Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbellite

Numero di risultati: 5 in 1 pagine

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Scultura e pittura d'oggi. Ricerche

266155
Boito, Camillo 1 occorrenze
  • 1877
  • Fratelli Bocca
  • Roma-Torino- Firenze
  • critica d'arte
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Per i riti della religione cristiana sarebbero bastati i portici nudi di un nartex, due file di colonne che con due pareti parallele formassero tre navi, i tre tetti di legno, le transenne di legno, gli amboni di legno e il ciborio; ma, come nelle catacombe fu sentito sino dal principio il desiderio di vedervi dipinti ornati e figure, così le basiliche si vollero ben presto abbellite di mosaici, incrostate di marmi, poi coperte di vôlte e di cupole, poi riempiute di statue, di bronzi, di ori, di pietre preziose, invocando dall’architettura e dalle sorelle di lei nuove forme e nuovi splendori. Ecco l'arte. E le terme degli antichi, e i teatri, e gli anfiteatri, ed i circhi, e gli archi trionfali: bisogni materiali assai semplici e bisogni ideali assai gagliardi.

Pagina 222

L'arte di utilizzare gli avanzi della mensa

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Guerrini, Olindo 1 occorrenze

Abbellite con qualche ortaggio rimasto, spinaci, patate ecc.

Pagina 181

Manuale pratico di cucina, pasticceria e credenza per l'uso di famiglia

323020
Lazzari Turco, Giulia 1 occorrenze
  • 1904
  • Tipografia Emiliana
  • Venezia
  • cucina
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Se v'aggrada invece di servirli coi gusci chiudete prima un foro poi anche l’ altro con una carta d'oro in forma di stella o d'altro, e abbellite il rimanente del guscio con ornati dipinti o altre figure di carta.

Pagina 558

Teresa

678448
Neera 1 occorrenze
  • 1897
  • CASA EDITRICE GALLI
  • prosa letteraria
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Era questo uno stanzino piccolo, con le mura imbiancate a calce, abbellite da spugnature in tinta azzurrina, sotto un cornicione color cioccolata. La piú assoluta semplicità nell'arredamento non andava scompagnata da una certa burocratica importanza che si rivelava principalmente in una scansia piena di carte d'ufficio, chiusa, se non riparata, da un graticcio di fili di ferro; alla quale faceva riscontro una piccola libreria, un po' tarlata, con qualche vetro rotto, e mobigliata a metà di libri vecchi, disposti in bell'ordine. Addossato al muro, per non impedire troppo il passaggio, un tavolaccio carico di carte scritte e stampate con un calamaio d'osso nero nel mezzo, due penne e gli occhiali dell'esattore. Sopra, il ritratto del re. Quattro sedie coperte di pelle scura completavano il mobiglio, oltre il seggiolone vecchio in forma di biga romana, dove il signor Caccia troneggiava, spesso burbanzoso, imponente sempre. All'infuori dei contribuenti che venivano, nelle ore fisse, a pagare le loro tasse nelle mani dell'esattore - e che egli accoglieva colla superiorità di modi di un ministro - poche persone, e mai inutilmente, entravano nello studio. La signora Soave, al mattino, per mettere un po' d'ordine, timidamente, usando precauzioni infinite, onde non smuovere nessuna carta, e non cambiare, neppure di un millimetro, il posto del calamaio. Teresina, alle quattro precise, schiudendo l'uscio solamente per metà, coi piedi fuori, dicendo: - È in tavola. - Carlino, quello due ore tutti i giorni, quando veniva a casa dal ginnasio, con tutti i suoi libri latini e le sue grammatiche. Faceva i compiti sotto l'occhio severo del padre, obbligato ad una perfetta immobilità, faccia a faccia colla libreria, i volumi della quale egli conosceva tutti, pel cartone. Colla testa fra le mani, meditando dolorosamente Virgilio e Cicerone, egli figgeva gli occhi su quei libri allineati, immobili, sempre gli stessi: La Divina commedia, Orlando furioso, La Gerusalemme liberata - tutti legati in pelle rossa - un dizionario delle favole in carta pecora, altri due o tre dizionari - Nicolò de Lapi il Cimitero della Maddalena, Le notti di Young, Botta Storia d'Italia uno scaffale intero, quest'ultimo, diciotto volumetti color cece, non legati. C'erano ancora, negli angoli, delle strenne, degli almanacchi, due o tre volumi scompagnati di Walter Scott, i Rimedi sicuri contro ogni specie di insetti ma Carlino non vedeva che quei primi, augusti, seri, che contenevano, a detta di suo padre, una quantità grande dello scibile umano; e gli incombevano, nelle ore penose de' suoi compiti, quasi una minaccia continua, l'obbligo di diventare anche lui un grand'uomo, di scrivere diciotto volumi, come il Botta, o una raccolta così straordinaria di versi tutti fitti come nell' Orlando Il signor Caccia, pieno di sussiego, inarcando i sopraccigli, stava a guardare il suo unico maschio, il rampollo che doveva trasmettere alle future generazioni l'ingegno dei Caccia, rimasto fino allora sconosciuto. Egli era persuasissimo che, obbligando Carlino a studiare, Carlino avrebbe studiato; che, obbligandolo a capire, avrebbe capito; che, obbligandolo a pensare, avrebbe pensato. E gli stava al pelo, assiduamente, rigorosamente, terrorizzandolo co' suoi occhiacciacci e colla sua voce sgarbata di falsetto, facendogli entrare il latino a furia di scappellotti. Il ragazzo che a spinte era arrivato alla quarta, procedeva come succede talvolta, a qualcuno, trovandosi in mezzo alla folla, di non camminare colle proprie gambe, ma di lasciarsi portare dalla massa; e studiava, studiava, stringendosi colle mani la zucca, finché il terribile babbo lo stava guardando - salvo a prendersi poi la rivincita, fuori, nelle vie solitarie coperte d'erba, dove i suoi compagni lo aspettavano, bighellonando, nelle ore tiepide del meriggio; e sull'argine, verso i boschi, dove la riva digrada a filo d'acqua, dove crescono abbondanti i cespugli delle more sotto l'ombra lunga dei pioppi. Dirimpetto allo studiolo nel quale Carlino compiva il suo tirocinio forzato di genio in erba, dall'altra parte dell'andito, si apriva una gran camera bislunga, scura e triste, il gineceo della famiglia; lì stavano le donne a cucire, a ripassare il bucato, a fare i conti della spesa giornaliera; vi si pranzava anche, e si passavano le sere d'inverno, intorno a una vecchia lucerna ad olio, accomodata per uso di petrolio. Il mobiglio, poco su poco giù, somigliava a quello dello studiolo; invece della libreria, un armadione di legno bianco, un cantonale, dove si riponeva il pane e i cibi avanzati, la tavola nel mezzo, un piccolo divano incomodo, angoloso, duro come un macigno, parecchie sedie di differenti forme e colori, di cui una molto bassa collocata sopra un gradino di legno nel vano della finestra. Ciò che dominava e schiacciava questo modesto arredamento borghese, era un gran quadro appeso alla parete maggiore; quadro massiccio, dello spessore di un palmo, entro cui si nascondevano i segreti di una meccanica ingenua, destinata a mettere in moto contemporaneamente le braccia di un mulino a vento, l'asinello del mugnaio e l'orologio incastonato nel campanile. Orologio e asinello erano fermi da gran tempo, ma il mulino continuava ad agitare, come un fantasma irrequieto, le sue scarne braccia in mezzo agli alberi di cartone dipinto, che formavano lo sfondo del paesaggio. Come decoro volante, calze incominciate, gomitoli, fascie distese, giocattoli usati, quaderni, panierini. La signora Soave allattava la piccina, stando seduta sul divano, con uno sgabello sotto ai piedi; pallida sempre, disfatta dalla sua recente maternità. Teresina andava e veniva colla pappa, colle vesticciuole, portando ordini e contro ordini alla serva in cucina. Quando poteva riposare un momento, si metteva sulla seggioletta in alto del gradino, e lavorava ancora. La madre la guardava, intenerita, struggendosi dietro quella sua figliuola così buona. Chi sa se sarebbe fortunata! - almeno fortunata piú di lei… Quando era assalita da questi pensieri, la signora Soave chinava gli occhi sul seno magro, da cui pendeva un'altra bambina ancora, e si faceva vieppiú triste. Difficilmente il signor Caccia entrava nel gineceo, e se per caso appariva, sembrava sospendersi subito quella dolce intimità di madre e figlia. Entrambe lo guardavano, attente, paurose di vederlo di cattivo umore, pronte ad obbedirlo ne' suoi minimi cenni. Partito lui, la madre riprendeva la sua calma melanconica, contemplativa, e Teresina, nella felice serenità dei quindici anni, trovandosi sollevata da un incubo, sorrideva. Carlino faceva delle irruzioni tempestose, spaventando sua madre, mettendo a prova la pazienza della sorella, gettando a soqquadro i gomitoli, baccanone irriflessivo, toccando tutto colle sue mani sudicie di monello e di scolaro imbrattacarte. La pace finiva del tutto col ritorno delle gemelle dalla scuola. Allora erano liti sicure. La signora Soave vi perdeva gli ultimi avanzi d'energia, sollevando al cielo gli occhi neri, opachi, incrociandosi sul seno lo sciallino di lana bigia, con un movimento scorato. Durava la ribellione fino all'ora del desinare; fino a che il signor Caccia, sedendo a mensa, girava intorno quegli sguardi feroci che incutevano terrore a tutta la famiglia. Dopo, alla sera, quando l'esattore andava al Caffè di piazza a leggere i giornali, lo schiamazzo ricominciava fra Carlino e le gemelle, aiutato dai vagiti lamentosi della poppante, rotto dalle supplicazioni di Teresina e dai gemiti della signora Soave. Così tutti i giorni. Trascorse novembre. Alle nebbie grigie successe la neve, la folta neve che si addensava intatta nella via, coprendo l'erba, coprendo i sassi, smorzando i passi dei rarissimi viandanti; la neve bianca che gravava sui tetti, gettando intorno un riflesso fastidioso; l'eterna, instancabile neve che scendeva lenta, eguale, senza posa; tanto fitta, qualche volta, che sembrava una cortina davanti alle finestre. Allora il salotto dei Caccia diventava ancor piú buio; Teresina era obbligata a stare in piedi sul gradino di legno, colle tendine alzate, la fronte appiccicata sui vetri, cucendo rapidamente nelle ore brevi del giorno. Stanca, di tratto in tratto sollevava gli occhi e guardava nella via, dirimpetto a lei, il palazzo Varisi, ermeticamente chiuso, tutto nero, in mezzo alla neve. - Tralascia di lavorare; moviti un poco - diceva la madre. Ma dove muoversi? Fuori del salotto tutta la casa era di gelo; Teresina soffriva il freddo, aveva qualche screpolatura nelle mani; preferiva starsene nella sua triste nicchia, lavorando e guardando la neve. La voce interna della giovinezza non parlava ancora all'anima tranquilla. Teresina era calma e casta. Appena un sollevamento insensibile del petto, in certi momenti, un languore nella pupilla accennavano il leggero fermento che si formava a sua insaputa. Guardava allora piú intensamente il velo bianco che le stava davanti, e le alte muraglie e il cielo con una fissità prolungata e distratta che le faceva intravedere lontani orizzonti, indeterminati. Venne dicembre, colle sue feste, col movimento gaio della casa, colle solenni funzioni religiose; dicembre, il mese dei fanciulli, in cui le due gemelle acquistarono una puppattola nuova, che Carlino si incaricò subito di rompere, sotto pretesto di migliorarla. In dicembre pure, Ida, la piccina, fece mostra del suo primo dente. Gennaio spazzò la neve. Il sole brillava, ma il freddo era piú vivo che mai. Il signor Caccia avvertì che bisognava economizzare la legna, se si voleva giungere alla fine dell'inverno. In casa Portalupi c'era un movimento insolito. Le tre signorine andavano ai balli di casa Arese, una volta ogni quindici giorni; e grande era l'andirivieni delle cassette, delle scatole della piccola sarta che correva a provare e riprovare; mentre la sarta principale, da Cremona, faceva certe spedizioni misteriose, a grande velocità, e mandava pacchi di campioni. Le sere del ballo, Teresina spiava accanto alla finestra l'uscita del carrozzone, e figgendo lo sguardo negli sportelli, vedeva oggi un biancheggiamento di veli, domani un riflesso di raso azzurrino; ora il luccichio di una gemma, ora un guanto di pelle rosea morbidamente provocatore e la carrozza passava, pesante, rumorosa al trotto di due buoni cavalli romagnoli, lasciando negli occhi di Teresina il barbaglio luminoso di una visione. - Che sfoggio, eh? - disse una sera la moglie del pretore, che era una linguetta (veniva ogni sei o sette giorni, colla pezzuola in testa, da buona vicina, le sere che i suoi marmocchi si addormentavano presto): e soggiunse: - Vogliono proprio maritarli i loro tre scorpioncini. - È della seconda che si parlava, credo - obbiettò la signora Soave. - Per il sottoprefetto? Ma essi tentano di gabellargli la prima. La mia opinione è che non ne prende nessuna. Andare a fidarsi di questi meridionali! Io ci sono stata quattro anni laggiú, e li conosco. - Hanno una bella dote. - Almeno si dice; noi però, cara signora, non ci siamo maritate per la nostra dote, nevvero? La signora Soave incrociò il suo sciallino sul petto, quasi a nascondere i rimpianti che essa sola conosceva, e rispose: - Si fa quel che si può. - Sicuro, capisco, quando si hanno delle figlie da maritare ... le mie, per fortuna, sono ancora piccine. Lei no, che ha qui una ragazza grande fatta ... Guardò Teresina, la quale arrossí violentemente, e si sentì presa da una improvvisa vergogna. - Teresina è ancora giovane. - Sì, ma se le capitasse un buon partito?… - Tutto è destino - interruppe la signora Soave, gravemente, con quella inflessione lamentosa della voce, che andava compagna allo sguardo spento de' suoi occhi neri. E venne febbraio e venne marzo. La primavera non portava nessun cambiamento alle abitudini monotone della famiglia; ma si aprivano le finestre, e dalla via entrava un raggio di luce nuova, il rumore dei passi, il bisbiglio delle voci. Anche le finestre delle altre case si aprivano, scoprendo i tendoni di mussolino, insaldati di fresco: sui davanzali sporgevano i vasi di fiori tenuti chiusi per il freddo; rami secchi di geranio, fusti polverosi di cedrina; le violacciocche sole, verdi e rigogliose, mettevano già i primi boccioli. Alla finestra della vecchia Tisbe danzavano al vento i scialli d'inverno, le sottane tricoté e le vite di flanella. La casina di don Giovanni Boccabadati stava piú chiusa che mai. Egli era partito, un mattino, vestito elegantemente, con una valigetta di pelle di Russia a lucchetto e borchie niellate. Il vecchio servitore, muto come una sfinge, lo aveva accompagnato sulla soglia; poi la porta si era rinserrata ermeticamente, come se il vecchio avesse dovuto seppellirvisi. - Don Giovanni è a denari, - disse in quell'occasione la moglie del pretore - prende il volo come le rondini ... Teresina pensò un pezzo a questa frase della «pretora». Le sembrò che dovesse essere una bella cosa il volare, volare, volare, come don Giovanni, in un bel mattino d'aprile, con una valigetta in mano, via per il mondo, incontro all'ignoto; per campagne verdi e fiorite, per laghi azzurri, per monti fantastici, per città incantate; o volare come le rondinelle del suo giardino, ai dolci nidi piccini, così piccini che appena in due vi si poteva stare. Teresina li guardava con tenerezza quei nidi, appiccicati alle travi del portico, lieti di giovani amori, festanti per le nuove covate. Uno solo restava abbandonato nella tristezza della vedovanza, nella irreparabile tristezza dei giorni che non sono piú. Dopo il portico, si stendeva fuori irregolare uno spazio di terreno, chiamato abusivamente giardino. In realtà aveva sul davanti qualche aiuola che poteva, a prima vista, confermare l'illusione; specie in quel tempo dell'anno, poiché tutte le viole del pensiero erano fiorite, nelle loro infinite gradazioni, nel velluto intenso delle foglie scure, nel raso luminoso delle foglie pallide; e al di sopra di esse ondeggiavano, tremolanti, due arbusti di quel fiore che somiglia ad una nevicata. Pochi metri dopo incominciava un tentativo di orticello domestico e di frutteto; rimasti e l'uno e l'altro all'esposizione rudimentale di un solco d'insalata, tra masse di salvia, di rosmarino e di finocchio, colla compagnia di un gracile pesco coperto di scarsi fiorellini rosei. Oltre non c'era piú nulla. Il terreno ghiaioso, ingombro di calcinacci, si rifiutava alla vegetazione. Solamente in un angolo, un fico, l'albero delle terre sterili, innalzava le sue ramificazioni nodose fin oltre il muro di cinta.

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ALLA CONQUISTA DI UN IMPERO

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

Come abbiamo detto, quel tempio, veneratissimo da tutti gli assamesi, perché conteneva la famosa pietra di Salagraman col capello di Visnù, si componeva d'una enorme piramide tronca; colle pareti abbellite da sculture che si succedevano senza interruzione dalla base alla cima e che rappresentavano in dimensioni più o meno grandiose, le ventuno incarnazioni del dio indiano. Quindi, pesci colossali, testuggini, cinghiali, leoni, giganti, nani, cavalli, ecc. Solo dinanzi alla porta d'entrata si rizzava una torre piramidale più piccola, il cobrom, coronato da una cupola e colle muraglie pure adorne di figure per la maggior parte poco pulite, rappresentanti la vita, le vittorie e le disgrazie delle diverse divinità. Ad una altezza di venti piedi s'apriva una finestra sul cui davanzale ardeva una lampada. - È per di là che dovremo entrare, sahib, - disse Bindar volgendosi verso Yanez, che aveva corrugata la fronte, scorgendo quel lume. - Temevo che qualcuno vegliasse nella pagoda, - rispose il portoghese. - Non avere alcun timore: è uso mettere una lampada sulla prima finestra del cobrom. Se fosse un giorno festivo, ve ne sarebbero quattro invece d'una. - Dove troveremo la pietra di Salagraman? Nella pagoda o in questa specie di torre? - Nella pagoda di certo. - Yanez si volse verso i suoi uomini, chiedendo: - Chi saprà raggiungere quella finestra e gettarci una fune? - Se forzassimo la porta invece? - chiese Sandokan. - Perderesti inutilmente il tuo tempo, - disse Tremal-Naik. - Tutte quelle dei nostri templi sono di bronzo e d'uno spessore enorme. D'altronde i tuoi uomini non saranno troppo imbarazzati a giungere lassù. Sono come le scimmie del loro paese. - Lo so, - rispose Yanez. Indicò due dei più giovani del drappello e disse semplicemente loro: - In alto, fino alla finestra! - Non aveva ancora finito, che quei diavoli, un malese ed un dayaco, salivano già aggrappandosi alle divinità, ai giganti, ai trimurti indù rappresentanti lo sconcio lingam che riunisce Brahma, Siva e Visnù. Per quei marinai, mezzi selvaggi, abituati a salire di corsa le alberature delle navi e camminare come fossero a terra sui leggeri pennoni dei loro prahos o inerpicarsi sugli altissimi durion delle loro foreste, non era che una semplice scalata quella manovra. In meno di mezzo minuto si trovarono entrambi sul davanzale della finestra, da dove gettarono due funi, dopo di averle assicurate a due aste di ferro, che sostenevano due gabbie destinate a contenere dei batuffoli di cotone imbevuti d'olio di cocco durante le straordinarie illuminazioni. - A me pel primo, - disse Sandokan. - A te l'altra fune, Tremal-Naik. Tu Yanez, alla retroguardia. - A me, che devo conquistare il trono di Surama! - esclamò il portoghese. - Ragione di più per conservare la preziosissima persona d'un futuro rajah, - rispose Tremal-Naik, sorridendo. - I pezzi grossi non devono esporsi ai gravi pericoli che all'ultimo momento. - Andate al diavolo! - Niente affatto, saliremo verso il cielo invece. - Va' a trovare Brahma adunque! - Sandokan e Tremal-Naik si issarono rapidamente, scomparendo fra le tenebre. Quando i malesi ed i dayachi videro la fune a scuotersi, a loro volta cominciarono la salita, mentre il portoghese ne regolava l'ascensione. Frattanto la Tigre della Malesia e l'indiano avevano raggiunto il davanzale, dove si tenevano a cavalcioni il malese ed il dayaco, i quali si erano già affrettati a spegnere il lume onde non si potessero scorgere le persone che salivano. - Avete udito nulla? - aveva chiesto subito Sandokan. - No, padrone. - Vediamo se qui vi è un passaggio. - Lo troveremo di certo, - disse Tremal-Naik. - Tutti i cobrom comunicano colla pagoda centrale. - Accendete una torcia. - Il malese, che ne aveva due passate nella fascia, fu pronto a obbedire. Sandokan la prese, s'abbassò fino quasi a terra onde la luce non si espandesse troppo e fece qualche passo innanzi. Si trovavano in una minuscola stanza, la quale aveva una porta di bronzo assai bassa e che era solamente socchiusa. - Suppongo che metterà su una scala, - mormorò. La spinse, cercando di non produrre alcun rumore e si trovò dinanzi ad un pianerottolo pure minuscolo. Sotto s'allungava una stretta gradinata che pareva girasse su se stessa. - Finché gli altri salgono, esploriamo, - disse Tremal-Naik. - Lasciate che vi preceda, - disse una voce. Era Bindar, il quale aveva preceduto tutti gli altri. - Conosci il passaggio? - gli chiese Sandokan. - Sì, sahib. - Passa dinanzi a noi e bada che noi non staccheremo un solo istante i nostri sguardi da te. - Il seguace di Siva ebbe un sorriso, ma non rispose affatto. La scala era strettissima, tanto da permettere a malapena il passaggio a due uomini situati l'uno a fianco dell'altro. Sandokan e Tremal-Naik, seguìti dagli altri, che raggiungevano a poco a poco la finestra, si trovarono ben presto in un corridoio, che pareva si avanzasse verso il centro della pagoda e che scendeva molto rapidamente. - Ci siete tutti? - chiese il pirata, arrestandosi. - Ci sono anch'io, - rispose Yanez, facendosi innanzi. - Le funi sono state ritirate. - La Tigre della Malesia sfoderò la scimitarra che gli pendeva dal fianco e che scintillò, alla luce della torcia, come se fosse d'argento, essendo formata di quell'impareggiabile acciaio naturale che non si trova che nelle miniere del Borneo; poi disse con voce risoluta: - Avanti! L'antico pirata di Mompracem vi guida! - Percorso il corridoio e trovata un'altra scala, entrarono, dopo averla discesa, in una immensa sala, in mezzo alla quale si rizzava, su un enorme quadro di pietra, una statua rappresentante un pesce colossale. Era quella la prima incarnazione del dio conservatore, così tramutato per salvare dal diluvio il re Sattiaviraden e la moglie di lui, servendo sotto quella forma di timone alla nave che aveva loro mandato per sottrarli al diluvio universale (4).