Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNIFI

Risultati per: abbattuti

Numero di risultati: 1 in 1 pagine

  • Pagina 1 di 1

CAINO E ABELE

678772
Perodi, Emma 1 occorrenze

Il caldo del viaggio, la gita in carrozza attraverso le pianure che dividono Castelvetrano dal mare, la vista di quelle colonne immense, alcune ritte nella sabbia, altre giacenti fra le palmette e l'appio, la pianta che fu data per insegna alla città dagli antichi abitanti di quella colonia greca, tutti quei templi abbattuti, tutte quelle rovine, che gli artisti soltanto e pochi eletti, i quali capiscono il linguaggio che esse parlano alla fantasia, amano, misero nell'anima di Franco una malinconia, che egli, insofferente di tutto, convertì in dispetto. Quando arrivò allo stabilimento, il rumore dei martelli, il cigolìo dei carri erano cessati, e nonostante che il quartiere di Franco fosse illuminato a luce elettrica e vi si accedesse dal lato opposto al mare, ove in un giardinetto crescevano palmizj bellissimi e ficus elastica alti come albera egli si sentì a disagio quando la carrozza si fermò davanti alla porta a cristalli, e rispose con un breve saluto a quello cerimonioso e solenne del direttore Varvaro, il quale gli fece vedere il quartiere, e dopo aver posto a sua disposizione il cameriere di Roberto, gli disse che quando voleva poteva farsi accompagnare alla villa, che il pranzo era pronto. Il duca fece portare in camera le valigie, si vesti con cura e quindi si avviò verso la villa, eretta sopra un monticello dal quale dominavansi lo stabilimento e le rovine. Era un'afa insopportabile, perché spirava un forte vento d'Africa e il mare s'infrangeva con fracasso contro la banchina e contro la spiaggia, ma Franco sudava freddo pensando che avrebbe dovuto restare molto tempo, forse sempre, in quel deserto, e camminava a testa bassa, senza guardare la casa bianca fra le palme, dalle cui finestre spalancate uscivano fasci di luce. Sempre a testa bassa egli giunse al cancello del giardino da cui incominciava il viale di palmizì, e quando fu lì si scosse, sentendo due manine che lo afferravano per il braccio e una vocina allegra gridargli : Benvenuto, zio Franco; è tanto che ti aspettiamo! Allora alzò la testa e dopo aver fissato nella oscurità la piccina, si chinò e la baciò. Benvenuto! - gli disse pure Velleda, stendendogli la mano. - Come mai questo lungo ritardo? Sono stato a Napoli due giorni per riconcentrarmi, disse Franco con sicurezza, - e qualche giorno mi sono fermato a Palermo, di cui non mi rammentavo più. Le avrei telegrafato se avessi potuto richiamarmi alla mente il suo nome, ma Roberto lo pronunziò al momento della partenza, fugacemente, e io non me ne sovvenni. Egli era maestro nell'arte di dare alla menzogna l'aspetto della verità e Velleda gli credè. Camminavano al buio, in mezzo al filare degli altissimi palmizj, che il vento faceva stranamente incurvare, e non s'erano ancora veduti in viso. Maria aveva preso una mano di Franco e l'accarezzava, come era solita accarezzare quella di suo padre. Quando entrarono nella sala da pranzo illuminata e che era allo stesso livello del giardino, Maria lasciò la mano dello zio e scostandosi per vederlo meglio, gli disse: Sai, zio -Franco, tu non somigli al babbo, egli è forte e tu sei delicato; tu non ridi e non mi guardi come lui. Franco sorrise e Velleda disse fra sé che la piccina aveva ragione, poiché i due fratelli si somigliavano poco. Il maggiore di essi, nonostante la barba e i capelli nerissimi, da vero figlio di siciliana, aveva gli occhi di un colore cangiante, che a momenti era verde come l'acqua del mare, in altri azzurro e vaporoso come il cielo dell'Oriente, ed in tutta la persona mirabilmente proporzionata, ma esile, aveva qualcosa di femmineo, che faceva meglio valere l'eleganza perfetta dei movimenti. Si vedeva che il duca da piccino era stato allevato nella bambagia, che il vento; il sole ardente, la pioggia non ne avevano mai offesa la pelle delicata e che le sue piccole mani non conoscevano il lavoro, come i suoi piedi lunghi e sottili si erano poco sviluppati nel camminare. La bocca aveva bellissima, ma il sorriso, quasi sempre forzato, dava a tutto il viso una espressione falsa, che Maria aveva notato dicendo che non somigliava a suo padre. Difatto la bocca di Roberto quando si apriva a un sorriso illuminava tutto il volto e specialmente gli occhi neri, grandi e sinceri, e quegli occhi fissavano francamente in faccia la gente con quella bella sicurezza propria di chi non conosce la menzogna. Il volto di Roberto era abbronzato; si vedeva che il sole non gli aveva risparmiate le carezze e anche la barba bionda aveva preso all'estremità quel colore rossastro, disuguale, qua più chiaro e là più scuro, che presenta la testa delle mietitrici delle pianure lombarde. Ma la bellezza di Roberto non consisteva tanto nei lineamenti del volto, quanto nella perfetta armonia di quello con le forme del corpo. Era alto, ma ben proporzionato, e mentre le membra rivelavano la forza e la salute, la fronte dritta, gli occhi penetrantissimi e la bocca esprimevano la risolutezza del carattere temprato alla lotta con sé stesso per dominare gl'impeti dell'animo, alla lotta con gli eventi, con gli ostacoli che gli si paravano dinanzi per conseguire la ricchezza, e con l'inerzia e la malafede dei numerosi operai, che impiegava nel suo stabilimento. Era un uomo, insomma, nelle cui vene scorreva un sangue ricco; agli aveva in sé la stoffa di un dominatore, e nato in altri secoli avrebbe estrinsecato la forza esuberante in atti di prepotenza; nato nel nostro rivolgeva quella forza al lavoro, di cui aveva fatto lo scopo dell'esistenza. Franco era un decadente e la sua debolezza fisica e morale non veniva soltanto dalla educazione, ma da una eredità di famiglia, trasmessa a lui soltanto per un capriccio della natura. Al primo vederlo si capiva come discendesse direttamente da quei leziosi cavalieri settecenteschi, che portavano la spada per solo ornamento ed avevano rinnegato tutte le virtù civili e le atroci prepotenze degli antenati; da quegli arcadi che abbandonavano i nomi aviti per portarne altri di pastori da burla, e si capiva anche come avesse sciupato stupidamente un grande patrimonio. Appena furono seduti nella sala da pranzo, con le pareti rivestite di azulejos siciliani, con i mobili di bambù, bambù,con la tavola scintillante di bellissimi cristalli e di argenteria antica. Velleda si diede a osservare Franco e lo giudicò per quello che valeva. Franco, entrando in quella sala si era rasserenato; tutte le impressioni penose ricevute durante il viaggio e al momento dell'arrivo si erano dileguate ed era lieto di trovarsi in quella casa comoda, dinanzi a quella tavola elegante, alla quale non mancava nessuna delle raffinatezze del lusso. Il viaggio gli aveva dato appetito e mangiando osservava Velleda e rideva fra se pensando di essersela figurata vecchia e brutta. Mio fratello, - egli disse a un certo momento, mi aveva dipinto questa villa come un eremo piantato sulla sabbia; invece mi par d'essere in una di quelle graziosissime abitazioni, che i ricchi signori inglesi si costituiscono a Nizza e a Cannes; nulla manca, mi pare, alle comodità della vita. Nulla assolutamente. Il signor Roberto è previdentissimo e sa utilizzare tutto quello che offre il paese. Così, senza spesa, abbiamo sempre pesce eccellente, caccia prelibata, frutta e legumi squisiti, e quello che manca lo portano i vapori da Napoli, da Palermo, o dai porti della Spagna e dell'Inghilterra o dell'Africa. Ella non conosce ancora la casa e stasera non potrà vederla; ma domani gliela farò visitare, come il Varvaro le farà visitare lo stabilimento, e dopo ella ammirerà suo fratello per il gusto di cui ha dato prova creandosi questo piccolo Eden, e per le larghe vedute con cui dirige il suo commercio. Egli deve provare una grande soddisfazione nel poter dire a sé stesso: Tutto questo è opera mia! Franco non era permaloso, ma quegli elogi tributati al fratello lo umiliavano assai, tanto più che Velleda metteva molto calore nell'esprimerli. Il babbo è un uomo come non ce ne sono altri! disse Maria che era stata zitta e composta fino a quel momento. Franco sorrise alla nipotina e mentre ella con insistenza gli domandava notizie del carissimo assente, egli esaminava Velleda. La istitutrice di Maria aveva maniere così garbate e un fare tanto signorile che Franco pensò come erano state superflue le raccomandazioni fattegli da Roberto di trattarla con riguardo. Anche se avesse voluto, non avrebbe potuto fare altrimenti. Velleda era una signora, una vera dama, molto più di tante principesse. Non era giovanissima; poteva avere da trenta a trentadue anni; ma la voce, il gesto, la perfetta sicurezza che dimostrava facendo da padrona di casa, si addicevano all'età, che ella non si studiava di celare. Di statura era piuttosto piccola e sottile come una giovinetta di quindici anni e le forme della snella personcina erano poste in rilievo da un vestito bigio, di lana tagliato da un sarto inglese. Non aveva altri gioielli che una spilla d'oro opaco che le fermava il colletto del vestito. E da quel colletto semplice e un po' maschile si sprigionava un collo sottile, bianco, sorreggente una testina ricciuta. Velleda portava i capelli corti dopo una grave malattia, ma questo non le disdiceva punto, anzi dava una grazia gio vanile alla sua testina piccolissima. Non aveva tratti regolari, perché il naso invece di formare una linea retta con la fronte, era un poco rivolto all'insù ed ella scambiava leggermente un occhio, ma aveva il mento così grazioso, e gli orecchi cosi piccoli e chiusi come fiori ancora in boccio, e la pelle era così trasparente che pareva, secondo l'atteggiamento del volto, lumeggiata di argento. Tutto era luce in quel visino e senza quei cerchi profondi che le attorniavano gli occhi, sarebbe parsa una bimba, tanto aveva fresca la bocca e rotonda la linea che tal mento va fino alla nuca. Velleda non era una di quelle donne che attirano l'ammirazione della folla nelle vie, in un teatro o in un ballo. La cornice adatta per quella singolare testina era una stanza semplice ed elegante; era la casa dove la sua figurina poco ingombrante si aggirava senza far rumore. Forse vestita sfarzosamente, coperta di gioielli, non sarebbe stata bella: ma con quel vestito, che rivelava un gusto finissimo di signora, dinanzi a quella tavola di una eleganza sobria; ella appariva seducentissima anche a Franco che era buon conoscitore. Eppoi la sua voce era una musica. Aveva l'accento toscano, gentile e carezzevole all'orecchio e nel parlare sfoggiava naturalmente tutto l'incanto di quella favella, così precisa nell'espressione e così pura nei suoni Fra reo le domandò se era fiorentina. Sono nata a Fiesole, - ella rispose, - la mamma era russa e il babbo fiorentino; ma aveva passato lunghi anni ini Inghilterra esule; così in casa nostra si parlavano tutte le lingue; ma io ho avuto sempre una grande predilezione par l'italiana ed è la sola che ho veramente studiata. Qui la sento parlar poco, ma leggo molto e specialmente i classici. Se a lei non dispiace, - aggiunse con un sorriso, - noi continueremo il nostro metodo di vita. La domenica, il martedì e il giovedì parliamo italiano, perché Maria deve imparar bene la sua lingua; il lunedì e il venerdì parliamo inglese e il mercoledì e il sabato tedesco. Osservando severamente questo programma in un anno ho ottenuto che la mia piccina possa esprimersi in queste tre lingue; quando venni non sapeva altro che il siciliano, insegnatele dalla sua balia. Oggi quale lingua tocca? - domandò Franco. - Io non parlo tedesco. Oggi toccherebbe appunto il tedesco; ma faremo una eccezione. Non posso condannarla a sentirci parlare una lingua che non capisce. Maria le deve questo riguardo, tanto più che una bambina deve imparare prima l'educazione che ogni altra cosa. Il pranzo era servito dal cameriere di Roberto; vestito con una semplice livrea di tela, ma il servo era così esperto nel servizio che a Franco pareva di essere in casa propria. Mio fratello ha un cuoco eccellente, - disse il duca vedendosi servire un beli gelato di mandarino. Velleda sorrise. È un contadino di Castelvetrano, che ho preso dalla vanga pochi mesi fa, - rispose. - Con un po' di pazienza gli ho insegnato quanto occorre perché ci serva un buon pranzo tutte le sere. Ma per ottener questo abbiamo spesso mangiato otto giorni di seguito le stesse pietanze per farlo impratichire. Ci vuoi pazienza, ma poi si giunge a tutto, - ella aggiunse con una bella sicurezza. Terminato il pranzo Velleda fece salire Franco sulla terrazza del piano superiore, che guardava il mare e dove era servito il caffè. Il vento s'era calmato e Maria andava e veniva dall'ampia sala portando a far vedere allo zio i suoi ritratti e i balocchi e con quella insistenza comune nei bambini cercava di cattivarne l'attenzione ; ma Franco le rispondeva distrattamente, fumando un eccellente sigaro offertogli da Velleda e interrogandola continuamente. Il giovane signore fin dal primo momento che l'aveva veduta, aveva capito che quella colta ed elegante donnina, tutta grazia, non poteva essere una istitutrice di professione e cercava di scoprire il mistero di quella esistenza, perché parevagli impossibile che un mistero non ci fosse. E le domande che le rivolgeva miravano a questo. Ho molti amici anch'io a Firenze, - diceva egli, è molto tempo che manca da quella città? No, da un anno solamente, - rispondeva ella. Mi sorprende, continuava Franco, - che uscendo da quella città gentile e gaia, ella si sia potuta adattare a viver qui. Non mi è stato difficile punto. Per un carattere come il mio, amico della quiete e del lavoro, Selinunte è un paradiso. Eppoi non crede ella che l'ambiente abbia poca influenza sull'animo nostro! I noiati, gl'infelici, portano seco ovunque il loro tedio e il loro dolore, e sono essi soli che incolpano il paese in cui vivono, la gente che li circonda, di esser cagione della tristezza della loro esistenza. Spesso ci rammentiamo con piacere di un luogo e ci pare bello e ridente, perché nel breve tempo che vi abbiamo passato eravamo lieti e predisposti all'ammirazione. Se ci torniamo in condizioni d'animo diverse, non ci par più quello. Ovunque si lavora, ovunque c' è attività, ovunque mi posso rendere utile, io sono felice, relativamente, e mi sento vivere, come qui. Bisogna che io impari da lei; voglio farmi suo scolaro anch'io; qual lavoro mi assegna? - domandò Franco in tono leggermente ironico. Per ora nessuno; domattina, se le annoia di venir qui per la seconda colazione, posso fargliela servire allo stabilimento, come la faccio servire al Varvaro. Visiti i magazzini, s'imbarchi se vuole, sull'yacht, monti a cavallo. Il Varvaro penserà a darle una buona guida. Nel dopopranzo, se non le dispiace, andremo a Castelvetrano. No, no, - rispose Franco, - odio le piccole città dove siamo guardati come bestie feroci. Mi lasci vedere la villa, passeggiare e montare a cavallo; a Castelvetrano vi andrò il meno possibile. Allora lo aspetterò a mezzogiorno. Franco non aveva nessuna voglia di andarsene e Velleda, che vedeva Maria mezza addormentata sopra un sofà, in sala, la prese fra le braccia e presentatala allo zio, perché la baciasse, alzò il volto della bambina fino a quello di lui e poi si allontanò per portarla alla balia e farla mettere a letto. La signora in quell' atteggiagiamento affettuoso, quasi materno, con gli occhi fissi sulla Maria, era cosi graziosa, che Franco la seguì con lo sguardo e quando la vide ritornare, non seppe resistere al desiderio di domandarle: È maritata? ha figli? Sono vedova e ho perduto una cara bambina, che avrebbe l'età di Maria e portava lo stesso nome, - rispose Velleda brevemente. Ho capito subito che ella era stata madre, - osservò Franco. - Non si vuol bene ai bambini altrui, se non si è imparato a voler bene ai proprj. Non sono del suo parere, - replicò Velleda che voleva riportare la conversazione sopra un terreno generale. - L'affetto della donna per le creature deboli non è soggettivo, come ella afferma. La donna ama i piccini per istinto, e le giovanissime maestre degli asili d'infanzia e delle classi elementari adorano i loro scolaretti obbedendo a quell' istinto. Una madre, anzi, separata dai proprj figli o privata di loro dalla morte, deve essere o molto indifferente o molto forte di carattere per affezionarsi ai figli degli estranei. Dunque lei è molto forte? Forse. Non è una virtù, nè un pregio per una donna. Se tornassi bambina e potessi dirigere la mia educazione, invece di studiarmi di esser forte, vorrei esser debole, inetta a ogni lavoro della mente, superstiziosa, devota: una donna vera insomma. Noi, che abbiamo studiato, che abbiamo una personalità, un carattere proprio, siamo generalmente molto infelici, se non sappiamo assuefarci alla ostilità e alla gelosia degli uomini, che vedono in noi altrettanti pericolosi concorrenti, e al disprezzo delle donne ignoranti. È vero che la coscienza del nostro valore, della nostra forza, ci da compensi talvolta sublimi, ma è anche vero che siamo prive di tante soddisfazioni veramente femminili e che dobbiamo camminar sole nella vita per non correre il rischio di cadere sotto il dominio di un uomo volgare, il quale fa pagare alla povera creatura che riduce sua schiava, tutte le ferite alla sua vanità maschile, che egli ha sofferto non solo per lei, ma per colpa di tutte le donne che hanno fatto sforzi per inalzarsi. Peraltro, se noi incontriamo un uomo di sentimenti generosi, privo d'insulse vanità, che ci stima e ci ama appunto per il nostro valore, gustiamo una felicità che la comune delle donne non sogna neppure; ma gli uomini di quel genere sono rari,rarissimi; sono nature quasi divine, e crescendo, come fa ogni giorno, il numero delle donne che anelano ad avere la loro parte nella vita del pensiero e del lavoro, cresce quello delle infelici. Queste teorie non mi pare che le applichi; perché istruisce Maria? Perché il signor Roberto così vuole e per questo mi ha posto a fianco di sua figlia. Per credere alla verità della mia massima, bisogna aver lottato e aver sofferto; bisogna essersi trovate in mezzo alla fiera battaglia fra uomini e donne, combattuta da queste per rivendicare il loro diritto al lavoro dell'umanità; da quelli per impedire soprattutto che questo diritto sia riconosciuto e che nella divisione i loro interessi vengano lesi da una falange di volonterose, che portano nel nuovo campo della loro attività forze giovanili e quello zelo proprio dei neofiti. Ma vedrà quante vittime cagionerà questa battaglia! Il vero debellato sarà l'amore, perché gli uomini, meno quei pochi eletti di cui ho parlato prima; non lo capiscono altro che come un sentimento da padrone a schiava e quando vedranno nella donna la loro eguale, non sapranno amarla e le unioni legittime o no saranno determinate dall'interesse soltanto, senza poesia, senza passione; saranno vere associazioni costituite da due persone capaci di menare avanti col loro lavoro la costosa baracca della famiglia. L'eguaglianza dei diritti porta all'uguaglianza degli obblighi e la donna in questa associazione avrà la soma più pesante; perché oltre a quelli nuovi, non potrà rifiutare i vecchi, che la natura le impone, i suoi doveri verso i figli. Franco ascoltava attentamente Velleda, fissandola. Quella donnina, che pensava ai problemi sociali, che parlava con quella voce armoniosa e con quella grazia femminile di cose che egli non aveva mai sentito trattare da altre donne, lo incuriosiva e lo meravigliava. Questa meraviglia peraltro non era suscitata da un sentimento alto di stima e d'ammirazione, ma da una curiosità quasi infantile di scoprire per quale occulto congegno il cervello di lei presentava certe anormalità, mentre l' involucro esterno era cosi seducente, poiché fino dal primo momento ella eragli piaciuta moltissimo. E quella sera Franco l'avrebbe lasciata parlare lungamente di cose che a lui poco premevano, ma che acquistavano un valore udendole esprimere da lei, se Velleda, sentendo suonar le undici dall'orologio della torre dello stabilimento, non gli avesse fatto capire che quella era l'ora in cui ella doveva coricarsi, per essere alzata alle sei. Franco le augurò la buona notte e le baciò la mano. Saverio, il cameriere di Roberto, con una lanterna rischiarava la via al giovane signore sino allo stabilimento silenzioso, dove col fucile in ispalla vegliava un guardiano, che gli dette la buona sera. Franco dispensò Saverio dall'aiutarlo a spogliarsi e si mise alla finestra di camera sua. Da quella vide chiudere le finestre della villa, spegnere i lumi e poco dopo udì abbaiare festosamente i cani, come se qualcuno li avesse sciolti. Dinanzi a Franco si stendeva il mare illuminato dalla luna e sulle onde si cullavano barche e vaporetti ancorati vicino alla gettata. Un silenzio solenne regnava su quella spiaggia deserta: nessun grido turbavalo, ora che i cani avevano sfogata la gioia di sentirsi liberi nel giardino. Capisco che Roberto possa viver qui, - pensava Franco, - egli si è procurata una esistenza comoda, signorile, allietata dalla presenza di una graziosa donnina; è molto molto abile quel caro fratello! E l'immagine di Velleda gli s'imprimeva negli occhi e la rivedeva ora a tavola, signorilmente composta, ora con Maria fra le braccia, sorridente e affettuosa, ora parlando eccitata della questione femminile, sempre carina sotto quegli aspetti diversi di dama, di madre e di pensatrice. Sapro chi è, conoscerò il mistero di quella esistenza, - disse fra sè Franco, invaso da una malsana curiositá. - Non è una donna comune e a Firenze non può esser passata inosservata. Il Signorini deve conoscerla certo, conosce tutti! E ruminando nella mente il disegno di scrivere a quello sfaccendato fiorentino, che lo distraeva quando passava per Firenze, Franco si coricò e dormì saporitamente.

Cerca

Modifica ricerca