Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNIFI

Risultati per: abbattuti

Numero di risultati: 22 in 1 pagine

  • Pagina 1 di 1

CHI VUOL FIABE, CHI VUOLE?

661228
Capuana, Luigi 1 occorrenze

Il Re viveva in angoscia finché non lo vedeva ritornare sano e salvo, ma lo guardava con orgoglio ogni volta che il Reuccio gli presentava orsi e cignali abbattuti dagli infallibili suoi colpi di balestra. Il Re non aveva voluto mai permettergli che andasse a cacciare in una montagna lontana, circondata di fittissimi boschi pieni di animali feroci. Ormai le cacce in luoghi noti non lo allettavano come prima. - Maestà, lasciatemi andare laggiù laggiù! Il Re non si piegava. E il Reuccio si raccomandava inutilmente anche alla Regina sua madre. Rinunciò allora al prediletto svago, divenne triste, uscì raramente dalle sue stanze. Più il Re e la Regina gli rammentavano le disgrazie accadute ad altri cacciatori in quella remota montagna - molti erano andati e non erano ritornati - e più si accendeva nell'animo del Reuccio il desiderio di cimentarsi su per quelle balze, tra quegli orridi boschi. La sua tristezza aumentava di giorno in giorno, la sua salute ne soffriva. - Dobbiamo vedercelo morire di malinconia? - disse la Regina. Il Re resistette ancora un po'. Vedendo però che il Reuccio deperiva e non intendeva ragione, fisso in quel suo pensiero di andare a caccia laggiù laggiù, s'indusse ad accordare, suo malgrado, il permesso richiesto. Il Reuccio parve risanato in un istante, e si preparò sùbito alla partenza. Se non che il Re volle che fosse accompagnato da più numerosa scorta. E il giorno in cui egli e i suoi compagni uscivano dal palazzo reale, i soliti brontoloni ripetevano: - Lo abbiamo detto: i figli dei vecchi non riescono gran cosa! Ecco: già dimostra gusti più feroci, andando a caccia in quella montagna e tra quei boschi! Sarà un Re sanguinario, se giunge a salire sul trono! Per arrivare alla montagna ci vollero otto giorni di cammino. Procedendo, di mano in mano che le balze si presentavano più orride e le boscaglie più fitte, l'ardore del Reuccio si accresceva. I suoi compagni si stancavano, si riposavano; ma egli li rampognava e si slanciava a un nuovo assalto di quelle rupi, si apriva nuovi sbocchi tra gli intricati rami degli alberi. Intanto, nessun animale feroce·Pareva che, atterriti dalla insolita presenza di tanta gente, fossero scappati tutti a rifugiarsi nelle cime più irte, tra le boscaglie più fitte. Una mattina erano arrivati in un punto dove le rocce si alzavano torno torno a così grande altezza, da non permettere che si andasse più oltre. La cinta dei boschi si arrestava a piè di essa. Il Reuccio si era seduto sur un masso, e guardava da ogni lato per scoprire un passaggio. Si vedevano soltanto rocce lisce, a picco, e un lembo di cielo azzurro, limpidissimo, circoscritto dalle aguzze cime dorate dal sole. S'intese un gran sibilo e poi uno strepito di ali. Tutti alzarono gli occhi; un mostro orrendo veniva giù. Aveva un corpo da serpente ed ali da pipistrello, grandi come vele. Il Reuccio si affrettò a tender l'arco, e lanciò una freccia che andò a conficcarsi proprio nel petto del mostro. Diè un sibilo più forte, pauroso, agitò le ali che si afflosciarono sùbito, e il mostro precipitò giù con grave rumore. Annodava e snodava la coda aguzza, rizzava il collo, e dalla bocca, tra due file di denti, vibrava la lingua che sembrava una spada. Il Reuccio e i compagni gli tirarono altre frecce alla testa e al fianchi, e non si accostarono se prima non lo videro giacere inerte, tra una gran pozza di sangue nerastro.Era un drago! Mentre essi stavano a osservarlo, ecco un altro sibilo meno acuto e uno strepito di ali meno forte. Alzarono gli occhi, e compresero che doveva essere la draghessa, quest'altro mostro uguale al primo, ma di dimensioni assai minori. Il Reuccio tese celermente l'arco e lanciò la freccia, che colpi la draghessa alla testa e la fece cascar giù morta sul corpo del suo compagno. - Oh, qui ci dev'essere il nido. E non aveva il Reuccio ancora finito di pronunziare queste parole, che dallo spacco d'una roccia si affacciavano quattro piccole teste di draghi con le bocche spalancate e le linguette vibranti. Erano nati il giorno innanzi, perché sembrava che i sottili colli reggessero male il peso delle teste, e gli occhi non erano ancora aperti. - Dobbiamo prenderli vivi! Dobbiamo prenderli vivi! Il Reuccio, in preda a immensa gioia, tendeva le braccia, agitava le mani, quasi potesse giungere a quell'altezza sollevandosi su la punta dei piedi. E ripeteva rivolto al compagni: - Dobbiamo prenderli vivi! Dobbiamo prenderli vivi! Come fare? Si diedero ad abbattere con le accette rami di alberi, li legarono in modo da costruire una rozza ma solida scala; e, quando fu pronta, il Reuccio vi montò su e prese a uno a uno i draghettini. Erano quattro, molli, quasi viscidi, con sul dorso un accenno di ali simili a pinne di pesce, poco più grossi di un grosso ramarro. E rizzavano le teste e spalancavano le bocche, affamati. Il Reuccio disse: - Il drago e la draghessa certamente recavano da mangiare ai piccini. Infatti, aperto il gozzo di essi, vi trovarono il cibo, e il Reuccio ingozzò pazientemente i draghetti, finché non riapersero più le bocche. Da lì a poco, piegavano le teste, si acchiocciolavano, ed erano belli e addormentati. Il Reuccio stimò inutile di prolungare più la caccia. Lasciarono là a imputridire il drago e la draghessa, e coi draghetti situati in fondo a una cesta sopra un letto di foglie secche, egli e i compagni presero la via del ritorno. Quando si seppe che il Reuccio aveva riportato quattro piccoli draghi e che intendeva di allevarli e addomesticarli, i soliti brontoloni ripresero: - Lo abbiamo detto: i figli dei vecchi non riescono gran cosa! Ecco: ora, con questi draghi chi sa quante disgrazie accadranno! Sarà un Re sanguinario, se giunge a salire al trono! Invece il Reuccio pensava che certi animali sono feroci perché nessuno si è mai incaricato di renderli domestici e miti. E voleva provare coi draghi. Stava occupato da mattina a sera a ingozzarli, ad accarezzarli stropicciandoli leggermente con le mani, e osservava che essi godevano del tepore che quel lieve stropicciamento lor produceva. Lo riconoscevano già; rizzavano le teste, agitavano le code, vedendolo avvicinare. Gli si arrampicavano addosso con le zampine ugnate, gli lambivano le mani con le linguette, lunghe e sottili, e smovevano le ali che cominciavano a distendersi cartilaginose, a spicchi come quelle dei pipistrelli. Ormai mangiavano da sé, divorando golosamente, e il Reuccio se li faceva venir dietro per la stanza, imitando il loro sibilo, attirandoli con un po' di cibo. Fin a tanto ch'essi erano piccoli, il Re non stava in pensiero pel Reuccio; ma ora che avevano già messe le ali e si provavano a volare, il Re si atterriva vedendolo entrare nello stanzone dove stavano chiusi, perché vi si potessero muovere a tutt'agio. E lo ammoniva: - Badate, Reuccio! Non vorrei che un giorno o l'altro ... Il Reuccio sorrideva, e per mostrargli che i quattro draghi gli s'erano affezionati come cagnolini, apriva l'uscio e se li traeva appresso pei corridoi del palazzo reale; li tastava, li accarezzava, li faceva star ritti sulle zampe di dietro, col collo proteso in avanti, con le ali che sbattevano e facevano un rumore simile a quello di piccole vele smosse da forti soffi di vento. Erano belli nel loro orrido, con quei corpi di serpenti alati, con quel collo pieno di rughe simile a collo di tartaruga, e le creste rosse che già spuntavano nella parte superiore delle teste, più appariscente nei due maschi, meno pronunciate e meno vivide nelle due femmine. Un giorno, però, che il Reuccio ebbe il capriccio di condurseli dietro per le vie, legati con catenelle di acciaio raccomandate a dei collari di ferro battuto, fu un fuggi fuggi della gente spaventata dall'aspetto di quei mostri non mai visti. - I draghi! I draghi! Era un chiuder di usci e d'imposte; un gridare, un piangere, quasi i draghi avessero cominciato a divorare qualcuno. Essi, intanto, camminavano tranquillamente, scherzando tra loro con le code, con le teste, accostandosi spesso al Reuccio per leccargli la mano, elevandosi a brevi voli, a fior di terra. E fu peggio la mattina che fu visto uscire il Reuccio a cavallo di uno dei draghi ben bardato, guidato con lunga briglia, e che appena fuori del portone spiegò le ali e si elevò altissimo, obbediente al richiamo della briglia, come il più docile dei cavalli. Anche il Re e la Regina lo guardavano atterriti da un balcone del palazzo reale, e dovettero fare uno sforzo per non ritirarsi, quando il Reuccio fece abbassare il volo del drago e lo diresse proprio verso di loro e fermossi a discorrere mentre il drago si librava su le ali e si teneva quasi fermo per aria, inarcando il collo rugoso, proprio come il più superbo cavallo delle stalle reali. E fatta la prima prova con uno, la ripeteva nei giorni appresso con gli altri tre. Ora la gente gridava, sì, da ogni parte: - Il drago! Il drago! - ma era rassicurata, e godeva di vederlo aliare da un punto all'altro, col Reuccio a cavallo, che lo guidava a suo talento, e saliva e scendeva e risaliva fino a perdersi tra le nuvole a grande altezza. I brontoloni però non si davano ancora per vinti: - Lo abbiamo detto: i figli dei vecchi non riescono gran cosa! Vedrete, con questi draghi, che disgrazie accadranno. Sarà un Re sanguinario, se giunge a salire ai trono! Un giorno il Re chiamò il Reuccio nella sala del Consiglio. I ministri eran seduti gravemente attorno a lui. - Reuccio, - gli disse - è tempo di finirla coi capricci. Io sono vecchio, e posso morire da un giorno all'altro. Voglio lasciare ben ordinate le cose del Regno e della mia famiglia. Ho deciso di darvi moglie. Scegliete voi stesso tra le principesse più in vista. - Non ne conosco nessuna. Sarà degna della mia mano colei che, per dimostrarmi il suo affetto, avrà il coraggio di fare una passeggiata a cavallo di uno dei miei draghi assieme con me. Il Re voleva troppo bene a quel figlio unico; si strinse nelle spalle, e accettò questa condizione. Ambasciatori partirono per diverse Corti, dove erano principesse da marito. - Dice il Reuccio: Sposerò colei che avrà il coraggio di fare una passeggiata a cavallo di uno dei miei draghi assieme con me. Che cosa risponde la Principessa.? - Che il Reuccio è matto da legare. Gli ambasciatori si aspettavano questa risposta; e, secondo gli ordini del Re, si presentarono a un'altra Corte. Dice il Reuccio: Sposerò colei che avrà il coraggio di fare una passeggiata a cavallo di uno dei miei draghi assieme con me. Che cosa risponde la Principessa? - Che il Reuccio è peggio che matto da legare. Gli ambasciatori, dopo questa seconda, non si aspettavano risposte diverse: ma, secondo gli ordini del Re, si presentarono a un'altra Corte. Con loro grande meraviglia, la Principessa interrogata rispose francamente: - Dite al Reuccio che accetto! Lieti di aver potuto compiere la loro missione, gli ambasciatori tornarono dal Re. - La Principessa di Spagna ha risposto: Dite al Reuccio che accetto. Il Reuccio aveva fatto costruire un'apposita stalla pei draghi, e passava lunghe ore con essi, che intendevano già ogni inflessione della parola di lui, e lo obbedivano mirabilmente. E quando egli, molto contento della risposta della Principessa, quasi sicuro o, almeno, desiderando di esser compreso, andò nella stalla ad annunziare: - Uno di voi avrà l'onore di portare sul dorso la Reginotta - parve che essi avessero inteso davvero, e proruppero in sibili acuti, girando le teste, vibrando le lingue, agitando le code. La Corte era in gran tramenìo pei preparativi delle nozze. Il vecchio Re e la Regina, che aveva pochi anni meno di lui, sembravano ringiovaniti. Il Reuccio ordinava nuove magnifiche bardature, con stoffe tramate d'oro, con galloni di oro e borchie di diamanti. Di oro era pure il freno delle briglie, e queste tutte trapunte di vere pietre preziose. Il giorno che li provò addosso ai draghi, essi parvero orgogliosi di vedersi ornati a quel modo, e sibilavano, e rizzavano le teste, e vibravano le lingue, e agitavano le code in più espressiva maniera. Anche questa volta non mancarono i soliti brontoloni di malaugurio: - Lo abbiamo detto: i figli dei vecchi non riescono gran cosa! Vedrete quel che accadrà con questi draghi maledetti! E avverrà anche peggio, quando costui salirà sul trono! Nella Corte della Principessa c'era un'ansiosa aspettativa, che nel popolo assumeva forza di terrore al solo pensare che il Reuccio avrebbe condotto due draghi, invece di carrozze e cavalli, e che Reginotta e Reuccio dovevano partire a cavallo di essi. - Ma sono bell'e addomesticati! - dicevano alcuni. - Con certe bestie non si sa mai! Il Re di Spagna volle interrogare novamente la figlia. - Siete proprio decisa, Principessa? -- Proprio decisa! - Ma voi non avete mai visto draghi; sono mostri orrendi. Li ho visti dipinti e non mi hanno fatto paura. Il Re era stupito di tanto coraggio; pure insisteva: - Se vi figurate, Principessa, di non trovare altro marito ... - O il Reuccio dei draghi, o più nessuno, Maestà. - Che il Cielo vi aiuti, figliola mia! Disse così; ma in fondo al cuore aveva un triste presentimento. Il giorno dell'arrivo del Reuccio poche persone si avventurarono nelle vie. La gente se ne stava rimpiattata in casa, dietro le imposte e dietro gli usci aperti a fessolino per poter assistere allo spettacolo senza incorrere in qualche disastro. Appena però s'intesero da lontano i sibili acuti dei draghi e si avvicinò il rumore delle loro ali da pipistrello larghe come vele, nessuno poté frenarsi di affacciare la testa e poi di protendersi dal davanzali; la curiosità aveva potuto più della paura. I draghi arrivavano maestosamente, con lento volo. Il Reuccio che cavalcava su uno di essi, si traeva dietro per la briglia l'altro destinato alla Principessa. Alla vista di quei mostri, ella impallidì un po' e si senti correre un lieve brivido da capo a piedi, ma si rinfrancò subito. Il Reuccio diresse il volo dei draghi verso la terrazza dov'era raccolta la famiglia reale. - Ben arrivato, Reuccio! - Ben trovata, Reginotta! - Ben arrivato, Reuccio! - Ben trovata, Maestà! Il Reuccio scese davanti al portone del palazzo reale, introdusse egli stesso i draghi nell'ampia stalla preparata per essi; li legò con catene alla mangiatoia e chiuse a chiave, per cautela, la porta. Il giorno dopo si celebrarono le nozze. Il Reuccio aveva notato un'insolita irrequietezza nei draghi; ma non se ne era dato pensiero; il lungo viaggio fatto e il nuovo locale della stalla gli parvero sufficiente spiegazione. Arrivati il giorno e l'ora della partenza, il Reuccio andò a trarre di stalla i draghi, magnificamente bardati e imbrigliati. Abbracci, baci, saluti; la Reginotta non sapeva staccarsi dal padre. Il Reuccio dové farle dolce violenza. E tra gli applausi della folla e i gridi di augurio, egli aiutò a montare sul drago la Reginotta e le mise in mano la briglia, poi montò lui e diè agli animali impazienti il cenno della partenza. Distesero le ali, si elevarono lentamente, poi presero un largo volo, e sparvero dagli sguardi di tutti. Arrivarono, dopo alcuni giorni, quelli del séguito del Reuccio, ed egli e la Reginotta, che avrebbero dovuto giungere molto prima, non si vedevano ancora. Il Re, la Regina, i Ministri spiavano il cielo dall'alto di una terrazza; ed ogni ora, ogni istante che passavano, li riempivano di ansia e di spavento. Alla Corte di Spagna attendevano, con uguale ansietà, notizie dell'arrivo degli sposi. Avrebbero dovuto ricevere staffette da correre a spron battuto, e non ne arrivava nessuna!Che cosa era dunque accaduto? Era accaduto che, dopo un lungo tratto di volo, i due draghi avevano cominciato a non più obbedire al freno della briglia. Il drago della Reginotta voltava indietro la testa quasi a fiutarla, e il drago del Reuccio, girando attorno all'altro, stendendo anch'esso la testa quasi a fiutare la Reginotta. L'odore di quelle carni fresche, non mai sentito da loro, aveva risvegliato tutt'a un tratto in essi l'istinto tenuto in freno e sopito dall'addomesticamento fatto dal Reuccio, ma non distrutto. I draghi finalmente si fermarono, non vollero più andare avanti né indietro. Si libravano su le ali e stendevano la testa con la bocca spalancata vibrando le lingue che parevano di fuoco, tentando di addentare la Reginotta e di farne due bocconi. Ella non capiva il pericolo, ma il Reuccio ne fu spaventato. Afferrò disperatamente le redini, e con rapido moto le attorse attorno al collo del suo drago e strinse forte forte, per soffocarlo. Il drago diè due trabalzi per buttar giù di sella il Reuccio, poi barcollò, piegò a metà le ali e cominciò rapidamente a scender giù, tramortito. L'altro seguì il compagno; ma il Reuccio, colto il momento, slanciossi a cavalcioni su lui, afferrò le redini e gliene attorse al collo come all'altro, e strinse forte forte. Il mostro diè due, tre balzi, barcollò, piegò a metà le ali e segni più rapidamente nella discesa, tramortito, il compagno. Appena toccata terra, Reuccio e Reginotta saltaron giù di sella. I due draghi, soffocati, davano gli ultimi tratti. Per la campagna dove erano discesi non si vedeva anima viva. Stoppie, stoppie, stoppie, a perdita di vista e qualche albero qua e là. In fondo, una casetta di contadini; ma bisognava far molta strada per arrivarvi. Dopo quattro giorni di cammino a piedi, Reuccio e Reginotta non si riconoscevano più dagli stenti e dalla fatica. Finalmente s'imbatterono in un carro guidato da un contadino. - Se ci porti fino al palazzo reale, farai la tua fortuna! - E voi chi siete? - Siamo il Reuccio e la Reginotta. - Il Reuccio e la Reginotta sono morti. Il Re e la Regina hanno già preso il lutto. A chi volete darla a intendere? Vi porto per carità, perché siete due poveri diavoli affamati e stanchi. Su, montate. Giunti alla porta della città, il contadino voleva che scendessero. - Accompagnaci fino a casa nostra e sarai ricompensato. Il contadino disse: - Ho fatto novantanove; facciamo cento! E tirò avanti. Il portone del palazzo reale era chiuso per lutto. Quando il contadino capì che quei due poveri diavoli affamati e stanchi, come li aveva chiamati, erano davvero il Reuccio e la Reginotta, cominciò a tremare dalla paura di averli offesi. E per ingraziarseli si diè a picchiare forte, gridando: - Aprite, aprite! ... Il Reuccio! ... La Reginotta! Le guardie lo presero per ubriaco o per pazzo, e volevano arrestarlo. Quel che accadde nella Corte tra Re, Regina, Reuccio e Reginotta, immaginatelo voi. Il Reuccio raccontò del gran pericolo corso, e la morte dei due draghi. - E i due rimasti qui? Nessuno aveva voluto cimentarsi a governarli, ed erano morti di fame nella stalla. Si sentiva il puzzo delle loro carogne. Da allora in poi il Reuccio non tentò più di addomesticare animali feroci, convinto che presto o tardi l'istinto riappare. E poi - gli disse un giorno il padre - quando io non ci sarò più, avrai ben altro animale feroce da ammansire! E indicava la folla che sotto il palazzo reale gridava a squarciagola, battendo le mani: Viva il Reuccio! Viva la Reginotta! Fiaba detta, fiaba scritta, Ora va storta, ora va diritta.

SCURPIDDU

662784
Capuana, Luigi 1 occorrenze

Due grossi tronchi di fichi d'India, abbattuti mesi addietro, gli suggerirono l'idea di formare un ponticello, mettendoli per traverso. Sarebbe passato su di essi, e poi li avrebbe tirati dall'altra parte. Appoggiandoli al muro, vi si sarebbe arrampicato. Se giungeva ad afferrare la ringhiera di ferro della terrazza ... . Detto, fatto: due tronchi venivano trascinati con molto sforzo, buttati a traverso il profondo spacco della roccia; e Scurpiddu , curvo, con le braccia aperte per equilibrarsi, trattenendo il respiro, passava sul cedevole ponticello. Il difficile era ritirare i tronchi di là senza che il peso li facesse precipitare giù. Prima di avventurarsi, chiamò di nuovo: - Z'a Tegònia! Z'a Tegònia! Le vampe, dopo il crollo dei tetti della cucina e del frantoio, erano quasi spente, ma il fumo aumentava, e le scintille volavano portate via dal vento e piovevano addosso a Scurpiddu , scottandogli mani e faccia, Ora però che egli aveva appoggiato al muro i due tronchi, e che essi, con le loro sporgenze, gli davano agio di montare, non badava nè a fumo nè a scintille; e com'ebbe afferrato una sbarra della ringhiera, si spinse su poggiando i piedi al muro; poi saltò nella terrazza. Per fortuna i vetri erano chiusi, ma gli sportelli interni no. Con un mattone ch'era là, egli ruppe un vetro, passò un braccio nell'apertura fatta, girò il succhiello e spalancò la imposta a due bande, Un'ondata di fumo lo fece indietreggiare. Appena la stanza si fu vuotata per l'aria nuova penetrata, dentro, Scurpiddu si precipitò verso il letto, con uno strillo: - Z'a Tegònia! E scoteva il corpo della povera vecchia, che rantolava, buttata a traverso la materassa. Intanto, dalla fessura dell'uscio che dava nel frantoio, il fumo continuava a invadere la stanza! Come fare? Egli non poteva levar di peso la vecchia e portarla all'aperto. Udita sul tetto vicino la voce del Soldato e di massaio Turi che già si preparavano a scendere, Scurpiddu uscì su la terrazza e chiamò. - Che fai costì? - gli domando il Soldato , affacciandosi dall'orlo del tetto. - La Z'a Tegònia! ... Venite! ... .Sta per morire ... Io non posso toglierla dal letto. Il Soldato si lasciò scivolare lungo il muro che non era molto alto, e poi saltò su la terrazza. Era stupito di trovare Scurpiddu colà. - Come hai fatto? - Ve lo dirò dopo. E trassero la povera vecchia all'aria aperta. Quando l'incendio fu domato, tutti erano attorno a Scurpiddu per sentirgli raccontare come si era accorto delle fiamme e come aveva fatto per salvare la Z'a Tegònia. - Questo ragazzo è la nostra buona sorte, - diceva massaio Turi alla moglie. - Senza di lui, a quest'ora, saremmo quasi all'elemosina, se pur saremmo vivi! E si asciugava le lagrime.

Milano in ombra - Abissi Plebi

662952
Corio, Ludovico 1 occorrenze

I materiali, quando saranno abbattuti a terra, non si distingueranno affatto dai detriti che oggi li circondano. Non sono che delle assicelle mezzo ammuffite, del cartone spalmato di bitume della terra, del traliccio da imballaggio, di quanto la fortuna feconda fa capitare nelle mani del Krumiro. Egli si rannicchia sotto questo ammasso di rimasugli, colla sua famiglia, se ne ha, oppure coi suoi conigli e può dire: Io sono in casa mia. La sua casa non è confortevole più della camera d'un locatario del quartiere Doré. Essa non è più grande, nè più illuminata nè più difesa contro i torrenti, che cadono dal cielo, e contro quelli che in tempo d'uragano scorrono davanti alla porta. Essa non è abbastanza solida: capita talvolta di cadere addosso al suo proprietario, che la rialza o la rifà all'indomani. Siccome all'interno della stamberga vi è una specie di cucina, così questa spesso è piena d'un fumo denso, nauseabondo per la natura dei combustibili che là dentro vi si bruciano. Certi Krumiri passano là le loro giornate, poichè non hanno tutti delle professioni ambulanti, e in mezzo a loro ve ne sono molti, che cominciano le proprie escursioni al cadere della notte e le terminano all'aurora. Quasi tutti hanno davanti alla rispettiva casa un giardino. Invano però vi cercheresti o alberi, o arbusti, o fiori, o legumi; non vi si trova neppure un'umile zolla erbosa. Siccome l'uso. dei cessi è sconosciuto nel quartiere dei Krumiri, e siccome vi sono delle specie di fogne e dei canaletti di scolo, così il suolo dei giardini come quello della via riesce un composto d'escrementi, di residui senza nome, di schifezze d'ogni sorta, emergenti da un pantano fetido. Tali, sovrapposizioni successive, alzando continuamente il suolo dei giardini o dei cortiletti, fa si che il suolo del pian terreno è d'altrettanto più basso e non tarda, grazie alla vecchiezza e all' insufficienza delle porte, a trasformarsi in vera cloaca. Gli abitanti della città dolente hanno discreto viso alla sera, quando partono alla conquista del mondo, colla bisaccia sulle spalle, la loro lancia in una mano e la lanterna nell'altra. Ma è un triste spettacolo vederli rientrare come ombre ai primi albori del giorno, cogli occhi socchiudentisi , le ginocchia tremanti, il petto anelante , per spiluccare le sozzure riportate, in mezzo alle sozzure che li aspettano e colle quali si direbbe eh'essi vanno a confondersi. E questi Krumiri sono Parigini, sono cittadini, elettori ed eleggibili. Tra costoro vi sono uomini rispettabili per la loro triste sorte, e per gli sforzi che fanno per lottare contr'essa. Né Haussmann, nè i suoi successori non hanno certo impiegato il bilancio della città ad aprir per loro le vie, a selciarle, a fornirle di marciapiedi, a scavare nel sottosuolo dei tubi di scolamento, nè li hanno fatti approfittare delle scoperte di Jablochkoff. Quando alcuno si arrischia la notte a recarsi nei loro paraggi, si trova piombato nell'oscurità la più completa. Gli stessi guardiani della pace che girano attorno al quartiere dei Krumiri, la guardano da lontano, come una terra sconosciuta e misteriosa, nè si curano di porvi il piede. Del resto i Krumiri sono d'indole pacifica; sono troppo stanchi per aver voglia di litigare. Essi non pagano imposte; pagano solamente un tributo al loro feudatario, se così è lecito chiamare il proprietario del suolo. Questo proprietario non è un personaggio di mediocre importanza, poichè è nè più nè meno che l'amministrazione generale de l'Assistance publique a Parigi. Chi ha richiamata l'attenzione dell'autorità politica sopra l'esistenza dei Krumiri in Parigi fu il proprietario di un grazioso palazzino, costrutto per l'appunto sui confini del quartiere dei Krumiri. Ne è stata sporta all'autorità querela o protesta il giorno 8 ottobre 1881. Essa fu immediatamente comunicata all'ingegnere ordinario ed all'ingegnere in capo del servizio stradale, che ne hanno fatto l'uno e l'altro oggetto d'un rapporto. Nessuno quindi può addurre a propria scusa l'ignoranza. Ecco come s'esprime l'ingegnere ordinario: " Il signor X... passaggio Doré N.. . si lagna perchè l'amministrazione dell'Assistance publique abbia lasciato fabbricare sopra un terreno, ch'essa possiede tra la piazza Pinel e la via Jenner, una specie di quartiere composto di capanne e di case mal costrutte senza scoli per le acque, senza latrine, e che sarà tale, per le sue tristi condizioni igieniche, da creare, al momento del maggior caldo, un vero pericolo per la salute pubblica. " La condizione tratteggiata dal signor X... è sfortunatamente esatta, e noi possiamo ancora aggiungere che la sua descrizione resta molto al disotto dell'impressione che abbiamo provata, quando abbiamo visitato quel quartiere. S'immagini un terreno di trenta metri di larghezza sopra cento cinquanta circa di lunghezza, inclinato verso la rue Jenner ma senza scolo d'acqua verso questa via. In mezzo a questo terreno, vi è una strada in terra grassa, molle alla minima pioggia e resa infetta dai detriti e dalle deiezioni d'ogni specie che vi si sono incorporate. Lungo questa strada, delle capanne o delle baracche costrutte con vecchi materiali, con stoie, con assicelle, con tutto ciò che l'ingegnosità della più pungente miseria può raccogliere e comporre insieme per difendersi contro le intemperie delle stagioni. Presso alcuni di questi ricoveri, una fossa in terra, qualche volta una botte sfondata nel suolo, serve di cesso. Un po' dappertutto lordure, materie fecali, rimasugli d'ogni sorta ... Si legga ora, e si mediti l'avviso dell'ingegnere in capo. I funzionarii pubblici, l'amministrazione stessa de l'Assistance publique che noi non pensiamo neppure a trarre in campo, possono essere vincolati dalla legge; ma i poteri pubblici sono padroni di modificare la legge, e noi presentiamo loro questo dilemma: Se la legge basta, applicarla; se essa non basta, rifarla. Ecco l'avviso dell'ingegnere in capo: La condizione già orribile del rione Doré s'è aggravata per la vicinanza del quartiere dei Krumiri, stabilito sopra un grande terreno appartenente all'Assistance publique il che dà luogo ad una questione importante. Secondo l'Assistance publique una parte dei suoi terreni non può essere venduta. Questa amministrazione si limita ad affittarli, il più spesso senza canone serio, a prezzo vile. I locatarii subaffittano alla loro volta a povera gente, che innalza sopra questi terreni delle costruzioni sordide, le quali sono fabbriche di febbri tifoidee È una disgrazia per una via la vicinanza dei terreni dell'Assistance publique in queste condizioni. Non ci spetta indicare il rimedio: additiamo il male. L'Assistance publique possiede a Parigi molti terreni poco o male utilizzati. Sarebbe desiderabile che questi terreni fossero venduti, quando sono allo stato di piccole porzioni isolate; si potrebbe così innalzarvi delle costruzioni salubri in luogo di baracche spaventevoli che vi si stabiliscono contro tutte le regole dell'igiene e della salubrità fisica e morale. Vi è specialmente sul punto indicato delle vere stamberghe, le quali producono una certa impressione, quando si pensa, che sono fatte colla complicità apparente d'una amministrazione, che dipende dalla prefettura di polizia, mentre questa s'adopera con grandi sforzi ad assicurare la sanità generale e particolare. Che potremmo noi aggiungere a queste parole? Il signor Du Mesnil descrive una per una, le trenta baracche che compongono il quartiere dei Krumiri. Esse sono, dice egli, separate da una strada di terra fangosa, nella quale si sprofonda fino alla nocca del piede; questa strada è sparsa di larghe pozze di una fanghiglia nerastra e fetente. È insomma una cloaca a cielo aperto. E più innanzi aggiunge: Se alcuni casi di febbre tifoidea apparissero nel quartiere, sarebbe impossibile, cogli andamenti dei suoi abitanti, di prevenire le stragi, che le malattie menerebbero tra questa popolazione, nella quale la resistenza vitale è considerevolmente diminuita dalle privazioni e dall'abitare in questi orribili stambugi. Tutti gli esseri umani, che vi risiedono, presentano i caratteri di una decadenza fisica molto avanzata; i fanciulli vi sono pallidi, macilenti, scrofolosi; gli uomini e le donne invecchiati innanzi tempo. In una di queste case il padre e un fanciullo sono malati in letto, e qual letto! in un'altra il marito è all'ospitale, e la donna è in casa sola con un fanciullo infermiccio; più in là vi è una casa vuota, il fanciullo è in prigione la madre è morta di crepacuore. Se l'Assistance publique dice più oltre il signor Du Mesnil, volesse darsi la briga di creare degli ammalati per mantenere attivi i suoi servizii ospitalieri, essa non potrebbe agire diversamente. Nel contratto fatto col principale locatario, l'amministrazione s'è riservato il diritto di rientrare nel possesso del terreno prevenendolo sei settimane prima. Essa può dunque far sparire queste nefande costruzioni. Il farà, così dice, in ottobre, cioè dopo i grandi calori, dopo il pericolo. Ecco quanto essa ci promette per rassicurarci. L'operazione è difficilissima, e fu già tentata indarno una volta. Questi poveri sventurati hanno gridato, come dei naufraghi, ai quali si volesse strappare l'ultima tavola di salvezza, la trave che li sostiene galleggianti sulle acque. I Krumiri hanno gridato ad una voce: Dove andremo noi? Ecco il problema.

Pagina 85

Versione elettronica di testi relativi al periodo 800 - 900 Donna Folgore

663941
Faldella, Giovanni 2 occorrenze

Ma oltre al salvare i virgulti umani, un giorno egli pensò ai rami e ai tronchi abbattuti, dispersi o putrescenti. Visitando una fabbrica a Cossila biellese, vide che di stracci abbominevoli raccattati dai bassifondi di Napoli, dalle cantine di Londra e persino dagli immondezzai di America si formava una virginea bambagia e si filavano tappeti da rallegrare l'immaginazione dell'Oriente. E così non si potrà pure fare del ciarpame umano? Come di cavalieri macchiati e d'avventurieri scampaforche si formano terribili legioni straniere in sussidio degli eserciti europei, così la civiltà religiosa potrebbe redimere i caduti ostaggi del vizio. Ma all'alta impresa occorre il nerbo di ogni guerra: il denaro. Il denaro, osservava il canonico Puerperio pieno di riconoscenza mortificata conversando con Suora Crocifissa, il denaro non manca mai alla virtù redentrice, profluendo eziandio dalle sorgenti del vizio pentito. Senza peccati non vi sarebbero pentimenti, senza pentimenti non vi sarebbero riparazioni. Da una parte generali o presidenti acciaccati, che nella loro irreflessiva gioventù tradirono a diecine serve e padrone, crestaie e signorine, dall'altra parte venerande patrizie o banchiere, la cui focosa inesperienza puerile fu forse abbassata da palafrenieri, e la cui pompa matronale ebbe un dizionario biografico di amanti, tutte le peccatrici e tutti i peccatori di alto bordo cercano di mettere in pace la loro garrula coscienza, facendo cospicue elargizioni alle opere pie. Per cui la generosità femminile ( generosità nel senso dell'on. Morelli) non serve soltanto ad ottenere impieghi, secondo lo scherzo della burocrazia pontificia: Mater dat, filia dat, uxor dat, soror dat; propterea quod ille missus est in Datem (nella Dateria apostolica). Ma la generosità femminile serve pure ad innalzare pie opere di virtù. Ah! (con un profondo sospiro soggiungeva il canonico Puerperio). Noi ci siamo consacrati alla Purità ... E dobbiamo domandare l'obolo ... come sapone di chi sa quante macchie ... Via! Mettiamoci in campagna. * Sette ! * le rispose con un monastico pattone sulla schiena Suora Crocifissa, arrubinando il bell'ovale del virginio pallore. E si misero ambidue in campagna. Sulla sepoltura di una città, che nei tempi etruschi e romani si meritò il nome di Industris, si screpola un gramo inoperoso villaggio, che con il nome di Passabiago scivola dai margini collinosi del Basso Monferrato alla sponda destra del Po. In una valletta storta e profonda, quasi inesplorata come una foresta vergine, esisteva un rudere preziosissimo di antichità cristiana; un tempietto, la cui costruzione si fa risalire a trecento anni dalla natività di Gesù Cristo. Lo si dice fondato da San Mauro. Subì incursioni di saraceni. Un mozzicone di iscrizione scalfita nella vecchia pietra " XI Kal. Nov. Rolandus" , ed una vaga tradizione lasciano supporre una visita di Orlando innamorato, che poscia ritornò furioso a ricuperarvi il senno smarrito. Napoleone I vi sorprese una lauta badia di Cistercensi, che facevano bollire i capponi nel vino bianco, e mandavano i vitelli a tuffare un istante nel Po per ripescarli e mangiarseli nei giorni di magro come pesci. L'imperatore còrso abolì la badia, disperse i padri badiali, e ne donò terreno e fabbricati a un brioso maresciallo Bonnelane, che li giocò e perdette a tarocchi. Nella restaurazione politica, si restituì il convento in più modesti costumi. Il ministro Urbano Rattazzi, coul Rataz, fieul d'Cain, fratel d'Caiffas, sulle zucche incapucciate a l'a dait un famos crep *; onde il padre guardiano poté intonare, secondo la lepida canzone piemontese del Brofferio: * Bruta neuva * orate frates * Bruta neuva per dabon. * Babilonys impii patres * portu 'l Diau an procession . In quella nuova soppressione di Conventi venne pure colpito il Convento di Sant'Oblito a Passabiago, Sant'Oblito, forse un santo inesistente, in cui si personificò per eufemismo o trapasso popolare l'originale Sant'Oblio. I fabbricati e i terreni vennero comperati all'asta pubblica dalla solerte ditta Israelitica Salomon Todros e Segre, felice acquisitrice di beni ecclesiastici in blocco, e rivenditrice al minuto. Ma la Ditta trovò insolite difficoltà a disfarsi di quei beni, anche offrendoli spezzati in piccoli lotti con dilazioni straordinarie al pagamento. Tanta era la diserzione e l'apatia dei capitali, che regnava loro intorno. La mania litigiosa, l'afflizione della crittogama e della peronospera, la testarderia del così faceva mio padre e il conseguente assoluto misoneismo avevano congiurato per formare un presente contradditorio, quasi ingiurioso all'antica nomea di Industris. La moderna Passabiago pareva la mummia di un rospo. Uno sparpaglio di case scrostate o screpolate o non finite; poggiuoli, che aspettano da anni ed anni la ringhiera; modiglioni, che si protendono inutili per ricevere la pietra di un balcone, che mai non viene. Ignorati o respinti i concimi artificiali; * una voluttà di andare a dormire, rimandando ogni cosa al Die Domani; una assoluta mancanza di volontà, niuna prontezza, fuorché nel litigare. In fondo della valletta giaceva quasi sepolta dai rovi e dalle rose canine la gemma della chiesetta. Ai due lati si ergevano in secolare contrasto storico e tellurico i due poggi dominati dalle rispettive famiglie Rotellana e Pressendina, che dalle spaccature e feritoie delle loro bicocche diroccate ancora si lanciavano freccie di cartabollata. Oramai alle due famiglie di litiganti cronici non rimanevano più che queste due risorse; * per l'una, la Rotellana, pattuire la conversione dei numerosi componenti al protestantesimo, con una sfondolata società di propaganda londinese, che pagava le conversioni in contanti. Per l'altra famiglia, la Pressendina, rimaneva il rinfranco di spazzare il sepolcreto avito nel Cimitero di Torino delle ossa dei Maggiori, ammucchiandole in un angolo chiuso della cripta, e vendere il restante spazio a un milionario costruttore di strade ferrate. Si aggiunse la complicazione di un amore improvviso in tanto odio secolare. L'unico figlio dei Pressendina, l'avvocatino Oreste si innamorò perdutamente di Onorina, la primogenita dei Rotellana, che perdutamente gli corrispose; onde era minacciata una nuova tragedia di Giulietta e Romeo. Invece il dramma ebbe lieto fine come negli amanti di Castello e Cascina di Roberto Sacchetti. Un santone, dei soppressi Tornaboni, padre Funari, venuto in concetto di santità per le sue reliquie (fra cui due capelli della Madonna) per le sue astinenze e per il suo moto perpetuo, era una grande provvidenza per tutti, e un grande specialista nel ricondurre le mogli fuggitive ai mariti spasimanti e maritare i rampolli di famiglie discordissime. L'avvocatino Pressendina e tota Rotellana si erano rivolti a lui taumaturgo; ed egli per maggiore sicurezza aveva richiesto il superiore intervento del Canonico Giunipero e di Suora Crocifissa. La signorina si era inginocchiata davanti al Canonico, l'avvocatino davanti alla Suora. E canonico, suora, e taumaturgo avevano combinato un miracoloso sopralluogo. * Iesus! * esclamarono in un duo la suora e il Canonico, quando mirarono sotto i rovi e le rose canine la facciata della Chiesa di Sant'Oblito. * Iesus! * tenne bordone padre Funari, completando il trio. * Questa facciata pare un incastro per un rivo di devozione, che conduce al Paradiso * osservò Suor Crocifissa. * Dovrebbe essere dichiarato monumento Nazionale! * asseverò il canonico. * Me ne occuperò io, * promise padre Funari * parlandone al commendatore Itaglia, Ministro dell'Istruzione Pubblica, e a un mio amico usciere omnipotente al Ministero dell'Interno. Fecero un viaggio e due servizii. Non solo combinarono il pateracchio tra l'avvocatino Pressendina e tota Rotellana, ma gittarono le basi della florida Casa del Sant'Oblio. Comperarono a buon prezzo dalla Ditta Israelitica quella gemma di antichità cristiana, e i circostanti terreni. Tacitando e mandando a spasso i creditori delle oberate famiglie Pressendina e Rotellana, i quali non isperavano oramai più niente dai giudizii di graduatoria, si impossessarono dei due poggi laterali coi relativi versanti, si può dire per un tozzo di pane. Di vero non vi era mai stato un candidato così ambizioso, così chimerico e così scemo di piattaforme elettorali, che avesse proposto un tracciato ferroviario per quella valletta abbandonata dagli uomini e da Dio. L'avvocato Pressendina si ebbe una cattedra di diritti civili in un istituto tecnico di Torino, donde, come è noto, salì al Consiglio di Stato. La famiglia Rotellana inoculata di nuove cognizioni rimase preposta all'agenzia agraria della rinnovata Casa del Santo Oblio. La Chiesa ebbe un generoso restauratore in un patrizio eccellente architetto archeologo. La facciata splendette come una paratoia di rivo conducente al Paradiso; nell'interno le gemine colonne apparveno gambe di santi onestate di brache luminose. La vasta possidenza venne circondata da un muraglione rivestito di edera, lungo come una cinta daziaria, destinato, come una muraglia della Cina a separare il Santo Oblio dal bulicame del mondo restante. Per evitare gli incameramenti di Rattazzi e dei ministri suoi successori la proprietà venne acquistata privatamente in testa del Canonico Giunipero. Sovventori furono principi plebiscitarii e pretendenti a ristorazione reazionaria, squarquoie arricchitesi nel commercio della carne umana e candide colombe della nobiltà e dell'alta borghesia. Avevano largamente concorso il comm. Vispi droghiere emerito, l'emerito macellaio Baciccia Calzaretta, il marchese Stefanina, i conti De Ritz padre e figlio, e il barone Rollone Svolazzini, non senza ragione di imbeccata personale. Il Canonico Giunipero nell'estasi della riuscita impresa, ebbe un'ossessione immaginosa, come la visita tentatrice del Diavolo. * Sta bene! * egli immaginò! * Sta bene in fondo alla valletta attaccato alla Chiesa il nido del Santo Oblio per le spericolate e le pericolanti salve dai morsi e dai rimorsi del mondo. * Ma là in alto sui due poggi vorrei giganti fronteggianti due ganglii virili. Sopra l'uno vorrei raccogliere uomini maturi, vecchi cadenti, sbattuti e rialzati per la Santa Fede; sopra l'altro vorrei raccogliere un reggimento di giovani operosi devoti alla santa forza! Ora che la soppressione degli ordini religiosi necessita il rifarsi, rinverginarsi del monachismo insito perpetuamente alla natura e ai destini dell'umanità, vorrei risuscitare i frati gramieri avamposti dell'agricoltura intensiva, vorrei risuscitare gli Umiliati pionieri dell'industria tessile e tintoria. * Vorrei in più, * e qui l'immaginazione vinceva le redini al canonico ... * Vorrei stazioni taurine di eccellenti riproduttori. Come se il diavolo gli ridesse sfolgorando in faccia, egli fantasticava: * L'imbecille civiltà ha creduto distruggere un'impostura nociva, abolendo dei conventi; invece ha distrutto utili verità, che fruttificavano sotto l'ipocrisia apparente ... Oh! la bella popolazione, che cresceva intorno ai conventi! Alla mia Laghetto da Po si ammiravano ninfe delle risaie, che le migliori non avevano potuto dipingere i classici pittori della Grecia, e ciò perché v'erano fratacchioni ben pasciuti di corpo e di spirito a benedire con il loro amore le contadine: essi nel bacio recavano non solo un vitale nutrimento, ma portavano un soffio di canti, studî e sogni sublimi, come un intreccio raffaellesco di arcangeli e madonne. * Erano depositi di stalloni umani per una razionale stirpicoltura e col celibato religioso offrivano una buona soluzione al problema di Malthus pauroso, che le popolazioni aumentino in proporzione geometrica, mentre i mezzi di sussistenza crescono soltanto in ragione aritmetica. * Invece, ora, aboliti i conventi, lasciata la procreazione rurale soltanto ai mal nutriti fisicamente e intellettualmente, sparvero le ninfe delle risaie; e loro sottentrarono femmine verdognole dalle bocche di lucertola e di rana, facile preda, gaglioffe e terribili alleate dei galeotti sfruttatori ed impresarii del socialismo professionale. In quel punto entrò Suor Crocifissa solenne, pallida e pura, al pari di Santa Clara. Il canonico, come se avesse esposto a lei il discorso diabolico, le domandò: * Non è la mia una concezione dantesca? Suor Crocifissa, che mangiava poco o nulla di Dante ed adorava soltanto l'Immacolata Concezione, fece un viso di voluta ignoranza e rimprovero. Allora il canonico Puerperio, cioè Giunipero, si sentì calare le ali diaboliche dell'orgoglio e del rigoglio virile, e domandò a Dio perdono dei suoi peccati di immaginazione. Egli allora si dedicò unicamente alla nuova fondazione femminea del Santo Oblio. Le prime reclute furono una dozzina come gli apostoli, e primario agente di arruolamento fu il padre Funari. Passato il cancello, in cui i ghirigori del ferro battuto delineano curve di nuvole a bambagia d'angioli, si vede spaziare un prato, intersecato da redole di ghiaia minuta, che partono dal piedestallo di una Madonna Stellata, come raggi da una stella. La statua della Vergine Madre Divina lucente di ceramica bianca, ha sulla fronte una stella metallica di doratura raggiante. Porta due iscrizioni sui quadri del basamento. L'una: Ave, Maris Stella è il saluto dei naufraghi della vita, che si salvano in quella casa del Sant'Oblio. L'altra: Hujus domus regina significa quale sovrana devesi riconoscere dalle casigliane e dai visitatori. Personificazione viva della statua è la superiora Suor Crocifissa. Il suo ideale vivente ed attuoso appare più fulgido e più alto della stessa statua. Dal beato Calasanzio al Pretore Martini è provato che l'abilità di consolare ed avvincere beneficamente gli afflitti ed i derelitti è una prerogativa personale straordinaria; non si può insegnare con regole; perché varia secondo l'infinita varietà delle afflizioni e degli abbandoni. Unica efficacia è l'asseveranza di una irradiazione d'amore. * Tu orfanella, adunghiata, sputacchiata dalla matrigna, derubata dai costei drudi, non hai mai avuto un bacio rispettoso. Ed io ti bacio nel Divino Amore. * Bella sartina, tradita dal sottotenente, a cui credevi dedicare il cuore e la vita, mentre egli ti ha presa come un'appendice di camera mobiliata, come il sopracaffè del mattino, * vieni qui; ché la Madonna ti assegna nella sua casa un posto di eguaglianza umana e di fedeltà nell'amore Divino. * Zitelle e dame gonfie dal livore e corrose dalla gelosia, che è il reagente più torbido e più corrosivo della chimica psicologica, venite qua dentro; e troverete nelle pieghe del Manto di Maria Immacolata la più olezzante fiducia in Dio, che fa sperdere persino la memoria dei terribili sospetti, per cui afferravate come documenti di tradito amore finanche le carte destinate a fetidi recessi. Oh! ben lo disse il canonico Puerperio, cioè Giunipero. Anche nella mitologia vi erano simboli di verità, che qui si realizzano. * Qui in quel Rio "Lavatojo" abbiamo realmente il fiume Lete, che travolge, sperde la memoria di ogni male; e in quell'altro rivo "Ortolano" abbiamo realmente il fiume Eunoè che coltiva ed accresce la memoria di ogni bene. La immagine matura di Suor Crocifissa in mezzo al prato dirimpetto al cancello raffigura quella di una cruda bambina che erige una pertica invitando a posarvisi le libellule: "Signorine e signorone! Venite sul mio bastone" . Ma la bambina acchiappa le libellule per infilzare crudelmente una pagliuzza nella loro coda. Invece Suora Crocifissa offre a tutte le ferite, a tutte le offese del devoto femmineo sesso il balsamo, pregustazione del Paradiso. Ai disordini della materia umana niun riparo più sicuro, che un ordine spirituale, in cui si riflette umanamente un raggio di ordine divino. La creatura bersagliata dal delitto altrui o dalla propria passione ha perduto il contatto benefico con l'Universo creato. Può riacquistarlo in una comunità religiosa. Questo è il vero socialismo ideale, per cui con gli altri vantaggi sociali si moltiplica il tempo. Come è difficile per un individuo ed anche per una privata famiglia il fissare e mantenere un orario! La mancanza di zuccaro nel caffè o il male di denti d'una sorella possono assorbire o fare cadere nel nulla, come per un giuoco di mattoni, tutte le ore della mattinata preziosa al lavoro. Invece in una comunità governa inamovibile l'orologio di precisione. Quanto possa fare uno studioso libero dalle cure domestiche, lo riconobbe il Taine deplorando lo strazio e lo sperpero delle corporazioni religiose fatto dalla Rivoluzione francese. Simile beneficio si può riconoscere per qualsiasi lavoro. Alle cinque del mattino la campanella sveglia per la preghiera. Il cronometro distribuisce il tempo esatto per la religione, lo studio, il lavoro, e la ricreazione; dalla Santa Messa, alla grammatica, all'aritmetica, alla inaffiatura dei fiori, alla potatura, all'innesto, alla composizione italiana, al saggio di lingue straniere, alle refezioni, alla raccolta dei frutti, alla macchina da cucire, al telaio Iacquart, al lawn tennis e al missisippì ecc. ecc. Nel nitore di un paesaggio romito ed aprico, tra Terra e Cielo, Dio e Natura, studio, lavoro, ed Amore Divino danno unicamente la pace umana. Questa sentirono, dopo l'abbraccio e il bacio di Suor Crocifissa le prime ricoverate, che non sospettarono neppure di essere recluse. Una figliastra ritrovò la madre ideale; una tradita ritrovò fedeltà d'amor celeste, nove altre vittime di gelosie o martiri di persecuzioni entrarono in quel porto della rassegnazione generosa e persuasiva, persuadendosi che la partecipazione accresce l'amore e la vera contentezza risiede nel volere di Dio. Notevoli tra le prime reclute le soprannominate Bimblana e Gibigianna. Bimblana nata ottava da una famiglia di schiavandari ad Ypsilon Novarese era stata battezzata coi nomi di Ottavia Rosa Antonia. Era cresciuta come un rosolaccio; di bella presenza, era mandata a servire in città, essendo già superflua la precedente figliuolanza per la schiavenza in campagna. Aggirandosi nel mercato degli erbaggi veniva ammirata ed amata per le sue forme slanciate e scultorie e per il suo andamento di maternità anticipata, che ai bambini e alle bambine la faceva parere una superiora amorevolissima. Suo gesto favorito era un ritmico allargare di braccia e scotimento di mani, con cui si direbbe avesse voluto raccogliere e sollevare in Paradiso un asilo infantile. Per quella sua andatura ondeggiante, quasi cascante di noncuranza estatica, aveva avuto il nomignolo popolare di Bimblana. Un ardito scultore l'aveva voluta per sua modella. Una guardia carceraria le diede prigioniero il suo cuore. Ma essa, senza riuscire ad amare nessuno, si lasciava amare quasi da tutti. La sua letteratura erano le avventure di Ol Carlin e la so dona a Milan , anche tradotte dal dialetto milanese al piemontese. Ma essa orgogliosa di aver appreso il meneghino, in modo da non disimpararlo più, realizzava pur troppo il distico originale: Te pacjria tuta * E mi me lassi pacià . Piegava la testa pudibonda, e lasciava fare e si lasciava baciare. Ottavia Rosa Antonia era on tocc da marcantoni da bon , che tirava i baci stagn . Non di rado aveva verificato nella vita i dialoghi del suo libro galeotto: * Sa gh'avii Carlin! * Sont scia ch'a va mangi coi eucc. A sii na gran bella forlana vidii ... ! Sanforment! * Lassem no Carlin! ... lassem no! Salveves mia col ... sentimento ... Essa aveva più docilità muta, che espressione di sentimento. Vittima dei capricci di fantasia, da cui sperava forse qualche tesoro del Caso era caduta d'una in altra disgrazia, fino a parere una bella e grossa mela fracida da buttare sul letamaio. Una notte la folata di giovani briganti esteti, che terrorizzano quella cittadina rurale, rimanendo impuniti, perché figli di avvocati o nipoti di canonici, con cui il deputato non vuole assolutamente disgustarsi, dopo avere ubbriacandosi fraternizzato con i garzoni da caffè e rotto il naso al busto del generale Garibaldi nei giardini pubblici, avevano attirato Bimblana sulla panca più scura del viale per godere in combutta il distico: * Bimblana! a va paci da sbalz ... mi * E vu paciem ... * E mi va paci * E mi me lassi pacià ... traduzione bestiale, note alla Spirito Losati, traduzione bestiale dell'angelico invito pronunziato dagli inquilini danteschi nella Stella Venere: Tutti sem presti al tuo piacer, perché di noi ti gioi. La lasciarono con le vesti oscenamente stracciate. Così turpemente abbandonata essa pianse a dirotto ... In quello stato miserabile non osava più presentarsi ai padroni e ai genitori. Voleva gettarsi nel Canale. Ma un filo di luce la salvò: la fama dei capelli della madonna, posseduti dal Santone padre Funari. Fece otto miglia a piedi per portarsi da lui; e fu condotta alla Casa del Santo Oblio. Vi era allora in visita apostolica il canonico Giunipero, il quale, veduta la rifugiata e sentitine i casi, appartossi nella libreria, si fregò gli occhi, come per un'aspra visione ed esclamò in un soliloquio silenzioso, che sarebbe stato forte, se pronunziato in un teatro filodrammatico di venerando seminario: * Manzoni! Manzoni! Dove hai conosciuto la tua immacolata ingenua Lucia Mondella? ... Oh! tipi di campagnuole oneste ed istruite offerte ad imitazione da Cesare Cantù e Felice Garelli! ... Perché, perché la verità è così diversa? Soltanto la musa stenografica, fotografica porca villana o villana sporca è la sincera interprete dell'anima femminile popolare, se non la salva, se non la purifica Religione. Con questa esclamazione in pectore Egli si curvò sull'inginocchiatojo a pregare per la salvezza dell'eterno femminino popolare. Nei primi giorni del suo ricovero Bimblana si sentì non solo salva, ma felice. Ravvisando un godimento senza peccato, sentendosi amata, senza essere goduta, né sprezzata né vituperata, confessò ingenuamente: * Non sono mai stata così bene a questo mondo. Mi pare di essere in un paradiso terrestre. Di meno facile contentatura si palesò Gibigianna, che irruppe nel Santo Oblio come una meteora annunziatoria di fulmine maggiore. Intanto dessa la bella Gibigianna faceva notevole riscontro alla bella Bimblana. Questa purificava le sue meneghinate; quella guardando nella lampada della chiesa rattizzava il fuoco errante dei suoi occhi e lo splendore vago dei suoi capelli, che le avevano fruttato il nomignolo fin da bambina. Come un raggio riflesso da un piccolo specchio, che si muova o si rompa, coagula sopra una volta grummi di luce, che vanno e vengono con l'agitazione di uno staccio o setaccio, fenomeno, dai toscani detto occhibagliolo, la vegia dai piemontesi, e dai lombardi gibigianna , così era la biondezza di Lia Lei, una biondezza da traveggole. Si conformava a tale biondezza la grazia mobile del capo chino arieggiante alla filigrana pendula di argento dorato, che adorna la testa alle fattoresse lomelline. La piccola Gibigianna sarebbe riuscita una Vespina, una svelta ed onesta cameriera da commedia di Tommaso Gherardi Del Testa, se il padre non l'avesse menata agli stravizii. Il padre suo, Teodoro, tramviere, dopo parecchi mestieri ed uffici abbandonati, aveva fatto girare la testa alla maravigliosa signorina figliuola di un causidico da mandamento rurale, e se l'era sposata o piuttosto rubata. Con una faccia innamorativa da impostore aveva fatto sognare castelli in aria alla sposa; e l'aveva condotta in una soffitta. Ma egli si ripagava delle strettezze domestiche nei pubblici esercizii. Questi gli parevano la vendetta sociale dei proletarii, che nei caffè e nelle trattorie si trovavano eguagliati da una illusione di Corte, facendosi servire da camerieri in coda di rondine come diplomatici. Teodoro aveva educato, addomesticato all'ubbriacatura dei pubblici esercizii non solo la moglie maravigliosa, ma altresì la piccola innocente Gibigianna. Gli esercenti, anche socialisti, non sono gratuiti; e adottano il cartello dei vecchi osti: oggi non si fa credito, domani sì. Teodoro il tramviere , con quel bel titolo e con la posa attraente da teatro diurno, aveva sempre difficile il quarto d'ora di Rabelais, cioè quello di pagare il conto; ma riusciva a superare le difficoltà, facendo la corte alla padrona con occhi lampeggianti, o chiudendo un occhio, se il padrone faceva la corte alla maravigliosa di lui metà . Ognora egli aveva dimenticato il borsellino a casa; o non aveva voluto uscire con un biglietto di grosso taglio; ed ordinava che si registrasse il suo debito. Ma una sera, in cui Teodoro accompagnato dalla inseparabile mogliera e figliuola dopo avere preso il caffè e sopracaffè, aveva ordinato una bottiglia di barolo, e poi ancora il ponce, il trattore del Cannon d'oro dichiarò a se stesso: basta!; e poi venne a proclamarlo davanti alla triade, che si indugiava a libare nei lieti calici, mentre gli altri avventori avevano già lasciato l'esercizio. L'esercente del Cannon d'oro si era offeso, accorgendosi, che Teodoro in una momentanea uscita gli aveva abbracciata l'aurea moglie intronizzata al banco. Della moglie di Teodoro egli non sapeva che farne, egli che possedeva una cannonessa d'oro. Quindi: * Alle strette! Teodoro, sono stanco di riempire il mio gran libro dei tuoi puffi . Stassera, o mi paghi; o ti rinchiudo in questa stanza, e faccio chiamare le guardie vicine, perché arrestino te come un gargagnan e tua moglie come una Venere Vagabonda. * E la piccina? * domandò Teodoro. * La piccina * rispose il trattore, sarà condotta dalla Questura in qualche ospizio, dove starà meglio che a casa tua. Teodoro si era rivolto indarno a fiammeggiare uno sguardo per implorare la padrona che non si lasciava vedere. * Discese invano uno sguardo sulla propria moglie per illustrarne le offerentisi bellezze. Addolcito dal vino, egli aveva più che le prepotenze e le viltà del gargagnan , l'amenità del brillo. * O cannon d'oro! Che credi di guadagnarci? Io non ho in tasca un cito . I gioielli, che porta mia moglie, sono di princisbecco. Il trattore del Cannon d'oro con uno sguardo d'acciaio da banchiere crudele aveva avvistato che non erano di princisbecco gli orecchini di Gibigianna. * E questi qui? * Questi sono un regalo del nonno procuratore, che sarebbe capace di mandarti in galera, se tu li toccassi. * Non temo la galera. Dammi alla buona in pegno questi orecchini. Ed io, anziché molestarti e minacciarti, faccio portare due altre bottiglie di barolo stravecchio ch'a rangiu lo stomi e per addolcirti ancora più la bocca alla fine ti darò un passito di Caluso, che non hanno i Cardinali ... E berremo anche in compagnia della mia signora moglie, che farò venire per te ... Vieni qua, Madama, Madamona Catlonessa! Fu la stessa Cannonessa d'oro , che tolse gli orecchini del nonno a Gibigianna, dei quali padre e madre non furono inconsolabili; Gibigianna sì. La fanciulla, dopo una notte fremente, ebbe alla mattina da una compagna di scuola un filo di salvezza; andò in una sacrestia, si confessò a un prete; e venne anch'essa destinata al Sant'Oblio con il consenso dei genitori, ai quali venne regalata una cesta di bottiglie. Onde lo spensierato Teodoro, quando gli domandavano della figlia scomparsa, rispondeva: * Sta bene al caldo! Me la sono bevuta. * * * Qualche volta il protettore canonico Giunipero e la superiora Suora Crocifissa, contemplando quell'onda di vivezza giovanile, che corrispondeva ai raggi del sole, sentivano il rammarico di imprigionarla là dentro fuori della vita mondana. Ma loro si affacciavano i fantasmi dei persecutori dell'innocenza: faccie torbide, ferine, culari e patibolari. Via da loro gli angeli della terra. Bisogna sottrarre dall'empietà, salvare gli angeli della terra. Gli è vero, che bisognava ripulire le ali di questi angeli da molte brutture. * Bisogna convenirne, mia cara, mia santa Suor Crocifissa. Un presidente nord-americano ci chiamerebbe muck rakers , frugatori di fango. Però anche il fimo giova alla buona semente, che per noi è la Parola di Dio. Proseguiamo senza ribrezzo nell'opera buona e necessaria. Il materialismo moderno troppo sequestra l'Umanità dalle speranze celesti, fondandosi sull'ignoranza precisa dei Cieli, che pure indubbiamente esistono. Noi purghiamo le anime avvelenate, noi preserviamo le creature vergini, pascendole del più puro azzurro. I nostri sono serbatoi e traiettorie, che mantengono il contatto, sia pure forzato, dell'Umano con il Divino. Il Canonico Giunipero e Suora Crocifissa intrecciando le mani alzate come in una figura di ballo celestiale, formavano un arco mistico, sotto cui invitavano a passare tutte le minacciate od offese da brutali persecutori, tutte le guaste dalla corruzione, tutte le tocche dalla follia contemporanea. * Venite, passate alla salvezza del regno di Dio e della Madre Divina. Vieni Regina delle Gambe, rappresentante delle Risaie, ai tempi delle laute abbazie. Vieni Fiorina Lucy, vieni Tilde, vieni Maria, vieni Eugenia, vieni bastarda, vieni, purissima. Vieni anche tu, conferenziera socialista, anarchica, Solima Del Lago, che i curati e i sacrestani chiamano limo del lago. Vieni a zampillare fresca, purgata dalla contemplazione delle verità divine. E vieni nell'abbraccio della Croce, o Gilda, nell'abbraccio della più bella croce, che possa piallare, intarsiare e scolpire il buono e curvo Simone tuo padre. Non aveva costato molto al prefetto emerito barone Rollone Svolazzini il sequestrare babbo Simone e relativa figlia, a fine di preservare il proprio Svembaldo allontanato. Il falegname Simone era un'anima di vassallaggio medievale; aveva insita nel sangue la fedeltà alla Chiesa e all'Impero rappresentato dal nobile barone. Era pure medievale nella sua abilità tecnica. Invece del macchinario a vapore per l'impazienza moderna, egli aveva la curosa lentezza della commettitura e dell'intarsio manuale. Pella concorrenza del giorno e dell'ora egli sarebbe rimasto senza ordinatori; sarebbe languito nell'abbandono ad intagliarsi la cassa da morto. Di questa prospettiva si rese presto capace l'angusta e rispettosa mentalità dello stipettajo rurale, a cui parve una Terra promessa dalla Sacra Bibbia la dimora e la pensione vitalizia al Santo Oblio. Con la minuzia consentita dalla massima larghezza del tempo, senza disturbo di sollecitazioni, egli finirebbe armadii di sacrestia, cassepanche da sancta sanctorum , stalli da coro, cofani da Suore; incrosterebbe di fiori lignei, sottili come carta, la nicchia della Madonna ... Oh se potesse lui fabbricare la custodia per le ali dell'Angelo Custode! Intanto egli era relativamente felice, perché la sua Gilda sotto i suoi occhi paterni sarebbe custodita, sarebbe riparata dalle insidie, dalle seduzioni e dalle pretese sproporzionate del mondo. Gilda si mostrò restia dinnanzi alla facile contentatura del papà; oppose lacrime e lacrime; ed entrò al Sant'Oblio irrorata di lacrime, come un passerotto bagnato dalla pioggia, il quale si rincantucciasse sprofondandosi sotto una gronda. Volgeva gli occhi spauriti, come se spiasse tra i fili della gabbia un'evasione. Suora Crocifissa sentiva difficoltà ad ammansarla, asciugarla, e intepidirla del suo fuoco sacro. E temeva, che l'operazione del prosciugamento venisse compita invece da un terribile vento, che pur si aspettava. Il vento della Contessa De Ritz ... Sorridendo con ironia celeste il canonico Giunipero aveva notato, che la Contessa De Ritz era destinata al Santo Oblio dal Clericalismo e dalla Massoneria. Ma pigliarla quella contessa! Qui stava il busillis ... Si erano tese le ragne in Europa e nell'Asia Minore. Fino allora era stato come tendere la rete per acchiappare un vento. Le informazioni secrete dei gesuiti e della Massoneria recavano avventure strabilianti. C'erano di mezzo corone di re e corone da rosario, scimitarre, pugnali e bisturì. Le informazioni massoniche facevano capo principalmente al conte De Ritz; e le informazioni gesuitiche al Comm. Vispi padre della Contessa. Ma gli stimoli e i reagenti, e le direttive, e le curve strategiche si intrecciavano, quando non si intralciavano. Ostinate forze congiuravano ad attrappare finalmente quell'indomita potenza della bellezza e del capriccio femminile. * Ci riusciranno? Ci riusciremo? * si domandavano il canonico Giunipero e Suor Crocifissa; e le loro stesse persone diventavano due punti interrogativi ripiegati tra il desiderio e il terrore. Che beneficio sarebbe salvare quell'anima: un beneficio grande per l'anima da salvarsi, e un beneficio ancora più grande per le innumerevoli vittime, di cui è ancora capace quella furia allettatrice di pervertimenti! Ma che pericolo per il Santo Oblio! Alle reminiscenze classiche del Canonico Giunipero pareva, che neppure Eolo sarebbe capace di incarcerare quel vento di lussuria. E con un videmibus infra si chiudeva la longanime aspettativa del Santo Oblio.

Questi però non poté accordarvi il consueto epigramma del Baratta, morto allora all'Ospedale Mauriziano per la quercia degli abbattuti viali pubblici cadutagli addosso, morto cantando: Qual tardo premio del mio lungo canto Un ramoscel d'allor sperai soltanto, Ma la città che il toro ha per bandiera M'incoronò con una quercia intera. Ecco con la scorta sincrona dell'appendicista giudiziario l'arringa dell'avv. Gioiazza: " La Società è colpevole di produrre e ridurre due esseri antagonisti, di cui l'uno richiede inesorabilmente la propria soppressione dall'altro. Con la pretesa scienza, con gli esempi non meno autorevoli, che deleterii, la Società presente sottrae all'umanità il sentimento religioso, il migliore vincolo, che legava gli esseri verso un ideale sublime di amore e virtù. Vi sono giuristi che ammettono il misticismo tutto al più, come coefficiente, circostanza attenuante, se non discriminante del reato. Un cattivo Clero meccanizzato nella tradizione intransigente di altri tempi, beffeggiando i più puri ideali moderni, incrudelendo contra i morti benemeriti e specialmente contra i martiri della Patria e della libertà, un cattivo Clero, per adoperare una frase di Gladstone, è divenuto negazione di Dio. Unica maestra, unica dispensiera di religione nella Società moderna è la madre, la divinità, che non conta atei. Se a Nerina fanciulla fosse rimasta la bella mammina, ad insegnarle il Vi adoro con le manine giunte, oh molto diversa e migliore sarebbe stata la sua trajettoria sociale! Invece sappiamo che la sua splendida mammina si spense nel darla alla luce. Sappiamo pure che la Maestra Genovieffa Garitti, prima di diventare signora Vispi, era un luminare nel corpo insegnante di Torino, e che ad essa l'accusato consacrò gli unici entusiasmi della sua giovinezza dedita per il resto al lavoro ed al commercio. Pertanto Nerina fu la risultante di una bellezza magistrale e di un entusiasmo sagace, nacque e crebbe con le maggiori potenze fisiologiche e psicologiche per esercitare una tirannia capricciosa. Quella fanciulla fu una tiranna domestica per eccellenza. La relativa compressione subita nel buon Educandato del Soccorso valse soltanto a temprarne e tenderne le forze per gli scatti maggiori. Ritornata in casa del babbo, fece di questo robusto gigante un debole pigmeo; e come aveva reso il babbo schiavo dei suoi capricci, così volle esercitare assolutamente il dominio capriccioso nei varii ambienti sociali fino all'abisso. La Società italiana, dopo le prime vittorie del Risorgimento dovuto in massima parte ai sacrifizii, si era fatta presto materialista gaudente, perdendo la spiritualità religiosa nei dissidii tra Chiesa e Stato. Perciò il tipo dell'eroina patriottica non era più assorbente. Non era ancora di moda fra di noi la dottoressa anglosassone di frigidità e operosità neutra, da terzo sesso di ape operaia. Tanto più lontano era il tipo ginnastico della spartana americanizzata, Fluffy Ruffles , la girl che impera graziosa ed onesta anche nello sport denudato della flirtation. Oh almeno fosse stata viva per lei la galanteria sovrana dei madrigali! Essa avrebbe costretto un poeta Voiture ad inneggiare alle sue calze, avrebbe eccitato un altro poeta ad immaginare che due rosignoli morissero di fascino per il canto, con cui essa accompagnava i suoi capricci per pianoforte. Sarebbe stata circuita in vita e cantata in morte da qualche vescovo di Arcadia. Al pari delle religiose di Port Royal sarebbe venuta su orgogliosa come un demone, ma pura come un angelo. Avrebbe serbato immacolate le nevi rosee del volto, fintanto che si fossero fuse tra le rughe di una vecchiaia intemerata. Ma i tempi non consentivano tale nobiltà e purità di forza e gentilezza. Nella preparazione del nuovo asilo di Romolo, nella nuova conquista di Roma, si affrettarono insieme con gli eroi ideali, non solo i ladri positivi, ma le Messaline lucratrici senza Lucrezia, ed i Cornelii senza virtuose Cornelie madri dei Gracchi." Con la frequenza dei richiami letterarii l'avv. Gioiazza dimostrava di essersi addottorato in lettere prima che in leggi. Egli seguitava divertendo e stupefacendo letterariamente la Corte, i Giurati, il pubblico, l'ufficiale giudiziario e i carabinieri, e lasciando assorto, impassibile l'accusato, che gremiva sogni, meditazioni e preghiere fatali sotto le ciglia chiuse. " Si potrebbe in qualche parte applicare alla De Ritz ciò che Swimburne applica alla regina Rosmunda, Clitennestra del Medio Evo, ricordante le imperatrici Romane, le quali un dì resero regale la colpa: imperatrice ognuna e ognuna per diritto di peccato prostituta. Ma come l'Italia a Roma per il dissidio religioso non poté trovare il suo perno morale, così la contessa Nerina diede al suo imperialismo erotico la circolazione viatoria, randagia. Essa ebbe gli attributi della Cavalleria errante di un Don Giovanni in gonnella, e di una signora Casanova di Seingalt. Essa volle divenire la superdonna, la regina zingara delle libertine. Come Don Giovanni giocava le donne alle carte, essa giocò gli amanti. Come Don Giovanni si provò a compilare un catalogo delle donne da lui sedotte e dei mariti da lui ingannati e riempitone un volumaccio in folio , lo riscontrò incompleto, così, quando ella avesse divisato noverare i suoi capricci amorosi e tessere l'elenco biografico dei suoi amanti per ordine alfabetico, avrebbe dovuto superare le forze spiegate dall'inclito e chiaro prof. Conte Angelo Degubernatis nei suoi copiosi dizionarii biografici del mondo letterario, artistico, scientifico e politico contemporaneo. Conscia della sua potentissima bellezza, una vera beltà di sogno, pire que belle (alla memoria tragicamente gioconda dell'oratore ritornavano forzosamente le dolcezze di Capri), essa deve avere persino sognato di obbligare il Papa ad ammogliarsi con lei. Ed era pur troppo una bellezza metuenda da tutti. Sul suo blasone poteva scrivere: Cave amantem , guardati se essa ti ama. Poteva paragonarsi alla Venere d'Ille, che amava consumare intera la sua preda.E ppure sì dolce risultava il prodigio della sua bellezza consumata e consumatrice, che penso possa applicarsi a lei l'ardita immagine del poeta Henri de Régnier, secondo cui Elena traghettante l'Acheronte è attesa sull'altra sponda da quanti morirono per lei. Invece di maledirla, con la bocca fioca la acclamano sempre bella." L'oratore si fermò quasi sudato di quella referenza poetica. Dopo breve pausa proseguì: " Ripigliamo freddamente, dolorosamente il filo del discorso. Io incolpo del vizio viaggiante, raggiante di Nerina il riflesso centrale di Roma peccatrice. Se Nerina attraversò la vita e il mondo, gettando fuoco di amore distruttivo nelle anime, figurando l'estasi devastatrice senza posa, l'aquila carnivora senza rimessione, essa corrisponde al focolare, capitale mondiale di cupidigie, della Roma liberata, ma rimasta con le corruttele di due immense civiltà, onde ebbe per degno organo la Cronaca bizantina del Sommaruga, né tutta la sua barbarie corrotta passò sotto le forche Caudine dello sbarbaro in parte tarlate dall'odioso errore. Come la Corte effeminata di Napoleone III preparò la debacle di Sedan, Dio voglia che l'orgia sensuale della Roma nuova e rinvecchignita non prepari all'Italia un nuovo rovescio nazionale. Eccone intanto un pernicioso singolare effetto in un rovescio individuale di anime, in un rovescio di vite. Nerina fu l'esponente di un momento politico sociale. Senza risparmiarle l'abbominazione, che si meritò, essa è preferibilmente maravigliosa per avere spinta la logica del vizio alle ultime conseguenze. Oso dire che nella pubblica esecrazione essa è preferibile alle illustri fellatrici da locanda e da camera mobiliata, che avvelenano coi sospetti e con le calunnie ogni figura, ogni nome di fanciulla cresciuta pura nel santuario domestico, per impedire ai drudi, agli amanti di maritarsi, e con queste fellonie rimangono alte dame e nei loro alti palazzi si chiamano dame d'onore ... " Nuova pausa sudata, dopo la quale l'oratore riprese il filo con un visibile strappo. " Lessi in un recente storico che il carattere di Maria Antonietta veniva così giudicato dalla Madre Maria Teresa: molta leggerezza, molta dissipazione e una grande ostinazione a fare di sua volontà con una grande abilità ad eludere ogni rimostranza. Ciò valse a condurla al patibolo. Lo stesso intervenne relativamente per Nerina. Rimane a spiegare, come giustiziero abbia dovuto essere socialmente suo padre. Emergeva la più assoluta incompatibilità, che coesistessero nel mondo vivente il comm. Atanasio Vispi, e la sua nobile figlia prostituta. Se la Società presente autorizza la prostituzione pubblica d'altra parte essa lasciò intatti tesori di moralità privata. Il comm. Vispi rappresenta cento generazioni di quel medio ceto, in cui la donna è santa, o per lo meno onesta. Vi sono famiglie popolane borghesi, in cui i padri ruberanno, i figli ruberanno, i fratelli ruberanno, trufferanno il prossimo o si minchioneranno magari tra loro stessi con la scaltrezza della fortuna commerciale, o per l'esercizio della proprietà immobiliare. Ma la donna vi permane castamente onesta. Ove in tale famiglia si produca il fenomeno di una donna, che ha per unico programma la Vita Sexualis , senza ritegno di capricci, e può intitolarsi Vita sexualis , come il periodico tedesco di ginecologia, Zeitschrift zur Erforschung der Geschlechtslebens , ciò riesce un fenomeno così mostruoso che domanda di esser fatto scomparire dal circolo della vita più presto di un bambino nato con una testa d'asino e una coda di serpente. La moralità delle fiabe si accorda con la moralità delle esistenze. Eccellenze della Corte, egregi signori giurati, mi direte che della pronta soppressione di siffatto fenomeno si doveva lasciare il carico all'Autorità Sociale. Ma il guaio si è che la prelodata autorità non se ne incarica punto di tale soppressione, anzi favorisce il fenomeno. Mi duole ripetermi dopo le lezioni universitarie pubblicate. Ma non occorre una lunga ripetizione. Voi, uomini, sapete l'esistenza legale delle così dette case di tolleranza , ma che in realtà sono case privilegiate, licenziate al sequestro delle persone, con i pubblici ufficiali costretti alla vergognosa connivenza. Proteggendo con il braccio regio i ginecei delle Veneri staggite e prezzolate per il servizio automatico della libidine maschile, l'autorità sociale ha irremissibilmente sanzionato in codeste schiave del piacere la inferiorità giuridica e morale del sesso femminile. È un marchio di bassezza indelebile. Da quell'onta non si può estrarre persona viva. Nessun Buon Pastore (uomo o ritiro) può rimettere in sesto una capricciosa Nerina sviata fino a quell'ultimo bassofondo. I medici risancioni sogliono dire delle malattie sifilitiche: che solo dalla prima volta non si guarisce più. Così una sifilide costituzionale irremediabile si attacca anche dal lato morale, e più non si distacca dal primo approdo all'ultima Tule della infamia femminile. Immaginate che il padre fosse riuscito a strappare la figlia fisicamente viva dal postribolo: ma i cent'occhi, i mille occhi velenosi dell'Argo Sociale glie l'avrebbero moralmente liquidata al suo fianco, dovunque l'avesse condotta, in città o in campagna, sui monti o nei piani, sui laghi o sull'oceano. La Società glie l'aveva ridotta moralmente perinde ac cadaver . Toccava a lui liberare veramente dai ceppi mondani la disgraziata figlia già condannata irrevocabilmente a morte civile. Potrete Voi condannare lui per ciò? Non lo potete. Quattro volte no. Imperocché il Comm. Atanasio Vispi fu un sacrificatore, non un delinquente, un sacrificatore giustificato da chiari esempi della Storia Sacra e della Storia Profana, giustificato da ampie e strette norme del diritto antico e del diritto attuale. Alla vostra cultura generale non farò torto allungandomi sui sacrifizii di Isacco, di Yefte, di Ifigenia ecc., V. nell'Enciclopedia la rubrica Sacrifizii. Quando si volle risparmiare umano sangue, sostituendo una fanciulla con una cerva, l'umano sangue ricadde più copioso da altre parti. L'innocenza pagò spesso la salvezza della colpa. Se un padre poté condannare mortalmente il figlio per supina ubbidienza ad un crudele oracolo, per l'immagine sovrana della Patria, o per la semplice umile trasgressione di un articolo secondario del Regolamento Militare, a fortiori un padre potrà sacrificare una figlia per una solenne riparazione morale. Il nostro antico diritto, il diritto romano investiva di tale sacerdozio il padre di famiglia. I figli erano chiamati liberi , ma viceversa il padre aveva realmente su essi il diritto di vita e di morte, ius vitae et necis . E la patria potestà spettava al padre di famiglia durante tutta la sua vita. Sapevamolo, che le tavole e le sanzioni del Diritto Romano più non figurano tra le vaglianti leggi . Ma esse permangono tuttavia ampiamente nell'atmosfera giuridica che abbiamo ereditato. Lasciamo pure quest'immanenza di ampiezza respirabile da parte, anche riducendoci nei vicoli dello strictum ius , io posso, o signori giurati, provarvi, che un Codice positivo preciso flagrante vi autorizza a prosciogliere l'accusato. Non potendosi tutte le norme di giustizia scrivere e tanto meno immobilizzare nelle leggi, il diritto costituzionale diede ai poteri legislativi la facoltà perpetua di condere , fabbricare e riformare leggi, tanto che del Parlamento Inglese si disse essere capace di tutto, fuorché di mutare un uomo in una donna. Di riscontro nell'applicazione delle leggi penali, la Giustizia umana, ben sapendo, che non poteva fossilizzare norme imperscrittibili per la generalità dei casi, ha colla creazione della giuria fatto appello caso per caso alla sovrana cognizione del sentimento popolare. Secondo la loro sacrosanta istituzione, i giurati non sono periti giudiziarii, non sono verificatori metrici dei fatti. Perciò non si richiede loro una speciale competenza. Anzi se ne affida la scelta all'estrazione della sorte da qualsiasi parte del gran cuore dell'Umanità, sede di quel sentimento popolare, che unito al buon senso dell'intelligenza primitiva sa scorgere lume anche nelle profondità del vero imperscrutabili dalle scienze più esatte. Eccellenze della Corte! Egregi signori giurati! Lungi da me la pretesa di una rivoluzione catastrofica della giustizia. E voi, ferreo oratore della legge, di grazia non paragonatemi ad un farmacopola da estancia argentina, con una pancetta da calabrone pinzo di veleno, che sbottona la sua maldicenza contra le leggi, reputandole fatte per i minchioni, emulo di un nostro tiranno parlamentare, indegno del mandato legislativo, quando paragona le leggi a vergini, che per essere feconde devono essere violate. Lungi da me il paragone con il nostro tiranno parlamentare e col farmacopola da estancia argentina, i quali, se un benefattore dell'Umanità, socratico, catoniano, osservante inculcatore delle leggi, venga lodato da una gazzetta di provincia, crepano di invidia e gli minacciano un irrisorio monumento di neve ... Io vi richiamo alla pretta applicazione dell'art. 495 del Codice vigente di Procedura Penale. Esso prescrive: La questione sul fatto principale è posta colla formola seguente: l'imputato N.N. è egli colpevole di avere (si indicheranno il fatto o i fatti, che formano il soggetto dell'accusa ... ) Dunque Voi, giurati, sarete chiamati a rispondere, non se l'accusato ha compiuto un fatto incontrovertibile, ma se egli è colpevole di averlo compiuto. E che il Codice esiga precisamente da voi sul soggetto e sull'oggetto dell'accusa non una constatazione materiale, ma un giudizio morale di colpa o di innocenza lo chiarisce lo stesso articolo, riservando la convinzione mera sull'accaduto soltanto ai fatti che escludono l'imputabilità." Il rappresentante del Pubblico Ministero con un'obliqua occhiataccia mostrò che l'interpretazione del Codice doveva essere diametralmente opposta. Però il difensore proseguì imperturbato: " La legge, secondo l'art. 498 del Codice precitato, propone ai signori giurati questa sola domanda, che rinchiude tutta la misura dei loro doveri: avete voi l'intima convinzione della reità od innocenza dell'accusato? Tale istruzione, stampata in grandi caratteri ed in altrettanti esemplari , quanti voi siete, voi troverete distesa sulla tavola, intorno a cui siederete nella camera delle deliberazioni , parole del Codice, di cui Vi richiamo la sacra osservanza. Con ciò Voi, signori giurati, siete i veri padroni della pena e della perdonanza. A meglio precisare questa padronanza vostra, vi è un movimento forense, scientifico, legislativo in Francia, nella Svizzera, in Italia. Vi potrei citare le proposte dei deputati del Corpo legislativo di Francia onorevoli Lagesse, Bounet, Corentin-Guyho, gli atti e i voti della benemerita Societé Genéral des Prisons , la profonda memoria del Gautier professore dell'Università di Ginevra e membro di quel Tribunale Supremo, e i bei nomi italiani di Enrico Pessina, Luigi Lucchini ed Alessandro Stoppato, tutti per assicurare a Voi, signori giurati, l'esercizio della vostra funzione sociale nel senso più largo e pieno, non isolando mai dalla mente la coscienza ... Ma già vedo, già sento un baleno di luce celeste, che vi illumina le menti, e vi commuove i cuori. Nerina stessa vi prega confessando del padre sacrificatore: ... ..………… A morir m'invita Dolce desio di rinnovar la vita. Ricordate, che la violenza individuale è un diritto dove la ragione sociale non arriva. Il no tonante del vostro verdetto seguìto da sentenza assolutoria sarà alla società presente ed avvenire un documento, sarà un monumento di moralità popolare" . Il rappresentante del Pubblico Ministero nella sua crudeltà professionale rifletté, che il commendatore Vispi sarebbe maggiormente punito, se fosse rilasciato libero all'offesa che non gli mancherebbe della licenza sociale, che non se fosse ritenuto in carcere difeso, protetto, incolume dall'oltraggio della vita pubblica; e rinunziò alla replica. Il presidente stabilì definitivamente la questione sulla colpevolezza dell'accusato, e vinto in principio un visibile imbarazzo, procedè risolutamente al breve riassunto di rito: " Avete udito (si riassume il riassunto). Non vi è controversia sul fatto incontrovertibile, orribile. Vi è dissenso sul suo giudizio sociale (non dico morale, perché ogni coscienza inorridisce al fatto d'un padre che uccida la figlia). Il pubblico ministero vi invita a segnare tale padre col marchio della colpa, senza scuse, perché niuno può farsi ragione da sé contro la legge, e tanto meno dopo che si è abolita la pena di morte nella giustizia legale, si può approvarne l'applicazione fattane arbitrariamente da un padre sopra la figlia. Invece il difensore vi ha lumeggiato tutti gli stadii infernali d'infamia, per cui è discesa la figlia fino alla profondissima voragine sociale, da cui il padre non poteva più onestamente riscattarla, fuorché sulle braccia della Morte. Voi pertanto, o signori giurati, siete chiamati a profferire sopra un misfatto individuale un giudizio importante all'umanità per riconoscersi sul cammino percorso dalla società civile. Vi auguro, che il vostro umano giudizio non erri, e la vostra dirittura sia conforme ai disegni divini per il miglioramento del consorzio umano" . Ciò detto, il Presidente fa ritirare l'accusato dalla sala di udienza, legge ai giurati la dichiarazione prescritta dal Codice di P.P.; quindi li spedisce alla loro Camera di riflessione e deliberazione. Essi ne ritornano tosto con il verdetto a maggioranza negativo di colpevolezza; onde la Corte, richiamato l'accusato, pronunzia la sentenza di assolutoria. Infine il presidente, mostrandosi più montagnoso della sua montagna corporea, così lo accomiata: * Commendatore Vispi, Ella è libero per la giustizia del Popolo. Dalla libertà materiale non avrà molta gioia. Avrà certo conforto dalla religione spirituale purificatrice. Come magistrato Le do congedo. Come padre di famiglia Le auguro salute eterna.

Clelia: il governo dei preti: romanzo storico politico

675985
Garibaldi, Giuseppe 1 occorrenze
  • 1870
  • Fratelli Rechiedei
  • prosa letteraria
  • UNIFI
  • w
  • Scarica XML

Dei nemici ne furono molti abbattuti, e un mucchio di morenti e di cadaveri attestava l’eroismo della disperata difesa. Però gli eroi, come i codardi hanno una vita sola! e troppi eran gli assalitori onde alla fine l’uno accanto all’altro esalarono l’ultimo sospiro anche i due valorosi campioni della libertà Romana! Dentato, il canuto operaio che aveva assistito a quest’ultima pugna, vedendo ogni speranza svanita, pratico come era del sito, col favore delle tenebre guadagnò il lavatoio, poi il sotterraneo e chiuse su quella scena di sangue la porta di dentro e la sbarrò come poteva meglio. Gli assassini stipendiati dal prete altro incentivo non avendo che la depredazione e la strage innondarono colla speranza di bottino ogni parte del lanificio che più oggetti conteneva da rubare non curandosi del sudicio lavatoio donde eran fuggiti i superstiti difensori della libertà italiana. Ma il mattino vedendo che lo stabilimento altro non conteneva che cadaveri venne loro il dubbio della sotterranea fuga. Cercarono, frugarono e trovarono finalmente la porta salvatrice ma il tempo trascorso, quello impiegato nell’abbattere le sbarre e il tempo per organizzare un’entrata regolare e cauta nelle tenebre diedero agio ai fuggitivi di mettersi in salvo dalla persecuzione. Nei primi di Novembre 1867 scendevano alla stazione di Livorno tre donne, un vecchio ed un garzone sul fiore degli anni. Con quella dolente famiglia stava una di quelle figlie di Albione che, quantunque mestissima e vestita a lutto, vi avrebbe fatto sentire la beatitudine della vita con un solo suo sguardo. La sua dama di compagnia, non men bella, non meno mesta, mostrava nei lineamenti del volto quella squisitezza donnesca che Raffaello aveva amato nella Fornarina. La terza pure di quelle donne era bella. Ma!... la sventura le avea troppo palesamente solcata la fronte e cert’arìa quasi di demenza si discerneva sul suo viso. Il canuto, che Giulia non avea voluto abbandonare alla miseria, badava al bagaglio. John, colla disinvoltura dei suoi tredici anni, dava mano alle donne nello scendere dal convoglio; poi, avendo scoperto il capitano Thompson con l’Aurelia che erano là ad aspettarli, d’un salto fu nelle braccia di lei che lo amava come un figlio quantunque lo giudicasse un po’ troppo biricchino. «Li ho baciati cadaveri!» mormorò John alla matrona ed una lagrima rigava la rosea guancia del biondo figlio della Britannia. Egli accennava ad Orazio ed Irene che tanto lo avevano amato ed eran stati i suoi salvatori. L’abbracciarsi delle donne fu scena di pianto che l’una versava sul seno dell’altra senza poter pronunziare una sola parola. Dopo avere assistito a quella muta scena per un pezzo, lui pure intenerito, il buon capitano Thompson, alzò il capo e dirigendosi alla sua signora in inglese le disse: «Lo Yacht è là al molo che aspetta i vostri ordini se mai desiderate andare a bordo». «Sì, Thompson, a bordo, e metteremo alla vela subito per uscire d’Italia. È una terra, come dice Alfieri, ove la pianta uomo nasce più robusta che dovunque e gli stessi atroci delitti che vi si commettono ne sono una prova». Non molto tempo dopo lo Yacht veleggiava superbo verso la merry England

L'ALTARE DEL PASSATO

676785
Gozzano, Guido 1 occorrenze

Ma dinnanzi a noi era quello che Miss Eleanor chiamava "il mio tempio", il tempio di Demetra, eretto ancora sulle sue cinquantaquattro colonne, l'unico intatto fra dieci altri abbattuti, l'unico sopravvissuto, per uno strano privilegio, al furore fenicio e cartaginese, al fanatismo cristiano e saraceno. - No, amico mio. Dobbiamo ai cristiani e ai saraceni se il tempio è giunto intatto fino a noi. Fu San Rinaldo, nel IV secolo, che lo scelse fra "i monumenti infernali dell'idolatria" per convertirlo in una chiesa dedicata a San Giovanni Evangelista, chiesa che fu trasformata in moschea al tempo dell'invasione saracena. E l'edificio divino fu salvo, mascherato e protetto come un fossile nella sua custodia di pietra e di cemento. Quale grazia del caso! Pensate allo scempio che fu fatto degli altri! Pubblicherò un manoscritto di mio padre dedicato tutto allo studio di queste distruzioni nefande. Pensate a quel colossale Tempio d'Ercole che fornì materiale per tutti i porti nel Medio Evo! Tutto fu abbattuto e spezzato. Abbattute le colonne ciclopiche, ogni scannellatura delle quali poteva contenere un uomo, come in una nicchia, abbattuti i giganti e le sibille alte dodici metri che reggevano l'architrave, meraviglia di mole titanica e di scultura perfetta. Pensate le teste, le braccia, le spalle divine, i capitelli intorno ai quali si gettavano gomene colossali, tese, tirate da schiere di buoi fustigati, mentre le seghe tagliavano, le vanghe scalzavano i capolavori alle basi. E le moli precipitavano in frantumi spaventosi, con un rombo che faceva tremare la terra. Ora sulle nudità divine, tra le pieghe dei pepli, nidificano le attinie e i polipi di Porto Empedocle. - Cose da invocare un secondo toro di Falaride per i cristianissimi demolitori. - Il gregge! Il gregge dell'Abazia! - Miss Eleanor si interruppe ad un tratto, ebbe uno di quei suoi moti fanciulleschi di bimba sopravvissuta, - il gregge dell'Abazia! Guardate che incanto! Dall'interno del Tempio, sul grigio delle colonne immani, biancheggiarono d'improvviso due, trecento agnelle color di neve. Uscivano dal riposo meridiano, dalla "fresca penombra, correvano lungo il pronao, balzavano sui plinti, scendevano con grandi belati e tinnir di campani. Tre pastori s'affaccendavano con i cani per adunare le disperse e le ritardatarie. Alcune, le piccoline, non s'attentavano a balzare dagli alti cubi di granito, correvano disperate lungo il pronao, protendevano il collo invocando soccorso, con un belato lamentevole. I pastori le prendevano tra le braccia, passandole dall'uno all'altro, tra l'abbaiare dei cani. *** - Non rimpiango d'essere nato troppo tardi. Il quadro è più divino oggi che ai giorni di Empedocle. Il cielo doveva essere meno azzurro tra le colonne a stucchi troppo vivi; non so pensare le metope, i triglifi, i listelli a smalti gialli, azzurri, verdi. Non so pensarli che color granito, color di tempo, come li vede oggi la nostra malinconia. Colorato, ornato, fregiato, con i gradi del plinto e le strie delle colonne, i frontoni a linee precise, non addolcite ancora dai millenni; con i labari immensi che s'agitavano al vento e la folla che affluiva nei giorni solenni, il tempio doveva essere men bello di oggi. Oggi ha la bellezza che piace a me, la bellezza che strazia! - È straziante anche il vostro albergatore, - interruppe ridendo la mia amica. - Vedo una réclame di più. In fondo, ai piedi di Girgenti, aggruppata sul suo declivio come un'erede poverella, biancheggiava l'immenso cubo dell'Hôtel d'Agrigento, e sulle pareti candide, sulle alte mura del parco, fin sui cipressi centenari, spiccavano a sillabe colossali gli elogi di cordiali e di aperitivi. - E che cosa fanno all'HÔtel? - Mi dimenticavo di dirvi. Preparano un concerto di Nino Karavetzky, il prodigio di nove anni; suonerà nel Tempio, al plenilunio di domani. - Tutti gli anni fanno qualche cosa di simile, - disse Eleanor abbuiandosi, - l'anno scorso la colonie preparò una festa amena. Lampioncini veneziani dall'una all'altra colonna, razzi, fuochi di bengala, danze, e Vedova allegra - L'idea di quest'anno è meno scellerata. - Scherzo, conosco il piccolo Karavetzky. L'ho sentito l'estate scorsa al Conservatorio di Bruxelles. È più che un enfant prodige È un rivelatore. Sarò felice di sentirlo. - Oh! Che piacere! Allora verrete anche voi! - Non verrò. Lo sentirò di qui. Sentirò benissimo le parole del violino e non i commenti delle signorine Raineri e di madame Delassaux. Fui schiettamente addolorato del rifiuto reciso. Tentai la mia amica insistendo, porgendole il programma. - Guardate, guardate che delizia. Essa lo scorse, lo commentò da fine intenditrice. - Delizioso, ma non verrò. - Oh! Cara Eleanor, quanto m'addolora il vostro rifiuto. Quando mi han detto del concerto ho subito pensato a voi e ad una cosa sola; al piacere di starmene in disparte su qualche capitello infranto ad ascoltare la musica lontana e le cose che voi sola sapete sulle nostre bellezze sepolte. - E bene illuminati dal plenilunio e vigilati da Madame Delassaux o da chi per essa, perchè si tessa qualche favola di più "sur la sorcière des ruines". No, non protestate, sapete benissimo anche voi che mi si chiama così. Non risposi, chinai il volto, premetti le gote che ardevano contro le due mani di lei, gelide e fini. - Il mondo ha pure le sue esigenze, mio povero amico, finchè siamo tra i vivi. Tacqui ancora, parlando senza sollevare il volto. - È una gran delusione per me. Contavo sulla vostra presenza. Sono un vagabondo senz'anima, che non crede e non sente. Ma accanto a voi mi par di sentire e di credere in qualche cosa. Non so, non so dire che cosa io provi quando vi sono vicino. Eleanor ritirò lentamente le mani; sollevai il volto e vidi il volto di lei mutato, e gli occhi, dove la pupilla color velluto divorava, a tratti, tutta l'iride azzurra, che mi scrutavano fino in fondo dell'anima. - È vero. Siete sincero, - disse Eleanor con voce commossa, ma ferma. - Per l'affetto che mi portate e che vi porto, verrò. Aspettatemi verso la quarta metopa; vi prometto che al Notturno di Sinding sarò con voi. La mia anima corresse - sarà con voi! Sorrisi amaramente al gioco di parole, deluso e scontento. Ma Eleanor non sorrise, alzò la mano come a suggellare una promessa. - Sarò con voi. E poichè mi volsi ancora a salutarla dalla soglia, con un sorriso deluso ed incredulo, essa ripetè solenne: - Vi giuro che sarò con voi! Perchè quella promessa e quel volto atteggiato ad una tenerezza quasi tragica mi diedero il brivido? Uscii dalla "Buona Sosta" con un'esaltazione strana, m'avviai quasi di corsa verso l'albergo. A mezza via, dall'ombra di una siepe di agavi e di cacti, balzò il dottor Gaudenzi. - Ti si vede, finalmente! Ma passi le tue giornate alla "Buona Sosta"! Dalle ruine alla gobba, dalla gobba alle ruine. C'è poca differenza. Comincio a pentirmi d'avertela presentata. Per tanti motivi. - Sentiamo. - Sei qui per rimetterti dei tuoi nervi e la compagnia di quell'esaltata è la negazione della cura. La conosco da anni. Giurerei che avete parlato tutto il giorno d'arte e d'oltretomba. Sono le sue due specialità. Hai gli occhi di un allucinato anche tu. - Sentiamo, e voi cosa avete fatto di meglio? - Siamo stati a Porto Empedocle a veder ritirare le reti. Abbiamo aiutato i pescatori e i marinai; un esercizio che avrebbe fatto bene anche a te. Poi abbiamo invasa un'osteria del basso porto, comprese le signore, e abbiamo mangiato il pesce fritto alla saracena. Poi abbiamo scommesso a chi faceva più giri intorno alla fontana di San Rocco con Madame Delassaux tra le braccia. Pesa novantasei chili. Io ho vinto il secondo premio ... Il mio amico aveva ragione. Ma l'errore era d'aver scelto per il mio riposo una terra dove ogni pietra aveva un potere magico, un passato favoloso, e dava l'ebbrezza e l'allucinazione. Meglio la Liguria, non bella che d'aranci e di oliveti, meglio il mio Canavese privo di fulgidi passati, ma verde di riposi ristoratori, dove l'anima s'adagia come una buona borghese. - Diraderò le mie visite a Miss Eleanor. Hai ragione. La sua conversazione mi esalta. - Farai bene. E non per i tuoi nervi soltanto. Si mormora non poco su questa tua assiduità. Quest'oggi ho sentita una frase perversa sull'idillio "du poète languissant e la bossue aux soixante millions". No, non puoi prendere a ceffoni chi l'ha pronunziata perchè era una donna. Soltanto le donne sono capaci di pensare queste cose. Ma le donne le dicono e gli uomini le credono e le ripetono. Il Tempio di Demetra inargentato dal plenilunio! Una bellezza che nessuna forma d'arte potrebbe ritrarre senza farne un'oleografia dozzinale, una bellezza non sopportabile che nella dura realtà. Ma quale realtà! La terra, il mare, il cielo d'Agrigento si erano fusi in una tinta neutra, quasi per favorire con uno scenario incolore quell'unica forma; e il Tempio s'innalzava sui suo stereobate a cinque gradi, le colonne esatte, rigide, convergenti dai plinti ai capitelli con un'armonia che sembrava una preghiera lanciata in alto, verso l'assoluto. E sulla sinfonia delle sette e sette, delle venti e venti colonne l'architrave, i triangoli dei frontoni equilibrati come due strofe si profilavano intatti al plenilunio, poichè la luce lunare ringiovaniva il Tempio come la ribalta ringiovanisce un volto di donna. - L'uomo ha potuto far questo! Ha concretato nella pietra questo grido verso l'ideale. La mia esaltazione cresceva. M'aggiravo tra la folla con passo malfermo. La folla brulicava intorno: ospiti giunti da tutte le parti, italiani e forestieri; ma le figure moderne, minuscole su le scalee imponenti, fra gli intercolunni colossali, non rompevano l'armonia del quadro, tanto le nostre foggie mutevoli sono miserabile cosa di fronte alla bellezza che non muta. Nell'interno, tra il doppio colonnato della cella, dinnanzi alle tre are consunte, s'addensavano gli spettatori; e le donne cessavano dal cicalare e gli uomini si scoprivano il capo entrando, istintivamente, quasi che ancora la divinità fosse presente. - Eleanor! Eleanor! Che faceva, la mia amica tra il capelvenere della "Buona Sosta"? Perchè non era con me nell'ora divina? Il plenilunio illuminava a giorno le zone in ombra, faceva scintillare gli occhi, i denti, i gioielli delle signore; alcune - quelle della colonia - in capelli, scollate, con scarpe chiare o a vivi colori laminate d'oro e d'argento, altre - le forestiere - in succinto vestito di viaggiatrici. E, tra la folla che fece ala, apparve il piccolo Mago, condotto per mano dalla mamma, una signora ancora giovane e bella. Ma quanto minuscolo il prodigio famoso! Fu un mormorìo di tenerezza sorpresa che proruppe in una commossa ilarità quando il piccolo tentò, due, tre volte, invano, di dare la scalata al plinto e la madre lo sollevò alle ascelle, ve lo depose con un bacio e con un sorriso, offrendogli, nella custodia aperta, lo strumento, come un giocattolo prediletto. E il bimbo lo prese, lo accordò palpandolo, stringendolo tra le gambette nude, picchiandolo con le nocche, pizzicando le corde con le dita e coi denti, così come avrebbe fatto con un suo cavalluccio un po' guasto, prima di mettersi al gioco. Addossato ad una colonna lo guardavo, attraverso la folla, il Mozart minuscolo sul suo plinto greco, e il mio malessere cresceva, sentivo il rombo del sangue contro il granito al quale premevo la nuca, e gli occhi aperti mi dolevano e se li chiudevo l'orlo delle palpebre mi scottava come se fosse stato di metallo rovente. Aspettavo la musica come nelle notti disperate invocavo dal mio amico la droga del nulla o la puntura pietosa. Ma la prima nota dolcissima - era il concerto in re minore di Max Bruch - mi passò nel cervello come una scalfittura. Tutto il miracolo evocato dal piccolo intercessore, che dalla gagliarda sonorità appassionata delle prime frasi si chiude col finale allegrissimo, saltellante, fu per me un martirio senza nome, come una musica diabolica eseguita da un demone con un archetto di diamante sopra una lastra di cristallo. - Eleanor! Eleanor! Che faceva la mia amica in quell'ora? Ascoltava, con la povera persona deforme palpitante tra il capelvenere della "Buona Sosta"? Non vedevo la folla, non vedevo che lei. Le note si convertivano in parole sue: - ... la fede, la fede che fa tutto possibile: anche questo! - e abbassava gli occhi accennandosi la sciagura della persona miserrima; poi sollevava le iridi chiare: - ... verrò! Sappiate vedermi. La mia anima sarà con voi. Vi giuro che verrò! Tremai della mia eccitazione. Cercai il dottore intorno, come un salvatore, senza trovarlo. Cercai un capitello, una pietra dove sedermi: tutto era occupato dalle signore. E le ginocchia non mi reggevano. Girai intorno alla colonna, passai dagli intercolunni della cella agli intercolunni esterni, in piena luce lunare. Avanzai quasi di corsa lungo il pronao per allontanarmi dal malefizio dei suoni e per sentire la frescura notturna ventarmi in viso. Alla quarta metopa scesi due, tre gradini, mi adagiai con le spalle addossate al granito, la nuca ben sorretta da una curva della pietra consunta. Dinnanzi m'era la pianura incolore ed il mare incolore, non rivelato che dal riscintillare tremulo della luna. Da un lato, obliquo, il sarcofago di Fedra con le figure fatte più visibili dalla luce obliqua. Mi dimenticai per alcuni secondi in quel dolore. La regina seduta, con un braccio rigido appoggiato allo sgabello, e l'altro braccio inerte abbandonato a due schiave che lo reggevano accarezzandolo, affannate e dolenti ... E la donna volgeva altrove il profilo inconsolabile dove s'addensa tutta la disperazione umana, la disperazione incolpevole di essere quali siamo, di non poter essere che quali siamo! Amore, in disparte, contemplava sogghignando l'effetto del dardo, l'amore minuscolo come un piccolo demone. Ma l'altro demone, il piccolo demone del tempo nostro, il Mago dei suoni che mi perseguiva fin là col martirio divino del suo stromento! Anche la Zingaresca di Sarasate, gaia e saltellante, non mi dava sollievo! Accarezzai con la mano le pieghe ordinate del peplo tre volte millenario. - Il dolore, il dolore anche qui, eternato nella pietra dura! Cercai la luna, in alto, per dimenticarmi in una cosa morta per sempre, in una cosa che non soffre più, che non soffrirà mai più. - Eleanor, Eleanor! Ah! Perchè non l'avevo vicina? Perchè non aveva consentito al convegno? Fissai il cielo a lungo, troppo a lungo. Quando abbassai gli occhi vidi il disco lunare moltiplicarsi in rosso ovunque posassi lo sguardo; chiusi gli occhi, li premetti a lungo con le dita per cancellare dalla palpebra interna l'immagine del disco sanguigno. Giungeva nel silenzio la Chanson triste di Sinding, il notturno prediletto di Eleanor. La sua anima era veramente vicina? Certo la sua anima l'udiva anch'essa, dalla sua veranda fiorita, ma non soffriva come me! La mia amica infelicissima conosceva il segreto d'esser felice! E il piccolo evocatore lontano moltiplicava gli effetti imprevisti e la musica m'era vicina come se le corde mi vibrassero nelle orecchie. Ma udivo anche un passo lieve lungo il pronao. L'importuno s'arrestò due, tre volte alle mie spalle, con un fruscìo che sembrava cadenzato col ritmo musicale. Io non volli sollevare il volto dalle mani. Non sollevai il volto nemmeno quando sentii che lo sconosciuto scendeva, mi si sedeva vicino. Guardai, a volto chino, dal basso in alto. E vidi i due piedi ignudi, minuscoli, perfetti nel coturno gemmato; poi il peplo ordinato come un ventaglio semichiuso, raccolto alle ginocchia, il peplo che fasciava con grazia attorta il busto perfetto, avvolgeva le spalle snelle, lasciava la nuca e il volto come in un soggolo, non lasciando libero che il profilo; il profilo di Eleanor. Non balzai, non diedi grido. Cercai di convincermi che non sognavo: palpai il granito, mi morsi le labbra, per sentire il freddo ed il dolore. Non sognavo. - Non sogni! Non sogni! Eleanor parlava! Non so dire come fosse la sua voce; forse le sillabe delle sue parole e le note che venivano di lungi erano la stessa cosa. Ma parlava, eretta dinnanzi a me che non trovavo la forza di balzare in piedi; e m'aveva teso le due mani intrecciando le mie dita alle sue dita soavi. La sua persona era assoluta, poichè la parola bellezza è troppo umana per la rivelazione divina che mi stava dinnanzi, per quell'anima fattasi carne in una forma imitata dalle statue immortali. - Non sogni! Non sogni! Ho giurato. Sono venuta. - No, non è vero! - gemevo con le dita nell'intreccio delle sue dita, - mi sveglierò tra poco e tutto sarà come se non fosse stato e non avrò più queste tue mani; non avrò che le mie unghie infisse nella mia palma sanguinante. Conosco l'inganno dei sogni. - Non sogni! Ah, perchè quest'orgoglio di fanciullo dinnanzi al mistero? Perchè ribellarsi? Per tutto ciò che è divino m'hai chiamata. Sono venuta. E venuta quale voglio essere. Tutto è possibile. Anche questo. - Eleanor! Eleanor! Che questa sia la realtà di un attimo e poi venga il buio senza fine. - Verrà la luce. È giunta l'ora. T'aspettavo da anni. È fatto il miracolo! - Eleanor, se questo non è sogno, - e balzai afferrandola alla vita sottile, - lascia ch'io ti porti tra gli uomini, che io gridi alto il tuo nome nel mondo dei vivi! E tentai di trascinare la tepida forma palpitante lungo il pronao, verso l'interno del tempio. - No! no! La fede sola ha fatto il miracolo. Non profanare il mistero! Mi resisteva ed io la cingevo alla vita, deciso di trascinare nella realtà il sogno divino, ben certo che con l'ultima nota tutto sarebbe dileguato nel nulla. E non volevo. Volevo ghermire alle potenze dell'occulto quella forma divina. - No! Bada! Profani il mistero! La fede sola ha fatto questo! Mi perdi per sempre! Lasciami! Lasciami! Fu la resistenza decisa, la lotta ostile per il bene supremo. - Lasciami! Lasciami! Sollevai la persona che riluttava, guizzava come se la portassi alla morte; poi s'allentò con un grido, s'abbandonò senza vita. E la portai tra gli intercolunnii, trionfando di giungere dal sogno alla realtà con quella preda ben certa, di sollevarla al cospetto di tutti gridando al miracolo. Ma fu allora come se cominciassi a sognare. Vidi per un attimo la folla adunata e il piccolo musico che suonava sul plinto. Poi più nulla. E nel buio un grido, molte grida; e nel cervello che si smarriva disegnarsi ancora in sanguigno il disco lunare poi una voce ben vera, la voce di Madame Delassaux, la mia nemica. - Il est ivre, il est fou! Par ici, sauvez-vous par ici, miss Quarrell! Poi più nulla. L'assenza del tempo e dello spazio. La felicità del non essere. - E dopo - dopo quanto? - vidi per prima cosa attraverso le ciglia socchiuse una prateria ondulata, costellata di fiori non terrestri, simili a quelli ritratti dagli occultisti nei paesaggi di Giove e di Saturno e un gelo, un gelo che contrastava con la flora meravigliosa. Ma aprii gli occhi ben vivi alla luce ben vera, vidi che la prateria smagliante era la coperta del mio letto alterata dalla prospettiva dell'occhio recline, e sentii che il gelo veniva dalla benda che mi copriva le tempia. Portai la mano alla fronte, ma fui impedito dal dottor Gaudenzi che mi sorrise, parlando affettuoso e calmo, come se riprendesse un dialogo interrotto mezz'ora prima. - Ieri? Ventitrè giorni fa! Ventitrè giorni sono passati dal concerto famoso. Ma non t'agitare ... ti dirò poi. - Voglio sapere, voglio sapere! - Tutte cose innocentissime e amene. Amena anche la tua meningite, ora che è scongiurata. Ma non ti agitare! Mi rinnovò il ghiaccio sulla fronte, m'impose il silenzio. M'addormentai nuovamente. Due giorni dopo cominciai ad alzarmi, felice di sentire che le gambe mi reggevano ancora. E volli il barbiere subito, per avere l'illusione di riprendere la mia vita consueta. E mentre ero sotto il rasoio, il dottore si decise a parlare, misurando a grandi passi la stanza. - Bada di dirmi la verità! Tanto saprò tutto oggi, da Miss Eleanor. - Miss Elaanor è partita da tre settimane per l'Inghilterra. Non ritornerà in Sicilia mai più. Per quanto inglese e teosofessa, certe lezioni si ricordano una volta per sempre. Ma lasciami parlare! - Allora cose gravi! - Ma no! Importa molto, a un carattere come il tuo, d'essere la favola allegra di qualche migliaio di sfaccendati, per qualche tempo? Dunque nessun guaio. L'unico guaio si è l'aver portato di peso, tra la folla, in pieno concerto, urlando come un forsennato, la povera gobbina svenuta. Avevo allontanato il rasoio, per prudenza, m'ero alzato in piedi, torcendomi le mani. Non potevo ridere, non potevo piangere. - Non è vero! Dimmi che non è vero! - È vero questo soltanto. E non ti descrivo la scena. Ti sarà descritta a sazietà dai volonterosi e dalle volenterose, in tutti i particolari. I quali tornano più a colpa di Miss Eleanor che a tuo disdoro. - Dimmi che non è vero! - Ed è lezione ben meritata per quella incompleta figlia d'Albione. Tutti gli anni ha sempre tessuto qualche idillio, coronato da catastrofi amene. Ha anche avuto qualche amante, forsennati che giuravano d'averla vista con un corpo fidiaco. Ora posso confessarlo. Nei primi tempi ha tentato lo stesso gioco anche con me. Ma io ho un cervello sano. E l'ho vista sempre con due gobbe e alta come uno sgabello. Con te, ridotto come eri, la cosa è stata diversa. Afferrai il rasoio, per gioco. - Non mi resta che il suicidio od il chiostro! Ridevamo perdutamente. Ma lasciai la Magna Grecia per sempre, tre giorni dopo.

VORTICE

678760
Oriani, Alfredo 1 occorrenze

Sotto l'argine del fiume, lungo il ripiano della sponda, erano aperte ancora alcune cavità di alberi abbattuti da gran tempo, che un'erba minuta aveva tappezzato finamente. Il sole dardeggiava, aliavano farfalle, un soffio di scirocco scuoteva mollemente le cime già pesanti dei grani. Si fermò per udire qualche cicala stridere; invece dal fiume ascese la nota dolce e gorgogliante di un rospo. Allora calò dall'argine per nascondersi entro una di quelle buche, all'ombra di una vecchia quercia dai rami rachitici e il tronco giallastro come di una ruggine d'oro. L'erba era soffice. Cavò di tasca la rivoltella a canna corta, nichelata, del calibro dodici: stette lungamente contemplandola, come in una di quelle distrazioni attonite, che ci sorprendono talvolta: l'arma piccina riverberava. Si sarebbe servito di essa? Perché? E quando si è morti? Era già molto difficile morire; ma e dopo? Sino a quel giorno egli non ci aveva mai pensato. Come accade sempre, specialmente finché si è giovani, la morte non aveva esistito per lui; sapeva che, essendo nato, morrebbe, ma questa soluzione lontana ed inevitabile non aveva mai pesato sulla sua coscienza. Non si capisce veramente di dover morire, sino a che il pensiero della morte non si allarga come un'ombra nel mezzo del nostro spirito. Tutto è così facile nella prima parte dell'esistenza! Funzioni ed abitudini vi si ripetono favorevolmente, si mangia, si passeggia, si chiacchiera, si ride, si dorme; poi il mattino vi desta, intorno a voi tutto prosegue: la moglie, i bimbi, la serva, la casa alternano i propri motivi senza un pensiero che tutto ciò sia effimero, che basti la presenza di un insetto a produrvi lo scompiglio, o la morte appiattata in ogni ombra possa in un istante distruggere tutto senza ragione, senza traccia. Si vive così, come se la morte non fosse, in una sicurezza d'immortalità. Invano in tutte le case qualcuno si ammala e muore; si fanno i funerali, la gente li guarda passare distratta, ognuno preoccupato dei propri interessi, in una febbre continua di passioni, e non ci si pensa più. Coloro, che amarono quel morto, piangono qualche giorno, gli altri non dànno importanza al caso o parlando della morte, che li aspetta, rimangono indifferenti come a cosa che verrà poi, un poi problematico nella data ed insignificante finché la data non arriva. Egli era stato come gli altri. Aveva veduto morire il babbo e la mamma senza risentirne troppo dolore. Certo avrebbe desiderato loro più lunghi anni, ma essendo troppo giovane per aver provato gli scoramenti della suprema vigilia, quando la vita non sa più distrarsi dal computo dei propri ultimi giorni, aveva trovato naturalissimo che i vecchi se ne andassero. Invece adesso si trovava dinanzi alla morte nella pienezza di tutte le proprie forze. Non era né credente né incredulo; come nella maggior parte della gente, la vita spirituale era cominciata per lui coll'insegnamento religioso, senza che la religione modificasse troppo il suo sentimento, pur lasciando nel suo pensiero impronte non cancellabili. La concezione cristiana, poco comprensibile nei dogmi e nella tragedia della sua morale, rimaneva quindi la base di tutti i suoi giudizi, sotto la solita indifferenza mondana. Così aveva sposato Caterina anche in chiesa e battezzati i bambini, trovando giustissimo di apprendere loro la religione, che egli non praticava più. E in quella indefinibile cultura guadagnata un po' dovunque, nei caffè, su per i giornali, massa informe di idee e di sentimenti contradditorii, solamente la forza della tradizione durava: la religione era cosa da non parlarne, poiché non se ne sarebbe potuto mai sapere qualche cosa di preciso, ma forse era così, e in fondo ne convenivano tutti, anche coloro che affettavano di spregiarla pubblicamente. Le sue riflessioni non erano mai andate più oltre. Caterina non lo aveva mai vessato per la sua indifferenza religiosa: egli viveva come gli altri nella inconsapevolezza della propria contraddizione, fra un barlume di fede e un pettegolezzo di miscredenza, trionfando di entrambi col non pensarci. Ma la morte, improvvisamente, gli stava davanti nella propria immobilità. Aveva avuto paura. Morire era, prima di tutto andarsene; ma per quanto la natura ripugnasse a tale sparizione e tutte le malattie fossero spaventevoli appunto per questo, non era difficile il fissarvisi. Già nella notte lo aveva fatto: andarsene, piuttosto che restare per la tortura del processo e della prigione!, molto più che la morte essendo inevitabile, si trattava solo di sceglierne il momento, quando tutto il resto delle condizioni nella vita diventava intollerabile. Così, quasi non pensandoci, aveva già abbracciato questo punto di vista: era stato un lavorìo lento, inavvertito del suo spirito, subito dopo il tremendo distacco prodottovi dalla lettura di quella lettera. Quanto poteva soffrire, l'aveva già sofferto nella notte: lo sentiva, era sicuro che per una simile crisi non ripasserebbe più. Si muore forse due volte? La morte è tutta nello sforzo per staccarci dalla vita; se lo era detto, capiva di aver ragione. Il suo pensiero risoluto, quantunque torpido, andava sino in fondo: si sarebbe ucciso! Non aveva deciso il modo, ma il tempo era misurato ormai su quel giorno; era così, non voleva ritornarci più sopra: morire per sé medesimo e per la sua famiglia, alla quale non sarebbe più che d'imbarazzo e di disonore, ecco tutto! Ma il momento dopo, quel momento che pure ci doveva essere, giacché il tempo avrebbe seguitato egualmente, quando egli non sarebbe più, dove sarebbe egli in quel momento? Tutto finiva lì? La religione diceva di no, la maggioranza della gente d'accordo colla religione, e quelli ancora che si vantavano di non crederle, rimanevano perplessi dinanzi al problema. Finire! Sarebbe stato semplice, ma non era chiaro. Che cosa significava allora tutto il prima? La sua testa si perdeva. Confuse memorie gli ritornavano di ammaestramenti, di fatti, di uomini, che si erano trovati come lui dinanzi al grande quesito, e che egli aveva udito a parlarne. Tutti avevano tremato. Il primo momento dopo la morte, la possibilità di un'altra vita, quindi di un giudizio su quella trascorsa, di una vita in un altro mondo, mentre il nostro corpo resterebbe a putrefarsi in questo, di una vita incomprensibile e tuttavia di una supposizione così inevitabile al nostro pensiero, era senza dubbio ciò che rendeva spaventevole la morte, incerto quanto ognuno di noi compie prima d'incontrarla. Senza questo mistero che cosa sarebbe stato il suicidio? Poiché suicidandosi si è sicuri di sottrarsi a tutti i guai, non vi sarebbe dal canto della vita alcuna difficoltà: si ha forse paura di addormentarsi, pur non essendo sicuri del risveglio? Il problema era dunque nel momento dopo la morte. L'esperienza e la scienza umana non avevano trovato un modo per inoltrarsi in quest'ombra; tutti vi arrivavano nella medesima ignoranza, colla stessa angoscia, il più grande come il più piccolo, per sparire silenziosamente, mentre la religione sola dichiarava di averne penetrato il mistero colla parola di Dio. Non di meno la sua spiegazione era oscura; se no come la gente avrebbe seguitato a dubitare? Vi era dunque Dio? Era lui che, volendoci così oscuramente soggetti al suo volere, distribuiva con tanta inesplicabile parzialità la gioia e il dolore? Malgrado l'impossibilità di comprendere il mondo senza un creatore e di sottrarsi alla concezione poetica del cristianesimo, una rivolta gli saliva dal cuore contro questa ingiustizia della vita, che quasi sempre prodigava gli spasimi più micidiali ai più innocenti. Egli stesso ne era stato mille volte testimonio: che cosa non soffrivano i poveri, mentre i ricchi finiscono per annoiarsi non trovando abbastanza divertimenti? Se dopo morte non vi era altro, i signori diventavano ben sciocchi nel fare l'elemosina ai poveri, e questi lo erano anche di più non depredando in qualunque modo i ricchi. Perché fare l'elemosina? Tutto era caso, il fortunato non doveva logicamente che conservare la fortuna a se stesso. Invece non accadeva così: i poveri sopportavano, i ricchi li soccorrevano; forse v'era parità di dolori in tutti, perché i ricchi si suicidavano anche più facilmente dei poveri. Lo aveva sentito dire molte volte, aveva potuto notarlo egli stesso. La morte non era solo in fondo alla vita, ma la colpiva ad ogni istante da per tutto; i bambini vi soccombevano spesso prima di nascere o appena nati, si moriva sempre, in qualunque grado, nelle più inverosimili circostanze: ingegno, ricchezza, danaro non servivano a nulla, la gloria o l'infamia non toglievano niente a quest'uguaglianza della morte, la virtù e il vizio vi conducevano colla stessa rapidità; e dopo, un eguale oblio copriva tutti i defunti, la medesima spensieratezza seguitava nei viventi. Pensando alla morte si finiva col non potere uscire più da tale pensiero: ecco perché la gente non voleva fermarvisi. Tutte queste riflessioni gli toglievano di sentire il dolore della propria posizione; una specie di tranquillità gli si era fatta nello spirito, come una luce fredda, entro la quale tutto gli appariva lontanamente. La sua testa, poco abituata alle meditazioni, si distraeva già nelle sensazioni di quel meriggio. Qualche raggio, filtrando fra le foglie, gli produceva sugli abiti chiazze luminose e scottanti. Il bisogno di muoversi lo riprese. Tutta quella meditazione sul suicidio non gli aveva aggiunto che un terrore di più nella coscienza: se la vita significava qualche cosa, doveva essere ordinata ad uno scopo, che i capricci degli uomini non saprebbero mutare, e quindi tutto si riuniva nella morte come dinanzi ad un tribunale. Le menzogne, i sofismi, le oblivioni così comode e frequenti nella vita, si dissipavano nel suo ultimo istante: tutti vi si trovavano egualmente nudi davanti al proprio passato. Ecco perché si provano talora rimorsi, che ci costringono a condannare le nostre azioni più proficue, o ci impediscono l'abbandono alle nostre tendenze più personali: egli stesso forse non si trovava ora davanti alla necessità del suicidio che per aver voluto sacrificare i propri doveri di marito e di padre ad un ignobile capriccio. Era una sentenza di quella giustizia segreta, che corregge ogni errore dell'altra, e piega tutte le fronti sotto il mistero di Dio? Ma Dio permetteva agli uomini di suicidarsi? Vi erano un inferno ed un paradiso, come affermano i preti con tanta sicurezza, vivendo tuttavia al pari di coloro i quali non volevano crederci? Perché tanti grandi uomini non avevano ammesso una seconda vita? Per quanto questi problemi fossero insolubili, egli credeva di sentire adesso una grande verità nel suicidio: l'uomo, togliendosi la vita, espiava in tale dolore tutto quanto poteva aver commesso, giacché seguitando a vivere non avrebbe potuto soffrire di più. Era quindi inutile voler cercare oltre la vita qualche cosa che non doveva dipenderne; poi vi era questa differenza: gli uomini, uccidendo, sentivano tutti di commettere un delitto, mentre uccidendosi sentono solo di essere infelici. Infatti egli non sapeva altro, non era sicuro di aver ragione, ma la sua tristezza nell'accettare la morte era scevra dai rimorsi, che avevano accompagnato tante altre sue colpe. Questa volta non avrebbe fatto male ad alcuno sottraendosi ad una condanna, che in lui colpirebbe Caterina e i bambini. Sciaguratamente non v'era altra soluzione. Il suo suicidio non era rifiuto della vita, perché non se ne era anzi sentito mai così pieno: vivere nella propria casa tranquilla con Caterina e i bambini, amministrare il piccolo patrimonio, aiutarlo con qualche guadagno, fare la partita al caffè, mandare innanzi i figli finché, diventati grandi, non avessero più bisogno di lui, sarebbe stato un idillio, era l'idillio di quasi tutta la gente! Egli doveva invece suicidarsi, appunto per averlo reso impossibile. Il suo suicidio non aveva quindi le ribellioni pessimiste, che sole possono renderlo tale; come quei coscritti, che affrontano la morte agli avamposti, perché fuggendo dovrebbero sopportare umiliazioni e pene troppo amare, egli non avrebbe voluto né la battaglia né la morte, e subendo l'una e l'altra si riconosceva senza volontà. Era così, perché era così. Questa conclusione vuota fu l'ultima. Allora, perché era venuto lì? Che cosa vi aveva risoluto? Sulla campagna luminosa e calda il cielo si era fatto di una serenità abbagliante, nell'aria passavano ondate di fremiti. Eppure avrebbe dovuto aver deciso qualche cosa, essersi preparato per quella giornata! Vi era ancora una speranza? Come contenersi? Questa domanda non ne nascondeva che un'altra: era dunque stabilito? Tale decisione restava però fuori del suo spirito, giacché non ne provava ancora tutto il peso. - Che cosa faccio qui? - si chiese con un sussulto. A casa sua pranzavano circa al tocco e mezzo: lo aspettavano, manderebbero fuori la serva a cercarlo. Si figurò vivamente la scena. Se non tornava più a casa, dove passare tutta la giornata? Rimaneva perplesso, tutte le angoscie della notte lo riassalivano, eppure non gli veniva nella mente di poterlo finire subito. Più tardi, di notte, solo, in qualche altro luogo, ma allora no. Era impossibile. Si era assegnato un giorno, vi aveva diritto. Poi gli sembrava di avere molte altre cose da fare, lettere da scrivere, vedere qualcuno, rientrare ancora fra gli altri, prima di non vederli più. Aveva bisogno della notte, adesso tutto lo distraeva. Si avviò per ritornare, ma appena ebbe presa questa decisione, ridivenne triste triste; sentì che tutto era finalmente stabilito, non tornerebbe più in campagna, non rivedrebbe più quel luogo. Era la sua ultima passeggiata da solo, che nessuno conoscerebbe mai, e nella quale aveva risoluto di morire. Comminava a testa bassa, non sentiva più la vivezza dell'aria, la vampa del sole, il fresco del verde: il suo sguardo si chinava su quel letto di fiume melmoso, squallido, abbandonato, senza un rumore né un guizzo nelle pozzanghere d'acqua indolenti sotto al sole. E l'idea della morte seguitava nel suo spirito come quel letto di fiume invisibile fra i campi. * * * - Perché, vedi, - gli diceva Caterina sul finire del pranzo, - io sono persuasa che ella ci lascierà tutto. Capisco che non è gran cosa, in ogni modo sarà la dote per Ada, ma bisogna che non seguitiamo a trattarla così. Tu hai sempre detto che la zia Matilde non ti ha amato, e pare anche a me che sia così. Non so, - ella seguitava con quel suo buon senso di donna, nella quale la tranquillità del temperamento favoriva l'equilibrio dello spirito, - se tu abbia ragione sostenendo che ella ti voglia ancora male per un vecchio rancore contro la tua povera mamma, però dovresti mutare contegno verso di lei. - Che cosa vuoi che faccia? - egli rispose, preso nell'interesse di quei discorsi, che preparavano l'avvenire. Infatti Caterina lo aveva subito sgridato per non essersi fatto vedere in quella visita alla zia Matilde, dopo che ella imprudentemente l'aveva avvisata della sorpresa. E sarebbe stata davvero tale, s'egli vi fosse andato, giacché per una antipatia istintiva cansava sempre quella vecchia parente; ma questa, inciprignita naturalmente dal non vederlo arrivare, aveva finito con lo strapazzare Caterina come di un cattivo scherzo. Caterina, irritata dall'insuccesso, dopo aver troppo contato sul magnifico effetto dei bambini, non aveva poi badato all'aria abbattuta di lui. Non di meno il pranzo era proseguito abbastanza bene. Per fortuna i bambini, lieti dei vestiti nuovi e più liberi nei vecchi, che la serva aveva loro rimesso per il pranzo, si erano abbandonati al più vispo chiacchierio, mentre la mamma ogni tanto li sgridava dolcemente per frenarli ed egli acconsentiva con un sorriso. Quindi il discorso era ritornato sulla zia Matilde, la quale avendo oltrepassato i settant'anni non poteva ancora campare molto. Con quella ingenuità di egoismo propria degli eredi, Caterina valutava tranquillamente tale probabilità, traendone una lunga serie di conseguenze per se stessa e per i figli, molto più che i modi di lui con la vecchia le avevano sempre dato pensiero. Ella credeva alla buona, quantunque modesta posizione della propria casa, ma coll'antiveggenza delle madri, quando amano, cominciava a preoccuparsi dell'avvenire. Il suo affetto era specialmente per la bambina. Le difficoltà sempre più tristi per le ragazze di trovare un discreto partito, le avevano messo in cuore una specie di pessimismo, unica sua reazione contro la vita, della quale aveva sempre accettato il corso blando senza chiedersi di più. Ma Ada, che a giudicare da quel momento doveva crescere molto bella, avrebbe avuto bisogno di una certa dote per accasarsi convenientemente dopo la buona educazione, che ella pensava di darle anche a costo dei più gravi sacrifici; su questo argomento Caterina, così arrendevole, non voleva intendere ragioni. - Tu manderai avanti Carlino. Era questa la risposta, quando egli le faceva osservare che per mettere Ada nell'educandato di Fognano occorreva una grossa spesa annuale, mentre poi le ragazze uscendo dal convento non sapevano far nulla per la vita. Caterina, invece, sognava d'interessare a questo suo disegno prediletto la vecchia zia Matilde. - Che cosa vuoi dunque che faccia un giorno Ada? La maestra, la sarta? La fanciulla, già viziata dalle troppe carezze, scuoteva la testa con una smorfietta, ed egli non sapeva come replicare. Quindi colla facilità delle donne a vedere già realizzati i propri sogni, Caterina s'inteneriva orgogliosamente sull'avvenire, vedendo Ada mescolata a tutte le signorine delle migliori famiglie, e più bella di loro fare appena uscita di convento un grande matrimonio. - Stasera, poco prima dell'Ave Maria, ritorneremo dalla zia Matilde per scusarci: verrai anche tu, non me lo negare. Io ti ho sempre lasciato fare quando hai voluto: ti ho forse mai disturbato? - proruppe ad un suo moto; - e poi non si tratta di me o di te. Oramai per noi è finita: che cosa ci può accadere? Invecchieremo così alla meglio, ma essi hanno bisogno di una buona posizione. Tu hai sempre voluto che Carlino debba andare all'università; io ti approvo, ma debbo preoccuparmi anzitutto dell'altra. Io sono la mamma. Un uomo nella vita arriva sempre a cavarsela, ma una donna se non trova presto marito, senza una buona posizione, può essere perduta. - La zia non ci lascierà nulla, - egli osservò: - sai pure che è pazza per quella sua figlioccia. - Lo dici tu, io non lo credo. Sarebbe da parte sua una ingiustizia: è capitale di famiglia, deve ritornare a noi. - Deve! - Non si può gettare via il capitale della famiglia. Egli s'irritò. - Molti lo fanno. - Hanno torto. Adesso ti diverti a farmi arrabbiare: verrai anche tu? - Non ci andiamo, mamma, la zia Matilde mi fa paura, - protestò Ada agitandosi sulla sedia. La zuppa inglese, portata trionfalmente da Anastasia sopra un piatto oblungo, interruppe la conversazione; i fanciulli batterono le mani strepitando, ma la mamma ne tagliò subito col cucchiaio la metà per serbarla all'indomani. - Lascia che la mangino tutta, - egli disse, intenerito dalla smorfia dei bambini. - Ma che cos'hai oggi? mi contraddici sempre. Egli aveva mangiato quasi come al solito, obliandosi nelle abitudini di tutti i giorni, fra il pettegolezzo dei fanciulli, le chiacchiere della moglie e le osservazioni di Anastasia, che si vantava per la riuscita del pranzo. Però gli era parso che questa, di quando in quando, lo scrutasse. - Perché non ne mangia lei? - gli chiese infatti, vedendolo dare la propria porzione a Carlino. Allora Ada s'ingelosì. - Lascia lascia, egli è più piccolo di te. Ma sulla fine dei pranzo l'allegria scemava. I fanciulli non gridavano più, sorvegliandosi a vicenda, malgrado l'attenzione che mettevano a forbire il piatto della crema; Caterina, ricaduta nella preoccupazione della zia Matilde non parlava. Improvvisamente egli si sentì scoppiare il cuore: non esisteva già più per loro. - In quale stato pranzeranno domani! Eppure nulla era ancora mutato intorno. La saletta, quieta come sempre, aveva la stessa aria di pulizia e di modesta agiatezza; la tovaglia, essendo domenica, era bianca, il cavallo di Carlino dormiva dimenticato sopra quella sedia. Tutto invece sarebbe sossopra domani: forse il vecchio mansionario scenderebbe lui pure, attirato inconsciamente dalla paura della morte. Chi sà quali pianti, quali commenti! Dove sarebbe allora il suo cadavere? - Lei non sta bene; - lo destò la voce brusca d'Anastasia. - Io! - Io dunque? proprio lei, che cosa ha? - Infatti anch'io ti ho osservato. - Ma non ho niente! dammi piuttosto da bere, ecco. Che cosa debbo avere? Avete paura che muoia? Aveva cercato di fare la voce scherzosa, affrettandosi a bere per dissimulare il turbamento, ma quell'ultima parola lo trascinò. - Bah! se dovessi anche morire... - Che discorsi sono questi? Siccome Carlino aveva finito di pulire il piatto coi ditini, egli vinto da un impeto di tenerezza si sporse, afferrandolo sotto le ascelle, e se lo mise sulle ginocchia. Il piccino rideva superbo. - Hai ancora il soldo? No? lo avrai nell'altro abitino. - Eccolo, papà: guarda il buco. - Di' alla mamma che ci passi dentro un cordoncino, e te lo metta al collo. Mi hai promesso di non spenderlo: manterrai la promessa? Vuoi più bene a me o alla mamma? Carlino esitava. - Hai ragione, hai ragione: lei è migliore di me; va a prendere il tuo cavallone. Così poté alzarsi per accendere lo zigaro. - Dunque siamo intesi; stasera verrai anche tu dalla zia Matilde, - tornò ad insistere Caterina. - No, non vengo. Vedrai che domani verrà lei da te. - Tu scherzi sempre. - Già! Si era rimesso il cappello per uscire, scordandosi di scrivere quelle lettere; la paura lo riprendeva. Se fosse rimasto ancora qualche tempo, non avrebbe più saputo come andarsene; poi capiva che, solo coi bambini anche per un momento, sarebbe scoppiato a piangere. Fortunatamente il pranzo aveva durato sino alla solita ora, nella quale usciva a prendere il caffè. - Me ne vado, - disse due volte, - senza riuscire a decidersi. Caterina si era alzata per andare in cucina, egli la seguì; avrebbe voluto voltarsi per stringere in un abbraccio furioso le teste dei fanciulli, ma Anastasia rientrava già per sparecchiare. - Va pure, siamo intesi! - ripeté Caterina una ultima volta. Per risposta egli le diede un gran bacio sulla bocca, fuggendo subito dopo. Caterina rimase sorridendo di quella soluzione. * * * Nel caffè, a quell'ora, la gente era già affollata intorno ai tavolini, che lasciavano appena un varco sotto il loggiato: regnava l'allegria, le voci si alzavano scherzose. Al suo apparire molti lo salutarono, mentre altri si ritraevano per fargli posto nel solito crocchio; egli invece si sentiva freddo di dentro. Quel nuovo aspetto di festa nel pomeriggio lo turbava. Per un momento aveva pensato di andare nell'altro grande caffè aperto all'angolo del palazzo Rondinini, frequentato dai più grossi signori, quasi tutti naturalmente di parte moderata, per incontrarvi il Bonoli e lo strozzino, che di rado vi mancavano. Poi una paura irragionevole, che tutti a quell'ora sapessero già della sua cambiale falsa mandata in pretura, lo aveva sorpreso. Perché non lo saprebbero? Se Roberti certamente non ne aveva parlato con altri prima di partire, il pretore poteva bene averne fatto a qualcuno la confidenza; il caso non era molto probabile, e non di meno, nell'odio improvviso, che si sentiva in cuore contro quel giovane magistrato, adesso divenuto inevitabilmente il suo padrone, si ostinava a dubitare. Del signor Bonoli invece e dello strozzino, più interessati e quindi più facili a tale propalazione, quasi quasi non sospettava: il perché non avrebbe saputo dirlo. Quando nello svoltare dalla fontana vide quel pezzo di loggiato, dinanzi al caffè così gremito di gente, fu per arrestarsi, ma parecchi dovevano già aver guardato verso di lui. Colla bruschezza, che dalla lettura di quel biglietto gli aveva così profondamente mutato il carattere, si decise quindi ad andare innanzi. Se altra volta si fosse battuto in duello, avrebbe creduto di risentirne quell'emozione indefinibile allorché i padrini, dopo avervi tratta la camicia e legato il fazzoletto al polso in qualche angolo appartato, vi dicono improvvisamente, con voce breve: - Andiamo. Non gli accadde nulla. I discorsi erano gli stessi degli altri giorni; a un tavolino alcuni radicali, tutta gente della piccola borghesia, vestiti a festa, e quindi con un'aria più importante e una più grossolana affettazione di chiasso, ciaramellavano di politica; altri parlavano d'affari, più in là un crocchio di giovanotti discuteva di donne, naturalmente in termini vivaci ed osceni, i camerieri andavano e venivano, mescolandosi spesso alla conversazione con una famigliarità poco rispettosa, e nondimeno punto antipatica in quelle abitudini di provincia. Sotto il portico cominciava a passare qualche ragazza: allora tutti gli occhi si voltavano e prorompevano giudizi sommarii, espressioni scoppiettanti come razzi. Quel giorno non v'era alcun argomento speciale di pettegolezzo. Egli sedette. Il cameriere, ragazzotto piccolo e pallido, in giacchetta nera, gli portò al solito il caffè senza averne aspettato l'ordine, e gli sorrise deponendolo sul tavolo. Appoggiato colla schiena ad una colonna egli guardava il Duomo. L'enorme portone di mezzo era socchiuso, e sull'arco del suo vano si agitava lievemente un drappo rosso, segnacolo di qualche festa religiosa in quel giorno; la scalinata di granito pareva più bianca nel sole, la fontana gorgogliava da tutti i propri zampilli, avvolta in un pulviscolo d'acqua tenue come un vapore. Tutto quel largo dinanzi al Duomo sino in fondo alla piazza rimaneva deserto, nessun fiacchero stazionava ancora presso il caffè, l'omnibus del grande albergo era già ritornato dalla stazione; solo qualche bicicletta passava tratto tratto nel vuoto, silenziosamente. Siccome quella gente non sapeva ancora nulla della sua disgrazia e, sapendola, si sarebbe subito scostata, colle cautele così pronte ed assennate dell'egoismo, egli tra la distrazione di quei discorsi tornava a ricordarsi tutto quanto sapeva sopra ognuno degli interlocutori. Pochi avevano una posizione solida ed equilibrata, ed anche questi pochi non avrebbero probabilmente davanti ad un giudice, capace di legger loro nelle coscienze, saputo giustificarne l'origine o il modo: tutti gli altri vivevano come lui, fuori della propria orbita naturale, rammendando ogni mattina gli strappi di ogni sera, nella stessa impotenza di frenare i propri vizi o di guadagnare abbastanza per alimentarli senza pericolo. A vederli così vestiti e con tale disinvoltura giuliva, un estraneo avrebbe potuto crederli ricchi e felici, mentre ognuno celava nella propria vita qualche ignobile controscena di compromissioni domestiche o commerciali, vergogne di donne comprate o vendute, orrori di figli assassinati nell'avvenire per inconfessabili passioni. Eppure sarebbero domani i suoi giudici perspicaci, perché sommerebbero tutte le loro osservazioni su lui, e condannerebbero, avvelenando la condanna di scherni, per quella inconsapevole necessità in tutti di separarsi da coloro, che soccombono nella vita. Era così, non poteva essere altrimenti; se no la gente per compiangerlo avrebbe dovuto condannare se stessa. Egli solo si era scioccamente messo in tale condizione di suicidio, mentre gli altri facendo di peggio sapevano restare a galla. Però questa spiegazione superficiale non gli bastava: un'altra forza oscura spingeva innanzi la vita d'illusione in illusione, di guaio in guaio, sino alla fine, che interrompeva tutto senza risolvere nulla. La moglie, i figli, quanti restano dopo, prorompono in lamenti contro il morto, cercano di rassettare la posizione, e invece tornano a comprometterla con la medesima serie di vizi e di sciocchezze. Era questa l'eterna ridda, l'eterna morale: i figli si lagnano dei padri e, divenuti padri, sacrificano l'interesse dei figli al proprio: le donne, per lo più morigerate come ragazze, si abbandonano da spose e da madri ad ogni sorta di eccessi: i patrimoni oscillano, si scompongono, si ricompongono attraverso un tafferuglio di rapine, di leggi, di prodigalità, di avarizie, di casi tragici o fortunati, nei quali non si capisce nulla, ed è impossibile resistere. Tuttavia in quel momento egli falsario, deciso a morire della propria colpa senza chiedere soccorso ad alcuno, si sentiva migliore di quanti lo circondavano. Un orgoglio doloroso gli gonfiava la coscienza. Invece di scusarsi ai propri occhi come aveva tentato più volte nella notte, si compiaceva quasi ad ingrandire l'accusa, spremendone un'acre vanità. Non era egli pronto a morire? Che gl'importava di tutta quella gente? Quale di loro, malgrado tutte le vanterie, che avrebbero fatto sul suo conto, affermando l'uno contro l'altro di averlo conosciuto benissimo, saprebbe solamente indovinare le sue nuove sensazioni in quell'ora? Era una specie di alterezza, che gli faceva guardare intorno come dall'alto: qualche cosa di profondo e di freddo, che doveva somigliare alla emozione del comando supremo per un generale, nel momento di arrischiare sopra l'ultima idea la vita di migliaia e migliaia di uomini. La morte innalza sempre. Invece di scrutare nella sua oscurità, il che lo avrebbe daccapo atterrito, si guardava indietro come per una lontananza, nella quale le cose e gli uomini perdevano coll'esattezza del rilievo quasi tutta la propria importanza. Che cosa era mai la vita, a pensarci bene? Egli avrebbe sempre seguitato a quel modo, con le solite soste al caffè, sempre fra quelle persone, quei discorsi, senza una speranza mai di mutare, di salire, di provare qualche cosa di nuovo. Null'altro. Tant'era dunque andarsene prima che la vita divenisse solamente un seguito interminabile di ore nel vuoto di una prigione, e dopo, più tristamente, un fuorviare fra la folla per evitare certe persone, per cansare certi sguardi; poi, rabbuffi strazianti in casa dalla moglie e dai figli, fuori un bisogno sempre più umiliante di trovare un impiego, un modo egualmente indispensabile ed impossibile di guadagno. - Oh! non dici niente oggi? - gli si volse Cavina, un giovane mastro-muratore dalla fisonomia malaticcia, che la passione e una tal quale raffinatezza di gusto nella musica rendevano al tempo stesso simpatico ed un po' avversato. - Pensi ai miei debiti o ai tuoi? - seguitò con lo scherzo solito fra di loro, che, troppo desiderosi di spendere, finivano collo sbertarsi reciprocamente sulle angustie della propria posizione. Egli sussultò. - Sono così, non lo so; - ma gli parve subito dopo di avere risposto male. Il muratore confessava che sarebbe andato volentieri alla prima rappresentazione del Lohengrin: c'era tempo ancora, un treno partiva sulle quattro. - Bisognerebbe avere cinquanta franchi da buttar via. - Perché cinquanta franchi? - Sai, dopo il teatro viene la cena, la donnetta... Si rideva: altri sarebbero partiti con lui per Modena, avendo in tasca i cinquanta franchi, meno ancora per ascoltare la musica del Lohengrin che per il piacere della gita. Allora Romani ebbe un impeto di sdegno. - Perché spendere cinquanta franchi? Sono cose che bisogna lasciarle fare ai signori. - Ai signori! - un altro replicò celiando - ma sono un signore anch'io, quando spendo cinquanta franchi in una sera: vuol dire che per quella sera ho cinquanta franchi di rendita. Tutti risero. Romani si accorse trepidando di essersi lasciato trasportare dalla collera contro quella falsa facilità del vivere, che lo aveva condotto all'ultimo punto: quindi per distrarre l'attenzione rimise il discorso sul Lohengrin. Allora tutti protestarono: non sarebbe mancato altro che, non potendo assistere alla rappresentazione, ne avessero dovuto subire la disquisizione da Cavina. Ma questi, che parlava benino, non resistette; da pari suo aveva letto troppo o si ricordava abbastanza le spiegazioni del mito lohengriniano. - È un gran bel finale, - concluse dopo non molto, giacché s'imbrogliava nel patto fra Elsa e Lohengrin; - nessuno muore, eppure è una tragedia. Lohengrin ritorna in cielo col cigno: è un motivo, che fa venire la pelle d'oca, lo stesso motivo, col quale viene rimandato il cigno nel primo atto; ma nessun musicista avrebbe mai saputo trovarne uno uguale. Poi è di una naturalezza! - seguitò animandosi: - Lohengrin canta perché non deve morire, mentre in tutti gli altri finali italiani si ammazzano il tenore e la donna obbligandoli a cantare con tutte le loro forze. Ciò è falso: un ferito, un moribondo non possono cantare; sì, altro che cantare in quel momento! - Ma in teatro... - Che c'entra? In teatro si deve rappresentare la verità. Il finale del Rigoletto è bello, lo concedo anch'io, ma la donna trapassata da un colpo di spada come potrebbe cantare? Sono convenzionalismi, che hanno fatto il loro tempo: io dico che la musica deve rispettare le situazioni drammatiche, e non pretendere di far cantare in condizioni impossibili. C'è l'orchestra appositamente: perché il maestro non la fa cantare invece del tenore o della donna? Sì! il duetto della barella nella Forza del Destino! Don Alvaro ferito a morte, che urla come un dannato! Tiriamo via. Io credo che non solo un moribondo o un ferito, ma nemmeno un condannato a morte, proprio all'ultimo momento, lo si possa far cantare. Che cosa ne pensi tu, Romani? - Mi pare che hai ragione. - Perché? Si sono visti tanti condannati salire il patibolo indifferentemente, - disse un altro. - Indifferentemente! Metti loro una mano sul cuore... Ti sentiresti tu di cantare nei loro panni? - ripeté ostinandosi in questa, che a lui pareva una grande idea novella in arte. Ma la conversazione deviò ancora. * * * Mentre il passeggio della gente cresceva pel largo del Duomo e sotto i portici, gli avventori del caffè si diradavano. Le donne sfilavano vestite a colori vivaci, in ritardo dalla moda e non pertanto esagerandola con una volgarità di tagli e d'intenzioni, alle quali la goffaggine del portamento finiva col dare un non so che di maschile. Egli, divenuto più perspicace, interrogava curiosamente ogni fisonomia per indovinare sotto la sua maschera della domenica il segreto di tutti i giorni. Quindi si accorse che in quella bruttezza di quasi tutte le donne mancava appunto ciò che avrebbe potuto riscattarla, l'incantevole e delicata debolezza del sesso. Fu come una rivelazione per lui. Invece colei, che lo aveva perduto, era donna nel più profondo significato della parola. La paragonò mentalmente per cinque minuti a quante passavano, senza arrivare alla spiegazione della sua superiorità: in che cosa consisteva? Dove era adesso? S'immaginava nemmeno che egli potesse trovarsi così? Erano le cinque. Fuori di porta Montanara, per lo Stradone, il passeggio doveva essere incominciato. Daccapo non seppe che cosa fare. Dinanzi all'altro caffè la larga distesa dei tavolini arrivava insino al palco della banda, senza un avventore; si ricordò del primo pensiero, svoltando alla fontana, di andare piuttosto a quel caffè, dove capitavano il signor Bonoli e lo strozzino. Allora non aveva osato, adesso gliene ritornava un desiderio malato. Siccome era rimasto solo al proprio tavolo, si alzò senza salutare alcuno, giunse in fondo al portico, ne discese i gradini, e si mise all'ultimo tavolino presso l'ultima colonna. Chiese il Secolo ed un gelato. Ma, così solo, gli tornava la paura. - Quanto ci vorrà ancora, prima che sia sera? Rapidamente pensò ai nuovi incontri, ai discorsi che dovrebbe ascoltare, a quelli cui sarebbe inevitabile rispondere, alle combinazioni, ai casi inavvertiti tutti gli altri giorni. Avrebbe potuto tradirsi senza accorgersene. Di quando in quando rimaneva senza forze, in una attonitaggine, dalla quale lo toglieva la sensazione improvvisa del pianto, che stava per sfuggirgli. A quanto doveva compiere nella notte aveva deciso di non pensarci, anzi era sorpreso di scordarsene tratto tratto. Come avveniva ciò? Nessuna di quelle terribili strette, di quei dolori trafiggenti, sotto ai quali nella notte aveva creduto tante volte di svenire, gli si era ancora rinnovato: le ore passavano, dandogli solamente una sensazione vacua, come se ne provano assistendo a certi spettacoli senza prendervi interesse. In tale momento il luogo più deserto era appunto il caffè, ma il suo isolamento avrebbe finito coll'essere notato anche lì. Dove andare? Non aveva nulla da fare; e poi a che scopo lo avrebbe fatto? In questa impassibilità stava già la morte. Oramai era fuori del mondo, non apparteneva più a nessuno, non aveva più nulla. La vecchiezza non deve essere altro che la lenta progressione di questo sentimento, l'abbandono reciproco di tutti verso uno e di uno verso tutti per una solitudine annebbiata, silenziosa, immobile. Aveva acceso un altro sigaro. Guardò alle notizie del giornale senza fermarsi ad alcuna, poi le appendici lo attrassero: Un Idillio tragico, di Bourget; I milioni della scema, di Montfermeil: nel primo la scena era a Montecarlo, nei saloni da gioco rutilanti d'oro, invasi da una folla cosmopolita, di tutti i costumi, di tutti i gradi, di tutte le fortune. L'autore dipingeva finamente e rapidamente; egli ebbe la sensazione di quell'ambiente, nel quale la gente andava per tentare di non morire, ottenendo da una vincita la guarigione della propria vita anemica di oro, di fede, di speranza, di amore, perché presso alla morte tutto si fa pallido. E in quella folla, nella quale l'egoismo delle disperazioni non permette lo scambio di alcun sentimento, e fra quelle le pupille chine e vacillanti sui tavoli nello stesso sogno di riscatto; fra quel silenzio, che neppure il delirio della salvezza improvvisa o la sùbita rivelazione della morte arrivano a turbare; in mezzo a quella moltitudine famelica di ozio e di ricchezza, dentro il profumo dei fiori, l'incendio dei lampadari, la pompa abbacinante di un lusso divoratore, Bourget aveva messo due incantevoli figure di donne, sorridenti in un dialogo di amore. Egli ne lesse le prime battute affascinato, arrestandosi in fondo all'appendice, quasi colla stessa sensazione che se si fosse urtato in un muro. A Montecarlo il suicida tenta di forzare ancora una volta la fortuna; può bastare un solo scudo per ritornare felice e trionfante alla vita. Quanti vi avevano vinto la posta della propria esistenza! Quanti altri l'avevano perduta! Erano più i primi o i secondi? Quanti suicidii si compiono all'anno in Italia, in Europa? Egli non lo sapeva, ma se qualcuno gliene avesse detto la cifra enorme, gli sarebbe parsa esagerata: nullameno ebbe come una vaga visione di questi volontari della morte, strano esercito senza generale e senza disciplina, che tutti gli anni si esauriva sino all'ultimo soldato, e si rinnovava tutti gli anni inutilmente. Ogni suicida credeva di agire solo: qualche volta morivano a poca distanza l'uno dall'altro, egualmente separati dalla differenza dei motivi. Chi poteva dire davvero il perché di un suicidio? Egli stesso non avrebbe saputo definire il proprio caso; le ragioni erano molte, forse una per una non sarebbero bastate, forse neppure la loro somma diventava decisiva... Egli ci aveva pensato molto, poi si era accorto di non poter concludere. Era a questo punto, quando Gualtiero Ponti gli batté la mano sulla spalla: - Anche tu leggi il nuovo romanzo di Bourget: bisognerebbe invece, mio caro, poter andare a Montecarlo e vincere. - Vincendo, che cosa faresti tu? - Mi divertirei. - Come? - Seguiterei a giocare. E l'allegro giocatore, del quale aveva il giorno prima tentato di scontare indarno la cambiale, rise al pensiero di chiudere così la parentesi della propria vita. - E la cambiale? - chiese. - No, è stato impossibile. - Allora? - Allora! L'altro si era voltato a guardare una donna. - Ma quando sarai rovinato? - domandò Romani, che provava un bisogno crudele di affliggerlo, benché quello scapestrato non gli avesse fatto alcun male. Gualtiero Ponti si contentò di alzare le spalle. - Andiamo a fare un giro per lo Stradone? fra poco verranno Tamberi, Marzocchi; sai, questa notte Marzocchi ha perduto settecento lire, io mi ero rifatto, poi ho finito col perderne settantacinque. Ceniamo insieme? Non si era ancora seduto. Era un giovanotto piccolo, brutto, coi baffi a spazzola, la testa rotonda e già calva, che mostrava indifferentemente, giacché si era tratto il cappello per asciugarsi il sudore, rimanendo così a capo scoperto; un tic nervoso gli faceva di quando in quando scattare le dita della mano destra. - Tu non ci pensi dunque? - insisté ancora Romani. - A che cosa serve il pensarci? * * * Non c'era altra filosofia nella vita: sciaguratamente non bastava, perché giungeva il momento di dover pensare per forza. Finirebbe così anche colui? Istintivamente rispose di no, conoscendolo troppo bene per supporlo capace di un simile sforzo. Tuttavia in quel momento, per una specie di giustizia che si sentiva dentro, avrebbe avuto bisogno di credere che per lui pure sarebbe venuta quell'ora insopportabile di espiazione. Quindi n'ebbe come uno scatto violento. - Te ne vai? chiese l'altro, vedendolo alzarsi. - No, debbo fare una lettera. - Va' dentro nella sala a scriverla: ti aspetto qui. Infatti qualche cosa bisognava che scrivesse. La prima idea fu di rivolgersi alla zia Matilde per raccomandarle i bambini; non voleva dir altro, non ne sarebbe stato capace. Si era messo all'ultimo tavolino presso la porta, che dava nella seconda sala del bigliardo: notò che due vecchi lo guardavano. Aveva la mano ferma. Gualtiero Ponti si affacciò dalla strada alla vetrina; allora egli si affrettò. Cara zia, 2 maggio 1896. Vi raccomando i miei bambini, abbiate pietà di loro che sono innocenti; io sconto tutte le mie colpe colla morte. E firmò, avvolgendo come al solito tutta la firma dentro il riccio dell'ultima i. - Hai fatto presto, - gli disse Ponti avvicinandosi. L'altro aveva già chiuso la lettera nervosamente, la mano gli tremava nello scrivere l'indirizzo. - Dammela: te la getto nella buca, mentre vado dal tabaccaio a comprare le sigarette, altrimenti potresti scordartene, come accade quasi sempre a me. Romani rimaneva perplesso; se impostava la lettera, la cosa diventava irrevocabile. Una nebbia di sangue gli salì dal cuore agli occhi. Quasi senza comprenderlo, si cercò in tasca il soldo per il francobollo. - Va! ce lo metto io, - disse Ponti colla mano tesa per ricevere la lettera. Quindi la prese senza guardare la soprascritta, e uscì dal caffè. Romani non si poteva muovere, ma pensava, rabbrividendo: - In ultimo, vi è sempre qualcuno che vi spinge. * * * Poiché avevano mutato luogo alla stazione ferroviaria, costruendone poco lontano un'altra più ricca e più goffa, la strada fuori di Porta Vecchia a quell'ora non era più frequentata come in altri tempi. Egli dopo aver errato per molte vie della città, aveva finito per infilare quella; il sole si piegava al tramonto, dalla campagna veniva una frescura di verde umido e di piante in fiore. S'imbatté in don Procopio, il mansionario, che abitava al disopra di lui; il vecchio ottantenne girava ancora solo, con passo abbastanza sicuro senz'altro appoggio che un bastone dal pomo di avorio ingiallito. Era vestito del solito vecchio soprabito con una leggera mantellina al disopra, tutto lindo e rasato di fresco: i capelli bianchi, troppo lunghi, gli uscivano in ciuffi dagli orecchi. - Lei! - esclamò Romani. Il vecchio gli sorrise, scoprendo due ammirabili fila di denti troppo lunghi, di un bianco gialliccio. Romani si era fermato. - Dove va? - disse, cedendo finalmente al bisogno di una conversazione. - Poco lungi, figliuolo mio. Nihil est longe a Deo: è l'avvertimento di Santa Monica al suo figlio Agostino. Ma l'accento tranquillo contrastava con la lirica minaccia del motto latino. - Sono stato sino alla sbarra della ferrovia. - Ritorni ancora indietro con me. - Nella sera si fa fresco, io sono vecchio e mi avvicino al termine. - Che importa? - proruppe l'altro: - bisogna ben finirla una volta con questa vita. - Eh! finirla... finirà certo. Quando si è giovani si parla male della vita, perché non se ne capisce il pregio, e al più piccolo contrasto si pensa persino male di Dio. - Perché dunque permette egli tante infamie? Perché vi è della povera gente, che deve morire in miseria dopo aver fatto ogni sforzo per non meritarla, mentre i farabutti riescono sempre in quello che vogliono? - Lo sapremo dopo, figliuolo mio: finché viviamo, bisogna rispettare la vita come un dono di Dio. - Poteva tenerselo. Ma siccome la voce gli aveva tremato, il vecchio si fermò a guardarlo in viso. - Non vi è altro in questo mondo che la vita: che cosa volete vi sia di più importante? - Come mai dunque certuni se la tolgono? - Pazzie, suggerimenti del demonio! Tutti i dolori passano, è questione di pazienza: dopo, pensandoci, si resta sempre sorpresi di aver disperato. Vedete, io che sono vecchio, ho avuto anch'io le mie disgrazie, i dispiaceri... e poi, se si potesse ricominciare, ricomincerei. - Lei non può avere sofferto veramente nella vita; bisogna esserci dentro per provarla e comprendere come alle volte non c'è altro modo di cavarsela che andandosene. A che cosa serve la pazienza, quando non c'è più alcuna speranza? - Volete farmi parlare perché sono prete, non è vero? Oggi tutti i giovani, che discorrono con noi, pretendono d'imbarazzarci; ma voi stesso in questo momento non potete essere al caso di giudicare sulle tristi condizioni, che spingono certi infelici al suicidio. Romani si era arrestato, aspettando la sua opinione, ma il vecchio tacque. Andava adagio, soffermandosi spesso a guardare quelli che incontravano, mentre una collera sorda spingeva l'altro a bestemmiare davanti a questo prete, il quale pretendeva naturalmente di rappresentare Dio e di poter parlare in suo nome. Quindi seguitò: - Si fa presto a dire che uno, il quale si uccide, è pazzo; ma se non lo fosse? Moltissimi dànno prova del massimo sangue freddo sino all'ultimo istante. - Pazzi, pazzi! La chiesa permette appunto il loro seppellimento in terra benedetta, perché li considera pazzi. Ma se non c'è altro al mondo che la vita, la quale ci fu data per guadagnarne un'altra migliore! Lasciate correre, sono fandonie delle moderne filosofie; ma intanto tutti questi filosofi e questi poeti, che bestemmiano la vita, tirano a campare. - E quelli che si ammazzano? - Matti! - Non è vero! - proruppe: - Vi sono delle circostanze, nelle quali il suicidio diventa l'azione più onesta e più utile, che un uomo possa fare. E poi, perché si deve tribolare tanto? Se Dio... - Non bestemmiare, figliuolo mio. - Non bestemmio; se Dio fosse giusto... - Andiamo, andiamo, - ripeté il vecchio, alzando un pochino la canna in segno di disapprovazione; ma il fischio della vaporiera li interruppe. Si fermarono, il cantoniere chiudeva dinanzi a loro la barriera. - Passa il vapore, lo vedremo, - disse il prete, voltandosi verso la stazione invisibile, alla quale il treno doveva essersi arrestato. Anche Romani non parlava più; l'affermazione così sicura di quel vecchio sulla vita lo aveva scosso; capiva che confessandogli anche la propria tragedia, non solo non lo avrebbe commosso abbastanza da farlo vacillare nelle proprie convinzioni, ma nemmeno da intenerirlo. I vecchi non si appassionano più per alcuno, ma, chiusi in se stessi, si nutrono dei propri giorni, adagio, come per farli durare maggiormente. Quindi rimaneva irritato; il bisogno di discutere, senza rivelarlo, il proprio suicidio, lo tormentava sempre più dolorosamente. I dubbi filosofici, i terrori religiosi della mattina lungo l'argine del fiume, tornavano a sopraffarlo dinanzi a quel prete, che rappresentava la doppia rivelazione della vita e della religione. Egli doveva sapere per aver provato, e perché credeva senz'alcuna incertezza. Lo esaminò. La sua faccia esprimeva una calma senza nessuna vivacità, adesso che la vita era per lui ridotta al minimo; non diceva nemmeno più la messa, tutto si riduceva al pranzo e a quella passeggiata. Eppure era come tutti gli altri; nessuno voleva pensare alla morte. Egli invece fremeva. Dopo aver lasciato impostare quella lettera, un nuovo orgasmo lo aveva obbligato a muoversi, quasi a fuggire, solo nelle strade, per non tradirsi con qualche scoppio irrefrenabile. Che cosa gli importava della vita? In quel momento, pur di finirla subito, avrebbe accettato anche la morte più dolorosa. Era la rivolta degli animali deboli, che trovano nella disperazione il coraggio dell'attacco. Quel prete di una religione, che secondo la gente ha un balsamo per tutti i dolori, non aveva indovinato in lui, non aveva sentito niente nella sua voce! Un sorriso amaro gli contrasse le labbra. Un altro fischio acuto, prolungato, fendé l'aria; s'intesero gli scoppi di un'enorme respirazione che si avvicinava, si vide in alto uno stendardo azzurrognolo di fumo, e il treno passò alla barriera rapido, nero, perdendosi nella campagna, che si assopiva languidamente sotto il tramonto. Don Procopio lo aveva seguito cogli occhi: - Quello sarà sempre giovane, mentre i nostri cavalli, - e si batté una gamba colla canna - non vanno oramai più! Romani era diventato pallido come un cencio; nei suoi occhi sbarrati vi era la fissità dell'agonia, che non vede più o vede già troppo lontano. * * * Non aveva potuto parlarne nemmeno col prete. Questa impossibilità di trovare un'anima, nella quale riversare tutta l'angoscia della propria, gli era diventata uno spasimo maggiore della stessa necessità di uccidersi. Sino dalla notte, dopo la lettura di quella lettera, resisteva all'angoscia di rivoltarsi per terra mordendo qualche cosa: invece aveva dovuto comporsi una maschera simile al volto di tutti i giorni, perché nessuno si accorgesse di quello che soffriva. Gli pareva di essere un sonnambulo, colla coscienza di non poter più uscire dal proprio sogno. La vita seguitava intorno a lui più intensa di prima; la luce animava le cose, l'aria vibrava, alitavano profumi, i rumori salivano dalla terra mescendosi in una sonorità inesauribile, dentro la quale passava un'altra infinità di musiche, mentre la gente affaccendata di sé medesima sembrava non accorgersi neppure del tramonto imminente. Non poteva essere che così. Era come di quelle danze che i più piccoli insetti fanno nei raggi del sole: volano, si riproducono senza posa, in una confusione ardente ed instancabile, e quello che si arresta un istante, cade non visto nell'ombra, sulla terra. Nessuno può fermarsi al dramma o alla morte di un altro, perché il dramma è in tutti, e tutti debbono morire; la pietà è appena un sorriso, che si volge ai feriti capaci di rialzarsi; per quelli che soccombono, la disattenzione previene già l'oblio. Egli stesso non sapeva più che cosa dire agli altri; si sentiva come una di quelle foglie galleggianti nel fosso sotto il temporale del suo sogno: che cosa avrebbe potuto dire una di quelle foglie morte alle erbe dei margini sbattute dalla corrente? Il problema della morte è più lontano e più in alto della vita, dove il tempo dilegua nell'eternità; e quando l'anima s'affaccia nuda a tale problema, se non vi scorge qualche cosa nel buio, ciò vuol dire che la luce della lampada accesa dalla religione in quelle insondabili profondità si è spenta. Il giorno cadeva. Un vapore si distendeva pel cielo, abbassandosi lentamente sull'aria, che si raffreddava; gli oggetti si velavano incertamente, la moltitudine pareva calmarsi. Però le sue voci si facevano più inquiete, tutti i passi si affrettavano. Le grida degli uccelli erano cessate all'improvviso nell'oscurità misteriosa del fogliame: dentro le finestre, prima incendiate dal sole, il buio si era fatto denso come un panno nero, le strade piene di popolo avevano una ondulazione di marcia sotto la notte imminente. Egli aveva oramai finito quel giorno. Le campane della sera disperdevano il proprio gemito nel silenzio delle lontananze, come un'invocazione saliente dalla terra dinanzi al terrore delle tenebre, che stavano per sommergerla. Nell'agonia di tale fine, che non aveva mai avvertito prima di allora, gli parve che la morte sfiorasse tutte le cose. Quanto era succeduto in quel giorno, non succederebbe più, era già perduto irrevocabilmente dove tutto si perde, ciò che fu e ciò che dovrà essere, perché la vita non è appunto che una evanescenza, un suono di suoni, un'ombra di ombre vagolanti in un infinito infinitamente remoto. La sua anima si ravvolse nel lungo brivido di quella solitudine, che solamente il pensiero avrebbe potuto riempire. Poi il crepuscolo si oscurò ancora, le prime stelle spuntarono dalla volta del cielo, mentre per la città si accendevano i primi fanali, fra un mormorio più indistinto di voci, al disopra della folla, che dileguava nella oscurità delle strade. Ma le stelle crescevano sempre nel cielo opaco, troppo grandi e troppo vivide perché la notte potesse appannarle: miriade di mondi viventi di un'altra vita inesplicabile alla nostra, malgrado tutte le rivelazioni della scienza e della fede. Che cosa c'era lassù? Più alto di lassù? Dio? Un minuto dopo la morte, questa domanda sarebbe ancora possibile? * * * Egli soccombeva all'umiltà di un annichilimento finale. La sua volontà si era disciolta al pari di ogni altra cosa nell'ombra, come in un ritorno alla primordiale indeterminatezza dell'essere; non soffriva più. Persino quest'ultimo dubbio, balenatogli più in alto, oltre lo splendore delle stelle, si era spento con tutto quanto moriva intorno a lui, nella dissoluzione della notte. Che importava il motivo della morte, quando bisognava morire? Il medesimo silenzio penetrava in tutti i cuori, la stessa ombra in tutte le teste: non si poteva essere immortali; perché noi pretendevamo dunque di esserlo? Vi era differenza nella morte? Che cosa era il suicidio? Si muore di tutto, tutti si suicidano, giacché ogni gioia troppo intensa, ogni dolore troppo acuto ci costa forse un giorno: qualunque opera ci toglie quella parte di noi stessi, colla quale la compimmo; i nostri figli sono i nostri parassiti sino al giorno che, non potendo più nutrirsi di noi, ci abbandonano per soccombere altrove. In qualsivoglia momento la morte è sempre la stessa: un terrore, un'angoscia, e la soffocazione in fondo. Non ci si pensa, perché tutte le idee adunate intorno alla morte, paradisi, inferni, non riproducono che teatralmente il nostro oggi sullo sfondo di una notte senza domani. Quando l'ora della morte è suonata bisogna rassegnarsi: non è sempre così davanti a tutte le difficoltà della vita? Si chiudono gli occhi, e si ingoia il bicchiere dell'olio di ricino, come fanno i bambini. Una carrozza, che gli passò accanto fragorosamente, coi fanali accesi, gli ridiede la visione del treno sbuffante, fumante, coi grandi occhi sbarrati nella notte, come se venisse contro di lui, e tutta la terra intorno tremasse sotto la violenza del suo impeto. * * * - Vieni con me dalla Marietta: è arrivata una ragazza d'Imola. Romani alzò la testa, Gualtiero Ponti seguitava: - Venturini dice che è bella, vieni con me: poi ceneremo. Ma sebbene la domanda fosse insistente, la voce rimaneva fredda; Romani stava seduto alla cantonata del caffè Rondinini, in quell'ora pieno di gente, sotto il chiarore rossastro dei lampioni a petrolio: tutti erano vestiti a festa. Era la prima ora del passeggio notturno, per la piazza e sotto il loggiato dei signori; le ragazze passavano a frotte negli abiti chiari, sorridendo fra gli sguardi, che le cercavano avidamente. Romani si era seduto, solo, a quell'angolo. Una stanchezza malata aveva finito di vincerlo, dopo tutte quelle corse fuori e dentro la città: si era cacciato per molti vicoli, sino alle mura, che da Porta Pia vanno a Porta Montanara dirimpetto alla linea delle colline, e anche là aveva trovato la stessa gente, coppie di amanti, torme di bambini, crocchi di mamme, e, tratto tratto, un vecchio, che passava come un'ombra nell'ombra sempre più densa della sera. Gli era rimasta negli orecchi la cantilena di alcune voci. - Dove ti sei nascosto oggi, che non ti ho più visto? - ridomandò Ponti. - Ho girato. - Solo? - Così... non sempre, - si corresse, ricordando l'incontro con don Procopio. - Dunque vieni? - No. - Perché? Vieni. - Non ne ho voglia. Sopraggiunse un altro, al quale Ponti fece la stessa proposta, e che accettò. Romani rimase solo daccapo. Perché non aveva accettato? Era stato un rifiuto istintivo, ripugnante, quasi di un ferito, che qualcuno, stupido o villano, invitasse a ballare, poiché gli era accaduto di ricusarsi così nella giornata ad altri inviti, sempre colla stessa sensazione amara di disgusto. Il passaggio delle donne, che talvolta a quell'angolo gli sfioravano quasi il ginocchio colla gonnella, lo tirava inconsciamente ad altri pensieri: qualche profumo vaporante dalle vesti errava nella sera, nomi femminili salivano dai crocchi vicini a lui, mentre al di là della strada, in quel largo dinanzi al loggiato, fra i tavolini, molto signore si erano già fermate, e i camerieri correvano affaccendati, recando o togliendo i bacili. La festa diventava più tentatrice nelle ombre della notte; pochi bambini erano ancora in giro, nell'aria agitata da uno scirocco leggero soffiavano improvvise caldezze. Le donne, quasi belle a quell'ora, avevano nel passo qualche cosa di diverso, un'ondulazione, che gli abiti festivi rendevano più provocante, quindi voltavano il capo allungando i sorrisi, o si chiamavano fra loro a sussurrare una confidenza non difficile ad immaginarsi. Egli si accorgeva di osservare tutto questo intorno a sé. E quell'invito brutale di Ponti gli ritornava più insistente dalla varietà di quella scena trepida di voci e di fruscii femminini. Perché aveva adunque rinunciato? Fra la folla delle donne ne distinse alcune, delle quali in gioventù era stato l'amante: passavano come le altre, sedotte e seduttrici, in quella prima notturna promessa della primavera. Si capiva, si vedeva che la gente, immemore delle proprie sciagure, o magari a cagione di queste, voleva esaltarsi gaudiosamente in tutte quelle sensazioni, che, risvegliate dai rapidi contatti della strada, nei brevi incontri ai caffè, ingrosserebbero a cena fra la crapula dei discorsi e la fiamma dei bicchieri, per irrompere più tardi nei convegni colle donne irritate dalla troppo lunga attesa. Egli stesso aveva fatto così mille volte, senza riflettervi. Conosceva quelle stanze della Marietta, nell'angolo di un vicolo, sopra un'osteria, poco lungi dalla piazza. La Marietta, non ancora vecchia, pareva quasi un uomo alla durezza della fisonomia e con quella voce grossa. Raramente capitava da lei qualche bella ragazza. Se avesse seguito Ponti, non vi sarebbero in due rimasti più di mezz'ora, giacché in quel luogo si entrava e si usciva, avendo preso tra le braccia per cinque minuti una donna incognita, come lungo la strada i carrettieri si arrestano talvolta ad una bettola e vi bevono un litro in piedi, presso il banco dell'oste. Anche Camilla doveva spesso aver fatto come le altre, prestandosi all'amore momentaneo, nel baratto assurdo di un bacio contro uno scudo, senza piacere, senza pudore, senza memoria. Si ricordano forse certe cose e certi appuntamenti? Ma se ciò non fosse, forse la gente impazzirebbe; tutto nella vita ha la propria immagine falsa, l'amore e la gloria, il vizio e la virtù, e quando il sangue fermenta improvviso, o l'anima non resiste più alla visione di sé medesima, si ricorre a queste falsificazioni come ad un rimedio, che placa il male senza ingannarlo e ci lascia, nella prostrazione dello sforzo compito, una più pronta facilità al riposo. Il suo sguardo frugò rapidamente la strada, che da quell'angolo del caffè Rondinini saliva parallelamente al Corso, per vedere se Ponti ritornava, pentendosi già in cuore di non averlo seguito. Tutto quell'incubo di morte, così soffocante da venti ore, gli faceva schizzare dalla coscienza un desiderio acuto, quasi stridente, di gustare anche una volta quel piacere che, falsato, rimane pur sempre senza confronto con alcun altro. Perché resistere? Aveva egli paura che gliene fosse domandato conto dopo la morte? Come quei condannati, cui era tutto permesso nell'ultimo giorno, e che si sentivano prendere subitamente da golosità frenetiche, egli avrebbe voluto adesso una donna a qualunque costo; era quasi un orgoglio di sfida lanciato al mistero della tomba, un estremo impeto di profanazione contro tutto quanto stava per abbandonare. Le stesse contraddizioni, delle quali nel giorno aveva tanto sofferto, gli si mutavano in un bisogno anche più spasmodico di afferrare per l'ultima volta la vita nel suo momento più intenso, e spremerla, col superbo sottinteso della morte, in una sola stretta. Pregustava già una gioia acre nel constatare l'inintelligenza della donna davanti all'orrore imminente di tale tragedia, con quella falsità di carezze sempre uguali nell'amore gratuito o venduto. Sul marciapiede di contro, rasente all'ultimo gradino della grande scalinata, in quel momento passò l'Anitra, una donna di trent'anni, cui il portamento dei fianchi troppo bassi aveva meritato questo nomignolo: era sola, vestita al solito con una certa modestia, malgrado il proprio mestiere di etèra plebea. Si alzò di scatto per seguirla, nessuno gli aveva badato. Dovette passare attraverso molti gruppi di donne, ma dai loro sguardi si accorse subito di essere sospettato, perché andava troppo dritto su quella traccia. Sapeva dove ella abitava: un vicolo remoto, lercio, dal nome purissimo "Delle Vergini": ma l'Anitra rasentò la fontana a sinistra. Si era accorta di lui. Allora egli non osò più accelerare il passo, il pentimento lo ripigliava. Ella proseguiva adagio, con quel suo pesante ondulamento delle anche, che si distingueva bene nell'ombra rotta dai fanali. I capelli neri le facevano un grosso mazzo sulla nuca. La gente si rarefaceva ancora, lungi dalla piazza, l'ombra s'infittiva: egli passò sull'altro marciapiede per essere più libero. - Perché non la fermo? - si chiese, senza saper rispondere. Tuttavia quell'orgasmo gli durava, si sentiva battere il cuore, come altre volte recandosi a qualche convegno passionale; aveva i sensi irritati e quella leggerezza, che il desiderio della donna sembra dare a tutto il corpo. L'altra rivolse la testa. Egli la riconobbe: il suo viso tondo dalle guance troppo rosse, col mento quasi da bambina, gli occhietti chiari. Gli parve di distinguere persino quella riga grassa sotto il collo, la cosa che più in lei gli era piaciuta. - Non ha altro lei! Anche Camilla, che cosa aveva di più? Quando si è eccitati, si farebbero delle pazzie per loro, e dopo non ne resta niente. Le donne sono tutte uguali: Caterina getterà qualche urlo, poi non ci penserà più, come le altre. Gli sciocchi siamo noi, a credere che esse ci amino. Chi ama? Io stesso, che mi sono rovinato per questo, amo forse Camilla adesso? Intanto proseguiva sul marciapiede, sempre alla stessa distanza. Un uomo fermò l'Anitra, che girò ancora la testa indietro; egli si arrestò, mentre i due invece seguitavano innanzi chiacchierando a bassa voce. Allora svoltò al primo vicolo allungando il passo per ritornare in piazza. Erano le otto e mezzo. Improvvisamente, tra quella moltitudine festiva, si ricordò di una biroccia incontrata nel pomeriggio, lungo la strada di circonvallazione, dinanzi al nuovo macello. L'aveva guardata con una sensazione di stupore, poi non ci aveva pensato altro. Era una delle solite biroccie, verniciate di turchino, dalle ruote alte, tirata da un grande mulo secco; un vecchio carrettiere senza giacca le veniva di fianco, con un mozzicone di frusta nelle mani e una pipetta quasi senza cannuccia fra i denti. Egli si era dovuto ritrarre sull'orlo del fosso per non lasciarsi schiacciare, seguendola collo sguardo sino alla svolta della strada, dove il canale si allarga in una immensa pozzanghera. La biroccia, colma di stracci e scossa da un triste tremito di paralisi, pareva tratto tratto stridere lamentosamente sotto il cumulo delle miserie, che le gonfiavano i fianchi. Gli stracci, gettati gli uni sugli altri a palate, si confondevano in un colore sudicio, dentro al quale qualche cosa biancheggiava ancora, un rimasuglio di candore fra tutte quelle immondizie lasciate indietro dalla vita, e nullameno raccolte da qualcuno per viverne. Egli aveva veduto tutto alla prima occhiata, l'aggrovigliamento di quei cenci tessuti con ogni sorta di fibre, lacerati, sfrangiati, coperti di macchie e di croste, che ricordavano altre piaghe, esalandone ancora il puzzo grasso e penetrante. Una polvere cinerea ondeggiava sopra di essi ad ogni traballone senza potersene staccare, mentre la massa, scrollandosi con una mollezza di carne in putredine, rabbrividiva ancora sotto un volo di mosche affamate. E sopra i suoi fianchi, lievi brandelli riaccendevano tratto tratto nel sole qualche pallore di lino o luccicore di seta, tosto soffocato dalla bigia pesantezza degli altri stracci, che si spostavano senza cadere, come se tutte le loro morti vi si tenessero avvinghiate. Una fetida nausea di cadaveri veniva da quella bara, coi segni tuttavia visibili della vita passata, già fermentante nell'ultima dissoluzione. Tutto lì dentro era stato nuovo in altri giorni: quante migliaia di gente vi aveva lasciato il segreto della propria esistenza! Quanto vino, quanto sudore, quante lacrime, quanto sangue vi erano caduti! Quanti sogni vi rimanevano ancora, che sparirebbero nella medesima buca! Dalla camicia della vergine al mantello del soldato, dalla fascia del bimbo al grembiule del beccaio, dalla veste che tutto un popolo aveva ammirato, all'abito che l'accattone aveva lasciato solamente morendo, forse nulla di quanto la vita umana aveva adoperato per nascondere la propria nudità, mancava in quella bara. Il pensiero avrebbe potuto frugarvi senza fine, come dentro un cimitero. Egli ne aveva ricevuto confusamente questa impressione nella fugacità di un istante, poi aveva riflettuto che dovevano essere stracci troppo sordidi per cangiarsi in carta dopo il solito imbianchimento, e destinati quindi come concime a qualche grassa coltivazione. Adesso la visione immonda gli ritornava in piazza come un finale ironico, che conchiudesse quella festa, trattando allo stesso modo gli abiti e coloro che li portavano. Infatti la bellezza nella vita non dura più della primavera nell'anno: uno splendore di qualche mattino, una purità sorridente di cielo, qualche dolcezza nei tramonti, poi il sole brucia tutto daccapo, e l'autunno imputridisce quanto il sole ha bruciato, e l'inverno seppellisce quanto l'autunno ha imputridito. Quella folla di immemori era attesa come lui dalla morte a un gomito improvviso della strada: uno per uno avrebbero provato la stessa angoscia subitanea nel crollo di tutto il passato, davanti alla impenetrabile oscurità dell'avvenire. E vi arriverebbero forse peggio di lui, logori, maculati di putredine come i cenci di quella biroccia, esalando già prima di morire il fetore della decomposizione sepolcrale. Forse valeva meglio andarsene così, ancora intatto, nella pienezza delle proprie forze e del proprio dolore. La gente condanna i suicidi per dispetto della paura, che questi non hanno avuto. Un pensiero bizzarro gli solcò la mente: se la gente, volendo, potesse non morire mai, vi sarebbero egualmente dei suicidi? Qualcuno si ammazzerebbe ancora, per odio della vita? Il problema era troppo profondo nella sua stravaganza, perché egli potesse trovarne la soluzione, ma vi pensò nondimeno qualche tempo. Sapeva che le bestie non si suicidavano, pur essendo esposte a tutti gli stessi mali fisici della umanità. Era dunque l'anima che anelava alla morte, era la mente che si ribellava alla inutilità dello spasimo! Infatti la povera gente, quella che vive più materialmente, non pensa mai al suicidio: non la fame uccide, ma l'umiliazione di mostrarsi affamato fra la gente satolla. Chi nacque accattone, mendica per tutta la vita, e trova forse la felicità in quest'ozio; chi invece è costretto da un disastro a questuare, non potrà mai perdonare né a se stesso né agli altri lo strazio di tale subordinazione. La sua angoscia in quel momento stava appunto nel sentirsi come un mendicante fra la folla allegra e spendereccia, che non gli avrebbe dato un soldo. Essere espulso dal mondo, come sono cacciati i poveri importuni dalla porta, quando si commise l'errore di lasciarla loro oltrepassare! - La carità? - pensava. - Ma, se ci scacciamo l'un l'altro da tutti i posti, se dovendo tutti morire, la morte degli altri non ci tocca nemmeno... Dov'è la carità? Anch'essa è un lusso di certi istanti: si dà qualche cosa, perché la momentanea gioia di chi riceve aumenta la nostra giocondità. È come nei pranzi: ci vogliono degli invitati; ma si amano forse i proprii invitati? Bisogna essere in molti ad una festa di ballo; ma la soddisfazione di ognuno è appunto nel primeggiare sugli altri, vedendoli così segretamente iracondi del piacere loro tolto. * * * Sapeva che non vi sarebbe entrato, ma da venti minuti passeggiava sull'altro marciapiede, dinanzi alla porta della propria casa. La gente si era diradata anche nella piazza, solo nei due grandi caffè, più vivamente illuminati, proseguiva la festa della domenica. Poche donne passeggiavano ancora. Egli si era diretto verso casa, per abitudine: Caterina doveva aspettarlo e, non vedendolo comparire, avrebbe certamente pensato che volesse evitare un nuovo discorso sulla zia Matilde. Lungo la strada notò molte finestre illuminate; era quella l'ora più dolce, dalle nove alle nove e mezzo, quando le donne rientravano, e si andava a cena chiacchierando della giornata, con quella contentezza di non aver lavorato, e non pensando ancora alle necessità dell'indomani. Egli si riproduceva nella mente la scena di Caterina coi fanciulli a tavola; questi volevano senza dubbio l'altra metà della zuppa inglese serbata a pranzo per il giorno dopo, mentre ella, indispettita per la nuova assenza di lui, si ostinava nel rifiuto. Improvvisamente, questo piccolo dolore dei bambini, prodotto dalla sua assenza, gli divenne intollerabile. - La mia assenza! - si ripeté sottolineando questa parola, della quale si era inconsapevolmente servito. Caterina era poi andata dalla zia Matilde? Questa domanda lo forzava a riflettere sull'orario, secondo il quale la posta distribuiva le lettere; ma si persuase subito che la sua non sarebbe recapitata prima delle nove, all'indomani. Chi era il postino, che faceva il servizio per il rione della zia Matilde? Forse essa, riconoscendo la calligrafia, avrebbe aperto la lettera prima ancora che quegli avesse potuto uscire di casa: e allora? In un baleno vide tutto il dramma dopo la propria morte, ma così rapidamente, in una luce così intensa, che non poté sostenerla. Camminava senza accorgersene, a testa bassa, con tale fiacchezza, che qualcuno fra i rari passanti avrebbe necessariamente finito col notarlo; arrivava dal campanile di San Lorenzo, il più alto della città, nel mezzo della strada, sino alla barriera. La notte era stellata, il fiume, ridivenuto quasi secco fino dalla mattina, non mormorava più come nella notte antecedente; i primi fanali del borgo illuminavano sinistramente le alte spalliere del ponte in ferro. A forza di andare su e giù, la coscienza tornava ad assopirglisi nel ritmo stesso di quell'impulso, ma nel passare dinanzi alla propria porta alzava sempre gli occhi. Due finestre v'erano illuminate, quella della saletta da pranzo e, all'ultimo piano, l'altra della camera da letto di don Procopio. Se non che la luce filtrando appena di fra le griglie, diventava impossibile sorprendere nell'interno il passaggio di un'ombra. Si ricordò dei progetti con Caterina nel primo periodo del matrimonio per un restauro alla facciata della casa: sarebbe stata una spesa di quasi duemila lire, alla quale avevano rinunciato senza fatica. Caterina invece avrebbe desiderato di accomodare qualche stanza nel podere a Santa Lucia in Vado per potervi villeggiare di qualche guisa nell'estate. Anche quello era stato un sogno impossibile. Tutto dileguava, per sempre! Si dovrebbe vendere ogni cosa dopo, quasi subito, in mezzo a una disperazione piena di rimproveri contro di lui: eppure egli non ne soffriva più in quel momento. Come se il grande distacco si fosse già compito, vedeva tutto a una distanza troppo grande, con quella indifferenza che ci lasciano le cose impossibili alla nostra volontà. In lui non sopravviveva che l'abitudine, quel fascio di rapporti indefinibili, onde l'uomo è legato alla propria casa, quella incapacità di pensare sé medesimo in modo diverso dal come si è vissuti, tutte quelle impronte incancellabili, colle quali la vita compose la nostra fisonomia spirituale. La casa, con quanto vi stava dentro, era come una parte di lui stesso. Il tempo passava. Quella passeggiata lenta, uguale, aveva finito coll'attrarre l'attenzione delle due guardie daziarie sedute al fresco fuori della gabella; si erano alzate e lo spiavano. Allora egli diè volta bruscamente, ma quando fu al campanile non seppe andare oltre. Voleva vedere quella finestra ancora una volta. L'orologio della piazza sonò le dieci e un quarto, il lume passava sempre attraverso le griglie: allora si ricordò che Caterina soleva spesso la sera ripassare la lezione dell'indomani a Ada. - Finché c'è il lume non me ne vado, - borbottò ostinatamente. Ma le guardie si erano messe a passeggiare, e venivano verso di lui: dovette tornare indietro. Per un momento pensò di salire con un pretesto, salutare tutti e scappare; titubava, si sentiva affranto. Ritornò ancora, ma siccome le guardie stavano ferme in mezzo alla strada, a quaranta passi dalla gabella, fumando, si persuase di essere sorvegliato. Quasi ciò potesse distogliere i sospetti, traversò la strada per venire sull'altro marciapiede, volgendo daccapo la schiena alla propria casa. Poi un passo sollecito gli risuonò dietro. - Oh tu, Romani! - Tu, Landi? - Esci di casa? - Sì. - Io non ho potuto cenare a casa mia: un'altra scena con quella linguaccia di mia moglie! Vado al Falcone, accompagnami. * * * Aveva già bevuto due ponci, seduto all'ultimo tavolino di sinistra nella prima sala, col gomito appoggiato sulla cassa di vetro, nella quale si conservavano le paste. Gaudenzi, l'impiegato del telegrafo, non si era ancora veduto, l'avv. Guglielmi doveva essere al club, quel vecchio maestro chiacchierino giocava nell'altra sala, e s'udiva spesso la sua voce in falsetto salire fra scoppi di risa. Una malinconia fredda gli era penetrata sino dentro le carni, come certe umidità notturne, contro le quali non sembra giovare alcuna bontà di panni. Nel caffè, pieno degl'insoliti avventori domenicali, il chiasso cresceva più villano; erano gruppi di artieri in gazzarra dal pomeriggio, vestiti con pretensiosità plebea, dalle faccie inintelligenti e vanitose. Quasi tutti portavano un piccolo cappello a cencio sull'orecchio, e tentavano sui divani o sugli sgabelli la posa più provocante, giacché pareva loro una specie di conquista quel bere ai tavoli, dove per solito sedevano i signori. Nei loro discorsi, quasi tutti di politica, ritornava sempre la stessa frase con voce sempre più alta, o con accento più marcato, mentre in fondo ai loro sguardi vaghi nel primo imbambolimento dell'ebbrezza, s'accendevano piccole fiamme. E i più irrequieti si guardavano intorno, cercando qualcuno dall'aspetto signorile per la compiacenza di potersi momentaneamente, davanti a lui, mostrare in una ostilità mimica. Egli vedeva tutto questo senza che alcuno gli badasse, perché non era mai stato veramente un signore. Colla testa abbandonata sull'alta spalliera rossa del divano, una mano in tasca, osservava i cerchi di fumo turchiniccio allontanarsi, dilatandosi lievemente dalla punta dello zigaro, nell'aria già greve di tutti quegli aliti. Al momento di entrare sotto il loggiato aveva rivolto la testa verso il grande orologio della piazza, illuminato: segnava le dieci e mezzo. Le ore, così lente nel giorno, si erano tuttavia involate con una rapidità raccapricciante. Si tastò la rivoltella nella tasca sinistra della giacca, pensando un'altra volta, con un senso d'impazienza, come non avesse incontrato né lo strozzino, né il signor Bonoli, né il pretore, che dovevano conoscere il suo dramma. Credeva che la loro vista sarebbe bastata a raddoppiargli l'energia, almeno per quella necessità d'ingannarli sino all'ultimo col fingersi indifferente. Invece, per tutta quella lunga giornata, nulla era venuto ad aiutarlo: aveva recitato troppo bene dissimulando. La sua fine doveva compiersi come per qualunque altra malattia, senza né ricevere né dare ad altri alcuna insolita emozione. Perché? A che cosa serve la morte? Perché era nato? Se non vi erano perché, tale infinita inutilità diventava il più profondo dei misteri. Nel bisogno di scostarsi dall'ultimo momento, il suo pensiero fluttuava daccapo all'urto delle sensazioni, che gli si rinnovavano nella memoria. Il babbo e la mamma, pieni per lui di tenerezza, lo avevano allevato in un bel sogno di avvenire, addormentandosi per sempre nella tristezza sconsolata di una disillusione finale; egli aveva amato i proprii bambini, rifacendo sopra di essi il medesimo sogno. Perché? Questa parola lo sbalzava da un altro lato; Camilla era passata una sera dinanzi a lui, si erano parlati, egli aveva provato un rimescolamento profondo, non aveva capito più bene, si era rovinato per lei senza accorgersene, e senza che ella se ne accorgesse. Perché? Lo strozzino, d'accordo col signor Bonoli, aveva portato la sua cambiale falsa al pretore: volevano mandarlo in galera? Volevano costringerlo al suicidio? Perché? Che cosa importava loro? Era così. Tutte le vite si rompono come bicchieri l'uno contro l'altro, senza che alcuno abbia mai potuto leggervi la marca di fabbrica, o indovinare chi verrà a raccoglierne i cocci. Solamente allora si accorgeva di aver sempre agito senza un perché; tutta la sua esistenza non aveva un solo atto necessario, che la spiegasse, all'infuori dell'avere mangiato e dormito, due bisogni istintivi per mantenerla. Il resto rimaneva inesplicabile. Camilla e Caterina erano entrate nella sua vita quasi allo stesso modo, egli non aveva riflettuto in nessuno dei due casi; era diventato padre così, perché le donne rimangono gravide, ecco tutto, e aveva allevato i figli per un altro istinto. Gli affari, i divertimenti dipendevano sempre dalle circostanze, anche quando si voleva combinarli con ogni studio possibile: perché dunque si pensava e si soffriva tanto? La sua mente ritornava alle meditazioni della mattina su quell'argine del fiume, nel silenzio della campagna, con un nuovo terrore degli stessi problemi. Ma invece di domandarsi se Dio era, e come ci giudicherebbe nel momento dopo la morte, si sentiva sopraffare dal mistero primordiale della vita. La nozione, per lui oscura ed inevitabile, di un creatore, non faceva che rendere ancora più inintelligibile il quesito: perché si nasce? Anche se Dio esistesse, e dovesse punirci o premiarci dopo morti, la ragione di averci voluto in questo mondo non si vedeva. Se egli era Dio, che cosa poteva importargli di noi? La nostra vita non spiegava sé medesima, mentre l'antagonismo fra la sua legge e la nostra volontà, per lui che ne doveva sapere anticipatamente il risultato, diventava una ridicolaggine. Che bisogno c'era di nascere, per dover pensar sempre senza capire nulla di nulla, soffrirne di tutte le sorta, e morire non avendo compito niente? Essendo cattivi, aggraviamo l'uno contro l'altro le nostre disgrazie, essendo buoni, ci aiutiamo scambievolmente contro il male che non abbiamo fatto, ma che ci tocca patire ad ogni modo. E davanti a questa tenebrosa fatalità del male, che si varia nella vita per tutta la gamma del dolore, dalla più lieve fitta corporea alla più larga lacerazione spirituale, egli tornava sempre a chiedersi, con l'insistenza spaventata di un bambino: perché si nasce? Un terrore fantastico gli faceva pensare a qualche potere mostruoso, che dirigesse il mondo e vi rinnovasse continuamente tutte le crudeli necessità: così i viventi dovevano divorarsi a vicenda per mangiare, e straziarsi l'un l'altro per godere. Infatti, non vi era gioia nella società, che non fosse un dolore per qualcuno; non nasceva nel mondo un individuo, senza essere composto coi resti di altri morti, non si poteva respirare, senza uccidere milioni di microbi, senza inghiottirne altri milioni, che dovevano ucciderci. La legge suprema era dunque la morte: nessuno vi sfuggiva, nessuno aveva torto o ragione davanti ad essa. L'immaginazione esaltata da quella crisi troppo lunga, gli si smarriva in una continua evanescenza di quadri orribili, che mettevano in quel suo sonnambulismo una specie di incubo. La sua faccia era diventata bianca, cogli occhi fissi, mentre il chiasso delle voci e il tinnìo dei bicchieri nelle sottocoppe e nei bacili cresceva sempre da tutti i tavoli. - Ho qualche cosa sullo stomaco, portami un bicchierino di cognac, - disse. Il cameriere si affrettò sorridendo; il padrone, bell'uomo, già cameriere nello stesso caffè pochi anni prima, si accostò fumando in una elegante pipa di schiuma, a testa di cavallo. - Che cosa ha mangiato, signor Romani? - gli chiese cortesemente. - Non lo so neppur io. - Forse dipende anche da tutta questa gente! - l'altro soggiunse a bassa voce, girando intorno un'occhiata di disprezzo. Si era seduto famigliarmente sopra uno sgabello accanto a lui. - Questa sera la sua partita è andata a monte. Ha letto la nuova appendice del Secolo ? - e si allungò per prendere dal banco un fascio di giornali: - a me pare bella assai. Romani rimaneva distratto. - Ecco Montalti! - esclamò il padrone, vedendo entrare quello scrivano storpio, che venne diritto al loro tavolo; poi capitò Cavina, il muratore wagneriano; Rotoli, il vecchio maestro chiacchierino, che aveva finito la partita nell'altra sala, si fermò anch'esso dinanzi a loro. Era quasi la stessa conversazione di tutte le altre sere. Il padrone ricominciò il discorso sul nuovo romanzo del Secolo - Idillio tragico -di Bourget, spiegando come gli paresse bello, perché Montecarlo vi era dipinto colla massima esattezza. Egli vi era stato, da giovane, nelle proprie peregrinazioni di cameriere. Ma lo scrivano, socialista malcontento, protestò: quello era un romanzo aristocratico, buono a nulla, giacché gli scrittori di vero ingegno non potevano occuparsi che delle miserie popolari. - Ho letto anch'io qualche appendice di questo nuovo romanzo del Bourget, - e pronunziò il nome come era scritto. Allora Cavina lo corresse, corsero frizzi. - Tu sei un wagneriano. - E me ne vanto. - Wagner era socialista. - Va! se daranno il Lohengrin in carnevale, vedrai quanto popolo vi andrà, - ribatté l'altro, che intanto aveva preso il Secolo per leggere le notizie dei teatri. Fortunatamente nessuno di loro si sentiva in vena quella sera, poi vi era troppa gente nel caffè, e Montalti davanti alla brutalità di quelle sbornie, che stavano già per scoppiare, non osava i soliti sproloquii. La voce fessa e la sillabazione troppo staccata e monotona, colla quale declamava, gli avrebbero attirato dal pubblico qualche villana interruzione. Si misero a parlare di donne: anche Cavina quella sera era stato in casa della Marietta. - La ragazza era bella? - chiese Montalti con un luccicore di gatto negli occhi. - C'è ancora, parte col diretto di un'ora dopo mezzanotte. Romani si voltò: - E dove va quel treno? - Bella! a Bologna. Rimase perplesso: - Ci sono altri treni? - Prima di giorno? Quello che da Bologna ritorna per Ancona alle tre, e l'altro che arriva da Ancona verso le quattro e mezzo, perché rimane ancora impedita la linea di Porretta. - Ah! - Deve partire, signor Romani? - gli si volse il padrone. - Sì, - e la voce gli si era fatta quasi dolce. - Dove vai? - domandò Cavina. - Non lo so. - Un mistero dunque? - Grande. Tutti sorrisero. Ma il baccano domenicale li teneva in disagio. Lo scrivano, malgrado le declamazioni socialiste, sapeva di essere poco gradito; Cavina era sospettato di aristocrazia per i modi abbastanza garbati e quella istintiva predilezione della grande arte, che lo traeva imprudentemente a ridere delle commedie e delle musiche gustate dal popolino; il vecchio maestro, benché simpatico per la dolce ingenuità del carattere e l'onestà della lunga vita, s'irritava troppo, nella lieta viridezza di tutte le proprie forze, contro ogni critica alla parte moderata. Egli era rimasto dentro la formula cavourriana, condannando ad alta voce tutti gli eccessi politici e le demenze atee dei nuovi rivoluzionari. - Eh, maestro! - esclamò Cavina; - ecco qui altri due suicidii a Torino; non c'è più religione. - Voi lo dite per ischerzo, giovinastro. - Come si sono ammazzati? - domandò Romani. - Uno si è avvelenato, l'altro si è gettato sotto il treno. E Cavina lesse i due incisi di cronaca, secchi, terribili. - I giornali non dovrebbero nemmeno stampare certi fatti, - disse il maestro: - le teste leggere si esaltano e, una volta esaltate, li commettono più facilmente. - Allora io sono una testa pesante. Possono raccontarne dei suicidii, io non mi suiciderò mai, - replicò Cavina. - Chi può dirlo? - ribatté Romani. - Io! Stai pur sicuro. Ammazzarsi per amore o per debiti, giacché la gente si ammazza quasi sempre per queste due cause? Per amore? Se una donna non ti vuole, ve ne sono sempre troppe disposte a prenderti; e quanto ai debiti, aspetterò che si ammazzino prima i creditori. Se io non ho quattrini per pagarli, mi pare che nell'imbarazzo ci siano essi. Si rise. Romani non rispose. - La gente si ammazza, perché la società è in isquilibrio, - sentenziò Montalti. - Si è sempre ammazzata in tutti i tempi, dev'essere una malattia. - Colpa di non credere in Dio; la nostra vita ha il suo scopo altrove. - Quale? - domandò Romani al maestro. - Quale? - ripeterono ad una voce Cavina e Montalti. - Dio..., - cominciò il maestro. - Non deve aver parlato molto chiaro, - interruppe sorridendo il padrone, - perché si discute ancora su quello che ha detto. Fatto sta che, quando la gente sta male, se ne va; non c'è altro di evidente. Nessuno può dire che non si ammazzerà... le circostanze sono tante! Tutti si arrestarono perché, pochi mesi prima, l'altro suo socio nel caffè si era appunto suicidato con un colpo di rivoltella alla tempia destra. Però Montalti, che voleva sempre dire l'ultima parola scientifica, propose il problema: - Quale categoria di persone dà minor contingente al suicidio? - I preti, perché stanno meglio di tutti, - si affrettò a rispondere il padrone. - I milionari, - ribatté Montalti, con quell'acre accento d'invidia, proprio a quasi tutti i socialisti quando parlano di signori. - T'inganni; c'era appunto venerdì sul Secolo un articolo, non ricordo più di quale scienziato, che spiegava come le probabilità del suicidio aumentino in ragione della ricchezza. - Non può esser vero, - si ostinò Montalti. - Lei, maestro? - tagliò corto il padrone. - Coloro che non sentono più la religione. - Lo sapevo... Romani doveva dire ancora la sua, ma dal tavolo prossimo due o tre operai si erano voltati, udendo il quesito, ed ascoltavano le risposte. Uno proruppe: - Lo dico io: i beccamorti! essi sanno meglio degli altri che la morte è brutta: la morte è come una donna, ma finché non ci pare bella, non commettiamo la sciocchezza di sposarla. - Bene! - fu gridato in coro. - Un bicchierino a Matteo! - Questo voglio offrirlo io, - disse il padrone alzandosi: - mi sei piaciuto nella risposta. * * * Guardava il grande orologio nero fra le due scansie gialle, al disopra della porta. Gli altri se n'erano andati in gruppo, e a poco a poco quasi tutti i tavolini erano rimasti deserti, mentre l'aria della notte, entrando leggera dalla bussola spalancata sul portico, spazzava i vapori dei ponci e dei sigari. Dal fondo della cucina giungeva, tratto tratto, un tintinno dei bacili e dei bicchieri, che il facchino lavava forse per la centesima volta nella giornata. Collo sguardo fisso sul quadrante dell'orologio, egli misurava il muoversi lento della grande freccia, che segnava i minuti; ne mancavano undici a mezzanotte. A quell'ora in punto uscirebbe dal caffè. Il sangue gli batteva a grosse ondate sul cervello, facendogli vacillare la vista. Adesso era quella paura materiale, che i nervi non possono più sopportare nella estrema imminenza della catastrofe, quando il pericolo cessa oramai di esser tale per il compiersi stesso del fatto. Non c'era più tempo di riflettere, di soffrire: fra pochi minuti sarebbe entrato nell'orbita della esecuzione. Quindi tutto quanto aveva patito nel giorno gli si condensava in uno spasimo solo, attanagliandogli ogni fibra del corpo e dell'anima; sentiva, dentro, un incalzare di sensazioni, una ressa di idee, uno sbaraglio di memorie, come quando un falco piomba sopra una nidiata di pulcini e ne ghermisce uno a volo, risalendo al cielo con un solo colpo d'ala, e tutti gli altri si sbandano esterrefatti fra le erbe alte del campo. Il suo sguardo era diventato così acuto, che distingueva veramente quel minimo spostarsi a gradi delle frecce. Tutta la sua vita stava ancora in quel piccolo segmento, interrotto dalle cifre nere e madreperlate del X e del XI, due spazi che si sarebbero riempiti con due dita. Non aveva altro. Avrebbero potuto offrirgli chi sa che cosa, e non sarebbe bastato ad allungargli di un altro dito la vita. Il padrone era tornato dietro il banco, e si era messo a contare dei soldi da una scodella di legno. Romani pensava: - Non ho più che otto minuti. La freccia gira senza sapere il perché, ma se sbagliasse, il tempo passerebbe egualmente nella stessa misura: non si può fermarlo. Ecco qui, questi ultimi otto minuti sono inutili, vuoti, come tutto il resto della mia esistenza! Che cosa posso fare? Rimango qui, non mi muovo, eppure il tempo mi trascina. Debbo finire prima di essere logorato: quando l'orologio si ferma, è forse logoro? Finirò così; una ruota che s'incaglia, e la freccia si ferma. Anche la vita è un circolo come quello dell'orologio: tutte le ore sono identiche, non significano nulla; il tempo non è soggetto all'orologio, più che la vita non dipende da noi. Potrei essere il più potente uomo del mondo, e tutta la mia volontà non saprebbe da questo posto arrestare quella freccia, che va sempre... È già passato un altro minuto. Debbo essere pronto. Si portò ambo le mani al volto, strofinandoselo violentemente come per destarsi. Nel caffè entrò un altro gruppo d'operai, più avvinazzati di quelli che n'erano usciti, ma per fortuna si fermarono in fondo agli ultimi due tavolini presso la bussola. Vide il padrone uscire dal banco e passargli dinanzi per servire prontamente i nuovi avventori, perché i camerieri erano in quel momento nel retrobottega. - Debbo decidermi! Non capiva che questo, la necessità ultima, la stretta suprema, senza nome, nella quale già soffocava. Tutto il resto non esisteva più. La febbre gli faceva battere i polsi, tremava in quell'incertezza dello smarrimento finale, che toglie tutte le direzioni, pur sentendosi nel profondo certi impeti, simili ai guizzi della candela che si spegne. Aveva appoggiato la testa sopra ambo le mani, per non guardare più l'orologio; gli pareva di ascoltarlo, benché non l'udisse. - Appena mi alzo di qui, sarò morto! Caterina, i miei bambini saranno già altre persone; adesso sono ancora mia moglie e i miei bambini... per cinque minuti. Poi, più nulla. Non c'è altro. Ho fatto il possibile inutilmente; quella prima cena all'Aquila d'oro mi ha ammazzato, mi ha ammazzato quella donna, che non ho amato; non la conosco nemmeno, adesso, ella non mi conosce più. Domani ci sarà ancora il sole, senza di me. Non ho più che due o tre minuti... È impossibile, sento che è impossibile, non avrò mai il coraggio di uccidermi! Non lo aveva: la testa gli pesava sempre più sulle mani, come una cosa morta. Si tastò ancora la rivoltella nella tasca. - Con questa, no. * * * Il medesimo gruppo, dal quale Matteo si era voltato per dare anch'egli la propria soluzione al problema proposto da Montalti, rientrò vociando nel caffè; erano stati a bere nella liquoreria sotto il campanile della piazza, e ritornavano per bere. Parve che vedendolo ancora a quel posto, si decidessero unanimemente, senza consultarsi, con una di quelle intese da ubbriachi, a gettarsi sul suo tavolo. Egli spaventato si alzò. In un lampo aveva veduto sulla faccia di Matteo, invanito di quella prima risposta, l'intenzione di riparlarne; si voltò verso il banco, ma era già tardi. Il gruppo lo circondava; avevano gli occhi imbambolati, e sui volti madidi quella espressione vaga di spavalderia ostile. Il padrone ripassò dietro il banco, mentre uno dei più briachi cadeva quasi di peso sopra uno sgabello borbottando: - Cognac! - Beva un bicchierino con noi, signor Romani; ho risposto bene poco fa, non è vero? - Mi sei piaciuto, Matteo, - tornò a dirgli il padrone con accento di sottile canzonatura: - bisogna bere per trovare simili risposte. - Adesso vogliamo bere tutti insieme; anche lei, signor Romani. In quel momento Romani vide le freccie dell'orologio sovrapporsi segnando mezzanotte; così in piedi, n'ebbe come un colpo di martello sul cuore, ma avvertiva ancora benissimo quanto gli accadeva intorno. Senza rispondere, fece atto di andarsene. - Questo poi no, - insisté un compagno di Matteo, mentre il padrone diceva: - Se ne va, signor Romani? - Addio, Enrico! - rispose questi tendendogli la mano. L'accento e la forma del saluto erano così insoliti, che l'altro ne rimase sorpreso, però fu pronto a stringergliela. Romani si mosse: allora Matteo volle sbarrargli la via, ma l'altro lo respinse con un gesto. Si alzò un mormorio di disapprovazione. - Va là, - uno gli gridò dietro, - che anche tu sei un bel signore, per fare così l'aristocratico! Il padrone, invece, gli teneva dietro con occhio pensoso, avendo sentito la sua mano tutta bagnata di un sudore diaccio. * * * Romani traversò il portico con passo tentennante, e si fermò nel largo, davanti alla fontana. La notte era sempre bruna, ma piena di stelle, i fanali avevano un chiarore pallido, velato, come il murmure della fontana chiusa entro quella funerea cancellata a palle di ottone. - No! - rispose ad un pensiero, che lo avrebbe condotto a porta Appia, passando ancora una volta sotto le finestre di casa. Pel loggiato, e per quel largo, non si vedeva alcuno; abbassò la testa, e si avviò verso il corso Garibaldi, che conduceva difilato alla vecchia stazione ferroviaria. Una forza oscura lo spingeva in linea retta, come una cosa, mentre la sua mente acquistava, grado a grado, una certa lucidità: come sempre, la fascinazione della meta lo aveva preso, appena entrato nell'orbita della esecuzione, eccitandogli quel coraggio fisico proprio degli animali. Nella luce opaca della notte le case perdevano i piccoli particolari delle proprie fisonomie, le sonorità anche più lievi sembravano attardarsi nell'aria. Egli sentiva solo di andare, appoggiandosi come sulla sensazione medesima del proprio passo sul marciapiede, così che, nel passare dinanzi ad ogni porta, l'interruzione del muro gli faceva un'impressione meno rapida e tuttavia lontanamente simile a quella degli alberi fuggenti agli sportelli dei vagoni, quando il treno corre veloce. Prima di arrivare alla grande barriera fiancheggiata da due casotti giallognoli, rigati e rabescati come due grandi gabbie da canarino, verdeggiava sul piazzale di una chiesa un piccolo giardino dominato da un alto abete storpio alla cima. Il getto esile della fontana, sprizzante da un sasso e ricadente sopra una minima vasca, sembrava un singulto di bambino nella notte: un ranocchio mise uno strido gutturale e tacque subito. Nessuna finestra era illuminata. Il cancello della barriera apparve alto, massiccio, coi lampioni sulle due grosse colonne centrali; al di fuori nereggiavano i tigli dei due viali fra le case del sobborgo. Egli vide da lontano la guardia passeggiare, fumando uno zigaro, dinanzi alla gabella; nella notte nessun rumore, nessun incontro. La guardia gli aperse colla chiave il piccolo cancello a sinistra, pel quale passavano i pedoni, e rinchiuse. Egli ne risentì la scossa, l'ultima che gli dava la città; piegò a sinistra per la via di circonvallazione, lungo il canale fiancheggiato da due alte file di pioppi bruni, ombrelliferi. L'aria era più fresca, il silenzio diverso: cori di ranocchi si rispondevano a distanza nella notte, passavano dei brividi nell'aria, qualche fronda dormendo pareva percossa da un'ala fuggente, un odore di terra e di verde saliva da per tutto. Egli allentò il passo. Sapeva che avrebbe preso per la scorciatoia del Borghetto, prima d'arrivare al nuovo macello, per salire l'argine sinistro del fiume, presso al grande ponte della ferrovia. La distanza dalla barriera al Borghetto era breve; sulla sinistra sorgevano alcune case nuove di fabbri, di falegnami, di piccoli bottegai, il commercio dei quali viveva appunto non pagando dazio. Egli andava sempre innanzi spinto da quella forza oscura, che in noi sembra sostituire la volontà, quando questa non è più sufficiente a dirigere la vita. Il sonno della campagna era però meno profondo che quello della città: le piante sognavano, e la loro respirazione e i loro fremiti turbavano l'aria; miriadi d'insetti, amanti o lavoratori notturni, vi si muovevano, la terra medesima non aveva quella insensibilità dei selciati e dei marciapiedi. I suoi occhi perdevano la fissità atonica, la frescura tornava a vivificargli la pelle. Improvvisamente gli apparve davanti la vasta pozza, nella quale si allargava il canale, immota come un grande antico specchio appannato; le due righe dei pioppi nascondevano le mura della città. Il Borghetto, formato da un solo vicolo, aveva un unico fanale in fondo: vi passò. La strada, pessimamente selciata, sfiancava, avvallando, per un sentiero fra un'alta siepe e un ruscello, poco più largo di un fosso. Odori immondi e penetranti crescevano appunto dove finivano le case. Dovette badare al come poneva i piedi per non cadere; l'argine s'alzava di contro. La sua linea, biancheggiante pel sentiero che le orme vi avevano impresso e che l'erba orlava scuramente, spiccava nello sfondo dell'aria, simile ad una larga striscia d'argento. Quando vi fu salito, abbassò gli occhi sul fiume vacuo, del quale i grandi archi del ponte in pietra e laggiù la spalliera dell'altro in ferro nascondevano le estremità, quindi si volse contro le mura. Solo la chiesa di sant'Ippolito col suo campanile, e l'altro di san Lorenzo e quello della piazza si distinguevano bene: il resto era una massa cupa, incerta, nell'ombra. Egli n'era già fuori per sempre. E allora gli parve, stando fermo, che la città si allontanasse, oscillando lentamente dinanzi a lui. * * * La notte era bruna. Nell'aria vagavano sentori di foglie e quell'indefinibile aroma, che la terra fecondata sembra alitare nel maggio: l'erba era umida, le stelle brillavano sul silenzio notturno pieno di sussurri. Dentro al fiume larghe pozzanghere s'illuminavano tratto tratto di tenui chiarori, mentre laggiù, sul ponte di ferro, i lampioni parevano contigui, e più lontano l'ombra oscillava. Oltre gli argini del fiume non si coglieva che un avvallamento della tenebra in una invisibile profondità, dalla quale si sentivano salire le preoccupazioni terrifiche della notte. Le linee del paesaggio, circoscritto dagli argini e dai ponti, si confondevano oscuramente, pur serbando lo stesso aspetto regolare intorno a quella cavità del fiume, rimasto senz'acqua e senza voce. Non si vedevano case: solo il ponte della ferrovia aveva un biancicore roseo di muro, sulla cima del quale fantasticamente alto, guardava nella notte il grande occhio rosso del disco. Egli vi si incantò. La colonna di ferro sotto il disco si distingueva appena, giacché il piano della ferrovia, sfuggendo dai parapetti del ponte, vaniva esso pure dinanzi a quella enorme pupilla rossa senza una oscillazione. Così ebbe daccapo paura: i fanali lontani dell'altro ponte in ferro sparivano nella loro chiarezza come dentro un bagliore, mentre quel rotondo occhio rosso non illuminava, e vedeva e doveva essere visto ad un'immensa distanza, come una scolta ciclopica sulla ferrovia deserta nella notte. Era rimasto in piedi, inchiodato sul sentiero biancastro. Dal ruscello, che per una larga chiavica passando sotto l'argine sboccava nel fiume, la nota tremula di un rospo s'interruppe timidamente; gruppi lontani di ranocchi gracidavano con violenza, coprendo un vocìo sottile di grilli, che si confondeva d'intorno. Dopo aver guardato da ogni canto si voltò ancora verso la città; dietro la sua lunga massa, bruna come una scogliera di notte, pallidi chiarori sembravano uscire da invisibili cavità; ma non pensò più che egli era vissuto là dentro per trentasei anni. Solamente guardava. * * * Sul ponte della ferrovia il casello del guardiano era illuminato; egli strisciò guardingamente lungo il parapetto pel sentiero lasciato dall'alta ghiaia, sulla quale poggiavano le rotaie, affrettando il passo per non lasciarsi sorprendere, giacché si ricordava come fosse severamente proibito di transitare per le linee della ferrovia. Non sapeva se il guardiano avrebbe fatto la ronda d'ispezione prima dell'arrivo del treno, ma quel divieto bastava in tale momento a fargli paura. La strada ferrata si allungava dinanzi a lui dritta, piana, nera, con quei due regoli sottili, in una uniformità e in un silenzio inesprimibile: nessuna traccia, nessun suono, nessun segno. Aveva voltato la schiena al disco, e scorgeva dinanzi a sé per cento metri un filo luminoso sulla costola interna delle rotaie; null'altro. Quel piano troppo stretto gli limitava la vista, mentre una impressione gelida gli veniva da quelle due rotaie inamovibili, che non si sarebbero toccate mai. Di qua e di là della strada i campi bassi s'affondavano in un'ombra più densa, dentro la quale si distinguevano appena i ciuffi dei primi grandi alberi. Ma i suoi occhi guardavano sempre sulle rotaie quel tenue filo luminoso, che sembrava avanzare con lui. Finalmente era solo. A quell'ora, in quel luogo, per quella strada non passava alcuno; sentì di non essersi mai trovato in una solitudine simile. Vedeva la ghiaia tersa, quasi vi fosse stata posta da poco tempo, e le rotaie luccicargli dinanzi, brunite. Quindi si ricordò di esservi trascorso in vagone molte volte, di notte e di giorno, senza prestarvi attenzione: chi guarda alla ferrovia? Gli occhi sfuggono sul paesaggio che scompare. Adesso invece la solitudine di quella strada, così diversa da tutte le altre, l'opprimeva. Si fermò al quinto palo del telegrafo, volgendosi indietro, verso la stazione. Incontrò il grande occhio rosso del disco fiso sopra di lui, e laggiù un riverbero largo d'incendio prossimo a spegnersi gl'indicò il luogo della stazione. Pareva molto più lontano che non fosse. D'un tratto, nel silenzio della notte, udì il grosso orologio di sant'Ippolito battere le ore dal campanile; le contò rattenendo il respiro. - Due quarti dopo mezzanotte, - esclamò voltandosi istintivamente verso Forlì, donde doveva giungere il treno. * * * Dall'altro lato della strada un'ombra passò con una lanterna nella mano; istintivamente egli girò dietro il palo del telegrafo, abbracciandovisi per non scivolare dall'alta ripa, e tenne il fiato. La lanterna nell'allontanarsi lentamente allungava un riverbero oscillante sulla vicina rotaia, si udiva la ghiaia stridere sotto un passo pesante. Era la ronda del guardiano; dal fondo della notte doveva presto spuntare la prima luce del treno. Il guardiano vigilava, secondo il solito, quel tratto di linea di là del ponte, perché non vi accadessero disgrazie; a un certo punto la lanterna di un altro guardiano avrebbe risposto alla sua, e il disco muterebbe il proprio rosso ardente in un vivido color verde. Romani sapeva tutto questo, giacché in una bella notte d'estate, l'anno prima, se lo era fatto spiegare dal guardiano sul ponte, ove aveva fatto sosta con alcuni amici. Quella notte gli risorse nella mente coi più minuti particolari; si ricordò dell'immenso soprabito biancastro, una meraviglia fra gli eleganti del paese, che allora portava Mario Angelini. Anche questi era morto. Ma una paura lo tenne nascosto, così abbracciato al palo, togliendogli ogni facoltà di ragionare; aveva pensato che il guardiano nella propria ronda potesse passare dal suo lato, e allora scoprendolo gli avrebbe necessariamente intimato di andarsene. Che cosa rispondere in questo caso? Avrebbe l'altro indovinato il vero motivo? Il palo ogni tanto vibrava, percosso da tremiti improvvisi. Era un dispaccio che passava irresistibile, invisibile sul filo, o una oscillazione, che questo, mosso dall'aria della notte, imprimeva al palo? La sua attenzione rimase per qualche tempo divisa fra il brontolio interno del palo e il luccicore saltellante della lanterna già molto lontana. - Ritornerà dal mio lato? Lo credette istantaneamente, quindi svegliandosi come da un sogno, che quel ritorno avesse già rotto, si disse: - Me ne vado. Nuovamente tutto dipendeva da questo caso. Un'angoscia di speranza lo soffocò, accorgendosi della vivezza dei raggi che la lanterna retrocedeva; sarebbe bastato che un suo bagliore traversasse la strada e gli battesse sul viso ad impedire la disgrazia, per la quale appunto si ordinavano le ronde. La lanterna si avvicinava sempre. Allora tornò a tremare di essere scoperto, ma, per una reazione quasi di collera contro sé medesimo, si mise di sbieco, perché lo spessore del palo lo nascondesse meglio. Voltandosi, laggiù, vide una luce. * * * Era il treno, ma non era ancora che una fiammella misteriosa nella notte. Pareva immobile, tutto rimaneva immoto intorno, il guardiano era scomparso dentro il casello: nel silenzio tranquillo dell'aria non un soffio, il fiume taceva. Un brivido del palo gli passò per tutto il corpo facendolo tremare a verga a verga, mentre, laggiù, quella fiammella rimaneva sempre così piccola e ferma. Un impeto freddo gli raggomitolò l'anima in uno di quei terrori sùbiti, senza nome, dei sogni. E strinse violentemente il palo guardando. La fiamma appariva rossastra come in un'aureola, entro la quale pareva di scorgere le larghe maglie tremule di una rete nera. La sua immaginazione si rappresentò subito la marcia rapida, folgorante, del treno apparentemente fermo per la sua stessa velocità, con quei due immensi occhi di fuoco, che gli rischiaravano la strada. Veniva da lungi, andava lungi, nero, veloce, misterioso, fatale. Nulla poteva arrestarlo; il suo respiro era mostruoso; ansava, soffiava fumo senza perdere la lena, senza spossarsi nel palpito enorme, scivolando sulle rotaie che tremavano, sfondando la notte inconsapevole. Non aveva meta, si arrestava, ripartiva; la gente spariva nei suoi vagoni neri, tappezzati all'interno come stanze, vi si obliava chiacchierando, in una fede sicura al mostro immane, che non aveva mai saputo nulla e non saprebbe mai nulla di coloro, che viaggiavano nel suo ventre. Di giorno e di notte, in qualunque stagione, sotto il sole, sotto la pioggia, sulla neve, andava sempre; il suo tremito diventava più profondo traversando i ponti, il suo respiro si faceva asmatico sotto i tunnels, dai quali prorompeva con un fischio trionfale d'ironia avventandosi giù per le valli, e non di meno ubbidendo docile alla mano, che gl'imponeva di rallentarsi dinanzi alle prime case di un villaggio. Era la forza stessa del sole diventato carbone, che si sprigionava daccapo in un altro fuoco; era la giovinezza eterna del moto, che crea tutte le giovinezze. Si ricordò la frase invidiosa di don Procopio: come è sempre giovane, è sempre come la prima volta che lo si guarda! In un attimo, la sua fantasia aveva riveduto tutti i quadri e tutti i sogni della vita. Quel treno misterioso nella notte trasportava indifferentemente gli uomini e le merci, i dolori e le gioie, era esso medesimo tutta la vita nella sua corsa perpetua che nulla può fermare, nella sua insensibilità, nella sua fiamma, nel suo rombo, nel suo orgoglio vincitore di ogni ostacolo. Bastava salirvi per sfuggire subito a tutte le proprie difficoltà, e non essere più che uno sconosciuto fra sconosciuti, in viaggio verso una meta non confessata, a ricominciare sopra una terra nuova la vita quasi consunta in un'altra. Tutto diventava piccolo dinanzi al prodigio di un treno: impotenza ed impossibilità non sono che conseguenza di un luogo, risultati di un ambiente, mentre la vita sempre giovane, corre sempre, si rinnova, si perpetua, dimentica, divora il tempo e lo spazio, bella come il sole che l'accese, più lunga del sole che si spegnerà. L'uomo non è più nulla, se vuole contraddire o dominare la vita, non ne può saper nulla, non vi deve mutar nulla: la morte vera è quando il nostro corpo si rompe da sé, ma allora la vita intorno non se ne accorge. Bisogna vivere come si può, più che si può, bisognerebbe poter vivere sempre. Un tremito profondo del palo lo scosse; la campagna sempre addormentata non si accorgeva che il treno l'oltrepassava vigile ed indifferente come il pensiero. Allora l'umiliazione, che gettandosi sotto quel treno ne sarebbe stato stritolato senza produrvi nemmeno una scossa sensibile, lo vinse. E se il macchinista, avvertendo il caso, arrestasse la corsa, quel cadavere di uno sconosciuto, che faceva perdere qualche minuto al treno, non sarebbe stato che uno spiacevole incidente per tutti. - Perché si sarà gettato sotto il treno? - si sarebbero appena domandato tra di loro gl'impazienti. - Ma s'intendeva già il suo rombo, si distinguevano i due fanali rossi, dilatati, abbacinanti; la terra incominciava a tremare, l'aria palpitava, dalla notte desta di soprassalto uscivano sussurri inquieti, giù pei campi alcune voci spaurite sembravano richiamarsi. Egli sentì tutto questo. Come se le fiamme dei fanali gli fossero entrate per gli occhi nel cervello, non vedeva più, mentre la stessa convulsione spasmodica lo faceva stringersi sempre più violentemente al palo, che oscillava quasi scosso da una bufera. Era tardi, non c'era più tempo. Il treno gli fuggiva agli occhi enorme, nero, con quel ventaglio di fiamma dinanzi, respingendo tutto col suo respiro di fornace; dalle rotaie parevano sprizzare fiammelle, una colonna di fumo illuminata internamente si distendeva sopra di lui, dietro di lui, come una bandiera: e al disotto, fra lunghe fessure, si distingueva ancora una vivezza di braciere, dal quale sfuggivano faville e bracie, che cadevano e si spegnevano. Egli si volse; il disco guardava col grande occhio verde, lungi dal disco un trenta passi l'ombra del guardiano protendeva ancora la lanterna nera col piccolo vetro rotondo. Nessuno sospettava adunque di una disgrazia. Sarebbe stato uno slancio, uno scricchiolio e più nulla. Davanti alla rapidità spaventevole del treno capì che egli avrebbe potuto essere anche più rapido, gettandosi bocconi sulla rotaia per lasciarsi passare sul collo l'immane valanga. Quest'ultima sensazione gli durò, quando il treno col proprio vento non lo scuoteva più così abbracciato al palo; e i vagoni neri s'inseguivano quasi contigui nell'ombra, e dai finestrini si travedevano dentro gabinetti illuminati, rossi, scuri, in una nudità di legno, o non si vedeva nulla, mentre i vagoni fuggivano chiusi sino alla cima, oscuri e sinistri come catafalchi. * * * La notte non mutava. Seduto presso quel palo, colle gambe abbandonate giù per la ripa erbosa, aveva ancora nella fantasia ansante quella visione. Aveva ascoltato il fischio d'arrivo e quello di partenza, gli ultimi rumori e gli ultimi tremiti nella notte, con l'angoscia che si prova solo sfuggendo momentaneamente alla morte. Nessuno fra quanti viaggiavano su quel treno si era certamente immaginato che a quel palo qualcuno fosse rimasto in dubbio di gettarsi sotto le ruote per finirla colla esistenza; ciarlavano o dormivano, nel pensiero dell'arrivo, trasportati dalla corrente della vita, più impetuosa ancora del treno. Potervi s alire e vivere, null'altro! Egli lo aveva sentito con una intensità, che gli rovesciava nella coscienza tutte le ragioni della morte. Il treno gli era apparso dentro una poesia strana ed imperiosa: la sua forza, il suo impeto esprimevano un trionfo costante nell'orgoglio del suo stesso prodigio. Ognuno dei viaggiatori, rapiti dalla sua foga, avrebbe potuto essere già sfinito nelle novissime disillusioni della morte, e non avrebbe meno provato, nel profondo della coscienza, la vittoria di quella corsa. Ma gli era rimasta nella fantasia quella successione di gabinetti rossi, coi divani a mezzo ricoperti dai grandi, grossolani merletti bianchi, sui quali aveva traveduto qualche testa di donna. Qualcuna andava forse a Parigi, un sogno che egli aveva rifatto tante volte inutilmente, ciarlando cogli amici nelle dolci notti di estate, quando, non sapendo come meglio ammazzare il tempo, andavano sino alla barriera per veder passare il treno della mezzanotte. Egli si ricordava le invidie provate nei brevi tragitti dinanzi ai viaggiatori esteri, così riconoscibili alla disinvolta eleganza del vestito e dei più minuti comodi di viaggio: erano i felici, i veri padroni del mondo, pei quali i climi non avevano inconvenienti e le stagioni mutavano indarno. Il lusso di queste esistenze superiori gli riappariva davanti come un quadro rosso di quegli scompartimenti di prima classe, ammantellati di ricami bianchi, con delle teste di donne soffuse di un tenue pallore. Tutto era bello: i cuoi delle valigie avevano tinte esotiche, i fermagli sprizzavano raggi fra il disordine soffice dei veli, degli scialli, delle coperte gettate alla rinfusa, in alto, sulla piccola rete. Si fumava, si chiacchierava, alcuni leggevano il giornale. Invece egli era venuto in quella notte per gettarsi sotto il treno. Si strinse con ambe le mani la testa per riordinarvi i pensieri: perché dunque non lo aveva fatto? Non seppe rispondere. * * * Ma voleva farlo. Sentiva sempre la suprema inutilità del suicidio, quantunque non gli tornasse nella mente un ricordo della famiglia abbandonata, e non gli rampollasse dal cuore un rimpianto della vita trascorsa. Dopo quella lunga giornata, era rimasto veramente solo. La morte, balenatagli così terribilmente nel primo tumulto di quella lettera, lo aveva poco a poco affascinato come il vuoto, nel quale nessuno sguardo può fissarsi lungamente: egli aveva resistito precipitandosi da ogni lato, ma perdendo sempre qualche cosa in ogni sforzo, sentendo svellersi dal profondo del proprio essere una per una tutte le più sottili radici. Doveva essere così, perché la coscienza arriva sempre nuda dinanzi alla morte. L'anima affacciandosi all'infinito non può essere che sola: i morenti mutano allora fisonomia, poiché sono già assenti prima di essere morti, mentre tutto quanto formava la loro vita non ha più nemmeno il valore di un passato, e il futuro non traspare ancora dalla torbidezza del mistero finale. Così solo, non aveva più né coraggio né paura. Lungamente pensò al tempo che gli rimaneva da passare in quella posizione. Nessuno lo aveva sospettato durante il giorno, nessuno lo aveva ancora visto, nessuno quindi lo vedrebbe su quella strada. Chi poteva pensare che egli stesse per morire? Quale influenza poteva avere la sua morte? Solamente la sua volontà vegliava ancora nell'attesa dell'ultimo momento. * * * Per quella necessità di far pure qualche cosa finché si è vivi, macchinalmente si cercò nelle tasche un sigaro per fumare, ma non ne aveva: poi si sdraiò lungo il sentiero, sul margine della ripa, perché quella posizione, così seduto, gli aveva indolenzito la schiena. La terra gli diede sotto la nuca una impressione di frescura. A sinistra, nel cielo, si era formato un largo, sottile velo scuro, le stelle splendevano piccole e rade. Tutto taceva. Al di sopra di quel silenzio assonnato, la vigilia eterna degli astri rompeva le ombre dell'infinito, ma la tenebra sulla campagna era così densa che tutto vi era naufragato. Il suo sguardo salì attratto dal tremolio di quei fuochi di bivacco, e si perdette nella loro confusione. La volta cerula si allontanava ugualmente, da qualunque punto l'occhio la contemplasse, per una distesa trasparente come le fiammelle che vi bruciavano nella inutilità della loro distanza senza misura. Nella sua mente oscura egli non riceveva che questa impressione. Le poche nozioni scientifiche apprese nelle scuole non avevano potuto dargli un concetto vivente del cielo; le stelle, come tanti mondi simili alla terra, probabilmente popolati come la terra, erano rimaste per lui un'idea vuota, un'ipotesi smentita ad ogni notte dall'apparenza del fatto. Il suo pensiero, troppo piccolo, come quello del popolo, per accogliere le spiegazioni della scienza, ritornava involontariamente alla primitiva concezione poetica del cielo, una volta azzurra, punteggiata di fanali e magnificamente spiegata sul mondo. Ma tutto era sulla terra. Questa rappresentazione immutabile per lo spirito umano e contro la quale nessuna scienza potrà prevalere, non gli dava anche adesso che una sensazione di stupore; per concepire le stelle come tanti mondi uguali al nostro, avrebbe dovuto immaginarsele spente, e allora gli sarebbe parso di non poterle più vedere; quindi l'enormità del loro mistero, moltiplicata per l'infinito del loro numero e per quello anche più terribile dei destini, che vi si svolgevano, avrebbe soffocato istantaneamente il suo pensiero. Egli guardava quel cielo senza una piega, velario diafano e costellato, che avvolgeva la terra oscura, tutta piena di dormienti destinati a morire, mentre l'anima gli si assopiva sempre più in un torpore di coma. Il lungo, dissolvente lavoro dell'agonia si era omai compito dentro di lui: un vuoto aveva inghiottito il suo spirito, e tutto quanto gli restava di vita non era più che un moto di abitudini. Tale ultimo stadio gli dava appunto quella calma, che appare sempre così inesplicabile nei condannati a morte. * * * In quella torpidezza così simile al sonno, che teneva la campagna, il suo corpo si riposava dalla stanchezza della lunga giornata. La frescura era blanda, l'aria tranquilla. Sdraiato lungo il sentiero, colla testa in alto, non vedeva più nella strada ferrata né il disco, né il palo del telegrafo: solo i fili neri di questo, tesi sopra il suo capo, formavano come una scalea di un significato misterioso, mentre gli steli alti del fieno si ripiegavano sul margine della ripa a toccargli le vesti, o cedevano sotto la sua mano distratta, inumidendogliela. Se qualche cosa avesse attraversato la notte in quel momento, soffio o voce, il suo spirito l'avrebbe seguita come si muovono nell'aria le piume di essa più lievi. Il sopore gli si faceva sempre più profondo, la vita vegetale della terra l'invadeva. Era per lui come un benessere di albero sbattuto dal vento, arso dal sole nel giorno, e che di notte ridiventa fresco, e dalle foglie ristorate manda un murmure indistinto. Qualche stella sembrava tremolare nel sorriso della propria luce, altre si stringevano a gruppi entro un albore diafano, e altre più remote scintillavano tratto tratto, quasi barattando segnali di scolte. Ma tutto era pace anche lassù: una dolcezza di riposo si spandeva su tutte le cose; perfino il fiume aveva cessato di muoversi, e i ranocchi adunati nelle pozzanghere dei campi non gracidavano più. * * * Un lungo brivido gli discese dal pensiero giù per le reni, mentre un fischio stridente, quasi di un proiettile, gli passava sulla testa. Il fischio seguitava rompendosi nell'acutezza di appelli ripetuti, la terra tremava: prima ancora di essersi potuto levare in piedi aveva scorto nuovamente la pupilla verde del disco dilatata nell'ombra, e al disotto di essa, sulla ghiaia della strada, un chiarore che si muoveva colla lanterna del guardiano. Era il treno delle tre, un misto, che veniva da Bologna. Rimase dritto, cogli occhi laggiù, spalancati sulla luce saliente dalla stazione invisibile. Non aveva raccolto di terra il cappello, si sentiva un continuo soffio agghiacciato sulla faccia, la gola gli si era improvvisamente disseccata. Sbirciò due o tre volte il vetro verde del disco, sorvegliando l'ombra del guardiano; non tremava, ma era come se tutto tremasse intorno a lui. Aspettava in una tensione, che non gli permetteva di fare un moto neppure coll'anima. Aveva i capelli irti e la bocca aperta: il suo sguardo s'illuminava di una profonda chiarezza interna. Il fischio ricominciò, poi a un certo momento parve un urlo, che l'immane respiro della macchina già in moto soffocasse; stridé ancora. La lanterna del guardiano si era alzata. Si vedevano distintamente i due fanali rossi e, più in alto, una oscillazione oscura di fumo: egli guardava ancora, attonito, senza respirare, scosso dal tremito convulso della terra, che pareva sfuggirgli sotto i piedi. La sua vita non aveva più che alcuni minuti secondi. La macchina ebbe uno sbuffo più violento. Rapidamente, inconsapevolmente, si gettò bocconi colla testa sulle rotaie; la rotaia tremava. Egli guardava venire la macchina, ma non vedeva più che un immenso ventaglio di fiamma alto come una parete, la terra oscillava sotto di lui; chiuse gli occhi e sentì sulla ghiaia, nel medesimo attimo, il palpito del proprio cuore e i battiti dell'orologio. Istintivamente aperse le braccia puntando le palme sulla ghiaia, abbacinato dall'immenso fulgore di quell'incendio, che si precipitava contro di lui rugghiando. I suoi occhi sostennero per un istante l'urto, non capiva, non sentiva; poi gli parve che il ventaglio di fiamme si sollevasse, si vide la macchina lanciata a volo sulla testa, come un'enorme arco di ponte che ardesse, un vento impetuoso gli sferzò il volto, mentre la terra squarciata da un ultimo sforzo si apriva sotto di lui. - No, no! - ebbe appena il tempo di urlare, ritraendo disperatamente la testa, che la macchina gli era forse già a soli venti metri. Un torrente nero; solido, alto: un soffio gelido ed irresistibile lo gettò quasi giù dalla ghiaia, sulla quale puntellava ancora le mani, raggricchiato nello sforzo istintivo di farsi più piccolo, senza potersi muovere, chiudendo gli occhi ad ogni vano fra vagone e vagone, come ad una scudisciata che gli fendesse a mezzo le pupille. E il treno enorme, vertiginoso, freddo, nero non finiva. All'ultimo vagone egli rotolò sul sentiero. Quando si rialzò non vide più il treno. * * * Egli se ne andava lungo il sentiero, a testa bassa. Una vergogna amara di quanto gli era accaduto aumentava sulla sua coscienza, come dopo la pioggia in certe pozzanghere cresce l'acqua. Si era gettato sotto il treno cedendo alla pressione di una forza interna che lo spingeva, e la sua ragione, rianimata dal fracasso della macchina, aveva avuto irresistibilmente paura. La sua volontà, incapace di qualunque sforzo, non si era più mossa, quando puntato sulle mani, colla testa rasente ai predellini dei vagoni, aveva sentito sfilare ruinosamente tutto il treno. L'aria, che fuggiva smaniando fra i larghi raggi delle ruote, gli schiaffeggiava il volto gelato da uno di quegli orrori fantastici, pei quali nella notte i fanciulli perdono la voce. Egli non si era immaginato la morte così enorme, con quella onnipotenza di uragano! Adesso tutta la sua natura di uomo timido ed inetto ripigliava il sopravvento. Una specie di buon senso gli diceva sommessamente che aveva avuto ragione di aver paura: lo spettacolo del treno, veduto colla testa sulle rotaie, era qualche cosa d'inesprimibile, d'insopportabile. Le rotaie oscillavano sotto la sua fronte, quasi come il filo del telegrafo quando il vento soffia impetuoso, la terra reboava, quel ventaglio di fiamma, formato dalla congiunzione dei due fanali, si dilatava sempre come per la spinta di una eruzione, dalla quale sfuggiva in alto un'immensa colonna di fumo. Era una scossa saltellante di valanga, con un rombo di tuono fra schianti di baleni e un vento freddo e una minaccia fulminea che rovesciava, dissolveva tutto dinanzi a sé. Perciò non aveva resistito. Per un solo istante si era irrigidito nel duello, premendo la tempia sul ferro gelido della rotaia collo sguardo ardente su quell'incendio; sarebbe abbisognato che il treno non fosse stato più che a tre metri, e allora forse il delirio stesso gli avrebbe fatto mantenere la posizione. Ma uno spavento lo aveva avviluppato, e lo cacciava nuovamente per quel sentiero nella notte tranquilla. Dove andare? Sentiva di avere ancora paura della morte, che gli era quasi passata addosso con quel treno oscuro e fiammeggiante, nell'impeto procelloso di una vittoria: ne aveva rimasto l'abbarbaglio negli occhi e il vento nei capelli. La sua faccia non gli sarebbe parsa più la medesima, se avesse potuto vederla; era di un pallore lapideo, cogli occhi vitrei e una specie di smorfia immobile sulla bocca. Come tutti i toccati dalla morte, aveva mutato. Nel suo stesso terrore gli rimaneva qualche cosa di estraneo alla vita, un senso di profondità interminabili, un freddo di caduta per una ruina di abissi. Infatti quel treno non gli era parso che si allontanasse per la strada ferrata, ma era dileguato per lo spazio, come il tuono, in uno di quei rapimenti che accendono a razzi le stelle. * * * Si arrestò. Aveva camminato per qualche miglio, senza por mente alla diversità della sottoposta campagna nella tenebra. Si accorse di essere tutto bagnato di sudore e di rugiada, il luogo non pareva mutato, e le rotaie gli si perdevano sempre dinanzi a pochi passi sul piano oscuro della strada. - Diranno che ho avuto paura! Infatti lo avrebbero detto, vedendolo così. Era stato lo sbigottimento inevitabile della morte, giacché il coraggio non è appunto che uno sforzo contro di esso, che la gente non vorrebbe mai vedere in coloro che debbono morire. Il soldato, il condannato titubante divengono istantaneamente spregevoli; bisogna che entrambi fingano il disprezzo, quasi la provocazione, perché tutti si esaltino in questa vittoria della volontà umana. Ma il suicida, che si vantò, per una qualunque ragione, di gettare la propria esistenza come un cencio immondo dietro di sé, non ha più diritto alla paura. In questo caso la gente insorge contro il falso temerario, che voleva sottrarsi alla pressione della morte, più greve ancora di quella dell'aria, giacché ci mantiene aderenti alla vita malgrado tutti i dolori: e le contumelie diventano la rivincita dell'umiliazione, che il coraggio inesplicabile di ogni suicida infligge alla moltitudine sempre invocante la morte e singhiozzante di viltà ad ogni sua apparizione. Chi l'ha voluta davvero, non può ritornare nella vita. È una consacrazione come quella che la religione pratica sui propri sacerdoti, i quali non sanno più riconfondersi cogli altri uomini. Egli si rappresentava tutto questo oscuramente, nelle scene che ne sarebbero seguite a casa sua e nel caffè. Si ricordava di alcuni, che avevano annunziato il proprio suicidio, di altri ancora più infelici, che vi erano sopravvissuti rimanendo per tutti un oggetto di scherno. Se egli fosse tornato addietro, avrebbe intoppato nella ilarità di tutto il paese, unanime, dopo una simile commedia, nel giudicare anche più abbietto il suo dramma. Poi, conosceva la zia Matilde, che appena aperta quella lettera ne avrebbe gettato le alte grida per tutta la casa e per le strade, correndo da Caterina. Come intercettare quindi quella lettera? Perché intercettarla? Per quanti sforzi avesse voluto fare, non gli sarebbe riuscito di tornare indietro: la sua anima vuota non amava, non si doleva più, ma, sola dinanzi a sé medesima, assisteva come uno spettatore al supremo duello della volontà contro l'istinto. Se non che, finite tutte le ragioni del vivere, la vita resisteva ancora al pari di ogni involucro alla pressione che doveva spezzarla, ed egli provava un'ultima indicibile vergogna per se stesso nel riconoscersi così pauroso. Solo una specie di testardaggine, un impegno col proprio orgoglio, l'obbligavano a morire. Aveva sempre la rivoltella in tasca, ma non pensò nemmeno un istante a servirsene; dopo quel primo infelice esperimento, temeva di fracassarsi la testa senza uccidersi, perdendosi così in un'altra fine peggiore di tutte le morti. Infatti un suicida sopravviveva ancora in paese, dopo essersi asportato con un colpo di pistola quasi tutta la parte inferiore del volto: era un giocatore non vecchio, che da quel giorno non aveva più osato uscire di casa, e pel quale la serva, diventata sua moglie, cercava l'elemosina. Ma se avesse potuto davvero analizzare sottilmente se stesso, in quella ripugnanza ad uccidersi con la rivoltella avrebbe scoperto qualche altra cosa, poiché a quel modo si sarebbe veramente ucciso da sé, mentre invece non voleva che morire. Gettarsi sotto il treno e lasciarsi schiacciare! Non egli avrebbe distrutto sé medesimo, ma un'altra forza, un mostro vivente, ansante, il più prodigioso uscito dalla mente umana. Egli sentiva un'ironia nella antitesi della propria debolezza contro tale onnipotenza, nel mutare quello stupefacente veicolo di vita in uno strumento di supplizio. Era come una vendetta contro la società, che lo costringeva a morire colla assurda contraddizione delle proprie leggi coi propri costumi. Infatti il suo suicidio non aveva altro motivo. La natura non ha bisogno del nostro concorso per ucciderci, il mondo solo ci condanna al suicidio: quando la nostra presenza non vi è più possibile, sentiamo la necessità di morire, per non durare come un rimasuglio fra la gente. La società non è pari alla natura, nella quale anche i residui hanno un valore. Ognuno crea se stesso in una classe o in una funzione con indelebili caratteri, ma, distruggendo questa personalità, non gli rimane né posto, né gruppo. Allora erompe la contraddizione fra l'istinto che vorrebbe vivere, e la ragione che non sa più trovarne il modo. Infatti egli non aveva, coll'imprudenza di quella cambiale falsa, sciupato che la propria condizione in paese, così che potendo trasportarsi altrove non avrebbe quasi nulla perduto. La morte, cui si umiliava, era un omaggio al giudizio della società, un tragico complimento all'importanza della classe, nella quale era nato. Come marito, come padre, come uomo, egli consentiva a non poter vivere se non come aveva vissuto fino allora, mentre intorno a lui le migliaia e migliaia vivevano egualmente bene entro la condizione, nella quale sarebbe precipitato; ma poiché la nostra vita è anzitutto spirituale, una mutazione della sorte vi ha infinitamente più importanza che qualunque altra della natura. Dalle più grandi tragedie ai più minuscoli drammi, non si tratta mai che di suicidio, di una immolazione che l'individuo fa di se stesso alla società, come vittima espiatoria delle colpe altrui o delle proprie. Quindi la vergogna dell'aver avuto paura lo mordeva anche allora, che nessuno se n'era potuto accorgere. L'orgoglio necessario al suicidio, quella esaltazione di sentirsi maggiore degli altri, appunto gettando ciò che è tutto per essi, gli era venuta improvvisamente meno. Vile come coloro, per non somigliare ai quali moriva, si era gettato disperatamente indietro dalla rotaia, invece di lasciarvisi sfracellare. Egli aveva provato confusamente, in quei brevi istanti, una specie di compiacenza ironica e superba al pensiero di insudiciare col proprio sangue il lucido cerchio delle ruote, arrestandone forse, magari per un secondo, la marcia trionfale. Lo avrebbero visto fracassato, irriconoscibile, inorridendo in quella inesprimibile paura della morte, che gela istantaneamente tutti i cuori! Sarebbe stata la sua rivincita dopo morte, perché anche il suicidio ha bisogno di averne una. * * * Seduto accanto al palo, coi gomiti sulle ginocchia e la fronte fra le palme, piangeva. Dopo aver girato lungamente innanzi e indietro per il sentiero, in un orgasmo di febbre, era ritornato allo stesso punto, vinto dal fascino misterioso, contro il quale lottava. Era stata una corsa miserabile di fanciullo smarrito per la notte che si sente aggredito a ogni tratto nell'invisibile e non osa gridare nemmeno inciampando. Non poteva decidersi, non sapeva andarsene; qualche altro treno doveva passare prima di giorno. Quando rivide quel palo, ne provò un sollievo come di una meta; la luce del disco era sempre rossa, lontanamente la stazione aveva quel largo riverbero d'incendio. Qualche lagrima calda gli scivolava fra le mani e le guance, sciogliendosi con un sottile bruciore di sale. Era l'ultimo pianto, quello che non si sente più, perché tutto è già morto di dentro: i suoi occhi piangevano, come talvolta le ferite lasciano uscire goccia a goccia il sangue, mentre il moribondo sente ancora che col sangue se ne va la vita. La natura stessa esprime talvolta un simile pianto in certi squallori di paesaggi autunnali su praterie opache, sotto un cielo grigio, senza un vivente che le attraversi e senza case; o fra roccie appannate e riarse, in una nudità di cadavere. E vi è un dolore sotto le pietre, e pare un pianto l'umidità che l'aria del crepuscolo vi lascia. * * * Un gallo cantò. L'aria era ancora così scura, ma il sereno del cielo principiava ad imbiancare in una purezza sempre più scialba: le stelle adesso rade perdevano quel tremolio che le ingrandiva, ogni vapore si era disciolto. Senza che ne apparissero ancora i segni, l'alba si avvicinava. Nell'aria più fredda altri brividi passavano, simili a sussurri mano mano più intensi. Toccò un ciuffo d'erba sull'orlo della ripa, e ne ritrasse le dita imperlate di rugiada. Da quell'altezza della strada cominciava a discernere la campagna. Gli alberi scoprivano già le cime, disegnando la regolarità dei loro filari; poi un altro gallo cantò e un crocchio di rane volle rispondergli, ma la loro voce notturna si spense all'improvviso. Gli parve di udire come uno schiaffo di imposte nel muro, una luce apparì. Non era più la notte. Laggiù il grande riverbero della stazione si appannava, mentre dietro le mura della città quel vapore luminoso aveva cessato di salire dalle strade invisibili, e in alto, molto in alto, i tre campanili spiccavano rigidamente. Un freddo gli strinse lo stomaco. Sebbene il casello del guardiano sembrasse chiuso, si allontanò guardingamente dal palo, perché sul margine della strada, nell'aria sempre più diafana, sentiva di apparire a tutta la campagna. Gli alberi si scrollavano lievemente, sibili d'insetti, tintinni misteriosi preludevano alla grande sinfonia del giorno. Una luce approdava all'ultimo orizzonte respingendo la tenebra, che si orlava di riflessi evanescenti in lunghe strisce, talvolta simili a nuvole stracciate. Ma più che dell'albore, egli aveva paura dei suoni. Le cose più mattiniere intorno a lui si erano già deste; dentro le frondi qualche ala batteva per spigrirsi, mentre gli ultimi sogni strisciavano impalpabili sugli occhi ancora socchiusi. Seguì per qualche minuto il volo spaurito di una nottola, rivedendola ogni volta, con una specie di compiacenza egoistica, traballare sempre più incerta e precipitarsi nuovamente giù nell'ombre più dense, ad ogni chiarore che si diffondeva nell'aria. Si era allontanato mezzo miglio dal palo, ma la città e il ponte di ferro si vedevano ancora. Se non avesse avuto così paura del giorno, gli sarebbe sembrato ancora notte; infatti, laggiù, i fanali rimanevano accesi, appena l'ultima linea dell'orizzonte si era rischiarata, e qualche gallo impaziente aveva lanciato il primo squillo della propria diana. Ma i suoi sensi, vibranti di un ultimo orgasmo, gli rendevano manifesti i più impercettibili segni. Non poteva più ricapitolare quanto gli era accaduto nella notte, sentiva solamente una vergogna crescente, intollerabile di essere ancora lì, senza un motivo. Per tutta la notte era stato solo, adesso invece la luce gli addenserebbe intorno tutti i viventi: il suo coraggio non potrebbe resistere, sarebbe ripreso, ricacciato a forza indietro, più in basso, per sempre, sotto la propria ruina, inconsolabile, immutabile, inutile. Tutto ridiventava un pericolo. Guardava, ascoltava convulsamente; la notte non era più simile a se stessa; la sua frescura, la sua tranquillità, il suo sonno avevano mutato; una inquietudine agitava ogni suono e dava un accento di trepidazione a tutte le voci. La solitudine si riempiva. Guardò l'orologio, ma non distinse i numeri sul piccolo quadrante, e non osò accendere un fiammifero. Dovevano essere le quattro: forse a quella distanza l'orologio di sant'Ippolito si sarebbe ancora udito; poi n'ebbe paura. Qualunque voce gli faceva male; nell'aria colse un vagare di aromi, altri effluvii che s'innalzavano verso il mattino. A che ora passerebbe il primo treno? Sbigottito si voltò verso il disco, ancora così rosso, ma di un rosso meno luminoso. Per le altre strade della campagna la gente doveva aver ricominciato il proprio passaggio, i lattivendoli, gli ortolani, tutti coloro che soddisfano ai primi bisogni della città; nei due grandi caffè della piazza, sempre aperti, nottambuli col volto livido dalla veglia troppo prolungata comincerebbero a parlare di separarsi, perché odiavano istintivamente l'alba e la sua ripresa coraggiosa del lavoro sotto la immutabile necessità dell'andare avanti. Anch'egli era un nottambulo, l'ultimo, per l'ultima volta. Nel tormento di quella paura, soffriva alla preparazione lenta del giorno, più ammirabile forse che lo scoppio stesso del sole trionfante daccapo a sollecitare coi propri raggi tutti i viventi. Egli allora non si muoverebbe, informe cadavere per sempre. Ma non voleva esser visto prima, non aveva bisogno delle sollecitazioni, che gli aumentavano intorno. Se ne andrebbe, se ne andrebbe ad ogni modo, nella disperazione di non aver potuto nulla comprendere, senza la giustificazione di quanto aveva sofferto! Meglio la notte, il buio senza vita: un silenzio eterno e la sicurezza del nulla, perché non vi poteva essere altro, dopo! Il suo odio alla vita glielo rivelava chiaramente. Egli, che aveva tanto patito il giorno innanzi nella rottura graduale di ogni vincolo, adesso non soffriva più che la fretta, colla quale gli pareva di sentirsi cacciato; non v'era altro tempo da perdere. Fra venti o trenta minuti, da quella posizione tutti avrebbero potuto scorgerlo. I canti dei galli si erano venuti ripetendo, poi un muggito aveva dominato tutte le voci. I pioppi tornavano a stormire colla battuta secca della grandine, i salici sibilavano, le quercie sussurravano appena. Da un olmo sotto la strada un gridìo di passere, subitaneo come una risata, lo fece trasalire. Ormai egli stesso avrebbe potuto discernere lungo il binario un uomo a grande distanza, e tuttavia era ancora presto. Si fermò al primo palo del telegrafo, sdraiandosi daccapo sul sentiero per nascondersi. Stava in agguato, coll'occhio teso sulle ultime lontananze della strada, l'orecchio aperto sospettosamente a tutte le voci; le erbe alte, fradice di rugiada, gli bagnavano il volto percosso tratto tratto da un tremito, che gli echeggiava sonoramente sino al fondo dell'anima. Ma tutte le forze gli erano improvvisamente tornate: era l'attacco finale di quel duello troppo lungo colla morte, senza più alcuna incertezza, e più orribile nell'impossibilità di muoversi. Tutto il suo odio si era mutato in coraggio, quasi la morte, che gli verrebbe incontro su quel treno, dovesse avere una forma umana come la sua. Il suo tetro scheletro, colle occhiaie vuote e la lunga falce, gli riappariva nella fantasia cogli altri fantasmi della espiazione cristiana evocati dall'ultimo dubbio: ma temeva solamente di non poter durare per tutta la lunghezza della prova. Il suo sforzo supremo era di non pensar più, non voleva più nulla davanti. La sua coscienza era giunta finalmente al disprezzo della vita, di questa farsa stupida ed atroce, che nessun Dio poteva aver voluto, perché vi si soffre solamente, e coll'amore di un minuto vi si chiamano altri a soffrire e a morire: ecco tutto! Il resto era menzogna. E davanti a questa imperscrutabile necessità il suo individuo urlava nello spasimo di non poter inabissare tutta la terra e, strappando con un gesto titanico dal cielo l'immenso manto stellato, ravvoltolarvisi come in una bandiera nemica, e spirare ultimo sulla ruina finale di quanto era stato. - Ah! - gridò balzando in piedi, immemore di ogni riguardo. Era il treno. Nel pallore crescente della tenebra la sua luce appariva simile a quella di un palloncino roseo librato nell'aria, ma egli non vedeva che la morte. Era scattato in piedi alla prima scossa del terreno come ad un appello, protendendo il volto in una impazienza quasi insolente della fine. Aveva negli occhi un chiarore di cristallo e sulla faccia una fisonomia di marmo. Rimase così immobile, colla volontà tesa contro il treno, calcolando mentalmente la rapidità della sua corsa. Un fremito d'orgoglio lo scosse ancora, nel vederlo già così vicino che si discernevano distintamente i due fanali; aprì le braccia ad un gesto inesprimibile, e si gettò sulla rotaia abbandonato. Era caduto, quasi colla fronte sul ferro, gli occhi rivolti al treno. Avanzò la testa per poggiare il collo sulla rotaia, lasciando penzolare il capo nel vano come da una ghigliottina. Il freddo del ferro alla gola gli fece passare questo paragone nel pensiero. Ma allora tutte le forze lo abbandonarono, si decomposero per le scosse della terra, che gli passavano per tutto il corpo colla violenza di continue scariche elettriche. Si raggricchiò, chiuse gli occhi, travolto dal fragore precipite che già l'investiva; il ferro della rotaia gli friggeva quasi sotto il collo, una vampa gli aveva ventato sugli occhi, mentre nel terrore delirante, ineffabile, di quella cosa senza nome, la sua volontà caparbiamente disperata, come quella di un bambino, ripeteva: - Non importa, non importa! Con un ultimo sforzo premé ancora il collo sulla rotaia. Poi un'estrema convulsione di turbine, di abisso, di valanga, d'incendio, lo fece quasi rivoltolare sopra se stesso; aprì gli occhi nella fiamma, e per una paura più terribile gridò: - Mio Dio! Ma l'enorme macchina gli era già passata furiosamente sulla testa, soffocando nel proprio fracasso di cateratta l'inutile parola. FINE

CAINO E ABELE

678772
Perodi, Emma 1 occorrenze

Il caldo del viaggio, la gita in carrozza attraverso le pianure che dividono Castelvetrano dal mare, la vista di quelle colonne immense, alcune ritte nella sabbia, altre giacenti fra le palmette e l'appio, la pianta che fu data per insegna alla città dagli antichi abitanti di quella colonia greca, tutti quei templi abbattuti, tutte quelle rovine, che gli artisti soltanto e pochi eletti, i quali capiscono il linguaggio che esse parlano alla fantasia, amano, misero nell'anima di Franco una malinconia, che egli, insofferente di tutto, convertì in dispetto. Quando arrivò allo stabilimento, il rumore dei martelli, il cigolìo dei carri erano cessati, e nonostante che il quartiere di Franco fosse illuminato a luce elettrica e vi si accedesse dal lato opposto al mare, ove in un giardinetto crescevano palmizj bellissimi e ficus elastica alti come albera egli si sentì a disagio quando la carrozza si fermò davanti alla porta a cristalli, e rispose con un breve saluto a quello cerimonioso e solenne del direttore Varvaro, il quale gli fece vedere il quartiere, e dopo aver posto a sua disposizione il cameriere di Roberto, gli disse che quando voleva poteva farsi accompagnare alla villa, che il pranzo era pronto. Il duca fece portare in camera le valigie, si vesti con cura e quindi si avviò verso la villa, eretta sopra un monticello dal quale dominavansi lo stabilimento e le rovine. Era un'afa insopportabile, perché spirava un forte vento d'Africa e il mare s'infrangeva con fracasso contro la banchina e contro la spiaggia, ma Franco sudava freddo pensando che avrebbe dovuto restare molto tempo, forse sempre, in quel deserto, e camminava a testa bassa, senza guardare la casa bianca fra le palme, dalle cui finestre spalancate uscivano fasci di luce. Sempre a testa bassa egli giunse al cancello del giardino da cui incominciava il viale di palmizì, e quando fu lì si scosse, sentendo due manine che lo afferravano per il braccio e una vocina allegra gridargli : Benvenuto, zio Franco; è tanto che ti aspettiamo! Allora alzò la testa e dopo aver fissato nella oscurità la piccina, si chinò e la baciò. Benvenuto! - gli disse pure Velleda, stendendogli la mano. - Come mai questo lungo ritardo? Sono stato a Napoli due giorni per riconcentrarmi, disse Franco con sicurezza, - e qualche giorno mi sono fermato a Palermo, di cui non mi rammentavo più. Le avrei telegrafato se avessi potuto richiamarmi alla mente il suo nome, ma Roberto lo pronunziò al momento della partenza, fugacemente, e io non me ne sovvenni. Egli era maestro nell'arte di dare alla menzogna l'aspetto della verità e Velleda gli credè. Camminavano al buio, in mezzo al filare degli altissimi palmizj, che il vento faceva stranamente incurvare, e non s'erano ancora veduti in viso. Maria aveva preso una mano di Franco e l'accarezzava, come era solita accarezzare quella di suo padre. Quando entrarono nella sala da pranzo illuminata e che era allo stesso livello del giardino, Maria lasciò la mano dello zio e scostandosi per vederlo meglio, gli disse: Sai, zio -Franco, tu non somigli al babbo, egli è forte e tu sei delicato; tu non ridi e non mi guardi come lui. Franco sorrise e Velleda disse fra sé che la piccina aveva ragione, poiché i due fratelli si somigliavano poco. Il maggiore di essi, nonostante la barba e i capelli nerissimi, da vero figlio di siciliana, aveva gli occhi di un colore cangiante, che a momenti era verde come l'acqua del mare, in altri azzurro e vaporoso come il cielo dell'Oriente, ed in tutta la persona mirabilmente proporzionata, ma esile, aveva qualcosa di femmineo, che faceva meglio valere l'eleganza perfetta dei movimenti. Si vedeva che il duca da piccino era stato allevato nella bambagia, che il vento; il sole ardente, la pioggia non ne avevano mai offesa la pelle delicata e che le sue piccole mani non conoscevano il lavoro, come i suoi piedi lunghi e sottili si erano poco sviluppati nel camminare. La bocca aveva bellissima, ma il sorriso, quasi sempre forzato, dava a tutto il viso una espressione falsa, che Maria aveva notato dicendo che non somigliava a suo padre. Difatto la bocca di Roberto quando si apriva a un sorriso illuminava tutto il volto e specialmente gli occhi neri, grandi e sinceri, e quegli occhi fissavano francamente in faccia la gente con quella bella sicurezza propria di chi non conosce la menzogna. Il volto di Roberto era abbronzato; si vedeva che il sole non gli aveva risparmiate le carezze e anche la barba bionda aveva preso all'estremità quel colore rossastro, disuguale, qua più chiaro e là più scuro, che presenta la testa delle mietitrici delle pianure lombarde. Ma la bellezza di Roberto non consisteva tanto nei lineamenti del volto, quanto nella perfetta armonia di quello con le forme del corpo. Era alto, ma ben proporzionato, e mentre le membra rivelavano la forza e la salute, la fronte dritta, gli occhi penetrantissimi e la bocca esprimevano la risolutezza del carattere temprato alla lotta con sé stesso per dominare gl'impeti dell'animo, alla lotta con gli eventi, con gli ostacoli che gli si paravano dinanzi per conseguire la ricchezza, e con l'inerzia e la malafede dei numerosi operai, che impiegava nel suo stabilimento. Era un uomo, insomma, nelle cui vene scorreva un sangue ricco; agli aveva in sé la stoffa di un dominatore, e nato in altri secoli avrebbe estrinsecato la forza esuberante in atti di prepotenza; nato nel nostro rivolgeva quella forza al lavoro, di cui aveva fatto lo scopo dell'esistenza. Franco era un decadente e la sua debolezza fisica e morale non veniva soltanto dalla educazione, ma da una eredità di famiglia, trasmessa a lui soltanto per un capriccio della natura. Al primo vederlo si capiva come discendesse direttamente da quei leziosi cavalieri settecenteschi, che portavano la spada per solo ornamento ed avevano rinnegato tutte le virtù civili e le atroci prepotenze degli antenati; da quegli arcadi che abbandonavano i nomi aviti per portarne altri di pastori da burla, e si capiva anche come avesse sciupato stupidamente un grande patrimonio. Appena furono seduti nella sala da pranzo, con le pareti rivestite di azulejos siciliani, con i mobili di bambù, bambù,con la tavola scintillante di bellissimi cristalli e di argenteria antica. Velleda si diede a osservare Franco e lo giudicò per quello che valeva. Franco, entrando in quella sala si era rasserenato; tutte le impressioni penose ricevute durante il viaggio e al momento dell'arrivo si erano dileguate ed era lieto di trovarsi in quella casa comoda, dinanzi a quella tavola elegante, alla quale non mancava nessuna delle raffinatezze del lusso. Il viaggio gli aveva dato appetito e mangiando osservava Velleda e rideva fra se pensando di essersela figurata vecchia e brutta. Mio fratello, - egli disse a un certo momento, mi aveva dipinto questa villa come un eremo piantato sulla sabbia; invece mi par d'essere in una di quelle graziosissime abitazioni, che i ricchi signori inglesi si costituiscono a Nizza e a Cannes; nulla manca, mi pare, alle comodità della vita. Nulla assolutamente. Il signor Roberto è previdentissimo e sa utilizzare tutto quello che offre il paese. Così, senza spesa, abbiamo sempre pesce eccellente, caccia prelibata, frutta e legumi squisiti, e quello che manca lo portano i vapori da Napoli, da Palermo, o dai porti della Spagna e dell'Inghilterra o dell'Africa. Ella non conosce ancora la casa e stasera non potrà vederla; ma domani gliela farò visitare, come il Varvaro le farà visitare lo stabilimento, e dopo ella ammirerà suo fratello per il gusto di cui ha dato prova creandosi questo piccolo Eden, e per le larghe vedute con cui dirige il suo commercio. Egli deve provare una grande soddisfazione nel poter dire a sé stesso: Tutto questo è opera mia! Franco non era permaloso, ma quegli elogi tributati al fratello lo umiliavano assai, tanto più che Velleda metteva molto calore nell'esprimerli. Il babbo è un uomo come non ce ne sono altri! disse Maria che era stata zitta e composta fino a quel momento. Franco sorrise alla nipotina e mentre ella con insistenza gli domandava notizie del carissimo assente, egli esaminava Velleda. La istitutrice di Maria aveva maniere così garbate e un fare tanto signorile che Franco pensò come erano state superflue le raccomandazioni fattegli da Roberto di trattarla con riguardo. Anche se avesse voluto, non avrebbe potuto fare altrimenti. Velleda era una signora, una vera dama, molto più di tante principesse. Non era giovanissima; poteva avere da trenta a trentadue anni; ma la voce, il gesto, la perfetta sicurezza che dimostrava facendo da padrona di casa, si addicevano all'età, che ella non si studiava di celare. Di statura era piuttosto piccola e sottile come una giovinetta di quindici anni e le forme della snella personcina erano poste in rilievo da un vestito bigio, di lana tagliato da un sarto inglese. Non aveva altri gioielli che una spilla d'oro opaco che le fermava il colletto del vestito. E da quel colletto semplice e un po' maschile si sprigionava un collo sottile, bianco, sorreggente una testina ricciuta. Velleda portava i capelli corti dopo una grave malattia, ma questo non le disdiceva punto, anzi dava una grazia gio vanile alla sua testina piccolissima. Non aveva tratti regolari, perché il naso invece di formare una linea retta con la fronte, era un poco rivolto all'insù ed ella scambiava leggermente un occhio, ma aveva il mento così grazioso, e gli orecchi cosi piccoli e chiusi come fiori ancora in boccio, e la pelle era così trasparente che pareva, secondo l'atteggiamento del volto, lumeggiata di argento. Tutto era luce in quel visino e senza quei cerchi profondi che le attorniavano gli occhi, sarebbe parsa una bimba, tanto aveva fresca la bocca e rotonda la linea che tal mento va fino alla nuca. Velleda non era una di quelle donne che attirano l'ammirazione della folla nelle vie, in un teatro o in un ballo. La cornice adatta per quella singolare testina era una stanza semplice ed elegante; era la casa dove la sua figurina poco ingombrante si aggirava senza far rumore. Forse vestita sfarzosamente, coperta di gioielli, non sarebbe stata bella: ma con quel vestito, che rivelava un gusto finissimo di signora, dinanzi a quella tavola di una eleganza sobria; ella appariva seducentissima anche a Franco che era buon conoscitore. Eppoi la sua voce era una musica. Aveva l'accento toscano, gentile e carezzevole all'orecchio e nel parlare sfoggiava naturalmente tutto l'incanto di quella favella, così precisa nell'espressione e così pura nei suoni Fra reo le domandò se era fiorentina. Sono nata a Fiesole, - ella rispose, - la mamma era russa e il babbo fiorentino; ma aveva passato lunghi anni ini Inghilterra esule; così in casa nostra si parlavano tutte le lingue; ma io ho avuto sempre una grande predilezione par l'italiana ed è la sola che ho veramente studiata. Qui la sento parlar poco, ma leggo molto e specialmente i classici. Se a lei non dispiace, - aggiunse con un sorriso, - noi continueremo il nostro metodo di vita. La domenica, il martedì e il giovedì parliamo italiano, perché Maria deve imparar bene la sua lingua; il lunedì e il venerdì parliamo inglese e il mercoledì e il sabato tedesco. Osservando severamente questo programma in un anno ho ottenuto che la mia piccina possa esprimersi in queste tre lingue; quando venni non sapeva altro che il siciliano, insegnatele dalla sua balia. Oggi quale lingua tocca? - domandò Franco. - Io non parlo tedesco. Oggi toccherebbe appunto il tedesco; ma faremo una eccezione. Non posso condannarla a sentirci parlare una lingua che non capisce. Maria le deve questo riguardo, tanto più che una bambina deve imparare prima l'educazione che ogni altra cosa. Il pranzo era servito dal cameriere di Roberto; vestito con una semplice livrea di tela, ma il servo era così esperto nel servizio che a Franco pareva di essere in casa propria. Mio fratello ha un cuoco eccellente, - disse il duca vedendosi servire un beli gelato di mandarino. Velleda sorrise. È un contadino di Castelvetrano, che ho preso dalla vanga pochi mesi fa, - rispose. - Con un po' di pazienza gli ho insegnato quanto occorre perché ci serva un buon pranzo tutte le sere. Ma per ottener questo abbiamo spesso mangiato otto giorni di seguito le stesse pietanze per farlo impratichire. Ci vuoi pazienza, ma poi si giunge a tutto, - ella aggiunse con una bella sicurezza. Terminato il pranzo Velleda fece salire Franco sulla terrazza del piano superiore, che guardava il mare e dove era servito il caffè. Il vento s'era calmato e Maria andava e veniva dall'ampia sala portando a far vedere allo zio i suoi ritratti e i balocchi e con quella insistenza comune nei bambini cercava di cattivarne l'attenzione ; ma Franco le rispondeva distrattamente, fumando un eccellente sigaro offertogli da Velleda e interrogandola continuamente. Il giovane signore fin dal primo momento che l'aveva veduta, aveva capito che quella colta ed elegante donnina, tutta grazia, non poteva essere una istitutrice di professione e cercava di scoprire il mistero di quella esistenza, perché parevagli impossibile che un mistero non ci fosse. E le domande che le rivolgeva miravano a questo. Ho molti amici anch'io a Firenze, - diceva egli, è molto tempo che manca da quella città? No, da un anno solamente, - rispondeva ella. Mi sorprende, continuava Franco, - che uscendo da quella città gentile e gaia, ella si sia potuta adattare a viver qui. Non mi è stato difficile punto. Per un carattere come il mio, amico della quiete e del lavoro, Selinunte è un paradiso. Eppoi non crede ella che l'ambiente abbia poca influenza sull'animo nostro! I noiati, gl'infelici, portano seco ovunque il loro tedio e il loro dolore, e sono essi soli che incolpano il paese in cui vivono, la gente che li circonda, di esser cagione della tristezza della loro esistenza. Spesso ci rammentiamo con piacere di un luogo e ci pare bello e ridente, perché nel breve tempo che vi abbiamo passato eravamo lieti e predisposti all'ammirazione. Se ci torniamo in condizioni d'animo diverse, non ci par più quello. Ovunque si lavora, ovunque c' è attività, ovunque mi posso rendere utile, io sono felice, relativamente, e mi sento vivere, come qui. Bisogna che io impari da lei; voglio farmi suo scolaro anch'io; qual lavoro mi assegna? - domandò Franco in tono leggermente ironico. Per ora nessuno; domattina, se le annoia di venir qui per la seconda colazione, posso fargliela servire allo stabilimento, come la faccio servire al Varvaro. Visiti i magazzini, s'imbarchi se vuole, sull'yacht, monti a cavallo. Il Varvaro penserà a darle una buona guida. Nel dopopranzo, se non le dispiace, andremo a Castelvetrano. No, no, - rispose Franco, - odio le piccole città dove siamo guardati come bestie feroci. Mi lasci vedere la villa, passeggiare e montare a cavallo; a Castelvetrano vi andrò il meno possibile. Allora lo aspetterò a mezzogiorno. Franco non aveva nessuna voglia di andarsene e Velleda, che vedeva Maria mezza addormentata sopra un sofà, in sala, la prese fra le braccia e presentatala allo zio, perché la baciasse, alzò il volto della bambina fino a quello di lui e poi si allontanò per portarla alla balia e farla mettere a letto. La signora in quell' atteggiagiamento affettuoso, quasi materno, con gli occhi fissi sulla Maria, era cosi graziosa, che Franco la seguì con lo sguardo e quando la vide ritornare, non seppe resistere al desiderio di domandarle: È maritata? ha figli? Sono vedova e ho perduto una cara bambina, che avrebbe l'età di Maria e portava lo stesso nome, - rispose Velleda brevemente. Ho capito subito che ella era stata madre, - osservò Franco. - Non si vuol bene ai bambini altrui, se non si è imparato a voler bene ai proprj. Non sono del suo parere, - replicò Velleda che voleva riportare la conversazione sopra un terreno generale. - L'affetto della donna per le creature deboli non è soggettivo, come ella afferma. La donna ama i piccini per istinto, e le giovanissime maestre degli asili d'infanzia e delle classi elementari adorano i loro scolaretti obbedendo a quell' istinto. Una madre, anzi, separata dai proprj figli o privata di loro dalla morte, deve essere o molto indifferente o molto forte di carattere per affezionarsi ai figli degli estranei. Dunque lei è molto forte? Forse. Non è una virtù, nè un pregio per una donna. Se tornassi bambina e potessi dirigere la mia educazione, invece di studiarmi di esser forte, vorrei esser debole, inetta a ogni lavoro della mente, superstiziosa, devota: una donna vera insomma. Noi, che abbiamo studiato, che abbiamo una personalità, un carattere proprio, siamo generalmente molto infelici, se non sappiamo assuefarci alla ostilità e alla gelosia degli uomini, che vedono in noi altrettanti pericolosi concorrenti, e al disprezzo delle donne ignoranti. È vero che la coscienza del nostro valore, della nostra forza, ci da compensi talvolta sublimi, ma è anche vero che siamo prive di tante soddisfazioni veramente femminili e che dobbiamo camminar sole nella vita per non correre il rischio di cadere sotto il dominio di un uomo volgare, il quale fa pagare alla povera creatura che riduce sua schiava, tutte le ferite alla sua vanità maschile, che egli ha sofferto non solo per lei, ma per colpa di tutte le donne che hanno fatto sforzi per inalzarsi. Peraltro, se noi incontriamo un uomo di sentimenti generosi, privo d'insulse vanità, che ci stima e ci ama appunto per il nostro valore, gustiamo una felicità che la comune delle donne non sogna neppure; ma gli uomini di quel genere sono rari,rarissimi; sono nature quasi divine, e crescendo, come fa ogni giorno, il numero delle donne che anelano ad avere la loro parte nella vita del pensiero e del lavoro, cresce quello delle infelici. Queste teorie non mi pare che le applichi; perché istruisce Maria? Perché il signor Roberto così vuole e per questo mi ha posto a fianco di sua figlia. Per credere alla verità della mia massima, bisogna aver lottato e aver sofferto; bisogna essersi trovate in mezzo alla fiera battaglia fra uomini e donne, combattuta da queste per rivendicare il loro diritto al lavoro dell'umanità; da quelli per impedire soprattutto che questo diritto sia riconosciuto e che nella divisione i loro interessi vengano lesi da una falange di volonterose, che portano nel nuovo campo della loro attività forze giovanili e quello zelo proprio dei neofiti. Ma vedrà quante vittime cagionerà questa battaglia! Il vero debellato sarà l'amore, perché gli uomini, meno quei pochi eletti di cui ho parlato prima; non lo capiscono altro che come un sentimento da padrone a schiava e quando vedranno nella donna la loro eguale, non sapranno amarla e le unioni legittime o no saranno determinate dall'interesse soltanto, senza poesia, senza passione; saranno vere associazioni costituite da due persone capaci di menare avanti col loro lavoro la costosa baracca della famiglia. L'eguaglianza dei diritti porta all'uguaglianza degli obblighi e la donna in questa associazione avrà la soma più pesante; perché oltre a quelli nuovi, non potrà rifiutare i vecchi, che la natura le impone, i suoi doveri verso i figli. Franco ascoltava attentamente Velleda, fissandola. Quella donnina, che pensava ai problemi sociali, che parlava con quella voce armoniosa e con quella grazia femminile di cose che egli non aveva mai sentito trattare da altre donne, lo incuriosiva e lo meravigliava. Questa meraviglia peraltro non era suscitata da un sentimento alto di stima e d'ammirazione, ma da una curiosità quasi infantile di scoprire per quale occulto congegno il cervello di lei presentava certe anormalità, mentre l' involucro esterno era cosi seducente, poiché fino dal primo momento ella eragli piaciuta moltissimo. E quella sera Franco l'avrebbe lasciata parlare lungamente di cose che a lui poco premevano, ma che acquistavano un valore udendole esprimere da lei, se Velleda, sentendo suonar le undici dall'orologio della torre dello stabilimento, non gli avesse fatto capire che quella era l'ora in cui ella doveva coricarsi, per essere alzata alle sei. Franco le augurò la buona notte e le baciò la mano. Saverio, il cameriere di Roberto, con una lanterna rischiarava la via al giovane signore sino allo stabilimento silenzioso, dove col fucile in ispalla vegliava un guardiano, che gli dette la buona sera. Franco dispensò Saverio dall'aiutarlo a spogliarsi e si mise alla finestra di camera sua. Da quella vide chiudere le finestre della villa, spegnere i lumi e poco dopo udì abbaiare festosamente i cani, come se qualcuno li avesse sciolti. Dinanzi a Franco si stendeva il mare illuminato dalla luna e sulle onde si cullavano barche e vaporetti ancorati vicino alla gettata. Un silenzio solenne regnava su quella spiaggia deserta: nessun grido turbavalo, ora che i cani avevano sfogata la gioia di sentirsi liberi nel giardino. Capisco che Roberto possa viver qui, - pensava Franco, - egli si è procurata una esistenza comoda, signorile, allietata dalla presenza di una graziosa donnina; è molto molto abile quel caro fratello! E l'immagine di Velleda gli s'imprimeva negli occhi e la rivedeva ora a tavola, signorilmente composta, ora con Maria fra le braccia, sorridente e affettuosa, ora parlando eccitata della questione femminile, sempre carina sotto quegli aspetti diversi di dama, di madre e di pensatrice. Sapro chi è, conoscerò il mistero di quella esistenza, - disse fra sè Franco, invaso da una malsana curiositá. - Non è una donna comune e a Firenze non può esser passata inosservata. Il Signorini deve conoscerla certo, conosce tutti! E ruminando nella mente il disegno di scrivere a quello sfaccendato fiorentino, che lo distraeva quando passava per Firenze, Franco si coricò e dormì saporitamente.

LE NOVELLE DELLA NONNA. Fiabe fantastiche

679069
Perodi, Emma 2 occorrenze
  • 1992
  • Newton Compton Editori s.r.l.
  • prosa letteraria
  • UNIFI
  • w
  • Scarica XML

Però Banfio era uno di quegli uomini che non possono stare lungamente abbattuti, e fece presto a consolarsi dicendo: - Non sarà mica noto solo alla strega il nascondiglio della campana di oro fino. Ci son tanti vecchi in questo paese! E ripreso coraggio andò a trovare una donnina tutta curva, che camminava a malapena su due bastoni, ma che era tutta pepe. - Il posto te lo indico subito, - rispose la vecchia. - La fonte che tu cerchi è a settemila passi dal noce, che cresce sotto la torre a tramontana del castello di Porciano. Ti avverto però che non c'è strada, e bisogna camminare sempre a diritto. Ma quando ti ho detto il luogo, non ti ho detto nulla, perché soltanto Oliva, la sorella del Romito, possiede la sega per segare il macigno nel quale è rinchiusa la campana d'oro fino. Banfio stette a sentire quello che gli diceva la vecchia, ma siccome di Oliva non ne voleva sapere affatto, si consolò pensando che dal momento che sapeva il luogo, a spaccare il macigno ci sarebbe riuscito senza l'aiuto di Oliva. Senza più indugiare, Banfio cercò il noce, e poi, fattosi dare un gomitolo per non deviare né a destra né a sinistra, incominciò a sdipanarlo camminando e contando. Ma siccome egli non aveva molta memoria, ogni tanto saltava a pié pari qualche decina, oppure contava doppia qualche centinaia, e così rifaceva il gomitolo e ricominciava da capo. Pare impossibile, ma gli ci vollero otto giorni prima di aver contato settemila passi; e quando li ebbe contati si trovò in un punto dove non c'era né fonte, né spino, né macigno, ma un bel praticello tutto fiorito. - Quella vecchia era rimbambita e chissà quante sciocchezze mi ha dette! - esclamò Banfio. - Andiamo a interrogare qualche persona che abbia il cervello più al posto. Ma i giorni passavano, per il buffone, in gite, in palpiti, in ansietà, e quand'era notte e sperava di dormir placidamente, ecco che in sogno si vedeva apparire Oliva, la quale gli sorrideva con la bocca sdentata, e con una voce che pareva il rumore che fanno i tarli nel legno, gli diceva: - Banfio mio, se tu mi sposassi, io ti farei l'uomo più ricco della terra; rammentati quello che dice la leggenda, che la campana d'oro vale quanto tutto il Casentino. Saresti più ricco dei Guidi di Poppi, dei Catani di Chiusi, degli Ubertini di Bibbiena. Ma le ricchezze sarebbero nulla in paragone della felicità di avere una moglie bella e amorosa come me. Finché Oliva gli parlava in sogno del tesoro, Banfio l'ascoltava sorridendo; ma non appena gli faceva quelle moine, egli si destava spaventato e, per quella notte, addio sonno! Il giorno dopo andava a interrogare altre vecchie e altri vecchi del paese; ma tutti gli rispondevano che il luogo ove stava nascosto il tesoro lo sapevano, e ci sarebbero andati a occhi chiusi; ma in quanto a scavarlo era un'altra cosa: occorreva la sega di Oliva. Banfio s'era fissato in testa di arricchire e non aveva pace. - Ebbene, - disse un sabato, - anderò stanotte da Oliva. In fin dei conti, ella può essere meno brutta di quanto mi figuro. Per ora la cosa principale è di diventare ricco e di potermi rivoltolar nell'oro come i maiali nel fango. Presa che ebbe questa determinazione, non gli pareva vero che suonasse la mezzanotte per andar a bussare alla casuccia del Romito, fra i boschi, verso Montemignaio. A mezzanotte precisa era davanti all'uscio e sudava freddo dall'ansietà. Egli bussò e la voce del Romito domandò: - Chi sei? che vuoi? - Sono Banfio e voglio Oliva. - Potresti dire la bella Oliva, screanzato! - esclamò una voce stridula. - Sono Banfio e voglio la bella Oliva, - disse il giullare. Allora l'uscio si aprì e Banfio penetrò nella cucina; ma appena ebbe messo il piede sulla soglia, vi rimase inchiodato. - Perché non entri? - gli disse il Romito. Banfio non rispondeva e teneva gli occhi fissi sopra un gruppo formato da tre vecchie. Due di esse, vestite modestamente, stavano sedute sotto la cappa del camino a scaldarsi; la terza, tutta in ghingheri, gli veniva incontro e gli sorrideva con la bocca sdentata. In costei Banfio riconobbe subito l'Oliva veduta in sogno, ma anche più brutta. Aveva la pelle color delle vecchie candele di cera, gli occhi cisposi, la bocca bavosa, le mani rattrappite. Sulla testa pelata e tentennante teneva una scuffia di velluto ricamata di perle e sulla fronte un diadema di pietre preziose. - Da molti sabati ti aspettavo, Banfio, - disse la vecchia stendendogli la mano. - Perché non sei venuto prima, dolce amor mio? Banfio non sapeva più in che mondo si fosse, e aveva una voglia matta di stritolare quella brutta strega e di fuggir lontano; ma ella seppe trattenerlo, dicendogli: - Vuoi venir subito a veder la campana d'oro fino? - Andiamo! - rispose il giullare. - È una parola! La via è aspra e lunga, e io non sono assuefatta a calpestare sassi e steppi; prendimi nelle tue braccia amorose e portami dove io t'indicherò, - disse Oliva. Banfio l'avrebbe volentieri buttata nel fuoco, ma tacque e obbedì. Però, appena ebbe fra le braccia quel mucchio d'ossi e sentì l'alito appestato della vecchia, la strinse forte forte sperando di stritolarla. - Ho le membra delicate, amor mio; - disse Oliva, - e tu devi portarmi gentilmente, senza farmi male. Quel mucchio d'ossa infagottato nei ricchi abiti e nei gioielli pesava di molto, e Banfio sudava; ma nonostante camminò con quel carico per la via indicatagli dalla vecchia, e giunse al prato fiorito, dov'era riuscito partendo dal noce di Porciano. Giunto colà, egli aprì le braccia e lasciò cascar di botto Oliva sull'erba. - Piano, amor mio; noi donne abbiamo le membra fragili e bisogna trattarci come fiorellini delicati. - Bel fiorellino! - esclamò Banfio tutto arrabbiato. - Tu mi canzoni, strega. Qui c'ero venuto anche da me, e non c'è né fonte né spino, e per conseguenza non c'è neppure il tesoro. - T'inganni, - rispose Oliva. - Quest'erba e questi fiori lo celano agli occhi tuoi e a quelli di tutti. Scava qui, - ordinò ella battendo il bastone, - e troverai la fonte. Era un lume di luna così bello che pareva d'esser di pieno giorno, e Banfio distingueva non solo i fiori che smaltavano il prato, ma anche i fili d'erba. Egli si diede a scavare con le mani, e mentre lavorava, il sudore dell'ansietà gli gocciolava dalla fronte. Scava, scava, aveva fatto una buca abbastanza profonda, quando le sue dita incontrarono la pietra. - Qui non c'è una fonte, ma un macigno! - esclamò egli indispettito. - Smuovi la pietra che impedisce all'acqua di sgorgare e troverai la fonte, - rispose Oliva. - Ma io sono stanco, - osservò il giullare. - Non ho mai lavorato la terra prima d'ora! - Prima d'ora non fosti neppur ricco né marito felice, amor mio caro, - disse la vecchia. - Non ti stancare; ogni felicità deve esser conquistata con molta fatica. Se non fosse stato il desiderio della ricchezza, il giullare sarebbe scappato via, sì poco gli sorrideva l'altro di sposare quella strega; ma l'oro aveva un gran potere sull'animo di lui, e si piegò anche alla fatica di smuovere la pietra che tratteneva l'acqua. Questa, ormai libera, s'inalzò in una bellissima colonna, e ricadde sul prato coprendo i fiori e l'erba; poi, trovato un punto più basso, scorse, a guisa di piccolo rivo, verso il piano. - E lo spino dov'è? - domandò Banfio. - Sollevami ancora nelle tue braccia amorose e te lo indicherò, - disse Oliva. Il buffone dovette obbedire, e la vecchia lo guidò alla estremità opposta del prato, dove, col bastone, gli ammiccò che da quel lato cresceva una siepe di spini. - E la famosa campana, dov'è? - Vedi, - rispose la vecchia, - tutto lo spazio che corre fra la fonte e la siepe? - Lo vedo. - Quanto calcoli che sia? - Quattrocento passi almeno. - Ebbene, la campana d'oro che tu cerchi è larga altrettanto alla base. Gli occhi di Banfio brillavano di cupidigia e, dimenticando quello che gli era stato detto, si buttò in terra e si mise a scavare con le mani. Scava, scava, trovò il macigno. Allora fece una buca, a qualche distanza dalla prima, e lì pure sentì dopo poco sotto le unghie un masso di durissima pietra. La vecchia stava accanto a lui e rideva. - Amor mio caro, senza la sega che io sola possiedo e che per cento anni ho unta ogni giorno col grasso di topo, tu non riuscirai a intaccare codesto macigno. - Dammi subito quella sega! - disse Banfio accecato dalla brama di possedere quel tesoro. - Ho giurato di non darla altro che allo sposo mio, - replicò la vecchia bavosa. - Se vuoi, quest'altro sabato faremo le nozze. - E sia! - esclamò Banfio. - Ora, sposo mio diletto, ricopri la fonte e riconducimi dal fratel mio, - disse Oliva. Quando furono a casa del Romito, la vecchia, con mille leziosaggini, annunziò alle sorelle che era sposa, che il sabato venturo si facevano le nozze e che in quella settimana aveva da fare un mondo per preparare la casa e il corredo. Prima che fosse giorno ella si fece aiutare a salir sopra una mula, e soltanto dopo aver baciato e ribaciato Banfio, sbavandogli tutto il viso, se ne andò in compagnia delle sorelle. Il buffone, quando l'ebbe vista sparire fra gli alberi del bosco, credé di aver sognato e s'avviò verso Porciano con la testa imbambolata. Il tesoro lo voleva, ma quella vecchia cisposa e bavosa, no davvero! Peraltro, quel giorno, attratto dalla cupidigia, tornò al prato dov'era stato la notte e misurò la distanza che correva fra la fonte e la siepe di spini. - Con quest'oro si compra un reame! - esclamò. - Se non posso averlo senza sposar la vecchia, è meglio che la sposi; poi a farla crepare presto ci penserà la morte, che pare si sia scordata di venirsela a prendere, o ci penserò io a rammentarla al Diavolo. In quella settimana la via fra Porciano e il prato non mise erba; Banfio la faceva tre o quattro volte il giorno, calcolando sempre quanto avrebbe potuto valere quella grande campana d'oro fino, e pensando a tutte le soddisfazioni che si sarebbe potuto procurare quando quell'oro fosse suo. Altro che le ricchezze del conte Gentile! Il signor di Porciano gli pareva uno straccione, anche quando lo vedeva seduto a mensa, sotto il baldacchino frangiato di oro, o a cavallo, alla testa di una schiera di paggi e di valletti. Una cosa sola invidiava a Gentile: la bella e giovane sposa. Quando pensava a Oliva, gli s'agghiacciava il sangue nelle vene. Eppure tutta la notte il povero Banfio se la vedeva davanti agli occhi, come quel sabato che l'aveva portata sul prato. La settimana passò presto e la sera del sabato, Banfio, mogio mogio, andò a bussare alla casa del Romito. Quella volta la porta gli fu subito spalancata, e la sposa gli andò incontro tentennando, benché si appoggiasse sul bastone. - Dolce amor mio, tutto è pronto, non si aspettava altro che te, - gli disse baciandolo con la bocca bavosa. Infatti, sopra una parete era preparato un altare illuminato, e sopra a quello c'era un'immagine velata. Il Romito consegnò l'anello a Banfio perché lo infilasse nel dito alla sposa; le due sorelle fecero da testimonî e appena terminata la cerimonia si misero a tavola a mangiare. Il Romito beveva per dieci e dopo poco russava come un ghiro; le sorelle si addormentarono e Banfio e la sposa rimasero a parlare. - Ora che ti ho sposata, - disse a Oliva il giullare, - non mi potresti dare la sega per segare il macigno? - No, amor mio; - rispose la vecchia, - prima che io ti faccia ricco, devi dimostrarmi il tuo affetto e la tua gratitudine. A trovare il tesoro c'è tempo; che furia hai! Banfio, che si vedeva burlato, ebbe voglia di strozzarla; ma tentò di prenderla con le buone per ottener l'intento. - Carina, - le disse, - la morte ci potrebbe cogliere da un momento all'altro; perché non si debbono gustar subito le ricchezze che possiamo appropriarci? - La morte può colpirti, non dico; ma in quanto a me è impossibile; io ho fatto un patto con lei, e questo patto si rinnova ogni volta che mi rimarito. - Dunque, - disse Banfio spaventato, - io non sono il tuo primo consorte? La vecchia rise mostrando le gengive sdentate. - Il numero dei miei mariti è così grande che io non rammento neppure più quanti ne ho avuti, né come si chiamavano. Il desiderio di avere il tesoro li ha spinti a centinaia a sposarmi. - E son tutti morti? - Tutti: non per colpa mia, ma per colpa loro. Chi ha voluto uccidermi per impossessarsi della sega; chi mi ha maltrattata; chi ha tentato di fuggire. Ti avverto perché tu mi sei specialmente caro e vorrei serbarti lunghi anni al mio fianco, vorrei che tu fossi l'ultimo. Banfio sudava freddo addirittura. Dunque quella vecchiaccia gli avrebbe sopravvissuto, e senza il beneplacito di lei non poteva far nulla. - Ora andiamo a casa nostra; - disse la vecchia, - desta le mie care sorelle, aiutale a salir sulla mula; tu mi prenderai in groppa alla tua per avermi più vicina, dolce amor mio! Il pover'uomo dovette ubbidire e andare a casa della vecchia. Il giorno seguente e quelli successivi, la vecchia, col pretesto che nei primi giorni del matrimonio nessuno lavora, come nei giorni di festa, si rifiutava di consegnare a Banfio la sega per segare il macigno, e se lo teneva sempre d'attorno a farsi servire e accarezzare. Finalmente un giorno, a forza di moine, egli la indusse a consegnargliela, e appena l'ebbe nelle mani corse al prato, scavò la terra e quand'ebbe scoperto il macigno si diede a segarlo. Il ferro entrava nella pietra come un ago in un masso di ghiaccio, e con poca fatica Banfio giungeva a toccar l'oro; l'oro, mèta di tutti i suoi desiderî, delle sue brame sfrenate. Sega, sega, aveva staccato molti pezzi di macigno e vedeva tutta la parte superiore della campana, che, oltre ad essere di metallo prezioso, era ornata di finissimo lavoro e tempestata di gemme. Venne la sera, ma Banfio non si poteva staccar da quel posto e non pensava più alla moglie né ad altri. Venne la notte, ed egli lavorava ancora. Insomma, a farla breve, lavorò tanto, senza cessar mai, che quando spuntò l'alba aveva messo allo scoperto tutto un lato della campana e vi era penetrato sotto. Quando vide quell'immensa vòlta tutta d'oro massiccio, esclamò: - Quella strega, raccontandomi di tutti i mariti che ha fatto morire prima di me, ha voluto sgomentarmi. Scommetto che lo ha fatto per tenermi cucito alla sottana. Ora son ricco; marameo! chi s'è visto, s'è visto! Appena aveva pronunziato queste parole, si sentì acchiappare per la cintola delle brache dal gancio del batacchio e "din don" fu mandato di qua e di là, quasi che venti braccia tirassero la fune della campana. Questo scherzo durò per un pezzo, e Banfio si sentiva più morto che vivo. Aveva la testa tutta ammaccata, le braccia e le gambe rotte dai colpi, e pensava con terrore che anche a lui era riservata la sorte de' suoi predecessori, e che le ricchezze che lo circondavano non le avrebbe mai godute, mai! Ma appena la campana si fermò, egli riprese coraggio e pensò che sarebbe stato più prudente di andare a Porciano ad avvertire della scoperta il conte Gentile. Era quello un signore giusto di animo, e se gli avesse proposto di terminare lo scavo, che non poteva far da solo, mediante un tanto di compenso, il Conte lo avrebbe aiutato anche a trasportare la campana e a dividerla in tante parti per poterla fondere ed esitar l'oro. Lieto di questa pensata, Banfio si disponeva a rifare la via già fatta per discendere sotto la grande vòlta d'oro, quando, che è che non è, ecco che compare Oliva con gli occhi tutti lacrimosi. - Marito mio caro, già ti piangevo morto! - esclamò ella buttandogli al collo due braccia, che parevan pale da mulino a vento. - Perché, perché mi hai tenuta in tanta angustia? Banfio fremeva dalla rabbia a vedersi capitar quel fulmine a ciel sereno, e voleva indurre la vecchia a tornare a casa e a lasciarlo lavorare ancora; ma ella protestò che non voleva farlo morir di fatica, e lo persuase a sdraiarsi per terra e dormire. Il pover'uomo era stanco e non tardò a prender sonno. Quanto egli dormisse non lo so; però è un fatto che quando si svegliò sentì sonare a morte. Era un doppio funebre, malinconico, e il più curioso si è che era proprio la campana d'oro che sonava quel doppio. Banfio, non vedendosi più Oliva alle costole, pensò che quello era il momento opportuno per correre dal signore di Porciano a fargli la proposta; ma quando fece per camminare, la campana cessò di sonare, le gambe gli si fecero pesanti come se fossero state di piombo, ed egli dovette mettersi di nuovo a giacere per terra. Allora s'accòrse che la campana si stringeva lentamente, come se tutto l'oro che la formava tendesse a riunirsi in un sol masso. - Sono morto! - gridò. - Oliva, Olivuccia, Olivina mia bella, salvami! A questo grido nessuno rispose, mentre la campana si stringeva sempre e le pareti interne di essa già gli toccavano la testa e i piedi. Per non rimanere schiacciato, Banfio dovette alzarsi; ma dopo poco si trovò chiuso come in un astuccio, e la paura di morire lo assalì. Non chiamava più Oliva, che non gli rispondeva, ma gridava, sperando di essere udito da qualche pastore, e insieme con la paura di morire gli venne quella di esser dannato per sempre. Allora si diede a invocare tutti i santi del paradiso. Intanto la campana lo schiacciava e si restringeva sempre. - Vergine santa, - gridò allora, - mi pento di aver bramato le ricchezze, mi pento di tutto, salvatemi! Dopo questa fervida invocazione, la campana incominciò ad allargarsi sensibilmente, e Banfio poté uscir all'aria libera. Appena fu fuori si gettò in ginocchio e pregò. Banfio riprese coraggio e, senza fermarsi mai, corse a Porciano dove narrò tutto al conte Gentile, il quale esortò il giullare a cambiar vita e a rinunziare alle brame smodate di ricchezze, nate in lui per suggerimento del Demonio. Il conte Gentile, per convincere Banfio, lo condusse alla casa del Romito, e appena la toccò con una croce che aveva al collo, la casa sprofondò nella terra e il Romito sparì in una voragine. Poi ordinò a molti cavatori di pietra di scavare nel luogo ove Banfio aveva veduta la campana d'oro; ed essi, scava scava, non trovarono altro che un masso di tufo. Convinto il buffone che tutto quello che gli era successo non fosse altro che opera infernale, e per impedire che altri dopo di lui fosse tratto nei lacci del Demonio, fece pubblica confessione de' suoi peccati e quindi andò a farsi monaco a Camaldoli, dove visse molti anni disimpegnando gli uffici di converso. Ma l'esempio di Banfio non levò dalla testa degli abitanti di Porciano che nel loro territorio vi fosse il tesoro, e ancora, se andate nel paesetto costruito sotto il castello, vi diranno che: A Porciano, in Casentino, Tra una fonte ed uno spino, Si trova una campana d'oro fino, Che vale quanto tutto il Casentino. Però, nonostante la leggenda, nessuno l'ha scavata, e nessuno è arricchito. Qui Regina tacque e l'occhio suo corse a Vezzosa, che durante la narrazione della novella s'era alzata una diecina di volte per andare sulla via maestra a spiare il ritorno di Cecco. Il resto della famiglia andò a letto; la vecchia massaia e la giovane sposa, inquiete tutte e due, rimasero ad aspettare l'assente. - Mamma, - disse Vezzosa, - vi sembro meritevole che Cecco mi tenga in tanta angustia? - No, figlia mia; ma sii indulgente con lui, non lo rimproverare quando giunge. Mostragli la tua afflizione, non il tuo rincrescimento; la prima intenerisce, il secondo irrita. - E se Cecco si sviasse da casa? - Allora saprei richiamarlo io al dovere; ma per una volta sii indulgente. - Eccolo, - gridò Vezzosa che lo aveva veduto comparire nella viottola del podere. Era lui, infatti, ma taciturno e turbato. Si vedeva che era pentito di essere stato tante ore fuori di casa, e nel giungere diede appena la buona sera. - Che cosa t'è successo? - gli domandò Vezzosa. - Nulla. Quando siamo in compagnia, una ciarla tira l'altra, un bicchiere tira l'altro, e s'è fatto quest'ora. E senza aggiungere nessuna spiegazione, entrò in casa. - Mamma, a Cecco è successo qualche cosa, lo sento, me ne accorgo; fatelo confessare voi, io non ne ho il coraggio! - esclamò Vezzosa correndo a piangere in camera sua. Ma anche alle vive e tenere insistenze della mamma, Cecco rispose con lo stesso laconismo, e invece di salire a rassicurare la Vezzosa, s'indugiò molto nella stalla e non andò a letto altro che quando suppose che la moglie fosse addormentata.

Era bastata quell'idea della buona vecchia per sollevare gli animi abbattuti della famiglia, o ora l'avvenire non appariva più a nessuno così triste come quando ella aveva preso a narrar la novella. La Vezzosa, che non aveva messo bocca nel discorso, perché le pareva che, essendo da poco in casa, non spettasse a lei a parlare, accompagnando in camera la vecchia, le buttò le braccia al collo commossa. - Mamma, - le disse, - che ci siate lungamente conservata; voi siete la nostra benedizione!

Se non ora quando

680394
Levi, Primo 2 occorrenze

Sul timone di direzione era dipinta in nero la croce uncinata, orgogliosa e orrenda, e accanto ad essa, l' uno sotto l' altro, otto profili che Leonid non faticò ad interpretare, tre caccia francesi, un ricognitore britannico e quattro trasporti sovietici, gli avversari che il tedesco aveva abbattuti prima di cadere a sua volta. Doveva essersi schiantato diversi mesi prima, perché sui solchi che aveva arato nel terriccio avevano già incominciato a ricrescere le erbe e gli arbusti del sottobosco. _ È la nostra buona stella, _ disse Mendel: _ Che cosa vorresti di meglio come bivacco? almeno per qualche giorno? Prima era lui il padrone del cielo, adesso i suoi padroni siamo noi _. Non fu difficile forzare il portello della cabina di pilotaggio; i due vi penetrarono, e si dedicarono con curiosità allegra a farne l' inventario. C' era un cagnolino di pezza, unto e floscio, a cui qualcuno aveva applicato intorno al collo un collarino di pelliccia bruna: una mascotte, che evidentemente non aveva funzionato. Un mazzolino di fiori finti. Quattro o cinque istantanee, le solite istantanee che si portano addosso i soldati di tutti i paesi: un uomo e una donna in un parco, un uomo e una donna a una fiera di villaggio. Un piccolo dizionario tedesco-russo: _ Chissà perché se lo portava in volo, _ si domandò Mendel. _ Forse prevedeva quello che gli sarebbe successo, rispose Leonid, _ il paracadute non c' è più, forse lui si è buttato, è qui in giro, disperso come noi, e il dizionario gli sarà venuto utile _. Ma guardarono meglio, e videro che il libretto non era stato stampato in Germania, bensì a Leningrado: strano. A misura che l' inventario procedeva, quell' aereo diventava sempre più strano. Due delle fotografie rappresentavano un giovane snello nella divisa della Luftwaffe insieme con una ragazza piccola e grassoccia, con le trecce brune; le altre tre mostravano invece un giovane in borghese, atticciato e muscoloso, dal viso largo e dagli zigomi alti, ed anche la sua ragazza era diversa, bruna anche lei, ma con i capelli tagliati corti e col naso camuso. In una di queste tre il giovane portava una camicia a ricami geometrici, e si distingueva sullo sfondo una piazza e un edificio a logge, dalle finestre a sesto acuto, fittamente arabescato: non sembrava proprio un ambiente tedesco. La radio di bordo era stata asportata, e nel vano delle bombe non c' erano bombe. C' erano invece tre pani di segala raffermi, parecchie bottiglie piene, e un volantino in lingua bielorussa che invitava i cittadini della Russia Bianca ad arruolarsi nei reparti di polizia organizzati dai tedeschi, e le cittadine a presentarsi agli uffici dell' Organizzazione Todt: avrebbero guadagnato una buona paga lavorando per la Grande Germania, nemica del bolscevismo ed amica sincera di tutti i russi. C' era un numero abbastanza recente della "Bielorussia Nuova", il giornale che i tedeschi stampavano in bielorusso a Minsk: portava la data di sabato 26 giugno 1943, e vi si poteva leggere l' orario delle messe alla cattedrale e una serie di decreti relativi allo smembramento dei kolchoz ed alla ripartizione delle terre ai contadini. C' era una scacchiera, opera di mani pazienti e rozze, ricavata da un largo lembo di corteccia di betulla: le caselle nere erano state ottenute asportando lo strato superficiale candido. C' era anche un paio di stivali, altrettanto rozzi, che Leonid e Mendel rigirarono a lungo fra le mani senza capire di quale materiale fossero fatti: no, non era cuoio, l' inquilino dell' aereo aveva tagliato via il rivestimento di finta pelle dei sedili e l' aveva cucito a grossi punti con cavetto elettrico trovato fra i rottami. Bel lavoro, apprezzò Mendel, ma che fare ora, dal momento che l' alloggio era già occupato? _ Ci nascondiamo e lo aspettiamo; vedremo che tipo è, poi decideremo. L' inquilino arrivò verso sera, con passo cauto; era lui l' ometto muscoloso delle fotografie. Aveva indosso pantaloni militari, una giacca di pelle di pecora, e il berretto quadrato bianco e nero degli usbechi. Dalle spalle robuste gli pendeva una bisaccia, da cui cavò un coniglio vivo. Lo uccise con un colpo del taglio della mano sulla nuca, lo sventrò, e incominciò a scuoiarlo fischiettando. Mendel e Leonid, troppo vicini, non osavano parlare per paura di essere uditi. Leonid, che si era sfilato lo zaino, lo socchiuse e indicò a Mendel i pacchetti di sale; Mendel capì a volo, e a sua volta indicò il mitragliatore: potevano farsi vivi. L' usbeco, al vederli sorgere in mezzo ai cespugli, non diede segno di sorpresa. Depose il coniglio e il coltello e li accolse con diffidenza cerimoniosa. Non era così giovane come appariva dalle fotografie, doveva avere una quarantina d' anni. Aveva una bella voce di basso, educata e morbida, ma parlava il russo con incertezze ed errori, e con una lentezza irritante. Non che esitasse nella scelta delle parole: arrestava il discorso ad ogni frase, o a mezza frase, senza tensione né impazienza, come se il discorso stesso avesse cessato di interessargli e ritenesse superfluo arrivare alla conclusione; poi, inopinatamente, riprendeva a parlare. Peiami, si chiamava: Peiami Nasimovic. Pausa. Nome strano, certo, ma anche il suo paese era strano. Pausa. Strano per i russi, e i russi erano strani per gli usbechi. Lunga pausa, che non accennava a finire. Un disperso: sicuro, era anche lui un disperso, un soldato dell' Armata Rossa. Disperso da più di un anno, quasi da due. No, non sempre nell' aereo: in giro per le isbe dei contadini, un po' a lavorare nei kolchoz, un po' aggregato a qualche gruppo di imboscati, un po' con qualche ragazza. Quella della foto? No, quella era la moglie, lontana, lontana senza fine, tremila chilometri, di là del fronte, di là del Caspio, di là del mar d' Aral. Posto nell' aereo? Che giudicassero loro stessi: non ce n' era molto. Una notte sì, stringendosi un poco; forse anche due, per cortesia, per ospitalità. Ma sarebbero stati male in tre. Leonid parlò rapidamente in jiddisch a Mendel: la faccenda si poteva concludere per le vie spicce. No, rispose Mendel senza muovere il capo e senza mutare l' espressione del viso: di ucciderlo non se la sentiva, e se lo avessero cacciato lui poteva denunciarli. E d' altronde un aereo abbattuto non era una sistemazione ideale né definitiva. _ Ho già ucciso anche troppo. Non uccido un uomo per un posto su un aereo che non vola. _ Ne uccideresti uno se l' aereo volasse? Se ti portasse a casa? _ Quale casa? _ disse Mendel: Leonid non rispose. L' usbeco non aveva capito il dialogo, ma aveva riconosciuto la musica aspra del jiddisch: _ Ebrei, vero? Per me è lo stesso, ebrei, russi, turchi, tedeschi _. Pausa. _ Uno non mangia più di un altro quando è vivo, e non puzza più di un altro quando è morto. C' erano ebrei anche al mio paese, bravi a fare commercio, un po' meno bravi a fare la guerra. Anch' io del resto; e allora, che ragione ci sarebbe di fare la guerra fra noi? Il coniglio era ormai scuoiato. L' usbeco mise da parte la pelle, scalcò la bestia con la baionetta appoggiandosi su un ceppo e prese a farla rosolare su una lamiera dell' aereo che aveva piegata alla meglio in forma di padella. Non aveva messo né grasso né sale. _ Te lo mangi tutto? _ chiese Leonid. _ È un coniglio magro. _ Ti servirebbe del sale? _ Mi servirebbe. _ Ecco il sale, _ disse Leonid, cavando un pacchetto dallo zaino, _ sale contro coniglio: un buon affare per tutti. Contrattarono a lungo su quanto sale valesse mezzo coniglio. Peiami, pur senza mai perdere la calma, era un negoziatore instancabile, sempre pronto a rilanciare nuovi argomenti: il mercanteggiare lo divertiva come un gioco e lo esaltava come un esercizio cavalleresco. Fece presente che il coniglio nutre anche senza sale, mentre il sale senza coniglio non nutre. Che il suo coniglio era magro, e perciò più pregiato, perché il grasso di coniglio è nocivo ai reni. Che lui era momentaneamente sprovvisto di sale, ma che nella zona la quotazione era bassa, sale ce n' era in abbondanza, i russi lo buttavano giù coi paracadute a quelli delle bande: loro due non dovevano approfittare della scarsità in cui lui casualmente si trovava, se andavano verso Gomel avrebbero trovato sale in tutte le isbe, a quotazioni disastrose. Infine, per puro interesse culturale e curiosità delle usanze altrui, si informò: _ Voi mangiate coniglio? Gli ebrei di Samarcanda non lo mangiano: per loro è come il porco. _ Noi siamo ebrei speciali; siamo ebrei affamati, _ disse Leonid. _ Anch' io sono un usbeco speciale. Concluso l' affare, vennero fuori da un nascondiglio mele, fette di rapa arrostite, formaggio e fragole di bosco. I tre cenarono, legati dall' amicizia a fior di pelle che nasce dalle contrattazioni; alla fine Peiami andò nella carlinga a prendere la vodka. Era samogòn, spiegò: vodka selvaggia, casalinga, distillata dai contadini; molto più robusta di quella dello Stato. Peiami precisò che lui era un usbeco speciale perché, quantunque mussulmano, la vodka gli piaceva molto; e poi, perché gli usbechi sono un popolo bellicoso, e lui invece non aveva voglia di fare la guerra: _ Se nessuno mi viene a cercare, io resto qui a mettere trappole ai conigli finché la guerra finisce. Se vengono i tedeschi, vado coi tedeschi. Se vengono i russi, vado coi russi. Se vengono i partigiani, vado coi partigiani. A Mendel sarebbe piaciuto sapere qualcosa di più sui partigiani e sulle bande a cui i russi buttavano il sale. Cercò inutilmente di cavar fuori altre notizie dall' usbeco: ormai aveva bevuto troppo, o riteneva imprudente parlare dell' argomento, o veramente non ne sapeva nulla di più. Del resto il samogòn era veramente poderoso, quasi un narcotico. Mendel e Leonid, che non erano grandi bevitori, e che non bevevano alcoolici da un pezzo, si sdraiarono nella cabina dell' aereo e si addormentarono prima dell' imbrunire. L' usbeco rimase all' aperto più a lungo; rigovernò le stoviglie (e cioè la sua padella fuori ordinanza) prima con sabbia e poi con acqua, fumò la pipa, bevve ancora, e infine si coricò anche lui, spingendo da parte i due ebrei che non si svegliarono. Alle undici, verso ponente, il cielo era ancora leggermente luminoso. Alle tre del mattino faceva già chiaro: la luce entrava in abbondanza non solo dai due oblò, ma anche dalle crepe delle lamiere sconquassate dall' urto dell' aereo contro i tronchi e il suolo. Mendel era dolorosamente sveglio: gli doleva la testa e aveva la gola arida; "colpa del samogòn", pensò, ma non era solo il samogòn. Non riusciva a staccare la mente dall' accenno che aveva fatto l' usbeco alle bande nascoste nei boschi. Non che fosse per lui una notizia in tutto nuova: ne aveva sentito parlare, ed anche spesso; aveva visto, affissi alle capanne dei villaggi, i manifesti tedeschi bilingui, in cui si offriva denaro a chi denunciava un bandito, e si minacciavano pene a chi li favoreggiava. Aveva anche visto, più di una volta, gli impiccati spaventosi, ragazzi e ragazze, con il capo brutalmente slogato dallo strappo della corda, gli occhi vitrei e le mani legate dietro la schiena: portavano al petto cartelli scritti in russo, "sono ritornato al mio paese", o altre parole di scherno. Sapeva tutto questo, e sapeva anche che un soldato dell' Armata Rossa, quale lui era, ed era fiero di essere, se si trova disperso deve darsi alla macchia e continuare a combattere. E insieme era stanco di combattere: stanco, vuoto, svuotato della moglie, del paese, degli amici. Non sentiva più in petto il vigore del giovane e del soldato, bensì stanchezza, vuotezza, e desiderio di un nulla bianco e tranquillo, come una nevicata d' inverno. Aveva provato la sete della vendetta, non l' aveva appagata, e la sete si era attenuata fino a spegnersi. Era stanco della guerra e della vita, e sentiva corrergli per le vene, invece del sangue rosso del soldato, il sangue pallido della stirpe da cui sapeva di discendere, sarti, mercanti, osti, violinisti di villaggio, miti patriarchi prolifici e rabbini visionari. Era stanco anche di camminare e di nascondersi, stanco di essere Mendel: quale Mendel? Chi è Mendel figlio di Nachman? Mendel Nachmanovic, alla maniera russa, come era scritto sul ruolino del plotone, o Mendel ben Nackman, come a suo tempo, nel 1915, aveva scritto sul registro di Strelka il rabbino dei due orologi? Eppure sentiva che non avrebbe potuto continuare a vivere così. Qualcosa nelle parole e nei gesti dell' usbeco gli aveva fatto intuire che lui, sui partigiani dei boschi, ne sapeva più di quanto volesse fare apparire. Qualcosa sapeva, e Mendel sentiva in fondo all' anima, in un angolo male esplorato dell' anima, una spinta, uno stimolo, come una molla compressa: una cosa da fare, da fare subito, in quello stesso giorno la cui luce già lo aveva strappato al sonno del samogòn. Doveva sentire dall' usbeco dove stavano e chi erano queste bande, e doveva decidere. Doveva scegliere, e la scelta era difficile; da una parte c' era la sua stanchezza vecchia di mille anni, la sua paura, il ribrezzo delle armi che pure aveva sepolte e portate con sé: dall' altra c' era poco. C' era quella piccola molla compressa, che forse era quella che sulla "Pravda" veniva chiamata il "senso dell' onore e del dovere", ma che forse sarebbe stato più appropriato descrivere come un muto bisogno di decenza. Di tutto questo non parlò con Leonid, che nel frattempo si era svegliato. Attese che si svegliasse l' usbeco e gli pose alcune domande precise. Le sue risposte, molto precise non furono. Bande, sì: ce n' erano, o ce n' erano state; di partigiani o di banditi, lui non avrebbe potuto dire, nessuno lo avrebbe potuto dire. Armate, certo, ma armate contro chi? Bande fantasma, bande nuvola: oggi qui a far saltare una ferrovia, domani a quaranta chilometri a saccheggiare i silos di un kolchoz; e mai le stesse facce. Facce di russi, di ucraini, di polacchi, di mongoli venuti chissà di dove; ebrei, anche, sì, qualcuno; e donne, e una girandola di uniformi. Sovietici rivestiti dai tedeschi, nella divisa della polizia; sovietici tutti stracciati, con la divisa dell' Armata Rossa; perfino qualche disertore tedesco .... Quanti? Chi sa! Cinquanta qui, trecento là, gruppi che si formavano e si disfacevano, alleanze, litigi e qualche sparatoria. Mendel insistette: dunque, qualcosa lui Peiami sapeva. Sapeva e non sapeva, rispose Peiami; queste erano cose che sapevano tutti. Lui aveva avuto un solo contatto, mesi prima, con una banda di gente abbastanza per bene. A Nivnoe, in mezzo alle paludi, al confine con la Russia Bianca. Per affari: aveva venduto l' impianto radio dell' aereo, e secondo lui era anche stato un buon affare, perché l' apparecchiatura era a pezzi e non pensava proprio che quella gente sarebbe stata in grado di rimetterla in ordine. Lo avevano pagato bene, con due forme di formaggio e quattro scatolette di aspirina, perché era ancora inverno e lui soffriva di reumatismi. Aveva poi fatto un secondo viaggio in aprile: si era portato dietro il paracadute del tedesco morto. Sì, quando lui era arrivato lì, il pilota c' era ancora, morto da chissà quanti giorni, già tutto mangiato dai corvi e dai topi; aveva avuto un brutto lavoro per fare un po' di pulizia e d' ordine nella cabina di pilotaggio. Si era portato via il paracadute, ma a Nivnoe aveva trovato altra gente, altre facce, altri capi, che non avevano fatto tanti complimenti, gli avevano portato via il paracadute e lo avevano pagato in rubli. Una vera presa in giro; che cosa se ne poteva fare, lui, dei rubli? E con quel paracadute si potevano fare almeno una ventina di camicie. Insomma, un affare disastroso, a parte anche il viaggio: perché fino a Nivnoe erano tre o quattro giorni di marcia. No, non ci era più ritornato; anche perché gli avevano detto che stavano per trasferirsi altrove, chissà dove, non lo sapevano ancora o non glielo avevano voluto dire. Erano stati loro che gli avevano regalato il dizionario tedesco: ne avevano un pacco intero, si vede che a Mosca ne avevano stampati in abbondanza. Ecco, era tutto quello che lui sapeva delle bande, oltre naturalmente al fatto del sale. Sale ne avevano, glielo mandavano con i paracadute, e non sale soltanto; appunto, proprio per questo avevano valutato così poco il paracadute del tedesco, benché fosse fatto di tela più fine. Insomma, mettersi nel commercio è sempre un rischio, ma diventa un rischio grave quando non si conoscono le condizioni del mercato; e che mercato è un bosco, dove non sai neppure se hai dei vicini, e che gente sono, e di cosa hanno bisogno? _ Ad ogni modo, voi siete miei ospiti. Non penso che vogliate continuare subito il vostro cammino; fermatevi qui, fate i vostri piani, e ripartite domani più tranquilli. Sempre che non abbiate ragioni di avere fretta. Dividerete la mia giornata: voi vi riposerete, e io per un giorno non sarò solo. Li accompagnò in giro per il bosco, lungo sentieri appena segnati, a controllare le trappole, ma conigli non ce n' erano. C' era una donnola, mezza strozzata dal cappio ma ancora viva; anzi, talmente viva che era difficile difendersi dai suoi morsi convulsi. L' usbeco si sfilò i calzoni, li rimboccò per raddoppiarne lo spessore, vi infilò le mani come in due guanti, e liberò la creatura, che si dileguò rapida attraverso il sottobosco, flessibile come un serpente. _ Se uno ha proprio fame si mangiano anche quelle, _ disse Peiami con malinconia. _ Al mio paese, questi problemi non c' erano; anche il più povero, almeno di formaggio si poteva saziare, tutti i giorni della settimana. La carestia noi non l' abbiamo mai conosciuta, neanche negli anni più brutti, quando in città si mangiavano i topi. E invece qui è diverso, non è facile togliersi la fame; secondo le stagioni, si trovano funghi, rane, lumache, uccelli di passo, ma non tutte le stagioni sono buone; si può andare ai villaggi, certo, ma non a mani vuote: e ci vuole anche attenzione, perché sparano facilmente. A un centinaio di metri dall' aereo mostrò loro la tomba del tedesco. Aveva fatto un buon lavoro, una fossa profonda più di un metro, niente sassi perché nella zona non si trovavano, ma una copertura di tronchetti, un tumulo di terra battuta, e perfino la croce con su inciso il nome, Baptist Kipp: lo aveva ricavato dal piastrino militare. _ Perché tanta pena per seppellire un infedele? E per di più tedesco? _ chiese Leonid. _ Perché non ritorni, _ rispose l' usbeco: _ E poi perché le giornate sono lunghe, e bisogna pure occuparle in qualche modo. A me piace giocare a scacchi, e sono anche abbastanza bravo. Al mio paese non mi batteva nessuno. Bene, qui mi sono fatto i pezzi intagliati nel legno, e la scacchiera di scorza di betulla, ma giocare da soli è insipido. Invento problemi, ma è come fare l' amore da soli. Mendel disse che anche a lui piaceva giocare: c' erano ancora molte ore di luce, perché non fare una partita? L' usbeco accettò, ma quando furono arrivati all' aereo espresse il desiderio che la prima partita la giocassero loro due, Mendel e Leonid. Perché? Per cortesia di ospite, disse Peiami, ma era chiaro che voleva invece farsi un' idea di come giocavano i due futuri avversari. Era uno di quelli che giocano per vincere. I pezzi bianchi toccarono a Leonid, ed erano proprio bianchi e ancora odorosi di legno fresco. I neri invece erano di varie tonalità di bruno, abbrustoliti, affumicati; gli uni e gli altri erano poco stabili, anche perché la scacchiera non era ben piana, bensì ondulata e piena di asperità e di scalini. Leonid aprì di dama, ma si vide presto che non conosceva lo svolgimento normale dell' apertura, e si trovò in difficoltà, con un pedone di meno e i pezzi sviluppati male. Mormorò qualcosa a proposito del gioco, e Mendel gli rispose nello stesso tono sommesso, ma in jiddisch: _ Tienilo d' occhio anche tu, non si sa mai. Il mitra e la pistola sono nella cabina. Scacco al re _. Era uno scacco insidioso, col re dei bianchi malamente insaccato dietro i pedoni. Leonid sacrificò un alfiere in un futile tentativo di difesa e Mendel annunciò il matto in tre mosse. Leonid inclinò il suo re in segno di resa e di omaggio al vincitore, ma Mendel disse: _ No, andiamo fino alla fine _. Leonid comprese: Peiami doveva essere accontentato, non c' era alcun pericolo che si allontanasse, stava seguendo la partita con l' attenzione professionale e sanguinaria degli affezionati alle corride; era meglio non privarlo dello spettacolo del colpo di grazia. Venne il colpo di grazia, e l' usbeco sfidò Leonid, che accettò malvolentieri. L' usbeco aprì provocatoriamente con il pedone d' alfiere di donna: i suoi occhi, dalla cornea di un bianco talmente puro da sconfinare nell' azzurro, erano ancora più provocatori. Giocava con gesti esibiti e grotteschi, avanzando ad ogni mossa la spalla ed il braccio come se il pezzo che spostava avesse pesato una dozzina di chili; lo abbatteva sulla scacchiera come per piantarvelo dentro, o lo girava premendolo come per avvitarlo. Leonid si trovò subito a disagio, sia per questa mimica, sia per l' evidente superiorità dell' avversario: era chiaro, Peiami non voleva altro che toglierlo di mezzo il più presto possibile per cimentarsi contro Mendel. Muoveva con rapidità insolente, senza attardarsi a meditare i tratti, e manifestando sgarbata impazienza davanti alle esitazioni di Leonid. Gli diede il matto in meno di dieci minuti. _ A noi due, _ disse subito a Mendel, con un' aria così risoluta che questi si sentì a un tempo divertito e inquieto. Anche Mendel, questa volta, giocava per vincere, come se la posta in gioco fosse stata una montagna d' oro, o la vita sicura, o l' eterna felicità. Percepiva confusamente di giocare non per sé solo, ma come campione di qualcosa o qualcuno. Aprì attento e prudente, imponendosi di non lasciarsi innervosire dal comportamento dell' altro: il quale, d' altronde, abbandonò presto le sue gesticolazioni disturbatrici per concentrarsi anche lui sulla scacchiera. Mendel era riflessivo, Peiami tendeva invece a un gioco temerario e lampeggiante: dietro ad ogni suo tratto, Mendel stentava a capire se si nascondesse un piano meditato, o il desiderio di stupire, o l' audacia fantasiosa dell' uomo di ventura. Dopo una ventina di tratti nessuno dei due aveva avuto perdite, la situazione era equilibrata, la scacchiera era spaventosamente confusa, e Mendel si accorse che si stava divertendo. Perse deliberatamente un tempo, al puro scopo di indurre l' usbeco a rivelare le sue intenzioni, e vide che l' altro si innervosiva: adesso era lui che esitava davanti ai tratti, guardando Mendel negli occhi come per leggervi dentro un segreto. L' usbeco fece un tratto che si rivelò immediatamente disastroso, chiese di rifarlo, e Mendel glielo permise; poi si alzò in piedi, si scosse come un cane uscito dall' acqua, e senza parlare si avviò verso l' aereo. Mendel fece un cenno a Leonid, che comprese, lo seguì da vicino ed entrò dietro di lui nella cabina; ma l' usbeco non pensava alle armi, era solo venuto a prendere il samogòn. Bevvero tutti e tre, mentre il cielo incominciava già ad oscurarsi e si era levato il vento fresco del tramonto. Mendel si sentiva strano, fuori del tempo e del luogo. Quel gioco intento e serio si collegava nel suo ricordo a tempi e luoghi e persone intensamente diversi; a suo padre che gli aveva insegnato le regole, lo aveva vinto facilmente per due anni, con stento per altri due, e poi aveva accettato le sconfitte senza disagio; agli amici, ebrei e russi, che davanti alla scacchiera si erano educati con lui all' astuzia e alla pazienza; al calore quieto della casa perduta. Probabilmente l' usbeco aveva bevuto troppo. Quando si fu riseduto davanti ai pezzi, scatenò un' interminabile serie di cambi da cui emerse una situazione alleggerita e decantata: lui con un pedone di meno, Mendel padrone della grande diagonale e sicuramente arroccato. L' usbeco ribevve, perfezionò la propria catastrofe con un assurdo tentativo di contrattacco, si diede sconfitto, e dichiarò che pretendeva la rivincita; era stato debole, lo sapeva che quando si gioca non si deve bere, aveva ceduto al vizio come un bambino. Oramai era troppo buio, ma voleva la rivincita: domani mattina, subito, appena fatto giorno. Salutò, salì incespicando la scaletta a pioli tutta sconnessa che portava alla cabina, e dopo cinque minuti russava già. I due tacquero per qualche istante. Sul fruscio delle fronde, scosse dalla brezza, si sovrapponevano suoni meno familiari: fremiti d' insetti o di piccoli animali, scricchiolii, un coro lontano di rane. Mendel disse: _ Non è questo, il compagno di viaggio di cui abbiamo bisogno, vero? _ Non abbiamo bisogno di un compagno di viaggio, disse Leonid, ancora imbronciato per la sconfitta. _ È da vedersi; comunque, è tempo di rimettersi in cammino, prima che sia notte profonda. Attesero che il russare dell' usbeco si fosse fatto regolare, ripresero gli zaini dalla cabina e si misero in via. Per precauzione, si avviarono dapprima verso sud, poi fecero una brusca conversione e procedettero verso nord-ovest: ma il terreno era asciutto e non conservava le impronte.

Pagina 0187

Si era aperto un cratere enorme, e in un raggio di sessanta chilometri tutti gli alberi erano bruciati o erano stati abbattuti. Era estate, e l' incendio si era spento proprio alle porte del villaggio. Mendel, Pavel, Leonid, Line e gli uomini di Ozarici prendevano parte alle esercitazioni di marcia e tiro ed alle spedizioni di approvvigionamento nelle fattorie e nei villaggi circostanti. Queste avvenivano per lo più senza attriti né resistenze da parte dei contadini; la fornitura di viveri ai partigiani era una tassazione in natura, un tempo imposta, ormai acquisita. I contadini, anche i più malcontenti della collettivizzazione, avevano ormai capito qual era la parte vincente; inoltre, i partigiani di Ulybin li difendevano contro i rastrellamenti dei tedeschi, affamati di mano d' opera per i campi di lavoro forzato. Da una di queste spedizioni Pavel ritornò a cavallo, con arie da smargiasso e il casco di pelo calcato per traverso. Non era un cavallo da sella, bensì un cavallo da tiro, maestoso e vecchio; Pavel diceva che lo aveva trovato sperduto nel bosco e morente di fame, ma nessuno gli credette: la bestia non era poi così magra. Pavel lo considerava suo di pieno diritto, gli si affezionò e il cavallo si affezionò a lui: chiamato, accorreva come un cane, col suo trotto pesante e sfiatato. Pavel non aveva mai cavalcato in vita sua, e del resto la groppa del cavallo era così larga da costringere il cavaliere a una posizione innaturale, ma nelle ore libere dal servizio era facile incontrare Pavel che si esercitava all' equitazione intorno alle baracche. Ulybin disse che il cavallo di Pavel avrebbe dovuto avvicendarsi con l' altro che faceva girare la dinamo, Pavel si oppose, diversi partigiani presero le sue parti, e Ulybin, che verso Pavel dimostrava una inesplicabile parzialità, lasciò correre. Il comandante si mostrava meno indulgente nei riguardi di Leonid. Non vedeva di buon occhio il suo legame con Line, che d' altronde era argomento di commenti e scherzi da parte di tutti: benevoli o malevoli, a seconda delle circostanze. Leonid si era aggrappato alla ragazza con la tensione convulsa del naufrago che ha trovato una tavola galleggiante. Sembrava volesse avvolgerla in un abbraccio totale, che la schermasse da tutti gli altri contatti umani e la sequestrasse dal mondo. Non parlava più con nessuno, neppure con Mendel. Un giorno Ulybin fermò Mendel: _ Io non ho niente contro le donne, e questi non sono affari miei; ma ho paura che quel tuo amico si metterà nei guai e metterà nei guai anche qualcun altro. Le coppie fisse vanno bene in tempo di pace: qui è un' altra cosa. Qui ci sono due donne e cinquanta uomini. Mendel stava per rispondergli come aveva risposto a Dov in settembre a Novoselki, e cioè che lui non era responsabile delle azioni di Leonid, ma sentiva che Ulybin era fatto di un metallo più duro di quello di Dov: si trattenne, e rispose vagamente che gli avrebbe detto qualcosa, ma sapeva di mentire. A Leonid non avrebbe osato dire nulla; nei confronti del suo rapporto con Line provava un viluppo di sentimenti contrastanti che da quando era a Turov aveva cercato invano di districare. Provava invidia: su questo non aveva dubbi, e infatti se ne vergognava un poco. Era un' invidia, tinta di gelosia, per i diciannove anni di Leonid, per quel suo amore precipitoso e nativo che gli ricordava dolorosamente il suo proprio, di sei anni prima (o sessanta, o seicento?), quello che lo aveva scagliato fra le braccia di Rivke come una freccia che va a segno: Rivke! Invidia anche per la fortuna che aveva guidato Leonid entro il campo di forza che irradiava da Line: un ragazzo come lui avrebbe potuto incappare in qualsiasi trappola, ma Line non sembrava una donna-trappola. Che cosa poteva aver trovato Line in Leonid? Mendel se lo domandava. Forse soltanto un naufrago: ci sono donne nate per salvare, e forse Line era una di queste. Anch' io sono un salvatore, pensava, Mendel, un Consolatore. Bel mestiere, consolare gli afflitti in mezzo alla neve, al fango ed alle armi pronte. O forse invece è diverso; Line non cerca un naufrago da salvare, ma al contrario, cerca un uomo umiliato per umiliarlo di più, per salirci sopra come si sale su una pedana, per essere un po' più alti e vedere più lontano. Ci sono persone così: fanno il male degli altri senza accorgersene. Che Leonid stia attento. Lo invidio ma ho anche paura per lui. A Turov si succedevano i giorni di tregua, e Mendel e Sissl divennero amanti. Non ci fu bisogno di parole, fu naturale e dovuto come nel Paradiso Terrestre, e insieme frettoloso e scomodo. C' era il sole, e tutti gli uomini erano fuori a sbattere le coperte e ad ungere le armi. Mendel andò a cercare Sissl in cucina, le disse "vieni con me?", e Sissl si levò in piedi e disse "vengo". Mendel la condusse nella legnaia, che serviva anche da stalla per i due cavalli, e di lì su per la scaletta a muro che portava al fienile. Faceva freddo, si spogliarono a mezzo, e Mendel fu stordito dall' odore femmineo di Sissl e dal bagliore della sua pelle. Sissl si aprì come un fiore, docile e calda; Mendel si sentì irrompere nelle reni la forza e il desiderio che da due anni tacevano. Sprofondò in lei, ma senza abbandonarsi, anzi, tutto intento e vigile: voleva godere tutto, non perdere nulla, incidere tutto dentro di sé. Sissl lo ricevette fremendo appena, ad occhi chiusi, come se sognasse, e fu subito finito: si udivano voci e passi vicini, Mendel e Sissl si sciolsero dall' abbraccio, scossero via il fieno e si rivestirono. Dopo di allora non ebbero molte altre occasioni di incontrarsi. Riuscirono a salvare la discrezione ma non la segretezza; i partigiani parlavano a Mendel di Sissl dicendo "la tua donna", e Mendel se ne sentiva appagato. Trovava in Sissl pace e ristoro, ma non era sicuro di amarla, perché aveva troppi pesi sull' anima, perché si sentiva come cauterizzato, e perché la presenza di Line lo perturbava. Davanti a Line, Mendel non poteva sottrarsi all' impressione di una sostanza umana preziosa ed insolita, ma inquieta ed inquietante. Sissl era come una palma al sole, Line era un' edera intricata e notturna. Doveva avere solo qualche anno più di Leonid, ma le privazioni che aveva patite nel ghetto le avevano cancellato la giovinezza dal viso, la cui pelle appariva opaca e stanca, segnata da rughe precoci. Aveva occhi grandi nelle occhiaie cineree e lontani fra loro, naso piccolo e diritto, e tratti minuti da cammeo che le conferivano una espressione insieme triste e risoluta. Si muoveva con sicurezza rapida, talvolta con scatti bruschi. Line aveva insistito con Ulybin per essere ammessa alle esercitazioni: era una partigiana, non una rifugiata. Mendel aveva ammirato a Novoselki la sua destrezza nel maneggiare le armi, e durante la marcia sulla neve la sua resistenza alla fatica, almeno pari a quella di Leonid. Questo non è un dono di natura, pensava: è una riserva di coraggio e di forza che va ricostituita ogni giorno, dovremmo tutti fare come lei. Questa ragazza sa volere; forse non sa sempre quello che vuole, ma quando lo sa lo porta a compimento. Invidiava Leonid, e insieme era preoccupato per lui: gli sembrava preso a rimorchio da Line, e che il cavo fosse troppo teso. Un cavo teso si può strappare, e allora? Line parlava poco, e mai inutilmente: poche parole meditate e senza enfasi, dette con voce bassa e leggermente velata, con gli occhi fermi in faccia all' interlocutore. Aveva modi diversi da quelli delle donne, ebree e non, che Mendel aveva incontrato fino allora. Non mostrava ritrosie né falsi pudori, non recitava e non faceva capricci; però, quando parlava con qualcuno, avvicinava viso a viso, come per osservare da vicino le sue reazioni; spesso appoggiava anche la sua mano piccola e forte, dalle unghie rosicchiate, sulla spalla o sul braccio di chi le stava di fronte. Era consapevole della carica femminile di questo suo gesto? Mendel la percepiva intensa, e non si stupiva che Leonid seguisse Line come un cane segue il padrone. Era forse effetto della lunga astinenza, ma a Mendel, quando osservava Line, veniva in mente Raab, la seduttrice di Gerico, e le altre ammaliatrici della leggenda talmudica. Ne aveva trovato le tracce in un vecchio libro del suo maestro rabbino: un libro vietato, ma Mendel sapeva dov' era nascosto, e l' aveva sfogliato furtivamente più volte, con la curiosità del tredicenne, quando il rabbino si addormentava nell' afa del pomeriggio sul suo seggiolone dall' alto schienale. Michàl, che affascinava chi la vedeva. Giaele, la mortifera partigiana di un tempo, che aveva trafitto le tempie del generale nemico con un chiodo, ma che seduceva tutti gli uomini col solo suono della sua voce. Abigaìl, la regina assennata, che seduceva chiunque pensasse a lei. Ma Raab era superiore a tutte, qualsiasi uomo pronunciasse soltanto il suo nome spandeva istantaneamente il suo seme. No, il nome di Line non aveva questa virtù. Tutti a Novoselki conoscevano la storia di Line e del suo nome, che non è russo né jiddisch né ebraico. I genitori di Line, entrambi ebrei russi e studenti in filosofia, l' avevano messa al mondo senza pensarci molto sopra negli anni roventi della rivoluzione e della guerra civile. Il padre si era arruolato volontario ed era sparito in Volinia, in battaglia contro i polacchi. La madre aveva trovato lavoro come operaia in una tessitura. In precedenza aveva preso parte alla rivoluzione di ottobre perché in essa vedeva la propria liberazione, come ebrea e come donna; aveva tenuto comizi nelle piazze e interventi nei Soviet: era seguace ed ammiratrice di Emmeline Pankhurst, la gentile signora indomita che nel 191. aveva ottenuto il diritto di voto per le donne inglesi, ed era stata felice di aver messo al mondo una bambina pochi mesi dopo perché così aveva potuto darle il nome di Emmeline, che poi tutti, a partire dalla scuola materna, avevano accorciato in Line. Ma neanche la nonna materna di Line, Anna Kaminskaja, era stata una donna da cucina, bambini e chiesa. Era nata nel 1.5. nello stesso anno, mese e giorno della Pankhurst; era fuggita di casa per studiare economia a Zurigo, ed era poi tornata in Russia per predicarvi la rinuncia ai beni terreni ed al matrimonio, e l' uguaglianza di tutti i lavoratori, cristiani od ebrei, uomini o donne. Per questo era stata confinata ad Omsk, dove era nata la madre di Line. Nella minuscola camera dove Line e la madre abitavano, a Cernigov, Line ricordava, incorniciata ed appesa al muro dietro la stufa, la fotografia della Pankhurst che la madre aveva ritagliata da una rivista: arrestata nel 1914, la minuscola rivoluzionaria in gonna lunga e cappellino con piume di struzzo stava sospesa a mezz' aria, a due spanne dal selciato di Londra lucido di pioggia, dignitosa e impassibile fra le zampe di un poliziotto britannico che serrava la sua schiena smilza contro la propria pancia colossale. A Cernigov, e poi a Kiev dove si era trasferita per studiare da maestra, Line aveva frequentato i circoli sionisti ed insieme anche il Komsomol locale: non vedeva contraddizioni fra il comunismo sovietico e il collettivismo agrario predicato dai sionisti; ma a partire dal 1932 le organizzazioni sioniste avevano avuto una vita sempre più travagliata, fino ad essere ufficialmente sciolte. Agli ebrei che desideravano una propria terra, su cui organizzarsi e vivere secondo le loro tradizioni, Stalin aveva offerto uno squallido territorio della Siberia orientale, il Birobigiàn: prendere o lasciare, chi vuole vivere da ebreo vada in Siberia; se qualcuno rifiuta la Siberia, vuol dire che preferisce essere russo. Una terza via non c' è. Ma che cosa deve e può fare l' ebreo che vorrebbe essere russo, se il russo lo esclude dall' università, lo chiama zid, gli aizza contro i pogromisti, e stringe alleanza con Hitler? Niente può fare, specie se è donna. Line era rimasta a Cernigov, erano venuti i tedeschi e avevano chiuso gli ebrei nel ghetto: nel ghetto aveva ritrovato alcuni degli amici sionisti di Kiev. Con loro, e questa volta con l' aiuto dei partigiani sovietici, aveva comperato armi, poche e inadeguate, ed aveva imparato a usarle. Line non aveva inclinazione per le teorie; in ghetto aveva sofferto fame, freddo e fatica, ma aveva sentito le sue molte anime unificarsi. La donna, l' ebrea, la sionista e la comunista si erano condensate in una sola Line che aveva un solo nemico. A fine febbraio arrivò il messaggio radio che da tanto tempo si faceva attendere, e mise il campo in subbuglio. Presso Davìd-Gorodòk, sulle paludi della Stviga gelate da quattro mesi, i tedeschi avevano attrezzato un terreno per i lanci aerei notturni: nient' altro che un campo di neve delimitato da tre fuochi ai vertici di un triangolo allungato; i fuochi, semplici cataste di rami, venivano accesi quando la radio trasmetteva un determinato segnale. Al reparto di Ulybin veniva dato l' incarico di preparare un terreno simile a quello, non lontano dal campo di Turov, e a dieci chilometri dal campo tedesco; che Ulybin stabilisse dove. Al segnale di avviso, una squadra avrebbe dovuto accendere i fuochi del campo falso; un' altra avrebbe dovuto distrarre i tedeschi e spegnere i fuochi del campo vero. Nell' uniformità della pianura, gli aerei tedeschi non avrebbero avuto altro riferimento se non i fuochi del campo allestito dai partigiani, e avrebbero lanciato i paracadute su questo. Erano attesi lanci di viveri, abiti invernali ed armi leggere. Ulybin mandò due sciatori, di notte, a rilevare le misure e l' orientamento del triangolo tedesco. Ritornarono poco dopo: tutto corrispondeva a quanto la radio aveva comunicato. Il campo era già predisposto, con le tre cataste ai vertici, orientato da ponente a levante; accanto correva una strada di campagna, che era stata resa praticabile facendovi passare uno spazzaneve. Sulla strada c' erano orme vecchie e recenti di cavalli, di ruote di carro e di pneumatici. Fra la strada e il campo di lancio c' era una baracca di legno, piccola, con il camino che fumava: non ci potevano stare più di dieci o dodici uomini. Era probabile che il materiale lanciato fosse destinato non solo al presidio di Davìd-Gorodòk, ma a tutte le guarnigioni tedesche disseminate in Polessia e nelle paludi del Pripet: in quelle zone la presenza partigiana si faceva sentire, e la via aerea non era soltanto la più rapida ma anche la più sicura. Trovare un terreno simile a quello attrezzato dai tedeschi non fu difficile: sarebbe stato più difficile trovarne uno diverso. Ulybin scelse un grande stagno a venti minuti di marcia dal campo, anch' esso parallelo a una strada carrozzabile, e vi fece costruire una baracca di assicelle in posizione corrispondente a quella dei tedeschi: era escluso che i tedeschi facessero lanci diurni, ma avrebbero potuto mandare un ricognitore a fotografare il terreno. Poi, in attesa del segnale radio tedesco, designò le due squadre. Della prima, incaricata di provocare i tedeschi e di spegnere i fuochi del loro campo, facevano parte nove uomini, fra cui Leonid, Piotr e Pavel. La seconda, che avrebbe dovuto accendere i fuochi nel campo falso, era costituita da sei uomini, fra cui Mendel. Tutti gli altri dovevano rimanere a disposizione. A lavoro finito, ne venne dato avviso per radio al comando operativo partigiano. Il tempo si manteneva freddo. Verso il cinque di marzo nevicò ancora, una neve asciutta, fine, a rade spruzzate intermittenti; fra l' una e l' altra, il cielo rimaneva velato di foschia. Per i lanci, certamente i tedeschi avrebbero atteso che il cielo fosse completamente sereno. Tuttavia, un mattino si sentì il fragore di un aereo: andava e veniva, non alto ma invisibile al di sopra delle nuvole, come se cercasse un terreno dove atterrare. Sembrava troppo basso per poter fare un lancio, e d' altra parte non c' era stato il messaggio radio di preavviso. Ulybin ordinò di piazzare la mitragliatrice pesante: era montata su una slitta, venne sbullonata e tenuta a mano puntata verso il cielo. L' aereo continuava ad andare e venire, ma il rumore si faceva più debole. I partigiani vennero fuori dalle baracche a guardare il cielo, luminoso ma impenetrabile; a intervalli si intravedeva il sole circondato da un alone, e poi subito spariva. _ Tutti dentro le baracche, stupidi, fannulloni! _ gridò Ulybin: _ se scende sotto le nuvole ci mitraglia tutti _. Infatti, ad un tratto l' aereo apparve, poco più alto delle cime degli alberi: puntava proprio verso di loro. I due uomini che reggevano la mitragliatrice manovrarono per inquadrarlo, ma si udirono diverse voci che urlavano: _ È dei nostri, non sparate! _ Era in effetti un piccolo caccia che portava sotto le ali i segni dell' aviazione sovietica; virò sulle baracche, e si vide un braccio che si agitava in gesti di saluto. Tutti gli uomini a terra si sbracciarono ad indicargli la direzione del campo di lancio, l' aereo puntò da quella parte e sparì dietro lo schermo degli alberi. _ Riuscirà ad atterrare? _ Ha sotto i pattini, non il carrello; se infila la direzione giusta riuscirà. _ Andiamo, seguiamolo _. Ma Ulybin si impose: solo lui, Maksìm e due altri calzarono gli sci e si avviarono, prima seguendo cauti l' itinerario a zig-zag che evitava i campi minati, poi diritti, col passo lungo ed agile dei corridori di fondo. Ritornarono dopo un' ora, e non erano soli. C' erano con loro un tenente e un capitano dell' Armata Rossa, giovani, ben sbarbati, sorridenti, inguainati in splendide tute imbottite e in stivaletti di cuoio lustro. Salutarono cordialmente tutti, ma si ritirarono subito con Ulybin nella stanzetta adibita a comando. Stettero a colloquio parecchie ore; ogni tanto, Ulybin mandava a prendere pane, formaggio e vodka. Nel campo, l' arrivo dei due messaggeri non attesi fu commentato a lungo, con simpatia, speranza, diffidenza ed un pizzico di irrisione. Che cosa portavano dalla Grande Terra? Informazioni, senza dubbio; nuove disposizioni; ordini. E perché erano arrivati all' improvviso, senza annunciarsi via radio? È come nell' esercito, rispondeva un altro: le ispezioni si fanno senza preavviso, se no non sono ispezioni. _ Se la passano bene, i signori della Grande Terra, _ diceva un terzo: _ scommetto che questa notte l' hanno passata nei loro letti, con i cuscini e le lenzuola, e magari anche con la moglie. Chissà se, oltre alla propaganda, avranno portato anche il sapone da barba! _ Perché i partigiani di tutti i luoghi e di tutti i tempi hanno molto in comune: rispettano le autorità centrali, ma ne farebbero volentieri a meno. Quanto al sapone da barba, questa voce stava in prima linea nell' inventario delle facezie del campo. A Turov, portare la barba era sconsigliato; in altre bande era esplicitamente proibito, perché un giovane barbuto era troppo facilmente riconosciuto come partigiano. Tuttavia, a dispetto dei divieti e del pericolo, molti fra gli uomini del bosco e delle paludi portavano barbe folte. La barba era diventato un simbolo della partisanscina, della libertà del bosco, della braveria senza regole, del prevalere dell' indipendenza sulla disciplina. A livello più o meno consapevole, la lunghezza della barba era ritenuta proporzionale all' anzianità partigiana, quasi un titolo nobiliare o un grado gerarchico. _ Mosca non vuole che portiamo la barba, ma il sapone e i rasoi non ce li manda. Con cosa dobbiamo raderci? Con le scuri, con le baionette? Niente sapone, niente rasatura: le barbe ce le teniamo. _ Tutta roba che non fa male a nessuno, _ venne ad annunziare Piotr, che era stato chiamato a smistare il materiale portato dai due ufficiali. _ Né armi né munizioni, solo carta stampata e pomata per la scabbia. No, sapone per la barba non ce n' è. Neanche sapone da bucato _. Di sua iniziativa, andò a portare la notizia alle due donne affaccendate nella lavanderia: _ Abbiate pazienza, signorine. Avanti con la cenere e con la lisciva, come facevano le nostre nonne. L' importante è che muoiano i pidocchi: ma tanto la guerra sta per finire. I due ufficiali ripartirono la sera stessa. Mentre essi, già rivestiti delle tute di volo, guardavano fuori dalla finestrella con pazienza ostentata, si vide Ulybin appartarsi con Dov e parlargli sottovoce. Poi si vide Dov che stipava in uno zaino le sue poche cianfrusaglie. Salutò tutti sobriamente; i suoi occhi si inumidirono soltanto quando prese commiato da Sissl con un breve abbraccio. Uscì zoppicando con i due messaggeri e con un partigiano che aveva la febbre, e sparì con loro nella luce livida del crepuscolo. Piotr disse: _ Non vi dovete preoccupare. Li porteranno in ospedale, nella Grande Terra: staranno meglio che qui, e li faranno guarire _. Mendel gli batté una mano sulla spalla senza rispondergli. Dopo quella visita, Ulybin si fece ancora più silenzioso ed irritabile. Come se volesse ridurre al minimo i contatti, si scelse fra i partigiani una sorta di luogotenente, Zachàr, lungo e magro come una pertica e silenzioso più di lui. Zachàr fungeva da portaordini in un senso, da portaproteste nell' altro, e da diaframma in entrambi. Non più giovanissimo, quasi analfabeta, cosacco del Kubàn ed allevatore di montoni di professione, Zachàr era un diplomatico d' istinto; si dimostrò subito abile nel sopire i contrasti, lenire le frustrazioni e mantenere la disciplina e lo spirito di corpo. Si era sparsa la voce che Ulybin avesse incominciato a ubriacarsi nella stanzetta del comando; Zachàr smentiva, ma l' andirivieni di bottiglie piene e vuote era difficile da nascondere. Il campo falso era pronto, tutti erano pronti, ma l' ordine di agire non veniva. L' intero mese di marzo passò in una inazione quasi totale, che si rivelò nociva per tutti, non solo per il comandante che non aveva più niente da comandare. Si faceva sentire la fame: non la fame lacerante che Leonid ed altri avevano sperimentata nei Lager tedeschi di retrovia, ma una fame-nostalgia, un desiderio sordo di verdura fresca, di pane appena cotto, di un cibo magari semplice, ma scelto secondo il capriccio del momento. Si faceva sentire il rimpianto della casa, pesante per tutti, straziante per il gruppo degli ebrei. Per i russi, la nostalgia della casa era una speranza non irragionevole, anzi probabile: un desiderio di ritorno, un richiamo. Per gli ebrei, il rimpianto delle loro case non era una speranza ma una disperazione, sepolta fino allora sotto dolori più urgenti e gravi, ma latente. Le loro case non c' erano più: erano state spazzate via, incendiate dalla guerra o dalla strage, insanguinate dalle squadre dei cacciatori d' uomini; case-tomba, a cui era meglio non pensare, case di cenere. Perché vivere ancora, perché combattere? Per quale casa, per quale patria, per quale avvenire? La casa di Fedja, invece, era troppo vicina. Fedja compiva diciassette anni il 30 di marzo, ottenne da Ulybin il permesso di trascorrere il compleanno a casa sua, al villaggio di Turov, e non ritornò. Passati tre giorni, Ulybin fece sapere attraverso Zachàr che Fedja era un disertore: due uomini dovevano andarlo a cercare e riportarlo in banda. Non faticarono a trovarlo, era a casa, non aveva neppur lontanamente pensato che un' assenza di tre giorni in un periodo di inattività fosse una faccenda così grave. Ma c' era di peggio: Fedja confessò pubblicamente che a casa si era ubriacato con altri ragazzi, e che da ubriaco aveva parlato. Di che cosa? Anche delle baracche? Anche del falso campo di lancio? Terreo in viso Fedja disse che non sapeva più; che non ricordava; che probabilmente no, di cose segrete non aveva parlato; che non ne aveva parlato assolutamente. Ulybin fece rinchiudere Fedja nella legnaia. Mandò Zachàr a portargli il rancio e il tè, ma all' alba tutti videro Zachàr che ritornava scalzo nella legnaia, e tutti udirono il colpo di pistola. Toccò a Sissl e a Line spogliare il corpo del ragazzo per recuperare gli abiti e gli stivali; toccò a Pavel e a Leonid scavare la fossa nel terreno intriso d' acqua di disgelo. Perché proprio Pavel e Leonid? Pochi giorni dopo, Mendel si accorse che Sissl era turbata. La interrogò: no, non era la faccenda di Fedja. Zachàr l' aveva chiamata da parte e le aveva detto: _ Compagna, devi stare attenta. Se rimani incinta, è un guaio; questa non è una clinica, e gli aerei dalla Grande Terra non arrivano tutti i giorni. Dillo al tuo uomo _. Zachàr aveva tenuto lo stesso discorso anche a Line, ma Line aveva scosso le spalle. Sempre in questo periodo, fu affisso alla bacheca un ordine del giorno scritto a matita in bella scrittura e firmato da Ulybin: presto sarebbe incominciato il disgelo, era urgente scavare un canale di gronda intorno alle baracche per evitare che queste venissero inondate. Il lavoro era importante ed aveva la precedenza assoluta, perciò la composizione delle due squadre pronte ormai da un mese per l' azione dei campi di lancio era modificata. Leonid e Mendel non ne facevano più parte, dovevano posare i fucili e prendere il piccone e la pala. Pavel no: Pavel rimaneva in forza alla prima squadra, quella che avrebbe dovuto spegnere i fuochi dei tedeschi. Mendel, Leonid ed altri quattro uomini diedero inizio al lavoro di sterro. La neve e il terreno gelavano durante la notte, e si scioglievano in un fango vischioso e rossastro durante le ore più calde del giorno. Come incuriosite, grosse cornacchie si posavano sui rami degli abeti a sorvegliare il lavoro, sempre più numerose, serrate l' una contro l' altra; a un tratto il loro peso faceva piegare il ramo, allora tutte prendevano il volo starnazzando e gracchiando ed andavano a posarsi su un altro ramo. L' ordine venne quando ormai nessuno lo aspettava più: i segnali della radio tedesca che erano stati intercettati indicavano che il lancio era prossimo. Doveva anche trattarsi di un lancio importante, poiché gli avvisi erano stati ripetuti più volte. Venne infine, il 12 di aprile, l' annuncio definitivo: il lancio era atteso per la notte. Le due squadre partirono immediatamente; Pavel, per ogni evenienza, raccomandò alle cure di Leonid il suo cavallo, che chissà perché aveva battezzato Drozd, il Tordo. Il resto del campo si preparò a passare la notte; non c' erano ordini particolari, ma tutti stavano con gli orecchi tesi, in specie Michaìl, il radiotelegrafista, e Mendel che si alternava con lui per concedergli qualche ora di riposo. La ricezione era pessima, disturbata da ronzii e scariche; i pochi messaggi che si riusciva ad intercettare erano concitati e ripetuti più volte, ma quasi indecifrabili, benché Michaìl e Mendel capissero il tedesco abbastanza bene. Alle due del mattino si udì a ovest un ronzio di motori, e tutti furono in piedi. Il cielo era sereno e senza luna; il ronzio si faceva sempre più intenso, modulato da battimenti, come quando vibrano insieme diverse corde musicali non perfettamente in fase. Non era certo un apparecchio solo, erano almeno due, forse tre. Passarono invisibili a nord delle baracche, poi il ronzio si attenuò fino a svanire. Un' ora dopo arrivò trafelato uno dei partigiani della seconda squadra. Tutto era andato a meraviglia: i fuochi accesi al momento giusto, quattro gli aerei, e i paracadute trenta, o quaranta, o anche più, molti sul terreno predisposto, altri in mezzo agli alberi, alcuni rimasti impigliati nei rami. Mandare subito uomini di rinforzo e una slitta, il materiale era molto. Tutti avrebbero voluto partire, ma Ulybin non si lasciò smuovere. Andò lui stesso, con Maksìm e Zachàr; non volle neppure che ritornasse sul posto il messaggero che aveva portato la notizia. Per la prima volta nella sua carriera di cavallo partigiano si rese utile il Tordo: Ulybin lo fece aggiogare ad una slitta che partì sulla neve resa compatta dal disgelo e coperta da una crosta fragile di ghiaccio notturno. Nel frattempo era rientrata anche la prima squadra, al completo, con un uomo ferito al braccio. L' azione era andata sostanzialmente bene, raccontarono Piotr e Pavel. Si erano appostati nei pressi della baracca, avevano sentito il ronzio degli aerei ed avevano visto tre tedeschi uscire con i bidoni di benzina da versare sulle cataste. Li avevano uccisi prima che accendessero i fuochi, e simultaneamente un partigiano che si era arrampicato sul tetto della baracca aveva lasciato cadere una granata a mano dentro il camino. Alcuni dei tedeschi dovevano essere morti, ma altri erano usciti dalla baracca sfondata ed avevano aperto il fuoco. Un partigiano era rimasto ferito e un tedesco era morto; altri due o tre erano riusciti ad avviare una motocarrozzetta, ma anche questi erano stati uccisi mentre si allontanavano. Nella baracca, oltre alle armi leggere e a un po' di viveri in scatola, non avevano trovato niente di interessante. La radio c' era, ma era stata distrutta dall' esplosione. Si erano appostati ai lati della strada, perché pensavano che dalla città sarebbe dovuto arrivare un automezzo per caricare il materiale lanciato, ma a metà mattina non avevano visto niente ed erano rientrati. La slitta rientrò carica, anche se il messaggero doveva aver esagerato: i colli paracadutati non erano più di una ventina. Ulybin non li lasciò toccare da nessuno. Li fece accatastare tutti nella sua camera, li aprì lui stesso aiutato da Zachàr, e permise che gli altri ne inventariassero il contenuto solo dopo averne preso visione. C' era un po' di tutto, come nelle lotterie di beneficenza: roba preziosa, inutile, misteriosa e ridicola. Generi di conforto quali Mendel ed i suoi amici non avevano visti mai: uova di cioccolato autarchico per la prossima Pasqua, altri grossi cioccolatini in forma di pecorelle, di scarabei e di topolini. Sigari e sigarette, acquavite e cognac in lattine: forse una confezione studiata apposta dai tecnici tedeschi per resistere all' urto contro il suolo? Scaldini di terracotta, evidentemente per i piedi delle sentinelle. Una scatola piena di medaglie al valore e decorazioni assortite, insieme con i diplomi relativi. C' erano pacchi di giornali e riviste, un pacco di ritratti del Führer, un pacco di corrispondenza privata destinata alle varie guarnigioni della zona, un altro di corrispondenza d' ufficio che Ulybin fece mettere da parte. Due cassette erano piene di munizioni per la Maschinenpistole della Wehrmacht, altre due contenevano caricatori per un tipo di mitragliatrice che nessuno riuscì ad identificare. In una cassetta c' era una macchina per scrivere e materiale vario di cancelleria. Altre casse contenevano sei esemplari di un congegno che nessuno a Turov conosceva e di cui non si comprendeva l' uso: un cilindro appiattito, grande come una padella e munito di un lungo manico smontato in segmenti. _ Questa roba è per te, orologiaio, _ disse Ulybin a Mendel. _ Studiala e dicci a cosa serve. A sera, Ulybin concesse di festeggiare l' avvenimento con una moderata baldoria. Poi si appartò con Pavel a esaminare i documenti che erano stati trovati: non erano in codice, non era materiale sensazionale, erano soltanto minuziosi elenchi, fatture in molte copie, documenti contabili di fureria. Ulybin si stancò presto, e incominciò a farsi tradurre da Pavel le lettere private, che erano più interessanti; erano scritte in termini che avrebbero dovuto essere cifrati ed allusivi, ma così ingenui che anche un lettore estraneo come Pavel li penetrava senza difficoltà; era chiaro, il maltempo che tutti i padri e le madri lamentavano era l' "offensiva senza soste" dei bombardamenti alleati, e la siccità era la carestia. Era propaganda disfattista involontaria: Ulybin disse a Pavel di tradurre pubblicamente alcuni passi. Pavel stava leggendo, in russo, ma con un accento tedesco deliberato e caricato che faceva ridere tutti. Ed ecco dal cielo buio venire a ondate lo stesso ronzio musicale della sera avanti. _ Presto! _ gridò Ulybin. _ La seconda squadra, calzare gli sci e via di corsa ad accendere i fuochi: questi ci regalano un secondo lancio! _ I sei uomini della squadra si precipitarono fuori, ed Ulybin guardò l' orologio: se correvano, entro un quarto d' ora sarebbero potuti arrivare sul posto prima che gli aerei si stancassero di cercare il terreno nel buio. Cercavano, infatti: il fragore dei motori si avvicinava e si allontanava; ad un certo momento la squadriglia passò proprio sopra le baracche, poi si allontanò di nuovo. Erano passati venti minuti esatti all' orologio di Ulybin quando si udì una salva di esplosioni. Tutti uscirono all' aperto, senza capire: i rombi erano troppo lontani e troppo profondi per poter essere dovuti ai campi minati intorno alle baracche. Si vedevano le vampe, a nord-est: dopo ogni vampa si udiva il colpo, con un ritardo di sei secondi. Non c' erano dubbi, erano bombe sul terreno falsificato. I tedeschi avevano capito e si vendicavano. Tornò la squadra: quattro uomini soli. Il caposquadra raccontò con parole rotte. Erano arrivati a tempo di primato, proprio mentre gli aerei incrociavano sulle loro teste. Avevano acceso la prima delle cataste, e subito erano piovute bombe: grosse, da almeno duecento chili. Se il ghiaccio fosse stato spesso come a gennaio, forse avrebbe resistito; ma era indebolito dal disgelo, le bombe lo penetravano e scoppiavano dal di sotto, scagliando in aria lastroni di ghiaccio. I due uomini che mancavano erano spariti, ingoiati dalla palude: inutile andarli a cercare. Per gli uomini di Turov ebbe inizio un tempo difficile. Era cominciato il disgelo, e fu più duro dell' inverno. Ulybin aveva mandato uomini a verificare la condizione del campo falsificato: era impraticabile, non soltanto nessun aereo vi avrebbe potuto atterrare, ma neppure sarebbe stato possibile chiedere lanci. Il ghiaccio profondo dell' inverno era stato squarciato dalle esplosioni: si riformava nella notte, ma talmente sottile che non avrebbe retto al peso di un uomo. Sulle altre paludi si era conservato meglio, perché la neve lo aveva protetto dai raggi diretti del sole, ma la neve stessa era stata tormentata dal disgelo e dal vento: si era mutata in una crosta dura e corrugata, su cui un aereo normale, anche se munito di pattini, non avrebbe potuto atterrare senza capotare. Ulybin dovette imporre il silenzio-radio, perché l' impresa del lancio dirottato sembrava aver risvegliato l' attività dell' aviazione tedesca. Per tutto l' inverno era stata minima, e apparentemente casuale. Adesso, invece, era raro che trascorresse un giorno sereno senza che si vedesse un ricognitore aggirarsi nei dintorni: e i giorni sereni erano molti. I viveri di lusso del lancio erano durati poco, e la farina, il lardo e le scatolette cominciavano a scarseggiare. Ulybin istituì un razionamento, e il morale di tutti discese: la fame, lo spettro degli inverni precedenti, stava per ritornare, come se il tempo fosse retrocesso ai mesi terribili degli inizi della guerra partigiana, quando tutto, il cibo, le armi, le baracche, i piani d' azione, il coraggio per combattere e per vivere, erano frutto dell' iniziativa disperata di pochi. Gli uomini insistevano per riprendere le spedizioni di approvvigionamento ai villaggi; preferivano di gran lunga la fatica e il rischio alla fame, ma Ulybin non volle. C' era ancora troppa neve; era già difficile capire come i ricognitori non avessero ancora localizzato le baracche. Era evidente che le stavano cercando; erano ben mimetizzate e forse sarebbero ancora sfuggite alle ricerche, ma di una pista fresca i tedeschi si sarebbero accorti senza fallo. Che fare? Aspettare, lasciare che il tempo passasse: l' unica soluzione possibile, tuttavia una pessima soluzione. Aspettare che la neve si sciogliesse, perché nel terreno nudo, anche se fangoso, le tracce si vedono di meno. Aspettare che i ricognitori andassero a cercare altrove. Aspettare in silenzio le notizie trasmesse dalla radio: i tedeschi avevano evacuato Odessa, ma Odessa era lontana. Il silenzio-radio è pesante come una mutilazione, come se un essere umano venisse imbavagliato al momento in cui vorrebbe chiamare aiuto: congiunto con la fame, aveva addensato sulle baracche di Turov lo stato d' animo dell' assedio. Quegli uomini non erano nuovi alle privazioni, alla fatica, ai disagi ed al pericolo, ma l' isolamento e la clausura li trovavano impreparati: abituati agli spazi ed alla libertà precaria degli animali del bosco, soffrivano l' angoscia debilitante della trappola e della gabbia. Ulybin continuava a bere: il fatto era conclamato, e criticato da tutti ad eccezione di Zachàr; sottovoce e non sempre sottovoce. Beveva in solitudine, ma non aveva perduto né la lucidità né la sua autorità burbera. Mendel gli aveva chiesto un chiarimento sulla partenza così frettolosa di Dov, e Ulybin gli aveva risposto: _ I combattenti feriti o ammalati si curano, nei limiti del possibile. Anche il vostro amico sarà curato, ma non so dirti altro. Forse alla fine della guerra saprete qualcosa di lui, ma i destini individuali non hanno importanza. Ulybin era troppo intelligente, e troppo esperto di cose partigiane, per non capire che qualcosa bisognava pure che fosse fatta; che le piste erano pericolose, ma l' angoscia lo era di più. Una pista unica che partisse dalle baracche avrebbe condotto i tedeschi alle baracche con certezza, ma se la pista avesse soltanto attraversato il piccolo bosco che nascondeva le baracche, la localizzazione del campo sarebbe stata meno immediata. Malvolentieri, Ulybin autorizzò dunque non una ma due spedizioni di approvvigionamento, che partissero nella stessa notte in direzione opposte verso villaggi diversi. Le squadre erano partite da poco, e cominciava appena ad albeggiare, quando si udì un rumore nuovo ed allarmante per gli ebrei, rassicurante ed inconfondibile per i vecchi di Turov. Sembrava il crepitio di una motocicletta, era tenue, lontano, ma si stava avvicinando. Aumentò di volume, scese di tono come un disco di grammofono che venga frenato, fece qualche starnuto e tacque. Gli uomini di Ulybin furono subito tutti in piedi: _Un p-2! È atterrato qui, sulla radura! Andiamo a vedere! _ Forse non c' era bisogno di mandare via le squadre, disse Piotr. _ Che cosa è un P-2? _ chiese Mendel. _ I P-2 sono gli aerei partigiani. Sono di legno, volano lenti, ma decollano e atterrano dappertutto. Volano di notte, senza luci; buttano granate sui tedeschi e portano provviste _. Poco dopo entrò nella baracca il pilota, tozzo e informe nella tuta di volo di pelliccia di agnello rovesciato. La depose, si tolse gli occhialoni dalla fronte, e si vide che era una ragazza, piccola, grassoccia, dal largo viso tranquillo e dall' aria domestica. Portava i capelli spartiti da una scriminatura e annodati dietro la nuca in due trecce corte legate con spago nero. I due uomini che le erano andati incontro recavano due bisacce, come se tornassero dal mercato. I partigiani le si accalcarono intorno, la abbracciavano e la baciavano sulle guance rotonde indurite dal freddo: _ Polina! Brava Polina! Benvenuta, anima mia, finalmente ti si rivede! Che cosa ci hai portato? La ragazza, che non dimostrava più di vent' anni, si difendeva ridendo, con la grazia schiva delle contadine: _ Basta, compagni! Mi hanno mandata a vedere che cosa succede qui, e perché la vostra radio tace, ma lasciatemi, devo ripartire subito. Non ci sarebbe un goccio di vodka? Dov' è il comandante? _ Si appartò con Ulybin nella cameretta del Comando. _ È lei, è Polina Michàjlovna, _ disse Piotr fiero e felice. _ È Polina Gelman, del Reggimento delle Donne. Non lo sapete? Sono tutte donne, sono loro che pilotano i P-2. Tutte brave ragazze, ma Polina è la più brava di tutte. Viene da Gomel, suo padre era rabbino e suo nonno ciabattino. Ha già fatto più di settecento missioni, ma qui da noi era venuta una volta sola, sei mesi fa. Si era fermata qualche giorno e avevamo fatto amicizia, ma questa volta si vede che ha fretta. Peccato. Polina si congedò e ripartì sul suo fragile apparecchio. Aveva portato un po' di viveri e di medicinali, e brutte notizie. Erano in corso movimenti di truppe e di mezzi corazzati; in vari villaggi intorno a Turov si stavano radunando unità dei corpi tedeschi ed ucraini specializzati nella lotta contro i partigiani. Si stava preparando un' azione concentrica di rastrellamento, con mezzi enormemente superiori alle possibilità di difesa del campo di Turov; altre bande nella zona non ce n' erano. Per qualche ragione, i tedeschi avevano sopravvalutato le forze partigiane; o forse si trattava di un' operazione su grande scala, in tutta la regione delle paludi del Pripet o in tutta la Polessia. Il ghetto di Soligorsk, dove avevano cercato salvezza gli anziani e i malati di Novoselki, era stato accerchiato e tutti i componenti erano stati fucilati; al presidio di Soligorsk si era aggiunta una unità delle SS specializzata nella ricerca della gente nascosta, munita di cani addestrati. Molti degli uomini di Turov conoscevano questi cani e li temevano più dei carri armati. Insomma, il campo doveva essere evacuato. Ulybin chiamò Mendel a rapporto e gli chiese se aveva capito che cosa erano gli ordigni che erano stati trovati fra il materiale paracadutato. _ Sono cercamine, _ rispose Mendel. _ Ossia cercametalli: segnalano gli oggetti metallici sepolti. _ E allora, se i tedeschi hanno questi aggeggi in dotazione, troverebbero i nostri campi minati? _ Certo, che li troverebbero; forse non subito, ma li troverebbero. Ulybin lo guardò torvo: _ Ma io le baracche le faccio minare ugualmente, che i tedeschi abbiano i tuoi cercamine o no. Troveranno le mine sepolte, ma non quelle che nasconderemo qui dentro. Ti farò vedere io se non ne faccio saltare in aria qualcuno, di quei figli di puttana. Mendel era spaventato. Che il comandante avesse bevuto, e anche un po' più del solito, si vedeva bene, ma il suo tono lo impauriva. _ Che cosa dici, Osìp Ivànovic? Perché mi parli così? Li ho forse inventati io i cercamine? Li ho regalati io ai tedeschi? _ Me ne infischio di chi li ha inventati. Sta di fatto che ce ne andiamo. Non vorrai che stiamo qui ad aspettare i carri armati e che ci facciamo massacrare tutti. Mendel uscì stravolto, ma poco dopo Ulybin lo richiamò: _ Funzionano, quegli aggeggi? _ Sì, funzionano. _ Prendi Dimitri e Vladimir e insegnagli come si usano. _ Vuoi minare le baracche con le mine sepolte qui intorno? _ Sei intelligente, hai proprio indovinato. Altre mine non ne abbiamo. _ Guarda che non è lavoro da ragazzi. Delle mine hanno più paura gli esperti dei principianti. E poi, più a lungo sono state sotto terra, più sono pericolose. _ Ti senti importante, eh? Smettila, va e fai come ti ho detto. Il comandante sono io, e le critiche non mi vanno. Già voialtri siete tutti uguali. Tutti bravi a discutere; e tutti mezzi tedeschi, Rosenfeld, Mandelstamm .... E tu, come ti chiami? Dajcer, no? Mendel Nachmanovic Dajcer: sei tedesco già fino nel nome. Mendel tenne la sua lezione con quanta più diligenza poté, mandò i due ragazzi a prendere ordini da Ulybin, e si ritirò pieno di amarezza. Un tempo, nel giorno dei perdoni, gli ebrei prendevano un caprone; il sacerdote gli premeva le mani sul capo, gli enumerava tutte le colpe commesse dal popolo e gliele imponeva addosso: il colpevole era lui e solo lui. Poi, carico dei peccati che non aveva commesso, lo cacciavano via nel deserto. Così pensano anche i gentili, anche loro hanno un agnello che si porta via i peccati del mondo. Io no, non ci credo. Se ho peccato, porto il peso dei miei peccati, solo di quelli, e ne ho d' avanzo. Non porto i peccati di nessun altro. Non sono stato io che ho mandato la squadra a farsi bombardare. Non ho sparato io a Fedja mentre dormiva. Se dovremo andare nel deserto ci andremo, ma senza portare sulla testa i peccati che non abbiamo commessi. E se Dimitri e Vladimir si fanno scoppiare le mine fra le mani, ne devo rispondere io, Mendel l' orologiaio? Invece i due ragazzi se la cavarono bene: otto delle mine interrate furono disinnescate e piazzate in vari punti delle baracche. A fine aprile era esplosa la primavera, annunciata da tre giorni di vento caldo e secco. La neve sui rami degli alberi si scioglieva in una pioggia continua, che rallentava il suo ritmo solo di notte; fondeva rapidamente anche la neve al suolo, e subito dal terreno fradicio e fra gli steli proni dell' erba giallastra, macerata dal lungo gelo, spuntavano i primi fiori, timidi e assurdi. I voli dei ricognitori tedeschi si facevano sempre più frequenti, e uno di essi, forse a caso, o forse insospettito da qualche movimento, mitragliò brevemente le baracche, senza provocare vittime né danni. Ulybin ordinò di prepararsi ad abbandonare il campo. Le slitte, ormai inutili, furono bruciate; carri non ce n' erano né c' era il tempo di procurarsene. Per il trasporto delle salmerie non c' erano che i due cavalli e le spalle degli uomini: una carovana di facchini, non un trasferimento di combattenti. Molti degli uomini protestavano, avrebbero preferito restare nel campo e far fronte ai tedeschi, ma Ulybin li mise a tacere: rimanere sul posto era impossibile, e del resto l' evacuazione del campo era stata ordinata via radio. La radio aveva anche segnalato la direzione più opportuna per filtrare attraverso l' accerchiamento delle forze antipartigiane: verso sud-ovest, risalendo il corso della Stviga, ma senza abbandonare la fascia delle paludi. Col disgelo, e con il loro labirinto di istmi, di stretti e di guadi, erano ridiventate un terreno amico. Avrebbero dovuto partire nella notte sul 2 di maggio, ma a sera le sentinelle diedero l' allarme: avevano sentito rumori a nord, voci umane e latrati di cani. Molti uomini diedero mano alle armi, incerti se prepararsi a resistere o anticipare la ritirata, ma Ulybin intervenne: _ Tutti ai vostri posti, stupidi, bambocci! Avanti con i preparativi, legare i sacchi, chiudere le casse. Siete nati ieri? I cani dei tedeschi non abbaiano, se no che cani da guerra sarebbero? Si rivolse alle sentinelle: _ State in guardia, ma non sparate. È probabile che sia gente amica: hanno mandato avanti i cani a cercare la pista attraverso le mine. Infatti arrivarono prima i cani: erano solo due, e non cani da guerra ma modesti cani da pagliaio, eccitati e disorientati. Abbaiavano nervosamente, ora verso le baracche, ora verso gli sconosciuti che tardavano a seguirli, fieri del dovere compiuto, inquieti per le nuove presenze umane; scodinzolavano e ringhiavano alternativamente, o anche simultaneamente; balzavano avanti e indietro, danzavano sul posto con le zampe anteriori rigide, e latravano a perdifiato aspirando aria a intervalli con un rantolo convulso. Poi si videro arrivare due vacche, cacciate avanti da giovani sbrindellati: badavano che le bestie non uscissero dalle piste tracciate dai cani. Infine arrivò il grosso della banda, una trentina di uomini e donne, armati e disarmati, stanchi, laceri e baldanzosi. In mezzo a loro c' era un uomo dal naso aquilino e dal viso abbronzato: portava a tracolla un parabellum e un violino. In coda al gruppo c' era Dov. Mendel disse tra sé: "Benedetto Colui che resuscita i morti". Nacque un trambusto, tutti facevano domande e nessuno rispondeva. Prevalsero alla fine le voci di Ulybin e dell' uomo alto, che era Gedale. Che tutti facessero silenzio ed aspettassero gli ordini; Ulybin e Gedale si ritirarono nello sgabuzzino del comando. Molti degli uomini di Turov ricordavano la lite che era scoppiata fra i due all' inizio dell' inverno; che cosa sarebbe successo ora, in questo nuovo incontro? Si sarebbero riconciliati, davanti alla minaccia imminente? Avrebbero trovato un accordo? Mentre si attendeva l' esito del colloquio, i nuovi venuti chiesero di essere accolti nelle baracche ormai sgombre; alcuni sedettero a terra, altri si sdraiarono e si addormentarono subito, altri ancora chiesero tabacco, o acqua calda per lavarsi i piedi. Chiedevano con l' umiltà di chi ha bisogno, ma con la dignità di chi sa di avere diritto: non erano mendicanti né gente girovaga, erano la banda ebraica radunata da Gedale, composta dai superstiti delle comunità di Polessia, Volinia e Bielorussia; una aristocrazia miseranda, i più forti, i più astuti, i più fortunati. Ma alcuni venivano da più lontano, per strade piene di sangue; erano sfuggiti ai pogrom dei saccheggiatori lituani che uccidevano un ebreo per avere un lenzuolo, ai lanciafiamme degli Einsatzkommandos, alle fosse comuni di Kovno e di Riga. C' erano fra loro i pochi sfuggiti al massacro di Ruzany: avevano vissuto per mesi in tane scavate nel bosco, come i lupi, e come i lupi cacciavano silenziosi in branco. C' erano gli ebrei contadini di Blizna, dalle mani indurite dalla vanga e dalla scure. C' erano gli operai delle segherie e delle tessiture di Slonim, che prima ancora di incontrare la barbarie hitleriana avevano scioperato contro i padroni polacchi ed avevano conosciuto la repressione e la prigione. Ognuno di loro, uomo o donna, aveva sulle spalle una storia diversa, ma rovente e pesante come il piombo fuso; ognuno avrebbe dovuto piangere cento morti se la guerra e tre inverni terribili gliene avessero lasciato il tempo e il respiro. Erano stanchi, poveri e sporchi, ma non sconfitti; figli di mercanti, sarti, rabbini e cantori, si erano armati con le armi tolte ai tedeschi, si erano conquistato il diritto ad indossare quelle uniformi lacere e senza gradi, ed avevano assaporato più volte il cibo aspro dell' uccidere. I russi di Turov li guardavano inquieti, come avviene davanti all' inatteso. Non riconoscevano in quei visi smunti ma determinati il zid della loro tradizione, lo straniero in casa, che parla russo per abbindolarti ma pensa nella sua lingua strana, che non conosce Cristo e segue invece i suoi precetti incomprensibili e ridicoli, forte solo della sua furberia, ricco ed imbelle. Il mondo si era capovolto: questi ebrei erano alleati ed armati, come gli inglesi, come gli americani, e come tre anni prima era stato alleato anche Hitler. Le idee che ti insegnano sono semplici e il mondo è complicato. Alleati, dunque: compagni d' armi. Avrebbero dovuto accettarli, stringergli le mani, bere vodka con loro. Qualcuno tentava un sorriso impacciato, un timido approccio con le donne scarmigliate, infagottate nei panni militari fuori misura, dai visi grigi di fatica e di polvere. Sradicare un pregiudizio è doloroso come estrarre un nervo. Il muro dell' incomprensione ha due facce, come tutti i muri, e dall' incomprensione nascono l' imbarazzo, il disagio e l' ostilità; ma gli ebrei di Gedale non si sentivano, in quel momento, né imbarazzati né ostili. Erano allegri, invece: nell' avventura ogni giorno diversa della Partisanka, nella steppa gelata, nella neve e nel fango avevano trovato una libertà nuova, sconosciuta ai loro padri e ai loro nonni, un contatto con uomini amici e nemici, con la natura e con l' azione, che li ubriacava come il vino di Purim, quando è usanza abbandonare la sobrietà consueta e bere fino a non saper più distinguere la benedizione dalla maledizione. Erano allegri e feroci, come animali a cui si schiude la gabbia, come schiavi insorti a vendetta. E l' avevano gustata, la vendetta, pur pagandola cara: a diverse riprese, in sabotaggi, attentati e scontri di retrovia; ma anche di recente, pochi giorni prima e non lontano. Era stata la loro grande ora. Avevano attaccato, da soli, la guarnigione di Ljuban, ottanta chilometri a nord, dove stavano confluendo truppe tedesche ed ucraine destinate al rastrellamento; nel villaggio era anche un piccolo ghetto di artigiani. I tedeschi erano stati cacciati da Ljuban: non erano di ferro, erano mortali, quando si vedevano sopraffatti scappavano in disordine, anche davanti agli ebrei. Alcuni di loro avevano abbandonato le armi e si erano gettati nel fiume ingrossato dal disgelo, era stata una visione che rallegrava, una immagine da portarsi nella tomba: gli ebrei la raccontavano ai russi con facce allucinate. Sì, gli uomini biondi e verdi della Wehrmacht erano fuggiti davanti a loro, entravano nell' acqua e cercavano di arrampicarsi sulle lastre di ghiaccio trascinate dalla corrente, e loro avevano sparato ancora, e avevano visto i corpi dei tedeschi affondare o navigare verso la foce sui loro catafalchi di ghiaccio. Il trionfo era durato poco, si capisce: i trionfi durano sempre poco, e, come sta scritto, la gioia dell' ebreo finisce nello spavento. Loro si erano ritirati nel bosco portandosi dietro quelli fra gli ebrei del ghetto di Ljuban che sembravano in grado di combattere, ma i tedeschi erano tornati e avevano ucciso tutti quelli che nel ghetto erano rimasti. La loro guerra era così, una guerra in cui non ci si volta a guardare indietro e non si fanno i conti, una guerra di mille tedeschi contro un ebreo e di mille morti ebrei contro un morto tedesco. Erano allegri perché erano senza domani e non si curavano del domani, e perché avevano visto i superuomini sguazzare nell' acqua gelata come le rane: un regalo che nessuno gli avrebbe più tolto. Portavano anche altre notizie più utili. Il rastrellamento era già cominciato, e loro erano stati sloggiati dal loro campo, che del resto era un povero campo di tane, provvisorio, non certo paragonabile a quello di Turov. Ma non era vero che fosse un grande rastrellamento: non c' erano né carri né artiglieria pesante, e un prigioniero tedesco che loro avevano interrogato aveva confermato che il punto più debole dell' accerchiamento doveva proprio essere dove pensava Ulybin: a sud-ovest, lungo la Stviga. Dov stava bene, non zoppicava quasi più, ma era più curvo di prima. I suoi capelli, di nuovo accuratamente pettinati, erano più radi e più bianchi. Sissl gli chiese se voleva mangiare qualcosa, e lui rispose ridendo: _ A un malato si domanda, a un sano si dà, _ ma aveva più fretta di raccontare che di mangiare. Intorno a lui si era formato un cerchio di ascoltatori, ebrei e russi: non erano molti quelli che dalla Grande Terra tornavano in territorio partigiano. _ Quanto tempo è che parlano, quei due? Un' ora? È buon segno: più parlano e più vanno d' accordo; e vuole anche dire che i tedeschi sono ancora lontani, o che hanno cambiato strada. Ma sicuro, che mi hanno curato: che cosa avevate pensato? All' ospedale di Kiev. Non aveva più il tetto, o anzi non l' aveva ancora, perché lo stanno ricostruendo, e sapete chi? I prigionieri tedeschi, quelli che si sono arresi a Stalingrado. _ Non c' era il tetto, non c' era da mangiare e non c' era l' anestesia, ma c' erano le dottoresse, e mi hanno operato subito: mi hanno tolto qualcosa dal ginocchio, un osso, e me lo hanno anche fatto vedere. Nelle cantine, mi hanno operato, alla luce dell' acetilene, e poi mi hanno messo in corsia, una corsia sterminata, più di cento lettini per parte, con dentro vivi, moribondi e morti. Non è bello stare in ospedale, ma proprio in quella corsia è arrivata la mia fortuna: se c' è la fortuna, anche un bue partorisce. È venuta una visita, uno importante, del Politburò, un ucraino: piccolo, grasso, calvo, con l' aria del contadino e il petto coperto di medaglie. In mezzo a quella confusione di portantini che andavano e venivano, si è fermato proprio davanti a me. Mi ha chiesto chi ero, da dove venivo e dove ero stato ferito; aveva dietro quelli della radio, e ha improvvisato un discorso dove diceva che tutti quanti, russi e georgiani e jakuti ed ebrei, siamo figli della gran madre Russia, e che tutte le questioni devono finire .... Si udì la voce di Piotr: _ Se quello era un ucraino, ed era un pezzo grosso, gli potevi dire che incominciasse a fare pulizia a casa sua! Sono gentaglia, gli ucraini: quando sono venuti i tedeschi, gli hanno aperto le porte e gli hanno offerto il pane e il sale. I loro banderisti sono peggio dei tedeschi _. Altre voci fecero tacere Piotr ed esortarono Dov a continuare. _ ... e mi ha chiesto, una volta che io fossi guarito, dove volevo essere mandato. Io gli ho risposto che la mia casa è troppo lontana, che avevo amici partigiani, e che avrei voluto ritrovarli. Bene, appena mi hanno dichiarato guarito lui si è dato da fare. Forse voleva dare un esempio, ha ripescato Gedale e la sua banda e mi ha fatto paracadutare vicino al suo campo, insieme a una cassa con dentro quattro parabellum come suo regalo personale. Scendere col paracadute fa abbastanza paura, ma sono finito nel fango e non mi sono fatto niente. Dov avrebbe avuto ancora una quantità di cose da raccontare su quanto aveva visto e udito durante la sua convalescenza nella Grande Terra, ma si aprì la porta del comando, ne uscirono Gedale ed Ulybin, e tutti tacquero.

Pagina 0292

Se questo è un uomo

680929
Levi, Primo 1 occorrenze

Non sono tornati; ho saputo molto più tardi che, non potendo proseguire, furono abbattuti dalle SS poche ore dopo l' inizio della marcia. Anche per me ci voleva un paio di scarpe: era chiaro. Pure ci volle forse un' ora perché riuscissi a vincere la nausea, la febbre e l' inerzia. Ne trovai un paio nel corridoio (i sani avevano saccheggiato il deposito delle scarpe dei ricoverati, e si erano prese le migliori: le più scadenti, sfondate e spaiate, giacevano in tutti i canti). Proprio là incontrai Kosman, un alsaziano. Era, da civile, corrispondente della "Reuter" a Clermont-Ferrand: anche lui eccitato ed euforico. Disse: _ Se dovessi tu ritornare prima di me, scrivi al sindaco di Metz che io sto per rientrare. Kosman aveva notoriamente conoscenze fra i Prominenti, perciò il suo ottimismo mi parve buon indizio e lo utilizzai per giustificare davanti a me stesso la mia inerzia. Nascosi le scarpe e ritornai a letto. A tarda notte venne ancora il medico greco, con un sacco sulle spalle e un passamontagna. Gettò sulla mia cuccetta un romanzo francese: _ Tieni, leggi, italiano. Me lo renderai quando ci rivedremo _. Ancora oggi lo odio per questa sua frase. Sapeva che noi eravamo condannati. E venne finalmente Alberto, sfidando il divieto, a salutarmi dalla finestra. Era il mio indivisibile: noi eravamo "i due italiani", e per lo più i compagni stranieri confondevano i nostri nomi. Da sei mesi dividevamo la cuccetta, e ogni grammo di cibo organizzato extra-razione; ma lui aveva superata la scarlattina da bambino, e io non avevo quindi potuto contagiarlo. Perciò lui partì e io rimasi. Ci salutammo, non occorrevano molte parole, ci eravamo dette tutte le nostre cose già infinite volte. Non credevamo che saremmo rimasti a lungo separati. Aveva trovato grosse scarpe di cuoio, in discreto stato: era uno di quelli che trovano subito tutto ciò di cui hanno bisogno. Anche lui era allegro e fiducioso, come tutti quelli che partivano. Era comprensibile: stava per accadere qualcosa di grande e di nuovo: si sentiva finalmente intorno una forza che non era quella della Germania, si sentiva materialmente scricchiolare tutto quel nostro mondo maledetto. O almeno, questo sentivano i sani, che, per quanto stanchi e affamati, avevano modo di muoversi; ma è indiscutibile che chi è troppo debole, o nudo, o scalzo, pensa e sente in un altro modo, e ciò che dominava le nostre menti era la sensazione paralizzante di essere totalmente inermi e in mano alla sorte. Tutti i sani (tranne qualche ben consigliato che all' ultimo istante si spogliò e si cacciò in qualche cuccetta di infermeria) partirono nella notte sul 1. gennaio 1945. Dovevano essere circa ventimila, provenienti da vari campi. Nella quasi totalità, essi scomparvero durante la marcia di evacuazione: Alberto è fra questi. Qualcuno scriverà forse un giorno la loro storia. Noi restammo dunque nei nostri giacigli, soli con le nostre malattie, e con la nostra inerzia più forte della paura. Nell' intero Ka-Be eravamo forse ottocento. Nella nostra camera eravamo rimasti undici, ciascuno in una cuccetta, tranne Charles e Arthur che dormivano insieme. Spento il ritmo della grande macchina del Lager, incominciarono per noi i dieci giorni fuori del mondo e del tempo. 1. gennaio. Nella notte dell' evacuazione le cucine del campo avevano ancora funzionato, e il mattino seguente fu fatta nell' infermeria l' ultima distribuzione di zuppa. L' impianto centrale di riscaldamento era stato abbandonato; nelle baracche ristagnava ancora un po' di calore, ma a ogni ora che passava, la temperatura si andava abbassando, e si comprendeva che in breve avremmo sofferto il freddo. Fuori ci dovevano essere almeno 20ä sotto lo zero; la maggior parte dei malati non aveva che la camicia, e alcuni nemmeno quella. Nessuno sapeva quale fosse la nostra condizione. Alcune SS erano rimaste, alcune torrette di guardia erano ancora occupate. Verso mezzogiorno un maresciallo delle SS fece il giro delle baracche. Nominò in ognuna un capo-baracca scegliendolo fra i non-ebrei rimasti, e dispose che fosse immediatamente fatto un elenco dei malati, distinti in ebrei e non-ebrei. La cosa pareva chiara. Nessuno si stupì che i tedeschi conservassero fino all' ultimo il loro amore nazionale per le classificazioni, e, nessun ebreo pensò più seriamente di vivere fino al giorno successivo. I due francesi non avevano capito ed erano spaventati. Tradussi loro di malavoglia il discorso della SS; trovavo irritante che avessero paura: non avevano ancora un mese di Lager, non avevano quasi ancora fame, non erano neppure ebrei, e avevano paura. Fu fatta ancora una distribuzione di pane. Passai il pomeriggio a leggere il libro lasciato dal medico: era molto interessante e lo ricordo con bizzarra precisione. Feci anche una visita al reparto accanto, in cerca di coperte: di là molti malati erano stati messi in uscita, le loro coperte erano rimaste libere. Ne presi con me alcune abbastanza calde. Quando seppe che venivano dal Reparto Dissenteria Arthur arricciò il naso: _ Y-avait point besoin de le dire _; infatti erano macchiate. Io pensavo che in ogni modo, dato ciò che ci aspettava, sarebbe stato meglio dormire ben coperti. Fu presto notte, ma la luce elettrica funzionava ancora. Vedemmo con tranquillo spavento che all' angolo della baracca stava una SS armata. Non avevo voglia di parlare, e non provavo timore se non nel modo esterno e condizionale che ho detto. Continuai a leggere fino a tarda ora. Non vi erano orologi, ma dovevano essere le ventitre quando tutte le luci si spensero, anche quelle dei riflettori sulle torrette di guardia. Si vedevano lontano i fasci dei fotoelettrici. Fiorì in cielo un grappolo di luci intense, che si mantennero immobili illuminando crudamente il terreno. Si sentiva il rombo degli apparecchi. Poi cominciò il bombardamento. Non era cosa nuova, scesi a terra, infilai i piedi nudi nelle scarpe e attesi. Sembrava lontano, forse su Auschwitz. Ma ecco un' esplosione vicina, e, prima di poter formulare un pensiero, una seconda e una terza da sfondare le orecchie. Si sentirono vetri rovinare, la baracca oscillò, cadde a terra il cucchiaio che tenevo infisso in una commessura della parete di legno. Poi parve finito. Cagnolati, un giovane contadino, egli pure dei Vosgi, non doveva aver mai visto una incursione: era uscito nudo dal letto, si era appiattato in un angolo e urlava. Dopo pochi minuti fu evidente che il campo era stato colpito. Due baracche bruciavano con violenza, altre due erano state polverizzate, ma erano tutte baracche vuote. Arrivarono decine di malati, nudi e miserabili, da una baracca minacciata dal fuoco: chiedevano ricovero. Impossibile accoglierli. Insistettero, supplicando e minacciando in molte lingue: dovemmo barricare la porta. Si trascinarono altrove, illuminati dalle fiamme, scalzi nella neve in fusione. A molti pendevano dietro i bendaggi disfatti. Per la nostra baracca non pareva ci fosse pericolo, a meno che il vento non girasse. I tedeschi non c' erano più. Le torrette erano vuote. Oggi io penso che, se non altro per il fatto che un Auschwitz è esistito, nessuno dovrebbe ai nostri giorni parlare di Provvidenza: ma è certo che in quell' ora il ricordo dei salvamenti biblici nelle avversità estreme passò come un vento per tutti gli animi. Non si poteva dormire; un vetro era rotto e faceva molto freddo. Pensavo che avremmo dovuto cercare una stufa da installare, e procurarci carbone, legna e viveri. Sapevo che tutto questo era necessario, ma senza l' appoggio di qualcuno non avrei mai avuto l' energia di metterlo in atto. Ne parlai coi due francesi. 19 gennaio. I francesi furono d' accordo. Ci alzammo all' alba, noi tre. Mi sentivo malato e inerme, avevo freddo e paura. Gli altri malati ci guardarono con curiosità rispettosa: non sapevamo che ai malati non era permesso uscire dal Ka-Be? E se i tedeschi non erano ancora tutti partiti? Ma non dissero nulla, erano contenti che ci fosse qualcuno per fare la prova. I francesi non avevano alcuna idea della topografia del Lager, ma Charles era coraggioso e robusto, e Arthur era sagace e aveva un buon senso pratico di contadino. Uscimmo nel vento di una gelida giornata di nebbia, malamente avvolti in coperte. Quello che vedemmo non assomiglia a nessuno spettacolo che io abbia mai visto né sentito descrivere. Il Lager, appena morto, appariva già decomposto. Niente più acqua ed elettricità: finestre e porte sfondate sbattevano nel vento, stridevano le lamiere sconnesse dei tetti, e le ceneri dell' incendio volavano alto e lontano. All' opera delle bombe si aggiungeva l' opera degli uomini: cenciosi, cadenti, scheletrici, i malati in grado di muoversi si trascinavano per ogni dove, come una invasione di vermi, sul terreno indurito dal gelo. Avevano rovistato tutte le baracche vuote in cerca di alimenti e di legna; avevano violato con furia insensata le camere degli odiati Blockälteste, grottescamente adorne, precluse fino al giorno prima ai comuni Häftlinge; non più padroni dei propri visceri, avevano insozzato dovunque, inquinando la preziosa neve, unica sorgente d' acqua ormai per l' intero campo. Attorno alle rovine fumanti delle baracche bruciate, gruppi di malati stavano applicati al suolo, per succhiarne l' ultimo calore. Altri avevano trovato patate da qualche parte, e le arrostivano sulle braci dell' incendio, guardandosi intorno con occhi feroci. Pochi avevano avuto la forza di accendersi un vero fuoco, e vi facevano fondere la neve in recipienti di fortuna. Ci dirigemmo alle cucine più in fretta che potemmo, ma le patate erano già quasi finite. Ne riempimmo due sacchi, e li lasciammo in custodia ad Arthur. Tra le macerie del Prominenzblock, Charles ed io trovammo finalmente quanto cercavamo: una pesante stufa di ghisa, con tubi ancora utilizzabili: Charles accorse con una carriola e caricammo; poi lasciò a me l' incarico di portarla in baracca e corse ai sacchi. Là trovò Arthur svenuto per il freddo; Charles si caricò entrambi i sacchi e li portò al sicuro, poi si occupò dell' amico. Intanto io, reggendomi a stento, cercavo di manovrare del mio meglio la pesante carriola. Si udì un fremito di motore, ed ecco, una SS in motocicletta entrò nel campo. Come sempre, quando vedevamo i loro visi duri, mi sentii sommergere di terrore e di odio. Era troppo tardi per scomparire, e non volevo abbandonare la stufa. Il regolamento del Lager prescriveva di mettersi sull' attenti e di scoprirsi il capo. Io non avevo cappello ed ero impacciato dalla coperta. Mi allontanai qualche passo dalla carriola e feci una specie di goffo inchino. Il tedesco passò oltre senza vedermi, svoltò attorno a una baracca e se ne andò. Seppi più tardi quale pericolo avevo corso. Raggiunsi finalmente la soglia della nostra baracca, e sbarcai la stufa nelle mani di Charles. Ero senza fiato per lo sforzo, vedevo danzare grandi macchie nere. Si trattava di metterla in opera. Avevamo tutti e tre le mani paralizzate, e il metallo gelido si incollava alla pelle delle dita, ma era urgente che la stufa funzionasse, per scaldarci e per bollire le patate. Avevamo trovato legna e carbone, e anche brace proveniente dalle baracche bruciate. Quando fu riparata la finestra sfondata, e la stufa cominciò a diffondere calore, parve che in ognuno qualcosa si distendesse, e allora avvenne che Towarowski (un franco-polacco di ventitre anni, tifoso) propose agli altri malati di offrire ciascuno una fetta di pane a noi tre che lavoravamo, e la cosa fu accettata. Soltanto un giorno prima un simile avvenimento non sarebbe stato concepibile. La legge del Lager diceva: "mangia il tuo pane, e, se puoi, quello del tuo vicino", e non lasciava posto per la gratitudine. Voleva ben dire che il Lager era morto. Fu quello il primo gesto umano che avvenne fra noi. Credo che si potrebbe fissare a quel momento l' inizio del processo per cui, noi che non siamo morti, da Häftlinge siamo lentamente ridiventati uomini. Arthur si era ripreso abbastanza bene, ma da allora evitò sempre di esporsi al freddo; si assunse la manutenzione della stufa, la cottura delle patate, la pulizia della camera e l' assistenza ai malati. Charles ed io ci dividemmo i vari servizi all' esterno. C' era ancora un' ora di luce: una sortita ci fruttò mezzo litro di spirito e un barattolo di lievito di birra, buttato nella neve da chissà chi; facemmo una distribuzione di patate bollite e di un cucchiaio a testa di lievito. Pensavo vagamente che potesse giovare contro l' avitaminosi. Venne l' oscurità; di tutto il campo la nostra era l' unica camera munita di stufa, del che eravamo assai fieri. Molti malati di altre sezioni si accalcavano alla porta, ma la statura imponente di Charles li teneva a bada. Nessuno, né noi né loro, pensava che la promiscuità inevitabile coi nostri malati rendeva pericolosissimo il soggiorno nella nostra camera, e che ammalarsi di difterite in quelle condizioni era più sicuramente mortale che saltare da un terzo piano. Io stesso, che ne ero conscio, non mi soffermavo troppo su questa idea: da troppo tempo mi ero abituato a pensare alla morte per malattia come ad un evento possibile, e in tal caso ineluttabile, e comunque al di fuori di ogni possibile nostro intervento. E neppure mi passava per il capo che avrei potuto stabilirmi in un' altra camera, in un' altra baracca con minor pericolo di contagio; qui era la stufa, opera nostra, che diffondeva un meraviglioso tepore; e qui avevo un letto; e infine, ormai, un legame ci univa, noi, gli undici malati della Infektionsabteilung. Si sentiva di rado un fragore vicino e lontano di artiglieria, e a intervalli, un crepitio di fucili automatici. Nell' oscurità rotta solo dal rosseggiare della brace, Charles, Arthur ed io sedevamo fumando sigarette di erbe aromatiche trovate in cucina, e parlando di molte cose passate e future. In mezzo alla sterminata pianura piena di gelo e di guerra, nella cameretta buia pullulante di germi, ci sentivamo in pace con noi e col mondo. Eravamo rotti di fatica, ma ci pareva, dopo tanto tempo, di avere finalmente fatto qualcosa di utile; forse come Dio dopo il primo giorno della creazione. 20 gennaio. Giunse l' alba, ed ero io di turno per l' accensione della stufa. Oltre alla debolezza generale, le articolazioni dolenti mi ricordavano a ogni momento che la mia scarlattina era lungi dall' essere scomparsa. Il pensiero di dovermi tuffare nell' aria gelida in cerca di fuoco per le altre baracche mi faceva tremare di ribrezzo. Mi rammentai delle pietrine; cosparsi di spirito un foglietto di carta, e con pazienza da una pietrina vi raschiai sopra un mucchietto di polvere nera, poi presi a raschiare più forte la pietrina col coltello. Ed ecco: dopo qualche scintilla il mucchietto deflagrò, e dalla carta si levò la fiammella pallida dell' alcool. Arthur discese entusiasta dal letto e fece scaldare tre patate a testa fra quelle bollite il giorno avanti; dopo di che, affamati e pieni di brividi, Charles ed io partimmo nuovamente in perlustrazione per il campo in sfacelo. Ci restavano viveri (e cioè patate) per due giorni soltanto; per l' acqua eravamo ridotti a fondere la neve, operazione penosa per la mancanza di grandi recipienti, da cui si otteneva un liquido nerastro e torbido che era necessario filtrare. Il campo era silenzioso. Altri spettri affamati si aggiravano come noi in esplorazione: barbe ormai lunghe, occhi incavati, membra scheletrite e giallastre fra i cenci. Malfermi sulle gambe, entravano e uscivano dalle baracche deserte, asportandone gli oggetti più vari: scuri, secchi, mestoli, chiodi; tutto poteva servire, e i più lungimiranti già meditavano fruttuosi mercati con i polacchi della campagna circostante. Nella cucina, due si accapigliavano per le ultime decine di patate putride. Si erano afferrati per gli stracci e si percuotevano con curiosi gesti lenti e incerti, vituperandosi in yiddisch fra le labbra gelate. Nel cortile del magazzino stavano due grandi mucchi di cavoli e di rape (le grosse rape insipide, base della nostra alimentazione). Erano così gelati che non si potevano staccare se non col piccone. Charles ed io ci avvicendammo, tendendo tutte le nostre energie per ogni colpo, e ne estraemmo una cinquantina di chili. Vi fu anche altro: Charles trovò un pacco di sale e ("une fameuse trouvaille!") un bidone d' acqua di forse mezzo ettolitro, allo stato di ghiaccio massiccio. Caricammo ogni cosa su di un carrettino (servivano prima per distribuire il rancio alle baracche: ve n' era un gran numero abbandonati ovunque), e rientrammo spingendolo faticosamente sulla neve. Per quel giorno ci accontentammo ancora di patate bollite e fette di rapa arrostite sulla stufa, ma per l' indomani Arthur ci promise importanti innovazioni. Nel pomeriggio andai all' ex ambulatorio, in cerca di qualcosa di utile. Ero stato preceduto: tutto era stato manomesso da saccheggiatori inesperti. Non più una bottiglia intera, sul pavimento uno strato di stracci, sterco e materiale di medicazione, un cadavere nudo e contorto. Ma ecco qualcosa che ai miei predecessori era sfuggito: una batteria da autocarro. Toccai i poli col coltello: una piccola scintilla. Era carica. A sera la nostra camera aveva la luce. Stando a letto, vedevo dalla finestra un lungo tratto di strada: vi passava a ondate, già da tre giorni, la Wehrmacht in fuga. Autoblinde, carri "tigre" mimetizzati in bianco, tedeschi a cavallo, tedeschi in bicicletta, tedeschi a piedi, armati e disarmati. Si udiva nella notte il fracasso dei cingoli molto prima che i carri fossero visibili. Chiedeva Charles: _ C6a roule encore? _ C6a roule toujours. Sembrava non dovesse mai finire. 21 gennaio. Invece finì. Coll' alba del 21 la pianura ci apparve deserta e rigida, bianca a perdita d' occhio sotto il volo dei corvi, mortalmente triste. Avrei quasi preferito vedere ancora qualcosa in movimento. Anche i civili polacchi erano scomparsi, appiattati chissà dove. Pareva che perfino il vento si fosse arrestato. Avrei desiderato una cosa soltanto: restare a letto sotto le coperte, abbandonarmi alla stanchezza totale di muscoli, nervi e volontà; aspettare che finisse, o che non finisse, era la stessa cosa, come un morto. Ma già Charles aveva acceso la stufa, l' uomo Charles alacre, fiducioso e amico, e mi chiamava al lavoro: _ Vas-y, Primo, descends-toi de là-haut; il y a Jules à attraper par les oreilles .... "Jules" era il secchio della latrina, che ogni mattina bisognava afferrare per i manici, portare all' esterno e rovesciare nel pozzo nero: era questa la prima bisogna della giornata, e se si pensa che non era possibile lavarsi le mani, e che tre dei nostri erano ammalati di tifo, si comprende che non era un lavoro gradevole. Dovevamo inaugurare i cavoli e le rape. Mentre io andavo a cercare legna, e Charles a raccogliere neve da sciogliere, Arthur mobilitò i malati che potevano star seduti, perché collaborassero nella mondatura. Towarowski, Sertelet, Alcalai e Schenck risposero all' appello. Anche Sertelet era un contadino dei Vosgi, di vent' anni; pareva in buone condizioni, ma di giorno in giorno la sua voce andava assumendo un sinistro timbro nasale, a ricordarci che la difterite raramente perdona. Alcalai era un vetraio ebreo di Tolosa; era molto tranquillo e assennato, soffriva di risipola al viso. Schenck era un commerciante slovacco, ebreo: convalescente di tifo, aveva un formidabile appetito. Così pure Towarowski, ebreo franco-polacco, sciocco e ciarliero, ma utile alla nostra comunità per il suo comunicativo ottimismo. Mentre dunque i malati lavoravano di coltello, ciascuno seduto sulla sua cuccetta, Charles ed io ci dedicammo alla ricerca di una sede possibile per le operazioni di cucina. Una indescrivibile sporcizia aveva invaso ogni reparto del campo. Colmate tutte le latrine, della cui manutenzione naturalmente nessuno più si curava, i dissenterici (erano più di un centinaio) avevano insozzato ogni angolo del Ka-Be, riempito tutti i secchi, tutti i bidoni già destinati al rancio, tutte le gamelle. Non si poteva muovere un passo senza sorvegliare il piede; al buio era impossibile spostarsi. Pur soffrendo per il freddo, che si manteneva acuto, pensavamo con raccapriccio a quello che sarebbe accaduto se fosse sopraggiunto il disgelo: le infezioni avrebbero dilagato senza riparo, il fetore si sarebbe fatto soffocante, e inoltre, sciolta la neve, saremmo rimasti definitivamente senz' acqua. Dopo una lunga ricerca, trovammo infine, in un locale già adibito a lavatoio, pochi palmi di pavimento non eccessivamente imbrattato. Vi accendemmo un fuoco vivo, poi, per risparmiare tempo e complicazioni, ci disinfettammo le mani frizionandole con cloramina mista a neve. La notizia che una zuppa era in cottura si sparse rapidamente fra la folla dei semivivi; si formò sulla porta un assembramento di visi famelici. Charles, il mestolo levato, tenne loro un vigoroso breve discorso che, pur essendo in francese, non abbisognava di traduzione. I più si dispersero, ma uno si fece avanti: era un parigino, sarto di classe (diceva lui), ammalato di polmoni. In cambio di un litro di zuppa si sarebbe messo a nostra disposizione per tagliarci abiti dalle numerose coperte rimaste in campo. Maxime si dimostrò veramente abile. Il giorno dopo Charles ed io possedevamo giacca, brache e guantoni di ruvido tessuto a colori vistosi. A sera, dopo la prima zuppa distribuita con entusiasmo e divorata con avidità, il grande silenzio della pianura fu rotto. Dalle nostre cuccette, troppo stanchi per essere profondamente inquieti, tendevamo l' orecchio agli scoppi di misteriose artiglierie, che parevano localizzate in tutti i punti dell' orizzonte, e ai sibili dei proiettili sui nostri capi. Io pensavo che la vita fuori era bella, e sarebbe ancora stata bella, e sarebbe stato veramente un peccato lasciarsi sommergere adesso. Svegliai quelli tra i malati che sonnecchiavano, e quando fui sicuro che tutti ascoltavano, dissi loro, in francese prima, nel mio migliore tedesco poi, che tutti dovevano pensare ormai di ritornare a casa, e che, per quanto dipendeva da noi, alcune cose era necessario fare, altre necessario evitare. Che ognuno conservasse attentamente la sua propria gamella e il cucchiaio; che nessuno offrisse ad altri la zuppa che eventualmente gli fosse avanzata; nessuno scendesse dal letto se non per andare alla latrina; chi avesse bisogno di un qualsiasi servizio, non si rivolgesse ad altri che a noi tre; Arthur particolarmente era incaricato di vigilare sulla disciplina e sull' igiene, e doveva ricordare che era meglio lasciare gamelle e cucchiai sporchi, piuttosto che lavarli col pericolo di scambiare quelli di un difterico con quelli di un tifoso. Ebbi l' impressione che i malati fossero ormai troppo indifferenti a ogni cosa per curarsi di quanto avevo detto; ma avevo molta fiducia nella diligenza di Arthur. 22 gennaio. Se è coraggioso chi affronta a cuor leggero un grave pericolo, Charles ed io quel mattino fummo coraggiosi. Estendemmo le nostre esplorazioni al campo delle SS, subito fuori del reticolato elettrico. Le guardie del campo dovevano essere partite con molta fretta. Trovammo sui tavoli piatti pieni per metà di minestra ormai congelata, che divorammo con intenso godimento; boccali ancor colmi di birra trasformata in ghiaccio giallastro, una scacchiera con una partita incominciata. Nelle camerate, una quantità di roba preziosa. Ci caricammo una bottiglia di vodka, medicinali vari, giornali e riviste e quattro ottime coperte imbottite, una delle quali è oggi nella mia casa di Torino. Lieti e incoscienti, riportammo nella cameretta il frutto della sortita, affidandolo all' amministrazione di Arthur. Solo a sera si seppe quanto era successo forse mezz' ora più tardi. Alcune SS, forse disperse, ma armate, penetrarono nel campo abbandonato. Trovarono che diciotto francesi si erano stabiliti nel refettorio della SS-Waffe. Li uccisero tutti metodicamente, con un colpo alla nuca, allineando poi i corpi contorti sulla neve della strada; indi se ne andarono. I diciotto cadaveri restarono esposti fino all' arrivo dei russi; nessuno ebbe la forza di dar loro sepoltura. D' altronde, in tutte le baracche v' erano ormai letti occupati da cadaveri, rigidi come legno, che nessuno si curava più di rimuovere. La terra era troppo gelata perché vi si potessero scavare fosse; molti cadaveri furono accatastati in una trincea, ma già fin dai primi giorni il mucchio emergeva dallo scavo ed era turpemente visibile dalla nostra finestra. Solo una parete di legno ci separava dal reparto dei dissenterici. Qui molti erano i moribondi, molti i morti. Il pavimento era ricoperto da uno strato di escrementi congelati. Nessuno aveva più forza di uscire dalle coperte per cercare cibo, e chi prima lo aveva fatto non era ritornato a soccorrere i compagni. In uno stesso letto, avvinghiati per resistere meglio al freddo, proprio accanto alla parete divisoria, stavano due italiani: li sentivo spesso parlare, ma poiché io invece non parlavo che francese, per molto tempo non si accorsero della mia presenza. Udirono quel giorno per caso il mio nome, pronunziato all' italiana da Charles, e da allora non smisero di gemere e di implorare. Naturalmente avrei voluto aiutarli, avendone i mezzi e la forza; se non altro per far smettere l' ossessione delle loro grida. A sera, quando tutti i lavori furono finiti, vincendo la fatica e il ribrezzo, mi trascinai a tentoni per il corridoio lercio e buio, fino al loro reparto, con una gamella d' acqua e gli avanzi della nostra zuppa del giorno. Il risultato fu che da allora, attraverso la sottile parete, l' intera sezione diarrea chiamò giorno e notte il mio nome, con le inflessioni di tutte le lingue d' Europa, accompagnato da preghiere incomprensibili, senza che io potessi comunque porvi riparo. Mi sentivo prossimo a piangere, li avrei maledetti. La notte riservò brutte sorprese. Lakmaker, della cuccetta sotto la mia, era uno sciagurato rottame umano. Era (od era stato) un ebreo olandese di diciassette anni, alto, magro e mite. Era in letto da tre mesi, non so come fosse sfuggito alle selezioni. Aveva avuto successivamente il tifo e la scarlattina; intanto gli si era palesato un grave vizio cardiaco, ed era brutto di piaghe da decubito, tanto che non poteva ormai giacere che sul ventre. Con tutto ciò, un appetito feroce; non parlava che olandese, nessuno di noi era in grado di comprenderlo. Forse causa di tutto fu la minestra di cavoli e rape, di cui Lakmaker aveva voluto due razioni. A metà notte gemette, poi si buttò dal letto. Cercava di raggiungere la latrina, ma era troppo debole e cadde a terra, piangendo e gridando forte. Charles accese la luce (l' accumulatore si dimostrò provvidenziale) e potemmo constatare la gravità dell' incidente. Il letto del ragazzo e il pavimento erano imbrattati. L' odore nel piccolo ambiente diventava rapidamente insopportabile. Non avevamo che una minima scorta d' acqua, e non coperte né pagliericci di ricambio. E il poveretto, tifoso, era un terribile focolaio di infezione; né si poteva certo lasciarlo tutta la notte sul pavimento a gemere e tremare di freddo in mezzo alla lordura. Charles discese dal letto e si rivestì in silenzio. Mentre io reggevo il lume, ritagliò col coltello dal pagliericcio e dalle coperte tutti i punti sporchi; sollevò da terra Lakmaker colla delicatezza di una madre, lo ripulì alla meglio con paglia estratta dal saccone, e lo ripose di peso nel letto rifatto, nell' unica posizione in cui il disgraziato poteva giacere; raschiò il pavimento con un pezzo di lamiera; stemperò un po' di cloramina, e infine cosparse di disinfettante ogni cosa e anche se stesso. Io misuravo la sua abnegazione dalla stanchezza che avrei dovuto superare in me per fare quanto lui faceva. 23 gennaio. Le nostre patate erano finite. Circolava da giorni per le baracche la voce che un enorme silo di patate fosse situato da qualche parte, fuori del filo spinato, non lontano dal campo. Qualche pioniere ignorato deve aver fatto pazienti ricerche, o qualcuno doveva sapere con precisione il luogo: di fatto, il mattino del 23 un tratto di filo spinato era stato abbattuto, e una doppia processione di miserabili usciva ed entrava dall' apertura. Charles ed io partimmo, nel vento della pianura livida. Fummo oltre la barriera abbattuta. _ Dis donc, Primo, on est dehors! Era così: per la prima volta dal giorno del mio arresto, mi trovavo libero, senza custodi armati, senza reticolati fra me e la mia casa. A forse quattrocento metri dal campo, giacevano le patate: un tesoro. Due fosse lunghissime, piene di patate, e ricoperte di terra alternata con paglia a difesa dal gelo. Nessuno sarebbe più morto di fame. Ma l' estrazione non era lavoro da nulla. A causa del gelo, la superficie del terreno era dura come marmo. Con duro lavoro di piccone si riusciva a perforare la crosta e a mettere a nudo il deposito; ma i più preferivano introdursi nei fori abbandonati da altri, spingendosi molto profondi e passando le patate ai compagni che stavano all' esterno. Un vecchio ungherese era stato sorpreso colà dalla morte. Giaceva irrigidito nell' atto dell' affamato: capo e spalle sotto il cumulo di terra, il ventre nella neve, tendeva le mani alle patate. Chi venne dopo spostò il cadavere di un metro, e riprese il lavoro attraverso l' apertura resasi libera. Da allora il nostro vitto migliorò. Oltre alle patate bollite e alla zuppa di patate, offrimmo ai nostri malati frittelle di patate, su ricetta di Arthur: si raschiano patate crude con altre bollite e disfatte; la miscela si arrostisce su di una lamiera rovente. Avevano sapore di fuliggine. Ma non ne potè godere Sertelet, il cui male progrediva. Oltre a parlare con timbro sempre più nasale, quel giorno non riuscì più a inghiottire a dovere alcun alimento: qualcosa gli si era guastato in gola, ogni boccone minacciava di soffocarlo. Andai a cercare un medico ungherese rimasto come malato nella baracca di fronte. Come udì parlare di difterite, fece tre passi indietro e mi ingiunse di uscire. Per pure ragioni di propaganda, feci a tutti instillazioni nasali di olio canforato. Assicurai Sertelet che ne avrebbe tratto giovamento; io stesso cercavo di convincermene. 24 gennaio. Libertà. La breccia nel filo spinato ce ne dava l' immagine concreta. A porvi mente con attenzione voleva dire non più tedeschi, non più selezioni, non lavoro, non botte, non appelli, e forse, più tardi, il ritorno. Ma ci voleva sforzo per convincersene e nessuno aveva tempo di goderne. Intorno tutto era distruzione e morte. Il mucchio di cadaveri, di fronte alla nostra finestra, rovinava ormai fuori della fossa. Nonostante le patate, la debolezza di tutti era estrema: nel campo nessun ammalato guariva, molti invece si ammalavano di polmonite e diarrea; quelli che non erano stati in grado di muoversi, o non avevano avuto l' energia di farlo, giacevano torpidi nelle cuccette, rigidi dal freddo, e nessuno si accorgeva di quando morivano. Gli altri erano tutti spaventosamente stanchi: dopo mesi e anni di Lager, non sono le patate che possono rimettere in forza un uomo. Quando, a cottura ultimata, Charles ed io avevamo trascinato i venticinque litri di zuppa quotidiana dal lavatoio alla camera, dovevamo poi gettarci ansanti sulla cuccetta, mentre Arthur, diligente e domestico, faceva la ripartizione, curando che avanzassero le tre razioni di "rabiot pour les travailleurs" e un po' di fondo "pour les italiens d' à côtè". Nella seconda camera di Infettivi, anche essa attigua alla nostra e abitata in maggioranza da tubercolotici, la situazione era ben diversa. Tutti quelli che lo avevano potuto, erano andati a stabilirsi in altre baracche. I compagni più gravi e più deboli si spegnevano a uno a uno in solitudine. Vi ero entrato un mattino per cercare in prestito un ago. Un malato rantolava in una delle cuccette superiori. Mi udì, si sollevò a sedere, poi si spenzolò a capofitto oltre la sponda, verso di me, col busto e le braccia rigidi e gli occhi bianchi. Quello della cuccetta di sotto, automaticamente, tese in alto le braccia per sostenere quel corpo, si accorse allora che era morto. Cedette lentamente sotto il peso, l' altro scivolò a terra e vi rimase. Nessuno sapeva il suo nome. Ma nella baracca 14 era successo qualcosa di nuovo. Vi erano ricoverati gli operati, alcuni dei quali in discrete condizioni. Essi organizzarono una spedizione al campo degli inglesi prigionieri di guerra, che si presumeva fosse stato evacuato. Fu una fruttuosa impresa. Ritornarono vestiti in kaki, con un carretto pieno di meraviglie mai viste: margarina, polveri per budino, lardo, farina di soia, acquavite. A sera, nella baracca 14 si cantava. Nessuno di noi si sentiva la forza di fare i due chilometri di strada al campo inglese e ritornare col carico. Ma, indirettamente, la fortunata spedizione ritornò di vantaggio a molti. La ineguale ripartizione dei beni provocò un rifiorire di industria e di commercio. Nella nostra cameretta dall' atmosfera mortale, nacque una fabbrica di candele con stoppino imbevuto di acido borico, colate in forme di cartone. I ricchi della baracca 14 assorbivano l' intera nostra produzione, pagandoci in lardo e farina. Io stesso avevo trovato il blocco di cera vergine nell' Elektromagazin; ricordo l' espressione di disappunto di coloro che me lo videro portar via, e il dialogo che ne seguì: _ Che te ne vuoi fare? Non era il caso di svelare un segreto di fabbricazione; sentii me stesso rispondere con le parole che avevo spesso udite dai vecchi del campo, e che contengono il loro vanto preferito: di essere "buoni prigionieri", gente adatta, che se la sa sempre cavare; _ Ich verstehe verschiedene Sachen .... _ (Me ne intendo di varie cose ...). 25 gennaio. Fu la volta di Sòmogyi. Era un chimico ungherese sulla cinquantina, magro, alto e taciturno. Come l' olandese, era convalescente di tifo e di scarlattina; ma sopravvenne qualcosa di nuovo. Fu preso da una febbre intensa. Da forse cinque giorni non aveva detto parola: aprì bocca quel giorno e disse con voce ferma: _ Ho una razione di pane sotto il saccone. Dividetela voi tre. Io non mangerò più. Non trovammo nulla da dire, ma per allora non toccammo il pane. Gli si era gonfiata una metà del viso. Finché conservò coscienza, rimase chiuso in un silenzio aspro. Ma a sera, e per tutta la notte, e per due giorni senza interruzione, il silenzio fu sciolto dal delirio. Seguendo un ultimo interminabile sogno di remissione e di schiavitù, prese a mormorare "Jawohl" ad ogni emissione di respiro; regolare e costante come una macchina, "Jawohl" ad ogni abbassarsi della povera rastrelliera delle costole, migliaia di volte, tanto da far venire voglia di scuoterlo, di soffocarlo, o che almeno cambiasse parola. Non ho mai capito come allora quanto sia laboriosa la morte di un uomo. Fuori ancora il grande silenzio. Il numero dei corvi era molto aumentato, e tutti sapevano perché. Solo a lunghi intervalli si risvegliava il dialogo dell' artiglieria. Tutti si dicevano a vicenda che i russi presto, subito, sarebbero arrivati; tutti lo proclamavano, tutti ne erano certi, ma nessuno riusciva a farsene serenamente capace. Perché nei Lager si perde l' abitudine di sperare, e anche la fiducia nella propria ragione. In Lager pensare è inutile, perché gli eventi si svolgono per lo più in modo imprevedibile; ed è dannoso, perché mantiene viva una sensibilità che è fonte di dolore, e che qualche provvida legge naturale ottunde quando le sofferenze sorpassano un certo limite. Come della gioia, della paura, del dolore medesimo, così anche dell' attesa ci si stanca. Arrivati al 25 gennaio, rotti da otto giorni i rapporti con quel feroce mondo che pure era un mondo, i più fra noi erano troppo esausti perfino per attendere. A sera, intorno alla stufa, ancora una volta Charles, Arthur ed io ci sentimmo ridiventare uomini. Potevamo parlare di tutto. Mi appassionava il discorso di Arthur sul modo come si passano le domeniche a Provenchères nei Vosgi, e Charles piangeva quasi quando io gli raccontai dell' armistizio in Italia, dell' inizio torbido e disperato della resistenza partigiana, dell' uomo che ci aveva traditi e della nostra cattura sulle montagne. Nel buio, dietro e sopra di noi, gli otto malati non perdevano una sillaba, anche quelli che non capivano il francese. Soltanto Sòmogyi si accaniva a confermare alla morte la sua dedizione. 26 gennaio. Noi giacevamo in un mondo di morti e di larve. L' ultima traccia di civiltà era sparita intorno a noi e dentro di noi. L' opera di bestializzazione, intrapresa dai tedeschi trionfanti, era stata portata a compimento dai tedeschi disfatti. È uomo chi uccide, è uomo chi fa o subisce ingiustizia; non è uomo chi, perso ogni ritegno, divide il letto con un cadavere. Chi ha atteso che il suo vicino finisse di morire per togliergli un quarto di pane, è, pur senza sua colpa, più lontano dal modello dell' uomo pensante, che il più rozzo pigmeo e il sadico più atroce. Parte del nostro esistere ha sede nelle anime di chi ci accosta: ecco perché è non-umana l' esperienza di chi ha vissuto giorni in cui l' uomo è stato una cosa agli occhi dell' uomo. Noi tre ne fummo in gran parte immuni, e ce ne dobbiamo mutua gratitudine; perciò la mia amicizia con Charles resisterà al tempo. Ma a migliaia di metri sopra di noi, negli squarci fra le nuvole grige, si svolgevano i complicati miracoli dei duelli aerei. Sopra noi, nudi impotenti inermi, uomini del nostro tempo cercavano la reciproca morte coi più raffinati strumenti. Un loro gesto del dito poteva provocare la distruzione del campo intero, annientare migliaia di uomini; mentre la somma di tutte le nostre energie e volontà non sarebbe bastata a prolungare di un minuto la vita di uno solo di noi. La sarabanda cessò a notte, e la camera fu di nuovo piena del monologo di Sòmogyi. In piena oscurità mi trovai sveglio di soprassalto. "L' pauv' vieux" taceva: aveva finito. Con l' ultimo sussulto di vita si era buttato a terra dalla cuccetta: ho udito l' urto delle ginocchia, delle anche, delle spalle e del capo. _ La mort l' a chassé de son lit, _ definì Arthur. Non potevamo certo portarlo fuori nella notte. Non ci restava che riaddormentarci. 27 gennaio. L' alba. Sul pavimento, l' infame tumulto di membra stecchite, la cosa Sòmogyi. Ci sono lavori più urgenti: non ci si può lavare, non possiamo toccarlo che dopo di aver cucinato e mangiato. E inoltre, "... rien de si dégoûtant que les débordements", dice giustamente Charles; bisogna vuotare la latrina. I vivi sono più esigenti; i morti possono attendere. Ci mettemmo al lavoro come ogni giorno. I russi arrivarono mentre Charles ed io portavamo Sòmogyi poco lontano. Era molto leggero. Rovesciammo la barella sulla neve grigia. Charles si tolse il berretto. A me dispiacque di non avere berretto. Degli undici della Infektionsabteilung, fu Sòmogyi il solo che morì nei dieci giorni. Sertelet, Cagnolati, Towarowski, Lakmaker e Dorget (di quest' ultimo non ho finora parlato; era un industriale francese che, dopo operato di peritonite, si era ammalato di difterite nasale), sono morti qualche settimana più tardi, nell' infermeria russa provvisoria di Auschwitz. Ho incontrato a Katowice, in aprile, Schenck e Alcalai in buona salute. Arthur ha raggiunto felicemente la sua famiglia, e Charles ha ripreso la sua professione di maestro; ci siamo scambiati lunghe lettere e spero di poterlo ritrovare un giorno. Qualcuno, molto tempo fa, ha scritto che anche i libri, come gli esseri umani, hanno un loro destino, imprevedibile, diverso da quello che per loro si desiderava e si attendeva. Anche questo libro ha avuto uno strano destino. Il suo atto di nascita è lontano: lo potete trovare in una delle sue pagine, la p. 17. di questa edizione, là dove si legge che "scrivo quello che non saprei dire a nessuno": era talmente forte in noi il bisogno di raccontare, che il libro avevo incominciato a scriverlo là, in quel laboratorio tedesco pieno di gelo, di guerra e di sguardi indiscreti, benché sapessi che non avrei potuto in alcun modo conservare quegli appunti scarabocchiati alla meglio, che avrei dovuto buttarli via subito, perché se mi fossero stati trovati addosso mi sarebbero costati la vita. Ma ho scritto il libro appena sono tornato, nel giro di pochi mesi: tanto quei ricordi mi bruciavano dentro. Rifiutato da alcuni grossi editori, il manoscritto è stato accettato nel 1947 da una piccola casa editrice, diretta da Franco Antonicelli: si stamparono 2500 copie, poi la casa editrice si sciolse e il libro cadde nell' oblio, anche perché, in quel tempo di aspro dopoguerra, la gente non aveva molto desiderio di ritornare con la memoria agli anni dolorosi appena terminati. Ha trovato nuova vita solo nel 195., quando è stato ristampato dall' editore Einaudi, e da allora l' interesse del pubblico non è più mancato. È stato tradotto in sei lingue, ridotto per la radio e per il teatro. È stato accettato dagli studenti e dagli insegnanti con un favore che ha superato di molto le aspettative dell' editore e mie. Centinaia di scolaresche, in tutte le regioni d' Italia, mi hanno invitato a commentare il libro, per iscritto o possibilmente di persona: nei limiti dei miei impegni, ho soddisfatto tutte queste richieste, tanto che ai miei due mestieri ne ho volentieri aggiunto un terzo, quello di presentatore e commentatore di me stesso, o meglio di quel lontano me stesso che aveva vissuto l' avventura di Auschwitz e l' aveva raccontata. Nel corso di questi numerosi incontri coi miei lettori studenti mi è accaduto di dover rispondere a molte domande: ingenue o consapevoli, commosse o provocatorie, superficiali o fondamentali. Mi sono accorto presto che alcune di queste domande ricorrevano con costanza, non mancavano mai: dovevano dunque scaturire da una curiosità motivata e ragionata, a cui in qualche modo il testo del libro non dava una risposta soddisfacente. A queste domande mi sono proposto di rispondere qui. 1. Come mia indole personale, non sono facile all' odio. Lo ritengo un sentimento animalesco e rozzo, e preferisco che invece le mie azioni e i miei pensieri, nel limite del possibile, nascano dalla ragione; per questo motivo, non ho mai coltivato entro me stesso l' odio come desiderio primitivo di rivalsa, di sofferenza inflitta al mio nemico vero o presunto, di vendetta privata. Devo aggiungere che, a quanto mi pare di vedere, l' odio è personale, è rivolto contro una persona, un nome, un viso: ora, i nostri persecutori di allora non avevano viso né nome, lo si ricava da queste stesse pagine: erano lontani, invisibili, inaccessibili. Prudentemente, il sistema nazista faceva sì che i contatti diretti fra gli schiavi e i signori fossero ridotti al minimo. Avrete notato che, in questo libro, si descrive un solo incontro dell' autore-protagonista con una SS (p. 200), e non per caso esso ha luogo solo negli ultimi giorni, nel Lager in disfacimento, quando il sistema è saltato. Del resto, nei mesi in cui questo libro è stato scritto, e cioè nel 1946, il nazismo e il fascismo sembravano veramente senza volto: sembravano ritornati al nulla, svaniti come un sogno mostruoso, giustamente e meritatamente, così come spariscono i fantasmi al canto del gallo. Come avrei potuto coltivare rancore, volere vendetta, contro una schiera di fantasmi? Non molti anni dopo, l' Europa e l' Italia si sono accorti che questa era una ingenua illusione: il fascismo era ben lontano dall' essere morto, era soltanto nascosto, incistato; stava facendo la sua muta, per ricomparire poi in una veste nuova, un po' meno riconoscibile, un po' più rispettabile, più adatta al nuovo mondo che era uscito dalla catastrofe della seconda guerra mondiale che il fascismo stesso aveva provocata. Devo confessare che davanti a certi visi non nuovi, a certe vecchie bugie, a certe figure in cerca di rispettabilità, a certe indulgenze, a certe connivenze, la tentazione dell' odio la provo, ed anche con una certa violenza: ma io non sono un fascista, io credo nella ragione e nella discussione come supremi strumenti di progresso, e perciò all' odio antepongo la giustizia. Proprio per questo motivo, nello scrivere questo libro, ho assunto deliberatamente il linguaggio pacato e sobrio del testimone, non quello lamentevole della vittima né quello irato del vendicatore: pensavo che la mia parola sarebbe stata tanto più credibile ed utile quanto più apparisse obiettiva e quanto meno suonasse appassionata; solo così il testimone in giudizio adempie alla sua funzione, che è quella di preparare il terreno al giudice. I giudici siete voi. Non vorrei tuttavia che questo mio astenermi dal giudizio esplicito fosse confuso con un perdono indiscriminato. No, non ho perdonato nessuno dei colpevoli, né sono disposto ora o in avvenire a perdonarne alcuno, a meno che non abbia dimostrato (coi fatti: non con le parole, e non troppo tardi) di essere diventato consapevole delle colpe e degli errori del fascismo nostrano e straniero, e deciso a condannarli, a sradicarli dalla sua coscienza e da quella degli altri. In questo caso sì, io non cristiano sono disposto a seguire il precetto ebraico e cristiano di perdonare il mio nemico; ma un nemico che si ravvede ha cessato di essere un nemico. 2. Il mondo in cui noi occidentali oggi viviamo presenta molti e gravissimi difetti e pericoli, ma rispetto al mondo di ieri gode di un gigantesco vantaggio: tutti possono sapere subito tutto su tutto. L' informazione è oggi "il quarto potere": almeno in teoria, il cronista e il giornalista hanno via libera dappertutto, nessuno può fermarli né allontanarli né farli tacere. È tutto facile: se vuoi, senti la radio del tuo paese o di qualunque altro paese; vai in edicola e scegli il giornale che preferisci, italiano di qualunque tendenza, o americano, o sovietico, entro un vasto ventaglio di alternative; compri e leggi i libri che vuoi, senza pericolo di venire incriminato di "attività antiitaliane" o di tirarti in casa una perquisizione della polizia politica. Certo non è agevole sottrarsi a tutti i condizionamenti, ma si può almeno scegliere il condizionamento che si preferisce. In uno Stato autoritario non è così. La Verità è una sola, proclamata dall' alto; i giornali sono tutti uguali, tutti ripetono questa stessa unica verità; così pure fanno le radiotrasmittenti, e non puoi ascoltare quelle degli altri paesi, perché in primo luogo, essendo questo un reato, rischi di finire in prigione; in secondo luogo, le trasmittenti del tuo paese emettono sulle lunghezze d' onda appropriate un segnale di disturbo che si sovrappone ai messaggi stranieri e ne impedisce l' ascolto. Quanto ai libri, vengono pubblicati e tradotti solo quelli graditi allo Stato: gli altri, devi andarteli a cercare all' estero, e introdurli nel tuo paese a tuo rischio, perché sono considerati più pericolosi della droga e dell' esplosivo, e se te li trovano alla frontiera ti vengono sequestrati e tu vieni punito. Dei libri non graditi, o non più graditi, di epoche precedenti si fanno pubblici falò sulle piazze. Così era in Italia fra il 1924 e il 1945; così nella Germania nazionalsocialista; così è tuttora in molti paesi, fra cui duole dover annoverare l' Unione Sovietica, che pure contro il fascismo ha eroicamente combattuto. In uno Stato autoritario viene considerato lecito alterare la verità, riscrivere retrospettivamente la Storia, distorcere le notizie, sopprimerne di vere, aggiungerne di false: all' informazione si sostituisce la propaganda. Infatti, in tale paese tu non sei un cittadino, detentore di diritti, bensì un suddito, e come tale sei debitore allo Stato (ed al dittatore che lo impersona) di lealtà fanatica e di obbedienza supina. È chiaro che in queste condizioni diventa possibile (anche se non sempre facile: non è mai agevole violentare a fondo la natura umana) cancellare frammenti anche grossi della realtà. Nell' Italia fascista riuscì abbastanza bene l' operazione di assassinare il deputato socialista Matteotti, e di mettere l' impresa a tacere dopo pochi mesi; Hitler, e il suo ministro della propaganda Joseph Goebbels, si mostrarono di gran lunga superiori a Mussolini in quest' opera di controllo e di mascheramento della verità. Tuttavia, nascondere al popolo tedesco l' esistenza dell' enorme apparato dei campi di concentramento non era possibile, ed inoltre non era (dal punto di vista nazista) neppure desiderabile. Creare ed intrattenere nel paese un' atmosfera di terrore indefinito faceva parte degli scopi del nazismo: era bene che il popolo sapesse che opporsi a Hitler era estremamente pericoloso. Infatti, centinaia di migliaia di tedeschi furono rinchiusi nei Lager fin dai primi mesi del nazismo: comunisti, socialdemocratici, liberali, ebrei, protestanti, cattolici, e tutto il paese lo sapeva, e sapeva che in Lager si soffriva e si moriva. Ciò nonostante, è vero che la gran massa dei tedeschi ignorò sempre i particolari più atroci di quanto avvenne più tardi nei Lager: lo sterminio metodico e industrializzato sulla scala dei milioni, le camere a gas tossico, i forni crematori, l' abietto sfruttamento dei cadaveri, tutto questo non si doveva sapere, ed in effetti pochi lo seppero, fino alla fine della guerra. Per mantenere il segreto, fra le altre precauzioni, nel linguaggio ufficiale si usavano soltanto cauti e cinici eufemismi: non si scriveva "sterminio" ma "soluzione definitiva", non "deportazione" ma "trasferimento", non "uccisione col gas" ma "trattamento speciale", e così via. Non senza ragione, Hitler temeva che queste orrende notizie, se si fossero divulgate, avrebbero compromesso la fede cieca che il paese gli tributava ed il morale delle truppe combattenti; inoltre, sarebbero venute a conoscenza degli Alleati e sfruttate come argomento propagandistico: il che, del resto, avvenne, ma per la loro stessa enormità gli orrori dei Lager, descritti più volte dalle radio degli Alleati, non furono generalmente creduti. Il riassunto più convincente della situazione tedesca di allora l' ho trovato nel libro Der SS Staat (Lo Stato delle SS) di Eugen Kogon, già prigioniero a Buchenwald, poi professore di Scienze Politiche all' Università di Monaco: A mio parere, nessuna di queste affermazioni è falsa, ma un' altra dev' essere aggiunta a completare il quadro: a dispetto delle varie possibilità d' informazione, la maggior parte dei tedeschi non sapevano perché non volevano sapere, anzi, perché volevano non sapere. È certamente vero che il terrorismo di Stato è un' arma fortissima, a cui è ben difficile resistere; ma è anche vero che il popolo tedesco, nel suo complesso, di resistere non ha neppure tentato. Nella Germania di Hitler era diffuso un galateo particolare: chi sapeva non parlava, chi non sapeva non faceva domande, a chi faceva domande non si rispondeva. In questo modo il cittadino tedesco tipico conquistava e difendeva la sua ignoranza, che gli appariva una giustificazione sufficiente della sua adesione al nazismo: chiudendosi la bocca, gli occhi e le orecchie, egli si costruiva l' illusione di non essere a conoscenza, e quindi di non essere complice, di quanto avveniva davanti alla sua porta. Sapere, e far sapere, era un modo (in fondo non poi tanto pericoloso) di prendere le distanze dal nazismo; penso che il popolo tedesco, nel suo complesso, non vi abbia fatto ricorso, e di questa deliberata omissione lo ritengo pienamente colpevole. ". Queste sono fra le domande che mi vengono rivolte più di frequente, e perciò esse devono nascere da qualche curiosità o esigenza particolarmente importante. La mia interpretazione è ottimistica: i giovani di oggi sentono la libertà come un bene a cui non si può in alcun caso rinunciare, e perciò, per loro, l' idea della prigionia è legata immediatamente all' idea della fuga o della rivolta. Del resto, è vero che secondo i codici militari di molti paesi il prigioniero di guerra è tenuto a cercare di liberarsi in qualsiasi modo, per riprendere il suo posto di combattente, e che secondo la Convenzione dell' Aia il tentativo di fuga non deve essere punito. Il concetto dell' evasione come obbligo morale è continuamente ribadito dalla letteratura romantica (ricordate il conte di Montecristo?), dalla letteratura popolare e dal cinematografo, in cui l' eroe, ingiustamente (o magari giustamente) incarcerato, tenta sempre l' evasione, anche nelle circostanze meno verosimili, e questa è invariabilmente coronata dal successo. Forse è bene che la condizione del prigioniero, la non-libertà, venga sentita come indebita, anormale: come una malattia, insomma, che deve essere guarita con la fuga o la ribellione. Però, purtroppo, questo quadro assomiglia assai poco a quello vero dei campi di concentramento. I prigionieri che tentarono la fuga, per esempio, da Auschwitz, furono poche centinaia, e quelli a cui la fuga riuscì qualche decina. L' evasione era difficile ed estremamente pericolosa: i prigionieri erano indeboliti, oltre che demoralizzati, dalla fame e dai maltrattamenti, avevano i capelli rasi, abiti a strisce subito riconoscibili, scarpe di legno che impedivano un passo rapido e silenzioso; non avevano denaro, e in generale non parlavano il polacco, che era la lingua locale, né avevano contatti nella zona, che del resto neppure conoscevano geograficamente. Inoltre, a reprimere le fughe, si adottavano rappresaglie feroci: chi veniva ripreso era impiccato pubblicamente sulla piazza dell' Appello, spesso dopo torture crudeli; quando veniva scoperta una fuga, gli amici dell' evaso venivano considerati suoi complici e fatti morire di fame nelle celle della prigione, l' intera baracca veniva fatta stare in piedi per ventiquattro ore, e talvolta venivano arrestati e deportati nel Lager i genitori del "colpevole". Ai militi delle SS che uccidevano un prigioniero nel corso di un tentativo di fuga veniva concessa una licenza premio: perciò accadeva sovente che una SS sparasse ad un prigioniero che non aveva alcuna intenzione di fuggire, solo allo scopo di conseguire il premio. Questo fatto aumenta artificiosamente il numero ufficiale dei casi di fuga registrati nelle statistiche; come ho accennato, il numero effettivo era invece molto piccolo. Essendo questa la situazione, dai campi di Auschwitz evasero con successo solo alcuni prigionieri polacchi "ariani" (cioè non ebrei, nella terminologia di allora), che abitavano poco lontano dal Lager, e che quindi avevano una meta verso cui dirigersi e la sicurezza di essere protetti dalla popolazione. Negli altri campi le cose si svolsero analogamente. Per quanto riguarda la mancata ribellione, il discorso è un po' diverso. Prima di tutto occorre ricordare che in alcuni Lager delle insurrezioni si sono effettivamente verificate: a Treblinka, a Sobibor, ed anche a Birkenau, uno dei campi dipendenti da Auschwitz. Non ebbero molto peso numerico: come l' analoga insurrezione del ghetto di Varsavia, rappresentano piuttosto esempi di straordinaria forza morale. In tutti i casi, esse furono disegnate e guidate da prigionieri in qualche modo privilegiati, e perciò in condizioni fisiche e spirituali migliori di quelle dei prigionieri comuni. Questo non deve stupire: solo a prima vista può apparire paradossale che si ribelli chi soffre meno. Anche fuori dei Lager le lotte raramente vengono condotte dai sottoproletari. Gli "stracci" non si ribellano. Nei campi per prigionieri politici, o dove i politici prevalevano, l' esperienza cospirativa di questi si dimostrò preziosa, e si giunse spesso, più che a rivolte aperte, ad attività di difesa abbastanza efficienti. A seconda dei Lager e dei tempi, si riuscì ad esempio a ricattare o corrompere le SS, raffrenandone i poteri indiscriminati; a sabotare il lavoro per le industrie di guerra tedesche; ad organizzare evasioni; a comunicare via radio con gli Alleati, fornendo loro notizie sulle orrende condizioni dei campi; a migliorare il trattamento dei malati, sostituendo medici prigionieri ai medici SS; a "pilotare" le selezioni, mandando a morte le spie o i traditori e salvando prigionieri la cui sopravvivenza avesse per qualsiasi motivo importanza particolare; a prepararsi, anche militarmente, a resistere nel caso che, con l' avvicinarsi del fronte, i nazisti decidessero (come infatti spesso decisero) di liquidare totalmente i Lager. Nei campi con prevalenza di ebrei, come quelli della zona di Auschwitz, una difesa attiva o passiva era particolarmente difficile. Qui i prigionieri, in generale, erano privi di qualsiasi esperienza organizzativa o militare; provenivano da tutti i paesi d' Europa, parlavano lingue diverse, e perciò non si capivano fra loro; soprattutto, erano più affamati, più deboli e più stanchi degli altri, perché le loro condizioni di vita erano più dure, e perché spesso avevano già alle spalle una lunga carriera di fame, persecuzione e umiliazione nei ghetti. Come ulteriore conseguenza, la durata del loro soggiorno in Lager era tragicamente breve, erano insomma una popolazione fluttuante, continuamente diradata dalla morte, e rinnovata dagli incessanti arrivi di nuovi convogli. È comprensibile che in un tessuto umano così deteriorato e così instabile non attecchisse facilmente il germe della rivolta. Ci si può domandare perché non si ribellassero i prigionieri appena scesi dai treni, che attendevano per ore (talvolta per giorni!) di entrare nelle camere a gas. Oltre a quanto ho detto, devo aggiungere qui che i tedeschi avevano perfezionato per questa impresa di morte collettiva una strategia diabolicamente astuta e versatile. Nella maggior parte dei casi, i nuovi arrivi non sapevano a cosa andavano incontro: venivano accolti con fredda efficienza ma senza brutalità, invitati a spogliarsi "per la doccia", talvolta veniva loro dato asciugamano e sapone, e promesso un caffè caldo dopo il bagno. Le camere a gas, infatti, erano camuffate come sale di docce, con tubazioni, rubinetti, spogliatoi, attaccapanni, panchine eccetera. Quando invece i prigionieri davano anche il più piccolo segno di sapere o sospettare il loro destino imminente, le SS e i loro collaboratori agivano di sorpresa, intervenendo con estrema brutalità, con urla, minacce, calci, spari, e aizzando contro quella gente perplessa e disperata, macerata da cinque o dieci giorni di viaggio in vagoni sigillati, i loro cani addestrati a sbranare uomini. Stando così le cose, appare assurda ed offensiva l' affermazione che talvolta è stata formulata, che gli ebrei non si siano ribellati per codardia. Nessuno si ribellava. Basti ricordare che le camere a gas di Auschwitz furono collaudate su un gruppo di trecento prigionieri di guerra russi, giovani, allenati militarmente, politicamente preparati, e non impediti dalla presenza di donne e bambini; e neppure loro si ribellarono. Vorrei infine aggiungere una considerazione. La coscienza radicata che all' oppressione non si deve acconsentire, bensì resistere, non era molto diffusa nell' Europa fascista, ed era particolarmente debole in Italia. Era patrimonio di una cerchia ristretta di uomini politicamente attivi, ma il fascismo e il nazismo li avevano isolati, espulsi, terrorizzati o addirittura distrutti: non bisogna dimenticare che le prime vittime dei Lager tedeschi, in numero di centinaia di migliaia, furono appunto i quadri dei partiti politici antinazisti. Essendo venuto a mancare il loro apporto, la volontà popolare di resistere, di organizzarsi per resistere, è risorta molto più tardi, grazie soprattutto al contributo dei partiti comunisti europei, che si gettarono nella lotta contro il nazismo dopo che la Germania, nel giugno 1941, aveva aggredito improvvisamente l' Unione Sovietica rompendo l' accordo Ribbentrop-Molotov del settembre 1939. In conclusione, rimproverare ai prigionieri la mancata ribellione rappresenta oltre a tutto un errore di prospettiva storica: significa pretendere da loro una coscienza politica che oggi è patrimonio pressoché comune, ma allora apparteneva solo ad una élite. 4. Sono ritornato ad Auschwitz nel 1965, in occasione di una cerimonia commemorativa della liberazione dei campi. Come ho accennato nei miei libri, l' impero concentrazionario di Auschwitz non era costituito da un solo Lager, bensì da una quarantina: il campo di Auschwitz propriamente detto era costruito alla periferia della cittadina dello stesso nome (Oswiecim in polacco), aveva una capacità di circa ventimila prigionieri, ed era per così dire la capitale amministrativa del complesso; c' era poi il Lager (o più precisamente il gruppo di Lager: da tre a cinque, a seconda dei momenti) di Birkenau, che giunse a contenere sessantamila prigionieri, di cui circa quarantamila donne, ed in cui erano in funzione le camere a gas ed i forni crematori; ed infine, un numero continuamente variabile di campi di lavoro, lontani anche centinaia di chilometri dalla "capitale": il mio campo, chiamato Mònowitz, era il più grande di questi, essendo giunto a contenere circa dodicimila prigionieri. Era situato a circa sette chilometri ad est di Auschwitz. L' intera zona si trova attualmente in territorio polacco. Non ho provato grande impressione nel visitare il Campo Centrale: il governo polacco l' ha trasformato in una specie di monumento nazionale, le baracche sono state ripulite e verniciate, sono stati piantati alberi, disegnate aiuole. C' è un museo in cui sono esposti cimeli miserandi: tonnellate di capelli umani, centinaia di migliaia di occhiali, pettini, pennelli da barba, bambole, scarpe da bambini; ma è pur sempre un museo, qualcosa di statico, riordinato, manomesso. Tutto il campo mi è sembrato un museo. Quanto al mio Lager, non esiste più; la fabbrica di gomma a cui era annesso, ora in mani polacche, si è talmente ingrandita che ne ha completamente occupato il territorio. Ho provato invece un' impressione di angoscia violenta entrando nel Lager di Birkenau, che non avevo mai visto da prigioniero. Qui niente è cambiato: c' era fango, e c' è ancora fango, o polvere soffocante d' estate; le baracche (quelle che non sono bruciate durante il passaggio del fronte) sono rimaste com' erano, basse, sporche, di tavole sconnesse, col pavimento di terra battuta; non ci sono cuccette ma tavolacci di legno nudo, fino al soffitto. Qui niente è stato abbellito. Era con me una mia amica, Giuliana Tedeschi, superstite di Birkenau. Mi ha fatto vedere che su ogni tavolaccio di m 1,.0 per 2 dormivano fino a nove donne. Mi ha fatto notare che dalla finestrella si vedono le rovine del crematorio; a quel tempo, si vedeva la fiamma in cima alla ciminiera. Lei aveva chiesto alle anziane: "Che cosa è quel fuoco?", e le avevano risposto: "Siamo noi che bruciamo". Di fronte al triste potere evocativo di quei luoghi, ognuno di noi reduci si comporta in un modo diverso, ma si possono delineare due categorie tipiche. Appartengono alla prima categoria quelli che rifiutano di ritornarvi, o addirittura di parlare di questo argomento; quelli che vorrebbero dimenticare, ma non ci riescono, e sono tormentati da incubi; quelli che invece hanno dimenticato, hanno rimosso tutto, ed hanno ricominciato a vivere da zero. Ho notato che in generale tutti questi sono individui che sono finiti in Lager "per disgrazia", cioè senza un impegno politico preciso; per loro la sofferenza è stata una esperienza traumatica ma priva di significato e di insegnamento, come un infortunio o una malattia: il ricordo è per loro un qualcosa di estraneo, un corpo doloroso intruso nella loro vita, ed hanno cercato (o ancora cercano) di eliminarlo. La seconda categoria è invece costituita dagli ex prigionieri "politici", o comunque in possesso di una preparazione politica, o di una convinzione religiosa, o di una forte coscienza morale. Per questi reduci, ricordare è un dovere: essi non vogliono dimenticare, e soprattutto non vogliono che il mondo dimentichi, perché hanno capito che la loro esperienza non è stata priva di senso, e che i Lager non sono stati un incidente, un imprevisto della Storia. I Lager nazisti sono stati l' apice, il coronamento del fascismo in Europa, la sua manifestazione più mostruosa; ma il fascismo c' era prima di Hitler e di Mussolini, ed è sopravvissuto, in forme palesi o mascherate, alla sconfitta della seconda guerra mondiale. In tutte le parti del mondo, là dove si comincia col negare le libertà fondamentali dell' Uomo, e l' uguaglianza fra gli uomini, si va verso il sistema concentrazionario, ed è questa una strada su cui è difficile fermarsi. Conosco molti ex prigionieri che hanno capito bene quale terribile lezione è contenuta nella loro esperienza, e che ogni anno ritornano nel "loro" campo guidando pellegrinaggi di giovani: io stesso lo farei volentieri se il tempo me lo concedesse, e se non sapessi che raggiungo lo stesso scopo scrivendo libri, ed accettando di commentarli agli studenti. 5. Come ho scritto nel rispondere alla prima domanda, alla parte del giudice preferisco quella del testimone: ho da portare una testimonianza, quella delle cose che ho subìte e viste. I miei libri non sono libri di storia: nello scriverli mi sono rigorosamente limitato a riportare i fatti di cui avevo esperienza diretta, escludendo quelli che ho appreso più tardi da libri o giornali. Ad esempio, noterete che non ho citato le cifre del massacro di Auschwitz, e neppure ho descritto i dettagli delle camere a gas e dei crematori: infatti non conoscevo questi dati quando ero in Lager, e li ho appresi soltanto dopo, quando tutto il mondo li ha appresi. Per questo stesso motivo non parlo generalmente dei Lager russi: per mia fortuna non ci sono stato, e non potrei che ripetere le cose che ho letto, cioè quelle che sanno tutti coloro che a questo argomento si sono interessati. È chiaro che tuttavia con questo non voglio né posso sottrarmi al dovere, che ha ogni uomo, di farsi un giudizio e di formulare un' opinione. Accanto ad evidenti somiglianze, fra i Lager sovietici e i Lager nazisti mi pare di poter osservare sostanziali differenze. La principale differenza consiste nella finalità. I Lager tedeschi costituiscono qualcosa di unico nella pur sanguinosa storia dell' umanità: all' antico scopo di eliminare o terrificare gli avversari politici, affiancavano uno scopo moderno e mostruoso, quello di cancellare dal mondo interi popoli e culture. A partire press' a poco dal 1941, essi diventano gigantesche macchine di morte: camere a gas e crematori erano stati deliberatamente progettati per distruggere vite e corpi umani sulla scala dei milioni; l' orrendo primato spetta ad Auschwitz, con 24 000 morti in un solo giorno, nell' agosto 1944. I campi sovietici non erano e non sono certo luoghi in cui il soggiorno sia gradevole, ma in essi, neppure negli anni più oscuri dello stalinismo, la morte dei prigionieri non veniva espressamente ricercata: era un incidente assai frequente, e tollerato con brutale indifferenza, ma sostanzialmente non voluto; insomma, un sottoprodotto dovuto alla fame, al freddo, alle infezioni, alla fatica. In questo lugubre confronto fra due modelli di inferno bisogna ancora aggiungere che nei Lager tedeschi, in generale, si entrava per non uscirne: non era previsto alcun termine altro che la morte. Per contro, nei campi sovietici un termine è sempre esistito: al tempo di Stalin i "colpevoli" venivano talvolta condannati a pene lunghissime (anche quindici o venti anni) con spaventosa leggerezza, ma una sia pur lieve speranza di libertà sussisteva. Da questa fondamentale differenza scaturiscono le altre. I rapporti fra guardiani e prigionieri, in Unione Sovietica, sono meno disumani: appartengono tutti allo stesso popolo, parlano la stessa lingua, non sono "superuomini" e "sottouomini" come sotto il nazismo. I malati, magari male, vengono curati; davanti a un lavoro troppo duro è pensabile una protesta, individuale o collettiva; le punizioni corporali sono rare e non troppo crudeli; è possibile ricevere da casa lettere e pacchi con viveri; la personalità umana, insomma, non viene denegata e non va totalmente perduta. Per contro, almeno per quanto riguardava gli ebrei e gli zingari, nei Lager tedeschi la strage era pressoché totale: non si fermava neppure davanti ai bambini, che furono uccisi nelle camere a gas a centinaia di migliaia, cosa unica fra tutte le atrocità della storia umana. Come conseguenza generale, le quote di mortalità sono assai diverse per i due sistemi. In Unione Sovietica pare che nei periodi più duri la mortalità si aggirasse sul 30 per cento, riferito a tutti gli ingressi, e questo è certamente un dato intollerabilmente alto; ma nei Lager tedeschi la mortalità era del 90-9. per cento. Mi pare molto grave la recente innovazione sovietica secondo cui alcuni intellettuali dissenzienti vengono sbrigativamente dichiarati pazzi, rinchiusi in istituti psichiatrici, e sottoposti a "cure" che non solo provocano crudeli sofferenze, ma distorcono ed indeboliscono le funzioni mentali. Ciò dimostra che il dissenso viene temuto: non è più punito, ma si cerca di demolirlo con i farmaci (o con la paura dei farmaci). Forse questa tecnica non è molto diffusa (pare che questi ricoverati politici, nel 1975, non superassero il centinaio), ma è odiosa, perché comporta un uso abietto della scienza, ed una prostituzione imperdonabile da parte dei medici che si prestano così servilmente ad assecondare i voleri dell' autorità. Essa mette in luce un estremo disprezzo per il confronto democratico e le libertà civili. Per contro, e per quanto riguarda appunto l' aspetto quantitativo, resta da notare che, in Unione Sovietica, il fenomeno Lager appare attualmente in declino. Sembra che intorno al 1950 i prigionieri politici fossero milioni; secondo i dati di "Amnesty International" (un' associazione apolitica che si prefigge di soccorrere tutti i prigionieri politici, in tutti i paesi e indipendentemente dalle loro opinioni) essi sarebbero oggi (1976) circa diecimila. In conclusione, i campi sovietici rimangono pur sempre una manifestazione deplorevole di illegalità e di disumanità. Essi non hanno nulla a che vedere col socialismo, ed anzi, sul socialismo sovietico spiccano come una brutta macchia; sono piuttosto da considerarsi una barbarica eredità dell' assolutismo zarista, di cui i governi sovietici non hanno saputo o voluto liberarsi. Chi legge le "Memorie di una casa morta", scritte da Dostoevskij nel 1.62, non stenta a riconoscervi gli stessi lineamenti carcerari descritti da Solzenicyn cento anni dopo. Ma è possibile, anzi facile, rappresentarsi un socialismo senza Lager: in molte parti del mondo è stato realizzato. Un nazismo senza Lager invece non è pensabile. 6. La maggior parte dei personaggi che compaiono in queste pagine sono purtroppo da ritenere scomparsi già nei giorni di Lager o durante la tremenda marcia di evacuazione di cui si parla a p. 196; altri sono morti più tardi per malattie contratte durante la prigionia, e di altri ancora non sono riuscito a ritrovare le tracce. Alcuni pochi sopravvivono, ed ho potuto conservare o ristabilire il contatto con loro. È vivo, e sta bene, Jean, il "Pikolo" del Canto di Ulisse: la sua famiglia era stata distrutta, ma si è sposato dopo il ritorno, ed ora ha due figli, e conduce una vita molto tranquilla come farmacista in una cittadina della provincia francese. Ci incontriamo talvolta in Italia, dove viene per le vacanze; altre volte sono andato io a trovarlo. Stranamente, ha dimenticato molto del suo anno di Monowitz: in lui prevalgono i ricordi atroci del viaggio di evacuazione, nel corso del quale ha visto morire di estenuazione tutti i suoi amici (fra questi era Alberto). Vedo anche abbastanza sovente il personaggio che ho chiamato Piero Sonnino (p. 66), e che è lo stesso che compare come "Cesare" in La tregua. Anche lui, dopo un difficile periodo di riinserimento, ha trovato un lavoro e si è fatta una famiglia. Vive a Roma. Racconta volentieri, e con grande vivacità, le traversie che ha subìte in campo e durante il lungo viaggio di ritorno, ma nelle sue narrazioni, che spesso diventano quasi monologhi teatrali, tende a mettere in evidenza i fatti avventurosi di cui è stato protagonista piuttosto che quelli tragici a cui ha assistito passivamente. Ho rivisto anche Charles. Era stato preso prigioniero sulle colline dei Vosgi, presso la sua casa, dove era partigiano, solo nel novembre 1944, ed era stato in Lager soltanto per un mese; ma questo mese di sofferenza, ed i fatti feroci a cui aveva assistito, lo avevano segnato profondamente, togliendogli la gioia di vivere e la volontà di costruirsi un avvenire. Rimpatriato dopo un viaggio non molto diverso da quello che io ho raccontato in La tregua, ha ripreso il suo mestiere di maestro elementare nella minuscola scuola del suo villaggio, in cui insegnava ai bambini anche ad allevare le api e a coltivare un vivaio di abeti e pini. Da pochi anni è in pensione; ha sposato di recente una sua collega non giovane, ed insieme si sono costruiti una casa nuova, piccola ma comoda e graziosa. Sono andato a trovarlo due volte, nel 1951 e nel 1974. In quest' ultima occasione mi ha detto di Arthur, che abita in un villaggio non molto lontano: è vecchio e ammalato, e non desidera ricevere visite che possano ridestare in lui antiche angosce. Drammatico, imprevisto, e pieno di gioia per entrambi, è stato il ritrovamento di Mendi, il "rabbino modernista" a cui si accenna in poche righe alle pp. .5 e 132. Ha riconosciuto se stesso leggendo casualmente nel 1965 la traduzione tedesca di questo libro: si ricordava di me, e mi ha scritto una lunga lettera indirizzandola presso la Comunità Israelitica di Torino. Ci siamo scritti a lungo, informandoci a vicenda dei destini dei nostri amici comuni. Nel 1967 sono andato a trovarlo a Dortmund, in Germania Federale, dove allora era rabbino: è rimasto com' era, "tenace, coraggioso e acuto", ed inoltre straordinariamente colto. Ha sposato una reduce da Auschwitz, ed hanno tre figli ormai grandi; l' intera famiglia ha intenzione di trasferirsi in Israele. Non ho più rivisto il Doktor Pannwitz, il chimico che mi aveva sottoposto ad un gelido "esame di Stato", ma ho avuto sue notizie da quel Doktor Müller a cui ho dedicato il capitolo "Vanadio" del mio ultimo libro "ii sistema periodico". Nell' imminenza dell' arrivo dell' Armata Rossa nella fabbrica di Buna, si è comportato con prepotenza e viltà: ha ordinato ai suoi collaboratori civili di resistere a oltranza, ha vietato loro di salire sull' ultimo treno in partenza per le retrovie, ma ci è salito lui all' ultimo momento approfittando della confusione. È morto nel 1946 di un tumore al cervello. 7. L' avversione contro gli ebrei, impropriamente detta antisemitismo, è un caso particolare di un fenomeno più vasto, e cioè dell' avversione contro chi è diverso da noi. È indubbio che si tratti, in origine, di un fatto zoologico: gli animali di una stessa specie, ma appartenenti a gruppi diversi, manifestano fra di loro fenomeni di intolleranza. Questo avviene anche fra gli animali domestici: è noto che una gallina di un certo pollaio, se viene introdotta in un altro, è respinta a beccate per vari giorni. Lo stesso avviene fra i topi e le api, e in genere in tutte le specie di animali sociali. Ora, l' uomo è certamente un animale sociale (lo aveva già affermato Aristotele): ma guai se tutte le spinte zoologiche che sopravvivono nell' uomo dovessero essere tollerate! Le leggi umane servono appunto a questo: a limitare gli impulsi animaleschi. L' antisemitismo è un tipico fenomeno d' intolleranza. Perché una intolleranza insorga, occorre che fra i due gruppi a contatto esista una differenza percettibile: questa può essere una differenza fisica (i neri e i bianchi, i bruni e i biondi), ma la nostra complicata civiltà ci ha resi sensibili a differenze più sottili, quali la lingua, o il dialetto, o addirittura l' accento (lo sanno bene i nostri meridionali costretti ad emigrare al Nord); la religione, con tutte le sue manifestazioni esteriori e la sua profonda influenza sul modo di vivere; il modo di vestire o gesticolare; le abitudini pubbliche e private. La tormentata storia del popolo ebreo ha fatto sì che quasi ovunque gli ebrei manifestasse o una o più di queste differenze. Nell' intrico, estremamente complesso, dei popoli e delle nazioni in urto fra loro, la storia di questo popolo si presenta con caratteristiche particolari. Esso era (ed in parte è tuttora) depositario di un legame interno molto forte, di natura religiosa e tradizionale; di conseguenza, a dispetto della sua inferiorità numerica e militare, si oppose con disperato valore alla conquista da parte dei romani, e fu sconfitto, deportato e disperso, ma quel legame sopravvisse. Le colonie ebraiche che si andarono formando, su tutte le coste del Mediterraneo dapprima, e successivamente in Medio Oriente, in Spagna, in Renania, nella Russia meridionale, in Polonia, in Boemia ed altrove, rimasero sempre ostinatamente fedeli a questo legame, che si era andato consolidando sotto la forma di un immenso corpo di leggi e tradizioni scritte, di una religione minuziosamente codificata, e di un rituale peculiare e vistoso, che pervadeva tutti gli atti della giornata. Gli ebrei, in minoranza in tutti i loro stanziamenti, erano dunque diversi, riconoscibili come diversi, e spesso orgogliosi (a ragione o a torto) della loro diversità: tutto questo li rendeva molto vulnerabili, ed infatti furono duramente perseguitati, in quasi tutti i paesi ed in quasi tutti i secoli; alle persecuzioni gli ebrei reagirono in piccola parte assimilandosi, ossia fondendosi con la popolazione circostante; in maggior parte, emigrando nuovamente verso paesi più ospitali. In tal modo si rinnovava però la loro "diversità", che li esponeva a nuove restrizioni e persecuzioni. Sebbene nella sua essenza profonda l' antisemitismo sia un fenomeno irrazionale di intolleranza, esso, in tutti i paesi cristiani, ed a partire da quando il cristianesimo si andò consolidando come religione di Stato, assunse una veste prevalentemente religiosa, anzi teologica. Secondo l' affermazione di sant' Agostino, gli ebrei sono condannati alla dispersione da Dio stesso, e ciò per due motivi: perché in tal modo essi vengono puniti per non aver riconosciuto in Cristo il Messia, e perché la loro presenza in tutti i paesi è necessaria alla Chiesa cattolica, che essa pure è dappertutto, affinché dappertutto sia visibile ai fedeli la meritata infelicità degli ebrei. Perciò la dispersione e separazione degli ebrei non dovrà mai avere fine: essi, con le loro pene, devono testimoniare in eterno del loro errore, e di conseguenza della verità della fede cristiana. Dunque, poiché la loro presenza è necessaria, essi devono essere perseguitati, ma non uccisi. Tuttavia, non sempre la Chiesa si mostrò così moderata: fin dai primi secoli del cristianesimo fu mossa agli ebrei un' accusa ben più grave, quella di essere, collettivamente ed eternamente, responsabili della crocifissione di Cristo, di essere insomma il "popolo deicida". Questa formulazione, che compare nella liturgia pasquale in tempi remoti, ed è stata soppressa solo dal Concilio Vaticano ii (1962-65), sta all' origine di varie funeste e sempre rinnovate credenze popolari: che gli ebrei avvelenano i pozzi propagando la peste; che profanano abitualmente l' Ostia consacrata; che a Pasqua rapiscono bambini cristiani, col cui sangue impastano il pane azzimo. Queste credenze hanno offerto il pretesto per numerosi e sanguinosi massacri, e tra l' altro, per l' espulsione in massa degli ebrei dapprima dalla Francia e dall' Inghilterra, poi (1492-9.) dalla Spagna e dal Portogallo. Attraverso una serie mai interrotta di stragi e di migrazioni, si arriva al secolo xix, contrassegnato dal risveglio generale delle coscienze nazionali e dal riconoscimento dei diritti delle minoranze: ad eccezione della Russia zarista, in tutta l' Europa cadono le restrizioni legali ai danni degli ebrei, che erano state invocate dalle Chiese cristiane (a seconda dei luoghi e dei tempi, l' obbligo di risiedere in ghetti o in zone particolari, l' obbligo di portare sugli abiti un contrassegno, il divieto di accedere a determinati mestieri o professioni, il divieto dei matrimoni misti, ecc.). Sopravvive però l' antisemitismo, vivace soprattutto nei paesi dove una rozza religiosità continuava ad additare negli ebrei gli uccisori di Cristo (in Polonia e in Russia), e dove le rivendicazioni nazionali avevano lasciato uno strascico di generica avversione contro i confinanti e gli stranieri (in Germania; ma anche in Francia, ed alla fine del XIX secolo, i clericali, i nazionalisti ed i militari si trovano concordi nello scatenare una violenta ondata di antisemitismo, in occasione della falsa accusa di alto tradimento mossa contro Alfred Dreyfus, ufficiale ebreo dell' esercito francese). In Germania, in specie, per tutto il secolo scorso una serie ininterrotta di filosofi e di politici avevano insistito in una teorizzazione fanatica, secondo cui il popolo tedesco, per troppo tempo diviso ed umiliato, era depositario del primato in Europa e forse nel mondo, era erede di remote e nobilissime tradizioni e civiltà, ed era costituito da individui sostanzialmente omogenei per sangue e per razza. I popoli tedeschi avrebbero dovuto costituirsi in uno Stato forte e guerriero, egemone in Europa, rivestito di una maestà quasi divina. Questa idea della missione della Nazione Tedesca sopravvive alla disfatta della prima guerra mondiale, ed esce anzi rafforzata dall' umiliazione del trattato di pace di Versailles. Se ne impadronisce uno dei personaggi più sinistri ed infausti della Storia, l' agitatore politico Adolf Hitler. I borghesi e gli industriali tedeschi porgono orecchio alle sue orazioni infiammate: Hitler promette bene, riuscirà a deviare sugli ebrei l' avversione che il proletariato tedesco tributa alle classi che l' hanno condotto alla sconfitta ed al disastro economico. Nel giro di pochi anni, a partire dal 1933, egli riesce a trarre partito dalla collera di un paese umiliato e dall' orgoglio nazionalistico suscitato dai profeti che l' hanno preceduto, Lutero, Fichte, Hegel, Wagner, Gobineau, Chamberlain, Nietzsche: il suo pensiero ossessivo è quello di una Germania dominatrice, non nel lontano futuro ma subito; non attraverso una missione di civiltà, ma con le armi. Tutto ciò che non è germanico gli appare inferiore, anzi detestabile, ed i primi nemici della Germania sono gli ebrei, per molti motivi che Hitler enunciava con furore dogmatico: perché hanno "sangue diverso"; perché sono imparentati con altri ebrei in Inghilterra, in Russia, in America; perché sono eredi di una cultura in cui si ragiona e si discute prima di obbedire, ed in cui è vietato inchinarsi agli idoli, mentre lui stesso aspira ad essere venerato come un idolo, e non esita a proclamare che "dobbiamo diffidare dell' intelligenza e della coscienza, e riporre tutta la nostra fede negli istinti". Infine, molti fra gli ebrei tedeschi hanno raggiunto posizioni chiave nell' economia, nella finanza, nelle arti, nella scienza, nella letteratura: Hitler, pittore mancato, architetto fallito, riversa sugli ebrei il suo risentimento e la sua invidia di frustrato. Questo seme d' intolleranza, cadendo su di un terreno già predisposto, vi attecchisce con incredibile vigore ma in forme nuove. L' antisemitismo di stampo fascista, quello che il Verbo bandito da Hitler risveglia nel popolo tedesco, è più barbarico di tutti i precedenti: vi convergono dottrine biologiche artificiosamente distorte, secondo cui le razze deboli devono cedere davanti alle forti; le assurde credenze popolari che il buon senso aveva sepolte da secoli; una propaganda senza soste. Si toccano estremi mai sentiti prima. L' ebraismo non è una religione da cui ci si può allontanare col battesimo, né una tradizione culturale che si può abbandonare per un' altra: è una sottospecie umana, una razza diversa ed inferiore a tutte le altre. Gli ebrei sono solo apparentemente esseri umani: in realtà sono qualcosa di diverso: di abominevole e indefinibile, "più lontani dai tedeschi che le scimmie dagli uomini"; sono colpevoli di tutto, del rapace capitalismo americano e del bolscevismo sovietico, della sconfitta del 191., dell' inflazione del 1923; liberalismo, democrazia, socialismo e comunismo sono sataniche invenzioni ebraiche, che minacciano la solidità monolitica dello Stato nazista. Il passaggio dalla predicazione teorica all' attuazione pratica è stato rapido e brutale. Nel 1933, solo due mesi dopo che Hitler ha conquistato il potere, nasce Dachau, il primo Lager. Nel maggio dello stesso anno si accende il primo rogo di libri di autori ebrei o nemici del nazismo (ma più di cento anni prima Heine, poeta ebreo tedesco, aveva scritto: "Chi brucia i libri finisce presto o tardi col bruciare uomini"). Nel 1935 l' antisemitismo viene codificato in una monumentale e minuziosissima legislazione, le Leggi di Norimberga. Nel 193., in una sola notte di disordini pilotati dall' alto, vengono incendiate 191 sinagoghe e distrutti migliaia di negozi di ebrei. Nel 1939 gli ebrei della Polonia testè occupata vengono rinchiusi nei ghetti. Nel 1940 viene aperto il Lager di Auschwitz. Nel 1941-42 la macchina dello sterminio è in piena azione: le vittime saliranno a milioni nel 1944. Nella pratica quotidiana dei campi di sterminio trovano la loro realizzazione l' odio e il disprezzo diffusi dalla propaganda nazista. Qui non c' era solo la morte, ma una folla di dettagli maniaci e simbolici, tutti tesi a dimostrare e confermare che gli ebrei, e gli zingari, e gli slavi, sono bestiame, strame, immondezza. Si ricordi il tatuaggio di Auschwitz, che imponeva agli uomini il marchio che si usa per i buoi; il viaggio in vagoni bestiame, mai aperti, in modo da costringere i deportati (uomini, donne e bambini!) a giacere per giorni nelle proprie lordure; il numero di matricola in sostituzione del nome; la mancata distribuzione di cucchiai (eppure i magazzini di Auschwitz, alla liberazione, ne contenevano quintali), per cui i prigionieri avrebbero dovuto lambire la zuppa come cani; l' empio sfruttamento dei cadaveri, trattati come una qualsiasi anonima materia prima, da cui si ricavavano l' oro dei denti, i capelli come materiale tessile, le ceneri come fertilizzanti agricoli; gli uomini e le donne degradati a cavie, su cui sperimentare medicinali per poi sopprimerli. Lo stesso modo che fu scelto (dopo minuziosi esperimenti) per lo sterminio era apertamente simbolico. Si doveva usare, e fu usato, quello stesso gas velenoso che si impiegava per disinfestare le stive delle navi, ed i locali invasi da cimici o pidocchi. Sono state escogitate nei secoli morti più tormentose, ma nessuna era così gravida di dileggio e di disprezzo. Come è noto, l' opera di sterminio fu condotta molto avanti. I nazisti, che pure erano impegnati in una durissima guerra, ormai difensiva, vi manifestarono una fretta inesplicabile: i convogli delle vittime da portare al gas, o da trasferire dai Lager prossimi al fronte, avevano la precedenza sulle tradotte militari. Non fu condotta a termine solo perché la Germania fu disfatta, ma il testamento politico che Hitler dettò poche ore prima di uccidersi, coi russi a pochi metri, si concludeva così: "Soprattutto, ordino al governo e al popolo tedesco di mantenere in pieno vigore le leggi razziali, e di combattere inesorabilmente l' avvelenatore di tutte le nazioni, l' ebraismo internazionale". Riassumendo, si può dunque affermare che l' antisemitismo è un caso particolare dell' intolleranza; che per secoli ha avuto carattere prevalentemente religioso; che, nel iii Reich, esso è stato esacerbato dalla predisposizione nazionalistica e militaristica del popolo tedesco, e dalla peculiare "diversità" del popolo ebreo; che esso fu facilmente disseminato in tutta la Germania, e in buona parte dell' Europa, grazie all' efficienza della propaganda fascista e nazista, a cui occorreva un capro espiatorio su cui convogliare tutte le colpe e tutti i risentimenti; e che il fenomeno fu condotto al parossismo da Hitler, dittatore maniaco. Tuttavia devo ammettere che queste spiegazioni, che sono quelle comunemente accettate, non mi soddisfano: sono diminutive, non commisurate, non proporzionali ai fatti da spiegare. Nel rileggere le cronache del nazismo, dai suoi torbidi inizi alla sua fine convulsa, non riesco a sottrarmi all' impressione di una generale atmosfera di follia incontrollata che mi pare unica nella storia. Questa follia collettiva, questo sbandamento, viene di solito spiegato postulando la combinazione di molti fattori diversi, insufficienti se presi singolarmente, e il maggiore di questi fattori sarebbe la personalità stessa di Hitler, e la sua profonda interazione col popolo tedesco. È certo che le sue personali ossessioni, la sua capacità d' odio, la sua predicazione di violenza, trovavano sfrenata risonanza nella frustrazione del popolo tedesco, e da questo ritornavano a lui moltiplicate, confermandolo nella sua convinzione delirante di essere lui stesso l' Eroe profetizzato da Nietzsche, il Superuomo redentore della Germania. Sull' origine del suo odio contro gli ebrei si è scritto molto. Si è detto che Hitler riversava sugli ebrei il suo odio contro l' intero genere umano; che riconosceva negli ebrei alcuni suoi stessi difetti, e che odiando gli ebrei odiava se stesso; che la violenza della sua avversione proveniva dal timore di poter avere "sangue ebreo" nelle vene. Ancora una volta: non mi sembrano spiegazioni adeguate. Non mi sembra lecito spiegare un fenomeno storico riversandone tutta la colpa su un individuo (gli esecutori di ordini orrendi non sono innocenti!), ed inoltre è sempre arduo interpretare le motivazioni profonde di un individuo. Le ipotesi che vengono proposte giustificano i fatti solo in misura parziale, ne spiegano la qualità ma non la quantità. Devo ammettere che preferisco l' umiltà con cui alcuni storici fra i più seri (Bullock, Schramm, Bracher) confessano di non comprendere l' antisemitismo furibondo di Hitler e della Germania dietro di lui. Forse, quanto è avvenuto non si può comprendere, anzi, non si deve comprendere, perché comprendere è quasi giustificare. Mi spiego: "comprendere" un proponimento o un comportamento umano significa (anche etimologicamente) contenerlo, contenerne l' autore, mettersi al suo posto, identificarsi con lui. Ora, nessun uomo normale potrà mai identificarsi con Hitler, Himmler, Goebbels, Eichmann e infiniti altri. Questo ci sgomenta, ed insieme ci porta sollievo: perché forse è desiderabile che le loro parole (ed anche, purtroppo, le loro opere) non ci riescano più comprensibili. Sono parole ed opere non umane, anzi, contro-umane, senza precedenti storici, a stento paragonabili alle vicende più crudeli della lotta biologica per l' esistenza. A questa lotta può essere ricondotta la guerra: ma Auschwitz non ha nulla a che vedere con la guerra, non ne è un episodio, non ne è una forma estrema. La guerra è un terribile fatto di sempre: è deprecabile ma è in noi, ha una sua razionalità, la "comprendiamo". Ma nell' odio nazista non c' è razionalità: è un odio che non è in noi, è fuori dell' uomo, è un frutto velenoso nato dal tronco funesto del fascismo, ma è fuori ed oltre il fascismo stesso. Non possiamo capirlo; ma possiamo e dobbiamo capire di dove nasce, e stare in guardia. Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre. Per questo, meditare su quanto è avvenuto è un dovere di tutti. Tutti devono sapere, o ricordare, che Hitler e Mussolini, quando parlavano pubblicamente, venivano creduti, applauditi, ammirati, adorati come dèi. Erano "capi carismatici", possedevano un segreto potere di seduzione che non procedeva dalla credibilità o dalla giustezza delle cose che dicevano, ma dal modo suggestivo con cui le dicevano, dalla loro eloquenza, dalla loro arte istrionica, forse istintiva, forse pazientemente esercitata e appresa. Le idee che proclamavano non erano sempre le stesse, e in generale erano aberranti, o sciocche, o crudeli; eppure vennero osannati, e seguiti fino alla loro morte da milioni di fedeli. Bisogna ricordare che questi fedeli, e fra questi anche i diligenti esecutori di ordini disumani, non erano aguzzini nati, non erano (salve poche eccezioni) dei mostri: erano uomini qualunque. I mostri esistono, ma sono troppo pochi per essere veramente pericolosi; sono più pericolosi gli uomini comuni, i funzionari pronti a credere e ad obbedire senza discutere, come Eichmann, come Ho5ss comandante di Auschwitz, come Stangl comandante di Treblinka, come i militari francesi di vent' anni dopo, massacratori in Algeria, come i militari americani di trent' anni dopo, massacratori in Vietnam. Occorre dunque essere diffidenti con chi cerca di convincerci con strumenti diversi dalla ragione, ossia con i capi carismatici: dobbiamo essere cauti nel delegare ad altri il nostro giudizio e la nostra volontà. Poiché è difficile distinguere i profeti veri dai falsi, è bene avere in sospetto tutti i profeti; è meglio rinunciare alle verità rivelate, anche se ci esaltano per la loro semplicità e il loro splendore, anche se le troviamo comode perché si acquistano gratis. È meglio accontentarsi di altre verità più modeste e meno entusiasmanti, quelle che si conquistano faticosamente, a poco a poco e senza scorciatoie, con lo studio, la discussione e il ragionamento, e che possono essere verificate e dimostrate. È chiaro che questa ricetta è troppo semplice per bastare in tutti i casi: un nuovo fascismo, col suo strascico di intolleranza, di sopraffazione e di servitù, può nascere fuori del nostro paese ed esservi importato, magari in punta di piedi e facendosi chiamare con altri nomi; oppure può scatenarsi dall' interno con una violenza tale da sbaragliare tutti i ripari. Allora i consigli di saggezza non servono più, e bisogna trovare la forza di resistere: anche in questo, la memoria di quanto è avvenuto nel cuore dell' Europa, e non molto tempo addietro, può essere di sostegno e di ammonimento. .. Parlando rigorosamente, non so e non posso sapere che cosa sarei oggi se non fossi stato in Lager: nessun uomo conosce il suo futuro, e qui si tratterebbe appunto di descrivere un futuro che non c' è stato. Ha un certo significato tentare previsioni (del resto sempre grossolane) sul comportamento di una popolazione, ed invece è difficilissimo, o impossibile, prevedere il comportamento di un singolo, anche sulla scala dei giorni. Allo stesso modo, il fisico sa pronosticare con grande esattezza il tempo che impiegherà un grammo di radio a dimezzare la sua attività, ma non sa assolutamente dire quando si disintegrerà un singolo atomo di quel radio. Se un uomo si avvia verso un bivio, e non infila la strada di sinistra, è ovvio che infilerà quella di destra; ma quasi mai le nostre scelte sono fra due sole alternative: poi, ad ogni scelta ne seguono altre, tutte multiple, e così all' infinito; e infine, il nostro futuro dipende fortemente anche da fattori esterni, in tutto estranei alle nostre scelte deliberate, ed anche da fattori interni, di cui però non siamo coscienti. Per questi notori motivi non si conosce il proprio avvenire né quello del nostro prossimo; per gli stessi motivi nessuno può dire quale sarebbe stato il suo passato "se". Una certa affermazione posso però formularla, ed è questa: se non avessi vissuto la stagione di Auschwitz, probabilmente non avrei mai scritto nulla. Non avrei avuto motivo, incentivo, per scrivere: ero stato uno studente mediocre in italiano e scadente in storia, mi interessavano di più la fisica e la chimica, ed avevo poi scelto un mestiere, quello del chimico, che non aveva niente in comune col mondo della parola scritta. È stata l' esperienza del Lager a costringermi a scrivere: non ho avuto da combattere con la pigrizia, i problemi di stile mi sembravano ridicoli, ho trovato miracolosamente il tempo di scrivere pur senza mai sottrarre neppure un' ora al mio mestiere quotidiano: mi pareva, questo libro, di averlo già in testa tutto pronto, di doverlo solo lasciare uscire e scendere sulla carta. Adesso sono passati molti anni: il libro ha avuto molte vicende, e si è curiosamente interposto, come una memoria artificiale, ma anche come una barriera difensiva, fra il mio normalissimo presente e il feroce passato di Auschwitz. Lo dico con esitazione, perché non vorrei passare per un cinico: nel ricordare il Lager oggi non provo più alcuna emozione violenta o dolorosa. Al contrario: alla mia esperienza breve e tragica di deportato si è sovrapposta quella molto più lunga e complessa di scrittore-testimone e la somma è nettamente positiva; nella sua globalità, questo passato mi ha reso più ricco e più sicuro. Una mia amica, che era stata deportata giovanissima al Lager femminile di Ravensbrück, dice che il campo è stata la sua Università: io credo di poter dire altrettanto, e cioè che vivendo e poi scrivendo e meditando quegli avvenimenti, ho imparato molte cose sugli uomini e sul mondo. Devo però affrettarmi a precisare che questo esito positivo è stata una fortuna toccata a pochissimi: dei deportati italiani, ad esempio, solo circa il 5 per cento hanno fatto ritorno, e fra questi, molti hanno perduto la famiglia, gli amici, gli averi, la salute, l' equilibrio, la giovinezza. Il fatto che io sia sopravvissuto, e sia ritornato indenne, secondo me è dovuto principalmente alla fortuna. Solo in piccola misura hanno giocato fattori preesistenti, quali il mio allenamento alla vita di montagna, ed il mio mestiere di chimico, che mi ha concesso qualche privilegio negli ultimi mesi di prigionia. Forse mi ha aiutato anche il mio interesse, mai venuto meno, per l' animo umano, e la volontà non soltanto di sopravvivere (che era comune a molti), ma di sopravvivere allo scopo preciso di raccontare le cose a cui avevamo assistito e che avevamo sopportate. E forse ha giocato infine anche la volontà, che ho tenacemente conservata, di riconoscere sempre, anche nei giorni più scuri, nei miei compagni e in me stesso, degli uomini e non delle cose, e di sottrarmi così a quella totale umiliazione e demoralizzazione che conduceva molti al naufragio spirituale.

Pagina 0190

ALLA CONQUISTA DI UN IMPERO

682181
Salgari, Emilio 2 occorrenze

. - Si erano messi in corsa, seguendo la medesima via tenuta da prima, segnata da bambù abbattuti e da kalam decapitati. Un silenzio profondo regnava sulla jungla. Non si udivano né urla di bighama, né ululati di sciacalli: quello non era un indizio rassicurante. Se estranei non avessero percorso le macchie, quegli eterni cacciatori non sarebbero stati zitti. Se tacevano, ciò voleva dire che erano spaventati. Bastarono venti minuti, a quegli infaticabili corridori, per giungere al sentiero che avevano aperto prima di cambiare direzione. Sandokan, non udendo alcun rumore e non parendogli di scorgere nessun nemico, stava per spingere una breve esplorazione anche su quello, quando Tremal-Naik, che gli stava presso, gli posò energicamente una mano sulle spalle, spingendolo poi quasi con violenza verso un gruppo di banani selvatici, i quali stendevano in tutte le direzioni le loro gigantesche foglie. Erano trascorsi appena due minuti, quando udirono distintamente i bambù ad agitarsi e scricchiolare, poi quattro uomini, armati di fucili, sbucarono nella piccola radura che s'apriva fra le gigantesche canne ed il gruppo di banani. Erano non già seikki, bensì scikari, ossia battitori delle jungle, persone abilissime, anzi impareggiabili nel seguire le piste, sia degli uomini come delle belve feroci. Si erano subito arrestati esaminando attentamente il terreno e rimovendo le erbe che lo coprivano. - Hanno cambiato direzione, Moko - disse uno di quegli scikari. - Non marciano più verso oriente. - Lo vedo, - rispose colui che doveva chiamarsi Moko. - Devono essersi accorti che noi marciamo sulle loro tracce e filano verso il settentrione. - Allora sfuggiranno all'accerchiamento. - E perché? - Non abbiamo truppe in quella direzione. Uno di noi raggiunga i seikki che ci seguono, e noi continuiamo a camminare sulla pista. - Mentre uno partiva di corsa rifacendo la via, gli altri tre si erano rimessi in cammino, curvandosi di quando in quando al suolo, per non perdere di vista le piste della colonna fuggente. Sandokan e Tremal-Naik attesero che si fossero allontanati, poi, a loro volta, si misero in cammino, girando la macchia di banani dal lato opposto. - Dobbiamo gareggiare di velocità e sorpassarli, - disse la Tigre della Malesia. - E se tendessimo invece un agguato a quegli scikari? - chiese Tremal-Naik. - Un colpo di carabina in questo momento tradirebbe la nostra presenza. Penseremo più tardi a sbarazzarci di loro. Corriamo, amici! - Tremal-Naik, che aveva trascorsa la sua gioventù fra le grandi jungle delle Sunderbunds, possedeva un'orientazione naturale, cosa comune a molti popoli dell'oriente, quindi era più che sicuro di condurre i suoi compagni là dove la colonna si era accampata. Per timore però d'incontrare nuovamente gli scikari sui suoi passi, deviò verso ponente, descrivendo un lungo giro. Quella corsa rapidissima, poiché tutti avevano ancora le gambe solide, quantunque il malese e l'indiano non fossero più giovani, durò una ventina di minuti. - Pronti a ripartire senza indugio, - comandò Sandokan ai suoi uomini, quando ebbe raggiunto l'accampamento. - Ci seguono? - chiese Surama. - Hanno scoperto le nostre tracce, - rispose Sandokan. - Non inquietarti però, fanciulla. Noi sfuggiremo all'accerchiamento, dovessimo sfondare qualche linea. - La colonna si riformò, mettendo i prigionieri nel mezzo e partì a passo accelerato. Sandokan aveva raddoppiato gli uomini della retroguardia, temendo da un istante all'altro un attacco da parte degli scikari. Aveva però raccomandato a Kammamuri, che la comandava, di respingerli colle armi bianche non volendo segnalare, con spari, la sua direzione al grosso degli assamesi. La jungla continuava a diradarsi e tendeva a cambiare. Alle macchie intricate e difficili ad attraversarsi, si succedevano, di quando in quando, gruppi d'alberi, per lo più palmizi tara, circondati però da cespugli foltissimi, che avevano delle estensioni straordinarie, ottimi rifugi in caso di pericolo. La marcia diventava sempre più precipitosa. Tutti sentivano per istinto che solo dalla velocità delle gambe, dipendeva la loro salvezza e che stavano per giuocare una partita estremamente pericolosa, anzi la corona di Surama. Che cosa sarebbe avvenuto se le truppe del rajah li avessero schiacciati nella jungla? Chi avrebbe salvato Yanez? La catastrofe sarebbe stata completa e avrebbe segnata la fine assoluta delle ultime e formidabili tigri della gloriosa Mompracem. Alle tre del mattino Kammamuri, che era rimasto sempre colla retroguardia, ad una notevole distanza, raggiunse Sandokan. - Padrone, - disse con voce affannosa per la lunga corsa, - gli scikari ci hanno raggiunti. - Quanti sono? - Sei o sette. - Sono dunque aumentati di numero? - Sembra, Tigre della Malesia. Che cosa devo fare? - Tendere a loro un agguato e distruggerli. - E se fanno fuoco? - Farai il possibile di sorprenderli e d'ucciderli prima che pongano mano alle carabine. - Kammamuri ripartì a corsa sfrenata, mentre la colonna continuava la ritirata fra le macchie e gli alberi. Altri dieci minuti trascorsero, minuti lunghi come ore per Sandokan e per Tremal-Naik, poi delle grida orribili ed un cozzar d'armi ruppero il silenzio, che regnava sulla tenebrosa jungla, seguìto qualche istante dopo da un colpo d'arma da fuoco. - Maledizione! - esclamò Sandokan, fermandosi. - Questo sparo non ci voleva. - E nemmeno questi, - aggiunse Tremal-Naik. A quella detonazione isolata aveva tenuta dietro una scarica di carabine fortissima. Dovevano essere stati i seikki e gli assamesi a far fuoco. - Sono ancora lontani! - esclamò Sandokan, il cui viso si era subito rasserenato. - Un miglio almeno, - rispose Tremal-Naik. - Aspettiamo Kammamuri. - Non attesero molto. Il maharatto giungeva di corsa seguìto dalla retroguardia. - Distrutti? - chiese Sandokan. - Tutti, padrone - rispose Kammamuri. - Disgraziatamente non abbiamo potuto impedire a uno degli scikari di scaricare la sua carabina. - Ha ucciso nessuno dei nostri? - chiese Tremal-Naik. - Ho avuto il tempo di fargli deviare la canna del fucile. - Tu vali una tigre di Mompracem, - disse Sandokan. - Riprendiamo la corsa. Abbiamo qualche miglio di vantaggio e potremo forse aumentarlo. - O perderlo, - disse in quel momento Sambigliong. - Perché? - chiese Sandokan. - I kalam ricominciano al di là di queste macchie e ci faranno nuovamente tribolare, padrone. - Sono secche quelle erbe? - Bruciate dal sole. - Benissimo, avremo, in caso disperato, una riserva preziosa. - In quale modo? - chiese Tremal-Naik. Invece di rispondere Sandokan si bagnò l'estremità del dito pollice e l'alzò come fanno i marinai, per indovinare la direzione del vento. - Soffia da settentrione la brezza, - disse poi. - Allo spuntare del sole sarà più viva. Dio, Maometto, Brahma, Siva e Visnù, tutti uniti, ci proteggono. Dateci la caccia ora, miei cari seikki! Amici, avanti, io rispondo di tutto! -

Furono accesi parecchi fuochi e furono messi ad arrostire i volatili abbattuti da Sandokan e da Tremal-Naik. Mentre gli arrosti rosolavano infilzati nelle bacchette di ferro delle carabine, e attentamente sorvegliati da una mezza dozzina di cuochi improvvisati, Sandokan, Surama ed il bengalese, scortati da alcuni dayachi, esploravano l'isolotto, per far raccolta di frutta, non avendo ormai più nemmeno un biscotto. La loro gita non fu inutile, poiché oltre a molli manghi, furono tanto fortunati da scoprire un paio di mahuah, piante preziosissime, che non a torto vengono chiamate la manna delle jungle, perché danno, dopo la caduta dei fiori, che sono pure mangiabilissimi, quantunque sappiano di muschio, delle grosse frutta col mallo violaceo, contenenti delle mandorle bianche eccellenti, lattiginose, colle quali gli indiani si preparano delle focacce gustosissime, che surrogano benissimo il pane. La colazione, abbondantissima, essendo tutti i volatili grossissimi, fu divorata in pochi minuti; poi tutti, Sandokan e Tremal-Naik eccettuati, si stesero sotto la fresca ombra delle palme, a fianco degli elefanti, i quali stavano consumando una enorme provvista di teneri rami e di foglie, non potendosi dare a loro né farina di frumento impastata, né la solita libbra di ghi per ciascuno, ossia di burro chiarificato. I due capi, che sospettavano sempre un attacco degli assamesi, e che da veri avventurieri non sentivano bisogno di riposarsi, avevano riprese le loro armi, per sorvegliare le due rive dell'isolotto. Volevano anche assicurarsi di ciò che facevano i bisonti, che poco prima avevano veduto ancora gironzolare al di là della fanghiglia. Percorso l'isolotto tutto all'ingiro, scorsero nuovamente gli jungli-kudgia. Si erano sdraiati al di là del canalone, brucando le dure erbe palustri che crescevano presso di loro. Vedendo apparire i due cacciatori, in un attimo furono tutti in piedi, cogli occhi iniettati di sangue, sferzandosi rabbiosamente i fianchi colle loro lunghe code infioccate. Muggivano ferocemente e dimenavano freneticamente le teste, come se si provassero ad avventare delle cornate. - Qui non siamo più sul dorso degli elefanti, - disse Sandokan. - È questo il momento di decimarli. - Accostò le mani alle labbra e mandò un lungo fischio. Subito malesi e dayachi si precipitarono verso la riva. - Fucilatemi quelle canaglie, - disse a loro Sandokan. - È tempo di finirla con questo inseguimento che dura da troppo tempo. - Fu una scarica terribilissima quella che partì. Su diciotto bisonti, undici caddero morti o moribondi; gli altri, vista la mala parata, si allontanarono a corsa sfrenata, mettendosi in salvo fra le moltissime macchie di bambù, che coprivano la jungla settentrionale. I nostri fuggiaschi non scorgendo più i bisonti, fecero ritorno all'accampamento, sicuri di potersi finalmente riposare senz'essere più disturbati. Verso le quattro pomeridiane, quando l'intenso calore cominciava a scemare, l'accampamento fu levato e gli elefanti, sempre preceduti dal pilota, riprendevano le mosse. Mezz'ora dopo ritrovavano finalmente il terreno solido. La jungla paludosa era stata attraversata e cominciava quella secca, con distese di eterni bambù lisci e spinosi, di erbe altissime semi-bruciate dal solleone, di immensi cespugli con qualche gruppo di mindi, quei graziosi arbusti dalla corteccia bianchiccia, foglie verdi pallide e lunghi grappoli di fiori, d'un giallo delicato e dal profumo delizioso. Era il momento di spingere i pachidermi a gran corsa, per lasciare definitivamente indietro gli assamesi, se ancora li seguivano. Una brutta sorpresa però attendeva i fuggiaschi e si preparavano a offrirla gli implacabili bisonti. Nessuno più pensava a quegli animali, che non si erano fatti più vedere dopo la disastrosa sconfitta, che avevano subìta sul margine della fanghiglia, quando una improvvisa agitazione si manifestò fra gli elefanti. Il pilota pel primo si era fermato dimenando la proboscide e lanciando dei sonori barriti. - In guardia, signori! - gridò il cornac, volgendosi verso Sandokan e Tremal- Naik, che si erano alzati scrutando le folte macchie che li circondavano. - Noi abbiamo dimenticato gli jungli-kudgia, - disse Tremal-Naik. - Ancora quelle canaglie! - esclamò Sandokan furioso. - T'ho già detto che tu non li conosci. - Questa volta li stermineremo! - Non ci resta altro da fare, se vogliamo continuare tranquillamente la marcia. - Sandokan alzò la voce. - Tenetevi pronti tutti! Fuoco accelerato e mirate meglio che potete. - Gli elefanti, malgrado i colpi d'arpione, non si muovevano e non cessavano di barrire. Si erano piantati solidamente sulle zampacce, colla proboscide ben alta, pronta a vibrare colpi vigorosi e le teste basse colle lunghe zanne tese innanzi. Avevan fiutato il pericolo prima degli uomini e si preparavano a sostenere gagliardamente l'urto degli avversari, proteggendosi vicendevolmente i fianchi, per non farsi sventrare dalle aguzze corna di quegli indemoniati animali. I malesi ed i dayachi, tutti appoggiati ai bordi delle casse, colle dita sui grilletti delle carabine, erano pronti ad appoggiarli e ben risoluti a difenderli. Gli jungli-kudgia s'avvicinavano, sfondando con slancio irresistibile le macchie. Le altissime canne oscillavano in diversi punti, poi cadevano abbattute dalle corna d'acciaio dei colossi animali. La carica, a giudicarlo dalle mosse disordinate dei bambù, doveva avvenire per diverse direzioni. Gli astuti e vendicativi animali, non si slanciavano più in una sola massa, per non cadere in gruppo come sulle rive della fanghiglia. - Eccoli! - gridò ad un tratto il cornac. Un bisonte, dopo d'aver sfondato con un ultimo urto una vera muraglia di bambù spinosi, comparve all'aperto e si slanciò, con impeto selvaggio, contro l'elefante pilota, colla testa bassa, per piantargli le corna in mezzo al petto. Fu così fulmineo l'attacco, che Sandokan, Tremal-Naik, Kammamuri e anche Surama, la quale si era pure armata, essendo una buona bersagliera, non ebbero nemmeno il tempo di far fuoco. L'elefante-pilota però vegliava attentamente. Alzò la sua possente tromba, poi quando si vide l'animale quasi fra le gambe, lo percosse furiosamente sulla groppa. Parve un colpo di spingarda. Lo jungli-kudgia stramazzò di colpo, colla spina dorsale fracassata da quella tremenda sferzata. S'udì quasi subito un crac, come se delle ossa si spezzassero sotto una pressione spaventevole. Il pachiderma aveva posato ambe le zampe posteriori sul moribondo, schiacciandogli la testa. - Bravo pilota! - gridò Tremal-Naik. - Questa sera avrai doppia razione di typha! - Altri tre bisonti erano comparsi sbucando da diverse direzioni e caricando all'impazzata. Uno fu subito fulminato da una scarica dei malesi e dei dayachi, il secondo andò a cacciarsi fra due elefanti della retroguardia e subito schiacciato prima che avesse potuto far uso delle sue corna, ed il terzo, ferito e forse gravemente da una palla di Sandokan, voltò le spalle rientrando nelle macchie, forse per morire là dentro in pace. Giungeva però il grosso, formato fortunatamente da cinque soli animali, gli unici superstiti della numerosa truppa. L'accoglienza che ebbero fu tremenda. I malesi ed i dayachi che avevano avuto il tempo di ricaricare le armi, li ricevettero con un vero fuoco di fila, arrestandoli in piena corsa ed il peggio fu quando gli elefanti, aizzati dai cornac, caricarono a loro volta abbattendo con gran colpi di proboscide quelli che, quantunque gravemente feriti, tentavano ancora di rialzarsi. - Ehi, Tremal-Naik! - gridò allegramente Sandokan. - Che questa volta la sia proprio finita? - Vorrei sperarlo, - rispose il bengalese che non era meno lieto di quel completo successo. - E quello che si è rifugiato nella jungla, vada a cercare altri compagni? - Le truppe di bisonti non s'incontrano ad ogni passo e poi ogni gruppo fa da sé e non si unisce mai agli altri. Facciamo le nostre provviste, giacché la carne qui abbonda, mentre noi siamo a secco. Il filetto e le lingue di questi animali, godono fama di essere bocconi da re. - Gli elefanti furono fatti inginocchiare e tutti scesero a terra, senza l'aiuto delle scale, correndo verso quelle enormi masse di carne. Non fu però impresa facile spaccare quelle gobbe per trarne i filetti. I bisonti indiani, al pari di quelli americani, offrono delle resistenze incredibili anche dopo morti, per lo spessore enorme delle loro ossa che sono a prova di scure. I malesi, dopo essersi invano affaticati, dovettero lasciare il posto a Bindar ed ai cornac più pratici di loro. Fatta un'abbondante provvista di lingue e di carne scelta, la carovana riprese la marcia, rimontando verso il settentrione con passo abbastanza celere, malgrado gli ostacoli che presentava incessantemente l'interminabile jungla. Non fu che verso le otto della sera, nel momento in cui il sole precipitava all'orizzonte e dopo d'aver percorse ben quaranta miglia in poche ore, che Sandokan diede il segnale della fermata a breve distanza dalla riva destra del Brahmaputra, il quale piegava pure, in senso inverso, a settentrione, scendendo dall'imponente catena dell'Himalaya. Non essendo improbabile che in quel luogo vi fossero molti animali feroci, Tremal-Naik e Kammamuri fecero improvvisare dai malesi e dai dayachi, uno stecconato di bambù, intrecciati e accendere anche, ad una certa distanza, numerosi falò; poi le tende furono rizzate per difendersi dai colpi di luna, che nell'India non sono meno pericolosi di quelli di sole, poiché dormendo col viso esposto all'astro notturno, sovente ci si sveglia ciechi affatto. La cena fu deliziosa e, come si può ben immaginare, abbondantissima. Gustate furono specialmente le lingue dei bisonti, che erano state messe a bollire in un pentolone di rame. I flying-fox, quei brutti vampiri notturni, dalle ali nere, che quando sono interamente spiegate, misurano insieme perfino un metro e che hanno il corpo rivestito da una folta pelliccia rossastra, e la testa che somiglia a quella della volpe, cominciavano a descrivere in aria i loro capricciosi zig-zag, quando Sandokan, Surama e Tremal-Naik, si ritirarono sotto la loro tenda, sicuri di poter passare finalmente una notte tranquilla. Gli altri li avevano già preceduti. Solo Kammamuri e Sambigliong, con quattro dayachi, erano rimasti a guardia del campo, potendosi dare che qualche tigre, qualche pantera, si celassero nei dintorni e tentassero, quantunque i fuochi ardessero sempre, qualche colpo sugli addormentati.

IL RE DEL MARE

682249
Salgari, Emilio 2 occorrenze

I dayaki che assediavano il kampong, coll'apparire della luce, si erano allontanati di sei o settecento metri, riparandosi dietro ai grossi tronchi d'alberi appositamente abbattuti onde servirsene a modo di trincee mobili, potendo farli scorrere innanzi o indietro, a loro piacimento. Pareva che durante la notte fossero aumentati di numero, perchè Tremal-Naik, appena ebbe lanciato uno sguardo all'ingiro, non potè trattenersi dall'esclamare: - Ieri sera non ve n'erano tanti intorno a noi. Yanez stava per chiedergli qualche cosa, quando un secondo colpo di cannone si udì rimbombare in lontananza, ripercuotendosi contro le cinte del kampong. - Questo rombo viene dal sud! - esclamò il portoghese. - Sono i cannoni da caccia della Marianna che tirano. I dayaki hanno assalito i miei uomini. - Sì, - confermò l'indiano, - viene dalla parte del Kabatuan. Credi che possano respingere il nemico, coi pezzi che hanno a loro disposizione? - Bisognerebbe conoscere il numero degli assalitori. Di quali forze dispone quel maledetto pellegrino? - Ha fanatizzato quattro tribù e ognuna deve avergli fornito non meno di centocinquanta guerrieri. - E armati di fucili? - Sì, Yanez. Quell'uomo misterioso ha portato con sè un vero arsenale e perfino dei lilà e dei mirim. Toh! Un altro colpo! - E queste sono le spingarde! - esclamò Yanez, facendo un gesto di rabbia. Dalla parte dell'immensa foresta che si estendeva verso il sud, giungevano ad intervalli delle detonazioni più leggere e più secche che dovevano essere prodotte da pezzi a canna lunga. Poi gli spari aumentarono rapidamente d'intensità, formando un rimbombo incessante, come se molti pezzi d'artiglieria e molte spingarde sparassero insieme. Yanez era diventato pallido e nervosissimo. Passeggiava intorno alla piattaforma come un leone in gabbia, interrogando ansiosamente cogli sguardi tutti i punti dell'orizzonte. Anche l'indiano era in preda ad una sovraeccitazione vivissima. I colpi si succedevano intanto ai colpi. Una battaglia furiosa, terribile, doveva essersi impegnata sul fiume fra il poco numeroso equipaggio della Marianna e le grosse forze del misterioso pellegrino. - E non cessa! - esclamava Yanez, che non si tratteneva più. - Se fossi là io! - Sambigliong è un valoroso che non si arrenderà, - rispose Tremal-Naik. - È una vecchia tigre che la sa lunga e che sa difendersi. - Non vi sono che sedici uomini validi a bordo, mentre i dayaki possono essere tre o quattrocento e forniti anche essi d'artiglieria. - Dunque tu dubiti che la Marianna possa resistere? - chiese Tremal-Naik con angoscia. - Se la prendessero sarebbe finita anche per noi. E mia figlia? - Adagio, amico, - rispose Yanez. - I dayaki troveranno qui un osso ben duro da rodere. Ho osservato attentamente il tuo kampong e mi sembra assai robusto. Tu sai che i selvaggi generalmente si trovano imbarazzati dinanzi ad un ostacolo che frena il loro slancio. Per Giove! Ed il cannone non cessa! Si massacrano laggiù. Quanti uomini hai? - Una ventina. - Tutti malesi? - Fra malesi e giavanesi, - rispose Tremal-Naik. - Quaranta uomini, chiusi da una cinta così solida, possono dare del filo da torcere a quei furfanti. Sei ben provvisto? - Ho viveri e munizioni in abbondanza. - Signor Yanez! Buon giorno! - disse in quel momento una giovane, comparendo sulla piattaforma. Il portoghese aveva mandato un grido: - Darma! Una bellissima fanciulla di forse quindici anni, dal corpo flessuoso come una palma, con lunghi capelli neri, un po' inanellati, la pelle del viso leggermente abbronzata e vellutata come quella delle donne indiane, ma assai più chiara, i lineamenti perfetti che sembravano più caucasici che indù, si era fermata dinanzi al portoghese, fissandolo coi suoi occhi neri e scintillanti come carbonchi. Indossava un costume mezzo europeo e mezzo indiano, che le dava una grazia unica, composta d'un busticino di broccatello, con ricami d'oro, d'un'ampia fascia di cascemir che le cadeva sulle anche ben arrotondate e d'una sottanina piuttosto corta che lasciava vedere i calzoncini di seta bianca che le scendevano fino sulle scarpettine di pelle rossa, a punta rialzata. - Ben felice di rivedervi, signor Yanez, - riprese la fanciulla, tendendogli una manina da fata. - Sono due anni che vi abbiamo lasciato. - Abbiamo sempre da fare laggiù, a Mompracem. - Medita sempre spedizioni la Tigre della Malesia? Che uomo terribile, - disse Darma sorridendo. - Ah ... il cannone! Non udite? - È già mezz'ora che rimbomba, figlia mia, - disse Tremal-Naik, - e annunzia forse una grave disgrazia. - Chi è che fa fuoco, padre? - Sono le tigri di Mompracem. - Che difendono la mia nave, - aggiunse Yanez. - Tacete! Mi pare che i colpi rallentino! E non poter vedere nulla! Si erano tutti curvati sul parapetto della piattaforma, ascoltando ansiosamente. Non si udivano più che a rari intervalli le secche detonazioni delle spingarde e la cupa voce dei pezzi da caccia. Ad un tratto si fece un gran silenzio, come se la battaglia fosse bruscamente cessata. - Hanno vinto o sono stati schiacciati? - si chiese Yanez che si sentiva bagnare la fronte di sudore. Ad un tratto una formidabile detonazione attraversò gli strati d'aria e si propagò con tale intensità che la torre tremò dalla base alla cima. Yanez aveva mandato un grido, mentre Tremal-Naik e Darma erano diventati pallidissimi. - Mio Dio, che cosa è successo? - chiese la fanciulla. - La mia Marianna deve essere saltata in aria, - rispose Yanez con voce rotta. - Poveri i miei uomini! Un dolore intenso traspariva sul viso del portoghese, mentre qualche cosa di umido brillava nei suoi occhi. - Yanez, - disse Tremal-Naik, con voce affettuosa, - noi non abbiamo ancora la certezza che la tua nave sia saltata. - Questo rombo spaventevole non può essere stato prodotto che dallo scoppio della santabarbara, - rispose il portoghese. - Io che ne ho vedute saltare tante delle navi, non mi posso ingannare. Che la Marianna sia calata a fondo non me ne importa, avendo noi a Mompracem velieri in buon numero. Sono i miei uomini che rimpiango. - Possono avere lasciata la nave prima che scoppiasse. Chissà, forse sono stati essi stessi a dar fuoco alle polveri onde non cadere nelle mani dei dayaki. - Può essere vero, - rispose Yanez, che aveva riacquistata la sua calma. - Vi era qualcuno a bordo che sapesse dove si trova il mio kampong? - Sì, il corriere che ti abbiamo mandato sei mesi fa. - Quell'uomo allora, se è sfuggito alla morte, potrebbe condurre qui i superstiti. - E passare attraverso le file dei dayaki! Ecco un'impresa che sarà ben difficile per così pochi uomini. E poi, quand'anche giungessero qui, la nostra situazione non migliorerebbe. - È vero, - rispose l'indiano. - Come potremo scendere il fiume senza la tua nave? - Cercheremo dei canotti, padre, - disse Darma. - Per esporsi ad un fuoco incessante senza alcun riparo? Chi giungerebbe vivo alla foce del fiume? - Guarda i dayaki, - disse in quel momento Yanez. Gli assedianti, che dovevano aver pure udito quello scoppio formidabile e anche quel vivo cannoneggiamento, avevano abbandonate le loro trincee mobili, ritirandosi verso le foreste che circondavano la pianura, come se avessero l'intenzione di togliere il blocco. - Se ne vanno, padre! - esclamò Darma. - Che abbiano compreso che era inutile ostinarsi contro questo kampong? - Yanez, - disse Tremal-Naik, - che il pellegrino sia stato invece sconfitto e che abbia mandato qui qualche corriere per far ritirare gli assedianti? - O che cerchino di trarci in qualche agguato? - chiese invece il portoghese. - In qual modo? - Colla speranza che noi approfittiamo della loro ritirata per abbandonare il kampong e poi assalirci in piena foresta con tutte le loro forze. No, mio caro Tremal-Naik, non sarò così sciocco io, da abboccare all'amo. Finchè non sapremo la sorte toccata alla mia Marianna, noi non lasceremo questa fattoria dove potremo difenderci lungamente, nel caso che il mio equipaggio sia stato distrutto. Mettiamo qui una sentinella e pel momento non preoccupiamoci delle manovre insidiose di quei furfanti. - Signor Yanez, - disse Darma. - Venite a prendere un po' di riposo, intanto, ed a far colazione. Non udendo più alcun colpo di cannone, quantunque fossero tutti angosciati per la sorte che poteva essere toccata all'equipaggio della Marianna, scesero nella sala pianterrena dove i servi del kampong avevano preparata un'abbondante refezione all'inglese, con carne fredda, burro e thè con biscotti. Terminato il pasto e mandato il meticcio sulla torricella onde li avvertisse delle mosse degli assedianti, fecero una minuta ispezione alle cinte e alle opere di difesa, onde essere pronti a sostenere anche un lungo assedio. Erano trascorse già tre ore dallo scoppio, quando udirono Tangusa gridare dall'alto del minareto: - All'armi! E subito dopo rimbombarono alcuni spari. Yanez e Tremal-Naik si erano precipitati verso la piattaforma più alta della cinta, da cui potevano dominare buon tratto della pianura. Vi erano appena giunti, quando videro un piccolo drappello d'uomini uscire dalla foresta a corsa sfrenata, sparando sui dayaki che accorrevano da tutte le parti come per tagliare loro il passo. Due grida erano sfuggite alle labbra del portoghese e dell'indiano: - Le tigri di Mompracem! Sambigliong! Poi lanciarono due grida tuonanti: - Fuoco le spingarde! - Alzate la saracinesca ai nostri amici! I pirati che avevano scortato Yanez, vedendo i loro compagni alle prese cogli assedianti, si erano gettati sulle tre spingarde che difendevano la cinta dalla parte meridionale, scaricando quasi contemporaneamente. I dayaki, udendo quegli spari e vedendo cadere parecchi compagni, avevano aperte le file rifugiandosi precipitosamente nella foresta. Sambigliong e il suo drappello, trovando il passo libero, si erano slanciati verso il kampong a tutta corsa, non cessando di sparare. La saracinesca era stata alzata e parte della guarnigione era mossa incontro a loro per sostenerli nel caso che i dayaki tornassero alla riscossa e anche per guidarli attraverso il boschetto spinoso. I superstiti della Marianna non erano che una mezza dozzina. Erano neri di polvere, madidi di sudore, ansanti, colle vesti stracciate e insanguinate ed avevano la schiuma alle labbra per la lunga corsa che doveva essere durata non meno di tre ore. Il corriere, che conosceva la via, per fortuna era insieme a loro. - La mia nave? - gridò Yanez, correndo incontro a Sambigliong. - Saltata, capitano, - rispose il mastro con voce rantolante. - Da chi? - Da noi ... non potevamo più resistere ... erano centinaia e centinaia di selvaggi che ci piombavano addosso ... tutti i nostri compagni sono stati uccisi ... anche i feriti ... ho preferito dar fuoco alle polveri ... - Sei un valoroso, - gli disse Yanez, con voce profondamente commossa. - Capitano ... vengono ... sono molti ... preparatevi alla resistenza. - Ah! vengono! - esclamò Yanez con voce terribile. - Vendicheremo i nostri morti!

Mentre i lilà e il mirim continuavano a tuonare, aprendo nei panconi delle cinte qualche foro appena sufficiente per lasciar passare una mano e i fucilieri s'avanzavano, sempre disposti in catena, strisciando al suolo e nascondendosi dietro i piccoli rialzi di terreno e dietro i tronchi abbattuti per sfuggire alle scariche della spingarda collocata sul minareto, che non aveva cessato di far fuoco, gli assalitori s'aprivano con precauzione il passo fra le piante spinose. Essendo quasi tutti nudi ed i cespugli e gli arbusti foltissimi e formidabilmente armati di punte acutissime, l'impresa era tutt'altro che facile e lo provavano le grida di dolore che di quando in quando mandavano gli assalitori, che non potevano frenare. - La loro carne va a brandelli, - disse Yanez, che curvo sul parapetto, fra l'apertura lasciata da due sacchi di sabbia collocati dinanzi alla spingarda, li spiava. - Mordono le spine, miei cari. - Eppure passano egualmente quei demoni. Ecco lì il primo che striscia lungo la cinta. - E che non andrà a raccontare ai suoi compagni se è più o meno solida, - aggiunse il portoghese. Puntò la carabina e sparò quasi senza mirare. Il dayako che era riuscito, a prezzo di chissà quali punture, ad attraversare quella formidabile barriera, si levò di colpo sulle ginocchia allargando contemporaneamente le braccia e cadde col cranio attraversato dal proiettile, mandando un urlo rauco. - Fuoco in mezzo alle piante! - gridò Yanez. - Ci sono sotto. Poi facendo girare la spingarda sul perno e abbassando la canna più che potè, lanciò una bordata di mitraglia di traverso, mentre i Tigrotti di Mompracem, i malesi ed i giavanesi ricominciavano il fuoco massacrando arbusti e assedianti insieme. Vociferazioni spaventevoli s'alzarono sotto le piante, segno evidente che non tutti i colpi erano andati perduti, poi una valanga d'uomini si rovesciò verso la saracinesca assalendola a colpi di kampilang, mentre i lilà ed il mirim raddoppiavano il fuoco, cercando di mandare le loro palle sulle terrazze per allontanare i difensori. Tremal-Naik aveva mandato un lungo fischio. Subito si videro uscire dalla cucina otto uomini che portavano delle enormi caldaie che spandevano all'interno un fumo acre e denso. Salirono rapidamente la scala, deponendo le caldaie sul terrazzo sovrastante la saracinesca. - Per Giove! - esclamò Yanez, sentendosi avvolgere da quel fumo che gli strappava dei colpi di tosse. - Che cosa portate qui? - Guardati, Yanez! - gridò Tremal-Naik. - Lascia il posto a questi uomini. - Ma gli altri cominciano a montare. - Il caucciù bollente li farà ridiscendere. Gli otto uomini, armatisi di giganteschi mestoli, cominciarono a rovesciare il liquido fumante contenuto nelle caldaie. Urla, orribili, strazianti, s'alzarono tosto alla base della cinta. I dayaki, spaventosamente ustionati dal caucciù bollente che veniva gettato dall'alto della cinta e senza alcuna economia, si erano scagliati come pazzi in mezzo alle piante, fuggendo a precipizio. Una mezza dozzina di loro, che avevano ricevuto le prime palate del terribile liquido, si dimenavano e si contorcevano dinanzi alla saracinesca, ululando lugubremente come lupi idrofobi. - Per Giove! - esclamò Yanez, facendo un gesto d'orrore. - Questo indiano ha avuto una trovata magnifica! Cucina vivi quei poveri diavoli! I dayaki fuggivano anche dalle altre parti, poichè anche da quelle terrazze gli assediati avevano cominciato ad aspergere coloro che avevano tentato di scalare la cinta. Il fuoco intenso delle spingarde e delle carabine completava la sconfitta degli assedianti i quali ormai non pensavano ad altro che a porsi fuori di portata dalle armi da fuoco dei difensori del kampong e a rifugiarsi nei loro accampamenti. Invano i fucilieri avevano tentato di accorrere in aiuto delle colonne di assalto che si ripiegavano confusamente. Una bordata di mitraglia lanciata da tutte le spingarde li persuase a seguire i fuggiaschi. Due minuti dopo intorno al kampong non restavano che i morti e qualche ferito che stava per esalare l'ultimo respiro.

I PESCATORI DI BALENE

682382
Salgari, Emilio 1 occorrenze

Sfiniti, semigelati, abbattuti, si erano fermati ai piedi dell'"hummock". Ormai avevano perduta ogni speranza. - Orsù, tutto è finito! - esclamò il tenente, lasciandosi cadere sul ghiaccio - I miseri sono tutti periti, tutti, tutti! Povero capitano, Poveri compagni che non rivedrete mai più le sponde della patria vostra! Un rauco suono che sembrava un singhiozzo soffocato si spense in fondo alla gola di quell'uomo che forse non aveva mai pianto, mentre due grosse lacrime gli si gelavano sulle brune gote. - Soli, soli in quest'immenso deserto di ghiaccio! - riprese egli dopo qualche istante, come se parlasse a sè stesso. - Chissà se anche noi torneremo a rivedere la nostra Danimarca! - Signor Hostrup! - disse il fiociniere con voce commossa. - Ti comprendo, Koninson! - rispose il tenente alzandosi - Non bisogna scoraggiarsi, hai ragione, amico mio. - Siamo in due, signor tenente, e, ringraziando Iddio, siamo e tutti e due solidi. - È vero, Koninson. - Contate di rimanere ancora su questo dannato banco? - È necessario. - Non vorrei che ci toccasse la sorte del povero capitano e dei suoi uomini. - Penso che se la Provvidenza ci ha risparmiati, non l'avrà fatto per farci morire domani o fra qualche mese. - Infatti, lo credo anch'io, tenente. Ma se si potesse lasciare questo banco sotto cui dormono i nostri disgraziati compagni sarei ben lieto. - E dove vorresti recarti? Chi oserebbe sfidare i terribili freddi della regione polare sotto una tenda? No, Koninson, se vogliamo salvarci bisogna svernare qui. Ci costruiremo una capanna di ghiaccio e attenderemo la buona stagione. - E poi, dove andremo? - Cercheremo di guadagnare la costa e di là qualche stabilimento della compagnia della Baia di Hudson. Orsù, all'opera, Koninson, non perdiamo tempo o il freddo ben presto ci ucciderà. - Cosa si deve fare? Io sono pronto a tutto. - Costruirci il ricovero. - E dove? - A fianco dei magazzini onde essere sempre vicini alle scialuppe. - Disponete di me; mi sento assai forte in questo momento, - Tu preparerai i materiali e io costruirò. Vieni, amico mio, che forse abbiamo tardato anche troppo. Si diressero verso i magazzini che erano poco lontani e che occupavano la cima di una collinetta da cui si dominava un gran tratto di paese e si fermarono dinanzi ad un "iceberg" che pareva solido quanto una rupe. - Ci proteggerà dai venti del nord - disse il tenente, dopo averlo osservato attentamente per assicurarsi della sua stabilità. Si levò dalla cinta il coltello e tracciò nel ghiaccio, fra i magazzini e l'"iceberg", un circolo del diametro di cinque metri che poi approfondì a colpi di scure formando un canale destinato, in seguito, a raccogliere l'umidità scendente dalle pareti della capanna. - Ora, - disse rivolgendosi a Koninson - tagliami dei blocchi di ghiaccio. Il fiociniere non se lo fece dire due volte e manovrando abilmente la scure in breve tempo preparò un grande numero di grossi pezzi di ghiaccio, che il tenente dispose in bell'ordine intorno al canaletto, cementandoli con neve. Sopra quel primo strato il tenente ne sovrappose un secondo, lasciando verso sud un'apertura piuttosto stretta, indi un terzo, un quarto e via via, sempre restringendoli in maniera da formare una specie di cupola la cui elevazione non superava i tre metri. Una famiglia d'eschimesi non avrebbe domandato di più e si sarebbe fermata lì, ma il tenente era più esigente e non voleva correre i pericoli ai quali si espongono spesso gli abitanti di quelle gelide regioni, cioè all'acciecamento prodotto dal fumo ed al congelamento per mancanza di circolazione d'aria. Aiutato dal fiociniere, che si mostrava entusiasta per quella costruzione la cui forma rammentava un mezzo uovo, ma di dimensioni colossali, si arrampicò sulla cupola e apertovi un buco, costruì, servendosi sempre di blocchi di ghiaccio, un tubo alto un buon metro, per dare sfogo al fumo; poi aprì verso est, verso ovest e verso nord tre altre aperture, per combattere efficacemente il congelamento ed anche l'umidità, due nemici pericolosissimi in quei climi. Da ultimo tappezzò il suolo della capanna con pelliccie e con tela da vele, lasciando però in mezzo, proprio sotto il tubo che doveva servire da camino, uno spazio libero. - Che te ne pare, mio bravo fiociniere? - disse il tenente quando ebbe finito. - Io dico che staremo benone in questo nido - rispose Koninson - Bisognerà però chiudere le finestre. - Basterà un pezzo di pelle. - Spero che non geleremo. - Se non gelano gli eschimesi che vivono otto mesi dell'anno nelle loro capanne di ghiaccio, non so perchè dovremo gelar noi. - Ma quando accenderemo il fuoco, le pareti non si scioglieranno? - Non avere questo timore, Koninson. La fiamma è lontana e i blocchi di ghiaccio che ci hanno servito per la costruzione sono grossi. E poi credi tu che non s'ingrosseranno di più? Alla prima nevicata raddoppieranno e alla seconda triplicheranno il loro volume. - Purchè la cupola non ceda. - La sbarazzeremo del soverchio peso. - E siete persuaso che si starà bene qui dentro? - Ne sono convinto, Koninson, e aggiungo che prenderemo amore alla nostra casa e che ci dispiacerà l'abbandonarla quando ci metteremo in cammino per il sud. - Permettetemi di dubitarne, tenente! - disse Koninson. - Non so chi potrà essere quell'uomo che prenderà affezione ad una casa di ghiaccio. - Gli eschimesi, per esempio, preferiscono le loro capanne gelate ai nostri palazzi d'Europa. - Voi scherzate, tenente. - Parlo seriamente, Koninson, e ti so dire che un eschimese condotto a Londra pochi anni fa, dove era trattato come un principe, dopo qualche tempo chiese di tornarsene in mezzo ai suoi ghiacci, dicendo che a tutti i palazzi della capitale inglese preferiva la sua capanna di ghiaccio, e a tutte le barche del Tamigi il suo piccolo canotto di pelle. - Si direbbe una frottola se non uscisse dalle vostre labbra. Come mai si può desiderare questo deserto di ghiaccio dove tutto manca e dove si corre ad ogni momento il pericolo di venire inghiottiti dal mare? - Questione di abitudine e d'amore al natio paese, Koninson. Forse che tu lasceresti la nebbiosa Danimarca per i bei paesi dal dolce clima? - Chissà? Forse, signor Hostrup; ma potrei un bel giorno desiderare di rivedere le sponde del mio paese. - Sono convinto che presto o tardi questo desiderio verrebbe. Ma facciamo punto ed occupiamoci delle nostre provvigioni. - Spero che ci basteranno per finire questo dannato inverno. - Ne avremo anche troppe, Koninson. Lasciarono la capanna e si diressero verso i magazzini che erano a pochi passi di distanza. La galleria che avevano scavata per entrare, era in parte diroccata a causa delle ultime pressioni, ma i due balenieri non esitarono a cacciarsi in mezzo alla neve e ai massi di ghiaccio che in parte la ostruivano. Quando furono entro i magazzini, a colpi di scure aprirono un vano affinchè entrasse un pò di luce, poi si misero a fare l'inventario di ciò che possedevano. Il defunto capitano Weimar aveva accumulate tante provvigioni da bastare per parecchie settimane all'intero equipaggio del "Danebrog" e specialmente alcuni attrezzi che diventavano di un valore inestimabile. Il tenente, aiutato dal suo bravo compagno, che rimuoveva ogni cosa con grande ardore, contò sei casse contenenti non meno di duecento chilogrammi di biscotto, due barili di carne secca ridotta in pemmican col sistema indiano, un barile di farina, due di lardo, una non piccola quantità di cioccolata, parecchie scatole di tè, un centinaio di chilogrammi di pesce secco e un barilotto di acquavite, nonchè alcune bottiglie di succo di limone per combattere i disastrosi effetti dello scorbuto. Scoprì altresì una piccola provvista di patate, due pentole di ferro della massima importanza per loro, una cassa con vesti di pelle di foca e alcune grosse coperte di lana e una provvista abbondante di polvere e di palle con tre fucili, una. vecchia pistola e alcuni coltelli. Mancava assolutamente il legname e il carbone, cose necessarie per resistere ai grandi freddi dell'inverno polare, ma c'erano dodici barili di spermaceto di balena e alcuni d'olio e parecchio canape. Per di più possedevano due baleniere e un canotto, che dovevano fornire una provvista di legna non piccola. - Abbiamo più di quanto ci occorre! - disse il tenente quand'ebbe finito l'inventario. - Passeremo l'inverno senza incomodi e senza sofferenze. - Una cosa ci manca, signor Hostrup. - Quale, mio bravo fiociniere? - Una stufa da porre nella nostra capanna. - Non occorre. Koninson lo guardò con sorpresa. - Forse che nella nostra capanna farà caldo quando all'esterno avremo 40o sotto lo zero? - Non dico questo ma surrogheremo la stufa con qualche cosa di meglio. Hai visto delle stufe nelle capanne degli eschimesi? - No, tenente, e mi sono sempre meravigliato. - Ma avrai veduto ardere giorno e notte una gran lampada. - Sì, me ne ricordo. - Ebbene, anche noi accenderemo una gran lampada in mezzo alla nostra capanna e vedrai che ci darà sufficiente calore. - Se dite ciò, deve essere vero. Ed ora cosa facciamo? - Porteremo alcune provviste nella nostra casupola per non essere obbligati ad aprire ogni giorno i nostri magazzini. - Li chiuderemo dunque? - E per bene, Koninson. Non dimenticare che al polo nord vi sono degli orsi bianchi sempre in lotta colla fame. Se si spingono fin qui e scoprono le nostre provviste, faranno un gran vuoto in sole poche ore. Orsù, al lavoro, fiociniere. Si caricarono entrambi di diverse provvigioni, delle armi, delle pentole e di alcune coperte ed uscirono per recarsi alla capanna. Erano appena usciti dalla galleria, quando il tenente si arrestò bruscamente guardando verso nord. - Cosa vedete? - chiese Koninson, che si era affrettato a sbarazzarsi del carico per afferrare il fucile. - Degli orsi forse? - No, guarda laggiù. Koninson volse lo sguardo nella direzione indicata e scorse una nube nerissima che si staccava vivamente sul fondo stellato del cielo e il cui lembo superiore descriveva una specie di arco. - Una tempesta che si approssima, forse? - chiese. - No, è l'aurora boreale che sta per sorgere! - rispose il tenente. - Guarda, ecco che la nube si allarga e con grande rapidità. Infatti la nube prendeva grandi proporzioni come se fosse stata spinta da un formidabile vento, e al centro a poco a poco diventava più chiara, quasi trasparente, attraversata di quando in quando da rossastri bagliori. D'improvviso successe un cambiamento magnifico, sorprendente. Parve che la nube volasse in mille scheggie, come se nel suo seno fosse saltato un magazzino di polveri e qua e là guizzarono per l'orizzonte colonne di fuoco d'una tinta superba, cangiando i ghiacci in altrettanti massi infuocati. - Stupendo! - esclamò Koninson, che pure aveva osservato moltissime volte quel meraviglioso fenomeno. - Aspetta un pò, fiociniere! - disse il tenente, che non staccava gli occhi dall'orizzonte settentrionale. Le colonne di fuoco continuavano ad innalzarsi ed abbassarsi con le contrazioni dei serpenti, cambiando di frequente tinta che variava dal bianco trasparente al giallo e al rosso ardente e formando delle nebulosità abbaglianti. Poi, a poco a poco, s'innalzò un arco immenso, brillante, il quale sollevando tutti quegli sprazzi di luce variopinta balzò da est ad ovest per poi ritornare, con altro brusco e più rapido salto, ad est. Il fenomeno era allora nel suo pieno splendore. I raggi che si alzavano sul grand'arco, gli uni sottilissimi e gli altri grossi, rossi alla base, verdastri nel mezzo e biancastri all'estremità, si spingevano sino alla testa dell'Orsa Maggiore, formando una specie di cupola di una bellezza incomparabile. I campi di ghiaccio, gli "icebergs", gli "hummocks", le piramidi, i coni, le colonne parevano tutti in fiamme e riflettendo quei vigorosi bagliori illuminavano la regione polare fino agli estremi confini. Ben presto però l'immenso arco fu visto ondeggiare come se fosse stato scosso da un impetuosissimo colpo di vento, formando immense pieghe in senso orizzontale e ben presto sull'orizzonte più non si vide che un ammasso di luce la cui intensità era tale che i due naufraghi furono costretti a difendersi gli occhi colle mani. - Si direbbe che tutto il polo è in fiamme! - disse Koninson, che non parlava più di rientrare nella capanna. - È uno spettacolo che non si è mai stanchi di vedere, e che non si è mai osservato abbastanza bene. - È vero, fiociniere! - rispose il tenente. - Pare di assistere sempre ad un fenomeno nuovo. - Sapreste dirmi, signor Hostrup, da cosa deriva? - Hum, è un po' difficile saperlo, mio caro fiociniere, poichè gli scienziati non sono ancora d'accordo, su ciò. Pare che sia causato da un accumulamento di elettricità e per mio conto credo che sia l'ipotesi migliore e più giusta, considerati i pochi uragani e l'estrema siccità dell'aria che s'oppone alla sua dispersione. - È vero, signor Hostrup, che l'aurora altera le bussole? - Verissimo, Koninson, e non solo quando esse sono in vista della luce, ma anche quando si trovano lontane dal cerchio luminoso, il che fa supporre che le aurore boreali siano in relazione col magnetismo. - E sono sempre uguali queste aurore? - Se ne sono osservate di quelle strane. Mairan ne vide una nel 1726 trovandosi a Breville-Ponte, che era formata da un gigantesco segmento nero traforato regolarmente da punti luminosi. - Questi fenomeni sono però molto frequenti. - Secondo gli anni. Lotten, che fece parte della spedizione d'Islanda per studiare i fenomeni della regione polare, nell'osservatorio da lui stabilito a Bossekop ove rimase otto mesi negli anni 1838-39, ne vide ben 143 in 206 giorni e le più frequenti fra il 17 novembre e il 25 gennaio. - Speriamo di vederne molte anche noi. - Ne vedremo, Koninson. Intanto l'aurora continuava le sue oscillazioni e i suoi bruschi salti, ora scemando di proporzioni ed ora ingigantendo. Tre ore durò, poi nuovi raggi apparvero, fra cui uno biancastro altissimo, indi ricominciò ad ondeggiare, a indebolirsi e finì con lo sfasciarsi e scomparire. Le tenebre, ripreso il loro impero, tornarono a distendersi sui campi di ghiaccio e sull'orizzonte, poco prima infuocato, non rimasero a brillare che gli astri.

IL PAESE DI CUCCAGNA

682486
Serao, Matilde 1 occorrenze

Un'altra giovane ancora, ma dal pallido e seducente volto consumato, dai grandi occhi neri, un po' malinconici, un po' stravaganti, con le occhiaie livide, dalla grossa treccia nera disfatta sul collo, era salita sopra un macigno abbandonato in quel cortile, forse dai tempi in cui era stato costruito o restaurato il palazzo; e lì sopra, tutta magra nella sua veste ritinta di nero, che le faceva cento pieghe sullo scarno petto e sui fianchi, dondolando un piede in uno stivaletto rotto e scalcagnato, rialzandosi sulle spalle, ogni tanto, un gramo scialletto anche ritinto di nero, ella dominava la folla, guardandola coi suoi occhi abbattuti e tristi. La folla era fatta quasi tutta di gente povera: ciabattini che avevano chiuso il banchetto nello stambugio che abitavano, avevano arrotolato il grembiule di pelle intorno alla cintura, e in maniche di camicia, col berretto sugli occhi, rimuginavano nella mente i numeri giuocati, con un impercettibile movimento delle labbra; servitori a spasso, che invece di cercar padrone, consumavano le ultime lire del soprabito d'inverno impegnato, sognando il terno che di servitori li facesse diventar padroni, mentre una contrazione d'impazienza torceva loro il volto smorto, dove la barba, non più rasa, cresceva inegualmente; erano cocchieri da nolo che avevano lasciata la carrozza affidata al compare, al fratello al figliuolo, e attendevano, pazientemente, con le mani in tasca, con la flemma del cocchiere che è abituato ad aspettare delle ore il passeggiero; erano sensali di stanze mobiliate, sensali di serve, che, nell'estate, partiti i forestieri, partiti gli studenti, languivano seduti sulle loro sedie, sotto la loro tabella che è tutta la loro bottega, agli angoli dei vicoli San Sepolcro, Taverna Penta, Trinità degli Spagnuoli, e avendo giuocato qualche soldino, sottratto al cibo quotidiano, disoccupati, oziosi, venivano a udir l'estrazione del lotto; erano braccianti delle umili arti napoletane che, lasciato il fondaco, l'opificio, la bottega, abbandonato il duro e mal retribuito lavoro, stringendo nel taschino dello sdrucito panciotto la bolletta di cinque soldi, o il fascetto delle bollette di giuoco piccolo, rano venuti a palpitare innanzi a quel sogno, che poteva diventare una realtà; erano persone anche più infelici, cioè tutti quelli che a Napoli non vivono neppure alla giornata, ma ad ore, tentando mille lavori, buoni a tutto e incapaci, per mala fortuna, di trovare un lavoro sicuro e rimuneratore, infelici senza casa, senza ricovero, così vergognosamente laceri e sporchi, da fare schifo, avendo rinunziato al pane, per quella giornata, per giuocare un biglietto, sulla faccia dei quali si leggeva la doppia impronta del digiuno e dell'estremo avvilimento. Tra la folla, anche qualche donna si distingueva: donne sciatte, senza età, come senza bellezza; serve senza servizio, mogli di giuocatori accaniti, giuocatrici esse stesse, operaie licenziate, e, fra tutte, il volto pallido e attraente di Carmela, quella seduta sul macigno, volto sfiorito, dai grandi occhi stanchi e addolorati. Più tardi, come maggiormente si appressava l'ora dell'estrazione, e più il chiasso cresceva, fra le poche faccie smorte muliebri e i laceri vestiti di percalla scolorita a furia di troppe lavature, una assai diversa figura di donna apparve. Era una popolana alta e robusta, dal viso bruno fortemente colorito, dai capelli castani tirati su, pettinati con molta cura e la cui frangetta, sulla breve fronte, aveva anche un'ombra di cipria; i pesanti orecchini di perle scaramazze, rotondi, bianco-verdastri, le tiravano le orecchie, tanto che aveva dovuto assicurarli sopra l'orecchio, con un cordoncino di seta nera, temendo che dovessero spezzare il lobo; una collana d'oro, con un grosso medaglione d'oro, posava sul giubbetto di mussola bianca, tutto ricami e gaie di merletto; ella sollevava ogni tanto, sulle spalle, uno scialle trasparente di crespo di seta nero e allora mostrava le mani, ricche di grossi anelli d'oro sino alla metà della seconda falange. L'occhio era serio e tranquillo, con una lieve aria di quietissima audacia, la bocca composta a severità; ma nell'attraversare la folla, nell'andare a mettersi sul terzo gradino della scala, per vedere e per udire meglio, ella conservava quella inclinazione della testa, speciale delle popolane napoletane, un po' civettuola, un po' mistica; conservava quella ondulazione della persona così seducente sotto lo scialle, e che le borghesi napoletane perdono subito nel vestito alla moda francese. Pure, malgrado la simpatia naturale che ispirava quella figura femminile, al suo passaggio vi fu un mormorio quasi ostile e come un movimento di repulsione tra la folla. Ella ebbe un moto di disdegno, levando le spalle; e restò sola, ritta sul terzo scalino, tenendo alzato lo scialle sulle braccia, e le mani cariche di anelli incrociate sullo stomaco. Il mormorio, qua e là, continuò: ella guardò la folla, due o tre volte, serenamente, anzi non senza fierezza. Le voci tacquero: le palpebre della donna batterono, due o tre volte, come per orgoglio appagato. Ma, finalmente, su tutte le altre, su Carmela dal volto sfiorito e dai grandi occhi dolorosi, su donna Concetta dalle dita inanellate e dalla frangetta incipriata, Concetta, la bella, robusta e ricca usuraia, sorella di donna Caterina, sorella della tenitrice di gioco piccolo, opra la folla del cortile, dell'androne, della via, una figura di donna emergeva, attirava almeno uno sguardo della gente raccolta. Era la donna, al primo piano del palazzo dell'Impresa, seduta dietro la ringhiera di un balconcino: seduta di fianco, si vedeva il suo profilo chinarsi e sollevarsi, ogni tanto, sul lucido ingranaggio d'acciaio di una macchina da cucire Singer; mentre il piede, uscendo dalla modesta gonna di percalla azzurra a pisellini bianchi, batteva metodicamente sul pedale di ferro, che si abbassava e si alzava, con moto uniforme. Fra il brusio delle voci, e i dialoghi da un capo all'altro del cortile, e lo stropiccio dei piedi, si perdeva il trillo sordo della macchina da cucire: ma sul fondo scuriccio del balcone, la figura della cucitrice si disegnava tutta, di profilo, con le mani che portavano il pezzo di tela bianca sotto l'ago saliente e discendente della macchina, col piede che piegava il pedale, instancabilmente, con la testa che si alzava e si abbassava sul lavoro, senza vivacità, ma senza stanchezza, continuamente. Di profilo si vedeva una guancia delicata, delicatamente rosea, e una grossa treccia castana modestamente ravviata e stretta sulla nuca, si vedeva l'angolo di una bocca fine, e l'ombra che le lunghe ciglia abbassate gittavano sull'alto delle guancie. La giovane cucitrice, da un'ora che la folla si addensava nel cortile, non aveva guardato che un paio di volte giù, gittandovi una breve occhiata indifferente, e riabbassando subito la testa sull'ingranaggio lucido della macchina, trasportando lentamente con le mani il pezzo di tela, perché la cucitura venisse diritta, diritta. Nulla la distraeva dal suo lavoro, né le voci, né le vive esclamazioni, né il calpestìo crescente della folla; ella non aveva guardato mai sul terrazzino coperto, dove si sarebbe proclamata l'estrazione, fra poco. La gente la guardava, di basso, la delicata e infaticabile cucitrice di bianco, ma ella proseguiva quietamente nel suo lavoro, come se neppure un eco di quella gran passione, fra segreta e palese, arrivasse sino a lei; ella sembrava così lontana, così schiva, così assorta in un mondo assolutamente staccato, diverso, che la fantasia poteva supporla più una immagine che una realtà, più una figura ideale che una persona vivente. Ma, ad un tratto, un lungo grido di soddisfazione uscì dal petto della folla, variato in tutti i toni, saliente alle note più acute e scendente alle note più gravi: il grande balcone della terrazza si era schiuso. La gente che aspettava nella via cercò di penetrare nell'androne, quella che era nell'androne si accalcò nel cortile: vi fu come un serramento, mentre tutte le facce si levavano, prese da un'ardente curiosità, prese da un'angoscia ardente. Un grande silenzio. E guardando bene al moto delle labbra di certe donne, si vedeva che pregavano: mentre Carmela, la fanciulla dall'attraente volto consumato e dagli occhi neri infinitamente tristi, giocherellava con un cordoncino nero che le pendeva dal collo, e a cui erano attaccati una medaglina della Madonna Addolorata e un piccolo corno di corallo. Silenzio universale: di aspettazione, di stupore. Sul terrazzino, due uscieri del Regio Lotto avevano collocato un lungo e stretto tavolino coperto di un tappeto verde; e dietro il tavolino, tre seggioloni, perché vi sedessero le tre autorità: un consigliere di prefettura, il direttore del Lotto a Napoli, e un rappresentante del municipio. Sopra un altro piccolo tavolino fu collocata l'urna, per i novanta numeri. È grande, l'urna; tutta fatta di una rete metallica, trasparente, a forma di limone, con certe strisce di ottone che vanno da un capo all'altro, cingendola come i circoli del meridiano circondano la terra: sottili strisce luccicanti che ne assicurano la forza, senza impedirle la perfetta trasparenza. L'urna è sospesa, in aria, fra due piuoli di ottone, e presso un piuolo c'è un manubrio, anche metallico, che, voltato, fa rapidamente virare sul suo asse tutta l'urna. I due uscieri che aveano portato tutto questo materiale fuori il terrazzino erano vecchi, un po' curvi, come sonnacchiosi. Anche le tre autorità, in soprabito e cappello a cilindro, sembravano annoiate e sonnolente, sedendosi dietro il tavolino: così il consigliere di prefettura dai mustacchi tinti di un nero fortissimo, che pareva avessero stinto in bruno, sul bruno volto lucido e assonnato: così un consigliere comunale, che era un giovanotto dalla barbetta scura. Questa gente si muoveva lentamente, con una misura di movimenti, con una precisione di automi, tanto che un popolano, dalla folla, gridò: - Andiamo, andiamo! Di nuovo, silenzio, ma vi fu un grande ondeggiamento di emozione, quando comparve sulla terrazzina il fanciulletto che doveva estrarre dall'urna i numeri dell'estrazione. Era un fanciulletto vestito della bigia uniforme dell'Albergo dei Poveri, un povero fanciulletto del Serraglio, ome i napoletani chiamano l'ospizio di quelle creature abbandonate, un povero serragliuolo enza enzamadre e senza padre, o figliuolo di genitori che, per miseria o per crudeltà, avevano abbandonato la loro prole. Il fanciulletto, aiutato da uno degli uscieri, indossò, sull'uniforme da serragliuolo, na tunica di lana bianca: un berretto bianco, anche di lana, gli fu messo sulla testa, perché la leggenda del Lotto vuole che il piccolo innocente porti la veste bianca dell'innocenza. E lestamente salì sopra uno sgabello, per trovarsi all'altezza dell'urna. Di sotto, la folla tumultuava: - Bel figliuolo, bel figliuolo! - Che tu possa essere benedetto! - Mi raccomando a te e a San Giuseppe! - La Madonna ti benedica le mani! - Benedetto, benedetto! - Santo e vecchio, santo e vecchio! Tutti gli dicevano qualche cosa, un augurio, una benedizione, un desiderio, un'invocazione pietosa, una preghiera. Il bambino taceva, guardando, con la manina appoggiata sulla rete metallica dell'urna; e un po' discosto, appoggiato allo stipite del balcone, v'era un altro bambinetto del Serraglio, serio serio, malgrado le rosee guance e i biondi capelli tagliati sulla fronte: era il fanciulletto che doveva estrarre i numeri il sabato prossimo e che veniva là per imparare, per assuefarsi alla manovra dell'estrazione e ai gridi della folla. Ma di lui nessuno si curava: era quello vestito di bianco, quello di quel giorno, a cui si rivolgevano le mille esclamazioni della gente; era la piccola anima innocente biancovestita, che faceva sorridere di tenerezza, che faceva venire le lagrime agli occhi a quella folla di esseri tormentati, e speranzosi solo nella Fortuna. Alcune donne avevano sollevato nelle braccia i propri fanciullini e li tendevano verso il piccolo serragliuolo. le voci, tenere, appassionate, straziate, continuavano: - Pare un piccolo san Giovanni, pare! - Che tu possa trovare sempre grazia, se mi fai fare questa grazia! - Core di mamma, quanto è caro! Subito vi fu una diversione. Uno degli uscieri prendeva il numero da mettere nell'urna, lo mostrava spiegato al popolo, annunziandolo a voce chiara, lo passava alle tre autorità, che vi gettavano sopra un'occhiata distratta. Uno dei tre, il consigliere di prefettura, chiudeva il numero in una scatoletta rotonda, il secondo usciere lo passava al fanciulletto biancovestito che lo buttava subito nell'urna, dalla piccola bocca di metallo aperta. E a ogni numero che si annunziava, vi erano esclamazioni, strilli, sogghigni, risate. A ogni numero il popolo applicava la sua spiegazione, ricavata dal Libro dei sogni dalla Smorfia o da quella leggenda popolare che si propaga senza libri, senza figurine. Ed erano scoppii di risa, erano grassi scherzi erano interiezioni di paura o di speranza: il tutto accompagnato da un clamore sordo, come se fosse il coro in minore di quella tempesta. - Due! - …la bambina! - …la lettera! - … fammi arrivare questa lettera. Signore! - Cinque! - …la mano! - … in faccia a chi mi vuol male! - Otto! - …la Madonna la Madonna, la Madonna! Ma come ogni dieci numeri, chiusi nelle loro scatolette rotonde, bigie, erano stati buttati nell'urna dell'estrazione dal piccolo serragliuolo estito di lana candida, il secondo usciere chiudeva la bocca dell'urna, e, voltando il manubrio di metallo, le imprimeva un moto di giro sul suo asse, facendo rotolare, ballare, saltare i numeri. E di giù si gridava: - Gira, gira, vecchiarello! - Ancora un giro per me! - Dammi la giusta misura! I cabalisti, quelli non parlavano, non guardavano neppure i giri dell'urna: per essi non esisteva né il bimbo innocente, né il senso dei numeri, né il giro lento o vivace della grande urna metallica: per essi esisteva solo la Cabala, la Cabala oscura e pur limpidissima, la gran fatalità, dominante, imperante, che sa tutto, che può tutto e che tutto fa, senza che niun potere, umano divino, vi si possa opporre. Essi soli tacevano, pensosi, concentrati, anzi disdegnosi di quella forte gazzarra popolare, assorti in un mondo spirituale, mistico, aspettando con una profonda sicurezza. - Tredici! - …le candele! - …il candelotto, la torcia; smorziamola questa torcia! - … smorziamo, smorziamo! - rombava il coro. - Ventidue! - …il pazzo! - …il pazzarello! - …come te! - …come me! - …come chi giuoca alla bonafficiata Il popolo si sovreccitava. Lunghi fremiti correvano per la folla, che ondeggiava come se l'agitasse lo stesso bizzarro movimento del mare. Le donne, specialmente, erano diventate nervose, convulse, e stringevano nelle loro braccia i bimbi, così fortemente da farli impallidire e piangere. Carmela, seduta sull'alto macigno, aveva la mano raggricchiata intorno alla medaglina della Madonna e al piccolo corno di corallo: donna Concetta, la usuraia, dimenticava di rialzarsi lo sciallo di crespo nero che le cadeva sui fianchi poderosi, mentre le labbra avevano un breve moto convulso. Ed era affogato, il trillo sordo della macchina da cucire, sul balcone del primo piano: niuno più si curava della infaticabile cucitrice di biancheria. La febbre del popolo napoletano nella imminenza del sogno che stava per divenir realtà, si faceva sempre più acuta, dando un più vivo e più lungo sussulto quando veniva chiamato un numero popolare, un numero simpatico: - Trentatré! - … anni di Cristo! - … anni suoi! … questo esce. - …non esce! - …vedrete che esce! - Trentanove! - …l'impiccato! - … nella gola, nella gola! - …così debbo vedere chi dico io! - …stringi, stringi! Imperturbabili, sul terrazzino, le autorità, gli uscieri, il fanciulletto vestito di bianco, continuavano la loro opera, come se tutto quel tumulto di gente non arrivasse alle loro orecchie: solo l'altro bimbo, nuovo a quello stravagante spettacolo, guardava giù, dalla ringhiera, stupito, pallido, con le rosse labbrucce gonfie, come se volesse piangere: piccola anima inconscia e smarrita fra il turbine della profonda passione umana. L'operazione, sul terrazzino, procedeva con la massima calma: a ogni nuova diecina di numeri messi nell'urna, l'usciere la faceva girare più a lungo, facendo ballare e saltellare le pallottoline allegramente fra la trasparente rete di metallo. Non si scambiava una parola, lassù, non un sorriso: la febbre restava all'altezza delle persone, nel cortile, non saliva al primo piano. Giù, adesso, le persone più serie ridevano convulsamente, sottovoce, crollavano il capo, come se si fosse loro comunicato il morbo nella forma più chiassosa. L'operazione parve si affrettasse, verso la fine. Nuovi gridi accolsero il settantacinque che è il numero di Pulcinella e il settantasette che è quello del diavolo; ma un lungo, lunghissimo applauso salutò il novanta, l'ultimo numero, anzitutto perché era l'ultimo, poi perché il novanta è un numero estremamente simpatico: novanta fa la paura: ovanta fa il mare: ovanta fa il popolo: insieme ha altri cinque o sei significati, tutti popolari. Tutti applaudivano, nel cortile, uomini, donne, fanciulli, al gran novanta, che è l'omega del lotto. Poi, subito, come per incanto, un silenzio profondo si fece: una immobilità arrestò tutti quei corpi, tutte quelle facce, - la gran gente convulsa parve pietrificata nei sentimenti, nella parola, negli atti, nella espressione. Il primo usciere, quello che aveva dichiarato i novanta numeri, accostò alla balaustra una tabella di legno, lunga e stretta, a cinque caselle vuote, simile a quella dei bookmakers sui campi delle corse, mentre l'altro usciere dava gli ultimi giri all'urna riempita di tutti i novanta numeri. La tabella era voltata verso il popolo. Poi il consigliere scosse un campanello: il giro dell'urna si arrestò: il terzo usciere mise una benda sugli occhi del bimbo biancovestito; costui lestamente immerse la manina nell'urna aperta e cercò un momento, un momento solo, cavando subito una pallina col numero. Mentre questa pallina passava di mano in mano, giù, da quei petti pietrificati, da quelle bocche pietrificate, uscì un sospiro cupo, tetro, angoscioso. - Dieci, gridò l'usciere, dichiarando il numero estratto e mettendolo subito nella prima casella. Mormorio e agitazione fra il popolo: tutti coloro che avevano sperato nel primo estratto erano delusi. Nuova scossa di campanello: il bimbo immerse, per la seconda volta, la manina delicata nell'urna. - Due, gridò l'usciere, dichiarando il numero estratto e mettendolo nella seconda casella. Al crescente mormorio qualche bestemmia soffocata si aggiunse: tutti quelli che avevano giuocato il secondo estratto erano delusi: tutti quelli che avevano sperato di prendere quattro numeri erano delusi: tutti quelli che avevano giuocato un grosso temo secco cominciavano a temere fortemente la delusione. Tanto che, quando per la terza volta la manina del fanciulletto penetrò nell'urna, qualcuno gridò, angosciosamente: - Cerca bene, scegli bene, bambino! - Ottantaquattro, gridò l'usciere, dichiarando il numero e collocandolo nella terza casella. Qui scoppiò il grande urlo d'indignazione, fatto di bestemmie, di lamenti, di esclamazioni colleriche e dolorose. Questo terzo numero, cattivo, era decisivo, era decisivo per l'estrazione e per i giuocatori. Con l'ottantaquattro erano delusi già tutti quelli che avevano giuocato il primo, il secondo e il terzo estratto; erano delusi tutti quelli che avevano giuocato la quintina, la quaterna, il terno, il terno secco, speranza e amore del popolo napoletano, speranza e desiderio di tutti i giuocatori, da quelli accaniti a quelli che giuocano una volta sola, per caso: il terno che è la parola fondamentale di tutti quei desiderii, di tutti quei bisogni, di tutte quelle necessità, di tutte quelle miserie. Un coro di maledizioni si levava, di giù, contro la mala fortuna, contro la mala sorte, contro il Lotto e contro chi ci crede, contro il governo, contro quello sciagurato ragazzo che aveva la mano così disgraziata. Serragliuolo, serragliuolo! ridavano da basso, per insultarlo, mostrandogli il pugno. Dal terzo al quarto numero passarono due o tre minuti; ogni settimana accadeva così: il terzo numero era l'espressione paurosa della infinita delusione popolare. - Settantacinque, dichiarò con voce più fiacca l'usciere, mettendo il numero estratto nella quarta casella. Tra le voci irose che non si calmavano, qualche fischio risuonò, vendicativo. Le ingiurie piovevano sul capo del bimbo; ma le maggiori imprecazioni erano contro il Lotto dove non si può vincere mai, mai, dove tutto è combinato perché non si vinca mai, mai, specialmente per la povera gente. - Quarantatrè, - finì di proclamare l'usciere, collocando il quinto ed ultimo numero. E un ultimo soffio di collera, fra il popolo: niente altro. In un momento, dal terrazzino scomparve tutta la fredda macchina del lotto: sparvero i due bimbi, le tre autorità, l'urna con gli ottantacinque numeri e il suo piedistallo, sparvero tavolini, seggioloni, uscieri, si chiusero i cristalli e le imposte del grande balcone, in un momento. Sola, ritta, accosto alla balaustra, rimase la crudele tabella, coi suoi cinque numeri, quelli, quelli, la grande fatalità, la grande delusione. Con molta lentezza, a malincuore, la folla si diradava nel cortile. Sui più esaltati dalla passione del giuoco aveva soffiato il vento della desolazione e li aveva abbattuti, come se avessero le braccia e le gambe spezzate, la bocca amara di bile: quelli che avevano giuocato tutt'i loro denari, quella mattina, non sentendo più il bisogno di mangiare, di bere, di fumare, nutrendosi vividamente delle visioni di cuccagna nella fantasia, sognando per quella sera di sabato e per la domenica e per tutti i giorni successivi, tutta una spanciata di pranzi grassi e ricchi, divorati in immaginazione, tenevano mollemente le mani nelle tasche vuote, e negli occhi desolati si dipingeva il fisico, l'infantile dolore di chi sente i primi crampi della fame e non ha, sa di non poter avere il pane per chetare lo stomaco: altri, i più folli, caduti dall'altezza delle loro speranze in un momento, provavano quel lungo minuto di pazzia angosciosa, quando non si vuol credere, no, non si può credere alla sventura e gli occhi hanno quello sguardo smarrito che non vede più la forma delle cose e le labbra balbettano parole incoerenti - ed erano questi folli disperati che ancora figgevano gli occhi sulla tabella dei cinque numeri, come se non potessero ancora convincersi della verità, e macchinalmente confrontavano i cinque numeri, con la lunga lista bianca delle loro bollette da giuoco: - e i cabalisti, infine, non se ne andavano ancora, discutendo fra loro come tanti filosofi, come tanti loici, sempre concentrati nell'alta matematica del lotto, dove vivono le figure, e e cadenze, e triple, a ragione algebrica del quadrato maltese le immortali elucubrazioni di Rutilio Benincasa . Ma in quelli che se ne andavano, come in quelli che restavano lì, inchiodati dalla loro passione, in quelli che discutevano furiosamente, come in quelli che abbassavano la testa, smorti, perduti di coraggio, senza più forza di agire e di pensare, variava la forma della desolazione, ma la sostanza della desolazione era la stessa, profonda, intensa, faciente sanguinare le più intime fibre, intesa a distruggere le stesse sorgenti dell'esistenza. Il lustrino Michele, lo sciancato, sempre seduto per terra, con la sua cassetta nera fra le gambe contorte, aveva udito l'estrazione senza levarsi, nascosto dietro le persone che si accalcavano. Ora, mentre la folla sfilava pian piano, egli avea chinato il capo sul petto e la gialla tinta del suo volto di vecchio rachitico si era colorata di verde, come se tutta la bile gli fosse salita al cervello. - Niente? - domandò una voce sorda accanto a lui. Egli levò macchinalmente gli occhi bigi dalle palpebre rosse e vide Gaetano, il tagliatore di guanti, che mostrava nel volto scialbo l'accasciamento degli esaltati delusi. - Niente, - disse breve breve il lustrino, riabbassando gli occhi. - E niente pur io. Ci hai cinque o sei soldi, per combinazione, compare? Lunedì te li ridò. - Chi me li dà? Se ne hai dieci, facciamo cinque per ciascuno, - mormorò disperatamente il lustrino. - Addio, compare, - disse, con voce rude, il tagliatore di guanti. - Addio, compare, - rispose, nel medesimo tono, il lustrino sciancato. Ma mentre Gaetano si allontanava, sotto il portone, passò accanto a lui, seria, lenta, con gli occhi abbassati, donna Concetta, dalla catena d'oro che le ondeggiava sul petto e dalle mani inanellate. - Avete guadagnato nulla, Gaetano? - domandò ella, con un lieve sorriso. - Ho preso una saetta che mi colga! - gridò lui, esasperato dal trovarsi accanto l'usuraia, che gli ricordava tutta la sua miseria, esasperato dalla domanda in quel momento. - Va bene, va bene, - ribatté ella, freddamente. - Ci vediamo lunedì, non vi dimenticate. - Non me lo dimentico, no, vi tengo in cuore, come la Madonna, - le gridò appresso, lui, con voce fischiante. Ella crollò il capo, andandosene. Non veniva là per interessi suoi, perché ella non giuocava mai; e neppure per tormentare qualche suo debitore, come Gaetano; veniva per interesse di sua sorella, donna Caterina, la tenitrice di giuoco piccolo, he non osava presentarsi lì, in pubblico. Donna Caterina comunicava a sua sorella i numeri che più temeva, cioè quelli che più erano stati giuocati da lei e per cui avrebbe dovuto pagare più forti somme: se questi numeri temuti uscivano, allora donna Concetta spiccava un ragazzino a sua sorella, la quale era pronta a far fagotto, per non pagare nessuno. Già tre volte aveva fatto fallimento così, col denaro delle giuocate in tasca, donna Caterina: ed era fuggita una volta a Santa Maria di Capua, una volta a Gragnano, una volta a Nocera dei Pagani, restandovi un paio di mesi; ed aveva avuto il coraggio di ritornare, affrontando i giuocatori delusi, con alcuni servendosi dell'audacia, ad altri dando pochi soldi, ricominciando il giuoco, mentre i rubati, i truffati, i delusi, ritornavano a lei, incapaci di denunziarla, ripresi dalla febbre, o tenuti in rispetto da donna Concetta, a cui tutti dovevano del denaro; e la speculazione continuava, il denaro passava da una sorella all'altra, dalla tenitrice di banco che sapeva fallire a tempo, alla strozzina che osava affrontare i più malintenzionati fra i suoi debitori. Né questa fuga era considerata come un delitto, come un furto, da donna Caterina e dalla sua clientela; forse che, più in grande, non fa così anche il governo, che ha assegnato una dote di sei milioni per ogni estrazione e per ogni ruota elle otto, e quando, per una rarissima combinazione, le vincite sorpassano i sei milioni, non fallisce anche il governo, diminuendo l'entità delle vincite? Oh, ma quel giorno non vi era bisogno, per donna Caterina, di fallire, di fuggire; i numeri estratti erano così cattivi, che non aveva vinto nessuno dei suoi giuocatori, forse; e donna Concetta se ne risaliva pian piano, per via Santa Chiara, senz'affrettarsi, sapendo che quello era un sabato desolante per tutta Napoli che giuoca, e preparandosi alle sue battaglie di usuraia, del lunedì. Le passavano accanto, tutte quelle creature infelici, dalle speranze infrante: ed ella crollava il capo, saggiamente, su quelle aberrazioni umane, stringendo i lembi dello scialle di crespo nero, fra le mani inanellate. Una donna che veniva in giù, rapidamente, tirandosi dietro una bimba e un bimbo, portando una creaturina da latte sulle braccia, la sfiorò, la oltrepassò, entrò nel cortile dell'Impresa, dove ancora qualche persona si tratteneva. Era una donna poverissimamente vestita, con una veste di percalla così sfrangiata e fangosa, che faceva pietà e disgusto; con un lembo sfilacciato di scialletto di lana, al collo; e nella faccia così scarna, così consunta, coi denti così neri e coi capelli così radi, che i suoi figli, i suoi tre figli, non laceri, non sporchi, e bellini, pareva non le appartenessero. Il lattante, un po' gracile solamente, le abbassava il capo sulla spalla, per dormire: ma la poveretta era così agitata, che non gli badava più. E vedendo Carmela, sua sorella, seduta sempre sull'alto macigno, con le mani abbandonate in grembo, la testa abbassata sul petto, sola sola, come immobilizzata in un dolore senza parola, le andò vicino: - Oh, Carmela! - Buon giorno, Annarella, - disse Carmela, trasalendo, abbozzando un pallidissimo sorriso. - Stai qua anche tu? - chiese, con una intonazione di sorpresa dolorosa. - Eh… già, - rispose Carmela, con un cenno di rassegnazione. - Hai visto Gaetano, mio marito? - domandò ansiosamente Annarella, facendo scivolare dalla spalla sul braccio la testolina del suo lattante, perché potesse addormentarsi più comodamente. Carmela levò i suoi grandi occhi sul volto della povera sorella, ma la vide così disfatta, così brutta di miseria e di privazioni, così già vecchia, così sacra di già alla malattia e alla morte, così disperata in quella domanda, che non osò dirle la verità. Sì, aveva visto Gaetano, il tagliatore di guanti, suo cognato, lo aveva visto prima fremente e ansioso, poi pallido e accasciato; ma sua sorella, ma il gracile lattante addormentato, ma i due altri fanciulletti, che si guardavano curiosamente intorno, le facevano troppa pietà. Ella mentì. - Non l'ho visto per niente, - disse, chinando gli occhi. - Ci doveva essere, - mormorò Annarella, con la sua voce rauca e lenta. - Ti assicuro che non vi era affatto. - Non lo avrai visto, - ripetè Annarella, ostinata nella sua dolorosa incredulità. - Come poteva non venire? Qua viene ogni sabato sorella mia. Può essere che a casa sua, con queste sue creature, non ci sia; può essere che alla fabbrica dei guanti, dove si può guadagnare il pane, non vi sia; ma non può essere, che non sia qui il sabato, a sentire che numeri escono; qui sta la sua passione e la sua morte, sorella mia. - Gioca assai, non è vero? - disse Carmela, che si era fatta pallidissima e aveva le lagrime negli occhi. - Tutto quello che può e anche quello che non può. Potremmo vivere alla meglio, senza cercare nulla a nessuno; ma invece, per questa bonafficiata, iamo pieni di debiti e di mortificazioni, e mangiamo, ogni tanto, così, quando porto io un pezzo di pane a casa. Ah, queste creature, queste creature, queste povere creature! E la voce era così maternamente straziata, che Carmela lasciava scendere le sue lagrime lungo le guance, vinta da uno infinito struggimento di pietà. Adesso erano quasi sole, nel cortile. - E tu, perché ci vieni, a sentire questa bonafficiata? domandò a un tratto Annarella, presa da una collera contro tutti quelli che giuocavano. - Eh, che ci vuoi fare, sorella mia? - disse l'altra, con la sua armoniosa voce infranta; - che ci vuoi fare? Tu lo sai che vorrei vedervi tutti contenti, mamma nostra, te, Gaetano, le creature tue e Raffaele, l'innamorato mio e…un'altra persona; tu lo sai che la vostra croce è la mia croce, e che non ho un'ora di pace, pensando a quello che soffrite. Così, tutto quello che mi resta, di quello che guadagno, lo giuoco. Un giorno o l'altro, il Signore mi deve benedire, debbo prendere un terno…allora, allora, vi dò tutto a voi, tutto vi dò. - Oh, povera sorella mia! povera sorella! - disse Annarella, presa da una malinconica tenerezza. - Deve venire quel giorno, deve venire… - susurrò l'appassionata, come se parlasse a sé stessa, come se già vedesse quella giornata di benessere. - Possa passare un angiolo e dire amen mormorò Annarella, baciando la fronte del suo lattante. - Ma dove sarà Gaetano? - riprese, vinta dalla sua cura. - Di' la verità, Annarella, - chiese Carmela, scendendo dal macigno e avviandosi per andarsene, - non hai niente da dare, ai bambini, oggi? - Niente, - disse con quella voce fioca. - Prendi questa mezza lira, prendi, - disse l'altra, cavandola dalla tasca e dandogliela. - Iddio te lo renda, sorella mia. E si guardarono, con tanta mutua pietà che, solo per vergogna di chi passava nel vicolo dell'Impresa, non scoppiarono in singhiozzi. - Addio, Annarella. - Addio, Carmela. La fanciulla appassionata depose un lieve bacio sulla fronte del bimbo dormiente. Annarella, col suo passo molle di donna che ha fatto troppi figli e che ha troppo lavorato, se ne andò per il chiostro di Santa Chiara, tirandosi dietro gli altri due figlietti, il bimbo e la bimba. Carmela, stringendosi nel gramo e scolorito scialletto nero, trascinando le scarpe scalcagnate, scese verso il larghetto dei Banchi Nuovi. Fu là soltanto che un giovanotto pulitamente vestito, coi calzoni stretti al ginocchio e larghi come campane sul collo del piede, con la giacchetta attillata, e il cappelletto sull'orecchio, la fermò, guardandola coi suoi freddi occhi di un azzurro chiaro e stringendo sotto i piccoli baffi biondi le labbra vivide, come quelle di una fanciulla. Fermandosi, prima di parlargli, Carmela guardò il giovanotto, con tale intensità di passione e di tenerezza che parve lo volesse avvolgere in una atmosfera di amore. Egli non sembrò addarsene. - Ebbene? - chiese egli, con una vocetta fischiante, ironica. - Niente! - disse lei, aprendo le braccia con un gesto di desolazione; e per non piangere, teneva la testa china, si guardava la punta degli stivaletti che avevano perduto la vernice e mostravano, dalle scuciture, la fodera già sporca. - E che ti pare! - esclamò il giovanotto, irosamente. - La femmina sempre femmina è. - Che colpa ci ho io, se i numeri non sono usciti? - disse umilmente, dolorosamente la fanciulla appassionata. - Dovresti cercarli, i buoni; andare dal padre Illuminato che li sa, e li dice solo alle donne; andare da don Pasqualino, quello che lo assistono gli spiriti uoni, e saperli, i numeri. Figliuola mia, levatelo della testa che io possa sposare una straccioncella come te… - Lo so, lo so…- mormorò quella umilmente. - Non me lo dire più. - Pare che te lo dimentichi. Senza denari non si cantano messe. Salutiamo! - Non vieni stasera, dalla parte di casa mia? - osò chiedere, ella. - Ho da fare; debbo andare con un amico. A proposito, me le presti un paio di lire? - Ne ho una sola, una sola…- esclamò lei, tutta rossa, mortificata, cavando la lira timidamente dalla tasca. - Possa morire uccisa la miseria! - bestemmiò lui, masticando il suo mozzicone di sigaro napoletano. à qua. Cercherò di accomodare alla meglio le cose mie. - Non ci passi, per casa? - pregò lei con gli occhi, con la voce. - Se ci passo, passerò assai tardi. - Non importa, non importa, ti aspetto al balconcino, - disse lei, crollando il capo, ostinata, in quella umiliazione della sua anima e della sua persona. - E non mi posso fermare… - Ebbene, fischia; fa un fischio, io ti sento e mi addormento più quieta, Raffaele. Che ti fa, passando, di fischiare? - E va bene, - annuì lui, con indulgenza, - va bene. Addio, Carmela. - Addio, Raffaele. Si fermò a vederlo andar via, rapidamente, dalla parte della via Madonna dell'Aiuto; le scarpette verniciate scricchiolavano, il giovanotto camminava con quel passo di fierezza che è speciale ai popolani guappi. La Madonna lo possa benedire, per quanti passi dà, - mormorò la fanciulla, fra sé, teneramente, andandosene. Ma, camminando, si sentiva fiacca e scorata; tutte le amarezze di quella perfida giornata, le amarezze che ella soffriva per amore degli altri, le amarezze di sua madre che faceva la serva a sessant'anni, di sua sorella che non aveva pane per i suoi figli, di suo cognato che si faceva trascinare alla rovina, del suo fidanzato che avrebbe voluto veder felice e ricco come un signore e a cui mancava sempre la lira in tasca, tutte queste amarezze e altre, più profonde ancora, e la più grande, la più profonda ancora, la più desolante fra le amarezze, quella della propria impotenza, tutte le si versavano dall'anima nel sangue, le salivano alle labbra, agli occhi, al cervello. Oh non bastava che ella lavorasse, in quel nauseante mestiere, alla Fabbrica dei tabacchi, per sette giorni alla settimana: non bastava che non avesse né un vestito decente, né un paio di scarpe non rotte, tanto che alla Fabbrica non la vedevano bene; non bastava che ella digiunasse, quattro volte su sette, nella settimana, per dare la lira a sua madre, le due lire a Raffaele, la mezza lira a sua sorella Annarella e tutto il resto, quando ce n'era, al giuoco del lotto; era inutile, inutile, non avrebbe mai fatto niente, per quelli che amava; non valevano né la fatica, né la miseria, né la fame; nulla serviva a nulla. E mentre scendeva per i gradini di San Giovanni Maggiore, a Mezzocannone, approssimandosi alla sua più dolorosa tappa, ella si sarebbe uccisa, tanto si sentiva misera, impotente, inutile. Pure, andava: e fu in un larghetto remoto dei Mercanti, un larghetto che sembrava una corticella di servizio, che si fermò, appoggiandosi al muro come se non potesse andare più avanti. Il larghetto era sporco di acque sudicie, di cortecce di frutta, di un cappellaccio feminile, sfondato, buttato in un cantuccio; e delle finestre di un primo piano, tre avevano le gelosie verdi socchiuse, lascianti passare solo uno spiraglio di luce: piccole finestre meschine e gelosie stinte, su cui la polvere, l'acqua e il sole avevano lasciato le loro impronte; portoncino piccolo, dal gradino sbocconcellato e umido, dall'androne stretto e nero come un budello. Carmela vi guardava dentro, con gli occhi spalancati da un sentimento di curiosità e di paura. Una donna piuttosto vecchia, una serva, ne uscì, sollevando la gonna per non insudiciarsi nel rigagnolo. Carmela, certo, la conosceva, perché le si rivolse francamente: - Donna Rosa, volete chiamare Maddalena? Quella la squadrò, per riconoscerla: poi, senza rientrare in casa, dal larghetto chiamò, verso le finestre del primo piano: - Maddalena, Maddalena! - Chi è? - rispose una voce roca, dall'interno. - Tua sorella ti vuole; scendi. - Ora vengo - disse la voce, più piano. - Grazie, donna Rosa, - mormorò Carmela. - Poco a servirvi, - rispose l'altra, brevemente, allontanandosi. Maddalena si fece aspettare due o tre minuti; poi un rumore cadenzato di tacchi di legno si udì per l'androne ed ella comparve. Portava una gonnella di mussola bianca, con un'alta balza di ricamo anche bianco: un giubbetto di lana color crema, molto attillato, con nodi di nastro, di velluto nero, alle maniche, alla cintura, sui fianchi: e uno sciallino di ciniglia color di rosa, al collo, - la gonna lasciava vedere gli scarponcini di pelle lucida, dai tacchi molto alti, e le calzette di seta rossa. Ella rassomigliava, nel volto, tanto ad Annarella quanto a Carmela; ma i capelli bruni, rialzati, pettinati bene, fermati da forcelle bionde di scaglia, ma le guancie un po' smorte, coperte di rossetto, facevano dimenticare ogni rassomiglianza con Annarella e la rendevano assai più seducente di Carmela. Le due sorelle non si baciarono, non si toccarono la mano, ma si scambiarono uno sguardo così intenso che valse per ogni parola e per ogni cenno. - Come stai? - disse con voce tremula Carmela. - Sto bene, - fece Maddalena, crollando il capo, come se non fosse la salute quella che importasse. - E mamma come sta? - Come una vecchiarella… - Povera mamma, poveretta!… Annarella, come sta? - Oh quella sta piena di guai… - Miseria, eh? - Miseria. Sospirarono ambedue, profondamente. Quando si guardavano, era un rossore e un pallore che tramutava loro il viso. - Anche oggi, mala nova ti porto, Maddalena, - disse finalmente Carmela. - Niente, eh? - Niente. - È cattiva sorte la mia, - mormorò Maddalena, a bassa voce. - Ho fatto tanti voti alla Madonna, non già all'Immacolata, che non sono degna neppure di nominarla, ma all'Addolorata che capisce e compatisce la mia disgrazia… ma niente, niente ci ha potuto!… - La Madonna Addolorata ci farà questa grazia, - disse piano, Carmela, - speriamo quest'altro sabato. - Così speriamo, - rispose l'altra, umilmente. - Addio, Maddalena. - Addio, Carmela. Maddalena voltò le spalle e col suo passo, cui facevano da ritmo i tacchetti di legno, scomparve nell'androne: allora solo Carmela fece per slanciarsele dietro per richiamarla; ma quella era già in casa. La fanciulla se ne andò, correndo, stringendosi convulsamente nello scialle, mordendosi le labbra per non singhiozzare. Oh tutte le altre amarezze, tutte, anche quel sabato senza pane, non erano niente di fronte a quella che si lasciava dietro, ma che veniva anche con sé, eterna avvelenatrice, vergogna eterna del suo cuore. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Alle cinque e mezzo il cortile dell'Impresa era perfettamente vuoto e silenzioso; non vi entrava più nessuno, neanche per guardare quella solitaria tabella dei cinque numeri estratti; i cinque numeri erano già stati affissi a tutti i botteghini di lotto di Napoli e innanzi a ognuno, per tutta la città, vi era un gruppo di gente ferma. Niuno entrava più nel cortile dell'Impresa; la folla sarebbe ritornata solo fra sette giorni. Allora uno scalpiccìo si fece udire. Era un usciere del Lotto, che si menava per mano i due bambini dell'Albergo dei Poveri; quello che aveva estratto i numeri e quello che li doveva estrarre il sabato venturo; l'usciere li riportava all'Ospizio, dove avrebbe consegnato le venti lire di pagamento settimanale che fa il Regio Lotto al bimbo che estrae i numeri. I due fanciulletti sgambettavano dietro all'usciere, cinguettando allegramente; la cucitrice di bianco, che lavorava alla sua macchina, levò il capo e sorrise loro. Poi ricominciò a battere col piede sul pedale e a condurre il pezzo di tela, diritto, sotto l'ago; seguitò quietamente, instancabilmente, figura umile e pura del lavoro.

Racconti umoristici IN CERCA DI MORTE - RE PER VENTIQUATTRORE

682915
Tarchetti, Iginio Ugo 1 occorrenze
  • 1869
  • E. Treves e C. Editori
  • prosa letteraria
  • UNIFI
  • w
  • Scarica XML

Ci giunge anche notizia che in alcuni luoghi siano stati abbattuti gli stemmi reali, e deturpato il sacro merlo nero che ne formava l'impresa, ma si è provveduto a che sieno presto ricollocati. Allorché, appena compiuta la vostra incoronazione, Vostra Maestà sarà entrata nella sala del Tribunale solenne, come richiede l'usanza, e avrà pronunciato giudizio sui delitti consumati nella giornata, l'esercito e la popolazione, compresi dalla vostra saggezza, non opporranno altro ostacolo alla vostra ascensione sul trono. - Mio Dio! io dissi, sotto quali tristi auspici incomincia il mio regno! Ancora non ho posto piede sulle rive de' miei dominii che una fiera ribellione ne agita metà le provincie, e la parte più valorosa dell'esercito mi abbandona per appoggiarne la rivolta .... Ma andiamo, io proseguii con voce più ferma andiamo a compiere - se ciò s'ha a far subito - questa formalità dell'incoronazione; e quindi se il prode esercito dei Denti neri presterà il suo braccio alla monarchia, non dispero con esso solo di sottomettere i ribelli, di consolidare il mio trono, e di conservare intatte le sacre. costituzioni del paese. - Andiamo, ripeterono in coro i miei ministri facendo atto di adesione alle mie parole. E uno degli ufficiali aggiunse; l'incoronazione potrà compiersi sul momento: tutto è preparato, il paludamento reale, la corona, il sacro osso nasale .... - Il sacro osso nasale! ... interruppi io trasalendo, come sarebbe a dire? - L'osso di balena che Vostra Maestà introdurrà nelle sue narici reali. - Nelle mie narici! - È la consuetudine del paese, è l'obbligo essenziale del re. Vostro padre .... - Lo so, lo so, io interruppi, non proseguite .... ma quale orrore! esclamai fra me stesso e io non ci aveva pensato ... ma ciò è impossibile ... il mio naso .... il mio naso greco! il più puro naso greco che io abbia mai veduto .... ah! io mi ribellerò a questa abitudine crudele, a questa tortura terribile. Se io tornassi in Europa! Se la ribellione mi privasse del mio regno .... tornarci col naso forato, trapassato da un osso di balena ... no, no, ciò non può essere E rivoltomi a' miei ministri dissi loro, dissimulando quanto poteva il mio spavento: illustrissimi signori, io sono felice di procedere sull'istante alla mia incoronazione, ma è occorsa credo una cattiva intelligenza in proposito ... desidererei ... bramerei, se ciò è possibile, che si indugiasse alcuni giorni per ciò che riguarda la formalità dell'osso nasale: una fiera costipazione, un potente raffreddore che mi sono buscato lungo il viaggio, l'infiammazione delle pareti interne delle narici rendono senza dubbio questa operazione alquanto pericolosa; pregherei l'eccellentissimo ministro che mi ha accompagnato fino a Potikoros a voler far conoscere a' miei sudditi questo desiderio, e disporli all'indugio che è mia intenzione di frapporre al compimento di una formalità, di cui per altro mi tengo altamente onorato. A queste parole i miei ministri si guardarono nel bianco degli occhi esterrefatti, e il ministro della Guerra in ispecial modo diede non dubbii segni della sua meraviglia e della sua disapprovazione. Io ammutoliva per vergogna. Dopo un istante di silenzio il mio primo ministro rispose: noi siamo profondamente convinti della verità delle giustificazioni addotte da Vostra Maestà, ma non sarà molto agevole il convincerne l'armata ed il popolo. La solennità che doveva compiersi oggi, ha radunato qui una buona metà della popolazione di Potikoros, né credo che essa vorrà partirne senza avervi assistito. Cotesto rifiuto può essere interpretato in un senso poco favorevole ed essere causa di disordini non lievi nel regno. In quanto a me, non mi attento a sfidare il furore del popolo, esponendogli il desiderio reale che Vostra Maestà mi ha fatto ora l'onore di manifestare. A questo diniego inatteso io mi sentii venir meno, e trovai appena la forza di aggiungere: se io stesso devo mostrarmi a' miei sudditi .... se posso arringarli io in persona, non dispero di convincerli della verità delle mie asserzioni .... Perché il mio naso .... la mia mucosa .... E in quell'istante essendomi balenata alla mente un'idea stupenda, mi avvicinai al mio primo ministro e gli mormorai all'orecchio: persuadetene la popolazione, disponetela ad attendere, ed io vi affiderò il comando della più florida provincia del regno, vi decorerò del gran Cordone del Merlo nero .... E aggiunsi fra me stesso: se posso uscirne col naso intatto dimetterò sull'istante questi ministri, rifarò il mio gabinetto, allontanerò da me questi sudditi ribelli e corruttibili. Il mio ministro cedette di fatto, come mi era lusingato, a quel tentativo. Rivoltosi al mio seguito disse; veramente .... l'interesse, la quiete dello stato ci impongono di accordare a sua Maestà l'indugio di cui ci richiede. Il momento è grave. Disposto al sacrificio della mia popolarità pel bene del paese, io sono deciso ad arringare il popolo circa i motivi che impediscono temporariamente l'attuazione di questa operazione importante: piaccia al cielo che le mie parole siano ben accolte e credute! Quindi rivoltosi a me che in quel frattempo era salito sopra una specie di carro destinato a recarmi sul luogo dell'incoronazione, aggiunse: andiamo, E ci riponemmo in viaggio. Attraversammo un buon tratto di strada tra le ovazioni vivissime della folla; e giungemmo in breve tempo ad un piccolo rialzo di terra sul quale era innalzato il mio padiglione. Tutta la campagna circostante era gremita di popolo; le dame Potikoresi vestite di un costume assai semplice, spesso di un costume affatto adamitico, stavano raccolte a gruppi sotto i padiglioni naturali che formavano le palme e i banani. Alberi giganteschi di paradiso attorniavano il recinto del luogo destinato alla mia incoronazione, e sovr'essi frotte di fanciulli a cavalcioni qua e là lungo i rami suonavano certi loro strumenti di cocco che producevano un rumore indiavolato. Da quel rialzo di terra si aprivano allo sguardo orizzonti stupendi; da un lato, il mare seminato in ogni punto di isolette quasi impercettibili e tutte verdi per la vegetazione più rigogliosa; dall'altro, campagne sterminate, pianure solcate da fiumi, colli ricoperti di boschi, montagne rivestite di eriche gigantesche; e sovra tutto ciò, il cielo stupendo del tropico, il cielo alto, sereno, sempre infuocato di quella terra prediletta dal sole. Ma io era in preda ad impressioni che moveano da cause ben diverse. Il timore che i miei sudditi volessero esigere sull'istante il compimento di tutte le formalità richieste per la mia incoronazione, il pensiero che, ove pure mi fosse stato accordato tale indugio, io non avrei potuto sottrarmi col tempo all'esigenza di quella moda crudele; e poi la ribellione delle mie provincie, la rivolta dell'esercito, le diserzioni, la poca devozione dei miei ministri, tutto ciò veniva ad amareggiare la mia gioia per modo che fui più volte in procinto di rimpiangere la mia vita modesta, ma libera, di letterato. E per altro lato, ove avessi potuto superare questi ostacoli, quanti piaceri mi aspettavano! La mia stupenda posizione anzitutto; e poi quel lusso, quello sfarzo, quello spensierirsi continuo; e l'harem, l'harem più d'ogni altra cosa; e quel costume sì grazioso, sì semplice, sì stuzzicante delle dame Potikoresi .... tutto ciò era pur preferibile all'oscura aridità della mia gioventù trascorsa. In preda a questi pensieri io era entrato nel ricco padiglione, ove doveva essere incoronato, e donde sarei stato condotto alla reggia. Le sorprese più grate mi attendevano in quel luogo. Oltre i doni ricchissimi in verghe d'oro e d'argento, e in grosse pietre preziose che mi erano state inviate dalle provinci e fedeli del regno, le fanciulle del mio serraglio mi avevano mandato un'ambasciata di dodici delle più belle tra loro, incaricate di ricevermi e prestarmi ogni sorta di servigi nel padiglione. Io non aveva veduto mai bellezze più abbaglianti, né è possibile che possa manifestare l'emozione che provai a quella vista. Il loro abito orientale era tutto ornato di lanugine di cigno e di perle, i loro calzoncini di seta azzurra erano stretti alla caviglia piccola e asciutta da un laccio magnifico a fiocchi d'oro, i loro piedini chiusi in scarpette a ricami erano sì piccini che potevano essere contenuti nella mia mano; tutte le loro forme erano ad un tempo sì piene e sì delicate, e spiravano tanta voluttà che io non aveva mai veduto, o immaginato soltanto, creature più graziose e più seducenti. Ma una ve n'era sovra tutte che colpì in ispecial modo la mia immaginazione. È impossibile il dire quanto ella fosse bella, forse anche impossibile lo immaginarlo: la bianchezza del suo viso era quasi luminosa - abbagliava: le sue fattezze, i suoi profili si perdevano in una specie di vaporosità leggermente rosata; i suoi capelli erano sì sottili, sì neri e sì lucenti che ondeggiavano sotto l'azione della luce come un drappo serico; e mentre io stava contemplando quel prodigio di avvenenza, essa mi si appressò timida e sorridente, e dopo aver pronunciato alcune parole in lingua Potikorese che mi riuscirono per ciò inintelligibili, asciugò il sudore che mi stillava dalla fronte con un suo fazzolettino che non era più voluminoso di una tela di ragno, ed esalava tutti i profumi più inebbrianti. Animato da tanta affabilità, e più ancora dal pensiero che io era re e che quella divina creatura era mia, trovai il coraggio di dirle: Come vi chiamate? - Opala, diss'ella, la più affezionata e la più fedele delle vostre schiave. E pronunciò questa parole nella mia lingua. - Voi non siete nativa del mio regno? le chiesi io meravigliato. - No, disse la fanciulla. La defunta Serenità di vostro padre mi portò seco bambina dall'Oriente, e mi apprese la lingua e i costumi della vostra nazione. Egli mi onorava particolarmente della sua affezione, e mi ha conferito una speciale autorità sulle donne del vostro serraglio. - Mio padre, esclamai tra me stesso, non aveva gusti depravati, non aveva deficienza di senso estetico ... una così bella creatura! Ma egli doveva aver passato i sessant'anni ... è impossibile ... E rivoltomi ad Opala le dissi: Mio padre vi amava? - Molto. - Di che affetto? Il volto di Opala si coprì d'un vivace rossore. Io che capiva a stento in me stesso, non seppi trattenermi dall'abbracciarla, esclamando: io pure vi amerò molto, io vi lascierò intatta l'autorità conferitavi da mio padre. Dio mio! voi siete sì bella!… voi sarete la mia prediletta e la mia regina, - È egli vero? disse Opala. - Quante è vero l'affetto che sente già il mio cuore per voi. - Per me! la vostra schiava .... - Non dite così, interruppi io - e in quell'istante osservai che le altre donne si ritiravano inchinandosi e ci lasciavano soli - dite la vostra amante, la vostra sposa; trovate, se potete, una parola sì dolce che valga ad esprimere ciò che voi sarete per me. Opala si gittò alle mie ginocchia, e abbracciandole disse: Grazie, grazie, io pure vi amerò; io languiva qui così sola, così abbandonata ... perché vostro padre .... era sì vecchio vostro padre ... e sì stizzoso! Voi siete tutt'altra cosa. Perché io non era stata educata qui, in quest'isola ... oh! sì, io vi amerò molto, non vivrò che per voi; e dormirò sul vostro tappeto, vi darò a bere il sorbetto colla mia bocca, vi solleticherò colle penne del mio ventaglio, vi farò riposare la testa sulle ginocchia, vedrete, vedrete! Oh buona creatura! io dissi tra me stesso, sarei pur felice con te, E pensai: se fosse possibile abbandonare il mio regno, fuggire con questa fanciulla, portar meco i tesori di mio padre, quel diamante favoloso, queste verghe d'oro ... e non veder più questi Denti bianchi, questi Denti neri ... questi odiosi ministri ... sottrarmi ad un supplizio spietato .... E mosso da un trasporto di affetto sincero, aggiunsi abbracciandola e sollevandola: sì, mia diletta fanciulla, se io potessi fuggire con te, portarti meco nella mia patria! ... perché devi sapere che mi si vuole già ritogliere il regno, che si pretende deturparmi il viso, forarmi il naso, il mio naso greco, il naso caratteristico della mia famiglia ... E poi ... Ma in quell'istante un fracasso terribile venne a troncare le mie parole. Io mi rivolsi e vidi il primo ministro che entrava ansante impallidito nel padiglione, e dietro ad esso alcuni ufficiali di Corte, uno dei quali mi disse: avvengono dei gravi disordini; è necessario che Vostra Maestà si affretti ad installarsi nella reggia; alla sua incoronazione si penserà dopo ... Il popolo non ha prestato fede alle parole dell'onorevole ministro che voleva giustificare il diniego di Vostra Maestà a subire tutte le formalità di questa incoronazione. Indarno egli ha asserito che ella ne è impedita da un raffreddore potente, che ha inteso egli stesso lungo il viaggio dei fragorosi starnuti reali .... non gli si è creduto: il sentimento nazionale è scosso profondamente da questa notizia, e il rimanente dell'esercito dei Denti bianchi ha abbandonato senz'altro le sue bandiere per congiungersi alle file dei ribelli. Bisogna affrettare l'entrata nella capitale finché la reazione non si è organizzata, e non si è posta in grado d'impedirlo. I Denti neri sono per noi; ove il giudizio pubblico che vostra maestà presiederà oggi, incontri il favore popolare, le sorti della monarchia possono essere ancora rassicurate. Io ho potuto, dissi allora, sollevandomi di tutta la persona, animato da non so qual forza interna, io ho potuto forse mostrarmi debole d'innanzi ad un'esigenza cui le abitudini contratte nella mia patria mi rendevano un poco ripugnante, ma non lo sarò mai d'innanzi agli uomini che vogliono spogliarmi del regno, privarmi dei sacri diritti che mi sono stati trasmessi da mio padre. Se non potrò sedere sul trono di Potikoros, saprò almeno morire difendendolo, E affacciandomi all'uscio del padiglione, e guardando con occhi torvi la folla, esclamai con voce più alta; recatemi le mie armi e il mio cavallo, che io indossi il mio paludamento reale, tutti i miei distintivi di re, e la corona, aggiunsi prendendomela e posandomela sul capo; saprò ben io difenderla da chi si attentasse a tormela. I miei ministri e i miei ufficiali meravigliati da tanto ardimento mi fecero recare in fretta il mio cavallo, e mi aiutarono ad indossare i miei distintivi. Dopo che, fiero del mio coraggio, balzai in sella colla spigliatezza d'un giocoliere e mi avviai in mezzo ad essi alla capitale del regno, e alla reggia. Ma il coraggio veníami meno lungo la via, L'accoglienza poco lusinghiera della popolazione, il freddo contegno de' miei ministri, le urla selvaggie dei ribelli, quei crocchi di Denti bianchi che incontravamo ad ogni istante sul nostro passaggio mi facevano venire la pelle anserina, o ciò che si dice più comunemente la pelle di oca, come se la mia sacra epidermide reale fosse stata l'epidermide del più volgare e del più ignobile de' miei sudditi, E tentando di dare come poteva meglio una diversione qualunque alle mie idee. immaginava come le oche debbano trovarsi in uno stato di spavento incessante se quel fenomeno della loro pelle è continuo, e mi sentiva tratto da un sentimento di pietà, a commiserarle. Che se così non fosse, come potremmo noi esprimere, volendo attenerci strettamente alla medesima frase, lo stato di spavento in un'oca? Potremmo forse dire che l'oca ha la pelle di oca? Io comprendo ora come il quesito che andava formulando in quel doloroso viaggio a me stesso, fosse meno ancora che puerile e non consentaneo alla mia dignità di monarca; pure confesso che me ne trovava imbarazzato, e che fu in virtù di quell'imbarazzo che giunsi alla reggia senza che i motivi di terrore che mi circondavano, avessero potuto cagionare in me dei fenomeni più sensibili e più complicati. La reggia era un edificio stupendo; tutte le meraviglie, tutte le delizie, tutte le ricchezze dell'Oriente vi erano state accumulate a larga mano. Mio padre aveva saputo conciliare fastosamente la mollezza dei costumi orientali colla severa grandiosità dell'architettura europea. Non credo vi sieno in Europa reggie o palazzi di privati più eleganti; certo io non aveva né veduto, né immaginato mai edificio più sontuoso e più splendido. Quantunque le pareti fossero tutte in legno di noce d'India, gli intagli erano sì stupendi, e le decorazioni in oro, in avorio e in argento eseguite sì maestrevolmente, e con tanta grandiosità di dimensioni, che le proporzioni del fabbricato e l'eleganza di quegli ornati non erano inferiori a quelli di qualunque casa europea. Il mio appartamento speciale era uno di quei ritiri incantevoli che si sognano a quattordici anni, di cui spesso non si ha neppure la facoltà di concepire un'idea, uno di quegli edifici che l'architettura nostra costretta nei limiti inesorabili dell'arte e delle sue tradizioni, non avrebbe mai lo slancio e l'ardimento necessario a creare. Io vi rimasi sventuratamente sì poco che non potrei darne una descrizione dettagliata. Non ho serbato memoria che delle stelle mobili che si perdevano nell'azzurro del soffitto di cui non si vedeva il fine, e che gettavano onde di luce abbagliante del colore dello smeraldo. Forse in quel cielo artificiale era rappresentato un intero sistema planetario, co' suoi fenomeni, colle sue orbite, con tutte le sue leggi di evoluzioni. Ricordo il pavimento elastico e semovente, tutto tempestato di rubini, la cui azione di elasticità era combinata per modo, che cedendo dolcemente sotto la pressione del piede e rialzandolo tosto per forza propria, rendeva affatto nulla la fatica del camminare, in guisa che vi si avrebbe potuto passeggiare delle intere giornate senza provare il menomo sintomo di stanchezza. Mi sovvengono pure alla memoria alcune specie di incensieri che appesi a certi arpioni d'oro massiccio sporgenti dalle pareti, si dondolavano per moto proprio; ed emettevano un vapore profumato, in mezzo alle cui spire volteggiavano delle figurine nude, le quali cambiavano forma e colore ad ogni istante, e giunte ad una certa altezza, si assottigliavano e si scioglievano in fumo. Le esalazioni di quei turiboli agivano sì potentemente sui sensi che io mi sentiva come preso da ebbrezza, né poteva prestare attenzione al canto soavissimo di certi uccelli che non vedeva, ma che pensai dovessero essere rinchiusi in una gabbia sospesa nell'azzurro del soffitto. Non parlerò del mio letto, del mio trono, di tutti i mobili delle mie stanze; sarebbe impossibile dirne la foggia, l'uso, i dettagli; erano pelliccie sovrapposte a pellicce, tramezzate di strati di petali di rosa che si mutavano ogni giorno: le sedie si cullavano da sé, volendo ristavano: e le dame di corte - le più attraenti beltà di Potikoros - avvolte in un semplice velo color di rosa, andavano e venivano per le stanze, ansiose di sorprendere ogni mio più piccolo desiderio, ogni mio bisogno più insussistente, e soddisfarlo colla rapidità del pensiero. Appena posto piede nel mio gabinetto particolare, alcune di queste dame mi presentarono il mio nuovo costume di monarca, e si accinsero a spogliarmi del mio abito di borghese (sotto il mantello reale che avea indossato nel padiglione, io vestiva ancora in quell'istante un abito a coda di rondine, di cui non avevo per anco soddisfatto il conto al mio sarto) per mettermi in grado di presiedere al giudizio popolare in tutta l'imponenza, e in tutto lo splendore della mia carica. Ma il mio pudore non mi permetteva di cedere all'invito di quelle dame rispettabili; io mi sentivo salire il rossore fino alla punta del naso; e mi provai a far loro conoscere la mia ripugnanza con un discorso di questo genere: - Egregie signore ... compitissime signore ... le mie abitudini di toeletta; ... il rispetto che io nutro per le loro persone ... non mi permettono di mostrarmi qui in tutta la semplicità del mio costume naturale ... e oltre ciò, i miei arnesi di biancheria, le mie mutande ... in un viaggio sì lungo ... senza la risorsa del bucato ... esse capiranno .... E stava per aggiungere peggio, ma mi avvidi che nessuna di esse intendeva la lingua del mio paese; e non potendo far di meglio, lasciai fare, con quanta confusione da mia parte, permetto a' miei lettori di immaginarlo. Quando mi trovai vestito, attilato, serrato, come in una morsa, dalle cinture di quell'abito tutto ornato di lamine di metallo e di perle, avendo chiesto dell'ora fissata pel giudizio pubblico, e avendo osservato nel mio orologio, (un vecchio orologio di Ginevra che aveva avuto cura di regolare sul meridiano di Potikoros) che vi mancava una buona mezz'ora, chiesi di essere condotto al mio serraglio; e mi vi avviai in mezzo alle persone del mio seguito, parte delle quali mi precedevano agitando dei grossi ventagli di piume, e parte recando con sé alcuni di quegli incensieri che aveva già veduto nelle mie stanze. Dio! dove troverò io espressioni sì eloquenti che bastino a manifestare la sorpresa, la meraviglia che provai alla vista del mio serraglio! Io era rimasto muto ed estatico. Appena ebbi la forza di pronunciare alcune parole per accomiatare gli onorevoli ufficiali della mia casa che mi vi avevano accompagnato. Non farò una descrizione di quel luogo: sarebbe impossibile. L'eleganza, la mollezza, il lusso del mio apartamento erano uno sfarzo meschino a confronto della magnificenza di quello, tutto si confondeva in un'onda immensa di luce: era una di quelle illusioni ottiche che si provano nei sogni da fanciullo; qualche cosa di simile a quelle visioni che si ottengono a quell'età, vellicando le pupille col rovescio della mano. Qua e là negli interstizii d'un lungo colonnato erano appese delle reticelle di seta ripiene di veli e di pizzi, dentro le quali alcune delle mie fanciulle vestite in quel semplice e delizioso costume di Potikoros, si dondolavano agitando i loro piccoli ventagli. Altre stavano sedute su certi divani di raso azzurro, raccontandosi novelle di fate e di genii; altre mangiucchiavano confetti o coccole profumate, di cui mordevano la buccia coi loro dentini (credo aver detto che le donne del serraglio erano tolte tutte dalla tribù dei Denti bianchi) altre infine giuocavano con dei veli, con delle piume; o imbeccavano delle tortorelle che erano grandi quanto uno dei nostri scriccioli, e dei piccoli colibrì che non erano più grossi d'una farfalla. Opala (io l'aveva cercata collo sguardo appena posto piede in quel santuario) Opala già mutata d'abbigliamento e raggiante della bellezza più attraente, era seduta sopra un seggio più elevato, una specie di trono che occupava per segno di distinzione. La sua testa graziosa si riposava in attitudine di pensiero sopra un soffice guancialetto di velluto; i suoi piedini rinchiusi in una pianella impercettibile d'un tessuto serico quasi trasparente, posavano riuniti e composti sopra uno sgabellino d'oro e di avorio, le sue mani piene di una tacita voluttà le pendevano giù pei fianchi in atteggiamento di abbandono, e le sue lunghe palpebre mezzo socchiuse non lasciavano ben indovinare s'ella dormisse o sonnecchiasse per vezzo fantasticando. Al rumore de' miei passi (nessuna pianella del mio guardaroba reale avendo potuto calzare al mio piede, io portava tuttora il mio unico pajo di mezzi stivali a doppia suola), Opala si scosse, e vedutomi, scivolò giù dal suo trono, e venne ad inginocchiarsi a miei piedi. A quella vista tutte le reticelle sospese si abbassarono, non so come, fino al pavimento; le fanciulle ne uscirono così abbigliate come erano, e si prostrarono esse pure ad una breve distanza da noi. Una musica divina e sommessa incominciò in quel momento a farsi udire nel serraglio, e ad elettrizzarmi colle sue note. - Nobili dame, io dissi rialzando Opala, e rivolgendomi alle altre, cui accennai di fare altrettanto, prego .... insisto perché esse si alzino; qui non vi è etichetta di Corte, non vi sono leggi di convenienze ... Prego a voler considerare la mia persona reale come la persona di un semplice amico, come una persona di famiglia ... già; intendo introdurre delle modificazioni nel regime interno di questa nostra società ... voglio dire delle leggi d'uguaglianza una parità di diritti, un equa ripartizione di .... E non venendomi al balzo la parola che calzasse a dovere, temendo di prometter troppo, e desiderando per altro lato di trovarmi qualche istante solo con Opala, aggiunsi: già ... so ben io quel che intendo di fare ... Le prego intanto di risalire nelle loro reticelle, nei loro nidi ... le prego a rioccupare i loro divani ... io mi farò un dovere di venire più tardi .... col tempo ... appena lo permetteranno le gravose esigenze della mia carica, a rendere a ciascuna di esse l'omaggio del mio rispetto e della mia ammirazione. Fui grato alla Serenità di mio padre di aver introdotto nel sistema educativo del serraglio l'insegnamento della lingua del mio paese, poiché tutte quelle mie fanciulle, risalirono all'istante nelle loro reticelle; e Opala, prevenendo i miei desiderii, mi prese per mano e mi condusse nel suo gabinetto particolare. Ci sedemmo sopra un soffice tappeto di Persia. Io era sì stanco per le fatiche della giornata, e sì turbato da tutte quelle apprensioni d'ogni genere, che quello stato di prostrazione m'induceva quasi per bisogno alla tenerezza e ad una espansione confidente e sincera. - Quanto siete buona! io dissi ad Opala abbracciandola, quanto siete bella! Divina creatura! Voi mi avete preceduto in questa reggia, dove io non rimarrò forse molto tempo, e d'onde non mi sarebbe doloroso l'allontanarmi, se non fosse pel pensiero della vostra perdita. Non credeva di trovarvi subito qui, ve ne ringrazio; aveva proprio bisogno di sollevarmi un poco con voi dalle cure dolorose del mio Stato. - Io posso tanto sul vostro cuore? - disse la fanciulla - quanto ve ne sono grata! Oh, voi siete sì diverso da vostro ... era sì nojoso vostro padre. Non amava che di farsi raccontare delle novelle, di passeggiare su e giù per le nostre sale, di regalarci qualche balocco, di farsi accompagnare a braccetto fino alla soglia del suo appartamento, di farsi reggere da noi la coda dell'abito .... Era insoffribile, perdonate, ma era insoffribile .... Già, credo che avesse settant'anni. - Pressapoco. Ecco! Ma voi siete sì giovine, sì bello, sì vivace. Non sapete ... io tremava vedendovi nel padiglione ... temeva che vi si volesse costringere a subire quella barbara usanza del nostro paese. Non che mi impaurisse il pensiero che aveste a perdere il vostro trono, giacché vi avrei amato lo stesso, e voi mi avreste amata ancora di più; ma tremava per me medesima.. mi avrebbe fatto ripugnanza vedervi col naso forato, vi avrei abbracciato con dispiacere. Se aveste veduto vostro padre ... che figura faceva vostro padre col naso così trapassato da quell'osso! Ma ... ora come farete a sottrarvi a quel supplizio? Vi siete rifiutato di acconsentirvi? - Sì. - E credete di poter sfuggire all'adempimento di quest'obbligo crudele? - Non so, diss'io, ma per fermo sono risoluto a niegarmivi. Tanto più che voi mi preferite così, che non mi amereste altrimenti .... - Oh sì, sì, disse la fanciulla abbracciandomi con innocente civetteria, non voglio, io, che vi si guasti il naso, questo naso greco, questo naso così grazioso .... Ma del resto io vi amerei in tutti i modi. E se voi doveste abbandonare quest'isola io vi seguirei lo stesso. Non è vero che voi mi permettereste di seguirvi? Son io, dissi, che vi seguirei, che perdendo il mio regno, troverei un compenso adeguato nell'acquisto che potrei fare del vostro amore. Perché… soltanto che voi mi amiate, che siate disposta a rifuggirvi meco nel mio paese, io avrò la forza di oppormi a tutte le torture che mi minacciano. Credo che i tesori di mio padre superino di gran lunga le più ricche fortune che ci sono in Europa e in quanto ai mezzi di rimpatriare, i miei ministri sono abbastanza corruttibili - come tutti i ministri che ho conosciuto nel mio paese - per lusingarmi che vorranno accordarmeli. - Quanto sarei contenta di venire con voi nel vostro paese! Non crediate già che noi siamo felici qui dentro. Non amiamo nessuno, noi; non siamo amate da nessuno: io per esempio mi reputava assai sventurata prima di vedervi; ed ora ... sento bene che sarò felicissima con voi, tanto più se lungi di qui, perché ... queste dame ... ve ne sono delle graziose, delle più avvenenti di me .... - Non è possibile, io dissi con asseveranza. - Oh, sì, diss'ella ve ne sono delle più graziose ... e voi le amereste. - Mai. - Voi le amereste. - E via, diss'io abbracciandola, non pensate a queste cose. - Una scena di gelosia, a quest'ora, ruminava intanto tra me stesso; e vedendo che Opala aveva gli occhi inumiditi di lacrime, pensai di dare una diversione più lieta al nostro discorso. Ma non trovava argomento di una diversione che tornasse anche acconcia a' miei disegni. Cambiai argomentazioni di sbalzo. - Che occhi furbi che avete, le dissi affissandola con aria che stava tra l'ammirazione e l'insolenza. - Non è vero. - Sì, è vero, avete degli occhi meravigliosi veramente! E che capelli! Lasciatemi toccare .... che trecce piene, abbondanti! Ma non avete freddo ai vostri piedini, così, con quelle pianelle sì trasparenti? - No. - È impossibile. Che piccoli piedi! scommetto che sono più brevi della mia mano. Vediamo, lasciatemi misurare. - Ecco. - Vedete: avanza tutta l'unghia del dito, tanto così .... Siete pur graziosa! Come non amarvi? Bellissima creatura! - Via, via, voi mi adulate .... - No, non è vero. - Sì. - No, ve lo giuro. - Giurate soltanto di amarmi. - Lo giurerò dopo. Datemi un bacio. - Ecco. Ma Opala aveva detto troppo presto questa parola. Mentre che ella curvava il suo volto sul mio si arrestò a mezzo dell'atto: la fanciulla aveva ascoltato un rumore improvviso all'uscio del gabinetto. - Affrettatevi, diceva dal di fuori colla sua voce stentorea, il mio primo ministro, l'ora del giudizio è già trascorsa, e la folla vi attende con impazienza; un indugio maggiore potrebbe peggiorare le gravi complicazioni politiche in cui versiamo, non fatevi aspettare più oltre. Mio Dio! io dissi, interrogando di nuovo il mio vecchio orologio di Ginevra, è vero, l'ora fissata è trascorsa di qualche minuto. Ma è un abuso cotesto .... ho o non ho un'autorità sovrana, assoluta? Disturbarmi, sorprendermi così nelle mie stanze, interrompermi durante le espansioni più doverose delle mie tenerezze domestiche? Se giungo a consolidarmi sul trono, rifarò da capo il regolamento interno della mia casa. E ricordandomi che il ministro attendeva fuori dell'uscio - vengo, soggiunsi a voce più alta, sono da voi, avvertitene il popolo. Quindi abbracciai la fanciulla che mi diceva: è un vero dispetto, venirvi ad importunare a questa ora. Che orrore! Ma ci rivedremo stassera. Mi avviai alla sala del giudizio: era mia intenzione di tenere un contegno severo, di impormi, di farmi temere; ciò che pareami sarebbe tornato assai più efficace di un'indulgenza che i miei sudditi erano ben lungi dal meritare. Oltre a ciò aveva in animo d'introdurre nelle leggi dello Stato alcune disposizioni, la cui saggezza avrebbe potuto dare il concetto più lusinghiero della mia sapienza governativa. - Sarò severo, diceva tra me stesso, ponendo il piede sul limitare della sala, sarò inflessibile: e debbo confessare che in quel momento la mia anima macchinava tristi progetti a danno del mio popolo. Se io riesco a consolidarmi sul trono; se coi tesori di mio padre potrò formare un partito numeroso alla mia causa, muterò sull'istante i vecchi statuti del Regno - ruminava tra me medesimo - e cambierò il governo costituzionale che mi tiene legate le mani in un governo dispotico. Farò, come mio padre, un colpo di Stato. Che cosa è questo governo costituzionale? Una derisione per la mia persona, per la mia qualità, per le tradizioni gloriose della mia casa. Il popolo fa ciò che gli aggrada, e io debbo accennare della testa come un fantoccio snodato di Norimberga quando gli si tira il filo che lo fa gestire. Aveva appreso nel mio paese come si debba governare una nazione: allora era suddito, adesso era re, ma non si trattava che di invertire le parti. - Guai a quel capo dello Stato, ripeteva a me stesso, che non sa fare del suo popolo tanti tipi perfetti di cretino, che invece di pensare a fruire di tutte le risorse della sua posizione, e a dare al paese buon numero di sudditi di sangue reale e plebeo incrociato, si occupa coscienziosamente dell'avvenire e della dignità della nazione che gli ha affidato i suoi destini. Questa testa coronata è una testa già distaccata dal collo. La civiltà è una mannaja che taglia le teste coronate. Io confesso che il mio orgoglio non lasciava più alcun limite alla mia fantasia. In quell'istante di entusiasmo, la teocrazia stessa era ancora poco per la mia ambizione. Entrai nella sala, e presi posto sul trono: a' miei fianchi stavano i ministri, d'innanzi a me i colpevoli, all'intorno la folla. I Denti neri si alzarono e mi fecero un'ovazione fragorosa; ma quegli scellerati Denti, bianchi coi loro orribili denti bianchi, armati dai piedi alla testa, mi guardarono torvi e sdegnosi tacendo. Feci allora un piccolo discorso di occasione che provocò qualche applauso dalla tribuna dei giornalisti stipendiati; dopo di che tentai il mio colpo d'effetto; domandai che mi si portasse la raccolta delle leggi dello Stato, e pregai il mio segretario particolare a dar lettura dei nuovi regolamenti che io aveva raffazzonati a questo scopo lungo il viaggio, e che intendeva inserire in quegli Statuti. Consistevano in una serie di articoli relativi all'abolizione del melodramma dal teatro Potikorese, basati su queste ragioni: essere il dramma musicale il non-senso più enorme, l'assurdo più mostruoso e più ridicolo di cui la scienza si sia resa colpevole. A questo progetto ne andava annesso un altro relativo ai mimi, ai ballerini, ai tenori e ai baritoni dalla trachea più o meno dilatata; ai primi dei quali doveva essere inflitta una pena di ridicolo pel diritto di esercitare il loro mestiere, e ai secondi s'imponeva l'obbligo di ricordarsi consistere tutto il loro merito nella forma e nella dimensione della trachea. Un secondo progetto di legge regolava i diritti degli autori e degli editori. Cinquanta articoli si riferivano esclusivamente a questi ultimi, ed erano sì severi e ad un'ora sì giusti, che mi sento addoloratissimo di doverli ora tacere in causa della loro prolissità. Mi limito a rammentare che in uno di essi, per un caso di pirateria libraria, era proposta la pena della sospensione pei piedi fino a totale estinzione di vita, - e credo che fosse poco. Altri articoli stabilivano pene pei delitti letterari. V'erano severamente puniti i lavori di collezione e di circostanza; quei lavori di schiena che si atteggiano a lavori di testa, ec. ec. Un'appendice a questa disposizione interdiceva alla classe dei professori di credersi letterati, e li chiamava responsali d'innanzi alla posterità della istruzione eunuca e della catalessi intellettuale che è condannata a subire la giovine generazione dei tempi nostri. Un'altra disposizione legislativa toccava delle fame imposte e delle fame usurpate; proponeva pene pei letterati funamboli; condannava a perpetuo bando dall'isola i poeti che si fossero attentati a dar lettura dei loro versi a qualche infelice costretto a subire questa violenza, e vietava finalmente la rappresentazione del dramma e della tragedia - considerate come le più ridicole parodie del dolore e delle sciagure umane. Erano, in una parola, un complesso di leggi inspirate dalla più alta saggezza, e la mia mortificazione non fu sì grande come la mia meraviglia quando intesi che esse erano già state introdotte nel Codice di Potikoros, fino dal tempo in cui quest'isola si reggeva a repubblica. La repubblica aveva dunque giovato a qualche cosa? Per la prima volta io compresi che il Due dicembre di mio padre aveva avuto in sé tutto il carattere di un tradimento indegno, e mi sentii tratto a fare un apprezzamento più benigno di quegli onesti Denti bianchi che coi loro atteggiamenti minacciosi, e coi loro terribili incisivi foggiati ad uncino, reclamavano la ricostituzione del primo sistema governativo dello Stato. Ma in quel momento non poteva, come avrei voluto, soffermarmi su queste considerazioni; e d'altronde il mio interesse personale mi avrebbe reso ingiusto nell'apprezzarle. Credete voi che tutti coloro che sedettero - come io ho seduto - su un trono, non abbiano fatte le stesse considerazioni, benché le abbiano poi soffocate nel fondo della coscienza collo stesso spirito di egoismo? Un fatto meraviglioso si presenta, fino dalle prime epoche della storia dei popoli, agli occhi dell'osservatore e del filosofo. Cinque o sei furbi matricolati regolano a bacchetta i destini di tutta questa massa sterminata di pecore che è l'umanità. Ho letto, non so più dove: mala bestia esser l'uomo, divina cosa la umanità. Non è vero! Per me ho dovuto sempre guardare all'uomo, all'individuo, alla creatura isolata per sapermi trovare meno in disagio colla massa degli uomini; mi sono riconciliato alla meglio, dacché vivo, con tre o quattro di loro, ma credo che non mi riconcilierò mai col resto dell'umanità. D'altronde questa credenza ha cessato di addolorarmi. Ma bando alle digressioni. Era tempo d'incominciare il giudizio, e feci perciò avanzare il primo colpevole. Fu data lettura dell'atto d'accusa. Io era tutto orecchi nell'ascoltare, anzi per servirmi d'una frase inglese, era tutto un orecchio, poiché non ignorava che il mio destino dipendeva totalmente dall'esito di quel giudizio. L'atto di accusa era concepito press'a poco in queste parole: «Akriundaz, della provincia di Pikliya-pokenos, di anni trentadue - della tribù dei Denti neri, di professione incettatore di merli bianchi, è imputato del furto di due pani rubati nella bottega Srikis Tenariasbikeloz esistente sul corso principale della nostra città di Potikoros, con rottura d'un vetro, e senza circostanze attenuanti». Benché la lettura di quell'atto scritto in lingua Potikorese avesse fatto poco meno che spezzarmi i timpani delle orecchie, riordinai come sapeva meglio le mie idee, e invitai l'imputato ad esporre le sue difese. - L'incetta dei merli bianchi, disse egli, essendo diventata più difficile e meno lucrosa per l'introduzione del merlo nero operata dalla Serenità di vostro padre nella nostra isola, e in causa dell'omaggio che vien reso ad esso dal popolo, essendo caduti in dispregio i merli dell'altro colore, io mi sono trovato da qualche tempo fuori della possibilità di vivere dei frutti del mio commercio. Ho chiesto stamane all'onorevole fornaio Tenariasbikeloz che mi fossero dati ad imprestito alcuni pani. Rifiutandomeli egli io ho spezzato un cristallo della vetrina e ne ho tolti due. Io sono un onesto Dente nero. Causa essenziale di questa violenza, fu l'intenzione che aveva di festeggiare, come mi permettevano i miei mezzi, l'assunzione di Vostra Maestà al trono di Potikoros. Questa difesa cui non mancava l'intingolo dell'adulazione, mi dispose in favore dell'imputato. - Avreste dovuto, io dissi, far conoscere alle autorità del vostro paese - parmi, se non erro, Pikliya-pokenos - che vi trovavate nelle circostanze che avete esposte; quel solerte questore di polizia vi avrebbe autorizzato a chiedere l'elemosina senza violare le leggi dell'onestà con una appropriazione sì violenta. - A chiedere l'elemosina! disse meravigliato il mio ministro. E vide che gli uditori avevano sbarrato tanto d'occhi nell'udire quelle parole. - Sì, ripresi io, a voce più alta, lo si sarebbe autorizzato alla mendicità, lo si sarebbe munito di apposita placca, come corre l'uso nei paesi civili dell'Europa. Un bisbiglio immenso si sollevò dalla folla, un bisbiglio di disapprovazione universale. Io sentii salirmi il sangue dai piedi alla testa, e subito precipitare dalla testa ai piedi, e rimontare di nuovo alla testa. - Ignoro, aggiunsi con coraggio, quali sieno le leggi di polizia di questo paese, ed è evidente che non possa sull'istante conformarvimi. Sarà mia premura di prenderne subito cognizione. - Tra noi, interruppe il mio segretario particolare, non è ammessa in alcun modo la mendicità; appena conosciamo il significato di questa parola per le notizie che abbiamo avuto delle usanze invalse in Europa. Nell'isola di Potikoros ogni suddito ha diritto al lavoro; e in caso d'impotenza, ha diritto al mantenimento a spese dello Stato. - Sono leggi veramente saggie, io dissi, veramente apprezzabili. Ringrazio il mio degno segretario particolare di avermene reso informato; ma .... riprendiamo il corso del nostro processo: L'onorevole fornaio .... - Tenariasbikeloz, suggerì uno dei ministri. - Tenariasbikeloz .... si trova egli presente all'udienza? In questo caso deponga se è vero che l'imputato gli abbia chiesto ad imprestito i due pani prima di rubarglieli. Il fornaio si avvicinò al tavolo della presidenza e depose esser vero. - Quando è così, io ripresi, atteggiandomi a severità, udite le giustificazioni dell'accusato, visto la necessità di mantenere inviolate le leggi fondamentali d'ogni diritto civile, tenuto conto dell'asserzione del derubato, e delle altre cause attenuanti, condanno il nominato Akriundaz - credo Akriundaz, incettatore di merli bianchi, alla pena di quattro anni di lavori forzati. Non avessi mai pronunciata quella sentenza! Un urlo di disapprovazione si sollevò dalla folla, un urlo così fragoroso e feroce che i miei stessi ministri se ne sentirono impauriti I capelli mi si drizzarono sì rigidamente sul cranio, che m'accorsi che la mia corona doveva essersi sollevata due buoni pollici dalla testa. I Denti bianchi, digrignando i loro terribili incisivi, domandavano che ne andasse libero l'accusato, e che si sottoponesse invece a processo l'onorevole fornaio Tenariasbikeloz: adducevano a pretesto il diritto che egli aveva di appropriarsi quei pani che aveva chiesti, e che gli erano stati rifiatati; e citavano non so qual articolo di legge, nel quale era detto che ogni cittadino resosi, per qualsifosse ragione, impotente al lavoro, poteva esigere il mantenimento gratuito a spesa dei privati ricchi e dello Stato. Io non so come giungessi a sedare quel tumulto. La fermezza del mio contegno e quella de' miei ministri - sento il dovere di rendere loro questa giustizia - riuscirono a poco a poco a ristabilire un po' d'ordine nella adunanza. La minaccia di far sgombrare la sala da un mezzo pelottone di Denti neri ottenne il suo effetto. Quando la calma fu ristabilita, ordinai che si facesse avanzare il secondo colpevole. Era il direttore del giornale Il Giudizio Universale (il giornale ufficiale di Potikoros) accusato di aver recato il disonore in una onesta famiglia con alcune taccie infamanti, destituite d'ogni verità. L'onorevole direttore parevami una persona seria e meritevole d'ogni riguardo, oltre di che io mi trovava in certo qual modo legato a lui da una vecchia intimità di famiglia, e sentiva il dovere di difenderlo e di pronunciare per esso una sentenza assai mite. - Ove è il gerente? io chiesi: se l'accusato non è direttore responsabile, si conduca qui il gerente e si lasci libero il giornalista. - Il gerente! esclamò il mio giudice istruttore, che cosa è il gerente? Può egli darsi che una persona qualunque si faccia responsabile dei reati di un'altra? Puniamo i reati, o puniamo le coscienze? - Un tale sistema, io dissi, è invalso in tutte le nazioni d'Europa, né io posso giudicare di questa accusa senza conoscere le leggi speciali che regolano la stampa Potikorese. D'altronde .... parmi che questo sia un fallo assai mite; una semplice riprensione .... un semplice ammonimento - Indugierò, ad ogni modo, a pronunciare la mia sentenza fino a che non avrò presa cognizione delle leggi che ho ora accennate. Prego l'onorevole magistrato a fare avanzare il terzo colpevole. Uscitone in tal guisa pel rotto della cuffia, gettai gli occhi sulla folla per conoscere l'impressione che vi avevano prodotto le mie parole. Il disordine si era in parte rinnovato; non era precisamente lo stesso scompiglio, la stessa disapprovazione plateale di prima; ma poco meno. Si vedeva chiaro che la impazienza dell'uditorio stava per prorompere in una dimostrazione più energica e più difficile a reprimere. L'interesse che destava il terzo accusato ebbe virtù di distogliere in tempo i loro animi da questa disposizione. Era egli un alto funzionario governativo, imputato di grave prevaricazione per una somma di molti milioni sottratti alle casse dello Stato. Come suole avvenire in simili casi, le prove erano bensì manifeste, ma confutabili in mille maniere, e facili ad essere ritorte a danno di altri funzionarii. Io diressi ed illuminai in alcuni punti lo svolgimento del processo; ma benché fosse universale la convinzione che si aveva del suo reato, le prove volute dalla legge non avevano tutti i dati necessarii per autorizzarmi a pronunciare un verdetto di colpabilità. Io mi trovava posto in una titubanza terribile - era il caso dell'incudine e del martello - e considerando che l'accusato era un Dente bianco, e faceva parte di quella tribù di cui doveva starmi specialmente a cuore il favore; che egli apparteneva alle alte sfere governative, nelle quali è stabilito il principio che una mano lava l'altra, che questa appropriazione sarebbe stata considerata nel mio paese come una bagattella di nessuna importanza, come uno spostamento di cifre (è la parola addottata da alcuni governi costituzionali per definire i furti governativi) credetti mostrarmi abbastanza severo nel pronunciare una sentenza che lo spogliava semplicemente della sua qualità, e lo esonerava dalla sua carica. Fu la scintilla che cagionò l'incendio: il furore del popolo proruppe sì vivo, sì unanime, sì violento che io mi avvidi subito che non vi era più mezzo a contenerlo. I miei stessi ministri erano rimasti meravigliati della stoltezza del mio giudizio; e temendo che i rivoltosi non li considerassero come facienti causa comune col re, si affrettarono a ritirarsi prudentemente nelle anticamere. Io rimasi come paralizzato, come pietrificato sul trono; e solamente alcuni istanti dopo, quando mi avvidi che la folla gridando «abbasso il re, si destituisca il re,» ed altre graziosita di questo genere, si accingeva a superare lo steccato per impadronirsi della mia persona, pensai a mettermi in salvo nell'interno della reggia. Non dirò quali fossero i pensieri che mi passavano allora pel capo, - rapidi, vari tumultuosi, inutili tutti .... Fu però un'incertezza di un istante. Quando vidi che le persone della mia casa cercavano di rifuggirsi nei gabinetti segreti, e non solo non avevano a cuore la salvezza della mia maestà reale, ma era molto se non attentavano essi medesimi alla mia vita; quando intesi che il tumulto popolare andava orribilmente crescendo, e che i Denti bianchi erano già penetrati in alcune sale della reggia, deliberai di cercare salvezza nella fuga. Mi precipitai verso il mio serraglio, poiché non sentiami la forza di abbandonare il mio regno senza portarne meco la fanciulla che mi aveva affascinato, e abbracciando Opala, le dissi: La rivolta sta per spogliarmi del regno e della vita .... fuggiamo, vieni meco: io sarò ancora il monarca più felice, il più ricco, il più fortunato se potrò trascorrere il resto della mia esistenza con te .... se tu sarai mia, mia cara Opala, mia dolce fanciulla! Sì, sì, fuggiamo nella mia patria, dove la dignità e la coscienza popolare assicurano la monarchia da questi pericoli, dove i re non sono costretti ad infiggersi un osso di balena nel naso, ma menano essi stessi pel naso i sudditi devotissimi .... vieni, vieni .... Ma lascia prima che io prenda i tesori di mio padre .... Ove sono i tesori di mio padre? quel diamante favoloso, quegli smeraldi .... Opala allacciandomi il collo colle sue braccia bianche e delicate, mi diceva colla voce interrotta dal singulto: - Non uscire, non uscire di qui; forse i Denti bianchi non entreranno in questo tempio, rispetteranno il culto che queste vergini rendono all'amore, forse .... - Ma è impossibile, io interruppi, fuggiamo, fuggiamo, ripariamo verso il mare; se possiamo attraversare la capitale senza essere conosciuti, se ... Ma in quel momento si spalancò l'uscio del serraglio, e una turba di Denti bianchi apparve minacciosa sul limitare, Io non vidi che una cosa, i loro denti, tanto essi erano orribili, tanto erano bianchi, lunghi, aguzzi, scoperti dalle labbra che l'avidità del mordere aveva rovesciate e contratte in una smorfia feroce. Lo ripeto, io non vidi che i loro denti; e in questo stesso momento in cui scrivo, quelle orribili rastrelliere che si digrignavano da sé, come segregate dal resto della persona, come attaccate a qualche cosa d'impercettibile, mi balenano dinanzi agli occhi simili alle dentiere artificiali d'un cavadenti collocate per mostra sopra un fondo di velluto nero in una vetrina. Vederli e rabbrividire, e rimanere là immobile e paralizzato sul luogo, come se vi avessi messo radici, fu un punto solo. Un Dente bianco si spiccò allora dal limitare dell'uscio, e venne verso di me, avventandomi una specie di giavellotto che teneva fra le mani. Fu un istante. Opala lo vide, si rivolse, si interpose, e ... oh mio Dio! ... ricevette ella stessa il colpo mortale che mi era stato diretto. Non tenterò qui di evocare quella memoria terribile. Io vedo ancora il suo candido seno lacerato da una ferita profonda, vedo i suoi grandi occhi nuotanti nella morte e nelle lacrime, e ascolto le sue ultime parole interrotte dall'anelito: «io muoio per te ... io ti ho amato .... ricordami.» Commosso, tratto di senno, inferocito a quella vista, volli allora avventarmi, inerme come era, contro i ribelli ... ma quelle orribili rastrelliere mi balenavano ancora dinanzi agli occhi; io le vedeva ancora là, lunghe, bianche, isolate come le dentiere del cavadenti; e sentiva quel rumore sordo, quello scricchiolio freddo e secco che producevano digrignandosi. Mi arrestai a mezzo dell'atto; qualche cosa di nero mi passava dinnanzi alla vista; sentii che le mie forze mi abbandonavano ... vacillai e caddi privo di sensi. Quando rinvenni mi trovai carico di catene, e circondato da alcuni vecchi denti bianchi, i quali avevano costituito un apposito Consiglio di guerra per giudicarmi. Mi fu letto l'atto di accusa, nel quale mi si imputava di aver voluto sovvertire gli ordinamenti dello Stato con una interpretazione falsa e speciosa delle leggi che lo governavano: di aver fatto atto di disprezzo verso le usanze del paese - usanze che avevano forza di legge - rifiutandomi a trafiggere il mio naso greco con quell'ornamento grazioso di balena: di aver poste in grave pericolo la quiete e la sicurezza della nazione, costringendola, in seguito alla mia decadenza dal potere, a riadottare la forma primitiva di governo, il regime repubblicano, o ad eleggersi un re nazionale. In causa dei quali reati io veniva considerato come decaduto dal trono di Potikoros, e condannato alla pena della morte per sospensione. Fui invitato ad esporre le mie difese. Anzi tutto, io dissi non posso ammettere in questo onorevole Consiglio di Denti bianchi il diritto di giudicarmi. Io vedo qui rappresentata una sola metà della nazione. Ove è l'altra metà? Ove sono i degni rappresentanti dei Denti neri? Ma ove pure essi facessero parte di questo consesso, i diritti di un re non posson essere discussi da suoi sudditi, e le sue colpe - se un re può commettere delle colpe - non possono essere né giudicate, né punite da essi. Io venni qui, in un paese i cui ordinamenti si erano rilassati per un lungo interregno, nel quale la demagogia incominciava a difondere le sue dottrine rivoluzionarie, le cui leggi erano violate da un'anarchia impossibile ad arrestarsi. Io vi venni chiamato dal suffragio popolare, invitato da una rappresentanza della nazione, eletto dal voto di tutti i governi d'Europa. Io venni a governare questo popolo cieco e traviato che aveva bisogno di essere ricondotto sotto il regime della monarchia: vi venni per un puro istinto di umanità, per un semplice spirito di abnegazione. Affetti e interessi mi trattenevano in Europa. Il mio sangue, il sangue di mio padre, è uno dei più antichi e dei più nobili tra tutte le dinastie di quel gran continente incivilito. Io ho avuto pietà di voi; io era venuto ad apportarvi l'ordine e la felicità che regnano in molte capitali di quegli stati; mi era sacrificato a mutare il mio berretto di cotone europeo in un turbante di penne, a ricevere quaranta milioni di appannaggio, a comandare a quaranta milioni di sudditi, a vivere da monarca in questa reggia ... aveva fatto tutto questo per voi; quale è la ricompensa che mi avete accordata? Sdegno giustificarmi più oltre: la razza dei re è una razza speciale, e ogni re che si rispetti non può ammettere in voi il diritto di giudicarlo. Gli storiografi stipendiati, i sudditi devotissimi di cui non vi sarà mai deficienza nelle generazioni future mi giudicheranno. Ho detto. Uno scroscio di risa feroci accolse le mie parole, e delle voci si sollevarono dalla folla che gridavano: alla corda, alla corda. Fui condotto al luogo destinato ai supplizii. Quivi un abisso profondo, immenso, si apriva nel seno di una montagna: in fondo alla voragine, sulle punte di granito e di metallo taglienti come lame, roteavano stormi di astori e di aquile. Fui legato ad una corda annodata alla punta di un albero, il quale inclinandosi sull'abisso, ne guardava il mezzo colla cima. Prima che la corda abbandonata a sé, mi sospendesse perpendicolarmente sulla voragine, io diressi ancora alcune parole ai Denti bianchi: - Domando, io dissi, che la salma reale sia trasportata in Europa, per ricevere sepoltura nelle tombe de' miei padri. Che, ove non ottemperaste a questo desiderio, la mia nazione invierebbe immediatamente la sua flotta a bombardare i porti di Potikoros, e impadronirsi dell'isola. Né io pensava in quel momento che era impossibile tornar da quell'abisso, e che mi sarei fatto a brani cadendo sulle punte di granito che formavano il fondo. E comprendeva benissimo che la mia salma doveva aver nulla di più sacro della salma d'un zoccolante; poiché il corpo d'un re e quello d'un mendico producono la stessa specie di vermi; e, come aveva letto nel Amleto, si può gettar l'amo ad un pesce col verme che mangiò di un re, e un mendico può mangiare di quel pesce, per modo che il corpo di un re entri nelle viscere di un mendico. Nondimeno la mia vanità mi spinse a proferire quelle parole. Vanità inutile, poiché i Denti bianchi tornarono a sorridere di quel sorriso feroce che mi aveva poc'anzi agghiacciato il sangue nelle vene, e a contrarre le labbra a quella smorfia infernale, di cui non saprei darvi un'idea se non richiamandovi alla mente quello scoprirsi delle mandibole che osserviamo nei mastini e nelle fiere quando stanno per avventarsi, e che noi soliamo indicare col dire: mostrano i denti. Non si frappose più indugio alcuno al mio supplizio. Fui condotto sull'orlo della voragine, e spintovi in guisa che, essendo stato annodato alla corda, mi trovai sospeso perpendicolarmente sopra l'abisso. I cavalieri dei Denti bianchi, i miei stessi ministri, le persone più autorevoli dello Stato disposti in circolo sull'orlo della voragine, tentavano di tagliare a colpi di freccia la corda che mi teneva sospeso. Era un supplizio lungo, lento, crudele, atrocissimo. Ogni trecciolino della corda tagliato si arricciava da una parte e dall'altra, assottigliando sempre più il centro di essa, su cui erano dirette le freccie. Dopo due ore di patimenti infiniti, la corda rotta in più luoghi, non reggeva più che per un semplice filo al mio peso. Curvandomi e guardando sotto di me, io vedeva l'abisso nero e profondo che mi attendeva, gli uccelli di rapina che aspettavano il mio cadavere per divorarlo, e qua e là le ossa imbiancate degli infelici che avevano subito prima di me quel supplizio tremendo .... Un solo filo reggeva ancora la corda, le freccie passavano fischiando da tutte le parti e non la colpivano: io guardava la corda e l'abisso, poi la corda, poi ancora l'abisso, e mi contraeva, mi arricciava, mi aggomitolava, come avessi potuto con ciò sollevarmi dal fondo della voragine. Non so quanto durasse quell'agonia. A un tratto una freccia colpì nella corda, la ruppe, precipitai, innalzai un grido di orrore e ... oh mio Dio! .... mi svegliai, e mi trovai nel mio letto. - Che vergogna! mi disse Elettra appoggiata col gomito ai mio capezzale, è da jeri sera che tu dormi; sono ora ventiquattro ore .... - Ventiquattro ore! - Sì cotesta tua abitudine di bere ... io ti vegliava inquieta ... - Ventiquattro ore! ripetei tra me stesso stordito: un sogno di un giorno, perocché adesso ... - Siamo di sera. Hai, dormito un giorno intero. - Un giorno! Ed ora, miei lettori, dubiterete ancora che non sia questa la storia di un giorno della mia vita?

Pagina 90

Bestie

682991
Tozzi, Federigo 1 occorrenze

Per i sentieri più scoscesi, tra i tronchi degli alberi che furono abbattuti con l'ascia, con un'ambizione di farsi vedere che pare perfino ingenua. La primavera assomiglia, questa volta, un poco alla stanza che la nostra amica, aspettandoci, ha adornato di fiori comprati a posta. C'è uno sciupio di gemme e una voglia di fiorire che pare una di quelle accoglienze da segnare poi nel nostro calendario. La primavera in tutti gli stili, perfino roccocò; con certe manie di fare effetto per forza. E pensando a tutto questo lusso, ci si prova ad essere contenti. Le margherite bianche, quelle dei prati, fanno di tutto per darvi nell'occhio; e gli stessi prati si sono lisciati con la rugiada e il fresco che pare perfino bizzarria e voglia di divertirsi. I pini mettono fuori la loro resina come se volessero regalarvela a tutti i costi, e ci si avvicina a loro per guardarli meglio; mentre anche l'azzurro rimane lì per lì un poco rintontito, quasi non sapesse che fare, e, forse, vergognoso di non odorare né meno quanto una violetta. E c'è modo, del resto, per tutti di far qualche cosa. Ma perché, proprio ora, un maggiolino morto? * * * Sentirsi solo è un piacere che spaventa. Un'ora dopo la mezzanotte non avevo più sonno né stanchezza; e la conversazione fatta con un amico e un'amica, quantunque di poche ore innanzi, cominciando da quando avevamo cenato insieme, mi pareva già sì lontana che pensavo se l'indomani ambedue si ricordassero di conoscermi. Con il chiaro di luna in bocca, credevo di masticarlo, e c'era tutta la strada che voleva saltarmi addosso. Prima ancora di sapere perché, mi viene freddo e poi distinguo la voce della civetta. * * * Oggi sono rientrato nella chiesa della mia parrocchia. Lo scialbo bianco è uguale a quindici anni fa: ho creduto riconoscere, su una colonna, vicino a una panca, una scalcinatura che ogni domenica allargavo sempre più con le unghie. E mi son ricordato dei fiori finti, a mazzolini, portati al curato dalle due zitelle che andavano sempre insieme e facevano poca elemosina, e tutti dicevano che erano avare. Oggi mi dispiace di averle odiate con feroce avversione, quasi sempre inciampando se mi voltavo a perseguitarle con gli occhi. E tutte quelle ragazze, forse ora madri, e non le riconosco, di cui ero un poco innamorato! Ma quanto piansi quando mi confessai per la prima comunione! Ora non ho più paura quando suonano le campane, ma mi piace ch'io volessi mettere al collo di una di quelle ragazze un nastro uguale alla riga ch'era per margine a ogni pagina del libro di preghiere della mamma. La voce di quella ragazza mi faceva lo stesso effetto di quando mi guardava; ed io ridevo che la mamma sapesse a pena leggere, ma mi pentivo tanto d'aver ficcato pezzetti di cartasuga dentro il calamaio. Riesco fuori dalla chiesa, sicuro che il suo scialbo sia più fresco della primavera che inonda la piazzetta sbilenca di San Donato; e, scesi gli scaloni, mi volto a dietro, in su, a guardar le campane. Me ne vo con meno dispiacere, perché vedo che un branco di passerotti hanno il nido sul tetto. * * * Piove tanto che ormai i fichi sono sciapiti. Allora assaggio l'uva e, con un grappolo in mano, piglio attraverso la vigna. Qui c'è un palo da rialzare, là una vite da buttar via. Ma io sono il padrone: mi faccio ubbidire anche dal grano, e mi volto alla luce per dire: domani tornerai e seguiterai a maturarmi l'uva. Io assaggerò il mosto. Come odiai uno de' miei pavoni, che capii più orgoglioso di me! * * * La mia anima, per aver dovuto vivere a Siena, sarà triste per sempre: piange, pure ch'io abbia dimenticato le piazze dove il sole è peggio dell'acqua dentro un pozzo, e dove ci si tormenta fino alla disperazione. Ma i miei brividi al tremolio bianco degli olivi! E quando io stavo fermo, anche più di un'ora, senza saper perché, allo svolto di una strada, e la gente mi passava accanto e mi pareva di non vederla né meno! Città, dove la mia anima chiedeva l'elemosina, ma non alla gente! Città, il cui azzurro mi pareva sangue! Dal podere, le mie viti scendevano fino a una sua strada; e l'anima di quella che sarà per sempre la mia fidanzata mi teneva compagnia, nel silenzio folle; e qualche mia parola, che le scrivevo in fretta, era stata il mio respiro più di una lunga settimana. Siena, da sotto il mio ciliegio, pareva un arco che non si potesse aprire di più, e le sue case, giù per le sue strade a pendio, parevano frane che mi mettevano paura; con i tetti legati dall'edere cresciute su per le mura della cinta, le mura che non si apriranno mai. Ed io allora andavo a guardare la città da un'altra parte, quasi da quella opposta, dalla Porta Ovile. E vedevo i suoi orti squadrati entrare, con un angolo più alto degli altri, tra le case più rade; oppure, l'uno appresso all'altro, farsi largo e posto, ma fermati da una fila di cipressi la cui ombra oscurava il verde dell'erba; e qualche pesco fiorire e maturare accanto alle campane d'una chiesola, e qualche olivo chiamarsi dietro tutta la campagna soave, che impallidiva lontano, rasente i monti chiarissimi, talvolta più luminosa del sole; con una tenerezza che mi commoveva. E, se guardavo la città da un'altra altura, da Vignanone, le voci degli uccelli s'allargavano nell'azzurro come il vento. E tal'altra volta le campane tutte insieme mi parevano un'armonia discorde, e mi veniva voglia di morir subito. Le rose dei giardini, senza colore e senza profumo, la cingevano tutta: le finestre erano aperte. Da parecchie miglia lontano, io vedevo in vece le sue torri come tizzi ritti che si spegnevano ultimi nella cenere del crepuscolo. E i temporali con tutto il cielo addosso! Pareva che i lampi la dovessero schiantare; ma, dopo, l'aria era più fresca e si respirava meglio; gli uccelli la varcavano a frotte, e il sole la rasciugava. Perché, dunque, io vi soffrivo? Perché la mia anima non vi è mai voluta stare? Lo sapeva, forse, quella mia tartaruga che riuscii a tener chiusa in casa una sera, e la mattina dopo non la trovai più. * * * A Vico Alto i vecchi cipressi si fermano all'abside della chiesa di pietre. L'Osservanza non è lontana, e si vedono le strade prima sparire e poi ritornare verso Siena, quasi aspettate. Le strade sciupano i bei verdi simmetrici, ma l'erba riescirà a rinascerci un'altra volta sopra. Se di quassù si sentisse crosciare il torrente, che si tiene con sé i salici e i gelsi! Ma, siccome è domenica, la gente passa proprio per il viottolo che lo rasenta; gente vestita bene e che si sofferma di quando in quando, forse incuriosita, a guardare attorno. Alcuni merendano, con un giornale steso nel mezzo. Vengono, per quell'altra strada che fa il giro lungo, le sordomute e poi le convittrici. Un contadino, appoggiato a un cipresso, fuma. Oh, anch'io voglio fare all'amore e voglio passare lungo il torrente, perché m'annoio a guardare le salamandre che scendono e risalgono dentro questa fonte dove le alghe mollicce e viscide intasano l'acqua! * * * Era una mattina d'estate, calda e accecante. Camminavo piano, e sempre di più la natura mi pareva un sogno immenso della mia anima. Il cuore mi batteva di contentezza. I cipressi, uscenti dalle siepi dei poderi, attorno alle case tutte impergolate, in Toscana, parevano piantati lì dall'aria stessa. Odori di ginepri, di marruche, di sanguinelle, di mentastri! Sopra un muricciolo, vidi un ramarro. Mi fermai, perché non scappasse. Allora, guardando i suoi occhi paurosi e intelligenti, provai una delusione dolorosa: e feci il viso rosso di vergogna. * * * Chi non ricorda come si trascina una farfalla ferita, toccando la terra con le ali tremanti! Ma chi può vedere, ne' suoi occhi, l'espressione del suo dolore violento e improvviso? La farfalla va presto a rincantucciarsi, sapendo sparire dalla nostra curiosità. È come qualche cosa, allora, che riesce a non aver contatto con noi, ad evitarci. * * * Era di settembre, e l'uva cominciava a maturare, ma i chicchi parevano trasparenti quando i raggi del sole entravano tra i pampini. Ero in mezzo a una vallata, vicino ai pioppi, tutti contorti, di un borro. Mi pareva che la vallata si sollevasse su, attratta dalle due colline piene di oliveti e di vigne. Le pesche erano mature, e pensavo di mangiarne almeno una. Ma esitavo a muovermi. Tra due viti, vidi una ragnatela: era un poco umida, e mi venne voglia di toccarla con la punta di un dito, ma senza romperla. La peluria della prima donna ch'io ebbi non era così morbida. * * * Non so ancora spiegarmi, da otto anni, perché la mia amante, una volta, dopo aver bevuto la birra, chiudesse con il ventaglio aperto, dentro il suo bicchiere, una vespa che v'era entrata. Prima era entrata nel mio; ed ella l'aveva guardata sorridendo, divertendocisi quasi. Io cercai di farle muovere il braccio, ma ella, con tutta la sua forza, non mi dette retta. Mi disse: - Parliamo d'altro. * * * Al podere, che ora ho dovuto vendere, tenevo molte galline, insieme con alcuni tacchini e i loci. Quando non avevo voglia di far niente o quando soffrivo troppo non saprei di che, andavo nel pollaio e mi mettevo a guardare. Un locio, che pesava parecchi chili, dondolandosi tutto per camminare, saliva a ogni momento sopra la sua femmina. Vi restava, dopo un poco, come stordito; e poi cadeva svenuto, battendo il dorso, con le gambe per aria e immobili, con gli occhi velati come quando muoiono. Tutte le galline parevano spaventate, e non si avvicinavano. * * * M'era venuto il tifo, e la febbre cresceva sempre. La mamma non poteva tenermi compagnia a tutte l'ore e quanto avrebbe voluto: e io dovevo restarmene a letto solo solo, ad aspettarla. Vedevo, dalla finestra socchiusa, con i vetri non più lavati da quando stavo male, passare le nuvole e la cima d'un ciliegio che rabbrividiva come me quando sentivo la febbre. Una mattina avevo fame dopo aver preso la solita cucchiaiata di medicina. E non veniva nessuno. Avevo voglia d'alzarmi, ma più di piangere. Le coperte mi schiacciavano come le montagne; e mi pareva che tutte quelle nuvole me le facessero più grevi. C'era a capo del letto il campanello elettrico, ma non lo suonavo perché il suo squillo mi faceva peggio. Ero proprio per gridare, spaventato delle coperte alzate dai miei ginocchi, con l'illusione che si alzassero fino al soffitto, per soffocarmi. Entrò un'ape. Mossi la testa per guardarla meglio. Sbattendo contro i vetri, cominciò a ronzare; ma con un ronzio così dolce che mi fece subito un effetto di benessere. Allora, mi ricordai dei fichi maturi e di tutte le altre frutta. Chi sa quale odore giù nei campi! Mi pareva, perfino, di sentir sapore in bocca! L'ape girò da un travicello all'altro, e poi tornò alla finestra! Non piangevo più, assorto in quel suo rumore uguale, che allora mi pareva una specie di musica, a cui avrei dovuto trovar le parole. Quando venne la mamma, facendola fuggire, mi dispiacque; e ci pensai tutto il giorno, sorpreso di non pensare ad altro. * * * Era stato un temporale orribile, dopo mezzogiorno, d'agosto. I lampi erano così fitti che non si faceva a tempo a respirare e a segnarsi. La mamma s'era seduta nella sua poltrona, io m'ero messo in ginocchio con la testa sopra a lei. Le sue mani mi tappavano gli orecchi. Ma non avevo il coraggio di chiudere gli occhi, e, piangendo, senza muovermi da quella posizione, mi segnavo, cominciavo l'avemaria, senza mai finirla. Il bosco, vicinissimo alla casa, quasi sopra il tetto, crosciava con il vento e la grandine. Si era fatto così oscuro, che la donna aveva acceso la lucernina d'ottone, mettendola nel mezzo della tavola. Diceva la mamma: - Se avessi un poco d'olivo benedetto, per bruciarlo! Fa tanto bene! Due fulmini caddero nel bosco e io li vidi. La pioggia luccicava; la grandine, sempre più grossa, empiva il davanzale della finestra, e la campagna pareva tutta bianca. Finalmente i tuoni si fecero sempre più lontani; l'aria tornò serena. Lampeggiava ancora sopra la città; ma, dalla parte opposta, era apparso l'arcobaleno così dolce! Riaprimmo le finestre e poi le porte, per escire. Allora, un contadino, venendo dalla strada, ci fece vedere una rondine, ancor viva, che il temporale aveva abbattuta. Le sue penne eran bagnate e lucide: pareva stordita, e stava da sé nel cavo della mano, palpitando, ma quasi rassegnata. Provai tanta gioia che battei le mani. * * * Con la mia moglie era un affar serio, ogni giorno di più! Bastava un pretesto qualunque per leticare parecchie ore. Una volta, la minestra mi parve sciocca; anzi, era certamente. Glielo dissi. Mi rispose: - Perché non vai a trattoria? - Se fossi più furbo! - Vai dunque. - Me lo vorresti proibire tu? E la guardai con tutto il mio odio; ed ella altrettanto. Ma io non glielo volevo permettere. Allora, feci l'atto di darle uno scapaccione. Si alzò, rigida come uno stecco; e si mise a guardarmi fisso. Pareva che i suoi occhi si allargassero sempre di più; ma mi sentivo tanto più forte di lei che non pensavo né meno a offenderla. Mi disse: - Vuoi scommettere che io vado dal procuratore del re? - E perché no? Potevi esserci andata. Così mi sarei fatto fare la minestra più salata, se non c'eri in casa! Si slanciò; io mi riparai con un braccio piegato. In questo mentre, vedemmo, tutti e due insieme, non so come, una formica che dall'orlo del fiasco stava per scender dentro e cadervi. La rabbia finì subito. Ella la prese con le dita e la scaraventò lontano. Io dissi: - Per fortuna l'hai vista! Avremmo dovuto buttar via tutto il vino! E il pranzo finì bene quella volta. * * * Alla dottrina cristiana ci sarei andato volentieri, ma da quel prete, no da vero! Quando entravo nel suo studio, siccome, avendo cominciato più tardi degli altri comunicandi, dovevo rimettermi in pari, sentivo una specie di freddo che m'agguantava l'anima come uno per la giubba. C'era un tavolino con un tappeto rosso, forse rovesciato; il ritratto del papa, quattro o cinque seggiole che parevano tutte nere come le loro spalliere; e un odore tra l'intingolo e l'incenso o la cera bruciata. C'era poca luce, perché la finestra dava in un piccolo orto sotto certe mura antiche ricoperte di edere; e mi veniva sempre la voglia di andarmene prima che il prete fosse venuto. E quella zoppa che m'apriva l'uscio! Certi occhi che mi facevano pensare alla panna inacidita! Ma tra le tende, tutte polverose e sbiadite, c'era una gabbia appesa, con un canarino così giallo che pensavo fosse colorito con i tuorli dell'uova che si davano al prete quando veniva a benedire le case. Saltellando, faceva oscillare la gabbia e anche un poco le tende, e a motivo delle quali mi scansavo in fretta; quasi per paura. Io mi vergognavo di lui, che mi vedesse con il mio libricciolo sotto il braccio lì ad aspettare. Ed ecco perché l'osservavo sempre, quando il prete m'interrogava, prima di rispondere! Un giorno glielo portai via; e, piuttosto che ritrovarlo in quella gabbia, lo schiacciai con il tacco delle scarpe. * * * Un mio amico era in agonia. Caduto da una scala aveva battuto l'occipite, non riprendendo più i sensi. Siccome non l'aveva potuto comunicare, il prete gli lasciò la stola sopra i piedi dopo aver detto molte preghiere. La mamma del moribondo stava nella stanza accanto, con l'uscio aperto, a piangere; io, stringendo i ferri a piè del letto, lo guardavo. Il suo volto acceso dalla febbre, aveva, di quando in quando, una contrazione lunga e lenta; ma gli occhi restavano chiusi, sempre più in dentro. Una ragazza, dall'altra parte della strada, cominciò a cantare; io la feci star zitta. Il rantolo diveniva sempre più forte, alternandosi con un sibilo così dolce che mi ricordava, con terrore, tutte le nostre allegrie. La febbre gli aveva seccato le labbra. Io pensavo come bagnargliele, quando entrò una delle sue due tortore. Prima che io facessi in tempo a rimandarla in dietro, era già volata sul letto, proprio sopra il guanciale molle di sudore. Allora, perché non si mettesse a svolazzare, buttando in terra qualcosa, aspettai che tornasse via da sé, come credevo che avrebbe fatto. Gli montò su la fronte, che s'increspò; e, allungando tutto il collo, gli diede una beccata tra le labbra. Egli era uso a farsi prendere di bocca i chicchi di granturco o di granella. Allora, troppo tardi, la scacciai. Ma, dal labbro di sotto, dovetti asciugare con il cotone idrofilo le gocce di sangue, che smisero soltanto all'ultimo respiro. * * * So che una vipera ha morso uno che m'odia. Pari e patta. * * * Ricordo sempre queste sensazioni: dopo la scuola attraversare il corridoio del seminario, fresco ed annaffiato allora; l'attesa d'un rimprovero; la prima comunione: parole alla fidanzata; un campo troppo verde; un'ape che esce da un fiore senza che mi fossi avvisto che c'era. * * * O ciliegie, sapore del maggio! Farei ridere se raccontassi quanto le amo, ora che non ho altro da amare. Ed io per poco non mi crederei sciocco. Ma la mia bocca è cieca; e non è fatta che per mangiare. Mettete un piatto grande di ciliegie sopra la mia anima: non le lasciate troppo maturare, perché le passere le beccano tutte. * * * E quella finestra che vedevo dal mio podere scintillare tutte le mattine quando il sole si levava; una finestra che è delle prime case di Porta Camollia. Non ho mai saputo chi ci sta; del resto, mi sarebbe stato difficile, perché quell'abitazione è dalla parte degli orti tra le mura e la chiesa di Fontegiusta; un orto dopo un altro che non finiscono mai. A entrar lì dentro bisognava anche attraversare un andito sempre buio, con l'impiantito sempre molle; perché, in fondo, c'è un pozzo e le donne vi vanno ad attingere l'acqua con le brocche e le sbattono ai muri troppo stretti. Le scale da una parte, tutte a pianerottoli, sudicie e sciupate. Ho pensato che fosse di quella vecchia che tiene in casa il nipote cieco che fa l'impagliatore di seggiole; poi, di quella fruttivendola sorda; oppure della tabaccaia tisica o di quel maestro impazzito. E pure, quando sento cantare, e bisogna che il vento tiri da Siena, specie la sera, e non so chi è, credo che sia dentro quella stanza; e allora me la immagino con quei mobili vecchi ma riverniciati di verdolino e con le righe attorno alle serrature e alle maniglie di ottone, rosse e fatte a mano: più larghe e più strette, brutte. E, a una parete di fianco, un gran crocifisso doventato leggiero come una galla perché i tarli l'hanno tutto vuotato; e, infilato tra i piedi, un ramicello di olivo che si è seccato e che non si può smovere perché le foglie, color tabacco, cadrebbero subito e sporcherebbero il pavimento; che dev'essere spazzato ogni giorno e annaffiato con l'acqua a pisciolo, facendoci quei disegni tutti intrecciati che si allargano da sé. E questo farfallino grigio scommetto viene di là; perché ha le ali tinte di polvere. * * * Quel melo è il più bell'albero del mio campo, lo saluto tutti i giorni dalla finestra. So che l'ha piantato il mio zio Pellegro. Ma lo avevo visto la prima volta quando mio padre dovette tagliare i legacci di salcio perché lo stringevano troppo; e il fusto, ingrossando, s'era quasi reciso. Allora gli cambiarono il palo. L'anno dopo fece tre mele: e mezza mi fu data ad assaggiare. Per altri tre o quattro anni non lo vidi più. Ma quando ripassai di lì, s'era fatto irriconoscibile: una buccia lucida e tenera che veniva via a toccarla con l'unghia; tanti rami e così alto che lo guardai rovesciando la testa in dietro. Vidi che era cresciuto prima di me e che mio padre ne faceva gran conto. Gli avevano zappato la terra attorno come agli olivi; ma siccome era autunno, gli erano rimaste poche foglie sbiadite; e nelle punte dei suoi fuscelli i segni dove stavano le mele: una sola, anzi, gialla e grinzosa. La guardai meglio, prima di staccarla con una zollata; ma raccattatala, m'accorsi che dalla parte di sotto c'era il buco di un bacherozzolo. Allora la tirai lontano. L'anno dopo, a primavera, lo ritrovai fiorito, tutto bianco, come una gran festa. L'avevano potato e i suoi rami facevano una specie di circonferenza un poco vuota nel mezzo. Ma uno dei suoi quattro rami che venivano su dal gambano era gobbo e un poco più corto perciò. Quasi tutti i contadini, passando sotto, ci ficcavano la punta della falce per cercar meglio con tutte e due le mani nelle saccocce del panciotto la cicca e i fiammiferi. L'anno dopo ebbe la prima disgrazia: ogni fronda fu fasciata da centinaia di ragnatele piene di bruchi, che gli mangiarono in meno di una settimana i fiori e le foglioline. A maggio era già per seccarsi. E per due anni non fiorì né meno più. Allora mio padre lo fece scapitozzare e dentro una rigonfiatura, a metà del gambano, lo trovarono pieno di bachi carnosi duri e grossi più delle dita; ed avevano capocchie tonde e rosse più del sangue. Furono uccisi con il coltello, a pezzi, e la pianta si riebbe. Ma di mele ne ha fatte sempre meno. Ora, cinque o sei sole, che se le mangiano gli uccelli e le vespe. * * * La mattinata è fresca come le rose umide; ma tuttavia non riesce a convincermi che io posso odorarla. Tutti questi tetti attraventati addosso alla collina di Ovile si abituano a farsi guardare di quassù, di sbieco, da questo muricciolo così scalcinato che tra mattone e mattone c'entra un dito. Se la primavera ci fosse già, potrei divertirmi a guardare gli alberi fioriti; ma son venuto troppo presto, in vano, impaziente. Scommetto che quando la primavera ci sarà da vero, io non ci verrò né meno. Ma finalmente capisco perché mi ci prenda questa dolcezza con la quale voglio prepararmi a scrivere alla mia fidanzata. Là, da una parte della piazza, dove la ghiaia è più consumata, c'è la porta del Seminario, verde e sbiadita, con l'architrave di marmo doventato quasi giallo, contenta di essere accanto a San Francesco, quasi sotto il campanile. Mi pare ancora di entrarci per andare a scuola. Ma c'entra il sole, con una striscia che va a ritrovarsi con quella di dentro il chiostro. Ed io resto nella piazza. Giù la Porta Ovile, poi campi di olivi e viti; e, su in alto, la piccola stazione con i vagoni carichi di sacchi e di legname; con una strada, per salirci, che gira più di un esse fatto per ridere sopra un muro da qualche ragazzo. È una dolcezza che, se qualche volta pare stanca, tuttavia si sente anche lontano lontano, tra le pieghe verdi dei colli dove non sono stato mai. Il campanile con i grappoli delle campane che fanno escire per la piazza i rondoni! Ed i tetti hanno la pazienza di stare lì e l'abilità di non lasciarsi andare per riposarsi un poco! Qui, pensando alla fidanzata, ritrovo molta della mia vita, anche quando andavo, d'estate, all'ombra, sotto il muraglione delle Figlie di Maria ad imparare la chitarra, e dove m'ebbi un pugno e riescii a non piangere; e ricordo il cavallo che scappò dalla caserma dei carabinieri. * * * La siepe, addirittura, tagliava le spiazzate dei campi verdi o arati, l'uno accanto all'altro, l'uno addosso all'altro. Gli uccelli volavano con un volo sempre più basso, tremolando un poco, impauriti delle quattro nuvole, quasi quadrate, che avevano coperto il tramonto: le quattro carte da gioco. Nel Pian del Lago, c'era nebbia, a strisce sempre più sovrapposte e larghe; Montemaggio e la Montagnola di un verde più nero della siepe, e voli di colombacci che a stento proseguivano, randelloni, con le ali appiccicate nel cielo d'un turchino che voleva smettere. * * * Per tornare a casa, ci sono sempre nel mezzo della strada quelle sette stelle dell'Orsa, che me l'hanno buttata là chi sa perché. Il vento, che batte la faccia, viene di lì. E tutta la bellezza della sera vorrebbe entrare dopo di me e spinge in qua l'uscio, sì che duro fatica a richiuderlo. Perché la gatta miagola e si spenzola dalla grondaia? * * * All'ombra il carraio verniciava di cinabro mescolato al minio le ruote dei carri da contadini; e poi, con un fusello infilato nel mozzo e tenuto tra ambedue le palme, le portava al sole, appoggiate al muro. Qualche volta andava a levare con il manico del pennello una mosca che c'era rimasta attaccata. Tutte le mattine passavo il tempo così, senza parlar mai al carraio, sedendomi sopra un mucchio di breccia che lo stradino teneva già pronta per l'inverno. Mattinate dolci di sole, quando cominciavo a sbadigliare di fame; e io ne provavo un senso indefinito, quasi di sonnolenza e di piacere! Pensavo, allora, che da grande avrei scritto un libro differente a tutti quelli che io conoscevo: qualche storia ingenua e tragica che pareva uno di quei pampini che il vento mi faceva cadere tra le ginocchia; ecco; come c'è questo pampino, ci sarà il mio libro. E sentivo un fremito. Il carraio seguitava a verniciare; e, talvolta, m'illudevo che anch'egli vedesse riempirsi la distanza tra me e lui, delle persone che mi pareva di vedere. Egli è buono, pensavo; egli non dice niente né a me né a loro perché io non creda che gli si dia noia. Tutta la strada era piena di persone, come un incubo trasparente e leggero, che si movesse anche ad un alitare di vento; come si moveva la mia anima. Alla fine dovevo supplicare questa gente che mi desse un poco di tregua: la sentivo attorno alla mia giovinezza come insetti attorno ad un lume acceso allora allora. Qualcuno mi perseguitava e mi faceva venire i brividi; un altro voleva stare in casa con me, ed io non potevo mandarlo via. Ecco che il mio libro doventava la vita stessa, la gente cioè che conoscevo! Ma soffrivo e sentivo una specie di malessere vertiginoso; e m'invogliavo di pigliare a sassate, per scherzare. In vece, i moscerini m'entravano negli occhi; e mi venivano le lacrime. * * * Una strada scende, anche un'altra scende e le viene incontro: si fermano insieme. Dalla prima, a metà, se ne parte un'altra che scende per un altro verso e ne trova subito un'altra, più bassa che fa lo stesso. Su la prima se ne butta un'altra; poi la prima e la seconda, dopo la fermata, se ne vanno giù insieme e a un certo punto incontrano quella più bassa di tutte. Altre strade le tagliano e scendono. Le case hanno paura a stare ritte tra questi precipizi e si toccano con i tetti pendenti. Ma anche i tetti, a pendere così, non potrebbero cadere tutti giù? Le case, per fortuna, sono soltanto a due o tre piani; e la gente, alle finestre, ha l'aria di far loro da contropeso; perché non seguitino ad andare più in giù, tutte insieme, verso la Porta Fontebranda, da dove certo non passerebbero essendo così stretta. Le vie della città guardano queste quasi per scendere loro addosso; con la Cattedrale nel mezzo e con San Domenico sopra il tufo giallo. Ma la Fontebranda è ficcata giù sotto terra, e i Macelli se ne stanno stretti stretti, rasente la balza che regge metà di Siena. La vasca natatoria è verdastra dietro le punte nere e taglienti del suo cancello; i lavatoi hanno l'acqua saponata; gli archi delle conce piene di cuoia ad asciugare. Quanta solitudine e quanto silenzio anche con il vocio delle donne e dei ragazzi! Quando le donne di Fontebranda cantano, con quelle cadenze d'una stanchezza tanto dolce! È un silenzio che sta lì come le case; quasi assurdo. E perché quel cadere perpetuo dei tetti insieme con le strade? Non si ha, al contrario, il senso che le strade salgano; si sente soltanto la discesa fatta in fretta, con ansia; e, dal punto più basso, anche il meriggio è così lontano che resta soltanto per gli altri rioni di Siena. Cominciano le strida dei porci scannati, ognuno basta ad empire di sangue due secchi. * * * Quel che vedo e penso è come se lo leggessi. Leggerò, forse, fino a stasera; ma il libro non lo chiuderò; resterà aperto tutta la notte e troverò i sogni su le pagine come se fossero figure. In vece, no. Allora percepisco solo le cose, che stanno vicino a me: e, perché sono seduto sotto la mia pergola, mi metto a guardare un pampino: forse, uno dei più larghi. Perché non capisco quel che fo, lo strappo dal tralcio e lo butto dietro di me, di là dal pancone verniciato di verde. Il sole, tra gli altri pampini, taglia gli occhi con i suoi pezzetti di vetro. Una cavalletta mi salta su una mano. Nel bosco cerco l'albero che, tagliato a bara, imputridirà sotto terra con me. Gli voglio tanto bene: forse, è quello dove ora c'è sopra un merlo. * * * Quando ci sono io, tutto ciò che è nella mia casa vive con me. Io stesso ho insegnato a tutte le cose, scegliendole, come dovevano fare per piacermi e perché io le amassi. Queste pareti riconoscono la mia voce, e la loro fedeltà è profonda. Ma guardando, dalle mie finestre, chiuse o aperte, la fila degli orfani che escono a prendere aria, capisco che i miei occhi non vedono tutto. Mentre, se guardo lavorare i contadini, mi farei aprire il cuore dai loro vomeri, per dar loro la gioia di doventare anch'io terra da semina. E se guardo i cavalli che tirano i barrocci, riparo in vano le sferzate. Se sento cantare i vagabondi e gli ubriachi, io mi rattristo; se guardo gli orti mi piacciono le campane che fanno finta di annaffiarli; e cambierei di posto volentieri con le stelle. Ma la luce della luna si diverte a farmi sentire le civette. * * * Io m'ero messo in testa di trovare il violoncello che udivo tra gli alberi del bosco: quando tira vento, non sta più zitto niente! Credevo che fosse a pochi passi da me; e, allora, andavo là, quasi di corsa. Non c'era più; più lontano ora, ma distante da me quanto prima. Andavo lo stesso. Né meno! Sempre, sempre vicino a me; ma non dovevo vederlo né trovarlo mai! Così, sul fiume, il riflesso del sole camminava sempre avanti a me; e, dove era stato prima, l'acqua tornava ombra turchina, senza che vi fosse nessuna traccia di quell'incendio finto. Così i monti non erano più azzurri quando, dopo mezza giornata di strada, vi ero giunto; ed allora vedevo altri monti; ma era inutile che io camminassi a posta per questo! Così le onde che il vento faceva sopra il prato: dov'ero io, attorno alle mie gambe, tutto era fermo come me. Così i miei sogni quando mi sono destato. Né, da vicino, ho mai potuto guardare la trasparenza violacea che aveva un piccolo padule del fiume: non c'era più. Così, da ragazzo, l'eco della mia voce: un'altra voce, ma senz'anima. Così i pappi di certi fiori, quando volevo portarli in mano. Il violoncello del bosco l'avrei voluto comprare, per darmi l'aria di essere ricco. E suonarlo i giorni di festa della mia anima; ammaestrando un liocorno, color di carta bianca, che prenderei da qualche favola vecchia. * * * Dieci anni che abito nella mia casa, comincio soltanto da oggi a sentirne la realtà. Tutto quel che vi avviene è la compilazione d'una storia che riguarda me. Ma quando io stesso non saprò dirla, nessuno ci penserà più. Così come quella fonte che ho ritrovato morta, ed io non lo sapevo. Morta da due mesi, e nessuno me lo aveva detto. Ma l'aria, oggi, è gaia; e mi sento bene. Forse, vivrò parecchio tempo ancora; ché di me non sento nessun segno di morte; e tutto quel che vedo fa parte della mia esistenza. Il limone già tagliato, i bicchieri puliti, la tovaglia di bucato; e la voglia di mangiare. Sono impaziente; mi guardo le mani, mi specchio ai vetri della finestra. Nessuna stanza è bella come questa; e la mia anima è anche più gaia dell'aria: il limone, i bicchieri, i piatti sono belli perché miei. Il senso di averli e loro stessi sono una cosa sola. Ed è una sola realtà. Ma, a pena mi sono seduto a tavola per il pranzo, sento cantare, da un ragazzo, una canzone che io conosco senza averla ancora imparata. Mi vengono i brividi. Portava gli agnelli a vendere. Vorrei leggere come un ragazzo, vorrei capire come un ragazzo. Là giù nel bosco fresco di verde e di ombre, ho lasciato il giocattolo del mio passato, perché si sono rotti i fili. Ma io mi metto a guardare fisso il turchino perché me ne venga un altro; magari fatto come una nuvola. Anche la pioggia è il giocattolo con il quale ruzzano le fontane del giardino; anche il mio sorriso è un giocattolo, come il mio cuore che batte. E la mia ombra è il giocattolo del sole; la mia voce è quello della mia anima. Quando siamo morti non si parla, e allora quel che s'è detto lo ripetono gli altri. Anche la bara è il giocattolo, che si mette sotto terra. E, s'io fossi un ragazzo, vorrei chiedere a Dio che questa fresca erba bella la lasciassero in pace; e mi scriverei da me il mio libro di lettura. Farei doventar buone anche le vipere. * * * Ecco la sera, quando le cose della stanza doventano pugnali che affondano nella mia anima; maniche che mi attendono. Qualche altra volta, mi erano sembrate - libri, tavoli, sedie, tagliacarte, cuscini, lampade, pareti - poemi immensi. Mai, in nessun modo, sono riescito ad essere indipendente dinanzi a loro. Ma questa sera hanno atteso tutte d'accordo. Siete sicure di essere sincere? Ormai vi lascio. La mia anima, se qualche volta si ricorderà di voi, crederà di mettersi a suonare un organetto di Barberia per fare ridere le serve e piangere chi non c'è. Il cardellino morirà di fame: il pane intinto non glielo darà più nessuno. * * * Il cielo sta per doventare uno specchio; è già impossibile guardarlo. Qualche uccello, che di rado vedo entrare in una boscaglia di pini, fa credere che sia disseccato come quelli imbalsamati; e la sua ombra affonda passando nella polvere della strada. C'è una piccola sorgente che a pena è buona ad escire di tra i ciuffi dell'erba verde, sotto l'ombra di una quercia. L'acqua, al buco della sorgente, un ago che si spezza sempre, scintilla e poi sparisce. In giro c'è nata questi dieci metri quadri di erba che lustra, e basta. Il luogo è così silenzioso che par di udire l'erba. E la fonte, con lunghi rigagnoli, che non smettono più, va giù per il prato a fare la calligrafia. Quando ritorno nella strada, la polvere scotta; e io cammino adagio, per non sudare. * * * Anch'io ho avuto due carri verniciati di rosso, che mi destavano la mattina, quando i contadini li portavano con i bovi nel campo.Carri di concime o di uva, di granturco o di grano, di saggine o di pomodori. Li ebbi da mio padre, ed io li vendei perché avevo da pagare un debito. Io non avevo mai posseduto niente, che mi fosse durato molto. Mi ci ero tanto abituato che anche i miei sentimenti, scambiandoli per balocchi da pochi centesimi, li ascoltavo sempre con malevola e giusta ironia. Non era, forse, l'unico modo per non ingannarmi più? Impazzito per aver pensato subito che io potevo finalmente credere; effetto del mio bisogno di credere. Dopo tanto tempo, ecco che in vece di altre cose innumerevoli, di ogni genere, io ripenso ai due miei carri. E alla mia vita quale avrebbe dovuto essere. A me non era lecito escire dal mio paese. Ascoltare là le musiche della domenica, passeggiare con tutti gli altri le mezze giornate intere per la strada che gira attorno alle case, amare quache ricca fantoccia. E, sopra a tutto, avere ancora i due carri verniciati di rosso. Il gallo che la mattina fa tremare il cuore di gioia; le noci mangiate con il pane, ancora in maniche di camicia; le cipolle strofinate sul sale tenuto nel palmo della mano. La dolcissima aia costruita bene e spazzata! Fedeltà ed amicizia dei campi verdi! Le prime pesche vendute, i vitelli comprati alla fiera, il vino assaggiato dai tini, ancora caldo e torbido; e il suo afrore! Gli acquazzoni che fanno ridere; la terra che sporca le mani! E le feste di campagna con gli organetti briachi, a singhiozzare lontano tra i campi; e fanno venir voglia di andarci anche noi, dietro; le feste che restano per sempre nell'anima con i fuochi artificiali e i palloni di carta che vanno a cadere quando pigliano fuoco. E la cometa che fa paura! E il temporale livido, con la grandine bianca bianca; con i lampi che accecano! E tutte queste case del paese, che ci sono non si sa perché; con le strade lontane per la maremma di Grosseto e verso Siena; e si sperdono, giù nelle vallate, dopo dieci o quindici chilometri; le strade che aspettano. In vece, non l'ho né meno più visto questo bernoccolo di case! I miei carri non mi destano più; e il gallo, benché duro, l'ho mangiato. * * * Mi piacciono quelle persone che adoprano, parlando, modi di dire differenti a tutti gli altri. Mi sembrano, le loro conversazioni, riconoscibili, amicizie a cui ci si possa affidare di più. E, così , ho imparato che le cose hanno per ogni persona una fisionomia differente. Una persona si distingue più profondamente dal suo modo di parlare che dal suo viso. Con quale voce, per esempio, dovrei parlare di un bel prato verde? E con quale altra di questa crocetta d'oro ritrovata per caso e che la mia mamma portava? Ed io ho la certezza che sia viva da vero, la mia mamma! Sono venti anni che è morta? No; non è vero. È viva ancora. Ecco ancora le sue vesti, ch'ella si metterà. Ecco il suo armadio, le bottiglie dei profumi, il suo cappello. La porta della mia camera l'ha lasciata aperta lei; stasera non mangerò, se non c'è lei insieme con me. Le farò trovare un grande piatto di fichi maturi; ne è ghiotta. Il pane fresco; e lo metterò al suo posto, su la tavola. Il suo bicchiere alto e scannellato, di vetro un poco verde e con il fondo rossiccio di vino che non si può lavare più. Ho imparato a vivere con la mia anima! Ora devo imparare a vivere con la mia mamma. Non abiterò più nessuna casa dove non sia anche lei; io la seguirò con un'obbedienza che i fanciulli non hanno. Io non parlerò che alla mia mamma. Ed ella mi ricomprerà un paio di piccioni a cui taglierà le ali, perché non volino via. * * * Tutti quei fiori che ho sognato! La mia anima , dunque, sapeva di qualche funerale che io non so. La mia anima è stata a qualche funerale. Infatti, tutt'oggi nella mia casa, vuota e deserta, c'era un senso di cose tragiche, nascoste a me. Quand'io aprivo gli occhi avevo paura, e la carta delle pareti aveva un'aria di silenzio quasi timido; non canzonatore o vispo, come altre volte. Tra le stanze c'era un'intesa e un accordo di non dirmi niente; qualche parola che se la passavano quand'io voltavo le spalle. I miei libri facevano di tutto perché io non li prendessi in mano; le stoviglie nel salottino da pranzo erano mute e così tristi che io non mi sarei arrischiato ad adoperarle né meno una; perché mi sarebbero cadute. E ricordandomi in vece, nettamente, qualche altra giornata quand'ero stato tanto bene in casa mia, quando non me n'ero né meno accorto di esserci! Io, dopo tanto tempo, devo domandarmi ancora per chi erano quei fiori. Ma le tortore hanno fame; e dico che comprino il miglio perché mangino. * * * Ci si sta così bene a piangere con la faccia su l'erba fresca che arriva fino all'anima! L'allodola! Piglia la mia anima!