Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNIFI

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LE NOVELLE DELLA NONNA. Fiabe fantastiche

679087
Perodi, Emma 3 occorrenze
  • 1992
  • Newton Compton Editori s.r.l.
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Il forestiero non era più così abbattuto come ella lo aveva lasciato, e le domandò come mai non si trovava più nella soffitta ed ella aveva preso abiti maschili. Teresona gli raccontò le sue angustie della notte, e il giovane s'intenerì sapendo di quale abnegazione essa era stata capace pur di non abbandonarlo. - Se un giorno io riacquisterò i miei beni, - le disse, - tu, eccellente ragazza, sarai signora e padrona in casa mia; te lo giuro da cavaliere. Teresona s'intenerì e sempre più prese affetto per quell'infelice. Il giorno passò senza che messer Spini ricadesse nel letargo; ma appena la luna inondò con la sua luce argentea la vasta pianura, egli si addormentò, e dal sonno passò alle convulsioni; si dibatteva, mandava bava dalla bocca, e urlava come un lupo affamato. Ora bisogna sapere che la casetta, nella quale Teresona si era rifugiata insieme con l'ammalato, apparteneva a certi contadini i quali non l'abitavano altro che nei due mesi che precedevano la vendemmia. Essi solevano passarvi la notte per abbadare che non rubassero loro l'uva; il resto dell'anno non ci capitavano mai. Ma quella era appunto la stagione in cui l'uva aveva bisogno della sorveglianza notturna dei contadini, e due di essi si avviarono alla casupola, quando sentirono uscirne urli di lupo. I contadini stettero in ascolto un momento; poi, udendo che gli urli continuavano, non pensarono più all'uva e via di corsa. Quegli urli erano stati uditi anche da altri contadini, così che la mattina nel vicinato non si parlava d'altro che della presenza del lupo mannaro nel Pian di Campaldino. Come avviene sempre in certe circostanze, vi era pure chi asseriva di aver visto la bestia spaventosa correre di notte, mentre la luna era alta, per i campi e per i boschi, così nessuno si attentava più a uscir di casa la notte, e i contadini avrebbero lasciato piuttosto marcir l'uva sulle viti, che attentarsi a incontrare il lupo mannaro. Intanto Teresona, sostenuta dal desiderio di rendersi utile all'infelice cui affezionavasi ogni giorno più, non rifuggiva da nessun lavoro, per faticoso che fosse, pur di guadagnare qualche cosa. Aveva riaccompagnato il monaco a Camaldoli e da lui aveva ottenuto una larga ricompensa; poi s'ingegnava a far legna, che andava a vendere a Poppi e a Bibbiena, e se incontrava nei boschi qualche squadra di taglialegna, offriva l'opera sua per ottenerne qualche soldo. Una notte, vedendo messer Spini dibattersi furiosamente in preda alle convulsioni, Teresona aveva detto: - Sant'Anna benedetta, non vi pare che quest'infelice abbia patito assai? guaritelo, per carità di lui e di me! La luminosa visione le era di nuovo comparsa, e sant'Anna le aveva risposto: - Se la diletta Figlia mia non avesse esaudito le tue preghiere, tu e l'esule non avreste più neppure questo ricovero. Non capisci che sono gli urli di lui che tengono lontana la gente da questo luogo? - Chino il capo alle savie disposizioni della Provvidenza, - rispose Teresona umilmente. - Così va bene; - disse sant'Anna, - quando la persecuzione contro messer Spini cesserà, egli sarà guarito. La visione scomparve, ma gli urli continuarono e il terrore era sparso nei dintorni. Intanto i contadini, che vedevano marcire la loro uva sulle viti nel Pian di Campaldino, erano andati dall'abate di Strumi, che aveva nomea di santo, e gli avevan detto, con voce tremante e spaventata: - Abate maggiore, il lupo mannaro è in paese, e noi si perde la raccolta dell'uva. L'abate si era fatto spiegare il come e il perché di quella perdita, e dopo aveva detto: - Domani farò una processione fino alla casetta nel Pian di Campaldino e con l'acqua santa caccerò il lupo mannaro. Infatti il giorno dopo aveva adunato i suoi monaci, e, preceduto dalla croce, si era diretto al luogo dove tenevasi nascosto messer Spini. Egli era in un momento di calma e, seduto per terra col dorso appoggiato alla rozza parete, esprimeva a Teresona, che lo ascoltava con le lacrime agli occhi, l'ammirazione che ella gl'ispirava per la sua illimitata bontà. - Ti voglio bene, Teresa, - le diceva, - più che alla madre mia, più che alle sorelle, agli amici, alla patria stessa, e non saprei vivere senza di te. La donna, che stava sempre in ascolto temendo una sorpresa, udì salmodiare e, guardando da uno spiraglio della porta, vide la processione di monaci dirigersi alla volta della casupola. - Siamo perduti! - esclamò. E, senza cercar di fuggire, perché lo reputava inutile, s'inginocchiò e pregò fervidamente sant'Anna e la Vergine. In quel momento messer Spini fu assalito dalle convulsioni; egli incominciò ad urlare, e il suo corpo prese a un tratto l'aspetto orribile di una bestia villosa, con una testa enorme e una bocca fornita di zanne minacciose. L'animale, sempre urlando, si fece sulla porta, e pareva pronto a gettarsi addosso al primo che si accostasse. Il giovane monaco che recava la croce ed era in testa alla processione, appena vide il mostro, fuggì; l'abate che sperava tanto nell'acqua santa, se la diede a gambe, e in breve Teresona vide le tonache bianche dei monaci sparire dalla pianura di Campaldino. Quando nessuno più rimase in quei dintorni, messer Spini riprese sembianze umane e Teresona respirò. Tutti e due capirono che quella trasformazione era avvenuta per intervento celeste, e ringraziarono le loro Protettrici. Dopo qualche giorno messer Spini non fu più assalito dalle convulsioni. Soltanto quando qualcuno voleva avventurarsi vicino alla casa, mandava urli da lupo, e se v'era qualche spirito forte che si accostava con l'intendimento di uccidere il lupo mannaro nella sua tana, il fiorentino prendeva subito le sembianze del mostro e faceva fuggire il mal capitato. Così Teresona e l'esule rimasero padroni di una zona di terreno, dalla quale essi ricavavano in parte il nutrimento. La ragazza però non cessava d'industriarsi andando a vendere erbaggi a Bibbiena, e laggiù apprese che a Firenze non governava più il partito avverso a messer Spini, e che a questi era stato revocato il bando e la confisca dei beni. Tutta lieta ella andò a comunicare la notizia all'esule, il quale pianse di gioia e, approfittando della notte, volle subito partire per Firenze. Teresona fu molto afflitta da quella risoluzione del fiorentino e gli disse: - Signor mio, quando sarete in patria, ricordatevi qualche volta di me. - Ma tu mi accompagni! - rispose messer Spini, - mi sei stata compagna, sostegno, appoggio nella brutta sorte, sarai dunque la compagna dei giorni lieti. Così partirono, e dopo molti giorni di viaggio faticoso, messer Spini bussava alla porta del suo palazzo e, riconosciuto dai suoi concittadini, tornava al possesso del patrimonio e delle cariche del governo della Repubblica. Teresona aveva ripreso gli abiti femminili, ma non appariva più a nessuno così brutta come per il passato, forse perché messer Spini narrava a tutti la devozione di cui era stata capace quella creatura così buona e coraggiosa. Nonostante Teresona si sentiva a disagio nel bel palazzo, e ormai che messer Spini era guarito e ritornato in patria, ella voleva riandarsene in Casentino, per aver notizie del padre suo e ottenerne il perdono. Ma messer Spini non glielo concesse e, anzi, per dimostrarle la sua gratitudine, volle farla sua moglie. Teresona credé d'impazzire dalla gioia allorché il suo signore le comunicò questa risoluzione. Le nozze furono celebrate senza pompa nella cappella del palazzo Spini, dove la sposa visse lunghissimi anni venerata e stimata dal marito e dagli amici di lui, e dove morì in tarda età. Appena messer Spini e la Teresona furono partiti dal Casentino, certi contadini che passavano una mattina sul limitare della pianura di Campaldino videro il cadavere di un mostro, simile in tutto e per tutto a quello che aveva tanto spaventato l'abate maggiore di Strumi e tutta la processione. Essi andarono a raccontare a Poppi che il lupo mannaro era crepato, e allora il popolo dei dintorni, guidato dai proprietari della pianura, andò a vedere la bestiaccia che era stata per tanto tempo il terrore di tutto il paese. - Bruciamola! - disse uno. - Bruciamola! - risposero tutti. Allora lì per lì fu messa insieme una catasta di legne secche; la bestiaccia pelosa vi fu posta sopra a forza di stanghe, perché nessuno voleva toccarla, e in breve fu avvolta dalle fiamme e incenerita. Da quel giorno nessuno ha più udito né veduto il lupo mannaro in quei luoghi, e i contadini sono ritornati ogni anno a badare all'uva matura, senza essere turbati nelle loro veglie dagli urli del lupo. - E ora la novella è finita, - disse la Regina. In quel momento tornavano da Camaldoli il professor Luigi e la moglie, e con loro c'era anche l'Annina. - Come mai sei venuta? - le domandò la nonna. - Non so, - rispose la ragazza, - la signora mi ha detto che era meglio che passassi qualche giorno a casa, ed ho ubbidito. La signora Maria prese da parte la Carola e le disse che la signora Durini, sapendo che Carlo Buoni doveva tornare mercoledì o giovedì della settimana seguente, aveva creduto più conveniente che si abboccasse con l'Annina e le aprisse l'animo suo in casa dei genitori, piuttosto che alla villa dell'ispettore. Dopo quell'abboccamento le avrebbero rimandato la ragazza, dalla quale non intendeva separarsi fino al giorno del matrimonio. L'Annina doveva sospettar qualche cosa, perché era turbata e guardava tutti come se volesse leggere nell'animo dei suoi il segreto che era sicura le celavano; ma non domandò nulla, per il momento, ai grandi. Però, imbrancatasi con i piccini, che le avevano fatto una gran festa vedendola giungere, li aveva condotti nell'orto, e abilmente, senza dimostrare curiosità, li aveva interrogati. Essi erano stati tutti contenti di raccontarle che in settimana avevan avuto visite, che c'erano stati i Buoni, padre e figlio, e che durante la loro visita essi erano stati mandati via di cucina. - E dopo che hanno fatto? - domandò l'Annina. - Dopo aver molto parlato, il capoccia ci ha mandati a prendere l'aleatico; essi hanno bevuto, e son partiti per Poppi. Però il Vecchio, al ritorno, s'è fermato qui di nuovo. - E com'era il babbo? - Tutto felice, come quando torna dal mercato e ha venduto bene un paio di manzi. - E voi, che cosa avete supposto? - chiese di nuovo l'Annina. - Che il capoccia, la nonna, le nostre mamme e la Vezzosa hanno paglia in becco. L'Annina era troppo furba per non aver capito tutto. Il cuore le batteva forte forte, e quel certo mistero che ancora avvolgeva un fatto di cui non poteva aver più dubbio, le faceva provare una grande, una immensa felicità. Non sapeva spiegarsi come il sor Carlo avesse proprio scelto lei, e quando fu a letto, sicura che nessuno la vedeva, pianse e rise dalla grande felicità.

Credete che per questo messer Cione si mostrasse abbattuto? Neppur per idea. Non s'era vestito a lutto, non aveva fatto dir messe per il riposo dei suoi morti, e a chi gli porgeva consolazioni, rispondeva: - Chi muore giace, e chi resta si dà pace! Il giorno dei Morti era sempre un giorno di lutto per gli abitanti di Poppi, com'è anche ora, e per tutti. La gente pensava ai proprî defunti, pregava per loro, assisteva alla messa e all'ufizio e portava ceri sulle tombe. Chi poteva, faceva elemosine e ordinava messe, e sarebbe parso un sacrilegio, in quel giorno funebre, di divertirsi. Messer Cione non solo non pregava né si mostrava afflitto, ma canzonava ben bene, di sulla porta dell'osteria, vuota di avventori, quelli che andavano in chiesa a pregare. - Chi muore giace, e chi resta si dà pace! - ripeteva egli. Le donne, nell'udirlo dir così, si facevano il segno della croce; gli uomini abbassavano il capo senza rispondergli: ma sì gli uni che le altre lo riputavano empio, e avrebbero scommesso chi sa che cosa che era già dannato avanti di morire. Un anno, il dì dei Morti, durante la messa, s'era fatto vedere a tavola davanti all'osteria a mangiare e bere con due o tre soggettacci di Romena, gente che lo aiutava nelle faccende losche; quando ebbe mangiato a strippapelle, si fece portare i dadi e si mise a giocare e giuocò tutto il santo giorno, dando scandalo a quanti passavano. La sera, mezzo brillo, accompagnò i tre soggettacci fino a Romena, e dopo di aver fatto baldoria anche là, se ne tornò a Poppi cantando una canzonaccia. Quando passava davanti alle immagini della Madonna, murate nella cappellina o sulle facciate delle case de' contadini, batteva col bastone l'erba delle prode, senza aver paura di ferire le anime che in quella notte popolano la campagna. Così cantando e agitando il bastone, giunse a un punto dove facevano capo due vie scendenti da Poppi. La più lunga era posta sotto la custodia del Signore, mentre la più corta era frequentata dai morti. Molta gente, nel passarvi di notte, aveva veduto cose da raccapricciare; ma nessuno osava raccontarle, altro che in mezzo a una brigata numerosa. Messer Cione, per altro, non aveva paura neppur del Diavolo, e prese la via più breve fischiettando allegramente. Era una notte senza luna e senza stelle e il vento impetuoso faceva turbinare le foglie; i cespugli tremavano come persone che avessero paura, e in mezzo a quel silenzio i passi di messer Cione echeggiavano sinistramente; ma egli non aveva paura. Passando accanto a una casa abbandonata, sentì la banderuola che diceva: - Torna addietro! Torna addietro! Torna addietro! Messer Cione non badò a quell'avvertimento, e giunse a un rigagnolo, ingrossato dalla pioggia caduta poco prima, che diceva: - Non passare! Non passare! Egli non badò neppure a questo secondo avvertimento, e, posato il piede sui sassi che erano attraverso il rigagnolo, passò dal lato opposto. Giunto che fu a una vecchia quercia, col tronco vuoto e coi rami scossi dal vento, sentì dire: - Resta qui! Resta qui! Resta qui! Ma ser Cione percosse l'albero col bastone che aveva in mano e affrettò il passo. Alla fine penetrò nel luogo dove bazzicavano le anime. In quel momento, all'orologio di Poppi e a quelli dei castelli vicini, scoccò la mezzanotte. Un altro sarebbe scappato; ser Cione invece, per dar prova di coraggio, si mise a cantare una canzonaccia. Ma nel tempo che cantava la quarta strofa sentì il rumore di una carretta tirata da cavalli senza ferrare, e la vide, infatti, nel buio, che si avvicinava a lui, coperta di una coltre da defunto. Allorché la carretta fu a breve distanza, la riconobbe per la carretta della Morte. Era tirata da quattro cavalli neri, con le code così lunghe che spazzavano il terreno. Seduta sopra una stanga stava la Morte in persona, con una frusta di ferro in mano e ripeteva sempre: - Tirati da parte o ti metto sotto! Tirati da parte o ti metto sotto! Ser Cione si scansò, ma senza turbarsi. - Che fai qui, madonna Morte? - le domandò sfacciatamente. - Prendo, sorprendo e porto via, - rispose il brutto fantasma col viso di scheletro. - Sei dunque una ladra e una traditrice? - continuò ser Cione. - Sono quella che colpisce senza sguardo e senza riguardo. - Cioè una sciocca ed un'assassina. Allora non mi stupirebbe che in codesta carretta tu ci avessi dei compari per darti manforte a commettere le tue infamie. Ma, dimmi un po', perché hai tanta fretta e martorizzi i poveri cavalli con codesta frusta di ferro, che non ho mai veduto usare da nessuno? - Sappi, - rispose il fantasma, - che debbo andare a prendere messer Cione, l'oste di Poppi. Addio! Ciò detto frustò i cavalli, e via. Ser Cione si mise a ridere e non si turbò per questo. Nel giungere a una siepe di pruni, che metteva al lavatoio, vide due donne bianche e belle, che sciorinavano i panni di bucato. - Perbacco! - disse, - ecco due ragazze che non hanno paura del sereno! Perché, belle fanciulle, state fuori a quest'ora? Il coprifuoco è sonato da un bel pezzo, e a Poppi non potrete entrare fino a domattina. Siccome io pure ho fatto tardi, non sarebbe male d'ingannare il tempo ciarlando; che cosa fate? - Noi laviamo! - risposero le due donne. - Me ne rallegro tanto, ma ora non lavate. - Ora rasciughiamo, - soggiunsero le due donne. - Con questa nottata non rasciugherete neppure un moccichino. - Non dubitare, rasciugheremo, e intanto ci metteremo a cucire. - Che cosa? - domandò l'oste. - Il lenzuolo del morto che cammina e parla ancora. - Ditemi un po', come si chiama questo morto? - Messer Cione, l'oste di Poppi, - risposero le donne. Ser Cione rise più forte della prima volta quando aveva inteso pronunziare il suo nome dal fantasma della carretta, e salì per la viottola che menava al paese. Ma più andava avanti e più gli giungevano distinti all'orecchio i colpi che facevano altre lavandaie di notte, sbattendo i panni sulle pietre del rigagnolo. A un tratto le scòrse e vide che battevano un lenzuolo funereo, cantando il triste ritornello: Se cristian non ci viene a salvare, Sempre sempre bisogna lavare; Prepariamo il lenzuolo pel morto, Che dev'esser qui dentro ravvolto. Appena le lavandaie di notte videro giunger l'oste, cessarono il canto, si misero a gridare, e, correndogli incontro, gli presentarono il lenzuolo imponendogli di aiutarle a torcerlo per farne uscir l'acqua. - Non si rifiuta mai un piccolo servigio ... - rispose ser Cione. - Ma aspettate un momento, perché non ho altro che due mani. Allora posò in terra il bastone, e preso uno dei due capi del lenzuolo che gli presentava la morta, si diede a voltolarlo nello stesso senso in cui ella lo torceva, perché aveva sentito dire dai vecchi che quello era il solo mezzo per non essere torto come il lenzuolo e spremuto. Ma appena ebbe strizzato l'acqua dal lenzuolo della prima morta che gli s'era avvicinata, ne giunse una seconda, poi una terza e molte altre ancora, e tutte circondarono ser Cione pregandolo di aiutarle. Fra tutte quelle donne riconobbe sua madre, sua moglie, le sorelle e le figlie, e quando s'era affaticato a torcere il lenzuolo che gli presentavano, per ringraziamento glielo sbattevano in faccia e gridavano: - Maledetto colui che lascia patire i suoi nel Purgatorio! Maledetto in eterno! E tutte quelle morte scotevano i capelli, alzavano i lenzuoli bianchi, e lungo tutti i fossi del monte e della valle, lungo tutte le siepi, da tutte le vette, migliaia e migliaia di voci ripetevano: - Maledetto colui che lascia patire i suoi nel Purgatorio! Maledetto in eterno! Ser Cione si sentì rizzare tutti i capelli sulla testa, ma seguitava a voltare il lenzuolo nel senso che torceva la morta per non essere torto e spremuto anche lui. Così lavorò fino all'alba sudando freddo, circondato da uno stuolo di morte, che urlavano: - Maledetto colui che lascia patire i suoi nel Purgatorio! Maledetto in eterno! E dalla valle, dalle balze dei monti, dalle vette, partiva lo stesso grido di maledizione, che l'eco ripeteva migliaia e migliaia di volte. Ma appena l'alba incominciò a imbiancare il cielo, le morte sparirono a una a una, e ser Cione, spossato da tanto terrore, cadde in terra e dormì come un ciocco. Credete che ser Cione nel destarsi fosse pentito? Neppur per idea! Si stropicciò gli occhi e disse fra sé: - Guarda un po' che brutti sogni si fanno quando s'è bevuto un bicchiere di vino di più! Pare impossibile! E cantando tornò a casa sua, aprì l'osteria come al solito, senza serbare sul faccione di luna piena nessuna traccia della paura della notte. E per tutto quell'anno seguitò, come se non fosse stato nulla, a canzonar quelli che andavano in chiesa, che si levavano il boccon dalla bocca per fare elemosine, e ascoltavano messe per i loro defunti. E anche quell'anno ser Cione commise un sacco di ribalderie insieme con altri furfanti del vicinato, e andò lì lì per esser preso sul fatto e impiccato. Ritornò il giorno dei Morti, la triste giornata autunnale in cui tutti avevano la mente rivolta ai loro defunti e pregavano, affinché fossero sollevati dalle pene del Purgatorio. Ser Cione, fin dalla mattina, si mise sulla porta dell'osteria a canzonare quelli che andavano in chiesa, e vedendo passare un lungo stuolo di donne, che dicevano devotamente il De profundis si mise a urlare: - Sgolatevi pure, tanto i ragli degli asini non giungono in Paradiso! Tutto il paese era scandalizzato dalle parole di ser Cione, il quale, avendo invitato come di solito a far baldoria tutti i malanni di Poppi e dei paesi vicini, bevve per dieci, e dopo si diede a percorrere la campagna cantando a squarciagola. A uno a uno i suoi compagni lo lasciarono per tornar alle loro case, ed egli, vedendo che aveva fatto tardi e che al paese non poteva tornare, perché a quell'ora le porte eran chiuse, si rassegnò a passar la notte al sereno, tanto la serata era calma e la pioggia né la neve minacciavano di cadere. Tagliò dunque col coltello, che portava sempre seco, alcuni rami secchi dalle siepi e dagli alberi, e accese una bella fiammata in un punto riparato, a ridosso di un vecchio muro. Appena la fiamma divampò, ser Cione vide un fantasma bianco, rinvoltato in un sudicio lenzuolo a brandelli, accostarsi a lui. - Vattene! - disse ser Cione, - non permetto che altri si scaldi alla mia fiamma. - Lo so che sei un uomo senza cuore, che non hai pietà né dei vivi né dei morti, ma per questa notte io non mi muoverò di qui, - rispose il fantasma, e si sedé davanti alla fiamma. Poco dopo giunse un secondo fantasma avvolto in un lenzuolo anche più sudicio e più sbrandellato di quello dell'altro. - Vattene! - gli disse ser Cione, - non voglio tanta marmaglia d'intorno a me. - So bene che hai una pietra nel posto del cuore, - rispose il secondo fantasma, - che non hai pietà né dei vivi né dei morti; ma per questa notte non mi moverò di qui. Si sedé accanto al fuoco, e quindi soggiunse, rivolgendosi all'altro fantasma: - Ti rammenti come eravamo felici quando ci nacque quel figlio, moglie mia? - Se me ne rammento! Ogni lacrima che mi è costato, mi ha fatto ripensare a quel momento di gioia, marito caro. Io ti ho sopravvissuto, e non puoi credere quello che egli mi abbia fatto patire. Mi sottoponeva alle più dure fatiche, mi maltrattava, mi contava i bocconi, e lui stava tutto il giorno a bere, a bestemmiare e a far di peggio. Tuttavia gli avrei perdonato tutto, se una volta avesse ascoltato una messa, o avesse fatto un'elemosina per sollevare l'anima mia dalle pene del Purgatorio; ma invece quel birbante gozzoviglia in questo giorno sacro a noi, e non ha un pensiero per i suoi morti. Ser Cione, seccato da quei discorsi, si era già alzato per andarsene, maledicendo gl'importuni, ma sentì due mani gelate prenderlo per il viso e trattenerlo dov'era. - Questo è troppo! - esclamò egli. - Io voglio stare dove mi pare e andarmene dove mi accomoda. - Per questa notte, - disse il terzo fantasma, che lo aveva trattenuto, - tu devi ascoltare i nostri lamenti, poiché avrai capito che quei due che parlavano di te furon tuo padre e tua madre, come io fui tua moglie. Ora verranno gli altri morti della nostra famiglia, e spero che t'impediranno di andartene. Ser Cione, di riffa o di raffa, dovette star dov'era, e i due vecchi continuarono i loro lamenti, intanto che la moglie guardava di qua e di là come se aspettasse qualcuno. Finalmente si alzò e corse incontro a due angioletti bianchi, che volarono a lei con le faccine sorridenti, soffuse di luce. La donna li baciò piangendo di gioia: - Ecco i nostri figli, - diss'ella a ser Cione. - Come vedi non hanno bisogno delle tue preghiere, perché sono in Cielo; ma se tu avessi fatto dire qualche messa per me, non sarei più divisa da loro. Di questo solo mi dolgo con te, perché ti era così facile far cessare la nostra separazione. Ser Cione non parlava e neppure osava avvicinarsi ai due angioletti, che s'erano accostati alla mamma e le facevano mille carezze, mentre per lui non avevano nessuno sguardo, nessuna parola. I due vecchi intanto continuavano a imprecare a quello snaturato figliuolo, e alla loro voce si univa quella delle sorelle di ser Cione, sopraggiunte allora e anch'esse avvolte in lenzuoli funerei. Il solo vivo, in mezzo a tutti que' morti, non era più calmo e sprezzante come l'anno prima quando capitò in mezzo alle lavandaie di notte, che gli fecero torcere i lenzuoli funerei, né come poco avanti quando sentiva parlare il padre, la madre e la moglie. Dacché aveva veduto i suoi due bimbi, si sentiva una smania, una irrequietezza che non aveva mai provate. Avrebbe voluto baciare quei due angioletti, ma temeva di vedersi respinto da loro e stava a guardarli intenerito, ripensando a come era triste, ora, nel mondo, senza nessuno. Intanto il vecchio, la vecchia e le sorelle di ser Cione gridavano: - Maledetto colui che non ha pietà dei suoi morti! Maledetto in eterno! - Maledetto in eterno! - rispondevano le anime sparse nella campagna e alle quali è concesso, una volta l'anno, di tornare in terra. A un tratto ser Cione scoppiò in singhiozzi. - Son dannato, - diceva, - chi mi salverà? Tutti, tutti mi maledicono! La moglie del ribaldo strinse a sé i due bambini e alternava i baci con le parole che sussurrava loro nell'orecchio. I due piccini risposero alle suppliche di lei: - Non dubitare, mamma, addio! - E per me non c'è neppure un saluto? - domandò ser Cione ai figli. - Per ora no; ma torneremo presto, prestissimo. E volarono su, agili come due colombi. In breve, il chiarore che mandavano si confuse con quello delle stelle che erano sparse nel firmamento. I fantasmi, adunati intorno a ser Cione, non cessavano di lagnarsi di lui, ma egli non li udiva. Aveva nascosta la testa fra le mani e continuava a piangere dalla vergogna dei suoi peccati. La moglie sola non univa la sua voce a quella degli altri, non imprecava contro di lui, ma sibbene pregava per il suo ravvedimento e teneva l'occhio rivolto al cielo, da cui sperava di veder discendere i suoi due angioletti, che erano andati messaggieri a Dio. Ser Cione accostò la bocca all'orecchio della moglie, e le disse: - Credi tu che un uomo macchiato di peccati possa salvarsi? - Lo credo fermamente, - rispose ella. - E con qual mezzo? - Col vero e sincero pentimento, col pentimento che nasce più dal dolore di avere offeso Iddio e di aver recato danno al prossimo, che dal desiderio di sfuggire una punizione eterna, meritata dai peccati. - Io lo provo, questo pentimento, perché ho vergogna di quel che ho fatto, perché soffrirei mille pene, pure di cancellare la mia vita. - Ma senti tu, insieme a questo pentimento, la forza di incominciare un'altra vita, onesta, tutta diversa da quella passata? - La sento, anima santa, e il miracolo non l'hanno operato i miei vecchi con le loro aspre parole, non l'hanno operato le altre anime di morti con le loro maledizioni, ma l'hai operato tu, con la tua dolcezza. Nel vedermi guardare a quel modo dai nostri angioletti ho conosciuto la mia abiezione, ho avuto vergogna e ho sentito che cos'è rimorso e pentimento. In quell'istante ser Cione vide una striscia luminosa solcare lo spazio, e pochi secondi dopo udì due vocine dolci, due vocine care che cantavano: - Osanna! Iddio è grande e misericordioso verso i peccatori pentiti! - Senti, - disse il fantasma della moglie di ser Cione, - sono i nostri figli che tornano dal Cielo e ti portano la grazia; cerca di meritarla. Il solo vivente in quel consesso di morti, cadde in ginocchio, e le sue labbra mormorarono le preghiere imparate da bambino, mentre il suo cuore si dischiuse alla speranza. I due angioletti gli posarono le manine sulla testa, accarezzarono il volto paterno e volarono su nell'etere cantando: - Osanna! Osanna! L'alba incominciava a imbiancare il cielo, e i defunti di ser Cione sparirono a uno a uno, gridandogli: - Maledetto colui che non ha pietà dei suoi morti! Maledetto in eterno! La moglie lo lasciò, invece, dicendogli: - Persevera nel pentimento, lavora per meritarti il Cielo, e allora saremo uniti, uniti per sempre. Il sole, nel levarsi, trovò ser Cione allo stesso posto nel quale lo avevano lasciato i suoi morti, con le mani congiunte e l'occhio rivolto al cielo, dove aveva veduto salire i suoi angioletti. - Che sia stato un sogno? - esclamò egli; ma subito dopo aggiunse: - Anche se così fosse, che bel sogno! Salì a Poppi, e invece di andare a casa sua e mettersi a schernire i devoti dalla porta dell'osteria, entrò nella chiesa di San Fedele, s'inginocchiò in un angolo e si mise a pregare come ogni buon cristiano. Dopo aver lungamente pregato, specialmente per i suoi morti, andò in sagrestia e pose nella mano di un frate tutti i soldi che aveva in tasca, dicendo: - Dite tante messe per le anime dei miei poveri defunti! Il frate, che lo conosceva per un malandrino, sgranò tanto d'occhi, e tutti quelli che lo videro in chiesa, andarono a sparger la voce che ser Cione s'era ravveduto, che ser Cione voleva diventar santo. Quel giorno egli non aprì l'osteria e non l'aprì mai più. Dava ai poveri larghe elemosine, pregava, faceva dir messe per i suoi morti ed evitava d'incontrare i suoi antichi compagni di vita peccaminosa. Se però li vedeva, diceva loro: - Fratelli, ravvedetevi! Le soddisfazioni terrene sono fugaci, le punizioni sono eterne! A Poppi tutti erano edificati di quel cambiamento repentino, e le persone buone e pie, che prima egli aveva offese, ora si avvicinavano a lui e lo esortavano a perseverare nella via del pentimento, nella via che conduce alla salvezza. Ma tutte queste esortazioni non sarebbero bastate, se, durante la notte, non fossero scesi al capezzale dell'uomo solo, privo di famiglia, i suoi due angioletti bianchi, e non gli avessero fatto sulla fronte una lieve e dolce carezza. Così pregando, facendo elemosine e lavorando faticosamente per alleviare le fatiche di quelli che erano deboli o vecchi, ser Cione visse un anno ancora, e la notte dei Morti spirò dolcemente, sentendosi accarezzare la fronte dai suoi due angioletti; spirò da buon cristiano, e le benedizioni di quelli che aveva beneficati lo accompagnarono fin alla tomba e financo al di là, perché molti cuori sono riconoscenti anche dopo che il beneficio è cessato. Si dice che l'anima di ser Cione, che sconta ancora in Purgatorio una parte dei peccati che non ha potuto scontare in vita, torni, nella notte dei Morti, a esortare i peccatori di Poppi a ravvedersi e li attenda per le vie. Almeno così dicono molti che si sono pentiti e che da quell'anima hanno saputo la storia della vita di ser Cione e della sua morte, che altrimenti sarebbe da lunghi e lunghi anni dimenticata. - E qui, figliuoli, la novella è finita, - disse la Regina. - Quest'altra domenica ve ne racconterò una più lieta, più gaia, che vi farà ridere e non vi farà sognare i morti e le anime del Purgatorio. - Come la intitolerete, nonna? - domandò l'Annina. - Non te lo voglio dire; lo saprai domenica. - E domenica sapremo anche quando si faranno le nozze, perché fra otto giorni la tua matrigna sarà guarita, - aggiunse la bambinetta rivolgendosi a Vezzosa. - E domenica, - disse la Carola, - faremo anche i regali alla nostra cara sposina. Non son doni ricchi, ma glieli faremo col cuore. Noi donne specialmente non abbiamo altro che quei pochi soldi che si ricavano vendendo le uova, i polli e i piccioni, e possiamo spender poco; ma quei regalucci le mostreranno che le si vuol bene e che si accetta volentieri in casa nostra. La massaia, come al solito, aveva parlato a nome di tutte le cognate. Cecco era così commosso da quelle buone parole, che uscì e si mise a fischiare per non far vedere i lucciconi; la Vezzosa si era stretta un bambino al petto e lo baciava, tanto per isfogare il suo bisogno d'espansione, e la Regina piangeva. - E che son cotesti lacrimoni! - esclamò Maso. - Mamma, bisogna ridere e non far codesta faccia da funerale. - Quando siam vecchi, - rispose la Regina, - ci si commuove e si piange facilmente. Ma vedrete che saprò ridere il giorno delle nozze, e voglio fare anch'io due sgambetti quando gli altri balleranno. - Così va bene! - esclamò Maso. - Gente allegra, Iddio l'aiuta! Uscirono tutti, meno che le donne, per riaccompagnare le ragazze che erano state a veglia, e s'imbatterono nel padre di Vezzosa, che veniva di corsa a chiamarla. - Che è stato? - gli domandò la figlia. - Vieni presto, devo correre dal medico, la Maria delira, si vuol levare dal letto e le tre ragazze non son buone a trattenerla. Vezzosa disse appena buona notte a tutti e corse via. Cecco la seguì a distanza insieme con gli altri. E quando tutte le ragazze che erano state a veglia furono riaccompagnate a casa, egli, invece di tornare insieme con i fratelli al podere di Farneta, se ne andò mogio mogio a casa di Vezzosa. Ma per non disturbarla bussando, poiché la porta era chiusa, si sedé sopra un muricciuolo aspettando che qualcuno comparisse alla finestra o sull'uscio; e con l'occhio fisso sulla casetta bianca, che pareva un masso di neve illuminata in pieno dalla luna, si mise a pensare all'avvenire. Egli si struggeva non potendo aiutare Vezzosa nelle sue faccende, e non vedeva il momento di essere unito a lei per sempre e di dividerne le gioie e i dolori. A un tratto, senza riflettere, si mise a cantare una canzone del paese. Sentiva il bisogno di dire a Vezzosa che le era vicino e che vegliava anche lui. Dopo poco che aveva incominciato a cantare, sentì aprir l'uscio della cucina, e nel vano vide comparire la bella ragazza. Cecco corse a lei con uno slancio, come se non l'avesse veduta da un anno. - Grazie, - gli diss'ella, - di esser rimasto vicino a me. Cecco mio, la mia matrigna lotta davvero con la morte. In questo momento svaniscono in me tutti i risentimenti, e mi pento e mi dolgo di non essere stata più buona con lei in passato. Cecco strinse le mani della sua fidanzata, quasi volesse ringraziarla di esser così buona. In quel momento si udì un rumore di sonagli sulla via maestra, e di lì a poco comparve il calesse del dottore. Momo era stato a chiamarlo sull'imbrunire, e il dottore, scendendo, si scusava di non esser potuto venir prima. Cecco entrò in casa dietro al medico, e fu lieto di perder la nottata per potere ammirare la diligenza e l'affetto di cui dava prova la sua Vezzosa nell'assistere la matrigna.

Stanco, spossato, il conte Selvatico cavalcò fino a Pratovecchio, e la Contessa, nel vederlo così abbattuto e coperto di sudore, ebbe paura che fosse stato colpito da qualche malore e fece avvertire messer Cosimo, il medico sapiente che soleva curarlo. Il vecchio, dopo aver tastato il polso al Conte, gli ordinò di porsi a letto, di sudare e di prendere certi decotti di erbe da lui preparati, che soleva amministrare contro le febbri maligne. Manentessa non si staccò più dal letto del suo signore, assistendolo amorevolmente; ma appena giunse la notte, ella udì la voce cavernosa che partiva dall'armatura, ripetere, allo scoccar di ogni ora: - Conte Selvatico, il mio corpo è ancora in parte insepolto e tu mi hai imposto l'incresciosa compagnia della testa e della mano di un ghibellino ribaldo! Il suono di quella voce faceva dare in ismanie l'infermo, il quale, piangendo, descriveva le angosce patite sul piano di Campaldino e si raccomandava al Sire di Narbona perché lo liberasse da quella persecuzione. - Abbi pietà dello stato mio ed io m'impietosirò delle tue sofferenze, - rispondeva l'ombra implacabile. La malattia del signor di Pratovecchio durò due settimane, e in quel tempo la Contessa apprese dalla bocca di lui, assalito dal delirio, tutto ciò che gli era accaduto. La gentil dama non sapeva a chi ricorrere per aver consiglio. C'era peraltro, su a Camaldoli, un frate che non poteva alzarsi mai dal suo strapunto, e perfino in chiesa lo portavano a braccia su quello. Egli non apriva mai gli occhi, ma in compenso parlava senza chetarsi un minuto solo. Si diceva che fra' Celestino avesse continue visioni, e comunicasse direttamente coi santi, onde a lui ricorreva tutto il contado e anche persone di alto lignaggio. A lui pensò di andar Manentessa, e fattasi preparare una mula e buona scorta, cavalcò un dì fino all'Eremo. La contessa di Pratovecchio fece come i monaci le avevan detto di fare, e, appoggiate le palme su quelle del frate, gli domandò: - Sapresti tu suggerirmi un rimedio per liberare il signor mio dalla persecuzione del Sire di Narbona? Egli fu ucciso a Campaldino e il suo cadavere rimase insepolto; il conte Selvatico lo ha cercato e gli ha dato sepoltura; ma siccome le membra erano disgregate fra di loro, egli ha fatto una confusione, e nella fossa di Amerigo di Narbona vi sono membra che al suo corpo non appartennero. L'ombra si è posta accanto al marito mio e non gli concede tregua né dì né notte se non rinviene tutte le ossa sue, che ancora rimangono esposte alla pioggia e al sereno. E il Conte, per questa persecuzione dell'ombra, si è ammalato e non ha requie. - Se vuoi salvare il tuo signore, - rispose di lì a poco il fraticello, - devi prendere il cero pasquale che è nella cappella del tuo castello, e recarti con quello, a mezzanotte, sul pian di Campaldino, nel luogo ov'è la tomba di Amerigo. Quella tomba tu la riscaverai con le tue mani e colerai, sulle ossa che vi son dentro, della cera. Se la cera si raffredda, puoi esser certa che le ossa appartengono al pio cavaliere, devoto della Santa Vergine; se invece si liquefà, è segno che sono le ossa di qualche dannato. Lo stesso farai con le ossa che giacciono insepolte là intorno; e quando avrai ricomposto tutto lo scheletro, il Conte riacquisterà salute. Amen. Manentessa lasciò larghi donativi all'Eremo e cavalcò fino a Pratovecchio, ove trovò il marito in uno stato tale da farne supporre prossima la fine. La coraggiosa donna cercò di calmarlo, e quando fu vicina la mezzanotte, vincendo la ripugnanza e la paura, uscì sola da una porticina del suo castello, col cero in mano, pregando, e si diresse verso il campo di battaglia. Dalla croce rozza piantatavi da Selvatico ella riconobbe la fossa del Sire francese, e con le sue dita delicate si die' a scavarla. Appena le ossa furono allo scoperto, fece la prova della cera e si accòrse infatti che la testa e la mano sinistra non appartenevano allo scheletro di Amerigo. Allora ella, tremante e smarrita, si diede a versar la cera sulle ossa sparse, e, dopo lungo cercare e dopo lunghe prove, ricompose lo scheletro; poi, fatta una croce delle braccia del morto, disse: - Ombra vagante, riposa in pace e non turbare più il sonno del signor mio! Durante le ricerche e le prove, la contessa di Pratovecchio aveva consumato tutto il cero pasquale, ed ella doveva tornare al suo palazzo al buio. Era una notte burrascosa, e fitte nuvole correvano da mezzogiorno a tramontana; il vento scrosciava fra il fogliame dei pioppi, che contornavano il campo cosparso di ossami. Manentessa si raccomandava l'anima a Dio e raddoppiava il passo per giungere presto al capezzale dell'infermo marito; ma prima che ella ponesse il piede sulla via maestra, si vide circondata da uno stuolo di ombre, tutte avvolte nei bianchi lenzuoli, le quali alzando verso di lei le palme, spoglie di carne, supplicavano: - Donna pietosa, com'hai dato sepoltura alle ossa di Amerigo, dalla pure a noi e salvaci da questo errare continuo in terra! Manentessa, salvaci! Ella si fece più volte il segno della croce, ma quelle non essendo ombre di dannati, non sparivano, e lo stuolo si faceva sempre più numeroso. Pareva che uscissero dalle viscere della terra, dal fondo dei fossi, dall'erba, dalle siepi, e la donna si sentiva afferrare per le braccia, di modo che il passo le era quasi impedito. - Lasciatemi, anime sante, - diceva ella, - il mio signore mi attende e io debbo andare a consolarlo! - Una promessa, facci una promessa! - gridavano le ombre con le voci fioche. - Ebbene, vi prometto di dar sepoltura a quanti scheletri io troverò. - Bada, Manentessa, di rammentarti di queste parole, - dissero le ombre. E lasciato libero il passo alla dama, tornarono a vagare nell'ampia pianura. Più morta che viva ella tornò al suo castello, ma appena fu penetrata nella camera dell'infermo marito, si sentì il cuore sollevato. Il conte Selvatico riposava col capo abbandonato sui guanciali, e nessuna visione incresciosa ne turbava il sonno. Allorché egli aperse gli occhi, la mattina seguente, domandò alla moglie: - Come mai, madonna, l'ombra del Sire francese mi ha dato tregua? - Gli è, signor mio, - replicò Manentessa, - che il suo corpo riposa in pace, ed io per amor tuo feci atto di cui non mi credevo capace. E costì ella raccontò al conte Selvatico come aveva fatto a rinvenire le ossa del Sire di Narbona. Peraltro ella non palesò al marito l'incontro con le altre ombre, e la promessa che le avevano strappata ma che non poteva mantenere, perché non c'erano più ceri pasquali nella cappella del castello. Furono fatte grandi feste per la guarigione del signore di Pratovecchio, ma intanto che Selvatico riacquistava la forza e la baldanza, la Contessa si faceva bianca come un giglio e si struggeva ogni giorno più. Questo dipendeva dalle angosce che pativa ogni notte, quant'era lunga, poiché appena ella si riduceva nella sua camera, lo stuolo delle ombre incontrate sul limitare del pian di Campaldino, le si faceva d'attorno, e con minacce e con preghiere le rammentava la promessa. - Non vi sono più ceri pasquali e non posso tentare la prova, - rispondeva. - Non importa, sotterraci, sotterraci! - gridavano le ombre. E la trascinavano a forza fuori della sua camera e del suo castello fino al pian di Campaldino, dove la costringevano a prender la terra e a coprirne i monti d'ossami. Quel lavoro durava più ore di seguito, e all'alba la povera perseguitata si riduceva mezza morta nel suo palazzo, dove celava a tutti le angosce della notte. Una febbre continua la limava, ma le ombre implacabili ogni notte la costringevano al duro lavoro, e in breve i mucchi d'ossami non furono più esposti al sole e al sereno, ed ella ebbe un po' di tregua. Ma allora ricominciarono le tribolazioni del signore di Pratovecchio. Una notte, mentre egli dormiva placidamente, sentì la voce del Sire di Narbona, la voce tremenda che lo aveva così a lungo turbato, che diceva: - Le mie ossa sono di nuovo sopra la terra; io non ti lascerò requie finché non le avrai riunite tutte in un sepolcreto. I predoni scavarono la fossa e rubarono il cerchio d'argento che portavo al polso destro; ricuperalo. Il conte Selvatico aprì gli occhi e vide a fianco del letto la solita ombra. Allora, rivoltosi a lei, così disse: - All'alba monterò a cavallo con i miei uomini e batterò i boschi per iscoprire i predoni e ricuperare il tuo anello. Ma facciamo un patto; lasciami otto giorni di tregua. - Accetto, - disse l'ombra, - fra otto giorni soltanto mi rivedrai, - e sparì. Il Conte si armò di tutto punto e partì infatti all'alba per i boschi di Prataglia, dove sapeva si annidavano i predoni, che facevano scorrerìe nel contado. Era seguìto da un forte drappello di gente, parte a piedi parte a cavallo. La Contessa lo accompagnava con le sue preghiere, ma era afflitta, molto afflitta di vederlo partire per una spedizione così pericolosa. Dopo lungo cavalcare per monti e per boschi, giunse il signor di Pratovecchio a un casolare basso e affumicato. In sulla porta vi erano alcuni uomini che, al vederlo, si barricarono nella capanna, e dalle finestrine incominciarono a scoccar dardi contro di lui e contro i suoi. - Arrendetevi! - gridò il Conte, che intanto aveva fatto circondar la capanna da ogni lato. Gli altri risposero con una pioggia di sassi. - Appiccate il fuoco! - ordinò il Conte. In un momento furono radunate molte fascine ai quattro angoli del casolare, e le fiamme in breve ne lambivano le mura. I predoni, vedendo che non restava loro più scampo, salirono dal camino sul tetto, e continuarono a lanciare dardi e tegole. Il conte di Pratovecchio abbatté la porta con l'asta, e quindi, precipitatosi in mezzo alle fiamme, si diede a cercare. Vi erano ammassate in quella stamberga spade, misericordie, elmetti, contesti d'oro, cinture di prezioso metallo, ma il Conte non si curava di tutti quei tesori. Cercava il cerchio d'argento del Sire di Narbona, che trovò ancora infilato all'osso attorno al quale era stato ribadito, e appena l'ebbe intascato uscì da quella voragine. Di lì a poco il tetto crollò con gran rumore, e i predoni caddero nelle fiamme trovandovi la morte. Allorché l'incendio fu spento, gli uomini del conte Selvatico rinvennero fra le ceneri gran copia di argento e di oro fusi, e molte pietre preziose. Essi caricarono tutto sopra una mula e cavalcarono verso Pratovecchio. Due giorni dopo il Conte e la Contessa si recarono in processione al pian di Campaldino, e quivi riuniti in una cassa di quercia i resti mortali del Sire di Narbona li deposero nella cappella della chiesa di San Giovanni Evangelista. Con l'oro e l'argento tolto ai predoni essi fecero scolpire a Firenze, da Giotto istesso, un mausoleo di marmo con l'effigie del Sire di Narbona, vestito della armatura e posto a giacere sulla cassa. Da quel tempo l'ombra del cavaliere non funestò più i sonni del conte di Pratovecchio, ma è certo che la pia Manentessa non riuscì con le sue mani a coprir di terra le ossa di tutti i morti di Campaldino, perché ancora si dice che chi viene a passar di notte in prossimità del campo, vede delle ombre avvolte in lenzuoli bianchi. Per anni e anni l'aratro non è mai passato su quei campi, che bevvero il sangue de' guelfi di Firenze e de' ghibellini di Casentino, ma ora che il piano è di nuovo coltivato, ogni tanto si trovano mucchi d'ossa bianche, sulle quali la contessa di Pratovecchio aveva sparso la terra. E qui la novella è finita. - Voi, babbo, - domandò l'Annina, rivolta a Maso, - voi che passate dal pian di Campaldino anche di notte, per andare alla fiera di Pratovecchio o di Stia, l'avete viste le ombre? - Io no; ho visto bensì qualche volta delle ombre nere sul terreno, ma eran le ombre dei pioppi. L'Annina tempestò di domande tutti gli zii a uno a uno, ma da tutti ebbe la medesima risposta. Ombre non ne avevan vedute. Cecco poi l'assicurò che i morti non tornano. - Ma io non ci passerei davvero, di notte, da Campaldino, - disse l'Annina, dopo che Cecco si fu sgolato a dimostrarle che le ombre non si vedevano. - Domani sera, - disse la Regina, - vi racconterò una novella più allegra. - Come si chiama? - domandarono i bimbi. - La Novella del frate zoppo; - rispose ella, - ora andate a letto e dormite in pace, come in pace riposa il Sire di Narbona.

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