Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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IL RE DEL MARE

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Salgari, Emilio 2 occorrenze

Fra il fracasso assordante prodotto dall'incessante crollare delle piante, abbattute dai poderosi ed irresistibili urti di quelle enormi masse lanciate a galoppo sfrenato, si cominciavano a udire dei barriti. Quei pachidermi dovevano essere spaventati da qualche grossa truppa d'uomini, non fuggendo ordinariamente dinanzi ad un drappello di cacciatori. Dovevano essere state le bande dei dayaki a metterli in rotta. Yanez e i suoi uomini affrettavano il passo, temendo di venire travolti nella pazza corsa di quei pachidermi. Avendo trovato degli spazi liberi, si erano messi a correre, guardandosi con spavento alle spalle, credendo di vedersi rovinare addosso quei mostruosi animali. Anche Yanez appariva preoccupato. Avevano raggiunta una macchia formata quasi esclusivamente di enormi alberi della canfora, che nessuna forza avrebbe potuto atterrare, avendo quelle piante dei tronchi grossissimi, quando il pilota per la seconda volta si arrestò, dicendo precipitosamente: - Gettatevi sotto queste piante che sono sufficienti a proteggerci. Ecco che giungono! Si erano appena lasciati cadere dietro a quei tronchi colossali quando si videro apparire i primi elefanti. Sbucavano a corsa sfrenata da una macchia di sunda-matune, gli alberi della notte, così chiamati perchè i loro fiori non si schiudono che dopo il tramonto del sole e dei quali dovevano aver fatta una vera strage nella carica furibonda. Quei colossi, che parevano pazzi di terrore, piombarono di colpo su un ammasso di giovani palme che sbarrava loro la via e le abbatterono come se una falce immensa, manovrata da qualche titano, fosse scesa su quelle piante. Non era che l'avanguardia quella, poichè pochi istanti dopo si rovesciò su quello spazio il grosso, con clamori spaventevoli. Erano quaranta o cinquanta elefanti, fra maschi e femmine, che si urtavano fra loro confusamente, cercando di sorpassarsi. Le loro formidabili trombe percuotevano con impeto irresistibile alberi e cespugli, tutto abbattendo. Vedendone alcuni che pareva volessero scagliarsi verso gli alberi della canfora, Yanez stava per far eseguire una scarica, quando vide dei punti luminosi apparire dietro ai pachidermi che descrivevano delle fulminee parabole. - Silenzio! Che nessuno si muova! I dayaki! - aveva esclamato Padada. Parecchi uomini, quasi interamente nudi, correvano dietro agli elefanti, scagliando sui loro dorsi dei rami resinosi accesi, che subito raccoglievano appena caduti, tornando a lanciarli. Non erano che una ventina, tuttavia i pachidermi, atterriti da quella pioggia di fuoco che cadeva loro addosso senza posa, non osavano rivoltarsi, mentre con una sola carica avrebbero potuto spazzare e stritolare quel piccolo gruppo di nemici. - Non muovetevi e non fate fuoco! - aveva ripetuto precipitosamente Padada. Gli elefanti erano già passati, urtando i primi tronchi della macchia, senza che quelle colossali piante avessero fortunatamente ceduto ed erano scomparsi nel più folto della foresta, sempre perseguitati dai dayaki. - Che siano cacciatori? - chiese Yanez quando il fragore si perdette in lontananza. - Che cacciavano noi, - rispose il malese. - La nostra discesa a terra è stata notata da qualcuno che sorvegliava l'imbarcadero e non essendo probabilmente in numero sufficiente i dayaki che si trovavano nei dintorni, ci scagliano addosso gli elefanti. Vedrete che faranno percorrere a quei colossi tutta la foresta, colla speranza che c'incontrino sulla loro corsa e ci travolgano. - Possiamo quindi rivederli ancora? - È probabile, signore, se non ci affrettiamo a lasciare questa boscaglia ed a rifugiarci nel kampong di Pangutaran. - Siamo lontani molto ancora? - Non ve lo saprei dire, essendo questa parte della foresta così intricata, da non poterci nè orientare, nè correre troppo. Tuttavia suppongo che giungeremo prima dell'alba. - Prima che gli elefanti ritornino, andiamocene. Non si trovano sempre degli alberi della canfora per proteggerci. Mi stupisce però una cosa. - Quale, signore? - Come quei selvaggi abbiano potuto radunare tanti animali. - Li avranno incontrati per caso non essendo domatori come i mahut siamesi o i cornac indiani, - disse Tangusa, che assisteva al colloquio. - Non è raro, in queste foreste, trovare delle truppe di cinquanta e anche di cento capi. - E si presteranno a quel giuoco? - Continueranno a scappare finchè i dayaki avranno fiato e non cesseranno di perseguitarli coi tizzoni accesi. - Non credevo che quei bricconi fossero così furbi. Amici, al trotto! Lasciarono la macchia che li aveva così opportunamente protetti da quella carica spaventevole e si cacciarono entro altri macchioni formati per la maggior parte di alberi gommiferi, di dammeri e di sandracchi, cercando alla meglio di orientarsi, non potendo scorgere le stelle, tanto era folta la cupola di verzura che copriva la foresta. Fortunatamente le piante non crescevano così l'una presso all'altra ed i cespugli e i rotangs erano rari, sicchè potevano marciare più celermente e correre anche meno rischi di cadere in qualche agguato. In lontananza il fragore prodotto dagli elefanti lanciati in piena corsa si udiva ancora, ora intenso ed ora più debole. I poveri animali ora cacciati da una parte, ora respinti verso l'altra, facevano il giuoco dei dayaki, i quali sapevano abilmente guidarli dove desideravano, colla speranza che sorprendessero il drappello in qualche luogo dell'immensa foresta. Padada e il meticcio, sapendo ormai di che si trattava, si regolavano a tempo per tenersi sempre lontani da quel pericolo, conducendo il drappello in direzione opposta a quella seguìta dai pachidermi. Dopo una buona mezz'ora parve finalmente che i dayaki, convinti che le tigri di Mompracem non si trovassero in quella parte della selva, spingessero gli elefanti verso il fiume, poichè il fragore prodotto da quella carica furibonda si allontanò verso il sud, finchè cessò completamente. - Ci credono ancora lontani dal kampong, - disse il pilota, dopo d'aver ascoltato per qualche po'. - Vanno a cercarci verso il Kabatuan. - Quanta ostinazione in quei furfanti, - disse Yanez. - È proprio una guerra a morte che ci hanno dichiarata. - Eh, signor mio, - rispose Padada, - sanno bene che se noi riusciamo a unirci a Tremal-Naik, l'espugnazione del kampong diverrà estremamente difficile. - Io glielo lascio il kampong; non ho alcuna intenzione di stabilirmi qui. Ho l'ordine di condurre a Mompracem Tremal-Naik e sua figlia e non già di fare la guerra al pellegrino, almeno per ora. Più tardi vedremo. - Rinunziate a sapere chi è quell'uomo misterioso che ha giurato un odio implacabile contro tutti voi? - Non ho ancora pronunciato l'ultima parola, - rispose Yanez, con un sorriso. - Un giorno faremo i conti con quel messere. Per ora mettiamo in salvo l'indiano e la sua graziosa fanciulla. Dove siamo ora? Mi pare che la foresta cominci a diradarsi. - Buon segno, signore. Il kampong di Pangutaran non deve essere molto lontano. - Fra poco troveremo le prime piantagioni, - disse il meticcio che da qualche minuto osservava attentamente la foresta. - Se non m'inganno siamo presso il Marapohe. - Che cos'è? - chiese Yanez. - Un affluente del Kabatuan, che segna il confine della fattoria. Alt, signori! - Che cosa c'è? - Vedo dei fuochi brillare laggiù! - esclamò Tangusa. Yanez aguzzò gli sguardi e attraverso uno squarcio delle piante, ad una distanza considerevole, vide brillare nelle tenebre un grosso punto luminoso che non doveva essere un semplice fanale. - Il kampong! - chiese. - O un fuoco degli assedianti? - disse invece Tangusa. - Dovremo dare battaglia prima di entrare nella fattoria? - Prenderemo il nemico alle spalle, signore. - Tacete, - disse in quel momento il pilota, che si era avanzato di alcuni passi. - Che cosa c'è ancora? - chiese Yanez, dopo qualche minuto. - Odo il fiume rompersi contro le rive. Il kampong si trova dinanzi a noi, signore. - Attraversiamolo, - rispose Yanez risolutamente, - e piombiamo sugli assedianti a passo di carica. Tremal-Naik ci aiuterà dal canto suo come meglio potrà.

Vedendole in parte abbattute ebbero un momento di esitazione temendo qualche agguato, poi passarono correndo sotto le terrazze che finivano di ardere e si rovesciarono all'impazzata nel kampong, urlando a squarciagola, pronti a sgozzare i difensori a colpi di kampilang. Yanez vedendoli slanciarsi verso gli enormi vasi che formavano come una doppia barriera dinanzi al bengalow, aveva dato ordine di sospendere il fuoco per non irritare troppo gli assalitori. Vedendo quei recipienti, i dayaki per la seconda volta si erano arrestati. Un resto di diffidenza li tratteneva ancora non sapendo che cosa potessero contenere. L'alcol che si sprigionava dai coperchi, che erano stati appositamente smossi, non tardò a giungere ai loro nasi. - Bram! Bram! Fu il grido che uscì da tutte le gole. Si erano precipitati sui vasi, strappando i coperchi e tuffando le mani nel liquido. Urla di gioia scoppiarono tosto fra gli assedianti. Una bevuta s'imponeva, tanto più che i difensori avevano sospeso il fuoco. Un sorso, solo un sorso e poi avanti all'attacco! Ma dopo le prime gocce tutti avevano cambiato parere. Era meglio approfittare dell'inazione della guarnigione del kampong; d'altronde era infinitamente migliore, quell'ardente liquore, delle palle di piombo. Invano i capi si sfiatavano per cacciarli innanzi. I dayaki erano diventati ostriche attaccate al loro banco colla differenza che si erano invece incrostati ai vasi. Ottanta vasi di bram! Quale orgia! Mai si erano trovati a simile festa. Avevano gettato perfino gli scudi ed i kampilang e bevevano a crepapelle, sordi alle grida e alle minacce dei capi. Yanez e Tremal-Naik ridevano allegramente, mentre i loro uomini staccavano senza troppo rumore alcuni tavoloni dalla cinta per prepararsi la ritirata. Intanto le tettoie cominciavano ad ardere e dalle finestre del bengalow uscivano torrenti di fumo nero. Fra pochi istanti una barriera di fuoco doveva frapporsi fra gli assedianti e gli assediati. I dayaki non parevano preoccuparsi dell'incendio che minacciava di divorare l'intero kampong. Insaziabili bevitori continuavano a dare dentro ai vasi, urlando, ridendo, cantando, e contorcendosi come scimmie. Bevevano colle mani, coi panieri destinati a contener le teste dei vinti nemici, con gusci di noci di cocco trovati per il cortile. I loro stessi capi avevano finito per imitarli. Il terribile pellegrino dopo tutto era al campo e non poteva vederli. Perchè non avrebbero approfittato di quell'abbondanza, dal momento che gli assediati si mantenevano tranquilli? E gli uomini cadevano, come fulminati, pieni da scoppiare, intorno ai vasi, mentre le fiamme s'alzavano altissime facendo piovere su di loro una pioggia di scintille. Il bengalow era tutto in fuoco e le tettoie, piene di provviste, ardevano come zolfanelli, illuminando i bevitori. Era il momento di andarsene. I dayaki non si ricordavano forse di non aver più dinanzi il nemico, tanto la loro ubriachezza era stata rapida. - In ritirata! - comandò Yanez. - Abbandonate tutto fuorchè le carabine, le munizioni ed i parangs. Aiutando i feriti, lasciarono silenziosamente la palizzata, attraversarono la cinta e si slanciarono a corsa sfrenata attraverso la pianura, preceduti da Tremal-Naik e da Kammamuri che cavalcavano a fianco di Darma. La tigre li seguiva spiccando salti immensi, spaventata dalla luce dell'incendio che diventava sempre più intensa. Raggiunto il margine della boscaglia che si estendeva verso ponente, il drappello che si componeva di trentanove persone, compresi sette feriti, s'arrestò per prendere fiato e anche per osservare ciò che succedeva nel kampong e negli accampamenti dei dayaki. La fattoria pareva una fornace. Il bengalow che era costato tante fatiche al suo proprietario, ardeva dalla base alla cima come una fiaccola immensa, lanciando in aria fitte nubi di fumo e sprazzi di scintille. Le cinte avevano pure preso fuoco e rovinavano assieme alle terrazze. Si udivano gli scoppi delle spingarde che erano state abbandonate ancora cariche. Degli uomini s'aggiravano affannosamente trascinando i guerrieri che si erano ubriacati e che correvano il pericolo di essere bruciati accanto ai vasi di bram. Il pellegrino doveva aver tenuto alcuni drappelli di riserva per appoggiare le colonne d'assalto nel caso che non fossero riuscite a penetrare nel kampong e, non udendo più nè spari nè grida di guerra, erano certamente accorsi per vedere che cosa era successo dei loro compagni. - Che l'inferno bruci tutte quelle canaglie, - disse Yanez inforcando uno dei quattro cavalli che gli era stato condotto da Tangusa. - Solo mi spiace andarmene senza aver potuto mettere le mani su quel cane di pellegrino. Spero di ritrovarlo un giorno sul mio cammino e allora guai a lui! - Un giorno? - disse ad un tratto Kammamuri, che aveva volti gli sguardi verso il nord. - Gambe, signori! Siamo stati scoperti e ci danno la caccia!

IL VENTRE DI NAPOLI (VENTI ANNI FA - ADESSO - L'ANIMA DI NAPOLI)

682522
Serao, Matilde 1 occorrenze
  • 1906
  • FRANCESCO PERRELLA EDITORE
  • prosa letteraria
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- e niente altro, salvo, dopo questi dieci metri, che una cortina di antiche case non abbattute, una cortina che chiude le comunicazioni, che urta lo sguardo. Voi cercate le più belle traverse, quelle che dovevan tagliare a diritta, dal Rettifilo al mare, risanando i quartieri successivamente di Porto, Mercato e Vicaria. Su venti, ve n'è una sola, completa . Alcune altre, quattro o cinque sono come quelle a sinistra, appena cominciate, abbandonate da anni, ottuse, traverse cieche, ove, in fondo, ma non molto in fondo, sorge lo stesso spettacolo, sempre, di case antichissime, mezze dirute, mezze cadenti, nerastre, verdastre, grigiastre. Dopo, non vi è più nulla. Cioè, vi sono dei vicoletti che precipitano per mezzo di dislivelli paurosi, di scalette ripide, difese da rozze ringhiere, in tutto ciò che sta dietro il Rettifilo , vicoletti sinuosi, vicoletti neri, angoli dove due o tre vicoli s'intersecano dirupandosi, tutto un disegno bislacco e grottesco, accanto, sì, accanto, alle altitudini superbe dei nuovi palazzi. E voi, verso la fine del Rettifilo, vedendo fuggire gli ultimi lembi mirabili della vostra illusione, voi vi domandate se non siate vittima di un'allucinazione, se una parte di quel che vedete non sia falso, poichè troppo forte è il contrasto, poichè non può essere tutto vero, a pochi metri di distanza, il decente e l'indecente, il pulito e lo sporco, la pompa e l'inguaribil miseria, il lusso e la povertà più abbietta. Che cosa è falso, che cosa è vero? Sono, forse il portato di un incubo tutte quelle masse di abitazioni luride, fetide, cascanti, ove pare che si moltiplichino la tristizie e la tristezza, il morbo e il disonore, il delitto e la morte? Sono forse gli spettacoli che vi fecero inorridire, come uomini e come cristiani, venti anni prima, sono questi spettacoli che si rinnovano, falsamente nella memoria, nella fantasia, così, come nei momenti di nostra malinconia spirituale e di nostra debolezza fisica? O, forse è falsa l'altra parte, cioè la parvenza moderna del Rettifilo e i suoi palazzi che vorrebbero essere splendidi, ma che sono almeno, nuovi, netti, solidi, grandi, appartengono al sogno? Non sono forse, un lungo scenario di tela, su cui un abile scenografo abbia dipinto a grandi tratti, una serie di edifici maestosi, e intanto, non si sa come, non si sa perchè, la tela ha delle grandi soluzioni di continuità e lascia vedere l'oscurità, il luridume delle quinte, ove tutto è rancido, è puzzolente, è nauseante? O, forse, non sono di carta pesta, di legno dipinto, queste case, come quelle che estrae, lentamente, da una scatola, la mano di un bimbo e le dispone sovra un piano, ad angoli retti? Non è, forse, a destra, a sinistra del Rettifilo, lo svolgersi di un bizzarro paravento, i cui pezzi non sono bene congiunti, anzi sono disgiunti, e il paravento non giunge a nascondere, quel che non si deve vedere? E passino i vostri occhi ricercatori dalle cose alle persone del Rettifilo, vi passino, per conoscer più presto e meglio il motto dell'enigma. La possente arteria napoletana rifluisce, in ogni ora, di sangue vivido: una folla attraversa costantemente il Rettifilo, a piedi, in carrozza, in trams , specialmente sino a piazza Depretis, andando e venendo dai due rami di via Duomo. Folla di ogni qualità e, talvolta, anche, folla di persone distinte, bene vestite, gli uomini con la catena di oro sul panciotto, le donne con i ciondoli sospesi sul petto. Tutto questo mondo va, viene, ritorna, si allontana, mondo svariato, multiforme, multanime. Se voi siete abituato a discernere i volti e le espressioni, fra la folla, se avete l'ardente e dolente segreto dell'intuizione, voi scorgerete, lungo il Rettifilo, persone e faccie che vi daranno un fremito di sorpresa e, forse, di sgomento. Sugli angoli di quelle viuzze, presso quelle ringhiere, su quel limitare fatidico fra il vecchio e il nuovo, e, persino, nelle poche vie principali e non finite, stazionano sempre degli uomini, sul cui viso la delinquenza è impressa e la cui espressione non mente; stazionano mendicanti dei due sessi e di tutte le età, ma di una mendicità sfrontata e ributtante, e stazionano anche, meno di mattina, molto più nel pomeriggio, moltissimo di sera, le sventurate e sciagurate femmine del popolo, che esercitano il più compassionevole e più atroce fra i mestieri. Così, sull'orlo della superba via, sui due suoi lati, fiancheggiandola, il vizio e la miseria, il delitto mettono la loro popolazione. La gente che passa, è molta, non guarda bene, non bada: ma due, tre volte al giorno, un ladro si slancia sovra al galantuomo , sovra la signora, in pieno giorno, in pieno Rettifilo, fra mille persone, e gli strappa l'orologio, le strappa gli orecchini, il derubato grida, il ladro infila la viottola, si gitta per un angiporto, è sparito, la folla strepita, non vi sono guardie, i mendicanti gridano e una di quelle donne del vizio, dà una falsa indicazione, perchè è, forse, un'amante, un'amica, una sorella del ladro, sempre una complice. Sia a piedi, sia in carrozza, la vittima, il ladro finisce sempre per fare il suo colpo, senza farsi arrestare, liquefacendosi come una nuvola, dietro una di quelle stradette: e alcune, anzi, di quelle vie, hanno la loro fatal rinomanza, come quella a principio del Rettifilo, la via di santa Candida. Dopo le nove di sera, il tratto del Rettifilo da piazza Depretis alla Ferrovia, è poco percorso da gente: e malgrado le grosse lampade elettriche, quel tratto è uno dei più pericolosi della città, e i medesimi cocchieri da nolo, affrettano il passo zoppicante del loro povero cavallo, andando alla stazione o tornandone, poichè sanno che il loro passaggiero può avere, forse e senza forse, un'aggressione. In quell'ora non si aggirano, colà, che ladruncoli, camorristi, pregiudicati e donne di mala vita. Nella magnifica strada: nella strada della salute e della redenzione del popolo napoletano! Ahi, che essa è semplicemente un paravento, ma leggiero, fragile e grossolano paravento, un paravento che non nasconde neppure, a chi vuol saper tutto, tutto ciò che vi è dietro, di pietoso e di orribile! E un'altra volta io vi dirò quel che vidi, lì dietro, con una triste e lunga curiosità, con un coraggio disperato e, con l'angoscia più opprimente, del mio umile ma fedele cuore di napoletana!

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