Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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La scuola di ballo

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Loria, Arturo 1 occorrenze

S'era imposto al momento di non badarci troppo, ma strada facendo e lavorando ad abbellir la sala per la cerimonia si sentiva tradito da qualche cosa che lentamente andava identificando. La casa, col mutar il suo colore un po' per giorno non gli aveva permesso di trovarsi allo stacco sperato, gli aveva consunto l'attesa di un gran momento, d'una gran decisione di vita nuova. La casa era quasi finita ed egli si trovava impreparato a viverci, vecchio uomo della casa buia, grigia e sporca come la custodiva suo padre. S'accorse osservando come i ricoverati godevano dell'aria di novità creata nell'Ospizio dai festoni e dalle bandiere, che niente sapeva cambiar per lui, che niente sarebbe cambiato. Pensò che forse tutta la casa andava rifatta nei muri interni, nei mobili e negli arredi, poi sorrise, commiserandosi di aver tanti bisogni ormai per vivere. Tornò a casa per l'ora di colazione. Non aveva voglia di mangiare e sdegnava i piatti delle vivande. Anna gli parlò di un acconto richiesto dagli imbianchini: egli prese a inveire contro la loro ingordigia di denaro e la bestialità con la quale eseguivano i lavori, poi domata l'ira improvvisa, consegnò a lei denaro bastante per pagare non l'acconto, ma tutto il prezzo pattuito. «Non ci voglio pensar più a questa faccenda. Hai capito?» Anna, impensierita della sua inquietudine, non osò mostrargli l'incoerenza di cui dava prova. Lo lasciò ripartir per l'Ospizio senza fargli parola, offesa e avvilita di non avere alcun potere benefico sopra di lui. Più tardi si vestì per uscire e raggiungerlo prima che fosse l'ora del discorso. Sulla porta di casa il capo degli imbianchini le venne incontro per chieder l'esito della sua richiesta d'acconto. Macchinalmente ella gli consegnò tutto il denaro. Stupito, l'altro le firmò una ricevuta, poi gridò su ai suoi uomini un ordine. Allontanandosi, Anna sentì che smantellavano un altro pezzo d'impalcatura, gente già pagata, presa dalla fretta di sgombrare da un lavoro che non dava loro più nessuna attesa. Si sorprese a capirli e quasi a invidiarli: entro poco tempo la casa sarebbe stata affidata a lei sola, rosa, ma più inabitabile di prima. Giunse all'Ospizio che tutti eran già nel salone delle feste, un'antica armeria della quale, tolti gli scaffali dell'armi, rimanevano i muri decorati a stemmi rossastri e a trofei guerreschi dipinti sulle porte. Davanti a una cattedra c'eran più file di poltrone per gl'invitati e i vari benefattori; dietro a quelle cominciavano, rinserrate, le seggiole nude e bianche dei vecchi. In una saletta laterale si vedevan, cariche di dolci e frutta, le tavole del rinfresco. Quando Anna arrivò in sala, Lucrezio, vestito di nero e grave di una gravità che ricordava quella del padre s'inchinava all'ingresso di un gruppo di signori anziani. Ella non osò attraversare le file di poltrone già occupate: si mise nell'apertura di una porta, appoggiandosi allo stipite. I vecchi seduti la fissavano stupiti di vedere una così bella signora rimanere in piedi: uno, e poi un altro s'alzarono a offrirle il posto. Al suo rifiuto pien di grazia i più vicini le posero un'attenzione curiosa come ricordasse loro qualcosa, ma si distrassero al passaggio di due inservienti con dei vassoi colmi di biscotti. Lucrezio montò in cattedra. Anna soffrì del subitaneo silenzio quasi ch'egli si fosse esposto a un grave pericolo. Mentre lui parlava ella n'aveva pena: sentiva lo sforzo fatto per mettere insieme quel lacrimogeno discorso ascoltato dai vecchi, intenti come bimbi cui piacciono le fluenti parole. Dopo Lucrezio parlò il ricoverato istruito da lui. Quel balbettio ebbe presto fine: il vecchio scese di cattedra intenerito dagli applausi e dalle strette di mano che parevano garantirgli un avvenire d'oratore. Tornato coi compagni in fondo alla sala parlava forte, così da infastidire, mentre uno dei benefattori prendeva la parola. Finiti i discorsi, tutti quelli delle poltrone passarono nella saletta del rinfresco e i vecchi rimasero lì, scambiandosi i sorrisi del povero che si crede mistificato. Lucrezio raggiunse Anna. «Che ci fai qui» chiese nervosamente. «Vieni con me: devo presentarti a tanta gente.» «È la direttrice» sussurrò una voce, lì vicino. Ella udì e ne fu colpita come da una cosa triste. Mentre Lucrezio e i suoi dipendenti accompagnavano all'uscita i benefattori e le autorità, i vecchi entrarono nella saletta, si fecero padroni delle tavole già briciolose e sciupate, dei vini, dei dolci, della frutta. S'udiva fin nell'atrio il loro vocìo, il tintinnar dei bicchieri, poi zittii e un ridere d'evasi che non san ben sicura la loro libertà. Lucrezio comprese con sgomento l'errore commesso lasciandoli senza sorveglianza. Fatti grandi inchini frettolosi agli ultimi partenti, corse nella saletta per vedere di calmare i ricoverati con la sua presenza. Anna gli tenne dietro: temeva una scatto d'ira, un eccesso malaugurato e rattristante. Si sfrenava la ressa dei vecchi intorno alle tavole saccheggiate. Alcuni, provvisti di bottiglie di vino, facevan da mescitori nella calca, e versavano a chi supplichevole tendeva il bicchiere, poi, strizzando gli occhi di affettuosa complicità, ingollavano al collo della bottiglia. Nella furia di arraffar qualcosa, i più s'imbestialivano in lotte intorno al vino e ai dolci; altri, tiratisi in disparte sputavano i bocconi duri e i semi delle arance, o s'insidiavano goffamente il bottino, mentre sotto il saio comune un riflesso o dolce o bieco dell'uomo di un tempo compariva inquietante. La voce e i gesti di Lucrezio non avevano alcun potere. L'economo venuto accanto a lui gli diceva: « Lei ha voluto fare le cose in grande. Guardi, ora: chi li tiene più?» e stringeva di sofferenza la bocca piccina, inseguiva con gli occhi polizieschi le mani che aveva visto rapaci piombar sui biscotti o sopra una fruttiera. «Non me n'importa nulla!» gli gridò Lucrezio sul viso, e trascinò Anna fuori da quell'ambiente irrespirabile. Quando furono in giardino corse loro incontro un custode, indaffarato, rosso di collera. «Signor Direttore» fece «ci son laggiù in fondo cinque o sei di questi mascalzoni che si bevono del vino portato via di sala. Tre bottiglie, ne hanno. Ho provato a riprenderle e a momenti ne ho avuta una nella testa. Come devo fare, io?» e nella domanda rabbiosa manifestava la sua voglia di vendetta. «Vado io a calmarli» rispose Lucrezio, pallidissimo. «Tu, Anna, resta qui: torno subito.» Anna rimase sola in un incrocio di viali: Lucrezio e il custode sparirono al primo svolto. Ella si sentiva dolorosamente inquieta: le pareva che Lucrezio accettasse ormai anche il veleno della sua situazione all'Ospizio come un male già previsto, meschino a paragone di un altro più grande, atteso con spavento. Tre vecchi che uscivan dalla villa vennero verso di lei. Due incespicavano a camminare, sghignazzando; il terzo correva dietro a loro a piccoli passi e precipitosi, sempre in pericolo di non reggersi e cadere in avanti. Dovevano aver bevuto e fatto uno scherzo a qualcuno, perché non si tenevano più, esilarati. Il primo, per riprender fiato si buttò a sedere sopra una panchina. Tossiva e rideva: gli altri due soffrivano la loro risata lunga e canora in piedi, tentenni accanto a lui. Due nuovi vecchi sopraggiunsero dalla casa. Ridevano e si davano degli spintoni, portando le mani alle tasche gonfie: apparivano all'orlo le teste gialle delle arance rubate sulle tavole. Questi si accorsero di Anna ferma contro una siepe. «C'è la signora direttrice» avvertirono, spaventando i primi che n'ebbero le risate tronche. Ella volle rassicurarli con un sorriso. Un poco esitanti i vecchi le si fecero dintorno. Erano attratti da lei: la fissavano con gli occhi scialbi entro le palpebre arrossate, cercando di esprimerle ch'erano meravigliati e contenti. Anna sorrideva sempre, ma aveva paura: voleva andarsene, presa dentro un cerchio di volti rugosi, schiusi a un sorriso roseo e umido di gengive. «Offriamo le arance alla signora» propose uno. Le mani tremolanti offersero i frutti. «Signora, signora, uno anche da me, uno anche da me» così imploravano i mendichi generosi e un po' ebbri. Ella accettò le arance. «Grazie, grazie: non tante. Tenetele per voi: le mangerete a passeggio» e si odiò per quella frase da vera direttrice. Fece un cenno amichevole di saluto. I vecchi si aprirono al suo passaggio, poi, come se un nuovo liquore li avesse pervasi, scoppiarono a ridere. Anna si volse quand'era già lontana. I vecchi si buttavano fra loro le arance. Le palle d'oro volavano per l'aria come in un giuoco di bimbi felici. Anche Lucrezio guardava, sbucato col custode da un vialetto. Raggiunse la donna e, toccandola, disse: « Vedi, ho fatto dell'Ospizio un giardino d'infanzia, e questo mio padre non me lo perdonerà in eterno.» Rise, ma ella ebbe paura. Usciti per un cancello, Lucrezio prese la via di casa. Bisognava percorrere dei brevi tratti di strada e svoltar tre volte lungo i muri prima di giungere a un largo donde si vedeva la casa. All'ultimo svolto ne appariva il lato senza appoggi, fetta lugubre, incatramata contro le intemperie. C'era qualcosa di nuovo nell'aria: sull'ultime impalcature viste di sbieco scherzavano i riflessi rossi di un gran sole vicino al tramonto. Lucrezio si fermò. Aveva da confidarsi a lei che taceva aspettando. «Data la mia cattiva prova» disse sorridendo «accetteranno le mie dimissioni da direttore. Non ho forza di andare avanti così» aggiunse per spiegare le sue ultime parole. «Sento che a far quel mestiere bisogna diventare come mio padre: vecchi duri e sordi a tutto.» Anna per approvarlo gli strinse la mano. A un tratto egli si staccò da lei, corse in avanti: si fermò poi dopo pochi passi, lì, sul marciapiede. Guardava la sua casa. La facciata rosa beveva il sole del tramonto che l'arricchiva e l'espandeva rossastra fuori dall'altre case smorte e bene allineate. Il sole, rappreso pallone di fiamma, batteva in pieno sui vetri di una finestra resa cieca, ma così incandescente che gli occhi non ne sopportavano l'abbaglio. L'altre finestrelle al paragone eran buchi nel muro mal quadrati da una crocetta di legno. Chi passava, levava il capo verso quella luce dorata, stupito di trovarla in città, in una strada triste e remota, poi s'accorgeva della coppia immobile, di lei così bella, e proseguiva ironico, pensando ai rischi che ha un marito troppo poetico: egli, pallido in viso, aveva lo sguardo incantato sulle pietre, gli spigoli e i davanzali, ricchi di un fuoco intimo e dolce di ferro rosso che si spegne. «Vedi» fece Lucrezio, toccando Anna. «Pensa come dev'esser bella la nostra camera con quel sole dentro; ma forse la finestra lo specchia soltanto. Andiamo a vedere» e s'indugiò un momento a mirar la fonte luminosa che splendeva meno vivida e sicura: a tratti il vetro ritrovava tra le colorazioni verticali e fredde di specchio la sua buia trasparenza sull'interno. Salirono in casa di corsa. Egli aprì la porta della camera da letto. Non c'era sole, ma una luce grigia appena toccata di riflessi rosei. Lucrezio si strinse ad Anna, la tenne a sé con la forza dell'angoscia. «Cosa ci stiamo a fare qui, in questa casa dove mi sento morire? Andiamo via! Andiamo via!» Ella fece un gesto di disperato accoramento e seguì lui che fuggiva verso le scale. Gli prese il braccio e lo condusse fuor di casa, verso i rumori della città, come egli fosse già il vecchio dai passi incerti e contati cui si concede oggi lo spettacolo delle novità degli altri uomini, a fornirgli un aspetto ricordevole del mondo ch'ei si prepara a lasciare.

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