Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNIFI

Risultati per: abbellire

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ARABELLA

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De Marchi, Emilio 1 occorrenze

Oh avete un bel dire che la donna è nata pel sacrificio, che può colla grazia e colla sua forza morale vincere e abbellire la tristezza d'ogni destino, assurgere al disopra del fango che la circonda, compiere anche in mezzo alle abbiezioni la sua missione d'amore e di pazienza! Avete un bel dire che a lei la fede è sostegno incrollabile: non è vero. La donna ha bisogno d'amare e d'essere amata, come il fiore ha bisogno d'aria e di luce. Quando la violenza delle cose, la debolezza dei giusti, la tirannia dei tristi costringono una debole creatura a respirare aria corrotta, e voi non date a una povera donna che amarezze, oltraggi e fango, null'altro che fango, lasciate almeno che essa gridi del male che le fate... Coi pugni dentro i capelli scarmigliati dalla veglia, Arabella Pianelli gridava veramente in un pianto lamentoso senza lagrime, dilaniata dalla coscienza del suo stato, avvilita dopo una notte di falsa e morbosa resistenza, assiderata dal freddo della febbre e della notte. "Non così, non così la mia creatura...." prese a dirle all'orecchio la Colomba, serrandola alla vita colle braccia e posando la sua testa grigia sui capelli morbidi e biondi della tribolata. "Non così, per amor di Dio. Ciò può far male anche a questo figliuolo malato. Crede che non ci sia un Signore anche per noi? Io capisco e compatisco, angeli custodi, ma non bisogna mai disperare della Provvidenza. Questo è un piangere che rompe il cuore e del nostro cuore dobbiamo rendere conto come di un vasetto d'oro che Dio ci ha dato in custodia. Ti hanno maltrattata, il mio angelo; ti hanno venduto, avvilito, insultato nel tuo sentimento di sposa e di madre, e so che certi mali fan perdere la testa. Tu non hai meritato questi castighi, è vero; ma sappiamo noi se non soffriamo per il bene di qualcuno? Nostro Signore aveva meritata la sua passione? E tante povere mamme che non han da dare da mangiare ai loro figliuoli, meritano di soffrir tanto? Noi non sappiamo nulla dei misteri del mondo, cara Arabella; ma dobbiamo tener dacconto il nostro cuore, perché gli è come il tabernacolo del Santissimo. Se non ci vorranno bene gli uomini, ci vorranno bene gli angeli, ma noi dobbiamo aver sempre pronto il cuore a ricevere il bene che ci vorranno dare o presto o tardi. Su dunque, alza la testa, mio caro angiolo, e vieni fuori con me, un momento. C'è qui la chiesa vicina: noi abbiamo bisogno di essere aiutate a patire..." La Colomba ricondusse la figliuola di nuovo nell'altra stanza. Le ravviò un poco le vesti; fece un po' di fuoco ancora e versò quel resto di caffè che era rimasto in fondo al bricco. La persuase a non mandare per ora la lettera allo zio Demetrio e a cercar invece di quella sua amica di collegio, l'Arundelli, a cui poteva confidare il suo segreto. Meglio di tutto poi sarebbe stato di andare alle Cascine in cerca della mamma. La mamma è il miglior dottore per certi mali...

La chiave a stella 1978

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Levi, Primo 1 occorrenze

Ho promesso a Faussone che mi sarei attenuto con la miglior diligenza alle sue indicazioni; che in nessun caso avrei ceduto alla tentazione professionale dell' inventare, dell' abbellire e dell' arrotondare; che perciò al suo resoconto non avrei aggiunto niente, ma forse qualche cosa avrei tolto, come fa lo scultore quando ricava la forma dal blocco; e lui si è dichiarato d' accordo. Cavando dunque dal grande blocco dei dettagli tecnici che lui, non molto ordinatamente, mi ha forniti, si è delineato il profilo di un ponte lungo e snello, sostenuto da cinque torri fatte di scatole d' acciaio, ed appeso a quattro festoni di cavo d' acciaio. Ogni festone era lungo 170 metri, e ognuno dei due cavi era costituito da una mostruosa treccia di undicimila fili singoli del diametro di cinque millimetri. "Le ho già detto quell' altra sera che per me ogni lavoro è come il primo amore: ma quella volta ho capito subito che era un amore impegnativo, uno di quelli che se uno ne viene fuori con tutte le penne vuol dire che è stato fortunato. Prima di incominciare ho passato una settimana come a scuola, a lezione dagli ingegneri: erano sei, cinque indiani e uno dell' impresa; quattro ore al mattino col quaderno degli appunti e poi tutto il pomeriggio a studiarci su: perché era proprio come il lavoro del ragno, solo che i ragni nascono che il mestiere lo sanno già, e poi se cascano cascano dal basso e non si fanno gran che, anche perché loro il filo ce l' hanno incorporato. Del resto, dopo di questo lavoro che le sto raccontando, ogni volta che vedo un ragno nella sua ragnatela mi ritornano in mente i miei undicimila fili, anzi ventiduemila perché i cavi erano due, e mi sento un poco suo parente, specialmente quando tira vento. Poi mi è toccato a me di fare la lezione ai miei uomini. Questa volta erano indiani indiani, non come quegli alascani che le ho raccontato prima. Da principio devo confessarle che non avevo fiducia, a vedermeli lì d' intorno seduti sui calcagni, o qualcun altro invece con le gambe incrociate e le ginocchia larghe, come le statue nelle loro chiese che avevo visto a Calcutta. Mi guardavano fisso e non facevano mai domande; ma poi, un poco alla volta, li ho presi uno per uno e ho visto che non avevano perso una parola, e secondo me sono più intelligenti di noi, o forse è che avevano paura di perdere il lavoro, perché da quelle parti non fanno complimenti. Sono poi gente come noi, anche se hanno il turbante e non hanno le scarpe e tutte le mattine caschi il mondo passano due ore a pregare. Hanno anche loro le loro grane, ce n' era uno che aveva un figlio di sedici anni che giocava già ai dadi e lui era preoccupato perché perdeva sempre, un altro aveva la moglie ammalata, e un altro ancora aveva sette figli ma diceva che lui non era d' accordo col governo e l' operazione non la voleva fare, perché a lui e a sua moglie i bambini gli piacevano, e mi ha anche fatto vedere la fotografia. Erano proprio belli, e era bella anche sua moglie: tutte le ragazze indiane sono belle, ma Peraldo, che era in India da un pezzo, mi ha spiegato che con loro niente da fare. Mi ha anche detto che in città è diverso, ma c' è in giro certe malattie che è meglio lasciar perdere; insomma alla finitiva non ho mai fatto digiuno come quella volta in India. Ma torniamo al lavoro. Le ho già detto dei chetuòk, cioè delle passerelle, e del trucco dell' aquilone per tirare il primo cavo. Chiaro che non si poteva mica far volare ventiduemila aquiloni. Per tirare i cavi di un ponte sospeso c' è un sistema speciale: si piazza un argano, e a sei o sette metri sopra ogni passerella si tira un cavo senza fine, come una di quelle cinghie di trasmissione che usavano una volta, teso fra due carrucole una per sponda; attaccato al cavo senza fine c' è una puleggia folle, con quattro gole; dentro ogni gola si passa un' ansa del filo singolo, che viene da un grande rocchetto; e poi si mettono in moto le carrucole e si tira la puleggia da sponda a sponda; così, con un viaggio si tirano otto fili. Gli operai, a parte quelli che mettono su le anse e quelli che le tolgono, stanno sulla passerella, due ogni cinquanta metri, a sorvegliare che i fili non si incavallino: ma dirlo è una cosa, e farlo è un' altra. È fortuna che gli indiani sono gente di buon comando: perché lei deve pensare che le passerelle non è come andare a spasso in via Roma. Primo, sono inclinate, perché hanno la stessa pendenza che avrà poi il cavo di sostegno; secondo, basta un filo di vento a farle ballare che è una bellezza, ma del vento avrò poi da parlargliene dopo; terzo, dato che devono essere leggere e appunto non dare presa al vento, hanno il pavimento fatto di griglia, così uno è meglio se non si guarda i piedi, perché se guarda vede l' acqua del fiume sotto, color del fango, con dentro degli affarini che si muovono, e visti di lassù sembrano pesciolini da frittura mentre invece sono le schiene dei coccodrilli: ma gliel' ho già detto che in India una cosa sembra sempre che sia un' altra. Peraldo mi ha contato che non ce n' è più tanti, ma quei pochi vengono tutti dove si monta un ponte perché mangiano le immondizie della mensa, e perché aspettano che qualcuno caschi giù. L' India è un gran bel paese ma non ha delle bestie simpatiche. Anche le zanzare, a parte il fatto che attaccano la malaria, e che appunto oltre al casco uno bisogna sempre che porti la veletta come le signore di una volta, sono delle bestiacce lunghe così, che se uno non sta attento mollano dei morsiconi da portare via il pezzo; e mi hanno anche detto che ci sono delle farfalle che vengono di notte a succhiare il sangue mentre uno dorme, ma io veramente non le ho mai viste, e per dormire ho sempre dormito bene. La malizia di quel lavoro di tendere i fili è che i fili bisogna che abbiano tutti la stessa tensione: e su una lunghezza come quella non è tanto facile. Facevamo due turni di sei ore, dall' alba al tramonto, ma poi abbiamo dovuto organizzare una squadra speciale che montava di notte, prima che venisse il sole, perché di giorno capita sempre che ci sono dei fili al sole, che scaldano e dilatano, e degli altri all' ombra, e allora la registrazione bisogna farla a quell' ora lì, perché tutti i fili hanno la stessa caloria: e questa registrazione poco da fare mi è sempre toccato di farla a me. Siamo andati avanti così per sessanta giorni, sempre con la puleggia folle che andava avanti e indietro, e la ragnatela cresceva, bella tesa e simmetrica, e dava già l' idea della sagoma che il ponte avrebbe avuto dopo. Faceva caldo, gliel' ho già detto, anzi, le avevo anche detto che non glielo avrei più detto, ma insomma faceva caldo; quando calava giù il sole era un sollievo, anche perché allora potevo rientrare in baracca e bere un bicchiere e cambiare parola con Peraldo. Peraldo aveva cominciato da manovale, poi era diventato muratore e poi cementista; era stato un po' dappertutto, e anche quattro anni in Congo a fare una diga, e da raccontare ne aveva, ma se mi metto a raccontarle anche le storie degli altri in più delle mie finisce che non finisco più. Quando la tesatura è stata terminata, a guardare da lontano si vedevano i due cavi che andavano da una sponda all' altra coi loro quattro festoni, fini e leggeri appunto come fili di ragno: ma a guardarli da vicino erano due fasci da far paura, spessi settanta centimetri; e li abbiamo compattati con una macchina speciale, come un torchio fatto a anello che viaggia lungo il cavo e lo stringe con una forza di cento tonnellate, ma in questo io non ci ho messo mano. Era una macchina americana, l' avevano spedita fin laggiù col suo specialista americano che guardava tutti di traverso, non parlava con nessuno e non lasciava che nessuno si avvicinasse, si vede che aveva paura che gli portassero via il segreto. A questo punto il difficile sembrava che fosse fatto; le funi verticali di sospensione le abbiamo tirate su in pochi giorni, le pescavamo coi paranchi dai pontoni che stavano sotto, e sembrava proprio di pescare delle anguille, ma erano anguille che pesavano quindici quintali l' una; e finalmente è stata l' ora di cominciare a piazzare la carreggiata, e nessuno lo poteva indovinare, ma è stato proprio lì che è cominciata l' avventura. Bisogna che le dica che, dopo il guaio di quella piena improvvisa che le ho detto, avevano fatto finta di niente ma il mio consiglio l' avevano pure seguito: mentre io ero a Calcutta avevano fatto arrivare un finimondo di camion carichi di pietroni, e come l' acqua è scesa, gli argini li hanno consolidati ben bene. Ma sa com' è la storia di quel gatto scottato, che dopo aveva paura dell' acqua fredda: per tutto il montaggio, da in cima del mio passo del gatto io l' acqua la tenevo d' occhio, e avevo anche ottenuto dall' ingegnere che mi mettesse un telefono volante a disposizione, perché pensavo che se aveva da venire un' altra piena era meglio arrivare prima; e non pensavo che il pericolo veniva da un' altra parte, e a giudicare da come sono andate le cose, non ci pensava nessuno, e neanche non ci avevano pensato i progettisti. Io quei progettisti non li ho mai visti in faccia, non so neppure di che razza fossero, però ne ho conosciuti degli altri, e tanti, e so che ce n' è di diverse maniere. C' è il progettista elefante, quello che sta sempre dalla parte della ragione, che non guarda né l' eleganza né l' economia, che non vuole grane e mette quattro dove basta uno: e in genere è un progettista già un po' vecchiotto, e se lei ci ragiona sopra vede che è una faccenda triste. C' è il tipo rancino, invece, che sembra che ogni rivetto lo deva pagare di tasca sua. C' è il progettista pappagallo, che i progetti invece di studiarci su tira a copiarli come si fa a scuola, e non si accorge che si fa ridere dietro. C' è il progettista lumaca, voglio dire il tipo burocrate, che va piano piano, e appena lo tocchi si tira subito indietro e si nasconde dentro al suo guscio che è fatto di regolamenti: e io, senza offendere, lo chiamerei anche il progettista balengo. E alla fine c' è il progettista farfalla, e io credo proprio che i progettisti di quel ponte fossero di questo tipo qui: e è il tipo più pericoloso, perché sono giovani, arditi e te la dànno a intendere, se gli parli di soldi e di sicurezza ti guardano come uno sputo, e tutto il loro pensiero è per la novità e per la bellezza: senza pensare che, quando un' opera è studiata bene, viene bella per conto suo. Mi scusi se mi sono sfogato, ma quando uno su un lavoro ci mette tutti i suoi sentimenti, e poi finisce come quel ponte che le sto raccontando, ebbene, dispiace. Dispiace per tanti motivi: perché uno ha perso tanto tempo, perché dopo succede sempre un putiferio con gli avvocati e il codice e i settemila accidenti, perché uno anche se non c' entra niente finisce sempre che si sente un po' di colpa; ma più che tutto, vedere venire giù un' opera come quella, e il modo poi come è venuta giù, un pezzo per volta, come se patisse, come se resistesse, faceva male al cuore come quando muore una persona. E proprio come quando muore una persona, che dopo tutti dicono che loro l' avevano visto, da come respirava, da come girava gli occhi, così anche quella volta, dopo il disastro, tutti volevano dire la sua, perfino l' indiano dell' operazione: che si vedeva benissimo, che le sospensioni erano scarse, che l' acciaio aveva delle soffiature grosse come dei fagioli, i saldatori dicevano che i montatori non sapevano montare, i gruisti dicevano che i saldatori non sapevano saldare, e tutti insieme se la prendevano con l' ingegnere e gli leggevano la vita, che dormiva in piedi e batteva la calabria e non aveva saputo organizzare il lavoro. E forse avevano ragione un po' tutti, o magari nessuno, perché anche qui è un po' come per le persone, a me è già successo tante volte, un traliccio per esempio, collaudato e stracollaudato che sembra che debba stare lì un secolo, e comincia a cioccare dopo un mese; un altro che non scommetteresti quattro soldi, niente, non fa una ruga. E se lei si mette nelle mani dei periti fa un bell' affare, ne vengono tre e dànno tre ragioni diverse, mai visto un perito che cavasse il ragno dal buco. Si capisce che se uno muore, o una struttura si sfascia, una ragione ci deve pur essere, ma non è detto che sia una sola, o se sì, che sia possibile trovarla. Ma andiamo con ordine. Le ho detto che per tutto questo lavoro aveva sempre fatto caldo, tutti i giorni, un caldo bagnato che era difficile abituarsi, io però verso la fine mi ero abituato. Bene, a lavoro finito, che c' erano già i verniciatori arrampicati un po' dappertutto e sembravano moscerini su una ragnatela, mi sono accorto che tutto d' un colpo aveva smesso di fare caldo: il sole era già spuntato, ma invece di fare caldo come al solito, il sudore asciugava addosso e si sentiva fresco. Ero anch' io sul ponte, a metà della prima campata, e oltre al fresco ho sentito due altre cose che mi hanno fatto restare lì bloccato come un cane da caccia quando punta: ho sentito il ponte che mi vibrava sotto i piedi, e ho sentito come una musica, ma non si capiva da che parte venisse: una musica, voglio dire un suono, profondo e lontano, come quando provano l' organo in chiesa, perché da piccolo io in chiesa ci andavo; e mi sono reso conto che tutto veniva dal vento. Era il primo vento che sentivo da quando ero atterrato in India, e non era un gran vento, però era costante, come il vento che uno sente quando va in auto piano piano e tiene la mano fuori dal finestrino. Mi sono sentito inquieto, non so perché, e mi sono incamminato verso la testata: forse sarà anche questo un effetto del nostro mestiere, ma le cose che vibrano a noi ci piacciono poco. Sono arrivato al pilone di testa, mi sono voltato indietro, e mi sono sentito drizzare tutti i peli. No, non è un modo di dire, si drizzano proprio, uno per uno e tutti insieme, come se si svegliassero e volessero scappare: perché da dove ero io si vedeva tutto il ponte d' infilata, e capitava una cosa da non crederci. Era come se, sotto quel fiato di vento, anche il ponte si stesse svegliando. Sì, come uno che ha sentito un rumore, si sveglia, si scrolla un po' , e si prepara a saltare giù dal letto. Tutto il ponte si scuoteva: la carreggiata scodinzolava a destra e a sinistra, e poi ha incominciato a muoversi anche nel piano verticale, si vedevano delle onde che correvano dal mio capo all' altro, come quando si scuote una corda lenta; ma non erano più vibrazioni, erano onde alte uno o due metri, perché ho visto uno dei verniciatori che aveva piantato lì il suo lavoro e si era messo a correre verso di me, e un po' lo vedevo e un po' non lo vedevo, come una barca nel mare quando le onde sono grosse. Tutti sono scappati via dal ponte, anche gli indiani andavano un po' più in fretta del solito, e c' è stato un gran gridare e un gran disordine: nessuno sapeva che cosa fare. Anche i cavi di sospensione si erano messi in movimento. Sa come succede in quei momenti, che uno dice una cosa e un altro un' altra; ma dopo qualche minuto si è visto che il ponte, non che si fosse fermato, ma le onde si erano come stabilizzate, andavano e rimbalzavano da un capo all' altro sempre con la stessa cadenza. Non so chi abbia dato l' ordine, o forse è qualcuno che si è presa l' iniziativa, ma ho visto uno dei trattori del cantiere che infilava la carreggiata del ponte rabastandosi dietro due cavi da tre pollici: forse volevano tirarli in diagonale per frenare le oscillazioni, certo chi lo ha fatto ha avuto un bel coraggio, o meglio una bella incoscienza, perché io non credo proprio che con quei due cavi, anche se fossero riusciti a fissarli, si potesse fermare una struttura come quella, pensi che la carreggiata era larga otto metri e alta uno e mezzo, faccia un po' il conto delle tonnellate che erano lì in giostra. Ogni modo, non hanno fatto a tempo a fare niente, perché di lì in poi le cose sono precipitate. Forse il vento si era rinforzato, non saprei dire, ma verso le dieci le onde verticali erano alte quattro o cinque metri, e si sentiva tremare la terra, e il fracasso delle sospensioni verticali che si allentavano e si tendevano. Il trattorista ha visto la mala parata, ha mollato lì il trattore e è scappato a riva: e ha fatto bene, perché subito dopo la carreggiata ha cominciato a torcersi come se fosse stata di gomma, il trattore sbandava a destra e a manca, e a un certo punto ha scavalcato il parapetto, o forse lo ha sfondato, e è finito nel fiume. Uno dopo l' altro, si sono sentiti come dei colpi di cannone, li ho contati, erano sei, erano le sospensioni verticali che si strappavano: si strappavano netto, a livello della carreggiata, e i monconi per il contraccolpo volavano verso il cielo. Insieme, anche la carreggiata ha cominciato a svirgolarsi, a dissaldarsi, e cadeva a pezzi nel fiume; degli altri pezzi, invece, rimanevano appesi ai travi come degli stracci. Poi è finito tutto: tutto è rimasto lì fermo, come dopo un bombardamento, e io non so che faccia avessi, ma uno lì vicino a me tremava tutto e aveva la faccia verdolina, ben che era uno di quegli indiani col turbante e la pelle scura. A conti fatti, erano andate giù due campate della carreggiata, quasi intere, e una dozzina delle sospensioni verticali; invece, i cavi principali erano a posto. Tutto era fermo come in una fotografia, salvo il fiume che continuava a correre come se niente fosse stato: eppure il vento non era caduto, anzi era più forte di prima. Era come se qualcuno avesse voluto fare quel danno, e poi si fosse accontentato. E a me è venuta in mente un' idea stupida: ho letto in un libro che, nei tempi dei tempi, quando incominciavano un ponte ammazzavano un cristiano, anzi non un cristiano perché allora non c' erano ancora, ma insomma un uomo, e lo mettevano dentro alle fondazioni; e più tardi invece ammazzavano una bestia; e allora il ponte non crollava. Ma appunto, era un' idea stupida. Io poi me ne sono venuto via, tanto i cavi grossi avevano resistito, e il mio lavoro non era da rifare. Ho saputo che dopo hanno cominciato a discutere sul perché e sul percome, e che non si sono messi d' accordo, e discutono ancora adesso. Io, per conto mio, quando ho visto il piano della carreggiata che incominciava a battere su e giù, ho subito pensato a quell' atterraggio a Calcutta, e alle ali del Boeing che battevano come quelle di un uccello, e mi avevano fatto passare un brutto momento, anche se ho volato tante volte; ma insomma non saprei dire. Certo il vento c' entrava: e infatti mi hanno detto che adesso il ponte lo stanno rifacendo, ma con delle aperture nella carreggiata, per non che il vento incontri troppa resistenza. No, di ponti sospesi non ne ho montati più. Me ne sono venuto via, non ho salutato nessuno, solo Peraldo. Non è stata una bella storia. È stato come quando vuoi bene a una ragazza, e lei ti pianta da un giorno all' altro e tu non sai perché, e soffri, non solo perché hai perso la ragazza, ma anche la fiducia. Bene, mi passi la bottiglia che beviamo ancora una volta: tanto stasera pago io. Sì, sono tornato a Torino, e c' è calato poco che non mi mettessi nelle curve con una di quelle ragazze delle mie zie che le dicevo al principio, perché ero giù di morale e non facevo resistenza: ma questa è un' altra storia. Poi mi sono fatto una ragione".

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Il sistema periodico

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Levi, Primo 1 occorrenze

Che poi l' allossana, destinata ad abbellire le labbra delle dame, scaturisse dagli escrementi delle galline o dei pitoni, era un pensiero che non mi turbava neanche un poco. Il mestiere di chimico (fortificato, nel mio caso, dall' esperienza di Auschwitz) insegna a superare, anzi ad ignorare, certi ribrezzi, che non hanno nulla di necessario né di congenito: la materia è materia, né nobile né vile, infinitamente trasformabile, e non importa affatto quale sia la sua origine prossima. L' azoto è azoto, passa mirabilmente dall' aria alle piante, da queste agli animali, e dagli animali a noi; quando nel nostro corpo la sua funzione è esaurita, lo eliminiamo, ma sempre azoto resta, asettico, innocente. Noi, intendo dire noi mammiferi, che in generale non abbiamo problemi di approvvigionamento d' acqua, abbiamo imparato ad incastrarlo nella molecola dell' urea, che è solubile in acqua, e come urea ce ne liberiamo; altri animali, per cui l' acqua è preziosa (o tale era per i loro lontani progenitori), hanno fatto l' ingegnosa invenzione di impacchettare il loro azoto sotto forma di acido urico, che è insolubile in acqua, e di eliminare questo allo stato solido, senza bisogno di ricorrere all' acqua come veicolo. In modo analogo si pensa oggi di eliminare i detriti urbani facendone blocchetti compressi, che si possono portare alle discariche o interrare con poca spesa. Dirò di più: lungi dallo scandalizzarmi, l' idea di ricavare un cosmetico da un escremento, ossia aurum de stercore, mi divertiva e mi riscaldava il cuore come un ritorno alle origini, quando gli alchimisti ricavavano il fosforo dall' urina. Era un' avventura inedita e allegra, e inoltre nobile, perché nobilitava, restaurava e ristabiliva. Così fa la natura: trae la grazia della felce dalla putredine del sottobosco, e il pascolo dal letame; e "laetamen" non vuol forse dire "allietamento"? così mi avevano insegnato in liceo, così era stato per Virgilio, e così ritornava ad essere per me. Tornai a casa a sera, spiegai alla recentissima moglie il fatto dell' allossana e dell' acido urico, e le annunciai che l' indomani sarei partito per un viaggio d' affari: che cioè avrei preso la bicicletta, e fatto un giro per le cascine della periferia (a quel tempo c' erano ancora) in cerca di sterco di gallina. Non esitò: la campagna le piace, e la moglie deve seguire il marito; sarebbe venuta anche lei. Era una specie di supplemento del nostro viaggio di nozze, che per ragioni di economia era stato frugale e frettoloso. Ma mi ammonì di non farmi troppe illusioni: trovare sterco di gallina allo stato puro non doveva poi essere così facile. Infatti risultò difficile. In primo luogo, la pollina (si chiama così: noi inurbati non lo sapevamo, né sapevamo che, sempre per via dell' azoto, è apprezzatissima come concime per gli orti) non si regala, anzi si vende a caro prezzo. In secondo luogo, chi la compra se la va a raccattare, entrando a quattro zampe nei pollai e spigolando per le aie. In terzo luogo, ciò che effettivamente si raccoglie può essere direttamente usato come fertilizzante, ma si presta male ad ulteriori lavorazioni: è un miscuglio di sterco, terra, sassi, becchime, piume e pe5rpôjìn (sono i pidocchietti delle galline, che si annidano sotto le ali: non so come si chiamino in italiano). Ad ogni modo, pagando non poco, faticando ed insudiciandoci parecchio, la moglie impavida ed io ce ne ritornammo a sera per Corso Francia, con un chilo di sudata pollina nel portapacchi della bicicletta. L' indomani esaminai il materiale: la "ganga" era molta, tuttavia qualcosa forse se ne sarebbe potuto cavare. Ma simultaneamente mi venne un' idea: proprio in quei giorni, nella galleria della Metropolitana (che esiste a Torino da quarant' anni, mentre la Metropolitana non esiste ancora) era stata inaugurata una mostra di serpenti. Perché non andare a vedere? I serpenti sono una razza pulita, non hanno piume né pidocchi e non razzolano fra la polvere; poi, un pitone è ben più grosso di una gallina. Forse i loro escrementi, al 90 per cento di acido urico, si potevano ottenere in abbondanza, in pezzatura non troppo minuta e in condizioni di purezza ragionevole. Questa volta andai solo: mia moglie è figlia d' Eva, e i serpenti non le piacciono. Il direttore e gli inservienti della mostra mi ricevettero con disprezzo stupito. Quali erano le mie credenziali? Da dove venivo? Chi mi credevo di essere, per presentarmi a loro così, come se niente fosse, a chiedere sterco di pitoni? Ma neanche parlarne, neanche un grammo; i pitoni sono sobrii, mangiano due volte al mese e viceversa: specie quando fanno poco esercizio. Il loro scarsissimo sterco si vende a peso d' oro: del resto, loro, e tutti gli espositori e possessori di serpenti, hanno contratti permanenti di esclusività con le grandi industrie farmaceutiche. Che mi togliessi solo di torno, e non gli facessi perdere altro tempo. Dedicai un giorno a selezionare grossolanamente la pollina, ed altri due a cercare di ossidare ad allossana l' acido che vi era contenuto. La virtù e la pazienza dei chimici antichi dovevano essere sovrumane, o forse era soltanto smisurata la mia inesperienza di preparazioni organiche. Non ottenni che vapori immondi, noia, umiliazione, ed un liquido nero e torbido che intoppava irrimediabilmente i filtri, e non mostrava alcuna tendenza a cristallizzare, come secondo il testo avrebbe dovuto. Lo sterco rimase sterco, e l' allossana dal nome sonante un nome sonante. Non era quella la via per uscire dalla palude: per quale via ne sarei dunque uscito, io autore sfiduciato di un libro che a me sembrava bello, ma che nessuno leggeva? Meglio ritornare fra gli schemi scoloriti ma sicuri della chimica inorganica.

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I PIRATI DELLA MALESIA

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

La si sarebbe presa per una statua messa lì per abbellire la spiaggia. Non parlava, non si muoveva: sembrava la statua superba di una divinità misteriosa. Tremal-Naik, col viso alterato, gli occhi fiammeggianti, ansante, s'avvicinava alla fidanzata con passo rapido e silenzioso. Si arrestò a due passi dalla giovinetta che pareva non l'avesse udito. - Ada! ... Ada! ... - esclamò d'un tratto l'indiano con voce soffocata. La pazza non si mosse. Forse non lo aveva ancora udito. - Ada! ... Oh mia diletta Ada! ... - ripeté Tremal-Naik precipitandosi alle ginocchia di lei. La vergine della pagoda, alla vista di quell'uomo che le tendeva le mani con gesto supplicante, s'alzò di scatto. Ella guardò fisso l'indiano, poi fece due passi indietro mormorando: - I thugs! ... La pazza non aveva riconosciuto il fidanzato di un tempo - Ada! ... mia diletta Ada! - gridò Tremal-Naik in preda ad una terribile disperazione. - Non mi riconosci più, dunque? - I thugs! ... - ripeté ella, ma senza manifestare terrore. Tremal-Naik mandò un grido di dolore e di rabbia. - Ma non mi riconosci più, Ada? - esclamò l'infelice cacciandosi le unghie nelle carni. - Non ti ricordi più del disgraziato Tremal-Naik, del cacciatore di tigri della jungla nera? Ritorna in te, Ada, ritorna in te. Non ricordi più i nostri incontri nella jungla? Non ricordi più la notte che io ti vidi nella pagoda sacra? Non ti ricordi più di quella notte fatale in cui i thugs ci fecero prigionieri? Ada, o mia Ada, riconosci il tuo Tremal-Naik, riconoscilo! ... La pazza lo aveva ascoltato senza batter ciglio, senza fare il minimo gesto. Evidentemente non ricordava più nulla. La pazzia aveva tutto spento nel cuore della povera donna. - Ada - riprese Tremal-Naik che non frenava le lacrime, guardami fisso, guardami, o mia Ada. Non è possibile che tu non riconosca il tuo Tremal-Naik.. Ma perché taci? Perché non guardi? Perché non ti getti fra le mie braccia? È forse perché hanno ucciso tuo padre? ... Sì, ucciso ... ucciso ... Il disgraziato indiano a quel terribile ricordo scoppiò in singhiozzi, nascondendo il viso fra le mani. D'improvviso la pazza, che aveva assistito impassibile alla disperazione di quell'uomo che un tempo ella aveva adorato, fece un passo innanzi, curvandosi verso terra. Il suo viso aveva subito un rapido cambiamento: era diventata più pallida e un lampo balenava nei suoi occhioni neri. - Dei singhiozzi - mormorò. - Perché qui si piange? Tremal-Naik, udendo quelle parole, aveva rialzato il capo. - Ada! ... - gridò tendendo le braccia verso di lei. - Mi riconosci? La pazza lo guardò per alcuni istanti in silenzio, aggrottando a più riprese le ciglia. Pareva che cercasse di rammentarsi dove aveva visto il viso dell'indiano e udita la voce di lui. - Dei singhiozzi - ripeté. - Perché si piange qui? - Perché tu non mi conosci più, Ada - disse Tremal-Naik. Guardami in viso, guardami. Ella si curvò verso di lui, poi fece un passo indietro e diede in uno scoppio di risa. - I thugs! I thugs! - esclamò. Poi volse le spalle e si allontanò rapidamente, dirigendosi verso il fortino. Tremal-Naik emise un urlo di disperazione. - Gran Siva! - esclamò, scoppiando nuovamente in singhiozzi. - Tutto è perduto! Ella non mi riconosce più! Ricadde in ginocchio, ma poi si alzò di scatto, lanciandosi verso la pazza che stava per scomparire sotto un boschetto. Ma non aveva fatto cinque passi che due braccia di ferro l'arrestavano. - Calmatevi, Tremal-Naik - disse una voce. Era Sandokan che aveva lasciato il suo posto, seguito da Yanez e da Kammamuri. - Ah! signore - balbettò l'indiano. - Calmatevi - ripeté Sandokan. - Tutto non è ancora perduto. - Non mi riconosce più. Ed io che credevo di stringerla ancora, dopo tanto tempo, tante angosce e tante torture, fra le mie braccia! Tutto è finito, tutto! - mormorò il povero indiano. - C'è ancora speranza, Tremal-Naik. - Perché illudermi, signore? Ella è pazza, né più mai guarirà più. - Guarirà, e questa sera stessa: te lo dice la Tigre della Malesia. Tremal-Naik guardò Sandokan con gli occhi pieni di lacrime. - Non è una speranza del momento, dunque? - chiese. - È proprio vero quello che dite? Voi che vi siete mostrato tanto generoso verso di me, che tanto bene mi avete fatto, operate anche questo miracolo, e la mia vita sarà vostra. - Questo miracolo lo compirò, ve lo prometto, Tremal-Naik - disse Sandokan con voce grave. - E quando? ... - Questa sera, vi ho detto. - In che modo? - Lo saprete presto. Kammamuri! Il maharatto si fece innanzi. Il buon giovanotto, come il suo padrone, aveva le lacrime agli occhi. - Parlate, capitano - disse. - La notte in cui il tuo padrone si presentò nella caverna di Suyodhana, c'eri nel tempio? - Sì, capitano. - Sapresti ripetermi ciò che dissero il capo dei thugs e il tuo padrone? - Sì, parola per parola. - Ebbene, vieni con me al forte. - E noi che cosa dovremo fare? - chiese Yanez. - Per ora non abbiamo bisogno né di te né di Tremal-Naik - disse Sandokan. - Andate a passeggiare e non ritornate al forte prima di questa sera. Vi preparerò una sorpresa. Sandokan e il maharatto si allontanarono in direzione del forte. Yanez passò un braccio in quello del povero Tremal-Naik e si misero a passeggiare lungo la costa discorrendo. - Che cosa preparerà? - chiese Tremal-Naik al portoghese. - Non lo so, Tremal-Naik; ma senza dubbio prepara qualcosa di straordinario. - Per la mia Ada? - Certamente. - Riuscirà a farle riacquistare la ragione? - Lo credo. La Tigre della Malesia sa mille cose che noi ignoriamo. - Ah! potesse riuscire! - Riuscirà, Tremal-Naik. Ditemi, è ancora vivo questo Suyodhana? - Lo credo. - È potente? - Potentissimo, signor Yanez. Comanda a migliaia e migliaia di strangolatori. - Sarà difficile colpirlo. - Dite impossibile. - Per tutti, ma non per la Tigre della Malesia. Chissà, forse un giorno la Tigre della Malesia e la Tigre dell'India potrebbero trovarsi l'una di fronte all'altra. - Lo credete? - Ho un presentimento. Ditemi, Tremal-Naik, credete che i thugs abbiano ancora la loro sede nell'isola di Raimangal? - Non lo credo. Quando gli inglesi mi processarono, svelai il luogo ove abitavano i thugs e alcune navi furono mandate a Raimangal, ma tornarono senza avere trovato un solo strangolatore. - Erano fuggiti? - Senza dubbio. - Ma dove? - Non lo so. - Sono ricchi i thugs? - Ricchissimi, signor Yanez, perché essi non si accontentano di strangolare. Saccheggiano carovane e paesi interi. - Che bel nemico da combattere! La Tigre della Malesia si divertirebbe. Chissà, un giorno forse, stanchi di Mompracem, potremmo andare in India a misurarci con Suyodhana e le sue genti. - Avete intenzione di ritornare a Mompracem? - Sì, Tremal-Naik - disse Yanez. - Domani manderemo alcuni uomini a Sarawak ad acquistare dei prahos e poi riguadagneremo la nostra isola. - Ed io verrò con voi? - Se voi veniste esporreste la vergine della pagoda ad un continuo pericolo. Voi sapete che noi siamo pirati e che ogni giorno dobbiamo combattere. - Dove andrò dunque? - Vi daremo una scorta di valorosi pirati che vi condurranno a Batavia. Là abbiamo una palazzina e l'abiterete con Ada. - Questo è troppo, signor Yanez - disse Tremal-Naik con voce commossa. - Non vi basta aver esposto la vostra vita per salvarmi, volete ancora darmi una casa? - E un gruzzolo di diamanti che varrà qualche milione, mio caro Tremal-Naik. - Ma io non accetterò. - Alla Tigre della Malesia nulla si deve rifiutare, Tremal-Naik. Un rifiuto la irriterebbe. - Ma ... - State zitto, Tremal-Naik. Un milione per noi è nulla. - Siete molto ricchi dunque? - Forse più dei thugs indiani. Mentre discorrevano, il sole era rapidamente tramontato e le tenebre erano calate. Yanez guardò l'orologio all'incerto chiarore delle stelle. - Sono le nove - disse, - possiamo tornare al forte. Lanciò un ultimo sguardo sull'ampia distesa d'acqua che appariva deserta fino agli estremi limiti dell'orizzonte, poi lasciò la costa entrando nel boschetto. Tremal-Naik, triste e pensieroso, col capo chino sul petto, lo seguiva. Pochi minuti dopo i due compagni si trovarono dinanzi al fortino sull'entrata del quale stava Sandokan che fumava flemmaticamente la pipa. - Vi aspettavo - diss'egli muovendo loro incontro. - Tutto è pronto. - Che cosa è pronto? - chiese Tremal-Naik. - Ciò che deve far riacquistare la ragione alla vergine della pagoda. - Prese per mano i due amici e li condusse nell'interno di una vastissima capanna che occupava quasi l'intero recinto del forte, un tempo destinato a contenere una guarnigione e gran copia di viveri e di munizioni. Tremal-Naik e Yanez mandarono un grido di sorpresa. L'ampia sala, in poche ore, era stata trasformata, per opera di Sandokan, di Kammamuri e dei pirati, in un'orribile caverna che a Tremal-Naik ricordava, in parte, il tempio dei thugs indiani, dove il truce Suyodhana aveva compiuto la sua spaventevole vendetta. Una infinità di rami resinosi accesi spandevano all'intorno una luce azzurrognola, livida, spettrale. Qua e là erano stati accumulati massi enormi e rizzati tronchi d'alberi che potevano passare per colonne, adorni di mostri d'argilla rozzamente plasmati rappresentanti Visnù, il dio conservatore degli indiani, il quale ha la sua residenza nel Vaicondu o mare di latte del serpente Adissescien altri dèi cateri, giganteschi geni malvagi che, divisi in cinque tribù, vanno errando per il mondo dal quale non possono uscire né meritare la beatitudine promessa agli uomini, se non dopo aver raccolto un certo numero di preghiere. Nel mezzo si ergeva una statua, pure d'argilla, orribile a vedersi. Aveva quattro braccia, una lingua smisurata e i suoi piedi posavano sopra un cadavere. Dinanzi a quel mostro era collocata una vaschetta entro la quale nuotava un pesciolino. - Dove siamo noi? - chiese Yanez, guardando con stupore quei mostri e quelle torce. - In una pagoda dei thugs indiani - disse Sandokan. - Chi ha fatto tutti questi brutti mostri? - Noi, fratello. - In così poche ore? - Tutto si fa, quando si vuole. - Chi è quella brutta figura che ha quattro braccia? - Kalì, la dea dei thugs - rispose Tremal-Naik che l'aveva riconosciuta. - Vi sembra, Tremal-Naik, che questa pagoda improvvisata somigli a quella dei thugs? - Sì, Tigre della Malesia. Ma che cosa volete fare? - Uditemi. - Vi ascoltiamo. - Io credo che solamente una straordinaria impressione possa far riacquistare la ragione a Ada. - Anch'io sono del tuo parere, Sandokan - disse Yanez, - e comprendo il tuo piano. Tu vuoi ripetere la scena che accadde nella pagoda dei thugs quando Tremal-Naik si presentò a Suyodhana. - Sì, Yanez, è proprio così. Io sarò il capo dei thugs e ripeterò le parole pronunciate dal terribile uomo in quella notte fatale. - E i thugs? - chiese Tremal-Naik. - I thugs saranno i miei uomini - disse Sandokan. - Sono stati istruiti da Kammamuri. - Avanti dunque. Sandokan accostò alle labbra il fischietto d'argento ed emise un suono acuto. Subito trenta dayachi seminudi coi fianchi stretti da un laccio di fibre di rotang e con un serpente dalla testa di donna dipinto in mezzo al petto entrarono nella grande capanna schierandosi ai lati della mostruosa divinità dei thugs. - Perché hanno quel serpente sul petto? - chiese Yanez. - Tutti i thugs hanno un tatuaggio simile - rispose Tremal-Naik. - Kammamuri non ha dimenticato nulla a quanto pare. - Siete pronti? - chiese Sandokan. - Tutti - risposero i dayachi. - Yanez - disse allora Sandokan, - ti affido una parte importante. - Che cosa devo fare? - Tu che sei un bianco, devi rappresentare il padre di Ada. Guiderai gli altri pirati che fingeranno di essere i sipai indiani e farai quanto ti dice Kammamuri. - Sta bene. - Quando io fingerò di assalirti fuori del forte, cadrai dinanzi a Ada come morto. - Fidati di me, fratello. Ognuno al suo posto. Tremal-Naik, Yanez e Kammamuri uscirono, mentre Sandokan si fermava dinanzi alla statua della dea Kalì e i dayachi, i finti thugs, si schieravano ai suoi lati. Ad un cenno della Tigre, un pirata percosse dodici volte una specie di gong che era stato trovato in un angolo del fortino. All'ultimo colpo la porta del capannone s'aprì e la vergine della pagoda entrò sorretta da due dayachi. - Avanzati, vergine della pagoda - disse Sandokan con voce grave, - Suyodhana te lo comanda. A quel nome di Suyodhana, la pazza si era arrestata, liberandosi dalle braccia dei due pirati. Il suo sguardo, improvvisamente acceso e dilatato, si fissò su Sandokan, che stava ritto in mezzo alla pagoda, poi sui dayachi che conservarono una immobilità assoluta e da ultimo sulla dea Kalì. Un fremito agitò il suo corpo e alcune rughe si disegnarono sulla nivea fronte. - Kalì - mormorò con un accento nel quale si sentiva una vibrazione di terrore. - I thugs ... Si avanzò di alcuni passi continuando a volgere lo sguardo ora su Sandokan, ora sui pirati, ora sulla mostruosa divinità dei thugs, poi si passò due o tre volte la mano sulla fronte e parve che facesse un supremo sforzo per richiamare alla memoria una qualche orribile scena. D'improvviso Tremal-Naik irruppe nella pagoda e le si slanciò incontro gridando: - Ada! ... La giovinetta si era arrestata di colpo; il suo volto era diventato pallidissimo e manifestava una inesprimibile ansietà. I suoi occhi, che pareva perdessero a poco a poco quella luce strana, propria dei pazzi, si fissavano su Tremal-Naik. - Ada! ... - ripeté questi con voce straziante. - Ritorna in te! ... In quell'istante si udì una voce gridare: - Fuoco! Alcuni spari rimbombarono sulla soglia della pagoda ed un gruppo di uomini guidati da Yanez irruppe nell'interno, mentre i dayachi, come i thugs in quella fatale notte, fuggivano in tutte le direzioni. Ada era rimasta immobile. Ad un tratto trasalì, poi si curvò innanzi, come se cercasse di raccogliere il rumore di una nuova scarica o qualche altra voce. Sandokan si era fermato all'estremità della pagoda e non la perdeva di vista. Comprese ciò che aspettava ancora la disgraziata? ... Forse, poiché con voce tonante si mise a gridare, come aveva gridato il feroce Suyadhama: - Andate! ... Ci rivedremo nella jungla! ... Aveva appena pronunciate quelle parole che un urlo acutissimo irrompeva dalle labbra della pazza. Fece un passo innanzi col viso sconvolto, le braccia alzate, barcollò, girò su se stessa e cadde fra le braccia di Yanez. - Morta! ... morta! ... - urlò Tremal-Naik con accento disperato. - No - disse Sandokan. - Ella è salva! Appoggiò una mano sul petto della vergine. Il cuore batteva, debolmente sì, ma batteva. - È svenuta - diss'egli. - Allora è salva - disse Yanez. - Fosse vero! - esclamò Tremal-Naik che rideva e piangeva ad un tempo. Kammamuri ritornava con dell'acqua. Sandokan spruzzò a più riprese il viso della giovinetta e attese che ella ritornasse in sé. Passarono alcuni minuti, poi un sospiro profondo uscì dalle labbra della fanciulla. - Sta per rinvenire - disse Sandokan. - Devo rimanere qui? - chiese Tremal-Naik. - No - rispose Sandokan. - Quando noi le avremo narrato ogni cosa, vi manderemo a chiamare. L'indiano gettò un lungo sguardo sulla vergine della pagoda e uscì soffocando un singhiozzo. - Speri, Sandokan? - chiese Yanez. - Molto - rispose il pirata. - Domani questi due infelici potranno unirsi per sempre. - E noi ... - Zitto, Yanez: apre gli occhi. La giovinetta infatti ritornava in sé. Mandò un secondo sospiro più lungo del primo, poi aprì gli occhi fissandoli su Sandokan e Yanez. Il suo sguardo non era più torbido; era limpido, era lo sguardo di una donna che non era più pazza. - Dove sono? - chiese con voce debole, cercando di alzarsi. - Fra amici, signora - disse Sandokan. - Ma che cos'è successo? - mormorò. - Ho sognato? Dove sono? ... Chi siete voi? - Signora - disse Sandokan, - vi ripeto che siete fra amici. Cos'è successo, mi chiedete? Vi dirò che non siete più pazza. - Pazza? ... pazza? ... - esclamò la ragazza con sorpresa. - Ero pazza io? Non ho sognato, dunque? Ah ... mi ricordo ... È orribile ... È orribile ... Uno scoppio di pianto soffocò la sua voce. - Calmatevi, signora - disse Sandokan. - Qui non correte alcun pericolo. Suyodhana non esiste più e thugs qui non ce ne sono. Non siamo in India, ma nel Borneo. Con uno sforzo Ada si rizzò in piedi e, afferrando strettamente le mani di Sandokan, gli disse piangendo: - In nome di Dio, ditemi ciò che è successo e chi siete voi. Mi sembra di non comprendere più nulla. Erano le domande che Sandokan aspettava. Allora con voce grave le narrò succintamente tutto quello che era accaduto prima in India, poi a Mompracem e da ultimo nel Borneo. - Ora - concluse Sandokan, - se amate ancora Tremal-Naik, il coraggioso indiano che per voi ha compiuto miracoli, ad un vostro cenno egli sarà alle vostre ginocchia. - Se lo amo! ... - esclamò Ada. - Dov'è? Lasciate che lo riveda dopo una così lunga separazione. - Tremal-Naik! ... - gridò Yanez. L'indiano si precipitò nella pagoda e cadde ai piedi di Ada, esclamando: - Mia! ... Ancora mia! ... Dimmelo ancora una volta, Ada, che sarai mia moglie! ... La giovinetta posò le mani sul capo del fidanzato: - Sì, sarò tua moglie - diss'ella. - Mio padre mi ha promessa a te, e t'amo ancora. Nel medesimo istante una scarica di fucili rintronava sulle sponde della baia, seguita da una voce tonante che gridava: - All'erta! ... pirati di Mompracem! ... Ecco il nemico! ...

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