Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Il dialetto milanese

682110
Rajna, Pio 1 occorrenze

Non di tutti peraltro; chè certuni, abbattuti dall'impeto della corrente, giacciono sul fondo. Non s'abbia paura ch'io voglia metter qui lo schema fonetico e grammaticale del dialetto milanese; appena incominciassi a parlare di sorde e di sonore, troverei sordo tutto il mio uditorio, dato che n'abbia uno. Mi limiterò dunque a indicare, servendomi del linguaggio comune, le caratteristiche più persistenti e appariscenti. E badiamo : fin dove posso, le caratteristiche che distinguono il milanese in mezzo alle parlate affini ; non le molte a cui partecipa la sua numerosa parentela. Noto avanti tutto la doppia z, e in parecchi casi anche la scempia, ridotte a rasentare il suono della s. Si faccia pronunziare a un buon ambrosiano bellezza, mazza, spazza, el maester Pastizza, zia, e così via. Conscii di questa loro tendenza, i milanesi cercano a volte di correggerla; e c'è chi va tant'oltre nel santo zelo del bene, da pronunziare Pruzzia e da meravigliarsi che non tutti sappiano evitare quel grossolano sproposito, che è il dir Prussia Il cambiamento di l in r, soprattutto tra vocali, resta sempre un fenomeno abituale, sebbene, per influenza letteraria, vada ogni giorno scemando di estensione. Certo un tempo nessuno avrebbe mai detto altrimenti che viorin, gorà, a quel modo che tutti ancora pronunziano varì. Ma se l'r perde del terreno conquistato, lo perde pollice per pollice, difendendolo da valoroso. La lotta dura da secoli colla peggio dell'r, senza che questa abbia mai dato luogo nel suo animo allo scoraggiamento. Miran per esempio, si poteva già dire un posto abbandonato fin dai primi del seicento; chè il Prissian Milanes osserva: « Quaichun dìsenn Miran, se ben el è più da massè; che nun disem Milan » Una caratteristica assai più importante, dalla quale dipende in molta parte l'intonazione del dialetto, è il suono della n scempia in certe posizioni. e specialmente della n in fine di parola e preceduta da vocale accentata. L' n si fonde allora colle vocali antecedenti, e costituisce con esse delle vocali nasalizzate, come in francese. Il Prissian la paragona al suono che « fa el cordon che bat el bombas: fron fron » Una nasalizzazione analoga, sebbene meno completa, s' ha anche nell'interno dei vocaboli, quando ad n seguano certe altre consonanti. Ma accanto a questa n mezza morta come la chiama lo stesso Prissian il dialetto milanese ne ha un' altra viva vivissima. L' n segua ancora alla vocale accentata; ma sia poi anche seguita da un' altra vocale : essa suonerà allora in modo, che l'alfabeto italiano non ci permette di ben rappresentare nè con un' n sola, nè con due, sebbene in mancanza di meglio, si sia pur costretti ad adottare o l'uno o l'altro partito. Il femminile di bon non è nè bona nè bonna letti all'italiana. L' n di questi casi è vibrata come la doppia toscana, ma più breve e compatta; chè, invece di ripartire le sue articolazioni tra la vocale antecedente e la seguente, le appoggia per intero alla seguente, quasi fosse scritto bo-nna E nella stessa posizione suonano analogamente per ragioni analoghe anche altre consonanti: inse-mma, gne-ecca, e-cco (eco), euro-ppa, poe-tta In fatto di vocali, il milanese ne possiede due ignote al toscano: l'ö quell'ü così caro a molti (si può dire a tutti, fino a pochi decennii fa) da non volersene staccare, qualunque linguaggio essi parlino. Ma quello esercitato su questi due suoni è un condominio diviso con tanta gente che nel caso nostro è anche troppo l'averlo menzionato. Metto poi subito in disparte le vocali atone, che presenterebbero fatti molteplici, ma alquanto sbrigliati e d'importanza minuta, e mi contento di chiamare al redde rationem le toniche ; toniche, s' intende, perchè portan l'accento, non perché abbiano affinità nessuna col Fernet dei Fratelli Branca. La prima cosa che balza agli occhi, o piuttosto agli orecchi, è il molto affetto ai suoni larghi; gli o e gli e aperti abbondano nel milanese. Sono aperti ordinariamente gli o seguiti da n vibrata, da gn, da m, da tt: Marchionn, personna; besogn, vergogna; nomm, Romma; rott, sott, nagotta. Cito solo esempi - eccetto il primo, che è una storpiatura locale di Melchiorre - dove, e il toscano, e anche il più dei dialetti affini al milanese, contrappongono all'o aperto un o chiuso, discendente legittimo di un o lungo latino, o addirittura di un u. Stretto si mantiene nondimeno l'o di insomma, bott botte e non so che altro. In altre condizioni i progenitori decidono della sorte dei tardi nipoti; aperti quindi pocch, socca, foss, or, confort, sporg chiusi mocch, mozzo, mocc mozzicone di sigaro, bocca, ross, occor, descors Un o aperto notevole per la sua peculiarità si ha in giò, giù. Viceversa, sono da avvertire, sebbene non punto peculiari a Milano, gli o stretti delle prime persone singolari foo, stoo, voo, ah'hoo seguito quest'ultimo dal gran codazzo dei futuri; inoltre poo, coo capo. Nelle stesse condizioni dell'o è pur largo l'e; ma questo in molte altre ancora. È largo in generale, ancorchè provenga da un e lungo o da un i, quand' è seguito da consonante più o meno doppia, da gn, e da gruppi di consonanti di cui la prima sia s : scenna, menta, ingegn, colmegna, medemm, insemma, mansuett, mett, giughett, pess, istessa, bellezza, fregg, oreggia, todesch, cresta. L' e è largo del pari nelle terminazioni degl'infiniti della seconda coniugazione : avè, vedè, piasè, ecc. È stretto invece, tralasciando altri casi, quando ha dopo di sè una n scempia, non solo se questa è isolata e sale tutta per il naso, ma anche se la obbligano a prendere un po' più la strada della bocca altre consonanti che le tengan dietro: ben, presenza, dent, vend, scendera ecc. Intrecciamo allo stesso modo un m, e l'e suonerà chiuso anche allora: temp, november, e così via. Perchè l'ö non abbia a dolersi d' una dimenticanza assoluta, lo noterò aperto in poeu, a differenza di più altri dialetti lombardi. Oltre alla larghezza e strettezza del suono, è da considerar bene nelle vocali accentate la quantità. Sicuro: i nostri ragazzi, che nelle scuole strillan tanto contro la maledizione latina delle brevi e delle lunghe, non pensano che nel milanese s' avrebbero a rigore, almeno tre categorie : brevi, lunghe e medie. In fondo, è questa la particolarità che il Cherubini vuol significare, quando distingue un suono vibrato, uno rimesso ed uno stemperato. Del fatto avevano peraltro mostrato d' accorgersi anche prima gli scrittori, adottando il sistema di segnare certe vocali coll'accento grave, di mettere ad altre il circonflesso, e di scriverne molte duplicate. Dei tre gradi possono dar esempio fà, ciallad, veritaa; pè, , spêd, pee, goss, occôr, poo; finna, rid, vorii; brutt, rûd, luu; foeura, foeugh, fioeu plurale). Ridotte a due sole le classi, comprendendo nella categoria delle lunghe anche le medie, che in sostanza le appartengono, si può dire che, di norma, sono brevi le vocali seguite da una doppia o da certi gruppi di consonanti, lunghe quelle seguite da una consonante semplice o da certi altri gruppi. Si noti, per esempio, la lunga di sporg, incorg, confort Quanto alle vocali in fin di parola, parte sono brevi, parte lunghe, a seconda dell'origine. Per il suono, l'a lungo volta la sua faccia dalla parte dell'o sulla bocca di chi parla sbottasciaa; tanto più, quanto maggiore la lunghezza. Nelle scritture del secolo passato a quest' a corrisponde il segno ae. Ora, ravvicinando a ciò il fatto, che realmente cotali a suonano e in certi dialetti rustici, se ne argomenta con apparenza di verità, da alcuni, per esempio, dal Cherubini, che nel secolo passato la medesima pronunzia fosse pure in città; da altri che gli scrittori della città affettassero l'uso del contado. Mi permetto di dissentire da entrambe le opinioni. La seconda conterrebbe forse molto di vero riferita al secolo XVII, all'età classica di Beltramm de Gagian e della sua degna consorte Beltraminna Ma una volta che Meneghin Tandoeuggia ambrosiano puro sangue, milanes de Milan ebbe dato il bando al suo predecessore, il dialetto della letteratura fu universalmente quello della città; del Bottonuto e del Poslaghetto in particolare, come s' è visto. E del resto l'affettazione contadinesca non era per nulla generale nemmeno nell'età antecedente; altro è, si badi, la letteratura milanese, altro quella, tutta artifiziale e punto popolare, dell'Accademia di Val di Bregno e della Badia dei Facchini del Lago Maggiore. Fatto sta che già il Prissian primo varo trattatista del nostro dialetto, vuol propriamente seguire e insegnare l'uso cittadino. E siamo al l606. Quanto all'ipotesi che supporrebbe avvenuto nella pronunzia un cambiamento radicale, la credo da rifiutare assolutamente per ragioni linguistiche e storiche. Ravvolgo le prime nella maestà del silenzio; e mi contento di notare rispetto alle altre, che cotesto ae è rappresentato da un semplice a nella scrittura del seicento e del cinquecento. Gli è ben vero che il Prissian distingue per l'a due pronunzie diverse : la larga e la stretta. Ma la larga è per lui quella di sarà, sarà e serrare, di sara, sala e chiudi, ossia la breve. La stretta è quella « che i Latin antigament ghe diseven l'a longa, es la scriveven dobla inscì: amaabam. » L' ae non è dunque, a mio vedere, che un semplice segno grafico, poco felicemente scelto, e forse non abbastanza felicemente surrogato dai due a, suggeriti appunto dall'uso antico latino, o piuttosto dal passo del Prissian Certo peraltro il bisogno di una mutazione c'era; come c'era per l'ö, che in grazia di un falso concetto della sua natura, si scriveva ancora nel secolo scorso con ou. Ma anche qui fu un rimedio poco felice quello di accumulare tre lettere per un suono solo, introducendo quell'incomodissimo oeu. Ohimè! dove vado? Quo, Musa, tendis ? Nei regni della noia, vorrei dire .... se non ci avessi condotto i lettori già da troppo tempo! Vediamo almeno di essere spicci di qui innanzi; dirò delle flessioni solo le cose veramente caratteristiche. Le più spettano al dominio dei nomi. Va notata anzitutto la formazione del plurale dei femminili in a non accentato, che sia preceduto da consonante o da consonanti. Si perde la vocale che c'era in origine all'uscita, e le consonanti restano allo scoperto : finezza, scoeura, porta, mamma, donna, balarinna, fanno finezz, scoeur, port, mamm, donn, balarinn. Come si vede, l'n mantiene la vibratezza che ha al singolare; anzi, mantiene anche quella che al singolare ha perduto in molti diminutivi; sicchè, per esempio, mammin da mammina — non ispento, del resto, neppur esso — fa mamminn. Tosa è anomalo : fa tosann. A proposito di diminutivi, sono ancor più osservabili i plurali in itt, la più parte per nomi maschili, e unicamente per questi in origine. Parecchi si trovano avere adesso il singolare in in; per esempio, basitt, piscinitt, dencitt ma in realtà sono ancor essi plurali di un singolare in ett, perdutosi per istrada, e non perduto da tutti. Così omitt conserva il suo bravo omett e cereghitt può sempre vantare, accanto a cereghin, il cereghett pizzamochett e il Cereghett, « Covoe Dominus. » Questa rispondenza, ett singolare, itt plurale, è lo strascico di una legge ben più generale, che era un tempo in vigore in gran parte della valle del Po. Per essa l'e accentata dei nomi maschili, al plurale diventava sempre i (l. V. i Saggi Ladini dell'Ascoli nel t. I dell'Arch. Glottologico; passim.. La legge a poco a poco ha perduto la sua forza, non altrimenti da ciò che accade a quelle dei codici; e anche coloro che le si conservarono docili fino a tempi vicini, hanno cominciato ad alzare la cresta. Certo ben pochi direbbero adesso col Porta cavij, basij, scinivij e pochi anche usij, registrato come vivo dal Cherubini. Si conserva paricc, plurale di un singolare che il dialetto non ha; e sembra voler passare alle età future come singolarissimo esempio di fedeltà il pronome quist. Un arcaismo di questo genere, che tutti abbiamo continuamente in bocca senza accorgercene, è, credo, il Bij della Contrada Bij giacchè il casato della famiglia che dette nome alla via era probabilmente tutt'uno con quello, pur comunissimo, di Belli. Bigli deve essere un'italianizzazione altrettanto dotta come sarebbe remissegli, pivegli oppure l'Osteria dei tre Baccelli Nel verbo, noto di passaggio hin, sono, anomalo sì, ma non punto quanto lo fa parere senza sua colpa quell'h peggio che ostrogota; inoltre rammento la flessione, spesso violata, del condizionale: ev, isset, av; issem, esser, issen E alla sintassi manderò di lontano un semplice saluto, rammentando la negazione no, posposta al verbo: Se po no, se po no! ... Sulle differenze tra questo no che si pospone, e il minga che si prepone, potrei dir molte cose, conchiudendone poche; caso rarissimo ! Ma scusi, mi sento dire. Non s' accorge di fare come quando, in una certa società numerosa, il signor X discorre un' ora filata sul suo argomento favorito della concia dei cuoi? O non sarebbe meglio parlar di qualcosa dove ognuno potesse dire la sua? Dica per esempio, se le par bello o brutto il milanese; ne determini, se tiene ai paroloni, il valore estetico! Ecco un punto, su cui tutti hanno idee proprie. Le hanno e le hanno avute. Un' idea l'aveva anche Dante, che si permette di strappare, come erba cattiva, insieme col bergamasco, anche il milanese, e ricorda con una tal quale compiacenza una poesia, che già allora correva in dileggio di questi dialetti: Intel' ora del vesper, Ziò fu del mes d' ociover .... E allo stesso modo non si vergognò di pensare Luigi Pulci, che il 22 di settembre del l473 ebbe la sfacciataggine di mandare da Milano a Lorenzo de' Medici due sonetti obbrobriosi (1. S' hanno singolarmente straziati a pag. 86- 87 delle edizioni dei sonetti del Pulci e del Franco. Io li ho trascritti direttamente dall'autografo, che è alla Nazionale di Firenze, e posso così darne la lezione genuina.), di cui non si laverebbe la colpa con tutta l'acqua del Seveso, del Lambro, dell'Olona. Nell'uno sono gli abitanti che più specialmente si prendon di mira; e solo una terzina deride il parlare: E' dicon le carote i gniffi, i gnarri, Et l' uve spicciolate pinceruoli, Da far, non che arrabiare (1. Prima il Pulci aveva scritto, se non erro, impazzare.) i cani, i carri. Ma l'altro è pressochè tutto un' ingiuria al dialetto: Ambrosia, vistu ma il più bel ghiotton, Quel fiorentin ch' è in chà messer Pizzello ? El non manza ravizze : mò zervello, Ch' el si butta per zerto un gran poltron. Non li san le ravizze mica bon. El son tutte materie! El dise chello Zanzator che Fiorenza è mò più bello, Che si vorrava darli un mostazzon! El passa ! Ha, fiorentin, va scià chillò! El guarda, in fe de dè ! Ma tasi ti, Che 'l non z' à ancor vezzuti il chò di bò ! Et chi credessi un certo odor che è qui Quasi rosea piantata in Jerichò Fussi, io noi crezzo; ch' io lo so ben mi! Ma egli è ben ver così, Ch' e milanesi spendon pochi soldi, Et mangian cardinali et manigoldi ; Et ferrù coldi coldi ! Tanto ch' io serbo all'ultimo il sonetto, Ch' io mangerei forse io del pan buffetto. In fondo al sonetto il Pulci mette questa postilla per Lorenzo : « Nota che cardinali è una cierta vivanda di più cose in guazzetto : manigoldi le bietole : le ferruche son succiole. Ma tu se' milanese vecchio. » Da queste ultime parole risulta che Lorenzo de' Medici sapeva il milanese; ciò vale a consolarci un poco delle insolenze di messer Luigi, il quale poi, per giusto castigo del cielo, volendo dileggiare il dialetto nostro, è riuscito a fare dei versi molto debolucci. La parodia poteva essere, non solo più corretta, ma anche più spiritosa. Ecco venir terzo il Bandello: « II parlare milanese ha una certa pronuncia, cche mirabilmente gli orecchi degli stranieri offende .... » (Parte I, nov. 9). Misericordia! E nessuno si leverà a difesa ? — Milano tutta, come un sol uomo. Lasciam parlare il Prissian : « Par la proùma (1. Si legga proeuma V. quel che s' è detto a pag. 40.) al besogna savè cche el nost lenguag al è el più pur, el più bel, e il miò che se possa trovà. » E anche poco prima aveva detto: « Parlo dela parnonzia del parlà Milanes, ch' alè el più bel che sia al mond ; e si avess temp, e' vel farev vedè ; salv la lengua fiorentena, ch' al' è nassù dala nosta, ma che lor ai l' an lechà inscì on pochin, com' es fa ona sposa. » Qui, per verità, si fa una restrizione alquanto pericolosa, che darebbe forse motivo sufficiente di chiamare il Prisciano stesso davanti al tribunale della Santa Inquisizione. Egli puzza un po' dell'eresia di quel traditore di padre Branda, che un secolo e mezzo più tardi ritornava di Toscana così innamorato o infatuato del parlare di colà, da gettar fango in viso al linguaggio materno in un certo dialogo fatto recitare in pubblico dai suoi scolari. Ed ecco accendersi una guerra terribile, nella quale la prima lancia contro il Branda fu rotta dal Parini, oscuro abate tuttavia. Le ingiurie - usiam parole proporzionate alla grandezza dei fatti - riempirono l'aria; l'inchiostro scorse a ruscelli; e ben cinquanta opuscoli a stampa, vomitati dalle bocche da fuoco delle due fazioni, rimasero sul campo, a testimonio della gran lotta. Chi li vuol vedere, vada all'Ambrosiana, e chieda della Brandana Troverà cose abbastanza divertevoli. Tacque finalmente la guerra; ma le cause e i sentimenti che l'avevano suscitata non vennero meno negli animi, e si perpetuarono anche nei posteri. E così più di mezzo secolo dopo si riaccendeva, se non la guerra, un duello, quando un articolo del Giordani nella Biblioteca italiana faceva montare al Porta la mosca al naso, e lo spingeva a mitragliare l'oltraggiatore dei dialetti colla scarica dei dodici sonetti famosi all'abaa Giavan Ma lasciando gli scherzi e le simpatie: o chi aveva ragione in coceste lotte? - La ragione e il torto non si dividono mai in maniera così netta, che tutto il torto sia da una parte, tutta la ragione dall'altra, dice il Manzoni. E il Manzoni appunto, milanese e affezionatissimo al milanese, così dotto nel suo dialetto da aver pochi pari, assegnava di sicuro una parte di ragione, nel secolo passato al Branda, nel presente al Giordani. I fatti lo dimostrano; giacchè egli fu per suo conto un sostenitore e propugnatore ardentissimo ed efficacissimo di idee molto analoghe alle loro. Qui peraltro corriam rischio d' impigliarci nella quistione della lingua, molto più complessa di quella che s' aveva per le mani. Rientrando nel nostro guscio, diciam pure aperto che nel giudizio sulla bellezza e bruttezza dei dialetti in generale e di un dialetto in ispecie, l'abitudine, ossia il pregiudizio entra per quattro quinti. A molti letterati tutti i dialetti paiono brutti, compreso il loro proprio; alla generalità, e particolarmente al volgo, paiono brutti tutti, a eccezione del loro. Quindi il continuo darsi la baia da paese a paese per ragion del parlare. Da ciò alcuni spassionati conchiudono, che dunque tutti i dialetti sono brutti e belli ad un modo. Non assento : per quanto il mi piace e non mi piace renda malagevole il giudizio, c'è bene anche un grado assoluto e variabilissimo di bellezza e bruttezza. Il difficile sta a poterlo determinare. Non pretenderò già io di esser da tanto; a ogni modo alcune cose le devo dire. Per quel cche spetta ai suoni, il milanese avrebbe una ricchezza invidiabile; ma non ne cava forse tutto il partito che potrebbe, giacchè certi elementi prevalgono un po' troppo, con danno della varietà; e non di quella soltanto. Ricorrono troppo abbondanti le vocali a lungo strascico, nasalizzate e non nasalizzate, che danno al parlare un carattere lento. Nei verbi riesce adesso d'impaccio l'accumularsi dei pronomi, promosso da cause per così dire rettoriche, più che da una vera necessità e dal logorio delle forme; chè, quanto a forme, il milanese è forse tra i dialetti cittadini dell'Italia settentrionale uno dei meno impoveriti dal tempo. Di derivazioni il dialetto milanese è copioso, tanto per i sostantivi che per gli aggettivi. E quanto al dizionario, non s' ha proprio motivo di portare invidia a chicchessia. Se dai caratteri per così dire fisici, si volge l'attenzione ai morali, oh, come ha ragione il Tanzi di esclamare: Gh'emm ona lengua averta, avert el coeur! ll milanese è realmente il linguaggio di un popolo dal cuore aperto, bonario, inclinato alla benevolenza verso ognuno, amante della buona tavola e in generale di tutti i piaceri del senso, lieto, proclive alla sguaiataggine più che alla vera arguzia, ricco di un buon senso alla mano. Un linguaggio fine il milanese non si potrebbe dire : efficace, è di sicuro. Il popolo che lo parla ci si riflette dentro tutto quanto, colle sue virtù e colle sue debolezze: di gran lunga più numerose le prime - si permetta di dirlo ad uno non nato all'ombra del Duomo - che le seconde. Questi caratteri interni si mantengono inalterati, nonostante la variazione delle fattezze esteriori. Giacchè, come s' è accennato in più casi, il dialetto si trasforma, e sempre s'è venuto trasformando in tutto quanto il corso della sua vita. Ben si sa: la trasformazione è condizione essenziale dell'esistenza. Una delle mutazioni di maggior rilievo avvenuta in tempi vicini a noi, riguarda il passato remoto, cominciato a cadere in disuso verso la metà del secolo scorso, rappresentato da pochi superstiti al principio del nostro, e quindi sceso nella tomba fino all'ultimo suo rampollo. Vens, diss, voeuss, spongè ecc. ecc., farebbero adesso inarcare le ciglia al più ambrosiano tra gli ambrosiani. Non si riguardi questa sparizione come un sintomo pericoloso per la vita del dialetto; lo stesso fenomeno sta succedendo, mentre parliamo, nel francese, senza che ciò faccia nascere nessuna inquietudine per la sua preziosa salute. Piuttosto danno da pensare i mutamenti non pochi che si producono nei suoni. Per esempio la z, che aveva preso molte volte il posto del c e del g dinanzi ad e e ad i, è ricacciata di nuovo dal ritorno vittorioso dei fuorusciti. Nessuno dice più zent, nessuno Porta Zines pochi zerusegh, suzzed, suzzess Qui, tanto e tanto, s' ha il trionfo d'un vecchio diritto lungamente conculcato; ma è effetto di prepotenza se molte terminazioni ben legittime in cc sono bandite, o almeno confinate tra la gente bassa; dicc, scricc, facc non si sentono più; non frequentemente lecc, succ e c'è chi spinge lo zelo fino a dire per tecc una parola che non mi permetterò qui di pronunziare. Presi un per uno cotali mutamenti non significherebbero nulla; ma invece destano l'allarme, se si considerano uniti insieme e si riferiscono alla loro causa unica ed universale, che è un graduale ravvicinamento alla lingua letteraria o al toscano. Non ci sarebbe da dolersene, se il ravvicinamento potesse metter capo all'identificazione; ma facciam conto che ciò sia per accadere ad una distanza infinita, là dove s'incontrano, al dire dei matematici, e si danno con un bacio il « ben arrivato, » anche due parallele. E la lingua letteraria non si contenta di pervertire la fonetica del dialetto; ne perverte ancor peggio il vocabolario. Essa v' introduce così alla sordina un numero infinito di vocaboli, ciascuno dei quali circuisce una voce indigena, le somministra un lento veleno, e non ha pace finchè non la vede morta e non ne raccoglie l'eredità. E dire che i tribunali non hanno pene per cotesti misfatti! O non pare evidente che le lingue abbiano diritto ad essere rispettate al pari delle persone? Io non capisco perchè, mentre è severamente vietato di corrompere il toscano col mescolarvi voci, forme e pronunzie dialettali, abbia poi ad esser lecito di corrompere il dialetto con mescolanze toscane. Dunque l'uguaglianza di tutti dinanzi alla legge è proprio un' irrisione? Si parli italiano o milanese secondo che pare e piace: ma l'italiano italianamente, e anche il milanese milanesemente! È inutile: se s'ha a cuore la salvezza del dialetto bisogna, mentre non è ancor troppo tardi, pensare a un provvedimento. E il provvedimento lo propongo io medesimo, dando prova con ciò di un eroismo, che solo gli amici miei possono valutare. Esso dovrebbe consistere in una multa per ogni delitto di lesa meneghità. In altre città il prodotto della multa potrebbe servire a ristorare le finanze municipali; qui da noi invece, dove, grazie a Dio e ai nostri amministratori le finanze sono in complesso abbastanza prospere, converrebbe convertirlo in premi per coloro che parlan più corretto. Ed ecco che, cercando piombo, ci si troverebbe aver rinvenuto dell'oro; giacche, incamminatici per provvedere all'incolumità del dialetto, ci si vedrebbe arrivati inaspettatamente alla soluzione della questione sociale. Che, siccome in generale gli abbienti parlano scorretto, e relativamente corretto i non abbienti, si riuscirebbe ad un capovolgimento nella distribuzione delle ricchezze; i ricchi diventerebbero poveri, e i poveri ricchi ; che è l'unica soluzione del gran problema atta a contentare davvero, non dico chi predica le riforme stando comodamente in alto, ma chi le chiede dal basso.

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