Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbattevano

Numero di risultati: 8 in 1 pagine

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IL BENEFATTORE

662569
Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1901
  • CARLO LIPRANDI EDITORE
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Di cima al Muraglione, i galantuomini del Casino andavano ad osservare, due, tre volte al giorno, i lavori delle squadre di uomini che laggiù abbattevano siepi di fichi d'India, ammonticchiavano sassi per costruire il gran muro di cinta lungo lo stradone, appianavano rialzi di terreno, sgombravano la linea, tracciata dall'ingegnere, che dal posto dove dovea sorgere il cancello saliva a zigzag fino alla casetta rurale dei Laureano già abbattuta dalle fondamenta per far luogo al Cottèg , come avevano sentito dire che sarebbe chiamata la villa. E di lassù si distingueva benissimo l' inglese che andava qua e là, dando ordini, sotto l'ombrello cenericcio sempre aperto contro il sole, e sollecitava e dirigeva, instancabile. Poi, verso sera, gli vedevano riprendere la via del paese, cavalcando alla testa dei suoi uomini, al pari di un generale, com'era partito la mattina, all'alba, dopo averli rassegnati (erano quasi un centinaio) e averli disposti in squadre, secondo i diversi lavori a cui venivano addetti. Gli uomini partivano cantando in coro, con gli strumenti del lavoro in ispalla, marciando alla soldatesca. E come i soldati pel loro capitano, si sarebbero fatti ammazzare per quel padrone che li pagava bene, puntualmente; che li ristorava con buone minestre, con ottimo vino; che li faceva riposare un paio d'ore, quando il sole saettava dal meriggio; non rifiutando mai una persona che gli si fosse presentata per chiedere lavoro; pagando il medico e le medicine, se qualcuno di loro si ammalava. Nei primi mesi, i galantuomini sorridevano di compassione, crollavano la testa, pensando che la cosa era troppo bella da poter durare. Convenivano però che l' inglese si rivelava più furbo di quel che non sembrasse. Facendo a quel modo, otteneva che i contadini e gli operai lavorassero il doppio quasi senza accorgersi di lavorare. Infatti in meno di due mesi, le grillaie di Tirantello e del Cucchiaio erano quasi irriconoscibili; il muro di cinta, terminato; lo stradone serpeggiava fino a piè della collina; e si vedevano già i fossati delle fondamenta che tracciavano lo scheletro del Cottage . - E poi? - domandava il canonico Medulla. - Dice che vuol piantare un vigneto da una parte - rispondeva il sindaco - e un giardino di agrumi dall'altra. - E l'acqua? D'onde la caverà l'acqua per inaffiare il giardino? - Ha già fatto cominciare gli scavi. Intanto ha quella del mulino dal Cucchiaio . - Due gocce! È pazzo da catena costui. Un giorno, abbandonerà baracca e burattini e scapperà coi debiti che ha fatto nelle Banche di Catania; lasciatevelo dire da me! - Ma sono quattrini suoi quelli che prende dalle banche, quattrini depositati, messi a frutto. - Fandonie! - Costui ci darà una bella lezione, signor canonico! - La lezione la riceverà lui, e di che sorta! Andare ad affacciarsi dal Muraglione per osservare i lavori dell' inglese , laggiù, era diventato l'occupazione giornaliera dei galantuomini che ordinariamente ozieggiavano in Casino, dicendo male di questo e di quello, ammazzando il tempo con interminabili partite a tarocchi o al bigliardo, o sbadigliando seduti in circolo, su la terrazza che dominava il Largo della Matrice e quasi segregava il Casino dal contatto della gente radunata davanti a la chiesa, le domeniche; contadini la più parte. Le gite al Muraglione formavano un diversivo, davano pretesto a discussioni, a malignità anche; perchè quando noi vediamo fatto da altri quel che, con nostro profitto, avremmo potuto fare e non abbiamo voluto o saputo fare, l'attività altrui ci insinua nell'animo un rancore chiuso; ci sentiamo quasi frodati di quel che ci sarebbe stato facile possedere e che scorgiamo intanto in mano di uno che ci apparisce ora un intruso e fino a ieri compiangevamo o disprezzavamo come illuso o pazzo da legare. Chi di quei galantuomini si sarebbe mai immaginato che Tirantello , Cucchiaio , Pennino e Santa Barbara , avessero potuto divenire un gran podere modello, trasformati dall'attività di un sol uomo; e coprirsi di vigneti, di giardini di agrumi, con polle di acqua fatte scaturire quasi miracolosamente dalle viscere della terra; con un vasto casamento, con stalle, comode abitazioni pei contadini; con una vita rigogliosa, fiorentissima, regolata come un orologio dall'intelligenza direttrice che aveva saputo operare tale trasformazione, da rendere impossibile a qualunque immaginazione il ricostruirsi la visione di quell'aggregato di grillaie dove poco addietro le capre, i buoi trovavano a stento un po' di erba da brucare? E c'era voluto meno di tre anni, perchè i viaggiatori che passavano con la vettura postale per lo stradone, mentre davanti la rimessa avveniva il ricambio dei cavalli, si accostassero al cancello meravigliati di scorgere una scena così ridente colà, dove prima non si vedeva altro che miseria e desolazione!

Il Marchese di Roccaverdina

662609
Capuana, Luigi 1 occorrenze

E pochi giorni dopo, la casa era piena di operai che buttavano giù pareti intermedie, smattonavano pavimenti, abbattevano volte reali; di ragazzi che ammonticchiavano i calcinacci ai lati del portoncino, donde li portavano via i carrettieri, di mano in mano, per non ingombrare il viale che conduceva alla spianata del Castello. Impolverato peggio dei manovali, il marchese andava da un punto all'altro dando ordini, gridando come un ossesso se si vedeva mal capito, togliendo di mano il piccone a un operaio se questi esitava nel dare i colpi per paura di vedersi crollare addosso un pezzo di muro: «Così, animale! Debbo insegnarti io il tuo mestiere?». E la domenica appresso, non avendo chi sgridare né di che occuparsi, sentì con piacere che due forestieri , pecorai a giudicarli dall'apparenza, chiedevano di consegnargli una lettera e di parlare con lui. Li squadrò mentre apriva la busta. Vestiti da festa, con camicia di grossa tela candidissima sotto il bianco corpetto di frustagno casalingo, ornato di fitti bottoncini di madreperla; giacchetta di albagio nero con maniche attillate; calzoni della stessa stoffa, a ginocchio, dall'orlo dei quali scappavano i lembi delle mutande; calze di lana grigia, e calzari a punta, di pelle suina, legati con corregge di cuoio incrociate attorno al collo del piede, quei due, un vecchio e un giovane, parevano intimiditi dalla circostanza di trovarsi al cospetto del marchese di Roccaverdina. «Di che si tratta? La lettera non spiega nulla», egli disse. «Vostra eccellenza scuserà l'ardire», balbettò il vecchio. «Questi è mio figlio.» «Me ne rallegro con voi; bel pezzo di giovane!» «Grazie, voscenza ! Abbiamo detto! "È giusto richiedere prima il permesso al padrone". I grandi meritano rispetto. Noi non vogliamo offendere nessuno ... Se voscenza acconsente ... » «Spiegatevi.» Si vedeva che non era facile spiegarsi perché padre e figlio si guardarono negli occhi, invitandosi l'un l'altro a parlare. «Siamo di Modica, eccellenza», riprese, esitante, il vecchio. «Ma, pel pascolo delle pecore, veniamo spesso da queste parti ... Così si sono conosciuti, per caso. Egli mi ha detto: "Padre, che ne pensate? Io la sposerei, però ... ".» «Chi?», domandò il marchese che cominciava a comprendere. «La vedova ... di voscenza , cioè, la Solmo ... » «E venite da me? Che può importarmi a me di cotesta signora? ... Vi compatisco, perché non siete del paese.» « Voscenza deve perdonarci», s'intromise il giovane. «Ci hanno consigliato ... », balbettò l'altro. «Vi hanno consigliato male. Non ho niente che spartire con costei ... Sono suo parente, forse? Perché è stata ... al mio servizio? Ha preso marito ... È vedova, libera ... Che c'entro io?» Il marchese alzava la voce, corrugando le sopracciglia, facendo gesti di negazione con le mani. «Che c'entro io?», agitato da improvviso sentimento di rancore, quasi di gelosia, contro colui che infine (egli lo riconosceva nello stesso tempo) veniva a rendergli un bel servizio portando via, lontano, quella donna che forse tratteneva la signorina Mugnos dal prendere una risoluzione affermativa. «Chi vi ha consigliato? ... Essa?» «Eccellenza, no. Un nostro amico che rispetta tanto voscenza ... » «Ditegli che lo ringrazio, e che poteva far a meno di suggerirvi una sciocchezza ... E sposatevi, sposatevi pure! È libera, vi ripeto. Io non c'entro, né voglio entrarci ... Subito vi sposereste?» «Bisogna cavar fuori le carte e fare i bandi in chiesa.» «E la condurreste a Modica?» «Se voscenza permette.» «Io non c'entro; non volete intenderlo?», urlò il marchese. Era rimasto turbato. Per poco non gli sembrava che Agrippina Solmo gli facesse ora un altro tradimento; giacché doveva essere di accordo con lui, se pure quel tentativo non nascondeva un'insidia, un mezzo di rammentare a lui, marchese, che ella era viva e che si teneva ancora come legata! ... Sposasse! Purché gli si levasse di torno! ... Non voleva darle neppure la soddisfazione di rinfacciarle la sua infamia! Aveva dunque fretta di riprendere marito? E una sconcia parola gli uscì di bocca, quasi la Solmo fosse là, a riceverla, in pieno viso! Per sfogo, ne parlò con mamma Grazia. «Meglio così, figlio mio!» «Se venisse, bada! ... non voglio vederla!» «La ha incontrata parecchie volte a messa. Ultimamente mi ha domandato: "È vero che il marchese prende moglie?".» «Chi gliel'ha detto?» «Non so. Risposi: "Se fosse vero, lo saprei prima degli altri". Ah, se le anime sante del Purgatorio facessero questo miracolo!» «E ... insistette?» «Disse: "Dio lo renda felice!". Nient'altro. E ogni volta ha soggiunto: "Baciategli le mani, se credete!". Ma io te l'ho sempre taciuto, per non farti dispiacere, figlio mio!» Eppure no, non doveva lasciare andar via quella donna senza prima rinfacciarle il suo nero tradimento! Doveva, invece, strappargliene la confessione, perché ella non potesse vantarsi, in cor suo, di essere riuscita a farsi gioco del marchese di Roccaverdina. Voleva che piangesse, che avesse rimorso dell'atto infame da lei commesso, e non ignorasse per quale motivo egli si era rifiutato di più vederla e le aveva chiuso in faccia la porta di casa! Poi rifletteva: «Ho torto. Vada via! Lontano! Vada!». Aveva paura di tradirsi, di farla sospettare per lo meno. E s'indignava contro se stesso della vigliaccheria che gli rimestava nel cuore i ricordi del passato, che gli faceva risentire il contatto delle verginali carni di lei, come la prima volta, a Margitello, quando egli le aveva giurato: «Non avrò altra donna!». Era un fiore, allora! ... E dopo ... anche! E, nei giorni scorsi, mentre il piccone dei manovali abbatteva le pareti della sua camera, non si era sentito stringere il cuore ... ? «Ho torto! Vada via! Lontano! ... Vada! ... E se ella avesse l'audacia ... » Ma quella sera, al vedersela improvvisamente davanti, avvolta nella mantellina nera e vestita a lutto, nell'andito del portoncino dov'ella lo aveva atteso quasi un'ora, sapendo che doveva arrivare da Margitello, al sentirsi salutare don voce commossa: « Voscenza benedica! » , il marchese non ebbe animo di passare sdegnosamente innanzi, né di fare un gesto o di dirle un'amara parola che la scacciasse. L'umile atteggiamento, il suono di quella voce che, non udita da un pezzo, gli ronzava da qualche giorno nell'orecchio col ricordo di parole e di frasi evocate suo malgrado (egli stesso non avrebbe saputo dire se per rimpianto, o per indignazione, o per rigurgito di odio), lo sopraffecero, anche perché lo coglievano alla sprovveduta. «Che fai qui? ... Perché non sei entrata?», le disse in risposta al saluto. «Volevo almeno vederlo ... Per l'ultima volta!» «Entra! Entra!» La voce del marchese si era già alterata, e il gesto era diventato brusco, imperioso. Mamma Grazia, accorsa ad aprire l'uscio al tintinnio dei sonagli delle mule e al rumore delle ruote della carrozza, indietreggiò spalancando gli occhi vedendoseli apparire insieme, e non poté trattenersi dall'esclamare sotto voce: «Oh, Vergine santa!». Agrippina Solmo la salutò con un cenno della testa, inoltrandosi dietro al marchese tra le impalcature e gli arnesi da muratori che ingombravano le stanze, fino alla sala da pranzo, rimasta intatta, dove il marchese si fermò, sbatacchiando nervosamente l'uscio per chiuderlo. «Volevo almeno vederlo ... per l'ultima volta», ella replicò tra i singhiozzi irrompenti. «Sto per morire, forse?», disse il marchese con cupa ironia. «Per te, lo so, sono morto da un pezzo!» «Perché, voscenza ?» «Perché? ... Non avevi giurato?», egli proruppe. «Ti ho costretto con la forza quel giorno? Ti feci una proposta. Potevi rifiutarla, rispondermi di no!» «Ogni sua parola era comando per me. Ho obbedito ... Ho giurato, sinceramente.» «E poi? ... E poi? ... Nega, nega, se hai coraggio!» «Per Gesù Cristo che deve giudicarmi!» «Lascia stare Gesù Cristo! Nega, nega, se puoi! ... Ti sei data ... a tuo marito, come una sgualdrina! Non era, non doveva essere marito di apparenza soltanto? ... Lo avevate giurato, tutti e due!» «Ah ... Voscenza! » «Tu, tu stessa me l'hai fatto capire!» «Com'è possibile?» «Ti faceva pena! Ti sembrava avvilito davanti alle persone! Me lo hai detto più volte.» «È vero! È vero! Ma pensi, voscenza ! ... Da prima, niente; come due estranei, come fratello e sorella. Spesso lo vedevo appena mezza giornata, le domeniche ... Dopo quattro o cinque mesi ... oh! sembrava scherzasse: "Bellavita, eh? Ho sotto gli occhi la tavola apparecchiata e debbo restare digiuno!". Io lo lasciavo dire. E poi, di tratto in tratto, mordendosi le mani: "Ci voleva il santissimo ... del marchese di Roccaverdina per farmi fare questo sacrificio!". E una volta: "Vi pare che io non indovini che cosa dice la gente? Quel cornutaccio di Rocco!". Gli risposi: "Dovevate pensarci prima! ... ". "Avete ragione! ... ". Pensi, voscenza. Sentirlo parlare così! ... Non ero di bronzo!» «E allora? ... Allora? ... Non me ne dicevi niente però!» «A che scopo? Perché voscenza andasse in collera? ... » «E ... poi?» «E poi ... Ma pensi, voscenza ! ... Un giorno gli risposi: "Femine ne avete quante volete ... Chi v'impedisce? ... Non vi bastano?". Si mise a piangere; come un bambino piangeva, imprecando: "Sangue ... qua! Sangue ... là! Dobbiamo finirla questa storia! Non reggo più! ... Che cuore avete dunque?". Che cuore? Non glielo davo a vedere, ma piangevo, di nascosto, pel peccato mortale in cui vivevo ... » «E per lui pure! ... Dillo! Confessalo!» «Niente! Niente, voscenza ! ... No», ella soggiunse dopo breve pausa, «non voglio mentire! ... Ma il Signore ci ha castigati ... per la mala intenzione soltanto! E, quella notte, non lo fece arrivare a casa! ... Oh! ... Saremmo venuti da voscenza, a pregarlo, a scongiurarlo ... Tanto, a voscenza che le è più importato di me? ... Il mio destino ha voluto così! Sia fatta la volontà di Dio! ... Ed ora, si perderà di me anche il nome. Vado via, in un paese dove nessuno mi conosce; per disperazione vado via ... Se un giorno però ... Serva, serva e nient'altro! Ah! Vorrei dare il mio sangue per voscenza !» Il marchese l'aveva ascoltata con crescente ansietà, stringendo tra i denti il labbro per non irrompere; e quando, fermatasi un istante, ella aveva subito soggiunto: «No, non voglio mentire!», il sangue gli aveva dato un tuffo, quasi egli dovesse vedere compirsi di nuovo l'infame tradimento e proprio sotto i suoi occhi. Stette immobile, senza fiato. Immediatamente però il petto gli si gonfiava con un gran respiro di tetra soddisfazione. Aveva colpito a tempo! Aveva impedito che il tradimento fosse compiuto! ... Ma la intenzione, la mala intenzione, c'era dunque stata! E, chi sa? - non osava di confessarglielo - essa rimpiangeva ancora il morto! Un feroce pensiero gli attraversò la mente: impedirle di sostituire il morto con un vivo! Tenersela sempre schiava, e colmarla di disprezzo, non guardandola neppure in viso! Quei singhiozzi, quelle lagrime, quelle proteste erano certamente menzognere! E già stava per dirle: «Non sposare! ... Resta!». Si trattenne a stento. Agrippina Solmo gli si era accostata umilmente, asciugandosi le lagrime; e, presagli una mano, gliela baciava con labbra gelide e convulse: « Voscenza benedica ! E il Signore le dia tutte le felicità ... se è vero che sposa!». Un lieve senso di tenerezza lo invase al contatto, ed egli ritrasse lestamente la mano. E prima che maggiore commozione lo vincesse, al gesto di commiato, fece seguire, con voce turbata, queste sole parole: «Se, per caso ... avessi bisogno ... Ricordati! ... ».

Teresa

678635
Neera 1 occorrenze
  • 1897
  • CASA EDITRICE GALLI
  • prosa letteraria
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Pagina 224

Al tempo dei tempi. Fiabe e leggende delle Città  di Sicilia

679133
Perodi, Emma 1 occorrenze

I fulmini abbattevano gli alberi, il vento schiantava i rami, la pioggia e la grandine venivano giù come Dio le mandava. I cacciatori spronarono i cavalli per uscire dal bosco e schivare il pericolo d'esser fulminati. Appena all’aperto scorsero un bellissimo palazzo, bussarono e furono accolti gentilmente da tante cameriere, che li fecero entrare in una gran sala, dove in un vasto camino ardeva il fuoco. Da quella sala passò Mariuccia col figlio per andare nelle sue stanze, e tutti i cacciatori s’alzarono, credendola la padrona del palazzo, e l'ossequiarono. Ella, non appena ebbe fissato il Reuccio, lo riconobbe e impallidì, ma non disse nulla sul momento e si ritirò insieme col figlio. Però di lì a poco disse al giovinetto : - Hai veduto quel cacciatore più alto di tutti e col portamento così nobile, benché pallido e come affranto dal dolore ? Ebbene, quel cacciatore è il Reuccio tuo padre. Va’ da lui e baciagli la mano. - II fanciullo tornò nella sala, s'accostò al cacciatore che la madre gli aveva indicato, mise un ginocchio in terra e baciandogli la mano, gli disse : Padre mio, beneditemi ! - Figuriamoci quel che provasse il Reuccio in quel momento! Rialzò il fanciullo, se lo strinse al petto e pianse di gioia su quel capo che aveva tanto bramato di baciare. Poi si fece condurre dalla madre, e qui nuovi abbracciamenti e nuove lacrime. Mariuccia gli raccontò tutto quello che aveva .offerto e quanto l' aveva aiutata il cavalluccio e la promessa che gli aveva fatta di dargli una mangiatoia d’oro. Naturalmente il Reuccio insieme con la moglie, il figlio e il seguito andarono subito alla Corte. Il cavallino fa montato dal fanciullo e in città si fecero grandi feste a tutti, e anche al cavallino, che ebbe la sua mangiatoia d'oro e una stalla tutta di marmo e e visse tanti anni, grasso bracato, e vide il Reuccio divenir Re, la Reginuzza divenir Regina e poi regnare anche il figlio di Mariuccia. Finalmente un giorno anche il cavallino sauro morì, e il Re gli fece erigere una statua.

Pagina 52

La tregua

679765
Levi, Primo 1 occorrenze

Charles ed io sostammo in piedi presso la buca ricolma di membra livide, mentre altri abbattevano il reticolato; poi rientrammo con la barella vuota, a portare la notizia ai compagni. Per tutto il resto della giornata non avvenne nulla, cosa che non ci sorprese, ed a cui eravamo da molto tempo avvezzi. Nella nostra camera la cuccetta del morto Sòmogyi fu subito occupata dal vecchio Thylle, con visibile ribrezzo dei miei due compagni francesi. Thylle, per quanto io ne sapevo allora, era un "triangolo rosso", un prigioniero politico tedesco, ed era uno degli anziani del Lager; come tale, aveva appartenuto di diritto alla aristocrazia del campo, non aveva lavorato manualmente (almeno negli ultimi anni), ed aveva ricevuto alimenti e vestiti da casa. Per queste stesse ragioni i "politici" tedeschi erano assai raramente ospiti dell' infermeria, in cui d' altronde godevano di vari privilegi: primo fra tutti, quello di sfuggire alle selezioni. Poiché, al momento della liberazione, era lui l' unico, dalle SS in fuga era stato investito della carica di capobaracca del Block 20, di cui facevano parte, oltre alla nostra camerata di malati altamente infettivi, anche la sezione TBC e la sezione dissenteria. Essendo tedesco, aveva preso molto sul serio questa precaria nomina. Durante i dieci giorni che separarono la partenza delle SS dall' arrivo dei russi, mentre ognuno combatteva la sua ultima battaglia contro la fame, il gelo e la malattia, Thylle aveva fatto diligenti ispezioni del suo nuovissimo feudo, controllando lo stato dei pavimenti e delle gamelle e il numero delle coperte (una per ogni ospite, vivo o morto che fosse). In una delle sue visite alla nostra camera aveva perfino encomiato Arthur per l' ordine e la pulizia che aveva saputo mantenere; Arthur, che non capiva il tedesco, e tanto meno il dialetto sassone di Thylle, gli aveva risposto "vieux dégoûtant" e "putain de boche"; ciononostante Thylle, da quel giorno in poi, con evidente abuso di autorità, aveva preso l' abitudine di venire ogni sera nella nostra camera per servirsi del confortevole bugliolo che vi era installato: in tutto il campo, l' unico alla cui manutenzione si provvedesse regolarmente, e l' unico situato nelle vicinanze di una stufa. Fino a quel giorno, il vecchio Thylle era dunque stato per me un estraneo, e perciò un nemico; inoltre un potente, e perciò un nemico pericoloso. Per la gente come me, vale a dire per la generalità del Lager, altre sfumature non c' erano: durante tutto il lunghissimo anno trascorso in Lager, io non avevo avuto mai né la curiosità né l' occasione di indagare le complesse strutture della gerarchia del campo. Il tenebroso edificio di potenze malvage giaceva tutto al di sopra di noi, e il nostro sguardo era rivolto al suolo. Eppure fu questo Thylle, vecchio militante indurito da cento lotte per il suo partito ed entro il suo partito, e pietrificato da dieci anni di vita feroce ed ambigua in Lager, il compagno e il confidente della mia prima notte di libertà. Per tutto il giorno, avevamo avuto troppo da fare per aver tempo di commentare l' avvenimento, che pure sentivamo segnare il punto cruciale della nostra intera esistenza; e forse, inconsciamente, l' avevamo cercato, il da fare, proprio allo scopo di non aver tempo, perché di fronte alla libertà ci sentivamo smarriti, svuotati, atrofizzati, disadatti alla nostra parte. Ma venne la notte, i compagni ammalati si addormentarono, si addormentarono anche Charles e Arthur del sonno dell' innocenza, poiché erano in Lager da un solo mese, e ancora non ne avevano assorbito il veleno: io solo, benché esausto, non trovavo sonno, a causa della fatica stessa e della malattia. Avevo tutte le membra indolenzite, il sangue mi pulsava convulsamente nel cranio, e mi sentivo invadere dalla febbre. Ma non era solo questo: come se un argine fosse franato, proprio in quell' ora in cui ogni minaccia sembrava venire meno, in cui la speranza di un ritorno alla vita cessava di essere pazzesca, ero sopraffatto da un dolore nuovo e più vasto, prima sepolto e relegato ai margini della coscienza da altri più urgenti dolori: il dolore dell' esilio, della casa lontana, della solitudine, degli amici perduti, della giovinezza perduta, e dello stuolo di cadaveri intorno. Nel mio anno di Buna avevo visto sparire i quattro quinti dei miei compagni, ma non avevo mai subito la presenza concreta, l' assedio della morte, il suo fiato sordido a un passo, fuori della finestra, nella cuccetta accanto, nelle mie stesse vene. Giacevo perciò in un dormiveglia malato e pieno di pensieri funesti. Ma mi accorsi ben presto che qualcun altro vegliava. Ai respiri pesanti dei dormienti si sovrapponeva a tratti un ansito rauco e irregolare, interrotto da colpi di tosse e da gemiti e sospiri soffocati. Thylle piangeva, di un faticoso ed inverecondo pianto di vecchio, insostenibile come una nudità senile. Si avvide forse, nel buio, di un qualche mio movimento; e la solitudine, che fino a quel giorno entrambi, per diversi motivi, avevamo cercato, doveva pesargli quanto a me, poiché a metà della notte mi chiese "Sei sveglio?", e senza attendere la risposta si arrampicò a gran fatica fino alla mia cuccetta, e d' autorità mi sedette accanto. Non era facile intendersi con lui; non solo per ragioni di linguaggio, ma anche perché i pensieri che ci sedevano in petto in quella lunga notte erano smisurati, meravigliosi e terribili, ma soprattutto confusi. Gli dissi che soffrivo di nostalgia; e lui, che aveva smesso di piangere, "dieci anni", mi disse, "dieci anni!": e dopo dieci anni di silenzio, con un filo di voce stridula, grottesco e solenne ad un tempo, prese a cantare l' Internazionale, lasciandomi turbato, diffidente e commosso. Il mattino ci portò i primi segni di libertà. Giunsero (evidentemente precettati dai russi) una ventina di civili polacchi, uomini e donne, che con pochissimo entusiasmo si diedero ad armeggiare per mettere ordine e pulizia fra le baracche e sgomberare i cadaveri. Verso mezzogiorno arrivò un bambino spaurito, che trascinava una mucca per la cavezza; ci fece capire che era per noi, e che la mandavano i russi, indi abbandonò la bestia e fuggì come un baleno. Non saprei dire come, il povero animale venne macellato in pochi minuti, sventrato, squartato, e le sue spoglie si dispersero per tutti i recessi del campo dove si annidavano i superstiti. A partire dal giorno successivo, vedemmo aggirarsi per il campo altre ragazze polacche, pallide di pietà e di ribrezzo: ripulivano i malati e ne curavano alla meglio le piaghe. Accesero anche in mezzo al campo un enorme fuoco, che alimentavano con i rottami delle baracche sfondate, e sul quale cucinavano la zuppa in recipienti di fortuna. Finalmente, al terzo giorno, si vide entrare in campo un carretto a quattro ruote, guidato festosamente da Yankel, uno Häftling: era un giovane ebreo russo, forse l' unico russo fra i superstiti, ed in quanto tale si era trovato naturalmente a rivestire la funzione di interprete e di ufficiale di collegamento coi comandi sovietici. Tra sonori schiocchi di frusta, annunziò che aveva incarico di portare al Lager centrale di Auschwitz, ormai trasformato in un gigantesco lazzaretto, tutti i vivi fra noi, a piccoli gruppi di trenta o quaranta al giorno, e a cominciare dai malati più gravi. Era intanto sopravvenuto il disgelo, che da tanti giorni temevamo, ed a misura che la neve andava scomparendo, il campo si mutava in uno squallido acquitrino. I cadaveri e le immondizie rendevano irrespirabile l' aria nebbiosa e molle. Né la morte aveva cessato di mietere: morivano a decine i malati nelle loro cuccette fredde, e morivano qua e là per le strade fangose, come fulminati, i superstiti più ingordi, i quali, seguendo ciecamente il comando imperioso della nostra antica fame, si erano rimpinzati delle razioni di carne che i russi, tuttora impegnati in combattimenti sul fronte non lontano, facevano irregolarmente pervenire al campo: talora poco, talora nulla, talora in folle abbondanza. Ma di tutto quanto avveniva intorno a me io non mi rendevo conto che in modo saltuario e indistinto. Pareva che la stanchezza e la malattia, come bestie feroci e vili, avessero atteso in agguato il momento in cui mi spogliavo di ogni difesa per assaltarmi alle spalle. Giacevo in un torpore febbrile, cosciente solo a mezzo, assistito fraternamente da Charles e tormentato dalla sete e da acuti dolori alle articolazioni. Non c' erano medici né medicine. Avevo anche male alla gola, e metà della faccia mi era gonfiata: la pelle si era fatta rossa e ruvida, e mi bruciava come per una ustione; forse soffrivo di più malattie ad un tempo. Quando venne il mio turno di salire sul carretto di Yankel, non ero più in grado di reggermi in piedi. Fui issato sul carro da Charles e da Arthur, insieme con un carico di moribondi da cui non mi sentivo molto dissimile. Piovigginava, e il cielo era basso e fosco. Mentre il lento passo dei cavalli di Yankel mi trascinava verso la lontanissima libertà, sfilarono per l' ultima volta sotto i miei occhi le baracche dove avevo sofferto e mi ero maturato, la piazza dell' appello su cui ancora si ergevano, fianco a fianco, la forca e un gigantesco albero di Natale, e la porta della schiavitù, su cui, vane ormai, ancora si leggevano le tre parole della derisione: "Arbeit Macht Frei", "Il lavoro rende liberi".

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IL RE DEL MARE

682245
Salgari, Emilio 1 occorrenze

I FIGLI DELL'ARIA

682312
Salgari, Emilio 1 occorrenze

Avevano già percorso tre o quattro miglia facendo delle frequenti fermate per raccogliere i volatili che abbattevano, quando Fedoro, che si trovava a prora, mandò un grido di rabbia: - Stiamo per venire presi! ... - Da chi? - chiesero a una voce Rokoff e il capitano. - Una giunca di guerra scende il fiume! - Per tutte le steppe del Don! - esclamò Rokoff. - L'avventura minaccia di finire male! ... - E lo "Sparviero" è ancora ammalato! - esclamò Fedoro. - Dove fuggire? Il capitano non rispose. Invece di guardare la giunca aveva volti gli occhi verso l'isolotto, dove vedeva apparire e agitarsi al disopra degli alberi, le immense ali del suo aerotreno. - Giungeranno troppo tardi - disse finalmente. - Lo "Sparviero" fra poco sarà qui e ci rapirà sotto gli occhi dei manciù e dell'equipaggio della giunca. Signor Rokoff, ridiscendiamo la corrente.

I PREDONI DEL SAHARA

682438
Salgari, Emilio 1 occorrenze

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