Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNIFI

Risultati per: abbattuto

Numero di risultati: 7 in 1 pagine

  • Pagina 1 di 1

Malombra

670405
Fogazzaro, Antonio 1 occorrenze

Chi si fosse abbattuto a vederla doveva morire entro pochi giorni. Edith si compiacque di ritrovare la tradizione tedesca, e domandò se ci fossero strade per quei monti. Il ragazzo rispose che v'erano dei sentieri, fra i quali uno buonissimo che si poteva prendere pe r ritornare a piedi dall'Orrido al Palazzo. Intanto la lancia passava davanti a Val Malombra, radeva l'alto promontorio coronato di selve. L'acqua vi era profondissima sotto gli scogli protesi. Il Rico sosteneva che il lago vi s'inabissava dentro caverne smisurate, perché sopra quegli scogli v'era una buia fessura, detta il Pozzo dell'Acquafonda, dove gittando pietre le si udivano schiaffeggiar l'acqua. E cominciò a dire come converrebbe esplorar quelle caverne occulte. Marina si impazientì e lo fe' tacere. Saetta entrò poco dopo nell'ombra, approdò fra due salici grigiastri, sulla ghiaia bianca di un torrentello che versava al lago, di pozzanghera in pozzanghera, tremole fila d'acqua silenziosa. Dietro ai salici tacevano prati oscuri, freddi; e si celavano a manca insieme al torrente, nelle ombre azzurrognole della valle tortuosa. Ardeva in alto, al sole, il dorso delle montagne; quel buco nero lì pareva la tana del novembre. Quando anche il battello ebbe girati gli scogli del promontorio, si udì la contessa gridare "che freddo! che orrore!", si vide un agitarsi, uno stendere di braccia che infilavano soprabiti, e il conte Nepo che si avvolgeva al collo un fazzoletto bianco. Il Rico doveva guidar la compagnia all'Orrido, ma prima di partire, sorse la questione della contessa Fosca. Sua Eccellenza aveva creduto che l'Orrido fosse quello lì; interrotta da un baccano di proteste, si meravigliava delle meraviglie altrui; il luogo le pareva brutto abbastanza. E ora cosa si pretendeva da lei infelice? Che sgambettasse per due o tre ore su quel dio di sassi? Che stesse lì ad aspettar gli altri in quella sorbettiera? Nepo sbuffava, la rimproverava di non esser stata a casa. Steinegge p rotestò con enfasi, il Vezza a fior di labbra, che non avrebbero mai lasciata sola la signora. Né il Finotti né l'ingegnere dissero parola, la conclusione si fu che Sua Eccellenza avesse a recarsi con Steinegge a un'osteria che si vedeva brillare al sole a un chilometro lontano dove la strada provinciale tocca il lago. Il Rico affermava che si poteva calarvi direttamente dall'Orrido per un altro sentiero. Quando il battello si staccò dalla riva il commendator Finotti domandò qualche cosa al Rico e si voltò poi a gridare: "Coraggio, contessa! È qui vicino l'Orrido!" "Xelo colù?" chiese Sua Eccellenza agli altri, additando il commendatore. La comitiva si pose in cammino pel torrente seguendo il Rico che saltava di sasso in sasso come un ranocchio. Prime gli tenevano dietro Edith e Marina, poi veniva il Ferrieri, gran camminatore, gran valicatore di montagne. Alle sue spalle trottava Nepo, tutto sbilenco, sudando per l'angoscia di camminar frettoloso sui ciottoli aguzzi. Egli si studiava d'intenerir Marina sul fatto dei due commendatori di retroguardia che mettevano veramente pietà. "Caro cugino" disse Marina voltandosi indietro e fermandosi. "Vi prego di rappresentar qui mio zio e di tener compagnia ai suoi tre ospiti." Nepo e il Ferrieri, capìta l'antifona, rallentarono il passo e si raccolsero, mogi mogi, a' commendatori che avanzavano, il Finotti bollente e ansante, l'altro seccato e scorato. Come videro le signore dilungarsi anche dagli altri due, cadde loro la speranza di raggiungerle e sostarono a respirare un poco, fremendo contro Marina, maledicendo chi aveva messo fuori pel primo la bella idea di venire a quello sconsolato massacro di piedi. Intanto sopravvenne loro il Rico, mandato da Marina perché non avessero a smarrire la strada. Marina stessa non la conosceva, ma se l'era fatta insegnare dal ragazzo e camminava rapidamente senza parlare. Edith le teneva dietro, silenziosa e nervosa essa pure, ma per altre cagioni. Intorno a lei e più ancora dentro a lei suonava una sola parola: "Italia! Italia!". Da quando era venuta al Palazzo, se si trovava sola, se le sfuggiva un momento il pensiero di suo padre e dell'avvenire, le sfolgorava subito il cuore questa parola: "Italia!". Allora stendeva la mano per toccare qualche cosa di vero, di solido, e guardando l'orizzonte o qualche striscia bianca di strada lontana, palpitava e si perdeva in un deside rio indistinto. Adesso ell'aveva bisogno di fermarsi spesso per guardare a misura che la via saliva, lo svolgersi lento e maestoso delle montagne, in alto il verde pieno di sole che saliva fino al cielo sereno, dietro a lei, al basso, il lago che s'allargava sempre più verso ponente. "Ah" disse Marina entrando nel sole "ci siamo." Ella saltò di gioia tuffandosi nella luce e nel calore. Passava allora fra due campicelli di grano saraceno. Una nuvola di farfalle si alzò dai fiori bianchi del grano, vi aleggiò sopra per breve tempo e tornò a posarvisi. "Pare neve" disse Marina volgendosi per la prima volta, a Edith. Ma Edith era rimasta qualche passo addietro. "Vengono?" le gridò Marina. "Odo la voce di Suo cugino e del ragazzo", rispose Edith. Marina fece una piccola smorfia. "Venga con me" diss'ella. Il sentiero toccava, due passi più su, un gruppo di stalle seduto sullo spigolo del monte che si gira per andare all'Orrido. Quelle rozze stalle sedevano dentro una larga macchia di fango puzzolente, all'ombra chiara di alcuni noci tutti sforacchiati di raggi di sole. Non ci si udiva, non ci si vedeva anima vivente; tutto taceva. Qualche gerla abbandonata presso gli usci chiusi, qualche pezzo di corda accavallato al pozzale della cisterna, l'aspetto della profonda valle e un sussurro di lontane cascate invi sibili accrescevano il silenzio. Il sentiero indicato dal Rico passava tra le stalle; Marina pigliò un altro viottolo che sale dritto a una cappelletta. Ella fe' cenno a Edith di sedere e disse piano: "Aspettiamo che passino." In quella cappelletta era dipinto un Redentore coronato di spine, bruttissimo, a' piedi del quale si leggeva: Quantunque, o passegger, ti sembri un mostro, Io sono Gesù Cristo, Signor Vostro. L'erba intorno brillava ancora di rugiada e di vento puro, vivificante, che faceva lievemente stormire le foglie dei noci. Edith guardava quell'immagine pia, omaggio di gente semplice al re del del dolore, le veniva in cuore una dolcezza tenera, triste; mille pensieri le venivano in mente sulla fede del povero pittore, del povero poeta, delle donnicciuole che andando ai campi o tornandone affaticate dovevano alzare gli occhi a quegli sgorbi con maggior devozione ch'ella non avesse provato guardando Maria dipinta dal Luini. Avrebbe voluto profondarsi in questi pensieri, e non poteva; si sentiva legata da una catena dura e fredda , comprendeva confusamente di soffrire della vicinanza di uno spirito umano affatto discorde dal suo, appassionato di altre passioni, chiuso e superbo. Fra lei e il sole, Marina, ritta, scalfiva il suolo con la punta dell'ombrellino, figgendovi gli occhi e serrando le labbra; la sua ombra cadeva pesante sopra Edith, le entrava nel sangue. Intanto le voci dell'altra comitiva salivano sempre più distinte. Si udì un passo frettoloso fra i muri delle stalle e subito dopo sbucò dietro la cappelletta il viso sfavillante del Rico. Vedendo le signore si fermò di botto, aperse la bocca; ma un'occhiata fulminea di Marina gli troncò la parola. Spiccò un salto verso alcuni cespugli di more, ne colse e ridiscese di corsa. Le grosse voci dei commendatori gorgogliarono fra le stalle. Il commendator Finotti raccontava delle oscenità con la più franca energi a di linguaggio, da libertino mezzo che fruga nelle immondizie della parola per trovarvi la sua giovinezza. Si udì il Ferrieri dirgli ridendo: "Il letame t'ispira." Marina, indifferente, diede una rapida occhiata a Edith: ma Edith non poteva conoscere quella feccia di linguaggio e non batté ciglio né mutò colore. La sua compagna si strinse nelle spalle e aspettò in silenzio che le voci si spegnessero, quindi sedette presso Edith. "Le informazioni" diss'ella "riguardano una persona che Lei conoscerà a Milano." "È sicura" rispose "che conoscerò questa persona?" "Lei dovrà conoscerla." "Dovrò?" "Dovrà, dovrà. Non per far piacere a me, sa, perché succederà così. Insomma non importa. Lei conoscerà a Milano questa persona ch'è un amico di Suo padre." "Si chiama Silla?" Gli occhi di Marina lampeggiarono. "Come lo sa?" diss'ella. "Mio padre mi ha parlato di questo signore suo amico." "Che Le ha detto Suo padre?" Edith non rispose. "Ha paura?" disse Marina duramente. Edith arrossì. "Non conosco questa parola" diss'ella. Dopo un breve indugio Edith alzò il viso e guardò Marina: "Sicuramente il vero" diss'ella. "Il vero! Non parli del vero. Nessuno lo sa, il vero. Suo padre Le avrà detto che io ho insultato questo signore?" "Sì." "E ch'egli, una notte, è andato in fumo?" "Sì." "Proprio in fumo? Non le ha detto dove si trova ora? Sì che glielo ha detto; Lei non vuole ora ripeterlo a me, ma Suo padre glielo ha detto sicuramente." "Io credo" rispose Edith con un leggero accento d'alterezza offesa "io credo che i miei discorsi con mio padre le debbano essere affatto indifferenti. So che un signor Silla, di Milano, è amico di mio padre, il quale non ha forse altri conoscenti in quella città. Per questo ho pensato ch'Ella volesse alludere a lui e ho proferito il suo nome. Mi dica, ora, se crede, cosa desidera da me pel caso che io conosca a Milano questo signore." Marina stette un momento pensosa, con l'indice al mento, come se un sì e un no si dibattessero nel suo segreto; indi parve salir dalla terra una vampa nella bella persona. Ella fremé da capo a piedi, protese il petto ansante, le sue labbra si apersero, nessuno può dire quello che dissero gli occhi. Edith trasalì, attese parole imprevedute. Ma le parole non vennero. La bocca si chiuse, la persona si ricompose, la strana luce degli occhi si spense. "Niente" diss'ella. "Andiamo." Edith non si muoveva. "Venga" ripeté Marina; "Ella è troppo tedesca. Mi basta di sapere dove il signor Silla abita e cosa fa. Me lo scriva subito. Vuole?" "Signorina" disse Edith "anche in Germania si può comprendere e sentire qualche poco. Non desidero sapere i Suoi segreti, ma se posso fare un'opera buona per Lei..." "Ah, virtù! Egoismo!" disse Marina. Una vecchierella curva sotto una gran gerla di fieno sbucò tra stalla e stalla davanti a lei, si fermò e a gran fatica le alzò incontro la testa con un sorriso di bontà e di meraviglia, dicendo: "Reverissi. Son venute a fare una passeggiata?" Era un'immagine di miseria sucida, sorta dal suolo fetido e dalle vecchie stalle diroccate, scalza, con degli stinchi magri e neri di uccello da preda, con il mento appoggiato a due lisci gozzi rossicci e un guazzabuglio di cernecchi grigi sulla fronte. L'occhio era dolce e sereno. "Che vita, povera donna!" disse Edith. "Non sono mica poi tanto povera. La vede. Son mica signora, magari, ma il mio vecchio guadagna ancora qualche cosa, e io, come posso, neh, perché son già settantatré e passa, la gerla voglio portarmela qualche anno ancora. E poi il Signore ci sarà anche per noi due. Dunque, reverissi, neh, stieno bene, facciano una buona passeggiata." Ella curvò il capo sotto il carico e fece atto di riprendere tentennando il cammino fra i ciottoli, i frantumi di tegole e le immondizie. Marina trasse il suo portamonete d'avorio e glielo pose bruscamente in mano. "Ah, cara Madonna!" esclamò la vecchierella "io non lo voglio. Non lo voglio, cara Lei. Non lo voglio proprio mica. Ciao, ciao" soggiunse poi intimorita da un gesto e da un'occhiata di Marina. "Ah, signèli, è troppo. Ciao, ciao, come vuole Lei. Ah, signèli!" "Buon giorno" disse Marina, e passò avanti. Escita dal tanfo di letame e di putredine, ella si voltò; dovette leggere una parola benevola sul viso di Edith. "Io non sono virtuosa" diss'ella "io non ridomanderò questo a Dio. Io non sono amichevole verso coloro che non amo, con il nobile fine di acquistare un biglietto pel paradiso. Del resto, Lei non può fare per me che quanto Le ho detto; scrivermi dove abita, che fa il signor Silla." Edith tacque. "Teme" disse Marina "ch'io voglia farlo assassinare?" "Oh no, so bene che non lo ama" rispose Edith sorridendo. Marina si sentì afferrare il cuore da una mano fredda. Ella passava allora presso la cisterna. Buttò le braccia sul parapetto e porse il viso al fondo. Il solo suono della parola ama le riempiva l'anima. Non lo ama aveva detto Edith: ma la negazione era caduta inavvertita, non la magica parola ama. Avvenne allora di Marina come di una corda musicale inerte che chiude in sé la sua nota silenziosa, ma se una voce ignara di lei passa cantando nella stanza ove giace, e tocca tra l'altre questa nota, sull'istant e tutta la corda vibra. Ama, ama, ama! In fondo al nero tubo della cisterna brillava un picciol disco sereno rotto da una scura testa umana. Marina chiamò involontariamente a mezza voce: "Cecilia!" La voce percosse l'acqua sonora e tornò su con un rombo sinistro. Marina si rizzò e riprese il cammino senza parlare. Girarono le coscia della montagna, discesa giù a destra fino ai greti del torrente. Il fragore di cascate lontane, che si udiva dalle stalle, parve saltar loro in faccia col vento della vallata. Acque potenti non si vedevano; s'indovinavano là davanti in una gola stretta, chiusa da altri monti carichi di fosche nuvole meridiane e nell'ombra di una lunga spaccatura tortuosa che discendeva da quella gola nella valle fra una nera costa imboscata, a frane rossastre, e una massiccia cornice di campicelli, di pra telli verdi, illuminati dal sole. A fianco della gola si vedeva una chiesa bianca appollaiata sopra un sasso eminente: sotto di lei una spruzzaglia di tetti scuri, di capanne accovacciate nei prati. E praterie nitide, arrotondate, erano gli alti dorsi delle montagne a destra e a sinistra, sparsi di macchiuzze nere, di mille tintinnii che facevano una larga voce sola, oscillante, pura. Il sentiero fendeva i declivi erbosi, drappi di fiori tremanti nel vento fresco d'autunno. Marina si fermò guardando la gola in capo alla valle. "Dev'esser là" diss'ella. "Cosa?" domandò Edith. "L'Orrido. Questo rumore vien di là. Oggi l'Orrido ha un gran fascino per me." "Perché?" "Perché ci voglio entrare con mio cugino. Lei tace, non si commuove. Non pensa quale emozione trovarsi sola, in una caverna, con lui? Ha resistito Lei al fascino di mio cugino? Due occhi che vanno al cuore. E che spirito! N'è inzuppato, poverino. Non parliamo d'eleganza. È un Watteau, mio cugino. Dev'essere tutto bianco e rosa, un impasto di cold-cream, un fondant! Non le pare? Dica, non m'invidierebbe se diventassi contessa Salvador?" "Vedo che non lo diventerà" rispose Edith. "Perché? Conosco una persona che si sposò per odio." "Non per disprezzo, io credo." "Per odio e per disprezzo insieme. Son due sentimenti che si possono incontrare benissimo nel tallone acuto d'uno stivaletto. Questa persona se ne servì per fouler aux pieds con quattro colpi suo marito e parecchie altre cose odiose e spregevoli." A Edith pareva impossibile che si avesse a tenere questo linguaggio là in alto, davanti alla innocenza solenne delle montagne. Pensò alla povera mamma sepolta lontano; se vedesse la sua figlioletta in tale compagnia, se udisse tali discorsi! Ma Edith non correva pericolo. Ella non ignorava il male, viveva sicura nella propria conscia purità. Lasciò che Marina continuasse a sua posta. "Quest'amica mia si era innamorata di un altro. Si scandolezza?" Edith non rispose. "Via, non facciamo come se ci fosse qui il signor papà o il signor zio o un qualunque signore in calzoni. Quanti anni ha, Lei?" "Venti." "Dunque! Deve ben sapere quello che succede nel mondo. Taccia, mi lasci dire. Non credo a certi candori. Dunque l'amica mia aveva un amante e volle, il perché non importa, volle arrivare ad esso passando col suo stivaletto acuto sopra un marito spregevole, sopra una razza odiosa. Che male c'è? Gli uomini proibiscono questo e quello. Bravi. Ma con quale diritto? Coloro che Iddio congiunse nessuno divida. Non è così? Presso a poco. Bene, questo è bello, questo è grande. I preti sono stupidi con le loro spiega zioni. Domando se è Dio che mette cotta e stola e borbotta quattro parole per congiungere alla cieca due corpi e due anime. Dio li congiunge prima che si amino, prima che si vedano, prima che nascano; li porta, attraverso tutto, l'uno all'altro! Quelli poi che congiunge l'uomo, ossia le famiglie, un calcolo, un errore, un prete che non sa che cosa si faccia, quelli Dio li divide! Cosa dicevo? quest'amica mia sposò con odio e con disprezzo; passò così!" Slanciò avanti la persona fremebonda, e batté col piede a terra con tanta energia che parve a Edith ne dovessero saltar scintille. S'udì una voce acuta da lontano: "Signora donna Marina!" Era la voce di Rico. Egli comparve presto, correndo; quando vide la sua padrona smise di correre e gridò: "Han detto così di far piacere..." Marina gli accennò bruscamente con l'ombrellino di venire avanti. Egli tacque subito, spiccò altri due salti e giunse ansante, accigliato nella sua gravità di ambasciatore e nella paura di lasciar cadere qualche briciola del messaggio. "Han detto così di far piacere a venire un po' più in fretta, perché è tardi e c'è giù la signora contessa che aspetta." "Dove sono?" disse Marina. "Uno è qui vicino che viene incontro a Loro, e gli altri sono nel paese." Non andò molto che apparve sua Eccellenza Nepo seduto sul suo fazzoletto accanto al sentiero. Si guardava attorno con un'aria sgomentata e si faceva vento con un piccolo ventaglio giapponese. Quando sopraggiunsero le signorine precedute dal Rico, si alzò in piedi e, scordandosi per un momento di essere gentiluomo, gridò, prima di salutare, al ragazzo: "Perché non mi hai aspettato, imbecille?" "Pare che avesse ragione di non aspettare" osservò Marina freddamente. "Voi siete molto cattiva con me" rispose Nepo a mezza voce. Marina non parve gradire quel tono intimo, pieno d'allusioni, e disse asciutta asciutta: "Quanto c'è di qui all'Orrido?" "È subito qui" mormorò il Rico fra i denti. "Cielo clemente, un'eternità c'è!" gemette Nepo. "Non è stata un'idea molto felice quella di farci arrampicare fin quassù. Il commendator Vezza e il commendator Finotti sono mezzi morti. Io sono un grandissimo camminatore e mi ricordo d'esser salito a piedi, quand'ero studente, da Torreggia al convento di Rua, negli Euganei, che non è piccola bagatella; ma qui non so, è un camminare diverso: si fa meno strada e più fatica. Cosa volete che vi dica? Da noi anche i monti hanno più creanza." Approfittò d'un momento ch'Edith era uscita di strada per cogliere un ciclamino e disse a Marina non senza un dispettoso lagno nella voce e nel volto: "E la vostra risposta?" "Presto" diss'ella. "Quando?" "Venite nell'Orrido con me." Nepo non parve contento, ma non poté chiedere spiegazioni, perché Marina aveva preso il braccio di Edith e a lui appena bastava la lena di tener loro dietro. I commendatori e il Ferrieri erano seduti presso la porta dell'osteria di C... sopra una pancaccia addossata al muro, e parlavano a un vecchio calvo, scamiciato, dalla pelle color mattone, accoccolato sulla soglia dell'osteria con una lunga pertica fra le gambe ignude; era il navicellaio, il degno Caronte dell'Orrido. L'Orrido sta a poche centinaia di passi dal paese. Il fiume di C... nasce qualche chilometro più in su, si raccoglie lì tra le caverne immani in cui scendono a congiungersi due opposte montagne, corre per breve tratto in piano, all'aperto, poi trabocca sotto il paese di rapida in rapida, di cascata in cascata sino in fondo della valle, per morire ignobilmente nel lago, là dove approdò la brigata del Palazzo. Uscendo da C... si trova presto un ponticello di legno che gitta la sua ombra sopra una luce di spar se spume, di acque verdi, di ghiaiottoli candidi. Non si passa il ponticello; si piglia invece a sinistra pel letto del fiume. Colà le acque blande ridono e chiacchierano correndo via tra la gaia innocenza dei boschi con certi brividi memori di passate paure. Di scogli non appariscono che striscie oblique a fior di terra, tappezzate di scuri muschi, di fiocchi d'erba, di ciclami pomposi. Guardandolo in su dalle ghiaie si vedono a dritta e a manca disegnarsi sul cielo le due sponde come due colossali ondate di vette fronzute, due alte dighe vive, luccicanti al sole, di roveri, di faggi, di frassini, di sorbi che si rizzano gli uni dietro gli altri, si curvano in fuori per veder passare l'onde allegre, agitano le braccia distese, plaudendo. Presto si giunge a un gomito del fiume. Non più sole, non più verde, non più riso d'acque: immani fauci di pietra vi si spalancano in viso e vi fermano con il ruggito sordo che n'esce, con il freddo alito umido che annera là in fondo la gola mostruosa. Il ruggito vien su dal le viscere profonde; l'acqua passa per la bocca degli scogli, grossa, cupa, ma silenziosa. Una sdrucita barchetta è lì incatenata a un anello infisso nella rupe. Porta due persone oltre il barcaiuolo. Si risale la corrente con quella barchetta che pare non voler saperne, torce il muso ora a destra ora a sinistra e scapperebbe indietro senza la pertica di Caronte. Il fragore cresce; la luce manca. Si passa tra due rupi nere, qua rigonfie come strane vegetazioni, gemme enormi della pietra, là cave e stillanti come coppe capovolte; tutte rigate ad intervalli eguali, scolpite a gengive su gengive dal fondo alla cima. In alto, il cielo si restringe via via tra scoglio e scoglio, e scompare. La barchetta salta in una fessura buia, piena d'urla, si dibatte, urta a destra, urta a sinistra, folle di spavento, sotto gli archi echeggianti della pietra che, morsa nelle viscere dal flutto veloce, si slancia in alto, si contorce. Dal sottilissimo strappo che fende il manto boscoso di quelle rupi filtra nelle tenebre un ver dognolo albore, un lividore spettrale che macchia cadendo le sporgenze della roccia, vien meno di sasso in sasso e si perde prima di toccar l'acqua verde cupa; si direbbe un raggio di luce velata di nuvole, sull'alba. Da quell'andito si entra nella "sala del trono" rotondo tempio infernale con un macigno nel mezzo, un deforme ambone per la messa nera, ritto fra due fascie enormi di spuma che gli cingono i fianchi e gli spandono davanti in una gora larga, tutta bollimenti e spume vagabonde, levando il fracasso di due treni senza fine che divorino a paro una galleria. È da quel masso che viene alla caverna il nome di "sala del trono". Si pensa ad un re delle ombre, meditabondo su quel trono, fisi gli sguardi nelle acque pr ofonde, piene di gemiti e di guai, piene di spiriti dolenti. Per una spaccatura dietro al trono sprizza nella caverna un getto di luce chiara. Caronte staccò la barchetta dall'anello e con un urto poderoso la fe' scorrere dalla ghiaia nell'acqua. Intanto il Rico saltellava come una cutrettola pe' sassi sporgenti del torrente e otto o dieci marmocchi s'erano appollaiati dietro la comitiva a guardar fiso come uccelletti curiosi di un grosso gufo. Il Vezza che capiva pochino le bellezze naturali, e il Finotti che non le capiva affatto, ammiravano rumorosamente l'orrida magnificenza del luogo. Il Ferrieri non si curava di unirsi a' loro entusiasmi e n e parlava tranquillamente a Edith. Le diceva di sentirsi freddo più del ghiaccio davanti a simili scene, sin da quando, nella prima giovinezza, si era schiacciato e ucciso dentro al cuore un poeta, incomodo inquilino; soggiungeva però di dubitare ora, per la prima volta, che quello spregevole parassita fosse ben morto; gli pareva di sentirlo a muoversi, di sentire un calore insolito... "Avanti, signori" disse Marina. Infatti Caronte aveva terminato di disporre la navicella e accennava alle due signore di entrarvi. "Mio cugino ed io" disse Marina "saremo gli ultimi." "Allora noi due saremo i primi, signorina Edith." Così dicendo il Ferrieri avvolse alle spalle della sua bella compagna lo scialletto celeste ch'ella portava sul braccio. Edith non se ne avvide, quasi; pareva affascinata dalla bellezza nera delle rocce spalancate davanti a lei. Entrarono ambedue nella barchetta e si allontanarono. Era bello veder passare tra quelle porte infernali la barchetta, lo scialle celeste, il vecchio pittoresco ritto sulla prora colla sua lunga pertica. Presto scomparvero; prima Caronte, poi lo scialle celeste, poi la piccola poppa bruna. Dopo una decina di minuti ricomparvero la pertica ferrata, Caronte, lo scialle celeste. "Dunque? Dunque?" gridarono il Vezza e il Finotti. Nessuno rispose. Appena nello scendere a terra Edith e il Ferrieri dissero qualche fredda parola di ammirazione. Edith era triste e grave, l'ingegnere rosso fino al vertice del cranio; il barcaiuolo attendeva impassibile che si raccogliesse la seconda spedizione. Edith restò presso Marina e il Ferrieri si allontanò a capo basso, studiando i ciottoli. Il Finotti e il Vezza partirono insieme, di mala voglia. Nepo era inquieto. Non parlava, ma si moveva di continuo, guardava qua, guardava là, crollava la testa per iscuoter via l'occhialino che non aveva più; tuffò due o tre volte i piedi nell'acqua per andare di sasso in sasso in mezzo al torrente a spiar il ritorno della barchetta. Quando fu discosto, Marina disse sottovoce a Edith, accennando il Ferrieri: "Anche lui, eh, con i suoi modi di gentiluomo! Ho capito quando siete usciti di barca. Tutti eguali." "È una vergogna, una vergogna!" disse la giovinetta fremendo. "È stato molto audace?" Edith arrossì. "Chi mi manca di rispetto solo per un momento, e con il menomo atto, è molto audace" diss'ella. "Signor Ferrieri" disse Marina ad alta voce. Il Ferrieri si voltò. Voleva parere impassibile e non poteva. "Favorisca di scendere dalla contessa Fosca, che si annoierà molto. La signorina ed io scenderemo dopo, col ragazzo, probabilmente da un'altra parte." V'era nella voce vibrante di Marina il risentimento involontario della donna che coglie un uomo, anche indifferente, ai piedi di un'altra. Il Ferrieri s'inchinò e partì. "Non si usa fare quello che ho fatto io adesso" disse poi Marina a Edith. "Appena un vecchio chaperon lo farebbe. L'ho fatto per Lei, perché Ella non abbia più a trovarsi con quel calvo Lovelace che Le mette tanto ribrezzo; e perché qualche volta non m'importa di quello che si usa." "Grazie" rispose Edith. La barchetta ritornò con i commendatori. "Conte!" disse Marina. Nepo fu per rispondere "Contessa!" ma non fece che aprire le labbra ed entrò, dopo Marina, nella barchetta. "E Ferrieri?" chiese il Vezza. "Ci precede abbasso" rispose Marina. Ma ella era già a quattro passi dalla riva e le sue parole confuse al ruggito sordo del fiume non si distinguevano quasi più. Si strinse nello scialle, piegò il viso per schermirsi dal vento freddo che la spruzzava di minute goccioline d'acqua, stillanti dalle rocce. Guardava con occhi vitrei venirle incontro nell'ombra l'acqua grossa, veemente, senza una voce, senza una ruga. La barchetta si accostava all'andito tenebroso che precede la "sala del trono". La figura del vecchio ritto sulla prora pigliava, tra gli scogli lucidi e neri, un colore sempre più fosco, i colpi della pertica ferrata sparivano nel fragore assordante delle cascate interne. Non ci si vedeva quasi più. Nepo si chinò verso Marina, le prese una mano. "Ah!" diss'ella, come offesa; ma non ritrasse la mano. Nepo la strinse fra le sue, felice; non sapeva che dire; gli pareva tutto fosse detto; stringeva a più riprese quella mano fredda, inerte, come se volesse spremerne un concetto, una frase, una parola. Ebbe un'idea. Tenne con la sinistra la mano di Marina e le cinse la vita col braccio destro. Marina si strinse in sé e si slanciò avanti. "Fermo, Cristo!" urlò il barcaiuolo. Non ci si udiva, non ci si vedeva più. Il fragore uniforme metteva nella fronte e nel petto una contrazione penosa. Nepo rallentò la sua stretta. Non comprendeva quel guizzo di Marina. Parlò. Gli era come parlare con la testa tuffata nella corrente; ma egli, sbalordito, parlava egualmente. E sentì la vita di Marina ribattere indietro al suo braccio. Trasalì di piacere, allargò avidamente la mano che le cingeva il busto, come una branca di bestia immonda, fatta audace dalle tenebre; allargò le dita nella cupidigia di avvinghiare tutta la voluttuosa persona, di trapassar le vesti e profondarsi nella morbidezza viva. Marina s'era ricacciata indietro con la cieca bramosìa di stritolare quel braccio che la irritava come una sferza e s'era volta a insultar Nepo, non udita e non vista. L'acqua, il vento, le pietre stesse urlavano cento volte più forte, sempre più forte. Schiacciavano con la loro collera, con la loro angoscia colossale, la piccina collera, le spregevoli angoscie umane. Schiacciavano, buttavano via sottosopra le parole come polvere. La brutale natura prepotente voleva parlar sola. Nepo sentiva il caldo busto di Mar ina stringersi e dilatarsi ansante sotto la sua mano; gli pareva di discernere, nel frastuono, una fioca voce umana; immaginava parole d'amore e porgeva le labbra in cerca delle labbra di lei, fiutando le tenebre, aspirando un tepore profumato, pieno di vertigini. Allora un vigoroso colpo di pertica fece che la barca girasse l'ultima svolta dell'andito buio saltando in un diffuso chiarore verdognolo che pareva ascendere dall'acqua trasparente. Nepo non ebbe tempo di veder Marina in viso. Il barcaiuolo ritto sulla prora si era voltato verso di loro. Nepo lasciò prontamente Marina e finse di guardare in alto. Il vecchio barcaiuolo aveva addossato lo scafo allo scoglio puntando la sua pertica alla parete opposta, e, con il braccio libero, trinciava di gran gesti, mostra va la cavità, le gobbe mostruose della pietra. "Bellissimo!" gridò Nepo. Caronte si toccò l'orecchio e fe' con l'indice un segno negativo: indi agitò in su e in giù la mano distesa, accennando in pari tempo del capo come per promettere qualche cosa di più bello, e ricominciò a lavorar di pertica. Marina, pallida, serrate le labbra, chiusa nello scialle bianco che le stringeva le spalle, pareva un'anima peccatrice, fuggita nello sdegno alle ombre dei fiumi infernali, mezz'irritata, mezzo stupefatta. La "sala del trono" si spalancò a prora come una visione verde dorata con la sua gran cupola informe. il macigno nero nel mezzo, i tonanti fiotti di spuma e i bollimenti dell'acqua lungo le pareti gibbose; ma la barchetta, invece di entrarvi, scivolò a destra in un seno cieco di acqua tranquilla e si arenò. Una gigantesca cortina di pietra cadeva dall'alto a formar quella cala, schermandola in parte dal fragore dell'acqua. Colà, parlando forte, si poteva farsi intendere. Il barcaiolo domandò a Marina se l'O rrido le piacesse, e soggiunse, sorridendo con cert'aria di benigno compatimento, che piaceva a tutti i signori. Quanto a lui non ci trovava di buono che le trote. Diceva che in quel posto lì eran frequenti, e volle che Nepo e Marina si voltassero a guardar nell'acqua, promettendo ne avrebbero visto balenar qualcuna sul fondo. Nepo, voltandosi, venne a sfiorar la guancia di Marina. "Non mi toccate" diss'ella duramente, senza guardarlo. Egli attribuì quelle parole alla luce indiscreta e non se ne commosse che per dire con mal piglio al barcaiuolo: "Cosa ne facciamo delle tue trote, imbecille? Andiamo!" I suoi modi con gl'inferiori, da gentiluomo maleducato, gli avevano già procacciato uno schiaffo a Torino da un garzone di caffè e potevano procacciargli altrettanto e peggio da Caronte; ma costui non intese che l'ultima parola, e risospinta indietro la barca nella corrente, la fece entrare nella caverna grande, l'addossò al trono, dove l'acqua era più tranquilla, e ricominciò la sua mimica di cicerone muto. Accennò con la mano che si poteva salire sul macigno e uscir quindi per la spaccatura della rupe dal l'Orrido. Marina si gettò addietro lo scialle, balzò in piedi sul sedile della barchetta, respinse l'aiuto dell'attonito barcaiuolo e, posando i piedi sopra i risalti del masso, in due slanci gli fu sopra. Di là accennò imperiosamente a Nepo di seguirla. Nepo, ritto in barca, andava tastando il sasso, titubava e guardava di sbieco Caronte. Questi lo levò di peso e l'appoggiò allo scoglio; come a forza di raspar con mani e piedi vi si fu appiccicato, lo urtò su, con la palme, alla cima. L'acqua, entrando furiosamente, piena di luce, per la fenditura della roccia, si frangeva, a tergo del trono, in due branche spumose che lo allacciavano. Dal trono si passava oltre, si usciva all'aperto per una assicella lunga e sottile gittata sopra i sassi sporgenti dell'acqua. Tenevano quella via i pescatori di trote. Marina, seguita da Nepo, si avviò per l'assicella dopo aver accennato al barcaiuolo che l'attendesse. All'uscita dell'Orrido si apriva una scena severa che sarebbe parsa selvaggia a chi non vi fosse salito dalle caverne inferiori. Il torrente saltava giù allo scoperto per immani scaglioni, brillando al sole come una rete di fila d'argento, a grandi maglie irregolari, piene di fragore, fra due scogliere protese in atto di chiudersi una sull'altra, mezzo ignude, mezzo cenciose nei loro brandelli di bosco. Mar ina salì presso alcuni tassi rachitici che uscivano a lambir con le loro frondi nere un pietrone ritto a fianco della bocca dell'Orrido, ove il terribile fragore era grandemente affiochito. Si sdrucciolava assai per quel ripido pendìo erboso inzuppato di rugiada nella sua ombra perpetua. Non v'era sentiero, ma solo qualche forte impronta di passi nella terra rossastra. Nepo saliva a grande stento, abbrancandosi con le mani ai ciuffi d'erba. Sostò a pochi passi da Marina per pigliar fiato. "Fermatevi lì" diss'ella. "Avete più coraggio all'oscuro." "Oh, adesso poi," disse Nepo "non mi fermo certo." "Fermatevi!" Nepo si fermò, rannuvolato, inquieto. Aveva prima pensato ch'ella volesse procacciargli un colloquio fuori della vista importuna del barcaiuolo. Ora non comprendeva più. Si stizziva in cuor suo con Marina; ma gli era pur entrato da pochi minuti un sentimento o, per meglio dire, una sensazione nuova. Dalla piccola mano di velluto, dal busto caldo, ansante che aveva stretti, gli si era infiltrato nel sangue un turbamento insolito per lui, che usava dire di sentirsi uomo con le pedine, angelo con le dame. Tacquero un momento tutti e due. "Dunque lo volete?" disse Marina. "Ah" rispose Nepo allungando le braccia. Nuova pausa. "Perché lo volete?" "Che domanda, mio Dio!" "Non è vero?" diss'ella sorridendo. "Avete ragione." Lo guardò ben fiso con lo sguardo penetrante che le compariva e scompariva nella pupilla a suo talento, e disse con voce più forte: "Ma io non Vi amo!" "Oh anima mia!" disse Nepo intendendo male. E si arrampicò fino a lei. Ella fece un passo indietro, sorpresa. "Non Vi amo!" ripete. Nepo impallidì, ammutolì; poi proruppe a voce bassa, ma concitata: "Non mi amate? come, non mi amate? E cinque minuti fa in quella barca all'oscuro..." "Ah sì? V'è parso?" "Ma, mio Dio, se quella barca potesse parlare!" "Direbbe male di Voi. Vi siete ingannato; non Vi amo!" Nepo la guardava con le sopracciglia inarcate e le labbra semiaperte. "Però Vi accetto" diss'ella. Nepo mise un ah soffocato, si trasfigurò nel viso e stese le mani verso di lei. "Dunque Vi basta?" diss'ella. Nepo volle rispondere con un abbraccio, ma ella fu pronta ad appuntargli l'ombrellino al petto. "Scendete subito" disse. "Il barcaiuolo potrebbe andarsene. Io non vengo con Voi; giro l'Orrido di fuori. No, non ci vengo. Voi, venire con me? Non Vi voglio. Andate. Non siete contento adesso? Dite alla signorina Steinegge e al ragazzo che mi aspettino al ponte. Voialtri precedeteci. Non ci aspettate laggiù alla barca. Non aspettateci neppure a pranzo. Quando sarete a casa parlate pure a Vostra madre e a mio zio. Subito, prima che io ritorni. Andate." Egli non ne voleva sapere di andarsene. Implorò un bacio, non l'ebbe; anche la piccola mano di velluto, anche un lembo della veste furono negati alle sue labbra. Afferrò l'ombrellino e baciò quello, impregnato esso pure dell'odore di lei. Le acque e le frondi ne risero; ed egli se ne andò contento e malcontento insieme, agitato dalla torbida poesia de' sensi che non è del tutto abbietta e mette almeno qualche volta in ogni anima il suo fervor vitale, il suo cupo fiore di un giorno. Quando Marina arrivò al ponte, Edith era là ad attenderla con il Rico. Rifecero in silenzio la via percorsa il mattino sino ad una vecchia pietra ove era scritto, con la relativa freccia: "Ai monti". Lì presero per una stradicciuola che accennava ad un collo assai depresso tra la scogliera che è sopra C... e altri dorsi erbosi. Erano presso al collo quando Marina, che precedeva Edith, si fermò e le disse bruscamente: "Sa? Sono stata leale." Edith non comprese e non rispose. Ella non pose mente alla emozione febbrile che vibrava nella voce e luceva negli occhi di Marina. L'anima sua era tutta nello spettacolo della valle che si trasformava salendo, negli orizzonti che si allargavano tra le ondulazioni delle cime verdi ed altre cime azzurrognole, nella tremula nota continua delle campanelle vaganti per i pascoli, nelle voci acute e gravi di acque che passavano cantando sul fondo di riposti valloncelli e fra l'erba dei prati cadenti, onde saltava no talvolta sulla via per fuggire dall'altra parte. Ella camminava più lenta, contemplando il cielo così puro al di sopra delle passioni di tante montagne sfolgorate in fronte dal sole obliquo a cui tutte parevano guardare, unite in qualche grande pensiero, in qualche sublime preghiera senza parole. Sospirava e sentiva scendersi al cuore l'aria piena di questo spirito muto delle montagne. Non comprendeva come si potesse pensare ad altro, non sentiva più, come al mattino, l'influenza penosa di Marina; era li bera. Giunta sul collo del monte, disse guardando la nuova scena che le si apriva davanti: "È una poesia." Marina non aperse bocca. Edith vide, accostandosele, che ella aveva gli occhi pieni di lagrime; si fermò, sorpresa. Marina le prese il braccio con forza, e, accennato al Rico di andare avanti, uscì con lei di strada, rapidamente, camminando sul prato; ad un tratto abbracciò la sua compagna e proruppe in singhiozzi disperati. Singhiozzò, singhiozzò sull'omero sottile di Edith, stringendole convulsa le braccia, parlando con le labbra impresse nelle sue vesti, scotendo forte, a ogni tratto, la testa. Edith, co mmossa, tremava da capo a piedi, si sentiva vibrare nel petto il rombo di quella voce soffocata e non poteva coglierne alcun suono distinto; provava nel cuore una pietà grande, come se il cuore avesse intese le cose singhiozzategli sopra; provava un affannoso bisogno di trovar parole di conforto, e non sapeva. Ripeteva: "Si cheti, si calmi" ma senza frutto, che Marina scoteva allora la testa con maggior violenza. Chinò il volto e le posò la bocca sui capelli, esitò un momento, lottando con qualche occulto p ensiero, baciò finalmente quella testa altera, così umiliata, e ne provò consolazione come d'una vittoria. A poco a poco i singhiozzi si chetarono. Marina alzò lentamente il capo e si staccò da Edith. "È passato" diss'ella "grazie." "Mi parli" disse Edith affettuosamente. "Se Lei mi vedesse il cuore..." "Le ho parlato" rispose Marina. "Le ho detto tutto." Ella ebbe ancora due o tre singhiozzi convulsi, senza lagrime. Edith voleva che sedesse. "No, no" rispose "è passato." Si morse il labbro sino a sangue e si affrettò a ripetere: "È passato, è passato." Ella s'era appoggiata a un grosso macigno bianco intagliato a traforo dai ghiacci, che usciva dal prato fra cespugli di mugo, come una scapola enorme di qualche mostro fossile mai sepolto. Ci aveva posate ambedue le spalle, e volto il viso sulla spalla destra, si guardava la mano rabbiosamente attorta agl'int agli bizzarri del sasso. "Mi dica..." ripeté Edith. Marina voltò la testa e strappò il fiore azzurro da un lungo stelo che saliva presso a lei. "Che fiore è?" diss'ella bruscamente. "Pare aconito." E lo porse a Edith. Questa prese il fiore senza guardarlo, volle insistere. Marina fu ripresa da un assalto nervoso violento. Stavolta abbracciò il masso, vi soffocò i singulti. Pareva sitibonda di entrar nella pietra, di gelarvi, di irrigidirvi per sempre. E intorno a lei era tanta pace! Le campanelle delle vacche empivano del loro tremolìo i silenzi solenni della montagna, mettevano voci di vita innocente nei pascoli, nelle selvette compatte, verde-dorate di giovani faggi, in giro a rade macchie metalliche d'abbeveratoi stagnanti. Presso quel sasso gli aconiti rizzavano nel sole fuggente la loro pompa, le felci curvavano le grazie leggere del fogliame color di aprile, ciclami vanitosi gittavano i lunghi gambi ignudi de' loro fiori. Tutti circondavano Marina di pace, di dolcezza grave, sile nziosa. Si udì la voce lontana del Rico che gridava: "Uuh-hup! Uuh-hup!" Voci di mandriani rispondevano: "Uuh-hup! Uuh-hup!" Parean saluti al sole che aveva levato il suo raggio dall'erba e saettava la cima del sasso bianco. Il tremolìo diffuso delle campanelle s'avvicinava da tutte le parti all'alpe di C... accovacciata in un seno erboso sotto le scogliere. Le vacche vi si avviavano a file, a drappelli, accodandosi le une alle altre sugli angusti sentieri, trottando giù dai brevi pendii, sbracandosi lente nei prati, fermandosi di tratto in tratto a levar il muso e muggire. Il Rico gridava sempre: "Uuh-hup!" Marina si scosse, si volse a Edith e le disse: "Andiamo. Adesso è passato davvero." Edith la pregò ancora di parlare, di confidarsi a lei. "Le ho detto tutto" rispose da capo Marina. "Non potrei ora ripeter quello che Le ho detto. Non lo sento più. Metta che vi fosse in me un sentimento ch'io ignoravo. Ad un tratto ha divampato, mi ha preso alla gola, al cervello, dappertutto. Ma è stata una vampa sola. Adesso è morto. Non lo sento più. Non so più nemmeno se fosse dolore o sgomento. Sa, quando si entra in una via sconosciuta viene sempre questo dubbio: "E se sbaglio? Se mi perdo?" Non dura, ma viene. Senta; se in avvenire udrà parlare di me, c ontro di me, si ricordi questa sera. Allora capirà, forse." "Spero che non udrò parlare contro di lei." "Oh!" Tornate sul sentiero, trovarono il Rico fermo ad aspettarle. Si faceva tardi, era freddo. Scesero in fretta verso Val... Marina non parlava, seguiva i suoi pensieri. Solo dopo una mezz'ora di cammino prese il braccio di Edith e le disse: "Glielo racconti." "A chi?" rispose Edith. Marina trasalì, le lasciò andare il braccio e non disse più nulla. Il sasso bianco, sgretolato dal gelo, ritto fra il mugo, le felci e gli aconiti sotto il cielo pallido della sera, sapeva forse per quali angoscie oscure un corpo e un'anima si fossero dibattuti insieme sopra i suoi fianchi duri, freddi, senza pietà. Se vi dormiva il torbido spirito, l'insensatum cor della montagna, poté sognare che un altro core, appena incatenato alla colpa e alla sventura era corso a palpitar forte, quasi a frangersi addosso a lui, in un impeto di dolore atroce scoppiatogli su da profond ità che oltrepassano la coscienza; poté sognare quanto si soffra anche fuor del suo carcere cieco, anche nel mondo sperato dei sensi, del pensiero e dell'amore. Non si udivano più le campanelle delle vacche, salivano dalle valli fiocchi di nebbia, saliva dall'Orrido, come un gran pianto, la voce del fiume, e là in alto il sasso bianco si faceva sempre più triste, sempre più cupo, tra il mugo, le felci e gli aconiti, sotto il cielo pallido della sera.

MEMORIE DEL PRESBITERIO SCENE DI PROVINCIA

679337
Praga, Emilio 4 occorrenze
  • 1881
  • F. CASANOVA. LIBRAIO - EDITORE
  • prosa letteraria
  • UNIFI
  • w
  • Scarica XML

... polso abbattuto? Mignatte! ... Oppressione di capo? Mignatte! .... Delirio, agitazione nervosa? Un salasso! Salassi e mignatte, ecco il sistema del dottor Caniveri .... un uomo che stimo, del resto. Se si lasciasse fare a me .... lo do sano in due giorni, solo lasciandolo in calma. S'interruppe, pensò, poi avvicinatosi a Baccio gli disse all'orecchio una parola. E soggiunse: - Che te ne pare? - Magnifica idea! - Quello è l'uomo che ci vuole: vado da lui; e al diavolo il signor Caniveri. Verso le sei di sera, Baccio partì, tutto orgoglioso del bastone col corno di camoscio, ch'io gli avevo prestato di gran cuore, sapendo di fargli un segnalato piacere. Bazzetta crollava il capo vedendolo allontanarsi e fu con voce dispettosa che mi disse: Io resterò fino a mezzanotte, e ritornerò sul far del giorno. Intanto voi cercate di divagarvi, chè davvero, per essere la prima vi è toccata una giornataccia. Poi, avvicinatosi, mi prese per un braccio e ammiccando gli occhi soggiunse: - C'è in casa un vinettinino impagabile. Non fate complimenti; ne troverete nell'armadio, in cucina. E salì alla camera del curato. Io feci un giro pel villaggio. Gruppi di montanari e di villanelle, seduti davanti alle porte delle capanne, s'indugiavano a respirar l'aria balsamica della sera. Da qualche finestra debolmente illuminata uscivano le nenie del rosario, interrotte dal chiocciare delle galline che sbucavano d'ogni parte dalle siepi degli orti, per ricoverarsi al pollaio. Passando davanti alla fontana, pensai: Chi sa se questa notte non succederà l'inondazione. E mi pareva di veder Baccio colla sua famosa calza in mano. Un vero attruppamento di ragazzi stava immobile, cogli occhi spalancati, come davanti a qualche cosa di straordinario, in faccia alla porta di una casupola le cui finestre, a differenza di tutte le altre, erano spalancate. Chiesi a un d'essi che cosa attirasse la loro attenzione, ma il ragazzotto, per tutta risposta se la diede a gambe, seguito dall'intiera falange. Mi inoltrai dissotto all'androne; non so perchè, quella casa aveva qualcosa di strano da cui mi sentivo attirato. Nel cortile non c'era nessuno; sulla loggia che lo incoronava erano distese materasse e lenzuola in gran numero; un cagnolino guaiva presso una porta semichiusa. - Abbruciate altro aceto, mamma Lena! ouf! si direbbe che è morta da una settimana! E una vecchia, curva come un tronco abbattuto, attraversò il cortile con una lanterna in mano e miagolò: - Vengo, Lisa! e voi andate là da quel poveretto che a furia di piangere finirà per perdere gli occhi. Era la casa della povera Gina. Due ragazzetti, i suoi orfani, vennero a sedersi accanto al cane, con una enorme scodella di latte e pan giallo, ridendo e giocando, fra l'una e l'altra boccata. Ma il cane di tanto in tanto ripeteva i guaiti. Partii da quel luogo, quasi col rimorso di averlo profanato colla mia indiscreta curiosità, e me ne ritornai al presbiterio, ripensando al sogno della notte e alla quantità e alla universalità degli umani dolori. Le campane dell'Ave Maria squillavano malinconicamente; in assenza di Baccio si era andato a cercare il suo sostituto, un vecchio piccino, pellagroso, e che zoppicava. Nell'alternarsi incerto degli squilli si sentiva qualche cosa del suo incesso. Entrai nella cucina, non illuminata che dalla fioca luce del crepuscolo: il fuoco era semispento. Un grosso moscone volava su e giù, ronzando affannosamente e dando ad ogni tratto del capo nelle casseruole appese ai muri. Non vedevo nessuno. - Il curato dorme ed io bevo. Venite a farmi compagnia. Era lo speziale, accovacciato e sepolto nell'ombra sotto la cappa immensa del camino. Mi avvidi subito ch'egli si era rifatto, colla bottiglia, delle noie e delle fatiche della giornata. I suoi occhietti brillavano nel buio come due carbonchi. Gli sedetti dirimpetto, e, sorseggiando quel vinettinino davvero squisito, si cominciò a chiacchierare. Il lettore si imagina di leggieri quali dovettero essere e come insistenti le mie domande. Avevo giurato a me stesso di non chiudere occhio se non avessi prima saputo qualche cosa intorno a quel sindaco misterioso che mi appariva il perno, il movente del dramma, del cui svolgimento il caso mi faceva spettatore. Il Bazzetta sulle prime fu restìo come un mulo. Sapeva di grandi cose (ci teneva a convincermene) ma prudenza gli suggeriva di tenerle per sè. Pochi erano al fatto di così gravi affari: nessuno forse, dopo il curato ed il sindaco, li conosceva a fondo come lui: responsabilità quindi maggiore, obbligo più formale di rinchiudersi nel silenzio. Queste mezze rivelazioni, queste reticenze non facevano naturalmente che accrescere a dismisura la mia curiosità. Misi a contribuzione tutta la mia eloquenza, e pregai e insistetti tanto che, quando Dio pur volle, non senza l'aiuto del vino ripetutamente versato, il dabbene speziale, si decise a snocciolarmi tutta una storia. - La Mansueta, disse, quasi per scusar sè stesso, l'ho mandata a dormire, chè guai dubitasse soltanto che mi permetto di narrarvi le disgrazie che sentirete, e di cui è, poveretta, la causa senza volerlo. Se narro a voi, proprio perchè siete voi, è perchè penso che, alla fin delle fini, fra pochi giorni sarete lontano le cento miglia, e della mia storia non vi ricorderete più nemmeno il principio. Accendo la pipa, scusatemi, e poi mi starete a sentire. Ciò che udii quella sera, nel silenzio opaco e tristo di quella cucina, vorrei potere e saper ripetere colla rozza ed efficace semplicità con cui narrava il dabbene speziale; ma dovrei accennare le interruzioni, citare le osservazioni, ch'egli vi intercalava, senza di che l'effetto sarebbe mancato e il racconto non farebbe che diventar più prolisso. Preferisco quindi riassumere alla meglio e raccontarvi con parole mie:

Egli era tanto avvilito e tanto abbattuto che non durarono fatica a indurlo a scendere dopo il desinare col dottore a Zugliano. L'infelice baciò le sue creature senza far parola, senza spargere una lagrima e s' avviò barcollando come trasognato dietro alla mula del dottore. Lo accompagnammo sino in fondo al villaggio; poi il curato tornò indietro; io continuai la mia passeggiata.

Don Luigi non aveva potuto rispondere altrimenti che con un cenno affermativo del capo: era tanto abbattuto che Attilio non aveva creduto di insistere. Egli mi disse: - Capirai che probabilmente sarò costretto ad assumere un suo formale interrogatorio. Ti ripeto che lo credo innocente, - ma intanto è necessario che ciò si chiarisca nella procedura. L'impreveduta confidenza mi aveva tanto sbalordito che non potei profferire parola. Seguii come trasognato il mio amico fino alla stalla dell'inserviente, dove avevano condotti i cavalli. Quivi sopraggiunse poco dopo il signor De Emma. Ci prese in disparte e disse ad Attilio: - Signor avvocato, don Luigi si è candidamente accusato e non ha pensato a difendersi. Egli le ha detto la verità ma non tutta la verità. Le sue confessioni possono far sospettare di lui; ma io le posso assicurare che il dabben uomo non ebbe mai verso il De Boni l'ombra di una colpa. La scongiuro a mani giunte di non tenerne conto: un atto di procedura fondato sovra esse non gioverebbe alla giustizia ma ucciderebbe senza riparo la riputazione e forse anco la vita di un innocente. Attilio esitava a rispondere. Il dottore soggiunse: - Il suo amico le può dire che fior di galantuomo sia don Luigi. - Però v'è contro di lui un indizio grave, - osservò Attilio. - risulterebbe che egli abbia imposto il peso di un suo figlio naturale al signor De Boni .... si può indurre che egli aveva interesse a temerne e ad evitarne le rivelazioni .... - Ma egli non ha imposto nulla, non sapeva nulla. Senta. Lei, tornando passerà da Zugliano; favorisca in casa mia; mi lusingo di riuscire a convincerla. E rivolto a me: - Venite anche voi; potrete confermare buona parte del mio racconto. - E don Luigi? - osservai riconciliato interamente col dottore. Sarà meglio lasciarlo tranquillo. Inoltre bisogna bene che ci occupiamo senza indugio del povero Beppe. Andai con lui al presbiterio a congedarmi. Don Luigi non cercò di trattenermi: prese la la mano ch'io gli porsi rispettosamente, mi tirò a sè, mi abbracciò con effusione senza far motto. Il segretario fu tanto buono da cedermi la sua cavalcatura e partimmo col dottore. Allo svolto dove la strada passa ancora sotto Sulzena prima di seguir la vallata mi volsi e diedi un'ultima volta uno sguardo di tenerezza al presbiterio che stendeva modestamente al sole cadente i suoi muri bianchi e le ultime foglie rosse del suo pergolato. Dal muricciuolo dell'orto la Mansueta mi salutava scuotendo il suo grembiale con ambe le mani. Nella confusione della partenza m'ero dimenticato di lei. Eppure dopo tanti anni ho ancora vivissima in me la sua immagine! Povera vecchia, santa donna: quanto mi sono rimproverato di non essere tornato indietro a stringer la sua mano aggrinzita dal lavoro! Allora non credevo di non averla a riveder più. Addio! con un cenno di mano si piglia commiato per tutta l'eternità! Si faceva tardi; mettemmo i cavalli al galoppo. A qualche miglia da Sulzena passammo innanzi ai carabinieri che menavano il Beppe. Lo chiamai per nome. Non intese. Camminava colle braccia ammanettate in croce sul petto, colla testa china, col fare stralunato di un uomo che ha l'animo fuori di questo mondo.

Certe mattine all'alba mentre uscivo per le mie corse montanine lo incontravo che rientrava: aveva passata la notte al capezzale di un infermo; era stanco, afflitto ma non abbattuto: mi dava il buon dì con un sorriso ed entrava in chiesa ad offrire davanti al suo tabernacolo i voti della povera creatura di cui aveva nella veglia penosa assistito i patimenti. In quei momenti sentivo tutta la sua superiorità, tanto più grande quanto più inconscia. Quando don Luigi veniva alla Cascata, era un amico, un ingenuo compagno che conosceva molto meno di me le cose e le vie del mondo. Una cosa mi meravigliava: Don Luigi non parlava mai di sè. Se, discorrendo, mi appellavo alla sua esperienza e gli dicevo: «voi sapete questo e quest'altro» non diceva nè sì nè no; qualche volta impensieriva come se una subitanea rimembranza lo assalisse. E la tristezza, ogni giorno crescendo, gli oscurava lo sguardo. Un giorno, mentre all'ora consueta, noi due eravamo alla Cascata, capitò il dottore De Emma. Era stato a casa, non ci aveva trovati ed era venuto a raggiungerci. Sedette sotto i noci e fe' da terzo nella nostra solita conversazione. Il discorso cadde sul Renato di Chateaubriand, lugubre protesta del dubbio uscita dall'anima di un credente. - Strano enigma! sclamò il curato. - Enigma sì, io dissi, e mostruoso, ma punto strano. - Come? domandò Don Luigi. - Queste buie disfatte della ragione e della coscienza sono frequenti nella vita. - Il pittore ha ragione, disse il signor De Emma; le passioni buone o cattive sono lievito originale della nostra natura. Dopo una lunga incubazione erompono come il vaiolo, irresistibili, spesso micidiali, talvolta provvidamente salutari. Don Luigi parve colpito da queste parole, diè una strana occhiata al dottore e domandò: - Credete? - Si, colla differenza che il vaiolo si può prevenirlo col vaccino, mentre per quell'altro male ..... - Non vi sono preservativi? ed aggiunse dimessamente: ma e la virtù e il dovere, e .... - Sono freni, - resistono, ma si spezzano. Ci vorrebbe uno sfogo anticipato, una specie di vaccino morale; una cura previdente di affetti che stornassero in tempo le forze germinanti del male. Ma quale? come indovinarle prima di conoscere il male? Difficilmente si può e si sa fare. Spesso le condizioni, le ripugnanze sociali vi si oppongono. E il più delle volte è impossibile lo scandagliare in fondo alle indoli talvolta diversissime nella sostanza dalle loro superficiali apparenze: ne ho viste talune disformarsi nella crisi subitamente, rivelare tendenze di cui non si sarebbe mai sospettato l'esistenza. E ne ho viste dell'altre trasfigurarsi; e giusto non dimenticherò mai uno stranissimo fatto accaduto a Sorese in Brianza dove la mia famiglia possedeva molti anni sono vasti poderi ed io mi recavo con essa a passare i mesi delle vacanze. Una delle bellezze o rarità, come dicono i ciceroni, di quel villaggio era Tonio, un povero cretino di dieciotto anni, sciancato, losco, peloso, due terzi meno che scimmia, un terzo meno che uomo, serio come un gendarme, ingenuo come una pulzellona, orfano, nudrito, o quasi, a spese del Comune, errante a saltelloni su e giù per le strade, sdraiato in gennaio nella neve, accocolato di pien meriggio sotto il sollione di luglio, creatura incapace ed inoffensiva che rispondeva con un sorriso ed un mugolio a chi gli gettava il soldo o il tozzo di pane. Ora, era avvenuto cotesto, che, trovandosi fornita per bene la cassetta delle elemosine, il dabbene parroco dì quel villaggio, aveva deciso, previo consenso degli onorevoli fabbricieri, di commettere a un pittore di città, una nuova Madonna, ad olio, s'intende, e di grandezza naturale, da collocare al posto di quella vecchia e sdruscita che faceva torto all'altar maggiore, e, a detta di chi se ne intendeva di arti belle «era ormai una Madonna che non valeva più un fico». Quale solennità non fu quella dello insediamento della nuova Madonna! Ad ogni svolto di via, archi trionfali costrutti di paglia intrecciata e di mortella, festoni dall'una all'altra grondaia, tappeti, lenzuola, coperte da letto ad ogni finestra; altarini posticci, irti di moccoli smilzi smilzi e di imagini di santi ancora più smilzi; baracche di merciaiuoli, chicche, aranci, castagne, - per le circostanti praterie assiti e panche e tende d'ogni colore e d'ogni foggia con vendita di vino e di birra; e ciarlatani e spacciatori di zolfanelli e cantatori di bosinate, a suon di pifferi e di chitarre; - e forestieri a bizzeffe, e di quelli, veh! venuti le cento leghe da lontano; e il cortile dell'albergo pieno zeppo di carri e carrette e carrozze, - e fior di signori e signore dagli abiti di panno chiaro e dagli ombrellini di seta e, - ad ogni quarto d'ora, - una salva di mortaretti che faceva traballar tutto e tutti dall'un capo all'altro della borgata. Io vedo tuttociò come se mi fosse ancora presente davanti agli occhi; mi sento ancora pigiato da quella folla variopinta in cui si faceva largo di tratto in tratto, coll'autorità dell'abito e forse più con quella dei gomiti, qualche pievano in ritardo, già prelibante la lauta imbandizione del parroco; in cui si incrociavano in altrettanti saluti, congratulazioni, appuntamenti per la cena e pel ritorno, tutti i minuscoli dialetti della Brianza, da quelli asmatici di oltre Adda, e i secchi e spiccati del piano d'Erba, fino ai cadenzati e grassotti che cominciano verso la Camerlata e si spandono, con poche varianti, su tutto il territorio di Varese, per dar posto ad una lingua, quasi nuova di zecca, sulla sponda sinistra del Verbano. Tutta quella moltitudine era diventata d'un tratto immobile, tutto quel cicalio era cessato come per incanto, a un nuovo e più formidabile sparo di mortaretti e allo scoppio di una allegra fanfara che annunciava l'arrivo della processione e quello della nuova Madonna con essa. Come la cattolica Dea passava davanti a me ed io contemplava curiosamente quella figura dipinta dal pittore di città colla balda ingenuità di un Ottentotto, una mano sulle spalle mi scrollava e una voce ben nota mi distoglieva dal quadro. Era mio padre, che abbassandomisi all'orecchio e additando il centro del corteo mi diceva: - Guarda la faccia di Tonio! E infatti, Tonio era trasfigurato. Armeggiandosi tra la folla con una destrezza che nessuno gli aveva mai riconosciuto fino a quel giorno, gli occhi dilatati, intenti, assorti nella faccia della Madonna, egli andava avanti colla processione come se non toccasse coi piedi la terra, come se un nuovo spirito di vita agitasse il meccanismo del suo carcame, e l'idea, per la prima volta, avesse susurrato chi sa quali arcane sillabe all'animo suo. Le labbra del cretino erano agitate da un tremito convulso; pareva che dietro di esse una parola bussasse disperatamente perchè le venisse aperto! ... Io ricordo quella faccia, così che potrei, dopo tant'anni, riprodurla, se fossi pittore, colla fedeltà della fotografia. La moltitudine, tutta assorta nella imponenza dello spettacolo, non aveva badato alla trasformazione del povero scemo, e forse nemmeno la sua profana presenza in mezzo a quel lusso di stole, di cappe magne, di tricorni, di fiaccole e di stendardi incedenti nella mistica nube dell'incenso e al suono cadenzato delle liturgie. Ma il segrestano, una vecchia volpe bigotta, quando il meraviglioso quadro ebbe passata la soglia della chiesa parrocchiale, vi si piantò diritto davanti coll'asta dell'elemosina adagiata orizzontalmente sull'epa, e, a nome delle autorità civili ed ecclesiastiche, intimò a tutto quel formicaio di popolo che non si facesse un passo più in là; nel tempio non c'era posto che per gli invitati; se volevano veder la madonna a suo luogo, venissero l'indomani; ordine esplicito delle autorità costituite, imbandito da quell'onorevole funzionario, or colle buone or colle brutte, a seconda del caso. Ma Tonio voleva seguire la Madonna; implorava collo sguardo e coi gesti e colle labbra balbuzienti chi sa quale parole di supplica disperata. Il segrestano lo mandò a rotoli con un ceffone, tra le risate del publico. Venuta la sera, tornati alle loro case tutti quei più o meno devoti visitatori, ridivenuto deserto e tranquillo il villaggio, coricatosi il curato contento e ben pasciuto, il segrestano aveva dato di chiavistello a tutte le porte e porticine della chiesa, ne aveva visitati tutti gli angoli, ed era a sua volta andato a dormire ben pasciuto e contento. Quale fu la sua meraviglia quando il mattino seguente, accendendo le candele per la prima messa, inciampò in un corpo disteso per terra, ai piedi della Madonna nuova, e riconobbe Tonio e constatò che era morto! Alla notizia del caso, divulgatasi nel paese in un batter d'occhio, una vecchia aveva giurato sull'anima sua di aver udito uscir dalle labbra del povero scemo, mentre egli seguiva in quel tal modo la processione - queste parole indirizzate alla Madonna: «Ti voglio ... bene!» Sarebbero state le sue prime ed ultime parole ... Don Luigi non si mostrò scandolezzato del racconto. Il dottore continuò: - Chi poteva prevedere le precauzioni di tenerezza che occorrevano a Tonio? e se si fossero potute prevedere? - chi avrebbe voluto accordargliele? Intanto la prima immagine di donna che, per esser dipinta, non stornò da lui, con ribrezzo, gli sguardi lo uccise. - Ora facciamo, dissi con nuovo coraggio, facciamo il caso opposto. - Sicuro, riprese il dottore, supponiamo un carattere nobile, elevato, un uomo superiore. Ebbene, può darsi che egli abbia un'intima inclinazione a delle sregolatezze strane. Ciò succede spesso: Rousseau ha detto che egli sentiva in sè, allo stato potenziale tutti gli istinti del più scellerato malfattore: moltissimi uomini, e dei migliori, potrebbero farvi la medesima confessione. Questi istinti non si avvertono che quando una causa morbosa sopravviene a suscitarli, cioè quando è troppo tardi per correggerli. Torniamo al nostro esempio, facciamo le migliori ipotesi, ammettiamo che quell'uomo superiore preveda il pericolo - ma sarà egli in caso di scansarlo? le funzioni, le convenienze, gli obblighi del suo stato, un insuperabile pudore gli lascieranno la libertà di scegliere i rimedi e di usarne in tempo? Qui sta il punto. Il dottore s'interruppe; e mi parve di leggere nei suoi sguardi il rincrescimento di aver detto troppo. Cambiò discorso: parlò di Beppe. Il povero uomo, a quanto gli scrivevano, aveva mostrata una grande docilicità, ma era tutt'altro che rassegnato. Si manteneva cupo, chiuso nella sua pena come al primo giorno: adempiva il compito della sua nuova condizione, ma con un fare distratto, collo stupore di chi non vi si è ancora dimesticato. Gli avevano proposto di fargli venire i figlioli, - egli ricusava sempre dicendo che sarebbe andato lui a cercarli. - «Quando sarò tranquillo» aggiungeva. Aspettavano dunque che egli fosse tranquillo. Ma quel giorno non pareva vicino. - Lo stato di quell'uomo m'inquieta, disse il curato, siete sicuro che i vostri parenti riescano a trattenerlo? - Lo spero, rispose il dottore. L'ho tanto loro raccomandato che faranno tutto il possibile. - E pensare, soggiunse, che noi ci diamo tante brighe per la sicurezza di quel cialtrone del De Boni. È vero che non si tratta solo di lui: se mai, una lezione gli starebbe bene. - Dio non voglia, sclamò don Luigi un po' sgomento. - Non ha forse permesso il peccato? Però quel disgraziato di Bebbe potrebbe perdersi: e, v'assicuro che questo sarebbe il solo mio rincrescimento. Noi eravamo frattanto tornati in paese e passavamo giusto in quella davanti alla casa del mandriano. Sulla unica finestra del piano superiore notai gli steli disseccati di un garofano che penzolavano dall'orlo di una terrina rotta; - ricordo ed immagine della felicità di un tempo. Annottava. Non so se fosse per i discorsi del dottore o per la mia naturale tendenza ad attribuire sentimenti e pensieri alle cose inanimate; mi parve di intravvedere nell'aspetto squallido di quella casa abbandonata, chiusa, silenziosa, qualcosa di simile ad una minaccia e involontariamente alzai gli occhi alla casa del sindaco che si disegnava nel fondo sopra un cielo di lucida opale. Qualche passo più in là il curato ci lasciò per la solita visita che egli soleva fare prima di cena ai malati del villaggio. Salutò il dottore che voleva ad ogni costo tornare a Zugliano ed entrò in una porta dove un vecchierello lo attendeva come il vicario visibile della provvidenza. Il signor De Emma mi accompagnò fino al Presbiterio, dove aveva lasciato la sua cavalcatura. Allo sbocco della piazzetta c'imbattemmo in un giovine che scendeva dai monti con una scure in ispalla: il quale, appena ci vide, chinò il capo e accelerò il passo come volesse schivare il nostro incontro. Il signor De Emma gli diè una voce, e lo costrinse suo malgrado a fermarsi. Allora, sotto le rustiche spoglie del boscaiuolo, ravvisai con grande sorpresa il mio amico Aminta, che, dal giorno di quel nostro colloquio alla Cascata, non avevo più riveduto. - Che significa codesta novità? domandò il dottore. - È il signor Angelo che mi manda ai Roveretti a spaccar legna, rispose con amarezza e chinando gli occhi vergognoso. - Ma perchè? ... - Mi sono arrischiato a dirgli che avrei preferito un'altra professione a quella ecclesiastica, - egli è saltato su tutte le furie, mi ha strappato la mia veste e mi ha detto che ero un villano, e che villano dovevo essere. Balbettava, tremando, e pareva fosse sulle spine. Il dottore non lo trattenne di più. Aminta ci salutò in fretta e s'allontanò di corsa. Il suo terrore non era senza motivo: s'era appena allontanato che sbucò dalla farmacia la sinistra figura del sindaco, e passandoci innanzi ci diè una breve occhiata di traverso. Il signor De Emma corrugò la fronte e mormorò: - poveretto, egli fa una dura penitenza! povera Rosilde se la lo vedesse! e non poterlo soccorrere! maledetto sistema di spiritualistiche ipocrisie! Poi, accortosi ch'io lo guardavo con curiosa ansietà di penetrare le sue parole, tacque e s'avviò a capo chino. A me rimordeva d'essere la causa di quella nova testina. E mi persuasi come, il più dei casi, i consigli sia ottima cosa tenerli per sè. Anche in agosto, la sera, in montagna, un buon fuoco è sempre una gradita compagnia. Intirizzito dalla brezza pungente che s'era levata al cadere del sole, mi recai in cucina. Mansueta seduta davanti ai tizzoni rimondava delle patate per la minestra e intanto teneva d'occhio la pentola che brontolava in mezzo al camino. Ella non mostrava la sollecitudine dell'altre volte; una delle sue bravure era quella di levare la peluria tutta intera e di farla cadere a terra a spire come la scoria di un serpentello: ma quella sera la rompeva ad ogni momento e i pezzetti saltavano nel piattello, - s'interrompeva spesso e si poneva la mano sugli occhi come per tergere qualcosa che le facesse velo alla vista. Finalmente in uno di questi intervalli la pentola levato il bollore traboccò sulle brace che crepitarono e stridettero annerandosi quasi dalla vergogna dell'inaudita trascuranza di Mansueta. La buona vecchia non resse a tanta mortificazione: l'afflizione che l'accorava irruppe. Mi contò piangendo che aveva visto il nipote. - Povero ragazzo, mi si spezza il cuore vederlo così maltrattato, lui tanto buono e sommesso! Mi provai di consolarla: le dissi che Aminta sarebbe presto liberato di quella schiavitù di cani. - E volevo accennare alla sua età e al coraggio che con essa avrebbe acquistato. La buona donna mi fraintese, e oltrepassando il significato delle mie parole mi disse con rustica franchezza: - Liberato, oh sì ci vorrà ben altro! Quell'orso ha il cuoio duro: è tomo da campar cent'anni. - Oh, soggiunsi ridendo dell'equivoco, oh! se appena gliene capita il destro, colui ci facesse la grazia di accopparsi .... l'occasione sarebbe sempre ottima per tutti di perderlo .... Ma in ogni caso vostro nipote non dovrà mica aspettare quel giorno per scuotere il giogo. - E giusto io avrei certi progetti in cui voglio sentire il parere di Don Luigi. - No, saltò su a dire la donna, no, la non gliene parli per carità, egli non può senz'accorarsi sentirne a parlare; gli vuol tanto bene che il solo pensiero delle sue sofferenze lo fa piangere. In questi giorni è già sempre tanto tristo che non ha bisogno di nuovi dispiaceri. La non gli dica nulla; ci penseremo poi al povero Aminta; ora, poichè la Madonna ce l'ha mandato, faccia di tener allegro il mio padrone, di distrarlo. La buona fantesca nella sua idolatria pel padrone sapeva far tacere anche la voce della sua tenerezza quasi materna per Aminta, l'unica creatura della sua famiglia che le restasse al mondo. Quando intesimo il passo del curato, ella si scosse, si assicurò di aver gli occhi ben asciutti, prese il suo solito fare lesto e volonteroso e per tutta quella sera io contemplai con ammirazione que' suoi occhi affaticati e quel suo volto scarno sorridere mentre avrebbe pianto tanto volentieri. Non scorderò mai quelle sue rughe venerande, in cui non dirò come il secentista, che vi s'appiattassero gli amori, ma traspariva tanta e così limpida devozione, una bontà schietta, animosa! .... E anche Don Luigi, benchè avesse tanti motivi di tristezza, più assai e più gravi di quel ch'io potessi allora immaginarmi, si faceva una gran forza e conversava e mi parlava di me, delle cose mie dimenticando, nella premura di intrattenermi piacevolmente, sè stesso e le sue pene: tutto ciò senza sforzo per una volontaria e spontanea delicatezza. Invece io, il solo senza fastidi (allora non ne avevo), io spensierato, pareva il più cruccioso di tutti. Ammiravo come ho sempre ammirato senza poterlo imitare, quell'eroismo umile di tutte le ore che piglia la vita come vien viene, come una battaglia e la combatte valorosamente ad oltranza.

LEGGENDE NAPOLETANE

682482
Serao, Matilde 1 occorrenze

e s'abbandonava sopra un banco, spossato, abbattuto, morto. - Perché non siedi a me daccanto, o dolce amor mio? Perché non mi ti accosti? Non temere, non mi appresserò troppo. Sai che t'amo, so che m'ami; so che dobbiamo troppo avvicinarci. E neppure puoi parlarmi: così vuole il destino. Ma io t'amo; tu sei il mio cuore. L'anima mia è fatta di te; non sono io, sono te; se io muoio, tu morrai; se tu muori, io muoio. Come sei bianca, o divina fanciulla! I tuoi occhi sono trasparenti e chiari, non mi guardano; le tue guance hanno appena una trasparenza rosea, le tue labbra sono pallide pallide, le tue mani sono candide come la neve, ed un fiocco di neve è il tuo manto. Hai tu freddo, cuor mio? Non sai che io ho la febbre, che il, sangue schiuma e bolle nelle mie vene, come un'onda impetuosa? Sorridi? Puoi calmarmi così. Quest'ardor che m'infiamma, questo incendio che divampa in me, solo la carezza della tua gelida mano potrebbe domarlo, solo il tocco delle tue gelide labbra potrebbe assopirlo. No! Non allontanarti, resta, resta per pietà di chi t'ama. Non ti chiederò più nulla, creatura bianca ed innocente. Tu leggi in me, vedi che sono puro, che il mio cuore è candido come la tua veste, che non lo macchia desiderio di fango. Non fuggirmi, non rivolgere il, volto celestiale; quando tu m'abbandoni, ecco, la vita declina, in me: tutto diventa buio, tutto diventa muto, ed io piango sul mio sogno distrutto, sul mio cuore desolato. Donde vieni tu? Dove vai, quando mi lasci? E perché mi lasci? T'amo, non lasciarmi. Non parlava la fanciulla nei colloqui i d'amore. Ella ascoltava immobile, bianca, pronta sempre a partire; ogni tanto un sorriso indefinito le sfiorava le labbra, una mestizia le compariva in volto; ma sorriso e mestizia erano spostamento di linee, non corrugamento di fronte o espansione di labbra; era espressione, luce interna, quasi una lampada soave s'accendesse dietro un velo. Non parlava la fanciulla, ma ogni giorno ella restava più a lungo con colui che l'amava. Egli le parlava lungamente, poi stanco, la voce gli si abbassava a poco a poco, poi taceva. La contemplava, estatico. Ella si muoveva per andarsene. - Non partire, non partire! - supplicava lui. Ella restava ferma innanzi a lui, i piedini bianchi come ale di colombo, appena posati a terra, coi capelli vagamente adorni di rose bianche, con un lembo di abito sostenuto da rose bianche. - Siedi, siedi accanto a me! Ella non sedeva, immota, guardando dinanzi a sé coi grandi occhi senza pupilla. - Parlami, parlami - mormorava lui. Ella non aveva voce, non si muovevano le labbra. Invano egli la pregava, la scongiurava, s'inginocchiava, ella non gli rispondeva. Era inflessibile e serena. Ma in un crepuscolo d'autunno, egli trovò le frasi più eloquenti per esprimere la propria disperazione: batté la fronte a terra, sparse le lagrime più cocenti, adorò la fanciulla. Ella parea si trasformasse; dietro il candore della pelle pareva che cominciasse a correre il sangue. Egli, folle, morente di amore, le offerse la sua vita per una parola. - M'ami? - Sì - parve un sussurrìo. Allora, in un impeto di passione, egli l'abbracciò. Un orribile scricchiolìo s'intese e la divina fanciulla cadde al suolo, frantumata in tanti cocci di porcellana candida. Nella notte profonda, quando i custodi dormivano, nella deserta sala delle porcellane cominciò un mormorìo, un bisbiglio, un'agitazione. Correvano fremiti da una scansia all'altra, attraverso i cristalli; voci irose e sommesse si urtavano, fieri propositi, progetti di vendetta cozzavan l'un contro l'altro. Poco a poco la calma si ristabilì: tutto era deciso. La sfilata cominciò. Prima fu l'Aurora bianca sul suo carro tirato da quattro cavalli candidi; e discesa nel giardino dove lui giaceva svenuto accanto al suo idolo infranto, maledisse per sempre le sue albe; la seguirono le ventiquattro fanciulle che sono le Ore, e sfogliarono rose avvelenate sullo svenuto; dopo vennero gli Amorini, e gli conficcarono nel cuore i dardi acuti e dolorosi. Il gruppo passò. Secondi vennero i sette re di Francia, bianchi, sui cavalli bianchi, Carlomagno, S. Luigi, Francesco I, Enrico II, Enrico IV, Luigi XIII, Luigi XIV; galoppando pei viali, toccarono con lo scettro, con la spada l'infelice, ed ogni colpo gli rintronò nel cervello. Poi ogni statuina s'avviò, gli sputò in viso, lo insultò, lo calpestò; ogni tazza fu piena per lui di cicuta, ogni vassoio di cenere, ogni coppa da fiori contenne per lui fiori malefici e crudeli. Ed infine si mosse il grande gruppo dei Titani che vogliono scalare l'Olimpo: Giove, seduto sull'aquila, fulminò il moribondo, ed i Titani lo seppellirono sotto enorme sepolcro di massi. Poi ognuno riprese la sua via, i gruppi rientrarono nelle scansie e vi rimasero immobili. Fu questa la vendetta della fredda e candida porcellana su colui che aveva frantumata la fanciulla immortale. È questa la storia eterna e fatale. L'ideale raggiunto, toccato, va in pezzi - l'arte si vendica sulla vita - e l'anima muore sotto un immane sepolcro.

La Stampa e la Politica

682973
Torelli, Giuseppe 1 occorrenze

Don Davide Albertario ha certamente una fibra giornalistica molto forte: lo si è veduto nel recente scandalo di Viadana, da cui ogni altro prete sarebbe stato abbattuto, e che per lui è stato Leggero soffio di villana auretta D'abbronzato guerriero in su la guancia. E. TORELLI- VIOLLIER.

Cerca

Modifica ricerca