Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbattute

Numero di risultati: 18 in 1 pagine

  • Pagina 1 di 1

EH!La vita...(Novelle)

662385
Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1913
  • Tipografia agraria
  • prosa letteraria
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Ciò turbava profondamente Lisa Bretti, che in certi giorni credeva di aver raggiunto il colmo delle sue speranze, e che le vedeva all'improvviso abbattute, quasi il fantasma della morta insorgesse per riprendere possesso dell'anima e del corpo del marito con gelosa violenza. Allora Icilio Flores sembrava ritornare ai giorni più desolati del suo lutto, e abbandonarsi alla sopraffazione di esso con una specie di rabbiosa voluttà. Ne era maravigliata anche la signora Lizarri, che si spiegava con uno di questi improvvisi assalti di malata sentimentalità la scena di quella visita così stranamente interrotta. Si erano riveduti dopo più volte, e Flores aveva avuto l'audacia o la sfrontatezza - ella non sapeva quale delle due - di dirle che le sue parole confortevoli di quel giorno gli tornavano a ogni po' alla memoria e gli facevano bene quasi sentisse davvero ripeterle dalla gentile sua bocca. - Peccato - aveva audacemente e sfrontatamente soggiunto - che io non possa formarmi in casa mia l'illusione di un'immagine, di un profumo da farmi credere alla apparizione, a un passaggio della vostra persona colà! Un'ammenda? Un invito? Anche la signora Flores aveva perduto con quell'uomo la sicura padronanza del suo animo equilibrato... E sorridendo e con l'aria di chi accetta una sfida, rispose: - Se non è che questo! Egli non se l'attendeva. In quel fosco pomeriggio di aprile, con quella pioggiolina che veniva giù fìtta, uguale e metteva tanta tristezza, Icilio Flores sussultò sentendo annunziare dal cameriere la visita di una signora, e rimase interdetto vedendo la Lizarri, sfolgorante di eleganza, in piedi, quasi fosse lei che riceveva nel suo salotto. - Vi ho portato la mia immagine e il mio profumo - disse, stendendogli la mano. - Non potrete dire che non sono generosa con voi, per quanto tutto ciò valga poco. La prese per tutte e due le mani, baciandogliele ripetutamente; e invitandola a sedere, soggiunse: - Ecco la Primavera da me! - Lasciate stare la poesia, Flores! Una primavera che arriva con l'uggia del cattivo tempo, senza un sorriso di azzurro, senza un raggio di sole... e forse in un momento inopportuno.... - No credetemi! - Vi veggo star in orecchio, impacciato... - Ho gente... di affari... nel mio studio; ma possono attendere. - Io non ho fretta; a meno che la mia presenza non vi disturbi.... - Che dite mai? - Sarò indiscreta intanto: ammirerò il vostro appartamento fin dove è lecito.... penetrare. - Stimatevi in casa vostra... oh!... Non potevo prevedere; mi sbrigherò presto... Da prima la signora immaginò di aver disturbato una avventura; e, tra lieta e indispettita, si inoltrò, sperando di sorprendere un indizio; decisa a qualunque crudele vendetta... Niente! In una stanzina un armadietto a muro la tentò; esitò un momento, stese la mano alla chiave, la ritirò; poi si risolse; la curiosità ne potè più di qualunque sentimento di delicatezza.... Oh! Oh!... Un vero ripostiglio farmaceutico; boccette, boccettine, in gran parte vuote... barattoli di ogni specie, programmi, fascicoli... Credendo che si trattasse di articoli di toelette, sorrise della vanità maschile, e volle scoprire i misteri cosmetici di Icilio Flores... Spalancò gli occhi dallo stupore e buttò via con ribrezzo le due boccette, i barattoli dei quali aveva voluto leggere l'etichetta.... Poi un riso infrenabile la vinse, un riso che la faceva quasi contorcere, e insieme col riso un senso di pietà che non poteva però sopraffare la gaia impressione della scoperta. Dimenticò di chiudere l'armadietto, e tornando in salotto non potè fare a meno di fermarsi, fortemente commossa, davanti al ritratto di Ernestina. - Povera creatura! Che disinganno dev'essere stato! E n'è morta!... N'è morta! - Andate via? - esclamò Flores, riapparendo. - Questo ritratto mi fa capire che nessuna donna potrà mai consolarvi... Per certi tremendi dolori non ci sono... farmaci di sorta alcuna. Voi rimarreste sempre l'Inconsolabile! Dovete rassegnarvi! E c'era tanta velata feroce ironia nella voce di lei, e tale equivoco sorriso su le labbra, che il disgraziato trovando, poco dopo, aperto lo sportello di quell'armadietto, ne ebbe, per un momento, così profondo senso di avvilimento da pensare al suicidio. - Ma è possibile che la scienza... finalmente?... Questo filo di speranza, come tutte le vane speranze, resistette a ogni delusione. E Icilio Flores morì, a sessant'anni, " Inconsolabile ", qual'era vissuto.

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Il Marchese di Roccaverdina

662601
Capuana, Luigi 2 occorrenze

Unico svago del marchese era la passeggiata, lassù, su la spianata del Castello, tra le rovine dei bastioni e delle torti abbattute dal terremoto del 1693@. 1693. Ne rimaneva ben poco. Il marchese grande , come chiamavano suo nonno quando viveva, non aveva avuto scrupoli di servirsi delle pietre intagliate di quelle storiche rovine, per rivestirne la facciata della sua casa; e nessuno aveva osato opporsi a quell'atto di vandalismo. Così ora il marchese, passeggiando per la spianata, con le mani dietro la schiena, in pianelle, vestito come si trovava, stimava quasi di essere in casa sua, e teneva udienze seduto su gli scalini di gesso dello zoccolo, sul quale anni addietro i missionarii liguorini avevano piantato una croce di legno che un colpo di levante aveva portato via sfasciandola, e non era stata sostituita. Verso il tramonto, i contadini del vicinato salivano lassù per osservare come si coricava il tempo e per dare un'occhiata alla campagna; e il marchese si degnava di attaccar discorso con loro; e li interrogava, e dava consigli. E se c'era qualcuno che osava di fargli osservare che si era fatto sempre così, da Adamo in poi e che era meglio continuare a far così, il marchese alzava la voce, lo investiva: «Per questo siete sempre miserabili! Per questo la terra non frutta più! Avete paura di rompervi le braccia zappando a fondo il terreno? Gli fate un po' di solletico a fior di pelle, e poi pretendete che i raccolti corrispondano ! Eh, sì! Corrispondono al poco lavoro. E sarà ancora peggio!». Sembrava che stesse per azzuffarsi con qualcuno; lo sentivano fin da piè della collina coloro che tornavano dalla campagna e ne riconoscevano la voce: «Il marchese predica!». Ormai sapevano quasi tutti di che si trattava. Durante l'estate, venivano lassù a prendere una boccata d'aria fresca anche parecchi galantuomini dal Casino , e il canonico Cipolla, dopo l'ufficio del Vespro nella chiesa di Sant'Isidoro. Ma il marchese evitava più che poteva di attaccar discorso con quei signori; non voleva mescolarsi affatto nei loro torbidi intrighi di partiti municipali. Gli bastava pagare le tasse, che erano troppe! Quei signori infatti non sapevano ragionare d'altro che del sindaco che si lasciava menar pel naso dal segretario; dell'assessore per le liti, che rovinava il comune e i debitori di esso per la nota ragione: Fabbriche e liti , padre Priore ; dell'assessore per l'annona che chiudeva un occhio e anche tutti e due sul conto dei macellai e dei panettieri ... perché i migliori bocconi dovevano essere per lui! ... Sempre le stesse accuse, per tutti, sempre una musica! ... «Ah, lei, marchese, potrebbe fare un gran bene al comune! ... » «Con lei sindaco, le cose andrebbero diversamente!» «Ci vogliono persone pari a lei! ... » Venivano lassù, come il diavolo, per tentarlo. Ma egli non li lasciava neppur finire: «E gli affari di casa mia? Ho appena tempo di badare ad essi! Gente sfaccendata ci vuole per servire il comune! ... Buona sera, signori!». E scappava, quando non poteva lasciarli a prendere il fresco, e continuava le sue passeggiate in su e in giù, dal bastione agli scalini dello zoccolo, e dagli scalini al bastione, affondando i piedi tra le pianticine di malva che coprivano la spianata. Neppure col canonico Cipolla aveva molto piacere di discorrere. Che gli importava a lui, marchese di Roccaverdina, e del papa Pio IX e dei conventi e dei monasteri che il governo voleva abolire? Il papa era lontano, e a Palermo c'era la Monarchia che funzionava da papa pei siciliani. In quanto ai conventi e ai monasteri, certamente erano una risorsa per certe famiglie ... Ma i frati non avevano aiutato i rivoluzionari? Ben fatto, se ora i rivoluzionari li ringraziavano coi calci! ... Egli non voleva impicciarsi di politica, né d'amministrazione comunale, né del papa, né dei conventi! «Bado ai fatti miei, signor canonico! E, vedete, i fatti miei sono laggiù, a Margitello; e lassù, per le colline di Casalicchio; e da questo lato, a Poggiogrande; e da quest'altro, a Mezzaterra, lungo il fiume ... E il papa qua sono io, e il padre guardiano pure; stavo per dire: e la madre badessa anche!» Il canonico Cipolla sorrideva, pensando che allora la madre badessa il marchese se la teneva chiusa in casa, e non era un bell'esempio di moralità! Intanto gli rispondeva: «Dite bene. Si parla per chiacchierare e per nient'altro!». E lo lasciava a misurare col compasso delle gambe la spianata. In quel tempo, il marchese restava spesso lassù fino a tardi assieme con Rocco o con l'avvocato. L'avvocato gli raccontava le sue frottole spiritiche, seduto di faccia a lui sul bastione che sovrastava alla vallata, ed egli lo canzonava rudemente; non ne aveva ancora paura. Intanto dietro le colline sorgeva la luna, enorme, rossastra, e montava su pel cielo, quasi arrampicandosi lesta lesta dietro le nuvole, inondando di luce biancastra la immensità della campagna, fino alle montagne lontane che si confondevano col cielo all'orizzonte. E il marchese interrompeva l'avvocato per indicargli: «Vedete quel lume laggiù? È nella stalla di Margitello; danno la paglia alle mule. Ora Rocco chiude le finestre della casina. Una, due, tre! ... Sembra che un lume si accenda e si spenga. Continuate! È Rocco che passa da una stanza all'altra ... ». Erano più di due mesi che il marchese tralasciava spesso quella passeggiata di cui sembrava non avesse potuto fare a meno. Infatti chi aveva bisogno di parlargli, in quelle ore, si avviava difilato lassù, sicuro di trovarlo a passeggiare o a tenere udienza su gli scalini di gesso dello zoccolo senza croce. Era andato soltanto quattro o cinque volte in campagna, non a Margitello, ma a Poggiogrande, a Casalicchio. E da due settimane non si muoveva di casa, mettendo mobili e oggetti sossopra, quasi per stancarsi con quel lavoro manuale; ricevendo soltanto l'avvocato che veniva, come le nottole, sempre di sera; o qualcuno dei garzoni di Margitello mandato dal massaio a chiedere ordini, perché nessuno voleva assumersi la responsabilità d'una risoluzione qualunque. Il garzone andava via grattandosi il capo. Oggi, un ordine; domani, uno contrario. E se esitava: «Bestia! Avresti dovuto capire!». Ci andava di mezzo lui. Mamma Grazia lo compativa: «Se non si fa la causa, questo inferno non finisce!». Ma ora che si trattava di giorni il marchese era di peggior umore del solito e sbraitava con don Aquilante: «Che istruttoria mi andate contando? Che processo? ... Tutto è imbastito male. Le testimonianze? Le prove? Basterà un soffio dell'avvocato della difesa per buttarle giù! Saremo daccapo. Dovrò stare ancora mesi e mesi con l'animo sospeso ... ». «Perché? È curiosa questa!» «Perché se io me ne lavo le mani, diranno: "Al marchese non glien'è importato niente del povero Rocco! Chi muore giace e chi vive si dà pace". E verranno fuori nuovi funghi ... Vedrete.» «Perché? È curiosa questa!» «Vi sembra curiosa, perché voi non vedete altro che la causa, la bella causa e la bella difesa che farete ... E se il giurì manderà assolto Neli Casaccio? ... Qualcuno ... l'ha ammazzato il povero Rocco, giacché è morto ... e non si è ammazzato con le proprie mani ... E così daccapo!» «Attendiamo che il giurì abbia giudicato. Ero venuto per sapere l'ora precisa della partenza.» «Quando vorrete. La carrozza è a vostra disposizione. Io non vengo.» «Siete citato anche voi.» «La mia deposizione è scritta nel processo; possono leggerla.» «Ma gioverà anche la vostra presenza. I giurati, lo sapete, giudicano secondo le impressioni del momento, secondo la loro coscienza; non hanno neppur bisogno di fatti precisi ... » E don Aquilante aveva dovuto stentare per indurlo ad andare assieme con lui alla Corte d'Assise. Se n'era quasi pentito. «Badiamo, marchese! ... Badiamo!», egli si raccomandava. Ma il marchese non gli dava retta, e continuava a dar colpi di frusta alle mule, lanciandole in corsa vertiginosa per quelle rampe di stradone che giravano in declivio attorno al monte in cima al quale Ràbbato stava esposto ai quattro venti, che qualche volta sembrava se lo palleggiassero tra loro. «Badiamo, marchese!» Invano Titta, il cocchiere, seduto in cassetta accanto al marchese, si voltava di tanto in tanto per rassicurarlo. Don Aquilante ricordava, raccapricciando, che appunto lungo quelle rampe le mule avevano preso, tempo fa, la mano al marchese, e lo avevano trascinato giù per la china, tra sterpi e sassi, come impazzite, fino all'orlo del ciglione a precipizio, dove si erano fermate per miracolo; e pensava che certi miracoli non si ripetono, se si ripetono i guai. Doveva ricordarselo, il marchese! Invece le mule, spumanti di sudore, perdevano il fiato, smaniando sotto i colpi di frusta che piovevano fitti. Evidentemente il marchese sfogava contro di loro tutto il suo malumore, quasi l'istruttoria ed il processo li avessero fatti quelle povere bestie e potesse essere colpa di esse se Neli Casaccio veniva assolto! Erano trasvolati, come un lampo, accanto ai carretti coi testimoni, che scendevano senza fretta. Don Aquilante aveva intravisto Rosa Stanga, mastro Vito Noccia, Michele Stizza e non aveva avuto tempo di rispondere al loro saluto. Li invidiava. Stavano scomodi, sì, sui carretti, esposti alla polvere e al sole; ma almeno andavano tranquilli, senza pericolo di rompersi la noce del collo. «Badiamo, marchese!» E per distrarsi, don Aquilante si sforzava di pensare al marchese grande , di cui si raccontava ancora la storiella dei testimoni ... Quegli era un vero Roccaverdina! ... Altri tempi, altri uomini! ... Doveva vincere una lite? Occorrevano prove? E scriveva al suo agente, in paese: «Manda subito, subito, un'altra carrettata di testimoni!». Si compravano a due tarì l'uno! ... Falsi, s'intende! Il marchese grande , oh! oh! non guardava tanto pel sottile! La razza, su certi punti, è rimasta la stessa. Quando un Roccaverdina prende un drizzone, è capace di tutto, nel bene e nel male! ... Anche a costo di far scavezzare il collo a chi non c'entra ... «Badiamo, marchese!» Il marchese però scendeva da cassetta appunto quando, raggiunta la pianura, lo stradone filava dritto a perdita d'occhio, tra il frinire delle cicale su per gli ulivi e il zirlare dei grilli tra le stoppie. «Dicono che avremo la ferrovia fra quattro o cinque anni» «Anche i treni prendono la mano ai macchinisti negli scontri», rispose il marchese, sorridendo stranamente. «E con le macchine è inutile gridare: Badiamo, marchese!»

La sua volontà, il suo orgoglio, la sua fierezza erano cascati giù tutt'a un tratto, come vele abbattute da un tremendo colpo di vento. C'era, da un pezzo, dentro di lui qualcosa che lavorava a logorarlo, se n'era già accorto ... Aveva tentato di opporvisi, di contrastarlo ... Non era riuscito! ... Bisognava espiare! Bisognava espiare! Il silenzio gli faceva paura. Un gatto cominciò a lamentarsi nella via con voce quasi umana ora di bambino piangente, ora di uomo ferito a morte; e il lamento si allontanava, si avvicinava, elevandosi, abbassandosi di tono, prolungatamente; grido di malaugurio, sembrava al marchese, quantunque lo sapesse richiamo di amore. Non poté fare a meno di stare in ascolto, distraendosi, o piuttosto confondendo con quel grido l'intima voce che gli si lamentava nel cuore, mentre gli sfilavano quasi davanti agli occhi a intervalli o confusamente Rocco Criscione, Agrippa Solmo, don Silvio La Ciura, Zòsimo, Neli Casaccio, dolorose figure di vittime sacrificate alla sua gelosia, al suo orgoglio, alla sua impenitenza. Rocco, bruno, con neri capelli folti, con occhi nerissimi, penetranti, con impeto di virilità che scattava nella parola e nei gesti, eppure devoto a lui, altero di sentirsi chiamare Rocco del marchese , e in atto di ripetergli le parole di quel giorno. «Come vuole voscenza !». Agrippina Solmo, chiusa nella mantellina di panno scuro, che andava via singhiozzando, ma con un cupo rimprovero, quasi minaccia, nello sguardo. Don Silvio La Ciura, steso sul cataletto, col naso affilato, con gli occhi affondati nelle occhiaie illividite dalla morte, la bocca sigillata per sempre, come egli si era rallegrato di vederlo, davanti a la cancellata del Casino , tra la folla. Zòsima, con quella bianchezza smorta, con quel sorriso di tristezza rassegnata, che non osava ancora credere alla sua prossima felicità, con quel diffidente «Ormai!» su le labbra, che in quel punto gli sembrava profetico: «Ormai! Ormai! ... ». Come avrebbe potuto avere il coraggio di associarla alla sua vita, ora che egli si sentiva alla mercé di una vindice forza, avverso alla quale non poteva nulla? ... No, no! Doveva espiare, solo solo, non procurarsi un nuovo rimorso travolgendo quella buona creatura nella inevitabile ruina! Inevitabile! ... Non sapeva da che parte, né da parte di chi, né come, né quando; ma non poteva più dubitare che una parola rivelatrice sarebbe pronunciata, che un castigo gli sarebbe piombato addosso presto o tardi, se non si fosse volontariamente imposta una penitenza, un'espiazione, fino a che non si sentisse purificato e perdonato. Don Silvio gli aveva detto: «Badate! Dio è giusto, ma inesorabile! Egli saprà vendicare l'innocente. Le sue vie sono infinite!». E con l'accento di queste parole gli risuonava nell'orecchio anche il ricordo del vento che scoteva le imposte della cameretta, e passava e ripassava via pel vicolo, urlando e fischiando. Non osava più alzarsi dalla seggiola, con la strana sensazione che la sua camera fosse diventata una prigione murata da ogni parte, dove lo avrebbero lasciato morire di terrore e di sfinimento, com'era morto Neli Casaccio, immeritatamente, in scambio di lui. Si era lusingato di sfuggire alla giustizia umana e alla divina, dopo che i giurati avevano emesso il loro verdetto; dopo che don Silvio era stato reso muto prima dal suo dovere di confessore, poi dalla morte; dopo ch'egli si era illuso di essersi sbarazzato di Dio, della vita futura e di avere acquistato la pace con le dottrine e con l'esempio del cugino Pergola ... E, tutt'a un tratto! ... O aveva sognato? ... O continuava a sognare a occhi aperti? Sentì il primo cinguettio dei passeri sui tetti, vide infiltrarsi a traverso gli scuri mal chiusi del balcone il chiarore dell'aurora, e gli parve di destarsi davvero da un orribile sogno. Spalancò l'imposta, respirò a larghi polmoni la frescura mattutina, e sentì invadersi da un dolce senso di benessere di mano in mano che la luce del giorno aumentava. I passeri saltellavano, si inseguivano sui tetti, cinguettando allegramente; le rondini gorgheggiavano su la grondaia, dove avevano appesi i loro nidi; pel vicolo, per le case riprendeva il rumore, l'affaccendamento della vita ordinaria. E il sole, che già dorava la cima dei campanili e delle cupole, scendeva lentamente, gloriosamente sui tetti, faceva venire avanti, quasi le ravvicinasse, le colline lontane, le montagne che formavano una lieta curva di orizzonte attorno alle colline che digradavano e si perdevano nella vasta pianura verde, coi seminati qua e là luccicanti di rugiada, nell'ombra. Con la crescente luminosità del giorno, i tristi fantasmi che lo avevano contristato durante la nottata si erano già dileguati. E appena gli tornò davanti agli occhi la figura del cugino Pergola, col berretto bianco, di cotone, calcato fin su le orecchie, il collo circondato d'empiastri sorretti dalla grigia fascia di lana, seduto sul letto, appoggiato al mucchio dei guanciali, col viso congestionato e gli occhi rigonfi, quella risata che colà, nella camera, tra le candele ardenti sui candelabri di legno dorato attorno alle teche delle reliquie e al cordone di argento del Cristo alla Colonna, quella risata che gli era stata soffocata in gola, più che dal turbamento, dalla presenza dell'afflitta signora e dei bambini, gli scoppiò ora irrefrenabile in faccia al cielo azzurro, luminoso, in faccia alle cupole, ai campanili, alle case di Ràbbato, alla campagna, alle colline; e senza nessuna amarezza di delusione, quasi finalmente comprendesse di aver ecceduto, di essersi lasciato vigliaccamente impressionare anche lui! E apriva soddisfatto i polmoni a lunghi respiri di soddisfazione!

ABRAKADABRA STORIA DELL'AVVENIRE

676083
Ghislanzoni, Antonio 1 occorrenze
  • 1884
  • Prima edizione completa di A. BRIGOLA e C. EDITORI
  • prosa letteraria
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«Abbiamo spogliate le foreste, abbiamo traforate e abbattute le montagne, abbiamo aperte delle voragini per rapire alla terra le materie combustibili e gazose; abbiamo deviate le correnti elettriche; dapertutto la mano dell'uomo ha portato lo scompiglio e lo sfacelo. «Che più ci resta a tentare? Dopo aver dominato la terra e le acque, ecco le nostre locomotive ci sollevano ai cieli ... Non basta? Fourrier, coll'innesto delle ali, ci comunica una nuova facoltà, ci promette una trasformazione ... «Affrettiamoci, signori! Ciò che abbiamo fatto per suicidarci è poca cosa ... Voliamo alle regioni dove spaziano le aquile! ... Voliamo colà dove per l'uomo si respira la morte ... «E i sintomi mortali si scorgono dapertutto. L'attività febbrile che nello scorso decennio ha operato dei prodigi, oggi accenna ad estenuarsi; la luce della intelligenza umana è quella del lucignolo prossimo a spegnersi. «E frattanto, qual forza ci soccorre? La terra, nostra madre, e nudrice, è ormai stanca delle nostre violenze. Essa comincia a ribellarsi. I cereali intisichiscono, la vite non dà più grappoli; gli animali che più abbondante e vigoroso ci fornivano l'alimento, si ammorbano e periscono sui pascoli insteriliti. «E già i governi mandano un grido di allarme; e il diritto alla esistenza sancito dalle nuove leggi diverrà fra poco una derisione ... Ma a ciò provveda chi deve. «Il nostro compito, o signori, è quello di affermare, per quanto è da noi, la vita individuale, mentre le masse precipitano nella morte. «L'umanità è colpita là dove ha molto peccato. La prevalenza del succo nerveo ha paralizzato le forze del sangue; l'equilibrio degli elementi vitali è cessato; l'uomo vegetale, l'uomo bruto fu invaso dell'uomo pensante. «Dalle cattedre, dai libri, dai giornali noi abbiamo reagito costantemente contro l'invadenza di uno spiritualismo micidiale. Ma la superbia umana ha sordo l'orecchio alle verità che la umiliano. «La religione riformata, accarezzando l'orgoglio dell'uomo e l'idealismo irrazionale della donna, ha messo il colino alla esaltazione. In ogni paese, in ogni tempo, l'ascetismo fu nemico della nostra scienza; ma a nessuna epoca mai come alla nostra, il prete ed il poeta, questi eterni falsarii della legge naturale, questi allucinati o coscienti mistificatori delle plebi umane, esercitarono più micidiale il loro predominio. I fanatici del nuovo culto impazziscono a migliaia. Parigi, la superba città che era nello scorso secolo denominata il cervello del mondo Parigi non rappresenta oggigiorno che un vasto manicomio. «Ma questi signori vi diranno: ciò che a noi importa è la salute delle anime! Orbene! (e così parlando il Virey si volse a fratello Consolatore) non vi par tempo che noi interveniamo? «Vorrete poi permetterci di tentare qualche esperienza profana sugli atomi vitali che per avventura serpeggiano tuttavia in questo corpo estenuato? ... » Fratello Consolatore non rispose e chinò la testa mestamente. Il Virey, per un istante disarmato dall'umile atteggiamento del Levita, riprese la parola con intonazione più dimessa: «La malattia che ha colpito quest'uomo è una delle più comuni oggidì: la lassitudine nervosa complicata e aggravata da un chiodo fantastico «Lo sfinimento dell'apparato nervoso ripete la sua origine da troppo intense e prolungate esercitazioni della macchina cerebrale; il chiodo fantastico è frutto di una troppo costante e inesaudita surreccitazione dei globuli simpatici. Il bagno fosforico e le fasciature elettro-magnetiche applicate con prudente moderazione potrebbero in breve tempo rinvigorire il sistema pregiudicato; ma un tal metodo di cura aggraverebbe la crisi dell'organo più compromesso. «Signori! ... occhio al cervello! ... occhio al padrone, al governatore, al tiranno della casa vitale! Abbiate per fermo che nessuna malattia è mortale quando l'organo tiranno che siede là dentro conservi piena ed intatta la sua forza di volere. «Affrettiamoci dunque! Il nostro primo compito sia quello di ristabilire l'equilibrio fra i globi cerebrali. Ottenuto l'equilibrio, quando il malato sarà in grado di pensare e di volere, in pochi giorni la resurrezione delle fibre sarà completa. «Riassumiamoci. La biografia del paziente ci ha rivelato che un intenso desiderio di possessione riportato sovra una donna fu causa della anomalia. L'idealismo! sempre l'idealismo! fomite di ogni follia, di ogni disordine, per non dire di ogni umana scelleratezza. Questo uomo, credendo di amare ha fatto violenza alle leggi della natura e si è reso impotente. Io vorrei bene, o signori (e qui la parola del medico riprese una intonazione più vibrata), io vorrei bene, se la situazione del malato non esigesse tutte le nostre sollecitudini, sbizzarrirmi alcun poco nella diagnosi di questa vacuità a cui le moltitudini danno il nome di amore! ... Oh! chi scriverà la storia dell'amore? Chi vorrà riprodurre nella sua spaventevole ampiezza la cronaca delle follie e dei delitti derivati da questo equivoco, da questa fatale illusione della superbia umana? E fino a quando proseguiremo noi ad insultare la natura, a pervertirci, a suicidarci, per la mania di idealizzare a mezzo di una insensata parola l'attrazione simpatica dei sessi, comune a tutti gli enti, a tutte le molecole della creazione? «Ma torniamo al malato. La prevalenza del fosforo, rivelata dalla esplorazione, mi è di buon augurio; l'assenza della febbre mi allarma. Provochiamo la febbre! provochiamo questa benefica agitazione del sangue che tende ad espellere dall'organismo gli atomi eterogenei, «Soffiamo in questa bonaccia! suscitiamo la tempesta riparatrice! ... «E non perdiamo un istante (proseguì il medico, ritraendo la mano dalla fronte del malato); si chiami tosto ... Ma, no! ... io stesso sceglierò l'individuo da applicarsi ... «Vi è qui alcuno che possegga un ritratto della donna che questo infelice ha creduto di amare? ... » Fratello Consolatore si levò in piedi, levò dal portafoglio una fotografia e la porse al primato. - Sta bene! ... Conducetemi tosto ad una casa di Immolate ... Là troveremo l'individuo simpatico che ci abbisogna. E volgendosi ai giovani studenti che in silenzio lo avevano ascoltato: - Spero - disse - che mi avete compreso. L'estirpazione del chiodo fantastico allora si effettuerà spontaneamente, quando si ottenga che quest'uomo abbia a credere in un'altra forma di donna ... Se a tanto può giungere il talento e la volontà di una Immolata, è indubitabile che lo sviluppo istantaneo della febbre ricondurrà l'equilibrio nelle forze mentali, e allora il cervello potrà gridare a' suoi satelliti: sorgete e obbeditemi!» Ciò detto, il Virey riconsegnò a fratello Consolatore la fotografia dell'Albani, dopo averne spiccato uno dei tanti ritratti fotografici che vi erano intercalati. - Levita! - riprese il Primate nell'atto di congedarsi - voi perdonerete alla vivacità di alcune mie espressioni che per avventura possono aver irritate le vostre suscettibilità - la scienza medica non fu mai troppo scrupolosa nella pratica del galateo. - Dopo tutto, se i nostri principii e le nostre credenze si avversano, ciò non impedisce che noi ci chiamiamo fratelli. - Fratelli! - ripetè il Levita stringendo al cuore la mano che aveva cercato la sua - è pur consolante l'udir profferire questa parola da un uomo che nega l'amore e non crede all'esistenza dell'anima ... Il Virey, irritabile come tutti gli scienziati, stava per riprendere la sua polemica, ma un sospiro affannoso del malato gli ricordò che i minuti erano contati. Egli volse al Levita un'ultima occhiata piena di ironia e uscì dalla stanza seguito dagli alunni. Giunto nella via, il Virey fece salire nella sua volante il custode della Villa, e scambiate sommessamente alcune parole con lui, ordinò al conduttore di dirigersi alla piazza dell'antica cattedrale.

L'ALTARE DEL PASSATO

676785
Gozzano, Guido 1 occorrenze

Il Tempio della Concordia, e vicino il Tempio d'Era con la sua fuga di venti colonne erette e di venti colonne abbattute, e, più oltre, il Tempio d'Ercole, ossario spaventoso della barbarie cartaginese, meraviglia ciclopica tale che la nostra fantasia si domanda non come sia stato costrutto, ma come sia stato abbattuto; e oltre ancora il Tempio di Giove Olimpico, il Tempio di Castore e Polluce: tutte le sacre ruine che Agrigento spiega a sfida tra l'azzurro del cielo e del mare: ecatombe di graniti e di marmi che sembra dover ricoprire tutta la terra di colonne mozze o giacenti, di capitelli, di cubi, di lastre, di frantumi divini. Ma dinnanzi a noi era quello che Miss Eleanor chiamava "il mio tempio", il tempio di Demetra, eretto ancora sulle sue cinquantaquattro colonne, l'unico intatto fra dieci altri abbattuti, l'unico sopravvissuto, per uno strano privilegio, al furore fenicio e cartaginese, al fanatismo cristiano e saraceno. - No, amico mio. Dobbiamo ai cristiani e ai saraceni se il tempio è giunto intatto fino a noi. Fu San Rinaldo, nel IV secolo, che lo scelse fra "i monumenti infernali dell'idolatria" per convertirlo in una chiesa dedicata a San Giovanni Evangelista, chiesa che fu trasformata in moschea al tempo dell'invasione saracena. E l'edificio divino fu salvo, mascherato e protetto come un fossile nella sua custodia di pietra e di cemento. Quale grazia del caso! Pensate allo scempio che fu fatto degli altri! Pubblicherò un manoscritto di mio padre dedicato tutto allo studio di queste distruzioni nefande. Pensate a quel colossale Tempio d'Ercole che fornì materiale per tutti i porti nel Medio Evo! Tutto fu abbattuto e spezzato. Abbattute le colonne ciclopiche, ogni scannellatura delle quali poteva contenere un uomo, come in una nicchia, abbattuti i giganti e le sibille alte dodici metri che reggevano l'architrave, meraviglia di mole titanica e di scultura perfetta. Pensate le teste, le braccia, le spalle divine, i capitelli intorno ai quali si gettavano gomene colossali, tese, tirate da schiere di buoi fustigati, mentre le seghe tagliavano, le vanghe scalzavano i capolavori alle basi. E le moli precipitavano in frantumi spaventosi, con un rombo che faceva tremare la terra. Ora sulle nudità divine, tra le pieghe dei pepli, nidificano le attinie e i polipi di Porto Empedocle. - Cose da invocare un secondo toro di Falaride per i cristianissimi demolitori. - Il gregge! Il gregge dell'Abazia! - Miss Eleanor si interruppe ad un tratto, ebbe uno di quei suoi moti fanciulleschi di bimba sopravvissuta, - il gregge dell'Abazia! Guardate che incanto! Dall'interno del Tempio, sul grigio delle colonne immani, biancheggiarono d'improvviso due, trecento agnelle color di neve. Uscivano dal riposo meridiano, dalla "fresca penombra, correvano lungo il pronao, balzavano sui plinti, scendevano con grandi belati e tinnir di campani. Tre pastori s'affaccendavano con i cani per adunare le disperse e le ritardatarie. Alcune, le piccoline, non s'attentavano a balzare dagli alti cubi di granito, correvano disperate lungo il pronao, protendevano il collo invocando soccorso, con un belato lamentevole. I pastori le prendevano tra le braccia, passandole dall'uno all'altro, tra l'abbaiare dei cani. *** - Non rimpiango d'essere nato troppo tardi. Il quadro è più divino oggi che ai giorni di Empedocle. Il cielo doveva essere meno azzurro tra le colonne a stucchi troppo vivi; non so pensare le metope, i triglifi, i listelli a smalti gialli, azzurri, verdi. Non so pensarli che color granito, color di tempo, come li vede oggi la nostra malinconia. Colorato, ornato, fregiato, con i gradi del plinto e le strie delle colonne, i frontoni a linee precise, non addolcite ancora dai millenni; con i labari immensi che s'agitavano al vento e la folla che affluiva nei giorni solenni, il tempio doveva essere men bello di oggi. Oggi ha la bellezza che piace a me, la bellezza che strazia! - È straziante anche il vostro albergatore, - interruppe ridendo la mia amica. - Vedo una réclame di più. In fondo, ai piedi di Girgenti, aggruppata sul suo declivio come un'erede poverella, biancheggiava l'immenso cubo dell'Hôtel d'Agrigento, e sulle pareti candide, sulle alte mura del parco, fin sui cipressi centenari, spiccavano a sillabe colossali gli elogi di cordiali e di aperitivi. - E che cosa fanno all'HÔtel? - Mi dimenticavo di dirvi. Preparano un concerto di Nino Karavetzky, il prodigio di nove anni; suonerà nel Tempio, al plenilunio di domani. - Tutti gli anni fanno qualche cosa di simile, - disse Eleanor abbuiandosi, - l'anno scorso la colonie preparò una festa amena. Lampioncini veneziani dall'una all'altra colonna, razzi, fuochi di bengala, danze, e Vedova allegra - L'idea di quest'anno è meno scellerata. - Scherzo, conosco il piccolo Karavetzky. L'ho sentito l'estate scorsa al Conservatorio di Bruxelles. È più che un enfant prodige È un rivelatore. Sarò felice di sentirlo. - Oh! Che piacere! Allora verrete anche voi! - Non verrò. Lo sentirò di qui. Sentirò benissimo le parole del violino e non i commenti delle signorine Raineri e di madame Delassaux. Fui schiettamente addolorato del rifiuto reciso. Tentai la mia amica insistendo, porgendole il programma. - Guardate, guardate che delizia. Essa lo scorse, lo commentò da fine intenditrice. - Delizioso, ma non verrò. - Oh! Cara Eleanor, quanto m'addolora il vostro rifiuto. Quando mi han detto del concerto ho subito pensato a voi e ad una cosa sola; al piacere di starmene in disparte su qualche capitello infranto ad ascoltare la musica lontana e le cose che voi sola sapete sulle nostre bellezze sepolte. - E bene illuminati dal plenilunio e vigilati da Madame Delassaux o da chi per essa, perchè si tessa qualche favola di più "sur la sorcière des ruines". No, non protestate, sapete benissimo anche voi che mi si chiama così. Non risposi, chinai il volto, premetti le gote che ardevano contro le due mani di lei, gelide e fini. - Il mondo ha pure le sue esigenze, mio povero amico, finchè siamo tra i vivi. Tacqui ancora, parlando senza sollevare il volto. - È una gran delusione per me. Contavo sulla vostra presenza. Sono un vagabondo senz'anima, che non crede e non sente. Ma accanto a voi mi par di sentire e di credere in qualche cosa. Non so, non so dire che cosa io provi quando vi sono vicino. Eleanor ritirò lentamente le mani; sollevai il volto e vidi il volto di lei mutato, e gli occhi, dove la pupilla color velluto divorava, a tratti, tutta l'iride azzurra, che mi scrutavano fino in fondo dell'anima. - È vero. Siete sincero, - disse Eleanor con voce commossa, ma ferma. - Per l'affetto che mi portate e che vi porto, verrò. Aspettatemi verso la quarta metopa; vi prometto che al Notturno di Sinding sarò con voi. La mia anima corresse - sarà con voi! Sorrisi amaramente al gioco di parole, deluso e scontento. Ma Eleanor non sorrise, alzò la mano come a suggellare una promessa. - Sarò con voi. E poichè mi volsi ancora a salutarla dalla soglia, con un sorriso deluso ed incredulo, essa ripetè solenne: - Vi giuro che sarò con voi! Perchè quella promessa e quel volto atteggiato ad una tenerezza quasi tragica mi diedero il brivido? Uscii dalla "Buona Sosta" con un'esaltazione strana, m'avviai quasi di corsa verso l'albergo. A mezza via, dall'ombra di una siepe di agavi e di cacti, balzò il dottor Gaudenzi. - Ti si vede, finalmente! Ma passi le tue giornate alla "Buona Sosta"! Dalle ruine alla gobba, dalla gobba alle ruine. C'è poca differenza. Comincio a pentirmi d'avertela presentata. Per tanti motivi. - Sentiamo. - Sei qui per rimetterti dei tuoi nervi e la compagnia di quell'esaltata è la negazione della cura. La conosco da anni. Giurerei che avete parlato tutto il giorno d'arte e d'oltretomba. Sono le sue due specialità. Hai gli occhi di un allucinato anche tu. - Sentiamo, e voi cosa avete fatto di meglio? - Siamo stati a Porto Empedocle a veder ritirare le reti. Abbiamo aiutato i pescatori e i marinai; un esercizio che avrebbe fatto bene anche a te. Poi abbiamo invasa un'osteria del basso porto, comprese le signore, e abbiamo mangiato il pesce fritto alla saracena. Poi abbiamo scommesso a chi faceva più giri intorno alla fontana di San Rocco con Madame Delassaux tra le braccia. Pesa novantasei chili. Io ho vinto il secondo premio ... Il mio amico aveva ragione. Ma l'errore era d'aver scelto per il mio riposo una terra dove ogni pietra aveva un potere magico, un passato favoloso, e dava l'ebbrezza e l'allucinazione. Meglio la Liguria, non bella che d'aranci e di oliveti, meglio il mio Canavese privo di fulgidi passati, ma verde di riposi ristoratori, dove l'anima s'adagia come una buona borghese. - Diraderò le mie visite a Miss Eleanor. Hai ragione. La sua conversazione mi esalta. - Farai bene. E non per i tuoi nervi soltanto. Si mormora non poco su questa tua assiduità. Quest'oggi ho sentita una frase perversa sull'idillio "du poète languissant e la bossue aux soixante millions". No, non puoi prendere a ceffoni chi l'ha pronunziata perchè era una donna. Soltanto le donne sono capaci di pensare queste cose. Ma le donne le dicono e gli uomini le credono e le ripetono. Il Tempio di Demetra inargentato dal plenilunio! Una bellezza che nessuna forma d'arte potrebbe ritrarre senza farne un'oleografia dozzinale, una bellezza non sopportabile che nella dura realtà. Ma quale realtà! La terra, il mare, il cielo d'Agrigento si erano fusi in una tinta neutra, quasi per favorire con uno scenario incolore quell'unica forma; e il Tempio s'innalzava sui suo stereobate a cinque gradi, le colonne esatte, rigide, convergenti dai plinti ai capitelli con un'armonia che sembrava una preghiera lanciata in alto, verso l'assoluto. E sulla sinfonia delle sette e sette, delle venti e venti colonne l'architrave, i triangoli dei frontoni equilibrati come due strofe si profilavano intatti al plenilunio, poichè la luce lunare ringiovaniva il Tempio come la ribalta ringiovanisce un volto di donna. - L'uomo ha potuto far questo! Ha concretato nella pietra questo grido verso l'ideale. La mia esaltazione cresceva. M'aggiravo tra la folla con passo malfermo. La folla brulicava intorno: ospiti giunti da tutte le parti, italiani e forestieri; ma le figure moderne, minuscole su le scalee imponenti, fra gli intercolunni colossali, non rompevano l'armonia del quadro, tanto le nostre foggie mutevoli sono miserabile cosa di fronte alla bellezza che non muta. Nell'interno, tra il doppio colonnato della cella, dinnanzi alle tre are consunte, s'addensavano gli spettatori; e le donne cessavano dal cicalare e gli uomini si scoprivano il capo entrando, istintivamente, quasi che ancora la divinità fosse presente. - Eleanor! Eleanor! Che faceva, la mia amica tra il capelvenere della "Buona Sosta"? Perchè non era con me nell'ora divina? Il plenilunio illuminava a giorno le zone in ombra, faceva scintillare gli occhi, i denti, i gioielli delle signore; alcune - quelle della colonia - in capelli, scollate, con scarpe chiare o a vivi colori laminate d'oro e d'argento, altre - le forestiere - in succinto vestito di viaggiatrici. E, tra la folla che fece ala, apparve il piccolo Mago, condotto per mano dalla mamma, una signora ancora giovane e bella. Ma quanto minuscolo il prodigio famoso! Fu un mormorìo di tenerezza sorpresa che proruppe in una commossa ilarità quando il piccolo tentò, due, tre volte, invano, di dare la scalata al plinto e la madre lo sollevò alle ascelle, ve lo depose con un bacio e con un sorriso, offrendogli, nella custodia aperta, lo strumento, come un giocattolo prediletto. E il bimbo lo prese, lo accordò palpandolo, stringendolo tra le gambette nude, picchiandolo con le nocche, pizzicando le corde con le dita e coi denti, così come avrebbe fatto con un suo cavalluccio un po' guasto, prima di mettersi al gioco. Addossato ad una colonna lo guardavo, attraverso la folla, il Mozart minuscolo sul suo plinto greco, e il mio malessere cresceva, sentivo il rombo del sangue contro il granito al quale premevo la nuca, e gli occhi aperti mi dolevano e se li chiudevo l'orlo delle palpebre mi scottava come se fosse stato di metallo rovente. Aspettavo la musica come nelle notti disperate invocavo dal mio amico la droga del nulla o la puntura pietosa. Ma la prima nota dolcissima - era il concerto in re minore di Max Bruch - mi passò nel cervello come una scalfittura. Tutto il miracolo evocato dal piccolo intercessore, che dalla gagliarda sonorità appassionata delle prime frasi si chiude col finale allegrissimo, saltellante, fu per me un martirio senza nome, come una musica diabolica eseguita da un demone con un archetto di diamante sopra una lastra di cristallo. - Eleanor! Eleanor! Che faceva la mia amica in quell'ora? Ascoltava, con la povera persona deforme palpitante tra il capelvenere della "Buona Sosta"? Non vedevo la folla, non vedevo che lei. Le note si convertivano in parole sue: - ... la fede, la fede che fa tutto possibile: anche questo! - e abbassava gli occhi accennandosi la sciagura della persona miserrima; poi sollevava le iridi chiare: - ... verrò! Sappiate vedermi. La mia anima sarà con voi. Vi giuro che verrò! Tremai della mia eccitazione. Cercai il dottore intorno, come un salvatore, senza trovarlo. Cercai un capitello, una pietra dove sedermi: tutto era occupato dalle signore. E le ginocchia non mi reggevano. Girai intorno alla colonna, passai dagli intercolunni della cella agli intercolunni esterni, in piena luce lunare. Avanzai quasi di corsa lungo il pronao per allontanarmi dal malefizio dei suoni e per sentire la frescura notturna ventarmi in viso. Alla quarta metopa scesi due, tre gradini, mi adagiai con le spalle addossate al granito, la nuca ben sorretta da una curva della pietra consunta. Dinnanzi m'era la pianura incolore ed il mare incolore, non rivelato che dal riscintillare tremulo della luna. Da un lato, obliquo, il sarcofago di Fedra con le figure fatte più visibili dalla luce obliqua. Mi dimenticai per alcuni secondi in quel dolore. La regina seduta, con un braccio rigido appoggiato allo sgabello, e l'altro braccio inerte abbandonato a due schiave che lo reggevano accarezzandolo, affannate e dolenti ... E la donna volgeva altrove il profilo inconsolabile dove s'addensa tutta la disperazione umana, la disperazione incolpevole di essere quali siamo, di non poter essere che quali siamo! Amore, in disparte, contemplava sogghignando l'effetto del dardo, l'amore minuscolo come un piccolo demone. Ma l'altro demone, il piccolo demone del tempo nostro, il Mago dei suoni che mi perseguiva fin là col martirio divino del suo stromento! Anche la Zingaresca di Sarasate, gaia e saltellante, non mi dava sollievo! Accarezzai con la mano le pieghe ordinate del peplo tre volte millenario. - Il dolore, il dolore anche qui, eternato nella pietra dura! Cercai la luna, in alto, per dimenticarmi in una cosa morta per sempre, in una cosa che non soffre più, che non soffrirà mai più. - Eleanor, Eleanor! Ah! Perchè non l'avevo vicina? Perchè non aveva consentito al convegno? Fissai il cielo a lungo, troppo a lungo. Quando abbassai gli occhi vidi il disco lunare moltiplicarsi in rosso ovunque posassi lo sguardo; chiusi gli occhi, li premetti a lungo con le dita per cancellare dalla palpebra interna l'immagine del disco sanguigno. Giungeva nel silenzio la Chanson triste di Sinding, il notturno prediletto di Eleanor. La sua anima era veramente vicina? Certo la sua anima l'udiva anch'essa, dalla sua veranda fiorita, ma non soffriva come me! La mia amica infelicissima conosceva il segreto d'esser felice! E il piccolo evocatore lontano moltiplicava gli effetti imprevisti e la musica m'era vicina come se le corde mi vibrassero nelle orecchie. Ma udivo anche un passo lieve lungo il pronao. L'importuno s'arrestò due, tre volte alle mie spalle, con un fruscìo che sembrava cadenzato col ritmo musicale. Io non volli sollevare il volto dalle mani. Non sollevai il volto nemmeno quando sentii che lo sconosciuto scendeva, mi si sedeva vicino. Guardai, a volto chino, dal basso in alto. E vidi i due piedi ignudi, minuscoli, perfetti nel coturno gemmato; poi il peplo ordinato come un ventaglio semichiuso, raccolto alle ginocchia, il peplo che fasciava con grazia attorta il busto perfetto, avvolgeva le spalle snelle, lasciava la nuca e il volto come in un soggolo, non lasciando libero che il profilo; il profilo di Eleanor. Non balzai, non diedi grido. Cercai di convincermi che non sognavo: palpai il granito, mi morsi le labbra, per sentire il freddo ed il dolore. Non sognavo. - Non sogni! Non sogni! Eleanor parlava! Non so dire come fosse la sua voce; forse le sillabe delle sue parole e le note che venivano di lungi erano la stessa cosa. Ma parlava, eretta dinnanzi a me che non trovavo la forza di balzare in piedi; e m'aveva teso le due mani intrecciando le mie dita alle sue dita soavi. La sua persona era assoluta, poichè la parola bellezza è troppo umana per la rivelazione divina che mi stava dinnanzi, per quell'anima fattasi carne in una forma imitata dalle statue immortali. - Non sogni! Non sogni! Ho giurato. Sono venuta. - No, non è vero! - gemevo con le dita nell'intreccio delle sue dita, - mi sveglierò tra poco e tutto sarà come se non fosse stato e non avrò più queste tue mani; non avrò che le mie unghie infisse nella mia palma sanguinante. Conosco l'inganno dei sogni. - Non sogni! Ah, perchè quest'orgoglio di fanciullo dinnanzi al mistero? Perchè ribellarsi? Per tutto ciò che è divino m'hai chiamata. Sono venuta. E venuta quale voglio essere. Tutto è possibile. Anche questo. - Eleanor! Eleanor! Che questa sia la realtà di un attimo e poi venga il buio senza fine. - Verrà la luce. È giunta l'ora. T'aspettavo da anni. È fatto il miracolo! - Eleanor, se questo non è sogno, - e balzai afferrandola alla vita sottile, - lascia ch'io ti porti tra gli uomini, che io gridi alto il tuo nome nel mondo dei vivi! E tentai di trascinare la tepida forma palpitante lungo il pronao, verso l'interno del tempio. - No! no! La fede sola ha fatto il miracolo. Non profanare il mistero! Mi resisteva ed io la cingevo alla vita, deciso di trascinare nella realtà il sogno divino, ben certo che con l'ultima nota tutto sarebbe dileguato nel nulla. E non volevo. Volevo ghermire alle potenze dell'occulto quella forma divina. - No! Bada! Profani il mistero! La fede sola ha fatto questo! Mi perdi per sempre! Lasciami! Lasciami! Fu la resistenza decisa, la lotta ostile per il bene supremo. - Lasciami! Lasciami! Sollevai la persona che riluttava, guizzava come se la portassi alla morte; poi s'allentò con un grido, s'abbandonò senza vita. E la portai tra gli intercolunnii, trionfando di giungere dal sogno alla realtà con quella preda ben certa, di sollevarla al cospetto di tutti gridando al miracolo. Ma fu allora come se cominciassi a sognare. Vidi per un attimo la folla adunata e il piccolo musico che suonava sul plinto. Poi più nulla. E nel buio un grido, molte grida; e nel cervello che si smarriva disegnarsi ancora in sanguigno il disco lunare poi una voce ben vera, la voce di Madame Delassaux, la mia nemica. - Il est ivre, il est fou! Par ici, sauvez-vous par ici, miss Quarrell! Poi più nulla. L'assenza del tempo e dello spazio. La felicità del non essere. - E dopo - dopo quanto? - vidi per prima cosa attraverso le ciglia socchiuse una prateria ondulata, costellata di fiori non terrestri, simili a quelli ritratti dagli occultisti nei paesaggi di Giove e di Saturno e un gelo, un gelo che contrastava con la flora meravigliosa. Ma aprii gli occhi ben vivi alla luce ben vera, vidi che la prateria smagliante era la coperta del mio letto alterata dalla prospettiva dell'occhio recline, e sentii che il gelo veniva dalla benda che mi copriva le tempia. Portai la mano alla fronte, ma fui impedito dal dottor Gaudenzi che mi sorrise, parlando affettuoso e calmo, come se riprendesse un dialogo interrotto mezz'ora prima. - Ieri? Ventitrè giorni fa! Ventitrè giorni sono passati dal concerto famoso. Ma non t'agitare ... ti dirò poi. - Voglio sapere, voglio sapere! - Tutte cose innocentissime e amene. Amena anche la tua meningite, ora che è scongiurata. Ma non ti agitare! Mi rinnovò il ghiaccio sulla fronte, m'impose il silenzio. M'addormentai nuovamente. Due giorni dopo cominciai ad alzarmi, felice di sentire che le gambe mi reggevano ancora. E volli il barbiere subito, per avere l'illusione di riprendere la mia vita consueta. E mentre ero sotto il rasoio, il dottore si decise a parlare, misurando a grandi passi la stanza. - Bada di dirmi la verità! Tanto saprò tutto oggi, da Miss Eleanor. - Miss Elaanor è partita da tre settimane per l'Inghilterra. Non ritornerà in Sicilia mai più. Per quanto inglese e teosofessa, certe lezioni si ricordano una volta per sempre. Ma lasciami parlare! - Allora cose gravi! - Ma no! Importa molto, a un carattere come il tuo, d'essere la favola allegra di qualche migliaio di sfaccendati, per qualche tempo? Dunque nessun guaio. L'unico guaio si è l'aver portato di peso, tra la folla, in pieno concerto, urlando come un forsennato, la povera gobbina svenuta. Avevo allontanato il rasoio, per prudenza, m'ero alzato in piedi, torcendomi le mani. Non potevo ridere, non potevo piangere. - Non è vero! Dimmi che non è vero! - È vero questo soltanto. E non ti descrivo la scena. Ti sarà descritta a sazietà dai volonterosi e dalle volenterose, in tutti i particolari. I quali tornano più a colpa di Miss Eleanor che a tuo disdoro. - Dimmi che non è vero! - Ed è lezione ben meritata per quella incompleta figlia d'Albione. Tutti gli anni ha sempre tessuto qualche idillio, coronato da catastrofi amene. Ha anche avuto qualche amante, forsennati che giuravano d'averla vista con un corpo fidiaco. Ora posso confessarlo. Nei primi tempi ha tentato lo stesso gioco anche con me. Ma io ho un cervello sano. E l'ho vista sempre con due gobbe e alta come uno sgabello. Con te, ridotto come eri, la cosa è stata diversa. Afferrai il rasoio, per gioco. - Non mi resta che il suicidio od il chiostro! Ridevamo perdutamente. Ma lasciai la Magna Grecia per sempre, tre giorni dopo.

IN RISAIA

678070
Marchesa Colombi 1 occorrenze

Ma l'indomani stava meglio, e la presenza di Gaudenzio galvanizzò le sue forze abbattute. Il lunedí stette male ancora; poi il martedí si risentí guarita. Cosí finí le sue trenta giornate, passandone una buona ed una cattiva. Ma in che stato le finí! Non era piú la Nanna di prima. Lungo la strada per tornare a casa si reggeva a stento sulle gambe. Anche le compagne camminavano svogliate. Le piú forti cercavano di cantare come quando erano venute; ma erano poche, ed il loro canto s'interrompeva per lunghi tratti. Nanna ansimava come un mantice. Aveva le labbra bianche. Non era il giorno della febbre; ma la doppia fatica del camminare dopo il lavoro, la pioggia che cadeva da quasi un'ora, l'aria della sera, avevano abbreviata l'intermittenza. Le pareva che quel viaggio non dovesse finir mai. Contava i paracarri; ce n'erano nove per ogni palo di telegrafo. - Quanti pali di telegrafo ci sono per ogni chilometro? - domandò. Poi colla sua tendenza speciale al calcolo, si mise a contarli, numerando man mano i nove paracarri, e le pareva di abbreviarsi la strada frazionandola. Tuttavia rimaneva sempre indietro dalle altre. Non ne poteva piú, Pietro le aveva già preso il suo piccolo bagaglio: - Appoggiati al mio braccio - le disse - faticherai meno. Ma Nanna non volle. Le pareva una cosa ridicola andare cosí a braccetto fratello e sorella, come due signori o due sposi. Quando Dio volle s'udí un carro che si avanzava nella stessa direzione dei giornalieri. Stettero ad aspettarlo. - Pregate quell'uomo che lasci salire mia sorella sul carro - disse alle donne Pietro che non osava fare egli stesso quella domanda. - Stupido, va! - Gli rispose una bella sposa a titolo di consenso. E facendosi innanzi verso il carrettiere, che camminava a fianco della sua mula, gli gridò: - Vorreste lasciar salire sul vostro carro una ragazza che ha la febbre? - Per me, se vuol salire...; ma è carico di ghiaia; non starà sul morbido - rispose l'uomo senza fermarsi. - Eh! Il morbido non importa. Purché non cammini. - Ma fermate, dunque. - Eeeh! Eeeeh! - gridò il carrettiere alla mula tirando le briglie lentamente. - E lentamente il carro si fermò, come lentamente aveva proceduto fino allora. Nanna, coll'aiuto delle compagne, si pose a sedere dietro il carro, sulla ghiaia colle gambe pendenti. - Mettiti gli zoccoli - disse Pietro. - Hai i piedi gelati. - Ma che! Ho tenuti gli zoccoli finora. Quassú li tolgo perché mi cadrebbero, coi piedi penzoloni cosí - E Nanna tirò via a quel modo, scalza, nell'umido e sotto la pioggia. Ma seduta su quella ghiaia bagnata, ella pensava: - Se fosse il carro di Gaudenzio! - e col vaneggiar della febbre si figurava che fosse quello, e le pareva di stare sopra un letto di piume. Il lunedí Nanna stette male; ed il mercoledí peggio. Il babbo andò a chiamare il medico di Trecate che aveva la condotta dei cascinali del circondario. Ma c'era una lunga distanza che il medico non avrebbe potuto percorrere ogni giorno per vedere l'ammalata. Egli disse: - È un'intermittente che potrebbe andare per le lunghe. La ragazza ha bisogno di prendere molto chinino, di nutrirsi con cibi sani. È meglio che la portiate a Novara all'ospedale; sarà curata meglio che in casa vostra. Ce ne ho mandate molte che hanno presa la febbre in risaia. Martino non incontrò il menomo ostacolo a farsi rilasciare la fede di miserabilità. Pover'uomo! Aveva le sue braccia, e le famose trenta lire per l'argento. Null'altro. Cosí la mattina del giovedí Nanna fu trasportata all'ospedale di Novara sul carro del Comune, e Maddalena l'accompagnò camminandole accanto coi panieri della verdura che doveva vendere al mercato. I due vecchi avevano trovato la figliola molto malandata. Tuttavia non davano grande importanza a quella malattia. I nostri contadini sono avvezzi alle febbri che ne fanno poco caso. Essi dicono: - La febbre terzana i giovani li risana ed ai vecchi fa suonar la campana. Nanna era giovane, non c'era pericolo. - E poi la febbre se l'è pigliata in risaia, si sa cos'è - osservava Maddalena. - Povera donna! - Anche il colera si sa cos'è. Ma per lei quella considerazione era rassicurante. Nanna rimase all'ospedale circa due settimane; ed ogni giorno di visita Maddalena andò a vederla colle tasche rigonfie di tali provviste di commestibili, da dare l'indigestione ad un facchino. Ed ogni volta venne frugata alla porta, e le furono sequestrate quelle larghezze, ed entrò dalla figliuola a tasche vuote, brontolando contro i regolamenti severi dell'ospedale. Però, grazie a quei regolamenti severi, l'ammalata non commise imprudenze, e poté guarire in poco tempo. Martino andò anch'esso a veder Nanna ogni festa; sedeva accanto al letto, spesso stava zitto una mezz'ora, ed era poi tutto impacciato nel dare un bacio alla figliola malata prima d'andarsene. Quando parlava le diceva dell'argento: la mamma lo aveva comperato coi denari di lui uniti a quelli del lavoro in risaia. Erano tutti spilli faccettati, grossi come noci; e lucenti! - Hai da parere il sole. Non ti si potrà guardare E rideva, e si mostrava contento, poveretto. Ma nell'uscire dalla crociera, in mezzo a quelle due file di letti azzurri, lasciando là dietro la sua figliola, pensava che potrebbero morire le malate dei letti vicini, e che Nanna si troverebbe distesa fra due morte. E brontolava: - Maledetto argento! - avrebbe dovuto dire: - Maledette risaie! - Prendeva la causa per l'effetto; e che causa indiretta anche! Quando Nanna fu in grado di lasciar l'ospedale, la mamma andò a prenderla col prezioso involto dell'argento, bene avviluppato in una carta, e la carta in un fazzoletto. Nanna si rallegrò tutta. Svolse il piego sul letto, si vestí in fretta, e Maddalena la pettinò per la prima volta col suo bel raggio di spilloni luccicanti. - Ora sí, che sei proprio una giovane da marito - le diceva la mamma guardandola con amore. Nanna lo sentiva bene che quegli spilloni le aprivano una vita nuova e nuovi orizzonti, ed era felice come furono felici le mie belle lettrici al loro primo abito lungo. Camminando a fianco di Maddalena nelle contrade di Novara, torceva il collo ad ogni negozio per guardarsi nelle vetrine. Nel passare dinanzi al caffè Cavour, che in quell'ora mattutina era aperto, impannate e tende, si vide addirittura riflessa tutta, in un bello specchio che ornava la parete. Nanna non si limitò a guardarsi alla sfuggita come avrebbe fatto una signorina, anche nell'ebbrezza del suo primo strascico. Corse a piantarsi sull'ingresso del caffè in faccia allo specchio, e si diede a contemplarsi a tutt'occhi gridando: - Oh mamma? Guardate, mamma! E giungeva le mani, e se le stringeva fra le ginocchia nell'eccesso della meraviglia e della gioia, e rideva fino a perderne il fiato; poi tornava a contemplarsi, e tornava a ridere. Quell'aggiunta alla sua toletta, e la contentezza che le raggiava nel volto, impedirono al babbo di Nanna ed ai conoscenti di osservar troppo che era magra, palliduccia assai, e che aveva le labbra quasi bianche. Del resto aveva un tale appetito da convalescente che in una settimana riprese un po' di colore, ed apparve meno smagrita, e nessuno pensò piú alla sua malattia, ella stessa meno di tutti. Quando scontrava le compagne di lavoro, le dicevano: - Verrai in risaia alla mondatura, Nanna? - Non so; ci ho preso le febbri. - Oh, cosa importa! Ora sono passate. Si soffre soltanto la prima volta, poi ci si avvezza. Ed alla mondatura si guadagna benino. In principio pagano la giornata una lira; ma piú si va innanzi, piú il prezzo aumenta. Io l'anno scorso alla fine di giugno prendevo due lire al giorno. - E le febbri non le hai pigliate? - Sí; ma cessarono presto. Ed intanto ho guadagnate quasi quaranta lire. Sarà tanta roba di piú che porterò in dote quando andrò a marito. Dacché non si stava piú nella stalla a veglia, Gaudenzio si faceva veder di rado alla cascina dei Lavatelli. C'era andato un giorno passando, e Nanna, che era appena tornata dall'ospedale, era corsa fuori dalla cucina per farsi vedere coll'argento. - Ah! Ce l'avete, l'argento - aveva detto il carrettiere. Poi, coll'usata brutalità, aveva soggiunto facendosi scorrere una mano sul petto, e guardando il povero seno piatto di Nanna: - Ma mi pare che qui vi sia passata la pialla di San Giuseppe. Nanna s'era confusa e, voltando le spalle, era fuggita in cucina. D'allora non l'aveva piú veduto; ed aveva pensato parecchio che le mondatrici lo rivedrebbero in risaia. Egli l'aveva detto laggiù nel salutarle l'ultima domenica. - Ci rivedremo alla mondatura. Intanto s'era ai primi di giugno, e Nanna s'impazientava di quella lunga assenza. Si provò a dire ai parenti: - Vorrei andar a mondar i risi. - Lascia un po' stare per quest'anno - disse Martino. - Ti sei già pigliate le febbri. - Che male mi hanno fatto le febbri? Sono venuta piú grande, e mangio piú di prima - Sicuro! La febbre terzana, i giovani li risana - appoggiò col solito proverbio Maddalena, che desiderava di compiacere la figliuola. Del resto ella stessa, nella sua gioventú, era andata regolarmente in risaia a tutti i lavori, ci aveva buscate le febbri due volte su tre, e ci era sempre tornata. - E non ne sono morta - diceva. Infatti non era morta; ed è raro che si muoia di quelle male vite; ma si sciupa la salute e la gioventù. A trent'anni si è vecchie. Maddalena ne aveva appena trentanove e ne dimostrava sessanta. - Ma dove vuoi andare? - Tornò a dire Martino. - Ora la mondatura è cominciata. I giornalieri di Trecate sono partiti ieri l'altro. - C'è Beppe il sensale che cerca ancora delle donne per supplire quelle che si ammaleranno - rispose Nanna, che aveva il suo progetto. - Posdomani porterà via la Teresa di Galliate e la figlia del cantoniere, che erano già alla zappatura e poi all'ospedale con me. - Ebbene, fa come vuoi - sospirò Martino. - Ma guardati dalle febbri, la mondatura è un lavoro grave, sai. - Eh! Lasciate, babbo. È stato il freddo della sera che m'ha fatto male. In aprile pioveva sempre. Ma ora fa caldo anche di notte. E si diede tutta lieta a fare il conto, che le rimanevano venti giornate di lavoro prima che la mondatura fosse finita; e Beppe, il sensale, assicurava una lira e ottanta centesimi al giorno; in tutto trentasei lire da guadagnare pel suo corredo. Ed a chi lo porterebbe quel corredo? Codesto lo pensava soltanto; e pensava gli atteggiamenti spavaldi di Gaudenzio, ed i suoi trionfi. Chi sa? L'indomani Martino dovette tirar fuori il vecchio piede di calza in cui riponeva, man mano che li raggranellava, i quattrini della pigione, e cavarne quattro lire, quattro belle lire, da dare al sensale come caparra per le venti giornate di lavoro della figliola; venti centesimi ogni giornata. E per la seconda volta Nanna, pallida e magra ancora, lasciò la sua casa, ed andò nelle risaie alla guardia di Dio. Questa volta la risaia a cui la mandava il sensale era molto lontana, sul territorio di Borgo-Vercelli, a circa otto miglia da Trecate. Le donne, specialmente quelle uscite appena di convalescenza, giunsero stanche coi piedi gonfi ed indoloriti. Nanna, seduta sulla paglia che doveva servirle di letto, si teneva quei poveri piedi tra le mani ed era spaventata di vederli ridotti a quel modo. Ma le piú robuste le dicevano: - Non badarci; dormi. Domattina avranno da star tanto in bagno che si rinfrescheranno piú del bisogno - e si sdraiavano cinguettando sulla paglia del fienile, e si addormentavano ridendo. Nanna finí per addormentarsi anch'essa; ed era tanto stanca, che tirò via a dormire fino al mattino senza voltarsi. Quando la svegliarono si guardò intorno sbalordita e disse: - È sempre notte. Infatti non erano ancora le quattro; alle quattro bisogna essere sul lavoro. Cominciava appena ad albeggiare; tutta l'immensa pianura era avvolta in un vapore grigio e pesante. Nanna provò un senso di ribrezzo nell'entrare nella risaia; e quando si trovò coll'acqua fin sopra le ginocchia, ed il capo in quella nuvola bianchiccia che la velava tutta, si sentí mancare il fiato. - Oh Dio! - mormorò. - Mi pare che questa cosa bianca sia la febbre, e che mi entri pel naso, per gli orecchi, per la bocca - e rabbrividiva tutta. - Eh! Ragazza! Cosa si fa? - Le gridò l'assistente dei lavori. Nanna si curvò in fretta e si pose a mondare il riso dalle male erbe. Ma si sentiva triste ed abbandonata in quella pianura grigia; aveva voglia di piangere; e tratto tratto guardava in su, per vedere se spuntasse un occhio di sole a diradare quel vapore, che le pesava sui polmoni e sul cuore. Povera Nanna, che razza di desiderio! Quando il sole venne, un sole di giugno che bruciava come una fiamma, si sentí cuocere il cervello ed arder le carni. Il sudore le scolava giú lungo il collo, le cadeva dalla fronte in grosse goccie, che piombando nell'acqua della risaia, vi segnavano dei cerchi come fossero sassolini. E da quell'acqua stagnante, e riscaldata, esalavano miasmi puzzolenti che sconvolgevano lo stomaco. Verso le due l'ardore del sole era cosí intenso che pareva di sentirsi guizzare intorno delle lingue di fuoco, che lambissero le carni, che succhiassero il sangue. Ed a misura che il caldo aumentava, il puzzo delle acque si faceva piú insopportabile. Nanna aveva la nausea. Si rizzò cogli occhi iniettati e le vene della fronte inturgidite dal lungo star china, e disse con profondo sconforto: - Ma è una vita d'inferno! - Eh! Laggiú, Nanna! Al lavoro! - gridò l'assistente. - Via, cantiamo - disse una donna che le stava accanto, avvezza già a quelle torture. - Ti passerà piú presto il tempo, soggiunse; non ci sono piú che due ore di lavoro - ed intonò la canzone: Bersaglier di Garibaldi Colla piuma sul cappel, Ad una ad una, da vicino, da lontano, di qua, di là, le mondatrici si unirono a quella voce e formarono un coro. Nanna pure cantò la prima strofa. Ma aveva troppa nausea; non poté continuare, e quelle note lente, cadenzate gemebonde, la fecero piangere. Alle quattro, quando uscí dall'acqua dopo tante ore di quella fatica, non poteva reggere al riflesso abbagliante del grande piano bianco dardeggiato dal sole. Al lungo guardare nell'acqua, lucente come uno specchio, gli occhi erano spossati e non resistevano piú alla luce; dovunque li volgesse vedeva una palla azzurra fluttuarle dinanzi. - Oh Signor Iddio! - pensava; - come potrò resistere? - Ma poi osservava le sue compagne, che, sebbene riscaldate, grondanti sudore, s'avviavano allegramente al riposo come dopo un lavoro ordinario, e si rassicurava un poco, e diceva: - Se si sono avvezzate loro, mi avvezzerò anch'io. Intanto udiva i discorsi di due grosse fanciulle che camminavano innanzi un passo da lei: - Quante ne hai prese tu? - Cinque. - Hai guadagnato una lira. È il prezzo di una mezza giornata di lavoro; e senza fatica. Senza fatica! Questa parola suonò come una melodia all'orecchio della povera Nanna, in quello stato di prostrazione e di scoraggiamento. Ella stette a sentire. - Una lira? - disse la fanciulla. - Tu le metti venti centesimi ciascuna? - Ma sí. È il prezzo che ne prendo io. - E dove? Io non ho mai avuto piú di tre soldi. - Chi sa a chi le hai vendute. Se domenica vieni a Novara con me, ti faccio avere venti centesimi ciascuna. Vedrai. Nanna, curiosa di conoscere quel segreto che faceva guadagnare denaro senza tanti stenti, domandò: - Eh! Ragazze! Cos'è che ci avete da vendere a Novara? - Le sanguisughe - rispose una delle due vicine fermandosi per aspettarla. - Tu non ne hai prese? - domandò l'altra compagna a Nanna. - Io no. Mi venivano intorno alle gambe; ma sono riescita a scacciarle. - Brava! Dai i calci alla fortuna. Noi siamo ben contente che si attacchino. Cosí le pigliamo; altrimenti sfuggono, e l'assistente non ci lascia sprecare il tempo ad inseguirle. - Ma vedete un po' quanto sangue vi fanno perdere! - osservò Nanna accennando le gambe brune delle fanciulle che grondavano sangue da parecchie ferite. - Che! È il sangue cattivo che se ne va, disse una alzando le spalle. Risparmia una malattia. - Ci si mette sopra un ragnatelo - aggiunse l'altra, - e ristagna subito. In quella giungevano sull'aja. La mondatrice corse in un angolo accanto al fienile, raccolse alcuni ragnateli polverosi, e se li pose sulle ferite, che infatti cessarono di sanguinare. - È vero - pensò Nanna. - Si lascia che le sanguisughe si attacchino soltanto all'ultimo momento prima di smettere il lavoro, cosí non s'ha tempo a perder molto sangue. E poi cos'é un bicchiere di sangue in confronto di una giornata come questa? E si diede a calcolare che, se per quindici giorni di seguito avesse prese soltanto tre sanguisughe ogni giorno, avrebbe guadagnato nove lire; il prezzo di cinque giornate di quel lavoro d'inferno, ed avrebbe potuto lasciare la risaia cinque giorni prima, senza perderci di borsa. E si coricò un po' confortata da quella speranza e, fin dal domani, cominciò ad abbandonare le sue povere gambe, che non avevano sangue di troppo, tutt'altro, ai morsi arrabbiati di quelle bestiole da farmacia. Appena si sentiva addentata, portava la mano alla ferita, ed afferrata la sanguisuga, non piú libera di sfuggirle, la metteva in una boccetta, che teneva nascosta nella rimboccatura dell'abito. Quel giorno ebbe la fortuna di pigliarne cinque, e s'affrettò a cercare i ragnateli per tappare le cinque morsicature. Era contenta, ma si sentiva indebolita, ed aspettava con impazienza la sua scodella di riso e fagioli. Sgraziatamente il sensale che aveva preso l'appalto dei lavori, forniva egli stesso anche il vitto; era una speculazione, e sapeva trarne profitto. Il proprietario pagava due lire al giorno cinquanta mondatrici per trenta giornate; e quaranta centesimi al giorno, pel vitto di ciascuna. Il sensale imprenditore aveva accordato soltanto quaranta mondatrici, alle quali, a forza d'angherie, riesciva a far fare il lavoro di cinquanta, le pagava soltanto una lira e ottanta centesimi al giorno, e quanto al vitto dava loro del riso cotto fino a sfasciarsi, misto a fagioli duri, senz'altro condimento che un po' di sale, ed un pezzo di lardo rancido. Dopo una giornata di quel lavoro da galeotto, quel cibo di cui i galeotti non hanno idea. Nanna non poté ingoiare la minestra. Mangiò un pezzo di pane col formaggio che s'era portato, e si coricò sulla paglia del fienile, dove ben presto la raggiunsero tutte le mondatrici. Non c'era tempra robusta che reggesse a quella vita. Tutte si facevano di giorno in giorno piú macilente. A vederle tra le nebbie del mattino, avviarsi al lavoro a due, a tre, sfiaccolate, pallide, cogli occhi infossati, le braccia penzoloni, il passo lento, sembravano una processione di fantasmi. E tuttavia, dopo una settimana di lavoro, la domenica si alzarono ancora di buon mattino per andare fino a Novara alla messa, ed a vendere le sanguisughe. Nanna avrebbe amato assai di rimanere dell'altro distesa sulla paglia in quell'inerzia refrigerante. Ma il negozio delle sanguisughe le premeva; ed andava esaurita la sua piccola provvista di companatico. La mamma non le aveva mandato altro; forse non aveva trovato un'occasione. Doveva dunque comperarsi qualche cosa, dacché della minestra che le davano, ben poco poteva mandarne giú. Si rizzò di mala voglia; stirò le membra ingranchite; si mise il vestito della festa che aveva portato in viaggio, prese i zoccoletti in mano, e via colle altre. Entrarono in Novara cantando. I bei damerini nervosi, che si sarebbero eccitati, Dio sa quanto, al vedere il piedino d'una signora sporgere di sotto la gonna, che avrebbero rasentato il manicomio se per caso la loro donna avesse lasciato scorgere la caviglia nello scendere di carrozza, uscirono all'ingresso dei caffè dicendo: - Sono le mondatrici. - E guardarono con indifferenza tutte quelle gambette, nude fino al ginocchio, color di mogano, squamose e dure come di legno. Avevano diciott'anni, povere bimbe! E le loro nudità avariate non ispiravono piú peccati di desiderio. Nanna al ritorno era sfinita; il suo sconforto aumentava ogni giorno. Alla zappatura c'era stato il fratello che le aveva continuato un pochino delle cure a cui s'era avvezza co' suoi. Ma ora si sentiva sola affatto. Nessuno le diceva: - Sei stanca; va a coricarti. Sei indebolita; mangia. Nulla; doveva pensarci da sé, e se ne trovava male. - Mi sembra di esser la figlia di nessuno, - diceva. - Se la mamma mi avesse mandato Gaudenzio, almeno... Almeno! era il piú che potesse desiderare. E quella volta il suo desiderio fu esaudito. Le fanciulle che camminavano innanzi, appena si furono affacciate all'aja tornarono indietro correndo, e tutte sorridenti sussurrarono: - Nanna: il carro! - Dove? - domandò Nanna che non ebbe bisogno d'altre spiegazioni per capire di qual carro dicessero. - Là sull'aja... - risposero le altre. Ella corse innanzi a guardare tutta rossa di gioia. Poi tornò e sussurrò alla sua volta: - Il cavallo è staccato; Gaudenzio dev'essere in cucina. - E le parve di respirar meglio. Ma non osava entrare in casa, né chiamare. Era impaziente di annunciare il suo ritorno, e non sapeva come fare. Disse: - Cantiamo per farci sentire. E si raccolsero in un gruppo fuori dall'aja dietro il cancello, e guardandosi e sorridendo l'una all'altra come se si narrassero una novità, si posero a cantare a squarciagola: Ieri sera andando a spasso... Dighel no. Tutti gli uomini della fattoria uscirono dalla stalla, dal fienile, dal porcile, dalla cucina, in calzoni da festa e camicia di bucato. Gaudenzio era con loro. Egli si fece innanzi dondolandosi, col cappello sull'orecchio ridendo e cantando: Ho incontrato una signora, Dighel no. E tutti gli altri dietro: La mi ha ditto d'andar dessora, Andar dessora a far l'amor, Dighel no. Sgraziatamente la massima parte delle nostre canzoni popolari, non è piú corretta, né piú castigata di cosí. E gli uomini accerchiarono le donne, e tutti insieme continuarono la canzone ridendo ed ammiccando degli occhi, e terminarono con grandi risate, come dopo un divertimento tutto nuovo ed originale. Poi Gaudenzio andò a piantarsi davanti a Nanna colle mani sui fianchi, e dimenando il capo tornò a canticchiare con aria furba: - Ieri sera andando a spasso. Dighel no. - Avete visto i miei di casa? - domandò Nanna. - Li ho visti ieri. La vostra mamma mi ha dato della roba per voi, e vuol sapere se state di buona voglia. - Eh, non troppo - disse Nanna. - Lo sapevo bene io; voi non siete una donna da lavoro - osservò Gaudenzio. Nanna si sentí mortificata, e rispose: - Oh perché? Faccio anch'io quello che fanno le altre. Ma quando servirono la minestra, e Gaudenzio le portò il pane fresco, ed un bel pezzo di frittata di fagioli che le mandava Maddalena, era cosí crucciata, che non ebbe voglia di nulla. Vedeva le altre mangiare e ridere, ed avrebbe voluto far come loro, per mostrare che al lavoro ci resisteva anche lei; ma proprio non poteva. Aveva tanto faticato tutta la settimana, ed aveva mangiato cosí poco e male, che si sentiva come un sacco vuoto. Se ne andò tutta sola sul fienile, si stese sulla paglia, e si mise a piangere, a piangere, finché s'addormentò. Fu un sonno affannoso, tribolato da sogni. Le pareva d'essere una delle montanare di Boca o Maggiora di cui aveva udito tante volte vantare la robustezza meravigliosa, i bei colori, l'umore sereno, la laboriosità assidua, ed i ricciolini castani intorno alla fronte. E nel sogno scendeva dalla montagna per una stradicciuola ripida, portando sul dorso una grande gerla colma di sassi, e conduceva l'asino carico col mezzo di una corda, che s'era legata al braccio; ed intanto per tener conto del tempo, faceva calze camminando. Gaudenzio aveva tante volte descritta quella triplice fatica delle montanare, che Nanna l'aveva sempre in mente. Ma le pareva che l'asino si facesse tirare, e desse strappi alla corda, per modo che le sfuggivano dal ferro le maglie della calza. E mentre era intenta a riprenderle stando china, troppo china sul lavoro, tutta la ghiaia della gerla le si rovesciava dinanzi passandole sopra il capo, e l'asino impaurito si dava a fuggire trascinandola dietro pel braccio, e la traeva via via traverso campi e prati, ed in quella corsa tormentosa udiva da lontano la voce schernitrice di Gaudenzio gridarle: - Lo sapevo bene, io. Voi non siete una donna da lavoro. - E rideva tanto forte che Nanna si svegliò. Suonavano infatti alte risate giú nell'aja: ma Gaudenzio, per quella volta tanto, era innocente dello scherno di cui l'accusava il sogno. Era tardi nel pomeriggio, e si ballava coll'organo. Nanna sorrise all'idea di danzare con Gaudenzio, e s'alzò per discendere. Ma aveva le vertigini; le pareva che il capo le pesasse piú del solito, e tutto le si movesse d'intorno. Dovette attaccarsi alla sbarra della scala nello scendere, per non andar a rotoli. Nemmeno quando aveva avuto la febbre si era mai sentita cosí male. Le fischiavano gli orecchi, e le doleva tutto il capo pulseggiando di dentro, come se le picchiassero un martellino sopra il cervello indolorito. Era uno spasimo acuto e profondo che le rispondeva negli occhi, e le impediva di alzar le palpebre. Scoraggiata di sentirsi a quel modo, andò ad accoccolarsi in un angolo del cortile, e stette a guardare traverso le ciglia socchiuse. Finita quella polka, Gaudenzio la vide; si accostò col suo cappello sull'orecchio e, porgendole il gomito, le accennò del capo e disse: - Andiamo, su! Altro che su. Avrebbe voluto volare, povera Nanna. Puntò le mani sulle ginocchia e fece per alzarsi. Ma pareva che fosse tutta di piombo. Le sue membra pesavano tanto, che non ebbe la forza di moverle. - Non posso - disse con un sospiro che pareva un gemito. - Ho tanto male! - Ah, povero me! Che donna! avete sempre male voi - rispose il carrettiere, cui la salute prosperosa ed una buona dose d'egoismo non avevano mai permesso di comprendere una sofferenza. E girando sui tacchi, si diresse all'estremità opposta dell'aja per pigliare un'altra ballerina. Nanna si sentí avvilita. Egli la disprezzava, ed apprezzerebbe piú di lei la prima venuta, che potesse girare due minuti in tempo di valzer; il suo amor proprio, l'amore, la paura, la gelosia, le diedero una forza insperata. Si rizzò d'un balzo, Prese gli zoccoli in mano, ed in due salti ebbe raggiunto Gaudenzio a metà dell'aja. - Eh! Gaudenzio - gli gridò ridendo ed arrotondando il braccio cogli zoccoletti in mano, mentre dimenava i fianchi in misura come muto invito alla danza. - Ma se avete male! - disse il carrettiere. - Che! L'ho detto per celia. Sto benone. Non sono una damina io, da ammalarmi per un po' di fatica! - La cera ce l'avete brutta però - osservò quell'inurbano galante guardandola in viso. E con questo complimento, le afferrò la destra, le cinse la vita col braccio, le piantò la mano poderosa nella schiena, e cominciò a danzare nel modo sconcio dei contadini, colla persona stretta a quella di lei, incrociando le gambe, sfiorandole il viso col viso, contorcendole il dorso, come se volesse slogarle le giunture. E Nanna gli posava languidamente sulla spalla la mano sinistra, cogli zoccoletti pendenti come una pezzuola profumata, e sentiva nel cuore il contraccolpo di quelle strette, di quegli sfioramenti, di quel fiato ansimante e caldo che le soffiava nel collo. Ma intanto il martello le picchiava forte forte nella testa, e quando alle ultime battute della musica Gaudenzio le fece fare un turbinio di giri a rovescio, si sentí mulinare dentro il cervello come un arcolaio, non vide piú nulla, le parve di star sospesa in diagonale tra cielo e terra, e disse aggrappandosi al ballerino: - Tenetemi che vado giú - e credendo di cadere insieme a lui, si coperse gli occhi colla mano. Quello smarrimento durò appena pochi secondi. Era un capogiro. Gaudenzio la resse e, riaprendo gli occhi poco dopo, ella si trovò ancora appoggiata alla spalla di lui in mezzo all'aja. Se ne staccò senza guardarlo, senza parlare, ed andò a sedere sulla trave. E là il suo male crebbe ancora ed ancora. Il cervello continuava a turbinare di dentro; pareva che durante il ballo avesse preso lo slancio come una trottola, e poi seguitasse a girare. Nanna non ne poteva piú. Quasi involontariamente si chinò sulla panca, si pose un braccio sotto il capo, e rimase adagiata cosí, gemendo sommesso. Piú tardi Gaudenzio le si accostò, e le disse un po' sbigottito: - Ebbene Nanna? Cosa c'è? Ella era sfinita. Non poteva parlare perché si sentiva il pianto alla gola. Gli rispose con un gemito. - State tanto male? - rispose il carrettiere. - Credo d'aver la febbre, ma non dite nulla ai miei. - O, per me, ora non vado a casa. Ho un carico di legna da vendere; non so quando vedrò Maddalena. - Meglio cosí - disse Nanna. - Meglio cosí. Ma intanto piangeva, ed era profondamente sconfortata dal sentirsi cosí abbandonata dai suoi. Le donne guardarono lei, poi si guardarono tra loro con aria misteriosa crollando il capo. Poi una s'accostò alla piú anziana, che stava osservando Nanna, coll'aria di chi ne sa piú degli altri, e le sussurrò: - È la cefalite, vero? La donna chinò il capo due o tre volte stringendo le labbra ed allargando gli occhi, poi disse: - Sicuro; è proprio la cefalite, e buona, se l'è presa. - E cosí? - tornò a domandarle la compagna a mezza voce come avrebbe consultato un medico. - Ma! Ci sarebbe la gallina nera. - E parlarono piano, si concertarono tra loro, poi la medichessa si accostò a Nanna e le disse: - Nanna, hai la febbre alla testa, e potrebbe diventare una cosa seria. Bisogna aver pazienza; se vuoi guarire devi fare la spesa d'una gallina nera. La massaia ne ha parecchie. Nanna mise un lungo sospiro. Pensava: "Ecco, ci si rimette la salute per guadagnare pochi quattrini, poi ci si rimettono i quattrini per riguadagnar la salute". Ma non disse nulla. Cavò fuori la pezzuola, e ne presentò alla medichessa l'angolo in cui aveva fatto un nodo. La donna era avvezza a quella maniera di borsellino. Sciolse il nodo, ne trasse il denaro delle sanguisughe che Nanna ci aveva risposto, e s'avviò al pollaio, dicendo alle altre mondatrici: - Toglietele gli spilloni, e spettinatela. Poco dopo la medichessa e la compagna che l'aveva seguita tornarono tenendo ciascuna per un'ala ed una gamba la povera vittima che chiocciava paurosamente. Nanna aveva già deposto l'argento, ed aveva i capelli raccolti sulla nuca. - Sta pronta, rizzati - disse la medichessa impugnando arditamente un gran coltello da cucina. S'udí un gracidare alto e disperato, e tosto la povera bestia, squartata dal collo in giú, fu applicata al capo indolorito di Nanna, che si sentí scorrere sul volto, sul collo, sugli abiti, una pioggia calda di sangue, d'umori, di liquidi viscerali d'ogni tinta ed odore, mentre il collo della bestia palpitante ancora, le si agitava dinanzi agli occhi inondati, nello spasimo dell'angoscia. Poi le donne accompagnarono la malata reggendola su per la scala, e la fecero coricare sulla paglia con quella cuffia straordinaria. Durante la notte Nanna ebbe una febbre violenta; la prese il delirio. Aveva il volto infiammato, gli occhi iniettati di sangue, e parlava concitato, e gestiva convulsamente. Ed appena fu giorno bisognò porla sul carro della fattoria e condurla all'ospedale di Novara, mentre Gaudenzio scriveva una lettera per avvertire i parenti. Quando Maddalena giunse all'ospedale, si spaventò di non trovare la figliola nella crociera comune. - Ha il tifo - le disse la monaca - il medico l'ha fatta trasportare nel compartimento delle malattie contagiose. Né quella settimana, né l'altra, né la terza, Nanna riconobbe la madre. Dopo quattro settimane soltanto cominciò a ricuperare i sensi ed a migliorare. Ma al suo arrivo all'ospedale aveva il capo in uno stato spaventevole. A stento ed a forza di spasimi s'era potuto toglierle il cadavere putrefatto della gallina nera. Ma il sangue e gli umori s'erano appiccicati ai capelli, ed avevano formato una crosta; quando le infermiere avevano tentato di staccarla, l'ammalata aveva messo tali grida, che s'era dovuto smettere. Poi le si era applicato il ghiaccio continuamente durante la malattia; e l'umidità, e l'ardore febbrile del capo, favorirono la putrefazione di quelle sostanze organiche di cui i capelli erano impregnati. Ed appena lo stato della malata permise di liberarla da quella calotta fetida e dolorosa, la capigliatura si staccò con essa; si sviluppò una malattia al cuoio capillare ed il povero capo denudato rimase coperto da pustole purulenti. Fu una malattia lunga lunga ed una cura dolorosa. E dopo dei mesi, quando tutto fu finito, la bella testa bionda di Nanna era spelata e lucida come un ginocchio. Questa volta il suo ritorno dall'ospedale fu triste assai. Nulla rallegrava la sua convalescenza ritardata. Non si ammirava nelle vetrine dei negozi, vi si guardava sospirando, colla pezzuola ravvolta intorno al capo, e rimpiangeva la sua bellezza perduta. A casa l'aspettavano altre miserie, altri guai. Il sensale che l'aveva accordata per la mondatura, era fuggito colle caparre, ed i denari delle giornate, lasciando i poveri giornalieri senza compenso, dopo tante fatiche. La perdita di un po' di denaro su cui s'era fatto conto, due braccia di meno al lavoro per sei mesi, un'ammalata da visitare, ed a cui provvedere qualche piccola delicatura da bere o qualche arancio, ed un cruccio amaro nel cuore, pesano gravi sopra una povera famiglia. Il San Martino era passato da qualche tempo; il proprietario faceva frequenti visite alla cascina, ed i quattrini della pigione non c'erano. Una sera Maddalena disse al marito: - Oggi, mentre eri al torchio a premere quella poca vinaccia, è venuto ancora il segretario del padrone. - Vuole il denaro eh? - sospirò Martino. - Vuole il denaro. Dice che aspetterà fino a domenica e poi farà i suoi passi. - Ma! - tornò a sospirare il pover'uomo. - Poi guardò Nanna a lungo con un senso di pietà, e finí col dire: - Una risorsa ci sarebbe per uscire da questo ginepraio. - Una risorsa? - domandò Maddalena. - Ma sí, - ripigliò Martino. - C'è là tutta quella piuma... cosa vuoi che ne facciamo ora? - ed accennò col capo la ragazza. Nanna si sentí una stretta al cuore. La sua piuma, il ricco prodotto delle sue oche, il suo letto nuziale, non si sapeva piú che farne. Ella aveva sperato fin allora che i capelli tornerebbero. Quella parola del babbo le parve crudele; e con tutta l'acrimonia del suo cuore esacerbato pensò: - Ecco, desidera ch'io rimanga un mostro, che non mi mariti piú, per vendere la piuma - . E le parve che quel poveruomo le facesse un torto. Maddalena aveva guardato anch'essa la figliuola, magra, angolosa, colla pezzuola intorno al capo, ed aveva fatto greppo pensando alla bella fanciulla dell'anno innanzi, ed ai bei capelli biondi in cui aveva puntati per la prima volta gli spilloni d'argento. E commentando forte il suo pensiero esclamò: - Ma! Chi l'avrebbe detto! - Anche lei trova che sono rovinata per sempre - pensò Nanna ed anche la mamma le parve crudele. E nascondendosi il volto fra le mani scoppiò in un pianto iroso e convulso; strappava la pezzuola coi denti, e picchiava i piedi a terra, e diceva dentro di sé: - Vedono il male e non fanno nulla per trovare un rimedio; non mi vogliono bene. I vecchi dissero: - Bisogna lasciarla sfogare - e non parlarono piú della piuma. Ma l'indomani Maddalena ne portò un campione sul mercato, e la domenica Martino andò a Novara a pagar la pigione coi denari del letto nuziale di Nanna. - Anche questa è fatta - disse alla moglie rientrando in casa. - Quando ci penso, mi rincresce di quella ragazza che piange, e di quella bella piuma. Ma tanto, sarebbe rimasta là per le tignole. Nanna, al modo che è ridotta, non si mariterà piú. - Pazienza! - disse Maddalena. - Quel che Dio vuole non è mai troppo! - . Ho già osservato piú sopra che Nanna, a forza di vedersi considerata come la cura principale del suoi parenti, era giunta a credere d'essere un piccolo personaggio importante. Secondo il suo modo di sentire, tutta la famiglia avrebbe dovuto mettersi alla caccia d'un mezzo per riparare alla disgrazia toccata a lei; consultare medici e comperare medicine che le restituissero la bellezza perduta. E, nel caso che questo miracolo non fosse riescito, il meno che avrebbero potuto fare babbo, mamma, fratello, parenti ed amici, sarebbe stato di passare il resto dei loro giorni in querimonie su quell'unico argomento: - Questa povera Nanna, che non ha piú capelli! - E dire che ne aveva tanti! - E cosí belli! - E chissà se potrà ancora trovar marito? Lo potrà? Non lo potrà? - E sempre: "Povera Nanna!" ripetuto su tutti i toni e semitoni della meraviglia, del cruccio, della pietà. È un fatto che, in una famiglia signorile, quello sfregio toccato ad una fanciulla avrebbe preso un posto immenso nelle preoccupazioni dei parenti. Si sarebbe speso un anno a sperimentare tutti i cosmetici delle quarte pagine dei giornali, ed un altro anno a perfezionare i trovati dell'arte del parrucchiere. E la signorina sarebbe stata tutto quel tempo nascosta, ed al ricomparire in pubblico, il suo parrucchino avrebbe costituito un segreto gelosissimo di famiglia pel quale babbo e mamma avrebbero giurato il falso, ed i fratelli si sarebbero battuti in duello. E tutto codesto per accalappiare uno sposo, a cui la mamma la vigilia delle nozze avrebbe svelato il gran segreto, salvo a vedere lo sposo fuggire a gambe levate, e la ragazza cadere in convulsioni. Ma quella poveraglia che s'alzava all'alba tutti i disgraziati giorni che Dio manda sulla terra, e lavorava fin al tramonto per risolvere il miserabile problema del pane quotidiano, aveva ben altro a fare, che almanaccare sulle treccie e la calvizie di Nanna. - Quel che Dio vuole non è mai troppo - aveva detto Maddalena; ed era la quintessenza della rassegnazione cristiana; perché vedeva bene, povera mamma, che in quel che Dio voleva era compreso per lei la fine d'ogni orgoglio e d'ogni gioia materna, e per la figliola il celibato perpetuo ed una vita d'umiliazioni. E gliene incresceva, poveretta, tanto e quanto ad una signora; ma cosa farci? Per cercare i rimedi non aveva quattrini; e per piagnucolare non aveva tempo. Era donna positiva e disse: - Ogni volta che si parla della sua disgrazia quella figliola si cruccia senza che si ripari a nulla. È meglio non parlarne piú, finirà per avvezzarcisi. Martino trovò, come sempre, che la sua donna aveva ragione; e non si parlò piú della malattia di Nanna e delle sue conseguenze come se quella catastrofe non fosse mai avvenuta. E Nanna s'indignò di quel silenzio, lo interpretò a rovescio, e pensò: - Ecco come mi amano! Non si danno il menomo fastidio delle mie pene. Non ci pensano punto. Per loro ch'io mi mariti o no, cosa importa? Eppure non ho fatto nulla di male per essere trattata a questo modo. Non c'è giustizia. E pensando cosí rimaneva sempre imbronciata; e rispondeva a tutti con mal garbo, e pigliava tutto in mala parte. - Nanna, non istar ferma al sole, - le disse una volta Martino. - Potresti pigliarti un malanno. - Che volete che mi pigli? Di capelli da perdere non ne ho piú - rispose la fanciulla con amarezza. Il pover'uomo guardò la moglie sospirando e mormorò: - Non si sa come pigliarla. - È meglio non dirle nulla - consigliò Maddalena che nella sua tenerezza mirava sempre a non irritare la figlia. Ed evitarono di farle altre osservazioni, e non osarono piú raccomandarle d'aver cura della sua persona; ed allora Nanna pensò: - Ecco; perché sono brutta non si danno piú pensiero di me. Quand'ero bella, Nanna di qua, Nanna di là; Nanna non andar fuori colle oche; Nanna metti l'argento; e non ti affaticar troppo; e non ti ammalare. Ora che sono brutta non mi badano. Posso andar dove voglio. I giudizi sono come i bottoni; se il primo non s'imbrocca si va sghimbescio fino all'ultimo. Nanna finí per vedere in ogni parola una canzonatura, un rimprovero, una malignità; in ogni silenzio un segno di noncuranza o di sprezzo. Si raccolse in sé stessa; ruminò quella provvista di fiele che andava ogni giorno accumulandosi in cuore, si credette maltrattata, si addolorò, si compianse: non trovando mai chi la contraddicesse nelle sue lunghe recriminazioni fra sé e sé, s'andò sempre piú eccitando, finché quello stato d'irritazione divenne il suo stato abituale. Tutti quelli che non soffrivano le sembravano colpevoli di non pigliarsi loro la sua disgrazia. Tutti i dispiaceri degli altri le parevano un atto di giustizia inventato apposta dalla Provvidenza per dare a lei una soddisfazione personale. Aveva imparato una perfida canzone che era di moda quell'anno, e se vedeva qualcuno indispettito, non mancava di cantare con quanta malignità aveva in cuore: Se ti te cicchet E mi me la godo, Che gioia che provo A vederti ciccar. Tutto novembre Nanna passò le lunghe serate a filare sola in cucina al freddo, per non farsi vedere nella stalla. Ma col dicembre cominciò a nevicare, e venne un gelo terribile, e le sere erano tanto lunghe, che a Maddalena non resse piú il cuore di lasciar la figliola ad intirizzirsi a quel modo. - È meglio che tu venga nella stalla - le disse - cosa vuoi fare? Una volta o l'altra bisognerà pure che ti faccia vedere. E a dir vero Nanna non spingeva la suscettività fin a non volersi mostrare. A messa ci andava; ed anche nei campi la potevano veder tutti. Ma nella stalla c'era il caso che capitasse Gaudenzio, e l'idea di comparire cosí maltrattata davanti a lui, non la sapeva proprio mandar giú. - A voi cosa importa ch'io vada nella stalla? - rispose. - Preferisco star qui. - Ma qui si gela - disse Maddalena, - e noi non siamo in caso di accendere il fuoco. - Ed ho forse domandato d'accendere il fuoco io? - ribatté Nanna con mala grazia. - No, ma perché vuoi intirizzirti qui sola, mentre là si sta in compagnia ed al caldo? E vedendo che l'altra teneva il broncio e non si moveva, la povera donna, nell'interesse della figliuola, cercò altri argomenti per indurla a seguirla, senza badare se quegli argomenti non erano tali da irritare maggiormente quel cuore esacerbato. - Qui ti si irrigidiscono le dita, non puoi filare: e poi ci vuole una lucerna tutta sera per te. Nanna saltò in piedi come una molla che scatta; buttò indietro la sedia con dispetto, ed avviandosi all'uscio gridò: - Via non abbiate paura che il vostro lino ve lo filerò, e del vostro olio non ne brucerò piú. E se mi burleranno nella stalla, non importa, non avrete speso nulla per mantenermi il lume. La massaia alzò gli occhi sospirando, e la seguí nella stalla senza rispondere. Ma la sera in camera narrò quella scena al marito e disse: - Le disgrazie o che fanno santi, o che rendono cattivi. - Nanna non l'hanno fatta santa - disse Martino il cui animo giusto era offeso da quell'ingiustizia della figliola verso la sua donna. Del resto i timori della fanciulla erano esagerati. Quella stalla dove si radunavano parecchie coppie di gente matura, ed una fanciulla brutta, non aveva attrattive per Gaudenzio, che quell'anno ci andò appena una volta. Ma in quella sola volta Nanna trovò tanta amarezza, da avvelenare tutte le centoventi sere dei quattro mesi d'inverno. Egli le disse coll'usata brutalità: - Oh! Nanna! E l'argento? Nanna alzò le spalle e tirò via a filare. - Se lo vorrete mettere per andare a marito - riprese Gaudenzio - bisognerà piantarvelo nella testa come i fusi della beata Panacea. Oh Dio! Era come se quei fusi glieli avesse piantati nel cuore. Pensò le sue compagne giovani e felici, che andavano in giro col raggio d'argento sul capo, e ridevano coi giovinotti, e provò per loro un senso di rancore, come per altrettante nemiche personali. D'allora il suo carattere s'inasprí sempre maggiormente. Parlava pochissimo, e le sue parole avevano spesso un fondo di malumore o d'acrimonia; se non altro, era aspro il piglio con cui le diceva. Evitava di trovarsi in compagnia; lavorava in silenzio e senza passione; però lavorava sempre. Questo era nella sua natura Non andò piú alla mondatura dei risi, perché quel lavoro nell'acqua le era stato troppo fatale, ed era superiore alle sue forze. Ma fin dall'anno seguente andò alla mietitura e, con la trista esperienza acquistata, seppe regolarsi in modo da mantenersi relativamente sana. Del resto il ballo e le veglie sull'aia non la interessavano piú. Dopo il lavoro mangiava, e poi si ritirava a riposarsi nel fienile prima che l'umidità della sera impregnasse l'aria de' suoi umori malsani. Cosí passarono sette anni. I capelli di Nanna non ricrebbero mai. Il medico l'aveva detto e pur troppo era stato buon profeta. Di sposi non se ne presentarono punto. Anche questo Martino l'aveva detto; e purtroppo egli pure era stato buon profeta. E tutta l'antica bellezza di Nanna era svanita col raggio di bontà disappensata che l'aveva animata nella sua prima gioventú. Qualche volta, ne' suoi lunghi silenzi, quando tornava colla mente al passato, e ricordava quel suo unico amore, appena abbozzato, e non rivelato mai, e le oasi di felicità che le aveva fatto brillare al pensiero, il suo sguardo ridiveniva appassionato, ed il suo sorriso ridiveniva dolce come una volta. Poi pensava che tutte quelle gioie erano svanite per sempre; che ormai la sua vita era tracciata, che tutti i giorni sarebbero uguali per lei; che non avrebbe amori, che non avrebbe sponsali, né una casa sua, né figlioli suoi. Ed un profondo dolore le stingeva il cuore mentre fissava quell'avvenire desolato, ed anche allora l'afflizione le irradiava il volto della sua mesta bellezza. Ma ad un tratto vedeva passare una frotta di fanciulle che si voltavano per lanciar motti sguaiati ai giovinotti che le seguivano; o qualcuno veniva a dirle: - Sai che s 'è fatta sposa la Peppinetta che curava le tue oche sett'anni fa? - oppure: - La figlia del cantoniere che ha sposato Antonio il tessitore ha avuto un bimbo. Allora l'invidia le rimordeva il cuore. Confrontava quelle esistenze tanto normali colla sua, quelle dolcezze colle sue privazioni, e diceva: - Perché? - Ed avrebbe dato dei pugni contro il cielo. Ed odiava tutti i felici per quella parte di bene che le pareva rapito a lei. Cosí Nanna s'era allontanata tutte le simpatie; i parenti stessi, dacché non potevano più ammirarla né per la bellezza né per la bontà, ed erano ridotti a perdonarle sempre dei torti, l'amavano soltanto per istinto e per abitudine. Sui ventiquattro anni s'era fatta robusta, aveva ingrassato parecchio ed il suo volto aveva ripreso alquanto della freschezza giovanile. A forza di portare la pezzuola sul capo, aveva imparato a metterla con una certa civetteria che riesciva a nascondere la miseria del suo cranio spelato, senza sfigurarla. Quell'anno in primavera alla zappatura, poi alla seminagione del riso s'era accorta di non essere più repulsiva per nessuno. Che! C'era stato persino un giovane, un po' maturo a dir vero, sulla trentina, che non l'aveva guardata di mal occhio. Le cose non erano andate punto innanzi. Lavoravano insieme a seminare; egli le aveva detto: - Ci vorreste vedere un altro al mio posto, nevvero giovinotta? - O per me, voi o un altro fa lo stesso - aveva risposto Nanna. - Bugie! le fanciulle hanno sempre uno che vorrebbero vicino. - Ebbene io non sono una fanciulla come le altre perché non ce l'ho. - Non ci avete l'innamorato? - Ma che! Non la vedete la mia testa? - aveva ribattuto Nanna con piglio irritato, quasi quasi a rimproverargli d'averla obbligata a dir tanto. Il giovane però, non aveva capito che sotto la pezzuola quella testa era tanto sciupata. Aveva veduto soltanto che era liscia, ed aveva risposto: - To! È vero! Non avete ancora l'argento. Ma però non siete piú ragazza; i vostri anni ce li avete anche voi. - Ho quelli che ho - aveva detto Nanna alzando le spalle, e continuando a lavorare. Ma il discorso non era rimasto lí. Piú tardi il giornaliero aveva ripreso: - Date retta, giovanotta... Come vi chiamate? - Nanna. - Date retta, Nanna. Non ho detto per offendervi, che i vostri anni ce li avete. Lo vedo bene che non siete vecchia. Quanto potete avere, via! Ventotto anni? - Síí! Trenta! Ne ho ventiquattro. - Ebbene, ventiquattro, ventotto... fa lo stesso. Ma siete sempre un fiore d'una ragazza. Ce ne sono a dozzine, che a ventotto anni non hanno ancora marito, e lo trovano dopo. Lo troverete anche voi. - Io non lo cerco. - Non occorre cercarlo; verrà da sé. - Sí! Aspetta che venga! - aveva detto Nanna ponendosi il pollice sul naso ed agitando le dita. In quel discorso rozzamente civettuolo, ella s'animava come non s'era animata da un pezzo. - Volete che scommettiamo che prima dei raccolti verrà? - Scommettiamo pure; e che cosa? - Gli sponsali; vi torna? - Sí. E si starà a vedere. - Ma dovete dirmi dove state di casa, se ho da venire a domandarvi chi ha vinto la scommessa. E Nanna aveva indicata la cascina, e la strada per giungervi, ed aveva capito che lo sposo scommesso doveva esser lui. Era ancora un bell'uomo abbastanza; e poi ella non aveva piú il diritto di fare la schizzinosa. Le bastava di potersi maritare anche lei come le altre. Senza dubbio avrebbe preferito Gaudenzio che aveva soltanto tre anni piú di lei;... e poi era Gaudenzio! Ma quello là non era piú un partito per lei a quell'ora. Fu una reazione salutare. Nanna tornò dalle risaie piú trattabile, meno irritata. Qualche volta fu vista ancora di buon umore, sorridente. Si era persuasa che il suo avvenire non era ancora senza speranza, che poteva ancora essere amata. Ristudiò le pieghe ed il nodo della sua pezzuola; si guardò intorno all'uscir dalla chiesa, si associò un pochino di piú colle altre fanciulle. I suoi vecchi erano contenti di quel cambiamento, e dicevano: - C'è voluto un po' di fatica, ma s'è rassegnata. E Nanna invece era piú lontana che mai dalla rassegnazione. I suoi occhi avevano una fissità lucente e misteriosa, che pareva dire: - Vedrete! Sgraziatamente non si vide nulla. Passò tutta estate, finirono i raccolti, e di sposo nemmeno l'ombra. Nanna si fece mesta e pensosa. Ma non ricadde nell'avvilimento. Se quell'uomo aveva mancato di parola, restava tuttavia il fatto che in risaia l'aveva trovata di suo gusto, ed aveva messo gli occhi su lei a preferenza che su qualsiasi altra. E questo pensiero aveva riabilitata la fanciulla ai propri occhi, ella diceva: - "Come ho potuto piacere ad uno, potrò ben piacere ad un altro" - . E rianimata da questa fiducia, d'aver ancora la sua parte di attrattiva e la sua parte di gioie nell'avvenire, invidiava meno le compagne; era meno irascibile. Soltanto era afflitta che quell'uomo fosse mancato, ed aspettava con impazienza l'altro, perché gli anni passavano, e si sentiva invecchiare. Era il giorno di San Martino; l'undici di novembre. Il cielo era grigio e cadeva una fitta pioggia d'autunno. Gli uomini, ché Pietro era diventato anch'esso un uomo, e faceva il carrettiere, erano fuori: Martino in giornata a spillare i vini, ed il figlio in giro pe' suoi trasporti. La massaia preparava la minestra; e Nanna, seduta sul gradino dell'uscio con parecchi canestri intorno, preparava la verdura da portare al mercato. Gli inquilini della cucina a sinistra, due vecchi che avevano maritate le figliole, ed erano rimasti soli, sloggiavano. La donna venne sull'uscio a salutare le vicine mentre il marito finiva di rassettare il carro colle masserizie. - La mamma non c'è? - domandò a Nanna. - Sí. È qui che accende il fuoco. Eh! Mamma! - Ella diede quella risposta, e fece quel richiamo senza alzarsi per isgombrare la porta. I contadini non fanno complimenti. Vedeva che quella donna non aveva tempo di fermarsi a fare una visita, e risparmiava atti e discorsi inutili. Maddalena venne sulla soglia e si fermò in piedi dietro a Nanna. - Ve ne andate, Menghina? - Sí, è l'ora. L'altro inquilino giungerà a momenti. - Rimasero un tantino tutte e tre in silenzio: poi Menghina riprese: - Sicché, addio Maddalena. Salutatemi i vostri uomini. - Li saluterò, non dubitate. - Ed anche voi Nanna; addio. E perdonatemi tutte e due, se in quest'anno vi ho dato qualche dispiacere. - Che! Non lo state a dire; ci siamo trattate da buone vicine; piuttosto dovete perdonare la Nanna, se qualche volta è stata un po' brusca. - Sí Menghina - disse Nanna - se v'ho offesa vi domando perdono. - Ma che! Ma che! Abbiamo tutti i nostri momenti cattivi. Perdoniamoci a vicenda e lasciamoci da buone vicine e da buone cristiane. E dopo questa cerimonia, a cui le donne del popolo non mancano mai, si ricambiarono ancora i saluti, poi la vecchia raggiunse il marito, sedette dietro il carro, e tutti e due ripeterono: - Addio Maddalena, addio Nanna! - Addio; chissà che non ci rivediamo, eh? - Chissà! Andiamo un po' lontano. Se non ci rivedremo a questo mondo ci rivedremo in quell'altro. Ed il vecchio diede una frustata al cavallo, e lentamente se ne andarono. - Peccato! - disse Maddalena tornando alla pentola in cui bollivano i fagioli. - Peccato; erano buoni vicini; era come non averli. Ora chissà che ci verrà. - Ma! - rispose Nanna. - Si dice che vengano due sposi; ma non si sono mai fatti vedere. Quel vecchio che è venuto a visitare il fondo e la casa era il babbo della sposa. - Avranno vissuto finora in famiglia, ed avranno aspettato che questo alloggio rimanesse libero, per metter casa a parte. Nanna non rispose altro a questa supposizione di Maddalena, e continuarono ciascuna il proprio lavoro. Mezz'ora dopo si udí da lontano cigolare un carro. Nanna alzò il capo e stette in ascolto. La memoria di Gaudenzio non s'era mai affatto cancellata dal suo cuore. Ma si udirono degli Eeh! Eeeh! ripetuti, che non erano di Gaudenzio. - Ecco i nuovi vicini che giungono - disse Nanna E, puntando i gomiti sulle ginocchia, ed il mento sui pugni chiusi, stette ad aspettare cogli occhi fissi al viale che metteva nel cortile. Grado grado il cigolio del carro s'andò facendo piú distinto; s'udivano tinnire le corde dei finimenti, e gli Eeeh! del conduttore suonarono piú chiari, fino all'ultimo che rimase strozzato in gola. Il nuovo inquilino giungendo nel cortile aveva riconosciuto Nanna, e Nanna aveva riconosciuto lui. Era il giovane che l'aveva corteggiata in risaia alla seminagione, lo sposo semi-promesso. Ma giungeva tardi, e non giungeva solo. Seduta sul carro, comodamente adagiata sopra un materasso, c'era una giovane sposa, pallida, sofferente, vicino alla prima crisi materna. Nanna guardò la donna con curiosità. Ella non aveva punto amato quell'uomo. Aveva sperato di sposarlo, lui come un altro, nel proprio interesse: ma non ci aveva posta nessuna passione. E tuttavia provò un senso di soddisfazione al vedere che la sposa non era bella né florida. Fu una specie di gratitudine verso quella rivale, che non la offendeva col confronto d'una superiorità umiliante per lei. - Oh, buongiorno giovanotta - disse il nuovo venuto salutando Nanna. - Non credevo di trovarvi qui. - Avete la memoria corta - rispose Nanna con un po' d'acrimonia - No; mi ricordavo quello che mi avete detto. Ma supponevo che sloggiaste. E che fosse la casa vostra quella che s'era presa per noi. Intanto la sposa s'era mossa per scendere dal carro, e Nanna era accorsa col marito per aiutarla. La povera giovinetta, sorridendole del melanconico sorriso degli ammalati, prese parte per la prima volta al discorso con una parola di conciliazione e di bontà - È meglio che siate rimasta - disse - giacché con Pacifico vi conoscete già, ci faremo buona compagnia. E cosí avvenne infatti. Pacifico non fece piú la menoma allusione al suo incontro con Nanna in risaia; ed ella comprese che s'era ingannata allora, ed aveva attribuito a quel discorso un senso che Pacifico non ci aveva posto. La speranza le morí un'altra volta nel cuore, e con essa, quel po' di serenità che aveva ripresa scomparve. Tuttavia fu sempre servizievole per la sua giovane vicina, che dopo un mese divenne madre d'una bambina delicatina come lei. Quella donnina non aveva salute, e l'allattamento finí di sciuparla. - Le risaie mi hanno rovinata - diceva. Il marito la trattava con molta bontà; le aveva ogni possibile cura. Ma questo non le impedí di illanguidire sempre piú. Era ammalata ai polmoni di quella malattia terribile che non perdona, e dopo meno d'un anno morí, lasciando Pacifico vedovo con una bambolina di undici mesi sulle braccia. I contadini non possono permettersi il lusso della fedeltà alla memoria della moglie perduta, se questa ha lasciato figli. La vedovanza è dispendiosa. Ha bisogno dei collegi, delle governanti, di molte cose che costano denaro. E quei poveretti che debbono lavorare fuori di casa dall'alba al tramonto, sono costretti a dare ai loro bimbi una matrigna perché ne abbia cura. Ma Pacifico non pensò a rimaritarsi. Pregò Maddalena di trovargli una ragazzetta che assistesse la sua bambina nelle ore in cui egli doveva star fuori al lavoro, e di tenerle d'occhio tutte e due. - Dovresti badarci tu a quella piccina - disse Maddalena alla sua figliola; ma Nanna, dopo l'ultima delusione s'era fatta aspra e ritrosa come prima, ed a Pacifico specialmente usava sgarbatezze speciali. Ella disse che non amava i bambini, che non voleva seccature, e suggerí una piccola governante di dieci anni, che Maddalena andò a domandare a' suoi parenti, e pose al servizio del vedovo, per supplirlo durante la sua assenza nei suoi doveri di babbo. Cosí passarono ancora due anni. Una sera Maddalena aveva scodellata la minestra. Nanna s'era seduta sul gradino dell'uscio per mangiarsela in silenzio. Era la sua abitudine, come era l'abitudine di Pietro d'andare a cenare sulla trave nel cortile, per discorrere con Pacifico, e scherzare colla bambina che cominciava a farsi capire. Ma quella sera Pietro aveva il volto imbronciato, e si pose a mangiare accanto alla tavola, dov'erano il babbo e la mamma. - L'hai finito quel trasporto di letame? - gli domandò Martino. - No - rispose Pietro senza rasserenarsi. - Quanti carri te ne rimangono? - Tre. - Bada di finire entro la settimana, e poi pensa subito alla legna del bosco di Menico. M'ha detto che ha bisogno di quattrini; e se non gliela porti martedí al mercato di Novara, troverà un altro carrettiere. Pietro non rispose. - E sarà Gaudenzio, capisci? - ripigliò Martino. - Quello sa cercarlo il lavoro. Appena s'accorge che c'è un trasporto da fare, è subito là col suo carro, e colle belle e colle buone riesce a farlo lui. - Perché Gaudenzio non ha altro a pensare. - E tu cosa ci hai da pensare? Il mangiare, grazie a Dio, non ti manca. - Non si è al mondo soltanto per mangiare. Ho venticinque anni, sapete. - Lo capisco io. E vorresti pigliar moglie, eh? - Mi pare che sia tempo. Guadagno abbastanza per mantenerla. - E ce l'hai la ragazza? - Me l'ha fatta conoscere Pacifico. È del suo paese; una bella giovane, ed ha della roba anche. Nanna udiva tutto e le balzava il cuore, e le tremava la mano da non poter piú reggere il cucchiaio. Il vecchio guardò Maddalena che gli accennava la figliola, poi disse: - Ma come si fa con questa ragazza che abbiamo in casa? - Ho da pensarci io? - ribattè Pietro. - Maritatela, se vi riesce. Ma io non posso star sempre solo, perché lei non trova chi la sposi. - È presto detto maritatela; ma con chi? - Ditelo a Pacifico. Egli fa un po' da sensale, e ne combina parecchi di matrimoni. Nanna gettò convulsamente la scodella sul gradino e si rizzò tutta irritata e tremante. - Io non ho bisogno che nessuno mi cerchi il marito. Se sono tanto brutta da non poterlo trovare da me, pazienza; rimarrò zitellona; ma non voglio maritarmi per mezzo di sensali. - Ed uscí in corte, e scoppiò in pianto. Il confronto tra quella fanciulla giovane e bella, che Pietro desiderava, ed era impaziente di sposare per timore che altri la pigliasse prima, e lei, che nessuno desiderava, ridotta ad essere offerta ad un sensale perché cercasse di collocarla in qualche modo, l'aveva profondamente umiliata. Aveva il cuore amareggiato. Ad un tratto le balenò un'altra idea, un'altra idea dolorosa. La piuma! Non aveva piú letto nuziale. Tutto il sangue le ribollí. Tornò impetuosa all'uscio, e gridò con voce tremante di dispetto: - Se non mi aveste venduta la mia piuma l'avrei trovato lo sposo. - Ebbene, trovalo, e ci penso io a rifarti il letto - disse Pietro, che aveva messo a parte un po' di quattrini per le sue nozze, e li sacrificava volentieri per togliere di mezzo quell'ostacolo. Nanna tornò ad allontanarsi, e vagolando sola nell'orto fra le penombre del crepuscolo, pensò a lungo; poi ripensò la notte nella sua stanza. L'idea di una cognata bella, sposa, a cui tutti farebbero complimento, che attirerebbe tutti gli sguardi, mentre ella starebbe al suo fianco brutta, vecchiotta, negletta come un cencio, le torturava il cuore. Assistere alle tenerezze del fratello mentre a lei zitellona nessuno farebbe tenerezze; vedere le gioie materne della cognata, mentre lei non avrebbe mai un figlio suo; e curare quei figlioli d'un'altra; e divenire la serva dei nipoti, era una prospettiva spaventevole. Odiava quella cognata prima di conoscerla; odiava quei bimbi che erano ancora nel caos. Ed invidiava quelle gioie che piovevano, forse neppure invocate, su quella fanciulla di diciotto anni. Che cosa aveva fatto per meritarle, mentre lei, che tutta la gioventú aveva lavorato e sofferto, ne era priva per sempre? Poi pensava la proposta di Pietro di rifarle il letto, purché si maritasse, e di raccomandarla a Pacifico perché le trovasse uno sposo. Dunque credeva possibile di trovarlo. E lei ci aveva rinunciato! Ma aveva pensato davvero a rinunciarvi per sempre? Uno sposo proposto da un sensale non potrebbe essere un marito come un altro? Ella ormai non aveva grandi pretese. A Gaudenzio non ci aspirava piú. Purché fosse un uomo giovane, e buono, che le volesse bene, purché potesse maritarsi come le altre fanciulle, e non rimanesse ad invecchiare all'ombra della cognata, non domanderebbe di piú. E s'abbandonava a sogni, a progetti d'avvenire. Verrebbe la proposta, e lo sposo. Un uomo sulla trentina. - Se mi volete - le direbbe - quanto a me sono disposto a farvi buona compagnia. - E lei darebbe il consenso; ed il suo cuore, avido d'amore, si sentiva già legato a quell'essere ideale. E poi andrebbero a Novara a comperare gli orecchini ed il monile e l'anello; e si farebbero le nozze. E la cognata la troverebbe maritata ella pure, sposa ella pure. E non vivrebbero insieme. Ella andrebbe fuori; lontana forse. E vedeva la sua casa. La cucina colla madia, la tavola, le pentole, i secchi; e la camera coll'ampio letto nuziale, e la cassa ai piedi del letto col corredo. E vedeva sé stessa, donna e padrona nella sua casetta; e si figurava tutto il corso della giornata. Le occupazioni da massaia, di cui le donne, e specialmente le contadine, vanno tanto superbe. Le gite al mercato a vendere per proprio conto. Le ciarle colle vicine; i lavori nell'orto, e finalmente, da ultimo, per la bonne bouche, il ritorno del marito la sera, e la minestra mangiata in comune, a porte chiuse, quando, soli l'uno coll'altra, oserebbero amarsi, e la soggezione del mondo non paralizzerebbe le carezze. E su quest'immagine si fissava col pensiero, insisteva con delizia, e le sussultava il cuore e ne era commossa fin quasi al pianto. Dopo averci meditato tutta intera la notte, quell'idea le si era cosí ben radicata nella mente e nel cuore da non poterci piú rinunciare. Quasi si meravigliava di non essere ancora sposa; e le pareva impossibile che quelle dolcezze, vedute tanto dappresso, fossero ancora cosí lontane ed incerte. Ed il sensale, disprezzato il giorno innanzi come una vergogna, le parve ormai una benedizione. Nel pomeriggio Nanna stava alla fonte mondando gli ortaggi che Maddalena doveva portare l'indomani al mercato, quando Pacifico uscí dalla sua cucina, e venne alla fonte anch'esso con un paniere, per lavare i cavoli e le zucche affettate, che aveva preparato per la minestra. - Addio Nanna - disse immergendo il paniere che si riempí d'acqua e risciacquandovi la verdura. - Addio. Fate da massaia eh, Pacifico? - rispose Nanna. - Ma! Cosa farci? Poiché quello di lassú s'è voluto pigliare la mia, che era tanto buona... - E lo sapete che mio fratello vuole ammogliarsi? - domandò Nanna interrompendo egoisticamente quello sfogo di dolore vedovile. - Sí, colla Rosetta di Cerano. Sono io che gliel'ho fatta conoscere. È una bella giovane. - Chi non lo sa? Sono soltanto le belle che vanno a marito. - Ma che! Ci vanno anche le brutte. Di carne al macello non ne avanza mai. - Intanto io perché sono brutta, non ho trovato nessuno sposo. - E se ve lo trovassi io, Nanna? Ella capí che il babbo gli aveva parlato, e si curvò verso la fonte senza rispondere, per dissimulare la gioia che la faceva sorridere suo malgrado. - Dite, lo pigliereste, se io ve lo trovassi, lo sposo? - tornò a domandare Pacifico. Nanna si curvò maggiormente mordendosi le labbra. Gongolava. Era come un ammalato che torni alla vita dopo una lunga infermità di cui ha creduto morire. Riviveva all'amore, si rivedeva sposa, lei che aveva già perduto tutte le speranze. Pacifico vedendo che rideva, prese un pezzo di zucca nel paniere e glielo gettò graziosamente tra capo e collo ripetendo la sua domanda. - Dite dunque, Nanna. Lo pigliereste? - Provate a cercarlo e poi si vedrà - rispose Nanna facendo la preziosa; e gli sorrise maliziosamente e fuggí in casa. - Ha già posto gli occhi su qualcuno - pensava - Ecco, sono sposa. Non è poi stato difficile come si credeva. Ma tutta la settimana passò, senza che nessuno le parlasse di sposo. Che si fosse ancora illusa? Intanto Pietro era sempre di malumore in casa, e stava spesso fuori, ed i parenti dicevano: - Bisogna finirla. Quel ragazzo non ha la testa a segno. - E Nanna tornava a vedere il fantasma della cognata, e tremava. Finalmente, la domenica, uscendo dai vespri, Pacifico s'accostò a Martino con una cert'aria misteriosa che prometteva bene. Nanna che era indietro un tratto s'affrettò per passare accanto agli uomini, nella speranza di cogliere qualche parola. - Vi ho da parlare - diceva Pacifico. - Volete che andiamo a berne un bicchiere? Nanna udí, e passò dinanzi sogghignando senza guardarli. - Buondí Nanna - le gridò Pacifico. Ella si voltò, rise e tirò via. Il suo cuore esultava. Era sicura che lo sposo c'era. Finalmente non sarebbe piú considerata come un rifiuto, diverrebbe una donna come le altre. Quella sera, quando tutti si ritirarono all'ora della cena, ella prese il suo piatto di riso, ed andò a sedere nel cortile, sperando che il babbo andrebbe a dirle quanto aveva proposto Pacifico. Ma, invece, Martino la lasciò cenare in pace, e quando ebbe finito la chiamò in casa. Quel discorso solenne voleva farlo presente alla famiglia riunita. - Ebbene, Nanna? - le disse. - Hai voglia o no di maritarti? - Oh, per me... - disse Nanna alzando le spalle e volgendo il dorso in atto vergognoso, ma le brillavano gli occhi; e si vedeva vagamente dinanzi un giovinotto dall'aria spavalda, con un garofano all'occhiello ed il cappello sull'orecchio; la ragione non basta ad imbrigliare la fantasia. - Lo sposo ci sarebbe - soggiunse il babbo. Nanna si appese coll'immaginazione al braccio del giovinotto, dal lato opposto al cappello ed al garofano, e si ammirò nel suo vestito da sposa di lana e seta cangiante, e sorrise a quell'immagine. Martino, dopo quelle parole, stava zitto tirando lunghe boccate di fumo dalla pipa. Nanna era impaziente di saper altro. Si voltò a mezzo, e guardò il babbo sogghignando. - E cosí? - disse il vecchio. - Ebbene, dite su - rispose Nanna. - Cosa vuoi ch'io ti dica? L'hai pur veduto chi è che m'ha parlato dopo i vespri. - Pacifico. - Sí, Pacifico. Dice che con quella bimba da custodire non ha testa al lavoro; ed a lui converrebbe appunto una giovane matura, punto bella, che non avesse grilli in testa, e potesse far da mamma alla sua creaturina. Nanna si sentí venir freddo al cuore. Il giovinotto, il garofano, l'abito cangiante, le svanirono dagli occhi, come avvolti in una nube. Si vide brutta, col suo capo senza argento; vecchia accanto a quello sposo vecchio, che la cercava non per sé ma per la sua figliola, per farle fare da matrigna. Vide quelle nozze senza espansioni, senza feste ed a due passi da lei, nello stesso cortile, la cognata giovane e bella, trionfante nelle pompe e nelle gioie nuziali. Provò una grande vergogna. Ebbe un grande dispetto contro Pacifico, contro il babbo, contro tutti. Proporle di sposare lui stesso, da parte di quel sensale, era quanto dirle: - Non credo vi sia altri che vi voglia. - E per colmo di oltraggio, diceva di pigliarla perché era matura e punto bella. Nanna non aveva espansioni. Gioia, dolore, dispetto, racchiudeva tutto in sé. Sentí una fitta atroce al cuore, e le si empirono gli occhi di lagrime. Ma non fece altro che abbassarsi sul volto la pezzuola che aveva in capo, e rimase muta, senza voltarsi, divorando le sue lagrime. Martino fece spalluccie ed uscí nel cortile borbottando: - Non si sa come pigliarla. Pietro picchiava un piede in terra, e dimenava il capo con dispetto. Ma non disse nulla e continuò a sminuzzare un pezzo di pane col coltello. La mamma s'accostò a Nanna, la prese per un braccio e le disse: - Via, vieni qui; parla. Lo vuoi o non lo vuoi? Nanna strappò con mal garbo il braccio a quella stretta e gridò: - Piuttosto morire, guardate, che pigliarmi un vecchio e fare la matrigna! - Oh senti! - disse finalmente Pietro - Pacifico non è punto vecchio. Ha trentasei anni, e tu ne hai ventisette. I signori si sposano sempre cosí; il marito piú vecchio della moglie, magari di dieci anni. E poi Pacifico è un brav'uomo. Cosa vuoi trovare di meglio? È quello che ti conviene. - Sí eh? Conviene a voi altri perché se sposo un vedovo il letto lo ha lui, e non avete da rifarmelo. Ebbene, a me non conviene niente affatto. - E fa come ti pare. Ma ricordati ch'io non voglio star senza moglie pei tuoi capricci. Ora lo sposo l'avresti. Se non lo vuoi, peggio per te. - Sicuro - entrò a dire Martino - Pietro ha ragione. Di casa non ti si manda via. Ma non posso impedire che tuo fratello si faccia una famiglia. Se Pacifico non ti piace, non lo sposare; però, se non andrai d'accordo colla cognata non venirti poi a lagnare. Sarai stata tu a voler rimanere in casa. - Io non starò in casa. Andrò a fare la serva a Novara. - Questo poi no - ribatté Martino con un'energia tutta nuova in lui. - Di casa mia nessuno è mai andato a servire. Può darsi che tu trovi ancora da maritarti; e se troverai, il letto si farà; quello che è giusto è giusto. Altrimenti lavorerai in casa e fuori, ma a servire in città, dove ci sono servitori, soldati, bottegai, tutti sfaccendati che insidiano le ragazze, signora no; non si deve andare. Nanna non era donna da prendere una risoluzione da sé. Tenne il broncio per parecchi giorni, e rimase piú cupa di prima. Ma stette in casa. Ed il matrimonio di Pietro si concluse; Martino andò con Pacifico a Cerano a domandare la mano di Rosetta. Poi i due sposi coi babbi andarono a Novara a comperar l'oro. Maddalena fece imbiancare la stanza accanto alla sua, dissopra alla cameretta di Nanna ed al forno, lavò il pavimento e dispose tutto per ricevere il letto e la cassa della sposa. Nanna disse ai parenti che voleva andare alla mietitura del riso per non esser presente alle nozze. La mamma capí l'umiliazione che avrebbe patita; se ne discusse a lungo in famiglia e, contro tutte le regole, si stabilí di fare il matrimonio in quell'epoca di grandi lavori, per risparmiare un disgusto alla figliola disgraziata. E Nanna partí tanto piú volentieri, perché Pacifico, durante quegli apparecchi d'un matrimonio combinato da lui, era sempre in casa, ed essa l'aveva preso in uggia dopo la sua proposta; non poteva perdonargli d'averla chiamata una donna matura e punto bella; e non gli parlava piú affatto. Sul finire della mietitura Gaudenzio, dovendo passare presso la risaia dove lavorava Nanna, s'incaricò di portarle qualche provvigione e gli sponsali che le mandava Maddalena. - Quello è un bocconcin di sposa che ha portato a casa vostro fratello - le disse. - Bella come un fiore, forte come una colonna, vispa come un'allodola. Il cuore di Nanna era tutto fiele per quella cognata. Si abbandonò a pensare di donne che, dopo il primo parto, avevano perduto tutti i capelli, e di gravidanze che fanno uscire macchie gialle sul viso e cadere i denti. E si compiaceva di figurarsi che fra un anno quella bellezza avrebbe un figliuolo e non sarebbe piú bella. Poi Gaudenzio raccontava i particolari delle nozze. La settimana prima della cerimonia, la sposa, accompagnata dalla mamma, era andata in giro con un tondo di confetti in una salvietta, ad offrirli casa per casa ai signori del paese. Cosí si usa da tutte le spose; ed i signori prendono un chicco, e mettono una moneta nel tondo; per lo piú una lira. Ma Rosetta aveva tanta buona grazia che tutti erano stati generosi con lei, ed aveva raccolto de' bei quattrini. La mattina delle nozze poi, era vestita come una madonna, e c'erano state due carrozzelle ad accompagnarla da Cerano fino alla casa dello sposo. - Ma il piú bello - continuò a dire Gaudenzio - è stato nell'entrare in casa. La vostra mamma che è una donna all'antica, ha posto a terra la scopa traverso l'uscio. - Non occorre d'essere all'antica per questo, - interruppe Nanna, che maliziosa com'era, aveva già presentito in quell'accusa alla suocera un'intenzione di difesa per la nuora. - Tutte le mamme sbarrano l'uscio colla scopa. E se la sposa è una buona massaia la prende in mano per sgombrare il passo; e se è una trascurata passa lasciandola a terra. - Ma che! Queste sono idee della mia nonna! - disse Gaudenzio che faceva sempre pompa delle sue opinioni avanzate. - Quel folletto di ragazza aveva proprio necessità di sgombrare il passo! Bisognava vederla! Ha fatto un salto che ne avrebbe scavalcato una dozzina di scope. - Ha scavalcato la scopa? - esclamò Nanna coll'aria piú scandolezzata che poté assumere come avesse detto: - Ha dato fuoco alla casa? - - Sí! L'ha scavalcata! Che male c'è? Non lo sapeva di dover prenderla in mano per mostrarsi casalinga. - Che! Non lo sapeva. Se usa a Trecate, non si può ignorarlo a Cerano. Non c'è mica il mare di mezzo. È che non ha voglia di essere casalinga; ecco! Non ha presa la scopa! E Nanna gustava tutte le acri voluttà del male, in quel piccolo trionfo di cogliere in fallo la povera giovinetta E piú tardi, passando accanto ad un gruppo di fanciulle raccolte nell'aja intorno a Gaudenzio, che raccontava ancora ed ancora le meraviglie della loro giovane compagna, Nanna gridò con disprezzo: - Sí eh? Bella moglie, che non ha neppure presa in mano la scopa! Ma Gaudenzio, che di peli sulla lingua non ne aveva proprio, le rispose dinanzi a tutti: - Badate, Nanna, è l'invidia che vi fa parlare; perché gli anni passano, ed il marito non viene, e la sposa è piú bella di voi. Ah! Quel Gaudenzio era terribile! Egli pure non era piú giovane; aveva trent'anni. Ma col suo cappellino sull'orecchio e la sua aria disinvolta, era sempre irresistibile ad un modo; era sempre il lion del paese per tutta l'estensione a cui giungeva il suo carro, e nessuno avrebbe pensato di trovarlo troppo vecchio per la vita galante che menava. Le fanciulle erano tutte indulgenza per lui; ed a quella sua uscita contro Nanna, posero il visto con una risata, insolente. Tutto codesto non era fatto per stabilire i preliminari della pace fra le due cognate e Nanna tornò a casa piú che mai inviperita contro la sposa. Rosetta era veramente una bella giovane. Non una bellezza da romanzo; neppure una figurina elegante, ideale, com'era stata Nanna a diciassette anni. Ma una bella contadinotta, bianca, rossa, paffuta come un pomo, ben piantata su due gambe che parevano colonne, con fianchi e spalle da cariatide; doveva esser feconda come una Niobe, ed il suo petto era abbastanza vasto per nutrire i quattordici figlioli. La sua salute non smentiva quella florida apparenza. Dacché era al mondo nessun medico le aveva mai tastato il polso; e nel suo cuore esultava tutta la giocondità della gioventú e della salute. Ella s'era guadagnato subito l'animo dei vecchi suoceri. Il salto della scopa aveva finito nelle braccia di Maddalena, che l'aspettava a quel punto per giudicarla. Ma quell'abbraccio espansivo, che fu ad un punto da stramazzarla a terra, commosse vivamente la povera donna, che la sua figliola aveva da lungo tempo divezzata dalle carezze. Dalla cantina al solaio la casa echeggiava tutto il giorno della voce giuliva di Rosetta, e Martino diceva: - È il carnovale che ci è entrato in casa con questa sposa. Pietro invece era malinconico e taciturno. Aveva l'animo affettuosissimo; non esitava mai dinanzi ad un sacrificio per una persona cara; ma esitava terribilmente dinanzi ad una parola. Era timido fino alla selvatichezza. In quei primi giorni di nozze era sempre imbarazzato delle proprie emozioni; se ne vergognava, e mentre aveva il cuore gonfio di dolcezza, usciva sempre d'impaccio con uno sgarbo. Pover'uomo! Quanto avrebbe avuto bisogno l'isolamento incoraggiante del viaggio di nozze! Ma questo lusso d'espansioni da solo a solo è riservato ai signori. I contadini, che vivono in famiglia, alla patriarcale, sono condannati a far all'amore sotto gli occhi dei parenti, a frenare tutti gli impeti del loro cuore, povera gente! Appena Rosetta vedeva rientrare il suo uomo, come si dice in quelle campagne, gli saltava incontro facendogli festa. - Bentornato, uomo! Avete appetito? Abbracciate la vostra donnina. - Pietro l'avrebbe abbracciata con tutta l'anima, ma si faceva tutto rosso, sbirciava il babbo e la mamma, poi si schermiva con una mala grazia, dicendo alla sposa: - Sta un po' cheta! Sei matta. Rosetta non era una tempra abbastanza delicata per soffrirne tutta la mortificazione che ne avrebbe sofferto una delle mie lettrici. Capiva che il suo uomo si vergognava, e gli rispondeva con una risata. Quando giunse Nanna dalla risaia, la sposa era nell'orto. - Rosetta! - gridò Maddalena. - C'è la Nanna. Rosetta non fece altro che rimboccare il grembiale colmo dell'insalata che aveva raccolta, lo annodò in fretta dietro la vita, e via di corsa traverso le aiuole. In un minuto sbucò da dietro la casa gridando: - Dov'è questa cognatina? - e vedendola in arnese da viaggio cogli zoccoli da una mano ed il fagotto dall'altra, le saltò al collo e la baciò sulle guancie. Nanna si lasciò fare, freddamente, senza ricambiare quell'espansione; ed appena poté svincolarsi entrò in casa mormorando: - Che scene! - Mentre la sposa dal canto suo pensava: - È come Pietro. Sono tutti cosí. Non osano dimostrarsi; vogliono bene, ma se lo tengono in cuore; non lo sanno mettere fuori. Dopo il matrimonio di Pietro, Gaudenzio capitava spessissimo alla cascina dei Lavatelli. - Come va, Gaudenzio? - gli disse una volta Nanna con amarezza. - Avevate dimenticata la strada di casa nostra, ed ora l'avete ritrovata? - Io vado sempre dove ci sono le belle donne - rispose quel fatuo. - Ora che avete la cognata bella ci vengo. Nanna se la legò al dito. Era uno scherzo impertinente in cui la sposa non aveva che una parte passiva. Ma Nanna gliene addossò tutta la responsabilità, e vi soffiò dentro col suo odio fino a gonfiare quell'inezia alle proporzioni d'un adulterio. Intanto era venuto l'autunno colle lunghe serate e le veglie nella stalla. Rosetta colla sua cordialità aveva fatto parecchie conoscenze nei dintorni, ed attirava in quella stalla, altre volte cosí uggiosa, un gruppo di vicine, tutte in ammirazione del buon umore e della graziosità della bella sposa. C'erano parecchie fanciulle; Nanna sedeva con esse a filare; ma il suo capo ravvolto nella pezzuola, la sua taciturnità, il viso imbronciato, l'umore intollerante, i giudizi malignati e severi, la invecchiavano assai e la facevano stare a disagio e spostata in quella schiera giuliva. Rosetta invece, nella sua grave qualità di donna maritata, doveva collocarsi fra le massaie, ed attendere all'importante missione di rattoppare gli abiti del suo uomo. E lo faceva di cuore, ed agucchiava con tutta l'energia del suo braccio robusto, e tagliava nettamente il filo co' dentini bianchi. Ma i discorsi delle massaie che si narravano a vicenda le loro varie gravidanze, e gli allattamenti, ed i miracoli del santo del paese, e gli amuleti di famiglia, e le varie malattie, e le permanenze all'ospedale, non interessavano punto la giovane sposa. La sua esperienza di diciott'anni non le offriva il menomo argomento per prender parte a quei gravi parlari. Ed intanto il chiacchierio civettuolo e pettegolo delle fanciulle trovava la via di venirle all'orecchio e da lontano ella mandava il suo razzo in quel fuoco d'artificio, e le ragazze lo accoglievano ridendo, ed ella rideva piú forte di loro. E tutta quella ilarità giovanile passava e ripassava come una palla, dissopra al capo seriamente coperto di Nanna, senza lasciarsi impaurire nemmeno per ombra dalla sua severità. E Nanna sentiva, nel suo cuore inviperito che la cognata era felice suo malgrado, e ne fremeva. Pietro, assiduo al lavoro, era spesso fuori di sera pe' suoi trasporti. Gaudenzio invece era divenuto un costante frequentatore della stalla. Il suo arrivo era una festa per tutte quelle giovani, ed un tormento per Nanna, per la quale egli aveva sempre qualche crudele verità in pronto, mentre invece era tutto galanteria per la cognata. Oh, se Nanna avesse potuto allontanarlo per sempre, far nascere una lite che lo mettesse alla porta! Le pareva che gli altri non si sarebbero accorti che era vecchiotta e brutta, se quel giovane temerario non fosse stato là a ripeterlo ad ogni momento. Se voleva fare un complimento a Rosetta pe' suoi capelli, Gaudenzio non sapeva farlo senza dire una scortesia a Nanna. - Ci avete anche la parte di vostra cognata. Se la sposa si vantava di non esser mai stata un giorno a letto, di non aver mai preso una medicina. - Precisamente come Nanna - diceva con ironia Gaudenzio. Era un tormento. Quando poi si parlava di nozze la povera zitellona era sempre in ballo. - Gaudenzio, sapete chi si fa sposa? - Chi? La Nanna? E tutte a ridere, ed a dirgli di buffone per vezzeggiativo. E Pacifico, l'unico uomo che l'aveva domandata, ed in che modo! Era là, ed udiva tutti quei discorsi, che erano una conferma del suo giudizio: matura e punto bella. E Nanna si faceva ogni dí piú sospettosa e cattiva. Odiava la cognata, odiava Gaudenzio, odiava tutte le persone giovani e belle e felici. Aveva torto. Ma loro mie signore, che mi leggono sedute nel loro salotto accanto ad uno sposo che le adora, loro in cui l'educazione ha raffinato il senso morale, mi dicano, colla mano sulla coscienza, possono giurare che non avrebbero fatto altrettanto alla prova di quelle piccole torture d'ogni momento? Una sera di novembre Pietro giunse col suo carro, e staccato il cavallo, andò a raggiungere la famiglia nella stalla Rosetta aveva smesso di corrergli incontro e abbracciarlo, a forza di vedersi respinta dalla timidezza selvaggia del marito. Aveva accanto Gaudenzio che le diceva mille corbellerie, e si limitò a gridare: - Addio Pietro; buona sera - senza scomodare né sé né il suo cavaliere e Nanna si legò al dito anche questa. - Mamma - disse Pietro a Maddalena. - Sono stato a Cerano. La mamma di Rosetta ha avuto Lucia colle febbri intermittenti dopo la mietitura del riso. Dice che il medico l'ha consigliata di farle cambiar aria; e, se voleste, la manderebbe qui da voi, con sua sorella. Nanna ebbe un nuovo sussulto. Lo dissi già; in tutte le donne giovani e belle vedeva un'avversaria. - Quanto a me - disse Maddalena, - la vedrò volentieri sicuro; ma dove vuoi che la mettiamo a dormire quella ragazza? - Quando io sono fuori può dormire colla mia donna; sono sorelle ed andranno d'accordo. E le notti ch'io passerò a casa, starà nel letto con Nanna. Nanna fremette all'udire quella combinazione. Ma non ebbe neppure l'idea di opporsi. Nelle campagne le donne vivono in una sommissione assoluta. Soltanto le massaie possono far valere in una certa misura la loro volontà; ma le ragazze sono sottomesse, e sarebbe sembrata una stravaganza da parte di Nanna il non voler dividere il suo letto con quella fanciulla che non conosceva; come non si supponeva neppure che la giovane ospite potesse manifestare la menoma ripugnanza a dormire con Nanna. L'indomani Pietro partí per portare della legna a Cerano, ed al ritorno condusse la cognatina. Era una fanciulletta di sedici anni, delicatina, allungata ed impallidita dalle febbri, gentile, bianca, cogli occhi azzurri ed i capelli bruni, con una boccuccia piccina che rideva spesso e volentieri, ed una vocina infantile. Pareva una signorina vestita da campagnola. Portava per le prime volte l'argento, e si lagnava che le dava il mal di capo. Era stata alle scuole comunali, sapeva leggere, scrivere, e persino fare il pizzo all'uncinetto. Una meraviglia! Gaudenzio, com'era da aspettarsi, volle attirare l'attenzione della nuova venuta, e le parlò con quella deferenza graziosa con cui si parla ai bambini. Egli però non la trovava di suo gusto. Il peso specifico di quella bimba convalescente non rispondeva al suo ideale, ed egli non era uomo da mettere sulla bilancia l'azzurro profondo di quegli occhioni ingenui, e la grazietta della persona. Ma le si mostrava galante per riguardo alla sorella sposa, che era di peso quella. La povera piccina non istette a lungo ad accorgersi che quel Gaudenzio era l'aspirazione di tutte le fanciulle della stalla; ed il suo piccolo amor proprio fu lusingato al vedere che si occupava piú specialmente di lei. E dall'essere lusingata dalla preferenza d'un uomo a preferirlo, poco ci corre. Nanna s'accorgeva di tutto questo. Dell'inganno della bimba, della sua simpatia nascente. E, sebbene vedesse che pigliava un granchio, poverina, se ne aveva male anche con lei, e godeva che non fosse corrisposta come credeva. La prima sera dopo l'arrivo della piccola Lucia, Pietro giunse nella stalla conducendo un suonatore d'organetto. Tutte le giovani, fanciulle e maritate, balzarono in piedi salutando quella sorpresa con grida di gioia. Nanna, per istinto, per rimembranza, s'era alzata anch'essa. Ma quando tutti i giovani ebbero scelta la ballerina si trovò sola ad impacciare le coppie danzanti, dovette tornare a sedere accanto alle mamme. Gaudenzio, vedendo che Pietro si disponeva ad aprire il ballo colla sposa, s'era affrettato a pigliare la forestiera. Nel ricondurre a posto la giovinetta vide Nanna piú avvilita del solito per quello sfregio patito e le disse: - Non ce ne sono piú eh! Di ballerini per voi, Nanna? - Io non ho voglia di ballare - gli rispose Nanna che cercava di salvare almeno l'apparenza. Ma con Gaudenzio non c'era verso di salvar nulla Egli aveva bisogno di mettere i punti sulla i, anche quando le leggi dell'urbanità protestavano contro quelle dell'esattezza. Egli ribatté con malignità brutale: - Sí eh! Quel che non si può avere si dà via per carità. - Lucia, che aveva lo spirito un po' piú coltivato, sentí tutta la crudeltà di quelle parole, e cercò di mitigarla come poteva dicendo: - Vuoi ballare con me, Nanna? In quella Pietro cessava di ballare con Rosetta, e la conduceva a sedere accanto a Maddalena. Gaudenzio piantò la zitellona e la bimba, e corse alla giovane sposa che sollevò come un conquistatore, e si diede a ballare con lei, alla sua maniera sguaiata e compromettente. Nanna ricusò la gentile offerta di Lucia e seguí con occhio scrutatore la coppia danzante. Ella ne sapeva qualche cosa di quelle strette, di quei dondolamenti, di quegli sfioramenti di guancie, di quelle parole ansimate in un caldo sussurro fra capo e collo. Le impressioni che avevano destate in lei, ora le vedeva riprodotte nella giovane cognata, e fatte piú vive dalle gioia di sentirle condivise dal suo meraviglioso ballerino. Rosetta infatti, espansiva, chiassosa, gioconda, non si trovava bene con quel marito raggomitolato in sé stesso come un istrice. Aveva soggezione di lui. Non osava fargli una gentilezza perché sapeva che non sarebbe corrisposta. Non osava dirgli una corbelleria, perché non ne avrebbe riso. Invece cogli altri non aveva che ad aprir la bocca per sentirsi dire: - Che demonietto di donna! Che granello di pepe! Le studiate tutto voi! Ne sapete una piú del diavolo. Con voi di malinconia non se ne patisce sicuro! Gaudenzio poi era anche piú espansivo e piú complimentoso degli altri. Egli, con quell'audacia che lo distingueva, non esitava ad esprimerle a bruciapelo la sua ammirazione per la sua bellezza. - Che pezzo di donna! Voi non avete paura che il vento vi porti via. Perché non vi levate un poco la pezzuola dal collo se il danzare vi riscalda! Io non guardo - e si poneva davanti agli occhi le mani colle dita discoste per mostrare il suo desiderio indiscreto di vederla scollata. - Del resto - soggiungeva - lo so bene che è tutta roba imbottita. - E sorrideva di quella facezia, come se il dirle ch'era grassa e non aveva imbottiture fosse il piú grande vanto che le si potesse fare. Rosetta non era donna da raffinature. Era allegra e pigliava tutto in buona parte. Vedeva soltanto l'intenzione di farle un complimento, e l'accettava senza esaminarla troppo; ed era contenta, perché Gaudenzio le piaceva, e si trovava bene con lui. - Ecco - pensò Nanna; - sono pochi mesi che è maritata, e fa già all'amore cogli altri. Era spingere troppo oltre il giudizio temerario; ma ella aveva bisogno di aggravare le cose, per giustificare ai propri occhi l'odio che risentiva, ed il suo progetto di svergognare la cognata e di allontanare quel Gaudenzio che la avviliva sempre. Ella andò a sedere accanto a Pietro e gli disse: - Ora hai finito di ballare con tua moglie. È impegnata per tutta la sera... - Avrebbe voluto aggiungere: - con Gaudenzio - ma non ne ebbe il coraggio. Pietro però, comprese malgrado la reticenza. Adorava la sua bella sposa con tutta l'intensità dei sentimenti concentrati, i quali sembrano aumentarsi di quella tanta parte d'affetto che non espandono in manifestazioni. Provava già un senso d'invidia per chiunque possedeva quella facile espansione ch'egli non aveva, e che rendeva gli altri piú simpatici di lui. Ne era istintivamente geloso, perché l'apprezzava come una superiorità. La parola di Nanna bastò a fargli volgere su Gaudenzio quella vaga gelosia. Sofferse profondamente di quel sospetto; ma non lo manifestò, come non manifestava il suo amore. Egli pure, come Nanna, racchiudeva in sé tutti i suoi sentimenti. Era appassionatissimo, e sentiva ardentemente l'aspirazione ad un amore esclusivo. Ma Nanna si vendicava di non poterlo inspirare. Pietro invece, profondamente buono, ne soffriva soltanto. Non provava come lei l'acre bisogno di far patire anche agli altri la propria sofferenza, di accusarli del proprio male, di odiarli. Si doleva sinceramente di non valere quanto gli altri, che, nell'umiltà del suo cuore, credeva superiori a lui; e la cagione dei torti che sopportava, la cercava in sé stesso. Diceva: - Non so farmi amare da quella donna. - E pensava cosa potrebbe fare per guadagnare il cuore della sposa. La prima domenica di dicembre alla messa cantata, la moglie del salumaio di Trecate, che era una giovane sposa, comparve in chiesa con un magnifico spillo d'argento in filigrana puntato nel velo. Figurava un ramo di gelsomini, ed era montato sopra un gambo a spirale, in modo che tremava ad ogni movimento del capo. Fu una grande agitazione fra le donne. L'angelo che portò al Padre Eterno il resoconto di quella messa, ebbe a riferire una quantità di distrazioni e peccati di desiderio. Il nono comandamento pesò quel giorno sulla coscienza di tutte le donne dai quindici anni ai cinquanta. Tutte avevano desiderato lo spillo della salumaia. La sera nella stalla, non si parlò d'altro. Pietro non era là. Aveva dovuto partire nel pomeriggio della domenica per giungere la mattina del lunedí a prendere un grosso carico di materiali da fabbrica, da condurre alla chiesa di Galliate, che allora era in costruzione, e piú tardi crollò, prima d'esser finita. Gaudenzio c'era, l'immancabile. Egli pure aveva osservato lo spillo, ed anche la salumaia, che in quanto a grassezza non aveva nulla da invidiare ai generi del suo commercio. Trovava che quello spillo, tremolante come una gelatina, le stava molto bene. - Che gioia di marito dev'essere quel salumaio! - esclamò Rosetta. - Se Pietro mi regalasse uno spillo cosí, lo mangerei a baci. - Pietro non può fare simili spese, - disse Maddalena. - Quanto può costare quello spillo? - domandò Gaudenzio. - Da quindici a venti lire. - Eh! Un uomo che vuol bene davvero ad una donna non bada a venti ed anche a cinquanta lire per accontentarla. Gaudenzio sparò questa bomba di generosità guardando fisso Rosetta negli occhi come per dire: - Io sarei capace di spendere cinquanta lire per voi. Era il suo bisogno di mettere i punti sulle i. E li pose troppo chiari. Nanna capí. Ed anche Lucia, nella sua semplicità, capí che in quello sguardo c'era un commento al discorso. Ma lei, povera bimba, non pensava che il commento potesse riguardare personalmente Rosetta, che aveva già marito. Uno sguardo d'amore e d'intelligenza rivolto a sua sorella doveva alludere a lei. Gaudenzio le faceva un po' la corte e faceva la corte a Rosetta perché combinasse un matrimonio fra loro. Cosí aveva inteso onestamente le cose quella testina di sedici anni. Per lei era come se avesse udito Gaudenzio dire a Rosetta: - Io lo pagherei anche cinquanta lire lo spillo per la vostra sorellina. Nell'uscire dalla stalla non seppe resistere al bisogno di espansione che è tanto prepotente in quell'età e in quei sentimenti. Ella domandò a Nanna: - Ce l'ha l'innamorata Gaudenzio? - Che! Potrebbe non averla? Un bel giovane cosí! - rispose Nanna acremente. - E chi è? - tornò a dire con voce insinuante la piccina. - Oh, io non dico nulla. Si vedrà. Se saranno rose fioriranno - e seguendo il suo pensiero crudele, soggiunse - e colle spine anche. Ma la ragazza non fece caso di quella parola e continuò ad interrogare come la spingeva la curiosità appassionata: - È della nostra stalla? Dimmi soltanto se è della nostra stalla - Sí. È della nostra stalla. Ed è a lei che porterà il fiore. Oh, s'hanno a vedere di grandi cose qui. Lucia salí a coricarsi presso la sorella, coll'animo pieno di speranza. Ella aveva interpretato tutto il discorso di Nanna in suo favore. Le ironie non avevano trovato la via nel suo animo sincero, e si teneva certa che la donna amata era lei, e che lei avrebbe lo spillo. Passarono i primi giorni della settimana. Pietro tornò la sera del lunedí e ripartí il giovedí all'alba. Udí egli pure tutti i parlari delle donne sullo spillo della salumaia. Capí che la sua sposa lo desiderava ed avrebbe voluto dirle: - Io te lo porterò. - Ma ebbe soggezione della mamma, del babbo, della sorella. Gli pareva di udire i commenti che si farebbero alle sue spalle: - È innamorato come un ciuco della sua donna. Fa tutto quello che piace a lei. Butta i denari dalla finestra per accontentarla. Egli arrossí a quel pensiero per la sua dignità d'uomo. Avrebbe voluto dare a Rosetta lo spillo, ma segretamente, o in una maniera che giustificasse quella larghezza. La sera del giovedí era il dodici dicembre. Pietro non era anche tornato. Quando egli era assente, la conversazione della stalla era sempre piú animata, perché Rosetta sfogava il suo umore chiacchierino ed allegro senza soggezione, e Gaudenzio le faceva la corte senza paura di suscitare dei guai. - A Novara - disse Gaudenzio - la città è tutta in festa questa sera. - Già - rispose la piccola Lucia ch'era stata a Novara un po' di tempo colla Rosetta, da una sua zia erbivendola - È la vigilia di Santa Lucia. Sotto le arcate dei portici vi sono tanti banchi illuminati, con ogni sorta di chicchi, e Sante Lucie di zuccaro. E tutti i negozi hanno nella bacheca un mondo di belle cose. Ti ricordi Rosetta? - Altro, che mi ti ricordo! Quell'anno che eravamo dalla zia abbiamo messo fuori dalla finestra il nostro panierino anche noi, e Santa Lucia ha portato la strenna. - Ebbene? E perché non lo mettete fuori anche questa sera il paniere? - domandò Gaudenzio guardando sempre Rosetta negli occhi. - Chissà che Santa Lucia non passi di qui? - Che! - disse la sposa. - Come volete che passi? Pietro non è a casa. - E come c'entra Pietro con Santa Lucia? - Oh, ci credete bene sciocche! - protestò Lucia. - Fino i bimbi di Novara dicono: Santa Lucia Mamma mia Colla borsa del papà Santa Lucia la venirà - Ah voi siete troppo smaliziata - disse Gaudenzio ridendo. - Lo metterà Nanna il paniere; lei ci crede ancora a Santa Lucia; vero, Nanna? - Io credo tutto, sono una scema - rispose Nanna risentita. - Eh sí! Scema voi! Ne sapete da menarci a scuola tutti - disse Gaudenzio, cui premeva di rabbonirla per indurla ad approvare la proposta dei panieri. Nanna sorrise a quel complimento che le era fatto dinanzi a tanta gente. Gliene capitavano cosí di rado, che li gradiva anche quando le venivano per forza. - Dunque lo metterete fuori il paniere? - insisté Gaudenzio. - Non è per me che l'avete detto. - L'ho detto per tutte e tre. Quello che fa una cognata lo deve fare anche l'altra. - Oh per me... mi sprezzano tutti. - Vuol dire che tutti vi amano. Chi sprezza ama. - E poi se trovo il paniere vuoto? - Date retta; non lo troverete vuoto. Santa Lucia mi ha fatto sapere che passerà dalla vostra finestra. Via, siate buona. Neppure nei tempi andati Gaudenzio aveva mai parlato a Nanna con tanta deferenza; non l'aveva mai pregata cosí. Non l'aveva mai guardata con quegli occhi supplichevoli. Per la prima volta, dopo tanto tempo, non aveva l'aria di canzonarla. Tutti tacevano nella stalla. Tutti guardavano Gaudenzio e lei. Gaudenzio che la implorava, lei arbitra di farlo contento o di crucciarlo con un sí o con un no. Fu un momento di trionfo insperato per Nanna. Tutta la sua parte di vanità umana e di vanità di donna le si portò al cervello per suggerirle un mondo di speranze e d'illusioni: ed ella disse nel suo pensiero: - Chi sa? E nel guardare in giro per assaporare quel momento di gloria, incontrò gli occhi di Lucia, intenti su Gaudenzio e su lei, con una velatura cristallina di lagrime. Capí che la povera bimba era gelosa, e quel sentimento, che inspirava per la prima volta, finí di far perdere la testa a Nanna - Sí: metterò fuori il paniere - disse. E senza ragionarvi sopra, dimenticando i precedenti che l'avevano messa in sospetto contro la cognata, con tutta la cecità della vanità lusingata, si figurò di trovare il domani nel suo paniere la strenna di Gaudenzio. Il carrettiere uscí di buon'ora dalla stalla. Aveva i suoi preparativi da fare. Nanna cercò di congedar presto le vicine perché l'impazienza la rodeva. Rientrata in casa disse alle due giovani: - Mettiamo ciascuna la nostra pezzuola da collo sul paniere, perché Santa Lucia possa distinguer l'uno dall'altro. Ma Lucia aveva il cuoricino gonfio! Non volle metter fuori il paniere. - Non sono di casa - disse. Lo posero Nanna e Rosetta all'unica finestra della cucina che dava sull'orto. Poi le due sorelle salirono coi vecchi, e si ritirarono nella loro stanza, e Nanna entrò anch'essa nella sua. Ma depose soltanto il lume, poi uscí pian piano nel forno, che aveva una finestra accanto a quella della cucina, da cui era separata semplicemente da un uscio; e là, dietro le gelosie socchiuse, stette in agguato. Non andò a lungo, che vide un'ombra avanzarsi cautamente fra le aiuole dell'orto, e riconobbe Gaudenzio. Egli andò alla finestra dov'erano i panieri. Nanna, senza lasciare il suo posto d'osservazione, pose la mano sul chiavistello dell'uscio, ed aspettò stando in ascolto. Due minuti ancora, ed udí il passo cauto di Gaudenzio che si allontanava. Aperse pian piano; uscí e si trovò sotto la finestra della cucina. Alzò la mano al suo paniere col cuore palpitante. C'era un oggetto duro, sferico. Lo prese, lo guardò alla scarsa luce della finestra, palpò, trovò il filo. Era un gomitolo. Era una satira atroce. Dipanar filo, nel gergo del paese, vuol dire rimaner zitellona. In quell'oscurità, Nanna arrossí come una vampa. Se avesse avuto sotto mano quell'uomo, in quel momento lo avrebbe ucciso. Toccò fremendo nel paniere della cognata, e sentí il fiore di filigrana. Intanto Gaudenzio si allontanava pian piano traverso le aiuole. Ella non prese tempo a riflettere. Ravvolse fiore e gomitolo nella pezzuola di Rosetta, e la spinse con impeto dietro il donatore insolente. Poi rientrò nel forno, e tornò a guardare traverso le imposte. Gaudenzio stava fermo in piedi, ed osservava attentamente qualche cosa. Forse la pezzuola di Rosetta. Nanna provò un momento di amara soddisfazione. L'aveva fatto apposta a respingere i doni nella pezzuola della cognata. Egli li crederebbe respinti da lei, e gliene serberebbe rancore. Quell'insulto finí di avvelenare il cuore di Nanna. Da quella sera il suo odio contro Gaudenzio e la cognata divenne sragionato, implacabile. Non era piú gelosia; non era piú invidia; era odio, era sete di vendetta. Invece di porre ostacoli al loro amore, come aveva fatto fin allora, desiderava che accadesse qualche enormità per sorprenderli e svergognarli. - Ch'egli le renda soltanto la pezzuola - pensava - poi dirò tutto. E pregustava l'amara soddisfazione, di confondere ed avvilire la bella Rosetta. Si figurava di vedere la cognata rientrare in casa colla pezzuola al collo, e di domandarle: - Come? Non l'avevi perduta quella pezzuola? Non te l'avevano rubata? E l'altra inventerebbe delle scuse: - Sí; ma l'ho trovata nell'orto, - oppure: - Me l'ha portata il tale; o la tale - e non nominerebbe Gaudenzio per non dire d'avergli parlato da sola. Ed allora lei, Nanna le direbbe dinanzi a tutti, il babbo, la mamma, il marito geloso, tutti: - Bada; dici la bugia. È Gaudenzio che te l'ha data. Io lo so, perché sono stata io che l'ho gettata a lui la notte di Santa Lucia. E direbbe del fiore; e Pietro rimanderebbe la moglie infedele ai suoi parenti; e la casa sarebbe liberata per sempre dalla bella Rosetta e dal suo amante insolente... Quell'anima avvilita s'inebriava di tali visioni crudeli. Ma non si realizzarono. Appena fu giorno, Rosetta corse in cucina per vedere se Santa Lucia le avesse portata la strenna, e fece un chiasso da non dire per la scomparsa della pezzuola. Se ne lagnò con tutti. Quella perdita reale, le fece dimenticare il dono vagamente sperato. - Oh, chi ha trovato la mia pezzuola? - andava gridando nel cortile. - Pacifico, se andate fuori, guardate se vi riesce di trovarmi la pezzuola lungo il viale - e s'avviava ella stessa a cercarla dall'altro lato nell'orto. - Non vorrei che la riavesse subito da Gaudenzio, poi venisse a dirci di averla trovata, ed io non potessi smentirla - pensò Nanna. E si pose a fianco della cognata, per verificare che la pezzuola non si trovava Ma i suoi calcoli l'ingannarono. Aveva contato senza l'astuzia di Gaudenzio. Egli non era un cavaliere errante. Non pensò a tenersi quella pezzuola sul cuore, ad assorbire il profumo della donna amata. Gli premeva di non suscitare scandali, di non destare il sospetto ch'egli fosse entrato nell'orto, di notte. Quando le due cognate furono presso la siepe, Rosetta mise un grido: - Ecco! È qui! - Nanna fu tutta scossa. Nella sua idea fissa, credeva di vedere Gaudenzio. Vide invece la pezzuola, distesa sui rami della siepe. Era sconfitta. Nessuno poteva dire chi l'avesse posta là. Se avesse dichiarato che era Gaudenzio non l'avrebbero creduto. Sarebbe stato rivelare inutilmente lo scherno del gomitolo di cui soffriva tanto. - È Santa Lucia che t'ha fatta la grazia di toccare il cuore al ladro - suggerí Maddalena. Nanna lasciò dire, e si propose di vendicarsi in altro modo. - Li riprenderò - pensava. - Quello spillo deve darglielo. Egli non ci rinuncierà cosí facilmente; ed io non frapporrò altri ostacoli. Ma appena sarà nelle mani di Rosetta, allora parlerò. Ci sarà la prova. Quel grullo di Pietro è tanto cotto della sua sguaiata di donna, che senza prova non vorrebbe darmi retta. La sera nella stalla non perdette una parola né uno sguardo di Gaudenzio. Egli teneva il broncio a Rosetta; ma era chiaro che Rosetta non ne capiva il motivo. Era tutta sorpresa. Gaudenzio, per dimostrarle meglio il suo risentimento, corteggiava Lucia. - Vi ha portata la strenna la vostra santa? - le domandò. - Non ho messo fuori il paniere - rispose la bimba, tra meravigliata e contenta di vedere quel gallo della checca occuparsi di lei, mentre la sera innanzi era stato galante con Nanna. - Perché non l'avete messo? - domandò ancora Gaudenzio. - Perché sapevo già che Santa Lucia non mi porterebbe nulla. - È vero. Santa Lucia porta la strenna ai bimbi, e voi siete una giovane da marito. Lucia sorrise e si fece rossa; un istinto di civetteria, da innamorata, le inspirò il desiderio di dire, o almeno di far capire, il vero motivo geloso per cui non aveva messo il suo paniere cogli altri due. - Nanna e Rosetta sono piú grandi di me, e l'hanno pur messo fuori il paniere. Aveva preparato senza volerlo la via al discorso cui mirava Gaudenzio. Invece di domandarle com'ella s'aspettava, perché lei sola non avesse fatto come le altre, le disse: - Dunque Rosetta e Nanna l'hanno avuta la strenna? - Síí! - gridò Rosetta - Bella strenna che ho avuto io! Mi hanno rubata la mia pezzuola. - Ve l'hanno rubata? - ripetè Gaudenzio con piglio incredulo. - Sicuro; e poi si sono ravveduti, e l'hanno lasciata sulla siepe dell'orto. - Siete ben certa di non esser sonnambula, e non averla fatta andare voi stessa sulla siepe dell'orto? - Ma che! Ho dormito tutta la notte d'un fiato. Allora Gaudenzio si pose a scherzare su quel sonno profondo, come un uomo che non ci credesse. Era persuaso che Rosetta avesse respinto il suo dono, e se ne pigliava una piccola vendetta da amante offeso ripicchiando le parole di lei, e corteggiando la sorellina che era tutta rossa di gioia Rosetta si fece triste, e quella sera si coricò senza parlare a Lucia. Ella pure era gelosa. Quando la bimba fu addormentata stette a guardare a lungo quel visino gentile, ancora infiammato dalle emozioni della serata, e sorridente nel sonno. Provò un momento di dispetto al vederla tanto bellina. La domenica tornò Pietro, e la sera nella stalla disse che per tutta la novena di Natale non andrebbe piú a fare trasporti, e lavorerebbe nell'orto. - Sarebbe ben meglio - disse Nanna, - che tu stessi a casa sempre. - Perché? - domandò Pietro. - Perché... perché... via il gatto i sorci ballano. - E gli occhi delle due cognate s'incontrarono. Rosetta, che aveva sulla coscienza la storia del paniere, e la speranza con cui l'aveva messo alla finestra, s'affrettò a parare il colpo. - Sí; ne abbiamo fatte delle nostre questa settimana - disse al marito. - Nanna ed io abbiamo messo fuori il paniere per Santa Lucia. - E Santa Lucia ha rubato la pezzuola di Rosetta - aggiunse Nanna. - Ma l'ho riavuta, sai. Era sulla siepe dell'orto. Pietro guardava sospettosamente le due donne. Capiva che Nanna aveva l'intenzione di accusare sua moglie. Ma di che? Forse aveva ricevuta una strenna? Egli domandò col cuore serrato: - E cosa ci avete trovato nel paniere? - Nulla - disse Rosetta - M'è rincresciuto assai di trovarlo vuoto. - Cosa ti aspettavi di trovarci? Lo spillo della salumaia? - domandò Nanna con ironia. Gaudenzio, che aveva scoperto studiando Rosetta ch'ella non sapeva nulla dello spillo dato e respinto, a quella parole di Nanna si confermò nel sospetto già concepito contro di lei. Rosetta invece non indovinò la cosa, e colse l'occasione per insidiare al marito l'idea di quel dono. - Lo spillo non me lo potevo aspettare - disse - perché Pietro era fuori. - Ma che! - gridò Maddalena spaventata per la seconda volta da quel pensiero ruinoso. - Quand'anche fosse stato qui, Pietro non avrebbe potuto fare una spesa simile. - Che cosa ne sapete voi, se posso o se non posso? - rispose con impeto Pietro, a cui aveva fatto piacere il sentire che la moglie aspettava il gioiello desiderato solamente da lui. Ma dopo quella risposta si vergognò d'aver osato dir tanto, ed uscí dalla stalla. Allora Gaudenzio prese il suo posto. - A Novara - disse - per Natale si mette fuori dalla finestra una scarpa. Ed allora è il Bambino che porta la strenna. - Io non metto fuori piú nulla - rispose Rosetta. - Provate. Non avete udito, che Pietro non si sgomenta del prezzo di quello spillo? Date retta. Mettete fuori lo zoccolo. Chissà che lo spillo non venga. - E vedendo che le vecchie parlavano tra loro soggiunse a bassa voce: - O dal vostro uomo, o da... Gesù bambino - concluse incontrando lo sguardo di Nanna. Egli stava in guardia, ora che la sapeva informata di tutto; ma tuttavia persisteva a voler fare il suo dono a dispetto di lei. Faceva a fidanza sull'ambizione di Rosetta e sulle proprie attrattive. - Si vede che le piaccio. Sfido! Accetterà lo spillo, ed inventerà una zia, una parente qualunque per dire che gliel'ha regalato, e per poterlo portare. Le donne sono tutte cosí. Un gioiello ed un bell'uomo, e addio virtú. Nanna dal canto suo, aveva bisogno che quel dono si facesse, per servirsene di arma contro la cognata; e lasciava fare fingendo di non avvedersi di nulla. - Sí - disse; - metteremo fuori i nostri zoccoli. Questa volta ci starà anche Lucietta. Lei che è piú giovane ci porterà fortuna. Poco dopo uscí dalla stalla per andare a coricarsi. Pietro era seduto sulla trave nel cortile. Egli le domandò: - Si va a dormire? - Io ci vado - rispose Nanna. - Non ho nessuno che mi faccia la corte io. - Ed entrò in cucina, e di là nel forno, poi nella sua stanza, lasciando il fratello con una spina di piú nel cuore. Poco dopo la raggiunse Lucia che, dacché Pietro era a casa, dormiva con lei. La bimba era tutta esaltata da quell'idea della strenna. - Gli zoccoli si distinguono meglio dei panieri - diceva. - I miei sono verdi; i tuoi sono neri lucidi; e quelli di Rosetta sono rossi a fiori gialli. Non si possono confondere. La vigilia di Natale, Nanna disse a Maddalena: - Mamma, me la lasciate fare a me la torta per domani? - Possiamo farla insieme. - No; lasciate che la faccia io, mentre gli uomini saranno fuori per la messa della mezzanotte. Mi piace di stare alzata la sera di Natale, finché suonano le campane. Debbo dire delle orazioni lunghe. Maddalena non fece altre difficoltà. La sera andarono prestissimo nella stalla. Quasi subito giunse Gaudenzio. Gli uomini dovevano recarsi insieme all'osteria, e di là alla messa della mezzanotte. Lucia cinguettò tutta la sera di zoccoli e di strenne. Rosetta non osava parlare. Gli occhi del marito erano intenti su di lei, e dopo la piccola scherma di parole sostenuta colla cognata per l'affare della pezzuola, la povera sposa era sempre impaurita. Non aveva nulla di grave da rimproverarsi. Tra lei e Gaudenzio non esisteva nessuna intimità. Ma sentiva di volergli bene piú che non dovesse; si conosceva debole accanto a lui; aveva capita la sua intenzione di regalarle lo spillo, e non aveva il coraggio di respingerlo. E tutto codesto la turbava, e la faceva tremare dinanzi al marito come una colpevole. Ed il marito s'era fatto piú cupo. Il suo sguardo era pieno di sospetti e di misteri. Prima delle dieci gli uomini si alzarono per uscire. - Dunque lo zoccolo? Lo metterete fuori? - disse Gaudenzio senza rivolgersi particolarmente a Rosetta perché si sentiva vigilato da Pietro. - Sí - disse Lucia con entusiasmo. - Sí - disse Nanna fingendo la stessa animazione. Rosetta non disse nulla. Gaudenzio non poteva decidersi ad uscire. Pietro s'avviò pel primo; ma si fermò sull'uscio nell'oscurità. Gaudenzio, che lo credette nel cortile profittò del momento per accostarsi a Rosetta dondolandosi sui fianchi e canticchiando: Va là va là Pepin... - L'avete a mettere fuori anche voi lo zoccolo - sussurrò. E s'avviò per uscire riprendendo la sconcia canzone. Nanna che era accanto alla porta udí un sospiro represso, e vide Pietro che s'allontanava soltanto in quel momento, affrettandosi prima che Gaudenzio giungesse alla porta. - Bene - pensò. - Sospetta già qualche cosa. Mi sarà piú facile aprirgli gli occhi - e gli tenne dietro collo sguardo, e lo vide che se ne andava con passo lento, a capo chino, in atto di profondo scoraggiamento. In quel momento tutto il passato di quel fratello, timido, amoroso e buono, le passò nella mente come una visione. La sua ammirazione infantile per lei, la spontaneità con cui s'era offerto d'andare nelle risaie per aiutarla a guadagnarsi l'argento, le cure che le aveva prestate nella sua malattia lontana da casa, l'offerta generosa di rifarle il letto nuziale co' suoi risparmi. E provò una fitta al cuore pensando al dolore che si disponeva a recargli. Ma tutto codesto passò in un lampo. Il tempo che Gaudenzio impiegò a traversare la stalla. Rosetta usciva anch'essa. Senza interrompere la sua canzone, quando furono nel buio della porta, Gaudenzio allungò un braccio, prese Rosetta per la vita e la strinse forte, gridando a squarciagola: Te gh'et la donna bella . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Poi se ne andò cantando sempre, senza avvedersi di Nanna che era celata nell'oscurità. Quell'abbraccio fece dileguare nel cuore geloso della fanciulla tutta la pietà pel fratello. - Non sono io che gli faccio del male - diceva tra sé. - È questa scostumata di bellezza che si è tirata in casa. Sarà il dolore di un minuto; come strappare un dente. E poi quando l'avrà rimandata ai suoi parenti vivrà tranquillo con noi, e non avrà piú dispiaceri, ed io non avrò piú umiliazioni. Infine quello che faccio, lo faccio pel suo bene. Ed uscí dall'ombra, e si diresse verso la cucina. Rosetta si voltò al rumore degli zoccoli, vide che Nanna era dietro a lei, e capí che aveva assistito a quella scena di cui era ancora tutta agitata. In cucina Rosetta, impaziente di ritirarsi nella sua stanza, prese la lucerna che era sulla tavola. Nanna le si accostò per accendere la sua. La luce le rischiarò tutte e due in volto. Nanna fissò la cognata negli occhi; questa li abbassò. Si sentiva scrutata fin in fondo al cuore. Arrossí vivamente e salí in fretta nella sua camera. Ma Lucia la seguí gridando: - Dammi lo zoccolo. - No, lascia. - Sí, me lo devi dare. Sai pure che Gaudenzio ha raccomandato di metterlo tutte e tre. Via, sii buona, dammelo. E la piccina corse alla cassa, ne tolse uno zoccolo da festa rosso a fiori gialli, e fuggí tenendo in alto la sua conquista col braccio disteso. - Quella ragazza è innamorata - pensava Rosetta. - Si figura che Gaudenzio le voglia bene; ed egli fa la corte a me che sono maritata. Oh santo Dio! E nell'ottava di Natale bisognerà andare a confessarsi. Cosa ho da fare io? Non me lo posso cacciare via dal cuore, cosí come una mosca. Io non ci ho colpa. Non ho fatto nulla per volergli bene. È venuto da sé. Oh, se Pietro fosse un altro uomo! - Intanto la bimba proseguiva allegramente la sua raccolta. Scese, entrò nella stanza di Nanna, prese lo zoccolo nero lucido; poi aperse il fagotto che le teneva luogo di valigia, cavò fuori il suo zoccoletto verde, piccino piccino, e corse in cucina a schierarli sulla finestra. - Guarda, Nanna, come stanno bene. Ci batte sopra la luna. Si distinguono perfettamente. Il Bambino non può sbagliare. - Bene - disse Nanna. - Ora va a coricarti, se vuoi avere la strenna. Il Bambino non vuol essere veduto. - Síí! Il Bambino! È un bambino grande, quello... - rispose la fanciulletta con malizia; e si ritirò ridendo nella camera di Nanna, e si cacciò in letto, e fu ben presto rapita in sogni deliziosi di strenne, di fiori d'argento, d'amori, di nozze. Nanna rimase sola, e s'affrettò a porre le mani in pasta per la torta del Natale. Era agitata, convulsa. Le sanguinava ancora il cuore ogni volta che si ricordava quel gomitolo, ed il modo indegno con cui s'era cercato d'illuderla per farsi beffe di lei, in omaggio alla cognata. E lo ricordava sempre. - A questo modo non si va avanti - pensava. E ripeteva in sé stessa molte considerazioni sull'onore della famiglia, sulla pace del fratello; e si forzava di persuadersi che la cognata fosse una grande colpevole, per rinfrancarsi nei suoi propositi vendicativi, e per vincere un vago sgomento che l'assaliva all'idea della catastrofe che stava per suscitare. Quella torta dovette riescire soffice come una spugna, grazie all'energia febbrile con cui Nanna maneggiò la pasta, stirandola, battendola, ravvoltolandola in tutti i sensi. Finalmente suonarono le undici e mezza: - A momenti sarà qui - pensò Nanna. - Porterà la sua strenna prima della messa, per dar tempo a Rosetta di pigliarla avanti che torni Pietro. Ma non la piglierà. Ci sarò io prima di lei a raccogliere il fiore. E la bellezza dovrà spiegare a suo marito da che parte viene. Ed intanto stese la torta rapidamente, l'arrotondò, v'impresse col dito tante piccole fossette, la spolverò di zuccaro; poi si lavò le mani, e si pose in ascolto dietro la finestra del forno. Gaudenzio era già entrato nella siepe. Nanna lo seguí coll'occhio fino alla finestra accanto, ed il suo cuore balzava come quando era stata presa dal tifo. Questa volta non si affrettò ad aprir l'uscio e guizzare in cucina. Sapeva già cosa potrebbe trovare, e non voleva respingere nulla. Dal canto suo Gaudenzio, dopo aver deposto qualche cosa negli zoccoli, non ebbe premura di allontanarsi. Voleva vedere se gli respingerebbero il dono come l'altra volta. Si pose nell'ombra presso il muro tra le due finestre, ed aspettò. Nanna udiva il respiro affannoso del carrettiere traverso le gelosie, e reprimeva con fatica il suo. Quei due cuori battevano collo stesso impeto, nel silenzio della notte, soli, ad un passo l'uno dall'altro; ma fra i sentimenti che li agitavano c'era un abisso; dall'odio all'amore. - Se non se ne andasse! - pensò Nanna. Ed un momento vide rovinare tutti i suoi progetti. Aspettò ancora alcuni minuti. Un tempo infinito per la sua impazienza angosciosa, poi s'udí scoccare il primo segno della messa. Tese l'orecchio, ma il suono della campana le impediva di udire se Gaudenzio si movesse. - Pure alla messa ci deve andare - pensò. - Pietro lo aspetta, non mancherà. In quella una figura alta uscí dall'ombra della casa, e s'avviò rapidamente traverso l'orto alla siepe. Nanna aveva indovinato. L'innamorato correva alla messa per non destare sospetti nel marito colla sua assenza. Ella stette a guardare quel portamento baldanzoso, quel cappello sull'orecchio, finché la grande ombra ebbe varcata la siepe. Poi si nascose il volto fra le mani, e rimase a lungo assorta ne' suoi pensieri d'odio, di vendetta. Suonò l'ultimo segno della messa. - Che Natale, mio Dio! - mormorò Nanna. - Ho mai avuto tanto veleno nel cuore. Che cosa ho fatto per essere disprezzata, avvilita, come sono? Ma è venuta la mia volta. Li avvilirò anche loro e resterò io la padrona di casa. La campana tacque e s'udí un passo lento avanzarsi verso il cortile dalla parte del viale. Nanna balzò in cucina, nell'idea di impadronirsi dello zoccolo di Rosetta, e portarlo nella sua stanza, per presentarlo poi la mattina alla cognata dinanzi al marito, e dirle: - Ecco la strenna che ho trovato nel tuo zoccolo, chi ce l'ha posta? Si alzò sulla punta dei piedi aggrappandosi al davanzale della finestra, e guardò. Il suo zoccolo e quello della bimba erano pieni di chicchi; ne uscivano le carte frastagliate. Questa volta l'avevano trattata bene anche lei. Non s'era voluto irritarla. Nello zoccolo rosso e giallo di Rosetta, c'era ancora il famoso fiore in filigrana. Nanna alzò la mano per pigliarlo, ma in quella l'uscio della cucina venne aperto, ed entrò Pietro. Rimase confuso al vedere la sorella là accanto alla finestra. Anche Nanna fu turbata sulle prime. Non si aspettava quella venuta improvvisa, e non era preparata a fare sul momento la sua terribile rivelazione. Esitò un minuto; poi il suo cattivo genio le suggerí questo pensiero perfido: - È il Signore che lo manda perché io gli apra gli occhi. - E disse forte: - Stavo guardando gli zoccoli... Gli occhi di Pietro esprimevano una paurosa ansietà. Fece un passo verso la finestra, ma non osò andare innanzi. Si vergognava, colla sorella invidiosa, della galanteria che voleva fare alla moglie. Nella sua timidezza morbosa, sentí il bisogno di scusarsi. - Ho portato lo spillo per quella donna, che ne ha tanta voglia - disse senza guardare la sorella, e mettendo sulla tavola un involtino leggero. Il piú difficile era detto. Nanna si fece pallida di rabbia; ma Pietro senza darle tempo di parlare continuò a scusare quella gentilezza coniugale: - Sono sempre troppo asciutto con lei! Le metto soggezione, e non so farmi voler bene... Dacché questo fiore le fa piacere... Non mi è poi costato tanto. E continuava ad attorcigliare la carta dell'involto intorno al gambo del fiore, ed a tenerci intenti gli occhi, che non osava alzare per timore di scontrare quelli di Nanna. Era ansioso di mettere il fiore nello zoccolo e di assicurarsi se Gaudenzio non l'aveva prevenuto. E tuttavia, intimidito dalla presenza della sorella, rimaneva là seduto sulla panca presso la tavola. Neppure quel dubbio orrendo che aveva nel cuore poteva fargli vincere la debolezza della sua natura fiacca. - Ecco com'è amata quella sguaiata! - pensava Nanna. - È lí annientato per lei. Piú maltratta gli uomini, e piú l'adorano. Io non sono piú nulla dacché è entrata in casa. Babbo, mamma, fratello, amanti, sono tutti per lei. Ah! Se potessi schiacciarla! E nell'esasperazione del suo cuore invidioso attinse il coraggio feroce di dire a quel povero uomo: - Sei giunto tardi; ce n'è già un altro fiore. Un grido disperato, straziante, uscí dal petto di Pietro, e finí in un singulto che lo scosse tutto. Si coperse il volto colle mani, e singhiozzò disperatamente: - Ah! Lo sapevo che sono di troppo a questo mondo! - Ed era tutto tremante e convulso, mentre stringeva qualche cosa nella tasca del farsetto. Poi si alzò, e si avviò verso l'uscio. Nanna fu atterrita. In quel momento soltanto vide tutta l'enormità dell'azione che stava per commettere, lo scioglimento orribile che potrebbe avere. Ella aveva pensato soltanto a quanto desiderava lei. Ma ora vedeva che un marito innamorato e tradito non si limita a rimandare la moglie, ed a vivere tranquillamente co' parenti. È una parte della sua vita che si stacca da lui. I parenti non sono nulla dinanzi a tanto dolore. Le si affacciò agli occhi una scena di sangue di cui s'era parlato a lungo pochi mesi prima. Un marito geloso del proprio fratello l'aveva ucciso, poi aveva uccisa la moglie. Pietro nella sua profonda umiltà non avrebbe cercato di punire nessuno. Ma avrebbe ucciso sé stesso. Nanna lo indovinò dalla sua disperazione; e tutte le passioni ignobili che l'avevano esaltata si dileguarono dinanzi a quella paura. Tutto questo le passò come un lampo nella mente e nel cuore e, prima che avesse tempo di fare un atto o di dir nulla, una parola di Pietro la confermò nel suo pauroso sospetto. Egli si voltò nell'atto di aprir l'uscio e le disse: - Nanna, abbi cura dei nostri poveri vecchi! - Pietro, dove vai? Cosa pensi? - gridò Nanna correndo a lui. - Eh! A nulla; va là - disse Pietro respingendola; e poi sussurrò: - È meglio finirla che vivere a questo modo. Nanna ebbe bisogno in quel momento di tutta la forza del suo carattere concentrato ed energico. Capí che le suppliche non avrebbero giovato a nulla su quella natura selvatica. Bisognava distruggere il sospetto geloso ch'ella stessa aveva suscitato con tanta perfidia. Non c'era altro mezzo per combattere la risoluzione di Pietro. Fece violenza all'angoscia che aveva di dentro, e si pose a ridere sguaiatamente. - Ah grullo! Ci sei cascato! Ora lo so che sei geloso. Ah grullo! Ah! Ah! Ah! Pietro si fermò a guardarla colla bocca aperta e gli occhi sbarrati dallo stupore. L'eccitazione nervosa di Nanna era ben dissimulata dal ridere convulso. Un raggio di speranza gli rischiarò il volto di tanta espressione di conforto, che Nanna se ne sentí incoraggiata e prese a sghignazzare piú forte. - Ah grullo di uomo! Geloso dopo pochi mesi di matrimonio! Ah! Ah! Ah! - Ebbene, se sono geloso di chi è la colpa? - disse Pietro tutto confuso. - Sei stata tu a venirmi a dire delle sciocchezze, di Gaudenzio, e di quella donna... - Se lo dico che ci sei cascato, e che sei un grullo! Non l'hai capito che facevo apposta per farti ammattire? E tu subito a farti scorgere, a far il geloso. Stupido, va'! Dammi qui il fiore che lo metta nello zoccolo della tua donna. Pietro sporse il fiore, esitante, quasi inebetito tra la speranza ed il timore. Ma appena l'ebbe dato gli tornò il dubbio angoscioso, ed afferrando Nanna pel braccio le domandò a bassa voce: - Ma l'altro? Hai detto che ce n'è un altro. In che zoccolo l'hanno posto? - E fissandola negli occhi continuò: - Non può essere nel tuo, Nanna. Quest'ultima parola era crudele. Nanna ne risentí una fitta al cuore. Ma aveva veduto troppo davvicino l'orrore del male. Represse l'impeto del suo orgoglio offeso, e rispose con uno sforzo di generosità, eroico sotto la sua forma volgare e grottesca: - L'altro è nello zoccolo di Lucia. Ce l'ha posto Gaudenzio; che è innamorato di lei, e si confida con Rosetta. E la ragazza pure è cotta di lui. Anche questo non l'avevi capito? Che ci hai la cateratta agli occhi? Ah! Povero sciocco! A quelle parole i nervi di Pietro, tanto lungamente eccitati, si allentarono; abbandonò il braccio di Nanna, ricadde a sedere, e gettando sulla tavola un coltello affilato che teneva nella tasca del farsetto, disse con voce cupa: - Hai giocato un brutto gioco, guarda. Mi sarei ammazzato! E scoppiò in un pianto convulso. Nanna a quella vista, al pensiero ch'era stata sul punto di uccidere il fratello, fu presa da un brivido che la scoteva tutta; e per nascondere la propria agitazione andò ad aprire la finestra per mettere il fiore di Pietro nello zoccolo di Rosetta. Pietro la guardava con un resto di dubbio. Non poteva credere a tanta gioia. - Perché tremi a quel modo? - le domandò. - Se credi che dia gusto sentir a parlare d'ammazzarsi, e vedere dei coltelli... - E rabbrividí ancora. - Giura che quel fiore è nello zoccolo di Lucia; giuralo! - gridò Pietro con impeto. Nanna aveva già la mano sullo zoccolo di Rosetta per deporvi il secondo fiore; afferrò rapidamente il primo, lo pose nello zoccoletto della bimba, e poi disse colla coscienza sicura: - Lo giuro. Vieni a vedere. Pietro non rispose altro. Sospirò con soddisfazione, chiuse lentamente il coltello, e lo pose nel cassetto della tavola; poi rimase immobile coi pugni alle tempia guardando fissamente la tavola. Pensava forse tutte le angoscie sofferte; era ancora abbattuto, ma era calmo. Nella rettitudine del suo cuore non poteva sospettare che la sorella giurasse il falso; e dopo quel giuramento non dubitava piú. Considerava la cosa sotto un aspetto diverso. Dacché Gaudenzio era innamorato di Lucia, tutte le sue confidenze a Rosetta si spiegavano da sé. Le parlava della bimba e del suo amore. Rosetta, dalla finestra della sua stanza che dava anch'essa sull'orto, aveva veduto giungere e ripartire il bel Gaudenzio. Aveva aspettato trepidamente che suonasse l'ultimo segno della messa per esser sicura che tutti gli uomini fossero fuori. Nanna a quell'ora doveva aver finito di preparare la torta, ed essersi coricata. Era il momento buono per scendere a togliere lo spillo dallo zoccolo. Il rimorso e la paura le torturavano il cuore. - Vorrei che non l'avesse portato - pensava. - Non avrò che il fastidio di nasconderlo. E poi? Avrò un'obbligazione con Gaudenzio. Cosa pretenderà in compenso? Ah! Quel demonio di uomo è tanto bello, e sa tanto fare; non gli si può dire di no. Oh Signor Iddio benedetto! Come andrà a finire? Io voglio essere una brava donna. Mi piace di ridere; ma non voglio fare del male. Pietro non lo merita. È un po' selvatico; ma mi vuol bene, ed è buono come il pane, poveretto. Ed intanto scendeva pian piano, passando scalza, con quel freddo, dinanzi alla camera dei vecchi. Nell'aprire l'uscio della cucina rimase sorpresa di trovarci il lume acceso. Vide il marito e la cognata, e si fermò esitante non osando entrare. Nanna comprese che, se non l'aiutava, quella comparsa avrebbe ridestato i sospetti del fratello. - Oh! Qui c'è Rosetta - disse forzandosi di apparire tranquilla - Ti sta sul cuore, eh, la strenna del Bambino? - Oh no... - rispose Rosetta affrettandosi alla finestra, senza osare di alzare gli occhi. - So bene che non mi porterà nulla. Voglio soltanto ritirare il mio zoccolo dalla finestra. Temo che l'umido della notte lo guasti. Sta per nevicare. Pietro, che aveva gli occhi gonfi dal pianto, andò sull'uscio dicendo: - Non mi pare che voglia nevicare. E stette a guardare il cielo nell'oscurità per nascondere la sua commozione. Intanto Rosetta prese il suo zoccolo, e sentendoci dentro il fiore, allungò la mano per gettarlo a terra di fuori. Ma Nanna le tirò dentro rapidamente il braccio e le sussurrò: - Non lo gettare. È lui che ce l'ha posto. Ringrazialo. - E la spinse verso Pietro. Rosetta guardò la cognata, la vide commossa e rimase atterrita. Che sarebbe di lei? Che sarebbe del fiore di quell'altro? Intanto Pietro rientrava. Nanna spinse di nuovo la cognata verso di lui, e disse: - Ne vuoi sentire una buona, Rosetta? Questo povero grullo, grande e grosso com'è, aveva paura di Gaudenzio. Era geloso. - Ma che! Geloso! Non è vero - disse Pietro tutto confuso. Quanto a Rosetta, non capiva ancora. S'era fatta pallida; credeva che la cognata le preparasse una perfidia. Ma Nanna ripigliò: - Non istar a negarlo. Forse che non t'ho visto piangere? E questo l'avevi comperato per mandar cipolle? - E pigliato il coltello nella tavola, lo teneva alzato dinanzi a Rosetta, che rabbrividiva tutta a quella vista. Poi rivolgendosi a lei continuava: - Figurati! Egli credeva che Gaudenzio l'avesse con te. Come se non ci fossero altre donne che la sua a questo mondo, aveva paura che gliela mangiassero. - Oh! Io non penso a Gaudenzio - disse Rosa che cominciava a comprendere d'aver nella cognata un appoggio. - Síí! Vaglielo a dire. Ho dovuto raccontargli tutto; che Gaudenzio è innamorato della bimba, che te lo confida, che ha messo il fiore d'argento nel suo zoccoletto verde; tutto, se ho voluto che mi credesse. Ed ora si vergogna; ma non sarà tranquillo, guarda, finché non glieli fai vedere sposati. Io lo conosco. Pietro era sugli spilli per la vergogna. - Vuoi finirla? - disse con mala grazia. - Io non ci penso neanche. Rosetta, troppo agitata per poter parlare, saltò al collo del marito e lo baciò con trasporto, malgrado i suoi sforzi per respingerla. Si sentiva salvata. - Sí, sí - gli disse con uno slancio di cuore. - Lucia è innamorata, e debbono sposarsi. - E soggiunse con tutta l'espansione che le era naturale: - Ne sono tanto contenta! È come se mi facessi sposa io stessa un'altra volta. E voi, uomo, siete contento? - E lo abbracciò e poi abbracciò Nanna esclamando: - Avremo sponsali in famiglia; saremo tutti felici. - E le strinse la mano sussurrandole all'orecchio: - Grazie, Nanna. Mi hai proprio fatto da sorella. Era cosí sollevata dal sentirsi sfuggita ad un pericolo, che non dubitava del consenso di Gaudenzio, non dubitava di nulla, si sentiva riconciliata con sé stessa ed era felice. Nanna lasciò soli gli sposi ed uscí nel cortile. Dopo tanta concitazione provava il bisogno di piangere, e pianse a lungo in silenzio. Un profondo pentimento le era entrato nell'anima. Dinanzi alla disperazione di Pietro, alla riconoscenza sincera di Rosetta, era tornata buona, e sentiva orrore de' suoi sentimenti malevoli; e diceva: - Povera giovane: non ha che diciotto anni infine. Dovevo avvertirla prima, e mi avrebbe ascoltata. Ma avevo il demonio in cuore. Se gli avessi dato retta, che Natale d'inferno si sarebbe fatto in casa! Ma il Signore mi ha toccato il cuore. Quella campana di Natale mi rimescolava tutta laggiú nel forno... E nondimeno tremava pensando all'avvenire. Ora, nell'impressione del primo momento, sentiva tutta la dolcezza d'aver fatto del bene, ed era soddisfatta. Ma poi? Quell'entusiasmo cesserebbe. Le cose prenderebbero il loro corso abituale. Gaudenzio sposerebbe Lucia, o cesserebbe di frequentare la casa. Piú probabilmente la sposerebbe, perché Lucia s'era fatta fresca come una rosa dacché era alla cascina; era giovane, bella, aveva qualche cosuccia, e Gaudenzio era già avanti negli anni; e poi Rosetta troverebbe modo di persuaderlo per la pace di tutti. Pietro e Rosetta, ravvicinati da quella catastrofe, si amerebbero bene fra loro, e non potrebbero avere per la sorella vecchiotta e zitellona che un affetto secondario. Ella si troverebbe d'impaccio fra loro. I vecchi avevano poco da tirar innanzi. E lei povera Nanna, rimarrebbe ancora sola, ancora isolata, senza nessuno a cui volere tutto il suo bene, e che ne volesse altrettanto a lei. Ed allora, come farebbe a non invidiare quelli che hanno una famiglia e sono felici? Tornerebbe al male senza volerlo, in causa delle sue circostanze, del suo isolamento. Pensò tutto codesto con angoscia, e pianse, e pregò con fervore: - Oh Signore Iddio! Datemi una buona inspirazione. È la notte di Natale. Uscita la sorella, rimasto solo colla sposa, ed incoraggiato dalle espansioni di lei, Pietro le aveva narrato piangendo le sue gelosie, i suoi timori, la sua disperazione, ed il proposito orrendo di uccidersi. Erano commossi entrambi. Ed in quell'intimità infinita che lega gli sposi, in quelle prime lagrime versate insieme, si sentivano profondamente felici. Ad un tratto qualcuno bussò con furia all'uscio, e la voce di Pacifico gridò: - C'è qualcuno alzato? - Sí, ci sono io. - disse Pietro scostandosi in fretta dalla moglie, e correndo ad aprire. - Venite con me. Temo vi siano i ladri nella mia stanza, ci vedo un lume, ed ho lassú la bambina. I due uomini s'affrettarono su per la scala, e Rosetta, che era coraggiosa, li seguí in silenzio. Pacifico spinse l'uscio, e rimase immobile dallo stupore. Vide una lucerna sulla cassa ai piedi del letto; e Nanna inginocchiata accanto alla culla della bambina. Pietro si fece rosso come una vampa al vedere la sorella di notte nella camera d'un uomo, e le gridò con mal garbo: - Nanna, cosa fai qui? - Sto guardando il mio dono di ceppo, e ne ringrazio il Signore - disse Nanna alzandosi. - Egli s'è ricordato anche di me, sebbene io sia vecchia e brutta; e mi ha mandato questa bambolina; e mi ha dato un cuore di mamma per volerle bene. Non è vero Pacifico, che debbo essere la sua mamma? Pacifico nell'eccesso della gioia corse a lei colle braccia protese come per abbracciarla. Ma non osò fare quella scena davanti a tutti; e lasciandosi cadere le braccia penzoloni rimase come istupidito a guardarla a bocca aperta Rosetta fu la sola che comprese tutto. E colla sua espansione spontanea, abbracciò Nanna e le disse: - Iddio ti benedica, Nanna, per quello che fai a questa bimba, e a questo pover'uomo che ti vuol tanto bene. - Oh sí, per me vi voglio bene - disse Pacifico. - Davvero? - domandò Nanna con un lampo di gioia nello sguardo. - Non lo sapete forse? Non vi ho forse già domandata per moglie? Siete stata voi che non mi avete voluto. - Ma per la bambina, mi avete domandato. - Per la bambina, ed anche per me. - E dicevate che ero vecchiotta e punto bella... - disse Nanna con un po' d'ironia, incapace di sacrificare quel meschino risentimento alla bella parte che stava rappresentando. Appunto forse perché non rappresentava una parte, e nella sincerità dell'animo, si mostrava qual era, una donna con le sue debolezze nel bene come nel male. - Ebbene - rispose Pacifico senza curarsi di disdire quelle parole per cortesia, - a me piacevate cosí. Di vecchiotte e punto belle se ne trovano tante. Ma avete ben veduto s'io ne ho cercata un'altra. Sarei stato sempre solo, guardate. - E curvandosi per non essere udito soggiunse: - È da quando ci trovammo in risaia che vi voglio bene. Rosetta capí che avevano bisogno di restar un momento soli, e dando un urto col gomito al marito, gli fece segno di uscire con lei sul balcone. Allora Nanna, con un'espressione di civetteria, che dissimulava male l'ansietà passionata di scoprire quanta parte d'amore le fosse ancora dato sperare da quello sposo, gli disse: - Mi volevate bene, e ne avete sposata un'altra? - L'ho sposata, perché ho dovuto sposarla, Nanna. Ora posso dirvelo, dacché lei è morta e voi sarete presto la mia donna. Quella poveretta, requie per l'anima sua, s'era trovata con mio fratello in una di quelle risaie del Piemonte dove giovani e ragazze lavorano appaiati alla trebbiatrice. E neanche i riguardi dell'onestà ci avevano in quella fattoria. Uomini e donne dormivano sullo stesso fienile. E, capite. Quei due ragazzi si volevano bene... Basta; dopo i lavori a mio fratello toccò d'andare soldato. Aveva preso le febbri in risaia e partí che non era ben guarito. Un po' di cruccio, un po' di male vite, che so io, si pigliò un tifo che lo mandò all'altro mondo in pochi giorni. Un pezzo d'uomo!... Basta; quando andai a trovarlo all'ospedale militare. mi disse: "Quello che mi fa piú rincrescere di morire, è quella povera Caterina. Se il suo babbo lo sa, l'ammazza, o me la mette sulla strada". - E piangeva che era una compassione. Io pensai soltanto a consolarlo e gli risposi: "Senti, Michele. Siamo sempre stati buoni fratelli; metti il tuo cuore in pace, che alla Caterina ci penso io". - E capite, Nanna; io avrei voluto sposare voi; ma la promessa fatta ad un moribondo si deve mantenerla. L'ho sposata io quella povera disgraziata, e le ho fatta buona compagnia; di rimorsi non ne ho; ma ho sempre voluto bene a voi. - Ma allora questa bambina...? Disse Nanna quasi in atto di respingere la culla. - Non ha piú né babbo né mamma - disse Pacifico in tono supplichevole; - ed io le ho preso a voler bene... - Ed io pure gliene vorrò, e sarà come se fosse nostra - mormorò Nanna curvandosi verso la bimba addormentata, e baciandola sulla bocchina socchiusa. Poi soggiunse carezzandole i bei ricci biondi: - E non andrà mai in risaia. L'indomani era una benedizione vedere tutta quella gente alla mensa di Natale. Rosetta vezzeggiava il suo ispido uomo come se lo avesse sposato allora. I vecchi erano felici di maritare la figliola. Pacifico, lasciamo stare. Era sempre a guardare Nanna colla bocca aperta, e tratto tratto le diceva: - Dunque sarete la mia massaia? Demonio di ragazza! Se vi siete fatta sospirare! Il letto è pronto; quand'è che comincerete a scodellare la minestra a casa mia? - Ed altre espansioni rustiche in cui metteva tutta l'anima, pover'uomo, come i loro sposi, mie belle lettrici, in un verso sentimentale. Gaudenzio c'era anche lui; era andato al mattino a dar il buon Natale per sentire cosa ne era stato del fiore d'argento, e Rosetta l'aveva persuaso facilmente. A conti fatti non era una passione di quelle che logorano il cuore, la sua. Aveva un capriccio per quella bella sposa; ma l'idea di sposare quel gioiello di bimba, ed innamorata poi che lo lasciava traspirare da tutti i pori, gli andò a sangue; e fu un affare concluso; tanto piú che Rosetta lo assicurò d'essere stata a sedici anni sottile come un gambo di canape. Tutta quella floridezza le era piovuta intorno dai diciassette ai diciotto. Egli si figurava la sua sposina fra un anno triplicata almeno, ed era contento, e si dondolava più che mai, e si metteva il cappello tanto sull'orecchio che era un prodigio. E Lucia era in estasi dall'ammirazione, saltava di gioia, e trionfava col suo bel fiore d'argento nei cappelli bruni. Ed esclamava contemplando il ciuffo spropositato del suo sposo: - L'avevo capito da un pezzo io, che parlavate sempre con Rosetta di me, e che mi volevate dare il fiore d'argento. Oh! Se l'avevo capito! Povero cuore innocente! Non sapeva sotto che tempeste era cresciuto il suo fiore di ceppo.

Le donne milanesi

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Neera 1 occorrenze

Ripassano verso sera, un po' stanche, un po' abbattute, chiacchierine tuttavia e senza avere perduto nulla della solita eleganza. Tornano a casa a due, a tre, rare volte sole, e se è sola la madamina ci ha il suo bravo perchè, nascosto sotto il pastrano di un giovane di studio, ritto sulla cantonata. Si sorridono da lontano, scambiano poche parole, si danno un appuntamento. I passanti si voltano a guardarli e se sono vecchi sospirano. Età dell'oro! Dopo i trent' anni la madamina non c'è più ; o muore o si marita, e allora cessa di essere madamina. Una volta ne incontravo sempre una, bellissima, bionda, troppo bella e troppo bionda, una rarità della specie. Aveva in qualsiasi giorno e con qualsiasi tempo un vestito di lana nera e di lana blù, alternate in modo capriccioso. Abitava sola una camera verso giardino; sul davanzale della finestra la ci aveva un vaso di maggiorana e una gabbia di canarini, e quand' ella compariva nel vano di quella finestra io desideravo una cosa sola: essere pittore. C'è qualcuno che si ricorda ancora di te, povera madamina, fra coloro che ti hanno accompagnata al sepolcro ?.... Si calunniano un po' le madamine. Molte di esse sono brave ragazze, in fondo ; si maritano presto, hanno i loro figlioli che spesso allattano, diventano grasse e non portano più vestiti a cuore. È la loro età dell'argento.

Teresa

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Neera 1 occorrenze
  • 1897
  • CASA EDITRICE GALLI
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Restarono le Autorità, per obbligo; e poi restarono i giovani, i forti, fra cui Orlandi, inebbriati dal pericolo e dalla fatica, aiutando il trasporto dei sacchi, reggendo le fiaccole, dando mano al piccone dei muratori; finché l'alba biancheggiò sui boschi, illuminando le faccie pallide e abbattute, il fiume ancora minaccioso, e a tergo il paese colle sue case sventrate, simili ad enormi e inguaribili cancrene.

Oro Incenso e Mirra

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Oriani, Alfredo 1 occorrenze

Oggi che tutte le barriere sono abbattute fra popolo e popolo, e si fanno le ferrovie sotto il letto dell'oceano, e si sventrano le montagne, che cosa è la patria? Pei popoli, che dicono di averla, è il sentimento di un fatto già trascorso; pei popoli, che non l'hanno ancora, il sentimento di un fatto futuro. I popoli liberi dichiarandosi uguali vogliono uniformare leggi e costumanze, conciliare tutti gli interessi per annullare tutte le differenze; i popoli schiavi aspirano alla patria per smarrirla all'indomani nella fratellanza universale. La patria è il mondo, non vi è dunque più patria. Quale è la nostra religione? - La mia? - esclamò la duchessa con un sorriso - aspetto che me lo diciate. - La vostra risposta invece di essere spiritosa è profonda. Noi non abbiamo più religione: il sentimento religioso è rimasto perchè immortale, ma delle sue molte costruzioni nessuna è ancora dritta in fondo alle coscienze. Rovine dunque! Al principio del nostro secolo la poesia le ha cantate, adesso anche il canto è cessato perchè furono distrutte anche le rovine. La critica arrivò d'ogni lato con un'orda di scienziati, che si divisero ringhiosamente i rottami vantandosi con essi di ripetere l'edificio. Qualche volta son arrivati a ridisegnarne la pianta, e urlarono al miracolo, come se la pianta del Campidoglio rifatta dal Canina, quand'anche vera, potesse valere, non dirò nella coscienza di un popolo, ma nella immaginazione di un artista lo spettacolo del Campidoglio quale l'anima di Roma l'aveva profeticamente intuito, dieci secoli di storia composto, e l'anima di Roma morente l'aveva veduto per l'ultima volta fra le fiamme e la bufera dei barbari trionfanti. Che cosa è oggi la famiglia? La sovranità del padre, l'autorità del cognome, la catena della tradizione, tutto è spezzato. Una volta ogni famiglia era una dinastia, adesso è una democrazia, che sta per diventare demagogia: il padre si vanta amico del figlio, la madre sorella delle figlie. Rovine dunque! Anticamente la famiglia fu una torre nello stato che era una fortezza, nella patria che era un mondo contro il mondo; poi nel medioevo la torre diventò un palazzo, il palazzo una casa, oggi i ricchi hanno un appartamento e i poveri una camera. Ecco la famiglia: il gruppo è rimasto perchè insolubile, ma l'edificio, che s'innalzava sopra di esso come sopra tre cariatidi, padre, madre e figlio, è crollato. - Voi mi spaventate - disse la duchessa, diventando seria suo malgrado. - Perchè? Lo sapete pure che la vita dell'individuo nell'umanità è una rovina, che passa, in una rovina, che resta. Le rovine vi spaventano? Ma non siamo noi stessi un risultato di rovine, non siamo noi composti coi ruderi di venti civiltà, che si frantumarono compenetrandosi? Ieri Renan, il vostro scrittore prediletto, inseguito dal dubbio attraverso la propria nobile ed immensa erudizione, si domandava in un ammirabile opuscolo: che cosa è una nazione? Renan, che nell'estrema sensibilità della propria fibra ha sentito tutte le malattie del nostro secolo, vicino forse a morire s'accorge che la nazione sta morendo. La vita antica aveva due termini, individuo e stato; la vita moderna ne la ancora tre, individuo, stato e umanità; la vita futura tornerà ad averne due, individuo e umanità. Che cosa è la nazione? L'orda. La patria? L'accampamento. Così la storia si mise in cammino, ha scritto con frase immortale il Quinet. Quando la tenda diventò di sasso e il terrapieno una muraglia, l'accampamento si trasformò in città: allora l'orda si mutò in popolo, e la patria arrivava fin dove gli ultimi armati dell'orda potevano accampare lungi dalla città. Lì era il confine della patria, l'orbita tracciata a quel popolo dalla sua doppia forza di attrazione e di ripulsione nel sistema storico del mondo. Adesso le città non hanno più mura e i doganieri passeggiano su tutti i confini invitando i viaggiatori a varcarli: non vi è più patria, non vi sarà dunque più nazione. - Ed è per questo che non si scrivono più capolavori? - Chi sa? Il capolavoro è un quadro: vi sono dunque condizioni di luce e necessità di prospettiva, che lo dominano: poi un quadro dev'essere composto in modo che esprima più di quello che fa vedere. Ogni angolo di campagna non è quindi un paesaggio, nè ogni crocchio un gruppo. Un capolavoro - seguitò l'illustre critico correggendosi con atto nervoso - è anzitutto una visione, che ha bisogno di formarsi nel popolo prima di tradursi nell'opera dell'artista. Laonde occorre che nello spirito del popolo, dal quale deve sorgere, istinto, sentimento e idea, queste tre forme della vita, non si siano offese collo svolgersi; che la sua filosofia non sia troppo alta nè la sua religione troppo bassa, che la sua scienza sappia analizzare ma non ancora decomporre, che la sua civiltà sia arrivata a quel grado e la sua storia a quel punto, nel quale l'una tocca l'apogeo e l'altra trova la coscienza; bisogna finalmente che la stessa perfezione necessaria all'artista per estrarlo si sia prima verificata nel popolo per produrlo. A venti o a settanta anni non si scrive un capolavoro, non si fonda una religione, non si costituisce un impero: le reggi della vita sono identiche nell'individuo e nel popolo. Ci vuole dunque una unità fisica di razza, una unità morale di sentimento, una unità ideale di pensiero; se il popolo non sarà uno come razza, non arriverà alla necessaria intensità di sensazione: se non sarà uno moralmente, mancherà l'unità di composizione; se non sarà uno idealmente, quella di significato alla sua opera. Orbene siamo noi uni come razza, per esempio, noi italiani? Oggi una statistica sta contando il colore dei capelli e degli occhi per apprendere la proporzione fra le razze, che ci compongono; sono molte, troppe anzi. Tutti i barbari attraversarono l'Italia per andare a Roma e nel partirsene ci lasciarono dei bambini per compenso dei tesori rubati o distrutti. Prima del cristianesimo Roma era diventata l'emporio di tutte le religioni: il cristianesimo le divorò, ma esse gli rifiorirono in pustule sulla pelle. Il vapore e il telegrafo hanno reso costante quello che era momentaneo, cioè il passaggio di un popolo attraverso un altro; il commercio ci offre i prodotti, la scienza, le ragioni, l'arte gli spettacoli di tutti i popoli. Noi soccombiamo sotto il peso delle nostre conquiste: lo stato non difende più la nostra personalità storica, l'umanità non ci ha ancora dato la propria. Il cielo non è più per noi che un deserto popolato di mondi, la terra un laboratorio gremito di viventi; la critica ha distrutto la leggenda senza creare la storia, la religione ha perduto Dio conservando i santi, la scienza non ha sorpreso il fenomeno che per disperare di rinvenire la legge. Tutti i medici sostengono oggi che l'ingegno è una nevrosi, e infatti basta guardare la fisonomia d'un uomo d'ingegno per vedere quella di un malato: negli uomini moderni la testa è più grossa e il petto più angusto che nelle statue antiche. L'ultima filosofia, la massima, l'hegeliana, risolve l'universo in una idea: l'ultima scienza, il darwinismo, conclude nell'uomo all'animale; l'ultima affermazione cattolica è stata la necessità del potere temporale, l'ultimo grido della poesia una bestemmia, l'ultima parola dello stato una parola di abdicazione: libertà! - Lo so che non siete liberale: e allora? Egli si fermò. Evidentemente il lungo discorso lo aveva affaticato: la sua bella faccia di pensatore colla fronte alta sotto i lunghi capelli grigi perdette lo splendore della ispirazione, i suoi occhi si appannarono, un'ombra gli si distese sulla bocca e vi spense il sorriso. Quindi reclinando la testa sul petto parve seguire giù nell'oscurità di un baratro lo sprofondarsi di una visione, ma improvvisamente si raddrizzò, e con quella voce lenta e dolce, che ammaliava subito il pubblico dall'alto della cattedra, riprese: - Sainte-Beuve pel primo ha trovato l'immagine paragonando Renè a una torre e le altre opere di Chateaubriand ad un gruppo di case agglomerate sulla sua base. Oggi che il libro ha ucciso il monumento e il monumento è morto nel libro, giacchè non si scrivono più capolavori, l'immagine trovata da Sainte-Beuve per Chateaubriand vale per tutti, e chi fabbrica una capanna, chi una casa, un palazzo, una villa, una città. Guardate Balzac, che Sainte-Beuve, il primo critico del secolo, ha negato: Balzac, il primo genio del secolo, che si dibatte trent'anni per scrivere un capolavoro senza riuscirvi, e invece di alzare un monumento fonda una città. I suoi quaranta volumi sono tanti rioni, nei quali si muove una popolazione identica e diversa siccome in tutte le città: non manca una bottega, una industria, un istituto, una scuola. Dalla pescivendola alla principessa del sangue o dell'avventura la città possiede tutte le categorie e le varietà femminili; vi saranno trenta pittori, cento giornalisti, poeti e scienziati, preti e demagoghi, assassini e gendarmi, burocratici e soldati, parlamento e prigioni, ospedali e teatri, genio e follia, misticismo ed usura: plebe venuta dalla campagna, o germogliata fra il selciato, o nata dal fermento delle immondizie accumulate negli angiporti. Vi sono i martiri oscuri e gli eroi decorati, veri o falsi: Napoleone I vi passa parecchie volte nelle sue varie campagne, i Borboni vi soggiornano molti anni, Svedenborg vi arriva dalla Scandinavia. Vi è il passeggio pubblico costantemente pieno di carrozze, il corso rumoroso di folla; nei quartieri aristocratici la ricchezza moltiplica il frastuono e la luce, si profonde in capolavori e in aborti, ripete tutte le sue eterne grandezze e i suoi eterni obbrobrii. Nei quartieri bassi la miseria prosegue la propria vita di stenti aiutandosi di crimini e di eroismi, ingegnandosi con gioie minuscole e con piaceri bestiali, bestemmiando Dio e credendo nei signori. Ma le stagioni passano, e il clima varia dal gelo alla canicola, mentre migliaia di persone vivono in quella città, e la loro vita vi produce centinaia di drammi, migliaia di sentimenti e di idee. Balzac ha fondato da solo questa città, nella quale tutti verranno poi a costruire. - Ah! - esclamò la duchessa - comprendo. - Badate al primo, Flaubert. Un altro, il quale ha sognato il capolavoro, e penetrato della sua unità decise che ogni artista non può scriverne più di uno, giacchè bisogna attendere per esso il momento armonico di tutte le facoltà dello spirito con tutte le circostanze esterne. Flaubert verrà a fabbricare nella città di Balzac. Vedete quella casa? È la casa di Madame Bovary, forse la più bella della città. Critici ed artisti non si stancano di lodarne la disposizione interna, l'eccellenza dei materiali, l'armonia della facciata e dei fianchi: sciaguratamente critici ed artisti oggi non sono più buoni giudici, e però se molte case di Balzac, per esempio quelle di Eugenie Grandet o di Cousine Bette, mi paiono migliori, la casa di Madame Bovary resterà un eterno modello delle case borghesi al nostro secolo. Vedete dietro di essa quel magnifico mostruoso edifizio? Sono i palazzi di Salambò, ancora un'opera di Flaubert: Madame Bovary doveva essere il capolavoro, Salambò il monumento: il capolavoro è forse più bello del monumento, ma vorrei aver fatto piuttosto Salambò che Madame Bovary. Siete stanca? - No. - Allora, passeggiamo. Guardate, via Alessandro Dumas figlio: le due case all'imboccatura sono di Margherita Gauthier e di Clemenceau, lo scultore, più innanzi in quel vasto palazzo c'è il salone del Demi-monde. Via Emilio Augier: questa è più larga, di stile più solido e moderno. Vedete le finestre al secondo piano della terza casa a sinistra? Là stanno Les Lionnes pauvres, l'altra di facciata appartiene a Maitre Guerin, poi vi è quella del Gendre Poiret e subito dopo il palazzo degli Effrontès. Quest'altra strada, che ha un solo palazzotto elegante, ma pretenzioso, verniciato, leggete: via Octave Feuillet questo è il palazzotto di Camors. Via Champfleury: oggi è poco frequentata, in fondo vi è lo studio di Courbet il pittore. Vicolo Edmondo Duranty; è corto, senza sfondo. Oramai arriviamo alla grarnde piazza De Gonconrt. La vedete? È formata di grandi fabbricati irregolari, palazzi del settecento, prima della rivoluzione, durante la rivoluzione, dopo la rivoluzione. Voltatevi, quella Certosa è di Stendhal, osservate la sua statua, alta in atteggiamento rigido dal profilo tagliente, che domina sul largo piedestallo Rouge et Noir. Egli solo aiutò Balzac nella fondazione della città: adesso avete dinanzi due strade, via De Goncourt, l'altra più recente via Alfonso Daudet. Per quale volete mettervi? - Per la più grande, via Goncourt. - Gettiamo nullameno uno sguardo nell'altra, ne vale la pena. Quel palazzo sontuoso e barocco è del Nabab, negli altri dappresso e che paiono alberghi stanno a pensione gli ex Re in esilio: quella è la piccola casa di Jacque il macchinista, nell'ultima in fondo abitò Numa Roumestan il ministro. Adesso entriamo in via De Goncourt: è una bella strada. Ecco lo studio di Manette Salomon, l'ospedale di Soeur Filomene, la casa della Faustin, in quella casipola nacque la povera Elisa, in quell'altra abitarono i fratelli Zenganno, più in là Renata Mauperin. Quella palazzina, a due passi, con una piccola facciata da museo, è la Maison de l'Artiste, una specie di bazar pieno di mobili, di quadri e di cianfrusaglie. Un momento: osservate quella casa, che si avanza stranamente sulla strada: è di aspetto povero sotto la decenza, è la casa di Germinie Lacerteux. Svoltando si entra nel quartiere di Zola, il più vasto dei quartieri recenti, quantunque sia ancora in costruzione. L'enorme fabbricato che si prolunga dalla casa di Germinie Lacerteux, ripetendone il disegno, dall'insegna della grande liquoreria presso la porta si chiama L'Assomoir: è quello che ha fatto il nome all'ingegnere, no all'architetto, perchè questa volta l'ingegnere è un grande artista. Esaminate come Zola ha riprodotto minuziosamente il cattivo stile parigino moderno nel palazzotto dicontro; questa volta l'esattezza arriva al capolavoro, è il palazzotto della Curèe. Più in là sorge la casa dell'altro Rougon Son Exellence, in fondo alla strada l'immenso, prodigioso mercato, il vero Ventre de Paris. - È bello? - Un mercato difficilmente può esserlo, ma è immenso, prodigioso. Avete ancora notata quella altana? Là abitava Elena Mouret colla figlia, la povera piccina nervosa. - Quell'altana è un capolavoro. - Di costruzione non direi, ma vi si respira un'aria più pura, e sulla conca di questo mercato è di un effetto eccellente. Vogliamo salirvi? - Perchè no? - rispose finalmente la duchessa - forse dalla sua altezza si scorge il grande giardino del Paradou. - Spero che non vi piacerà. Giammai artificio violentò maggiormente la natura: è la farragine del mercato dentro il giardino. - Forse avete ragione, ma il giardiniere è stato nullameno un grande poeta. - E lo sarebbe parso doppiamente, se avesse saputo un po' meno la nomenclatura. La duchessa si arrese. - Ritorniamo - disse poi. - Non vi sembra che il quartiere sia bello e soprattutto grande? - Senza dubbio, ma vi sento due brutti difetti, la monotonia dello stile e una suprema volgarità nelle massime come nelle minime cose. - È moderno. - La città di Balzac lo è del pari e non mi fa pesare sulla coscienza la volgarità di questo quartiere. Poi non tutto vi è compiuto: si capisce che vi abita soltanto la nuova borghesia e il popolino, nessuna famiglia illustre, nessun grand'uomo è ancora venuto a stabilirvisi. Da solo questo quartiere non potrebbe vivere e nemmeno diventare una città. - Infatti tutto vi è come provvisorio, la vita non vi ha conservato nulla. - Vi manca persino una chiesa. - No, girate quell'angolo: ecco la chiesa, forse meglio la cappella di Lourdes: nella volta egri ha dipinto i quattro evangeli. - Povero Zola! il terzo non potè finirlo. - Non ve ne lagnate: Zola della religione non sentiva che l'idolatria e in lui l'artista era finito assai prima che l'uomo morisse. La sua opera conclude al dottor Pascal, l'eroe della scienza, che vorrebbe da questa trarre una morale, una religione nuova, e invece sprofonda nel l'animalità di un incesto. Zola era un pessimista inguaribile: onesto, dolorosamente ammalato della propria onestà, vide e disegnò come nessuno prima di lui l'abbiezione del popolo sino alle classi più alte, ma non vide altro. Tutto quanto la vita ha di nobile, di eroico, di veramente tragico gli sfuggì, eppure la vita dura nella storia soltanto per questa eccellenza di pochi, che vi funzionano come un sale antiputrido: eroismo di pensiero, eroismo di cuore. Ma vinto nel giorno tardo del suo trionfo Zola ebbe paura, e si rifugiò in un sogno ancora più anarchico che socialista: allora non vide più. Le sue ultime figure furono di cartone dipinto, la sua musica rimase un frastuono, il suo colore una macchia, il suo pensiero si oscurò, il suo cuore rimbambì. - Siete violento nelle verità. - La verità lo è sempre finchè combatte: nessun artista ha potuto salvarsi entrando nel socialismo: guardate Zola, Tolstoi, oggi tocca ad Anatole France. Il socialismo è dunque ancora falso, vuoto forse, se i poeti, che hanno sempre l'istinto e la nostalgia del nuovo, non estrarne una novità e vi perdono il senso dell'arte. La duchessa sorrise. - Torniamo nella città di Balzac. - Temereste smarrirvi altrimenti. - Impossibile! ho sempre tenuto d'occhio il grande campanile della chiesta di Svedenborg, il campanile di Seraphitus. E talmente alto che nulla può nasconderlo. - Forse talvolta le nuvole. - Ah! - proruppe quasi stizzosamente la duchessa - non avrete dunque mai un momento di entusiasmo, sarete sempre un critico? Quindi illuminandosi in viso: - Giacchè volevate salire meco sull'altana di Zola, accompagnatemi sul campanile di Seraphitus: là saremo più in alto, in un'aria, in una luce più pura. - E vedremo tutta la città e il suo bel territorio, i villaggi vicini, la grande rocca di Hugo, indefinibile e portentosa agglomerazione di castelli, le ville eleganti di George Sand, il capriccioso villino di Musset, il vecchio Maniero di Lamartine... - seguitò con accento quasi ironico. - Seraphitus! - mormorò la duchessa. - Voi vi chinerete dall'alto del suo campanile come egli dalla cima del Fiord, ed altrettanto impassibIrE. - No. - Non vorrete dunque guardare? - Sì, ma in alto. L'illustre critico non rispose.

CAINO E ABELE

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Perodi, Emma 1 occorrenze

Qui è peggio ancora; vedo colonne abbattute, sento parlare di scavi, di acropoli e di cittadelle, ma non so neppure che cosa fosse Selinunte in antico; vuole farsi mio maestro e mia guida attraverso l'antica città? Quando mi avrà istruito un poco, le prometto che non sarò più distratto come dianzi. Il duca aveva posto tanta grazia signorile nel confessare la propria ignoranza, che il professore ne rimase soggiogato e si affrettò a mettersi a disposizione del giovane. La prima visita ai templi fu fissata per la mattina dopo alle sette, poiché il sole era troppo caldo nelle ore successive. Zio Franco, - disse Maria quando si furono alzati da tavola, - perché non insegni anche tu qualcosa al professore? Che cosa potrei insegnargli? Egli è tanto dotto e io non so nulla. Insegnargli a mangiar meglio. Ah! birichina, te ne sei accorta anche tu della sua goffaggine. Oggi per la prima volta, zio; prima no. Come mai ridevi a tavola? - domandò Velleda alla piccina quando furono sole. Non lo so, - rispose arrossendo Maria. Vedrai che se ci pensi, te ne rammenterai. Ah! si; ridevo perché lo zio mi aveva guardato. Ridevi di lui? No; sai il Lo Carmine balbettava, e io non potevo star seria. Ma ha sempre balbettato e tu non hai mai riso ; mi dispiace veder mettere in ridicolo una persona per bene; tuo padre sarebbe dispiacentissimo se lo sapesse. Leda, non glielo scrivere, non lo farò più. Lo zio Franco mi aveva fatto osservare che il Lo Carmine era tanto buffo e quando l'ho visto arrossire, ho riso. Quella influenza malsana, che Roberto temeva per Maria, ecco che già manifestavasi. Oh quel Franco! Bisognava tenerlo lontano, assolutamente lontano, se no avrebbe avvezzata falsa la piccina; avrebbe disseccato in lei ogni sentimento di generosità, sviluppando gl'istinti malvagi che sono allo stato latente nel cuore di ogni bimbo. Toccava a Velleda a difenderla, quella piccina; toccava a lei; ma come fare? In preda a questi pensieri ella rimase triste tutto il giorno e non ebbe la forza di scrivere a Roberto una lettera serena. Aveva il presentimento che la presenza di Franco sarebbe stata fatale a tutti e non voleva che la penna la tradisse. Per questo annunziò con un telegramma l'arrivo di Franco e spedì la lettera tedesca di Maria, senza farvi nessuna postilla, riserbandosi a scrivere il giorno seguente.

LE NOVELLE DELLA NONNA. Fiabe fantastiche

679071
Perodi, Emma 1 occorrenze
  • 1992
  • Newton Compton Editori s.r.l.
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Dopo quella lavanda le due bestie non si dibatteron più e rimasero abbattute. Intanto il rogo era stato preparato e su quello, ben legati con catene che non avevan saldature, furono messi insieme i due animali del Diavolo. Questa volta le fiamme li arrostirono col pelo e le penne. Bencio raccolse con cura le ceneri e si mise in viaggio per Firenze. Ma per via si sarebbe strappato i capelli, e i lacrimoni gli scendevan giù per le gote vedendo che il Dicomano correva sempre torbo, che la Sieve era sempre bigia, e l'Arno sempre nero. - Monache e santi si son burlati di me! - esclamava. - Sarò rovinato lo stesso e si perderà la gloriosa arte della lana, la ricchezza della mia bella Firenze! Giunto in patria egli, così afflitto e sconsolato com'era, si recò a Or San Michele e adunò tutta la congrega dei lanaioli, mostrando le ceneri dei due animali malefici e narrando tutte le peripezie del suo viaggio. - Bisogna chieder consiglio a suor Maria Visdomini, - dissero i lanaioli, - ella ci ha aiutati tanto e non ci abbandonerà. Bencio se ne andò dunque ad Arcetri e fece chiamare a parlatorio la monaca. - Vi aspettavo, - diss'ella. - Il mio pensiero vi seguiva nel viaggio e non ho cessato di pregare per voi. Una di queste notti ho avuto una visione. Mi pareva di essere in mezzo al ponte a Rubaconte e l'Arno sotto a me correva torbo. Da tutte le parti v'era una folla di lanaiuoli, i quali piangevano e si strappavano i capelli. A un tratto è comparso l'arcivescovo in pompa magna, col capitolo e il popolo dietro. Voi gli avete presentato una cassetta piena di cenere. Egli l'ha rovesciata nelle acque dell'Arno, e quelle, da torbe si son fatte chiare. - Ho capito! - esclamò Bencio piangendo di gioia, - il convento d'Arcetri avrà il ricco donativo, poiché voi, suor Maria, siete stata la mia salvezza e quella dell'arte cui appartengo. Lo stesso giorno una deputazione dell'arte della lana andava dall'arcivescovo a narrargli la visione di suor Maria Visdomini ed a supplicarlo di gettar le ceneri dei due animali del Diavolo nelle acque dell'Arno. L'arcivescovo promise che la domenica successiva avrebbe fatto la funzione, e tutta Firenze si preparò ad accompagnarlo solennemente. Infatti Bencio presentò la cassetta con le ceneri all'arcivescovo, e appena questi le ebbe gettate sulle acque, l'Arno riprese il suo colore. Il popolo, esultante, si gettò in ginocchio; tutte le campane sonarono a festa, e Bencio, il povero Bencio, quasi quasi ammattì dalla gioia. Il giorno dopo tutti i lanaiuoli ripresero a purgare e a lavare i loro panni nelle acque limpide dell'Arno, le chiese si arricchirono di voti, e il popolo acquistò sempre maggiore devozione per san Giovanni Battista. Alla sua morte, Bencio lasciò la metà del patrimonio ai figliuoli e l'altra metà al convento d'Arcetri, dove da un celebre artista gli fu eretto un sepolcro in marmo. Quella sera Vezzosa, appena finita la novella, era andata accanto a Cecco e gli aveva detto: - Vuoi che facciamo una passeggiata? Ho da dirti tante cose! E soli, i due sposi, s'eran spinti sulla via maestra, e la giovane aveva, in quella solitudine e in quel buio, narrato al marito le sofferenze di quei giorni passati. - Mi perdoni? - le domandò lui umilmente. Una stretta di mano fu la risposta eloquente di Vezzosa, e la serenità le tornò nel cuore. Regina non s'era mossa aspettando il ritorno del figlio e della nuora prediletta. Quando li vide giungere, ella lesse subito sui loro volti quel che era avvenuto, e s'accòrse che se da un lato il pentimento era stato sinceramente espresso, dall'altro il perdono era stato concesso con gioia. Ella sorrise ai due giovani, e, attrattili a sé, parlò loro lungamente con quella voce dolce e persuasiva, con quella semplicità e rettitudine in cui stava riposto il segreto della influenza di Regina sull'animo de' suoi. I giovani l'ascoltarono senza parlare, guardandosi scambievolmente; e quando ella ebbe terminato, le presero le mani e gliele baciarono con effusione. La Regina, intenerita, li abbracciò e disse: - La vita è già seminata di dolori, e tutte le mie preghiere non bastano a proteggervi da quelli. Fate almeno che questi dolori non sieno accresciuti dalle afflizioni procurate, che tolgono all'uomo la forza di sopportare le altre che vengono di lassù. Aveva parlato con quel tono solenne che sogliono usare certi vecchi che hanno la consuetudine di sapersi ascoltati, e Cecco e Vezzosa non ebbero parole per risponderle, ma la guardarono commossi.

ALLA CONQUISTA DI UN IMPERO

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

Le altissime canne oscillavano in diversi punti, poi cadevano abbattute dalle corna d'acciaio dei colossi animali. La carica, a giudicarlo dalle mosse disordinate dei bambù, doveva avvenire per diverse direzioni. Gli astuti e vendicativi animali, non si slanciavano più in una sola massa, per non cadere in gruppo come sulle rive della fanghiglia. - Eccoli! - gridò ad un tratto il cornac. Un bisonte, dopo d'aver sfondato con un ultimo urto una vera muraglia di bambù spinosi, comparve all'aperto e si slanciò, con impeto selvaggio, contro l'elefante pilota, colla testa bassa, per piantargli le corna in mezzo al petto. Fu così fulmineo l'attacco, che Sandokan, Tremal-Naik, Kammamuri e anche Surama, la quale si era pure armata, essendo una buona bersagliera, non ebbero nemmeno il tempo di far fuoco. L'elefante-pilota però vegliava attentamente. Alzò la sua possente tromba, poi quando si vide l'animale quasi fra le gambe, lo percosse furiosamente sulla groppa. Parve un colpo di spingarda. Lo jungli-kudgia stramazzò di colpo, colla spina dorsale fracassata da quella tremenda sferzata. S'udì quasi subito un crac, come se delle ossa si spezzassero sotto una pressione spaventevole. Il pachiderma aveva posato ambe le zampe posteriori sul moribondo, schiacciandogli la testa. - Bravo pilota! - gridò Tremal-Naik. - Questa sera avrai doppia razione di typha! - Altri tre bisonti erano comparsi sbucando da diverse direzioni e caricando all'impazzata. Uno fu subito fulminato da una scarica dei malesi e dei dayachi, il secondo andò a cacciarsi fra due elefanti della retroguardia e subito schiacciato prima che avesse potuto far uso delle sue corna, ed il terzo, ferito e forse gravemente da una palla di Sandokan, voltò le spalle rientrando nelle macchie, forse per morire là dentro in pace. Giungeva però il grosso, formato fortunatamente da cinque soli animali, gli unici superstiti della numerosa truppa. L'accoglienza che ebbero fu tremenda. I malesi ed i dayachi che avevano avuto il tempo di ricaricare le armi, li ricevettero con un vero fuoco di fila, arrestandoli in piena corsa ed il peggio fu quando gli elefanti, aizzati dai cornac, caricarono a loro volta abbattendo con gran colpi di proboscide quelli che, quantunque gravemente feriti, tentavano ancora di rialzarsi. - Ehi, Tremal-Naik! - gridò allegramente Sandokan. - Che questa volta la sia proprio finita? - Vorrei sperarlo, - rispose il bengalese che non era meno lieto di quel completo successo. - E quello che si è rifugiato nella jungla, vada a cercare altri compagni? - Le truppe di bisonti non s'incontrano ad ogni passo e poi ogni gruppo fa da sé e non si unisce mai agli altri. Facciamo le nostre provviste, giacché la carne qui abbonda, mentre noi siamo a secco. Il filetto e le lingue di questi animali, godono fama di essere bocconi da re. - Gli elefanti furono fatti inginocchiare e tutti scesero a terra, senza l'aiuto delle scale, correndo verso quelle enormi masse di carne. Non fu però impresa facile spaccare quelle gobbe per trarne i filetti. I bisonti indiani, al pari di quelli americani, offrono delle resistenze incredibili anche dopo morti, per lo spessore enorme delle loro ossa che sono a prova di scure. I malesi, dopo essersi invano affaticati, dovettero lasciare il posto a Bindar ed ai cornac più pratici di loro. Fatta un'abbondante provvista di lingue e di carne scelta, la carovana riprese la marcia, rimontando verso il settentrione con passo abbastanza celere, malgrado gli ostacoli che presentava incessantemente l'interminabile jungla. Non fu che verso le otto della sera, nel momento in cui il sole precipitava all'orizzonte e dopo d'aver percorse ben quaranta miglia in poche ore, che Sandokan diede il segnale della fermata a breve distanza dalla riva destra del Brahmaputra, il quale piegava pure, in senso inverso, a settentrione, scendendo dall'imponente catena dell'Himalaya. Non essendo improbabile che in quel luogo vi fossero molti animali feroci, Tremal-Naik e Kammamuri fecero improvvisare dai malesi e dai dayachi, uno stecconato di bambù, intrecciati e accendere anche, ad una certa distanza, numerosi falò; poi le tende furono rizzate per difendersi dai colpi di luna, che nell'India non sono meno pericolosi di quelli di sole, poiché dormendo col viso esposto all'astro notturno, sovente ci si sveglia ciechi affatto. La cena fu deliziosa e, come si può ben immaginare, abbondantissima. Gustate furono specialmente le lingue dei bisonti, che erano state messe a bollire in un pentolone di rame. I flying-fox, quei brutti vampiri notturni, dalle ali nere, che quando sono interamente spiegate, misurano insieme perfino un metro e che hanno il corpo rivestito da una folta pelliccia rossastra, e la testa che somiglia a quella della volpe, cominciavano a descrivere in aria i loro capricciosi zig-zag, quando Sandokan, Surama e Tremal-Naik, si ritirarono sotto la loro tenda, sicuri di poter passare finalmente una notte tranquilla. Gli altri li avevano già preceduti. Solo Kammamuri e Sambigliong, con quattro dayachi, erano rimasti a guardia del campo, potendosi dare che qualche tigre, qualche pantera, si celassero nei dintorni e tentassero, quantunque i fuochi ardessero sempre, qualche colpo sugli addormentati.

IL RE DEL MARE

682247
Salgari, Emilio 2 occorrenze

Fra il fracasso assordante prodotto dall'incessante crollare delle piante, abbattute dai poderosi ed irresistibili urti di quelle enormi masse lanciate a galoppo sfrenato, si cominciavano a udire dei barriti. Quei pachidermi dovevano essere spaventati da qualche grossa truppa d'uomini, non fuggendo ordinariamente dinanzi ad un drappello di cacciatori. Dovevano essere state le bande dei dayaki a metterli in rotta. Yanez e i suoi uomini affrettavano il passo, temendo di venire travolti nella pazza corsa di quei pachidermi. Avendo trovato degli spazi liberi, si erano messi a correre, guardandosi con spavento alle spalle, credendo di vedersi rovinare addosso quei mostruosi animali. Anche Yanez appariva preoccupato. Avevano raggiunta una macchia formata quasi esclusivamente di enormi alberi della canfora, che nessuna forza avrebbe potuto atterrare, avendo quelle piante dei tronchi grossissimi, quando il pilota per la seconda volta si arrestò, dicendo precipitosamente: - Gettatevi sotto queste piante che sono sufficienti a proteggerci. Ecco che giungono! Si erano appena lasciati cadere dietro a quei tronchi colossali quando si videro apparire i primi elefanti. Sbucavano a corsa sfrenata da una macchia di sunda-matune, gli alberi della notte, così chiamati perchè i loro fiori non si schiudono che dopo il tramonto del sole e dei quali dovevano aver fatta una vera strage nella carica furibonda. Quei colossi, che parevano pazzi di terrore, piombarono di colpo su un ammasso di giovani palme che sbarrava loro la via e le abbatterono come se una falce immensa, manovrata da qualche titano, fosse scesa su quelle piante. Non era che l'avanguardia quella, poichè pochi istanti dopo si rovesciò su quello spazio il grosso, con clamori spaventevoli. Erano quaranta o cinquanta elefanti, fra maschi e femmine, che si urtavano fra loro confusamente, cercando di sorpassarsi. Le loro formidabili trombe percuotevano con impeto irresistibile alberi e cespugli, tutto abbattendo. Vedendone alcuni che pareva volessero scagliarsi verso gli alberi della canfora, Yanez stava per far eseguire una scarica, quando vide dei punti luminosi apparire dietro ai pachidermi che descrivevano delle fulminee parabole. - Silenzio! Che nessuno si muova! I dayaki! - aveva esclamato Padada. Parecchi uomini, quasi interamente nudi, correvano dietro agli elefanti, scagliando sui loro dorsi dei rami resinosi accesi, che subito raccoglievano appena caduti, tornando a lanciarli. Non erano che una ventina, tuttavia i pachidermi, atterriti da quella pioggia di fuoco che cadeva loro addosso senza posa, non osavano rivoltarsi, mentre con una sola carica avrebbero potuto spazzare e stritolare quel piccolo gruppo di nemici. - Non muovetevi e non fate fuoco! - aveva ripetuto precipitosamente Padada. Gli elefanti erano già passati, urtando i primi tronchi della macchia, senza che quelle colossali piante avessero fortunatamente ceduto ed erano scomparsi nel più folto della foresta, sempre perseguitati dai dayaki. - Che siano cacciatori? - chiese Yanez quando il fragore si perdette in lontananza. - Che cacciavano noi, - rispose il malese. - La nostra discesa a terra è stata notata da qualcuno che sorvegliava l'imbarcadero e non essendo probabilmente in numero sufficiente i dayaki che si trovavano nei dintorni, ci scagliano addosso gli elefanti. Vedrete che faranno percorrere a quei colossi tutta la foresta, colla speranza che c'incontrino sulla loro corsa e ci travolgano. - Possiamo quindi rivederli ancora? - È probabile, signore, se non ci affrettiamo a lasciare questa boscaglia ed a rifugiarci nel kampong di Pangutaran. - Siamo lontani molto ancora? - Non ve lo saprei dire, essendo questa parte della foresta così intricata, da non poterci nè orientare, nè correre troppo. Tuttavia suppongo che giungeremo prima dell'alba. - Prima che gli elefanti ritornino, andiamocene. Non si trovano sempre degli alberi della canfora per proteggerci. Mi stupisce però una cosa. - Quale, signore? - Come quei selvaggi abbiano potuto radunare tanti animali. - Li avranno incontrati per caso non essendo domatori come i mahut siamesi o i cornac indiani, - disse Tangusa, che assisteva al colloquio. - Non è raro, in queste foreste, trovare delle truppe di cinquanta e anche di cento capi. - E si presteranno a quel giuoco? - Continueranno a scappare finchè i dayaki avranno fiato e non cesseranno di perseguitarli coi tizzoni accesi. - Non credevo che quei bricconi fossero così furbi. Amici, al trotto! Lasciarono la macchia che li aveva così opportunamente protetti da quella carica spaventevole e si cacciarono entro altri macchioni formati per la maggior parte di alberi gommiferi, di dammeri e di sandracchi, cercando alla meglio di orientarsi, non potendo scorgere le stelle, tanto era folta la cupola di verzura che copriva la foresta. Fortunatamente le piante non crescevano così l'una presso all'altra ed i cespugli e i rotangs erano rari, sicchè potevano marciare più celermente e correre anche meno rischi di cadere in qualche agguato. In lontananza il fragore prodotto dagli elefanti lanciati in piena corsa si udiva ancora, ora intenso ed ora più debole. I poveri animali ora cacciati da una parte, ora respinti verso l'altra, facevano il giuoco dei dayaki, i quali sapevano abilmente guidarli dove desideravano, colla speranza che sorprendessero il drappello in qualche luogo dell'immensa foresta. Padada e il meticcio, sapendo ormai di che si trattava, si regolavano a tempo per tenersi sempre lontani da quel pericolo, conducendo il drappello in direzione opposta a quella seguìta dai pachidermi. Dopo una buona mezz'ora parve finalmente che i dayaki, convinti che le tigri di Mompracem non si trovassero in quella parte della selva, spingessero gli elefanti verso il fiume, poichè il fragore prodotto da quella carica furibonda si allontanò verso il sud, finchè cessò completamente. - Ci credono ancora lontani dal kampong, - disse il pilota, dopo d'aver ascoltato per qualche po'. - Vanno a cercarci verso il Kabatuan. - Quanta ostinazione in quei furfanti, - disse Yanez. - È proprio una guerra a morte che ci hanno dichiarata. - Eh, signor mio, - rispose Padada, - sanno bene che se noi riusciamo a unirci a Tremal-Naik, l'espugnazione del kampong diverrà estremamente difficile. - Io glielo lascio il kampong; non ho alcuna intenzione di stabilirmi qui. Ho l'ordine di condurre a Mompracem Tremal-Naik e sua figlia e non già di fare la guerra al pellegrino, almeno per ora. Più tardi vedremo. - Rinunziate a sapere chi è quell'uomo misterioso che ha giurato un odio implacabile contro tutti voi? - Non ho ancora pronunciato l'ultima parola, - rispose Yanez, con un sorriso. - Un giorno faremo i conti con quel messere. Per ora mettiamo in salvo l'indiano e la sua graziosa fanciulla. Dove siamo ora? Mi pare che la foresta cominci a diradarsi. - Buon segno, signore. Il kampong di Pangutaran non deve essere molto lontano. - Fra poco troveremo le prime piantagioni, - disse il meticcio che da qualche minuto osservava attentamente la foresta. - Se non m'inganno siamo presso il Marapohe. - Che cos'è? - chiese Yanez. - Un affluente del Kabatuan, che segna il confine della fattoria. Alt, signori! - Che cosa c'è? - Vedo dei fuochi brillare laggiù! - esclamò Tangusa. Yanez aguzzò gli sguardi e attraverso uno squarcio delle piante, ad una distanza considerevole, vide brillare nelle tenebre un grosso punto luminoso che non doveva essere un semplice fanale. - Il kampong! - chiese. - O un fuoco degli assedianti? - disse invece Tangusa. - Dovremo dare battaglia prima di entrare nella fattoria? - Prenderemo il nemico alle spalle, signore. - Tacete, - disse in quel momento il pilota, che si era avanzato di alcuni passi. - Che cosa c'è ancora? - chiese Yanez, dopo qualche minuto. - Odo il fiume rompersi contro le rive. Il kampong si trova dinanzi a noi, signore. - Attraversiamolo, - rispose Yanez risolutamente, - e piombiamo sugli assedianti a passo di carica. Tremal-Naik ci aiuterà dal canto suo come meglio potrà.

Vedendole in parte abbattute ebbero un momento di esitazione temendo qualche agguato, poi passarono correndo sotto le terrazze che finivano di ardere e si rovesciarono all'impazzata nel kampong, urlando a squarciagola, pronti a sgozzare i difensori a colpi di kampilang. Yanez vedendoli slanciarsi verso gli enormi vasi che formavano come una doppia barriera dinanzi al bengalow, aveva dato ordine di sospendere il fuoco per non irritare troppo gli assalitori. Vedendo quei recipienti, i dayaki per la seconda volta si erano arrestati. Un resto di diffidenza li tratteneva ancora non sapendo che cosa potessero contenere. L'alcol che si sprigionava dai coperchi, che erano stati appositamente smossi, non tardò a giungere ai loro nasi. - Bram! Bram! Fu il grido che uscì da tutte le gole. Si erano precipitati sui vasi, strappando i coperchi e tuffando le mani nel liquido. Urla di gioia scoppiarono tosto fra gli assedianti. Una bevuta s'imponeva, tanto più che i difensori avevano sospeso il fuoco. Un sorso, solo un sorso e poi avanti all'attacco! Ma dopo le prime gocce tutti avevano cambiato parere. Era meglio approfittare dell'inazione della guarnigione del kampong; d'altronde era infinitamente migliore, quell'ardente liquore, delle palle di piombo. Invano i capi si sfiatavano per cacciarli innanzi. I dayaki erano diventati ostriche attaccate al loro banco colla differenza che si erano invece incrostati ai vasi. Ottanta vasi di bram! Quale orgia! Mai si erano trovati a simile festa. Avevano gettato perfino gli scudi ed i kampilang e bevevano a crepapelle, sordi alle grida e alle minacce dei capi. Yanez e Tremal-Naik ridevano allegramente, mentre i loro uomini staccavano senza troppo rumore alcuni tavoloni dalla cinta per prepararsi la ritirata. Intanto le tettoie cominciavano ad ardere e dalle finestre del bengalow uscivano torrenti di fumo nero. Fra pochi istanti una barriera di fuoco doveva frapporsi fra gli assedianti e gli assediati. I dayaki non parevano preoccuparsi dell'incendio che minacciava di divorare l'intero kampong. Insaziabili bevitori continuavano a dare dentro ai vasi, urlando, ridendo, cantando, e contorcendosi come scimmie. Bevevano colle mani, coi panieri destinati a contener le teste dei vinti nemici, con gusci di noci di cocco trovati per il cortile. I loro stessi capi avevano finito per imitarli. Il terribile pellegrino dopo tutto era al campo e non poteva vederli. Perchè non avrebbero approfittato di quell'abbondanza, dal momento che gli assediati si mantenevano tranquilli? E gli uomini cadevano, come fulminati, pieni da scoppiare, intorno ai vasi, mentre le fiamme s'alzavano altissime facendo piovere su di loro una pioggia di scintille. Il bengalow era tutto in fuoco e le tettoie, piene di provviste, ardevano come zolfanelli, illuminando i bevitori. Era il momento di andarsene. I dayaki non si ricordavano forse di non aver più dinanzi il nemico, tanto la loro ubriachezza era stata rapida. - In ritirata! - comandò Yanez. - Abbandonate tutto fuorchè le carabine, le munizioni ed i parangs. Aiutando i feriti, lasciarono silenziosamente la palizzata, attraversarono la cinta e si slanciarono a corsa sfrenata attraverso la pianura, preceduti da Tremal-Naik e da Kammamuri che cavalcavano a fianco di Darma. La tigre li seguiva spiccando salti immensi, spaventata dalla luce dell'incendio che diventava sempre più intensa. Raggiunto il margine della boscaglia che si estendeva verso ponente, il drappello che si componeva di trentanove persone, compresi sette feriti, s'arrestò per prendere fiato e anche per osservare ciò che succedeva nel kampong e negli accampamenti dei dayaki. La fattoria pareva una fornace. Il bengalow che era costato tante fatiche al suo proprietario, ardeva dalla base alla cima come una fiaccola immensa, lanciando in aria fitte nubi di fumo e sprazzi di scintille. Le cinte avevano pure preso fuoco e rovinavano assieme alle terrazze. Si udivano gli scoppi delle spingarde che erano state abbandonate ancora cariche. Degli uomini s'aggiravano affannosamente trascinando i guerrieri che si erano ubriacati e che correvano il pericolo di essere bruciati accanto ai vasi di bram. Il pellegrino doveva aver tenuto alcuni drappelli di riserva per appoggiare le colonne d'assalto nel caso che non fossero riuscite a penetrare nel kampong e, non udendo più nè spari nè grida di guerra, erano certamente accorsi per vedere che cosa era successo dei loro compagni. - Che l'inferno bruci tutte quelle canaglie, - disse Yanez inforcando uno dei quattro cavalli che gli era stato condotto da Tangusa. - Solo mi spiace andarmene senza aver potuto mettere le mani su quel cane di pellegrino. Spero di ritrovarlo un giorno sul mio cammino e allora guai a lui! - Un giorno? - disse ad un tratto Kammamuri, che aveva volti gli sguardi verso il nord. - Gambe, signori! Siamo stati scoperti e ci danno la caccia!

I MISTERI DELLA GIUNGLA NERA

682349
Salgari, Emilio 1 occorrenze

Le rive, che fuggivano rapidamente dinanzi agli occhi dei due indiani, erano coperte di bambù che tuffavansi nella corrente e da rade palme tara, la maggior parte delle quali abbattute o spezzate dalla furia dell'uragano. D'un tratto Tremal-Naik, che seguiva attentamente il corso del fiume scorse al sud un razzo elevarsi a grande altezza. Quantunque il vento continuasse a ruggire e la folgore a scrosciare, udì distintamente lo scoppio. - Un segnale forse? mormorò egli. - Arranca, arranca Kammamuri! Un secondo razzo si elevò sulla riva opposta descrivendo una lunga parabola. - Padrone? - interrogò Kammamuri. - Avanti, mio prode maharatto. - Siamo stati segnalati. - La mia Ada corre un pericolo: avanti! Attenta, Darma: l'ora della pugna s'avvicina. Il fiume allora correva più rapido restringendosi a mo' di collo di bottiglia; Tremal-Naik s'accorse di essere vicino al cimitero galleggiante. Senza sapere il perché, provò un fremito. - Adagio, Kammamuri. Sento che corriamo un pericolo. Il maharatto rallentò la battuta delle pagaie. Il canotto continuò a filare ed entrò in mezzo al bacino, coperto dalla fitta volta dei tamarindi e dei manghieri. L'oscurità divenne profonda, tanto che i due indiani non vedevano più lontano di cinque passi. Il canotto urtò contro la massa dei cadaveri, ed un tonfo, come di un corpo che s'inabissa, rispose al primo urto. - Padrone, hai udito? - chiese Kammamuri. - Sì, qualcuno si è gettato in acqua. Tremal-Naik si curvò sul fiume per vedere se qualcuno s'avvicinava al canotto, ma nulla scorse. Il canotto per la seconda volta urtò. - Qualcuno passa, - disse una voce che giunse fino ai due indiani. - Che sieno loro? - Oppure dei nostri? L'appuntamento è per la mezzanotte. Tremal-Naik a quella parola "mezzanotte" provò un colpo al cuore. - Mezzanotte! - mormorò, con voce tremante. - L'appuntamento per la mezzanotte! Quale sospetto! - Olà! - gridò una di quelle voci. - Chi passa? - Non rispondere, padrone, s'affrettò a dire Kammamuri. - Al contrario, risponderò. Bisogna che sappia tutto. - Ti perdi. - Chi parla? - chiese Tremal-Naik. - Chi passa? - domandò invece la voce. - Indiani di Raimangal. - Affrettate, che la mezzanotte non è lontana. - Cosa si farà a mezzanotte? - La vergine della sacra pagoda sale sul rogo. Tremal-Naik soffocò un urlo che stava per sfuggirgli dalle labbra. - Siva, Siva, abbi pietà di lei! mormorò. Poi, dominando la sua commozione, chiese: - Non è morto, adunque, Tremal-Naik? - No, fratello, poiché Manciadi non è ancora tornato. - E la Vergine verrà abbruciata? - Sì, alla mezzanotte. Il rogo è pronto e la fanciulla salirà nel paradiso di Kâlì. - Grazie, fratello, - rispose con voce soffocata Tremal-Naik. - Una parola ancora. Hai udito il ramsinga? - No. - Hai veduto Huka? - Sì, accanto al falò. - Sai dove si brucierà la Vergine? - Nei sotterranei, mi pare. - Sì, nella grande pagoda sotterranea. Affrettati che la mezzanotte non deve essere lontana. Addio, fratello. - Arranca, Kammamuri, arranca! - ruggì Tremal-Naik. - Ada! mia povera Ada! Un singhiozzo lacerò il suo petto e soffocò la sua voce. Kammamuri afferrò i remi e si mise ad arrancare con disperata energia. Il canotto sfondò violentemente la massa dei cadaveri ed uscì dalla parte opposta. - Presto! ... presto! - disse Tremal-Naik, fuori di sé. - A mezzanotte salirà il rogo ... Arranca, Kammamuri! Il maharatto non aveva bisogno di essere eccitato. Arrancava così furiosamente, che i muscoli minacciavano di fargli scoppiare la pelle. Il canotto attraversò il bacino ed entrò rapido come un dardo nel fiume. Tosto apparve l'estrema punta di Raimangal col suo gigantesco banian i cui smisurati rami si contorcevano in mille guise sotto i possenti soffi della burrasca. Un lampo ruppe le tenebre mostrando la riva completamente deserta. - Siva è con noi! - esclamò Kammamuri. - Avanti, maharatto, avanti! - disse Tremal-Naik, che s'era gettato a prora. Il canotto spinto innanzi a tutta velocità s'arenò sulla sponda, uscendo d'un buon terzo dall'acqua. Tremal-Naik, caricatosi in furia delle munizioni, Kammamuri e la tigre si slanciarono a terra, raggiungendo il tronco principale del banian sacro. - Odi nulla? - chiese Tremal-Naik. - Nulla, - disse Kammamuri. - Gl'indiani sono tutti nel sotterraneo. - Hai paura a seguirmi? - No, padrone, rispose con ferma voce il maharatto. - Quando è così, scendiamo anche noi. La mia Ada o la morte! S'aggrapparono ai colonnati e raggiunsero i rami superiori, avvicinandosi alla smezzata sommità del tronco. La tigre con un salto solo li raggiunse. Tremal-Naik guardò giù nella cavità. Al chiarore dei lampi scorse delle tacche, che permettevano di discendere. - Andiamo, mio prode maharatto. Io ti precedo. E si lasciò calare nel tronco, scendendo silenziosamente. Il maharatto e Darma lo seguirono da vicino. Cinque minuti dopo i due indiani e la tigre si trovavano nel sotterraneo, in una specie di pozzo semi-circolare scavato nella viva roccia, sei metri sotto il livello delle Sunderbunds.

IL PAESE DI CUCCAGNA

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Serao, Matilde 1 occorrenze

Esse scendevano, lentamente, stanche, abbattute da quella lunga scena di magia, superiore alla loro semplicità intellettuale, accasciate dopo quella tensione di sentimenti. Un uomo ascendeva gli scalini del vicolo Centograde, lestamente, dirigendosi verso la casa della fattucchiara. ra don Pasqualino de Feo, l' assistito. e due femmine non lo videro: andavano, sentendo più grave il peso della loro vita sventurata, temendo di aver oltrepassato i limiti che alle pie creature umane si concede, temendo di aver attirato, sul capo delle persone che amavano, la misteriosa punizione di Dio.

IL VENTRE DI NAPOLI (VENTI ANNI FA - ADESSO - L'ANIMA DI NAPOLI)

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Serao, Matilde 1 occorrenze
  • 1906
  • FRANCESCO PERRELLA EDITORE
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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- e niente altro, salvo, dopo questi dieci metri, che una cortina di antiche case non abbattute, una cortina che chiude le comunicazioni, che urta lo sguardo. Voi cercate le più belle traverse, quelle che dovevan tagliare a diritta, dal Rettifilo al mare, risanando i quartieri successivamente di Porto, Mercato e Vicaria. Su venti, ve n'è una sola, completa . Alcune altre, quattro o cinque sono come quelle a sinistra, appena cominciate, abbandonate da anni, ottuse, traverse cieche, ove, in fondo, ma non molto in fondo, sorge lo stesso spettacolo, sempre, di case antichissime, mezze dirute, mezze cadenti, nerastre, verdastre, grigiastre. Dopo, non vi è più nulla. Cioè, vi sono dei vicoletti che precipitano per mezzo di dislivelli paurosi, di scalette ripide, difese da rozze ringhiere, in tutto ciò che sta dietro il Rettifilo , vicoletti sinuosi, vicoletti neri, angoli dove due o tre vicoli s'intersecano dirupandosi, tutto un disegno bislacco e grottesco, accanto, sì, accanto, alle altitudini superbe dei nuovi palazzi. E voi, verso la fine del Rettifilo, vedendo fuggire gli ultimi lembi mirabili della vostra illusione, voi vi domandate se non siate vittima di un'allucinazione, se una parte di quel che vedete non sia falso, poichè troppo forte è il contrasto, poichè non può essere tutto vero, a pochi metri di distanza, il decente e l'indecente, il pulito e lo sporco, la pompa e l'inguaribil miseria, il lusso e la povertà più abbietta. Che cosa è falso, che cosa è vero? Sono, forse il portato di un incubo tutte quelle masse di abitazioni luride, fetide, cascanti, ove pare che si moltiplichino la tristizie e la tristezza, il morbo e il disonore, il delitto e la morte? Sono forse gli spettacoli che vi fecero inorridire, come uomini e come cristiani, venti anni prima, sono questi spettacoli che si rinnovano, falsamente nella memoria, nella fantasia, così, come nei momenti di nostra malinconia spirituale e di nostra debolezza fisica? O, forse è falsa l'altra parte, cioè la parvenza moderna del Rettifilo e i suoi palazzi che vorrebbero essere splendidi, ma che sono almeno, nuovi, netti, solidi, grandi, appartengono al sogno? Non sono forse, un lungo scenario di tela, su cui un abile scenografo abbia dipinto a grandi tratti, una serie di edifici maestosi, e intanto, non si sa come, non si sa perchè, la tela ha delle grandi soluzioni di continuità e lascia vedere l'oscurità, il luridume delle quinte, ove tutto è rancido, è puzzolente, è nauseante? O, forse, non sono di carta pesta, di legno dipinto, queste case, come quelle che estrae, lentamente, da una scatola, la mano di un bimbo e le dispone sovra un piano, ad angoli retti? Non è, forse, a destra, a sinistra del Rettifilo, lo svolgersi di un bizzarro paravento, i cui pezzi non sono bene congiunti, anzi sono disgiunti, e il paravento non giunge a nascondere, quel che non si deve vedere? E passino i vostri occhi ricercatori dalle cose alle persone del Rettifilo, vi passino, per conoscer più presto e meglio il motto dell'enigma. La possente arteria napoletana rifluisce, in ogni ora, di sangue vivido: una folla attraversa costantemente il Rettifilo, a piedi, in carrozza, in trams , specialmente sino a piazza Depretis, andando e venendo dai due rami di via Duomo. Folla di ogni qualità e, talvolta, anche, folla di persone distinte, bene vestite, gli uomini con la catena di oro sul panciotto, le donne con i ciondoli sospesi sul petto. Tutto questo mondo va, viene, ritorna, si allontana, mondo svariato, multiforme, multanime. Se voi siete abituato a discernere i volti e le espressioni, fra la folla, se avete l'ardente e dolente segreto dell'intuizione, voi scorgerete, lungo il Rettifilo, persone e faccie che vi daranno un fremito di sorpresa e, forse, di sgomento. Sugli angoli di quelle viuzze, presso quelle ringhiere, su quel limitare fatidico fra il vecchio e il nuovo, e, persino, nelle poche vie principali e non finite, stazionano sempre degli uomini, sul cui viso la delinquenza è impressa e la cui espressione non mente; stazionano mendicanti dei due sessi e di tutte le età, ma di una mendicità sfrontata e ributtante, e stazionano anche, meno di mattina, molto più nel pomeriggio, moltissimo di sera, le sventurate e sciagurate femmine del popolo, che esercitano il più compassionevole e più atroce fra i mestieri. Così, sull'orlo della superba via, sui due suoi lati, fiancheggiandola, il vizio e la miseria, il delitto mettono la loro popolazione. La gente che passa, è molta, non guarda bene, non bada: ma due, tre volte al giorno, un ladro si slancia sovra al galantuomo , sovra la signora, in pieno giorno, in pieno Rettifilo, fra mille persone, e gli strappa l'orologio, le strappa gli orecchini, il derubato grida, il ladro infila la viottola, si gitta per un angiporto, è sparito, la folla strepita, non vi sono guardie, i mendicanti gridano e una di quelle donne del vizio, dà una falsa indicazione, perchè è, forse, un'amante, un'amica, una sorella del ladro, sempre una complice. Sia a piedi, sia in carrozza, la vittima, il ladro finisce sempre per fare il suo colpo, senza farsi arrestare, liquefacendosi come una nuvola, dietro una di quelle stradette: e alcune, anzi, di quelle vie, hanno la loro fatal rinomanza, come quella a principio del Rettifilo, la via di santa Candida. Dopo le nove di sera, il tratto del Rettifilo da piazza Depretis alla Ferrovia, è poco percorso da gente: e malgrado le grosse lampade elettriche, quel tratto è uno dei più pericolosi della città, e i medesimi cocchieri da nolo, affrettano il passo zoppicante del loro povero cavallo, andando alla stazione o tornandone, poichè sanno che il loro passaggiero può avere, forse e senza forse, un'aggressione. In quell'ora non si aggirano, colà, che ladruncoli, camorristi, pregiudicati e donne di mala vita. Nella magnifica strada: nella strada della salute e della redenzione del popolo napoletano! Ahi, che essa è semplicemente un paravento, ma leggiero, fragile e grossolano paravento, un paravento che non nasconde neppure, a chi vuol saper tutto, tutto ciò che vi è dietro, di pietoso e di orribile! E un'altra volta io vi dirò quel che vidi, lì dietro, con una triste e lunga curiosità, con un coraggio disperato e, con l'angoscia più opprimente, del mio umile ma fedele cuore di napoletana!

Vita intima

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Vertua Gentile, Anna 1 occorrenze

Quando l'ammalato ha una famiglia, è nel suo seno che dovrebbe ricevere i soccorsi dei quali abbisogna ; avvezzare i poveri a respingere da sì; e dalla propria casa i loro più prossimi parenti nel momento della malattia, quando le forze fisiche e morali sono abbattute da! morbo , per metterli a carico della carini pubblica, è tale cosa di cui è difficile concepirne alcuna più dissolvente e più funesta per il sociale ordinamento. E specialmente durante la malattia che rivelasi, in tutta la santa potenza, la fecondita morale della famiglia. I doveri adempiuti e i benelizi ricevuti, la riconoscenza da una parte e la tenerezza dall'altra, le notti passati da una madre o da una moglie al capezzale del febbricitante figlio o marito , i timori le speranze le consolazioni, la solennità medesima della morte, tutti questi sono elementi di educazione di perfezionamento, di virtù, che sarebbe colpa il disconoscere, che è gravissimo errore il trascurare e spegnere nei cuori della popolazione. Per poco che vi si rifletta, è impossibile non sentirsi attristati e quasi sgomenti dal gran numero di pessimi istinti, dall'egoismo, dalla crudeltà, elle in molte famiglie del popolo sviluppa e mantiene l'abitudine di mandare a l'ospedale i loro congiunti non appena questi sono affetti di una di quelle affezioni morbose, che dovrebbero essere una propizia occasione a fare svolgere tutta la potenza d'amore e di pietà di cui è capace il cuore umano. Tali sono gli effetti che dal lato morale produce la spedalità male intesa ed improvvisamente amministrata. Né meno deplorevoli sono gli effetti economici. Fra tutte le qualità necessarie ad assicurare il progresso della umana associazione, niuna importa maggiormente di promuovere e mantenere viva nell'anima, della previdenza. Per misurare la bontà e l'utilità delle pubbliche istituzioni, non vi ha più sicuro criterio di quelle di osservare quale influsso esercitano su questa virtù; quelle che la destano, la secondano e l'incoraggiano sono da encomiarsi come sono da respingere quelle che la deprimono. A questa stregua, chi non vede i pericoli che circondano gli ospedali, aperti gratuitamente chiunque voglia ricorrervi, non richiedendo per l'ammissione che condizioni troppo facili e comuni ? .. Quando — dice un altro scrittore — accostandosi a la maturità della vita, il lavoratore pensa formarsi una famiglia, egli deve previamente accettarne i pesi e i doveri. Ora, supporrà egli di adempire a questi doveri, man-dando a l'ospedale la moglie e i figli malati, riguardando l'ospizio come un rifugio aperto alla sua vecchiezza ? . . . Tale è pure tuttavia la tentazione che gli dà la vicinanza di questi stabilimenti, congiunta con l'abitudine che egli ha sempre veduto seguire dai suoi compagni, con gli esempi che gli vengono continuamente dati. Ciò gli farà dimenticare di risparmiare durante l' età del lavoro: gli farà trascurare i salutari consigli che gli offrono, per i giorni difficili , le associazioni di previdenza; vivrà la dipendente vita del proletario, perdendo quasi la dignità e l'indipendenza del cittadino, logorerà il capitale sociale invece di apportare la sua pietra a l'edificazione del progresso generale dell'umanità. Oltre agli ospedali quali e quanti altri istituti di beneficenza non apre la società, ai poveri, agli abbandonati, agli orfani, ai pericolanti, a l'infanzia, soccorrendo a ogni bisogno della famiglia, con illuminata previdenza ! .. . Sono istituti che dicono altamente il generale sentimento di umanità, il desiderio del progresso morale, l'amore che é il solo legame, la sola religione universale; l'amore, principio di unione , di fratellanza, che Dio ha messo nel cuore, non nello spirito dell'uomo; l'amore, fonte inesauribile di carità. Un amore, una carità previdenti, provvidenziali, che danno la smania di aiutare i disgraziati, di migliorare la condizione del povero, di impedire il male, di diminuire il dolore e avviare al bene ogni classe di persone. Questo amore, questa carità, che pure, salvano da tanti guai, riparano a tante miserie, possono indebolire il sentimento di affetto fra i membri della famiglia; ma come fare altrimenti ? La società è così costituita che è indispensabile provvedere ai mille bisogni di tanti e tanti soffocando forse nella grande opera pietosa gli affetti più naturali. Come provvedere ai bisogni morali e materiali dei bambini e dei fanciulli poveri, dei giovinetti discoli , dalle fanciulle pericolanti , dei ciechi e dei sordomuti, di adulti spostati e incapaci di lavorare, dei vecchi affraliti che sarebbero di spesa alle famiglie ? .. E ci sono, perciò varie specie di ospizi; quello dell'allattamento dei neonati, gli asili d'infanzia, gli orfanotrofi, i ricoveri per i discoli, le case provvidenziali per le giovinette in pericolo , per gli adulti che hanno bisogno di lavoro, per tutti i disgraziati o quasi. Che sarebbe di questa moltitudine di poveretti se la società non pensasse a provvedere ai loro bisogni ? . . . Basterebbe l'affetto della famiglia a soccorrerli, a salvarli dal male ?... . Il cuore, il buon senso, il desiderio della famiglia, logicamente e santamente costituita, fanno pensare con una certa incresciosità agli istituti — per esempio — dell'allattamento dei neonati. Addolora l'idea che una madre deva assoggettarsi a la necessità di staccarsi dal seno la propria creatura, di affidarla per l'intera giornata alle cure degli altri ! E chissà quante poverette rinuncieranno con angoscia, quasi con gelosia, al dovere di allattare i loro piccini, di circondarli delle delicate cure richieste dalla loro debolezza! E vi rinuncieranno per mancanza di mezzi materiali, di tempo, magari Chi sa quante poverette dovranno sacrificare al lavoro nelle casi industriali, nei negozii, nelle famiglie, il piacere di tenersi presso i propri bambini in fasce. Ma come fare se il lavoro è necessario al pane della famiglia ? Sicuro; tutti lo sentono, tutti lo sanno: l'allattamento materno è desiderabile, come quello che offre, oltre molti altri vantaggi, quello di rafforzare i legami della famiglia, di mantenere le affezioni domestiche. La vista della culla eccita l'attività, insegna la previdenza, compensa la moderazione, impone rispetto all'uomo per la donna, comanda il sentimento della protezione. E il bimbo riceve cure, se non più igieniche, certo più tenere; e in tanto gli si figge nel cervello la rappresentazione della madre che lo allatta, del padre che lo accarezza, degli oggetti che lo colpiscono; e le prime impressioni che riceve dal mondo esteriore sono quelle della casa e dell'ambiente nel quale è destinato a vivere. L'alattare i proprii figli è uno dei più santi e cari doveri della madre. « Partorire con dolore — dice Mantegazza — è della femmina. Allattare il proprio figlio, riscaldarlo del calore del proprio petto, dargli un altra volta la vita con l'alimento del seno, è della madre ». Ma pur troppo ci sono delle madri che non sentono questo santo dovere e rinunciano con un sospiro di sollievo a l'incomodo di curarsi dei loro bimbi in fasce, e fanno impegni per affidarli, anche senza bisogno, agli istituti di allattamento. E che dire delle altre molte appartenenti alle classi agiate, che con tutta indifferenza affidano le loro creature alle balie, rinunciando al dolcissimo piacere di allattarle per schivare seccature, per non avere impicci, per non recar danno a la fresca bellezza ?.. Il sentimento della famiglia non può certo trovarsi nel cuore di queste madri: nè per esse gli istituti di allattamento saranno una prova di affievolimento nelle affezioni più intime. Vi sono bambini che passano i giorni della prima infanzia via di casa sempre o quasi. Sono mandati a balia, in campagna, o affidati per l'intero giorno a l'istituto di allattamento; a l'età di due, tre anni, li accolgono i giardini d'infanzia, da mattina a sera. Dai giardini d' infanzia passano alle scuole elementari, e nelle ore che corrono fra la fine della scuola e la sera, sono raccolti nella scuola e famiglia, ove la generosità pubblica li sorveglia mentre fanno i compiti o studiano le lezioni, procura loro svaghi sani e innocenti e quasi sempre del pane per la merenda. Questi fanciulli non si trovano in casa propria che la sera, quando i genitori sono tornati dal lavoro, e stanchi e spesso inaspriti, specie le donne, dalla continua obbligata assenza dalla casa, dalla necessaria mancanza dei doveri di madre di famiglia e di massaia, non sentono altro bisogno, altro desiderio che quello del riposo e del nutrimento non sempre corrispondente alle fatiche sostenute. Quel ritrovo della famiglia non è certo sempre allegro nè allietato dalla pace serena. In simili condizioni di cose come possono rafforzarsi i legami fra genitori e figli, fra sorelle e fratelli ?.. Poi che la società è costituita in modo che in molte classi, i genitori devono disertare la casa per il lavoro, e la donna non ha tempo o pochissimo di occuparsi della famiglia, conviene benedire agli asili, agli ospizii, alle scuole ed ai riareatori laici o religiosi, che nel miglior modo possibile, cercano di supplire a la famiglia raccogliendo i bambini, i fanciulli, gli adolescenti, per proteggerli contro la inerzia, l'abbandono, il malo esempio, per distoglierli dalla via del male che conduce a perdizione, che si oppone al morale progresso, a la economica floridezza della società. Un'altra istituzione che si deve benedire come provvida e pietosa è quella dell'ospizio dei vecchi. Non sono più capaci di lavorare, sono, acciaccosi, e dopo di avere cresciuto i figli, sentono che i figli non possono senza grave sacrificio sostenerli nei loro ultimi giorni di stanchezza, che dovrebbero per molti essere giorni di riposo meritato. L'ospizio li raccoglie, la carità li strappa a la miseria, offre loro tetto, vesti, vitto. La necessità li stacca dalla famiglia; non più vecchi o ben pochi nelle case del povero, non più la saggia voce dell'esperienza, la scuola del rispetto, l'affezione santa fra nonni e nepoti!... Un altro crudele, necessario strappo alle affezioni della famiglia !... Strappo crudele che ferisce il cuore e fa pensare. Ma non sorgerà dunque mai, mai una società abbastanza ricca e devota al dovere, che permetta al vecchio povero di morire dove ha vissuto, fra la gente che ama, seguendo le abitudini incontrate, circondato dall'affetto dei suoi ?.. Perchè la società non è costituita in modo da lasciare il vecchio povero nel posto che Dio gli ha assegnato, là dove l'uomo giovane e forte dovrebbe aiutarlo, la donna averne cura, i fanciulli sorridergli ed ascoltarne riverenti le parole ? E’ così dolce vedere la debolezza sorretta dalla forza, la infermità alleviata dalla salute fiorente, il capo canuto curvo su i riccioli biondi !... E’ invece triste l'ospizio ove sono raccolte tante vecchiaie, ove giacciono sepolti i ricordi, i desiderii, le languide speranze, non di rado il rammarico, qualche volta la sorda, impotente ribellione contro l'ingiustizia. E pure che sia mille volte benedetto l'ospizio che toglie il vecchio povero al freddo, a la fame e pur troppo anche a l'ingratitudine ! Ma che si possa sperare in un tempo in cui la famiglia sia costituita in modo che cessi d'essere necessaria questa pietosissima e grandiosa opera di beneficenza, in un tempo in cui le condizioni sociali sieno tali che l'amore e la gratitudine possano unirsi insieme, per offrire un posto d'affetto e di riconoscenza in seno della famiglia, ai vecchi affievoliti e impotenti al lavoro ! In Danimarca si concedono pensioni ai vecchi poveri. Per ciò fu approvata una legge il 9 aprile 1891: legge che andò in vigore il primo luglio dello stesso anno per tutto il regno, salvo Copenhagen e il suo sobborgo Frederiksberg, in cui andò in vigore nel 1892. Scopo della legge è di accordare pensioni, su fondi pubblici, ai poveri che hanno superati i 60 anni e che possono dimostrare come la miseria non sia per essi cagionata da vizi, o da condotta irregolare o dall' essersi privati di tutto a vantaggio dei figli o di altri. Gli aspiranti a la pensione, espongono lo stato loro e le rendite di cui godono, i debiti se ne hanno, gli aiuti che già hanno ricevuto ecc; e queste loro dichiarazioni devono essere attestate da due persone minacciate da severe pene se dicono il falso. Allora si fa un'inchiesta e si accorda la pensione se ne è il caso. Si può però appellare contro la risoluzione dell'autorità che ha applicato la legge. Nell'anno 1897 furono date in tutto il regno, 52,930 ensioni. Nel 1893, sopra 220 ersone, che avevano varcati i 60 anni, ve n'erano 30 he rice- vevano la pensione e dodici che da loro dipendevano (figli, mogli, ecc.); ma al principio del 1897, il numero dei pensionati era cosi cresciuto, che solamente su 180 persone sopra i 60 anni si trovava la stessa quantità di pensionati. In alcuni luoghi i pensionati sono alloggiati in case, alcune delle quali sono specialmente assegnate a loro soli, e nel 1896 ve n'erano 426 che ricevevano questo trattamento a Copenhagen, e 339 nelle altre parti del regno. Soccorrere con una pensione i vecchi, i quali se hanno famiglia possono vivere con essa senza essere di peso e soffrire avvilimento, cosa che prova il progresso nel sentimento filantropico. Come in tutto, anche qui c'è qualche inconveniente. Per esempio; molti che hanno o stanno per avere i 60 anni, cambiano di residenza per andare in luoghi dove sperano di poter ottenere una pensione più grande di quella che avrebbero liquidato se fossero rimasti nel luogo di origine, e ciò avviene principalmente dalle campagne a la città. Nè mancano questioni e difficoltà che debbono ancora essere risolute, come per esempio: se chi possiede una piccola proprietà possa godere della pensione accordata su i fondi pubblici, o se debba restare a l'autorità il diritto di rivalsa su la proprietà lasciata da un pensionato dopo la morte di costui. Li ogni modo questa legge ha un'azione benefica anche in riguardo ai suoi effetti morali. Il primo di tali effetti è quello di accordare al vecchio la possibilità di passare i suoi ultimi anni con le persone della famiglia; di evitare uno strappo crudele di abitudini e di affetti. Un altro quello di influire su la condotta. Il pensiero, il desiderio, la speranza della pensione, non possono a meno di essere di sprone al ben condursi, al meritare la stima pubblica, e insieme con la stima una sincera testimonianza di regolarità per il momento opportuno. Nel secolo XIX la famiglia del povero fu soccorsa e istruita; ma i vincoli fra i membri che la compongono non vennero rafforzati. E pure non mancò il desiderio di educare negli animi il sentimento della famiglia. Molti sono gli esempi che lo dimostrano, e fra questi il seguente, che si riferisce agli orfanelli. L'istituzione degli orfanotrofi é antichissima. La sorte dei poveri fanciulli privi dei genitori, ha sempre impietosito, ha sempre destato un sentimento generoso. Ma gli antichi orfanotrofi non miravano ad altro che a dare agli sventurati fanciulli senza difesa, un asilo ed una protezione, contro i pericoli d'ogni genere che li minacciavano, senza curarne l'educazione, se si toglie la religione, grossolanamente impartita. Al genio della moderna carità era riserbato di risguardare sotto un aspetto più largo e più filantropico questo genere di benefici stabilimenti. Gli orfanotrofi si propagarono rapidamente in Italia più che negli altri paesi. L'ospizio degli orfanelli fondato in Roma nel secolo XVI, destinava e preparava ad utili professioni i ragazzi ricettati, e il cardinale Salviati vi unì un collegio per i fanciulli che a dodici anni, mostrassero di avere attitudine a l'istruzione letteraria. Papa Innocenzo XII fondò poi un secondo orfanotrofio annesso al grande ospizio apostolico, di S. Michele, nel quale si insegnano le arti meccaniche e le liberali. I due grandi stabilimenti per gli orfanelli di Milano, i Martinetti e le Stelline rivaleggiano con quelli di Roma, Tutte le città ormai hanno il loro orfanotrofio. E i ricoverati ormai non sono tutti obbligati a star reclusi il giorno intero nello stabilimento. Si trovò che nell'officina dell'ospizio, il fanciullo compie per lo più senza passione il suo dovere. Non vi è nulla che ecciti il suo ardore; nulla che lo divaghi e con la divagazione gli rafforzi la volontà. Si è quindi pensato di disseminarli nelle botteghe e nei negozi privati. Così gli orfani possono scegliere il mestiere o l'arte verso cui si sentono inclinati ; la speranza del lucro e l'emulazione servono loro di stimolo; imparano non solo l'arte o il mestiere, ma anche il modo di vivere in società; quindi a fare frequenti e utili osservazioni sul proprio carattere; e sopra tutto a farsi un'idea della famiglia, ne respirano l'aura vitale e educano nel loro cuore quei sentimenti d' affetto che non possono essere svegliati e sviluppati in un ospizio.