Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Bestie

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Tozzi, Federigo 1 occorrenze

Per i sentieri più scoscesi, tra i tronchi degli alberi che furono abbattuti con l'ascia, con un'ambizione di farsi vedere che pare perfino ingenua. La primavera assomiglia, questa volta, un poco alla stanza che la nostra amica, aspettandoci, ha adornato di fiori comprati a posta. C'è uno sciupio di gemme e una voglia di fiorire che pare una di quelle accoglienze da segnare poi nel nostro calendario. La primavera in tutti gli stili, perfino roccocò; con certe manie di fare effetto per forza. E pensando a tutto questo lusso, ci si prova ad essere contenti. Le margherite bianche, quelle dei prati, fanno di tutto per darvi nell'occhio; e gli stessi prati si sono lisciati con la rugiada e il fresco che pare perfino bizzarria e voglia di divertirsi. I pini mettono fuori la loro resina come se volessero regalarvela a tutti i costi, e ci si avvicina a loro per guardarli meglio; mentre anche l'azzurro rimane lì per lì un poco rintontito, quasi non sapesse che fare, e, forse, vergognoso di non odorare né meno quanto una violetta. E c'è modo, del resto, per tutti di far qualche cosa. Ma perché, proprio ora, un maggiolino morto? * * * Sentirsi solo è un piacere che spaventa. Un'ora dopo la mezzanotte non avevo più sonno né stanchezza; e la conversazione fatta con un amico e un'amica, quantunque di poche ore innanzi, cominciando da quando avevamo cenato insieme, mi pareva già sì lontana che pensavo se l'indomani ambedue si ricordassero di conoscermi. Con il chiaro di luna in bocca, credevo di masticarlo, e c'era tutta la strada che voleva saltarmi addosso. Prima ancora di sapere perché, mi viene freddo e poi distinguo la voce della civetta. * * * Oggi sono rientrato nella chiesa della mia parrocchia. Lo scialbo bianco è uguale a quindici anni fa: ho creduto riconoscere, su una colonna, vicino a una panca, una scalcinatura che ogni domenica allargavo sempre più con le unghie. E mi son ricordato dei fiori finti, a mazzolini, portati al curato dalle due zitelle che andavano sempre insieme e facevano poca elemosina, e tutti dicevano che erano avare. Oggi mi dispiace di averle odiate con feroce avversione, quasi sempre inciampando se mi voltavo a perseguitarle con gli occhi. E tutte quelle ragazze, forse ora madri, e non le riconosco, di cui ero un poco innamorato! Ma quanto piansi quando mi confessai per la prima comunione! Ora non ho più paura quando suonano le campane, ma mi piace ch'io volessi mettere al collo di una di quelle ragazze un nastro uguale alla riga ch'era per margine a ogni pagina del libro di preghiere della mamma. La voce di quella ragazza mi faceva lo stesso effetto di quando mi guardava; ed io ridevo che la mamma sapesse a pena leggere, ma mi pentivo tanto d'aver ficcato pezzetti di cartasuga dentro il calamaio. Riesco fuori dalla chiesa, sicuro che il suo scialbo sia più fresco della primavera che inonda la piazzetta sbilenca di San Donato; e, scesi gli scaloni, mi volto a dietro, in su, a guardar le campane. Me ne vo con meno dispiacere, perché vedo che un branco di passerotti hanno il nido sul tetto. * * * Piove tanto che ormai i fichi sono sciapiti. Allora assaggio l'uva e, con un grappolo in mano, piglio attraverso la vigna. Qui c'è un palo da rialzare, là una vite da buttar via. Ma io sono il padrone: mi faccio ubbidire anche dal grano, e mi volto alla luce per dire: domani tornerai e seguiterai a maturarmi l'uva. Io assaggerò il mosto. Come odiai uno de' miei pavoni, che capii più orgoglioso di me! * * * La mia anima, per aver dovuto vivere a Siena, sarà triste per sempre: piange, pure ch'io abbia dimenticato le piazze dove il sole è peggio dell'acqua dentro un pozzo, e dove ci si tormenta fino alla disperazione. Ma i miei brividi al tremolio bianco degli olivi! E quando io stavo fermo, anche più di un'ora, senza saper perché, allo svolto di una strada, e la gente mi passava accanto e mi pareva di non vederla né meno! Città, dove la mia anima chiedeva l'elemosina, ma non alla gente! Città, il cui azzurro mi pareva sangue! Dal podere, le mie viti scendevano fino a una sua strada; e l'anima di quella che sarà per sempre la mia fidanzata mi teneva compagnia, nel silenzio folle; e qualche mia parola, che le scrivevo in fretta, era stata il mio respiro più di una lunga settimana. Siena, da sotto il mio ciliegio, pareva un arco che non si potesse aprire di più, e le sue case, giù per le sue strade a pendio, parevano frane che mi mettevano paura; con i tetti legati dall'edere cresciute su per le mura della cinta, le mura che non si apriranno mai. Ed io allora andavo a guardare la città da un'altra parte, quasi da quella opposta, dalla Porta Ovile. E vedevo i suoi orti squadrati entrare, con un angolo più alto degli altri, tra le case più rade; oppure, l'uno appresso all'altro, farsi largo e posto, ma fermati da una fila di cipressi la cui ombra oscurava il verde dell'erba; e qualche pesco fiorire e maturare accanto alle campane d'una chiesola, e qualche olivo chiamarsi dietro tutta la campagna soave, che impallidiva lontano, rasente i monti chiarissimi, talvolta più luminosa del sole; con una tenerezza che mi commoveva. E, se guardavo la città da un'altra altura, da Vignanone, le voci degli uccelli s'allargavano nell'azzurro come il vento. E tal'altra volta le campane tutte insieme mi parevano un'armonia discorde, e mi veniva voglia di morir subito. Le rose dei giardini, senza colore e senza profumo, la cingevano tutta: le finestre erano aperte. Da parecchie miglia lontano, io vedevo in vece le sue torri come tizzi ritti che si spegnevano ultimi nella cenere del crepuscolo. E i temporali con tutto il cielo addosso! Pareva che i lampi la dovessero schiantare; ma, dopo, l'aria era più fresca e si respirava meglio; gli uccelli la varcavano a frotte, e il sole la rasciugava. Perché, dunque, io vi soffrivo? Perché la mia anima non vi è mai voluta stare? Lo sapeva, forse, quella mia tartaruga che riuscii a tener chiusa in casa una sera, e la mattina dopo non la trovai più. * * * A Vico Alto i vecchi cipressi si fermano all'abside della chiesa di pietre. L'Osservanza non è lontana, e si vedono le strade prima sparire e poi ritornare verso Siena, quasi aspettate. Le strade sciupano i bei verdi simmetrici, ma l'erba riescirà a rinascerci un'altra volta sopra. Se di quassù si sentisse crosciare il torrente, che si tiene con sé i salici e i gelsi! Ma, siccome è domenica, la gente passa proprio per il viottolo che lo rasenta; gente vestita bene e che si sofferma di quando in quando, forse incuriosita, a guardare attorno. Alcuni merendano, con un giornale steso nel mezzo. Vengono, per quell'altra strada che fa il giro lungo, le sordomute e poi le convittrici. Un contadino, appoggiato a un cipresso, fuma. Oh, anch'io voglio fare all'amore e voglio passare lungo il torrente, perché m'annoio a guardare le salamandre che scendono e risalgono dentro questa fonte dove le alghe mollicce e viscide intasano l'acqua! * * * Era una mattina d'estate, calda e accecante. Camminavo piano, e sempre di più la natura mi pareva un sogno immenso della mia anima. Il cuore mi batteva di contentezza. I cipressi, uscenti dalle siepi dei poderi, attorno alle case tutte impergolate, in Toscana, parevano piantati lì dall'aria stessa. Odori di ginepri, di marruche, di sanguinelle, di mentastri! Sopra un muricciolo, vidi un ramarro. Mi fermai, perché non scappasse. Allora, guardando i suoi occhi paurosi e intelligenti, provai una delusione dolorosa: e feci il viso rosso di vergogna. * * * Chi non ricorda come si trascina una farfalla ferita, toccando la terra con le ali tremanti! Ma chi può vedere, ne' suoi occhi, l'espressione del suo dolore violento e improvviso? La farfalla va presto a rincantucciarsi, sapendo sparire dalla nostra curiosità. È come qualche cosa, allora, che riesce a non aver contatto con noi, ad evitarci. * * * Era di settembre, e l'uva cominciava a maturare, ma i chicchi parevano trasparenti quando i raggi del sole entravano tra i pampini. Ero in mezzo a una vallata, vicino ai pioppi, tutti contorti, di un borro. Mi pareva che la vallata si sollevasse su, attratta dalle due colline piene di oliveti e di vigne. Le pesche erano mature, e pensavo di mangiarne almeno una. Ma esitavo a muovermi. Tra due viti, vidi una ragnatela: era un poco umida, e mi venne voglia di toccarla con la punta di un dito, ma senza romperla. La peluria della prima donna ch'io ebbi non era così morbida. * * * Non so ancora spiegarmi, da otto anni, perché la mia amante, una volta, dopo aver bevuto la birra, chiudesse con il ventaglio aperto, dentro il suo bicchiere, una vespa che v'era entrata. Prima era entrata nel mio; ed ella l'aveva guardata sorridendo, divertendocisi quasi. Io cercai di farle muovere il braccio, ma ella, con tutta la sua forza, non mi dette retta. Mi disse: - Parliamo d'altro. * * * Al podere, che ora ho dovuto vendere, tenevo molte galline, insieme con alcuni tacchini e i loci. Quando non avevo voglia di far niente o quando soffrivo troppo non saprei di che, andavo nel pollaio e mi mettevo a guardare. Un locio, che pesava parecchi chili, dondolandosi tutto per camminare, saliva a ogni momento sopra la sua femmina. Vi restava, dopo un poco, come stordito; e poi cadeva svenuto, battendo il dorso, con le gambe per aria e immobili, con gli occhi velati come quando muoiono. Tutte le galline parevano spaventate, e non si avvicinavano. * * * M'era venuto il tifo, e la febbre cresceva sempre. La mamma non poteva tenermi compagnia a tutte l'ore e quanto avrebbe voluto: e io dovevo restarmene a letto solo solo, ad aspettarla. Vedevo, dalla finestra socchiusa, con i vetri non più lavati da quando stavo male, passare le nuvole e la cima d'un ciliegio che rabbrividiva come me quando sentivo la febbre. Una mattina avevo fame dopo aver preso la solita cucchiaiata di medicina. E non veniva nessuno. Avevo voglia d'alzarmi, ma più di piangere. Le coperte mi schiacciavano come le montagne; e mi pareva che tutte quelle nuvole me le facessero più grevi. C'era a capo del letto il campanello elettrico, ma non lo suonavo perché il suo squillo mi faceva peggio. Ero proprio per gridare, spaventato delle coperte alzate dai miei ginocchi, con l'illusione che si alzassero fino al soffitto, per soffocarmi. Entrò un'ape. Mossi la testa per guardarla meglio. Sbattendo contro i vetri, cominciò a ronzare; ma con un ronzio così dolce che mi fece subito un effetto di benessere. Allora, mi ricordai dei fichi maturi e di tutte le altre frutta. Chi sa quale odore giù nei campi! Mi pareva, perfino, di sentir sapore in bocca! L'ape girò da un travicello all'altro, e poi tornò alla finestra! Non piangevo più, assorto in quel suo rumore uguale, che allora mi pareva una specie di musica, a cui avrei dovuto trovar le parole. Quando venne la mamma, facendola fuggire, mi dispiacque; e ci pensai tutto il giorno, sorpreso di non pensare ad altro. * * * Era stato un temporale orribile, dopo mezzogiorno, d'agosto. I lampi erano così fitti che non si faceva a tempo a respirare e a segnarsi. La mamma s'era seduta nella sua poltrona, io m'ero messo in ginocchio con la testa sopra a lei. Le sue mani mi tappavano gli orecchi. Ma non avevo il coraggio di chiudere gli occhi, e, piangendo, senza muovermi da quella posizione, mi segnavo, cominciavo l'avemaria, senza mai finirla. Il bosco, vicinissimo alla casa, quasi sopra il tetto, crosciava con il vento e la grandine. Si era fatto così oscuro, che la donna aveva acceso la lucernina d'ottone, mettendola nel mezzo della tavola. Diceva la mamma: - Se avessi un poco d'olivo benedetto, per bruciarlo! Fa tanto bene! Due fulmini caddero nel bosco e io li vidi. La pioggia luccicava; la grandine, sempre più grossa, empiva il davanzale della finestra, e la campagna pareva tutta bianca. Finalmente i tuoni si fecero sempre più lontani; l'aria tornò serena. Lampeggiava ancora sopra la città; ma, dalla parte opposta, era apparso l'arcobaleno così dolce! Riaprimmo le finestre e poi le porte, per escire. Allora, un contadino, venendo dalla strada, ci fece vedere una rondine, ancor viva, che il temporale aveva abbattuta. Le sue penne eran bagnate e lucide: pareva stordita, e stava da sé nel cavo della mano, palpitando, ma quasi rassegnata. Provai tanta gioia che battei le mani. * * * Con la mia moglie era un affar serio, ogni giorno di più! Bastava un pretesto qualunque per leticare parecchie ore. Una volta, la minestra mi parve sciocca; anzi, era certamente. Glielo dissi. Mi rispose: - Perché non vai a trattoria? - Se fossi più furbo! - Vai dunque. - Me lo vorresti proibire tu? E la guardai con tutto il mio odio; ed ella altrettanto. Ma io non glielo volevo permettere. Allora, feci l'atto di darle uno scapaccione. Si alzò, rigida come uno stecco; e si mise a guardarmi fisso. Pareva che i suoi occhi si allargassero sempre di più; ma mi sentivo tanto più forte di lei che non pensavo né meno a offenderla. Mi disse: - Vuoi scommettere che io vado dal procuratore del re? - E perché no? Potevi esserci andata. Così mi sarei fatto fare la minestra più salata, se non c'eri in casa! Si slanciò; io mi riparai con un braccio piegato. In questo mentre, vedemmo, tutti e due insieme, non so come, una formica che dall'orlo del fiasco stava per scender dentro e cadervi. La rabbia finì subito. Ella la prese con le dita e la scaraventò lontano. Io dissi: - Per fortuna l'hai vista! Avremmo dovuto buttar via tutto il vino! E il pranzo finì bene quella volta. * * * Alla dottrina cristiana ci sarei andato volentieri, ma da quel prete, no da vero! Quando entravo nel suo studio, siccome, avendo cominciato più tardi degli altri comunicandi, dovevo rimettermi in pari, sentivo una specie di freddo che m'agguantava l'anima come uno per la giubba. C'era un tavolino con un tappeto rosso, forse rovesciato; il ritratto del papa, quattro o cinque seggiole che parevano tutte nere come le loro spalliere; e un odore tra l'intingolo e l'incenso o la cera bruciata. C'era poca luce, perché la finestra dava in un piccolo orto sotto certe mura antiche ricoperte di edere; e mi veniva sempre la voglia di andarmene prima che il prete fosse venuto. E quella zoppa che m'apriva l'uscio! Certi occhi che mi facevano pensare alla panna inacidita! Ma tra le tende, tutte polverose e sbiadite, c'era una gabbia appesa, con un canarino così giallo che pensavo fosse colorito con i tuorli dell'uova che si davano al prete quando veniva a benedire le case. Saltellando, faceva oscillare la gabbia e anche un poco le tende, e a motivo delle quali mi scansavo in fretta; quasi per paura. Io mi vergognavo di lui, che mi vedesse con il mio libricciolo sotto il braccio lì ad aspettare. Ed ecco perché l'osservavo sempre, quando il prete m'interrogava, prima di rispondere! Un giorno glielo portai via; e, piuttosto che ritrovarlo in quella gabbia, lo schiacciai con il tacco delle scarpe. * * * Un mio amico era in agonia. Caduto da una scala aveva battuto l'occipite, non riprendendo più i sensi. Siccome non l'aveva potuto comunicare, il prete gli lasciò la stola sopra i piedi dopo aver detto molte preghiere. La mamma del moribondo stava nella stanza accanto, con l'uscio aperto, a piangere; io, stringendo i ferri a piè del letto, lo guardavo. Il suo volto acceso dalla febbre, aveva, di quando in quando, una contrazione lunga e lenta; ma gli occhi restavano chiusi, sempre più in dentro. Una ragazza, dall'altra parte della strada, cominciò a cantare; io la feci star zitta. Il rantolo diveniva sempre più forte, alternandosi con un sibilo così dolce che mi ricordava, con terrore, tutte le nostre allegrie. La febbre gli aveva seccato le labbra. Io pensavo come bagnargliele, quando entrò una delle sue due tortore. Prima che io facessi in tempo a rimandarla in dietro, era già volata sul letto, proprio sopra il guanciale molle di sudore. Allora, perché non si mettesse a svolazzare, buttando in terra qualcosa, aspettai che tornasse via da sé, come credevo che avrebbe fatto. Gli montò su la fronte, che s'increspò; e, allungando tutto il collo, gli diede una beccata tra le labbra. Egli era uso a farsi prendere di bocca i chicchi di granturco o di granella. Allora, troppo tardi, la scacciai. Ma, dal labbro di sotto, dovetti asciugare con il cotone idrofilo le gocce di sangue, che smisero soltanto all'ultimo respiro. * * * So che una vipera ha morso uno che m'odia. Pari e patta. * * * Ricordo sempre queste sensazioni: dopo la scuola attraversare il corridoio del seminario, fresco ed annaffiato allora; l'attesa d'un rimprovero; la prima comunione: parole alla fidanzata; un campo troppo verde; un'ape che esce da un fiore senza che mi fossi avvisto che c'era. * * * O ciliegie, sapore del maggio! Farei ridere se raccontassi quanto le amo, ora che non ho altro da amare. Ed io per poco non mi crederei sciocco. Ma la mia bocca è cieca; e non è fatta che per mangiare. Mettete un piatto grande di ciliegie sopra la mia anima: non le lasciate troppo maturare, perché le passere le beccano tutte. * * * E quella finestra che vedevo dal mio podere scintillare tutte le mattine quando il sole si levava; una finestra che è delle prime case di Porta Camollia. Non ho mai saputo chi ci sta; del resto, mi sarebbe stato difficile, perché quell'abitazione è dalla parte degli orti tra le mura e la chiesa di Fontegiusta; un orto dopo un altro che non finiscono mai. A entrar lì dentro bisognava anche attraversare un andito sempre buio, con l'impiantito sempre molle; perché, in fondo, c'è un pozzo e le donne vi vanno ad attingere l'acqua con le brocche e le sbattono ai muri troppo stretti. Le scale da una parte, tutte a pianerottoli, sudicie e sciupate. Ho pensato che fosse di quella vecchia che tiene in casa il nipote cieco che fa l'impagliatore di seggiole; poi, di quella fruttivendola sorda; oppure della tabaccaia tisica o di quel maestro impazzito. E pure, quando sento cantare, e bisogna che il vento tiri da Siena, specie la sera, e non so chi è, credo che sia dentro quella stanza; e allora me la immagino con quei mobili vecchi ma riverniciati di verdolino e con le righe attorno alle serrature e alle maniglie di ottone, rosse e fatte a mano: più larghe e più strette, brutte. E, a una parete di fianco, un gran crocifisso doventato leggiero come una galla perché i tarli l'hanno tutto vuotato; e, infilato tra i piedi, un ramicello di olivo che si è seccato e che non si può smovere perché le foglie, color tabacco, cadrebbero subito e sporcherebbero il pavimento; che dev'essere spazzato ogni giorno e annaffiato con l'acqua a pisciolo, facendoci quei disegni tutti intrecciati che si allargano da sé. E questo farfallino grigio scommetto viene di là; perché ha le ali tinte di polvere. * * * Quel melo è il più bell'albero del mio campo, lo saluto tutti i giorni dalla finestra. So che l'ha piantato il mio zio Pellegro. Ma lo avevo visto la prima volta quando mio padre dovette tagliare i legacci di salcio perché lo stringevano troppo; e il fusto, ingrossando, s'era quasi reciso. Allora gli cambiarono il palo. L'anno dopo fece tre mele: e mezza mi fu data ad assaggiare. Per altri tre o quattro anni non lo vidi più. Ma quando ripassai di lì, s'era fatto irriconoscibile: una buccia lucida e tenera che veniva via a toccarla con l'unghia; tanti rami e così alto che lo guardai rovesciando la testa in dietro. Vidi che era cresciuto prima di me e che mio padre ne faceva gran conto. Gli avevano zappato la terra attorno come agli olivi; ma siccome era autunno, gli erano rimaste poche foglie sbiadite; e nelle punte dei suoi fuscelli i segni dove stavano le mele: una sola, anzi, gialla e grinzosa. La guardai meglio, prima di staccarla con una zollata; ma raccattatala, m'accorsi che dalla parte di sotto c'era il buco di un bacherozzolo. Allora la tirai lontano. L'anno dopo, a primavera, lo ritrovai fiorito, tutto bianco, come una gran festa. L'avevano potato e i suoi rami facevano una specie di circonferenza un poco vuota nel mezzo. Ma uno dei suoi quattro rami che venivano su dal gambano era gobbo e un poco più corto perciò. Quasi tutti i contadini, passando sotto, ci ficcavano la punta della falce per cercar meglio con tutte e due le mani nelle saccocce del panciotto la cicca e i fiammiferi. L'anno dopo ebbe la prima disgrazia: ogni fronda fu fasciata da centinaia di ragnatele piene di bruchi, che gli mangiarono in meno di una settimana i fiori e le foglioline. A maggio era già per seccarsi. E per due anni non fiorì né meno più. Allora mio padre lo fece scapitozzare e dentro una rigonfiatura, a metà del gambano, lo trovarono pieno di bachi carnosi duri e grossi più delle dita; ed avevano capocchie tonde e rosse più del sangue. Furono uccisi con il coltello, a pezzi, e la pianta si riebbe. Ma di mele ne ha fatte sempre meno. Ora, cinque o sei sole, che se le mangiano gli uccelli e le vespe. * * * La mattinata è fresca come le rose umide; ma tuttavia non riesce a convincermi che io posso odorarla. Tutti questi tetti attraventati addosso alla collina di Ovile si abituano a farsi guardare di quassù, di sbieco, da questo muricciolo così scalcinato che tra mattone e mattone c'entra un dito. Se la primavera ci fosse già, potrei divertirmi a guardare gli alberi fioriti; ma son venuto troppo presto, in vano, impaziente. Scommetto che quando la primavera ci sarà da vero, io non ci verrò né meno. Ma finalmente capisco perché mi ci prenda questa dolcezza con la quale voglio prepararmi a scrivere alla mia fidanzata. Là, da una parte della piazza, dove la ghiaia è più consumata, c'è la porta del Seminario, verde e sbiadita, con l'architrave di marmo doventato quasi giallo, contenta di essere accanto a San Francesco, quasi sotto il campanile. Mi pare ancora di entrarci per andare a scuola. Ma c'entra il sole, con una striscia che va a ritrovarsi con quella di dentro il chiostro. Ed io resto nella piazza. Giù la Porta Ovile, poi campi di olivi e viti; e, su in alto, la piccola stazione con i vagoni carichi di sacchi e di legname; con una strada, per salirci, che gira più di un esse fatto per ridere sopra un muro da qualche ragazzo. È una dolcezza che, se qualche volta pare stanca, tuttavia si sente anche lontano lontano, tra le pieghe verdi dei colli dove non sono stato mai. Il campanile con i grappoli delle campane che fanno escire per la piazza i rondoni! Ed i tetti hanno la pazienza di stare lì e l'abilità di non lasciarsi andare per riposarsi un poco! Qui, pensando alla fidanzata, ritrovo molta della mia vita, anche quando andavo, d'estate, all'ombra, sotto il muraglione delle Figlie di Maria ad imparare la chitarra, e dove m'ebbi un pugno e riescii a non piangere; e ricordo il cavallo che scappò dalla caserma dei carabinieri. * * * La siepe, addirittura, tagliava le spiazzate dei campi verdi o arati, l'uno accanto all'altro, l'uno addosso all'altro. Gli uccelli volavano con un volo sempre più basso, tremolando un poco, impauriti delle quattro nuvole, quasi quadrate, che avevano coperto il tramonto: le quattro carte da gioco. Nel Pian del Lago, c'era nebbia, a strisce sempre più sovrapposte e larghe; Montemaggio e la Montagnola di un verde più nero della siepe, e voli di colombacci che a stento proseguivano, randelloni, con le ali appiccicate nel cielo d'un turchino che voleva smettere. * * * Per tornare a casa, ci sono sempre nel mezzo della strada quelle sette stelle dell'Orsa, che me l'hanno buttata là chi sa perché. Il vento, che batte la faccia, viene di lì. E tutta la bellezza della sera vorrebbe entrare dopo di me e spinge in qua l'uscio, sì che duro fatica a richiuderlo. Perché la gatta miagola e si spenzola dalla grondaia? * * * All'ombra il carraio verniciava di cinabro mescolato al minio le ruote dei carri da contadini; e poi, con un fusello infilato nel mozzo e tenuto tra ambedue le palme, le portava al sole, appoggiate al muro. Qualche volta andava a levare con il manico del pennello una mosca che c'era rimasta attaccata. Tutte le mattine passavo il tempo così, senza parlar mai al carraio, sedendomi sopra un mucchio di breccia che lo stradino teneva già pronta per l'inverno. Mattinate dolci di sole, quando cominciavo a sbadigliare di fame; e io ne provavo un senso indefinito, quasi di sonnolenza e di piacere! Pensavo, allora, che da grande avrei scritto un libro differente a tutti quelli che io conoscevo: qualche storia ingenua e tragica che pareva uno di quei pampini che il vento mi faceva cadere tra le ginocchia; ecco; come c'è questo pampino, ci sarà il mio libro. E sentivo un fremito. Il carraio seguitava a verniciare; e, talvolta, m'illudevo che anch'egli vedesse riempirsi la distanza tra me e lui, delle persone che mi pareva di vedere. Egli è buono, pensavo; egli non dice niente né a me né a loro perché io non creda che gli si dia noia. Tutta la strada era piena di persone, come un incubo trasparente e leggero, che si movesse anche ad un alitare di vento; come si moveva la mia anima. Alla fine dovevo supplicare questa gente che mi desse un poco di tregua: la sentivo attorno alla mia giovinezza come insetti attorno ad un lume acceso allora allora. Qualcuno mi perseguitava e mi faceva venire i brividi; un altro voleva stare in casa con me, ed io non potevo mandarlo via. Ecco che il mio libro doventava la vita stessa, la gente cioè che conoscevo! Ma soffrivo e sentivo una specie di malessere vertiginoso; e m'invogliavo di pigliare a sassate, per scherzare. In vece, i moscerini m'entravano negli occhi; e mi venivano le lacrime. * * * Una strada scende, anche un'altra scende e le viene incontro: si fermano insieme. Dalla prima, a metà, se ne parte un'altra che scende per un altro verso e ne trova subito un'altra, più bassa che fa lo stesso. Su la prima se ne butta un'altra; poi la prima e la seconda, dopo la fermata, se ne vanno giù insieme e a un certo punto incontrano quella più bassa di tutte. Altre strade le tagliano e scendono. Le case hanno paura a stare ritte tra questi precipizi e si toccano con i tetti pendenti. Ma anche i tetti, a pendere così, non potrebbero cadere tutti giù? Le case, per fortuna, sono soltanto a due o tre piani; e la gente, alle finestre, ha l'aria di far loro da contropeso; perché non seguitino ad andare più in giù, tutte insieme, verso la Porta Fontebranda, da dove certo non passerebbero essendo così stretta. Le vie della città guardano queste quasi per scendere loro addosso; con la Cattedrale nel mezzo e con San Domenico sopra il tufo giallo. Ma la Fontebranda è ficcata giù sotto terra, e i Macelli se ne stanno stretti stretti, rasente la balza che regge metà di Siena. La vasca natatoria è verdastra dietro le punte nere e taglienti del suo cancello; i lavatoi hanno l'acqua saponata; gli archi delle conce piene di cuoia ad asciugare. Quanta solitudine e quanto silenzio anche con il vocio delle donne e dei ragazzi! Quando le donne di Fontebranda cantano, con quelle cadenze d'una stanchezza tanto dolce! È un silenzio che sta lì come le case; quasi assurdo. E perché quel cadere perpetuo dei tetti insieme con le strade? Non si ha, al contrario, il senso che le strade salgano; si sente soltanto la discesa fatta in fretta, con ansia; e, dal punto più basso, anche il meriggio è così lontano che resta soltanto per gli altri rioni di Siena. Cominciano le strida dei porci scannati, ognuno basta ad empire di sangue due secchi. * * * Quel che vedo e penso è come se lo leggessi. Leggerò, forse, fino a stasera; ma il libro non lo chiuderò; resterà aperto tutta la notte e troverò i sogni su le pagine come se fossero figure. In vece, no. Allora percepisco solo le cose, che stanno vicino a me: e, perché sono seduto sotto la mia pergola, mi metto a guardare un pampino: forse, uno dei più larghi. Perché non capisco quel che fo, lo strappo dal tralcio e lo butto dietro di me, di là dal pancone verniciato di verde. Il sole, tra gli altri pampini, taglia gli occhi con i suoi pezzetti di vetro. Una cavalletta mi salta su una mano. Nel bosco cerco l'albero che, tagliato a bara, imputridirà sotto terra con me. Gli voglio tanto bene: forse, è quello dove ora c'è sopra un merlo. * * * Quando ci sono io, tutto ciò che è nella mia casa vive con me. Io stesso ho insegnato a tutte le cose, scegliendole, come dovevano fare per piacermi e perché io le amassi. Queste pareti riconoscono la mia voce, e la loro fedeltà è profonda. Ma guardando, dalle mie finestre, chiuse o aperte, la fila degli orfani che escono a prendere aria, capisco che i miei occhi non vedono tutto. Mentre, se guardo lavorare i contadini, mi farei aprire il cuore dai loro vomeri, per dar loro la gioia di doventare anch'io terra da semina. E se guardo i cavalli che tirano i barrocci, riparo in vano le sferzate. Se sento cantare i vagabondi e gli ubriachi, io mi rattristo; se guardo gli orti mi piacciono le campane che fanno finta di annaffiarli; e cambierei di posto volentieri con le stelle. Ma la luce della luna si diverte a farmi sentire le civette. * * * Io m'ero messo in testa di trovare il violoncello che udivo tra gli alberi del bosco: quando tira vento, non sta più zitto niente! Credevo che fosse a pochi passi da me; e, allora, andavo là, quasi di corsa. Non c'era più; più lontano ora, ma distante da me quanto prima. Andavo lo stesso. Né meno! Sempre, sempre vicino a me; ma non dovevo vederlo né trovarlo mai! Così, sul fiume, il riflesso del sole camminava sempre avanti a me; e, dove era stato prima, l'acqua tornava ombra turchina, senza che vi fosse nessuna traccia di quell'incendio finto. Così i monti non erano più azzurri quando, dopo mezza giornata di strada, vi ero giunto; ed allora vedevo altri monti; ma era inutile che io camminassi a posta per questo! Così le onde che il vento faceva sopra il prato: dov'ero io, attorno alle mie gambe, tutto era fermo come me. Così i miei sogni quando mi sono destato. Né, da vicino, ho mai potuto guardare la trasparenza violacea che aveva un piccolo padule del fiume: non c'era più. Così, da ragazzo, l'eco della mia voce: un'altra voce, ma senz'anima. Così i pappi di certi fiori, quando volevo portarli in mano. Il violoncello del bosco l'avrei voluto comprare, per darmi l'aria di essere ricco. E suonarlo i giorni di festa della mia anima; ammaestrando un liocorno, color di carta bianca, che prenderei da qualche favola vecchia. * * * Dieci anni che abito nella mia casa, comincio soltanto da oggi a sentirne la realtà. Tutto quel che vi avviene è la compilazione d'una storia che riguarda me. Ma quando io stesso non saprò dirla, nessuno ci penserà più. Così come quella fonte che ho ritrovato morta, ed io non lo sapevo. Morta da due mesi, e nessuno me lo aveva detto. Ma l'aria, oggi, è gaia; e mi sento bene. Forse, vivrò parecchio tempo ancora; ché di me non sento nessun segno di morte; e tutto quel che vedo fa parte della mia esistenza. Il limone già tagliato, i bicchieri puliti, la tovaglia di bucato; e la voglia di mangiare. Sono impaziente; mi guardo le mani, mi specchio ai vetri della finestra. Nessuna stanza è bella come questa; e la mia anima è anche più gaia dell'aria: il limone, i bicchieri, i piatti sono belli perché miei. Il senso di averli e loro stessi sono una cosa sola. Ed è una sola realtà. Ma, a pena mi sono seduto a tavola per il pranzo, sento cantare, da un ragazzo, una canzone che io conosco senza averla ancora imparata. Mi vengono i brividi. Portava gli agnelli a vendere. Vorrei leggere come un ragazzo, vorrei capire come un ragazzo. Là giù nel bosco fresco di verde e di ombre, ho lasciato il giocattolo del mio passato, perché si sono rotti i fili. Ma io mi metto a guardare fisso il turchino perché me ne venga un altro; magari fatto come una nuvola. Anche la pioggia è il giocattolo con il quale ruzzano le fontane del giardino; anche il mio sorriso è un giocattolo, come il mio cuore che batte. E la mia ombra è il giocattolo del sole; la mia voce è quello della mia anima. Quando siamo morti non si parla, e allora quel che s'è detto lo ripetono gli altri. Anche la bara è il giocattolo, che si mette sotto terra. E, s'io fossi un ragazzo, vorrei chiedere a Dio che questa fresca erba bella la lasciassero in pace; e mi scriverei da me il mio libro di lettura. Farei doventar buone anche le vipere. * * * Ecco la sera, quando le cose della stanza doventano pugnali che affondano nella mia anima; maniche che mi attendono. Qualche altra volta, mi erano sembrate - libri, tavoli, sedie, tagliacarte, cuscini, lampade, pareti - poemi immensi. Mai, in nessun modo, sono riescito ad essere indipendente dinanzi a loro. Ma questa sera hanno atteso tutte d'accordo. Siete sicure di essere sincere? Ormai vi lascio. La mia anima, se qualche volta si ricorderà di voi, crederà di mettersi a suonare un organetto di Barberia per fare ridere le serve e piangere chi non c'è. Il cardellino morirà di fame: il pane intinto non glielo darà più nessuno. * * * Il cielo sta per doventare uno specchio; è già impossibile guardarlo. Qualche uccello, che di rado vedo entrare in una boscaglia di pini, fa credere che sia disseccato come quelli imbalsamati; e la sua ombra affonda passando nella polvere della strada. C'è una piccola sorgente che a pena è buona ad escire di tra i ciuffi dell'erba verde, sotto l'ombra di una quercia. L'acqua, al buco della sorgente, un ago che si spezza sempre, scintilla e poi sparisce. In giro c'è nata questi dieci metri quadri di erba che lustra, e basta. Il luogo è così silenzioso che par di udire l'erba. E la fonte, con lunghi rigagnoli, che non smettono più, va giù per il prato a fare la calligrafia. Quando ritorno nella strada, la polvere scotta; e io cammino adagio, per non sudare. * * * Anch'io ho avuto due carri verniciati di rosso, che mi destavano la mattina, quando i contadini li portavano con i bovi nel campo.Carri di concime o di uva, di granturco o di grano, di saggine o di pomodori. Li ebbi da mio padre, ed io li vendei perché avevo da pagare un debito. Io non avevo mai posseduto niente, che mi fosse durato molto. Mi ci ero tanto abituato che anche i miei sentimenti, scambiandoli per balocchi da pochi centesimi, li ascoltavo sempre con malevola e giusta ironia. Non era, forse, l'unico modo per non ingannarmi più? Impazzito per aver pensato subito che io potevo finalmente credere; effetto del mio bisogno di credere. Dopo tanto tempo, ecco che in vece di altre cose innumerevoli, di ogni genere, io ripenso ai due miei carri. E alla mia vita quale avrebbe dovuto essere. A me non era lecito escire dal mio paese. Ascoltare là le musiche della domenica, passeggiare con tutti gli altri le mezze giornate intere per la strada che gira attorno alle case, amare quache ricca fantoccia. E, sopra a tutto, avere ancora i due carri verniciati di rosso. Il gallo che la mattina fa tremare il cuore di gioia; le noci mangiate con il pane, ancora in maniche di camicia; le cipolle strofinate sul sale tenuto nel palmo della mano. La dolcissima aia costruita bene e spazzata! Fedeltà ed amicizia dei campi verdi! Le prime pesche vendute, i vitelli comprati alla fiera, il vino assaggiato dai tini, ancora caldo e torbido; e il suo afrore! Gli acquazzoni che fanno ridere; la terra che sporca le mani! E le feste di campagna con gli organetti briachi, a singhiozzare lontano tra i campi; e fanno venir voglia di andarci anche noi, dietro; le feste che restano per sempre nell'anima con i fuochi artificiali e i palloni di carta che vanno a cadere quando pigliano fuoco. E la cometa che fa paura! E il temporale livido, con la grandine bianca bianca; con i lampi che accecano! E tutte queste case del paese, che ci sono non si sa perché; con le strade lontane per la maremma di Grosseto e verso Siena; e si sperdono, giù nelle vallate, dopo dieci o quindici chilometri; le strade che aspettano. In vece, non l'ho né meno più visto questo bernoccolo di case! I miei carri non mi destano più; e il gallo, benché duro, l'ho mangiato. * * * Mi piacciono quelle persone che adoprano, parlando, modi di dire differenti a tutti gli altri. Mi sembrano, le loro conversazioni, riconoscibili, amicizie a cui ci si possa affidare di più. E, così , ho imparato che le cose hanno per ogni persona una fisionomia differente. Una persona si distingue più profondamente dal suo modo di parlare che dal suo viso. Con quale voce, per esempio, dovrei parlare di un bel prato verde? E con quale altra di questa crocetta d'oro ritrovata per caso e che la mia mamma portava? Ed io ho la certezza che sia viva da vero, la mia mamma! Sono venti anni che è morta? No; non è vero. È viva ancora. Ecco ancora le sue vesti, ch'ella si metterà. Ecco il suo armadio, le bottiglie dei profumi, il suo cappello. La porta della mia camera l'ha lasciata aperta lei; stasera non mangerò, se non c'è lei insieme con me. Le farò trovare un grande piatto di fichi maturi; ne è ghiotta. Il pane fresco; e lo metterò al suo posto, su la tavola. Il suo bicchiere alto e scannellato, di vetro un poco verde e con il fondo rossiccio di vino che non si può lavare più. Ho imparato a vivere con la mia anima! Ora devo imparare a vivere con la mia mamma. Non abiterò più nessuna casa dove non sia anche lei; io la seguirò con un'obbedienza che i fanciulli non hanno. Io non parlerò che alla mia mamma. Ed ella mi ricomprerà un paio di piccioni a cui taglierà le ali, perché non volino via. * * * Tutti quei fiori che ho sognato! La mia anima , dunque, sapeva di qualche funerale che io non so. La mia anima è stata a qualche funerale. Infatti, tutt'oggi nella mia casa, vuota e deserta, c'era un senso di cose tragiche, nascoste a me. Quand'io aprivo gli occhi avevo paura, e la carta delle pareti aveva un'aria di silenzio quasi timido; non canzonatore o vispo, come altre volte. Tra le stanze c'era un'intesa e un accordo di non dirmi niente; qualche parola che se la passavano quand'io voltavo le spalle. I miei libri facevano di tutto perché io non li prendessi in mano; le stoviglie nel salottino da pranzo erano mute e così tristi che io non mi sarei arrischiato ad adoperarle né meno una; perché mi sarebbero cadute. E ricordandomi in vece, nettamente, qualche altra giornata quand'ero stato tanto bene in casa mia, quando non me n'ero né meno accorto di esserci! Io, dopo tanto tempo, devo domandarmi ancora per chi erano quei fiori. Ma le tortore hanno fame; e dico che comprino il miglio perché mangino. * * * Ci si sta così bene a piangere con la faccia su l'erba fresca che arriva fino all'anima! L'allodola! Piglia la mia anima!

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