Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbazia

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LE NOVELLE DELLA NONNA. Fiabe fantastiche

679060
Perodi, Emma 5 occorrenze
  • 1992
  • Newton Compton Editori s.r.l.
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Domani messer Baldo, il nostro dottore, redigerà una lettera per l'Imperatore, nella quale io chiederò che sieno aggiunti alla nuova abbazia alcuni terreni e borghi vicini. Tu, intanto, pensa a qual Santo desideri sia dedicato il monastero. Il vecchio signore prese fra le mani tremule la fiera testa di Sofia, e la baciò sulla fronte. La giovane signora si ritirò in camera sua e trasse da un vecchio mobile di quercia un libro, ornato di figure di santi. Ella non sapeva leggere, ma dalle immagini miniate dalla mano abile di un monaco Camaldolense, ricavava la storia dei martirî e dei miracoli di molti beati. Il suo occhio si fermò specialmente sopra una pagina in cui era raffigurata la testa sanguinante di san Giovanni Evangelista, deposta sul bacino, pure insanguinato. Ed a Sofia parve che gli occhi di quella testa la mirassero supplichevolmente e che due lacrime scorressero su quelle livide guance. - Ecco il Santo al quale dedicherò la nuova abbazia! - disse la giovane. - E in memoria del frate Camaldolense, che ha delineato la testa di san Giovanni Evangelista, le mie monache seguiranno la regola di san Romualdo. Quella notte Sofia non sognò altro che la testa insanguinata della vittima di Erode, e si vide vestita del lungo abito bianco dell'ordine, alla testa di una numerosa processione di monache. La mattina dopo, ella scese il ponte levatoio del castello per recarsi sul luogo ove desiderava sorgesse il suo monastero. Era seguita soltanto da due valletti e dal padre confessore. Sofia aveva fatto pochi passi lungo i fossati del castello, quando vide distesa in terra una bianca mula, sfinita di forze e tutta coperta di guidaleschi sulla schiena e sulle gambe. Pareva che la povera bestia stesse per mandare l'ultimo respiro; ma quando vide Sofia, fece uno sforzo supremo e, riunendo i quattro piedi, si alzò all'improvviso e le si accostò nitrendo. La giovane strappò pochi fili d'erba secca sulla proda del fossato e li offrì alla mula, la quale, barcollando e tentennando il capo, li prese e si diede a masticarli. Sempre barcollando sulle malferme gambe, la povera bestia seguì Sofia fino al luogo ove ella aveva in mente di costruire il monastero, e giunta colà cadde di botto in terra. La signora ordinò a uno dei valletti di tornare al palazzo e di chiedere una barella con quattro portatori robusti per trasportare nella stalla la bestia sfinita. I portatori giunsero: ma per quanti sforzi essi facessero, non riuscivano a movere la mula. Allora Sofia, sentendo che il vento soffiava gelato dai monti e vedendo che la neve incominciava a turbinare, ordinò agli uomini di non turbare l'agonia di quel povero animale e di fargli con alcune frasche un riparo, tanto per non lasciarlo seppellire dalla neve. Gli ordini di Sofia vennero subito eseguiti. Fu portato acqua e fieno alla mula, le fu gettato una coltre addosso, e soltanto quando la ragazza vide che nulla mancava alla bestia ammalata, ritornò al castello. Quel giorno stesso il conte Guido di Pratovecchio mandava all'imperatore Lotario, un messo recante una lettera, con la quale egli chiedeva la creazione dell'abbazia di San Giovanni Evangelista, dell'ordine di San Romualdo, nonché l'investitura di quell'abbazia per la figlia. La risposta dell'Imperatore doveva farsi aspettare molto tempo, ma quel periodo d'aspettativa non doveva parer lungo a Sofia; poiché in essa si compierono avvenimenti così meravigliosi che la tennero occupata notte e giorno. La mattina dopo, nonostante che la neve ricoprisse il terreno, ella uscì con la solita scorta per andare a visitare la mula; ma aveva appena varcato il ponte levatoio, che l'animale incominciò a nitrire in segno di gioia. - Madonna, questo è un miracolo! - esclamò il giovine Corrado da Barberino, uno dei valletti che l'accompagnavano. - La mula è viva e io non avrei dato un soldo della sua carcassa, tanto era rifinita. La mula, infatti, non soltanto era viva, ma se ne stava ritta gagliardamente sulle quattro zampe e con le narici fiutava il vento, come se fosse impaziente di slanciarsi alla corsa. I guidaleschi in quelle poche ore erano sanati come per incanto; e l'animale, ringagliardito, dimostrava di non essere una mula comune, ma di quelle bensì che servivano di cavalcatura ai papi, agli abati e alle dame nobili. Sofia la condusse al castello e la fece collocare nella stalla dove si tenevano i cavalli del Conte; le fece fare una morbida lettiera, e ordinò alle sue donne di trapuntarle una ricca gualdrappa di panno cremisi. Da quel giorno Sofia non ebbe altra cavalcatura, e la mula era così agile e sicura che nessun cavallo la vinceva alla corsa, e nessuno s'inerpicava meglio di lei su per le vie scoscese dei monti. Intanto era incominciata la costruzione della chiesa dedicata a san Giovanni Evangelista e del monastero. Sofia andava ogni giorno a vedere i lavori, impartiva ordini, e il conte Guido era più impaziente di lei di veder presto terminato quell'edifizio, che doveva servire d'asilo alla diletta sua figlia. Quando giunse la risposta affermativa dell'imperatore Lotario, già l'edifizio, che aveva più l'aspetto di una fortezza che di un monastero, era coperto, e non rimaneva altro che da benedire la chiesa. Nel nuovo monastero Sofia aveva fatto costruire, sotto la camera sua, una bellissima stalla per la mula. Nell'impiantito stesso della camera vi era una bodola, e sotto a quella una scaletta che metteva nella stalla, per modo che la Badessa potesse scendere direttamente dalla mula e, all'occorrenza, salirle in groppa e correre colà dove il bisogno la chiamava. Poiché Sofia non aveva dimenticato che doveva essere la difesa del fratello e dei beni della famiglia. Appena si seppe in Casentino che la figlia del conte Guido fondava un monastero, giunsero numerose le domande di ammissione per parte delle fanciulle di nobile casato, che preferivano la vita calma del chiostro a quella agitata dei castelli; e il giorno che l'abate scese in gran pompa dall'Eremo di Camaldoli per benedire la chiesa e il convento, già venti ragazze nobili facevano corona a Sofia, e molte contadine, che si contentavano dell'umile ufficio di converse. Il conte Guido e la contessa Emilia vollero che la cerimonia fosse oltre ogni dire sontuosa e non trascurarono di donare alla chiesa ornamenti preziosi, croci, calici, lampade, candelabri e paramenti sacri. Pochi giorni dopo che Sofia ebbe vestito l'abito bianco dell'ordine di San Romualdo, il vecchio Conte spirò fra le braccia de' suoi, raccomandando anco una volta alla figlia di vegliare sulla madre, su Ruggero, sul loro castello, sui terrazzani. Furono fatte solenni esequie, e il corpo del Conte venne deposto nell'avello della chiesa, sotto la custodia della badessa Sofia. Appena il vecchio ebbe chiuso gli occhi, incominciò a destarsi la cupidigia del signor di Porciano. Tutti sapevano che Ruggero era molto debole, e in quei tempi, in cui la forza e la prepotenza equivalevano al diritto, pensavano che un feudo così importante non doveva rimanere nelle mani di chi non sapeva difenderlo. Si armarono dunque, tanto il Conte, che era un fiero cavaliere, quanto i quattro figli, e scesero dalle loro balze seguiti da una turba di soldati, per assediare all'improvviso Pratovecchio, che credevano indifeso, e impadronirsene. Ma Sofia vegliava, e soprattutto vegliava la mula. Appena i signori di Porciano erano scesi dal loro castello, la mula s'era messa a raspare con le zampe, a sbuffare e a nitrire, e Sofia, che credeva fermamente che quell'animale le fosse stato inviato da san Giovanni, si insospettì, e nel cuor della notte corse al castello per prepararlo alla difesa; guarnì di uomini armati tutte le feritoie, e dopo aver dato gli ordini che credeva opportuni, ritornò al monastero e fece sonare a stormo. Da ogni parte giungevano i terrazzani dipendenti dall'abbazia, ed ella, che aveva nelle mura del chiostro un vero arsenale da guerra, li armava e li incitava alla difesa. Così quando i signori di Porciano sbucarono davanti al castello per assalirlo, ella, spiegando il gonfalone su cui era trapunto il capo di san Giovanni Evangelista, montata sulla bianca mula, andò loro incontro alla testa dei suoi uomini armati. - Perché giungete con tanto apparato di guerra, Conte? - domandò Sofia fermandosi a pochi passi dal signor di Porciano. - Quale offesa vi fu fatta da mio fratello o da me? - Io non sono uso di trattare di faccende guerresche con femmine, - rispose il Conte. - Rientrate, dunque, madonna, nel vostro monastero e pensate alle cose dell'anima. - Ci penso quando non ci minaccia nessun pericolo; ma ora non ho altra cura che quella della difesa. Una risata di scherno partì dalle file dei porcianesi. Sofia si sentì ribollire il sangue nelle vene e, afferrato lo scudo e la spada che le offriva il giovine valletto Corrado da Barberino, mosse ardita contro i nemici, gridando: - Per san Giovanni Evangelista, a me, miei fidi! La mula non corse, ma volò a gettarsi nella mischia. Sbuffava, rompeva le file dei combattenti, colpiva con la testa e con le zampe quanti cavalli le si paravano dinanzi, mentre la spada di Sofia faceva strage dei nemici. Quella donna vestita di bianco e quella mula bianca parevano un solo fantasma distruggitore. La spada di Sofia, che mandava lampi, s'immerse nel collo del conte di Porciano, dopo aver ferito molti dei suoi. Un grido di sgomento partì subito dalle file degli assalitori, vedendo cadere il loro capo, e tutti si diedero a fuga precipitosa nella campagna. Sofia, sventolando il gonfalone in segno di vittoria, ordinò ai suoi di raccogliere il ferito e di portarlo al monastero, dicendo: - Se i signori di Porciano vorranno il loro capo, debbono venirlo a prendere nel castello. Gli ultimi fuggiaschi dovettero udir certo queste parole di sfida, perché due giorni dopo, chiesto rinforzo ai loro dipendenti, signori dei piccoli castelli sulle balze dell'Appennino, si presentarono ben più forti della prima volta, e mandarono un messo a Sofia, dichiarandole che volevano misurarsi a corpo a corpo con il conte Ruggero, e non con una monaca che chiamava in suo aiuto il Cielo ... e magari l'Inferno. Sofia ricevé il messo, non nella sala della sua abbazia ma nel cortile del castello, mentre ritornava da una ispezione alle terre, nella quale si era trascinata dietro il fratello. - Direte al vostro signore che domani all'alba il signor di Pratovecchio scenderà in campo aperto attendendolo. Egli parla mal volentieri, ma si batte con piacere, e quando avrà scavalcato il primogenito dei signori di Porciano, affronterà il secondogenito, il terzo e anche il quarto, - rispose la fiera monaca. Il messo s'inchinò e fu riaccompagnato, dai valletti e dagli uomini armati, al di là del ponte levatoio. Sofia, appena il messo fu andato via, corse a sostenere il fratello, che stava per perdere i sensi. - Perché, - diceva egli con voce tremante, - perché hai fatto a nome mio quella promessa? Io non mi batterò mai; morirei se dovessi scendere in campo! - Calmati, signore, - rispose la Badessa con un sorriso di scherno. - Se ho promesso, manterrò, e il cavaliere che scavalcherà il signor di Porciano, sarò io e non tu. Dopo aver detto questo, ricondusse Ruggero alla madre più morto che vivo, ed alla Contessa raccomandò di vegliare sul figlio, poiché era in uno stato miserando. Poi ella distribuì armi, assegnò a ogni uomo il proprio posto e, scelta nella sala d'armi una forbita armatura, una spada, un'asta, un pugnale e uno scudo, se li fece recare al monastero, ordinando che le porte del castello fossero sbarrate e non si aprissero altro che se ella avesse sventolato il gonfalone con san Giovanni Evangelista. Nel monastero ella fece pure preparativi di guerra, schierò dinanzi a quello e al palazzo buon numero d'armati, e prima dell'alba, vestita l'armatura e inforcata la sua mula, scese in campo. Il figlio primogenito del prigioniero non tardò a giungere, e, schierati i suoi uomini dal lato opposto di quelli di Pratovecchio, salutò il cavaliere nemico, e il duello ebbe principio con l'asta. Sofia, portata dalla mula impaziente, fu addosso in un momento al cavaliere, e l'urto che questi ricevé dall'asta della Badessa e che il cavallo si ebbe dalla mula, li fecero precipitare per terra. Quando i fratelli del caduto videro questo, accecati dall'ira, piombarono subito sopra a Sofia, e dietro a loro si avanzò un forte drappello di soldati per aiutarli. I colpi piovevano come grandine sul morione e sull'armatura della Badessa, la quale non poteva neppur sollevare il braccio per difendersi, ma intanto la mula sbuffava, calciava, calpestando il corpo del caduto, che spirò fra atroci dolori. Appena l'anima di lui fu uscita dal corpo, la mula si sollevò da terra come se fosse stata un uccello, sgominando a calci i nemici, e poi depose Sofia in un punto poco lontano dove potesse servirsi delle armi contro di loro. Oltre il primogenito dei signori di Porciano, la prode Badessa scavalcò anche il secondogenito, e avrebbe vinto anche gli altri due, se essi, sgomenti, non si fossero dati alla fuga. Allora ella prese dalle mani di Corrado da Barberino il gonfalone con la testa di san Giovanni Evangelista e lo sventolò in segno di vittoria, invitando i suoi a inseguire i fuggiaschi. Questi, il giorno dopo, vennero umili a chieder pace. Domandavano il cadavere del loro fratello morto, la liberazione del padre e la consegna dell'altro fratello ferito. In cambio offrivano terre e molto denaro. Il messo fu ricevuto da Sofia in abito da cavaliere. Ella accondiscese ai patti, purché i signori di Porciano promettessero che non avrebbero più molestato i signori di Pratovecchio. Queste condizioni le dovevano scrivere, e aggiungere che sarebbero sleali qualora non le mantenessero. Le promesse non costano nulla e si fanno facilmente, ma è più agevole romperle che osservarle, e questo avvenne per i signori di Porciano. Appena riebbero i loro prigionieri, pensarono di vendicarsi. Ormai avevano scoperto che era stata Sofia, la fiera Badessa, che li aveva vinti, e quest'umiliazione inflitta loro da una donna non potevano inghiottirla a nessun costo. Ma che Sofia fosse valente nelle armi, non potevano negarlo, e non volevano misurarsi con lei per non esporsi a nuova vergogna; perciò occorreva rapirla e farle pagare con una lunga prigionia, e forse con la morte, la baldanza dimostrata. Sofia era troppo schietta per supporre che i signori di Porciano macchinassero contro di lei un tradimento, e non poteva supporre che quattro cavalieri, tra cui un vecchio, mancassero alla parola data e si esponessero ad esser accusati da ognuno di fellonìa. Non temendo dunque nessun attacco, ella si dava alle cure del suo monastero, agli esercizî spirituali, e nelle ore che le rimanevano libere, visitava la madre ed il fratello, il quale diveniva ogni giorno più effeminato e quasi stupido. Una sera dunque, mentre se ne tornava dal palazzo all'abbazia pensando alla triste impressione ricevuta nel trovare il fratello curvo sul telaio a ricamare un velo di seta come una femminuccia, vide uscir fuori da un ciuffo d'alberi un branco d'uomini armati. Prima che avesse il tempo di gridare, essi l'avevano legata, imbavagliata, e buttata come un sacco in groppa a un cavallo; poi si erano allontanati, portandola seco prigioniera. All'abbazia aspettarono un pezzo la Badessa, ma quando non la videro giungere, inviarono a cercarla dovunque. - Che cosa sarà successo? - si domandavano le monache fra di loro. Andarono nella camera, era vuota; scesero nella stalla, la mula era legata alla mangiatoia; soltanto sbuffava, raspava, e dagli occhi mandava lampi. Finalmente die' uno strattone alla corda, la quale si spezzò; allora la mula aprì con una zampata la porta della stalla, uscì nel cortile, e con un lancio saltò al di là delle mura dell'abbazia e dei fossati, e via a corsa sfrenata verso Porciano. Le monache, vedendo l'animale in tanta furia, si sbigottirono e, cessate le ricerche, si riunirono in chiesa, davanti a una immagine di san Giovanni Evangelista, che fecero ornare di lumi, e rimasero là in orazione per molte ore. Intanto la mula correva verso Porciano senza toccar quasi il terreno, tanto aveva il piede svelto. Giunse al castello che era già notte buia, e il ponte levatoio, abbassatosi per lasciar passare Sofia e i rapitori, era rialzato. La mula spiccò un salto, varcò il fossato, imboccò la pusterla, rovesciando quanti incontrava, e si fermò davanti all'uscio sbarrato di un sotterraneo. Pareva che udisse una voce a lei nota, perché drizzava le orecchie, sbuffava e calciava contro l'uscio per farsi sentire. Gli uomini d'arme, spaventati nel vedere quell'animale bianco, infuriato, si rinchiusero frettolosamente in una stanza, altri si affacciarono al ballatoio della scala, ma non ebbero coraggio di scendere, e intanto la mula continuava a fare un rumore d'inferno davanti alla porta del sotterraneo. Accorgendosi che l'uscio resisteva ai calci, l'animale s'inferociva sempre più, e imboccata la scala, la salì di corsa e penetrò come un fulmine nella grande sala del palazzo, dove i giovani signori di Porciano erano aggruppati intorno al padre, ridendo per essere riusciti nell'impresa di mettere in gabbia la fiera Badessa. Nel vedere la mula bianca, il vecchio Conte e i figli mandarono un grido di terrore e cercarono di rifugiarsi in altre stanze; ma la mula li rincorreva, li spingeva contro il muro, li gettava in terra e poi a suon di calci, di morsi, di zampate li uccideva. Quando li vide tutti distesi come tanti cenci per terra, scese la scala, e afferrato con i denti il carceriere, che traversava il cortile per darsi alla fuga, lo trascinò davanti all'uscio del sotterraneo e non lo lasciò andare altro che quando questi ebbe aperta la prigione. Allora la mula si diede a nitrire, e Sofia, udendola, salì l'angusta scala scavata nel masso, balzò in groppa all'animale, e poco dopo giungeva sana e salva alla sua abbazia e faceva suonar le campane per avvertire il popolo di Pratovecchio di armarsi; ma non ce n'era bisogno, perché quelli di Porciano avevano da seppellire i loro signori, ed era tanto il terrore che sentivano per la mula, che non avrebbero mai più osato di avvicinarsi all'abbazia e al castello. Dopo questo fatto nessuno turbò più la vita tranquilla di Sofia. Sua madre e il fratello Ruggero si spensero placidamente, e la Badessa sola rimase a guardia del castello. Ella visse lungamente e la mula si mantenne sempre forte e agile tutto il tempo che Sofia rimase a questo mondo. Nell'abbazia e in tutto il Casentino si attribuiva a miracolo quel lungo vivere di un animale, e si diceva che la Madonna e san Giovanni Evangelista avevano mandato quella mula a Sofia per aiuto e sostegno nelle vicende di una esistenza divisa fra le cure del monastero e la difesa di vasti feudi. Infatti il giorno in cui Sofia si spense, la mula ruppe la cavezza e fuggì via, né di lei si seppe altro. Morta la Badessa, ricominciarono gli attacchi al castello e all'abbazia, finché l'imperatore Corrado, che era succeduto a Lotario, non ebbe dato quel feudo a un altro conte Guidi. E così la novella è finita. Ma se la novella era terminata, la veglia non si sciolse subito, perché la Carola aveva preparato la pasta per fare i necci, e appena Regina ebbe cessato di parlare, prese i testi, li arroventò, li rivestì di foglie di castagno e poi, versatavi sopra la pasta, li mise per un momento al fuoco. Quei necci bollenti sono la ghiottoneria dei bimbi dell'Appennino toscano, e anche dei grandi. La Carola ne distribuì a tutti una certa quantità, coprendoli di burro fresco; per i grandi mise fuori una bottiglia di vin santo, e la veglia si protrasse lungamente. A un certo punto, mentre tutti mangiavano, comparve la matrigna di Vezzosa. - È questa un'ora da stare fuori di casa? - disse alla figliastra senza neppur dar la buona sera. - Via subito! Vezzosa si alzò per ubbidire, ma la Carola la trattenne. - Finché è con noi, voi non le potete far rimproveri, - disse alla vecchiaccia. - Andate pure a letto e non vi date pensiero; la riaccompagnerà Maso. La donna se ne andò scorbacchiata, rifiutando di accettare i necci e il vino, e Cecco si accostò a Vezzosa per dirle: - Sai, fra tre domeniche è Pasqua; ci hai poco più da tribolare, abbi pazienza! Ella gli rivolse uno sguardo pieno di gratitudine e non disse nulla. Il martirio era per finire, e ormai la pazienza non le mancava più.

poiché in quella notte era consuetudine dei Marcucci che i giovani andassero alla messa notturna alla abbazia di San Fedele, sul monte dove s'erge gigante il castello di Poppi, con la sua immensa torre che si vede quasi da ogni punto del Casentino, e i piccini rimanessero a casa a far compagnia alla nonna, la quale li teneva desti narrando loro fiabe meravigliose, che ella aveva udito a sua volta dalla propria nonna e dalle vecchie del vicinato. Il maggiore dei figli della Regina, l'austero Maso, che faceva da capoccia dopo la morte del padre, li comandava tutti a bacchetta; egli si alzò e, aprendo la porta della cucina che guardava sulla aia, disse, rivolto alla moglie e alle altre donne: - La nottata è brutta e la neve è tutta ghiacciata, che vogliamo fare? Mentre Maso teneva ancora l'uscio aperto strologando le nubi, che correvano da tramontana, un soffio di vento gelato penetrò nella cascina e fece rabbrividire grandi e piccini. Ma la Carola era stata pronta a dire: - E da quando in qua il freddo e la neve ci mettono paura? Alla messa di Natale ci siamo sempre andati e ci andremo anche stanotte, se Dio vuole. La Carola, come moglie del capoccia, godeva in famiglia di una certa autorità; così le altre donne annuirono con la testa, e mentre ella si alzava per vedere se le ballotte eran cotte nel paiuolo, le cognate salirono al piano superiore a prendere lo scialle, il rosario e i cappotti di panno pesante foderati di flanella verde dei rispettivi mariti. Quando esse riscesero, la Carola aveva già posato il paiuolo in tavola, dopo averne scolato l'acqua, e con una mestola di legno distribuiva ai bambini le castagne. Anche le cognate se ne empirono le tasche dei grembiulini di rigatino, e quando Maso disse: "Dunque, vogliamo andare?" tutti si strinsero bene sotto il mento il fazzoletto di lana a colori vivaci, e su quello si misero lo scialle di flanellone. - E tu non vieni? - domandò Maso a Cecco vedendo che s'era seduto di nuovo sulla panca nel canto del fuoco. - Sentirò tre messe domani, per ora resto qui; è tanto che non ho più fatto il Natale a casa, e mi struggo di sentir raccontare dalla mamma la novella dello scettro di re Salomone e la corona della regina Saba. Cecco non diceva tutto il suo pensiero. Tornato a casa dopo tre anni passati al reggimento, parte ad Alessandria, parte a Palermo, aveva trovata la sua vecchietta molto deperita, e il timore di perderla da un momento all'altro lo aveva assalito tanto da inchiodarlo a fianco della mamma in tutte le ore che non lavorava. E anche quando era nel campo, pensava sempre: "La troverò viva quando torno a casa?". Quel pensiero angoscioso e continuo gl'impediva d'imbrancarsi con gli amici e di andarsene a veglia nei casolari vicini, dove il bell'artigliere sarebbe stato festosamente accolto dalle ragazze, curiose di sentir parlare della vita di città e delle avventure militari. Maso aprì l'uscio e s'incamminò alla testa della comitiva, composta delle cognate, dei fratelli e dei tre ragazzi maggiori, ormai giovinotti anch'essi. Appena tutta quella gente fu uscita, Cecco andò a sedersi accanto alla Regina, e mettendole una mano sulla spalla, le disse scherzando: - Badate, mamma, la novella la so quasi a mente, e se non la raccontate bene, vi tolgo la parola e la narro io! Vi rammentate quante volte sono stato a occhi spalancati, con le gomita sulle ginocchia, a sentirla? - Quelli erano bei tempi! - sospirò la vecchia. - Allora era vivo il babbo tuo, tutte le figliuole erano in casa e io non ero così grinzosa. - Nonna, la novella! - dissero i piccini, che erano tutti ansiosi di udire per la centesima volta il meraviglioso racconto, che aveva sempre la virtù di commuoverli. La vecchietta finì di sbucciare una castagna, e dopo che l'ebbe data alla minore delle nipotine, prese a dire con la voce dolce e il purissimo accento, proprio degli abitanti delle montagne toscane: - Dovete sapere che al tempo dei tempi arrivò un giorno a Montecornioli un vecchio con la barba bianca, i capelli lunghi che gli scendevano fin quasi alla cintola, vestito di una cappamagna di seta e con un turbante in testa. Questo vecchio cavalcava una mula bianca e dietro a lui veniva un carro tutto coperto trascinato da un paio di bovi, e guidato da un altro vecchio, pure con la barba lunga e i capelli lunghi, ma vestito più miseramente. Attorno al carro cavalcavano cinque uomini armati di lancia, e tenevano a distanza chiunque si volesse accostare. Né l'uomo dalla cappamagna, né il carro, né i soldati erano stati veduti passare per il Casentino. Essi erano arrivati a Montecornioli senza valicare l'Appennino, senza battere le strade maestre. La gente li aveva veduti soltanto sul Pian del Prete, quando salivano la vetta di Montecornioli. Poi erano spariti col carro dentro un vano, che mette a una grande caverna. Soltanto l'uomo dalla cappamagna era rimasto a guardia di quel vano, e la mattina, quando i montecorniolesi si alzarono, rimasero a bocc'aperta nel vedere che, proprio in quel punto, dove prima non crescevano nemmeno le cicerbite e i cardi, era sorta, come per incanto, una casetta con le finestre chiuse e la porta sbarrata. La mia parola sarebbe insufficiente se volessi dirvi la meraviglia che destò in tutti la comparsa in paese di quella comitiva, e poi il veder sorgere quella casetta dalla sera alla mattina. Prima accorsero a Montecornioli, per sincerarsi del fatto, gli abitanti di Poppi e di Bibbiena; poi quelli di Certamondo, di Romena, di Pratovecchio, di Stia; e finalmente vennero anche da lontano. Ma guarda e riguarda, non vedevano nulla, e la casa rimaneva chiusa come se dentro non ci stesse nessuno. Però i più curiosi, mettendo l'orecchio contro il buco della chiave, sentivano un rimuginìo di monete e certe parole che nessuno capiva. Venne l'inverno, e la casa, che era bassa, rimase quasi nascosta nella neve. Quel mistero dei sette uomini seppelliti in quella caverna, metteva in moto tutti i cervelli e faceva dimenare tutte le lingue. Ci fu un montecorniolese più curioso dei suoi paesani, un certo Turno, che, senza dire nulla a nessuno, si mise in testa di scoprir quel mistero, e, aspettata una notte che non ci fosse luna, s'infilò un coltellaccio alla cintura, prese un'asta più lunga di lui, e si avviò alla casetta. Era buio come in gola al lupo e il vento mugolava nelle insenature dei monti e spazzava giù una neve fine fine e gelata, che tagliava la faccia a Turno; ed era giusto che fosse freddo, perché era appunto la notte del Natale. I rami degli alberi, sfrondati, battevano fra loro facendo un rumore di ossa cozzate insieme, e, un po' il buio, un po' quel mugolìo del vento, e più di tutto quel rumore, gelarono il sangue a Turno; ma la curiosità fu più forte della paura ed egli si accostò alla casetta misteriosa. Quando fu lì, avvicinò l'occhio al buco della serratura, ma non vide nulla; allora vi pose l'orecchio, e sentì un tintinnìo d'oro e di argento e un parlare strano, che egli non capiva. Stette così un pezzo, incerto se doveva bussare o no, ma finalmente, vedendo il fumaiolo del camino, dal quale non usciva punto fumo, salì sul tetto per tentar di penetrar con l'occhio nella stanza. La neve alta attutiva i suoi passi, e siccome il tetto era basso, con poca fatica vi salì; ma capì subito che non era riuscito a nulla, perché dal fumaiolo si vedeva il focolare spento e basta. Turno però, che aveva le scarpe grosse e il cervello fine, pensò: "È tardi, e prima o poi questi uomini misteriosi andranno a letto. Anche a contare i quattrini finiranno per stancarsi, e allora io, che sono secco come un fuscello, mi calo giù per la cappa del camino e mi levo da dosso questa curiosità, che non mi dà pace". Infatti si accoccolò come meglio poté da un lato del fumaiolo, a riparo dalla neve e dal vento, e aspettò. Ma aveva un bell'aspettare! Quelli di giù, conta che ti conto, non finivan mai di maneggiar monete e di ciarlare. A un tratto cessò il rumore, i lumi furono spenti giù nella stanza, e tacquero tutti i discorsi. In quello stesso momento, al castello di Soci scoccò la mezzanotte. "Ho capito, - pensò Turno, - sono stregoni, e a quest'ora se ne vanno in giro; tanto meglio, così vedrò senz'essere disturbato; aspettiamo." Ma non ebbe molto da attendere perché di lì a poco fu colpito da un gran chiarore e si vide passar davanti agli occhi una figura tutta bianca e lucente, e dopo questa una seconda, una terza, e poi tante e tante. Avevano i capelli biondi e inanellati, due ali bianchissime attaccate alle spalle, e portavano in mano una cesta coperta. Appena sbucavan fuori dal fumaiolo, si dirigevano verso un casolare o un villaggio. Le più volavano alto alto e poi sparivano fra le macchie di faggi o d'abeti verso l'Eremo di Camaldoli, nei punti dove sono le case dei carbonai o dei mulattieri. - Sono angioli! ... - diceva fra sé Turno. - E io che li avevo creduti stregoni! E quando ne ebbe veduti uscire un centinaio, e che gli parve che non ne dovessero venir più su per la cappa del camino, Turno si legò una corda alla cintola, fermò quella fune intorno al fumaiolo e si calò giù. La cucina era grande e, a giudicarne dalla sua vastità, doveva essere l'unica stanza della casa; ma sulle due lunghe tavole e sulle panche non c'erano né monete né altro. Dirimpetto all'uscio che metteva sulla campagna, v'era una specie di vôlta chiusa da un sasso. Turno staccò un lumicino di ferro dal muro, e dopo aver girata la pietra, entrò in un corridoio buio. Egli camminò per un pezzo, sempre in discesa, e finalmente sboccò in una caverna bellissima che pareva una sala. La vôlta era tutta tempestata di ghiaccioli di cristallo di forma curiosa, e nel mezzo c'era una grandissima colonna, tanto grande che quattro uomini non l'avrebbero abbracciata. Quando si fu fermato costì a guardare, Turno riprese la via, e scendi scendi, a un tratto fu colpito da una grandissima luce. Quel chiarore veniva da una sala, molto più bella della prima, che si trovava in fondo alla discesa, proprio nelle viscere del monte. Codesta sala era illuminata a giorno, e nel mezzo c'era una cassa d'oro col coperchio di cristallo, e intorno tante casse più piccole. Sulla parete di fondo v'era poi una specie di trono, tutto d'oro, e su quello dormiva il vecchio dalla cappamagna di seta. Turno tremò tutto nel vederlo e non osò accostarsi a lui. Si avvicinò peraltro alle casse d'oro col coperchio di cristallo, e rimase a bocca aperta a guardarle. In quella di mezzo, che era la più grande, v'era uno scettro d'oro tutto tempestato di perle grosse come nocciole. Sul fondo d'ebano nel quale era posato lo scettro, stava scritto in pietre preziose: "Salomone". In un'altra cassetta c'era una corona d'oro tutta ornata di brillanti, e su quella stava scritto: "Regina Saba". Nelle altre poi vi erano alla rinfusa braccialetti, collane, pugnali, spilloni, il tutto lavorato stupendamente e tutto scintillante di gemme lucenti come tanti soli. Turno, a veder tutta quella grazia di Dio, rimase di sasso, e il diavolo in quel momento lo tentò. Con una sola di quelle collane si sarebbe potuto comprare un podere, fabbricarsi una casa e cessare la vita di stenti che aveva fatto dacché era nato. Alzò gli occhi e vide che il vecchio dalla cappamagna dormiva come un ghiro, e il diavolo lo tentava sempre, facendogli pensare che nessuno si sarebbe accorto della mancanza di un gioiello. "Per chi possiede tanti tesori, un oggetto più o meno, non fa nulla", gli suggeriva lo spirito del male. Turno alzò il coperchio di una di quelle cassette, ficcò la mano dentro e la rilevò piena di gioie, che si nascose subito in seno; poi, tutto guardingo e tremante, riprese il lumicino che aveva posato in terra, e rifece la via percorsa prima per uscire dalla caverna. Giunto che fu alla seconda sala, grondava di sudore e le gambe gli si erano fatte pese come di piombo. Ogni momento si fermava, stava in ascolto perché gli pareva udir dietro a sé rumore di passi e voci. La salita che doveva fare lo sgomentava, e se non fosse stato il timore di trovare il vecchio desto, sarebbe tornato addietro per rimettere al posto i gioielli rubati, tanto se li sentiva pesare sul petto come ciottoli di torrente. In quella seconda sala si gettò un momento a sedere, ma subito si rialzò perché aveva sentito nitrire un cavallo a poca distanza, e si die' a salire di corsa per il lungo corridoio. Egli giunse tutto trafelato in cucina, e senza concedersi un momento di riposo, si attaccò alla fune e in un momento fu sul tetto. Appena Turno fu all'aria aperta vide venire volando da tutti i punti cardinali gli angioli bianchi e luminosi, che gli erano passati a poca distanza quando era nascosto dietro il fumaiolo. Tutta l'aria era imbiancata dalla luce che mandavano i loro corpi, e da ogni lato si sentiva cantare: "Osanna! Osanna! ... " mentre le campane delle chiese sonavano il mattutino. Turno, impaurito da quella vista e da quei canti, senza pensar nemmeno a levar la corda, spiccò un salto dal tetto, e invece di correre in direzione del paese, si nascose in una buca in mezzo alla neve e costì rimase intirizzito fino a giorno, come un ladro che ha paura di essere scoperto. Soltanto all'alba tornò a casa, e quando la madre gli domandò dov'era stato tutta la notte, rispose arrossendo: - Sono stato alla messa. E invece di aiutare la sua vecchia mamma nelle faccende di casa, salì in camera, nascose la roba rubata sotto un mattone dell'impiantito, e si coricò. Ma il sonno, che era il suo compagno fedele dopo le fatiche, quella mattina non andò a chiudergli le palpebre, e, dopo essersi rivoltato per diverse ore da una parte e dall'altra, dovette alzarsi. Appena scese in cucina e si affacciò sulla porta di casa, vide passare due contadini tutti lieti, che parlavano fra di loro gesticolando. Essi eran tanto infatuati a parlare, che neppur si accòrsero di Turno. - Sai, - diceva il più vecchio, - è proprio un miracolo. Stanotte alla mezzanotte s'è veduto sopra la casa mia un gran chiarore e poi s'è sentito un fruscìo d'ali sul tetto. Camillo, il mio bambino maggiore, che dorme in cucina, s'è destato e ha veduto scendere un angiolo dalla cappa del camino. Quell'angiolo si è chinato sul letto, lo ha baciato in fronte e gli ha detto: "Eccoti i doni che ti manda il Bambin Gesù perché sei stato buono. Ogni anno, se continuerai a essere onesto e timorato di Dio, verrò a visitarti". Poi l'angiolo è sparito cantando: "Osanna!" e Camillo racconta che tutta la stanza era piena di un odor acutissimo di gigli e di rose. Sul letto il ragazzo ha trovato inoltre un sacchetto di monete d'oro, vestiti caldi per ripararsi dal tramontano, e ghiottonerie di ogni specie. Io vengo a Montecornioli a raccontare il fatto al curato e a fargli vedere le monete. - In casa mia è avvenuto lo stesso, - disse l'altro contadino, - i regali sono toccati soltanto alla mia Maria, perché i maschi son tre forche, e l'angiolo, che lo sapeva, lo ha detto alla bambina mentre l'ha baciata. Turno, tutto commosso, aveva seguito i due uomini fin davanti alla chiesa e li vide imbrancarsi con tanti altri, i quali aspettavano che il curato avesse detto l'Ite missa est per interrogarlo al pari dei due contadini. Ora capiva dov'erano volati gli angeli! ora si spiegava perché aveva sentito contare tante monete! E quello che egli aveva rubato era dunque il tesoro dei bimbi buoni, dei bimbi poveri! Ebbe vergogna del suo furto e gli pareva che tutti dovessero leggergli in fronte la sua mala azione. In quel giorno non poté entrare in chiesa, non lo poté davvero! Le gambe non ce lo volevano portare; si mise a fuggire, e corri corri giunse in un bosco di castagni, dove rimase come un bandito fino a notte. Quando tornò a casa, trovò la mamma che piangeva davanti alla tavola apparecchiata. La povera vecchia, non vedendolo tornare a mezzogiorno, s'era messa a smaniare e non aveva potuto ingollare neanche un boccone del pranzetto preparato per quel giorno di grande solennità. E ora che lo rivedeva e le pareva così stralunato, non si poteva consolare, perché era sicura che qualche cosa di grosso gli fosse accaduto. Ma a tutte le domande che gli rivolgeva, Turno rispondeva sempre che non aveva nulla, che si era imbrancato con i compagni e per questo aveva fatto tardi. Madre e figlio mangiarono di malavoglia e, per la prima volta, andarono a letto senza neppure dirsi: "Felice notte", tanto Turno, arrabbiato con se stesso, se la ripigliava con la povera vecchia; e tanto lei era convinta, convintissima, che il figlio suo avesse commesso una cattiva azione. Né la vecchia afflitta, né Turno perseguitato dal rimorso, dormirono; anzi, il giovane a una cert'ora si levò, perché gli pareva di soffocare, alzò il mattone, si mise di nuovo in seno i gioielli rubati, e s'avviò verso la casetta all'imboccatura della caverna. Voleva vedere se gli riusciva di riscendere in cucina e rimettere al posto quelle gioie, perché gli pesavano sul petto come macigni, ed era pentito, arcipentito della sua birbanteria. Ma appena fu salito sul tetto della casetta, dovette di nuovo nascondersi, perché sentì giù nella cucina un gran tramestìo, e un momento dopo vide gli angioli comparire a uno a uno, e poi, quando furono tutti usciti dalla cappa del camino, prendere il volo come un branco di uccelli che vadano dal monte alla palude. Turno si accòrse che i volti degli angeli erano seri e accigliati. Volavano velocemente, e dalle loro bocche non usciva nessun suono melodioso. A un tratto uno di essi si voltò e fece, sul paese che abbandonavano, un gesto di maledizione. Turno si gettò di sotto impaurito e cadde sulla neve. In quello stesso momento udì un rumore tremendo, e la casetta crollò e scomparve giù nel le profondità della terra, per incanto com'era sorta. I montecorniolesi videro in quella notte, sull'apertura della grotta, due diavoli col piede di capro, che tramandavano un così acuto odore di zolfo, da soffocare quanti si accostavano. Quei due diavoli avevano in mano spade fiammeggianti. I montecorniolesi non solo, ma anche gli abitanti delle valli più basse e dei casolari di montagna s'impaurirono di questo succedersi d'incantesimi, e nessuno osava più passare, neppur di pieno giorno, davanti alla bocca della caverna. Di notte poi non se ne parla, perché stavano tutti rintanati in casa, e dopo la prima notte nessuno volle più esporsi a vedere quei brutti ceffi di diavoli con le spade di fuoco. La notizia di questo fatto giunse fino al beato Romualdo, abate di Camaldoli, il quale scese con una lunga processione di frati del suo Eremo, portando in mano la croce, e si recò a benedire la bocca della caverna di Montecornioli. Il santo abate però disse che sotto quel fatto ci doveva essere un mistero, quando gli fu assicurato da un suo frate che dopo poche notti che la caverna era stata benedetta, erano ricomparsi i demoni a farvi la guardia. L'abate Romualdo ordinò preci e digiuni a tutti gli abitanti del paese di Montecornioli, per impetrare da Dio la liberazione da quel tremendo flagello; ma neppur questi valsero, e i demoni continuavano a mostrarsi. In quel frattempo Turno era ridotto al lumicino. Nella notte stessa dalla scomparsa degli angioli e della casa, egli, sentendosi opprimere da quelle gemme rubate ai poveri, invece di portarsele a casa e nasconderle sotto il mattone del pavimento, aveva scavato una buca in cantina e ve le aveva rimpiattate, e poi era andato a letto. Ma non aveva potuto dormire in tutta la notte, e nell'uscire la mattina per andare nel bosco a segar le legna, come faceva ogni giorno, aveva sentito tutta la gente sgomenta dall'apparizione dei demoni e dalla scomparsa degli angeli, che avevano recato nella notte di Natale tanti doni ai bimbi buoni, ai bimbi poveri di tutta la contrada. Quelle lamentazioni che udiva gli arrivavano al cuore, perché sapeva che senza la sua curiosità e il suo furto, gli angeli avrebbero continuato a beneficare i poverelli del paese. Egli si sentiva un gran malessere dentro e le braccia cionche come se non potesse fare nessun lavoro. Tutto il giorno vagò per il bosco evitando d'imbattersi negli altri boscaiuoli, e non si avviò a casa altro che a ora tarda. Ma prima di oltrepassare gli ultimi alberi, sentì uno sbatter d'ali sulla sua testa, e a un tratto vide un pipistrello, grosso come un'aquila, con gli occhi e la lingua di fuoco. Il pipistrello rimase ad ali aperte davanti a lui, e gli disse: - Turno, tu hai reso al Diavolo un gran servigio, scacciando gli angioli dalla caverna. Devi sapere che essi vi avevano nascosto il tesoro della regina Saba e del re Salomone, salvato da Gerusalemme dopo la distruzione di quella città. Si erano ridotti qui dopo lunghe peregrinazioni e ad essi lo aveva confidato il Nazzareno. Se occhio umano riusciva a mirarlo, essi ne perdevano la custodia, e il tesoro passava nelle mani del nostro signore, Belzebù. Egli ora ti vuole ricompensare e ti permette di penetrare nella caverna e di sceglier magari lo scettro di Salomone e la corona di Saba. - Non voglio nulla! - diceva Turno tremando. - Non voglio nulla; è roba del Diavolo! - e si fece il segno della croce. Il pipistrello con gli occhi di fuoco cadde in terra come fulminato, e dove era caduto si aprì una buca fonda fonda, che ancora si chiama "Buca del Diavolo" e chi ci precipita non riesce a tornar più su. Turno, dopo questo fatto, tornò a casa come immelensito. La sua mamma non gli poté cavar di bocca neppur una parola assennata, perché vaneggiava come un matto. La sera gli venne la febbre, una febbre da cavalli, e nessuno sapeva da che derivasse. Così rimase un mese, fra la morte e la vita. Sua madre chiamò i medici a curarlo, ma essi non ci capivano nulla in quella malattia; chiamò le donne che sanno togliere il mal d'occhio, ma neppure quelle riuscirono a guarirlo; finalmente chiamò il curato a benedirlo, e allora Turno si sentì a un tratto sollevato, cessò di gridare e volle confessarsi. Dopo la confessione si comunicò, e appena si sentì in forze, scese in cantina, prese le gioie che vi aveva nascoste e se ne andò col bordone da pellegrino e col capo coperto di cenere, prima alla Verna, dove rimase in preghiera tre giorni, poi all'Eremo di Camaldoli, e finalmente alla Madonna di San Fedele a Poppi. Dinanzi a quella immagine egli depositò le gemme prese nel tesoro della caverna, e la collana e il diadema che nei giorni di festa ornano il collo e la testa della Madonna, sono ancora formate delle stesse perle e delle stesse gemme donate da Turno. Il quale, finché visse sua madre menò un'esistenza laboriosa, alternando il lavoro con le preghiere; ma alla morte della madre vendé la casetta, distribuendone il prezzo ai poveri, e poi andò a farsi frate a Camaldoli e per le sue virtù fu tenuto in concetto di santità. I montecorniolesi non hanno più veduto i diavoli con le spade fiammeggianti a guardia della caverna, ma nessuno ha osato mai di scavare il monte per impossessarsi delle ricchezze. Due ladri soltanto una volta vennero da lontano per rubare quello che sta nascosto nella caverna, ma sull'imboccatura furono tutti e due colpiti da una saetta, che li incenerì. Ma neppure i bimbi buoni, i bimbi poveri dei casolari sparsi sulla montagna hanno avuto più i ricchi doni, e questo fa supporre che in paese gli angeli non siano più tornati. La Regina tacque, e Cecco, il bell'artigliere, esclamò: Mamma, la memoria vi regge, ma una cosa sola avete dimenticato di raccontare a questi bimbi, che vi stanno a sentire a bocca aperta. - Che cosa? - domandò la Regina. La storia del turbante! - Non l'ho dimenticata; gliela serbo a domani sera, e per ogni festa del Natale ne ho un'altra. - Dunque, mamma, ne sapete tre solamente, perché tre son le feste di Ceppo? - esclamò l'Annina, una bimba vispa, che già aiutava in casa come una donnina. - No, no; intendo dire che ne ho in serbo anche per la sera di Capo d'anno, per quella di Befana e per le domeniche di gennaio. - Siete una gran nonna! - disse, mettendo la testa in grembo alla vecchia, un maschietto di capello rosso, con una testina sempre arruffata e certi occhietti furbi, nei quali si leggeva tutto quel che gli passava nella mente. - Peraltro la novella di stasera non mi capacita. - Perché? - domandò Cecco alzando Gigino e mettendoselo a cavalluccio sulle ginocchia. - Perché gli angioli non se la dovevano prendere con i bambini se Turno era sceso nella caverna. Mi pare che paghi il giusto per il peccatore, e a noi, a noi che ci si sforza di non far birichinate in tutto l'anno, quando vien la vigilia di Natale, non ci tocca nulla. - Son novelle! - sentenziò l'Annina, - e si raccontano così per divertire. Se ci credessi, io non porterei mai le pecore a pascere dalla parte di Montecornioli: avrei paura. - Però Gigino ha ragione, è un'ingiustizia! - dissero a mezza voce altri due piccinucci, che erano sempre del parere del Rossino. In quel momento si sentì alzare il saliscendi dell'uscio e le mamme tornarono con lo scialle tutto tempestato di sottilissimi cristalli di ghiaccio. Esse vuotarono sulla tavola una fazzolettata di brigidini e di confetti, sui quali i bimbi si gettarono avidamente. - Eccoli i nostri angioli! - esclamò l'Annina. - Ecco il mio angiolo! - disse Cecco abbracciando la sua vecchina. Dopo poco, grandi e piccini, tutti riposavano al podere dei Marcucci, e i bei sogni rallegravano la mente dei bimbi dormenti.

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