi, e di tutti quegl' istrumenti che gli potessero venire opportuni ne' vari casi occorrenti di questa vita. Poichè se non si debbe formare l' alunno a cose fuori di tutte le possibilità, tuttavia rallargarlo si conviene alle cose massime, che da lui si possa aspettare o la patria o la umanità. Di pervenire dunque a questo non è altra regola ch' io sappia, se non lo sguardo acuto e precorrente del savio precettore, che nello stato dell' animo di lui, e in tutte le circostanze che l' attorniano, intravede i successi avvenire. Ma fermati con questo avvedimento i confini della istruzione, estesi quant' è necessario perchè provvedano al detto fine, ed avvisata la piega da darsi a tutti gli studi, e virtù esteriori, nelle quali fa più bisogno esercitare l' alunno (poichè delle interiori che il formano non si può ometterne alcuna) converrà dopo ciò porre all' opera la mano con quel metodo stesso ch' è già in principio di questa scrittura toccato. Cioè il metodo vorrà essere intero ed uno, come intera ed una volle essere l' istruzione delineata. L' interezza dell' istruzione vedemmo consistere nella concorrenza de' vari oggetti ben avvincolati fra loro ad un solo termine; l' interezza del metodo nella concorrenza di tutte le umane facoltà in ciascun oggetto, sicchè quella cosa che l' intelletto apprende anche il cuore senta, e l' opera manifesti. E a questo fine notammo in principio queste tre parti dell' uomo e quasi organi: l' Intelletto, il Cuore, la Vita: dovendo l' Intelletto trovare il Cuore che gli risponda, e dal Cuore procedere ogni virtù ad abbellire la Vita. E a far ricevere all' Intelletto le cognizioni, principale qualità del precettore è d' avere l' idea maturata e chiara, e le parole agevoli, nette, espressive. Nè tanto vale la chiarezza stessa, quanto la perfezione e interezza dell' idea, se pure può avervi idea non perfetta, degna d' essere appellata chiara. E ciò nonostante havvi una certa affettazion di chiarezza, che io più tosto direi superficialità, della quale chi ne volesse esempio potrebbe trovarlo negli scritti di Loke, e vie più in quelli di Condillac, come pure di tutta la loro scuola, la quale tiene un linguaggio che pare chiarissimo, e che promette di render dotti con lieve fatica, ma che non lascia finalmente nell' animo che una povertà estrema d' idee, con una immensa presunzion di sapere, e con una pure immensa temerità di pronunciare. E ad iscansare questa apparenza di chiarezza assai più nocevole della stessa oscurità, non bisogna sorvolare troppo lievemente in sulle idee principali, ma rivolgerle da tutte bande, fissarle, e precisarle co' loro caratteri, sicchè non si possano scambiare con altre: e avere attenzione, che la parola in progresso di ragionamento non venga insensibilmente a pigliar due sensi, e a generare in questo modo le fallacie. Questa diligenza nell' aggiustare e perfezionare le idee, forma la solidità del pensare e la logica pratica. Giova a questo fine la massima toccata di sopra di non mutare troppi autori, accontentandosi di libare qualche fiore in ciascuno, ma, come faceva il Bossuet col suo reale allievo, trascorrere tutti gli autori interi da capo a piedi, spurgando però innanzi quei luoghi che per mollezza o pravità di massima non sono da leggere a' giovanetti, e poi leggendo ed interpretando tutto il resto ne' vari tempi del curriculo degli studi, divisi come dicevo. Ma perchè le cose buone insegnate piglino stanza nel cuore del giovanetto, due quasi strumenti si vogliono porre in uso; la qualità dello stile nell' insegnarle, e quell' arte di renderle care, che assai procede dalla discrezione delle indoli. Nello stile giova studiare principalmente quattro doti, dalle quali, quasi da quattro corde, svegliare quella soave armonia, onde si muove possentemente il giovanil sentimento: Abbondanza, Amenità, Tranquillità, Tristezza. Coll' Abbondanza si vestono le cose di molti colori, si presentano in molti aspetti, e s' infonde dirò così il modo o l' arte di maneggiare l' idea come più piace, e quindi di andare fino al fondo delle cose. Di questa utilità sono lontanissimi coloro, i quali schiavi del sistema non riconoscono più l' idea stessa s' ella non è collocata in una tale postura; e la credono un' altra allorchè tu gliela presenti in altro modo, e ti spregiano quello stesso concetto, che collocato per filo e per segno dentro a certo loculo da loro fissato ti lodavano a cielo come cosa nuova e profonda. All' incontro ella è nobilissima dote quella di potere padroneggiare l' idea, e volgerla a piacimento: e per questa facilità di riconoscere l' idea stessa da qualunque lato tu gliela volgi, gl' ingegni italiani sono singolari dagli altri, che più desti e più pronti mostrano una non so quale agevolezza mirabile nella varia celerità delle loro menti. E di questa abilità di trovare ed amare egualmente l' idea in qualunque veste, per così dire, s' avvolga, o a qualunque genere d' altre idee s' accompagni e consocii, nasce quella che io chiamo scienza delle convenienze; per cui quasi con tatto finissimo si sente in tutte le cose quello che conviene, e senza chiedere sempre rigorosa dimostrazione, che tanto spesso non si può avere, altri cammina con passo franco e sicuro, ed acquista l' attitudine del reggere una moltitudine conforme alla natura de' più, giacchè i più ubbidiscono anzi alle convenienze sentite, che alle verità ragionate: e perciò s' accontentano ed appagano assai sovente per l' osservanza d' alcune cose minute, pel rispetto d' alcune inclinazioni, d' alcune abitudini, d' alcuni sentimenti, onde risultano i genii delle nazioni, permalosa cosa e irritabile, e nè pur trattabile colla stessa giustizia, ma sì con quella scienza del convenevole, di cui ragioniamo. Molto intesero la convenienza delle cose in antico i Romani: e quando si leggano con questa avvertenza le orazioni di M. Tullio vedrassi che tatto fino della convenienza doveva avere e quest' uomo, e quel Senato. Nè quasi altra maestra può avervi, o v' ebbe (chi bene addentro considera) che facesse a pieno capire nell' animo degli uomini, non il sommo jure , ma anzi quel quasi rallentamento di esso e indolcimento che il compie, e che non è altro che il senso delle cose convenienti, se non l' Abbondanza della facondia. L' Amenità poi dello stile reca una cotale freschezza nelle menti, e aiutando le solleva dalla fatica dell' applicare. In questa Amenità studiavano desiderosamente gli antichi; perciocchè conoscevano che se il loro discorso avessero reso dolce e aggradevole, avrebbero già preparato e guadagnato l' altrui animo al ricevimento delle dottrine. Sono in questo maravigliosi i Greci ed impareggiabili, che tutto rendono grato al pensiero; e basta che noi entriamo ne' gravi argomenti versati co' dialoghi di Platone, perchè ne paia di ritrovarci nella verzura di un prato fioritissimo e dilettosissimo, anzichè in sugli scogli di filosofiche contenzioni. I Latini anch' essi bevvero di quella greca vena di dolce Amenità, ma non poterono deporre al tutto la gravezza del carattere, e quasi il ferreo delle armi debellatrici. Ma i nostri scrittori del Trecento nati fra la mollezza de' più vaghi colli d' Italia, e spiranti le più dolci aure della vita, furono formati da natura a soavità ed amenità di stile impareggiabile, che si sposa forse meglio che ogni altro colla greca spontaneità. Parlava nelle bocche sì de' Greci che di que' buoni antichi Fiorentini la natura quasi ancora nuova ed innocente: e la natura è amena, e spira ameni pensieri e amene parole. Di tutta questa Amenità dello stile che ha le chiavi del cuore, sono lontanissime tutte l' altre nazioni: e quando s' ingegnano d' imitarla, ne fanno il ritratto, ma non ne conseguono giammai la carne e la vita. Ed è lontano di ciò il secolo stesso tutto frettoloso e impaziente e accidioso, perchè crede perdere il tempo se non accresce tesoro alla mente, e non sa ch' è in noi ancora un nobile senso interno da coltivare, e che le sole cognizioni della mente non ci rendono più felici nè migliori senza che questo senso del vero pratico sia bene educato e ben conformato, poichè quelle sono ciò che è molto peso d' oro all' avaro, a cui non è cuore, nè senno d' usarlo. Tra noi però non è ancora spregiata al tutto questa virtù del soave andamento dello stile: e per essa meritò bene della nazione Giuseppe Taverna per le « Letture de' Fanciulli » e per quegli « Idillii », ne' quali con lentezza di dolce parlare, quasi palpeggiando il cuore del fanciulletto, vi induce la virtù. Nè si può dire quanto questa Amenità di favellare, congiunta a certa semplicità, faccia pacato e tranquillo l' animo: terzo ufficio dello stile del precettore, il quale con ciò acquista la terza lode che in esso desideriamo, e che abbiamo denominata Tranquillità. Colla quale benigna disposizione che lo stile trasfonde nell' animo, questo si rende tutto acconcio a investigare posatamente la verità, a riceverla spassionatamente, e vagheggiarla con suo grande agio e diletto. Laddove lo stile rapido e focoso per l' incalzamento e quasi contrasto delle idee porta nell' animo una faticante ansietà, un' inquietudine, ed ancora un cotale offuscamento della mente, che la rende inetta o ad assicurarsi del vero, o a disaminarne le parti, o a guastarne la beltà. Nè io stimo meno una certa non so qual Tristezza, cui renda lo stile, ma non qualunque Tristezza. Perciocchè ve n' ha una perniciosa e nera che porta dolore e inquietudine: ma ve n' ha una altresì spontanea e pura, la quale nasce dalla verità del nostro stato umano, ed è tutta ad esso conforme e decente. Essa toglie quelle lusinghevoli promesse che l' Amenità stessa dello stile presenta all' animo giovanile, tanto credulo alle lusinghe d' una sensibile felicità, che in queste cose mortali gliela fanno aspettare vanamente costante; e nel tempo medesimo che attrista alquanto la natura corporea, solleva immensamente la natura spirituale a migliori e più dignitose speranze: e questa tinta di mestizia accompagna dovechesia il linguaggio della verissima Religione e ne segna quasi il lembo estremo, di cui pur tutto il rimanente aspetto si volge lieto e lucente. E così si compie lo stile che s' insinua nel cuore degli allievi di un precettore non solo ma di un precettore cristiano. In questo stile pertanto debbono essere scritti tutti i testi delle pubbliche scuole, ed egli potrà essere di regola onde scegliere gli antichi autori e trovare il modo di comentarli. E dopo ciò al precettore è necessaria la cognizione delle indoli, onde risulta quella delle ragioni e dei motivi che hanno maggior forza a muovere peculiarmente gli animi de' giovanetti affidatigli. Nel che ognuno sa quello che fu sottilmente scritto per tanti savi, sicchè è vano su di questo più oltre ragionare. Ma la cosa principale è quella di ridurre la vita del giovane in perfetta concordia cogl' insegnamenti. Se volessimo rilevare le contradizioni, che si danno nelle comuni educazioni, troveremmo cose ridevoli e dolorose. Poichè non sono più frequenti le buone massime pronunciate, che frequente non sia per l' opera stessa degli educatori l' esercizio delle cattive (1). E non niego che sia facile al precettore l' intonare meravigliose sentenze agli orecchi dell' allievo, difficile il farle eseguire. Perchè se per intonarle basta a lui il conoscerle, perchè riesca a farle eseguire debbe tenerne egli stesso la pratica, e precedere coll' esempio. Ma quanto è più difficile, e quanto è più trascurata questa seconda parte dell' educazione, che la vita non contradica in nessuna cosa giammai ai precetti, tanto è più rilevante, anzi è come il frutto d' ogni educazione. Ma il precettore perchè ci riesca vuole esser tale, che ne castighi severamente se stesso, e che educhi se stesso insieme col giovane: il che dimanda in lui e tale fortezza di mente da vedere le conseguenze pratiche de' precetti, e tale costanza di animo da non comportare giammai d' incorrere in alcuna contradizione. La vita dunque debbe rendere quell' ordine stesso, e quella unità in tutta la sua disposizione che abbiamo veduto esser necessaria nelle dottrine: la preziosità del tempo chiede che questo si pesi quasi in sulla bilancia dell' orafo, e che di ogni particella se ne approfitti; preceda in tutte l' opere quasi capitana la Religione, e tutta la varietà degli altri studi, e delle altre occupazioni disposte bellamente per la giornata, la seguano come ancelle ubbidienti e fedeli: non sia preterito un dì, nel quale la meditazione delle cose celesti non ricrei lo spirito, e non lo indirizzi al suo fine, e lo spirito indirizzato al suo fine indirizzi tutte l' altre cose, e seco le trasporti a rendere gloria al suo Autore. L' ordine della vita laborioso e pieno, fedelmente custodito per lungo tratto di tempo, ordina altresì tutto l' uomo, l' abitua alla fatica e, quello che è più, non a fatica capricciosa, ma tutta regolata dalla ragione, e questa stessa ordinata fatica reca la sì utile calma e tranquillità dello spirito. Ma per quello che riguarda la pietà mi rimetto a ciò che ho scritto più distesamente nel libro « Della Educazione Cristiana » (1). Adunque lo spirito della nostra Religione vuole che consideriamo l' uomo tutto insieme: vuole che tutto in esso armoniosamente proceda. Debbono armoneggiare le scienze, debbono armoneggiare le facoltà. L' armonia delle scienze è la somma legge nel trattato degli oggetti della educazione: l' armonia delle facoltà è la somma legge nel metodo. Queste leggi pertanto s' abbia in vista la pietà dei Principi cristiani chiamati dalla Religione alla educazione de' loro popoli, ai quali fidatamente indirizzerò queste sacre parole: « « Poichè questa è la sapienza vostra, e l' intendimento in faccia a' popoli; acciocchè udendo tutti quanti questi precetti, dicano: Ecco un Popolo saggio ed intelligente, una gente grande » » (2). Tale è la vera grandezza de' Principi e delle Nazioni. Come la giustizia è il primo e il maggiore tra i doveri dei governi civili, così ella reca loro altresì la massima consistenza ed utilità. La giustizia infatti è quella che solo può procacciare al Governo la pubblica opinione e il rispetto: gli dà una dignità morale che non può dargli la potenza e la forza: lo innalza al dissopra dei partiti, e lo rende atto a reggerli, temperarli e conciliarli. Credo dunque di non ingannarmi dicendo, che qualunque questione politica dev' essere considerata prima di tutto dal lato della giustizia. Oso anche dire di più, che questa via conduce a trovare con facilità delle soluzioni inaspettate, così vantaggiose sotto tutti gli aspetti, che per trovarne di migliori invano si logorerebbe il cervello in calcoli laboriosi l' utilitario più perspicace. E` dunque desiderabile, che anche la questione della libertà dell' insegnamento si esamini spassionatamente sotto questo aspetto principale, specialmente dopo che essa fu riconosciuta e proclamata come un diritto in molte costituzioni politiche. Vero è che non si vide ancora attuata mai, ma non ci vuol molto a scoprirne la ragione. Le leggi fondamentali negli Stati moderni sono quelle che s' eseguiscono meno, perchè l' altre leggi devono eseguirle i popoli, e le leggi fondamentali devono eseguirle i Governi. I popoli sono obbligati all' esecuzione delle leggi comuni da' Governi; i Governi non hanno alcuno al dissopra, che li costringa a dare esecuzione alle leggi costituzionali, di cui anche si usurpano la interpretazione. Ci sarebbe l' opinione pubblica che potrebbe fino a un certo segno moverli a ciò, ma questa va assai lenta a formarsi, e non è mai formata sopra una cosa, di cui niuno ha un' idea chiara. E le cose di cui il pubblico abbia un' idea chiara quante sono? Appena col corso dei secoli una nazione perviene a formarsi un' idea chiara d' alcune poche questioni riguardanti i suoi più immediati interessi: e non si può pretender tanto da nazioni ancor novizie nel regime costituzionale. Fino a tanto dunque, che il popolo non ha inteso con sufficiente chiarezza un qualche articolo dello Statuto, egli soffre in pace, che il Governo lo dimentichi, ovvero accetta facilmente per buone tutte le scuse che gli siano date della dimenticanza, presumendo che il Governo intenda meglio di lui, e che le ragioni barbugliate saranno ottime. Ora la lingua più popolare di tutte è certamente quella della giustizia, e anche per questa cagione crediamo utile di determinare colle norme del diritto la libertà dell' insegnamento; chè la questione così trattata acquisterà qualche grado di maggior distinzione e chiarezza nelle menti dell' universale. E, prima di tutto, che cos' è la libertà? Fino che questa parola rimarrà indefinita, continuerà ad essere il pomo della discordia. E` tempo d' uscire d' ambagi. La libertà è « l' esercizio non impedito dei propri diritti ». I diritti sono anteriori alle leggi civili. Il fondamento della tirannia è la dottrina che insegna il contrario. Le leggi civili possono essere giuste, ovvero ingiuste, e in questo caso, con un' altra parola, sono tiranniche. Se le leggi civili non offendono i diritti, che sono ad esse precedenti, e si limitano a proteggerne l' esercizio, acciocchè da niun ostacolo esso venga impedito, sono giuste, e il popolo che vive sotto queste leggi è libero. Se le leggi civili pretendono di essere superiori a quei diritti che esistono prima di esse, pretendono d' esserne esse le fonti, d' esserne le padrone, sono ingiuste, e il popolo che ha un Governo fondato sopra una tale teoria, dell' onnipotenza della legge civile, è schiavo. Che poi questa teoria sia professata da un monarca o da alcuni maggiorenti, o da due Camere stabilite da una Costituzione, o da un Governo popolare, questo perfettamente è il medesimo: sotto tutte queste forme il Governo è perfettamente il medesimo. Sotto tutte queste forme il Governo è ugualmente una tirannide, quando la massima, su cui esso è fondato e da cui prende la norma di tutto il suo operare, è una massima ingiusta e tirannica, perchè invece di riconoscere e di rispettare i diritti anteriori, e anzi di tutelarli, gli annienta tutti in una volta. Veduto che cosa sia la libertà universale, dobbiamo vedere che cosa sia la libertà dell' insegnamento, e lo vedremo, applicandone quella definizione. La libertà dell' insegnamento è « l' esercizio non impedito del diritto d' insegnare e d' imparare ». Che esista un diritto d' insegnare agli altri, e d' imparare dagli altri, anteriore alla legge civile, quest' è facile a dimostrarsi. L' uomo ha il diritto di adoperare a fini onesti tutte le potenze dategli dal Creatore, purchè il modo con cui le adopera sia inoffensivo a' suoi simili. Infatti il Creatore col fornire l' uomo di varie ed utili potenze dimostrò la sua volontà, che le esercitasse a fini onesti, e coll' esercitarle e svolgerle ne accrescesse il vigore e si procacciasse tutti quei vantaggi e beni che esse sono atte a dargli. Altrimenti il Creatore avrebbe operato senza un fine, avrebbe date inutilmente all' uomo tante nobilissime facoltà. E quanto sia prezioso l' esercizio e l' uso delle proprie potenze, ognuno può intenderlo, quando consideri che è già un bene in se stesso, e che è il mezzo universale con cui s' acquistano tutti quanti gli altri beni. Se dunque l' uomo mette impedimento all' uso inoffensivo ed onesto delle potenze d' un suo simile, viola il naturale diritto e lo viola tanto più gravemente quant' è maggiore l' impedimento ch' egli vi pone. Il che dimostra che c' è effettivamente un diritto alla libertà in generale, cioè: « all' esercizio non impedito delle proprie potenze ». E da questo diritto generale discende quello della libertà dell' insegnamento, poichè uno dei più nobili e santi usi, che si possono fare delle proprie potenze, si è quello d' insegnare altrui cose utili e vere, e d' impararne da tutti. Egli è chiaro, che il diritto d' imparare da tutti è correlativo al diritto d' insegnare: e che offendendosi il primo si offende anche il secondo: perchè colui che impedisce all' uno d' insegnare, impedisce all' altro d' imparare da lui che insegnerebbe, se non ne fosse impedito. E` dunque manifesto che c' è un diritto naturale sacro ed inviolabile alla libertà dell' insegnamento. Questi sono principii semplici e innegabili; ma la questione si complica, e si rende difficile, quando si viene all' applicazione, non tanto per se stessa, quanto a cagione de' sofismi, ne' quali ella fu involta dalle passioni degli uomini prepotenti, ambiziosi, interessati. Noi vogliamo tentare di restituirle, se ci vien fatto, le più semplici forme. I limiti d' un diritto sono quegli estremi, oltre ai quali il diritto cessa di esistere, o, in altre parole, sono le condizioni alle quali esiste il diritto. Queste condizioni devono contenersi in un' esatta definizione del diritto particolare di cui si tratta. Così se noi riprendiamo la definizione data della libertà d' insegnamento « l' esercizio non impedito della propria potenza d' insegnare in modo onesto e inoffensivo »avremo i seguenti limiti essenziali alla detta libertà: 1 Limite . - La mancanza del sapere necessario: poichè, colui che non sa, è privo della potenza dell' insegnamento, che è il fondamento, dirò così, materiale del diritto; 2 Limite . - La mancanza d' onestà dell' insegnamento: non c' è infatti un diritto d' insegnare il male o l' errore; 3 Limite . - La mancanza d' inoffensività nel modo d' insegnare: non c' è un diritto d' insegnare, quando per poter insegnare si dovesse disturbare altri che attualmente insegnano, o si esercitasse qualche violenza per avere dei discepoli, il che sarebbe una lesione del diritto d' imparare. Laonde il diritto di insegnare non esiste se non alle seguenti condizioni; che ci sia: 1 scienza in colui che insegna; 2 onestà in ciò che s' insegna; 3 inoffensività nel modo di insegnare. L' esercizio non impedito del diritto d' insegnare così circoscritto, ecco quello che forma la libertà naturale giuridica dell' insegnamento, anteriore a tutte le leggi civili. Questi sono principii semplici che discendono dal comune diritto di ragione (1): chi può metterli in dubbio? Potranno metterli in dubbio certamente due generi di persone, che sgraziatamente non mancano d' esistere e di agitarsi nella umana società. Il primo genere consta di tutti quelli che non riconoscono l' autorità della morale. Costoro in conseguenza dell' assoluta loro negazione d' ogni morale, non possono ammettere che il naturale diritto d' insegnare abbia per condizione, che ciò che s' insegna sia onesto. Coll' annullar questo limite, essi falsano il concetto della libertà, sì in generale e sì in particolare di quella d' insegnare; e alla libertà vera sostituiscono una libertà bastarda d' insegnare tutto ciò che di erroneo può cadere in un cervello disordinato, e che di perverso può ascendere da un cuore corrotto. Il secondo genere consta di tutti quelli che asseriscono, anche con ostentazione, di ammettere una morale: ma la morale che ammettono è dimezzata, accomodata alle loro passioni, e a' loro interessi, non ricevuta qual è, qual dev' essere, ma fattasi da se medesimi a mano, secondo il lor proprio gusto. Snaturano costoro quel limite morale della libertà d' insegnamento di cui parliamo, e compariscono in sulla scena pubblica anch' essi come partigiani d' una libertà bastarda: non di rado più bastarda ancora di quella de' primi; poichè questi non riconoscendo morale di sorta, vogliono che tutto, e il bene e il male, possa essere insegnato da tutti, laddove i moralisti ad uso dei propri interessi, proclamano molte volte la libertà d' insegnare il male, e impediscono poi ipocritamente la libertà d' insegnare il bene. Da queste due specie di libertà bastarde è da tener conto, per non confondere i nostri pensieri. A queste condizioni il diritto alla libertà dell' insegnamento è universale, cioè hanno diritto d' insegnare ai loro simili tutti indistintamente gli uomini dentro i tre limiti indicati. Ma poichè questi limiti non si verificano sempre, e non si osservano da tutti, o non si possono osservare, perciò il diritto d' insegnamento, che in teoria è universale, nel fatto esiste in diversi gradi nei singoli uomini, o nelle singole società insegnative che essi formano tra loro. Considerato dunque non nella sua possibilità astratta, ma nelle sue varie attuazioni, il diritto d' insegnamento diviene concreto . La rivoluzione francese nello stesso tempo che distrusse molti abusi, ebbe per effetto di recare il dispotismo de' Governi civili al più alto punto, di concentrare in essi tutti i poteri con un' assoluta negazione de' limiti morali, e d' insegnar loro a confiscare con molt' altri diritti naturali anche quello della libertà d' insegnamento. In questo modo i Governi istituiti per la tutela dei diritti di tutti gli uomini, diritti che preesistono per natura e per ragione all' istituzione dei civili Governi, divennero i più tremendi nemici di tali diritti, che a se soli riserbarono, spogliandone le intere nazioni. Questa spogliazione scandalosa ed iniqua, se poteva da principio essere tollerata dai popoli ingannati e sorpresi da promesse mendaci e da frasi sofistiche ed entusiastiche, come quella che « tutti i cittadini nascono figli della patria, e però devono tutti essere educati dalla lor madre », non può durare tuttavia nello stato della presente civiltà. Laonde non pochi degli uomini più illuminati già deferirono alla pubblica opinione un tant' abuso di potere, e ogni dì si rende sempre maggiore il numero di coloro che protestano e domandano con coraggio ai Governi la restituzione di questa preziosa libertà perfidamente da essi usurpata. Questa minorità crescente è destinata senza dubbio a divenire una maggioranza forte, alla quale i Governi civili dovranno, o di buona o di mala grazia, abbandonare quanto tengono al presente di mal acquisto: e il pericolo allora sarà che si spoglino i Governi anche delle loro legittime attribuzioni all' insegnamento. Poichè ogni qualvolta s' ottiene qualche cosa con una lotta accanita di partiti, quand' anco non si tratti d' una lotta violenta e incerta, s' ottiene con eccesso: ed è per questo che la società civile oscilla tra un eccesso e l' altro, perchè i Governi non sanno cedere a tempo quello che è giusto, e con una cieca resistenza producono l' ira che toglie loro anche più del giusto. Mentre dunque c' è tempo si studi il problema del diritto speciale d' insegnamento, e si definisca qual parte di questo diritto appartenga a ciascuna di quelle persone giuridiche che accampano su di esso qualche pretesa. Quando a ciascuna sia lasciato lealmente ciò che le appartiene, s' avrà ottenuta una conciliazione, e per questa parte cesserà la società di essere agitata. Le persone giuridiche, sieno individue o sieno sociali, che pretendono d' avere un qualche diritto di insegnare o d' influire nell' insegnamento, sembra che in Italia almeno possano essere ridotte a sei, quali sono: 1 La Chiesa Cattolica; 2 I dotti; 3 I padri di famiglia; 4 I benefattori che col proprio danaro mantengono le scuole; 5 I Comuni e le provincie; 6 Il Governo. Esaminiamo dunque il diritto speciale che può competere a ciascuna di queste persone giuridiche, secondo i principii di ragione. La Chiesa Cattolica non ha solamente quel diritto alla libertà dell' insegnamento, che può competere a qualunque società onesta in virtù del diritto naturale, del quale solo abbiamo parlato fin qui, ma ella ha oltracciò un diritto d' insegnare agli uomini fondato sopra un titolo più augusto, cioè sopra un decreto di quel Re, davanti al quale tutti i re e tutti i Governi civili e lo stesso mondo, dice la Bibbia, sono un momento della bilancia, o una gocciola di rugiada che cade il mattino sul terreno (1). Gesù Cristo infatti diede agli Apostoli e a' Vescovi loro successori il comando e il diritto d' ammaestrare le nazioni con queste parole: « « Andate, ammaestrate tutte le genti » » (2). E le genti sono composte di Governi e di governati. Laonde la Chiesa Cattolica ha un dovere e un diritto divino d' ammaestrare universalmente tutti, e governati e Governi. La dottrina poi, che la Chiesa ha il dovere e il diritto di comunicare a tutti gli uomini, grandi e piccoli, è quella che le ha confidato il Salvatore, e che essa non può nè perdere nè alterare, avendole egli a questo fine promesso d' esser sempre con essa. [...OMISSIS...] Dal che deriva, che questo diritto soprannaturale d' insegnamento è esclusivo alla Chiesa Cattolica, cioè a quella parte della Chiesa Cattolica, a cui fu da Gesù Cristo affidato, e che si chiama Chiesa docente . Poichè essendo la prima condizione del diritto d' insegnamento, che chi insegna abbia la scienza , quelli soli possono insegnare con autorità nella Chiesa Cattolica, a' quali Gesù Cristo consegnò e guarentì inviolato il deposito della sua dottrina, e questi sono i Vescovi, il primo dei quali è il Romano Pontefice, e tra i sacerdoti, quelli soli, che a esercitare un tale ufficio sono autorizzati e mandati dai Vescovi. Ogni qual volta dunque alcun altro, fuori di questi, pretendesse d' arrogarsi l' autorità d' insegnare la dottrina del Salvatore, o di dare la missione per questo insegnamento, quantunque costui fosse un potente monarca, un governo civile, di qual si voglia forma o costituzione, altro nome non potrebbe ricevere che quello di violatore del diritto divino della Chiesa, d' usurpatore e d' impostore. Vediamo ora quali diritti più speciali circa l' insegnamento appartengano alla Chiesa, in conseguenza del diritto generale che ella ha, il quale, come dicemmo, è nello stesso tempo un dovere d' ammaestrare tutte le genti nella dottrina del Salvatore. La dottrina del Salvatore comprende il dogma, la morale, e tutti i mezzi utili a conseguire l' eterna salute: dottrina che viene tramandata di mano in mano, sia oralmente, sia per mezzo di scritti, i principali dei quali sono quelli che furono dettati da alcuni Santi, che ebbero l' assistenza dello Spirito Santo, e il dono dell' inerranza, riconosciuti per tali dalla Chiesa Cattolica, e raccolti in una Collezione che si dice Bibbia o Sacra Scrittura. Il primo diritto dunque più speciale della Chiesa Cattolica riguardo all' insegnamento è quello di predicare al popolo, e d' insegnare dalle cattedre a persone studiose le scienze dogmatiche e le morali, e i mezzi di conseguire l' eterna salute. La morale naturale è compresa nella morale soprannaturale, come i primi elementi sono contenuti in una scienza compiuta, e però errano coloro, i quali facendo una distinzione tra la morale filosofica e la teologica, quasi fossero due morali totalmente separate, pretendono spogliare la Chiesa Cattolica del magistero della prima, lasciandole solo quello della seconda. Costoro o dimostrano una ignoranza molto grossolana, ovvero sono uomini di mala fede. Da questo primo diritto della Chiesa Cattolica deriva un secondo, ed è quello di vegliare sopra ogni altro insegnamento, e su tutta l' educazione dei fanciulli, e oltracciò su tutti i mezzi coi quali i fedeli comunicano tra loro le dottrine, il principale dei quali è la stampa. Se dunque la Chiesa Cattolica rinviene in tutto ciò qualche cosa che possa essere o contrario alla vera dottrina di cui essa sola conserva intemerato il deposito, o di pregiudizio all' eterna salute dei suoi figliuoli, essa ha il diritto, il dovere e l' autorità d' avvisarli del pericolo, e d' impor loro l' obbligazione di guardarsene, e di punirli altresì colle pene sue proprie se disubbidiscono alle sue materne prescrizioni. Un terzo diritto speciale della Chiesa Cattolica si è quello d' istruire ed educare essa sola i suoi propri ministri, e d' ascrivere al Clero quei fedeli che ne creda degni, e chiamati da Dio al ministero sacerdotale. Dovendo essa tramandare il sacro deposito della salutare dottrina di generazione in generazione sino alla fine del mondo, è chiaro che tocca a lei sola a scegliere le mani fedeli a cui confidarlo, e che ella sola è quella che può farlo passare in altre mani perchè ella sola ha in proprio la scienza di cui si tratta, ed ella sola altresì ha la missione e la facoltà di mandar altri, come questa facoltà l' ebbe pure Gesù Cristo compresa nella sua missione, onde egli disse: « A quel modo che il Padre ha mandato me, così anch' io mando voi »(1), cioè colla facoltà di mandar altri che vi succedano. Finalmente c' è un quarto diritto non meno essenziale alla Chiesa degli altri tre, ed è che ella sola può applicare i suoi ministri all' insegnamento, essendo d' essenza dell' organismo della Chiesa Cattolica, ch' essa sola possa disporre liberamente dei suoi ministri, i quali d' altra parte sono legati ai Vescovi con solenne promessa d' ubbidienza emessa da essi nell' atto di ricevere l' ordinazione. Tali sono i diritti essenziali della Chiesa Cattolica riguardo al pubblico e privato insegnamento: e questi diritti non recano pregiudicio alla libertà dell' insegnamento, anzi ne costituiscono una parte essenziale. Il che si vede tostochè si rammentino le condizioni di questa libertà. La prima di queste si è, che chi insegna abbia la scienza di ciò che insegna. Ora trattandosi della dottrina rivelata, la sola Chiesa, come dicevamo, n' è la depositaria, e però a lei sola s' aspetta d' autorevolmente insegnarla, non rimanendo agli altri fedeli che il dovere di professarla, e la facoltà di propagare intorno a ciò quello che hanno imparato dalla Chiesa, o attinto alle fonti dalla Chiesa approvate senza nulla aggiungere di contrario a quello che insegna la Chiesa stessa. La seconda condizione si è, che ciò che s' insegna non sia erroneo e pernicioso. Se dunque la Chiesa veglia sulla dottrina, e impedisce che s' insegni quello che è contrario alla rivelata verità, ella con ciò non entra nell' altrui diritto d' insegnare, non pregiudica la libertà dell' insegnamento, perchè questa libertà cessa appunto lì dove incomincia la Chiesa a far uso della sua autorità di maestra. Si può aggiungere qui un' osservazione, ed è che la Chiesa, di fatto, lungi dall' offendere la libertà dell' insegnamento, fu quella che ne assunse, sola al mondo, la tutela, proteggendo tutte le opinioni innocue, e interdicendo con molti suoi atti agl' ingegni indiscreti l' arbitrio di condannarle e di vituperarle. Ammesse queste dottrine, che niun cattolico può negare, salva la sua fede, ne vengono queste conseguenze: 1 Tutti coloro, che sotto qualunque pretesto, impedissero alla Chiesa Cattolica l' esercitare questi suoi diritti, sieno essi o persone private o pubbliche, sieno governati o governi, offendono il libero esercizio dei diritti della Chiesa intorno all' insegnamento. E qualora i Governi civili ad un fine così riprovevole, abusando del potere civile che hanno in mano, promulgassero delle leggi, ovvero facessero intervenire la forza, commetterebbero un atto di dispotismo e di tirannide contro la libertà dell' insegnamento consistente, come dicemmo, nel libero esercizio del diritto d' insegnare; 2 Qualora un Governo civile s' arrogasse il diritto d' insegnare la dottrina religiosa, o di pronunciare sentenze in questa materia, sotto qualunque pretesto, o di obbligare i suoi governati a tenere o insegnare piuttosto una dottrina che un' altra, indipendentemente dalla Chiesa Cattolica, o impedisse loro di tenere o di professare quella della Chiesa, esso non solo offenderebbe il libero esercizio d' insegnare proprio della Chiesa, ma di più dispoticamente e tirannicamente si usurperebbe l' altrui diritto all' insegnamento, e sarebbe il nemico di questa libertà; 3 All' incontro, qualora un Governo civile impedisse ai suoi governati d' insegnare dottrine religiose contrarie a quelle della Chiesa Cattolica, non offenderebbe con questo la libertà dell' insegnamento, anzi la proteggerebbe. Poichè la libertà dell' insegnamento è inerente al diritto d' insegnare, e dove non c' è questo diritto, non vi può esser quello che non ne sia impedito l' esercizio, nel che consiste unicamente la vera libertà; 4 Qualora un Governo civile indipendentemente e contro la volontà dei Vescovi eleggesse al pubblico insegnamento dei sacerdoti, lederebbe manifestamente il quarto degl' indicati diritti della Chiesa Cattolica. Su di che dobbiamo fare questa osservazione, che fino a tanto che i Governi civili professano sinceramente e di buona fede il cattolicismo, è naturale che i Vescovi vedano di buon occhio, che egli si prevalga dei sacerdoti per un così utile ufficio, e tali Governi sono sicuri di operare colla tacita annuenza della Chiesa stessa. Ma se viene un tempo, in cui il Governo civile, di mala fede, si faccia il protettore di tutti i preti indisciplinati, scorretti e ribelli ai loro Vescovi: se per un bastardume di liberalismo distribuisca i posti più gelosi e più importanti della pubblica istruzione a' sacerdoti che lungi dal corrispondere ai doveri della loro santa vocazione, conducono una vita secolaresca, abbandonando anche i segni esteriori del loro stato, e vergognandosi delle vesti sacerdotali, o sdegnandole: in questo caso certa cosa è, che i Vescovi sono obbligati di ricordarsi della loro divina autorità sopra i propri ministri, e devono sollecitamente riprendere con più di forza le briglie che si sono forse allentate nelle loro mani in tempi di più fede e di più benevolenza dei Governi verso la Chiesa, protestando da una parte contro l' indegna usurpazione di tali Governi, usando dall' altra tutte le armi spirituali date loro da Cristo contro i sacerdoti ostinati, che loro ricusano la promessa ubbidienza; 5 Ma ancora maggiore si rende l' usurpazione del Governo civile, quand' egli s' arroga oltracciò di decretare indipendentemente da' Vescovi, quai sacerdoti devano attendere all' istruzione religiosa, e alla cura spirituale dei pubblici stabilimenti d' educazione. Questo lede non solo il quarto, ma anche il primo de' diritti speciali riguardanti l' insegnamento che abbiamo indicati. L' essere il Governo quello che contribuisce gli stipendi a' tali direttori spirituali non l' autorizza punto ad usurparsi l' autorità vescovile, alla qual sola appartiene per diritto divino l' istruzione religiosa e la cura delle anime, e ne' collegi e fuori de' collegi. Con questi modi dispotici, dunque, il Governo lede nelle sue parti più vitali la libertà dell' insegnamento, e merita il titolo di Governo al sommo illiberale . Salvi dunque gli accennati diritti della Chiesa intorno alla rivelata dottrina, le altre parti dell' istruzione e dell' educazione, sia pubblica sia privata, non sono punto d' esclusivo diritto del Clero, ma questo rimane rispetto ad esse nel diritto comune del libero insegnamento. E questo diritto comune importa, che come a nessuno può essere conteso l' insegnare, quando si verifichino le tre condizioni avanti indicate, così non possa esser conteso o impedito l' esercizio di un tale diritto nè anco al Clero nè secolare, nè regolare. Contro colui che vi ponesse impedimento, sia egli un privato, o sia un Governo, il Clero non reclamerà come Clero, ma reclameranno i sacerdoti come uomini per l' offesa libertà naturale. Al prudente e conscienzioso discernimento poi di quelli che hanno il diritto di scegliere i maestri, sia per sè, sia per altri (e vedremo in appresso chi siano cotesti) appartiene il conoscere su di chi nelle circostanze particolari giovi meglio che cada la loro scelta, appunto perchè deve esser libero anche il diritto d' imparare, che è correlativo a quello d' insegnare. Solo quelli che sanno possono insegnare agli altri, verificandosi solo in essi la prima condizione del diritto d' insegnare. Infatti il diritto è sempre una facoltà d' operare: dove dunque manca la facoltà fisica, manca il diritto, che è una facoltà morale, che s' innesta sulla facoltà fisica. Perciò lo stesso diritto che abbiamo attribuito alla Chiesa Cattolica, l' abbiamo fondato sulla facoltà che ella sola ha di comunicare la dottrina di Cristo, perchè sola la possiede in proprio. Che dunque i dotti abbiano un naturale diritto d' insegnare, non fa bisogno d' altra prova, essendo questo lo stesso diritto universale di cui abbiamo di sopra dimostrato la esistenza. Da questo diritto generale ne consegue ai dotti un altro speciale, che riguarda il modo dell' insegnamento, il diritto cioè d' insegnare con quel metodo ch' essi credono più opportuno. Infatti il metodo è scienza anch' esso, e a quelli a cui spetta il tutto per giusta conseguenza deve spettare anche la parte. Sarebbe una patente contraddizione concedere ai dotti il libero diritto d' insegnamento, e poi pretendere che essi non possano insegnare, se non con un solo metodo, e questo imposto loro da una mano invisibile, poichè quando il Governo lo impone, non si sa chi lo imponga. Quelli dunque che mettono qualche impedimento all' esercizio del diritto d' insegnare che hanno i dotti, e che s' arrogano l' autorità di stabilire preventivamente un dato metodo, obbligando tutti i dotti della nazione a seguirlo se vogliono insegnare, offendono la libertà dell' insegnamento. Consegue da questo, che i Governi civili, i quali stabiliscono un insegnamento ufficiale, hanno tre doveri da adempire riguardo ai dotti; il primo di non mettere all' esercizio del loro diritto d' insegnare alcun impedimento; il secondo di lasciar loro la libertà di seguire nell' insegnamento quei metodi che credono migliori; il terzo d' eleggere all' insegnamento ufficiale i maestri e istitutori imparzialmente tra i più dotti e degni che possono rinvenire. Diciamo qualche cosa di ciascuno di questi tre doveri che devono adempire i Governi, che vogliono acquistarsi meritamente la lode di liberali in questa materia. Mancano apertamente a questo dovere primieramente quei Governi che si riservano il monopolio dell' insegnamento. Poichè, supponendo anche che tali Governi eleggessero all' insegnamento ufficiale i più dotti, non è presumibile che i dotti nella nazione sieno appunto tanti, quanti i maestri ufficiali, nè più, nè meno, o che, fuori della classe dei maestri ufficiali, tutti gli altri cittadini sieno perfettamente ignoranti. Se dunque questo non si può supporre, rimane, che il Governo col suo monopolio leda il diritto al libero insegnamento di tutti que' dotti, che non si trovano nel novero de' suoi maestri ed istitutori. Il governo civile monopolista dell' insegnamento lede il diritto, di cui trattiamo, tanto se lo fa per via di leggi , quanto se lo fa semplicemente per via di atti arbitrari; perchè facendo servire le stesse leggi alla lesione, invece che alla protezione dei diritti de' cittadini, egli abusa d' una più veneranda autorità, qual è la legislativa; e l' infrazione dei diritti fatta per via di leggi è costante, universale, quanto s' estende la legge sistematica e irreparabile; e finalmente havvi un attentato di trasformare l' infrazione stessa del diritto in diritto, snaturando la natura delle cose, dico in diritto legale, sancito dalla forza pubblica, che in tal caso viene adoperata a sostegno dell' ingiustizia e ad oppressione de' cittadini. In secondo luogo mancano a questo dovere anche quei Governi, che, quantunque non si riservino il monopolio dell' insegnamento, tuttavia impediscono direttamente o indirettamente che i dotti esercitino con libertà il loro natural diritto d' insegnare. A questa specie di Governi, per lo più poco sinceri, appartengono quelli i quali con una cert' aria di libertà onesta ragionano in questo modo: « Noi vogliamo che a tutti sia libero l' insegnare, ma vogliamo che quelli che insegnano pubblicamente ricevano da noi la licenza, e la paghino, e prima di ricevere la licenza dieno delle prove della loro scienza. Le prove poi della scienza tocca a noi Governi lo stabilirle ». E su questo principio tali Governi stabiliscono una serie di prove più o meno difficili, più o meno costose ai candidati, più o meno lucrose al Governo e agli ufficiali del Governo; esaurite le quali, i candidati devono stare alla mercè degli esaminatori ufficiali dai voti dei quali impareranno a conoscere se siano tanto dotti da poter insegnare, o se non abbiano ancora acquistata quella misura di dottrina che ha tassata il Governo, o piuttosto che di volta in volta viene tassata dagli esaminatori, senza la quale misura opinabile e subbiettiva nissuno può insegnare. Se sia vero che questo sistema non mette alcun impedimento al libero esercizio del diritto d' insegnare, non è difficile il vederlo senza molte riflessioni; pure facciamone alcune. Primieramente da noi si concede che il frapporre impedimento d' insegnare a chi non sa, non è ledere la libertà dell' insegnamento come risulta dalle cose precedentemente ragionate: e però, se veramente questo solo facesse un Governo, niuno potrebbe dire, ch' egli perciò offendesse la libertà dell' insegnamento. Ma se il Governo, col pretesto di far questo solo , fa molto più, quel principio vero nol può purgare dalla lesione dei diritti naturali de' cittadini, ch' egli commette di fatto sotto quel pretesto. Ora il Governo può egli esser certo di escludere dall' insegnamento co' suoi provvedimenti i soli ignoranti? Può egli esser certo di non recare ad un tempo impedimento e danno ai dotti? E` egli necessario, per escludere gl' ignoranti dall' insegnamento, che il Governo civile aumenti leggi e disposizioni? Per incominciare da quest' ultima domanda, sembra affatto inutile, che il Governo civile si prenda tante pene, stante che gl' ignoranti o s' escludono da se stessi da un tale ufficio, che non possono compiere, o rimangono esclusi dall' istinto e dall' interesse di quelli, che bramando d' imparare, e avendo il diritto di scegliersi i precettori, non vogliono certo, almeno in generale parlando, sceglierli tra i più ignoranti, ricorrendo a quelli che non possono insegnare loro cosa alcuna. Una libera concorrenza adunque, aiutata da altri mezzi onesti, di cui parleremo a suo luogo, basta ad ottenere, che gl' ignoranti s' astengano dalla presunzione di fare i maestri di quel che non sanno. Si può di poi dubitare grandemente se il Governo possa fare la cerna che si propone de' dotti dagli indotti; se esso abbia qualche mezzo sicuro, col quale gli riesca di dare un taglio così netto fra dotti e ignoranti, che tra quelli che egli dimette come ignoranti, non rimangano alcuni che tali non sono, e tra quelli che egli corona per dotti, non se ne rinvengano dell' altra specie. Il prudente Governo deve conoscere le sue proprie forze e i suoi propri mezzi, e non accingersi a fare l' impossibile. Che se poi si considerano le accennate guarentigie, che per lo più i Governi, di cui parliamo, domandano a quelli, a cui essi si riservano di concedere il permesso d' insegnare, sarà facile il vedere, come le medesime, dalla prima fin all' ultima, violino apertamente il diritto che hanno i dotti al libero insegnamento. Già non è solo un impedimento, ma qualche cosa di più, questo solo che il Governo dica a tutti i dotti della nazione: « Io non riconosco punto il diritto naturale che voi avete all' insegnamento, se non siete dichiarati dotti da me con un brevetto ». Obbligare tutti i dotti della nazione a presentarsi al Governo, cioè a persone, che più fortuitamente che altro lo rappresentano in questa bisogna, per essere da tali persone dichiarati dotti a sufficienza per insegnare, per insegnare dico qualunque cosa, incominciando dall' abbici sino alle scienze più speculative, piuttosto che un impedimento, ha l' aria di un' impertinenza. Il Governo con questa pretesa da una parte obbliga tutti i dotti ad un atto di non piccola umiliazione, dall' altra gli obbliga ad un atto non troppo modesto, obbligandoli a farsi avanti per dirgli: « Eccoci, noi siamo dotti, approvateci ». Questa doppia condizione, che il Governo pone alla libertà dell' insegnamento, la condizione d' un atto umiliante, e in pari tempo la condizione d' un atto manchevole di dignità e di modestia, può considerarsi già come un atto di preventiva ripulsa, che il Governo manda ai veri dotti, ed ai migliori tra i dotti della nazione. Non basta però: i dotti, per ricevere l' approvazione governativa, devono subire esami ed altre prove distribuite in una serie più o meno lunga, quale piace di stabilirla ai Governi civili. Questo nuovo impedimento, posto al libero esercizio del loro diritto, è ancora più gravoso del primo. Con questo il Governo viene a dire a tutti i dotti della nazione: « Voi, che pretendete di esser dotti, e perciò d' avere il diritto d' insegnare, io vi obbligo, prima che possiate esercitare il vostro naturale diritto, a farvi discepoli, e ad essere esaminati come fanciulli ». E da chi esaminati? L' esaminatore, che fa da giudice e da maestro, e l' esaminato che fa da scolare e da giudicato, hanno la natural relazione di superiore e d' inferiore. Conviene dunque, che il Governo faccia l' una di queste due cose, o che stabilisca per esaminatori di tutti i dotti, che possono venire a presentarsi all' esame, persone dottissime, le cime della sapienza nazionale, in paragone alle quali, tutti gli altri possano essere ragionevolmente riguardati come semplici scolaretti, ovvero, non facendo questo, conviene che egli obblighi anche i più dotti a farsi scolari de' meno dotti di essi. La prima di queste due cose è tanto difficile, che non credo ci possa essere Governo tanto povero d' intelligenza d' aver il coraggio d' affermare, che quelli che egli stabilisce esaminatori e giudici in tali esperimenti, sieno i più sapienti tra quanti ci possono essere nella nazione. Quando anco il Governo avesse il buon volere di far una tale scelta ottima, è impossibile che i dotti principali vogliano prestarsi al penoso e ingrato ufficio di esaminatori e di giudici degli altri dotti. Il Governo dunque in questo sistema chiama per la necessità della cosa molti, che sono o possono essere più dotti degli esaminatori ufficiali, a subire l' esame e a ricevere la sentenza da questi men dotti di essi. Ma c' è qui patentemente lesione del diritto del libero insegnamento, anche se si considera solo una cosa, cioè che « il diritto d' insegnare sta in proporzione diretta della dottrina, e in quella vece il Governo fa nascere una condizione di cose, nella quale il diritto d' insegnare si trova in proporzione inversa della dottrina », di maniera che adopra in tali casi la sua autorità a far sì che quelli che ne sanno meno insegnino a quelli che ne sanno di più: il che equivale a un togliere il diritto ai dotti e darlo agli ignoranti. La perdita del tempo, gl' incomodi, le noie degli atti ufficiali, le brighe di molte formalità, sono tutti impedimenti posti da tali Governi alla libertà dell' insegnamento. Vengono in fine le spese: spese di viaggi per trasportarsi nel luogo degli esaminatori e dei giudici, e per ivi dimorare fuor di patria il tempo necessario alle prove prescritte: spese d' esami, spese d' attestati, spese di propine, spese di comparse e di formalità, spese e tasse di brevetti e di patenti d' approvazione: sono tutti impedimenti posti al libero diritto che hanno i dotti d' insegnare. Sembra che si voglia con tutto ciò piuttosto che provare la loro scienza, provare la loro borsa. Intanto è evidente, che per quanta scienza o anche sapienza avesse un cittadino, ogni esercizio del diritto naturale di insegnare gli sarebbe interdetto, quando fosse povero. Concludiamo, che in tali Governi non c' è punto la libertà dell' insegnamento, e l' esercizio del diritto naturale d' insegnare non vi è protetto, nè lasciato intatto; ma in molte maniere dalle leggi o disposizioni governative violato. Tuttavia è necessario intendere anche quelle ragioni, che si adducono a giustificazione di tali arbitrii governativi, da quelli che vi hanno interesse. Dicono che tali prove ed esperimenti non si fanno dai Governi collo scopo di porre impedimento all' insegnamento pubblico dei dotti, ma solo per allontanare dal medesimo gl' ignoranti. A questo è facile rispondere che non basta nel Governo la buona intenzione di non mettere impedimento ai dotti, ma conviene che non ce lo metta di fatto. Che se poi il Governo fa quello che non ha intenzione di fare, lungi che ciò lo scolpi, maggiormente lo incolpa. Poichè qual Governo sarà mai quello che vuol fare una cosa e non sa farla, e fa in quella vece la sua contraria? Dicono, in secondo luogo, che non è a presumersi che i primi dotti dello Stato si diano alla professione del pubblico insegnamento: però essi non riceveranno danno da tali leggi e disposizioni. Ma si risponde, che la legge è fatta per tutti, e che se molti uomini dotti non si danno all' insegnamento, questo nasce appunto a cagione che tali disposizioni umilianti, gravose e pedantesche, lungi d' incoraggiarli a dedicarsi a così utile ufficio, li ripulsano, e li disgustano del medesimo. Essa è forse una delle principali cause, per la quale in detto ufficio si ha a lamentare una moltitudine d' uomini mediocri per non dire inetti. D' altra parte, che il legislatore o il Governo, che assume la tutela del pubblico insegnamento, presuma in massa così male di tutti quelli ai quali soli egli riserva la facoltà d' insegnamento, e che su questa presunzione egli formi i suoi regolamenti e le sue leggi, non è certo cosa onorevole pel corpo insegnante della nazione, nella quale in questo modo il diritto d' insegnare sarebbe riservato dalla legge ai soli mediocri, come i soli, che, a giudizio del Governo stesso, a lui si rivolgono per averne la necessaria approvazione. Un Governo civile obbligando tutti i maestri ed istitutori a seguire un unico metodo da lui stabilito per ogni ramo d' istruzione, non è solo violatore del natural diritto al libero insegnamento che hanno i dotti, ma di più è nemico del progresso , e però quando si voglia chiamarlo col proprio nome (giacchè è necessario opporre nomi veri a nomi usurpati, co' quali si lavora di continuo a pervertire l' opinione pubblica), esso merita a buona ragione i titoli di Governo illiberale e stazionario . E` illiberale, perchè opprime la libertà giuridica dell' insegnamento: è stazionario, perchè inchioda il naturale svolgimento dei metodi, intorno ai quali non si dà più alcun progresso possibile nei metodi, dal momento che il Governo non vuole che si usi altro che il suo. « Eccovi, dice ai dotti, eccovi l' unico, l' immobile, il perfettissimo metodo che voi tutti dovete seguire, se pure vi piace insegnare, e, se non vi piace il mio metodo, v' obbligo a commettere la viltà di sagrificare quello che voi credete essere verità e scienza al mio volere, ovvero vi spoglio del vostro diritto all' insegnamento ». Il Governo che colle sue leggi e co' suoi decreti osa metter fuori una tale e tanta pretesa, l' una delle due, o deve credere, che il suo metodo sia l' estremo parto dell' umano ingegno, dopo il quale esso ingegno sia rimasto spossato ed esaurito, ovvero, se crede che in quanto al metodo ci potrebbe pur essere qualche ulteriore miglioramento, collo stabilire quel punto fisso, al quale devono tutti gl' insegnanti sostare, si dichiara inimico della scienza che sta al di là della meta da lui prestabilita, e però nemico del progresso. I metodi dell' insegnamento non si possono certo perfezionare se non per mezzo di liberi, assidui, e non contrastati esperimenti, che facciano i dotti, delle diverse maniere di comunicare il sapere, che essi concepiscono e che possono concepire essi soli. A ragion d' esempio, supponiamo, che il signor Girard avesse dovuto seguire un metodo determinato impostogli dal Governo civile, che cosa sarebbe divenuto di quest' uomo, e de' lumi ch' egli arrecò nell' arte dell' insegnare? Il povero sig. Girard sarebbe restato un uomo ordinario, uno de' volgari maestri che escono dalla forma stabile del metodo governativo, dalla quale la sapienza del Governo intende che devano uscire tutti uguali, quanti sieno per essere i maestri della nazione, salve però le pulighe, che ci rimangono nel gettarli. Così questo grand' uomo sarebbe stato perduto per la società, e la società avrebbe perduto con esso il frutto di tante sue amorose e ingegnose sollecitudini nella difficile arte dell' istruire e dell' educare. Quanti genii perduti! Quanti germi fertilissimi non si devono lamentare compressi e diseccati nelle nazioni da Governi così illiberali e stazionari! I Governi di questa fatta, che restringono tutto l' insegnamento nelle pastoie d' un solo metodo arbitrario, ch' essi elevano fino alla dignità d' una legge, a cui poi esigono che si presti una superstiziosa venerazione, sembrano al tutto persuasi che uno stesso metodo possa essere buono ugualmente per tutti gl' insegnanti. Ma chi non sa, che l' indole varia degli ingegni e delle naturali abitudini fa sì, che un metodo buono in certe mani, non sia più buono in altre, nelle quali un altro all' incontro sarebbe ottimo? Ora, quando i Governi dànno prova di non sapere nè pur questo, come è poi sperabile ch' essi d' altra parte abbiano la sapienza necessaria per trovare e decretare almeno un metodo ottimo in se stesso, se non ottimo relativamente a tutti i precettori? E qui s' avverta, che collo stabilire che fa il Governo un unico metodo d' insegnamento, egli proscrive spietatamente tutti gli altri. Quelli, a cui il metodo decretato non piacesse, sono irremissibilmente esclusi dall' insegnamento. Quelli che, dopo essere entrati nell' insegnamento, s' allontanassero in qualche parte dal metodo prestabilito, bene o male che il facciano, sono rei davanti il Governo, e per conseguenza sono molestati, rimproverati, puniti dal Governo, o dallo sciame de' suoi impiegati, a cui è commessa la vigilanza sull' esecuzione del metodo prescritto: onde non il bene o il male, il profitto o la mancanza di profitto della scuola, è ciò che si premia o che si punisce; ma la formalità del metodo legale diviene il grand' oggetto della pubblica autorità e de' suoi rigori! Un male ne tira un altro. Sovente nel metodo decretato si nasconde una fonte inesausta di vessazioni e di persecuzioni legali a persone le più benemerite, o che potrebbero rendersi tali: e molti eccellenti ingegni impauriti all' aspetto di questo tormento, o si rappicciniscono e ingretiscono, se sono abbastanza vili d' animo o bisognosi di pane, o s' astengono dall' applicarsi a una carriera resa così miserabile, se hanno l' animo nobile e non gl' incalza il bisogno di vivere. In tal modo il Governo si toglie ogni mezzo per conoscere e incoraggiare il vero merito degli istitutori, e invece di prendere un tono veramente benevolo e rispettoso verso di essi, non gli rimane che il piacere di trattarli come gente meccanica e dispregevole, dopo aver egli stesso contribuito a renderla tale. Cotesti Governi dunque alla ferula, che gli antichi maestri usavano cogli scolari, sostituiscono una ferula più crudele ancora pei maestri medesimi, e il loro liberalismo consiste bene spesso nel proibire severamente la prima, e nel maneggiare la seconda per diritto e per traverso, se non sui corpi, sugli animi e sulla stessa dignità umana. Questo dovere d' ogni Governo che mantiene un insegnamento ufficiale, ha il suo fondamento nella giustizia distributiva . Forse qualche Governo, o qualche governiale per lui, dirà (e non sono certo i soli Governi civili che così sragionano, ma pur anche i governiali): « Io ho il diritto d' eleggere gli istitutori ufficiali: dunque posso eleggere chi voglio, e niuno può lamentarsi ». A tutti quelli che hanno pretese così arroganti in un secolo di civiltà, conviene rispondere: « Voi fondate la vostra illazione sopra un diritto indeterminato di eleggere gli istitutori; ma sappiate che diritti indeterminati non ce ne sono: non c' è mai il diritto se non è definito da certi confini. Non si nega dunque, che voi abbiate il diritto d' eleggere gl' istitutori ufficiali, ma si aggiunge che questo vostro diritto non esiste se non ristretto dentro i limiti della giustizia distributiva: al di là comincia tosto il dispotismo, e la lesione dei diritti altrui ». Infatti il Governo è stabilito per amministrare i diversi rami che gli appartengono in modo da ottenere la migliore amministrazione possibile, e il bene pubblico che può provenirne. E però la nazione governata ha il diritto di pretendere ciò dal suo Governo; e se nol fa, è leso il diritto della nazione. Anche l' insegnamento ufficiale, posto che sia un ramo di Governo, deve essere condotto nel miglior modo possibile. Ma questo dipende dalla più giusta scelta degl' istitutori e maestri; e la miglior scelta è quella de' più dotti e idonei. Dunque quest' è un dovere giuridico del Governo civile. Ammesso questo dovere, resta a cercarsi in che modo il Governo possa adempirlo, come possa riuscire a collocare nell' insegnamento ufficiale i più dotti e idonei; e questo è certamente il punto più difficile, e dove più deve spiccare la sapienza governativa. Ma in generale è necessario d' ammettere le seguenti massime. 1 La maniera, colla quale devono essere eletti gl' istitutori ufficiali, non è arbitraria di maniera, che il Governo creda d' aver compìto il suo dovere eleggendoli in qualunque sia guisa, come se si trattasse d' un padrone che prende a suoi servitori quelli che vuole; 2 Le prove legali usate fin qui per riconoscere la scienza dei candidati, prove che arrecano umiliazioni, molestie e spese ai candidati, non conducono a trovare i migliori, ma piuttosto servono ad allontanarli dall' insegnamento, per le ragioni indicate di sopra; 3 I Governi devono stabilire de' metodi i più semplici possibili, co' quali pervengano a conoscere preventivamente quali siano i più dotti e degni d' essere eletti a maestri e istitutori invitando e allettando questi a un così nobile e santo ufficio, con modi rispettosi, cortesi, generosi, e non rendendo loro difficile e grave l' assumerlo, sia ponendo loro tra piedi impacci, incomodi e spese; sia ancor più, accogliendo quelli che vogliono darsi alla buon' opera dell' insegnamento con alterezza d' inquisitori e di giudici criminali, e con villana diffidenza; 4 Se il Governo lasciasse veramente libero a tutti l' esercizio del diritto d' insegnare, e tenesse nello stesso tempo un occhio imparziale ed amorevole sopra tante scuole ed istituzioni che nascerebbero da se stesse in tutte le parti della nazione, quando non fossero compresse o isterilite dal dispotismo governativo o dalla presunzione di scienza che hanno i governanti, gli sarebbe facile ritrovare non pochi maestri che, avendo già fatto il loro tirocinio in tali scuole, e date prove della loro probità, scienza ed attitudine all' insegnare, potrebbero essere da esso invitati a prendere un posto nell' insegnamento ufficiale, a ciò traendoli con emolumenti, onorificenze e vantaggi maggiori di quelli che possono avere in istabilimenti o scuole non ufficiali. Il Governo darebbe in tal modo uno stimolo, e questo produrrebbe un movimento in tutti quelli che si sentono chiamati all' ufficio dell' istruzione e dell' educazione, un movimento, dico, verso all' insegnamento ufficiale, un desiderio di distinguersi, per essere poi eletti od onorificamente invitati dal Governo stesso a prendervi parte. L' Inghilterra (di cui non lodiamo ogni cosa, come fanno certi signori entusiastici), l' Inghilterra, dico, con savio accorgimento, lungi dal mostrarsi ostile agli insegnanti, incoraggia gli stessi maestri privati, dando spontaneamente sovvenzioni e premi a' migliori di essi, e particolarmente premia con assegni in danaro coloro, che sotto di sè vengono formando degli assistenti o de' monitori, come colà si chiamano, i quali poi diventano anch' essi, dopo aver imparato coll' esperienza, buoni maestri; 5 Il Governo deve guardarsi dal pericolo che le elezioni e le promozioni de' maestri e degli istitutori ufficiali non siano fatte per via delle consorterie: non ci vogliono nè consorterie metodistiche, nè consorterie universitarie, nè consorterie di maestri, nè altra generazione di consorterie. Se il Governo civile abbandona fiaccamente in mano a certe consorterie le elezioni degli istitutori ufficiali (e si può dire lo stesso degli impiegati d' ogni dicastero) la giustizia distributiva è bell' e sagrificata all' interesse della consorteria stessa. E oltre che l' insegnamento ufficiale si dissecca e isterilisce in un circolo vizioso, è anche questo una fonte inesausta di discordie, di invidie e di partiti accaniti, che rendono il Governo stesso sempre più debole e sempre più odioso. Ma quest' è un pericolo così grave che gioverà ci torniamo anche sopra. I padri di famiglia hanno dalla natura e non dalla legge civile il diritto di scegliere per maestri ed educatori della loro prole quelle persone, nelle quali ripongono maggior confidenza. Questo diritto generale contiene i diritti speciali seguenti: 1 Di far educare i loro figliuoli in patria o fuori, in iscuole ufficiali o non ufficiali, pubbliche o private, come stimano meglio al bene della loro prole; 2 Di stipendiare appositamente quelle persone, nelle quali essi credono di trovare maggior probità, scienza e idoneità; 3 Di associarsi più padri di famiglia insieme istituendo scuole dove mandare in comune i loro figliuoli. Il diritto che hanno i padri di famiglia di far istruire ed educare da chi giudicano meglio la loro prole non è indeterminato, nel qual caso non sarebbe diritto, ma racchiuso entro alcuni limiti, oltre i quali cessa. Primieramente anche i genitori devono rispettare ne' loro figliuoli i diritti connaturali agli uomini tutti, diritti inalienabili ed assoluti. Perciò i padri di famiglia non hanno alcuna facoltà giuridica di dare o di far dare ai propri figliuoli un insegnamento che gli pervertisca, e se un Governo civile prende sotto la sua tutela questi diritti dei figliuoli, senza invadere, con questo pretesto, la sfera dei diritti paterni, egli esercita una legittima autorità, e adempie ad un suo dovere, perchè il Governo è istituito principalmente per tutelare i diritti di tutti. In secondo luogo, il diritto dei genitori è limitato dal diritto che ha la Chiesa Cattolica all' insegnamento. Come non possono i Governi arrogarsi nessuna autorità su questo insegnamento, così neppure i padri di famiglia: ma e padri e Governi devono dipendere con docilità dal magistero stabilito sopra la terra da GESU` CRISTO (1). In terzo luogo, il diritto che hanno i padri di famiglia di scegliere i maestri e gli educatori che credono migliori, non dà loro il diritto di prescrivere alle persone che eleggono o stipendiano a tale ufficio i metodi e le maniere dell' insegnamento: questo deve rimanere in piena libertà de' maestri stessi e degli educatori. E` vero che i padri possono giuridicamente parlando ridurre a convenzione la maniera dell' insegnare, nel qual caso gl' insegnanti coll' accettare una tale convenzione rinuncierebbero al proprio diritto: ma questo sembra inconveniente, generalmente parlando, come segno di sfiducia dato agl' istitutori, e una viltà da parte degl' istitutori stessi, che sono tenuti, senza bisogno di convenzione, di seguire quel metodo che stimano migliore e a non abbandonarlo per motivi di basso interesse. Riguardo, non di meno, alla parte educativa, dovendo essa venir condotta parte dai genitori, i quali non possono mai commetterla totalmente ad altrui mani, e parte dagli educatori, conviene, e che questi deferiscano ragionevolmente a quelli, e che gli uni e gli altri si mettano in pieno accordo e procedano con una perfetta coerenza ed unità. Finalmente il diritto de' genitori non è una facoltà arbitraria e capricciosa ma temperata dalla ragione e dalla morale: è una facoltà di fare del bene ai figliuoli, e non di far loro del male. I Governi monopolisti dell' insegnamento, come pure tutti quelli che concedono una libertà d' insegnamento di solo nome, inceppando in effetto con innumerevoli formalità e pesi l' esercizio del diritto di insegnare, come abbiamo veduto nel capitolo precedente, ledono anche il diritto dei padri di famiglia, a cui impediscono la piena libertà d' esercitarlo. Poichè è chiaro, che questo rimane tanto più vincolato nella scelta delle scuole e dei maestri, quanto più dal Governo si mettono impedimenti alle scuole e all' esercizio della professione di maestro. Vi hanno tra noi dei dottrinari, che riconoscono nei padri il diritto di fare istruire i loro figliuoli da persone di loro fiducia, scelte senza impedimento, ma poi aggiungono: « Ciò non ostante per al presente non conviene lasciare questa libertà ai padri di famiglia, perchè non ne sanno usare, hanno molti pregiudizi imbevuti nel tempo passato. Conviene dunque per ora privarli di quella libertà, fino che sieno formati alle nuove idee della giornata: allora poi gliela concederemo ». Quelli che così ragionano sono falsi liberali , il che è quanto dire non liberali , sono teste inconseguenti, senza principii. Col loro ragionamento distruggono ad un tempo il concetto del diritto e quello della morale: l' utilitarismo solo, sotto la parola d' opportunità , è rimasto nel fondo di questi animi, e fors' anco senza che il sappiano essi medesimi, perchè gli uomini inconseguenti senza saperlo non hanno numero. Infatti, qual principio seguono mai costoro? Nissuno per ripeterlo. Seguono forse il principio della libertà? Come mai, se suppongono che la libertà non sia qualche cosa in natura, ma una cosa che emana da essi, e in quella misura che essi a loro beneplacito concedono agli uomini ed ai cittadini? Come? se credono di poter disporre a loro arbitrio senza scrupolo alcuno della libertà di tutti, ed esser in facoltà di restringerla e di risecarla, e secondo l' opportunità del sistema del partito che seguono ora concederne una parte maggiore, ora una minore, e in tali modi e forme, che venga a favorire soltanto una consorteria, e non tutti quelli che n' hanno dalla natura il diritto? « Noi non vogliamo favorire una consorteria, ci rispondono; ma vogliamo, che prima di tutto i padri stessi acquistino sentimenti liberali, e sieno affezionati per istima di cuore al sistema costituzionale. Allora la libertà d' istruire ed educare i loro figliuoli, lasciata pienamente ai padri di famiglia, sarà opportuna, e noi loro la concederemo ». Ma, cari signori, volete voi da vero che i padri di famiglia acquistino sentimenti liberali? In che dunque fate consistere questi sentimenti liberali, che volete vedere in altrui, se voi stessi siete despoti fino nei più intimi visceri? Non è egli questo stesso un atto di orribile dispotismo il disporre dei diritti naturali dei padri, il vincolarli, l' impedirne l' esercizio, col pretesto, che non sono ancora divenuti come voi liberali? Non volete dunque la libertà, se non a favore di quelli che sono liberali come voi. Poichè chi siete voi, quando escludete tutti i padri di famiglia, se non una consorteria, anche piccola, di dottrinari? E per dottrinari intendo tutti gli uomini inconseguenti del giusto mezzo , e dell' opportunità. Di più considerate, buona gente, quanto il vostro principio di liberalismo, calante e crescente secondo l' opportunità, sia fatto tutto all' uso ed al comodo dei despoti i più sformati. Non istarebbe bene, anche in bocca di qualunque monarca o Governo il più assoluto, questo vostro ragionamento? « Noi riconosciamo pienamente la libertà come un diritto, ma dipendentemente da noi: la concederemo quando, a nostro giudizio (notate bene: a nostro giudizio come appunto dite voi) sarà opportuno il concederla: il popolo non è ancora adesso maturo ». Che cosa è il popolo se non i padri di famiglia? Quando voi dunque, signori dottrinari, negate la libertà naturale ai padri di famiglia, la negate al popolo: dite quello stesso che possono dire, e che dicono effettivamente i più assoluti Governi. Voi dunque avete l' assolutismo nel cuore e nella corata; e potete formolare il vostro liberalismo così: « Noi aspettiamo che i padri di famiglia diventino liberali, e allora diverremo liberali anche noi, cioè non impediremo la loro libertà. Per intanto vogliamo impedire la libertà altrui, contentandoci di riconoscerne il diritto colle parole ». Ecco il vostro liberalismo. Duole solamente di dover osservare che questo stesso ragionamento in bocca d' un Governo assoluto potrebbe essere vero ed onesto, quando esso non può essere tale sul vostro labbro. Il Governo assoluto non ostenta liberalismo, si crede obbligato di fare da tutore di quelli, che, non sapendo ancora usare della propria libertà, questa non varrebbe loro cosa alcuna. Se dunque un tal Governo giudica ed opera di buona fede, potrà ingannarsi, ma non sarà nè inconseguente, nè inonesto. Ma voi! Voi abborrite l' assolutismo, se vi si dà ascolto, voi riconoscete la libertà come un diritto di questo popolo, voi vivete in una nazione nella quale si dice che la libertà è la base del Governo, dove c' è infatti la libertà della stampa, la libertà di fare il male, d' essere empi e scostumati, senza alcun pericolo di perdere con tutto ciò il titolo di onorevoli. E poi avete tanta paura, che i padri di famiglia non siano liberali abbastanza per esercitare il loro diritto naturale di fare istruire ed educare i loro figliuoli da chi vogliono, e supplicate il Governo di circondarli d' impacci e di ritorte, acciocchè non possano esercitare liberamente questo loro diritto? E` questo un essere coerenti ed onesti? Volete dunque fare servi e schiavi tutti i padri di famiglia, per renderli così liberali al modo che siete voi! Il vostro spirito non è punto inclinato al liberalismo: voi evidentemente non tendete ad altro che a fare dei proseliti alla vostra consorteria , e per questo volete disporre voi soli dell' istruzione e dell' educazione, acciocchè questa consorteria, fatta potente, possa regnare con piena libertà; giunti poi all' intento vostro, allora troverete l' opportunità di gridare a tutti i vostri servi: « Non è vero che adesso siete liberi? ». Secondo voi, tutta la questione dipende dall' opportunità . Ma chi è che giudica dell' opportunità? Siamo noi, ci dite. Ma non ci siete altri che voi al mondo? E se altri giudicassero diversamente da voi? Certo che i padri di famiglia di cui voi portate un giudizio così abbietto, e che volete spogliati della libertà dell' istruzione e dell' educazione da darsi a' loro figliuoli, non potrebbero giudicare come voi, perchè giudicherebbero contro se stessi. Voi pretendete di fare la legge, e che essi la subiscano. Se dunque le opinioni intorno all' opportunità vanno divise, quale prevalerà? Voi dite: la nostra. Sia pure, ma dall' istante che vi sono opinioni contro opinioni, e non c' è nessun giudice che possa dirimere la lite, se prevarrà la vostra, prevarrà perchè siete più forti. Se in un altro momento vi trovaste più deboli, prevarrà la contraria opinione, e ancora sarebbe una prevalenza di forza. Voi dunque, lasciando la via del diritto per quella dell' opportunità, riducete la cosa a questo termine, che non sia più la ragione quella che impera nella società, ma la forza. Volendo dunque sostituita al diritto l' opportunità, che cosa fate, se non inaugurare il dominio della forza? E siete liberali? Se liberali vuol dire uomini senza principii giuridici, che vogliono regnare sul popolo in virtù della forza bruta, ogni qualvolta glie ne sia data loro l' opportunità , ve lo concedo. Ma veniamo alle strette, veniamo al fatto positivo. Qual è la ragione intima per la quale giudicate che i padri di famiglia non siano ancora abbastanza liberali per far buon uso del loro diritto naturale, di far istruire ed educare i loro figliuoli da chi loro ben pare? e che si deva perciò impedire la loro libertà, con vincoli posti appositamente per questo dal Governo civile? Ecco la ragione che voi non dissimulate. I padri di famiglia, attesi i sentimenti da cui al presente sono animati, se fossero liberi di scegliere le scuole e i maestri, metterebbero la loro confidenza nel clero regolare e secolare: è dunque opportuno impedirlo, acciocchè l' insegnamento diventi laico: e diverrà tale sicuramente quando noi prendiam tempo per insinuare nella vegnente generazione altri sentimenti. Il liberalismo adunque de' nostri signori si manifesta sempre più: tutto finisce in una intolleranza religiosa, e in un' ostilità al clero. Dico in un' intolleranza religiosa, perchè fino a tanto che ci sarà religione, si porrà sempre dai padri di famiglia una maggior confidenza negli istitutori ed educatori ecclesiastici, che non sia in istitutori laicali: è cosa naturale ed inevitabile, e basta a vederla il senso comune: la speranza di fare che il clero perda la confidenza a segno d' essere posposti, in così moralissimo e religiosissimo ufficio, al laicato, non può fondarsi ragionevolmente, se non sulla speranza di distruggere la religione. Dio mi guardi dall' attribuire questo pensiero agli avversari che abbiamo preso ad impugnare: siamo anzi persuasi che essi ne sono lontanissimi. Ma la conseguenza logica non è meno inevitabile. Qualunque siano i principii politici che prevalgono in una data nazione (purchè per principii politici non s' intenda, con mala fede, principii d' empietà) qualunque sia la forma del Governo, costituzionale o no, se si conserva la religione cattolica nell' animo de' cittadini, il clero sarà sempre il loro confidente, e in generale crederanno, che esso, dedicato come è per vocazione e per ufficio a tutto ciò che è santo, e che è intemerato, presti loro una assai maggiore malleveria per l' istruzione e l' educazione della loro amata prole, che non possano prestarla uomini secolari involti e spesso ingolfati nei pericoli, negli interessi, nelle brighe del mondo, e da queste continuamente divisi e distratti. Non rimane dunque per venire a capo di secolarizzare l' istruzione e l' educazione, se non l' espediente unico di distruggere il Cattolicismo, o di calunniare e di avvilire così fattamente il clero, che diventi l' obbrobrio degli uomini, e l' abbiezione della plebe. Ma poichè è ferma nostra opinione, che non è in potere de' dottrinari, nè di altri di distruggere in Italia la Cattolica Religione, e che la calunnia e la persecuzione non otterrà che l' effetto contrario, quello cioè di purificare, di ringiovanire, d' avvalorare il clero; perciò crediamo del pari, che non verrà mai l' opportunità , che aspettano cotesti signori, di lasciare inviolati i diritti de' padri di famiglia, e di non impedire la loro libertà di esercitarli. E` vano dunque sperare d' ottenere una sincera e piena libertà d' insegnamento da codesti nostri dottrinari dell' opportunità, giacchè l' opportunità loro non può venire: e guai alle nazioni, a cui venisse una tale opportunità! Ma, e la forma costituzionale del Governo non sarebb' ella messa a pericolo, dicono alcuni, se i padri di famiglia potessero far allevare i loro figliuoli da chi loro ben piacesse? Anzi consolidata. La forma costituzionale, se non offende la libertà giuridica di nessuno, se rispetta, se tutela i diritti di tutti, sarà amata da tutti: la cosa è naturale, gli uomini amano il bene che godono, e non il male che soffrono. Ma se voi, miei signori costituzionali, vi servite di questa forma di Governo per non lasciare al popolo altro che una libertà di nome, e una licenza di fatto, se sotto quella forma non rispettate più i diritti altro che secondo l' opportunità; se ad una consorteria accordate la libertà di dominare , parte colla forza, parte colle leggi fatte da essa, parte colla frode e col raggiro, e intanto mettete le manette ai padri di famiglia, e perseguitate quel ceto di cittadini, che è e sarà sempre il più rispettato di tutti i ceti, voglio dire il clero; se in una parola domandate all' ingiustizia e all' empietà la forza per fondare il sistema costituzionale, come è possibile, che voi lo facciate amare, questo sistema, e che lo rendiate desiderato? Non seminate voi stessi, così operando, l' odio e l' avversione del medesimo? E non raccoglierete quello che avrete seminato? Non siete voi che così confermate, moltiplicate, e in qualche modo giustificate i pregiudizi, anche ingiusti, contro la costituzione dello Stato, giacchè gli uomini, non molto atti a distinguere, attribuiranno ad essa quello che dovrebbero imputare forse solo alla vostra imprudenza, per non dire di peggio? Insomma, o credete che la forma costituzionale si deva fare amare e stimare da tutti i cittadini concordi spontaneamente , o la volete impor loro colla forza e col raggiro. Nel primo caso dovete mutare contegno, e cessare dall' opporvi alle libertà giuridiche di tutti. Nel secondo caso, come potrete voi aspirare al titolo di liberali, se non pensate che a imporre colla forza e coll' astuzia le vostre proprie opinioni politiche agli altri cittadini, costringendoli a diventare costituzionali col dichiarare loro che devono deporre le proprie opinioni e prendere le vostre, se vogliono partecipare anch' essi della libertà di cui al presente voi soli vi reputate degni, e v' erigete in giudici di quelli che sono degni? Ma per tornare a quello che dicevamo da principio, tutto il male sta in questo, che a voi, signori nostri, manca ogni principio di morale e di diritto. Voi l' avete in bocca il diritto, ma mostrate di credere che esso sia fatto a modo di calzetta, che ora si fa larga ed ora stretta. Poichè se « la libertà non è altro che il libero esercizio del proprio diritto », o convien negare che il diritto sia qualche cosa di sacro e d' inviolabile, o convien ammettere che anche inviolabile e sacra sia la libertà naturale e giuridica, di cui parliamo. Ma mettersi al disopra del diritto stesso, e credere di poterlo un dì restringere e l' altro dì allargare, non è questo uno scambiare il diritto coll' utilità e di più con un' utilità fallace? Il principio di quelli che usano la parola diritto nel suo vero significato, e non si servono di essa per coprire onestamente l' utilitarismo, è questo: « Il diritto è inviolabile, sempre, da tutti ». Il vostro principio è quest' altro: « Il diritto va rispettato secondo l' opportunità ». Merita forse questo neppure il nome di principio? Se è un principio, è il principio del dispotismo il più selvaggio, come dicevamo. Il Governo che si attribuisce di potere rispettare i diritti dei cittadini solamente secondo l' opportunità , può commettere qualunque concussione, oppressione, atto di barbarie secondo l' opportunità . Non c' è dunque qui il giusto mezzo: o il rispetto del diritto deve essere anteposto all' opportunità, o l' opportunità anteposta al rispetto del diritto. Nel primo caso non potete senza contraddizione riconoscere la libertà dei padri di famiglia come un diritto, e poi impedirne loro l' esercizio, consultando l' opportunità (già s' intende l' opportunità che risulta dal vostro particolare giudizio che imponete per legge a tutti). Nel secondo caso confessate che il dispotismo è quello che veramente volete salvo, e che gli avete mutato nome chiamandolo libertà, costituzione e simili. Un lamento universale di tutti gli uomini probi e onesti accusa il nostro secolo d' uno spirito di materialismo (1), che guasta profondamente le parti più vitali dell' individuo e della società. E veramente, benchè il materialismo dal secolo scorso in qua sembri aver perduto nell' ordine speculativo, s' è diffuso però immensamente nell' ordine pratico, ed è penetrato in tutte le relazioni della vita. Per questa via si è messa nelle menti la persuasione, che chi paga un altro uomo per qualche ufficio, acquisti una illimitata autorità su di lui e sull' ufficio, qualunque sia, che viene affidato alle sue mani contro uno stipendio assegnatogli. Col qual principio gli uomini che ricevono uno stipendio grande o piccolo, diventano veri servi. Il che è cosa tanto più sconvenevole, quant' è più nobile e liberale l' ufficio che sostengono. E pochi sono gli uffici più nobili e più liberali di quello di maestri e d' istitutori della gioventù. E` dunque a stabilirsi prima di tutto questo principio, che i maestri e gli educatori non devono esser trattati come servi , da chi dà loro lo stipendio, ma con riverenza e gratitudine pel servizio che rendono alla società. Premesso questo principio generale, è necessario che dividiamo in tre categorie quelli che suppliscono alle spese delle scuole e istituti educativi: poichè altri vi suppliscono per puro spirito di beneficenza; altri per ispirito di speculazione, traendo da tali scuole ed istituti guadagno per sè; altri finalmente suppliscono alle dette spese non del proprio, ma come amministratori del danaro altrui. Di ciascuna di queste tre categorie di persone si può domandare quali diritti loro competano riguardo all' insegnamento. Come abbiamo difeso i diritti che hanno i dotti all' insegnamento, e sostenuto che un Governo liberale dee lasciarne libero l' esercizio, così del pari diciamo, che tutte le anime generose che vogliono far del bene, e, per non uscire dal nostro argomento, vogliono istituire e mantenere del proprio scuole e collegi d' educazione, n' hanno un naturale diritto, e deve esserne lasciata loro la piena libertà d' esercitarlo. Deve loro essere ancora lasciata la libera scelta de' maestri ed istitutori, salvo il dovere morale che loro sempre rimane d' eleggerli con saviezza. Ma questo diritto ha egli de' limiti? Ripetiamo che nessun diritto ne è senza. Quali dunque sono? Non si dà diritto d' insegnare se non entro i tre limiti generali, indicati a principio, cioè che chi insegna abbia scienza , insegni cose oneste , e in un modo inoffensivo . Questi benefattori dunque sono obbligati di scegliere i maestri e gl' istitutori tra persone che abbiano il diritto naturale d' insegnare, cioè tra persone dotte e fornite di quella moralità che si richiede a insegnare cose oneste, e in un modo inoffensivo. I diritti dunque de' benefattori devono essere conciliati con quelli della Chiesa Cattolica e de' dotti e in tal modo quelli riescono temperati da questi. Abbiamo anche veduto, che è un diritto de' dotti lo stabilire i metodi dell' insegnamento. Non devono dunque i benefattori imporre a loro arbitrio il metodo che seguir devono i maestri nelle scuole; ma su questo punto dee valer anche pei benefattori quello che abbiamo detto parlando de' padri di famiglia. A certuni la libertà, che noi desideriamo, sembrerà soverchia. Ma quelli che così la pensassero, sospendano la loro sentenza, fino che abbiano inteso l' intero nostro pensiero: dopo aver letti questi nostri cenni fino alla fine considerino l' intero del sistema, e la relazione delle diverse sue parti. Avendo noi diviso l' influenza sull' insegnamento tra sei persone giuridiche, assegnando a ciascuna la sua porzione, egli è evidente, che intendiamo che coesistano tali diritti tutti insieme, e questa coesistenza simultanea è appunto quella, che per la stessa natura della cosa li modera reciprocamente e naturalmente nel loro esercizio, e gli armoneggia insieme. E per fare un cenno di questa specie di naturale limitazione anticipiamo qui qualche osservazione di quel più che diremo poi parlando de' diritti del Governo civile. Il Governo civile ha anch' egli de' diritti, che si riferiscono alcuni direttamente, altri indirettamente all' insegnamento, e anch' esso dee avere la piena libertà d' esercitarli, perchè la libertà è da per tutto dov' è il diritto, non essendo ella altro che « l' esercizio non impedito del diritto ». Facciamo dunque cenno di due soli de' diritti del Governo, riservandoci a parlar degli altri a suo luogo, e subito apparirà quanto essi, esercitati sapientemente, limitino nel fatto e legittimamente la facoltà che abbiamo data ai dotti, ai padri di famiglia e ai benefattori d' insegnare o d' istituire scuole e stabilimenti educativi. Uno di questi diritti del Governo, date certe condizioni, è quello d' istituire un insegnamento ufficiale. Ora l' insegnamento ufficiale limita di fatto e legittimamente gli altri insegnamenti in due modi; il primo colla concorrenza, per la quale si limitano i diritti delle varie persone reciprocamente, e al Governo non mancano i mezzi di rendere, se egli è savio, l' insegnamento ufficiale migliore degli altri. A cui s' aggiunge, che quando gli alunni delle altre scuole vogliono passare alle scuole ufficiali, il Governo ha il diritto, non già d' imporre loro condizioni arbitrarie, ma sì d' avere da essi una prova, che li dimostri istruiti al pari degli altri alunni dell' insegnamento ufficiale, di cui aspirano ad essere condiscepoli; cioè di far subire ad essi, prima d' ammetterli, un esame che a dimostrare ciò sia sufficiente: il che dee eccitare i presidenti dell' altre scuole ad emulare l' eccellenza dell' insegnamento ufficiale. Il secondo diritto del Governo è di non ammettere negli impieghi, se non quelli che abbiano le cognizioni necessarie alla carriera in cui vogliono entrare. Questo non dà mica al Governo il diritto di escludere dagli impieghi a priori e in universale tutti quelli che non sono stati istruiti nelle sue scuole, e nè pure di sottomettere gli altri ad esami arbitrari e indeterminati, ma sì bene ad esami sufficienti per riconoscere con pratica certezza se gli aspiranti, in qualunque luogo e modo sieno stati ammaestrati, abbiano le cognizioni richieste a quella carriera di pubblici impieghi. Certo, che per fare tutto questo, senz' arbitrio, il Governo deve definire avanti con precisione la sfera e la natura di queste cognizioni, ed esigerle egualmente da quelli che escono dalle scuole ufficiali e dalle altre: ma entro questa sfera l' esame dovrà essere egualmente rigoroso e concludente per tutti. A noi sembra che questi soli due mezzi legittimi, per tacere degli altri, potrebbero avere grande efficacia ad impedire che sorgessero scuole e stabilimenti d' educazione troppo imperfetti, a malgrado che niuna legge li proibisca. Poste dunque queste provvidenze governative, non vedo che difficoltà ci possa essere a lasciare interamente libera la beneficenza. Che male ne seguirà, se ognuno che voglia col proprio danaro far del bene, istituisca scuole e stabilimenti educativi a suo piacimento e senza formalità burocratiche? Egli è chiaro, che se quelle e questi non saranno tali che istruiscano i giovanetti tanto da renderli capaci di sostenere l' esame richiesto, sia per passare nelle scuole ufficiali, sia per essere introdotti ne' pubblici affari, assai pochi vorranno mandare a quelle scuole i loro figliuoli. Non intendiamo punto di dire che anche quelli che dal mantenimento di scuole e collegi traggono guadagno, non possano unire a questo fine, d' un onesto guadagno, un sentimento di beneficenza. Ma il nostro discorso essendo rivolto a dichiarare come un savio Governo civile possa fondare i suoi regolamenti esterni intorno all' insegnamento sui diritti naturali, non possiamo tener conto di quelle disposizioni interne dell' animo che non sono punto manifestate con un segno e una prova esteriore. Convien dunque che distinguiamo la classe de' benefattori da quella degli speculatori colla prova di fatto che ce ne danno; e così alla classe de' benefattori si dovranno ascriver quelli che non ritraggono guadagno per sè dalle scuole o istituti, che mantengono in tutto o in parte del proprio, e alla classe degli speculatori quelli che ne traggono a se stessi guadagno. Quando dunque sia dimostrato, che le scuole non danno compenso alcuno al benefattore che le mantiene del proprio, o se da esse si trae qualche cosa, questo non agguaglia la spesa necessaria a mantenerle, e non fa che diminuire la spesa del contribuente, ma non toglierla del tutto, allora colui che le mantiene va ascritto tra i benefattori; quando poi il reddito, che rendono le scuole istituite da qualche persona o società eccede la spesa necessaria, e l' eccedente va a profitto dell' imprenditore di esse, costui deve computarsi tra gli speculatori. Per speculatori dunque intendo solo quegl' individui o persone morali che, mettendosi all' impresa d' una scuola o d' un collegio, ne conducono l' amministrazione a conto proprio, e a tal fine stipendiano maestri e istitutori, e fanno l' altre spese occorrenti, esigendo da' discepoli, o da' convittori, una retribuzione o pensione, calcolata a intento di cavarne guadagno per se stessi. Non si comprendono in questa classe i maestri o istitutori che ricevono stipendio, ma si comprende in essa anche un maestro, se a suo nome e per conto suo facesse andare l' economia d' uno stabilimento di scuole. Del pari non si comprendono quegli stabilimenti che, essendo fondazioni benefiche (sotto il qual nome intendo uno stabilimento o collegio, che stia da sè con esistenza perpetua), hanno un' amministrazione propria, e gli avanzi che vi si facessero, restassero a vantaggio e incremento dell' opera, o della fondazione stessa. Veduto quali siano gli speculatori, diciamo, che questi, come tali , non hanno diritto alcuno naturale sull' insegnamento, o ad influire in esso: non hanno nè il titolo della dottrina, nè il titolo della paternità, nè il titolo della beneficenza. Il titolo della dottrina vale per insegnare: il titolo della paternità vale per la scelta de' maestri e degli istitutori dei propri figliuoli: il titolo della beneficenza vale per istituire scuole e collegi. Il titolo della speculazione non vale per nulla di tutto questo, e però ad essi non compete nessun diritto naturale all' insegnamento, nè ad influire in esso. Ridotta così la questione, è chiaro, che essa già non appartiene più a quella della libertà dell' insegnamento, ma rimane una questione riguardante le industrie, che può essere esaminata sotto il lato morale, sotto il politico e sotto l' economico o finanziario. E` chiaro in secondo luogo per giusta conseguenza, che, qualora anche il Governo civile il giudicasse opportuno (ecco dove può, e dove deve entrare l' opportunità), egli potrebbe proibire affatto tutte queste speculazioni, senza offendere il principio della libertà dello insegnamento. In terzo luogo è certo ancora, che molte ragioni militano per la proibizione assoluta di questo genere d' industrie, benchè non ci dissimuliamo la difficoltà di determinare il modo con cui si potrebbero sopprimere. E` infatti evidente, che c' è qualche cosa di sconveniente e di repugnante nel far servire l' istruzione e l' educazione della gioventù ad una speculazione economica, nella quale ciò che ha una natura così nobile e santa, com' è la comunicazione della scienza e della virtù agli uomini, diviene un semplice mezzo ad un fine materiale. Che anzi l' opera d' istruire e di allevare i giovanetti è per se stessa d' indole tutta caritativa, e solamente allora ella conserva la sua dignità e procede col decoro e coll' onore dovutole quando è affidata a persone virtuose che l' assumono per impulso di carità, e co' più elevati e generosi sentimenti. Queste, e queste sole, danno nel loro carattere morale, provato col fatto del disinteresse, una guarentigia certa alla società, che l' opera virtuosa deva ben riuscire. A che può guidare di sua natura il fine dell' interesse temporale, se non a ritrarre il maggior guadagno possibile dalla speculazione? Perciò lo speculatore (presciendendo da una virtù personale straordinaria) farà talora delle cose buone, talora delle cose cattive, secondo che gli suggerirà la politica dell' opportunità: egli vorrà piacere troppe volte più ancora ai tristi che ai buoni, cioè ogniqualvolta da quegli spererà un guadagno maggiore e un maggior incremento della sua industria: sceglierà quelle dottrine, quelle massime educative, che più secondino all' andazzo de' tempi, e vorrà maestri e istitutori conformi a questo suo bisogno. Così gli stabilimenti insegnativi ed educativi non avranno per fondamento nessun principio fermo e inconcusso di verità, di giustizia, di dovere e di diritto, se non per un accidente delle circostanze. Aggiungete a questo, che l' interesse consiglia gli speculatori a dare un' importanza esagerata a tutte quelle superficialità, e mostre esteriori, che fanno stupire la moltitudine dell' abilità e del sapere dei giovanetti: l' educazione così si rende apparente e ciarlatanesca, e manca di solidità: l' uomo così non si forma, ma piuttosto si disforma e corrompe: s' avranno dunque giovanetti pieni di vanità, con un sapere indigesto e ciarliero, senza un vero carattere morale, non utile a se stessi, non alla patria. Tali stabilimenti di speculazione vivendo necessariamente della pubblica opinione, è naturale, che l' imprenditore per procacciarsela, sia inclinato ad adoperare tutte quelle arti che gliela possono accaparrare. E non mancano certamente i mezzi onesti e disonesti, non manca la stampa, non mancano i giornali, non mancheranno dunque gli elogi ampollosi e mendicati. Così sorge una celebrità fattizia, frutto d' innumerevoli menzogne, bassezze, adulazioni, camarille e collusioni. E tra questi mezzi non è l' ultimo certamente quello di denigrare abilmente, o di ribassare, la fama degli altri stabilimenti simili, e non tanto i confratelli di speculazione che si rispettano, perchè hanno causa comune, quanto gl' istituti fondati sulla beneficenza e sul diritto. All' incontro tutte le istituzioni benefiche in mano d' amministratori fiduciosi o legali, e molto più gli uomini generosi che non hanno in mira alcun guadagno, devono sostenere con tali speculatori una lotta troppo ineguale. Essi non saprebbero abbassarsi ad adoperare arti maligne ed astute, e non trovano punto in sè a gran pezza quella attività smaniosa che tutto tenta e tutto sommove per dare ai propri stabilimenti una fama: il solo fine del bene della gioventù raccoglie tutto il loro pensiero e le loro facoltà. Anzi i benefici e i virtuosi non sanno neppure difendersi dagl' ingiusti attacchi che loro possono venir fatti, o quand' anche lo sapessero è loro infinitamente molesto il discendere a tali zuffe indecorose, che non possono riguardare solamente le cose, ma prendono necessariamente un' indole personale. Proibendo dunque la speculazione sull' educazione e sull' istruzione della gioventù, il Governo civile tutelerebbe il diritto degli uomini benefici, e quello de' padri di famiglia, togliendo da' loro occhi una seduzione funesta o molesta. Sono lontanissimo, lo ripeto, dal voler dire, o dal credere, che tutti gli speculatori facciano uso delle arti sopra accennate: convengo anzi che ce ne possono essere di buoni. Ma il Governo, lo ripeto, non può fondare le sue leggi sulle eccezioni o su quello che può avvenire, ma su quello che è conforme alla natura delle cose, ed è verisimile che avvenga. Pure, si dirà, che anche le industrie devono lasciarsi libere. Ma, anche quando sieno tali che invece di vantaggio rechino generalmente pregiudizio alla società? Specialmente nell' ordine più elevato, qual è quello della dottrina, della morale, della religione? Che se il Governo civile trova difficile o inopportuno venire al taglio di cui abbiamo parlato fin qui, reputo che egli debba esigere da tali speculatori valide guarentigie del buon andamento dello stabilimento, e che questo non sia punto nuocere alla libertà dell' insegnamento, poichè altro è speculazione , come dicevamo, ed altro è insegnamento . Ci vogliono delle guarentigie, acciocchè questo non sia sacrificato a quella, essendo flagrante il pericolo. Ma queste guarentigie sono difficili a determinarsi; e tutte sarebbero inutili, se non ci fosse in primo luogo una moralità e religiosità non comune nello speculatore. Ma questa da una parte è quasi impossibile accertarsi con prove esterne o legali, dall' altra è inquisizione delicata, odiosa e molesta. Che se il governo si riserberà la facoltà di concedere la licenza di aprire tali stabilimenti solo a persone distinte per conosciuta probità e religione, c' entrerà l' arbitrio, e si griderà all' ingiustizia. Se poi la concederà a tutti quelli contro i quali non ci sia un carico di notoria immoralità o un delitto, si ricadrà negli inconvenienti che abbiamo sopra notati. La concederà dunque a condizione che lo stabilimento non abbia mai per capo lo stesso imprenditore economico, ma un' altra persona nominata liberamente dal Governo stesso, a cui sia affidata intieramente la direzione dello stabilimento per tutto ciò che riguarda l' istruzione o l' educazione? Forse questo sarebbe l' espediente più sicuro. Ovvero il Governo, oltre prestabilire certe norme generali per tali stabilimenti, ricorrerà a visite, inquisizioni e cose simili? Ma torneremo in tal caso alle infinite e moleste indagini, alle pedanterie, alle formalità burocratiche. C' è dunque tanta difficoltà a impedire gl' inconvenienti, che possono trar seco con tutta probabilità le imprese di speculazione economica sull' educazione della gioventù, che mi sembra questa una nuova prova di quello che dicevamo essere desiderabile che cessino affatto. Questi altro diritto non hanno che quello d' amministrare coscienziosamente l' avere altrui. Essi non possono amministrare le sostanze temporali destinate a beneficenza, come se ne fossero padroni. Anzi quelli che sono chiamati a goderne il beneficio, devono esserne considerati come i veri proprietari: ed è conveniente che gli amministratori diano loro guarentigie sufficienti della loro amministrazione e dispensazione. Come la nazione ha diritto di pretendere che le siano date sufficienti guarentigie dell' amministrazione governativa, così la provincia ha lo stesso diritto verso l' amministrazione provinciale, e il Comune verso la comunale, e il popolo, a cui favore cade o cader può la beneficenza, può richiederne dalle congregazioni di carità, e da ogni amministrazione di fondi destinati a beneficenza. S' aggiunge che anche tutti quelli, i cui diritti sono implicati in tali amministrazioni, e possono da esse essere violati, hanno giusta ragione di richiedere, per quello che riguarda l' insegnamento, delle guarentigie sufficienti. Dalle leggi d' un savio e giusto Governo, intorno all' istruzione ed all' educazione, dovrebbero risultare in un modo diretto o indiretto tutte queste diverse guarentigie. Ma il punto più importante e delicato riguarda la nomina dei maestri. Su questo punto devono esser date guarentigie: 1 Alla Chiesa pel suo diritto all' insegnamento coll' educazione cristiana; 2 Ai dotti pel diritto di preferenza in ragione della dottrina, probità e idoneità; 3 Ai padri di famiglia la cui figliolanza è chiamata a godere il beneficio di tali istituti. Per arrivare a questo, io credo, che il metodo da tenersi nell' elezione de' maestri e degl' istitutori in tali stabilimenti, qualora non sia determinato dalla volontà espressa del fondatore e benefattore, converrebbe che fosse sapientemente prefinito, evitando i due scogli egualmente pericolosi dell' influenza in tali elezioni degli amministratori economici, e dell' influenza d' un corpo di persone immutabili. Converrebbe dunque secondo noi: 1 Che quelli a cui è commessa l' amministrazione dei beni dello stabilimento, non avessero alcuna parte nella nomina o scelta de' maestri e istitutori; 2 Che la detta scelta dipendesse bensì dal giudizio di un certo numero di persone dotte e probe, ma non sempre dalle stesse, ma variate di volta in volta, o per via di sorte, o in altro modo senza regola fissa, come si dirà in appresso, e che dovesse avvenire l' elezione in tal modo, che nella buona riuscita fosse impegnato il loro onore. Noi abbiamo posta in questo modo la questione perchè si pone così comunemente; l' abbiamo posta così per avere l' occasione di osservare, che, così posta, involge un equivoco. Infatti, che cosa s' intende per Comune? Non altro che quel gruppo di persone che lo rappresenta, e come suo rappresentante lo governa. Che cosa s' intende per Provincia? Non altro che quel gruppo di persone che la rappresenta, e come suo rappresentante tratta i suoi interessi. Ma non è da farsi illusione. Altro è il governo comunale, ed altro il Comune, altro il Consiglio provinciale e altro la Provincia. La questione dunque si riduce a quest' altra: « Qual è il diritto circa l' istruzione e l' educazione che compete a que' gruppi di persone, che sono designati a rappresentare i Comuni e le Provincie? ». Questa distinzione è necessaria, perchè la rappresentanza può essere illusoria o effettiva. E` una ricerca di alta politica quella del modo, nel quale si possono avere rappresentanze politiche effettive e non di puro nome, e finora non fu sciolto il problema, almeno nella pratica. La nostra opinione si è, che sono effettive le sole rappresentanze reali, e che sono illusorie le rappresentanze meramente personali. In altre parole: sono effettive quelle rappresentanze che rappresentano gli interessi, e non sono tali quelle che rappresentano le persone. Se mi si domandasse oltracciò, quando ci sia questa rappresentazione degli interessi in quel gruppo di persone che presiedono alla società, e la governano, e quando non ci sia, risponderei: « C' è la rappresentanza degli interessi quando quel gruppo di persone che rappresenta la società, abbia in sè compendiati gli interessi di tutti; di maniera, che, se prendono una deliberazione, la quale sia vantaggiosa agl' interessi del gruppo de' rappresentanti, ella debba di necessità riuscire vantaggiosa anche agl' interessi complessivi di tutta la società rappresentata, e se prendono una risoluzione che sia nocevole agli interessi complessivi della società rappresentata, questa deliberazione di necessità riesca proporzionatamente nocevole agli stessi interessi del gruppo dei rappresentanti che la prendono ». Allorquando può aver luogo il contrario, cioè allorquando quelle disposizioni che giovano ai rappresentanti possono esser nocive ai rappresentati, e quelle disposizioni che sono nocive ai rappresentanti, possono essere vantaggiose ai rappresentati, allora essi non rappresentano gl' interessi di tutti, ma rappresentano le nude persone. Ora questa rappresentazione vera, lo ripeto, non è stata ancora mai trovata in pratica, ed è riserbato il trovarla, e il ridurla all' atto, agli ulteriori progressi della società umana. Noi dunque tratteremo la nostra questione partendo dal principio che finora nè l' amministrazione de' Comuni, nè quella delle Provincie, nè quella dello Stato è veramente rappresentativa, benchè ne abbia il nome, e dietro questo nome si teorizzi, e dietro queste teorie si operi: di che poi avviene che l' effetto non corrisponda alla aspettazione. Crediamo doversi distinguere la rappresentanza comunale dalla rappresentanza provinciale come istituzioni di natura grandemente diverse. Il Comune è una vera società di persone, che convivono intimamente unite sul medesimo suolo, e in una continua relazione tra loro: è dunque naturale e necessario, che essa abbia un capo e un Consiglio sul luogo, che la rappresenti e la governi. Tale fu il primo Governo di diritto sociale, il nucleo di tutti i Governi di questa classe. Non si può dire lo stesso della Provincia. Che tutti i Comuni d' una nazione abbiano un vincolo, che siano associati, e che questa associazione di Comuni abbia un capo supremo e un governo, questo pure s' intende utile e necessario a costituire una nazione. Ma da per tutto, dove c' è un sovrano e un Governo generale di diritto sociale, c' è anche o ci deve essere quell' associazione dei Comuni, e non si vede necessario, che sieno costituiti de' corpi intermedi aventi un' autorità di diverso genere e in parte indipendente dal Governo generale. Si dee concepire dunque il Consiglio provinciale come un semplice organo e un aiuto del Governo generale per provvedere agl' interessi speciali delle Provincie, senza che abbia in diritto altra autorità che consultiva, e questo per non scindere l' unità del governo dello Stato e indebolirlo. Tale mi sembra che debba essere ed anche che in fatto sia il concetto del Consiglio Provinciale. Consideriamo dunque a parte il diritto dell' autorità comunale e il diritto del Consiglio provinciale. Ogni governo sociale, grande o piccolo, non è istituito se non per supplire a ciò che non possono fare e non fanno le famiglie e gl' individui, che compongono la società a cui presiede. Non ha dunque nè il diritto nè l' ufficio d' impedire l' attività dei governati, ma di supplire a quello a cui essa non può giungere e di regolarla affinchè non nascano collisioni e danni. Deriva da ciò che i Governi devono lasciare illesi e proteggere tutti que' diritti che sono per loro natura anteriori ad essi. L' autorità comunale dunque, qualunque diritto possa avere, diritto dico derivante dal suo concetto, circa l' insegnamento e l' educazione, deve come lo stesso Governo generale rispettare e lasciar intatti: 1 Il diritto della Chiesa Cattolica; 2 Il diritto de' dotti; 3 Il diritto de' padri di famiglia; 4 Il diritto de' benefattori e di tutte le istituzioni benefiche, che dopo la morte de' benefattori acquistarono un' esistenza per sè. Quel diritto, che l' autorità comunale può esercitare circa l' insegnamento e l' educazione, qualunque sia, è posteriore a tutti questi quattro generi di diritti: ella non deve esser ostile ai medesimi, anzi deve considerarli tutti come preziosa ricchezza del Comune stesso a cui presiede. A malgrado però che i diritti di quelle quattro persone giuridiche sieno mantenuti illesi e liberi, può avvenire che non sia ancora supplito ai bisogni del Comune stesso circa l' istruzione e l' educazione. L' autorità comunale dunque non può intervenire in quelle scuole e istituzioni d' educazione che già esistono nel Comune, e che non sono di sua fondazione, le quali devono rimanere perfettamente libere; ma se queste non bastano, ella ha il diritto di aggiungere altre scuole e collegi, quanti se ne richiedono a supplire al detto bisogno della popolazione comunale. E questo diritto esso lo ha come rappresentante de' padri di famiglia. Che se la rappresentazione fosse vera ed effettiva questo diritto non avrebbe altri limiti che i sopraccennati, e il governo generale dovrebbe lasciarlo integro e liberissimo. Ma che non ci abbia ancora nei Comuni un' autorità che si possa dire veramente rappresentativa degli interessi complessivi del Comune, i Governi stessi, dico anche i costituzionali, se ne mostrano persuasi, poichè sentono la necessità di tutelare il Comune contro l' autorità comunale. A ragione d' esempio essi mettono un limite alle spese comunali, essi si riservano l' approvazione delle spese che l' autorità comunale decreta. Non è egli evidente, che quest' atto di autorità tutoria sarebbe superfluo, quando quel corpo di persone che decreta tali spese rappresentassero fedelmente tutti gl' interessi del Comune? In tal caso sarebbe lo stesso come se gli stessi proprietari tutti insieme lo decretassero. Quando ciò fosse, la spesa non potrebbe mai eccedere, poichè se ci possono essere tra i proprietari alcuni prodighi non può esser mai prodigo tutto il corpo dei proprietari, chè l' attacco ai propri interessi è assai più comune tra gli uomini, che non sia la noncuranza de' medesimi. La necessità dunque che l' autorità tutoria del Governo eserciti una continua vigilanza sull' economia del Comune è una prova evidente, che l' autorità comunale non è organizzata in modo da rappresentare e compendiare in se stessa gl' interessi di tutti. Quelli che si lasciano prendere alle parole e alle forme, credono che quando si può dire: « Qui c' è un corpo di rappresentanti »non ci sia da cercar altro, non importi più esaminare come questo corpo sia composto, se esso sia un corpo di rappresentanti nominali, o reali ed effettivi. In conseguenza di questo equivoco, essi bramerebbero sciogliere subito i Comuni, e non solo i Comuni ma anche le Provincie, da ogni autorità tutoria del Governo generale. Io credo che l' intervento di questa si potrà diminuire di mano in mano che si perfezionerà la maniera di organizzare l' autorità comunale, rendendola una rappresentazione che s' approssimi sempre più a rappresentare veramente tutti gl' interessi. Credo che un uomo assennato direbbe al Governo che si mette per questa via: « Sciogliete pure l' autorità comunale da' vincoli superflui, ma vi resti bene in mente, che altro è questa autorità, ed altro i Comuni stessi, e per isciogliere dalla tutela quell' autorità, non crediate di rendere libero il Comune: anzi se non procedete con prudenza, potrebbe avvenire, che con questa vostra apparente liberalità il Comune stesso, contro la vostra intenzione, si trovasse sottoposto a una servitù maggiore ». Noi non siamo punto gli amici della centralizzazione, ma non bramiamo neppure che il Governo si disciolga in tante repubblichette del medio evo. Il Governo centrale deve essere forte, e in pari tempo tutti i governati devono godere della maggiore libertà. Saper distinguere ciò che appartiene alla forza del Governo, e non alla libertà de' governati, e ciò che appartiene alla libertà dei governati, e non alla forza del Governo: nulla cedere di questa, e nulla usurpare di quella: ecco una delle parti principali e delle più difficili della sapienza politica. Da questo il lettore intende, che, quantunque noi concediamo alle autorità comunali d' istituire scuole e collegi entro i limiti, che abbiamo indicati, non crediamo però che esse debbano andarsene sciolte da ogni tutela e riscontro del Governo centrale. E questa tutela è più necessaria ne' Comuni piccoli, che ne' grandi, poichè ne' primi per la scarsezza di persone istruite e capaci cade l' autorità più facilmente in mani inette, e bene spesso è il caso; o di un piccolo partito, quello da cui dipende l' elezione dei rappresentanti, se così si vogliono chiamare, del Comune. Vediamo dunque una disposizione utile, che il Governo obblighi i Comuni, che vogliono istituire scuole, a istituire prima quelle che sono più necessarie al Comune stesso, e solamente dopo di queste le altre meno necessarie. Crediamo ancora che il Governo non debba abbandonare totalmente l' elezione di tali maestri all' autorità comunale, ma debba obbligarla a quelle condizioni e a quel metodo d' elezione, che ne guarentisca la scelta migliore. Queste condizioni e questo metodo, secondo noi, dovrebbe essere fisso, e non mutabile, come sono mutabili le amministrazioni comunali. Se all' arbitrio di queste ne fosse abbandonata la scelta, verrebbero soventi volte eletti da un' amministrazione de' maestri, che sarebbero stati rifiutati dall' amministrazione precedente, o che si vorrebbero esclusi dall' amministrazione seguente. D' altra parte l' abilità de' maestri e de' professori non può essere, universalmente parlando, valutata con giudizio proprio dalle persone, che costituiscono le amministrazioni comunali: queste devono informarsi da altre: non giova dunque lasciare, che l' elezione dei maestri dipenda da informazioni e raccomandazioni casuali: convien meglio che sia tracciata una via sicura, acciocchè il Comune abbia delle guarentigie d' una buona scelta contro l' autorità comunale. Finalmente crediamo che debbano esser messi de' limiti all' autorità comunale, sia che si tratti di licenziare i maestri già eletti a tali scuole, sia per rispetto all' ingerenza che la detta autorità possa prendere nell' andamento delle scuole. Il Governo deve proteggere i maestri legittimamente eletti, e non permettere che vengano licenziati da un momento all' altro e senza giusti motivi: dee proteggere la loro libertà nell' uso de' metodi, e nella condotta delle scuole, e non abbandonarli alla mercè d' opinioni accidentali, che possono esser capricci, puntigli, personali antipatie, o goffaggini. Altrimenti l' ufficio di maestro e d' istitutore sarebbe avvilito, e prenderebbe l' aspetto d' una ignobile servitù (1). Abbiamo già detto qual concetto noi ci facciamo del Consiglio provinciale: è un corpo di persone, che danno informazioni e consigli al Governo, e discutono e porgono petizioni a favore della provincia che rappresenta. Non crediamo dunque che gli possa competere, in virtù del concetto della società civile, nessuna facoltà decretoria: e che il Governo centrale non potrebbe cedergliene una parte, senza grave detrimento della sua propria perfezione, essendo la forza legittima del Governo centrale il primo elemento della forza della nazione. E appunto perchè tale è l' indole del Consiglio provinciale, avviene che questo non sia permanente, ma una semplice consulta che s' unisce a certi tempi secondo il bisogno. Noi crediamo dunque conseguentemente, che ad esso, come tale, non ispetti nessun diritto nè d' istituire scuole o stabilimenti, nè di averne la direzione o sopraintendenza, ma soltanto quello di proporre al Governo quanto possa esser necessario ed utile alla provincia stessa intorno all' insegnamento. Col nome di scuole provinciali dunque, se così piace chiamarle, altro non si può intendere, secondo noi, se non quelle scuole o quei collegi ufficiali che il Governo giudica opportuno di istituire in ogni provincia. Siamo pervenuti alla parte più difficile e più controversa di questa trattazione: la parte che dee prendere il Governo civile nello insegnamento. Egli è chiaro che la questione riceve una soluzione diversa, secondo che si parte da un concetto diverso dello Stato. Infatti lo Stato si può concepire e fu concepito in tre diverse maniere: o come una signoria , o come una tutela , o come un' amministrazione sociale . Si può concepire come una signoria , tanto se si suppone che il signore che vi presiede sia una sola persona individuale, quanto se si suppone che il signore sia una persona collettiva: per concepirlo in questo modo basta attribuire al Governo i diritti che ha un signore sopra i suoi servi. Si può concepire lo Stato come una tutela , e del pari la persona, che n' è investita, può essere tanto un individuo, quanto una collezione d' individui; e per concepirlo in questo modo basta attribuire al Governo i diritti che le leggi attribuiscono a un tutore di pupilli. Finalmente si può concepire lo Stato come una Società , la quale abbia un' amministrazione o governo proprio e veramente sociale . Tra gli Stati, che ci furono al mondo, e che ci sono anche al presente, non mancarono e non mancano di quelli che furono e sono ordinati con norme derivanti da ciascuno di questi tre principii o concetti fondamentali. Ma egli è chiaro che i primi due concetti non costituiscono popoli liberi: solamente quando uno Stato sia ordinato secondo il terzo concetto, la nazione gode della libertà politica. Noi dunque, abbandonando i due primi concetti, intendiamo di ricercare soltanto « qual diritto d' influire nell' insegnamento abbia il Governo d' uno Stato che sia fondato sul principio della libertà ». Ristretta così la questione, resta a vedere (e questo è il più importante) come s' intenda la libertà. Poichè secondo le diverse opinioni che gli uomini si formano di questa libertà, portano anche diversi giudizi, così in questa questione dell' insegnamento come in tutte le altre. Ora noi abbiamo dichiarato fino al principio che per libertà non intendiamo altro che « il libero esercizio dei diritti di tutti », e che ogni altra libertà erroneamente si chiama con questo nome, e acciocchè non nascano equivoci, dee chiamarsi licenza . Se dunque il Governo civile vuole essere un Governo liberale, e si crede obbligato di governare secondo il principio della libertà, è manifestamente necessario ch' egli consideri i diritti di tutti i governati come anteriori a' suoi propri, e che la sua azione non usurpi su di quelli cosa alcuna, ma li seguiti. Riguardo dunque a quello che un Governo di tal natura può fare circa l' insegnamento, si divide da se stessa la questione in due sezioni. Poichè si può domandare: « qual contegno il Governo civile debba tenere circa ai diritti di quelli che hanno qualche ragione d' influire nell' insegnamento »; e « che cosa possa fare di più il Governo civile circa l' insegnamento, dopo aver usato il dovuto riguardo ai diritti de' governati ». Un Governo civile che abbia per suo principio la libertà, ha tre doveri verso i diritti di tutti: 1 Di non offenderli, o diminuirli, nè per mezzo di leggi, nè in altro modo; 2 Di tutelarli; 3 Di proteggerli e aiutarne l' esercizio. Oltre di questi ha un quarto dovere, quello della tolleranza entro una certa sfera d' azione. Avendo noi dunque distinte cinque persone giuridiche aventi ragione d' influire nell' insegnamento, cioè la Chiesa Cattolica, i dotti, i padri di famiglia, i benefattori e i Comuni, vediamo come il Governo civile debba esercitare i doveri di lasciare illesi, e di tutelare e di proteggere i diritti di ciascuna di esse, riservandosi solamente la maniera di regolarli, acciocchè possano coesistere, ed essere simultaneamente esercitati, senza collisioni reciprocamente dannose. Questo che è il più luminoso e il più assoluto di tutti i diritti, è anche quello che oggidì, e in certi Stati di nuovo pelo, suscita le più calde opposizioni e le più calde difese. E deve esser così, perchè in opera di religione l' indifferenza esterna e affettata è molta, ma l' indifferenza interna non ci può essere: chi non l' ama, l' odia cordialmente. [...OMISSIS...] Tosto dunque che noi abbiamo parlato de' diritti, che ha la Chiesa Cattolica all' insegnamento, s' intese il rumore di chi acerbamente se ne doleva, e quel dolore si versò in menzogne e in villanie. Convien dunque, che noi vi ritorniamo sopra per l' importanza dell' argomento, e però ci rifaremo a dire ancora qualche cosa in difesa de' diritti della Chiesa Cattolica, poi parleremo dei doveri del Governo civile verso i medesimi, e in fine parleremo della tolleranza che può praticare relativamente all' insegnamento non cattolico. Abbiamo dunque detto, che alla Chiesa Cattolica, cioè al Papa ed agli altri Vescovi, appartiene il diritto d' insegnare autorevolmente la dottrina del Salvatore che comprende il domma, la morale e tutti i mezzi utili all' eterna salute, e che « « non rimane agli altri fedeli se non il dovere di professarla, e la facoltà di propagare intorno a ciò quello che hanno imparato dalla Chiesa , o attinto alle fonti dalla Chiesa approvate, senza nulla aggiungere di contrario a quello che insegna la Chiesa stessa » ». Questa dottrina cristiana cattolica fece venire i brividi a un articolista d' un giornale che esce in Piemonte, e che ha per iscopo di illuminare la nazione sulle vere teorie dell' insegnamento, e per troppa voglia di comunicare anche a' suoi lettori l' orrore, da cui si sentia scosse tutte le fibre, l' articolista falsificò quello che noi avevamo detto: « « Ogni laico, per cristiano e pio che egli sia (così egli espose il nostro concetto), insegnando qualche cosa della religione, sarà violatore del diritto divino, usurpatore, impostore » ». Ma un laico che sia cristiano e pio, non assume mai d' insegnare la religione autorevolmente: intende soltanto di propagare la dottrina che egli professa, e ha imparato dalla Chiesa, senza nulla aggiungere del suo di contrario alla medesima. E questa è appunto la facoltà che noi abbiamo lasciata anche ai laici. Senza dunque trattenerci a rispondere all' autore di quell' articolo, noi ci limitammo a circonvenirlo di falsità nel riprodurre la nostra dottrina. Pure, a una smentita di questa sorte, la faccia dell' articolista non si mutò, e anzi con un secondo articolo, invece di rettificare le sue falsificazioni le confermò, e di più, essendo egli anonimo, ci rimproverò di « « lavorare all' ombra del mistero e dell' impunità » » (1). Si direbbe a tanta minaccia, che sotto la larva si copre uno avvezzo a maneggiare la ferula. E` dunque necessario che rintuzziamo, non dico le villanie personali, ma gli errori insinuati nel pubblico con tanta pervicacia. Dice dunque l' articolista (2), che la nostra teoria della libertà dell' insegnamento « « finisce col ridurre il diritto ad un uomo solo in terra » ». Noi abbiamo distinto la dottrina religiosa dalle altre scienze: abbiamo detto che le altre scienze hanno diritto d' insegnarle liberamente tutti quelli che le sanno, i quali, per brevità di locuzione abbiamo raccolti sotto la denominazione di dotti: questo non è ridurre il diritto ad un uomo solo. Abbiamo detto in secondo luogo, che la sola Chiesa Cattolica « « firmamento e colonna della verità » » ha ricevuto da Gesù Cristo il diritto d' insegnarla autorevolmente , di maniera che nessun fedele ha diritto d' insegnare il contrario. Ora se la Chiesa Cattolica è composta d' un uomo solo, in tal caso sarà vero che questa dottrina (e non ogni dottrina) dovrà essere insegnata da un uomo solo: ma se il Papa e i Vescovi non sono un uomo solo, in tal caso l' articolista avrà dedotta una falsa conseguenza. Di poi è pur singolare quest' importanza che l' articolista attribuisce all' essere piuttosto molti che un solo quelli che insegnano, quasichè dal numero dipendesse la verità e la bontà della dottrina. Noi abbiamo riconosciuto i diritti d' insegnare una dottrina qualunque in tutti quelli che la possedono; ma crediamo che un solo che insegni quello che sa, valga meglio d' una moltitudine che insegna quello che ignora. Pure s' intende, che trattandosi d' investigazioni e di dottrine umane, le quali vanno in maggior parte per l' incerto e pel congetturale, sia desiderabile che molti abbiano il diritto di metter fuori le proprie opinioni: i maestri umani sono tutti piuttosto discepoli che maestri: nello stesso tempo che insegnano qualche cosa che credono essere verità, può sopraggiungere ad ogni istante un altro che gli convinca d' errore, ovvero aggiunga al loro insegnamento qualche parte essenziale dai primi ignorata. Ma il nostro discorso è tutt' altro, perchè riguarda la sola verità religiosa. Ed è a proposito di questa, che l' articolista si spaventa al pensiero che si riduca « « il diritto d' insegnare ad un uomo solo in terra » ». Il suo è certamente un timor panico, a cui noi non avevamo dato occasione. Ma ora gli daremo forse occasione di un timor vero: ascoltateci. Sì, un uomo solo appunto ha il diritto d' insegnare la religiosa dottrina; e quest' uomo è quegli che ha potuto dire, e che ha detto infatti: « « Un solo è il vostro Maestro » » (1). Ecco ridotto da Gesù Cristo il diritto d' insegnare le verità che riguardano l' eterna salute ad un uomo solo. Non siamo da tanto da riformar noi questa dottrina, nè siamo disposti per piacere al nostro articolista da rinunziarvi. Quest' unico Maestro del mondo è stato egli che ha mandato il Papa e i Vescovi a ripetere la sua dottrina per tutti i secoli e a tutti gli uomini divisi in re e ministri, in governanti e governati, e non a inventarne una nuova. Argomentammo dunque non esserci bisogno, e non essere neppur possibile, che il diritto sia conceduto ad altri. E perchè? Perchè se altri, qualunque fossero, volessero insegnare un' altra dottrina loro propria, non avremmo de' maestri, ma solamente de' ciechi, che condurrebbero altri ciechi nella fossa. Come dunque sarebbe ridicolo il concedere al cieco il diritto di vedere quello che non può vedere, così è del pari ridicolo il concedere il diritto d' insegnare le verità religiose, col giudizio proprio, ad uomini che non hanno ricevuto la missione e la scienza dal maestro, e che non possono dire che spropositi, se non ripetono la scienza del maestro. E questo maestro non ha avuto nemmanco difficoltà a dire a un uomo solo queste parole: « « E tu una volta convertito, conferma i tuoi fratelli » » (2). Così ha dato ad un uomo solo, cioè al Romano Pontefice, il diritto supremo di confermare i suoi fratelli nella fede, che è quanto dire nella scienza della salute. Ma non così la intende il nostro articolista [...OMISSIS...] . Parlate del diritto di natura, quando si tratta d' una dottrina che riguarda l' eterna salute degli uomini? E` forse pel diritto di natura che si consegue l' eterna salute, o per la grazia del Redentore? Capisco, voi vi formate un paradiso col diritto di natura, che stia da una parte del Cielo, e che abbia a suo fianco il paradiso della grazia: e v' adirate, perchè noi ne ammettiamo un solo, e diciamo, che c' è una dottrina sola religiosa, come non c' è che un solo paradiso, e un solo maestro di questa dottrina di grazia, e i banditori della medesima sono quelli, che il maestro ha destinati. « « Con questo, voi gridate, si calpesta ogni diritto di natura che è pur essa una rivelazione della volontà di Dio » ». Ma noi ignoriamo perfettamente questo vostro diritto di natura in virtù del quale si possa insegnare una dottrina religiosa contraria a quella insegnata da Gesù Cristo e dalla Chiesa, e che questo diritto di natura sia anche esso una rivelazione della volontà di Dio. Se fosse vero quanto voi asserite converrebbe dire, che le volontà di Dio sieno due, contraddittorie l' una all' altra; converrebbe dire, che la volontà di Dio sia in contraddizione colla volontà di Gesù Cristo. Aggiunge l' articolista, che « « così non sarebbe salvata l' umanità » ». Colla sola dottrina e grazia di Gesù Cristo non sarebbe salvata l' umanità! ma col suo diritto naturale , che concede a tutti d' insegnare una dottrina, che mette l' umanità sopra una strada contraria a quella mostrata da Gesù Cristo, con questo, si sarebbe salvata l' umanità! Noi credevamo, e crediamo ancora, per la grazia di Dio, che l' umanità non abbia che un Salvatore solo, e che questo sia Gesù Cristo. Ma ora un giornale, che rappresenta, in qualche modo, l' insegnamento in Piemonte, insegna per lo contrario « « così non sarebbe salvata l' umanità »! ». E come poi sarebbe salvata, se non è salvata per l' insegnamento e per la grazia di Cristo? Sarebbe salvata coll' attribuire a tutti il diritto d' insegnare l' opposto di quanto insegnò Cristo, e di quanto insegna la Chiesa, e ciò perchè altramente « « sarebbe un calpestare ogni diritto di natura che è pur essa una rivelazione della volontà di Dio » ». Ogni diritto di natura dunque si riduce a poter insegnare una dottrina contraria alla cristiana cattolica, e così è bell' è salvata l' umanità [...OMISSIS...] . Dal che si arguisce che negare il diritto d' insegnare una dottrina contraria a quella di Cristo è negare la terra all' albero dell' umanità, e però è un ucciderla, se la si lascia colla sola dottrina religiosa del divino Maestro! Ci sono dunque degli uomini, a cui sembra che si tolga loro la terra sotto i piedi, se si manifesta un desiderio che sieno chiuse le scuole dell' empietà; anzi ancor meno, perchè noi non abbiamo detto nemmeno tanto: abbiamo solo detto, che la Chiesa ha in proprio il diritto d' insegnare autorevolmente la dottrina che riguarda l' eterna salute, perchè è la sola che la possiede e n' ha missione, e non abbiamo aggiunto una sola parola su di quello che può riguardare un insegnamento di fatto e di tolleranza. Pure all' articolista che dice, che coll' attribuire alla sola Chiesa l' insegnamento di ciò che riguarda l' eterna salute, « « non ne sarebbe salvata l' umanità » », noi siamo anche disposti a rispondere che ha ragione. Sì, è vero, non sarebbe salvata l' umanità , ma sapete quale umanità non sarebbe salvata? L' umanità guasta e peccatrice. V' ha una scuola, che è tutto zelo e fuoco per difendere i diritti di questa umanità. Quest' umanità del peccato è appunto quell' albero che si vuole sviluppare, e a cui si teme che manchi sotto la terra. L' umanità quale l' ha fatta il peccato, l' umanità superba, carnale, ribelle al Creatore, perduta: ecco l' albero di questi maestri, che tentano d' impossessarsi dell' insegnamento. Cristo è certamente venuto a perdere quest' umanità perduta, salvando l' umanità stessa col perderla: è venuto a creare colla sua grazia un' umanità nuova e a distruggere la vecchia. [...OMISSIS...] Ha dunque ragione in questo senso l' articolista, lo ripetiamo: colla grazia e colla dottrina di Gesù Cristo si stabilisce la teocrazia, e « « così l' umanità non ne sarebbe salvata » », ma distrutta; se non che a questa distruzione, secondo S. Paolo, succede la vera salute: [...OMISSIS...] . Ecco l' albero nuovo dell' umanità che prospera e fruttifica da diecinove secoli, e a cui non manca nè la terra, nè il cielo. Ma non è questo l' albero dell' articolista e della sua scuola; egli vuol coltivare quello che è venuto a sterpare e diradicare Gesù Cristo, per sè, e per mezzo degli operai da lui mandati nella sua vigna. C' è dunque una umanità vecchia, figlia della corruzione, e c' è una umanità nuova, rigenerata dalla grazia di Gesù Cristo; e queste due umanità non possono certamente stare assieme, ma s' odiano a morte e perpetuamente si combattono, poichè ciascuna di esse vuol prevalere sull' altra, e vanta i suoi diritti. Per questo ha detto Gesù Cristo: « « Non sono venuto a portare la pace, ma la spada » » (1). Alcuni dunque prendono partito per la prima e ne vantano il diritto di natura, cioè della natura corrotta: alcuni altri prendono partito per la seconda, e credono che sotto l' ali della grazia si possa riparare dalla perdizione la natura stessa. Ed ecco la ragione delle nostre dispute, della discordanza d' opinione tra la scuola dell' articolista e la nostra. Del resto, chi sarà di noi due il retrivo, chi il progressista? L' avvocato dell' umanità vecchia e fradicia, o l' avvocato dell' umanità nuova, rinnovellata da Gesù Cristo? A quale apparterrà il vero progresso? L' albero dell' umanità vecchia fu già sviluppato a pieno senza contrasto pel corso di quattro mila anni, prima che discendesse dal Cielo il padrone del campo colla scure nelle mani, quando le foglie e le frutta di quell' albero aveano ammorbata tutta la terra. Ora non è oggimai più quella stagione, ma il tempo è venuto in cui si dee sviluppare l' albero nuovo, il quale non invecchia giammai, e non inverminirà come l' antico. Alla coltura di questa pianta gloriosa sono chiamati tutti quelli che vogliono fare il bene: tutte le nazioni della terra si ricovreranno sotto la sua ombra, e vivranno de' suoi frutti di vita. Alcuni pochi riguardano indietro alla pianta antica, e sperano di farne rinverdire le secche radici: vana ed insensata speranza! L' articolista chiama il suo sensato lettore a stupirsi insieme con lui del dare che noi facciamo alla Chiesa Cattolica il diritto all' insegnamento « « non già solo per la religione, sono sue parole, ma eziandio per la morale che è pure la scienza di tutti i diritti e di tutti i doveri » ». Di maniera che pare che egli sarebbe disposto di concedere alla religione la scienza d' alcuni doveri, e d' alcuni diritti, ma accordarle la scienza di tutti!? Oh, questo merita l' abbominio o le risa del suo sensato lettore! Gesù Cristo dunque si sarà limitato a insegnare a' suoi discepoli un solo bocconcello della morale, e per l' altra parte avrà detto agli uomini: « « Fate quel che volete, che non m' importa che adempiate tutti i vostri doveri, mi basta che ne osserviate alcuni, e ordino alla mia Chiesa d' ammaestrarvi solo a mezzo, e di non correggervi o castigarvi quando non trasgredite quei doveri morali, a cui io mi sono limitato » ». Questa è nuova! Pretendere in fatti che Gesù Cristo si sia contentato d' insegnare una sola parte della morale, e non tutta, è una di quelle foggie d' empietà, che solo ne' nostri tempi si sono udite, nelle quali non si sa decidere se la sciocchezza sia minore o maggiore dell' empietà stessa, e che pure, a quanto pare, si vogliono infiltrare nello spirito dell' insegnamento, e a questo par che tendano gli sforzi di certi antesignani del medesimo. A malgrado però di costoro, Gesù Cristo promise e diede alla sua Chiesa lo spirito di verità, che « « insegna ogni verità » » (1) non l' una o l' altra verità morale, ma ogni verità, tutta la verità . Di più le diede la facoltà di sciogliere e di legare, non limitata a nessun genere speciale di peccati. [...OMISSIS...] Non può esser più chiaro: questo potere dunque si estende a tutta la morale. Che se deve la Chiesa giudicare dell' infrazione delle leggi quant' elle mai possono essere, a lei dunque è commessa « « la scienza di tutti i doveri e di tutti i diritti » », e non già d' una parte. [...OMISSIS...] Infatti la morale è una cosa indivisibile, o tutta, o nulla. La compiutezza è il carattere che distingue la vera morale dalla falsa, la pretesa morale del mondo dalla morale di Gesù Cristo. Gli uomini del mondo pretendono di avere il titolo di uomini morali a buon mercato, e perciò si fabbricano delle morali, che contengono soltanto alcuni doveri, e quando osservano questi, allora, alzando la testa vi dicono: « Noi siamo uomini morali, uomini probi, uomini onesti ». E` ben naturale, che costoro vogliono essere maestri di morale: guai ad essi se dovessero essere giudicati con un' altra morale non fatta apposta da essi medesimi! E per maggior comodità essi non hanno una sola morale, ma ne hanno molte, ciascuna delle quali si ritiene qualche brandello della morale intera, ma unito insieme con altre cosarelle, che non sono morali. Qual meraviglia dunque che poi dicano superbamente alla Chiesa Cattolica: « E che? Voi pretendete d' essere la sola maestra della morale? Voi che avete un' unica morale, quando noi ne abbiamo molte? Voi che non conoscete tanti e tanti di quei diritti e di quei doveri che noi soli abbiamo inventato e inventiamo ogni giorno, in virtù di quella libertà di pensare, che produce frutti sempre nuovi di libertà d' oprare! Certi doveri della vostra morale gli abbiamo cancellati, e però non sono più doveri. Siamo dunque anche noi maestri di morale. E però è conseguente che ci sieno di quelli che si adirino all' intendere che nessuno abbia il diritto d' insegnare una dottrina morale contraria alla morale della Chiesa Cattolica. Il combattimento non è più tra l' articolista e noi, ma tra le morali fatte a brani, e la morale intera: tra lo spirito d' una morale cenciosa, qual è la mondana, e lo spirito della morale regalmente vestita di Gesù Cristo. Tutti questi principii, di cui si fa banditore il nostro articolista, principii quanto perniciosi, altrettanto privi di coerenza e di scientifico valore, sono un regalo, che ora, nella sua età decrepita e semimorta, fa il protestantismo alla povera Italia, che raccoglie le ciarpe vecchie come roba nuovissima, e pur troppo è nel Piemonte ch' egli fonda le sue vane ed illusorie speranze (1). Se la povera Italia sapesse fare la debita stima de' suoi grandi uomini ascoltandoli, non si lascierebbe a tali ciance ingannare, e non più leggiera e scema, ma seria e signora diverrebbe. Già il protestante Sismondi esprimeva il pensiero, che il nostro articolista ora ricopia, cioè che la morale sia una scienza, di cui tutti possono fare i maestri, e non la sola Chiesa Cattolica. [...OMISSIS...] Ma già da più anni questo autore protestante ha trovato in Italia un uomo che gli rispose con evidenza di ragione, e questi fu un laico, che lo stesso articolista nomina bensì con onore, ma di cui non segue i principii, uno di quei laici che si gloriano d' essere i discepoli della Chiesa Cattolica e perciò ne sanno tanto più de' maestri del mondo. L' articolista infatti asserisce che « « Se un Manzoni avesse voluto insegnare un po' di religione e di morale, secondo noi, sarebbe stato violatore del diritto della Chiesa » » (2). Perciò noi rimanderemo l' articolista a leggere Alessandro Manzoni ed è negli scritti di Alessandro Manzoni che egli troverà quello stesso, che ora, detto da noi, gli fa tanto afa. E` Alessandro Manzoni quegli che gl' insegnerà, come nessun laico possieda l' autorità, e anzi non abbia neppure la possibilità di fare il maestro in opera di morale, indipendentemente dalla Chiesa, non essendoci, nè potendoci essere un' altra morale, nè una completa morale fuori di quella che con autorità sua propria insegna la medesima Chiesa di Cristo. Poichè Alessandro Manzoni è appunto quel laico che, rispondendo al protestantismo, il quale, per organo de' suoi scrittori, censura la Chiesa per essersi insignorita della morale, scrive: [...OMISSIS...] . E con somma nettezza questo grand' uomo espose lo stato della questione su questo punto, che s' agita tra i protestanti e i razionalisti da una parte, e i cattolici dall' altra scrivendo così: [...OMISSIS...] . Voi signor articolista, che difendete, a favore d' Alessandro Manzoni, il diritto d' insegnare la morale, indipendentemente dal magistero della Chiesa, considerate bene tutte queste parole, che sono sue, e vedete che cosa egli stesso vi risponda: vedete a quali condizioni egli conceda ai preti e ai semplici fedeli la facoltà d' insegnare la morale. Concede ai preti d' insegnarla con autorità condizionata e sottomessa , quando n' abbiano avuto dalla Chiesa l' incarico ossia la missione, che è quello che abbiamo detto noi, e per cui menate scalpore: concede ai laici d' insegnarla senza autorità, quando abbiano l' intenzione sincera di non dipartirsi dall' insegnamenti della Chiesa , che è l' altro punto della nostra tesi, che vi eccitò lo sdegno. Che mai vi giova dunque l' aver profanato il nome, col citarlo sì fuor di proposito, di quell' Alessandro Manzoni, che così patentemente vi condanna? Avvertite ancora, che quella morale, di cui Alessandro Manzoni, con tutti gli altri cattolici, attribuisce il magisterio alla sola Chiesa, scrivendo contro i protestanti, è appunto quella che voi definite « « la scienza di tutti i diritti e di tutti i doveri » », immaginandovi forse che per esser ella la scienza di tutti i diritti e di tutti i doveri, per questo tutti gli uomini dovessero avere il diritto e la facoltà d' insegnarla. Anzi da questo appunto dovevate inferire il contrario: e sotto questo aspetto d' una scienza completa e totale, di tutti i diritti e di tutti i doveri, prova Alessandro Manzoni ch' essa non può appartenere in proprio, se non alla sola Chiesa Cattolica. Poichè una verità o l' altra di morale non è la morale; e se è una verità, è già nella morale della Chiesa Cattolica contenuta, come il meno nel più. Il che con quanta profondità ed evidenza di ragioni, con quanta nobiltà di sentimenti non prova ampiamente il grand' uomo! Duolmi di non potere qui trascrivere tutto intero il terzo capitolo delle « Osservazioni sulla morale cattolica » (1), e di vedermi incapace a scegliere tra tante bellezze, ciascuna delle quali pare che meriterebbe la preferenza. Quivi, ognuno che voglia ricorrervi, troverà a pien dimostrato, che la così detta morale filosofica, supponendola anche priva d' errori, altro non è che una porzione della morale della Chiesa Cattolica, e, come egli la definisce, « « la collezione ordinata, ma implicitamente subordinata d' alcune verità morali » », quando la morale di cui ha il magistero la Chiesa, è « « la scienza perfetta e assoluta, che ne comprende l' ordine intero » »; quivi rinverrà messa a nudo, con sommo acume e vastità di vedute l' imperfezione, l' insufficienza, l' incertezza, l' impotenza della morale naturale. E con quanto nerbo poi non accenna egli le contraddizioni e gli errori, e fino i destini dei diversi sistemi di morale umana, opera di quegli uomini che hanno voluto farsene maestri indipendentemente dalla Chiesa, o di quelli che non poterono giovarsi del beneficio della Chiesa per essere vivuti in tempi, ne' quali non era ancora stata fondata la Chiesa. Che per riguardo alle altre dottrine, nelle quali ci manca la scienza perfetta, si riconosca in tutti il diritto di andarne in cerca, acciocchè trovandone tutti un qualche granello concorrano ad aumentare quanto se ne possiede, questo s' intende, specialmente che gli errori, nelle scienze profane, non sono così perniciosi. Ma che, possedendosi già per un dono speciale di Dio compiuta e perfetta, ed anzi elevata ad una dignità soprannaturale, quella scienza morale, che è all' uomo assolutamente necessaria e nella quale l' errare è un perdersi, si voglia nondimeno riconoscere un diritto d' inventarne e insegnarne un' altra, la quale non potrebbe essere, se non erronea, quando non sia nella prima compresa, questo non saprei come chiamarlo se non una stoltezza. Conchiudiamo con le parole del Manzoni citato dal nostro articolista. [...OMISSIS...] I diritti della Chiesa Cattolica, tra quali quello dell' insegnamento, sono assoluti, perchè dati da Gesù Cristo, da una potestà cioè che è superiore ad ogni altra. Tutte le potestà della terra hanno dunque un assoluto dovere di rispettarli. In questi Stati poi, ne' quali la costituzione politica dichiara che « « la Religione Cattolica è la sola Religione dello Stato » », il Governo, anche in virtù della legge fondamentale, per la quale esiste, e da cui ripete l' autorità, deve riconoscere l' esistenza dei diritti della Chiesa Cattolica in tutta la sua estensione. Se infatti riconoscendo una parte di essi, ne disconosce e nega un' altra parte, cade in contraddizione con se stesso e in aperta lotta colla costituzione dello Stato. E qui non si dà una via di mezzo: o conviene riconoscere la Chiesa e la Religione Cattolica tutta intera, quale la ha istituita Gesù Cristo, o facendovi qualche eccezione, la si offende e nega tutta, perchè si nega l' assoluta autorità divina di Gesù Cristo. Sotto l' assolutismo si è inventato, dagli adulatori del potere, un gius canonico bastardo, il quale non mirava ad altro che a contraffare e corrompere il gius canonico vero, coll' intento di trasportare una parte dell' autorità della Chiesa nel Governo civile. La Chiesa, che piena di moderazione, cede molte volte nel fatto per evitare mali maggiori alle anime de' fedeli, non può rinunziare in massima alcuna parte de' suoi diritti divini: quest' è l' origine della vera lotta tra il potere civile e l' ecclesiastico, poichè ogni altra lotta fuori di questa non è una lotta seria, può essere un dissidio, un disparere momentaneo, ma non una lotta. Nessuna infatti delle grandi lotte tra la Chiesa e lo Stato ebbe mai altra cagione: da una parte l' usurpatore, dall' altra il difensore dei diritti usurpati. La lotta si combatteva tra la forza fisica dello Stato e la forza morale della Chiesa. La Chiesa contrapponeva armi spirituali, le quali certamente aveano e doveano avere virtù di muovere delle forze fisiche, come lo spirito muove la materia: l' assolutismo combatteva colla forza bruta e coll' astuzia. In ognuna di queste grandi lotte la Chiesa parve sempre perdente, perchè la violenza produce un pronto e doloroso effetto sopra il debole e l' inerme, ma infine del conto la Chiesa lacerata trionfò sempre in questo senso, ch' ella non cedette mai nella massima per questi diciotto secoli alcuno dei suoi diritti; e ciò per la semplice ragione che non può cederli senza distruggersi, e non può distruggersi perchè Gesù Cristo le ha promesso una eterna esistenza. Ma la forza bruta che crede di poter tutto, si sdegna tanto più ed entra in terribili convulsioni vedendo di non poter mai vincere l' inerme. Questo stato di cose, questa irritazione crescente co' secoli è l' eredità che l' assolutismo lasciò al costituzionalismo de' nostri tempi; l' eredità che questo incautamente raccolse senza il beneficio dell' inventario ed aggravò di nuovi debiti. Non può dunque eccitare meraviglia quell' astio profondo, quel livore che imprudentemente manifestano contro la Chiesa Cattolica e i suoi diritti alcuni falsi costituzionali, poichè sono i successori legittimi degli assolutisti, salvo che l' assolutismo precedente riteneva ancora certe forme di buona creanza, quando l' assolutismo de' falsi liberali è ineducato e villano. Mentre lo spirito d' una savia Costituzione dovrebbe condurre a una moderazione e conciliazione delle opinioni di tutti i cittadini, e degli opposti partiti, costoro l' applicano a inacerbire e a tormentare le piaghe antiche e sanguinose, e aprire così il varco a nuove discordie. Ne' due articoli precedenti abbiamo indicato un esempio parlante di ciò che diciamo: noi abbiamo difeso la libertà de' dotti, de' padri di famiglia, de' benefattori: noi abbiamo riservati i diritti della Chiesa, e la libertà che deve avere nell' esercitarli. L' articolista, a cui abbiamo in essi risposto, dopo aver falsificati i nostri concetti, continuando a falsificarli dice, che tutta questa libertà, che noi concediamo alle nominate persone giuridiche, è nulla, e ci colloca tra « « coloro che una cosa sola al mondo ritengono per funesta e maledetta, l' umana libertà » » (1). E questo perchè? Per l' unica ragione che vogliamo anche conservato il diritto che la Chiesa Cattolica ha ricevuto da Gesù Cristo all' insegnamento. Il difendere questo diritto della Chiesa è lo stesso che ritenere per funesta e maledetta l' umana libertà. Eccovi uno di quelli che ripongono l' umana libertà tutta quant' è nel distruggere i diritti della Chiesa Cattolica. Quelli che insorgono contro questi diritti, ecco gli amici dell' umana libertà. Tutto il resto è indifferente. Pur troppo questo strano principio, che non è un principio, ma un impeto di stolta passione, è quello che giace nel fondo di tante discussioni giornalistiche, che muove tante penne e tante lingue. Questo è il maggior pericolo a cui possa soggiacere la Costituzione d' uno Stato: qualunque Governo eccitato, premuto, spinto da tali oratori a commettere sempre nuovi atti di dispotismo e d' ostilità contro la Chiesa, qualora non sappia, innalzandosi al disopra di essi col suo pensiero, opporre una invincibile fermezza, altro non farebbe che preparare indubitatamente la rovina dello Stato e di quella forma di Costituzione che è incaricato di conservare. Gli adulatori gli fanno credere, come l' hanno fatto sempre credere ai Governi assoluti che hanno tolto a lottare colla Chiesa, che le sue forze sieno maggiori di quel che sono, e perciò egli si avventura temerariamente in quelle lotte, dalle quali i popoli escono spossati e corrotti, e i Governi screditati e odiati. La rovina non è certamente immediata, sopravverrà per cagioni o interne od esterne che sembreranno accidentali; ma ella non può fallire quando il tempo e l' ora sia suonata. Il citato articolista asserisce che l' idea cardinale della nostra teoria si riduce a volere che lo Stato dia guarentigia alla Chiesa nel punto dell' insegnamento, e non la Chiesa allo Stato (1). Benchè non sia questo il nostro concetto, tuttavia potremo rispondergli, che le guarentigie deve darle il forte al debole, e che è ridicolo pretendere che il debole debba dare guarentigie al forte. Sarebbe come se il leone domandasse guarentigia all' agnello. Le guarentigie dunque lo Stato le ha già, e le deve avere nella sua forza, ed è contro questa forza che tutti i cittadini, e per sè e per la loro religione, dimandano guarentigie, è contro questa forza che si domandano le Costituzioni, acciocchè non rimanga disordinata questa forza, e quasi come un astro uscito dalla sua orbita non perturbi l' ordine della giustizia. Le guarentigie dunque che si domandano non sono fisiche, ma morali, le quali devono temperare e regolare il potere fisico del Governo. E se egli riconosce pienamente e sinceramente i diritti della Chiesa, questa è una guarentigia morale non solo data alla Chiesa, ma data a tutti i cittadini e ai loro diritti, data allo Stato medesimo, e dirò di più, è una guarentigia che il Governo dà a se medesimo. Poichè se il Governo è saggio temerà assai più se stesso che non la Chiesa inerme, la quale gli oppone una forza morale a maggior utilità e a maggior dignità di lui medesimo, che la Chiesa non vuole già il decadimento dello Stato, ma ne vuole la perfezione. Ed oltre di ciò quant' altre guarentigie morali non dà la Chiesa in virtù della sua propria costituzione al Governo civile in questa materia dell' insegnamento? Il suo insegnamento non è ignoto, non incerto, non vacillante, non è una dottrina, di cui si vada in cerca, che si inventi alla giornata, che si muti come le opinioni degli uomini, incominciando dai cagnotti dei Governi fino ai più serii filosofi. Ella è una dottrina che si conosce e si sperimenta pel corso di dicianove secoli, che si è predicata e si predica dall' alto dei tetti a tutte le nazioni del mondo: che sta scritta in migliaia di libri a tutti aperti, che niun Governo può ignorare, che niun privato può accrescere, o diminuire, o alterare, senz' essere condannato dalla Chiesa medesima: è una dottrina che ha salvata la società umana quando si discioglieva, che ha incivilito il mondo, che ha ricostruito ella stessa colle sue mani e perfezionato quei Governi che ora inorgogliti la disprezzano e la conculcano. Contro questa dottrina si osa ora dai saputelli di certi giornali, organi d' un liberalismo servile, domandare guarentigie a favore dei Governi, quasi che non fosse ella stessa questa dottrina insegnata da Dio medesimo la più ferma e la più splendida guarentigia non solo data ai Governi, ma al genere umano, se pur si deve chiamare una guarentigia quella verità e santità di dottrina che è la stessa salute. E da chi si può domandar guarentigie contro questa dottrina, o a favore di qual altra dottrina? Da quelli certamente che fanno consistere tutta la libertà umana nel potere liberamente imbestialire contro la dottrina salutare del Redentore, e chiamano inimici della libertà umana quelli che la diffondono. A favore dunque e a nome dell' errore e della morte si domandano guarentigie contro la verità e la vita. Come se altri domandasse delle guarentigie alla sanità a nome e a favore del colèra. Può forse il Governo civile dare alla Chiesa per riguardo al pubblico insegnamento una guarentigia simile a quella che la Chiesa offre a lui nella sua stessa dottrina? Qual è dunque la dottrina del Governo civile? Niuno lo sa: niuno sa qual dottrina egli farà insegnare: non esiste un corpo di dottrina che possa dirsi: « Questa è la dottrina del Governo ». E se niuno ancora sa o può sapere qual dottrina il Governo civile farà insegnare oggi; si saprà forse qual dottrina farà insegnare domani? Lo stesso Governo è il primo ad ignorarlo. Mutabile come è il Governo, egli non può avere, neppure se lo volesse, una dottrina stabile e consistente sulla quale si possa far conto. Il Governo può designare le scienze in generale col loro nome, può dire: « Queste e queste scienze s' insegneranno », ma non può mica determinare con precisione quali dottrine, quali opinioni, quai sistemi s' insegnino in ciascuna scienza: tutto è mutabile, dipende dai professori, dalle circostanze, dai tempi, dai partiti stessi, che nei Governi casualmente, e temporaneamente prevalgono. Non sarà dunque cosa ragionevole e desiderabile che il Governo, che per sua natura non ha dottrina definita, e la dee prendere alla giornata, dia alla Chiesa Cattolica (se pur non è il suo nemico) una qualche guarentigia almeno col riconoscere pienamente il sacrosanto diritto del libero insegnamento, che essa ha ricevuto da Gesù Cristo? Ma il nostro articolista ha egli neppure la facoltà di parlarci di guarentigie reciproche della Chiesa e dello Stato? Egli, che fa consistere la rovina di tutta la libertà umana nella difesa che noi facciamo del diritto che ha la Chiesa Cattolica all' insegnamento; e la conservazione della libertà umana, per lo contrario, nel poter straziare e distruggere i diritti divini di questa Chiesa; come potrà senza contraddirsi proporre che la Chiesa e lo Stato si guarentiscano reciprocamente i propri diritti? Dove se ne andrebbe allora la sua libertà umana, secondo il suo concetto? Ma si lasci per un poco da parte la Chiesa. Il sistema costituzionale riposa tutto su quest' unico principio generale, che « il potere nelle mani di chi lo tiene, potendosi convertire ugualmente a vantaggio e a danno de' cittadini, è necessario che questi abbiano delle guarentigie contro l' abuso ». Dall' intima natura dunque di questo sistema di governo nasce la necessità delle guarentigie da prestarsi dal potere alla nazione. Ora le nazioni cattoliche considerano la sanità della dottrina religiosa e morale come la più preziosa delle loro ricchezze, e la causa principale della loro civiltà e del loro progresso. Ma in qual maniera potrà il potere dare qualche guarentigia su questo punto, il più importante di tutti, a un popolo cattolico? Dirà egli forse semplicemente: « Fidatevi di me? »Sarebbe lo stesso che ricusarsi di dargli guarentigia alcuna, lo stesso che rinnegare il sistema costituzionale, e rimettersi di colpo nel sistema dell' assolutismo. Un popolo cattolico dirà ancora ad un tale governo: « E chi siete voi, che io mi debba fidare di voi? siete un' idea astratta, di cui non so che farne, siete un gruppo di persone, rimutabile di giorno in giorno, che non possono pensar tutte al medesimo modo. E qualunque possiate essere, ditemi prima di tutto se voi siete il giudice e il maestro della dottrina dommatica e morale. O mi rispondete di sì, e in tal caso voi non professate la religione cattolica, che insegna, come suo domma, non appartenere ai Governi civili il giudizio e il magistero della fede cattolica. Pretendete dunque di essere giudice e maestro d' una dottrina religiosa che non professate e non conoscete. E volete che io, nazione cattolica, mi fidi di voi? Ovvero confesserete di non essere giudice e maestro della cattolica dottrina. In questo caso, se voi, o Governo, non siete giudice e maestro, dovete dunque subire il giudizio di quella potestà, che ha ricevuto la giurisdizione religiosa da Gesù Cristo, e comportarvi come suddito e da discepolo della medesima. Per altro nessun Governo di popoli cristiani osò mai di asserire d' essere il giudice e il maestro della cristiana religione, conscio che se lo dicesse non sarebbe creduto, e si renderebbe ridicolo in faccia ai popoli: non osa dirlo neppure lo Czar della Russia, neppure la Regina o il Parlamento d' Inghilterra. I Governi usurparono bensì di fatto non rare volte quest' ufficio di giudice in cose dommatiche: promulgarono anche in tali materie placiti e sentenze, fecero insegnare dottrine anticattoliche: pure niun di essi osò mai dichiarare apertamente d' averne la potestà, la quale supporrebbe nientemeno che l' infallibilità. Operano dunque cotesti Governi contro la propria coscienza; sanno nel fondo del loro cuore d' essere usurpatori d' una potestà che loro non ispetta; ma hanno la forza in mano e la forza bruta è superba; la forza bruta non intende ragione e fa quello che le attalenta. Ecco la necessità delle guarentigie. E` dunque ragionevole, che il popolo cattolico ne domandi al potere civile in tanto pericolo. Ma quali possono essere queste guarentigie? Per quanto si cerchi, non se ne trova alcun' altra, se non che il Governo « riconosca, lasci libero, protegga il diritto, che ha la Chiesa Cattolica, come maestra e giudice della dottrina dommatica e morale dell' insegnamento ». Questa guarentigia non è dunque data solamente alla Chiesa, ma è data ai popoli, ed è una conseguenza legittima e necessaria del sistema costituzionale che tutto si fonda sul principio generale delle guarentigie. Certamente col primo articolo dello Statuto Sardo si voleva dare al popolo piemontese la guarentigia, di cui parliamo. Ma in tutti quelli organismi politici, ne' quali non si trova nessun' autorità indipendente incaricata di conservare la Costituzione e di interpretarla, un articolo così breve e sugoso rimarrebbe una guarentigia illusoria e cartacea, qualora la disposizione che contiene non venisse trasfusa e applicata nelle altre leggi dello Stato, e che la rendano viva ed efficace nella pratica. Per riguardo dunque all' insegnamento, a quale condizione si potrà dire, che il popolo abbia dal Governo una vera guarentigia, che sarà insegnata nelle pubbliche scuole una dottrina sana e veramente cattolica? Non basta certo a mettere in atto questa guarentigia, che il Governo dica semplicemente: « La dottrina, che io fo insegnare, è perfettamente cattolica »; ma conviene che egli soffra che sia giudicata per tale dal giudice competente e dal legittimo maestro della medesima: in una parola, è necessario che nelle sue leggi e nelle sue ordinanze riconosca esplicitamente il giudice e il maestro costituito da Gesù Cristo entro la sfera della religione da lui fondata. Ma quand' è che un Governo civile riconoscerà veramente questo giudice e questo maestro? Solamente allora che egli riconosce l' ordine gerarchico della potestà istituita da Gesù Cristo nella sua Chiesa; quell' ordine gerarchico, che la « Rivista delle Università e dei Collegi » con parola insolente e con ispirito protestantico chiama « teocrazia gerarchica » (1). Non è un riconoscerlo l' ammettere la massima generale, e poi declinare dalle conseguenze. Non basta dire in astratto, che c' è un tribunale e un magistero istituito da Gesù Cristo; bisogna di più confessare, ch' esso risiede nell' Episcopato, del quale è capo il Sommo Pontefice. Se questo lealmente si confessa, se a questa confessione sono coerenti le leggi riguardanti l' insegnamento, quali conseguenze se ne avranno? Certamente le seguenti. Si riconoscerà l' Episcopato come il Corpo insegnante dello Stato in opera di religione: non solo il Corpo insegnante ufficiale e legale, ma oltre di ciò anche un Corpo insegnante indipendente, poichè queste due qualità non si contraddicono. Ogni insegnamento riguardante il domma e la morale cattolica discenderà come da sua legittima fonte da questo gran corpo, e a questo gran corpo ritornerà ogni insegnamento in questa materia per via della debita subordinazione. Il Governo non farà che mettersi a lato di questo Corpo augusto, come un protettore e come il rappresentante legittimo del Corpo dei fedeli, che al fianco de' suoi pastori gli aiuta in ogni maniera, affinchè possano meglio adempire il divino, benefico e paterno loro ministero. Si riconoscerà in questo Corpo insegnante il diritto di visitare liberamente le scuole ufficiali, per conoscere le dottrine che vi s' insegnano, e trovatene di quelle che divergono dalla dottrina cattolica, di riferirne al Governo stesso, acciocchè sia tolto un sì grave inconveniente, nasca egli da libri che si adoperano nelle scuole, o dalle lezioni vocali di maestri o irreligiosi, o troppo imperiti in opera di religione. Il Governo civile d' una nazione, nella quale la religione cattolica è l' unica religione dello Stato, è obbligato a far questo lealmente; e a fare che le leggi, i decreti, le circolari, i provvedimenti d' ogni sorta siano in perfetta armonia con questi principii. Il Governo d' una nazione, nella quale non ci fosse una religione dello Stato, ma diversi o tutti i culti fossero ammessi ugualmente, sarebbe ancora obbligato a fare altrettanto relativamente alle comunità dei cattolici. Un Governo leale , che adempisse con onoratezza questi suoi doveri, torrebbe di mezzo qualunque discordia tra lo Stato e la Chiesa su questo punto dell' insegnamento; l' Episcopato, il resto del Clero, i fedeli si troverebbero indissolubilmente uniti col Governo; la forza morale della Chiesa diverrebbe una alleata utilissima al consolidamento delle libere istituzioni consacrate dalla religione. Ma tra le tenebre viene l' uomo inimico, e soprasemina la zizzania. Il genio del male favella parole ingannevoli negli orecchi di quelli che siedono al timone degli Stati. Egli dice loro: « Guardatevi dal clero, perchè il clero è un partito politico ». Quando dice questo, il genio del male mente al suo solito. Il clero non è un partito politico; ma egli ne prende le apparenze, tostochè il Governo gli niega i suoi essenziali diritti. Uomini di Stato, se voi trattate il clero gelosamente come se fosse un partito politico, lo rendete tale voi stessi (1). Se all' incontro voi lo trattate lealmente , come clero, qual è per la sua situazione, non mostrate di averlo in conto di un partito, il clero sarà sempre clero, e non mai un partito: non sarà altro che quell' istituzione religiosa che ha fatto Gesù Cristo; istituzione aliena dalla politica fin che questa si limita ai negozi temporali e suoi proprii, è tuttavia istituzione che renderà ai Governi indirettamente de' continui e inapprezzabili vantaggi; poichè il clero col suo proprio santo ministero ammollisce e toglie l' asprezza di tutti i conflitti, concilia rispetto alle leggi, cementa gli animi de' cittadini, e, unendo questi, fortifica la nazione, e aggiunge così una secreta consistenza e stabilità ai Governi senza mostrarlo pure in apparenza. Dice loro ancora: « Se voi riconoscete lealmente i diritti del clero cattolico, e lo proteggete nell' esercizio dei medesimi, il clero diverrà potente e vi leverà di mano le redini ». Il genio del male mente di nuovo, per gettare la discordia e la divisione tra il potere civile ed il clero, ispirando a quello una vana gelosia di questo. Questa paura del Governo da una parte è una viltà, è un' inconsapevolezza delle proprie forze: dall' altra non nasce, se non in quei Governi che covano de' progetti sinistri alla religione ed alla morale. Questi temono che la Chiesa e il clero colla sua influenza ne impediscano loro l' esecuzione. I Governi, all' incontro, leali, che altro non bramano che il bene, che hanno per norma delle loro azioni de' principii di morale, di giustizia e di religione, e che non intendono di sacrificare questi sommi beni dell' umanità agl' interessi temporali mal calcolati (perchè l' utilitarismo calcola sempre male); questi Governi vedono di buon occhio l' influenza che esercita il clero sui fedeli entro la sfera della religione e della morale, e la considerano come vantaggiosissima: non pensano neppure alla possibilità ch' essa possa venire in collisione coll' autorità del Governo, perchè il Governo non vuole offendere la Chiesa, ma proteggerla, non vuol pubblicare delle leggi empie e contrarie ai suoi dommi, o alla sua morale, ma savie e religiose; non vuole impedire l' Episcopato nell' esercizio del suo sacro ministero, e così non gli viene l' occasione di vessarlo, di perseguitarlo e sbandeggiarlo; non vuole spogliare la Chiesa de' suoi beni temporali, ma lasciare a ciascuno il suo; insomma non è mosso da alcuno spirito ostile, tendente a sovvertire la pubblica morale, a promuovere l' opinione antireligiosa, e ad abolire ne' popoli quel sentimento di rispetto verso le cose sacre, senza il quale lo stesso ordine pubblico si sovverte, e a conservarlo è poi uopo accampare una forza fisica spaventevole, d' infinito aggravio ad una nazione, armando la metà de' cittadini contro l' altra metà. La Chiesa adunque e il clero, per la stessa natura dell' istituzione, si trovano in un perfetto accordo co' buoni Governi: per la stessa cagione i cattivi Governi considerano l' una e l' altro come loro nemici, e par loro di fare altrettante prodezze quante volte possono cagionarle qualche molestia o qualche danno. Degli scrittori ostili alla Chiesa, specialmente storici, come il Giannone, il Botta, il Colletta ed altri tali, hanno celebrato colle lodi più esagerate alcuni principi e ministri, che hanno rotto molte lancie contro la Chiesa, e così hanno contribuito non poco a diffondere il pregiudizio che in queste braverie consista la gloria del regnare. La vanità di altri principi e quella di altri ministri si è gonfiata, sperando di poter ottenere a buon mercato di simili elogi, non già colla prudenza governativa o col valor militare, ma con fare i prepotenti a man salva contro persone inermi, e quindi lo spirito irreligioso ed antiecclesiastico passò per una eccellente massima di governo. L' infamia duratura aspetta questi miserabili amici d' una gloria passaggiera. Ma il genio del male bisbiglia ancora una parola più seducente negli orecchi de' governanti: « Temete, dice loro, il potere della Santa Sede, e per velare il vostro astio, con un' accorta parola chiamatela una Corte straniera , la cui influenza è nocevole all' indipendenza dello Stato ». Niente di meglio che l' indipendenza dello Stato; qual buon cittadino vorrebbe sacrificarla? o chi v' ha mai detto di sottomettere il vostro Stato a quello di Roma? La Chiesa non vi comanda questo; piuttosto vi fa ella stessa un dovere di conservare l' indipendenza dello Stato, che v' è affidato da governare, da qualunque altro Stato temporale. Ma avvi buona fede in voi, quando fate le viste di confondere due cose, che voi stesso sapete che sono distinte ed immensamente separate l' una dall' altra? E chi è che non sappia, che altro è lo Stato temporale di Roma, e altro la Santa Sede Apostolica? Se dunque avete da fare, a ragion d' esempio, un trattato di commercio collo Stato Romano, cercate pure senza riguardo i vostri interessi, come fareste con qualunque altro Stato temporale, e farete benissimo a farlo. Ma quando si tratta della Santa Sede, del Papa, come Papa, egli è il supremo di tutti i cristiani cattolici, e siete perciò obbligati a riconoscerlo per tale, se pur non siete protestanti, o se non volete che i cattolici siano protestanti, il che sarebbe una contraddizione. Non potete mica dire, che il Papa come Papa sia un principe straniero, perchè Papa non vuol dire principe temporale, ma vuol dire Vicario di Gesù Cristo su tutta la terra. Onde il Papa, che vive su questo globo, è sempre nel suo Stato. Trattasi d' uno Stato spirituale e non d' uno Stato temporale: la sua autorità limita bensì il vostro potere: ma solo nelle cose religiose e morali. Dirò meglio, essa non limita il vostro potere, ma limita salutarmente il vostro arbitrio, poichè nessun Governo può avere in nessun caso autorità sulla fede religiosa, e se egli ci vuol mettere la mano, fa un atto di arbitrio e non d' autorità; la sola superbia è quella che non soffre siano messi limiti a' suoi arbitrii. Quando dunque il Papa vi dice sull' autorità ricevuta da Gesù Cristo: « Questa cosa è illecita secondo la legge di Gesù Cristo »; allora voi non potete più dire ad una nazione cattolica, che ella sia una cosa lecita, perchè ha parlato il giudice competente, e non dovete vessare i cittadini costringendoli a credere piuttosto a voi, che al Papa loro unico superiore: non esiste nessuna potestà, nè legislativa, nè ministeriale nello Stato, che possa far questo. In tal modo si fa chiaro, che non è possibile alcuna seria collisione colla Santa Sede, se i Governi sono leali, e non confondono a bella posta le idee. La scusa dunque di non voler dipendere da un principe straniero svanisce da se stessa, si svela da sè come un miserabile sofisma, con cui i falsi politici vogliono ingannare e confondere l' opinione popolare. Per riassumere dunque in poche parole quello che dicevamo, il segno sicuro, al quale si può conoscere, se un Governo civile dice la verità quando afferma di voler conservato il cattolicismo, e quando dice di più, di considerare la religione cattolica come religione dello Stato, si riduce a vedere, se egli rispetti e riconosca nel fatto la gerarchia della Chiesa Cattolica, quale l' ha istituita Gesù Cristo. Il Governo che opera in modo da mostrare di non riconoscere questa autorità gerarchica, non è cattolico, ma è protestante. 1 Importanza per la società umana . Che l' uomo semplice e primitivo non ha bisogno della filosofia, bastandogli avere opinioni e sano criterio naturale. Ma sollevandosi, per uno sviluppo spontaneo, alla sfera di riflessioni più elevate: 1 diviene difficile il ragionare e facile l' errore; 2 quindi la seduzione delle passioni, che vogliono essere giustificate, travia l' umana mente. - Fino che la mente è traviata e protettrice de' vizii, l' animo non può guarire. - Allora è necessario applicare, a sanare il malore dell' umanità, il farmaco d' una scienza più alta, esposta con precisione, provata con rigore. - Alternativa d' una corruzione e d' una risanazione, d' una sofistica che tien dietro alla corruzione, e d' una scienza sempre più profonda che fa rinsavire le menti illuse. L' ultima vicenda si fa di quella sofistica che pone in dubbio e nega gli ultimi principii delle cose. Tale è questa del nostro tempo. - Tutto si è negato, tutto posto in dubbio (Descrizione dello stato delle menti del secolo passato, e in parte del presente, ecc.). - A questa malattia non può rimediare che la filosofia, cioè la scienza dei principii, delle ragioni ultime . Questo è quello che poco si conobbe; finora si credette che la filosofia non fosse che speculazione dissociata dalle conseguenze pratiche. - All' incontro tutti i mali dei nostri tempi vengono dalle erronee dottrine filosofiche, cioè da quella sofistica che risponde alla filosofia , come contraria a contraria, ecc.. - Sono da toccare principalmente i mali della Germania e le minacciose conseguenze, ecc.. Quindi altri errori d' alcuni i quali credono che basti una filosofia superficiale, e che non sia necessario entrare ne' visceri delle principali questioni. 2 Importanza per le scienze . S' aggiunge che le scienze tutte hanno una tendenza di costituirsi in forma rigorosa. A questo presta mano la filosofia, la quale se non è formata, e se ad essa si lascia sostituire la sofistica, accade che il veleno sia portato in tutte le scienze, ecc.. 3 Importanza per la religione . La religione stessa ogni dì ne abbisogna (Avversari - Teologi cattolici). Che la religione Cattolica abbisogni oggidì di una sana e potente filosofia si scorge osservando la sua condizione, sì relativamente a' suoi nemici che la odiano, sì relativamente a' fedeli che la venerano ed amano. Rispetto a' suoi nemici basta considerare che tutte le eresie del Settentrione vanno a finire convertendosi nel razionalismo , che è quanto dire in un sistema di filosofia, con cui si combatte la religione positiva. - Di più, tutti gli assalti dati alla religione dagl' increduli nel secolo scorso e che continuano tuttavia, non le si danno con altr' arme che con quelle di una falsa filosofia. - Conviene adunque combattere ad armi pari per giovare a' traviati, i quali non ammettono altri argomenti. Dunque è necessaria una filosofia, ecc.. Che se si volge lo sguardo all' interno della Chiesa, noi vediamo da una parte il popolo, a cui già si propagano ogni dì più i lumi, e le cui facoltà si sviluppano a gran passi: egli domanda quindi dalla religione un nutrimento accomodato a' suoi bisogni; al quale scopo sommamente giova che la filosofia rechi anche nella religione il suo metodo logico, che concateni le verità rivelate in modo che le une colle altre si sostengano reciprocamente e che renda più possente quella facoltà della ragion teologica che conduce il fedele a penetrare sempre più addentro nelle verità religiose. Che se da un' altra parte consideriamo lo stato scientifico della teologia, noi sentiamo un lamento universale a cagione del metodo che ancor manca in una scienza così sublime, e del vestito ancor rozzo in che ella si mostra; il che la rende disamorata, ecc.. - Ora a questo mancamento la sola filosofia può rimediare. - San Tommaso così la ristorò sulla fine del medio evo, ecc.. Introduzione cavata dai sentimenti che debbono nascere in un giovane professore chiamato alla cattedra di filosofia normale. - Difficoltà e gravità dell' incarico. Per vincere queste difficoltà la prima cosa è d' intendere bene quale sia lo scopo che la Sovrana provvidenza si prefigge di ottenere con questa cattedra, quale sia l' ufficio dell' istitutore, quanta la sfera del suo insegnamento, quali le viste che egli deve conseguentemente proporsi. Qui non trattasi d' insegnare la filosofia ai giovanetti, che la prima volta sentono le lezioni di questa scienza. - Differenza fra l' insegnamento elementare , e l' insegnamento normale: difficoltà di quello, difficoltà di questo. Nell' insegnamento elementare trattasi di infondere nelle menti le prime nozioni filosofiche, e nell' insegnamento normale di sviluppare queste nozioni entrando nelle questioni più elevate. - Nell' insegnamento elementare è indispensabile di dare qualche peso all' autorità del precettore, perchè, ecc.; nell' insegnamento normale l' autorità del precettore dee essere del tutto esclusa, altro non dee prevalere che la forza del ragionamento. - Sì, io non posso, non debbo, non voglio pretendere che voi prestiate alcuna fede alla mia parola, dovete voi stessi ragionare meco - noi dobbiamo studiare insieme - conforto ed aiuto che deve venire da ciò. Insomma non trattasi propriamente di ammaestrare, ma di far sì che gli uditori si ammaestrino da se medesimi: non trattasi di insegnare le verità, ma di condurre gli uditori a trovarle queste verità da se stessi - Scorsa sul metodo socratico, col quale sono scritti i libri di Platone - eccellenza ed opportunità di questo metodo pel caso nostro. Conclusione, che l' unica via, per la quale si crede di poter condurre al suo scopo l' insegnamento normale, si è quella di « prendere per argomento del medesimo l' esposizione del metodo filosofico e le sue applicazioni a' diversi sistemi ». Non è che con questo noi vogliamo escludere i sistemi: l' uno di essi deve esser vero: noi vogliamo pervenirci per una via irrecusabile, quella d' una logica rigorosa. - Di più, ognuno dei più celebri sistemi ha qualche cosa di buono, noi non vogliamo ricusarne la parte buona. - Relazione dell' Eclettismo colla via che noi ci proponiamo di seguitare nelle nostre lezioni (sincretismo). Nesso colla lezione precedente; noi resteremo tanto più contenti dell' argomento stabilito, quanto più considereremo l' importanza di un buon metodo di filosofare. Necessità e importanza del metodo, delle definizioni generali di esso. - Il metodo è la via , ecc.. - Il metodo è lo stromento, ecc.. Qui si cominci a fare la storia del Metodo. Il vero metodo indigeno all' Italia. - Carattere dell' ingegno italiano, fatto pel metodo - Galileo. Il carattere dell' ingegno italiano consiste nella chiarezza: l' Italiano, se non vede chiaro, non s' appaga. - Quindi è inclinato e si compiace: 1 del raziocinio matematico , e 2 del raziocinio sperimentale . - Questi furono accoppiati eminentemente in Galileo (Converrebbe ricorrere alle sue opere, e cavarne di que' canoni sì lucidi di pensare che egli sparge da per tutto. Sarebbe bene, per andar breve, che leggesse qualcheduno de' principali elogi fatti al Galileo, per es. quello del Frizi; ovvero almeno prendesse l' operetta che ha per titolo: « Il Galileo proposto per guida alla gioventù studiosa », di Monsignor Colangelo, Napoli). L' ingegno inglese è simile, ma s' innalza meno aperto alla natura spirituale. In Bacone vi ha lo stesso intento che in Galileo, ma Bacone è legato dagl' idoli dell' immaginazione , dai quali è sciolto il Galileo. Oltre di che: 1 non mette le mani nella scienza, onde non è matematico, nè fisico; 2 quindi i suoi precetti hanno spesso del vago , dovendo supplire coll' immaginazione filosofica alla pratica che gli manca. Conviene attingere qualche esempio dalle sue opere, p. es. la sua classificazione degli esperimenti assai mal fatta, e fatta più a tastone che a vista chiara. - Ora il metodo dee sempre cominciare a formarsi coll' esercitare l' ingegno nelle ragioni matematiche e negli esperimenti fisici, perchè in questi esercizi gli errori si trovano, e questi servono a vedere dove si è messo il piede in fallo. Le disposizioni degli scienziati che impedirono di propagarsi il buon metodo furono: 1 La riverenza superstiziosa ad Aristotele . Esempi di opposizioni ch' ebbe da ciò il Galilei si possono vedere nella « Storia del progresso », ecc., del Powel, stampata a Torino [...OMISSIS...] ; 2 La pigrizia degl' ingegni , abituati a tutto decidere per autorità; fomentata specialmente dallo studio delle leggi umane, dell' antichità classica, ecc.; e 3 La confusione fatta tra l' autorità divina ed umana [...OMISSIS...] ; 4 La superbia de' vecchi dotti , che non vogliono imparare da' giovani. Carattere dell' ingegno inglese. - Bacone. Le scienze fisiche debbono tutti i loro progressi al metodo rigoroso introdotto da que' due sommi uomini [...OMISSIS...] . Le scienze filosofiche debbono il loro poco sviluppo e i loro grandi errori al non essersi applicato ad esse lo stesso metodo. - Scorsa sui sistemi più celebrati. Cagioni perchè alle scienze filosofiche non fu applicato il giusto metodo. - Disposizioni degli scienziati. - Qualità delle scienze filosofiche a cui è più difficile applicare il metodo con rigore. - Imperfezione de' metodi stessi. - Critica di Bacone (mancante di alcuni canoni importanti pel metodo filosofico - De Maistre). Tentativi imperfetti per applicare il buon metodo nelle scienze filosofiche. Italiani - Campanella, Ricotti, Venturi (G. B.), Araldi, Caluso, Beccaria, Verri, Filangeri; Inglesi - Reid; Francesi - Jouffroi; Tedeschi - privi al tutto di metodo, benchè potenti d' ingegno, non poterono che inventare de' sistemi mostruosi. - Gioberti, loro seguace, privo di metodo. Conclusione. - Essere nostro intendimento di ristaurare il metodo filosofico in tutta la sua estensione, e di fedelmente e costantemente seguirlo in tutte le investigazioni filosofiche che noi faremo insieme. Noi sappiamo ora a che dobbiamo tendere, miei signori, ad applicare il vero metodo d' investigazione alle ricerche filosofiche: il che noi faremo esponendo le regole del metodo, e poi applicandole alla soluzione de' principali problemi della filosofia. Ma noi non dobbiamo trascurare quelle quistioni accessorie che deve avere in prima discusse e risolte colui, che intende entrare nel filosofico arringo, che vuol filosofare egli stesso, e che vuol insegnare altrui a filosofare, ecc.. Di queste ne si presentano già qui sul principio due importantissime: quella della libertà del pensare , e quella della libertà dell' insegnamento . Della libertà del pensare - com' ella sia assurda intesa volgarmente - com' ella abbia dell' importanza, se, mutandole la forma, si converta in quest' altra: « Quale autorità può aver l' uomo sopra l' altro uomo d' imporgli una qualche dottrina? ». La si scioglie dimostrando: 1 Che l' uomo non ha alcuna autorità d' imporre una dottrina all' altro uomo per sè, ecc.. 2 Che un' autorità infallibile può, ecc.. - Autorità divina - Autorità della Chiesa (1) - Non si dà mai collisione vera tra essa e la Ragione - collisioni apparenti. - E` lo stesso diritto che ha la verità sull' uomo, venga ella da qualunque fonte all' uomo comunicata. - Non impedisce la vera libertà del filosofare. - Vantaggio, che ritrae dall' autorità la libertà filosofica. 3 Sebbene l' autorità umana non abbia diritto assoluto di imporre una dottrina, tuttavia dee muovere l' attenzione, ed inclinare l' animo. - Ragionevolezza di ciò. 4 Vi hanno delle cose su cui tutti gli uomini convengono - Senso comune, Autorità del genere umano infallibile - perchè - Gli uomini convengono nella logica, e quindi nel metodo, benchè poscia nol seguano - Quindi lo sforzarsi di stabilire il buon metodo e di tenerlo costantemente, ecc. non lede la vera libertà del pensare - Mettere gli uomini sulla via della concordia. Della libertà dell' insegnamento - Conseguenze della dottrina applicata alle intenzioni di un savio governo come protettore degli studi. Dee procurare che tutti conoscano la verità filosofica senza ledere la sana libertà del pensare. - Il miglior segno di essere pervenuti alla verità è quello della concordia spontanea delle opinioni. - Questa non si ottiene coll' imporre una dottrina, ma col propagare il metodo per rinvenirla. - L' autorità che dirige gli studi può esigere che si segua un metodo logico, perchè su questo nel loro fondo vi ha consenso universale - Parlando di metodo filosofico non intendiamo la parte tecnica o materiale del metodo delle singole scienze, ma unicamente la parte logica. - Noi entreremo in questa via - così ci solleveremo sopra tutti i sistemi - l' imparzialità - Vantaggio e gloria che trarrà di ciò il Piemonte, ma quando dico Piemonte non intendo dividerlo dall' Italia. No, l' Italia non è che una sola famiglia, ecc.. - L' italia, patria del vero metodo, chiamata a stabilirlo e mantenerlo nella Filosofia com' ha fatto nelle scienze naturali. - Primato in questo degli Italiani, ecc.. Noi abbiamo veduto l' importanza, la necessità del metodo filosofico: or non conviene che ce la esageriamo. - Una verità esagerata è un errore. - Una delle regole principali che dee dirigere il filosofo, è la moderazione. - La moderazione risulta dal complesso, dalla totalità delle vedute. Sacrificano ad un' idea sola tutte le altre quelli che riducono al metodo tutta la filosofia. - Cousin; passi. - Assurdità di questo sistema (Una via senza un termine a cui conduca, un mezzo senza un fine, un istrumento, ecc.). Origine di questo errore. - Si vide che l' oggetto della filosofia non sono le cose fisiche (percettive), ma, oltre le cose fisiche, nella condizione presente, l' uomo non apprende che le idee, le quali contengono le ragioni delle stesse. Quindi l' inclinazione di restringere la filosofia alle idee. Ora lo studio delle idee non può condurci ad altro che a trovare l' ordine, ossia il concatenamento che hanno fra esse. Ora il concatenamento delle idee è appunto ciò che presenta il metodo di andare dall' una all' altra. Quindi si conchiude che tutto l' oggetto della Filosofia è il metodo. Questo è propriamente il razionalismo filosofico . - Se si penetra nel suo fondo ci si trova la mancanza di fede, dico d' una fede filosofica nella realità di un Dio. Quindi si vuol fare un Dio7idea - Gioberti - Hegel [...OMISSIS...] (1). Affine a questo sistema, ma meno funesta, e in parte vera, è la definizione della logica che alcuni danno, volendo « ch' ella non sia già l' arte che insegna a trovare o dimostrare il vero, ma a ragionar bene , sia poi il vero o il falso a cui conduca ». Nella letteratura e nelle arti si applicò il sistema del razionalismo, mettendovi a principio quel celebre detto di Goethe « l' arte per l' arte ». [...OMISSIS...] Lo scopo della Scuola normale di Filosofia è il metodo: il metodo è l' organo della Filosofia, non è tutta la Filosofia: questa si trova coll' applicazione del metodo alle principali questioni. Quindi già stabilimmo che lo scopo della scuola normale non dee essere il solo metodo, ma il metodo colle sue applicazioni. Ma vi ha egli nessuna norma che ci diriga in queste applicazioni? Ecco l' argomento della presente lezione, che solo può rendere manifesto quale debba essere l' intero scopo dello studio che dobbiamo fare insieme, e solo farci conoscere l' indole e la sfera del filosofico magistero che voi siete chiamati a esercitare. Noi non siamo di quegli che non ammettono nulla di vero e di certo anteriormente alla filosofia: noi ammettiamo delle verità indubitabili, delle certe evidenze comuni a tutti gli uomini, anche a quelli che non pervennero alla riflession filosofica. Queste sono la guida di tutta l' umanità al suo fine , queste debbono essere anche la guida del filosofo. - Convien dunque dirigere la filosofia al fine dell' uomo - la moralità - (Si dimostri che nella moralità propriamente si accoglie il fine dell' uomo, giacchè la felicità non può l' uomo darla a sè stesso, ma aspettarla; quand' egli è moralmente buono). Or noi abbiamo veduto (Lez. I) che la Filosofia è necessaria, è importante appunto perchè viene in soccorso dell' uomo, quando la debolezza della sua mente e del suo cuore dà luogo a sofismi, che vorrebbero rapirgli le verità più salutari ecc.. Queste verità, in fine del conto, hanno valore perchè o contengono il fine morale dell' uomo, o ne sono i prossimi mezzi. Quindi tutta la Filosofia dee volgersi a mantenere contro il sofisma le verità più necessarie all' uomo, acciocchè conseguisca la sua alta destinazione illustrandole ed ordinandole. Ora queste verità, o sono ontologiche cioè quelle che dichiarano come sono gli enti; o deontologiche , che dichiarano come debbano essere e come in ispecie dee esser l' uomo, acciocchè sia retto e in sua natura perfetto. In queste seconde si contiene propriamente il fine dell' uomo, che è la perfezione morale e la conseguente felicità. Ma le cognizioni delle prime ne sono il mezzo prossimo, perocchè la natura dell' anima a ragion d' esempio ne dimostra la dignità, e rende evidente la verità e la necessità della morale. - Se dunque dividiamo la Filosofia in due gran parti, nell' Ontologia e nella Deontologia, noi potremo trovare un segno a cui dirigere le nostre ricerche, e principalmente il magistero filosofico riguardante sì l' Ontologia e sì la Deontologia. Il magistero filosofico nella sfera della Ontologia dee tendere a indurre le menti degli uditori a raggiungere un positivo concetto dello spirito . - Come da questo dipenda tutto il buon esito della scuola. - Difficoltà a fare che questo concetto sia retto , separando lo spirito affatto dalla materia, e sia positivo , non arrestandosi a definizioni negative. Il magistero filosofico nella sfera della Deontologia dee tendere a mettere in onore la virtù, e a farla conoscere come il sommo bene, anzi il solo bene (quello a cui tutti gli altri si riferiscono, o da cui scaturiscono). Introduzione - in cui si dica che dovendo noi 1 esporre il metodo, 2 applicarlo alle diverse scienze filosofiche, s' intende, a fin di maggior chiarezza e brevità, di ridurre il metodo in alcune regole o canoni, ciascuno de' quali darà materia ad una o più lezioni. La prima regola - L' osservazione preceda il ragionamento. Dimostrazione diretta, tratta dalla definizione del ragionamento « un' operazione dello spirito colla quale la mente trova una verità in altre e per mezzo di altre verità ». Il ragionamento adunque suppone delle verità apprese immediatamente, le quali sieno la base del ragionamento stesso. - Le verità che formano la base de' ragionamenti possono essere dedotte da altri ragionamenti, ma finalmente conviene arrestarsi alle primitive se non si vuol perdersi in un progresso all' infinito, il quale è assurdo, ecc.. - Le altre scienze si fermano co' loro ragionamenti a verità mediate; la filosofia muove il suo ragionare dalle verità immediate perchè, ecc.. S' illustra con esempi. Vedi l' « Antropologia », Introduzione, ecc.. - Giustificazione di alcuni detti comuni, come « coecus non judicat de colore », ecc.. Dal trascurarsi questa regola in filosofia procedono innumerevoli errori: perocchè accade che si cominci la filosofia dal ragionare, invece che dall' osservare: ma il ragionare suppone necessariamente una materia su cui rivolgasi: indi è che quelli, i quali procedono con questo metodo, suppongono molte opinioni senza accorgersi di supporle; quando la filosofia non deve supporre cosa alcuna, ma tutto provare, tutto esaminare, sia poi col raziocinio, o colla coscienza, ecc.. Esempi. Obbiezione - E qui alcuni oppongono un loro pregiudizio che è che « tutto si dimostri col raziocinio » - Confutazione diretta di questo errore. - Confutazione delle funeste conseguenze. Questa è una via che conduce necessariamente, 1 In inestricabili labirinti e sottigliezze, perchè a ) Si accumula ragionamenti sopra ragionamenti senza fermarsi giammai, onde i sistemi giganteschi, oscuri, ecc.. b ) Si sottilizza eccessivamente, come accadde nel decadimento della scolastica, onde le inutili e inconcludenti dispute, ecc.. 2 Allo scetticismo. V. « Nuovo Saggio », lez. VI, p. 1. Ciò che dà l' intuizione sono i principii del ragionamento, e principalmente i quattro di cognizione , di contraddizione , di sostanza e di causa . - Esporre brevemente questi principii deducendoli dall' essere ideale , e mostrare che non può venire con essi in contraddizione il reale coll' ideale , perchè quello non è che una realizzazione di questo: dunque nè pure la percezione coll' intuizione. Ogniqualvolta paresse il contrario, vi ha errore. Esempi - Se si percepisce un effetto e non se ne percepisce la causa, non si dovrebbe conchiudere che la causa non esiste, ma si deve conciliare la percezione coll' intuizione mostrandola limitata, e non atta a dare tutto ciò che si vede necessario nell' intuizione. - Se delle esperienze fisiche paressero provare una contraddizione nell' essere, per es., che lo stesso corpo nelle stesse circostanze riscalda e raffredda, deve dirsi che le percezioni sono imperfette ed escludono qualche circostanza. - La percezione adunque deve sempre andar d' accordo coll' intuizione. Il ragionamento del pari deve andar d' accordo con l' una e con l' altra: coll' intuizione, perchè il ragionamento non è che una serie di proposizioni legate, secondo le norme somministrate dall' intuizione dell' idea dell' essere. Quindi, se il ragionamento riuscisse al contrario, egli è erroneo. Esempio. Le antinomie di Kant nella « critica della ragion pura ». - Medesimamente è da dirsi rispetto alla percezione, perchè questa va d' accordo, come si è provato, coll' intuizione che adduce necessità. Sono dunque erronei tutti i ragionamenti che negano la percezione. Esempio: - Idealismo che nega i corpi percepiti come stranieri a noi. - Scettici, che negano la propria esistenza. - Il principio di Cartesio, « Cogito, ergo sum », voleva fondare la filosofia sulla percezione , solida base, ma non sufficiente perchè la filosofia cerca la base ultima, che è l' intuizione. Prima parte, Logica. - Dottrina degli errori che suppongono sempre qualche oscurità e confusione nel nesso delle idee. [...OMISSIS...] Che cosa si fa quando si prende a sciogliere una questione? - Non si fa che studiare le condizioni del problema per rinvenire il rapporto che hanno coll' ultima conclusione che la scioglie: a tal fine è necessario 1 Conoscere tutte le condizioni. - Ma se lo stato della questione non è esposto chiaramente, talora qualcheduna ne rimane taciuta. 2 Conoscerle con verità. - Ma se lo stato della questione non è esposto con chiarezza, si fraintende, non s' intende la condizione per quella che è, ma si crede che sia una condizione diversa da quella che è. 3 Non aggiungere condizioni che la questione non ha. - Ma talora se ne aggiungono appunto perchè non si conosce bene lo stato della questione. 4 Conoscere i nessi delle condizioni fra loro. 5 Non proporre la questione in modo ch' ella già contenga nel suo seno o supponga la soluzione falsa , per es., la questione di D' Alembert « qual sia il punto di comunicazione fra lo spirito ed il mondo esteriore »suppone che fra lo spirito ed il mondo vi abbia una relazione di spazio , il che è falso: quindi la questione stessa è assurda. 6 Non proporre due questioni mescolate invece di una. 7 Non proporre una questione invece di un' altra. Seconda parte, Dialettica. - Lo stato della questione finalmente rimane oscuro e intralciato per difetto del linguaggio - o troppo abbondante - o equivoco - o ambiguo, ecc.. Rispetto alla Lezione XIX si deve parlare: 1 Dell' uso dei sinonimi nel linguaggio filosofico. - Talora i sinonimi esprimono lo stesso concetto principale coll' aiuto di una nuova relazione. - Se dunque, occorrendo più sinonimi, si crede che si segnino più concetti principali, nasce la confusione delle idee, onde innumerevoli errori, per es., l' idea dell' essere viene denominata essere possibile, essere ideale, oggetto, ente universale, o universalissimo, lume, forma della ragione, primo noto, ecc.. Molti rimangono imbarazzati da queste diverse denominazioni per non intendere che tutte esprimono lo stesso concetto principale. 2 Delle definizioni o proposizioni equipollenti. - Qui si può addurre, per es., le diverse definizioni dell' idea, confutando l' obbiezione di quelli che dicono che noi attribuiamo vari e diversissimi significati alla parola idea . Alla lezione XX si può recare in esempio della decimaterza regola, il sistema di quelli che credono avere spiegata l' origine delle idee col dare all' uomo semplicemente una facoltà di conoscere. La facoltà di conoscere esprime un concetto sintetico, il quale fino che non è analizzato non soddisfa alla ricerca filosofica. - Le qualità occulte dei peripatetici peccavano dello stesso vizio. LEZIONE XXI. - In esempio della regola decimaquarta si può addurre la maniera, nella quale si provano i quattro principii del ragionamento. Pigliato come primo noto ed evidente l' essenza dell' essere, l' artifizio della dimostrazione consiste nel pervenire, sostituendo una proposizione all' altra equivalente, a dimostrare che ciascuno di quei principii fa un' equazione col primo noto. LEZIONE XXII. - In esempio della decimaquinta regola si può arrecare la parola reale usata dal Gioberti in due significati, l' uno come opposto di possibile , e l' altro come sinonimo d' entità; onde dice talora il possibile in quanto è reale. Rispetto alla Lezione XXIII le faccio trascrivere qui un articolo che trovo nelle vecchie mie carte sull' argomento. In primo luogo osserverò, che chi parla di una cosa deve almeno sapere fin dal principio darne una qualche definizione, la quale, tuttochè non sia perfetta, deve però potere caratterizzare e contradistinguere la cosa di cui egli parla, sicchè non la si possa scambiare con verun' altra. Altramente, nè egli potrebbe sapere di che parla, nè altri intendere le sue parole. Ora può l' uomo parlare senza sapere di che? O senza che il sappiano quelli che l' ascoltano? Non vedo come ciò possa essere. Concedo bensì che altri può pronunziare dei suoni e non intenderli, dei suoni dico che in bocca di chi gl' intende sarebbero altrettante parole, ma questi suoni proferiti da chi non ne intenda il significato, come da un pappagallo, da un stornello, da un organetto, sono rumori e strepiti non parole, non atti di parlare umano. E se chi parla sa di che parla, e lo sanno e l' intendono quelli che l' ascoltano, conviene adunque dire che una qualche definizione dell' oggetto, intorno a cui si volge il suo ragionamento, egli l' abbia per lo meno in mente, od ancora l' abbia data espressamente, o in ogni caso l' abbia supposta nelle menti dei suoi uditori, abbia supposto cioè, che a quella parola che esprime la materia del discorso, per esempio alla parola virtù , s' egli parla della virtù, essi affiggano di comune consentimento un qualche significato, e quindi l' abbiano definita in qualche modo a se stessi; perciocchè è definire una cosa il pronunciare anche dentro di noi qual sia il significato che noi attribuiamo a quel vocabolo, col quale esprimiamo quella cosa. Laonde, se colui che ragiona, per esempio della virtù, è già in necessità di far una di queste due cose, o di darne la definizione o sottointenderla; il più delle volte, parmi, si converrà assai meglio ch' egli la dica a dirittura espressamente anzi che sottointenderla, perchè così rimuoverà fino dal principio le male interpretazioni dei vocaboli e le inesattezze che ne nascono dei concetti. Se spesso vuol essere utile il far ciò, nei trattati scientifici è al tutto necessario; poichè in essi l' autore toglie a dire per ordine tutto ciò, che si deve sapere intorno alla cosa di cui si tratta; e perciò non si può in somiglianti trattazioni sottointendere cosa alcuna; che il sottointendere non è un dire per ordine, e neppure un dire; ma sibbene egli converrà di cominciare, nell' esporre una scienza, dal dare prima le notizie necessarie all' intelligenza delle altre che poi seguiranno e quindi replicarsi queste di mano in mano: e la prima di tutte, quella di cui tutte l' altre hanno bisogno per essere intese, è appunto una qualche definizione della cosa, giacchè ogni notizia della cosa suppone dinanzi di sè, per essere intesa, che la cosa stessa in qualche modo sia conosciuta. Tuttavia non voglio dire con ciò, che la sentenza di quelli, che negano doversi, o potersi cominciare dalla definizione, sia priva di ogni verità; dico solo che ha bisogno di qualche spiegazione; perchè intesa in un senso essa non si può ammettere. Ecco adunque che cosa io trovo di vero e che di falso in questa sentenza. Una cosa si può definire in più maniere. Si può dar di essa una definizione generale e imperfetta, e delle definizioni più speciali e più finite. Ora, acciocchè gli uomini intendano ciò che si dice quando si parla, è necessario ch' essi abbiano una definizione della cosa, almeno generale, almeno esterna, e tratta da qualche relazione di essa; ma però tale che segni la cosa, e che valga a distinguerla da tutte l' altre, a isolarla per così dire, sicchè essa non si possa più coll' altre avviluppare o tramutare. Se una tale definizione mancasse e non se n' avesse che una vaga ed inetta a caratterizzare la cosa, il ragionare salterebbe necessariamente d' uno in altro argomento quasi a caso, e chi favella si esporrebbe a ricevere quel rimprovero che si suole gittar contro a chi ragiona, come si dice, a vanvera o all' impazzata « voi non sapete quello che vi dite ». Le quali parole non vogliono già significare che l' uomo parli veramente quello che non sa, perocchè questo è impossibile, non è parlare, ma esse vogliono dire che colui si crede ragionare di una cosa e in quella vece ragiona di un' altra, e uscendo, come si suol dire, dal seminato, intramette altre ed altre materie che non hanno alcuna connession nè proposito, ed egli per errore, scambiando l' una cosa coll' altra, crede che lo si abbiano. E qui anzi è uno de' maggiori fonti degli errori, nei quali altri incappa favellando. Per questo difetto appunto, di non aver la cosa ben definita, avviene di trovarsi cangiata in mano la materia, e di dire d' una cosa ciò che non ad essa, ma bensì ad un' altra che ad essa è affine e prossima, e colla quale perciò la si confonde, appartiene. Se la definizione adunque non determina bene la cosa, e se non teniamo questa cosa così ben determinata e contrassegnata innanzi agli occhi in tutto il corso del ragionamento, non possiamo mantenere il filo, nè fare che le parole colpiscano direttamente nel segno, ma elle cadranno or qua or là sparpagliandosi fuori della cosa che si doveva prendere in mira e perderannosi vanamente. Dopo di ciò, sebbene una qualche definizione o espressa o sottintesa sia sempre necessaria dal principio alla fine di un discorso, e questa debba esser vera e propria per fissare la cosa; tuttavia, come dicevo, non è ancora necessario che in sul principio questa definizione sia al tutto perfetta, o che esprima ben distinte tutte le proprietà della cosa; anzi qui appunto io mi faccio con quelli che giudicano questa compiuta definizione potersi solo avere nella fine della scienza come un risultato e quasi direi una ricapitolazione della scienza intera, e non al principio dove non sarebbe intesa per avventura, ma solo dovrebbe esser creduta sull' autorità di chi la presenta; il che non può essere che difettoso; chè veramente, quanto meno in alcun trattato si rende necessaria l' autorità dello scrittore (parlando di scrittori umani), quanto meno lo scrittore esige di fede alla sua parola, tanto più è buono il suo metodo e il suo trattare coi lettori più riverente e più dilicato. Poniamo dunque di dovere scrivere un trattato sull' uomo: non è possibile che il comune degli uomini, a cui si parla, conosca tutte le proprietà intime dell' uomo e le abbia ben distinte, onde una definizione che le contenesse espressamente riuscirebbe al lettore gratuita e per riceverla dovrebbe fare un atto di fede. All' incontro a tutti sarà facile di definirsi l' uomo all' ingrosso, di dare al vocabolo uomo un valore suggerito dal proprio sentimento; ognuno saprà definir l' uomo almeno per un essere simile a se stesso: definizione certamente ancora imperfetta, e dove le proprietà dell' uomo non sono analizzate e scomposte; ma dove però sono tutte espresse e contenute come in germe. Tanto è ciò vero, che gli basterebbe che ciascuno poi meditasse sopra di se stesso, sopra quel sentimento che costituisce a lui la natura umana, perchè egli giungesse con tale osservazione o meditazione a trovare e separare tutti quegli elementi, ond' egli risulta; tutti quei principii che nel sentimento del suo essere stanno uniti insieme in perfetta unità; tutte le proprietà in una parola della natura umana. Trovati poi e a parte a parte osservati questi elementi, principii, e qualità dell' uomo, egli potrà classificarli, ordinarli, gli uni sotto gli altri, congiungerli in somma co' loro nessi naturali, e così rifare e ricomporre quell' uomo che prima si aveva scomposto, così ritornarsi dalle parti al tutto, dalla moltiplicità all' unità dell' essere uomo, il che è quanto dire che potrà, seguendo il filo di quella prima definizione imperfetta, moversi, istituire delle osservazioni e esperienze, che gli dieno tutte quelle cognizioni che aver si potranno dell' oggetto definito. Pretendere all' incontro, che si istituiscano delle osservazioni e esperienze senza una precedente definizione, nè espressa nè sottointesa della cosa che si osserva, è pretendere che non si debba studiare, cioè che non si debba nè sperimentare, nè osservare con arte, ma bensì a caso e senza traccia: il che, a voler parlare propriamente, non è sperimentare nè osservare, parole che suppongono qualche fine e qualche oggetto nell' osservatore e sperimentatore; è solo un prestarsi a ricevere delle impressioni o sensazioni della cosa fortuite, senza che queste possano mai darci un risultato scientifico; poichè elle sono scompagnate da ogni lume di ragione, che le metta a profitto del sapere. Ove dunque si abbia una definizione vera, sebbene imperfetta, la quale serva di filo conduttore nello studio che si fa intorno ad una cosa, per es., intorno all' uomo, allora si può coll' osservazione trarne tutte le altre cognizioni che vengono a costituire la scienza, la scienza di quella cosa, e con questa completarne la definizione. E nel vero, acciocchè la definizione sia compiuta e piena, quanto più esser può, conviene che nasca dalla scienza perfetta, conviene, come dicevo, che riunisca in sè e ricapitoli tutta la scienza stessa. V' hanno adunque due definizioni, tutte due vere e proprie: ma l' una sommamente imperfetta, cioè indistinta, e l' altra sommamente perfetta, cioè a pieno distinta: l' una che si deve sempre supporre fino da principio del ragionamento, e l' altra, che si va col ragionamento stesso lavorando sempre più e perfezionando sino alla fine. Si potrà avere un esempio di questo progresso nella serie delle formule, che io ho usate per esprimere la legge morale (1), la prima delle quali messa in queste parole « segui il lume della ragione », sebben vera e propria, era la più imperfetta di tutte, la quale ricevette però nel progresso un continuo sviluppo e perfezionamento, che la mutò in forme migliori, più distinte, più espresse e luminose. La definizione esprime l' essenza della cosa (1). Questa proposizione è vera secondo me in tutta l' estensione dei termini, purchè si prenda la parola essenza in quel significato che io le attribuisco, e che credo esserle attribuito dal senso comune, cioè per significare ciò che si pensa coll' idea della cosa (2): e non le si dia un senso arbitrario, come fanno a mio credere i filosofi moderni, che intendono per la parola essenza qualche cosa di intimo, di misterioso, d' inesplicabile, che costituisce il fondo delle cose sussistenti. Ora, se la definizione esprime l' essenza della cosa, e la definizione deve sempre venir supposta fino dal principio in ogni trattazione, come un filo conduttore col quale si conduce diritto l' argomento, egli è manifesto, che il principio di ogni scienza è l' essenza di quella cosa sulla quale la trattazione si volge. In questo modo ogni scienza viene ad avere un principio semplice; ed è l' unicità di questo principio che forma l' unicità della scienza: tante debbono essere le scienze quanti i principii, e in quel modo che i principii sono ordinati gli uni sotto gli altri, così le une alle altre debbono essere sotto ordinate le scienze. Ecco quali sono le basi di una giusta partizione delle scienze; ecco la regola secondo la quale si può disporre lo scibile umano nel suo ordine nativo, vero, necessario. Ove le umane cognizioni fossero trattate in quest' ordine, esse riceverebbero una assai maggiore semplicità, verrebbe sgombrata una farragine immensa di ripetizioni, di nessi artificiali e falsi, tornerebbe un aumento mirabile di facilità nell' apprenderle, di luce, di evidenza, ed è questo gran lavoro che resta ancora a fare per intero ai dotti, a por mano al quale è desiderabile che oggimai si rivolgano. Egli è poi, quando un discorso non perde mai di veduta l' essenza della cosa, quando tutto ciò che vi si dica esce da essa essenza, che egli soddisfa appieno: allora la questione è posta bene, è portata al suo termine: nulla resta più ad obiettare, nulla a desiderare. Per questa lezione mi pare che La possa trovare materia abbondante nel « Nuovo Saggio », dove si parla della volontà come causa degli errori; e così pure nei trattati morali, specialmente in quello della « Coscienza » dove si torna sullo stesso argomento. Si può cominciare dallo stabilire che il filosofo deve esser guidato in tutti i suoi passi dall' amore della verità. - Dimostrare quanto facilmente all' amore della verità si associ qualche altra passione, e principalmente l' amore della gloria, il desiderio di inventare cose nuove. Se poi l' animo è dominato da altre passioni, s' aggiunge una segreta tendenza, per la quale l' uomo brama di trovare che sia vero ciò che favorisce le sue passioni e aborrisce di trovare il contrario. - Perciò la regola tanto inculcata dai pittagorici e dai platonici di accostarsi a filosofare coll' anima purgata, dove si può fare un cenno delle purgazioni istituite da questi filosofi, le quali avevano un fondo di verità, benchè anche mescolate di arbitrario e di superstizioso. - Quindi passar a dimostrare che l' animo quand' è purgato, cioè non è mosso da altra passione che dall' amore del vero, procede colle due regole dell' umiltà filosofica e del coraggio. L' umiltà filosofica consiste in una ragionevole diffidenza di se stesso, e in una stima dei filosofi precedenti. - La superbia filosofica all' opposto consiste nella presunzione di sè, e nel disprezzo di quelli che hanno filosofato nei tempi anteriori. - La filosofia non può esser l' opera di un individuo, ma sibbene l' opera lenta e faticosa dei secoli, quindi la ragionevolezza dell' umiltà dell' individuo che non è che un anello quasi infinitesimo della serie dei pensatori. - Storia degli errori, in cui incapparono i più grandi intelletti. - Altra ragione dell' umiltà filosofica, ossia della diffidenza di se stessi. - Vantaggi dell' umiltà filosofica per la scienza e per l' umanità. Ella sola mette a profitto tutta l' eredità delle cognizioni lasciateci dai nostri padri, e lega le diverse generazioni umane fra loro: in bocca dell' umile si sente filosofare l' umanità intera, non l' individuo. Il coraggio filosofico consiste in una moderata e ragionevole confidenza nelle proprie forze, e in una moderata e ragionevole diffidenza dell' altrui autorità umana: consiste ancora nell' intraprendere grandi fatiche per giungere al vero. - Al coraggio filosofico è opposta l' inerzia e la viltà che spegne lo spirito d' investigazione. Esempio del coraggio filosofico sono le varie fatiche fatte dai più grandi filosofi per giungere al vero e fondare le scienze: meditazioni, vigilie, astinenze, viaggi, ecc.. Quelli che hanno una stima superstiziosa verso i filosofi precedenti, non osando sottoporre ad una prudente critica le loro sentenze e giurando in verbo magistri , non possono ragionevolmente essere annoverati fra i filosofi: perchè nè sono in caso di aggiugner nulla alla scienza, nè hanno l' animo pur di tentarlo. Il perfetto filosofo deve unire in sè le due virtù dell' umiltà e del coraggio filosofico, perocchè la prima lo conduce a prendere esatta cognizione di quanto il mondo possiede di scienza prima di lui; la seconda gli mette nell' animo il proponimento di tentare con tutte le sue forze di accrescere alquanto il patrimonio degli avi. La prima produce in lui uno spirito di conciliazione fra le diverse opinioni conciliabili, onde si fa seguace di un giudizioso eclettismo; la seconda produce in lui lo spirito di investigazione che il difende da ogni vizioso sincretismo. Dimostrare che dalle due regole dell' umiltà e del coraggio filosofico nascono due regole più speciali, che sono: 1 non doversi pronunciare un giudizio temerario, che si riduce ad affermar ciò che non si sa; 2 non dover esitare a pronunciare ciò che si sa. Infatti a queste due si riducono le cause prossime degli errori. E quanto alla prima egli è evidente che se non si affermasse mai se non quando si conosce bene la cosa, difficilmente si commetterebbero errori. Ma invece di voler veder la cosa coll' occhio della ragione prima di pronunziare, la si crea coll' occhio della fantasia e si pronunzia quest' idolo invece del vero. - Si illustri la cosa coll' esercizio del metodo che usano i sensisti, dimostrando quanto a torto essi si chiamino la scuola sperimentale. Non si dà esperienza che non abbia queste due parti: la parte del fenomeno sensibile, la parte di ciò che vi aggiunge la ragione. Il fenomeno sensibile non basta a costituire un' esperienza: convien che ciò che vi aggiunge la ragione sia secondo la verità; e questo è appunto quello che manca ai sensisti; poichè dalla sensazione saltano alla cognizione arbitrariamente e fantasticamente: pronunciano, non ciò che dà loro il senso, ma ciò che dà loro la fantasia. Vedono essi forse la cognizione nella sensazione? non la possono vedere perchè non c' è. Dunque pronunziano quello che non vedono, quello che non sanno, il loro giudizio è temerario. Qui si passi a dedurre queste due altre regole che vengono quai corollarii: 1 Il filosofo prima di pronunciare deve rendere un conto esatto a se stesso dei propri ragionamenti per assicurarsi ch' egli sa ciò che pronunzia. 2 Per far questo egli deve ridurre il suo pronunciato a rigorosa dimostrazione, esposto in proposizioni esattamente connesse l' una coll' altra, badando che fra una proposizione e l' altra non resti fuori alcun anello intermedio, giacchè, ove manca l' anello, ivi è un falso arbitrario, ivi si passa da una proposizione all' altra senza ragione, e perciò temerariamente. Obiezione. In tal caso il filosofo potrà pronunziare pochissime sentenze. - Risposta. Sì, ma quelle poche saranno verità: la filosofia si purgherà dagli errori un poco alla volta e acquisterà una solida base - Qui si entra a parlare del sistema degli accademici, i quali dicevano che il filosofo si deve contentar di trovare ciò che è probabile, senza pretendere di giungere alla certezza. Si dimostri che questo sistema non è che un' esagerazione di una verità. L' esagerazione consiste nell' escludere qualunque certezza; ma la verità importantissima consiste nel riconoscere che ben sovente il filosofo particolare deve contentarsi del probabile, quando non arriva a formarsi delle sue opinioni una dimostrazione rigorosa. Si faccia vedere quanto gran campo possa prendere il metodo accademico, e come ciascuno deve usarne secondo che più o meno gli riesce di giungere al vero dimostrato. - Ancora, che un tal metodo è utilissimo per la disputa urbana, nella quale il filosofo deve rispettare l' altrui opinione anche dov' egli crede di possedere la certezza, benchè possa sforzarsi di dimostrarla altrui. Nella storia degli Accademici premessa alle opere di Cicerone in molte edizioni « cum notis variorum » si troverebbe molta materia. La seconda regola è più difficile da svolgersi, poichè converrebbe fare una delicata osservazione sull' esitanza di molti filosofi nel persuadersi della forza di certe dimostrazioni, per es., vi hanno alcuni i quali non trovano mai una prova che per loro sia convincente dell' esistenza di Dio. Questa loro esitanza non nasce già perchè la dimostrazione non abbia in se stessa tutta la forza, ma perchè, dipendendo la persuasione dalla volontà, manca loro il coraggio e la forza di aderire ad essa coll' animo pienamente assenziente. - Altro esempio si può trarre dalla « Teodicea », dove si dimostra che, per quelli che ammettono la esistenza di Dio, deve logicamente cessare ogni dubbio sulla giustizia e bontà, colla quale egli dispone delle cose umane: eppure ciò non si verifica in molti, non perchè manchi la dimostrazione logica, ma perchè non vi danno un pronto assenso, e quindi tengono sospeso il giudizio, mentre dovrebbero darlo. Introduzione . - Tratta dall' importanza della questione - Stato della questione - Ella è una questione di fatto: perciò si debbono applicare le regole di metodo che riguardano la verificazione dei fatti - La prima regola si è, che l' osservazione preceda il ragionamento - A qual classe di fatti appartiene la questione che vogliamo trattare? Due specie di fatti vi sono. I fatti esterni che appartengono all' osservazione esterna; e i fatti interni, che appartengono all' osservazione interna. La questione nostra appartiene all' osservazione interna. Conviene adunque esaminare colla osservazione interna, se il senso conosca qualche cosa. Il conoscere ed il sentire sono fatti interni. Convien dunque riflettere sopra di essi; osservarli attentamente e paragonarli per conoscere se si identificano, o se sono fatti diversi, l' uno de' quali non si possa ridurre all' altro. Già il senso comune coll' applicar loro due vocaboli distinti mostra di distinguerli; ma non adoperiamo l' autorità del senso comune, ma l' osservazione nostra propria. L' osservazione ci dimostra, che la sensazione è sempre particolare. - Si illustri con esempi e si dimostri che è un' illusione il credere che nelle sensazioni vi sia qualche cosa di universale, illusione che nasce all' uomo, perchè egli, avendo dei concetti universali all' atto del sentire, gli unisce alle sensazioni, e se ne compone degli oggetti sensibili, ne' quali vi sono sensazioni e concetti universali; e in questo consiste la sagacità del filosofo nel dividere coll' analisi ciò che ha unito nella sintesi, e nel distinguere quale elemento sia mera sensazione, e quale elemento sia concetto o pensiero, dando il suo ad ogni potenza senza attribuirvi nè più nè meno. - Qui si insisterà dimostrando che il soggetto uomo e la sua attività radicale è una, la quale però muove molte potenze contemporaneamente a produrre un unico risultato per via di sintesi, il quale essendo unico, se non si pone molta attenzione, si attribuisce ad una sola delle potenze che l' hanno prodotto, e così si cade in errore. Ora alla potenza del senso non si dee attribuir che solo ciò che è sensazione e nulla più: e se si trova un altro elemento che non sia sensazione, ma altra cosa per esempio concetto, in tal caso si dee attribuire ad un' altra potenza e non a quella del sentire. Veduto che la sensazione è particolare e non universale, si deve inferirne primieramente che per lo meno vi sono alcune cognizioni che non sono sentite; perocchè vi sono indubitatamente alcune cognizioni universali. Qui si dimostra l' esistenza di queste cognizioni universali confutando i nominali, e specialmente Stewart, che pretendono che l' ufficio degli universali si compia per mezzo di nudi vocaboli [...OMISSIS...] . Stabilito che alcune cognizioni almeno sono universali, discende la conseguenza, che almeno queste non sono sensazioni, e che, se il sentire tuttavia è conoscere, dunque il conoscere non è più una cosa sola, non è una facoltà identica, ma sono facoltà genericamente distinte. In tal caso la parola conoscere attribuita al sentire mancherebbe di significato, e così la pensa infatti Aristotile, il quale dice che la cognizione che si ha per via di sensi non si chiama cognizione se non per una certa similitudine che ha colla cognizione vera (si mostri brevemente quanto sia incomoda e antifilosofica una tal maniera di parlare). Ma stabilito che vi hanno alcune cognizioni almeno, che sono universali, convien vedere quali siano queste cognizioni, e quali siano le cognizioni particolari che ci rimangono, le quali sole, se pure esistono, si possono attribuire ai sensi. Ora primieramente la cognizione dell' essenza delle cose appartiene agli universali, perchè le essenze sono sempre universali. A ragion d' esempio, l' essenza dell' uomo non è ella stessa nessun uomo particolare. Dunque tutte le essenze che si conoscono sono cognizioni che certamente non si possono attribuire ai sensi. Dunque se vi ha una cognizione somministrata dai sensi, mediante questa cognizione non si conoscerà l' essenza di nessuna cosa. Ma una cosa di cui non si conosce l' essenza in nessun modo, non si può neppur affermare, poichè per affermare una cosa conviene in qualche modo conoscere che cosa è, e conoscere che cosa è una cosa, è conoscerne l' essenza. Dunque se egli è vero che i sensi ci somministrano qualche cognizione, questa cognizione è però tale che nè ci fa conoscere che sia una data cosa, nè ci dà la possibilità di affermarla. Avete veduto, miei signori, qual conseguenza legittima da ciò proceda? La conseguenza legittima si è, che i sensi non ci fanno conoscere niente; poichè se ci facessero conoscere qualche cosa, noi sapremmo che cosa ella sia. Ora il sapere che cosa sia, è sapere l' essenza della cosa. Ma siamo convenuti, che i sensi non ci possono far conoscere l' essenza della cosa, perchè l' essenza della cosa è universale e i sensi non danno che particolari. Ancora, se i sensi ci facessero conoscere qualche cosa, noi potremmo affermarla o negarla. Ma noi siamo convenuti, che i sensi non ci danno la possibilità di affermare cosa alcuna e però nè pure di negare. Se dunque i sensi non fanno conoscer niente, convien dire che il senso corporeo nulla conosce. Convien dir ancora, che se si spoglia la cognizione dell' elemento universale, si annulla affatto la cognizione stessa, e perciò se ci rimane qualche cosa, quello che rimane non è più cognizione, poichè non si dà cognizione senza cognito, non è cognizione quella che non ci fa conoscer nulla. Voi mi direte che i sensisti deducono dai sensi le idee. - Qui si dimostri che le idee non sono che le essenze ideali delle cose, e che però se non possono far conoscere le essenze, non fanno conoscere nè pur le idee. L' illusione dei sensisti nasce perchè la sensazione o l' immagine serve all' uomo per dirigere il suo pensiero e per fissarlo: quindi da tali filosofi si crede or che la sensazione sia l' oggetto del pensiero, ora, poco coerenti con se stessi, che sia il pensiero stesso. Ma questo anche esigendo un lungo sviluppo, potrebbe dare argomento ad un' altra lezione. Dimostrare che il senso niente conosce, e però non è una facoltà di conoscere, è confutare il sensismo. Infatti il sensismo non consiste mica in escludere la cognizione, ma in attribuirla ad una facoltà a cui non appartiene. Nei sistemi sensistici adunque si ritiene e talora campeggia il ragionamento: ma questo vi rimane in aria, introdotto arbitrariamente senza congrua spiegazione. Talora accade, che il ragionamento prenda in quei sistemi un amplissimo campo, e che si cangi in idealismo ed in razionalismo. Allora il sensismo vi giace ancora, ma rimane nascosto; e gli autori di quei sistemi ricevono quasi per ingiuria l' appellazione di sensisti. Tanto più conviene svelare quel sensismo che in essi si giace nascosto; e per isvelarlo convien definir bene che cosa sia il sensismo. Definizione. - Tutti quei sistemi che attribuiscono al senso qualche cognizione vanno macchiati di sensismo. Dunque non è sufficiente a purgarli dalla taccia di sensismo il dire che non tutte le cognizioni si traggono dai sensi. E per vedere quali questi sieno, convien stabilire il carattere proprio della cognizione, e poi esaminare se le produzioni, che si attribuiscono da vari filosofi ai sensi, abbiano questo carattere: perchè in tal caso essi fanno che ciò che è cognizione sia prodotto dai sensi. Ora il carattere proprio della cognizione è l' oggettività. Dunque tutti quei sistemi filosofici, i quali distinguono l' atto del sentire dall' oggetto del sentire invece di distinguere il principio dell' atto del sentire dal termine del medesimo atto, peccano di sensismo. - Spiegazione di questa proposizione. Questi sono: 1 Tutti quelli che prendono le sensazioni per altrettante idee, o che prendono le idee per un aggregato di sensazioni. - L' idealismo di Berkeley è un sistema di questo genere. Infatti ne' suoi dialoghi fra Filonous e Filhylas, ne' quali pubblicò il suo sistema, egli altro non fa che partire da questa definizione del corpo: « Il corpo è un aggregato di sensazioni ». - Quindi mostra che le sensazioni sono modificazioni dell' anima, e non cose esteriori, e ne induce che dunque non esistono realmente i corpi, ma solo le idee, prendendo manifestamente la parola idea per un aggregato di sensazioni. 2 Quelli che aggiungono altri fonti soggettivi di cognizioni, ma lasciando però intatta la sentenza che anche le sensazioni sieno o anche costituiscano le idee coi loro aggregati - Così fa la filosofia scozzese. Reid, malcontento di veder ridotti i corpi esterni a puri fenomeni, dichiara di non saper rispondere agli argomenti di Berkeley se non supponendo che nell' uomo, oltre i sensi esterni, vi sia una speciale facoltà o tendenza naturale, che lo obbliga ad ammettere i corpi esterni come reali. Questo dimostra che il filosofo scozzese non giunse a conoscere che l' errore di Berkeley consisteva nel sensismo, e quindi ritenne il sensismo sorreggendolo coll' aiuto di un nuovo istinto di una facoltà soggettiva. 3 Quelli che dichiarano che tutto ciò che viene a priori è soggettivo, e tutto ciò che viene dall' esperienza è oggettivo. Tale è Galuppi, il quale nella Lettera filosofica XIV definisce gli empirici quelli che non ammettono altri elementi nella cognizione che gli oggettivi! - Qui è da farsi la strada, che viene naturalissima, a confutare quanto dice Galuppi nella citata lettera contro il nostro sistema. 4 Quelli che riducono il ragionamento alla stessa forma e natura della sensazione, cioè che prendendo la sensazione per modello, il cui carattere è di essere soggettivo, riducono anche le altre potenze dell' anima ad essere meramente soggettive. Tale è Kant. - Leggasi il primo libro della « Teodicea ». 5 Quelli che credono di poter fare una sola cosa dell' oggettivo e del soggettivo, con che dimostrano di non conoscere la differenza che corre fra il carattere proprio della sensazione che è il soggettivo, e il carattere dell' intelligenza che è l' oggettivo: i quali non si possono guardare dal sensismo appunto perchè non conoscono la differenza immensa che passa fra il sentire e l' intendere. Tale è il sistema di Hegel e di Gioberti. Questi filosofi immaginosi pongono una loro idea (giacchè così chiamano Iddio), la qual sia ad un tempo soggetto ed oggetto, e dalla quale procedano l' intelletto, il senso e la natura, a quel modo come il particolare procede dal generale. 1 In cui si riassumono le regole di metodo che più importano aver presenti nello studio della psicologia, e sono: I La scienza comincia da una definizione volgare (non analizzata), ma giusta, di ciò di cui si vuol trattare; II Le scienze di percezione usano per primo loro istrumento o modo di conoscere l' osservazione; III Le scienze di percezione interna, una delle quali è la psicologia, usano per primo loro istrumento o modo di conoscere l' osservazione interna. 2 Spiegazione e difesa del primo principio. Spiegazione - La definizione volgare (non analizzata) può semplicemente indicare l' oggetto, cioè determinarlo in modo che non si confonda con altri (per via di relazioni, definizioni negative), o anche esprimerne l' essenza positiva . Quando l' oggetto è tale che si può conoscere per via di percezione, allora la definizione volgare da cui deve incominciare la scienza, benchè non analizzata, deve esprimere l' essenza positiva . Difesa - Obbiezione: Non si possono conoscere le essenze delle cose - Risposta tratta dallo stabilire che cosa è l' essenza . - Delle essenze conoscibili e non conoscibili. Le prime solo sono nominabili, ed atte ad essere argomento dell' umano sapere; altre non sono. Varie specie d' essenze conoscibili, Vedi « Nuovo Saggio » (1). 3 Spiegazione e difesa del secondo principio. 4 Spiegazione e difesa del terzo principio. 5 Quarto principio. - Per trovare il vero è necessario osservare ciò che il lavoro della mente aggiunge o toglie all' oggetto. 6 Definizione volgare dell' anima umana, da cui conviene incominciare la Psicologia. « L' anima è il principio del sentire, dell' intendere e dell' operare di quell' essere che pronuncia se stesso col monosillabo Io ». 7 Applicazione del quarto principio alla definizione non analizzata dell' anima. - Si scevera dall' Io ciò che appartiene alla natura dell' anima e ciò che vi aggiunsero le operazioni della mente. . « La psicologia è una scienza di percezione. Il principio della psicologia è la percezione di noi stessi ». 9 L' anima in ciascun uomo è unica. - S' argomenta dalla coscienza dell' Io. 10 Difficoltà. - Questione dell' identità. - L' anima è unica e identica, benchè abbia più facoltà. 11 Continuazione della stessa questione. - L' anima è unica e identica, benchè abbia più atti. - Ogni facoltà è unica, benchè abbia più atti. - Qual sia il principio che moltiplica le facoltà, quale il principio che moltiplica gli atti di una stessa facoltà. 12 Se sia vero, come sostiene Condillac, che le facoltà dell' anima non siano innate, ma acquisite. - Distinzione fra le facoltà e i principii d' operare. 13 Unità dell' anima in generale. - Il principio sensitivo d' operare, se è diviso, forma un' anima a sè. - Unità e identità dell' anima umana, dove i due principii sono uniti (dalla coscienza). 14 Immaterialità dell' anima umana. 15 Spiritualità dell' anima umana (per escludere l' idea ch' ella sia un punto matematico). - Dell' anima noi abbiamo un concetto positivo e non meramente negativo. 16 Immortalità dell' anima umana. 17 Durazione perpetua dell' anima provata da due principii: I L' uno cosmologico « niuna cosa creata può annichilarne un' altra »; II L' altro teologico « Iddio non annulla ciò che una volta ha creato ». 1. Dell' anima sensitiva de' bruti. - S' incomincia l' analisi di quest' anima (principio senziente - termine sentito). 19 Del nesso tra il senziente e il sentito - si combatte il principio ontologico7materialista, che « una sostanza non può inesistere nell' altra ». - Varietà di maniere onde una cosa può inesistere, o esser legata sostanzialmente con un' altra. 20 L' animato non si può produrre - è dato in natura. 21 Continuazione. - Legge ontologica del sintesismo: « una cosa ha la sua esistenza condizionata ad un' altra ». 22 Il principio senziente, che per esistere è condizionato al sentito, da poi che esiste ha un' attività sua propria. - Istinto animale. - Istinto vitale. - Istinto sensuale. 23 Si continua l' analisi dell' anima sensitiva dei bruti (1 sentimento d' estensione; 2 sentimento d' eccitazione; 3 perpetuità dell' eccitazione, ossia organismo). 24 Semplicità dell' anima dei bruti. 25 Principio sensifero. - Sua identità col sentito. - Esistenza del corpo esterno e naturale. - Distinzione di corpo e di materia. 26 Base di una classificazione specifica degli animali - la natura dell' eccitamento fondamentale stabile dipendente dall' organizzazione. 27 Sviluppo dell' animale. - Modificazione accidentale del sentimento d' eccitazione. 2. Malattie dell' animale. - Contrasti che trova il principio istintivo a dar luogo all' eccitamento perpetuo normale. 29 Moltiplicazione dell' animale. - L' animale non può dividersi, ma moltiplicarsi. 30 Generazione spontanea. - Ipotesi della animazione de' primi elementi. 31 Dell' anima umana. - Distinzione dell' anima dallo spirito puro. - L' anima per esser tale dee animare, ossia dar vita a ciò che non l' ha. 32 Delle diverse definizioni della vita. - Vita comunicata. - Vita propria (condizionata all' animato). - Vita del corpo (comunicata). - Vita dell' anima sensitiva (propria). - Vita del principio sensitivo (altra propria, altra comunicata). - Vita dell' anima intellettiva (propria). - Vita soprannaturale dell' anima intellettiva (comunicata). 33 Nesso del principio sensitivo coll' anima intellettiva. - Percezione fondamentale. 34 Spiegazione del modo come l' anima intellettiva influisce sopra il corpo. - Virtù del percipiente sul percepito. 35 L' anima intellettiva informata dall' essere in universale. 36 L' essere in universale si riduce in Dio, come in una sua appartenenza. 37 L' essere in universale è la verità. - Ogni verità si vede dall' uomo nella verità prima ed essenziale. 3. L' uomo dalla verità è scorto al bene assoluto. - Niun altro bene può saziare l' uomo. 39 L' uomo è fatto pel godimento di Dio, a cui è condizione il riconoscerlo per quello che è (Religione). 40 Il pieno possesso di Dio non si ha che nell' ordine soprannaturale, nel quale Iddio si comunica realmente e sostanzialmente all' uomo. Cominciare dallo stabilire per principio che le menti finite, quantunque abbiano per loro oggetto la verità, tuttavia per la limitazione degli atti con cui la conoscono v' intramischiano del soggettivo, e così in qualche modo la spezzano e la limitano: il che però non le conduce necessariamente in errore; perchè hanno sempre la facoltà altresì di depurare le proprie cognizioni da ciò che coll' atto d' apprenderle v' hanno intramischiato di straniero ed eterogeneo. Questo si scorge in tutti gli atti del conoscere umano, quando a parte a parte si considerano fuor che in quell' atto ultimo col quale l' intelletto emenda e compie la deficienza degli atti precedenti, il quale è quello che cerca e perviene all' assoluto. - Hanno bisogno tutti gli atti precedenti di esser in qualche modo emendati, fino che il pensiero è giunto all' assoluta cognizione. Per fare intendere come ciò sia, convien discendere alle speciali funzioni dell' intendimento; e per non andar troppo a lungo limitiamoci all' analisi ed alla sintesi. Analisi . - Dimostrare come l' analisi dello spirito divide le cose che sono in se stesse indivisibili. 1 Divisione dei relativi. - Pensa lo spirito la causa senza badare all' effetto - il contingente senza il necessario - il sentito senza il senziente - l' inteso senza l' intelligente, ecc., e viceversa. Ora egli è chiaro che le une di queste cose nel fatto non istanno senza l' altre; e però conviene, se non si vuol prendere errore, che sopravenga la facoltà del conoscimento assoluto a riunire tali cose considerate in separato, e così emendare la cognizione smembrata, e in quanto smembrata altresì falsa, se non fosse poscia corretta. - Dal non avere i filosofi sempre emendata e completata la cognizione che divide i relativi nacquero molti sistemi falsi come quelli de' sensisti e soggettivisti che credettero di poter cavare l' idea di necessità da quella di contingenza, quando questa suppone quella, e viceversa, ecc.. Gli esempi qui abbondano, con un po' di meditazione. 2 Divisione degli astratti. - Questi sono pensati soli dalla mente e considerati come altrettanti enti. Ma la facoltà emendatrice dimostra che non sono che enti di ragione . - Molti degli Scolastici errarono, perchè convertirono quelli che sono puri enti di ragione in veri enti compiuti, e si perdettero così nelle sottigliezze dialettiche come in un inestricabile labirinto. Sintesi . - La mente colla sintesi unisce tutto ciò che vuole, anche ciò che non è unito in se stesso. Quindi tutti que' sistemi, il cui errore consiste nella confusione di cose affini; e principalmente poi l' errore degli errori, il panteismo, che tutto avvolge e confonde in una sola sostanza. - Ogni qual volta adunque la mente unì per suo comodo, per comodo de' suoi ragionamenti, in una sola concezione o in una sola formola più cose che non sono unite in natura, la facoltà emendatrice dee correggere e disfare questa unione, acciocchè non rimanga l' errore. Questo accade principalmente ogni qual volta si applica lo stesso vocabolo a cose intieramente diverse, unendole in una sola classe, p. es., quando s' applica a Dio ed a Salomone l' appellativo di sapiente; supponendo così che Iddio e questo Re appartenessero alla stessa classe di sapienti. Allora sarebbe irreparabile l' errore, se la facoltà emendatrice con una riflessione più elevata non soccorresse dimostrando che la parola sapiente applicata a Dio ha un altro senso d' allorquando s' applica all' uomo; disfacendo così quella comunità di sapienza che s' era supposta, e secondo la quale si favellava. NB . Allorquando considero l' anima colla coscienza di se stessa ed involgo la coscienza nella stessa essenza dell' anima, allora commetto una di queste sintesi erronee che si vogliono disfare. - Questo per la Lezione VII. In questa lezione si dovrebbe fare una critica delle diverse definizioni dell' anima dimostrando che quelle che si censurano definiscono l' anima da cose estranee ad essa, e confirmando la propria definizione col senso comune dandone una spiegazione conveniente. Prima classe. - Sistemi che confusero l' anima colla materia. Seconda classe. - Sistemi che ridussero l' anima umana ad un soggetto senziente. Terza classe. - Sistemi che riposero la natura dell' anima nelle idee, ossia confusero il soggetto coll' oggetto. Quarta classe. - Sistemi che confusero l' anima umana con Dio. Quinta classe. - Sistemi che la riposero bensì nel soggetto, ma errarono tuttavia nel determinarne la natura. La questione dell' identità, benchè proposta nella lezione precedente, giova che si riproponga in questa; perchè è questione difficilissima ad intenderne bene lo stato [...OMISSIS...] . La questione dell' identità, che si riferisce alla moltiplicità degli atti, si è « come l' anima in quanto fa un dato atto non debba esser diversa dall' anima in quanto fa un altro atto, ma debba essere identica ». Egli pare che l' esser principio d' un atto sia altra cosa che l' esser principio d' un altro; che si debbano moltiplicare i principii e però le anime. Questa difficoltà si dee far sentire collo svolgerla lungamente. La risposta poi sta nel ben separare il principio degli atti dagli atti, il quale come tale non è determinato a nessun atto particolare nè speciale, e mostrare come questi si cangino, mentre quello conserva la sua identità. I principii prossimi degli atti sono le facoltà, e però la questione cade propriamente sull' identità delle singole facoltà. - Il dubbio che nasce, e che si dee levare, si è « se forse ciò che si chiama facoltà sia una collezione di principii e non un unico principio ». Il dubbio nasce perchè sembra che si trovino le facoltà col considerare ciò che hanno di comune più atti: ond' alla causa di ciò che hanno di comune si suppone che presieda una sola facoltà. Ma ciò che diciamo comune è un' astrazione; onde pare che anche le facoltà sieno astrazioni. - Convien provare che la cosa non è così; ma che la facoltà è causa di tutto l' atto, e non dell' elemento comune che in esso si trovi. Le facoltà sono certi principii d' azione che contengono virtualmente una specie astratta di atti , e che gli producono quando ne hanno lo stimolo od eccitamento opportuno. - Si prova che non è assurdo il concetto di tali virtualità, e che è ammesso dal senso comune e dall' osservazione del fatto. La virtualità specifica e semplice è sempre uguale, faccia ella più atti o meno: e qui si dee rinvenire l' identità delle facoltà rispetto alla moltiplicità de' loro atti, che sono aggiunte che vengono fatte alle facoltà, non mutazioni di esse. Conviene avvertire: 1 Che la moltiplicità numerica degli atti ha per ragione la moltiplicità degli stimoli o eccitamenti individuali applicati alle facoltà o potenze che vengono tratte ai loro atti secondi. 2 Che la varietà accidentale degli atti della stessa facoltà ha per ragione le accidentali diversità ne' detti stimoli, o anche le disposizioni abituali delle facoltà stesse. 3 Che la varietà poi delle facoltà ha per sua cagione la diversità specifica delle virtualità che costituiscono le facoltà, ossia anche la diversità specifica degli atti secondi determinati dai loro termini. (E` necessario aver qui a mano la dottrina delle specie e de' generi, quale è data nel « Nuovo Saggio »). Per questa lezione parmi che si possano raccogliere de' pensieri dall' ultimo libro dell' « Antropologia » e specialmente a faccia 494, nella nota, e faccia 519 - 522 dove si distinguono i principii d' operare delle persone. Esporre il sistema condillacchiano sulla genesi delle potenze, e confutarlo con gli indicati cenni, darebbe sufficiente materia alla lezione. Quando non bastasse questa materia, si potrebbe soggiungere alla confutazione di Condillac qualche altra difficoltà che si presenta nell' ammettere le potenze innate. Eccone la principale: « Nello stato primitivo dell' anima, cioè anteriormente ai suoi atti secondi, niuna facoltà s' è ancora manifestata. Le facoltà sono modi diversi dell' operare del medesimo soggetto. Ora fino a tanto che quest' operare non è passato al suo atto, l' attività rimane immersa nell' essenza dell' anima. Essendo questa essenza semplice, non si vede in che modo i modi del suo operare possano essere in essa distinti, e non piuttosto confusi in un' attività sola, principio unico di tutti gli atti futuri ». Si risponde esser vero che l' anima è semplice. Ma, consistendo questa semplicità nel ridursi tutta la sua attività ad un solo soggetto, non è tolta la semplicità di questo dal risultare composto di più atti primi semplici l' uno subordinato all' altro. Ora questo è appunto il caso dell' anima umana. Ella ha due atti primitivi: l' uno superiore, ed è l' atto che la rende intellettiva, l' intuizione dell' essere; l' altro inferiore, ed è l' atto del sentimento fondamentale - corporeo. Ora questi due sono atti distinti per la loro natura, e però sono innati. La distinzione poi delle altre potenze nasce dall' applicarsi questi due primi principii a diversi termini, e in diverso modo; e però possono dirsi prodotte e acquisite le potenze speciali. « Ricordati sovente », dice Giovanni Gersen, « di quel proverbio delle sacre carte: che la vista non si sazia per vedere, nè per sentire s' empie l' udito » (2). In fatti, non già le cose che noi leggiamo ci giovano per se medesime, ma la disposizione dell' animo, che dentro di noi in certo modo le cuoce e muta in nutrimento, è profittevole. Perciò una cotale delicatezza nello scegliere i libri, non accontentarsi di veruno, o volerne di troppi, e sperare di trovare ognora lumi migliori nei recenti, e in quelli che per avventura non si hanno, ma si sentono nominare, appalesa lievità di pensare, o mal uso formato. E' vuol dire, che non si guastano nè intendono bene que' che si leggono, che non si vede l' estensione e l' applicazione delle massime che quelli insegnano. Bisogna persuadersi di questo: a trovare eccellenti precetti, che pure abbraccino i bisogni tutti della vita, non è gran fatto difficile all' età nostra. E non è da gran tempo il Vangelo di GESU` Cristo in mano di tutti? Se non ce ne accontentiamo, manchiamo di riflessione e di vigore nell' intenderlo, amarlo, ed usarlo. Soli i due precetti della carità non contengono tutta la legge? San Giovanni ripeteva sempre quell' amarsi a vicenda (1): ei vedeva la forza e l' ampiezza di tale sentenza. Quelli all' opposto che l' ascoltavano, non penetravano nel midollo; perciò alla ripetizione si annoiarono, e il richiesero di cose nuove. E altrettanto avviene d' ordinario. Si addimandano nuove cose, perchè non si masticano, nè assaporano le vecchie; e perciò di esse non sentesi altro che la nausea della vecchiezza. I Cristiani primitivi non avevano tanti libri come noi, e ne sapevano tuttavia di virtù più che noi. Per nulla dire de' filosofi antichi, molti fondatori di ordini e società religiose non lasciarono regola veruna scritta a' discepoli loro, e si osservò, che la tradizione vocale serba più freschezza e spirito alle dottrine. Nell' Antico Testamento Iddio diede agli Ebrei scritta la legge sulle tavole di pietra; ma in Geremia promise, che il Messia la scriverà nel cuore (2). Quindi GESU` Cristo non lasciò cosa alcuna in iscritto, e fu sollecito in quel cambio di mandare a' suoi Apostoli lo Spirito divino dal cielo. Sentite, a questo proposito de' libri, i sentimenti del gran patriarca San Giovanni Grisostomo: [...OMISSIS...] . Così la sente ancora Sant' Agostino nel libro primo della « Dottrina cristiana », dove mostra, che al perfetto vivente in grazia nè pure le sacre Scritture fanno bisogno, essendo la carità, che non cessa nè pure in cielo, sola necessaria, la quale anche le cose non necessarie fa utili. Ed ella è dunque ben pazza cosa l' insuperbirsi, come fanno i savi del mondo, per molti libri, i quali sono un rimedio alla nostra ignoranza; come è cosa pazza pavoneggiarsi di quelle vesti, che rammentano all' uomo la propria nudità, ed il proprio peccato. Oltrechè, come fanno i buoni, è cosa ben giusta, che almeno di questo secondo rimedio, che il Signore ci dà ne' buoni libri, profittevolmente usiamo, leggendoli con ispirito, con gusto, insomma con quella cristiana carità, che assennatamente riflette, e in tutto si edifica. Sono adunque nello stato nostro utili i libri, se di essi sappiamo nutrire lo spirito. [...OMISSIS...] A questo fine fuggite ne' libri ogni lusso: partiteli tutti in due classi. Gli uni vi formino una piccola libreria, nella quale abbiate il pascolo dell' anima vostra. Degli altri, se qualcheduno fra i migliori vorrete leggere, non sarà male, quando non perdiate mai l' amore ed il gusto a que' primi. Quali poi saranno que' primi? Le divine Scritture, il « Catechismo romano », alcune opere de' Padri, tutti i libri che si adoprano nella Chiesa, e le più sicure memorie de' Santi, specialmente de' primi tempi, come sarebbero gli « Atti sinceri de' Martiri », e i « Costumi dei primitivi Cristiani ». E se volete avere un bel corso di « Vite de' Santi », non saprei suggerirvi opera scritta con maggior saggezza di quella del signor Albano Butler, che dal francese del signor Godescard si rende pur ora italiana (3). Appartiene però ancora a ciascun cristiano in particolare la storia ecclesiastica della sua diocesi, perchè sappia chi ci abbia recato il lume dell' evangelio, per mezzo di quai Santi si sia diffuso, e successivamente mantenuto o aumentato (1). A direzione poi particolare dello spirito le opere di S. Francesco di Sales, il « Combattimento Spirituale » del P. Scupoli, e il libro « Dell' Imitazione » sono i primi. Se pochi altri ne vorrete, vi sovvenga nella elezione di quel ricordo scherzevole che dava un vero saggio (2), cioè che gli autori migliori incominciano da S , volendo dire che sono i Santi. In quanto alla sacra Scrittura, i nostri antichi Cristiani ne erano insaziabili, nè mai i Padri sono tanto eloquenti come allora, quando inculcano la lettura di questa lettera preziosa, dall' Onnipotente scritta agli uomini. Mirabile è l' ardore che avevano d' intenderla a propria e altrui edificazione anche le donne stesse, come veggiamo in Paola, in Eustochio, in Fabiola, delle quali Dame romane parla S. Girolamo. Accuserò io i moderni di non leggere le Scritture? Gli accuserò più tosto di leggerle poco santamente. Le leggono con freddezza, e come qualunque altro libro umano; pare quasi che si leggano per giudicarle, e non per esserne giudicati. Voi leggetele senza posa, e abbiatevi a regola nella lettura quanto v' insegna l' aureo Gersen nel capitolo quinto del libro primo della « Imitazione di Cristo », che altri non può dirne meglio. E` però a distinguere nella santa Scrittura da libro a libro; poichè nè a tutti, nè a tutte le età conviene lo stesso cibo. Così i Cristiani antichi, e gli Ebrei stessi proibivano la lettura di certe parti della « Bibbia » a' giovani. Generalmente attenetevi al Vangelo di GESU` Cristo, e al « Nuovo Testamento » tutto. Questo è il libro soprammodo fatto per noi che viviamo nel tempo della grazia; questo la chiave e il lume di tutte le antiche carte; e questo venìa raccomandato a preferenza degli altri dagli antichi Padri. [...OMISSIS...] Quanto agli antichi libri poi, i « Salmi » e i « Proverbi » sono di somme istruzioni fecondissimi; e lo stesso santo dottore Basilio disse una volta agli abitanti di Cesarea in una sua omelia: [...OMISSIS...] . Onde anche le varie parti della Scrittura a varie maniere di persone sono specialmente accomodate; sebbene diverse parti di lei idonee sieno a ciascuno, sì come i « Salmi » e il « Testamento Nuovo ». Per altro in questo studio vi sarà vantaggiosissimo qualche esperto conduttore. Il Direttore di tutti gli uomini è GESU` Cristo, e tanto è più savio ciascuno, quanto più ode questo Direttore. [...OMISSIS...] Di fatto, certa disposizione sincera del cuore, un vero amore della verità santa, e una vera indifferenza a tutte le altre cose, ci rendono facile udire la voce di questo Direttore, che in mille modi ci parla. Tante volte non si può avere un Sacerdote che ci diriga, fornito delle tre gran doti richieste da S. Francesco di Sales ad un valevole Direttore; cioè della Dottrina, della Prudenza, e della Carità (4); ma GESU` Cristo, che di tutto questo ha la pienezza, non ci manca mai. La principal cosa adunque è di rendere l' animo nostro capace della istruzione. Senza di questo nè pure un uomo fornito di tutte le doti ci potrebbe dirigere. Poichè tutta la virtù sta nell' ubbidire. E chi non ubbidisce al maggiore, come ubbidirà al minore? Da questo però, che non solo ogni perfezione, ma ben anche ogni bontà di vita consiste nell' ubbidire a quanto i superiori c' impongono, dovete conoscere il pregio infinito dell' ubbidienza, e di più, che nella sincera disposizione di ubbidire consiste ogni vantaggio, che un Direttore ci potrebbe apportare. Quando disse il nostro Signore: « Se alcuno vuol venire dopo di me, anneghi se stesso, e prenda la croce sua e mi segua » (1), allora parlò di questa disposizione di animo, per cui siamo sommessi ai nostri superiori; sieno tali o per la natura loro, o per l' offizio, o per la elezione nostra. A Dio e ai pastori da lui stabiliti nella sua Chiesa noi dobbiamo assoggettare la nostra volontà. E perchè non v' ha cosa più eccellente della volontà umana, per questo non v' ha sacrifizio più a Dio gradito nè più a lui dovuto di quello, con cui la volontà nostra a lui si sottomette. Questa è la negazione di noi medesimi come precetto. Se poi eleggiamo qualche persona opportuna, a cui sottometterci in tutte le nostre operazioni, e da cui esser diretti in cambio di dirigerci da noi medesimi; questa è un' ubbidienza di consiglio. Alla quale se ci obblighiamo per voto, entriamo in quella che si dice perfezione religiosa. Della ubbidienza di consiglio tutta è formata la vita di GESU` Cristo. Poichè egli umiliò se stesso fatto ubbidiente sino alla morte, e morte di croce (2). E tant' è vero che ciò consiste nella negazione e rinunzia della propria volontà, che Cristo dicea nell' orto: «. In due cose adunque sta il pregio dell' avere una persona che ci diriga, cioè nel soggettamento elettoci per nostro volere, e nel facilitamento che tiriamo da' suoi consigli a vivere santamente. Per altro S. Francesco di Sales v' insegna ad esercitare l' ubbidienza verso di tutti, e a sentire anche da per tutto la voce del Signore (1). E voi felice se esercitar sapete l' una e l' altra di queste virtù, e felice in particolar modo se sapete rinvenir quel consigliere esperto, quell' amico fedele, quella guida sicura, che fra le migliaia ci avvisano i Santi di ricercare, e che lo Spirito divino chiama « medicina della vita e della immortalità, e tesoro più ricco d' ogni ammasso d' oro e d' argento » (2). L' educazione altrui è un affare gravissimo, se riguarda la religione. Poichè con essa sono affidate alla nostra attenzione le anime, il prezzo delle quali è in qualche modo infinito. Perciò nella cura delle povere ragazze che prendete, viene ad essere a voi dato un tesoro in deposito, che vi dee fare e temere e vigilare a custodirlo fedelmente. Sono oltrecciò queste anime giovani e innocenti, di cui il nostro Signore parlò con sì grande affetto, [...OMISSIS...] . Ecco quanto incarico abbiate! Se per negligenza vostra quest' anime soffrono danno, voi siete entrata mallevadrice. E sapete che cosa dice il divino Spirito a chi ha tolto sopra di sè malleveria di anime? [...OMISSIS...] . Le quali cose voglionsi credere dette non già a sconfortarci di prendere la cura d' altrui; sì bene a confortarci di prenderla con ardore. Perciocchè noi ai soggetti dobbiamo la nostra diligenza, non già la loro guarigione (1). Così Dio diceva ad Ezechiello, a cui era stato commesso l' offizio di ammonire gl' Israeliti: [...OMISSIS...] . Così parimenti il Savio nei « Proverbi » insegna a liberar se medesimo appunto col mezzo di non trascurare attenzione da parte nostra nè fatica, perchè l' amico si debba risentir dal suo sonno. Che anzi Dio, il quale diè precetto a ciascuno del suo fratello, a pigliarci tali cure di carità ci chiama in molti luoghi nelle Scritture. Così prima d' impaurirci dallo scandalezzare i fanciulli colle parole surriferite, ci incoraggia a edificarli, [...OMISSIS...] . Vedete se a tali parole dobbiamo avere fiducia, che ci darà anche forze valevoli a sostenere il carico. Dio medesimo è che prendiamo in cura. E quando mandò Ezechiello agli Israeliti, missione dura e difficile, gli disse ancora così a confortarlo: [...OMISSIS...] . All' opposito, a voi è destinata d' istruire una famigliuola dolce e pieghevole. Fate però cuore. Avrete dal Signore, che v' esorta a prendere il peso, la grazia necessaria a portarlo, e secondo la misura della grazia quella della gloria. Perciocchè in Daniele leggiamo: [...OMISSIS...] . Al nostro tempo (diciamolo senza riguardo) si sogliono prendere comunemente le cose della religione con non so quale indifferenza e lievità di spirito. Perchè Iddio rendette frequenti i misteri suoi, le sue dottrine, gli uffizi della perfezione, per questo con ingratitudine si dimentica il pregio loro, se le riguarda quai volgari cose, e si smarrisce coll' assuefazione la forza dell' impressione, la vivezza del concepire. All' incontro nelle prime età della Chiesa, i Cristiani pieni dello spirito di verità vedean le cose nella loro giusta misura, tutto nella Chiesa trovavano santo, tutto di grandezza immensa, e richiedente una fedeltà e rigore sommo. Se quegli avessero eletto donna, a cui affidare comechessia l' educazione di una parte della greggia di Cristo, dopo delle preghiere a Dio, sarebbero venuti alla scelta cauti e circospetti; avrebbero chiesto de' buoni testimoni di sua vita, dei saggi di specchiata condotta, di conosciuta virtù, di frugalità, di lavoro delle mani, di carità, ritiratezza, orazione, di tutto in somma quello che forma la cristiana vita. Tante diligenze non si usano adesso: ma tanto maggiormente però vi bisogna riflettere e rispondere alla vocazione. Come pensava e diceva S. Paolo della Chiesa di Corinto, voi avete a dire della piccola vostra congregazione: « Io sono gelosa di voi per zelo di Dio. Poichè vi ho sposato a un uomo solo, a Cristo, e con intenzione di presentarvi a lui come pura vergine » (1). Che dunque fare? Apparecchiarvene. Per non rimuovermi dai luoghi sopraccennati della Scrittura, sentite di Ezechiello quando Dio il mandò a riprendere gl' Israeliti: [...OMISSIS...] . Questo è il volume della legge. Iddio l' ha dato anche a voi, e vi comanda mangiarlo. Se ubbidirete, ve ne farà sentir la dolcezza. Ma se nol mangiate, non potrete avere nè adempire missione alcuna non solo determinata e peculiare, ma nè pure ordinaria e generale, di cui qui si parla. D' ora innanzi meditate adunque più addentro nella santa legge. In una parola fate quello che disse GESU` Cristo di se medesimo: « Io santifico me stesso per essi » (1). GESU` Cristo era santissimo, e non bastò. Si rese sacerdote e vittima, il che vale in quel senso santificarsi , cioè « entrare nel Sancta per mezzo del proprio sangue, ritrovata una redenzione eterna » (2); redenzione non già sua, ma nostra. Così compiè tutto quello che poteva fare per le sue pecore. Compitelo dunque anche voi, essendo egli il modello. Voi non siete santa come lui. Avete dunque due maniere di santificarvi per le fanciulle affidatevi. L' una di crescere nella virtù e nella fervidezza dello spirito, l' altra di sofferire tutti i dispiaceri e travagli e anche persecuzioni, che aveste la grazia d' incontrare, offerendovi così in sacrificio tutta insieme con Cristo, « affinchè esse pure sieno santificate nella verità » (3). Sentenza è di S. Agostino, che la obbligazione di esercitare la carità verso altrui è merito d' ottenerla anche verso se stessi (4). Perciò quanto alla prima santificazione voi siete aiutata dall' offizio stesso che avete preso. Fatelo dunque con tutta cura. « Correte in questa e in quella parte, affrettatevi, svegliate quelle vostre amiche ». Senza dubbio avrete da incontrare difficoltà e fatiche; ma « vi siete legata colle parole della vostra bocca ». Se voi non le affronterete con forza « non iscapperete come daino dal laccio, e come uccello dalle mani dell' uccellatore ». Avrete ancora dei gravi dispiaceri, veggendo talvolta il riuscimento cattivo delle vostre fatiche, e l' asprezza del vincere indoli ritrose. Vi sovvenga perciò, che d' altra parte vi sarà aggiunta della fortezza. [...OMISSIS...] Sarannovi fatte ancora delle dicerie, date delle molestie, e supponiamo ancora che veniate perseguitata o per malizia, o per errore. Quanto alla prima cagione, qual conforto non ci dà Cristo quando ci disse: « Il mondo gli ha odiati perchè non sono del mondo, sì come io non sono del mondo? » (6). E a malgrado dell' odio del mondo così aveva detto innanzi GESU` Cristo parlando al padre: « Adesso poi vengo a te: e tali cose dico essendo nel mondo, affinchè abbiano in se stessi compito il mio gaudio » (7), cioè « il gaudio del nostro Signore » (.). Quanto a' buoni, anche Ezechiello preso dallo spirito fu legato dai domestici, credutolo forsennato: ma fu Iddio che dispose così, come gli aveva detto (1); e fu per un fine grande, come sono tutti quelli d' Iddio, cioè di profetare nella figura di quelle catene la schiavitù di Gerusalemme. Tenete fermo, che « Iddio dispone soavemente tutte le cose » (2). Quindi da tutte, qualunque sieno, anzichè venirci dolore, ce ne verrà grande allegrezza, e « il gaudio nostro sarà compito ». E si avverranno queste cose prosperamente in voi, se le domanderete al Signore. Il buon vostro padre non vi può niegar nulla, ma voi siete nel dolce obbligo di domandargliele. [...OMISSIS...] Oltre la continua preghiera, e a tempi stabiliti, raccoglietevi un fascicolo di brevi orazioni da dire spesso per la giornata, adattate all' uopo, e che possano cadere in acconcio alle varie circostanze in cui vi trovate. Eccovene a ragione di esempio alcune tratte dalla Scrittura, e dall' uso della Chiesa: 1 Il segno della croce, che viene dagli Apostoli, e in tutte le cose l' adoperavano i primi Cristiani. Poi queste altre: 2 « Crea, o mio Dio, in me un cuor mondo » (4). 3 « Non rigettarmi dalla tua faccia » (5). 4 « Rendimi la letizia del tuo Salvatore » (6), che è appunto quel gaudio sovraccennato. 5 « Signore, tu aprirai le mie labbra, e la mia bocca annunzierà le tue lodi » (7). 6 « Come tempera il giovinetto le sue inclinazioni? coll' osservare le tue parole » (.). 7 « Benedetto sei, o Signore: insegnami le tue giustificazioni » (9), cioè le sublimi ragioni, con cui si può confondere ogni temeraria censura, che gli empi fanno alla divina provvidenza. . « Togli il velo a' miei occhi, e considererò le meraviglie della tua legge » (1). 9 « L' anima mia al suolo è distesa: dammi vita, secondo la tua parola » (2). 10 « Assonnò vinta dal tedio l' anima mia: colle tue parole dammi vigore » (3). 11 « Dammi intelletto, e studierò e osserverò con tutto il cuor la tua legge » (4). 12 « Togli gli occhi miei da ogni vanità della terra » (5). 13 « A chi mi dileggia dirò, nelle tue parole aver io posta la mia speranza » (6). 14 « Non toglier mai di mia bocca la parola di verità » (7). 15 « Ti ringrazio, o Signore, perchè sono partecipe di tutti quelli che ti temono », per la comunione dei Santi (.). 16 « Insegnami la bontà, la disciplina, e la scienza » (9). 17 « Nel tuo verbo ho riposta la mia speranza » (10). 1. « Se meditato non avessi alla tua legge, nell' afflizione sarei perita » (11). 19 « Configgi col tuo timore le mie carni » (12). 20 « Il Signore si è il mio Pastore: ei mi ha collocata in paschi ubertosi » (13), cioè nella sua Chiesa. 21 « A te il povero si abbandona: tu sarai l' aiuto dell' orfano » (14). E tante altre simiglianti, adoperate da' Santi, come son quelle di S. Filippo Neri; raccomandandovi anche in ciò di non variare sì spesso, ma di dire quella che vi suggerisce lo spirito ne' vari momenti, con tutto il fervore e la simplicità del cuore. La educatrice debbe essere specchio alle sue giovani, come Cristo è a lei: altrimenti edificherebbe con una mano, e distruggerebbe coll' altra. Ascolti ancora l' Apostolo: [...OMISSIS...] . « In tutte l' opere vostre siate precellenti », dice l' « Ecclesiastico » a quelli che presedono a qualche adunanza. Andate innanzi in tutto. Non trasgredite adunque mai nè per freddezza di stagione, nè per noia che v' assalga, nè per piacere, nè per dolore parte veruna della regola prefissavi a principio. Non errate l' ore prescritte. Nè le giovani che educate, nè le femmine cooperatrici s' accorgano mai, s' egli è possibile, che siate stanca o affannata; non fate lamento; porgetevi sempre egualmente ilare con loro, rigorosa con voi, saggia con tutti; che è quella bontà , quella disciplina , quella scienza , che dimandate a Dio nella giaculatoria decimasesta di sopra proposta. Il Savio aduna tutte le lodi di donna perfetta nell' epiteto forte (1). Però se avete affanni e noie (2), cercate il momento di ritirarvi sola, e col Signore sfogatevi pure senza timore, lamentatevi, e ditegli, che siete quella miserabile che sentite d' essere. Egli sì vi risponderà nel fondo del cuore parole divine che vi ritorneranno la serenità, l' alacrità, e più forze che prima: [...OMISSIS...] . Non potendovi ritirare a lungo, vi aiuteranno in ciò le giaculatorie terza, quarta, nona, decima, decimaterza, decimasettima, decimaottava, decimanona, che potete dire col cuore in brevissimo tempo. Costante in questo pensiero, d' essere con voi stessa severa in ogni cosa che appartenga al vostro incarico, porrete peculiare attenzione in alcuni doveri particolari. Secondo mio parere gioverebbe, che a voi stessa riserbaste tutto quello che appartiene all' istruzione di spirito: sopra l' altre cose vigilando, in modo però, che non avvenga nè si faccia cosa senza che voi l' abbiate preveduta e approvata. Gli offizi dell' istruzione spirituale possono ridursi a questi: leggere, insegnare, confutare, consigliare, esortare, riprendere, e castigare . Dal modo di leggere pende buona parte del profitto che si tira dalle letture. Non sarà dunque inutile di farne un piccolo cenno. Nel leggere si vuole accompagnare la lezione in bel modo e spontaneo colla voce e col gesto, sicchè il senso venga, per quanto è possibile, ad apparire e sporgere con quella forza, che egli ha, nè più, nè meno: e tenga la sua propria indole. Se adunque voi leggete loro alcuna cosa da muovere al riso, non le inducete a serietà col portamento: se qualche cosa seria, non apparisca nel modo di esprimerla cosa alcuna da riso. Checchè sia quello si legge, farassi sentire spiccato, battendo le lettere raddoppiate, serbando la puntatura, dando energia al concetto. Onde vedete, che non è al tutto facilissimo uffizio far bene non che l' istruzione, ma nè pure la lezione spirituale. S. Benedetto volle, che chi leggesse nel refettorio si apparecchiasse con una orazione apposita (1); e ciò perchè vedeva da un canto, che il leggitore ha molta parte al profitto degli uditori se con ispirito legge; dall' altro, che leggendo con ispirito da produrre questo profitto, facil cosa è, che sottentri anche in ciò furtivamente qualche poco di vanità. Nella Chiesa, ove tutto è grave, decoroso e perfetto, esemplare sommo della vita regolata, v' ha un Ordine apposito per leggere, cioè il Lettorato, a cui però non è commessa la lettura dell' Epistola, di cui n' ha offizio il Sottodiacono; nè a questo la lettura del Vangelo è affidata, la quale al Diacono si appartiene. Quanto all' istruire , l' « Ecclesiastico » dice: [...OMISSIS...] ; e notate tutte le parole della sentenza. Ma chi crederebbe oggidì, che l' offizio di istruire fosse quello, che a S. Agostino fece versare lagrime, sommamente scontento di se stesso quando ordinato prete se ne provò, per le difficoltà che sentì d' incontrare ad adempierlo quale ei bramava, sì come ne scrisse a Valerio vescovo (3), scongiurandolo di volerlo lasciar alcuni giorni sino alla prossima Pasqua in ritiro per apparecchiarsene colle preghiere e lo studio? E fra l' altre cose dice così: [...OMISSIS...] E fate ragione, se S. Agostino così dicea (1), che dovremo dir noi? Non badate dunque se gli spensierati si prendano come celia cosa tale: non falliremo a stare sempre attaccati a' primi maestri. Rispetto al modo voi dovete impicciolirvi alla misura altrui, e distribuire a tutte secondo lo stomaco, per così esprimermi, di ciascheduna, a cui latte, a cui minuzzoli di pane, a cui cibo più solido. Fate sempre precorrere il pensiero alle parole, parlate a rigore d' espressione, con placidezza, ilarità, e spirito. Frapponete qualche racconto, di cui è avida la tenera età, e qualche piacevolezza, acciocchè con moderato riso si ricreino, e non istanchino di troppo le forze della mente. Fate nel tempo dell' istruzione che abbiano fra mano un lavorìo, perchè difficilmente possono star fermi i fanciulli senza muoversi in qualche modo, e se non assegnate il movimento, movendosi come loro viene voglia, si divagano. Se poi a qualche tratto del vostro discorso, che le colpisce, ristanno dal lavoro, e si mettono in atto di maggior attenzione; lasciate facciano così, che tanto è meglio. Del rimanente in tutto ciò vi rimetto all' aureo opuscolo di S. Agostino, « Del modo di catechizzare gl' idioti », per me reso volgare (2). Sebbene in esso non tutto sia adatto pel caso nostro, essendo diverse le circostanze, tuttavia ne caverete meravigliosa istruzione bene meditandolo. Specialmente apprenderete ivi, con qual gusto si debba porsi ad istruire, e quanto tal gusto giovi a farci uscir l' istruzione spontanea e fervente. Quanto al vostro confutare , non è già un venire a tenzone con perverse opinioni e ostinate: ma tutto l' affare sarà in risolvere qualche difficoltà proposta, o qualche erroruzzo di non perfetta intelligenza. La massima principale che in ciò vi conduca sia questa, di trascegliere fra molte risposte, che talora dar potrete, quella che maggiormente acquieti ed illumini chi propose la difficoltà. Sovente uno schiarimento maggiore delle cose dette, un esempio, un racconto, una parabola, dileguerà dalle menti giovanili ogni difficoltà. Talora sarà meglio eludere la risposta, o pure far loro un argomento appoggiato solo su' lor principii, secondo che la circostanza dimanda. Sì dell' una che dell' altra maniera ce ne diede esempio Cristo stesso. Vedete in S. Matteo, c. XX e XXII, e in S. Giovanni, c. X. Fino a qui de' vostri offizi come maestra. Ora toccheremo alcuna cosa del consigliare , che è, più che altro, uffizio di amica. Avete accolte quelle pargolette; fate altresì di appareggiarvi a loro. Resa quasi una del loro numero, abbiano esse con voi tutta l' amichevole confidenza. Allora s' apriranno con voi de' loro animi, e voi potrete accorrere co' salutari consigli. Potete bensì darne alcuno di moto proprio, senza esserne chiesta; ma sarà più vantaggioso avvezzandole a dimandare. Se il vostro consiglio sarà sì dolce, sì amico e saggio, che esse partano da voi contente, vi torneranno altre volte. E questa è gran via per far del bene. Dite loro di spesso questo detto dello Spirito Santo: [...OMISSIS...] . D' una cosa finalmente vi avverto, che potete benissimo consigliare dove è precetto, ma guardatevi dal precettare là dove è consiglio. In questo anche S. Paolo usava somma avvertenza, come potete vedere nell' Epistola I ai Corinti, c. VII, e nella II, c. VIII. L' esortare ha una gran forza sugli animi. Li fortifica, gl' infiamma, li fa operare. Per questo S. Paolo raccomanda spesso tale offizio a Timoteo e a Tito. Dovete farlo con sommo calore, persuasione e autorità. Quando parla una persona, che mostra di non avere il menomo sentore di dubbio di quanto dice, anzi di essere penetrata di zelo ardente, difficile è che l' uditore possa resistere, in guisa che ei non entri poco o molto nei sensi dell' esortante. L' esortazione però, come dice Paolo, sia sempre congiunta coll' edificazione e colla consolazione (3). Di più, avendo voi a fare con docili fanciulline, non avverrà che offendiate mai il loro amor proprio esortandole a virtuosa condotta. Perciò state sicura, che più che sarete in sull' esortarle, farete più bene. Fatelo dunque spessissimo, anzi continuo. Vengo all' offizio di sorella, che è quello di riprenderle ne' mancamenti. Lo spirito di dolcezza deve brillare in tutto; qui poi come in sua sede. Nè la dolcezza escluderà la forza. Il riprendere debb' essere come il « favo di mele in bocca al leone » (1). Farete la cosa con energia se sarete addolorata del mancamento loro, mettendovi ne' lor piedi. Ecco Ezechiello mandato a rimproverare gli Ebrei: [...OMISSIS...] . Ora saranno ben picciole dispiacenze, ma nulla ostante gioverà che facciate sentire alle fanciulle un dispiacere da vera sorella, non già amaro nè ostinato, ma dolce e facile a rasserenarsi dove ne venga tolto il motivo. Quanto alle regole del correggere, tenete quell' avviso di S. Agostino, di non farlo, trattandosi della privata correzione, a norma solo del male commesso, ma della disposizione dell' animo a cui si fa: a quello stesso modo che non si vuole già mangiare a ragione della bontà del cibo, ma della forza che ha lo stomaco di digerire. Il fine unico debb' essere il vantaggio. Onde si vuol fare in quella maniera che giovi: e parimenti cercare i luoghi, i tempi, e tentare gli aditi più facili de' cuori, e sempre con carità, dolcezza e gaudio della corretta. Per altro è pur malagevole anche questo offizio a farlo bene; e leggete la lettera novantesimaquinta di S. Agostino diretta a Paolino e a Terasia se volete vedere quanto ei per sè n' era turbato. [...OMISSIS...] Quanto al gastigare , è l' uffizio di madre. Anche qui vi bisogna spiare le varie indoli delle giovani, e calcolare il vantaggio che ne prendete. A questa norma attemperate i castighi. Quello però che potete ottenere coll' istruzione, col consiglio, coll' esortazione, colla correzione, non vogliate ottenerlo mai con un castigo: quello che potete avere con una correzione leggiera, non vogliate con una forte. Quello che potete con una occulta, nol vogliate con una pubblica: quello che con una pubblica, non con un castigo; e parimenti quello cui conseguir basta un leggiero o celato castigo, non tentate di averlo con un pubblico e grave. Tutto insomma sia ragionevole, circospetto, richiesto. [...OMISSIS...] Mi restano a dire poche cose sull' altra parte del vostro ministero, che è quella di sopravvegliare agli uffizi, che non prendete a far voi medesima. Questa vigilanza risguarda sì le donne assistenti che le fanciulle. Colle assistenti donne contenetevi sì come consorella affettuosissima. Non ostentare mai superiorità, tenerle in dovere colla voce, ma più coll' esempio, grave ed amabile contegno, parlare che nulla abbia di superfluo e nulla di mancante. Tutto quello che dite tenga in sè o istruzione o sincero amore verso di loro, senza che nè l' una produca noia, nè l' altro mostri affettazione. Se voi condirete con qualche buon sale il vostro discorso, tornerà ancora più caro. Sempre poi sia famigliarissimo, pieno di stima verso di tutte. E` grande e bella ed utilissima cosa mostrare vera stima a tutti. Faceva così s. Paolo coi fedeli. [...OMISSIS...] E non si può credere quanto incoraggi altrui a far bene mostrar di presumere a vantaggio di loro, che opereranno lodevolmente. Colle fanciulle poi a un di presso dovete fare lo stesso. Osservate ogni cosa, rimediate tosto a' piccioli sregolamenti che non si sono potuti evitare colla previdenza, e tutto ciò manco sia fatto con azione diretta e faticosa, di quello che sia con indiretta e soave. La donna forte del Savio regge la casa sua coll' attività, non co' gridori nè colla forza, ed ogni cosa va bellamente. « Ella cinge di fortezza i suoi fianchi e fa robusto il suo braccio » (3); e dopo averla esso Savio lodata per l' opere, che pare ella faccia quasi in silenzio, così dice del suo parlare: « Con saggezza apre ella la bocca sua, e la legge della bontà governa la sua lingua ». Dalla pratica della virtù sembra inferire, che ella abbia appreso a virtuosamente parlare. Così avvierete bene la famiglia, e rassomiglierà ad una macchinetta. Messa in movimento seguirà a rivolgersi portata dal primo moto senza bisogno quasi di altra spinta, ma bensì di molto vigilare a rimovere i filuzzi o sassolini o come che sia i piccioli intoppi d' ogni maniera, che mettendosi fra le ruote la potessero rallentare, o rompere, o fermare. « Il regno de' cieli è somigliante ad un tesoro nascosto in un campo. Scoperto il luogo da alcuno, questi nol dice a veruno; ma se ne va tutto allegro, vende quanto ha, e compera il campo » (1). Or se di qui debbe pigliar regola l' uomo cristiano, forte dubbio s' affronta: Se l' uomo vende tutto per solo il cielo, come vivere? come tener gli amminicoli della vita? come fare alcune azioni di vita civile, mangiare, bere, dormire, camminare, parlare? Pur è così: tutto debb' essere venduto pel tesoro nascosto nel campo. Ma udite bene. Può comperare, anzi è costretto di comperare ancora il campo, ma lo compera a cagion del tesoro, può, cioè, anzi ha l' uomo necessità di fare delle cose, che di loro natura spirituali non sono, ma farle a lui conviene per lo scopo spirituale, che in esse vi mette. Anzi col lume del nostro unico maestro traggo avanti il mio discorso, e vi dico a piena fiducia, che voi dovete non solo cercare in ogni cosa lo spirito, ma la perfezione dello spirito. [...OMISSIS...] Chiudiamo il ragionamento, e diciamo: nessuno dunque entrerà in quel regno celeste, se non vorrà farsi il più picciolo, cercando quella perfetta semplicità, umiltà ed innocenza, di che la natura medesima fa dono ai fanciulli. Egli basta dunque essere cristiani a dover sapere, che il pregio vero di qualunque azione nostra è quello d' essere volta a Dio, e d' essere investita perciò nel celeste tesoro. Vi sia dunque nell' animo fitta questa somma e incommutabile massima della dottrina di nostro Signore, che ad ogni uomo conviene attendere alla sublimità, e alla somiglianza con Dio: non venendo ciò mai in opposizione colle oneste condizioni degli uomini. Non vi vergognate pure di dire con ogni franchezza, che nella educazione delle ragazzine vi proponete di farle sante e perfette quanto è da voi. Ecco l' altezza e la nobiltà del cristiano pensare. Conosciuto ora di che natura sia l' edifizio che prendete ad erigere, delineate il disegno. Abbia quasi due piani: le verità cristiane, e le virtù. Formiamo adunque breve trattato ne' fogli seguenti sì delle verità da insegnare, che delle virtù da infondere. La intelligenza è quel dono magnifico di Dio, che distacca infinitamente l' uomo disopra degli animali tutti, e per cui è fatto ad immagine e similitudine della divinità (1). [...OMISSIS...] Mirate dunque la nobiltà umana! vedete l' altissimo fonte di lei ascendendo in sull' orme di questo gran Dottore nella somiglianza con Dio formata dalla intelligenza da lui a noi comunicata, sopra la quale non v' ha nulla fuori che Dio, e sotto alla quale pure nulla, fuori che cosa infinitamente da lei distante. Quanto dunque è per noi da educare quella illustre facoltà, e la cultura di lei con ogni amore studiare! Dipoi considerando a' disordini e alle sregolatezze umane, facile è avvedersi, che quasi sempre divengono da ignoranza, o ignoranza hanno congiunta. Eh! se gli uomini fossero più dotti, egli sarebbero ancora migliori. La morte stessa di Cristo fu figliata da trista ignoranza, e non sarebbe avvenuta, se « quegli avessero compreso che si facessero » (1). E sembra che basti conoscere Iddio perchè dolcemente spinti veniamo ad amarlo! Di più ancora dicono nella nostra sentenza quelle parole: « La vita eterna non è che conoscere un solo vero Dio, il Padre, e Gesù Cristo mandato al mondo da lui » (2). In queste apparisce come una viva cognizione torni quasi ad una cosa medesima coll' amore, e proprio col godimento di Dio. Qual raccomandazione più grande ad una pia istruzione? Di qui molti Santi, di zelo e d' esperienza pieni, facevano dell' insegnamento tal conto, che desideravano sempre un predicare tutto a famigliare ammaestramento; e ben sapevano quanto indi vantaggio se ne coglieva. Adunque proponete di volerle bene ammaestrate e dotte. Avvi modo, chi sa farlo, che continua sia l' istruzione: preziosa cosa: e solo con essa s' ottiene quanto S. Paolo diceva a' Colossesi: « La parola di Cristo abiti in voi con pienezza » (3). Le cose poi da insegnare loro, quanto allo spirito, si possono, come a me pare, ripartire acconciamente in tre capi: Della vita civile: della Dottrina cristiana, e di un più perfetto insegnamento . [...OMISSIS...] Questo insegnate alle fanciulle vostre. E fate loro intendere come ciò sia: come le nostre azioni, se fatte non sono in nome di Gesù, non abbiano che merito naturale, il quale è nulla per la vita eterna. Mostrate, che un' azione fatta in nome di Gesù Cristo vuol dire fatta per dare piacere a lui, per fare la volontà sua, e quasi per incombenza ricevuta da lui medesimo, fatta ancora insieme con lui o sia rivestiti di lui e spogli d' Adamo, cioè dell' uomo del peccato, e quindi fatta per virtù della grazia sua, fatta in somma rendendo per mezzo di Cristo grazie a colui, che è Dio di Cristo uomo, e che è padre di Cristo Dio, e il quale ci mandò Cristo Dio e Uomo in una congiunto . Dopochè ben a dentro loro avete impressa tale istruzione intorno alla comune vita, esponete, che cosa da essa ne consegua. Primieramente di essa viene, non avere già più per l' uomo cristiano azione veruna onesta in questo mondo, la quale sia veramente bassa e ignobile; anzi essere grandi e nobilissime tutte, perchè tutte possono e debbono essere sante e valgono la vita eterna, e perchè il discepolo di Cristo le fa, come dicemmo, con esso lui insieme. « Dunque non v' abbia alcuna fra voi, soggiungerete, la quale si lamenti della condizione sua, o ricusi di fare alcuno offizio per la ragione che a voi sembri vile, non avendo esso che una viltà apparente, e agli occhi di quelli che della nostra santa legge poco bene si conoscono. Quando GESU` Cristo lavorava in bottega o in casa di Giuseppe, credeva bensì il volgo che egli facesse mestiere plebeo, ma in sostanza faceva allora uffizio infinitamente più illustre innanzi alla verità di Dio di quello che facesse il romano imperatore. Non è vile cosa alcuna, la quale possa essere santa, e la quale non canserebbe di farla GESU` Cristo stesso: è vile, ignobile, e degno di sprezzo il solo fasto del mondo, e qualunque cosa che offenda Dio ». Tali massime riposte nel loro cuore, daranno di bonissimi frutti. Ma di questa generale dottrina conviene, perchè bene l' assaporino, fare loro delle applicazioni a tutte le opere della vita. Di spesso accade, che la virtù e la perfezione ci sia mostrata, ma non ci sia indicata la via d' andarvi. Voi poi dovete anzi prenderle per mano e condurvele. Per esempio, intorno al mangiare ammaestratele del modo come si mangia, unendo insieme col cibo del corpo quello dell' anima. In primo luogo persuadetele, che il mangiare per sè è azione che non aggiunge dignità veruna all' uomo, poichè anche gli animali, direte loro, mangiano come noi. Appresso andate più avanti. Osservate, che il mangiare discuopre la nostra infermità. Tutti i bisogni nostri ci mostrano limitati e miseri. Quando la fame ci avvisa di prender cibo, ci avvisi anche che abbiamo peccato. Perocchè sebbene anche non peccando l' uomo avrebbe mangiato, tuttavia non avrebbe avuto il dolore e la morte che gli viene del non mangiare. Onde siamo fatti schiavi del cibo, perchè l' uomo col cibo tentò schivare di essere servo di Dio. Potete poi sopra ciò aggiungere, che il mangiare a noi sarà non solo di disonore, ma altresì di colpa se non l' useremo secondo suo legittimo fine. Il fine del cibo è di supplire alla nostra necessità. Quanto al diletto del palato fate loro comprendere, che è pure cosa vilissima, e che Iddio ce l' ha dato per confortarci nella miseria che abbiamo di prendere cibo; ma molto più per farci esercitare la virtù di ordinarlo a lui o a lui sacrificarlo: non volendoci sì nell' uno che nell' altro caso dilettare altro che d' Iddio, benchè potessimo dilettarci ancora di qualcos' altro. Quindi venite più in particolare bel bello sponendo i cinque vizi, ne' quali si può cadere mangiando, distinti da S. Gregorio nei Morali: [...OMISSIS...] . I quai modi tutti bello è che illustrati sieno cogli esempi della Scrittura, cui lo stesso Santo ivi appresso somministra. Dopo ciò si possono indicare i modi così generali, come particolari di ripararci da somiglianti vizi. Finalmente mostrerete con bel modo come il nostro Signore apportò veramente a noi, per così dire, la pietra filosofale (spiegando loro che cosa s' intendea per essa) onde possiamo fare oro da tutte cose le più spregiate o indifferenti. Di qui i modi delle virtù intorno al cibo contrari a que' cinque vizi. In fine persuaderete una bella indifferenza per qualunque maniera di cibo, l' amore alla sobrietà, e a quelle virtù. Deplorerete la tristezza umana di servirsi sì poco di quest' arte preziosissima di Cristo. Narrerete che cosa erano le antiche agapi cristiane, e perchè si chiamavano con questo greco nome che significa dilezione . E a modello finalmente proporrete loro GESU` Cristo stesso: quando pregato da' suoi discepoli a prendere un po' di conforto, sebben dopo lungo viaggio, rispose: « Il mio cibo è fare la volontà di colui, che mi ha mandato, e di compiere l' opera sua » (1). E se lo figureranno commensale, e così anche rammenterete que' primi fedeli, i quali « spezzando il pane per le case, prendevano cibo con gaudio e simplicità di cuore, lodando Iddio » (2), e loro mostrerete come questo gaudio e questa simplicità giovi alla stessa salute del corpo assai più che la crapola e l' intemperanza , di cui aprirete gli effetti funesti. Nè tutte queste cose, ed altre simiglianti, che saranno vostro dolce studio, facendo in voi tesoro di esempi, di fatti, di similitudini, e d' ogni lume del discorso, le direte già loro così tutte in una fiata talchè n' abbiano sopraccarico, ma ora l' una or l' altra trarrete fuori a tempo e luogo acconcio. E quando le legherete loro in mente con qualche arguta sentenza, o dove venga bene anche con alcuna puntura contro de' vizi; quando le stempererete loro nell' animo con più distese parole, secondo l' opportunità e la voglia che vedrete in esse di sentirvi parlare. Poichè dovete esser sollecita di prepararle sempre vogliose, e di non parlare loro (almeno a lungo) se non quasi pregata; come ponendo osservazione nel Vangelo si vede che faceva quasi sempre il sommo nostro Maestro. Alla stessa maniera sappiano di tutte le parti della vita. Così otterrete con ogni verità, che « la legge di Dio sia lucerna a' loro piedi » (3); otterrete che di tutto traggano merito, e però la loro vita sia tutta orazione , colla quale impetrino nuove grazie. Sono da meditare singolarmente a quest' uopo le lettere di Paolo e di Pietro che traboccano non solo di concetti sublimi intorno lo stato e la vita cristiana, ma sì ancora d' immagini e di simboli i più vivi ed opportuni a facilitare la intelligenza del cristiano spirito, a distinguerne la bellezza, e a tenere delineati e freschi, dirò così, i precetti nella memoria. Aggiungete lo studio de' libri sapienziali e de' « Salmi », mirabile libro, che giova a tutto, e a cui sì spesso richiama il « Nuovo Testamento ». A maggiore vostra regola ed esempio rechiamo tuttavia un altro saggio di questa familiare istruzione sulle cose della comune vita, ed egli sia intorno al dormire. Puossi cominciare a descriver lo stato dell' uomo preso dal sonno. Egli non fa più uso di ragione, giace inerte, simile ad uomo raggiunto da morte; per cui i poeti sogliono dire il sonno fratello di morte. E` il sonno cosa comune alle bestie. Quindi da non attaccarvi per nulla affetto umano, da prendere per la sola necessità, nè dormire di più del necessario, da che viviamo tanto meno, quanto dormiamo. Allora per tanto che andiamo a riposo, ricordiamoci della morte, effetto della colpa, della quale morte esso è sì viva immagine. Quando poi ci svegliamo è da sovvenirci della futura risurrezione, effetto de' meriti di Cristo. Avanti Cristo ci dovea il sonno sembrare la morte; dopo Cristo la morte a noi dee sembrare un sonno. Per questo Cristo della figliuola di Jairo capo di una sinagoga dicea: « Non è morta la fanciulla, ma dorme » (1); e in mille luoghi colla stessa immagine c' indolcisce il nostro divino Salvatore la morte. Quindi anche presso noi cristiani ne venne il nome greco di cimiteri , che italianamente suona dormitori . Ma guai se mentre Cristo rese a noi un sonno la morte, noi ci rendessimo una morte il sonno, e morte dell' anima! Questo potrebbe avvenire se fossimo dormiglioni usando il sonno a fomentare la nostra pigrizia e poltroneria contro il precetto di Cristo: « Vigilate in ogni tempo facendo orazione » (2). - « Lo spirito veramente è pronto, ma la carne è stanca » (3). E bene, dorma quanto è necessario la carne, ma vegli lo spirito. - Si faccia dall' uom cristiano, come la Sposa de' sacri Cantici, che cantava: « Io dormo, e veglia il mio cuore » (4). E voi insegnerete, che se terranno il loro cuore chiuso nella giornata ad ogni perverso affetto, se prima di coricarsi faranno orazione, se si metteranno dormendo nelle braccia di Cristo, egli che deve essere il loro cuore e il loro spirito farà la scolta sopra di esse contro al nemico, che pure « s' aggira intorno come leone ruggente cercando cui divorare » (5). Direte ancora, che dormendo col corpo vigilavano col cuore que' Profeti e Santi, a cui nel sonno rivelava Iddio le cose future ed i suoi segreti. Che vigilava col cuore il figliuolo d' Iddio alloraquando navigando sul lago di Genesarette, [...OMISSIS...] : loro narrerete finalmente del poco dormire che fa la donna forte ne' « Proverbi » descritta (7), delle vigilie degli antichi cristiani; e come la santa Chiesa nel ripartimento delle ore notturne e diurne dà l' immagine della vita del cristiano, che veglia sempre ed òra, di cui mi verrà in acconcio di parlare altra fiata. E finalmente direte, la quiete del corpo presa nella pace del Signore quaggiù rappresentare ancora quella quiete dell' anima che in cielo si assaggia nel gaudio divino: tal quiete essere veramente santa, veramente una orazione, perchè fatta col fine di ristorare il corpo, e rimetterlo in istato di servire e lodare Iddio attualmente, e perciò merita e impetra; per il che anche sobriamente dormendo puossi conservare il precetto della continua vigilanza e della continua preghiera; che molto pur giova la sobrietà del vitto ad aver men bisogno del dormire, e a dormire più santamente secondo quello di s. Pietro: « Siate sobrii, e vegliate » (1), ed altri sì fatti documenti consegnerete nell' anime loro, che vi somministreranno in copia le sante Scritture, e i Padri e scrittori ecclesiastici. In somma si vestano o spoglino, passeggino o stieno, parlino o tacciano, sieno sole o in altrui compagnia, facciano de' mestieri nobili o de' servili, si divertano, lavorino, studino, qualunque cosa operino nella vita, esse sappiano altresì dalla bocca vostra come convenga operarlo a utilità del loro spirito, come amarlo a fine di questa utilità solamente, e nella memoria arricchita d' una raccolta di sentenze, d' esempi, di fatti da voi uditi spesse volte ripetere con efficacia sopra i loro atti quotidiani, abbiano argomento continuo di meditazione, ed « un' armatura di Dio », per esprimermi con Paolo, « contro alle insidie del diavolo » (2). Così soleano fare i fervorosi cristiani de' primi tempi. [...OMISSIS...] Nel capo precedente ho parlato di quella dottrina, che può essere argomento alle vostre famigliari conversazioni. Oltre a questo poi è bisogno avere delle ore stabilite e conservate diligentemente, nelle quali diate la istruzione ordinata della Dottrina cristiana , o sia il Catechismo . In generale avvertite, che questa dottrina non è punto vostra, ma di Cristo. Appresso considerate come l' uomo peccando era traboccato nell' ignoranza, e perciò nella morte, essendo « la vita eterna il conoscere Iddio » (1); ma che per mezzo del Vangelo « si spoglia quell' uomo vecchio e si veste il nuovo , cioè si veste un uomo che si rinnovella a conoscimento, secondo l' immagine di colui che il creò » (2). E questo conoscimento è solo la salvezza dell' uomo. GESU` Cristo erede dell' eterno regno, ha fatti noi pel Vangelo suoi coeredi. Descrivete questa eredità con acconci argomenti e similitudini, innamorandole del paradiso, svogliandole dell' altre cose, e facendo lor venire il salutare timor dell' inferno. Ora dottrina tale toglie loro le infinite pene, e le rende eternamente ed immensurabilmente felici. In somma pingete la necessità, la bellezza, la perfezione, e la bontà di questa dottrina con ogni colore. E quando vi venga il destro, descrivendo la deformità del mondo prima di Cristo, assomigliatelo ad una notte , nella quale Cristo mandò gli Apostoli suoi a predicare quasi folgori per lo splendore e la celerità dell' opera loro (3): lo riformò e raggiornò « sgombrandovi l' opere delle tenebre, ed apportandovi l' arme della luce » (4); di cui l' una è essa dottrina, di cui ragioniamo: « ragguagliando con mirabilissimo artifizio divino tutti gli uomini in un solo ». Perciocchè dice Paolo a' Colossesi, che nel rinnovellamento dell' uomo « non havvi più Greco, nè Giudeo, circonciso, nè incirconciso, Barbaro, nè Scita, servo, nè libero; ma Cristo è ogni cosa ed è in tutti » (5). Queste sono sublimi cose, e sta in voi abbassarle e porgerle loro quando e come le possano ricevere; non tutte a principio, bensì divise in brani e particelle adattate. Dal conoscere che non è nostra cotesta dottrina, nè tolta dalla terra, ma che essa è di Cristo e dal cielo discesa, ne viene, che dobbiate essere esatta assai nelle parole, ritenendo le sicure della cattolica fede, senza volere dar loro troppo sottili dilucidazioni di propria mente; e in quanto a' precetti morali, non esagerare mai nè in più nè in meno, per non produrre de' falsi giudizi sulla gravità de' peccati; appresso risecare tutto quello che è controverso; non potendo voi asserire di esso con sicurezza che sia di Cristo. [...OMISSIS...] Il quale Spirito Santo, che solo può custodire in noi con ogni sicurezza questo prezioso deposito, e colla vita e collo zelo e col cuore e colla bocca chiamare lo deve il cristiano maestro ad abitare dentro di sè. Dopo aver poi mostrata a queste, che chiamerò figliuoline vostre in Cristo, l' altissima preziosità di quella dottrina, e la bellezza singolarissima, e finalmente la bontà infinita, sono da destare in esse sensi di gratitudine verso un Dio sì buono: buono non solo per aver egli rivelata e portata agli uomini tanta ricchezza, ma sì ancora per aver avuto special cura di esse, senza padre e senza madre com' erano, e raccoltele in luogo dove possano a tutto lor agio e con frequenza sentire e mettere in pratica sì preziose verità, salvandole dall' avversario di tutte l' anime. Indi quella casa ove abitano la farete loro riguardare come casa di Dio, dove egli quasi padre di famiglia apre loro scuola di paterne istruzioni, e facile arringo di sante virtù. E se il « poter udire e custodire la divina parola è più beata cosa che lo stesso esser madre di Dio », come insegnò Gesù (2), e se esse hanno ricevuto questo immenso beneficio d' udirla, si guardino dal non volerla, a malgrado di ciò, custodire: il che sarebbe loro maggiore condanna. Tornate spesso sopra il divino beneficio dell' averle raccolte e provvedute; [...OMISSIS...] . Ora in fine so, che dovrete abbassarvi a quelle menticine tenere ancora, e a cui propriamente è mestieri mollificare e tritare il cibo cominciando da' primissimi rudimenti, e facendo loro apprenderli prima quasi per consuetudine di memoria che non sia per chiara intelligenza: e so altresì che tal cosa riesce faticosa e importuna. Ma l' amore di Cristo rende questo abbassamento lievissimo e dilettosissimo. Oh! non dee per avventura bastare a un cristiano l' esempio del suo Signore, che « s' impicciolì tanto con tutti noi »? [...OMISSIS...] E santo Agostino nell' aureo libro sovraccennato del « Catechizzare i rozzi » di ciò ne conforta meravigliosamente col cap. X. Ma chi ama Cristo, e tien presente il modello, non ha bisogno d' altro conforto. Parrebbe addomandare la natura di questo mio discorso, che vi delineassi la forma e l' ordine delle dottrine, che dovete fare alle fanciulle vostre. Ma poichè il pregio di questa forma e di quest' ordine consiste, come ho accennato, nel non rimuoversi dalle vestigia dei « Santi, a' quali fu data la fede sola una volta » (2): avete già alle mani que' quattro capi, cioè il Simbolo Apostolico , i Sacramenti , il Decalogo , e l' Orazione del Signore , ai quali da' nostri padri fu ridotto il cattolico insegnamento. Questi adunque porgono il filo del ragionare, questi i confini, questi il richiamo e la ricapitolazione di tutte le cose che insegnerete. Perciocchè qualunque cosa insegniate, dovete sempre ritornare a quelli. E quanto allo svolgimento di tali dottrine, siamo provveduti del « Catechismo Romano », opera messa insieme da varii dotti nel secolo XVI per decreto del sacro Concilio di Trento, e approvato da' Sommi Pontefici. Tale opera fatta pe' parrochi, non si può veramente dare in mano di fanciulle. Se dunque chiedete come fare a stemperar loro questo cibo, rispondo doversi premettere innanzi tratto la meditazione della dottrina. Vi bisogna poi conoscere la capacità dell' intelletto delle vostre discepole, l' indole, quai cose influiscano a tenerle più raccolte, quali lor facciano impressione maggiore, come debbano concepirsi le cose, e apparecchiarle acciocchè siano meglio accolte. In somma studiare le varie forme degli animi con diligenza, ciò che insegna anche il Romano Catechismo a' parrochi (1). Appresso raccoglietevi, e invocate il Santo Spirito, purificate l' intenzione, protestate dinanzi a Dio che non volete insegnare errore, e che qualunque v' uscisse di bocca ignorandolo, tale il rigettate, nè all' onor vostro pensare, ma a profitto di chi vi ascolta. Masticando poi fra voi quelle dottrine, anzi pure dirò così ruminandole, le faciliterete, apparecchierete espressioni e parole proprie, naturali ed atte a loro istillarle. Pe' libri avete quelli che il vostro Vescovo approvò nella diocesi, e dà in mano ai catechisti suoi, come anche giovarvi potrete delle dichiarazioni vocali del vostro Parroco, che sarà bene con diligenza seguire. Solo due cose aggiungerò ancora al capitolo. La prima che l' istruzione sì del dogma che della morale sia intessuta colla Storia Sacra, e su questa io direi, usando una similitudine tolta ai lavori donneschi, come su tela distesa si rilevi il dogma e i precetti della vita quasi ricamo. Conciossachè quanto creder si deve consiste principalmente in due uomini, che sono Adamo e Gesù Cristo, e per questa maniera si vede la grande unità e continuità della religione cristiana come in quadro meraviglioso risplendere nella Chiesa di Cristo, da Adamo venuta insino a noi invitta e immacolata. Per questi sacri racconti più salde si figgono nelle menti singolarmente de' fanciulli le rivelate verità, più dolci vanno al cuore, e si fanno non meno regola che pungolo ed eccitamento alle virtuose operazioni. Colla storia si fu che i primi padri mandarono ne' figliuoli il dogma e la morale prima ancora che fosse scritta la legge. Onde il Signore, determinato d' incenerire la Pentapoli, giudicò di fare che Abramo il conoscesse: [...OMISSIS...] . Così ne' « Proverbi » e ne' « Salmi » quanto e come spesso non si raccomandano a' padri questi racconti e queste tradizioni! Quando poi Dio volle che 'l suo popolo avesse legge scritta, che fece egli, se non ordinare a Mosè il « Pentateuco », dove è appunto alla legge la storia congiunta? Su queste vestigie de' primi Santi della Chiesa, anzi di Dio stesso, tanto essendo avvenuto per suo comando, camminarono anco i primi maestri della legge di grazia nelle loro istruzioni, come facile è di vedere sia ne' quattro libri dell' Evangelio, sia negli « Atti Apostolici », nelle « Apostoliche Epistole », ne' « Sermoni » e « Omelie » dei santi Padri, ne' lor « Catechismi », che alcuni n' abbiamo pe' catecumeni, e nelle cinque « Catechesi di S. Cirillo a' battezzati »; singolarmente poi nel libro nominato avanti di sant' Agostino. L' altra cosa è il fine di tutto l' insegnamento, lo spirito e il frutto, a corre il quale volger si dee l' attenzione. [...OMISSIS...] Alla doppia carità adunque, fine e pienezza di tutte le Scritture (2), rivolgete e conducete continuo l' insegnamento. Che è poi questa carità? [...OMISSIS...] Tutto adunque se ne vada a questo, a farle amare la parola d' Iddio, a migliorar la vita, [...OMISSIS...] . L' Apostolo Paolo nel capitolo XII della sua maravigliosa « Lettera a' Romani » insegna anch' egli il gran conto che far si deve della cognizione. Poichè da prima con breve tocco, ma da insigne maestro, effigia la vita cristiana, dicendola un' ostia de' nostri corpi: e dopo distinta co' suoi caratteri di vivente, santa, gradevole a Dio , all' ultimo egli l' appella altresì ragionevole ossequio: riassumendo, io mi credo, e quasi ricapitolando in questa sola nota qualunque cosa, che o di lei disse o dir si potrebbe. Conciossiachè riconosce l' Apostolo nella ragionevolezza quasi un fonte, da cui tutti i pregi a quell' ostia si derivano, come maggiormente apparisce da quanto segue: [...OMISSIS...] . Chi ha dunque rinnovellata colla grazia la propria intelligenza ha riformato se stesso. Nella mente dunque, nel senno della intelligenza sta il vivo fonte della vita cristiana. Ed eccovi, ond' egli è che viene incontanente S. Paolo a dettar regole intorno al sapere: [...OMISSIS...] . Di gran senso è l' uso di quella voce traslata di sobrietà , virtù che regola l' uomo circa gli alimenti. Paragona il sapere all' alimento, e di qui mostrane l' eccellenza. Dacchè sì come l' alimento conserva la vita, la sanità, la robustezza ed ogni pregio al corpo, così simigliantemente fa la dottrina all' anima. Ma nel tempo stesso, che intendo di conciliare a questa parte, in cui tratto dell' istruzione cristiana più sublime, l' animo vostro, mi conviene così guarentir l' opuscolo, e per così dire assieparlo, che non vi entri non pure errore, ma nè anche pericol d' errore, acciocchè voi favorevolmente disposta nè a quello aderiate, nè in questo corriate rischio. Al che opportune mi occorrono le parole di S. Paolo: « non sapere più là, che sia opportuno sapere, ma sapere a sobrietà ». La sobrietà insegna di nutrirsi de' cibi quanto è mestieri al corpo. A ciò ottenere si vuole in prima risguardare alla qualità del cibo, di poi al masticarlo, e finalmente al digerirlo sì, che in succhi salubri si tramuti. Quanto allo sceglierlo ed apparecchiarlo non ogni genere di animali si nutre dello stesso cibo, nè ogni animale lo vuole per egual modo disposto. Perciò nuovamente è da vedere la natura di quello, a cui esso si dà, e s' appresta. Ora la natura delle vostre fanciulle è primieramente di esser cristiane, appresso membri della Chiesa discente, non già della docente, di essere donne a cui si conviene meditare in silenzio sull' esempio di Maria quanto è loro insegnato, di esser fanciulle, e di condizione bassa, persone che faranno forse poi servigio nelle famiglie signorili, o prenderanno il velo in qualche monistero, ovvero farannosi madri di famiglia in povere case. Come a cristiane dite loro che se « avranno fame e sete della scienza della salute, ne saranno altresì satollate » (1). Facciano prima ogni cosa per assaporare quella sapienza, e nutricarsene; di poi non vogliano sapere altro, e principalmente sprezzino tutto quello, che a questo è contrario. Col primo di questi insegnamenti stillate in esse la virtù della docilità , per la quale l' uomo si apre a comprendere quanto di vero, di buono, e di bello vede od ascolta. Col secondo sradicate il pernicioso vizio della curiosità circa quelle cose, che non edificano. Quanto è fuori o della fede, o della carità è bello di ignorare al Cristiano. Così S. Cipriano dicea in certa lettera ad Antoniano: [...OMISSIS...] . E ben vi dico che i primi nostri padri col fresco precetto di Cristo (2) e degli Apostoli (3) non solo poco conto faceano di una dottrina che di Cristo non fosse, nè si curavano punto d' apprenderla, ma fin anzi di non apprenderla si curavano moltissimo, e si sequestravano da quelli, che o insegnavano errori colla bocca, o colla vita li professavano. Vi sia dunque frequente sulle labbra quella sublime preghiera del reale Profeta. « Rivolgi gli occhi miei, perchè non veggano la vanità . » Egli non volea nè pure vederla. Questa è quella grande virtù della Semplicità , che solo tiene fitti gli occhi nel bene, e lo fa senza nè anche dare al male uno sguardo. Come poi non debbono amare di saper nulla di quanto è fuori della fede e della carità, così quello che non intendono di quanto è dentro non deve turbarle. Ma cessando dalla inquieta sollecitudine d' intendere alcuna cosa difficile, con tutta pace la meditino meglio, e, non riuscendo a ottenerne chiara conoscenza, pongan giù l' ardore di saperla con eguale contentezza, facendone sacrifizio a Cristo, a cui ogni ragione si deve sottomettere, anco traendo di là argomento di umiliarglisi dinanzi, e confessare la propria meschinità. [...OMISSIS...] Voi dovete dunque scerre questo cibo come più loro giova. La regola è in S. Paolo subito appresso alle parole allegate. [...OMISSIS...] E in vero se insegnerete loro cosa sopra il lume della loro fede, o non trarranno profitto non capendo l' istruzione nella lor mente, o ricaveranno svantaggio, volendo pure intendersela col lume naturale, e perciò capendola male o angosciandosi per accorgersi di non capirla. Oltracciò segue Paolo a mostrare come ciascun cristiano occupa nella Chiesa posto ed uffizio diverso, essendo i vari membri a varie funzioni destinati. Secondo le funzioni Dio dà la fede, e secondo queste funzioni fa bisogno la dottrina. Or voi sapete chi sieno, di qual tempra, e a che destinate le vostri giovani donzelle. Sapete dunque anche come scerre lo spirituale nudrimento. Ben è vero che non pigliasi talora crudo quel cibo, che cotto e ben condito utilmente si mangia. A voi dunque sta di farne la più acconcia preparazione: ma di ciò è abbastanza. Per quello che fa al masticare, codesto cibo dell' intelletto è come del corporeo. In bocca si fa la prima digestione. Ciò vuol dire, che come vedemmo Ezechiello sentir dolce quel volume anche dopo averlo mangiato (2), quasi la dolcezza sua in bocca gli ritornasse; così avvezzar si debbono le fanciulle a far riflessione a tutto quello che havvi nella sacra dottrina da voi loro spiegata, non sopra svolazzandovi coll' ingegno senza posare in alcun luogo. Rendetele d' uno spirito sodo e riflessivo, non tenue e leggero. « Nella mia meditazione il fuoco si rinfiamma », havvi nella Scrittura (3), e il fuoco vuol dire l' amor di Dio. Nè intendo già, che le costringiate a meditazione lunga e sforzata in ore fisse. Ciò sarebbe loro gravoso, arido, intollerabile, poichè nè per l' età, nè pel sesso hanno bastevol forza di raccorsi e di lavorare colla mente in punti assegnati. La meditazione prescritta dunque sia breve: ma quel ch' io bramo si è un abito di riflettere naturalmente sopra di tutto, e quindi un meditare sempre senza gravezza. Finalmente il cibo vuole esser ben digerito. Questa è la cosa che più rileva. Questo dà la misura vera di esso cibo. Tanto se ne mangi, quanto si ha forza di convertirlo in nutrizione. Or che è questa forza? Quella carità di cui è detto al fine del capitolo precedente. Ella fa, che il cibo che mangiasi non vada a male, ma sia di quello, di cui Cristo dicea: « Procacciatevi non quel cibo che perisce, sì quello che fino alla eterna vita permane » (4). Dico la carità di Dio, e del prossimo. Quanto alla prima Paolo, vaso d' elezione, rapito al terzo cielo, uditore d' arcane parole che uomo non può favellare, diceva ai Corinti: [...OMISSIS...] . Tali cose adunque menino a Cristo, ad esso crocifisso; in esse si pensi a lui. Tutte quelle cose pertanto, nelle quali Cristo non si trova, sono quelle di cui leggesi nell' Ecclesiastico: « Non volere lambiccarti il cervello in cose superflue » (3). Ora tornate a leggere il passo dell' Apostolo, e vedete quale umiltà operi nell' uomo l' amore di Dio, mercè del quale la scienza « non gonfia ma edifica ». Quanto poi all' amor del prossimo dice novellamente il Dottor de' gentili: [...OMISSIS...] . E in questo capo intero vi porge Paolo la scienza come sorgente di tutte le virtù, e tutte le virtù trae fuori quasi a farle corteggio. Quando adunque innanzi ci diede a misura della scienza la fede , parlò di una fede che « opera per mezzo della carità » (5). Ma in questo passo, che ultimamente ho citato del cap. XII della lettera ai Romani, voi scorgerete singolarmente la carità del prossimo nella umiltà riposta, e quindi vedrete come la duplice carità non solo renda operativa la scienza a gloria d' Iddio e a vantaggio dell' uomo, ma contenga altresì l' antidoto contro al veleno, che essa scienza suol mandar fuori occultamente a danno nostro: e quindi come la scienza sceverata da ogni pernicioso elemento, per mezzo di sola la carità torni utilissima. Adunque date alle vostre zitelle tanta scienza e non più quanta vedete che hanno forza da ben digerirla, o sia da cangiarla nel salutevolissimo nudrimento dell' anima. Fermate le regole della moderazione nell' insegnamento, richiedesi, che delle cose stesse da insegnare diciamo alcun poco sopra quelle di stretta necessità; e ciò così in generale, che abbiasi onde assumere, come da serbatoio di varie cose, quanto a' particolari usi viene bisognevole. E per aver un filo, che sicuri ci conduca e ci scorga in tanta ampiezza di dottrina, e diversità di vie, caviamo qualche picciolo brano della « Scrittura », libro a tutti i bisogni, e fontana inesauribile d' acque salutari. E sia il luogo da noi scelto il cominciamento del capo quarto della lettera, che scrisse Paolo dalle carceri romane alla Chiesa di Efeso, capitale dell' Asia Minore, cominciando dal primo fino al sedicesimo versicolo di quel capo. Parmi acconcio questo luogo, come quello, in cui si dà la nozione ben fondata e chiara della Chiesa di Cristo, di cui siamo membri. Ed ho fermamente l' avviso, che il conoscere bene addentro questo nostro stato, sia il nerbo di tutta la cristiana istruzione. Oh! quanto poco si sente la dignità e la vera dolcezza della nostra professione! Noi cristiani siamo di presente come a dire sparpagliati, e gli uni scuciti dagli altri: perciò non sentiamo bastevolmente qual forza ci lega e aduna insieme, e ci dovrebbe formare una cosa sola per lo scambievole amore. Quando i fedeli colà ne' tempi primi e felicissimi erano più pochi e ferventi, in un solido corpo fra di loro si sentivano fortemente compaginati, e raggiunti in un sol corpo, nelle membra armonioso, e avente un capo solo, ed un medesimo spirito! Oh consensione ammirabile che quella era di volontà! oh armonia soave di funzioni! oh carità e pace invidiabile di cuori! A quella prima immagine perciò della Chiesa di GESU` Cristo noi dobbiamo tenere l' occhio ben fermo, e operarla in noi stessi. A questo di certo è necessario richiamare i fedeli, come faceano gli Apostoli e i più grandi padri, a considerare continuo quali essi sieno fatti dalla redenzione di GESU`, e per quale porta entrati in questa santa città o regno di Cristo, o mistico corpo di lui. Porrò adunque da prima le parole dell' Apostolo, e poi verrò estendendo un cotal picciolo commentario di quelle; acciocchè voi vi abbiate un esempio del come possiate bellamente introdurre le vostre discepole alle nobili dottrine della fede, mediante il legger loro e lo spiegare acconciamente, in sulle vestigie dei santi maestri, i luoghi più opportuni delle divine Scritture. Questo studio egli è quasi abbandonato dalle nostre cristiane, ma nei secoli più fioriti le donne fedeli leggevano i divini oracoli colle spiegazioni che ne avean date i Vescovi, i quali soleano pubblicare in libri le spiegazioni dette al popolo acciocchè più largamente giovassero. Or voi perita nella lingua latina e di ogni buona erudizione fornita, egregiamente fate ad imitare le Eustochio e le Paole; e voglia il Cielo che altre ed altre vi vengano dietro; acciocchè il popol santo ritorni, come già fu, illuminato e fervente. Or le parole dell' Apostolo sono le seguenti. [...OMISSIS...] Letto dunque questo brano dell' Apostolo, voi prenderete a dichiararlo. Io raccorrò qui solo alcune delle cose, che potreste opportunamente trar fuori in simiglianti istruzioni, e a distinzione maggiore le compartirò in alcuni articoli. « « Io dunque, che sono ne' ceppi, vi scongiuro nel Signore, che camminiate degnamente in quella vocazione , onde siete stati chiamati ». » Nella parola di vocazione , se bene considerate, si ricapitola in certo modo tutto il mistero dell' umana salute sposto innanzi da Paolo nel capitolo secondo della lettera stessa, a cui qui riferisce. Date le nozioni della Chiesa di Cristo, e dichiarato com' essa cominciasse in Adamo penitente, e seguisse in sino a noi dividendosi a mano a mano in tre gran parti, cioè nella Chiesa Militante, nella Purgante, e nella Trionfante, e qui messo in vista l' ammirabile corpo, che tutte e tre compongono insieme, è a trattenersi precipuamente sulla Militante come il principio, da cui quell' altre due si staccarono, crescendo alla perfetta loro grandezza. Dirassi di questa, che il pregio e la beltà sua non istà tanto nel numero de' suoi membri, quanto nella eccellenza che trae origine da Cristo: e come, sia ella o non sia numerosa, Cristo tuttavia sposo di lei amorosissimo dispone in suo bene, e per suo amore tutte l' altre cose di questo mondo. Appare questa bellissima verità dallo scarso numero de' giusti dalla creazione insino al diluvio, al tempo del quale la sola famiglia di Noè salvata dall' acque formava forse la Chiesa di GESU` Cristo: a' quali giusti però servivano tutti i tristi, esercitando la loro pazienza, e mettendo a tutte prove la loro virtù, che in tal modo cresceva, e più meritava. Appresso tornarono a corrompersi gli uomini insieme con quasi tutta la loro propagazione fino che il Verbo si chiamò Abramo dalla Caldea, e in tutto il mondo, adoratore degli idoli e schiavo de' demoni, scelse quella famiglia a sua Chiesa ed a suo peculiare dominio, e con essa come e' fosse un altro uomo (vedete già fino d' allora immagine del Cristo venturo!) patteggiare, e nominarla la « funicella della sua eredità » (1). A questa generazione singolarmente si fecero vedere i prodigi di sua onnipotenza e misericordia, fur mandati profeti continui, consegnate nelle mani di lei le promesse d' un Redentore. Ma i figliuoli di que' Patriarchi erano anche essi razza umana immalvagita nella radice. Si mostrarono dunque ciechi, ingrati, di dura cervice, di cuori incirconcisi secondo l' espressione della Scrittura, nè si arresero agli infiniti benefizi di Dio, anzi nè i portenti gli scossero se non momentaneamente, e i profeti accolsero con mal piglio, battendoli, lapidandoli, ed uccidendoli; e finalmente lo stesso figliuolo dell' eterno padre, il Redentore del mondo, lo disconobbero, oltraggiarono, e confissero in croce. Quindi il misterio del gran ripudio della Nazione Ebraica, a compimento degli oracoli profetici, e la gran VOCAZIONE delle genti alla salute dell' Evangelio. Ecco di che vocazione parla S. Paolo. « Per la qual cosa », aveva già detto innanzi (2), « ricordevoli siate », o Efesini, « che voi un tempo eravate gentili, e secondo l' origine carnale detti incirconcisi » per contumelia « da quelli che circoncisi s' appellano secondo la carne per la manofatta circoncisione », pegno della predilezione di Dio. « Voi eravate in quel tempo senza Cristo, alieni dal consorzio d' Israello », cioè dalla famiglia prescelta, « e ospiti de' testamenti », perchè solo come ospiti potevate essere ricevuti nella ebraica chiesa essendo il patto di Dio stretto colla stirpe sola d' Abramo, « senza la speranza della promessa del Salvatore », consegnata a' Patriarchi, « e senza Dio in questo mondo », avendone smarrita la traccia. « Ma adesso in Gesù Cristo siete fatti da presso, voi che una volta stavate da lungi, in virtù del sangue di Cristo. Perciocchè egli è nostra pace e unione che delle due cose n' ha fatta una », cioè dei gentili e de' giudei convertiti al Vangelo, « dissolvendo la muraglia di mezzo », la divisione, che fra gli Ebrei eletti da Dio, in peculiar suo popolo, e i Gentili lasciati a se stessi vi aveva, rappresentata dalla parete, che nel tempio di Gerusalemme tenea dal luogo santissimo divisi i laici, e così distruggendo le inimicizie e le divisioni fra gli uomini assunte in quella sua carne , che diede in preda alla morte. Parole di profondi sensi ripiene! Ma con questi sensi soli si può fare acconcia spiegazione di quella vocazione , di cui parla Paolo in questo luogo, mostrandola primieramente infinito beneficio, e doppiamente, se si può dire, gratuito, non essendo noi tutti della nazione eletta, ma delle perdute. « Edificati adunque sopra il fondamento degli Apostoli e dei Profeti, pietra maestra e angolare essendo lo stesso Gesù Cristo » (1), la nostra vocazione è questa, d' innalzarci sopra sì ferma pietra in tempio santo del Signore, e di non infrangerci e spiccarci da questo edificio nobilissimo e divinissimo. Per questo Paolo dopo aver detto, che dobbiamo camminare nella nostra vocazione, la quale ci chiama ad essere tempio vivo d' Iddio, ce ne viene insegnando il modo colle surriferite parole. Colle quali l' Apostolo primieramente esclude da noi la superbia , dacchè com' è scritto ne' Proverbi (2): « fra superbi v' hanno sempre delle altercazioni »; e pone ogni umiltà, cioè sì l' interna come l' esterna. Appresso ne caccia l' ira , di cui si dice ne' Proverbi (3): « L' uomo iracondo provoca risse », e chiama in suo luogo la mansuetudine mitigatrice delle brighe e serbatrice della pace; ancora allontana l' impazienza , che se non si vendica come l' ira, mostra però vista di partire lamentandosi all' altrui vessazioni, ed avvicina la pazienza , che secondo l' Apostolo S. Giacomo « fa l' opera perfetta » (4); per ultimo poi spurga lo « zelo inordinato ». Conciossiachè nè per superbia, nè per ira, nè per impazienza solamente, ma nè anche per inconsiderato fervore e zelo si può romper la pace. Per questo aggiunge: « sopportandovi gli uni gli altri nella carità », attendendo l' ora ed il luogo opportuno da fare avvertito il fratello de' falli; e quanto a certi difettuzzi, di cui non si corregge (perciocchè qual uomo arriva a torseli tutti?), sopportandosi scambievolmente con vera carità ed indulgenza. Tolti via questi quattro vizi, e introdotte le opposte virtù, e tutto ciò coll' occhio rivolto all' unità degli uomini, che ne è il fine, « solleciti », così dice l' Apostolo, « di conservar l' unità dello spirito », sorgerà da ciò quella beata pace, che come dolce legame vincolerà tutti i cuori, e come un legame solo, perciocchè è pace della stessa specie in tutti, cioè in tutti una partecipazione di quella di GESU`, che sorpassa ogni senso. Questo vincolo solo della pace avvera quell' unica vocazione, nella quale siamo chiamati da Dio: sebbene quaggiù di tale pace altro che un cotal saggio non possa esserne fatto quasi a fior di labbra, ed è in cielo che l' uomo se ne pasce a ribocco. Ora questa VOCAZIONE UNICA, questa PACE Cristo addomandò per noi all' eterno Padre [...OMISSIS...] . Per mezzo adunque di queste virtù dall' Apostolo annoverate, e di questa pace, che da esse stilla per così dire qual mele e come olio odoroso dilata per tutto la fragranza sua, è fatta e vien mantenuta la unione delle membra fra loro, e coll' unico spirito che le avviva. Quindi l' Apostolo segue immediatamente a descrivere questa doppia unione colle riferite parole: « Un solo corpo e un solo spirito sì come chiamati siete in una sola speranza della vostra vocazione ». Ma non si possono esercitare rettamente quegli atti di virtù fra le membra, nè si possono ordinare all' abbondanza della vita o sia all' unità dello spirito, se non si conosce in che esse membra fra di loro sono differenti, e in che si convengono. Conciossiachè è proprio delle unità formate di diverse parti, che queste parti abbiano alcune cose comuni fra di loro, e alcune cose proprie. Perciò l' Apostolo trapassa quindi a descrivere ciò che vi ha di comune in questo corpo della Chiesa, e ciò che vi ha di proprio. Quanto a quello che v' ha di comune dice così: Un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio e Padre di tutti, che è sopra di tutti, e fra tutte le cose, e in tutti noi . Di fatti in un corpo, perchè vi sia unità e perfetta armonia, abbisognano tre cose. Primieramente, che egli abbia uno stesso capo; appresso che le membra sieno tutte al capo incorporate; infine poi che le operazioni di questo corpo non si distruggano le une coll' altre, ma anzi sieno indirizzate ad un solo fine , la perfezione del corpo stesso. Ora l' unità del capo viene espressa dall' Apostolo con dire un solo Signore . E questo nostro Signore, come spiega egli stesso nella prima a' Corinti, è GESU` - « E il solo Signor nostro Gesù Cristo » (1) è veramente il capo , come dice di sotto al vers. 15. Veniamo poi a Cristo incorporati e congiunti per l' abito della fede, che è pure unica in tutti, e questo insieme coll' abito delle altre virtù il riceviamo dentro a noi nel cristiano battesimo: pure unico; poichè da un solo istituito, da un solo avvalorato, in nome di un solo Dio conferito. Che se avessimo senza il battesimo la fede, questa, unita che fosse al proposito del battesimo, a Cristo ci incorporerebbe, per dir così, mentalmente, o, a esprimermi meglio, ci farebbe accostare e disporre alla vera incorporazione che pel battesimo si fa. Il battesimo adunque sia reale, o, ne' casi estremi, di desiderio, rigenera l' uomo, e dà a lui la vita spirituale; e di questa vita nuova Paolo diceva a' Galati: « E vivo non già io, ma vive in me Cristo; e la vita che io vivo nella carne, la vivo nella fede del figliuolo di Dio ». Adunque e la fede ed il battesimo sono di necessità per esser l' uomo raggiunto con questo capo. All' adulto la fede prima del battesimo, al bambino il battesimo prima della fede. All' adulto anche l' atto della fede, al bambino l' abito solamente. Senza l' atto della fede l' adulto non trae dal battesimo il vantaggio della salute, perchè non esercita le opere della vita. Per mezzo poi della fede ricevuta dalla grazia del battesimo si principia in noi, come dice S. Tommaso, « la vita eterna » (2), quella vita eterna, che si termina e perfeziona colla gran fruizione di Dio. Tale è la perfezione ultima del mistico corpo, di cui parliamo, tale il fine delle sue operazioni, la terza cosa che a questo corpo dona unità. Quindi Paolo la soggiunge dicendo: « Un solo Dio e padre di tutti, che è sopra tutti, e fra tutte cose, e in tutti noi ». Adombrano chiaramente queste parole la Trinità, perciocchè « essere sopra di tutti » è proprio del Padre, fontale principio delle altre due persone a cui compete stare sopra tutto; « essere fra tutte le cose » è proprio del Figliuolo, cioè della sapienza, che « tocca da un' estremità all' altra con possanza » (3); e « stare in tutti noi » dello Spirito Santo, di cui noi siamo templi (4). E dice innanzi tratto Dio , per indicarci questi fare la nostra beatitudine infinita ed unica, di conserva a cui facciamo cammino seguendo la voce che ne chiama; e appresso padre , per confortarci, avvisandoci, che colui, che acquieta i desiderŒ nostri col beato godere, è quegli stesso che ci ama con paterno affetto, e a sè ci scorge; anzi dice padre di tutti , cioè tanto di Cristo come di noi, tanto del capo come delle membra, acciocchè riconosciamo l' amore, che ci vuole mercè del nostro capo, e i doni che dobbiamo aspettare di ricevere da Cristo unigenito figliuol suo come Dio, e primogenito come uomo. Voi dovete fermarvi assai, secondo l' uopo, su questi tre vincoli della cattolica società, mostrando la infinita nobiltà che le viene dal suo principio, dallo scopo a cui tende, e dalla abbondante vita che ne consegue. Dopo avere l' Apostolo noverate le giunture, che uniscono le membra in un solo tutto, e fatto vedere come questa unità sia stretta ed intima; annovera le proprietà che distinguono i membri l' uno dall' altro. Esse sono formate dalle varietà della grazia; la quale parte, come abbiamo detto, da unico principio, da Cristo, fu il primo passo dentro a noi col Battesimo e colla Fede, e termina coll' unione di Dio in cielo. E` sempre quella stessa grazia; ma formalmente variata nella misura e materialmente anche nelle operazioni che ha per oggetto. Quindi prosegue Paolo: « Ma a ciascheduno di noi è stata data la grazia, secondo la misura della donazione di Cristo ». Mostra qui la varietà delle membra dalla diversa abbondanza di vita che ricevono dal capo. Di qui si vede come giovò di premettere quanto a tutte le membra è comune anche a mettere in chiaro come ciascun membro è diverso. L' Apostolo adunque vuole, che questo modo, onde tutti i membri sono uniti in un corpo col capo, ed onde ciascuno è distinto, ben si consideri. Poichè venendo tutto da Cristo in gratuito dono, nessuno ha ragione nè d' insuperbire se assai possede, nè di lamentare, o invidiare altrui se possede poco; e questa è grande ragione di stare umili, mansueti, pazienti, sopportatori degli altrui difetti, che sono le quattro virtù innanzi proposte. E maggiormente segue a mettere in chiaro i motivi, che le persuadono. Egli soggiunge: « secondo la donazione di Cristo ». E appresso: « Per la qual cosa dice il Salmo (1): Asceso in alto ne menò schiava la schiavitù, distribuì doni agli uomini. Ma che è quell' ascese, se non che prima anche discese alle parti infime della terra? Colui che discese è quegli stesso che ascese sopra di tutti i cieli per empiere tutte le cose ». Colle quali parole recando un testo di Davide, spiega onde traesse Cristo per noi tali doni. A voi è noto, dice l' Apostolo, come non potete essere regalati di doni spirituali se non da Dio. Cristo dunque, che ve li regalò, è Dio. Come adunque se è Dio, Davide dice che ascese? Vuol dire che prima discese, perchè Iddio altrimenti non poteva ascendere. Ma come poteva Iddio discendere? Apparentemente, o a meglio dire, quanto all' esteriore maestà, congiungendo a sè l' uomo intimamente, e così scendendo « per un poco di tempo di sotto agli angeli » (1). Di più, quest' Uomo reso insieme Dio mediante l' unione permanente del Verbo, è propriamente e realmente quegli che s' è umiliato. Competeva, alla sua natura, che per se stessa contiene un bene morale infinito perchè connessa col Verbo, infinita santità, infinita gloria; competeva, dico, non un posto sulla terra, ma nel più alto de' cieli sopra tutti gli angeli. Si può dire adunque che questo Uomo Dio nascendo in terra siasi umiliato infinitamente; ma di più, egli volle tenere quaggiù figura e aspetto presso il mondo « dell' ultimo fra gli uomini » (2). Nè contento d' essere abbassato di sotto a tutti col patibolo della croce, scese nel sepolcro, e fino a' luoghi inferiori; di dove ne cavò l' anime giuste dell' Antico Testamento dentro a quel luogo prigioniere. In questa maniera, dice Davide, secondo la lettera ebraica, « ricevette doni per gli uomini ». Da chi li ricevette? Certo da quello, che è Dio e padre di tutti, e di lui primieramente è Dio come Uomo, e Padre come Dio. Ma Paolo invece di riportare la lettera ebraica tradusse « ha dati doni agli uomini », come hanno varie versioni. E conveniva però meglio all' Apostolo così riferire quel passo notissimo; chè il senso non viene cangiato, ma spiegato all' uopo; mostrando in un solo tratto e la profezia e lo avveramento di quella. Chè di fatti al tempo di Paolo avea già il Verbo distribuiti questi doni ricevuti per gli uomini. Ma come mai bisogno aveva il Verbo di ricevere doni? Avea bisogno: non per sè, che come Dio aveva tutto dal Padre per necessità di natura, e come uomo per necessità di merito o sia di perfezione di volontà mediante l' unione; se pure fra questi doni non si conti l' unione medesima. La necessità di ricevere doni o grazie era per gli uomini, che niente meritavano; e ciò vuol dire di ricevere facoltà di distribuire i doni. Ma come non aveva egli tale facoltà? Egli sarebbe stato contro la giustizia divina il felicitare quell' uomo, che meritava infelicità sempiterna. Era l' uomo inimico di Dio, schiavo del demonio; come dunque regalarlo? Che fece pertanto il Verbo? « Ascese in alto », risponde il Profeta, « menò schiava la schiavitù ». Ci narra il suo trionfo, a detta di Paolo, per farci intendere la sua battaglia. Perciocchè l' Apostolo così argomentò: « Che è quell' ascese, se non che prima discese nelle parti più infime della terra? » Coll' umiliazione adunque Cristo guadagnò il trionfo per se stesso, cioè l' ascensione sopra tutti i cieli, e menò seco schiava la captività. Dove notate, che non dice i captivi , ma la captività; indicando in questo modo, che ancor più fece di quello che abbisognava, e più conquistò di che fosse necessario conquistare in terra. Chè aver menata seco la captività captiva viene a dire, che non solo non vi ha oggimai più alcuno prigione che non possa liberarsi, ma che nè pure vi potrebbe essere. Così quella parola captività indica un valore ed una conquista infinita; poichè per quanti fossero peccati e delitti, poniamo numero infinito, ancora nessun uomo potrebbe di necessità esser prigione, mentre fino la possibilità d' una necessaria prigionia, la prigionia stessa condusse via dal mondo. Ma considerate insieme altra conseguenza che qui se n' esce, cioè che se anche gli uomini tutti si dannassero, ancora Cristo avrebbe menata schiava la captività , vale a dire, avrebbe fatta quell' opera infinita. Poichè dice la captività , non i captivi . Cattività vale lo stesso che esser gli uomini nelle mani del demonio, in modo che non solo alcuno non uscisse, ma nè pure uscirne potesse. Per il che in quello stato di cose non potea Cristo distribuir doni. Cristo poi fece, che tutti si potessero salvare. L' opera dunque di Cristo è infinita, e la salvazione degli uomini particolari è altra opera, che non tocca la infinità di quella prima, e rispetto a quella è come un accidente. Condotta dunque schiava la schiavitù , cioè data all' uomo coll' amicizia dalla parte d' Iddio la possibilità di salvarsi; possiede Cristo la facoltà di distribuire i doni suoi, cioè la salute stessa, in varia abbondanza. Francato dunque da questa schiavitù infernale, da questa necessaria dannazione, per un tratto d' infinito amor gratuito di Cristo, e pel trionfo di lui sopra l' inferno venuto in sua mano il cuore dell' uomo; nel solo arbitrio di Cristo ora è riposto di eleggere uomini a salvamento. Può Cristo distribuire tali doni a sua volontà, avendo fatto per avere questa facoltà quello che fece. E` però certo che egli ne distribuisce in copia secondo il pietoso eterno decreto di suo Padre. Anzi l' Apostolo dice francamente: « Diede doni agli uomini ». O Efesini, voi stessi il vedete continuamente; là dove Davidde nel tempo primo non volle dire di più se non che « ha ricevuto dei doni per gli uomini », o sia il potere di compartirne. Ne compartisce adunque, e ne compartisce secondo la grandezza del suo amor per gli uomini, secondo la bontà e tenerezza del suo cuore. Onde chi potrà diffidare di lui, se ama salvarsi? Peraltro considerate che questi sempre sono doni , cioè non cose dovute; e in primo luogo questi doni sono appunto i meriti. Per questa maniera « empiuto ha egli tutte le cose ». Dagli altissimi cieli fino alle parti più infime della terra ha riempiuto tutto della sua gloria; e ciò quanto al suo trionfo. Quanto poi alla salute umana, si può dire a ragione, che « la terra era inane e vota » (1), ed egli la illuminò, ordinò, abbellì, riempì di se stesso. Trionfò in somma conducendosi seco schiava la schiavitù; e salvò gli uomini distribuendo loro i suoi doni. Questi doni tutti sostanzialmente consistono nell' unica grazia, di cui parla Paolo. Chi n' ha più, chi n' ha meno secondo la misura della donazione di Cristo . Ma oltre distinguersi nella Chiesa cotesti gradi di grazia, che più tosto sono a Dio conosciuti che agli uomini, si distinguono ancora varii uffizi e dignità, a cui questi gradi sono ordinati. Doppiamente poi si ordina la grazia all' uffizio e dignità esteriore, che ciascuno tiene nella Chiesa, vale a dire, o dando ad ogni cristiano la possibilità di occupare acconciamente il suo posto, o largheggiando a lui non solo la possibilità di ciò fare, ma il fare stesso. Quella prima maniera di grazia, che sufficiente si può appellare, Cristo a tutti la dona; perciocchè, come l' Apostolo in altro luogo afferma, « Iddio dà colla tentazione il profitto a poterla sostenere » (2). Ma il fatto stesso dell' opera è tal grazia, che non a tutti è conceduta. Perciò Paolo a' Corinti (3) accenna « diversità di doni, diversità di ministeri, e diversità di operazioni ». Pei doni s' intendono le abilità a trattare bene il proprio ministero; per ministeri gl' incarichi a ciascuno affidati; e per operazioni il buon uso di quei doni, ordinato, mercè l' amore d' Iddio, al giusto eseguimento dei ministeri. Sola quest' ultima grazia, che diremo efficace , giova a santificar se medesimi; l' altre più tosto sono date all' altrui santificazione, e all' adornamento della Chiesa. Come poi per queste diverse misure di efficace grazia l' uomo fassi più o meno grato a Dio, viene composta in tal modo una mirabile ma invisibile gerarchia nella Chiesa, che nella sua miglior parte sta in cielo: così per quelle diverse abilità ed uffizi, che rendono rispettabile l' uomo agli uomini, si crea una gerarchia bellissima e visibile quaggiù in terra. Ora di cotesta visibile gerarchia, Paolo tocca i principali gradi dicendo: « Ed egli stesso altri diede apostoli, altri profeti, altri evangelisti, altri pastori e dottori ». A cui li diede? Agli uomini diede questi doni; e così parlando, mostra quello che testè osservavamo, essere tali ministeri non doni a chi li possiede, ma doni agli altri: vantaggiosi a coloro che da questi traggono la salute. Ora di tai ministeri andando sull' orma dell' Apostolo, si conviene considerare nella Chiesa in terra due ordini di dignità, una passeggiera e l' altra permanente. Quanto all' ordine passeggiero, novera S. Paolo i tre gradi di Apostoli, Profeti e Evangelisti. Tolte queste parole secondo le origini significano mandati, nunziatori del futuro, e nunziatori di buona novella . Ma parlando di una dignità della Chiesa s' intendono i mandati di Dio. [...OMISSIS...] Nella parola mandato poi non si dichiara nè limita autorità: quindi s' intendono sovente con questa voce i mandati per eccellenza, quelli che hanno ricevuta autorità maggiore: fra questi il primo è Cristo. Egli è chiamato nella Scrittura: « colui che dee esser mandato » (1). Nell' Antico Testamento fur mandati a dar la legge gli Angeli, Mosè ed Aronne. Paolo nella sublime lettera agli Ebrei dimostra peculiarmente che Cristo è superiore a que' tre ministri dell' Antico Testamento. Quanto a Mosè ed Aronne (poichè gli angeli non appartengono alla Chiesa che milita in terra), tutti e due erano mandati: « E mandai Mosè ed Aronne » (2). Ma come erano quelli mandati? Questa grande missione od apostolato racchiude tre uffici o dignità, cioè la dignità sacerdotale, la legislativa e la pastorale. Erano sacerdoti, onde nel Salmo XCVIII si dice: « Mosè ed Aronne suoi sacerdoti » (3). E quando Paolo scrivendo agli Ebrei, chiama Cristo « Apostolo e Pontefice della nostra confessione » (4), paragona bensì col titolo di Apostolo Cristo a Mosè, e col titolo di Pontefice ad Aronne, ma ciò è fatto prendendo il nome di Apostolo non in quel senso comune nel quale si dice tale anche Aronne, come vedemmo, ma in un senso di maggior dignità ed eccellenza. Poichè certo è che nel titolo di Apostolo dato a Mosè si comprendeva anche quello di Pontefice: distingue poi a chiarezza maggiore, e per torre ogni dubbio in sulla trascendente dignità di Cristo. Perciocchè recati in mezzo i tre ministri dell' antica legge, cioè gli Angeli, poi Mosè Apostolo, finalmente Aronne Pontefice: primo lo dimostra superiore senza confronto agli Angeli; e sebbene gli Angeli sieno superiori a Mosè, tuttavia lo vuole anche mostrare a Mosè superiore. Segue per ugual ragione a mostrarlo in ultimo anche superiore ad Aronne, sebbene Aronne sia minore di Mosè. Di fatti dice di Mosè, che « era servo fedele in tutta la casa di Dio », dipingendolo il maggiordomo o il fattore in tutta la casa con quel testimonio grandissimo tratto da' « Numeri » (1). In quest' aspetto generale considera adunque Mosè. Laonde quando appresso paragona Cristo ad Aronne, non fa altro che considerare Cristo superiore a lui nel peculiar incarico di Pontefice. Quello poi che Paolo aggiunge « della nostra confessione », a detta di S. Tommaso d' Aquino (2), si può intendere per quel primo sacrifizio spirituale , di cui sopra parlammo. Di fatti Cristo offerse non cose fuori di sè, ma se stesso. Essendo poi solo egli di interminato valore, solo era sacrifizio degno di Dio; là dove non così quello di qualunque altro uomo. Quindi egli abolì il sacerdozio di Aronne: egli sacerdote veramente unico, e sacerdote « in eterno secondo l' ordine di Melchisedecco » (3). Mosè oltre di ciò aveva nelle sua missione e apostolato l' uffizio di Profeta o interprete rispetto a Dio, e di legislatore o luogotenente di Dio rispetto agli uomini, là dove Aronne era solo profeta rispetto a Mosè, e luogotenente di Mosè rispetto agli uomini. Però Iddio, così dice a Mosè nell' « Esodo » (4): [...OMISSIS...] . Ma di Mosè propriamente era la portentosa verga, colla quale fra' miracoli guidava il popolo, altro suo gregge. Ell' era quella stessa verga, di cui qual pastore di vere pecore soleva far uso, e Aronne l' adoperava come ministro suo: mentre a lui solo aveva Iddio comandato di pigliarla in mano (7) per adempire gli ordini suoi. E s' ella dicesi verga d' Iddio sovente nelle « Scritture », è perchè sì Mosè che Aronne altro non erano finalmente che garzoni d' altro pastor maggiore padron della greggia, al quale Davide rivolgeva il discorso dicendo: « Guidasti il tuo popolo come un branco di pecore per le mani di Mosè e di Aronne » (1). E questo egli è pur Cristo che di sè disse: « Io sono il buon Pastore » (2): pastore veramente buono, che fra' pericoli di questa vita ci conduce nella promessa terra del cielo colla verga della grazia, che solo per la sua potenza è detta di ferro ne' « Salmi » (3). Nell' apostolato di Mosè adunque v' avevan i tre uffizi di Sacerdote dei Sacerdoti , di Legislatore e di Pastore . Lo stesso è in Cristo, ma in grado eminente, e in fonte, da cui tali doni agli uomini si derivano. Come Pontefice fu predetto da Mosè colla storia misteriosa di Melchisedecco spiegata divinamente da Paolo nel cap. VII della « Lettera agli Ebrei ». Come Legislatore nel cap. XVII del « Deuteronomio », [...OMISSIS...] . Come Pastore finalmente nei « Numeri » (4): [...OMISSIS...] . Preghiera, che Iddio esaudì per allora col dare Giosuè a capo del popolo, sì nel nome che nell' uffizio bella figura di Cristo. Così ancora quando il Signore mandò Mosè, questi non si acquetava, sebbene udisse: « Io sarò nella tua bocca, e ti insegnerò quello che dovrai dire » (5). Poichè ardendo di desiderio dell' altro Apostolo maggiore di lui, verso il quale egli si conosceva un nulla, importunò Iddio, e disse ancora: « Ti scongiuro: Signore, manda colui che sei per mandare ». Nel qual titolo di mandato , o Apostolo per eccellenza, racchiuse qui Mosè tutti i pregi e gli uffizi di Cristo. Ecco dunque quale è e come eccellente l' Apostolato di Cristo. Ora Cristo, trascelti dodici de' suoi discepoli, comunicò loro sì grande titolo di Apostolo. Dopo risorto poi disse: « Come mandò me il padre, anch' io mando voi » (6). L' Apostolato adunque dei dodici Apostoli è tutto simile a quello di Cristo, è partecipazione di esso, e partecipazione a cui Cristo non pose limiti. Oltre poi a questa generale missione, per cui gli Apostoli divennero luogotenenti di Cristo presso gli uomini, diede loro in particolare i tre uffizi o dignità di sopra annoverate. Primieramente li fece Sacerdoti, cioè partecipi dell' unico suo sacerdozio, conferendo loro la potestà di consecrare il pane ed il vino, obblazione monda, accettevole, degna d' Iddio, infinita: e glielo comandò nell' ultima cena (1): quando avendo per la virtù di sue parole nel proprio corpo e sangue convertito il pane ed il vino, e fra loro diviso, disse quelle memorabili parole: « Fate questo in mia commemorazione ». E poichè non era tale obblazione meramente legale e priva di un suo vigore, ma anzi d' infinita efficacia; per questo a' mandati suoi aggiunse l' altra facoltà divina ignota agli Apostoli dell' antico tempo, [...OMISSIS...] . Ma singolarmente a Pietro commendò tutto il gregge. Poichè a questo, iterata tre volte quella tenera inchiesta: « Se egli lo amava », anche tre volte quasi a premio della sua sincera risposta dissegli, che pascesse il suo gregge: le due prime colle parole: « Pasci i miei agnelli », e la terza (imperciocchè Pietro la terza volta gli si dimostrò ancora più caldo amatore) con quelle: « Pasci le mie pecore »; indicando con ciò che non solo pascer dovea gli agnelli figli alle pecore, cioè la plebe fedele, ma gli altri pastori altresì, che rispetto a Cristo e qui a Pietro ben s' appellano pecore. Dalle quali cose tutte s' intende come Cristo desse agli Apostoli del Nuovo Testamento la maggiore dignità possibile e senza limiti: imperciocchè Cristo non ne pose alcuno, e come nel ministerio così nella gloria simiglianti li descrisse a se medesimo (7). Bensì gli Apostoli stessi, i quali aveano da Cristo la facoltà di mandare, come Cristo l' aveva dal padre suo, perchè spediti al modo di Cristo, posero limiti a' loro successori. I successori degli Apostoli non furono già messi amministratori in tutta la casa di Dio quale fu Cristo come figliuolo, Mosè come servo nell' Antico Testamento, e gli Apostoli nel Nuovo come amici, anzi tenenti le veci e rappresentanti la persona del Figliuolo. Ebbero i successori degli Apostoli una limitazione, avendo essi il solo carico di reggere e ampliare la Chiesa sull' apostolico fondamento, non quello di fondarla, che Cristo avea dato agli Apostoli (1). Or quegli, a cui è commessa totalmente la fabbrica d' una casa, ne forma il disegno come a lui ne sembra, ed è posta nell' arbitrio suo tutta la disposizione dell' edifizio; all' incontro gli altri cooperatori debbono lavorare sul disegno fatto a principio dall' architetto, e debbono accomodarsi tutti alle incombenze particolari loro imposte. Agli Apostoli commesso era di fabbricare tutta la casa della Chiesa novella, avute a ciò le istruzioni da Cristo: in loro perciò era piena l' autorità, e secondo la sapienza che li reggeva disposero fino a principio tutto il disegno; a' successori all' incontro convenne di lavorare in sulle traccie lasciate dagli Apostoli, ed esercitare ciascuno quel peculiare incarico a loro sortito, a cui di muratori, a cui di manovali, a cui d' altro. Vero è che l' unico sapiente architetto fu Cristo (2). Ma come Mosè fece ogni cosa secondo l' esemplare veduto sul monte (3), così gli Apostoli, come dicevamo, facevano tutto secondo quello che avevano veduto in Cristo, e che lo spirito di lui veniva loro suggerendo; nè operavano a capriccio, ma seguendo Cristo fino a morte, come a Pietro era stato prenunziato (4). Gli Apostoli adunque erano limitati, se così dir si potesse, da sola quella sapienza, che in essi albergava. Ma non è questo accurato parlare. Poichè la sapienza che non ha limiti non limita, là dove l' ignoranza che per sè è nulla, ristringe e impicciolisce l' umana volontà. Somma è dunque l' apostolica dignità. L' Apostolo per eccellenza è Cristo, e i dodici per la partecipazione dell' apostolato di Cristo; Mosè e gli altri messi dell' Antico Testamento più tosto rappresentavano questo apostolato, che non sia ne partecipassero, come l' esterna Chiesa loro affidata era, più che la Chiesa stessa, figura della gran Chiesa, benchè lo spirito interno e l' essenza fosse una medesima. Quanto alla dignità di Profeta dicemmo già secondo la greca origine significare predicitore , là dove Evangelista annunziatore di buona novella. Apparisce in ciò, che come quell' uffizio conveniva all' Antico Testamento, quando ancora il mondo non avea la salute, così questo al Nuovo si avviene, in cui è predicato il sanatore dell' umana infermezza, e l' inventore della perduta felicità. E quando nell' Antico Testamento d' un Profeta si legge che evangelizza, si scorga la similitudine cogli Evangelisti del Nuovo. Prima della venuta di Cristo era diviso il mondo fra i Gentili e gli Ebrei. Nelle tenebre, in cui giacevano le genti inquiete, angosciose, infelici, senza Dio in questo mondo , andavano esse in cerca nell' avvenire di un qualche conforto: chè alcuno nel presente non ne vedevano. Così l' uomo, che non può co' beni presenti appagarsi, è sospinto dal desiderio alla speranza e alla espettazion del futuro. Qual maraviglia, considerando questo fatto, se si veggono i gentili così proclivi a dare orecchio agl' indovini di mille maniere, agli oracoli, e a tutta la loro superstizione, che chi ben a dentro la mira, su questa speranza in gran parte si erigeva? Era per tal modo il Messia l' espettazione non solo di que' Santi, che sparsi per le nazioni e istruiti da Dio con peculiar cura sapevano di lui; non solo di quei sapienti, che meditando sopra se stessi ritraevano per ultimo frutto di loro speculazioni la ignoranza umana, e la miseria, e la necessità palmare d' un inviato dal cielo; ma ben anco l' espettazione era delle nazioni in generale, che sordamente angosciate dall' infinito bisogno che l' umana natura v“ta di beni sentiva, senza conoscerlo il desideravano, l' aspettavano. Questa io credo principale origine de' falsi profeti presso agli uomini fuori d' Israello, i quali prima di Cristo sempre avidissimi e frenetici di scoprire il futuro si dimostrarono. Ma presso gli Ebrei la profezía non fu finzione, ma verità, e d' origine divina. Colla segregazione di questo popolo dall' altre nazioni idolatre Iddio radunò la sua Chiesa in un corpo visibile, mentre avanti ell' era dispersa e disgregata pel mondo, e forma non aveva ad occhi umani di peculiar società. Dalla chiamata di questo popolo doppio vantaggio ne scaturì. Si provvide alla dignità del Messia, e alle prove della sua verità, col sequestrare dall' altre quella generazione di cui voleva discendere. Appresso si provvide alla salute del mondo, stabilendo e apparecchiando con divina sapienza un popolo, che dovesse ricevere questo Messia, e con tutto rigore e scrupolo conservar le prove della verità sua, e mostrarle al mondo tutto. In qual maniera adunque preparossi Iddio questo popolo? « Tutte queste cose », dice Paolo, « avvenivano a lui in figura » (1). Aveva anche questo popolo, perchè porzione egli pure di massa corrotta, e quindi del presente scontentissimo, quella curiosità somma delle future cose, per cui alle pagane superstizioni ognora inchinava. Era tale propensione e amor del futuro d' una parte a lui nocevole, perchè facile il rendeva a venire ingannato. Per l' altra gli fu vantaggiosa: poichè vegliando Iddio alla sua custodia, sempre lo sceverò da' Gentili; e quantunque volte peccasse, con acri gastighi ammonendolo, il facea risentire dell' inganno in cui si trovava. La divina sapienza oltre ciò gli mandò dei veri profeti; e così a bene rivolse quella inclinazione medesima, che da lei era non senza sì grande fine predisposta. Oltre di ciò salvandosi ogni uomo per Cristo, il solo nome in terra, sotto cui si fosse posta una speranza di salvamento; qualunque cosa Iddio facesse manifestare a vantaggio dell' uomo, dovea riguardare il Cristo, dovea essere Profezìa. Per questo Paolo: « Tutte le cose a questo popolo accadevano in figura ». E qualunque uomo ottenesse grazia di qualche divina illustrazione ad insegnamento del popolo fu chiamato presso gli Ebrei ora veggente, ed ora profeta (2). Ma fra gli uomini inspirati dell' Antico Testamento, o vero fra i profeti, si possono discernere quelli che danno una dottrina, e quelli che fanno profezie, o spiegano la dottrina, ma non la danno. La dottrina, o sia la Legge nell' antico patto fu data dal solo Mosè come profeta e bocca del Verbo. Nel nuovo, dal Verbo stesso incarnato come Profeta e Sapienza d' Iddio. Mosè avea comandato di non aggiungere nè torre nulla alla legge sua (3). Il perchè nel « Deuteronomio » dà agli Ebrei per indizio di riconoscere il falso profeta del secondo genere: se egli detrarrà alla legge, e così li rimoverà dal loro Iddio (1). Ma quando nel capo XVIII di questo libro stesso prenunzia il grande Profeta simile a lui, e dice espresso: « Lui ascolterai »; allora non dà più agli Ebrei per indizio di riconoscere l' ingannatore il rimuoverli dalle cerimonie legali, l' aggiungere o il detrarre dalla sua legge, il torgli da Dio; ma solo la verificazione delle profezie, di cui egli stesso è autore (2). Cristo era adunque il gran Profeta e Legislatore simile a Mosè, ma da Mosè tanto distinto quanto Dio è dall' uomo. In questo Profeta riposavano e terminavano tutti i doni del Santo Spirito, al dire d' Isaia (3), come i fiumi s' allettano e riposano nel mare onde escono. Cristo dunque sommo de' profeti, Profeta per eccellenza, quegli da cui gli altri profeti furono ispirati; scopo e termine fisso alle loro predizioni; Cristo solo forma la prova della loro verità, perchè in Cristo si videro verificate. Per opposito essi formano la prova della verità di Cristo, non solo perchè ciò che è detto da profeta, cui l' avvenimento confermi le sue profezie, vuole esser vero; ma ancora perchè avendo Cristo profetato pel loro ministerio, la verificazione delle loro profezie prova lucidamente la dote di vero e sommo Profeta in Cristo. Che poi Cristo abbia per mezzo de' profeti parlato, da tutto ciò si argomenta, da cui si fa chiara la sua divinità. Ma veggiamo qual differenza v' abbia tra le dignità di Profeta e di Apostolo. Se Mosè si può dire, secondo il concetto di S. Paolo, l' Apostolo dell' antico patto, ecco come Dio lo distingueva dagli altri profeti (4): « Se saravvi tra voi un profeta del Signore » (sono parole rivolte ad Aronne e Maria, che si ergevano per invidia contro a Mosè), « io gli apparirò in visione, o gli apparirò in sogno. Ma non così al mio servo Mosè, il quale in tutta la mia casa è fedelissimo. Perciocchè io a lui parlo bocca a bocca ». Questa espressione, che sembra significare: con tutta chiarezza, mostra assai acconciamente la viva somiglianza resa da Mosè cogli Apostoli del Testamento nuovo, che dalla propria bocca di Gesù udirono le dottrine. « Ed egli chiaramente e non sotto enimmi o figure vede il Signore ». E nel « Deuteronomio » (5) si rende a Mosè simile encomio. Sembra dunque che l' Apostolato di cui parliamo in questo consista, nell' avere dalla stessa bocca di Dio l' istruzione e l' inviamento. Consonano a ciò le parole, che Cristo ai dodici rivolgeva: « A voi è dato d' intendere il mistero del regno d' Iddio: ma per quelli che sono fuori, tutto si fa per via di parabole » (1). Paolo nella « Epistola a' Galati » volendo dimostrar se stesso Apostolo egualmente ai dodici (2), comincia dicendo, non essere egli « stato eletto » a tal dignità « dagli uomini nè per mezzo d' uomo, ma da Gesù Cristo e da Dio Padre, che risuscitò Gesù Cristo da morte ». E appresso segue: « Or vi fo sapere, o fratelli, come il Vangelo che è stato evangelizzato da me non è cosa umana. Perciocchè non hollo io ricevuto, nè l' ho imparato da uomo, ma per rivelazione di Gesù Cristo »: e ancora conferma il medesimo mostrando, che appena chiamato quale Apostolo delle genti non andossi già egli in Gerusalemme dagli Apostoli a impararlo; ma tostamente in Arabia, indi si tornò a Damasco, e solo trascorsi tre anni fu a Gerusalemme dagli Apostoli a visitar Pietro, col quale rimase quindici giorni, e, fuori di Giacomo, nessuno altro degli Apostoli avea veduto, oltre a Pietro. Di poi si condusse ne' paesi della Siria e della Cilicia, e, quattordici anni passati, fu di nuovo a Gerusalemme per rivelazione a confrontare col collegio apostolico il Vangelo fra le nazioni predicato, non già al fine di verificarlo, ma di autorizzarlo presso gli uditori suoi pel mirabile consenso con quello degli altri (3). Or poi sebbene la profezia, come è detto, propria cosa fosse dell' Antico Testamento; non di meno tal dono apparve anche nel Nuovo. Ciò avviene a edificazione; e non è più però alla Chiesa così sustanziale come era prima di Cristo. Il perchè appresso S. Matteo si legge: « Tutti i profeti e la legge profetarono sino a Giovanni » (4). Onde quando Cristo disse: « Ecco, che io mando a voi profeti e sapienti e scribi » (5), s' intende esser detto alla maniera degli Ebrei, i quali per profeti toglievano qualunque veggente, e per la natura dell' antico patto aveano ragione. Ora Cristo mandò loro gli Apostoli, che erano profeti per eminenza, come Mosè tra' profeti del Testamento Antico; ed occupavano però il posto degli antichi profeti con assai vantaggio. Il perchè Cristo mandò loro non solo profeti, ma più che profeti. Questi ancora della futura gloria e dell' avvenire della Chiesa profetavano, come avevano udito da Cristo, e come lo spirito loro suggeriva. Venne ancora nel Nuovo Testamento un nuovo genere di profezie, cioè lo spirito d' interpretare i profeti antichi. [...OMISSIS...] Quello Spirito Santo adunque che nel patto antico facea predire le cose del Messia, nel nuovo le fa interpretare; e tanto quegli uomini antichi, del cui mezzo si servì, come questi, di cui si serve, non malamente mi pajono chiamati profeti, perchè sì gli uni sì gli altri colle profezie confermano Cristo; i primi proferendole, e dilucidandole i secondi. Ma l' incarico maggiore di questi profeti mandati da Cristo è d' annunziare al mondo quella buona novella, che una volta solo si profetava. Come adunque gli Apostoli occupano, ma con dignità maggiore, il luogo di Mosè; così gli Evangelisti tengono il luogo de' profeti, e profeti si possono chiamare, non differendo nell' oggetto di cui favellano, ma solo nel tempo: mentre annunziano questi venuto colui, che quelli futuro prenunziavano. Sostanzialmente sono persone dallo stesso spirito inviate a ben degli uomini. Che poi non sia delle predizioni sustanzial bisogno nella Chiesa, da questo s' intende, che essendo Cristo il fonte della verità, e la pietra di paragone, a cui di ogni vero si fa il saggio; già non dobbiamo, a provare gl' insegnamenti che dati ci vengono, al futuro ricorrere, ma solo all' esemplare passato appareggiarli. [...OMISSIS...] E per la ragione medesima noi veggiamo in Isaia (3) Iddio argomentare co' Gentili, mostrando loro, come gli Dei non sanno rispondere a loro inchieste, non possono coi predicimenti aprire le grandi mire della provvidenza ne' successi delle nazioni, e profetando un Cristo, a cui que' successi si riferiscono, giustificarla; nè avendo essi Gentili nè i loro Dei cosa alcuna ad opporre con verità in questa disputa, così soggiunge: [...OMISSIS...] . Dice adunque, senza profeti esser le genti, e però vivere tristi senza speranza del futuro, senza Dio in questo mondo. Alla fine promette, che non da' loro Iddii avranno questi profeti sì bisognevoli all' uomo nella condizione di quel tempo, ma che egli sarà il primo , il quale colla possanza sua faralle partecipi di Sionne. Pur non dice loro di dare oggimai un Profeta , bensì un Evangelista: che veniva a dire non dovere esser le genti chiamate a lui nel tempo del predicimento, ma dell' annunzio della buona novella. Dice bensì che tale Evangelista darallo a Gerusalemme; ma prima dice che a Gerusalemme si rivolteranno le genti, anzi si ridurranno intorno tutte a Sionne, monte sopra il quale è « costituito Re Gesù Cristo », come è scritto ne' Salmi, « a predicare il precetto di Dio » (1). Tengono adunque nel nuovo patto gli Evangelisti quel luogo, che i Profeti nell' antico; ma hanno uffizio e più lieto e più splendido. Quest' Evangelista poi, di cui per eccellenza Isaia parla, egli è il Cristo, che insieme è buona novella, e apportatore di lei. Egli è quegli, in bocca di cui disse appresso lo stesso Profeta: « Il Signore mi ha mandato ad evangelizzare a' poveri » (2), passo, cui leggendo Cristo nella Sinagoga di Nazarette, adattò a se medesimo (3). Egli è quegli, di cui in un capitolo antecedente avea detto lo stesso Profeta: [...OMISSIS...] . Dall' altezza dunque di Sion Cristo evangelizza Sionne e Gerusalemme, e mostrando se stesso alle città di Giuda, dice altamente: « Ecco il Dio vostro », nel che la grande e fortunata novella consiste. E l' annunzia con alta e sonante voce, acciocchè possa essere anco lontano inteso, cioè da' Gentili, detti « lontani » da Paolo (5), che nelle città di Giuda sembrano raffigurati, le quali, benchè fuori della città santa, pur l' adito hanno e la vicinanza ad essa per l' unità dello stipite suo che le rende tutte una tribù. Non solo poi fa bisogno che forte e sonante tragga la voce, ma la tragga « nella sua fortezza », cioè da grazia accompagnata; fortezza a' profeti non data mai, perchè non avevano essi schiava condotta la schiavitù degli uomini, e ricevuti dei doni da compartire; ma propria di Cristo, e da lui mandata dietro alla voce di quelli, a cui partecipò l' incarico di evangelizzare. Questa voce simigliante alle trombe che annunziano dopo di sè il venir d' un esercito numeroso, si dice in un Salmo sublime: « Il Signore darà la parola e il comando: evangelizzeranno un esercito numeroso » (1). Evangelisti ancora si chiamano in senso più stretto quei quattro santi uomini destinati a scrivere l' Evangelo, e alcuni altri che in sul principio della Chiesa avevano grande spirito e dono di miracoli, ed erano dagli Apostoli eletti ad evangelizzare con ampia podestà secondo che lo spirito suggeriva; a ragion d' esempio il diacono Filippo, che negli « Atti apostolici » è pure chiamato col nome di Evangelista (2). La ragione, per cui S. Paolo a' Corinti (3) mette gli Apostoli ed i Profeti, e lascia d' annoverare gli Evangelisti, può essere perchè, come dicemmo, gli Evangelisti non erano altro che un supplemento agli Apostoli, che non poteano esser per tutto; a cui provvedere furono eletti anche i diaconi, e però dicendo Apostoli hassi a intendere, co' loro compagni , come sarebbero stati Silla e Barnaba compagni a Paolo. Di fatti proprio era de' Profeti, come spiega Paolo, edificare la Chiesa già credente; là dove era proprio degli Apostoli ed Evangelisti chiamare alla fede, e fondare così la Chiesa (4). Quando Cristo adunque dice agli Ebrei che loro manderà dei Profeti, invece di dire che manderà degli Evangelisti, a loro parla assai dolcemente sì come a suo popolo, e mostra che egli non vuole fondare fra essi Chiesa nuova, nè introdurre nuova religione; ma solo compiere e perfezionare l' antica. Spiegati questi ampi e generali uffizi della Chiesa nascente; ora è a dire di quelli, che essendo istituiti a conservarla e fregiarla vie più di pio decoro, permangono sino alla fine. Questi non sono da Paolo specificati, ma solo tocchi colle parole di pastori e dottori , che esprimono in genere tutto l' ecclesiastico durevole ministero. Per dirne alcun poco è a sapere, come anco l' antico Israele ebbe due tempi o quasi epoche come ebbe il nuovo. Conciossiachè lasciando età più rimota e cominciando da Mosè, d' onde il popolo ebraico ritrae forma di regolata e compiuta società; troviamo, che da quel legislatore e profeta principale fino ad Esdra, cioè pel corso d' anni mille, mandò Iddio i profeti suoi, i quali con istraordinaria missione, colle profezie, e coll' inculcamento della legge reggessero l' Ebraica Chiesa; trapassato il qual tempo, furono solo reggitori ordinari e permanenti. Così nella Chiesa a principio v' ebbero gli Apostoli , i Profeti , e gli Evangelisti; e appresso, cessate queste dignità, rimasero i pastori e dottori . La ragione perchè nell' antica Chiesa fu sì lungo il tempo della missione straordinaria, e sì breve nella nuova, è molteplice. Primieramente essendo oggetto unico dell' istruzione del mondo in tutti i tempi Cristo, questo oggetto allora era futuro, come ora è passato. Non poteva essere dunque senza straordinario dono, che nell' antico tempo di questo oggetto si favellasse, fino che da straordinari mandati non fosse stato predetto tutto ciò, che esser predetto dovea. Ma queste cose a predirsi del Messia ed erano molte, e voleva la dignità di lui che da lunga serie di uomini ispirati fosse descritto; come anche ciò richiedeva la necessità che Cristo avesse prove di molte guise, replicate, evidenti; ciò che dimandava anche il bisogno dell' umana imbecillità, essendo a questa acconcia l' istruzione gradata, e lenta, e quasi a sorsi, sì come di oggetto arduo e spirituale. All' incontro nel Nuovo Testamento Cristo non più si profetizza, ma si narra: e se v' ebbe bisogno a principio di straordinari commissari per fondare la Chiesa tutta spirituale, com' ella è, di GESU` fra uomini che avevano lo spirito affisso alla carne, e quasi da essa assorbito, di straordinario potere appresso non fu bisogno per reggerla. L' essere stata poi fondata con sì rapido e maraviglioso eseguimento, sì come piacque alla virtù divina, per una parte domandò uomini fuori dell' usato sì per autorità e potere, che per doni di spirito, dall' altra abbreviò il tempo di sì fatto bisogno. Ed a quel modo che la lunga missione de' Profeti confirmava meglio la religione, così la religione e la potenza del capo suo meglio appariva quant' era più breve la mission degli Apostoli. Ma aggiugnete ragione di maggior peso. Nell' antico Israello si può dire messo straordinario qualunque uomo, a cui avesse Iddio data podestà soprannaturale; non così nel nuovo. Poichè nel nuovo anche l' ordinaria dignità di soprannatural potere è fornita. Sono ordinari ministri quelli che o con ordine stabilito e continuo si succedono e permangono sinchè dura la Chiesa, o sieno questi messi da Dio, o dalla Chiesa stessa istituiti. De' primi nell' antico Israello erano i Sacerdoti, de' secondi i sapienti e gli scribi che da Esdra cominciarono. Ma nè i sapienti, nè gli scribi faceano nulla sopra natura, nè i Sacerdoti atto facevano, a cui effetto soprannaturale conseguitasse: il perchè i Sacerdoti nostri sopra quelli sommamente s' innalzano per la consecrazione del pane e del vino, e per gli effetti di questo divino sacrifizio, che vengono disponendo a' fedeli con divino potere. Questione è degli eruditi diffinire il tempo a cui si debbano richiamare i Sapienti e gli Scribi . Quanto agli Scribi (non de' profani , ma di quelli che sacri o ecclesiastici si nomano), forse derivano da Mosè stesso nella prima loro origine, come vogliono alcuni (1), e da Esdra furono solo ristorati: e forse diffinirne il tempo dipende dall' idea più o meno larga, che di essi altri si forma. Noi di quelli parliamo, che nella sacra Storia dopo Esdra compariscono. Certo questo uomo illustre dagli Ebrei è detto « Principe dei Dottori della legge », e affermano i Rabbini ch' egli stabilisse in Gerusalemme scuola d' interpreti, acciocchè la legge giammai non dovesse per falsa intelligenza essere contraffatta. Tornano tali Scribi a un medesimo coi Legisperiti, e forse un po' differiscono non nella qualità dell' uffizio, ma nel grado di dignità. I Sapienti riuscivano una cosa medesima co' Farisei ambiziosi di tali titoli, che loro dava il vulgo, benchè appresso vollero piuttosto essere chiamati con più coperto titolo « discepoli de' Sapienti ». Questi molto insistevano sulle tradizioni loro, che premettevano di pregio alla Legge; là dove gli Scribi più tosto attendevano all' interpretazione di essa legge. A questo proposito veggiamo nel capo XI di S. Matteo, che i Farisei apponevano a Cristo il mangiare e 'l conversare co' pubblicani e co' peccatori: cosa disdicevole alle loro consuetudini; là dove gli Scribi gl' imputavano la bestemmia, peccato contro la legge. Erano bensì nel tempo di Cristo e gli uni e gli altri della stessa pece macchiati; rigidi con altrui, larghi con se medesimi; imponitori di importevoli pesi, mentre, come dice il Vangelo, non sollevavano essi di terra una paglia (2). L' uffizio però d' ambidue era buono. Tanto le legittime tradizioni e costumanze, come la scritta dottrina si doveano curare; dicendo Cristo, che questa conveniva serbare, e quelle non trasandare. Paolo poi nella prima a' Corinti (1) nomina una terza maniera di dottori, che sottili indagatori erano dagli Ebrei appellati, e interpretavano la Scrittura con istudiate allegorie, e sottigliezze fredde: e questo modo d' esporla è dannato da Paolo in quella a Timoteo (2) come generatore di quistioni e altercazioni infinite. Per questo Cristo non fe' parola di costoro quando disse: « Ecco io mando a voi profeti e sapienti e scribi » (3). Ma a chi poi Cristo dicea così? Appunto a' Farisei e a' Legisperiti, a que' sapienti e scribi. Ben da ciò si vede quanto questi Savi di Cristo avanzino quelli. Poichè come quegli erano mandati al popolo, e in risguardo ad esso popolo sapienti e scribi s' appellavano; così que' di Cristo fur mandati anche a' sapienti e scribi, e a rispetto di loro altresì si voleano appellare in tal modo. Il vocabolo di dottori poi fu anche appresso gli Ebrei di significato generale; con cui si nomavano tanto i sapienti, che i legisperiti o gli scribi. Quindi Paolo nella prima a' Corinti (4) accenna col solo nome di dottori l' uffizio, che nel luogo che abbiam fra mano dell' « Epistola agli Efesini » indica con due, di pastori e dottori . Con queste due parole adunque esprime ogni governamento della Chiesa: e di più ce ne mostra la natura. Poichè il reggimento ecclesiastico istituito da GESU` è così dolce, come di pastore che corregge il gregge. E` di nulla ha più cura se non ch' ei cresca e prosperi: mai non l' offende, nol castiga mai troppo aspramente: e se travia qualche pecora, e' va con gran destrezza a raggiungerla, pigliarla senza nuocerle, se la reca in ispalla, e torna così al branco. Tutt' altro è questo reggimento che quel de' re della terra, che dominano su' soggetti (5), e che governando civilmente e non spiritualmente, usano ancora la forza meccanica, non quella solo di persuasione e di amore. All' incontro l' unica arma in mano al pastore evangelico, l' unica verga è la voce: con questa apre la verità, con questa svela il falso, con questa lega e condanna. In somma i reggitori ecclesiastici non sono monarchi; sono pastori; non sono re , ma sono maestri degli uomini . Cristo poi, dice il Dottor nostro, li ha spediti « per lo perfezionamento de' Santi ». Ecco il fine di tutte le cose, la santificazion degli uomini. Qual bontà non è ella questa di Dio di avere il tutto fatto pe' suoi eletti? [...OMISSIS...] Ma se tutto ha fatto perchè gli eletti fossero santificati, a qual fine poi quest' opera stessa? Ogni santità degli eletti è di Cristo; da esso la ricevono si può dire a prestito, non a proprio. Tutto adunque tornar debbe a Cristo stesso, perchè tutto è di Cristo: e quando Paolo dice, che avemmo in dono tutte le cose, aggiunge però in Cristo; perchè nessuna cosa può darla così a noi che la tolga a sè, ma se stesso dà a noi, e così ci dà tutto, perchè tutto in sè possede. Cristo veramente è lo stesso « splendore della gloria e la figura della divina sostanza (2): è la virtù e la magnificenza di Dio » (3). Dio adunque è l' ultimo fine di tutte le cose, e tutte cose ha fatto per sè (4). [...OMISSIS...] Cristo adunque è quegli, nel quale Dio vuole essere per noi glorificato. La santità nostra dee fruttare gloria a Cristo qual capo dei fedeli, e la gloria di questo capo gloria a Dio. A Cristo poi si riferiscono quaggiù tutte le cose in due modi, come in due modi è con noi: nel suo corpo reale, cioè nella Eucarestia, e nel suo corpo mistico, cioè ne' fedeli che fanno la Chiesa. Quindi è rivolta tutta la Chiesa col reggimento suo a questi due scopi: a Cristo nel pane e nel vino, e a Cristo in se stessa. Ell' ha perciò due potestà, l' una deputata al primo di questi corpi, l' altra al secondo, la prima costituisce l' Ordine sacro , l' altra la ecclesiastica Giurisdizione . Quanto alla prima dice Paolo: « in opus ministerii », per « l' opera del mistero »; quanto al secondo, « in aedificationem corporis Christi », per « l' edificazione del corpo di Cristo ». L' una di queste potestà Cristo la conferì alla Chiesa quando pochi momenti innanzi la passione sua consecrò, e distribuì il pane, e appresso fatto il simigliante del calice aggiunse: « Fate questo in mia commemorazione » (1). L' altra podestà da Cristo fu promessa prima di sua morte (2), ma conferita agli Apostoli poscia che fu risorto, [...OMISSIS...] . E con grande ragione disse queste parole solo dopo risorto. Poichè a Cristo si debbe conformare in tutto la Chiesa. Cristo ha le primizie in tutto, in tutto la precede; il primo egli de' risorgenti: nella sua risurrezione soltanto risurse la Chiesa a eterna vita. Ei la trasse con sè del sepolcro, risurgendo, e perciò con quest' atto acquistò sopra lei ogni potere. Quindi allora solo convenìa che partecipasse agli Apostoli tal podestà sopra il suo mistico corpo, là dove la podestà sul suo corpo reale andava bene che gliela conferisse quando non era ancor morto, ma morire poteva: non essendo altra cosa la sacra cena che una immolazione del divino agnello. E poichè alla podestà del governar la Chiesa è necessario che sia congiunto divino lume, nell' atto di darla agli Apostoli soggiunse ancora: « Ricevete lo Spirito Santo » (4), e: « Io sono con voi sino alla consumazione del mondo », non muojo più, non m' è tolta più mai quella podestà, che come uomo mi ho guadagnata morendo, perciò nè pure mancherammi giammai la sposa mia, la mia Chiesa, voi miei ministri non avrete a temere nulla in governarla, perchè io v' ho dato questo potere mio indeficiente, questa mia divina autorità e virtù. Per tanto la prima di queste due podestà, che ha l' incarico del ministero , costituisce la natura del Sacerdozio. Sacerdote è quegli, « che offerisce a Dio doni e ostie » (5), e chi avesse la sola facoltà di consecrare sarebbe sacerdote perfetto. Essendo poi l' unico dono, e l' unica ostia accettevole GESU` Cristo, l' unico sacerdozio vero è il suo, tutti gli altri sacerdoti non possono essere mezzani fra Dio e gli uomini. L' altra podestà dell' edificazione del corpo mistico di Cristo è quella, che forma propriamente i Vescovi, questi fur posti « a reggere la Chiesa di Dio » (1), questi sono i pastori e i dottori , questi gli sposi della Chiesa, i compiuti esemplari di GESU` Cristo. Per questo non si può dare Vescovo senza Chiesa, come non si dà sposo senza sposa; poichè Vescovo vuol dire appunto quegli che ha Chiesa, come sposo vuol dire quegli che ha sposa. Ma se il Vescovo presiede al mistico corpo di Cristo, se il capo di questo corpo non è altri che Cristo stesso, se perciò Cristo come uomo è anch' egli membro di questo corpo, quel membro nobilissimo, che agli altri membri dà l' unione in un corpo e la vita: chiaramente apparisce come la Podestà vescovile suppone la sacerdotale, la podestà sul corpo suppone quella sul capo: poichè senza il capo più corpo non vi ha: non si comanda al corpo altro che pel suo capo: a quello solo ubbidisce: non si santifica il corpo altro che col sacrifizio del capo: quello solo è la nobil vittima di salute: non discende nè podestà alcuna nè grazia alle membra se non per la via del capo: da lui hanno tutto, in guisa che in lui spirano, in lui vivono per mirabile modo e nascosto. Onde conviene che solamente il Sacerdote, che ha podestà di sacrificare Cristo, e placare in tal modo Iddio, e che può così agli uomini dar salute, e quasi guadagnarli a somiglianza di Cristo col gran sacrifizio; possa sopra di loro esercitare autorità. Per questo i pastori hanno sempre obbligo di pregare e sacrificare per le pecore. Or questa podestà sopra il corpo reale di Gesù, fonte e radice della episcopale, contiene tutti gli uffizi necessari per sì fatto sacramento. [...OMISSIS...] Tutti questi uffizi sono bisognevoli al sacramento eucaristico, e tutti uniti negli Apostoli gl' istituì Cristo, quando loro diede podestà sopra il suo corpo reale. Perchè poi i fedeli formano il compimento e la pienezza del corpo di Cristo, come le membra quella del capo, o come il vestimento quella del corpo (2): per questo il Vescovo è denominato compimento del Sacerdozio . Ben è vero, che Gesù Cristo è così perfetto in se stesso, che dalle membra nessuna perfezione ritrae, ma loro solo comunica: a differenza della testa nel corpo umano, che senza l' altre membra non vive. Tuttavia avendo voluto congiungere a sè degli altri uomini, in questi estende e dilata la propria santità, loro comunicandola: è sempre quella santità stessa, ma in molti trasfusa in molti risplende. Dai Santi adunque riceve Cristo il compimento da lui voluto e preordinato, non perchè egli perfettissimo non sia, ma per l' opera della sua bontà, per la quale volle patire a redenzione di molti. E come i fedeli da Cristo ogni perfezione ricevano, nulla Cristo dai fedeli, mostrasi nel Vangelo stesso: là dove la Chiesa viene rappresentata, secondo i Padri, nella veste di Cristo, che ricevette in sul Taborre dal corpo, cui vestiva, candidezza di neve (1). Per questa parte adunque Cristo è veramente un corpo in tutte sue parti perfetto, nè la veste aggiunge al corpo veruna cosa, se non un certo fornimento esteriore, che parte alcuna non forma della sustanza del corpo stesso. Ma per tornare alla similitudine delle membra e del capo, in che dunque consiste questa pienezza di podestà vescovile? a che è rivolta questa autorità in sulle membra di Gesù Cristo? Coll' autorità in sul capo, cioè col sacrifizio, unisce e riconcilia l' umanità alla divinità: o almeno pone il fonte e la possibilità di questa riconciliazione. Del resto prosegue Paolo spiegando quel vescovile potere così: [...OMISSIS...] . Adunque lo scopo di quella podestà, che il corpo mistico risguarda di Gesù, si è quello, di fare che le membra non pure sieno unite al capo, ma sieno della proporzione stessa del capo. Molte parti ha un corpo (2). Queste diverse parti sono nella Chiesa di Dio i diversi doni e' diversi ministeri (3): ognuna necessaria, ognuna vantaggiosa all' altre, ognuna nobile perchè cooperante a formare l' armonia del tutto (4). Ma nel corpo non solo ci vogliono membra che lo compongano, ma è conveniente che tengano proporzione al capo: sicchè essendo il capo da adulto, non sieno le gambe o le braccia da fanciullo. Il corpo della Chiesa è perfetto: il suo capo è Cristo compito in tutte le cose. Egli giunse anche coll' età sua al mondo alla compita misura di uomo, perchè nel suo corpo reale avesse esempio il mistico. Poichè adunque questo nostro capo è della grandezza perfetta, così debbono ancor le membra venir crescendo sino che membra si formino di uomo adulto e compito. Questo avviene colla carità, cioè col perfetto eseguimento dei precetti divini, come insegna Paolo nella prima a' Corinti. Poichè nel capo XII descrive le membra di questo corpo, i doni, e i ministeri; e nel seguente parlando delle operazioni, o sia « de' doni spirituali (1), della via più eccellente », della carità, mostra, che doni e ministeri nulla sono senza questa che gli avviva: essi soli formano i membri morti. Ma chi al mondo arriverà a crescere colla carità sino a perfezione? Quella perfezione che fa le membra proporzionate al capo consiste nella mancanza di ogni colpa, quantunque diversi sieno i gradi del merito come diversa è la qualità ed il vigor delle membra. Chi però morisse imperfetto (ma senza colpa grave), chi morisse cioè bensì membro vivo, ma non cresciuto ancor pienamente, non reso pura carità di Dio: e' si purgherebbe nel fuoco fino a che cresciuto al giusto segno cogli altri Santi si unisse alla gloria. Pur troppo solo in cielo il corpo di Cristo è adulto! quaggiù siamo sempre attorniati d' alcuna imperfezione, che sembra quasi necessaria alla fragile umana natura: quaggiù ancora siamo come in quel tempo della gioventù destinato al crescimento di nostra statura. Questo tempo cessa, uscendo noi della Chiesa militante colla morte: que' mancamenti e difetti non gravi in quell' altra vita si purgano col fuoco. [...OMISSIS...] Quando adunque sarà da noi lavata ogni colpa ed imperfezione, e quando cesserà il nostro tempo di crescimento, allora saremo quei membri di giusta misura, quali Iddio ci aveva destinati ab eterno, che bene s' avvengono al capo, non più fanciulli ma interamente formati. Acciocchè ci rendiamo tali, Cristo pose i governatori della Chiesa. Ecco il fine della podestà di giurisdizione: essere fatti membri acconci pel Cielo. Per lo che a quella foggia che il corpo reale di Cristo in questa vita (1) venne crescendo, cresce in questa terra il suo mistico corpo. Qui si rende adulto, quanto può essere uomo perfetto, per la fermezza della medesima fede: in Cielo poi per la cognizione del Verbo , non più per ispecchio o enimma, ma faccia a faccia. Questa fede è quella che ne giova acciocchè « « non più siamo fanciulli vacillanti, e portati qua e là da ogni vento di dottrina pei raggiri degli uomini, per le astuzie onde seduce l' errore; ma seguendo la verità nella carità, andiamo crescendo per ogni parte in lui, che è il capo, cioè Cristo » ». Ecco adunque come crescono le membra: crescono per la fedel carità che ci incorpora in Cristo, e ci fa partecipe del suo già compito accrescimento. Quanto non è a dire di questa carità fondata nella fede, che schermisce il credente dall' errore, il rende adulto, e dopo morte gli mostra svelato lo stesso Dio? « Dal quale capo , prosegue Paolo, tutto il corpo compaginato e commesso per via di tutte le giunture di comunicazione, in virtù della proporzionata operazione sopra di ciascun membro prende l' aumento proprio del corpo per sua perfezione mediante la carità ». Nel che nuovamente si mostra come ogni ingrandimento e nutrimento di questo corpo viene dal capo, cioè Cristo. Le giunture poi, per cui è somministrato quel nutrimento, sono i Sacramenti della Chiesa, veicoli di grazia, li quali mediante la carità comunicano proporzionatamente l' aumento loro alle membra. Dice mediante la carità , perchè senza questa nulla valgono i Sacramenti. Questo è il sommo precetto, il germe degli altri. Chi non ama Gesù è anatema (2): non v' ha per lui giuntura che l' attenga al corpo, dacchè essere non può. Dice proporzionata , non meno cioè alla quantità dell' amore, che alla qualità del membro, poichè ognuno ha d' uopo della grazia per lo stato suo, e questa tanto gli è donata, quanto egli ama. Non è questo il luogo ov' io mi trattenga di più sui Sacramenti: basta qui avere imparato da Paolo come essi sieno le giunture dei membri al capo, i canali di grazia, di vita, e di perfezione. Soggetta a' Vescovi è l' amministrazione de' Sacramenti, perchè ha per fine l' edificazione del corpo mistico di Gesù Cristo: per questo stesso il Vescovo deve necessariamente essere Sacerdote, conciossiachè fra questi Sacramenti v' è quello del corpo e del sangue di Gesù Cristo, opera sacerdotale. Rimane a dire in quest' ultima parte della pratica della virtù. Ella s' esercita verso Dio, verso se medesimi, e verso gli altri. Primamente parleremo de' due primi risguardi, e appresso del terzo. Ogni atto di virtù verso Dio si può agevolmente raccogliere sotto questo solo titolo di Divozione; giacchè tutto si contiene nella dedicazione che si fa di sè a Dio, la quale viene espressa nella origine della parola. Non deve essere parte nell' uomo, che a Dio non sia devota, o dedicata: non tempo, in cui dalla unione con Dio ci possiamo dividere. Questo è il precetto dell' amor divino, questo il fine ed il voto dell' umana natura, che anela alla felicità, all' unione con Dio. Ma questa unione non si può avere compiutamente altrove che in Cielo. Quaggiù l' infermità di nostra natura non ci permette di stare attuati mai sempre in pura contemplazione. La congiunzione dell' anima con questa mole crassa ed inferma di corpo rende quella incapace di perfettissimo contemplare: la carne ne patisce (1), e gli obbietti esterni e corporei la strappano d' ogni parte da tale raccoglimento e meditazione sublime. Gesù però recando la perfezione della Legge e della Vita insegnò, che noi dobbiamo, malgrado di questo, tenere il vivere de' celesti per imagine del viver nostro, se nol possiamo conseguire compiutamente, dobbiamo tuttavia affaticarci per conseguirlo nella parte maggiore che per noi è possibile. « Vegliate », dic' egli con grande animo, « in ogni tempo, orando » (1). « Vegliate ed orate » (2). « Senza intermissione pregate » (3); le quali cose, a dir vero, sono all' uso de' beati del Cielo. Questo precetto della vigilanza cristiana, della continua preghiera, con quello si aduna del camminare alla presenza divina, col quale insegnò Dio ad Abramo a conseguire la perfezione. [...OMISSIS...] In vero colui che riflette Iddio essere in ogni luogo, e astante ad ogni suo atto, questi consapevole ogn' ora di qual compagno egli s' abbia, e di che dignità sia fornito, di che autorità, di che giustizia, di che bontà; non saprebbe peccare giammai. Ed in questa innocenza alla fine ritorna ogni cosa; e in essa si raccoglie veramente la abituale divozione. « Mi basta », diceva il buon S. Filippo a' giovanetti, « che voi non facciate peccati »; avvegnachè chi ha la coscienza monda, tiene altresì un animo sereno, una mente tranquilla, la pace, e Dio con sè. Esigete dunque, e commendate sopra ogni particolare ancorachè virtuosissima pratica questa astinenza da' peccati. Con questa, avendo il cuore puro da strani affetti, e privo dell' inquietudine de' rimorsi, si può volgere anche attualmente con grande soavità sè stessi a Dio, esser frequenti nell' attuale preghiera e continui nell' abituale, cioè nello spirito di preghiera. Chi nello spirito di orazione rimane, rimane in Dio, “ra sempre. A conseguire poi l' abito d' avere sempre il Signore innanzi alla mente, molte meditazioni conducono, e qui ne toccherò alcune. Chi pensa, che tutte cose da lui dipendono, che egli empie il cielo e la terra (5), che si trova tanto dall' empio come dal giusto, così nei sommi come negli infimi luoghi (6), che in somma il tutto ha creato di nulla (7): questi colle cose esteriori avrà ancora presente l' onnipotenza: Dio primo essere, Dio verità e fortezza, umiliatore degli enti tutti, anguste creature sue di sotto alla sua grandezza. Chi medita la sua provvidenza, la quale leggiadramente « scherza nell' orbe dell' universo (.), la quale tocca da una estremità all' altra, e soavemente tutte le cose dispone », sebbene con disegni rimoti dall' umano vedere (1); questi avrà ognor in sugli occhi la sapienza infinita e la bontà: Dio conservatore, e consolatore de' buoni. Chi ravvisa sparsi nelle creature de' pregi, ma imperfetti o limitati, e unisce questi e li perfeziona colla sua mente fino a illimitabile perfezione: costui in tutte le cose visibili trova una scala, che lo solleva al perfettissimo esemplare di tutto, a cui la ragionevol natura aspira e tende (2). Chi non conversa con persona al mondo senza contemplare in essa la divinità, che in quella o colla giustizia o colla misericordia sarà un giorno glorificata: senza compatir per conseguenza i suoi difetti, che Dio permette, senza congratulare a' suoi pregi, che Dio colla sua grazia produce: questi non sarà dalle persone distratto dal suo Signore, ma tratto anzi a star sempre con lui. In tutte le cose dell' universo si può sentire la voce del nostro maestro Gesù. [...OMISSIS...] Quando nella primavera si abbellisce la natura pomposamente, la terra si ricopre di erbe, gli alberi di foglie, scorrono limpide le acque, cantano canori gli uccelli: noi di ragione forniti intendiamo, che anche l' uomo viene invitato dal suo Signore a rinnovellarsi, e unire la più bella sua voce di lode nel concento che fanno al Creatore le inanimate e irragionevoli cose. Quando la state fa biancheggiar le sue messi, e il sole colla nuova sua forza va conducendo tutti i frutti alla loro maturità, e a' corpi stessi degli animali dà uno sviluppo maggiore; pensiamo di maturarci ancor noi per quel tempo in cui l' agricoltore celeste ci spiccherà per riporci nella sua dispensa. E allorchè già viene l' autunno, il tempo delle frutta e della ricolta; veniamo in noi eccitando i santi desiderŒ del nostro fine, e i sospiri verso quel celeste ripostiglio, dove saremo serbati eternamente senza ritrarre giammai macula o corruzione. Finalmente nell' invernale stagione qual meditazione più ovvia che quella della caducità di tutte le cose umane, della instabilità di tutte le umane apparenze, del fine di coloro, i quali a queste s' affidano, e del proporre ed effettuare l' intero distaccamento da tutti i beni momentanei e ingannevoli? Così da per tutto ci parla la sapienza nel succedere delle stesse visibili cose ed esteriori, quando noi l' ascoltiamo, e sappiamo intendere le sue gravi parole. E quanto poi non c' istruisce coll' aspetto del mondo morale, delle passioni, e de' traviamenti degli uomini, colle avventure e cogli accidenti della vita, co' beni, co' mali, cogli avvenimenti a seconda ed a ritroso del cieco nostro ed avventato volere! Quest' è un campo, ove fare voi stessa, e far fare altrui innumerevoli considerazioni, che tutte come tante strade mettono in Dio. Camminerà parimente presente al Signore, chi forma sì fatta consuetudine, per cui ad ogni suo atto consulti ed interroghi l' eterna Verità, e ami di fare il meglio in tutte le cose; non però perdendo il tempo a questionar con se stesso sopra minuzie, quale sia migliore; perchè tal modo molti avviluppa, facendo il peggio, mentre ne indugiano a trovar che cosa sia il meglio. A chi non fa cosa, che prima colla divina legge non l' abbia affrontata , sta Dio presente; e ciò è dovere, non v' ha dubbio, dell' uomo cristiano: costume però tanto difficile da formare quanto è bello e perfetto. Ancora se noi fisseremo il pensiero in quello che dice Giovanni, che tutto nel mondo « è concupiscenza degli occhi, concupiscenza della carne, e superbia della vita » (1); e se persuasi saremo della guerra perpetua che fa il mondo a Cristo, e come queste due parti giammai non si fanno fra sè, nè s' intendono in modo alcuno: terremo allora continuamente vita e contegno di soldati viventi in campo e in guardia dell' inimico. [...OMISSIS...] Gl' inimici nostri sono da fuori, e da dentro. Quelli consistono nella lusinga delle cose fuori di noi, questi siamo noi stessi: quelli si vincono colla mortificazione esteriore, questi colla interiore. Non è forse tanto faticoso vincer quelli; ma superar sè medesimo è la cosa più ardua di tutte: in questa è la sequela di Cristo: « Chi vuol venire dopo di me anneghi sè medesimo, tolga la sua croce e mi segua » (3). Questo annegamento di sè stessi, questa mortificazione interiore, che ne riduce alla bella perfetta conformità del nostro volere col divino senza mai prevenirlo, ma susseguendolo quasi come ombra segue il suo corpo, e come raggio il suo astro: quest' arte sincera della cristiana vita è ciò, in cui si vuole con tutte forze occuparsi. La mortificazione esterna è sola una sussidiaria, una serva di questa. In ciò avete a scorta il gran santo Francesco Salesio. Con ciò conseguite, che se sempre avrete nemici, abbiate altresì sempre vittorie; e se c' insegue dovunque con mille artifizj l' avversario, dovunque ci stia sempre presente con mille ajuti il comune difensore GESU`. Aveano i Cristiani de' primi secoli le recenti imagini di Gesù Cristo ancora vive in sugli occhi. La misteriosa sua vita, il suo divino conversare, la dolorosa morte, la gloriosa risurrezione, le istruzioni de' quaranta giorni erano rimaste vivamente segnate ne' loro animi, e rendevano loro Gesù ognor presente, ognor sui labbri: faceano ch' ei fosse l' oggetto di loro intrattenimenti, la consolazione di loro angustie, il caro argomento de' lor canti, e di tutti i loro trastulli lo scopo ed il condimento. Lo stato miserabile del mondo a que' tempi ingolfato in cieche sozzure di paganesimo faceva risplendere più la bellezza, la luce, la perfezione del nuovo istruttore celeste: le persecuzioni rendeano necessaria una unione più continua e più stretta con quel primo martire compagno ed esempio a' loro dolori, e fonte di loro robustezza: gli Apostoli vicini, che predicavano quel Gesù che veduto avevano e toccato colle loro mani, da cui tanti atti d' amore, tanti saggi della più dolce amicizia aveano divinamente ricevuto, imprimevano altamente in que' bei tempi la presenza del loro Signore in tutte le cose. Erano di Cristo piene le loro prediche, di Cristo piene le loro lettere, di Cristo piene le loro vite. « Innanzi a' cui occhi », scrivea Paolo ai Galati, « fu dipinto Gesù Cristo tra voi crocifisso (1), dipinto » colla mia predicazione, « tra voi crocifisso » nella persecuzione che sofferiste, anzi egli con voi. Oh famigliarità che aveano col nostro Signore! Oh santissima dimestichezza, vera fratellanza con questo amabile Dio, in cui il maestro, il padre, l' amico, tutto trovavano; e fuori di cui cosa alcuna non volevano ritrovare! Adesso Gesù Cristo al più de' Cristiani è lontano: e anche a molti de' buoni si rappresenta più come Dio che come uomo: e sembra che si tema, per dire così, di accostarsegli. Non si discorre di lui con quella frequenza, non con quell' ardore nelle unioni nostre: si ha quasi ribrezzo ad aprirci con ingenuità vicendevolmente, e dire i sensi amorosi, che pur da molti si nutrono di dentro per lui: l' unirsi a caso fuori della chiesa o delle ore stabilite, proporre d' intuonare qualche cantico al nostro Signore, proporre di fare a lui orazioni, e così occupare quel tempo del conversare; parrebbe cosa fuori del costume, e se ne avrebbe ripugnanza, o anche superata e proposta la cosa, verrebbe accettata con freddezza e con titubanza; se pure taluno non si trovasse che ne ridesse. Comunemente i Cristiani nostri hanno, è vero, divozioni particolari, pratiche a' Santi, formole in onore di qualche particolare oggetto religioso. Commendabili sono queste, se dalla Chiesa approvate; ma chi può negare che non per difetto di esse, ma talvolta per imperfezione di chi le usa, molti non sieno trattenuti in queste pie usanze, e quasi tenuti indietro e indugiati dall' adito alla fonte della divozione, alla cognizione e al vagheggiamento immediato di Gesù, al cui onore quelle pratiche pure si riferiscono? Quanto è bello, quant' è utile pensare sempre a Gesù! e sulle vestigie apostoliche lui fissare in tutte le cose! e non solo rammentar che è Dio, il che più tosto ci sbalordisce e ci perde; ma averlo presente qual uomo, qual uno di noi, uno vestito dello stesso corpo: uomo suggetto veramente alle umane infermità, fuor del peccato, che con noi gusta e patisce, ci compassiona, ci conforta, ci allegra, c' incoraggia, ci ajuta, ci riprende, ci minaccia; e in tutto fedele, in tutto amico, presente in tutto, compagno, partecipe. Ah sì! illanguidita è presso a molti la divozione di Gesù! Io vorrei che ogni cosa si facesse per ristorarla e raccenderla dai Cristiani. Alle vostre ragazzine parlate spesso di questo dolce maestro, abbiano nell' orecchio il nome di Gesù, l' abbiano nelle loro occupazioni presente, intervenga egli a tutti i loro divertimenti. Se voi potete far loro prendere quest' abito d' imaginarsi Gesù a loro compagno indivisibile in tutti i luoghi, i momenti, le opere della vita; elle hanno già conseguito egregiamente l' uso della presenza divina, della cristiana vigilanza, della incessante preghiera, del dolce e abituale raccoglimento: questo è il più bel modo di tutti. Giova ancora per rimanere in ispirito d' orazione, come ci è comandato, l' uso ben disposto d' ogni parte di tempo, e la frequenza di brevi orazioni, e di tratti momentanei d' affetto a Dio. Se qualche ritagliuzzo di tempo avanza fra l' una e l' altra delle opere esteriori; non l' ozio, ma la preghiera lo occupi. Le brevi preci, di cui ho toccato anche sopra, tanto usate dagli antichi solitari d' Egitto, come santo Agostino riferisce, sono anche da questo santo Dottore commendate, perchè eccitano viva e spessa attenzione, e non lasciano raffreddare l' affetto, come avviene frequente in orazioni prolungate. Per le quali cose, questa innocenza della vita, questo vegliare sopra se stessi, e camminare in presenza di Dio con annegamento del proprio volere, e conformità al divino; è, non v' ha dubbio, l' apparecchio più eccellente e più bello all' attuale adorazione. Quel Cristiano, che in ispirito d' adorazione si tiene, apre sempre la bocca sua in modo gradito al Signore. Questo insegnava Gesù alla Samaritana quando diceva: « I veri adoratori adoreranno il Padre in ispirito e verità » (1). Sono qui delineate le proprietà tutte del vero adoratore: lo spirito riguarda l' interno affetto, la verità l' esterior forma della preghiera. Se nel discorso, che in suo cuore tiene, l' adoratore di Dio pone cosa, che o disconvenga alla maestà sua, o proporzione non serbi coll' umana bassezza, che non si faccia bene all' infinita misericordia, e alla viva nostra confidenza, ovvero che offenda la giustizia e la fede, o che supponga una credenza vana, e non degna di Dio, la verità vien meno, manca un principal distintivo di vera adorazione. Ma colui che prega Iddio in ispirito , cioè col cuore bene per ogni parte disposto, questi prega in Dio che è spirito, e però anche la forma di sua orazione ne uscirà acconcia e vera. Questo è quello spirito, di cui Cristo disse: « Lo spirito è ciò che vivifica, la carne non giova nulla » (2). Suppone tale spirito intera rinunzia a quello che spirito non è, a quello che non è Dio, perchè ciò nulla giova; ciò è carne, ciò è mondo, ciò è peccato. Di queste cose parlava Paolo a' Romani quando scrivea (3): « « Io vi scongiuro, o fratelli, per la misericordia di Dio, che presentiate i vostri corpi ostia viva, santa, a Dio gradevole » ». L' ostia ed il sacrifizio suppone cosa, che si strugga in onore della divinità. Avanti Cristo s' immolavano corpi di buoi, di pecore, e d' altre bestie. E or l' uomo che cosa sacrifica? Sè stesso. Dovrà dunque struggere quanto in sè v' ha di buono? No: ma quanto v' ha di cattivo, quanto dalla carità viene escluso, il corporeo, il carnale. Le fiamme di questa carità incenerir debbono appunto tutte le altre cose, esse sole ardere. Così l' uomo si purifica, e si rende spirito, e in ispirito prega, e tanto meglio prega, quanto in tal modo è meglio purificato. Tale sacrifizio più vivamente splendeva ne' martiri, che, secondo il letterale incoraggiamento apostolico, offerivano i propri corpi, e con essi ogni mondano possesso. Ma la virtù, l' interiore mortificazione, con cui si rinunzia alle cose nostre, e a noi stessi; e finalmente quell' apparecchio alla morte, per cui in essa non altro veggiamo che lo scioglimento del nostro corpo quale vittima alla giustizia, e tale volonterosamente s' incontri: questo fa, che pur noi, sacrificate le vane cose che ci aderiscono, siamo resi puri, resi spirito, emulatori de' martiri. Non basta dunque il moto de' labbri nella preghiera, e 'l componimento del corpo; non la scelta del luogo, o l' esterno apparato: l' affetto dell' animo si richiede: affetto tanto più puro, quanto è la vita; se pur in sull' atto della preghiera la grazia divina non operi alcuno de' suoi mirabili effetti in chi prega. Iddio non ci ha lasciati però senza guida, anche rispetto alla forma della preghiera: acciocchè come lo spirito ottimo suol produrre ottime forme di preghiera, così da buone forme di preghiera sia eccitato ed aiutato lo spirito, s' egli al tutto non è perfetto. Guida a noi data è la Chiesa; ella c' insegna a pregare con ogni verità . Nella Chiesa ogni Cristiano ha pascolo sì abbondevole, che s' egli a quello si nutre, altro non brama. Perchè dunque o ricercare nuove pratiche divote, o anteporre le private alle pubbliche, se in quelle della Chiesa abbiamo qualunque cosa che a Dio convenga, qualunque che alla propria santificazione confaccia? Non niego libertà al vostro cuore di sfogarsi con quelle orazioni spontanee, che egli vi suggerisce; queste assai volte sono frutti dello spirito di Dio; e però allo spirito, e alla Verità conformi: ma parlo di molte pratiche esteriori particolari. Le quali, se anche rette fossero e vere; saranno sempre false, ove verranno anteposte alle pubbliche, o per quelle queste posposte; essendo sconvolto l' ordine che d' anteporre comanda ciò che ha più pregio. Poichè, lasciate le altre cose, tanto queste più giovano quanto più giova la preghiera di molti sopra quella d' un solo (1). Santa poi oltracciò essendo la Chiesa, chi a questa si unisce nell' orare, santifica la propria orazione: e a' difetti propri riparando colla comune virtù, e col fervore de' molti, fortifica fuormisura l' efficacia della preghiera. Parliamo adunque al Signore colla bocca della Chiesa, e pregheremo secondo la VERITA` . Ma è però vero, che nulla varrebbe usare a pubbliche funzioni, e recitare preci ecclesiastiche, quando la favella del cuore non s' aggiungesse. Poichè si direbbero cose vere e giuste, ma non in modo al tutto giovevole. Si adorerebbe Iddio in verità, ma non in ispirito; si peccherebbe come coloro, a cui fu detto: Questo popolo mi onora colle labbra; ma il loro cuore è lontano da me (1). Riprova molte invenzioni di pietà lo stesso Agostino, [...OMISSIS...] . E chi non sa quanto il moltiplicare fra noi di certe pratiche religiose porse occasione alla malizia o alla grossezza degli eretici di enfiare le gote sclamando, accusando, e calunniando la Chiesa? Per serrare la bocca a' quali, quanto è possibile, comandava Paolo, che « non solo dal male s' astenessero » i fedeli, « ma anche dall' apparenza del male » (3). Nè da ciò s' inferisca, che meriti alcuna disapprovazione la Chiesa o il Sommo Pontefice, il quale, secondo il precetto dell' Apostolo: « Provate tutte le cose, tenete quello che è buono » (4), non rigetta veruna di quelle pratiche inventate dalla cristiana pietà, che dopo esame maturo buone rinvenga, anzi coll' autorità apostolica le commenda quali aiuti ed amminicoli novelli, che il Santo Spirito aggiunge alla pietà illanguidita, e alla carità, pel succedere de' mali tempi infermata. Qui si ragiona soltanto de' trovati dello spirito particolare, e che la Chiesa o tollera se li conosce, o ancora li condannerebbe se li conoscesse; ma veruna approvazione non ebbero. Quelle prime sono venerabili, e se le calunnia l' eretico, è a suo gran danno: queste seconde, sebbene lo spirito spiri ove vuole (1), tuttavia restano incerte al comune de' fedeli, alle altre senza dubbio alcuno da posporsi; e se il buon cristiano le esamina avanti di praticarle, quest' è a sua lode, e a salute. Anzi anche quando la Sede Apostolica approva nuove forme di preghiere, lascia però sempre al retto spirito de' fedeli farne il discreto e ragionevole uso che si conviene, lascia loro di pregiar più quelle, che per antichità, solidità, dignità e istituzione hanno eccellenza maggiore: e tanto è saggia, che mentre ella ama ed impone ad ogni fedele che alle grandi sorgenti s' accosti, non chiude però a nessuno le picciole vene e gli spruzzi d' acque, quando sieno puri e salutari. Non però sono queste necessarie giammai, come il rigagno non è necessario a chi ha il fiume; e pur giovano principalmente a chi non sa, per propria imperfezione, all' abbondanza delle maggiori pienamente abbeverarsi. La Chiesa, come dice Agostino, non è aggravata da importevoli pesi servili, come la Sinagoga da sue cerimonie. Ella è libera: ella signora: pochissimi, manifestissimi sono i suoi sagramenti, cioè le sue funzioni essenziali. Ma che immenso frutto trae quel Cristiano, che pone lo studio suo nello intendere quelle semplici voci della Chiesa, gravi di sensi, e le cerimonie e gli emblemi e le espressioni che variamente li vestono! L' Orazione dominicale, l' angelica Salutazione, il Credo, la Salveregina: ecco pochissime , e manifestissime formole. Che semplicità, che facilità, e brevità! E pure, chi dentro vi penetra, oh in che ampiezza di cose interna la mente e il cuore! Il Sacrifizio della Messa, gli Uffizi pubblici, e i Sacramenti: ecco pochissime, manifestissime e uberrime istituzioni! In queste non che esser vi possa anima tanto arida, che satollar non si debba; ma non ve n' ha alcuna nè pure sì affettuosa e fervente, che sappia tutta abbracciare e pascere la pinguezza degli affetti divini in esse contenuti, e de' modi d' avvicinarsi ed intimarsi per Cristo con Dio. Ma sulle bellissime e semplicissime forme di preghiera, che mette in bocca la Chiesa a' Fedeli, non farò io discorso: solo un cenno farò della orazione del Signore, come eccellentissima di tutte. E questo picciolo cenno torrò da antica e pubblica spiegazione. Essa è conservata nel Sacramentario di Gelasio Papa, pubblicato dall' egregio uomo Cardinal Tommasi nel 16.0, e riprodotto dal Muratori nell' « Antica Liturgia Romana ». Si costumava di leggere tale spiegazione a' Catecumeni sotto la Messa qual Prefazione della dominicale preghiera. Raccomandata è dall' antichità sua, dal libro da cui è tratta, e da' bei sensi di cui è piena. [...OMISSIS...] Parleremo ora de' soli esercizŒ principali della cristiana pietà, cioè, come fu indicato innanzi, del Sacrosanto Sacrifizio; poi degli UffizŒ di Chiesa, e all' ultimo alcun poco de' Sacramenti. [...OMISSIS...] Se si riguarda però alla eccellenza e sublimità di questo divino Sacrifizio, ell' è tale, che nè pure in cielo non si dà alcuno atto di culto più augusto: gareggia per questo la terrestre Gerusalemme colla celeste, nè a' cori degli angeli può increscere di scendere dall' empireo, e assistere in terra al Sacerdote ne' divini misteri occupato, adorando intorno all' ara un' ostia, che l' uomo tratta colle mani sue, e colla sua bocca si mangia e si bee. Ecco fonte copiosa di vive acque! Qui ogni pietà si può dissetare. Ecco pane angelico! Di lui si può nutrire a piena abbondanza qualunque sopraumana divozione. Che manca qui di grande, che manca di santo, di dolce, di benefico, misericordioso, e commovente? che cosa fuori di questo si può cercare o trovare di religioso, di pio, ed utile, e buono, e bello, e ricco ed eccelso, che già in questo eminentemente non sia, dove la sorgente è di ogni santità, grazia, amore, bellezza ed altezza? [...OMISSIS...] Deh come potrà andare in cerca con molto studio e quasi lambiccandosi il cervello di nuove divozioni, di strane forme di culto, colui, il quale sappia d' averne già in questo solo atto, da Gesù instituito, sì abbondevole pascolo, che non solo pel suo povero e angusto cuore, ma per quello di tutti gli angeli del Cielo ne sia trabocchevolmente d' avanzo? Quale adunque sia l' ubertà e la ricchezza delle pochissime e manifestissime pratiche da Gesù Cristo instituite, e per mano de' santi Vescovi della Chiesa successivamente tramandateci, non punto s' intende: ovvero, per meglio dire, essendo queste purissime, divotissime, celesti, in cui s' esercita la Fede, la Speranza si pruova, e lo spirituale Amore, l' amor sceverato da strani affetti, si fa necessario: non vengono penetrate dagli uomini grossi e imperfetti, ed eglino non trovano in esse, come dice il Gersen, o da appagare la curiosità, o da pascere la leggerezza, o da satollare i sensi crassi ed oscuri, che solo cose visibili e corporee appetiscono, e oltre queste niente trovano, niente veggono. Per sì grande infermità, postergate o poco curate o non istimate almeno a giustizia le sante istituzioni di Cristo, si studiò spesso di comporre più materiali invenzioni, in cui essendo alcuna cosa o un nome di santità, credesi d' esercitare il culto divino, e si nutrica invece sua la propria carnalità. Vorrei per tanto richiamare lo spirito di costoro alla santissima e sapientissima intenzione della madre comune, della cattolica Chiesa. La quale sebben condiscenda di richiamare gl' imperfetti cristiani cogli esteriori aiuti alla spiritual divozione: tuttavia e ripruova le divozioni false o indegne della divina Maestà; e regola quelle, le quali, non essendo principali e tali che contengano il fine della divozione, a quelle precipue, che il fine racchiudono di ogni culto, si ordinano e riferiscono. Onde ne' Santi adora essa l' autore della santità; e nelle imagini venera il santo oggetto, che per esse è figurato o dipinto; e nelle reliquie onora quella spoglia, che, sebben di carne, fu già il tempio di Dio, e un giorno, ricomposta a vita, verrà riedificata novellamente in una casa, ove la divina gloria abiterà eterna; ed in tutte le sante cose e le pie memorie esalta e glorifica il Signor de' Signori, il Dominatore de' Dominanti: al quale è dovuto l' onore e la gloria, e da cui non è lecito nè rimuovere una scintilla di amore, nè qualunque particella di culto senza ingiustizia e senza punizione. Chi ama dunque d' essere nella divozione perfetto pensi d' udire bene la Messa, e di gustare degnamente questo divin Sacrifizio. Ogni dì, s' egli se ne dia cura, parragli nuovo; perchè imparerà nuove cose, in frequentandolo, nuovi affetti sentirà; gli parrà ogni dì più dolce, ogni dì conoscerà qual v' abbia distanza fra questa e le altre divozioni serve di questa: compiangerà coloro, che assistono alla Messa indivoti, che l' hanno per cosa triviale; perchè resa frequente dalla profusa generosità del Signore: insomma ogni dì formerà bei desiderŒ di poter penetrar meglio in quest' atto di culto, meglio incorporarsi alla vittima che s' immola, meglio unirsi alla comunion de' Santi, che per mano del Sacerdote fa all' Infinito un dono, niente minore di quello, che a lui conviene: finalmente imparerà sempre più quella verità, che la divozion grata a Dio non è posta in moltitudine o varietà di pratiche, ma nella VERITA` e nello SPIRITO . Nè si deve credere, che colui, che assiste alla Messa non abbia parte nell' atto del Sacerdote. Poichè è così: che Cristo offerto nella Messa offerisce, e sacrificato sacrifica: in persona poi di Cristo il Sacerdote; ma unita in Cristo al Sacerdote la Chiesa tutta, ed ogni fedele, e segnatamente colui che è presente. Per la qual cosa chi ascolta la Messa deve pensare all' atto che fa egli stesso, e non credersi solo testimonio, ma ministro nell' offerire insieme col Sacerdote, e colla Chiesa, e con Cristo; e in questo pensiero udirà ottimamente la Messa: ottimamente, in questo spirito tenendosi, l' udirà anche colui, che non sa accompagnare il Sacerdote nelle diverse orazioni, e viene facendo altre sue preci: come fanno gl' idioti. Sono adunque due cose principali nella Messa, cioè l' Offerimento dell' ostia, che si fa a Dio qual supremo Signore di tutte cose; e la Consecrazione, ovvero immolazione della medesima ostia. Questa è proprio atto del Sacerdote in persona di Cristo; quella di ogni cristiano presente alla Messa. Il che si ricava dalle stesse parole del Sacerdote. Poichè proferendo le parole della consecrazione in singolare come se Cristo solo parlasse, all' incontro offerisce in plurale come si vede nel canone. [...OMISSIS...] Ricorda poi questa offerta fatta in numero plurale quel tempo, nel quale il Diacono distribuiva al popolo il sangue, dopo che il Sacerdote avea dato il corpo. E dicevano quelle parole il Sacerdote ed il diacono insieme (come ancora nella Messa cantata è in uso), affinchè quello che il Sacerdote avea ministro e compagno nella distribuzione, avesse compagno anche nell' offerta. Che se innanzi in offerendo il pane disse in numero singolare, fece egli solo per gli astanti, ed offerì veramente prima per li suoi peccati, e poi per quelli del popolo (1). Queste parole perciò, o questo sentimento almeno, dovrebbe essere proferito ed espresso dagli astanti insieme col Sacerdote. Plurali poi sono altresì le parole che succedono: « « In ispirito d' umiltà ed animo contrito veniamo da te accolti, o Signore, e il Sacrifizio oggi si faccia al cospetto tuo per modo che a te sia gradevole, Signore Iddio » ». Le quali non solo insieme col Diacono, ma con tutti i presenti certamente s' intendono dette. E queste significano, che dopo essere già offerto il pane ed il vino pel sacrifizio, si esibisce e presenta sè medesimi a Dio quai vittime insieme con Cristo. Poichè solo unito a Cristo l' uomo può fare di sè grato dono e grata ostia a Dio. E che ciò sia il senso dell' orazione si ricava dal libro di Daniello; donde sono tratte le parole e il concetto. In esso i tre forti giovani Ebrei salvati in Babilonia da ardente fornace, fra le fiamme, dove di sè facevano offerta, cantavano appunto così: [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] E per doppia ragione il Sacerdote chiama quel Sagrifizio suo, e dei presenti. Prima, perchè tutti l' offeriscono; dipoi, perchè si porge in Sagrifizio insieme con Cristo, e il Sacerdote, e gli astanti. L' una e l' altra di queste cose indicate nelle dette orazioni, sono più chiaramente espresse nel Canone, la parte più antica ed augusta della Messa, compilato da parole di Cristo, da tradizioni Apostoliche, e da pie istituzioni di santi Pontefici. Poichè in esso, tolta fuori la consecrazione, tutte le orazioni d' offerta sono plurali. [...OMISSIS...] Nella quale orazione tutti gli astanti offeriscono; e « SagrifizŒ illibati » si dicono non solo il pane e il vino, ma i cuori offerti al Signore. Si dicono illibati ed immacolati , spiega Innocenzio III, perchè ciascuno si deve offerire senza macchia nè di cuor nè di corpo: che il cuore abbisogna purgato da iniquità, ed il corpo da immondezza (1). Onde quest' aggiunto è principalmente posto pel sacrifizio interiore dell' animo. Appresso poi preghiamo il Signore perchè si rammenti dei circostanti tutti, pe' quali offeriamo il Sacrifizio di lode e propiziazione, e nuovamente di quelli, che lo offeriscono. E, fatto ricordo della comunione co' Santi del Cielo, uniti a' quali preghiamo e adoriamo Iddio, stende il Sacerdote le mani sue sopra il calice e sopra il pane, a quella guisa che nell' Antico Testamento esso Sacerdote ponea le mani sulla vittima: volendo con tale rito indicare, come egli stesso ad essa si congiungeva e con essa a Dio dedicavasi ed offerivasi (1). [...OMISSIS...] Ben è pertanto a meditare e pregiare per noi un sì bello offerimento della servitù nostra, e di tutta la cattolica famiglia: essendo questo il Sacrifizio che dà la salvezza: mentre niente ci varrebbe la stessa morte di Cristo, fuori che a condanna, se di quella non partecipassimo bevendo lo stesso calice, tenendo i suoi vestigi, e colla croce in ispalla porgendoci pronti e di dare il sangue per la legge sua e di sacrificare la concupiscenza nostra all' onore della sua legge. Ora anche dopo la consecrazione, favellando del pane e del vino sacrato, pregasi, che con propizio e sereno volto risguardi Iddio su quelle cose divine, e le riceva quasi doni d' Abele, sacrifizŒ d' Abramo, e di Melchisedecco; in quanto che nè pure il sacrifizio di Cristo, non che quegli antichi, ci potrebbe giovare cosa alcuna, se non unissimo il sacrifizio di noi stessi come que' Santi fecero, mercè un cuore spirituale, e conformato in ogni cosa a Cristo. Di questa grazia per la stessa ragione se ne prega già avanti Iddio, là dove dopo nominata l' offerta di nostra servitù, segue così: « La quale obblazione, o Dio, ti preghiamo, che tu ti degni di farla benedetta » (noi stessi così veniam benedetti in essa), « ascritta » (al numero delle cose aggradite: noi veniam con ciò ascritti in Cielo), « rata » (cioè valida ad ottenerci gloria: veniamo con ciò numerati tra i legittimi fratelli di Cristo, per cui patì, fra i molti per cui effuse il sangue), « ragionevole » (vengono in tal modo in noi ordinate le facoltà inferiori sotto all' imperio di ragione), e « accettevole » (per sì fatto modo che non solo qui su l' altare venga il corpo e il sangue di Cristo, ma venga questo) « a noi » (a vantaggio nostro, sicchè a noi incorporato, in noi più non vegga il Padre celeste quanto ha di spiacevole, e di schifoso, ma vegga Cristo, vegga gratissima cosa e accettevolissima) (2). Questi offerimenti di noi, e rinunzie alla vita, e a quanto è nella vita per Cristo, sono ciò che rendono verissimo Sacerdote qualunque cristiano cattolico; come dice Tertulliano (1) in consonanza cogli apostolici insegnamenti. Poichè sacerdote è chi sacrifica a Dio. E sebbene Cristo solo per sua eccellenza sia il Sacerdote eterno giusta l' ordine di Melchisedecco, e solamente immolando sè stesso abbia reso all' Altissimo gradevole Sacrifizio: tuttavia ed ogni Sacerdote, qual ministro di Cristo, in persona sua rinnovella detto sacrifizio della croce; e di più ogni Cristiano con Cristo incorporato pel battesimo, partecipa del sacerdozio suo, in quanto può offerire ed immolar sè stesso colla contrizione, col distaccamento di sè e coll' umiltà. Questa distanza però v' ha fra Cristo, il Sacerdote, e 'l Laico fedele, che Cristo è Sacerdote per sè in eterno; gli altri partecipano del Sacerdozio suo: che il Sacerdote poi ne partecipa sì altamente, che può offerire ed immolare, non che sè stesso, lo stesso Cristo; il Laico all' incontro solamente in tal modo, che non immolare, cioè consacrare, ma può offerire Gesù Cristo, e immolare o sacrificare sè medesimo, struggendo in sè quanto non sia puro amore di Gesù Cristo. Dalla quale unione, come dicea, di noi colla vittima sacrosanta, è il massimo frutto della Messa. [...OMISSIS...] Laonde offerisce il discepolo di Cristo sè stesso in tutto a lui conformato « osservando i precetti suoi, tenendosi nella sua carità » (1): e in questa unione di sacrifizio pregando il Padre, non può non ottenere quanto egli brami, nè altro e' brama se non le cose del suo Signore. Or poi cotesta unione nasce non solo per mezzo del Sacrifizio, con cui noi ci diamo a Dio; ma ben anco per mezzo del sacramento, con cui Dio e Cristo in sue carni ed in suo sangue si dà a noi da mangiare. [...OMISSIS...] E tale comunione di Cristo a noi forma la terza parte principale della Messa. Ell' è così quasi una vicenda di divino amore ineffabile, che dopo avere offerto noi a Dio in sacrifizio Cristo, e con Cristo noi stessi (cose per altro tutte sue), esso Iddio tutte ce le restituisce, e sè stesso a noi si dona in tutto nostro potere e in nostra natura: unendosi con noi sotto specie di cibo, e con noi immedesimandosi: per cui questo convito chiamossi con vera ragione: « Principio in noi della divina sostanza » (3). Oh amore immenso! Oh carità smisurata di Dio! Contraccambio, vicenda, gara di divina benevolenza! nella quale l' uomo, che niente ha, prima si fa comparire ricco d' altrui ricchezza a poter presentare Iddio di tesoro degno di Dio, e poi si ritorna questo tesoro: quasi non perchè Dio benefichi; ma giocando, come a dire, di liberalità, paia regalato e beneficato, e poi ridonando e ribeneficando vinca non per l' eccellenza del dono, ma per l' eccellenza del contraccambio! Il che dee mettere nell' uomo quella confusione, che s' esprime dal Sacerdote, quando, ricevuto il pane, e perduto, e smarrito nella grandezza del divin dono, dimanda al Signore: « « Che ti darò, Signore, per tutte cose che tu m' hai regalate? » » e non sapendo che, soggiunge: « « Riceverò il calice del salutare, e il nome invocherò del Signore » ». Cioè, non darò: che non ho cosa a dare; ma seguirò a ricevere i benefizŒ tuoi; ed essere, come da nuove onde di divina misericordia, nuovamente coperto ed inabissato. Ad un così benedetto convito pertanto, ad una sì divina mensa imbanditaci dal Signore colle sue carni « incontro a quei che ci tribolano », tutti ne invita e ne chiama l' amorosissimo convitatore. [...OMISSIS...] Gli ardentissimi desiderŒ poi di Gesù, che cioè si nudriscano a questa cena e si satollino seco i discepoli suoi, nella santa Chiesa passarono, la quale mai sempre di cotesto angelico cibo mostrossi, a così dire, famelica ed insaziabile. Nominollo spesso le delizie sue, la sua vita, la sua fortezza, il suo tesoro, il misterio della sua pace, il suo regale indumento, la porpora sua nel sangue tinta del suo Signore, il sommo suo bene, l' altissima sua bellezza, le care reliquie di Cristo, di Cristo l' ombra sotto a cui siedono i desiderosi di lui, il principio della sostanza divina nell' uomo, l' ostia della salute del mondo, le divine ricchezze, il singolar sollievo dell' amata nell' assenza dello sposo, il presagio carissimo della divina misericordia e dell' eterna rimunerazione. Basta accostarsi alle memorie de' Santi d' ogni tempo per ammirare e l' avidità incredibile che a questo pane celeste avevano, e le dolcezze che ne sentivano, e le grazie che ne cavavano. Basta ancora leggere le orazioni della Messa pertenenti al comunicare, perchè si comprenda, essere desiderio grandissimo della Chiesa, che gli uditori tutti, se potesse essere, della Messa ogni dì partecipassero col Sacerdote alla sacra mensa, sì come avveniva ne' tempi primitivi a ragione beatissimi: in cui tanto era il fervor de' Cristiani, che potean dire con verità, il corpo ed il sangue di Cristo essere loro cibo cotidiano: e tanta venerazione s' aveva all' ineffabile Sacrifizio, che non si teneva degno di starvi presente chi degno ancora non fosse di comunicare del divino nudrimento. Nel canone IX degli Apostolici si comanda, che tutti i fedeli, i quali, udite le Scritture, non persistono all' orazione, e alla comunione, vengano divisi: e lo stesso si trova in altri documenti dell' antica disciplina. Allo spirito della quale, poichè non possiamo alla lettera, noi ci dobbiamo conformare. Assistere cioè alla Messa così mondi, raccolti, ferventi, da essere degni di comunicare ogni dì; e tanto spesso comunicare, quanto spesso amiamo di ricevere cosa di tutte desiderabilissima, giovevolissima. Intorno alla quale frequenza di comunione cercando S. Bonaventura come ella giovi, assai acconciamente disse, [...OMISSIS...] . In somma tanto è giovevole comunicare, quanto bene noi siamo disposti: come cibo, il quale, ancorachè eccellentissimo, nulla giova; anzi può dar morte a chi ne sopracarichi uno stomaco indisposto e ammalato. E tanto è a dolere in questo fatto dei nostri dì, che manifestando il Concilio di Trento quel voto della Chiesa, che tutti comunicassero coloro che assistono al sacrificio, il santo Sinodo non dice desidera , ma desidererebbe , quasi non osando di formare in tai tempi tal desiderio, di cui pure una volta, vergogna nostra! non si formava nè un desiderio, nè una speranza; ma un precetto, o per lo meno un universale costume. Essendo adunque « le cose sante pe' santi, le cose monde pei mondi » (2); tremenda verità dice Paolo, allorchè risguardo agli indegni parla così: [...OMISSIS...] . Cioè a dire: Ricevendo il corpo santissimo si testifica il sacrifizio. Perchè sebbene sia Cristo intiero sotto ciascuna specie, non potendo oggimai esser diviso quegli che risorto da morte non muore più, ma regna eterno in Cielo a destra del Padre: tuttavia nel pane si considera il solo corpo, nel vino il solo sangue, acciocchè rappresentandosi corpo e sangue divisi, imitino la violenta morte del Signore. Dunque ogni volta che alcuno presume di ricevere il pane eucaristico, riceve Cristo sacrificato, e in suo aiuto invoca ed usa la morte di Cristo. Così la testimonia ed annunzia: ed esprime, che e' la vuole a quel modo, che la volle Cristo in salute propria e del mondo; poichè fa quell' atto che pose Cristo perchè l' uomo se n' applichi il merito. Chi adunque tiene in quest' atto un animo reo ed indegno, simile a Giuda tradisce il Maestro, e più neramente che d' un bacio: il vende agli appetiti suoi, e non per altra ragione il vuol morto: non vuole il sacrifizio che salva, ma il sangue del giusto, che al Cielo grida vendetta. E` reo dunque del corpo e del sangue del Salvatore, abusando di sua morte: e in questo sacrilegio si può dire del Salvatore come i figliuoli di Giacobbe dissero del fratello: « Una pessima fiera lo ha divorato ». Perciò un tal cristiano, non pensando quello che fa, e disconoscendo il cibo che prende, si beve e mangia la sua condanna (2). Non è questo partecipare alla cena divina: conciossiachè (come dicea Paolo di chi mangiava le cose immolate agli idoli) non si può partecipare in un tempo alla mensa del Signore e a quella dei demoni (3). Doppia maniera dunque è di mangiare il corpo di Cristo: altra colla bocca, e altra collo spirito. Può alcuno mangiare il divino corpo colla bocca senza che collo spirito se ne pasca. Non è proprio dire che questi si nutre di Cristo, bensì che trangugia la sua condanna. Non si dice propriamente che partecipa a mensa divina, ma ad una mensa umana, e, rispetto al frutto ch' egli ne porta, diabolica. Ecco l' orazione, con cui nella Messa il Sacerdote, e quelli che con esso comunicano, ringraziano il Signore: [...OMISSIS...] . Col corpo vedemmo e toccammo le specie di Cristo, che è dono temporale: Cristo stesso coll' animo si riceve, e colla mente pura e divota. [...OMISSIS...] Adunque chi crede in lui, e crede, che questo pane sia Cristo a salute nostra sagrificato, e non lo tiene quale altro cibo; chi ne mangia non col corpo ma collo spirito, questi ha vita eterna. Nudrire l' anima nostra di Cristo è essenziale a salute: con questo Cristo tutto promette, senza questo dichiara che non possiamo avere la vita in noi. E questo spiritual nudrimento è pur quello stesso, che nell' altra vita si gusterà; e di cui Cristo disse nell' ultima cena: [...OMISSIS...] Altrove ancora paragona la beatitudine del Cielo ad una cena e ad un convito nuziale (2). Nè il regno di Dio è egli cibo o bevanda corporea, ma spirituale, cioè giustizia e pace e gaudio nello Spirito Santo (3). E` adunque il cibo eucaristico rinovazione, figura e saggio: e segna passate cose, presenti e future. Rammenta e rinnova la passione di Gesù; figura la grazia, e l' autor suo a noi dato a pascere; e presagisce la rimunerazione futura, l' eterna vita. E` poi il cibo vero, e ne ha tutti gli effetti. Mantiene la vita in virtù del sangue di Cristo, accresce e rinforza in virtù della grazia, che in noi aumenta; e soavemente diletta sì per imagine de' celesti diletti come per una parte di quelli che in lui si pregustano. [...OMISSIS...] Al mangiare pertanto che il nostro corpo fa le specie sacramentate, l' anima bene disposta riceve dentro a sè Cristo, e a Cristo s' incorpora. Sebbene niente valga quella corporale nutrizione senza questa spirituale; tuttavia a quella questa è connessa: essendo stato conforme alla sapienza del divino inventore di questo banchetto, che come nell' uomo quanto v' è di essenziale e pregevole è la natura intelligente, ma questa però non è sfornita di veste corporea; così il cibo, che all' anima si presta, di corporea forma sia circondato. Allora però, che s' assiste alla Messa, e non si partecipa del Sacrifizio insieme col Sacerdote, si possono eccitare ciò nulla ostante in noi de' pii desiderŒ ed affetti a quel divino alimento, e alla comunione del Sacerdote unirsi col cuore: il che chiamasi comunicare spiritualmente . E sebbene questo non sia sacramento: può però dare abbondevol frutto di grazia, secondo il merito di quell' atto. Ma perchè impariamo come degnamente ci dobbiamo accostare alla divina mensa; dicendo Paolo, che « ogni uomo provi prima sè stesso » (1); dopo avere osservata quella fervorosa frequenza dell' antica Chiesa al santo Altare, è anche da vedere la riverenza sua, e la severa cura, affinchè nissuno indegno ad esso non si avvicinasse. E` certissimo, a chi ricerca l' antica disciplina, essere stato sempre fermo giudizio della Chiesa, che l' angelico pane non si debba ricevere da quelli, che o conservata non hanno la innocenza del battesimo, o avendola con mortale peccato perduta, non l' abbiano con virtù e col Sacramento di penitenza racquistata. E questo è detto ancora e dichiarato nel Concilio di Trento (2). Ma se osserviamo al modo della penitenza antica; di cui, se mutata è la lettera, non fu nè sarà mai abrogato lo spirito; noi possiamo in quell' augusta severità de' Canoni di penitenza ravvisare assai bene, quanto sia enorme fallo di chi mangia indegno il pane santo, e che mondezza e riverenza da noi esiga l' Altare. Poichè i peccati pubblici, e tal fiata ancora gli occulti, si vedeano espiati con pubblici atti di pentimento, prima che si ammettessero a comunione i peccanti: e molti anni, e talora l' intera vita si separavano dal consorzio de' divini misteri. La quale penitenza andava per certi gradi, secondochè proprio è dell' uomo, che tutto ad un tratto non si converta. Primo era il grado de' piangenti , i quali sulla porta della chiesa, non potendo entrarvi, si buttavano a' piedi del popolo fedele che entrava al Sacrifizio per dimandare co' pianti caritatevole aiuto di sue orazioni. Divenivano poscia ascoltanti: così detti perchè negli ultimi luoghi della chiesa stavano udendo la spiegazione delle sante dottrine. Elli poi se n' uscivano di conserva co' catecumeni. Così stimavasi che avessero poco compreso i doveri contratti nel battesimo quelli che gli aveano infranti, e perciò avessero bisogno di nuova istruzione intorno al vivere de' battezzati. Passavano dopo alcun tempo al grado dei prostrati , i quali entrando in chiesa quando li chiamava il Diacono, si prostravano innanzi al Vescovo, ed ei pregava su loro insieme con tutta l' adunanza fedele; ma prima che cominciassero le preci del Sacrifizio erano licenziati. In ultimo ascendevano al grado de' consistenti , chiamati così perchè a loro era conceduto finalmente assistere a' misteri, ma non ancora però parteciparne. Chi crederebbe oggidì, che a questa esteriore e pubblica penitenza, venuta di tradizione apostolica, si vedessero in quel felice tempo sommessi gli stessi personaggi più illustri, più ricchi e potenti? Fra gli altri ricordo il notissimo fatto dell' imperador Teodosio, non meno cristianissimo che potentissimo; a cui S. Ambrogio in Milano pubblicamente ricusò la comunione, solo pel castigo inconsiderato e troppo universale dato a Tessalonica città ingrata e colpevole di gravi insulti alla imperiale podestà. Il pio imperadore più grande nella umiliazione di sè stesso, che nelle vittorie con cui avea pur allora raffrenati i nemici dell' Impero, fu visto piangere fra i pubblici penitenti. [...OMISSIS...] Molti altri esempŒ simiglianti non mancano di personaggi chiarissimi. E` però a vedere, come questa disciplina nella Chiesa mutasse senza che sofferisse cangiamento il suo spirito. Quello spirito di penitenza è fondato nell' opera stessa di nostra redenzione: nè può mutare. Ei venne da Cristo, che S. Girolamo chiamò il « principe della penitenza, e 'l capo di coloro, che per la penitenza si salvano » (1). Laonde volle mai sempre la Chiesa penitenti, e sempre vi furono. Ma quanta sapienza non si vede nel modo, con cui il Signore provvide la Chiesa sua in ogni tempo di pubblici penitenti? Vi fece comparire ne' secoli primi la penitenza de' Martiri; cessati i Martiri, ecco la Penitenza de' SolitarŒ, i quali ne' deserti d' Asia e di Africa fecero, in mezzo alla pace della Chiesa, fiorire un novello modo di Martiri per austerità e mortificazioni incredibili. In quel tempo di pace ebbero luogo anche nella Chiesa tutti i Canoni di Penitenza, i quali non vennero meno, fino che i barbari, scompigliando ogni cosa, nuove e gravissime tribolazioni alla Chiesa apportarono, e di tribolazione ai Santi. Ma non furono dimenticati o dismessi i Canoni penitenziali senza che il Signore provvedesse a risarcirne la Giustizia sua. Che ne' secoli XII e XIII, cresciuta la durezza del cuor de' laici, e l' ignoranza de' cherici; suscitò degli uomini maravigliosi, un Francesco, un Domenico, un Brunone, un Bernardo, uno Stefano di Grammont, un Norberto, un Alberto, ed altri tai Santi; i quali apersero pubbliche case di penitenza, e trassero un numero grande di uomini a vita mortificata, e a pubblica professione di patimenti e di asprezze. Così in quel freddo tempo riparò la misericordia alla giustizia, facendo istituire innumerevoli monasteri, e fondare severissimi ordini religiosi. E ancora questi durano: e Dio li muta, li riforma, li accresce secondo i bisogni. Quanto alla disciplina poi della comune penitenza, se la Chiesa ne mitigò il rigore, fece con quel senno medesimo con cui un tempo il pose; nè cangiò lo spirito. E non raccomanda essa ancora a' suoi ministri lo studio degli antichi canoni per regolarsi nell' amministrazione della penitenza collo spirito stesso? E vorrebbe pure, che tutti i fedeli ne prendessero notizia, per conoscere l' enormità de' peccati, e la purezza desiderata in comunicando. Sicchè alli buoni nulla è tolto da quella mutazione di disciplina, perchè tengono lo stesso spirito; ma per li cattivi oggidì è rimosso uno scandalo, o pietra d' inciampo, perchè verrebbero da loro trasandate quelle severe ordinazioni per lo poco fervore, e produrrebbero nuove colpe. Perciò, dalla frequenza del comunicare in antico, nessuno pretenda di persuadere il comunicare frequente agli indisposti, e nessuno da quel rigore si creda di potere impaurire e rimovere i disposti. Ciascuno pensi, che non ci è comandata tale frequenza prima che la rettitudine della vita. Vivi in modo di potere comunicare ogni dì; ma in ragione sempre di tuo ben vivere comunica. Dottrina è di S. Francesco di Sales, che a comunicare ogni ottavo giorno convenga non cadere in peccati gravi, nè avere affetto a' leggeri, e sopra ciò grande desiderio del comunicare; ma per comunicare ogni dì bisogni di più avere superata la maggior parte delle cattive inclinazioni, e farlo a consiglio del direttore (1). [...OMISSIS...] Il desiderio poi e la fame di questo divino cibo è altresì requisito necessario di chi se ne pasce. Nulla più abborre che la sazietà. Con queste cose sentirete tutti i Santi a incoraggiarvi allo spesso comunicare. San Filippo col rinfiammare in Roma l' amore alla frequente comunione, e secondo l' esempio suo altri piissimi uomini migliorarono in molte parti i costumi; e per cooperare a detta frequenza, Buonsignore Cacciaguerra, compagno di S. Filippo, scrisse in quel tempo il suo divoto libro della Comunione. [...OMISSIS...] Mi sono allungato parlandovi del Sacramento della Comunione qui, dove il discorso fu della Messa, perchè elle sono cose congiunte. Il comunicare poi alla Messa si fa all' intenzione della Chiesa, che, come fu detto, ordina in plurale le orazioni del Sacerdote, supponendo, che con esso comunichi il popolo: si fa alla natura del Sacrifizio, che dal Sacerdote per sè e pel popolo s' offerisce; onde è ragione che egli e 'l popolo ne partecipino: si fa in fine al vantaggio di chi si comunica, poichè in comunicando alla Messa gode i frutti del Sacramento, e insieme del Sacrifizio, offerendo a Dio la gran vittima di espiazione e di lode, e da Dio avendo un cambio così ineffabile e prezioso. Cantare a Dio lodi, non solo singolarmente, ma in unione di molti, e con vicenda di cori; celebrare con più o meno solennità, ed ancora con musiche, ornamenti, cerimonie le divine perfezioni, e i divini benefizŒ: è cosa conforme non che al dovere, ma ben anco alla inclinazione, ed alla retta natura degli uomini. Per questo l' antichità tutta e tutto il mondo fu sempre pieno di religiosi costumi: sebbene solo nella famiglia de' giusti, special cura del Signore, si trovi il culto puro da superstizione ed empietà, e gradito all' Eterno. Negli uffizŒ della Chiesa alcune cose, come il canto degl' inni, i giorni festivi, le sacre pompe, le orazioni, i sacrifizŒ, non sono nuovi per intero: avvegnachè tutte le genti antiche usavano, sebbene impuramente, tai cose. Si conosce però di qui, come in sostanza queste pratiche si fondano nella ragione delle cose; mentre anche quelli, che abbandonarono il vero Dio e confusero le verità tutte di religione, ebbero però, chiariti da un po' di lume di natura e di ragione che loro rimase, riti somiglianti. Ma quantunque il culto esterno si fondi in natura ed in ragione; tuttavia la Rivelazione sola cel purga, cel nobilita e perfeziona, e cel dichiara rato ed accetto al Signore. Una somiglianza più vicina, nè solo nell' esterno ma nello spirito stesso, hanno i nostri uffizŒ con quei dell' Antico Testamento. Ivi la partizione del dì e della notte all' uso delle preghiere (1). Ivi il salmeggiare, che tutto avemmo da que' Santi antichi (2). Ivi i cantici, e gl' inni (3); ivi le lezioni delle Scritture; ivi le acque lustrali, il balsamo, l' olio, e gli stromenti di musica, e i lumi accesi, e gl' incensieri, e le are, e l' ordine de' Sacerdoti; e assaissime altre cerimonie conformi alle nostre. Le Mosaiche però erano molte pel numero, gravi per rigore, e mere figure di quell' esemplare veduto da Mosè in sul monte; e però, quanto alla lettera loro, convenivano solo a quella Gerusalemme, che è serva, e madre di servi; non alla celeste madre nostra, che è libera (4). E non di meno chi si fa dentro nel loro spirito, come hanno fatto i Santi in tutti i tempi, si udirà agevolmente in que' riti una voce sola, e un solo costume con noi. Perchè sempre uno fu lo spirito di quella adunanza di giusti, che cominciata in Adamo penitente, terminerà col mondo. Fu adunque quando Cristo fondò il nuovo Israello, che dall' antico scelse alcune cose convenienti, e ne fece passare l' uso agli Apostoli: sebbene anche queste le lasciò loro come cose sue, non come cose altrui. Del cantare inni e salmi, dice Agostino (1), abbiamo del Signore stesso o degli Apostoli i documenti, gli esempŒ, i precetti. Sentiamo in fatti, che dopo l' ultima cena, « detto l' Inno, uscirono sul monte Oliveto » (2). E Paolo esorta que' di Efeso ad essere nelle loro adunanze pieni di Spirito Santo. [...OMISSIS...] Questo ancora raccomanda a que' di Colosse (4), e vuole che escano sì fatte lodi del cuore, ed essi sieno portati a quelle da interiore esultanza di santo spirito, da pienezza di pace di Cristo, da abbondanza di sua parola, che schiumi per dire così, e travasi dal petto ricolmo. Ecco in poco quando l' orare e 'l salmeggiare è ben fatto. Scrive ancora a' Corinti (5): « « Qualunque volta vi adunate insieme, ciascuno di voi ha il salmo, la dottrina, la rivelazione, la lingua, l' interpretazione: tutto giovi ad edificare » ». L' egregio Baronio ravvisa in queste parole effigiata la forma dei nostri uffizŒ (6). Poichè ecco quanto abbiamo negli uffizŒ: i salmi; di poi le lezioni , che rispondono alla dottrina; i responsorŒ , che tengono luogo della rivelazione , perchè con questi ci desidera la Chiesa il possesso dei beni celesti, operando ciò, che udimmo prescritto nelle lezioni, od almeno questo è il loro uso solito (7). Invece poi della lingua abbiamo l' Evangelio, per la manifestazione del quale ne' tempi primi era dato il dono delle lingue; e per l' interpretazione del medesimo, che allora si facea da que' fratelli che più sentiano interiore illustrazione e fervore a parlare, or noi abbiamo le Omelie de' Padri, nelle quali l' Evangelio si dichiara. E poichè molti in que' primi tempi di amore infiammati ardevano di manifestare nell' adunanza quanti intorno all' Evangelio sentivano pii sentimenti: per questo Paolo tempera e regola quel fervore, insegnando che lo spirito de' profeti è soggetto a' profeti (1). Non si vede di questo traccia nel Mattutino, ove chi legge le Lezioni dimanda prima benedizione al Superiore, indicando con ciò, che ogni zelo, ed ogni esultanza di spirito se è da Dio, è pure tranquillo, ragionevole, mantenitore dell' ordine, sommesso a' maggiori? Tengono dunque ancora i nostri uffizŒ que' primi delineamenti messi dagli Apostoli; e sopra quelli di mano in mano furono regolate e compite le preci secondo i bisogni: e con leggi e rubriche fu reso costante e uniforme il numero, l' ordine, il modo di esse: e tutto recato a stabilità ed esattezza. Ogni Cristiano venuto nel Tempio alla pubblica orazione forma parte di quella adunanza di Sacerdoti e di popolo fedele che prega ivi raccolta. E` dunque necessario o conveniente, che tal Cristiano sappia che cosa e' preghi cogli altri, e che cosa dica quell' adunanza di cui è membro. La Chiesa oltre di questo è madre al Cristiano: e quante belle cose a lui non dice, quanti bei sensi a lui non esprime ne' sacri templi? Non sono segni di idee solamente le parole: anche gli atteggiamenti della persona indicano gl' interiori sensi. E ancora per mezzo delle cose esterne l' uomo rappresenta e parla: formando di quelle simboli ed imagini di quanto ha nell' animo. Non lascia pertanto la Chiesa di favellare in tutti tre questi modi: e non meno a Dio, supplicandolo, che a' suoi figliuoli insegnandoli e innamorandoli delle cristiane verità. Poichè in essa come in perfetta persona tutto è armonioso e decente, le parole, le cerimonie, gli adornamenti. Con tutto parla. Quanto dicono le parole sue agli orecchi, tanto pongono i suoi riti sotto gli occhi. E sì come grave matrona al decoroso discorso fa convenire decoroso atteggiamento, nè alle gravi parole, e a' nobili cenni discorda l' abito ricco e maestoso, sicchè da tutto quello che è in lei nasca il concetto medesimo di gran donna a chi la sente e vede, e dal parlare, e dall' accennare, e dal vestire: così parimenti è nella Chiesa del Signore, dove le orazioni, i riti, e l' esteriore apparato armoniosamente consuonano, e danno a divedere di che qualità donna ella sia o che risguardiamo il contegno suo in trattando con Dio, o in trattando con noi. Ignominioso è dunque al Cristiano non intendere, quanto può, il linguaggio della madre sua, sì piena di sapienza e di tenerezza: al quale linguaggio ella studia di avvezzare i balbettanti suoi figli, e cui eglino debbono apprendere se vogliono esser di sua famiglia. Impariamo adunque il linguaggio della madre, studiamo di ben penetrare i sensi della pubblica preghiera. Che questa è a Dio carissima: a questa ci giova conformare la privata, che allora è fatta rettamente quando somiglia a quella. Sugli esteriori oggetti adunque della Chiesa, sulle cerimonie, e sulle sue vocali preghiere alcuna cosa dirò: perchè qui non manchi qualche nozione sopra quella triplice lingua, nella quale la Chiesa esprime i suoi alti concetti. Al cominciamento della Cristiana Società ne' tempi Apostolici e' pare, che le chiese fossero le case de' fedeli. Così dalla lettera di Paolo a Filemone veggiamo, che la Chiesa avea luogo nella casa di questo fedele: ivi tenevansi le sacre adunanze. Surte poi le persecuzioni, spesso non poteano avere luoghi costanti, nè agiati. S' adunavano que' pii nelle arenarie, nelle caverne, usavano singolarmente raccogliersi a' sepolcri de' Martiri. Ivi facevano loro Stazioni, ivi ricevevano i Sacramenti. La perfezione poi di que' primi padri nostri li rendeva in vero meno bisognosi di chiese pel culto divino. Essi stessi erano i tempŒ di Dio. E il martire Giustino dimandato dal Prefetto di Roma in che luogo i Cristiani s' adunassero, rispondea: che dovunque pareva meglio erano soliti di congregarsi, perchè l' ineffabile Dio de' Cristiani non è circoscritto, nè ristretto da luogo, ma invisibile essendo riempie il Cielo e la Terra; e dappertutto è adorato dai fedeli (1). Tali congregazioni di tali adoratori formavano le chiese vere, costrutte di vive pietre, opere artifiziose del fabbro divino, e sacrate dall' eterno pontefice: delle quali chiese le materiali non danno che un emblema: ed è per questo, che il Vescovo consacra i templi murati con alcune bellissime e simboliche cerimonie, che alludono ai templi vivi. I luoghi però usati da que' Cristiani per le sacre unioni, o fossero nelle case private, o ne' sotterranei e nelle catacombe, o talora in luoghi spartati ed eretti appositamente; essi veniano disposti in forma di cappelle, o chiesuole semplicissime, di solito rozze, ma piene di decoro e santità. Ivi l' altare, ivi le reliquie de' martiri, ivi delineate e scolpite con rozza opera in sulle pareti e 'n sulle sepulture imagini di sacre verità, storie, simboli, ed iscrizioni, come più suntuosamente si fa nelle nostre. E fu allora quando a Dio piacque di convertire Costantino Imperadore, e dare così pace alla Chiesa per trecento e più anni vessata e sbattuta da' feroci Signori del mondo, che si videro alzarsi al vero Dio templi maestosi; ed i sacri vasi formati di legno divenire d' oro e d' argento: e d' oro risplendere il tetto, le muraglie, i sacri addobbi, le vesti de' Sacerdoti: e statue insigni, e pitture preziose ornar la casa del Signore. Del quale spettacolo niente si potea dare di più commovente e consolante pe' buoni. Poichè dopo tempi tristi e d' ingiustizia verso l' Eterno, apparivano giorni pii, ne' quali in onore al Signore dell' universo si dedicavano le cose da lui create e dagli uomini tenute in pregio, che prima s' usurpavano a fomentar o la umana superbia, o la diabolica superstizione. Di questo tempo per la Chiesa felice in tutto il mondo s' onorò Iddio con gran templi e ricchi; come veggiamo per grazia divina anche a' dì nostri. Osservarono alcuni, come nelle chiese semplicità a decente mondezza unita più eccita divozione sincera: mostrando essa al cuore come il nostro Dio non ama grandezze umane, nè fasto: ma ama interiore affetto, purezza e sincerità di tutto e non maschera; e fino povertà di mondane cose; come povera vita fu quella di Cristo. In questo avvi ad osservare, che l' ornamento della chiesa si considera, o rispetto a Dio, o rispetto all' uomo. Rispetto alla maestà divina nessuno onore è troppo, e sarebbe ragione che tutte le ricchezze del mondo giovassero ad onorarlo. La dignità del tempio viene sostenuta con ciò, che gli uomini reputano dignitoso: quelle ricchezze dunque si mettono in chiesa non già per dare a queste il prezzo che non hanno, ma anzi per farle a quello servire, che di ogni pregio è fornito: apparendo anche in ciò la bontà di quegli uomini pii, che da sè togliendo tali vanità, al Signore ne hanno fatto sacrifizio. Sono perciò le ricchezze delle chiese trofei, che Gesù ha portato sovra il mondo. Così nell' antico patto le egiziane dovizie servirono, per comando del Signore, alla vera religione degli Ebrei. Rispetto all' uomo: quanto egli è più infermo e più soggetto a' sensi, tanto ha maggior bisogno d' essere tratto a Dio per mezzo di esteriori oggetti, quasi per gradi che a Dio l' innalzino. Quindi la pompa della chiesa, la soavità della sacra musica, e delle altre esteriorità ecclesiastiche a quello stato della chiesa più abbisogna e più conviene, nel quale gli uomini sono più raffreddati e aderenti alle mondane cose; come inverso de' primi tempi è a dire de' nostri. Quanto l' uomo è più perfetto più ama la solitudine degli oggetti esteriori, perchè lo tolgono da' penetrali di sua mente, ove si tiene in gioconda pace nascosto: ma se è dissipato, alcuni oggetti esteriori possono dare a lui motivo di raccogliersi. Quindi regola di S. Agostino è questa, che « « allora è buono l' uso delle cose umane, quando negli inferiori oggetti non veniamo intoppati, ma solo dilettati de' superiori » ». Per la quale non meno la semplicità antica si commenda, che la pompa presente si giustifica. Per altro, molto si lagnano i Padri del veder le chiese riccamente apparate di cose umane: nude e sfornite di cose divine, dello spirito e delle virtù de' Cristiani. Quegli ornamenti sono buoni, ma questi migliori; nè quelli sono cari a Dio senza questi. Quando dunque venite in alcun tempio ampio e dovizioso, godete allora della gloria divina fra gli uomini; godete, che il Signore abbia tratte a sè quelle ricchezze del mondo, e fatte servire al culto suo; godete, perchè gli uomini infermi che stimano quelle cose, da quelle vengono bel bello stimando Dio, a cui quelle cose tributano onore. Se poi vi fate dentro alle chiese semplici e povere, come quelle dei Cappuccini, vi tornino a mente i bei tempi primi: e godete in esse il vostro Dio immediatamente senza ingombro o senso di cosa mondana; e tenete egualmente venerabile e ricco quel luogo, dove abita la vera ricchezza, il Signore. Con quegli ornamenti adunque Madre Chiesa v' insegni a levarvi alla divina Maestà: con questa semplice povertà v' insegni a sprezzare la mondana vanità. Sono nelle chiese, oltre agli ornamenti, delle altre cose; e farò qui un piccolo cenno delle principali, notandovi di che cosa possano essere figure o segni. L' altare è la mensa su cui si fa il Sacrifizio. Rappresenta il desco, a cui cenò Cristo quando consecrò prima il pane e il vino. E come quello effigiava la croce, così l' altare nostro è imagine anche della croce, su cui patì. Per questo a' tempi apostolici gli altari erano costrutti di legno. Ancora più propriamente per l' altare si esprime Cristo stesso; avvegnachè, essendo il merito di suo sacrifizio opera del suo spirito, Cristo fu veramente e altare e vittima e sacrificatore. Onde Giovanni dice, che l' altare è Cristo (1). E perchè Cristo nelle antiche carte detto è pietra angolare, fianco dell' edifizio, che unisce le due muraglie del tempio, cioè gli Ebrei e i Gentili (2), e ancora pietra perchè percossa co' patimenti sgorgò acque di salute (3), e pietra perchè ad essa s' infrangono e spezzano quelli che in lei cozzano; già per antica legge gli altari si fanno di marmo, e si sacrano coll' olio, perchè Cristo è l' Unto, di cui era imagine il sasso, su cui Giacobbe sparse l' olio ed eresse a monumento, sopra del quale dormendo, come Cristo in sulla croce, avea veduto la scala degli Angeli, che congiungeva insieme la terra ed il cielo (4). Nell' altare s' inseriscono reliquie di Santi, specialmente martiri, pel consorzio che hanno con Cristo fatti una cosa con lui nel Sacrifizio; e le tre tovaglie benedette dell' altare rappresentano pure le vestimenta di Cristo, che sono i Santi suoi. I candelieri accesi, e il Crocifisso nel mezzo, mostrano i popoli credenti uniti dalle due parti opposte, giudaica e gentile, a quello che elevato in alto trasse a sè ogni cosa. A pie' dell' altare stanno de' gradini, che sono le virtù, per cui si va a Cristo. Prima di ascenderli nella Messa il Sacerdote fa la confessione de' peccati, e recita a vicenda col ministro, e un tempo già con tutto il popolo, l' opportuno Salmo « Giudicatemi Signore » (5), col quale prega, che, abbattuti gli avversarŒ, mandi a lui la sua luce e la sua verità, per essere da queste condotto nel santo suo monte, ne' diletti suoi tabernacoli. [...OMISSIS...] L' uso delle cose necessarie nella Messa e nelle altre funzioni facilmente apparisce. Laonde dirò delle loro mistiche significazioni, essendo queste atte a nudrire divozione, conforme all' intenzione della Chiesa, desiderosa che tutto e in tutti i modi spiri edificazione e pietà. Dunque nel Calice s' imagini di vedere il sepolcro nuovo del Signore; nella Patena la pietra rivoltata sopra la bocca del monumento: il corporale sia la sindone monda, ove Giuseppe d' Arimatea involse il corpo del Signore. Le vesti poi del Sacerdote tutte alludono a vestimenta spirituali. La bianca cotta indica l' innocenza di una vita sacerdotale. L' ammitto è l' elmo della salute, che guarda il capo dall' avversario, e protegge il collo o sia gli organi della voce, onde facile è il peccare. Il camice mostra il vestito tutto mondo della santità; il cingolo in particolare la virtù della purità; il manipolo, drappo con cui una volta s' asciugavano le lagrime, significa la penitenza, che, seminando in pianto, coglie frutti di letizia. La stola, che pendente dal collo s' incrocicchia in sul petto, segna la fortezza, o la veste d' immortalità acquistata per la croce di Cristo, e la pianeta finalmente raffigura il giogo della soave sua legge, cioè la carità, che dal Vescovo nella ordinazione s' appella abito sacerdotale, e nel Vangelo veste nuziale soprapposta alle altre, perchè a tutte dà compimento e perfezione. Nella tonicella poi del Soddiacono è l' imagine delle interiori virtù, come nella dalmatica del Diacono delle esteriori: poichè si spetta a' Diaconi la cura de' poveri, e debbono essere assistiti da' Sottodiaconi, cioè da ministri incorrotti pieni d' interior santità. Il piviale finalmente dimostra la grave e santa conversazione de' superiori ecclesiastici, che abbraccia la carità di Dio e del prossimo. Ora i colori diversi de' sacri indumenti si conformano alle feste, che con essi si celebrano. Il bianco indica letizia, gloria, gaudio; il rosso segna il sangue de' Martiri, e il fuoco del Santo Spirito; il violaceo significa mestizia e passione; il nero morte: il verde poi è un colore medio, che s' usa in alcune Domeniche meno solenni forse qual indice della nostra speranza. Le conche poi dell' acqua benedetta, che anticamente erano certe urne con una fontana posta in mezzo all' atrio delle chiese, ove si lavavano le mani e la faccia i fedeli avanti entrare in chiesa, figurano la lavanda interiore, e lavano da veniali peccati chi n' ha dolore, in virtù di benedizione fatta su quelle acque dal Sacerdote. D' alcune altre cose, che sono in chiesa, cade di toccare nel capo seguente. Dalla meditazione de' riti e delle cerimonie dalla Chiesa usate quali cose e quante non impara il Cristiano! Raccoglie da quelle gli alti sensi di essa Chiesa verso a Dio, ed eccita in sè stesso que' sincerissimi e perfetti atti di culto. Vede ancora in quelle, il che non è a dire quanto sia giovevole, una cotal forma bellissima di cristiano conversare in questo mondo, gastigato alle regole di perfetta vita; mentre, dovunque e' si trovi il Cristiano è nel tempio del Dio suo, e quasi ministro, per dire così, insieme cogli altri fratelli suoi, e con tutte le creature dell' universo, esercita atti di religione. Tuttavia non vengono per avventura sotto questo aspetto bastevolmente considerate le ecclesiastiche cerimonie. E pure verissimo è, che nella Chiesa si ha quel trattare vicendevole, che a Cristiani perfetti conviene: e così perfette essa l' ha poste, perchè convenienza avessero con sè, col carattere de' suoi ministri, e coll' altezza delle cose divine. Or facciamoci addentro alcun poco nel loro spirito. Che diversità fra queste e le cerimonie del mondo! Alcuni distintivi delle cerimonie della Chiesa paragonati a' corrispondenti delle cerimonie del mondo ne mostreranno, quanto le une dalle altre si dispaiano. Il primo carattere delle cerimonie di Chiesa è la SINCERITA`. Essendo santa essa Chiesa, sinceri sono quegli atti con cui la santità appalesa. Oltracciò sono fatti a Dio, col quale non si scherza, poichè vede nell' interiore del cuore. E se nel mondo l' interesse sospinge gli uomini a finzione esterna, qui gli spinge ad esterna sincerità, come la sola che ottenga favore. Perciò le ecclesiastiche cerimonie sono ancora semplici e naturali . Per esempio: levarsi in piedi al Vangelo dopo essere stati seduti all' Epistola, per dimostrare prontezza di sostenerlo e difenderlo quali prodi soldati di Gesù: stare in piedi nella Domenica al recitare delle antifone di Maria, in memoria del Signore risorto; e usare positura ritta ogni qual volta vogliamo significare solennità ed esultanza: genuflettere, a indizio di mestizia e lutto, quasi col lasciare cadere il corpo, dimostrando di confessare la caduta dell' anima, o l' umana abbiezione dinanzi alla Divinità: piegare il capo in segno di riverenza, battersi il petto in atto di pentimento, variare la voce come si fa nella Messa, adoperandola talora alta, talora sommessa, alcuna volta al tutto segreta secondo i misterŒ proferiti, i quali si vogliano fare intendere od a' ministri soltanto, od a tutto il popolo, o vero dall' unico Sacerdote si trattano con Dio in alto raccoglimento, conforme alle intime cose, sacrosante, e misteriose che esprimono (1), ed altrettali atteggiamenti, riti, e cerimonie, i quali, nati, per così dire, insieme colla cosa ch' esprimono, non hanno sforzo veruno nè affettazione, e mostrano in sè medesimi la propria sincerità e verità . Sieno adunque anche gli atti di noi Cristiani, in trattandoci nella vita civile, così semplici, facili, sinceri, acconci, e proprŒ alle opere che trattiamo, e in un tempo così espressivi e decorosi. Tutto altro è il trattare del mondo, simulato, artifizioso, ed insulso. Altro carattere di questo trattare esteriore nella Chiesa è il BELL' ORDINE, la quiete, la placidezza , con cui tutto si move. Ogni cosa è bene disposta e regolata. Sono prescritti a' Sacerdoti i movimenti e gli atti più minuti, perchè ogni picciola sconcezza si fa grave in quel luogo. La distribuzione de' ministri, cominciando dal Pontefice insino a' turiferarŒ, agli ostiarŒ, a' lettori; le incumbenze assegnate a ciascuno, accordo insieme e varietà, ed un succedere di nuovi oggetti bene fra sè congiunti, rende ciò che è santo anche dilettoso e ammirabile a' sensi. Così queste sacre funzioni esprimono il fervore dell' uomo cristiano, che nasce da serena mente, quieta, e tutta pace: edificano colla pietà, non agitano colla passione. Che distanza dal tumulto, dal fracasso, e confuso agitamento delle mondane feste, le quali mescolano o sconvolgono tutto l' esteriore e l' interiore dell' uomo! E se noi mireremo alla gravità ed alla MAESTA` del sacerdotale apparato, principalmente in festa solenne, facilmente diremo, che quel così augusto spettacolo, e quel grave portamento, quegli ampli addobbi de' Sacerdoti e del Tempio ci parlano di Dio; e che mentre glorificano Dio insegnano al Cristiano chi sia lui stesso, che Signore serva, e che servigio sia il suo. Insegnano, che a lui sommamente disconviene in ogni tempo piegarsi alle scurrilità del mondo; ma sempre al grave contegno attenersi e dignitoso. E perchè i mondani uomini sono avvezzi nelle loro smorfie, e in certi loro attucci, colle idee picciolissime che queste cose presentano non sogliono capire le gravi e somme verità, nè prezzare le ecclesiastiche cerimonie: non potendo dilatare il pensare ed il cuore a quelle grandi cose, nè reputarle perciò belle o dilettevoli; ma sì tenerle, come le altre cose di Dio, austere, penose e secche. E loro avviene questo come a colui, che ode dignitosissimo personaggio favellare, ma non intende la lingua in cui favella. Noi all' incontro, che intendiamo e gustiamo questi riti maestosi, veggiamo nel Sacerdote, che ascende l' altare, l' umanità ascendere al « Sancta Sanctorum », a Cristo; quando lo bacia intendiamo ch' ei bacia Cristo, saluto usato anticamente a' re; quando incensa le obblazioni, le reliquie, l' altare, sappiamo che adora con quest' atto in tutte quelle cose Iddio, veggiamo i vortici del profumo odoroso ascendere in alto, e in quelli ci vengono a mente i nostri preghi che ascendono a Dio per Cristo; e per Cristo, giusta la frase scritturale, si odorano dal Padre, essendo Cristo il solo odore in cielo gradito. E così nella pompa de' doppieri e de' torchi accesi e de' candelabri, ove splende il fuoco che Cristo venne a mettere in terra, e nel trono del Pontefice, e nelle schiere de' ministri, e nell' ordine de' Sacerdoti, e nella turba de' cantori, e ne' suoni degli organi, e in tutto il lento e variato procedere della cerimonia ci troviamo agevolmente colla mente in Cielo, nella corte di Dio, nel tempio del sommo Pontefice; d' intorno al quale gli Angeli con divini riti celebrano eterno giorno festivo. Il quarto carattere delle cerimonie ecclesiastiche è quello di RIVERENZA, di cui sono piene verso tutti i membri della Chiesa, cioè i fedeli che a quelle assistono, e di quelle sono gran parte. Ciò pure insegna come dobbiamo portarci a vicenda. San Paolo esortava a prevenirsi scambievolmente in rendersi onore (1). Ora, poichè i ministri sacri in chiesa non trattano solo con Dio, ma ben anco tra sè, e talora col popolo; così come con Dio la maestà e la dignità è richiesta, i Cristiani trattando fra sè hanno legge di scambievole riverenza. Rispetto e riverenza può essere dato tanto dagli inferiori a' superiori, come dai superiori agl' inferiori, e ancora da uguali ad uguali. Questo rispetto di tutti fra tutti nella chiesa apparisce in tanti inchini, che si fanno i sacerdoti e cherici. Verso il superiore il mostrano le benedizioni dimandate prima di leggere, i baci della mano fatti dal ministro, l' essere tutto il coro regolato a suo esempio: poichè nessuno siede prima di lui, nè si alza prima che egli alzato non sia, e in altri simili segni di onore: i preti stessi si stanno in coro regolati secondo la dignità o l' età. Ma se il Cristiano venera nel maggiore l' autorità divina; il maggiore altri non trova nell' inferiore che un fratello suo compartecipe della stessa cristiana adozione. Onde quale umiltà e dolcezza non dimostra il Pontefice stesso in tutta sua pompa in onor degli astanti? Viene alla celebrazione della Messa, e si pone prima di tutto a' piè dell' altare; fa una accusa pubblica de' suoi peccati, e sente rispondere in bocca del popolo: Iddio ti faccia misericordia . Dopo offerito il pane ed il vino e' si volge agli astanti, li chiama fratelli, li prega di orazioni, perchè il Sacrifizio comune sia accettato dal Signore. Dimanda anch' egli ad un Sacerdote la benedizione prima di leggere le lezioni nel Mattutino. E per tutto s' umilia di sotto agli altri, quando prende aspetto d' uomo; benchè in figura di Dio venga nella funzione stessa altamente onorato. Quella cerimonia però, che più al vivo mostra l' onore, di cui fa la Chiesa degni tutti i Cristiani, si è l' incensamento, il quale non pure al celebrante e al clero, ma al popolo stesso viene dato, perchè si tengono tutti pieni di Dio, templi vivi, come essere dovrebbono, del Santo Spirito. Cessiamo forse d' esser tali fuori di chiesa? No. Ecco adunque l' onore, in che reciprocamente, se cristiani siamo, ci dobbiamo tenere. Quanto civile, umano, riverente non è dunque il tratto dell' uom cristiano? quanto lontani ci conviene essere ne' nostri modi dallo sprezzo, dalla non curanza, dalla freddezza verso a nessuno, non che io dica dalla presunzione, dall' alterigia, e dall' insulto, che sono pur le belle costumanze di questo mondo? Ma il carattere precipuo, più soave e più bello delle cerimonie ecclesiastiche si è il quinto, cioè l' essere piene di amore , LA CARITA`. Oh bellissima unità di cuori, che spirano le funzioni di chiesa! che concordia e carità non adorna i sacri riti? Nella Chiesa, tolte di mezzo tutte distinzioni e separazioni mondane, forma un corpo solo nell' unione al comune capo Gesù, il re col suddito più abietto. A vicenda colà si prega e canta. E perchè i due cori in nulla cosa sembrino salmeggiando divisi, nell' antifona, alla fine del salmo, s' uniscono concordi ad esprimere perfetta consensione di anime. Nella Messa poi quai soavi parole non usa il Sacerdote ciascuna volta che parla agli astanti? Quando li saluta si volta ad essi allargando le mani sue in atteggiamento di abbracciare, e loro dice: Sia con voi il Signore. Essi rispondono all' incontro: Sia pure collo spirito tuo. E tale saluto forma preparazione alla preghiera, poichè la preghiera accetta è quando il Signore è con quelli che pregano, ed essi nel Signore sono uniti, per cui al Dominus vobiscum segue l' Oremus , cioè l' invito a pregare insieme. Altra volta esortali ad innalzare gli animi al Cielo, essendo oggimai vicino il Sacrifizio, a rendere grazie, e cantare in una con lui e cogli Angeli: « Santo, Santo, Santo il Signor degli Eserciti », e benedire colui, che già in nome del Signore sen viene. Questo pio consorzio di affetti si va poi accrescendo in perfezionando il Sacrifizio. E quando il Sacerdote divide l' Ostia in due parti, e un frammento ne stacca, e con tre segni di croce lo ripone nel calice, dice allora a tutti: « La Pace del Signore sia sempre con voi ». E già messo nel calice il pezzetto, aggiunge: « Questa meschianza e questa consecrazione del corpo e del sangue del nostro Signore Gesù Cristo torni a noi, che siamo per riceverlo, a vita eterna; così sia ». Colla quale cerimonia rappresentando il ricongiungimento del corpo col sangue di Cristo, cioè la nuova ed eterna vita da lui per la risurrezione racquistata; si prega, che noi, membra sue, parimente partecipiamo di questa immortale vita del glorificato nostro Capo. Nel quale istante il Sacerdote, dimentico quasi che pur siamo in terra, ov' è solo principio d' eterna vita, quasi trasportato in Cielo a quel tempo, in cui l' opera di nostra salute sarà perfetta e compita, prega alla Chiesa di Dio Pace; e pace a tutti i fedeli desidera dal Signore: e bacia l' altare per riceverla da Cristo, che l' altare rappresenta, e abbraccia il Diacono, e a lui la comunica: il Diacono poi al Clero la reca, che tutto pure a vicenda si viene abbracciando, da cui l' abbracciamento un tempo passava anche al popolo: rito pieno di affabilità, e santissima amicizia, dopo il quale non più dovrebbe rimanere alcuno rancore negli animi, non più avvenire una rissa in sulla terra fra' battezzati, e solo Amore regnare, Concordia, Pace di Cristo. Il perchè, se le sacre cerimonie si guardano rispetto all' animo della Chiesa, si trovano pure e sincere , in sè stesse sono belle e ordinate , verso Dio sono gravi e maestose , verso i fedeli sono piene di rispetto e d' amore . Che se, in trattando fra noi nella vita, queste cose serbassimo, noi toccheremmo ogni perfezione di un conversare cristianissimo e amabilissimo. Chi mira all' ordine delle preghiere, che la Chiesa usa, può acconciamente dire colla Cantica, che il Signore ha ordinato in lei la carità (1). Veggiamolo brevemente. La Chiesa, come abbiamo toccato di sopra, regolò fino da tempo antichissimo le sue preghiere nelle diverse ore del giorno e della notte. Partito il dì, e così pure la notte in dodici ore, ad ogni terza ora era l' orazione. Le ore più solenni però del giorno furono Terza, contandosi dallo spuntare del sole, Sesta, Nona, e Vespro o duodecima. Introdotto poi il costume di orare anche al principio del dì e della notte, ne vennero Prima e Compieta . Queste ore sono santificate anche da' fatti della Passione di Cristo. A Prima fu condotto da Pilato: a Terza crocifisso colle lingue de' Giudei, flagellato, coronato di spine: a Sesta inchiodato in croce: spirò a Nona e scese agl' Inferi: a Vespero si depose di croce: e a Compieta fu collocato nel monumento. Col sovvenirsi de' quali fatti può assai agevolmente santificare queste ore anche chi non dice i salmi delle Ore canoniche. Gli OffizŒ divini, come sono al presente, si possono ancora dividere in tre parti: nel Mattutino, col quale principiamo il giorno; nelle Ore diurne, con cui fra il giorno si prega; e nella Compieta, che chiude la giornata. Ognuna di queste parti ha il suo cominciamento opportuno. [...OMISSIS...] Quando cominciamo il giorno, non ancora distratti da occupazioni terrene, nè sbattuti da tentazioni del dì, apriamo più degnamente i labbri a lodare Iddio. Nel giorno, fra tante cure e pericoli, ci bisogna un peculiare sostegno divino ad ogni passo, e questo si chiede colla seconda preghiera. Alla sera, dopo avere passato il giorno tutto negli affari di questa vita, dove è molto difficile non esser qualche volta caduti, che cosa evvi di meglio che a Dio tornare in quella notturna quiete, e pregarlo, come si fa col principio di Compieta, che e' ci voglia ricondurre ad esso e ritenere il suo sdegno. I padri nostri hanno diviso il Salterio di Davidde ne' sette giorni della settimana per modo, che dentro a ciascuna si svolgeva cantando tutto quel libro. Poichè, lasciando essi le voci gentilesche de' giorni, li chiamarono tutti ferie , ossia vacanze: intendendo di mostrare con questo vocabolo, come i Cristiani dovevano vacare sempre dalle terrene cose, e riposarsi in contemplare le divine, e cantarle. Come poi gli Ebrei dal loro Sabbato numeravano i giorni, così i Cristiani dalla Domenica presero a numerare le loro ferie. E come il Venerdì presso gli Ebrei veniva chiamato anche Parasceve, ovvero preparazione al Sabbato, così i Cristiani ritennero all' ultima feria il nome ebraico di Sabbato: volendo mostrare con questo, che la festa degli Ebrei altro non era che uno apparecchio alla cristiana. E sì come alla Domenica, che significa giorno del Signore, celebravano e celebrano il risorgimento, col quale un Cielo nuovo e una Terra nuova apparì, e cantavano in questo giorno il più solenne cantico, quello de' tre fanciulli di Babilonia; così nel Sabbato rammentavano e rammentano la fine del mondo vecchio, e dicevano il Cantico, che Mosè disse moriente. La Feria sesta serbò sempre la grande memoria del sangue del Signore in quel giorno sparso, ed in essa s' intonò il Cantico di Abacucco, dove è accennata la croce. Della quinta è propria prerogativa l' istituzione in essa fatta della Cena eucaristica, e in quella si può ricordare ancora l' istituzione degli altri Sacramenti, dove s' onora il più grande. In fatti, il Cantico Mosaico, composto dopo il passaggio del mare Rosso, che a questo giorno è stabilito, conviene, come diremo più sotto, al battesimo. Negli altri giorni altri argomenti si ricordano e onorano, come la creazione, e il gran decreto della redenzione, l' umana impossibilità a risorgere dal primo peccato, e la morte sua pena; la consolazione del Santo Spirito, e di sua grazia; pe' quali giorni si leggono i Cantici d' Isaia, d' Ezechia, e di Anna. In tali argomenti può pascere santamente il suo spirito, chiunque ne sia informato, ne' diversi giorni della settimana con pia meditazione, e così unirsi alla Chiesa orante, sebbene non reciti il Breviario, e non sappia punto di latino. Gli Ebrei nel primo giorno di ciascun mese celebravano certa festa solenne, chiamata da loro Neomenia , ossia luna nuova . In luogo di questa noi abbiamo fra l' anno sparse le feste della Madonna, rassomigliata dalla Chiesa per la sua spirituale bellezza alla luna. Ogni mese poi, nel primo giorno non impedito da festa maggiore, noi suffraghiamo i defunti. Occorrono oltracciò in ciascun mese alcune feste, delle quali brevemente diremo appresso. Nel tempo, in cui la Chiesa nostra era in sul primo svolgersi, pochi erano ancora i Santi del Nuovo Testamento, e perciò poche le nostre feste. Fra settimana si recitava, come è detto, il Salterio, cioè gli OffizŒ feriali , che sono uffizŒ di penitenza e di apparecchio alla Domenica, grande giorno del Signore. Ma venne di mano in mano la Chiesa arricchendo sempre più di glorie e di eroi, da prima in ispecial modo co' Martiri, e appresso coi Confessorì: e da questi nuovi acquisti ebbe sempre nuove ragioni di allegrezza. Il perchè, festa a festa aggiungendo, e solennità a solennità, è pervenuta Chiesa santa in uno esaltare continuo ogni giorno nuovi trionfi, ogni giorno nuove azioni di grazie, nuove memorie de' suoi prodi. Il quale perenne succedere di fasti gloriosi quale gaudio non dee produrre ne' fedeli, ammirando le inesauribili ricchezze divine ne' Santi suoi, e la inesprimibile varietà e preziosità di abbellimenti, con cui la sposa di Gesù in ciascun giorno quasi a foggie novelle si ammanta! Ogni giorno dunque Chiesa santa esulta; e questo suo esultare crescerà insino alla fine de' secoli. Non dà egli un tanto rallegrare qui in terra imagine del Cielo? In fatti la numerosità delle feste, dice S. Bernardo, spetta ai cittadini e non agli esuli (1). Il perchè v' ebbero de' santi uomini, che, desiderosi più del pianto, proprio di questo pellegrinaggio, che della letizia propria del Cielo, hanno mostrato desiderio, se essere potesse, che minorato fosse il gran numero degli uffizŒ de' Santi, e avessero luogo que' delle ferie. Noi poi e nelle feste de' Santi la magnificenza ammiriamo del regno di Cristo, che ci dà quaggiù un cotale saggio di celeste gloria, ed amiamo lo spirito di que' virtuosi, i quali preferiscono alla consolazione lo squallore ed il pianto, come più proprio a noi, Chiesa che milita in fra cotanti avversarŒ. E` però di grandissimo vantaggio quell' avere ogni giorno sott' occhio novelli esemplari di virtù maravigliose. Che se noi venissimo in tutto il corso dell' anno seguendo dietro le orme sue la Chiesa, oh di quante alte cose meditazione faremmo! Di tutte le verità, le istorie, i motivi, le strade che ne scorgono a Dio. Vi dirò in poco che argomento tolga la santa Chiesa a meditare o celebrare ne' varŒ tempi dell' anno. Apre l' anno Chiesa santa colle quattro Domeniche d' Avvento, colle quali, sì come ne' quattro mill' anni precorsi a Cristo si apparecchiò il mondo a ricevere il grande ospite suo, così la Chiesa noi apparecchia al natale del Signore. Quindi questo divino Sole, che appresso sorge, regola l' anno ecclesiastico, per così esprimermi, come il sole materiale regola l' anno terreno. Qual migliore tempo di questo da meditare la caduta dell' uomo primo, l' impotenza della natura e della legge a rilevarlo, le profezie e promesse di Riparatore, e sopra tutto l' opera della divina incarnazione? Così preparati, ci nasce il Salvatore, viene circonciso, datogli il nome di Gesù, e a' pastori, e a' Magi si palesa: intanto freme la Sinagoga, e la parte delle tenebre si sbrama nel sangue degl' innocenti, mentre se ne fugge in Egitto il cercato Infante. Tali cose nella festa del Natale, della Circoncisione, dell' Epifania e degl' Innocenti si ricordano. Qual pascolo non abbiamo noi nella considerazione dell' umile presepio del Signore, dell' adempimento della Mosaica Legge, della forza del nome di Gesù, dell' annunzio di sua venuta fatto agli Ebrei, della chiamata de' gentili, del malo ricevimento e della riprovazione della nazione santa, colla quale però ci rimane la dolce speranza di riunirci nella fede in fine del mondo, e finalmente della guerra eterna che le tenebre hanno colla luce, il mondo con Gesù Cristo? Nella festa di S. Giuseppe abbiamo sotto gli occhi i doveri di pudico sposo, di vigile padre, e tutta la vita privata del Signore. Nelle sei Domeniche, che seguono dopo l' Epifania, la cecità de' Giudei, e i misteri di predestinazione, e di Grazia. Considerato fino a qui quanto spetta a Cristo e a' doni suoi, succede la considerazione di noi stessi, i danni del peccato d' origine, la moltiplice corruzione del corpo e dell' animo umano, la lotta fra lo spirito e la carne, l' ignoranza, e la necessità della penitenza; le quali cose tutte come apparecchio alla Quaresima cadono nella Settuagesima, Sessagesima, e Quinquagesima, che precedono la Quadragesima. In questa la morte; la natura e i rimedŒ delle tentazioni, il laborioso battesimo, che purga le macchie contratte dell' anima, cioè il Sacramento accompagnato alla virtù della Penitenza: la detestazione della passata vita, la scelta del confessore, la soddisfazione dovuta a Dio, i veri propositi, e i mezzi di non tornare al vomito, sono i frutti di questo sacro tempo. Alla Domenica di Passione incomincia il ricordo delle ultime memorande geste del Salvatore. Che esempio del sommo penitente! l' ubbidienza sua sino alla morte di croce, e tutto lo spettacolo del suo patire cade nella seguente settimana. Poi risorge Cristo dai morti, primizie dei dormienti. Quale mutazione di scena! che frutti consolanti ci promettono le nostre pene offerite al Signore! Abbiamo fatta nel battesimo una prima risurrezione dell' anima morta, nella penitenza una seconda; l' ultima, in cui risorge il corpo, simile a quella di Cristo, compirà la vita nostra in Cielo. Dopo Pasqua ecco il lavacro battesimale, dove s' imbiancano i Catecumeni, ed è la porta degli altri Sacramenti. Il nostro spirito quindi appresso si può nutrire colle verità intorno la Chiesa che milita, purga, e trionfa, facendocene luogo le settimane che seguono alla Pasqua fino all' Ascensione, prima della quale conversò Cristo in terra co' discepoli suoi. La festa di Pentecoste annunzia i doni del Santo Spirito, sublime oggetto a cristiani desiderŒ, pe' quali il Vangelo in tutto il mondo fu scritto in sui cuori degli uomini. Dopo tale solennità adunque il tempo è di pensare all' incremento maraviglioso del Regno di Cristo in terra, al sangue de' martiri, agli scritti dei dottori, alla vita de' confessori suoi, da cui fu fecondato, illuminato, santificato. La Domenica della santissima Trinità, il giorno solenne del Corpusdomini danno grandi cose alla mente. Quest' ultimo ci chiama ancora a riflettere in sulla dignità sacerdotale, e sulla Gerarchia ecclesiastica. Il rimanente dell' anno, che viene dopo la Pentecoste, è acconciamente occupato ne' mezzi, co' quali lo Spirito Santo ci si dona, e nelle opere sue fatte in tutti i tempi. Le Scritture ispirate, le virtù infuse nell' anima della fede, speranza e carità, la preghiera ardente, e in particolare coll' occasione delle feste della Croce, di Maria, degli Angeli e de' Santi abbiamo onde istruirci intorno a' varŒ culti di nostra divozione. Nel giorno, in cui si commemorano li morti nella pace di Dio, occupi il cuore nostro e la nostra mente quella Chiesa purgante. Nelle letture poi de' libri di Giobbe, di Tobia, di Giuditta, di Ester, de' Maccabei, de' Profeti, che fa susseguentemente la Chiesa, impariamo tutte le morali virtù, la pazienza, il savio governo della famiglia, l' eroico e santo coraggio, la prudenza, la fedeltà alla legge santa con iscapito perfin della vita, la provvidenza, con cui il Signore regge la Chiesa sua vigile sopra di lei fino al dì del giudizio, del quale i pubblici uffizŒ trattano nell' ultima Domenica dell' anno ecclesiastico. Non v' ha dunque più bella cosa, che tenere dietro alla Chiesa. Con lei si percorrono nell' anno tutti i dogmi suoi, tutto il sistema di sua fede, tutto il corredo di sue virtù, tutti i mezzi di praticarle, e tutti i frutti ed i premŒ promessi dal Signore. La nostra vita spirituale tiene alcuna similitudine alla corporea, e ci bisogna in quella altrettanto, dirò così, che ci bisogna in questa. Anche in quella dobbiamo primieramente nascere, e a questo Cristo ci ha fornito il Battesimo; dobbiamo crescere, a cui istituì la Confermazione; perchè ci nutriamo, pose l' Eucaristia; ammalandoci dello spirito, ci fornì la Penitenza e l' Estrema Unzione, ordinata la prima a torre il morbo, e la seconda a torre le reliquie del morbo, o la debilezza della convalescenza. E avendo l' uomo nella corporea vita una società, egli la si trova avere anche nella spirituale, e quest' è la Chiesa. Ma perchè alcuno si congiunga a tale società, ha bisogno prima della vita corporea, e poi della spirituale. A questi due fini perciò sono indiritti i Sacramenti del Matrimonio e dell' Ordine. Non è mia intenzione di esporvi qui le dottrine de' Sacramenti, che trovate con ogni facilità in ottimi libri. Farò tuttavia quasi una scorsa in sul Battesimo, col quale in noi s' incomincia la vita eterna, per darvi esempio del modo, con cui giova studiare in questa materia: e a tal fine mi basterà di porgervi quasi un indice di materie, o poco più, per non ingrossare maggiormente il volume senza bisogno. Sarà dunque bello ed utile studio se voi entrerete a conoscere quasi la storia stessa de' Sacramenti, e qui del Battesimo; e cercherete di osservare le figure, e le predizioni sparse nell' Antico Testamento. E` necessario di poi che veggiate ben chiaro la differenza di tutti gli altri battesimi, e di quello stesso di Giovanni da quello di Cristo. Finalmente fermandovi in questo lavacro vivificatore delle anime consiste ogni migliore studio in penetrarne lo spirito, conoscerne gli effetti, e bene intendere quali gravità di promesse in esso per noi si fanno. Queste promesse, da S. Agostino chiamate non pure voto ma il « massimo voto nostro » (1), a' primi Cristiani erano sacri ritegni da peccare, e l' infrangerle si avea, come è, per sommo infortunio (2); riputando dopo il Battesimo più alta la caduta, più difficile il risorgimento, più dura la debita penitenza. Per questo era prolungato il catecumenato: si dava luogo con ciò a' nuovi cristiani di rafforzarsi nella virtù, prima di promettere a Dio vita solennemente cristiana. Dal Battesimo poi scaturisce il sistema tutto di nostra salvezza, il cumulo de' nostri doveri: conosciuto lui, conosciamo lo stato nostro, la nostra nativa infermezza, l' acquisita nostra dignità, alla quale dignità tutte cose sono sommesse e dell' inferno e del mondo. Ma quanto alle promesse, che fanno i Cristiani nel Battesimo, uso antichissimo è, che di tempo in tempo si rinnovino (3). I tempi più accomodati a questo sono: al toccare il libero uso di ragione; e se i giovanetti nol fanno, è peccato degli educatori: il giorno anniversario del battesimo nostro, la festa della dedicazione della Chiesa; essendo quella festa nostra, poichè noi col Battesimo siamo stati fatti le pietre vive del divino tempio (4); e le vigilie della Pasqua e della Pentecoste, nelle quali la Chiesa battezza i catecumeni. Ora a questo proposito parrebbemi assai convenevole e utile una cosa, che qui non voglio preterire. La Chiesa, per ricordare i fatti illustri della bontà divina, che a lei diedero o fondamento o splendore, stabilisce pubbliche feste. Ogni Cristiano ha per simile modo de' fatti privati della divina bontà, i quali all' anima sua peculiarmente apportarono o salute o aumento di grazia. Imiterebbe adunque la Chiesa utilmente il Cristiano, se come la Chiesa celebra i fatti pubblici con pubbliche solennità, così celebrasse egli i privati con solennità private. La principale di tutte essere dovrebbe l' anniversario del suo battesimo. Quanto vantaggioso e bello non sarebbe, come a me ne pare, se i genitori o gl' istruttori facessero celebrare a' loro giovinetti in questo anniversario un domestico giorno festivo da santificare coi santi propositi, colle rinnovate promesse, colla penitenza e col cibo eucaristico, quasi tempo da cui norma prendesse ed esempio l' anno intero, e s' innovasse la vita, aggiungendo anche esteriori segni di letizia, e qualche insolita ma pia ricreazione? Quanto al modo di formare cotesta famigliare solennità, potendo essere vario secondo varietà di circostanze, purchè tutto spiri pietà, compostezza, e santa letizia, non mi fermerò io a descriverlo. Dirò solo, che utile sarebbe ricordarsi in tal giorno i riti, con cui ne venne conferito il Battesimo. Quante belle cose non contengono quelle cerimonie! L' essere lavati nell' acqua in nome della Trinità augustissima dimostra l' effetto primo del Battesimo, lavare il peccato. Ma or che sono queste acque, che hanno tale potestà? che toccano il corpo, e mondano l' anima? [...OMISSIS...] Quelle acque dunque traggono loro potere dal sangue di Gesù. Quando Cristo morì e scese nel sepolcro, morì allora l' uomo vecchio e fu seppellito. Così Paolo. L' uomo vecchio fu insieme con Cristo crocifisso, perchè il corpo del peccato si distrugga, e al peccato non serviamo più mai (2). E questo primo effetto del Battesimo, era specialmente rappresentato dal Battesimo conferito per immersione, mostrando in quello, per così dire, come il figliuolo dell' uom peccatore si sommerga e si seppellisca. L' essere poi tratti da quell' acqua indica la nascita dell' uomo nuovo. [...OMISSIS...] Per questo Cristo dopo risorto comandò agli Apostoli di andare pel mondo battezzando l' uman genere. Prima non era ancora questo uscito con lui dal sepolcro. Poichè insieme con Cristo otteniamo le grazie, e nessuno il previene: essendo egli le primizie in tutto. E poichè nel Battesimo il Santo Spirito dandosi a noi ci applica i meriti di Cristo, gli Apostoli attesero di ricevere lo Spirito stesso prima d' andare battezzando nell' acqua e nello Spirito Santo. Se la Chiesa adunque battezza nelle vigilie di Pasqua e di Pentecoste, insegna con ciò, come il Battesimo ha sua virtù dalla morte e risurrezione di Cristo, e come dal Santo Spirito viene questa virtù a nostra santificazione usata. Ma veggiamo qual sia l' uomo nuovo che surge, morendo il vecchio. Come il vecchio è l' uomo partecipe della malizia, ed erede del peccato d' Adamo; così il nuovo è il consorte della virtù, e dell' eredità di Cristo. Gesù Cristo, assunto sacerdote, fece sè stesso vittima. Frutto del suo sacrifizio fu la corona di re sopra tutte le podestà nemiche. Ogni Cristiano ora è chiamato a parte di suo sacerdozio e di suo regno. Per questo la Chiesa unge in sulla fronte colui che battezza, secondo l' antichissimo uso di ugnere i Re e i Sacerdoti. Avanti il Battesimo poi l' ugne in sul petto e fra le spalle in figura di croce, come s' ungevano gli antichi atleti, in segno di quella pugna, che coll' arma della croce e' vincerà, e per cui sarà coronato: gli dà il lume acceso, additandogli come debba risplendere nel fuoco di carità quale continuo olocausto al Dio suo. La veste bianca, di che il copre, simboleggia risurrezione e gloria, la bellezza e la purità di questo sacerdozio e di questo reame. Quel sacerdozio, che riceviamo, ci dedica al culto divino, imprimendo in noi questo carattere indelebile di essere persone destinate a servire alla divina gloria eternamente: questo reame ci fornisce di sua grazia, con cui superiamo gli avversarŒ santificando e ricevendo gloria noi stessi. Quella destinazione, o carattere, che al culto di Dio ci consacra, nol possiamo perdere più mai: possiamo però perdere la grazia, che ci mette a parte della gloria e della corona. Ogni Cristiano sarà sempre sacerdote, perchè una volta per sempre al culto divino è sacro: ma perderà la corona di re ricevuta nel Battesimo se strenuamente non combatte. Checchè però abbiamo, l' abbiamo in Cristo, cioè come porzione di suo corpo, perchè unico è il sacerdozio, e unico il regno da lui posseduto, di che ci chiama a parte nel possesso. Ciò s' esprime dalla Chiesa con quella cerimonia del mettere che fa il Sacerdote il lembo della stola sua sopra il fanciullo che battezza, volendo mostrare di coprirlo della stessa veste immortale da sacerdote e da re, di cui Cristo è fornito. Stando in questo regio e sacerdotale ammanto la dignità possibile d' uomo, cui non scemano gli esteriori mali, il Signore nel Battesimo non si curò di torci le umane miserie, mentre nulla con ciò ci avrebbe aggiunto o di grandezza o di nobiltà. Considerati i riti sacri, de' quali la Chiesa accompagna il Battesimo, desiderereste voi forse avere a mano qualche cantico od inno, con cui ringraziare nel giorno anniversario del Battesimo nostro il Signore, e lodare le sue misericordie. Questo ce lo indica Paolo. Egli mostra, scrivendo a' Corinti, che tutte cose avvenivano agli Ebrei in figura delle nostre (1). Ora egli vuole, che noi veggiamo viva rappresentazione del Battesimo nel passaggio dell' Eritreo. Nel Battesimo veniamo battezzati in Gesù Cristo; e per li meriti suoi, mentre l' acqua ci lava il corpo, lo Spirito Santo ci lava l' anima. Cristo adunque era in quel passaggio rappresentato da Mosè, l' acqua dal mare, lo Spirito dalla nube. [...OMISSIS...] E quanto acconcio non è il titolo di mare Rosso a quelle acque battesimali, che la fede vede rosseggiare del sangue di Cristo? e che come gran mare recano salute a tutto il popolo eletto in ogni parte della terra? Per quelle acque, in cui si sommerse l' orgoglioso Faraone, trovò scampo il pellegrino Israello, fuggente la schiavitù d' Egitto verso la terra promessa, come uscimmo noi vivi di quelle acque, nelle quali il demonio e il peccato abbiam seppellito. Perciò quale cantico più accomodato da intonare al giorno anniversario del Battesimo nostro di quel Mosaico, che tutto Israello cantò salvato da' nemici e dalle onde in sulla opposta sponda dell' Eritreo, dopo di sè lasciando tanti orgogliosi nemici affogati? Sì, sì; nello anniversario del nostro Battesimo diciamo anche noi uniti collo spirito a tutti i battezzati della terra: [...OMISSIS...] . E a questo luogo in che tenero tratto profetico non entra il vate ispirato, accennando il deserto che loro rimaneva ancora a percorrere, dopo scampati alle acque, prima di toccare la terra santa? Quanto acconcio è a noi, che scampata nel Battesimo la morte, pure militiamo ancora fra mille rischi, e traendoci per lo deserto di questo mondo dobbiamo arrivare alla patria? Ma dopo ciò a Dio si rivolge nuovamente e prosegue: [...OMISSIS...] . Così Mosè dallo scampo di quel primo pericolo vola a chiedere aiuto all' ultimo passo, che metta in terra sicura e felice: così noi pel Battesimo scampati a principio dalle zanne avversarie, prendiamo occasione di quella prima misericordia a chieder l' estrema, per la quale ha suo prezzo la prima. Or se sì alta canzone degnamente canteremo al mondo, potremo cantarla altresì in Cielo, a grato ricordo delle ottenute grazie divine (1). Dopo avere trattata un po' largamente la virtù, che s' esercita verso Dio, origine e fondamento di tutte virtù cristiane, mi resta a fare alcun cenno delle virtù, che si praticano con sè e cogli altri: delle prime toccherò in questo capo, delle seconde nel capo seguente. Ora le virtù rispetto a se stessi mi parve di raccorle sotto il titolo posto qui sopra del Contegno delle vergini , poichè la bella Verginità, precipua di tutte, dietro a se stessa ne conduce quelle altre, quasi sua bella accompagnatura e corteggio. La verginal purezza, dice s. Agostino (2), per questo dalle Scritture è commendata come pregio altissimo, perchè è divota a Dio; dallo spirito ella debbe nascere; da amore dell' amico e sposo suo: e così, quantunque virtù de' corpi, ella s' eleva a grado di virtù spirituale. Il cuore della Vergine vuole essere sgombro da ogni affetto di terra, odiatore di peccato, e a tutte cose indifferente, fuori che a Dio, che tiene in sè stessa. Non parlo solo di quella Verginità consacrata per voto, ma di quella consacrata per affetto, che a tutte le cristiane donzelle vuole essere comune. Si tenga questa origine della verginal ricchezza, e s' intenderanno i bei costumi della vergine cristiana. Sono pertanto consuetudini e virtù di questo stato illustre e nella Chiesa di Dio onorato la modestia negli atti, e la verecondia così cauta e così dignitosa, che non pure in presenza altrui, ma in sua propria sa arrossire e vergognare; la custodia degli occhi, della lingua, delle orecchie, delle mani, di tutti i sensi, suggellati colla croce di Gesù ad ogni impurità. Bell' esempio è la sposa de' Cantici; le mani di cui stillano mirra, liquore che preserva da corruzione; le labbra sono fasciate con nastro vermiglio, segnacolo di verecondia ne' detti; dimostrano mondezza gli occhi suoi di colomba; negli orecchi i pendenti d' oro son contrassegno di purità; e paragonasi il suo naso a' cedri del Libano, legno incorruttibile (3). Ogni licenza appanna la lucidezza di simile gemma, oscura la bellezza di candore vergineo, e fra gli scherzi umani, dove anche non si perda, difficile è, dice il Salesio, che di questo fregio della castità non ne vada l' ineffabile freschezza ed il fiore. Adunque la Vergine ama il ritiro, e pratica la fuga della umana conversazione: ella teme e trepida ad ogni sentore di pericolo, e questo vergineo trepidare produce la Vigilanza . Stassi la vergine, secondo la similitudine del Vangelo, desta, accinta le reni, e in mano tenente la lampada in aspettando lo sposo. Quel cingolo de' lombi indica la Temperanza, che scema al corpo il fomento della concupiscenza; quell' ardente lucerna dimostra la Carità, che accresce allo spirito forze contro alle lusinghe delle sensibili cose. Quanto il Digiuno non gode di stare colla castità quasi padre o nutricatore! Quanto la Mortificazione non le sta assiduamente da presso come sorella prestatrice di sostegno! Non ama la Vergine nè di vedere nè d' esser veduta, non prende piacere di nessuna cosa di terra: l' abbigliamento delle vesti è netto, ma tutto semplice, dimesso, conformato a sincerità, a gravità, a modestia: non conosce amicizie esclusive, e non conosce o le dolci lettere, o i regaluzzi e le smorfie: da tutto staccata, e in tutto grave, ella pienamente adempie l' apostolico precetto « d' usare così del mondo come se non ne usasse » (1). Di piaceri però non è privata; ma essi traggono da più alta fonte; le discendono dal celeste amico. Spesso si troverà in sua stanza occupata nella orazione, spesso in pie letture, spesso nell' altezza del meditare. Imitatrice degli Angeli in terra vivrà col corpo, e in Cielo collo spirito. Guardiana però e quasi sentinella di questo tesoro verginale, perchè o non si perda egli o non invanisca, si è Umiltà che suole sempre essere a lato della cristiana Verginità. [...OMISSIS...] La vergine del Signore sente la propria infermità; sa che quanto possiede è dono: e come quegli, che riceve doni, ha più a piegarsi e confondersi davanti a lui, che li dona, quanto i doni sono più rari; così del dono stesso della purità ha la vergine donde abbassarsi davanti al Dio suo. Ella sa l' esempio di Maria, in cui la Verginità e l' Umiltà così bella gara faceano, che dubbia restava la prova; sa l' esempio del vergine per eccellenza, di Cristo, che chiama tutti a sè perchè tutti da sè imparino la Mansuetudine e l' Umiltà (3). O anima piamente pudica, non se' mandata ad imparare l' umiltà dal peccatore pubblicano: se' mandata a chi è più innocente di te: se' mandata a chi è più santo, a quello, per cui tu se' santa. Ecco il Vergine esempio de' vergini, cui umile rese non l' ingiustizia ma la carità: quella carità, che « non emula, nè si gonfia, nè cerca le cose proprie » (1). Non può aver ribrezzo d' andarsene la santa vergine ad apprendere da questo l' abbassarsi: è scuola conforme alla dignità sua: qui troverà umiliato l' autore della purità, non pel fascio del peccato, ma per lo peso della carità: davanti a lui vedrà sè stessa spoglia di tutto, se a lui renda quanto da lui ebbe, posseditrice solo di un germe doloroso di corruzione; e da lui imparerà a vestire le stesse immondezze de' fratelli suoi, imparerà ad amare ancora la confusione, il vilipendio, l' affliggimento di quella carne, che allora comincia ad esser buona quando comincia ad essere mortificata per la carità o per la fede: perchè allora luce in lei quella Fortezza, che rende la vergine di Cristo inespugnabile a' nemici, e in tutti i combattimenti invitta. Questa verginità illustre, che fiorisce sulla somiglianza di Cristo, consociata alla Umiltà, è quella di cui, al dire de' Padri, si formavano i martiri, e per cui un' Agnese ed altre tali eroine prima, per dir così, d' esser della vita in possesso, attesa la tenera età, ne' tormenti la prodigarono (2). E` dunque la santa verginità da virtù circondata. Ha la temperanza seco, ha l' orazione, ha seco il santo timore, il pio ritiro, l' incorrotto digiuno, ha la nausea delle cose terrene, il gusto delle celesti, è protetta principalmente dall' umiltà, guernita dalla fortezza, esercitata dalla carità. Non si parla di stretta giustizia a chi crederebbe indegno di sè mancare alla misericordia. Ma di questo amore a' prossimi, che si può dire l' arte stessa o la professione della Vergine di Cristo, qui alcun poco è a parlare, soffermandoci principalmente a considerare di questa carità la PRUDENZA: perchè non sia fatua, ma savia quella vergine, che la esercita. Non parlerò pertanto della carità del prossimo distesamente: troppi ne sono e frequenti i trattati. Ognun sa, che il precetto è questo, che Cristo disse il suo (1); ognun sa la sentenza apostolica, che portare i pesi uno dell' altro è adempiere a tutta la legge cristiana (2). Ci sono dati intorno a questo primo comandamento di Cristo gli esempi, i precetti, le promesse. Di lui ridondano le sacre carte, e ad esse principalmente vi mando. Beete pure a quel fonte della carità, empitevi, inebriatevi. Avete Giovanni a maestro, avete Paolo. Il loro stesso modo di scrivere è eccitamento di amore. Io vi farò considerare pertanto sola una cosa, cioè quello di Paolo stesso: che la carità « si fa tutta a tutti »: ch' ella non si spande solo in eroiche azioni e grand' atti; ma ella si gode e s' intertiene ancora in cose più minute e triviali, nelle più inosservate e neglette, ivi talora giace più grande dove meno apparisce, ivi più sicura ove più nascosta. Ella è saggia, e non opera a caso, ella è sinceramente generosa, e non cerca nè i suoi capricci, nè i suoi piaceri. Voi vedete, che con questa magnanima virtù a lato io vi conduco fuori da quello stesso stanzino, dove nel capo anteriore condotta v' avea all' orazione, e vi faccio uscire in mezzo agli uomini, in mezzo alla società. Sì; se la donzella cristiana ama il ritiro, sa però scegliere quello che meno ama a persuasione della carità. Carità non è solo pascere gli affamati, o vestire i nudi: carità è ancora non dispiacere senza bisogno a nessuno. Non permette la Prudenza della carità che alcuno infranga le relazioni dello stato in cui si trova. E` la fanciulla cristiana in numerosa famiglia? Carità è non vivere a capriccio per seguire una perfezione imaginata: la perfezione è nel vivere a seconda degli altri, nel dispiacere a veruno, piacere a tutti. Carità è accomodarsi di buon volere agli usi innocenti, alle costumanze di quelli fra cui si vive, e fino a' loro gusti, se un dovere nol vieta, e prevenirli ancora con amorevole ingegno. Ma s' io meno vita comune mi conviene omettere molta orazione e molta mortificazione. - Orazione più bella e più grata a Dio è, per non dispiacere altrui, diminuir l' orazione. Mortificazione più meritoria è quella della volontà, che nel vivere comune si fa da colei, che amando più la stanza, sceglie prima l' onesta conversazione. Non dico la cerca, ma la sceglie quando a fare questa scelta attenzione di non ispiacere altrui la conduce, e di non ledere dovere di stato in cui è posta, e di non provocare dicerie. Se questi riguardi della civil carità non vi sono, segua la vita amata dal proprio fervore. - Ma nella vita comune mi dissipo lo spirito, trovo scandali ed occasioni di cadute, nè posso giugnere ad emendarmi. - Conosca adunque tale giovane, che questo non è amore di vita più perfetta, il quale l' attrae dall' esercizio d' una virtù più forte, più virile, più meritoria quale è quella della vita comune, ove la carità de' prossimi è in uso continuo, per non esserne capace, ad una vita più parziale e sequestrata. Non è dunque la perfezione che cerca, mentre la impaurisce una virtù più salda e perfetta. Vuol la vita che ha più nome di perfezione, e lascia la pratica della più perfetta virtù. Di poi, se onesta e pia è la casa della cristiana fanciulla, questa fragilità di solito è colpa, che nella solitudine porterà seco; conviene sradicarla, non metterla sana e salva a dormire, perchè ella ben presto si desta. Se poi la famiglia è un po' mondana, o anche libera, allora il riserbo è un dovere. Ma in ogni caso si fortifichi la cristiana donzella: la disposizione dell' animo, non tanto le occasioni al di fuori, nuoce alla vita. Pure, se in questa fortezza tardi procede, che altra regola le si può dare di suo contegno nell' umano consorzio fuor di quella di Cristo: « Se il tuo occhio ti scandalezza cavalti, e gettal via »? (1). Sì bene; le fanciulle si privino di quanto è loro pericolo d' inciampo. Pur se nel viver comune ed onesto la carità le regge, il Signore non le abbandona; mentre anzi ha loro posti i vincoli che altrui le lega, perchè abbiano esse dei doveri da esercitare, dei meriti da ottenere. - Ma io mi sento chiamata a stato religioso. - E bene: se la vocazione è provata, la ascolti e l' abbracci la pia donzella. Non poniamo a lei ostacolo di scegliere uno stato prima che l' altro; ma vogliamo che dello stato, in cui vive, serbi le leggi. La scelta stessa però di stato migliore non può esser da Dio, se in quella o si preterisce qualche dovere della società, o altri debbe patirne. Non trattenga però la pia giovane un terreno e falso dolore, che vegga in altrui, della sua felice elezione; ma bensì un danno vero e grave, che cagionasse il suo divisamento a quelli, co' quali è per naturali legami congiunta. Ma s' ella non è chiamata al chiostro, dimostri al mondo qual sia la conversazione dell' illibato Cristiano. In questo studi come in bel ramo numerosissimo di fronde, le quali colla spessezza emulano la grandezza degli atti della carità più magnifica. Con questo studio della religione sono nobilitate e rese sante le relazioni ed i mutui offizŒ del viver civile. E qui appunto, giacchè spesso da altri si trapassa, a me sarà caro un poco di fermarmi. Veggiamo dunque le regole colle quali la cristiana legge santifica i costumi, e le maniere sociali, e tutto il conversare degli uomini fra di loro. Dico, che gli uffizŒ del vivere civile, suggeriti agli uomini da natura, possono avere due fonti, cioè il piacer proprio, o l' altrui. Piacevole in vero ci è naturalmente la compagnia; essendo noi alla compagnia degli altri formati da natura; piacevoli ancora nell' uso ci si rendono que' bei tratti, e que' gentili portamenti, e tutte quelle leggiadrie, che usate vengono nelle nobili brigate al mondo. Non parlo, come vedete, di nulla che sia peccato in sè medesimo; intendo sempre qui favellare degli atti indifferenti del vivere, e per sè stessi innocenti. Ora conceduto, che questo trattar compagnevole nella pura teoria potesse al Cristiano piacere riferendone a Dio l' uso, asserisco però a tutta fiducia, che quando il civile convivere si tiene mossi da piacere proprio che se ne senta, allora ne debbe essere per lo meno sospetto. Dobbiamo vedere dentro di noi da che ci venga questo piacere; poichè egli può nascere o da certa sensibile amicizia che si eccita in mezzo a questi affabili modi, o da amore proprio lusingato dell' altrui compitezza e buon garbo, o finalmente da quella ambizioncella, per cui si desidera altrui piacere con doti esteriori o di avvenenza di corpo, o di eleganza di vesti, o di vivacità di parlare. Tutte coteste fonti di diletto sono guaste, o poco nette, e per lo meno non eccedono le propensioni naturali. Sì, ve lo concedo: nulla di questo muova il Cristiano a civiltà, egli sia pure morto al mondo, non ami avere piacere, non che di peccato, ma nè pur di quello che superiore a natura non sia, cioè di Dio. Per quanto si possano fare sottili scuse a simili compiacenze, e porre de' limiti, resterà sempre vero, che il cuore di chi le accoglie non è ancora crocifisso bastevolmente con Cristo, morto a se stesso: ei spera ancora qualche cosa dagli uomini: egli in somma è soffermato quaggiù da amore poco puro, non ha cangiate in sè stesso le inclinazioni naturali con quelle di Cristo. Che se io guardo alle conseguenze di questo umano piacere, ond' uomo è tratto ad affabil contegno, al tutto le veggo disopportabili e ree. Voglio adunque che il pio Cristiano non sia mosso a piacevolezza di vivere cogli altri da gusto umano, e suo proprio, da cui sono mossi gli altri; anzi che egli ogni sensibile amore tolga di sè, ogni vezzo dell' amor proprio, ogni gherminella dell' ambizione. Tutto quello che è nel mondo, dice Giovanni (1), è concupiscenza di occhi, concupiscenza di carne, e superbia di vita. Nulla dunque di questo sia fine al Cristiano, nulla ami di quanto è al mondo, e viva nel mondo senza partecipare del mondo. Così in sulla distruzione d' ogni sensibile umano affetto, in sul distacco da quanto è in terra s' innesti appunto in esso la legittima carità. La « carità », il dirò di bel nuovo, « non cerca quello che è suo » (2). E bene: non conversi con altrui il Cristiano per cagione di proprio piacere; conversi per rendere bello ed onesto piacere agli altri. Or quando onesto è questo piacere, quando legittimo? Varie sono le cose, che altrui possono dar piacere; ora egli è bello ed onesto, se apportiamo piacere colla virtù. Così ci insegnò anche Cristo a vivere cari agli altri: « Splenda la luce vostra in faccia agli uomini, sì che essi la veggano, e ne glorifichino il Padre celeste » (3). La virtù ha veramente una così amabile vista, che tutti, purchè la veggano, non possono se non amarla grandemente e ammirarla. Egli è questo quel bello « Amore figliuolo di Sapienza », di cui parlano le « Scritture », più grazioso assai e leggiadro di quello del mondo (4). E tale è l' ornamento, con cui il Cristiano piace al Cristiano. Lo insegnava alle cristiane donne Pietro, loro l' insegnava Paolo. [...OMISSIS...] Dirà taluno per avventura, che questa bellezza interiore dell' anima raccorrà lode e premio da Dio che la vede, giusto e per noi troppo sufficiente estimatore: ma non dagli uomini. Pure e l' animo tutto pudibondo, e che in tutto ama Dio, ben si dimostra al di fuori. Di qui anzi nasca la virtù della cristiana conversazione. E quale amabilissima e santissima virtù? Una virtù, io dico, che tutti, anche i tristi, saranno costretti di commendare: virtù solida, virtù sincera, virtù consentanea a sè medesima, che di sè non fa mostra, ma in sua propria modestia con più dolce lume risplende, virtù che niente esagera, che niente sprezza, che non giudica, che sopporta, che sa rendere ragione di sè, che studia di non uscire in nulla o meno che può dall' umano vivere pel compatimento dei deboli, che s' occupa in favore d' altrui, e negligenta sè stessa con dignità per soddisfare agli altrui desiderŒ, che fa dei servigi a tutti, sobria, grave, parca nelle parole, niente curiosa, ilare, e non rotta al riso, di nulla sollecita fuorchè di fare sempre contenti quelli co' quali vive anche ne' piccioli comodi della vita; virtù umana, dolce, compassionevole, che evita di prestare altrui occasione di scandalo e di dicerie per loro bene e non perchè ella le tema, che porta le altrui debolezze senza stento e con piacere; virtù in somma, che, essendo tutta in Dio fissa e a Dio raggiunta, con divina saviezza vive cogli uomini in sull' esempio dell' amabile conversazione di Gesù, e, mentre è bastevole ad ogni atto di eroica carità, sa raccorre, come ape ingegnosa, anche dalle più minute e giornaliere circostanze della vita, dolci succhi di carità, e formarne mele soavissimo ad altrui e a sè stessa. Oh quanto non torna amica e cara la santità di quel Cristiano, che, con sè stesso rigido, pensa con ogni dolcezza e benignità degli altri! che ignora per fino i difetti loro, di loro virtù si consola ed edifica, da tutti pronto ad apprendere, tutti ascolta, non ammette prevenzione, vede con facilità il vero ovunque ei sia, e pare che nella bocca degli altri con maggior piacere il trovi che nella propria, sagace in prevedere gli altrui incomodi, destro in toglierli, agli infelici s' unisce compiangendo, a' felici congratulando, sostiene talora senza un segno di noia i più noiosi racconti, e le altrui debolezze, gli altrui torti non saprebbero mutare nel suo volto il cortese, usato sorriso! Tutto semplice, grave, sincero, pieno di un franco e nobile tratto, alle leggi attemprato altrove per noi descritte (1); ei rende, un sì vero Cristiano, amabile agli uomini la nostra virtù. E quale atto maggiore di carità? quale più bell' oggetto della Prudenza, della Carità? (2). Onde quest' è ch' io dico: colla propria virtù dovere il Cristiano piacere altrui; non già cogli ornamenti o colle arti del mondo. Poichè allora veracemente giova piacendo. Insisterà alcuno, che se all' interna ornatura non si aggiungerà un poco degli umani vezzi ed ornamento di vestito, non sarà la cristiana donzella piacevole al mondo. Due cose aggiungerò a risposta: la prima, ch' ella non debbe desiderare, come dicea, d' essere piacevole se non per la virtù, e pe' modi di sua carità; e che colei, la quale in tal modo piace a Dio, piace anche a quelli che sono di Dio. A coloro, cui altro non diletta che il puzzo di carne, debbe abborrire ella di piacere. Allora quanto piace a' tristi, tanto spiace a' buoni. Non s' esercita con quelli carità piacendo, ma loro spiacendo; purchè si spiaccia non per altro che per la virtù, cioè pel monile più ricco e più bello di femmina santa. Avvi però nelle maniere sopra descritte della cristiana conversazione assai cose, a dir vero, che anche i mondani debbono amare e lodare, non solo per quello insuperabile segreto testimonio, che forza d' eterna giustizia astringe le anime umane di dare a virtù; ma perchè quella soave carità è anche tutta umana, e appaga molti naturali affetti e desiderŒ, studiando di renderli contenti in tutto quello che può, e stende una sedula ed amorosa cura fino nelle cose più minute, purchè non contrarie a virtù. Tuttavia essendovi tre modi, pe' quali si può dar piacere agli altri uomini, cioè colla virtù, colle cose per sè indifferenti come sono i fregi del vestire, ed ancora co' peccati, co' peccati si piace a' tristi, colla virtù aDio ed a' buoni, colle cose indifferenti poi alle persone naturali o spirituali mezzanamente. Co' peccati grave male è piacere, colle virtù gran bene: nell' uso delle cose indifferenti poi ha luogo una particolare saviezza per la quale nè si usino perchè si amino, nè si usino di più di quello che giovassero ad edificare, quasi funicelle per le quali attenendosi i deboli salgano mano mano a gustare cose migliori. Ma perchè non si erri in sì difficile affare, questa regola è fermamente a tenere, che in queste tali cose che vanamente piacciono si eviti la sconcezza, non si cerchi la raffinatezza . Questa regola tennero i Santi: e piace leggere come quella santa Edwige duchessa di Polonia, che anche a noi appartiene (1), usando veste troppo logora per amore di povertà, e udendo come a una sorella del monastero ove s' era ritirata quella spiacea, incontanente rispose: Se quest' abito vi spiace, son presta a correggermi del mio fallo , e lo mutò volentieri in un migliore. Carità è in vero evitare quello, che agli occhi non solo de' tristi, ma degli uomini naturali è difforme, per non dar luogo senza bisogno a noia, od occasione di mali parlari; come carità è ancora sfuggire quel ricercato e affettato ornamento che i vani vanamente diletta, perchè e col primo modo si toglie un disgusto come suole la carità, e col secondo si toglie un gusto vano come carità ancor più eccellente costuma. In somma in tai cose non si dia occasione nè di spiacere, nè di piacere a veruno: mentre e l' uno e l' altro è un male. Così la Prudenza della carità ricongiunge quanto puote il più insieme gli uomini, e amandoli tutti a tutto ha riguardo, anche alle loro debolezze, cercando nè di offenderle, nè di fomentarle: ad opportuna occasione poi anzi di toglierle.

Teosofia Vol.II

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Ciò che noi vogliam dire con essa si è, che allorquando si ponga che l' essere, quasi aprendo il suo seno allo sguardo dell' uomo manifestasse tutto sé, sicché l' uomo intendesse a pieno come egli è organato, di quale ordine maraviglioso abbellito, scevro da ogni disordine e causalità: l' uomo vedrebbe manifesta la necessità di ogni parte di quell' ordine ed organismo dell' essere; e tale necessità consisterebbe in questo che egli non sarebbe piú essere, se non fosse cosí ordinato, gli mancherebbe l' essenza di essere se una sola porzione di quell' ordine gli mancasse. Il che è quanto dire, che la pura essenza dell' essere (l' essere ideale indeterminato) è la ragione suprema dell' ordine intrinseco all' essere, la ragione del modo o de' modi in cui è. Ma qui si osservi attentamente che altro è la ragione dell' ordine, ed altro è l' ordine dell' essere. Questo è moltiplice, non essendovi ordine senza pluralità; quella è una e semplicissima. Di che viene la conseguenza che l' essenza dell' essere può conoscersi senza ordine dell' essere, perché quella è diversa da questo; ma solo allora quando sta presente all' intelligenza nel tempo stesso l' essenza dell' essere e l' essere ordinato e compiuto, solo allora l' essenza dell' essere acquista dinanzi all' intelligenza stessa la qualità di ragione del detto ordine, qualità che non si poteva prima conoscere, perché racchiude una relazione coll' ordine dell' essere per anco ignoto. Indi è che si può dire, che, quantunque l' essere ideale non faccia conoscere da sé solo qual sia l' ordine interiore dell' essere, tuttavia lo contenga virtualmente o implicitamente appunto perché egli n' è l' altissima ragione; e però egli diventa il lume a conoscere quest' ordine, tostoché quest' ordine sia comunicato all' uomo nel sentimento. 3) La ragione delle determinazioni dell' Essere . - La parola determinazioni significa i termini, i finimenti e completamenti dell' essere, giacché in ciascun essere la mente concepisce un principio ed un fine. Che se la mente concepisce l' ente solo nel suo principio, senza il suo fine o termine, si chiama essere indeterminato. Ora i termini possibili e finimenti dell' essere sono diversissimi, e variatissimi, e possono essere di condizione finita o infinita ed illimitata. Quindi la parola determinazioni è assai diversa da quella di limitazioni , sicché di Dio, a ragion d' esempio, si può dire che è un essere determinato , benché non si possa dire che sia limitato. Diciamo adunque che l' essere ideale, ossia l' essenza pura dell' essere, contiene la ragione di tutte le determinazioni possibili dell' essere o finite o infinite. Non diciamo già ch' ella presenti la ragione piuttosto di queste che di quelle determinazioni possibili, ma bensí di tutto il complesso di tali determinazioni. Non già del perché una determinazione sia realizzata e l' altra no, ma la ragione del perché una determinazione qualunque sia possibile a realizzarsi. Tuttavia tale prerogativa ed attitudine non si manifesta se non al caso di usarne; e il caso si dà solo allora che ci sono dati degli esseri reali, e con essi insieme le loro determinazioni. E qui di passaggio giova distinguere tra gli esseri reali finiti, e l' Essere reale infinito. Poiché l' Essere reale infinito, posto che ci sia dato da percepire, non è piú un essere nuovo, ma solo il compimento e la determinazione dell' essenza dell' Essere, ma gli esseri finiti nello stesso tempo sono esseri nuovi in quanto alla loro realità, e sono parziali determinazioni dell' essenza dell' essere in quanto alla propria essenza. 4) La ragione dell' Essere assoluto . - Da ciò che dicevamo risulta questo vero, che se ci fosse dato a concepire l' Essere assoluto, noi troveremmo la ragione di lui nell' essenza dell' Essere. Dicendo « la ragion di lui »non dico solo la ragione dell' ordine, o delle determinazioni dell' Essere assoluto (il che già indicammo), ma della sua realità e sussistenza; perocché non sarebbe assoluto se non fosse reale e sussistente; di maniera che questo è solo quell' essere, nell' essenza del quale entra la realità. Che l' essenza dell' essere sia ragion dell' ordine e delle determinazioni, questo non si può sapere se non allora che si contrae questo ordine e queste determinazioni. All' incontro che l' essere ideale sia ragione di una realità infinita, questo si può sapere, purché si abbia conosciuta qualche realità, e se n' abbia tratto la notizia generale della realità. E ciò perché essa stessa l' idea dell' essere mostra d' essere un cotal tema non compiuto ed intero. E nel vero, supponendo che già si sappia che cosa sia realità, si sa tantosto che questo è il termine dell' idea. Avendovi adunque un essere ideale, illimitato, infinito, e necessario, egli è gioco forza che ci sia pure una realità illimitata, infinita, necessaria che costituisca il suo proprio termine. Argomentando dunque dall' essere ideale, la mente perviene a conoscere l' esistenza divina. Quindi dicevamo che l' essere ideale si porge a noi come ragione dell' Essere assoluto; ossia dà a noi la ragione, perché la mente nostra è obbligata ad ammetterne l' esistenza. Né ciò conduce già all' assurdo, che Iddio abbia una ragione fuori di sé; giacché l' argomento, che noi facemmo, importa anzi che Iddio ha la ragione di sé in se stesso; la qual ragione è a noi comunicata, precisa dall' essenza divina, ma tale che ben si scorge esser essa un' appartenenza di Dio medesimo. - Ma Iddio ha egli una ragione? - Non ripugna ammetterla, purché si ponga in lui stesso, e non fuori di lui. La quale dimostrazione dell' esistenza di Dio a priori non può essere direttamente impugnata; ma dà occasione a considerare certe verità che, a primo aspetto sembrano non certo assurde, ma misteriose ed inesplicabili le quali possono benissimo proporsi in forma di obbiezione. Eccone una: « Voi dite che l' essenza dell' essere ha d' avere i suoi termini: e lei unita co' suoi termini, e compiuta, dite esser appunto l' Essere assoluto. Ma voi chiamate termini di quell' essenza anche gli enti contingenti, onde pare che facciate di questi una cotal porzione di Dio ». La verità difficile, esclusa la quale si presenta una tale obbiezione, si è il distinguere i termini dell' essenza dell' essere che compiono quest' essenza e le sono necessarŒ acciocché sia, dai termini che non le sono necessarŒ né la compiono. Onde gli enti contingenti si dicono termini dell' essere ideale, o essenze pure dell' essere, in tutt' altro significato da quello nel quale si dicono termini di lei i termini suoi necessarŒ. A conclusione di tutto ciò noi riassumeremo cosí: 1) E` a noi nota per natura l' essenza pura dell' essere, e in questo non può cadere inganno alcuno, perché l' essenza dell' essere è la verità stessa (1). 2) L' essenza pura dell' essere che è a noi data è la pura notizia di che cosa sia esistenza , onde questa notizia si chiama anco idea dell' esistenza . 3) L' essenza pura dell' essere è la nozione della pura esistenza, perché manca de' suoi termini necessarŒ e completivi (come pure d' ogni altro); e però dicesi anco essere iniziale, perché è ciò onde incomincia ogni ente concepibile acciocché sia ente: quindi anco il primo elemento d' ogni cognizione. 4) A malgrado che l' essere da noi intuíto non sia che iniziale, egli è la ragione di tutti gli enti; e però al confronto con essi, egli ci fa conoscere perché sieno cosí, e non altramente. 5) La notizia dell' essere iniziale ci fa conoscere altresí la necessità che esista un Essere assoluto, cioè la necessità che l' essere iniziale sia in se stesso compiuto; e però contiene un principio che ci conduce alla cognizione dell' esistenza di Dio; non però della sua natura. Se dunque l' essere ideale è essente per sé; coesistente e non posteriore al reale; non prodotto da alcuna mente, ma termine di ogni mente: e se nell' ideale si contiene la ragione suprema e la possibilità di tutti gli enti reali, del loro ordine intrinseco e delle distinzioni che si possono fare in essi: dunque la dialettica non è la causa né la ragion suprema della pluralità che dicevamo; ma essa anzi deve ricorrere all' essere ideale per trovarci dentro questa ragione, onde la pluralità degli enti e delle distinzioni originariamente procede. Vero è che la ragione della pluralità non è la pluralità stessa, benché virtualmente la contenga. Questa pluralità è propia dell' essere reale, e dalla natura di questo si deve desumere: quando poi la pluralità esiste realmente, allora si vede attuata nell' ideale; e in esso se ne contempla la ragione altresí, che prima ci stava occulta in modo virtuale. Nell' essere ideale trovano un corrispondente le stesse finzioni, gli stessi errori dello spirito umano; né perciò essi sono dall' ideale giustificati, perocché li presenta per quel che sono, cioè per finzioni ed errori. La cognizione umana è limitata, è imperfetta: ne vien quindi ch' ella sia necessariamente fallace? V' ebbero alcuni filosofi i quali credettero poter fare questa illazione. Perocché nell' ente, se questo non si presenta all' intelligenza tal quale è in se stesso, l' intelligenza vedrebbe l' ente come non è, e quindi vedrebbe il falso. Ma l' ente in se stesso è illimitato. Se dunque la mente non vede tutto l' ente, e però è fallace e priva di verità la sua cognizione. Al quale argomento rispondiamo accordando che la verità esige una certa infinità. Ma questa condizione si avvera appunto mediante l' intuizione dell' essere ideale. Perocché in questo vi ha tutta l' essenza dell' essere, la ragione come vedemmo di tutto l' ordine dell' essere: lo stesso essere reale e morale vi si comprende, benché solo virtualmente. Di che avviene che la cognizione dell' ente è sempre vera purché si riferisca a tutto l' ente, quantunque non sia cosí intensa e vivace e cosí esplicata come potrebbe essere. A quella guisa appunto che una formula algebrica può contenere la vera soluzione d' un problema benché non sia tratta fuori in numeri. Il qual vero è importantissimo all' argomento di questo libro. Nel quale noi ci siamo proposti di parlare delle diverse apparizioni dell' essere nella mente umana, e di cercare: « quali appartengono alla dialettica, quali sono superiori ed anteriori ad essa: se è vero che la dialettica o il movimento del pensiero sia quello che spezza l' ente, uno per sé; se le apparizioni dell' ente ci ingannino necessariamente ». Ora tutte le apparizioni dell' essere si riducono a tre generi, che costituiscono altrettanti modi di conoscere proprŒ dell' uomo: 1) Quello dell' essere ideale , che la natura dà all' uomo, onde quel modo di conoscere che si chiama intuizione . 2) Quello dell' essere reale , che in misura limitata si dà alla natura dell' uomo, onde il modo di conoscere che si chiama percezione . 3) Quello che ha luogo in virtú dell' attività stessa dell' anima, la quale si esercita su quell' ideale e reale che le è dato da natura, onde il modo di conoscere che si chiama riflessione . L' intuizione è illimitata. La percezione è limitata dalla natura. La riflessione viene dall' attività dell' anima e non solo è limitata, come è limitata questa attività, ma in quanto ella contiene il modo di conoscere per via di predicazione soggiace al vero ed al falso; poiché il vero ed il falso sta sempre in questa maniera di conoscere. La prima di queste tre maniere di conoscere, essendo illimitata, presenta allo spirito la stessa verità, e quindi la norma colla quale vengono perfezionate e rettificate le altre due. Il conoscere per via di percezione, quando si riscontra a quella norma, si ravvisa limitato: e questo basta per impedire che egli non inganni l' uomo: giacché il sapere che è limitato, è sapere il vero e non il falso, il qual si avrebbe soltanto qualora si giudicasse illimitato quello che è limitato. Il conoscere per via di riflessione talora è solamente limitato; talora è un conoscere falso, nel qual caso non è, a dir vero, piú conoscere, ma solo credere di conoscere. In quanto al conoscere riflesso egli è limitato riscontrato alla norma, cioè alla verità, che si conosce nel primo modo; viene perfezionato in questo senso che se ne conosce la limitazione, ond' è ch' egli non può piú ingannare. Ché quando il conoscere limitato si conosce fornito di quella limitazione che gli è propria, già diventa con ciò stesso un conoscere verace e non può piú ingannare. Quando poi nella riflessione cade errore, vi è sempre la via di rettificarlo, bastando che si riscontri alla norma suprema, e cosí l' errore è tolto appunto perché è conosciuto. Quindi in tutte affatto le apparizioni dell' essere non vi ha mai inganno od errore necessario, benché possa esservi necessaria limitazione. La ragion prima d' ogni limitazione dell' umano sapere sta in questo, che la natura comunica l' essere reale limitato. Infatti l' essere ideale è dato dall' intelligenza senza limitazione. Or onde che l' oggetto dell' intuito umano sia l' essere ideale senza il reale? Questa separazione del reale dall' ideale vien' ella dal soggetto umano? dalla sua limitata realità? Appunto cosí. E veramente noi dimostrammo che l' essere in sé non può avere la sola forma ideale. La separazione dunque dell' una dall' altra non dipende dall' essere, ma dal soggetto, che per sua propria limitazione riceve l' una e non l' altra. A chiarire la questione noi porremo un principio generale: « Riducendosi ogni realità al sentimento e a ciò che cade nel sentimento, niun essere può apprendere l' ente reale se non per via di sentimento: quindi ogni essere finito essendo un sentimento finito per natura, non può apprendere che un sentimento piú o meno finito secondo che è quel sentimento che lo costituisce ». Dal qual principio deriva questa importantissima conseguenza che niun ente finito può apprendere o percepire per natura l' essere reale infinito. Consegue che di necessità l' essere ideale risplenda alle menti finite solo, senza il suo corrispondente reale. Si dirà: se l' ideale è relativo al reale, come può starsene tutto solo nella mente? Rispondo che ei contiene il reale virtualmente e questo basta a fare ch' egli si possa comunicare, e a dar indizio della necessità del reale corrispondente: ma non basta a fare che si percepisca attualmente il reale stesso. Contenere virtualmente il reale, e averne in sé la ragione, viene al medesimo. Quindi è che s' abbia nel sol reale un punto nel quale la mente appoggiandosi si può slanciare a indovinare per cosí dire che un reale corrispondente all' ideale debba esistere, benché non lo percepisca, né sappia determinarne le positive qualità. Vi è dunque nell' ideale una cotal scienza di semplice indicazione del reale: scienza che noi diciamo negativa, perché non sa indicare le positive qualità del reale, di cui però quasi divina la necessaria esistenza (1). E` dunque da conchiudersi che l' essere reale infinito non può essere percepito da nessun essere finito per sua propria natura; ma solo l' infinito reale può percepir se stesso per sua natura, perché la realità infinita è la sua natura. Se dunque l' essere finito percepisce il reale infinito, non può concepirlo che come cosa sopraggiunta e datagli altronde. E questo è quello che insegnano anco i teologi cristiani quando dicono che niun essere finito può vedere Dio per natura, ma solo per grazia. Ma rimane dopo di ciò a ricercarsi come questi reali finiti, possano aver luogo. Ciascun di essi è forse il sentimento infinito che pone de' confini a se' medesimo? Come si possono concepire de' sentimenti finiti fuori dall' intuito se questo già abbraccia tutto? Poiché come sarebbe infinito se non abbracciasse tutto, se non comprendesse ogni sentimento? Le quali ricerche appartengono tutte al problema della Creazione, che noi ci riserbiamo di trattare a parte. La ragione dunque del perché la percezione sia limitata ad un reale finito si riduce al perché un reale finito possa essere creato; giacché, supposta la creazione d' un reale finito, ne vien qual necessaria conseguenza che la natural percezione di questo reale finito non possa eccedere i confini di esso reale finito. L' intuizione e la percezione precedono dunque la riflessione, giacché sono atti semplici: in essi non vi ha discorso da un pensiero ad un altro. La dialettica adunque, che è il movimento del pensiero, il passaggio d' un pensiero in un altro, è posteriore all' intuizione ed alla percezione; e però quella divisione dell' ente, come pure quelle determinazioni e quelle limitazioni che sono poste dall' intuizione e dalla percezione, non procedono dalla dialettica, ma sono a questa anteriori: sono date o dalla natura dell' ente senza piú, quali sono le distinzioni categoriche, o dalle leggi della Creazione. I limitati creati non procedendo adunque dalla dialettica, come vuole Hegel, ma essendo ad essa anteriori, né pure è vero ciò che pretende questo filosofo che quelle limitazioni sieno passeggiere e mortali, perché si perdono nell' essere dialetticamente (1): niuna dialettica può fare rientrare nell' essere infinito le cose finite, come niuna dialettica poté farle uscire. La dialettica di Hegel è l' esagerazione d' una verità: tali sogliono essere tutti gli errori de' filosofi. Noi ammettiamo di buon grado una maniera di ragionare, che si può chiamare acconciamente dialettica trascendentale . Ma si restringerebbe ad arbitrio il significato della parola dialettica . L' arte di ragionare si dice dialettica, e ogni ragionamento è dialettico, se rettamente procede. Or noi diciamo dialettica trascendentale quello speciale ragionamento pel quale la riflessione, avente a materia l' intuíto ed il percepito, trova le relazioni di questi coll' essere assoluto. Questa dialettica trascendentale ha due uffici: 1) Trova ciò che nella percezione vi ha di assolutamente vero, e ciò che vi ha di vero relativamente, confrontando il percepito coll' essenza dell' ente. Nel che s' avverta che questa critica, che la dialettica trascendentale fa della percezione, non riguarda propriamente parlando la percezione stessa, ma quel primo giudizio che segue alla percezione, col quale diciamo a noi stessi o piuttosto presumiamo di conoscere il percepito d' assoluta condizione. Di questo errore ci scioglie la Dialettica trascendentale, e il fa, paragonando il finito percepito coll' infinito intuíto, ossia coll' essenza dell' essere. 2) L' altro ufficio della Dialettica trascendentale consiste nell' estendere la cognizione umana dal finito all' infinito, che è quella funzione che altrove chiamammo dell' Integrazione , la quale si compie raccogliendo le relazioni essenziali e necessarie fra il finito e l' infinito, o le relazioni categoriche. Se il negativo è il solo principio del movimento del pensiero, ne verrà che la Dialettica si rimarrà del tutto sterile, cioè non potrà uscire dalla percezione mescolata quanto si voglia colla negazione dello spirito. E questa sterilità è veramente il carattere della dialettica di Hegel, il quale non può uscire dal circolo del Mondo e delle cose contingenti come vedemmo. Poiché, per quante negazioni e negazioni di negazioni egli accumuli, altro non fa che maneggiar sempre la stessa pasta e darle forme nuove senza accrescerla pur d' una sola molecola. Il dir poi che la negazione della negazione equivale alla affermazione, è bensí vero, ma nulla conchiude a suo pro. Perocché, se il negare del negare è affermare, perché sarò io obbligato a procedere per quella doppia negazione piuttosto che a dirittura per l' affermazione? E se posso affermare senza bisogno d' altro, dunque il movimento dialettico non istà nel negare solamente, ma egualmente nell' affermare. Ma, tanto per affermare, quanto per negare, io ho bisogno di una ragione. Non è dunque il negare o l' affermare preso in astratto che dia movimento al vero pensiero dialettico; ma quella ragione che presiede alle negazioni o alle affermazioni, le giustifica e le conduce. Or questa ragione non è ella stessa né negazione né affermazione, ed ella manca al tutto alla dialettica hegeliana la qual non conosce che la scienza di predicazione. L' intuizione né afferma, né nega, ma talora omette di considerare, cioè restringe il proprio oggetto ideale. Restringendo l' oggetto dell' attenzione intuitiva, non si pronuncia nulla di falso, ma solo si limita il conoscere intuitivo. Gli antichi distinsero accuratamente la limitazione , che il soggetto intellettivo pone al suo oggetto, dalla negazione . Quella può esser fatta ad arbitrio senza questa: questa dee esser fatta con una qualche ragione, altrimenti produce un errore (1). Ora questa ragione è il vero principio del movimento dialettico del pensiero. Hegel confonde la semplice limitazione dell' oggetto colla positiva negazione, il che lo travolge ad interminabili errori. E di vero, se noi consideriamo que' modi d' argomentare, pei quali noi siamo stati condotti dal reale limitato percepito a trovare l' esistenza d' un reale infinito non percepito, vedremo che non dobbiamo cotanta scoperta alla semplice negazione, né tampoco alla limitazione; ma piuttosto a quella ragione superiore che ci ha fatto conoscere la stessa limitazione del reale percepito, e ci ha fatto conoscere esser ella di tal indole, da dimostrare assurda l' esistenza di quel reale se non si ponga un altro reale incognito ma pur esistente che lo produca e mantenga. Infatti due furono le vie del nostro ragionare che ci condussero allo stesso termine. La prima mossa dall' ordine intrinseco e necessario dell' ente reale; il quale esige che ogni ente reale debba avere un atto assolutamente primo. Onde ogni atto reale che non è assolutamente primo, esige, per poter essere, un altro atto reale che sia assolutamente primo. Questo principio ontologico diede la mossa al nostro ragionamento, e non la sola limitazione del percepito (molto meno alcuna negazione). Il qual principio non è finalmente altro che la relazione categorica fra l' essere reale e l' essere ideale applicata all' essere reale limitato, e cosí trasformata in un giudizio che dimostra l' insufficienza di questo solo. Ma questa legge ontologica, che ci condusse a trovare una prima causa reale dell' ente reale da noi percepito, non ci bastò tuttavia a dimostrare che questa causa dovesse essere in atto, giacché nell' idea d' una causa reale non si contiene la necessità della sua attuazione, potendosi pensare tanto in atto quanto in potenza. Non contenendosi adunque nel concetto d' un primo ente reale assoluto l' atto stesso produttore della realità limitata, noi dovemmo supporre, per la stessa necessità logica, che questo primo essere siasi determinato liberamente a produrre il reale limitato, essendo questa la sola supposizione che ne spieghi l' esistenza. Ma quell' atto libero, per sé solo considerato, mancava della sua ragione, di natura sua essendo possibile egualmente che fosse posto e che non fosse. Or egli è posto, noi lo sappiamo: perché è posto il suo effetto, il percepito. Ma l' affermare che quell' atto sia posto, quando può esser l' una cosa e l' altra, suppone la scienza di predicazione andata al di là della scienza d' intuizione. Or questo è assurdo. Convien dunque restituir l' equilibrio fra l' una e l' altra scienza. A tal fine ricorremmo ad una legge dell' essere morale. Questa legge risulta dalla relazione categorica fra l' essere morale e l' essere ideale. L' essere morale supremo (perfetto, essenziale) ama, vuole, produce l' ordine perfetto dell' essere reale che è conoscibile nell' ideale. Acciocché dunque l' idea e l' affermazione riescano equilibrate, io debbo ricorrere ad un' altra idea che giustifichi l' affermazione, e quest' è l' idea d' un reale operante come prima causa. Se nell' idea di questo reale supremo non si contiene l' operazione, debbo ricorrere alla ragione morale, come abbiamo già detto. Per questa maniera di dialettizzare la mente trapassa tutti i confini dello spazio e del tempo, della materia e dello spirito umano, e in una parola del creato universo: Hegel colla sua negazione non può mai varcare questi confini, onde l' ateismo ed il materialismo del suo sistema. Egli cerca invero di divinizzare il pensiero ed il mondo, che è per lui nel pensiero, rifuggendosi cosí nel panteismo: ora questo stesso egli fa ad arbitrio, perché a giusta ragione né il pensiero umano né il mondo può cangiarsi nella divinità. Que' due primi errori sono conseguenti al suo sistema; quest' ultimo è di piú una inconseguenza. L' intuizione e la percezione non ammettono errore. L' errore adunque incomincia colla riflessione. Noi abbiamo parlato di quella riflessione ben ordinata che tende a completar la cognizione dell' essere acquistata coll' intuizione e colla percezione, il qual uso della riflessione appellammo dialettica trascendentale . Or prima d' inoltrarmi a svolgere le altre maniere d' adoperare la riflessione, giova che noi separiamo il fenomeno dell' errore, che non è propriamente cognizione, ma cosa eterogenea al conoscere. Ogni errore si riduce ad atto dello spirito: il quale pronuncia che qualche cosa sia, quando ella non è, e viceversa. Che cosa è il vero? - Il vero è l' essere pronunciato dallo spirito. Il vero ed il falso adunque è una qualità dei pronunciati dello spirito. Se ciò che lo spirito pronuncia è l' essere, il pronunciato ha per sua qualità l' esser vero; se ciò che pronuncia non è l' essere, il pronunciato dello spirito ha per sua qualità l' esser falso. Se il pronunciato dello spirito è vero, l' uomo per esso conosce l' essere che ei pronuncia a se stesso, ha la cognizione. Se il pronunciato dello spirito è falso, non ha la cognizione. Il falso ed il vero convengono nell' essere pronunciati dello spirito, ma non nell' essere cognizione. Quanti uomini dotti apparirebbero ignoranti, se si separasse tutto ciò che v' ha di erroneo nelle loro opinioni! Dare il nome di dotti a quelli che insegnano grandi cose, ma erronee, è abuso di vocaboli: sarebbe tempo che il mondo se ne vergognasse. Ma nell' errore non vi ha ignoranza solamente; vi ha di piú falsa credenza. La credenza è una disposizione soggettiva: la cognizione non è mai puramente soggettiva; dee avere un oggetto. Se l' oggetto non c' è, l' uomo può fingerlo, ma il fingerlo non fa che sia. Quindi si deduce: 1) che l' errore appartiene a quella forma di conoscere che dicemmo di predicazione; 2) che quantunque l' errore tenga la forma di questo conoscere, tuttavia egli non è mai propriamente cognizione; 3) che egli è una disposizione soggettiva; 4) che questa disposizione pone il soggetto intellettivo in contraddizione coll' oggetto; 5) che l' errore suppone un' attività intellettuale, la qual muove se stessa, non verso l' oggetto, ma a ritroso di lui; 6) che l' errore non istà nell' oggetto, ma in ciò che si afferma o si nega intorno all' oggetto. L' errore dunque è un conoscere privo d' oggetto: la sua natura per questo consiste nel negativo, e non punto nel positivo, qual è sempre la natura del male (1). Ma per ben intendere come l' errore sia privo di oggetto, conviene porre attenzione a queste tre cose: 1) che ciò che v' ha di oggettivo nel pensiero erroneo, non è ciò che costituisce l' errore; 2) che il credere ad un oggetto assurdo, non è aver veramente dinanzi alla mente un oggetto; 3) che l' affermare, o il negare, non è cosa che appartenga all' oggetto, ma al soggetto, e non produce un oggetto, ma semplicemente una disposizione soggettiva che dicesi fede, persuasione, ecc.. Rimane dunque il credere senza oggetto. Rimane l' atto soggettivo, la persuasione che termina nel nulla. Or che cos' è dunque questo credere? Questo persuadersi che certi elementi di conoscere con certi nessi abbiano un risultamento quando non l' hanno? Abbiamo detto che è una disposizione soggettiva di un essere intelligente, la quale rimane senza oggetto. E una disposizione soggettiva è del pari l' affermazione e la negazione. Non è poco difficile a intendere bene la natura di tali disposizioni soggettive. In prima, tali maniere di disposizioni non possono cadere che in un soggetto intelligente. Egli da se stesso si muove verso l' oggetto per prenderlo e farlo suo: questo impossessarsi dell' oggetto e appropriarselo, fa sí che la cognizione diventi una disposizione che il soggetto dà a se stesso; poiché lo sforzo posto in essa, il possesso di essa, è tutta operazione e atteggiamento soggettivo. Tale è il verbo della mente; è un pronunciato del soggetto. Tale è la credenza: questo aderire, questo assentire, o affermare, ovvero fare il contrario di tutto ciò, è attività soggettiva suscettibile di vero e di falso. Se si assente ad una proposizione falsa, vi ha l' errore. Ma se il falso della proposizione fosse evidente, niuno potrebbe assentirvi. Conviene adunque sempre che il falso si nasconda: onde in ogni errore cade nel soggetto qualche oscurità; assente a ciò che non vede chiaro, a ciò di cui non vede chiaro la ragione. Ogni qualvolta adunque lo spirito umano impera a se stesso di assentire e credere a proposizioni che esprimono ciò che non è ( errore semplice ), o ciò che non può essere ( assurdo ), vi ha errore: il qual si può definire « un atto dell' essere intellettivo che non raggiunge l' essere ». Dalle quali considerazioni in primo luogo s' intende che gli errori e gli assurdi non sono punto entità; e che perciò la ricerca ontologica non ha bisogno d' occuparsi intorno alla generazione degli errori e degli assurdi, che come tali non sono punto entità. In secondo luogo, si ravvisa quanto vanamente l' Hegel abbia infarcito l' ontologia delle negazioni, de' negativi, del nulla, pareggiando il nulla all' essere, perché anche il nulla viene pensato. Egli non ebbe c“lta la distinzione fra la cognizione oggettiva e la soggettiva, e quindi molto meno egli poté vedere che vi hanno degli atti del soggetto intellettivo i quali si rimangono senza loro proprio oggetto. Coll' aversi ben dichiarato pertanto questo fenomeno dello spirito intelligente di poter fare degli atti che non raggiungono alcun oggetto, si ha dissipato intieramente il prestigio della dialettica di Hegel. Il cui sofisma sta sempre nel prendere il segno dell' oggetto per l' oggetto; i componenti dell' oggetto, cioè gli oggetti che si suppongono componenti, per l' oggetto che essi debbon comporre; gli atti del soggetto intelligente e le relazioni di questi atti con qualche oggetto, per l' oggetto stesso. Nel pensare erroneo adunque interviene sempre un oggetto fattizio composto di segni, d' idee e di nessi d' idee, il quale oggetto fattizio si adopera a determinare l' oggetto ultimo del pensare, ma invano; poiché nel pensare erroneo quest' oggetto ultimo non si trova, è affatto nulla: e l' errore sta appunto in questo, nel voler che il nulla sia qualche cosa. Quindi l' errore non istà negli oggetti fattizŒ; neppure in un atto soggettivo privo di quell' oggetto che non deve avere, ma in un atto soggettivo privo di quell' oggetto che deve avere, che pretende d' avere quando non l' ha. S' io dico il nulla è nulla, il mio pensiero non ha oggetto, perché il nulla non è oggetto, e tuttavia non è erroneo, perché non pretende di averlo, anzi sa ed afferma di non averlo; ma s' io dico « il nulla è qualche cosa », erro, perché fo un pensiero che, mentre non deve aver alcun oggetto, vuole, pretende, afferma d' averlo (1). Questa contraddizione fra la intenzione del pensare e l' oggetto, è propriamente l' errore. Vi è dunque un pensare per via di oggetti fattizŒ, il quale non è erroneo: e di questo giova che ora parliamo. Al pensare umano presiedono queste due leggi: L' oggetto del pensiero è l' essere. L' attenzione del pensiero non può fissarsi in un essere determinato se non vi è tirata e tenuta dal reale sentito. Queste due leggi reggono il pensare oggettivo. Dato questo pensare, sopravviene l' affermazione e la negazione, cioè il pensare di predicazione. In virtú di queste due leggi accade: 1) Che l' uomo non possa limitare colla mente e determinare ad una forma speciale l' essere ideale se non prevalendosi di un reale che attiri e trattenga la sua attenzione e serva a lui di segno determinante e limitante l' ideale. Nulla di meno gli ideali determinati, cioè le specie piene, sono oggetti fattizŒ in questo senso che risultano dalla relazione categorica che passa fra l' ideale e il reale finito mediante l' intelletto. 2) Quando si comincia ad esercitare su di essi l' astrazione, interviene l' azione della riflessione soggettiva che limita vie piú l' oggetto (l' essere universale) che in natura non è limitato. Or non potendo la mente pensare una tale limitazione senza l' aiuto d' un reale, e non giovandole a ciò quel reale a cui corrisponde come tipo l' ideale, ella deve ricorrere ad un altro reale che le presti l' ufficio meramente di segno. Egli è per questo che gli astratti non si possono avere senza il linguaggio o altri segni che giovano a dirigere e fissar l' attenzione in qualche elemento dell' ideale, cioè della specie piena rattenendola dal fissarsi nell' intera specie «( Psicologia , Vol. II, n. 1515 sgg.) ». Ma, cercandone la ragione ontologica, questa si trova ne' bisogni parziali dell' uomo, e la ragione di questi bisogni molteplici e parziali dee riferirsi alla condizione del sentimento che costituisce l' uomo: soprattutto al sentimento animale, avente per termine il corpo e la materia divisibile senza termine alcuno. Diamo un esempio. Considerare le sostanze materiali nella loro qualità di alimentari, egli è un considerarle astrattamente. Ora che cosa induce l' uomo a questa astrazione? L' aver egli il bisogno di alimentarsi. E questo bisogno onde procede? Dal sentimento animale, dall' organismo, e in fine poi dalla materia. Altro dunque è l' ideale , altro le diverse vedute dello spirito che lo considera secondo i diversi bisogni dai quali è mosso a considerarlo. Onde, se la specie piena è l' ideale nella sua relazione col reale finito intero, gli astratti sono pure l' ideale considerato in relazione delle diverse parti, elementi, virtú, attitudini, bisogni del reale medesimo. L' azione dunque del soggetto intelligente è quella che moltiplica i concetti, o sieno universalmente determinati, o sieno astratti. L' oggetto, ossia l' essere ideale, in queste operazioni rimane sempre presente allo spirito, ma egli viene moltiplicato, e questa moltiplicazione è quindi l' opera del pensiero. Ma si noti bene di qual pensiero: di un pensiero i cui atti sono limitati. Quindi la domanda: « qual' è la ragione, perché gli atti del pensiero riescano cosí limitati ». A cui si risponde: « perché il pensiero è limitato al reale ». Nel che si osservi che una limitazione del pensiero ne porta un' altra. E veramente, posto che i primi atti del pensiero sieno limitati a cagione della limitazione del reale, e cosí quelli astratti che vengono tosto appresso la percezione, avviene che l' uomo sia spinto a moltissime altre astrazioni di astrazioni senza fine, tutte anch' esse limitate. Del che la ragione è questa. Il primo pensiero dell' uomo, l' intuizione naturale, ha un oggetto infinito; ma in questo primo suo atto intellettuale egli è ricettivo. La sua perfezione consiste nell' aderire all' infinito essere colla sua propria attività. Per questo il suo pensiero attivo si mette in moto. Ma questo pensiero attivo trova incontanente la limitazione del reale. Egli quindi si sforza d' uscirne per arrivare all' essere assoluto. A tal fine non gli rimane che accumulare pensieri sopra pensieri, i quali sono tutti limitati, perché sono limitati i primi ai quali è dato un termine limitato. Quest' è la ragione ond' accade che le speculazioni di quelli uomini che si danno alla contemplazione della verità sieno interminabili, e che gli uomini, per quanto sappiano, non si chiamano giammai soddisfatti: il solo sapere naturale non felicita l' uomo, perché non conduce all' intera cognizione e percezione dell' essere assoluto. Gli astratti, noi dicemmo, non si pensano dalla mente se non legati ad un reale che serve loro di segno. Questo pensare per via di segno, è un pensare limitato d' una speciale maniera. Il segno reale è oggetto certamente del pensiero; ma non è l' ultimo oggetto, il termine di un tal pensiero: questo è la cosa significata. Si pensa dunque un oggetto per mezzo di un altro. Il segno è un reale, e l' astratto significato è un oggetto ideale. Si pensa dunque un ideale per mezzo, ossia coll' aiuto, di un reale. Abbiamo veduto che il pensare limitato non è un pensare erroneo, ma che l' errore facilmente ad esso si accoppia ed è quand' egli si prende e giudica per assoluto. Ora il pensare gli astratti, come pure generalmente il pensare per via di segni, benché in se stesso non erroneo, diviene all' uomo occasione d' errori. Un primo errore prende l' uomo quando si dà a credere che gl' ideali determinati ed astratti sieno in se stessi cosí disgiunti come sono nella mente dell' uomo. Quando l' uomo pensa l' un di essi, non pensa l' altro, onde gli pare che ciascuno sia indipendente dall' altro. Un altro errore sarebbe, se, l' associazione fra il segno reale e l' astratto segnato oscurandosi dinanzi all' attività soggettiva del pensiero, l' uomo prendesse il segno per la cosa segnata. Questo errore è molto frequente e apparisce in piú forme, divenendo piú errori. Uno di questi errori si è quello de' dialettici che talora danno corpo e realità alle astrazioni: ma di questo maggiore è quello di coloro che tolgono via l' idealità, non riconoscendo altro ente che il reale; ovvero che abusando di parole chiamano reale l' ideale. Un altro errore della stessa specie fu quello dell' idolatria, onde gli uomini adoravano le immagini e i simulacri invece delle cose divine che dovevano rappresentare. Questo errore grossolano mostrava come la percezione del reale sensibile legasse a sé le menti per modo che non lasciavale piú andare all' ultimo termine insensibile a cui era v“lto il pensiero. I segni, oltre aiutare il pensiero a fissare gli astratti, lo aiutano altresí a fissare gli enti in quanto sono negati dalla mente. La parola nulla , a ragion d' esempio, significa l' ente assolutamente negato. La parola male, difetto, errore , ecc., significa l' ente in cui manca qualche cosa che vi dovrebbe essere. Questo pensare è intieramente soggettivo rispetto al suo oggetto proprio e finale, perché questo manca del tutto, e solo vi ha l' oggetto immediato che è il segno della mancanza dell' oggetto ultimo. Un tal modo di pensare non è ancora erroneo per se stesso; ma l' uomo, vi mescola facilmente degli errori, come accade se giudica che l' oggetto negato, o l' oggetto mancante a cui si riferisce il segno, sia un oggetto vero o un oggetto reale. A spiegare la facilità con cui l' uomo sdrucciola a questi errori, conviene rammentare il principio di cognizione pel quale l' uomo non può pensare nulla che non abbia la condizione di ente. Quindi allorché egli restringe la sua attenzione a pensare un astratto, il quale astratto talora è anche negativo, per esempio, limitazione, privazione, niente , ecc., egli è obbligato di considerare questi termini del suo pensiero siccome enti, altrimenti non li potrebbe pensare cosí nudi e da per sé presi. Cosí diventano oggetti fattizŒ e non veri. Vi è dunque bisogno che la riflessione critica sopravvenga, e glieli faccia riconoscere per fattizŒ, acciocché non lo ingannino. Ma questo lavoro della riflessione critica costa qualche fatica all' uomo, e però si lascia andare a prender quegli oggetti per veri: e allora ei cade in errore. Vedesi adunque che v' ha un seme d' errore nella stessa limitazione a cui soggiace l' umano pensare. Non conviene dimenticare che tutti i ragionamenti, fin qui da noi esposti, intesero ad indicare le origini delle diverse apparizioni dell' essere, di quella moltiplicità nella quale esso all' uomo si presenta. A chiarir meglio tutte queste dottrine egli è uopo dichiarare la natura dell' essere intellettuale, giacché l' uomo è un essere intellettuale, e noi parliamo della pluralità e delle diverse apparizioni dell' ente in relazione a questo. L' essere intellettuale è una conseguenza del sintesismo fra l' ideale ed il reale, perocché l' essere intellettuale è reale, ma accoppiato e informato dall' ideale (1). Ora quest' essere reale informato dall' ideale, può esser finito o infinito. Come può esser finito? Questo è quel nodo che dicemmo appartenere al problema della creazione, e qui ne supponiamo la possibilità. Ora, se l' essere reale a cui risplende l' ideale, è infinito, egli è quell' istesso essere che nell' ideale si vede, perocché nell' ideale si vede la realità infinita, ma nella forma ideale. Ma se il reale è finito, dalla congiunzione di questo coll' ideale nasce l' intellettuale finito, il quale non può vedere nell' ideale direttamente se stesso: onde l' essere ideale apparisce come fosse solo e veramente separato dal reale. Questa divisione adunque dell' ideale dal reale viene, come abbiamo detto piú sopra, unicamente dalla limitazione dell' intellettuale: la qual verità si svela dalla Dialettica critica. Quindi anche accade che l' intuizione d' un ente intellettuale limitato non facendo conoscere il reale, è necessario che il detto ente intellettuale per conoscere se stesso usi di un altro atto, quello della percezione, laddove l' intuizione propria dell' intellettuale infinito è tutt' insieme percezione di se stesso. Come poi il reale è finito, cosí di sua natura è chiuso in se stesso e non percepisce che se stesso, e quindi non percepisce il nesso di creazione che lo lega e continua al reale infinito. In tal modo egli si percepisce come una sostanza separata; benché la Dialettica critica ritrovi che questa sostanza non apossa esister sola senza che v' abbia un reale infinito che la faccia sussistere. Posta questa costituzione dell' ente reale intellettivo finito, s' intende come a prima giunta, ai primi atti dell' intelligenza, e quindi al pensar volgare, rimanga nascosto il sintesismo dell' essere. I nessi essenziali, che raggiungono le forme e le sostanze fra loro rimangono nascosti: quindi quelle e queste sembrano del tutto separate e non pur distinte. Se non ci fosse un essere intellettuale, non esisterebbero relazioni. Il confronto di due termini suppone un terzo termine oggetto in cui si operi il confronto; perocché i termini della relazione, fin che restano distinti, non si confrontano, né basta, per confrontarli a scoprirne la relazione, che si accostino; ma si debbono in qualche parte immedesimare e legare insieme. Qual è dunque questo legame? Certo che il soggetto intellettivo dee esser uno egli stesso per poterli confrontare: ma, poiché le cose conosciute sono nel soggetto intellettivo come oggetti e il soggetto intellettivo non pensa a se stesso in quant' è soggetto, le cose che si confrontano non possono ricevere l' unità dal solo soggetto intellettivo. E` dunque necessario che v' abbia un oggetto in cui si confrontino, e quest' oggetto è l' essere ideale nel quale tutti gli enti e tutte le entità si trovano co' loro nessi e vincoli sotto la forma ideale. Ma l' essere ideale, appunto perché è per essenza oggetto, sintesizza col reale, e non con ogni reale, ma propriamente col reale intellettivo. Il sintesismo adunque fra l' essere ideale e il reale non consiste solamente nel dovervi avere questi due modi di essere acciocché l' essere sia; ma consiste nel trovarsi essi cosí fattamente annodati da doverne risultare per la loro unione l' essere intellettuale. Ora, dato l' essere intellettuale, questo va discoprendo ogni ente nell' ideale, e quindi anche va discoprendo nell' ideale tutte le relazioni e tutti i legami degli enti. Tutti questi vincoli e relazioni nell' idea non si fanno già di nuovo né procedono con successione, ma vi sono tutte eterne: onde dicemmo che l' idea già contiene la ragion della pluralità degli enti [...OMISSIS...] . Ma non è per questo che l' uomo ve le veda tutte sino a principio, ma ve le va discoprendo successivamente a cagione della limitazione dei suoi atti e della poca realità che gli è comunicata. Cosí è che l' uomo va discoprendo le verità da se stesso nell' eterno specchio dell' essere (ché cosí si può chiamare l' idea) con replicati sguardi successivi. La sede dunque di tutte le relazioni è nell' idea, e suppongono l' esistenza di un essere intellettivo che in essa le intuisca. Noi ne proponiamo qui la classificazione ontologica. In prima vi hanno le relazioni eterne e per sé essenti fra le tre forme supreme dell' essere, ciascuna delle quali non sarebbe se le altre due non fossero. L' uomo, attesa la sua limitazione, intuisce l' essere ideale diviso dalla realità; cosí pure pensa in qualche modo l' essere reale diviso dall' idealità. Cosí l' uomo afferma la realità senza badare all' idealità di cui si serve per apprenderla (1). Solo colla riflessione integrante ne discopre in appresso il sintesismo. Ma l' essere morale non è oggetto de' primi pensieri dell' uomo, ma diviene oggetto della stessa riflessione; e però questa forma non si presenta semplice e divisa dalle altre due, anzi non si può concepire senza le altre due. La relazione categorica fra l' essere ideale e reale giace in un nesso ontologico fra loro, il quale nesso produce l' essere intellettuale. L' atto, pel quale l' essere intellettuale vive nell' ideale realizzato, è l' essere morale. Tale è la congiunzione intima dell' essere essente nelle tre forme. All' essere infinito, all' essere come essere, appartengono le seguenti relazioni: 1) La soggettività o realità informata dall' oggetto, e però soggettiva, la quale ha la relazione opposta coll' oggetto. 2) L' oggettività, ossia intelligibilità, in quant' è intelligibile ossia ideale, ovvero anche oggetto, ha una relazione col reale e propriamente col reale intelligente da esso ideale informato. 3) L' amabilità. L' essere, in quanto è inteso, in tanto è amabile; e perché egli è inteso nell' oggetto, è amabile nell' oggetto, e non da sé solo. Onde questa relazione non può essere costituita se non dalle due prime, in quanto il reale è conosciuto nell' ideale. 4) La soggettività o realità intellettiva informata dall' amabilità, la quale ha la relazione opposta all' amabilità. Quest' ultima relazione non è un nuovo modo di essere, ma è il modo soggettivo in quanto trovasi nell' oggettivo. Di queste primitive ontologiche relazioni noi piú innanzi favelleremo ampiamente: ci basti l' osservare come le esposte dottrine ci pongono in caso di giudicare di quella sentenza che chiama effetto della dialettica ogni pluralità che si scorga nell' ente. Discendiamo ora adunque a classificare le relazioni che ci presentano gli esseri contingenti. Le relazioni ontologiche surriferite, appunto perché intime all' essere, non possono del tutto mancare neppure ne' contingenti, perché loro non manca intieramente l' essere. Ma se l' essere non manca in essi, vi è tuttavia limitato: e la limitazione dell' essere limita altresí la partecipazione delle relazioni categoriche. Vediamo con quali distinzioni e differenze si ravvisino nell' essere contingente quelle supreme relazioni. In primo luogo, l' essere contingente non esiste come tale che sotto la forma reale. Quindi, da sé solo considerato, non si può concepire; è non7ente «( Psicologia , n. 1305 sgg.) », ente incoato, rudimento di ente. Non potendo dunque l' ente essere sotto un' unica forma, l' essere contingente dovette venir sostenuto e sorretto dall' essere eterno, acciocché non si risolvesse nel nulla. Quindi unita all' essere reale contingente, trovasi la forma ideale sempiterna. Ora il morale non è che quell' atto di vita pel quale il soggetto si compiace di tutto l' essere conosciuto nell' ideale. Quindi il morale appartiene in proprio alla totalità dell' essere, all' essere assoluto. Rimane che: il contingente non è per sé intellettuale, ma è intellettuale per partecipazione; né esso è per sé morale, ma è morale per partecipazione, o piuttosto è ordinato alla moralità. Queste sono le relazioni categoriche dell' essere partecipate dal contingente. Ma un altro fonte delle relazioni proprie dell' essere contingente nasce dalla sua stessa limitazione. La limitazione è ella stessa quella che lo rende contingente; perocché: il suo concetto è correlativo all' illimitato; questo si concepisce senza di quello, preso nel significato di prima intenzione (1). Ma quello non può essere concepito senza di questo. Il limitato è logicamente posteriore all' illimitato (2): quello si può pensare e non pensare, ma il concetto di questo è tale che, quando si pensa, s' intende impossibile di pensare il contrario: ogni limitato è dunque necessariamente contingente. Il limitato adunque e contingente ha una relazione coll' assoluto, e questa è relazione di creazione, come vedremo. Ma poiché l' assoluto è in tre modi, triplice è pure la relazione del limitato reale contingente coll' assoluto. In quanto l' assoluto è ideale, si manifesta al contingente (e il manifestarsi è una relazione ideologica). In quanto l' assoluto è morale, intanto si comunica al contingente semplicemente come legge morale, ossia obbligazione, la quale è una relazione deontologica: cosí l' essere morale non è dato al contingente, ma mostra la via di pervenirvi. In quanto poi l' essere assoluto è reale, intanto ha relazione di causa col contingente. Non gli manifesta se stesso, non essendo proprio del reale il manifestare, né comunicare se stesso, poiché non potrebbe comunicarsi all' ente contingente se prima quest' ente non fosse: e per far che sia, il che è crearlo, deve restringerlo entro i suoi confini; e produrlo entro i suoi confini è lo stesso che non comunicargli l' infinita realità (1). Ma qui è d' uopo penetrare piú addentro nella natura propria delle relazioni. La relazione in generale è un nesso fra due termini veduto dall' intelletto. Se vi potessero essere due termini veduti simultaneamente collo stesso sguardo dell' intelletto che non avessero fra loro nesso di sorta alcuna, allora si direbbe che avessero la relazione di assoluta separazione: cioè l' intelletto produrrebbe egli stesso una relazione fattizia, il vero valore della quale sarebbe intieramente negativo. La ragione, per la quale l' intelletto ha questa facoltà di considerare come positive le relazioni negative, è quella stessa che egli ha di produrre a se stesso quelle entità fattizie di cui abbiamo ragionato. Cosí l' intelletto pensa il nulla ed il negativo con un pensiero che passa per oggetti che non sono nulla. Ma sebbene l' uomo pensi di queste relazioni negative, tuttavia è impossibile che si dieno due termini del pensiero, i quali sieno privi di qualsivoglia relazione. Perocché, hanno almeno la relazione d' analogia di questo stesso che sono pensabili. Che se l' un d' essi fosse negativo, fosse il nulla a ragion d' esempio; in tal caso la relazione v' avrebbe tra il termine positivo e le operazioni dello spirito negante. Se i termini sono entrambi negativi, la relazione giace fra le due persuasioni che li costituiscono. Ma se i termini sono entrambi positivi, essi convengono almeno nell' essere, e però non può mancar loro la relazione d' identità quanto all' essere. Ora consideriamo le relazioni che cader possono fra i termini positivi, che sono vere entità. La prima cosa da notarsi si è la distinzione delle relazioni che passano fra termini della stessa natura, e quelle che passano fra termini di diversa natura. Diciamo adunque che, se, i due termini essendo della stessa natura, il primo sta al secondo in quanto alla natura come il secondo al primo, la relazione è uguale considerata da una parte e dall' altra. Ma se i termini sono di diversa natura, allora la relazione che il primo ha col secondo è anch' essa di diversa natura dalla relazione che il secondo ha al primo. Or questo stesso, si dee anche dire, proporzion fatta, di que' termini che convenissero o variassero negli accidenti: cangeranno le relazioni come cangiano gli accidenti. Questo dimostra chiaramente che ogni relazione fra due termini è duplice, e non semplice come comunemente si crede, potendosi considerare i due termini con due vedute diverse dell' intendimento, l' uno rispetto all' altro, e l' altro rispetto al primo. Ciascuna di queste relazioni abbinate suole appellarsi abitudine , poiché manifesta come l' uno de' due termini se habeat rispetto all' altro. Or poi i termini delle relazioni possono essere d' altrettante maniere quanti sono i termini del pensiero. Ora i termini del pensiero sono di quattro maniere: 1) essenti; 2) fattizŒ; 3) falsi; 4) assurdi. I soli due primi sono interamente veraci. Quindi il pensiero concepisce o crede di concepire quattro maniere di relazioni, ciascuna delle quali tiene la natura di que' termini. I termini essenti sono compresi nelle tre categorie, cioè sono entità reali, ideali e morali. L' abitudine che ha ciascun agli altri due è diversa, come è diverso l' un modo dall' altro. Ma poiché l' essere è identico in tutti i tre modi, sembra che abbiano altresí una relazione d' identità. Tuttavia è da considerarsi che l' identità non appartiene ai modi, ma all' essere; onde il dire che i tre modi hanno una relazione d' identità non è proposizione esatta: perocché non è vera se non in quanto nei modi si considera l' essere e non il modo. Qui il pensiero umano aggiunge del suo. Poiché non sapendo egli concepire in un modo perfetto l' essere assoluto, che è ad un tempo nei tre modi uno senza replicarsi, egli considera l' essere successivamente, prima in un modo, poi nell' altro, poi nel terzo; ma, sopravvenendo la Dialettica trascendentale, questa pronuncia che quell' essere, che pareva triplicarsi, è identico. Oltre questa relazione fattizia d' identità, se ne presenta al pensiero un' altra fra l' essere e il modo categorico. Ma anche questa è puramente fattizia, poiché l' essere in ciascuna delle tre forme è tutto e puramente essere: onde non v' ha mica un modo suo che non sia lui stesso, ma egli stesso è i tre modi ed è ciascun modo. Questo linguaggio adunque, nel quale appariscono distinti i modi e le forme categoriche dell' essere dall' essere stesso, manifestamente dimostra quel pensare umano imperfetto che ha prodotto un tal linguaggio; e la Dialettica trascendentale sopravviene a correggerlo. Ma torniamo a considerare le abitudini dell' essere assoluto, in ciascuna delle sue forme, coll' essere limitato. Abbiamo veduto che fra l' essere ideale qual si concepisce nell' ente assoluto e l' essere ideale qual si osserva nell' ente limitato, apparisce una relazione d' identità. Ella nondimeno è imperfetta da parte dell' intelletto reale che lo contempla. Ma se si considera la relazione che ha l' ideale coi reali finiti percepiti realmente, o supposti, questa relazione è quella di possibilità. Nell' essere ideale noi vediamo la possibilità logica delle cose. E la possibilità logica ci si presenta come possibilità assoluta, ossia con altra parola come possibilità metafisica. Quando noi abbiamo il concetto di un ente qualsiasi, se poi troviamo che questo ente esiste, non ce ne facciamo maraviglia, perché sapevamo che poteva esistere. Questo fatto dimostra che la possibilità logica contiene virtualmente l' indizio d' una cotal potenza infinita atta a fare che le cose (le essenze) passino all' esistenza. Ma appunto perché questa potenza infinita è compresa soltanto virtualmente nella possibilità logica, quindi noi non sogliamo cosí facilmente accorgercene, ma pure senza accorgercene operiamo e ragioniamo a tenore di quella secreta persuasione (1). Nati poi i concetti mediante il rapporto dell' essere reale finito coll' ideale veduto dall' intelletto, questi si moltiplicano coll' astrazione; e colla riflessione si trovano fra loro le relazioni d' identità e di differenza. Queste sono le abitudini dell' essere ideale verso il reale finito, delle quali fondamentale è la categorica; segue l' ideologica; e finalmente la relazione di possibilità logica metafisica. Le abitudini poi dell' essere reale finito coll' essere nelle tre forme supreme sono quelle d' intuizione per l' essere ideale; per l' essere reale, quella di creazione passiva; pel morale, come vedremo, quella di obbligazione e attività morale. L' essere reale infinito col reale finito ha l' abitudine di creazione attiva. L' essere morale poi prende col reale finito l' abitudine di legge (relazioni deontologiche), in quanto questo morale è nella forma ideale; in quanto poi è nella forma reale, in tanto non ha relazione naturale col finito, ma ha relazione di grazia nell' ordine soprannaturale. Gli antichi distinsero le relazioni in reali e mentali . Che è da giudicare di una tale distinzione? Primieramente le relazioni non si dicono mentali perché sieno condizionate ad un intelletto in generale, all' intelletto assoluto; ma si chiamano mentali qualora sieno enti fattizŒ dell' intendimento umano. In secondo luogo conviene anche spiegare l' appellativo di reali . Questo appellativo altro non può volere dire che le relazioni che sono indipendenti dall' intendimento umano. Premesse queste dichiarazioni, noi domandiamo come una relazione possa essere dell' oggetto, indipendentemente dall' intelletto umano. Di poi domandiamo come una relazione possa essere fattizia. Affine di rispondere alla prima di queste due questioni, riduciamo le relazioni ad abitudini di una cosa verso l' altra. Si presenta primieramente questa difficoltà: « L' abitudine non può essere in un oggetto solo, perché è relativa ad un altro; non può essere in entrambi gli oggetti, perché in tal caso sarebbero due abitudini distinte; non può essere frammezzo gli oggetti, perché frammezzo non v' ha nulla, e se vi fosse qualche cosa, sarebbe un terzo oggetto. Dove sta dunque l' abitudine di un oggetto all' altro? ». In quanto alle abitudini categoriche è da osservarsi che ciascuna forma dell' essere inesiste nell' altra, come abbiamo detto. Ciascuna forma è unita all' altra cosí essenzialmente, che senza questa unione non sarebbe. L' abitudine adunque è qui l' identico essere considerato come modo suo proprio. Tale abitudine risiede in ciascuno de' termini. Non vi ha dunque un vacuo tra un termine e l' altro, ma l' essere costituente entrambi i termini. Queste abitudini per sé essenti si spiegano adunque per via dell' inabitazione dell' un termine nell' altro. Questa inabitazione delle tre forme si ravvisa anche quando l' essere reale è finito; nel qual caso l' inabitazione rimane però imperfetta a cagione della limitazione dell' essere reale. Diciamo dunque qualche parola anche di questa inabitazione imperfetta, a cui si riduce la seconda classe di relazione: quella cioè che corre tra l' essere infinito nelle tre forme, e l' essere finito. La maniera con cui l' essere reale finito inabita nell' essere ideale non è cosí perfetta come quella nella quale l' essere reale infinito inabita nell' ideale. Il reale finito, non essendo nell' ideale che virtualmente, non si può sentire nell' ideale, perché il sentirsi è attualmente essere; e quindi il sentimento suo proprio non è per se stesso cognito, ma cieco ed incognito, giacché niente è cognito se non per l' ideale e nell' ideale. Ora l' essere un sentimento per se stesso incognito equivale al concetto di una separazione, di un esser fuori dell' ideale. Questa parola esser fuori dell' ideale riferita al reale finito, non significa che esser per sé incognito , e convien guardarsi di non attribuirle il concetto di un esser fuori materiale come la parte di un corpo è fuori di un' altra. Ma appunto perché l' ideale inabita nel reale finito, questo per natura sua intuisce l' ideale, senza percepire in esso immediatamente e con questa stessa intuizione se stesso, intuendovi solo il reale virtualmente. La relazione dunque del reale finito coll' ideale inabitante in lui è quella d' intuizione. Ora l' intuizione, essendo il primo atto intellettivo dell' essere finito, egli è l' atto sostanziale di questo essere, quell' atto pel quale l' essere intellettivo è. La sostanza dunque dell' essere intellettivo finito, questo stesso essere intellettivo inabita nell' ideale; ma non vi inabita, come necessario all' ideale, come identico con esso lui; ma come aderente a lui in modo accidentale e contingente, alla similitudine dell' atto del vedere rispetto alla forma visiva. Or poi la reciproca inabitazione dell' essere reale finito intellettivo e dell' essere morale trovasi ancora piú imperfetta. Perocché l' essere morale infinito è l' essere reale infinito che per sé cognito si dimostra infinitamente amabile a se stesso; ma il finito reale nell' ideale non percepisce punto l' essere reale infinito nella sua attualità, ma solo virtualmente: quindi solo virtualmente altresí ne intuisce l' amabilità. Onde l' essere finito intellettivo non ha per se stesso che l' elemento morale in potenza. Quando poi percepisce degli enti finiti proporzionati alle sue facoltà percettive, allora ravvisa in questi un' amabilità limitata, la quale, appunto perché limitata, non è ancora morale; ma quando poi s' accorge che l' amabilità dell' ente reale è proporzionata ai gradi di quest' ente, ha concepito una proposizione universale, che riguarda la totalità dell' essere e non piú una parte. Di piú, sentendo egli che questa amabilità appartiene alla natura stessa dell' essere, e che è assoluta, s' avvede che qualora i suoi affetti non si lasciassero regolare da tale amabilità, egli si porrebbe in contraddizione con tutto quanto l' essere e con se stesso altresí che n' è una porzione; sente in una parola quella che si dice obbligazione morale, necessità deontologica. L' essere morale adunque non inabita nella natura umana se non sotto la forma di legge obbligante; la legge obbligante adunque è l' essere morale virtualmente compreso nell' ideale e applicato dall' uomo agli enti finiti da lui percepiti, e piú tardi poi all' ente infinito in quel modo che gli riesce conoscerlo. Se poi si cerca come l' essere reale finito inabita nel morale, questa inabitazione per natura non si concepisce distinta dalla inabitazione di quello nell' ideale. Ma perché tale inabitazione si fa nell' intuizione, l' intuizione non è ancora l' attività libera (1) del soggetto, e però non si dà in atto un elemento morale; onde la facoltà morale, a cui si richiede un primo atto, nasce posteriormente, e da prima non ve ne sono che gli elementi. Per natura adunque il soggetto intellettivo finito non è ancor morale, e non ha che la sola disposizione a divenire cotale. Ma nell' ordine soprannaturale l' essere intellettuale finito inabita veramente nell' essere morale, di cui gli è data la percezione, e l' essere morale in lui: il che dichiara l' Antropologia soprannaturale. Qui osserveremo soltanto che allora dicesi vera inabitazione nell' essere morale quando tutta l' attività del soggetto si accoglie in lui come suo oggetto percepito e nel proprio sentimento sentito, quasi extrasoggettivo, poiché allora l' atto del compiacimento non compiacendosi piú di altra cosa, è tutto accolto in tale oggetto, in lui solo vive e come tale esiste. E qui giova richiamare quella sentenza di sopra accennata, che a far che sia una relazione è sempre necessario che intervenga l' essere intellettuale. Quest' essere stesso è la relazione categorica dell' essere reale coll' ideale: in questa prima relazione si fondano tutte le altre: l' intelletto interviene sempre, è sempre presente come una condizione senza la quale sparirebbero le relazioni fin qui descritte: esse non sono prodotte dall' intelletto, poiché egli stesso è una di esse: ma in quanto sono, in tanto sono anche intese nel primo intelletto, poiché l' intelletto è in tutte esse. L' umana riflessione poi posteriore a tale relazione non fa che riconoscerle in modo riflesso: ma avanti questa riflessione le relazioni categoriche non sono note per se stesse. E cosí appunto sono reali, non perché appartengono alla sola realità, o perché sieno senza ogni intelletto; ma perché sono nell' essere stesso, ne costituiscono l' ordine intrinseco, e quindi non sono già produzioni posteriori dell' intelletto umano. L' essere in una delle tre forme non ha relazione alcuna con se stesso. All' incontro l' essere reale finito ha moltissime relazioni con se stesso, perocché egli non è uno, ma moltiplice. La costruzione intima degli enti finiti produce certe loro interne relazioni, perocché niun ente finito è semplice, ma composto di piú entità finite che concorrono a formarlo. L' unione di queste entità, è la piú stretta di tutte dopo quella che abbiamo chiamata inabitazione delle forme categoriche. Ora, se fra questi componenti vi ha l' intelletto, o se l' ente reale risultante dai componenti è l' ente intellettivo, in tal caso la relazione è formata, poiché non si può dare relazione senza la presenza dell' intelletto, essendo proprio del solo atto intellettivo l' andare quasi fuori di sé in altro, e quindi l' essere acquista la frase scolastica ad aliquid . Ma se niuno dei componenti dell' ente è intellettivo, in tal caso il loro nesso in cui si forma l' ente non si può dire relazione, ma soltanto fondamento di quella relazione che risulta nell' intelletto quando questo scompone quel nesso e ravvisa come ciascuno è legato coll' altro (1). Convien accuratamente distinguere il fondamento della relazione dalla relazione stessa. Il fondamento può essere qualche cosa di reale; ma non è ancora l' abitudine stessa fino a tanto che un intelletto non considera quest' entità reale nel nesso ch' ella ha coll' altro termine. La piú intima delle unioni adunque è la categorica, perfetta nell' essere assoluto, imperfetta in quel modo che abbiamo detto nel limitato, e a quest' unione l' intelletto è sempre intrinseco; dopo la categorica la piú stretta unione è quella degli elementi che costituiscono un ente finito, e in questa unione talora l' intelletto è intrinseco, talora estrinseco, quasi uno straniero contemplatore: nel qual ultimo caso nei componenti dell' ente vi ha la materia ossia il fondamento della relazione ed abitudine, ma la relazione formale è posta dalla contemplazione dell' intelletto, e nell' ente. La terza maniera di unione si ravvisa nell' essere reale finito, ed è quella di azione e di passione. Per l' azione e la passione un ente non inabita totalmente nell' altro, ma entra nell' altro, non colla sua essenza, cioè col primo e totale suo atto, ma colla sua potenza, cioè, con un suo atto parziale. Rimane ad accennare la terza classe di abitudini relative che l' intendimento umano suole scorgere negli enti finiti; e abbiam detto esser quelle che nascono dal vario grado di conoscibilità che hanno le entità finite e dai diversi modi nei quali l' uomo le concepisce e le pensa. Queste si possono ancora suddividere in tre classi minori: 1) quelle che risultano dal diverso grado di conoscibilità; 2) quelle che risultano da un pensare puramente fattizio; 3) quelle che sembrano ovvero si credono risultare da un pensare erroneo ed assurdo. Tutte queste relazioni sono, almeno in parte, razionali. Da tutte le quali cose si scorge che volendo avere una suprema classificazione di tutte le abitudini relative, noi potremo dividerle in quattro grandi generi, ciascuno de' quali ammette molte suddivisioni. I Relazioni categoriche nell' essere assoluto ed infinito. II Relazioni categoriche partecipate nell' essere finito. III Relazioni dell' essere reale finito con se stesso. IV Relazioni mentali, ossia razionali, prodotte dai modi limitati di pensare dell' essere intelligente finito. A questa classe appartengono tutte le relazioni di relazioni, le quali non hanno fine, come non hanno fine gli atti possibili del pensare limitato. Vi hanno adunque tre maniere generiche o tre gradi di pensare: il pensare imperfetto , il dialettico trascendentale e l' assoluto . Noi abbiamo parlato del pensare imperfetto e del dialettico trascendentale; ci rimane ora a dire dell' assoluto. Il pensar comune è quello che s' arresta ai primi giudizi offerti alla spontaneità della mente dai vari sentimenti e principalmente dalle sensazioni esterne, come volgarmente si chiamano, i quali giudizi pongono quella stessa divisione dell' essere che il senso presenta, com' ella fosse assoluta. Su questi giudizi, mediante la riflessione, si edifica una logica ed una metafisica (e tale è quella di Aristotele eccetto qualche breve tratto dove s' innalza piú alto senza pure avvedersene), e insomma un sistema intiero di scienze. Il pensar dialettico trascendentale sopravviene a suo tempo, e convince il pensar comune di contraddizione, e quindi, spingendo il passo innanzi, tenta la via di abolire la contraddizione sgombrando cosí la strada al pensare assoluto. Quando poi dal pensare comune si cava l' edificio scientifico allora le antinomie dànno talora cosiffattamente nei piedi che non si può a meno di incastrarle nel sistema della scienza come altrettante obbiezioni. Ma gli uomini si affaticano a sciorre quelle antinomie, a rispondere a quelle obbiezioni collo stesso pensar comune che le ha nel seno; onde, o dànno risposte insufficienti di cui s' appagano, ovvero s' involgono in un raddossamento di obbiezioni sopra obbiezioni, di distinzioni sopra distinzioni, che rende la scienza un ginepraio. Questa è la ragione delle infinite sottigliezze della scolastica, le quali hanno finito collo stancare gli ingegni, e cosí la resero meno stimabile presso i dotti. Ma alto e arduo è l' investigare del pensare assoluto. In prima ogni pensare ha qualcosa di assoluto in se stesso; se no, non sarebbe pensare. Quest' è appunto quello che distingue il pensare dal sentire. Il sentire è un modo di essere relativo a chi sente: niente è d' assoluto se non il sentir di Dio, perché quello è il sentire dell' essere stesso. In che sta dunque l' essere assoluto? In che sta l' essere relativo? L' essere assoluto è l' essenza dell' essere: tutto ciò che si contiene in quell' essenza e si rimane essenza dell' essere, è assoluto. All' incontro il relativo è tutto ciò che non è l' essenza dell' essere, che non rimane piú tale essenza, a cui non compete piú tale denominazione. Da questa definizione dell' assoluto e del relativo si vede che il modo di essere relativo suppone un soggetto a cui sia relativo, un soggetto senziente o pensante, di maniera che il modo relativo dell' essere risulta dal sentimento o dal pensiero. All' incontro l' assoluto non involge nel suo concetto questa duplicità, perocché sotto questo nome non si concepisce che l' essere, l' essere come egli è. Il pensare assoluto è quando l' oggetto del pensiero è l' essenza dell' essere e tutto ciò che è in essa si pensa senza dividerla da essa. All' incontro il pensare è relativo quando il suo oggetto e termine è un' entità relativa, come sarebbe un sentimento limitato, considerato in se stesso: il che si dice anche l' esser fuori dell' essenza dell' essere, o esser da quest' essenza distinto. Dalle quali definizioni si scorge, che nel pensare vi ha sempre alcuna cosa dell' assoluto, perché niente si può pensare senza pensare insieme l' essenza dell' essere che in quanto è manifesta alla mente dicesi idea. Ma è da avvertirsi che nel pensare comune l' essenza dell' essere interviene come mezzo del pensare, piuttosto che come oggetto. Questa distinzione deve essere diligentemente considerata e chiarita. Diciamo adunque in primo luogo che v' ha un atto primo di pensare immanente, costitutivo della potenza degli atti secondi. A questo atto primo è oggetto unico e permanente l' essere ideale, l' essenza dell' essere manifesta. Quindi cotest' atto primo appartiene al pensare assoluto e non al relativo. Ed è questa la ragione perché di poi in ogni atto di pensare, anche relativo, si mescola il pensare assoluto e lo suppone innanzi a sé; innestandosi ogni atto secondo di pensare sul tronco dell' atto primo, il pensare relativo sull' assoluto. Questa è la ragione altresí per la quale in fondo ad ogni pensare giace una verità assoluta; la ragione per la quale gli scettici, cercando l' assoluto senza coglierlo, hanno il torto; la ragione perché la mente ha per norme de' suoi giudizi delle ragioni assolute (1); e finalmente la ragione perché l' essenza dell' essere, ossia l' idea dell' essere in universale, costituisca il vero criterio della certezza. Ma veniamo agli atti secondi del pensare: questi sono provocati dal sentimento, da un sentimento finito come quello dell' uomo, da sentimenti parziali di questo sentimento finito, come sono le sensazioni. Ora, fra gli atti secondi del pensare, quelli che precedono gli altri sono le percezioni, le quali hanno per oggetto gli enti sensibili: quindi questi atti di pensare si dicono relativi ed imperfetti perché hanno a loro materia delle entità relative. Vero è che interviene l' essere; ma, in quanto l' essere è universale, non vien se non come un precedente e come un mezzo per arrivare al particolare, né si pon mente a lui nella sua universalità, ma in quanto rimane limitato dal sentimento: onde non si pensa piú l' essere in se stesso, ma invece di lui rimane l' essere relativo a proprio termine del pensiero e dell' attenzione. Le percezioni adunque delle cose sensibili appartengono al pensare imperfetto e relativo, non all' assoluto; e tuttavia presuppongono un primo atto anteriore di pensare assoluto. Ora, posciaché la riflessione comune si fa sulle cose percepite, o certo con un continuo rapporto ad esse; quindi tutte le riflessioni comuni tengono della stessa loro materia primitiva alcuna imperfezione, e non possono giungere al pensare assoluto. Ma la riflessione analitica e l' astrazione aggiungono al pensare de' nuovi elementi d' imperfezione, mediante sempre nuove limitazioni apposte all' essere, ciascuna delle quali è una esclusione e quasi eliminazione della essenza dell' essere dinanzi al pensiero. Ma questa è la differenza tra il pensare ed il sentire, che il sentire non ha alcun bisogno dell' intuizione dell' essenza dell' essere, e però non ha niente in sé di assoluto; ma pensare non si può senza l' essenza dell' essere, e però è sempre qualche cosa di assoluto che forma la base di ogni pensiero, benché le percezioni e le riflessioni che ne conseguono tengono del relativo a cagione che non sono puro pensare, ma mistura di due atti congiunti di pensare e sentire (2). Sembra che quando si dice pensare assoluto si dica cosa semplice e non suscettibile di piú gradi, pigliandosi la parola assoluto , quanto un dire d' ogni parte perfetto. Ma non è questo il significato. Chiamiamo assoluto il pensare ogni qualvolta egli ha per oggetto l' essere nella sua propria semplicissima essenza. Ora questa essenza si fa presente alla mente umana in varŒ modi: ella rimane sempre dessa, ma non perciò è uguale la congiunzione di lei colla mente. Il che consuona con ciò che ragionammo del pensare attuale e virtuale. Quando l' oggetto del pensiero è l' essere stesso, allora la virtualità non è un difetto che sia nell' essere, ma sí nella mente. Questa virtualità dell' essere, come oggetto del conoscere umano (giacché in se stesso e come oggetto del conoscere divino non ha virtualità alcuna), è il mistero della finita intelligenza: è un fatto, e perché oscuro e misterioso non è meno un fatto. Quando noi parliamo di virtualità nella cognizione, non si creda che si parli di cognizione totalmente in potenza, la qual non sarebbe cognizione: parliamo di vera cognizione, avente un oggetto, abbracciante tutto l' essere, l' essenza dell' essere; ma egli è in quest' oggetto stesso, come oggetto non come essere, che trovasi la virtualità il che è quanto dire che quell' oggetto virtualmente contiene tutto, tutto l' essere. Ora i gradi di questa virtualità variano grandemente, ed è perciò che dicevamo anche il pensare assoluto avere diversi gradi. La prima comunicazione dell' essere essenziale alle creature non si fa che per via d' intelligenza. Or nell' intelligenza vi ha prima l' essere ideale che la informa; di poi si copula ad esso il reale onde nasce l' atto della percezione e gli altri atti a cui la percezione apre la via; finalmente si manifesta l' essere conosciuto come amabile e beante, che è quanto dire come essere morale. Ora, secondo quest' ordine delle tre forme dell' essere, si ravvisa anche nel pensare assoluto tre gradi, ad ognuno de' quali si scema la virtualità, e tuttavia non cessa del tutto. Il primo grado è quello della semplice intuizione dell' essere. L' oggetto dell' intuizione è virtualissimo di tutti, poiché non solo niente in esso si distingue idealmente, ma le stesse forme della realità e della moralità, non appaiono in esso attuali, ma si nascondono nella sua virtualità. E questo nascondersi vuol dir questo solo che, allora quando si giunge ad avere la percezione attuale del reale e del morale, vedesi che nell' ideale v' avea già il principio di queste due forme, e queste stavano in lui in modo simile a quello che la specie si sta nel genere. Il secondo grado del pensare assoluto è quando l' essere reale stesso è da noi conosciuto nella sua totalità in un modo distinto dall' ideale e tuttavia virtualmente. Che se noi aderiamo volontariamente all' essenza dell' essere, ci congiungiamo a lui moralmente, cioè attivamente per via di nostra volontà; questa unione in cui sta il sentimento morale dà materia al terzo grado del pensare assoluto, che anche qui può avere la sua virtualità e però ritenere dell' imperfetto. Le tre forme dell' essere adunque danno luogo a tre gradi del pensare assoluto. Ma questi gradi sono in pari tempo maniere distinte di pensare e categoricamente distinte, ciascuna delle quali ha i suoi gradi di virtualità, e però quelli d' imperfezione piú o meno. Del pensare assoluto che ha per termine l' ideale non accade far altre parole. Senza che, egli è cosí semplice, che non ammette altri gradi se non quelli della riflessione che vi si sopraggiunge, e che non accresce né diminuisce l' oggetto. Il pensare assoluto adunque, che ha per termine il reale, ha luogo, secondo la definizione, quando il reale che si pensa non lo si pensa come distinto dall' essenza dell' essere, ma come adunato in essa, come essenza dell' essere egli stesso. Questo può accadere in diverse maniere e con gradi diversi. Prima di tutto è da distinguere a questo proposito il pensare negativo dal pensare positivo. Perocché dicesi pensare negativo quando l' oggetto stesso non si percepisce sensibilmente e direttamente, ma si conosce per via di sue relazioni e differenze ch' egli ha da qualche altro oggetto percepito direttamente e sensibilmente. Il pensiero va negando dell' oggetto, a cui vuol pervenire, quella qualità ch' egli vede negli oggetti percepiti, e sa che l' oggetto di cui si tratta deve averne delle altre in luogo di esse, ma tuttavia non sa dir quali, e di queste qualità incognite conosce solo alcune condizioni ontologiche. E cosí quando la Critica trascendentale giunge a notare le antinomie del pensar comune, e perviene fino a conoscere che quelle antinomie nascono a cagione che il pensare che le produce si ferma nell' essere relativo, e intende che riducendo l' essere relativo all' assoluto quelle antinomie dispariscono: già con questo solo il pensare è pervenuto negativamente a rendersi assoluto, in quanto che è arrivato a vedere che l' essere assoluto non può fallire che ci sia. E qui giova osservare che anche nel comune delle intelligenze va quasi sott' acqua serpendo e lavorando un pensare assoluto. La cosa si spiega, tostoché si ponga mente a quello che abbiamo detto, che il primo atto dell' umana intelligenza appartiene al pensare assoluto, e quest' atto si mantiene sempre vivo, e accompagna e regge tutti gli altri atti. Né fa maraviglia che talora l' uomo ragioni senza aver coscienza del ragionamento che fa, perché va da sé, come vanno pure da sé tante altre potenze dell' uomo, e l' uomo non se ne può render conto se non vi riflette; e talora egli non vi riflette punto né poco. Il pensare assoluto che si fa, non per la primitiva intuizione o per la percezione dell' assoluto stesso, ma per via di ragionamento, è sintetico nel piú alto grado. Che cos' è la forza sintetica della ragione? Questa preziosa facoltà non consiste solamente in raccogliere o aver presenti molti fatti reali e circostanze, e molti dati del pensiero, ma consiste assai piú in saper unire questa pluralità, riducendola in uno quasi risultamento psicologico e ontologico di quei piú. Se ben si considera qual sia l' intima natura dello spirito quando sintesizza, si troverà che ella si riduce a pensare il particolare congiunto coll' universale o col tutto (1): il che far non potrebbe se alla percezione o considerazione del particolare la forza mentale s' alienasse dall' universale o dal tutto. Quegli ingegni che dalla percezione de' particolari rimangono quasi assorbiti e legati divengono inetti ad afferrare e stringere insieme l' universale coi particolari, e quindi i particolari fra loro, formandone unità; i quali tutt' al piú possono avere ingegno analitico, ma non sintetico. Quella forza adunque della mente di vedere i piú nell' uno, e quella inclinazione a non esser paga la mente de' particolari se non li vede raggiunti negli universali o in un cotale organismo (sia questo ontologico, logico o fisico), varia grandemente negli uomini e da questa varietà dipende che gli ingegni siano piú o meno sintetici e comprensivi. Or devesi qui osservare che l' universale è bensí necessario a formare quel pensiero che si dice sintetico, ma questo pensiero non è la semplice intuizione dell' universale, ma la congiunzione di particolari per via dell' universale e nell' universale. La ragione dunque di un problema, è come cappio di tutti i fili, la sintesi di essi. Or vi hanno delle menti che afferrano piú facilmente questa ragione. Quando un uomo di vaglia scrive o ragiona, gli vengono sul labbro o sulla penna filate e ordinate tutte le proposizioni del suo ragionamento, i lumi e gli amminicoli del discorso, cotalché l' uditore o il lettore è costretto a dire: « Questi ragiona bene! che connessione, che coerenza, che efficacia di prove! ». Ebbene, questo possente oratore e logico ragionatore, nel momento in cui incominciò a dire, aveva egli dinanzi al pensiero tutte quelle proposizioni bene concatenate? Di niuna di quelle aveva coscienza; ma, poiché gli uscirono fuori, convien dire che vi avesse in lui il pensiero fecondo ond' egli le trasse, come la filatrice il filo dal pennacchio. Ora quel pensiero che era in lui, doveva essere un pensiero sintetico, un pensiero fecondo di tutto il suo ragionare che aveva in seno, e pure quel pensiero rimaneva egli stesso inosservato ed occulto fino a tanto che il ragionatore non vi pose l' attenzione, che ne dedusse i lunghi suoi ragionari. Questo fatto dimostra due cose. La prima, che i pensieri della mente umana hanno due stati: l' uno d' involuzione, ed è sintetico; l' altro d' evoluzione, ed è analitico. La seconda, che il pensiero in istato d' involuzione sfugge facilmente alla coscienza, sfugge almeno dalla coscienza la sua fecondità, anche quand' egli è attualmente presente; laddove il pensiero analitico facilissimamente soggiace alla consapevolezza, se egli è attuale e presente, e non abituale come accade quando rimane nel deposito della memoria senza che ci si pensi. Or questo pensiero involutissimo e insieme attissimo a svolgersi, non è puramente l' intuizione dell' essere in universale, perché questa sola, benché pensiero involutissimo ed assoluto, non è atto a svolgersi, mancandole ancora l' elemento reale e quasi maschile che la fecondi. Oltre adunque l' essere ideale, per termine del pensiero assoluto, di cui parliamo, vi ha l' essere reale (la totalità dell' essere); ma questo concepito come un incognito di cui sono cognite piú o meno relazioni, e conseguentemente piú o meno qualità negative ed anche analogate (1). E poiché il pensiero assoluto, di cui parliamo, può risultare da piú o meno di queste relazioni, e da queste qualità relative ed attributi analogati; perciò il pensiero assoluto ha una gradazione, giacché forma una sintesi or piú or meno complessa di piú o di meno elementi risultanti: la qual gradazione appartiene sempre al pensare assoluto, perché abbraccia tutta l' essenza dell' essere nella sua realità, mancando tuttavia la percezione di essa, ma in suo luogo formando termine del pensiero l' incognito determinato dalle riflessioni dette. Questo pensiero assoluto è il fonte da cui proviene la Teosofia, la quale non è altro che quel pensiero stesso analizzato e dedotto in conclusioni, e tutte queste conclusioni sintesizzate e ridotte in quel pensiero. Perciò la Teosofia è la scienza che può aver anch' ella piú o meno di svolgimento, piú o meno di perfezione. E questo pensiero sommamente sintetico, difficilissimo a cogliersi dalla coscienza, tiene, rispetto al suo sviluppamento, la legge comune di tutti i pensieri sintetici. Il pensiero sintetico non ancora svolto sta nella mente come un' unità infeconda: tale sembra alla mente stessa. Ora egli accade che, se la mente si fa a contemplarlo fissamente per un tempo notabile senza adoperarvi intorno alcuna analisi, pare a lei di starsene per poco oziosa, e di meditare senza costrutto. E tuttavia questa meditazione, cosí unita ed asciutta, fortifica la mente; la quale poi in altro tempo incomincia e prosegue l' analisi di quel pensiero con grande facilità e ricchezza. Questa legge è comune ad ogni pensiero sintetico. Il pensare assoluto che ha un termine reale, se non eccede i confini della ragion naturale, non può esser altro che negativo. Di che la ragione è chiara: perché quello si dice pensare assoluto che termina nell' essere assoluto; ma l' assoluto reale non si percepisce dall' uomo entro i confini di sua natura. Per andare al di là, conviene che s' aiuti coll' ideale; e con quest' ala egli perviene a conoscere che deve esistere il reale assoluto, non percepisce lui stesso esistente. Che adunque a un soggetto finito come l' uomo sia dato a percepire il reale assoluto quest' è opera soprannaturale, poiché soprannaturale è il reale assoluto non avendo la natura che un modo di essere relativo. Questa comunicazione soprannaturale si fa in questa vita per due modi: per via di carattere e per via di grazia , secondo il favellare de' teologi; il primo de' quali si riferisce all' intelletto, il secondo alla volontà: nel primo caso si comunica l' essere assoluto come reale , nel secondo come morale . E quantunque questo argomento spetti all' Antropologia soprannaturale , tuttavia, egli era mestieri che qui s' additasse: cosí a fine di tenere distinto accuratamente ciò che è dell' ordine soprannaturale da ciò che è dell' ordine naturale; come altresí per la ragione che il pensare assoluto non si perfeziona che mediante l' ordine soprannaturale, solo in questo divenendo positivo. Onde manifestamente si vede come la creatura abbia bisogno del Creatore pel suo compimento, non che questo compimento appartenga alla natura o si possa dir naturale: che anzi è d' un' indole tutta soprannaturale e gratuita. Se dunque vogliamo tradurre nel linguaggio della filosofia quel carattere indelebile che giusta l' insegnamento di Cristo viene impresso nell' anima nella rigenerazione battesimale, diremo che è una percezione primitiva dell' assoluto reale principio dell' uomo soprannaturale la quale corrisponde all' intuizione dell' assoluto ideale principio dell' uomo naturale. Sono questi due pensieri assoluti: l' uno naturale avente per oggetto l' essere nella sua forma ideale; l' altro soprannaturale avente per oggetto l' essere assoluto nella sua forma reale. Questo nuovo pensiero assoluto è nell' uomo continuo, benché l' uomo non abbia piú coscienza di lui di quello che se l' abbia del natural suo pensiero assoluto l' intuizione dell' essere. Ma come quest' intuizione presiede alla produzione di tutti i ragionamenti naturali dell' uomo; cosí il pensiero assoluto proprio del cristiano che ei trasse dall' impressione della verità reale si manifesta come un senso o facoltà di sentire, giudicare, e ragionare rettamente di ciò che è soprannaturale e divino; ed è quella luce a cui camminano non pure gl' individui, ma ancora i popoli battezzati, giusta la profezia: ambulabant gentes in lumine tuo (1); benché anche questa luce sia il piú senza che n' abbia l' uomo coscienza (2). La ragione poi, per la quale di questa percezione soprannaturale non v' ha coscienza da principio, si è quella stessa per la quale di niun atto dello spirito s' ha coscienza senza una riflessione, la quale per lo piú non è contemporanea all' atto, ma a lui succede. Ma perché la coscienza della perfezione soprannaturale neppur di poi vi si aggiunge, o vi si aggiunge almeno molto difficilmente? Primieramente perché ella è immanente, ha forma d' abito: e gli atti abituali non sono stimolo della facoltà riflessiva. In secondo luogo perché l' attività divina, che in tali percezioni a noi si comunica, è quella attività creatrice che finisce unicamente in noi, e però ella non ha altro effetto ed espressione che noi stessi; e poiché è tanto difficile riflettere su di noi stessi cadendo la riflessione sugli atti nostri, e ancor piú difficile è distinguere in noi, che abbiamo natura sí semplice, ciò che è naturale da ciò che è soprannaturale, due elementi che fusi insieme costituiscono l' uomo cristiano; perciò si mostra cotanta la difficoltà che ha l' uomo di formarsi la cognizione riflessa dell' elemento soprannaturale che è in lui. Vi ha poi questa notabile differenza fra il ragionare che scaturisce da quel pensiero assoluto che s' ha per natura e il ragionare che scaturisce dal pensare assoluto cristiano: che il primo, pigliando la sua materia dal reale finito, cessa d' essere un pensare assoluto, e se rimane assoluto procede da un pensiero negativo dell' assoluto reale; all' incontro il ragionare che logicamente scaturisce dal pensare assoluto cristiano, è sempre assoluto egli stesso, pigliando la sua materia dall' assoluto reale positivamente pensato. Conviene anche avvertire che il pensiero assoluto cristiano tiene la sopraindicata legge del pensar sintetico, per la quale la mente, solo col tenersi raccolta a meditare il reale assoluto percepito, benché ancora non l' analizzi e sembri sterile quella sua immota contemplazione, si fortifica divenendo piú adatta a dedurre poi particolari conclusioni e ragionamenti in copia. Questo anco si dimostra dal fatto giornaliero, che, coltivandosi il sentimento generale della pietà cristiana, anche senza alcuna analisi e passaggio a proposizioni determinate, come accade nel popolo assistente alla liturgia in lingua che non intende: lo spirito intelligente ne rimane grandemente avvigorito, e si trova assai piú pronto e ferace al bisogno di documenti e ragionamenti speciali nell' ordine morale religioso e meno incerto di ciò che è da fare nei diversi casi della vita per conservare una cristiana condotta. Questa facilità e sicurezza di giudizio pratico e speculativo in persone rozze ed inerudite, ma pie, non si sa dire talora onde venga; ma il vero si è che viene dalla forza che ha preso in esse quel primo pensiero assoluto, che è la base occulta della vita cristiana e la luce prima soprannaturale onde pendono tutti i ragionari della mente. Vi è anco un pensiero assoluto morale: questo è quello che occultamente domina tutta la vita dell' uomo quando esso si rende pratico. Questo pensiero morale che presiede alla moralità di fatto di ciascun uomo, è anch' esso per lo piú occulto alla coscienza dell' uomo stesso, che alla luce di quello pensa ed opera senza fermare punto né poco la sua riflessione in quella pura luce. Questo pensiero morale assoluto non è semplicemente l' idea astratta della moralità d' un bene e d' un male morale; ma è un pensiero sintetico che ha del reale e del pratico; tanto sintetico che pare all' uomo piú che altro un sentimento e può ancora considerarsi come un atto abituale razionale della volontà. Infatti si può dire che sia ciò che l' uomo vuole nel piú intimo dell' animo suo, ciò che l' uomo vuole quando crede di operare secondo coscienza in tutti gli atti che egli fa, ciò per cui elegge e vuole piuttosto questi atti che quelli; il qual ciò è uno e identico in tutti gli atti. Il pensiero adunque sintetico morale che giace in fondo a ciascun uomo e ne determina l' operar morale, varia in piú modi; ed è perfetto solo quand' è assoluto, cioè quando contiene con piú o meno di virtualità tutto ciò che è veramente bene morale, senza esclusione di cosa alcuna. Tutti quelli, il cui pensiero sintetico morale principio del loro operare è assoluto, operano bene; ma quelli, il cui pensiero intimo fondamentale nell' ordine morale non è assoluto, hanno una falsa probità, non vogliono veramente ciò che è morale, benché osservino gli offici morali parzialmente. E` da notarsi che il pensiero morale rettore della vita può essere assoluto con piú o meno di virtualità. Ma oltracciò il pensiero sintetico7morale, che trovasi in fondo dell' animo, può essere assoluto e non essere tuttavia puro , in quanto che l' assoluto può andar vestito d' una forma speciale che non gli toglie l' essere assoluto, ma gli aggiunge qualche cosa che senza scemare la perfezione del primo pensiero gl' impedisce di svolgersi da tutti i lati, limitandolo ad un cotal modo determinato di svolgimento. Da questo procede principalmente la diversa fisionomia per cosí dire che ha la pratica della virtú negli uomini virtuosi. Il pensare assoluto, di cui parliamo, non è semplicemente quello: « evita il male e fa il bene »poiché è ancora astratto e negativo non determinando punto che cosa sia il male morale che si dee cansare e il ben morale che si dee fare, ma supponendogli conosciuti. All' incontro la prima vista del bene e del male che cade in un animo, questa vista interiore, immediata, colla quale l' uomo conosce direttamente che cosa sia il ben morale, vista che subito si cangia in un sentimento: questo è il pensiero assoluto morale di cui parliamo. Questo pensiero morale assoluto, il piú intimo di tutti i pensieri morali, sfuggente per lo piú alla coscienza, e costituente il carattere morale dell' uomo, spiega come si manifestino talora nelle persone piú rozze gli atti della piú eroica o delicata virtú; e come il senso morale, che distingue colla maggior giustezza le morali convenienze, sia sovente piú squisito in quelli che hanno minor sapere e coltura: è anteriore alla scienza che non può altro che svilupparlo. Or come poi rispetto all' essere reale abbiamo distinto un pensiero assoluto naturale e un pensiero assoluto soprannaturale: lo stesso dobbiamo dire rispetto all' essere morale. E il pensiero assoluto naturale è del pari negativo, mancando nell' ordine della natura quel bene ultimo assoluto che viene sempre dal pensiero morale supposto: onde nacque il gran vuoto alla morale stoica, come abbiamo altre volte dimostrato (1). L' essere assoluto è il bene assoluto. E, posciaché l' essere assoluto è dato all' uomo positivamente solo per quell' opera soprannaturale che si compie nel battesimo; quindi nel cristiano è infuso un nuovo principio morale, un nuovo pensiero assoluto positivo ed efficace, il quale dà all' uomo una nuova vita e una nuova potenza morale; ed è questo secreto principio che rimutò il mondo pagano e che rimuta interamente di male in bene quelle nazioni dov' entra il cristianesimo, vi emenda i costumi, vi fa pullulare azioni eroiche in ogni virtú, le incivilisce e le incammina in sulla via del progresso. Noi abbiamo veduto che il pensare assoluto viene costituito dall' assolutità dell' oggetto; e che ogni pensare imperfetto e relativo viene dal soggetto, il quale termina l' atto del suo pensare in ciò che non è essere assoluto. E tuttavia non è da credere che il pensare riesca imperfetto e relativo per l' unica ragione ch' egli ha degli oggetti finiti; ma la ragione di tal pensare è che si ferma unicamente in questi, non dando attenzione all' infinito, alla relazione che hanno con questo. Ma, che la mente non badi a questo nesso del suo pensare ordinario, dee procedere da qualche ragione naturale, non da difetto accidentale dell' individuo; perocché si vede che cosí fanno tutti gli uomini colle loro riflessioni e prime percezioni. Or questa causa noi l' abbiamo già indicata quando abbiamo detto che rimane occulto all' uomo il nesso che congiunge l' universo con Dio, l' essere relativo coll' assoluto. Ma colla fatica della mente si giunge alla dialettica trascendentale, la quale scorge a vedere la necessità di quel nesso e a conoscerlo negativamente. Vi è dunque un pensare assoluto primitivo naturale d' intuizione; vi ha un pensare assoluto per una cotal sintesi che si fa nell' anima spontanea e che vi dimora abituale (oltre il pensare assoluto infuso che è una via di percezione); finalmente vi ha un pensare assoluto per via di attuale riflessione speculativo scientifico. Quest' ultimo solo fa sí che l' uomo si chiami appagato del suo sapere. Dei due primi, fin che stanno soli, l' uomo non giudica cosa alcuna, né se ne loda, né se n' attrista, perché non se n' è reso consapevole; ma se v' aggiunge la riflessione, a prima giunta non li trova, o gli pare di non conoscer nulla di essi, e in ogni caso non se ne chiama soddisfatto. Appunto perché le due prime maniere di pensare assoluto mancano di questi due caratteri necessari alla soddisfazione dell' animo umano: 1) l' essere, il conoscere positivo; 2) l' essere, il conoscer conscio. Al pensare assoluto dell' intuizione innata mancano entrambi questi caratteri, poiché 1) l' oggetto è puramente ideale; 2) egli è occulto, non riflesso, senza espressione di sorta. Ma perché l' uomo tanto cupidamente desidera che l' oggetto del suo pensare sia reale, positivo, attuale? Ciò che soddisfa il soggetto deve esser cosa del soggetto: perciò conviene che la notizia il soggetto la faccia sua propria acciocché lo soddisfi. Ma appropriarsela, è quanto unirla a sé, a sé riferirla, altro non essendo la proprietà che l' unione d' una cosa esterna al soggetto per via di sentimento razionale (1). Ora non può far questo, fintanto che null' altro conosce che il solo essere ideale. Egli vede l' idea, non la possiede ancora. Il soggetto dell' intuizione è ricevente , non ancora agente ; e dove non vi ha azione propria, esso non può trovare un diletto che gli soddisfi, venendo al soggetto la soddisfazione dalla propria attività, o certo essendo a questa condizionata. Questa mancanza di attività soggettiva nell' intuizione è ancor meno che il non aver coscienza, poiché gli atti stessi dell' attività soggettiva possono rimanere senza coscienza od acquistarla. Or dunque, che l' essere ideale vuoto d' ogni reale non soddisfi all' umano intendimento, apparisce per due cagioni. La prima, perché questa cognizione si presenta come principio di un' altra cognizione che non si ha, ed a questa si richiama e riferisce; onde, tant' è lungi che possa appagare, che anzi essa è l' origine dello stesso desiderio che l' uomo ha di conoscere. La seconda, perché l' essere ideale non ha espressione alcuna, né alcun segno reale che sia stimolo all' attenzione, onde si rimane del tutto inosservato non producendo nell' anima altro sentimento distinto da quello che ha l' anima stessa nella sua condizione d' intellettiva. Passiamo a considerare come non soddisfaccia alla brama di conoscere, che ha l' uomo, il pensare assoluto negativo che riguarda il reale lasciato solo senza le sue deduzioni. La ragione di ciò non è che egli sia al tutto privo di reale, come accade dell' idea dell' essere; ma il reale che ne forma il termine non conoscendosi che per via di esclusione e di negazione, s' intende esser cosa esistente sí, ma incognita: onde eccita la voglia di conoscerla, anziché acquietarla. Ma quello che piú mi preme di osservare, si è quell' insufficienza all' appagamento che il pensare assoluto del reale ha in comune con molti altri casi di pensare sintetico. Il carattere di questo pensare è quello di esser privo di ogni espressione, di ogni segno sensibile che attiri l' attenzione. Questo pensare occulto, privo di espressione, perfettamente sintetico, ha luogo soprattutto nel pensare assoluto positivo del reale, costituente, come dicevamo, l' ordine soprannaturale. Essendo positivo questo pensare, esso ha per materia un sentimento; o piuttosto, il reale nell' idea dell' essere non si vede solo, si sente. Che cosa aggiunga il sentimento alla pura intuizione non si può insegnare a parole, convenendo rimettersi all' esperienza. Nondimeno, poiché il sentimento varia secondo che nasce dall' azione d' un essere piuttosto che d' un altro, per esprimere questa verità, noi abbiamo inventata una parola, non avendone trovata alcuna che ciò significasse nelle lingue: l' abbiamo chiamata, cioè, il tocco del sentimento , onde quel proprio sentimento dell' essere assoluto noi possiamo dirlo il tocco dell' essere . Ed ora possiamo tornare sul problema dell' Ontologia. Noi abbiamo veduto che il pensare assoluto ha, quasi direbbesi, tre faccie. Quella che riguarda l' essere sotto la forma reale; quella che riguarda l' essere sotto la forma ideale; quella che riguarda l' essere sotto la forma morale. Anche il problema ontologico si conforma a questi tre aspetti. Egli nasce dalla relazione tra l' essere finito, quale si conosce da noi per via di percezione che appartiene al pensar relativo, e l' essere infinito, quale si conosce da noi coll' intuizione ingenita che appartiene al pensar assoluto. Queste due maniere di pensare, la percezione e l' intuizione dell' essere, raffrontate fra loro, dànno l' antinomia ontologica, poiché si trova di piú nel finito, quale sta nella percezione, che nell' infinito, quale sta nell' idea dell' essere. « Come è egli possibile che nel finito sia piú che nell' infinito? che nell' infinito ideale non si trovi la ragione, la spiegazione, la causa del finito reale? ». Non iscade allora di trono la ragione, non perde ogni autorità? Cessa cosí d' essere vero che l' intelligenza presieda a tutte le cose di necessità ontologica. Non solo ritorna la confusione del caso, ma l' essere stesso ha perduto l' interno suo ordine, che risulta dall' essenziale rapporto fra la sua realità e la sua idealità: e l' essere senza ordine non si concepisce piú, è annichilato, rimane il nulla. Cosí il problema ontologico si riduce alla conciliazione fra il pensare relativo e l' assoluto, l' assoluto, dico, spettante alla categoria ideale. Ma la triplice faccia del problema apparisce allorquando si considerano i diversi modi del pensare relativo, confrontando ciascun de' modi di essi coll' assoluto. Perocché il pensare relativo: 1) talora termina colla sua attenzione nel reale, come accade nella percezione, ecc.; 2) talora termina colla sua attenzione nell' idea, come accade nell' universalizzazione, ecc.; 3) talora termina colla sua attenzione nel morale, come quando sente o pronuncia l' obbligazione, la bontà di una azione, ecc.. Ora se ciò in cui bada il pensiero è un ente finito reale, il problema ontologico si manifesta sotto quella forma che abbiamo espressa, e dimanda: « Come mai l' idea della cosa ne mostri la possibilità senza dare alcuna ragione della sussistenza? ». Il che si risolve in questa antinomia: 1) Il reale finito, l' universo, deve avere una ragione necessaria che ne determini la sussistenza. 2) Il reale finito, l' universo, può essere e non essere, e però non ha ragione che spieghi perché sussista, piuttosto del contrario. Ma se il pensiero si ferma nell' idea della specie e de' generi, allora la difficoltà prende un' altra forma: « Queste essenze sono reali? sono ne' reali, sono fuori de' reali? ». Di che l' antinomia: « Sono ne' reali, poiché di essi si predicano né si potrebbero di essi predicare se ad essi non appartenessero: - Non sono ne' reali, poiché essi sono comuni, e ogni reale è particolare: reale e comune si contraddicono ». Finalmente se il pensiero si ferma nell' essere morale, lo stesso problema acquista una terza forma: è l' antinomia morale che dimanda una conciliazione. Le due proposizioni opposte formanti cotesta antinomia sono le seguenti: 1) « Il soggetto non può tendere che al bene suo proprio, perché il bene, se non è proprio del soggetto, non è per lui bene; e se non è bene, non può tendervi ». 2) « Il soggetto, lungi dal dover cercare il proprio bene, anzi deve unicamente porre ogni suo rispetto ed affetto nell' oggetto, e con piena annegazione di se stesso riconoscere praticamente quell' essere secondo ciò che è oggettivamente ». Trattasi sempre di sciogliere un' antinomia che presenta il pensare relativo, sia nell' ordine reale, sia nell' ordine ideale, sia nell' ordine morale. Questa antinomia non si può conciliare che col pensare assoluto: senza di questo, o rimane insoluta, o di piú conduce gli uomini ai piú mostruosi errori. Ora le tre antinomie categoriche, che esprimono il problema ontologico, appartengono al pensare critico, e ciascuna mette il pensare relativo in contraddizione con se stesso, o col pensare assoluto proposto dubbiosamente. Ma nello stesso pensare assoluto si trova la conciliazione delle antinomie, purché tal pensare a trovarla si applichi. Cosí, per rispetto alla prima antinomia, la ragione perché il mondo sussista, non si trova è vero nell' idea del mondo, ma piú la si rinviene nelle profondità dell' essere morale: è una ragione deontologica, la quale non induce necessità fisica, ma deontologica soltanto. Or questa ragione è sufficiente a determinare l' azione del primo essere, come quello che è perfettissimo. La soluzione della seconda antinomia si trova pure facendo uso del pensare assoluto semplicemente che si può dire assolutamente assoluto, e consiste nel concepire l' essere come uno nelle tre categorie. Se dunque si tratta di spiegare come le idee specifiche e generiche sieno da una parte eterne ed affatto distinte, dall' altra molte; basterà riconoscere che l' elemento eterno che hanno le idee si riduce ad uno, cioè a quello dell' essere, onde tutte quelle che comunemente si dicono idee specifiche e generiche sono propriamente concetti di un' idea sola, dell' idea dell' essere; e cosí col pensare assoluto categorico rimane sciolta questa antinomia. Ma se l' antinomia prende un' altra forma, nella quale l' abbiamo esposta di sopra, ponendo da una parte che le essenze debbono essere nei reali di cui si predicano, e dall' altra che non possano essere nei reali; allora convien ricorrere, per uscirne, al pensare assolutamente assoluto, cioè a quello che apprende l' unità dell' essere nella trinità categorica. Anche l' antinomia morale si scioglie con quel pensare assoluto che ha per oggetto la relazione fra l' essere ideale ed oggettivo e l' essere reale e soggettivo. La qual relazione è questa, che l' essere soggettivo si assolve, perfeziona e beatifica coll' aderire all' oggettivo, non ritornando a se stesso se non in quanto nell' oggetto si ritrova. All' oggetto appartiene l' assolutità dell' essere, al soggetto la relatività ; ma la relatività si assolutizza quando finisce la sua azione nell' assolutità. Questa intrinseca costituzione dell' essere spiega come la morale non possa altrove consistere che nell' adesione del soggetto all' oggetto. Colla quale adesione il soggetto pare che operi in opposizione alla propria natura. Ma ultimamente ritrova se stesso nell' oggetto per amore del quale s' era perduto, e si trova felice: la sua esistenza, se non era assoluta, ha cosí partecipato dell' assoluto. Senza di ciò il soggetto finito mancherebbe della sua piena esistenza ontologica; e la necessità sentita di questa esistenza, acciocché sia completo essere, è la forza veramente ontologica dell' obbligazione. In pari tempo dalle stesse nozioni apparisce che l' attività morale va direttamente nell' essere , e però è universale come l' essere: di maniera che se il segno ultimo a cui tende si restringesse, e da assoluto com' è, l' essere diventasse relativo, non ci sarebbe piú nulla di morale. E questa è la regola a distinguere dalle vere virtú que' falsi concetti che ripongono la virtú in qualche relativo, e non l' estendono a tutto l' essere. Il pensare assoluto, fu già notato, altro è cosí semplice che non mostra nel suo seno distinzione alcuna, né parti, né organi: tale è l' intuizione dell' essere, tale quel pensar sintetico assoluto, occulto nell' anima, che abbraccia tutto il reale, e niente di determinato in esso, sia che spetti all' ordine naturale e negativo, o all' ordine soprannaturale e positivo. Altro è moltiplice, ed è quando si riferisce lo stesso pensare relativo all' assoluto, mettendo accordo tra essi: nel qual fatto il pensare relativo si pensa in un modo assoluto. In questa seconda maniera di pensare assoluto vi è dunque pluralità. Pluralità di termini, di elementi, d' oggetti; e pluralità di modi di conoscere. La pluralità dei modi di conoscere moltiplica gli elementi e gli oggetti; è quella che somministra la materia abbondevole al pensare. E nel vero, la percezione, l' universalizzazione, l' astrazione, la sintesizzazione, sono altrettanti modi di conoscere che producono gli elementi del ragionamento. Dove è da notarsi che la sintesizzazione non è ancora la sintesi assoluta, ma quella che si ferma per cosí dire a mezzo la via. Tale sintesizzazione comincia dal riportare il sentito all' idea dell' essere, che è la sintesi primitiva, o la percezione: dalla quale, se coll' universalizzazione si toglie via la persuasione della sussistenza, rimangono le idee specifiche piene, donde l' astrazione cava i cosí detti astratti. Ma lo spirito, seguitando a sintesizzare, riferisce i percepiti, gli universali e gli astratti all' idea dell' essere, e per essa viene a conoscere le relazioni, e i vincoli attivi e passivi che hanno fra essi. Atteso poi l' esperienza del mancare talora i conosciuti allo spirito, e del loro ripristinarsi e del mancar di nuovo (il che avviene per essere il pensiero umano contingente), si vengono formando le idee del nulla assoluto e relativo, quella delle negazioni. Tali sono gli elementi del ragionamento, i quali appartengono a diversi modi del pensare. Or tutti questi elementi, benché singolarmente presi appartengono al pensare relativo, tuttavia diventano, quasi direbbesi organi dell' assoluto allorquando s' innestano in questo, pensando la relazione che a questo tengono. Ed ora qui, alla fine, siamo in agio di toccare alcune questioni di logica trascendentale, intorno alle quali molto in Germania si fu assottigliato. La prima è, se il sapere umano si volge in circolo, di maniera che dopo le ricerche si torni a quello che si sapeva a principio. Questa questione, o riguarda il sapere, o la certezza del sapere. Rispetto al sapere, se si considera che l' idea dell' essere onde parte la mente contiene virtualmente ogni cosa, si può ben dire che vi abbia negli umani ragionari una specie di circolo, ma solo intendendo cosí la cosa, che nella fine si sa in un modo quello che a principio si sapeva in un altro modo: alla fine lo si sa attualmente, quando al principio lo si sapeva solo virtualmente; alla fine si acquista anche la coscienza di ciò che si sa, la quale al principio non si avea. Onde il sapere assoluto si trova ai due estremi del circolo. Al primo estremo è intuitivo, naturale; al secondo estremo è speculativo, scientifico. Che se trattasi della certezza, fu dimandato se la mente umana debba cominciare dal porre ciò che sa come una mera ipotesi, finendo poi il suo cammino col trovare quell' ipotesi convertita in certezza. Or quest' è vero in parte, non in tutto. Se si parla dell' andamento naturale e spontaneo della mente umana, essa incomincia dalla certezza e va sicura fino che urta nelle antinomie del pensar relativo. Allora nasce dubbio, e, verificata la contraddizione, un periodo di scetticismo nel quale non può riposare; indi il desiderio di uscirne, poi la speranza ai primi albori del pensare assoluto che ritorna a farsi vedere alla mente: il quale diventa pienamente luminoso, concilia le antinomie e restituisce alla mente il riposo. Il quale cammino, se è l' ordinario della mente, non è però cammino dell' animo, che può tenere la mente in briglia coll' autorità della ragione morale e non lasciarla mai perduta nel dubbio. Ma se si vuol parlare non di tutto il cammino che fa la mente svolgendosi, ma del scientifico solamente che è parte del tutto: in tal caso egli è vero che le prime cose, si possono dimandare siccome ipotesi, le quali ricevono poi, da quanto consèguita, il lume dell' evidenza. E cosí noi pure facemmo, cercando il fondamento dell' umana certezza. Supponemmo come un fatto il pensiero, benché non giustificato ancora, non purgato dal dubbio scettico che sia illusione, e nel pensiero trovammo l' essere; e nell' essere la verità stessa, l' evidenza innegabile, dalla quale partendo fu dimostrata la certezza de' fatti dell' esistenza umana, dell' umano pensiero; e come questo, fin che ha per guida la luce dell' essere, non può illudere o mentire (1). La seconda questione si è: « onde incominci la scienza ». E` simile alla precedente, involgendo questa difficoltà: « Se io comincio dire o pensare qualche cosa, e m' occupo a dimostrare questo qualche cosa o a accennarlo almeno come evidente, il pensiero che vi adopero è adoperato gratuitamente, non essendo provato ch' io il possa adoperare o che mi dica il vero, ond' egli è fuori dell' oggetto della scienza ». Come trovar dunque un cominciamento che non lascia fuori nulla, nulla supponga arbitrariamente, non dipenda da cosa che provata non sia, o almeno da cosa che rimane fuori dalla scienza? Di questo labirinto si esce nel modo accennato, cioè: 1) la scienza deve cominciare dal considerare appunto quel pensiero che è l' istromento di lei, e porlo quale ipotesi o postulato sino a tanto che l' osservazione non trovi nel pensiero l' idea dell' essere; 2) trovata questa base fondamentale, tutto l' edificio è consolidato, poiché l' essere porta quasi direi scritto nella sua fronte il suo titolo: pure contemplandolo si vede che non può non essere: anzi egli è la verità che toglie via tutte le illusioni. A questa questione è affine l' altra, che dimanda: « Se si possa definire la prima scienza », il che dall' Hegel si nega. La difficoltà e la soluzione della difficoltà somiglia alla precedente. Diamo che si definisca. Ora, questa scienza definita non sarà la prima: perché non può essere la definizione stessa. Se il definito non è la definizione stessa, dunque la definizione è ciò di cui la definizione si compone. Ciò di cui la definizione si compone, parole, concetti, ecc., nell' ordine del sapere è anteriore al definito: e però la scienza definita non è la prima cosa che si sappia; la prima scienza dunque non si può definire. Ma siffatta difficoltà non è insolubile, se non supponendo arbitrariamente e falsamente coll' Hegel che tutto si riduca alla categoria della scienza. Infatti, posto che sia vero che la scienza dee assorbire ogni cosa, non si può piú definire il suo principio: perocché in qual si voglia modo che si definisca, egli suppone sempre qualche cosa d' anteriore sfuggente alla categoria della scienza. Infatti, il pensiero, il puro pensiero, non è ancora scienza, ma via alla scienza. Scienza non può essere se non l' oggetto del pensiero. Rimane adunque il pensiero come una realità anteriore alla scienza che non si lascia assorbire dalla scienza. Vero è che il pensiero può pensare se stesso: ma questa proposizione suppone che il pensiero in quanto è pensante non sia al modo stesso del pensiero in quanto è pensato, e che tuttavia il pensiero pensante e pensato sia uno. Ma scienza non è il pensiero se non in quanto è pensato. Laonde, quand' anche si ponesse la definizione cosí: « la prima scienza è il pensiero pensato », questa definizione lascia fuori come un antecedente il pensiero pensante, il pensiero della definizione medesima. In somma l' atto, che è quanto dire la realità, è necessariamente anteriore all' oggetto e all' oggettivo, che è quanto dire alla idealità. Si dirà: Se voi cominciate la scienza, lasciando che vi scappi quasi fuor sopra quella un qualche cosa, cioè il reale; questo reale voi dunque lo accettate come uno sconosciuto refrattario interamente al pensiero. - Rispondo che se la scienza umana non raggiunge col suo primo passo questo, ben dimostra la limitazione dell' umano intendimento; ma non è però, che ciò che resta fuori dal primo pensiero, e che è condizione del pensiero stesso non pensato dall' uomo, non venga raggiunto di poi colla riflessione; e se non fosse raggiunto noi pur ora non ne potremmo parlare e dire che egli sfugge alla definizione della scienza prima. Dallo sfuggirci cosí, altra conseguenza non viene se non la distinzione tra la scienza considerata in se stessa nella somma sua perfezione e la scienza limitata dell' uomo. S' intende assai bene che la scienza considerata in se stessa e nella somma sua perfezione dovrebbe esser coetanea ed adeguata a tutto l' essere; anzi non dovrebbe avere che un atto abbracciante tutta la realità, non escluso se stessa; e quest' atto dovrebbe essere la stessa essenza del soggetto conoscitivo. Ma quest' ideale del sapere, che s' avvera in Dio, non s' avvera nell' uomo, al quale nondimeno è dato conoscere in qualche maniera ciò che il proprio essere ha di limitato. La limitazione di esso è pur questa, che sia successivo e abbia bisogno di definizioni e divisioni, ecc., che incominci e non sia stato sempre, che sia contingente e possa cessare, e che in quanto è sapere scientifico sia un atto secondo, il quale suppone innanzi di sé la realità del soggetto conoscente, e la realità dell' atto anteriore in ordine logico a' suoi oggetti che costituiscono la scienza. Poste le quali cose, quando si cerca la definizione della prima scienza deve intendersi di quella che è prima per l' uomo, giacché in Dio non vi è scienza prima né seconda, e la sola espressione di scienza prima involge il concetto di una scienza limitata. Or dovendosi questa e non altra definire, basterà che ciò che si definisce sia primo nell' ordine del sapere, benché non sia primo negli altri ordini categorici, cioè nell' ordine reale e morale. E però, quando si dirà che la scienza dell' essere ideale è la prima, non si andrà lontano dalla giusta definizione, benché questa definizione sia preceduta da un pensiero, che è realità, ma non scienza. All' incontro, la scienza della logica hegeliana, posta da Hegel per la prima, è proscritta dallo stesso Hegel allorquando egli dichiara che non la si può definire, cessando manifestamente d' essere una scienza ciò che non si può definire, ed apparendo contraddittorio che la scienza sia nello stesso tempo una cieca indefinibile realità. La legge ontologica del sintesismo dichiara che « l' essere ha un cotale organismo ontologico, che la mente divellando un organo dall' intero organismo ne ha un tal ente che, se si prende come ente completo, nasconde in sé un assurdo, del quale assurdo tostoché la mente s' accorga, conchiude che quell' organo divelto non può stare cosí solo, è nulla, e neppure si può pensare quando vi abbia vista dentro la contraddizione, ma si pensa fino a tanto che questa vi giace nascosta in istato, come abbiamo altrove detto, virtuale »(1). Dalla quale definizione si vede, che la mente fino ad un certo segno può sciogliere il sintesismo dell' essere, pensando un organo di lui separato dal tutto; ma ciò le avviene solo perché ella dapprima non s' accorge che l' organo cosí separato porta in seno una ripugnanza; e quivi è appunto l' origine di quel pensare che abbiamo chiamato relativo , in opposizione all' assoluto che non dismembra l' organismo ontologico. Or le due maniere di pensare assoluto e relativo, le quali si distinguono pe' loro oggetti, non si devono e non si possono giammai confondere insieme. Molto meno si deve confondere insieme l' essere assoluto e l' essere relativo quasicché questo si potesse ridurre a quello come parte al tutto. L' assoluto e il relativo si oppongono ed escludono per siffatto modo, che mai non si possono congiungere in uno, e restano sempre due; perocché l' essenza stessa del relativo importa che non sia assoluto. E questa relazione fra l' essere relativo e l' assoluto, dove sta veramente il nodo gordiano della Teosofia, è cosí nuova, che si scioglie in due proposizioni, le quali sembrano contraddittorie e non sono. Perocché si può sostenere, non aversi nulla di cosí vicino e legato, come sono vicini e legati l' essere assoluto e il relativo; e si può ugualmente sostenere, niuna cosa essere piú lontana e aliena da un' altra, quanto uno di quei due esseri dall' altro. La prima di queste due proposizioni è vera se si guarda all' origine. Perocché il relativo viene dall' assoluto; ma non si dee credere che sia formato dalla sua materia, che anzi l' assoluto non ha materia; neppure si deve credere che sia una medesima sostanza con lui, perocché l' assoluto non è sostanza, ma puro essere; onde il relativo comincia ad essere d' un tratto, mentre prima non era, per virtú dell' assoluto. Nello stesso tempo la natura dell' essere relativo e la natura dell' essere assoluto sono cosí fra loro contrarie, che nulla v' è nell' uno che sia identico a ciò che è nell' altro, e però sono ancora piú che categoricamente distinti ; infinitamente piú che da sostanza a sostanza: trattasi di una differenza di essere, che giustamente si può denominare differenza ontologica . Per intendere come stia questa cosa, conviene por mente, che l' essere si dice relativo in quanto esprime ciò che si riferisce, ciò che è ad un principio soggettivo. Questo principio soggettivo, e ciò che è a lui, è l' essere relativo (reale, non l' essere relativo ideale o razionale) (2). E chi terrà ferma tale definizione dell' essere relativo, né manco troverà difficile a rispondere s' altri chiedesse: come non sia cosa assurda che l' essere, il quale è pel concetto suo semplicissimo, si raddoppi per modo che v' abbia un essere assoluto e un essere relativo. Perocché: l' essere assoluto è uno e comprende ogni entità assoluta; ma tant' è lungi che comprenda la relativa come relativa, che se la comprendesse sarebbe difettoso e cesserebbe d' essere assoluto. Dove è da osservarsi che l' essere relativo non può concepirsi che come relativo. Né pregiudica alla dignità dell' assoluto, che fuori di lui v' abbia il relativo; appunto perché è un' esistenza relativa e non assoluta, ed è dipendente dall' assoluto, come da causa. Or il tener ben ferme queste relazioni fra l' essere assoluto ed il relativo, è la principale avvertenza che dee avere il teosofo. Si farà qui ancora un' altra obbiezione: se il relativo è anch' egli essere ed essere è pure l' assoluto, vi ha qualche cosa di comune fra l' uno e l' altro, e questa è l' essenza dell' essere. Tanto l' assoluto dunque, quanto il relativo partecipa della stessa essenza dell' essere, non sono dessa: vi hanno dunque due esseri, e di piú l' essenza dell' essere separata da essi, che non è l' essere: assurdo manifesto. A che si risponde che l' essere assoluto è l' essenza dell' essere ultimata e compiuta, e che l' essere relativo ne partecipa non assolutamente, ma relativamente al soggetto che è base dell' essere relativo; e perciò appunto dicesi relativo. Se dunque l' assoluto è l' essenza dell' essere intieramente compiuta, e il relativo non è l' essere, ma l' ha congiunto, vedesi in che modo si può dire che l' essenza dell' essere sia comune: questa non diviene due perciò, né l' assoluto ha qualche cosa di piú dell' essenza dell' essere, come la specie per esempio ha qualche cosa di piú del genere, ma è la stessa essenza dell' essere compiuta. Il relativo per contrario, non è, ma si forma, si genera continuamente, per parlare con Platone. E la generazione del relativo, si può esprimere in questo modo: un termine dell' attività volontaria dell' assoluto ha una relazione con se stesso: e a questo termine, in quanto ha una relazione con se stesso e non in quanto è termine dell' assoluto, si aggiunge dalla mente l' essenza dell' essere, e questa sintesi che fa la mente è la generazione dell' essere relativo. Ma: quando la mente aggiunge a quel termine l' essenza dell' essere, non ve l' aggiunge completa, ma priva de' termini suoi; e ciò perché la mente non conosce per natura che l' essenza dell' essere priva de' suoi termini. Vedesi manifestamente come l' essenza dell' ente rimanga una, e tuttavia per opera della mente ammetta un termine relativo, e cosí sembri accomunarsi a piú. Ma il vero si è che l' essenza dell' essere è solo propria dell' assoluto dove ella è tutta intiera e spiegata, quando il relativo non è propriamente ente per sé, ma si fa tale per operazione della mente stessa. Convien dunque dire che la differenza che passa tra l' essere assoluto e il relativo non è da sostanza a sostanza; e ancor maggiore della differenza da categoria a categoria; perocché s' ha differenza di essere in questo senso, che l' uno è assolutamente ente, l' altro assolutamente non7ente. Ma questo secondo è relativamente ente: ora col porre un ente relativo non si moltiplica assolutamente l' ente; sicché rimane che assolutamente l' assoluto e il relativo sia non già una sostanza sola, ma bensí un essere solo (1), e in questo senso non v' abbia diversità di essere, anzi unità di essere. Ma posto che la mente l' abbia fatto tale, esso dee avere tutte le condizioni dell' essere; altrimenti non potrebbe esser concepito, pel principio di cognizione che è la prima legge della mente (2). Or qui nasce l' obbiezione: non è ella condizione dell' ente anche il suo ordine intrinseco, quello che noi abbiamo chiamato organismo ontologico? E l' ente relativo difetta di questo organismo; che anzi noi appunto riponemmo in questo l' essere un ente relativo, che egli è distaccato relativamente a se stesso dall' intero organismo proprio di ciò che è assolutamente essere. Diciamo che, ogni qual volta l' ente relativo che si pensa non involge errore, egli deve avere tutte le condizioni dell' ente, perché ne partecipa l' essenza che dalla mente gli viene aggiunta. Ma posciaché la mente finita vede l' essenza dell' ente solo nella forma ideale, nella quale è contenuto l' organismo dell' ente solo virtualmente: perciò anche il pensiero degli enti relativi offre bensí tutte le condizioni dell' ente proprie dell' essenza, ma nasconde nella virtualità quella che riguarda il compiuto organismo ontologico. E tuttavia l' organismo, benché limitato, non manca neppure nell' essere relativo; giacché la legge del sintesismo che lo forma s' avvera ovunque è essere. Noi abbiamo veduto che ella ha come tre amplissimi campi. Il primo campo in cui la legge del sintesismo si spiega è lo stesso essere considerato nella sua compiuta essenza, che appar manifesta nei tre modi categorici, tutto intero e identico, nel modo ideale, reale e morale. Di poi si manifesta nel nesso necessario che hanno i termini dell' operare volontario coll' essere assoluto, i quali termini si contengono implicitamente nell' essenza dell' essere, e sono in essa attuati per volontà, e da morale necessità determinati. In terzo luogo, ricorre fra l' essere assoluto e il relativo, per essere la costituzione piena di questo una sintesi fra il sentimento finito e relativo e l' essenza dell' essere nella pura forma ideale, colla qual sintesi sono costituite le intelligenze che sono gli enti relativi completi - e ancora il sintesismo fra l' essere assoluto e il relativo apparisce quando l' intelligenza pensando la sua propria esistenza relativa si concepisce e si pone come ente; la quale operazione è una sintesi fra il sentimento relativo e l' essenza dell' essere. Finalmente allora quando l' ente relativo è ultimato mediante questa operazione sua propria, egli di nuovo si dimostra cosí costruito, che le sue parti sono tutte legate insieme, per modo che, l' una divisa assolutamente dall' altra occulta nel suo seno l' assurdo. Del terzo e del quarto genere, cioè del sintesismo fra l' essere relativo ed assoluto, e fra gli organi dello stesso essere relativo, dobbiamo trattare in questo libro, il quale ha per argomento l' essere nella sua forma reale. La mente adunque che contempla l' essere reale, il trova certo ordinato e ontologicamente organato; ma ella intende che tali organi o parti ontologiche debbono constare di qualche cosa, e questo qualche cosa si può acconciamente denominare materia essenziale dell' essere: ella è quella che costituisce propriamente la realità dell' essere. Non s' introduca qui coll' immaginazione la materia corporea che non ci ha a far nulla. E per evitare questo ravvicinamento fra materia corporea e materia essenziale dell' ente, noi risuscitando una voce antica, chiameremo questa, in quanto cade nella nostra esperienza, stoffo dell' ente (1). Dividendo noi coll' astrazione lo stoffo dell' ente reale dalla sua forma organica, ne abbiamo fatto anche cosí due elementi ontologici i quali sintesizzano insieme per modo che l' uno non istà senza l' altro, ma la mente col suo pensare imperfetto li separa, pensando attualmente ad uno, e sottintendendo virtualmente l' altro. Né tuttavia si prenda lo stoffo dell' ente reale di cui parliamo come fosse lo stesso concetto che gli antichi si formavano della materia prima ; perocché la materia prima degli antichi è concetto piú astratto, è l' astrazione dell' elemento comune a tutti gli stoffi degli enti reali; laddove per istoffo noi intendiamo la stessa essenza d' una realità, quale cade nella nostra esperienza, prescindendo da ogni sua organica costituzione ontologica. Principio di metodo per tutte queste ricerche, che tendono a scoprire la natura delle cose, è questo: doversi cogliere le cose come a noi si presentano in quel primo atto nel quale le conosciamo; perocché in appresso le operazioni della mente e i diversi sentimenti loro s' associano, le opinioni altresí ricevute ce le possono alterare e contraffare. La natura o essenza che si ricerca è certo la natura o essenza conoscibile. Se dunque ella deve cadere nella nostra cognizione, in qual cognizione cadrà, se non in quella, per la quale abbiamo imposto alla cosa un nome? Or questa è quella prima, che ce n' ebbe dato il concetto. Se i ragionamenti bene rispondono a questo concetto, sono veraci; se definiscono la cosa diversamente da quel primo concetto che solo è significato dal vocabolo, vanno forviando. Cosí ancora gli antichi logici sapientemente definivano l' essenza della cosa, ciò per cui da prima la si conosce. Or questo è il buon metodo, il metodo d' osservazione accomodato alle cose spirituali, osservare ciò che cade nella nostra cognizione, e come vi cade: osservare come le cose da noi si conoscono. Come adunque si conosce lo stoffo dell' ente? Lo stoffo dell' ente può essere conosciuto direttamente dall' uomo soltanto col mezzo della percezione ; e appunto perciò, considerando quale cognizione ci somministri la percezione, noi potremo formarci il concetto giusto dello stoffo dell' ente. Nella percezione di un corpo, la mente nostra distingue la grandezza, la forma e oltre di ciò prova una modificazione speciale del proprio sentimento che resta innominata; solo le si applicano in certi casi degli epiteti generali, come a ragion d' esempio si dice esser piacevole o dolorosa, ma niun vocabolo si trova nelle lingue per indicare il proprio di una data sensazione. Ad ogni modo in ognuna delle dette sensazioni vi è questo fondamentale sentimento, che riceve quasi subietto i limiti e accidenti della grandezza, forma, ecc.. Lasciando dunque che la parola sensazione abbracci tutto ciò che cade in lei, noi per esprimere la parte fondamentale e primitiva di essa adoperammo questa espressione: « il tocco della sensazione ». Or quello che abbiamo detto della percezione de' corpi esterni, dobbiamo universalizzarlo a tutte le realità: tutte possono essere percepite, e la percezione di un reale si distingue essenzialmente dalla percezione di un altro pel tocco del sentimento, ehe è l' effetto primo, immediato, proprio che colla sua azione produce nel percipiente; è quello per cui è conoscibile dall' intendimento, è quell' atto, in una parola, con cui un ente reale esiste in un altro pure reale, e però da ogni altro si distingue. Lo stoffo dunque d' un ente reale è conosciuto dalla mente nel tocco del sentimento; e questa è quella cognizione che si suol chiamare positiva . Si prende la denominazione di positiva , data alla cognizione, tanto pel contrario di razionale, ideale, dedotta ; quanto pel contrario di negativa . Nel primo significato vuol dire cognizione d' un fatto posto, attuale, presente, distinguendosi da un fatto possibile, non presente colla sua efficacia in colui che lo conosce. Nel secondo significato, si viene ad esprimere, che nella cognizione che abbiamo del reale, conosciamo ciò che è proprio di lui come oggetto, ciò che costituisce il suo fondamento conoscibile. Mancando questo fondamento, che è appunto il tocco dell' essere, si dice la cognizione del reale rimanersene negativa, cioè orbata di ciò che è proprio del reale, oggettivamente considerato, vuota di ciò che costituisce il suo effetto conoscibile, quella sua azione, per la quale un reale conosciuto vive nel sentimento di un altro reale. Una tale mancanza, che trae dalla cognizione, per cosí dire, la sua propria sostanza, non può essere supplita né surrogata da nessun ragionamento, da nessun' altra maniera di conoscere. Ma onde avviene poi che un reale può avere in qualche modo cognizione d' altro reale, benché non ne riceva l' azione, e il tocco della sensazione non cada nella sua esperienza? Perché, come abbiamo detto, un ente reale, oltre comporsi dello stoffo, si compone altresí d' un cotale organismo ontologico, e, trattandosi d' un essere finito, anche di elementi negativi, di limitazioni. Di piú egli ha molte relazioni esteriori con altri enti reali, che possono essere conosciuti. Allora il complesso di queste determinazioni, conosciute che sieno, si prendono come l' espressione del reale, tengono luogo del reale, e cosí costituiscono la cognizione dell' ente, che dicesi negativa, perché non fanno conoscere propriamente l' ente, ma soltanto lo segnano in modo, che qualora si venisse a conoscere, lo si riconoscerebbe per desso. E` nondimeno da avvertirsi che gli elementi negativi non determinano propriamente un ente reale, ma ne danno una cognizione generica o astratta, che può dirsi ideale. Questa parte di cognizione né pure ne prova la realità sussistente, ma supponendo questa siccome ammessa, ne fa conoscere i caratteri generali. Ma le relazioni d' un ente reale con altri enti reali possono determinare primieramente l' ente, e dimostrarne la sussistenza; il che s' avvera quando l' esistenza degli altri enti reali conosciuti sia condizionata a quello che resta incognito. Allora di questo si conosce che sussiste, ma ci rimane occulta la propria natura, perché manca il tocco del sentimento: la cognizione della sussistenza riman vuota della real essenza, e però dicesi negativa . Queste due maniere di conoscere un reale, quando si trovano insieme, diconsi « cognizione ideale7negativa ». Anche lo stoffo dell' ente ha due modi categorici di essere, l' oggettivo o ideale, il soggettivo o reale. Si chiederà come lo stoffo dell' ente possa essere ideale, se in esso abbiamo fatto consistere la realità dell' ente. E` a rispondere, che le forme categoriche inabitano l' una nell' altra senza confondersi; e che perciò anche la realità inabita nella idealità, e allora prende il modo di questa. E` la realità quasi direbbesi vestita d' idealità. Onde noi prendiamo la realità in due modi: o com' ella è pura e semplice; o com' ella si trova nel seno dell' idealità stessa. Quella prima è da noi chiamata realità senza piú, questa seconda dicesi essenza della realità , o idea della realità, o realità ideale, ovvero anche realità oggettiva, o tipo della realità. Sotto la stessa distinzione adunque deve considerarsi lo stoffo dell' essere, il quale se è nel modo suo soggettivo, costituisce la semplice realità; ma se si prende in un modo oggettivo, costituisce lo stoffo ideale, l' essenza dello stoffo. Lo stoffo non è l' ente, ma un elemento di esso, che la mente col suo pensare imperfetto divide dal resto. Onde, quantunque sia propria dell' ente l' unità «( Psicologia , vol. II, lib. IV, cap. .) », e cosí anco dello stoffo, tuttavia l' unità dell' ente può essere organica; laddove lo stoffo prescinde da ogni organismo, e però è un' unità semplice, cioè a dire priva di moltiplicità alcuna. E di vero né la stessa mente può trovare alcuna moltiplicità dello stoffo dell' ente, perocché ella nol conosce se non come somministratole dal tocco del sentimento, il quale è semplicissimo. Ciò che potrebbe far dubitare che lo stoffo non si presentasse alla mente come un semplice, si è la moltiplicità dei sentimenti e le loro diverse misture. Ma conviene distinguere in tali misture i sentimenti semplici ed elementari, e pigliare ciascuno di questi come rappresentante d' uno stoffo diverso. Un dubbio piú difficile a sciogliersi contro alla piena semplicità dello stoffo, si è quello della gradazione che si trova in un medesimo sentimento. Ora qui è necessario distinguere accuratamente fra la parte soggettiva della sensazione, e l' extra7soggettiva «( Antropologia , n. 199 sgg.) ». Lo stoffo dell' ente reale è appunto di due maniere; come è di due maniere il reale, soggettivo cioè ed extra7soggettivo. Parliamo del reale e del suo stoffo extra7soggettivo. Lo stoffo del reale extra7soggettivo, benché semplice, può essere a dir vero percepito dal soggetto con piú o meno d' intensità, e di perfezione: ma questa gradazione appartiene al soggetto, e non all' extra7soggettivo; il quale rimane semplice. Veniamo allo stoffo del reale soggettivo. Il reale soggettivo è il soggetto stesso sentito e le sue modificazioni. Ora noi abbiamo già detto, che trattandosi d' un soggetto senziente, questo non ha che un' unità organica, e però, benché unico, risulta da piú sentimenti distinguibili col pensiero astraente. Anche il suo stoffo adunque, partecipa di questa moltiplicità, e non è di questo stoffo che noi parlavamo, quando ne affermavamo la pienissima semplicità: il soggetto non è lo stoffo elementare, ma lo stoffo organato e d' ogni parte compito. Tornando ora ai due modi categorici dello stoffo, il modo di essere soggettivo è propriamente il proprio , pigliata questa parola a significare il contrario di comune . E per verità negli enti conosciuti, se sono puramente ideali ed oggettivi, v' ha il comune, e non il proprio; se poi sono enti reali (sussistenti o ipotetici), ciò che in essi vi ha di proprio è unicamente la sussistenza. Il proprio adunque non è altro che la sussistenza, la realità, pura e semplice, nella sua soggettiva esistenza. La sussistenza (il modo soggettivo) è l' ultimo atto dell' essere rispetto ad un ente, pel quale l' ente è in atto; è l' attuazione dell' essenza. Prima che un' essenza sia attuata potrà essere attuata in diversi individui, ma in quanto è già attuata in un individuo non può essere in un altro; perciò quest' atto ultimo è il proprio, non avendone alcun altro in cui ulteriormente attuarsi. Si può bensí trovare il proprio anche nella pura essenza quando si considera il proprio come inabitante nell' essenza (idea del proprio); ma in tal caso non è il proprio semplicemente , ma il proprio come oggetto, che si potrebbe chiamare con una maniera imitata dagli Scolastici, il proprio vago , rispondente al loro individuum vagum . La sussistenza e realità d' un ente non è la sussistenza e la realità di nessun altro; dunque ella sola è ciò che v' ha di proprio nell' ente; per essa sola il comune, sia sostanza, sia accidente, si rende proprio; cosí una sostanza in quanto sussiste è propria, e anche un accidente in quanto sussiste è proprio ma nel mero concetto della sostanza e dell' accidente nulla v' ha di proprio; ed anzi il proprio non vi ha in nessun concetto, ma soltanto nella sussistenza , che è il contrario del concetto o dell' idea: idea o concetto dice comune , sussistente dice proprio . Noi conosciamo due maniere di enti reali, noi stessi, e altri diversi da noi. Ora come conosciamo noi stessi? che cosa è questo noi stessi che conosciamo? - Per quantunque si consideri non si trova da dir altro, se non che ci conosciamo pel nostro proprio sentimento «( Psicologia , vol. I, n. 61 sgg.) », e che nulla conosceremmo in noi, se nulla vi sentissimo; convien dunque conchiudere, che noi siamo fatti di sentimento e non d' altro; non d' un sentimento fenomenale, e transeunte, ma sostanziale e permanente. Noi stessi dunque siamo sentimento. Ma che cosa sono le altre cose, gli altri enti reali distinti da noi? Come li conosciamo? Li conosciamo in due modi, come abbiam detto: o con una cognizione ideale7negativa o con una cognizione positiva. Quelli che conosciamo per via di cognizione ideale7negativa, noi li riferiamo a quelli che conosciamo positivamente. Possiamo sí bene pensare che esistano enti reali assai diversi da quelli che percepimmo, ma non diversi nel carattere generico e fondamentale; altramente ci sfuggirebbe di mano il concetto stesso dell' essere reale, e conseguentemente non potremmo piú ragionare. Gli enti diversi da noi, che noi conosciamo positivamente, si debbono pure distinguere in due classi: 1) quelli che percepiamo ; 2) quelli che ci rappresentiamo coll' immaginazione intellettiva . Gli enti diversi da noi, che noi percepiamo, sono: 1) il corpo nostro soggettivo; 2) il corpo extra7soggettivo; 3) qualche entità mista di corporeità e di spiritualità, come io credo che accada al contatto, se non anco alla vicinanza, di due esseri viventi della stessa specie (1). In tutte le diverse realità che si percepiscono, lo spirito giunge naturalmente alla sostanza e quivi si ferma. Ora tutte le entità percepite dall' uomo si riducono ad avere per loro basi conoscibili due sostanze: la sostanza del nostro spirito, e quella del corpo (2). Ma si vuol distinguere accuratamente fra ciò che si conosce come sostanza nella percezione del nostro spirito, e nella percezione del corpo. Questa differenza fu da noi esposta nella « Psicologia », dove abbiamo dimostrato che la sostanza spirituale che percepiamo in noi stessi ha natura di principio , quando la sostanza corporea non la percepiamo che colla natura di termine ; onde deducemmo che fuori della sostanza corporea, tal quale è da noi percepita e nominata, deve avervi un' altra sostanza che le serve di principio. Ancora da questa diversità, noi deducemmo la classificazione suprema di tutte le sostanze relative alla cognizione dell' uomo, cioè di quelle sostanze di cui l' uomo pensa e parla, o può pensare e parlare, riducendosi tutte a sostanze7principio, e sostanze7termine. Ora qui parleremo del corpo che noi percepiamo come sostanza7termine. Si deve distinguere fra la percezione de' corpi dataci mediante le speciali sensazioni organiche; e la percezione immediata che lo spirito fa del proprio corpo, al quale è individualmente unito. Quella detta da noi percezione extra7soggettiva, ci fa accorti che esiste un corpo extra7soggettivo, non congiunto a noi soggetto; questa, chiamata soggettiva, ha per suo proprio termine un corpo cosí aderente allo spirito nostro percipiente, che per essa il principio s' individua, onde tal corpo chiamasi soggettivo. La sostanza che serve di base conoscibile a tutte le notizie che noi possiamo avere intorno ai corpi, è data dalla percezione soggettiva; a quella si riferisce, in quella si riduce anche l' extra7soggettiva. E però la sostanza corporea si percepisce immediatamente nella percezione del corpo nostro proprio, anteriore a tutte le sensazioni organiche speciali. Ma è necessario che noi qui consideriamo, come le sensazioni speciali organiche si riferiscano al corpo nostro sentito immediatamente e fondamentalmente, non solo rispetto allo spazio, che occupano, ma ben anco rispetto allo stoffo della corporea natura (alla materia). Tutte le sensazioni speciali organiche ci danno dei sentiti , che non possono esser altro che modificazioni del sentito fondamentale (1). Questa proposizione sembra manifesta col solo enunciarsi, essendo un fatto, che quando io provo una sensazione organica qualsiasi, il mio sentimento è modificato. Quindi convien dire, che tutte le sensazioni speciali sieno virtualmente contenute nel sentimento fondamentale, e in esso quasi latenti. Il qual concetto, due cose racchiude. Poiché il sentimento fondamentale consta 1) d' un principio senziente, 2) d' un termine, che nel caso nostro è un esteso. Ora nel principio senziente forz' è ammettere la virtú di tutto ciò che cade nel suo termine, e cosí si può dire che nella virtú del principio senziente sieno virtualmente contenute le sensazioni speciali ed accidentali. Il termine esteso poi è suscettivo di varie modificazioni. E queste, nel principio soggettivo sono altrettante sensioni, benché nel termine considerato come extra7soggettivo sieno movimenti. Si può dunque dire: 1) che le sensioni organiche sieno virtualmente nel termine esteso in quanto egli esiste nel principio senziente, e non in quanto si considera da questo diviso; 2) che le dette sensioni sieno virtualmente contenute nel principio senziente, in quanto questo si considera come suscettivo d' essere unito al suo termine e di subire le leggi con cui questo si modifica. Le sensioni speciali sono dunque in uno stato di virtualità rimota nel principio senziente, e in uno stato di virtualità prossima nel termine permanentemente sentito, e dico sentito perché ciò esprime esistenza del termine nel principio. La causa poi che le determina all' atto non è né nel principio senziente, né nel termine sentito, ma in una potenza extra7soggettiva. Ma se si cerca dove stia la ragione di questa virtualità, convien riporla nella natura certamente misteriosa del principio senziente; in quel primo fatto dell' unione sostanziale del principio senziente e del termine sentito , in questo sintesismo dove sta la genesi contemporanea de' due termini, il senziente ed il sentito. Si prenda il sentito puramente come sentito. Come tale, egli è vero ciò che altrove dicemmo, il principio senziente non essere per sé limitato, ma limitarsi dal solo termine sentito: quello non essere tuttavia per sé nulla, ma essere una energia, e anzi perciò una energia illimitata, ma potenziale; l' atto della quale non ha luogo se non a condizione che sia dato il termine che colla sua limitazione lo limita. Il concetto di questa potenzialità illimitata del principio senziente, degno è che si svolga. Poiché porge alla mente questa difficoltà. Se non ci ha termine alcuno, non ci ha neppure un principio senziente, no' l si può piú pensare, e in tal caso sparisce anche ogni virtualità. Ma se ci ha un termine sentito, allora ci ha l' atto della sensazione, e non piú la mera virtualità. Dunque questo concetto di virtualità è un vero impaccio dell' immaginazione, e non piú. Questo argomento non calza. Quando il principio senziente ha un suo termine e però esiste, l' osservazione del fatto dimostra ch' egli ha un' energia sua propria, per la quale egli agisce siffattamente che l' efficacia della sua azione non può venirgli dal termine, benché il termine sia condizione di sua esistenza. Ora l' osservazione attenta del fatto dimostra parimente, che il principio senziente conserva spesso la sua identità, l' identica energia sua propria radicale anche quando il suo termine si modifica. Se adunque il principio senziente, è perfettamente identico a quello che era quando non sentiva quella cosa, ne viene per conseguenza che quel principio, prima ancora di sentire attualmente quella cosa, la sentiva virtualmente. Convien dunque dire che la nuova sensazione preesiste in un altro modo, quasi nascosta e confusa in sentimento maggiore, in quel sentimento che costituisce l' energia propria del principio senziente. Secondo questo concetto, un principio senziente, un soggetto, contiene in sé (sentimento fondamentale) tutte le sensazioni, di cui è suscettivo restando identico; ma le contiene indistinte, fuse insieme, senza l' ultima perfezione dell' atto, in un primo grado di atto, a cui solo manca l' ultimazione. Dalle cose dette apparisce, che le sensazioni accidentali sono congiunte colla sostanza spirituale (sentimento fondamentale); ch' esse suppongono questa, che questa contiene quelle virtualmente, e che quelle sono modificazioni del termine di questa. Ma perciocché oltre la sensazione, che accusa un ente spirituale, cioè senziente (sostanza principio), cade ancora nell' esperienza nostra una forza extra7soggettiva che accusa un ente materiale (sostanza termine); perciò vediamo come lo spirito vada dalla sensazione esteriore a percepire un ente reale, un corpo. Il passaggio che fa lo spirito dal sentito al pensato, è della stessa natura tanto se egli va dalla sensazione all' ente reale spirituale, quanto se egli va dalla forza extra7soggettiva che nella sensazione è contenuta, all' ente reale corporeo. Onde di questo solo ora noi parleremo. Alto e difficile passo nel cammino della Filosofia l' acquistarsi il giusto concetto del sentimento mero , cioè non pensato, non accompagnato dal pensiero. Una prova della difficoltà, si è il vedere come molti anche dotti scrittori, lungi dall' afferrare la vera natura della sensazione, la concepiscono sempre mista col pensiero della loro mente. Noi diciamo che questo è essenziale alla mente e al pensiero, d' aver per termine un' esistenza oggettiva, un ente oggetto; e che la mente non può pensare l' esistenza soggettiva della sensazione o del sensibile, se non nell' esistenza oggettiva, ossia nell' ente oggetto, e però mediante questa; diciamo dunque, che dee precedere nello spirito l' esistenza oggettiva, e che allora solamente egli ha la facoltà di pensare, perché ha il mezzo in cui e per cui può apprendere quello che è soggettivo; e il dir questo è quanto un dire, che la facoltà cogitativa si forma mediante l' intuizione dell' essere oggetto. Riduciamo la questione a questa domanda: « Allorquando lo spirito pensa un sensibile, l' oggetto del suo pensiero è egli né piú né meno il sensibile come sensibile? ovvero sia quell' oggetto ha un elemento di piú, che manca nel mero sensibile precisamente come sensibile »? La risposta dipende unicamente dal saper osservare qual sia l' oggetto sensibile del pensiero. Ora, per venirne a capo, noi poniamo come principio che ogni diversità che si trova fra il termine del pensiero, e la sensazione precisa dal pensiero, è un elemento da questa non somministrato, il quale deve essere spiegato. Ma egli è manifesto che ci ha gran differenza (piú veramente opposizione) fra un sensibile che si contempla come oggetto , e un sensibile che non è oggetto, ma è soggetto o soggettivo. Dunque l' essere oggetto non è dato dalla sensazione, dal sensibile. Di piú, il sensibile come oggetto può essere affermato o no. L' essenza dunque del sensibile7oggetto è scevra di affermazione. Ma se io penso un oggetto7sensibile senz' alcuna affermazione, egli è tale che io gli posso, volendo, applicare il predicato di possibile, e di universale. Or l' universale non è dato dalla sensazione. Dunque è dato altronde alla mente. Ma l' oggetto è l' ente, l' ente in universale; altramente l' oggetto dato alla mente sarebbe nulla. Dunque la mente non riceve dalla sensazione l' ente in universale; ma intuisce quest' ente con indipendenza da quella: e questa intuizione è la condizione antecedente, è la prenozione, colla quale ella può pensare il sensibile, e la sensazione. Di che si vuol conchiudere, che il sentito o sentimento può dirsi realità , non ancora ente ; perocché quest' ultima espressione acchiude l' oggetto, giacché l' istituzione della parola ente ha in vista il pensato, ossia l' oggetto della mente. In una parola, la realità non è l' ente, ma ella è un modo categorico dell' ente, uno dei modi nel quale è l' ente, e che si dividono da lui per astrazione, assegnandogli un vocabolo che ne esprime il concetto. La quale distinzione fra l' ente e la realità , è necessarissima all' Ontologia: senza di essa, questa aberra in una continua anfibologia. Del pari è necessaria quest' altra fra la sostanza e l' ente reale . E nel vero la sostanza fu da noi definita: « l' atto pel quale sono le essenze specifiche », le quali non sono già per gli accidenti, ma per quell' atto nel quale e pel quale questi sono, il quale atto si chiama sostanza. Ora in quel reale che viene pensato dalla mente siccome un ente, ella distingue un elemento primo, nel quale e pel quale sono gli altri, che perciò si chamano accidenti; e quel primo è la sostanza. Di che apparisce che la distinzione fra sostanza e accidenti proviene dalla forma reale dell' ente, e dalla limitazione a cui questo soggiace. Quindi nel sentimento e in ciò che cade nel sentimento, che sono i due generi del reale, si distingue la sostanza e l' accidente ; e però queste entità soggettive non sono conoscibili per se stesse, perché non sono enti, ma hanno bisogno, acciocché sieno alla mente, di venire oggettivate, cioè vedute nell' ente, che è essenzialmente oggetto della mente, il che è quanto dire unite coll' ente, col quale, e colla mente sintesizzano (1). Quando adunque la sostanza s' unisce all' ente7oggetto; allora ella è divenuta ente; e gli accidenti sono divenuti cosí modificazioni variabili dell' ente . Se si avesse un primo atto di sentimento, il quale per l' essenza sua fosse nella mente, cioè fosse unito all' idea, questo sarebbe ente per sé, inteso per la sua essenza. E tale è Dio. Nel quale ciò stesso che è soggetto, è anche oggetto; e non ha bisogno di venire oggettivato. Laonde la divina sostanza non è puramente sostanza , ma è ad un tempo ente , anzi è l' Ente. Laonde a diritta ragione fu proibito in qualche Concilio il dire che Iddio sia una sostanza in senso proprio, potendosi egli chiamare sostanza solo in senso analogico. Le quali cose ci mettono in istato di dare la teoria della rappresentazione. Vi ha un' opinione comune, che tutto ciò che la mente intende, l' intenda per via di rappresentazione, con che si vuol dire, che il pensiero non coglie gli oggetti stessi, ma qualche altra cosa che glieli rappresenta, la qual cosa dicesi idea. Noi abbiamo mostrato in piú luoghi l' erroneità di questa opinione. Non vogliamo ora ripetere il detto, ma solo succintamente indicare sotto quale aspetto abbia luogo una specie di rappresentazione nell' atto cogitativo. Questa cotal rappresentazione, è di due maniere: l' una consiste nel servigio che presta l' idea al conoscimento dell' ente reale; l' altra consiste nel servigio che presta il sentimento e la sensazione al conoscimento trascendentale dell' ente reale corporeo. Parliamo d' entrambe. L' idea fa conoscere l' essenza della cosa, ma non, da sé sola, la sussistenza. Pure la cosa sussistente non si conosce senza prima averne conosciuta l' essenza, cioè senza averne l' idea. Quindi è che si suol dire, che l' idea, la qual certo non è la cosa sussistente, la rappresenti. Secondo questa maniera di parlare, il primo immediato termine della cognizione è l' essenza la quale è solo rappresentativa. Onde fa bisogno un altro atto col quale lo spirito passi dal rappresentativo al rappresentato. E questo secondo atto è appunto quello che noi chiamiamo affermazione . Veniamo or alla seconda maniera di rappresentazione , ed è quella, nella quale il sentimento e la sensazione si prendono come rappresentanti, e l' ente reale come rappresentato. Qui si debbono distinguere più cose. Primieramente quel sentimento primo e sempre identico che costituisce la sostanza spirituale, non è già rappresentativo di questa sostanza, perché anzi è dessa medesima. Onde qui non si dà rappresentazione. Ma altro è la sostanza abbiam detto, altro è l' ente reale . Questo ente reale è la sostanza stessa, che sintesizza colla mente. Quest' ente reale (nel caso nostro, lo spirito) è conosciuto ancora immediatamente dalla mente senza intervento d' alcuna rappresentazione. Ma dopo di ciò sopravviene il ragionamento dialettico trascendentale, il quale vede che il sentimento finito è un relativo. Questo ragionamento trasporta dunque il pensiero dalla sostanza finita all' ente assoluto; ed è allora, che quella diviene una rappresentazione, o più veramente un vestigio, un geroglifico di questo. Questa specie di rappresentazione appartiene dunque unicamente al pensiero trascendente, ed è quella di cui accenna l' Apostolo, dove dice: Videmus nunc per speculum, in aenigmate . Le sensazioni, considerate quali modificazioni dello spirito, non lo rappresentano, appunto perché sono modificazioni, e però non mai sole, ma unite al sentimento sostanziale, né prime nell' ordine logico. All' incontro il sentito corporeo rappresenta il corpo. Ma dobbiamo spiegare in che senso lo rappresenti. Nel sentito convien distinguere due elementi, la forza e il tocco del sentimento . Ora vi ha una forza che modifica il principio senziente producendo in lui il fenomeno dell' esteso: vi ha pure una forza che modifica questo esteso. Non potendosi conoscere la forza che dal suo effetto, la nozione della forza è relativa, cioè si conosce nell' effetto. Vero è ch' ella suppone un ente soggetto a cui appartenga, ma trattandosi dei corpi, questo ente soggetto della forza corporea si rimane straniero alla nostra percezione, e tutto ciò che noi conosciamo è unicamente la forza. Questa forza, come prima ed unica cadente nella cognizione nostra, diviene per noi la sostanza corporea, e quindi il corpo. Cosí il corpo noi lo conosciamo immediatamente, e non per mezzo di alcuna rappresentazione. Ma questa cognizione è relativa; e desunta dall' effetto. Ora questo effetto essendo doppio, poiché l' effetto è quello che la forza produce in noi producendoci il fenomeno dell' esteso, e un altro effetto è quello che la forza produce nell' esteso stesso, perciò la sostanza corporea ha come due basi, che la farebbero parere due sostanze. Ma colla riflessione poi si trova che trattasi d' una sola sostanza, la quale prende in noi due forme a cagione ch' essa si conosce come termine, e non come principio, e il termine è doppio, benché il principio sia unico. In qualche maniera si potrebbe dire, che le due forme sostanziali nelle quali conosciamo il corpo, sieno rappresentative dell' unica sostanza corporea. Una forza diffusa nell' estensione esprime il concetto del corpo, che hanno comunemente gli uomini. Al qual concetto se si applica la dialettica trascendentale, questa conduce al di là della sostanza termine, e trova un ente soggettivo principio. Ma di questo non altro si conosce che l' esistenza con tale ragionamento, e però il comune concetto di corpo diviene cosí rappresentativo di questo ente trascendente, diviene vicario di lui nella mente nostra, quantunque la cognizione che ce ne dà non sia piú che proporzionale e negativa. Ma veniamo alle sensazioni organiche. Uno stesso corpo produce innumerevoli immagini, come pure sensazioni tattili, acustiche, ecc.. Dunque altro è il corpo, ed altro sono i sentiti organici. Ma questi li prendiamo pel corpo stesso, cioè per la forza che tutte quelle sensazioni produce. Quelli adunque ci fanno conoscere i corpi per una cotale rappresentazione. Questa rappresentazione non è però uguale a quella per la quale un ritratto ci fa conoscere la persona ritratta, perocché né il ritratto è l' effetto della persona ritratta, né in quello vi ha nulla dell' attività reale di questa. All' incontro la sensazione organica è l' effetto della forza, e tiene in se stessa una parte di questa tuttavia in atto. In questo modo adunque le sensazioni organiche rappresentano la sostanza corporea. Né la rappresentano come un incognito, ma come un cognito; perocché la sostanza corporea, è a noi cognita nel sentimento fondamentale. Le sensazioni adunque ci fanno riconoscere la presenza di questa forza. Noi abbiamo fin qui ragionato dell' ente reale a quella maniera, che egli cade nella percezione intellettiva: ora dobbiamo considerarlo come oggetto dell' immaginazione intellettiva. Quello che non può l' immaginazione sensitiva, bene il può l' immaginazione intellettiva, come l' esperienza ci dimostra. Perocché non è dubbio alcuno, che noi possiamo immaginare un altro noi stessi, ed anzi molti. Or egli è necessario che si analizzi questa operazione. In primo luogo noi non potremmo immaginare un altro noi stessi, se non potessimo concepire l' ente in sé quale oggetto, indipendentemente da noi, da quello che noi sentiamo. La quale operazione dell' intelligenza, se bene si perscruta, manifestamente si risolve in un atto che considera il senso per sé soggettivo come entità oggettiva, e, se trattasi di sentimento sostanziale, come ente. La prima operazione adunque dell' immaginazione intellettiva, che è la facoltà d' immaginare enti od entità, consiste in questo, in contemplare il sentimento proprio come un ente o una entità, oggettivamente, universalmente. La seconda operazione è quella di considerar questo sentimento oggettivo come possibile a sussistere in un numero indeterminato di individui. Già, se si tratta di un sentimento sostanziale, l' individualità vi è compresa. Se si tratta di sentimenti accidentali, la mente li individua pigliandoli come subietti dialettici. La terza operazione si è quella di pensare espressamente uno di questi sentimenti individuati possibili, o pensarne piú, in un numero determinato. E questo è appunto cosa che fa stupire chi ben considera: che uno spirito intelligente abbia virtú di formare in se stesso un altro ente, un altro principio senziente, un altro spirito. Questa specie d' inesistenza d' uno spirito in un altro è degna della piú profonda riflessione. Non è da credere che nell' immaginazione intellettiva avvenga solamente un fatto simile a quello che avviene nell' immaginazione sensitiva. In questa tutto si riduce a modificazioni del soggetto. Per l' immaginazione intellettiva si forma un soggetto nuovo nel nostro spirito, il quale noi sappiamo che non è il nostro, ma è naturato e foggiato come il nostro. Questo soggetto, non è un segno, non è un' immagine, non è una pura rappresentazione; molto meno è una modificazione nostra. Noi pensiamo propriamente e direttamente un soggetto sostanziale, quale è in sé, lo pensiamo senziente, pensante, ecc. d' un sentimento e d' un pensiero sostanzialmente e totalmente diverso dal nostro, al nostro incomunicabile. Come ciò si spiega? Vedemmo che l' essenza della realità è tutta nell' idea. Ora egli accade, che noi non vediamo nell' idea la realità della sua essenza, se non a misura che ci viene comunicata nel suo ultimo atto, che costituisce propriamente la realità sussistente, e che è il sentimento nostro e tutto ciò che cade in esso. Dato questo sentimento reale, noi tosto ne vediamo l' essenza nell' idea, e distinguiamo quest' essenza dall' atto di lei, il quale la realizza. Noi stimammo opportuno chiamare la realità nella sua essenza, stoffo della realità ; e nel suo ultimo atto, atto della realità . La realità adunque nella sua essenza, esiste nel mondo metafisico, cioè nell' idea. E se si tratta di realità infinita ed assoluta, vi esiste coll' ultimo suo atto, che a lei non può mancare. Ma se si tratta di realità finita e relativa, questa realità relativa vi esiste assolutamente, cioè nel modo assoluto, che è quanto dire come ideale e possibile. La realità dunque, il sentimento, un determinato sentimento, ha l' essenza sua nell' idea, e quest' essenza è proprio lo stoffo della realità. Questo sentimento che acconciamente si dice sentimento7entità, ha per natura sua un' esistenza oggettiva. Quest' oggetto adunque, che è un soggetto possibile, è ciò in che si affissa l' immaginazione intellettiva, quando forma e compone dentro di noi un sentimento sostanziale ch' ella pensa e contempla. Quest' oggetto dell' immaginazione intellettiva è distinto da noi stessi, appunto perché egli ha meramente un' esistenza oggettiva; laddove noi abbiamo un' esistenza soggettiva, e non ci intuiamo come s' intuisce un' essenza, ma di piú ci percepiamo come un soggetto relativamente esistente , e cosí rispetto a noi l' essenza è appropriata e coll' ultimo suo atto particolareggiata. Egli è degno qui di notarsi, che la distinzione antichissima fra materia e forma fu tratta dalla cognizione che noi abbiamo de' corpi. E` la natura stessa che costituí due termini distinti: 1) lo spazio puro illimitato; 2) ciò che empie lo spazio, limitato. Dallo spazio puro, limitato da ciò che lo riempie, procede il concetto di forma , il quale in rispetto a' corpi abbraccia la grandezza e la figura ; ciò che riempie lo spazio somministra il concetto di materia . Per questo si può concepire in qualche modo la materia senza la forma. Sono separate per natura: sono termini diversi del sentimento. Se non fossero termini diversi del sentimento, né pur l' astrazione potrebbe dividerli. Dalle quali cose acquistano nuova luce i difficili concetti di essere in atto, e di essere in potenza. Anche questi antichissimi concetti filosofici nella loro origine furon tratti dalle percezioni e notizie nostre de' corpi. In fatti la materia corporea non potendo esistere se non vestita di una forma, pel sintesismo che ha con questa si disse che quella, presa puramente, era in potenza alla forma. In tal modo, della materia si fece un essere astratto suscettivo di tutte le forme. Questo concetto rimane spiegato tostoché: 1) si riconosce che la materia ha in natura una distinzione dalla sua forma, trovandosi bensí unita con essa nel nostro sentimento, ma venendo a questo sentimento i due elementi (la materia e la forma) da due fonti diversi; 2) e tostoché si riconosce che la materia sintesizza nel sentimento nostro colla forma, onde senza di questa ella rimane un essere astratto e possibile, e perciò appunto universale; ed essere un' entità universale è il medesimo che essere in potenza (1). Anche la forma poi dicesi in potenza alla materia; ma la forma ha natura d' iniziamento dell' essere, laddove la materia ha natura di termine. Quindi il termine si considera in potenza ad unirsi col principio, quando per astrazione da lui si divide; il principio si considera in potenza ad unirsi col termine, quando del pari si divide da lui coll' astrazione. Quando adunque piú entità dipendono l' una dall' altra per un sintesismo unilaterale, cioè tale che trovasi soltanto rispetto alla dipendente e non rispetto a quella da cui dipende, allora questa può essere realizzata senza l' altra, come accade dello spazio puro che può stare senza il corpo; e quella, cioè la dipendente, rimane ideale, cioè un ente in potenza, e però dicesi che è in potenza quella realità prima rispetto alla seconda, cioè che non ripugna alla realizzazione della realità da lei dipendente. Cosí è che lo spazio, e la forma sono in potenza a ricevere la materia, e il corpo. Quando gli antichi metafisici considerarono tutti gli enti come composti di materia e di forma, essi altro non fecero che generalizzare ciò che avevano osservato ne' corpi. Cosí la loro Ontologia non fu che la Fisica generalizzata. Ma il peccato maggiore che commisero gli antichi generalizzando il concetto di materia si fu ch' essi non giustificarono in modo alcuno tale generalizzazione, né provandola con qualche efficace raziocinio, né deducendola per via di osservazione di tutti gli enti cogniti (cosa per altro assai difficile). Or poi, che questo principio non goda della generalità attribuitagli, ma si debba restringere ad alcuni enti, lo si prova facilmente anche coll' esempio dello spazio puro, il quale non ammette alcuna composizione di materia e di forma benché sia contingente, ma è un ente semplicissimo avente natura di termine dell' anima sensitiva. Al presente nelle scritture filosofiche la parola materia ha due significati ben distinti, l' uno speciale e l' altro generale. Nel primo vale « ciò di cui constano i corpi ». Sarebbe a desiderarsi che si chiamasse questa materia corporea . Nel secondo significato piú esteso significa in generale « ciò di cui un ente è composto ». Ma 1) quando si dice « ciò di cui un ente è composto », allora si suppone che l' ente si componga di piú elementi, come appunto accade de' corpi, i quali risultano de' due elementi, cioè da una forma, e da una materia che la empie; questo dimostra che la materia non si può trovare dove l' ente non sia composto né componibile. 2) Di piú, l' espressione « un ente composto di qualche cosa »suppone che la cosa che compone l' ente di cui si tratta sia concepibile prima dell' ente, e che quand' ella entra nella composizione dell' ente, rimanga identicamente quella che era prima. La materia dunque non si può rinvenire se non in quegli enti, che non sussistendo per sé, vengono alla sussistenza per una via concepita dal pensiero, il quale gli rappresenta a se stesso prima come informi, e poscia come formati: non si dà dunque materia , neppure nel senso piú generale della parola, negli enti necessari, ma solo ne' contingenti . I soli contingenti adunque, e fra questi quelli che constano di ciò che si concepisce identico ancor prima che l' ente sia formato (1), hanno materia , presa quella parola nel suo piú generale significato. Il vocabolo termine ha un significato sempre relativo al suo principio; e il vocabolo principio ha un significato sempre relativo al suo termine. Al che non badando potrà sembrare che tali vocaboli in queste nostre metafisiche trattazioni si prendano a significare cose molto diverse; ma pur non è, e solo avviene quello che incontra di tutti i vocaboli che ammettono una latitudine grande e generalità di significazione, la quale rimane sempre la stessa benché si applichino a cose speciali diverse. Di queste cose diverse, a cui s' applicano i vocaboli di principio e di termine, facciamo una breve enumerazione. Prima è a separarsi l' ente assoluto e l' ente relativo. Nell' ente assoluto distinguonsi tre forme primitive da noi chiamate reale, ideale, morale. Lasciando da parte la morale che complicherebbe il discorso, riteniamo la forma reale e la ideale. Queste si possono anche chiamare forma soggettiva, forma oggettiva. Se si considera la relazione di queste due forme fra loro, trovasi che la soggettiva ha natura di principio , e la oggettiva ha natura di termine immediato. Ma qui, nell' ente assoluto, principio e termine non dividono l' ente; perocché nel termine vi ha tutto ciò che nel principio, eccetto l' esser principio; e nell' ente principio vi ha tutto ciò che nel termine, eccetto l' esser termine; di maniera che la distinzione delle forme può dirsi modale e non entitativa. Ma le due forme oggettiva e soggettiva, se si considerano rispetto all' ente relativo, dividono l' ente, cioè fanno che vi abbia un ente soggettivo diverso dall' ente oggettivo. Il che si vede considerando che la forma oggettiva non appartiene in proprio all' ente relativo, perché la forma oggettiva è l' idea spettante all' ordine delle cose eterne e necessarie; onde l' ente relativo non ha come sua propria, che la forma soggettiva e reale. Rimane adunque la forma oggettiva, separata dall' entità relativa, come un' appartenenza dell' essere assoluto; e dall' altra parte rimane la entità relativa, soltanto soggettiva, che riceve e partecipa il nome di ente unicamente perché s' appoggia alla forma dell' ente assoluto, pel quale appoggio viene oggettivata . Se dunque noi cerchiamo in questa relazione dell' entità relativa colla forma oggettiva ed assoluta, qual sia il principio e qual sia il termine; noi troviamo che la forma cioè idea è principio, e l' entità relativa, soggettiva solamente, è termine. Ciò vale per qualsivoglia ente relativo. Ma quale è poi la ragione che divide l' ente relativo in piú enti? L' ente relativo che è termine, considerato in relazione coll' ente assoluto, costituito che sia come ente, e in se stesso considerato, dividesi in principio e termine. Infatti principio e termine nell' ente relativo divide l' ente, cioè fa che l' ente relativo non sia un ente solo, ma vi abbiano piú enti relativi, alcuni de' quali sieno principŒ ed altri termini. Per vedere come ciò sia, egli è uopo distinguere tutti i termini proprŒ dell' ente relativo. Ora primieramente noi troviamo che l' idea è termine dell' essere intellettivo, intelligente; quell' istessa idea che abbiam detto essere suo principio per modo che da lei riceve la denominazione oggettiva di ente. L' idea dunque, la forma oggettiva, partenenza dell' essere assoluto, sarebbe ad un tempo principio e termine dell' essere relativo intelligente. Non sembra qui intervenire contraddizion manifesta? No; perocché ella è principio in un ordine, ed è termine in un altro. L' essere relativo intelligente è anch' egli, come ogni altro essere relativo, nell' ordine oggettivo, e in quant' è nell' ordine oggettivo egli ha per suo principio l' idea, di cui è termine come soggetto divenuto oggetto ossia oggettivato; ma in quant' è in se stesso come semplice soggetto egli è principio, ed ha per suo termine lo stesso oggetto, cioè l' ente oggetto e l' ente oggettivato. Veniamo ora a quei termini che si possono conoscere coll' osservazione ontologica nell' interno degli enti relativi, e che sono anch' essi enti relativi. L' essere relativo intelligente è separato dagli altri enti relativi per quel suo termine che appartiene all' ente assoluto. Questo termine adunque divide e separa l' essere intelligente e relativo tanto da sé, termine, quanto dagli altri enti relativi. Ora in tutti gli enti relativi il termine a cui s' appoggiano nell' ordine soggettivo è uno straniero, e però un altro ente che per ciò appunto dicesi extra7soggettivo. Or fra gli enti extra7soggettivi non è oggetto per sé se non quello che è termine dell' intelligenza, l' idea; gli altri sono meramente extra7soggettivi; e non essendo oggetto forz' è che appartengano ad un altro soggetto che resta occulto, ma che si rileva appunto mediante questo ragionamento dialettico. Una di queste entità è lo spazio, e un' altra è la materia; e queste due entità sono termini del principio sensitivo animale. Or poiché son termini stranieri, ne viene che l' essere principio e termine divida l' ente per modo che l' ente principio, cioè nel caso nostro l' anima sensitiva, sia un ente diverso dallo spazio e dalla materia. E questa è la confutazione ontologica del materialismo, ricavandosi ad evidenza che l' anima sensitiva non è estensione né corpo; ma che all' estensione e al corpo ella è opposta siccome principio al termine straniero. Nell' ordine adunque degli enti relativi il principio e il termine divide l' ente, perché il termine è straniero. La differenza ontologica poi fra lo spazio e la materia è questa, che lo spazio è illimitato e però unico, né può essere realizzato se non tutto intero. La materia poi non può mai essere realizzata tutta. La sua essenza è inesauribile: quindi ella è subietto di quantità, venendo realizzata piú e meno. Vero è che la materia è anch' essa unica nella sua essenza ideale; ma non potendo l' essenza della materia per quanto di lei si realizza rimanere esausta, tutto ciò che di lei si realizza rimane limitato, e queste limitazioni prendono il nome di forma quando limitano la materia da ogni lato, onde la materia è suscettibile di moltiplicazione per la sua forma, cioè per la sua onnilaterale limitazione. Quindi le forme della materia possono variare all' infinito; la materia all' opposto è identica sotto ciascuna. Ma conviene aver sempre presente, che queste forme della materia sono limiti, e però non sono enti positivi. Di che si può trarre una piú compiuta definizione della materia dicendo « che ella è un ente termine del principio sensitivo, ed è soltanto termine, e termine finito in se stesso d' ogni parte »; dove dicendola termine finito in se stesso intendiamo dire che è finita rispetto alla sua essenza; perché la sua essenza abbraccia sempre di piú di ciò che è la materia realizzata, essendo inesauribile. Cosí la significazione della parola materia involge una relazione colla sua forma sia che l' abbia già in realtà, o che la consideri come atta ad averla. Le quali dichiarazioni premesse, noi potremo tentare una classificazione analitica di tutti gli enti, e per analitica intendo una classificazione fondata sui loro elementi, sui caratteri pe' quali vengono dalla mente concepiti. Ora la materia essendo un concetto relativo alla forma , conviene che noi favelliamo anche di questa. Se si comincia dal considerare accuratamente ciò che volgarmente si dice la forma del corpo, vedesi: 1) che la forma contiene due elementi, lo spazio ed i suoi limiti; 2) che il primo elemento, cioè lo spazio, che è ciò che la forma ha di positivo, viene all' uomo da una fonte diversa da quella, onde gli viene la materia corporea ed i limiti della forma; 3) che i limiti dello spazio, i quali lo determinano ad una forma, non sono suoi propri, ma appartengono alla materia limitata secondo l' arbitrio del Creatore; ovvero all' immaginazione che ha virtú di rappresentarceli; 4) che il corpo non esiste senza una forma, non già perché egli sia spazio, ma perché sintesizza collo spazio. Quindi l' atto primo pel quale il corpo esiste, e a cui viene imposta la denominazione di corpo, può dirsi la forma acquistata dalla materia colla sua estensione nello spazio e co' suoi limiti. Di qui viene che il corpo sia la materia formata. Ma non si potrebbe egli anche definire il corpo la forma materiata? No; e si intenderà considerando che lo spazio il quale è l' elemento positivo della forma, non è già quello che diventa corpo (ente termine) coll' aggiunta della materia; perocché per la sua semplicità e indivisibilità egli non soffre dalla materia alcuna modificazione o perfezionamento, né riceve limiti. Non diviene dunque lo spazio corpo, né soggetto del corpo; ma presta unicamente alla materia il luogo ove ella sia. All' incontro la materia estendendosi nello spazio con dei limiti suoi propri, viene da questi limiti definita. Quindi si considera la materia come il subietto dei corpi, e la forma come un cotal predicato loro essenziale. Se ora prendiamo la parola materia, nel suo significato piú generale, per ciò di cui un ente si compone; ogni qualvolta noi in un ente possiamo pensare una realità (qualche cosa che cada nel sentimento), ma priva di quei limiti di cui abbia bisogno per sussistere, senza quell' ultimo atto che ne rende possibile la sussistenza, noi chiameremo quella realità materia , e quell' ultimo atto che perfeziona l' ente nel suo concetto , lo chiameremo forma , nel qual senso la forma si può definire: « il complesso di quelle determinazioni che individuano l' ente », ossia, per le quali l' ente è un individuo. Quando adunque si dice forma si dice bensí l' ultimo atto che perfeziona l' entità rendendola ente compiuto, ma non si creda che per un tale atto s' intenda la sussistenza , perocché, trattasi dell' ultimo atto che perfeziona l' ente nel suo concetto, sussista egli o no; non trattasi di quell' ultimo atto ontologico che dicesi sussistenza , ossia realizzazione dell' ente ideale. Onde altro è la sussistenza dell' ente, altro la forma , che non fa se non rendere possibile la sussistenza della materia. Si vede, che il concetto di forma vuol avere un' unità molteplice ed organica, perocché la forma racchiude tutte le determinazioni che dee avere la materia acciocché possa costituire un ente reale. Si può dunque definire la forma anche in questo modo: « il complesso delle determinazioni di cui abbisogna la materia perché somministri il concetto di un ente realizzabile ». Ora, se si suppone che il concetto dell' ente di cui si tratta sia dato nella mente, si può altresí coll' analisi distinguere la sua materia, e tutte le determinazioni che la costituiscono un ente. Il concetto dell' ente determinato precede dunque nell' ordine logico i concetti analitici di materia e di forma. Ma l' ente stesso come viene egli dato? La soluzione di questa questione giace nascosta nell' abisso dell' Essere assoluto : l' essenza dell' essere ci scorge talora a conoscere quali enti (in potenza) sieno impossibili, e son quelli che involgono contraddizione; ma nessun mortale può enumerar e conoscere tutti quelli che non l' involgono: è l' ordine essenziale dell' essere a noi nascosto nella sua origine, che determina e risolve un tanto problema. Tostoché è dato l' ente reale composto di materia e di forma, quell' ente con questi due suoi componenti si disegna nell' ideale, nel quale la mente vede una materia ed una forma possibile. Ma vi ha grandissima differenza fra il concetto di materia (materia possibile), e il concetto di forma (forma possibile). Primieramente la materia non si può pensare come possibile se prima non la si è percepita realmente sussistente; perocché ella risponde a quello che abbiamo chiamato lo stoffo dell' ente; lo stoffo non è altro se non la materia, come sta nella nostra percezione. In secondo luogo la materia è una, e però il concetto della materia non fa conoscere che una cosa sola, e questa cosa che fa conoscere non è un ente completo, e piuttosto, come lo chiamavano i Greci, gli conviene il nome di non ente. Onde una intelligenza col solo concetto di materia non conosce ancora alcun ente; e il concetto facendo conoscere solo l' elemento di un ente, e questo non ancora moltiplicabile, perché la materia non si moltiplica che per la forma, manca di ogni universalità, e quindi tale cognizione soddisfa cosí poco l' intelligenza, che con essa sola a lei pare di non aver incominciato ancora a conoscere; perocché la luce che soddisfa all' intelligenza umana è propriamente quell' idea, quei concetti, pei quali si conosce tutti gli enti possibili di una specie, d' un genere, o di un modo qualsiasi. Or questo è appunto l' officio che fanno i concetti delle forme. Primieramente è da avvertire che i concetti delle forme suppongono già il concetto di materia: perocché la forma non essendo che il perfezionamento della materia, questa rimane sempre presupposta. In secondo luogo, appunto perché la forma perfeziona la materia dandole quegli atti che la costituiscono ente, perciò anche la limita; e cosí la divide e la moltiplica. Onde questa materia che è infinita può ricevere dalla forma quanti confini si vogliano senza che perciò venga esaurita giammai. Di che accade che una forma medesima possa riprodursi e realizzarsi in un infinito numero di individui (1). Cosí accade che il concetto di una forma sia per se stesso universale. E qui si scorge la ragione, perché gli antichi, gli Aristotelici e gli Scolastici specialmente, confusero sovente le idee colle forme (2). Ma il vero si è, che le cose s' intendono non colle loro forme semplicemente, ma colle idee delle forme, cioè colle forme nel loro modo ideale di essere. Questa differenza è importantissima, perocché in primo luogo se ne trae che il concetto della forma non fa conoscere se non quegli enti che sono composti di materia e di forma. Oltre ciò apparisce che le forme in primo luogo appartengono alla realità, in maniera che se si prescinde da ogni realità, non si può concepire né pure nell' idealità alcuna forma, se non creandosi un' illusione coll' immaginazione. Insomma ogni forma è una limitazione, e niuna limitazione cade nell' essere ideale puro; le forme ideali adunque nascono dalla relazione categorica fra il reale e l' ideale, in quanto questo si usa dalla mente a conoscere quello, onde diviene come suo rappresentante. Dalle quali cose tutte si raccoglie: 1) Che l' essere possibili infiniti individui reali d' una stessa specie piena nasce dalla congiunzione della materia colla forma a cagione dell' indeterminazione e illimitazione di quella, e che perciò questo deve aver luogo in tutti gli enti composti di materia e di forma. 2) Che la forma non è il lume conoscibile per sé, ma questo lume è unicamente l' idea; la forma quindi è anch' ella prima reale e poi ideale , risultando il concetto ideale disegnato nell' idea dal confronto colla realità. 3) Finalmente che non si può con proprietà attribuire forma agli enti semplici, che non hanno materia e non sono ordinati ad informare la materia: e qualora si voglia chiamar forme le intelligenze separate, conviene mutare il significato della parola, cioè prescindere dalla relazione della forma colla materia, e pigliare la forma in senso di primo atto o simigliante. Distinti gli enti nelle due classi di principŒ e di termini, se ne può trarre una verità importantissima e fecondissima nell' Ontologia, che « ogni attività dee appartenere unicamente all' ente principio, ed all' ente termine non può appartenere che la facoltà di essere ricevuto e di patire ». Perocché egli è manifesto che il subietto dell' azione è il principio di essa, e perciò appunto si chiama principio perché indi incomincia e si propaga l' azione. All' incontro nel termine l' azione finisce e non incomincia, e perciò ivi non può avervi attività, ma anzi il fine dell' attività. Si dirà che ogni ente per esser tale dee aver qualche azione, almeno l' atto primo che lo fa esser ente, secondo l' assioma degli antichi: « Qui nihil agit, esse omnino non videtur (1) ». Ma è da considerarsi che il termine non sarebbe ente se non fosse unito al principio, e da questa unione di lui col principio riceve l' atto primo pel quale ha condizione di ente; onde anche quest' atto primo non è suo proprio, ma appartiene al principio da cui dipende. Onde l' ente che è soltanto termine dipende dal principio, dal quale ogni atto egli riceve. Ritornando ora al principio, che dee dirigerci nella investigazione dell' ente reale, e che è perciò il principio rettore di tutto questo libro, noi dicemmo che « lo stoffo dell' ente reale non si conosce da noi che per via di percezione » [...OMISSIS...] . Dopo di ciò noi favellammo della veracità della percezione nel capitolo dove esponemmo la teoria della rappresentazione [...OMISSIS...] . Finalmente noi trattammo dell' immaginazione intellettiva , la quale ci rende presente un ente reale benché attualmente nol percepiamo. Egli è necessario indagare qui qual veracità si abbia l' immaginazione intellettiva; e ciò pel pericolo che nella dottrina dell' ente reale si intromettano delle illusioni non conformi alla verità. L' immaginazione intellettiva , come abbiamo veduto, è quella facoltà per la quale, dato un sentimento, la mente pensa un ente non agente attualmente nel senso, e lo pensa di quello stoffo che è somministrato dal sentimento attuale. Ora da questa facoltà dell' immaginazione intellettiva noi abbiamo tenuta distinta l' altra dell' affermazione . Imperocché altro è immaginare un ente fornito del suo stoffo, compiuto di tutto punto, che è appunto la specie piena attuata dinnanzi al pensiero, altro è affermare e persuadersi che quell' ente sussiste. Quell' ente semplicemente immaginato è ancora un ideale, un concetto; ché noi abbiamo pure veduto che anche lo stoffo di un ente è nelle due forme categoriche, la ideale e la reale [...OMISSIS...] : quest' ente all' incontro affermato come sussistente è reale, o supposto come tale (ente ipotetico), o tale creduto (ente illusorio). Da ciò si deduce che l' immaginazione intellettiva è verace; perocché non è funzione di lei affermare che quell' ente sta presente alla percezione; ma questo, se ha luogo, è solamente errore del giudizio (dell' affermazione), che prende l' immaginato per un percepito. La semplice intuizione immaginaria è verace, posto che l' ente immaginato non involga contraddizione. Poiché vi hanno due maniere di vero, come vi hanno due maniere di cognizione: le cognizioni intuitive, e le cognizioni di predicazione. Il vero, ossia la veracità delle cognizioni intuitive, consiste unicamente nell' assenza di contraddizione, poiché, non avendo contraddizione in se stesse, esse appartengono all' essere possibile, e l' esser possibile o ideale è la verità (1). Il vero poi delle cognizioni di predicazione consiste in questo, che ciò che si predica sia nel subietto di cui si predica. Ora l' immaginazione intellettiva appartiene all' intuizione. Nell' oggetto dunque dell' immaginazione intellettiva non vi ha nulla di potenziale; tutto è attuale. Ma noi abbiamo veduto che la contraddizione non si nasconde se non nei concetti potenziali. Dunque l' immaginazione intellettiva non può essere che verace; benché in appresso possa cadere l' errore in quella affermazione colla quale si pronuncia che l' oggetto immaginato è sussistente. Rimettendoci or dunque in via, il primo e originario fonte di ogni nostra cognizione del reale si è la percezione intellettiva, che è quanto dire: « la apprensione del sentimento, o di quanto cade nel sentimento ». Di questa rimane la memoria e poi ella si spezza nei tre elementi dell' affermazione, dell' idea, e del sentimento; e lasciando il primo da parte, gli altri due costituiscono il concetto specifico7pieno. Succede l' immaginazione intellettiva, che richiama in atto questo concetto dopoché è cessato di esser presente all' attenzione. Quindi all' opera dell' immaginazione intellettiva si associa l' astrazione. Vedesi adunque che tutto questo edificio di pensieri intorno all' ente reale ha per sua base e materia prima la percezione; e che perciò se noi osserveremo ciò che ci dà in origine la percezione dei reali, avremo lo sgranellato, per usare una frase del Romagnosi, di tutte le nostre cognizioni intorno al reale; e le classi primitive, per cosí dire, dei reali a noi conosciuti. Queste sono le seguenti: 1) Il sentimento di noi stessi, il quale è la prima sostanza reale, e come conosciuto a se stesso è un ente principio . 2) Il termine corporeo che ha l' anima nostra, termine a cui l' anima è unita per natura, per la percezione fondamentale. 3) La sostanza corporea extra7soggettiva. 4) Finalmente io sono persuaso che anche le anime altrui, si dieno a percepire alla nostra, non però nude, ma insieme co' corpi che esse informano, onde si generano gli affetti dell' anime fra loro. 5) Nell' ordine soprannaturale poi vi ha indubitatamente la percezione di Dio, la quale è fondamento alla dottrina che deve esporsi nell' Antropologia soprannaturale. Le nostre cognizioni intorno all' ente reale possono adunque ripartirsi in due grandi classi, le immediate e le mediate . Le cognizioni immediate sono quelle che ci vengono fornite dalla apprensione immediata dell' ente, cioè dalla percezione , e dall' immaginazione intellettiva che n' è la universalizzazione. Le cognizioni mediate procedono dal ragionamento che si fa sulle immediate, il quale è duplice, analitico e dialettico trascendentale . Fin qui noi abbiamo applicato all' essere reale immediatamente conosciuto il ragionamento analitico. A questo ragionamento appartien la notizia, che l' ente reale risulta quasi da due suoi primi organi, dal reale e dall' ente, cioè dalle due prime forme categoriche: cosí pure, che alcuni enti reali si compongono di materia e di forma. Finalmente anche quelli che non si compongono di materia e di forma, se sono enti finiti, si compongono di positivo e di negativo, cioè di entità reale e di limiti di questa realità «( Teodicea ) ». Vuol notarsi accuratamente, che i limiti degli enti si partono in due classi: altri sono accidentali , i quali si restringono o si dilatano senza che l' ente perda la sua identità; altri sono necessari ; e questi ultimi costituiscono la natura dell' ente e si dicono ontologici. Ma trattandosi di enti completi, cioè di quelli che risultano da un principio e da un termine, le limitazioni ontologiche si suddividono in due altre classi: perocché o limitano il principio, o limitano il termine. Ora, se il termine fosse mutato intieramente, l' identità dell' ente andrebbe sicuramente a perdersi. Ma se il termine rimane della stessa natura, l' aggiungersi un altro termine di tutt' altra natura adduce certamente un cangiamento sostanziale nell' ente; ma non per questo rimane perduta l' identità dell' ente. E questo è ciò che accade nell' ordine soprannaturale. All' incontro quelle limitazioni ontologiche che limitano immediatamente il principio degli enti, li costituiscono altresí per quello che sono, e non si possono alterare se ad un tempo non si smarrisca anche la loro identità. Queste limitazioni ontologiche costituenti , sono state prese alcune volte da' filosofi per la forma degli enti, e furon quelle che ingannarono l' Hegel, e il condussero a far venire il positivo stesso dal negativo. Per altro esse hanno in sé qualche cosa di oltremodo mirabile e misterioso; giacché per esse avviene che un ente limitato non può essere un altro. Acciocché si possa intendere come un ente limitato escluda da sé tutti gli altri, conviene supporre che l' essenza loro dipenda dalla stessa loro limitazione: la limitazione dunque ontologica7costituente entra nella essenza dell' ente, è un elemento negativo, ma che influisce sul positivo, lo determina e propriamente il forma. Acciocché la cosa si possa intendere, conviene ricorrere alla natura dell' ente relativo . Questo è costituito dalla relazione, è ente relativamente a sé; e solo relativamente ad un sé, a un principio di sentire e d' intendere, l' ente può essere limitato. La esclusione dunque nasce dalla relatività dell' ente . E che la cosa sia cosí, si può convincersi maggiormente ripensando a ciò che nasce nella propria coscienza. Ciò che a me non si riferisce, non esiste per me: egli è fuori di me. Cosí questo me è un principio relativo, che limita l' essere; e ne esclude da sé la massima parte. Ma il principio del sentimento non esiste che nel sentimento, senza di questo è nulla. Non vi ha dunque una divisione possibile fra il principio dell' ente e l' ente, ma il principio è nell' ente come un elemento nel tutto. Dunque l' ente di cui si tratta ha una relatività in se stesso: l' intima sua costituzione è dunque quella che lo divide dal mare dell' essere, per cosí dire, lo rende esclusivo, limitato, incomunicabile. Questo fatto è dato dall' esperienza, e non involge contraddizione; né pregiudica all' unità di tutto l' essere; perché quest' unità appartiene all' essere assoluto, e la limitazione è relativa, e appartiene all' essere relativo. Or poi quanti e quali possano essere enti sussistenti limitati, condizionati, relativi; questo è quello che rimane occulto negli abissi dell' essere assoluto, al cui fondo lo sguardo umano non può penetrare. Tornando dunque al ragionamento analitico applicato agli enti reali, a lui è dovuta ancora quella classificazione degli enti, che abbiamo esposto nel capitolo XXVIII di questo libro. Il ragionamento analitico trova ciò che è nell' ente reale conosciuto immediatamente; il ragionamento dialettico trova ciò che deve essere in esso o fuori di esso, acciocché egli sia un ente completo. Il ragionamento analitico non fa che riconoscere parte a parte ciò che è dato dalla percezione e dalla immaginazione intellettiva, senza aggiunger nulla; il ragionamento dialettico considera ciò che è dato dalla percezione e dell' immaginazione intellettiva come un condizionato, e ne cerca le condizioni. Il ragionamento analitico non applica piú l' idea dell' essere, e si contenta di averla come data nel percepito e nell' immaginato; ma il ragionamento dialettico tiene dinanzi l' essere ideale come un esemplare a cui riscontrare il percepito e l' immaginato, e conosce ciò che gli manchi per adempire la compiuta nozione di ente. Il pensiero dialettico, tenendo fissi gli sguardi nella natura dell' essere come in esemplare e norma di giudizi intorno all' ente, domanda che tutti questi caratteri si avverino e dichiara che dove non si avverino, ivi non è un ente completo: dove ne scorge alcuni, conchiude che vi debbano indubitatamente essere anche gli altri, facendo questo sillogismo: « Alcuni caratteri, elementi, organi o condizioni dell' ente sono: la percezione me ne assicura; Ma all' ente non può mancare nessuno de' suoi caratteri, elementi, organi, e condizioni essenziali, né questi possono andar divisi; Dunque anche tutti quei caratteri, elementi, organi, e condizioni essenziali, che non sono dati dalla percezione, debbono esservi »(1). Cosí il ragionamento dialettico colla guida dell' essere intuíto esce dai confini della percezione e dell' immaginazione intellettiva; e perviene all' invenzione di nuovi enti, e di nuove verità che non cadono nell' esperienza. Or qual' è l' ufficio del pensare dialettico trascendentale? Non altro se non ridurre ad un pensiero attuale ciò che prima era nel pensiero virtuale e potenziale. L' elemento virtuale adunque, che è nella percezione e nell' immaginazione intellettiva, è il germe che si sviluppa col ragionamento dialettico, per un continuo novello confronto fra ciò che si percepisce, e l' essere ideale che nella percezione stessa si comprende. Uno dei piú importanti principŒ, di cui fa uso il ragionamento dialettico trascendentale, è quello che nasce dal quarto carattere ontologico, che l' ente dee essere un atto primo , acciocché sia concepibile, sia possibile. Di qui il principio che, ogni qualvolta l' atto primo è nascosto al pensiero, si dee conchiudere indubitatamente che egli tuttavia non manca, e il pensiero virtuale tacitamente lo suppone, il pensiero poi dialettico ed attuale è autorizzato ad affermarlo. Questo assioma trae seco amplissime conseguenze, la prima delle quali si è che « ogni qualvolta ciò che noi pensiamo è un ente termine, riesce ontologicamente necessario che esista un principio a lui corrispondente, che lo completi ». L' essere ideale ha ragione di principio rispetto a quella esistenza oggettiva che le cose hanno nella mente, è il principio oggettivo , ma non è un principio soggettivo, e noi parliamo ora di questo. Considerando l' essere ideale in rispetto all' ente soggettivo , egli non ha ragione di principio, ma di termine medio , di maniera che nell' ordine ontologico egli ha avanti di sé per suo principio il soggetto. Ma se noi consideriamo l' essere ideale rispetto al soggetto uomo, noi troviamo ch' egli ritiene pure la nozione di termine medio; e si riscontra una singolare analogia fra questo termine medio nel soggetto intelligente, e lo spazio che è pure termine medio nel soggetto senziente. Del rimanente, l' essere ideale nell' uomo è anch' egli un termine straniero. Il principio intelligente riceve dall' essere ideale l' oggetto primo che lo rende intelligente, egli riceve e non dà; dunque l' ente oggetto non può essere produzione del principio intelligente umano, ma egli esige l' esistenza d' un' altra attività, d' un altro principio che rimane all' uomo occulto. Ma qual principio suo proprio può avere l' ente oggetto? Un soggetto, come abbiam detto. Dunque l' ente oggetto suppone necessariamente, e virtualmente contiene l' esistenza d' un soggetto suo proprio, il quale sia principio soggettivo del termine medio oggettivo. Ma il principio dee essere adeguato al suo termine proprio, col quale egli costituisce un solo essere. Ora l' essere ideale è universale, infinito. Dunque egli suppone un soggetto infinito per suo principio. Questa è la dimostrazione dell' esistenza di Dio a priori , che si presenta in tante guise diverse, ma che è sempre la stessa nel suo fondo (1). Il ragionamento dialettico trascendentale adunque dimostra l' esistenza di enti che non cadono nella nostra esperienza, tanto partendo da quegli enti termini che sono dati nella costituzione del nostro sentimento, quanto partendo da quell' ente termine7medio, che è dato nella costituzione della nostra intelligenza. Ora possiamo sciogliere la questione « se l' essere reale si riduca sempre ad un sentimento ». In primo luogo, se noi poniam mente all' esperienza, questa non ci dà altri esseri reali se non quelli che hanno natura di termine, ovvero di principio. Ora i principŒ sono i soggetti, tutti dotati di sentimento. I termini reali poi sono i sentiti, i quali si riferiscono al principio senziente, e però sono nel sentimento. Ma se noi applichiamo a questi dati dell' esperienza il ragionamento analitico, troviamo: 1) che la parola sentimento significa propriamente l' atto ultimato del principio senziente; 2) che il termine sentito o è proprio, o straniero. Se è proprio, egli è lo stesso principio senziente come sentito. Cosí nel sentimento espresso con il vocabolo Io , il senziente e il sentito s' identificano; 3) ma se il termine è straniero, egli ha bensí un rapporto essenziale col principio straniero col quale è unito, ma non gli appartiene l' atto proprio del principio straniero, e però neppure il sentimento. Quindi egli si rappresenta al veder nostro semplicemente come materia del sentimento, materia bensí sentita, ma che potrebbe anche essere non sentita. Cosí il pensar comune è giustificato; ed egli non deroga menomamente alle verità filosofiche da noi esposte. Fra queste verità vi ha quella che ogni termine straniero addimanda un principio suo proprio, che è al di là della nostra esperienza. Ora il sentimento di tale principio proprio appartiene a quella entità che è a noi termine straniero, e però anche questa rientra nel sentimento. Ma quella entità che è a noi termine straniero non è già sentita dal suo principio proprio come è sentita da noi, poiché da noi è sentita come straniera e priva al tutto di principio proprio. Quindi nel termine del nostro sentire si debbono distinguere tre cose. Esso termine attualmente sentito; la materia che si suppone non sentita, e questa è un' entità astratta che si forma rimovendo dal sentito la qualità di sentito, dopo di che ci rimane un quid incognito, di cui altro non si conosce se non l' attitudine ad esser sentito; e la stessa materia sentita non da noi, ma dal suo principio proprio con un sentimento diverso dal proprio. Onde quella materia che rimane in mezzo ai due sentimenti si considera come materia identica dell' uno e dell' altro. Ma propriamente parlando ella non esiste separata dai due senzienti, ma è un cotal figmento della maniera nostra limitata di concepire; e quindi neppure ella è identica ai due sentimenti. Il concetto adunque di questa materia non ci fa conoscere che cosa ella sia in se stessa, ma solo ci fa conoscere avervi un' entità reale, la quale trovasi in un contatto di sensilità col nostro principio senziente, dal qual contatto esce il nostro sentito. Ora, questo concetto negativo è il concetto di una realità pura ed astratta , che è qualche cosa di anteriore al sentimento, e però appunto dicesi pura; 4) troviamo adunque che in ogni sentimento, come pure in ogni sentito, vi ha un' attività. Ora l' astrazione suol separare anche l' attività del sentimento dal sentimento; e a quest' attività suol pure dare il nome di realità pura , cioè separata dal sentimento che la completa. Ma anche qui non dobbiamo ingannarci prendendo i prodotti dell' astrazione quasi per sé essenti, come enti reali. Perocché se si parla del sentimento, lasciati a parte i termini stranieri, l' attività è sentimento ella stessa. Vero è che l' effetto di questa attività del sentimento si manifesta anche fuori del sentimento, modificando la materia del medesimo. E poiché quest' azione noi poniamo che appartenga ad un principio senziente che non viene raggiunto dalla nostra esperienza, quindi il concetto di azioni reciproche fra principŒ diversi che immutano reciprocamente i sentimenti proprŒ nei loro rapporti attivi. Il qual fatto è importantissimo, e non cosí facile a spiegare. Perocché, che un sentimento sia attivo entro la propria sfera s' intende, ma che egli produca un effetto fuori di questa, egli è un nodo difficile a sciorre. Tanto piú che l' effetto da esso prodotto in un altro sentimento non è da lui sentito, almeno nello stesso modo come lo sente chi riceve l' effetto. E pure il fatto de' termini stranieri dimostra, che il principio proprio di questi, comeché sia, influisce nel principio straniero in modo da somministrargli il termine. Se noi analizziamo questo fatto, dalla descrizione di un fatto cosí meraviglioso, qual' è l' azione e la congiunzione attiva e passiva dei principŒ sensitivi, si possono cavare le seguenti conclusioni. Se si tratta di quella congiunzione attiva e passiva per la quale gli enti relativi si costituiscono, convien dire ch' ella appartiene alla loro natura. E nel vero ella è appunto quel sintesismo, pel quale sussistono e reciprocamente si sostengono, onde gli enti non si possono concepire senza questa loro congiunzione essenziale, senza la quale perirebbero. La ragione pertanto di questa congiunzione dee cercarsi unicamente nell' autore della loro natura. Infatti non si potrebbe in essi trovare ragione che spiegasse tale congiunzione, essendo ciascuno un ente per sé. Or questo è nuovo argomento, col quale il ragionamento dialettico trova la necessità di una terza potenza che, quasi disposando due enti fra loro, li costituisca entrambi. Coll' astrazione si separa quell' azione di uno che è passione dell' altro, come fosse cosa diversa dai sentimenti stessi; ma propriamente è da dire che entra ella stessa in entrambi i sentimenti, come termine in chi lo fa, e principio ma principio straniero in chi la riceve. E cosí s' avvera che l' ente reale non sia altro che sentimento, ma sentimento suscettivo d' azione e di passione. Di che non di meno avviene che si formino colla mente due astratti, separandosi il sentimento dall' azione , e separandosi l' azione dal sentimento ; la quale separazione non esiste in natura, ma solo nell' ontologia scientifica in quant' è frutto dell' astrazione. Di che si passa facilmente all' errore di credere che si dia azione e passione senza sentimento, o che si dia sentimento senza azione o passione; laddove nella natura queste cose non ne formano che una, un ente solo, il quale sentendo agisce o patisce, ed agendo o patendo sente. Del resto, non deve essere leggermente trapassata l' osservazione che noi facevamo di sopra, che l' azione e passione di due principŒ senzienti suppone un terzo ente, o certo una ragione fuori di essi. Un terzo ente che ad un tempo stesso che fa esistere i due principŒ, li mette ancora fra loro in comunicazione: l' uno non può trovar certamente l' altro perché non lo sente; e perciò appunto è necessario che una terza forza sia quella che li congiunge; e poiché il congiungerli è lo stesso che porli in essere, perciò questa terza forza è quella che li pone in essere, che dà loro l' esistenza. Veduto come si distingue il concetto di azione dal concetto di sentimento, dobbiamo vedere come si distingua il concetto di essere dal sentimento medesimo. Il concetto di essere è il medesimo che il concetto di primo atto; e il primo atto è assoluto o relativo. Il primo atto assoluto è quello che è primo assolutamente cioè universalmente, di maniera che non se ne possa pensare un altro avanti di lui. Il primo atto relativo è quello che è primo nella sfera di un sentimento limitato, di limitazione ontologica, cioè tale che lo costituisce separandolo da ogni altro. Or si domanda se il concetto di atto primo, o sia di essere, diversifichi dal concetto di sentimento, di maniera che un ente possa essere non sentimento. Rispondesi, che in quanto all' essere assoluto, il concetto di essere o di atto primo è sotto ogni forma sentimento, ma non nello stesso modo, poiché nella forma reale è sentimento7principio, nella forma ideale è sentimento termine7medio, e nella forma morale è sentimento termine7ultimo. Rispetto poi agli esseri relativi, essendoci data in natura un' azione che non è sentimento rispetto a noi, perché il sentimento suo proprio ci rimane incomunicato e nascosto; perciò egli deve accadere e accade, che movendo da tali azioni l' intendimento nostro si formi il concetto di esseri privi affatto di sentimento. Perocché data a noi l' azione non sensitiva, l' intendimento nostro considera necessariamente o lei stessa come prima azione, primo atto, e però come ente insensitivo; ovvero ascende da essa a trovare un' azione prima, un primo atto che sia l' ente a cui ella appartiene, per quella legge ontologica per la quale la mente è sospinta sempre a pensare il primo atto, cioè l' ente come oggetto necessario del pensiero «( Psicologia , P. II, l. IV, c. VII) ». E cosí è che il pensiero comune giustamente concepisce una materia insensitiva, e in generale degli enti che non sono sentimento. Ma l' ontologo mediante le meditazioni che abbiamo esposte viene ad accorgersi che gli esseri insensitivi sono propriamente entità risultanti e relative di secondo grado, non veri enti primitivi relativi di primo grado. Or qui ci si offre una difficoltà. Se l' ente deve esser uno, come accade egli, che risulti sovente da un principio e da un termine? Si ponga attenzione che il solo termine non può giammai costituire un ente, benché possa costituire una sostanza relativa all' appercezione umana; d' altra parte il principio reale ha natura di soggetto, e però di ente soggettivo che è infine quanto dire di ente reale. Ora ogni principio reale è soggettivo e semplice ed uno: quindi la semplicità e l' unità dell' ente reale risiede nella semplicità e unità del principio reale soggettivo (1). Ma si dirà: il termine adunque non entra egli per nulla nella composizione dell' ente? - Si distingue il termine straniero , e il termine proprio dell' ente . Il termine straniero non è piú che un eccitatore e anche suscitatore del principio; ma tali termini non si confondono punto col principio, questo rimane l' unico soggetto suscitato: e il soggetto, che è uno e incomunicabile, è il solo ente reale. La moltiplicità dunque rimane fuori dell' ente, rimane nel termine che non è ente; l' unità e la semplicità è nel principio, che propriamente è ente. Il termine proprio all' incontro non è che l' ultimo atto dell' ente, e, per cosí dire, la punta dell' atto. Noi non abbiamo esperienza di alcun ente, il cui ultimo atto non abbia bisogno di un termine straniero; questa è la prova ontologica, che tutto l' universo a noi percettibile non è per sé, ma per altro. Tutti gli enti a noi cogniti finiscono adunque col loro atto in termini che non sono dessi. Ma non ripugna il pensare un ente, il quale avesse tali termini, i quali fossero desso. E questo è quello che indubitatamente avviene nell' essere Divino. Imperocché egli deve contenere i tre modi categorici, essere ad un tempo reale, ideale, e morale. Per altro egli è evidente che l' ente che ha un termine suo proprio, sarebbe semplice ed uno, appunto per la perfetta identità che passerebbe fra l' ente principio e l' ente termine; la distinzione sarebbe ne' modi di essere, e non nell' essere stesso; la divisione si farebbe nell' astrazione, ma non nello stesso ente. A rigore: non è ente veramente completo se non l' assoluto. Tuttavia si dicono relativamente completi quelli enti, che sono suscettivi di coscienza, i quali sono in se stessi e virtualmente a se stessi; onde relativamente a sé sono completi; perché essi non sentono il bisogno, per essere, che di se stessi. Ma oltre questi enti ve n' hanno di quelli che sono anche relativamente incompleti, e sono quelli, i quali non sono in sé, né a sé, non hanno veruna relazione seco stessi, perché non hanno sentimento proprio, e quindi non possono avere un sé , ma la loro esistenza è interamente relativa ai primi dotati di un sentimento proprio intellettivo che sono in sé. Tali sono appunto lo spazio, la materia, i corpi. Gli enti relativi dunque si dividono in due grandi classi: 1) in quelli che hanno un' esistenza relativa a sé; 2) in quelli che hanno solamente un' esistenza relativa ad altri, cioè a que' primi. Vero si è che l' uomo ha una naturale inclinazione d' attribuire alle cose diverse da sé un' esistenza simile alla sua subiettiva (1). Egli ha ben anco di ciò fare una cotale necessità dialettica, perocché non può concepire un ente, senza attribuirgli un' esistenza subiettiva. Ma questa necessità è appunto soltanto dialettica , cioè è una necessità che egli ha di cosí supporre ogni ente qual condizione necessaria a concepirlo (2). Ma queste necessità dialettiche , sono mere supposizioni , mere aggiunte provvisorie per arrivare a concepire gli enti; le quali aggiunte l' uomo stesso le abbandona tostoché si pone a ragionare sugli enti già concepiti. La prima classe adunque di enti relativi ha non solo un' esistenza oggettiva , ma ben anco un' esistenza soggettiva ; la seconda classe ha un' esistenza oggettiva , ma non soggettiva . La prima classe contiene gli enti primitivi , nell' ordine della relatività, la seconda classe contiene gli enti risultanti dalla connessione, e dal sintesismo degli enti primitivi fra loro. L' ente completo assolutamente ha un' esistenza oggettiva sua propria, laddove l' ente completo relativamente ha un' esistenza oggettiva partecipata. Sotto il qual aspetto, gli enti si possono distribuire in tre classi, che sono: 1) Ente completo assoluto , il quale ha un' esistenza oggettiva propria , e cosí parimenti una propria esistenza soggettiva ; 2) Ente completo relativo , il quale ha un' esistenza oggettiva partecipata e non propria, ed un' esistenza soggettiva propria ; 3) Ente incompleto relativo , il quale ha un' esistenza oggettiva partecipata , niuna esistenza soggettiva. Ma torniamo al carattere dell' unità , che deve aver l' ente per legge ontologica. Questa investigazione conduce a vedere che l' unità ontologica è tale, che non esclude ogni moltiplicità, e quindi a conciliare la moltiplicità coll' unità ontologica. In fatti, la prima maniera di unità, è quella che essendo semplicissima, esclude ogni moltiplicità. Or questa specie di unità non si riscontra negli enti completi , né tampoco negl' incompleti ; ma tutt' al piú negli astratti, che non sono propriamente enti, ma piuttosto entità divise ipoteticamente col pensiero dal resto che hanno congiunto. Questa maniera di unità astratta , o di uno astratto , si può chiamare acconciamente elementare , perocché non può rappresentare che un elemento , non mai un ente. Ad essa si può ridurre 1) l' unità di numero, l' uno ; 2) l' unità di punto matematico ; 3) l' unità dell' estensione illimitata ; 4) l' unità dei singoli atti, delle singole potenze, dei singoli abiti , ecc.; 5) l' unità della qualità ; 6) l' unità della relazione , e dell' abitudine ; 7) l' unità dell' essere ideale . Questa unità elementare non è l' unità ontologica . Conviene adunque che noi cerchiamo un' altra maniera d' unità, la quale colla moltiplicità si compone; e per agevolarcene la ricerca, investighiamo quali sieno le pluralità che non distruggono l' ontologica unità. Noi possiamo enumerare le seguenti: I) L' essere assoluto è nei tre modi categorici: in ciascuno è identico e intero - quindi la pluralità dei modi categorici, in cui l' ente è identico, non toglie la sua unità. II) Gli esseri relativi completi , considerati nella loro esistenza soggettiva hanno dei termini stranieri; ma essi appunto perché stranieri, non entrano in composizione con quell' ente che in essi termina. Questi enti dunque, per avere tali termini, non perdono la loro unità ontologica. III) In quanto all' esistenza oggettiva degli enti, essa giace nell' essere ideale: ora questo non toglie l' unità ontologica per le seguenti ragioni: 1) Se si parla dell' essere assoluto , l' essere ideale non può distruggere l' unità dell' ente; perché questo è identico nei due modi di esistere, il soggettivo e l' oggettivo; 2) Se si parla degli enti relativi completi, ovvero incompleti, la loro esistenza oggettiva è nella mente; e noi abbiamo veduto che nella mente l' ente ideale e il realizzato è identico «( Sistema Filosofico , n. 23 sgg.) ». IV) Gli enti relativi incompleti, che abbiamo chiamato anche risultanti , o termini risultanti , hanno una moltiplicità relativa al soggetto o principio a cui sono termine, la quale è reale, benché essi non sieno soggetti . Ora, essendo a noi nascosta la natura di questo principio proprio, consegue che noi non sappiamo in che modo questo principio straniero produca que' piú termini, e se egli è un solo principio, forz' è che in lui vi abbia la pluralità del termine, come quello che essendo semplice, la può accogliere in sé medesimo. Tutte le grandi questioni ontologiche si riducono a due; la prima è quella astrattissima che si volge intorno la pura essenza dell' essere che nell' idea si contempla; la seconda è quella che tratta della costruzione dell' essere , e questa discende all' essere reale. Noi ci proponiamo in questo capitolo di entrare in questa seconda questione dell' ontologia, e ne uscirà forse un commentario a quella soluzione data da Anassagora (1) con sí brevi parole, che Socrate se ne lagnava (2). Noi vogliamo adunque dimostrare, che vi deve essere un' intelligenza non già per la necessità di spiegare i vestigi di una causa intelligente che si manifestano nel creato; ma perché senza un' intelligenza l' ente non sarebbe costituito, e però non vi potrebbe essere alcun ente; la quale è necessità ontologica. L' ente infatti è per sé necessario; perocché quello che è per essenza, non può non essere. Dunque è pure necessario tutto ciò che ha natura di condizione o di elemento costitutivo dell' ente. Se dunque si prova che l' ente non si potrebbe concepire, qualora non vi avesse intelligenza, con ciò sarà provata la necessità ontologica di questa. Rammentiamo che l' ente termine non può stare da sé solo senza il principio a cui essenzialmente si riferisce, e quindi che il sentito corporeo non può stare senza il principio senziente. Da questo viene immediatamente la conseguenza, che il pensare che non vi avesse nell' universo se non materia e corpi, è un pensare assurdo, perocché quando si dice materia e corpi si dice termini, e quando si dice termini si dice relazioni con un principio, e cosí si afferma implicitamente il principio. Quando poi si dice che non si hanno se non corpi e materia, allora si nega l' esistenza del principio. Dunque si afferma e si nega nello stesso tempo: dunque vi ha contraddizione. Questa è la prima confutazione ontologica del materialismo. Dimostrata la necessità ontologica dell' essere senziente, rimane a dimandare, se vi abbia contraddizione intrinseca anche nella supposizione che non vi avessero altri esseri fuorché il senziente. In primo luogo, questo essere puramente senziente, per la supposizione stessa sarebbe privo d' intelligenza, e però non avrebbe, né potrebbe avere alcuna coscienza di sé. Un Sé non esisterebbe; neppure esisterebbe chi potesse applicare a questo essere senziente il pronome Tu o Egli. Egli non sarebbe dunque né a se stesso, né ad alcun altro essere. Conviene conchiudere che non sarebbe del tutto. Poniamo l' obbiezione piú ovvia: « un essere senziente, se non vi avesse alcuna intelligenza, certo non potrebbe essere né conosciuto né affermato; ma come dimostrate voi, che egli non potesse essere al tutto, quantunque praticamente incognito a se stesso o ad altro chicchessia? ». In questa obbiezione parlasi d' un principio senziente che si suppone atto ad essere conosciuto, si suppone possibile, si suppone tale che abbia un Egli ed un Sé; il che è quanto dire, si suppone, che insieme con lui esista un' intelligenza, il che distrugge la supposizione fondamentale del ragionamento. Si rifletta che l' obbiezione fatta di sopra si riduce a questa proposizione: « potrebbe essere un ente senziente del tutto sconosciuto ». Ella si appoggia adunque sulla possibilità di un tale ente. La questione adunque si riduce tutta alla possibilità. Or che cosa è la possibilità? Noi abbiam detto piú volte, non è altro che l' intelligibilità. Dunque quando si dice un ente possibile, con questo stesso si ammette che sia intelligibile; ed essere intelligibile è lo stesso che avere una relazione con una intelligenza. Si suppone adunque, senza avvedersene, che una intelligenza esista all' atto dell' essere senziente. L' obbiezione adunque parla di un essere sconosciuto; ma nello stesso tempo suppone che sia conoscibile. Ora acciocché ella avesse forza dimostrativa, dovrebbe parlare di un ente non pure non conosciuto, ma anche non conoscibile, il che è quanto dire non possibile. Si replicherà che quest' essere intelligente basta che sia possibile anch' egli, non è necessario che sia sussistente. Ma si risponde, che il replicare cosí altro non sarebbe che il perdersi entro un circolo vizioso ovvero un progresso all' infinito. Perocché se si riconoscesse necessaria la possibilità , acciocché l' ente senziente sussista (e per vero dire ciò che non è possibile non sussiste); e quindi si riconosce la necessità che v' abbia un' intelligenza possibile; dove poi si porrà la possibilità di questa intelligenza? Converrebbe ricorrere ad un' altra intelligenza possibile. E posciaché la serie di queste intelligenze possibili non può andare all' infinito; cosí conviene di necessità fermarsi ad una intelligenza sussistente, nella quale si trovi la sede della stessa possibilità. La dimostrazione medesima si deriva da altri principŒ da noi stabiliti. Noi abbiamo veduto che il reale non può stare senza l' ideale pel sintesismo di queste due forme. Ora enti sensitivi, senza piú, sono reali. Dunque addimandano i loro ideali corrispondenti. Ma l' ideale è il termine oggettivo dell' intelligenza. Il termine poi non può stare senza il principio. Convien dunque che vi abbia un principio intellettivo nell' universalità delle cose, acciocché vi possa avere l' ideale che in esso essenzialmente dimora; e convien che v' abbia un essere ideale che costituisce la possibilità del reale, acciocché vi possa avere l' ente reale, che è l' effettuamento e l' ultimo atto di quello. E poiché il senziente è un reale; perciò non può esistere nell' universo il solo ente sensitivo. Lo stesso si deduce da un altro vero, cioè dall' essere l' ideale, ente iniziale, sí fattamente che la costituzione di ogni ente reale in lui incomincia. Egli è dunque impossibile che v' abbia la realizzazione di un ente, che v' abbia la sua forma reale la quale è compimento, se mancasse il suo inizio che è il primo passo che dà l' ente verso alla sua compiuta esistenza. Dal che procede, che l' ente che non ha intelligenza è incompleto, ed ha bisogno di appoggiarsi alle intelligenze fuori di lui, alle quali solo egli è relativo : all' incontro l' ente che è dotato d' intelligenza è ente completo , e però questa sola maniera di enti, cioè gl' intelligenti, meritano la denominazione aristotelica di entelechie che viene da «enteleches», perfetto , denominazione ontologica perché tratta dell' intima costituzione degli enti stessi. Cosí tutte le nature delle cose sono connesse, l' una all' altra si continua e si appoggia, e reciprocamente si sorreggono: quindi la mirabile unità del tutto senza alcuna confusione delle parti, l' armonia, e la consonanza di queste: la base altissima delle quali essenziali relazioni degli enti giace nell' originario sintesismo delle tre forme categoriche, nelle quali l' essere uno è medesimamente ancora trino. Il legame ontologico delle cose fra loro è quello che rende la teosofia una scienza sola, e non la lascia partire in piú. Che anzi le sue tre parti, che abbiamo detto essere ontologia, teologia naturale e cosmologia, neppur si possono trattare cosí recise e partire l' una dall' altra, che le materie dell' una non si debbano colle materie dell' altra alcuna volta tramezzare. E questo è quello che qui ci accade. Poiché sponendo noi le attinenze dell' essere reale, e come quello che è privo d' intelligenza s' attenga necessariamente e quasi si aggrappi all' essere intelligente, siamo sospinti a parlare della prima intelligenza a cui ogni ente è condizionato, e a raccogliere la dimostrazione della sua esistenza, che qui da se stessa in nuova forma ci si presenta. Dimostr. - Necessaria è una proposizione, quando la sua contraria involge contraddizione. Ora « che l' essere non sia necessario »involge contraddizione. Perocché se l' essere non è necessario, l' essere potrebbe non essere. Ma essere e non essere sono termini contraddittorŒ. Dunque la proposizione contraria involge contraddizione. Dunque l' essere non può non essere, ossia l' essere è di natura sua necessario; il che dovevasi dimostrare. 1) Questa necessità dell' ente è la proposizione fondamentale della scuola italiana d' Elea [...OMISSIS...] Dalla quale proposizione fu tratto a torto il panteismo perché si applicò all' ente relativo quella proposizione che non vale se non per l' ente essenziale ed assoluto. 2) La necessità dell' essere è la prima fra tutte le necessità; non vi ha alcuna necessità logica che da questa non derivi: non sia questa stessa partecipata. Laonde ogni necessità si riduce a questa, alla necessità dell' essere. Dimostr. - Nelle proposizioni nelle quali si predica qualche cosa dell' ente, il subietto della proposizione è l' Ente possibile, o ideale. E in fatti tali proposizioni, che sono giudizi analitici, riguardano le doti e qualità proprie dell' essenza dell' ente. Ora l' essenza dell' ente è quella che s' intuisce nell' idea. La proposizione adunque, che « l' essere è di natura sua necessario », versa intorno all' essere ideale , il che si dovea dimostrare. 1) Molti scrittori fra gli antichi, e del tempo medio, fra' quali ultimi Sant' Anselmo, credettero di poter dare una dimostrazione a priori dell' esistenza di Dio argomentando dal concetto di Dio. Recando questo concetto che « Iddio sia ciò di cui nulla si può pensar di piú grande » conchiusero che dunque non gli potea mancare la sussistenza. Cosí trovarono la sussistenza nello stesso concetto di Dio, e conchiusero che Iddio è per sé noto, cioè egli è noto tosto che è noto il suo concetto. Ma l' acutissimo San Tommaso trovò difettosa tale dimostrazione. E nel vero questa sussistenza nel concetto è ancora una sussistenza ipotetica , e non una vera e reale sussistenza. Onde San Tommaso giustamente disse: [...OMISSIS...] . Ora questa difficoltà che fa l' Angelico a quelli che vogliono provare l' esistenza di Dio dal concetto, non vale contro la proposizione che pone l' essere necessario, perocché questa proposizione pone l' essere soltanto nel concetto, cioè l' essere ideale. L' essere ideale dunque è per sé noto, e manifestamente necessario, né da alcuno che ragioni giammai negato con coerenza di ragionamento. 2) La necessità dell' essere ideale nell' ordine dell' umano ragionamento è il primo noto . Sopra di questo solido fondamento si erige la teoria della certezza da noi esposta nell' « Ideologia (1) »; perocché ogni certezza si acquista riducendo ogni proposizione che si vuole dimostrare a quella prima, di modo che « se si negasse la proposizione che si assume, si dovrebbe coerentemente negare anche la prima proposizione dell' essere per sé noto »: formola che esprime l' artificio di ogni dimostrazione. Quindi « la necessità dell' essere ideale »è anche il principio della Logica. 3) Nella tesi fu detto « l' essere che apparisce a noi necessario è l' essere ideale », e ciò perché l' essere necessario è anco nelle sue forme reale e morale, ma in queste forme a noi non apparisce immediatamente e intuitivamente, come si raccoglie dalla sensata obbiezione fatta da San Tommaso. Del resto non solo rispetto all' uomo, ma anche in se stesso l' essere ideale è il primo noto , perocché il reale necessario è conoscibile per necessario, appunto perché è nell' ideale: questa adunque è la ragion prima di tutte le cose. Dimostr. - Questo è il noto assioma dei logici, che ab esse ad posse datur consecutio . Ciò che è, appunto perché è, può essere; perocché se non potesse essere non sarebbe. Ma questo in altre parole viene a dire, che dato il reale si può argomentare il possibile, che è la proposizione che si proponeva. 1) Quando tutto il mondo dice che se una cosa è, ella per conseguente è possibile; allora viene a riconoscere che v' ha una progressione entitativa dal possibile al reale; di maniera che il possibile ed il reale si considerano come due passi che fa l' ente per costituirsi; ed è quanto un dire: « il secondo passo suppone il primo, non s' arriva al due se non passando per l' uno ». Noi pensiamo adunque e parliamo col senso comune, quando diciamo che il possibile è « l' ente iniziale »che è quanto dire « il primo passo dell' ente, che si pone ». 2) Se ella è sempre evidentemente vera la proposizione che ab esse ad posse datur consecutio , la sua contraria a posse ad esse non datur consecutio ha bisogno di essere limitata e spiegata cosí: che per essa si dica che « dal potere all' essere non si dà sempre un' illazione », e però che « quando si vuole arguire dal potere all' essere, trattasi di un tal potere, di un tal possibile, che nel suo seno racchiude necessariamente la sussistenza », il che non accade se non trattandosi di Dio, dove lo stesso essere è ideale e reale. Se dunque il reale suppone il possibile, ne viene che il reale solo non può stare nella natura, e però che sarebbe assurdo il pensare che non vi avesse altro che materia, o non vi avesse altro che sentimento corporeo; ma convien dire che se sono questi, dee esser altresí il possibile , ossia l' ideale . Dimostr. - L' essere ideale dunque è necessario. Ma l' essere ideale per la sua definizione è il termine oggettivo, l' oggetto della mente. Né si può concepire oggetto della mente senza che sia la mente di cui egli sia oggetto, né tampoco si può concepire la mente senza alcuna relazione con un oggetto. Se dunque è necessario l' oggetto, è necessaria altresí la mente ossia l' intelligenza soggetto, come diceva la proposizione. Di qui incomincia ciò che di nuovo vogliamo aggiungere secondo il titolo del capo presente. Dimostr. - Diamo che l' essere ideale fosse termine straniero di una intelligenza. In tal caso, quell' intelligenza non è il principio, ossia il soggetto suo proprio. Dunque il termine non cessa di esistere anche considerato diviso da quel soggetto che gli è straniero. Ma diviso da quel soggetto non potrebbe continuare ad esistere se non avesse un altro principio, e questo non gli può esser di nuovo straniero, perocché in tal caso si dovrebbe ripetere lo stesso ragionamento. Non potendosi adunque andare all' infinito nella serie de' principŒ che si suppongono uniti a quel termine, convien fermarsi ad un principio che sia proprio dell' essere ideale; e al quale l' essere ideale sia termine proprio, e questo è ciò che si diceva nel lemma proposto. Dimostr. - L' essere ideale non può stare senza un' intelligenza, di cui egli sia termine proprio. Ma il termine proprio è quello, nel quale l' ente è identico quale è nel principio, secondo la datane definizione [...OMISSIS...] . L' essere adunque è identico nel principio e nel termine proprio. Ma qui il termine è l' essere ideale, il quale ha i caratteri della necessità, della unità, dell' eternità, dell' immutabilità, e tant' altri caratteri divini. L' ente dunque dee avere i medesimi caratteri anche nel principio proprio, perché altramente non sarebbe l' ente identico. Ma il principio proprio dell' essere ideale è l' intelligenza, ossia un ente soggetto intelligente. Dunque l' intelligenza che è principio proprio dell' essere ideale dee essere anch' essa necessaria, universale, eterna, immutabile, ecc.. Ma una tale intelligenza è infinita ed assoluta. Dunque l' essere ideale non può stare senza un' intelligenza infinita ed assoluta, ciò che appunto si dovea dimostrare. 1) Un oggetto intelligente infinito ed assoluto che ha per termine proprio l' essere ideale è Dio. Dunque Iddio è, ed è necessariamente; e Iddio non è una potenza infinita cieca, ma una infinita intelligenza. 2) Dunque Iddio è un ente che è identico nel modo reale (soggetto intelligente) e nel modo ideale (oggetto). E però Iddio è ugualmente ne' due modi di essere accennati: egli ha come sua propria tanto l' esistenza soggettiva, quanto l' esistenza oggettiva. 3) Il primo ente adunque, l' ente essenziale vuol essere intelligente. Noi abbiamo fin qui favellato dell' intima costruzione dell' ente reale, applicando a questo l' osservazione ontologica (1): abbiamo veduto com' è costruito quell' ente reale, di cui abbiamo esperienza. Dall' esistenza del corpo o di piú corpi abbiamo arguito l' esistenza di un principio sensitivo, e dall' esistenza di uno o di piú principŒ sensitivi abbiamo arguito l' esistenza di una intelligenza. Questa maniera di arguire merita il nome di ragionamento sintetico . Ma non ci siamo fermati qui. Noi abbiamo di piú dimostrato la necessità assoluta che sussista un' intelligenza; e l' abbiamo dimostrata come illazione della necessità assoluta dell' essere ideale . Abbiamo veduto che l' essere ideale è un punto fermo, sufficiente a cui appoggiare, per cosí dire, la leva filosofica, e portarci alla certezza indubitabile di un soggetto reale sussistente, e non solo alla certezza della sua sussistenza, ma della sua necessità. Questo nostro si può chiamare a giusto titolo, ragionamento sintetico a priori . Varcato il ponte che unisce la possibilità colla sussistenza, non ci siamo fermati; ma siamo venuti fino a conchiudere con logica illazione che l' intelligenza che dee per necessità sussistere dee anche essere infinita, ed assoluta, e quindi esser Dio. Or fino che arguivamo unicamente un' intelligenza, non eravamo ancora usciti dalle cose che cadono sotto l' umana esperienza; ma quando poi ci slanciammo con un procedimento logico fino all' intelligenza assoluta ed infinita, allora abbandonammo interamente col nostro volo il mondo esperimentale e pervenimmo in una regione incognita, nella regione appunto dell' infinito. Questo è ancora ragionamento sintetico a priori , ma perché egli eccede l' esperienza, merita la denominazione che già abbiam data di ragionamento dialettico trascendentale . Dobbiamo ora continuare ad applicare questa maniera di ragionare agli esseri finiti di cui abbiamo esperienza, per discoprire, al di là dell' esperienza, ciò che è condizione trascendente dell' esistenza delle cose esperimentali: cominciamo applicando questo possente istromento della dialettica trascendentale all' ente sensitivo. Gli studi fatti nei moderni tempi dagli studiosi delle scienze naturali, diedero questo mirabile risultamento, che « tutte le operazioni e i fenomeni della vita e dell' animale organismo si riducono sempre a leggi perfettamente identiche ». Ma la Psicologia va piú innanzi (1): ella dimostra col piú gran rigore d' osservazione e di ragionamento, che: « il sentimento animale, ha in se stesso una virtú attiva capace ella sola di spiegare tutti i fenomeni animali, come pure tutti i fenomeni vegetativi, ed anco corporei dipendenti da ogni specie di attrazione; non però quelli delle leggi del moto meccanico ». Procede che a spiegare i fenomeni animali non si dee assumere altro principio o cagione ipotetica, fermandosi alla virtú insita nel sentimento. Giacché l' esistenza di questa causa è dimostrata, e d' altra parte è sufficiente alla spiegazione de' fatti: la legge adunque della ragion sufficiente vieta che si ricorra ad altra causa incognita non punto necessaria. La Psicologia ancora dimostra, che dalla disposizione degli elementi nello spazio, dipende l' organizzazione, la quale si forma per le attrazioni degli elementi, e modificazioni di tali attrazioni, quelle e queste dipendenti dalla virtú insita al principio sensitivo; e che dall' organizzazione dipendono poi tutte affatto le specie degli animali e i fenomeni della vita in ciascun d' essi «( Psicol. , 542) ». Quindi apparisce ancora in quanto sia vera la proposizione di certi fisiologi che dicono « la vita inesauribile », potersi questa diramare, distendersi senza fine alcuno. Tutto ciò non eccede ancora il regno dell' esperienza: proseguiamo. Il sentimento animale risulta dalla congiunzione di un principio con un termine. Questa congiunzione è cosí essenziale, che se si toglie via il principio senziente non è piú il termine sentito, e se si toglie via il termine sentito non è piú il principio senziente. La cosa è del pari evidente se invece di parlare di sentito si parla di corpi, e invece di parlare di senziente si parla di anime sensitive. Ma egli sta a vedere se il corpo e l' anima suppongono degli altri enti d' innanzi da sé, i quali se essere vi dovessero noi li chiameremmo, in relazione al corpo e all' anima, ultrasostanze. L' anima sensitiva è informata dal suo termine: questo la trae all' atto del sentire: la sua sede è lo stesso termine sentito: in esso ha la sua attualità senziente. La sua esistenza è dunque relativa al sentito: da questo ancora trae la sua individualità «( Psicol. , 560 7 566; 572 7 577) ». A malgrado di ciò, se colla astrazione noi mettiamo da parte il sentito, ci rimane tuttavia qualche cosa: il principio, è vero, non è piú senziente; egli ha perduto ciò che lo individuava; e tuttavia egli rimane ancor qualche cosa dinnanzi al nostro pensiero, rimane un principio. Lo stesso si prova in un altro modo. Il sentito porge la materia in cui esercitarsi quest' attività, e quest' attività si spiega agli atti suoi proprŒ tostoché la materia opportuna le sia preparata. Se dunque coll' astrazione della mente si rimuove questa materia, l' attività del principio rientra in se stessa, si accoglie in una potenzialità, ma non ne segue da ciò che ella sia perita dinanzi alla mente. Questo principio adunque non è piú principio in atto, ma rimane una potenza che riacquistando la materia può ridivenire principio. Vi è dunque anteriormente al principio senziente qualche cosa, che non è nominata in nessun linguaggio, perocché la parola anima o l' equivalente ne' diversi linguaggi non significa punto quella potenzialità anteriore al principio senziente, ma significa lo stesso principio senziente ovvero sia sensitivo. Ora quel qualche cosa che si vede dovervi avere avanti al principio sensitivo, avanti all' anima, è ciò che noi chiamiamo una ultra7sostanza. Il primo atto dell' anima sensitiva adunque è quello del sentimento fondamentale; e in questo primo atto, che termina nel sentito fondamentale, è la sostanza dell' anima, a cui solo conviene il nome. Se si suppone cessato questo primo atto, l' anima non è piú. Rimane ciò che vi era prima di lei, ciò che vi è al di là di lei, di cui il primo concetto che possiamo formarci è quello di una entità potenziale, che è quanto dire una potenza di produr l' anima. Quindi s' intende come l' anima sensitiva sia un ente relativo. A fine di conoscere questa relatività, conviene fissare dove stia il primo atto che mette in essere l' anima sensitiva. Questo atto sta nel sentimento di un esteso: questo sentimento non è l' anima: questo sentimento è chiuso e limitato, che non va fuori del suo termine: questa limitazione, questa sfera del sentimento determina la sua relatività, perocché è talmente relativo a quell' esteso, che fuori di lui quel sentimento non è piú; tutto ciò che è fuori di quel termine non esiste per quel sentimento, né in quel sentimento. Questa è una di quelle che abbiamo chiamate limitazioni ontologiche . Perocché abbiam detto che gli enti finiti si compongono di un elemento positivo, e di un negativo, che è appunto l' essenziale loro limitazione (1). E qui si trova la risposta alla difficoltà: « Come un negativo può essere un elemento che entri nella composizione di un ente? ». A cui si risponde: la limitazione ontologica è nel sentimento, e nel sentimento ella è qualche cosa; perocché anche il negativo è qualche cosa nel sentimento. In fatti un sentimento che sente la propria limitazione, da questo sentire la limitazione rimane determinato ad essere piuttosto un sentimento che un altro, e trattandosi di sentimenti primi, cioè atti primi, ad essere piuttosto un ente che un altro. Cosí la limitazione diventa ontologica anche per gli enti soggettivi e reali, di cui parliamo; non perché ella stessa sia qualche cosa di positivo, ma perché in conseguenza di essa ridonda nell' ente uno speciale sentire, che lo determina e separa da ogni altro sentire. Questa proposizione è conseguente a tutto ciò che abbiamo detto. E nel vero che cosa è il soggetto? Il soggetto è l' atto primo del sentimento; cioè quella cosa che prima di tutto è sentita e che è sentita attivamente, cioè nella sua qualità di atto. Quindi il soggetto ha natura di principio reale, e noi abbiamo già veduto che non si dà ente senza principio; perocché tutto ciò che esiste è principio o termine, niente conosciamo nell' università delle cose, niente possiamo concepire, che non abbia condizione dell' uno o dell' altro. Ma il termine non può stare senza il principio. Dunque senza un principio, che è quanto dire senza un soggetto, l' ente non è possibile. I Da questo si trae primieramente che mutato il soggetto, è mutato l' ente; l' ente non è piú quello ma un altro ente. II Di poi consegue che tutto ciò che è anteriore al soggetto, cioè all' atto primo del sentimento, resta fuori del sentimento, e perciò non appartiene allo stesso ente, ma ad un altro che esige necessariamente un altro soggetto. III Quindi che, se trattasi d' un soggetto intelligente, tutto ciò che è anteriore al sentimento che lo costituisce, non può essere da lui percepito: la limitazione del soggetto limita la percezione e la cognizione, e non lascia alla intelligenza che una conoscenza dialettica negativa. IV Tale è la costituzione dell' essere reale, la quale si riflette nell' ordine logico. In quest' ordine la ragione astraente si forma degli enti senza soggetto reale; ma in facendo quest' operazione, ella è necessitata di trattarli come fossero soggetti. Tali sono i subietti dialettici ossia subietti del discorso. Ora nel discorso vale rispetto a questi la stessa legge annunziata pe' subietti reali, cioè che mutato il subietto del discorso il discorso sia un altro. V Un altro importantissimo corollario, si è che qualora la mente divide un ente e ne lascia da parte il soggetto, quello che le rimane non è piú l' ente di prima. E questa è anche la ragione perché la semplice idea dell' essere non è Dio, giacché ella è puramente oggetto e però manchevole del soggetto divino. Laddove se la si considera quale è in Dio, si vede avere il suo soggetto, cioè lo stesso soggetto divino con cui s' identifica, ed ella stessa diviene altra cosa e cosí cessa di essere pura idea. Possiamo, qui giunti, affrontare una questione non meno ardua, quella dell' unificazione degli enti reali. Certo, non è possibile darne una soluzione completa attesa la limitazione dell' umana esperienza, ma possiamo stabilire un principio, che a lei presieda: « qualora un ente senta un altro ente non solo quanto al termine, ma ben anco quanto al principio, e lo senta come principio, allora i due principŒ si compenetrano, non sono piú due, ma un solo, e però un solo ente; laddove se un principio sente il termine di un altro ente, ma non ne sente il principio, egli è il caso della subordinazione ontologica degli enti, gli enti restano due, e non un solo ». Ora sentire un principio come principio è il medesimo che avere il sentimento proprio del principio; il medesimo che essere quel principio. Dunque un principio che ne sente un altro è il principio sentito, il che equivale alla identificazione de' principŒ e cosí degli enti. Questo non è un caso ipotetico: n' abbiamo l' esperienza nell' anima umana nella quale il principio intellettivo e il principio sensitivo è il medesimo «( Psicologia , 636 7 646) ». Dalla stessa verità dipende la sentenza di San Tommaso e degli Scolastici, che nell' uomo v' ha una sola forma sostanziale e questa è l' anima intellettiva; giacché qui per forma intendono l' atto primo che noi chiamiamo anche soggetto. Or questa dottrina dell' identificazione de' principŒ e quindi degli enti riesce preziosa anche alla teologia, come si vedrà nell' « Antropologia soprannaturale ». Ed ora che abbiamo esposto la teoria dell' ente reale per ciò che riguarda l' intrinseca sua costituzione, possiamo passare a dare la teoria della sua azione; il che esaurirà in qualche modo l' argomento di questo libro, giacché tutto si riduce ad essere e fare. Abbiamo veduto che l' essere stesso è un primo atto, e che l' essere reale è un atto soggettivo, che è quanto dire un primo atto di sentimento. Non è a noi necessario soffermarci a notare le differenze di significato che hanno le parole atto, ed azione: le useremo come sinonime fino a tanto che il ragionamento nostro non dimandi la loro minuta distinzione. Soltanto osserveremo che atto è piú generale di azione convenendo a tutte le tre forme dell' essere; laddove l' azione spetta soltanto all' essere reale e soggettivo. Ogni qualvolta adunque la nostra mente pensa un essere, o un grado di essere di piú che prima, ella pensa un' attività, un atto; e ogni qualvolta pensa un essere o un grado d' essere soggettivo o sentimentale, ella pensa un' attività, un atto, un' azione. Definiremo dunque l' azione « un atto dell' essere reale, pel quale esiste una entità che è nuova rispetto alla mente che la considera ». Dichiarato il concetto dell' azione in universale, dobbiamo discendere alle sue diverse maniere. E queste sono due, la creazione , che fa cominciare un ente del tutto nuovo, e l' operazione degli enti che già sussistono. Noi omettiamo di parlare qui della creazione di cui dobbiamo fare special trattato, e ci limiteremo a dare la teoria dell' operazione; la quale non fu forse mai svolta sufficientemente da' metafisici per non aver essi conosciuta l' intima costituzione dell' essere reale. E nel vero noi abbiamo veduto: 1) avervi degli enti sintesizzanti; 2) degli enti coordinati , cioè individui della stessa specie; 3) degli enti ontologicamente subordinati; 4) degli enti identificati. Ciascuna classe di questi enti ha la sua maniera propria di operare. Una delle questioni piú difficili si è: « come un ente possa agire in un altro ». E veramente ella pareva un nodo insolubile, poiché si ragionava cosí: « un ente non può uscir da se stesso, essendo limitato alla propria sfera; ma l' azione di un ente appartiene all' ente che la fa: dunque anch' essa dee rimaner nell' ente: dunque niun ente può avere alcun' altra azione se non quella che rimane in se stessa: ogni azione è interiore all' ente stesso che la fa ». Questo specioso argomento condusse Leibniz al sistema delle monadi, ed altri a quello delle cause occasionali, ed altri ad altri ancora. Per uscirne invece di ragionare su principŒ ontologici preconcepiti, astratti, imperfetti, gratuiti, conveniva rilevare colla osservazione ontologica l' intima costruzione e organizzazione dell' ente. Ce ne risultò che una quantità di enti finiti sono composti di un principio e di un termine straniero; che la loro entità, propriamente parlando, è il principio: essi non sono altro che principŒ, ma non già principŒ isolati e divisi, ma uniti ad un termine che gli specifica e gli individua, termine che ricevono in se stessi, ma ch' è diverso tuttavia da essi, ad essi opposto. Quindi in ognuno di questi enti giace una opposizione, vi hanno come due poli opposti, che noi chiamiamo la polarità degli enti . Questo non ha cosa alcuna che ripugni; giacché la proposizione che un ente inesista nell' altro non è ripugnante in se stessa, e solo sembra ripugnare a coloro che pretendono giudicare di tutti gli enti da quanto vedono avvenire ne' corpi, i quali sono impenetrabili. Convien dunque lasciare un' ontologia cosí misera e gretta ai soli materialisti. L' esistenza dunque di questa maniera di enti ha per condizione che l' uno, cioè il principio, abbia in sé l' altro come termine opposto. Per tal modo non è piú difficile spiegare l' azione che uno esercita sopra l' altro, perocché consegue da essa che l' uno può agire nell' altro senza uscire di sé medesimo. Il termine agisce nel principio e il principio nel termine: questa è la formula di tutte le azioni degli enti, di cui parliamo. Ma egli conviene che noi dimostriamo come la detta formula comprenda e spieghi tutte le azioni che esercitano fra loro gli enti sintesizzanti. I due primi che ci si presentano sono l' anima sensitiva e il corpo. Se si parla di un corpo animato, anima e corpo sono appunto principio e termine, costituiscono quell' essere completo che si dice animale. Il corpo è nell' anima e l' anima è nel corpo a quel modo che abbiamo spiegato. Qui non v' ha dunque alcuna difficoltà a spiegare la loro mutua azione. Ma i corpi agiscono anche fra loro. Un corpo esterno anche inorganico agisce sul corpo vivente, e modifica il termine del principio sensitivo cioè dell' anima: l' anima sente la mutazione violenta del suo termine. Del pari l' anima modifica il suo termine, ed anche lo muove, e col muoverlo lo accosta ai corpi esteriori e li modifica. Anche questa operazione dell' anima è spiegata, perché si esercita immediatamente sul proprio termine che è il corpo animato. Ma rimane a spiegare come un corpo agisca sull' altro. L' azione d' un corpo sull' altro è duplice. L' una è meccanica, quella che viene prodotta dal moto locale, quando i corpi in moto si urtano. L' altra è fisica, tendente all' organizzazione. Queste due maniere di azione, sono un fatto innegabile dato dall' esperienza. Ma la causa è data dall' esperienza solo in parte, cioè rispetto a que' movimenti che dipendono dal principio sensitivo. A conoscere adunque totalmente la causa de' movimenti altra via non ci resta se non il ragionamento dialettico trascendentale, che dovrà investigar due cose: 1) se la spiegazione de' movimenti che si scorgono ne' corpi si possa avere ponendo altri principŒ animali, fuori della nostra esperienza, che li producano; 2) se questi non bastando, si debba ricorrere ad un altro principio di moto. E nel vero tutto ciò che noi conosciamo ne' corpi tiene natura di termine. Ma tutto ciò che appartiene al termine del principio sensitivo, per la natura appunto che ha di termine, è inerte, passivo, ricevibile, e non piú. La forza dunque suppone un principio attivo e soggettivo. Se dunque là dove è il termine si manifesta una forza, questa non si può attribuire al termine quasi a subietto di essa (1). Con questo abbiamo veduto che oltre il termine corporeo deve esistere un principio corporeo trascendente che spieghi quella attività che si mescola col termine stesso. Or noi abbiamo altrove indagato quale possa essere questo principio attivo, ed abbiamo trovato il sistema degli atomi animati «( Psicologia , 500 7 553, 666, 667) ». Il qual sistema è sufficiente a spiegare il moto organico de' corpi animati. Ma è egli sufficiente a spiegare ogni attrazione, da quella degli atomi fino a quella de' corpi celesti? Finalmente il principio animale preso come causa di moto non ispiega la natura stessa del moto, ma la suppone. Quant' è dunque alla natura del moto, per cominciare da questa ricerca fondamentale, noi crediamo 1) che i corpi non fanno che ricevere il moto, e però non ne sono mai la causa, 2) che il moto è realmente discontinuo, e continuo solo fenomenalmente. La tesi del moto discontinuo conduce necessariamente a distinguere il moto fenomenale dal moto reale, a quel primo rimanendo la continuità e la traslazione della materia, e questo secondo riducendosi ad essere un avvenimento pel quale accade, che la materia si rende sensibile in una serie di luoghi successivi di cui niun senso può percepir la piccolissima distanza. Il che è difficile ad intendere solo a coloro che non pervennero a formarsi il giusto concetto della spiritualità dell' anima; ma la considerano piuttosto come un punto dello spazio; nel qual modo di considerarla ella deve trovarsi sempre in un dato posto dello spazio medesimo. All' incontro il vero si è ch' ella è immune affatto dallo spazio, e per conseguente è immune altresí da' suoi limiti; e di piú, tutto lo spazio semplice ed immisurato è in lei come suo termine, di che procede ch' ella abbia una perfetta indifferenza ad un luogo anziché ad un altro. Ma il suo termine materiale all' opposto occupa sempre una parte determinata dello spazio, e perché ella agisce in questo suo termine, pare che anch' ella sia determinata ad un luogo. Ora, se noi supponiamo che la causa prossima di questo termine materiale sia in parte l' anima stessa, in parte, come abbiam detto, un' altra sostanza spirituale, sicché l' azione di queste due sostanze spirituali concorrano a produrre il termine materiale, sarà facile ad intendere come queste possano assegnargli successivamente colle loro azioni diversi luoghi nello spazio, essendo loro indifferente un luogo o l' altro dove estrinsecare la loro azione. Ma ciò non basterebbe a spiegare perché il corpo nel suo movimento prenda una serie successiva di luoghi cosí vicini l' uno all' altro, specialmente che l' anima umana che a sua volontà può muovere il proprio corpo non è consapevole d' imporgli ella stessa una tal legge. E` dunque da considerare oltracciò, che l' anima umana riceve dal di fuori il suo termine, e ch' ella in quant' è sensitiva concorre a produrlo soltanto rispetto al fenomeno, ma non rispetto all' attività ed alla forza, verso la quale ella è passiva. Quest' attività dunque e questa forza dipende dall' altra sostanza, e da questa dee venir pure principalmente la legge del moto, che appar continuo a cagione della somma vicinanza de' luoghi in cui la materia si rende sensibile all' anima umana. Nel qual sistema né pur si perde, a cagione del moto, l' identità de' corpi, quell' identità, dico, che si può loro attribuire, e che lor viene da tutti attribuita. E qui si avverta bene che dalla tesi, « il corpo, che si muove, trovarsi successivamente in una serie di luoghi vicinissimi »procede che i diversi spazŒ da lui successivamente occupati abbiano una piccola distanza fra di loro, ma non già che per questo debba avervi necessariamente intermittenza nelle azioni delle sostanze spirituali che concorrono a porre il corpo successivamente, perocché il loro operare può essere immune dal tempo. Nulla di meno dandoci l' esperienza che il movimento del corpo impiega tempo, è da dire ch' egli nel suo movimento faccia delle piccole more in ciascun luogo in cui si pone, e che le sostanze spirituali che lo pongono, specialmente il principio corporeo onde viene la forza corporea, abbisogni d' uno sforzo per traslocarlo, il quale sforzo impieghi qualche tempo ad ottener l' effetto. Ma si può credere che questo sforzo che trasloca il corpo sia un' azione diversa da quella che lo fa essere. Questa seconda azione assegnerebbe la direzione alla prima, e potrebbe essere intermittente e consistere in uno sforzo bisognevole di qualche tempo ad ottenere l' effetto. E cosí facilmente si avrebbe in parte la spiegazione alla prima classe di azioni che si attribuiscono a' corpi, cioè la spiegazione della comunicazione del moto d' un corpo all' altro per via di percussione. Il corpo è termine di due principŒ, l' uno straniero che è l' anima, l' altro proprio che è il principio corporeo. Questo termine occupa una porzione dello spazio, e lo spazio è di natura immobile, e quindi una porzione di spazio non può essere trasportata in un' altra porzione, il che involge contraddizione colla natura dello spazio stesso. Se dunque ogni corpo ha bisogno di una data porzione di spazio, due corpi di egual grandezza debbono avere bisogno di due porzioni uguali dello spazio, e non possono stare entrambi in una porzione sola, ripugnando questo alla legge che ogni corpo occupa una porzione dello spazio. Quindi procede l' impenetrabilità de' corpi, che non è altro che questa stessa legge. Qualora dunque una porzione di spazio sia occupata da un corpo, il principio corporeo non può in questa stessa porzione porvene un' altra; di che nasce che se quell' attività che presiede al movimento de' corpi, e che è diversa dall' altra attività che li pone in essere, operando in questa seconda produce il movimento di due corpi in tal senso che tutti e due i corpi tendano ad occupare lo stesso luogo, nasca necessariamente un urto fra loro, l' effetto del quale urto sia appunto la comunicazione del moto. Le leggi della quale si riducono tutte a questa, che « la quantità totale del moto, nella stessa direzione, de' due corpi che si urtano, sia, dopo la percossa, uguale a quella che era prima ». Qui si dimanderà se quella attività che determina il moto, e quella attività che pone il corpo in essere appartengano entrambe ad uno stesso principio. - Io credo evidente che appartengano a principŒ diversi. Ed anco in generale si può dimostrare la necessità che intervengano due principŒ, non potendo lo stesso principio avere due attività che vengano in una cotal lotta fra loro. E nel vero, l' attività che pone in essere il corpo in un luogo dello spazio, tende o a mantenervelo in quiete, o a mantenerlo in moto equabile indifferente all' uno o all' altro stato; onde acciocché il corpo si faccia passare dalla quiete al moto, o dal moto alla quiete conviene che intervenga un' altra cagione. Conservando noi dunque la denominazione di principio corporeo a quello che pone i corpi, chiameremo l' altro in generale principio del moto , e la questione si ridurrà a cercare: « qual sia il principio del moto ». Ora investighiamo: « se il principio corporeo sia un solo per tutti i corpi, ovvero tanti quanti sono i corporei elementi ». A noi pare dover essere vera questa seconda sentenza. Or questa pluralità di principŒ corporei è quella che finisce di spiegare il fatto singolare dell' urto de' corpi, che rappresenta la lotta di piú principŒ e non l' operazione di un solo. Di che viene questa singolar conseguenza, che l' urto de' corpi esprime la lotta di due spiriti che finiscono col mettersi in accordo. I corpi sono enti7termine: l' azione apparente de' corpi fra loro si manifesta negli enti7termine, cioè nei corpi, ma l' azione appartiene sempre al principio, il solo principio è il soggetto dell' azione; tuttavia l' azione si manifesta nel termine perché nel termine risiede il principio, e però avviene che l' azione sembri propria del termine. Il che spiega la volgare opinione che i corpi sieno attivi l' uno sull' altro. Noi poi sappiamo dalla propria consapevolezza, che l' anima muove e modifica il corpo animato. Cosí ci è data dall' esperienza un' azione del principio sopra il termine straniero: in questo fatto noi percepiamo l' azione congiunta al principio; laddove nell' azione de' corpi fra loro non ci è data che l' azione divisa dal suo principio e stante da sé, onde noi siamo costretti dalle leggi del pensiero, cioè dal principio di cognizione, di aggiungerle un subietto incognito e indeterminato, ma pure un subietto, perché altrimenti non potremmo pensare quell' azione, e qui si ferma il pensar comune. Ma sopravvenendo la scienza con ragionamento dialettico, quel subietto volgare e comune, che gli uomini generalmente aggiungono all' azione de' corpi, si cangia in un vero ente sensitivo trascendentale, in un ente principio come abbiamo veduto. Negli enti sintesizzanti adunque ogni azione si riduce all' azione de' principŒ fra loro; ma quest' azione da noi si percepisce in due modi: o divisa dal principio che la produce, quando il principio si nasconde alla nostra esperienza, ond' egli dicesi trascendente perché non si rinviene da noi se non facendo uso del pensiero dialettico trascendente; o unita al principio stesso che la produce e n' è il soggetto, come accade delle azioni che esercita l' anima nostra sensitiva sul nostro corpo, e allora il principio dicesi esperimentale. Ora l' azione divisa dal suo principio e ricevuta da un altro principio, nel caso nostro dall' anima, come termine straniero, è ciò che costituisce la realità del termine stesso, ed è in questo senso che noi abbiamo posto l' essenza de' corpi nella forza, intendendo per forza un' azione7termine divisa dal suo principio. Quindi apparisce in che maniera gli enti7principio agiscano fra di loro senza immedesimarsi. Gli enti sono atti; ma gli atti sono di due maniere che i metafisici usarono chiamare primi e secondi. Gli atti secondi sono contenuti virtualmente negli atti primi, i quali costituiscono l' essenza dell' ente. Ora se gli enti7principio agissero tra di sé cogli atti primi, avverrebbe la loro immedesimazione, perché sarebbero i principŒ stessi che si unirebbero come principŒ. All' incontro, operando fra di loro soltanto con gli atti secondi, non s' identificano, ma solo si congiungono co' loro termini, e accade che quello che è atto secondo di un ente diventi termine straniero dell' altro reciprocamente. Cosí si spiega la generazione degli enti termini e l' azione reciproca degli enti sintesizzanti. La quale azione all' esperienza nostra si manifesta in un modo piú o meno completo. L' azione adunque degli enti sintesizzanti si può considerare sotto tre aspetti diversi: o come azione de' termini fra loro , o come azione reciproca fra un principio e il suo termine straniero , o come azione de' principŒ fra loro . Quest' ultima maniera di considerarla è la piú completa e dialettica; le due prime sono necessarie all' uomo a cagione dell' imperfezione e della limitazione del suo conoscere esperimentale, e relativo. Conviene altresí distinguere nella comunicazione degli enti sintesizzanti ciò che spetta all' azione costituente da ciò che spetta all' azione modificante . L' azione costituente è quella per la quale sono uniti e reciprocamente posti in essere; l' azione modificante è quella per la quale il termine si modifica restando però sempre unito al principio straniero. Nell' ordine degli enti sensitivi la modificazione del termine non procede se non dall' anima, che è il principio straniero del corpo, o dalla natura del corpo stesso; questi due enti sono quelli che obbligano il principio corporeo a modificare in certi casi la propria azione. Ma niente vieta che v' abbiano degli altri ordini di cose, degli altri enti sintesizzanti dove apparisca la libera e spontanea azione dei due principŒ, e certo poi ciò si scorge avvenire almeno nell' ordine dell' intelligenza soprannaturale; dove i lumi superni come termine oggettivo dello spirito variano e si ammodano non per virtú dell' anima che li riceve, né perché l' uno impedisca l' altro come i corpi, ma per l' azione spontanea e libera del loro principio proprio, che è Dio. Del rimanente, la spontaneità stessa dell' anima sensitiva non è un principio libero; anzi è determinato dalle sue proprie leggi. Queste fanno sí che l' anima sia propensa ed inclinata ad avere il corpo, suo termine, costituito in un dato stato, il quale è « lo stato piú piacevole e ch' ella può ottenere coll' operazione sua piú piacevole ». Di che si raccoglie che vi hanno nell' anima certi atti connaturali, e sono quelli ch' ella fa per arrivare alla condizione immanente a cui aspira, e degli atti opposti alla sua natura e alla sua spontaneità, ai quali è mossa per una violenza esterna. Or si rifletta che ogni percezione parziale che l' anima fa in conseguenza di una forza esterna che modifica il suo corpo, nasce da violenza , perché ella è parziale, laddove l' anima tende ad una condizione universale ed armonica del suo organismo. Quindi quella violenza esterna che modifica il suo corpo suscita in lei una nuova attività spontanea tendente a mettere tutto l' organismo in armonia colla nuova modificazione parziale ricevuta nel suo corpo. E quindi si manifesta la ragione, 1) perché l' azione costituente non è mai violenta, essendo universale e connaturale all' anima (eccetto se intervenisse il caso d' un' affezione morbosa), ed è l' anima stessa che spontaneamente la riceve e la produce; 2) perché l' azione modificante , veniente da cagione esteriore, come quella che è parziale, presenti il concetto della violenza , la quale però è piacevole se suscita nell' anima un' attività connaturale volta a restituire una migliore armonia in tutto il corpo animato, spiacevole poi se non presta occasione a questa nuova armonia. Onde nelle percezioni vi ha sempre violenza, non però sempre spiacevolezza, anzi diletto ove non dissipino l' armonia, ma la migliorino. Diamo ora un' occhiata al sintesismo del corpo, del senso e della intelligenza umana affine di conciliare insieme certe sentenze qua e colà da noi stessi pronunciate, che sembrerebbero discrepanti. Il corpo esterno al nostro sintesizza col nostro per la virtú che ha di mutarlo, onde nasce la sensazione organica. Rimossa l' azione del corpo esterno sul nostro organo sensorio, ne rimane il fantasma o l' attitudine di riprodurlo. Quando si pensa il corpo si pensa ciò che ha operato nel nostro organo sensorio, lo si pensa nell' atto di questa operazione: perocché l' atto, quantunque passato, riman presente all' intelligenza che non conosce prima né poi. Quindi è che tutto il concetto che noi abbiamo dei corpi è concetto che ce li fa conoscere nell' atto della loro operazione sopra di noi, e però nell' atto pel quale sintesizzano con esso noi. E poiché il concetto che abbiam delle cose racchiude la loro essenza a noi intelligibile che è quella a cui diamo il nome, nel caso nostro il nome di corpo, e sulla quale formiamo poi la definizione della cosa; perciò la cosa espressa dalla parola corpo acchiude una relazione sintetica con noi, cioè col nostro sentire; e però la cosa espressa dalla parola corpo non esiste piú se sopprimiamo uno dei due termini di tal relazione sintetica; tolto via adunque il principio sensitivo è tolto via anche il corpo. Rimane a vedere qual sia il sintesismo coll' intelligenza. Gli atti dell' intelligenza ossia le cognizioni sono di due maniere, oggettive e soggettive. Le cognizioni puramente oggettive sono le intuizioni, per le quali si contemplano le cose nella loro essenza e di conseguente nella loro mera possibilità. Or queste intuizioni hanno per oggetto o il solo essere senza determinazioni, ovvero l' essere con determinazioni, p. es. l' essenza del corpo. In questo secondo caso l' intelligenza ha bisogno di prendere dalla realità, e per conseguente dal senso, le determinazioni. Or queste determinazioni non potrebbe pensarle come possibili se il senso non gliene presentasse un esempio , che è appunto quello che da lei viene universalizzato. E qui comincia una prima sintesi fra l' intelligenza e il senso, di modo che non si può pensare un determinato possibile, se questo primo determinato non è innanzi dato dal senso. Non è già che il senso porga questa copia all' intuizione intellettiva; ma mentre le sta presente la copia, ella non vede la copia, ma l' esemplare; per quella legge che abbiamo di sopra dichiarata che ogni agente opera secondo la propria natura. Si dirà che per spiegare questo fatto converrebbe supporre che l' ideale e il reale avessero qualche cosa di comune. E la cosa sta appunto cosí; perocché l' essere reale e l' essere ideale hanno di comune o per meglio dire d' identico l' essere, di cui quelle sono forme categoriche. Ciò che rende a molti difficile intendere questa dottrina si è che essi non arrivano a capire che il reale e l' ideale non è disgiunto per se stesso, ma soltanto per la limitazione nostra e per la disgiunzione delle nostre facoltà, per la qual disgiunzione accade che una delle nostre facoltà, cioè il senso comunichi colla sola forma reale, e quindi ci sembri che il reale si stia da se stesso come cosa compiuta; e l' altra nostra facoltà cioè l' intuizione comunichi colla sola forma ideale, e quindi ci sembri che l' ideale pure stia da sé del tutto separato e segregato dal reale. E qui ci sembra utile cosa di toccare alquanto di quelle questioni che agitarono gli scolastici circa le relazioni reali delle cose. Il fiore di quanto insegnarono le scuole ci par contenuto in questo luogo di San Tommaso: [...OMISSIS...] . Nel qual luogo vi hanno piú verità importanti. E da prima la sentenza che: [...OMISSIS...] , esprime benissimo la natura del reale oscura e inintelligibile per se stessa, dividendosi cioè coll' astrazione dall' intelligenza, quindi bisognosa di trovarsi congiunta coll' ideale acciocché possa essere intesa. Di poi in quelle parole: [...OMISSIS...] , si ha la conferma di quel vero che noi dicevamo che ogni principio opera secondo la propria natura, e però che l' azione del corpo su di noi, è totalmente diversa dall' azione del principio sensitivo che ne è l' effetto. Ma dopo di ciò quella sentenza che la cosa sensibile e intelligibile sia fuori dell' anima, e però non venga tocca dall' atto del principio sensitivo, né da quello del principio intellettivo, esige la debita distinzione, né ella è vera se non limitatamente. Poiché il corpo sensibile si può considerare o nell' atto stesso in cui è unito all' anima e con esso lei sintesizza, ovvero quando si pensa da noi come separato dall' anima. Il corpo nostro sta sempre unito all' anima nostra e con esso lei sintesizza finché dura la vita; egli agisce continuamente nel principio sensitivo, e il principio sensitivo in lui. E` però vero che l' azione della causa ha un modo totalmente diverso dall' effetto, e questo dimostra che sono due nature diverse, due enti affatto diversi; e però la relazione è scambievole: solo si dee dire che questa relazione è formata da due relazioni unilaterali, perché il corpo non è all' anima in quel modo stesso nel quale l' anima è al corpo. Cosí pure, se si considera quella virtú dell' anima intellettiva che muove il principio sensitivo ad operare nel suo termine corporeo, nel tempo in cui essa è in atto, vi ha congiunzione sintetica fra l' intelligenza, il senso ed il corpo; quando poi quella virtú intellettiva non è piú nel suo atto, ella ritiene ancora la congiunzione sintetica o piuttosto l' identificazione col principio sensitivo, ma non immediatamente col corpo. Lo stesso è da dirsi della facoltà dell' intuizione. Or poi se si parla de' corpi esteriori al nostro (a cui soltanto ha posto mente l' Angelico nel luogo allegato), anche questi o si considerano nell' atto in cui sono al nostro congiunti; ovvero si considerano allontanati intieramente da' nostri sensi. Nell' atto stesso in cui essi operano sui nostri sensori, essi sintesizzano con noi mediante il corpo nostro, le cui impressioni da noi sentite diventano segni della loro esistenza, e si prendono altresí quasi cotali rappresentazioni fenomeniche di essi. Ma quando poi i corpi esterni si considerano nel tempo in cui sono rimossi al tutto dal corpo nostro, sono rispetto a questo modo come se non fossero. Non si può dunque dire nell' ordine meramente extrasoggettivo del senso che sieno fuori dell' anima, ma soltanto che non sono nell' anima. Ma l' intelligenza li pensa ancora. Li pensa tali quali erano quando si trovavano nell' atto di agire sull' anima, li pensa con quell' essere che avevano allora come sintesizzanti. Solamente che l' intelligenza con un altro atto si accorge che questi esseri sintesizzanti erano tali per il passato, e che al presente non operano piú sull' anima. Ma la facoltà di predicare il presente o il passato degli enti corporei è diversa dalla facoltà della rappresentazione. Egli è ancora un terzo atto dell' intelligenza, un' altra affermazione dell' anima, quella con la quale l' anima si persuade che esistano al presente i corpi esterni, quantunque rimossi da lei e nulla affatto su di lei operanti. Ella si persuade che esistano perché solitamente è propria dell' ente la permanenza, e ci vuole una ragione per dire che un ente ha cessato di esistere. Ora l' anima non ha poi trovato alcuna causa che li facesse cessare d' esistere. Di che la ragione è questa, che l' intelligenza nostra non percepisce la causa immediata de' corpi cioè il principio corporeo, e però non sa se questa causa continui o cessi di agire. Ma ella suppone che continui ad agire, essendo, come dicevamo, propria dell' ente la perennità e l' immanenza (9). Intendo per enti coordinati quelli che sono della stessa specie. Non abbiamo nessun esempio datoci dall' esperienza di enti coordinati che agiscano immediatamente fra loro, eccetto quello dei corpi che si percuotono e si comunicano il movimento. L' azione di un' anima sull' altra non è puramente immediata, poiché l' un' anima adopera il mezzo de' corpi per agire nell' altra, o agisce investita ne' corpi. I segni stessi che servono di comunicazione fra un' anima e l' altra sono sensibili e corporei. Or come accada l' azione reciproca de' corpi fu da noi già discorso favellando dell' azione degli enti sintesizzanti. Se poi ci possano avere altri enti principŒ coordinati i quali agiscano fra di loro immediatamente, né li possiamo affermare, né negare; non involgendo tale supposizione contraddizione manifesta, benché l' esperienza nulla affatto ce ne riveli. Dall' azione sintetica di cui abbiamo fin qui ragionato conviene distinguere l' azione ontologica , che si manifesta negli enti ontologicamente subordinati. Vi hanno due maniere di azioni ontologiche rispondenti a quelle due maniere di azioni sintetiche, che abbiamo chiamate costituenti e modificanti; trattiamone separatamente. L' esperienza non ci fa spettatori di questa maniera d' azioni, ma ci porge de' fatti, da' quali il discorso dialettico trascendentale vi ci conduce; né esse involgono contraddizione, e sono necessarie a spiegare i fenomeni che ci presenta il mondo. E poiché mediante l' azione ontologica rimane spiegata l' origine degli enti relativi, ci bisogna prima toccare della natura di questi enti relativi non mentali o ideali, ma reali. Il che faremo riassumendo il detto in forma di tesi e di corollari. Tesi I - L' ente reale è costituito dal sentimento. Tesi II - Si danno degli enti reali che sono principio di sentimento, e degli enti reali che sono termine di sentimento. Tesi III - L' ente7principio è incompleto se si separa dal suo termine, ma completo in se stesso se a questo congiunto: l' ente termine è incompleto tanto se si separa dal suo principio, quanto se sta unito ad un principio straniero. Tesi IV - L' ente7principio relativo è costituito dalla limitazione ontologica del sentimento. Tesi V - La limitazione ontologica degli enti relativi è di due maniere: l' una nasce dalla limitazione del termine, e l' altra dalla limitazione del principio. 1) Dalla qual tesi viene il corollario, che se vi avesse un ente il cui termine fosse infinito, e questo non gli fosse straniero, ma proprio, quest' ente sarebbe Dio. 2) Se ne cava anche il giusto concetto della limitazione ontologica, che è quella che fa sí che un ente non sia l' altro, e piú in generale quella che costituisce l' ente. Raccogliendo ora ciò che abbiam detto, possiamo definire in che precisamente consista la limitazione ontologica. Ella consiste nel principio non già separato dal suo termine, ma nel principio unito al suo termine, da questo posto in atto e individuato. Dove è da osservare, che il principio dal termine acquista un' attività che non aveva prima, venendo suscitata e posta in essere la sua attività. Ma l' atto primo di quest' attività suscitata e posta in essere è virtuale rispetto agli atti secondi, di maniera che il principio suscitato ed individuato, oltre essere un atto primo, è una prima potenza o virtú agli atti secondi. E questa prima virtú o potenza non è già conseguente all' atto primo, ma è lo stesso atto primo, il quale è anche virtú o potenza. Quindi il sentimento della prima potenza o virtú è l' elemento sostanziale dell' individuo, è quello che lo costituisce un ente distinto dagli altri enti, è ciò che v' ha nell' ente di immutabile; laddove il sentimento degli atti secondi è ciò che vi ha nell' ente di mutabile. Tesi VI - Ripugna che piú enti coordinati abbiano un termine identico. Tesi VII - Non ripugna che il medesimo termine sia straniero rispetto a un principio, e proprio rispetto ad un altro; ma in tal caso la medesimezza del termine non esiste se non in astratto, e per rispetto alla pura realità; laddove relativamente ai due principŒ egli è un termine diverso. Tesi VIII - Essendo il principio individuato di un ente relativo un sentimento di limitazione, se vi avesse un altro principio il cui termine contenesse tutto ciò che contiene il termine di quello e qualche cosa di piú, ciò non ripugnerebbe, e l' identità parziale dei termini non esisterebbe che in astratto, e per rispetto alla pura realità. Tesi IX - Il principio che ha un termine finito straniero, e il principio che ha lo stesso termine come proprio, sono due enti relativi finiti. Qui può nascere la domanda, se fra l' essere che ha il termine proprio e l' essere che ha il termine straniero vi abbia necessariamente non solo azione del primo sul secondo, ma ben anco reazione del secondo sul primo. E rispondiamo che questa azione e reazione o reciprocità d' azione non è assolutamente parlando necessaria, giacché ella è cavata da un' osservazione e ristretta a ciò che accade in alcuni fenomeni de' corpi (1). E certamente nell' unione del soggetto coll' oggetto non tiene una tal legge, perocché l' oggetto (l' idea) non è suscettibile di passione alcuna. Ma né anche nell' ordine della realità si può dimostrare che dove vi ha un' azione, ivi debba essere anche una reazione. In fatti le azioni del tutto interne di un ente non hanno propriamente reazione, né azione contrapposta. Finalmente né anche dove si scorge azione e passione, la quale trovasi nell' ordine delle cose reali finite, non è necessario che vi abbia sempre reazione, ossia azione reciproca. Tesi X - Come abbiamo veduto che quell' ente che ha un termine straniero può avere nel suo seno altri enti, ciascuno dei quali abbia per termine una parte del termine totale, purché questa parte costituisca un tutto perfettamente armonico ed uno; cosí non ripugna, che quell' ente che ha un termine proprio abbia nel suo seno altri enti aventi un termine proprio, porzione del termine totale, purché questa porzione costituisca da sé sola un tutto armonico e perfettamente uno. Quindi, se quella che presentemente si conosce come potenza di un ente potesse venir separata dal suo soggetto e stare da sé, incontanente ella stessa diverrebbe un soggetto, rimarrebbe una virtú che avrebbe natura di ente principio, di sostanza. E viceversa, se quella che presentemente è la virtú prima di un ente, divenisse la virtú seconda, venendole aggiunta una virtú anteriore come suo principio, egli cesserebbe d' essere un ente, un soggetto, perderebbe la propria individuazione, non sarebbe piú un principio individuato, né una sostanza; ma bensí una mera potenza di un altro soggetto, perdendo la sua limitazione ontologica. Tesi XI - Se si tratta di un ente maggiore che ha un termine proprio, l' ente minore non può nascere nel suo seno se l' ente maggiore non è intelligente e volitivo, e non lo suscita con un atto pratico della sua volontà. Tesi XII - L' ente che ha un termine straniero non può esser la cagione efficiente di quelli enti minori che sorgessero nel suo termine, ma la cagione efficiente di essi vuole essere il principio proprio del termine straniero, benché il principio straniero possa contribuirvi indirettamente. Tesi XIII - L' ente minore relativo, originato dall' azione ontologica costituente, non può avere un termine del tutto proprio, ma deve avere un termine straniero. Tesi XIV - L' ente intellettivo finito è creato immediatamente da Dio. Abbiamo detto che due sono le limitazioni ontologiche degli enti relativi e finiti: l' una nascente dal loro termine limitato, l' altra dall' estraneità del principio. Or nell' ente intellettivo il termine è l' idea, la quale è infinita. Questa dunque non può esser data che dall' infinito medesimo, cioè da Dio. Quindi l' origine dell' ente intellettivo finito deve ripetersi immediatamente da Dio. La sua limitazione nasce dall' essere questo suo termine a lui straniero. L' ente puramente intellettivo è quello che non ha alcun altro atto fuori che l' intuizione dell' idea. Il sentimento di questo ente è tutto oggettivo perché abita nell' idea. In che consiste adunque la sua limitazione ontologica? In questo, che non ha sentimento di alcuna realità. Che altro non sente se non l' idea. Questo sentimento purissimo dell' idea è una limitazione massima. Qui dunque l' azione ontologica costituente si ridurrebbe ad un' azione, per la quale Iddio distingue mentalmente in se stesso il sentimento della pura idea dal sentimento suo proprio, che è il completo sentimento di se stesso, e con atto libero fa sí che il sentimento della pura idea, distinto colla sua mente, sia anche isolatamente preso, e questo sentimento isolato, diverso totalmente dal divino (sentimento d' isolamento e di estrema limitazione), è l' ente intuitivo finito, da Dio in tal guisa creato. Tesi XV - Se l' ente principio ha un termine straniero finito, allora l' ente principio straniero e l' ente principio proprio devono avere un' origine contemporanea. La costituzione dunque degli enti relativi si fa per un' azione, che esercita un ente principio sul suo termine proprio. Ella esige che in questo termine proprio l' ente principio possa distinguere mentalmente qualche porzione, che, considerata da sé, ha unità ed armonia. La qual divisione puramente mentale non potrebbe farsi senza che il principio che la fa sia intelligente. Ma posciaché una parte del termine proprio divisa soltanto mentalmente non è meno realmente unita al tutto, e neppure si può chiamare parte reale di lui, perocché non vi ha neppure da lei col tutto una distinzione reale; perciò un nuovo ente reale non si origina con questo solo, ma è necessario oltre a ciò di supporre, che il principio che lo produce eserciti un' attività, la quale sia volontaria , come quella che opera dietro l' indirizzo della intelligenza, e sia libera , perché quest' azione non è necessaria all' ente principio operante, e non si racchiude nel concetto che n' esprime l' essenza. Ora quest' atto di libera volontà consiste nel far sí che in quella parte che fu distinta mentalmente nel suo termine proprio, e che è dotata di sentimento e di vita perché tutto il termine è sentimento e vita, nasca un sentimento proprio d' isolamento e di limitazione, il quale non s' estenda a tutto il termine, ma, racchiuso in sé, diventi egli stesso un sentimento uno ed armonico. E questo sentimento di limitazione è il nuovo ente individuato surto nel seno dell' ente maggiore, a cui come a sua radice s' attiene, in quanto alla realità pura scevra di sentimento e di cognizione, onde l' ente minore non può sentire né conoscere per se stesso l' ente maggiore. E posciaché in ogni sentimento vi è attività, se questo sentimento è unico ed armonico, l' attività si accentra ed unifica, prendendo la denominazione di ente principio. Attesa questa costituzione degli enti relativi, non è piú gran fatto difficile a dichiarare la natura dell' azione ontologica modificante, e a conciliare l' azione dell' ente maggiore coll' azione dell' ente minore. E veramente, come vi hanno due enti subordinati, il maggiore e il minore, cosí vi hanno pure due cause subordinate, due virtú, due azioni. L' ente maggiore colla sua azione ontologica costituente: 1) limitò il termine uno ed armonico; 2) fece sí che questo termine avesse il sentimento della propria limitazione e del proprio isolamento. Queste due cose che coll' astrazione da noi si dividono, propriamente non ne formano che una, e l' azione costituente è un atto solo, la limitazione del sentimento. Perocché il sentimento è termine ad un tempo e principio, secondo che si considera come finiente o come cominciante, in quanto è senziente o in quanto è sentito. Ogni sentimento ha queste due faccie, e se non le avesse non sarebbe sentimento. Or è da considerarsi che il sentimento della limitazione ontologica che costituisce un ente relativo, è un sentimento primo, il quale virtualmente contiene molti sentimenti secondi, che sono gli atti secondi ne' quali egli si sviluppa. Questi atti secondi non mutano il sentimento primo; ma mentre a principio li conteneva soltanto virtualmente in istato d' indistinzione, poscia li contiene anche in istato di distinzione. Il trovarsi di tali atti secondi nell' atto primo, virtualmente o attualmente, non muta la limitazione ontologica dell' ente. Tuttavia, benché l' ente rimanga identico, il suo modo si muta per gli atti secondi. Qui nasce dunque la questione, qual parte abbia l' attività dell' ente maggiore negli atti secondi dell' ente minore; e quella parte che vi ha l' ente maggiore si dice azione ontologica modificante. Ma qui è da osservare, che agli atti secondi di un ente limitato e finito concorre altresí qual causa l' azione sintesizzante. Nella Psicologia noi abbiamo trattato a lungo di quest' azione. Noi ci riferiamo in questo punto a quello che abbiamo colà ragionato. Ma perciocché gli enti sintesizzanti hanno bisogno di un ente superiore che li costituisca; perciò al di sopra dell' azione sintesizzante sta l' azione ontologica, e non solo quella che abbiamo chiamata costituente, ma ben anco quella che abbiamo chiamata modificante. L' azione ontologica costituente non fa, a dir vero, se non porre in essere il sentimento limitato che costituisce la natura dell' ente minore e prodotto. L' azione sintesizzante da principio è ella stessa un atto primo, e però una virtú rispetto agli atti seguenti. Ma il sentimento limitato e isolato non può esser posto se non col suo modo, perocché un sentimento privo del suo modo di essere non è piú che un astratto. Quindi l' azione ontologica costituente involge di necessità l' azione ontologica modificante, il che si prova cosí: l' azione costituente continua altrettanto quanto continua l' ente, ha natura di azione immanente come l' ente stesso è un primo atto immanente. Ma essa pone non solo l' ente, ma anche il modo dell' ente. In ogni istante dunque essa pone l' ente con quel modo che egli ha in quell' istante. Ma in quell' istante che l' ente sta per fare l' atto secondo, o che lo ha già fatto, il suo modo è costituito anche dall' assetto in cui si trova nell' atto secondo. Dunque l' azione costituente pone l' ente in quell' assetto o in quell' atto secondo; e in quanto pone tali svolgimenti dell' ente ella dicesi modificante. Ma negli enti sintesizzanti l' un ente è determinato all' atto secondo da una mutazione che nasce nel suo termine straniero e questa mutazione immediatamente è prodotta dall' azione del principio proprio del termine straniero. L' azione ontologica modificante adunque non agisce direttamente nel termine straniero, ma agisce prima nel principio proprio di questo termine, e cosí venendo questo principio a cangiare il modo della sua attività, questa attività cangia il termine straniero, e pel cangiamento del termine straniero anche il principio straniero cangia il modo della sua attività. Ma questo cangiamento suppone l' azione ontologica che pone in un altro modo il principio straniero. L' azione ontologica adunque opera in tutti e due i principŒ, ma in modo che le modificazioni de' due principŒ si corrispondono armonicamente. La virtú poi de' singoli enti sintesizzanti ha questo limite, che ella non può svolgersi agli atti secondi se non ne riceve lo stimolo dal suo termine, e quindi rimotamente dall' azione dell' altro ente principio che sintesizza con esso. Onde, data quest' azione stimolante, l' ente principio si modifica. Ma l' azione stimolante non è ancora la modificazione dell' ente principio individuato nel proprio sentimento, ma è un atto che si fa nella realità pura, la quale è base e radice de' due individui, ma non è gl' individui stessi, ond' essa è anteriore di concetto al sentimento individuato. Tuttavia l' azione dell' ente individuato, s' estende col suo effetto alla realità pura nella quale egli è radicato, e nella quale è pur radicato l' ente con esso lui sintesizzante, e la realità pura che riceve quest' azione la comunica all' altro ente, che ella ha pure nel suo seno. L' azione adunque ontologica modificante è quella sola che può spiegare l' azione degli enti sintesizzanti fra loro, e anche quella degli enti coordinati; poiché quest' azione non può essere spiegata senza supporre che v' abbia fra essi qualche elemento comune. Ma niente hanno essi di comune, che anzi nell' essere intieramente divisi l' uno dall' altro consiste la loro individualità e la loro natura di enti. Ma la comunicazione esiste tuttavia fuori di essi mediante l' ente maggiore e quella realità, che gli enti hanno per loro base e che tuttavia non è dessi, che appartiene perciò all' ente maggiore, in cui essi stessi gli enti minori sono. Gli enti che cadono nella percezione si riducono a tre generi soli: cioè agl' insensitivi , materia, corpi, enti termini; ai sensitivi , e agl' intellettivi . Gli enti insensitivi, puri termini, non hanno azione propria, come vedemmo, perché l' azione spetta sempre al principio che ne è il soggetto. Rimane dunque che noi qui parliamo degli altri due. Il principio sensitivo considerato in relazione a' suoi atti secondi è una virtú, ossia una potenza determinata, e condizionata soltanto allo stimolo. Posta questa condizione, l' ente sensitivo ha nello stesso sentimento primo che lo costituisce la determinazione degli atti che deve emettere, e questa determinazione è ciò che si chiama spontaneità. Questa attività ch' egli esprime in atti secondi sotto lo stimolo, dimostra che tali atti a lui appartengono come quelli che muovono da lui, cioè da quella virtú prima che li contiene, e che è egli stesso. Or come la virtú prima che è lui stesso è posta dall' azione ontologica costituente, cosí del pari da quest' azione è posta la sua spontaneità e gli atti da lei esercitati ed espressi, rispetto ai quali ella riceve il nome di modificante. Cosí le due cause sono subordinate, l' ente sensitivo è la causa immediata di tali atti, e il suo ente maggiore n' è la causa mediata. Ma la causa immediata è il soggetto di quelli atti i quali sono in lui contenuti, laddove la causa mediata non è il soggetto di quegli atti, perché colla sua azione pone un altro ente diverso da sé, e pone gli atti di questo ente, che perciò non sono atti suoi appunto perché sono atti d' un ente diverso. La causa mediata, cioè l' ente maggiore, è bensí soggetto dell' azione ontologica costituente e modificante, ma non dell' ente prodotto da quest' azione e de' suoi atti; ché non sarebbe ente se appartenesse egli stesso ad un altro soggetto; relativamente a sé egli non appartiene che a se stesso, perocché niente sente fuori di sé, e il suo sentire è il suo esistere. Ma rispetto all' ente intelligente è da farsi una distinzione; poiché o egli non si trova in istato di libertà bilaterale, o si trova in questo stato. Se non si trova in istato di libertà bilaterale, di maniera che tutti gli atti secondi sieno determinati nella sua virtú naturale, o abituale, in tal caso la concorrenza dell' ente maggiore e del minore, cioè la conciliazione della sua propria azione coll' azione ontologica che lo costituisce e modifica, si spiega in modo simile a quello che abbiamo esposto per gli enti meramente sensitivi. Ma grande difficoltà s' incontra a conciliare la libertà bilaterale coll' azione ontologica modificante. Lo scopo del discorso deve esser quello di difendere la libertà bilaterale rispetto alle azioni morali, come quella che è condizione necessaria del merito. L' ente relativo è un sentimento limitato: in quanto è sentimento egli è positivo, e in quanto è limitato egli è negativo. Ma poiché la natura propria di lui consiste nel sentimento della stessa limitazione, perciò la sua natura consiste nel negativo, la limitazione è quella che lo individua, il sentimento solo non lo costituirebbe ancora ente individuo. Quindi la limitazione appartiene a lui solo, e non all' ente maggiore, laddove il sentimento come positivo, astraendo dalla limitazione, non appartiene piú a lui che già piú non esiste, ma all' ente maggiore. Quindi anche nelle operazioni o atti secondi di un tal ente rimangono i due elementi, l' uno che tiene del positivo, e l' altro del negativo. Ora, che tutta la parte positiva dell' azione venga ad un tempo posta dall' ente minore e dall' ente maggiore, a quel modo che abbiamo detto degli enti puramente sensitivi, può ammettersi senza difficoltà; purché la parte negativa dell' azione non riconosca per sua causa se non l' ente minore. E che cosí debba essere, vedesi da questo, che il limite, il negativo, non appartiene punto all' ente maggiore. Dunque né anco gli effetti negativi e limitativi gli possono appartenere. Ma la natura del mal morale consiste appunto nella negazione o privazione, non essendo il male che cosa negativa. Dunque se il bene dell' azione morale esige la concorrenza delle azioni de' due enti il maggiore e il minore, non è da dire lo stesso del male che si trova nelle dette azioni, il quale non può appartenere che all' ente minore come quello che è solo soggetto della limitazione e della negazione. Ma il positivo e il negativo dell' azione è intimamente congiunto, perocché il negativo non è che il limite del positivo: dunque chi è l' autore del positivo, è necessariamente anche l' autore del negativo, come quello che potrebbe porre una quantità maggiore di positivo e cosí rimuovere i limiti. Quest' obbiezione, fortissima in apparenza, altro non prova se non che non ogni limitazione degli enti è accompagnata dalla libertà, non sempre l' elemento negativo è causa di un male libero. La libertà bilaterale non si mantiene già da noi per l' unica ragione che nell' operare dell' ente libero v' abbia del negativo; ma solamente diciamo, che se non v' avesse del negativo non vi avrebbe libertà al bene e al male morale, di maniera che l' elemento negativo è condizione della libertà bilaterale, non è quello che la forma. E in altre parole, non ogni elemento negativo è segno e principio di libertà, ma sí un dato speciale elemento negativo. Rimane adunque che noi vediamo qual sia questa specie di limitazione e di negazione che origina la libertà. La libertà bilaterale, non ci potrebbe essere, se l' ente intellettivo fosse già per sua natura tanto aderente al bene morale, che in niuna maniera si potesse da lui alienare. E questa è già una limitazione e negazione dell' ente libero, non aderire compiutamente e immobilmente all' ordine morale. Ma egli non sarebbe libero neppure qualora aderisse pienamente e immobilmente al male, perocché in tal caso gli mancherebbe fin anco la possibilità del bene. La libertà bilaterale suppone non l' atto ultimato del bene, ma soltanto la potenza di lui, per dir meglio la potenza di eleggere fra lui e il male. La potenza che si riferisce ad atti perfettivi del soggetto è sempre una limitazione, e cosí la libertà bilaterale si fonda nella limitazione, nell' elemento negativo dell' ente libero. La differenza fra questa speciale limitazione che costituisce la libertà bilaterale e la limitazione dell' ente sensitivo che non ha libertà, è degna da perscrutarsi. L' ente sensitivo, considerato in relazione a' suoi atti secondi, è una virtú che li contiene tutti, benché ancora involuti ed indistinti: condizionati altresí allo stimolo. Tutt' altra cosa è la potenza della libertà bilaterale. Perocché gli atti secondi di lei non sono contenuti e determinati in essa, anche dato qualsivoglia stimolo che non la distrugga; potendo essa determinarsi all' atto buono, o al suo opposto il cattivo. Dirò meglio; il suo atto proprio, e come tale contenuto in essa virtualmente, non è altro che l' elezione stessa, e l' elezione è quella che determina l' ente all' atto buono o al cattivo, e perciò essa stessa non è né bene né male, ma soltanto è la causa del bene e del male. L' azione ontologica adunque, che costituisce questa potenza dell' elezione libera, diversissima da tutte le altre potenze, altro non fa se non costituire appunto la potenza del bene e del male né all' uno né all' altro determinata. Questa azione ontologica adunque non toglie, ma forma la libertà. Ora posciaché l' elezione è l' atto proprio della libertà, a cui poi consegue la determinazione e l' adesione al bene e al male; perciò, quando l' azione ontologica pone l' ente libero nell' atto dell' elezione (e allora dicesi modificante), non determina l' uomo al bene o al male, ma solamente il pone nell' atto di eleggere l' uno o l' altro. Or quest' atto di eleggere altro non è che la stessa libertà in atto, a cui la determinazione al bene o al male conseguita in appresso come suo effetto. Cosí l' azione ontologica o costituente o modificante non pregiudica in modo alcuno alla libertà in potenza o in atto, che anzi è quella che le dà l' essere. Fatta poi l' elezione (atto iniziale e puramente interno) allora segue la determinazione e l' adesione della volontà al bene o al male, e l' azione ontologica modificante pone anche quest' atto di adesione, ma questa determinazione conseguente non pregiudica neppur ella punto né poco alla libertà, poiché l' atto della libertà l' ha preceduta, il quale atto è quella libera elezione che ha determinato l' adesione della volontà al bene o al male. Ora poi la libera elezione non vi potrebbe essere se non vi avesse i due termini fra cui eleggere: che sono il bene ed il male. Ma il bene appartiene all' elemento positivo dell' ente, e il male al negativo della limitazione. Se non ci fosse dunque questo secondo elemento, la limitazione dell' ente, non ci avrebbe libertà al bene e al male. In questo senso dicevamo che la libertà è cosa conseguente alla limitazione, non ad ogni limitazione, ma ad una limitazione propria dell' ente morale, ad una limitazione dell' intelligenza e della volontà. E perciocché la natura di ogni ente principio relativo consiste nel sentimento della propria limitazione che lo individua, per questo la potenza del male è propria dell' ente intelligente e morale; laddove la potenza del bene procede dall' azione ontologica dell' ente maggiore, che non è il soggetto della limitazione del minore, benché ne sia la causa. 1) La realità pura senza determinazione è un concetto astratto che non dice né ente, né sostanza, né accidente, né principio, né termine, né qualità, né quantità, ma dice solamente un modo dell' essere. Se da questo concetto astrattissimo di realità si discende ad uno meno astratto, ma però anch' esso astratto, e si considera quella realità che è termine esteso del sentimento, ella prende il nome di materia . La materia, presa cosí senza altre determinazioni, è illimitata o per dir meglio, indefinita, e però priva ancora di quantità. 2) Niente di reale può esistere indeterminato. Si prova perché ripugna. Infatti l' esistere indeterminato vuol dire essere ad un tempo e non essere. Perocché l' ente racchiude nel suo concetto certe condizioni o qualità, senza le quali non è ente, e queste sono le sue determinazioni; onde senza queste esisterebbe senza se stesso, senza ciò che ha in sé di essenziale. 3) La realità è di due generi, cioè principio e termine . Alla realità termine appartiene la materia, come dicemmo, alla realità principio lo spirito, cioè il principio sensitivo, il principio intellettivo, e il razionale. 4) Quindi quattro generi di forme: A ) La forma che determina e individua la materia (primo genere di forme). Questa forma produce la quantità dimensiva , la figura , il numero degli individui materiali, le parti. B ) La materia formata determina ed individua il principio sensitivo (secondo genere di forme). C ) Ciò che determina e individua il principio intellettivo è l' ente oggetto (terzo genere di forme oggettive pure). D ) Ciò che determina il principio razionale è l' ente oggetto7soggetto (quarto genere di forme con determinazioni venienti dal soggetto). 5) Finalmente noi possiamo anche raccogliere da tutto quello che detto è: A ) Che la moltiplicazione degli individui reali corporei animali e umani nasce dalla divisione della materia, la qual divisione è conseguente alla forma propria di questa. B ) Che la moltiplicazione delle specie nasce dalla varia natura del termine. Cioè, tostoché un termine ontologicamente considerato è cosí limitato, che l' uno esclude da sé l' altro, onde fra l' uno e l' altro non v' ha graduazione, ma intera separazione, per modo che ci vuole un' altra idea a pensarlo; questo termine suscita nel principio un sentimento pure cosí esclusivo , che non è per gradi ma in tutto da un altro sentimento diverso, nel che consiste, come vedemmo, la limitazione ontologica. Perché poi un termine si renda cosí esclusivo, come l' ente sia suscettivo di tale determinazione, quante possano essere tali limitazioni ontologiche, tutto questo, come abbiam detto, giace occulto nell' abisso dell' essere stesso: quei sentimenti specifici hanno radice in altrettanti atti esclusivi dell' essere. C ) Finalmente la moltiplicazione dei generi è dovuta al pensiero astratto, il quale nondimeno si fonda sull' ordine intrinseco dell' ente quando in questo distingue piú cose: in quanto poi le separa e le considera a parte, egli opera secondo le sue proprie leggi soggettive. I generi poi, che si fanno prendendo qualche fondamento puramente mentale, dovrebbonsi, anziché generi , chiamare classi . Le quali cose tutte parendoci che debbano riuscire difficili a ben cogliersi, ed essendo molte a mantenersi distinte nel pensiero, non dispiaccia al lettore se noi ci intratteniamo ad aggiungervi quella chiarezza e quella distinzione maggiore che per noi si possa. Al quale intento nostro primieramente ci proponiamo la questione, se l' ente reale abbia alcun sentimento dei principŒ che sono in lui fisicamente precedenti. Primieramente dee rimaner fermo che il principio si sente unicamente nel termine. Di poi è ancora da aversi presente, che ogni principio fisicamente non è ancora l' ente, il quale esiste soltanto per la sua ultima determinazione. In terzo luogo è da rammentare, che i principŒ precedenti s' identificano col principio proprio dell' ente; perocché è sempre il primo principio quello che, venendogli dati nuovi termini, mette fuori nuovi atti primi nella loro specie, e però è lo stesso primo principio che diviene successivamente tutti gli altri principŒ, e finalmente l' ultimo che costituisce l' ente. Quindi accade, che i diversi termini legati l' un coll' altro, e l' uno all' altro fisicamente subordinati, giungono a costituire un termine solo organato di piú termini, il quale è il termine proprio dell' ente. Le quali cose premesse, egli è manifesto, che tutti i principŒ debbono avere il loro sentimento in questo termine complesso ed organato a cui si riferiscono, un sentimento però, che ha la stessa unità e lo stesso organismo del termine dove risiede. Di qui procede, che il principio proprio di un ente abbia in sé qualche sentimento proprio della sua comunità con altri enti; giacché noi vedemmo che i principŒ precedenti sono comuni a piú enti, e come tali sono indeterminati, e però non costituiscono ancora nessuno degli enti particolari, ossia degli individui a cui sono comuni. Venendo ora a trattar di quel doppio modo dell' essere, pel quale un ente esiste in sé ed anco esiste in un altro ente, noi stimiamo dovere prima di tutto restringere la questione ontologica, cosí ampia in se stessa, riducendoci qui a favellare soltanto di quelle due maniere di essere, onde un ente si concepisce in se stesso, e si concepisce in noi. La parola noi esprime il principio sensitivo ed intellettivo. « Essere in noi »adunque significa, essere nel nostro principio sensitivo e intellettivo. Laonde tutto ciò che fosse del tutto alieno dal nostro sentimento o dalla nostra intelligenza, in una parola dal nostro principio razionale , non sarebbe veramente in noi, qualunque altra attinenza potesse avere coi principŒ ontologicamente anteriori a noi, dai quali pur dipendiamo. Di qui si può raccogliere una dichiarazione dell' espressione piú universale: « un ente esistere in un altro ». Perocché si scorge, che l' esistenza di un ente in un altro (trattandosi di enti sensitivi od intellettivi) è relativa all' ente che comprende un altro, o che è da un altro compreso. In una parola, l' essenza dell' ente reale soggettivo, è sentimento. Acciocché dunque un altro ente sia in lui, deve essere nel suo sentimento: se non ha l' altro ente nel suo proprio sentimento, non ha l' altro ente in sé. Questa relatività dell' inesistenza consegue alla limitazione ontologica, per la quale un sentimento sostanziale esclude l' altro, benché un sentimento sostanziale possa essere piú ampio di un altro. Questa proposizione è provata pur coll' osservare quale sia l' ente da noi intuíto. L' ente da noi intuíto è puro essere, è quell' idea per la quale noi siamo atti a dire che una cosa è, per la quale siamo atti a giudicare. Quest' essere della mente è indeterminato. Se l' essere intuíto è pienamente indeterminato, dunque egli è puro essere , senza i suoi termini: l' essere dunque ci è stato dato nella sua pura essenza, inizialmente, giacché l' essenza è l' inizio degli enti, e molto piú senza l' aggiunta di alcun fenomeno. Quindi l' essere puro da ogni sua determinazione, intuíto di continuo dall' intelligenza, non ha veruna azione in noi, ma la sola presenza ; il che bisogna di spiegazione pe' diversi significati della parola azione . Ogni qualvolta si scorge un effetto, suol dirsi che vi ha un' azione che l' ha prodotto. Qui prendesi azione per causa . Ma il comune degli uomini non osserva, che l' azione che si riferisce all' effetto, talora è la stessa causa, lo stesso ente che ha la relazione di causa; tal altra volta l' azione è distinta dall' ente causante, è un atto secondo di lui, non lo stesso suo atto primo. Eppure vi hanno effetti che debbon la loro esistenza, non già ad una azione distinta dall' ente causante, ma ad un' azione che è l' atto primo dell' ente causante, e perciò è lo stesso ente causante. Se noi vogliamo fissare un canone universale, col quale si conosca quali enti agiscano in altri col loro atto primo, colla loro presenza, potremo esprimerlo in questo modo: quegli enti i quali hanno dalla loro stessa essenza di essere o di poter essere in altri, questi agiscono col loro atto primo: e però non hanno azione nel senso volgare della parola, ma hanno soltanto presenza. Il qual canone applicato all' essere per essenza, cioè all' essere ideale, ci fa conoscere incontanente, che quest' essere sta nell' intelligenza nostra senza alcuna azione seconda ed accidentale; perocché egli ha per sua propria essenza l' essere nelle menti. Ora l' essere per essenza è appunto il termine oggettivo delle intelligenze, come vedemmo. Dunque il suo atto nelle menti è lui stesso. L' essere dunque è in noi quale è in se stesso. Di piú. Se noi consideriamo attentamente che cosa racchiuda il pensiero del puro essere, se meditiamo il significato della parola è , senz' aggiungervi nulla; noi ci convinciamo indubbiamente, che nell' essere pensato in tal modo non entra alcuna relazione con noi, né con alcun altro ente particolare, né con alcun individuo (il quale è formato da termini che determinano compiutamente l' essere). Perciò noi non mescoliamo coll' essere puro, oggetto dell' intuizione, niun nostro sentimento, niente di soggettivo, né manco di relativo; ma pensiamo l' atto primissimo di ogni cosa, prescindendo affatto dalla cosa di cui egli è atto. Quindi nell' essere non cade niun elemento fenomenale . L' essere adunque, qual' è posto nella intuizione, è scevro da ogni relazione colla mente stessa e da ogni sentimento. Onde la mente l' intuisce non apprendendo in lui relazione alcuna, l' apprende in un modo assoluto . Altro è dunque il pensare l' ente assolutamente ossia in modo assoluto, altro è il pensar l' ente assoluto (1). Pensare l' ente in modo assoluto, vuol dire pensar l' essere, prescindendo da ogni sua determinazione, pronunciare collo spirito nostro il monosillabo è , senz' altra aggiunta: questo modo di pensare appartiene al solo oggetto dell' intuizione, sia che quest' oggetto puro s' intuisca (essere), ovvero anche si affermi e si pronunci ( è ). All' incontro pensare l' ente assoluto è pensare l' ente infinito determinato in se stesso coi suoi termini infiniti e categorici (Dio). Quindi l' oggetto dell' intuizione non è l' ente assoluto, ma è il modo assoluto dell' essere, opposto al modo relativo . Ora, perocché l' intuizione è il primo di tutti i pensieri, ogni altro pensiero la suppone e la contiene. Il che dimostra che in niun pensiero manca giammai il modo assoluto dell' essere e del pensare. Che anzi questo modo assoluto è quello che caratterizza il pensare, e costituisce la differenza essenziale del pensare dal sentire . Quindi s' intende che cosa voglia dire « pensare una cosa in sé, o per sé ». Vuol dire pensarla in quella guisa appunto nella quale si pensa l' oggetto dell' intuizione, pensarla come oggetto. Queste maniere di dire esprimono il modo del pensare , e medesimamente il modo di essere . Dunque tutti gli enti, tutte le entità hanno per conseguente quel modo categorico di essere, che s' esprime colla parola oggettivo , ed è quel modo pel quale esistono essenzialmente in una mente intuente; e conseguentemente possono esistere in tutte le menti intuenti. Si può dunque pensare in un modo assoluto anche l' ente relativo , perocché la relazione appartiene all' ente, e l' assoluto appartiene al modo. Tutti gli enti relativi hanno un modo assoluto di essere, e quest' è il loro modo categorico ideale ossia oggettivo. Vero è che questo modo assoluto non è quello che li costituisce enti a se stessi, perché l' essere enti a se stessi è un modo relativo; ma il loro modo relativo è però congiunto al loro modo assoluto che precede ontologicamente e categoricamente la loro propria relativa esistenza (1). Tutto quello che non è ente puro, oggetto per la sua stessa essenza, si può dire fenomenico appunto perché egli non ha in se stesso le condizioni dell' ente fino che si considera separato da quello che per la sua propria essenza è ente per sé. Non è già che v' abbia qualche cosa che sia separata dall' ente, se l' unione e la separazione si consideri rispetto all' ente ontologicamente primo; ma l' entità relativa è separata considerando la separazione rispetto a lei stessa, poiché ella non sente la sua congiunzione coll' ente, attesa la limitazione ontologica del suo sentimento che la chiude in se stessa. Ora il sentire di questa entità essendo tutto ciò che ella è, e il suo sentire, benché sostanziale, essendo separato da quello che per la propria essenza è ente per sé, perché questo non cade in un tale sentire; consegue che fino che rimane questa separazione, ella non sia ente per sé; onde a ragione si chiama fenomeno . Ma per mezzo della mente che unisce il fenomeno sostanziale coll' ente per sé, anche il fenomeno si eleva alla condizione di ente per sé, perché viene considerato nell' oggetto, vien pensato in modo assoluto, viene oggettivato. Dobbiamo avvertire che i fenomeni si partono in due classi, che sono i fenomeni sostanziali , e i fenomeni conseguenti ai sostanziali , a cui si riducono anche gli accidentali. I fenomeni sostanziali sono quelli che ci si presentano come atti primi di un sentimento relativo, che escludono tutti gli altri fenomeni, eccetto quelli che a loro susseguono come atti secondi. I fenomeni conseguenti ai sostanziali sono atti secondi di questi, proprŒ, integrali, accidentali, ecc.. Quando la mente intuente l' essere concepisce per mezzo di questo i fenomeni sostanziali, ella li concepisce senza piú come enti. Ma i fenomeni conseguenti ai sostanziali non può ella concepirli come enti se non in unione coi fenomeni sostanziali dai quali dipendono; perocché ogni ente ha questa condizione, di dover essere un atto primo. I fenomeni sostanziali dunque sono i veri rappresentatori degli enti, e la regola onde giudicare della legittimità delle rappresentazioni che ce ne fanno i fenomeni secondari e conseguenti. Questi hanno anch' essi virtú di rappresentare, ma solo allora che vanno d' accordo coi primi, e discordanti da essi si chiamano a giusta ragione apparenze ingannevoli e illusioni. Dalle cose dette si raccoglie che l' inesistenza di un ente in un altro è proprietà esclusiva di quello che è essere per propria essenza. E nel vero, fuori di quello che è essere per essenza non rimane che il fenomeno nel modo che abbiamo spiegato. Egli è bensí vero che il fenomeno sostanziale, considerato in unione coll' essere per essenza, diventa anch' egli un ente cioè un ente per partecipazione. Ora un tal ente per partecipazione può anch' egli esistere in un altro, cioè in un altro ente intellettivo. Ma quest' inesistenza gli conviene soltanto in quanto egli è ente; ed egli è ente per partecipazione; dunque anche l' inesistenza sua in altro gli spetta soltanto per partecipazione, cioè in virtú di quell' essere per essenza, in cui si contempla e si pone, e cosí si rende intelligibile, ed acquista natura di oggetto. Dunque, soltanto quello che è essere per essenza ha virtú d' inesistere in un altro ente, cioè nell' intellettivo, nella sua purità di ente. Solo dunque l' essere per essenza ha virtú sua propria d' inesistere puro da ogni fenomeno in un altro ente, laddove l' ente per partecipazione inesiste in quanto è ente, ma mescolato col fenomeno dal quale riceve il nome di relativo. Ma i fenomeni stessi possono essi inesistere gli uni negli altri? Sí, hanno anch' essi certi modi d' inesistenza i quali però debbono essere accuratamente distinti. 1) Una parte del fenomeno esiste nel tutto. Questo modo d' inesistenza però è mentale anziché reale, come mentale è il concetto della parte. 2) Il fenomeno conseguente alla sostanza esiste nella sostanza. Questa proposizione si può esprimere piú generalmente dicendo che gli atti secondi inesistono nell' atto primo che li contiene o virtualmente o attualmente. 3) Venendo ora all' inesistenza de' fenomeni sostanziali, il solo principio è quello che contiene, e il termine è il fenomeno sostanziale da lui contenuto. Da quello che abbiamo detto riceve luce e sviluppo maggiore la teoria che abbiam data della rappresentazione. Lasciando da parte la prima maniera di rappresentazione , che spetta all' idea quasi specchio di tutte le cose, diciamo in che modo il fenomeno sostanziale sia rappresentativo dell' ente reale. In primo luogo vedemmo che l' ente è intuíto immediatamente, e in niun modo può essere rappresentato, perocché se vi avesse qualche cosa rappresentativa dell' ente non si potrebbe mai sapere che ella fosse rappresentativa dell' ente se già non si conoscesse l' ente. La rappresentazione adunque suppone sempre dinanzi a sé che si conosca l' ente; e quindi è impossibile spiegare la cognizione per via di semplice rappresentazione o similitudine, nel che sta il difetto della teoria della cognizione data dagli Scolastici. Ma se l' ente è già conosciuto, a che pro la rappresentazione? In primo luogo l' ente potrebbe essere conosciuto in un modo abituale, senza che ci poniamo attuale attenzione, o che lo crediamo a noi presente. In tal caso la rappresentazione ci presterebbe il servizio di attuare in lui la nostra attenzione. Pure non è questo solo il servizio che ci presta il fenomeno sostanziale. Ciò che noi conosciamo immediatamente, ciò che inesiste in noi per natura senza alcun fenomeno, non è che il puro ente spoglio di ogni sua determinazione. Egli è uno e semplice; ma gli enti sono molti, e l' uno di essi non è l' altro, ciascuno anzi è un individuo che ha un atto primo suo proprio. Quest' atto primo individuato qual si presenta nel nostro conoscere è quello che chiamiamo sostanza, e in quanto una sostanza si distingue totalmente dall' altra mediante la sua individuazione, la chiamiamo forma sostanziale. La forma sostanziale fa sí che una sostanza non sia un' altra, e negli enti finiti che cadono sotto la nostra percezione questa forma sostanziale è il fenomeno primitivo che rimane segnato da un nome sostantivo che gli imponiamo. Ma la forma sostanziale nella sostanza non è ancora l' ente; ma viene ad esser ente quando le si aggiunge l' essere che già conosciamo. Mediante quest' unione dell' essere col fenomeno sostanziale, unione individua, avviene che ne risulti innanzi alla nostra mente un ente reale; ma quest' ente reale non è piú un ente indeterminato, ma determinato dalla forma sostanziale in modo che si divide da ogni altro ente. Ora in questo fatto si può considerare l' ente reale conosciuto sotto due aspetti: o pigliandolo nella sua unità, e cosí possiamo dire di conoscere immediatamente quell' ente reale; o considerandolo nei due elementi dai quali risulta, e cosí noi vediamo che il fenomeno sostanziale non è per sé solo l' ente, ma una rappresentazione parziale dell' ente, di maniera che senza il fenomeno sostanziale noi conoscevamo l' ente solo inizialmente, ma ora aggiungendovi il fenomeno sostanziale conosciamo qualche cosa della realità di lui per la rappresentazione che questo ce ne fa. Vero è che questo fenomeno sostanziale è relativo a noi, e in quanto è relativo a noi non ci fa vedere qual sia il modo della realità proprio dell' ente essenziale; ma tuttavia ci presenta ad ogni modo una realità, la quale deve essere analoga alla realità compiuta ed illimitata essenziale all' ente. Cosí si può dire che tutti gli enti finiti che noi conosciamo rappresentano l' ente infinito, e per essi non s' accresce la nostra cognizione se non perché s' accresce la cognizione dell' ente essenziale: entro a tutte le nostre cognizioni adunque degli enti reali vi ha una cotale imperfetta rappresentazione dell' ente infinito. La percezione risulta dai due elementi, dall' ente ideale e dal fenomeno sostanziale dove termina l' affermazione. Quindi il nostro spirito nello stesso tempo che con una tale operazione conosce la sussistenza affermandola, conosce altresí nell' ideale qualche cosa di piú che non conosceva prima, perocché prima lo intuiva del tutto indeterminato, ed ora gli sono manifeste alcune sue determinazioni. Quando adunque noi percepiamo un ente reale, allora non è a credersi che l' essenza dell' ente in universale e il fenomeno sostanziale si uniscano quasi per giusta7posizione, ma eglino si compongono insieme e ne risulta un ente organato; non è da credere che conosciamo soltanto quello che prima era nei due elementi separati, l' essere universale e il fenomeno, ma v' ha qualche cosa di nuovo che risulta dalla loro unione: la cognizione nostra, che n' è l' effetto, si arricchisce di questo elemento nuovo, il quale rispetto all' ente ideale è un ordine che gli si aggiunge, e rispetto al fenomeno è la realizzazione di quest' ordine. Quindi nella percezione non si afferma solo il fenomeno, ma si affermano alcuni elementi che appartengono veramente all' ente come realizzati nel fenomeno sostanziale, si affermano congiunti, e poi si distinguono mediante l' analisi della riflessione: quindi si viene a conoscere distintamente, che l' ente affermato è atto primo , che è uno , che è pienamente determinato , ecc.; le quali sono proprietà dell' ente realizzate nel fenomeno; rispetto alle quali la nostra affermazione ha una verità assoluta. Or le cose ragionate circa il conoscere per via di rappresentazione dimostrano che l' uomo possiede una lingua interiore intima nella sua potenza conoscitiva, della quale si serve come d' istrumento del pensare. Perocché noi vedemmo che il fenomeno è quello che gli rappresenta l' ente, e che la varietà dei fenomeni è quella che gli rappresenta l' ente in diversi modi e gradi. Quindi senza i fenomeni il principio potrebbe avere bensí l' intuizione dell' ente in universale, e poniamo anche la percezione dell' ente assoluto, ma non la cognizione degli enti finiti e molteplici. Tutti i fenomeni sono dunque segni naturali degli enti; ma i fenomeni primitivi sono segni che si compongono cogli enti stessi finiti costituendo le loro forme sostanziali; giacché trattandosi di enti relativi non è maraviglia che anche le forme sostanziali siano relative. Quando s' impone un nome sostantivo ad un dato ente, allora questo nome esprime l' ente sotto quella forma sostanziale; e cosí il fenomeno primitivo resta inchiuso nel concetto dell' ente che si nomina, e nella definizione di lui. E ogni qualvolta senza badare a questo si volle ritenere quel nome per significare quell' ente spogliato del suo fenomeno sostanziale e quindi della sua forma sostanziale, si aprí il varco a innumerabili errori. Questo è uno dei piú ampi fonti della filosofia sofistica, e specialmente del panteismo germanico. I fenomeni poi conseguenti ai primitivi ed accidentali sono anch' essi altrettanti segni dell' ente, ma non sempre veritieri, come abbiam veduto. Quindi il pensiero tende bensí sempre all' ente di sua natura; ma nella condizione in cui siamo egli si serve per giungere a conoscerlo sempre piú di segni rappresentativi, quali sono i fenomeni, i quali formano come una lingua interiore. Questa lingua nello stesso tempo che conduce il pensiero alla cognizione degli enti relativi e moltiplici, lo dirige altresí quasi a ultimo fine di lui all' ente essenziale, di cui non vede a vero dire la realità propria, ma s' accorge di posseder certi segni di questa realità, e cosí in modo imperfetto e negativo finisce in essa come in ultimo punto delle intuizioni cogitative. Or poi merita sopra modo di esser meditata quella individua unione, che questi segni naturali formano coll' ente che rappresentano, sia questo ente principio o termine: per la quale unione individua si rappresenta alla mente una pluralità di enti compiuti e individuati e nella loro propria sostanza, per guisa che la cognizione è positiva e non negativa, onde ci persuadiamo di percepire quegli enti quali sono nella loro propria natura. Il qual fatto ben inteso spiega perché la parola esterna sia anche essa cosí utile all' intelligenza, e come il suono materiale del vocabolo s' associ e s' individui col concetto, per modo che il nostro spirito vede e pensa l' ente nel vocabolo, e senza i vocaboli non può a lungo ragionare, venendogli meno la presenza degli oggetti pensati. Il vocabolo è un suono e il suono è una sensazione. Vero è che questa sensazione è intieramente diversa dall' ente pensato e benanco da' suoi fenomeni; ma la mente non associa però meno la sensazione del vocabolo coll' ente che vuole esprimere; perocchè la legge del pensiero consiste nell' associazione di un fenomeno coll' ente, senza che sia necessario che il fenomeno, cioè il sentimento, sia uno piuttosto che un altro, supplendo la riflessione, la quale avverte se un fenomeno sia proprio e naturale dell' ente o non sia, nel quale ultimo caso il fenomeno sensibile è un segno arbitrario che rammemora insieme coll' ente anche il suo fenomeno o segno naturale. Cosí la lingua esteriore è un complesso di segni de' segni; cioè di segni arbitrari, che richiamano i segni naturali e con questi l' ente da essi determinato. Qui si vede spiegata l' origine, la necessità e la potenza della parola. Dalle cose dette possiamo raccogliere qual sia l' intima costituzione dell' essere umano: quest' essere è un principio unico individuato da tre termini di diversa natura, lo spazio , la materia e l' idea , organati fra loro all' unità. Or da quanto è detto riceve lume la natura della percezione fondamentale. Perocché dall' aver noi veduto che lo spazio e la materia, in quanto sono termini del sentimento fondamentale, sono puri fenomeni, e però termini proprŒ e non termini stranieri del principio sensitivo, col quale s' identifica il principio, ne viene che la percezione intellettiva fondamentale non è la percezione della realità pura straniera, ma è la percezione dello stesso principio, individuato nel fenomeno. Quindi il principio intellettivo, percependo il detto fenomeno, nol percepisce come cosa straniera, ma come cosa propria, il che è quanto dire percepisce il principio sensitivo individuato ne' due termini dello spazio e della materia fenomenale, il qual principio sensitivo viene cosí identificato col principio intellettivo. Per questo l' uomo a principio della sua esistenza ha un sentimento unico, che è quanto dire sente se stesso in quanto è animale, e sentendo se stesso sente anche il corpo, non essendo il corpo in quel primo sentimento se non l' individuazione del principio animale. Se dunque nel sentimento dello spazio e nel sentimento fondamentale non v' ha percezione della realità pura straniera, in qual momento nasce questa percezione? In prima dobbiamo intenderci sul significato di sentimento, di percezione sensitiva e di percezione intellettiva. Il semplice sentimento del tutto spontaneo, naturale, privo di ogni fatica, non è percezione. Quando nel sentimento ci ha ripugnanza, fatica, e tuttavia necessità (il che chiamasi sentimento di violenza), allora vi ha percezione sensitiva. La percezione sensitiva è dunque sentimento, ma non ogni sentimento, né tutto il sentimento, ma solo quell' accidente del sentimento, che dicevamo senso di violenza. La percezione intellettiva poi è quell' atto dello spirito razionale, pel quale egli apprende il sentimento come un ente. Quindi la percezione intellettiva è di tre maniere. Perocché lo spirito può percepire il sentimento dalla parte del suo principio, o dalla parte del suo termine. Può percepire il sentimento dalla parte del suo principio, nel qual caso il principio intellettivo s' identifica col principio razionale. Lo spirito intellettivo può percepire il sentimento dalla parte del suo termine, cioè il sentito. Ora, rispetto al suo termine abbiamo distinto il sentimento semplice dalla percezione sensitiva. Se lo spirito intellettivo percepisce il sentimento semplice, il puro fenomeno, in tal caso non percepisce ancora la pura realità straniera; ma se percepisce il senso violentato, incontanente l' intelligenza si porta alla realità straniera come a substratum di un tale sentito, operando in virtú del principio di sostanza. Le tre maniere adunque di percezione intellettiva sono: a ) Percezione intellettiva del principio sensitivo. b ) Percezione del fenomeno sensibile. c ) Percezione di un sentito violento - In questa si percepisce la pura realità straniera. Ora dal sapere noi che tutto ciò che cade nel sentimento è fenomeno, e per ciò appartiene al principio sensitivo, e che la pura realità del sentito è trovata e posta soltanto dalla mente, ma non è quella che costituisce il nostro individuo, deriva che noi piú facilmente possiamo intendere come l' anima separata dal corpo possa conservare la sua individualità, perocché ella non perde quello che è suo. Vero è che il finimento del suo sentire non può esser piú quello di prima, non può esser piú il sentito di prima, perocché il sentito riceveva il suo limite dalla realità sottoposta. In questo caso il sentimento dee ricadere e concentrarsi in se stesso e non piú vestire di sé quella realità. Ora questo raccentramento de' sentimenti è appunto la loro riduzione in abiti , i quali, come abbiam detto, bastano a mantener l' anima quell' individuo che era prima. Finalmente il terzo termine del principio umano è l' idea. Abbiamo detto che nell' ordine logico l' idea diviene termine dello spirito, quando questo è individuato come animale. Il principio individuante l' animale è quello dell' armonia del sentimento eccitato, il qual principio ha in sé necessariamente anche i precedenti, cioè il principio del sentimento eccitato, del sentimento continuo, e del sentimento esteso, o spazio. Or quantunque l' idea non si presti come termine intuibile se non dopo che il principio ha tutte queste individuazioni; tuttavia è da osservarsi, che l' atto intuente l' idea non si fa già dal principio cosí individuato, quasiché quest' atto si ponesse colla mediazione dello spazio e del corpo; ma l' idea è veduta dal principio puro come principio, non in quant' egli è individuo, ma solo a condizione che sia individuo. Il che chiaramente si scorge considerando che l' idea non può soggiacere alla forma dello spazio o a quella del corpo, essendo scevra per sua natura da ogni estensione, da ogni passione, da ogni corporeità, da ogni mutazione, e da ogni limitazione; onde non si può intuire che con un atto immediato, nel quale altro non si distingue che il principio e lei, ed è per questo che l' essere è in noi puro da ogni elemento fenomenico. E qui ci troviamo in grado di rispondere alla questione: « se l' uomo conosca se stesso fin dal primo momento della sua esistenza ». Gli scolastici dicevano, che egli ha una cognizione abituale di sé. La soluzione ci pare troppo vaga: le considerazioni seguenti vi recano luce. Quando il principio che intuisce l' idea percepisce la propria animalità, la percepisce tale qual' è. Ora l' animale è un principio individuato in quella guisa che abbiam detto. Ma un principio percipiente un principio s' identifica con esso. Dunque l' uomo fino dal primo istante in cui trovasi a pieno costituito, ha percepito se stesso come principio animale individuato: la percezione è cognizione, dunque l' uomo fin da principio si conosce in quant' è animale. Ma si conosce egli ancora come principio intellettivo? Primieramente è a dire, che il principio non è il termine dell' atto, e nulla si conosce se non ciò che è, ovvero è divenuto, termine dell' atto conoscitivo. Ogni principio è bensí un sentimento e però anche il principio intellettivo è tale, ma il sentirsi come principio non è conoscersi. L' uomo dunque non si conosce come principio intellettivo colla prima percezione immanente, ma soltanto con una riflessione successiva, colla quale pone se stesso principio come termine dell' atto conoscitivo. Tre dunque sono i termini principali dell' umano principio: quindi tre attività primordiali: quindi non desta piú maraviglia che lo spirito unico nel suo principio ammetta pluralità nelle potenze. L' attività che finisce nello spazio come nel suo proprio fenomeno, è atto semplicemente, non potenza. Or quantunque il principio individuato dallo spazio presti alla mente il concetto di un atto e non di una potenza, tuttavia si può chiamare potenza dello spazio, per la quale il detto principio, quando riceve il termine corporeo, lo veste e l' informa della estensione. Ma se il principio dello spazio prima di ricevere l' individuazione del termine corporeo si può considerare come in potenza al ricevimento di questa forma, quand' è già individuato egli è già in atto, non piú in potenza. E in generale l' atto, pel quale un individuo è posto, non è potenza ma atto. Quindi né il sentimento del continuo né quello dell' eccitamento, né quello dell' armonia, né l' intuizione dell' essere, in quanto costituiscono il sentimento fondamentale, sono potenze, ma atti primi pe' quali l' individuo esiste. L' uno però di tali atti, quando è ancor privo dell' atto susseguente, dicesi in potenza a questo. Ma queste sono potenze a ricever la forma, perocché un subbietto può avere due specie di potenze, che sono: a ) Potenze a ricevere una nuova forma sostanziale mediante il ricevimento di un nuovo termine (1). b ) Potenze relative al cangiamento accidentale dello stesso termine, passive (facoltà di sentire il detto cangiamento) ed attive (facoltà di produrre il detto cangiamento). L' una e l' altra specie di potenze è sempre una facoltà di porre nuovi atti. Ma la prima specie si riferisce ad atti che producono una nuova individuazione, e che sono atti primi ed immanenti relativamente al nuovo individuo che producono; la seconda specie è di atti accidentali all' individuo, che nol cangiano in un altro, e possono essere transeunti. Ora qui egli è d' uopo di mostrare come nel seno stesso dell' ordine inerente alla realità si ravvisi una relazione ed una dipendenza di essa realità dal suo esemplare ideale. Quello che vogliam dire si scorgerà ove si mediti la natura del secondo genere accennato delle potenze, le quali si riferiscono ad atti che non cangiano il proprio individuo in un altro, e che quindi si dicono a lui accidentali. Ond' avviene che un subietto individuo possa uscire in tale genere di atti? - Da questo, che il termine di tali atti può ricevere delle modificazioni accidentali senza che cangi la sua sostanza. Ma queste modificazioni non sono tutte e sempre presenti nel termine, perocché in tal caso il termine non cangerebbe. Acciocché la potenza del principio reale sia possibile, conviene che il principio, oltre avere l' attività attuale di unirsi col suo termine in quel modo reale che gli sta presente, abbia un' altra attività virtuale che si riferisca a tutti i modi che può ricevere il suo termine e che in presente non ha. In altre parole, l' attività del principio deve abbracciare non solo la sostanza del suo termine, ma ben anche tutti i modi possibili di questa sostanza. Ora, i modi possibili non sono reali, e di essi uno solo alla volta può essere realizzato: dunque, il principio reale colla sua attività eccede il termine che ha presente. Convien dire adunque che il concetto della potenza involga una relazione secreta fra la potenza reale e i modi ideali del suo termine, di che si scopre la ragione per la quale nel reale stesso si trovi una virtualità: la virtualità reale suppone adunque e risulta da una dipendenza che ha l' ordine delle cose reali dal loro tipo ideale. Questa dipendenza è prova manifesta che il temporale e finito dipende da un ordine superiore delle cose eterne, ed è una nuova dimostrazione ontologica che vi ha un ordine invisibile di cose eterne ed infinite, tolto il quale le cose visibili reali e finite non potrebbero aver tra di loro quell' ordine che hanno. Non potrebbe adunque sussistere il mondo reale senza il mondo ideale che gli determina continuamente quell' ordine che in lui si ammira. Concludiamo questo capo osservando, che quantunque i tre termini fondamentali dello spirito umano, lo spazio, il corpo, e l' idea, abbian natura diversa, tuttavia sono cosí organati fra loro da riuscirne un termine solo. Perocché il corpo è ricevuto nel seno dello spazio, e il corpo e lo spazio nel seno dell' idea. Onde l' essere razionale nell' idea possiede gli altri suoi due termini, e quest' unità che formasi nell' idea di tutti e tre è quella che individua l' essere razionale «( Psicologia , 567 7 5.4) ». Noi abbiamo parlato delle azioni , come pure delle inesistenze . Dalla diversa indole delle azioni e delle inesistenze si spiega, come si rinvengono certe azioni che non modificano il loro termine. Poiché l' inesistenza non è azione, nel senso comune della parola che esprime un atto secondo; ma se l' inesistenza stessa si considera come un' azione, e costituita da azioni (nel qual caso l' azione si prende impropriamente anche come atto primo), allora si trova che vi hanno azioni che non modificano il loro termine. L' inesistenza è una proprietà del solo essere essenziale : nessuna cosa inesiste in noi tale quale è, se non l' essere. Ora posciaché l' essere ideale ed essenziale talora è indeterminato, talora piú o meno determinato, secondo che costituisce l' essenza dell' essere universale, dell' essere generico, o dell' essere specifico, quindi ogni intuizione o cognizione delle essenze appartiene a quella classe di atti e di azioni, che non modificano menomamente il loro termine, perché altro non suppongono, ed altro non le costituisce, se non la pura inesistenza; questa è dunque la causa delle azioni che non modificano il loro termine. L' azione del principio rispetto al fenomeno sentimentale suo termine è una di quelle azioni, che producono il proprio termine, e però che non lo modificano. Ella è una specie di creazione; differendo dalla creazione soltanto in questo, che la creazione è libera, laddove il principio che produce il suo termine fenomenale è provocato a produrlo, e determinato a produrlo piuttosto in un modo che in un altro. Quest' azione è un atto primo, col quale il principio pone la propria individuazione. Quest' azione si può anche descrivere come un movimento del principio verso la sua forma che lo rende un individuo determinato. Il principio puro dal fenomeno, e cosí pure la realità straniera che sta al di là del fenomeno, nulla hanno di fenomenale, ma appartengono all' essenza dell' essere nella sua forma reale. Dico che appartengono all' essenza dell' essere nella sua forma reale, considerando unicamente quello che di essi ci porge il concetto che noi n' abbiamo. L' atto dunque della mente, che per via d' astrazione pensa il principio puro e la realità pura, non avendo per suo termine che l' ente, e l' ente inesistendo senza poter offrire alcuna modificazione, egli è di quelli atti, che non modificano il loro termine. Dalle cose dette risulta, che anche la percezione intellettiva non modifica il proprio termine. Perocché se si tratta della percezione intellettiva de' corpi, il termine di quest' atto è la realità vestita del fenomeno unita all' essere ideale. Ora noi vedemmo che la realità appartiene all' essere realizzato, e però non è suscettibile di modificazione; il fenomeno poi che la veste esiste precedentemente alla percezione intellettiva, ed è un termine prodotto dall' azione del principio sensitivo: in quant' è poi percepito dalla mente non è cangiato il fenomeno stesso, ma soltanto considerato in relazione coll' ente oggettivato, e, per cosí dire, entivato . Or l' aggiungere al fenomeno l' ente non lo modifica, anzi v' aggiunge ciò che è immodificabile e che rende lui stesso immodificabile: quest' aggiunta non essendo fenomenale, ma immune da ogni fenomeno, non può recare varietà alcuna nell' ordine del fenomeno. Se poi si tratta della percezione fondamentale con cui il principio intellettivo percepisce la propria animalità, è da dire il medesimo; e tanto piú, che nel sentimento fondamentale non cade la percezione della realità straniera, ma del fenomeno solamente. Avvi bensí la percezione del principio sensitivo nella sua individuazione e quindi avvi pure l' unificazione del principio sensitivo con l' intellettivo, onde se n' ha un unico principio razionale . Or questa unificazione è una specie di inesistenza, e però non distrugge l' attività del principio sensitivo, né punto la altera o modifica, perché niun principio come tale è variabile e modificabile, per la ragione che è semplice e che appartiene all' ente stesso; ma soltanto può essere aggiunto ad un principio piú elevato, mediante la quale unione cessa di essere quel principio individuato per sé solo esistente che era prima, ma si rifonde in un altro principio individuato maggiore, onde l' individuo viene cosí ad aver cangiata la sua forma sostanziale. Se questa si vuol chiamare modificazione, tale è appunto l' unica modificazione che il principio intellettivo fa della propria animalità. L' immaginazione intellettiva è quella che ci rappresenta un ente vestito del suo fenomeno, per esempio, immagina di vedere e di toccare un corpo qui presente quando presente egli non è. Ora il fenomeno sensibile è quello che rappresenta l' ente dinanzi all' immaginazione. Ma il fenomeno non è propriamente l' ente, ma il segno dell' ente. In quanto adunque l' immaginazione intellettiva termina il suo atto in un segno rappresentativo e non nell' ente stesso, ella non può modificar l' ente, perché questo non è il termine del suo atto. In quanto poi la mente dal segno rappresentativo, procede a pensar l' ente segnato, né pur ella lo modifica, perocché già noi vedemmo che l' ente non è punto modificabile, e che a lui spetta la pura inesistenza nella mente. Da tutto ciò si può raccogliere che gli atti conoscitivi non modificano mai il loro termine, perché non fanno che aggiungere al sensibile l' ente, rimanendo il sensibile come la determinazione dell' ente. Tutto ciò che v' ha nel sensibile si vede nell' ente, e, e l' ente nel sensibile. Questa è semplice inesistenza e inesistenza oggettiva, nella quale non vi ha azione, perocché l' agire è solo proprio del soggetto, e dell' oggetto l' inesistere. L' oggetto può esser pensato nella sua totalità, ne' suoi elementi o nelle sue relazioni ecc.; tutto ciò non modifica l' oggetto, ma la modificazione appartiene all' atto conoscitivo del soggetto: soltanto che l' oggetto si pensa piú o meno completamente. Ma non vi sono dunque anche delle azioni che modificano il loro termine? Indubitatamente un individuo, quand' è costituito ed emette degli atti secondi, modifica se stesso modificando il suo proprio termine. Anche ciò che ha natura di termine, come sono i corpi, manifestano in sé delle azioni reciproche, e quindi reciprocamente si modificano. Ma questi atti secondi, il cui effetto è la modificazione del proprio termine, vogliono essere spiegati a quel modo che risulta dalle dottrine piú sopra stabilite. Richiamandone qui le principali possiamo conchiudere: 1) Che solo i diversi principŒ operano e modificano se stessi. 2) Che due principŒ l' uno straniero all' altro, quando sono posti in relazione mediante un termine comune (comune entitativamente, cioè come realità pura (1), benché avente un modo relativo e fenomenale diverso), sono reciprocamente i motori delle proprie attività, perché ciascuno ha potere dal termine comune, e modificato il termine proprio dell' uno, la spontaneità dell' altro principio è necessitata a modificare il termine proprio; perché i due termini, in qualche modo, s' unificano. 3) Che quando i termini sembrano agir fra loro e modificarsi, senza che apparisca l' azione de' loro principŒ, come accade nel movimento e nell' urto dei corpi, l' azione tuttavia non si può attribuire ai termini come termini, giacché come tali sono inerti ma ai principŒ che inesistono ne' corpi, sebbene questi principŒ non si percepiscano. Noi abbiamo fin qui investigata la natura dell' essere reale e svolta la sua intima organizzazione. Oltre al porre questa dottrina generale intorno all' ente reale, noi dividemmo l' ente reale in assoluto e relativo, e convenendoci favellare dell' assoluto piú a lungo nella seconda parte di quest' opera, ci stendemmo a descrivere l' intima costituzione dell' ente relativo. Vedemmo che egli non è completo s' egli non ha un principio ed un termine, oltre il dover egli avere una relazione colla mente che gli dà la forma oggettiva ed ontologica, od esser mente egli stesso. L' ente reale adunque completo si riduce mai sempre ad essere « un ente principio individuato ». Ma vedemmo ancora che gli enti puramente sensitivi sono individuati da un fenomeno posto da essi in quanto sono principŒ senzienti, senza il qual fenomeno non sono ancora enti mancando loro l' individualità, di maniera che sono enti individui soltanto in quanto inesistono nel fenomeno specifico come in loro proprio termine. Questo fenomeno specifico e primitivo costituisce la loro forma sostanziale, e per esso sono piuttosto una sostanza che un' altra. La cosa non è cosí rispetto all' ente intellettivo, il quale, come tale, non ha fenomeno alcuno, ma soltanto ha per suo termine l' essere, e inesistendo in questo suo termine partecipa la condizione di essere senza bisogno d' altro; di maniera che fra gli enti finiti le sole menti sono enti per se stesse, laddove il reale puramente sensitivo (molto meno quello che si concepisce come insensato) non è ente per se stesso, ma soltanto per la relazione con quella mente che lo percepisce, o che in qualunque modo lo pensa. Ora taluno male intendendo questa teoria potrebbe falsamente indurne che ella arrecasse nocumento alla verità dell' esistenza de' corpi e a quella de' reali sensitivi, quasi queste entità fossero pure apparenze, e la dottrina intorno ad esse esposta si riducesse ad un sistema di idealismo con pregiudizio eziandio della certezza delle cognizioni umane. Or quantunque noi ci siamo dati cura di distinguere accuratamente il fenomeno dall' apparenza, e abbiamo anche difesa la certezza del pensare relativo, tuttavia noi vogliamo pigliarne occasione a compiere la teoria della verità e della certezza che abbiamo in parte esposta nel Nuovo Saggio e nel Rinnovamento e in altre opere. Nelle quali noi abbiamo dato la teoria della verità logica : or dunque esporremo quella della verità ontologica . Cominciamo dal chiarire che cosa s' intenda per verità logica, e che cosa per verità ontologica. La verità logica è la verità delle proposizioni. Si suol parlare di questa quando si dice che la verità e la falsità appartiene ai giudizŒ, i quali s' esprimono in proposizioni; ovvero quando si dice che la verità e la falsità appartiene a quella maniera di conoscere, che si appella conoscere per via di predicazione. Diciamo adunque primieramente che ogni proposizione esprime un atto dello spirito intelligente, con cui vede la convenienza di un predicato e di un soggetto e vi dà l' assenso. Il vedere questa convenienza e il dar l' assenso sono atti inseparabili, ed anzi nel primo loro nascere un atto solo. Ma questo primissimo e naturale assenso è differente dall' assenso posteriore libero, o certo volontario. Il primo assenso appartiene all' inesistenza del principio intellettivo nell' essere; perocché il principio intellettivo inesiste nell' essere in quanto lo vede, e se nell' essere vede la convenienza del predicato col soggetto, con questo atto di vederla inesiste ancora nell' essere dove esso trova un tal ordine. Questo è il primo principio della volontà, la potenza volitiva nell' atto del suo nascere. Se l' essere non avesse un ordine intrinseco, giammai dall' intuizione di lui potrebbe uscirne la potenza volitiva, la quale ha sempre per termine un assenso dato o negato all' ordine dell' essere stesso. Or questo assenso ha piú gradi: lo spirito può aderire all' ordine dell' essere con piú o meno di attività e d' intensione, con un atto solo di assenso o con atti replicati. Questo aumento di attività nel detto assenso non è inchiuso naturalmente nell' intuizione, ed è per questo che si distingue l' intuizione della convenienza fra un predicato e un soggetto, e l' assenso dato a questa convenienza. Una proposizione ha tre parti che si sogliono chiamare da' logici il subietto, il predicato e la copula. La copula si può sempre ridurre ad una espressione sola, cioè al verbo è , il quale può supplire a qualunque verbo. Infatti chi dice questa proposizione: « l' uomo muore »non ha fatto che rendere piú breve quest' altra: « l' uomo è mortale », riducendo la copula e il predicato in una sola parola, che esprime effettivamente due concetti in uno. Se dunque si considerano le proposizioni in questa loro forma semplice e primitiva, vedesi che ciò che si dice in ogni proposizione si è che il subietto è ciò che esprime il predicato. Si fa dunque una specie di equazione fra il subietto e il predicato. La forma poi della copula è non esprime solamente tale equazione in se stessa, ma esprime l' assenso di chi forma il giudizio, perocché è è una parola pronunciata da chi giudica e significa in parole il suo giudizio. L' assenso poi ossia il giudizio è vero se vi ha l' identità pronunziata fra il subietto e il predicato, ed è falso se non vi ha. L' identità dunque del subietto col predicato è la verità oggettiva della proposizione; l' assenso dato a questa verità oggettiva è la verità soggettiva, o per dir meglio la verità oggettiva partecipata, posseduta dal soggetto giudicante. Tale è la verità logica, che può essere considerata astrattamente in due modi: in se stessa, quasi nella sua possibilità, e nel soggetto intelligente che le assente. Ma quale è poi la verità ontologica? - E` a considerarsi che il subietto delle proposizioni logiche è supposto in esse, e che l' intento della proposizione non è altro se non di far conoscere che al detto subietto spetta il tale e tale predicato. Rimane dunque a determinare questo subietto, rimane a vedere se egli esiste, o qual modo e grado di esistenza egli si abbia. Il subietto delle proposizioni logiche viene sempre presentato in esse sotto la forma di un ente, ma non sempre è tale, potendo nascondersi sotto quella forma di ente ciò che non è ente, o ciò che non è ente compiuto, o insomma ciò che ha un modo di esistere anziché un altro. Malgrado di tutto ciò la logica verità della proposizione può rimaner intatta; perocché quella verità non consiste che nella copula, cioè nella identità parziale fra il subietto ed il predicato, e quindi non dipende dalla natura del subietto. Questa verità logica che consiste nella convenienza di un predicato con un subietto, e non in altro, non solo non inganna perché è verità, ma è all' uomo preziosissima sicura regola della sua vita prammatica e morale. Ma posciaché l' uomo in tutti questi giudizi pensa il subietto sotto la forma di ente, egli è manifesto che questo pensiero è tanto piú vero, quanto il detto subietto ha piú dell' ente; e questa si è quella verità che diciamo ontologica. Or la verità ontologica non si può ella ridurre alla verità logica, non si può tradurla in un giudizio, in una proposizione? Questa questione si riduce a quest' altra: quando pensiamo un subietto, lo pensiamo noi sempre e necessariamente mediante un giudizio? Ora, noi adesso cerchiamo se nel pensiero stesso di un ente si contenga necessariamente un giudizio. Ora l' ente si pensa in piú modi. E primieramente colla semplice intuizione si pensa l' essere in universale, la quale non racchiude giudizio alcuno, giacché il giudizio suppone innanzi a sé l' esistenza di chi giudica, e però è sempre un atto secondo, laddove l' intuizione è l' atto primo pel quale esiste il principio intelligente, è l' inesistenza d' un principio reale nell' idea come in suo termine, e quindi è la costituzione del soggetto atto a intendere e portare giudizio. Di poi l' ente si pensa colla percezione intellettiva. Questa è un atto del principio che intuisce l' idea, al quale essendo dato il sentimento, lo apprende necessariamente nell' idea in cui egli inesiste, e però lo apprende come ente in quanto nel sentimento gli è dato il principio senziente, ed insieme apprende anche tutto ciò che è richiesto dall' ordine dell' essere intuíto, benché non sia compreso nel sentimento come la realità pura straniera. Noi abbiam trattata la questione: se questa percezione sia un giudizio, e abbiamo detto che avanti ch' ella si formi non esistono i due termini del giudizio, cioè il soggetto e il predicato distinti fra loro; ma che dopo compiuta la percezione si può per via d' analisi risolverla in un giudizio «( Sistema Filosofico , 43 7 50) ». Questa espressione dunque: « egli esiste », esprime l' analisi della percezione dopo che è già fatta, non la percezione nell' atto del farsi, perocché egli, il sentimento, prima che aggiungiamo la parola esiste, essendoci del tutto incognito non è atto a fare da subietto del giudizio. Se dunque attentamente si considera la proposizione: « questo sentimento è un ente », ovvero piú in generale: « il tale oggetto è un ente », manifestamente si scorge che già la prima parola della proposizione: « questo sentimento », ovvero « il tal oggetto contiene l' ente », significa un ente perché significa un oggetto cognito, e quindi la seconda parte della proposizione: « è un ente », non è altro che una ripetizione di ciò che fu già detto nella prima parola; se non che la prima parola esprimente il subietto dinotava l' ente unito individualmente colla sua determinazione come è in natura, quando la seconda parte della proposizione pone l' ente come fosse un elemento separato, il che è un puro arbitrio della mente, che ha virtù di astrarre e dividere ciò che è indiviso ed anche indivisibile. Scorgesi da tutto ciò: 1) Che la verità ontologica consiste nell' ente, e che ciò che si pensa ha piú di verità ontologica quanto piú ha di ente, e ha meno di verità ontologica quanto meno ha di ente, e che l' aver piú o meno di ente è un fatto al tutto indipendente dai nostri giudizŒ e dalle nostre proposizioni, dal nostro assenso o dissenso. 2) Che questa verità ontologica non può essere espressa direttamente in un giudizio o in una proposizione, ma viene pensata immediatamente nel pensiero dell' ente; e che allorquando si scioglie questo pensiero in una proposizione, questa non lo rende con esattezza. Perocché interviene un' operazione della mente che divide quello che è indivisibile, e mentre la verità ontologica sta tutta e compiutamente racchiusa nel semplice pensiero dell' ente, il quale ente pensato non somministra piú che un solo de' termini del giudizio, per esempio il subietto, la mente per via di analisi cerca di scioglierlo e spezzarlo ne' due termini del subietto e del predicato; e per far ciò ella è costretta a replicar due volte la stessa cosa, giacché non può pronunciare il solo subietto senz' avere espresso tutto il pensiero dell' ente a cui spetta la verità ontologica, mentr' ella pur vuole estenderla e diffonderla nella copula e nel predicato, che non le aggiungono se non una inesatta ed impropria superfluità. Ogni intelligenza ha per sua legge fondamentale il principio di cognizione che dice: « il termine del pensiero è l' ente ». In oltre ogni intelligenza ha quest' altra legge « di poter pensare tutto ciò che sente », perocché ogni sensibile è contenuto nella sfera dell' essere come il meno nel piú. Finalmente l' intelligenza umana ha una terza legge, ed è: « dopo aver pensato l' ente, poter limitare la sua speciale attenzione in modo che ella non abbracci tutto l' ente, ma solo un elemento, o una relazione ». Queste sono le tre leggi piú generali del pensare umano. In virtú della prima legge, la mente umana non può pensare che l' ente (perché questo costituisce l' essenza d' ogni pensiero); ma per la seconda e terza legge, ella pensa anche il sensibile e l' astratto . Come dunque si conciliano queste tre leggi? Non sembrano esse in contraddizione? Perocché mentre la prima dice che l' intelligenza, ogni intelligenza, non può pensare che l' ente, le altre due dicono che l' intelligenza umana, può pensare anche quello che non è ente, come il sensibile e l' astratto : perocché l' ente essendo per essenza uno, semplicissimo, indivisibile, se gli manca qualche cosa non è piú ente, e però quello che è parte di lui o elemento di lui, non è lui. Questa conciliazione si fa con una quarta legge dello spirito umano, la quale si è, che « l' umana intelligenza suppone ente quello che vuol pensare, ancorché non sia ente »e con questa supposizione lo pensa. Né per questo il pensare umano necessariamente s' inganna. Perocché quantunque egli pensi gli elementi e le parti relative dell' ente come altrettanti enti, tuttavia l' intenzione del pensare non si ferma alla forma di ente aggiunta pel bisogno della concezione; ma termina in quei relativi e parziali, per intendere i quali s' indusse a vestirli da enti, e le sue azioni stesse riferisce a questi. Oltre di che può sempre colla riflessione tornare su cotesta sua fattura, e in essa discernere l' ente aggiunto e sceverarlo dall' elemento o parte relativa che per quell' aggiunta rese pensabile, e cosí istituisce una critica del proprio pensiero mediante un altro pensiero piú elevato e perfetto. Or la dottrina della verità ontologica viene ad essere questa critica appunto del pensare umano, in quanto egli pensa il non ente sotto la forma di ente. Perocché la verità ontologica è lo stesso ente come oggetto del pensiero, e non come mezzo del pensiero. Onde procedono queste due proposizioni: 1) Che il termine del pensiero ha piú di verità ontologica piú che egli ha di ente non mutuato dalla mente, ma in proprio. 2) Che medesimamente il pensiero ha piú di verità ontologica piú che il suo termine ha di propria entità, e non aggiuntagli dalla mente per necessità di concepirla. La verità ontologica adunque è l' ente per essenza. Ma questa maniera assoluta di definire la verità ontologica uguagliandola, o anzi identificandola all' ente, non dimostra aver relazione con una mente, poiché egli pare che l' ente considerato in se stesso e per assoluto a niuna mente si riferisca. La quale obbiezione cade da se stessa, purché si osservi che la ragione, per la quale il concetto assoluto dell' ente non involge quello di una mente in cui inesista, altra non è se non la stessa imperfezione del pensar nostro. Ma una riflessione piú profonda ci fa conoscere che ogni ente da noi concepito, di cui possiam favellare, è necessariamente oggetto, e che il concetto di oggetto suppone sempre quello di soggetto intelligente, e però qualunque ente di cui si parla involge una relazione intrinseca ed essenziale con una mente. Ma se l' ente di cui lice pensare e favellare è necessariamente oggetto, e se l' oggetto è relativo ad una mente, questa relazione non determina per sé sola a qual mente egli sia relativo. E primieramente apparisce ad evidenza, che egli non ha alcuna necessità di essere relativo alla mente umana, o ad altra mente qualsivoglia finita e contingente; perocché potendo tutte queste menti non essere, ne verrebbe che anche l' essere potesse non essere, il che è un assurdo manifesto. Se dunque si considera che l' ente essenziale è un oggetto necessario, forz' è conchiudere ch' egli abbia una relazione necessaria con una mente necessaria, nella quale per sua propria natura inesista ed essa in lui secondo i diversi rispetti di sciente e di scito. E poiché l' essere essenziale come oggetto inesiste per propria essenza in una mente necessaria, perciò questa mente lo dee conoscere e penetrare in tutto il suo ordine intrinseco, e quindi dee conoscere in lui se stessa, giacché nel suo ordine la contiene e racchiude. Onde se le menti finite non vedono nell' ente oggetto se stesse, e però loro sembra che l' ente oggetto abbia un modo di esistere suo proprio fuori di qualunque mente, la mente infinita all' incontro vede nell' ente oggetto se stessa, e in se stessa vede l' ente oggetto; ond' ella conosce immediatamente che l' ente oggetto esiste per sé, e questo esistere per sé è un esistere nella mente infinita che pure esiste in lui per sé. Quando adunque si dice che la verità ontologica è l' ente per essenza, allora non si piglia già l' ente in quanto è fuori della mente, come apparisce al nostro intuito; ma si piglia l' ente in quanto noi con un ragionamento ontologico trascendente veniamo a conoscere che è per essenza nella mente divina, onde la verità è cognita per la sua propria essenza, e quando i metafisici distinguono il vero non cognito , e il vero cognito , la distinzione non è assoluta, ma soltanto relativa alla mente umana o altra mente finita (1). Indi nella mente divina la verità è conosciuta per sua essenza, onde l' essere oggetto e l' essere conosciuto nella mente divina è il medesimo. Di che la mente divina non solo conosce, ma ha sempre conosciuto l' ente pienamente in tutto l' ordine suo, e niuna cosa che non sia ente è da lei conosciuta come ente, nel qual caso ci avrebbe deficienza di verità ontologica in quella mente, il che è impossibile. La mente umana all' opposto non fa che partecipare di questa verità ontologica con certa misura e contingenza. Diciamo che la mente umana partecipa di questa verità ontologica che risiede nella mente divina come in sua propria naturale sede. Perocché ella intuisce l' ente come oggetto, e questo oggetto lo riceve, non procede da lei, è anteriore a lei. E` ben da riflettersi che l' oggetto veduto dalla mente umana è oggetto per sé, e non in virtú della mente umana che è posteriore a lui, e che dicesi mente soltanto perché intuisce l' oggetto. Diciamo ancora, che la mente umana partecipa della verità ontologica con misura e contingenza. E in quanto alla contingenza, ella è manifesta, poiché la stessa mente umana è contingente. In quanto poi alla misura, ella si scorge in tutte quelle limitazioni del pensare umano che abbiamo a lungo e in varŒ luoghi descritte, le quali si possono ridurre a due, che per la loro generalità abbracciano tutte l' altre sotto di sé, e queste sono: 1) Il non estendersi l' intuito dell' umana mente se non all' essere iniziale, e il resto dell' ente contenersi soltanto virtualmente in quell' ente virtuale, che le è dato a vedere attualmente. 2) Il dover ella percepire o pensare come ente quelle cose che non sono enti, ma sono appartenenze dell' ente; ond' è che tali percezioni e pensieri hanno qualche cosa di ontologicamente falso, il che però non pregiudica alla logica verità de' giudizŒ e delle proposizioni. Dalle quali cose tutte possiamo conchiudere che si può ragionare della verità ontologica in due maniere: o considerandola in se stessa qual' è nella mente divina, o considerandola qual' è partecipata dalla mente umana. Gioverà altresí a chiarire il concetto di verità ontologica definirla in altre parole, dicendo ch' ella è l' identità dell' ente reale coll' ideale. Poco innanzi noi dicevamo che la verità ontologica è l' ente per essenza. Ora l' essenza dell' ente si manifesta nell' essere ideale. L' ente reale adunque quanto piú prende di quell' essenza che nell' ideale si mostra, tanto ha piú di verità ontologica. E quanto egli partecipa del concetto, della ragione, ossia dell' idea dell' ente, tanto egli s' identifica con essa. Quindi quanto è maggiore l' identificazione del reale coll' ideale dell' ente, tanto maggiore è la verità ontologica di cui parliamo. Se questo discorso si fa dell' essere puro, allora parlasi di una verità ontologica assoluta. Ma se si parla di enti limitati, l' identificazione del reale col loro concetto determinato e specifico dà luogo ad una verità ontologica relativa. Ogni maniera di verità suppone sempre una relazione fra due termini, l' uno dei quali può dirsi tipo , e l' altro ectipo . Il concetto di tipo e di ectipo non rappresenta già forme secondarie; perocché il tipo e l' ectipo appartengono allo stesso essere per essenza, sono forme primitive le quali costituiscono una parte di quell' ordine pel quale egli è organato. L' essere come tipo è l' essere nella sua forma ideale, l' essere poi come ectipo è l' essere nella sua forma reale; è sempre una sola essenza, un solo e medesimo essere sotto due forme per le quali è in sé ordinato. Ora qui si può domandare « se i vocaboli di verità e di vero debbano applicarsi al tipo, o all' ectipo, o alla relazione fra loro ». Noi abbiamo detto piú sopra, che una relazione si scioglie in due abitudini . E veramente anche i due termini nominati, il tipo e l' ectipo, hanno un' abitudine l' uno rispetto all' altro; il tipo ha un' abitudine in verso all' ectipo, e l' ectipo ha un' abitudine in verso al tipo, nelle quali due abitudini si scioglie la loro relazione , non rimanendo altro, che sia quasi nel mezzo, fuori di quelle rispettive abitudini. Ciò posto, diciamo che la parola verità esprime l' abitudine del tipo in verso all' ectipo; e che all' incontro la parola vero esprime l' abitudine che ha l' ectipo in verso al suo tipo. Se noi applichiamo questa proposizione al primo tipo e al primo ectipo, a quello che è per essenza tipo, e a quello che è per essenza ectipo, cioè all' ideale e al reale , noi ne avremo che l' idea dell' essere è la verità, e che i reali sono veri in quanto adempiono in sé ciò che quell' idea manifesta, e cosí in quanto sono ectipi di lei. Ora è da avvertire che una cosa qualsiasi dicesi vera in quanto partecipa, adempie, esprime la sua verità ; e però acconciamente di ogni cosa vera si dice che ha la sua verità; il che non toglie che il vocabolo verità non significhi il tipo. Illustriamo tutto ciò percorrendo le principali maniere di veri e di verità rispettive, seguendo l' uso del parlar comune, e in ciascuna distinguiamo il tipo e l' ectipo. 1) Verità ontologica assoluta . - In questa il tipo è l' idea (Verità), e l' ectipo è il reale in quanto adempie in sé l' essere che s' intuisce nell' idea (Vero). 2) Verità ontologica relativa . - Il tipo è il concetto (Verità), e l' ectipo è il reale finito in quanto adempie in sé quell' essere limitato che s' intuisce nel concetto (vero). 3) Verità logica . - Il tipo è la convenienza del predicato col subietto (verità), e l' ectipo è l' assenso dato a quella convenienza, sia soltanto internamente coll' animo (vero logico), sia anche espresso colle parole (vero dialettico). 4) Verità morale . - Il tipo è la legge (verità), l' ectipo è l' azione che adempie la legge (vero). 5) Verità artistica . - Il tipo è la natura, o l' archetipo ideale della natura, o un capolavoro che si piglia a ricopiare (verità), ectipo è l' opera dell' artista, che ritrae tali esemplari (vero). A questa maniera di verità si può ridurre altresí la verità di traduzione d' una in altra favella, dove lo scritto originale è il tipo (verità), la traduzione è l' ectipo (vero). 6) Verità significativa . - Il tipo è la cosa segnata (verità), l' ectipo è il segno (vero). Ma se la verità ontologica è la forma ideale dell' ente, che cosa sarà il vero primitivo ed originale? Egli sarà l' ente stesso considerato nella sua relazione di ectipo all' ideale. Ora l' ectipo primitivo e originale dell' ente si porge essenzialmente in due forme diverse, e sono le altre due forme categoriche dell' ente medesimo, il reale e il morale: quindi egli è essenziale all' ente di esser vero in quanto è realità, e di esser vero in quanto è moralità, come gli è essenziale di essere verità in quanto è idea ossia manifesto. L' essere è conosciuto per sé ed amato per sé: queste sono due condizioni essenziali all' essere, le quali si trovano racchiuse nel suo stesso concetto, quand' egli si arricchisca dalla mente colla realità, e di lui cosí arricchito si mediti l' ordine intrinseco. Quindi è che l' essere è ontologicamente vero, e vero sotto due forme; vero in quanto è conosciuto; vero in quanto è amato. Questa doppia identificazione dell' essere come ectipo coll' essere come tipo è l' intrinseco ordine dell' essere assoluto o assolutamente considerato. L' essere assolutamente considerato è l' essere considerato come puro essere, non aggiungendovi altro. Questa maniera di considerare l' essere può aver luogo in un modo limitato o illimitato. Si considera l' essere assolutamente, ma in modo limitato quando si esclude qualche cosa. Ma si può considerar l' ente assolutamente senza esclusione alcuna, ed è allora che nello stesso concetto dell' ente si trova essere lui per sé inteso e per sé amato. Il che se ci vien dato dal concetto dell' ente, necessariamente si deve trovar ciò nell' ente assoluto, come quello che compie e adegua tutto quel concetto. Veniamo all' ente relativo. L' ente relativo è quello che non è ente per sé: non è ente per sé quello che non si può pensare in sé e per sé e senza ricorrere ad altra cosa che non è lui. Ora niun ente finito non può essere pensato in sé e per sé, cioè assolutamente, senza ricorrere all' essere ideale che è un diverso da lui (1). Dunque egli per se stesso non è ente, e quindi per se stesso non è ontologicamente vero. Questa è una limitazione ontologica degli enti finiti: che non siano veri enti per sé, non avendo per sé e in sé la verità che li renda per sé manifesti. Sí fatta limitazione si riduce a questo, che non hanno per sé la forma ideale, sicché l' essere di questa è diverso dall' esser loro. Ma l' ente è anche nella forma reale: anche sotto questa forma vi è tutto l' ente: quell' ente dunque che non è per sé vero, mancandogli la forma ideale, non potrebbe essere ente tuttavia compiuto nella sola forma reale? No, poiché quantunque sotto la forma reale possa essere e sia tutto l' ente, tuttavia questo non ha luogo se non a condizione che l' ente reale inesista nell' ideale, o per dir meglio, che l' ente reale sia per sé manifesto perocché il reale non è tutto l' ente se non è per sé manifesto e quindi vero, mancandogli in tal caso l' atto del conoscere che è reale, e quello dell' amare che è pur reale, i quali atti reali non potrebbe avere per sé, se egli non fosse per sé inteso e per sé amato. Onde l' ente non può esser tutto sotto la forma reale, se ad un tempo non sia anche tutto e identico sotto la forma ideale e morale. L' ente reale adunque che non è vero per sé conviene necessariamente che sia un reale finito, e per dir meglio, non ente: egli adunque non è ontologicamente vero, ma diviene vero soltanto per partecipazione, quando lo si unisce a quell' ente che è vero per sé. Dopo ciò che fu detto, non è piú difficile intendere la sentenza de' Padri della Chiesa, i quali asseriscono, che le cose finite a Dio paragonate non sono, sono nulla (1): non sono, perché non sono per sé enti. Nello stesso tempo però sono, se si considera che partecipano dell' ente che in sé e per sé non hanno. Onde S. Agostino acutamente scrisse, le cose inferiori a Dio « nec omnino esse, nec omnino non esse ». E prosegue: [...OMISSIS...] . Cioè tu sei per te stesso, e le creature non sono per se stesse. Ora allo stesso modo che le cose finite non sono e sono, cosí pure non hanno verità ontologica per sé, ma ne partecipano. Il gran vescovo d' Ippona pone questa sentenza: « Id vere est, quod incommutabiliter manet (3) ». Qui egli parla della verità ontologica, e non l' attribuisce che a Dio, perché egli solo è ente reale per sé, il che vuol dire, come abbiamo spiegato, è per sé reale nell' ideale, perocché solamente essendo per sé nell' ideale è per sé ente, vero ente, e però non ente per accidente, sempre ente « incommutabiliter manet ». Dice ancora quell' altissimo ingegno, che le cose sono per altro quando inesistono in un altro, cioè in quello che è in sé e per sé ente, e cosí noi abbiam veduto che i reali finiti allora acquistano il concetto dell' essere, quando si contemplano inesistenti nell' essere ideale, quindi nell' essere per sé manifesto, che si riduce a Dio (4), a cui il santo Dottore cosí sublimemente favella: [...OMISSIS...] . Dove vien espressa quella inesistenza di cui parlammo, per la quale egualmente, ma sotto un diverso rispetto, si può dire, che i reali sono nell' essere e che l' essere è ne' reali. In che dunque sta la falsità delle cose? Perocché altro è non essere vere, altro è essere false. La verità ontologica non ha falsità in contrario, perocché consistendo ella nell' ente, questo è o non è, ma non è mai falso. Convien dunque osservare che non si può parlare d' una falsità ontologica, la quale non esiste; ma soltanto d' una falsità logica, o se si vuole, psicologica, cioè relativa alla percezione e alla concezione dell' uomo, non di una falsità delle cose in sé. La falsità adunque non cade nelle cose, ma nell' uomo quando le piglia per enti in se stessi, laddove non sono tali, il che pure insegna S. Agostino con questa sentenza: [...OMISSIS...] . Noi abbiamo già altrove descritti gli errori che prende il pensare imperfetto e comune degli uomini: questi costituiscono la falsità psicologica , che noi cosí chiamiamo per indicare che la è data dalla limitazione della natura conoscitiva dell' uomo, a cui non reca danno piú che non glielo rechi la sua propria limitazione, sia perché non lo impedisce dal conoscere la verità, di cui egli abbisogna, sia perché egli può purgarsi di quella maniera di falsità che si mescola nelle prime sue operazioni, coll' uso di quella verità pura ed assoluta di cui egli partecipa. Questa maniera di falsità psicologica è piuttosto una persuasione istintiva, che un ragionamento, e però non è un giudizio analizzato; non si può dire una falsità logica, perché la logica sta propriamente nel ragionamento, ossia nel sillogismo al quale si appoggiano le proposizioni. Si dà dunque verità, e non già falsità ontologica: ciò che non è vero ontologicamente, non è per questo ontologicamente falso; ma il non vero ontologicamente occasiona nell' intelligenza finita il falso psicologico. Cosí i reali finiti non sono veri per se stessi, perché non sono enti per se stessi: or l' intelligenza finita li percepisce come enti senza piú; onde facilmente la riflessione attribuisce poi loro l' essenza di ente in proprio, e cosí cade nel falso. Ma qui nasce una difficoltà. - Noi abbiamo detto che tutto l' essere è manifesto per sé; che nell' essere ideale si contiene tutto virtualmente; e che questa virtualità non può essere che relativa a noi intelligenze finite, ma suppone che nell' essere ideale, il quale è diverso da noi, tutto sia conosciuto attualmente, il che trae la necessità d' un essere assoluto, nel quale tutto sia conosciuto per se stesso, perciò anch' esse le cose finite e contingenti. Ma se le cose finite e contingenti sono conosciute per se stesse, in tal caso non sono piú finite e contingenti. Questa gravissima difficoltà rimane sciolta nella mente di colui che abbia chiaro il concetto dell' esistenza relativa di cui abbiam favellato. Questa relatività, è inchiusa nella limitazione ontologica. Una tale relatività di esistenza non cade nell' essere assoluto, benché l' essere assoluto ne abbia la cognizione, e cosí l' esistenza relativa, costituente le cose finite, sia tale anche rispetto alla mente divina. Ma appunto perché nell' essere assoluto non cade la stessa relatività e limitazione ontologica, perciò si dice giustamente che la relatività e la limitazione ontologica costituente le cose finite è fuori di Dio, fuori dell' essere assoluto; e in questo senso le cose costituite sono fuori di Dio, da lui essenzialmente diverse, il qual vero annienta il panteismo. Si dirà: se l' essenza ideale delle cose finite è in Dio ed è diversa dall' esistenza reale delle cose, in tal caso ben si vede come le cose finite non sieno conosciute per se stesse, quindi non sieno per sé enti, e ancora si vede come Iddio conosca per sé l' essenza ideale delle cose: ma l' essenza ideale delle cose non fa conoscere che la loro possibilità, e non la loro sussistenza. Come adunque in Dio ossia nell' essere assoluto è ella cognita la sussistenza delle cose finite? Convien qui ricorrere all' azione ontologica anteriore, di cui abbiamo parlato innanzi. Le cose finite incominciano ad esistere per un' azione ontologica che precede la loro esistenza, e che non costituisce la loro esistenza relativa: cotest' azione è l' atto di Dio creante, e quest' atto è in Dio, ed è Dio, e però è noto per se stesso come tutto ciò che è essere assoluto. Tra quest' atto, e i reali finiti non v' ha nulla di mezzo; ma posto quest' atto, i reali finiti sono in quel modo, tempo e misura che determina quell' atto. Ora questo modo, tempo e misura è determinato dall' essenza ideale delle cose e dalla perfetta sapienza del creatore. Dunque l' essere assoluto essendo conscio del proprio atto creante, che è per sé noto perché è lui stesso, ed essendo conscio dell' atto della propria sapienza che lo determina, è conscio altresí della sussistenza relativa delle cose, la cui essenza ideale gli è pure nota per sé. Cosí egli conosce le cose finite aventi un' esistenza relativa in sé medesimo come in causa, dov' esse hanno la loro radice anteriore e la forza d' esistere relativamente, che è lo stesso atto creante. Quello che impedisce d' intendere che la cosa è cosí, è il non conoscersi abbastanza la dottrina della limitazione. Non si suol badare ad altra maniera di limitazione eccetto quella del piú e del meno: quella che determina i gradi accidentali che si osservano nella qualità delle cose. La limitazione qui è accidentale. Il soggetto rimane identico, rimane identico anche il suo termine essenziale, il termine non è che limitato negli accidenti. Ma la limitazione ontologica è totalmente d' altra natura. Perocché ella limita ciò che costituisce l' ente. Ma la costituzione dell' ente risulta da due parti, perocché l' ente è costituito come ente , e l' ente è costituito come ente specifico : la mente distingue ciò per cui un ente è costituito come ente, da ciò per cui un ente è costituito come ente specifico. L' ente specifico è costituito da un principio e da un termine, il qual termine è la sua forma sostanziale. Se si cangia questa forma sostanziale, è cangiato l' ente specifico. La forma sostanziale non è ente, ma soltanto una parte costitutiva dell' ente; ella perciò si concepisce dalla mente come un subietto dialettico. Quando si considerano i suoi cangiamenti e le sue limitazioni, allora questo subietto dialettico non è altro che un concetto generico, cioè il concetto del termine in genere, il concetto della forma sostanziale in genere. Certe limitazioni adunque cangiano l' ente specifico, perché limitano la sua forma sostanziale, e quindi cangiano il principio dell' ente che è il subietto reale, il quale è individuato dal suo termine sostanziale. Questa è la prima maniera di limitazione ontologica, la quale determina la specie degli enti. Veniamo ora a considerare ciò per cui un ente è costituito come ente, il che ci fa conoscere la seconda maniera di limitazione ontologica. Questa non cangia soltanto la specie, ma cangia a dirittura l' essere. L' essere è uno e semplicissimo. Quindi accade che se si concepisce l' essere in qualunque modo limitato in se stesso, non gli può piú convenire la parola essere nel significato puro e semplice, nel quale prima gli si attribuiva. Quando si parla in questo modo dell' essere, allora si parla assolutamente di lui, anzi si parla di lui come assoluto essere. Quindi l' assoluto essere non può ricevere alcuna limitazione. Tuttavia non ripugna la limitazione che non è assoluta, ma soltanto relativa; perocché questa non affetta né limita l' essere nel senso assoluto. Ma se si dà il caso di una limitazione relativa, in tal caso questa limitazione relativa, totalmente straniera all' essere assoluto, non potrà appartenere che ad un essere relativo, il quale non è essere nel senso puro e semplice della parola. Quindi una tale limitazione non solo cangia la specie dell' essere, ma cangia l' essere stesso. Laonde l' essere relativo è lo stesso essere che l' essere limitato, ma questo essere limitato appunto perché è limitato non è piú l' assoluto; né vi ha nulla di comune fra l' uno e l' altro, perocché nell' essere limitato l' essere assoluto, che è il suo contrario, è semplicemente tolto via per l' opposizione delle nozioni, giacché l' assoluto come assoluto non piú s' intende, tosto che vi si apponga una limitazione. Il supporre dunque che fra l' essere assoluto e il relativo vi abbia qualche cosa di comune è intrinsecamente assurdo. Dunque molto meno vi può avere un subietto reale comune. Questo subietto è puramente immaginato dalla mente, è l' essere ideale e iniziale, il quale dalla mente si considera per ugual modo, sia qual subietto sia qual predicato, onde accade che egli si predichi di Dio e delle creature. Ma ciò non toglie che quando si predica delle creature si attribuisca loro un' esistenza soltanto relativa. Perocché questo essere ideale non appartiene in proprio alla creatura, che soltanto lo riceve ad imprestito dalla mente; ma sí appartiene all' assoluto, è un' appartenenza di questo, è una forma primitiva in cui l' essere è. Tolto via adunque dalle creature questo subietto ideale che loro non appartiene, esse non sono piú enti: tolto via da esse per astrazione , esse non presentano altro concetto che di non enti, in via ad essere, rudimenti di enti, entità e non enti, ed entità relative; tolto poi via da esse assolutamente, non per mera astrazione, ma per vera negazione , le creature non danno piú altro concetto che quello di meri assurdi. Le creature dunque non possono essere concepite come enti se non congiungendole colla loro essenza ideale ed eterna, il che fa la mente concependole, e per questo anco si dice che sono enti per partecipazione . Di che procede che i finiti sono veri enti per partecipazione del vero ente , e questa è quella verità ontologica, che loro solo conviene. Ma in quanto i finiti sono in Dio, non hanno essi alcun' altra verità ontologica? Noi abbiamo distinto un triplice modo del loro inesistere in Dio: il modo causale, il modo eminente, e il modo tipico. Iddio contiene i reali finiti in modo causale, come la causa efficiente contiene l' effetto, non come ogni causa efficiente, ma in quel modo proprio in cui li contiene la causa creante. Or questa causa non ha nulla affatto di comune coll' effetto che prima al tutto non esisteva. Quando adunque si dice: « i finiti reali inesistono nella causa creante »s' intende dire unicamente, che in quella causa esiste quella forza che non è dessi, ma che è il loro sostegno trascendente, ed ultra sostanziale. Qui dunque non ha luogo la questione della verità ontologica de' finiti reali in Dio; perché i finiti reali nella loro causa altro non sono che la loro causa, e la verità di questa non è la verità loro, ma la verità ontologica di Dio stesso. Si dice poi che i finiti sono in Dio in un modo eminente, per significare che tutti i pregi delle creature sono in Dio come il meno è nel piú, senza divisione, senza limitazione di sorte alcuna, ben anco senza distinzione, perciò fusi quasi direbbesi nell' infinito. Ma se i pregi che sono nelle creature non hanno piú divisione, sono forse ancora quei dessi di prima? No certamente. Ora quando si dice che i pregi delle creature, e tutto ciò che hanno di positivo, esiste in Dio in un modo eminente, s' intende che que' pregi positivi esistono in Dio senza separazione, senza limitazione e senza distinzione. Ora in questo stato que' pregi non sono piú que' pregi, non è piú nulla di ciò che trovasi nelle creature, ma è tutt' altra cosa, piú eccellente certamente, piú grande, anzi cosa infinita; ma finalmente non sappiamo che cosa sia, sappiamo solo che è Dio stesso. Chi dicesse diversamente, chi dicesse per esempio, che esistono in Dio propriamente i pregi delle creature con qualche giunta, questi professerebbe il panteismo, quella specie di esso che si potrebbe denominare teosincretismo. Finalmente le cose finite inesistono in Dio come nel loro esemplare; o, in altro modo, in Dio esistono le essenze eterne delle cose, non le cose stesse reali, il cui essere è relativo. Ora gli esemplari che stanno nella mente divina determinati dall' atto della creazione sono la stessa verità ontologica delle cose finite. Queste adunque hanno in Dio e non in se stesse la loro verità ontologica. Non si può dunque dire che i reali finiti sieno in Dio ontologicamente veri, ossia veri enti; ma si dee dire che in Dio hanno la loro verità ontologica, e che sono veri in se stessi in quanto partecipano della loro verità che è in Dio: la quale partecipazione nasce per opera della mente che li concepisce, cioè unisce i reali relativi ai loro esemplari, alle loro eterne essenze o ragioni, in una parola vede congiunto il reale finito coll' infinito ideale. Uno dei piú importanti, e nello stesso tempo dei piú difficili concetti della scienza ontologica, si è quello della relatività degli enti finiti. Ove lo studio di tale scienza sia pervenuto ad intenderlo con tutta chiarezza e pienezza, egli ha già nelle sue mani la chiave dell' ontologia intiera. Laonde noi crediamo necessario rifarci sopra questo concetto e perscrutarlo a parte a parte. Il nostro discorso deve riguardare l' ente relativo compiuto, perocché gli enti relativi incompiuti si riducono sempre a quello come parti al tutto: ciò adunque che si può dire della relatività di questi è un' appartenenza, un corollario della relatività di quello. Ora, prima di tutto qui è uopo rammentare che noi già dimostrammo due essere le condizioni dell' ente relativo compiuto: 1) che egli sia un soggetto; 2) ch' egli sia un soggetto intelligente. Dobbiamo dunque chiarire come sia vera questa tesi: il soggetto finito intelligente è un ente relativo. Piú sopra abbiamo supposto la possibilità di un' intelligenza che altro non sia che un' intuizione dell' essere ideale. Convien dunque dimandare se ciò che abbiam supposto per ragion di metodo possa essere veramente. Se possa darsi un ente relativo, che altro non sia che una pura intuizione dell' ideale, di maniera che la stessa intuizione sia anche il principio, il soggetto, l' atto primo dell' ente. Se quest' ente è possibile, non potrebbe avere atti secondi senza cangiarsi in un altro, né potrebbe avere altro sentimento che quello dell' intuizione stessa che sarebbe il suo unico atto. Ma qual è il sentimento della intuizione? A me non vien dato di concepirlo: perocché l' intuizione altro non sente, per quanto mi pare, che l' essere ideale suo termine, e questo essere ideale sentito non è altro che la luce dell' essere ideale posto in atto, perocché l' essere ideale non sarebbe ideale, non sarebbe luce se attualmente non lucesse, se non fosse per sé sentita ossia manifesta. Ora la pura luce dell' essere ideale sentita manifesta non si può distinguere dallo stesso essere ideale qualora non vi sia un altro principio da lei diverso che la sente. Ma questo principio non esiste se egli non ha alcun sentimento proprio distinto da quello che, come dicevamo, è essenziale allo stesso essere ideale. Dunque non può esistere un ente finito che non sia altro che intuizione pura dell' essere ideale, giacché un tal ente non avrebbe nulla che lo distinguesse dall' essere ideale medesimo. Acciocché dunque esista un soggetto finito intelligente, egli è uopo ch' egli si abbia oltre l' intuizione dell' essere ideale un sentimento proprio che lo distingua dall' essere ideale medesimo, e a lui lo contrapponga. Un tal essere sente adunque per necessità di sua natura due cose. Egli sente l' essere ideale termine della sua intuizione; e in quanto lo sente, l' essere ideale relativamente a lui è, è luce a lui: questo lui poi è l' altra cosa che egli sente: per dir meglio è il sentimento proprio. Or noi abbiam veduto, che dato un sentimento proprio il quale abbia l' intuizione dell' essere ideale, inesiste a se stesso nell' essere ideale, di modo che si sente oggettivamente e quindi si sente come ente. Questa è la ragione per la quale, fra gli enti relativi, quello che è intelligente si dice ente compiuto; perocché un tale finito reale ha dalla sua propria natura l' inesistere nell' ente e sentire questa sua inesistenza. Egli non è l' ente, ma si sente nell' ente per la sua propria natura; è il sentimento della sua propria esistenza oggettiva , senza la quale non si dà ente, perocché l' ente è per sé oggetto. Ma l' oggetto in cui si sente, l' essere ideale, non è lui stesso; dunque la sua esistenza oggettiva è partecipata: egli è ente per partecipazione . Ora, se il soggetto finito intelligente è ente per partecipazione, conseguentemente non è ente assoluto, ma relativo . Perocché egli è ente per la relazione che ha coll' ente, o viceversa per la relazione che l' ente ha con esso lui. Alla dottrina esposta circa la relatività degli enti finiti taluno trarrà un' obbiezione, da quelle sacre parole: « facciamo l' uomo a nostra imagine e somiglianza ». Come dunque sta scritto che l' uomo, ente relativo com' è, sia fatto ad imagine e somiglianza di Dio? E` da rammentarsi quello che hanno osservato i Padri della Chiesa, che la sacra lettera vigilantemente dice, che l' uomo fu fatto ad imagine e similitudine di Dio, e non dice che l' uomo sia l' imagine o la similitudine di Dio, e né tampoco che sia simile a Dio. Perocché, che cosa è la similitudine? La similitudine, altro non è che l' idea tipo delle cose: le cose sono simili fra loro quando si conoscono con un' idea comune: quest' idea dunque è quella che forma la loro similitudine (1). La similitudine dunque di tutte le cose, quella che rende simili fra loro tutte le cose in quanto sono enti, è l' essere ideale, il quale si riduce a Dio come una sua appartenenza. L' essere ideale e l' essere oggetto è per sé. Ora la mente inesistendo in lui partecipa dell' esistenza oggettiva. Dunque la mente è fatta alla similitudine di Dio, cioè a quella similitudine, a quell' ideale che è in Dio e che essendo in Dio è Dio. All' incontro la mente non è già questa similitudine, perché, come vedemmo, questa similitudine che è l' essere ideale è oggetto, e come tale, non soggetto, ed è eterno ed infinito; e la mente creata è un soggetto contingente e finito (2). Vi hanno adunque due proposizioni che sembrano contraddittorie e non sono: L' intelligente creato è a similitudine di Dio. Niuna cosa creata ha con Dio similitudine di sorta alcuna. La prima è vera perché l' intelligente creato partecipa dell' esistenza oggettiva dell' idea, che è per sé esemplare, o similitudine, e non si può staccare da quest' idea senza che ne perisca il concetto. La seconda è vera quando si considera l' ente creato solamente per quello che ha di suo proprio, che altro non è se non la relatività, di maniera che non ha di suo proprio nemmeno l' esser ente, dicendosi ente soltanto per la relazione che ha coll' ente, per la quale relazione l' ente s' unisce con lui. Cosí considerato il reale finito ha quella relazione con Dio, che ha il non ente coll' ente, nella quale di questo secondo si nega tutto ciò che si afferma del primo e viceversa, di maniera che neppur resta l' analogia. Ma quando lo si fa partecipare all' ente, o per l' ordine stabilito dalla creazione come accade nei reali intelligenti, ovvero per la concezione della mente, allora il creato partecipante l' ente acquista un' analogia con questo, lo imita in qualche modo, e il reale completo, ossia intelligente, con tutta proprietà si dice fatto alla similitudine dell' ente. Abbiamo detto che i reali relativi sono, come tale, termini esterni della creazione. E veramente il relativo non è fuori del relativo, e però non è nell' assoluto, il che sarebbe contraddizione: dunque il relativo non può essere un termine interno dell' atto creativo, perché se fosse tale sarebbe Dio, giacché l' atto creativo è Dio, e Dio è l' essere assoluto che esclude da sé il relativo. Ciò posto, il concetto di un tal ente è bensí eterno e però deve essere in Dio, ma la realizzazione di questo concetto dell' ente relativo non è altramente in Dio. Vi hanno dunque in Dio dei concetti senza che vi abbia la corrispondente realizzazione de' concetti puri, e questa è la ragione per la quale l' ideale apparisce separato dal reale: egli è separato in quanto rappresenta il reale finito, in quanto è l' esemplare del mondo, e come tale è separato anche in Dio dal reale che è fuori di Dio. Ora questo esemplare del mondo è l' oggetto della sapienza umana, come diremo in appresso, e però l' idea di cui l' uomo per natura è fornito è pura idea separata dalla realità. Or dunque il complesso di questi concetti si può chiamare e fu chiamata prima d' ora la sapienza creatrice (1). Non si deve già credere che questi concetti in Dio sieno realmente distinti l' uno dall' altro; ma tutti insieme costituiscono una sola sapienza creatrice e, come dicevamo, l' esemplare del mondo. E come in Dio debba essere l' esemplare sostantifico del mondo vedesi anche da questo, che l' essere è per la sua essenza manifesto, giacché l' esser manifesto è una delle tre forme primitive in cui l' essere è. Ora, se è manifesto, è manifesto tutto e non una parte. Avendosi dunque mostrato che il mondo esiste per via di creazione, cioè per una azione ontologica anteriore a lui, e però eterna, che s' identifica coll' essere stesso, forz' è che anche quest' azione sia per se stessa, per l' essenza sua, manifesta. Ma quest' azione è quella che pone gli enti relativi componenti il mondo. Or ella non sarebbe manifesta se non fosse manifesto il suo termine, il suo prodotto; dunque anche questo, cioè il mondo, è in Dio manifesto, e questo mondo manifesto è l' essenza ideale del mondo, l' esemplare sostantifico del mondo. Il quale esemplare manifesto per se stesso non può distinguersi realmente dal Verbo, se pel Verbo intendiamo l' essere, tutto l' essere per sé manifesto, appunto perché anche l' esemplare del mondo è per sé manifesto. Ma il mondo reale, l' ectipo di tale esemplare è realmente distinto e separato da Dio. Ora il mondo si riduce a un complesso di reali intelligenti, che sono gli enti finiti completi, e di altri incompleti, relativi a quei primi. Qual' è dunque la sapienza che convenga al mondo acciocché sia ente completo, cioè intellettivo? L' ente finito completo, noi abbiamo detto, si compone di due elementi, del suo elemento ideale e del reale, del tipo e dell' ectipo, dell' essenza e della realizzazione, della verità e del vero. Infatti, se vi ha il solo reale non è ancora ente completo, mancando l' essenza dell' ente; la sintesi di queste due cose, del reale colla sua essenza, completa l' ente. Dunque la sintesi del mondo e dell' esemplare del mondo fa sí che il mondo sia un ente finito completo. Ma questa sintesi si fa nella mente ed è la mente. Convien adunque che nel mondo vi sia una mente o piú menti, dove si scorga fatta o si faccia questa sintesi. Dunque era necessario che nel mondo vi avessero delle menti acciocché egli fosse completo, e la sapienza propria di queste menti doveva avere per oggetto l' esemplare del mondo. Nulla di piú si richiedeva acciocché il creato ottenesse la sua naturale perfezione di ente. Ma l' esemplare del mondo in Dio è ancor piú che esemplare del mondo, perché è ad un tempo il Verbo divino, cioè non è il solo mondo manifesto, ma è tutto l' ente manifesto. L' ente manifesto eccede adunque quella sapienza che è consentanea alla natura delle menti finite componenti il mondo. Di qui si vede chiaramente la distinzione e la separazione fra l' ordine naturale e l' ordine soprannaturale delle intelligenze finite. La qual dottrina conviene da noi divisarsi con piú alte considerazioni. Noi abbiamo parlato del mondo in quanto è intellettivo in generale. Questo mondo intellettivo risulta da piú intelligenze. Restringendoci noi a considerare l' uomo, egli non ha tutta la sua perfezione attuale nel primo momento in cui esiste; ma piuttosto trovasi da principio costituito come una potenza che si sviluppa gradatamente, e che sviluppandosi convenevolmente attinge la sua perfezione attuale (1). Ma poiché egli da principio è una potenza reale, quindi come non ha la perfezione attuale, cosí neppure può attualmente conoscerla, ma solo potenzialmente. Di che avviene che nel primo momento della sua esistenza non gli sia dato ad intuire l' esemplare del mondo, ma gli sia dato l' esemplare del mondo in potenza. Or questo esemplare del mondo in potenza è l' idea dell' essere indeterminato costituente, come abbiam veduto, la forma oggettiva della ragione umana. Ma l' idea dell' essere indeterminato ammette due sviluppi, l' uno naturale e l' altro soprannaturale. Il naturale è quello che abbiam detto procedere a mano a mano collo stesso sviluppo naturale dell' uomo, dimodoché in lui si va ognor piú disegnando e manifestando all' uomo il mondo. Il soprannaturale è l' opera di Dio solo, il quale fa sentire all' uomo come l' essere ideale si attui in modo da rendere Dio manifesto, manifestandosi cosí l' identificazione dell' esemplare del mondo col Verbo divino. Se dunque noi pigliamo tutti i concetti, i concetti dico immediati, cavati dalla percezione intellettiva di ogni sentimento proprio; se prendiamo dico tali concetti di tutti gli enti finiti intelligenti, che furono, sono e saranno, e tutti insieme li componiamo e ordiniamo nell' ordine, di cui il loro complesso è suscettibile; noi ci avremo in tal modo composto l' eterno disegno di Dio, l' eterno esemplare del mondo. Di che si scorge che l' eterno esemplare di Dio esprime il mondo nella sua relatività, nella quale solo esiste, e però non fa già conoscere qualche cosa di assoluto, ma di relativo, quale è unicamente l' esistenza, o l' entità degli enti creati. Di che si può e si dee dire, che la verità ontologica degli enti finiti è anch' essa una verità relativa a questi, e non assoluta, altro con ciò non significandosi se non che quell' esemplare non fa conoscere già come è l' ente assoluto, ma come l' ente apparisce relativamente agli stessi reali finiti, e aventi una relativa esistenza. Né da questo si può già dedurre, che dunque quella verità ontologica per essere relativa abbia qualche cosa di falso in se stessa. Abbiamo già veduto, che la verità ontologica, non ammette falsità ontologica a lei opposta. Oltracciò abbiamo distinta la verità ontologica dalla verità logica . Questa seconda, che procede dall' essere ideale, e consiste nell' assenso dell' animo ad una proposizione, è sempre assoluta ed incondizionata, e se non è tale non è verità, ma falsità logica. Ora la verità ontologica relativa non induce necessariamente alcuna logica falsità. Falsità logica sarebbe se noi pigliassimo la verità ontologica relativa per verità ontologica assoluta, cioè se noi asserissimo, che l' esemplare del mondo fa conoscere l' essere assoluto, siccome i panteisti fanno; ma fin a tanto che il nostro sentire si risolve nella proposizione, che « il detto esemplare del mondo fa conoscere l' ente relativo », noi sentiamo il vero, e la proposizione è di una verità logica assoluta. Ora questo appunto è quello che si avvera in Dio, il quale sa che l' esemplare del mondo esprime l' ente relativo ch' egli crea con quell' esemplare. Vero assoluto non è che l' ente assoluto, perché risponde alla verità dell' ente, è l' identità del reale coll' ideale. All' incontro oggettivo è ogni vero, anche il relativo, benché il vero ossia l' ente relativo non sia vero ente per se stesso, ma perché nella mente sintesizza col vero ente, cioè coll' ideale. In questa maniera i reali finiti, divenuti oggetti, si posson dire veri oggettivi, ma ad un tempo relativi, veri oggettivi per partecipazione della verità. Riassumiamo ora le diverse maniere di verità ontologica, di cui abbiamo qua e colà fatto menzione. I primi due generi adunque di verità ontologica sono quelli dell' assoluta e della relativa . Ma la verità ontologica relativa, di cui l' uomo va partecipe, ammette poi varie specie. E le due prime sono quella degli esseri reali, e quella degli esseri mentali. Gli esseri reali si suddividono ancora in due classi, gli uni hanno un solo grado di relatività, gli altri ne hanno due, cioè sono relativi de' relativi. I primi hanno un' esistenza soggettiva, sono soggetti, sono i principŒ senzienti7intellettivi individuati; i secondi hanno un' esistenza soltanto oggettiva, sono i termini de' primi; tali sono quelli, a ragion d' esempio, che si percepiscono come esseri bruti, i corpi, e la materia. Atteso dunque questi due gradi di relatività che hanno gli esseri finiti, si dee dire che il pensar nostro, la nostra immaginazione intellettiva ha piú di verità ontologica quando pensa come ente un soggetto, un principio individuato, che quando pensa come ente un corpo bruto, a cui non si può attribuire alcuna vera e sua propria soggettività, ed ancor meno poi quando pensa come ente un astratto, di che parleremo in appresso. E qui giova distinguere un' astrazione naturale , diversa da quella che l' uomo suol fare ad arbitrio, e alla qual sola si è riserbato sin qui il nome di astrazione, benché le due operazioni non differiscano sostanzialmente, almeno in quanto al risultato. La differenza fra questa specie d' astrazione naturale che fa la mente, e quell' astrazione che chiamammo arbitraria, e che la mente s' accorge piú facilmente di fare appunto perché suol farla scientemente, si è questa. Ogni astrazione si fa sopra un pensiero complesso che precede «( Psicologia , vol. II, n. 1313 sgg.) ». Ma nell' astrazione comune e arbitraria il pensare complesso suol essere quello di un ente attualmente concepito, o almeno per addietro, dalla mente; laddove .asterisco . nell' .asterisco . astrazione naturale, che noi facciamo in percependo i sensibili esterni, il pensare complesso è soltanto quello dell' ente virtuale, perocché noi applichiamo quest' ente virtuale ai reali sensibili senza curarci punto di esaminare quale elemento manchi a tali reali sensibili acciocché sieno enti completi, bastandoci di aggiunger loro questo elemento virtualmente, cioè lasciando questo elemento immerso nella virtualità dell' ente ideale che loro aggiungiamo. E qui, temendo piú l' ambiguità del discorso, che non l' accusa, che ci possa esser data, di prolissità, stimiamo opportuno di chiamare l' attenzione del lettore a distinguere viemmeglio la limitazione ontologica dalla limitazione virtuale . La limitazione ontologica, come abbiamo detto tante volte, è quella a cui soggiace il reale, laddove la limitazione virtuale è quella a cui soggiace l' ideale. Il reale si riduce al sentimento. Quindi la limitazione ontologica non è che la limitazione del sentimento sostanziale. La limitazione virtuale all' incontro nasce dall' essere nella sua forma ideale. L' essere ideale abbraccia sempre ogni cosa, manifesta ogni cosa, ma egli non manifesta all' uomo ogni cosa attualmente , ma virtualmente . Quindi la limitazione virtuale dell' essere ideale non moltiplica lui stesso in piú enti, perocché egli rimane sempre il medesimo essere manifestante ogni cosa, benché non manifesti all' uomo ogni cosa nello stesso grado e modo: onde ella non si dice ontologica, perocché ella non moltiplica l' ente; laddove la limitazione del sentimento sostanziale si dice ontologica, perché moltiplica gli enti, giacché ogni sentimento limitato è un ente diverso ed esclusivo di un altro sentimento. E che il principio della moltiplicazione degli enti non affetti lo stesso essere ideale si vede da questo, che un tal principio è la realità sussistente . Ora questa non cade mai nel puro ideale ossia non diviene mai ideale, onde tutto ciò che è ideale è un comune, o certo una specie, l' ente relativo possibile, non la sua sussistenza. Che se non fosse cosí, si confonderebbero le due forme dell' essere, l' ideale, e la reale, le quali sono inconfusibili ed incomunicabili. Tuttavia si dirà, che quantunque l' ideale non si confonda mai col reale, pure i concetti pieni sono ideali e sono molti, e se non fossero distinti, il creatore non avrebbe potuto creare su di essi gli enti finiti. Della quale istanza la risposta può derivarsi dalla dottrina esposta poco innanzi circa l' astrazione. Non si potrebbe pensare un astratto, se virtualmente non si pensasse l' ente, di cui quell' astratto è, comecchessia, un elemento. Applicando questa dottrina a Dio, noi diciamo che tutti i reali finiti possibili si contengono virtualmente nell' essere assoluto in quanto è ideale, ossia manifesto. E il contenersi virtualmente non è imperfezione di lui, ma degli enti finiti che non hanno da se stessi alcuna realità. Ora tutti i finiti, fino a tanto che sono virtualmente contenuti nell' ideale, non formano che un ideale solo e semplicissimo, perché sono privi di tutte le loro distinzioni. Quando adunque Iddio ne trae alcuni dalla loro virtualità all' attuale esistenza per l' atto creativo, allora essi escono distinti mediante la loro realizzazione. Questo trarli dalla virtualità all' attuale esistenza, secondo la frase di San Paolo, è un « ex invisibilibus visibilia fieri (1) ». Quest' attualità de' reali contingenti e relativi è fuori di Dio, ma essi all' ideale divino in quanto è loro esemplare sostantifico sono congiunti, per l' atto divino. Cosí i concetti sono distinti, distinti per una relazione estrinseca, la quale non moltiplica punto né l' atto del pensare divino, né l' ideale che acquista tali relazioni come subietto dialettico, quando il vero subietto di esse sono le intelligenze finite, che nell' ideale altro non possono conoscere che se stesse. Possiamo ora esaminare qual verità ontologica possieda la realità pura, e il principio puro, che è quello che ci rimane, astrazion fatta dalla sua individuazione. Che cosa è dunque la realità pura? Facilmente si risponde, che il concetto di realità altro non presenta se non una delle forme originarie dell' essere. Quindi questo concetto non ci presenta attualmente un ente, ma soltanto essa forma originaria dell' ente, e l' ente rimane nel pensiero virtuale. La realità pura adunque si pensa con un pensiero che astrae dall' ente. Ma qui si deve osservare, che l' astrazione porge al pensiero umano un doppio risultato; perocché ella o diminuisce o accresce l' oggetto del pensiero: sotto un aspetto lo diminuisce, e sotto un altro lo accresce ed arricchisce. Diminuisce l' oggetto del pensiero allorquando l' astrazione lascia da parte ossia sottrae all' attenzione attuale qualche cosa che è positivo nell' ente; lo accresce ed arricchisce, quando ella lascia da parte qualche cosa che è negativo nell' ente, come sarebbe la limitazione e la relatività. Il che spiega l' apparente contraddizione che occorre nelle dispute filosofiche, nelle quali talora si parla di un astratto come di cosa nobilissima, altissima, ricchissima; talora se ne parla come di cosa assai povera e gretta. A ragion d' esempio, si dice che l' essere è ciò che v' ha di piú nobile e di piú perfetto; ed altre volte si dice che l' essere è il minimo grado di perfezione che possano avere le cose. E` vero l' uno e l' altro. L' essere per la sua potenzialità infinita è il piú grande e nobile oggetto del pensiero. Ma se si considera la sua attualità, egli non ne ha altra che quella della realità (perché parliamo sempre dell' essere reale), e quindi egli fa conoscere una attualità poverissima, la piú povera di tutte, giacché alla realità che fa conoscere non si può aggiungere cosa alcuna, ché allora la si attuerebbe maggiormente, e quindi non si penserebbe piú l' essere reale puro, contro all' ipotesi. E` altresí da considerare, che quanto piú la mente fa rientrare l' essere nella sua potenzialità, togliendogli d' attorno coll' astrazione le attuazioni limitate; tanto piú egli rimane puro essere (1). Ora l' essere assoluto è puro essere, e quindi questo che è l' essere attualissimo , e quello che è l' essere potenzialissimo , convengono in ciò, che sono entrambi puro essere. Di qui è che l' essere si predica di Dio e delle creature in senso univoco. E` vero che Iddio è l' essere assoluto, e che i reali finiti sono puramente esseri relativi; ma il concetto puro dell' essere che chiamammo potenzialissimo prescinde dalla stessa relatività, e in somma prescinde da tutte le limitazioni, e quindi da tutte le qualità limitate degli enti finiti; poiché solo in questo modo rimane innanzi al pensiero il puro essere. Che se noi estendiamo questo discorso e procuriamo di determinare tutto ciò che può appartenere all' essere puro, e quindi tutto ciò che può predicarsi univocamente tanto di Dio quanto delle creature, noi rinverremo che i concetti astrattissimi dotati di questa prerogativa sono quattro né piú né meno, cioè il concetto dell' essere e i concetti delle sue tre forme, perocché in ciascuna delle tre forme vi ha l' essere puro e scevro di ogni altra differenza. Quindi anche la realità pura, cioè tale a cui la mente non aggiunge altro che realità, come altresí la idealità pura, e la moralità pura, sono astratti coi quali pensiamo tal cosa che conviene ugualmente a Dio e alle creature; perocché tali concetti non abbracciano punto il modo onde conviene a Dio ed alle creature, il quale è diverso, dacché questo diverso modo è messo da parte per opera dell' astrazione. E quindi noi siamo in istato di dichiarare che cosa si voglia dire quando si dice che al di là del sentito si riconosce dovervi avere una realità pura. Con questo non si decide se questa cosa al di là del sentito sia l' essere infinito o un essere finito, ma solo si dice che qualche cosa vi ha di reale, qualche cosa che a noi non è nota se non quanto all' elemento astrattissimo della realità. Siamo ancora in istato d' illustrare il concetto di principio puro. Noi abbiam distinto il concetto di principio puro dal concetto di principio individuato. Il principio individuato è l' ente attuale, sia egli finito o infinito; ma il principio puro è concetto astrattissimo, pel quale il pensiero si limita a considerare solamente un principio. Questo principio non è che l' essere reale potenzialissimo. Soltanto che egli esprime altresí la condizione di principio. Ma questa condizione è comune a tutti gli enti completi, che soli si possono dire semplicemente enti, perocché il concetto di principio racchiude le tre idee elementari dell' ente, quella di attività, di unità e di esser primo, giacché il principio è uno, primo, attivo. Quindi ciò che viene espresso colla parola principio appartiene all' essere reale, e non al fenomeno; e fino che si rimane cosí puro da ogni individuazione non rappresenta nessuna creatura, ma cosa anteriore alle creature, un elemento mentale dell' essere assoluto; al quale poi s' appoggia come a sua base la relatività delle creature. Fin qui abbiamo favellato della verità ontologica di cui partecipano gli enti reali finiti. Di poi abbiam cercato qual verità ontologica spetti a quelli ultimi astratti, coi quali non pensiamo attualmente se non un elemento proprio dell' ente per essenza, come sarebbe l' ente potenzialissimo, il principio puro, la realità, o la moralità pura ecc.. Ancora abbiam detto che l' ideale illimitato è la verità ontologica stessa. Abbiam detto del pari, che quando l' ente ideale viene limitato dalla sua relazione con un reale finito, con che egli prende natura di concetto specifico o generico, quest' ideale divenuto esemplare de' reali finiti è la verità ontologica relativa di questi. L' essere mentale fu da noi distinto dall' ideale. All' essere mentale appartiene l' assurdo, ed è di questo che vogliam qui domandare, s' egli abbia alcuna verità ontologica. Facile certamente è il rispondere di no, perocché egli non è ente. Ma nasce il dubbio: se non è ente, come dunque si concepisce? Perocché se egli non si concepisse in alcun modo, non si potrebbe dire tampoco ch' egli sia un assurdo: merita dunque la questione di essere accennata. A risolverla, noi neghiamo che veramente si concepisca l' assurdo, dimodoché sarebbe un' improprietà il dire che si concepisca. L' assurdo non è che un affermare e un negare lo stesso. Ora è impossibile all' uomo affermare e negare lo stesso contemporaneamente, perocché la negazione distruggendo l' affermazione, l' atto che unisce queste due cose sarebbe nullo, cioè farebbe un atto che si farebbe e non si farebbe nello stesso tempo, il che è impossibile. Dire che non si può fare quest' atto affermante negante è lo stesso che dichiarare l' assurdo una cosa inconcepibile, un non oggetto del pensiero, e però un non pensiero. Quando si dice che l' assurdo è inconcepibile allora egli sembra che già lo si concepisca, perocché sembra che non si possa negare ciò che non si concepisce. Ma questa è un' illusione come è un' illusione il credere che si concepisca il nulla, perché si dice che il nulla è il contrario dell' ente. La mente dà ad imprestito al nulla un' entità per potergliela poi ritorre e negare. Del pari la mente dà ad imprestito un' entità fittizia all' assurdo per poter dichiarare poi che egli non ha questa entità. Questa negazione che fa la mente è puramente una verità logica. All' opposto colui che affermasse concepibile l' assurdo pronuncierebbe una falsità logica. Ora l' uomo può certamente pronunziare una falsità logica, può dire quello che non è; ma non ne viene da questo, che perciò quanto egli dice abbia qualche verità ontologica. La falsità logica è relativa all' arbitrio dell' uomo, alla facoltà dell' errore: essendo questa volontaria, l' uomo può voler asserire che sia un ente quando non è; ma quest' atto di volontaria affermazione è impotente a fare che sia l' ente affermato che non è, e quindi non produce alcun vero ontologico. Quello adunque che l' uomo pensa intorno all' assurdo appartiene interamente al pensare soggettivo e non all' oggettivo, appartiene alla facoltà di affermare e non a quella d' intuire, e l' affermazione priva di ogni intuizione non ha e non produce alcun vero oggetto, è puramente un atto del soggetto che riman privo di verità. Fra le nozioni ontologiche piú difficili a dichiarare vi ha quella della potenza, di cui pure e la filosofia e il comune linguaggio fa un uso cotanto frequente. Giova adunque che vi ci fermiamo alquanto, poiché la solidità del sapere dipende soprattutto dall' avere ben penetrata la natura di tali nozioni comunissime. Continuandoci adunque a quello che abbiam detto nella Psicologia (1), prima di tutto osserviamo che la potenza suppone un soggetto a cui ella appartenga. Il soggetto è sempre un principio che almeno deve essere sensitivo, e che non è compiuto se non sia anco intellettivo. Questo soggetto o è individuato, ente completo, o non è individuato, ente incompleto, principio senza termine. Ma la mente umana pensa anco de' subietti dialettici che non sono soggetti, ma dalla mente stessa sono assunti per necessità di conoscere e di ragionare. Quindi si trae una prima classificazione delle potenze che appartengono a veri soggetti, cioè a principŒ, sieno individuati, ovvero solamente astratti; e potenze che appartengono a subietti dialettici. I soggetti o principŒ individuati sono gli enti completi: a questi soli convengono delle potenze reali, perocché essi sono reali. Se un ente fosse tale che non potesse subire alcun cangiamento, egli non avrebbe potenza, ma solamente atto. Le potenze adunque si riferiscono a cangiamenti possibili: secondo che sono questi cangiamenti, sono anche le potenze; queste si ripartono in classi come quelli. Ora i cangiamenti di cui è suscettivo un soggetto finito, dipendono dalle variazioni accidentali de' suoi termini, e però le potenze di un soggetto sono tante, quanti i suoi termini, e le specie di cangiamenti che posson subire. Ma il cangiamento che nasce nel soggetto in conseguenza delle modificazioni del suo termine, dà luogo solamente a potenze passive. Ora lo stesso soggetto, che è il principio, quando è individuato, ha un' attività propria che tiene proporzione alla sua passività. Quindi le facoltà attive che sorgono nel seno delle passive, fra le quali di tutte principali è la libera volontà. Queste potenze attive e passive si riferiscono tutte ad atti accidentali del soggetto: questi atti non cangiano il soggetto, egli rimane in tutti identico. Tali sono le potenze del principio individuato. Non esistono realmente che principŒ individuati. Ma poiché il principio individuato è molteplice, ha un ordine intrinseco, almeno ha una dualità, risultando da principio e da termine. Quindi la mente può collocare la sua attenzione nel solo principio o nel solo termine, considerando ciascuno di questi elementi come un ente, il che ella fa, lasciando l' altro immerso nella virtualità del pensare. Tali sono gli enti incompleti. Quando la mente concepisce un principio separato dal suo termine, allora ella lo pensa in potenza all' individuazione, cioè a ricevere il termine. Ma se la mente considera il principio senza il termine, e prescinde altresí da ogni relazione di lui col termine, in tal caso ciò che le rimane non è altro che il concetto di un qualche cosa, che non è piú neppure principio, perocché il principio involge sempre una relazione al termine. Quindi la mente può considerare il principio diviso dal termine in tre modi: 1) O per una astrazione che non abbandona intieramente l' individuo, come se noi pigliassimo a considerare il principio che è proprio d' un animale o dell' uomo. 2) O per una astrazione che abbandona l' individuo specifico e generico, onde ciò che pensa è un principio puro, e in tal caso è un elemento dell' ente reale. Il principio cosí concepito è in potenza a ricevere qualsivoglia termine. 3) O con una astrazione che abbandona anche ogni relazione con qualsivoglia termine. Qui vi ha la potenzialità di esser principio. Se ora noi vogliamo rilevare il valore di questi tre oggetti della mente, troveremo: 1) Che il concetto di principio specifico o generico porge quello di una potenzialità agli individui d' una specie o d' un genere. Questa potenzialità ha un' esistenza puramente relativa ai termini che individuano il principio, e però non ha nessuna assoluta esistenza. Quindi la mente cadrebbe in errore se giudicasse che un tal principio esistesse, o potesse esistere diviso dai suoi termini. 2) Che il concetto di principio puro, essendo un elemento dell' essere reale, si può riferire tanto all' essere assoluto, quanto all' essere relativo. Che in quanto all' essere assoluto egli è lo stesso essere assoluto, e perciò è realissimo. In quanto poi all' essere relativo altro non è che la stessa potenza creativa di Dio: è un principio anteriore ad ogni genere e specie; non entra in composizione coi reali finiti, perché è ad essi ontologicamente anteriore. 3) Che il concetto di ciò che rimane nella mente quando togliam via dalla nozione di principio ogni relazione ai termini, non può darci altro che l' essere puro che virtualmente si conteneva nel concetto di principio. Qui la potenzialità appartiene all' imperfezione del nostro pensare, e oggimai trattasi di un subietto dialettico, a cui una tal potenzialità si oppone.

Giacomo l'idealista

663172
De Marchi, Emilio 1 occorrenze

Nella brutale rivelazione di un mistero, che nessun amore aveva abbellito, che nessuna benedizione aveva santificato, ma nel quale essa era piombata come dal buio della notte in un braciere ardente, tutta la sua vita era rimasta sconvolta e disorganizzata. Un tal disastro avrebbe potuto essere l'agonia d'ogni altra creatura, ma per lei, per lei che amava un altro uomo . Non poteva fermarsi un attimo sul pensiero di Giacomo, né udir pronunziare il suo nome, né prevederne il sopraggiungere, senza sentire tutto il suo sangue andare dal cuore alla testa e dalla testa al cuore come un torrente di fuoco. L'impulso era di correre da lui e dirgli tutto, subito: ma gli avrebbe piantato un coltello nel cuore. Avrebbe egli creduto alla sua innocenza? non era meglio seppellirsi viva piuttosto che andargli davanti cosí indegna? A questo suo povero Giacomo essa si sentiva legata da un'antica promessa, che non aveva mai avuto bisogno di essere pronunciata. Quando avesse cominciato il suo cuore ad appartenergli non avrebbe saputo dire. Forse era sempre stato suo. Raccolta bambinella in casa dello zio Mauro, era cresciuta con Giacomo, accanto a Giacomo, all'ombra sua, quasi sui suoi ginocchi, come una piccola rosa innestata sul tronco d'una quercia. La casa, l'aia, la vignetta, la loggetta erano stati il loro regno comune per tutto il tempo che Giacomo stette presso i suoi. A lei non era parso di perderlo nemmeno quando tutti le dicevano, scherzando, che lui sarebbe diventato un vescovo. Nessuno meno di lei si era meravigliata quando, buttata la veste nera alle ortiche, Giacomo ricomparve ancora libero della sua volontà. Tutto questo era nel giro naturale delle cose. - Per me - gli disse quel giorno che le tornò davanti non piú prete per me tu saresti sempre stato il mio padrone e io la tua serva. Essa aveva allora poco piú di quattordici anni; ma quando, qualche anno dopo, scoppiò la guerra, e il cugino partí con Garibaldi, oh! allora aveva cominciato a capire che l'amore è un patimento. Durante tutto il tempo della disgraziata campagna, furono per lei giorni e notti d'angoscie inesprimibili. Il suo cuore sentí tutte le fucilate, che potevano uccidere il suo povero Giacomo. Finalmente egli scrisse che sarebbe ritornato, e ritornò veramente, piú bello nella bella camicia rossa del garibaldino, che non fosse stato mai, col viso abbronzato, colla barba cosí lunga, che non osò piú dargli del tu. Non poté piú guardarlo senza arrossire, fuggiva davanti a lui per una inesplicabile paura; le fucilate continuarono nel suo cuore anche a guerra finita; e nel parlargli col "voi" metteva in questo pronome nuovo un sentimento nuovo di rispetto e di venerazione, come se cercasse di sostenere in una parola piú larga e piú sostenuta la gran gioia che traboccava da tutte le parti. Che un giorno dovessero sposarsi era cosa tacitamente ammessa da loro e da tutti quelli che li conoscevano. Tutto si riduceva a una questione di tempo e di circostanze. Che cosa importava che fosse oggi o domani? Giacomo riprese a studiare nei libri latini, e qualcuno assicurava che avrebbe col tempo dato alle stampe qualche cosa di bello; ma allora non passò nemmeno per la mente a "Frulin" che il latino potesse guastare l'amore. Anche i sapienti hanno bisogno, e forse piú degli altri, che qualcheduno voglia loro del bene. Cosí erano passati gli anni in una dolce aspettativa, fino al giorno che Giacomo le consigliò di entrare al servizio della contessa per sollevare lo zio Mauro e per mettere in disparte un po' di corredo. Egli sperava in un certo premio, pel quale lavorava sempre. Un anno ancora di pazienza, e poi chi sa? Aveva diciott'anni, quando la contessa la condusse nel Cremonese; e anche nella nuova casa non tardò ad acquistare la benevolenza di tutti. Il cuor contento, pieno di speranza, dava alla sua soda bellezza di ragazzona campagnuola un'affascinante espressione di giovialità. Al vecchio conte faceva allegria soltanto a vederla passare col secchiello dell'acqua o col cesto della biancheria. Non abituata ai salamelecchi e al cerimoniale compassato dei signori, che hanno molto tempo vuoto da riempire, quel suo andar per le lisce, quel suo parlar brianzuolo cosí pronto, cosí gustoso di proverbi, con cui sapeva difendersi tanto dagli adoratori platonici in guanti come dalle tenerezze troppo espansive dei servitori, aveva servito a rallegrare unacasa che a molti pareva fin troppo imbottita di dottrina cristiana e di filologia. Donna Cristina, volendo raccogliere questa bellezza troppo vistosa, finí col dare l'ultimo tocco di pennello a un bel lavoro della natura: e fu appunto questa bellezza cosí fiorente, resa affascinante dal grembiulino e dalla cuffietta alla normanna, che colpí in pieno la fragilità di don Giacinto. Aveva cominciato anche lui, durante una breve licenza d'inverno, a corteggiarla con qualche elegante facezia; ma chi bada a quel che dicono i signori, quando vogliono canzonare una povera ragazza? Una volta però essa minacciò il giovine di dire tutto alla contessa, se non la lasciava stare; e per fortuna il signorino fu richiamato al reggimento. Venute le vacanze d'autunno, don Giacinto tornò due o tre volte all'assalto; ma di nuovo essa lo pregò di non dare questo dispiacere alla signora. Fu durante il tempo delle corse d'estate, verso la fine d'agosto, che tornato improvvisamente al Ronchetto, dopo il celebre trionfo di Messalina, che gli aveva fatto tracannare una quantità enorme di sciampagna, fu in un momento di vertigine e di esaltazione sensuale che il suo cattivo genio lo condusse a varcare, nel silenzio istigatore della notte, una soglia, che avrebbe dovuto, per il bene suo, della sua mamma, della sua casa, sprofondargli sotto ai piedi. La ragazza, snervata dal sonno della sua età, si trovò nel male, prima che avesse tempo di aprire gli occhi. Eran quasi passati due mesi da quell'ora terribile, due mesi, in cui due povere donne, avvicinate dallo stesso dolore, come possono soffrire due cuori trafitti dalla stessa spada, vedevano avvicinarsi ora per ora, minuto per minuto, il giorno che avrebbero dovuto chiamar Giacomo a giudice di un delitto. Questa fatalità si poteva con cento artifici nascondere e ritardare, ma i giorni passavano, passavano le notti insonni, e crescevano le responsabilità insieme agli spaventi. Donna Cristina, che temeva la solitudine de' suoi pensieri, chiamava spesso di notte la ragazza nella sua camera (il conte per riguardo al suo cuore dormiva abbasso accanto allo studio), e vegliando con lei, pregando insieme colle quattro mani legate dallo stesso rosario, cogli occhi fissi nell'immagine dell'Addolorata, cercavano di prepararsi ad affrontare il terrore della loro situazione. Nell'ardore di quel tormento, che le consumava, scomparivano le differenze sociali; nel proprio dolore ciascuna sentiva l'altra, si compassionavano come sorelle e si eccitavano a vicenda con isquisite suggestioni. La raffinatezza di questa cura, mentre esauriva le forze dell'infermiera non era tale da infondere coraggio e quiete nella malata. Al contrario, i momenti di inquietudine nervosa si facevan piú frequenti, piú spesse tornavano le allucinazioni, le visioni, i terrori fatui, che facevan balzare la ragazza dal letto e trasalire la contessa nel mezzo de' suoi sogni torbidi e posticci. Durante certe notti, in cui la povera vittima non poteva chiudere occhio, toccava alla contessa scendere, tre, fin quattro volte, dal letto, attraversare il piccolo corridoio, che divideva la sua stanza da quella della ragazza, inginocchiarsi ai piedi dell'altro letto, pregare la sofferente di non piangere piú, di non farsi sentire da Enrichetta, che dormiva poco lontano, la carezzava, le sussurrava orazioni e paroline di pace, la segnava colla croce, le metteva sul petto un crocifisso o vecchie reliquie benedette, finché la stanchezza e il cloralio tornassero ad assopirla. Qualche altra volta, entrando nella stanzetta, trovava la disgraziata seduta sul letto, colle mani morte sui ginocchi, immobile come la statua della meditazione, insensibile al freddo, sorda alla voce di chi la chiamava, con tutte le facoltà concentrate e ipnotizzate in una sola idea, che si condensava nell'oscurità: che cosa doveva dire al suo Giacomo? Di mano in mano che si avvicinava il tempo di tornare a Cremona (ritorno che avveniva sempre nell'estate di San Martino), la contessa, che vedeva la necessità di prendere una deliberazione, cominciò a parlare alla ragazza di queste sue buone parenti di Buttinigo, che l'avrebbero ricevuta volentieri. "Il luogo è quasi un convento, quieto come una chiesa, fuori dagli occhi del mondo. Nella compagnia delle buone signore, due vere sante, e nella vicinanza delle monache della Noce, avrebbe trovata la forza e la pazienza di sopportare la sua disgrazia, insieme ai balsami della religione e della carità. Cosí toglieva alla gente ogni occasione di sussurro, e dava a lei più libertà di preparare l'animo di Giacomo a ricevere il terribile colpo. Del bene se ne può fare dappertutto e in ogni stato: e se il Signore teneva conto del suo grande sacrificio, doveva un giorno rimunerarla con qualche grazia particolare. Qualunque fossero i suoi bisogni e i suoi desideri, avrebbe sempre trovato in lei una madre amorosa e riconoscente". E per dimostrarle che la sua compassione non era fatta di sole parole, le regalò e le mise al collo una preziosa crocetta di lapislazzuli, che una sua amica aveva portato da Lourdes: l'obbligò ad accettare una somma di denaro per far fronte ai bisogni e per accontentare qualche capriccio. Con questo minuto lavoro di antiveggenze, di ingegnose astuzie, di raffinatezze femminili, che alla povera signora, non abituata agli artifici della simulazione, costavano notti intere di pensieri e di spasimi, le riusci di ridurre a poco a poco l'animo incolto e non indocile di Celestina, se non alla rassegnazione passiva, a considerare almeno il suo stato con meno tremito, con minore ribellione di spirito. Tutto il fascino, che una maggiore educazione di spirito, la forza della mente e gli splendori incantevoli della ricchezza possono esercitare su una natura primitiva, incapace di troppo lunghe resistenze, fu messo in opera dalla madre spaventata, colla rapida e sgomentata destrezza che c'insegna e fuggire da un pericolo incalzante; arrivò fino a far tacere, fino a respingere qualche rimorso, che il delicato senso della rettitudine naturale e della carità andava sollevando. In questa tremenda battaglia donna Cristina Magnenzio sapeva d'aver in giuoco la vita e l'onore de' suoi figli; e senza aver mai letto i consigli del Machiavelli, piú che ai modi del vincere badava a vincere presto. La ragazza agli ultimi di ottobre, nella sua integra ignoranza, non sospettava ancora quel che non era piú un dubbio per l'esperienza della madre: per evitare che questa nuova coscienza le nascesse in casa, prima che l'intimo mistero si annunciasse con qualche moto, la signora si affrettò a sfruttare tutti i buoni propositi e le ultime debolezze della vittima. Celestina, rimessasi da una lunga febbre, che ne aveva scossa e indebolita la volontà, si lasciò persuadere ad abbandonare la casa della sua disgrazia, senza avvertirne Giacomo. Per rendere questa partenza piú naturale, una mattina la contessa fece attaccare assai di buon'ora, e, scesa con Celestina, lasciò detto al conte che sarebbero tornate per l'ora della colazione, dopo aver fatte certe loro divozioni alla Madonnina della Noce, dove si celebrava la festa centenaria. Partirono loro due sole con un tempo limpido e fresco, che pareva un sorriso della natura. Tutta la strada quanto fu lunga, dal Ronchetto alla Madonnina, non si dissero che poche parole e a lunghi intervalli: il tumulto dei pensieri impediva di parlare. Quando ebbero passato l'Adda sul traghetto d'Imbersago, entrambe mandarono un piccolo sospiro e si strinsero la mano. Quel fiume, che restava indietro, voleva dire per la ragazza tutta la sua bella vita perduta per sempre; per la signora invece una prima battaglia vinta. - Addio, povero Giacomo, - fece la misera, con voce rotta, ma senza piangere. - Procura di essere buona e rispettosa verso queste signore, che hanno promesso di tenerti sotto la loro protezione, e vedrai che il Signore ti ricompenserà. - Cosí cercò di consolarla la contessa con parole, in cui si sarebbe già potuto sentire un tono di minore angustia. Al trotto serrato dei due cavalli, che sentivano l'energia del riposo e la sferza dell'aria mattutina, la carrozza, dopo aver risalita la riva sinistra dell'Adda, prese a correre sulla strada provinciale di Bergamo. Celestina vide diminuire e restar indietro le note montagne, e confondersi sotto il nuovo orizzonte la linea delle sue colline, che andavano rimpicciolendosi in una malinconica distanza, mentre le campagne a destra e a sinistra della strada si facevan piane, uguali, costeggiate da piccole siepi polverose, non interrotte che dalle piante smozzicate dei gelsi. Traversarono borgate ignote, quasi ancora deserte in quell'ora mattutina, dalle quali non usciva che il suono fuggente di qualche incudine, o il rombo d'un filatoio, che si accompagnava a una mesta cantilena di lavoratrici, o l'abbaiare di un cane, che uscito da un cascinale, inseguiva un tratto la carrozza; poi di nuovo ricominciava la strada bianca e si continuava a correre per luoghi sconosciuti, che suscitavano nell'animo superstizioso della giovine il sospetto che la menassero, come si dice, a perdersi. "Addio, povero Giacomo ." ripeteva in cuor suo a lontani intervalli, concentrando in questo pietoso ritornello tuttoquello che sentiva di soffrire e non era in grado di esprimere. E come se al rotolare delle ruote, che la menavan via, si svolgesse il filo delle sue memorie lontane, le passavan negli occhi chiusi le Fornaci, la vignetta, lo zio Mauro, la zia Santina, le stesse scontrosità un po' odiose della Lisa, che non la poteva vedere, ma che avrebbe avuto pietà di lei, se fosse andata a cercarle aiuto contro questi mali, che la perseguitavano; oh, potevano menarla lontano trecento miglia e seppellire il suo corpo trenta braccia sotto la terra; il cuore non si sarebbe mai mosso da quei siti. Povero Giacomo! come avrebbe ricevuto il gran colpo? avrebbe creduto alla sua innocenza? Oh sí, ma non avrebbe voluto piú rivederla. Né lei avrebbe osato piú tornargli davanti, mai, dal momento che non poteva piú essere quella di prima. Oh gli assassini che cosa avevan fatto di lei! Soltanto a ripensare quel che avrebbe potuto essere per il suo Giacomo, il cuore che pareva morto, ridestavasi con impeto doloroso; lei sarebbe morta un'ora o l'altra per uno di questi schianti. E doveva questa vergogna toccare al piú santo degli uomini, al suo Giacomo, al suo angelo . Osservava con occhio inerte le cose che passavano nella via, dicendo di sí con un movimento automatico del capo tutte le volte che la contessa rinnovava una raccomandazione, mentre il pensiero sprofondavasi con un senso quasi di amara voluttà nell'immaginare quel che non poteva piú essere. - Glielo dirà proprio che sono stata sorpresa? che sono innocente? - balzò una volta a dire, afferrando con improvviso ardimento la mano della signora. - Te lo giuro - rispose questa con sincera franchezza. - E gli dica che cerchi di perdonare anche lui, - soggiunse la poverina, umiliandosi di nuovo nell'angolo della carrozza. Un brivido di commozione passò nel cuore di donna Cristina Magnenzio a quelle buone parole, che sollevavano un'anima semplice alle sublimi altezze della bontà e del perdono, mentre un'altra anima vicina era in via di godere, anzi pregustava già gli amari sapori dei male che trionfa. Socchiuse anch'essa gli occhi un istante per non vedere questa abbagliante seduzione di una virtú, che si eleva fino alla divina aristocrazia della bontà e del sacrificio, e ricompensò la carità della giovine collo stringerle a lungo la mano ardente tra le sue mani inguantate, come se volesse con quel lungo contatto comunicarle la sua tenerezza, e farle sentire con quell'atto materno tutta la forza di una promessa che non aveva parole per parlare. Col cuore immiserito, cogli occhi immobili verso le siepi, donna Cristina cercò di asciugare, con un battere frequente delle palpebre nell'aria viva, il velo di lagrime che le coprí le pupille. Un dolore crudele e duro la strozzava alla gola e al petto. Un quarto d'ora dopo, Giosuè arrestò i cavalli sopra un piazzaletto erboso ombreggiato da antichi platani, che stava davanti alla vecchia chiesa della Madonnina. Il Rebecchino venne ad aprire la portiera. - Siete qui? - chiese la contessa - chi c'è? - Donna Adelasia aspetta in chiesa. La contessa andò avanti, e aspettò Celestina sulla porta. Entrarono nella chiesetta tutta parata a festoncini bianchi, azzurri, con frangie d'oro, mentre un prete stava celebrando la messa davanti a molte donnicciole. Donna Adelasia dal suo banco riservato fece un segno, e si ritirò per lasciar loro il posto sulla predella. Celestina si trovò in mezzo alle due signore nel momento che le quattro monache del coro intonavano un'orazione flebile e lamentevole, su cui la voce grossa del prete correva col rumore d'un carro incorsa. Celestina girò gli occhi intorno e si sentí una gran voglia di gridare. Che avevano fatto di lei? che luogo era questo? che cosa dicevano queste voci lamentose? La contessa, che in questo supremo istante non cessava mai dal sorvegliarla, volle che sedesse e le passò con una soave carezza una mano sui capelli. E quando sonò il campanello dell'elevazione la signora e la cameriera, inginocchiate sulla stessa predella, accostarono la testa a pregare insieme fervorosamente. Quindi donna Cristina le disse piano: - Non voglio far pensare male a casa. Ti lascio con donna Adelasia. Verrò a trovarti presto, appena gli avrò parlato. Coraggio e fiducia nel Signore . Celestina strinse con la mano convulsa e irritata un lembo del vestito della contessa, e, fissandola con occhio spaventato, la supplicò di restare ancora. La signora aspettò ancora un istante: e quando donna Adelasia voltò il viso dalla sua parte, le fece capire che il momento doloroso era venuto. La vecchia dama circondò col braccio la vita della giovine, come se l'invitasse a ripetere una preghiera, e lasciò in tal modo alla contessa agio di sciogliere il vestito dalle dita tenaci. Il corpo di Celestina quasi si sfasciò sul banco. Donna Cristina uscí dal tiepore e dalla religiosa penombra della chiesuola nell'aria cruda e viva, fece un segno quasi marziale col guanto a Giosuè, che si accostò alla carrozza. Essa vi entrò, il Rebecchino chiuse la portiera e i cavalli partirono a corsa. L'emozione, acerba come un rimorso, le impediva di piangere, e gli occhi, quanto fu lungo il viaggio, restarono immobili in una stupefazione insensibile, coperti di un velo di lagrime cristallizzate.

Se questo è un uomo

680929
Levi, Primo 1 occorrenze

Qui niente è stato abbellito. Era con me una mia amica, Giuliana Tedeschi, superstite di Birkenau. Mi ha fatto vedere che su ogni tavolaccio di m 1,.0 per 2 dormivano fino a nove donne. Mi ha fatto notare che dalla finestrella si vedono le rovine del crematorio; a quel tempo, si vedeva la fiamma in cima alla ciminiera. Lei aveva chiesto alle anziane: "Che cosa è quel fuoco?", e le avevano risposto: "Siamo noi che bruciamo". Di fronte al triste potere evocativo di quei luoghi, ognuno di noi reduci si comporta in un modo diverso, ma si possono delineare due categorie tipiche. Appartengono alla prima categoria quelli che rifiutano di ritornarvi, o addirittura di parlare di questo argomento; quelli che vorrebbero dimenticare, ma non ci riescono, e sono tormentati da incubi; quelli che invece hanno dimenticato, hanno rimosso tutto, ed hanno ricominciato a vivere da zero. Ho notato che in generale tutti questi sono individui che sono finiti in Lager "per disgrazia", cioè senza un impegno politico preciso; per loro la sofferenza è stata una esperienza traumatica ma priva di significato e di insegnamento, come un infortunio o una malattia: il ricordo è per loro un qualcosa di estraneo, un corpo doloroso intruso nella loro vita, ed hanno cercato (o ancora cercano) di eliminarlo. La seconda categoria è invece costituita dagli ex prigionieri "politici", o comunque in possesso di una preparazione politica, o di una convinzione religiosa, o di una forte coscienza morale. Per questi reduci, ricordare è un dovere: essi non vogliono dimenticare, e soprattutto non vogliono che il mondo dimentichi, perché hanno capito che la loro esperienza non è stata priva di senso, e che i Lager non sono stati un incidente, un imprevisto della Storia. I Lager nazisti sono stati l' apice, il coronamento del fascismo in Europa, la sua manifestazione più mostruosa; ma il fascismo c' era prima di Hitler e di Mussolini, ed è sopravvissuto, in forme palesi o mascherate, alla sconfitta della seconda guerra mondiale. In tutte le parti del mondo, là dove si comincia col negare le libertà fondamentali dell' Uomo, e l' uguaglianza fra gli uomini, si va verso il sistema concentrazionario, ed è questa una strada su cui è difficile fermarsi. Conosco molti ex prigionieri che hanno capito bene quale terribile lezione è contenuta nella loro esperienza, e che ogni anno ritornano nel "loro" campo guidando pellegrinaggi di giovani: io stesso lo farei volentieri se il tempo me lo concedesse, e se non sapessi che raggiungo lo stesso scopo scrivendo libri, ed accettando di commentarli agli studenti. 5. Come ho scritto nel rispondere alla prima domanda, alla parte del giudice preferisco quella del testimone: ho da portare una testimonianza, quella delle cose che ho subìte e viste. I miei libri non sono libri di storia: nello scriverli mi sono rigorosamente limitato a riportare i fatti di cui avevo esperienza diretta, escludendo quelli che ho appreso più tardi da libri o giornali. Ad esempio, noterete che non ho citato le cifre del massacro di Auschwitz, e neppure ho descritto i dettagli delle camere a gas e dei crematori: infatti non conoscevo questi dati quando ero in Lager, e li ho appresi soltanto dopo, quando tutto il mondo li ha appresi. Per questo stesso motivo non parlo generalmente dei Lager russi: per mia fortuna non ci sono stato, e non potrei che ripetere le cose che ho letto, cioè quelle che sanno tutti coloro che a questo argomento si sono interessati. È chiaro che tuttavia con questo non voglio né posso sottrarmi al dovere, che ha ogni uomo, di farsi un giudizio e di formulare un' opinione. Accanto ad evidenti somiglianze, fra i Lager sovietici e i Lager nazisti mi pare di poter osservare sostanziali differenze. La principale differenza consiste nella finalità. I Lager tedeschi costituiscono qualcosa di unico nella pur sanguinosa storia dell' umanità: all' antico scopo di eliminare o terrificare gli avversari politici, affiancavano uno scopo moderno e mostruoso, quello di cancellare dal mondo interi popoli e culture. A partire press' a poco dal 1941, essi diventano gigantesche macchine di morte: camere a gas e crematori erano stati deliberatamente progettati per distruggere vite e corpi umani sulla scala dei milioni; l' orrendo primato spetta ad Auschwitz, con 24 000 morti in un solo giorno, nell' agosto 1944. I campi sovietici non erano e non sono certo luoghi in cui il soggiorno sia gradevole, ma in essi, neppure negli anni più oscuri dello stalinismo, la morte dei prigionieri non veniva espressamente ricercata: era un incidente assai frequente, e tollerato con brutale indifferenza, ma sostanzialmente non voluto; insomma, un sottoprodotto dovuto alla fame, al freddo, alle infezioni, alla fatica. In questo lugubre confronto fra due modelli di inferno bisogna ancora aggiungere che nei Lager tedeschi, in generale, si entrava per non uscirne: non era previsto alcun termine altro che la morte. Per contro, nei campi sovietici un termine è sempre esistito: al tempo di Stalin i "colpevoli" venivano talvolta condannati a pene lunghissime (anche quindici o venti anni) con spaventosa leggerezza, ma una sia pur lieve speranza di libertà sussisteva. Da questa fondamentale differenza scaturiscono le altre. I rapporti fra guardiani e prigionieri, in Unione Sovietica, sono meno disumani: appartengono tutti allo stesso popolo, parlano la stessa lingua, non sono "superuomini" e "sottouomini" come sotto il nazismo. I malati, magari male, vengono curati; davanti a un lavoro troppo duro è pensabile una protesta, individuale o collettiva; le punizioni corporali sono rare e non troppo crudeli; è possibile ricevere da casa lettere e pacchi con viveri; la personalità umana, insomma, non viene denegata e non va totalmente perduta. Per contro, almeno per quanto riguardava gli ebrei e gli zingari, nei Lager tedeschi la strage era pressoché totale: non si fermava neppure davanti ai bambini, che furono uccisi nelle camere a gas a centinaia di migliaia, cosa unica fra tutte le atrocità della storia umana. Come conseguenza generale, le quote di mortalità sono assai diverse per i due sistemi. In Unione Sovietica pare che nei periodi più duri la mortalità si aggirasse sul 30 per cento, riferito a tutti gli ingressi, e questo è certamente un dato intollerabilmente alto; ma nei Lager tedeschi la mortalità era del 90-9. per cento. Mi pare molto grave la recente innovazione sovietica secondo cui alcuni intellettuali dissenzienti vengono sbrigativamente dichiarati pazzi, rinchiusi in istituti psichiatrici, e sottoposti a "cure" che non solo provocano crudeli sofferenze, ma distorcono ed indeboliscono le funzioni mentali. Ciò dimostra che il dissenso viene temuto: non è più punito, ma si cerca di demolirlo con i farmaci (o con la paura dei farmaci). Forse questa tecnica non è molto diffusa (pare che questi ricoverati politici, nel 1975, non superassero il centinaio), ma è odiosa, perché comporta un uso abietto della scienza, ed una prostituzione imperdonabile da parte dei medici che si prestano così servilmente ad assecondare i voleri dell' autorità. Essa mette in luce un estremo disprezzo per il confronto democratico e le libertà civili. Per contro, e per quanto riguarda appunto l' aspetto quantitativo, resta da notare che, in Unione Sovietica, il fenomeno Lager appare attualmente in declino. Sembra che intorno al 1950 i prigionieri politici fossero milioni; secondo i dati di "Amnesty International" (un' associazione apolitica che si prefigge di soccorrere tutti i prigionieri politici, in tutti i paesi e indipendentemente dalle loro opinioni) essi sarebbero oggi (1976) circa diecimila. In conclusione, i campi sovietici rimangono pur sempre una manifestazione deplorevole di illegalità e di disumanità. Essi non hanno nulla a che vedere col socialismo, ed anzi, sul socialismo sovietico spiccano come una brutta macchia; sono piuttosto da considerarsi una barbarica eredità dell' assolutismo zarista, di cui i governi sovietici non hanno saputo o voluto liberarsi. Chi legge le "Memorie di una casa morta", scritte da Dostoevskij nel 1.62, non stenta a riconoscervi gli stessi lineamenti carcerari descritti da Solzenicyn cento anni dopo. Ma è possibile, anzi facile, rappresentarsi un socialismo senza Lager: in molte parti del mondo è stato realizzato. Un nazismo senza Lager invece non è pensabile. 6. La maggior parte dei personaggi che compaiono in queste pagine sono purtroppo da ritenere scomparsi già nei giorni di Lager o durante la tremenda marcia di evacuazione di cui si parla a p. 196; altri sono morti più tardi per malattie contratte durante la prigionia, e di altri ancora non sono riuscito a ritrovare le tracce. Alcuni pochi sopravvivono, ed ho potuto conservare o ristabilire il contatto con loro. È vivo, e sta bene, Jean, il "Pikolo" del Canto di Ulisse: la sua famiglia era stata distrutta, ma si è sposato dopo il ritorno, ed ora ha due figli, e conduce una vita molto tranquilla come farmacista in una cittadina della provincia francese. Ci incontriamo talvolta in Italia, dove viene per le vacanze; altre volte sono andato io a trovarlo. Stranamente, ha dimenticato molto del suo anno di Monowitz: in lui prevalgono i ricordi atroci del viaggio di evacuazione, nel corso del quale ha visto morire di estenuazione tutti i suoi amici (fra questi era Alberto). Vedo anche abbastanza sovente il personaggio che ho chiamato Piero Sonnino (p. 66), e che è lo stesso che compare come "Cesare" in La tregua. Anche lui, dopo un difficile periodo di riinserimento, ha trovato un lavoro e si è fatta una famiglia. Vive a Roma. Racconta volentieri, e con grande vivacità, le traversie che ha subìte in campo e durante il lungo viaggio di ritorno, ma nelle sue narrazioni, che spesso diventano quasi monologhi teatrali, tende a mettere in evidenza i fatti avventurosi di cui è stato protagonista piuttosto che quelli tragici a cui ha assistito passivamente. Ho rivisto anche Charles. Era stato preso prigioniero sulle colline dei Vosgi, presso la sua casa, dove era partigiano, solo nel novembre 1944, ed era stato in Lager soltanto per un mese; ma questo mese di sofferenza, ed i fatti feroci a cui aveva assistito, lo avevano segnato profondamente, togliendogli la gioia di vivere e la volontà di costruirsi un avvenire. Rimpatriato dopo un viaggio non molto diverso da quello che io ho raccontato in La tregua, ha ripreso il suo mestiere di maestro elementare nella minuscola scuola del suo villaggio, in cui insegnava ai bambini anche ad allevare le api e a coltivare un vivaio di abeti e pini. Da pochi anni è in pensione; ha sposato di recente una sua collega non giovane, ed insieme si sono costruiti una casa nuova, piccola ma comoda e graziosa. Sono andato a trovarlo due volte, nel 1951 e nel 1974. In quest' ultima occasione mi ha detto di Arthur, che abita in un villaggio non molto lontano: è vecchio e ammalato, e non desidera ricevere visite che possano ridestare in lui antiche angosce. Drammatico, imprevisto, e pieno di gioia per entrambi, è stato il ritrovamento di Mendi, il "rabbino modernista" a cui si accenna in poche righe alle pp. .5 e 132. Ha riconosciuto se stesso leggendo casualmente nel 1965 la traduzione tedesca di questo libro: si ricordava di me, e mi ha scritto una lunga lettera indirizzandola presso la Comunità Israelitica di Torino. Ci siamo scritti a lungo, informandoci a vicenda dei destini dei nostri amici comuni. Nel 1967 sono andato a trovarlo a Dortmund, in Germania Federale, dove allora era rabbino: è rimasto com' era, "tenace, coraggioso e acuto", ed inoltre straordinariamente colto. Ha sposato una reduce da Auschwitz, ed hanno tre figli ormai grandi; l' intera famiglia ha intenzione di trasferirsi in Israele. Non ho più rivisto il Doktor Pannwitz, il chimico che mi aveva sottoposto ad un gelido "esame di Stato", ma ho avuto sue notizie da quel Doktor Müller a cui ho dedicato il capitolo "Vanadio" del mio ultimo libro "ii sistema periodico". Nell' imminenza dell' arrivo dell' Armata Rossa nella fabbrica di Buna, si è comportato con prepotenza e viltà: ha ordinato ai suoi collaboratori civili di resistere a oltranza, ha vietato loro di salire sull' ultimo treno in partenza per le retrovie, ma ci è salito lui all' ultimo momento approfittando della confusione. È morto nel 1946 di un tumore al cervello. 7. L' avversione contro gli ebrei, impropriamente detta antisemitismo, è un caso particolare di un fenomeno più vasto, e cioè dell' avversione contro chi è diverso da noi. È indubbio che si tratti, in origine, di un fatto zoologico: gli animali di una stessa specie, ma appartenenti a gruppi diversi, manifestano fra di loro fenomeni di intolleranza. Questo avviene anche fra gli animali domestici: è noto che una gallina di un certo pollaio, se viene introdotta in un altro, è respinta a beccate per vari giorni. Lo stesso avviene fra i topi e le api, e in genere in tutte le specie di animali sociali. Ora, l' uomo è certamente un animale sociale (lo aveva già affermato Aristotele): ma guai se tutte le spinte zoologiche che sopravvivono nell' uomo dovessero essere tollerate! Le leggi umane servono appunto a questo: a limitare gli impulsi animaleschi. L' antisemitismo è un tipico fenomeno d' intolleranza. Perché una intolleranza insorga, occorre che fra i due gruppi a contatto esista una differenza percettibile: questa può essere una differenza fisica (i neri e i bianchi, i bruni e i biondi), ma la nostra complicata civiltà ci ha resi sensibili a differenze più sottili, quali la lingua, o il dialetto, o addirittura l' accento (lo sanno bene i nostri meridionali costretti ad emigrare al Nord); la religione, con tutte le sue manifestazioni esteriori e la sua profonda influenza sul modo di vivere; il modo di vestire o gesticolare; le abitudini pubbliche e private. La tormentata storia del popolo ebreo ha fatto sì che quasi ovunque gli ebrei manifestasse o una o più di queste differenze. Nell' intrico, estremamente complesso, dei popoli e delle nazioni in urto fra loro, la storia di questo popolo si presenta con caratteristiche particolari. Esso era (ed in parte è tuttora) depositario di un legame interno molto forte, di natura religiosa e tradizionale; di conseguenza, a dispetto della sua inferiorità numerica e militare, si oppose con disperato valore alla conquista da parte dei romani, e fu sconfitto, deportato e disperso, ma quel legame sopravvisse. Le colonie ebraiche che si andarono formando, su tutte le coste del Mediterraneo dapprima, e successivamente in Medio Oriente, in Spagna, in Renania, nella Russia meridionale, in Polonia, in Boemia ed altrove, rimasero sempre ostinatamente fedeli a questo legame, che si era andato consolidando sotto la forma di un immenso corpo di leggi e tradizioni scritte, di una religione minuziosamente codificata, e di un rituale peculiare e vistoso, che pervadeva tutti gli atti della giornata. Gli ebrei, in minoranza in tutti i loro stanziamenti, erano dunque diversi, riconoscibili come diversi, e spesso orgogliosi (a ragione o a torto) della loro diversità: tutto questo li rendeva molto vulnerabili, ed infatti furono duramente perseguitati, in quasi tutti i paesi ed in quasi tutti i secoli; alle persecuzioni gli ebrei reagirono in piccola parte assimilandosi, ossia fondendosi con la popolazione circostante; in maggior parte, emigrando nuovamente verso paesi più ospitali. In tal modo si rinnovava però la loro "diversità", che li esponeva a nuove restrizioni e persecuzioni. Sebbene nella sua essenza profonda l' antisemitismo sia un fenomeno irrazionale di intolleranza, esso, in tutti i paesi cristiani, ed a partire da quando il cristianesimo si andò consolidando come religione di Stato, assunse una veste prevalentemente religiosa, anzi teologica. Secondo l' affermazione di sant' Agostino, gli ebrei sono condannati alla dispersione da Dio stesso, e ciò per due motivi: perché in tal modo essi vengono puniti per non aver riconosciuto in Cristo il Messia, e perché la loro presenza in tutti i paesi è necessaria alla Chiesa cattolica, che essa pure è dappertutto, affinché dappertutto sia visibile ai fedeli la meritata infelicità degli ebrei. Perciò la dispersione e separazione degli ebrei non dovrà mai avere fine: essi, con le loro pene, devono testimoniare in eterno del loro errore, e di conseguenza della verità della fede cristiana. Dunque, poiché la loro presenza è necessaria, essi devono essere perseguitati, ma non uccisi. Tuttavia, non sempre la Chiesa si mostrò così moderata: fin dai primi secoli del cristianesimo fu mossa agli ebrei un' accusa ben più grave, quella di essere, collettivamente ed eternamente, responsabili della crocifissione di Cristo, di essere insomma il "popolo deicida". Questa formulazione, che compare nella liturgia pasquale in tempi remoti, ed è stata soppressa solo dal Concilio Vaticano ii (1962-65), sta all' origine di varie funeste e sempre rinnovate credenze popolari: che gli ebrei avvelenano i pozzi propagando la peste; che profanano abitualmente l' Ostia consacrata; che a Pasqua rapiscono bambini cristiani, col cui sangue impastano il pane azzimo. Queste credenze hanno offerto il pretesto per numerosi e sanguinosi massacri, e tra l' altro, per l' espulsione in massa degli ebrei dapprima dalla Francia e dall' Inghilterra, poi (1492-9.) dalla Spagna e dal Portogallo. Attraverso una serie mai interrotta di stragi e di migrazioni, si arriva al secolo xix, contrassegnato dal risveglio generale delle coscienze nazionali e dal riconoscimento dei diritti delle minoranze: ad eccezione della Russia zarista, in tutta l' Europa cadono le restrizioni legali ai danni degli ebrei, che erano state invocate dalle Chiese cristiane (a seconda dei luoghi e dei tempi, l' obbligo di risiedere in ghetti o in zone particolari, l' obbligo di portare sugli abiti un contrassegno, il divieto di accedere a determinati mestieri o professioni, il divieto dei matrimoni misti, ecc.). Sopravvive però l' antisemitismo, vivace soprattutto nei paesi dove una rozza religiosità continuava ad additare negli ebrei gli uccisori di Cristo (in Polonia e in Russia), e dove le rivendicazioni nazionali avevano lasciato uno strascico di generica avversione contro i confinanti e gli stranieri (in Germania; ma anche in Francia, ed alla fine del XIX secolo, i clericali, i nazionalisti ed i militari si trovano concordi nello scatenare una violenta ondata di antisemitismo, in occasione della falsa accusa di alto tradimento mossa contro Alfred Dreyfus, ufficiale ebreo dell' esercito francese). In Germania, in specie, per tutto il secolo scorso una serie ininterrotta di filosofi e di politici avevano insistito in una teorizzazione fanatica, secondo cui il popolo tedesco, per troppo tempo diviso ed umiliato, era depositario del primato in Europa e forse nel mondo, era erede di remote e nobilissime tradizioni e civiltà, ed era costituito da individui sostanzialmente omogenei per sangue e per razza. I popoli tedeschi avrebbero dovuto costituirsi in uno Stato forte e guerriero, egemone in Europa, rivestito di una maestà quasi divina. Questa idea della missione della Nazione Tedesca sopravvive alla disfatta della prima guerra mondiale, ed esce anzi rafforzata dall' umiliazione del trattato di pace di Versailles. Se ne impadronisce uno dei personaggi più sinistri ed infausti della Storia, l' agitatore politico Adolf Hitler. I borghesi e gli industriali tedeschi porgono orecchio alle sue orazioni infiammate: Hitler promette bene, riuscirà a deviare sugli ebrei l' avversione che il proletariato tedesco tributa alle classi che l' hanno condotto alla sconfitta ed al disastro economico. Nel giro di pochi anni, a partire dal 1933, egli riesce a trarre partito dalla collera di un paese umiliato e dall' orgoglio nazionalistico suscitato dai profeti che l' hanno preceduto, Lutero, Fichte, Hegel, Wagner, Gobineau, Chamberlain, Nietzsche: il suo pensiero ossessivo è quello di una Germania dominatrice, non nel lontano futuro ma subito; non attraverso una missione di civiltà, ma con le armi. Tutto ciò che non è germanico gli appare inferiore, anzi detestabile, ed i primi nemici della Germania sono gli ebrei, per molti motivi che Hitler enunciava con furore dogmatico: perché hanno "sangue diverso"; perché sono imparentati con altri ebrei in Inghilterra, in Russia, in America; perché sono eredi di una cultura in cui si ragiona e si discute prima di obbedire, ed in cui è vietato inchinarsi agli idoli, mentre lui stesso aspira ad essere venerato come un idolo, e non esita a proclamare che "dobbiamo diffidare dell' intelligenza e della coscienza, e riporre tutta la nostra fede negli istinti". Infine, molti fra gli ebrei tedeschi hanno raggiunto posizioni chiave nell' economia, nella finanza, nelle arti, nella scienza, nella letteratura: Hitler, pittore mancato, architetto fallito, riversa sugli ebrei il suo risentimento e la sua invidia di frustrato. Questo seme d' intolleranza, cadendo su di un terreno già predisposto, vi attecchisce con incredibile vigore ma in forme nuove. L' antisemitismo di stampo fascista, quello che il Verbo bandito da Hitler risveglia nel popolo tedesco, è più barbarico di tutti i precedenti: vi convergono dottrine biologiche artificiosamente distorte, secondo cui le razze deboli devono cedere davanti alle forti; le assurde credenze popolari che il buon senso aveva sepolte da secoli; una propaganda senza soste. Si toccano estremi mai sentiti prima. L' ebraismo non è una religione da cui ci si può allontanare col battesimo, né una tradizione culturale che si può abbandonare per un' altra: è una sottospecie umana, una razza diversa ed inferiore a tutte le altre. Gli ebrei sono solo apparentemente esseri umani: in realtà sono qualcosa di diverso: di abominevole e indefinibile, "più lontani dai tedeschi che le scimmie dagli uomini"; sono colpevoli di tutto, del rapace capitalismo americano e del bolscevismo sovietico, della sconfitta del 191., dell' inflazione del 1923; liberalismo, democrazia, socialismo e comunismo sono sataniche invenzioni ebraiche, che minacciano la solidità monolitica dello Stato nazista. Il passaggio dalla predicazione teorica all' attuazione pratica è stato rapido e brutale. Nel 1933, solo due mesi dopo che Hitler ha conquistato il potere, nasce Dachau, il primo Lager. Nel maggio dello stesso anno si accende il primo rogo di libri di autori ebrei o nemici del nazismo (ma più di cento anni prima Heine, poeta ebreo tedesco, aveva scritto: "Chi brucia i libri finisce presto o tardi col bruciare uomini"). Nel 1935 l' antisemitismo viene codificato in una monumentale e minuziosissima legislazione, le Leggi di Norimberga. Nel 193., in una sola notte di disordini pilotati dall' alto, vengono incendiate 191 sinagoghe e distrutti migliaia di negozi di ebrei. Nel 1939 gli ebrei della Polonia testè occupata vengono rinchiusi nei ghetti. Nel 1940 viene aperto il Lager di Auschwitz. Nel 1941-42 la macchina dello sterminio è in piena azione: le vittime saliranno a milioni nel 1944. Nella pratica quotidiana dei campi di sterminio trovano la loro realizzazione l' odio e il disprezzo diffusi dalla propaganda nazista. Qui non c' era solo la morte, ma una folla di dettagli maniaci e simbolici, tutti tesi a dimostrare e confermare che gli ebrei, e gli zingari, e gli slavi, sono bestiame, strame, immondezza. Si ricordi il tatuaggio di Auschwitz, che imponeva agli uomini il marchio che si usa per i buoi; il viaggio in vagoni bestiame, mai aperti, in modo da costringere i deportati (uomini, donne e bambini!) a giacere per giorni nelle proprie lordure; il numero di matricola in sostituzione del nome; la mancata distribuzione di cucchiai (eppure i magazzini di Auschwitz, alla liberazione, ne contenevano quintali), per cui i prigionieri avrebbero dovuto lambire la zuppa come cani; l' empio sfruttamento dei cadaveri, trattati come una qualsiasi anonima materia prima, da cui si ricavavano l' oro dei denti, i capelli come materiale tessile, le ceneri come fertilizzanti agricoli; gli uomini e le donne degradati a cavie, su cui sperimentare medicinali per poi sopprimerli. Lo stesso modo che fu scelto (dopo minuziosi esperimenti) per lo sterminio era apertamente simbolico. Si doveva usare, e fu usato, quello stesso gas velenoso che si impiegava per disinfestare le stive delle navi, ed i locali invasi da cimici o pidocchi. Sono state escogitate nei secoli morti più tormentose, ma nessuna era così gravida di dileggio e di disprezzo. Come è noto, l' opera di sterminio fu condotta molto avanti. I nazisti, che pure erano impegnati in una durissima guerra, ormai difensiva, vi manifestarono una fretta inesplicabile: i convogli delle vittime da portare al gas, o da trasferire dai Lager prossimi al fronte, avevano la precedenza sulle tradotte militari. Non fu condotta a termine solo perché la Germania fu disfatta, ma il testamento politico che Hitler dettò poche ore prima di uccidersi, coi russi a pochi metri, si concludeva così: "Soprattutto, ordino al governo e al popolo tedesco di mantenere in pieno vigore le leggi razziali, e di combattere inesorabilmente l' avvelenatore di tutte le nazioni, l' ebraismo internazionale". Riassumendo, si può dunque affermare che l' antisemitismo è un caso particolare dell' intolleranza; che per secoli ha avuto carattere prevalentemente religioso; che, nel iii Reich, esso è stato esacerbato dalla predisposizione nazionalistica e militaristica del popolo tedesco, e dalla peculiare "diversità" del popolo ebreo; che esso fu facilmente disseminato in tutta la Germania, e in buona parte dell' Europa, grazie all' efficienza della propaganda fascista e nazista, a cui occorreva un capro espiatorio su cui convogliare tutte le colpe e tutti i risentimenti; e che il fenomeno fu condotto al parossismo da Hitler, dittatore maniaco. Tuttavia devo ammettere che queste spiegazioni, che sono quelle comunemente accettate, non mi soddisfano: sono diminutive, non commisurate, non proporzionali ai fatti da spiegare. Nel rileggere le cronache del nazismo, dai suoi torbidi inizi alla sua fine convulsa, non riesco a sottrarmi all' impressione di una generale atmosfera di follia incontrollata che mi pare unica nella storia. Questa follia collettiva, questo sbandamento, viene di solito spiegato postulando la combinazione di molti fattori diversi, insufficienti se presi singolarmente, e il maggiore di questi fattori sarebbe la personalità stessa di Hitler, e la sua profonda interazione col popolo tedesco. È certo che le sue personali ossessioni, la sua capacità d' odio, la sua predicazione di violenza, trovavano sfrenata risonanza nella frustrazione del popolo tedesco, e da questo ritornavano a lui moltiplicate, confermandolo nella sua convinzione delirante di essere lui stesso l' Eroe profetizzato da Nietzsche, il Superuomo redentore della Germania. Sull' origine del suo odio contro gli ebrei si è scritto molto. Si è detto che Hitler riversava sugli ebrei il suo odio contro l' intero genere umano; che riconosceva negli ebrei alcuni suoi stessi difetti, e che odiando gli ebrei odiava se stesso; che la violenza della sua avversione proveniva dal timore di poter avere "sangue ebreo" nelle vene. Ancora una volta: non mi sembrano spiegazioni adeguate. Non mi sembra lecito spiegare un fenomeno storico riversandone tutta la colpa su un individuo (gli esecutori di ordini orrendi non sono innocenti!), ed inoltre è sempre arduo interpretare le motivazioni profonde di un individuo. Le ipotesi che vengono proposte giustificano i fatti solo in misura parziale, ne spiegano la qualità ma non la quantità. Devo ammettere che preferisco l' umiltà con cui alcuni storici fra i più seri (Bullock, Schramm, Bracher) confessano di non comprendere l' antisemitismo furibondo di Hitler e della Germania dietro di lui. Forse, quanto è avvenuto non si può comprendere, anzi, non si deve comprendere, perché comprendere è quasi giustificare. Mi spiego: "comprendere" un proponimento o un comportamento umano significa (anche etimologicamente) contenerlo, contenerne l' autore, mettersi al suo posto, identificarsi con lui. Ora, nessun uomo normale potrà mai identificarsi con Hitler, Himmler, Goebbels, Eichmann e infiniti altri. Questo ci sgomenta, ed insieme ci porta sollievo: perché forse è desiderabile che le loro parole (ed anche, purtroppo, le loro opere) non ci riescano più comprensibili. Sono parole ed opere non umane, anzi, contro-umane, senza precedenti storici, a stento paragonabili alle vicende più crudeli della lotta biologica per l' esistenza. A questa lotta può essere ricondotta la guerra: ma Auschwitz non ha nulla a che vedere con la guerra, non ne è un episodio, non ne è una forma estrema. La guerra è un terribile fatto di sempre: è deprecabile ma è in noi, ha una sua razionalità, la "comprendiamo". Ma nell' odio nazista non c' è razionalità: è un odio che non è in noi, è fuori dell' uomo, è un frutto velenoso nato dal tronco funesto del fascismo, ma è fuori ed oltre il fascismo stesso. Non possiamo capirlo; ma possiamo e dobbiamo capire di dove nasce, e stare in guardia. Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre. Per questo, meditare su quanto è avvenuto è un dovere di tutti. Tutti devono sapere, o ricordare, che Hitler e Mussolini, quando parlavano pubblicamente, venivano creduti, applauditi, ammirati, adorati come dèi. Erano "capi carismatici", possedevano un segreto potere di seduzione che non procedeva dalla credibilità o dalla giustezza delle cose che dicevano, ma dal modo suggestivo con cui le dicevano, dalla loro eloquenza, dalla loro arte istrionica, forse istintiva, forse pazientemente esercitata e appresa. Le idee che proclamavano non erano sempre le stesse, e in generale erano aberranti, o sciocche, o crudeli; eppure vennero osannati, e seguiti fino alla loro morte da milioni di fedeli. Bisogna ricordare che questi fedeli, e fra questi anche i diligenti esecutori di ordini disumani, non erano aguzzini nati, non erano (salve poche eccezioni) dei mostri: erano uomini qualunque. I mostri esistono, ma sono troppo pochi per essere veramente pericolosi; sono più pericolosi gli uomini comuni, i funzionari pronti a credere e ad obbedire senza discutere, come Eichmann, come Ho5ss comandante di Auschwitz, come Stangl comandante di Treblinka, come i militari francesi di vent' anni dopo, massacratori in Algeria, come i militari americani di trent' anni dopo, massacratori in Vietnam. Occorre dunque essere diffidenti con chi cerca di convincerci con strumenti diversi dalla ragione, ossia con i capi carismatici: dobbiamo essere cauti nel delegare ad altri il nostro giudizio e la nostra volontà. Poiché è difficile distinguere i profeti veri dai falsi, è bene avere in sospetto tutti i profeti; è meglio rinunciare alle verità rivelate, anche se ci esaltano per la loro semplicità e il loro splendore, anche se le troviamo comode perché si acquistano gratis. È meglio accontentarsi di altre verità più modeste e meno entusiasmanti, quelle che si conquistano faticosamente, a poco a poco e senza scorciatoie, con lo studio, la discussione e il ragionamento, e che possono essere verificate e dimostrate. È chiaro che questa ricetta è troppo semplice per bastare in tutti i casi: un nuovo fascismo, col suo strascico di intolleranza, di sopraffazione e di servitù, può nascere fuori del nostro paese ed esservi importato, magari in punta di piedi e facendosi chiamare con altri nomi; oppure può scatenarsi dall' interno con una violenza tale da sbaragliare tutti i ripari. Allora i consigli di saggezza non servono più, e bisogna trovare la forza di resistere: anche in questo, la memoria di quanto è avvenuto nel cuore dell' Europa, e non molto tempo addietro, può essere di sostegno e di ammonimento. .. Parlando rigorosamente, non so e non posso sapere che cosa sarei oggi se non fossi stato in Lager: nessun uomo conosce il suo futuro, e qui si tratterebbe appunto di descrivere un futuro che non c' è stato. Ha un certo significato tentare previsioni (del resto sempre grossolane) sul comportamento di una popolazione, ed invece è difficilissimo, o impossibile, prevedere il comportamento di un singolo, anche sulla scala dei giorni. Allo stesso modo, il fisico sa pronosticare con grande esattezza il tempo che impiegherà un grammo di radio a dimezzare la sua attività, ma non sa assolutamente dire quando si disintegrerà un singolo atomo di quel radio. Se un uomo si avvia verso un bivio, e non infila la strada di sinistra, è ovvio che infilerà quella di destra; ma quasi mai le nostre scelte sono fra due sole alternative: poi, ad ogni scelta ne seguono altre, tutte multiple, e così all' infinito; e infine, il nostro futuro dipende fortemente anche da fattori esterni, in tutto estranei alle nostre scelte deliberate, ed anche da fattori interni, di cui però non siamo coscienti. Per questi notori motivi non si conosce il proprio avvenire né quello del nostro prossimo; per gli stessi motivi nessuno può dire quale sarebbe stato il suo passato "se". Una certa affermazione posso però formularla, ed è questa: se non avessi vissuto la stagione di Auschwitz, probabilmente non avrei mai scritto nulla. Non avrei avuto motivo, incentivo, per scrivere: ero stato uno studente mediocre in italiano e scadente in storia, mi interessavano di più la fisica e la chimica, ed avevo poi scelto un mestiere, quello del chimico, che non aveva niente in comune col mondo della parola scritta. È stata l' esperienza del Lager a costringermi a scrivere: non ho avuto da combattere con la pigrizia, i problemi di stile mi sembravano ridicoli, ho trovato miracolosamente il tempo di scrivere pur senza mai sottrarre neppure un' ora al mio mestiere quotidiano: mi pareva, questo libro, di averlo già in testa tutto pronto, di doverlo solo lasciare uscire e scendere sulla carta. Adesso sono passati molti anni: il libro ha avuto molte vicende, e si è curiosamente interposto, come una memoria artificiale, ma anche come una barriera difensiva, fra il mio normalissimo presente e il feroce passato di Auschwitz. Lo dico con esitazione, perché non vorrei passare per un cinico: nel ricordare il Lager oggi non provo più alcuna emozione violenta o dolorosa. Al contrario: alla mia esperienza breve e tragica di deportato si è sovrapposta quella molto più lunga e complessa di scrittore-testimone e la somma è nettamente positiva; nella sua globalità, questo passato mi ha reso più ricco e più sicuro. Una mia amica, che era stata deportata giovanissima al Lager femminile di Ravensbrück, dice che il campo è stata la sua Università: io credo di poter dire altrettanto, e cioè che vivendo e poi scrivendo e meditando quegli avvenimenti, ho imparato molte cose sugli uomini e sul mondo. Devo però affrettarmi a precisare che questo esito positivo è stata una fortuna toccata a pochissimi: dei deportati italiani, ad esempio, solo circa il 5 per cento hanno fatto ritorno, e fra questi, molti hanno perduto la famiglia, gli amici, gli averi, la salute, l' equilibrio, la giovinezza. Il fatto che io sia sopravvissuto, e sia ritornato indenne, secondo me è dovuto principalmente alla fortuna. Solo in piccola misura hanno giocato fattori preesistenti, quali il mio allenamento alla vita di montagna, ed il mio mestiere di chimico, che mi ha concesso qualche privilegio negli ultimi mesi di prigionia. Forse mi ha aiutato anche il mio interesse, mai venuto meno, per l' animo umano, e la volontà non soltanto di sopravvivere (che era comune a molti), ma di sopravvivere allo scopo preciso di raccontare le cose a cui avevamo assistito e che avevamo sopportate. E forse ha giocato infine anche la volontà, che ho tenacemente conservata, di riconoscere sempre, anche nei giorni più scuri, nei miei compagni e in me stesso, degli uomini e non delle cose, e di sottrarmi così a quella totale umiliazione e demoralizzazione che conduceva molti al naufragio spirituale.

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La stampa terza pagina 1986

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Levi, Primo 1 occorrenze

Sono affermazioni che ad un tempo stupiscono e rasserenano: forse non sono vere in ogni tempo, luogo o ambiente accademico, ma sono, o sono state, vere per Salvador Luria, a cui hanno abbellito la vita; e perciò possono essere o ritornare vere, almeno per qualcuno.

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I FIGLI DELL'ARIA

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Salgari, Emilio 2 occorrenze

. - Dapprima una viva sovreccitazione fisica e intellettuale che li rende talvolta pericolosi, diventando temerari e spavaldi; poi un benessere generale che li immerge in un sonno profondo, abbellito da sogni piacevoli. A poco a poca si abbrutiscono e diventano ributtanti, ischeletriti, tremanti come se avessero sempre indosso la febbre e quasi nella impossibilità di camminare diritti. Un mangiatore d'oppio si riconosce subito essendo sempre in preda a una specie di sonnolenza che rende le sue mosse tarde e incerte. - E non possono abbandonare quel brutto vizio? - Sarebbe peggio; ricadrebbero in una profonda apatia che ben presto li condurrebbe alla morte - rispose Fedoro. - E fumandolo, invece? - chiese il capitano. - I fenomeni sono quasi identici, tuttavia meno intensi. Volete farne la prova? Il tartaro non mancherà di pipe, né di oppio; devo avvertirvi, innanzi tutto, che le prime volte quel narcotico produce nausee e acuti dolori di testa. - Non ne ho alcun desiderio. Ho udito raccontare che si beve anche col caffè. - Sì, nel Turchestan; e quella bevanda eccitantissima si chiama koknar. È anzi tale l'abitudine che hanno ormai quegli abitanti, che non potrebbero farne a meno. Per loro è diventata una vera necessità, come per la maggior parte degli europei il vermut, l'assenzio o la birra. L'uomo che volesse rinunciarvi, non potrebbe resistervi a lungo; diverrebbe presto un infelice, privo di qualsiasi energia, apatico, svogliato e non saprebbe imprendere qualsiasi lavoro. - Al diavolo l'oppio! - esclamò Rokoff. - Preferisco mille volte la mia pipa carica di buon tabacco. In quel momento il tartaro usciva dalla capanna, recando su un tondo d'argilla i fagiani e l'anitra mandarina con un contorno di pien-hoa, specie di radici e di hing, frutti angolosi che crescono negli stagni e che assieme alle prime surrogano, fino a un certo punto, il pane, che è quasi sconosciuto nella Tartaria e nella Mongolia. Portava inoltre un vaso colmo di acquavite e di riso e alcuni prosciutti, che dalla loro forma dovevano essere di cani e forse ingrassati con bachi da seta, come usano i cinesi. - Riporta i prosciutti - disse Fedoro. - Non fanno per noi. Il tartaro lo guardò con una certa meraviglia, poi ritornò nella sua casupola borbottando. I tre aeronauti si sedettero sotto una superba quercia che nonostante il freddo aveva conservato ancora gran parte del suo fogliame e attaccarono con molto appetito l'arrosto, le radici e gli hing, magnificando soprattutto la squisitezza dei due fagiani. - Ecco una colazione che molti ci invidierebbero, - disse Rokoff che divorava per quattro. - Capitano, i vostri pasticci di California e dell'Australia farebbero certamente una ben meschina figura dinanzi a questi deliziosi volatili. - Nessuno c'impedirà di provvederci sempre di questi arrosti - rispose il comandante. - La Mongolia è ricca di uccelli e anche di selvaggina da pelo e faremo ogni giorno una battuta. Voi non avete fretta di tornarvene in Europa, è vero? - No, signore - rispose Fedoro. - Desiderei però avvertire la mia casa di Odessa di non fare, almeno per un certo tempo, alcun assegnamento su di me e d'incaricare il mio rappresentante a Hong-Kong di acquistare il tè che io non ho potuto avere dal defunto Sing-Sing. - Una cosa facilissima - rispose il capitano. - Si manda un telegramma. - Ma ... signore ... voi vi dimenticate che qui non vi sono uffici telegrafici e che siamo nella Mongolia. - Se qui non ve ne sono, ne troveremo presto uno il quale trasmetterà in poche ore il vostro dispaccio. - E dove lo cercheremo? - Non occupatevene, - disse il capitano con un sorriso misterioso. - Preparate il telegramma e fra tre giorni o quattro la vostra casa lo riceverà. Ehi, tartaro, portaci delle altre radici. Il signor Rokoff ha divorato tutto. - Erano così eccellenti! - rispose il cosacco, ridendo. - Mi avete capito? - gridò il capitano, dirigendosi verso l'abitazione. Con sua sorpresa il tartaro non si fece vivo. - Dove sarà andato? - chiese Fedoro, un po' inquieto. Il capitano si spinse fino alla porta chiamando il proprietario ad alta voce e anche questa volta senza successo. Entrò nella cucina e vide solamente i mangiatori d'oppio coricati l'uno presso l'altro e profondamente addormentati. - Non c'è più? - chiese Rokoff raggiungendolo. - È sparito - rispose il capitano. - Che sia fuggito? - Signori miei - disse il capitano - questa scomparsa m'inquieta. Raccogliamo la nostra selvaggina e andiamocene. Io non sono tranquillo. - Che cosa temete? - chiese Fedoro. - Non dimentichiamo che noi siamo stranieri e che l'odio del cinese e del tartaro verso l'uomo bianco non è ancora spento. - Che quel briccone si sia recato in qualche villaggio a chiamare degli amici, per poi farci prendere? - È quello che sospetto. Orsù, prendiamo i nostri volatili e corriamo al fiume. - Maledetto paese! - esclamò Rokoff. - Non si può nemmeno fare colazione senza apprensioni! Stavano per slanciarsi attraverso il bosco, quando Fedoro si arrestò dietro un gruppo di pini colossali, esclamando: - Fermi tutti! - Che cosa c'è - chiese Rokoff. - Ci hanno tagliato la ritirata. - Chi? - I manciù! Eccoli che si avanzano attraverso il bosco. - Ah! Brigante d'un tartaro! - gridò Rokoff. - Egli ci ha traditi! Che siano i soldati del fortino? - Lo saranno di certo - rispose Fedoro. - Nella casa - disse il capitano. - Là almeno ci troveremo al coperto e potremo resistere lungamente. - E lo "Sparviero"? - chiesero con angoscia il cosacco e il russo. - Il mio macchinista non è uomo da lasciarsi sorprendere e le eliche possono funzionare subito. Siamo noi invece che corriamo il pericolo di passare un brutto quarto d'ora. Fortunatamente abbiamo dei buoni fucili da caccia e mitraglieremo i manciù.

Vi si penetra per un immenso porticato di marmo bianco, il quale mette in un viale abbellito da statue che rappresentano dei mandarini, dei sacerdoti e dei guerrieri, elefanti, cammelli, leoni, cavalli e liocorni mostruosi, alcuni in piedi ed altri inginocchiati e alti due, tre e perfino quattro metri. Vi sono monumenti bellissimi, fra i quali spicca il tempio dei sacrifici sostenuto da sessanta colonne di lauro alte ognuna tredici metri, con una circonferenza di tre. Lo "Sparviero" descrisse parecchi giri al disopra del parco, poi deviando bruscamente prese la corsa verso il nord-ovest, attraverso le montagne dei Tiencia. Dove andava? Rokoff e Fedoro avrebbero desiderato saperlo, ma non osarono chiederlo. Il capitano, d'altronde non pareva disposto a soddisfare la loro curiosità, perché li aveva bruscamente lasciati dirigendosi verso poppa, dove si trovava il macchinista. Si sedette dietro la ruota e dopo aver scambiato alcune parole col suo compagno, si era messo a osservare il paese circostante, senza più occuparsi dei suoi ospiti. - Ebbene, Fedoro, che cosa ne dici di tutto ciò? - chiese Rokoff. - A me pare di essermi risvegliato in questo momento e d'aver sognato. - Anch'io mi domando ancora se sono vivo o morto - rispose il russo. - Vi sono certi momenti in cui dubito di non essere stato ammazzato. Se non avessi veduto coi miei occhi Pechino, mi crederei in un nuovo mondo. - Infatti, l'avventura è strana, Fedoro, tale da far impazzire. Trovarci dinanzi alla morte e risvegliarci in aria in viaggio per l'Europa! Quando noi lo racconteremo ai nostri amici, non ne troveremo uno che ci crederà. - Mostreremo loro lo "Sparviero". - Se ci porterà fino a Odessa. Il capitano ha detto che vuole raggiungere l'Europa, ma non dove ci deporrà - disse Rokoff. - E chi credi che sia quell'uomo? - Non te lo saprei dire, perché mi ha detto che parla tutte le lingue. - Un gran dotto di certo. - E anche un originale, Fedoro. - E non vuole dirci dove ci trasporterà ora. - Attraverso l'Asia. - Un, viaggio meraviglioso - disse il russo. - Che non mi rincresce affatto - aggiunse Rokoff. - E che compiremo presto, perché questa macchina mi pare dotata di una velocità tale da sfidare gli uccelli. - Filiamo come le rondini, Fedoro. Guarda come spariscono i campi, i boschi e i villaggi! Questa macchina volante è una vera meraviglia. - Purché qualche accidente non le faccia spezzare le ali e ci mandi a fracassarci sulla superficie della terra! - Non credo che ciò possa accadere - disse Rokoff. - Questo treno aereo è d'una solidità incredibile. Malgrado lo sforzo poderoso delle macchine, non si sente il più leggero fremito nel fuso. Leggerezza, potenza e solidità! Quel diavolo d'uomo non poteva ottenere di più. Ma e dove andiamo noi? Mi pare che lo "Sparviero" abbia deviato ancora. - Si dirige verso quella città che vedo sorgere là in fondo - disse Fedoro. - Una città? - Forse quella di Tschang-pin, perché alla nostra sinistra vedo un corso d'acqua che deve essere molto voluminoso. Deve essere il Pei-ho. - Allora ci dirigiamo al nord. - E verso la grande muraglia, ne sono certo - rispose Fedoro. - - L'Europa non si trova già al nord. - Lo "Sparviero" piegherà poi verso l'ovest. - No, signori - disse una voce dietro di loro. - Non ora; più tardi, molto tardi. Il macchinista si era accostato loro tenendo fra le labbra una di quelle monumentali pipe di porcellana, usate dagli olandesi e dai tedeschi. Il compagno del capitano era un bel giovane di venticinque o ventisei anni, di statura media, muscoloso e ad un tempo di taglia snella, colla pelle assai bruna, gli occhi nerissimi tagliati a mandorla e i capelli ondulati e biondissimi, che portava lunghi. Dire a quale razza appartenesse, sarebbe stato molto difficile, perché pareva che i lineamenti degli uomini del nord e del sud si fossero fusi in lui. Aveva del semitico, del greco, del romano e dell'anglosassone. Da quale paese dunque veniva? Che però appartenesse alla razza bianca, malgrado la tinta oscura della sua pelle, non vi era da dubitare. - Non piegheremo verso l'ovest? - chiese Rokoff dopo averlo osservato con curiosità. - Non per ora - ripeté il macchinista in cattivo russo. - Continueremo dunque la corsa verso il nord. - Sì, signore. - Allora andremo in Siberia. - Non lo so - rispose il giovane, quasi si fosse pentito d'aver detto troppo. - È il capitano che comanda. - Eppure ci aveva detto di condurci in Europa - insistette Rokoff. - Se lo ha detto, manterrà la parola. - È molto tempo che viaggiate? - chiese Fedoro. - Molto e poco. - Vale a dire? - Che non lo so. - Ecco una risposta strana. Non siete partito col capitano? - Può essere. - Non sapremo mai nulla da costui - disse Rokoff in francese a Fedoro. - Non devo parlare, tale è l'ordine - disse il macchinista nell'egual lingua e sorridendo. - Ah! Voi parlate anche il francese! - esclamò il cosacco, confuso. - Ed altre ancora, signore. Ecco Tschang-pin: la gran muraglia non è lontana. - Faremo provare una gran paura ai cinesi. - To'! Che cos'è quell'immenso recinto brulicante d'animali? - chiese Rokoff indicando una specie di parco che si estendeva per miglia e miglia verso l'ovest. - Una delle riserve dell'imperatore - rispose Fedoro. - Ne ha parecchie nella provincia di Pechino. - Vi sono migliaia di cavalli. - E tutti di proprietà imperiale. - E che cosa ne fa l'Imperatore? - Non lo saprei, perché non cavalca quasi mai. Tuttavia posso dirti che tiene a sua disposizione quasi centomila destrieri, scelti fra i migliori del suo sterminato impero. - Tanti da morire prima di averli provati tutti, anche se dovesse diventare vecchio quanto gli antichi patriarchi. - Sì, Rokoff. - Vedo anche dei buoi. - Ne possiede dodicimila. - E delle pecore. - Si dice che ne abbia duecentoquarantamila. - Ecco un proprietario che invidio, Fedoro. E quella massa enorme che s'innalza presso le mura del parco? La si direbbe una campana. - Fedele copia di quella di Pechino - disse il capitano, che si era silenziosamente accostato a loro. - Solamente che quella è in pietra, mentre quella della capitale è di bronzo finissimo. - Io non ho mai potuto vederla, ma se quella è una copia, deve essere ben mostruosa. - La più grande che esista al mondo, avendo tra una altezza di cinque metri, un diametro di quattro e mezzo e un peso di sessantamila chilogrammi. Se la bella Ko-hi non si fosse sacrificata, non so se i cinesi, per quanto abili, sarebbero riusciti a fonderla. - Ko-hi! - esclamò Rokoff, guardando il capitano. - Chi era? - Una delle più belle fanciulle dell'impero. - E che cosa c'entra colla famosa campana? - Signor Fedoro - disse il capitano, volgendosi verso il russo. - Non conoscete la storia di questa campana? - No, signore. Il capitano s'appoggiò al bordo, guardò per alcuni istanti Tschang-pin che ingrandiva a vista d'occhio, poi disse, quasi bruscamente: - Narrasi che l'imperatore Yung-ko avesse incaricato il mandarino Kuang-yo di fondergli una campana che, per mole, non avesse l'eguale nel mondo. L'impresa era così ardua, che per due volte l'immenso torrente di bronzo fuso si riversò nello stampo senza riuscire a dare una campana perfetta. L'imperatore, sdegnato, concesse una terza prova, minacciando di morte lo sventurato mandarino nel caso che non fosse riuscito. Interrogato un astrologo, questi aveva predetto che la fusione sarebbe riuscita se assieme al bronzo si fosse mescolato il sangue d'una vergine. Kuang-yo aveva una figlia, giovane e bellissima. Apprendendo la profezia dell'astrologo e temendo l'ira dell'imperatore contro suo padre, la fanciulla si decise per l'orrendo sacrificio. Ed ecco che, quando il fiume di bronzo usciva come lava ardente dall'immensa fornace, la bella giovane si slancia, gridando: "Per mio padre!" Un soldato si precipitò su di lei per trattenerla, ma già il giovane corpo si era immerso nel metallo, non lasciando in mano dell'uomo, che voleva salvarla, che una delle sue piccole scarpe. Il mandarino, che aveva assistito al sacrificio della figlia, impazzì, ma la fusione riuscì pienamente, come aveva predetto l'astrologo. Si dice che il primo suono che diede la campana sembrò un colpo di scarpetta. Era la disgraziata giovane che reclamava ancora, nelle vibrazioni del bronzo, la sua piccola shieh. Macchinista alziamoci! Ecco le prime case di Tchang-pin ed ecco i primi colpi di fucile destinati a noi. Non sono cortesi questi abitanti!

I PREDONI DEL SAHARA

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

El-Haggar che vegliava sui fuochi assieme ai due beduini, s'accostò tenendo in pugno il suo lunghissimo moschetto dal calcio ricurvo e abbellito da piastrine d'argento e di madreperla. "Signore," disse, "il leone minaccia il nostro campo. Deve essere un vecchio che ha già assaggiato la carne umana." "Un animale pericoloso dunque?" "Si, signor marchese," disse il moro, il quale pareva molto inquieto. "Quando i leoni hanno cominciato a divorare qualche uomo, sfidano qualunque pericolo per procurarsene altri." "Vieni, Rocco," disse il marchese, alzandosi e prendendo una carabina Martini. "Se quel signore diventa impaziente lo calmeremo con un pò di piombo. Gli farà bene, ne sono certo." "Cosa volete fare, signore?" chiese il moro, spaventato. "Vado ad incontrarlo," rispose il marchese, con voce tranquilla. "Non scostatevi dai fuochi. Il leone vi assalirà." "E noi assaliremo lui, è vero, Rocco?" "Lo uccideremo." "Vengo anch'io con voi," disse Ben Nartico. "Non sono un cattivo tiratore." "E perché dovrò io rimanere qui inerte?" chiese una voce armoniosa dietro di loro. Esther era uscita dalla tenda e stava ritta dietro di loro, appoggiata ad una piccola carabina americana, in atteggiamento fiero. "Voi, signorina!" esclamò il marchese, guardandola con ammirazione. "E perché no?" chiese la giovane, con voce tranquilla. "So maneggiare il fucile quanto mio fratello, è vero, Ben?" "Tu anzi tiri meglio di me," rispose Nartico. "È un animale pericoloso, signorina," riprese a dire il corso. "Non è una caccia nuova per me. Ti ricordi, Ben, di quel leone che ci aveva assalito nelle gole dell'Atlante?" "Sì, e che tu fulminasti a bruciapelo, mentre invece io lo avevo fallito," rispose Nartico. "Un coraggio ammirabile!" esclamò il marchese, stupito. "Le nostre donne d'Europa non ne hanno la centesima parte." "Marchese, il leone si impazienta," disse la giovane. "Udite come rugge?" "Ebbene, signorina, andiamo a offrirgli la cena di piombo." "E di polvere," aggiunse Rocco.

MILANO IN PERCORSA IN OMNIBUS COMPILATA DA GAETANO BRIGOLA ED ILLUSTRATA DA NOTIZIE STORICHE ED ARTISTICHE DA FELICE VENOSTA

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Brigola, Gaetano 2 occorrenze
  • 1871
  • Editore Librajo -PRESSO GAETANO BRIGOLA
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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. _ Nel 1600 fu l'edificio abbellito da Federico Borromeo. _ L'attuale facciata di granito è disegno di Bernardino Ferrari. _ Vi sono in questa chiesa da ammirarsi un San Gerolamo, opera celebre di Gaudenzio Ferrari, la Deposizione, di Bernardino Luini. Nella casa StampaSoncino, presso S. Giorgio, sorge, monumento particolare, una torre a sei piani, con terrazzi accessibili, alta metri 42 24, sulla cui sommità sono le colonne col plus ultra, temma di Carlo V, al cui onore fu eretta.

Ora, a cura di una società, fu ristaurato ed abbellito sotto la direzione dell'ingegnere architetto Giuseppe Balzaretti. _ Nell'interno questo edificio ha un'elegante sala, sorprendente per la sua ampiezza; essa serve per concerti musicali, feste da ballo, esposizioni, accademie, ecc. Fu inaugurato il 22 febbrajo 1871. Il nuovo giardino, incominciato nel 1856 su disegno dell'ingegnere Balzaretti nell'area principalmente della estesissima ortaglia già di proprietà Dugnani, venne aperto al pubblico nel 1861; esso desta l'ammirazione di tutti per la bellezza del suo disegno; è a viali tortuosi, ad ondulazioni di terreno che innalzasi bruscamente al di là del rivolo che lo attraversa in senso diagonale. Una parte di questo passeggio è ridotta a giardino zoologico. _ Dal bastione vi si accede da un ponte di ferro; ha pure parecchi ingressi dalla via Palestro, Piazza Cavour e via Manin. Nell'altipiano evvi un elegante caffè assai frequentato nella estiva stagione. _ Questo giardino possiede parecchie statue, due delle quali del Pattinati, l'una rappresentante L'Italia e l'altra Carlo Porta il gran poeta milanese. Dal nuovo giardino pubblico si può accedere al

Eva

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Verga, Giovanni 1 occorrenze

Mille volte avevo fatto quel sogno senza sperare di realizzarlo giammai, e l'avevo abbellito con seducenti particolari. L'idea sola di avere Eva accanto a me, ad ogni ora della mia vita, sotto il mio medesimo tetto, mi avea creato altre volte delle estasi di paradiso. Avevo sognato le ridenti follie di una eterna luna di miele, le passeggiate in campagna, la fiamma del caminetto, la lucerna della sera, i giuochi infantili, e i dolci silenzi. Avevo pensato a tutte le parole più comuni che ella avrebbe potuto dirmi nelle più insignificanti congiunture. L'avevo vista come un raggio di sole in tutti gli angoli della mia camera. Ahimè! il domani, allorché la vidi sotto le povere cortine del mio letto, allorché ebbe freddo e non ebbi altro da metterle sui piedi che il mio paletò, allorché accese il fuoco del mio camino e si tinse le mani - quelle candide manine - e tossì due o tre volte pel fumo, allorché dovette trascurare i suoi capelli per fare il caffè, provai un dolore nuovo e come una spaventosa sorpresa; mi parve che la fata fosse svanita, e non rimanesse più che una bella donnina - di quelle che piacciono - ma io avevo bisogno di adorarla! Un demone maligno si assise sogghignando al capezzale del mio letto sin dalla prima notte, per trascinare nel volgare e nel ridicolo tutte le mie illusioni. La realizzazione dei miei castelli in aria era diventata la sorgente di mille fastidi, di mille sorprese, ed anche di mille dolori. Ero costretto a starmi fuor di casa la maggior parte del tempo per non spoetarmi intieramente l'anima alla vista di lei che, con un'abnegazione senza pari, affaccendavasi nelle cure domestiche. Mi era parso che lo starle sempre vicino dovesse essere una felicità sovrumana, e quella felicità, vista da vicino, aveva particolari così volgari che mi facevano chiudere gli occhi e sanguinare il cuore. Delle notti intiere, col gomito sul guanciale, vedendola dormire accanto a me, bella, serena, quasi felice anche nel sonno - lei che mi aveva tutto sacrificato - domandavo a me stesso se ella soffocasse, come me, le medesime dolorose impressioni, oppure se non le provasse nemmeno perché mi amava di più, o in un altro modo, o se nella donna ci fosse, come un istinto provvidenziale, l'affetto del focolare domestico ... oppure se la sua condizione, l'educazione ricevuta, i suoi sentimenti, la tenessero molto al di sotto della mia ombrosa e delicata suscettibilità ... E finivo per darle torto - a lei! di non aver la delicatezza di risparmiarmi certi particolari volgarissimi che mi sembrava affrontasse con la più volgare disinvoltura ... Non cerco di spiegarti cotesto mostruoso mistero che chiamasi cuore. Non mi sono mai sognato di giustificarlo. Ti faccio osservare un fatto. Cotesta disillusione, cotesta amarezza intima, m'invadeva tutto, la mente come il cuore. L'arte mi negava anch'essa le sue ispirazioni; era forse gelosa, o la vita mi assorbiva troppo per potermi sollevare sino ad essa. Però fu un altro gran dolore per me. Provare la febbre e l'impotenza di creare! L'hai tu provato? Ero stato delle ore intere dinanzi a quel cavalletto, accanto a quella donna che mi aveva riempita l'anima di tanta luce e di tanti colori, che adesso attaccava i bottoni ai miei vestiti, e mi rendeva ebete; e qualche volta mi ero strappato i capelli, qualche altra volta avevo pianto di rabbia, o avevo tirato giù linee o pennellate che il giorno dopo scancellavo. Ella mi guardava con sorpresa, mi stringeva le mani, mi diceva delle parole affettuose. Io le rispondevo sgarbatamente, infastidito, quasi iroso, e delle volte, trovandomi l'anima così vuota, piangevo tutt'altre lagrime. Intanto i bisogni materiali della vita si facevano sentire più che mai. Quel pochissimo di cui potevo disporre era stato dissipato in un lampo; ero indebitato fin sopra ai capelli coll'oste, col padrone di casa, con tutti i miei amici, ed anche coi semplici conoscenti, poiché la necessità mi aveva reso sfacciato. Avevo momenti di preoccupazione tale che le carezze di Eva mi avrebbero fatto montare in collera. Non osavo più scrivere ai miei genitori perché avevo l'orgoglio del mio fallo, ed il mio amore sciagurato non era abbastanza potente per assorbire anche e soffocare il rimorso di strappare il pane di bocca alla mia famiglia onde prolungare la mia dolorosa follia. Ero troppo orgoglioso per far trapelare ad Eva la menoma mia preoccupazione; e allorché ella si mostrava più affettuosa, più sommessa, e cercava timidamente di prender parte alle mie angustie e di venirmi in aiuto, avevo per lei modi aspri e parole dure. Per vivere alla meglio avevo accettato una delle più umili occupazioni - dipingevo ad oleografia; il mio cervello si atrofizzava, ma si tirava innanzi. *** Il verno era ritornato, e rigidissimo. Io andavo al caffè tutte le sere a bere il ponce e a leggere il giornale, mentre Eva mi aspettava a casa. Mi occupavo delle quistioni internazionali e tenevo dietro al corso dei valori pubblici con interesse! Leggevo sino alla quarta pagina; poi facevo quattro chiacchiere coi vicini, e tornavo a casa sbadigliando. Una sera avevo trovato il ponce freddo; la politica volgevasi contraria al mio colore - poiché avevo già un colore politico! - il mio vicino era stato sgarbato; fioccava maledettamente, e tornando a casa avevo trovato il camino spento. "Perdio!" dissi ad Eva aspramente; ella lavorava presso il lume. "Non vien certamente la voglia di tornare a casa." Essa levò su me i suoi occhi sempre dolci e sereni, e non rispose. "Con una notte come questa farmi trovare una ghiacciaia!" ripresi. Vedevo che ella avea il viso livido, che tremava dal freddo sotto il suo scialle, e non pensai che in quella ghiacciaia ella avea dovuto pur starci tutto quel tempo in cui io avevo acconciato l'Europa a modo mio, seduto in un angolo ben riscaldato del caffè. "Non è freddo" rispose. "Perdio, s'è freddo, si gela." "Non c'è più legna", soggiunse timidamente. "Non ce n'è più in Firenze?" Ella chinò il capo sul lavoro e stette zitta. "Non hai danari?" domandai. Era la prima volta che quella parola mi veniva sulle labbra, e malgrado fossi tanto cambiato, mi fece una singolare impressione, come se avesse suonato altrimenti della mia intenzione. "No", rispose Eva dolcemente. "Come! non hai danari?" replicai, senza che la parola quella volta mi ripugnasse. "Hai fatto delle spese straordinarie?" "No." "Ma non siamo che ai venti del mese." "È vero." Malgrado il mio abbrutimento un raggio di luce si fece nella mia mente, e mi parve che attraversasse la parte più sensibile del mio cuore come uno stile di acciaio. "Vuol dire ..." esclamai, sentendo che la voce mi tremava, "vuol dire che i danari che ti ho dato ciascun mese ... non bastavano!" "Che importa?" mi diss'ella sorridendomi con la stessa dolcezza. "Ma allora ... come hai fatto?..." "Avevo del danaro." "Tu!!!" e mi nascosi il volto fra le mani. Il mio orgoglio si contorceva dolorosamente, poiché il mio cuore non si commoveva più. "Sì." "Tu non avevi nulla quando venisti." "Avevo quei pochi gioielli." "Li hai venduti?" "Sì." "Ah!" Ella venne a me dolcemente; mi rialzò il capo, e mi baciò in fronte. "Non mi ami più?" disse. "Perché?" "Perché quello che io ho fatto ti dispiace." "No." "Ti fa arrossire." "Sì." "Non mi ami più! Io non mi son vergognata di quello che hai fatto per me." "È tutt'altra cosa; io sono un uomo." "È lo stesso quando si ama!" Io le baciai le mani, e la guardai con occhi che avevano le migliori intenzioni di adorarla. Ella aveva una cuffietta assai modesta; alcune ciocche di biondi capelli le scappavano attraverso i nastri scoloriti; sul suo seno s'incrociava un leggiero scialletto; aveva le labbra pallide e le mani livide. Le prime parole che mi vennero in bocca furono: "Ed ora come si fa?" "Bisogna aver coraggio!" "Oh, se potessimo contentarci delle belle parole!" le dissi aspramente. "Mio Dio!" rispose ella timidamente, come per rabbonirmi, "non sono stata mai ricca, tu lo sai; quella bella casa e quei bei mobili non mi appartenevano, e, pur troppo, tutto il mio danaro lo spendevo malamente per vivere in un certo lusso; sicché quando gli ho voltato le spalle possedevo ben poco. Ho fatto tutto quello che ho potuto, e te l'ho nascosto per risparmiarti un dispiacere di più. Adesso non ho più nulla." "Io non vi ho chiesto nulla!" le dissi amaramente. "Oh!" "E se l'avessi saputo non vi avrei permesso di infliggermi questa umiliazione che adesso mi rinfacciate!" "Oh!" ripeté Eva con un raddoppiamento di dolore. Io non ebbi cuore per prendere le sue mani, con le quali si celava il viso, e asciugarle le lagrime che vedevo scorrerle fra le dita. "Enrico!" mi disse ella dolcemente come nei nostri più bei giorni d'amore, "vedi come sei diventato? Vedi se m'ingannavo presagendo quel ch'è successo? Tu te ne sei pentito pel primo!" L'abbassamento morale, direi, era così pronunziato in me che non pensai nemmeno di protestare per illuderla; e non pensai che quel mio lugubre silenzio doveva pesarle sul cuore come piombo fuso. Poi, quando me ne avvidi, dopo un lungo e mortale indugio, non trovai di meglio per consolarla che sciorinare un'imprecazione. "Arte pitocca e bugiarda!" esclamai stendendo il pugno verso il cavalletto "che vai tronfia d'orgoglio e non dai pane da sfamare!" Eva mi guardò sorpresa, quasi addolorata. Io le risposi quel ritornello che riepilogava tutte le mie abbiezioni: "Ed ora come si fa?" Non rispose. "Se tu tornassi al teatro?" le dissi con tutta naturalezza, compiacendomi, direi, della mia vigliaccheria. "È impossibile;" rispose colla stessa calma rassegnata; "non è la sola abilità che forma l'artista; ma la carriera fatta, il palcoscenico, il pubblico, i giornali teatrali, i cartelloni degli spettacoli, gli agenti, gli impresari. Bisogna vivere in questo mondo per appartenervi. Io ne sono uscita, e nessuno più mi conosce. Per rientrarvi bisognerebbe che incominciassi da capo." Allora soltanto mi balenò dinanzi agli occhi tutta l'estensione del sacrificio che ella avea fatto alle mie folli esigenze. "E tu sapevi tutto questo?" le dissi. "Sì" rispose tranquillamente "e sapevo anche che doveva arrivare questo giorno." "Ti giuro," esclamai, "che ti renderò tutto quello che mi hai sacrificato, o mi ucciderò!" Ella mi guardò in modo singolare con quei suoi occhi mesti e dolci, e mi disse quasi con un soffio di voce: "Io non me ne sono mai lagnata, e tu non mi avevi mai promesso di ucciderti." *** Passai la notte in magnanime risoluzioni, e appena fu giorno cominciai a darmi le mani attorno per cercare altre occupazioni che mi fruttassero qualcosa. Ma le magnanime risoluzioni non riuscirono che a procurarmi un modesto impiego, presso un fotografo. Di meglio in meglio, dalle nebulose altezze della grande arte io ero arrivato a stendere i colori dietro le fotominiature che si vendevano a dodici lire l'una. E neanche questo bastava. Io ero inquieto, irascibile, dispettoso. Ella trascurava il suo vestire, era triste, e qualche volta stizzosa; aveva certi suoni di voce aspri, certi sorrisi che non la rendevano bella. Io credevo coscienziosamente di farle dei veri sacrifici andando a casa la sera invece di andare al caffè, e fumando la pipa accanto a lei, leggendo il giornale, mentre ella lavorava. Ambedue senza dire una parola, sentendoci gravare quel silenzio sul petto come un peso enorme. Dopo alcuni giorni osservai in lei un cambiamento che mi avrebbe sorpreso se il mio cuore fosse stato più all'erta. Ella cantava per la camera, sembrava allegra, aveva comperata una veste di seta e degli stivalini nuovi coi suoi risparmi - faceva già dei risparmi! - Aveva dei guanti e si abbigliava con cura! Quell'aria di festa si era stesa anche al mio focolare e sulla mia mensa - ed io ne godevo come un parassita! Mi accadde due o tre volte di non trovarla in casa, e non le domandai dove fosse stata. Una sera trovai la chiave nella serratura. La camera era buia. La chiamai e non rispose. Accesi il lume e vidi la camera vuota; sul camino, appoggiata allo specchio, e messa con cura in evidenza, c'era una lettera aperta; era per me - ecco che cosa lessi: " Mio caro Enrico, tu non mi ami più, io non ti amo più nemmeno - e siamo pari. Te l'avevo predetto! Tu mi hai visto attizzare il fuoco, e far la calza; io ti ho visto stendere tranquillamente i colori sulle tue stupide fotografie, senza ispirazione e senza entusiasmo; ecco perché non ci amiamo più. Le asprezze, i diverbi, le amarezze, son degli accessori. Domani forse saremmo arrivati a picchiarci! Ti lascio, e credo fare del bene anche a te. Tu hai bisogno di sognare per buscarti gloria e quattrini; io non ho che la mia giovinezza, e bisogna che ne approfitti se non voglio andare a finire all'ospedale. Tu hai il cuore buono; ti ho parlato con franchezza, e credo perciò di non lasciarti in collera. Io ti voglio sempre del bene, e te lo proverò, quando potrò. Eccoti 500 lire. " *** Devo confessare che la prima impressione destatami da quella lettera fu di sollievo. Tutto quello che c'è di falso e di malsano in tali legami si scorge al sentimento inesplicabile di soddisfazione che si prova rompendoli, anche quando il romperli costi qualche lagrime. Poi, quando la tempesta è passata rimangono qualche volta nei bassi fondi limacciosi le serpi che si sono avviticchiate più strettamente al cuore, e che hanno più tenace vitalità: - il dispetto, l'amor proprio ferito, la vanità schiaffeggiata. Trovandomi solo in quella camera ove m'aveva aspettato tante volte, non pensai ad altro che al modo con cui ella l'aveva abbandonata; e quando mi avvicinai a quei guanciali che conservavano ancora l'impressione del suo capo non pensai a quell'altro letto dove ella forse dormiva, se non perché non era il mio. Non pensai a quei baci che più non desideravo se non perché un altro li aveva. E al nuovo giorno il raggio di sole che veniva dalla finestra era così allegro, diceva tante belle cose della giovinezza, dell'arte, dell'avvenire, della mia famiglia, cui non avevo rivolto il pensiero prima senza una spina nel cuore, che mi trovai con sorpresa l'animo in festa: esso non voleva rammaricarsi ad ogni costo dell'abbandono di Eva. Scrissi ai miei genitori, fumai la mia pipa, riordinai tutti i miei utensili da dipingere, come se non dovessi che ritornare all'arte perché l'arte mi sorridesse, e non pensai ad Eva che pel dispetto di aver trovato fra la cenere del caminetto una busta mezzo arsa, ove l'indirizzo di lei era scritto con quello stesso carattere elegante della lettera che accompagnava il braccialetto del conte Silvani - e per quel biglietto di cinquecento lire che, tutto sdegnato, misi nel portafogli, col fermo proposito di buttarglielo in volto quando l'avessi vista. Ahimè! io non la rividi! non le buttai nulla in viso! Il vuoto che si era fatto nel mio cuore, a furia di vivere soltanto per esso, mi avea prostrato intieramente, e aveva isterilito il mio ingegno. Tutte le orride lingue della miseria del cuore, dell'intelletto e della borsa, lambivano la mia esistenza. L'avvilimento mi snervava, e logorava la mia vita nell'ozio, sulle panche di un bigliardo o di un caffè. I debiti, l'inerzia, e la miseria mi affogavano; tutta l'attività del mio spirito non aveva altra mira che di farmi acconciare alla meglio in quel fango - ed io mangiai tranquillamente il biglietto di cinquecento lire. *** Poi anche questo finì. E allora incominciai un'altra lotta più bassa, più accanita, più dolorosa, la lotta degli espedienti, delle transazioni d'amor proprio, delle viltà, contro un desinare. Dopo aver venduto tutto quello che era vendibile, le tele, i disegni, le scatole, i colori, gli abiti, le scarpe, tutto, mi trovai senza pane, quasi senza vesti, alloggiato come in ostaggio del mio debito, con cinque lire in tasca, e certe allucinazioni come quelle che si devono provare al momento di smarrire la ragione. *** Mi venne in mente di giocare. Mi ricordai di tutte quelle storielle e di tutti quei bei romanzi ove si parla di guadagni enormi fatti con un nulla, e mi parve d'esser ricco possedendo cinque lire e quella bella idea. Salii senza esitare le scale di una casa ove gli artisti e gli studenti poveri andavano a disputarsi l'un l'altro il pane quotidiano; arrischiai una lira, poi l'altra, poi l'altra, poi l'ultima. Vedevo delle fiamme abbaglianti passarmi dinanzi agli occhi, e provavo degli improvvisi sbalordimenti. Mi parve che si facesse un gran vuoto nel mio cuore e ne sentii tutta la penosa sensazione, nel momento in cui si voltava la carta che doveva decidere dell'ultima mia lira. Tu non sai quel che voglia dire l'ultima lira; vuol dire il pane dell'indomani, e si ha lo stomaco vuoto! e i fantasmi dei tuoi bisogni ti attraversano in un lampo lo spirito!... Poi sentii una gran calma improvvisa, come una specie di benessere, una terribile lucidità d'idee. Avevo perduto. Almeno non avevo più nulla! Scesi le scale con passo fermo. Avevo la vista chiara e la mente tranquilla. Passeggiai per le vie più frequentate; lessi gli annunzi degli spettacoli; passai dinanzi alle vetrine di parecchi caffè provando una strana soddisfazione a veder la gente che vi era; andai pel Lungarno alla Pescaia, e stetti una mezz'ora a guardare i bizzarri riflessi del gas sulle acque del fiume, senza pensare un istante che sarebbe stato anche più bello trovarvisi in mezzo. Poi, quando suonò la mezzanotte, mi trovai come per abitudine nella mia strada. Avevo freddo, e mi ricordai che non avevo meglio da fare che andare a letto. *** Il giorno dopo pensai che era naturalissimo di andare a chiedere qualche cosa in prestito al solo amico che non mi voltasse ancora le spalle, come tutti gli altri, Giorgio, e mi meravigliai come quell'idea non mi fosse venuta prima. Quell'idea non mi fruttò che una lunga corsa, ed io non ero molto in forze. Giorgio non era in Firenze. Domandai quando sarebbe ritornato; mi risposero, fra dieci o quindici giorni. - Dieci o quindici giorni! Quella risposta mi lasciò come istupidito; tornai indietro colle mani nelle tasche, e zufolando un'arietta fra i denti. Mi venne in mente di fumare. Cercai in tutte le mie tasche, e non vi trovai che uno scatolino di fiammiferi; era pieno. "Se potessi cambiarlo con un sigaro!..." pensai, "o con un pezzo di pane!" E credo anche che scappai a ridere! Avevo una preoccupazione insistente; quella di ammazzare il tempo come se aspettassi qualche avvenimento e l'indugio mi pesasse. Pensai di trastullarmi colle mie fantasticherie, giacché non avevo più fiducia nell'ispirazione, e di andare alle Cascine per cercarvi la solitudine. Ahimè! la mia mente era vuota, come il mio cuore, come il mio stomaco. Andavo baloccandomi come un imbecille pei viali, ora guardando correre le nuvole più basse e brune su di un cielo di piombo, attraverso gli incrociamenti dei rami nudi, ora tenendo dietro con grande curiosità ai passeri che correvano sull'erba riarsa dal gelo in cerca di cibo - anch'essi avevano fame. Tutt'a un tratto udii uno scalpito accelerato e un grido "guarda!" e mi gettai sul ciglione, tutto sossopra, come se ne valesse la pena! E vidi passare come frecce due cavalieri, anzi un cavaliere e un'amazzone. L'amazzone era lei, Eva! - la riconobbi al riso, rideva allegramente, e alla persona: ma non la vidi in faccia; era rivolta verso il suo compagno, gli parlava e non mi vide - credo almeno che non mi abbia visto. Il suo cavallo era coperto di sudore, aveva le narici rosse e mandava nugoli di fumo. Ella era leggermente inclinata sulla sella; acconsentiva la mano alle redini e tutta la persona ai bruschi movimenti del cavallo, con grazia ardita e sicura. Si udivano stridere il cuoio e le cinghie della sella; il velo le svolazzava dietro coi biondi capelli, e la lunga veste ondeggiava come un prolungamento della sua persona. Il giovane che l'accompagnava aveva la sigaretta fra le labbra, il brio spensierato, e nel sorriso, nel gesto, nel guanto, aveva come l'insolenza di tutte le ricchezze, della gioventù, della salute, dell'avvenenza, della condizione e del danaro. Non so se Eva mi vide; so che vedendola così bella e accanto a quel bel giovane mi parve tutt'altra donna; mi parve che non avrei giammai osato di stringerle la punta di un dito. Più non sentivo il menomo desiderio di lei. C'era come un abisso fra di noi. Ella era così lontana, così in alto, che non provavo né desiderio, né memorie - o erano di tutt'altro genere. - Se mi avesse gettato un pezzo da cinque lire, non l'avrei preso, ma se mi avesse buttato un pezzo di pane, chissà ... quando ella avesse svoltato l'angolo del viale!... *** Verso le sei mi trovai senza avvedermene dinanzi all'osteria dove solevo desinare. Mi sentivo stanco, e mi rammentai che non avevo mangiato dal giorno innanzi. Allora provai una paura improvvisa, rapida come un lampo. "Dio mio!" balbettai, "se lo sapesse mia madre!" Mi aggirai tutta la sera per le vie come un fantasma, senza direzione, senza sapere che fare, guardando stupidamente tutti quelli che incontravo, non per altro che per cercar d'indovinare se avessero desinato. *** Il freddo mi arrecava le convulsioni; avevo le vertigini; la mia camera era gelata, e le coltri della padrona erano povere come il mio vestito. Tutta la notte non potei chiuder occhio: provavo degli stiramenti convulsivi di stomaco, delle nausee che mi facevano assai soffrire. Mi rammentai di Eva, di averla incontrata alle Cascine, e quel ricordo fu come di persona che avessi conosciuto molto tempo addietro. Nella mia mente c'era un penoso sonnambolismo che faceva correre incessantemente il mio pensiero stanco dietro certe larve senza forme precise, o dietro le memorie del passato. Mi ricordavo di tutti i particolari del mio amore per Eva, anzi una forza che non era nella mia volontà vi costringeva quasi ostinatamente il mio pensiero, e parevami che mi ricordassi di un fatto accaduto ad altra persona, o narratomi molto tempo addietro. Non mi sorprendevo nemmeno di non esserne geloso. Prima di tutto l'amore sta in un complesso di circostanze, e in me allora non c'erano che circostanze negative. L'avevo amata quando la mia immaginazione e il mio cuore sarebbero stati ricchi. Quanto alla gelosia, essa richiede, se non un grande amore, almeno una certa dose di amor proprio che renda possibile un parallelo anche ipotetico fra due rivali. - Io avevo fame! *** Avevo anche preoccupazioni lugubri. Pensavo alle ore che mi rimanevano ancora di vita e alle sofferenze che dovevano accompagnare tal genere di morte, come per conciliarmi con quell'idea. Non osavo uscir di casa, non ne avrei avuto la forza, e sembravami che tutti dovessero leggermi in viso la fame. Avevo ancora dell'orgoglio! L'aria era frizzante. Dalla finestra vedevo la gente andar lesta, certuni avevano la cera sorridente: molti una tranquilla spensieratezza; tutti erano certi di trovare a casa il desinare. Vedevo i camini che fumavano, e, attraverso i vetri delle finestre di faccia alla mia, donne affaccendate e fumo di vivande. Vedevo tutto ciò con una dolorosa lucidità di mente, e fermavo il mio pensiero in mezzo a tante domestiche felicità, che vedevo o che indovinavo, con una penosa voluttà; e domandavo a me stesso, con immenso sconforto, se fosse possibile che tutta quella gente felice potesse credere che a venti passi c'era un uomo che moriva di fame. *** La sera le mie sofferenze si fecero insopportabili. Uscii come un pazzo. Mi trascinai dinanzi a tutti i caffè e a tutti i teatri, nascondendomi fra i monelli, cercando il buio, esitando lungamente. Poi, tutt'a un tratto, mi trovai abbietto, rassegnato, contento di esserlo. Vidi uscire una coppia di giovani eleganti dalla Pergola; la donna bella, coperta di pellicce e sorridente; l'uomo con la cravatta bianca, e guardava lei con occhi innamorati. Ella montò in una bella carrozza, gli strinse la mano e gli sorrise. Egli la vide partire, col cappello in mano e gli occhi intenti; allo svolto della via un guanto bianco si affacciò allo sportello del legno, e il giovane salutò nuovamente quel guanto; poi si avvicinò al gas e lesse un piccolo bigliettino che aveva in mano; - gli occhi gli raggiavano, sembrava felice, doveva esser buono. Me gli avvicinai col cappello in mano e gli dissi: "Ho fame." Cotesta terribile verità doveva leggersi chiaramente sul mio volto, poiché quel giovane mi guardò sorpreso, senza parlare, e mi diede un biglietto da cinque lire. Dovette accorgersi delle lagrime che avevo negli occhi febbrili; si fermò a guardarmi e mi disse: "Voi siete giovane, e sembrate sano; come va che avete fame?" Però non attese altra risposta da me - io non avevo alcuna da dargliene - e soggiunse: "Se volete occuparvi venite a questo recapito domani alle undici." *** Era giovane, amato, ricco, felice, aveva del cuore, e quel ch'è più raro, la delicatezza del cuore. Egli mi fece fare il suo ritratto, me lo pagò benissimo, non solo, ma risparmiò anche il mio amor proprio comprendendo le cinque lire che mi aveva anticipato nel prezzo del lavoro. Egli mi aiutò in tutti i modi, col danaro, con le raccomandazioni, cogli incoraggiamenti, ed anche, posso dirlo, colla sua amicizia. Mercè sua entrai in un'altra vita, nella vita operosa, lauta e onorata. Povero giovane! aveva il cuore pieno e l'espandeva! Un bel giorno la sua felicità si esaurì – egli avea creduto che fosse inesauribile. - La sua amante era una gran dama, portava un bel nome, e cambiava spesso d'abiti e d'amiche intime. - Egli ebbe un duello, per una quistione di giuoco, con un capitano di cavalleria, e fu ucciso - il marito fece da secondo del capitano. - I suoi migliori amici gli diedero torto; dissero che egli spingeva le cose sino al romanticismo, che aveva mancato di delicatezza e di saper vivere che l'avea ricompensata di tutti i sacrifici ch'ella gli avea fatti pel passato, e della felicità che gli avea regalato, compromettendola; che era ridicolo mostrarsi più geloso del marito. Egli pagò con la vita. *** Perché ti ho narrato anche questo episodio estraneo al mio racconto? Tant'è, acciò serva a qualche cosa, ti dirò che, non so perché, pensai ad Eva che non era ricca, che non era gran dama, che non aveva un bel nome, e che era nella condizione di dover smungere borsa dai suoi amanti, come la gran dama smungeva i cuori dei suoi. *** Io avevo vissuto vent'anni in dieci mesi, e mi sentivo forte, pieno di vita, di cuore, di memorie e d'immaginazione. Se non avessi tanto goduto e tanto sofferto credo che non avrei mai avuto tanta vigoria di mente e d'anima, tanta felicità di trasmettere nelle mie opere cotesta sovrabbondanza di vita. Avevo una bella riputazione, ero quasi ricco, e godevo la vita - io che avevo avuto l'anima piena di sogni luminosi e di aspirazioni ideali, e l'avevo ancora qualche volta! La contraddizione che c'era nella mia esistenza fra le passioni e i sentimenti, si rivelava nelle mie opere. Ero falso nell'arte com'ero fuori del vero nella vita - e il pubblico mi batteva le mani. Quegli applausi, delle volte, mi umiliavano agli occhi miei stessi, ma sovente mi ubbriacavano. Sembravami che andassi tentoni in cerca di non so che; mi sentivo isolato, e spesso ridicolo; avevo una menzogna per l'arte che avvilivo e per la società che ingannavo; mi inebbriavo di tutti i piaceri, e di tanto in tanto sentivo il bisogno di uscir fuori da quell'atmosfera come un nuotatore che annega. Non mi rimanevano che le passioni più sterili, e le arricchivo di tutte le esuberanze del mio cuore, poiché sentivo il bisogno di avere delle passioni ad ogni costo. Non credevo più nell'amore, dopo averne fatto lo sciagurato esperimento, e dopo aver veduto nelle braccia del grosso capitano di cavalleria quella donna per la quale il mio benefattore avea dato sorridendo i suoi venticinque anni, quella donna così elegante, così delicata, così poetica - e mi sbramavo nel capriccio. Non avevo un caldo sentimento religioso; il sentimento civile lo vedevo sciupato nelle lotte dei partiti, e intorbidato dalle dispute di giornali, rare volte convinti di aver ragione. Vivevo lontano dalla famiglia, in mezzo ad un mondo di usurai e di egoisti e di gaudenti; l'atmosfera era calda di effluvi giovanili. - Come vuoi che io potessi comprender l'arte in tali condizioni?... mettendomela sotto i piedi! Arrossivo delle mie illusioni di una volta, e per non ridere di me che mi ostinavo ancora a sognare in mezzo a tanti che tenevano gli occhi aperti, risi di quella buffonesca serietà, e di quella sordida preoccupazione generale. Risi del contegno ipocrita per nascondere il marcio, della frase elegantemente vaporosa che conteneva desideri volgari, del pudore del velo, e dell'innocenza dello sguardo. Ero ricco di giovinezza, di gloria e di fiducia in me. Più di uno stivalino altiero, di quelli che avevo sognati, avea toccato per me il lastrico della via, e si era posato furtivo sul tappeto della mia scala. Più di un guanto profumato era stato dimenticato sul mio canapè. Ti giuro che i miei sogni valevano assai più della realtà! Ah! le mie duchesse di via Santo Spirito! Se avessi saputo che la scienza della vita dovea costarmi tante e sì care illusioni, io avrei preferito la miseria, l'oscurità e i miei castelli in aria. Non ti dirò di chi fosse il torto, anzi probabilmente era il mio, perch'ero sognatore, perch'ero ombroso e diffidente, perch'ero divenuto scettico, perché amavo da osservatore, e mettevo sempre del riserbo, direi della restrizione mentale, nelle espansioni del cuore. Quando nei trasporti amorosi non si mette lo stesso abbandono dalle due parti, una delle due è ridicola di certo - Non so quale. *** Nei crocchi eleganti che frequentavo sentivo spesso parlare di Eva come si parla del miglior cavallo da corsa, dell'opera in voga, e della più bella pariglia. Era un'appendice necessaria a quella vita di lusso e di piaceri. Io avevo buttato dalla finestra le poche memorie che mi rimanessero di lei - i suoi nastri scoloriti, i suoi stivalini rotti, i suoi guanti scompagnati. - Avevo lasciato da molto tempo quella cameretta dov'ella aveva dormito tanti sonni - ed ora, a volte, sentivo un ardente desiderio di rivederla, d'incontrarla, di gettarle in faccia il lusso della mia felicità. - Non era più amore, ma era vanità. - Io non so quale dei due sentimenti sia più forte; certo spesso si scambiano l'uno per l'altro. Non l'avevo più vista. La dicevano bella come prima, elegante come un mazzo di fiori, e corteggiata come una regina. Molti entusiasmi giovanili si scaldavano parlando di cotesta donna che avevo visto attizzare il fuoco del mio camino; e non rammentai altro che la sua bellezza, la sua eleganza, e il suo sorriso - ricordi che mi montavano alla testa. - Ero dispettoso che la fosse così, e che sembrasse ancora così agli altri. *** Una sera ero al Pagliano, in uno di quei palchetti dove è favore distinto essere ammesso, dove i numi dell'olimpo fiorentino si pigiavano come ad una mostra, per scambiare un sorriso o una stretta di mano, in faccia ad un pubblico di gelosi, con la dea del santuario. Io le sedevo accanto, e la dea mi largiva parole e sorrisi. Tutt'a un tratto la vidi aggrottare il sopracciglio, da vera dea, prendere l'occhialetto, e dirigerlo bruscamente su di un palchetto di faccia - era uno di quei gesti espressivi che usano le gran dame quando non vogliono scendere alla parola - ma siccome non mi curavo di seguire il capriccio di lei, così mi contentai di guardare quel braccio nudo, tanto bello ch'era pudico, e si nascondeva nel guanto sino a metà. Però l'osservazione di lei era così insistente che, senza volerlo, seguii la direzione di quell'occhialetto, e ne vidi un altro che gli rispondeva come una pistola da duellante. La dea si stancò per la prima, e distese mollemente il braccio sul velluto del parapetto. Allora anche l'altro occhialetto scomparve, e riconobbi Eva - Eva sfolgorante di tutta la sua bellezza, colle spalle e le braccia nude, i diamanti fra i capelli, i merletti sul seno, la giovinezza, il brio, l'amore negli occhi - anzi, la voluttà - e il sorriso inebbriante - il sorriso che faceva luccicare come perle i suoi denti. "Chi c'è nel palco numero tre, in seconda fila?" domandò la dea con quell'accento inimitabile che hanno le dee quando parlano dei semplici mortali. L'officioso più lesto e più fortunato rispose: "Il conte Silvani." "È un pezzo che non si vede il conte!" "È stato in Germania." "E ha preso moglie?" "No." "Ah!" Nel vestibolo incontrai di nuovo Eva di faccia a faccia. Ella mi lanciò di bruciapelo uno di quei tali sguardi, come se mi desse un pugno al cuore. La dea aveva un altro genere di sguardi, quelli della lente che vi tiene a distanza poiché l'occhio non vi vuol riconoscere, e domandò, con quel muto linguaggio, all'insolente che osava fissare gli occhi su di lei, come non rimanesse abbagliata da tanto splendore. Eva si contentò di sorridere, levando il capo per dire qualche parola al suo compagno, mentre si appoggiava al suo braccio con un raddoppiamento di leggiadra civetteria; - il conte era alto e le dava il vantaggio di levare il capo verso di lui per parlargli, vantaggio grandissimo per le donne che sanno farlo in un certo modo! - Lasciò anche scivolare la mantiglia sulle spalle, e mi pare che osservasse con la coda dell'occhio se io facessi attenzione a tutta cotesta manovra. Quelle due donne che non si conoscevano nemmeno, che non si sarebbero incontrate giammai, dovevano odiarsi cordialmente. Io non potei dimenticare un momento quegli occhi che mi avevano dardeggiato, e che si erano volti sorridenti verso il conte. *** Un giorno all'improvviso Eva venne da me, leggiadra, pazzerella, sorridente come sempre, girando per tutte le stanze, toccando tutto, facendo frusciare gaiamente la sua veste sul tappeto, come se ci fossimo lasciati il giorno innanzi. Mi domandò se fossi in collera con lei, se avessi pensato a lei, se l'amassi ancora; mi disse che non mi aveva mai dimenticato, che era contenta di vedermi in quello stato, che era orgogliosa di avermi amato; mi disse cento cose seducenti come ella le sa dire, scaldandosi al fuoco, e sollevando la veste per posare i piedini sugli alari. È impossibile esprimerti tutto quello che c'era nelle sue parole, nel suo riso, nei suoi occhi e nei suoi gesti. Mi parlò del passato; mi domandò dei miei amori, e come amassi, e come fossi amato, e se amassi di più o in un altro modo, - e mi diede anche un bacio come mi avrebbe dato una stretta di mano. Poi, dopo ch'ebbe fatto ardere il mio sangue con quella grazia così calma e nello stesso tempo così spensierata, con quei suoi sguardi sorridenti come ad un fratello, col profumo del suo fazzoletto e coi tacchi degli stivalini, ella si alzò tranquillamente e mi stese la mano. - Se ne andava! erano le due, doveva andare dalla modista, dalla sarta, da Marchesini, a fare un giro alle Cascine. Alle sei poi davano in tavola - mille ragioni inoppugnabili! Io chiusi la porta e le presi le mani; ella me le strappò, e si mise a correre per le stanza, ridendo, folleggiando come una bambina, e poi mi si abbandonò tutta tremante, collo stesso sorriso, con un movimento infantile e inebbriante. *** "Matto! matto!" mi disse lisciandosi i capelli allo specchio. "Ed io più matta di te! A proposito, e la tua dea?" "Quale dea?" "Quella del Pagliano, la superbiosa. L'ami molto?" "Punto." "Ti credo. Siete così orgogliosi entrambi! Dovete bisticciarvi sempre. L'amerai per vanità." "Sono troppo orgoglioso per avere di coteste vanità." "Come sei diventato!" e mi guardava tutta sorpresa, con cert'aria ingenua che possedeva ancora. "Dimmi come amano le gran dame" e annodava i nastri del cappellino. "Come le piccole." "Adulatore! Ma io perdo il mio tempo con te! Addio." "Verrai a trovarmi?" "No." "Verrò io?" "No." "Come, no! Ma non capisci che ho bisogno di vederti!" Ella mi guardò e scoppiò a ridere. "Proprio?" mi disse. "Come dell'aria per respirare!" "Sei pur stato tanto tempo senza, e non sei morto!" "Perché sei venuta dunque, maliarda? perché mi hai fatto ardere il sangue colle stesse febbri?..." Ella mi guardò nello specchio, con quel sorriso! e mi disse: "Ero gelosa!" "Dunque mi ami!" "No. Tu non capisci coteste gelosie di donna, tu! e sei un uomo di spirito! Andiamo, via, non più sciocchezze!" riprese con dolcezza dopo alcuni istanti, accarezzandomi la mano per rabbonirmi. "Ti voglio ancora del bene, ma bisogna essere ragionevoli. Non scherziamo più col fuoco!" Ella seguitava ad accarezzarmi le mani, e vedendomi sempre accigliato soggiunse: "Ti giuro che se avessi prevista cotesta nuova follia non sarei venuta!" "Ah! non lo sapevi?" "No! Mi pareva di trovarti più ragionevole." "Ma adesso che vedi come non lo sono, e che son più pazzo di prima, e che son geloso non del tuo cuore, ma del tuo corpo, e che un lembo della tua veste se mi tocca mi fa perder la testa, perché non seguitare, se non ad amarmi, almeno a lasciarti amare?" Eva mi guardò in viso in modo singolare e mi disse tranquillamente: "Perché ho più giudizio di te." "Non mi ami più?" "No." "Perché sei venuta dunque? dimmelo, maledetta! maledetta! Fu un capriccio?..." "Sì ... e se durasse sarebbe una follia ... per te, e per me." Allora io andai all'uscio, senza far motto, e l'apersi. "Senza rancore!" diss'ella stendendomi la mano. E lasciandola cadere dopo aver aspettato inutilmente soggiunse: "È pure una gran disgrazia che siate fatto così." Uscì stringendosi nella veste per non toccarmi. Io corsi a nascondere il viso e le lagrime nei guanciali ancora odorosi del profumo dei suoi capelli. *** Quelle due ore avevano gettato sul mio cuore il soffio ardente delle tempeste del passato. Io l'adoravo, sì, l'adoravo così com'era, l'adoravo perch'era così! Avevo il desiderio frenetico dei suoi guanti che si lasciava strappare e lacerare ridendo, e dei suoi stivalini di cui la seta strideva fra le mie mani. Feci mille pazzie per lei, la cercai, implorai, piansi, passai le notti sotto le sue finestre, vidi l'ombra di lei accanto all'ombra di un uomo dietro le cortine, seguii di notte la sua carrozza per le vie e vidi il suo capo sull'omero di lui. - Ella mi ravvisò, e chiuse le imposte o si tirò vivamente indietro, o volse il capo dall'altra parte. - Sirena! maliarda! che mi aveva inebbriato coll'amore, ed ora mi intossicava con la gelosia! Le scrissi; le scrissi umile, delirante, minaccioso. Ella mi rimandò le mie lettere con un sol motto: " Una follia non si fa due volte o diventa sciocchezza ". - Una sera la rividi in teatro; ella non mi gettò che un'occhiata dal suo palchetto - a me che divoravo la sua bellezza con tutti i sensi e ne ero geloso! La vidi uscire raggiante, superba, colla testa alta, il cappuccio sugli occhi, e il braccio nudo appoggiato a quello di lui. Io feci stridere la seta della sua veste imprigionata sotto al mio piede; ella si volse vivamente e mi gettò in faccia un'occhiata di collera, forse senza riconoscermi. *** E così la seguo da mesi, con questo acre desiderio di lei ch'è memoria e gelosia mischiate insieme; e cerco di vederla; e frequento i luoghi dove spero incontrarla; e la riconosco al portamento, al posare del piede, al muover della testa; e stasera la riconobbi subito appena la vidi, sebbene mascherata, e quando potei farla parlare ed accertarmi ch'era proprio lei non la lasciai più, da lontano o da vicino, e so quel che ha fatto, quel che farà, l'ora in cui la carrozza verrà a prenderla, e poco fa, mentre era seduta nel ridotto, nel momento in cui vidi allontanare il conte per andare a comprarle dei dolci, sedetti accanto a lei e mi tolsi la maschera. "Voi!" esclamò. "Ancora!" "Sì! non tentate di sfuggirmi; voglio il tuo amore!" "Siete pazzo!" mi disse, gettandomi in faccia la doccia fredda della sua calma. "E voi senza cuore!" "Io! che vi ho sacrificato dieci mesi della mia giovinezza, i più belli! che vi ho sacrificato la mia carriera, e che avete messo alla porta quasi in cenci!" "Ah! e volete vendicarvi!..." "No, ve lo giuro. Non sono in collera con voi. Non lo sarei che ove vi ostinaste in questa follia. Noi ci siamo trastullati con una cosa pericolosa, abbiamo preso sul serio il romanzo del cuore; ecco il nostro torto, perché anch'io ci ho creduto per un istante. Ma non siamo abbastanza ricchi per permetterci questo lusso." "Non credete all'amore?" le dissi insolentemente. "non ci credete più?" "Oh, tutt'altro! È il ferro del mestiere. Ma credo a quello degli altri. Anche voi dovete crederci, ma in tutt'altro modo, per scaldare la vostra fantasia e farne risultare dei bei quadri che vi frutteranno onori e quattrini." "Oh, è un'infamia!" Ella si drizzò come una duchessa cui si fosse mancato di rispetto e mi disse seccamente: "Me l'avete insegnata voi! Ora andatevene, ché viene il conte." "Oh! tanto meglio! Voglio conoscerlo questo felice mortale che vi paga i baci e le menzogne!" "Ah!" esclamò con un sorriso che non avevo mai visto in lei "mi ricompensate così! Ma guardatevi! che il conte, oltre il pagarmi tutto questo, regala anche dei famosi colpi di spada!" "Pel nome di Dio!" mormorai ebbro di collera e di gelosia, "che egli non ti pagherà più nulla, e domani sarai sulla strada se non vorrai venire a chiedermi ospitalità!" "Tu sai che ho scommesso!" finì Enrico guardandomi con occhi sfavillanti. *** Enrico si passò la mano sugli occhi, per scacciarne la frenesia che vi lampeggiava, e riprese dopo alcuni istanti di silenzio: "Sono pazzo! lo so anch'io! Ma la ragione mi è insopportabile. Non ho più fede nell'arte, nella vita, di cui posso contare i giorni che ancora mi rimangono, nell'amore ... e son geloso!..." "Hai visto le sue braccia nude?" mi domandò dopo un istante con voce rauca, come se parlasse in sogno. "Ma la tua famiglia?" gli dissi. Non rispose. Poscia, dopo un lungo silenzio e asciugandosi gli occhi. "È il solo dolore che mi rimanga!" "Potrebbe anche essere un conforto, e tale da compensarti ampiamente." Enrico mi rise in faccia con un'ironia quasi insolente. "Mio caro, i sentimenti puri non sono che per le anime pure. Che cosa porterei in mezzo alla mia famiglia che ha sacrificato tutto al mio egoismo?... i miei infami sogni? i miei sozzi desideri? i miei disinganni colpevoli? Grazie a Dio, non sono arrivato così in basso da non comprendere che morrei di vergogna pensando ad Eva, nelle braccia di mia madre, e che profanerei vilmente le labbra di mia sorella, coi baci che ho dato a quella donna!" Si alzò bruscamente, come se temesse qualche altra osservazione. "Fra mezz'ora," mi disse, "al buffet; il conte vi ha dato appuntamento ad un suo amico che parte per Parigi col primo treno. Sono le quattro; hanno ordinato la carrozza per le cinque; sono certo di non mancare." Mi toccò appena la mano, ed uscì. *** Egli mi aveva rovesciata addosso quella narrazione come una valanga, tutta di un fiato, quasi fosse stato uno sfogo supremo e disperato, con parole rotte, con frasi smozzicate, con accenti che solo il cuore sa metter fuori, e cui solo lo sguardo sa dare un significato. Io non potrei accennare la millesima parte dell'impressione che faceva quella dolorosa frenesia, irrompente, concitata e febbrile di un uomo col piede diggià nella fossa, che gemeva, si contorceva ed urlava nel suono della voce, nel tremito delle labbra, nelle lagrime degli occhi, mentre la folla delle maschere urlava anch'essa ebbra di vino e di musica rimbombante. Tutto ciò mi saliva alla testa, mi ubbriacava. Ero rimasto attonito, quasi annichilito dinanzi a quella tempesta del cuore, come dinanzi ad una tempesta degli elementi. Uscii dal palco dopo di Enrico, e lo cercai inutilmente pei corridoi, in platea, sul palcoscenico, da per tutto. Dov'era andato? Vidi l'elegante coppia che aveva attirati tutti gli sguardi dirigersi verso il buffet, e la seguii. Quella strana avventura mi aveva gettato in una singolare preoccupazione. Il trovatore si tolse la maschera; era veramente il conte Silvani, bel giovane, ricco, prodigo, coraggioso. Era l'ora in cui la stanchezza, o il caldo, o il vino, o la follia, fanno cadere tutte le maschere, ed anche Eva si tolse la sua. Aveva il viso rosso, volse in giro un'occhiata quasi timida; poi si assise di faccia al suo compagno. Lo sciampagna spumeggiava nei bicchieri, gli occhi brillavano, e l'eguaglianza sociale regnava in un modo che mai democrazia al mondo ha sognato possibile. A poco a poco vidi radunarsi nella sala tutti quei giovanotti che si erano trovati impegnati, senza saper come, in quella bizzarra scommessa. Si guardavano attorno con curiosità, sorridevano, e si parlavano a bassa voce. Di quando in quando Eva volgeva uno sguardo sulla folla che andava e veniva dall'uscio, e poi tornava a ridere e a parlare col conte. La mezz'ora suonava. Io tenevo gli occhi fissi su di Eva, e tutt'a un tratto la vidi impallidire lievemente, chinarsi all'orecchio del conte e dirgli qualche parola; questi sorrise e accennò negativamente; prese il bicchiere di lei, e lo riempì di sciampagna. Seguii la direzione degli occhi della donna, straordinariamente spalancati, e vidi Enrico, che si teneva sulla soglia, senza maschera, con certa faccia pallida di malaugurio che gli dava l'aspetto di un cadavere. Non so perché - non conoscevo, direi, costui che da due ore - ma il cuore mi batté forte. Infatti vi dovea essere veramente qualcosa di straordinario nel suo aspetto, poiché tutti lo guardarono in un certo modo come di sorpresa. Anche il conte si volse a guardarlo, vedendo che tutti lo guardavano, e sorrise. "Tò! ancora quell'originale!" Enrico gli si avvicinò con tutta calma, e si tolse il berretto con comica serietà. "Ti diverti?" gli disse sorridendo il conte per dire qualche cosa, giacché quel saluto gli avea tirato addosso l'attenzione generale. "Sì! in fede mia, si! quando ti vedo mi diverto." "Mi conosci?" "Diavolo! Chi non ti conosce!" "Bevi alla mia salute, dunque", gli disse porgendogli il bicchiere spumeggiante. "In coscienza non posso; ché tu stai molto male!" "Ah! ah! una delle solite facezie!" sghignazzò il conte rivolto ad Eva. "Adesso ci dirà i nostri segreti!" Io guardai Eva e la vidi pallida come cera. "Oh! oh!" rispose Enrico ridendo come avrebbe potuto ridere uno spettro se gli spettri potessero ridere; "il segreto di pulcinella!" Il conte sembrò imbarazzato per un istante; ma non era uomo da darsi per vinto alla prima, e replicò: "Sapevo la tua risposta: è vecchia come il tuo travestimento." "Da arlecchino d'onore, no! Anzi, per provarti che non sono un ciarlatano, ti dirò quelli di lei" e accennò ad Eva. "Non i segreti del suo cuore, poiché non ne ha; ma posso dirti quelli della sua vita." Eva fece un movimento per alzarsi, quasi avesse perduta la testa, e agitò due o tre volte le labbra pallide senza poter parlare. Attorno a quel gruppo si era formato un cerchio di curiosi, di cui il centro era occupato da quei due uomini che sorridevano. Ci fu un istante di silenzio. Evidentemente il conte avrebbe fatto a meno di quella lotta di frizzi, ma come trarsi indietro? Enrico gli sorrideva sempre, col suo viso cadaverico e gli occhi luccicanti come quelli di un fantasma. "Ah! davvero? E come lo sai?" disse il conte con uno sforzo d'audacia, perché era imbarazzato egli medesimo del suo silenzio. Enrico appoggiò ambe le mani sul marmo del tavolino, si chinò verso di lui sin quasi a soffiargli in faccia le parole, e rispose lentamente: "Lo so, perché sono stato l'amante della tua amante." Nell'occhio del conte passò un lampo, e le sue labbra si contrassero sforzandosi di sorridere ancora. Sembrò ondeggiare un istante sul partito da prendere, e istintivamente volse attorno uno sguardo furtivo e lo fermò su di Eva. Ella era pallidissima, avea le labbra livide e l'occhio smarrito quasi stesse per svenire. Tutti quegli occhi che si fissavano sul conte sembrarono raddoppiare il sangue freddo di lui. Egli esitò un solo momento; poi alzò il bicchiere ricolmo all'altezza del naso di Enrico ed esclamò: "Alla salute dei tuoi amori passati dunque!" e vuotò il bicchiere d'un fiato. Ci fu uno scoppio di applausi. "Bravo!" disse anche Enrico. "Sei un uomo di spirito!" "Grazie!" "Io lo sapevo, e perciò ho fatto la scommessa." "Davvero?" "Sì, ho scommesso che avrei dato un bacio alla tua amante, e che tu non l'avresti avuta a male." "Eh, caro mio! Scommessa arrischiata!" rispose il conte che cominciava a farsi serio. "Ohibò! Sei un uomo ammodo! Guarda!..." E senza precipitazione, con quella calma che non l'aveva abbandonato un solo istante, si chinò su di Eva, la quale era quasi fuori di sé, e non si aspettava certamente quell'eccesso di follia, e la baciò sulla guancia. Il conte si rizzò come un fulmine, e gli applicò un sonoro schiaffo. "Oh, oh" esclamò Enrico senza scomporsi, sorridendo ancora del suo lugubre riso, e passandosi la manica sulla guancia rossa. "Vedi che avevo ragione di non bere alla tua salute." *** Le condizioni del duello furono stabilite quasi subito fra due amici del conte e due dei giovanotti che avevano impegnato la scommessa con Enrico. Silvani era partito. Io accompagnai il mio amico che sembrava diventato un altro, indifferente a tutto, anzi un po' inebetito come quando girava fra la calca del veglione. I suoi occhi luccicavano da pazzo: era la sola manifestazione di quello che dovea chiudersi in petto. Passando attraverso la ridda frenetica dei ballerini e delle maschere sorrideva in modo strano; e un momento si fermò a guardare come uno sfaccendato che si balocca con la sua spensieratezza. - Quella musica, quell'allegria scapigliata e quell'uomo che guardava sorridendo, mi stringevano il cuore. Allorché fummo in carrozza, m'accorsi che Enrico tremava come chi è colto da febbre. Volli dargli il mio paletò; lo rifiutò. "Non occorre;" mi disse, "fa caldo." "Hai la febbre!" "Lo so. Son parecchi mesi che l'ho tutte le sere ... Passerà." E rideva. Era ancora buio. Nella notte era caduta molta neve che imbiancava le strade e i tetti sicché la carrozza vi correva sopra senza far rumore, come se facessimo un viaggio fantastico. Lasciammo il legno al piazzale delle Cascine, e ci mettemmo a piedi per un lungo viale. L'aria era frizzante; i primi chiarori dell'alba imbiancavano debolmente il cielo attraverso l'incrociarsi dei rami inargentati dalla neve; una sfumatura opalina si disegnava in fondo al viale sull'orizzonte, e il viale stesso appariva come una lunga striscia candida su cui risaltava, ad una certa distanza, un'ombra indistinta che si avvicinava senza far rumore, facendo tremolare due fiammelle rossigne ai due lati. L'alba si era fatta più chiara quando il conte e i suoi testimoni ci raggiunsero. Erano avvolti nei loro mantelli e avevano il sigaro in bocca. Ci fu uno scambio generale di saluti fatti in silenzio. Quei due uomini si guardarono senza batter ciglio, quasi non si fossero conosciuti mai. Gli uccelli cominciavano a pispigliare, e un raggio indorato corse come una freccia sui rami più alti. Il conte accese un'altra sigaretta mentre si compivano le formalità preliminari, ed uno dei testimoni alzò il naso verso il cielo dicendo: "Sarà una bella giornata." Poscia tutti i sigari si spensero, e tutti i volti assunsero la maschera di circostanza. Enrico si tolse l'abito e lo piegò accuratamente; vi sovrappose il cappello, rimboccò le maniche della camicia sino al gomito, prese la spada che gli presentavano, la piegò in tutti i sensi sulla punta del piede, e frustò l'aria con essa. Successe un istante di silenzio. Poi si udì una voce: "A voi, signori!". E le due lame scintillarono. Ho ancora dinanzi agli occhi quel triste spettacolo. Enrico avea la guardia un po' spavalda, ma ferma come il bronzo, che gli spagnoli ci hanno lasciato a noi del mezzogiorno; sembrava tutto d'un pezzo dalla punta della spada alla punta del piede, e parava con un semplice movimento del pugno. Il conte era bravo spadaccino, snello, agile, nervoso; la spada gli guizzava fra le mani come un baleno, cavando e ricavando colla rapidità di un mulinello; si raccorciava, si nascondeva quasi sul fianco, e vibravasi improvvisamente come un giavellotto a spuntarsi su quei pochi centimetri di coccia, dietro alla quale Enrico riparavasi come dietro ad uno scudo che coprisse tutta la sua persona. Dopo alcuni istanti il conte ruppe di un passo, e si rimise in guardia come per vedere con chi avesse a che fare. Due o tre minuti rimasero immobili, con il ferro sul ferro, gli occhi negli occhi, l'odio che si scontrava con l'odio. Enrico ritirò la sua spada facendola strisciare lento lento su quella dell'avversario con un movimento felino. Parve che un fremito si fosse comunicato dal suo ferro a tutto il suo corpo, ed assaltò bruscamente. A un tratto si piegò come un arco colla rapidità del lampo, ed io che gli stavo alle spalle vidi luccicare la punta della spada nemica dall'altra parte del suo petto. "Alto!" gridarono i secondi, mettendo la spada fra i duellanti. "Non è nulla!" disse Enrico scoprendosi il petto. "È una scalfittura." Il ferro però aveva fatto quel che avea potuto, e aveva portato via quello che aveva incontrato. Una striscia di carne lacerata solcava il petto di Enrico e la camicia, ch'era stata meno lesta di lui, era stata bucata netta. Il chirurgo - un nostro carissimo amico, molto conosciuto a Mentana come il dottore dal cappello bianco - esaminò la ferita; era infatti orribile a vedersi, ma non era grave, e quei signori potevano ancora seguitare a bucarsi la pelle. "Diavolo!" esclamò Enrico. "Non credevo che ci fosse ancora tanta carne nelle mia ossa." Il dottore voleva fasciargli la ferita. "No," egli rispose; "il signore ha diritto di aver nudo il suo bersaglio." Il conte s'inchinò. Non c'era che dire, quei due bravi giovanotti si scannavano da perfetti gentiluomini Tornarono a mettersi in guardia; ma stavolta erano pallidi entrambi di un pallore sinistro. Lo scherzo di buona società cominciava a farsi serio. Enrico sentiva al certo che non aveva tempo da perdere, perché il sangue gli scorreva fra le dita della mano che si teneva sulla ferita, e la mano e la camicia gli si erano fatte rosse. Si vedeva una terribile tensione in tutta la sua persona, nell'occhio intento, nei movimenti nervosi, nel garretto saldo, nel corpo piegato all'indietro: sembrava una molla d'acciaio che stia per scattare. Il conte l'assaliva colla furia di chi capisce d'avere a che fare con un temibile avversario, e sente di dover uccidere per non essere ucciso. Tutt'a un tratto si vide una striscia di luce correre e serpeggiare come una biscia sulla spada del conte, Enrico andare a fondo tutto d'un pezzo, e saltare indietro levando in alto la spada. Il conte portò vivamente la sinistra sul petto, stralunò gli occhi, abbandonò la guardia e si appoggiò un istante alla spada che si piegò sotto il suo peso; poscia barcollò e cadde su un ginocchio. Tutti si precipitarono su di lui. Enrico si fece ancora più pallido, e lo guardò cogli occhi di un mentecatto. Il dottore dal cappello bianco s'inginocchiò presso del conte, mentre uno dei suoi secondi gli teneva il capo sui ginocchi, e gli aprì la camicia. La ferita non doveva essere grave; era appena visibile, fra la terza e la quarta costola, e mandava pochissimo sangue. Sembrava davvero una cosa da nulla. Il dottore non ebbe bisogno che di una sola occhiata, per ordinare, con quell'accento che hanno soltanto i medici in certe occasioni, rialzandosi bruscamente: "La carrozza! presto, la carrozza!" *** Passarono alcuni mesi senza che io più rivedessi Enrico Lanti. Ero tornato in Sicilia, ma non ne avevo avuto più notizia. Un mattino, verso gli ultimi di ottobre, mi fu recapitata da un contadino una lettera urgente in Sant'Agata-li-Battiati, ove mi trovavo. Il carattere di quella lettera che veniva a cercarmi con urgenza mi era assolutamente sconosciuto, e sembrava tracciato con mano tremante. Però non ci volle molto per correre alla firma, giacché la lettera era brevissima; era di Enrico Lanti e diceva: " Amico mio, vorrei vederti, e siccome me ne rimane pochissimo tempo ti prego di affrettarti, se vuoi rendermi quest'ultimo servigio. " Mi misi in viaggio immediatamente, facendomi guidare dal contadino che aveva recato la lettera. Fuori Aci Sant'Antonio, dopo un cinque minuti di corsa per quella bella strada che svolge agli occhi del viandante l'incantevole panorama della vallata di Aci, tutta seminata di ville e di villaggi, fra le vigne e i boschi di aranci, sino al mare, la mia guida mi additò una casetta elevata su di un ciglione. Bisognò lasciare la carrozza e metterci per una viottola attraverso i campi. Alla svolta del sentiero mi si presentò la casa ridente ed ariosa, ornata di viti e di rosai, con una bella spianata sul davanti, e due magnifici castagni che le facevano ombra. Sotto un di quegli alberi c'era una poltrona colla spalliera appoggiata al tronco; un mucchio di guanciali le dava l'aspetto doloroso che hanno le poltrone degli infermi. Vidi una scarna e pallida figura quasi sepolta fra quei guanciali, e accanto alla poltrona un'altra figura canuta e veneranda - la madre accanto al figliuolo che moriva. Corsi a lui con una commozione che non sapevo padroneggiare. Com'egli mi vide mi sorrise di quel riso così dolce degli infermi, e fece un movimento per levarsi. Si vedeva diggià il cadavere: il naso affilato, le labbra sottili e pallide, l'occhio incavernato. Lo tenni stretto fra le mie braccia, ed egli mi baciò più volte; quel bacio era caldo di febbre; tutta la sua epidermide era riarsa, e l'anelito frequente ed affannoso gli si sprigionava dal petto con un sibilo. Sedetti di faccia a lui. Egli non volle abbandonare le mie mani, e cercava di sorridermi ancora quantunque dovesse molto soffrire, a giudicarne dalla contrazione dei suoi lineamenti, che di tratto in tratto non poteva dissimulare. "Grazie!" mi disse tutto commosso. "Tu almeno non mi hai dimenticato!" Tacque subito, sopraffatto da un violento scoppio di tosse, che, ahimé!, non ebbe neanche la forza di prorompere, ma si contentò di lacerare quel povero petto, facendolo sobbalzare convulsivamente. Poi si abbandonò sui cuscini cogli occhi chiusi, sfinito. Quali occhi! Le palpebre nerastre si affondavano nell'occhiaia incavata, e quando si riaprivano scoprivano qualche cosa che parlava dell'altro mondo. Nell'impeto della tosse tutto quel poco sangue che gli rimaneva sembrava correre, con rossori fuggitivi, sulla mortale pallidezza delle gote; poscia quella pallidezza si faceva più mortale ancora. La madre teneva abbracciati i cuscini dove si perdeva quasi il corpo del figlio, e guardava quelle sembianze adorate, ove la morte sbatteva diggià la sua livida ala, con l'occhio asciutto, quasi il cuore avesse bevuto tutte le sue lagrime. Feci un movimento per alzarmi. Egli che possedeva la squisita percezione di tutto ciò che si faceva vicino a lui, come l'hanno i moribondi di quel male, mi strinse le mani, senza riaprir gli occhi, e mi fece cenno di non muovermi. Dopo qualche secondo volse lentamente il capo, e fissò un lungo sguardo negli occhi di sua madre. Negli occhi della madre e in quelli del figlio non c'erano lagrime: c'era un silenzio che spezzava il cuore. "Mamma!" disse Enrico, e la sua voce fioca vibrava come una carezza in quella dolce parola. "Ecco il mio amico. Tu gli vuoi bene, non è vero?" La povera donna mi stese la mano, ed io la baciai religiosamente. "Dove sono gli altri" domandò Enrico con la curiosità inquieta, particolare al suo stato. "Tuo padre è andato ad accompagnare il medico, e l'Agatina è andata a coglierti una manata di gelsomini che ti piacciono tanto." "Il medico!..." mormorò il moribondo con accento che stringeva il cuore. Nessuno di noi ebbe il coraggio di rispondere. "Ti ho disturbato forse?" mi domandò dopo alcuni istanti. "Oh, no!" "Avevo bisogno di vederti ... e di parlarti." Mi fissò col suo sguardo espressivo e lucidissimo, e soggiunse: "Noi non fummo mai intimi; ma ci siamo incontrati in una tal epoca della mia vita che mi pare di non avere altri amici che te. Eppoi" e sorrise dolorosamente "ho diritto alla tua indulgenza ... come tutti quelli che se ne vanno verso quelli che rimangono ..." "Enrico!" esclamai stringendogli le mani con dolce rimprovero, e rivolgendo involontariamente uno sguardo alla madre di lui. Anch'egli rivolse su di lei quegli occhi che dopo alcuni secondi di angosciosa contemplazione gli si riempirono di lagrime. "Mamma!" le disse dopo una qualche esitazione, "non vorresti dire all'Agatina di fare anche un mazzolino pel nostro amico?" La povera madre si levò in silenzio, e si allontanò. Rimasti soli ci guardammo senza aprir bocca. Nessuno di noi due trovava la prima parola, e quel suo sguardo mi trafiggeva il cuore. "Io muoio!..." diss'egli finalmente, con un accento che non potrò mai dimenticare. "Lo vedi!..." Non potei frenare le lagrime, e gli strinsi la mano con forza. "Coraggio, povero amico mio!" "Credi dunque che mi rincresca di morire?... Io non avrei bisogno di coraggio ... se non fosse per quei poveri vecchi che mi spezzano il cuore!" I suoi occhi, dove soltanto sembrava essersi raccolta la vita, luccicavano di lagrime, mentre li volgeva su tanto sorriso di cielo, su tanto azzurro di mare, su tanto verde di giardini che gli stava attorno. Il suo cuore d'artista, che possedeva la squisita suscettibilità d'idealizzare quelle impressioni dei sensi, doveva grondar sangue parlando di morte fra tante ricchezze di vita. Non ebbe più a lungo la forza di dissimulare l'angoscia che doveva lacerarlo a quelle parole, e mormorò con un sospiro a stento represso: "Com'è bello tutto ciò!... Io solo posso sentirlo in quest'ora ..." Rimanemmo qualche tempo in silenzio. "L'hai veduta?" mi domandò tutt'a un tratto, come se non ci vedessimo soltanto da pochi giorni, o come se seguitasse un discorso incominciato. "No!" risposi con ripugnanza, poiché il ricordo di tal donna mi pareva una profanazione in quel momento. Egli capì, e sorrise ironicamente. "Ah! voi altri puritani!... come siete sciocchi!" Aprì la camicia sul petto per cercarvi un pacchetto di carte. Le ossa sembravano forargli la pelle gialla e arida come cartapecora. "Guardala!" mi disse trionfante, svolgendo da quelle carte una piccola miniatura, "e dimmi se il vostro puritanismo vale il suo sorriso!" Quel disgraziato, diggià per tre quarti cadavere, faceva un ultimo sforzo onde delirare per quella donna che gli sorrideva ancora nel ritratto, e che non si ricordava più di averlo amato. "Quando sarai al punto in cui sono," mi disse Enrico, "o quando sarai vecchio, il che è peggio, maledirai la tua saviezza che ti ha fatto insensibile alla luce, ai profumi, alle dolcezze della giovinezza!..." E c'era tanto calore nel paradosso di quel moribondo che lo rendeva, direi, solenne. "Oh, povero amico mio! Interroga la tua coscienza, interrogala senza rimpianti e senza collera, e non dirai più così." "Che m'importa!" saltò su Enrico con tal impeto quasi un serpe l'avesse morsicato. "Che m'importa della coscienza, e di tutti quei fantasmi che voi altri avete creato a furia di paroloni! Che m'importa del vero e del falso!... Ho tempo di perderci la testa, io?... e neanche voi altri ce l'avete ... voi che m'isterilite il cuore mentre la giovinezza fugge come un lampo! Tu, vedi, sei giovane, sano, forte ... tu mi guardi forse con maggior sorpresa che compassione, e domandi a te stesso come mai sia possibile che la vitalità che senti in te rigogliosa e robusta possa giungere a tanta miseria di deperimento ... Eppure, vedi! Tutta cotesta robustezza, tutta cotesta forza ... un soffio ... e se ne vanno!... E l'uomo ... l'uomo che sente dentro di sé ancora tutto questo inesplicabile mistero di desideri, di speranze, di gioie e di dolori, che la malattia non ha né indebolito, né ucciso, l'uomo che lo sente più forte e tumultuoso per quanto più infiacchiscono le sue forze, domanderà a se stesso, come te, cosa sia dunque questa vita, e questa incognita che chiamano cuore!... Chi lo può dire?... Nessuno. E se nessuno lo sa, chi può dargli torto o ragione?" Tacque anelante, rifinito al pari di un uomo che abbia fatto una lunga corsa; e dopo un triste silenzio ripigliò con esaltazione morbosa: "Ho visto tante mostruosità rispettate, tante bassezze cui si fa di cappello, tante contraddizioni di quello che chiamate senso morale, che non so più dove stia la verità. Tu che mi parli di gioie false dimmi quali sieno le vere: quelle che costano più lagrime, o quelle che lasciano più rimorsi? - O perché rimorsi? – Qual è l'amor vero, quello che muore, o quello che uccide? - E qual è la donna più degna di amore, la più casta, o la più seducente? - dov'è l'infamia? nella donna che ama per vivere, o nell'uomo che vive per godere? - o che tiene il sacco dell'adulterio colla complicità del silenzio - o che gli s'inchina quando lo vede passare in carrozza? Chi sentenzia del bene e del male? Il mondo! Che cos'è? Quali sono i suoi diritti? - e non mentisce? - e non s'inganna? - e non è ipocrita? o non ha altra scienza che quella di negare? - e quell'altra di biasimare?" Si arrestava di quando in quando, e agitava la testa sul cuscino come se i pensieri che gli martellavano il cervello non potessero più irrompere. La parola gli usciva rotta, a sibili, a rantoli: era uno spettacolo straziante. "I pazzi son più felici di voi" e ripeté due o tre volte questa frase. "Se vivete di menzogne, se non avete di certo che le illusioni, perché le maledite quando son belle?... Voi altri savi ... che vi affannate dietro ad illusioni che non raggiungerete giammai ... o che sconfesserete quando le avrete raggiunte, chiamate pazzo colui che si vive beato nelle sue illusioni!... il pazzo come vi chiamerà, voi altri savi?" "E l'arte ..." soggiunse dopo poco, "Menzogna anch'essa!... Menzogna ... o illusione!" Dopo coteste parole stette a lungo in silenzio, cogli occhi chiusi come se la vita l'avesse abbandonato intieramente. Era un lugubre silenzio. Poscia fissandomi in volto uno sguardo relativamente calmo, e dove c'era una tinta di sorpresa: "È strano!" mormorò; "mi pareva che avessi bisogno di parlare di lei ... e che tu mi dicessi che ella ti ha parlato di me ... Ora non lo desidero più ... Ho pensato ad Eva ... e alla mia giovinezza ... e li ho veduti lontan lontano ... Sarà perché sono stanco!" E dopo un altro silenzio: "Posso contare le ore che mi restano di vita, posso dire: Domani ... fra due giorni ... quando quel bel sole farà scintillare l'immensa pianura d'acqua che si stende laggiù, e colorirà del suo bell'azzurro questo cielo ... quando lo stesso albero getterà la stessa ombra sulla mia povera casa, e quegli uccelli schiamazzeranno fra le foglie ... io sarò morto ... non vedrò e non sentirò più nulla ... nemmeno i pianti desolati dei miei genitori che mi chiameranno ... Che rimarrà di me? di tutta cotesta confusione di pensiero che sento in così fragile involucro?... Non lo so! nessuno me lo sa dire! Ciò è ben triste!... Non è vero?" Volse gli occhi lentamente, con stanchezza, su tutto l'orizzonte che lo circondava, e con una certa inesprimibile amarezza: "La vita!..." mormorò chiudendo gli occhi di nuovo, come se quella vista l'affaticasse, o gli lacerasse l'anima, e dopo una lunga esitazione: "Sì! sì ... c'è qualche cosa di vero nell'arte!..." Il dolore m'opprimeva. Non sapevo far altro che stringere fra le mie quelle povere mani scarne. "Tu non muori, tu!" mi disse egli con una sublime e lacerante ingenuità "e forse la vedrai! Prendi" soggiunse dopo qualche secondo d'esitazione consegnandomi quel pacchetto che non aveva abbandonato. "Se mai la rivedrai un giorno ... se si rammenterà di me ... dagliele ... Se no ... fanne quello che vuoi ... bruciale ... Domani forse sarò morto, e mia madre, e mia sorella ... non devono vederle ..." Ed esitò ancora lungamente prima di darmi il ritratto. In questo momento si udirono le voci dei suoi parenti che si avvicinavano. "Maledetta!" esclamò trasalendo e buttando il ritratto per terra. "Maledetta! Menzogna infame che mi hai rubato la felicità vera! Maledetta! E maledetta anche te, arte bugiarda che c'inebbrii con tutte le follie! Maledetta!" Un accesso di tosse sembrò soffocarlo; il corpo era troppo debole; ma lo spasimo lo faceva sollevare sulla poltrona, agitando le braccia smaniosamente; e tentava quasi colle mani contratte di strapparsi dalla bocca e dal petto quel dolore insoffribile. In quel momento temei sul serio che mi morisse tra le braccia. Allorché sopraggiunsero i suoi parenti era abbandonato sui cuscini, con un soffio di vita sulle labbra, cogli occhi fissi e le lagrime che gli rigavano le guance. Qual più doloroso spettacolo di persone che si adoperano, che hanno la terribile certezza di doversi separare per sempre, che hanno il cuore a brani pel dolore, e che devono nasconderselo reciprocamente! Nella madre quel dolore era sovrumano, ma rassegnato, quasi sacro; nel padre era cupo e profondo; nell'ingenua e candida giovinetta era meno dissimulato, ma anche meno vivo, forse perché a quell'età non si crede giammai intieramente alla sventura. "Eccoti i tuoi gelsomini, Enrico!" diss'ella scuotendo il suo grembialino sulle ginocchia del fratello. "Ed ecco per lei ..." aggiunse arrossendo con un grazioso sorriso e inchinandosi con bel garbo. La ringraziai, commosso al vivo. Il desolato genitore venne a stringermi la mano. Vidi la madre che si chinava sui cuscini del figliuolo e gli diceva qualche parola all'orecchio. Dal triste sorriso con cui il figlio rispose indovinai che gli aveva domandato come si sentisse - quella dolorosa domanda che si ripete più spesso quanto minori sono le speranze di avere una risposta rassicurante. Il padre che aveva lasciato il medico pochi momenti prima, non ebbe il coraggio di domandargli. Lo sguardo intelligente del moribondo si affissava con indefinibile espressione sui suoi cari, come se volesse saziarsi della felicità di vederseli accanto mentre sentiva l'angoscia di allontanarsene sempre più ogni secondo. "Perché mi lasci così spesso?" diss'egli al padre con accento che spezzava il cuore, stendendogli la mano che ricadde senza forza. "Accompagnai il dottore, figliuol mio ..." rispose il povero vecchio facendo sforzi sovrumani per dissimulare le sue lagrime. "Ah! ... il dottore!..." esclamò l'ammalato stringendosi nelle spalle. Nessuno osò aprir bocca. Mi alzai, poiché non mi sentivo le forze di assistere più a lungo a quello spettacolo, e perché mi sembrava di dover rispettare il pudore di quelle angosce. "Te ne vai diggià?" diss'egli stendendomi la mano. "Si." "Verrai domani?" "Verrò." Credeva ancora al domani! "Domani!..." esclamò quindi tristamente. "Chi lo sa?... Ad ogni modo," soggiunse stringendomi le mani, "baciamoci ... come due amici che si lasciano per lungo tempo ..." Quel bacio caldo, in cui si sentiva già l'anelito del moribondo, mi trafisse il cuore. Egli mi seguì con quello sguardo che strappava le lagrime finché svoltai l'angolo della viottola. Il padre suo insisteva per accompagnarmi sino allo stradale. Mi parve un delitto rapirgli quegli ultimi e solenni momenti che poteva passare ancora presso il figlio che la morte gli rapiva. Partii addolorato profondamente. Tutta la notte non potei dormire. Sembravami di sentire al mio capezzale il rantolo di quel moribondo, e di vedermi dinanzi agli occhi quello sguardo e quel sorriso nuotanti nell'agonia. Il giorno dopo, di buon mattino, ritornai ad Aci Sant'Antonio. Sulla strada di Valverde incontrai i contadino che mi avea recato la lettera di Enrico il giorno innanzi. Lessi tutta la verità nell'occhiata che egli mi volse, e l'interrogai col solo sguardo. "All'alba!" mi rispose levandosi il cappello e segnandosi. Ordinai al cocchiere di tornare indietro; mi buttai in fondo alla carrozza, e piansi. FINE.

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