Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbattuti

Numero di risultati: 30 in 1 pagine

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Le tre vie della pittura

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Caroli, Flavio 1 occorrenze

I grandi traumi, l’illuminismo e il Romanticismo, si sono abbattuti l’uno sull’altro, la società deve riorganizzarsi su principi del tutto nuovi, e gli individui devono fare i conti con nuove consapevolezze e con nuovi misteri.

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Saggi di critica d'arte

261952
Cantalamessa, Giulio 1 occorrenze
  • 1890
  • Zanichelli
  • Bologna
  • critica d'arte
  • UNIFI
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Maria Maggiore sono stati abbattuti. Insieme a Girolamo da Carpi e a Girolamo da Treviso dipinse la volta elegante della sagrestia di S. Michele in Bosco, la quale perciò si chiama la volta dei tre Girolami, deperitissima, ma che speriamo vedere reintegrata nella sua bellezza dalla sapiente interpretazione dell’illustre prof. Samoggia. Per farsi un’idea di quel ch’ei valesse come pittore di tavole d’altare, si guardi lo Sposalizio della Madonna in pinacoteca. L’imitazione di Raffaello c’è; ma come, abbandonato il nocciolo vitale intimo, s’è tutta ridotta alla superficie delle cose, e in quest’improvvida trasmigrazione come s’è immiserita, rattrappita, sdilinquita! Come composizione, è confuso: figure pigiate su figure, tanto che sembra non aver l’artista messo in rapporto il numero delle persone collo spazio in cui intese disporle. Come colore è falso e monotono; il disegno palesa come la convenzione raffaellistica si trasformasse passando attraverso un’anima grossolana. In alto è cosa ridicola que’ putti che si sollazzano trattenendo la colomba impaziente di volare, per lasciarla a tempo. Se si pensa che in quella colomba è simboleggiato lo Spirito Santo, è da accusare l’artista, non dico d’irriverenza (chè questa non fu certamente nella sua intenzione), ma di fatuità irriflessiva. Per lui la Divinità è legata dal volere degli angeli, e le è attribuita un’animalesca inconsapevolezza della ragione di sua presenza e del momento propizio al suo intervento. Festevole bambocciata surroga la rappresentazione di augusti misteri. Così non pur si falsava l’arte del divino Raffaello in quel ch’essa ha di più ¡estrinseco, ma spariva ogni abitudine di quella meditazione intellettuale, sovra cui il maestro si preparava ai voli della concezione estetica.

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L'arte è contemporanea. Ovvero l'arte di vedere l'arte

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Sgarbi, Vittorio 1 occorrenze
  • 2012
  • Grandi Passaggi Bompiani
  • Milano
  • critica d'arte
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Esemplari in tal senso furono i tre bambolotti impiccati a un albero di Milano, che poi furono brutalmente abbattuti, determinando tra le diverse reazioni - non sempre composte - anche la solidarietà di chi come me sostiene la libertà creativa dell’artista, che non ammette censure o cancellazioni. Già è infausta la memoria dell’“arte degenerata”, e proprio a quella sembra volersi riferire Cattelan, nella speranza che la sua venga riconosciuta come tale. Nulla è infatti più remunerativo che produrre “arte degenerata” in un’epoca in cui il riconoscimento della degenerazione comporta non punizioni bensì utili Maurizio Cattelan, Senza titolo: bambini appesi, 2004. censure, che contribuiscono ad aggiungere aura all’artista, il quale finge di patire una mortificazione e invece viene esaltato come straordinario creatore incompreso (in realtà compresissimo); e di questa condizione è tutto meno che vittima. Raccolto in una mostra che copre quasi sedici anni di attività, il guazzabuglio di idee elaborate da Cattelan restituisce l’impressione di una rappresentazione teatrale, di una scenografia per una messa in scena di Ionesco affidata a un regista spericolato ma totalmente incapace di trasmettere emozioni. La contrapposizione tra autentico e inautentico, ovvero tra arte implicata e arte applicata, si manifesta ancor più chiaramente mettendo a confronto i due artisti nelle concomitanti mostre. Laddove López García esalta ogni sua opera come un organismo vivente in cui c’è memoria e coscienza come in una pagina di letteratura, come in Dostoevskij o in Proust, l’impresa di Cattelan è dominata da una visione inerte, necrofila, incapace di trasmettere alcunché di vivo e vitale: la sua mostra è come un paese dei balocchi, il disperato tentativo di un amarcord personale da cui manca qualsiasi emozione, con il riferimento a momenti di illusione collettiva rappresentati in singoli colpi riusciti sul piano dell’autopromozione, ma privi di ogni necessità e verità.

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Psicologia Vol.III

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Abbattuti così i Realisti, Abelardo trae qual necessaria conseguenza il nominalismo: [...OMISSIS...] (2). E anche al nominalismo diede occasione Aristotele coll' avere insegnata piuttosto la dialettica che la logica, e presentate le idee e le argomentazioni vestite di vocaboli, ed esposti i nessi di questi più che di quelle; onde sul vocabolo materiale si pose più attenzione che sul suo significato invisibile e spirituale, in cui principalmente contemplava la mente di Platone. Quindi i predicamenti si chiamarono le cinque voci ; e i filosofi impacciatissimi a spiegare gli universali, sui quali ogni sistema presentava difficoltà insormontabili, finirono coll' appigliarsi del tutto ai vocaboli, come ad una tavola nel naufragio, quelli surrogando agli incomodissimi universali, e così eliminandoli affatto dalla filosofia. Toglie dunque Abelardo a dimostrare che un nome comune, fino che è solo, non presenta alcun oggetto all' intelletto, ma può significarne più d' uno; quando poi è determinato dall' unione con altri vocaboli, allora significa il particolare. Ma quando viene a ricercare quale sia la causa per cui s' impongono nomi comuni alle cose, egli allora è costretto a ritornare alla similitudine dei singolari (1), che gli rimane là dura e salda come uno scoglio, senza alcuna spiegazione (2), perocchè ella è appunto una di quelle cose così facili, così naturali, che si sogliono supporre dai filosofi e trapassare; ed esse intanto nascondono nel proprio seno un sistema intero. Dopo le quali cose è tempo che torniamo a noi, e che riassumiamo: Aristotele pose che l' uno, il comune (pressochè sinonimi) sia nelle cose, unum in multis ; che in quelle anime che sono fatte a ciò, come le umane, quando ricevono per mezzo del senso l' impressione delle cose, allora rimanga in esse il comune insieme col proprio; che le medesime anime, dotate di tale facoltà, fermino, pongano mente a quel comune, astraendo dal proprio, e così formino l' uno astratto , il comune, l' universale, che è nell' anima, unum praeter multa . Questo universale ridotto alle ultime astrazioni è l' intelletto, ossia la mente, la quale viene nell' anima dal di fuori (3). Ma posciachè l' anima non potrebbe acquistare questo intelletto, se non ne avesse la facoltà, dunque, dice Aristotele, l' anima ha l' intelletto in potenza (intelletto possibile); ed acquista poscia dal di fuori l' intelletto in atto, mediante la facoltà di fermarsi al comune ed astrarlo (intelletto agente), ammettendo questo principio, che intellectus in actu est intellectum in actu . Ecco tutta la teoria dell' anima di Aristotele; la quale anima rimane sempre un atto, una perfezione, una entelechia del corpo, dalla quale si divide la mente, quando si perde la cognizione del comune, e si acquista la mente, quando quella cognizione si riceve dai dati del senso; ma l' anima stessa non è dal corpo divisibile. Secondo questa dottrina l' anima non è corpo, ma è bensì atto di corpo, cosa appartenente al corpo, indivisibile dal corpo, esistente tutta in potenza in quello spirito, che afferma Aristotele trovarsi nel seme maschile, dal quale si sviluppa secondo le circostanze, e secondo che il corpo è meglio organato; perocchè lo svilupparsi fino a venirne l' intelligenza e l' intelletto in atto, è anche questo efficienza di un corpo idoneo a ciò, che egli dice più divino . Se egli la chiama forma , non è che dal corpo realmente la distingua; la chiama sostanza , ma per sostanza intende l' ultimo atto perfezionatore di una data materia, a cui non è dato l' esistere da sè, senza la materia di cui ella è la perfezione, ossia l' entelechia (1). L' errore di Aristotele intorno alla natura dell' anima consiste, dunque, nell' « aver fatto venire il comune dalle cose reali (dal senso che le percepisce e dall' anima atta a riceverlo), invece di sollevarsi ad intendere che il comune veniva più d' alto, che esso è essenzialmente idea ; nè può confondersi colla realità, perchè ogni comune infine si riduce nell' essere comunissimo, nell' essere ideale intuìto dall' anima per natura, il quale è forma7oggettiva di essa anima ». Quindi il maestro della scuola terminò la Filosofia naturale nell' anima, dicendo di lei, che [...OMISSIS...] ; laddove l' ultima delle forme che naturalmente si conoscono, conviene cercarla veramente più oltre, perocchè ella è l' essere ideale, per sè oggetto, immensamente all' anima superiore; la quale forma costituisce il nesso naturale dell' uomo col suo divino principio. Così il filosofo, per evitare l' errore di Platone che dava alle idee la sussistenza, rovesciò sgraziatamente nel suo contrario, confondendole colle realità contingenti, colla materia e coll' anima; per timore di non fare il volo d' Icaro, egli andò a nascondersi sotterra, e chiuse a tutti quel varco, pel quale solo l' uomo può salire sicuramente alle regioni dei cieli. Tali sono, o mio Giuseppe le sentenze principali degli antichi intorno alla natura dell' anima. Io procurai di esportele fedelmente, traendole dalle loro stesse parole, o dagli scritti più autorevoli che ce le tramandarono; il che se io abbia conseguito, non bramo altro giudice che te stesso. Nè mi contentai di riferirti i sistemi chiusi nella corteccia antica delle parole, ma tentai d' inciderla e romperla, benchè spesso durissima al taglio, per iscoprirne ed assaggiarne il midollo. Osai anche di porli al cimento; non però a imitazione di quelli che, stando in sullo appuntare sottilmente gli altrui concetti, non ne proferiscono e sostituiscono alcuno loro proprio; perocchè giammai non mi è sembrato convenevole il distruggere senza l' edificare, nè verecondo è l' animo di colui che toglie a correggere, nulla avendo fatto egli medesimo. Laonde coll' esporre alla pubblica censura quattro libri intorno alla natura dell' anima, io sperai avermi acquistato qualche diritto di scrivere questo a te, nel quale le opinioni altrui diligentemente raccolte, alla mia propria si paragonano e si cimentano. Le quali opinioni quante vigilie, quanti sudori, quante meditazioni non costarono ai più alti e nobili ingegni! Eppure cercando tutti la medesima cosa, per molti secoli, non riuscì loro di pervenire ad un accordo, quasi che mentre il vero unisce gli uomini, la scienza li divida. I moderni poi ricaddero sottosopra nelle medesime opinioni, che pure li partirono in vari drappelli; nè io so, per avventura, chi fra di essi abbia prodotto una sentenza, o nuova, o almeno migliore delle accennate. Se non che l' età dei padri nostri, per più di un secolo, depose fino l' animo d' investigare la natura delle cose, dichiarandola impenetrabile e deplorando la improvvida rozzezza degli antichi, che vi si travagliavano intorno; essa più colta, astenendosi dal cercare quella dell' anima, si contentò di descriverne leggermente le sensibili operazioni. Così, se le generose fatiche dell' antica filosofia non sempre e in tutto colsero il vero, rimasero almeno perenne monumento del sommo ardore, onde i primi sapienti tentarono definire la natura, l' indole, la condizione di questo spirito che ci avviva, ci nobilita, e ci innalza fino al soglio di Dio; cui si gloriò d' ignorare tutto quel secolo passato, di filosofi pieno, che docilissimo ed altero ubbidì e servì alla voce di Giovanni Locke e degli altri suoi maestri e duci, i quali si persuasero di rendere facile la sapienza, disaggravandola, quasi nave carica di preziosi tesori in procinto di affondare, da quanto ella recava di difficile, di peregrino, di sublime, gettandone il carico dai secoli accumulato, alle onde gonfie e spumose dei sensi e delle ribollenti passioni. Le quali ricchezze, posciachè alcuni dell' età nostra già procacciano di ripescare, io volli, come ho saputo, farmi loro compagno nella pietosa fatica, come in altri miei libri così in questo. Dove se le suppellettili e gli arnesi, che si traggon fuori e si ricuperano all' attenzione degli uomini, non sono tutti oro schietto - e il saggio, a cui io stesso di mano in mano li posi, chiaramente lo dimostra - tu considera però che nel traffico filosofico non è sola ricchezza la verità discoperta, ma ancora ogni studio ed ogni lavoro della mente per discoprirla; di che le capitali questioni pur solo intavolate, le meditazioni tendenti a scioglierle, gli abbagli stessi procacciano bene, avanzano ed arricchiscono il mercato della filosofia. Ma perchè, tu dirai, l' umana mente traviò cotanto dal vero, che la narrazione dei suoi pensieri pare doversi piuttosto appellare una narrazione dei suoi errori? Non ti riuscirà guari difficile ad intendere questo fatto costante negli annali di tutta la filosofia, se tu consideri che, quantunque la mente dell' uomo coi suoi atti diretti colga il vero - e così vien esso ricevuto e collocato quasi in arca sicura, nel fondo dell' animo - tuttavia alla riflessione, che vuole poscia leggere questo vero, il quale ella ha certamente davanti, sovente traballa la vista, e le avviene di leggere una parola per un' altra dello scritto; il che le incontra sventuratamente per la continua mobilità dell' immaginazione, che la dirige coi suoi fantasmi, seguendo le leggi animali, quando l' immaginazione dovrebbe essere diretta e governata; onde pare che la riflessione non dissomigli le più volte da un padrone cieco, guidato a mano da servo capriccioso e malfido. Così avviene che la riflessione, la quale produce la filosofia, volendo riguardare l' anima per conoscere che cosa ella è, di che natura e condizione, si creda veder l' anima, e veda tutt' altro, cioè ora veda la materia , ora il sentimento corporeo , ora l' idea , ora Iddio ; e così dica a sè stessa che queste cose sono l' anima. Perocchè di questo modo nacquero quelle prime quattro classi di sistemi tutti erronei intorno alla natura dell' anima, che ti ho esposti, i quali si possono chiamare dei materialisti, dei sensisti, dei falsi oggettivisti, e dei teofisti. Il quinto sistema poi, che fu l' aristotelico, evita in parte, come dimostrai, gli errori precedenti, essendosi accorto il suo autore che l' anima non poteva essere alcuna di quelle quattro cose, le quali sono termini del suo operare. Ma là dove Aristotele pose mano a spiegare l' intelletto, cadde egli stesso in un sistema di soggettivismo contrario ai quattro primi, e massimamente contrario a quello dei falsi oggettivisti; poichè, mentre questi volevano innalzare l' anima, dandole le divine qualità delle idee, egli degradò le idee dalla loro condizione altissima, riducendole al grado dell' anima stessa e delle cose soggettive. Che se nol disse espressamente, conseguita nulladimeno dal sistema di quel filosofo, il quale concede senza esitazione l' uno , ossia il comune , alle cose reali e soggettive; onde per Aristotele l' oggettivo, ossia l' ideale, non è più che un' appartenenza dello stesso soggettivo, ossia reale; poichè ogni reale, volendo ragionare dirittamente, al soggetto si riduce. Tu pertanto, confrontando ciò che noi abbiamo esposto circa la natura dell' anima colle altrui opinioni, giudica liberamente, guidato dal tuo proprio senno, se la sentenza nostra sia preferibile alle altrui, e se in questa parte abbiamo in nulla colle nostre meditazioni vantaggiata la filosofia, la quale non si vantaggia, senza prode della sapienza e della religione.

Scritti vari di metodo e pedagogia

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Prima di ascenderli nella Messa il Sacerdote fa la confessione de' peccati, e recita a vicenda col ministro, e un tempo già con tutto il popolo, l' opportuno Salmo « Giudicatemi Signore » (5), col quale prega, che, abbattuti gli avversarŒ, mandi a lui la sua luce e la sua verità, per essere da queste condotto nel santo suo monte, ne' diletti suoi tabernacoli. [...OMISSIS...] L' uso delle cose necessarie nella Messa e nelle altre funzioni facilmente apparisce. Laonde dirò delle loro mistiche significazioni, essendo queste atte a nudrire divozione, conforme all' intenzione della Chiesa, desiderosa che tutto e in tutti i modi spiri edificazione e pietà. Dunque nel Calice s' imagini di vedere il sepolcro nuovo del Signore; nella Patena la pietra rivoltata sopra la bocca del monumento: il corporale sia la sindone monda, ove Giuseppe d' Arimatea involse il corpo del Signore. Le vesti poi del Sacerdote tutte alludono a vestimenta spirituali. La bianca cotta indica l' innocenza di una vita sacerdotale. L' ammitto è l' elmo della salute, che guarda il capo dall' avversario, e protegge il collo o sia gli organi della voce, onde facile è il peccare. Il camice mostra il vestito tutto mondo della santità; il cingolo in particolare la virtù della purità; il manipolo, drappo con cui una volta s' asciugavano le lagrime, significa la penitenza, che, seminando in pianto, coglie frutti di letizia. La stola, che pendente dal collo s' incrocicchia in sul petto, segna la fortezza, o la veste d' immortalità acquistata per la croce di Cristo, e la pianeta finalmente raffigura il giogo della soave sua legge, cioè la carità, che dal Vescovo nella ordinazione s' appella abito sacerdotale, e nel Vangelo veste nuziale soprapposta alle altre, perchè a tutte dà compimento e perfezione. Nella tonicella poi del Soddiacono è l' imagine delle interiori virtù, come nella dalmatica del Diacono delle esteriori: poichè si spetta a' Diaconi la cura de' poveri, e debbono essere assistiti da' Sottodiaconi, cioè da ministri incorrotti pieni d' interior santità. Il piviale finalmente dimostra la grave e santa conversazione de' superiori ecclesiastici, che abbraccia la carità di Dio e del prossimo. Ora i colori diversi de' sacri indumenti si conformano alle feste, che con essi si celebrano. Il bianco indica letizia, gloria, gaudio; il rosso segna il sangue de' Martiri, e il fuoco del Santo Spirito; il violaceo significa mestizia e passione; il nero morte: il verde poi è un colore medio, che s' usa in alcune Domeniche meno solenni forse qual indice della nostra speranza. Le conche poi dell' acqua benedetta, che anticamente erano certe urne con una fontana posta in mezzo all' atrio delle chiese, ove si lavavano le mani e la faccia i fedeli avanti entrare in chiesa, figurano la lavanda interiore, e lavano da veniali peccati chi n' ha dolore, in virtù di benedizione fatta su quelle acque dal Sacerdote. D' alcune altre cose, che sono in chiesa, cade di toccare nel capo seguente. Dalla meditazione de' riti e delle cerimonie dalla Chiesa usate quali cose e quante non impara il Cristiano! Raccoglie da quelle gli alti sensi di essa Chiesa verso a Dio, ed eccita in sè stesso que' sincerissimi e perfetti atti di culto. Vede ancora in quelle, il che non è a dire quanto sia giovevole, una cotal forma bellissima di cristiano conversare in questo mondo, gastigato alle regole di perfetta vita; mentre, dovunque e' si trovi il Cristiano è nel tempio del Dio suo, e quasi ministro, per dire così, insieme cogli altri fratelli suoi, e con tutte le creature dell' universo, esercita atti di religione. Tuttavia non vengono per avventura sotto questo aspetto bastevolmente considerate le ecclesiastiche cerimonie. E pure verissimo è, che nella Chiesa si ha quel trattare vicendevole, che a Cristiani perfetti conviene: e così perfette essa l' ha poste, perchè convenienza avessero con sè, col carattere de' suoi ministri, e coll' altezza delle cose divine. Or facciamoci addentro alcun poco nel loro spirito. Che diversità fra queste e le cerimonie del mondo! Alcuni distintivi delle cerimonie della Chiesa paragonati a' corrispondenti delle cerimonie del mondo ne mostreranno, quanto le une dalle altre si dispaiano. Il primo carattere delle cerimonie di Chiesa è la SINCERITA`. Essendo santa essa Chiesa, sinceri sono quegli atti con cui la santità appalesa. Oltracciò sono fatti a Dio, col quale non si scherza, poichè vede nell' interiore del cuore. E se nel mondo l' interesse sospinge gli uomini a finzione esterna, qui gli spinge ad esterna sincerità, come la sola che ottenga favore. Perciò le ecclesiastiche cerimonie sono ancora semplici e naturali . Per esempio: levarsi in piedi al Vangelo dopo essere stati seduti all' Epistola, per dimostrare prontezza di sostenerlo e difenderlo quali prodi soldati di Gesù: stare in piedi nella Domenica al recitare delle antifone di Maria, in memoria del Signore risorto; e usare positura ritta ogni qual volta vogliamo significare solennità ed esultanza: genuflettere, a indizio di mestizia e lutto, quasi col lasciare cadere il corpo, dimostrando di confessare la caduta dell' anima, o l' umana abbiezione dinanzi alla Divinità: piegare il capo in segno di riverenza, battersi il petto in atto di pentimento, variare la voce come si fa nella Messa, adoperandola talora alta, talora sommessa, alcuna volta al tutto segreta secondo i misterŒ proferiti, i quali si vogliano fare intendere od a' ministri soltanto, od a tutto il popolo, o vero dall' unico Sacerdote si trattano con Dio in alto raccoglimento, conforme alle intime cose, sacrosante, e misteriose che esprimono (1), ed altrettali atteggiamenti, riti, e cerimonie, i quali, nati, per così dire, insieme colla cosa ch' esprimono, non hanno sforzo veruno nè affettazione, e mostrano in sè medesimi la propria sincerità e verità . Sieno adunque anche gli atti di noi Cristiani, in trattandoci nella vita civile, così semplici, facili, sinceri, acconci, e proprŒ alle opere che trattiamo, e in un tempo così espressivi e decorosi. Tutto altro è il trattare del mondo, simulato, artifizioso, ed insulso. Altro carattere di questo trattare esteriore nella Chiesa è il BELL' ORDINE, la quiete, la placidezza , con cui tutto si move. Ogni cosa è bene disposta e regolata. Sono prescritti a' Sacerdoti i movimenti e gli atti più minuti, perchè ogni picciola sconcezza si fa grave in quel luogo. La distribuzione de' ministri, cominciando dal Pontefice insino a' turiferarŒ, agli ostiarŒ, a' lettori; le incumbenze assegnate a ciascuno, accordo insieme e varietà, ed un succedere di nuovi oggetti bene fra sè congiunti, rende ciò che è santo anche dilettoso e ammirabile a' sensi. Così queste sacre funzioni esprimono il fervore dell' uomo cristiano, che nasce da serena mente, quieta, e tutta pace: edificano colla pietà, non agitano colla passione. Che distanza dal tumulto, dal fracasso, e confuso agitamento delle mondane feste, le quali mescolano o sconvolgono tutto l' esteriore e l' interiore dell' uomo! E se noi mireremo alla gravità ed alla MAESTA` del sacerdotale apparato, principalmente in festa solenne, facilmente diremo, che quel così augusto spettacolo, e quel grave portamento, quegli ampli addobbi de' Sacerdoti e del Tempio ci parlano di Dio; e che mentre glorificano Dio insegnano al Cristiano chi sia lui stesso, che Signore serva, e che servigio sia il suo. Insegnano, che a lui sommamente disconviene in ogni tempo piegarsi alle scurrilità del mondo; ma sempre al grave contegno attenersi e dignitoso. E perchè i mondani uomini sono avvezzi nelle loro smorfie, e in certi loro attucci, colle idee picciolissime che queste cose presentano non sogliono capire le gravi e somme verità, nè prezzare le ecclesiastiche cerimonie: non potendo dilatare il pensare ed il cuore a quelle grandi cose, nè reputarle perciò belle o dilettevoli; ma sì tenerle, come le altre cose di Dio, austere, penose e secche. E loro avviene questo come a colui, che ode dignitosissimo personaggio favellare, ma non intende la lingua in cui favella. Noi all' incontro, che intendiamo e gustiamo questi riti maestosi, veggiamo nel Sacerdote, che ascende l' altare, l' umanità ascendere al « Sancta Sanctorum », a Cristo; quando lo bacia intendiamo ch' ei bacia Cristo, saluto usato anticamente a' re; quando incensa le obblazioni, le reliquie, l' altare, sappiamo che adora con quest' atto in tutte quelle cose Iddio, veggiamo i vortici del profumo odoroso ascendere in alto, e in quelli ci vengono a mente i nostri preghi che ascendono a Dio per Cristo; e per Cristo, giusta la frase scritturale, si odorano dal Padre, essendo Cristo il solo odore in cielo gradito. E così nella pompa de' doppieri e de' torchi accesi e de' candelabri, ove splende il fuoco che Cristo venne a mettere in terra, e nel trono del Pontefice, e nelle schiere de' ministri, e nell' ordine de' Sacerdoti, e nella turba de' cantori, e ne' suoni degli organi, e in tutto il lento e variato procedere della cerimonia ci troviamo agevolmente colla mente in Cielo, nella corte di Dio, nel tempio del sommo Pontefice; d' intorno al quale gli Angeli con divini riti celebrano eterno giorno festivo. Il quarto carattere delle cerimonie ecclesiastiche è quello di RIVERENZA, di cui sono piene verso tutti i membri della Chiesa, cioè i fedeli che a quelle assistono, e di quelle sono gran parte. Ciò pure insegna come dobbiamo portarci a vicenda. San Paolo esortava a prevenirsi scambievolmente in rendersi onore (1). Ora, poichè i ministri sacri in chiesa non trattano solo con Dio, ma ben anco tra sè, e talora col popolo; così come con Dio la maestà e la dignità è richiesta, i Cristiani trattando fra sè hanno legge di scambievole riverenza. Rispetto e riverenza può essere dato tanto dagli inferiori a' superiori, come dai superiori agl' inferiori, e ancora da uguali ad uguali. Questo rispetto di tutti fra tutti nella chiesa apparisce in tanti inchini, che si fanno i sacerdoti e cherici. Verso il superiore il mostrano le benedizioni dimandate prima di leggere, i baci della mano fatti dal ministro, l' essere tutto il coro regolato a suo esempio: poichè nessuno siede prima di lui, nè si alza prima che egli alzato non sia, e in altri simili segni di onore: i preti stessi si stanno in coro regolati secondo la dignità o l' età. Ma se il Cristiano venera nel maggiore l' autorità divina; il maggiore altri non trova nell' inferiore che un fratello suo compartecipe della stessa cristiana adozione. Onde quale umiltà e dolcezza non dimostra il Pontefice stesso in tutta sua pompa in onor degli astanti? Viene alla celebrazione della Messa, e si pone prima di tutto a' piè dell' altare; fa una accusa pubblica de' suoi peccati, e sente rispondere in bocca del popolo: Iddio ti faccia misericordia . Dopo offerito il pane ed il vino e' si volge agli astanti, li chiama fratelli, li prega di orazioni, perchè il Sacrifizio comune sia accettato dal Signore. Dimanda anch' egli ad un Sacerdote la benedizione prima di leggere le lezioni nel Mattutino. E per tutto s' umilia di sotto agli altri, quando prende aspetto d' uomo; benchè in figura di Dio venga nella funzione stessa altamente onorato. Quella cerimonia però, che più al vivo mostra l' onore, di cui fa la Chiesa degni tutti i Cristiani, si è l' incensamento, il quale non pure al celebrante e al clero, ma al popolo stesso viene dato, perchè si tengono tutti pieni di Dio, templi vivi, come essere dovrebbono, del Santo Spirito. Cessiamo forse d' esser tali fuori di chiesa? No. Ecco adunque l' onore, in che reciprocamente, se cristiani siamo, ci dobbiamo tenere. Quanto civile, umano, riverente non è dunque il tratto dell' uom cristiano? quanto lontani ci conviene essere ne' nostri modi dallo sprezzo, dalla non curanza, dalla freddezza verso a nessuno, non che io dica dalla presunzione, dall' alterigia, e dall' insulto, che sono pur le belle costumanze di questo mondo? Ma il carattere precipuo, più soave e più bello delle cerimonie ecclesiastiche si è il quinto, cioè l' essere piene di amore , LA CARITA`. Oh bellissima unità di cuori, che spirano le funzioni di chiesa! che concordia e carità non adorna i sacri riti? Nella Chiesa, tolte di mezzo tutte distinzioni e separazioni mondane, forma un corpo solo nell' unione al comune capo Gesù, il re col suddito più abietto. A vicenda colà si prega e canta. E perchè i due cori in nulla cosa sembrino salmeggiando divisi, nell' antifona, alla fine del salmo, s' uniscono concordi ad esprimere perfetta consensione di anime. Nella Messa poi quai soavi parole non usa il Sacerdote ciascuna volta che parla agli astanti? Quando li saluta si volta ad essi allargando le mani sue in atteggiamento di abbracciare, e loro dice: Sia con voi il Signore. Essi rispondono all' incontro: Sia pure collo spirito tuo. E tale saluto forma preparazione alla preghiera, poichè la preghiera accetta è quando il Signore è con quelli che pregano, ed essi nel Signore sono uniti, per cui al Dominus vobiscum segue l' Oremus , cioè l' invito a pregare insieme. Altra volta esortali ad innalzare gli animi al Cielo, essendo oggimai vicino il Sacrifizio, a rendere grazie, e cantare in una con lui e cogli Angeli: « Santo, Santo, Santo il Signor degli Eserciti », e benedire colui, che già in nome del Signore sen viene. Questo pio consorzio di affetti si va poi accrescendo in perfezionando il Sacrifizio. E quando il Sacerdote divide l' Ostia in due parti, e un frammento ne stacca, e con tre segni di croce lo ripone nel calice, dice allora a tutti: « La Pace del Signore sia sempre con voi ». E già messo nel calice il pezzetto, aggiunge: « Questa meschianza e questa consecrazione del corpo e del sangue del nostro Signore Gesù Cristo torni a noi, che siamo per riceverlo, a vita eterna; così sia ». Colla quale cerimonia rappresentando il ricongiungimento del corpo col sangue di Cristo, cioè la nuova ed eterna vita da lui per la risurrezione racquistata; si prega, che noi, membra sue, parimente partecipiamo di questa immortale vita del glorificato nostro Capo. Nel quale istante il Sacerdote, dimentico quasi che pur siamo in terra, ov' è solo principio d' eterna vita, quasi trasportato in Cielo a quel tempo, in cui l' opera di nostra salute sarà perfetta e compita, prega alla Chiesa di Dio Pace; e pace a tutti i fedeli desidera dal Signore: e bacia l' altare per riceverla da Cristo, che l' altare rappresenta, e abbraccia il Diacono, e a lui la comunica: il Diacono poi al Clero la reca, che tutto pure a vicenda si viene abbracciando, da cui l' abbracciamento un tempo passava anche al popolo: rito pieno di affabilità, e santissima amicizia, dopo il quale non più dovrebbe rimanere alcuno rancore negli animi, non più avvenire una rissa in sulla terra fra' battezzati, e solo Amore regnare, Concordia, Pace di Cristo. Il perchè, se le sacre cerimonie si guardano rispetto all' animo della Chiesa, si trovano pure e sincere , in sè stesse sono belle e ordinate , verso Dio sono gravi e maestose , verso i fedeli sono piene di rispetto e d' amore . Che se, in trattando fra noi nella vita, queste cose serbassimo, noi toccheremmo ogni perfezione di un conversare cristianissimo e amabilissimo. Chi mira all' ordine delle preghiere, che la Chiesa usa, può acconciamente dire colla Cantica, che il Signore ha ordinato in lei la carità (1). Veggiamolo brevemente. La Chiesa, come abbiamo toccato di sopra, regolò fino da tempo antichissimo le sue preghiere nelle diverse ore del giorno e della notte. Partito il dì, e così pure la notte in dodici ore, ad ogni terza ora era l' orazione. Le ore più solenni però del giorno furono Terza, contandosi dallo spuntare del sole, Sesta, Nona, e Vespro o duodecima. Introdotto poi il costume di orare anche al principio del dì e della notte, ne vennero Prima e Compieta . Queste ore sono santificate anche da' fatti della Passione di Cristo. A Prima fu condotto da Pilato: a Terza crocifisso colle lingue de' Giudei, flagellato, coronato di spine: a Sesta inchiodato in croce: spirò a Nona e scese agl' Inferi: a Vespero si depose di croce: e a Compieta fu collocato nel monumento. Col sovvenirsi de' quali fatti può assai agevolmente santificare queste ore anche chi non dice i salmi delle Ore canoniche. Gli OffizŒ divini, come sono al presente, si possono ancora dividere in tre parti: nel Mattutino, col quale principiamo il giorno; nelle Ore diurne, con cui fra il giorno si prega; e nella Compieta, che chiude la giornata. Ognuna di queste parti ha il suo cominciamento opportuno. [...OMISSIS...] Quando cominciamo il giorno, non ancora distratti da occupazioni terrene, nè sbattuti da tentazioni del dì, apriamo più degnamente i labbri a lodare Iddio. Nel giorno, fra tante cure e pericoli, ci bisogna un peculiare sostegno divino ad ogni passo, e questo si chiede colla seconda preghiera. Alla sera, dopo avere passato il giorno tutto negli affari di questa vita, dove è molto difficile non esser qualche volta caduti, che cosa evvi di meglio che a Dio tornare in quella notturna quiete, e pregarlo, come si fa col principio di Compieta, che e' ci voglia ricondurre ad esso e ritenere il suo sdegno. I padri nostri hanno diviso il Salterio di Davidde ne' sette giorni della settimana per modo, che dentro a ciascuna si svolgeva cantando tutto quel libro. Poichè, lasciando essi le voci gentilesche de' giorni, li chiamarono tutti ferie , ossia vacanze: intendendo di mostrare con questo vocabolo, come i Cristiani dovevano vacare sempre dalle terrene cose, e riposarsi in contemplare le divine, e cantarle. Come poi gli Ebrei dal loro Sabbato numeravano i giorni, così i Cristiani dalla Domenica presero a numerare le loro ferie. E come il Venerdì presso gli Ebrei veniva chiamato anche Parasceve, ovvero preparazione al Sabbato, così i Cristiani ritennero all' ultima feria il nome ebraico di Sabbato: volendo mostrare con questo, che la festa degli Ebrei altro non era che uno apparecchio alla cristiana. E sì come alla Domenica, che significa giorno del Signore, celebravano e celebrano il risorgimento, col quale un Cielo nuovo e una Terra nuova apparì, e cantavano in questo giorno il più solenne cantico, quello de' tre fanciulli di Babilonia; così nel Sabbato rammentavano e rammentano la fine del mondo vecchio, e dicevano il Cantico, che Mosè disse moriente. La Feria sesta serbò sempre la grande memoria del sangue del Signore in quel giorno sparso, ed in essa s' intonò il Cantico di Abacucco, dove è accennata la croce. Della quinta è propria prerogativa l' istituzione in essa fatta della Cena eucaristica, e in quella si può ricordare ancora l' istituzione degli altri Sacramenti, dove s' onora il più grande. In fatti, il Cantico Mosaico, composto dopo il passaggio del mare Rosso, che a questo giorno è stabilito, conviene, come diremo più sotto, al battesimo. Negli altri giorni altri argomenti si ricordano e onorano, come la creazione, e il gran decreto della redenzione, l' umana impossibilità a risorgere dal primo peccato, e la morte sua pena; la consolazione del Santo Spirito, e di sua grazia; pe' quali giorni si leggono i Cantici d' Isaia, d' Ezechia, e di Anna. In tali argomenti può pascere santamente il suo spirito, chiunque ne sia informato, ne' diversi giorni della settimana con pia meditazione, e così unirsi alla Chiesa orante, sebbene non reciti il Breviario, e non sappia punto di latino. Gli Ebrei nel primo giorno di ciascun mese celebravano certa festa solenne, chiamata da loro Neomenia , ossia luna nuova . In luogo di questa noi abbiamo fra l' anno sparse le feste della Madonna, rassomigliata dalla Chiesa per la sua spirituale bellezza alla luna. Ogni mese poi, nel primo giorno non impedito da festa maggiore, noi suffraghiamo i defunti. Occorrono oltracciò in ciascun mese alcune feste, delle quali brevemente diremo appresso. Nel tempo, in cui la Chiesa nostra era in sul primo svolgersi, pochi erano ancora i Santi del Nuovo Testamento, e perciò poche le nostre feste. Fra settimana si recitava, come è detto, il Salterio, cioè gli OffizŒ feriali , che sono uffizŒ di penitenza e di apparecchio alla Domenica, grande giorno del Signore. Ma venne di mano in mano la Chiesa arricchendo sempre più di glorie e di eroi, da prima in ispecial modo co' Martiri, e appresso coi Confessorì: e da questi nuovi acquisti ebbe sempre nuove ragioni di allegrezza. Il perchè, festa a festa aggiungendo, e solennità a solennità, è pervenuta Chiesa santa in uno esaltare continuo ogni giorno nuovi trionfi, ogni giorno nuove azioni di grazie, nuove memorie de' suoi prodi. Il quale perenne succedere di fasti gloriosi quale gaudio non dee produrre ne' fedeli, ammirando le inesauribili ricchezze divine ne' Santi suoi, e la inesprimibile varietà e preziosità di abbellimenti, con cui la sposa di Gesù in ciascun giorno quasi a foggie novelle si ammanta! Ogni giorno dunque Chiesa santa esulta; e questo suo esultare crescerà insino alla fine de' secoli. Non dà egli un tanto rallegrare qui in terra imagine del Cielo? In fatti la numerosità delle feste, dice S. Bernardo, spetta ai cittadini e non agli esuli (1). Il perchè v' ebbero de' santi uomini, che, desiderosi più del pianto, proprio di questo pellegrinaggio, che della letizia propria del Cielo, hanno mostrato desiderio, se essere potesse, che minorato fosse il gran numero degli uffizŒ de' Santi, e avessero luogo que' delle ferie. Noi poi e nelle feste de' Santi la magnificenza ammiriamo del regno di Cristo, che ci dà quaggiù un cotale saggio di celeste gloria, ed amiamo lo spirito di que' virtuosi, i quali preferiscono alla consolazione lo squallore ed il pianto, come più proprio a noi, Chiesa che milita in fra cotanti avversarŒ. E` però di grandissimo vantaggio quell' avere ogni giorno sott' occhio novelli esemplari di virtù maravigliose. Che se noi venissimo in tutto il corso dell' anno seguendo dietro le orme sue la Chiesa, oh di quante alte cose meditazione faremmo! Di tutte le verità, le istorie, i motivi, le strade che ne scorgono a Dio. Vi dirò in poco che argomento tolga la santa Chiesa a meditare o celebrare ne' varŒ tempi dell' anno. Apre l' anno Chiesa santa colle quattro Domeniche d' Avvento, colle quali, sì come ne' quattro mill' anni precorsi a Cristo si apparecchiò il mondo a ricevere il grande ospite suo, così la Chiesa noi apparecchia al natale del Signore. Quindi questo divino Sole, che appresso sorge, regola l' anno ecclesiastico, per così esprimermi, come il sole materiale regola l' anno terreno. Qual migliore tempo di questo da meditare la caduta dell' uomo primo, l' impotenza della natura e della legge a rilevarlo, le profezie e promesse di Riparatore, e sopra tutto l' opera della divina incarnazione? Così preparati, ci nasce il Salvatore, viene circonciso, datogli il nome di Gesù, e a' pastori, e a' Magi si palesa: intanto freme la Sinagoga, e la parte delle tenebre si sbrama nel sangue degl' innocenti, mentre se ne fugge in Egitto il cercato Infante. Tali cose nella festa del Natale, della Circoncisione, dell' Epifania e degl' Innocenti si ricordano. Qual pascolo non abbiamo noi nella considerazione dell' umile presepio del Signore, dell' adempimento della Mosaica Legge, della forza del nome di Gesù, dell' annunzio di sua venuta fatto agli Ebrei, della chiamata de' gentili, del malo ricevimento e della riprovazione della nazione santa, colla quale però ci rimane la dolce speranza di riunirci nella fede in fine del mondo, e finalmente della guerra eterna che le tenebre hanno colla luce, il mondo con Gesù Cristo? Nella festa di S. Giuseppe abbiamo sotto gli occhi i doveri di pudico sposo, di vigile padre, e tutta la vita privata del Signore. Nelle sei Domeniche, che seguono dopo l' Epifania, la cecità de' Giudei, e i misteri di predestinazione, e di Grazia. Considerato fino a qui quanto spetta a Cristo e a' doni suoi, succede la considerazione di noi stessi, i danni del peccato d' origine, la moltiplice corruzione del corpo e dell' animo umano, la lotta fra lo spirito e la carne, l' ignoranza, e la necessità della penitenza; le quali cose tutte come apparecchio alla Quaresima cadono nella Settuagesima, Sessagesima, e Quinquagesima, che precedono la Quadragesima. In questa la morte; la natura e i rimedŒ delle tentazioni, il laborioso battesimo, che purga le macchie contratte dell' anima, cioè il Sacramento accompagnato alla virtù della Penitenza: la detestazione della passata vita, la scelta del confessore, la soddisfazione dovuta a Dio, i veri propositi, e i mezzi di non tornare al vomito, sono i frutti di questo sacro tempo. Alla Domenica di Passione incomincia il ricordo delle ultime memorande geste del Salvatore. Che esempio del sommo penitente! l' ubbidienza sua sino alla morte di croce, e tutto lo spettacolo del suo patire cade nella seguente settimana. Poi risorge Cristo dai morti, primizie dei dormienti. Quale mutazione di scena! che frutti consolanti ci promettono le nostre pene offerite al Signore! Abbiamo fatta nel battesimo una prima risurrezione dell' anima morta, nella penitenza una seconda; l' ultima, in cui risorge il corpo, simile a quella di Cristo, compirà la vita nostra in Cielo. Dopo Pasqua ecco il lavacro battesimale, dove s' imbiancano i Catecumeni, ed è la porta degli altri Sacramenti. Il nostro spirito quindi appresso si può nutrire colle verità intorno la Chiesa che milita, purga, e trionfa, facendocene luogo le settimane che seguono alla Pasqua fino all' Ascensione, prima della quale conversò Cristo in terra co' discepoli suoi. La festa di Pentecoste annunzia i doni del Santo Spirito, sublime oggetto a cristiani desiderŒ, pe' quali il Vangelo in tutto il mondo fu scritto in sui cuori degli uomini. Dopo tale solennità adunque il tempo è di pensare all' incremento maraviglioso del Regno di Cristo in terra, al sangue de' martiri, agli scritti dei dottori, alla vita de' confessori suoi, da cui fu fecondato, illuminato, santificato. La Domenica della santissima Trinità, il giorno solenne del Corpusdomini danno grandi cose alla mente. Quest' ultimo ci chiama ancora a riflettere in sulla dignità sacerdotale, e sulla Gerarchia ecclesiastica. Il rimanente dell' anno, che viene dopo la Pentecoste, è acconciamente occupato ne' mezzi, co' quali lo Spirito Santo ci si dona, e nelle opere sue fatte in tutti i tempi. Le Scritture ispirate, le virtù infuse nell' anima della fede, speranza e carità, la preghiera ardente, e in particolare coll' occasione delle feste della Croce, di Maria, degli Angeli e de' Santi abbiamo onde istruirci intorno a' varŒ culti di nostra divozione. Nel giorno, in cui si commemorano li morti nella pace di Dio, occupi il cuore nostro e la nostra mente quella Chiesa purgante. Nelle letture poi de' libri di Giobbe, di Tobia, di Giuditta, di Ester, de' Maccabei, de' Profeti, che fa susseguentemente la Chiesa, impariamo tutte le morali virtù, la pazienza, il savio governo della famiglia, l' eroico e santo coraggio, la prudenza, la fedeltà alla legge santa con iscapito perfin della vita, la provvidenza, con cui il Signore regge la Chiesa sua vigile sopra di lei fino al dì del giudizio, del quale i pubblici uffizŒ trattano nell' ultima Domenica dell' anno ecclesiastico. Non v' ha dunque più bella cosa, che tenere dietro alla Chiesa. Con lei si percorrono nell' anno tutti i dogmi suoi, tutto il sistema di sua fede, tutto il corredo di sue virtù, tutti i mezzi di praticarle, e tutti i frutti ed i premŒ promessi dal Signore. La nostra vita spirituale tiene alcuna similitudine alla corporea, e ci bisogna in quella altrettanto, dirò così, che ci bisogna in questa. Anche in quella dobbiamo primieramente nascere, e a questo Cristo ci ha fornito il Battesimo; dobbiamo crescere, a cui istituì la Confermazione; perchè ci nutriamo, pose l' Eucaristia; ammalandoci dello spirito, ci fornì la Penitenza e l' Estrema Unzione, ordinata la prima a torre il morbo, e la seconda a torre le reliquie del morbo, o la debilezza della convalescenza. E avendo l' uomo nella corporea vita una società, egli la si trova avere anche nella spirituale, e quest' è la Chiesa. Ma perchè alcuno si congiunga a tale società, ha bisogno prima della vita corporea, e poi della spirituale. A questi due fini perciò sono indiritti i Sacramenti del Matrimonio e dell' Ordine. Non è mia intenzione di esporvi qui le dottrine de' Sacramenti, che trovate con ogni facilità in ottimi libri. Farò tuttavia quasi una scorsa in sul Battesimo, col quale in noi s' incomincia la vita eterna, per darvi esempio del modo, con cui giova studiare in questa materia: e a tal fine mi basterà di porgervi quasi un indice di materie, o poco più, per non ingrossare maggiormente il volume senza bisogno. Sarà dunque bello ed utile studio se voi entrerete a conoscere quasi la storia stessa de' Sacramenti, e qui del Battesimo; e cercherete di osservare le figure, e le predizioni sparse nell' Antico Testamento. E` necessario di poi che veggiate ben chiaro la differenza di tutti gli altri battesimi, e di quello stesso di Giovanni da quello di Cristo. Finalmente fermandovi in questo lavacro vivificatore delle anime consiste ogni migliore studio in penetrarne lo spirito, conoscerne gli effetti, e bene intendere quali gravità di promesse in esso per noi si fanno. Queste promesse, da S. Agostino chiamate non pure voto ma il « massimo voto nostro » (1), a' primi Cristiani erano sacri ritegni da peccare, e l' infrangerle si avea, come è, per sommo infortunio (2); riputando dopo il Battesimo più alta la caduta, più difficile il risorgimento, più dura la debita penitenza. Per questo era prolungato il catecumenato: si dava luogo con ciò a' nuovi cristiani di rafforzarsi nella virtù, prima di promettere a Dio vita solennemente cristiana. Dal Battesimo poi scaturisce il sistema tutto di nostra salvezza, il cumulo de' nostri doveri: conosciuto lui, conosciamo lo stato nostro, la nostra nativa infermezza, l' acquisita nostra dignità, alla quale dignità tutte cose sono sommesse e dell' inferno e del mondo. Ma quanto alle promesse, che fanno i Cristiani nel Battesimo, uso antichissimo è, che di tempo in tempo si rinnovino (3). I tempi più accomodati a questo sono: al toccare il libero uso di ragione; e se i giovanetti nol fanno, è peccato degli educatori: il giorno anniversario del battesimo nostro, la festa della dedicazione della Chiesa; essendo quella festa nostra, poichè noi col Battesimo siamo stati fatti le pietre vive del divino tempio (4); e le vigilie della Pasqua e della Pentecoste, nelle quali la Chiesa battezza i catecumeni. Ora a questo proposito parrebbemi assai convenevole e utile una cosa, che qui non voglio preterire. La Chiesa, per ricordare i fatti illustri della bontà divina, che a lei diedero o fondamento o splendore, stabilisce pubbliche feste. Ogni Cristiano ha per simile modo de' fatti privati della divina bontà, i quali all' anima sua peculiarmente apportarono o salute o aumento di grazia. Imiterebbe adunque la Chiesa utilmente il Cristiano, se come la Chiesa celebra i fatti pubblici con pubbliche solennità, così celebrasse egli i privati con solennità private. La principale di tutte essere dovrebbe l' anniversario del suo battesimo. Quanto vantaggioso e bello non sarebbe, come a me ne pare, se i genitori o gl' istruttori facessero celebrare a' loro giovinetti in questo anniversario un domestico giorno festivo da santificare coi santi propositi, colle rinnovate promesse, colla penitenza e col cibo eucaristico, quasi tempo da cui norma prendesse ed esempio l' anno intero, e s' innovasse la vita, aggiungendo anche esteriori segni di letizia, e qualche insolita ma pia ricreazione? Quanto al modo di formare cotesta famigliare solennità, potendo essere vario secondo varietà di circostanze, purchè tutto spiri pietà, compostezza, e santa letizia, non mi fermerò io a descriverlo. Dirò solo, che utile sarebbe ricordarsi in tal giorno i riti, con cui ne venne conferito il Battesimo. Quante belle cose non contengono quelle cerimonie! L' essere lavati nell' acqua in nome della Trinità augustissima dimostra l' effetto primo del Battesimo, lavare il peccato. Ma or che sono queste acque, che hanno tale potestà? che toccano il corpo, e mondano l' anima? [...OMISSIS...] Quelle acque dunque traggono loro potere dal sangue di Gesù. Quando Cristo morì e scese nel sepolcro, morì allora l' uomo vecchio e fu seppellito. Così Paolo. L' uomo vecchio fu insieme con Cristo crocifisso, perchè il corpo del peccato si distrugga, e al peccato non serviamo più mai (2). E questo primo effetto del Battesimo, era specialmente rappresentato dal Battesimo conferito per immersione, mostrando in quello, per così dire, come il figliuolo dell' uom peccatore si sommerga e si seppellisca. L' essere poi tratti da quell' acqua indica la nascita dell' uomo nuovo. [...OMISSIS...] Per questo Cristo dopo risorto comandò agli Apostoli di andare pel mondo battezzando l' uman genere. Prima non era ancora questo uscito con lui dal sepolcro. Poichè insieme con Cristo otteniamo le grazie, e nessuno il previene: essendo egli le primizie in tutto. E poichè nel Battesimo il Santo Spirito dandosi a noi ci applica i meriti di Cristo, gli Apostoli attesero di ricevere lo Spirito stesso prima d' andare battezzando nell' acqua e nello Spirito Santo. Se la Chiesa adunque battezza nelle vigilie di Pasqua e di Pentecoste, insegna con ciò, come il Battesimo ha sua virtù dalla morte e risurrezione di Cristo, e come dal Santo Spirito viene questa virtù a nostra santificazione usata. Ma veggiamo qual sia l' uomo nuovo che surge, morendo il vecchio. Come il vecchio è l' uomo partecipe della malizia, ed erede del peccato d' Adamo; così il nuovo è il consorte della virtù, e dell' eredità di Cristo. Gesù Cristo, assunto sacerdote, fece sè stesso vittima. Frutto del suo sacrifizio fu la corona di re sopra tutte le podestà nemiche. Ogni Cristiano ora è chiamato a parte di suo sacerdozio e di suo regno. Per questo la Chiesa unge in sulla fronte colui che battezza, secondo l' antichissimo uso di ugnere i Re e i Sacerdoti. Avanti il Battesimo poi l' ugne in sul petto e fra le spalle in figura di croce, come s' ungevano gli antichi atleti, in segno di quella pugna, che coll' arma della croce e' vincerà, e per cui sarà coronato: gli dà il lume acceso, additandogli come debba risplendere nel fuoco di carità quale continuo olocausto al Dio suo. La veste bianca, di che il copre, simboleggia risurrezione e gloria, la bellezza e la purità di questo sacerdozio e di questo reame. Quel sacerdozio, che riceviamo, ci dedica al culto divino, imprimendo in noi questo carattere indelebile di essere persone destinate a servire alla divina gloria eternamente: questo reame ci fornisce di sua grazia, con cui superiamo gli avversarŒ santificando e ricevendo gloria noi stessi. Quella destinazione, o carattere, che al culto di Dio ci consacra, nol possiamo perdere più mai: possiamo però perdere la grazia, che ci mette a parte della gloria e della corona. Ogni Cristiano sarà sempre sacerdote, perchè una volta per sempre al culto divino è sacro: ma perderà la corona di re ricevuta nel Battesimo se strenuamente non combatte. Checchè però abbiamo, l' abbiamo in Cristo, cioè come porzione di suo corpo, perchè unico è il sacerdozio, e unico il regno da lui posseduto, di che ci chiama a parte nel possesso. Ciò s' esprime dalla Chiesa con quella cerimonia del mettere che fa il Sacerdote il lembo della stola sua sopra il fanciullo che battezza, volendo mostrare di coprirlo della stessa veste immortale da sacerdote e da re, di cui Cristo è fornito. Stando in questo regio e sacerdotale ammanto la dignità possibile d' uomo, cui non scemano gli esteriori mali, il Signore nel Battesimo non si curò di torci le umane miserie, mentre nulla con ciò ci avrebbe aggiunto o di grandezza o di nobiltà. Considerati i riti sacri, de' quali la Chiesa accompagna il Battesimo, desiderereste voi forse avere a mano qualche cantico od inno, con cui ringraziare nel giorno anniversario del Battesimo nostro il Signore, e lodare le sue misericordie. Questo ce lo indica Paolo. Egli mostra, scrivendo a' Corinti, che tutte cose avvenivano agli Ebrei in figura delle nostre (1). Ora egli vuole, che noi veggiamo viva rappresentazione del Battesimo nel passaggio dell' Eritreo. Nel Battesimo veniamo battezzati in Gesù Cristo; e per li meriti suoi, mentre l' acqua ci lava il corpo, lo Spirito Santo ci lava l' anima. Cristo adunque era in quel passaggio rappresentato da Mosè, l' acqua dal mare, lo Spirito dalla nube. [...OMISSIS...] E quanto acconcio non è il titolo di mare Rosso a quelle acque battesimali, che la fede vede rosseggiare del sangue di Cristo? e che come gran mare recano salute a tutto il popolo eletto in ogni parte della terra? Per quelle acque, in cui si sommerse l' orgoglioso Faraone, trovò scampo il pellegrino Israello, fuggente la schiavitù d' Egitto verso la terra promessa, come uscimmo noi vivi di quelle acque, nelle quali il demonio e il peccato abbiam seppellito. Perciò quale cantico più accomodato da intonare al giorno anniversario del Battesimo nostro di quel Mosaico, che tutto Israello cantò salvato da' nemici e dalle onde in sulla opposta sponda dell' Eritreo, dopo di sè lasciando tanti orgogliosi nemici affogati? Sì, sì; nello anniversario del nostro Battesimo diciamo anche noi uniti collo spirito a tutti i battezzati della terra: [...OMISSIS...] . E a questo luogo in che tenero tratto profetico non entra il vate ispirato, accennando il deserto che loro rimaneva ancora a percorrere, dopo scampati alle acque, prima di toccare la terra santa? Quanto acconcio è a noi, che scampata nel Battesimo la morte, pure militiamo ancora fra mille rischi, e traendoci per lo deserto di questo mondo dobbiamo arrivare alla patria? Ma dopo ciò a Dio si rivolge nuovamente e prosegue: [...OMISSIS...] . Così Mosè dallo scampo di quel primo pericolo vola a chiedere aiuto all' ultimo passo, che metta in terra sicura e felice: così noi pel Battesimo scampati a principio dalle zanne avversarie, prendiamo occasione di quella prima misericordia a chieder l' estrema, per la quale ha suo prezzo la prima. Or se sì alta canzone degnamente canteremo al mondo, potremo cantarla altresì in Cielo, a grato ricordo delle ottenute grazie divine (1). Dopo avere trattata un po' largamente la virtù, che s' esercita verso Dio, origine e fondamento di tutte virtù cristiane, mi resta a fare alcun cenno delle virtù, che si praticano con sè e cogli altri: delle prime toccherò in questo capo, delle seconde nel capo seguente. Ora le virtù rispetto a se stessi mi parve di raccorle sotto il titolo posto qui sopra del Contegno delle vergini , poichè la bella Verginità, precipua di tutte, dietro a se stessa ne conduce quelle altre, quasi sua bella accompagnatura e corteggio. La verginal purezza, dice s. Agostino (2), per questo dalle Scritture è commendata come pregio altissimo, perchè è divota a Dio; dallo spirito ella debbe nascere; da amore dell' amico e sposo suo: e così, quantunque virtù de' corpi, ella s' eleva a grado di virtù spirituale. Il cuore della Vergine vuole essere sgombro da ogni affetto di terra, odiatore di peccato, e a tutte cose indifferente, fuori che a Dio, che tiene in sè stessa. Non parlo solo di quella Verginità consacrata per voto, ma di quella consacrata per affetto, che a tutte le cristiane donzelle vuole essere comune. Si tenga questa origine della verginal ricchezza, e s' intenderanno i bei costumi della vergine cristiana. Sono pertanto consuetudini e virtù di questo stato illustre e nella Chiesa di Dio onorato la modestia negli atti, e la verecondia così cauta e così dignitosa, che non pure in presenza altrui, ma in sua propria sa arrossire e vergognare; la custodia degli occhi, della lingua, delle orecchie, delle mani, di tutti i sensi, suggellati colla croce di Gesù ad ogni impurità. Bell' esempio è la sposa de' Cantici; le mani di cui stillano mirra, liquore che preserva da corruzione; le labbra sono fasciate con nastro vermiglio, segnacolo di verecondia ne' detti; dimostrano mondezza gli occhi suoi di colomba; negli orecchi i pendenti d' oro son contrassegno di purità; e paragonasi il suo naso a' cedri del Libano, legno incorruttibile (3). Ogni licenza appanna la lucidezza di simile gemma, oscura la bellezza di candore vergineo, e fra gli scherzi umani, dove anche non si perda, difficile è, dice il Salesio, che di questo fregio della castità non ne vada l' ineffabile freschezza ed il fiore. Adunque la Vergine ama il ritiro, e pratica la fuga della umana conversazione: ella teme e trepida ad ogni sentore di pericolo, e questo vergineo trepidare produce la Vigilanza . Stassi la vergine, secondo la similitudine del Vangelo, desta, accinta le reni, e in mano tenente la lampada in aspettando lo sposo. Quel cingolo de' lombi indica la Temperanza, che scema al corpo il fomento della concupiscenza; quell' ardente lucerna dimostra la Carità, che accresce allo spirito forze contro alle lusinghe delle sensibili cose. Quanto il Digiuno non gode di stare colla castità quasi padre o nutricatore! Quanto la Mortificazione non le sta assiduamente da presso come sorella prestatrice di sostegno! Non ama la Vergine nè di vedere nè d' esser veduta, non prende piacere di nessuna cosa di terra: l' abbigliamento delle vesti è netto, ma tutto semplice, dimesso, conformato a sincerità, a gravità, a modestia: non conosce amicizie esclusive, e non conosce o le dolci lettere, o i regaluzzi e le smorfie: da tutto staccata, e in tutto grave, ella pienamente adempie l' apostolico precetto « d' usare così del mondo come se non ne usasse » (1). Di piaceri però non è privata; ma essi traggono da più alta fonte; le discendono dal celeste amico. Spesso si troverà in sua stanza occupata nella orazione, spesso in pie letture, spesso nell' altezza del meditare. Imitatrice degli Angeli in terra vivrà col corpo, e in Cielo collo spirito. Guardiana però e quasi sentinella di questo tesoro verginale, perchè o non si perda egli o non invanisca, si è Umiltà che suole sempre essere a lato della cristiana Verginità. [...OMISSIS...] La vergine del Signore sente la propria infermità; sa che quanto possiede è dono: e come quegli, che riceve doni, ha più a piegarsi e confondersi davanti a lui, che li dona, quanto i doni sono più rari; così del dono stesso della purità ha la vergine donde abbassarsi davanti al Dio suo. Ella sa l' esempio di Maria, in cui la Verginità e l' Umiltà così bella gara faceano, che dubbia restava la prova; sa l' esempio del vergine per eccellenza, di Cristo, che chiama tutti a sè perchè tutti da sè imparino la Mansuetudine e l' Umiltà (3). O anima piamente pudica, non se' mandata ad imparare l' umiltà dal peccatore pubblicano: se' mandata a chi è più innocente di te: se' mandata a chi è più santo, a quello, per cui tu se' santa. Ecco il Vergine esempio de' vergini, cui umile rese non l' ingiustizia ma la carità: quella carità, che « non emula, nè si gonfia, nè cerca le cose proprie » (1). Non può aver ribrezzo d' andarsene la santa vergine ad apprendere da questo l' abbassarsi: è scuola conforme alla dignità sua: qui troverà umiliato l' autore della purità, non pel fascio del peccato, ma per lo peso della carità: davanti a lui vedrà sè stessa spoglia di tutto, se a lui renda quanto da lui ebbe, posseditrice solo di un germe doloroso di corruzione; e da lui imparerà a vestire le stesse immondezze de' fratelli suoi, imparerà ad amare ancora la confusione, il vilipendio, l' affliggimento di quella carne, che allora comincia ad esser buona quando comincia ad essere mortificata per la carità o per la fede: perchè allora luce in lei quella Fortezza, che rende la vergine di Cristo inespugnabile a' nemici, e in tutti i combattimenti invitta. Questa verginità illustre, che fiorisce sulla somiglianza di Cristo, consociata alla Umiltà, è quella di cui, al dire de' Padri, si formavano i martiri, e per cui un' Agnese ed altre tali eroine prima, per dir così, d' esser della vita in possesso, attesa la tenera età, ne' tormenti la prodigarono (2). E` dunque la santa verginità da virtù circondata. Ha la temperanza seco, ha l' orazione, ha seco il santo timore, il pio ritiro, l' incorrotto digiuno, ha la nausea delle cose terrene, il gusto delle celesti, è protetta principalmente dall' umiltà, guernita dalla fortezza, esercitata dalla carità. Non si parla di stretta giustizia a chi crederebbe indegno di sè mancare alla misericordia. Ma di questo amore a' prossimi, che si può dire l' arte stessa o la professione della Vergine di Cristo, qui alcun poco è a parlare, soffermandoci principalmente a considerare di questa carità la PRUDENZA: perchè non sia fatua, ma savia quella vergine, che la esercita. Non parlerò pertanto della carità del prossimo distesamente: troppi ne sono e frequenti i trattati. Ognun sa, che il precetto è questo, che Cristo disse il suo (1); ognun sa la sentenza apostolica, che portare i pesi uno dell' altro è adempiere a tutta la legge cristiana (2). Ci sono dati intorno a questo primo comandamento di Cristo gli esempi, i precetti, le promesse. Di lui ridondano le sacre carte, e ad esse principalmente vi mando. Beete pure a quel fonte della carità, empitevi, inebriatevi. Avete Giovanni a maestro, avete Paolo. Il loro stesso modo di scrivere è eccitamento di amore. Io vi farò considerare pertanto sola una cosa, cioè quello di Paolo stesso: che la carità « si fa tutta a tutti »: ch' ella non si spande solo in eroiche azioni e grand' atti; ma ella si gode e s' intertiene ancora in cose più minute e triviali, nelle più inosservate e neglette, ivi talora giace più grande dove meno apparisce, ivi più sicura ove più nascosta. Ella è saggia, e non opera a caso, ella è sinceramente generosa, e non cerca nè i suoi capricci, nè i suoi piaceri. Voi vedete, che con questa magnanima virtù a lato io vi conduco fuori da quello stesso stanzino, dove nel capo anteriore condotta v' avea all' orazione, e vi faccio uscire in mezzo agli uomini, in mezzo alla società. Sì; se la donzella cristiana ama il ritiro, sa però scegliere quello che meno ama a persuasione della carità. Carità non è solo pascere gli affamati, o vestire i nudi: carità è ancora non dispiacere senza bisogno a nessuno. Non permette la Prudenza della carità che alcuno infranga le relazioni dello stato in cui si trova. E` la fanciulla cristiana in numerosa famiglia? Carità è non vivere a capriccio per seguire una perfezione imaginata: la perfezione è nel vivere a seconda degli altri, nel dispiacere a veruno, piacere a tutti. Carità è accomodarsi di buon volere agli usi innocenti, alle costumanze di quelli fra cui si vive, e fino a' loro gusti, se un dovere nol vieta, e prevenirli ancora con amorevole ingegno. Ma s' io meno vita comune mi conviene omettere molta orazione e molta mortificazione. - Orazione più bella e più grata a Dio è, per non dispiacere altrui, diminuir l' orazione. Mortificazione più meritoria è quella della volontà, che nel vivere comune si fa da colei, che amando più la stanza, sceglie prima l' onesta conversazione. Non dico la cerca, ma la sceglie quando a fare questa scelta attenzione di non ispiacere altrui la conduce, e di non ledere dovere di stato in cui è posta, e di non provocare dicerie. Se questi riguardi della civil carità non vi sono, segua la vita amata dal proprio fervore. - Ma nella vita comune mi dissipo lo spirito, trovo scandali ed occasioni di cadute, nè posso giugnere ad emendarmi. - Conosca adunque tale giovane, che questo non è amore di vita più perfetta, il quale l' attrae dall' esercizio d' una virtù più forte, più virile, più meritoria quale è quella della vita comune, ove la carità de' prossimi è in uso continuo, per non esserne capace, ad una vita più parziale e sequestrata. Non è dunque la perfezione che cerca, mentre la impaurisce una virtù più salda e perfetta. Vuol la vita che ha più nome di perfezione, e lascia la pratica della più perfetta virtù. Di poi, se onesta e pia è la casa della cristiana fanciulla, questa fragilità di solito è colpa, che nella solitudine porterà seco; conviene sradicarla, non metterla sana e salva a dormire, perchè ella ben presto si desta. Se poi la famiglia è un po' mondana, o anche libera, allora il riserbo è un dovere. Ma in ogni caso si fortifichi la cristiana donzella: la disposizione dell' animo, non tanto le occasioni al di fuori, nuoce alla vita. Pure, se in questa fortezza tardi procede, che altra regola le si può dare di suo contegno nell' umano consorzio fuor di quella di Cristo: « Se il tuo occhio ti scandalezza cavalti, e gettal via »? (1). Sì bene; le fanciulle si privino di quanto è loro pericolo d' inciampo. Pur se nel viver comune ed onesto la carità le regge, il Signore non le abbandona; mentre anzi ha loro posti i vincoli che altrui le lega, perchè abbiano esse dei doveri da esercitare, dei meriti da ottenere. - Ma io mi sento chiamata a stato religioso. - E bene: se la vocazione è provata, la ascolti e l' abbracci la pia donzella. Non poniamo a lei ostacolo di scegliere uno stato prima che l' altro; ma vogliamo che dello stato, in cui vive, serbi le leggi. La scelta stessa però di stato migliore non può esser da Dio, se in quella o si preterisce qualche dovere della società, o altri debbe patirne. Non trattenga però la pia giovane un terreno e falso dolore, che vegga in altrui, della sua felice elezione; ma bensì un danno vero e grave, che cagionasse il suo divisamento a quelli, co' quali è per naturali legami congiunta. Ma s' ella non è chiamata al chiostro, dimostri al mondo qual sia la conversazione dell' illibato Cristiano. In questo studi come in bel ramo numerosissimo di fronde, le quali colla spessezza emulano la grandezza degli atti della carità più magnifica. Con questo studio della religione sono nobilitate e rese sante le relazioni ed i mutui offizŒ del viver civile. E qui appunto, giacchè spesso da altri si trapassa, a me sarà caro un poco di fermarmi. Veggiamo dunque le regole colle quali la cristiana legge santifica i costumi, e le maniere sociali, e tutto il conversare degli uomini fra di loro. Dico, che gli uffizŒ del vivere civile, suggeriti agli uomini da natura, possono avere due fonti, cioè il piacer proprio, o l' altrui. Piacevole in vero ci è naturalmente la compagnia; essendo noi alla compagnia degli altri formati da natura; piacevoli ancora nell' uso ci si rendono que' bei tratti, e que' gentili portamenti, e tutte quelle leggiadrie, che usate vengono nelle nobili brigate al mondo. Non parlo, come vedete, di nulla che sia peccato in sè medesimo; intendo sempre qui favellare degli atti indifferenti del vivere, e per sè stessi innocenti. Ora conceduto, che questo trattar compagnevole nella pura teoria potesse al Cristiano piacere riferendone a Dio l' uso, asserisco però a tutta fiducia, che quando il civile convivere si tiene mossi da piacere proprio che se ne senta, allora ne debbe essere per lo meno sospetto. Dobbiamo vedere dentro di noi da che ci venga questo piacere; poichè egli può nascere o da certa sensibile amicizia che si eccita in mezzo a questi affabili modi, o da amore proprio lusingato dell' altrui compitezza e buon garbo, o finalmente da quella ambizioncella, per cui si desidera altrui piacere con doti esteriori o di avvenenza di corpo, o di eleganza di vesti, o di vivacità di parlare. Tutte coteste fonti di diletto sono guaste, o poco nette, e per lo meno non eccedono le propensioni naturali. Sì, ve lo concedo: nulla di questo muova il Cristiano a civiltà, egli sia pure morto al mondo, non ami avere piacere, non che di peccato, ma nè pur di quello che superiore a natura non sia, cioè di Dio. Per quanto si possano fare sottili scuse a simili compiacenze, e porre de' limiti, resterà sempre vero, che il cuore di chi le accoglie non è ancora crocifisso bastevolmente con Cristo, morto a se stesso: ei spera ancora qualche cosa dagli uomini: egli in somma è soffermato quaggiù da amore poco puro, non ha cangiate in sè stesso le inclinazioni naturali con quelle di Cristo. Che se io guardo alle conseguenze di questo umano piacere, ond' uomo è tratto ad affabil contegno, al tutto le veggo disopportabili e ree. Voglio adunque che il pio Cristiano non sia mosso a piacevolezza di vivere cogli altri da gusto umano, e suo proprio, da cui sono mossi gli altri; anzi che egli ogni sensibile amore tolga di sè, ogni vezzo dell' amor proprio, ogni gherminella dell' ambizione. Tutto quello che è nel mondo, dice Giovanni (1), è concupiscenza di occhi, concupiscenza di carne, e superbia di vita. Nulla dunque di questo sia fine al Cristiano, nulla ami di quanto è al mondo, e viva nel mondo senza partecipare del mondo. Così in sulla distruzione d' ogni sensibile umano affetto, in sul distacco da quanto è in terra s' innesti appunto in esso la legittima carità. La « carità », il dirò di bel nuovo, « non cerca quello che è suo » (2). E bene: non conversi con altrui il Cristiano per cagione di proprio piacere; conversi per rendere bello ed onesto piacere agli altri. Or quando onesto è questo piacere, quando legittimo? Varie sono le cose, che altrui possono dar piacere; ora egli è bello ed onesto, se apportiamo piacere colla virtù. Così ci insegnò anche Cristo a vivere cari agli altri: « Splenda la luce vostra in faccia agli uomini, sì che essi la veggano, e ne glorifichino il Padre celeste » (3). La virtù ha veramente una così amabile vista, che tutti, purchè la veggano, non possono se non amarla grandemente e ammirarla. Egli è questo quel bello « Amore figliuolo di Sapienza », di cui parlano le « Scritture », più grazioso assai e leggiadro di quello del mondo (4). E tale è l' ornamento, con cui il Cristiano piace al Cristiano. Lo insegnava alle cristiane donne Pietro, loro l' insegnava Paolo. [...OMISSIS...] Dirà taluno per avventura, che questa bellezza interiore dell' anima raccorrà lode e premio da Dio che la vede, giusto e per noi troppo sufficiente estimatore: ma non dagli uomini. Pure e l' animo tutto pudibondo, e che in tutto ama Dio, ben si dimostra al di fuori. Di qui anzi nasca la virtù della cristiana conversazione. E quale amabilissima e santissima virtù? Una virtù, io dico, che tutti, anche i tristi, saranno costretti di commendare: virtù solida, virtù sincera, virtù consentanea a sè medesima, che di sè non fa mostra, ma in sua propria modestia con più dolce lume risplende, virtù che niente esagera, che niente sprezza, che non giudica, che sopporta, che sa rendere ragione di sè, che studia di non uscire in nulla o meno che può dall' umano vivere pel compatimento dei deboli, che s' occupa in favore d' altrui, e negligenta sè stessa con dignità per soddisfare agli altrui desiderŒ, che fa dei servigi a tutti, sobria, grave, parca nelle parole, niente curiosa, ilare, e non rotta al riso, di nulla sollecita fuorchè di fare sempre contenti quelli co' quali vive anche ne' piccioli comodi della vita; virtù umana, dolce, compassionevole, che evita di prestare altrui occasione di scandalo e di dicerie per loro bene e non perchè ella le tema, che porta le altrui debolezze senza stento e con piacere; virtù in somma, che, essendo tutta in Dio fissa e a Dio raggiunta, con divina saviezza vive cogli uomini in sull' esempio dell' amabile conversazione di Gesù, e, mentre è bastevole ad ogni atto di eroica carità, sa raccorre, come ape ingegnosa, anche dalle più minute e giornaliere circostanze della vita, dolci succhi di carità, e formarne mele soavissimo ad altrui e a sè stessa. Oh quanto non torna amica e cara la santità di quel Cristiano, che, con sè stesso rigido, pensa con ogni dolcezza e benignità degli altri! che ignora per fino i difetti loro, di loro virtù si consola ed edifica, da tutti pronto ad apprendere, tutti ascolta, non ammette prevenzione, vede con facilità il vero ovunque ei sia, e pare che nella bocca degli altri con maggior piacere il trovi che nella propria, sagace in prevedere gli altrui incomodi, destro in toglierli, agli infelici s' unisce compiangendo, a' felici congratulando, sostiene talora senza un segno di noia i più noiosi racconti, e le altrui debolezze, gli altrui torti non saprebbero mutare nel suo volto il cortese, usato sorriso! Tutto semplice, grave, sincero, pieno di un franco e nobile tratto, alle leggi attemprato altrove per noi descritte (1); ei rende, un sì vero Cristiano, amabile agli uomini la nostra virtù. E quale atto maggiore di carità? quale più bell' oggetto della Prudenza, della Carità? (2). Onde quest' è ch' io dico: colla propria virtù dovere il Cristiano piacere altrui; non già cogli ornamenti o colle arti del mondo. Poichè allora veracemente giova piacendo. Insisterà alcuno, che se all' interna ornatura non si aggiungerà un poco degli umani vezzi ed ornamento di vestito, non sarà la cristiana donzella piacevole al mondo. Due cose aggiungerò a risposta: la prima, ch' ella non debbe desiderare, come dicea, d' essere piacevole se non per la virtù, e pe' modi di sua carità; e che colei, la quale in tal modo piace a Dio, piace anche a quelli che sono di Dio. A coloro, cui altro non diletta che il puzzo di carne, debbe abborrire ella di piacere. Allora quanto piace a' tristi, tanto spiace a' buoni. Non s' esercita con quelli carità piacendo, ma loro spiacendo; purchè si spiaccia non per altro che per la virtù, cioè pel monile più ricco e più bello di femmina santa. Avvi però nelle maniere sopra descritte della cristiana conversazione assai cose, a dir vero, che anche i mondani debbono amare e lodare, non solo per quello insuperabile segreto testimonio, che forza d' eterna giustizia astringe le anime umane di dare a virtù; ma perchè quella soave carità è anche tutta umana, e appaga molti naturali affetti e desiderŒ, studiando di renderli contenti in tutto quello che può, e stende una sedula ed amorosa cura fino nelle cose più minute, purchè non contrarie a virtù. Tuttavia essendovi tre modi, pe' quali si può dar piacere agli altri uomini, cioè colla virtù, colle cose per sè indifferenti come sono i fregi del vestire, ed ancora co' peccati, co' peccati si piace a' tristi, colla virtù aDio ed a' buoni, colle cose indifferenti poi alle persone naturali o spirituali mezzanamente. Co' peccati grave male è piacere, colle virtù gran bene: nell' uso delle cose indifferenti poi ha luogo una particolare saviezza per la quale nè si usino perchè si amino, nè si usino di più di quello che giovassero ad edificare, quasi funicelle per le quali attenendosi i deboli salgano mano mano a gustare cose migliori. Ma perchè non si erri in sì difficile affare, questa regola è fermamente a tenere, che in queste tali cose che vanamente piacciono si eviti la sconcezza, non si cerchi la raffinatezza . Questa regola tennero i Santi: e piace leggere come quella santa Edwige duchessa di Polonia, che anche a noi appartiene (1), usando veste troppo logora per amore di povertà, e udendo come a una sorella del monastero ove s' era ritirata quella spiacea, incontanente rispose: Se quest' abito vi spiace, son presta a correggermi del mio fallo , e lo mutò volentieri in un migliore. Carità è in vero evitare quello, che agli occhi non solo de' tristi, ma degli uomini naturali è difforme, per non dar luogo senza bisogno a noia, od occasione di mali parlari; come carità è ancora sfuggire quel ricercato e affettato ornamento che i vani vanamente diletta, perchè e col primo modo si toglie un disgusto come suole la carità, e col secondo si toglie un gusto vano come carità ancor più eccellente costuma. In somma in tai cose non si dia occasione nè di spiacere, nè di piacere a veruno: mentre e l' uno e l' altro è un male. Così la Prudenza della carità ricongiunge quanto puote il più insieme gli uomini, e amandoli tutti a tutto ha riguardo, anche alle loro debolezze, cercando nè di offenderle, nè di fomentarle: ad opportuna occasione poi anzi di toglierle.

SCURPIDDU

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

Due grossi tronchi di fichi d'India, abbattuti mesi addietro, gli suggerirono l'idea di formare un ponticello, mettendoli per traverso. Sarebbe passato su di essi, e poi li avrebbe tirati dall'altra parte. Appoggiandoli al muro, vi si sarebbe arrampicato. Se giungeva ad afferrare la ringhiera di ferro della terrazza ... . Detto, fatto: due tronchi venivano trascinati con molto sforzo, buttati a traverso il profondo spacco della roccia; e Scurpiddu , curvo, con le braccia aperte per equilibrarsi, trattenendo il respiro, passava sul cedevole ponticello. Il difficile era ritirare i tronchi di là senza che il peso li facesse precipitare giù. Prima di avventurarsi, chiamò di nuovo: - Z'a Tegònia! Z'a Tegònia! Le vampe, dopo il crollo dei tetti della cucina e del frantoio, erano quasi spente, ma il fumo aumentava, e le scintille volavano portate via dal vento e piovevano addosso a Scurpiddu , scottandogli mani e faccia, Ora però che egli aveva appoggiato al muro i due tronchi, e che essi, con le loro sporgenze, gli davano agio di montare, non badava nè a fumo nè a scintille; e com'ebbe afferrato una sbarra della ringhiera, si spinse su poggiando i piedi al muro; poi saltò nella terrazza. Per fortuna i vetri erano chiusi, ma gli sportelli interni no. Con un mattone ch'era là, egli ruppe un vetro, passò un braccio nell'apertura fatta, girò il succhiello e spalancò la imposta a due bande, Un'ondata di fumo lo fece indietreggiare. Appena la stanza si fu vuotata per l'aria nuova penetrata, dentro, Scurpiddu si precipitò verso il letto, con uno strillo: - Z'a Tegònia! E scoteva il corpo della povera vecchia, che rantolava, buttata a traverso la materassa. Intanto, dalla fessura dell'uscio che dava nel frantoio, il fumo continuava a invadere la stanza! Come fare? Egli non poteva levar di peso la vecchia e portarla all'aperto. Udita sul tetto vicino la voce del Soldato e di massaio Turi che già si preparavano a scendere, Scurpiddu uscì su la terrazza e chiamò. - Che fai costì? - gli domando il Soldato , affacciandosi dall'orlo del tetto. - La Z'a Tegònia! ... Venite! ... .Sta per morire ... Io non posso toglierla dal letto. Il Soldato si lasciò scivolare lungo il muro che non era molto alto, e poi saltò su la terrazza. Era stupito di trovare Scurpiddu colà. - Come hai fatto? - Ve lo dirò dopo. E trassero la povera vecchia all'aria aperta. Quando l'incendio fu domato, tutti erano attorno a Scurpiddu per sentirgli raccontare come si era accorto delle fiamme e come aveva fatto per salvare la Z'a Tegònia. - Questo ragazzo è la nostra buona sorte, - diceva massaio Turi alla moglie. - Senza di lui, a quest'ora, saremmo quasi all'elemosina, se pur saremmo vivi! E si asciugava le lagrime.

Versione elettronica di testi relativi al periodo 800 - 900 Donna Folgore

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Faldella, Giovanni 2 occorrenze

Ma oltre al salvare i virgulti umani, un giorno egli pensò ai rami e ai tronchi abbattuti, dispersi o putrescenti. Visitando una fabbrica a Cossila biellese, vide che di stracci abbominevoli raccattati dai bassifondi di Napoli, dalle cantine di Londra e persino dagli immondezzai di America si formava una virginea bambagia e si filavano tappeti da rallegrare l'immaginazione dell'Oriente. E così non si potrà pure fare del ciarpame umano? Come di cavalieri macchiati e d'avventurieri scampaforche si formano terribili legioni straniere in sussidio degli eserciti europei, così la civiltà religiosa potrebbe redimere i caduti ostaggi del vizio. Ma all'alta impresa occorre il nerbo di ogni guerra: il denaro. Il denaro, osservava il canonico Puerperio pieno di riconoscenza mortificata conversando con Suora Crocifissa, il denaro non manca mai alla virtù redentrice, profluendo eziandio dalle sorgenti del vizio pentito. Senza peccati non vi sarebbero pentimenti, senza pentimenti non vi sarebbero riparazioni. Da una parte generali o presidenti acciaccati, che nella loro irreflessiva gioventù tradirono a diecine serve e padrone, crestaie e signorine, dall'altra parte venerande patrizie o banchiere, la cui focosa inesperienza puerile fu forse abbassata da palafrenieri, e la cui pompa matronale ebbe un dizionario biografico di amanti, tutte le peccatrici e tutti i peccatori di alto bordo cercano di mettere in pace la loro garrula coscienza, facendo cospicue elargizioni alle opere pie. Per cui la generosità femminile ( generosità nel senso dell'on. Morelli) non serve soltanto ad ottenere impieghi, secondo lo scherzo della burocrazia pontificia: Mater dat, filia dat, uxor dat, soror dat; propterea quod ille missus est in Datem (nella Dateria apostolica). Ma la generosità femminile serve pure ad innalzare pie opere di virtù. Ah! (con un profondo sospiro soggiungeva il canonico Puerperio). Noi ci siamo consacrati alla Purità ... E dobbiamo domandare l'obolo ... come sapone di chi sa quante macchie ... Via! Mettiamoci in campagna. * Sette ! * le rispose con un monastico pattone sulla schiena Suora Crocifissa, arrubinando il bell'ovale del virginio pallore. E si misero ambidue in campagna. Sulla sepoltura di una città, che nei tempi etruschi e romani si meritò il nome di Industris, si screpola un gramo inoperoso villaggio, che con il nome di Passabiago scivola dai margini collinosi del Basso Monferrato alla sponda destra del Po. In una valletta storta e profonda, quasi inesplorata come una foresta vergine, esisteva un rudere preziosissimo di antichità cristiana; un tempietto, la cui costruzione si fa risalire a trecento anni dalla natività di Gesù Cristo. Lo si dice fondato da San Mauro. Subì incursioni di saraceni. Un mozzicone di iscrizione scalfita nella vecchia pietra " XI Kal. Nov. Rolandus" , ed una vaga tradizione lasciano supporre una visita di Orlando innamorato, che poscia ritornò furioso a ricuperarvi il senno smarrito. Napoleone I vi sorprese una lauta badia di Cistercensi, che facevano bollire i capponi nel vino bianco, e mandavano i vitelli a tuffare un istante nel Po per ripescarli e mangiarseli nei giorni di magro come pesci. L'imperatore còrso abolì la badia, disperse i padri badiali, e ne donò terreno e fabbricati a un brioso maresciallo Bonnelane, che li giocò e perdette a tarocchi. Nella restaurazione politica, si restituì il convento in più modesti costumi. Il ministro Urbano Rattazzi, coul Rataz, fieul d'Cain, fratel d'Caiffas, sulle zucche incapucciate a l'a dait un famos crep *; onde il padre guardiano poté intonare, secondo la lepida canzone piemontese del Brofferio: * Bruta neuva * orate frates * Bruta neuva per dabon. * Babilonys impii patres * portu 'l Diau an procession . In quella nuova soppressione di Conventi venne pure colpito il Convento di Sant'Oblito a Passabiago, Sant'Oblito, forse un santo inesistente, in cui si personificò per eufemismo o trapasso popolare l'originale Sant'Oblio. I fabbricati e i terreni vennero comperati all'asta pubblica dalla solerte ditta Israelitica Salomon Todros e Segre, felice acquisitrice di beni ecclesiastici in blocco, e rivenditrice al minuto. Ma la Ditta trovò insolite difficoltà a disfarsi di quei beni, anche offrendoli spezzati in piccoli lotti con dilazioni straordinarie al pagamento. Tanta era la diserzione e l'apatia dei capitali, che regnava loro intorno. La mania litigiosa, l'afflizione della crittogama e della peronospera, la testarderia del così faceva mio padre e il conseguente assoluto misoneismo avevano congiurato per formare un presente contradditorio, quasi ingiurioso all'antica nomea di Industris. La moderna Passabiago pareva la mummia di un rospo. Uno sparpaglio di case scrostate o screpolate o non finite; poggiuoli, che aspettano da anni ed anni la ringhiera; modiglioni, che si protendono inutili per ricevere la pietra di un balcone, che mai non viene. Ignorati o respinti i concimi artificiali; * una voluttà di andare a dormire, rimandando ogni cosa al Die Domani; una assoluta mancanza di volontà, niuna prontezza, fuorché nel litigare. In fondo della valletta giaceva quasi sepolta dai rovi e dalle rose canine la gemma della chiesetta. Ai due lati si ergevano in secolare contrasto storico e tellurico i due poggi dominati dalle rispettive famiglie Rotellana e Pressendina, che dalle spaccature e feritoie delle loro bicocche diroccate ancora si lanciavano freccie di cartabollata. Oramai alle due famiglie di litiganti cronici non rimanevano più che queste due risorse; * per l'una, la Rotellana, pattuire la conversione dei numerosi componenti al protestantesimo, con una sfondolata società di propaganda londinese, che pagava le conversioni in contanti. Per l'altra famiglia, la Pressendina, rimaneva il rinfranco di spazzare il sepolcreto avito nel Cimitero di Torino delle ossa dei Maggiori, ammucchiandole in un angolo chiuso della cripta, e vendere il restante spazio a un milionario costruttore di strade ferrate. Si aggiunse la complicazione di un amore improvviso in tanto odio secolare. L'unico figlio dei Pressendina, l'avvocatino Oreste si innamorò perdutamente di Onorina, la primogenita dei Rotellana, che perdutamente gli corrispose; onde era minacciata una nuova tragedia di Giulietta e Romeo. Invece il dramma ebbe lieto fine come negli amanti di Castello e Cascina di Roberto Sacchetti. Un santone, dei soppressi Tornaboni, padre Funari, venuto in concetto di santità per le sue reliquie (fra cui due capelli della Madonna) per le sue astinenze e per il suo moto perpetuo, era una grande provvidenza per tutti, e un grande specialista nel ricondurre le mogli fuggitive ai mariti spasimanti e maritare i rampolli di famiglie discordissime. L'avvocatino Pressendina e tota Rotellana si erano rivolti a lui taumaturgo; ed egli per maggiore sicurezza aveva richiesto il superiore intervento del Canonico Giunipero e di Suora Crocifissa. La signorina si era inginocchiata davanti al Canonico, l'avvocatino davanti alla Suora. E canonico, suora, e taumaturgo avevano combinato un miracoloso sopralluogo. * Iesus! * esclamarono in un duo la suora e il Canonico, quando mirarono sotto i rovi e le rose canine la facciata della Chiesa di Sant'Oblito. * Iesus! * tenne bordone padre Funari, completando il trio. * Questa facciata pare un incastro per un rivo di devozione, che conduce al Paradiso * osservò Suor Crocifissa. * Dovrebbe essere dichiarato monumento Nazionale! * asseverò il canonico. * Me ne occuperò io, * promise padre Funari * parlandone al commendatore Itaglia, Ministro dell'Istruzione Pubblica, e a un mio amico usciere omnipotente al Ministero dell'Interno. Fecero un viaggio e due servizii. Non solo combinarono il pateracchio tra l'avvocatino Pressendina e tota Rotellana, ma gittarono le basi della florida Casa del Sant'Oblio. Comperarono a buon prezzo dalla Ditta Israelitica quella gemma di antichità cristiana, e i circostanti terreni. Tacitando e mandando a spasso i creditori delle oberate famiglie Pressendina e Rotellana, i quali non isperavano oramai più niente dai giudizii di graduatoria, si impossessarono dei due poggi laterali coi relativi versanti, si può dire per un tozzo di pane. Di vero non vi era mai stato un candidato così ambizioso, così chimerico e così scemo di piattaforme elettorali, che avesse proposto un tracciato ferroviario per quella valletta abbandonata dagli uomini e da Dio. L'avvocato Pressendina si ebbe una cattedra di diritti civili in un istituto tecnico di Torino, donde, come è noto, salì al Consiglio di Stato. La famiglia Rotellana inoculata di nuove cognizioni rimase preposta all'agenzia agraria della rinnovata Casa del Santo Oblio. La Chiesa ebbe un generoso restauratore in un patrizio eccellente architetto archeologo. La facciata splendette come una paratoia di rivo conducente al Paradiso; nell'interno le gemine colonne apparveno gambe di santi onestate di brache luminose. La vasta possidenza venne circondata da un muraglione rivestito di edera, lungo come una cinta daziaria, destinato, come una muraglia della Cina a separare il Santo Oblio dal bulicame del mondo restante. Per evitare gli incameramenti di Rattazzi e dei ministri suoi successori la proprietà venne acquistata privatamente in testa del Canonico Giunipero. Sovventori furono principi plebiscitarii e pretendenti a ristorazione reazionaria, squarquoie arricchitesi nel commercio della carne umana e candide colombe della nobiltà e dell'alta borghesia. Avevano largamente concorso il comm. Vispi droghiere emerito, l'emerito macellaio Baciccia Calzaretta, il marchese Stefanina, i conti De Ritz padre e figlio, e il barone Rollone Svolazzini, non senza ragione di imbeccata personale. Il Canonico Giunipero nell'estasi della riuscita impresa, ebbe un'ossessione immaginosa, come la visita tentatrice del Diavolo. * Sta bene! * egli immaginò! * Sta bene in fondo alla valletta attaccato alla Chiesa il nido del Santo Oblio per le spericolate e le pericolanti salve dai morsi e dai rimorsi del mondo. * Ma là in alto sui due poggi vorrei giganti fronteggianti due ganglii virili. Sopra l'uno vorrei raccogliere uomini maturi, vecchi cadenti, sbattuti e rialzati per la Santa Fede; sopra l'altro vorrei raccogliere un reggimento di giovani operosi devoti alla santa forza! Ora che la soppressione degli ordini religiosi necessita il rifarsi, rinverginarsi del monachismo insito perpetuamente alla natura e ai destini dell'umanità, vorrei risuscitare i frati gramieri avamposti dell'agricoltura intensiva, vorrei risuscitare gli Umiliati pionieri dell'industria tessile e tintoria. * Vorrei in più, * e qui l'immaginazione vinceva le redini al canonico ... * Vorrei stazioni taurine di eccellenti riproduttori. Come se il diavolo gli ridesse sfolgorando in faccia, egli fantasticava: * L'imbecille civiltà ha creduto distruggere un'impostura nociva, abolendo dei conventi; invece ha distrutto utili verità, che fruttificavano sotto l'ipocrisia apparente ... Oh! la bella popolazione, che cresceva intorno ai conventi! Alla mia Laghetto da Po si ammiravano ninfe delle risaie, che le migliori non avevano potuto dipingere i classici pittori della Grecia, e ciò perché v'erano fratacchioni ben pasciuti di corpo e di spirito a benedire con il loro amore le contadine: essi nel bacio recavano non solo un vitale nutrimento, ma portavano un soffio di canti, studî e sogni sublimi, come un intreccio raffaellesco di arcangeli e madonne. * Erano depositi di stalloni umani per una razionale stirpicoltura e col celibato religioso offrivano una buona soluzione al problema di Malthus pauroso, che le popolazioni aumentino in proporzione geometrica, mentre i mezzi di sussistenza crescono soltanto in ragione aritmetica. * Invece, ora, aboliti i conventi, lasciata la procreazione rurale soltanto ai mal nutriti fisicamente e intellettualmente, sparvero le ninfe delle risaie; e loro sottentrarono femmine verdognole dalle bocche di lucertola e di rana, facile preda, gaglioffe e terribili alleate dei galeotti sfruttatori ed impresarii del socialismo professionale. In quel punto entrò Suor Crocifissa solenne, pallida e pura, al pari di Santa Clara. Il canonico, come se avesse esposto a lei il discorso diabolico, le domandò: * Non è la mia una concezione dantesca? Suor Crocifissa, che mangiava poco o nulla di Dante ed adorava soltanto l'Immacolata Concezione, fece un viso di voluta ignoranza e rimprovero. Allora il canonico Puerperio, cioè Giunipero, si sentì calare le ali diaboliche dell'orgoglio e del rigoglio virile, e domandò a Dio perdono dei suoi peccati di immaginazione. Egli allora si dedicò unicamente alla nuova fondazione femminea del Santo Oblio. Le prime reclute furono una dozzina come gli apostoli, e primario agente di arruolamento fu il padre Funari. Passato il cancello, in cui i ghirigori del ferro battuto delineano curve di nuvole a bambagia d'angioli, si vede spaziare un prato, intersecato da redole di ghiaia minuta, che partono dal piedestallo di una Madonna Stellata, come raggi da una stella. La statua della Vergine Madre Divina lucente di ceramica bianca, ha sulla fronte una stella metallica di doratura raggiante. Porta due iscrizioni sui quadri del basamento. L'una: Ave, Maris Stella è il saluto dei naufraghi della vita, che si salvano in quella casa del Sant'Oblio. L'altra: Hujus domus regina significa quale sovrana devesi riconoscere dalle casigliane e dai visitatori. Personificazione viva della statua è la superiora Suor Crocifissa. Il suo ideale vivente ed attuoso appare più fulgido e più alto della stessa statua. Dal beato Calasanzio al Pretore Martini è provato che l'abilità di consolare ed avvincere beneficamente gli afflitti ed i derelitti è una prerogativa personale straordinaria; non si può insegnare con regole; perché varia secondo l'infinita varietà delle afflizioni e degli abbandoni. Unica efficacia è l'asseveranza di una irradiazione d'amore. * Tu orfanella, adunghiata, sputacchiata dalla matrigna, derubata dai costei drudi, non hai mai avuto un bacio rispettoso. Ed io ti bacio nel Divino Amore. * Bella sartina, tradita dal sottotenente, a cui credevi dedicare il cuore e la vita, mentre egli ti ha presa come un'appendice di camera mobiliata, come il sopracaffè del mattino, * vieni qui; ché la Madonna ti assegna nella sua casa un posto di eguaglianza umana e di fedeltà nell'amore Divino. * Zitelle e dame gonfie dal livore e corrose dalla gelosia, che è il reagente più torbido e più corrosivo della chimica psicologica, venite qua dentro; e troverete nelle pieghe del Manto di Maria Immacolata la più olezzante fiducia in Dio, che fa sperdere persino la memoria dei terribili sospetti, per cui afferravate come documenti di tradito amore finanche le carte destinate a fetidi recessi. Oh! ben lo disse il canonico Puerperio, cioè Giunipero. Anche nella mitologia vi erano simboli di verità, che qui si realizzano. * Qui in quel Rio "Lavatojo" abbiamo realmente il fiume Lete, che travolge, sperde la memoria di ogni male; e in quell'altro rivo "Ortolano" abbiamo realmente il fiume Eunoè che coltiva ed accresce la memoria di ogni bene. La immagine matura di Suor Crocifissa in mezzo al prato dirimpetto al cancello raffigura quella di una cruda bambina che erige una pertica invitando a posarvisi le libellule: "Signorine e signorone! Venite sul mio bastone" . Ma la bambina acchiappa le libellule per infilzare crudelmente una pagliuzza nella loro coda. Invece Suora Crocifissa offre a tutte le ferite, a tutte le offese del devoto femmineo sesso il balsamo, pregustazione del Paradiso. Ai disordini della materia umana niun riparo più sicuro, che un ordine spirituale, in cui si riflette umanamente un raggio di ordine divino. La creatura bersagliata dal delitto altrui o dalla propria passione ha perduto il contatto benefico con l'Universo creato. Può riacquistarlo in una comunità religiosa. Questo è il vero socialismo ideale, per cui con gli altri vantaggi sociali si moltiplica il tempo. Come è difficile per un individuo ed anche per una privata famiglia il fissare e mantenere un orario! La mancanza di zuccaro nel caffè o il male di denti d'una sorella possono assorbire o fare cadere nel nulla, come per un giuoco di mattoni, tutte le ore della mattinata preziosa al lavoro. Invece in una comunità governa inamovibile l'orologio di precisione. Quanto possa fare uno studioso libero dalle cure domestiche, lo riconobbe il Taine deplorando lo strazio e lo sperpero delle corporazioni religiose fatto dalla Rivoluzione francese. Simile beneficio si può riconoscere per qualsiasi lavoro. Alle cinque del mattino la campanella sveglia per la preghiera. Il cronometro distribuisce il tempo esatto per la religione, lo studio, il lavoro, e la ricreazione; dalla Santa Messa, alla grammatica, all'aritmetica, alla inaffiatura dei fiori, alla potatura, all'innesto, alla composizione italiana, al saggio di lingue straniere, alle refezioni, alla raccolta dei frutti, alla macchina da cucire, al telaio Iacquart, al lawn tennis e al missisippì ecc. ecc. Nel nitore di un paesaggio romito ed aprico, tra Terra e Cielo, Dio e Natura, studio, lavoro, ed Amore Divino danno unicamente la pace umana. Questa sentirono, dopo l'abbraccio e il bacio di Suor Crocifissa le prime ricoverate, che non sospettarono neppure di essere recluse. Una figliastra ritrovò la madre ideale; una tradita ritrovò fedeltà d'amor celeste, nove altre vittime di gelosie o martiri di persecuzioni entrarono in quel porto della rassegnazione generosa e persuasiva, persuadendosi che la partecipazione accresce l'amore e la vera contentezza risiede nel volere di Dio. Notevoli tra le prime reclute le soprannominate Bimblana e Gibigianna. Bimblana nata ottava da una famiglia di schiavandari ad Ypsilon Novarese era stata battezzata coi nomi di Ottavia Rosa Antonia. Era cresciuta come un rosolaccio; di bella presenza, era mandata a servire in città, essendo già superflua la precedente figliuolanza per la schiavenza in campagna. Aggirandosi nel mercato degli erbaggi veniva ammirata ed amata per le sue forme slanciate e scultorie e per il suo andamento di maternità anticipata, che ai bambini e alle bambine la faceva parere una superiora amorevolissima. Suo gesto favorito era un ritmico allargare di braccia e scotimento di mani, con cui si direbbe avesse voluto raccogliere e sollevare in Paradiso un asilo infantile. Per quella sua andatura ondeggiante, quasi cascante di noncuranza estatica, aveva avuto il nomignolo popolare di Bimblana. Un ardito scultore l'aveva voluta per sua modella. Una guardia carceraria le diede prigioniero il suo cuore. Ma essa, senza riuscire ad amare nessuno, si lasciava amare quasi da tutti. La sua letteratura erano le avventure di Ol Carlin e la so dona a Milan , anche tradotte dal dialetto milanese al piemontese. Ma essa orgogliosa di aver appreso il meneghino, in modo da non disimpararlo più, realizzava pur troppo il distico originale: Te pacjria tuta * E mi me lassi pacià . Piegava la testa pudibonda, e lasciava fare e si lasciava baciare. Ottavia Rosa Antonia era on tocc da marcantoni da bon , che tirava i baci stagn . Non di rado aveva verificato nella vita i dialoghi del suo libro galeotto: * Sa gh'avii Carlin! * Sont scia ch'a va mangi coi eucc. A sii na gran bella forlana vidii ... ! Sanforment! * Lassem no Carlin! ... lassem no! Salveves mia col ... sentimento ... Essa aveva più docilità muta, che espressione di sentimento. Vittima dei capricci di fantasia, da cui sperava forse qualche tesoro del Caso era caduta d'una in altra disgrazia, fino a parere una bella e grossa mela fracida da buttare sul letamaio. Una notte la folata di giovani briganti esteti, che terrorizzano quella cittadina rurale, rimanendo impuniti, perché figli di avvocati o nipoti di canonici, con cui il deputato non vuole assolutamente disgustarsi, dopo avere ubbriacandosi fraternizzato con i garzoni da caffè e rotto il naso al busto del generale Garibaldi nei giardini pubblici, avevano attirato Bimblana sulla panca più scura del viale per godere in combutta il distico: * Bimblana! a va paci da sbalz ... mi * E vu paciem ... * E mi va paci * E mi me lassi pacià ... traduzione bestiale, note alla Spirito Losati, traduzione bestiale dell'angelico invito pronunziato dagli inquilini danteschi nella Stella Venere: Tutti sem presti al tuo piacer, perché di noi ti gioi. La lasciarono con le vesti oscenamente stracciate. Così turpemente abbandonata essa pianse a dirotto ... In quello stato miserabile non osava più presentarsi ai padroni e ai genitori. Voleva gettarsi nel Canale. Ma un filo di luce la salvò: la fama dei capelli della madonna, posseduti dal Santone padre Funari. Fece otto miglia a piedi per portarsi da lui; e fu condotta alla Casa del Santo Oblio. Vi era allora in visita apostolica il canonico Giunipero, il quale, veduta la rifugiata e sentitine i casi, appartossi nella libreria, si fregò gli occhi, come per un'aspra visione ed esclamò in un soliloquio silenzioso, che sarebbe stato forte, se pronunziato in un teatro filodrammatico di venerando seminario: * Manzoni! Manzoni! Dove hai conosciuto la tua immacolata ingenua Lucia Mondella? ... Oh! tipi di campagnuole oneste ed istruite offerte ad imitazione da Cesare Cantù e Felice Garelli! ... Perché, perché la verità è così diversa? Soltanto la musa stenografica, fotografica porca villana o villana sporca è la sincera interprete dell'anima femminile popolare, se non la salva, se non la purifica Religione. Con questa esclamazione in pectore Egli si curvò sull'inginocchiatojo a pregare per la salvezza dell'eterno femminino popolare. Nei primi giorni del suo ricovero Bimblana si sentì non solo salva, ma felice. Ravvisando un godimento senza peccato, sentendosi amata, senza essere goduta, né sprezzata né vituperata, confessò ingenuamente: * Non sono mai stata così bene a questo mondo. Mi pare di essere in un paradiso terrestre. Di meno facile contentatura si palesò Gibigianna, che irruppe nel Santo Oblio come una meteora annunziatoria di fulmine maggiore. Intanto dessa la bella Gibigianna faceva notevole riscontro alla bella Bimblana. Questa purificava le sue meneghinate; quella guardando nella lampada della chiesa rattizzava il fuoco errante dei suoi occhi e lo splendore vago dei suoi capelli, che le avevano fruttato il nomignolo fin da bambina. Come un raggio riflesso da un piccolo specchio, che si muova o si rompa, coagula sopra una volta grummi di luce, che vanno e vengono con l'agitazione di uno staccio o setaccio, fenomeno, dai toscani detto occhibagliolo, la vegia dai piemontesi, e dai lombardi gibigianna , così era la biondezza di Lia Lei, una biondezza da traveggole. Si conformava a tale biondezza la grazia mobile del capo chino arieggiante alla filigrana pendula di argento dorato, che adorna la testa alle fattoresse lomelline. La piccola Gibigianna sarebbe riuscita una Vespina, una svelta ed onesta cameriera da commedia di Tommaso Gherardi Del Testa, se il padre non l'avesse menata agli stravizii. Il padre suo, Teodoro, tramviere, dopo parecchi mestieri ed uffici abbandonati, aveva fatto girare la testa alla maravigliosa signorina figliuola di un causidico da mandamento rurale, e se l'era sposata o piuttosto rubata. Con una faccia innamorativa da impostore aveva fatto sognare castelli in aria alla sposa; e l'aveva condotta in una soffitta. Ma egli si ripagava delle strettezze domestiche nei pubblici esercizii. Questi gli parevano la vendetta sociale dei proletarii, che nei caffè e nelle trattorie si trovavano eguagliati da una illusione di Corte, facendosi servire da camerieri in coda di rondine come diplomatici. Teodoro aveva educato, addomesticato all'ubbriacatura dei pubblici esercizii non solo la moglie maravigliosa, ma altresì la piccola innocente Gibigianna. Gli esercenti, anche socialisti, non sono gratuiti; e adottano il cartello dei vecchi osti: oggi non si fa credito, domani sì. Teodoro il tramviere , con quel bel titolo e con la posa attraente da teatro diurno, aveva sempre difficile il quarto d'ora di Rabelais, cioè quello di pagare il conto; ma riusciva a superare le difficoltà, facendo la corte alla padrona con occhi lampeggianti, o chiudendo un occhio, se il padrone faceva la corte alla maravigliosa di lui metà . Ognora egli aveva dimenticato il borsellino a casa; o non aveva voluto uscire con un biglietto di grosso taglio; ed ordinava che si registrasse il suo debito. Ma una sera, in cui Teodoro accompagnato dalla inseparabile mogliera e figliuola dopo avere preso il caffè e sopracaffè, aveva ordinato una bottiglia di barolo, e poi ancora il ponce, il trattore del Cannon d'oro dichiarò a se stesso: basta!; e poi venne a proclamarlo davanti alla triade, che si indugiava a libare nei lieti calici, mentre gli altri avventori avevano già lasciato l'esercizio. L'esercente del Cannon d'oro si era offeso, accorgendosi, che Teodoro in una momentanea uscita gli aveva abbracciata l'aurea moglie intronizzata al banco. Della moglie di Teodoro egli non sapeva che farne, egli che possedeva una cannonessa d'oro. Quindi: * Alle strette! Teodoro, sono stanco di riempire il mio gran libro dei tuoi puffi . Stassera, o mi paghi; o ti rinchiudo in questa stanza, e faccio chiamare le guardie vicine, perché arrestino te come un gargagnan e tua moglie come una Venere Vagabonda. * E la piccina? * domandò Teodoro. * La piccina * rispose il trattore, sarà condotta dalla Questura in qualche ospizio, dove starà meglio che a casa tua. Teodoro si era rivolto indarno a fiammeggiare uno sguardo per implorare la padrona che non si lasciava vedere. * Discese invano uno sguardo sulla propria moglie per illustrarne le offerentisi bellezze. Addolcito dal vino, egli aveva più che le prepotenze e le viltà del gargagnan , l'amenità del brillo. * O cannon d'oro! Che credi di guadagnarci? Io non ho in tasca un cito . I gioielli, che porta mia moglie, sono di princisbecco. Il trattore del Cannon d'oro con uno sguardo d'acciaio da banchiere crudele aveva avvistato che non erano di princisbecco gli orecchini di Gibigianna. * E questi qui? * Questi sono un regalo del nonno procuratore, che sarebbe capace di mandarti in galera, se tu li toccassi. * Non temo la galera. Dammi alla buona in pegno questi orecchini. Ed io, anziché molestarti e minacciarti, faccio portare due altre bottiglie di barolo stravecchio ch'a rangiu lo stomi e per addolcirti ancora più la bocca alla fine ti darò un passito di Caluso, che non hanno i Cardinali ... E berremo anche in compagnia della mia signora moglie, che farò venire per te ... Vieni qua, Madama, Madamona Catlonessa! Fu la stessa Cannonessa d'oro , che tolse gli orecchini del nonno a Gibigianna, dei quali padre e madre non furono inconsolabili; Gibigianna sì. La fanciulla, dopo una notte fremente, ebbe alla mattina da una compagna di scuola un filo di salvezza; andò in una sacrestia, si confessò a un prete; e venne anch'essa destinata al Sant'Oblio con il consenso dei genitori, ai quali venne regalata una cesta di bottiglie. Onde lo spensierato Teodoro, quando gli domandavano della figlia scomparsa, rispondeva: * Sta bene al caldo! Me la sono bevuta. * * * Qualche volta il protettore canonico Giunipero e la superiora Suora Crocifissa, contemplando quell'onda di vivezza giovanile, che corrispondeva ai raggi del sole, sentivano il rammarico di imprigionarla là dentro fuori della vita mondana. Ma loro si affacciavano i fantasmi dei persecutori dell'innocenza: faccie torbide, ferine, culari e patibolari. Via da loro gli angeli della terra. Bisogna sottrarre dall'empietà, salvare gli angeli della terra. Gli è vero, che bisognava ripulire le ali di questi angeli da molte brutture. * Bisogna convenirne, mia cara, mia santa Suor Crocifissa. Un presidente nord-americano ci chiamerebbe muck rakers , frugatori di fango. Però anche il fimo giova alla buona semente, che per noi è la Parola di Dio. Proseguiamo senza ribrezzo nell'opera buona e necessaria. Il materialismo moderno troppo sequestra l'Umanità dalle speranze celesti, fondandosi sull'ignoranza precisa dei Cieli, che pure indubbiamente esistono. Noi purghiamo le anime avvelenate, noi preserviamo le creature vergini, pascendole del più puro azzurro. I nostri sono serbatoi e traiettorie, che mantengono il contatto, sia pure forzato, dell'Umano con il Divino. Il Canonico Giunipero e Suora Crocifissa intrecciando le mani alzate come in una figura di ballo celestiale, formavano un arco mistico, sotto cui invitavano a passare tutte le minacciate od offese da brutali persecutori, tutte le guaste dalla corruzione, tutte le tocche dalla follia contemporanea. * Venite, passate alla salvezza del regno di Dio e della Madre Divina. Vieni Regina delle Gambe, rappresentante delle Risaie, ai tempi delle laute abbazie. Vieni Fiorina Lucy, vieni Tilde, vieni Maria, vieni Eugenia, vieni bastarda, vieni, purissima. Vieni anche tu, conferenziera socialista, anarchica, Solima Del Lago, che i curati e i sacrestani chiamano limo del lago. Vieni a zampillare fresca, purgata dalla contemplazione delle verità divine. E vieni nell'abbraccio della Croce, o Gilda, nell'abbraccio della più bella croce, che possa piallare, intarsiare e scolpire il buono e curvo Simone tuo padre. Non aveva costato molto al prefetto emerito barone Rollone Svolazzini il sequestrare babbo Simone e relativa figlia, a fine di preservare il proprio Svembaldo allontanato. Il falegname Simone era un'anima di vassallaggio medievale; aveva insita nel sangue la fedeltà alla Chiesa e all'Impero rappresentato dal nobile barone. Era pure medievale nella sua abilità tecnica. Invece del macchinario a vapore per l'impazienza moderna, egli aveva la curosa lentezza della commettitura e dell'intarsio manuale. Pella concorrenza del giorno e dell'ora egli sarebbe rimasto senza ordinatori; sarebbe languito nell'abbandono ad intagliarsi la cassa da morto. Di questa prospettiva si rese presto capace l'angusta e rispettosa mentalità dello stipettajo rurale, a cui parve una Terra promessa dalla Sacra Bibbia la dimora e la pensione vitalizia al Santo Oblio. Con la minuzia consentita dalla massima larghezza del tempo, senza disturbo di sollecitazioni, egli finirebbe armadii di sacrestia, cassepanche da sancta sanctorum , stalli da coro, cofani da Suore; incrosterebbe di fiori lignei, sottili come carta, la nicchia della Madonna ... Oh se potesse lui fabbricare la custodia per le ali dell'Angelo Custode! Intanto egli era relativamente felice, perché la sua Gilda sotto i suoi occhi paterni sarebbe custodita, sarebbe riparata dalle insidie, dalle seduzioni e dalle pretese sproporzionate del mondo. Gilda si mostrò restia dinnanzi alla facile contentatura del papà; oppose lacrime e lacrime; ed entrò al Sant'Oblio irrorata di lacrime, come un passerotto bagnato dalla pioggia, il quale si rincantucciasse sprofondandosi sotto una gronda. Volgeva gli occhi spauriti, come se spiasse tra i fili della gabbia un'evasione. Suora Crocifissa sentiva difficoltà ad ammansarla, asciugarla, e intepidirla del suo fuoco sacro. E temeva, che l'operazione del prosciugamento venisse compita invece da un terribile vento, che pur si aspettava. Il vento della Contessa De Ritz ... Sorridendo con ironia celeste il canonico Giunipero aveva notato, che la Contessa De Ritz era destinata al Santo Oblio dal Clericalismo e dalla Massoneria. Ma pigliarla quella contessa! Qui stava il busillis ... Si erano tese le ragne in Europa e nell'Asia Minore. Fino allora era stato come tendere la rete per acchiappare un vento. Le informazioni secrete dei gesuiti e della Massoneria recavano avventure strabilianti. C'erano di mezzo corone di re e corone da rosario, scimitarre, pugnali e bisturì. Le informazioni massoniche facevano capo principalmente al conte De Ritz; e le informazioni gesuitiche al Comm. Vispi padre della Contessa. Ma gli stimoli e i reagenti, e le direttive, e le curve strategiche si intrecciavano, quando non si intralciavano. Ostinate forze congiuravano ad attrappare finalmente quell'indomita potenza della bellezza e del capriccio femminile. * Ci riusciranno? Ci riusciremo? * si domandavano il canonico Giunipero e Suor Crocifissa; e le loro stesse persone diventavano due punti interrogativi ripiegati tra il desiderio e il terrore. Che beneficio sarebbe salvare quell'anima: un beneficio grande per l'anima da salvarsi, e un beneficio ancora più grande per le innumerevoli vittime, di cui è ancora capace quella furia allettatrice di pervertimenti! Ma che pericolo per il Santo Oblio! Alle reminiscenze classiche del Canonico Giunipero pareva, che neppure Eolo sarebbe capace di incarcerare quel vento di lussuria. E con un videmibus infra si chiudeva la longanime aspettativa del Santo Oblio.

Questi però non poté accordarvi il consueto epigramma del Baratta, morto allora all'Ospedale Mauriziano per la quercia degli abbattuti viali pubblici cadutagli addosso, morto cantando: Qual tardo premio del mio lungo canto Un ramoscel d'allor sperai soltanto, Ma la città che il toro ha per bandiera M'incoronò con una quercia intera. Ecco con la scorta sincrona dell'appendicista giudiziario l'arringa dell'avv. Gioiazza: " La Società è colpevole di produrre e ridurre due esseri antagonisti, di cui l'uno richiede inesorabilmente la propria soppressione dall'altro. Con la pretesa scienza, con gli esempi non meno autorevoli, che deleterii, la Società presente sottrae all'umanità il sentimento religioso, il migliore vincolo, che legava gli esseri verso un ideale sublime di amore e virtù. Vi sono giuristi che ammettono il misticismo tutto al più, come coefficiente, circostanza attenuante, se non discriminante del reato. Un cattivo Clero meccanizzato nella tradizione intransigente di altri tempi, beffeggiando i più puri ideali moderni, incrudelendo contra i morti benemeriti e specialmente contra i martiri della Patria e della libertà, un cattivo Clero, per adoperare una frase di Gladstone, è divenuto negazione di Dio. Unica maestra, unica dispensiera di religione nella Società moderna è la madre, la divinità, che non conta atei. Se a Nerina fanciulla fosse rimasta la bella mammina, ad insegnarle il Vi adoro con le manine giunte, oh molto diversa e migliore sarebbe stata la sua trajettoria sociale! Invece sappiamo che la sua splendida mammina si spense nel darla alla luce. Sappiamo pure che la Maestra Genovieffa Garitti, prima di diventare signora Vispi, era un luminare nel corpo insegnante di Torino, e che ad essa l'accusato consacrò gli unici entusiasmi della sua giovinezza dedita per il resto al lavoro ed al commercio. Pertanto Nerina fu la risultante di una bellezza magistrale e di un entusiasmo sagace, nacque e crebbe con le maggiori potenze fisiologiche e psicologiche per esercitare una tirannia capricciosa. Quella fanciulla fu una tiranna domestica per eccellenza. La relativa compressione subita nel buon Educandato del Soccorso valse soltanto a temprarne e tenderne le forze per gli scatti maggiori. Ritornata in casa del babbo, fece di questo robusto gigante un debole pigmeo; e come aveva reso il babbo schiavo dei suoi capricci, così volle esercitare assolutamente il dominio capriccioso nei varii ambienti sociali fino all'abisso. La Società italiana, dopo le prime vittorie del Risorgimento dovuto in massima parte ai sacrifizii, si era fatta presto materialista gaudente, perdendo la spiritualità religiosa nei dissidii tra Chiesa e Stato. Perciò il tipo dell'eroina patriottica non era più assorbente. Non era ancora di moda fra di noi la dottoressa anglosassone di frigidità e operosità neutra, da terzo sesso di ape operaia. Tanto più lontano era il tipo ginnastico della spartana americanizzata, Fluffy Ruffles , la girl che impera graziosa ed onesta anche nello sport denudato della flirtation. Oh almeno fosse stata viva per lei la galanteria sovrana dei madrigali! Essa avrebbe costretto un poeta Voiture ad inneggiare alle sue calze, avrebbe eccitato un altro poeta ad immaginare che due rosignoli morissero di fascino per il canto, con cui essa accompagnava i suoi capricci per pianoforte. Sarebbe stata circuita in vita e cantata in morte da qualche vescovo di Arcadia. Al pari delle religiose di Port Royal sarebbe venuta su orgogliosa come un demone, ma pura come un angelo. Avrebbe serbato immacolate le nevi rosee del volto, fintanto che si fossero fuse tra le rughe di una vecchiaia intemerata. Ma i tempi non consentivano tale nobiltà e purità di forza e gentilezza. Nella preparazione del nuovo asilo di Romolo, nella nuova conquista di Roma, si affrettarono insieme con gli eroi ideali, non solo i ladri positivi, ma le Messaline lucratrici senza Lucrezia, ed i Cornelii senza virtuose Cornelie madri dei Gracchi." Con la frequenza dei richiami letterarii l'avv. Gioiazza dimostrava di essersi addottorato in lettere prima che in leggi. Egli seguitava divertendo e stupefacendo letterariamente la Corte, i Giurati, il pubblico, l'ufficiale giudiziario e i carabinieri, e lasciando assorto, impassibile l'accusato, che gremiva sogni, meditazioni e preghiere fatali sotto le ciglia chiuse. " Si potrebbe in qualche parte applicare alla De Ritz ciò che Swimburne applica alla regina Rosmunda, Clitennestra del Medio Evo, ricordante le imperatrici Romane, le quali un dì resero regale la colpa: imperatrice ognuna e ognuna per diritto di peccato prostituta. Ma come l'Italia a Roma per il dissidio religioso non poté trovare il suo perno morale, così la contessa Nerina diede al suo imperialismo erotico la circolazione viatoria, randagia. Essa ebbe gli attributi della Cavalleria errante di un Don Giovanni in gonnella, e di una signora Casanova di Seingalt. Essa volle divenire la superdonna, la regina zingara delle libertine. Come Don Giovanni giocava le donne alle carte, essa giocò gli amanti. Come Don Giovanni si provò a compilare un catalogo delle donne da lui sedotte e dei mariti da lui ingannati e riempitone un volumaccio in folio , lo riscontrò incompleto, così, quando ella avesse divisato noverare i suoi capricci amorosi e tessere l'elenco biografico dei suoi amanti per ordine alfabetico, avrebbe dovuto superare le forze spiegate dall'inclito e chiaro prof. Conte Angelo Degubernatis nei suoi copiosi dizionarii biografici del mondo letterario, artistico, scientifico e politico contemporaneo. Conscia della sua potentissima bellezza, una vera beltà di sogno, pire que belle (alla memoria tragicamente gioconda dell'oratore ritornavano forzosamente le dolcezze di Capri), essa deve avere persino sognato di obbligare il Papa ad ammogliarsi con lei. Ed era pur troppo una bellezza metuenda da tutti. Sul suo blasone poteva scrivere: Cave amantem , guardati se essa ti ama. Poteva paragonarsi alla Venere d'Ille, che amava consumare intera la sua preda.E ppure sì dolce risultava il prodigio della sua bellezza consumata e consumatrice, che penso possa applicarsi a lei l'ardita immagine del poeta Henri de Régnier, secondo cui Elena traghettante l'Acheronte è attesa sull'altra sponda da quanti morirono per lei. Invece di maledirla, con la bocca fioca la acclamano sempre bella." L'oratore si fermò quasi sudato di quella referenza poetica. Dopo breve pausa proseguì: " Ripigliamo freddamente, dolorosamente il filo del discorso. Io incolpo del vizio viaggiante, raggiante di Nerina il riflesso centrale di Roma peccatrice. Se Nerina attraversò la vita e il mondo, gettando fuoco di amore distruttivo nelle anime, figurando l'estasi devastatrice senza posa, l'aquila carnivora senza rimessione, essa corrisponde al focolare, capitale mondiale di cupidigie, della Roma liberata, ma rimasta con le corruttele di due immense civiltà, onde ebbe per degno organo la Cronaca bizantina del Sommaruga, né tutta la sua barbarie corrotta passò sotto le forche Caudine dello sbarbaro in parte tarlate dall'odioso errore. Come la Corte effeminata di Napoleone III preparò la debacle di Sedan, Dio voglia che l'orgia sensuale della Roma nuova e rinvecchignita non prepari all'Italia un nuovo rovescio nazionale. Eccone intanto un pernicioso singolare effetto in un rovescio individuale di anime, in un rovescio di vite. Nerina fu l'esponente di un momento politico sociale. Senza risparmiarle l'abbominazione, che si meritò, essa è preferibilmente maravigliosa per avere spinta la logica del vizio alle ultime conseguenze. Oso dire che nella pubblica esecrazione essa è preferibile alle illustri fellatrici da locanda e da camera mobiliata, che avvelenano coi sospetti e con le calunnie ogni figura, ogni nome di fanciulla cresciuta pura nel santuario domestico, per impedire ai drudi, agli amanti di maritarsi, e con queste fellonie rimangono alte dame e nei loro alti palazzi si chiamano dame d'onore ... " Nuova pausa sudata, dopo la quale l'oratore riprese il filo con un visibile strappo. " Lessi in un recente storico che il carattere di Maria Antonietta veniva così giudicato dalla Madre Maria Teresa: molta leggerezza, molta dissipazione e una grande ostinazione a fare di sua volontà con una grande abilità ad eludere ogni rimostranza. Ciò valse a condurla al patibolo. Lo stesso intervenne relativamente per Nerina. Rimane a spiegare, come giustiziero abbia dovuto essere socialmente suo padre. Emergeva la più assoluta incompatibilità, che coesistessero nel mondo vivente il comm. Atanasio Vispi, e la sua nobile figlia prostituta. Se la Società presente autorizza la prostituzione pubblica d'altra parte essa lasciò intatti tesori di moralità privata. Il comm. Vispi rappresenta cento generazioni di quel medio ceto, in cui la donna è santa, o per lo meno onesta. Vi sono famiglie popolane borghesi, in cui i padri ruberanno, i figli ruberanno, i fratelli ruberanno, trufferanno il prossimo o si minchioneranno magari tra loro stessi con la scaltrezza della fortuna commerciale, o per l'esercizio della proprietà immobiliare. Ma la donna vi permane castamente onesta. Ove in tale famiglia si produca il fenomeno di una donna, che ha per unico programma la Vita Sexualis , senza ritegno di capricci, e può intitolarsi Vita sexualis , come il periodico tedesco di ginecologia, Zeitschrift zur Erforschung der Geschlechtslebens , ciò riesce un fenomeno così mostruoso che domanda di esser fatto scomparire dal circolo della vita più presto di un bambino nato con una testa d'asino e una coda di serpente. La moralità delle fiabe si accorda con la moralità delle esistenze. Eccellenze della Corte, egregi signori giurati, mi direte che della pronta soppressione di siffatto fenomeno si doveva lasciare il carico all'Autorità Sociale. Ma il guaio si è che la prelodata autorità non se ne incarica punto di tale soppressione, anzi favorisce il fenomeno. Mi duole ripetermi dopo le lezioni universitarie pubblicate. Ma non occorre una lunga ripetizione. Voi, uomini, sapete l'esistenza legale delle così dette case di tolleranza , ma che in realtà sono case privilegiate, licenziate al sequestro delle persone, con i pubblici ufficiali costretti alla vergognosa connivenza. Proteggendo con il braccio regio i ginecei delle Veneri staggite e prezzolate per il servizio automatico della libidine maschile, l'autorità sociale ha irremissibilmente sanzionato in codeste schiave del piacere la inferiorità giuridica e morale del sesso femminile. È un marchio di bassezza indelebile. Da quell'onta non si può estrarre persona viva. Nessun Buon Pastore (uomo o ritiro) può rimettere in sesto una capricciosa Nerina sviata fino a quell'ultimo bassofondo. I medici risancioni sogliono dire delle malattie sifilitiche: che solo dalla prima volta non si guarisce più. Così una sifilide costituzionale irremediabile si attacca anche dal lato morale, e più non si distacca dal primo approdo all'ultima Tule della infamia femminile. Immaginate che il padre fosse riuscito a strappare la figlia fisicamente viva dal postribolo: ma i cent'occhi, i mille occhi velenosi dell'Argo Sociale glie l'avrebbero moralmente liquidata al suo fianco, dovunque l'avesse condotta, in città o in campagna, sui monti o nei piani, sui laghi o sull'oceano. La Società glie l'aveva ridotta moralmente perinde ac cadaver . Toccava a lui liberare veramente dai ceppi mondani la disgraziata figlia già condannata irrevocabilmente a morte civile. Potrete Voi condannare lui per ciò? Non lo potete. Quattro volte no. Imperocché il Comm. Atanasio Vispi fu un sacrificatore, non un delinquente, un sacrificatore giustificato da chiari esempi della Storia Sacra e della Storia Profana, giustificato da ampie e strette norme del diritto antico e del diritto attuale. Alla vostra cultura generale non farò torto allungandomi sui sacrifizii di Isacco, di Yefte, di Ifigenia ecc., V. nell'Enciclopedia la rubrica Sacrifizii. Quando si volle risparmiare umano sangue, sostituendo una fanciulla con una cerva, l'umano sangue ricadde più copioso da altre parti. L'innocenza pagò spesso la salvezza della colpa. Se un padre poté condannare mortalmente il figlio per supina ubbidienza ad un crudele oracolo, per l'immagine sovrana della Patria, o per la semplice umile trasgressione di un articolo secondario del Regolamento Militare, a fortiori un padre potrà sacrificare una figlia per una solenne riparazione morale. Il nostro antico diritto, il diritto romano investiva di tale sacerdozio il padre di famiglia. I figli erano chiamati liberi , ma viceversa il padre aveva realmente su essi il diritto di vita e di morte, ius vitae et necis . E la patria potestà spettava al padre di famiglia durante tutta la sua vita. Sapevamolo, che le tavole e le sanzioni del Diritto Romano più non figurano tra le vaglianti leggi . Ma esse permangono tuttavia ampiamente nell'atmosfera giuridica che abbiamo ereditato. Lasciamo pure quest'immanenza di ampiezza respirabile da parte, anche riducendoci nei vicoli dello strictum ius , io posso, o signori giurati, provarvi, che un Codice positivo preciso flagrante vi autorizza a prosciogliere l'accusato. Non potendosi tutte le norme di giustizia scrivere e tanto meno immobilizzare nelle leggi, il diritto costituzionale diede ai poteri legislativi la facoltà perpetua di condere , fabbricare e riformare leggi, tanto che del Parlamento Inglese si disse essere capace di tutto, fuorché di mutare un uomo in una donna. Di riscontro nell'applicazione delle leggi penali, la Giustizia umana, ben sapendo, che non poteva fossilizzare norme imperscrittibili per la generalità dei casi, ha colla creazione della giuria fatto appello caso per caso alla sovrana cognizione del sentimento popolare. Secondo la loro sacrosanta istituzione, i giurati non sono periti giudiziarii, non sono verificatori metrici dei fatti. Perciò non si richiede loro una speciale competenza. Anzi se ne affida la scelta all'estrazione della sorte da qualsiasi parte del gran cuore dell'Umanità, sede di quel sentimento popolare, che unito al buon senso dell'intelligenza primitiva sa scorgere lume anche nelle profondità del vero imperscrutabili dalle scienze più esatte. Eccellenze della Corte! Egregi signori giurati! Lungi da me la pretesa di una rivoluzione catastrofica della giustizia. E voi, ferreo oratore della legge, di grazia non paragonatemi ad un farmacopola da estancia argentina, con una pancetta da calabrone pinzo di veleno, che sbottona la sua maldicenza contra le leggi, reputandole fatte per i minchioni, emulo di un nostro tiranno parlamentare, indegno del mandato legislativo, quando paragona le leggi a vergini, che per essere feconde devono essere violate. Lungi da me il paragone con il nostro tiranno parlamentare e col farmacopola da estancia argentina, i quali, se un benefattore dell'Umanità, socratico, catoniano, osservante inculcatore delle leggi, venga lodato da una gazzetta di provincia, crepano di invidia e gli minacciano un irrisorio monumento di neve ... Io vi richiamo alla pretta applicazione dell'art. 495 del Codice vigente di Procedura Penale. Esso prescrive: La questione sul fatto principale è posta colla formola seguente: l'imputato N.N. è egli colpevole di avere (si indicheranno il fatto o i fatti, che formano il soggetto dell'accusa ... ) Dunque Voi, giurati, sarete chiamati a rispondere, non se l'accusato ha compiuto un fatto incontrovertibile, ma se egli è colpevole di averlo compiuto. E che il Codice esiga precisamente da voi sul soggetto e sull'oggetto dell'accusa non una constatazione materiale, ma un giudizio morale di colpa o di innocenza lo chiarisce lo stesso articolo, riservando la convinzione mera sull'accaduto soltanto ai fatti che escludono l'imputabilità." Il rappresentante del Pubblico Ministero con un'obliqua occhiataccia mostrò che l'interpretazione del Codice doveva essere diametralmente opposta. Però il difensore proseguì imperturbato: " La legge, secondo l'art. 498 del Codice precitato, propone ai signori giurati questa sola domanda, che rinchiude tutta la misura dei loro doveri: avete voi l'intima convinzione della reità od innocenza dell'accusato? Tale istruzione, stampata in grandi caratteri ed in altrettanti esemplari , quanti voi siete, voi troverete distesa sulla tavola, intorno a cui siederete nella camera delle deliberazioni , parole del Codice, di cui Vi richiamo la sacra osservanza. Con ciò Voi, signori giurati, siete i veri padroni della pena e della perdonanza. A meglio precisare questa padronanza vostra, vi è un movimento forense, scientifico, legislativo in Francia, nella Svizzera, in Italia. Vi potrei citare le proposte dei deputati del Corpo legislativo di Francia onorevoli Lagesse, Bounet, Corentin-Guyho, gli atti e i voti della benemerita Societé Genéral des Prisons , la profonda memoria del Gautier professore dell'Università di Ginevra e membro di quel Tribunale Supremo, e i bei nomi italiani di Enrico Pessina, Luigi Lucchini ed Alessandro Stoppato, tutti per assicurare a Voi, signori giurati, l'esercizio della vostra funzione sociale nel senso più largo e pieno, non isolando mai dalla mente la coscienza ... Ma già vedo, già sento un baleno di luce celeste, che vi illumina le menti, e vi commuove i cuori. Nerina stessa vi prega confessando del padre sacrificatore: ... ..………… A morir m'invita Dolce desio di rinnovar la vita. Ricordate, che la violenza individuale è un diritto dove la ragione sociale non arriva. Il no tonante del vostro verdetto seguìto da sentenza assolutoria sarà alla società presente ed avvenire un documento, sarà un monumento di moralità popolare" . Il rappresentante del Pubblico Ministero nella sua crudeltà professionale rifletté, che il commendatore Vispi sarebbe maggiormente punito, se fosse rilasciato libero all'offesa che non gli mancherebbe della licenza sociale, che non se fosse ritenuto in carcere difeso, protetto, incolume dall'oltraggio della vita pubblica; e rinunziò alla replica. Il presidente stabilì definitivamente la questione sulla colpevolezza dell'accusato, e vinto in principio un visibile imbarazzo, procedè risolutamente al breve riassunto di rito: " Avete udito (si riassume il riassunto). Non vi è controversia sul fatto incontrovertibile, orribile. Vi è dissenso sul suo giudizio sociale (non dico morale, perché ogni coscienza inorridisce al fatto d'un padre che uccida la figlia). Il pubblico ministero vi invita a segnare tale padre col marchio della colpa, senza scuse, perché niuno può farsi ragione da sé contro la legge, e tanto meno dopo che si è abolita la pena di morte nella giustizia legale, si può approvarne l'applicazione fattane arbitrariamente da un padre sopra la figlia. Invece il difensore vi ha lumeggiato tutti gli stadii infernali d'infamia, per cui è discesa la figlia fino alla profondissima voragine sociale, da cui il padre non poteva più onestamente riscattarla, fuorché sulle braccia della Morte. Voi pertanto, o signori giurati, siete chiamati a profferire sopra un misfatto individuale un giudizio importante all'umanità per riconoscersi sul cammino percorso dalla società civile. Vi auguro, che il vostro umano giudizio non erri, e la vostra dirittura sia conforme ai disegni divini per il miglioramento del consorzio umano" . Ciò detto, il Presidente fa ritirare l'accusato dalla sala di udienza, legge ai giurati la dichiarazione prescritta dal Codice di P.P.; quindi li spedisce alla loro Camera di riflessione e deliberazione. Essi ne ritornano tosto con il verdetto a maggioranza negativo di colpevolezza; onde la Corte, richiamato l'accusato, pronunzia la sentenza di assolutoria. Infine il presidente, mostrandosi più montagnoso della sua montagna corporea, così lo accomiata: * Commendatore Vispi, Ella è libero per la giustizia del Popolo. Dalla libertà materiale non avrà molta gioia. Avrà certo conforto dalla religione spirituale purificatrice. Come magistrato Le do congedo. Come padre di famiglia Le auguro salute eterna.

Clelia: il governo dei preti: romanzo storico politico

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Garibaldi, Giuseppe 1 occorrenze
  • 1870
  • Fratelli Rechiedei
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Dei nemici ne furono molti abbattuti, e un mucchio di morenti e di cadaveri attestava l’eroismo della disperata difesa. Però gli eroi, come i codardi hanno una vita sola! e troppi eran gli assalitori onde alla fine l’uno accanto all’altro esalarono l’ultimo sospiro anche i due valorosi campioni della libertà Romana! Dentato, il canuto operaio che aveva assistito a quest’ultima pugna, vedendo ogni speranza svanita, pratico come era del sito, col favore delle tenebre guadagnò il lavatoio, poi il sotterraneo e chiuse su quella scena di sangue la porta di dentro e la sbarrò come poteva meglio. Gli assassini stipendiati dal prete altro incentivo non avendo che la depredazione e la strage innondarono colla speranza di bottino ogni parte del lanificio che più oggetti conteneva da rubare non curandosi del sudicio lavatoio donde eran fuggiti i superstiti difensori della libertà italiana. Ma il mattino vedendo che lo stabilimento altro non conteneva che cadaveri venne loro il dubbio della sotterranea fuga. Cercarono, frugarono e trovarono finalmente la porta salvatrice ma il tempo trascorso, quello impiegato nell’abbattere le sbarre e il tempo per organizzare un’entrata regolare e cauta nelle tenebre diedero agio ai fuggitivi di mettersi in salvo dalla persecuzione. Nei primi di Novembre 1867 scendevano alla stazione di Livorno tre donne, un vecchio ed un garzone sul fiore degli anni. Con quella dolente famiglia stava una di quelle figlie di Albione che, quantunque mestissima e vestita a lutto, vi avrebbe fatto sentire la beatitudine della vita con un solo suo sguardo. La sua dama di compagnia, non men bella, non meno mesta, mostrava nei lineamenti del volto quella squisitezza donnesca che Raffaello aveva amato nella Fornarina. La terza pure di quelle donne era bella. Ma!... la sventura le avea troppo palesamente solcata la fronte e cert’arìa quasi di demenza si discerneva sul suo viso. Il canuto, che Giulia non avea voluto abbandonare alla miseria, badava al bagaglio. John, colla disinvoltura dei suoi tredici anni, dava mano alle donne nello scendere dal convoglio; poi, avendo scoperto il capitano Thompson con l’Aurelia che erano là ad aspettarli, d’un salto fu nelle braccia di lei che lo amava come un figlio quantunque lo giudicasse un po’ troppo biricchino. «Li ho baciati cadaveri!» mormorò John alla matrona ed una lagrima rigava la rosea guancia del biondo figlio della Britannia. Egli accennava ad Orazio ed Irene che tanto lo avevano amato ed eran stati i suoi salvatori. L’abbracciarsi delle donne fu scena di pianto che l’una versava sul seno dell’altra senza poter pronunziare una sola parola. Dopo avere assistito a quella muta scena per un pezzo, lui pure intenerito, il buon capitano Thompson, alzò il capo e dirigendosi alla sua signora in inglese le disse: «Lo Yacht è là al molo che aspetta i vostri ordini se mai desiderate andare a bordo». «Sì, Thompson, a bordo, e metteremo alla vela subito per uscire d’Italia. È una terra, come dice Alfieri, ove la pianta uomo nasce più robusta che dovunque e gli stessi atroci delitti che vi si commettono ne sono una prova». Non molto tempo dopo lo Yacht veleggiava superbo verso la merry England

L'ALTARE DEL PASSATO

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Gozzano, Guido 1 occorrenze

Ma dinnanzi a noi era quello che Miss Eleanor chiamava "il mio tempio", il tempio di Demetra, eretto ancora sulle sue cinquantaquattro colonne, l'unico intatto fra dieci altri abbattuti, l'unico sopravvissuto, per uno strano privilegio, al furore fenicio e cartaginese, al fanatismo cristiano e saraceno. - No, amico mio. Dobbiamo ai cristiani e ai saraceni se il tempio è giunto intatto fino a noi. Fu San Rinaldo, nel IV secolo, che lo scelse fra "i monumenti infernali dell'idolatria" per convertirlo in una chiesa dedicata a San Giovanni Evangelista, chiesa che fu trasformata in moschea al tempo dell'invasione saracena. E l'edificio divino fu salvo, mascherato e protetto come un fossile nella sua custodia di pietra e di cemento. Quale grazia del caso! Pensate allo scempio che fu fatto degli altri! Pubblicherò un manoscritto di mio padre dedicato tutto allo studio di queste distruzioni nefande. Pensate a quel colossale Tempio d'Ercole che fornì materiale per tutti i porti nel Medio Evo! Tutto fu abbattuto e spezzato. Abbattute le colonne ciclopiche, ogni scannellatura delle quali poteva contenere un uomo, come in una nicchia, abbattuti i giganti e le sibille alte dodici metri che reggevano l'architrave, meraviglia di mole titanica e di scultura perfetta. Pensate le teste, le braccia, le spalle divine, i capitelli intorno ai quali si gettavano gomene colossali, tese, tirate da schiere di buoi fustigati, mentre le seghe tagliavano, le vanghe scalzavano i capolavori alle basi. E le moli precipitavano in frantumi spaventosi, con un rombo che faceva tremare la terra. Ora sulle nudità divine, tra le pieghe dei pepli, nidificano le attinie e i polipi di Porto Empedocle. - Cose da invocare un secondo toro di Falaride per i cristianissimi demolitori. - Il gregge! Il gregge dell'Abazia! - Miss Eleanor si interruppe ad un tratto, ebbe uno di quei suoi moti fanciulleschi di bimba sopravvissuta, - il gregge dell'Abazia! Guardate che incanto! Dall'interno del Tempio, sul grigio delle colonne immani, biancheggiarono d'improvviso due, trecento agnelle color di neve. Uscivano dal riposo meridiano, dalla "fresca penombra, correvano lungo il pronao, balzavano sui plinti, scendevano con grandi belati e tinnir di campani. Tre pastori s'affaccendavano con i cani per adunare le disperse e le ritardatarie. Alcune, le piccoline, non s'attentavano a balzare dagli alti cubi di granito, correvano disperate lungo il pronao, protendevano il collo invocando soccorso, con un belato lamentevole. I pastori le prendevano tra le braccia, passandole dall'uno all'altro, tra l'abbaiare dei cani. *** - Non rimpiango d'essere nato troppo tardi. Il quadro è più divino oggi che ai giorni di Empedocle. Il cielo doveva essere meno azzurro tra le colonne a stucchi troppo vivi; non so pensare le metope, i triglifi, i listelli a smalti gialli, azzurri, verdi. Non so pensarli che color granito, color di tempo, come li vede oggi la nostra malinconia. Colorato, ornato, fregiato, con i gradi del plinto e le strie delle colonne, i frontoni a linee precise, non addolcite ancora dai millenni; con i labari immensi che s'agitavano al vento e la folla che affluiva nei giorni solenni, il tempio doveva essere men bello di oggi. Oggi ha la bellezza che piace a me, la bellezza che strazia! - È straziante anche il vostro albergatore, - interruppe ridendo la mia amica. - Vedo una réclame di più. In fondo, ai piedi di Girgenti, aggruppata sul suo declivio come un'erede poverella, biancheggiava l'immenso cubo dell'Hôtel d'Agrigento, e sulle pareti candide, sulle alte mura del parco, fin sui cipressi centenari, spiccavano a sillabe colossali gli elogi di cordiali e di aperitivi. - E che cosa fanno all'HÔtel? - Mi dimenticavo di dirvi. Preparano un concerto di Nino Karavetzky, il prodigio di nove anni; suonerà nel Tempio, al plenilunio di domani. - Tutti gli anni fanno qualche cosa di simile, - disse Eleanor abbuiandosi, - l'anno scorso la colonie preparò una festa amena. Lampioncini veneziani dall'una all'altra colonna, razzi, fuochi di bengala, danze, e Vedova allegra - L'idea di quest'anno è meno scellerata. - Scherzo, conosco il piccolo Karavetzky. L'ho sentito l'estate scorsa al Conservatorio di Bruxelles. È più che un enfant prodige È un rivelatore. Sarò felice di sentirlo. - Oh! Che piacere! Allora verrete anche voi! - Non verrò. Lo sentirò di qui. Sentirò benissimo le parole del violino e non i commenti delle signorine Raineri e di madame Delassaux. Fui schiettamente addolorato del rifiuto reciso. Tentai la mia amica insistendo, porgendole il programma. - Guardate, guardate che delizia. Essa lo scorse, lo commentò da fine intenditrice. - Delizioso, ma non verrò. - Oh! Cara Eleanor, quanto m'addolora il vostro rifiuto. Quando mi han detto del concerto ho subito pensato a voi e ad una cosa sola; al piacere di starmene in disparte su qualche capitello infranto ad ascoltare la musica lontana e le cose che voi sola sapete sulle nostre bellezze sepolte. - E bene illuminati dal plenilunio e vigilati da Madame Delassaux o da chi per essa, perchè si tessa qualche favola di più "sur la sorcière des ruines". No, non protestate, sapete benissimo anche voi che mi si chiama così. Non risposi, chinai il volto, premetti le gote che ardevano contro le due mani di lei, gelide e fini. - Il mondo ha pure le sue esigenze, mio povero amico, finchè siamo tra i vivi. Tacqui ancora, parlando senza sollevare il volto. - È una gran delusione per me. Contavo sulla vostra presenza. Sono un vagabondo senz'anima, che non crede e non sente. Ma accanto a voi mi par di sentire e di credere in qualche cosa. Non so, non so dire che cosa io provi quando vi sono vicino. Eleanor ritirò lentamente le mani; sollevai il volto e vidi il volto di lei mutato, e gli occhi, dove la pupilla color velluto divorava, a tratti, tutta l'iride azzurra, che mi scrutavano fino in fondo dell'anima. - È vero. Siete sincero, - disse Eleanor con voce commossa, ma ferma. - Per l'affetto che mi portate e che vi porto, verrò. Aspettatemi verso la quarta metopa; vi prometto che al Notturno di Sinding sarò con voi. La mia anima corresse - sarà con voi! Sorrisi amaramente al gioco di parole, deluso e scontento. Ma Eleanor non sorrise, alzò la mano come a suggellare una promessa. - Sarò con voi. E poichè mi volsi ancora a salutarla dalla soglia, con un sorriso deluso ed incredulo, essa ripetè solenne: - Vi giuro che sarò con voi! Perchè quella promessa e quel volto atteggiato ad una tenerezza quasi tragica mi diedero il brivido? Uscii dalla "Buona Sosta" con un'esaltazione strana, m'avviai quasi di corsa verso l'albergo. A mezza via, dall'ombra di una siepe di agavi e di cacti, balzò il dottor Gaudenzi. - Ti si vede, finalmente! Ma passi le tue giornate alla "Buona Sosta"! Dalle ruine alla gobba, dalla gobba alle ruine. C'è poca differenza. Comincio a pentirmi d'avertela presentata. Per tanti motivi. - Sentiamo. - Sei qui per rimetterti dei tuoi nervi e la compagnia di quell'esaltata è la negazione della cura. La conosco da anni. Giurerei che avete parlato tutto il giorno d'arte e d'oltretomba. Sono le sue due specialità. Hai gli occhi di un allucinato anche tu. - Sentiamo, e voi cosa avete fatto di meglio? - Siamo stati a Porto Empedocle a veder ritirare le reti. Abbiamo aiutato i pescatori e i marinai; un esercizio che avrebbe fatto bene anche a te. Poi abbiamo invasa un'osteria del basso porto, comprese le signore, e abbiamo mangiato il pesce fritto alla saracena. Poi abbiamo scommesso a chi faceva più giri intorno alla fontana di San Rocco con Madame Delassaux tra le braccia. Pesa novantasei chili. Io ho vinto il secondo premio ... Il mio amico aveva ragione. Ma l'errore era d'aver scelto per il mio riposo una terra dove ogni pietra aveva un potere magico, un passato favoloso, e dava l'ebbrezza e l'allucinazione. Meglio la Liguria, non bella che d'aranci e di oliveti, meglio il mio Canavese privo di fulgidi passati, ma verde di riposi ristoratori, dove l'anima s'adagia come una buona borghese. - Diraderò le mie visite a Miss Eleanor. Hai ragione. La sua conversazione mi esalta. - Farai bene. E non per i tuoi nervi soltanto. Si mormora non poco su questa tua assiduità. Quest'oggi ho sentita una frase perversa sull'idillio "du poète languissant e la bossue aux soixante millions". No, non puoi prendere a ceffoni chi l'ha pronunziata perchè era una donna. Soltanto le donne sono capaci di pensare queste cose. Ma le donne le dicono e gli uomini le credono e le ripetono. Il Tempio di Demetra inargentato dal plenilunio! Una bellezza che nessuna forma d'arte potrebbe ritrarre senza farne un'oleografia dozzinale, una bellezza non sopportabile che nella dura realtà. Ma quale realtà! La terra, il mare, il cielo d'Agrigento si erano fusi in una tinta neutra, quasi per favorire con uno scenario incolore quell'unica forma; e il Tempio s'innalzava sui suo stereobate a cinque gradi, le colonne esatte, rigide, convergenti dai plinti ai capitelli con un'armonia che sembrava una preghiera lanciata in alto, verso l'assoluto. E sulla sinfonia delle sette e sette, delle venti e venti colonne l'architrave, i triangoli dei frontoni equilibrati come due strofe si profilavano intatti al plenilunio, poichè la luce lunare ringiovaniva il Tempio come la ribalta ringiovanisce un volto di donna. - L'uomo ha potuto far questo! Ha concretato nella pietra questo grido verso l'ideale. La mia esaltazione cresceva. M'aggiravo tra la folla con passo malfermo. La folla brulicava intorno: ospiti giunti da tutte le parti, italiani e forestieri; ma le figure moderne, minuscole su le scalee imponenti, fra gli intercolunni colossali, non rompevano l'armonia del quadro, tanto le nostre foggie mutevoli sono miserabile cosa di fronte alla bellezza che non muta. Nell'interno, tra il doppio colonnato della cella, dinnanzi alle tre are consunte, s'addensavano gli spettatori; e le donne cessavano dal cicalare e gli uomini si scoprivano il capo entrando, istintivamente, quasi che ancora la divinità fosse presente. - Eleanor! Eleanor! Che faceva, la mia amica tra il capelvenere della "Buona Sosta"? Perchè non era con me nell'ora divina? Il plenilunio illuminava a giorno le zone in ombra, faceva scintillare gli occhi, i denti, i gioielli delle signore; alcune - quelle della colonia - in capelli, scollate, con scarpe chiare o a vivi colori laminate d'oro e d'argento, altre - le forestiere - in succinto vestito di viaggiatrici. E, tra la folla che fece ala, apparve il piccolo Mago, condotto per mano dalla mamma, una signora ancora giovane e bella. Ma quanto minuscolo il prodigio famoso! Fu un mormorìo di tenerezza sorpresa che proruppe in una commossa ilarità quando il piccolo tentò, due, tre volte, invano, di dare la scalata al plinto e la madre lo sollevò alle ascelle, ve lo depose con un bacio e con un sorriso, offrendogli, nella custodia aperta, lo strumento, come un giocattolo prediletto. E il bimbo lo prese, lo accordò palpandolo, stringendolo tra le gambette nude, picchiandolo con le nocche, pizzicando le corde con le dita e coi denti, così come avrebbe fatto con un suo cavalluccio un po' guasto, prima di mettersi al gioco. Addossato ad una colonna lo guardavo, attraverso la folla, il Mozart minuscolo sul suo plinto greco, e il mio malessere cresceva, sentivo il rombo del sangue contro il granito al quale premevo la nuca, e gli occhi aperti mi dolevano e se li chiudevo l'orlo delle palpebre mi scottava come se fosse stato di metallo rovente. Aspettavo la musica come nelle notti disperate invocavo dal mio amico la droga del nulla o la puntura pietosa. Ma la prima nota dolcissima - era il concerto in re minore di Max Bruch - mi passò nel cervello come una scalfittura. Tutto il miracolo evocato dal piccolo intercessore, che dalla gagliarda sonorità appassionata delle prime frasi si chiude col finale allegrissimo, saltellante, fu per me un martirio senza nome, come una musica diabolica eseguita da un demone con un archetto di diamante sopra una lastra di cristallo. - Eleanor! Eleanor! Che faceva la mia amica in quell'ora? Ascoltava, con la povera persona deforme palpitante tra il capelvenere della "Buona Sosta"? Non vedevo la folla, non vedevo che lei. Le note si convertivano in parole sue: - ... la fede, la fede che fa tutto possibile: anche questo! - e abbassava gli occhi accennandosi la sciagura della persona miserrima; poi sollevava le iridi chiare: - ... verrò! Sappiate vedermi. La mia anima sarà con voi. Vi giuro che verrò! Tremai della mia eccitazione. Cercai il dottore intorno, come un salvatore, senza trovarlo. Cercai un capitello, una pietra dove sedermi: tutto era occupato dalle signore. E le ginocchia non mi reggevano. Girai intorno alla colonna, passai dagli intercolunni della cella agli intercolunni esterni, in piena luce lunare. Avanzai quasi di corsa lungo il pronao per allontanarmi dal malefizio dei suoni e per sentire la frescura notturna ventarmi in viso. Alla quarta metopa scesi due, tre gradini, mi adagiai con le spalle addossate al granito, la nuca ben sorretta da una curva della pietra consunta. Dinnanzi m'era la pianura incolore ed il mare incolore, non rivelato che dal riscintillare tremulo della luna. Da un lato, obliquo, il sarcofago di Fedra con le figure fatte più visibili dalla luce obliqua. Mi dimenticai per alcuni secondi in quel dolore. La regina seduta, con un braccio rigido appoggiato allo sgabello, e l'altro braccio inerte abbandonato a due schiave che lo reggevano accarezzandolo, affannate e dolenti ... E la donna volgeva altrove il profilo inconsolabile dove s'addensa tutta la disperazione umana, la disperazione incolpevole di essere quali siamo, di non poter essere che quali siamo! Amore, in disparte, contemplava sogghignando l'effetto del dardo, l'amore minuscolo come un piccolo demone. Ma l'altro demone, il piccolo demone del tempo nostro, il Mago dei suoni che mi perseguiva fin là col martirio divino del suo stromento! Anche la Zingaresca di Sarasate, gaia e saltellante, non mi dava sollievo! Accarezzai con la mano le pieghe ordinate del peplo tre volte millenario. - Il dolore, il dolore anche qui, eternato nella pietra dura! Cercai la luna, in alto, per dimenticarmi in una cosa morta per sempre, in una cosa che non soffre più, che non soffrirà mai più. - Eleanor, Eleanor! Ah! Perchè non l'avevo vicina? Perchè non aveva consentito al convegno? Fissai il cielo a lungo, troppo a lungo. Quando abbassai gli occhi vidi il disco lunare moltiplicarsi in rosso ovunque posassi lo sguardo; chiusi gli occhi, li premetti a lungo con le dita per cancellare dalla palpebra interna l'immagine del disco sanguigno. Giungeva nel silenzio la Chanson triste di Sinding, il notturno prediletto di Eleanor. La sua anima era veramente vicina? Certo la sua anima l'udiva anch'essa, dalla sua veranda fiorita, ma non soffriva come me! La mia amica infelicissima conosceva il segreto d'esser felice! E il piccolo evocatore lontano moltiplicava gli effetti imprevisti e la musica m'era vicina come se le corde mi vibrassero nelle orecchie. Ma udivo anche un passo lieve lungo il pronao. L'importuno s'arrestò due, tre volte alle mie spalle, con un fruscìo che sembrava cadenzato col ritmo musicale. Io non volli sollevare il volto dalle mani. Non sollevai il volto nemmeno quando sentii che lo sconosciuto scendeva, mi si sedeva vicino. Guardai, a volto chino, dal basso in alto. E vidi i due piedi ignudi, minuscoli, perfetti nel coturno gemmato; poi il peplo ordinato come un ventaglio semichiuso, raccolto alle ginocchia, il peplo che fasciava con grazia attorta il busto perfetto, avvolgeva le spalle snelle, lasciava la nuca e il volto come in un soggolo, non lasciando libero che il profilo; il profilo di Eleanor. Non balzai, non diedi grido. Cercai di convincermi che non sognavo: palpai il granito, mi morsi le labbra, per sentire il freddo ed il dolore. Non sognavo. - Non sogni! Non sogni! Eleanor parlava! Non so dire come fosse la sua voce; forse le sillabe delle sue parole e le note che venivano di lungi erano la stessa cosa. Ma parlava, eretta dinnanzi a me che non trovavo la forza di balzare in piedi; e m'aveva teso le due mani intrecciando le mie dita alle sue dita soavi. La sua persona era assoluta, poichè la parola bellezza è troppo umana per la rivelazione divina che mi stava dinnanzi, per quell'anima fattasi carne in una forma imitata dalle statue immortali. - Non sogni! Non sogni! Ho giurato. Sono venuta. - No, non è vero! - gemevo con le dita nell'intreccio delle sue dita, - mi sveglierò tra poco e tutto sarà come se non fosse stato e non avrò più queste tue mani; non avrò che le mie unghie infisse nella mia palma sanguinante. Conosco l'inganno dei sogni. - Non sogni! Ah, perchè quest'orgoglio di fanciullo dinnanzi al mistero? Perchè ribellarsi? Per tutto ciò che è divino m'hai chiamata. Sono venuta. E venuta quale voglio essere. Tutto è possibile. Anche questo. - Eleanor! Eleanor! Che questa sia la realtà di un attimo e poi venga il buio senza fine. - Verrà la luce. È giunta l'ora. T'aspettavo da anni. È fatto il miracolo! - Eleanor, se questo non è sogno, - e balzai afferrandola alla vita sottile, - lascia ch'io ti porti tra gli uomini, che io gridi alto il tuo nome nel mondo dei vivi! E tentai di trascinare la tepida forma palpitante lungo il pronao, verso l'interno del tempio. - No! no! La fede sola ha fatto il miracolo. Non profanare il mistero! Mi resisteva ed io la cingevo alla vita, deciso di trascinare nella realtà il sogno divino, ben certo che con l'ultima nota tutto sarebbe dileguato nel nulla. E non volevo. Volevo ghermire alle potenze dell'occulto quella forma divina. - No! Bada! Profani il mistero! La fede sola ha fatto questo! Mi perdi per sempre! Lasciami! Lasciami! Fu la resistenza decisa, la lotta ostile per il bene supremo. - Lasciami! Lasciami! Sollevai la persona che riluttava, guizzava come se la portassi alla morte; poi s'allentò con un grido, s'abbandonò senza vita. E la portai tra gli intercolunnii, trionfando di giungere dal sogno alla realtà con quella preda ben certa, di sollevarla al cospetto di tutti gridando al miracolo. Ma fu allora come se cominciassi a sognare. Vidi per un attimo la folla adunata e il piccolo musico che suonava sul plinto. Poi più nulla. E nel buio un grido, molte grida; e nel cervello che si smarriva disegnarsi ancora in sanguigno il disco lunare poi una voce ben vera, la voce di Madame Delassaux, la mia nemica. - Il est ivre, il est fou! Par ici, sauvez-vous par ici, miss Quarrell! Poi più nulla. L'assenza del tempo e dello spazio. La felicità del non essere. - E dopo - dopo quanto? - vidi per prima cosa attraverso le ciglia socchiuse una prateria ondulata, costellata di fiori non terrestri, simili a quelli ritratti dagli occultisti nei paesaggi di Giove e di Saturno e un gelo, un gelo che contrastava con la flora meravigliosa. Ma aprii gli occhi ben vivi alla luce ben vera, vidi che la prateria smagliante era la coperta del mio letto alterata dalla prospettiva dell'occhio recline, e sentii che il gelo veniva dalla benda che mi copriva le tempia. Portai la mano alla fronte, ma fui impedito dal dottor Gaudenzi che mi sorrise, parlando affettuoso e calmo, come se riprendesse un dialogo interrotto mezz'ora prima. - Ieri? Ventitrè giorni fa! Ventitrè giorni sono passati dal concerto famoso. Ma non t'agitare ... ti dirò poi. - Voglio sapere, voglio sapere! - Tutte cose innocentissime e amene. Amena anche la tua meningite, ora che è scongiurata. Ma non ti agitare! Mi rinnovò il ghiaccio sulla fronte, m'impose il silenzio. M'addormentai nuovamente. Due giorni dopo cominciai ad alzarmi, felice di sentire che le gambe mi reggevano ancora. E volli il barbiere subito, per avere l'illusione di riprendere la mia vita consueta. E mentre ero sotto il rasoio, il dottore si decise a parlare, misurando a grandi passi la stanza. - Bada di dirmi la verità! Tanto saprò tutto oggi, da Miss Eleanor. - Miss Elaanor è partita da tre settimane per l'Inghilterra. Non ritornerà in Sicilia mai più. Per quanto inglese e teosofessa, certe lezioni si ricordano una volta per sempre. Ma lasciami parlare! - Allora cose gravi! - Ma no! Importa molto, a un carattere come il tuo, d'essere la favola allegra di qualche migliaio di sfaccendati, per qualche tempo? Dunque nessun guaio. L'unico guaio si è l'aver portato di peso, tra la folla, in pieno concerto, urlando come un forsennato, la povera gobbina svenuta. Avevo allontanato il rasoio, per prudenza, m'ero alzato in piedi, torcendomi le mani. Non potevo ridere, non potevo piangere. - Non è vero! Dimmi che non è vero! - È vero questo soltanto. E non ti descrivo la scena. Ti sarà descritta a sazietà dai volonterosi e dalle volenterose, in tutti i particolari. I quali tornano più a colpa di Miss Eleanor che a tuo disdoro. - Dimmi che non è vero! - Ed è lezione ben meritata per quella incompleta figlia d'Albione. Tutti gli anni ha sempre tessuto qualche idillio, coronato da catastrofi amene. Ha anche avuto qualche amante, forsennati che giuravano d'averla vista con un corpo fidiaco. Ora posso confessarlo. Nei primi tempi ha tentato lo stesso gioco anche con me. Ma io ho un cervello sano. E l'ho vista sempre con due gobbe e alta come uno sgabello. Con te, ridotto come eri, la cosa è stata diversa. Afferrai il rasoio, per gioco. - Non mi resta che il suicidio od il chiostro! Ridevamo perdutamente. Ma lasciai la Magna Grecia per sempre, tre giorni dopo.

VORTICE

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Oriani, Alfredo 1 occorrenze

Sotto l'argine del fiume, lungo il ripiano della sponda, erano aperte ancora alcune cavità di alberi abbattuti da gran tempo, che un'erba minuta aveva tappezzato finamente. Il sole dardeggiava, aliavano farfalle, un soffio di scirocco scuoteva mollemente le cime già pesanti dei grani. Si fermò per udire qualche cicala stridere; invece dal fiume ascese la nota dolce e gorgogliante di un rospo. Allora calò dall'argine per nascondersi entro una di quelle buche, all'ombra di una vecchia quercia dai rami rachitici e il tronco giallastro come di una ruggine d'oro. L'erba era soffice. Cavò di tasca la rivoltella a canna corta, nichelata, del calibro dodici: stette lungamente contemplandola, come in una di quelle distrazioni attonite, che ci sorprendono talvolta: l'arma piccina riverberava. Si sarebbe servito di essa? Perché? E quando si è morti? Era già molto difficile morire; ma e dopo? Sino a quel giorno egli non ci aveva mai pensato. Come accade sempre, specialmente finché si è giovani, la morte non aveva esistito per lui; sapeva che, essendo nato, morrebbe, ma questa soluzione lontana ed inevitabile non aveva mai pesato sulla sua coscienza. Non si capisce veramente di dover morire, sino a che il pensiero della morte non si allarga come un'ombra nel mezzo del nostro spirito. Tutto è così facile nella prima parte dell'esistenza! Funzioni ed abitudini vi si ripetono favorevolmente, si mangia, si passeggia, si chiacchiera, si ride, si dorme; poi il mattino vi desta, intorno a voi tutto prosegue: la moglie, i bimbi, la serva, la casa alternano i propri motivi senza un pensiero che tutto ciò sia effimero, che basti la presenza di un insetto a produrvi lo scompiglio, o la morte appiattata in ogni ombra possa in un istante distruggere tutto senza ragione, senza traccia. Si vive così, come se la morte non fosse, in una sicurezza d'immortalità. Invano in tutte le case qualcuno si ammala e muore; si fanno i funerali, la gente li guarda passare distratta, ognuno preoccupato dei propri interessi, in una febbre continua di passioni, e non ci si pensa più. Coloro, che amarono quel morto, piangono qualche giorno, gli altri non dànno importanza al caso o parlando della morte, che li aspetta, rimangono indifferenti come a cosa che verrà poi, un poi problematico nella data ed insignificante finché la data non arriva. Egli era stato come gli altri. Aveva veduto morire il babbo e la mamma senza risentirne troppo dolore. Certo avrebbe desiderato loro più lunghi anni, ma essendo troppo giovane per aver provato gli scoramenti della suprema vigilia, quando la vita non sa più distrarsi dal computo dei propri ultimi giorni, aveva trovato naturalissimo che i vecchi se ne andassero. Invece adesso si trovava dinanzi alla morte nella pienezza di tutte le proprie forze. Non era né credente né incredulo; come nella maggior parte della gente, la vita spirituale era cominciata per lui coll'insegnamento religioso, senza che la religione modificasse troppo il suo sentimento, pur lasciando nel suo pensiero impronte non cancellabili. La concezione cristiana, poco comprensibile nei dogmi e nella tragedia della sua morale, rimaneva quindi la base di tutti i suoi giudizi, sotto la solita indifferenza mondana. Così aveva sposato Caterina anche in chiesa e battezzati i bambini, trovando giustissimo di apprendere loro la religione, che egli non praticava più. E in quella indefinibile cultura guadagnata un po' dovunque, nei caffè, su per i giornali, massa informe di idee e di sentimenti contradditorii, solamente la forza della tradizione durava: la religione era cosa da non parlarne, poiché non se ne sarebbe potuto mai sapere qualche cosa di preciso, ma forse era così, e in fondo ne convenivano tutti, anche coloro che affettavano di spregiarla pubblicamente. Le sue riflessioni non erano mai andate più oltre. Caterina non lo aveva mai vessato per la sua indifferenza religiosa: egli viveva come gli altri nella inconsapevolezza della propria contraddizione, fra un barlume di fede e un pettegolezzo di miscredenza, trionfando di entrambi col non pensarci. Ma la morte, improvvisamente, gli stava davanti nella propria immobilità. Aveva avuto paura. Morire era, prima di tutto andarsene; ma per quanto la natura ripugnasse a tale sparizione e tutte le malattie fossero spaventevoli appunto per questo, non era difficile il fissarvisi. Già nella notte lo aveva fatto: andarsene, piuttosto che restare per la tortura del processo e della prigione!, molto più che la morte essendo inevitabile, si trattava solo di sceglierne il momento, quando tutto il resto delle condizioni nella vita diventava intollerabile. Così, quasi non pensandoci, aveva già abbracciato questo punto di vista: era stato un lavorìo lento, inavvertito del suo spirito, subito dopo il tremendo distacco prodottovi dalla lettura di quella lettera. Quanto poteva soffrire, l'aveva già sofferto nella notte: lo sentiva, era sicuro che per una simile crisi non ripasserebbe più. Si muore forse due volte? La morte è tutta nello sforzo per staccarci dalla vita; se lo era detto, capiva di aver ragione. Il suo pensiero risoluto, quantunque torpido, andava sino in fondo: si sarebbe ucciso! Non aveva deciso il modo, ma il tempo era misurato ormai su quel giorno; era così, non voleva ritornarci più sopra: morire per sé medesimo e per la sua famiglia, alla quale non sarebbe più che d'imbarazzo e di disonore, ecco tutto! Ma il momento dopo, quel momento che pure ci doveva essere, giacché il tempo avrebbe seguitato egualmente, quando egli non sarebbe più, dove sarebbe egli in quel momento? Tutto finiva lì? La religione diceva di no, la maggioranza della gente d'accordo colla religione, e quelli ancora che si vantavano di non crederle, rimanevano perplessi dinanzi al problema. Finire! Sarebbe stato semplice, ma non era chiaro. Che cosa significava allora tutto il prima? La sua testa si perdeva. Confuse memorie gli ritornavano di ammaestramenti, di fatti, di uomini, che si erano trovati come lui dinanzi al grande quesito, e che egli aveva udito a parlarne. Tutti avevano tremato. Il primo momento dopo la morte, la possibilità di un'altra vita, quindi di un giudizio su quella trascorsa, di una vita in un altro mondo, mentre il nostro corpo resterebbe a putrefarsi in questo, di una vita incomprensibile e tuttavia di una supposizione così inevitabile al nostro pensiero, era senza dubbio ciò che rendeva spaventevole la morte, incerto quanto ognuno di noi compie prima d'incontrarla. Senza questo mistero che cosa sarebbe stato il suicidio? Poiché suicidandosi si è sicuri di sottrarsi a tutti i guai, non vi sarebbe dal canto della vita alcuna difficoltà: si ha forse paura di addormentarsi, pur non essendo sicuri del risveglio? Il problema era dunque nel momento dopo la morte. L'esperienza e la scienza umana non avevano trovato un modo per inoltrarsi in quest'ombra; tutti vi arrivavano nella medesima ignoranza, colla stessa angoscia, il più grande come il più piccolo, per sparire silenziosamente, mentre la religione sola dichiarava di averne penetrato il mistero colla parola di Dio. Non di meno la sua spiegazione era oscura; se no come la gente avrebbe seguitato a dubitare? Vi era dunque Dio? Era lui che, volendoci così oscuramente soggetti al suo volere, distribuiva con tanta inesplicabile parzialità la gioia e il dolore? Malgrado l'impossibilità di comprendere il mondo senza un creatore e di sottrarsi alla concezione poetica del cristianesimo, una rivolta gli saliva dal cuore contro questa ingiustizia della vita, che quasi sempre prodigava gli spasimi più micidiali ai più innocenti. Egli stesso ne era stato mille volte testimonio: che cosa non soffrivano i poveri, mentre i ricchi finiscono per annoiarsi non trovando abbastanza divertimenti? Se dopo morte non vi era altro, i signori diventavano ben sciocchi nel fare l'elemosina ai poveri, e questi lo erano anche di più non depredando in qualunque modo i ricchi. Perché fare l'elemosina? Tutto era caso, il fortunato non doveva logicamente che conservare la fortuna a se stesso. Invece non accadeva così: i poveri sopportavano, i ricchi li soccorrevano; forse v'era parità di dolori in tutti, perché i ricchi si suicidavano anche più facilmente dei poveri. Lo aveva sentito dire molte volte, aveva potuto notarlo egli stesso. La morte non era solo in fondo alla vita, ma la colpiva ad ogni istante da per tutto; i bambini vi soccombevano spesso prima di nascere o appena nati, si moriva sempre, in qualunque grado, nelle più inverosimili circostanze: ingegno, ricchezza, danaro non servivano a nulla, la gloria o l'infamia non toglievano niente a quest'uguaglianza della morte, la virtù e il vizio vi conducevano colla stessa rapidità; e dopo, un eguale oblio copriva tutti i defunti, la medesima spensieratezza seguitava nei viventi. Pensando alla morte si finiva col non potere uscire più da tale pensiero: ecco perché la gente non voleva fermarvisi. Tutte queste riflessioni gli toglievano di sentire il dolore della propria posizione; una specie di tranquillità gli si era fatta nello spirito, come una luce fredda, entro la quale tutto gli appariva lontanamente. La sua testa, poco abituata alle meditazioni, si distraeva già nelle sensazioni di quel meriggio. Qualche raggio, filtrando fra le foglie, gli produceva sugli abiti chiazze luminose e scottanti. Il bisogno di muoversi lo riprese. Tutta quella meditazione sul suicidio non gli aveva aggiunto che un terrore di più nella coscienza: se la vita significava qualche cosa, doveva essere ordinata ad uno scopo, che i capricci degli uomini non saprebbero mutare, e quindi tutto si riuniva nella morte come dinanzi ad un tribunale. Le menzogne, i sofismi, le oblivioni così comode e frequenti nella vita, si dissipavano nel suo ultimo istante: tutti vi si trovavano egualmente nudi davanti al proprio passato. Ecco perché si provano talora rimorsi, che ci costringono a condannare le nostre azioni più proficue, o ci impediscono l'abbandono alle nostre tendenze più personali: egli stesso forse non si trovava ora davanti alla necessità del suicidio che per aver voluto sacrificare i propri doveri di marito e di padre ad un ignobile capriccio. Era una sentenza di quella giustizia segreta, che corregge ogni errore dell'altra, e piega tutte le fronti sotto il mistero di Dio? Ma Dio permetteva agli uomini di suicidarsi? Vi erano un inferno ed un paradiso, come affermano i preti con tanta sicurezza, vivendo tuttavia al pari di coloro i quali non volevano crederci? Perché tanti grandi uomini non avevano ammesso una seconda vita? Per quanto questi problemi fossero insolubili, egli credeva di sentire adesso una grande verità nel suicidio: l'uomo, togliendosi la vita, espiava in tale dolore tutto quanto poteva aver commesso, giacché seguitando a vivere non avrebbe potuto soffrire di più. Era quindi inutile voler cercare oltre la vita qualche cosa che non doveva dipenderne; poi vi era questa differenza: gli uomini, uccidendo, sentivano tutti di commettere un delitto, mentre uccidendosi sentono solo di essere infelici. Infatti egli non sapeva altro, non era sicuro di aver ragione, ma la sua tristezza nell'accettare la morte era scevra dai rimorsi, che avevano accompagnato tante altre sue colpe. Questa volta non avrebbe fatto male ad alcuno sottraendosi ad una condanna, che in lui colpirebbe Caterina e i bambini. Sciaguratamente non v'era altra soluzione. Il suo suicidio non era rifiuto della vita, perché non se ne era anzi sentito mai così pieno: vivere nella propria casa tranquilla con Caterina e i bambini, amministrare il piccolo patrimonio, aiutarlo con qualche guadagno, fare la partita al caffè, mandare innanzi i figli finché, diventati grandi, non avessero più bisogno di lui, sarebbe stato un idillio, era l'idillio di quasi tutta la gente! Egli doveva invece suicidarsi, appunto per averlo reso impossibile. Il suo suicidio non aveva quindi le ribellioni pessimiste, che sole possono renderlo tale; come quei coscritti, che affrontano la morte agli avamposti, perché fuggendo dovrebbero sopportare umiliazioni e pene troppo amare, egli non avrebbe voluto né la battaglia né la morte, e subendo l'una e l'altra si riconosceva senza volontà. Era così, perché era così. Questa conclusione vuota fu l'ultima. Allora, perché era venuto lì? Che cosa vi aveva risoluto? Sulla campagna luminosa e calda il cielo si era fatto di una serenità abbagliante, nell'aria passavano ondate di fremiti. Eppure avrebbe dovuto aver deciso qualche cosa, essersi preparato per quella giornata! Vi era ancora una speranza? Come contenersi? Questa domanda non ne nascondeva che un'altra: era dunque stabilito? Tale decisione restava però fuori del suo spirito, giacché non ne provava ancora tutto il peso. - Che cosa faccio qui? - si chiese con un sussulto. A casa sua pranzavano circa al tocco e mezzo: lo aspettavano, manderebbero fuori la serva a cercarlo. Si figurò vivamente la scena. Se non tornava più a casa, dove passare tutta la giornata? Rimaneva perplesso, tutte le angoscie della notte lo riassalivano, eppure non gli veniva nella mente di poterlo finire subito. Più tardi, di notte, solo, in qualche altro luogo, ma allora no. Era impossibile. Si era assegnato un giorno, vi aveva diritto. Poi gli sembrava di avere molte altre cose da fare, lettere da scrivere, vedere qualcuno, rientrare ancora fra gli altri, prima di non vederli più. Aveva bisogno della notte, adesso tutto lo distraeva. Si avviò per ritornare, ma appena ebbe presa questa decisione, ridivenne triste triste; sentì che tutto era finalmente stabilito, non tornerebbe più in campagna, non rivedrebbe più quel luogo. Era la sua ultima passeggiata da solo, che nessuno conoscerebbe mai, e nella quale aveva risoluto di morire. Comminava a testa bassa, non sentiva più la vivezza dell'aria, la vampa del sole, il fresco del verde: il suo sguardo si chinava su quel letto di fiume melmoso, squallido, abbandonato, senza un rumore né un guizzo nelle pozzanghere d'acqua indolenti sotto al sole. E l'idea della morte seguitava nel suo spirito come quel letto di fiume invisibile fra i campi. * * * - Perché, vedi, - gli diceva Caterina sul finire del pranzo, - io sono persuasa che ella ci lascierà tutto. Capisco che non è gran cosa, in ogni modo sarà la dote per Ada, ma bisogna che non seguitiamo a trattarla così. Tu hai sempre detto che la zia Matilde non ti ha amato, e pare anche a me che sia così. Non so, - ella seguitava con quel suo buon senso di donna, nella quale la tranquillità del temperamento favoriva l'equilibrio dello spirito, - se tu abbia ragione sostenendo che ella ti voglia ancora male per un vecchio rancore contro la tua povera mamma, però dovresti mutare contegno verso di lei. - Che cosa vuoi che faccia? - egli rispose, preso nell'interesse di quei discorsi, che preparavano l'avvenire. Infatti Caterina lo aveva subito sgridato per non essersi fatto vedere in quella visita alla zia Matilde, dopo che ella imprudentemente l'aveva avvisata della sorpresa. E sarebbe stata davvero tale, s'egli vi fosse andato, giacché per una antipatia istintiva cansava sempre quella vecchia parente; ma questa, inciprignita naturalmente dal non vederlo arrivare, aveva finito con lo strapazzare Caterina come di un cattivo scherzo. Caterina, irritata dall'insuccesso, dopo aver troppo contato sul magnifico effetto dei bambini, non aveva poi badato all'aria abbattuta di lui. Non di meno il pranzo era proseguito abbastanza bene. Per fortuna i bambini, lieti dei vestiti nuovi e più liberi nei vecchi, che la serva aveva loro rimesso per il pranzo, si erano abbandonati al più vispo chiacchierio, mentre la mamma ogni tanto li sgridava dolcemente per frenarli ed egli acconsentiva con un sorriso. Quindi il discorso era ritornato sulla zia Matilde, la quale avendo oltrepassato i settant'anni non poteva ancora campare molto. Con quella ingenuità di egoismo propria degli eredi, Caterina valutava tranquillamente tale probabilità, traendone una lunga serie di conseguenze per se stessa e per i figli, molto più che i modi di lui con la vecchia le avevano sempre dato pensiero. Ella credeva alla buona, quantunque modesta posizione della propria casa, ma coll'antiveggenza delle madri, quando amano, cominciava a preoccuparsi dell'avvenire. Il suo affetto era specialmente per la bambina. Le difficoltà sempre più tristi per le ragazze di trovare un discreto partito, le avevano messo in cuore una specie di pessimismo, unica sua reazione contro la vita, della quale aveva sempre accettato il corso blando senza chiedersi di più. Ma Ada, che a giudicare da quel momento doveva crescere molto bella, avrebbe avuto bisogno di una certa dote per accasarsi convenientemente dopo la buona educazione, che ella pensava di darle anche a costo dei più gravi sacrifici; su questo argomento Caterina, così arrendevole, non voleva intendere ragioni. - Tu manderai avanti Carlino. Era questa la risposta, quando egli le faceva osservare che per mettere Ada nell'educandato di Fognano occorreva una grossa spesa annuale, mentre poi le ragazze uscendo dal convento non sapevano far nulla per la vita. Caterina, invece, sognava d'interessare a questo suo disegno prediletto la vecchia zia Matilde. - Che cosa vuoi dunque che faccia un giorno Ada? La maestra, la sarta? La fanciulla, già viziata dalle troppe carezze, scuoteva la testa con una smorfietta, ed egli non sapeva come replicare. Quindi colla facilità delle donne a vedere già realizzati i propri sogni, Caterina s'inteneriva orgogliosamente sull'avvenire, vedendo Ada mescolata a tutte le signorine delle migliori famiglie, e più bella di loro fare appena uscita di convento un grande matrimonio. - Stasera, poco prima dell'Ave Maria, ritorneremo dalla zia Matilde per scusarci: verrai anche tu, non me lo negare. Io ti ho sempre lasciato fare quando hai voluto: ti ho forse mai disturbato? - proruppe ad un suo moto; - e poi non si tratta di me o di te. Oramai per noi è finita: che cosa ci può accadere? Invecchieremo così alla meglio, ma essi hanno bisogno di una buona posizione. Tu hai sempre voluto che Carlino debba andare all'università; io ti approvo, ma debbo preoccuparmi anzitutto dell'altra. Io sono la mamma. Un uomo nella vita arriva sempre a cavarsela, ma una donna se non trova presto marito, senza una buona posizione, può essere perduta. - La zia non ci lascierà nulla, - egli osservò: - sai pure che è pazza per quella sua figlioccia. - Lo dici tu, io non lo credo. Sarebbe da parte sua una ingiustizia: è capitale di famiglia, deve ritornare a noi. - Deve! - Non si può gettare via il capitale della famiglia. Egli s'irritò. - Molti lo fanno. - Hanno torto. Adesso ti diverti a farmi arrabbiare: verrai anche tu? - Non ci andiamo, mamma, la zia Matilde mi fa paura, - protestò Ada agitandosi sulla sedia. La zuppa inglese, portata trionfalmente da Anastasia sopra un piatto oblungo, interruppe la conversazione; i fanciulli batterono le mani strepitando, ma la mamma ne tagliò subito col cucchiaio la metà per serbarla all'indomani. - Lascia che la mangino tutta, - egli disse, intenerito dalla smorfia dei bambini. - Ma che cos'hai oggi? mi contraddici sempre. Egli aveva mangiato quasi come al solito, obliandosi nelle abitudini di tutti i giorni, fra il pettegolezzo dei fanciulli, le chiacchiere della moglie e le osservazioni di Anastasia, che si vantava per la riuscita del pranzo. Però gli era parso che questa, di quando in quando, lo scrutasse. - Perché non ne mangia lei? - gli chiese infatti, vedendolo dare la propria porzione a Carlino. Allora Ada s'ingelosì. - Lascia lascia, egli è più piccolo di te. Ma sulla fine dei pranzo l'allegria scemava. I fanciulli non gridavano più, sorvegliandosi a vicenda, malgrado l'attenzione che mettevano a forbire il piatto della crema; Caterina, ricaduta nella preoccupazione della zia Matilde non parlava. Improvvisamente egli si sentì scoppiare il cuore: non esisteva già più per loro. - In quale stato pranzeranno domani! Eppure nulla era ancora mutato intorno. La saletta, quieta come sempre, aveva la stessa aria di pulizia e di modesta agiatezza; la tovaglia, essendo domenica, era bianca, il cavallo di Carlino dormiva dimenticato sopra quella sedia. Tutto invece sarebbe sossopra domani: forse il vecchio mansionario scenderebbe lui pure, attirato inconsciamente dalla paura della morte. Chi sà quali pianti, quali commenti! Dove sarebbe allora il suo cadavere? - Lei non sta bene; - lo destò la voce brusca d'Anastasia. - Io! - Io dunque? proprio lei, che cosa ha? - Infatti anch'io ti ho osservato. - Ma non ho niente! dammi piuttosto da bere, ecco. Che cosa debbo avere? Avete paura che muoia? Aveva cercato di fare la voce scherzosa, affrettandosi a bere per dissimulare il turbamento, ma quell'ultima parola lo trascinò. - Bah! se dovessi anche morire... - Che discorsi sono questi? Siccome Carlino aveva finito di pulire il piatto coi ditini, egli vinto da un impeto di tenerezza si sporse, afferrandolo sotto le ascelle, e se lo mise sulle ginocchia. Il piccino rideva superbo. - Hai ancora il soldo? No? lo avrai nell'altro abitino. - Eccolo, papà: guarda il buco. - Di' alla mamma che ci passi dentro un cordoncino, e te lo metta al collo. Mi hai promesso di non spenderlo: manterrai la promessa? Vuoi più bene a me o alla mamma? Carlino esitava. - Hai ragione, hai ragione: lei è migliore di me; va a prendere il tuo cavallone. Così poté alzarsi per accendere lo zigaro. - Dunque siamo intesi; stasera verrai anche tu dalla zia Matilde, - tornò ad insistere Caterina. - No, non vengo. Vedrai che domani verrà lei da te. - Tu scherzi sempre. - Già! Si era rimesso il cappello per uscire, scordandosi di scrivere quelle lettere; la paura lo riprendeva. Se fosse rimasto ancora qualche tempo, non avrebbe più saputo come andarsene; poi capiva che, solo coi bambini anche per un momento, sarebbe scoppiato a piangere. Fortunatamente il pranzo aveva durato sino alla solita ora, nella quale usciva a prendere il caffè. - Me ne vado, - disse due volte, - senza riuscire a decidersi. Caterina si era alzata per andare in cucina, egli la seguì; avrebbe voluto voltarsi per stringere in un abbraccio furioso le teste dei fanciulli, ma Anastasia rientrava già per sparecchiare. - Va pure, siamo intesi! - ripeté Caterina una ultima volta. Per risposta egli le diede un gran bacio sulla bocca, fuggendo subito dopo. Caterina rimase sorridendo di quella soluzione. * * * Nel caffè, a quell'ora, la gente era già affollata intorno ai tavolini, che lasciavano appena un varco sotto il loggiato: regnava l'allegria, le voci si alzavano scherzose. Al suo apparire molti lo salutarono, mentre altri si ritraevano per fargli posto nel solito crocchio; egli invece si sentiva freddo di dentro. Quel nuovo aspetto di festa nel pomeriggio lo turbava. Per un momento aveva pensato di andare nell'altro grande caffè aperto all'angolo del palazzo Rondinini, frequentato dai più grossi signori, quasi tutti naturalmente di parte moderata, per incontrarvi il Bonoli e lo strozzino, che di rado vi mancavano. Poi una paura irragionevole, che tutti a quell'ora sapessero già della sua cambiale falsa mandata in pretura, lo aveva sorpreso. Perché non lo saprebbero? Se Roberti certamente non ne aveva parlato con altri prima di partire, il pretore poteva bene averne fatto a qualcuno la confidenza; il caso non era molto probabile, e non di meno, nell'odio improvviso, che si sentiva in cuore contro quel giovane magistrato, adesso divenuto inevitabilmente il suo padrone, si ostinava a dubitare. Del signor Bonoli invece e dello strozzino, più interessati e quindi più facili a tale propalazione, quasi quasi non sospettava: il perché non avrebbe saputo dirlo. Quando nello svoltare dalla fontana vide quel pezzo di loggiato, dinanzi al caffè così gremito di gente, fu per arrestarsi, ma parecchi dovevano già aver guardato verso di lui. Colla bruschezza, che dalla lettura di quel biglietto gli aveva così profondamente mutato il carattere, si decise quindi ad andare innanzi. Se altra volta si fosse battuto in duello, avrebbe creduto di risentirne quell'emozione indefinibile allorché i padrini, dopo avervi tratta la camicia e legato il fazzoletto al polso in qualche angolo appartato, vi dicono improvvisamente, con voce breve: - Andiamo. Non gli accadde nulla. I discorsi erano gli stessi degli altri giorni; a un tavolino alcuni radicali, tutta gente della piccola borghesia, vestiti a festa, e quindi con un'aria più importante e una più grossolana affettazione di chiasso, ciaramellavano di politica; altri parlavano d'affari, più in là un crocchio di giovanotti discuteva di donne, naturalmente in termini vivaci ed osceni, i camerieri andavano e venivano, mescolandosi spesso alla conversazione con una famigliarità poco rispettosa, e nondimeno punto antipatica in quelle abitudini di provincia. Sotto il portico cominciava a passare qualche ragazza: allora tutti gli occhi si voltavano e prorompevano giudizi sommarii, espressioni scoppiettanti come razzi. Quel giorno non v'era alcun argomento speciale di pettegolezzo. Egli sedette. Il cameriere, ragazzotto piccolo e pallido, in giacchetta nera, gli portò al solito il caffè senza averne aspettato l'ordine, e gli sorrise deponendolo sul tavolo. Appoggiato colla schiena ad una colonna egli guardava il Duomo. L'enorme portone di mezzo era socchiuso, e sull'arco del suo vano si agitava lievemente un drappo rosso, segnacolo di qualche festa religiosa in quel giorno; la scalinata di granito pareva più bianca nel sole, la fontana gorgogliava da tutti i propri zampilli, avvolta in un pulviscolo d'acqua tenue come un vapore. Tutto quel largo dinanzi al Duomo sino in fondo alla piazza rimaneva deserto, nessun fiacchero stazionava ancora presso il caffè, l'omnibus del grande albergo era già ritornato dalla stazione; solo qualche bicicletta passava tratto tratto nel vuoto, silenziosamente. Siccome quella gente non sapeva ancora nulla della sua disgrazia e, sapendola, si sarebbe subito scostata, colle cautele così pronte ed assennate dell'egoismo, egli tra la distrazione di quei discorsi tornava a ricordarsi tutto quanto sapeva sopra ognuno degli interlocutori. Pochi avevano una posizione solida ed equilibrata, ed anche questi pochi non avrebbero probabilmente davanti ad un giudice, capace di legger loro nelle coscienze, saputo giustificarne l'origine o il modo: tutti gli altri vivevano come lui, fuori della propria orbita naturale, rammendando ogni mattina gli strappi di ogni sera, nella stessa impotenza di frenare i propri vizi o di guadagnare abbastanza per alimentarli senza pericolo. A vederli così vestiti e con tale disinvoltura giuliva, un estraneo avrebbe potuto crederli ricchi e felici, mentre ognuno celava nella propria vita qualche ignobile controscena di compromissioni domestiche o commerciali, vergogne di donne comprate o vendute, orrori di figli assassinati nell'avvenire per inconfessabili passioni. Eppure sarebbero domani i suoi giudici perspicaci, perché sommerebbero tutte le loro osservazioni su lui, e condannerebbero, avvelenando la condanna di scherni, per quella inconsapevole necessità in tutti di separarsi da coloro, che soccombono nella vita. Era così, non poteva essere altrimenti; se no la gente per compiangerlo avrebbe dovuto condannare se stessa. Egli solo si era scioccamente messo in tale condizione di suicidio, mentre gli altri facendo di peggio sapevano restare a galla. Però questa spiegazione superficiale non gli bastava: un'altra forza oscura spingeva innanzi la vita d'illusione in illusione, di guaio in guaio, sino alla fine, che interrompeva tutto senza risolvere nulla. La moglie, i figli, quanti restano dopo, prorompono in lamenti contro il morto, cercano di rassettare la posizione, e invece tornano a comprometterla con la medesima serie di vizi e di sciocchezze. Era questa l'eterna ridda, l'eterna morale: i figli si lagnano dei padri e, divenuti padri, sacrificano l'interesse dei figli al proprio: le donne, per lo più morigerate come ragazze, si abbandonano da spose e da madri ad ogni sorta di eccessi: i patrimoni oscillano, si scompongono, si ricompongono attraverso un tafferuglio di rapine, di leggi, di prodigalità, di avarizie, di casi tragici o fortunati, nei quali non si capisce nulla, ed è impossibile resistere. Tuttavia in quel momento egli falsario, deciso a morire della propria colpa senza chiedere soccorso ad alcuno, si sentiva migliore di quanti lo circondavano. Un orgoglio doloroso gli gonfiava la coscienza. Invece di scusarsi ai propri occhi come aveva tentato più volte nella notte, si compiaceva quasi ad ingrandire l'accusa, spremendone un'acre vanità. Non era egli pronto a morire? Che gl'importava di tutta quella gente? Quale di loro, malgrado tutte le vanterie, che avrebbero fatto sul suo conto, affermando l'uno contro l'altro di averlo conosciuto benissimo, saprebbe solamente indovinare le sue nuove sensazioni in quell'ora? Era una specie di alterezza, che gli faceva guardare intorno come dall'alto: qualche cosa di profondo e di freddo, che doveva somigliare alla emozione del comando supremo per un generale, nel momento di arrischiare sopra l'ultima idea la vita di migliaia e migliaia di uomini. La morte innalza sempre. Invece di scrutare nella sua oscurità, il che lo avrebbe daccapo atterrito, si guardava indietro come per una lontananza, nella quale le cose e gli uomini perdevano coll'esattezza del rilievo quasi tutta la propria importanza. Che cosa era mai la vita, a pensarci bene? Egli avrebbe sempre seguitato a quel modo, con le solite soste al caffè, sempre fra quelle persone, quei discorsi, senza una speranza mai di mutare, di salire, di provare qualche cosa di nuovo. Null'altro. Tant'era dunque andarsene prima che la vita divenisse solamente un seguito interminabile di ore nel vuoto di una prigione, e dopo, più tristamente, un fuorviare fra la folla per evitare certe persone, per cansare certi sguardi; poi, rabbuffi strazianti in casa dalla moglie e dai figli, fuori un bisogno sempre più umiliante di trovare un impiego, un modo egualmente indispensabile ed impossibile di guadagno. - Oh! non dici niente oggi? - gli si volse Cavina, un giovane mastro-muratore dalla fisonomia malaticcia, che la passione e una tal quale raffinatezza di gusto nella musica rendevano al tempo stesso simpatico ed un po' avversato. - Pensi ai miei debiti o ai tuoi? - seguitò con lo scherzo solito fra di loro, che, troppo desiderosi di spendere, finivano collo sbertarsi reciprocamente sulle angustie della propria posizione. Egli sussultò. - Sono così, non lo so; - ma gli parve subito dopo di avere risposto male. Il muratore confessava che sarebbe andato volentieri alla prima rappresentazione del Lohengrin: c'era tempo ancora, un treno partiva sulle quattro. - Bisognerebbe avere cinquanta franchi da buttar via. - Perché cinquanta franchi? - Sai, dopo il teatro viene la cena, la donnetta... Si rideva: altri sarebbero partiti con lui per Modena, avendo in tasca i cinquanta franchi, meno ancora per ascoltare la musica del Lohengrin che per il piacere della gita. Allora Romani ebbe un impeto di sdegno. - Perché spendere cinquanta franchi? Sono cose che bisogna lasciarle fare ai signori. - Ai signori! - un altro replicò celiando - ma sono un signore anch'io, quando spendo cinquanta franchi in una sera: vuol dire che per quella sera ho cinquanta franchi di rendita. Tutti risero. Romani si accorse trepidando di essersi lasciato trasportare dalla collera contro quella falsa facilità del vivere, che lo aveva condotto all'ultimo punto: quindi per distrarre l'attenzione rimise il discorso sul Lohengrin. Allora tutti protestarono: non sarebbe mancato altro che, non potendo assistere alla rappresentazione, ne avessero dovuto subire la disquisizione da Cavina. Ma questi, che parlava benino, non resistette; da pari suo aveva letto troppo o si ricordava abbastanza le spiegazioni del mito lohengriniano. - È un gran bel finale, - concluse dopo non molto, giacché s'imbrogliava nel patto fra Elsa e Lohengrin; - nessuno muore, eppure è una tragedia. Lohengrin ritorna in cielo col cigno: è un motivo, che fa venire la pelle d'oca, lo stesso motivo, col quale viene rimandato il cigno nel primo atto; ma nessun musicista avrebbe mai saputo trovarne uno uguale. Poi è di una naturalezza! - seguitò animandosi: - Lohengrin canta perché non deve morire, mentre in tutti gli altri finali italiani si ammazzano il tenore e la donna obbligandoli a cantare con tutte le loro forze. Ciò è falso: un ferito, un moribondo non possono cantare; sì, altro che cantare in quel momento! - Ma in teatro... - Che c'entra? In teatro si deve rappresentare la verità. Il finale del Rigoletto è bello, lo concedo anch'io, ma la donna trapassata da un colpo di spada come potrebbe cantare? Sono convenzionalismi, che hanno fatto il loro tempo: io dico che la musica deve rispettare le situazioni drammatiche, e non pretendere di far cantare in condizioni impossibili. C'è l'orchestra appositamente: perché il maestro non la fa cantare invece del tenore o della donna? Sì! il duetto della barella nella Forza del Destino! Don Alvaro ferito a morte, che urla come un dannato! Tiriamo via. Io credo che non solo un moribondo o un ferito, ma nemmeno un condannato a morte, proprio all'ultimo momento, lo si possa far cantare. Che cosa ne pensi tu, Romani? - Mi pare che hai ragione. - Perché? Si sono visti tanti condannati salire il patibolo indifferentemente, - disse un altro. - Indifferentemente! Metti loro una mano sul cuore... Ti sentiresti tu di cantare nei loro panni? - ripeté ostinandosi in questa, che a lui pareva una grande idea novella in arte. Ma la conversazione deviò ancora. * * * Mentre il passeggio della gente cresceva pel largo del Duomo e sotto i portici, gli avventori del caffè si diradavano. Le donne sfilavano vestite a colori vivaci, in ritardo dalla moda e non pertanto esagerandola con una volgarità di tagli e d'intenzioni, alle quali la goffaggine del portamento finiva col dare un non so che di maschile. Egli, divenuto più perspicace, interrogava curiosamente ogni fisonomia per indovinare sotto la sua maschera della domenica il segreto di tutti i giorni. Quindi si accorse che in quella bruttezza di quasi tutte le donne mancava appunto ciò che avrebbe potuto riscattarla, l'incantevole e delicata debolezza del sesso. Fu come una rivelazione per lui. Invece colei, che lo aveva perduto, era donna nel più profondo significato della parola. La paragonò mentalmente per cinque minuti a quante passavano, senza arrivare alla spiegazione della sua superiorità: in che cosa consisteva? Dove era adesso? S'immaginava nemmeno che egli potesse trovarsi così? Erano le cinque. Fuori di porta Montanara, per lo Stradone, il passeggio doveva essere incominciato. Daccapo non seppe che cosa fare. Dinanzi all'altro caffè la larga distesa dei tavolini arrivava insino al palco della banda, senza un avventore; si ricordò del primo pensiero, svoltando alla fontana, di andare piuttosto a quel caffè, dove capitavano il signor Bonoli e lo strozzino. Allora non aveva osato, adesso gliene ritornava un desiderio malato. Siccome era rimasto solo al proprio tavolo, si alzò senza salutare alcuno, giunse in fondo al portico, ne discese i gradini, e si mise all'ultimo tavolino presso l'ultima colonna. Chiese il Secolo ed un gelato. Ma, così solo, gli tornava la paura. - Quanto ci vorrà ancora, prima che sia sera? Rapidamente pensò ai nuovi incontri, ai discorsi che dovrebbe ascoltare, a quelli cui sarebbe inevitabile rispondere, alle combinazioni, ai casi inavvertiti tutti gli altri giorni. Avrebbe potuto tradirsi senza accorgersene. Di quando in quando rimaneva senza forze, in una attonitaggine, dalla quale lo toglieva la sensazione improvvisa del pianto, che stava per sfuggirgli. A quanto doveva compiere nella notte aveva deciso di non pensarci, anzi era sorpreso di scordarsene tratto tratto. Come avveniva ciò? Nessuna di quelle terribili strette, di quei dolori trafiggenti, sotto ai quali nella notte aveva creduto tante volte di svenire, gli si era ancora rinnovato: le ore passavano, dandogli solamente una sensazione vacua, come se ne provano assistendo a certi spettacoli senza prendervi interesse. In tale momento il luogo più deserto era appunto il caffè, ma il suo isolamento avrebbe finito coll'essere notato anche lì. Dove andare? Non aveva nulla da fare; e poi a che scopo lo avrebbe fatto? In questa impassibilità stava già la morte. Oramai era fuori del mondo, non apparteneva più a nessuno, non aveva più nulla. La vecchiezza non deve essere altro che la lenta progressione di questo sentimento, l'abbandono reciproco di tutti verso uno e di uno verso tutti per una solitudine annebbiata, silenziosa, immobile. Aveva acceso un altro sigaro. Guardò alle notizie del giornale senza fermarsi ad alcuna, poi le appendici lo attrassero: Un Idillio tragico, di Bourget; I milioni della scema, di Montfermeil: nel primo la scena era a Montecarlo, nei saloni da gioco rutilanti d'oro, invasi da una folla cosmopolita, di tutti i costumi, di tutti i gradi, di tutte le fortune. L'autore dipingeva finamente e rapidamente; egli ebbe la sensazione di quell'ambiente, nel quale la gente andava per tentare di non morire, ottenendo da una vincita la guarigione della propria vita anemica di oro, di fede, di speranza, di amore, perché presso alla morte tutto si fa pallido. E in quella folla, nella quale l'egoismo delle disperazioni non permette lo scambio di alcun sentimento, e fra quelle le pupille chine e vacillanti sui tavoli nello stesso sogno di riscatto; fra quel silenzio, che neppure il delirio della salvezza improvvisa o la sùbita rivelazione della morte arrivano a turbare; in mezzo a quella moltitudine famelica di ozio e di ricchezza, dentro il profumo dei fiori, l'incendio dei lampadari, la pompa abbacinante di un lusso divoratore, Bourget aveva messo due incantevoli figure di donne, sorridenti in un dialogo di amore. Egli ne lesse le prime battute affascinato, arrestandosi in fondo all'appendice, quasi colla stessa sensazione che se si fosse urtato in un muro. A Montecarlo il suicida tenta di forzare ancora una volta la fortuna; può bastare un solo scudo per ritornare felice e trionfante alla vita. Quanti vi avevano vinto la posta della propria esistenza! Quanti altri l'avevano perduta! Erano più i primi o i secondi? Quanti suicidii si compiono all'anno in Italia, in Europa? Egli non lo sapeva, ma se qualcuno gliene avesse detto la cifra enorme, gli sarebbe parsa esagerata: nullameno ebbe come una vaga visione di questi volontari della morte, strano esercito senza generale e senza disciplina, che tutti gli anni si esauriva sino all'ultimo soldato, e si rinnovava tutti gli anni inutilmente. Ogni suicida credeva di agire solo: qualche volta morivano a poca distanza l'uno dall'altro, egualmente separati dalla differenza dei motivi. Chi poteva dire davvero il perché di un suicidio? Egli stesso non avrebbe saputo definire il proprio caso; le ragioni erano molte, forse una per una non sarebbero bastate, forse neppure la loro somma diventava decisiva... Egli ci aveva pensato molto, poi si era accorto di non poter concludere. Era a questo punto, quando Gualtiero Ponti gli batté la mano sulla spalla: - Anche tu leggi il nuovo romanzo di Bourget: bisognerebbe invece, mio caro, poter andare a Montecarlo e vincere. - Vincendo, che cosa faresti tu? - Mi divertirei. - Come? - Seguiterei a giocare. E l'allegro giocatore, del quale aveva il giorno prima tentato di scontare indarno la cambiale, rise al pensiero di chiudere così la parentesi della propria vita. - E la cambiale? - chiese. - No, è stato impossibile. - Allora? - Allora! L'altro si era voltato a guardare una donna. - Ma quando sarai rovinato? - domandò Romani, che provava un bisogno crudele di affliggerlo, benché quello scapestrato non gli avesse fatto alcun male. Gualtiero Ponti si contentò di alzare le spalle. - Andiamo a fare un giro per lo Stradone? fra poco verranno Tamberi, Marzocchi; sai, questa notte Marzocchi ha perduto settecento lire, io mi ero rifatto, poi ho finito col perderne settantacinque. Ceniamo insieme? Non si era ancora seduto. Era un giovanotto piccolo, brutto, coi baffi a spazzola, la testa rotonda e già calva, che mostrava indifferentemente, giacché si era tratto il cappello per asciugarsi il sudore, rimanendo così a capo scoperto; un tic nervoso gli faceva di quando in quando scattare le dita della mano destra. - Tu non ci pensi dunque? - insisté ancora Romani. - A che cosa serve il pensarci? * * * Non c'era altra filosofia nella vita: sciaguratamente non bastava, perché giungeva il momento di dover pensare per forza. Finirebbe così anche colui? Istintivamente rispose di no, conoscendolo troppo bene per supporlo capace di un simile sforzo. Tuttavia in quel momento, per una specie di giustizia che si sentiva dentro, avrebbe avuto bisogno di credere che per lui pure sarebbe venuta quell'ora insopportabile di espiazione. Quindi n'ebbe come uno scatto violento. - Te ne vai? chiese l'altro, vedendolo alzarsi. - No, debbo fare una lettera. - Va' dentro nella sala a scriverla: ti aspetto qui. Infatti qualche cosa bisognava che scrivesse. La prima idea fu di rivolgersi alla zia Matilde per raccomandarle i bambini; non voleva dir altro, non ne sarebbe stato capace. Si era messo all'ultimo tavolino presso la porta, che dava nella seconda sala del bigliardo: notò che due vecchi lo guardavano. Aveva la mano ferma. Gualtiero Ponti si affacciò dalla strada alla vetrina; allora egli si affrettò. Cara zia, 2 maggio 1896. Vi raccomando i miei bambini, abbiate pietà di loro che sono innocenti; io sconto tutte le mie colpe colla morte. E firmò, avvolgendo come al solito tutta la firma dentro il riccio dell'ultima i. - Hai fatto presto, - gli disse Ponti avvicinandosi. L'altro aveva già chiuso la lettera nervosamente, la mano gli tremava nello scrivere l'indirizzo. - Dammela: te la getto nella buca, mentre vado dal tabaccaio a comprare le sigarette, altrimenti potresti scordartene, come accade quasi sempre a me. Romani rimaneva perplesso; se impostava la lettera, la cosa diventava irrevocabile. Una nebbia di sangue gli salì dal cuore agli occhi. Quasi senza comprenderlo, si cercò in tasca il soldo per il francobollo. - Va! ce lo metto io, - disse Ponti colla mano tesa per ricevere la lettera. Quindi la prese senza guardare la soprascritta, e uscì dal caffè. Romani non si poteva muovere, ma pensava, rabbrividendo: - In ultimo, vi è sempre qualcuno che vi spinge. * * * Poiché avevano mutato luogo alla stazione ferroviaria, costruendone poco lontano un'altra più ricca e più goffa, la strada fuori di Porta Vecchia a quell'ora non era più frequentata come in altri tempi. Egli dopo aver errato per molte vie della città, aveva finito per infilare quella; il sole si piegava al tramonto, dalla campagna veniva una frescura di verde umido e di piante in fiore. S'imbatté in don Procopio, il mansionario, che abitava al disopra di lui; il vecchio ottantenne girava ancora solo, con passo abbastanza sicuro senz'altro appoggio che un bastone dal pomo di avorio ingiallito. Era vestito del solito vecchio soprabito con una leggera mantellina al disopra, tutto lindo e rasato di fresco: i capelli bianchi, troppo lunghi, gli uscivano in ciuffi dagli orecchi. - Lei! - esclamò Romani. Il vecchio gli sorrise, scoprendo due ammirabili fila di denti troppo lunghi, di un bianco gialliccio. Romani si era fermato. - Dove va? - disse, cedendo finalmente al bisogno di una conversazione. - Poco lungi, figliuolo mio. Nihil est longe a Deo: è l'avvertimento di Santa Monica al suo figlio Agostino. Ma l'accento tranquillo contrastava con la lirica minaccia del motto latino. - Sono stato sino alla sbarra della ferrovia. - Ritorni ancora indietro con me. - Nella sera si fa fresco, io sono vecchio e mi avvicino al termine. - Che importa? - proruppe l'altro: - bisogna ben finirla una volta con questa vita. - Eh! finirla... finirà certo. Quando si è giovani si parla male della vita, perché non se ne capisce il pregio, e al più piccolo contrasto si pensa persino male di Dio. - Perché dunque permette egli tante infamie? Perché vi è della povera gente, che deve morire in miseria dopo aver fatto ogni sforzo per non meritarla, mentre i farabutti riescono sempre in quello che vogliono? - Lo sapremo dopo, figliuolo mio: finché viviamo, bisogna rispettare la vita come un dono di Dio. - Poteva tenerselo. Ma siccome la voce gli aveva tremato, il vecchio si fermò a guardarlo in viso. - Non vi è altro in questo mondo che la vita: che cosa volete vi sia di più importante? - Come mai dunque certuni se la tolgono? - Pazzie, suggerimenti del demonio! Tutti i dolori passano, è questione di pazienza: dopo, pensandoci, si resta sempre sorpresi di aver disperato. Vedete, io che sono vecchio, ho avuto anch'io le mie disgrazie, i dispiaceri... e poi, se si potesse ricominciare, ricomincerei. - Lei non può avere sofferto veramente nella vita; bisogna esserci dentro per provarla e comprendere come alle volte non c'è altro modo di cavarsela che andandosene. A che cosa serve la pazienza, quando non c'è più alcuna speranza? - Volete farmi parlare perché sono prete, non è vero? Oggi tutti i giovani, che discorrono con noi, pretendono d'imbarazzarci; ma voi stesso in questo momento non potete essere al caso di giudicare sulle tristi condizioni, che spingono certi infelici al suicidio. Romani si era arrestato, aspettando la sua opinione, ma il vecchio tacque. Andava adagio, soffermandosi spesso a guardare quelli che incontravano, mentre una collera sorda spingeva l'altro a bestemmiare davanti a questo prete, il quale pretendeva naturalmente di rappresentare Dio e di poter parlare in suo nome. Quindi seguitò: - Si fa presto a dire che uno, il quale si uccide, è pazzo; ma se non lo fosse? Moltissimi dànno prova del massimo sangue freddo sino all'ultimo istante. - Pazzi, pazzi! La chiesa permette appunto il loro seppellimento in terra benedetta, perché li considera pazzi. Ma se non c'è altro al mondo che la vita, la quale ci fu data per guadagnarne un'altra migliore! Lasciate correre, sono fandonie delle moderne filosofie; ma intanto tutti questi filosofi e questi poeti, che bestemmiano la vita, tirano a campare. - E quelli che si ammazzano? - Matti! - Non è vero! - proruppe: - Vi sono delle circostanze, nelle quali il suicidio diventa l'azione più onesta e più utile, che un uomo possa fare. E poi, perché si deve tribolare tanto? Se Dio... - Non bestemmiare, figliuolo mio. - Non bestemmio; se Dio fosse giusto... - Andiamo, andiamo, - ripeté il vecchio, alzando un pochino la canna in segno di disapprovazione; ma il fischio della vaporiera li interruppe. Si fermarono, il cantoniere chiudeva dinanzi a loro la barriera. - Passa il vapore, lo vedremo, - disse il prete, voltandosi verso la stazione invisibile, alla quale il treno doveva essersi arrestato. Anche Romani non parlava più; l'affermazione così sicura di quel vecchio sulla vita lo aveva scosso; capiva che confessandogli anche la propria tragedia, non solo non lo avrebbe commosso abbastanza da farlo vacillare nelle proprie convinzioni, ma nemmeno da intenerirlo. I vecchi non si appassionano più per alcuno, ma, chiusi in se stessi, si nutrono dei propri giorni, adagio, come per farli durare maggiormente. Quindi rimaneva irritato; il bisogno di discutere, senza rivelarlo, il proprio suicidio, lo tormentava sempre più dolorosamente. I dubbi filosofici, i terrori religiosi della mattina lungo l'argine del fiume, tornavano a sopraffarlo dinanzi a quel prete, che rappresentava la doppia rivelazione della vita e della religione. Egli doveva sapere per aver provato, e perché credeva senz'alcuna incertezza. Lo esaminò. La sua faccia esprimeva una calma senza nessuna vivacità, adesso che la vita era per lui ridotta al minimo; non diceva nemmeno più la messa, tutto si riduceva al pranzo e a quella passeggiata. Eppure era come tutti gli altri; nessuno voleva pensare alla morte. Egli invece fremeva. Dopo aver lasciato impostare quella lettera, un nuovo orgasmo lo aveva obbligato a muoversi, quasi a fuggire, solo nelle strade, per non tradirsi con qualche scoppio irrefrenabile. Che cosa gli importava della vita? In quel momento, pur di finirla subito, avrebbe accettato anche la morte più dolorosa. Era la rivolta degli animali deboli, che trovano nella disperazione il coraggio dell'attacco. Quel prete di una religione, che secondo la gente ha un balsamo per tutti i dolori, non aveva indovinato in lui, non aveva sentito niente nella sua voce! Un sorriso amaro gli contrasse le labbra. Un altro fischio acuto, prolungato, fendé l'aria; s'intesero gli scoppi di un'enorme respirazione che si avvicinava, si vide in alto uno stendardo azzurrognolo di fumo, e il treno passò alla barriera rapido, nero, perdendosi nella campagna, che si assopiva languidamente sotto il tramonto. Don Procopio lo aveva seguito cogli occhi: - Quello sarà sempre giovane, mentre i nostri cavalli, - e si batté una gamba colla canna - non vanno oramai più! Romani era diventato pallido come un cencio; nei suoi occhi sbarrati vi era la fissità dell'agonia, che non vede più o vede già troppo lontano. * * * Non aveva potuto parlarne nemmeno col prete. Questa impossibilità di trovare un'anima, nella quale riversare tutta l'angoscia della propria, gli era diventata uno spasimo maggiore della stessa necessità di uccidersi. Sino dalla notte, dopo la lettura di quella lettera, resisteva all'angoscia di rivoltarsi per terra mordendo qualche cosa: invece aveva dovuto comporsi una maschera simile al volto di tutti i giorni, perché nessuno si accorgesse di quello che soffriva. Gli pareva di essere un sonnambulo, colla coscienza di non poter più uscire dal proprio sogno. La vita seguitava intorno a lui più intensa di prima; la luce animava le cose, l'aria vibrava, alitavano profumi, i rumori salivano dalla terra mescendosi in una sonorità inesauribile, dentro la quale passava un'altra infinità di musiche, mentre la gente affaccendata di sé medesima sembrava non accorgersi neppure del tramonto imminente. Non poteva essere che così. Era come di quelle danze che i più piccoli insetti fanno nei raggi del sole: volano, si riproducono senza posa, in una confusione ardente ed instancabile, e quello che si arresta un istante, cade non visto nell'ombra, sulla terra. Nessuno può fermarsi al dramma o alla morte di un altro, perché il dramma è in tutti, e tutti debbono morire; la pietà è appena un sorriso, che si volge ai feriti capaci di rialzarsi; per quelli che soccombono, la disattenzione previene già l'oblio. Egli stesso non sapeva più che cosa dire agli altri; si sentiva come una di quelle foglie galleggianti nel fosso sotto il temporale del suo sogno: che cosa avrebbe potuto dire una di quelle foglie morte alle erbe dei margini sbattute dalla corrente? Il problema della morte è più lontano e più in alto della vita, dove il tempo dilegua nell'eternità; e quando l'anima s'affaccia nuda a tale problema, se non vi scorge qualche cosa nel buio, ciò vuol dire che la luce della lampada accesa dalla religione in quelle insondabili profondità si è spenta. Il giorno cadeva. Un vapore si distendeva pel cielo, abbassandosi lentamente sull'aria, che si raffreddava; gli oggetti si velavano incertamente, la moltitudine pareva calmarsi. Però le sue voci si facevano più inquiete, tutti i passi si affrettavano. Le grida degli uccelli erano cessate all'improvviso nell'oscurità misteriosa del fogliame: dentro le finestre, prima incendiate dal sole, il buio si era fatto denso come un panno nero, le strade piene di popolo avevano una ondulazione di marcia sotto la notte imminente. Egli aveva oramai finito quel giorno. Le campane della sera disperdevano il proprio gemito nel silenzio delle lontananze, come un'invocazione saliente dalla terra dinanzi al terrore delle tenebre, che stavano per sommergerla. Nell'agonia di tale fine, che non aveva mai avvertito prima di allora, gli parve che la morte sfiorasse tutte le cose. Quanto era succeduto in quel giorno, non succederebbe più, era già perduto irrevocabilmente dove tutto si perde, ciò che fu e ciò che dovrà essere, perché la vita non è appunto che una evanescenza, un suono di suoni, un'ombra di ombre vagolanti in un infinito infinitamente remoto. La sua anima si ravvolse nel lungo brivido di quella solitudine, che solamente il pensiero avrebbe potuto riempire. Poi il crepuscolo si oscurò ancora, le prime stelle spuntarono dalla volta del cielo, mentre per la città si accendevano i primi fanali, fra un mormorio più indistinto di voci, al disopra della folla, che dileguava nella oscurità delle strade. Ma le stelle crescevano sempre nel cielo opaco, troppo grandi e troppo vivide perché la notte potesse appannarle: miriade di mondi viventi di un'altra vita inesplicabile alla nostra, malgrado tutte le rivelazioni della scienza e della fede. Che cosa c'era lassù? Più alto di lassù? Dio? Un minuto dopo la morte, questa domanda sarebbe ancora possibile? * * * Egli soccombeva all'umiltà di un annichilimento finale. La sua volontà si era disciolta al pari di ogni altra cosa nell'ombra, come in un ritorno alla primordiale indeterminatezza dell'essere; non soffriva più. Persino quest'ultimo dubbio, balenatogli più in alto, oltre lo splendore delle stelle, si era spento con tutto quanto moriva intorno a lui, nella dissoluzione della notte. Che importava il motivo della morte, quando bisognava morire? Il medesimo silenzio penetrava in tutti i cuori, la stessa ombra in tutte le teste: non si poteva essere immortali; perché noi pretendevamo dunque di esserlo? Vi era differenza nella morte? Che cosa era il suicidio? Si muore di tutto, tutti si suicidano, giacché ogni gioia troppo intensa, ogni dolore troppo acuto ci costa forse un giorno: qualunque opera ci toglie quella parte di noi stessi, colla quale la compimmo; i nostri figli sono i nostri parassiti sino al giorno che, non potendo più nutrirsi di noi, ci abbandonano per soccombere altrove. In qualsivoglia momento la morte è sempre la stessa: un terrore, un'angoscia, e la soffocazione in fondo. Non ci si pensa, perché tutte le idee adunate intorno alla morte, paradisi, inferni, non riproducono che teatralmente il nostro oggi sullo sfondo di una notte senza domani. Quando l'ora della morte è suonata bisogna rassegnarsi: non è sempre così davanti a tutte le difficoltà della vita? Si chiudono gli occhi, e si ingoia il bicchiere dell'olio di ricino, come fanno i bambini. Una carrozza, che gli passò accanto fragorosamente, coi fanali accesi, gli ridiede la visione del treno sbuffante, fumante, coi grandi occhi sbarrati nella notte, come se venisse contro di lui, e tutta la terra intorno tremasse sotto la violenza del suo impeto. * * * - Vieni con me dalla Marietta: è arrivata una ragazza d'Imola. Romani alzò la testa, Gualtiero Ponti seguitava: - Venturini dice che è bella, vieni con me: poi ceneremo. Ma sebbene la domanda fosse insistente, la voce rimaneva fredda; Romani stava seduto alla cantonata del caffè Rondinini, in quell'ora pieno di gente, sotto il chiarore rossastro dei lampioni a petrolio: tutti erano vestiti a festa. Era la prima ora del passeggio notturno, per la piazza e sotto il loggiato dei signori; le ragazze passavano a frotte negli abiti chiari, sorridendo fra gli sguardi, che le cercavano avidamente. Romani si era seduto, solo, a quell'angolo. Una stanchezza malata aveva finito di vincerlo, dopo tutte quelle corse fuori e dentro la città: si era cacciato per molti vicoli, sino alle mura, che da Porta Pia vanno a Porta Montanara dirimpetto alla linea delle colline, e anche là aveva trovato la stessa gente, coppie di amanti, torme di bambini, crocchi di mamme, e, tratto tratto, un vecchio, che passava come un'ombra nell'ombra sempre più densa della sera. Gli era rimasta negli orecchi la cantilena di alcune voci. - Dove ti sei nascosto oggi, che non ti ho più visto? - ridomandò Ponti. - Ho girato. - Solo? - Così... non sempre, - si corresse, ricordando l'incontro con don Procopio. - Dunque vieni? - No. - Perché? Vieni. - Non ne ho voglia. Sopraggiunse un altro, al quale Ponti fece la stessa proposta, e che accettò. Romani rimase solo daccapo. Perché non aveva accettato? Era stato un rifiuto istintivo, ripugnante, quasi di un ferito, che qualcuno, stupido o villano, invitasse a ballare, poiché gli era accaduto di ricusarsi così nella giornata ad altri inviti, sempre colla stessa sensazione amara di disgusto. Il passaggio delle donne, che talvolta a quell'angolo gli sfioravano quasi il ginocchio colla gonnella, lo tirava inconsciamente ad altri pensieri: qualche profumo vaporante dalle vesti errava nella sera, nomi femminili salivano dai crocchi vicini a lui, mentre al di là della strada, in quel largo dinanzi al loggiato, fra i tavolini, molto signore si erano già fermate, e i camerieri correvano affaccendati, recando o togliendo i bacili. La festa diventava più tentatrice nelle ombre della notte; pochi bambini erano ancora in giro, nell'aria agitata da uno scirocco leggero soffiavano improvvise caldezze. Le donne, quasi belle a quell'ora, avevano nel passo qualche cosa di diverso, un'ondulazione, che gli abiti festivi rendevano più provocante, quindi voltavano il capo allungando i sorrisi, o si chiamavano fra loro a sussurrare una confidenza non difficile ad immaginarsi. Egli si accorgeva di osservare tutto questo intorno a sé. E quell'invito brutale di Ponti gli ritornava più insistente dalla varietà di quella scena trepida di voci e di fruscii femminini. Perché aveva adunque rinunciato? Fra la folla delle donne ne distinse alcune, delle quali in gioventù era stato l'amante: passavano come le altre, sedotte e seduttrici, in quella prima notturna promessa della primavera. Si capiva, si vedeva che la gente, immemore delle proprie sciagure, o magari a cagione di queste, voleva esaltarsi gaudiosamente in tutte quelle sensazioni, che, risvegliate dai rapidi contatti della strada, nei brevi incontri ai caffè, ingrosserebbero a cena fra la crapula dei discorsi e la fiamma dei bicchieri, per irrompere più tardi nei convegni colle donne irritate dalla troppo lunga attesa. Egli stesso aveva fatto così mille volte, senza riflettervi. Conosceva quelle stanze della Marietta, nell'angolo di un vicolo, sopra un'osteria, poco lungi dalla piazza. La Marietta, non ancora vecchia, pareva quasi un uomo alla durezza della fisonomia e con quella voce grossa. Raramente capitava da lei qualche bella ragazza. Se avesse seguito Ponti, non vi sarebbero in due rimasti più di mezz'ora, giacché in quel luogo si entrava e si usciva, avendo preso tra le braccia per cinque minuti una donna incognita, come lungo la strada i carrettieri si arrestano talvolta ad una bettola e vi bevono un litro in piedi, presso il banco dell'oste. Anche Camilla doveva spesso aver fatto come le altre, prestandosi all'amore momentaneo, nel baratto assurdo di un bacio contro uno scudo, senza piacere, senza pudore, senza memoria. Si ricordano forse certe cose e certi appuntamenti? Ma se ciò non fosse, forse la gente impazzirebbe; tutto nella vita ha la propria immagine falsa, l'amore e la gloria, il vizio e la virtù, e quando il sangue fermenta improvviso, o l'anima non resiste più alla visione di sé medesima, si ricorre a queste falsificazioni come ad un rimedio, che placa il male senza ingannarlo e ci lascia, nella prostrazione dello sforzo compito, una più pronta facilità al riposo. Il suo sguardo frugò rapidamente la strada, che da quell'angolo del caffè Rondinini saliva parallelamente al Corso, per vedere se Ponti ritornava, pentendosi già in cuore di non averlo seguito. Tutto quell'incubo di morte, così soffocante da venti ore, gli faceva schizzare dalla coscienza un desiderio acuto, quasi stridente, di gustare anche una volta quel piacere che, falsato, rimane pur sempre senza confronto con alcun altro. Perché resistere? Aveva egli paura che gliene fosse domandato conto dopo la morte? Come quei condannati, cui era tutto permesso nell'ultimo giorno, e che si sentivano prendere subitamente da golosità frenetiche, egli avrebbe voluto adesso una donna a qualunque costo; era quasi un orgoglio di sfida lanciato al mistero della tomba, un estremo impeto di profanazione contro tutto quanto stava per abbandonare. Le stesse contraddizioni, delle quali nel giorno aveva tanto sofferto, gli si mutavano in un bisogno anche più spasmodico di afferrare per l'ultima volta la vita nel suo momento più intenso, e spremerla, col superbo sottinteso della morte, in una sola stretta. Pregustava già una gioia acre nel constatare l'inintelligenza della donna davanti all'orrore imminente di tale tragedia, con quella falsità di carezze sempre uguali nell'amore gratuito o venduto. Sul marciapiede di contro, rasente all'ultimo gradino della grande scalinata, in quel momento passò l'Anitra, una donna di trent'anni, cui il portamento dei fianchi troppo bassi aveva meritato questo nomignolo: era sola, vestita al solito con una certa modestia, malgrado il proprio mestiere di etèra plebea. Si alzò di scatto per seguirla, nessuno gli aveva badato. Dovette passare attraverso molti gruppi di donne, ma dai loro sguardi si accorse subito di essere sospettato, perché andava troppo dritto su quella traccia. Sapeva dove ella abitava: un vicolo remoto, lercio, dal nome purissimo "Delle Vergini": ma l'Anitra rasentò la fontana a sinistra. Si era accorta di lui. Allora egli non osò più accelerare il passo, il pentimento lo ripigliava. Ella proseguiva adagio, con quel suo pesante ondulamento delle anche, che si distingueva bene nell'ombra rotta dai fanali. I capelli neri le facevano un grosso mazzo sulla nuca. La gente si rarefaceva ancora, lungi dalla piazza, l'ombra s'infittiva: egli passò sull'altro marciapiede per essere più libero. - Perché non la fermo? - si chiese, senza saper rispondere. Tuttavia quell'orgasmo gli durava, si sentiva battere il cuore, come altre volte recandosi a qualche convegno passionale; aveva i sensi irritati e quella leggerezza, che il desiderio della donna sembra dare a tutto il corpo. L'altra rivolse la testa. Egli la riconobbe: il suo viso tondo dalle guance troppo rosse, col mento quasi da bambina, gli occhietti chiari. Gli parve di distinguere persino quella riga grassa sotto il collo, la cosa che più in lei gli era piaciuta. - Non ha altro lei! Anche Camilla, che cosa aveva di più? Quando si è eccitati, si farebbero delle pazzie per loro, e dopo non ne resta niente. Le donne sono tutte uguali: Caterina getterà qualche urlo, poi non ci penserà più, come le altre. Gli sciocchi siamo noi, a credere che esse ci amino. Chi ama? Io stesso, che mi sono rovinato per questo, amo forse Camilla adesso? Intanto proseguiva sul marciapiede, sempre alla stessa distanza. Un uomo fermò l'Anitra, che girò ancora la testa indietro; egli si arrestò, mentre i due invece seguitavano innanzi chiacchierando a bassa voce. Allora svoltò al primo vicolo allungando il passo per ritornare in piazza. Erano le otto e mezzo. Improvvisamente, tra quella moltitudine festiva, si ricordò di una biroccia incontrata nel pomeriggio, lungo la strada di circonvallazione, dinanzi al nuovo macello. L'aveva guardata con una sensazione di stupore, poi non ci aveva pensato altro. Era una delle solite biroccie, verniciate di turchino, dalle ruote alte, tirata da un grande mulo secco; un vecchio carrettiere senza giacca le veniva di fianco, con un mozzicone di frusta nelle mani e una pipetta quasi senza cannuccia fra i denti. Egli si era dovuto ritrarre sull'orlo del fosso per non lasciarsi schiacciare, seguendola collo sguardo sino alla svolta della strada, dove il canale si allarga in una immensa pozzanghera. La biroccia, colma di stracci e scossa da un triste tremito di paralisi, pareva tratto tratto stridere lamentosamente sotto il cumulo delle miserie, che le gonfiavano i fianchi. Gli stracci, gettati gli uni sugli altri a palate, si confondevano in un colore sudicio, dentro al quale qualche cosa biancheggiava ancora, un rimasuglio di candore fra tutte quelle immondizie lasciate indietro dalla vita, e nullameno raccolte da qualcuno per viverne. Egli aveva veduto tutto alla prima occhiata, l'aggrovigliamento di quei cenci tessuti con ogni sorta di fibre, lacerati, sfrangiati, coperti di macchie e di croste, che ricordavano altre piaghe, esalandone ancora il puzzo grasso e penetrante. Una polvere cinerea ondeggiava sopra di essi ad ogni traballone senza potersene staccare, mentre la massa, scrollandosi con una mollezza di carne in putredine, rabbrividiva ancora sotto un volo di mosche affamate. E sopra i suoi fianchi, lievi brandelli riaccendevano tratto tratto nel sole qualche pallore di lino o luccicore di seta, tosto soffocato dalla bigia pesantezza degli altri stracci, che si spostavano senza cadere, come se tutte le loro morti vi si tenessero avvinghiate. Una fetida nausea di cadaveri veniva da quella bara, coi segni tuttavia visibili della vita passata, già fermentante nell'ultima dissoluzione. Tutto lì dentro era stato nuovo in altri giorni: quante migliaia di gente vi aveva lasciato il segreto della propria esistenza! Quanto vino, quanto sudore, quante lacrime, quanto sangue vi erano caduti! Quanti sogni vi rimanevano ancora, che sparirebbero nella medesima buca! Dalla camicia della vergine al mantello del soldato, dalla fascia del bimbo al grembiule del beccaio, dalla veste che tutto un popolo aveva ammirato, all'abito che l'accattone aveva lasciato solamente morendo, forse nulla di quanto la vita umana aveva adoperato per nascondere la propria nudità, mancava in quella bara. Il pensiero avrebbe potuto frugarvi senza fine, come dentro un cimitero. Egli ne aveva ricevuto confusamente questa impressione nella fugacità di un istante, poi aveva riflettuto che dovevano essere stracci troppo sordidi per cangiarsi in carta dopo il solito imbianchimento, e destinati quindi come concime a qualche grassa coltivazione. Adesso la visione immonda gli ritornava in piazza come un finale ironico, che conchiudesse quella festa, trattando allo stesso modo gli abiti e coloro che li portavano. Infatti la bellezza nella vita non dura più della primavera nell'anno: uno splendore di qualche mattino, una purità sorridente di cielo, qualche dolcezza nei tramonti, poi il sole brucia tutto daccapo, e l'autunno imputridisce quanto il sole ha bruciato, e l'inverno seppellisce quanto l'autunno ha imputridito. Quella folla di immemori era attesa come lui dalla morte a un gomito improvviso della strada: uno per uno avrebbero provato la stessa angoscia subitanea nel crollo di tutto il passato, davanti alla impenetrabile oscurità dell'avvenire. E vi arriverebbero forse peggio di lui, logori, maculati di putredine come i cenci di quella biroccia, esalando già prima di morire il fetore della decomposizione sepolcrale. Forse valeva meglio andarsene così, ancora intatto, nella pienezza delle proprie forze e del proprio dolore. La gente condanna i suicidi per dispetto della paura, che questi non hanno avuto. Un pensiero bizzarro gli solcò la mente: se la gente, volendo, potesse non morire mai, vi sarebbero egualmente dei suicidi? Qualcuno si ammazzerebbe ancora, per odio della vita? Il problema era troppo profondo nella sua stravaganza, perché egli potesse trovarne la soluzione, ma vi pensò nondimeno qualche tempo. Sapeva che le bestie non si suicidavano, pur essendo esposte a tutti gli stessi mali fisici della umanità. Era dunque l'anima che anelava alla morte, era la mente che si ribellava alla inutilità dello spasimo! Infatti la povera gente, quella che vive più materialmente, non pensa mai al suicidio: non la fame uccide, ma l'umiliazione di mostrarsi affamato fra la gente satolla. Chi nacque accattone, mendica per tutta la vita, e trova forse la felicità in quest'ozio; chi invece è costretto da un disastro a questuare, non potrà mai perdonare né a se stesso né agli altri lo strazio di tale subordinazione. La sua angoscia in quel momento stava appunto nel sentirsi come un mendicante fra la folla allegra e spendereccia, che non gli avrebbe dato un soldo. Essere espulso dal mondo, come sono cacciati i poveri importuni dalla porta, quando si commise l'errore di lasciarla loro oltrepassare! - La carità? - pensava. - Ma, se ci scacciamo l'un l'altro da tutti i posti, se dovendo tutti morire, la morte degli altri non ci tocca nemmeno... Dov'è la carità? Anch'essa è un lusso di certi istanti: si dà qualche cosa, perché la momentanea gioia di chi riceve aumenta la nostra giocondità. È come nei pranzi: ci vogliono degli invitati; ma si amano forse i proprii invitati? Bisogna essere in molti ad una festa di ballo; ma la soddisfazione di ognuno è appunto nel primeggiare sugli altri, vedendoli così segretamente iracondi del piacere loro tolto. * * * Sapeva che non vi sarebbe entrato, ma da venti minuti passeggiava sull'altro marciapiede, dinanzi alla porta della propria casa. La gente si era diradata anche nella piazza, solo nei due grandi caffè, più vivamente illuminati, proseguiva la festa della domenica. Poche donne passeggiavano ancora. Egli si era diretto verso casa, per abitudine: Caterina doveva aspettarlo e, non vedendolo comparire, avrebbe certamente pensato che volesse evitare un nuovo discorso sulla zia Matilde. Lungo la strada notò molte finestre illuminate; era quella l'ora più dolce, dalle nove alle nove e mezzo, quando le donne rientravano, e si andava a cena chiacchierando della giornata, con quella contentezza di non aver lavorato, e non pensando ancora alle necessità dell'indomani. Egli si riproduceva nella mente la scena di Caterina coi fanciulli a tavola; questi volevano senza dubbio l'altra metà della zuppa inglese serbata a pranzo per il giorno dopo, mentre ella, indispettita per la nuova assenza di lui, si ostinava nel rifiuto. Improvvisamente, questo piccolo dolore dei bambini, prodotto dalla sua assenza, gli divenne intollerabile. - La mia assenza! - si ripeté sottolineando questa parola, della quale si era inconsapevolmente servito. Caterina era poi andata dalla zia Matilde? Questa domanda lo forzava a riflettere sull'orario, secondo il quale la posta distribuiva le lettere; ma si persuase subito che la sua non sarebbe recapitata prima delle nove, all'indomani. Chi era il postino, che faceva il servizio per il rione della zia Matilde? Forse essa, riconoscendo la calligrafia, avrebbe aperto la lettera prima ancora che quegli avesse potuto uscire di casa: e allora? In un baleno vide tutto il dramma dopo la propria morte, ma così rapidamente, in una luce così intensa, che non poté sostenerla. Camminava senza accorgersene, a testa bassa, con tale fiacchezza, che qualcuno fra i rari passanti avrebbe necessariamente finito col notarlo; arrivava dal campanile di San Lorenzo, il più alto della città, nel mezzo della strada, sino alla barriera. La notte era stellata, il fiume, ridivenuto quasi secco fino dalla mattina, non mormorava più come nella notte antecedente; i primi fanali del borgo illuminavano sinistramente le alte spalliere del ponte in ferro. A forza di andare su e giù, la coscienza tornava ad assopirglisi nel ritmo stesso di quell'impulso, ma nel passare dinanzi alla propria porta alzava sempre gli occhi. Due finestre v'erano illuminate, quella della saletta da pranzo e, all'ultimo piano, l'altra della camera da letto di don Procopio. Se non che la luce filtrando appena di fra le griglie, diventava impossibile sorprendere nell'interno il passaggio di un'ombra. Si ricordò dei progetti con Caterina nel primo periodo del matrimonio per un restauro alla facciata della casa: sarebbe stata una spesa di quasi duemila lire, alla quale avevano rinunciato senza fatica. Caterina invece avrebbe desiderato di accomodare qualche stanza nel podere a Santa Lucia in Vado per potervi villeggiare di qualche guisa nell'estate. Anche quello era stato un sogno impossibile. Tutto dileguava, per sempre! Si dovrebbe vendere ogni cosa dopo, quasi subito, in mezzo a una disperazione piena di rimproveri contro di lui: eppure egli non ne soffriva più in quel momento. Come se il grande distacco si fosse già compito, vedeva tutto a una distanza troppo grande, con quella indifferenza che ci lasciano le cose impossibili alla nostra volontà. In lui non sopravviveva che l'abitudine, quel fascio di rapporti indefinibili, onde l'uomo è legato alla propria casa, quella incapacità di pensare sé medesimo in modo diverso dal come si è vissuti, tutte quelle impronte incancellabili, colle quali la vita compose la nostra fisonomia spirituale. La casa, con quanto vi stava dentro, era come una parte di lui stesso. Il tempo passava. Quella passeggiata lenta, uguale, aveva finito coll'attrarre l'attenzione delle due guardie daziarie sedute al fresco fuori della gabella; si erano alzate e lo spiavano. Allora egli diè volta bruscamente, ma quando fu al campanile non seppe andare oltre. Voleva vedere quella finestra ancora una volta. L'orologio della piazza sonò le dieci e un quarto, il lume passava sempre attraverso le griglie: allora si ricordò che Caterina soleva spesso la sera ripassare la lezione dell'indomani a Ada. - Finché c'è il lume non me ne vado, - borbottò ostinatamente. Ma le guardie si erano messe a passeggiare, e venivano verso di lui: dovette tornare indietro. Per un momento pensò di salire con un pretesto, salutare tutti e scappare; titubava, si sentiva affranto. Ritornò ancora, ma siccome le guardie stavano ferme in mezzo alla strada, a quaranta passi dalla gabella, fumando, si persuase di essere sorvegliato. Quasi ciò potesse distogliere i sospetti, traversò la strada per venire sull'altro marciapiede, volgendo daccapo la schiena alla propria casa. Poi un passo sollecito gli risuonò dietro. - Oh tu, Romani! - Tu, Landi? - Esci di casa? - Sì. - Io non ho potuto cenare a casa mia: un'altra scena con quella linguaccia di mia moglie! Vado al Falcone, accompagnami. * * * Aveva già bevuto due ponci, seduto all'ultimo tavolino di sinistra nella prima sala, col gomito appoggiato sulla cassa di vetro, nella quale si conservavano le paste. Gaudenzi, l'impiegato del telegrafo, non si era ancora veduto, l'avv. Guglielmi doveva essere al club, quel vecchio maestro chiacchierino giocava nell'altra sala, e s'udiva spesso la sua voce in falsetto salire fra scoppi di risa. Una malinconia fredda gli era penetrata sino dentro le carni, come certe umidità notturne, contro le quali non sembra giovare alcuna bontà di panni. Nel caffè, pieno degl'insoliti avventori domenicali, il chiasso cresceva più villano; erano gruppi di artieri in gazzarra dal pomeriggio, vestiti con pretensiosità plebea, dalle faccie inintelligenti e vanitose. Quasi tutti portavano un piccolo cappello a cencio sull'orecchio, e tentavano sui divani o sugli sgabelli la posa più provocante, giacché pareva loro una specie di conquista quel bere ai tavoli, dove per solito sedevano i signori. Nei loro discorsi, quasi tutti di politica, ritornava sempre la stessa frase con voce sempre più alta, o con accento più marcato, mentre in fondo ai loro sguardi vaghi nel primo imbambolimento dell'ebbrezza, s'accendevano piccole fiamme. E i più irrequieti si guardavano intorno, cercando qualcuno dall'aspetto signorile per la compiacenza di potersi momentaneamente, davanti a lui, mostrare in una ostilità mimica. Egli vedeva tutto questo senza che alcuno gli badasse, perché non era mai stato veramente un signore. Colla testa abbandonata sull'alta spalliera rossa del divano, una mano in tasca, osservava i cerchi di fumo turchiniccio allontanarsi, dilatandosi lievemente dalla punta dello zigaro, nell'aria già greve di tutti quegli aliti. Al momento di entrare sotto il loggiato aveva rivolto la testa verso il grande orologio della piazza, illuminato: segnava le dieci e mezzo. Le ore, così lente nel giorno, si erano tuttavia involate con una rapidità raccapricciante. Si tastò la rivoltella nella tasca sinistra della giacca, pensando un'altra volta, con un senso d'impazienza, come non avesse incontrato né lo strozzino, né il signor Bonoli, né il pretore, che dovevano conoscere il suo dramma. Credeva che la loro vista sarebbe bastata a raddoppiargli l'energia, almeno per quella necessità d'ingannarli sino all'ultimo col fingersi indifferente. Invece, per tutta quella lunga giornata, nulla era venuto ad aiutarlo: aveva recitato troppo bene dissimulando. La sua fine doveva compiersi come per qualunque altra malattia, senza né ricevere né dare ad altri alcuna insolita emozione. Perché? A che cosa serve la morte? Perché era nato? Se non vi erano perché, tale infinita inutilità diventava il più profondo dei misteri. Nel bisogno di scostarsi dall'ultimo momento, il suo pensiero fluttuava daccapo all'urto delle sensazioni, che gli si rinnovavano nella memoria. Il babbo e la mamma, pieni per lui di tenerezza, lo avevano allevato in un bel sogno di avvenire, addormentandosi per sempre nella tristezza sconsolata di una disillusione finale; egli aveva amato i proprii bambini, rifacendo sopra di essi il medesimo sogno. Perché? Questa parola lo sbalzava da un altro lato; Camilla era passata una sera dinanzi a lui, si erano parlati, egli aveva provato un rimescolamento profondo, non aveva capito più bene, si era rovinato per lei senza accorgersene, e senza che ella se ne accorgesse. Perché? Lo strozzino, d'accordo col signor Bonoli, aveva portato la sua cambiale falsa al pretore: volevano mandarlo in galera? Volevano costringerlo al suicidio? Perché? Che cosa importava loro? Era così. Tutte le vite si rompono come bicchieri l'uno contro l'altro, senza che alcuno abbia mai potuto leggervi la marca di fabbrica, o indovinare chi verrà a raccoglierne i cocci. Solamente allora si accorgeva di aver sempre agito senza un perché; tutta la sua esistenza non aveva un solo atto necessario, che la spiegasse, all'infuori dell'avere mangiato e dormito, due bisogni istintivi per mantenerla. Il resto rimaneva inesplicabile. Camilla e Caterina erano entrate nella sua vita quasi allo stesso modo, egli non aveva riflettuto in nessuno dei due casi; era diventato padre così, perché le donne rimangono gravide, ecco tutto, e aveva allevato i figli per un altro istinto. Gli affari, i divertimenti dipendevano sempre dalle circostanze, anche quando si voleva combinarli con ogni studio possibile: perché dunque si pensava e si soffriva tanto? La sua mente ritornava alle meditazioni della mattina su quell'argine del fiume, nel silenzio della campagna, con un nuovo terrore degli stessi problemi. Ma invece di domandarsi se Dio era, e come ci giudicherebbe nel momento dopo la morte, si sentiva sopraffare dal mistero primordiale della vita. La nozione, per lui oscura ed inevitabile, di un creatore, non faceva che rendere ancora più inintelligibile il quesito: perché si nasce? Anche se Dio esistesse, e dovesse punirci o premiarci dopo morti, la ragione di averci voluto in questo mondo non si vedeva. Se egli era Dio, che cosa poteva importargli di noi? La nostra vita non spiegava sé medesima, mentre l'antagonismo fra la sua legge e la nostra volontà, per lui che ne doveva sapere anticipatamente il risultato, diventava una ridicolaggine. Che bisogno c'era di nascere, per dover pensar sempre senza capire nulla di nulla, soffrirne di tutte le sorta, e morire non avendo compito niente? Essendo cattivi, aggraviamo l'uno contro l'altro le nostre disgrazie, essendo buoni, ci aiutiamo scambievolmente contro il male che non abbiamo fatto, ma che ci tocca patire ad ogni modo. E davanti a questa tenebrosa fatalità del male, che si varia nella vita per tutta la gamma del dolore, dalla più lieve fitta corporea alla più larga lacerazione spirituale, egli tornava sempre a chiedersi, con l'insistenza spaventata di un bambino: perché si nasce? Un terrore fantastico gli faceva pensare a qualche potere mostruoso, che dirigesse il mondo e vi rinnovasse continuamente tutte le crudeli necessità: così i viventi dovevano divorarsi a vicenda per mangiare, e straziarsi l'un l'altro per godere. Infatti, non vi era gioia nella società, che non fosse un dolore per qualcuno; non nasceva nel mondo un individuo, senza essere composto coi resti di altri morti, non si poteva respirare, senza uccidere milioni di microbi, senza inghiottirne altri milioni, che dovevano ucciderci. La legge suprema era dunque la morte: nessuno vi sfuggiva, nessuno aveva torto o ragione davanti ad essa. L'immaginazione esaltata da quella crisi troppo lunga, gli si smarriva in una continua evanescenza di quadri orribili, che mettevano in quel suo sonnambulismo una specie di incubo. La sua faccia era diventata bianca, cogli occhi fissi, mentre il chiasso delle voci e il tinnìo dei bicchieri nelle sottocoppe e nei bacili cresceva sempre da tutti i tavoli. - Ho qualche cosa sullo stomaco, portami un bicchierino di cognac, - disse. Il cameriere si affrettò sorridendo; il padrone, bell'uomo, già cameriere nello stesso caffè pochi anni prima, si accostò fumando in una elegante pipa di schiuma, a testa di cavallo. - Che cosa ha mangiato, signor Romani? - gli chiese cortesemente. - Non lo so neppur io. - Forse dipende anche da tutta questa gente! - l'altro soggiunse a bassa voce, girando intorno un'occhiata di disprezzo. Si era seduto famigliarmente sopra uno sgabello accanto a lui. - Questa sera la sua partita è andata a monte. Ha letto la nuova appendice del Secolo ? - e si allungò per prendere dal banco un fascio di giornali: - a me pare bella assai. Romani rimaneva distratto. - Ecco Montalti! - esclamò il padrone, vedendo entrare quello scrivano storpio, che venne diritto al loro tavolo; poi capitò Cavina, il muratore wagneriano; Rotoli, il vecchio maestro chiacchierino, che aveva finito la partita nell'altra sala, si fermò anch'esso dinanzi a loro. Era quasi la stessa conversazione di tutte le altre sere. Il padrone ricominciò il discorso sul nuovo romanzo del Secolo - Idillio tragico -di Bourget, spiegando come gli paresse bello, perché Montecarlo vi era dipinto colla massima esattezza. Egli vi era stato, da giovane, nelle proprie peregrinazioni di cameriere. Ma lo scrivano, socialista malcontento, protestò: quello era un romanzo aristocratico, buono a nulla, giacché gli scrittori di vero ingegno non potevano occuparsi che delle miserie popolari. - Ho letto anch'io qualche appendice di questo nuovo romanzo del Bourget, - e pronunziò il nome come era scritto. Allora Cavina lo corresse, corsero frizzi. - Tu sei un wagneriano. - E me ne vanto. - Wagner era socialista. - Va! se daranno il Lohengrin in carnevale, vedrai quanto popolo vi andrà, - ribatté l'altro, che intanto aveva preso il Secolo per leggere le notizie dei teatri. Fortunatamente nessuno di loro si sentiva in vena quella sera, poi vi era troppa gente nel caffè, e Montalti davanti alla brutalità di quelle sbornie, che stavano già per scoppiare, non osava i soliti sproloquii. La voce fessa e la sillabazione troppo staccata e monotona, colla quale declamava, gli avrebbero attirato dal pubblico qualche villana interruzione. Si misero a parlare di donne: anche Cavina quella sera era stato in casa della Marietta. - La ragazza era bella? - chiese Montalti con un luccicore di gatto negli occhi. - C'è ancora, parte col diretto di un'ora dopo mezzanotte. Romani si voltò: - E dove va quel treno? - Bella! a Bologna. Rimase perplesso: - Ci sono altri treni? - Prima di giorno? Quello che da Bologna ritorna per Ancona alle tre, e l'altro che arriva da Ancona verso le quattro e mezzo, perché rimane ancora impedita la linea di Porretta. - Ah! - Deve partire, signor Romani? - gli si volse il padrone. - Sì, - e la voce gli si era fatta quasi dolce. - Dove vai? - domandò Cavina. - Non lo so. - Un mistero dunque? - Grande. Tutti sorrisero. Ma il baccano domenicale li teneva in disagio. Lo scrivano, malgrado le declamazioni socialiste, sapeva di essere poco gradito; Cavina era sospettato di aristocrazia per i modi abbastanza garbati e quella istintiva predilezione della grande arte, che lo traeva imprudentemente a ridere delle commedie e delle musiche gustate dal popolino; il vecchio maestro, benché simpatico per la dolce ingenuità del carattere e l'onestà della lunga vita, s'irritava troppo, nella lieta viridezza di tutte le proprie forze, contro ogni critica alla parte moderata. Egli era rimasto dentro la formula cavourriana, condannando ad alta voce tutti gli eccessi politici e le demenze atee dei nuovi rivoluzionari. - Eh, maestro! - esclamò Cavina; - ecco qui altri due suicidii a Torino; non c'è più religione. - Voi lo dite per ischerzo, giovinastro. - Come si sono ammazzati? - domandò Romani. - Uno si è avvelenato, l'altro si è gettato sotto il treno. E Cavina lesse i due incisi di cronaca, secchi, terribili. - I giornali non dovrebbero nemmeno stampare certi fatti, - disse il maestro: - le teste leggere si esaltano e, una volta esaltate, li commettono più facilmente. - Allora io sono una testa pesante. Possono raccontarne dei suicidii, io non mi suiciderò mai, - replicò Cavina. - Chi può dirlo? - ribatté Romani. - Io! Stai pur sicuro. Ammazzarsi per amore o per debiti, giacché la gente si ammazza quasi sempre per queste due cause? Per amore? Se una donna non ti vuole, ve ne sono sempre troppe disposte a prenderti; e quanto ai debiti, aspetterò che si ammazzino prima i creditori. Se io non ho quattrini per pagarli, mi pare che nell'imbarazzo ci siano essi. Si rise. Romani non rispose. - La gente si ammazza, perché la società è in isquilibrio, - sentenziò Montalti. - Si è sempre ammazzata in tutti i tempi, dev'essere una malattia. - Colpa di non credere in Dio; la nostra vita ha il suo scopo altrove. - Quale? - domandò Romani al maestro. - Quale? - ripeterono ad una voce Cavina e Montalti. - Dio..., - cominciò il maestro. - Non deve aver parlato molto chiaro, - interruppe sorridendo il padrone, - perché si discute ancora su quello che ha detto. Fatto sta che, quando la gente sta male, se ne va; non c'è altro di evidente. Nessuno può dire che non si ammazzerà... le circostanze sono tante! Tutti si arrestarono perché, pochi mesi prima, l'altro suo socio nel caffè si era appunto suicidato con un colpo di rivoltella alla tempia destra. Però Montalti, che voleva sempre dire l'ultima parola scientifica, propose il problema: - Quale categoria di persone dà minor contingente al suicidio? - I preti, perché stanno meglio di tutti, - si affrettò a rispondere il padrone. - I milionari, - ribatté Montalti, con quell'acre accento d'invidia, proprio a quasi tutti i socialisti quando parlano di signori. - T'inganni; c'era appunto venerdì sul Secolo un articolo, non ricordo più di quale scienziato, che spiegava come le probabilità del suicidio aumentino in ragione della ricchezza. - Non può esser vero, - si ostinò Montalti. - Lei, maestro? - tagliò corto il padrone. - Coloro che non sentono più la religione. - Lo sapevo... Romani doveva dire ancora la sua, ma dal tavolo prossimo due o tre operai si erano voltati, udendo il quesito, ed ascoltavano le risposte. Uno proruppe: - Lo dico io: i beccamorti! essi sanno meglio degli altri che la morte è brutta: la morte è come una donna, ma finché non ci pare bella, non commettiamo la sciocchezza di sposarla. - Bene! - fu gridato in coro. - Un bicchierino a Matteo! - Questo voglio offrirlo io, - disse il padrone alzandosi: - mi sei piaciuto nella risposta. * * * Guardava il grande orologio nero fra le due scansie gialle, al disopra della porta. Gli altri se n'erano andati in gruppo, e a poco a poco quasi tutti i tavolini erano rimasti deserti, mentre l'aria della notte, entrando leggera dalla bussola spalancata sul portico, spazzava i vapori dei ponci e dei sigari. Dal fondo della cucina giungeva, tratto tratto, un tintinno dei bacili e dei bicchieri, che il facchino lavava forse per la centesima volta nella giornata. Collo sguardo fisso sul quadrante dell'orologio, egli misurava il muoversi lento della grande freccia, che segnava i minuti; ne mancavano undici a mezzanotte. A quell'ora in punto uscirebbe dal caffè. Il sangue gli batteva a grosse ondate sul cervello, facendogli vacillare la vista. Adesso era quella paura materiale, che i nervi non possono più sopportare nella estrema imminenza della catastrofe, quando il pericolo cessa oramai di esser tale per il compiersi stesso del fatto. Non c'era più tempo di riflettere, di soffrire: fra pochi minuti sarebbe entrato nell'orbita della esecuzione. Quindi tutto quanto aveva patito nel giorno gli si condensava in uno spasimo solo, attanagliandogli ogni fibra del corpo e dell'anima; sentiva, dentro, un incalzare di sensazioni, una ressa di idee, uno sbaraglio di memorie, come quando un falco piomba sopra una nidiata di pulcini e ne ghermisce uno a volo, risalendo al cielo con un solo colpo d'ala, e tutti gli altri si sbandano esterrefatti fra le erbe alte del campo. Il suo sguardo era diventato così acuto, che distingueva veramente quel minimo spostarsi a gradi delle frecce. Tutta la sua vita stava ancora in quel piccolo segmento, interrotto dalle cifre nere e madreperlate del X e del XI, due spazi che si sarebbero riempiti con due dita. Non aveva altro. Avrebbero potuto offrirgli chi sa che cosa, e non sarebbe bastato ad allungargli di un altro dito la vita. Il padrone era tornato dietro il banco, e si era messo a contare dei soldi da una scodella di legno. Romani pensava: - Non ho più che otto minuti. La freccia gira senza sapere il perché, ma se sbagliasse, il tempo passerebbe egualmente nella stessa misura: non si può fermarlo. Ecco qui, questi ultimi otto minuti sono inutili, vuoti, come tutto il resto della mia esistenza! Che cosa posso fare? Rimango qui, non mi muovo, eppure il tempo mi trascina. Debbo finire prima di essere logorato: quando l'orologio si ferma, è forse logoro? Finirò così; una ruota che s'incaglia, e la freccia si ferma. Anche la vita è un circolo come quello dell'orologio: tutte le ore sono identiche, non significano nulla; il tempo non è soggetto all'orologio, più che la vita non dipende da noi. Potrei essere il più potente uomo del mondo, e tutta la mia volontà non saprebbe da questo posto arrestare quella freccia, che va sempre... È già passato un altro minuto. Debbo essere pronto. Si portò ambo le mani al volto, strofinandoselo violentemente come per destarsi. Nel caffè entrò un altro gruppo d'operai, più avvinazzati di quelli che n'erano usciti, ma per fortuna si fermarono in fondo agli ultimi due tavolini presso la bussola. Vide il padrone uscire dal banco e passargli dinanzi per servire prontamente i nuovi avventori, perché i camerieri erano in quel momento nel retrobottega. - Debbo decidermi! Non capiva che questo, la necessità ultima, la stretta suprema, senza nome, nella quale già soffocava. Tutto il resto non esisteva più. La febbre gli faceva battere i polsi, tremava in quell'incertezza dello smarrimento finale, che toglie tutte le direzioni, pur sentendosi nel profondo certi impeti, simili ai guizzi della candela che si spegne. Aveva appoggiato la testa sopra ambo le mani, per non guardare più l'orologio; gli pareva di ascoltarlo, benché non l'udisse. - Appena mi alzo di qui, sarò morto! Caterina, i miei bambini saranno già altre persone; adesso sono ancora mia moglie e i miei bambini... per cinque minuti. Poi, più nulla. Non c'è altro. Ho fatto il possibile inutilmente; quella prima cena all'Aquila d'oro mi ha ammazzato, mi ha ammazzato quella donna, che non ho amato; non la conosco nemmeno, adesso, ella non mi conosce più. Domani ci sarà ancora il sole, senza di me. Non ho più che due o tre minuti... È impossibile, sento che è impossibile, non avrò mai il coraggio di uccidermi! Non lo aveva: la testa gli pesava sempre più sulle mani, come una cosa morta. Si tastò ancora la rivoltella nella tasca. - Con questa, no. * * * Il medesimo gruppo, dal quale Matteo si era voltato per dare anch'egli la propria soluzione al problema proposto da Montalti, rientrò vociando nel caffè; erano stati a bere nella liquoreria sotto il campanile della piazza, e ritornavano per bere. Parve che vedendolo ancora a quel posto, si decidessero unanimemente, senza consultarsi, con una di quelle intese da ubbriachi, a gettarsi sul suo tavolo. Egli spaventato si alzò. In un lampo aveva veduto sulla faccia di Matteo, invanito di quella prima risposta, l'intenzione di riparlarne; si voltò verso il banco, ma era già tardi. Il gruppo lo circondava; avevano gli occhi imbambolati, e sui volti madidi quella espressione vaga di spavalderia ostile. Il padrone ripassò dietro il banco, mentre uno dei più briachi cadeva quasi di peso sopra uno sgabello borbottando: - Cognac! - Beva un bicchierino con noi, signor Romani; ho risposto bene poco fa, non è vero? - Mi sei piaciuto, Matteo, - tornò a dirgli il padrone con accento di sottile canzonatura: - bisogna bere per trovare simili risposte. - Adesso vogliamo bere tutti insieme; anche lei, signor Romani. In quel momento Romani vide le freccie dell'orologio sovrapporsi segnando mezzanotte; così in piedi, n'ebbe come un colpo di martello sul cuore, ma avvertiva ancora benissimo quanto gli accadeva intorno. Senza rispondere, fece atto di andarsene. - Questo poi no, - insisté un compagno di Matteo, mentre il padrone diceva: - Se ne va, signor Romani? - Addio, Enrico! - rispose questi tendendogli la mano. L'accento e la forma del saluto erano così insoliti, che l'altro ne rimase sorpreso, però fu pronto a stringergliela. Romani si mosse: allora Matteo volle sbarrargli la via, ma l'altro lo respinse con un gesto. Si alzò un mormorio di disapprovazione. - Va là, - uno gli gridò dietro, - che anche tu sei un bel signore, per fare così l'aristocratico! Il padrone, invece, gli teneva dietro con occhio pensoso, avendo sentito la sua mano tutta bagnata di un sudore diaccio. * * * Romani traversò il portico con passo tentennante, e si fermò nel largo, davanti alla fontana. La notte era sempre bruna, ma piena di stelle, i fanali avevano un chiarore pallido, velato, come il murmure della fontana chiusa entro quella funerea cancellata a palle di ottone. - No! - rispose ad un pensiero, che lo avrebbe condotto a porta Appia, passando ancora una volta sotto le finestre di casa. Pel loggiato, e per quel largo, non si vedeva alcuno; abbassò la testa, e si avviò verso il corso Garibaldi, che conduceva difilato alla vecchia stazione ferroviaria. Una forza oscura lo spingeva in linea retta, come una cosa, mentre la sua mente acquistava, grado a grado, una certa lucidità: come sempre, la fascinazione della meta lo aveva preso, appena entrato nell'orbita della esecuzione, eccitandogli quel coraggio fisico proprio degli animali. Nella luce opaca della notte le case perdevano i piccoli particolari delle proprie fisonomie, le sonorità anche più lievi sembravano attardarsi nell'aria. Egli sentiva solo di andare, appoggiandosi come sulla sensazione medesima del proprio passo sul marciapiede, così che, nel passare dinanzi ad ogni porta, l'interruzione del muro gli faceva un'impressione meno rapida e tuttavia lontanamente simile a quella degli alberi fuggenti agli sportelli dei vagoni, quando il treno corre veloce. Prima di arrivare alla grande barriera fiancheggiata da due casotti giallognoli, rigati e rabescati come due grandi gabbie da canarino, verdeggiava sul piazzale di una chiesa un piccolo giardino dominato da un alto abete storpio alla cima. Il getto esile della fontana, sprizzante da un sasso e ricadente sopra una minima vasca, sembrava un singulto di bambino nella notte: un ranocchio mise uno strido gutturale e tacque subito. Nessuna finestra era illuminata. Il cancello della barriera apparve alto, massiccio, coi lampioni sulle due grosse colonne centrali; al di fuori nereggiavano i tigli dei due viali fra le case del sobborgo. Egli vide da lontano la guardia passeggiare, fumando uno zigaro, dinanzi alla gabella; nella notte nessun rumore, nessun incontro. La guardia gli aperse colla chiave il piccolo cancello a sinistra, pel quale passavano i pedoni, e rinchiuse. Egli ne risentì la scossa, l'ultima che gli dava la città; piegò a sinistra per la via di circonvallazione, lungo il canale fiancheggiato da due alte file di pioppi bruni, ombrelliferi. L'aria era più fresca, il silenzio diverso: cori di ranocchi si rispondevano a distanza nella notte, passavano dei brividi nell'aria, qualche fronda dormendo pareva percossa da un'ala fuggente, un odore di terra e di verde saliva da per tutto. Egli allentò il passo. Sapeva che avrebbe preso per la scorciatoia del Borghetto, prima d'arrivare al nuovo macello, per salire l'argine sinistro del fiume, presso al grande ponte della ferrovia. La distanza dalla barriera al Borghetto era breve; sulla sinistra sorgevano alcune case nuove di fabbri, di falegnami, di piccoli bottegai, il commercio dei quali viveva appunto non pagando dazio. Egli andava sempre innanzi spinto da quella forza oscura, che in noi sembra sostituire la volontà, quando questa non è più sufficiente a dirigere la vita. Il sonno della campagna era però meno profondo che quello della città: le piante sognavano, e la loro respirazione e i loro fremiti turbavano l'aria; miriadi d'insetti, amanti o lavoratori notturni, vi si muovevano, la terra medesima non aveva quella insensibilità dei selciati e dei marciapiedi. I suoi occhi perdevano la fissità atonica, la frescura tornava a vivificargli la pelle. Improvvisamente gli apparve davanti la vasta pozza, nella quale si allargava il canale, immota come un grande antico specchio appannato; le due righe dei pioppi nascondevano le mura della città. Il Borghetto, formato da un solo vicolo, aveva un unico fanale in fondo: vi passò. La strada, pessimamente selciata, sfiancava, avvallando, per un sentiero fra un'alta siepe e un ruscello, poco più largo di un fosso. Odori immondi e penetranti crescevano appunto dove finivano le case. Dovette badare al come poneva i piedi per non cadere; l'argine s'alzava di contro. La sua linea, biancheggiante pel sentiero che le orme vi avevano impresso e che l'erba orlava scuramente, spiccava nello sfondo dell'aria, simile ad una larga striscia d'argento. Quando vi fu salito, abbassò gli occhi sul fiume vacuo, del quale i grandi archi del ponte in pietra e laggiù la spalliera dell'altro in ferro nascondevano le estremità, quindi si volse contro le mura. Solo la chiesa di sant'Ippolito col suo campanile, e l'altro di san Lorenzo e quello della piazza si distinguevano bene: il resto era una massa cupa, incerta, nell'ombra. Egli n'era già fuori per sempre. E allora gli parve, stando fermo, che la città si allontanasse, oscillando lentamente dinanzi a lui. * * * La notte era bruna. Nell'aria vagavano sentori di foglie e quell'indefinibile aroma, che la terra fecondata sembra alitare nel maggio: l'erba era umida, le stelle brillavano sul silenzio notturno pieno di sussurri. Dentro al fiume larghe pozzanghere s'illuminavano tratto tratto di tenui chiarori, mentre laggiù, sul ponte di ferro, i lampioni parevano contigui, e più lontano l'ombra oscillava. Oltre gli argini del fiume non si coglieva che un avvallamento della tenebra in una invisibile profondità, dalla quale si sentivano salire le preoccupazioni terrifiche della notte. Le linee del paesaggio, circoscritto dagli argini e dai ponti, si confondevano oscuramente, pur serbando lo stesso aspetto regolare intorno a quella cavità del fiume, rimasto senz'acqua e senza voce. Non si vedevano case: solo il ponte della ferrovia aveva un biancicore roseo di muro, sulla cima del quale fantasticamente alto, guardava nella notte il grande occhio rosso del disco. Egli vi si incantò. La colonna di ferro sotto il disco si distingueva appena, giacché il piano della ferrovia, sfuggendo dai parapetti del ponte, vaniva esso pure dinanzi a quella enorme pupilla rossa senza una oscillazione. Così ebbe daccapo paura: i fanali lontani dell'altro ponte in ferro sparivano nella loro chiarezza come dentro un bagliore, mentre quel rotondo occhio rosso non illuminava, e vedeva e doveva essere visto ad un'immensa distanza, come una scolta ciclopica sulla ferrovia deserta nella notte. Era rimasto in piedi, inchiodato sul sentiero biancastro. Dal ruscello, che per una larga chiavica passando sotto l'argine sboccava nel fiume, la nota tremula di un rospo s'interruppe timidamente; gruppi lontani di ranocchi gracidavano con violenza, coprendo un vocìo sottile di grilli, che si confondeva d'intorno. Dopo aver guardato da ogni canto si voltò ancora verso la città; dietro la sua lunga massa, bruna come una scogliera di notte, pallidi chiarori sembravano uscire da invisibili cavità; ma non pensò più che egli era vissuto là dentro per trentasei anni. Solamente guardava. * * * Sul ponte della ferrovia il casello del guardiano era illuminato; egli strisciò guardingamente lungo il parapetto pel sentiero lasciato dall'alta ghiaia, sulla quale poggiavano le rotaie, affrettando il passo per non lasciarsi sorprendere, giacché si ricordava come fosse severamente proibito di transitare per le linee della ferrovia. Non sapeva se il guardiano avrebbe fatto la ronda d'ispezione prima dell'arrivo del treno, ma quel divieto bastava in tale momento a fargli paura. La strada ferrata si allungava dinanzi a lui dritta, piana, nera, con quei due regoli sottili, in una uniformità e in un silenzio inesprimibile: nessuna traccia, nessun suono, nessun segno. Aveva voltato la schiena al disco, e scorgeva dinanzi a sé per cento metri un filo luminoso sulla costola interna delle rotaie; null'altro. Quel piano troppo stretto gli limitava la vista, mentre una impressione gelida gli veniva da quelle due rotaie inamovibili, che non si sarebbero toccate mai. Di qua e di là della strada i campi bassi s'affondavano in un'ombra più densa, dentro la quale si distinguevano appena i ciuffi dei primi grandi alberi. Ma i suoi occhi guardavano sempre sulle rotaie quel tenue filo luminoso, che sembrava avanzare con lui. Finalmente era solo. A quell'ora, in quel luogo, per quella strada non passava alcuno; sentì di non essersi mai trovato in una solitudine simile. Vedeva la ghiaia tersa, quasi vi fosse stata posta da poco tempo, e le rotaie luccicargli dinanzi, brunite. Quindi si ricordò di esservi trascorso in vagone molte volte, di notte e di giorno, senza prestarvi attenzione: chi guarda alla ferrovia? Gli occhi sfuggono sul paesaggio che scompare. Adesso invece la solitudine di quella strada, così diversa da tutte le altre, l'opprimeva. Si fermò al quinto palo del telegrafo, volgendosi indietro, verso la stazione. Incontrò il grande occhio rosso del disco fiso sopra di lui, e laggiù un riverbero largo d'incendio prossimo a spegnersi gl'indicò il luogo della stazione. Pareva molto più lontano che non fosse. D'un tratto, nel silenzio della notte, udì il grosso orologio di sant'Ippolito battere le ore dal campanile; le contò rattenendo il respiro. - Due quarti dopo mezzanotte, - esclamò voltandosi istintivamente verso Forlì, donde doveva giungere il treno. * * * Dall'altro lato della strada un'ombra passò con una lanterna nella mano; istintivamente egli girò dietro il palo del telegrafo, abbracciandovisi per non scivolare dall'alta ripa, e tenne il fiato. La lanterna nell'allontanarsi lentamente allungava un riverbero oscillante sulla vicina rotaia, si udiva la ghiaia stridere sotto un passo pesante. Era la ronda del guardiano; dal fondo della notte doveva presto spuntare la prima luce del treno. Il guardiano vigilava, secondo il solito, quel tratto di linea di là del ponte, perché non vi accadessero disgrazie; a un certo punto la lanterna di un altro guardiano avrebbe risposto alla sua, e il disco muterebbe il proprio rosso ardente in un vivido color verde. Romani sapeva tutto questo, giacché in una bella notte d'estate, l'anno prima, se lo era fatto spiegare dal guardiano sul ponte, ove aveva fatto sosta con alcuni amici. Quella notte gli risorse nella mente coi più minuti particolari; si ricordò dell'immenso soprabito biancastro, una meraviglia fra gli eleganti del paese, che allora portava Mario Angelini. Anche questi era morto. Ma una paura lo tenne nascosto, così abbracciato al palo, togliendogli ogni facoltà di ragionare; aveva pensato che il guardiano nella propria ronda potesse passare dal suo lato, e allora scoprendolo gli avrebbe necessariamente intimato di andarsene. Che cosa rispondere in questo caso? Avrebbe l'altro indovinato il vero motivo? Il palo ogni tanto vibrava, percosso da tremiti improvvisi. Era un dispaccio che passava irresistibile, invisibile sul filo, o una oscillazione, che questo, mosso dall'aria della notte, imprimeva al palo? La sua attenzione rimase per qualche tempo divisa fra il brontolio interno del palo e il luccicore saltellante della lanterna già molto lontana. - Ritornerà dal mio lato? Lo credette istantaneamente, quindi svegliandosi come da un sogno, che quel ritorno avesse già rotto, si disse: - Me ne vado. Nuovamente tutto dipendeva da questo caso. Un'angoscia di speranza lo soffocò, accorgendosi della vivezza dei raggi che la lanterna retrocedeva; sarebbe bastato che un suo bagliore traversasse la strada e gli battesse sul viso ad impedire la disgrazia, per la quale appunto si ordinavano le ronde. La lanterna si avvicinava sempre. Allora tornò a tremare di essere scoperto, ma, per una reazione quasi di collera contro sé medesimo, si mise di sbieco, perché lo spessore del palo lo nascondesse meglio. Voltandosi, laggiù, vide una luce. * * * Era il treno, ma non era ancora che una fiammella misteriosa nella notte. Pareva immobile, tutto rimaneva immoto intorno, il guardiano era scomparso dentro il casello: nel silenzio tranquillo dell'aria non un soffio, il fiume taceva. Un brivido del palo gli passò per tutto il corpo facendolo tremare a verga a verga, mentre, laggiù, quella fiammella rimaneva sempre così piccola e ferma. Un impeto freddo gli raggomitolò l'anima in uno di quei terrori sùbiti, senza nome, dei sogni. E strinse violentemente il palo guardando. La fiamma appariva rossastra come in un'aureola, entro la quale pareva di scorgere le larghe maglie tremule di una rete nera. La sua immaginazione si rappresentò subito la marcia rapida, folgorante, del treno apparentemente fermo per la sua stessa velocità, con quei due immensi occhi di fuoco, che gli rischiaravano la strada. Veniva da lungi, andava lungi, nero, veloce, misterioso, fatale. Nulla poteva arrestarlo; il suo respiro era mostruoso; ansava, soffiava fumo senza perdere la lena, senza spossarsi nel palpito enorme, scivolando sulle rotaie che tremavano, sfondando la notte inconsapevole. Non aveva meta, si arrestava, ripartiva; la gente spariva nei suoi vagoni neri, tappezzati all'interno come stanze, vi si obliava chiacchierando, in una fede sicura al mostro immane, che non aveva mai saputo nulla e non saprebbe mai nulla di coloro, che viaggiavano nel suo ventre. Di giorno e di notte, in qualunque stagione, sotto il sole, sotto la pioggia, sulla neve, andava sempre; il suo tremito diventava più profondo traversando i ponti, il suo respiro si faceva asmatico sotto i tunnels, dai quali prorompeva con un fischio trionfale d'ironia avventandosi giù per le valli, e non di meno ubbidendo docile alla mano, che gl'imponeva di rallentarsi dinanzi alle prime case di un villaggio. Era la forza stessa del sole diventato carbone, che si sprigionava daccapo in un altro fuoco; era la giovinezza eterna del moto, che crea tutte le giovinezze. Si ricordò la frase invidiosa di don Procopio: come è sempre giovane, è sempre come la prima volta che lo si guarda! In un attimo, la sua fantasia aveva riveduto tutti i quadri e tutti i sogni della vita. Quel treno misterioso nella notte trasportava indifferentemente gli uomini e le merci, i dolori e le gioie, era esso medesimo tutta la vita nella sua corsa perpetua che nulla può fermare, nella sua insensibilità, nella sua fiamma, nel suo rombo, nel suo orgoglio vincitore di ogni ostacolo. Bastava salirvi per sfuggire subito a tutte le proprie difficoltà, e non essere più che uno sconosciuto fra sconosciuti, in viaggio verso una meta non confessata, a ricominciare sopra una terra nuova la vita quasi consunta in un'altra. Tutto diventava piccolo dinanzi al prodigio di un treno: impotenza ed impossibilità non sono che conseguenza di un luogo, risultati di un ambiente, mentre la vita sempre giovane, corre sempre, si rinnova, si perpetua, dimentica, divora il tempo e lo spazio, bella come il sole che l'accese, più lunga del sole che si spegnerà. L'uomo non è più nulla, se vuole contraddire o dominare la vita, non ne può saper nulla, non vi deve mutar nulla: la morte vera è quando il nostro corpo si rompe da sé, ma allora la vita intorno non se ne accorge. Bisogna vivere come si può, più che si può, bisognerebbe poter vivere sempre. Un tremito profondo del palo lo scosse; la campagna sempre addormentata non si accorgeva che il treno l'oltrepassava vigile ed indifferente come il pensiero. Allora l'umiliazione, che gettandosi sotto quel treno ne sarebbe stato stritolato senza produrvi nemmeno una scossa sensibile, lo vinse. E se il macchinista, avvertendo il caso, arrestasse la corsa, quel cadavere di uno sconosciuto, che faceva perdere qualche minuto al treno, non sarebbe stato che uno spiacevole incidente per tutti. - Perché si sarà gettato sotto il treno? - si sarebbero appena domandato tra di loro gl'impazienti. - Ma s'intendeva già il suo rombo, si distinguevano i due fanali rossi, dilatati, abbacinanti; la terra incominciava a tremare, l'aria palpitava, dalla notte desta di soprassalto uscivano sussurri inquieti, giù pei campi alcune voci spaurite sembravano richiamarsi. Egli sentì tutto questo. Come se le fiamme dei fanali gli fossero entrate per gli occhi nel cervello, non vedeva più, mentre la stessa convulsione spasmodica lo faceva stringersi sempre più violentemente al palo, che oscillava quasi scosso da una bufera. Era tardi, non c'era più tempo. Il treno gli fuggiva agli occhi enorme, nero, con quel ventaglio di fiamma dinanzi, respingendo tutto col suo respiro di fornace; dalle rotaie parevano sprizzare fiammelle, una colonna di fumo illuminata internamente si distendeva sopra di lui, dietro di lui, come una bandiera: e al disotto, fra lunghe fessure, si distingueva ancora una vivezza di braciere, dal quale sfuggivano faville e bracie, che cadevano e si spegnevano. Egli si volse; il disco guardava col grande occhio verde, lungi dal disco un trenta passi l'ombra del guardiano protendeva ancora la lanterna nera col piccolo vetro rotondo. Nessuno sospettava adunque di una disgrazia. Sarebbe stato uno slancio, uno scricchiolio e più nulla. Davanti alla rapidità spaventevole del treno capì che egli avrebbe potuto essere anche più rapido, gettandosi bocconi sulla rotaia per lasciarsi passare sul collo l'immane valanga. Quest'ultima sensazione gli durò, quando il treno col proprio vento non lo scuoteva più così abbracciato al palo; e i vagoni neri s'inseguivano quasi contigui nell'ombra, e dai finestrini si travedevano dentro gabinetti illuminati, rossi, scuri, in una nudità di legno, o non si vedeva nulla, mentre i vagoni fuggivano chiusi sino alla cima, oscuri e sinistri come catafalchi. * * * La notte non mutava. Seduto presso quel palo, colle gambe abbandonate giù per la ripa erbosa, aveva ancora nella fantasia ansante quella visione. Aveva ascoltato il fischio d'arrivo e quello di partenza, gli ultimi rumori e gli ultimi tremiti nella notte, con l'angoscia che si prova solo sfuggendo momentaneamente alla morte. Nessuno fra quanti viaggiavano su quel treno si era certamente immaginato che a quel palo qualcuno fosse rimasto in dubbio di gettarsi sotto le ruote per finirla colla esistenza; ciarlavano o dormivano, nel pensiero dell'arrivo, trasportati dalla corrente della vita, più impetuosa ancora del treno. Potervi s alire e vivere, null'altro! Egli lo aveva sentito con una intensità, che gli rovesciava nella coscienza tutte le ragioni della morte. Il treno gli era apparso dentro una poesia strana ed imperiosa: la sua forza, il suo impeto esprimevano un trionfo costante nell'orgoglio del suo stesso prodigio. Ognuno dei viaggiatori, rapiti dalla sua foga, avrebbe potuto essere già sfinito nelle novissime disillusioni della morte, e non avrebbe meno provato, nel profondo della coscienza, la vittoria di quella corsa. Ma gli era rimasta nella fantasia quella successione di gabinetti rossi, coi divani a mezzo ricoperti dai grandi, grossolani merletti bianchi, sui quali aveva traveduto qualche testa di donna. Qualcuna andava forse a Parigi, un sogno che egli aveva rifatto tante volte inutilmente, ciarlando cogli amici nelle dolci notti di estate, quando, non sapendo come meglio ammazzare il tempo, andavano sino alla barriera per veder passare il treno della mezzanotte. Egli si ricordava le invidie provate nei brevi tragitti dinanzi ai viaggiatori esteri, così riconoscibili alla disinvolta eleganza del vestito e dei più minuti comodi di viaggio: erano i felici, i veri padroni del mondo, pei quali i climi non avevano inconvenienti e le stagioni mutavano indarno. Il lusso di queste esistenze superiori gli riappariva davanti come un quadro rosso di quegli scompartimenti di prima classe, ammantellati di ricami bianchi, con delle teste di donne soffuse di un tenue pallore. Tutto era bello: i cuoi delle valigie avevano tinte esotiche, i fermagli sprizzavano raggi fra il disordine soffice dei veli, degli scialli, delle coperte gettate alla rinfusa, in alto, sulla piccola rete. Si fumava, si chiacchierava, alcuni leggevano il giornale. Invece egli era venuto in quella notte per gettarsi sotto il treno. Si strinse con ambe le mani la testa per riordinarvi i pensieri: perché dunque non lo aveva fatto? Non seppe rispondere. * * * Ma voleva farlo. Sentiva sempre la suprema inutilità del suicidio, quantunque non gli tornasse nella mente un ricordo della famiglia abbandonata, e non gli rampollasse dal cuore un rimpianto della vita trascorsa. Dopo quella lunga giornata, era rimasto veramente solo. La morte, balenatagli così terribilmente nel primo tumulto di quella lettera, lo aveva poco a poco affascinato come il vuoto, nel quale nessuno sguardo può fissarsi lungamente: egli aveva resistito precipitandosi da ogni lato, ma perdendo sempre qualche cosa in ogni sforzo, sentendo svellersi dal profondo del proprio essere una per una tutte le più sottili radici. Doveva essere così, perché la coscienza arriva sempre nuda dinanzi alla morte. L'anima affacciandosi all'infinito non può essere che sola: i morenti mutano allora fisonomia, poiché sono già assenti prima di essere morti, mentre tutto quanto formava la loro vita non ha più nemmeno il valore di un passato, e il futuro non traspare ancora dalla torbidezza del mistero finale. Così solo, non aveva più né coraggio né paura. Lungamente pensò al tempo che gli rimaneva da passare in quella posizione. Nessuno lo aveva sospettato durante il giorno, nessuno lo aveva ancora visto, nessuno quindi lo vedrebbe su quella strada. Chi poteva pensare che egli stesse per morire? Quale influenza poteva avere la sua morte? Solamente la sua volontà vegliava ancora nell'attesa dell'ultimo momento. * * * Per quella necessità di far pure qualche cosa finché si è vivi, macchinalmente si cercò nelle tasche un sigaro per fumare, ma non ne aveva: poi si sdraiò lungo il sentiero, sul margine della ripa, perché quella posizione, così seduto, gli aveva indolenzito la schiena. La terra gli diede sotto la nuca una impressione di frescura. A sinistra, nel cielo, si era formato un largo, sottile velo scuro, le stelle splendevano piccole e rade. Tutto taceva. Al di sopra di quel silenzio assonnato, la vigilia eterna degli astri rompeva le ombre dell'infinito, ma la tenebra sulla campagna era così densa che tutto vi era naufragato. Il suo sguardo salì attratto dal tremolio di quei fuochi di bivacco, e si perdette nella loro confusione. La volta cerula si allontanava ugualmente, da qualunque punto l'occhio la contemplasse, per una distesa trasparente come le fiammelle che vi bruciavano nella inutilità della loro distanza senza misura. Nella sua mente oscura egli non riceveva che questa impressione. Le poche nozioni scientifiche apprese nelle scuole non avevano potuto dargli un concetto vivente del cielo; le stelle, come tanti mondi simili alla terra, probabilmente popolati come la terra, erano rimaste per lui un'idea vuota, un'ipotesi smentita ad ogni notte dall'apparenza del fatto. Il suo pensiero, troppo piccolo, come quello del popolo, per accogliere le spiegazioni della scienza, ritornava involontariamente alla primitiva concezione poetica del cielo, una volta azzurra, punteggiata di fanali e magnificamente spiegata sul mondo. Ma tutto era sulla terra. Questa rappresentazione immutabile per lo spirito umano e contro la quale nessuna scienza potrà prevalere, non gli dava anche adesso che una sensazione di stupore; per concepire le stelle come tanti mondi uguali al nostro, avrebbe dovuto immaginarsele spente, e allora gli sarebbe parso di non poterle più vedere; quindi l'enormità del loro mistero, moltiplicata per l'infinito del loro numero e per quello anche più terribile dei destini, che vi si svolgevano, avrebbe soffocato istantaneamente il suo pensiero. Egli guardava quel cielo senza una piega, velario diafano e costellato, che avvolgeva la terra oscura, tutta piena di dormienti destinati a morire, mentre l'anima gli si assopiva sempre più in un torpore di coma. Il lungo, dissolvente lavoro dell'agonia si era omai compito dentro di lui: un vuoto aveva inghiottito il suo spirito, e tutto quanto gli restava di vita non era più che un moto di abitudini. Tale ultimo stadio gli dava appunto quella calma, che appare sempre così inesplicabile nei condannati a morte. * * * In quella torpidezza così simile al sonno, che teneva la campagna, il suo corpo si riposava dalla stanchezza della lunga giornata. La frescura era blanda, l'aria tranquilla. Sdraiato lungo il sentiero, colla testa in alto, non vedeva più nella strada ferrata né il disco, né il palo del telegrafo: solo i fili neri di questo, tesi sopra il suo capo, formavano come una scalea di un significato misterioso, mentre gli steli alti del fieno si ripiegavano sul margine della ripa a toccargli le vesti, o cedevano sotto la sua mano distratta, inumidendogliela. Se qualche cosa avesse attraversato la notte in quel momento, soffio o voce, il suo spirito l'avrebbe seguita come si muovono nell'aria le piume di essa più lievi. Il sopore gli si faceva sempre più profondo, la vita vegetale della terra l'invadeva. Era per lui come un benessere di albero sbattuto dal vento, arso dal sole nel giorno, e che di notte ridiventa fresco, e dalle foglie ristorate manda un murmure indistinto. Qualche stella sembrava tremolare nel sorriso della propria luce, altre si stringevano a gruppi entro un albore diafano, e altre più remote scintillavano tratto tratto, quasi barattando segnali di scolte. Ma tutto era pace anche lassù: una dolcezza di riposo si spandeva su tutte le cose; perfino il fiume aveva cessato di muoversi, e i ranocchi adunati nelle pozzanghere dei campi non gracidavano più. * * * Un lungo brivido gli discese dal pensiero giù per le reni, mentre un fischio stridente, quasi di un proiettile, gli passava sulla testa. Il fischio seguitava rompendosi nell'acutezza di appelli ripetuti, la terra tremava: prima ancora di essersi potuto levare in piedi aveva scorto nuovamente la pupilla verde del disco dilatata nell'ombra, e al disotto di essa, sulla ghiaia della strada, un chiarore che si muoveva colla lanterna del guardiano. Era il treno delle tre, un misto, che veniva da Bologna. Rimase dritto, cogli occhi laggiù, spalancati sulla luce saliente dalla stazione invisibile. Non aveva raccolto di terra il cappello, si sentiva un continuo soffio agghiacciato sulla faccia, la gola gli si era improvvisamente disseccata. Sbirciò due o tre volte il vetro verde del disco, sorvegliando l'ombra del guardiano; non tremava, ma era come se tutto tremasse intorno a lui. Aspettava in una tensione, che non gli permetteva di fare un moto neppure coll'anima. Aveva i capelli irti e la bocca aperta: il suo sguardo s'illuminava di una profonda chiarezza interna. Il fischio ricominciò, poi a un certo momento parve un urlo, che l'immane respiro della macchina già in moto soffocasse; stridé ancora. La lanterna del guardiano si era alzata. Si vedevano distintamente i due fanali rossi e, più in alto, una oscillazione oscura di fumo: egli guardava ancora, attonito, senza respirare, scosso dal tremito convulso della terra, che pareva sfuggirgli sotto i piedi. La sua vita non aveva più che alcuni minuti secondi. La macchina ebbe uno sbuffo più violento. Rapidamente, inconsapevolmente, si gettò bocconi colla testa sulle rotaie; la rotaia tremava. Egli guardava venire la macchina, ma non vedeva più che un immenso ventaglio di fiamma alto come una parete, la terra oscillava sotto di lui; chiuse gli occhi e sentì sulla ghiaia, nel medesimo attimo, il palpito del proprio cuore e i battiti dell'orologio. Istintivamente aperse le braccia puntando le palme sulla ghiaia, abbacinato dall'immenso fulgore di quell'incendio, che si precipitava contro di lui rugghiando. I suoi occhi sostennero per un istante l'urto, non capiva, non sentiva; poi gli parve che il ventaglio di fiamme si sollevasse, si vide la macchina lanciata a volo sulla testa, come un'enorme arco di ponte che ardesse, un vento impetuoso gli sferzò il volto, mentre la terra squarciata da un ultimo sforzo si apriva sotto di lui. - No, no! - ebbe appena il tempo di urlare, ritraendo disperatamente la testa, che la macchina gli era forse già a soli venti metri. Un torrente nero; solido, alto: un soffio gelido ed irresistibile lo gettò quasi giù dalla ghiaia, sulla quale puntellava ancora le mani, raggricchiato nello sforzo istintivo di farsi più piccolo, senza potersi muovere, chiudendo gli occhi ad ogni vano fra vagone e vagone, come ad una scudisciata che gli fendesse a mezzo le pupille. E il treno enorme, vertiginoso, freddo, nero non finiva. All'ultimo vagone egli rotolò sul sentiero. Quando si rialzò non vide più il treno. * * * Egli se ne andava lungo il sentiero, a testa bassa. Una vergogna amara di quanto gli era accaduto aumentava sulla sua coscienza, come dopo la pioggia in certe pozzanghere cresce l'acqua. Si era gettato sotto il treno cedendo alla pressione di una forza interna che lo spingeva, e la sua ragione, rianimata dal fracasso della macchina, aveva avuto irresistibilmente paura. La sua volontà, incapace di qualunque sforzo, non si era più mossa, quando puntato sulle mani, colla testa rasente ai predellini dei vagoni, aveva sentito sfilare ruinosamente tutto il treno. L'aria, che fuggiva smaniando fra i larghi raggi delle ruote, gli schiaffeggiava il volto gelato da uno di quegli orrori fantastici, pei quali nella notte i fanciulli perdono la voce. Egli non si era immaginato la morte così enorme, con quella onnipotenza di uragano! Adesso tutta la sua natura di uomo timido ed inetto ripigliava il sopravvento. Una specie di buon senso gli diceva sommessamente che aveva avuto ragione di aver paura: lo spettacolo del treno, veduto colla testa sulle rotaie, era qualche cosa d'inesprimibile, d'insopportabile. Le rotaie oscillavano sotto la sua fronte, quasi come il filo del telegrafo quando il vento soffia impetuoso, la terra reboava, quel ventaglio di fiamma, formato dalla congiunzione dei due fanali, si dilatava sempre come per la spinta di una eruzione, dalla quale sfuggiva in alto un'immensa colonna di fumo. Era una scossa saltellante di valanga, con un rombo di tuono fra schianti di baleni e un vento freddo e una minaccia fulminea che rovesciava, dissolveva tutto dinanzi a sé. Perciò non aveva resistito. Per un solo istante si era irrigidito nel duello, premendo la tempia sul ferro gelido della rotaia collo sguardo ardente su quell'incendio; sarebbe abbisognato che il treno non fosse stato più che a tre metri, e allora forse il delirio stesso gli avrebbe fatto mantenere la posizione. Ma uno spavento lo aveva avviluppato, e lo cacciava nuovamente per quel sentiero nella notte tranquilla. Dove andare? Sentiva di avere ancora paura della morte, che gli era quasi passata addosso con quel treno oscuro e fiammeggiante, nell'impeto procelloso di una vittoria: ne aveva rimasto l'abbarbaglio negli occhi e il vento nei capelli. La sua faccia non gli sarebbe parsa più la medesima, se avesse potuto vederla; era di un pallore lapideo, cogli occhi vitrei e una specie di smorfia immobile sulla bocca. Come tutti i toccati dalla morte, aveva mutato. Nel suo stesso terrore gli rimaneva qualche cosa di estraneo alla vita, un senso di profondità interminabili, un freddo di caduta per una ruina di abissi. Infatti quel treno non gli era parso che si allontanasse per la strada ferrata, ma era dileguato per lo spazio, come il tuono, in uno di quei rapimenti che accendono a razzi le stelle. * * * Si arrestò. Aveva camminato per qualche miglio, senza por mente alla diversità della sottoposta campagna nella tenebra. Si accorse di essere tutto bagnato di sudore e di rugiada, il luogo non pareva mutato, e le rotaie gli si perdevano sempre dinanzi a pochi passi sul piano oscuro della strada. - Diranno che ho avuto paura! Infatti lo avrebbero detto, vedendolo così. Era stato lo sbigottimento inevitabile della morte, giacché il coraggio non è appunto che uno sforzo contro di esso, che la gente non vorrebbe mai vedere in coloro che debbono morire. Il soldato, il condannato titubante divengono istantaneamente spregevoli; bisogna che entrambi fingano il disprezzo, quasi la provocazione, perché tutti si esaltino in questa vittoria della volontà umana. Ma il suicida, che si vantò, per una qualunque ragione, di gettare la propria esistenza come un cencio immondo dietro di sé, non ha più diritto alla paura. In questo caso la gente insorge contro il falso temerario, che voleva sottrarsi alla pressione della morte, più greve ancora di quella dell'aria, giacché ci mantiene aderenti alla vita malgrado tutti i dolori: e le contumelie diventano la rivincita dell'umiliazione, che il coraggio inesplicabile di ogni suicida infligge alla moltitudine sempre invocante la morte e singhiozzante di viltà ad ogni sua apparizione. Chi l'ha voluta davvero, non può ritornare nella vita. È una consacrazione come quella che la religione pratica sui propri sacerdoti, i quali non sanno più riconfondersi cogli altri uomini. Egli si rappresentava tutto questo oscuramente, nelle scene che ne sarebbero seguite a casa sua e nel caffè. Si ricordava di alcuni, che avevano annunziato il proprio suicidio, di altri ancora più infelici, che vi erano sopravvissuti rimanendo per tutti un oggetto di scherno. Se egli fosse tornato addietro, avrebbe intoppato nella ilarità di tutto il paese, unanime, dopo una simile commedia, nel giudicare anche più abbietto il suo dramma. Poi, conosceva la zia Matilde, che appena aperta quella lettera ne avrebbe gettato le alte grida per tutta la casa e per le strade, correndo da Caterina. Come intercettare quindi quella lettera? Perché intercettarla? Per quanti sforzi avesse voluto fare, non gli sarebbe riuscito di tornare indietro: la sua anima vuota non amava, non si doleva più, ma, sola dinanzi a sé medesima, assisteva come uno spettatore al supremo duello della volontà contro l'istinto. Se non che, finite tutte le ragioni del vivere, la vita resisteva ancora al pari di ogni involucro alla pressione che doveva spezzarla, ed egli provava un'ultima indicibile vergogna per se stesso nel riconoscersi così pauroso. Solo una specie di testardaggine, un impegno col proprio orgoglio, l'obbligavano a morire. Aveva sempre la rivoltella in tasca, ma non pensò nemmeno un istante a servirsene; dopo quel primo infelice esperimento, temeva di fracassarsi la testa senza uccidersi, perdendosi così in un'altra fine peggiore di tutte le morti. Infatti un suicida sopravviveva ancora in paese, dopo essersi asportato con un colpo di pistola quasi tutta la parte inferiore del volto: era un giocatore non vecchio, che da quel giorno non aveva più osato uscire di casa, e pel quale la serva, diventata sua moglie, cercava l'elemosina. Ma se avesse potuto davvero analizzare sottilmente se stesso, in quella ripugnanza ad uccidersi con la rivoltella avrebbe scoperto qualche altra cosa, poiché a quel modo si sarebbe veramente ucciso da sé, mentre invece non voleva che morire. Gettarsi sotto il treno e lasciarsi schiacciare! Non egli avrebbe distrutto sé medesimo, ma un'altra forza, un mostro vivente, ansante, il più prodigioso uscito dalla mente umana. Egli sentiva un'ironia nella antitesi della propria debolezza contro tale onnipotenza, nel mutare quello stupefacente veicolo di vita in uno strumento di supplizio. Era come una vendetta contro la società, che lo costringeva a morire colla assurda contraddizione delle proprie leggi coi propri costumi. Infatti il suo suicidio non aveva altro motivo. La natura non ha bisogno del nostro concorso per ucciderci, il mondo solo ci condanna al suicidio: quando la nostra presenza non vi è più possibile, sentiamo la necessità di morire, per non durare come un rimasuglio fra la gente. La società non è pari alla natura, nella quale anche i residui hanno un valore. Ognuno crea se stesso in una classe o in una funzione con indelebili caratteri, ma, distruggendo questa personalità, non gli rimane né posto, né gruppo. Allora erompe la contraddizione fra l'istinto che vorrebbe vivere, e la ragione che non sa più trovarne il modo. Infatti egli non aveva, coll'imprudenza di quella cambiale falsa, sciupato che la propria condizione in paese, così che potendo trasportarsi altrove non avrebbe quasi nulla perduto. La morte, cui si umiliava, era un omaggio al giudizio della società, un tragico complimento all'importanza della classe, nella quale era nato. Come marito, come padre, come uomo, egli consentiva a non poter vivere se non come aveva vissuto fino allora, mentre intorno a lui le migliaia e migliaia vivevano egualmente bene entro la condizione, nella quale sarebbe precipitato; ma poiché la nostra vita è anzitutto spirituale, una mutazione della sorte vi ha infinitamente più importanza che qualunque altra della natura. Dalle più grandi tragedie ai più minuscoli drammi, non si tratta mai che di suicidio, di una immolazione che l'individuo fa di se stesso alla società, come vittima espiatoria delle colpe altrui o delle proprie. Quindi la vergogna dell'aver avuto paura lo mordeva anche allora, che nessuno se n'era potuto accorgere. L'orgoglio necessario al suicidio, quella esaltazione di sentirsi maggiore degli altri, appunto gettando ciò che è tutto per essi, gli era venuta improvvisamente meno. Vile come coloro, per non somigliare ai quali moriva, si era gettato disperatamente indietro dalla rotaia, invece di lasciarvisi sfracellare. Egli aveva provato confusamente, in quei brevi istanti, una specie di compiacenza ironica e superba al pensiero di insudiciare col proprio sangue il lucido cerchio delle ruote, arrestandone forse, magari per un secondo, la marcia trionfale. Lo avrebbero visto fracassato, irriconoscibile, inorridendo in quella inesprimibile paura della morte, che gela istantaneamente tutti i cuori! Sarebbe stata la sua rivincita dopo morte, perché anche il suicidio ha bisogno di averne una. * * * Seduto accanto al palo, coi gomiti sulle ginocchia e la fronte fra le palme, piangeva. Dopo aver girato lungamente innanzi e indietro per il sentiero, in un orgasmo di febbre, era ritornato allo stesso punto, vinto dal fascino misterioso, contro il quale lottava. Era stata una corsa miserabile di fanciullo smarrito per la notte che si sente aggredito a ogni tratto nell'invisibile e non osa gridare nemmeno inciampando. Non poteva decidersi, non sapeva andarsene; qualche altro treno doveva passare prima di giorno. Quando rivide quel palo, ne provò un sollievo come di una meta; la luce del disco era sempre rossa, lontanamente la stazione aveva quel largo riverbero d'incendio. Qualche lagrima calda gli scivolava fra le mani e le guance, sciogliendosi con un sottile bruciore di sale. Era l'ultimo pianto, quello che non si sente più, perché tutto è già morto di dentro: i suoi occhi piangevano, come talvolta le ferite lasciano uscire goccia a goccia il sangue, mentre il moribondo sente ancora che col sangue se ne va la vita. La natura stessa esprime talvolta un simile pianto in certi squallori di paesaggi autunnali su praterie opache, sotto un cielo grigio, senza un vivente che le attraversi e senza case; o fra roccie appannate e riarse, in una nudità di cadavere. E vi è un dolore sotto le pietre, e pare un pianto l'umidità che l'aria del crepuscolo vi lascia. * * * Un gallo cantò. L'aria era ancora così scura, ma il sereno del cielo principiava ad imbiancare in una purezza sempre più scialba: le stelle adesso rade perdevano quel tremolio che le ingrandiva, ogni vapore si era disciolto. Senza che ne apparissero ancora i segni, l'alba si avvicinava. Nell'aria più fredda altri brividi passavano, simili a sussurri mano mano più intensi. Toccò un ciuffo d'erba sull'orlo della ripa, e ne ritrasse le dita imperlate di rugiada. Da quell'altezza della strada cominciava a discernere la campagna. Gli alberi scoprivano già le cime, disegnando la regolarità dei loro filari; poi un altro gallo cantò e un crocchio di rane volle rispondergli, ma la loro voce notturna si spense all'improvviso. Gli parve di udire come uno schiaffo di imposte nel muro, una luce apparì. Non era più la notte. Laggiù il grande riverbero della stazione si appannava, mentre dietro le mura della città quel vapore luminoso aveva cessato di salire dalle strade invisibili, e in alto, molto in alto, i tre campanili spiccavano rigidamente. Un freddo gli strinse lo stomaco. Sebbene il casello del guardiano sembrasse chiuso, si allontanò guardingamente dal palo, perché sul margine della strada, nell'aria sempre più diafana, sentiva di apparire a tutta la campagna. Gli alberi si scrollavano lievemente, sibili d'insetti, tintinni misteriosi preludevano alla grande sinfonia del giorno. Una luce approdava all'ultimo orizzonte respingendo la tenebra, che si orlava di riflessi evanescenti in lunghe strisce, talvolta simili a nuvole stracciate. Ma più che dell'albore, egli aveva paura dei suoni. Le cose più mattiniere intorno a lui si erano già deste; dentro le frondi qualche ala batteva per spigrirsi, mentre gli ultimi sogni strisciavano impalpabili sugli occhi ancora socchiusi. Seguì per qualche minuto il volo spaurito di una nottola, rivedendola ogni volta, con una specie di compiacenza egoistica, traballare sempre più incerta e precipitarsi nuovamente giù nell'ombre più dense, ad ogni chiarore che si diffondeva nell'aria. Si era allontanato mezzo miglio dal palo, ma la città e il ponte di ferro si vedevano ancora. Se non avesse avuto così paura del giorno, gli sarebbe sembrato ancora notte; infatti, laggiù, i fanali rimanevano accesi, appena l'ultima linea dell'orizzonte si era rischiarata, e qualche gallo impaziente aveva lanciato il primo squillo della propria diana. Ma i suoi sensi, vibranti di un ultimo orgasmo, gli rendevano manifesti i più impercettibili segni. Non poteva più ricapitolare quanto gli era accaduto nella notte, sentiva solamente una vergogna crescente, intollerabile di essere ancora lì, senza un motivo. Per tutta la notte era stato solo, adesso invece la luce gli addenserebbe intorno tutti i viventi: il suo coraggio non potrebbe resistere, sarebbe ripreso, ricacciato a forza indietro, più in basso, per sempre, sotto la propria ruina, inconsolabile, immutabile, inutile. Tutto ridiventava un pericolo. Guardava, ascoltava convulsamente; la notte non era più simile a se stessa; la sua frescura, la sua tranquillità, il suo sonno avevano mutato; una inquietudine agitava ogni suono e dava un accento di trepidazione a tutte le voci. La solitudine si riempiva. Guardò l'orologio, ma non distinse i numeri sul piccolo quadrante, e non osò accendere un fiammifero. Dovevano essere le quattro: forse a quella distanza l'orologio di sant'Ippolito si sarebbe ancora udito; poi n'ebbe paura. Qualunque voce gli faceva male; nell'aria colse un vagare di aromi, altri effluvii che s'innalzavano verso il mattino. A che ora passerebbe il primo treno? Sbigottito si voltò verso il disco, ancora così rosso, ma di un rosso meno luminoso. Per le altre strade della campagna la gente doveva aver ricominciato il proprio passaggio, i lattivendoli, gli ortolani, tutti coloro che soddisfano ai primi bisogni della città; nei due grandi caffè della piazza, sempre aperti, nottambuli col volto livido dalla veglia troppo prolungata comincerebbero a parlare di separarsi, perché odiavano istintivamente l'alba e la sua ripresa coraggiosa del lavoro sotto la immutabile necessità dell'andare avanti. Anch'egli era un nottambulo, l'ultimo, per l'ultima volta. Nel tormento di quella paura, soffriva alla preparazione lenta del giorno, più ammirabile forse che lo scoppio stesso del sole trionfante daccapo a sollecitare coi propri raggi tutti i viventi. Egli allora non si muoverebbe, informe cadavere per sempre. Ma non voleva esser visto prima, non aveva bisogno delle sollecitazioni, che gli aumentavano intorno. Se ne andrebbe, se ne andrebbe ad ogni modo, nella disperazione di non aver potuto nulla comprendere, senza la giustificazione di quanto aveva sofferto! Meglio la notte, il buio senza vita: un silenzio eterno e la sicurezza del nulla, perché non vi poteva essere altro, dopo! Il suo odio alla vita glielo rivelava chiaramente. Egli, che aveva tanto patito il giorno innanzi nella rottura graduale di ogni vincolo, adesso non soffriva più che la fretta, colla quale gli pareva di sentirsi cacciato; non v'era altro tempo da perdere. Fra venti o trenta minuti, da quella posizione tutti avrebbero potuto scorgerlo. I canti dei galli si erano venuti ripetendo, poi un muggito aveva dominato tutte le voci. I pioppi tornavano a stormire colla battuta secca della grandine, i salici sibilavano, le quercie sussurravano appena. Da un olmo sotto la strada un gridìo di passere, subitaneo come una risata, lo fece trasalire. Ormai egli stesso avrebbe potuto discernere lungo il binario un uomo a grande distanza, e tuttavia era ancora presto. Si fermò al primo palo del telegrafo, sdraiandosi daccapo sul sentiero per nascondersi. Stava in agguato, coll'occhio teso sulle ultime lontananze della strada, l'orecchio aperto sospettosamente a tutte le voci; le erbe alte, fradice di rugiada, gli bagnavano il volto percosso tratto tratto da un tremito, che gli echeggiava sonoramente sino al fondo dell'anima. Ma tutte le forze gli erano improvvisamente tornate: era l'attacco finale di quel duello troppo lungo colla morte, senza più alcuna incertezza, e più orribile nell'impossibilità di muoversi. Tutto il suo odio si era mutato in coraggio, quasi la morte, che gli verrebbe incontro su quel treno, dovesse avere una forma umana come la sua. Il suo tetro scheletro, colle occhiaie vuote e la lunga falce, gli riappariva nella fantasia cogli altri fantasmi della espiazione cristiana evocati dall'ultimo dubbio: ma temeva solamente di non poter durare per tutta la lunghezza della prova. Il suo sforzo supremo era di non pensar più, non voleva più nulla davanti. La sua coscienza era giunta finalmente al disprezzo della vita, di questa farsa stupida ed atroce, che nessun Dio poteva aver voluto, perché vi si soffre solamente, e coll'amore di un minuto vi si chiamano altri a soffrire e a morire: ecco tutto! Il resto era menzogna. E davanti a questa imperscrutabile necessità il suo individuo urlava nello spasimo di non poter inabissare tutta la terra e, strappando con un gesto titanico dal cielo l'immenso manto stellato, ravvoltolarvisi come in una bandiera nemica, e spirare ultimo sulla ruina finale di quanto era stato. - Ah! - gridò balzando in piedi, immemore di ogni riguardo. Era il treno. Nel pallore crescente della tenebra la sua luce appariva simile a quella di un palloncino roseo librato nell'aria, ma egli non vedeva che la morte. Era scattato in piedi alla prima scossa del terreno come ad un appello, protendendo il volto in una impazienza quasi insolente della fine. Aveva negli occhi un chiarore di cristallo e sulla faccia una fisonomia di marmo. Rimase così immobile, colla volontà tesa contro il treno, calcolando mentalmente la rapidità della sua corsa. Un fremito d'orgoglio lo scosse ancora, nel vederlo già così vicino che si discernevano distintamente i due fanali; aprì le braccia ad un gesto inesprimibile, e si gettò sulla rotaia abbandonato. Era caduto, quasi colla fronte sul ferro, gli occhi rivolti al treno. Avanzò la testa per poggiare il collo sulla rotaia, lasciando penzolare il capo nel vano come da una ghigliottina. Il freddo del ferro alla gola gli fece passare questo paragone nel pensiero. Ma allora tutte le forze lo abbandonarono, si decomposero per le scosse della terra, che gli passavano per tutto il corpo colla violenza di continue scariche elettriche. Si raggricchiò, chiuse gli occhi, travolto dal fragore precipite che già l'investiva; il ferro della rotaia gli friggeva quasi sotto il collo, una vampa gli aveva ventato sugli occhi, mentre nel terrore delirante, ineffabile, di quella cosa senza nome, la sua volontà caparbiamente disperata, come quella di un bambino, ripeteva: - Non importa, non importa! Con un ultimo sforzo premé ancora il collo sulla rotaia. Poi un'estrema convulsione di turbine, di abisso, di valanga, d'incendio, lo fece quasi rivoltolare sopra se stesso; aprì gli occhi nella fiamma, e per una paura più terribile gridò: - Mio Dio! Ma l'enorme macchina gli era già passata furiosamente sulla testa, soffocando nel proprio fracasso di cateratta l'inutile parola. FINE

CAINO E ABELE

678772
Perodi, Emma 1 occorrenze

Il caldo del viaggio, la gita in carrozza attraverso le pianure che dividono Castelvetrano dal mare, la vista di quelle colonne immense, alcune ritte nella sabbia, altre giacenti fra le palmette e l'appio, la pianta che fu data per insegna alla città dagli antichi abitanti di quella colonia greca, tutti quei templi abbattuti, tutte quelle rovine, che gli artisti soltanto e pochi eletti, i quali capiscono il linguaggio che esse parlano alla fantasia, amano, misero nell'anima di Franco una malinconia, che egli, insofferente di tutto, convertì in dispetto. Quando arrivò allo stabilimento, il rumore dei martelli, il cigolìo dei carri erano cessati, e nonostante che il quartiere di Franco fosse illuminato a luce elettrica e vi si accedesse dal lato opposto al mare, ove in un giardinetto crescevano palmizj bellissimi e ficus elastica alti come albera egli si sentì a disagio quando la carrozza si fermò davanti alla porta a cristalli, e rispose con un breve saluto a quello cerimonioso e solenne del direttore Varvaro, il quale gli fece vedere il quartiere, e dopo aver posto a sua disposizione il cameriere di Roberto, gli disse che quando voleva poteva farsi accompagnare alla villa, che il pranzo era pronto. Il duca fece portare in camera le valigie, si vesti con cura e quindi si avviò verso la villa, eretta sopra un monticello dal quale dominavansi lo stabilimento e le rovine. Era un'afa insopportabile, perché spirava un forte vento d'Africa e il mare s'infrangeva con fracasso contro la banchina e contro la spiaggia, ma Franco sudava freddo pensando che avrebbe dovuto restare molto tempo, forse sempre, in quel deserto, e camminava a testa bassa, senza guardare la casa bianca fra le palme, dalle cui finestre spalancate uscivano fasci di luce. Sempre a testa bassa egli giunse al cancello del giardino da cui incominciava il viale di palmizì, e quando fu lì si scosse, sentendo due manine che lo afferravano per il braccio e una vocina allegra gridargli : Benvenuto, zio Franco; è tanto che ti aspettiamo! Allora alzò la testa e dopo aver fissato nella oscurità la piccina, si chinò e la baciò. Benvenuto! - gli disse pure Velleda, stendendogli la mano. - Come mai questo lungo ritardo? Sono stato a Napoli due giorni per riconcentrarmi, disse Franco con sicurezza, - e qualche giorno mi sono fermato a Palermo, di cui non mi rammentavo più. Le avrei telegrafato se avessi potuto richiamarmi alla mente il suo nome, ma Roberto lo pronunziò al momento della partenza, fugacemente, e io non me ne sovvenni. Egli era maestro nell'arte di dare alla menzogna l'aspetto della verità e Velleda gli credè. Camminavano al buio, in mezzo al filare degli altissimi palmizj, che il vento faceva stranamente incurvare, e non s'erano ancora veduti in viso. Maria aveva preso una mano di Franco e l'accarezzava, come era solita accarezzare quella di suo padre. Quando entrarono nella sala da pranzo illuminata e che era allo stesso livello del giardino, Maria lasciò la mano dello zio e scostandosi per vederlo meglio, gli disse: Sai, zio -Franco, tu non somigli al babbo, egli è forte e tu sei delicato; tu non ridi e non mi guardi come lui. Franco sorrise e Velleda disse fra sé che la piccina aveva ragione, poiché i due fratelli si somigliavano poco. Il maggiore di essi, nonostante la barba e i capelli nerissimi, da vero figlio di siciliana, aveva gli occhi di un colore cangiante, che a momenti era verde come l'acqua del mare, in altri azzurro e vaporoso come il cielo dell'Oriente, ed in tutta la persona mirabilmente proporzionata, ma esile, aveva qualcosa di femmineo, che faceva meglio valere l'eleganza perfetta dei movimenti. Si vedeva che il duca da piccino era stato allevato nella bambagia, che il vento; il sole ardente, la pioggia non ne avevano mai offesa la pelle delicata e che le sue piccole mani non conoscevano il lavoro, come i suoi piedi lunghi e sottili si erano poco sviluppati nel camminare. La bocca aveva bellissima, ma il sorriso, quasi sempre forzato, dava a tutto il viso una espressione falsa, che Maria aveva notato dicendo che non somigliava a suo padre. Difatto la bocca di Roberto quando si apriva a un sorriso illuminava tutto il volto e specialmente gli occhi neri, grandi e sinceri, e quegli occhi fissavano francamente in faccia la gente con quella bella sicurezza propria di chi non conosce la menzogna. Il volto di Roberto era abbronzato; si vedeva che il sole non gli aveva risparmiate le carezze e anche la barba bionda aveva preso all'estremità quel colore rossastro, disuguale, qua più chiaro e là più scuro, che presenta la testa delle mietitrici delle pianure lombarde. Ma la bellezza di Roberto non consisteva tanto nei lineamenti del volto, quanto nella perfetta armonia di quello con le forme del corpo. Era alto, ma ben proporzionato, e mentre le membra rivelavano la forza e la salute, la fronte dritta, gli occhi penetrantissimi e la bocca esprimevano la risolutezza del carattere temprato alla lotta con sé stesso per dominare gl'impeti dell'animo, alla lotta con gli eventi, con gli ostacoli che gli si paravano dinanzi per conseguire la ricchezza, e con l'inerzia e la malafede dei numerosi operai, che impiegava nel suo stabilimento. Era un uomo, insomma, nelle cui vene scorreva un sangue ricco; agli aveva in sé la stoffa di un dominatore, e nato in altri secoli avrebbe estrinsecato la forza esuberante in atti di prepotenza; nato nel nostro rivolgeva quella forza al lavoro, di cui aveva fatto lo scopo dell'esistenza. Franco era un decadente e la sua debolezza fisica e morale non veniva soltanto dalla educazione, ma da una eredità di famiglia, trasmessa a lui soltanto per un capriccio della natura. Al primo vederlo si capiva come discendesse direttamente da quei leziosi cavalieri settecenteschi, che portavano la spada per solo ornamento ed avevano rinnegato tutte le virtù civili e le atroci prepotenze degli antenati; da quegli arcadi che abbandonavano i nomi aviti per portarne altri di pastori da burla, e si capiva anche come avesse sciupato stupidamente un grande patrimonio. Appena furono seduti nella sala da pranzo, con le pareti rivestite di azulejos siciliani, con i mobili di bambù, bambù,con la tavola scintillante di bellissimi cristalli e di argenteria antica. Velleda si diede a osservare Franco e lo giudicò per quello che valeva. Franco, entrando in quella sala si era rasserenato; tutte le impressioni penose ricevute durante il viaggio e al momento dell'arrivo si erano dileguate ed era lieto di trovarsi in quella casa comoda, dinanzi a quella tavola elegante, alla quale non mancava nessuna delle raffinatezze del lusso. Il viaggio gli aveva dato appetito e mangiando osservava Velleda e rideva fra se pensando di essersela figurata vecchia e brutta. Mio fratello, - egli disse a un certo momento, mi aveva dipinto questa villa come un eremo piantato sulla sabbia; invece mi par d'essere in una di quelle graziosissime abitazioni, che i ricchi signori inglesi si costituiscono a Nizza e a Cannes; nulla manca, mi pare, alle comodità della vita. Nulla assolutamente. Il signor Roberto è previdentissimo e sa utilizzare tutto quello che offre il paese. Così, senza spesa, abbiamo sempre pesce eccellente, caccia prelibata, frutta e legumi squisiti, e quello che manca lo portano i vapori da Napoli, da Palermo, o dai porti della Spagna e dell'Inghilterra o dell'Africa. Ella non conosce ancora la casa e stasera non potrà vederla; ma domani gliela farò visitare, come il Varvaro le farà visitare lo stabilimento, e dopo ella ammirerà suo fratello per il gusto di cui ha dato prova creandosi questo piccolo Eden, e per le larghe vedute con cui dirige il suo commercio. Egli deve provare una grande soddisfazione nel poter dire a sé stesso: Tutto questo è opera mia! Franco non era permaloso, ma quegli elogi tributati al fratello lo umiliavano assai, tanto più che Velleda metteva molto calore nell'esprimerli. Il babbo è un uomo come non ce ne sono altri! disse Maria che era stata zitta e composta fino a quel momento. Franco sorrise alla nipotina e mentre ella con insistenza gli domandava notizie del carissimo assente, egli esaminava Velleda. La istitutrice di Maria aveva maniere così garbate e un fare tanto signorile che Franco pensò come erano state superflue le raccomandazioni fattegli da Roberto di trattarla con riguardo. Anche se avesse voluto, non avrebbe potuto fare altrimenti. Velleda era una signora, una vera dama, molto più di tante principesse. Non era giovanissima; poteva avere da trenta a trentadue anni; ma la voce, il gesto, la perfetta sicurezza che dimostrava facendo da padrona di casa, si addicevano all'età, che ella non si studiava di celare. Di statura era piuttosto piccola e sottile come una giovinetta di quindici anni e le forme della snella personcina erano poste in rilievo da un vestito bigio, di lana tagliato da un sarto inglese. Non aveva altri gioielli che una spilla d'oro opaco che le fermava il colletto del vestito. E da quel colletto semplice e un po' maschile si sprigionava un collo sottile, bianco, sorreggente una testina ricciuta. Velleda portava i capelli corti dopo una grave malattia, ma questo non le disdiceva punto, anzi dava una grazia gio vanile alla sua testina piccolissima. Non aveva tratti regolari, perché il naso invece di formare una linea retta con la fronte, era un poco rivolto all'insù ed ella scambiava leggermente un occhio, ma aveva il mento così grazioso, e gli orecchi cosi piccoli e chiusi come fiori ancora in boccio, e la pelle era così trasparente che pareva, secondo l'atteggiamento del volto, lumeggiata di argento. Tutto era luce in quel visino e senza quei cerchi profondi che le attorniavano gli occhi, sarebbe parsa una bimba, tanto aveva fresca la bocca e rotonda la linea che tal mento va fino alla nuca. Velleda non era una di quelle donne che attirano l'ammirazione della folla nelle vie, in un teatro o in un ballo. La cornice adatta per quella singolare testina era una stanza semplice ed elegante; era la casa dove la sua figurina poco ingombrante si aggirava senza far rumore. Forse vestita sfarzosamente, coperta di gioielli, non sarebbe stata bella: ma con quel vestito, che rivelava un gusto finissimo di signora, dinanzi a quella tavola di una eleganza sobria; ella appariva seducentissima anche a Franco che era buon conoscitore. Eppoi la sua voce era una musica. Aveva l'accento toscano, gentile e carezzevole all'orecchio e nel parlare sfoggiava naturalmente tutto l'incanto di quella favella, così precisa nell'espressione e così pura nei suoni Fra reo le domandò se era fiorentina. Sono nata a Fiesole, - ella rispose, - la mamma era russa e il babbo fiorentino; ma aveva passato lunghi anni ini Inghilterra esule; così in casa nostra si parlavano tutte le lingue; ma io ho avuto sempre una grande predilezione par l'italiana ed è la sola che ho veramente studiata. Qui la sento parlar poco, ma leggo molto e specialmente i classici. Se a lei non dispiace, - aggiunse con un sorriso, - noi continueremo il nostro metodo di vita. La domenica, il martedì e il giovedì parliamo italiano, perché Maria deve imparar bene la sua lingua; il lunedì e il venerdì parliamo inglese e il mercoledì e il sabato tedesco. Osservando severamente questo programma in un anno ho ottenuto che la mia piccina possa esprimersi in queste tre lingue; quando venni non sapeva altro che il siciliano, insegnatele dalla sua balia. Oggi quale lingua tocca? - domandò Franco. - Io non parlo tedesco. Oggi toccherebbe appunto il tedesco; ma faremo una eccezione. Non posso condannarla a sentirci parlare una lingua che non capisce. Maria le deve questo riguardo, tanto più che una bambina deve imparare prima l'educazione che ogni altra cosa. Il pranzo era servito dal cameriere di Roberto; vestito con una semplice livrea di tela, ma il servo era così esperto nel servizio che a Franco pareva di essere in casa propria. Mio fratello ha un cuoco eccellente, - disse il duca vedendosi servire un beli gelato di mandarino. Velleda sorrise. È un contadino di Castelvetrano, che ho preso dalla vanga pochi mesi fa, - rispose. - Con un po' di pazienza gli ho insegnato quanto occorre perché ci serva un buon pranzo tutte le sere. Ma per ottener questo abbiamo spesso mangiato otto giorni di seguito le stesse pietanze per farlo impratichire. Ci vuoi pazienza, ma poi si giunge a tutto, - ella aggiunse con una bella sicurezza. Terminato il pranzo Velleda fece salire Franco sulla terrazza del piano superiore, che guardava il mare e dove era servito il caffè. Il vento s'era calmato e Maria andava e veniva dall'ampia sala portando a far vedere allo zio i suoi ritratti e i balocchi e con quella insistenza comune nei bambini cercava di cattivarne l'attenzione ; ma Franco le rispondeva distrattamente, fumando un eccellente sigaro offertogli da Velleda e interrogandola continuamente. Il giovane signore fin dal primo momento che l'aveva veduta, aveva capito che quella colta ed elegante donnina, tutta grazia, non poteva essere una istitutrice di professione e cercava di scoprire il mistero di quella esistenza, perché parevagli impossibile che un mistero non ci fosse. E le domande che le rivolgeva miravano a questo. Ho molti amici anch'io a Firenze, - diceva egli, è molto tempo che manca da quella città? No, da un anno solamente, - rispondeva ella. Mi sorprende, continuava Franco, - che uscendo da quella città gentile e gaia, ella si sia potuta adattare a viver qui. Non mi è stato difficile punto. Per un carattere come il mio, amico della quiete e del lavoro, Selinunte è un paradiso. Eppoi non crede ella che l'ambiente abbia poca influenza sull'animo nostro! I noiati, gl'infelici, portano seco ovunque il loro tedio e il loro dolore, e sono essi soli che incolpano il paese in cui vivono, la gente che li circonda, di esser cagione della tristezza della loro esistenza. Spesso ci rammentiamo con piacere di un luogo e ci pare bello e ridente, perché nel breve tempo che vi abbiamo passato eravamo lieti e predisposti all'ammirazione. Se ci torniamo in condizioni d'animo diverse, non ci par più quello. Ovunque si lavora, ovunque c' è attività, ovunque mi posso rendere utile, io sono felice, relativamente, e mi sento vivere, come qui. Bisogna che io impari da lei; voglio farmi suo scolaro anch'io; qual lavoro mi assegna? - domandò Franco in tono leggermente ironico. Per ora nessuno; domattina, se le annoia di venir qui per la seconda colazione, posso fargliela servire allo stabilimento, come la faccio servire al Varvaro. Visiti i magazzini, s'imbarchi se vuole, sull'yacht, monti a cavallo. Il Varvaro penserà a darle una buona guida. Nel dopopranzo, se non le dispiace, andremo a Castelvetrano. No, no, - rispose Franco, - odio le piccole città dove siamo guardati come bestie feroci. Mi lasci vedere la villa, passeggiare e montare a cavallo; a Castelvetrano vi andrò il meno possibile. Allora lo aspetterò a mezzogiorno. Franco non aveva nessuna voglia di andarsene e Velleda, che vedeva Maria mezza addormentata sopra un sofà, in sala, la prese fra le braccia e presentatala allo zio, perché la baciasse, alzò il volto della bambina fino a quello di lui e poi si allontanò per portarla alla balia e farla mettere a letto. La signora in quell' atteggiagiamento affettuoso, quasi materno, con gli occhi fissi sulla Maria, era cosi graziosa, che Franco la seguì con lo sguardo e quando la vide ritornare, non seppe resistere al desiderio di domandarle: È maritata? ha figli? Sono vedova e ho perduto una cara bambina, che avrebbe l'età di Maria e portava lo stesso nome, - rispose Velleda brevemente. Ho capito subito che ella era stata madre, - osservò Franco. - Non si vuol bene ai bambini altrui, se non si è imparato a voler bene ai proprj. Non sono del suo parere, - replicò Velleda che voleva riportare la conversazione sopra un terreno generale. - L'affetto della donna per le creature deboli non è soggettivo, come ella afferma. La donna ama i piccini per istinto, e le giovanissime maestre degli asili d'infanzia e delle classi elementari adorano i loro scolaretti obbedendo a quell' istinto. Una madre, anzi, separata dai proprj figli o privata di loro dalla morte, deve essere o molto indifferente o molto forte di carattere per affezionarsi ai figli degli estranei. Dunque lei è molto forte? Forse. Non è una virtù, nè un pregio per una donna. Se tornassi bambina e potessi dirigere la mia educazione, invece di studiarmi di esser forte, vorrei esser debole, inetta a ogni lavoro della mente, superstiziosa, devota: una donna vera insomma. Noi, che abbiamo studiato, che abbiamo una personalità, un carattere proprio, siamo generalmente molto infelici, se non sappiamo assuefarci alla ostilità e alla gelosia degli uomini, che vedono in noi altrettanti pericolosi concorrenti, e al disprezzo delle donne ignoranti. È vero che la coscienza del nostro valore, della nostra forza, ci da compensi talvolta sublimi, ma è anche vero che siamo prive di tante soddisfazioni veramente femminili e che dobbiamo camminar sole nella vita per non correre il rischio di cadere sotto il dominio di un uomo volgare, il quale fa pagare alla povera creatura che riduce sua schiava, tutte le ferite alla sua vanità maschile, che egli ha sofferto non solo per lei, ma per colpa di tutte le donne che hanno fatto sforzi per inalzarsi. Peraltro, se noi incontriamo un uomo di sentimenti generosi, privo d'insulse vanità, che ci stima e ci ama appunto per il nostro valore, gustiamo una felicità che la comune delle donne non sogna neppure; ma gli uomini di quel genere sono rari,rarissimi; sono nature quasi divine, e crescendo, come fa ogni giorno, il numero delle donne che anelano ad avere la loro parte nella vita del pensiero e del lavoro, cresce quello delle infelici. Queste teorie non mi pare che le applichi; perché istruisce Maria? Perché il signor Roberto così vuole e per questo mi ha posto a fianco di sua figlia. Per credere alla verità della mia massima, bisogna aver lottato e aver sofferto; bisogna essersi trovate in mezzo alla fiera battaglia fra uomini e donne, combattuta da queste per rivendicare il loro diritto al lavoro dell'umanità; da quelli per impedire soprattutto che questo diritto sia riconosciuto e che nella divisione i loro interessi vengano lesi da una falange di volonterose, che portano nel nuovo campo della loro attività forze giovanili e quello zelo proprio dei neofiti. Ma vedrà quante vittime cagionerà questa battaglia! Il vero debellato sarà l'amore, perché gli uomini, meno quei pochi eletti di cui ho parlato prima; non lo capiscono altro che come un sentimento da padrone a schiava e quando vedranno nella donna la loro eguale, non sapranno amarla e le unioni legittime o no saranno determinate dall'interesse soltanto, senza poesia, senza passione; saranno vere associazioni costituite da due persone capaci di menare avanti col loro lavoro la costosa baracca della famiglia. L'eguaglianza dei diritti porta all'uguaglianza degli obblighi e la donna in questa associazione avrà la soma più pesante; perché oltre a quelli nuovi, non potrà rifiutare i vecchi, che la natura le impone, i suoi doveri verso i figli. Franco ascoltava attentamente Velleda, fissandola. Quella donnina, che pensava ai problemi sociali, che parlava con quella voce armoniosa e con quella grazia femminile di cose che egli non aveva mai sentito trattare da altre donne, lo incuriosiva e lo meravigliava. Questa meraviglia peraltro non era suscitata da un sentimento alto di stima e d'ammirazione, ma da una curiosità quasi infantile di scoprire per quale occulto congegno il cervello di lei presentava certe anormalità, mentre l' involucro esterno era cosi seducente, poiché fino dal primo momento ella eragli piaciuta moltissimo. E quella sera Franco l'avrebbe lasciata parlare lungamente di cose che a lui poco premevano, ma che acquistavano un valore udendole esprimere da lei, se Velleda, sentendo suonar le undici dall'orologio della torre dello stabilimento, non gli avesse fatto capire che quella era l'ora in cui ella doveva coricarsi, per essere alzata alle sei. Franco le augurò la buona notte e le baciò la mano. Saverio, il cameriere di Roberto, con una lanterna rischiarava la via al giovane signore sino allo stabilimento silenzioso, dove col fucile in ispalla vegliava un guardiano, che gli dette la buona sera. Franco dispensò Saverio dall'aiutarlo a spogliarsi e si mise alla finestra di camera sua. Da quella vide chiudere le finestre della villa, spegnere i lumi e poco dopo udì abbaiare festosamente i cani, come se qualcuno li avesse sciolti. Dinanzi a Franco si stendeva il mare illuminato dalla luna e sulle onde si cullavano barche e vaporetti ancorati vicino alla gettata. Un silenzio solenne regnava su quella spiaggia deserta: nessun grido turbavalo, ora che i cani avevano sfogata la gioia di sentirsi liberi nel giardino. Capisco che Roberto possa viver qui, - pensava Franco, - egli si è procurata una esistenza comoda, signorile, allietata dalla presenza di una graziosa donnina; è molto molto abile quel caro fratello! E l'immagine di Velleda gli s'imprimeva negli occhi e la rivedeva ora a tavola, signorilmente composta, ora con Maria fra le braccia, sorridente e affettuosa, ora parlando eccitata della questione femminile, sempre carina sotto quegli aspetti diversi di dama, di madre e di pensatrice. Sapro chi è, conoscerò il mistero di quella esistenza, - disse fra sè Franco, invaso da una malsana curiositá. - Non è una donna comune e a Firenze non può esser passata inosservata. Il Signorini deve conoscerla certo, conosce tutti! E ruminando nella mente il disegno di scrivere a quello sfaccendato fiorentino, che lo distraeva quando passava per Firenze, Franco si coricò e dormì saporitamente.

LE NOVELLE DELLA NONNA. Fiabe fantastiche

679069
Perodi, Emma 2 occorrenze
  • 1992
  • Newton Compton Editori s.r.l.
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Però Banfio era uno di quegli uomini che non possono stare lungamente abbattuti, e fece presto a consolarsi dicendo: - Non sarà mica noto solo alla strega il nascondiglio della campana di oro fino. Ci son tanti vecchi in questo paese! E ripreso coraggio andò a trovare una donnina tutta curva, che camminava a malapena su due bastoni, ma che era tutta pepe. - Il posto te lo indico subito, - rispose la vecchia. - La fonte che tu cerchi è a settemila passi dal noce, che cresce sotto la torre a tramontana del castello di Porciano. Ti avverto però che non c'è strada, e bisogna camminare sempre a diritto. Ma quando ti ho detto il luogo, non ti ho detto nulla, perché soltanto Oliva, la sorella del Romito, possiede la sega per segare il macigno nel quale è rinchiusa la campana d'oro fino. Banfio stette a sentire quello che gli diceva la vecchia, ma siccome di Oliva non ne voleva sapere affatto, si consolò pensando che dal momento che sapeva il luogo, a spaccare il macigno ci sarebbe riuscito senza l'aiuto di Oliva. Senza più indugiare, Banfio cercò il noce, e poi, fattosi dare un gomitolo per non deviare né a destra né a sinistra, incominciò a sdipanarlo camminando e contando. Ma siccome egli non aveva molta memoria, ogni tanto saltava a pié pari qualche decina, oppure contava doppia qualche centinaia, e così rifaceva il gomitolo e ricominciava da capo. Pare impossibile, ma gli ci vollero otto giorni prima di aver contato settemila passi; e quando li ebbe contati si trovò in un punto dove non c'era né fonte, né spino, né macigno, ma un bel praticello tutto fiorito. - Quella vecchia era rimbambita e chissà quante sciocchezze mi ha dette! - esclamò Banfio. - Andiamo a interrogare qualche persona che abbia il cervello più al posto. Ma i giorni passavano, per il buffone, in gite, in palpiti, in ansietà, e quand'era notte e sperava di dormir placidamente, ecco che in sogno si vedeva apparire Oliva, la quale gli sorrideva con la bocca sdentata, e con una voce che pareva il rumore che fanno i tarli nel legno, gli diceva: - Banfio mio, se tu mi sposassi, io ti farei l'uomo più ricco della terra; rammentati quello che dice la leggenda, che la campana d'oro vale quanto tutto il Casentino. Saresti più ricco dei Guidi di Poppi, dei Catani di Chiusi, degli Ubertini di Bibbiena. Ma le ricchezze sarebbero nulla in paragone della felicità di avere una moglie bella e amorosa come me. Finché Oliva gli parlava in sogno del tesoro, Banfio l'ascoltava sorridendo; ma non appena gli faceva quelle moine, egli si destava spaventato e, per quella notte, addio sonno! Il giorno dopo andava a interrogare altre vecchie e altri vecchi del paese; ma tutti gli rispondevano che il luogo ove stava nascosto il tesoro lo sapevano, e ci sarebbero andati a occhi chiusi; ma in quanto a scavarlo era un'altra cosa: occorreva la sega di Oliva. Banfio s'era fissato in testa di arricchire e non aveva pace. - Ebbene, - disse un sabato, - anderò stanotte da Oliva. In fin dei conti, ella può essere meno brutta di quanto mi figuro. Per ora la cosa principale è di diventare ricco e di potermi rivoltolar nell'oro come i maiali nel fango. Presa che ebbe questa determinazione, non gli pareva vero che suonasse la mezzanotte per andar a bussare alla casuccia del Romito, fra i boschi, verso Montemignaio. A mezzanotte precisa era davanti all'uscio e sudava freddo dall'ansietà. Egli bussò e la voce del Romito domandò: - Chi sei? che vuoi? - Sono Banfio e voglio Oliva. - Potresti dire la bella Oliva, screanzato! - esclamò una voce stridula. - Sono Banfio e voglio la bella Oliva, - disse il giullare. Allora l'uscio si aprì e Banfio penetrò nella cucina; ma appena ebbe messo il piede sulla soglia, vi rimase inchiodato. - Perché non entri? - gli disse il Romito. Banfio non rispondeva e teneva gli occhi fissi sopra un gruppo formato da tre vecchie. Due di esse, vestite modestamente, stavano sedute sotto la cappa del camino a scaldarsi; la terza, tutta in ghingheri, gli veniva incontro e gli sorrideva con la bocca sdentata. In costei Banfio riconobbe subito l'Oliva veduta in sogno, ma anche più brutta. Aveva la pelle color delle vecchie candele di cera, gli occhi cisposi, la bocca bavosa, le mani rattrappite. Sulla testa pelata e tentennante teneva una scuffia di velluto ricamata di perle e sulla fronte un diadema di pietre preziose. - Da molti sabati ti aspettavo, Banfio, - disse la vecchia stendendogli la mano. - Perché non sei venuto prima, dolce amor mio? Banfio non sapeva più in che mondo si fosse, e aveva una voglia matta di stritolare quella brutta strega e di fuggir lontano; ma ella seppe trattenerlo, dicendogli: - Vuoi venir subito a veder la campana d'oro fino? - Andiamo! - rispose il giullare. - È una parola! La via è aspra e lunga, e io non sono assuefatta a calpestare sassi e steppi; prendimi nelle tue braccia amorose e portami dove io t'indicherò, - disse Oliva. Banfio l'avrebbe volentieri buttata nel fuoco, ma tacque e obbedì. Però, appena ebbe fra le braccia quel mucchio d'ossi e sentì l'alito appestato della vecchia, la strinse forte forte sperando di stritolarla. - Ho le membra delicate, amor mio; - disse Oliva, - e tu devi portarmi gentilmente, senza farmi male. Quel mucchio d'ossa infagottato nei ricchi abiti e nei gioielli pesava di molto, e Banfio sudava; ma nonostante camminò con quel carico per la via indicatagli dalla vecchia, e giunse al prato fiorito, dov'era riuscito partendo dal noce di Porciano. Giunto colà, egli aprì le braccia e lasciò cascar di botto Oliva sull'erba. - Piano, amor mio; noi donne abbiamo le membra fragili e bisogna trattarci come fiorellini delicati. - Bel fiorellino! - esclamò Banfio tutto arrabbiato. - Tu mi canzoni, strega. Qui c'ero venuto anche da me, e non c'è né fonte né spino, e per conseguenza non c'è neppure il tesoro. - T'inganni, - rispose Oliva. - Quest'erba e questi fiori lo celano agli occhi tuoi e a quelli di tutti. Scava qui, - ordinò ella battendo il bastone, - e troverai la fonte. Era un lume di luna così bello che pareva d'esser di pieno giorno, e Banfio distingueva non solo i fiori che smaltavano il prato, ma anche i fili d'erba. Egli si diede a scavare con le mani, e mentre lavorava, il sudore dell'ansietà gli gocciolava dalla fronte. Scava, scava, aveva fatto una buca abbastanza profonda, quando le sue dita incontrarono la pietra. - Qui non c'è una fonte, ma un macigno! - esclamò egli indispettito. - Smuovi la pietra che impedisce all'acqua di sgorgare e troverai la fonte, - rispose Oliva. - Ma io sono stanco, - osservò il giullare. - Non ho mai lavorato la terra prima d'ora! - Prima d'ora non fosti neppur ricco né marito felice, amor mio caro, - disse la vecchia. - Non ti stancare; ogni felicità deve esser conquistata con molta fatica. Se non fosse stato il desiderio della ricchezza, il giullare sarebbe scappato via, sì poco gli sorrideva l'altro di sposare quella strega; ma l'oro aveva un gran potere sull'animo di lui, e si piegò anche alla fatica di smuovere la pietra che tratteneva l'acqua. Questa, ormai libera, s'inalzò in una bellissima colonna, e ricadde sul prato coprendo i fiori e l'erba; poi, trovato un punto più basso, scorse, a guisa di piccolo rivo, verso il piano. - E lo spino dov'è? - domandò Banfio. - Sollevami ancora nelle tue braccia amorose e te lo indicherò, - disse Oliva. Il buffone dovette obbedire, e la vecchia lo guidò alla estremità opposta del prato, dove, col bastone, gli ammiccò che da quel lato cresceva una siepe di spini. - E la famosa campana, dov'è? - Vedi, - rispose la vecchia, - tutto lo spazio che corre fra la fonte e la siepe? - Lo vedo. - Quanto calcoli che sia? - Quattrocento passi almeno. - Ebbene, la campana d'oro che tu cerchi è larga altrettanto alla base. Gli occhi di Banfio brillavano di cupidigia e, dimenticando quello che gli era stato detto, si buttò in terra e si mise a scavare con le mani. Scava, scava, trovò il macigno. Allora fece una buca, a qualche distanza dalla prima, e lì pure sentì dopo poco sotto le unghie un masso di durissima pietra. La vecchia stava accanto a lui e rideva. - Amor mio caro, senza la sega che io sola possiedo e che per cento anni ho unta ogni giorno col grasso di topo, tu non riuscirai a intaccare codesto macigno. - Dammi subito quella sega! - disse Banfio accecato dalla brama di possedere quel tesoro. - Ho giurato di non darla altro che allo sposo mio, - replicò la vecchia bavosa. - Se vuoi, quest'altro sabato faremo le nozze. - E sia! - esclamò Banfio. - Ora, sposo mio diletto, ricopri la fonte e riconducimi dal fratel mio, - disse Oliva. Quando furono a casa del Romito, la vecchia, con mille leziosaggini, annunziò alle sorelle che era sposa, che il sabato venturo si facevano le nozze e che in quella settimana aveva da fare un mondo per preparare la casa e il corredo. Prima che fosse giorno ella si fece aiutare a salir sopra una mula, e soltanto dopo aver baciato e ribaciato Banfio, sbavandogli tutto il viso, se ne andò in compagnia delle sorelle. Il buffone, quando l'ebbe vista sparire fra gli alberi del bosco, credé di aver sognato e s'avviò verso Porciano con la testa imbambolata. Il tesoro lo voleva, ma quella vecchia cisposa e bavosa, no davvero! Peraltro, quel giorno, attratto dalla cupidigia, tornò al prato dov'era stato la notte e misurò la distanza che correva fra la fonte e la siepe di spini. - Con quest'oro si compra un reame! - esclamò. - Se non posso averlo senza sposar la vecchia, è meglio che la sposi; poi a farla crepare presto ci penserà la morte, che pare si sia scordata di venirsela a prendere, o ci penserò io a rammentarla al Diavolo. In quella settimana la via fra Porciano e il prato non mise erba; Banfio la faceva tre o quattro volte il giorno, calcolando sempre quanto avrebbe potuto valere quella grande campana d'oro fino, e pensando a tutte le soddisfazioni che si sarebbe potuto procurare quando quell'oro fosse suo. Altro che le ricchezze del conte Gentile! Il signor di Porciano gli pareva uno straccione, anche quando lo vedeva seduto a mensa, sotto il baldacchino frangiato di oro, o a cavallo, alla testa di una schiera di paggi e di valletti. Una cosa sola invidiava a Gentile: la bella e giovane sposa. Quando pensava a Oliva, gli s'agghiacciava il sangue nelle vene. Eppure tutta la notte il povero Banfio se la vedeva davanti agli occhi, come quel sabato che l'aveva portata sul prato. La settimana passò presto e la sera del sabato, Banfio, mogio mogio, andò a bussare alla casa del Romito. Quella volta la porta gli fu subito spalancata, e la sposa gli andò incontro tentennando, benché si appoggiasse sul bastone. - Dolce amor mio, tutto è pronto, non si aspettava altro che te, - gli disse baciandolo con la bocca bavosa. Infatti, sopra una parete era preparato un altare illuminato, e sopra a quello c'era un'immagine velata. Il Romito consegnò l'anello a Banfio perché lo infilasse nel dito alla sposa; le due sorelle fecero da testimonî e appena terminata la cerimonia si misero a tavola a mangiare. Il Romito beveva per dieci e dopo poco russava come un ghiro; le sorelle si addormentarono e Banfio e la sposa rimasero a parlare. - Ora che ti ho sposata, - disse a Oliva il giullare, - non mi potresti dare la sega per segare il macigno? - No, amor mio; - rispose la vecchia, - prima che io ti faccia ricco, devi dimostrarmi il tuo affetto e la tua gratitudine. A trovare il tesoro c'è tempo; che furia hai! Banfio, che si vedeva burlato, ebbe voglia di strozzarla; ma tentò di prenderla con le buone per ottener l'intento. - Carina, - le disse, - la morte ci potrebbe cogliere da un momento all'altro; perché non si debbono gustar subito le ricchezze che possiamo appropriarci? - La morte può colpirti, non dico; ma in quanto a me è impossibile; io ho fatto un patto con lei, e questo patto si rinnova ogni volta che mi rimarito. - Dunque, - disse Banfio spaventato, - io non sono il tuo primo consorte? La vecchia rise mostrando le gengive sdentate. - Il numero dei miei mariti è così grande che io non rammento neppure più quanti ne ho avuti, né come si chiamavano. Il desiderio di avere il tesoro li ha spinti a centinaia a sposarmi. - E son tutti morti? - Tutti: non per colpa mia, ma per colpa loro. Chi ha voluto uccidermi per impossessarsi della sega; chi mi ha maltrattata; chi ha tentato di fuggire. Ti avverto perché tu mi sei specialmente caro e vorrei serbarti lunghi anni al mio fianco, vorrei che tu fossi l'ultimo. Banfio sudava freddo addirittura. Dunque quella vecchiaccia gli avrebbe sopravvissuto, e senza il beneplacito di lei non poteva far nulla. - Ora andiamo a casa nostra; - disse la vecchia, - desta le mie care sorelle, aiutale a salir sulla mula; tu mi prenderai in groppa alla tua per avermi più vicina, dolce amor mio! Il pover'uomo dovette ubbidire e andare a casa della vecchia. Il giorno seguente e quelli successivi, la vecchia, col pretesto che nei primi giorni del matrimonio nessuno lavora, come nei giorni di festa, si rifiutava di consegnare a Banfio la sega per segare il macigno, e se lo teneva sempre d'attorno a farsi servire e accarezzare. Finalmente un giorno, a forza di moine, egli la indusse a consegnargliela, e appena l'ebbe nelle mani corse al prato, scavò la terra e quand'ebbe scoperto il macigno si diede a segarlo. Il ferro entrava nella pietra come un ago in un masso di ghiaccio, e con poca fatica Banfio giungeva a toccar l'oro; l'oro, mèta di tutti i suoi desiderî, delle sue brame sfrenate. Sega, sega, aveva staccato molti pezzi di macigno e vedeva tutta la parte superiore della campana, che, oltre ad essere di metallo prezioso, era ornata di finissimo lavoro e tempestata di gemme. Venne la sera, ma Banfio non si poteva staccar da quel posto e non pensava più alla moglie né ad altri. Venne la notte, ed egli lavorava ancora. Insomma, a farla breve, lavorò tanto, senza cessar mai, che quando spuntò l'alba aveva messo allo scoperto tutto un lato della campana e vi era penetrato sotto. Quando vide quell'immensa vòlta tutta d'oro massiccio, esclamò: - Quella strega, raccontandomi di tutti i mariti che ha fatto morire prima di me, ha voluto sgomentarmi. Scommetto che lo ha fatto per tenermi cucito alla sottana. Ora son ricco; marameo! chi s'è visto, s'è visto! Appena aveva pronunziato queste parole, si sentì acchiappare per la cintola delle brache dal gancio del batacchio e "din don" fu mandato di qua e di là, quasi che venti braccia tirassero la fune della campana. Questo scherzo durò per un pezzo, e Banfio si sentiva più morto che vivo. Aveva la testa tutta ammaccata, le braccia e le gambe rotte dai colpi, e pensava con terrore che anche a lui era riservata la sorte de' suoi predecessori, e che le ricchezze che lo circondavano non le avrebbe mai godute, mai! Ma appena la campana si fermò, egli riprese coraggio e pensò che sarebbe stato più prudente di andare a Porciano ad avvertire della scoperta il conte Gentile. Era quello un signore giusto di animo, e se gli avesse proposto di terminare lo scavo, che non poteva far da solo, mediante un tanto di compenso, il Conte lo avrebbe aiutato anche a trasportare la campana e a dividerla in tante parti per poterla fondere ed esitar l'oro. Lieto di questa pensata, Banfio si disponeva a rifare la via già fatta per discendere sotto la grande vòlta d'oro, quando, che è che non è, ecco che compare Oliva con gli occhi tutti lacrimosi. - Marito mio caro, già ti piangevo morto! - esclamò ella buttandogli al collo due braccia, che parevan pale da mulino a vento. - Perché, perché mi hai tenuta in tanta angustia? Banfio fremeva dalla rabbia a vedersi capitar quel fulmine a ciel sereno, e voleva indurre la vecchia a tornare a casa e a lasciarlo lavorare ancora; ma ella protestò che non voleva farlo morir di fatica, e lo persuase a sdraiarsi per terra e dormire. Il pover'uomo era stanco e non tardò a prender sonno. Quanto egli dormisse non lo so; però è un fatto che quando si svegliò sentì sonare a morte. Era un doppio funebre, malinconico, e il più curioso si è che era proprio la campana d'oro che sonava quel doppio. Banfio, non vedendosi più Oliva alle costole, pensò che quello era il momento opportuno per correre dal signore di Porciano a fargli la proposta; ma quando fece per camminare, la campana cessò di sonare, le gambe gli si fecero pesanti come se fossero state di piombo, ed egli dovette mettersi di nuovo a giacere per terra. Allora s'accòrse che la campana si stringeva lentamente, come se tutto l'oro che la formava tendesse a riunirsi in un sol masso. - Sono morto! - gridò. - Oliva, Olivuccia, Olivina mia bella, salvami! A questo grido nessuno rispose, mentre la campana si stringeva sempre e le pareti interne di essa già gli toccavano la testa e i piedi. Per non rimanere schiacciato, Banfio dovette alzarsi; ma dopo poco si trovò chiuso come in un astuccio, e la paura di morire lo assalì. Non chiamava più Oliva, che non gli rispondeva, ma gridava, sperando di essere udito da qualche pastore, e insieme con la paura di morire gli venne quella di esser dannato per sempre. Allora si diede a invocare tutti i santi del paradiso. Intanto la campana lo schiacciava e si restringeva sempre. - Vergine santa, - gridò allora, - mi pento di aver bramato le ricchezze, mi pento di tutto, salvatemi! Dopo questa fervida invocazione, la campana incominciò ad allargarsi sensibilmente, e Banfio poté uscir all'aria libera. Appena fu fuori si gettò in ginocchio e pregò. Banfio riprese coraggio e, senza fermarsi mai, corse a Porciano dove narrò tutto al conte Gentile, il quale esortò il giullare a cambiar vita e a rinunziare alle brame smodate di ricchezze, nate in lui per suggerimento del Demonio. Il conte Gentile, per convincere Banfio, lo condusse alla casa del Romito, e appena la toccò con una croce che aveva al collo, la casa sprofondò nella terra e il Romito sparì in una voragine. Poi ordinò a molti cavatori di pietra di scavare nel luogo ove Banfio aveva veduta la campana d'oro; ed essi, scava scava, non trovarono altro che un masso di tufo. Convinto il buffone che tutto quello che gli era successo non fosse altro che opera infernale, e per impedire che altri dopo di lui fosse tratto nei lacci del Demonio, fece pubblica confessione de' suoi peccati e quindi andò a farsi monaco a Camaldoli, dove visse molti anni disimpegnando gli uffici di converso. Ma l'esempio di Banfio non levò dalla testa degli abitanti di Porciano che nel loro territorio vi fosse il tesoro, e ancora, se andate nel paesetto costruito sotto il castello, vi diranno che: A Porciano, in Casentino, Tra una fonte ed uno spino, Si trova una campana d'oro fino, Che vale quanto tutto il Casentino. Però, nonostante la leggenda, nessuno l'ha scavata, e nessuno è arricchito. Qui Regina tacque e l'occhio suo corse a Vezzosa, che durante la narrazione della novella s'era alzata una diecina di volte per andare sulla via maestra a spiare il ritorno di Cecco. Il resto della famiglia andò a letto; la vecchia massaia e la giovane sposa, inquiete tutte e due, rimasero ad aspettare l'assente. - Mamma, - disse Vezzosa, - vi sembro meritevole che Cecco mi tenga in tanta angustia? - No, figlia mia; ma sii indulgente con lui, non lo rimproverare quando giunge. Mostragli la tua afflizione, non il tuo rincrescimento; la prima intenerisce, il secondo irrita. - E se Cecco si sviasse da casa? - Allora saprei richiamarlo io al dovere; ma per una volta sii indulgente. - Eccolo, - gridò Vezzosa che lo aveva veduto comparire nella viottola del podere. Era lui, infatti, ma taciturno e turbato. Si vedeva che era pentito di essere stato tante ore fuori di casa, e nel giungere diede appena la buona sera. - Che cosa t'è successo? - gli domandò Vezzosa. - Nulla. Quando siamo in compagnia, una ciarla tira l'altra, un bicchiere tira l'altro, e s'è fatto quest'ora. E senza aggiungere nessuna spiegazione, entrò in casa. - Mamma, a Cecco è successo qualche cosa, lo sento, me ne accorgo; fatelo confessare voi, io non ne ho il coraggio! - esclamò Vezzosa correndo a piangere in camera sua. Ma anche alle vive e tenere insistenze della mamma, Cecco rispose con lo stesso laconismo, e invece di salire a rassicurare la Vezzosa, s'indugiò molto nella stalla e non andò a letto altro che quando suppose che la moglie fosse addormentata.

Era bastata quell'idea della buona vecchia per sollevare gli animi abbattuti della famiglia, o ora l'avvenire non appariva più a nessuno così triste come quando ella aveva preso a narrar la novella. La Vezzosa, che non aveva messo bocca nel discorso, perché le pareva che, essendo da poco in casa, non spettasse a lei a parlare, accompagnando in camera la vecchia, le buttò le braccia al collo commossa. - Mamma, - le disse, - che ci siate lungamente conservata; voi siete la nostra benedizione!

Se non ora quando

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Levi, Primo 2 occorrenze

Sul timone di direzione era dipinta in nero la croce uncinata, orgogliosa e orrenda, e accanto ad essa, l' uno sotto l' altro, otto profili che Leonid non faticò ad interpretare, tre caccia francesi, un ricognitore britannico e quattro trasporti sovietici, gli avversari che il tedesco aveva abbattuti prima di cadere a sua volta. Doveva essersi schiantato diversi mesi prima, perché sui solchi che aveva arato nel terriccio avevano già incominciato a ricrescere le erbe e gli arbusti del sottobosco. _ È la nostra buona stella, _ disse Mendel: _ Che cosa vorresti di meglio come bivacco? almeno per qualche giorno? Prima era lui il padrone del cielo, adesso i suoi padroni siamo noi _. Non fu difficile forzare il portello della cabina di pilotaggio; i due vi penetrarono, e si dedicarono con curiosità allegra a farne l' inventario. C' era un cagnolino di pezza, unto e floscio, a cui qualcuno aveva applicato intorno al collo un collarino di pelliccia bruna: una mascotte, che evidentemente non aveva funzionato. Un mazzolino di fiori finti. Quattro o cinque istantanee, le solite istantanee che si portano addosso i soldati di tutti i paesi: un uomo e una donna in un parco, un uomo e una donna a una fiera di villaggio. Un piccolo dizionario tedesco-russo: _ Chissà perché se lo portava in volo, _ si domandò Mendel. _ Forse prevedeva quello che gli sarebbe successo, rispose Leonid, _ il paracadute non c' è più, forse lui si è buttato, è qui in giro, disperso come noi, e il dizionario gli sarà venuto utile _. Ma guardarono meglio, e videro che il libretto non era stato stampato in Germania, bensì a Leningrado: strano. A misura che l' inventario procedeva, quell' aereo diventava sempre più strano. Due delle fotografie rappresentavano un giovane snello nella divisa della Luftwaffe insieme con una ragazza piccola e grassoccia, con le trecce brune; le altre tre mostravano invece un giovane in borghese, atticciato e muscoloso, dal viso largo e dagli zigomi alti, ed anche la sua ragazza era diversa, bruna anche lei, ma con i capelli tagliati corti e col naso camuso. In una di queste tre il giovane portava una camicia a ricami geometrici, e si distingueva sullo sfondo una piazza e un edificio a logge, dalle finestre a sesto acuto, fittamente arabescato: non sembrava proprio un ambiente tedesco. La radio di bordo era stata asportata, e nel vano delle bombe non c' erano bombe. C' erano invece tre pani di segala raffermi, parecchie bottiglie piene, e un volantino in lingua bielorussa che invitava i cittadini della Russia Bianca ad arruolarsi nei reparti di polizia organizzati dai tedeschi, e le cittadine a presentarsi agli uffici dell' Organizzazione Todt: avrebbero guadagnato una buona paga lavorando per la Grande Germania, nemica del bolscevismo ed amica sincera di tutti i russi. C' era un numero abbastanza recente della "Bielorussia Nuova", il giornale che i tedeschi stampavano in bielorusso a Minsk: portava la data di sabato 26 giugno 1943, e vi si poteva leggere l' orario delle messe alla cattedrale e una serie di decreti relativi allo smembramento dei kolchoz ed alla ripartizione delle terre ai contadini. C' era una scacchiera, opera di mani pazienti e rozze, ricavata da un largo lembo di corteccia di betulla: le caselle nere erano state ottenute asportando lo strato superficiale candido. C' era anche un paio di stivali, altrettanto rozzi, che Leonid e Mendel rigirarono a lungo fra le mani senza capire di quale materiale fossero fatti: no, non era cuoio, l' inquilino dell' aereo aveva tagliato via il rivestimento di finta pelle dei sedili e l' aveva cucito a grossi punti con cavetto elettrico trovato fra i rottami. Bel lavoro, apprezzò Mendel, ma che fare ora, dal momento che l' alloggio era già occupato? _ Ci nascondiamo e lo aspettiamo; vedremo che tipo è, poi decideremo. L' inquilino arrivò verso sera, con passo cauto; era lui l' ometto muscoloso delle fotografie. Aveva indosso pantaloni militari, una giacca di pelle di pecora, e il berretto quadrato bianco e nero degli usbechi. Dalle spalle robuste gli pendeva una bisaccia, da cui cavò un coniglio vivo. Lo uccise con un colpo del taglio della mano sulla nuca, lo sventrò, e incominciò a scuoiarlo fischiettando. Mendel e Leonid, troppo vicini, non osavano parlare per paura di essere uditi. Leonid, che si era sfilato lo zaino, lo socchiuse e indicò a Mendel i pacchetti di sale; Mendel capì a volo, e a sua volta indicò il mitragliatore: potevano farsi vivi. L' usbeco, al vederli sorgere in mezzo ai cespugli, non diede segno di sorpresa. Depose il coniglio e il coltello e li accolse con diffidenza cerimoniosa. Non era così giovane come appariva dalle fotografie, doveva avere una quarantina d' anni. Aveva una bella voce di basso, educata e morbida, ma parlava il russo con incertezze ed errori, e con una lentezza irritante. Non che esitasse nella scelta delle parole: arrestava il discorso ad ogni frase, o a mezza frase, senza tensione né impazienza, come se il discorso stesso avesse cessato di interessargli e ritenesse superfluo arrivare alla conclusione; poi, inopinatamente, riprendeva a parlare. Peiami, si chiamava: Peiami Nasimovic. Pausa. Nome strano, certo, ma anche il suo paese era strano. Pausa. Strano per i russi, e i russi erano strani per gli usbechi. Lunga pausa, che non accennava a finire. Un disperso: sicuro, era anche lui un disperso, un soldato dell' Armata Rossa. Disperso da più di un anno, quasi da due. No, non sempre nell' aereo: in giro per le isbe dei contadini, un po' a lavorare nei kolchoz, un po' aggregato a qualche gruppo di imboscati, un po' con qualche ragazza. Quella della foto? No, quella era la moglie, lontana, lontana senza fine, tremila chilometri, di là del fronte, di là del Caspio, di là del mar d' Aral. Posto nell' aereo? Che giudicassero loro stessi: non ce n' era molto. Una notte sì, stringendosi un poco; forse anche due, per cortesia, per ospitalità. Ma sarebbero stati male in tre. Leonid parlò rapidamente in jiddisch a Mendel: la faccenda si poteva concludere per le vie spicce. No, rispose Mendel senza muovere il capo e senza mutare l' espressione del viso: di ucciderlo non se la sentiva, e se lo avessero cacciato lui poteva denunciarli. E d' altronde un aereo abbattuto non era una sistemazione ideale né definitiva. _ Ho già ucciso anche troppo. Non uccido un uomo per un posto su un aereo che non vola. _ Ne uccideresti uno se l' aereo volasse? Se ti portasse a casa? _ Quale casa? _ disse Mendel: Leonid non rispose. L' usbeco non aveva capito il dialogo, ma aveva riconosciuto la musica aspra del jiddisch: _ Ebrei, vero? Per me è lo stesso, ebrei, russi, turchi, tedeschi _. Pausa. _ Uno non mangia più di un altro quando è vivo, e non puzza più di un altro quando è morto. C' erano ebrei anche al mio paese, bravi a fare commercio, un po' meno bravi a fare la guerra. Anch' io del resto; e allora, che ragione ci sarebbe di fare la guerra fra noi? Il coniglio era ormai scuoiato. L' usbeco mise da parte la pelle, scalcò la bestia con la baionetta appoggiandosi su un ceppo e prese a farla rosolare su una lamiera dell' aereo che aveva piegata alla meglio in forma di padella. Non aveva messo né grasso né sale. _ Te lo mangi tutto? _ chiese Leonid. _ È un coniglio magro. _ Ti servirebbe del sale? _ Mi servirebbe. _ Ecco il sale, _ disse Leonid, cavando un pacchetto dallo zaino, _ sale contro coniglio: un buon affare per tutti. Contrattarono a lungo su quanto sale valesse mezzo coniglio. Peiami, pur senza mai perdere la calma, era un negoziatore instancabile, sempre pronto a rilanciare nuovi argomenti: il mercanteggiare lo divertiva come un gioco e lo esaltava come un esercizio cavalleresco. Fece presente che il coniglio nutre anche senza sale, mentre il sale senza coniglio non nutre. Che il suo coniglio era magro, e perciò più pregiato, perché il grasso di coniglio è nocivo ai reni. Che lui era momentaneamente sprovvisto di sale, ma che nella zona la quotazione era bassa, sale ce n' era in abbondanza, i russi lo buttavano giù coi paracadute a quelli delle bande: loro due non dovevano approfittare della scarsità in cui lui casualmente si trovava, se andavano verso Gomel avrebbero trovato sale in tutte le isbe, a quotazioni disastrose. Infine, per puro interesse culturale e curiosità delle usanze altrui, si informò: _ Voi mangiate coniglio? Gli ebrei di Samarcanda non lo mangiano: per loro è come il porco. _ Noi siamo ebrei speciali; siamo ebrei affamati, _ disse Leonid. _ Anch' io sono un usbeco speciale. Concluso l' affare, vennero fuori da un nascondiglio mele, fette di rapa arrostite, formaggio e fragole di bosco. I tre cenarono, legati dall' amicizia a fior di pelle che nasce dalle contrattazioni; alla fine Peiami andò nella carlinga a prendere la vodka. Era samogòn, spiegò: vodka selvaggia, casalinga, distillata dai contadini; molto più robusta di quella dello Stato. Peiami precisò che lui era un usbeco speciale perché, quantunque mussulmano, la vodka gli piaceva molto; e poi, perché gli usbechi sono un popolo bellicoso, e lui invece non aveva voglia di fare la guerra: _ Se nessuno mi viene a cercare, io resto qui a mettere trappole ai conigli finché la guerra finisce. Se vengono i tedeschi, vado coi tedeschi. Se vengono i russi, vado coi russi. Se vengono i partigiani, vado coi partigiani. A Mendel sarebbe piaciuto sapere qualcosa di più sui partigiani e sulle bande a cui i russi buttavano il sale. Cercò inutilmente di cavar fuori altre notizie dall' usbeco: ormai aveva bevuto troppo, o riteneva imprudente parlare dell' argomento, o veramente non ne sapeva nulla di più. Del resto il samogòn era veramente poderoso, quasi un narcotico. Mendel e Leonid, che non erano grandi bevitori, e che non bevevano alcoolici da un pezzo, si sdraiarono nella cabina dell' aereo e si addormentarono prima dell' imbrunire. L' usbeco rimase all' aperto più a lungo; rigovernò le stoviglie (e cioè la sua padella fuori ordinanza) prima con sabbia e poi con acqua, fumò la pipa, bevve ancora, e infine si coricò anche lui, spingendo da parte i due ebrei che non si svegliarono. Alle undici, verso ponente, il cielo era ancora leggermente luminoso. Alle tre del mattino faceva già chiaro: la luce entrava in abbondanza non solo dai due oblò, ma anche dalle crepe delle lamiere sconquassate dall' urto dell' aereo contro i tronchi e il suolo. Mendel era dolorosamente sveglio: gli doleva la testa e aveva la gola arida; "colpa del samogòn", pensò, ma non era solo il samogòn. Non riusciva a staccare la mente dall' accenno che aveva fatto l' usbeco alle bande nascoste nei boschi. Non che fosse per lui una notizia in tutto nuova: ne aveva sentito parlare, ed anche spesso; aveva visto, affissi alle capanne dei villaggi, i manifesti tedeschi bilingui, in cui si offriva denaro a chi denunciava un bandito, e si minacciavano pene a chi li favoreggiava. Aveva anche visto, più di una volta, gli impiccati spaventosi, ragazzi e ragazze, con il capo brutalmente slogato dallo strappo della corda, gli occhi vitrei e le mani legate dietro la schiena: portavano al petto cartelli scritti in russo, "sono ritornato al mio paese", o altre parole di scherno. Sapeva tutto questo, e sapeva anche che un soldato dell' Armata Rossa, quale lui era, ed era fiero di essere, se si trova disperso deve darsi alla macchia e continuare a combattere. E insieme era stanco di combattere: stanco, vuoto, svuotato della moglie, del paese, degli amici. Non sentiva più in petto il vigore del giovane e del soldato, bensì stanchezza, vuotezza, e desiderio di un nulla bianco e tranquillo, come una nevicata d' inverno. Aveva provato la sete della vendetta, non l' aveva appagata, e la sete si era attenuata fino a spegnersi. Era stanco della guerra e della vita, e sentiva corrergli per le vene, invece del sangue rosso del soldato, il sangue pallido della stirpe da cui sapeva di discendere, sarti, mercanti, osti, violinisti di villaggio, miti patriarchi prolifici e rabbini visionari. Era stanco anche di camminare e di nascondersi, stanco di essere Mendel: quale Mendel? Chi è Mendel figlio di Nachman? Mendel Nachmanovic, alla maniera russa, come era scritto sul ruolino del plotone, o Mendel ben Nackman, come a suo tempo, nel 1915, aveva scritto sul registro di Strelka il rabbino dei due orologi? Eppure sentiva che non avrebbe potuto continuare a vivere così. Qualcosa nelle parole e nei gesti dell' usbeco gli aveva fatto intuire che lui, sui partigiani dei boschi, ne sapeva più di quanto volesse fare apparire. Qualcosa sapeva, e Mendel sentiva in fondo all' anima, in un angolo male esplorato dell' anima, una spinta, uno stimolo, come una molla compressa: una cosa da fare, da fare subito, in quello stesso giorno la cui luce già lo aveva strappato al sonno del samogòn. Doveva sentire dall' usbeco dove stavano e chi erano queste bande, e doveva decidere. Doveva scegliere, e la scelta era difficile; da una parte c' era la sua stanchezza vecchia di mille anni, la sua paura, il ribrezzo delle armi che pure aveva sepolte e portate con sé: dall' altra c' era poco. C' era quella piccola molla compressa, che forse era quella che sulla "Pravda" veniva chiamata il "senso dell' onore e del dovere", ma che forse sarebbe stato più appropriato descrivere come un muto bisogno di decenza. Di tutto questo non parlò con Leonid, che nel frattempo si era svegliato. Attese che si svegliasse l' usbeco e gli pose alcune domande precise. Le sue risposte, molto precise non furono. Bande, sì: ce n' erano, o ce n' erano state; di partigiani o di banditi, lui non avrebbe potuto dire, nessuno lo avrebbe potuto dire. Armate, certo, ma armate contro chi? Bande fantasma, bande nuvola: oggi qui a far saltare una ferrovia, domani a quaranta chilometri a saccheggiare i silos di un kolchoz; e mai le stesse facce. Facce di russi, di ucraini, di polacchi, di mongoli venuti chissà di dove; ebrei, anche, sì, qualcuno; e donne, e una girandola di uniformi. Sovietici rivestiti dai tedeschi, nella divisa della polizia; sovietici tutti stracciati, con la divisa dell' Armata Rossa; perfino qualche disertore tedesco .... Quanti? Chi sa! Cinquanta qui, trecento là, gruppi che si formavano e si disfacevano, alleanze, litigi e qualche sparatoria. Mendel insistette: dunque, qualcosa lui Peiami sapeva. Sapeva e non sapeva, rispose Peiami; queste erano cose che sapevano tutti. Lui aveva avuto un solo contatto, mesi prima, con una banda di gente abbastanza per bene. A Nivnoe, in mezzo alle paludi, al confine con la Russia Bianca. Per affari: aveva venduto l' impianto radio dell' aereo, e secondo lui era anche stato un buon affare, perché l' apparecchiatura era a pezzi e non pensava proprio che quella gente sarebbe stata in grado di rimetterla in ordine. Lo avevano pagato bene, con due forme di formaggio e quattro scatolette di aspirina, perché era ancora inverno e lui soffriva di reumatismi. Aveva poi fatto un secondo viaggio in aprile: si era portato dietro il paracadute del tedesco morto. Sì, quando lui era arrivato lì, il pilota c' era ancora, morto da chissà quanti giorni, già tutto mangiato dai corvi e dai topi; aveva avuto un brutto lavoro per fare un po' di pulizia e d' ordine nella cabina di pilotaggio. Si era portato via il paracadute, ma a Nivnoe aveva trovato altra gente, altre facce, altri capi, che non avevano fatto tanti complimenti, gli avevano portato via il paracadute e lo avevano pagato in rubli. Una vera presa in giro; che cosa se ne poteva fare, lui, dei rubli? E con quel paracadute si potevano fare almeno una ventina di camicie. Insomma, un affare disastroso, a parte anche il viaggio: perché fino a Nivnoe erano tre o quattro giorni di marcia. No, non ci era più ritornato; anche perché gli avevano detto che stavano per trasferirsi altrove, chissà dove, non lo sapevano ancora o non glielo avevano voluto dire. Erano stati loro che gli avevano regalato il dizionario tedesco: ne avevano un pacco intero, si vede che a Mosca ne avevano stampati in abbondanza. Ecco, era tutto quello che lui sapeva delle bande, oltre naturalmente al fatto del sale. Sale ne avevano, glielo mandavano con i paracadute, e non sale soltanto; appunto, proprio per questo avevano valutato così poco il paracadute del tedesco, benché fosse fatto di tela più fine. Insomma, mettersi nel commercio è sempre un rischio, ma diventa un rischio grave quando non si conoscono le condizioni del mercato; e che mercato è un bosco, dove non sai neppure se hai dei vicini, e che gente sono, e di cosa hanno bisogno? _ Ad ogni modo, voi siete miei ospiti. Non penso che vogliate continuare subito il vostro cammino; fermatevi qui, fate i vostri piani, e ripartite domani più tranquilli. Sempre che non abbiate ragioni di avere fretta. Dividerete la mia giornata: voi vi riposerete, e io per un giorno non sarò solo. Li accompagnò in giro per il bosco, lungo sentieri appena segnati, a controllare le trappole, ma conigli non ce n' erano. C' era una donnola, mezza strozzata dal cappio ma ancora viva; anzi, talmente viva che era difficile difendersi dai suoi morsi convulsi. L' usbeco si sfilò i calzoni, li rimboccò per raddoppiarne lo spessore, vi infilò le mani come in due guanti, e liberò la creatura, che si dileguò rapida attraverso il sottobosco, flessibile come un serpente. _ Se uno ha proprio fame si mangiano anche quelle, _ disse Peiami con malinconia. _ Al mio paese, questi problemi non c' erano; anche il più povero, almeno di formaggio si poteva saziare, tutti i giorni della settimana. La carestia noi non l' abbiamo mai conosciuta, neanche negli anni più brutti, quando in città si mangiavano i topi. E invece qui è diverso, non è facile togliersi la fame; secondo le stagioni, si trovano funghi, rane, lumache, uccelli di passo, ma non tutte le stagioni sono buone; si può andare ai villaggi, certo, ma non a mani vuote: e ci vuole anche attenzione, perché sparano facilmente. A un centinaio di metri dall' aereo mostrò loro la tomba del tedesco. Aveva fatto un buon lavoro, una fossa profonda più di un metro, niente sassi perché nella zona non si trovavano, ma una copertura di tronchetti, un tumulo di terra battuta, e perfino la croce con su inciso il nome, Baptist Kipp: lo aveva ricavato dal piastrino militare. _ Perché tanta pena per seppellire un infedele? E per di più tedesco? _ chiese Leonid. _ Perché non ritorni, _ rispose l' usbeco: _ E poi perché le giornate sono lunghe, e bisogna pure occuparle in qualche modo. A me piace giocare a scacchi, e sono anche abbastanza bravo. Al mio paese non mi batteva nessuno. Bene, qui mi sono fatto i pezzi intagliati nel legno, e la scacchiera di scorza di betulla, ma giocare da soli è insipido. Invento problemi, ma è come fare l' amore da soli. Mendel disse che anche a lui piaceva giocare: c' erano ancora molte ore di luce, perché non fare una partita? L' usbeco accettò, ma quando furono arrivati all' aereo espresse il desiderio che la prima partita la giocassero loro due, Mendel e Leonid. Perché? Per cortesia di ospite, disse Peiami, ma era chiaro che voleva invece farsi un' idea di come giocavano i due futuri avversari. Era uno di quelli che giocano per vincere. I pezzi bianchi toccarono a Leonid, ed erano proprio bianchi e ancora odorosi di legno fresco. I neri invece erano di varie tonalità di bruno, abbrustoliti, affumicati; gli uni e gli altri erano poco stabili, anche perché la scacchiera non era ben piana, bensì ondulata e piena di asperità e di scalini. Leonid aprì di dama, ma si vide presto che non conosceva lo svolgimento normale dell' apertura, e si trovò in difficoltà, con un pedone di meno e i pezzi sviluppati male. Mormorò qualcosa a proposito del gioco, e Mendel gli rispose nello stesso tono sommesso, ma in jiddisch: _ Tienilo d' occhio anche tu, non si sa mai. Il mitra e la pistola sono nella cabina. Scacco al re _. Era uno scacco insidioso, col re dei bianchi malamente insaccato dietro i pedoni. Leonid sacrificò un alfiere in un futile tentativo di difesa e Mendel annunciò il matto in tre mosse. Leonid inclinò il suo re in segno di resa e di omaggio al vincitore, ma Mendel disse: _ No, andiamo fino alla fine _. Leonid comprese: Peiami doveva essere accontentato, non c' era alcun pericolo che si allontanasse, stava seguendo la partita con l' attenzione professionale e sanguinaria degli affezionati alle corride; era meglio non privarlo dello spettacolo del colpo di grazia. Venne il colpo di grazia, e l' usbeco sfidò Leonid, che accettò malvolentieri. L' usbeco aprì provocatoriamente con il pedone d' alfiere di donna: i suoi occhi, dalla cornea di un bianco talmente puro da sconfinare nell' azzurro, erano ancora più provocatori. Giocava con gesti esibiti e grotteschi, avanzando ad ogni mossa la spalla ed il braccio come se il pezzo che spostava avesse pesato una dozzina di chili; lo abbatteva sulla scacchiera come per piantarvelo dentro, o lo girava premendolo come per avvitarlo. Leonid si trovò subito a disagio, sia per questa mimica, sia per l' evidente superiorità dell' avversario: era chiaro, Peiami non voleva altro che toglierlo di mezzo il più presto possibile per cimentarsi contro Mendel. Muoveva con rapidità insolente, senza attardarsi a meditare i tratti, e manifestando sgarbata impazienza davanti alle esitazioni di Leonid. Gli diede il matto in meno di dieci minuti. _ A noi due, _ disse subito a Mendel, con un' aria così risoluta che questi si sentì a un tempo divertito e inquieto. Anche Mendel, questa volta, giocava per vincere, come se la posta in gioco fosse stata una montagna d' oro, o la vita sicura, o l' eterna felicità. Percepiva confusamente di giocare non per sé solo, ma come campione di qualcosa o qualcuno. Aprì attento e prudente, imponendosi di non lasciarsi innervosire dal comportamento dell' altro: il quale, d' altronde, abbandonò presto le sue gesticolazioni disturbatrici per concentrarsi anche lui sulla scacchiera. Mendel era riflessivo, Peiami tendeva invece a un gioco temerario e lampeggiante: dietro ad ogni suo tratto, Mendel stentava a capire se si nascondesse un piano meditato, o il desiderio di stupire, o l' audacia fantasiosa dell' uomo di ventura. Dopo una ventina di tratti nessuno dei due aveva avuto perdite, la situazione era equilibrata, la scacchiera era spaventosamente confusa, e Mendel si accorse che si stava divertendo. Perse deliberatamente un tempo, al puro scopo di indurre l' usbeco a rivelare le sue intenzioni, e vide che l' altro si innervosiva: adesso era lui che esitava davanti ai tratti, guardando Mendel negli occhi come per leggervi dentro un segreto. L' usbeco fece un tratto che si rivelò immediatamente disastroso, chiese di rifarlo, e Mendel glielo permise; poi si alzò in piedi, si scosse come un cane uscito dall' acqua, e senza parlare si avviò verso l' aereo. Mendel fece un cenno a Leonid, che comprese, lo seguì da vicino ed entrò dietro di lui nella cabina; ma l' usbeco non pensava alle armi, era solo venuto a prendere il samogòn. Bevvero tutti e tre, mentre il cielo incominciava già ad oscurarsi e si era levato il vento fresco del tramonto. Mendel si sentiva strano, fuori del tempo e del luogo. Quel gioco intento e serio si collegava nel suo ricordo a tempi e luoghi e persone intensamente diversi; a suo padre che gli aveva insegnato le regole, lo aveva vinto facilmente per due anni, con stento per altri due, e poi aveva accettato le sconfitte senza disagio; agli amici, ebrei e russi, che davanti alla scacchiera si erano educati con lui all' astuzia e alla pazienza; al calore quieto della casa perduta. Probabilmente l' usbeco aveva bevuto troppo. Quando si fu riseduto davanti ai pezzi, scatenò un' interminabile serie di cambi da cui emerse una situazione alleggerita e decantata: lui con un pedone di meno, Mendel padrone della grande diagonale e sicuramente arroccato. L' usbeco ribevve, perfezionò la propria catastrofe con un assurdo tentativo di contrattacco, si diede sconfitto, e dichiarò che pretendeva la rivincita; era stato debole, lo sapeva che quando si gioca non si deve bere, aveva ceduto al vizio come un bambino. Oramai era troppo buio, ma voleva la rivincita: domani mattina, subito, appena fatto giorno. Salutò, salì incespicando la scaletta a pioli tutta sconnessa che portava alla cabina, e dopo cinque minuti russava già. I due tacquero per qualche istante. Sul fruscio delle fronde, scosse dalla brezza, si sovrapponevano suoni meno familiari: fremiti d' insetti o di piccoli animali, scricchiolii, un coro lontano di rane. Mendel disse: _ Non è questo, il compagno di viaggio di cui abbiamo bisogno, vero? _ Non abbiamo bisogno di un compagno di viaggio, disse Leonid, ancora imbronciato per la sconfitta. _ È da vedersi; comunque, è tempo di rimettersi in cammino, prima che sia notte profonda. Attesero che il russare dell' usbeco si fosse fatto regolare, ripresero gli zaini dalla cabina e si misero in via. Per precauzione, si avviarono dapprima verso sud, poi fecero una brusca conversione e procedettero verso nord-ovest: ma il terreno era asciutto e non conservava le impronte.

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Si era aperto un cratere enorme, e in un raggio di sessanta chilometri tutti gli alberi erano bruciati o erano stati abbattuti. Era estate, e l' incendio si era spento proprio alle porte del villaggio. Mendel, Pavel, Leonid, Line e gli uomini di Ozarici prendevano parte alle esercitazioni di marcia e tiro ed alle spedizioni di approvvigionamento nelle fattorie e nei villaggi circostanti. Queste avvenivano per lo più senza attriti né resistenze da parte dei contadini; la fornitura di viveri ai partigiani era una tassazione in natura, un tempo imposta, ormai acquisita. I contadini, anche i più malcontenti della collettivizzazione, avevano ormai capito qual era la parte vincente; inoltre, i partigiani di Ulybin li difendevano contro i rastrellamenti dei tedeschi, affamati di mano d' opera per i campi di lavoro forzato. Da una di queste spedizioni Pavel ritornò a cavallo, con arie da smargiasso e il casco di pelo calcato per traverso. Non era un cavallo da sella, bensì un cavallo da tiro, maestoso e vecchio; Pavel diceva che lo aveva trovato sperduto nel bosco e morente di fame, ma nessuno gli credette: la bestia non era poi così magra. Pavel lo considerava suo di pieno diritto, gli si affezionò e il cavallo si affezionò a lui: chiamato, accorreva come un cane, col suo trotto pesante e sfiatato. Pavel non aveva mai cavalcato in vita sua, e del resto la groppa del cavallo era così larga da costringere il cavaliere a una posizione innaturale, ma nelle ore libere dal servizio era facile incontrare Pavel che si esercitava all' equitazione intorno alle baracche. Ulybin disse che il cavallo di Pavel avrebbe dovuto avvicendarsi con l' altro che faceva girare la dinamo, Pavel si oppose, diversi partigiani presero le sue parti, e Ulybin, che verso Pavel dimostrava una inesplicabile parzialità, lasciò correre. Il comandante si mostrava meno indulgente nei riguardi di Leonid. Non vedeva di buon occhio il suo legame con Line, che d' altronde era argomento di commenti e scherzi da parte di tutti: benevoli o malevoli, a seconda delle circostanze. Leonid si era aggrappato alla ragazza con la tensione convulsa del naufrago che ha trovato una tavola galleggiante. Sembrava volesse avvolgerla in un abbraccio totale, che la schermasse da tutti gli altri contatti umani e la sequestrasse dal mondo. Non parlava più con nessuno, neppure con Mendel. Un giorno Ulybin fermò Mendel: _ Io non ho niente contro le donne, e questi non sono affari miei; ma ho paura che quel tuo amico si metterà nei guai e metterà nei guai anche qualcun altro. Le coppie fisse vanno bene in tempo di pace: qui è un' altra cosa. Qui ci sono due donne e cinquanta uomini. Mendel stava per rispondergli come aveva risposto a Dov in settembre a Novoselki, e cioè che lui non era responsabile delle azioni di Leonid, ma sentiva che Ulybin era fatto di un metallo più duro di quello di Dov: si trattenne, e rispose vagamente che gli avrebbe detto qualcosa, ma sapeva di mentire. A Leonid non avrebbe osato dire nulla; nei confronti del suo rapporto con Line provava un viluppo di sentimenti contrastanti che da quando era a Turov aveva cercato invano di districare. Provava invidia: su questo non aveva dubbi, e infatti se ne vergognava un poco. Era un' invidia, tinta di gelosia, per i diciannove anni di Leonid, per quel suo amore precipitoso e nativo che gli ricordava dolorosamente il suo proprio, di sei anni prima (o sessanta, o seicento?), quello che lo aveva scagliato fra le braccia di Rivke come una freccia che va a segno: Rivke! Invidia anche per la fortuna che aveva guidato Leonid entro il campo di forza che irradiava da Line: un ragazzo come lui avrebbe potuto incappare in qualsiasi trappola, ma Line non sembrava una donna-trappola. Che cosa poteva aver trovato Line in Leonid? Mendel se lo domandava. Forse soltanto un naufrago: ci sono donne nate per salvare, e forse Line era una di queste. Anch' io sono un salvatore, pensava, Mendel, un Consolatore. Bel mestiere, consolare gli afflitti in mezzo alla neve, al fango ed alle armi pronte. O forse invece è diverso; Line non cerca un naufrago da salvare, ma al contrario, cerca un uomo umiliato per umiliarlo di più, per salirci sopra come si sale su una pedana, per essere un po' più alti e vedere più lontano. Ci sono persone così: fanno il male degli altri senza accorgersene. Che Leonid stia attento. Lo invidio ma ho anche paura per lui. A Turov si succedevano i giorni di tregua, e Mendel e Sissl divennero amanti. Non ci fu bisogno di parole, fu naturale e dovuto come nel Paradiso Terrestre, e insieme frettoloso e scomodo. C' era il sole, e tutti gli uomini erano fuori a sbattere le coperte e ad ungere le armi. Mendel andò a cercare Sissl in cucina, le disse "vieni con me?", e Sissl si levò in piedi e disse "vengo". Mendel la condusse nella legnaia, che serviva anche da stalla per i due cavalli, e di lì su per la scaletta a muro che portava al fienile. Faceva freddo, si spogliarono a mezzo, e Mendel fu stordito dall' odore femmineo di Sissl e dal bagliore della sua pelle. Sissl si aprì come un fiore, docile e calda; Mendel si sentì irrompere nelle reni la forza e il desiderio che da due anni tacevano. Sprofondò in lei, ma senza abbandonarsi, anzi, tutto intento e vigile: voleva godere tutto, non perdere nulla, incidere tutto dentro di sé. Sissl lo ricevette fremendo appena, ad occhi chiusi, come se sognasse, e fu subito finito: si udivano voci e passi vicini, Mendel e Sissl si sciolsero dall' abbraccio, scossero via il fieno e si rivestirono. Dopo di allora non ebbero molte altre occasioni di incontrarsi. Riuscirono a salvare la discrezione ma non la segretezza; i partigiani parlavano a Mendel di Sissl dicendo "la tua donna", e Mendel se ne sentiva appagato. Trovava in Sissl pace e ristoro, ma non era sicuro di amarla, perché aveva troppi pesi sull' anima, perché si sentiva come cauterizzato, e perché la presenza di Line lo perturbava. Davanti a Line, Mendel non poteva sottrarsi all' impressione di una sostanza umana preziosa ed insolita, ma inquieta ed inquietante. Sissl era come una palma al sole, Line era un' edera intricata e notturna. Doveva avere solo qualche anno più di Leonid, ma le privazioni che aveva patite nel ghetto le avevano cancellato la giovinezza dal viso, la cui pelle appariva opaca e stanca, segnata da rughe precoci. Aveva occhi grandi nelle occhiaie cineree e lontani fra loro, naso piccolo e diritto, e tratti minuti da cammeo che le conferivano una espressione insieme triste e risoluta. Si muoveva con sicurezza rapida, talvolta con scatti bruschi. Line aveva insistito con Ulybin per essere ammessa alle esercitazioni: era una partigiana, non una rifugiata. Mendel aveva ammirato a Novoselki la sua destrezza nel maneggiare le armi, e durante la marcia sulla neve la sua resistenza alla fatica, almeno pari a quella di Leonid. Questo non è un dono di natura, pensava: è una riserva di coraggio e di forza che va ricostituita ogni giorno, dovremmo tutti fare come lei. Questa ragazza sa volere; forse non sa sempre quello che vuole, ma quando lo sa lo porta a compimento. Invidiava Leonid, e insieme era preoccupato per lui: gli sembrava preso a rimorchio da Line, e che il cavo fosse troppo teso. Un cavo teso si può strappare, e allora? Line parlava poco, e mai inutilmente: poche parole meditate e senza enfasi, dette con voce bassa e leggermente velata, con gli occhi fermi in faccia all' interlocutore. Aveva modi diversi da quelli delle donne, ebree e non, che Mendel aveva incontrato fino allora. Non mostrava ritrosie né falsi pudori, non recitava e non faceva capricci; però, quando parlava con qualcuno, avvicinava viso a viso, come per osservare da vicino le sue reazioni; spesso appoggiava anche la sua mano piccola e forte, dalle unghie rosicchiate, sulla spalla o sul braccio di chi le stava di fronte. Era consapevole della carica femminile di questo suo gesto? Mendel la percepiva intensa, e non si stupiva che Leonid seguisse Line come un cane segue il padrone. Era forse effetto della lunga astinenza, ma a Mendel, quando osservava Line, veniva in mente Raab, la seduttrice di Gerico, e le altre ammaliatrici della leggenda talmudica. Ne aveva trovato le tracce in un vecchio libro del suo maestro rabbino: un libro vietato, ma Mendel sapeva dov' era nascosto, e l' aveva sfogliato furtivamente più volte, con la curiosità del tredicenne, quando il rabbino si addormentava nell' afa del pomeriggio sul suo seggiolone dall' alto schienale. Michàl, che affascinava chi la vedeva. Giaele, la mortifera partigiana di un tempo, che aveva trafitto le tempie del generale nemico con un chiodo, ma che seduceva tutti gli uomini col solo suono della sua voce. Abigaìl, la regina assennata, che seduceva chiunque pensasse a lei. Ma Raab era superiore a tutte, qualsiasi uomo pronunciasse soltanto il suo nome spandeva istantaneamente il suo seme. No, il nome di Line non aveva questa virtù. Tutti a Novoselki conoscevano la storia di Line e del suo nome, che non è russo né jiddisch né ebraico. I genitori di Line, entrambi ebrei russi e studenti in filosofia, l' avevano messa al mondo senza pensarci molto sopra negli anni roventi della rivoluzione e della guerra civile. Il padre si era arruolato volontario ed era sparito in Volinia, in battaglia contro i polacchi. La madre aveva trovato lavoro come operaia in una tessitura. In precedenza aveva preso parte alla rivoluzione di ottobre perché in essa vedeva la propria liberazione, come ebrea e come donna; aveva tenuto comizi nelle piazze e interventi nei Soviet: era seguace ed ammiratrice di Emmeline Pankhurst, la gentile signora indomita che nel 191. aveva ottenuto il diritto di voto per le donne inglesi, ed era stata felice di aver messo al mondo una bambina pochi mesi dopo perché così aveva potuto darle il nome di Emmeline, che poi tutti, a partire dalla scuola materna, avevano accorciato in Line. Ma neanche la nonna materna di Line, Anna Kaminskaja, era stata una donna da cucina, bambini e chiesa. Era nata nel 1.5. nello stesso anno, mese e giorno della Pankhurst; era fuggita di casa per studiare economia a Zurigo, ed era poi tornata in Russia per predicarvi la rinuncia ai beni terreni ed al matrimonio, e l' uguaglianza di tutti i lavoratori, cristiani od ebrei, uomini o donne. Per questo era stata confinata ad Omsk, dove era nata la madre di Line. Nella minuscola camera dove Line e la madre abitavano, a Cernigov, Line ricordava, incorniciata ed appesa al muro dietro la stufa, la fotografia della Pankhurst che la madre aveva ritagliata da una rivista: arrestata nel 1914, la minuscola rivoluzionaria in gonna lunga e cappellino con piume di struzzo stava sospesa a mezz' aria, a due spanne dal selciato di Londra lucido di pioggia, dignitosa e impassibile fra le zampe di un poliziotto britannico che serrava la sua schiena smilza contro la propria pancia colossale. A Cernigov, e poi a Kiev dove si era trasferita per studiare da maestra, Line aveva frequentato i circoli sionisti ed insieme anche il Komsomol locale: non vedeva contraddizioni fra il comunismo sovietico e il collettivismo agrario predicato dai sionisti; ma a partire dal 1932 le organizzazioni sioniste avevano avuto una vita sempre più travagliata, fino ad essere ufficialmente sciolte. Agli ebrei che desideravano una propria terra, su cui organizzarsi e vivere secondo le loro tradizioni, Stalin aveva offerto uno squallido territorio della Siberia orientale, il Birobigiàn: prendere o lasciare, chi vuole vivere da ebreo vada in Siberia; se qualcuno rifiuta la Siberia, vuol dire che preferisce essere russo. Una terza via non c' è. Ma che cosa deve e può fare l' ebreo che vorrebbe essere russo, se il russo lo esclude dall' università, lo chiama zid, gli aizza contro i pogromisti, e stringe alleanza con Hitler? Niente può fare, specie se è donna. Line era rimasta a Cernigov, erano venuti i tedeschi e avevano chiuso gli ebrei nel ghetto: nel ghetto aveva ritrovato alcuni degli amici sionisti di Kiev. Con loro, e questa volta con l' aiuto dei partigiani sovietici, aveva comperato armi, poche e inadeguate, ed aveva imparato a usarle. Line non aveva inclinazione per le teorie; in ghetto aveva sofferto fame, freddo e fatica, ma aveva sentito le sue molte anime unificarsi. La donna, l' ebrea, la sionista e la comunista si erano condensate in una sola Line che aveva un solo nemico. A fine febbraio arrivò il messaggio radio che da tanto tempo si faceva attendere, e mise il campo in subbuglio. Presso Davìd-Gorodòk, sulle paludi della Stviga gelate da quattro mesi, i tedeschi avevano attrezzato un terreno per i lanci aerei notturni: nient' altro che un campo di neve delimitato da tre fuochi ai vertici di un triangolo allungato; i fuochi, semplici cataste di rami, venivano accesi quando la radio trasmetteva un determinato segnale. Al reparto di Ulybin veniva dato l' incarico di preparare un terreno simile a quello, non lontano dal campo di Turov, e a dieci chilometri dal campo tedesco; che Ulybin stabilisse dove. Al segnale di avviso, una squadra avrebbe dovuto accendere i fuochi del campo falso; un' altra avrebbe dovuto distrarre i tedeschi e spegnere i fuochi del campo vero. Nell' uniformità della pianura, gli aerei tedeschi non avrebbero avuto altro riferimento se non i fuochi del campo allestito dai partigiani, e avrebbero lanciato i paracadute su questo. Erano attesi lanci di viveri, abiti invernali ed armi leggere. Ulybin mandò due sciatori, di notte, a rilevare le misure e l' orientamento del triangolo tedesco. Ritornarono poco dopo: tutto corrispondeva a quanto la radio aveva comunicato. Il campo era già predisposto, con le tre cataste ai vertici, orientato da ponente a levante; accanto correva una strada di campagna, che era stata resa praticabile facendovi passare uno spazzaneve. Sulla strada c' erano orme vecchie e recenti di cavalli, di ruote di carro e di pneumatici. Fra la strada e il campo di lancio c' era una baracca di legno, piccola, con il camino che fumava: non ci potevano stare più di dieci o dodici uomini. Era probabile che il materiale lanciato fosse destinato non solo al presidio di Davìd-Gorodòk, ma a tutte le guarnigioni tedesche disseminate in Polessia e nelle paludi del Pripet: in quelle zone la presenza partigiana si faceva sentire, e la via aerea non era soltanto la più rapida ma anche la più sicura. Trovare un terreno simile a quello attrezzato dai tedeschi non fu difficile: sarebbe stato più difficile trovarne uno diverso. Ulybin scelse un grande stagno a venti minuti di marcia dal campo, anch' esso parallelo a una strada carrozzabile, e vi fece costruire una baracca di assicelle in posizione corrispondente a quella dei tedeschi: era escluso che i tedeschi facessero lanci diurni, ma avrebbero potuto mandare un ricognitore a fotografare il terreno. Poi, in attesa del segnale radio tedesco, designò le due squadre. Della prima, incaricata di provocare i tedeschi e di spegnere i fuochi del loro campo, facevano parte nove uomini, fra cui Leonid, Piotr e Pavel. La seconda, che avrebbe dovuto accendere i fuochi nel campo falso, era costituita da sei uomini, fra cui Mendel. Tutti gli altri dovevano rimanere a disposizione. A lavoro finito, ne venne dato avviso per radio al comando operativo partigiano. Il tempo si manteneva freddo. Verso il cinque di marzo nevicò ancora, una neve asciutta, fine, a rade spruzzate intermittenti; fra l' una e l' altra, il cielo rimaneva velato di foschia. Per i lanci, certamente i tedeschi avrebbero atteso che il cielo fosse completamente sereno. Tuttavia, un mattino si sentì il fragore di un aereo: andava e veniva, non alto ma invisibile al di sopra delle nuvole, come se cercasse un terreno dove atterrare. Sembrava troppo basso per poter fare un lancio, e d' altra parte non c' era stato il messaggio radio di preavviso. Ulybin ordinò di piazzare la mitragliatrice pesante: era montata su una slitta, venne sbullonata e tenuta a mano puntata verso il cielo. L' aereo continuava ad andare e venire, ma il rumore si faceva più debole. I partigiani vennero fuori dalle baracche a guardare il cielo, luminoso ma impenetrabile; a intervalli si intravedeva il sole circondato da un alone, e poi subito spariva. _ Tutti dentro le baracche, stupidi, fannulloni! _ gridò Ulybin: _ se scende sotto le nuvole ci mitraglia tutti _. Infatti, ad un tratto l' aereo apparve, poco più alto delle cime degli alberi: puntava proprio verso di loro. I due uomini che reggevano la mitragliatrice manovrarono per inquadrarlo, ma si udirono diverse voci che urlavano: _ È dei nostri, non sparate! _ Era in effetti un piccolo caccia che portava sotto le ali i segni dell' aviazione sovietica; virò sulle baracche, e si vide un braccio che si agitava in gesti di saluto. Tutti gli uomini a terra si sbracciarono ad indicargli la direzione del campo di lancio, l' aereo puntò da quella parte e sparì dietro lo schermo degli alberi. _ Riuscirà ad atterrare? _ Ha sotto i pattini, non il carrello; se infila la direzione giusta riuscirà. _ Andiamo, seguiamolo _. Ma Ulybin si impose: solo lui, Maksìm e due altri calzarono gli sci e si avviarono, prima seguendo cauti l' itinerario a zig-zag che evitava i campi minati, poi diritti, col passo lungo ed agile dei corridori di fondo. Ritornarono dopo un' ora, e non erano soli. C' erano con loro un tenente e un capitano dell' Armata Rossa, giovani, ben sbarbati, sorridenti, inguainati in splendide tute imbottite e in stivaletti di cuoio lustro. Salutarono cordialmente tutti, ma si ritirarono subito con Ulybin nella stanzetta adibita a comando. Stettero a colloquio parecchie ore; ogni tanto, Ulybin mandava a prendere pane, formaggio e vodka. Nel campo, l' arrivo dei due messaggeri non attesi fu commentato a lungo, con simpatia, speranza, diffidenza ed un pizzico di irrisione. Che cosa portavano dalla Grande Terra? Informazioni, senza dubbio; nuove disposizioni; ordini. E perché erano arrivati all' improvviso, senza annunciarsi via radio? È come nell' esercito, rispondeva un altro: le ispezioni si fanno senza preavviso, se no non sono ispezioni. _ Se la passano bene, i signori della Grande Terra, _ diceva un terzo: _ scommetto che questa notte l' hanno passata nei loro letti, con i cuscini e le lenzuola, e magari anche con la moglie. Chissà se, oltre alla propaganda, avranno portato anche il sapone da barba! _ Perché i partigiani di tutti i luoghi e di tutti i tempi hanno molto in comune: rispettano le autorità centrali, ma ne farebbero volentieri a meno. Quanto al sapone da barba, questa voce stava in prima linea nell' inventario delle facezie del campo. A Turov, portare la barba era sconsigliato; in altre bande era esplicitamente proibito, perché un giovane barbuto era troppo facilmente riconosciuto come partigiano. Tuttavia, a dispetto dei divieti e del pericolo, molti fra gli uomini del bosco e delle paludi portavano barbe folte. La barba era diventato un simbolo della partisanscina, della libertà del bosco, della braveria senza regole, del prevalere dell' indipendenza sulla disciplina. A livello più o meno consapevole, la lunghezza della barba era ritenuta proporzionale all' anzianità partigiana, quasi un titolo nobiliare o un grado gerarchico. _ Mosca non vuole che portiamo la barba, ma il sapone e i rasoi non ce li manda. Con cosa dobbiamo raderci? Con le scuri, con le baionette? Niente sapone, niente rasatura: le barbe ce le teniamo. _ Tutta roba che non fa male a nessuno, _ venne ad annunziare Piotr, che era stato chiamato a smistare il materiale portato dai due ufficiali. _ Né armi né munizioni, solo carta stampata e pomata per la scabbia. No, sapone per la barba non ce n' è. Neanche sapone da bucato _. Di sua iniziativa, andò a portare la notizia alle due donne affaccendate nella lavanderia: _ Abbiate pazienza, signorine. Avanti con la cenere e con la lisciva, come facevano le nostre nonne. L' importante è che muoiano i pidocchi: ma tanto la guerra sta per finire. I due ufficiali ripartirono la sera stessa. Mentre essi, già rivestiti delle tute di volo, guardavano fuori dalla finestrella con pazienza ostentata, si vide Ulybin appartarsi con Dov e parlargli sottovoce. Poi si vide Dov che stipava in uno zaino le sue poche cianfrusaglie. Salutò tutti sobriamente; i suoi occhi si inumidirono soltanto quando prese commiato da Sissl con un breve abbraccio. Uscì zoppicando con i due messaggeri e con un partigiano che aveva la febbre, e sparì con loro nella luce livida del crepuscolo. Piotr disse: _ Non vi dovete preoccupare. Li porteranno in ospedale, nella Grande Terra: staranno meglio che qui, e li faranno guarire _. Mendel gli batté una mano sulla spalla senza rispondergli. Dopo quella visita, Ulybin si fece ancora più silenzioso ed irritabile. Come se volesse ridurre al minimo i contatti, si scelse fra i partigiani una sorta di luogotenente, Zachàr, lungo e magro come una pertica e silenzioso più di lui. Zachàr fungeva da portaordini in un senso, da portaproteste nell' altro, e da diaframma in entrambi. Non più giovanissimo, quasi analfabeta, cosacco del Kubàn ed allevatore di montoni di professione, Zachàr era un diplomatico d' istinto; si dimostrò subito abile nel sopire i contrasti, lenire le frustrazioni e mantenere la disciplina e lo spirito di corpo. Si era sparsa la voce che Ulybin avesse incominciato a ubriacarsi nella stanzetta del comando; Zachàr smentiva, ma l' andirivieni di bottiglie piene e vuote era difficile da nascondere. Il campo falso era pronto, tutti erano pronti, ma l' ordine di agire non veniva. L' intero mese di marzo passò in una inazione quasi totale, che si rivelò nociva per tutti, non solo per il comandante che non aveva più niente da comandare. Si faceva sentire la fame: non la fame lacerante che Leonid ed altri avevano sperimentata nei Lager tedeschi di retrovia, ma una fame-nostalgia, un desiderio sordo di verdura fresca, di pane appena cotto, di un cibo magari semplice, ma scelto secondo il capriccio del momento. Si faceva sentire il rimpianto della casa, pesante per tutti, straziante per il gruppo degli ebrei. Per i russi, la nostalgia della casa era una speranza non irragionevole, anzi probabile: un desiderio di ritorno, un richiamo. Per gli ebrei, il rimpianto delle loro case non era una speranza ma una disperazione, sepolta fino allora sotto dolori più urgenti e gravi, ma latente. Le loro case non c' erano più: erano state spazzate via, incendiate dalla guerra o dalla strage, insanguinate dalle squadre dei cacciatori d' uomini; case-tomba, a cui era meglio non pensare, case di cenere. Perché vivere ancora, perché combattere? Per quale casa, per quale patria, per quale avvenire? La casa di Fedja, invece, era troppo vicina. Fedja compiva diciassette anni il 30 di marzo, ottenne da Ulybin il permesso di trascorrere il compleanno a casa sua, al villaggio di Turov, e non ritornò. Passati tre giorni, Ulybin fece sapere attraverso Zachàr che Fedja era un disertore: due uomini dovevano andarlo a cercare e riportarlo in banda. Non faticarono a trovarlo, era a casa, non aveva neppur lontanamente pensato che un' assenza di tre giorni in un periodo di inattività fosse una faccenda così grave. Ma c' era di peggio: Fedja confessò pubblicamente che a casa si era ubriacato con altri ragazzi, e che da ubriaco aveva parlato. Di che cosa? Anche delle baracche? Anche del falso campo di lancio? Terreo in viso Fedja disse che non sapeva più; che non ricordava; che probabilmente no, di cose segrete non aveva parlato; che non ne aveva parlato assolutamente. Ulybin fece rinchiudere Fedja nella legnaia. Mandò Zachàr a portargli il rancio e il tè, ma all' alba tutti videro Zachàr che ritornava scalzo nella legnaia, e tutti udirono il colpo di pistola. Toccò a Sissl e a Line spogliare il corpo del ragazzo per recuperare gli abiti e gli stivali; toccò a Pavel e a Leonid scavare la fossa nel terreno intriso d' acqua di disgelo. Perché proprio Pavel e Leonid? Pochi giorni dopo, Mendel si accorse che Sissl era turbata. La interrogò: no, non era la faccenda di Fedja. Zachàr l' aveva chiamata da parte e le aveva detto: _ Compagna, devi stare attenta. Se rimani incinta, è un guaio; questa non è una clinica, e gli aerei dalla Grande Terra non arrivano tutti i giorni. Dillo al tuo uomo _. Zachàr aveva tenuto lo stesso discorso anche a Line, ma Line aveva scosso le spalle. Sempre in questo periodo, fu affisso alla bacheca un ordine del giorno scritto a matita in bella scrittura e firmato da Ulybin: presto sarebbe incominciato il disgelo, era urgente scavare un canale di gronda intorno alle baracche per evitare che queste venissero inondate. Il lavoro era importante ed aveva la precedenza assoluta, perciò la composizione delle due squadre pronte ormai da un mese per l' azione dei campi di lancio era modificata. Leonid e Mendel non ne facevano più parte, dovevano posare i fucili e prendere il piccone e la pala. Pavel no: Pavel rimaneva in forza alla prima squadra, quella che avrebbe dovuto spegnere i fuochi dei tedeschi. Mendel, Leonid ed altri quattro uomini diedero inizio al lavoro di sterro. La neve e il terreno gelavano durante la notte, e si scioglievano in un fango vischioso e rossastro durante le ore più calde del giorno. Come incuriosite, grosse cornacchie si posavano sui rami degli abeti a sorvegliare il lavoro, sempre più numerose, serrate l' una contro l' altra; a un tratto il loro peso faceva piegare il ramo, allora tutte prendevano il volo starnazzando e gracchiando ed andavano a posarsi su un altro ramo. L' ordine venne quando ormai nessuno lo aspettava più: i segnali della radio tedesca che erano stati intercettati indicavano che il lancio era prossimo. Doveva anche trattarsi di un lancio importante, poiché gli avvisi erano stati ripetuti più volte. Venne infine, il 12 di aprile, l' annuncio definitivo: il lancio era atteso per la notte. Le due squadre partirono immediatamente; Pavel, per ogni evenienza, raccomandò alle cure di Leonid il suo cavallo, che chissà perché aveva battezzato Drozd, il Tordo. Il resto del campo si preparò a passare la notte; non c' erano ordini particolari, ma tutti stavano con gli orecchi tesi, in specie Michaìl, il radiotelegrafista, e Mendel che si alternava con lui per concedergli qualche ora di riposo. La ricezione era pessima, disturbata da ronzii e scariche; i pochi messaggi che si riusciva ad intercettare erano concitati e ripetuti più volte, ma quasi indecifrabili, benché Michaìl e Mendel capissero il tedesco abbastanza bene. Alle due del mattino si udì a ovest un ronzio di motori, e tutti furono in piedi. Il cielo era sereno e senza luna; il ronzio si faceva sempre più intenso, modulato da battimenti, come quando vibrano insieme diverse corde musicali non perfettamente in fase. Non era certo un apparecchio solo, erano almeno due, forse tre. Passarono invisibili a nord delle baracche, poi il ronzio si attenuò fino a svanire. Un' ora dopo arrivò trafelato uno dei partigiani della seconda squadra. Tutto era andato a meraviglia: i fuochi accesi al momento giusto, quattro gli aerei, e i paracadute trenta, o quaranta, o anche più, molti sul terreno predisposto, altri in mezzo agli alberi, alcuni rimasti impigliati nei rami. Mandare subito uomini di rinforzo e una slitta, il materiale era molto. Tutti avrebbero voluto partire, ma Ulybin non si lasciò smuovere. Andò lui stesso, con Maksìm e Zachàr; non volle neppure che ritornasse sul posto il messaggero che aveva portato la notizia. Per la prima volta nella sua carriera di cavallo partigiano si rese utile il Tordo: Ulybin lo fece aggiogare ad una slitta che partì sulla neve resa compatta dal disgelo e coperta da una crosta fragile di ghiaccio notturno. Nel frattempo era rientrata anche la prima squadra, al completo, con un uomo ferito al braccio. L' azione era andata sostanzialmente bene, raccontarono Piotr e Pavel. Si erano appostati nei pressi della baracca, avevano sentito il ronzio degli aerei ed avevano visto tre tedeschi uscire con i bidoni di benzina da versare sulle cataste. Li avevano uccisi prima che accendessero i fuochi, e simultaneamente un partigiano che si era arrampicato sul tetto della baracca aveva lasciato cadere una granata a mano dentro il camino. Alcuni dei tedeschi dovevano essere morti, ma altri erano usciti dalla baracca sfondata ed avevano aperto il fuoco. Un partigiano era rimasto ferito e un tedesco era morto; altri due o tre erano riusciti ad avviare una motocarrozzetta, ma anche questi erano stati uccisi mentre si allontanavano. Nella baracca, oltre alle armi leggere e a un po' di viveri in scatola, non avevano trovato niente di interessante. La radio c' era, ma era stata distrutta dall' esplosione. Si erano appostati ai lati della strada, perché pensavano che dalla città sarebbe dovuto arrivare un automezzo per caricare il materiale lanciato, ma a metà mattina non avevano visto niente ed erano rientrati. La slitta rientrò carica, anche se il messaggero doveva aver esagerato: i colli paracadutati non erano più di una ventina. Ulybin non li lasciò toccare da nessuno. Li fece accatastare tutti nella sua camera, li aprì lui stesso aiutato da Zachàr, e permise che gli altri ne inventariassero il contenuto solo dopo averne preso visione. C' era un po' di tutto, come nelle lotterie di beneficenza: roba preziosa, inutile, misteriosa e ridicola. Generi di conforto quali Mendel ed i suoi amici non avevano visti mai: uova di cioccolato autarchico per la prossima Pasqua, altri grossi cioccolatini in forma di pecorelle, di scarabei e di topolini. Sigari e sigarette, acquavite e cognac in lattine: forse una confezione studiata apposta dai tecnici tedeschi per resistere all' urto contro il suolo? Scaldini di terracotta, evidentemente per i piedi delle sentinelle. Una scatola piena di medaglie al valore e decorazioni assortite, insieme con i diplomi relativi. C' erano pacchi di giornali e riviste, un pacco di ritratti del Führer, un pacco di corrispondenza privata destinata alle varie guarnigioni della zona, un altro di corrispondenza d' ufficio che Ulybin fece mettere da parte. Due cassette erano piene di munizioni per la Maschinenpistole della Wehrmacht, altre due contenevano caricatori per un tipo di mitragliatrice che nessuno riuscì ad identificare. In una cassetta c' era una macchina per scrivere e materiale vario di cancelleria. Altre casse contenevano sei esemplari di un congegno che nessuno a Turov conosceva e di cui non si comprendeva l' uso: un cilindro appiattito, grande come una padella e munito di un lungo manico smontato in segmenti. _ Questa roba è per te, orologiaio, _ disse Ulybin a Mendel. _ Studiala e dicci a cosa serve. A sera, Ulybin concesse di festeggiare l' avvenimento con una moderata baldoria. Poi si appartò con Pavel a esaminare i documenti che erano stati trovati: non erano in codice, non era materiale sensazionale, erano soltanto minuziosi elenchi, fatture in molte copie, documenti contabili di fureria. Ulybin si stancò presto, e incominciò a farsi tradurre da Pavel le lettere private, che erano più interessanti; erano scritte in termini che avrebbero dovuto essere cifrati ed allusivi, ma così ingenui che anche un lettore estraneo come Pavel li penetrava senza difficoltà; era chiaro, il maltempo che tutti i padri e le madri lamentavano era l' "offensiva senza soste" dei bombardamenti alleati, e la siccità era la carestia. Era propaganda disfattista involontaria: Ulybin disse a Pavel di tradurre pubblicamente alcuni passi. Pavel stava leggendo, in russo, ma con un accento tedesco deliberato e caricato che faceva ridere tutti. Ed ecco dal cielo buio venire a ondate lo stesso ronzio musicale della sera avanti. _ Presto! _ gridò Ulybin. _ La seconda squadra, calzare gli sci e via di corsa ad accendere i fuochi: questi ci regalano un secondo lancio! _ I sei uomini della squadra si precipitarono fuori, ed Ulybin guardò l' orologio: se correvano, entro un quarto d' ora sarebbero potuti arrivare sul posto prima che gli aerei si stancassero di cercare il terreno nel buio. Cercavano, infatti: il fragore dei motori si avvicinava e si allontanava; ad un certo momento la squadriglia passò proprio sopra le baracche, poi si allontanò di nuovo. Erano passati venti minuti esatti all' orologio di Ulybin quando si udì una salva di esplosioni. Tutti uscirono all' aperto, senza capire: i rombi erano troppo lontani e troppo profondi per poter essere dovuti ai campi minati intorno alle baracche. Si vedevano le vampe, a nord-est: dopo ogni vampa si udiva il colpo, con un ritardo di sei secondi. Non c' erano dubbi, erano bombe sul terreno falsificato. I tedeschi avevano capito e si vendicavano. Tornò la squadra: quattro uomini soli. Il caposquadra raccontò con parole rotte. Erano arrivati a tempo di primato, proprio mentre gli aerei incrociavano sulle loro teste. Avevano acceso la prima delle cataste, e subito erano piovute bombe: grosse, da almeno duecento chili. Se il ghiaccio fosse stato spesso come a gennaio, forse avrebbe resistito; ma era indebolito dal disgelo, le bombe lo penetravano e scoppiavano dal di sotto, scagliando in aria lastroni di ghiaccio. I due uomini che mancavano erano spariti, ingoiati dalla palude: inutile andarli a cercare. Per gli uomini di Turov ebbe inizio un tempo difficile. Era cominciato il disgelo, e fu più duro dell' inverno. Ulybin aveva mandato uomini a verificare la condizione del campo falsificato: era impraticabile, non soltanto nessun aereo vi avrebbe potuto atterrare, ma neppure sarebbe stato possibile chiedere lanci. Il ghiaccio profondo dell' inverno era stato squarciato dalle esplosioni: si riformava nella notte, ma talmente sottile che non avrebbe retto al peso di un uomo. Sulle altre paludi si era conservato meglio, perché la neve lo aveva protetto dai raggi diretti del sole, ma la neve stessa era stata tormentata dal disgelo e dal vento: si era mutata in una crosta dura e corrugata, su cui un aereo normale, anche se munito di pattini, non avrebbe potuto atterrare senza capotare. Ulybin dovette imporre il silenzio-radio, perché l' impresa del lancio dirottato sembrava aver risvegliato l' attività dell' aviazione tedesca. Per tutto l' inverno era stata minima, e apparentemente casuale. Adesso, invece, era raro che trascorresse un giorno sereno senza che si vedesse un ricognitore aggirarsi nei dintorni: e i giorni sereni erano molti. I viveri di lusso del lancio erano durati poco, e la farina, il lardo e le scatolette cominciavano a scarseggiare. Ulybin istituì un razionamento, e il morale di tutti discese: la fame, lo spettro degli inverni precedenti, stava per ritornare, come se il tempo fosse retrocesso ai mesi terribili degli inizi della guerra partigiana, quando tutto, il cibo, le armi, le baracche, i piani d' azione, il coraggio per combattere e per vivere, erano frutto dell' iniziativa disperata di pochi. Gli uomini insistevano per riprendere le spedizioni di approvvigionamento ai villaggi; preferivano di gran lunga la fatica e il rischio alla fame, ma Ulybin non volle. C' era ancora troppa neve; era già difficile capire come i ricognitori non avessero ancora localizzato le baracche. Era evidente che le stavano cercando; erano ben mimetizzate e forse sarebbero ancora sfuggite alle ricerche, ma di una pista fresca i tedeschi si sarebbero accorti senza fallo. Che fare? Aspettare, lasciare che il tempo passasse: l' unica soluzione possibile, tuttavia una pessima soluzione. Aspettare che la neve si sciogliesse, perché nel terreno nudo, anche se fangoso, le tracce si vedono di meno. Aspettare che i ricognitori andassero a cercare altrove. Aspettare in silenzio le notizie trasmesse dalla radio: i tedeschi avevano evacuato Odessa, ma Odessa era lontana. Il silenzio-radio è pesante come una mutilazione, come se un essere umano venisse imbavagliato al momento in cui vorrebbe chiamare aiuto: congiunto con la fame, aveva addensato sulle baracche di Turov lo stato d' animo dell' assedio. Quegli uomini non erano nuovi alle privazioni, alla fatica, ai disagi ed al pericolo, ma l' isolamento e la clausura li trovavano impreparati: abituati agli spazi ed alla libertà precaria degli animali del bosco, soffrivano l' angoscia debilitante della trappola e della gabbia. Ulybin continuava a bere: il fatto era conclamato, e criticato da tutti ad eccezione di Zachàr; sottovoce e non sempre sottovoce. Beveva in solitudine, ma non aveva perduto né la lucidità né la sua autorità burbera. Mendel gli aveva chiesto un chiarimento sulla partenza così frettolosa di Dov, e Ulybin gli aveva risposto: _ I combattenti feriti o ammalati si curano, nei limiti del possibile. Anche il vostro amico sarà curato, ma non so dirti altro. Forse alla fine della guerra saprete qualcosa di lui, ma i destini individuali non hanno importanza. Ulybin era troppo intelligente, e troppo esperto di cose partigiane, per non capire che qualcosa bisognava pure che fosse fatta; che le piste erano pericolose, ma l' angoscia lo era di più. Una pista unica che partisse dalle baracche avrebbe condotto i tedeschi alle baracche con certezza, ma se la pista avesse soltanto attraversato il piccolo bosco che nascondeva le baracche, la localizzazione del campo sarebbe stata meno immediata. Malvolentieri, Ulybin autorizzò dunque non una ma due spedizioni di approvvigionamento, che partissero nella stessa notte in direzione opposte verso villaggi diversi. Le squadre erano partite da poco, e cominciava appena ad albeggiare, quando si udì un rumore nuovo ed allarmante per gli ebrei, rassicurante ed inconfondibile per i vecchi di Turov. Sembrava il crepitio di una motocicletta, era tenue, lontano, ma si stava avvicinando. Aumentò di volume, scese di tono come un disco di grammofono che venga frenato, fece qualche starnuto e tacque. Gli uomini di Ulybin furono subito tutti in piedi: _Un p-2! È atterrato qui, sulla radura! Andiamo a vedere! _ Forse non c' era bisogno di mandare via le squadre, disse Piotr. _ Che cosa è un P-2? _ chiese Mendel. _ I P-2 sono gli aerei partigiani. Sono di legno, volano lenti, ma decollano e atterrano dappertutto. Volano di notte, senza luci; buttano granate sui tedeschi e portano provviste _. Poco dopo entrò nella baracca il pilota, tozzo e informe nella tuta di volo di pelliccia di agnello rovesciato. La depose, si tolse gli occhialoni dalla fronte, e si vide che era una ragazza, piccola, grassoccia, dal largo viso tranquillo e dall' aria domestica. Portava i capelli spartiti da una scriminatura e annodati dietro la nuca in due trecce corte legate con spago nero. I due uomini che le erano andati incontro recavano due bisacce, come se tornassero dal mercato. I partigiani le si accalcarono intorno, la abbracciavano e la baciavano sulle guance rotonde indurite dal freddo: _ Polina! Brava Polina! Benvenuta, anima mia, finalmente ti si rivede! Che cosa ci hai portato? La ragazza, che non dimostrava più di vent' anni, si difendeva ridendo, con la grazia schiva delle contadine: _ Basta, compagni! Mi hanno mandata a vedere che cosa succede qui, e perché la vostra radio tace, ma lasciatemi, devo ripartire subito. Non ci sarebbe un goccio di vodka? Dov' è il comandante? _ Si appartò con Ulybin nella cameretta del Comando. _ È lei, è Polina Michàjlovna, _ disse Piotr fiero e felice. _ È Polina Gelman, del Reggimento delle Donne. Non lo sapete? Sono tutte donne, sono loro che pilotano i P-2. Tutte brave ragazze, ma Polina è la più brava di tutte. Viene da Gomel, suo padre era rabbino e suo nonno ciabattino. Ha già fatto più di settecento missioni, ma qui da noi era venuta una volta sola, sei mesi fa. Si era fermata qualche giorno e avevamo fatto amicizia, ma questa volta si vede che ha fretta. Peccato. Polina si congedò e ripartì sul suo fragile apparecchio. Aveva portato un po' di viveri e di medicinali, e brutte notizie. Erano in corso movimenti di truppe e di mezzi corazzati; in vari villaggi intorno a Turov si stavano radunando unità dei corpi tedeschi ed ucraini specializzati nella lotta contro i partigiani. Si stava preparando un' azione concentrica di rastrellamento, con mezzi enormemente superiori alle possibilità di difesa del campo di Turov; altre bande nella zona non ce n' erano. Per qualche ragione, i tedeschi avevano sopravvalutato le forze partigiane; o forse si trattava di un' operazione su grande scala, in tutta la regione delle paludi del Pripet o in tutta la Polessia. Il ghetto di Soligorsk, dove avevano cercato salvezza gli anziani e i malati di Novoselki, era stato accerchiato e tutti i componenti erano stati fucilati; al presidio di Soligorsk si era aggiunta una unità delle SS specializzata nella ricerca della gente nascosta, munita di cani addestrati. Molti degli uomini di Turov conoscevano questi cani e li temevano più dei carri armati. Insomma, il campo doveva essere evacuato. Ulybin chiamò Mendel a rapporto e gli chiese se aveva capito che cosa erano gli ordigni che erano stati trovati fra il materiale paracadutato. _ Sono cercamine, _ rispose Mendel. _ Ossia cercametalli: segnalano gli oggetti metallici sepolti. _ E allora, se i tedeschi hanno questi aggeggi in dotazione, troverebbero i nostri campi minati? _ Certo, che li troverebbero; forse non subito, ma li troverebbero. Ulybin lo guardò torvo: _ Ma io le baracche le faccio minare ugualmente, che i tedeschi abbiano i tuoi cercamine o no. Troveranno le mine sepolte, ma non quelle che nasconderemo qui dentro. Ti farò vedere io se non ne faccio saltare in aria qualcuno, di quei figli di puttana. Mendel era spaventato. Che il comandante avesse bevuto, e anche un po' più del solito, si vedeva bene, ma il suo tono lo impauriva. _ Che cosa dici, Osìp Ivànovic? Perché mi parli così? Li ho forse inventati io i cercamine? Li ho regalati io ai tedeschi? _ Me ne infischio di chi li ha inventati. Sta di fatto che ce ne andiamo. Non vorrai che stiamo qui ad aspettare i carri armati e che ci facciamo massacrare tutti. Mendel uscì stravolto, ma poco dopo Ulybin lo richiamò: _ Funzionano, quegli aggeggi? _ Sì, funzionano. _ Prendi Dimitri e Vladimir e insegnagli come si usano. _ Vuoi minare le baracche con le mine sepolte qui intorno? _ Sei intelligente, hai proprio indovinato. Altre mine non ne abbiamo. _ Guarda che non è lavoro da ragazzi. Delle mine hanno più paura gli esperti dei principianti. E poi, più a lungo sono state sotto terra, più sono pericolose. _ Ti senti importante, eh? Smettila, va e fai come ti ho detto. Il comandante sono io, e le critiche non mi vanno. Già voialtri siete tutti uguali. Tutti bravi a discutere; e tutti mezzi tedeschi, Rosenfeld, Mandelstamm .... E tu, come ti chiami? Dajcer, no? Mendel Nachmanovic Dajcer: sei tedesco già fino nel nome. Mendel tenne la sua lezione con quanta più diligenza poté, mandò i due ragazzi a prendere ordini da Ulybin, e si ritirò pieno di amarezza. Un tempo, nel giorno dei perdoni, gli ebrei prendevano un caprone; il sacerdote gli premeva le mani sul capo, gli enumerava tutte le colpe commesse dal popolo e gliele imponeva addosso: il colpevole era lui e solo lui. Poi, carico dei peccati che non aveva commesso, lo cacciavano via nel deserto. Così pensano anche i gentili, anche loro hanno un agnello che si porta via i peccati del mondo. Io no, non ci credo. Se ho peccato, porto il peso dei miei peccati, solo di quelli, e ne ho d' avanzo. Non porto i peccati di nessun altro. Non sono stato io che ho mandato la squadra a farsi bombardare. Non ho sparato io a Fedja mentre dormiva. Se dovremo andare nel deserto ci andremo, ma senza portare sulla testa i peccati che non abbiamo commessi. E se Dimitri e Vladimir si fanno scoppiare le mine fra le mani, ne devo rispondere io, Mendel l' orologiaio? Invece i due ragazzi se la cavarono bene: otto delle mine interrate furono disinnescate e piazzate in vari punti delle baracche. A fine aprile era esplosa la primavera, annunciata da tre giorni di vento caldo e secco. La neve sui rami degli alberi si scioglieva in una pioggia continua, che rallentava il suo ritmo solo di notte; fondeva rapidamente anche la neve al suolo, e subito dal terreno fradicio e fra gli steli proni dell' erba giallastra, macerata dal lungo gelo, spuntavano i primi fiori, timidi e assurdi. I voli dei ricognitori tedeschi si facevano sempre più frequenti, e uno di essi, forse a caso, o forse insospettito da qualche movimento, mitragliò brevemente le baracche, senza provocare vittime né danni. Ulybin ordinò di prepararsi ad abbandonare il campo. Le slitte, ormai inutili, furono bruciate; carri non ce n' erano né c' era il tempo di procurarsene. Per il trasporto delle salmerie non c' erano che i due cavalli e le spalle degli uomini: una carovana di facchini, non un trasferimento di combattenti. Molti degli uomini protestavano, avrebbero preferito restare nel campo e far fronte ai tedeschi, ma Ulybin li mise a tacere: rimanere sul posto era impossibile, e del resto l' evacuazione del campo era stata ordinata via radio. La radio aveva anche segnalato la direzione più opportuna per filtrare attraverso l' accerchiamento delle forze antipartigiane: verso sud-ovest, risalendo il corso della Stviga, ma senza abbandonare la fascia delle paludi. Col disgelo, e con il loro labirinto di istmi, di stretti e di guadi, erano ridiventate un terreno amico. Avrebbero dovuto partire nella notte sul 2 di maggio, ma a sera le sentinelle diedero l' allarme: avevano sentito rumori a nord, voci umane e latrati di cani. Molti uomini diedero mano alle armi, incerti se prepararsi a resistere o anticipare la ritirata, ma Ulybin intervenne: _ Tutti ai vostri posti, stupidi, bambocci! Avanti con i preparativi, legare i sacchi, chiudere le casse. Siete nati ieri? I cani dei tedeschi non abbaiano, se no che cani da guerra sarebbero? Si rivolse alle sentinelle: _ State in guardia, ma non sparate. È probabile che sia gente amica: hanno mandato avanti i cani a cercare la pista attraverso le mine. Infatti arrivarono prima i cani: erano solo due, e non cani da guerra ma modesti cani da pagliaio, eccitati e disorientati. Abbaiavano nervosamente, ora verso le baracche, ora verso gli sconosciuti che tardavano a seguirli, fieri del dovere compiuto, inquieti per le nuove presenze umane; scodinzolavano e ringhiavano alternativamente, o anche simultaneamente; balzavano avanti e indietro, danzavano sul posto con le zampe anteriori rigide, e latravano a perdifiato aspirando aria a intervalli con un rantolo convulso. Poi si videro arrivare due vacche, cacciate avanti da giovani sbrindellati: badavano che le bestie non uscissero dalle piste tracciate dai cani. Infine arrivò il grosso della banda, una trentina di uomini e donne, armati e disarmati, stanchi, laceri e baldanzosi. In mezzo a loro c' era un uomo dal naso aquilino e dal viso abbronzato: portava a tracolla un parabellum e un violino. In coda al gruppo c' era Dov. Mendel disse tra sé: "Benedetto Colui che resuscita i morti". Nacque un trambusto, tutti facevano domande e nessuno rispondeva. Prevalsero alla fine le voci di Ulybin e dell' uomo alto, che era Gedale. Che tutti facessero silenzio ed aspettassero gli ordini; Ulybin e Gedale si ritirarono nello sgabuzzino del comando. Molti degli uomini di Turov ricordavano la lite che era scoppiata fra i due all' inizio dell' inverno; che cosa sarebbe successo ora, in questo nuovo incontro? Si sarebbero riconciliati, davanti alla minaccia imminente? Avrebbero trovato un accordo? Mentre si attendeva l' esito del colloquio, i nuovi venuti chiesero di essere accolti nelle baracche ormai sgombre; alcuni sedettero a terra, altri si sdraiarono e si addormentarono subito, altri ancora chiesero tabacco, o acqua calda per lavarsi i piedi. Chiedevano con l' umiltà di chi ha bisogno, ma con la dignità di chi sa di avere diritto: non erano mendicanti né gente girovaga, erano la banda ebraica radunata da Gedale, composta dai superstiti delle comunità di Polessia, Volinia e Bielorussia; una aristocrazia miseranda, i più forti, i più astuti, i più fortunati. Ma alcuni venivano da più lontano, per strade piene di sangue; erano sfuggiti ai pogrom dei saccheggiatori lituani che uccidevano un ebreo per avere un lenzuolo, ai lanciafiamme degli Einsatzkommandos, alle fosse comuni di Kovno e di Riga. C' erano fra loro i pochi sfuggiti al massacro di Ruzany: avevano vissuto per mesi in tane scavate nel bosco, come i lupi, e come i lupi cacciavano silenziosi in branco. C' erano gli ebrei contadini di Blizna, dalle mani indurite dalla vanga e dalla scure. C' erano gli operai delle segherie e delle tessiture di Slonim, che prima ancora di incontrare la barbarie hitleriana avevano scioperato contro i padroni polacchi ed avevano conosciuto la repressione e la prigione. Ognuno di loro, uomo o donna, aveva sulle spalle una storia diversa, ma rovente e pesante come il piombo fuso; ognuno avrebbe dovuto piangere cento morti se la guerra e tre inverni terribili gliene avessero lasciato il tempo e il respiro. Erano stanchi, poveri e sporchi, ma non sconfitti; figli di mercanti, sarti, rabbini e cantori, si erano armati con le armi tolte ai tedeschi, si erano conquistato il diritto ad indossare quelle uniformi lacere e senza gradi, ed avevano assaporato più volte il cibo aspro dell' uccidere. I russi di Turov li guardavano inquieti, come avviene davanti all' inatteso. Non riconoscevano in quei visi smunti ma determinati il zid della loro tradizione, lo straniero in casa, che parla russo per abbindolarti ma pensa nella sua lingua strana, che non conosce Cristo e segue invece i suoi precetti incomprensibili e ridicoli, forte solo della sua furberia, ricco ed imbelle. Il mondo si era capovolto: questi ebrei erano alleati ed armati, come gli inglesi, come gli americani, e come tre anni prima era stato alleato anche Hitler. Le idee che ti insegnano sono semplici e il mondo è complicato. Alleati, dunque: compagni d' armi. Avrebbero dovuto accettarli, stringergli le mani, bere vodka con loro. Qualcuno tentava un sorriso impacciato, un timido approccio con le donne scarmigliate, infagottate nei panni militari fuori misura, dai visi grigi di fatica e di polvere. Sradicare un pregiudizio è doloroso come estrarre un nervo. Il muro dell' incomprensione ha due facce, come tutti i muri, e dall' incomprensione nascono l' imbarazzo, il disagio e l' ostilità; ma gli ebrei di Gedale non si sentivano, in quel momento, né imbarazzati né ostili. Erano allegri, invece: nell' avventura ogni giorno diversa della Partisanka, nella steppa gelata, nella neve e nel fango avevano trovato una libertà nuova, sconosciuta ai loro padri e ai loro nonni, un contatto con uomini amici e nemici, con la natura e con l' azione, che li ubriacava come il vino di Purim, quando è usanza abbandonare la sobrietà consueta e bere fino a non saper più distinguere la benedizione dalla maledizione. Erano allegri e feroci, come animali a cui si schiude la gabbia, come schiavi insorti a vendetta. E l' avevano gustata, la vendetta, pur pagandola cara: a diverse riprese, in sabotaggi, attentati e scontri di retrovia; ma anche di recente, pochi giorni prima e non lontano. Era stata la loro grande ora. Avevano attaccato, da soli, la guarnigione di Ljuban, ottanta chilometri a nord, dove stavano confluendo truppe tedesche ed ucraine destinate al rastrellamento; nel villaggio era anche un piccolo ghetto di artigiani. I tedeschi erano stati cacciati da Ljuban: non erano di ferro, erano mortali, quando si vedevano sopraffatti scappavano in disordine, anche davanti agli ebrei. Alcuni di loro avevano abbandonato le armi e si erano gettati nel fiume ingrossato dal disgelo, era stata una visione che rallegrava, una immagine da portarsi nella tomba: gli ebrei la raccontavano ai russi con facce allucinate. Sì, gli uomini biondi e verdi della Wehrmacht erano fuggiti davanti a loro, entravano nell' acqua e cercavano di arrampicarsi sulle lastre di ghiaccio trascinate dalla corrente, e loro avevano sparato ancora, e avevano visto i corpi dei tedeschi affondare o navigare verso la foce sui loro catafalchi di ghiaccio. Il trionfo era durato poco, si capisce: i trionfi durano sempre poco, e, come sta scritto, la gioia dell' ebreo finisce nello spavento. Loro si erano ritirati nel bosco portandosi dietro quelli fra gli ebrei del ghetto di Ljuban che sembravano in grado di combattere, ma i tedeschi erano tornati e avevano ucciso tutti quelli che nel ghetto erano rimasti. La loro guerra era così, una guerra in cui non ci si volta a guardare indietro e non si fanno i conti, una guerra di mille tedeschi contro un ebreo e di mille morti ebrei contro un morto tedesco. Erano allegri perché erano senza domani e non si curavano del domani, e perché avevano visto i superuomini sguazzare nell' acqua gelata come le rane: un regalo che nessuno gli avrebbe più tolto. Portavano anche altre notizie più utili. Il rastrellamento era già cominciato, e loro erano stati sloggiati dal loro campo, che del resto era un povero campo di tane, provvisorio, non certo paragonabile a quello di Turov. Ma non era vero che fosse un grande rastrellamento: non c' erano né carri né artiglieria pesante, e un prigioniero tedesco che loro avevano interrogato aveva confermato che il punto più debole dell' accerchiamento doveva proprio essere dove pensava Ulybin: a sud-ovest, lungo la Stviga. Dov stava bene, non zoppicava quasi più, ma era più curvo di prima. I suoi capelli, di nuovo accuratamente pettinati, erano più radi e più bianchi. Sissl gli chiese se voleva mangiare qualcosa, e lui rispose ridendo: _ A un malato si domanda, a un sano si dà, _ ma aveva più fretta di raccontare che di mangiare. Intorno a lui si era formato un cerchio di ascoltatori, ebrei e russi: non erano molti quelli che dalla Grande Terra tornavano in territorio partigiano. _ Quanto tempo è che parlano, quei due? Un' ora? È buon segno: più parlano e più vanno d' accordo; e vuole anche dire che i tedeschi sono ancora lontani, o che hanno cambiato strada. Ma sicuro, che mi hanno curato: che cosa avevate pensato? All' ospedale di Kiev. Non aveva più il tetto, o anzi non l' aveva ancora, perché lo stanno ricostruendo, e sapete chi? I prigionieri tedeschi, quelli che si sono arresi a Stalingrado. _ Non c' era il tetto, non c' era da mangiare e non c' era l' anestesia, ma c' erano le dottoresse, e mi hanno operato subito: mi hanno tolto qualcosa dal ginocchio, un osso, e me lo hanno anche fatto vedere. Nelle cantine, mi hanno operato, alla luce dell' acetilene, e poi mi hanno messo in corsia, una corsia sterminata, più di cento lettini per parte, con dentro vivi, moribondi e morti. Non è bello stare in ospedale, ma proprio in quella corsia è arrivata la mia fortuna: se c' è la fortuna, anche un bue partorisce. È venuta una visita, uno importante, del Politburò, un ucraino: piccolo, grasso, calvo, con l' aria del contadino e il petto coperto di medaglie. In mezzo a quella confusione di portantini che andavano e venivano, si è fermato proprio davanti a me. Mi ha chiesto chi ero, da dove venivo e dove ero stato ferito; aveva dietro quelli della radio, e ha improvvisato un discorso dove diceva che tutti quanti, russi e georgiani e jakuti ed ebrei, siamo figli della gran madre Russia, e che tutte le questioni devono finire .... Si udì la voce di Piotr: _ Se quello era un ucraino, ed era un pezzo grosso, gli potevi dire che incominciasse a fare pulizia a casa sua! Sono gentaglia, gli ucraini: quando sono venuti i tedeschi, gli hanno aperto le porte e gli hanno offerto il pane e il sale. I loro banderisti sono peggio dei tedeschi _. Altre voci fecero tacere Piotr ed esortarono Dov a continuare. _ ... e mi ha chiesto, una volta che io fossi guarito, dove volevo essere mandato. Io gli ho risposto che la mia casa è troppo lontana, che avevo amici partigiani, e che avrei voluto ritrovarli. Bene, appena mi hanno dichiarato guarito lui si è dato da fare. Forse voleva dare un esempio, ha ripescato Gedale e la sua banda e mi ha fatto paracadutare vicino al suo campo, insieme a una cassa con dentro quattro parabellum come suo regalo personale. Scendere col paracadute fa abbastanza paura, ma sono finito nel fango e non mi sono fatto niente. Dov avrebbe avuto ancora una quantità di cose da raccontare su quanto aveva visto e udito durante la sua convalescenza nella Grande Terra, ma si aprì la porta del comando, ne uscirono Gedale ed Ulybin, e tutti tacquero.

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Il dialetto milanese

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Rajna, Pio 1 occorrenze

Non di tutti peraltro; chè certuni, abbattuti dall'impeto della corrente, giacciono sul fondo. Non s'abbia paura ch'io voglia metter qui lo schema fonetico e grammaticale del dialetto milanese; appena incominciassi a parlare di sorde e di sonore, troverei sordo tutto il mio uditorio, dato che n'abbia uno. Mi limiterò dunque a indicare, servendomi del linguaggio comune, le caratteristiche più persistenti e appariscenti. E badiamo : fin dove posso, le caratteristiche che distinguono il milanese in mezzo alle parlate affini ; non le molte a cui partecipa la sua numerosa parentela. Noto avanti tutto la doppia z, e in parecchi casi anche la scempia, ridotte a rasentare il suono della s. Si faccia pronunziare a un buon ambrosiano bellezza, mazza, spazza, el maester Pastizza, zia, e così via. Conscii di questa loro tendenza, i milanesi cercano a volte di correggerla; e c'è chi va tant'oltre nel santo zelo del bene, da pronunziare Pruzzia e da meravigliarsi che non tutti sappiano evitare quel grossolano sproposito, che è il dir Prussia Il cambiamento di l in r, soprattutto tra vocali, resta sempre un fenomeno abituale, sebbene, per influenza letteraria, vada ogni giorno scemando di estensione. Certo un tempo nessuno avrebbe mai detto altrimenti che viorin, gorà, a quel modo che tutti ancora pronunziano varì. Ma se l'r perde del terreno conquistato, lo perde pollice per pollice, difendendolo da valoroso. La lotta dura da secoli colla peggio dell'r, senza che questa abbia mai dato luogo nel suo animo allo scoraggiamento. Miran per esempio, si poteva già dire un posto abbandonato fin dai primi del seicento; chè il Prissian Milanes osserva: « Quaichun dìsenn Miran, se ben el è più da massè; che nun disem Milan » Una caratteristica assai più importante, dalla quale dipende in molta parte l'intonazione del dialetto, è il suono della n scempia in certe posizioni. e specialmente della n in fine di parola e preceduta da vocale accentata. L' n si fonde allora colle vocali antecedenti, e costituisce con esse delle vocali nasalizzate, come in francese. Il Prissian la paragona al suono che « fa el cordon che bat el bombas: fron fron » Una nasalizzazione analoga, sebbene meno completa, s' ha anche nell'interno dei vocaboli, quando ad n seguano certe altre consonanti. Ma accanto a questa n mezza morta come la chiama lo stesso Prissian il dialetto milanese ne ha un' altra viva vivissima. L' n segua ancora alla vocale accentata; ma sia poi anche seguita da un' altra vocale : essa suonerà allora in modo, che l'alfabeto italiano non ci permette di ben rappresentare nè con un' n sola, nè con due, sebbene in mancanza di meglio, si sia pur costretti ad adottare o l'uno o l'altro partito. Il femminile di bon non è nè bona nè bonna letti all'italiana. L' n di questi casi è vibrata come la doppia toscana, ma più breve e compatta; chè, invece di ripartire le sue articolazioni tra la vocale antecedente e la seguente, le appoggia per intero alla seguente, quasi fosse scritto bo-nna E nella stessa posizione suonano analogamente per ragioni analoghe anche altre consonanti: inse-mma, gne-ecca, e-cco (eco), euro-ppa, poe-tta In fatto di vocali, il milanese ne possiede due ignote al toscano: l'ö quell'ü così caro a molti (si può dire a tutti, fino a pochi decennii fa) da non volersene staccare, qualunque linguaggio essi parlino. Ma quello esercitato su questi due suoni è un condominio diviso con tanta gente che nel caso nostro è anche troppo l'averlo menzionato. Metto poi subito in disparte le vocali atone, che presenterebbero fatti molteplici, ma alquanto sbrigliati e d'importanza minuta, e mi contento di chiamare al redde rationem le toniche ; toniche, s' intende, perchè portan l'accento, non perché abbiano affinità nessuna col Fernet dei Fratelli Branca. La prima cosa che balza agli occhi, o piuttosto agli orecchi, è il molto affetto ai suoni larghi; gli o e gli e aperti abbondano nel milanese. Sono aperti ordinariamente gli o seguiti da n vibrata, da gn, da m, da tt: Marchionn, personna; besogn, vergogna; nomm, Romma; rott, sott, nagotta. Cito solo esempi - eccetto il primo, che è una storpiatura locale di Melchiorre - dove, e il toscano, e anche il più dei dialetti affini al milanese, contrappongono all'o aperto un o chiuso, discendente legittimo di un o lungo latino, o addirittura di un u. Stretto si mantiene nondimeno l'o di insomma, bott botte e non so che altro. In altre condizioni i progenitori decidono della sorte dei tardi nipoti; aperti quindi pocch, socca, foss, or, confort, sporg chiusi mocch, mozzo, mocc mozzicone di sigaro, bocca, ross, occor, descors Un o aperto notevole per la sua peculiarità si ha in giò, giù. Viceversa, sono da avvertire, sebbene non punto peculiari a Milano, gli o stretti delle prime persone singolari foo, stoo, voo, ah'hoo seguito quest'ultimo dal gran codazzo dei futuri; inoltre poo, coo capo. Nelle stesse condizioni dell'o è pur largo l'e; ma questo in molte altre ancora. È largo in generale, ancorchè provenga da un e lungo o da un i, quand' è seguito da consonante più o meno doppia, da gn, e da gruppi di consonanti di cui la prima sia s : scenna, menta, ingegn, colmegna, medemm, insemma, mansuett, mett, giughett, pess, istessa, bellezza, fregg, oreggia, todesch, cresta. L' e è largo del pari nelle terminazioni degl'infiniti della seconda coniugazione : avè, vedè, piasè, ecc. È stretto invece, tralasciando altri casi, quando ha dopo di sè una n scempia, non solo se questa è isolata e sale tutta per il naso, ma anche se la obbligano a prendere un po' più la strada della bocca altre consonanti che le tengan dietro: ben, presenza, dent, vend, scendera ecc. Intrecciamo allo stesso modo un m, e l'e suonerà chiuso anche allora: temp, november, e così via. Perchè l'ö non abbia a dolersi d' una dimenticanza assoluta, lo noterò aperto in poeu, a differenza di più altri dialetti lombardi. Oltre alla larghezza e strettezza del suono, è da considerar bene nelle vocali accentate la quantità. Sicuro: i nostri ragazzi, che nelle scuole strillan tanto contro la maledizione latina delle brevi e delle lunghe, non pensano che nel milanese s' avrebbero a rigore, almeno tre categorie : brevi, lunghe e medie. In fondo, è questa la particolarità che il Cherubini vuol significare, quando distingue un suono vibrato, uno rimesso ed uno stemperato. Del fatto avevano peraltro mostrato d' accorgersi anche prima gli scrittori, adottando il sistema di segnare certe vocali coll'accento grave, di mettere ad altre il circonflesso, e di scriverne molte duplicate. Dei tre gradi possono dar esempio fà, ciallad, veritaa; pè, , spêd, pee, goss, occôr, poo; finna, rid, vorii; brutt, rûd, luu; foeura, foeugh, fioeu plurale). Ridotte a due sole le classi, comprendendo nella categoria delle lunghe anche le medie, che in sostanza le appartengono, si può dire che, di norma, sono brevi le vocali seguite da una doppia o da certi gruppi di consonanti, lunghe quelle seguite da una consonante semplice o da certi altri gruppi. Si noti, per esempio, la lunga di sporg, incorg, confort Quanto alle vocali in fin di parola, parte sono brevi, parte lunghe, a seconda dell'origine. Per il suono, l'a lungo volta la sua faccia dalla parte dell'o sulla bocca di chi parla sbottasciaa; tanto più, quanto maggiore la lunghezza. Nelle scritture del secolo passato a quest' a corrisponde il segno ae. Ora, ravvicinando a ciò il fatto, che realmente cotali a suonano e in certi dialetti rustici, se ne argomenta con apparenza di verità, da alcuni, per esempio, dal Cherubini, che nel secolo passato la medesima pronunzia fosse pure in città; da altri che gli scrittori della città affettassero l'uso del contado. Mi permetto di dissentire da entrambe le opinioni. La seconda conterrebbe forse molto di vero riferita al secolo XVII, all'età classica di Beltramm de Gagian e della sua degna consorte Beltraminna Ma una volta che Meneghin Tandoeuggia ambrosiano puro sangue, milanes de Milan ebbe dato il bando al suo predecessore, il dialetto della letteratura fu universalmente quello della città; del Bottonuto e del Poslaghetto in particolare, come s' è visto. E del resto l'affettazione contadinesca non era per nulla generale nemmeno nell'età antecedente; altro è, si badi, la letteratura milanese, altro quella, tutta artifiziale e punto popolare, dell'Accademia di Val di Bregno e della Badia dei Facchini del Lago Maggiore. Fatto sta che già il Prissian primo varo trattatista del nostro dialetto, vuol propriamente seguire e insegnare l'uso cittadino. E siamo al l606. Quanto all'ipotesi che supporrebbe avvenuto nella pronunzia un cambiamento radicale, la credo da rifiutare assolutamente per ragioni linguistiche e storiche. Ravvolgo le prime nella maestà del silenzio; e mi contento di notare rispetto alle altre, che cotesto ae è rappresentato da un semplice a nella scrittura del seicento e del cinquecento. Gli è ben vero che il Prissian distingue per l'a due pronunzie diverse : la larga e la stretta. Ma la larga è per lui quella di sarà, sarà e serrare, di sara, sala e chiudi, ossia la breve. La stretta è quella « che i Latin antigament ghe diseven l'a longa, es la scriveven dobla inscì: amaabam. » L' ae non è dunque, a mio vedere, che un semplice segno grafico, poco felicemente scelto, e forse non abbastanza felicemente surrogato dai due a, suggeriti appunto dall'uso antico latino, o piuttosto dal passo del Prissian Certo peraltro il bisogno di una mutazione c'era; come c'era per l'ö, che in grazia di un falso concetto della sua natura, si scriveva ancora nel secolo scorso con ou. Ma anche qui fu un rimedio poco felice quello di accumulare tre lettere per un suono solo, introducendo quell'incomodissimo oeu. Ohimè! dove vado? Quo, Musa, tendis ? Nei regni della noia, vorrei dire .... se non ci avessi condotto i lettori già da troppo tempo! Vediamo almeno di essere spicci di qui innanzi; dirò delle flessioni solo le cose veramente caratteristiche. Le più spettano al dominio dei nomi. Va notata anzitutto la formazione del plurale dei femminili in a non accentato, che sia preceduto da consonante o da consonanti. Si perde la vocale che c'era in origine all'uscita, e le consonanti restano allo scoperto : finezza, scoeura, porta, mamma, donna, balarinna, fanno finezz, scoeur, port, mamm, donn, balarinn. Come si vede, l'n mantiene la vibratezza che ha al singolare; anzi, mantiene anche quella che al singolare ha perduto in molti diminutivi; sicchè, per esempio, mammin da mammina — non ispento, del resto, neppur esso — fa mamminn. Tosa è anomalo : fa tosann. A proposito di diminutivi, sono ancor più osservabili i plurali in itt, la più parte per nomi maschili, e unicamente per questi in origine. Parecchi si trovano avere adesso il singolare in in; per esempio, basitt, piscinitt, dencitt ma in realtà sono ancor essi plurali di un singolare in ett, perdutosi per istrada, e non perduto da tutti. Così omitt conserva il suo bravo omett e cereghitt può sempre vantare, accanto a cereghin, il cereghett pizzamochett e il Cereghett, « Covoe Dominus. » Questa rispondenza, ett singolare, itt plurale, è lo strascico di una legge ben più generale, che era un tempo in vigore in gran parte della valle del Po. Per essa l'e accentata dei nomi maschili, al plurale diventava sempre i (l. V. i Saggi Ladini dell'Ascoli nel t. I dell'Arch. Glottologico; passim.. La legge a poco a poco ha perduto la sua forza, non altrimenti da ciò che accade a quelle dei codici; e anche coloro che le si conservarono docili fino a tempi vicini, hanno cominciato ad alzare la cresta. Certo ben pochi direbbero adesso col Porta cavij, basij, scinivij e pochi anche usij, registrato come vivo dal Cherubini. Si conserva paricc, plurale di un singolare che il dialetto non ha; e sembra voler passare alle età future come singolarissimo esempio di fedeltà il pronome quist. Un arcaismo di questo genere, che tutti abbiamo continuamente in bocca senza accorgercene, è, credo, il Bij della Contrada Bij giacchè il casato della famiglia che dette nome alla via era probabilmente tutt'uno con quello, pur comunissimo, di Belli. Bigli deve essere un'italianizzazione altrettanto dotta come sarebbe remissegli, pivegli oppure l'Osteria dei tre Baccelli Nel verbo, noto di passaggio hin, sono, anomalo sì, ma non punto quanto lo fa parere senza sua colpa quell'h peggio che ostrogota; inoltre rammento la flessione, spesso violata, del condizionale: ev, isset, av; issem, esser, issen E alla sintassi manderò di lontano un semplice saluto, rammentando la negazione no, posposta al verbo: Se po no, se po no! ... Sulle differenze tra questo no che si pospone, e il minga che si prepone, potrei dir molte cose, conchiudendone poche; caso rarissimo ! Ma scusi, mi sento dire. Non s' accorge di fare come quando, in una certa società numerosa, il signor X discorre un' ora filata sul suo argomento favorito della concia dei cuoi? O non sarebbe meglio parlar di qualcosa dove ognuno potesse dire la sua? Dica per esempio, se le par bello o brutto il milanese; ne determini, se tiene ai paroloni, il valore estetico! Ecco un punto, su cui tutti hanno idee proprie. Le hanno e le hanno avute. Un' idea l'aveva anche Dante, che si permette di strappare, come erba cattiva, insieme col bergamasco, anche il milanese, e ricorda con una tal quale compiacenza una poesia, che già allora correva in dileggio di questi dialetti: Intel' ora del vesper, Ziò fu del mes d' ociover .... E allo stesso modo non si vergognò di pensare Luigi Pulci, che il 22 di settembre del l473 ebbe la sfacciataggine di mandare da Milano a Lorenzo de' Medici due sonetti obbrobriosi (1. S' hanno singolarmente straziati a pag. 86- 87 delle edizioni dei sonetti del Pulci e del Franco. Io li ho trascritti direttamente dall'autografo, che è alla Nazionale di Firenze, e posso così darne la lezione genuina.), di cui non si laverebbe la colpa con tutta l'acqua del Seveso, del Lambro, dell'Olona. Nell'uno sono gli abitanti che più specialmente si prendon di mira; e solo una terzina deride il parlare: E' dicon le carote i gniffi, i gnarri, Et l' uve spicciolate pinceruoli, Da far, non che arrabiare (1. Prima il Pulci aveva scritto, se non erro, impazzare.) i cani, i carri. Ma l'altro è pressochè tutto un' ingiuria al dialetto: Ambrosia, vistu ma il più bel ghiotton, Quel fiorentin ch' è in chà messer Pizzello ? El non manza ravizze : mò zervello, Ch' el si butta per zerto un gran poltron. Non li san le ravizze mica bon. El son tutte materie! El dise chello Zanzator che Fiorenza è mò più bello, Che si vorrava darli un mostazzon! El passa ! Ha, fiorentin, va scià chillò! El guarda, in fe de dè ! Ma tasi ti, Che 'l non z' à ancor vezzuti il chò di bò ! Et chi credessi un certo odor che è qui Quasi rosea piantata in Jerichò Fussi, io noi crezzo; ch' io lo so ben mi! Ma egli è ben ver così, Ch' e milanesi spendon pochi soldi, Et mangian cardinali et manigoldi ; Et ferrù coldi coldi ! Tanto ch' io serbo all'ultimo il sonetto, Ch' io mangerei forse io del pan buffetto. In fondo al sonetto il Pulci mette questa postilla per Lorenzo : « Nota che cardinali è una cierta vivanda di più cose in guazzetto : manigoldi le bietole : le ferruche son succiole. Ma tu se' milanese vecchio. » Da queste ultime parole risulta che Lorenzo de' Medici sapeva il milanese; ciò vale a consolarci un poco delle insolenze di messer Luigi, il quale poi, per giusto castigo del cielo, volendo dileggiare il dialetto nostro, è riuscito a fare dei versi molto debolucci. La parodia poteva essere, non solo più corretta, ma anche più spiritosa. Ecco venir terzo il Bandello: « II parlare milanese ha una certa pronuncia, cche mirabilmente gli orecchi degli stranieri offende .... » (Parte I, nov. 9). Misericordia! E nessuno si leverà a difesa ? — Milano tutta, come un sol uomo. Lasciam parlare il Prissian : « Par la proùma (1. Si legga proeuma V. quel che s' è detto a pag. 40.) al besogna savè cche el nost lenguag al è el più pur, el più bel, e il miò che se possa trovà. » E anche poco prima aveva detto: « Parlo dela parnonzia del parlà Milanes, ch' alè el più bel che sia al mond ; e si avess temp, e' vel farev vedè ; salv la lengua fiorentena, ch' al' è nassù dala nosta, ma che lor ai l' an lechà inscì on pochin, com' es fa ona sposa. » Qui, per verità, si fa una restrizione alquanto pericolosa, che darebbe forse motivo sufficiente di chiamare il Prisciano stesso davanti al tribunale della Santa Inquisizione. Egli puzza un po' dell'eresia di quel traditore di padre Branda, che un secolo e mezzo più tardi ritornava di Toscana così innamorato o infatuato del parlare di colà, da gettar fango in viso al linguaggio materno in un certo dialogo fatto recitare in pubblico dai suoi scolari. Ed ecco accendersi una guerra terribile, nella quale la prima lancia contro il Branda fu rotta dal Parini, oscuro abate tuttavia. Le ingiurie - usiam parole proporzionate alla grandezza dei fatti - riempirono l'aria; l'inchiostro scorse a ruscelli; e ben cinquanta opuscoli a stampa, vomitati dalle bocche da fuoco delle due fazioni, rimasero sul campo, a testimonio della gran lotta. Chi li vuol vedere, vada all'Ambrosiana, e chieda della Brandana Troverà cose abbastanza divertevoli. Tacque finalmente la guerra; ma le cause e i sentimenti che l'avevano suscitata non vennero meno negli animi, e si perpetuarono anche nei posteri. E così più di mezzo secolo dopo si riaccendeva, se non la guerra, un duello, quando un articolo del Giordani nella Biblioteca italiana faceva montare al Porta la mosca al naso, e lo spingeva a mitragliare l'oltraggiatore dei dialetti colla scarica dei dodici sonetti famosi all'abaa Giavan Ma lasciando gli scherzi e le simpatie: o chi aveva ragione in coceste lotte? - La ragione e il torto non si dividono mai in maniera così netta, che tutto il torto sia da una parte, tutta la ragione dall'altra, dice il Manzoni. E il Manzoni appunto, milanese e affezionatissimo al milanese, così dotto nel suo dialetto da aver pochi pari, assegnava di sicuro una parte di ragione, nel secolo passato al Branda, nel presente al Giordani. I fatti lo dimostrano; giacchè egli fu per suo conto un sostenitore e propugnatore ardentissimo ed efficacissimo di idee molto analoghe alle loro. Qui peraltro corriam rischio d' impigliarci nella quistione della lingua, molto più complessa di quella che s' aveva per le mani. Rientrando nel nostro guscio, diciam pure aperto che nel giudizio sulla bellezza e bruttezza dei dialetti in generale e di un dialetto in ispecie, l'abitudine, ossia il pregiudizio entra per quattro quinti. A molti letterati tutti i dialetti paiono brutti, compreso il loro proprio; alla generalità, e particolarmente al volgo, paiono brutti tutti, a eccezione del loro. Quindi il continuo darsi la baia da paese a paese per ragion del parlare. Da ciò alcuni spassionati conchiudono, che dunque tutti i dialetti sono brutti e belli ad un modo. Non assento : per quanto il mi piace e non mi piace renda malagevole il giudizio, c'è bene anche un grado assoluto e variabilissimo di bellezza e bruttezza. Il difficile sta a poterlo determinare. Non pretenderò già io di esser da tanto; a ogni modo alcune cose le devo dire. Per quel cche spetta ai suoni, il milanese avrebbe una ricchezza invidiabile; ma non ne cava forse tutto il partito che potrebbe, giacchè certi elementi prevalgono un po' troppo, con danno della varietà; e non di quella soltanto. Ricorrono troppo abbondanti le vocali a lungo strascico, nasalizzate e non nasalizzate, che danno al parlare un carattere lento. Nei verbi riesce adesso d'impaccio l'accumularsi dei pronomi, promosso da cause per così dire rettoriche, più che da una vera necessità e dal logorio delle forme; chè, quanto a forme, il milanese è forse tra i dialetti cittadini dell'Italia settentrionale uno dei meno impoveriti dal tempo. Di derivazioni il dialetto milanese è copioso, tanto per i sostantivi che per gli aggettivi. E quanto al dizionario, non s' ha proprio motivo di portare invidia a chicchessia. Se dai caratteri per così dire fisici, si volge l'attenzione ai morali, oh, come ha ragione il Tanzi di esclamare: Gh'emm ona lengua averta, avert el coeur! ll milanese è realmente il linguaggio di un popolo dal cuore aperto, bonario, inclinato alla benevolenza verso ognuno, amante della buona tavola e in generale di tutti i piaceri del senso, lieto, proclive alla sguaiataggine più che alla vera arguzia, ricco di un buon senso alla mano. Un linguaggio fine il milanese non si potrebbe dire : efficace, è di sicuro. Il popolo che lo parla ci si riflette dentro tutto quanto, colle sue virtù e colle sue debolezze: di gran lunga più numerose le prime - si permetta di dirlo ad uno non nato all'ombra del Duomo - che le seconde. Questi caratteri interni si mantengono inalterati, nonostante la variazione delle fattezze esteriori. Giacchè, come s' è accennato in più casi, il dialetto si trasforma, e sempre s'è venuto trasformando in tutto quanto il corso della sua vita. Ben si sa: la trasformazione è condizione essenziale dell'esistenza. Una delle mutazioni di maggior rilievo avvenuta in tempi vicini a noi, riguarda il passato remoto, cominciato a cadere in disuso verso la metà del secolo scorso, rappresentato da pochi superstiti al principio del nostro, e quindi sceso nella tomba fino all'ultimo suo rampollo. Vens, diss, voeuss, spongè ecc. ecc., farebbero adesso inarcare le ciglia al più ambrosiano tra gli ambrosiani. Non si riguardi questa sparizione come un sintomo pericoloso per la vita del dialetto; lo stesso fenomeno sta succedendo, mentre parliamo, nel francese, senza che ciò faccia nascere nessuna inquietudine per la sua preziosa salute. Piuttosto danno da pensare i mutamenti non pochi che si producono nei suoni. Per esempio la z, che aveva preso molte volte il posto del c e del g dinanzi ad e e ad i, è ricacciata di nuovo dal ritorno vittorioso dei fuorusciti. Nessuno dice più zent, nessuno Porta Zines pochi zerusegh, suzzed, suzzess Qui, tanto e tanto, s' ha il trionfo d'un vecchio diritto lungamente conculcato; ma è effetto di prepotenza se molte terminazioni ben legittime in cc sono bandite, o almeno confinate tra la gente bassa; dicc, scricc, facc non si sentono più; non frequentemente lecc, succ e c'è chi spinge lo zelo fino a dire per tecc una parola che non mi permetterò qui di pronunziare. Presi un per uno cotali mutamenti non significherebbero nulla; ma invece destano l'allarme, se si considerano uniti insieme e si riferiscono alla loro causa unica ed universale, che è un graduale ravvicinamento alla lingua letteraria o al toscano. Non ci sarebbe da dolersene, se il ravvicinamento potesse metter capo all'identificazione; ma facciam conto che ciò sia per accadere ad una distanza infinita, là dove s'incontrano, al dire dei matematici, e si danno con un bacio il « ben arrivato, » anche due parallele. E la lingua letteraria non si contenta di pervertire la fonetica del dialetto; ne perverte ancor peggio il vocabolario. Essa v' introduce così alla sordina un numero infinito di vocaboli, ciascuno dei quali circuisce una voce indigena, le somministra un lento veleno, e non ha pace finchè non la vede morta e non ne raccoglie l'eredità. E dire che i tribunali non hanno pene per cotesti misfatti! O non pare evidente che le lingue abbiano diritto ad essere rispettate al pari delle persone? Io non capisco perchè, mentre è severamente vietato di corrompere il toscano col mescolarvi voci, forme e pronunzie dialettali, abbia poi ad esser lecito di corrompere il dialetto con mescolanze toscane. Dunque l'uguaglianza di tutti dinanzi alla legge è proprio un' irrisione? Si parli italiano o milanese secondo che pare e piace: ma l'italiano italianamente, e anche il milanese milanesemente! È inutile: se s'ha a cuore la salvezza del dialetto bisogna, mentre non è ancor troppo tardi, pensare a un provvedimento. E il provvedimento lo propongo io medesimo, dando prova con ciò di un eroismo, che solo gli amici miei possono valutare. Esso dovrebbe consistere in una multa per ogni delitto di lesa meneghità. In altre città il prodotto della multa potrebbe servire a ristorare le finanze municipali; qui da noi invece, dove, grazie a Dio e ai nostri amministratori le finanze sono in complesso abbastanza prospere, converrebbe convertirlo in premi per coloro che parlan più corretto. Ed ecco che, cercando piombo, ci si troverebbe aver rinvenuto dell'oro; giacche, incamminatici per provvedere all'incolumità del dialetto, ci si vedrebbe arrivati inaspettatamente alla soluzione della questione sociale. Che, siccome in generale gli abbienti parlano scorretto, e relativamente corretto i non abbienti, si riuscirebbe ad un capovolgimento nella distribuzione delle ricchezze; i ricchi diventerebbero poveri, e i poveri ricchi ; che è l'unica soluzione del gran problema atta a contentare davvero, non dico chi predica le riforme stando comodamente in alto, ma chi le chiede dal basso.

ALLA CONQUISTA DI UN IMPERO

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Salgari, Emilio 2 occorrenze

. - Si erano messi in corsa, seguendo la medesima via tenuta da prima, segnata da bambù abbattuti e da kalam decapitati. Un silenzio profondo regnava sulla jungla. Non si udivano né urla di bighama, né ululati di sciacalli: quello non era un indizio rassicurante. Se estranei non avessero percorso le macchie, quegli eterni cacciatori non sarebbero stati zitti. Se tacevano, ciò voleva dire che erano spaventati. Bastarono venti minuti, a quegli infaticabili corridori, per giungere al sentiero che avevano aperto prima di cambiare direzione. Sandokan, non udendo alcun rumore e non parendogli di scorgere nessun nemico, stava per spingere una breve esplorazione anche su quello, quando Tremal-Naik, che gli stava presso, gli posò energicamente una mano sulle spalle, spingendolo poi quasi con violenza verso un gruppo di banani selvatici, i quali stendevano in tutte le direzioni le loro gigantesche foglie. Erano trascorsi appena due minuti, quando udirono distintamente i bambù ad agitarsi e scricchiolare, poi quattro uomini, armati di fucili, sbucarono nella piccola radura che s'apriva fra le gigantesche canne ed il gruppo di banani. Erano non già seikki, bensì scikari, ossia battitori delle jungle, persone abilissime, anzi impareggiabili nel seguire le piste, sia degli uomini come delle belve feroci. Si erano subito arrestati esaminando attentamente il terreno e rimovendo le erbe che lo coprivano. - Hanno cambiato direzione, Moko - disse uno di quegli scikari. - Non marciano più verso oriente. - Lo vedo, - rispose colui che doveva chiamarsi Moko. - Devono essersi accorti che noi marciamo sulle loro tracce e filano verso il settentrione. - Allora sfuggiranno all'accerchiamento. - E perché? - Non abbiamo truppe in quella direzione. Uno di noi raggiunga i seikki che ci seguono, e noi continuiamo a camminare sulla pista. - Mentre uno partiva di corsa rifacendo la via, gli altri tre si erano rimessi in cammino, curvandosi di quando in quando al suolo, per non perdere di vista le piste della colonna fuggente. Sandokan e Tremal-Naik attesero che si fossero allontanati, poi, a loro volta, si misero in cammino, girando la macchia di banani dal lato opposto. - Dobbiamo gareggiare di velocità e sorpassarli, - disse la Tigre della Malesia. - E se tendessimo invece un agguato a quegli scikari? - chiese Tremal-Naik. - Un colpo di carabina in questo momento tradirebbe la nostra presenza. Penseremo più tardi a sbarazzarci di loro. Corriamo, amici! - Tremal-Naik, che aveva trascorsa la sua gioventù fra le grandi jungle delle Sunderbunds, possedeva un'orientazione naturale, cosa comune a molti popoli dell'oriente, quindi era più che sicuro di condurre i suoi compagni là dove la colonna si era accampata. Per timore però d'incontrare nuovamente gli scikari sui suoi passi, deviò verso ponente, descrivendo un lungo giro. Quella corsa rapidissima, poiché tutti avevano ancora le gambe solide, quantunque il malese e l'indiano non fossero più giovani, durò una ventina di minuti. - Pronti a ripartire senza indugio, - comandò Sandokan ai suoi uomini, quando ebbe raggiunto l'accampamento. - Ci seguono? - chiese Surama. - Hanno scoperto le nostre tracce, - rispose Sandokan. - Non inquietarti però, fanciulla. Noi sfuggiremo all'accerchiamento, dovessimo sfondare qualche linea. - La colonna si riformò, mettendo i prigionieri nel mezzo e partì a passo accelerato. Sandokan aveva raddoppiato gli uomini della retroguardia, temendo da un istante all'altro un attacco da parte degli scikari. Aveva però raccomandato a Kammamuri, che la comandava, di respingerli colle armi bianche non volendo segnalare, con spari, la sua direzione al grosso degli assamesi. La jungla continuava a diradarsi e tendeva a cambiare. Alle macchie intricate e difficili ad attraversarsi, si succedevano, di quando in quando, gruppi d'alberi, per lo più palmizi tara, circondati però da cespugli foltissimi, che avevano delle estensioni straordinarie, ottimi rifugi in caso di pericolo. La marcia diventava sempre più precipitosa. Tutti sentivano per istinto che solo dalla velocità delle gambe, dipendeva la loro salvezza e che stavano per giuocare una partita estremamente pericolosa, anzi la corona di Surama. Che cosa sarebbe avvenuto se le truppe del rajah li avessero schiacciati nella jungla? Chi avrebbe salvato Yanez? La catastrofe sarebbe stata completa e avrebbe segnata la fine assoluta delle ultime e formidabili tigri della gloriosa Mompracem. Alle tre del mattino Kammamuri, che era rimasto sempre colla retroguardia, ad una notevole distanza, raggiunse Sandokan. - Padrone, - disse con voce affannosa per la lunga corsa, - gli scikari ci hanno raggiunti. - Quanti sono? - Sei o sette. - Sono dunque aumentati di numero? - Sembra, Tigre della Malesia. Che cosa devo fare? - Tendere a loro un agguato e distruggerli. - E se fanno fuoco? - Farai il possibile di sorprenderli e d'ucciderli prima che pongano mano alle carabine. - Kammamuri ripartì a corsa sfrenata, mentre la colonna continuava la ritirata fra le macchie e gli alberi. Altri dieci minuti trascorsero, minuti lunghi come ore per Sandokan e per Tremal-Naik, poi delle grida orribili ed un cozzar d'armi ruppero il silenzio, che regnava sulla tenebrosa jungla, seguìto qualche istante dopo da un colpo d'arma da fuoco. - Maledizione! - esclamò Sandokan, fermandosi. - Questo sparo non ci voleva. - E nemmeno questi, - aggiunse Tremal-Naik. A quella detonazione isolata aveva tenuta dietro una scarica di carabine fortissima. Dovevano essere stati i seikki e gli assamesi a far fuoco. - Sono ancora lontani! - esclamò Sandokan, il cui viso si era subito rasserenato. - Un miglio almeno, - rispose Tremal-Naik. - Aspettiamo Kammamuri. - Non attesero molto. Il maharatto giungeva di corsa seguìto dalla retroguardia. - Distrutti? - chiese Sandokan. - Tutti, padrone - rispose Kammamuri. - Disgraziatamente non abbiamo potuto impedire a uno degli scikari di scaricare la sua carabina. - Ha ucciso nessuno dei nostri? - chiese Tremal-Naik. - Ho avuto il tempo di fargli deviare la canna del fucile. - Tu vali una tigre di Mompracem, - disse Sandokan. - Riprendiamo la corsa. Abbiamo qualche miglio di vantaggio e potremo forse aumentarlo. - O perderlo, - disse in quel momento Sambigliong. - Perché? - chiese Sandokan. - I kalam ricominciano al di là di queste macchie e ci faranno nuovamente tribolare, padrone. - Sono secche quelle erbe? - Bruciate dal sole. - Benissimo, avremo, in caso disperato, una riserva preziosa. - In quale modo? - chiese Tremal-Naik. Invece di rispondere Sandokan si bagnò l'estremità del dito pollice e l'alzò come fanno i marinai, per indovinare la direzione del vento. - Soffia da settentrione la brezza, - disse poi. - Allo spuntare del sole sarà più viva. Dio, Maometto, Brahma, Siva e Visnù, tutti uniti, ci proteggono. Dateci la caccia ora, miei cari seikki! Amici, avanti, io rispondo di tutto! -

Furono accesi parecchi fuochi e furono messi ad arrostire i volatili abbattuti da Sandokan e da Tremal-Naik. Mentre gli arrosti rosolavano infilzati nelle bacchette di ferro delle carabine, e attentamente sorvegliati da una mezza dozzina di cuochi improvvisati, Sandokan, Surama ed il bengalese, scortati da alcuni dayachi, esploravano l'isolotto, per far raccolta di frutta, non avendo ormai più nemmeno un biscotto. La loro gita non fu inutile, poiché oltre a molli manghi, furono tanto fortunati da scoprire un paio di mahuah, piante preziosissime, che non a torto vengono chiamate la manna delle jungle, perché danno, dopo la caduta dei fiori, che sono pure mangiabilissimi, quantunque sappiano di muschio, delle grosse frutta col mallo violaceo, contenenti delle mandorle bianche eccellenti, lattiginose, colle quali gli indiani si preparano delle focacce gustosissime, che surrogano benissimo il pane. La colazione, abbondantissima, essendo tutti i volatili grossissimi, fu divorata in pochi minuti; poi tutti, Sandokan e Tremal-Naik eccettuati, si stesero sotto la fresca ombra delle palme, a fianco degli elefanti, i quali stavano consumando una enorme provvista di teneri rami e di foglie, non potendosi dare a loro né farina di frumento impastata, né la solita libbra di ghi per ciascuno, ossia di burro chiarificato. I due capi, che sospettavano sempre un attacco degli assamesi, e che da veri avventurieri non sentivano bisogno di riposarsi, avevano riprese le loro armi, per sorvegliare le due rive dell'isolotto. Volevano anche assicurarsi di ciò che facevano i bisonti, che poco prima avevano veduto ancora gironzolare al di là della fanghiglia. Percorso l'isolotto tutto all'ingiro, scorsero nuovamente gli jungli-kudgia. Si erano sdraiati al di là del canalone, brucando le dure erbe palustri che crescevano presso di loro. Vedendo apparire i due cacciatori, in un attimo furono tutti in piedi, cogli occhi iniettati di sangue, sferzandosi rabbiosamente i fianchi colle loro lunghe code infioccate. Muggivano ferocemente e dimenavano freneticamente le teste, come se si provassero ad avventare delle cornate. - Qui non siamo più sul dorso degli elefanti, - disse Sandokan. - È questo il momento di decimarli. - Accostò le mani alle labbra e mandò un lungo fischio. Subito malesi e dayachi si precipitarono verso la riva. - Fucilatemi quelle canaglie, - disse a loro Sandokan. - È tempo di finirla con questo inseguimento che dura da troppo tempo. - Fu una scarica terribilissima quella che partì. Su diciotto bisonti, undici caddero morti o moribondi; gli altri, vista la mala parata, si allontanarono a corsa sfrenata, mettendosi in salvo fra le moltissime macchie di bambù, che coprivano la jungla settentrionale. I nostri fuggiaschi non scorgendo più i bisonti, fecero ritorno all'accampamento, sicuri di potersi finalmente riposare senz'essere più disturbati. Verso le quattro pomeridiane, quando l'intenso calore cominciava a scemare, l'accampamento fu levato e gli elefanti, sempre preceduti dal pilota, riprendevano le mosse. Mezz'ora dopo ritrovavano finalmente il terreno solido. La jungla paludosa era stata attraversata e cominciava quella secca, con distese di eterni bambù lisci e spinosi, di erbe altissime semi-bruciate dal solleone, di immensi cespugli con qualche gruppo di mindi, quei graziosi arbusti dalla corteccia bianchiccia, foglie verdi pallide e lunghi grappoli di fiori, d'un giallo delicato e dal profumo delizioso. Era il momento di spingere i pachidermi a gran corsa, per lasciare definitivamente indietro gli assamesi, se ancora li seguivano. Una brutta sorpresa però attendeva i fuggiaschi e si preparavano a offrirla gli implacabili bisonti. Nessuno più pensava a quegli animali, che non si erano fatti più vedere dopo la disastrosa sconfitta, che avevano subìta sul margine della fanghiglia, quando una improvvisa agitazione si manifestò fra gli elefanti. Il pilota pel primo si era fermato dimenando la proboscide e lanciando dei sonori barriti. - In guardia, signori! - gridò il cornac, volgendosi verso Sandokan e Tremal- Naik, che si erano alzati scrutando le folte macchie che li circondavano. - Noi abbiamo dimenticato gli jungli-kudgia, - disse Tremal-Naik. - Ancora quelle canaglie! - esclamò Sandokan furioso. - T'ho già detto che tu non li conosci. - Questa volta li stermineremo! - Non ci resta altro da fare, se vogliamo continuare tranquillamente la marcia. - Sandokan alzò la voce. - Tenetevi pronti tutti! Fuoco accelerato e mirate meglio che potete. - Gli elefanti, malgrado i colpi d'arpione, non si muovevano e non cessavano di barrire. Si erano piantati solidamente sulle zampacce, colla proboscide ben alta, pronta a vibrare colpi vigorosi e le teste basse colle lunghe zanne tese innanzi. Avevan fiutato il pericolo prima degli uomini e si preparavano a sostenere gagliardamente l'urto degli avversari, proteggendosi vicendevolmente i fianchi, per non farsi sventrare dalle aguzze corna di quegli indemoniati animali. I malesi ed i dayachi, tutti appoggiati ai bordi delle casse, colle dita sui grilletti delle carabine, erano pronti ad appoggiarli e ben risoluti a difenderli. Gli jungli-kudgia s'avvicinavano, sfondando con slancio irresistibile le macchie. Le altissime canne oscillavano in diversi punti, poi cadevano abbattute dalle corna d'acciaio dei colossi animali. La carica, a giudicarlo dalle mosse disordinate dei bambù, doveva avvenire per diverse direzioni. Gli astuti e vendicativi animali, non si slanciavano più in una sola massa, per non cadere in gruppo come sulle rive della fanghiglia. - Eccoli! - gridò ad un tratto il cornac. Un bisonte, dopo d'aver sfondato con un ultimo urto una vera muraglia di bambù spinosi, comparve all'aperto e si slanciò, con impeto selvaggio, contro l'elefante pilota, colla testa bassa, per piantargli le corna in mezzo al petto. Fu così fulmineo l'attacco, che Sandokan, Tremal-Naik, Kammamuri e anche Surama, la quale si era pure armata, essendo una buona bersagliera, non ebbero nemmeno il tempo di far fuoco. L'elefante-pilota però vegliava attentamente. Alzò la sua possente tromba, poi quando si vide l'animale quasi fra le gambe, lo percosse furiosamente sulla groppa. Parve un colpo di spingarda. Lo jungli-kudgia stramazzò di colpo, colla spina dorsale fracassata da quella tremenda sferzata. S'udì quasi subito un crac, come se delle ossa si spezzassero sotto una pressione spaventevole. Il pachiderma aveva posato ambe le zampe posteriori sul moribondo, schiacciandogli la testa. - Bravo pilota! - gridò Tremal-Naik. - Questa sera avrai doppia razione di typha! - Altri tre bisonti erano comparsi sbucando da diverse direzioni e caricando all'impazzata. Uno fu subito fulminato da una scarica dei malesi e dei dayachi, il secondo andò a cacciarsi fra due elefanti della retroguardia e subito schiacciato prima che avesse potuto far uso delle sue corna, ed il terzo, ferito e forse gravemente da una palla di Sandokan, voltò le spalle rientrando nelle macchie, forse per morire là dentro in pace. Giungeva però il grosso, formato fortunatamente da cinque soli animali, gli unici superstiti della numerosa truppa. L'accoglienza che ebbero fu tremenda. I malesi ed i dayachi che avevano avuto il tempo di ricaricare le armi, li ricevettero con un vero fuoco di fila, arrestandoli in piena corsa ed il peggio fu quando gli elefanti, aizzati dai cornac, caricarono a loro volta abbattendo con gran colpi di proboscide quelli che, quantunque gravemente feriti, tentavano ancora di rialzarsi. - Ehi, Tremal-Naik! - gridò allegramente Sandokan. - Che questa volta la sia proprio finita? - Vorrei sperarlo, - rispose il bengalese che non era meno lieto di quel completo successo. - E quello che si è rifugiato nella jungla, vada a cercare altri compagni? - Le truppe di bisonti non s'incontrano ad ogni passo e poi ogni gruppo fa da sé e non si unisce mai agli altri. Facciamo le nostre provviste, giacché la carne qui abbonda, mentre noi siamo a secco. Il filetto e le lingue di questi animali, godono fama di essere bocconi da re. - Gli elefanti furono fatti inginocchiare e tutti scesero a terra, senza l'aiuto delle scale, correndo verso quelle enormi masse di carne. Non fu però impresa facile spaccare quelle gobbe per trarne i filetti. I bisonti indiani, al pari di quelli americani, offrono delle resistenze incredibili anche dopo morti, per lo spessore enorme delle loro ossa che sono a prova di scure. I malesi, dopo essersi invano affaticati, dovettero lasciare il posto a Bindar ed ai cornac più pratici di loro. Fatta un'abbondante provvista di lingue e di carne scelta, la carovana riprese la marcia, rimontando verso il settentrione con passo abbastanza celere, malgrado gli ostacoli che presentava incessantemente l'interminabile jungla. Non fu che verso le otto della sera, nel momento in cui il sole precipitava all'orizzonte e dopo d'aver percorse ben quaranta miglia in poche ore, che Sandokan diede il segnale della fermata a breve distanza dalla riva destra del Brahmaputra, il quale piegava pure, in senso inverso, a settentrione, scendendo dall'imponente catena dell'Himalaya. Non essendo improbabile che in quel luogo vi fossero molti animali feroci, Tremal-Naik e Kammamuri fecero improvvisare dai malesi e dai dayachi, uno stecconato di bambù, intrecciati e accendere anche, ad una certa distanza, numerosi falò; poi le tende furono rizzate per difendersi dai colpi di luna, che nell'India non sono meno pericolosi di quelli di sole, poiché dormendo col viso esposto all'astro notturno, sovente ci si sveglia ciechi affatto. La cena fu deliziosa e, come si può ben immaginare, abbondantissima. Gustate furono specialmente le lingue dei bisonti, che erano state messe a bollire in un pentolone di rame. I flying-fox, quei brutti vampiri notturni, dalle ali nere, che quando sono interamente spiegate, misurano insieme perfino un metro e che hanno il corpo rivestito da una folta pelliccia rossastra, e la testa che somiglia a quella della volpe, cominciavano a descrivere in aria i loro capricciosi zig-zag, quando Sandokan, Surama e Tremal-Naik, si ritirarono sotto la loro tenda, sicuri di poter passare finalmente una notte tranquilla. Gli altri li avevano già preceduti. Solo Kammamuri e Sambigliong, con quattro dayachi, erano rimasti a guardia del campo, potendosi dare che qualche tigre, qualche pantera, si celassero nei dintorni e tentassero, quantunque i fuochi ardessero sempre, qualche colpo sugli addormentati.

IL RE DEL MARE

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Salgari, Emilio 2 occorrenze

I dayaki che assediavano il kampong, coll'apparire della luce, si erano allontanati di sei o settecento metri, riparandosi dietro ai grossi tronchi d'alberi appositamente abbattuti onde servirsene a modo di trincee mobili, potendo farli scorrere innanzi o indietro, a loro piacimento. Pareva che durante la notte fossero aumentati di numero, perchè Tremal-Naik, appena ebbe lanciato uno sguardo all'ingiro, non potè trattenersi dall'esclamare: - Ieri sera non ve n'erano tanti intorno a noi. Yanez stava per chiedergli qualche cosa, quando un secondo colpo di cannone si udì rimbombare in lontananza, ripercuotendosi contro le cinte del kampong. - Questo rombo viene dal sud! - esclamò il portoghese. - Sono i cannoni da caccia della Marianna che tirano. I dayaki hanno assalito i miei uomini. - Sì, - confermò l'indiano, - viene dalla parte del Kabatuan. Credi che possano respingere il nemico, coi pezzi che hanno a loro disposizione? - Bisognerebbe conoscere il numero degli assalitori. Di quali forze dispone quel maledetto pellegrino? - Ha fanatizzato quattro tribù e ognuna deve avergli fornito non meno di centocinquanta guerrieri. - E armati di fucili? - Sì, Yanez. Quell'uomo misterioso ha portato con sè un vero arsenale e perfino dei lilà e dei mirim. Toh! Un altro colpo! - E queste sono le spingarde! - esclamò Yanez, facendo un gesto di rabbia. Dalla parte dell'immensa foresta che si estendeva verso il sud, giungevano ad intervalli delle detonazioni più leggere e più secche che dovevano essere prodotte da pezzi a canna lunga. Poi gli spari aumentarono rapidamente d'intensità, formando un rimbombo incessante, come se molti pezzi d'artiglieria e molte spingarde sparassero insieme. Yanez era diventato pallido e nervosissimo. Passeggiava intorno alla piattaforma come un leone in gabbia, interrogando ansiosamente cogli sguardi tutti i punti dell'orizzonte. Anche l'indiano era in preda ad una sovraeccitazione vivissima. I colpi si succedevano intanto ai colpi. Una battaglia furiosa, terribile, doveva essersi impegnata sul fiume fra il poco numeroso equipaggio della Marianna e le grosse forze del misterioso pellegrino. - E non cessa! - esclamava Yanez, che non si tratteneva più. - Se fossi là io! - Sambigliong è un valoroso che non si arrenderà, - rispose Tremal-Naik. - È una vecchia tigre che la sa lunga e che sa difendersi. - Non vi sono che sedici uomini validi a bordo, mentre i dayaki possono essere tre o quattrocento e forniti anche essi d'artiglieria. - Dunque tu dubiti che la Marianna possa resistere? - chiese Tremal-Naik con angoscia. - Se la prendessero sarebbe finita anche per noi. E mia figlia? - Adagio, amico, - rispose Yanez. - I dayaki troveranno qui un osso ben duro da rodere. Ho osservato attentamente il tuo kampong e mi sembra assai robusto. Tu sai che i selvaggi generalmente si trovano imbarazzati dinanzi ad un ostacolo che frena il loro slancio. Per Giove! Ed il cannone non cessa! Si massacrano laggiù. Quanti uomini hai? - Una ventina. - Tutti malesi? - Fra malesi e giavanesi, - rispose Tremal-Naik. - Quaranta uomini, chiusi da una cinta così solida, possono dare del filo da torcere a quei furfanti. Sei ben provvisto? - Ho viveri e munizioni in abbondanza. - Signor Yanez! Buon giorno! - disse in quel momento una giovane, comparendo sulla piattaforma. Il portoghese aveva mandato un grido: - Darma! Una bellissima fanciulla di forse quindici anni, dal corpo flessuoso come una palma, con lunghi capelli neri, un po' inanellati, la pelle del viso leggermente abbronzata e vellutata come quella delle donne indiane, ma assai più chiara, i lineamenti perfetti che sembravano più caucasici che indù, si era fermata dinanzi al portoghese, fissandolo coi suoi occhi neri e scintillanti come carbonchi. Indossava un costume mezzo europeo e mezzo indiano, che le dava una grazia unica, composta d'un busticino di broccatello, con ricami d'oro, d'un'ampia fascia di cascemir che le cadeva sulle anche ben arrotondate e d'una sottanina piuttosto corta che lasciava vedere i calzoncini di seta bianca che le scendevano fino sulle scarpettine di pelle rossa, a punta rialzata. - Ben felice di rivedervi, signor Yanez, - riprese la fanciulla, tendendogli una manina da fata. - Sono due anni che vi abbiamo lasciato. - Abbiamo sempre da fare laggiù, a Mompracem. - Medita sempre spedizioni la Tigre della Malesia? Che uomo terribile, - disse Darma sorridendo. - Ah ... il cannone! Non udite? - È già mezz'ora che rimbomba, figlia mia, - disse Tremal-Naik, - e annunzia forse una grave disgrazia. - Chi è che fa fuoco, padre? - Sono le tigri di Mompracem. - Che difendono la mia nave, - aggiunse Yanez. - Tacete! Mi pare che i colpi rallentino! E non poter vedere nulla! Si erano tutti curvati sul parapetto della piattaforma, ascoltando ansiosamente. Non si udivano più che a rari intervalli le secche detonazioni delle spingarde e la cupa voce dei pezzi da caccia. Ad un tratto si fece un gran silenzio, come se la battaglia fosse bruscamente cessata. - Hanno vinto o sono stati schiacciati? - si chiese Yanez che si sentiva bagnare la fronte di sudore. Ad un tratto una formidabile detonazione attraversò gli strati d'aria e si propagò con tale intensità che la torre tremò dalla base alla cima. Yanez aveva mandato un grido, mentre Tremal-Naik e Darma erano diventati pallidissimi. - Mio Dio, che cosa è successo? - chiese la fanciulla. - La mia Marianna deve essere saltata in aria, - rispose Yanez con voce rotta. - Poveri i miei uomini! Un dolore intenso traspariva sul viso del portoghese, mentre qualche cosa di umido brillava nei suoi occhi. - Yanez, - disse Tremal-Naik, con voce affettuosa, - noi non abbiamo ancora la certezza che la tua nave sia saltata. - Questo rombo spaventevole non può essere stato prodotto che dallo scoppio della santabarbara, - rispose il portoghese. - Io che ne ho vedute saltare tante delle navi, non mi posso ingannare. Che la Marianna sia calata a fondo non me ne importa, avendo noi a Mompracem velieri in buon numero. Sono i miei uomini che rimpiango. - Possono avere lasciata la nave prima che scoppiasse. Chissà, forse sono stati essi stessi a dar fuoco alle polveri onde non cadere nelle mani dei dayaki. - Può essere vero, - rispose Yanez, che aveva riacquistata la sua calma. - Vi era qualcuno a bordo che sapesse dove si trova il mio kampong? - Sì, il corriere che ti abbiamo mandato sei mesi fa. - Quell'uomo allora, se è sfuggito alla morte, potrebbe condurre qui i superstiti. - E passare attraverso le file dei dayaki! Ecco un'impresa che sarà ben difficile per così pochi uomini. E poi, quand'anche giungessero qui, la nostra situazione non migliorerebbe. - È vero, - rispose l'indiano. - Come potremo scendere il fiume senza la tua nave? - Cercheremo dei canotti, padre, - disse Darma. - Per esporsi ad un fuoco incessante senza alcun riparo? Chi giungerebbe vivo alla foce del fiume? - Guarda i dayaki, - disse in quel momento Yanez. Gli assedianti, che dovevano aver pure udito quello scoppio formidabile e anche quel vivo cannoneggiamento, avevano abbandonate le loro trincee mobili, ritirandosi verso le foreste che circondavano la pianura, come se avessero l'intenzione di togliere il blocco. - Se ne vanno, padre! - esclamò Darma. - Che abbiano compreso che era inutile ostinarsi contro questo kampong? - Yanez, - disse Tremal-Naik, - che il pellegrino sia stato invece sconfitto e che abbia mandato qui qualche corriere per far ritirare gli assedianti? - O che cerchino di trarci in qualche agguato? - chiese invece il portoghese. - In qual modo? - Colla speranza che noi approfittiamo della loro ritirata per abbandonare il kampong e poi assalirci in piena foresta con tutte le loro forze. No, mio caro Tremal-Naik, non sarò così sciocco io, da abboccare all'amo. Finchè non sapremo la sorte toccata alla mia Marianna, noi non lasceremo questa fattoria dove potremo difenderci lungamente, nel caso che il mio equipaggio sia stato distrutto. Mettiamo qui una sentinella e pel momento non preoccupiamoci delle manovre insidiose di quei furfanti. - Signor Yanez, - disse Darma. - Venite a prendere un po' di riposo, intanto, ed a far colazione. Non udendo più alcun colpo di cannone, quantunque fossero tutti angosciati per la sorte che poteva essere toccata all'equipaggio della Marianna, scesero nella sala pianterrena dove i servi del kampong avevano preparata un'abbondante refezione all'inglese, con carne fredda, burro e thè con biscotti. Terminato il pasto e mandato il meticcio sulla torricella onde li avvertisse delle mosse degli assedianti, fecero una minuta ispezione alle cinte e alle opere di difesa, onde essere pronti a sostenere anche un lungo assedio. Erano trascorse già tre ore dallo scoppio, quando udirono Tangusa gridare dall'alto del minareto: - All'armi! E subito dopo rimbombarono alcuni spari. Yanez e Tremal-Naik si erano precipitati verso la piattaforma più alta della cinta, da cui potevano dominare buon tratto della pianura. Vi erano appena giunti, quando videro un piccolo drappello d'uomini uscire dalla foresta a corsa sfrenata, sparando sui dayaki che accorrevano da tutte le parti come per tagliare loro il passo. Due grida erano sfuggite alle labbra del portoghese e dell'indiano: - Le tigri di Mompracem! Sambigliong! Poi lanciarono due grida tuonanti: - Fuoco le spingarde! - Alzate la saracinesca ai nostri amici! I pirati che avevano scortato Yanez, vedendo i loro compagni alle prese cogli assedianti, si erano gettati sulle tre spingarde che difendevano la cinta dalla parte meridionale, scaricando quasi contemporaneamente. I dayaki, udendo quegli spari e vedendo cadere parecchi compagni, avevano aperte le file rifugiandosi precipitosamente nella foresta. Sambigliong e il suo drappello, trovando il passo libero, si erano slanciati verso il kampong a tutta corsa, non cessando di sparare. La saracinesca era stata alzata e parte della guarnigione era mossa incontro a loro per sostenerli nel caso che i dayaki tornassero alla riscossa e anche per guidarli attraverso il boschetto spinoso. I superstiti della Marianna non erano che una mezza dozzina. Erano neri di polvere, madidi di sudore, ansanti, colle vesti stracciate e insanguinate ed avevano la schiuma alle labbra per la lunga corsa che doveva essere durata non meno di tre ore. Il corriere, che conosceva la via, per fortuna era insieme a loro. - La mia nave? - gridò Yanez, correndo incontro a Sambigliong. - Saltata, capitano, - rispose il mastro con voce rantolante. - Da chi? - Da noi ... non potevamo più resistere ... erano centinaia e centinaia di selvaggi che ci piombavano addosso ... tutti i nostri compagni sono stati uccisi ... anche i feriti ... ho preferito dar fuoco alle polveri ... - Sei un valoroso, - gli disse Yanez, con voce profondamente commossa. - Capitano ... vengono ... sono molti ... preparatevi alla resistenza. - Ah! vengono! - esclamò Yanez con voce terribile. - Vendicheremo i nostri morti!

Mentre i lilà e il mirim continuavano a tuonare, aprendo nei panconi delle cinte qualche foro appena sufficiente per lasciar passare una mano e i fucilieri s'avanzavano, sempre disposti in catena, strisciando al suolo e nascondendosi dietro i piccoli rialzi di terreno e dietro i tronchi abbattuti per sfuggire alle scariche della spingarda collocata sul minareto, che non aveva cessato di far fuoco, gli assalitori s'aprivano con precauzione il passo fra le piante spinose. Essendo quasi tutti nudi ed i cespugli e gli arbusti foltissimi e formidabilmente armati di punte acutissime, l'impresa era tutt'altro che facile e lo provavano le grida di dolore che di quando in quando mandavano gli assalitori, che non potevano frenare. - La loro carne va a brandelli, - disse Yanez, che curvo sul parapetto, fra l'apertura lasciata da due sacchi di sabbia collocati dinanzi alla spingarda, li spiava. - Mordono le spine, miei cari. - Eppure passano egualmente quei demoni. Ecco lì il primo che striscia lungo la cinta. - E che non andrà a raccontare ai suoi compagni se è più o meno solida, - aggiunse il portoghese. Puntò la carabina e sparò quasi senza mirare. Il dayako che era riuscito, a prezzo di chissà quali punture, ad attraversare quella formidabile barriera, si levò di colpo sulle ginocchia allargando contemporaneamente le braccia e cadde col cranio attraversato dal proiettile, mandando un urlo rauco. - Fuoco in mezzo alle piante! - gridò Yanez. - Ci sono sotto. Poi facendo girare la spingarda sul perno e abbassando la canna più che potè, lanciò una bordata di mitraglia di traverso, mentre i Tigrotti di Mompracem, i malesi ed i giavanesi ricominciavano il fuoco massacrando arbusti e assedianti insieme. Vociferazioni spaventevoli s'alzarono sotto le piante, segno evidente che non tutti i colpi erano andati perduti, poi una valanga d'uomini si rovesciò verso la saracinesca assalendola a colpi di kampilang, mentre i lilà ed il mirim raddoppiavano il fuoco, cercando di mandare le loro palle sulle terrazze per allontanare i difensori. Tremal-Naik aveva mandato un lungo fischio. Subito si videro uscire dalla cucina otto uomini che portavano delle enormi caldaie che spandevano all'interno un fumo acre e denso. Salirono rapidamente la scala, deponendo le caldaie sul terrazzo sovrastante la saracinesca. - Per Giove! - esclamò Yanez, sentendosi avvolgere da quel fumo che gli strappava dei colpi di tosse. - Che cosa portate qui? - Guardati, Yanez! - gridò Tremal-Naik. - Lascia il posto a questi uomini. - Ma gli altri cominciano a montare. - Il caucciù bollente li farà ridiscendere. Gli otto uomini, armatisi di giganteschi mestoli, cominciarono a rovesciare il liquido fumante contenuto nelle caldaie. Urla, orribili, strazianti, s'alzarono tosto alla base della cinta. I dayaki, spaventosamente ustionati dal caucciù bollente che veniva gettato dall'alto della cinta e senza alcuna economia, si erano scagliati come pazzi in mezzo alle piante, fuggendo a precipizio. Una mezza dozzina di loro, che avevano ricevuto le prime palate del terribile liquido, si dimenavano e si contorcevano dinanzi alla saracinesca, ululando lugubremente come lupi idrofobi. - Per Giove! - esclamò Yanez, facendo un gesto d'orrore. - Questo indiano ha avuto una trovata magnifica! Cucina vivi quei poveri diavoli! I dayaki fuggivano anche dalle altre parti, poichè anche da quelle terrazze gli assediati avevano cominciato ad aspergere coloro che avevano tentato di scalare la cinta. Il fuoco intenso delle spingarde e delle carabine completava la sconfitta degli assedianti i quali ormai non pensavano ad altro che a porsi fuori di portata dalle armi da fuoco dei difensori del kampong e a rifugiarsi nei loro accampamenti. Invano i fucilieri avevano tentato di accorrere in aiuto delle colonne di assalto che si ripiegavano confusamente. Una bordata di mitraglia lanciata da tutte le spingarde li persuase a seguire i fuggiaschi. Due minuti dopo intorno al kampong non restavano che i morti e qualche ferito che stava per esalare l'ultimo respiro.

I PESCATORI DI BALENE

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

Sfiniti, semigelati, abbattuti, si erano fermati ai piedi dell'"hummock". Ormai avevano perduta ogni speranza. - Orsù, tutto è finito! - esclamò il tenente, lasciandosi cadere sul ghiaccio - I miseri sono tutti periti, tutti, tutti! Povero capitano, Poveri compagni che non rivedrete mai più le sponde della patria vostra! Un rauco suono che sembrava un singhiozzo soffocato si spense in fondo alla gola di quell'uomo che forse non aveva mai pianto, mentre due grosse lacrime gli si gelavano sulle brune gote. - Soli, soli in quest'immenso deserto di ghiaccio! - riprese egli dopo qualche istante, come se parlasse a sè stesso. - Chissà se anche noi torneremo a rivedere la nostra Danimarca! - Signor Hostrup! - disse il fiociniere con voce commossa. - Ti comprendo, Koninson! - rispose il tenente alzandosi - Non bisogna scoraggiarsi, hai ragione, amico mio. - Siamo in due, signor tenente, e, ringraziando Iddio, siamo e tutti e due solidi. - È vero, Koninson. - Contate di rimanere ancora su questo dannato banco? - È necessario. - Non vorrei che ci toccasse la sorte del povero capitano e dei suoi uomini. - Penso che se la Provvidenza ci ha risparmiati, non l'avrà fatto per farci morire domani o fra qualche mese. - Infatti, lo credo anch'io, tenente. Ma se si potesse lasciare questo banco sotto cui dormono i nostri disgraziati compagni sarei ben lieto. - E dove vorresti recarti? Chi oserebbe sfidare i terribili freddi della regione polare sotto una tenda? No, Koninson, se vogliamo salvarci bisogna svernare qui. Ci costruiremo una capanna di ghiaccio e attenderemo la buona stagione. - E poi, dove andremo? - Cercheremo di guadagnare la costa e di là qualche stabilimento della compagnia della Baia di Hudson. Orsù, all'opera, Koninson, non perdiamo tempo o il freddo ben presto ci ucciderà. - Cosa si deve fare? Io sono pronto a tutto. - Costruirci il ricovero. - E dove? - A fianco dei magazzini onde essere sempre vicini alle scialuppe. - Disponete di me; mi sento assai forte in questo momento, - Tu preparerai i materiali e io costruirò. Vieni, amico mio, che forse abbiamo tardato anche troppo. Si diressero verso i magazzini che erano poco lontani e che occupavano la cima di una collinetta da cui si dominava un gran tratto di paese e si fermarono dinanzi ad un "iceberg" che pareva solido quanto una rupe. - Ci proteggerà dai venti del nord - disse il tenente, dopo averlo osservato attentamente per assicurarsi della sua stabilità. Si levò dalla cinta il coltello e tracciò nel ghiaccio, fra i magazzini e l'"iceberg", un circolo del diametro di cinque metri che poi approfondì a colpi di scure formando un canale destinato, in seguito, a raccogliere l'umidità scendente dalle pareti della capanna. - Ora, - disse rivolgendosi a Koninson - tagliami dei blocchi di ghiaccio. Il fiociniere non se lo fece dire due volte e manovrando abilmente la scure in breve tempo preparò un grande numero di grossi pezzi di ghiaccio, che il tenente dispose in bell'ordine intorno al canaletto, cementandoli con neve. Sopra quel primo strato il tenente ne sovrappose un secondo, lasciando verso sud un'apertura piuttosto stretta, indi un terzo, un quarto e via via, sempre restringendoli in maniera da formare una specie di cupola la cui elevazione non superava i tre metri. Una famiglia d'eschimesi non avrebbe domandato di più e si sarebbe fermata lì, ma il tenente era più esigente e non voleva correre i pericoli ai quali si espongono spesso gli abitanti di quelle gelide regioni, cioè all'acciecamento prodotto dal fumo ed al congelamento per mancanza di circolazione d'aria. Aiutato dal fiociniere, che si mostrava entusiasta per quella costruzione la cui forma rammentava un mezzo uovo, ma di dimensioni colossali, si arrampicò sulla cupola e apertovi un buco, costruì, servendosi sempre di blocchi di ghiaccio, un tubo alto un buon metro, per dare sfogo al fumo; poi aprì verso est, verso ovest e verso nord tre altre aperture, per combattere efficacemente il congelamento ed anche l'umidità, due nemici pericolosissimi in quei climi. Da ultimo tappezzò il suolo della capanna con pelliccie e con tela da vele, lasciando però in mezzo, proprio sotto il tubo che doveva servire da camino, uno spazio libero. - Che te ne pare, mio bravo fiociniere? - disse il tenente quando ebbe finito. - Io dico che staremo benone in questo nido - rispose Koninson - Bisognerà però chiudere le finestre. - Basterà un pezzo di pelle. - Spero che non geleremo. - Se non gelano gli eschimesi che vivono otto mesi dell'anno nelle loro capanne di ghiaccio, non so perchè dovremo gelar noi. - Ma quando accenderemo il fuoco, le pareti non si scioglieranno? - Non avere questo timore, Koninson. La fiamma è lontana e i blocchi di ghiaccio che ci hanno servito per la costruzione sono grossi. E poi credi tu che non s'ingrosseranno di più? Alla prima nevicata raddoppieranno e alla seconda triplicheranno il loro volume. - Purchè la cupola non ceda. - La sbarazzeremo del soverchio peso. - E siete persuaso che si starà bene qui dentro? - Ne sono convinto, Koninson, e aggiungo che prenderemo amore alla nostra casa e che ci dispiacerà l'abbandonarla quando ci metteremo in cammino per il sud. - Permettetemi di dubitarne, tenente! - disse Koninson. - Non so chi potrà essere quell'uomo che prenderà affezione ad una casa di ghiaccio. - Gli eschimesi, per esempio, preferiscono le loro capanne gelate ai nostri palazzi d'Europa. - Voi scherzate, tenente. - Parlo seriamente, Koninson, e ti so dire che un eschimese condotto a Londra pochi anni fa, dove era trattato come un principe, dopo qualche tempo chiese di tornarsene in mezzo ai suoi ghiacci, dicendo che a tutti i palazzi della capitale inglese preferiva la sua capanna di ghiaccio, e a tutte le barche del Tamigi il suo piccolo canotto di pelle. - Si direbbe una frottola se non uscisse dalle vostre labbra. Come mai si può desiderare questo deserto di ghiaccio dove tutto manca e dove si corre ad ogni momento il pericolo di venire inghiottiti dal mare? - Questione di abitudine e d'amore al natio paese, Koninson. Forse che tu lasceresti la nebbiosa Danimarca per i bei paesi dal dolce clima? - Chissà? Forse, signor Hostrup; ma potrei un bel giorno desiderare di rivedere le sponde del mio paese. - Sono convinto che presto o tardi questo desiderio verrebbe. Ma facciamo punto ed occupiamoci delle nostre provvigioni. - Spero che ci basteranno per finire questo dannato inverno. - Ne avremo anche troppe, Koninson. Lasciarono la capanna e si diressero verso i magazzini che erano a pochi passi di distanza. La galleria che avevano scavata per entrare, era in parte diroccata a causa delle ultime pressioni, ma i due balenieri non esitarono a cacciarsi in mezzo alla neve e ai massi di ghiaccio che in parte la ostruivano. Quando furono entro i magazzini, a colpi di scure aprirono un vano affinchè entrasse un pò di luce, poi si misero a fare l'inventario di ciò che possedevano. Il defunto capitano Weimar aveva accumulate tante provvigioni da bastare per parecchie settimane all'intero equipaggio del "Danebrog" e specialmente alcuni attrezzi che diventavano di un valore inestimabile. Il tenente, aiutato dal suo bravo compagno, che rimuoveva ogni cosa con grande ardore, contò sei casse contenenti non meno di duecento chilogrammi di biscotto, due barili di carne secca ridotta in pemmican col sistema indiano, un barile di farina, due di lardo, una non piccola quantità di cioccolata, parecchie scatole di tè, un centinaio di chilogrammi di pesce secco e un barilotto di acquavite, nonchè alcune bottiglie di succo di limone per combattere i disastrosi effetti dello scorbuto. Scoprì altresì una piccola provvista di patate, due pentole di ferro della massima importanza per loro, una cassa con vesti di pelle di foca e alcune grosse coperte di lana e una provvista abbondante di polvere e di palle con tre fucili, una. vecchia pistola e alcuni coltelli. Mancava assolutamente il legname e il carbone, cose necessarie per resistere ai grandi freddi dell'inverno polare, ma c'erano dodici barili di spermaceto di balena e alcuni d'olio e parecchio canape. Per di più possedevano due baleniere e un canotto, che dovevano fornire una provvista di legna non piccola. - Abbiamo più di quanto ci occorre! - disse il tenente quand'ebbe finito l'inventario. - Passeremo l'inverno senza incomodi e senza sofferenze. - Una cosa ci manca, signor Hostrup. - Quale, mio bravo fiociniere? - Una stufa da porre nella nostra capanna. - Non occorre. Koninson lo guardò con sorpresa. - Forse che nella nostra capanna farà caldo quando all'esterno avremo 40o sotto lo zero? - Non dico questo ma surrogheremo la stufa con qualche cosa di meglio. Hai visto delle stufe nelle capanne degli eschimesi? - No, tenente, e mi sono sempre meravigliato. - Ma avrai veduto ardere giorno e notte una gran lampada. - Sì, me ne ricordo. - Ebbene, anche noi accenderemo una gran lampada in mezzo alla nostra capanna e vedrai che ci darà sufficiente calore. - Se dite ciò, deve essere vero. Ed ora cosa facciamo? - Porteremo alcune provviste nella nostra casupola per non essere obbligati ad aprire ogni giorno i nostri magazzini. - Li chiuderemo dunque? - E per bene, Koninson. Non dimenticare che al polo nord vi sono degli orsi bianchi sempre in lotta colla fame. Se si spingono fin qui e scoprono le nostre provviste, faranno un gran vuoto in sole poche ore. Orsù, al lavoro, fiociniere. Si caricarono entrambi di diverse provvigioni, delle armi, delle pentole e di alcune coperte ed uscirono per recarsi alla capanna. Erano appena usciti dalla galleria, quando il tenente si arrestò bruscamente guardando verso nord. - Cosa vedete? - chiese Koninson, che si era affrettato a sbarazzarsi del carico per afferrare il fucile. - Degli orsi forse? - No, guarda laggiù. Koninson volse lo sguardo nella direzione indicata e scorse una nube nerissima che si staccava vivamente sul fondo stellato del cielo e il cui lembo superiore descriveva una specie di arco. - Una tempesta che si approssima, forse? - chiese. - No, è l'aurora boreale che sta per sorgere! - rispose il tenente. - Guarda, ecco che la nube si allarga e con grande rapidità. Infatti la nube prendeva grandi proporzioni come se fosse stata spinta da un formidabile vento, e al centro a poco a poco diventava più chiara, quasi trasparente, attraversata di quando in quando da rossastri bagliori. D'improvviso successe un cambiamento magnifico, sorprendente. Parve che la nube volasse in mille scheggie, come se nel suo seno fosse saltato un magazzino di polveri e qua e là guizzarono per l'orizzonte colonne di fuoco d'una tinta superba, cangiando i ghiacci in altrettanti massi infuocati. - Stupendo! - esclamò Koninson, che pure aveva osservato moltissime volte quel meraviglioso fenomeno. - Aspetta un pò, fiociniere! - disse il tenente, che non staccava gli occhi dall'orizzonte settentrionale. Le colonne di fuoco continuavano ad innalzarsi ed abbassarsi con le contrazioni dei serpenti, cambiando di frequente tinta che variava dal bianco trasparente al giallo e al rosso ardente e formando delle nebulosità abbaglianti. Poi, a poco a poco, s'innalzò un arco immenso, brillante, il quale sollevando tutti quegli sprazzi di luce variopinta balzò da est ad ovest per poi ritornare, con altro brusco e più rapido salto, ad est. Il fenomeno era allora nel suo pieno splendore. I raggi che si alzavano sul grand'arco, gli uni sottilissimi e gli altri grossi, rossi alla base, verdastri nel mezzo e biancastri all'estremità, si spingevano sino alla testa dell'Orsa Maggiore, formando una specie di cupola di una bellezza incomparabile. I campi di ghiaccio, gli "icebergs", gli "hummocks", le piramidi, i coni, le colonne parevano tutti in fiamme e riflettendo quei vigorosi bagliori illuminavano la regione polare fino agli estremi confini. Ben presto però l'immenso arco fu visto ondeggiare come se fosse stato scosso da un impetuosissimo colpo di vento, formando immense pieghe in senso orizzontale e ben presto sull'orizzonte più non si vide che un ammasso di luce la cui intensità era tale che i due naufraghi furono costretti a difendersi gli occhi colle mani. - Si direbbe che tutto il polo è in fiamme! - disse Koninson, che non parlava più di rientrare nella capanna. - È uno spettacolo che non si è mai stanchi di vedere, e che non si è mai osservato abbastanza bene. - È vero, fiociniere! - rispose il tenente. - Pare di assistere sempre ad un fenomeno nuovo. - Sapreste dirmi, signor Hostrup, da cosa deriva? - Hum, è un po' difficile saperlo, mio caro fiociniere, poichè gli scienziati non sono ancora d'accordo, su ciò. Pare che sia causato da un accumulamento di elettricità e per mio conto credo che sia l'ipotesi migliore e più giusta, considerati i pochi uragani e l'estrema siccità dell'aria che s'oppone alla sua dispersione. - È vero, signor Hostrup, che l'aurora altera le bussole? - Verissimo, Koninson, e non solo quando esse sono in vista della luce, ma anche quando si trovano lontane dal cerchio luminoso, il che fa supporre che le aurore boreali siano in relazione col magnetismo. - E sono sempre uguali queste aurore? - Se ne sono osservate di quelle strane. Mairan ne vide una nel 1726 trovandosi a Breville-Ponte, che era formata da un gigantesco segmento nero traforato regolarmente da punti luminosi. - Questi fenomeni sono però molto frequenti. - Secondo gli anni. Lotten, che fece parte della spedizione d'Islanda per studiare i fenomeni della regione polare, nell'osservatorio da lui stabilito a Bossekop ove rimase otto mesi negli anni 1838-39, ne vide ben 143 in 206 giorni e le più frequenti fra il 17 novembre e il 25 gennaio. - Speriamo di vederne molte anche noi. - Ne vedremo, Koninson. Intanto l'aurora continuava le sue oscillazioni e i suoi bruschi salti, ora scemando di proporzioni ed ora ingigantendo. Tre ore durò, poi nuovi raggi apparvero, fra cui uno biancastro altissimo, indi ricominciò ad ondeggiare, a indebolirsi e finì con lo sfasciarsi e scomparire. Le tenebre, ripreso il loro impero, tornarono a distendersi sui campi di ghiaccio e sull'orizzonte, poco prima infuocato, non rimasero a brillare che gli astri.

IL PAESE DI CUCCAGNA

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Serao, Matilde 1 occorrenze

Un'altra giovane ancora, ma dal pallido e seducente volto consumato, dai grandi occhi neri, un po' malinconici, un po' stravaganti, con le occhiaie livide, dalla grossa treccia nera disfatta sul collo, era salita sopra un macigno abbandonato in quel cortile, forse dai tempi in cui era stato costruito o restaurato il palazzo; e lì sopra, tutta magra nella sua veste ritinta di nero, che le faceva cento pieghe sullo scarno petto e sui fianchi, dondolando un piede in uno stivaletto rotto e scalcagnato, rialzandosi sulle spalle, ogni tanto, un gramo scialletto anche ritinto di nero, ella dominava la folla, guardandola coi suoi occhi abbattuti e tristi. La folla era fatta quasi tutta di gente povera: ciabattini che avevano chiuso il banchetto nello stambugio che abitavano, avevano arrotolato il grembiule di pelle intorno alla cintura, e in maniche di camicia, col berretto sugli occhi, rimuginavano nella mente i numeri giuocati, con un impercettibile movimento delle labbra; servitori a spasso, che invece di cercar padrone, consumavano le ultime lire del soprabito d'inverno impegnato, sognando il terno che di servitori li facesse diventar padroni, mentre una contrazione d'impazienza torceva loro il volto smorto, dove la barba, non più rasa, cresceva inegualmente; erano cocchieri da nolo che avevano lasciata la carrozza affidata al compare, al fratello al figliuolo, e attendevano, pazientemente, con le mani in tasca, con la flemma del cocchiere che è abituato ad aspettare delle ore il passeggiero; erano sensali di stanze mobiliate, sensali di serve, che, nell'estate, partiti i forestieri, partiti gli studenti, languivano seduti sulle loro sedie, sotto la loro tabella che è tutta la loro bottega, agli angoli dei vicoli San Sepolcro, Taverna Penta, Trinità degli Spagnuoli, e avendo giuocato qualche soldino, sottratto al cibo quotidiano, disoccupati, oziosi, venivano a udir l'estrazione del lotto; erano braccianti delle umili arti napoletane che, lasciato il fondaco, l'opificio, la bottega, abbandonato il duro e mal retribuito lavoro, stringendo nel taschino dello sdrucito panciotto la bolletta di cinque soldi, o il fascetto delle bollette di giuoco piccolo, rano venuti a palpitare innanzi a quel sogno, che poteva diventare una realtà; erano persone anche più infelici, cioè tutti quelli che a Napoli non vivono neppure alla giornata, ma ad ore, tentando mille lavori, buoni a tutto e incapaci, per mala fortuna, di trovare un lavoro sicuro e rimuneratore, infelici senza casa, senza ricovero, così vergognosamente laceri e sporchi, da fare schifo, avendo rinunziato al pane, per quella giornata, per giuocare un biglietto, sulla faccia dei quali si leggeva la doppia impronta del digiuno e dell'estremo avvilimento. Tra la folla, anche qualche donna si distingueva: donne sciatte, senza età, come senza bellezza; serve senza servizio, mogli di giuocatori accaniti, giuocatrici esse stesse, operaie licenziate, e, fra tutte, il volto pallido e attraente di Carmela, quella seduta sul macigno, volto sfiorito, dai grandi occhi stanchi e addolorati. Più tardi, come maggiormente si appressava l'ora dell'estrazione, e più il chiasso cresceva, fra le poche faccie smorte muliebri e i laceri vestiti di percalla scolorita a furia di troppe lavature, una assai diversa figura di donna apparve. Era una popolana alta e robusta, dal viso bruno fortemente colorito, dai capelli castani tirati su, pettinati con molta cura e la cui frangetta, sulla breve fronte, aveva anche un'ombra di cipria; i pesanti orecchini di perle scaramazze, rotondi, bianco-verdastri, le tiravano le orecchie, tanto che aveva dovuto assicurarli sopra l'orecchio, con un cordoncino di seta nera, temendo che dovessero spezzare il lobo; una collana d'oro, con un grosso medaglione d'oro, posava sul giubbetto di mussola bianca, tutto ricami e gaie di merletto; ella sollevava ogni tanto, sulle spalle, uno scialle trasparente di crespo di seta nero e allora mostrava le mani, ricche di grossi anelli d'oro sino alla metà della seconda falange. L'occhio era serio e tranquillo, con una lieve aria di quietissima audacia, la bocca composta a severità; ma nell'attraversare la folla, nell'andare a mettersi sul terzo gradino della scala, per vedere e per udire meglio, ella conservava quella inclinazione della testa, speciale delle popolane napoletane, un po' civettuola, un po' mistica; conservava quella ondulazione della persona così seducente sotto lo scialle, e che le borghesi napoletane perdono subito nel vestito alla moda francese. Pure, malgrado la simpatia naturale che ispirava quella figura femminile, al suo passaggio vi fu un mormorio quasi ostile e come un movimento di repulsione tra la folla. Ella ebbe un moto di disdegno, levando le spalle; e restò sola, ritta sul terzo scalino, tenendo alzato lo scialle sulle braccia, e le mani cariche di anelli incrociate sullo stomaco. Il mormorio, qua e là, continuò: ella guardò la folla, due o tre volte, serenamente, anzi non senza fierezza. Le voci tacquero: le palpebre della donna batterono, due o tre volte, come per orgoglio appagato. Ma, finalmente, su tutte le altre, su Carmela dal volto sfiorito e dai grandi occhi dolorosi, su donna Concetta dalle dita inanellate e dalla frangetta incipriata, Concetta, la bella, robusta e ricca usuraia, sorella di donna Caterina, sorella della tenitrice di gioco piccolo, opra la folla del cortile, dell'androne, della via, una figura di donna emergeva, attirava almeno uno sguardo della gente raccolta. Era la donna, al primo piano del palazzo dell'Impresa, seduta dietro la ringhiera di un balconcino: seduta di fianco, si vedeva il suo profilo chinarsi e sollevarsi, ogni tanto, sul lucido ingranaggio d'acciaio di una macchina da cucire Singer; mentre il piede, uscendo dalla modesta gonna di percalla azzurra a pisellini bianchi, batteva metodicamente sul pedale di ferro, che si abbassava e si alzava, con moto uniforme. Fra il brusio delle voci, e i dialoghi da un capo all'altro del cortile, e lo stropiccio dei piedi, si perdeva il trillo sordo della macchina da cucire: ma sul fondo scuriccio del balcone, la figura della cucitrice si disegnava tutta, di profilo, con le mani che portavano il pezzo di tela bianca sotto l'ago saliente e discendente della macchina, col piede che piegava il pedale, instancabilmente, con la testa che si alzava e si abbassava sul lavoro, senza vivacità, ma senza stanchezza, continuamente. Di profilo si vedeva una guancia delicata, delicatamente rosea, e una grossa treccia castana modestamente ravviata e stretta sulla nuca, si vedeva l'angolo di una bocca fine, e l'ombra che le lunghe ciglia abbassate gittavano sull'alto delle guancie. La giovane cucitrice, da un'ora che la folla si addensava nel cortile, non aveva guardato che un paio di volte giù, gittandovi una breve occhiata indifferente, e riabbassando subito la testa sull'ingranaggio lucido della macchina, trasportando lentamente con le mani il pezzo di tela, perché la cucitura venisse diritta, diritta. Nulla la distraeva dal suo lavoro, né le voci, né le vive esclamazioni, né il calpestìo crescente della folla; ella non aveva guardato mai sul terrazzino coperto, dove si sarebbe proclamata l'estrazione, fra poco. La gente la guardava, di basso, la delicata e infaticabile cucitrice di bianco, ma ella proseguiva quietamente nel suo lavoro, come se neppure un eco di quella gran passione, fra segreta e palese, arrivasse sino a lei; ella sembrava così lontana, così schiva, così assorta in un mondo assolutamente staccato, diverso, che la fantasia poteva supporla più una immagine che una realtà, più una figura ideale che una persona vivente. Ma, ad un tratto, un lungo grido di soddisfazione uscì dal petto della folla, variato in tutti i toni, saliente alle note più acute e scendente alle note più gravi: il grande balcone della terrazza si era schiuso. La gente che aspettava nella via cercò di penetrare nell'androne, quella che era nell'androne si accalcò nel cortile: vi fu come un serramento, mentre tutte le facce si levavano, prese da un'ardente curiosità, prese da un'angoscia ardente. Un grande silenzio. E guardando bene al moto delle labbra di certe donne, si vedeva che pregavano: mentre Carmela, la fanciulla dall'attraente volto consumato e dagli occhi neri infinitamente tristi, giocherellava con un cordoncino nero che le pendeva dal collo, e a cui erano attaccati una medaglina della Madonna Addolorata e un piccolo corno di corallo. Silenzio universale: di aspettazione, di stupore. Sul terrazzino, due uscieri del Regio Lotto avevano collocato un lungo e stretto tavolino coperto di un tappeto verde; e dietro il tavolino, tre seggioloni, perché vi sedessero le tre autorità: un consigliere di prefettura, il direttore del Lotto a Napoli, e un rappresentante del municipio. Sopra un altro piccolo tavolino fu collocata l'urna, per i novanta numeri. È grande, l'urna; tutta fatta di una rete metallica, trasparente, a forma di limone, con certe strisce di ottone che vanno da un capo all'altro, cingendola come i circoli del meridiano circondano la terra: sottili strisce luccicanti che ne assicurano la forza, senza impedirle la perfetta trasparenza. L'urna è sospesa, in aria, fra due piuoli di ottone, e presso un piuolo c'è un manubrio, anche metallico, che, voltato, fa rapidamente virare sul suo asse tutta l'urna. I due uscieri che aveano portato tutto questo materiale fuori il terrazzino erano vecchi, un po' curvi, come sonnacchiosi. Anche le tre autorità, in soprabito e cappello a cilindro, sembravano annoiate e sonnolente, sedendosi dietro il tavolino: così il consigliere di prefettura dai mustacchi tinti di un nero fortissimo, che pareva avessero stinto in bruno, sul bruno volto lucido e assonnato: così un consigliere comunale, che era un giovanotto dalla barbetta scura. Questa gente si muoveva lentamente, con una misura di movimenti, con una precisione di automi, tanto che un popolano, dalla folla, gridò: - Andiamo, andiamo! Di nuovo, silenzio, ma vi fu un grande ondeggiamento di emozione, quando comparve sulla terrazzina il fanciulletto che doveva estrarre dall'urna i numeri dell'estrazione. Era un fanciulletto vestito della bigia uniforme dell'Albergo dei Poveri, un povero fanciulletto del Serraglio, ome i napoletani chiamano l'ospizio di quelle creature abbandonate, un povero serragliuolo enza enzamadre e senza padre, o figliuolo di genitori che, per miseria o per crudeltà, avevano abbandonato la loro prole. Il fanciulletto, aiutato da uno degli uscieri, indossò, sull'uniforme da serragliuolo, na tunica di lana bianca: un berretto bianco, anche di lana, gli fu messo sulla testa, perché la leggenda del Lotto vuole che il piccolo innocente porti la veste bianca dell'innocenza. E lestamente salì sopra uno sgabello, per trovarsi all'altezza dell'urna. Di sotto, la folla tumultuava: - Bel figliuolo, bel figliuolo! - Che tu possa essere benedetto! - Mi raccomando a te e a San Giuseppe! - La Madonna ti benedica le mani! - Benedetto, benedetto! - Santo e vecchio, santo e vecchio! Tutti gli dicevano qualche cosa, un augurio, una benedizione, un desiderio, un'invocazione pietosa, una preghiera. Il bambino taceva, guardando, con la manina appoggiata sulla rete metallica dell'urna; e un po' discosto, appoggiato allo stipite del balcone, v'era un altro bambinetto del Serraglio, serio serio, malgrado le rosee guance e i biondi capelli tagliati sulla fronte: era il fanciulletto che doveva estrarre i numeri il sabato prossimo e che veniva là per imparare, per assuefarsi alla manovra dell'estrazione e ai gridi della folla. Ma di lui nessuno si curava: era quello vestito di bianco, quello di quel giorno, a cui si rivolgevano le mille esclamazioni della gente; era la piccola anima innocente biancovestita, che faceva sorridere di tenerezza, che faceva venire le lagrime agli occhi a quella folla di esseri tormentati, e speranzosi solo nella Fortuna. Alcune donne avevano sollevato nelle braccia i propri fanciullini e li tendevano verso il piccolo serragliuolo. le voci, tenere, appassionate, straziate, continuavano: - Pare un piccolo san Giovanni, pare! - Che tu possa trovare sempre grazia, se mi fai fare questa grazia! - Core di mamma, quanto è caro! Subito vi fu una diversione. Uno degli uscieri prendeva il numero da mettere nell'urna, lo mostrava spiegato al popolo, annunziandolo a voce chiara, lo passava alle tre autorità, che vi gettavano sopra un'occhiata distratta. Uno dei tre, il consigliere di prefettura, chiudeva il numero in una scatoletta rotonda, il secondo usciere lo passava al fanciulletto biancovestito che lo buttava subito nell'urna, dalla piccola bocca di metallo aperta. E a ogni numero che si annunziava, vi erano esclamazioni, strilli, sogghigni, risate. A ogni numero il popolo applicava la sua spiegazione, ricavata dal Libro dei sogni dalla Smorfia o da quella leggenda popolare che si propaga senza libri, senza figurine. Ed erano scoppii di risa, erano grassi scherzi erano interiezioni di paura o di speranza: il tutto accompagnato da un clamore sordo, come se fosse il coro in minore di quella tempesta. - Due! - …la bambina! - …la lettera! - … fammi arrivare questa lettera. Signore! - Cinque! - …la mano! - … in faccia a chi mi vuol male! - Otto! - …la Madonna la Madonna, la Madonna! Ma come ogni dieci numeri, chiusi nelle loro scatolette rotonde, bigie, erano stati buttati nell'urna dell'estrazione dal piccolo serragliuolo estito di lana candida, il secondo usciere chiudeva la bocca dell'urna, e, voltando il manubrio di metallo, le imprimeva un moto di giro sul suo asse, facendo rotolare, ballare, saltare i numeri. E di giù si gridava: - Gira, gira, vecchiarello! - Ancora un giro per me! - Dammi la giusta misura! I cabalisti, quelli non parlavano, non guardavano neppure i giri dell'urna: per essi non esisteva né il bimbo innocente, né il senso dei numeri, né il giro lento o vivace della grande urna metallica: per essi esisteva solo la Cabala, la Cabala oscura e pur limpidissima, la gran fatalità, dominante, imperante, che sa tutto, che può tutto e che tutto fa, senza che niun potere, umano divino, vi si possa opporre. Essi soli tacevano, pensosi, concentrati, anzi disdegnosi di quella forte gazzarra popolare, assorti in un mondo spirituale, mistico, aspettando con una profonda sicurezza. - Tredici! - …le candele! - …il candelotto, la torcia; smorziamola questa torcia! - … smorziamo, smorziamo! - rombava il coro. - Ventidue! - …il pazzo! - …il pazzarello! - …come te! - …come me! - …come chi giuoca alla bonafficiata Il popolo si sovreccitava. Lunghi fremiti correvano per la folla, che ondeggiava come se l'agitasse lo stesso bizzarro movimento del mare. Le donne, specialmente, erano diventate nervose, convulse, e stringevano nelle loro braccia i bimbi, così fortemente da farli impallidire e piangere. Carmela, seduta sull'alto macigno, aveva la mano raggricchiata intorno alla medaglina della Madonna e al piccolo corno di corallo: donna Concetta, la usuraia, dimenticava di rialzarsi lo sciallo di crespo nero che le cadeva sui fianchi poderosi, mentre le labbra avevano un breve moto convulso. Ed era affogato, il trillo sordo della macchina da cucire, sul balcone del primo piano: niuno più si curava della infaticabile cucitrice di biancheria. La febbre del popolo napoletano nella imminenza del sogno che stava per divenir realtà, si faceva sempre più acuta, dando un più vivo e più lungo sussulto quando veniva chiamato un numero popolare, un numero simpatico: - Trentatré! - … anni di Cristo! - … anni suoi! … questo esce. - …non esce! - …vedrete che esce! - Trentanove! - …l'impiccato! - … nella gola, nella gola! - …così debbo vedere chi dico io! - …stringi, stringi! Imperturbabili, sul terrazzino, le autorità, gli uscieri, il fanciulletto vestito di bianco, continuavano la loro opera, come se tutto quel tumulto di gente non arrivasse alle loro orecchie: solo l'altro bimbo, nuovo a quello stravagante spettacolo, guardava giù, dalla ringhiera, stupito, pallido, con le rosse labbrucce gonfie, come se volesse piangere: piccola anima inconscia e smarrita fra il turbine della profonda passione umana. L'operazione, sul terrazzino, procedeva con la massima calma: a ogni nuova diecina di numeri messi nell'urna, l'usciere la faceva girare più a lungo, facendo ballare e saltellare le pallottoline allegramente fra la trasparente rete di metallo. Non si scambiava una parola, lassù, non un sorriso: la febbre restava all'altezza delle persone, nel cortile, non saliva al primo piano. Giù, adesso, le persone più serie ridevano convulsamente, sottovoce, crollavano il capo, come se si fosse loro comunicato il morbo nella forma più chiassosa. L'operazione parve si affrettasse, verso la fine. Nuovi gridi accolsero il settantacinque che è il numero di Pulcinella e il settantasette che è quello del diavolo; ma un lungo, lunghissimo applauso salutò il novanta, l'ultimo numero, anzitutto perché era l'ultimo, poi perché il novanta è un numero estremamente simpatico: novanta fa la paura: ovanta fa il mare: ovanta fa il popolo: insieme ha altri cinque o sei significati, tutti popolari. Tutti applaudivano, nel cortile, uomini, donne, fanciulli, al gran novanta, che è l'omega del lotto. Poi, subito, come per incanto, un silenzio profondo si fece: una immobilità arrestò tutti quei corpi, tutte quelle facce, - la gran gente convulsa parve pietrificata nei sentimenti, nella parola, negli atti, nella espressione. Il primo usciere, quello che aveva dichiarato i novanta numeri, accostò alla balaustra una tabella di legno, lunga e stretta, a cinque caselle vuote, simile a quella dei bookmakers sui campi delle corse, mentre l'altro usciere dava gli ultimi giri all'urna riempita di tutti i novanta numeri. La tabella era voltata verso il popolo. Poi il consigliere scosse un campanello: il giro dell'urna si arrestò: il terzo usciere mise una benda sugli occhi del bimbo biancovestito; costui lestamente immerse la manina nell'urna aperta e cercò un momento, un momento solo, cavando subito una pallina col numero. Mentre questa pallina passava di mano in mano, giù, da quei petti pietrificati, da quelle bocche pietrificate, uscì un sospiro cupo, tetro, angoscioso. - Dieci, gridò l'usciere, dichiarando il numero estratto e mettendolo subito nella prima casella. Mormorio e agitazione fra il popolo: tutti coloro che avevano sperato nel primo estratto erano delusi. Nuova scossa di campanello: il bimbo immerse, per la seconda volta, la manina delicata nell'urna. - Due, gridò l'usciere, dichiarando il numero estratto e mettendolo nella seconda casella. Al crescente mormorio qualche bestemmia soffocata si aggiunse: tutti quelli che avevano giuocato il secondo estratto erano delusi: tutti quelli che avevano sperato di prendere quattro numeri erano delusi: tutti quelli che avevano giuocato un grosso temo secco cominciavano a temere fortemente la delusione. Tanto che, quando per la terza volta la manina del fanciulletto penetrò nell'urna, qualcuno gridò, angosciosamente: - Cerca bene, scegli bene, bambino! - Ottantaquattro, gridò l'usciere, dichiarando il numero e collocandolo nella terza casella. Qui scoppiò il grande urlo d'indignazione, fatto di bestemmie, di lamenti, di esclamazioni colleriche e dolorose. Questo terzo numero, cattivo, era decisivo, era decisivo per l'estrazione e per i giuocatori. Con l'ottantaquattro erano delusi già tutti quelli che avevano giuocato il primo, il secondo e il terzo estratto; erano delusi tutti quelli che avevano giuocato la quintina, la quaterna, il terno, il terno secco, speranza e amore del popolo napoletano, speranza e desiderio di tutti i giuocatori, da quelli accaniti a quelli che giuocano una volta sola, per caso: il terno che è la parola fondamentale di tutti quei desiderii, di tutti quei bisogni, di tutte quelle necessità, di tutte quelle miserie. Un coro di maledizioni si levava, di giù, contro la mala fortuna, contro la mala sorte, contro il Lotto e contro chi ci crede, contro il governo, contro quello sciagurato ragazzo che aveva la mano così disgraziata. Serragliuolo, serragliuolo! ridavano da basso, per insultarlo, mostrandogli il pugno. Dal terzo al quarto numero passarono due o tre minuti; ogni settimana accadeva così: il terzo numero era l'espressione paurosa della infinita delusione popolare. - Settantacinque, dichiarò con voce più fiacca l'usciere, mettendo il numero estratto nella quarta casella. Tra le voci irose che non si calmavano, qualche fischio risuonò, vendicativo. Le ingiurie piovevano sul capo del bimbo; ma le maggiori imprecazioni erano contro il Lotto dove non si può vincere mai, mai, dove tutto è combinato perché non si vinca mai, mai, specialmente per la povera gente. - Quarantatrè, - finì di proclamare l'usciere, collocando il quinto ed ultimo numero. E un ultimo soffio di collera, fra il popolo: niente altro. In un momento, dal terrazzino scomparve tutta la fredda macchina del lotto: sparvero i due bimbi, le tre autorità, l'urna con gli ottantacinque numeri e il suo piedistallo, sparvero tavolini, seggioloni, uscieri, si chiusero i cristalli e le imposte del grande balcone, in un momento. Sola, ritta, accosto alla balaustra, rimase la crudele tabella, coi suoi cinque numeri, quelli, quelli, la grande fatalità, la grande delusione. Con molta lentezza, a malincuore, la folla si diradava nel cortile. Sui più esaltati dalla passione del giuoco aveva soffiato il vento della desolazione e li aveva abbattuti, come se avessero le braccia e le gambe spezzate, la bocca amara di bile: quelli che avevano giuocato tutt'i loro denari, quella mattina, non sentendo più il bisogno di mangiare, di bere, di fumare, nutrendosi vividamente delle visioni di cuccagna nella fantasia, sognando per quella sera di sabato e per la domenica e per tutti i giorni successivi, tutta una spanciata di pranzi grassi e ricchi, divorati in immaginazione, tenevano mollemente le mani nelle tasche vuote, e negli occhi desolati si dipingeva il fisico, l'infantile dolore di chi sente i primi crampi della fame e non ha, sa di non poter avere il pane per chetare lo stomaco: altri, i più folli, caduti dall'altezza delle loro speranze in un momento, provavano quel lungo minuto di pazzia angosciosa, quando non si vuol credere, no, non si può credere alla sventura e gli occhi hanno quello sguardo smarrito che non vede più la forma delle cose e le labbra balbettano parole incoerenti - ed erano questi folli disperati che ancora figgevano gli occhi sulla tabella dei cinque numeri, come se non potessero ancora convincersi della verità, e macchinalmente confrontavano i cinque numeri, con la lunga lista bianca delle loro bollette da giuoco: - e i cabalisti, infine, non se ne andavano ancora, discutendo fra loro come tanti filosofi, come tanti loici, sempre concentrati nell'alta matematica del lotto, dove vivono le figure, e e cadenze, e triple, a ragione algebrica del quadrato maltese le immortali elucubrazioni di Rutilio Benincasa . Ma in quelli che se ne andavano, come in quelli che restavano lì, inchiodati dalla loro passione, in quelli che discutevano furiosamente, come in quelli che abbassavano la testa, smorti, perduti di coraggio, senza più forza di agire e di pensare, variava la forma della desolazione, ma la sostanza della desolazione era la stessa, profonda, intensa, faciente sanguinare le più intime fibre, intesa a distruggere le stesse sorgenti dell'esistenza. Il lustrino Michele, lo sciancato, sempre seduto per terra, con la sua cassetta nera fra le gambe contorte, aveva udito l'estrazione senza levarsi, nascosto dietro le persone che si accalcavano. Ora, mentre la folla sfilava pian piano, egli avea chinato il capo sul petto e la gialla tinta del suo volto di vecchio rachitico si era colorata di verde, come se tutta la bile gli fosse salita al cervello. - Niente? - domandò una voce sorda accanto a lui. Egli levò macchinalmente gli occhi bigi dalle palpebre rosse e vide Gaetano, il tagliatore di guanti, che mostrava nel volto scialbo l'accasciamento degli esaltati delusi. - Niente, - disse breve breve il lustrino, riabbassando gli occhi. - E niente pur io. Ci hai cinque o sei soldi, per combinazione, compare? Lunedì te li ridò. - Chi me li dà? Se ne hai dieci, facciamo cinque per ciascuno, - mormorò disperatamente il lustrino. - Addio, compare, - disse, con voce rude, il tagliatore di guanti. - Addio, compare, - rispose, nel medesimo tono, il lustrino sciancato. Ma mentre Gaetano si allontanava, sotto il portone, passò accanto a lui, seria, lenta, con gli occhi abbassati, donna Concetta, dalla catena d'oro che le ondeggiava sul petto e dalle mani inanellate. - Avete guadagnato nulla, Gaetano? - domandò ella, con un lieve sorriso. - Ho preso una saetta che mi colga! - gridò lui, esasperato dal trovarsi accanto l'usuraia, che gli ricordava tutta la sua miseria, esasperato dalla domanda in quel momento. - Va bene, va bene, - ribatté ella, freddamente. - Ci vediamo lunedì, non vi dimenticate. - Non me lo dimentico, no, vi tengo in cuore, come la Madonna, - le gridò appresso, lui, con voce fischiante. Ella crollò il capo, andandosene. Non veniva là per interessi suoi, perché ella non giuocava mai; e neppure per tormentare qualche suo debitore, come Gaetano; veniva per interesse di sua sorella, donna Caterina, la tenitrice di giuoco piccolo, he non osava presentarsi lì, in pubblico. Donna Caterina comunicava a sua sorella i numeri che più temeva, cioè quelli che più erano stati giuocati da lei e per cui avrebbe dovuto pagare più forti somme: se questi numeri temuti uscivano, allora donna Concetta spiccava un ragazzino a sua sorella, la quale era pronta a far fagotto, per non pagare nessuno. Già tre volte aveva fatto fallimento così, col denaro delle giuocate in tasca, donna Caterina: ed era fuggita una volta a Santa Maria di Capua, una volta a Gragnano, una volta a Nocera dei Pagani, restandovi un paio di mesi; ed aveva avuto il coraggio di ritornare, affrontando i giuocatori delusi, con alcuni servendosi dell'audacia, ad altri dando pochi soldi, ricominciando il giuoco, mentre i rubati, i truffati, i delusi, ritornavano a lei, incapaci di denunziarla, ripresi dalla febbre, o tenuti in rispetto da donna Concetta, a cui tutti dovevano del denaro; e la speculazione continuava, il denaro passava da una sorella all'altra, dalla tenitrice di banco che sapeva fallire a tempo, alla strozzina che osava affrontare i più malintenzionati fra i suoi debitori. Né questa fuga era considerata come un delitto, come un furto, da donna Caterina e dalla sua clientela; forse che, più in grande, non fa così anche il governo, che ha assegnato una dote di sei milioni per ogni estrazione e per ogni ruota elle otto, e quando, per una rarissima combinazione, le vincite sorpassano i sei milioni, non fallisce anche il governo, diminuendo l'entità delle vincite? Oh, ma quel giorno non vi era bisogno, per donna Caterina, di fallire, di fuggire; i numeri estratti erano così cattivi, che non aveva vinto nessuno dei suoi giuocatori, forse; e donna Concetta se ne risaliva pian piano, per via Santa Chiara, senz'affrettarsi, sapendo che quello era un sabato desolante per tutta Napoli che giuoca, e preparandosi alle sue battaglie di usuraia, del lunedì. Le passavano accanto, tutte quelle creature infelici, dalle speranze infrante: ed ella crollava il capo, saggiamente, su quelle aberrazioni umane, stringendo i lembi dello scialle di crespo nero, fra le mani inanellate. Una donna che veniva in giù, rapidamente, tirandosi dietro una bimba e un bimbo, portando una creaturina da latte sulle braccia, la sfiorò, la oltrepassò, entrò nel cortile dell'Impresa, dove ancora qualche persona si tratteneva. Era una donna poverissimamente vestita, con una veste di percalla così sfrangiata e fangosa, che faceva pietà e disgusto; con un lembo sfilacciato di scialletto di lana, al collo; e nella faccia così scarna, così consunta, coi denti così neri e coi capelli così radi, che i suoi figli, i suoi tre figli, non laceri, non sporchi, e bellini, pareva non le appartenessero. Il lattante, un po' gracile solamente, le abbassava il capo sulla spalla, per dormire: ma la poveretta era così agitata, che non gli badava più. E vedendo Carmela, sua sorella, seduta sempre sull'alto macigno, con le mani abbandonate in grembo, la testa abbassata sul petto, sola sola, come immobilizzata in un dolore senza parola, le andò vicino: - Oh, Carmela! - Buon giorno, Annarella, - disse Carmela, trasalendo, abbozzando un pallidissimo sorriso. - Stai qua anche tu? - chiese, con una intonazione di sorpresa dolorosa. - Eh… già, - rispose Carmela, con un cenno di rassegnazione. - Hai visto Gaetano, mio marito? - domandò ansiosamente Annarella, facendo scivolare dalla spalla sul braccio la testolina del suo lattante, perché potesse addormentarsi più comodamente. Carmela levò i suoi grandi occhi sul volto della povera sorella, ma la vide così disfatta, così brutta di miseria e di privazioni, così già vecchia, così sacra di già alla malattia e alla morte, così disperata in quella domanda, che non osò dirle la verità. Sì, aveva visto Gaetano, il tagliatore di guanti, suo cognato, lo aveva visto prima fremente e ansioso, poi pallido e accasciato; ma sua sorella, ma il gracile lattante addormentato, ma i due altri fanciulletti, che si guardavano curiosamente intorno, le facevano troppa pietà. Ella mentì. - Non l'ho visto per niente, - disse, chinando gli occhi. - Ci doveva essere, - mormorò Annarella, con la sua voce rauca e lenta. - Ti assicuro che non vi era affatto. - Non lo avrai visto, - ripetè Annarella, ostinata nella sua dolorosa incredulità. - Come poteva non venire? Qua viene ogni sabato sorella mia. Può essere che a casa sua, con queste sue creature, non ci sia; può essere che alla fabbrica dei guanti, dove si può guadagnare il pane, non vi sia; ma non può essere, che non sia qui il sabato, a sentire che numeri escono; qui sta la sua passione e la sua morte, sorella mia. - Gioca assai, non è vero? - disse Carmela, che si era fatta pallidissima e aveva le lagrime negli occhi. - Tutto quello che può e anche quello che non può. Potremmo vivere alla meglio, senza cercare nulla a nessuno; ma invece, per questa bonafficiata, iamo pieni di debiti e di mortificazioni, e mangiamo, ogni tanto, così, quando porto io un pezzo di pane a casa. Ah, queste creature, queste creature, queste povere creature! E la voce era così maternamente straziata, che Carmela lasciava scendere le sue lagrime lungo le guance, vinta da uno infinito struggimento di pietà. Adesso erano quasi sole, nel cortile. - E tu, perché ci vieni, a sentire questa bonafficiata? domandò a un tratto Annarella, presa da una collera contro tutti quelli che giuocavano. - Eh, che ci vuoi fare, sorella mia? - disse l'altra, con la sua armoniosa voce infranta; - che ci vuoi fare? Tu lo sai che vorrei vedervi tutti contenti, mamma nostra, te, Gaetano, le creature tue e Raffaele, l'innamorato mio e…un'altra persona; tu lo sai che la vostra croce è la mia croce, e che non ho un'ora di pace, pensando a quello che soffrite. Così, tutto quello che mi resta, di quello che guadagno, lo giuoco. Un giorno o l'altro, il Signore mi deve benedire, debbo prendere un terno…allora, allora, vi dò tutto a voi, tutto vi dò. - Oh, povera sorella mia! povera sorella! - disse Annarella, presa da una malinconica tenerezza. - Deve venire quel giorno, deve venire… - susurrò l'appassionata, come se parlasse a sé stessa, come se già vedesse quella giornata di benessere. - Possa passare un angiolo e dire amen mormorò Annarella, baciando la fronte del suo lattante. - Ma dove sarà Gaetano? - riprese, vinta dalla sua cura. - Di' la verità, Annarella, - chiese Carmela, scendendo dal macigno e avviandosi per andarsene, - non hai niente da dare, ai bambini, oggi? - Niente, - disse con quella voce fioca. - Prendi questa mezza lira, prendi, - disse l'altra, cavandola dalla tasca e dandogliela. - Iddio te lo renda, sorella mia. E si guardarono, con tanta mutua pietà che, solo per vergogna di chi passava nel vicolo dell'Impresa, non scoppiarono in singhiozzi. - Addio, Annarella. - Addio, Carmela. La fanciulla appassionata depose un lieve bacio sulla fronte del bimbo dormiente. Annarella, col suo passo molle di donna che ha fatto troppi figli e che ha troppo lavorato, se ne andò per il chiostro di Santa Chiara, tirandosi dietro gli altri due figlietti, il bimbo e la bimba. Carmela, stringendosi nel gramo e scolorito scialletto nero, trascinando le scarpe scalcagnate, scese verso il larghetto dei Banchi Nuovi. Fu là soltanto che un giovanotto pulitamente vestito, coi calzoni stretti al ginocchio e larghi come campane sul collo del piede, con la giacchetta attillata, e il cappelletto sull'orecchio, la fermò, guardandola coi suoi freddi occhi di un azzurro chiaro e stringendo sotto i piccoli baffi biondi le labbra vivide, come quelle di una fanciulla. Fermandosi, prima di parlargli, Carmela guardò il giovanotto, con tale intensità di passione e di tenerezza che parve lo volesse avvolgere in una atmosfera di amore. Egli non sembrò addarsene. - Ebbene? - chiese egli, con una vocetta fischiante, ironica. - Niente! - disse lei, aprendo le braccia con un gesto di desolazione; e per non piangere, teneva la testa china, si guardava la punta degli stivaletti che avevano perduto la vernice e mostravano, dalle scuciture, la fodera già sporca. - E che ti pare! - esclamò il giovanotto, irosamente. - La femmina sempre femmina è. - Che colpa ci ho io, se i numeri non sono usciti? - disse umilmente, dolorosamente la fanciulla appassionata. - Dovresti cercarli, i buoni; andare dal padre Illuminato che li sa, e li dice solo alle donne; andare da don Pasqualino, quello che lo assistono gli spiriti uoni, e saperli, i numeri. Figliuola mia, levatelo della testa che io possa sposare una straccioncella come te… - Lo so, lo so…- mormorò quella umilmente. - Non me lo dire più. - Pare che te lo dimentichi. Senza denari non si cantano messe. Salutiamo! - Non vieni stasera, dalla parte di casa mia? - osò chiedere, ella. - Ho da fare; debbo andare con un amico. A proposito, me le presti un paio di lire? - Ne ho una sola, una sola…- esclamò lei, tutta rossa, mortificata, cavando la lira timidamente dalla tasca. - Possa morire uccisa la miseria! - bestemmiò lui, masticando il suo mozzicone di sigaro napoletano. à qua. Cercherò di accomodare alla meglio le cose mie. - Non ci passi, per casa? - pregò lei con gli occhi, con la voce. - Se ci passo, passerò assai tardi. - Non importa, non importa, ti aspetto al balconcino, - disse lei, crollando il capo, ostinata, in quella umiliazione della sua anima e della sua persona. - E non mi posso fermare… - Ebbene, fischia; fa un fischio, io ti sento e mi addormento più quieta, Raffaele. Che ti fa, passando, di fischiare? - E va bene, - annuì lui, con indulgenza, - va bene. Addio, Carmela. - Addio, Raffaele. Si fermò a vederlo andar via, rapidamente, dalla parte della via Madonna dell'Aiuto; le scarpette verniciate scricchiolavano, il giovanotto camminava con quel passo di fierezza che è speciale ai popolani guappi. La Madonna lo possa benedire, per quanti passi dà, - mormorò la fanciulla, fra sé, teneramente, andandosene. Ma, camminando, si sentiva fiacca e scorata; tutte le amarezze di quella perfida giornata, le amarezze che ella soffriva per amore degli altri, le amarezze di sua madre che faceva la serva a sessant'anni, di sua sorella che non aveva pane per i suoi figli, di suo cognato che si faceva trascinare alla rovina, del suo fidanzato che avrebbe voluto veder felice e ricco come un signore e a cui mancava sempre la lira in tasca, tutte queste amarezze e altre, più profonde ancora, e la più grande, la più profonda ancora, la più desolante fra le amarezze, quella della propria impotenza, tutte le si versavano dall'anima nel sangue, le salivano alle labbra, agli occhi, al cervello. Oh non bastava che ella lavorasse, in quel nauseante mestiere, alla Fabbrica dei tabacchi, per sette giorni alla settimana: non bastava che non avesse né un vestito decente, né un paio di scarpe non rotte, tanto che alla Fabbrica non la vedevano bene; non bastava che ella digiunasse, quattro volte su sette, nella settimana, per dare la lira a sua madre, le due lire a Raffaele, la mezza lira a sua sorella Annarella e tutto il resto, quando ce n'era, al giuoco del lotto; era inutile, inutile, non avrebbe mai fatto niente, per quelli che amava; non valevano né la fatica, né la miseria, né la fame; nulla serviva a nulla. E mentre scendeva per i gradini di San Giovanni Maggiore, a Mezzocannone, approssimandosi alla sua più dolorosa tappa, ella si sarebbe uccisa, tanto si sentiva misera, impotente, inutile. Pure, andava: e fu in un larghetto remoto dei Mercanti, un larghetto che sembrava una corticella di servizio, che si fermò, appoggiandosi al muro come se non potesse andare più avanti. Il larghetto era sporco di acque sudicie, di cortecce di frutta, di un cappellaccio feminile, sfondato, buttato in un cantuccio; e delle finestre di un primo piano, tre avevano le gelosie verdi socchiuse, lascianti passare solo uno spiraglio di luce: piccole finestre meschine e gelosie stinte, su cui la polvere, l'acqua e il sole avevano lasciato le loro impronte; portoncino piccolo, dal gradino sbocconcellato e umido, dall'androne stretto e nero come un budello. Carmela vi guardava dentro, con gli occhi spalancati da un sentimento di curiosità e di paura. Una donna piuttosto vecchia, una serva, ne uscì, sollevando la gonna per non insudiciarsi nel rigagnolo. Carmela, certo, la conosceva, perché le si rivolse francamente: - Donna Rosa, volete chiamare Maddalena? Quella la squadrò, per riconoscerla: poi, senza rientrare in casa, dal larghetto chiamò, verso le finestre del primo piano: - Maddalena, Maddalena! - Chi è? - rispose una voce roca, dall'interno. - Tua sorella ti vuole; scendi. - Ora vengo - disse la voce, più piano. - Grazie, donna Rosa, - mormorò Carmela. - Poco a servirvi, - rispose l'altra, brevemente, allontanandosi. Maddalena si fece aspettare due o tre minuti; poi un rumore cadenzato di tacchi di legno si udì per l'androne ed ella comparve. Portava una gonnella di mussola bianca, con un'alta balza di ricamo anche bianco: un giubbetto di lana color crema, molto attillato, con nodi di nastro, di velluto nero, alle maniche, alla cintura, sui fianchi: e uno sciallino di ciniglia color di rosa, al collo, - la gonna lasciava vedere gli scarponcini di pelle lucida, dai tacchi molto alti, e le calzette di seta rossa. Ella rassomigliava, nel volto, tanto ad Annarella quanto a Carmela; ma i capelli bruni, rialzati, pettinati bene, fermati da forcelle bionde di scaglia, ma le guancie un po' smorte, coperte di rossetto, facevano dimenticare ogni rassomiglianza con Annarella e la rendevano assai più seducente di Carmela. Le due sorelle non si baciarono, non si toccarono la mano, ma si scambiarono uno sguardo così intenso che valse per ogni parola e per ogni cenno. - Come stai? - disse con voce tremula Carmela. - Sto bene, - fece Maddalena, crollando il capo, come se non fosse la salute quella che importasse. - E mamma come sta? - Come una vecchiarella… - Povera mamma, poveretta!… Annarella, come sta? - Oh quella sta piena di guai… - Miseria, eh? - Miseria. Sospirarono ambedue, profondamente. Quando si guardavano, era un rossore e un pallore che tramutava loro il viso. - Anche oggi, mala nova ti porto, Maddalena, - disse finalmente Carmela. - Niente, eh? - Niente. - È cattiva sorte la mia, - mormorò Maddalena, a bassa voce. - Ho fatto tanti voti alla Madonna, non già all'Immacolata, che non sono degna neppure di nominarla, ma all'Addolorata che capisce e compatisce la mia disgrazia… ma niente, niente ci ha potuto!… - La Madonna Addolorata ci farà questa grazia, - disse piano, Carmela, - speriamo quest'altro sabato. - Così speriamo, - rispose l'altra, umilmente. - Addio, Maddalena. - Addio, Carmela. Maddalena voltò le spalle e col suo passo, cui facevano da ritmo i tacchetti di legno, scomparve nell'androne: allora solo Carmela fece per slanciarsele dietro per richiamarla; ma quella era già in casa. La fanciulla se ne andò, correndo, stringendosi convulsamente nello scialle, mordendosi le labbra per non singhiozzare. Oh tutte le altre amarezze, tutte, anche quel sabato senza pane, non erano niente di fronte a quella che si lasciava dietro, ma che veniva anche con sé, eterna avvelenatrice, vergogna eterna del suo cuore. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Alle cinque e mezzo il cortile dell'Impresa era perfettamente vuoto e silenzioso; non vi entrava più nessuno, neanche per guardare quella solitaria tabella dei cinque numeri estratti; i cinque numeri erano già stati affissi a tutti i botteghini di lotto di Napoli e innanzi a ognuno, per tutta la città, vi era un gruppo di gente ferma. Niuno entrava più nel cortile dell'Impresa; la folla sarebbe ritornata solo fra sette giorni. Allora uno scalpiccìo si fece udire. Era un usciere del Lotto, che si menava per mano i due bambini dell'Albergo dei Poveri; quello che aveva estratto i numeri e quello che li doveva estrarre il sabato venturo; l'usciere li riportava all'Ospizio, dove avrebbe consegnato le venti lire di pagamento settimanale che fa il Regio Lotto al bimbo che estrae i numeri. I due fanciulletti sgambettavano dietro all'usciere, cinguettando allegramente; la cucitrice di bianco, che lavorava alla sua macchina, levò il capo e sorrise loro. Poi ricominciò a battere col piede sul pedale e a condurre il pezzo di tela, diritto, sotto l'ago; seguitò quietamente, instancabilmente, figura umile e pura del lavoro.

Bestie

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Tozzi, Federigo 1 occorrenze

Per i sentieri più scoscesi, tra i tronchi degli alberi che furono abbattuti con l'ascia, con un'ambizione di farsi vedere che pare perfino ingenua. La primavera assomiglia, questa volta, un poco alla stanza che la nostra amica, aspettandoci, ha adornato di fiori comprati a posta. C'è uno sciupio di gemme e una voglia di fiorire che pare una di quelle accoglienze da segnare poi nel nostro calendario. La primavera in tutti gli stili, perfino roccocò; con certe manie di fare effetto per forza. E pensando a tutto questo lusso, ci si prova ad essere contenti. Le margherite bianche, quelle dei prati, fanno di tutto per darvi nell'occhio; e gli stessi prati si sono lisciati con la rugiada e il fresco che pare perfino bizzarria e voglia di divertirsi. I pini mettono fuori la loro resina come se volessero regalarvela a tutti i costi, e ci si avvicina a loro per guardarli meglio; mentre anche l'azzurro rimane lì per lì un poco rintontito, quasi non sapesse che fare, e, forse, vergognoso di non odorare né meno quanto una violetta. E c'è modo, del resto, per tutti di far qualche cosa. Ma perché, proprio ora, un maggiolino morto? * * * Sentirsi solo è un piacere che spaventa. Un'ora dopo la mezzanotte non avevo più sonno né stanchezza; e la conversazione fatta con un amico e un'amica, quantunque di poche ore innanzi, cominciando da quando avevamo cenato insieme, mi pareva già sì lontana che pensavo se l'indomani ambedue si ricordassero di conoscermi. Con il chiaro di luna in bocca, credevo di masticarlo, e c'era tutta la strada che voleva saltarmi addosso. Prima ancora di sapere perché, mi viene freddo e poi distinguo la voce della civetta. * * * Oggi sono rientrato nella chiesa della mia parrocchia. Lo scialbo bianco è uguale a quindici anni fa: ho creduto riconoscere, su una colonna, vicino a una panca, una scalcinatura che ogni domenica allargavo sempre più con le unghie. E mi son ricordato dei fiori finti, a mazzolini, portati al curato dalle due zitelle che andavano sempre insieme e facevano poca elemosina, e tutti dicevano che erano avare. Oggi mi dispiace di averle odiate con feroce avversione, quasi sempre inciampando se mi voltavo a perseguitarle con gli occhi. E tutte quelle ragazze, forse ora madri, e non le riconosco, di cui ero un poco innamorato! Ma quanto piansi quando mi confessai per la prima comunione! Ora non ho più paura quando suonano le campane, ma mi piace ch'io volessi mettere al collo di una di quelle ragazze un nastro uguale alla riga ch'era per margine a ogni pagina del libro di preghiere della mamma. La voce di quella ragazza mi faceva lo stesso effetto di quando mi guardava; ed io ridevo che la mamma sapesse a pena leggere, ma mi pentivo tanto d'aver ficcato pezzetti di cartasuga dentro il calamaio. Riesco fuori dalla chiesa, sicuro che il suo scialbo sia più fresco della primavera che inonda la piazzetta sbilenca di San Donato; e, scesi gli scaloni, mi volto a dietro, in su, a guardar le campane. Me ne vo con meno dispiacere, perché vedo che un branco di passerotti hanno il nido sul tetto. * * * Piove tanto che ormai i fichi sono sciapiti. Allora assaggio l'uva e, con un grappolo in mano, piglio attraverso la vigna. Qui c'è un palo da rialzare, là una vite da buttar via. Ma io sono il padrone: mi faccio ubbidire anche dal grano, e mi volto alla luce per dire: domani tornerai e seguiterai a maturarmi l'uva. Io assaggerò il mosto. Come odiai uno de' miei pavoni, che capii più orgoglioso di me! * * * La mia anima, per aver dovuto vivere a Siena, sarà triste per sempre: piange, pure ch'io abbia dimenticato le piazze dove il sole è peggio dell'acqua dentro un pozzo, e dove ci si tormenta fino alla disperazione. Ma i miei brividi al tremolio bianco degli olivi! E quando io stavo fermo, anche più di un'ora, senza saper perché, allo svolto di una strada, e la gente mi passava accanto e mi pareva di non vederla né meno! Città, dove la mia anima chiedeva l'elemosina, ma non alla gente! Città, il cui azzurro mi pareva sangue! Dal podere, le mie viti scendevano fino a una sua strada; e l'anima di quella che sarà per sempre la mia fidanzata mi teneva compagnia, nel silenzio folle; e qualche mia parola, che le scrivevo in fretta, era stata il mio respiro più di una lunga settimana. Siena, da sotto il mio ciliegio, pareva un arco che non si potesse aprire di più, e le sue case, giù per le sue strade a pendio, parevano frane che mi mettevano paura; con i tetti legati dall'edere cresciute su per le mura della cinta, le mura che non si apriranno mai. Ed io allora andavo a guardare la città da un'altra parte, quasi da quella opposta, dalla Porta Ovile. E vedevo i suoi orti squadrati entrare, con un angolo più alto degli altri, tra le case più rade; oppure, l'uno appresso all'altro, farsi largo e posto, ma fermati da una fila di cipressi la cui ombra oscurava il verde dell'erba; e qualche pesco fiorire e maturare accanto alle campane d'una chiesola, e qualche olivo chiamarsi dietro tutta la campagna soave, che impallidiva lontano, rasente i monti chiarissimi, talvolta più luminosa del sole; con una tenerezza che mi commoveva. E, se guardavo la città da un'altra altura, da Vignanone, le voci degli uccelli s'allargavano nell'azzurro come il vento. E tal'altra volta le campane tutte insieme mi parevano un'armonia discorde, e mi veniva voglia di morir subito. Le rose dei giardini, senza colore e senza profumo, la cingevano tutta: le finestre erano aperte. Da parecchie miglia lontano, io vedevo in vece le sue torri come tizzi ritti che si spegnevano ultimi nella cenere del crepuscolo. E i temporali con tutto il cielo addosso! Pareva che i lampi la dovessero schiantare; ma, dopo, l'aria era più fresca e si respirava meglio; gli uccelli la varcavano a frotte, e il sole la rasciugava. Perché, dunque, io vi soffrivo? Perché la mia anima non vi è mai voluta stare? Lo sapeva, forse, quella mia tartaruga che riuscii a tener chiusa in casa una sera, e la mattina dopo non la trovai più. * * * A Vico Alto i vecchi cipressi si fermano all'abside della chiesa di pietre. L'Osservanza non è lontana, e si vedono le strade prima sparire e poi ritornare verso Siena, quasi aspettate. Le strade sciupano i bei verdi simmetrici, ma l'erba riescirà a rinascerci un'altra volta sopra. Se di quassù si sentisse crosciare il torrente, che si tiene con sé i salici e i gelsi! Ma, siccome è domenica, la gente passa proprio per il viottolo che lo rasenta; gente vestita bene e che si sofferma di quando in quando, forse incuriosita, a guardare attorno. Alcuni merendano, con un giornale steso nel mezzo. Vengono, per quell'altra strada che fa il giro lungo, le sordomute e poi le convittrici. Un contadino, appoggiato a un cipresso, fuma. Oh, anch'io voglio fare all'amore e voglio passare lungo il torrente, perché m'annoio a guardare le salamandre che scendono e risalgono dentro questa fonte dove le alghe mollicce e viscide intasano l'acqua! * * * Era una mattina d'estate, calda e accecante. Camminavo piano, e sempre di più la natura mi pareva un sogno immenso della mia anima. Il cuore mi batteva di contentezza. I cipressi, uscenti dalle siepi dei poderi, attorno alle case tutte impergolate, in Toscana, parevano piantati lì dall'aria stessa. Odori di ginepri, di marruche, di sanguinelle, di mentastri! Sopra un muricciolo, vidi un ramarro. Mi fermai, perché non scappasse. Allora, guardando i suoi occhi paurosi e intelligenti, provai una delusione dolorosa: e feci il viso rosso di vergogna. * * * Chi non ricorda come si trascina una farfalla ferita, toccando la terra con le ali tremanti! Ma chi può vedere, ne' suoi occhi, l'espressione del suo dolore violento e improvviso? La farfalla va presto a rincantucciarsi, sapendo sparire dalla nostra curiosità. È come qualche cosa, allora, che riesce a non aver contatto con noi, ad evitarci. * * * Era di settembre, e l'uva cominciava a maturare, ma i chicchi parevano trasparenti quando i raggi del sole entravano tra i pampini. Ero in mezzo a una vallata, vicino ai pioppi, tutti contorti, di un borro. Mi pareva che la vallata si sollevasse su, attratta dalle due colline piene di oliveti e di vigne. Le pesche erano mature, e pensavo di mangiarne almeno una. Ma esitavo a muovermi. Tra due viti, vidi una ragnatela: era un poco umida, e mi venne voglia di toccarla con la punta di un dito, ma senza romperla. La peluria della prima donna ch'io ebbi non era così morbida. * * * Non so ancora spiegarmi, da otto anni, perché la mia amante, una volta, dopo aver bevuto la birra, chiudesse con il ventaglio aperto, dentro il suo bicchiere, una vespa che v'era entrata. Prima era entrata nel mio; ed ella l'aveva guardata sorridendo, divertendocisi quasi. Io cercai di farle muovere il braccio, ma ella, con tutta la sua forza, non mi dette retta. Mi disse: - Parliamo d'altro. * * * Al podere, che ora ho dovuto vendere, tenevo molte galline, insieme con alcuni tacchini e i loci. Quando non avevo voglia di far niente o quando soffrivo troppo non saprei di che, andavo nel pollaio e mi mettevo a guardare. Un locio, che pesava parecchi chili, dondolandosi tutto per camminare, saliva a ogni momento sopra la sua femmina. Vi restava, dopo un poco, come stordito; e poi cadeva svenuto, battendo il dorso, con le gambe per aria e immobili, con gli occhi velati come quando muoiono. Tutte le galline parevano spaventate, e non si avvicinavano. * * * M'era venuto il tifo, e la febbre cresceva sempre. La mamma non poteva tenermi compagnia a tutte l'ore e quanto avrebbe voluto: e io dovevo restarmene a letto solo solo, ad aspettarla. Vedevo, dalla finestra socchiusa, con i vetri non più lavati da quando stavo male, passare le nuvole e la cima d'un ciliegio che rabbrividiva come me quando sentivo la febbre. Una mattina avevo fame dopo aver preso la solita cucchiaiata di medicina. E non veniva nessuno. Avevo voglia d'alzarmi, ma più di piangere. Le coperte mi schiacciavano come le montagne; e mi pareva che tutte quelle nuvole me le facessero più grevi. C'era a capo del letto il campanello elettrico, ma non lo suonavo perché il suo squillo mi faceva peggio. Ero proprio per gridare, spaventato delle coperte alzate dai miei ginocchi, con l'illusione che si alzassero fino al soffitto, per soffocarmi. Entrò un'ape. Mossi la testa per guardarla meglio. Sbattendo contro i vetri, cominciò a ronzare; ma con un ronzio così dolce che mi fece subito un effetto di benessere. Allora, mi ricordai dei fichi maturi e di tutte le altre frutta. Chi sa quale odore giù nei campi! Mi pareva, perfino, di sentir sapore in bocca! L'ape girò da un travicello all'altro, e poi tornò alla finestra! Non piangevo più, assorto in quel suo rumore uguale, che allora mi pareva una specie di musica, a cui avrei dovuto trovar le parole. Quando venne la mamma, facendola fuggire, mi dispiacque; e ci pensai tutto il giorno, sorpreso di non pensare ad altro. * * * Era stato un temporale orribile, dopo mezzogiorno, d'agosto. I lampi erano così fitti che non si faceva a tempo a respirare e a segnarsi. La mamma s'era seduta nella sua poltrona, io m'ero messo in ginocchio con la testa sopra a lei. Le sue mani mi tappavano gli orecchi. Ma non avevo il coraggio di chiudere gli occhi, e, piangendo, senza muovermi da quella posizione, mi segnavo, cominciavo l'avemaria, senza mai finirla. Il bosco, vicinissimo alla casa, quasi sopra il tetto, crosciava con il vento e la grandine. Si era fatto così oscuro, che la donna aveva acceso la lucernina d'ottone, mettendola nel mezzo della tavola. Diceva la mamma: - Se avessi un poco d'olivo benedetto, per bruciarlo! Fa tanto bene! Due fulmini caddero nel bosco e io li vidi. La pioggia luccicava; la grandine, sempre più grossa, empiva il davanzale della finestra, e la campagna pareva tutta bianca. Finalmente i tuoni si fecero sempre più lontani; l'aria tornò serena. Lampeggiava ancora sopra la città; ma, dalla parte opposta, era apparso l'arcobaleno così dolce! Riaprimmo le finestre e poi le porte, per escire. Allora, un contadino, venendo dalla strada, ci fece vedere una rondine, ancor viva, che il temporale aveva abbattuta. Le sue penne eran bagnate e lucide: pareva stordita, e stava da sé nel cavo della mano, palpitando, ma quasi rassegnata. Provai tanta gioia che battei le mani. * * * Con la mia moglie era un affar serio, ogni giorno di più! Bastava un pretesto qualunque per leticare parecchie ore. Una volta, la minestra mi parve sciocca; anzi, era certamente. Glielo dissi. Mi rispose: - Perché non vai a trattoria? - Se fossi più furbo! - Vai dunque. - Me lo vorresti proibire tu? E la guardai con tutto il mio odio; ed ella altrettanto. Ma io non glielo volevo permettere. Allora, feci l'atto di darle uno scapaccione. Si alzò, rigida come uno stecco; e si mise a guardarmi fisso. Pareva che i suoi occhi si allargassero sempre di più; ma mi sentivo tanto più forte di lei che non pensavo né meno a offenderla. Mi disse: - Vuoi scommettere che io vado dal procuratore del re? - E perché no? Potevi esserci andata. Così mi sarei fatto fare la minestra più salata, se non c'eri in casa! Si slanciò; io mi riparai con un braccio piegato. In questo mentre, vedemmo, tutti e due insieme, non so come, una formica che dall'orlo del fiasco stava per scender dentro e cadervi. La rabbia finì subito. Ella la prese con le dita e la scaraventò lontano. Io dissi: - Per fortuna l'hai vista! Avremmo dovuto buttar via tutto il vino! E il pranzo finì bene quella volta. * * * Alla dottrina cristiana ci sarei andato volentieri, ma da quel prete, no da vero! Quando entravo nel suo studio, siccome, avendo cominciato più tardi degli altri comunicandi, dovevo rimettermi in pari, sentivo una specie di freddo che m'agguantava l'anima come uno per la giubba. C'era un tavolino con un tappeto rosso, forse rovesciato; il ritratto del papa, quattro o cinque seggiole che parevano tutte nere come le loro spalliere; e un odore tra l'intingolo e l'incenso o la cera bruciata. C'era poca luce, perché la finestra dava in un piccolo orto sotto certe mura antiche ricoperte di edere; e mi veniva sempre la voglia di andarmene prima che il prete fosse venuto. E quella zoppa che m'apriva l'uscio! Certi occhi che mi facevano pensare alla panna inacidita! Ma tra le tende, tutte polverose e sbiadite, c'era una gabbia appesa, con un canarino così giallo che pensavo fosse colorito con i tuorli dell'uova che si davano al prete quando veniva a benedire le case. Saltellando, faceva oscillare la gabbia e anche un poco le tende, e a motivo delle quali mi scansavo in fretta; quasi per paura. Io mi vergognavo di lui, che mi vedesse con il mio libricciolo sotto il braccio lì ad aspettare. Ed ecco perché l'osservavo sempre, quando il prete m'interrogava, prima di rispondere! Un giorno glielo portai via; e, piuttosto che ritrovarlo in quella gabbia, lo schiacciai con il tacco delle scarpe. * * * Un mio amico era in agonia. Caduto da una scala aveva battuto l'occipite, non riprendendo più i sensi. Siccome non l'aveva potuto comunicare, il prete gli lasciò la stola sopra i piedi dopo aver detto molte preghiere. La mamma del moribondo stava nella stanza accanto, con l'uscio aperto, a piangere; io, stringendo i ferri a piè del letto, lo guardavo. Il suo volto acceso dalla febbre, aveva, di quando in quando, una contrazione lunga e lenta; ma gli occhi restavano chiusi, sempre più in dentro. Una ragazza, dall'altra parte della strada, cominciò a cantare; io la feci star zitta. Il rantolo diveniva sempre più forte, alternandosi con un sibilo così dolce che mi ricordava, con terrore, tutte le nostre allegrie. La febbre gli aveva seccato le labbra. Io pensavo come bagnargliele, quando entrò una delle sue due tortore. Prima che io facessi in tempo a rimandarla in dietro, era già volata sul letto, proprio sopra il guanciale molle di sudore. Allora, perché non si mettesse a svolazzare, buttando in terra qualcosa, aspettai che tornasse via da sé, come credevo che avrebbe fatto. Gli montò su la fronte, che s'increspò; e, allungando tutto il collo, gli diede una beccata tra le labbra. Egli era uso a farsi prendere di bocca i chicchi di granturco o di granella. Allora, troppo tardi, la scacciai. Ma, dal labbro di sotto, dovetti asciugare con il cotone idrofilo le gocce di sangue, che smisero soltanto all'ultimo respiro. * * * So che una vipera ha morso uno che m'odia. Pari e patta. * * * Ricordo sempre queste sensazioni: dopo la scuola attraversare il corridoio del seminario, fresco ed annaffiato allora; l'attesa d'un rimprovero; la prima comunione: parole alla fidanzata; un campo troppo verde; un'ape che esce da un fiore senza che mi fossi avvisto che c'era. * * * O ciliegie, sapore del maggio! Farei ridere se raccontassi quanto le amo, ora che non ho altro da amare. Ed io per poco non mi crederei sciocco. Ma la mia bocca è cieca; e non è fatta che per mangiare. Mettete un piatto grande di ciliegie sopra la mia anima: non le lasciate troppo maturare, perché le passere le beccano tutte. * * * E quella finestra che vedevo dal mio podere scintillare tutte le mattine quando il sole si levava; una finestra che è delle prime case di Porta Camollia. Non ho mai saputo chi ci sta; del resto, mi sarebbe stato difficile, perché quell'abitazione è dalla parte degli orti tra le mura e la chiesa di Fontegiusta; un orto dopo un altro che non finiscono mai. A entrar lì dentro bisognava anche attraversare un andito sempre buio, con l'impiantito sempre molle; perché, in fondo, c'è un pozzo e le donne vi vanno ad attingere l'acqua con le brocche e le sbattono ai muri troppo stretti. Le scale da una parte, tutte a pianerottoli, sudicie e sciupate. Ho pensato che fosse di quella vecchia che tiene in casa il nipote cieco che fa l'impagliatore di seggiole; poi, di quella fruttivendola sorda; oppure della tabaccaia tisica o di quel maestro impazzito. E pure, quando sento cantare, e bisogna che il vento tiri da Siena, specie la sera, e non so chi è, credo che sia dentro quella stanza; e allora me la immagino con quei mobili vecchi ma riverniciati di verdolino e con le righe attorno alle serrature e alle maniglie di ottone, rosse e fatte a mano: più larghe e più strette, brutte. E, a una parete di fianco, un gran crocifisso doventato leggiero come una galla perché i tarli l'hanno tutto vuotato; e, infilato tra i piedi, un ramicello di olivo che si è seccato e che non si può smovere perché le foglie, color tabacco, cadrebbero subito e sporcherebbero il pavimento; che dev'essere spazzato ogni giorno e annaffiato con l'acqua a pisciolo, facendoci quei disegni tutti intrecciati che si allargano da sé. E questo farfallino grigio scommetto viene di là; perché ha le ali tinte di polvere. * * * Quel melo è il più bell'albero del mio campo, lo saluto tutti i giorni dalla finestra. So che l'ha piantato il mio zio Pellegro. Ma lo avevo visto la prima volta quando mio padre dovette tagliare i legacci di salcio perché lo stringevano troppo; e il fusto, ingrossando, s'era quasi reciso. Allora gli cambiarono il palo. L'anno dopo fece tre mele: e mezza mi fu data ad assaggiare. Per altri tre o quattro anni non lo vidi più. Ma quando ripassai di lì, s'era fatto irriconoscibile: una buccia lucida e tenera che veniva via a toccarla con l'unghia; tanti rami e così alto che lo guardai rovesciando la testa in dietro. Vidi che era cresciuto prima di me e che mio padre ne faceva gran conto. Gli avevano zappato la terra attorno come agli olivi; ma siccome era autunno, gli erano rimaste poche foglie sbiadite; e nelle punte dei suoi fuscelli i segni dove stavano le mele: una sola, anzi, gialla e grinzosa. La guardai meglio, prima di staccarla con una zollata; ma raccattatala, m'accorsi che dalla parte di sotto c'era il buco di un bacherozzolo. Allora la tirai lontano. L'anno dopo, a primavera, lo ritrovai fiorito, tutto bianco, come una gran festa. L'avevano potato e i suoi rami facevano una specie di circonferenza un poco vuota nel mezzo. Ma uno dei suoi quattro rami che venivano su dal gambano era gobbo e un poco più corto perciò. Quasi tutti i contadini, passando sotto, ci ficcavano la punta della falce per cercar meglio con tutte e due le mani nelle saccocce del panciotto la cicca e i fiammiferi. L'anno dopo ebbe la prima disgrazia: ogni fronda fu fasciata da centinaia di ragnatele piene di bruchi, che gli mangiarono in meno di una settimana i fiori e le foglioline. A maggio era già per seccarsi. E per due anni non fiorì né meno più. Allora mio padre lo fece scapitozzare e dentro una rigonfiatura, a metà del gambano, lo trovarono pieno di bachi carnosi duri e grossi più delle dita; ed avevano capocchie tonde e rosse più del sangue. Furono uccisi con il coltello, a pezzi, e la pianta si riebbe. Ma di mele ne ha fatte sempre meno. Ora, cinque o sei sole, che se le mangiano gli uccelli e le vespe. * * * La mattinata è fresca come le rose umide; ma tuttavia non riesce a convincermi che io posso odorarla. Tutti questi tetti attraventati addosso alla collina di Ovile si abituano a farsi guardare di quassù, di sbieco, da questo muricciolo così scalcinato che tra mattone e mattone c'entra un dito. Se la primavera ci fosse già, potrei divertirmi a guardare gli alberi fioriti; ma son venuto troppo presto, in vano, impaziente. Scommetto che quando la primavera ci sarà da vero, io non ci verrò né meno. Ma finalmente capisco perché mi ci prenda questa dolcezza con la quale voglio prepararmi a scrivere alla mia fidanzata. Là, da una parte della piazza, dove la ghiaia è più consumata, c'è la porta del Seminario, verde e sbiadita, con l'architrave di marmo doventato quasi giallo, contenta di essere accanto a San Francesco, quasi sotto il campanile. Mi pare ancora di entrarci per andare a scuola. Ma c'entra il sole, con una striscia che va a ritrovarsi con quella di dentro il chiostro. Ed io resto nella piazza. Giù la Porta Ovile, poi campi di olivi e viti; e, su in alto, la piccola stazione con i vagoni carichi di sacchi e di legname; con una strada, per salirci, che gira più di un esse fatto per ridere sopra un muro da qualche ragazzo. È una dolcezza che, se qualche volta pare stanca, tuttavia si sente anche lontano lontano, tra le pieghe verdi dei colli dove non sono stato mai. Il campanile con i grappoli delle campane che fanno escire per la piazza i rondoni! Ed i tetti hanno la pazienza di stare lì e l'abilità di non lasciarsi andare per riposarsi un poco! Qui, pensando alla fidanzata, ritrovo molta della mia vita, anche quando andavo, d'estate, all'ombra, sotto il muraglione delle Figlie di Maria ad imparare la chitarra, e dove m'ebbi un pugno e riescii a non piangere; e ricordo il cavallo che scappò dalla caserma dei carabinieri. * * * La siepe, addirittura, tagliava le spiazzate dei campi verdi o arati, l'uno accanto all'altro, l'uno addosso all'altro. Gli uccelli volavano con un volo sempre più basso, tremolando un poco, impauriti delle quattro nuvole, quasi quadrate, che avevano coperto il tramonto: le quattro carte da gioco. Nel Pian del Lago, c'era nebbia, a strisce sempre più sovrapposte e larghe; Montemaggio e la Montagnola di un verde più nero della siepe, e voli di colombacci che a stento proseguivano, randelloni, con le ali appiccicate nel cielo d'un turchino che voleva smettere. * * * Per tornare a casa, ci sono sempre nel mezzo della strada quelle sette stelle dell'Orsa, che me l'hanno buttata là chi sa perché. Il vento, che batte la faccia, viene di lì. E tutta la bellezza della sera vorrebbe entrare dopo di me e spinge in qua l'uscio, sì che duro fatica a richiuderlo. Perché la gatta miagola e si spenzola dalla grondaia? * * * All'ombra il carraio verniciava di cinabro mescolato al minio le ruote dei carri da contadini; e poi, con un fusello infilato nel mozzo e tenuto tra ambedue le palme, le portava al sole, appoggiate al muro. Qualche volta andava a levare con il manico del pennello una mosca che c'era rimasta attaccata. Tutte le mattine passavo il tempo così, senza parlar mai al carraio, sedendomi sopra un mucchio di breccia che lo stradino teneva già pronta per l'inverno. Mattinate dolci di sole, quando cominciavo a sbadigliare di fame; e io ne provavo un senso indefinito, quasi di sonnolenza e di piacere! Pensavo, allora, che da grande avrei scritto un libro differente a tutti quelli che io conoscevo: qualche storia ingenua e tragica che pareva uno di quei pampini che il vento mi faceva cadere tra le ginocchia; ecco; come c'è questo pampino, ci sarà il mio libro. E sentivo un fremito. Il carraio seguitava a verniciare; e, talvolta, m'illudevo che anch'egli vedesse riempirsi la distanza tra me e lui, delle persone che mi pareva di vedere. Egli è buono, pensavo; egli non dice niente né a me né a loro perché io non creda che gli si dia noia. Tutta la strada era piena di persone, come un incubo trasparente e leggero, che si movesse anche ad un alitare di vento; come si moveva la mia anima. Alla fine dovevo supplicare questa gente che mi desse un poco di tregua: la sentivo attorno alla mia giovinezza come insetti attorno ad un lume acceso allora allora. Qualcuno mi perseguitava e mi faceva venire i brividi; un altro voleva stare in casa con me, ed io non potevo mandarlo via. Ecco che il mio libro doventava la vita stessa, la gente cioè che conoscevo! Ma soffrivo e sentivo una specie di malessere vertiginoso; e m'invogliavo di pigliare a sassate, per scherzare. In vece, i moscerini m'entravano negli occhi; e mi venivano le lacrime. * * * Una strada scende, anche un'altra scende e le viene incontro: si fermano insieme. Dalla prima, a metà, se ne parte un'altra che scende per un altro verso e ne trova subito un'altra, più bassa che fa lo stesso. Su la prima se ne butta un'altra; poi la prima e la seconda, dopo la fermata, se ne vanno giù insieme e a un certo punto incontrano quella più bassa di tutte. Altre strade le tagliano e scendono. Le case hanno paura a stare ritte tra questi precipizi e si toccano con i tetti pendenti. Ma anche i tetti, a pendere così, non potrebbero cadere tutti giù? Le case, per fortuna, sono soltanto a due o tre piani; e la gente, alle finestre, ha l'aria di far loro da contropeso; perché non seguitino ad andare più in giù, tutte insieme, verso la Porta Fontebranda, da dove certo non passerebbero essendo così stretta. Le vie della città guardano queste quasi per scendere loro addosso; con la Cattedrale nel mezzo e con San Domenico sopra il tufo giallo. Ma la Fontebranda è ficcata giù sotto terra, e i Macelli se ne stanno stretti stretti, rasente la balza che regge metà di Siena. La vasca natatoria è verdastra dietro le punte nere e taglienti del suo cancello; i lavatoi hanno l'acqua saponata; gli archi delle conce piene di cuoia ad asciugare. Quanta solitudine e quanto silenzio anche con il vocio delle donne e dei ragazzi! Quando le donne di Fontebranda cantano, con quelle cadenze d'una stanchezza tanto dolce! È un silenzio che sta lì come le case; quasi assurdo. E perché quel cadere perpetuo dei tetti insieme con le strade? Non si ha, al contrario, il senso che le strade salgano; si sente soltanto la discesa fatta in fretta, con ansia; e, dal punto più basso, anche il meriggio è così lontano che resta soltanto per gli altri rioni di Siena. Cominciano le strida dei porci scannati, ognuno basta ad empire di sangue due secchi. * * * Quel che vedo e penso è come se lo leggessi. Leggerò, forse, fino a stasera; ma il libro non lo chiuderò; resterà aperto tutta la notte e troverò i sogni su le pagine come se fossero figure. In vece, no. Allora percepisco solo le cose, che stanno vicino a me: e, perché sono seduto sotto la mia pergola, mi metto a guardare un pampino: forse, uno dei più larghi. Perché non capisco quel che fo, lo strappo dal tralcio e lo butto dietro di me, di là dal pancone verniciato di verde. Il sole, tra gli altri pampini, taglia gli occhi con i suoi pezzetti di vetro. Una cavalletta mi salta su una mano. Nel bosco cerco l'albero che, tagliato a bara, imputridirà sotto terra con me. Gli voglio tanto bene: forse, è quello dove ora c'è sopra un merlo. * * * Quando ci sono io, tutto ciò che è nella mia casa vive con me. Io stesso ho insegnato a tutte le cose, scegliendole, come dovevano fare per piacermi e perché io le amassi. Queste pareti riconoscono la mia voce, e la loro fedeltà è profonda. Ma guardando, dalle mie finestre, chiuse o aperte, la fila degli orfani che escono a prendere aria, capisco che i miei occhi non vedono tutto. Mentre, se guardo lavorare i contadini, mi farei aprire il cuore dai loro vomeri, per dar loro la gioia di doventare anch'io terra da semina. E se guardo i cavalli che tirano i barrocci, riparo in vano le sferzate. Se sento cantare i vagabondi e gli ubriachi, io mi rattristo; se guardo gli orti mi piacciono le campane che fanno finta di annaffiarli; e cambierei di posto volentieri con le stelle. Ma la luce della luna si diverte a farmi sentire le civette. * * * Io m'ero messo in testa di trovare il violoncello che udivo tra gli alberi del bosco: quando tira vento, non sta più zitto niente! Credevo che fosse a pochi passi da me; e, allora, andavo là, quasi di corsa. Non c'era più; più lontano ora, ma distante da me quanto prima. Andavo lo stesso. Né meno! Sempre, sempre vicino a me; ma non dovevo vederlo né trovarlo mai! Così, sul fiume, il riflesso del sole camminava sempre avanti a me; e, dove era stato prima, l'acqua tornava ombra turchina, senza che vi fosse nessuna traccia di quell'incendio finto. Così i monti non erano più azzurri quando, dopo mezza giornata di strada, vi ero giunto; ed allora vedevo altri monti; ma era inutile che io camminassi a posta per questo! Così le onde che il vento faceva sopra il prato: dov'ero io, attorno alle mie gambe, tutto era fermo come me. Così i miei sogni quando mi sono destato. Né, da vicino, ho mai potuto guardare la trasparenza violacea che aveva un piccolo padule del fiume: non c'era più. Così, da ragazzo, l'eco della mia voce: un'altra voce, ma senz'anima. Così i pappi di certi fiori, quando volevo portarli in mano. Il violoncello del bosco l'avrei voluto comprare, per darmi l'aria di essere ricco. E suonarlo i giorni di festa della mia anima; ammaestrando un liocorno, color di carta bianca, che prenderei da qualche favola vecchia. * * * Dieci anni che abito nella mia casa, comincio soltanto da oggi a sentirne la realtà. Tutto quel che vi avviene è la compilazione d'una storia che riguarda me. Ma quando io stesso non saprò dirla, nessuno ci penserà più. Così come quella fonte che ho ritrovato morta, ed io non lo sapevo. Morta da due mesi, e nessuno me lo aveva detto. Ma l'aria, oggi, è gaia; e mi sento bene. Forse, vivrò parecchio tempo ancora; ché di me non sento nessun segno di morte; e tutto quel che vedo fa parte della mia esistenza. Il limone già tagliato, i bicchieri puliti, la tovaglia di bucato; e la voglia di mangiare. Sono impaziente; mi guardo le mani, mi specchio ai vetri della finestra. Nessuna stanza è bella come questa; e la mia anima è anche più gaia dell'aria: il limone, i bicchieri, i piatti sono belli perché miei. Il senso di averli e loro stessi sono una cosa sola. Ed è una sola realtà. Ma, a pena mi sono seduto a tavola per il pranzo, sento cantare, da un ragazzo, una canzone che io conosco senza averla ancora imparata. Mi vengono i brividi. Portava gli agnelli a vendere. Vorrei leggere come un ragazzo, vorrei capire come un ragazzo. Là giù nel bosco fresco di verde e di ombre, ho lasciato il giocattolo del mio passato, perché si sono rotti i fili. Ma io mi metto a guardare fisso il turchino perché me ne venga un altro; magari fatto come una nuvola. Anche la pioggia è il giocattolo con il quale ruzzano le fontane del giardino; anche il mio sorriso è un giocattolo, come il mio cuore che batte. E la mia ombra è il giocattolo del sole; la mia voce è quello della mia anima. Quando siamo morti non si parla, e allora quel che s'è detto lo ripetono gli altri. Anche la bara è il giocattolo, che si mette sotto terra. E, s'io fossi un ragazzo, vorrei chiedere a Dio che questa fresca erba bella la lasciassero in pace; e mi scriverei da me il mio libro di lettura. Farei doventar buone anche le vipere. * * * Ecco la sera, quando le cose della stanza doventano pugnali che affondano nella mia anima; maniche che mi attendono. Qualche altra volta, mi erano sembrate - libri, tavoli, sedie, tagliacarte, cuscini, lampade, pareti - poemi immensi. Mai, in nessun modo, sono riescito ad essere indipendente dinanzi a loro. Ma questa sera hanno atteso tutte d'accordo. Siete sicure di essere sincere? Ormai vi lascio. La mia anima, se qualche volta si ricorderà di voi, crederà di mettersi a suonare un organetto di Barberia per fare ridere le serve e piangere chi non c'è. Il cardellino morirà di fame: il pane intinto non glielo darà più nessuno. * * * Il cielo sta per doventare uno specchio; è già impossibile guardarlo. Qualche uccello, che di rado vedo entrare in una boscaglia di pini, fa credere che sia disseccato come quelli imbalsamati; e la sua ombra affonda passando nella polvere della strada. C'è una piccola sorgente che a pena è buona ad escire di tra i ciuffi dell'erba verde, sotto l'ombra di una quercia. L'acqua, al buco della sorgente, un ago che si spezza sempre, scintilla e poi sparisce. In giro c'è nata questi dieci metri quadri di erba che lustra, e basta. Il luogo è così silenzioso che par di udire l'erba. E la fonte, con lunghi rigagnoli, che non smettono più, va giù per il prato a fare la calligrafia. Quando ritorno nella strada, la polvere scotta; e io cammino adagio, per non sudare. * * * Anch'io ho avuto due carri verniciati di rosso, che mi destavano la mattina, quando i contadini li portavano con i bovi nel campo.Carri di concime o di uva, di granturco o di grano, di saggine o di pomodori. Li ebbi da mio padre, ed io li vendei perché avevo da pagare un debito. Io non avevo mai posseduto niente, che mi fosse durato molto. Mi ci ero tanto abituato che anche i miei sentimenti, scambiandoli per balocchi da pochi centesimi, li ascoltavo sempre con malevola e giusta ironia. Non era, forse, l'unico modo per non ingannarmi più? Impazzito per aver pensato subito che io potevo finalmente credere; effetto del mio bisogno di credere. Dopo tanto tempo, ecco che in vece di altre cose innumerevoli, di ogni genere, io ripenso ai due miei carri. E alla mia vita quale avrebbe dovuto essere. A me non era lecito escire dal mio paese. Ascoltare là le musiche della domenica, passeggiare con tutti gli altri le mezze giornate intere per la strada che gira attorno alle case, amare quache ricca fantoccia. E, sopra a tutto, avere ancora i due carri verniciati di rosso. Il gallo che la mattina fa tremare il cuore di gioia; le noci mangiate con il pane, ancora in maniche di camicia; le cipolle strofinate sul sale tenuto nel palmo della mano. La dolcissima aia costruita bene e spazzata! Fedeltà ed amicizia dei campi verdi! Le prime pesche vendute, i vitelli comprati alla fiera, il vino assaggiato dai tini, ancora caldo e torbido; e il suo afrore! Gli acquazzoni che fanno ridere; la terra che sporca le mani! E le feste di campagna con gli organetti briachi, a singhiozzare lontano tra i campi; e fanno venir voglia di andarci anche noi, dietro; le feste che restano per sempre nell'anima con i fuochi artificiali e i palloni di carta che vanno a cadere quando pigliano fuoco. E la cometa che fa paura! E il temporale livido, con la grandine bianca bianca; con i lampi che accecano! E tutte queste case del paese, che ci sono non si sa perché; con le strade lontane per la maremma di Grosseto e verso Siena; e si sperdono, giù nelle vallate, dopo dieci o quindici chilometri; le strade che aspettano. In vece, non l'ho né meno più visto questo bernoccolo di case! I miei carri non mi destano più; e il gallo, benché duro, l'ho mangiato. * * * Mi piacciono quelle persone che adoprano, parlando, modi di dire differenti a tutti gli altri. Mi sembrano, le loro conversazioni, riconoscibili, amicizie a cui ci si possa affidare di più. E, così , ho imparato che le cose hanno per ogni persona una fisionomia differente. Una persona si distingue più profondamente dal suo modo di parlare che dal suo viso. Con quale voce, per esempio, dovrei parlare di un bel prato verde? E con quale altra di questa crocetta d'oro ritrovata per caso e che la mia mamma portava? Ed io ho la certezza che sia viva da vero, la mia mamma! Sono venti anni che è morta? No; non è vero. È viva ancora. Ecco ancora le sue vesti, ch'ella si metterà. Ecco il suo armadio, le bottiglie dei profumi, il suo cappello. La porta della mia camera l'ha lasciata aperta lei; stasera non mangerò, se non c'è lei insieme con me. Le farò trovare un grande piatto di fichi maturi; ne è ghiotta. Il pane fresco; e lo metterò al suo posto, su la tavola. Il suo bicchiere alto e scannellato, di vetro un poco verde e con il fondo rossiccio di vino che non si può lavare più. Ho imparato a vivere con la mia anima! Ora devo imparare a vivere con la mia mamma. Non abiterò più nessuna casa dove non sia anche lei; io la seguirò con un'obbedienza che i fanciulli non hanno. Io non parlerò che alla mia mamma. Ed ella mi ricomprerà un paio di piccioni a cui taglierà le ali, perché non volino via. * * * Tutti quei fiori che ho sognato! La mia anima , dunque, sapeva di qualche funerale che io non so. La mia anima è stata a qualche funerale. Infatti, tutt'oggi nella mia casa, vuota e deserta, c'era un senso di cose tragiche, nascoste a me. Quand'io aprivo gli occhi avevo paura, e la carta delle pareti aveva un'aria di silenzio quasi timido; non canzonatore o vispo, come altre volte. Tra le stanze c'era un'intesa e un accordo di non dirmi niente; qualche parola che se la passavano quand'io voltavo le spalle. I miei libri facevano di tutto perché io non li prendessi in mano; le stoviglie nel salottino da pranzo erano mute e così tristi che io non mi sarei arrischiato ad adoperarle né meno una; perché mi sarebbero cadute. E ricordandomi in vece, nettamente, qualche altra giornata quand'ero stato tanto bene in casa mia, quando non me n'ero né meno accorto di esserci! Io, dopo tanto tempo, devo domandarmi ancora per chi erano quei fiori. Ma le tortore hanno fame; e dico che comprino il miglio perché mangino. * * * Ci si sta così bene a piangere con la faccia su l'erba fresca che arriva fino all'anima! L'allodola! Piglia la mia anima!