Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Gioberti e il panteismo

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Infatti quando i protestanti si abbattevano in qualche libro delle Scritture ad una autorità manifestamente contraria al loro sistema, invece di abbandonare questo sistema, conchiudevano che il libro è apocrifo. Così Lutèro tolse dal canone delle Scritture la lettera di s. Jacopo, perchè il suo sistema escludeva le buone opere che quell' Apostolo commendava. Allo stesso modo i nostri Filosofi. L' ideale contradice al loro sistema; dunque le idee non esistono, o sono anch' esse realità. Così si spoglia la Filosofia delle verità più evidenti, unicamente perchè queste hanno la colpa di non conciliarsi cogli errori e coi pregiudizj. Noi abbiam detto di volere starci col senso comune, che ci par l' arca di sicurezza, e credemmo che ai nostri Filosofi bastasse opporre quest' autorità del genere umano per tutta confutazione. Assicurata così la verità non ci arretrammo però dall' instituire un' indagine più profonda, dall' affrontare le questioni « che cosa sia l' ideale, che cosa sia il reale »o almeno « quali siano i caratteri dell' uno e dell' altro, in che differiscano, con che rapporto si congiungano »; e nel tempo medesimo che ci proponemmo di condurre la nostra investigazione con quel coraggio che dee essere qualità dei Filosofi, ci facemmo altresì un dovere di escludere da noi quella presunzione che pretende di saper tutto, di trovar tutto, di dar ragione di tutto, disposti ad esser contenti dei soli nostri sforzi per giungere al vero, e molto più di quella porzione di vero che ci frutteranno, se pure a qualche risultamento riuscissero. Nè possiam dire, o signori, d' aver lavorato indarno: se la natura dell' ideale e del reale non ci si svelò intieramente, abbiamo però scoperti e fermati diversi luminosi caratteri che distinguono l' uno dall' altro, e che ci persuasero l' ideale non solo esser distintissimo dal reale; ma cosa più alta, più nobile, più manifesta di questo. Onde noi conchiudemmo, che qualora il Filosofo dovesse negare l' uno de' due, meno assurdo sarebbe negare il reale che l' ideale. Se non che nella conclusione del ragionamento io m' accorgo d' aver parlato inesattamente, e devo or correggere il mio errore. Dicevo che essendo l' ideale tanto maggior cosa del reale, egli è più concepibile di quest' ultimo, giacchè ciò che è più grande è anche più concepibile. Ma no, non è così ch' io dovea dire, miei signori; io doveva dire, che anzi il solo ideale è concepibile, e che il reale non è punto nè poco concepibile per se stesso, e se pur all' ideale non si congiunga. Questo è importante e degno di tutta la nostra meditazione. Considerando bene questa qualità dell' ideale di essere il solo concepibile, il solo intelligibile, se ne scopre la natura, epperciò egli è uopo che noi ce ne occupiamo, con tutta diligenza in questa lezione. Allorquando noi concepiamo un reale, p. e. un corpo o un sentimento, lo produciamo noi forse? Niuno, io credo, dirà che il conoscere sia lo stesso che il produrre, che il creare. Anzi ciascuno che non si tolga dal senso comune dirà che niun ente può essere da noi conosciuto come tale, se non sussiste: la sussistenza del reale precede alla cognizione che noi prendiamo di esso. E` egli possibile, che noi percepiamo ed affermiamo con verità una casa, un monte, un libro, non preesistenti? E quelle case, que' monti, que' libri, i quali ci sono ancora del tutto ignoti, non sussiston forse senza la nostra cognizione di essi? Dunque la sussistenza ossia la realità delle cose che si conoscono è rispetto a noi anteriore e indipendente dalla nostra cognizione. Badate bene, miei signori, che cosa da questo semplice fatto risulta. Risulta evidentemente, che nell' essenza del reale non entra punto nè poco la cognizione; che la cognizione di esso è un' entità da esso distinta. Dunque il reale, secondo la sua propria essenza, esiste senza cognizione, e questa nè lo costituisce nè lo produce, nè lo altera in modo alcuno. Dico che neppur lo altera: perocchè ditemi, o signori, le panche che sono in questa scuola mutano forse natura, o ricevono qualche modificazione quando da noi si conoscono, o non si resterebbero qui le stesse affatto anche quando noi ne ignorassimo l' esistenza? Dunque di nuovo la cognizione è cosa estranea alla natura del reale. Ma se la cognizione è cosa estranea alla natura del reale, dunque che cosa è il reale, qual è il suo carattere? Quello dell' oscurità, cioè d' essere per se stesso incognito. Se esso ha bisogno d' un' entità diversa da lui per essere conosciuto, dunque, separato da questa entità, rimane al tutto inconcepibile: infatti niente si conosce dove non c' è cognizione. Ora osserviamo se dell' idea si possa dire il medesimo. Vi par egli che un' idea abbia bisogno di qualche altra idea per essere concepita? No certamente; poichè un' idea è atta bensì a far conoscere se stessa, ma non mai a far conoscere un' altra idea, che è al tutto da lei diversa, e diversa per usare l' espressione d' Aristotele come un numero è diverso da un altro numero. Prendiamo l' idea del cavallo; or cercatene un' altra, sia pur vicina a questa quanto volete, sia quella dell' asino, sia quella del mulo, sia quella della giraffa: indarno; tutte queste idee non vi faranno mai conoscere l' idea del cavallo se non la conoscete avanti. Dunque ogni idea mostra se stessa senza bisogno d' altro: ella è dunque essenzialmente un lume , ella è essenzialmente concepibile. Mi direte, che anche l' idea, acciocchè si faccia conoscere, ha bisogno d' alcun che diverso da lei, cioè del suo reale corrispondente. Ma questa è un' illusione, miei signori. Primieramente notate bene quello che abbiam già detto, che ogni idea è diversa dall' altra, e che ciascuna è quello che è, immutabilmente uguale a se stessa, senza che possa esser mai modificata. Ora ditemi: quando il Canòva concepì da prima il Teseo, allora n' ebbe l' idea. Esisteva egli per anco il Teseo reale, che poscia il grand' uomo modellò e scolpì? No per certo; dunque quell' idea non ebbe bisogno della sua corrispondente realità per isplendere nella mente al Canòva. Ed osservate, che quand' anco il Canòva fosse stato sturbato dall' opera, e non avesse mai posto mano al colosso del Teseo, quell' idea non avrebbe meno illustrato la mente dell' artista, benchè sola, benchè scompagnata per sempre da quel reale che le rispondeva. Replicherete probabilmente, che il Canòva nondimeno trasse e compose l' idea del Teseo dagli enti reali da lui veduti. Ma fu appunto per prevenire questa obbiezione, che io vi chiamavo a riflettere, che un' idea che differisca anche menomamente da un' altra è già un' idea diversa e non quella. Ora ditemi: il Canòva vide certamente molti corpi umani e statue antiche; ma fra tutti i corpi e le statue vedute vide forse egli mai il suo Teseo? Vide altre forme, altre idee; ma quella del Teseo opera originale di lui, non potè vederla dovecchessia. - Ma egli se la compose mediante le altre idee tratte dai reali da lui percepiti - Sia pure; e poco appresso vedremo se il reale, il mero reale, gli abbia potuto somministrare, non dico l' idea del Teseo, ma un' idea qualsiasi. Ora mi basta per rispondere, che consideriamo attentamente che voglia dire « comporre un' idea coll' accozzare insieme altre idee, o parti d' idee ». Che cosa vuol dire comporre un' idea con altre idee, o parti d' idee? Vuol forse dire creare quell' idea che si compone? No, perchè le parti esistono. Ma io non dimandava questo: dimandava, se il tutto risultante da queste parti, se i nessi con cui queste parti si legano acciocchè divengano un tutto solo, sieno creati dalla mente dell' artista; se la convenienza di questi nessi dipende dal suo volere, se ella è arbitraria. Nel caso che si risponda di sì, egli è facile ravvisar l' assurdo che ne verrebbe: ognuno potrebbe esser grande artista, perchè ognuno ha l' arbitrio, e potrebbe congiungere le parti ovvero le idee elementari che non gli mancano, in qualsivoglia maniera. Infatti non solo il Canòva, ma tutti gli altri uomini possono aver vedute nella natura e ne' musei le stesse cose che vide il Canòva, e averne riportate le stesse idee. Dunque il Canòva non raccozzò le parti ad arbitrio, ma secondo certe leggi di convenienza dalle quali riuscisse la bellezza del tutto. Ma che mai sono queste leggi di convenienza? Di nuovo, sono elle forse create ad arbitrio? Prendiamone una tra tutte, non la principale, ma la prima che ci si offre. Gli artisti dicono essere conveniente a persona di donna l' aver piccole le mani, e che quella piccola mano è sommamente gentile, [...OMISSIS...] come disse l' Ariosto. Che cosa è dunque questa legge, che insegna a modellar bene una mano, tradotta in linguaggio filosofico? Non è altro se non l' idea d' una mano piccola a proporzione del corpo, priva d' inuguaglianze, dove tutte le linee vadano dolcissimamente incurvandosi. Avendo l' artista quest' idea o tipo in mente, egli quando vuol fare la statua sa come regolarsi. Ma come intende egli che la forma di questa mano è più bella di un' altra? Questa convenienza, questa bellezza, domando di nuovo, è ella arbitraria? se non è arbitraria, se non è l' opera della volontà dell' artista, adunque egli non la produce, egli non fa altro che contemplarla. Qual' è dunque la differenza tra lui e gli altri uomini, che non pervengono ad avere nella mente un' idea, un tipo sì bello? Niente altro può essere se non questa, che l' artista osserva i diversi tipi, le diverse idee possibili, più accuratamente e diligentemente degli altri uomini, e paragonandole insieme si ferma alla più bella, e la sceglie come regola del suo lavoro. Questo tipo più bello non esiste nè negli enti reali della natura, nè in quelli dell' arte; ma traendo da tali enti le loro idee niuna delle quali è perfetta, egli si giova di esse quasi di scala per salire alla contemplazione d' un' altra idea migliore, che anch' essa esiste eternamente come esistono tutte le idee; e basta che la mente le rivolga la sua attenzione perchè la vegga. Egli non potrebbe mica distinguere tra le idee rispondenti alle cose reali i pregi loro e i difetti, se non possedesse già prima nella sua mente una regola diversa da tali idee, secondo cui portar di esse giudizio, e scegliere il bello separandol dal brutto: e questa regola più elevata, precedente all' idee dei reali, è anch' essa, come dicevamo, un' idea, un tipo superiore. - Ma in tal caso l' artista non dovrebbe affaticarsi gran fatto a comporre il disegno mentale dell' opera sua, se egli già prima l' avesse nella sua mente e con un solo sguardo il potesse intuire. - Il dir questo è un non aver bene inteso la natura di queste idee superiori di cui si serve l' artista a giudicare della bellezza e deformità delle idee de' reali, e a scegliere ed accozzare le parti belle. Perocchè quelle idee superiori di cui parliamo, che sono altrettante regole che dirigono la mente dell' artista a intuire il disegno ideale dell' opera sua, non sono ancora che idee molto astratte. Così l' idea della mano piccola e senza disuguaglianze è ancora un' idea astratta che per se sola non basta alla mente dell' artista a formare la mano che si propone; ma basta sì a servirle di guida per immaginarla, e con essa convien che concorrano altre idee, altre regole pure astratte; p. es. quelle della proporzione tra la grandezza della mano e la grandezza del corpo, affinchè egli sappia quando la mano si possa dir piccola, quando grande. Ciascuna dunque di queste idee sono tipi astratti, che guidano la mente dell' artista per quella via che le bisogna a giungere finalmente alla contemplazione del disegno compiuto dell' opera sua, che, come dicevo, da niuno de' reali viene somministrato. Dunque la differenza tra la mente dell' artista e quella di un altro uomo non istà in questo, che la prima sia formatrice di belle idee, e la seconda non sia; ma in questo, che la prima è bene esercitata e conosce la via per giungere a contemplare l' idea perfetta, al che non vale la mente del secondo. Poichè niuna idea si può contemplare dalla mente umana, se la mente non giunge a far l' atto necessario dell' intuizione, a trovar quell' unica idea di cui si tratta, tra tutte le idee. E qui di passaggio giova osservare, che la mente che viene ammaestrata ed esercitata a dirigere la sua intuizione più tosto ad un' idea che ad un' altra, non potrebbe ricevere questa guida e questo ammaestramento, se non preesistessero in lei altre idee più generali di quelle che cerca; come egli è mestieri supporre che innanzi a tutte le altre idee men generali preesista quella che è universalissima, colla quale solo può misurare e giudicare le altre; la quale, come noi abbiam già veduto altrove, è quella dell' essere. Ma taluno insisterà tuttavia dicendo, che almeno le idee de' reali si cavano dai reali - No, miei signori, nè pur questo è vero. E come possono dare i reali quello che non hanno? Noi abbiamo veduto, che nell' essenza del reale non si trova punto nè poco la cognizione: se il reale c' è anche quando non si conosce, dunque la cognizione di lui è fuori della sua essenza. Se l' essenza del reale non ha la cognizione, neppure ha l' idea. - Come dunque accade che quando da' reali riceviamo le impressioni sensibili, noi li percepiamo intellettualmente, e solo dopo percepiti, ne abbiamo l' idea? Così l' idea del colore non si ha se non dopo essersi percepito il colore. - Il fatto è verissimo, ma si tratta di spiegarlo. Nella percezione del reale, non è mica il solo reale che opera in noi, operiamo anche noi stessi. Egli è vero che dopo percepito il reale co' sensi, noi ne abbiamo l' idea; ma posciachè in questo fatto gli agenti sono due, il reale e noi stessi, sta a vedere a quale de' due si convenga attribuire la comparsa dell' idea. Ora al reale percepito, no certamente, perchè nemo dat quod non habet: l' attribuiremo dunque a noi stessi? Certo che l' idea della cosa s' acquista mediante un atto proprio nostro, e non un atto del reale esterno; che le idee sono nostre, non sono del reale esterno. Ma questo non ci autorizza ancora a dire che la produciamo noi stessi con un nostro atto: per chiarircene non v' è altra via che osservare attentamente ed esaminare l' atto ond' acquistiamo la nuova idea. E` egli forse un atto di produzione? Non più di quello che sia un atto di produzione quello dell' occhio che vede gli oggetti corporei, anzi assai meno. L' osservazione interna ci dice, che l' idee s' intuiscono bensì, si contemplano, ma non si producono , e che acquistare un' idea non vuol dir altro, se non rivolgere e fissare l' attenzione della mente in essa. Questo risultato dell' osservazione ci è confermato ampiamente dal ragionamento, il quale ci mostra nelle idee tali caratteri, che eccedono ogni finita potenza, e sono quelli che abbiamo trascorsi nella precedente lezione. Se dunque le idee non si producono, nè si posson produrre dalla mente nostra, ma solo si riguardano e si contemplano, qual' è la parte unica che si può attribuire all' oggetto reale nell' acquisto delle nostre idee? Niun' altra se non l' aver egli eccitata e determinata l' attenzione del nostro spirito a intuire e riguardare l' idea che prima non intuivamo nè riguardavamo, e ciò mediante l' immagine che c' imprime nel sentimento. Di niun altro ajuto ha bisogno la mente, se non di un eccitamento e di una determinazione immaginaria a formare quell' atto con cui essa intuisce e riguarda piuttosto un' idea che un' altra. E se la cosa è così, dunque niente ripugna che si concepisca la possibilità d' una altra causa qualunque la quale muova la mente nostra a questo suo atto, senza bisogno del reale corrispondente all' idea; giacchè egli non fa che l' ufficio di stimolo e di guida allo spirito intelligente. E affinchè meglio si veda, come non sia il reale quello, che somministra alla nostra mente l' idea, si consideri dove mai la mente la intuisca. Se l' idea fosse nel reale, o se il reale ne fosse la causa efficiente, noi dovremmo intuirla nel reale, in quel luogo dove è il reale. Ma l' idea s' intuisce forse ne' reali? Prendiamo un corpo, un arancio che pende dalla pianta del giardino. L' idea intuita dalla mente quando quell' arancio cade sotto i miei sensi, pende forse anch' ella dall' albero del mio giardino? In questo caso io non potrei intuirla che andando nel mio giardino, non potrei intuirla se non nell' atto che guardo e tocco l' arancio, e se l' arancio cade dall' albero, cadrebbe con esso in terra anche la mia idea. Ma no; ella non è ristretta a luogo alcuno; tosto che la mia mente acquistò la prima volta l' abilità d' intuirla, la può intuire dovecchesia; l' idea non le manca mai ogni qualvolta le piaccia di darle attenzione: la trova da per tutto, in ogni tempo, anche quando l' arancio è distrutto. Dunque quest' idea non trovasi nel reale, nè dal reale può esser prodotta: ella è in se stessa, e la sensazione non ha fatto altro che render l' uomo atto a contemplarla colla sua mente, eccitandolo, dirigendolo, determinandolo. Ma per ispingere il ragionamento nostro a tutta l' evidenza possibile, supponiamo che il reale avesse virtù di produrre l' idea, e che perciò? La natura dell' idea non si rimarrebbe per questo quella stessa che è, distintissima dalla realtà? Certo che da tale ipotesi si avrebbe la strana conseguenza, che il reale sarebbe essenzialmente conoscibile. Ma la sua conoscibilità, la sua idea, sarebbe forse per questo lo stesso che la sua realità? Non ancora; chè il reale rimarrebbe sempre il conosciuto , ciò che si conosce, l' idea rimarrebbe sempre il mezzo di conoscere , ciò con cui si conosce. Vero è, che queste due cose si troverebbero insieme; ma non si potrebbero confondere, poichè il conosciuto e il mezzo di conoscere presentano alla mente due nozioni distinte, per modo tale che col solo mezzo di conoscere non si potrebbe dire che il reale esistesse, nè col solo reale si potrebbe dire che esistesse il mezzo di conoscere. Sarebbero in un tal caso la realità e l' idealità due attribuzioni che converrebbero ad uno stesso oggetto; non mai un' attribuzione sola; e infatti qualche cosa di simile si avvera in Dio, dottrina il cui sviluppo spetta alla Teologia. Sarebbe ancora l' ideale quello che fa conoscere il reale, sarebbe l' ideale solo il conoscibile e l' intelligibile per se stesso, e il reale avrebbe ancora bisogno di ricever la luce da esso; rimarrebbe ancora, che carattere proprio del reale fosse l' oscurità, e quello proprio dell' ideale l' intelligibilità. Rimarrebbe che la natura dell' ideale sarebbe indipendente dal reale in questo senso, che l' una attualità non sarebbe l' altra, nè l' una si confonderebbe coll' altra; benchè entrambi convenissero in un oggetto medesimo, sarebbero due essenze diverse. Sia pur dunque la sede dell' idea una mente reale, non ne verrà mai che la mente e l' idea sieno una cosa medesima, nè che la mente sia, in quant' è reale, conoscibile per se stessa; ma sempre e poi sempre per l' idea. Infatti, poniamo una mente che avesse le idee di molte cose, ma che pur le mancasse l' idea di se stessa: si conoscerebbe ella questa mente? Non mai. E questo non è un caso ipotetico; è quello che accade nei bambini: questi acquistano assai prima le idee delle cose esteriori che le idee di se stessi, che l' idea della propria mente. Dunque la mente, come essere reale, è anch' essa oscura a se stessa, è inintelligibile, ma poi si conosce mediante la riflessione, perchè si trova nell' idea prima ed universale, nella quale si segna come fa di tutte le altre cose che percepisce; nel che consiste il formarsi l' idea di se stessa. Concludiamo dunque: l' essere ideale è il solo concepibile, il solo intelligibile per se stesso, l' essere reale finito è per se stesso oscuro ed inintelligibile, e viene solamente illuminato dall' idea che ad esso risponde: differenza grande, immensa tra l' ideale e il reale, e che comincia già a rilevarci la natura stessa di questi due modi dell' essere. Infatti la natura dell' essere ideale , chi ben considera, altro non è che la stessa intelligibilità. Non si trova altro in lui. Se vi s' aggiunge qualche altra cosa, è un' aggiunta arbitraria, straniera, eterogenea, che gli toglie la purezza dell' esser suo, mescolandolo e confondendolo con ciò che non è lui. Voi vedete che siamo giunti, o signori, alla scoperta di un vero molto importante; siamo giunti a conoscer la natura dell' essere ideale, onde non ci possiamo pentire della perseveranza nelle nostre indagini. Ma qui dobbiamo stare avvertiti, per non perdere il frutto, che non forse l' immaginazione ci intorbidi il vero che abbiamo scoperto; giacchè noi esseri sensitivi, avvezzi a vestire d' immagini tutti i nostri pensieri, facilissimamente potremmo mescolare qualche immagine all' essere puramente intelligibile, il quale così contraffatto non sarebbe più desso, ci sarebbe già sfuggito di mano. Su questa avvertenza dovremo tornare altra volta; intanto proseguiamo il nostro lavoro. Se noi abbiamo in qualche modo scoperta la natura dell' essere ideale, possiam dire d' aver fatto altrettanto dell' essere reale? Non ancora, di lui non abbiam fin qui trovato che un carattere negativo, la mancanza di luce sua propria e, per così dire, l' opacità. Qui dunque si conviene spingere le ricerche nostre più innanzi: ma poichè tutto ciò che noi possiam conoscere dell' essere reale ci viene mediante l' idea, non ci resta che d' incominciare a vedere come si forma la cognizione di esso nel nostro spirito. Come avvien dunque che noi conosciamo l' essere reale? Egli è chiaro, che non possiamo conoscerlo allo stesso modo come l' essere ideale, appunto perchè questo è intelligibile per sua essenza, e quello all' opposto per il lume di questo. Dunque possiamo già sulle prime cavare a buon conto una utile conseguenza, la quale si è, che la cognizione dell' essere ideale è semplice, quando la cognizione dell' essere reale è necessariamente duplice: la prima non suppone che se stessa, la seconda, cioè la cognizione del reale, suppone la prima, suppone cioè la cognizione dell' idea. Dunque il primo, cioè l' essere ideale, si dee conoscere con un atto solo dello spirito; a conoscere il secondo cioè l' essere reale, ci vorranno necessariamente due atti, l' uno dei quali termini al puro ideale, l' altro pervenga fino al reale. Rimane ad investigare qual sia la natura di questi due atti. Ora quanto all' ideale, egli è chiaro che non si tratta se non d' un semplice sguardo dello spirito, come abbiam detto innanzi, e quest' atto lo chiameremo intuizione . Che cosa è che caratterizza quest' atto? Se ben si considera non è altro, se non che lo spirito vede un oggetto possibile, e in qualche modo lo sente, ma sentendolo non sente punto se stesso; lo sente senza sentire alcun rapporto di lui con se stesso, la qual maniera di sentire dicesi oggettiva , perchè ha un termine al tutto diverso dal sè intuente, e senza che involga alcun rapporto sentito col sè intuente. Nè si dica qui che l' idea intuita dallo spirito produce nello spirito stesso qualche sentimento di sè; poichè sia questo anche vero, resta sempre fermo, che questo sentimento di sè prodotto nello spirito non entra nè punto nè poco a costituire l' oggetto intuito, cioè l' idea di cui questa è appunto la natura, d' escludere, per ripeterlo, il sentimento che può aver di sè l' intuente e ogni rapporto sentito coll' intuente. Ma qual è poi l' altro atto con cui il nostro spirito perviene al reale? Non può esser certamente un atto simile a quello che abbiamo descritto, cioè all' intuizione dell' ideale, poichè se fosse simile, già il reale stesso ci si presenterebbe come l' ente ideale. Se dunque l' intuizione dell' ideale ha per sua propria natura che dall' oggetto intuito s' escluda il sentimento che l' intuente può avere di se medesimo ed ogni rapporto sensibile coll' intuente; al contrario sarà dell' atto con cui lo spirito giunge al reale. Dunque il reale sarà lo stesso sentimento del soggetto che percepisce, le modificazioni di questo sentimento, e tutto ciò che può cadere in questo sentimento. Conviene dunque che noi investighiamo che cosa sia quello che si comprende nella sfera del sentimento; e tutto ciò che si comprende in esso sarà reale. Che cosa si comprende dunque nel nostro proprio sentimento? Se noi consideriamo il sentimento quale l' abbiamo al presente nella nostra condizione di adulti, più cose vi potremo distinguere. Primieramente noi sentiamo in noi un principio unico, o piuttosto questo principio unico è lo stesso noi . Se il noi non fosse sensibile potremmo favellarne? Consideriamo, miei signori, che di ciò che non cade affatto nel nostro sentimento nè nelle nostre idee, è impossibile che noi ci formiamo alcuna cognizione. Questa è una verità d' esperienza, ed è ammessa da tutte le scuole. Ora l' idea, noi già lo vedemmo, non racchiude il sentimento stesso del noi; nè ha alcun rapporto sensibile col noi; e nondimeno noi pensiamo a noi stessi, e di noi stessi parliamo; dunque il noi deve esser sentito, deve esser un sentimento. Ma questo sentimento unico, fondamentale e sostanziale riceve molte modificazioni; queste sono le sensioni e tutti i sentimenti particolari ed acquisiti. Non basta: in noi stessi oltre sentire un' attività, noi sentiamo un' opposizione, una forza che ci modifica, la quale non è noi . Ecco una terza cosa che cade nel sentimento di noi stessi. Noi adunque, modificazioni sensibili di noi, forza estranea che produce queste modificazioni, eccovi tutta la sfera della realità a noi conosciuta. Ma fino a tanto che questa realità si rimane pura realità, puro sentimento, può ella concepirsi? Abbiamo già detto di no; abbiam veduto che l' oscurità è il carattere proprio d' ogni reale. Convien dunque per conoscerlo chiamare in ajuto l' idea. Ma in qual modo l' idea ci presterà questo servigio? Ciò che noi contempliamo nell' idea non è che la pura intelligibilità, come già vedemmo, del reale, non è ancora il reale stesso percepito. D' altra parte questo reale fino che non eccede la sfera del sentimento, è oscuro. In qual maniera adunque congiungendo l' idea che non mostra che il reale possibile, col reale sentito e non ancor concepito, si potrà venire a conoscere quest' ultimo? Convien trovare un nesso che congiunga questi due estremi, convien ricorrere a qualche atto dello spirito, quasi direi, mediatore tra il reale e l' ideale, tra il sentimento e l' idea. E quest' atto è appunto quello che noi cercavamo; è l' atto con cui dopo d' aver noi concepito l' ideale, giungiamo ancora a conoscer il reale. Come adunque quest' atto si fa? A chiarire la natura di quest' atto misterioso, noi dobbiamo prima di tutto porre a confronto l' ideale e il reale, e vedere se sia vero ciò che si suppone, che questi due termini del pensiero sieno del tutto dissimili e divisi tra loro da un abisso, onde non si possa pur concepire la loro congiunzione. Se attentamente noi li raffrontiamo, vedremo che la cosa non istà così come si suppone; anzi li troveremo più affini che a prima giunta non paja, ma in altro modo da quello che si può credere a prima giunta. Infatti noi abbiamo già osservato che ad ogni reale risponde un' idea. Che cosa vuol dir questo? Vuol dire che nell' ideale noi vediamo assai di quelle cose che nel reale possiamo distinguere. Egli è uopo vedere quali e quante sieno queste cose, e se ve n' abbia nel reale qualcuna che nell' ideale non possiamo vedere. Si prenda dunque un oggetto reale qualunque; sia un uomo. Nell' uomo reale io distinguo la testa, le mani e le altre parti del corpo. Ma io posso vedere che tutte queste cose sono anche nell' idea corrispondente: nell' uomo reale io distinguo il colore, le forme, le più piccole particolarità, se si vuole anche il numero de' capelli, la loro lunghezza, il color biondo o bruno o bianco di essi come possibili; il che è quanto dire, posso pensarli nell' idea. Si prenda qualsivoglia altro accidente, si passi all' anima, alle facoltà dell' anima, alle disposizioni speciali, agli atti suoi; e chi m' impedisce di formarmi l' idea di tutte queste cose? di vedere tutte queste cose nella loro idea? Non solo la sostanza dunque dell' uomo io posso contemplar nell' idea che gli risponde, ma ben anco tutti affatto i suoi accidenti; ed io sfido chicchessia a trovarne un solo che non sia idealmente concepibile. Tutto dunque ciò che è nell' uomo reale è anche nell' uomo ideale che vi corrisponde, e per conseguente vien ad esser vero anche il contrario, cioè tutto ciò che si trova nell' uomo ideale, si trova pure nell' uomo reale che vi corrisponde. Ma se la sostanza, le parti integrali, gli accidenti minutissimi di un ente qualsiasi si riscontrano egualmente nell' idea e nella realtà, son dunque tutte queste cose doppie, son elleno ripetute in natura, oppure sono elle identiche nella realtà e nell' idea? Che ci dice intorno a ciò, miei signori, il senso comune? Consultiamo il linguaggio, che è il deposito di sue persuasioni. Allorquando un signore per fabbricare un palazzo chiama l' architetto che ne formi il disegno, questi concepisce il palazzo in idea, e lo può divisare con tutte le possibili particolarità; può dire al padrone: in questo palazzo che a voi piace di edificare saranno queste sale, questi corridoj, queste scale; di questa forma, di questa misura; vi si impiegheranno a questi determinati luoghi questi marmi, questo cemento, questi legnami tagliati e squadrati a questa foggia, questo ferro, e così via enumerando tutte le minime particolarità del futuro palazzo: il palazzo intero con tutte le sue parti, con tutti i suoi minuti accidenti trovasi nella mente dell' architetto che lo disegna o lo esprime in parole. Or bene il palazzo sia fabbricato, sia bello e compito, così appunto come l' architetto lo ha concepito. Come parlava l' architetto al signore prima di metter mano all' opera? Questo e questo sarà il palazzo che voi edificherete. Come parla egli dopo che è edificato? Questo è il palazzo che voi avete edificato. Notate bene: adopera la stessa parola di palazzo tanto prima che fosse edificato e che non era che nell' idea, quanto dopo che è già edificato e che è in realtà, ed afferma che il palazzo edificato è appunto quello ch' egli ha concepito. L' identità del vocabolo usato tanto a significar l' ente nell' idea, quanto a significar l' ente nella realtà, mostra chiaramente che secondo il senso comune si considera identica l' essenza del palazzo che scorgesi nell' idea e l' essenza che si vede cogli occhi nella realtà. Dunque secondo la testimonianza del senso comune è identico l' oggetto della cognizione, sia egli ideale o reale. Ma nella cognizione del reale non vi ha egli qualche cosa di più che nella cognizione dell' ideale? - Sì certamente; altrimenti le due cognizioni non si distinguerebbero. Che cosa è dunque questo elemento che distingue le due cognizioni? E` ella forse la realità, ovvero si trova la realità stessa nell' idee? La risposta a questa questione ha due faccie; poichè si può rispondere tanto di sì quanto di no, sempre con verità, purchè la risposta si spieghi. Si può dire che anche la realità sia nell' idea, in questo senso che io posso pensare una realità possibile: ora se io penso una realità possibile, io vedo la realità nell' idea, conosco nell' idea che cosa sia realità. Ma si può dire medesimamente, che la realità non è nè può essere nell' idea, quando non si parla di realità possibile, che altro non è finalmente che l' idea stessa della realità, ma si parla della realità stessa . Infatti sarebbe una contradizione il dire che la realità stessa fosse nell' idealità; giacchè quando dicesi idealità, dicesi cosa possibile e non sussistente, non reale; onde verrebbesi a dire che in ciò che non è reale vi ha il reale, patente contradizione. Dunque la realità come tale è fuori dell' idea. Ma pure potrebbesi conoscere la realità senza l' idea? Che cosa vuol dire conoscere una cosa? Vuol dire sapere che è, saperne l' essenza. Ora nessuno sa che sia una cosa, se non ne ha l' idea; è nell' idea che si conoscono l' essenze di tutte le cose. Badate un po' come fa il medico quando visita un ammalato: se trova de' sintomi straordinarj e insoliti, egli dice: « io non conosco questa malattia; mi è nuova ». Che cosa vuol dire con ciò? Vuol dire che egli non ne ha ancora l' idea. Eppure trattasi di malattia reale, trattasi di conoscere un reale. All' incontro, se egli ha l' idea di questa malattia, dice tosto: « questo infermo ha il tal male; egli è la tisi, è il mal di pietra, è una cefalitide ». Come dice ciò? Di che mezzo si serve a rilevare la qualità di quel male? Non d' altro che dell' idea di esso che possiede nella sua mente. Dunque il reale si conosce per l' ideale, benchè nell' ideale non si comprenda il reale. Ma come lo si potrà conoscere se non vi si comprende? Come l' ideale mostrerà allo spirito quel reale che non ha in se medesimo? Noi dicevamo già, che anche l' essenza del reale si comprende nell' ideale ed è questa essenza che l' ideale rivela allo spirito. Questo è l' oggetto propriamente conoscibile per se stesso. Ma che differenza vi ha dunque tra il reale di cui si conosce l' essenza nell' idea, e il reale stesso fuori dell' idea? In quanto all' essenza conoscibile non ve n' ha alcuna; poichè essa, come dicevamo, è identica ed una; ma la differenza sta in questo, che il reale nell' idea è il reale in potenza, e il reale fuori dell' idea è il medesimo reale in atto. L' oggetto dunque è il medesimo ma è diverso il modo col quale egli è. Ciò che è in potenza infatti dee essere necessariamente diverso da ciò che è in atto, come dimostra questa stessa locuzione, che è anch' essa una locuzione non meno del senso comune, che di tutte le filosofiche scuole. Poichè quando io dico della stessa cosa: « ella è in potenza, ed ella è in atto »il subjetto del mio discorso non varia, anzi è del tutto il medesimo, io predico dello stesso subjetto ora la potenza ed or l' atto. Se non fosse così, io non potrei mai dire, che una cosa ora è in potenza , ed ora in atto , giacchè l' atto e la potenza sono relativi, e non potrebbero essere relativi se non riferendosi allo stesso subjetto; non si sarebbe potuto giammai distinguere la potenza dall' atto, se non si trattasse del subjetto medesimo in due stati e condizioni diverse. Ora tutto ciò che è in potenza è in atto, e tutto ciò che è in atto è in potenza; e nella potenza vi si comprende lo stesso atto; ma si noti bene lo stesso atto in potenza , l' atto possibile , il che basta affinchè si possa concepire quello che è. L' oggetto adunque della cognizione si conosce tutto nella potenza, se di essa abbiamo cognizione perfetta; e l' essere il medesimo oggetto ridotto all' atto non aggiunge nulla alla sua cognizione. Infatti, se il medico, per tenerci all' esempio addotto, altro non trova nell' infermo che cura, se non que' sintomi ch' egli già pienamente conosce perchè ne ha l' idea, egli non accresce menomamente la scienza medica che già possiede; giacchè il riscontrare realizzati i sintomi conosciuti nulla affatto aggiunge alle sue idee. Presupposte dunque nella mente dell' idee, nelle quali e per le quali lo spirito nostro conosce gli oggetti, il reale che è fuori di esse non aggiunge niente agli oggetti conosciuti dalla mente. Ma pure quando si viene a sapere che uno degli oggetti della mente sussiste realmente, si sa qualche cosa di più, che conoscendolo solo nell' idea. Che cosa è dunque questo più di cui si arricchisce il nostro sapere? Non è un' essenza, poichè l' essenza conoscevasi già nell' idea. Non è un oggetto nuovo, poichè l' oggetto scorgevasi nell' idea. Che cosa è dunque? - E` un' attuazione di quello stesso oggetto che nell' idea s' intuiva; è l' atto di ciò che prima si conosceva appieno in potenza. Ma si noti bene; non è già che si venga a conoscere con ciò l' essenza dell' atto; perchè questa essenza era nota avanti, contenendosi nell' idea. E` dunque quel nuovo atto, che essenzialmente si distingue dalla cognizione, che è fuori di essa e che perciò appunto si chiama reale . - Ma egli non è oggetto della mente, poichè se fosse oggetto già sarebbe contenuto nell' idea, dove l' oggetto è perfetto a tale che nulla vi si può aggiungere. Rimane dunque quest' atto relegato, per così dire, nel sentimento, senza che possa entrare punto nè poco a costituire la parte conoscibile, l' oggetto proprio della cognizione. Ma in tal caso si potrà dire con proprietà ch' ei si conosca? Sì, purchè però ci intendiamo, purchè si spieghi di che cognizione si parli. Egli non può aver natura di oggetto della mente, no, come risulta da quanto abbiam detto; non può dunque essere scopo dell' intuizione . Converrà dunque che la sua cognizione si acquisti per tutt' altro modo; vi dovrà dunque essere un altro atto tutto di diversa natura, pel quale lo spirito umano si persuada di conoscerlo. Ora quest' atto è l' affermazione , questo è un atto certo misterioso ed ha bisogno di schiarimento. Che cosa vuol dire affermare che un dato oggetto della mente sussiste? Vuol forse dire acquistare la notizia di quell' oggetto? No, poichè non si può affermare che un oggetto sussista, se l' oggetto già non si conosce precedentemente, come abbiam veduto che il medico non può affermare che la malattia del suo infermo sia il cholera morbus, se egli non conoscesse al tutto il cholera morbus, e non l' avesse sentito mai nominare. Affermare dunque che un oggetto sussiste, è quanto dire a se medesimo, che quell' oggetto che si conosce pienamente (come qui noi supponiamo), che si sa che potrebbe sussistere, effettivamente ha quest' atto di sussistenza che noi conoscevamo possibile. Ma che è quest' atto di sussistenza? L' abbiamo veduto, che egli si riduce sempre in ultimo ad un sentimento. Ora il sentimento è fuori della cognizione oggettiva, come noi abbiamo osservato; dunque affermare che un oggetto sussista è affermare che v' ha qualche cosa fuori dell' oggetto ideale della mente, qualche cosa che non è l' oggetto ideale della mente, e di cui nell' oggetto si conosce appieno la natura. Ma come posso io sapere, che fuori dell' oggetto ideale vi ha qualche cosa? Certo io nol potrei dire se io fossi un tal ente così affisso all' ideale, che fuori dell' atto dell' intuizione dell' ideale io non fossi nulla, non avessi altra attività. Ora io ho dell' altra attività anche fuori di quell' atto. Se tutte le mie attività si riducessero a contemplar l' ideale, io non esisterei, per così dire, che nell' ideale. Ma io ho indubitatamente qualche cosa che è fuori affatto dell' ideale; anzi io con tutto me stesso sono fuori dell' ideale, perchè io sono un sentimento sostanziale modificabile. Ora se io m' accorgo che sono fuori dell' ideale, e che fuori dell' idea sono le mie modificazioni e tutto ciò che cade nel sentimento; dunque io posso affermare, che fuori dell' ideale c' è qualche cosa. Ma si noti bene; di questo qualche cosa che è fuori dell' ideale, nell' ideale stesso c' è il tipo, che è quanto dire l' essenza visibile e manifestativa: l' atto stesso del mio sentire, che è fuori dell' ideale è manifestato dall' ideale in quanto che l' ideale ne mostra la natura. Se io non avessi l' idea non potrei conoscere certamente il mio sentimento; perchè non me ne sarebbe nota l' essenza, che nell' idea sola si manifesta. Ma posciachè questa essenza mi è data nell' ideale, io posso conoscerla ed affermarla in me stesso. Vero è, che affermarla in me stesso è lo stesso che dire che ella è in modo diverso da quello che è nell' idea; ma questa cognizione stessa mi è data nell' idea, perocchè conoscendo io nell' idea la natura del sentimento, conosco altresì che il sentimento è di tal natura, da poter, anzi da dover esser fuori dell' idea. Che cosa dunque mi fa bisogno, affinchè io possa affermare che io sussisto e che sussistono le cose che operano in me? Nient' altro che l' esperienza, il sentimento medesimo; giacchè conoscendo io nell' idea questo sentimento, ed io stesso esperimentandolo, mi accorgo che quel sentimento, quell' ente che conosco possibile, opera, passa all' atto, il qual atto so che è fuori dell' idea, perchè l' idea stessa lo dice. L' unità dunque e l' identità mia propria, per la quale d' una parte io contemplo la natura del mio sentimento nell' idea, dall' altra provo ed esperimento il sentimento medesimo, fa sì ch' io conosca come quel sentimento che già mi è noto, attualmente sussiste, cioè a dire, lo affermi . Questa maniera di cognizione dunque che acquisto del reale, è necessariamente una cognizione oscura, e quasi direi una negazione di cognizione. Perocchè con essa io vengo a negare implicitamente, che la realità, come tale, entri a formare l' oggetto della mente. Ma questa specie di cognizione, benchè sembri oscura relativamente alla cognizione dell' ideale, è però sufficiente, ed è l' unica che si possa aver del reale. Poichè noi ci chiamiamo paghi del nostro sapere quando conosciamo le cose a quel modo che posson esser conosciute; e il reale, il mero reale, non può esser conosciuto che a questo modo, per via di affermazione; chè anzi gli uomini, e gli stessi filosofi, non osservano questa specie di oscurità relativa che si trova nella maniera onde si conosce il reale; non la osservano dico, perchè di natura sua è sempre congiunta indivisibilmente alla cognizione dell' ideale, e ci vuole gran fatica di mente per estrarnela e separarla. Nè altra cognizione all' uomo abbisogna, o l' uom cerca e desidera, che quella che gli fa vedere il reale nell' ideale, sicchè appartiene solamente alla speculazione filosofica il distinguere in questa cognizione mista, di cui gli uomini continuamente fanno uso, quella parte che riguarda il solo reale preciso da tutto il resto, da quella parte che riguarda il reale nell' ideale. Ma per noi, miei signori, questa speculazione è importante; non è cosa di mero lusso. Le conseguenze che ne derivano sono incalcolabili: per intanto noi raccogliamo dal nostro ragionamento quello che ci eravamo proposto, cioè che il solo essere ideale è concepibile per se stesso, l' essere reale è per se oscuro ed inconcepibile. Ma questo poi viene illuminato da quello, perchè quello contiene l' essenza di questo e quando ne concepiamo l' essenza, allora possiamo affermarlo, allora tosto che il reale cade nel nostro proprio sentimento noi possiam riscontrarlo nella sua essenza, ed intendere che è l' ente stesso di prima che noi idealmente conoscevamo, il quale è passato ad un nuovo suo atto, ad un atto che nella sua stessa essenza si conosce. Poniamo ben l' attenzione all' identità nostra; noi, gli stessi, identici, veniam messi in comunicazione coll' identico essere in un duplice modo, appunto perchè l' essere identico è duplice; l' essere identico è duplice, perchè è manifestativo di sè ed attivo: in quanto è manifestativo intanto dicesi ideale, in quanto è attivo dicesi sensibile e reale: niente c' è nel sensibile e reale che non sia manifestato dal suo corrispondente ideale, che è manifestativo di lui; e quando noi siamo manifestati a noi stessi nell' essere ideale, allora possiamo affermarci, e così conoscere la nostra stessa realità con quella cognizione colla quale solo ella è conoscibile. Qui voi mi direte che io supposi in tutto questo ragionamento che l' uomo quando afferma il reale n' abbia già l' idea determinata e compita; il che non s' avvera nel fatto. Perocchè l' uomo che nasce privo d' idee determinate, non se le forma che coll' età, all' occasione appunto di affermare i reali; ond' egli pare che l' affermazione de' reali preceda le loro idee. Questa osservazione merita di essere esaminata diligentemente, e noi ci proponiamo di farlo nella seguente lezione. Noi abbiamo percorso buon tratto di via, miei signori; abbiamo difesa la distinzione dell' ideale dal reale contro quei che la negano; abbiamo investigati i caratteri dell' uno e dell' altro di questi due modi dell' essere; abbiamo tentato altresì di penetrarne e determinarne la natura, e ci riuscì di conoscere, che la natura dell' ideale consiste nell' intelligibilità , e quella del reale nel sentimento e in tutto ciò che opera in esso e per esso. Dopo aver così separato il reale dall' ideale adoperandovi intorno lungamente l' analisi, siamo tornati alla sintesi; abbiamo meditato come que' due modi si congiungono nell' identità del medesimo essere; il qual diventa unico oggetto dello spirito intelligente. Questo ricongiungimento dei due modi dell' essere si avvera allor quando lo spirito nostro percepisce il reale; giacchè sino a tanto che egli non si applica che all' ideale, ha per termine del suo atto l' essere sotto un solo di que' modi, l' essere nel suo modo ideale. Infatti la percezione del reale ha una sua unità, se ella si considera come procedente dall' unità dello spirito. Considerate ben la cosa, miei signori, com' è identico l' essere che è in due modi, così è identico lo spirito che opera con due potenze. Lo spirito unico si riferisce all' essere unico: la duplice sua potenza si riferisce al duplice modo dell' essere. L' una e l' altra potenza ha una sola radice, l' essenza dello spirito: l' uno e l' altro modo di essere ha pure un solo subietto, l' essenza dell' essere. Niuna maraviglia dunque, se nella percezion del reale, per la quale l' unico essere si comunica all' unico spirito, e si comunica nei suoi due modi alle due potenze dello spirito, si possa scorgere ad un tempo unità e dualità . Quando si percepisce il reale, noi dicevamo, lo si afferma, ma nello stesso tempo che lo si afferma, se ne intuisce l' essenza; giacchè non si potrebbe affermare l' incognito: la percezione dunque ha in sè una dualità, cioè a dire è un' operazione per la quale si partecipa l' essere sotto i due suoi modi, l' ideale e il reale. Ma l' oggetto che si conosce, e l' oggetto che si afferma sussistente, è un unico e medesimo oggetto del pensiero; dunque la percezione è semplice. L' unità dello spirito unisce le due contemporanee operazioni nel solo oggetto, cioè nell' unità dell' ente. Questa è la sintesi tra l' essere ideale e l' essere reale. Ella è possibile, perchè l' idea non essendo soggetta alle leggi dello spazio e del tempo può applicarsi se vogliamo parlar con Dante « - a ogni ubi e a ogni quando . ». Onde l' essenza dell' essere che nell' idea si contempla possiamo vederla là appunto dove è il sentimento, e riconoscer questo come nuovo atto del medesimo essere. Ma dopo di tutto ciò noi ci facemmo un' obbiezione; dicemmo che ciò suppone data innanzi l' idea dell' ente speciale che si percepisce. Ora nel fatto sembra accadere il contrario: prima affermarsi gli enti in occasione delle sensioni; poi dalle affermazioni cavarsi le idee pure. Come affermare prima d' aver l' idee delle cose e di sapere che sia ciò che affermiamo? Questa è la difficoltà che dobbiamo ora affrontare. Già vi ricorda che noi ci movemmo la questione, se le idee si formino dallo spirito nostro: e dall' osservazione accurata dell' atto che fa lo spirito quando si rende partecipe delle idee, conchiudemmo ch' egli non se le forma; che quell' atto ha natura di semplice visione, contemplazione, intuizione, come si vuol meglio denominarlo; e che perciò egli è tale che suppone esistere l' oggetto da intuirsi a quella stessa guisa che l' occhio suppone esistere gli oggetti che non crea; nè certo li potrebbe vedere se essi non fossero. Dunque ciò che volgarmente si dice la formazione delle idee , non può essere altro che un eccitamento ed una direzione data allo spirito, onde questo volgendo lo sguardo là dove conviene che il volga incomincia a vedere quell' idea che pria non vedeva, perchè colà nel modo debito non riguardava, e colà non potea riguardare, perchè questo colà non c' era ancora. Che cos' è questo colà, questo punto dove dovea riguardare? L' immagine. Dunque se gli esseri reali, i sentimenti, sono quelle cagioni onde la mente si muove a riguardare e a vedere l' idee, e il punto in cui lo sguardo si fissa, convien dire, che l' ajuto che prestano i sentimenti allo spirito umano nella formazione delle idee, non consista in altro se non nello stimolarlo e ajutarlo a quella operazione che gli bisogna affinchè possa vederle, non già affinchè le si formi. Ma poichè l' immagine è bensì il punto a cui si volge lo sguardo dell' intendimento, ma non è l' idea che l' intendimento vede con questo sguardo, dove sono dunque queste idee? Stanno esse sempre quasi appese innanzi allo spirito, sicchè eccitato che sia e diretto, le possa trovar collo sguardo interiore e vedere? Pare di no; almeno a prima giunta; poichè, se realmente gli stessero così dinnanzi schierate, gran fatto sarebbe ch' egli non ci potesse dar qualche occhiata, almeno per caso, senza bisogno de' sentimenti e delle immagini, massimamente trattandosi d' uno spirito già reso attivo e curioso indagatore della verità. Eppure un cieco può esser dotto quanto si voglia, poniamo il matematico Saunderson, può desiderare quant' egli voglia, può fare degli sforzi a sua possa; ma l' idea del colore non se la procaccierà, perchè gliene manca il senso. Che è dunque a dirsi? Noi non possiamo rispondere, se non meditiamo più addentro sulla natura delle idee; solo il concepirle meglio ci può dare speranza di sciogliere sì difficile questione. Poi il fatto nol possiamo negare, che quelle idee che rispondono ai reali sensibili, la mente umana non le ha giammai se non a condizione di aver prima sentito questi reali. Che cosa è dunque l' idea corrispondente a un reale sensibile? P. e. l' idea di un albero, di un bruto o di altro corpo qualsiasi? Raccogliamo sul fatto la nostra attenzione. Noi abbiamo veduto che nell' idea d' una cosa reale vi ha tutto ciò che nella cosa, ma in un modo diverso , in un modo ideale, nella sua possibilità. Dunque l' idea dell' albero, del bruto, dell' uomo non è altro che l' albero, il bruto, l' uomo possibile. Poniamo dunque, che un albero, un bruto, un uomo cadesse sotto i nostri sensi; come farà lo spirito ad innalzarsi alle loro idee? Egli è chiaro, che se lo spirito di cui si parla non fosse che meramente sensitivo, finirebbe ogni sua operazione nel senso dell' albero, del bruto, o dell' uomo, nè mai salirebbe fino alle loro idee. Ma dato ch' egli sia intelligente, ei dopo aver sentito l' albero, il bruto, l' uomo, può dire seco stesso: l' albero, il bruto, l' uomo che mi ferisce i sensi esiste; dunque è possibile: se l' albero, il bruto, l' uomo è possibile, dunque si possono avere indefiniti alberi e bruti e uomini. Questo è certo il ragionamento che fa la mente. Ma noi dobbiamo investigare, a quali condizioni possa la mente fare un tale ragionamento. Quando ella dice seco medesima: « quest' albero esiste », che cosa fa? Ella predica l' esistenza di ciò che opera nel suo sentimento e a cui poscia dà il nome di albero. Dunque è mestieri prima di tutto che ella sappia che cosa sia esistenza. Ma che cosa è esistenza? Un' idea, miei signori; sì un' idea, e perciò un universale. Ma come viene egli predicato questo universale di ciò che è particolare, di ciò che cade nel sentimento? Niuna ripugnanza a ciò quando sia ben chiarito che cosa significa un universale. Noi già lo vedemmo; egli significa una entità che può essere predicata di molti, d' innumerevoli particolari. Se può essere predicata di innumerevoli particolari, dunque anche di ciascuno; ed è in questo senso che si può dire che l' idea si particolarizza , che l' idea diventa particolare; diventa particolare perchè si lega ad un particolare, senza mai confondersi con esso. Ma dunque si predica ella un' idea dell' albero da noi sentito? In tal caso dicendo che l' albero esiste, verremmo a dire che egli è un' idea. No, anche qui c' è un errore simile al primo. Non è l' idea che si predica dell' albero, ma l' essenza che si vede nell' idea; si predica la realità , ma quella realità che nell' idea ha il suo tipo, la sua conoscenza, la sua intelligibilità: perocchè certo che non si potrebbe predicare la realità d' una cosa se non si conoscesse, nè si può conoscere la realità se non nell' idea. Ma fino che questa realità sta nell' idea, non si afferma ancora di niuna cosa, epperciò si dice che è meramente possibile. Ma quando lo spirito conoscendo la realità nell' idea vi aggiunge il suo atto dell' affermazione, allora è lo spirito stesso che dichiara, che quell' entità non è più solo possibile, ma sussiste: è questa affermazione che la fa conoscere come sussistente, mentre dapprima lo spirito non la conosceva che come ideale. Ma perchè lo spirito afferma, poniamo, un albero piuttosto che una colonna, una statua o altro ente qualunque? Da che lo spirito è determinato ad una affermazione più che ad un' altra? Dal sentimento, senza dubbio; è il sentimento , a cui egli applica l' idea di esistenza, e pronuncia l' affermazione esiste . Poichè se l' uomo non ricevesse alcun sentimento, egli si rimarrebbe inattivo, il suo spirito non farebbe alcun passo non avendo un termine che lo invitasse e dirigesse. L' affermazione, dico, dell' esistenza prende per subietto il sentimento o ciò che cade nel sentimento. Ora se in quest' atto ciò che viene affermato, è il sentimento nè più nè meno o ciò che è nel sentimento; dunque l' esistenza affermata non è più che l' esistenza del sentimento, non si stende oltre questo; riceve dunque da questo i suoi limiti, la sua determinazione. Ma se l' esistenza che lo spirito afferma del sentimento o di ciò che in lui cade, viene così limitata entro i confini del sentimento medesimo o di ciò che in lui cade, si dovrà egli dire, che quest' esistenza sia limitata anche precedentemente, anche prima che venga applicata dallo spirito al sentimento e che sia affermata di esso? Mai no. E che potrebbe mai limitar l' esistenza? Chi non vede che l' essenza di lei non ha confini, che si stende quanto il possibile, appunto perchè prima dell' affermazione , ella non è che l' essere possibile? Quindi noi possiamo argomentare che cosa l' affermazione presupponga, acciocchè sia possibile, e quindi possiamo conoscere come l' obbiezione che noi facemmo a noi stessi involga qualche cosa di vero, senza però che sia vera ed efficace l' obbiezione. E` vero che per affermare l' esistenza di un reale non c' è bisogno che nella nostra mente preesista l' idea così determinata e limitata come è determinato e limitato il reale: è vero che non ci bisogna l' idea speciale a cui il reale risponde; posciachè la determinazione di questa idea, i suoi confini, il suo modo, è fissato dalla quantità e dal modo del reale medesimo. Ma non è meno vero, che avanti l' affermazione deve esistere nella mente l' idea di esistenza indeterminata, senza modo, senza limite alcuno; perocchè altramente noi non potremmo predicare di lui l' esistenza, non potendosi predicare una cosa ignota di cui non s' abbia l' idea. Ciò posto, vedesi che l' obbiezione che ci facevamo non ha alcuna forza contro i nostri ragionamenti. Poichè questi tendevano a dimostrare, che il solo ideale è concepibile per sè stesso, che solo nell' idea consiste ogni intelligibilità del reale medesimo, il quale rimane oscuro se si separa dall' idea, e se si congiunge viene da essa illuminato; di che conchiudemmo, che noi non potevamo affermare, nè conoscere conseguentemente il reale, se non precedesse nel nostro spirito l' ideale. Solamente, affine di facilitare il discorso e di non involgere due questioni, noi supponevamo data a dirittura l' idea del reale determinata e compiuta. Data questa idea, l' affermazione del reale riusciva facile a intendersi. Dipoi facemmo un passo indietro, ed osservammo che non fa bisogno a dir vero all' affermazione, che in noi preesista l' idea determinata e precisa che al reale corrisponde; ma basta, che preesista l' idea indeterminata ed universalissima d' esistenza, rimanendo così ferma la conclusion nostra, che all' affermazione del reale dee preesistere l' idea nello spirito, e che questa è condizion necessaria all' affermazione, e non viceversa l' affermazione ad essa. Così le nostre ricerche hanno già fatto un passo di più; ci hanno condotti più avanti nella cognizione dell' ente ideale. Poichè da esse noi ora abbiamo questo risultato, che l' ente ideale si dee distinguere in due, cioè che c' è un ente ideale che precede necessariamente l' affermazione, e un ente ideale che s' intuisce in occasione dell' affermazione medesima; il primo è l' idea senza determinazioni, nè limiti, nè modi; il secondo abbraccia le idee limitate e determinate che più forse propriamente si dicono concetti . Ma queste due maniere d' idealità costituiscono propriamente un doppio essere ideale? No, miei signori, noi dobbiamo vederlo, meditandovi sopra attentamente, dobbiamo investigare il rapporto tra l' idea determinata e l' idea indeterminata; chè, senza di ciò, ci rimarrebbe ancora molto di oscuro nella natura dell' essere ideale che investighiamo, potremmo prendere degli equivoci dannosi alle nostre successive investigazioni. Qual' è dunque la differenza fra l' idea determinata dell' ente reale, e l' idea indeterminata? E` ella intrinseca questa differenza in modo che costituisca due idee fondamentalmente diverse, ovvero è accidentale? Ma come potrebbe essere accidentale, quando l' essere ideale è semplicissimo e non ammette accidenti di sorta alcuna? Quando un' idea, come abbiamo detto già, differisce dall' altra specificamente siccome i numeri? Sarà dunque intrinseca? Caderà nell' essenza medesima? Neppur questo è possibile; poichè se così fosse, noi non potremmo affermare l' essere reale se non avendo già nella mente l' idea sua propria determinata; non potremmo affermarlo colla sola idea indeterminata dell' esistenza, come pur noi facciamo, non potendosi predicare di uno stesso reale due essenze diverse. Qual' è dunque la relazione dell' idea determinata all' idea indeterminata? Riprendiamo la definizione che abbiamo data dell' atto dell' affermare. Noi abbiamo detto, che datoci un reale per via di sentimento, noi ci applichiamo l' esistenza quale la conosciamo nell' idea indeterminata, ma che non ve l' applichiamo se non tanto quanto il reale stesso è atto a riceverla; il che viene a dire, predichiamo del reale quella esistenza che egli ha e non più. In questa operazione dunque, sebbene l' esistenza da noi intuita e conosciuta nell' idea sia indeterminata e illimitata, tuttavia non l' applichiamo già al reale in tutta la sua estensione e infinità, non la predichiamo tutta del reale, ma solo quella parte che nel reale medesimo è attuata e sussistente, e così dicemmo che dal reale si limita e si determina. All' incontro quando noi abbiamo già precedentemente nello spirito nostro l' idea determinata che al reale esattamente risponde, e con essa lo affermiamo, allora noi gliela applichiamo tutta, perchè quest' idea determinata è commisurata appunto alla quantità e al modo del reale. Di qui si scorge che tanto se noi nell' affermazione del reale adoperiamo l' idea dell' esistenza indeterminata, quanto se adoperiamo l' idea determinata, predichiamo del reale la stessa quantità di esistenza, gli applichiamo un' idea perfettamente uguale, l' idea che a lui corrisponde. Quindi egli è al tutto indifferente che noi nell' atto dell' affermazione di un reale abbiamo nella mente l' idea determinata, e coll' uso e coll' applicazione di questa lo affermiamo, quanto se abbiamo solo nella mente l' idea indeterminata ed universale, non applicandola noi tutta e restandoci una parte di questa inoperosa e superflua all' operazione che facciamo. Così se noi volessimo comperare una pera che val due soldi, spenderemmo ugualmente se noi traessimo i due soldi da un borsino che altro che i due soldi non contiene, come se traessimo i due soldi da un monte immenso d' oro. Vero è che nel monte d' oro non troviamo i due soldi effettivi, non ne troviamo pure il valore limitato, perchè ci ha troppo più; ma noi possiamo nondimeno pigliarne una particella d' oro piccola quanto basta acciocchè non valga più che due soldi; contenendosi nel valor maggiore il minore. Ora i due soldi del borsino sono l' idea determinata di un reale, e il monte d' oro è l' idea indeterminata e al tutto universale. Laonde se affermare un reale che ci cade nel sentimento non è altro che prendere dall' essenza stessa dell' esistenza da noi intuita quella parte di esistenza che corrisponde al reale, quasi traendo un valor minore da un maggiore, dunque 1) ad affermare i reali non è mestieri che se n' abbiano già prima le idee determinate; 2) non avendole, si formano colla stessa affermazione, togliendo dall' esistenza ideale senza limiti quella porzione limitata che ci bisogna, la quale così diventa idea speciale o concetto; 3) quando questa idea già una volta si è formata, ella si torna ad applicare ai reali che tornano a caderci nel sentimento, senza però che cangi la sua natura, rimanendosi sempre ed ugualmente porzione, se così lice esprimersi, dell' esistenza intuita dalla mente senza modo e confine. Ma qui mi direte: non s' intende come dall' esistenza indeterminata se ne possa dividere, come voi dite, una cotal porzione per applicarla ai reali; giacchè l' idea dell' esistenza indeterminata è cosa al tutto semplicissima e non pare ammettere separazione di sorte. Ottimamente: la difficoltà si presenta alla mente; ma sapete voi perchè, miei signori? Per quella inclinazione che ha il nostro intelletto, e per quella abitudine di applicare al mondo ideale quei principj, quelle leggi che reggono il mondo materiale. Noi non concepiamo la divisione della materia se non mediante la sua composizione e moltiplicità, di modo che qualora prescindiamo dal moltiplice e dal composto non possiamo più concepire divisione alcuna. E certo non vi può essere divisione materiale; perchè la divisione materiale suppone disunione di parti materiali. Ma noi non parlavamo di cosa materiale, epperciò neppure di divisione materiale; parlavamo di divisione mentale, che è tutt' altro; la quale si può fare benissimo anche in ciò che è semplice in sè stesso. Pigliam pure un punto matematico: chi non dirà ch' egli è indivisibile? Certo è indivisibile se si parla di division materiale, perchè non ha parti; eppure la mente può trovarvi moltiplicità; ella può considerarlo a ragion d' esempio, come il centro di una sfera; ed ecco che in esso distingue tanti rapporti quanti sono i punti assegnabili nella sfera medesima. Se si tirano altrettante linee dalla superficie al centro, lo stesso punto è il termine di tutte queste linee, e la mente quando il considera come termine di una linea, nol considera come termine di un' altra linea. Prendiamo ad esempio lo stesso monte d' oro e i due soldi di cui abbiamo fatto menzione. L' oro come vedete è un metallo semplice, e i due soldi sono rame. Sminuzzate l' oro quanto volete, niuna particella dell' oro sarà mai rame, non diverrà mai i due soldi di rame, come potrebbe essere quando l' oro fosse misto di rame e di altra sostanza. Dunque se prendiamo la cosa materialmente, per quanto oro abbiamo, non avremo mai il rame. Ma prendiamola spiritualmente e mentalmente, paragoniamo il valore . Il valore è un essere della mente, non è nè oro nè rame; e perciò dividendo l' oro in minuti pezzetti, noi troviamo il valore di due soldi di rame, non effettivo ma nel suo essere mentale di valore; perchè questo è divisibile anche quando la sostanza materiale è semplice. Ma lasciando anco da parte tutti gli esempj, noi intenderemo la cosa in se stessa considerandola attentamente. Che cosa è l' affermazione di un reale? E` certamente un atto della mente nostra; è la mente nostra, il nostro spirito che accoppia nella sua unità il reale coll' ideale corrispondente. Accoppiare l' ideale corrispondente al reale non è che intuire l' essenza dell' esistenza nel reale. Ora noi abbiamo detto che lo spirito quando intuisce le essenze non le produce. Diciamo ora al contrario, quando non le intuisce non le distrugge: se è vera la prima proposizione, deve essere vera anche questa seconda - . Ma egli può intuirle e non intuirle, e le idee restano le stesse. Se dunque lo spirito limita il suo sguardo che volge al mondo ideale, non ne vien mica che ne distrugga una parte, e nemmeno che ne separi una parte da tutto il resto. Poniamo che rimirando un bel quadro noi restringessimo l' attenzione ad un piede di qualche figura, rimirando attentamente coll' occhio quanto è ben disegnato e condotto: ne verrebbe forse che il nostro occhio separasse il piede da tutto il quadro? Facciamo che si tratti di persona vivente; tosto si vedrà, che per quanto il piede solo si guardi, non si separa dal corpo, poichè altramente impallidirebbe e morrebbe. Ma no, è vivo e continua a partecipare di quella vita che costituisce un' unità semplicissima. Noi consideriamo questa vita nel solo piede, benchè ella sia semplice e come tale operi in tutto il resto del corpo. Tale dunque è la natura degli enti spirituali ed ideali, che quantunque semplicissimi contengono tuttavia innumerevoli cose che si possono dall' attenzione dello spirito mentalmente distinguere e contemplare in separato dal tutto, onde Platone diceva che l' uno è sempre accompagnato da' più, e non può star solo. E chi non sa che in un principio della mente si contengono innumerevoli conseguenze, che possono essere l' una dall' altra dedotte e distinte? Pigliate il principio semplicissimo che « due cose uguali ad una terza sono uguali tra di loro »; e poi date mano ad Euclide ed osservate quante belle verità egli sappia cavar fuori da questo semplicissimo principio. Tutte vi erano contenute; ma non tutte le menti ce le sapevano vedere distintamente; e vi so dire che ce ne sono delle altre, che gli uomini non ci hanno veduto ancora; perocchè la fecondità di un principio di ragione qualsiasi è infinita. Ora mi dite, qual cosa più semplice di un principio? E un principio di ragione non è finalmente altro che un' idea che si applica, come avremo occasione di vedere. Ne' principj dunque sono contenute implicitamente infinite conseguenze prima ancora che altri le derivi da essi esplicitamente. Ma che vuol dir questo implicitamente? Vuol dire che le conseguenze ci sono, ma che la mente ancora non ce le vede; esprime una relazione allo stato più o meno attivo, più o meno eccitato, della mente stessa. Onde quando la mente in occasione di applicare il principio trova la conseguenza, questa si dice essersi resa esplicita . Dunque negli esseri ideali possono vedersi dalla mente moltissime cose e distinguersi moltissime entità ideali, senza che questa moltiplicità tolga punto nè diminuisca la semplicità del primitivo essere ideale in cui si ravvisano. Niuna maraviglia dunque che contemplando il nostro spirito l' essenza dell' essere semplicissimo, egli tuttavia applicandola al reale sensibile la divida per così dire mentalmente e la spezzi, accorgendosi che in ciascun reale non è già realizzata e attuata tutta l' infinita virtù dell' essenza dell' essere, ma che questa essenza è realizzata parzialmente in un certo modo, con certi limiti. Di ciò non ne viene che resti veramente squarciata e divisa quell' essenza medesima. Ciò che resta diviso è l' essere reale finito, poichè questo è moltiplice, cioè sussistono innumerevoli esseri reali tutti finiti; il che è quanto dire che niuno d' essi esaurisce l' essenza dell' essere, ma solo ne attigne in parte. Questo è ciò che riconosce la mente, e riconoscendolo limita, non l' essenza dell' essere, ma l' atto suo proprio, limita quest' atto al reale che vuol giudicare e affermare, commisurandolo all' essenza universale. E qui troviamo aperta la via per conoscere viemmeglio in che consista la determinazione dell' essere universale e la sua limitazione. Infatti da ciò che dicevamo risulta chiaramente, che questa determinazione e limitazione si fa per via di rapporto , rapportandosi cioè dallo spirito il reale sensibile all' essere indeterminato, come un caso particolare di cui si giudica si riporta ad un principio. Se non piace questa maniera quasi che noi potessimo trasportare il sensibile nell' intelligibile, dicasi al contrario, che è più esatto, dicasi che si riporta l' essere universale al sensibile particolare; giacchè se il sensibile particolare è legato al luogo e al tempo per modo da non potersi trasferire altrove, l' essere universale non è legato, nè a modo nè a tempo, epperò si può applicare quando che sia e dove che sia a tutto ciò che ha o non ha tempo e spazio, senza che per questo sia trasportato da luogo a luogo. Ora se tra il reale sensibile e l' essere in universale l' unità dello spirito nostro vi coglie il rapporto, tosto s' intende in che modo dicasi che il reale sensibile limita e determina l' essere universale. Per chiarire ancor più la cosa con una similitudine, immaginiamo un gran triangolo superficiale e poniamo sopra di lui una piccola figura quadrata; combaciandosi queste due figure noi possiamo osservarne il rapporto, e da questo rapporto troviamo, che il piccolo quadrato applicato al gran triangolo determina nel triangolo stesso una piccola figura quadrata. Ora questa determinazione non è che di rapporto, non fa che assegnare nella superficie triangolare i punti che corrispondono alla superficie del piccolo quadrato. Ma che perciò? Viene forse immutato per questo il triangolo? Non si rimane il triangolo di prima? Soffre egli alcuna passione? Non è egli semplice, semplicissimo, giacchè si suppone continuo e meramente superficiale? Sì, rimane semplice e quello di prima, e tuttavia la mente nostra ha disegnato in esso col pensiero un quadratino e se l' ha disegnato mediante il rapporto ch' ella prese a contemplare tra una piccola figura quadrata e lui. La natura di rapporto è estranea alla figura del triangolo, e tuttavia la mente può fare una proposizione e dire: « questo quadratino partecipa della tal porzione del triangolo; e a questo quadratino rispondono i tali e tali punti assegnabili nel triangolo ». E` tutta opera della mente la quale non guasta punto nè il triangolo nè il quadrato, ma lascia l' uno e l' altro quello che è in se stesso. Ora il gran triangolo è l' essere universale intuito senza limitazione dalla mente: quest' essere universale viene nello spirito semplicissimo dell' uomo a sopraporsi, per così dire, al reale sensibile; lo spirito dell' uomo ne osserva il rapporto e nell' essere universale fissa colla sua attenzione que' punti di essere che s' identificano col reale. Ed ecco l' idea speciale bella e trovata - . Ella non differisce dunque nella sua essenza dall' idea dell' essere universale; è quella stessa idea, ma veduta dalla mente con uno sguardo che non l' abbraccia tutta , ma che si contiene e limita a veder quella parte che risponde al reale sensibile; e questa limitazione non è propriamente limitazione dell' essere ideale, ma è limitazione di rapporto e perciò estrinseca, è limitazione che altro non dice, se non che l' idea dell' essere universale a far conoscere l' essere particolare e sensibile non abbisogna di tutta la luce sua proria, ma dirò così di un solo raggio; è limitazione formata dalla mente che limita sè stessa, limita il suo sguardo, perchè con esso vuole ottenere la cognizione di un ente reale particolare e limitato e non più. Quindi distinguasi nelle idee speciali due elementi: 1) l' elemento che fa sì che esse siano idee, e in tanto sono identiche all' idea dell' essere universale; 2) il loro limite o determinazione, e in tanto non sono identiche all' essere universale, perchè ne escludono una parte; ed è questo secondo elemento (che si può dire negativo), che è posto dallo spirito intuente, ed è posto dallo spirito secondo il limite e il modo dell' ente reale e sensibile di cui ha sperienza, ossia dell' immagine. Egli è per questo che si può dire con tutta proprietà, che un' idea sola esista; ma quest' idea sola viene applicata più e più volte dallo spirito, e ad enti diversi, e secondo queste applicazioni diverse sembra che ella si moltiplichi, e acquista diversi nomi, onde volgarmente si crede esservi molte idee, mentre altro non v' ha che molti rapporti, molte limitazioni di rapporto, che è quanto dire relazioni con molti enti limitati. Vi farà forse qualche maraviglia, o signori, che io abbia detto che ogni idea speciale, in quant' è idea , s' identifica coll' idea universale dell' essere: poichè ciò che s' identifica sembra non poter più ammettere distinzione alcuna. Ma questo sarebbe prendere una sola parte della verità che abbiamo esposta, non prenderla tutta intera; chè noi non dicevamo già che l' idea speciale si identifichi sotto tutti i rispetti , ma solo in quanto ella è idea; ed ella non si può dir già idea in quanto ella è limitata, giacchè il limite della cosa non forma la cosa, anzi fa che la cosa ivi finisca di essere. Ora rispetto a queste limitazioni, noi dicevamo che ella non s' identifica punto, anzi si distingue, come il negativo non s' identifica col positivo, di cui è anzi l' opposto. S' identifica dunque in quanto è idea; e questo non ha difficoltà di sorte per chi considera che allo stesso modo le conseguenze si identificano co' principj. Notate bene s' identificano di natura , non di quantità . La virtù del principio resta sempre molto maggiore, e tuttavia si trasfonde in ciascuna conseguenza senza mai esaurirsi: è dunque una identificazione parziale. Avvertite che il nostro discorso versa nella sfera delle idee, e però è acconcissimo l' esempio de' principj e delle conseguenze; piuttosto che un esempio è anzi la cosa stessa detta in altro modo, ma in un modo che dee riescire più chiaro a fare intendere a tutti, che qui trattasi di un fatto innegabile se pure non si vuol negare, che la conseguenza è lo stesso identico principio applicato al caso. Volete rivestito il medesimo vero di sensibile realità? Distinguete nelle cose reali l' essenza loro dalle loro quantità . Due cose, che in quanto alla sostanza sono identiche, differiscono di quantità: così l' acqua di un bicchiero e l' acqua d' un fiume è acqua ugualmente; nell' essenza che costituisce l' acqua non differiscono punto, ma la quantità e la realità loro differiscono. Dicevo che qui abbiamo il vero di sopra enunciato vestito quasi di sensibile realità; perocchè anche in questo esempio l' identità che si scorge tra l' acqua e l' acqua è identità d' idea, è identità di essenza dalla mente intuita, la quale si realizza ugualmente sì nell' acqua del bicchiero e sì nell' acqua del fiume. Riassumiamoci, miei signori; l' affermazione del reale sensibile dimanda dinanzi a sè un ideale; ma questo può essere ugualmente l' idea specifica del reale, o l' idea dell' essere universale. Dimanda un ideale, perchè il solo ideale fa conoscere ciò che si afferma e non si può affermare se non ciò che si conosce. Se avanti l' affermazione esiste nelle menti nostre l' idea speciale, quest' idea dee la sua origine ad un' altra affermazione precedente che applicò altre volte allo stesso essere reale l' idea universalissima, che prima di tutte nella mente risplende. Se l' idea speciale dee la sua origine alla prima affermazione che abbiamo fatto di un dato ente reale, in questo senso ella si può dire prodotta; ma se si considera ciò che ha di positivo l' idea speciale, se si considera ciò ch' ella ha d' identico coll' idea universalissima, ella non si può dire nè prodotta nè formata, ma semplicemente intuita . Ciò che è prodotto in essa dall' atto della mente sono i suoi limiti, il suo modo, la sua determinazione. E tutto ciò conferma vie meglio quello che c' eravam proposto di dimostrare, che il solo essere ideale è intelligibile per se stesso, mentre il reale è intelligibile per la congiunzione coll' ideale. Noi abbiamo dissipate le difficoltà che si opponevano a questa conclusione; l' abbiamo pienamente stabilita; non abbiamo spesa dunque indarno la fatica nelle nostre ricerche. Ma una questione ne trae un' altra. Qui da se stessa ci si presenta la domanda: se coll' affermazione noi ci procacciamo la conoscenza del reale, ond' è poi che anche passata l' affermazione questa conoscenza ci rimane? Se rimane dopo l' affermazione, dunque tale conoscenza non è legata indivisibilmente a quest' atto momentaneo dello spirito. Che cosa è dunque la cognizione del reale che resta in noi dopo l' affermazione? Ecco ciò che formerà l' argomento della seguente lezione. Che cosa è la cognizione del reale, che rimane in noi dopo l' affermazione? Tale fu la questione che noi abbiam proposta in sulla fine della precedente lezione e che abbiam lasciata insoluta. Dobbiamo occuparcene in questa; e per farlo a dovere dobbiamo considerar prima ben a fondo la natura della questione stessa, e misurarne tutta la difficoltà. Avviene spesse volte, miei signori, che si presentino allo spirito nostro questioni filosofiche che sembrano facilissime a risolversi. Ma è da diffidare assai di tale apparente facilità; perchè inganna assai di sovente, inganna anche di quelli che s' applicano agli studj della Filosofia, onde avviene che con tutta prontezza e confidenza rispondendo alla questione, prendono de' gravissimi abbagli. Tali sono per lo più que' filosofi, i quali riscuotono lode di gran chiarezza, e i loro libri hanno una quantità di lettori i quali si persuadono d' imparare assai, perchè apprendono con poca fatica delle pretese soluzioni de' più difficili quesiti, che altro veramente non fanno che coprire ai loro occhi la difficoltà, il vero nodo delle questioni. All' incontro il prudente e savio studioso della Filosofia reputa d' aver fatto un avanzamento grande, quando è pervenuto a ben sentire tutta la difficoltà della questione che si è proposta, e gode di trovarsi oltremodo imbarazzato nel risolverla. Sì, o signori, è meglio assai essere imbarazzato nelle difficoltà, che non vederle, o non sentirne la forza. Noi dunque non ricuseremo d' entrare per dir così nel gineprajo della proposta questione; ed avvertite, che quanto più sapremo imbarazzare noi stessi, tanto più avremo profittato, massime se ci riuscirà poscia di cavarci felicemente dallo stesso imbarazzo. Che cosa è dunque la conoscenza del reale, che rimane in noi dopo l' affermazione? L' affermazione, la prima affermazione d' un reale sembra facile ad intendersi, perchè il reale è presente e ferisce i nostri sensi, e più in generale, cade nel nostro sentimento. Ma quando il reale non ci è più presente, non è più nel nostro sentimento, come ci possiamo noi pensare ancora? Il fatto è certamente innegabile: ritornati dal viaggio che abbiam fatto alla capitale, non possiamo noi pensare ancora alla città visitata e alle cose in essa vedute? Come dunque si spiega questo fatto? Il filosofo superficiale, a dir vero, non se ne affanna molto: è chiaro, vi dice, noi ne conserviamo la memoria, e ci pensiamo mediante questa facoltà del ricordarci. Ottimamente; certo non siam qui noi per negarlo. Questo non è ancora che il fatto stesso, di cui parlavamo: il fatto, dico, che pensiamo al reale già veduto e sentito anche dopo che nol vediam più e nol sentiam più; e che quindi ne abbiamo la facoltà, la quale si chiama, e si può benissimo chiamar memoria . Noi cercavamo la spiegazione di questo fatto; cercavamo come si possa spiegare appunto la memoria de' reali quando essi non ci sono oggimai più presenti - . Il filosofo superficiale ci replica: E che? Non sapete voi, che sebbene il reale non sia più presente ai vostri sensorj, tuttavia la percezione che ne avete avuto, ha lasciato in voi certe reliquie, ve ne sono rimaste le idee? Ora per mezzo di queste reliquie o vestigj, e idee che sono rimaste nella vostra mente, e che rappresentano i reali percepiti, voi potete benissimo pensare e parlare ancor del reale - Ma qui si confondono insieme due cose; si parla d' idee, e di vestigj della percezione. O l' uno o l' altro; o si pensa al reale per le idee che ne sono rimaste, o pei vestigj che ne ha ritenuto il senso o la fantasia, o per gli uni e l' altre. In quanto alle idee, sia pure che ci rimangano; ma le idee, le sole idee, noi l' abbiamo veduto, non bastano a farci pensare al reale; chè il reale nel suo proprio atto è fuori dell' idea, e non si può confondere colla idea; noi ne l' abbiamo già distinto; abbiamo già veduto, che il senso comune lo distingue, e che i filosofi che pretendono che anche ciò che s' intuisce nell' idea sia reale, di maniera che altro non ci abbia che la sola realtà, hanno torto marcio e il senso comune ha ragione. Dunque non bastano certo le idee affinchè noi pensiamo ai reali assenti e lontani dai nostri sensi. Restano i segni, i vestigj che ha lasciato in noi, nel nostro senso, nella nostra immaginazione il reale percepito. Sia dunque che noi ne abbiamo memoria, che li conserviamo in qualche parte dell' anima; sia pure che le immagini del reale percepito restino in noi fedelissime. Basteranno queste sole a farci pensare al reale? I nostri filosofi non ne dubitano: ma in che modo? - E non vedete, essi ci dicono, che le immagini delle cose vedute sono quelle che le rappresentano e le rappresentano fedelmente? Non è egli chiaro che avendo il rappresentante nella mente si può benissimo conoscere il rappresentato? - Confesso che io non vedo tutta questa chiarezza di luce; perocchè io domando alla mia volta: quando io penso e parlo della città di Firenze o di Roma da me veduta, il mio pensiero e il mio discorso ha per suo oggetto i vestigj e le immagini di queste città che sono rimaste nella mia mente, ovvero termina in queste città reali al presente da me distanti quattro o cinquecento miglia? - E che? vorreste voi avere nella vostra testa intiera la città reale di Roma, la città reale di Firenze? Quale assurdo! La vostra testa che non ha che un palmo di diametro, conterrà e palagj e chiese e piazze e monumenti reali quanti ve ne sono nelle due città nominate? - Appunto perchè ciò è un grande assurdo, e perchè nel mio cervello non vi possono essere tutto al più che de' piccolissimi vestigj di queste moli sì grandi, io trovo difficilissimo a spiegare come io possa pensare ad esse e parlare di esse - Ma non è propriamente ad esse che voi pensiate e di cui parliate: l' oggetto immediato del vostro pensiero e del vostro discorso sono le immagini che si conservano nella vostra testa. E che stranezza è mai questa di credere, che ora che non sono a voi nè pur presenti quelle grandi città, pensiate ad esse proprio in se stesse? Voi veramente parlando non pensate e non parlate che delle vostre immagini; ma credete di parlar di esse, perchè queste immagini ve le rappresentano - Rispetto le vostre osservazioni, miei riveriti maestri, ma perdonate se io bramo che mi sciogliate con tutta pazienza le difficoltà che forse pel mio poco sapere mi rinascono continuamente. Prima di tutto è necessario che noi andiamo ben d' accordo sul fatto che si tratta di spiegare. Noi avevamo proposto fin da principio la domanda « come si possano pensare i reali quando essi non cadono più nella nostra percezione ». Voi avevate tolto l' impresa di spiegare questo fatto, ed ora ce lo negate invece di spiegarcelo; poichè ci dite, che non è vero che noi pensiamo o parliamo de' reali, ma che il nostro pensiero ed il nostro discorso non ha per suo oggetto che immagini e rappresentazioni de' reali che sono rimaste nella nostra fantasia - Certo che noi diciamo questo; ma lo diciamo perchè è un assurdo patentissimo dire il contrario; giacchè il reale stesso non avendolo più presente, non potete più vederlo nè sentirlo, e però forza è che conveniate, che altro non vi rimane di lui se non le immagini e i vestigj che vi ha lasciati, e su questi voi pensate e ragionate; ma poichè questi rappresentano il reale voi credete di pensare e ragionare sul reale stesso - Questa mia credenza è dunque un' illusione che m' inganna - Non è un' illusione pel filosofo, che sa ben distinguere le immagini che son rimaste nella mente sua, dal reale che esse rappresentano; ma è un' illusione pel comune degli uomini, i quali confondono il rappresentante col rappresentato, l' immagine della cosa colla cosa: la Filosofia s' innalza sul volgo e si libera da tali illusioni - Veramente mi duole che tutto il mondo s' inganni; ma per me io non saprei separarmi da tutto il mondo per unirmi al vostro sentimento. A me ripugna il dire che tutto il mondo sia in un continuo errore, del quale parteciperebbero senza accorgersi i Filosofi stessi - In che modo? - Badate un poco, quando voi che siete filosofo raccontate che la città di Firenze ha tante miglia di circuito, che ella ha tanti palazzi di pietra, tante Chiese, conta tanta popolazione; se non parlaste che d' immagini, ingannereste la gente; perocchè voi verreste a dire che la città di Firenze è tutta composta d' immagini. Ora vi par egli che le immagini siano pietra, legno, ferro, bronzo, oro, argento di cui pure la città di Firenze si compone? O che parlate dunque narrando le cose vedute della pietra, del ferro, del bronzo, del legno reale, di cui realmente Firenze si compone, o che voi parlate di una vostra fantasmagoria che tutta si contiene nel vostro cervello, e che però non sarà mai la vera Firenze; e se la prenderete per la vera Firenze, e la vorrete far creder tale a quelli con cui parlate, voi avrete prima ingannato voi stesso, e poscia vi affaticherete ad ingannare gli altri - Voi non capite nulla del nostro pensiero; noi diciamo che sono le immagini di Firenze e delle cose vedute in essa l' oggetto della nostra mente; ma diciamo in pari tempo che queste rappresentano Firenze reale, e perciò per mezzo di esse e noi veramente conosciamo e facciamo altrui conoscere veramente le cose reali che abbiamo percepite, quando eravamo in Firenze - Ma ora io non vi domandavo ancora come pensiate al reale; io volevo prima di tutto, che fosse deciso il fatto, se ci pensate o no: dopochè saremo d' accordo sul fatto vedremo se la vostra maniera di spiegarlo per via d' immagine sia sufficiente. Ora voi mi dicevate pur ora che per mezzo delle immagini pensate alla vera Firenze qual' ella è in realtà, non nella mente nostra, ma in Val d' Arno, le 400 o più miglia da qui distante. Qui non c' è una strada di mezzo, o che il vostro pensiero e il vostro discorso si ferma alle sole immagini di Firenze, o che va a terminare alla vera e reale Firenze; scegliete dunque come vi piace - Come capite male le cose! Sicuro, che finalmente io penso e parlo di Firenze reale, ma io ci penso e ne parlo per via d' immagini a quella stessa maniera come quando si vede un bel ritratto e si dice: « è il tale »si parla della persona che il ritratto rappresenta, benchè il ritratto che si ha presente non sia la persona reale - Bene sta: noi siamo dunque d' accordo sul fatto che finalmente il pensiero ed il discorso nostro termina in quella Firenze reale, che noi abbiamo tempo fa percepita - Sì; ma resta sempre vero che per pensare a Firenze io non ho bisogno d' altro che delle immagini che me la rappresentano, e così è spiegato il fatto che voi trovate inesplicabile - Io non dico che sia inesplicabile, ma dico che ci ha delle difficoltà, ed eccovene una. Se per mezzo delle immagini di Firenze voi pensate alla vera Firenze, egli è necessario che si avverino più condizioni: 1) che le immagini di cui fate uso vi rappresentino veramente Firenze, e le cose in essa vedute; 2) che voi sappiate e siate persuaso che quelle immagini rappresentano, e rappresentano fedelmente la Firenze reale - Certamente, e qual difficoltà potete voi trovare in ciò? - Primieramente, affinchè io sappia che una cosa me ne rappresenta un' altra fedelmente, io devo già sapere, che c' è quest' altra cosa rappresentata, e devo confrontare il rappresentante col rappresentato e rilevarne il rapporto di somiglianza. A ragion d' esempio: se noi vedessimo una pittura, o per meglio dire, vedessimo de' colori variamente distribuiti sopra una superficie, e non avessimo mai veduto nè avuto la minima cognizione dell' oggetto che quei colori rappresentano, potremmo noi sapere che quei colori rappresentano qualche cosa? Vedremmo de' colori, egli è vero, cogli occhi nostri; ma non ci potrebbe mai venire in capo, che quei colori siano un' immagine , sieno rappresentanti un oggetto; perocchè di questo oggetto non ne avremmo sentore alcuno. Ma se conoscessimo già l' oggetto, allora paragoneremmo le fattezze dell' oggetto a quei colori; e troveremmo tra le une e gli altri piena somiglianza, ed allora conchiuderemmo che quei colori sono il ritratto o l' immagine di quell' oggetto. Applichiamo dunque lo stesso discorso alle immagini fantastiche. Come possiamo noi sapere che le immagini che sono nella nostra fantasia siano altrettante rappresentazioni , e rappresentino Firenze piuttosto che qualsiasi altro oggetto, e la rappresentino fedelmente? In niun' altra guisa se non supponendo che la Firenze reale, che è il rappresentato, ci sia prima cognito, che quindi noi riscontriamo la somiglianza tra la Firenze reale e l' immagine che è nella mente nostra. Solo così possiamo persuaderci che le dette immagini non sono mere sensioni , ma sono sensioni rappresentative della Firenze reale. Acciocchè dunque le immagini ci possano prestare il servigio di far sì che il nostro spirito pensi in esse alla Firenze reale e di essa favelli, è mestieri che si supponga già conosciuta da noi la Firenze reale, indipendentemente dalle immagini, è mestieri che la Firenze reale si conosca nel momento presente, ed è questa cognizione della Firenze reale che ha virtù di rendere le immagini rappresentative . Onde non sono le immagini quelle che ci fanno pensare alla Firenze reale, ma è il pensiero della Firenze reale, che produce e informa le immagini vive, che ci fa prendere per immagini o rappresentazioni di Firenze quelle che altramente sarebbero mere sensioni interne spoglie al tutto d' ogni virtù rappresentativa. Voi vedete, miei signori, che la difficoltà non è piccola, e che que' filosofi, e son pur molti, che si avvisano di spiegare la cognizione de' reali che rimane in noi dopo la percezione, unicamente per via delle immagini della cosa, rimasta impressa nel nostro cervello, non la spiegano veramente, ma la suppongono come data precedentemente; e davvero che allora la spiegazione non è più difficile, o piuttosto cessa di essere spiegazione; è il sofisma della forma: idem per idem . Come dunque ci trarremo noi dall' imbarazzo? V' ho da dire, o signori, che l' imbarazzo non è ancora compiuto? Abbiate pazienza: noi dobbiamo rendercelo ancor maggiore: noi dobbiamo trasportare la difficoltà delle immagini alla percezione stessa. Facciam conto dunque d' essere in questo istante a Firenze, di vedere cogli occhi nostri le ampie vie e le chiese e i palagi e le gallerie e i musei, e di sperimentare tutto ciò che vi ha di sensibile in quella vaga città coi nostri cinque sensi esteriori. E che perciò? Si pretende forse che tutte le grandi moli di Firenze siano entrate nel nostro cervello colla loro realità? Non siamo noi nello stesso imbroglio quantunque abbiamo i reali presenti? Che altro mai abbiamo noi ricevuto, o riceviamo in noi dalla realità di Firenze, se non sensazioni? Ma le sensazioni nostre non sono per fermo le realità esteriori delle contrade, delle piazze, del fiume e di tutto ciò che colà esiste. Convien dunque ascendere a vedere in che modo noi percepiamo le realità esteriori per mezzo del nostro senso. Veramente non m' è possibile entrare in questa lezione a spiegare come nasca la percezione sensitiva , questa m' è d' uopo supporla o riservarla ad argomento d' un' altra lezione. Ma m' è necessario qui d' accennare, che la realità esterna cade nel nostro sentimento colla sua azione, immutando appunto il nostro abituale sentimento con violenza, cioè con una forza diversa dalla nostra propria; onde l' esser noi consapevoli che non siamo noi stessi quelli che modificano lo stato del nostro sentimento, e tuttavia il sentirlo modificato, ci fa distinguere un diverso da noi, che è appunto la realità esterna. Ma questa modificazione del tenore abituale del nostro sentimento per sè sola presa non contiene la cognizione della realità. Questa cognizione, noi l' abbiamo veduto nelle lezioni precedenti, non incomincia se non a quel momento in cui il nostro spirito intelligente afferma la forza reale che ci modifica. Convien dunque che restringiamo tutta la nostra meditazione a intendere ancor meglio che cosa sia quest' affermazione , e che cosa in noi produca. Noi abbiam detto, che quando affermiamo qualche cosa sensibile, come è appunto la forza che modifica il nostro sentimento, noi predichiamo l' esistenza di questa cosa, e così predichiamo ed affermiamo una cosa conosciuta già nell' idea. S' attenda bene; la realità si conosce prima nell' idea, cioè si conosce la sua essenza, ma non si sa colla sola idea, se questa essenza che si conosce sussista o no. Quando noi la sentiamo, allora è il momento che cessa il nostro dubbio, e mentre prima dicevamo tra noi stessi: può e non può essere, può sussistere e non sussistere (il che è lo stesso che conoscere la possibilità della sussistenza della cosa) ora delle due proposizioni sussiste e non sussiste, affermiamo la prima; il che è quanto dire, che l' affermazione niente altro aggiunge alla nostra cognizione precedente, se non un sì, e un no . Affermare è dire sì; questo monosillabo esprime tutto ciò che facciamo di nuovo nell' affermazione: la cosa che è l' oggetto dell' affermazione s' intuisce e conosce già nell' idea, s' intuisce la possibilità del suo sussistere; non rimane dunque altro, se non che lo spirito sia mosso da un impulso qualsiasi a pronunciare: sì, sussiste; delle due proposizioni possibili è vera l' affermativa e non la negativa. L' affermazione dunque è un assenso dell' animo, è un assenso per cui l' animo pone se stesso in uno stato diverso dal primo; si rende affermante, mentre prima non era. Che cosa è dunque la cognizione del reale? Niente altro, se non un nuovo stato dell' animo nostro, uno stato prodotto da quell' atto suo proprio, che abbiamo espresso col monosillabo: sì . Ora a che si riferisce quest' atto? A quella realità che era prima nell' idea; ma che non ci era affermata, ci era solo possibile. Dove sta dunque la difficoltà? La difficoltà può stare in uno di questi due punti: o nello spiegare come nell' idea stia la realità possibile, o nello spiegare come l' animo dica sì, cioè si persuada che quella realità è . Ma in quanto al primo punto noi abbiamo veduto nelle precedenti lezioni, esser questo un fatto primitivo ed evidente, che nell' idea ci ha tutto ciò che la cosa reale contiene, solamente che l' animo nostro non sa ancora se quella realità sia o non sia, cioè sussista o possa solamente sussistere. Dunque rimane a spiegarsi, onde lo spirito nostro s' induca a giudicare che sussiste. Ma anche questo fu da noi dichiarato, essendo già riconosciuto che la passione che noi soffriamo d' un agente diverso da noi c' induce a questo, e che la semplicità ed unità nostra propria è il luogo, per così dire, dove si raffrontano e s' uniscono l' idea ed il sentimento, onde in questo trova la mente ciò che prima vedeva in quella o esplicitamente o implicitamente. Ed è qui che comincia, miei signori, a risplendere qualche raggio di luce; è qui che s' apre la porta onde uscire dal labirinto, dove ci eravamo volontariamente perduti. Perocchè quelle stesse considerazioni che valgono a farci intendere come accada la percezione dei reali, possono servirci ottimamente, se noi vogliamo esser coerenti con noi medesimi, a farci intendere come la cognizione de' reali possa sussistere in noi, anche cessata la percezione medesima. E veramente l' affermazione de' reali non è già un atto con cui l' anima esca, quasi direbbesi, materialmente da se stessa, come la palla esce dal fucile e va a colpire l' oggetto. Conviene spogliarsi intieramente di queste immagini materiali, è uopo non volere intendere le operazioni dell' anima per alcuna similitudine tratta dalle operazioni de' corpi. L' affermazione è un atto interno dell' anima, col quale ella costituisce se stessa in uno stato di persuasione, che esista quel reale che conosce nell' idea e per l' idea; è in una parola quel sì, che pronuncia al dubbio che si propone se esista o no. Poichè la possibilità del reale presentata dall' idea involge questo dubbio; benchè non vi sia formulato, nè in parole espresso. Che cosa adunque fa la presenza del reale ai nostri sensi? In prima cagiona la percezione sensitiva. E che fa poi la percezion sensitiva? Provoca lo spirito nostro a pronunziare quel sì, col quale egli afferma. Ma quando questo sì fu già pronunciato, non ci ha più bisogno della presenza del reale a provocarlo. Basta che questo sì pronunziato una volta si conservi in noi; basta che si conservi in noi la disposizione che egli vi ha prodotto, la persuasione voglio dire, che esiste il reale, per l' idea conosciuto come possibile. Ora questa persuasione, questo stato dell' animo , di natura sua si conserva come tutte le altre persuasioni, come tutti gli altri stati e abiti dell' animo nostro. La cognizione dunque dell' esistenza del reale, che non è più presente ai nostri sensi, rientra nelle leggi universali, secondo le quali l' anima conserva più o meno i suoi stati. Egli è chiaro, che l' anima stessa essendo durevole, dura in quello stato in cui si mette fino a tanto che qualche nuova cagione, influendo su di lei, non viene a mutarglielo. Perocchè come ci bisogna una causa a produrlo, così ci bisogna una causa a distruggerlo; nulla mai avvenendo di nuovo senza cagione, pel principio di causa. Vero è che la persuasione acquistata dell' esistenza del reale può venire gradatamente svanendo e scancellandosi al tutto, e questo è il caso appunto della dimenticanza, ed avviene per varie cagioni che non è qui il luogo d' annoverare. Vero è ancora, che la persuasione una volta acquistata dell' esistenza d' un reale è inerente all' animo nostro alla foggia degli abiti, che sono quasi nuove potenze che acquista l' anima, mediante i quali ella può ripetere o ripristinare gli atti fatti altra volta. Ma tutto ciò non fa nascere difficoltà alcuna alla nostra conclusione. Solamente rimarrà a trattarsi a tempo opportuno la teoria generale degli abiti, che ora qui dobbiamo supporre. Così rimane presso che sciolta la difficoltà - Ma dunque, voi mi direte, le immagini dei reali veduti non rimangono elleno nel nostro spirito e non suppliscono alle sensioni che avemmo durante la percezione? Non entrano esse per nulla a costituire la cognizione che ci rimane dei reali, dopo rimossi questi dai nostri sensi? - Sì, anche le immagini che rimangono nel nostro spirito entrano in parte a formare la cognizione nostra de' reali assenti. Ma si deve accuratissimamente distinguere quella parte che ha nella detta cognizione il sì da noi pronunciato, che lascia in noi uno stato di persuasione permanente, e quella parte che nella detta cognizione hanno le immagini in noi superstiti. In qual parte dunque la cognizione dei reali che ci rimane dopo la percezione, dipende dalla prima affermazione, e in qual parte dipende ella dalle immagini? Questa è questione importante, e nuova. Attendete. Supponiamo che dopo aver noi percepito un ente reale, e dopo averne ritenuto lungamente le immagini nella fantasia, queste per lunghezza di tempo venissero illanguidendosi, e poco a poco perisser del tutto. Ne viene forse necessariamente da ciò che non ci rimanga più alcuna cognizione del reale percepito? No, questa conseguenza non è necessaria. Potrebbe essere che ci rimanesse la persuasione fermissima d' aver veduto e percepito in un dato tempo, e in un dato luogo una certa cosa di cui non ci rimane più immagine alcuna, e che non sappiamo nè pur nominare; ma sappiamo sol questo, che in quel luogo e in quel tempo abbiamo veduto una cosa, e possiamo andarci ripensando per rammemorare che fosse, senza venirne tuttavia a capo. Dunque la cognizione del reale non è interamente perita; conosciamo ancora d' aver percepito un ente reale, e ne sappiamo assegnare il tempo e il luogo. Può essere ancora, che della cosa allor percepita ci rimanga qualche cognizione puramente intellettuale, ma senza immagine di sorta; a ragion d' esempio possiamo sapere d' aver veduto e parlato con un uomo che si chiama Gio. Stefani senza che ricordiamo menomamente nè la sua fisonomia, nè la sua statura, nè il suo vestito. Qui non solo ci resta la persuasione dell' esistenza d' un ente; ma di più la persuasione dell' esistenza di un uomo, che non possiamo determinare per via d' immagini, ma per semplice idea, o anche pel nome che porta, che è un puro segno arbitrario e non punto rappresentativo. Di più, si possono ricordare i discorsi tenuti con quest' uomo, altre persone che erano presenti a questi discorsi, altre circostanze partenenti al luogo e al tempo, e tuttavia dell' uomo non si può forse raccapezzare immagine alcuna. Tutti questi esempj provano che anche senza le immagini della cosa percepita, io posso conservare la cognizione della sua sussistenza, perchè dura in me l' effetto di quel sì che ho pronunciato quando l' ho percepito, cioè lo stato di persuasione dell' animo mio. Dunque la cognizione dell' ente reale può durare in me senza bisogno delle immagini. Supponiamo il contrario, supponiamo che mi rimanesse nello spirito vivissima l' immagine di qualche uomo, ma che lo stato di persuasione d' averlo veduto cessasse nell' animo mio; supponiamo che io mi dimenticassi intieramente d' aver mai veduto quella fisonomia che pure mi sta presentissima all' anima: ho io in tal caso conservato la cognizione del reale? No certamente; perocchè quell' uomo di cui io immagino la fisonomia, le fattezze, le vestimenta, non so più dire a me stesso, se sussista veramente, oppure se io veda un puro fantasma. Dunque la cognizione del reale non sono le immagini che abbiano virtù di darla; ma ella propriamente consiste nella conservazione di quello stato dell' animo, pel quale l' uomo è persuaso che l' ente sussista, ne abbia io l' immagine o no. Ma qual' è dunque l' ufficio delle immagini? Quello de' sentimenti in generale. Quale è l' ufficio dei sentimenti? Primieramente è quello di eccitare lo spirito mio all' affermazione del reale, e questo accade pure quando l' immagine è così viva che m' inganna, che io la prendo per una sensione esterna, per una percezion sensitiva. Ma se l' immagine produce talor questo effetto in quanto ha qualche cosa di comune colle sensioni esterne, non è però l' effetto suo proprio, quell' effetto a cui è ordinata da natura. Quale è dunque l' uso della immagine proprio e naturale? Si è quello di farmi conoscere come un certo ente reale opera nel mio sentimento; per l' immagine io conservo la memoria dell' attività dell' essere reale, percepito, su di me; io la conservo questa memoria così fresca come se io avessi presente quell' attività e la sentissi operar su me stesso. Ora conoscere l' attività di un ente reale su di me è conoscere in qualche modo la natura di quell' ente, è conoscere quella natura che a me è conoscibile; poichè io non posso conoscere come sia fatto un ente reale sensibile, se non in quanto egli esercita un' azione nel mio sentimento. Questo è tutto ciò che io posso conoscere del reale come reale. Ora questo modo del reale, questa sua attività relativamente al mio sentimento appartiene ella alla cognizione dell' ideale o del reale propriamente? Badate bene: per rispondere conviene isolare quest' attività del reale su di me dalla persuasione della sua sussistenza. E bene, egli è chiaro in tal caso, che ella appartiene alla cognizione ideale; perocchè io posso saper benissimo che un dato ente p. es. un uomo, è atto a produrmi le tali e tali sensioni, è atto a suscitare in me il tale fantasma, ma so io ancora per ciò solo, che l' ente che ha quest' attitudine, sussista? No, non lo so, se prescindo dall' affermazione. Dunque le immagini degli enti che in me rimangono, valgono bensì a perfezionare in me la cognizione della loro natura, che appartiene all' ideale; ma non sono punto quelle che mi fanno conoscere ancora il reale essere sussistente. Ma dunque non influiscono elle niente affatto sulla mia cognizione del reale? Influiscono, ma indirettamente; influiscono in quanto che quando io affermo che sussiste un reale, la mia cognizione riesce più perfetta quanto più conosco nell' idea la natura di questo reale che affermo, e io conosco tanto più questa natura, quanto più conosco gli effetti che egli è atto a produrre nel mio sentimento, e ciò per mezzo dell' immagine che me ne rimane. Quello che dicevamo delle immagini vale universalmente per tutti gli effetti che un reale può produrre nel mio sentimento, foss' egli anche spirituale, e quindi incapace d' immagini; poichè anche un atto spirituale può agire nel mio sentimento, e così è che conosco in gran parte la natura dell' anima pe' fenomeni ch' ella produce nel sentimento corporeo. Or da tutto questo possiamo ritrar, miei signori, una preziosa conseguenza, ed è la classificazione delle nostre cognizioni in negative e in positive . Negative chiamo quelle cognizioni le quali consistono nella persuasione che un ente reale sussista, senza avere esperimentato ancora quale attività caratteristica e propria di lui solo, egli si abbia d' operare nel nostro sentimento, quali effetti egli valga a produrre tali che determinino la sua natura: questa maniera di cognizione riguarda la sussistenza di quell' ente e le sue relazioni con altri enti a noi noti, ma non racchiude il modo della detta sua attività. Sappiamo che è, non sappiamo come è. Positiva chiamo quella cognizione d' un ente, per la quale conosciamo per esperienza la sua attività propria e caratteristica nel sentimento nostro; sappiamo quali mutazioni egli vi può produrre lasciandovi un effetto che non può venir da altri che da lui: di quest' ente sappiamo come è, sia poi che noi sappiamo anche che è, ossia che non lo sappiamo. Ma parrà forse a voi strano, che io riduca la cognizione positiva che aver noi possiamo della natura di un ente, a quella attività che egli può esercitare in quella maniera che dicevo, nel nostro sentimento. - Avete ragione, o signori, e però io mi propongo d' entrare in questo argomento nella prossima lezione. Noi abbiam detto, che tutto ciò che noi conosciamo di positivo nelle cose è quel tanto di loro che cade nel nostro sentimento. A molti tutto ciò sembra poco, sembra loro che noi rendiamo strema e misera la cognizione umana. Ma ad altri forse ne parrà il contrario, e saranno presti a dirci: « come dite voi di conoscere ciò che cade nel sentimento vostro? Che cosa di più oscuro della sensazione? Qual mistero più grande di quello del sentimento? Chi l' ha mai definito? O chi il può definire? Chi può conoscerne le leggi e trovare qualche unico principio, a cui tutte s' annodino? E se non si può trovare un principio a cui ridurre le leggi tutte del sentimento, come possiamo averne piena cognizione, quand' egli ci si presenta come fenomeni distaccati nuotanti nell' infinito mare dell' essere, e che ci scappan di mano quando vogliamo prenderli, come le bolle di sapone? » - Ora perchè, miei signori, tanta divergenza d' opinioni sui limiti del saper umano? Certo che a quelli a cui piacesse giocare d' ingegno anzi che seriamente filosofare, come è pur debito d' ogni amatore del vero, non riuscirebbe guari difficile sciorinare speciose ragioni di eloquenti o piuttosto loquaci periodi vestite, a sostenere l' una e l' altra tesi pro o contra al nostro assunto, dimostrando prima che è un restringere soverchiamente l' umana scienza dandole per limite il sentimento, e poscia dimostrando pure, che questo stesso è un allargarla soverchio. Ma noi non vogliamo nè dobbiamo, o signori, perdere il nostro tempo a sfoggiare ingegno cavilloso e sofistico; ma dee esser nostro ufficio e professione costante cercare modestamente il vero; togliere gli equivoci del favellare, definendo accuratamente il valore delle parole e lo stato delle questioni, e seguire quel metodo rigoroso che tronca l' ali all' immaginazione per tener dietro fedelmente ai passi della natura. Occupiamoci adunque a chiarire la nostra proposizione, a impedire che se ne perverta il senso e se ne muti il valore, trasportando il discorso dalla prima tesi in un' altra; e ciò fatto riuscirà evidente la dottrina che raccogliemmo dalla precedente lezione, cioè l' uomo non conoscere niente di positivo se non quello che cade nel sentimento. Diciamo noi forse con ciò, che l' uomo non conosce altro se non quello che cade nel suo sentimento? No, noi non diciamo questo: s' attenda bene a quella restrizione che poniamo alla proposizione « non conosce altro di positivo ». E` mestieri dunque cercare che cosa voglia dire « il positivo della cognizione ». E la questione non è già di parole. Che se invece del vocabolo positivo, si volesse adoperare qualunque altro vocabolo o frase, noi non faremmo alcun contrasto, purchè si ritenga il concetto che noi vogliamo esprimere. Questo concetto sta in natura, e l' ufficio della filosofia è di vedere come sono le cose nella natura. Concentriamo dunque il discorso. La cosa che noi intendiamo di rilevare è il fatto della cognizione umana: trattasi di distinguere varie specie di questa cognizione, e fissarle mediante un nome: una di queste specie si è quella che noi distinguiamo col nome di cognizione positiva: la questione dunque si riduce a verificare questo fatto: « se tra le specie delle cognizioni umane ci ha quella che noi chiamiamo positiva; e se questa specie si estenda fuori del sentimento ». Cominciamo dall' enumerare le diverse specie di cognizioni. Di noi, è certo che noi abbiamo il sentimento fondamentale di noi stessi e della nostra animalità. Se noi non pensiamo punto a questo sentimento, esso mancando della forma di cognizione non è cognizione: conviene che sia pensato per divenir tale: pensato che sia da noi immediatamente, noi abbiamo quella cognizione del nostro sentimento che si chiama cognizione percettiva . Questa cognizione percettiva ci fa conoscere un ente particolare cioè noi stessi, in quanto siamo esseri intellettivi7senzienti, ossia razionali . Quando pensiamo così noi stessi, l' oggetto del nostro conoscere è un ente del tutto determinato. Noi abbiamo appreso con ciò quanto vi ha di sostanziale e quanto vi ha di accidentale in quest' ente all' atto della percezione, senza però che ancora distinguiamo l' accidente e la sostanza; poichè la percezione apprende l' ente reale qual è tutto intero senza fare in esso distinzione alcuna: le distinzioni sono l' opera della riflessione che viene appresso. Se il nostro sentimento fondamentale si modifica, essendo egli essenzialmente sentimento, sentiamo di consequente queste sue modificazioni. Ma fino che si suppone che noi sentiamo solamente queste modificazioni senza più, non s' è accresciuta la nostra cognizione, chè il sentimento non è cognizione. Acciocchè diventi tale, noi dicevamo, conviene applicarvi il pensiero. Se dunque noi pensiamo le modificazioni del nostro proprio sentimento, abbiamo una nuova cognizione, di natura non diversa dalla precedente: è la percezione stessa del sentimento fondamentale che si è modificata: ma è ancora percezione del soggetto con altri accidenti. Ma bene spesso il sentimento nostro si modifica soffrendo violenza, cioè sperimenta una forza diversa da noi, che s' applica a noi, e che muta la condizione del nostro sentire. Se una forza agisce nel sentimento nostro e lo immuta: dunque, può essere in noi una forza, un' attività diversa da noi; giacchè « ab esse ad posse datur consecutio ». Non conviene immaginar la natura, non conviene qui dire: « non può essere che in un soggetto esista qualche forza diversa da quella del soggetto stesso »non convien dirsi questo per la semplicissima ragione che la cosa è appunto così. Può dunque entrare e per molto o per poco tempo inesistere un principio agente in un altro principio senza che tuttavia s' immedesimi con esso; una sostanza può stare in un' altra sostanza: egli è questo il fatto. Si dà dunque l' azione sostanziale tra le cose; poichè l' agente è sostanza. Se dunque nel nostro sentimento cade una sostanza straniera, il sentimento dee sentirla, sperimentandone l' azione, essendo il sentire l' essenza del sentimento. Così noi percepiamo delle sostanze distinte dal soggetto noi, che perciò chiamiamo estrasoggettive. Ed eccovi qui trovato, miei signori, il celebre ponte di comunicazione tra noi e il mondo esteriore, che si diceva irreperibile, e si osava anche dire impossibile, per quella certa incredulità filosofica, che legata alle cose più comuni, chiude gli occhi alle più evidenti su cui non c' è costume di riflettere. Si dà dunque la percezione del mondo esteriore. Questa noi chiameremo percezione dell' estrasoggettivo . La percezione dell' estrasoggettivo è anch' essa pienamente determinata siccome quella del soggetto. Intuizione dunque dell' essere, percezione del soggettivo e percezione dell' estrasoggettivo sono le tre prime specie di cognizione umana. Il carattere dell' essere intuito è la piena indeterminazione; il carattere dell' essere percepito, sia soggetto o estrasoggetto, è la piena determinazione. A queste sopravviene la riflessione: l' uomo ripiega il suo pensiero tanto su ciò che ha intuito, quanto su ciò che ha percepito, come anche sulle stesse operazioni dell' intuire e del percepire: mediante questo ripiegamento del suo pensiero, egli abbraccia più cose insieme, confronta l' una coll' altra, ne trova le differenze, distingue il proprio dal comune, la sostanza dall' accidente; analizza e sintesizza; applica l' universale al particolare, e così classifica, giudica, vede che cosa manca all' ente percepito, che cosa dee avere per esser perfetto; e in somma produce in mille maniere a se stesso altre cognizioni senza limite, e lo scibile umano non trova più confini. Ma fissiamo bene, o signori, qual sia la materia della riflessione madre di tante notizie. La materia della riflessione sono le cognizioni precedenti, poichè l' uomo non può riflettere se non su ciò che prima conosce. Ora quali sono le cognizioni precedenti alla riflessione, e che diventano sua materia? Saranno forse cognizioni acquistate colla riflessione medesima? In tal caso esse non precederebbero del tutto la riflessione. Convien dunque arrivare a quelle cognizioni prime che non si sono acquistate per riflessione. E queste sono quelle appunto che abbiamo indicate, l' intuizione e la percezione. Badate bene, queste prime specie di cognizioni, queste sole danno in fine la sua materia alla riflessione umana: la riflessione umana non può agire immediatamente che su di esse. Infatti è egli possibile trovare una quarta specie di cognizioni che non venga dalla riflessione, e che non reincida nelle tre annoverate? Io sfido chicchessia a indicarcela. Nissun filosofo l' ha mai indicata, e nessuno la indicherà mai. La riflessione umana dunque ha una materia limitata, fuori della quale non può andare in modo alcuno. Sia pure che la riflessione, colla sua mirabil potenza, cavi infinite cose da quella materia che le è data; sia pure che ella sappia farci sopra infiniti ragionamenti, fabbricandosi sistemi maravigliosi di vario sapere: ma infine la materia prima di lei è sempre quella stessa; si riduce sempre a intuizione dell' essere, a percezione soggettiva, a percezione estrasoggettiva. Per quanto si faccia, questa materia non si può moltiplicare nè estendere. Tali sono i confini prescritti dal Creatore alla umana ragione, « usque huc venies »: niun uomo può valicarli fin che non cessa di esser uomo e non diviene qualche cosa di più. Lo stesso Aristotele, miei signori, che avea data la sua principale attenzione alla cognizione riflessa, siccome quella di cui si fa maggior uso, e su cui cade l' insegnamento dottrinale, ebbe pronunciato; che [...OMISSIS...] cioè « « ogni cognizione viene da una cognizione precedente »(1) », e ritorna più volte su questa sentenza (2). Anche egli dunque riconosce che il dominio della riflessione è limitato ad una cognizione anteriore ad essa, cioè ai dati della esperienza. Se dunque la riflessione non dà a se stessa la materia delle sue cognizioni; s' ella non crea nulla, ma solo deduce; tutto lo scibile che la riflessione feconda e svolge nell' umana mente, deve esistere in germe in quella prima materia che a lei precede e che le viene dalla natura somministrata; la qual materia è intuitiva, come dicevamo e percettiva, l' una senza determinazioni, l' altra appieno determinata: si supponga dunque che alla riflessione non sia dato per materia altro che l' essere indeterminato, oggetto dell' intuizione: qual ente potrebb' ella conoscere? Niuno in particolare. E` dunque necessario, che la riflessione prenda le prime determinazioni degli enti conosciuti per via di percezione. Sia pure che in appresso, dalle prime determinazioni, ella ne deduca altre ed altre; queste dedotte si riducono sempre alle prime, dalle quali partono tutti i suoi ragionamenti. Ora io chiamo appunto cognizione positiva « quella che riguarda le prime determinazioni degli enti ». Non è dunque chiaro, che la cognizione positiva non si può cercare altrove che nelle percezioni? Ma a che mai si riducono le percezioni? Noi l' abbiamo veduto, l' oggetto di esse non è che il nostro sentimento, o ciò che cade nel sentimento. Dunque tutto ciò che noi sappiamo di positivo si riduce finalmente a ciò che si comprende nel nostro medesimo sentimento. La riflessione lo lavora certo a suo modo, gli fa subire varie modificazioni, gli fa prendere forme sì nuove, lo associa sì fattamente e lo mescola coll' essere ideale, che riesce poi difficile a riconoscerlo per quell' umile elemento che ci era stato dato prima nella semplice percezione. Ma il riconoscerlo ancora per quello è l' opera della mente filosofica; alla Filosofia s' appartiene prendere in mano i prodotti più elaborati dalla riflessione e svestendoli successivamente di tutte le forme dalla riflessione ricevute, restituirli alla prima loro nudità, prenderli dove son giunti e far loro fare il camino contrario, rimettendoli al loro luogo nativo, ond' hanno lungamente peregrinato; abolire insomma per virtù d' astrazione, l' una dopo l' altra, tutte le operazioni riflesse e riaverli quali erano nel primo loro stato, nell' originaria loro condizione d' elementi percepiti. La cognizione positiva dunque è quella che si contiene ultimamente nella percezione, e quindi nel sentimento. Ma qui è da por mente. Noi abbiamo detto, che la percezione si fa per mezzo d' una affermazione; giacchè infatti l' affermazione è l' ultimo grado della percezione, il suo compimento. Ma l' affermazione non appartiene alla cognizione oggettiva: non è (noi abbiam veduto anche questo) che uno stato del soggetto relativamente alla cognizione degli enti; è l' atto con cui il soggetto intelligente si rende persuaso della loro realtà; ma quanto alla cognizione delle realità, ella è per l' idea che s' acquista nel modo che abbiamo già dichiarato. Togliamo dunque via dalla percezione l' atto dell' affermare. Ciò che ci rimarrà sarà tutto oggettivo, tutto cognizione, ed ecco la cognizion positiva depurata da ogni altro elemento. Ma ora perchè dunque, miei signori, alcuni di quelli che passano per filosofi non si contentano dell' ampiezza di questa sfera che noi assegnamo alla « cognizione positiva »? L' ho già detto e lo dirò francamente: perchè non intendono che cosa voglia significare « cognizione positiva » perchè non se ne sono formato chiaramente il concetto. Cognizion positiva, secondo l' etimologia, è quanto dire « cognizione di posizione ». Come si dice legge positiva quella che viene posta dal legislatore e non è data dalla natura stessa ragionevole, e però non si può avere a priori; così non senza proprietà, noi diciamo cognizione positiva a quella, che si sopraggiunge alla naturale che è l' intuizione dell' essere. E ciò che veramente si sopraggiunge all' intuizione dell' essere sono i sentimenti che determinano variamente l' essere stesso, e che non sono necessarj, nell' ente finito, perchè lo stesso ente finito non è necessario, ma contingente. Le innumerevoli conseguenze che la riflessione, ripiegandosi sull' essere ideale e sui sentimenti, ne cava sono pur contenute virtualmente ne' due primitivi loro germi: somministrando l' essere ideale alla ragione tutta la cognizione ideale di deduzione e il sentimento somministrandole tutta la cognizione positiva di deduzione: sicchè la cognizione riflessa si può dividere comodamente in tre specie, ideale, positiva e mista , secondo che ella si riduce come al primo suo fonte all' essere intuito, o al sentimento percepito, o all' unione dell' uno e dell' altro. E qui apparisce quale risposta noi facciamo a quelli, a cui sembra, che noi limitiamo la cognizione positiva entro troppo angusti confini. Ma non sono questi i soli nostri avversarj. Ve n' hanno di quelli che ci rimbrottano dell' eccesso contrario: secondo essi il sentimento è un mistero, che ne involge molti altri: non si può dunque dire che sia dall' uomo conosciuto. Che diremo noi a cotestoro? Non altro, miei signori, se non che essi mutano lo stato della questione. Poichè noi non avevamo mica tolto ad investigare in qual grado conosce l' uomo ciò che conosce; ma semplicemente a determinare quali sieno le sue cognizioni. Noi volevamo rilevare un fatto, non penetrare la natura di questo fatto: il fatto che volevamo cogliere e fermare si era, quali sieno le specie delle cognizioni umane. Che queste cognizioni di cui l' uomo viene in possesso con le sue facoltà sieno imperfette, o no; quanta sia la loro imperfezione, qual grado d' oscurità e qual grado di luce in esse si contenga; queste sono questioni affatto diverse, riguardanti l' intiera natura della cognizione umana, e non la semplice esistenza di essa. Or bene, o conviene che si nieghi all' uomo ogni cognizione, o conviene ammettere quelle diverse specie di cognizioni, che noi abbiamo descritte. E che l' uomo ignori molte cose circa la natura del sentimento, niun filosofo sarà lento a negarlo; ma si potrà egli a buon dritto conchiudere, che l' uomo non ha alcuna cognizione affatto del sentimento? Se lo percepisce, se lo afferma, se ne ragiona: dunque, in qualche modo, lo conosce: sia pure che lo conosca poco; ma lo conosce, e questo è il tutto per noi. E anche intorno a questo noi siamo novamente d' accordo col senso comune; il quale come dice del cieco che non conosce i colori, così dice parimenti che chi ha l' uso degli occhi ben li conosce e assai ben crede di sapere che sia bianco, o rosso, o giallo, o un altro colore qualsiasi. Quelli dunque che ci dicono, che noi non conosciamo il sentimento, perchè non possiamo rispondere alle domande che essi ci fanno intorno alla natura del medesimo, non provano con questo che noi nol conosciamo, ma tutt' al più proveranno forse, che noi non ne abbiamo quella cognizione che essi pretendono, non una cognizione qualsiasi. Qual è l' ufficio del linguaggio, miei signori? Certo quello di segnare co' suoni vocali le nostre cognizioni, affine di comunicarle altrui, e anche di fissarle alla nostra propria attenzione. Dunque il linguaggio è il testimonio irrefragabile delle nostre cognizioni, perchè n' è l' espressione. Tutto ciò dunque, a cui noi abbiamo imposto un nome, lo conosciamo in qualche modo, in qualche grado; il che non vuol già dire tuttavia, che in tutti i modi e in tutti i gradi: è questo il modo di conoscere proprio di Dio solo. E sarebbe un darla vinta agli scettici, dire il contrario: sarebbe di più opporsi all' umanità intiera. Non riuscirebbe forse inutile il linguaggio se nulla significasse? A che mai favellare coi nostri simili, se favellando non comunicassimo loro nessuna cognizione? Chi tutto ignora non parla: egli è il caso degli animali senza ragione. Ma quali sono le notizie che noi comunichiamo altrui col linguaggio? Certamente quelle che noi abbiamo. Che cosa dunque significano i vocaboli? Quali cose esprimono? Forse gli enti, in quella parte nella quale restano a noi pienamente incogniti? Sarebbe assurdo il dirlo. Dunque esprimono « gli enti quali da noi si conoscono ». Da questa osservazione possiamo dedurre una nuova maniera di confutare coloro, che estenuano soverchiamente la cognizione umana. V' hanno di quelli, voi lo sapete, che negano all' uomo la cognizione dell' essenze. Intendiamoci: che cosa vuol dire essenza? Troppi prendono questa parola per un sinonimo di sostanza, è un equivoco antico, che la parola greca «usia» significa appunto l' una e l' altra. Conviene finalmente risolversi a separare intieramente e per sempre il significato della parola essenza dal significato della parola sostanza . Consultiamo su di ciò l' uso comune, che è la sola autorità legittima in questa parte. Si dice: l' essenza del colore, sì bene come l' essenza del corpo, l' essenza dell' estensione, del peso, del pensiero, della sensazione, sì bene come l' essenza dell' anima: e pure il colore, l' estensione, il peso, il pensiero, la sensazione, non sono sostanze, ma meri accidenti. Convien dunque ritornare alla distinzione che facevano gli scolastici in essenze sostanziali , e in essenze accidentali . Ogni cosa ha la sua essenza; se consultiamo l' origine della parola essenza viene da essere; e vuol dunque dire l' essere, l' entità della cosa, ciò che fa che la cosa sia quello che è, sia poi la cosa un accidente o una sostanza. Ma oltracciò l' essere della cosa significato dalla parola essenza non può dir altro che l' essere conoscibile, perchè nissun ente in quella parte che è del tutto sconosciuto all' uomo, non è da lui nominato, come dicevamo innanzi, nè pensato, giacchè se fosse pensato, sarebbe da qualche lato almeno conosciuto, l' effetto del pensiero essendo la conoscenza. Ora l' entità conosciuta dov' è che la conosciamo noi, ossia qual è il mezzo che abbiamo di conoscere gli enti? Questo mezzo è l' idea: nell' idea la cosa è conosciuta. Non andremo dunque lungi dal vero, se noi diffiniremo l' essenza in un modo generale dicendola « ciò che s' intuisce nell' idea ». Or bene, non vediamo, signori miei, da questo solo, che è impossibile mettere in dubbio la cognizione dell' essenze? E che se fu messa in dubbio, ciò non prova altro, se non che quelli che ne dubitarono, applicavano alla parola essenza un significato totalmente diverso dal suo proprio? Poichè se si fossero dati prima di tutto la cura di dichiarare a se stessi ben bene il valore della parola essenza , consultandone l' uso comune, avrebbero facilmente veduto, che l' essenza di una cosa non è altro se non « ciò che si pensa nell' idea di una cosa »e che perciò l' essenze sono conosciute per la stessa loro definizione. Invece dunque di dire, che l' essenze non si riconoscono, doveasi anzi dire, che l' uomo oggettivamente non conosce altro che essenze, e che un complesso di mere essenze intuite dallo spirito è tutto ciò che forma lo scibile umano. Nel linguaggio che è il deposito delle cognizioni umane noi troviamo continuamente significate le essenze. Le parole uomo, animale, pianta, pietra, pane ec. che altro significano che l' essenze conosciute di tutte queste cose? Infatti, se quando dico uomo non intendessi nominare l' essenza dell' uomo; o quando dico animale non intendessi dire l' essenza dell' animale, io non direi nulla; poichè tolta via l' essenza dell' uomo non resta più l' uomo, tolta via l' essenza dell' animale non resta più l' animale; dunque non esprimerei più nè l' uno nè l' altro, come nulla vuole e nulla intende esprimere il pappagallo, che proferisce meccanicamente questi due suoni: uomo e animale. E perchè il pappagallo mandando fuori questi due suoni, non vuole nè intende esprimer l' uomo e l' animale? Perchè non può volerlo; e non può volerlo, perchè non conosce l' essenza dell' uomo e dell' animale, e non conoscendola non la può esprimere. Quanti dunque sono i nomi comuni nell' umano linguaggio, altrettante essenze l' uomo con essi significa, e quante ne significa, altrettante egli ne conosce; niuno potendo esprimere ciò che del tutto e in nessun modo conosce. Dunque il negare la cognizione delle essenze è lo stesso che negare il linguaggio, o anzi renderlo impossibile. Sia pur vero dunque, sia pur da noi pienamente conceduto che l' uomo non conosce gli enti perfettamente; che questi racchiudono dei misteri, che intorno ad essi si posson fare molte questioni difficili ed anche insolubili. Ma riman sempre una grande distanza, o signori, tra queste due cose, che un ente si riveli a noi tutto, sicchè niente più racchiuda per noi d' incognito; e che egli non manifesti a noi di se stesso niente affatto; poichè quelli che negano la cognizione dell' essenze, debbono cadere in questo estremo, d' affermare cioè che l' uomo non conosca niente affatto degli enti; chè se egli ne conosce solo un tantino, basta, non gli può mancare qualche idea di essi, e però può intuire qualche loro essenza; essendo questa tutto quel molto o quel poco che si pensa nell' idea dell' ente come abbiam detto. Ma la cognizione delle essenze appartiene ella alla cognizione positiva, o all' ideale, o alla negativa? La risposta è facile dopo le cose dette. L' essenza è ciò che si conosce nell' idea. Ma le idee parte sono positive, e parte negative. Dunque tali sono anche l' essenze. Qualora si tratti d' essenza di cosa da noi sensibilmente percepita, l' essenza è positiva; qualora si tratti di cosa che non cadde nel nostro sentimento, come sarebbe l' angelo, l' essenza conosciuta da noi è negativa. Ma non si fraintenda ciò che diciamo: quando parliamo di essenze negative, non vogliamo mica dire, che l' essenza di qualche ente in se stessa sia negativa: non si parla da noi, se non dell' essenza conosciuta: si vuol dunque dire, che è negativa in tal caso la cognizione nostra. Quali saranno dunque quell' essenze che noi chiamiamo negative? Voi stessi ora me lo sapete dire: tutte quelle, che non somministrano al nostro pensiero niente di ciò che abbiamo sperimentato nel sentimento. Sono dunque negative primieramente le essenze dell' entità prettamente mentali, cioè fabbricate dalla nostra mente, come sarebbe il nulla. Il nulla non è nè può essere un ente reale, poichè anzi è l' esclusione di ogni entità; e tuttavia anche il nulla ha per noi la sua propria essenza. Tant' è vero, che noi distinguiamo il nulla da tutti gli enti, ed i matematici ragionano a lungo del nulla e vi fanno sopra dei calcoli meravigliosi (1). Che cosa è dunque il nulla? E` l' esclusione del qualche cosa: è una relazione dell' ente contingente con se stesso, il quale potendo essere e non essere, quando si concepisce non essente, allora si dice nulla. Se il nulla si diffinisce; dunque ha la sua essenza: se il nulla è il termine di una relazione, e perciò ha certe proprietà; dunque ha la sua essenza: ma non l' ha già fuori della mente, appunto perchè è la negazione di ogni essenza; ma l' ha nella mente che nega l' essenza, e questo negare l' essenza è un atto che si concepisce, di cui ci formiamo un' idea, che esprimiamo in parole: ha dunque un' essenza mentale negativa, esprimendo quel momento dell' animo in cui resta privo dell' ente e s' accorge della sua privazione, e la pronuncia. Tutti gli altri esseri mentali, cioè formati dalla mente, hanno più o meno del negativo: tutti gli astratti hanno parte di negativo, perchè nell' astratto è tolto via o parte o tutto ciò, che ci dà il sentimento. Quegli astratti che sono mere relazioni, presentano idee più negative che non sieno gli astratti che sono generi di sostanza o di qualità o di quantità; e gli astratti che sono generi, presentano più del negativo che gli astratti specie . Diamo un esempio di tutte e tre queste maniere di idee negative. Che cosa penso io nell' idea dell' Autore dell' universo? Nient' altro che la relazione di causa fra un ente che non cade sotto i miei sensi e il mondo. In questo concetto io penso un ente; ma poichè io non l' ho menomamente percepito col sentimento, egli è per me un ente che non so come sia fatto. Or se io non sapessi niente affatto di lui, nol potrei distinguere dagli altri enti, nè determinarlo per conseguente a me stesso in modo veruno; in tal caso non penserei un ente determinato, ma l' essere in genere e indeterminato. Ho dunque bisogno d' una relazione che me lo determini: una relazione, dico, con cosa che mi è conosciuta positivamente. La cosa che così conosco è il mondo, il quale cade nel mio sentimento, e la relazione è quella di causa. Le relazioni dunque con ciò che io conosco positivamente, mi fanno conoscere degli esseri che io non conosco positivamente: ho dunque di essi una cognizione negativa. Le relazioni dunque di esseri che non influiscono nel mio sentimento, colle cose che vi influiscono, sono un fonte d' idee negative. Veniamo ai generi . Se io sapessi, che in un parco di fiere si mostra un animale peregrino; ma ignorassi qual fosse, io avrei di quell' animale una cognizione negativa in gran parte, ma non però in tutto; poichè io saprei almeno che egli è un animale, e l' idea generica dell' animale io l' ho cavata dal mio sentimento, giacchè so che cosa è animale, perchè ho il sentimento di me stesso, e perchè sono caduti sotto i miei sensi altri animali. Nella cognizione generica adunque vi ha del negativo; ma ella non è tutta negativa, perchè ritiene un elemento somministratomi dal sentimento. Le idee generiche dunque sono fonti di cognizione in parte negativa; ma meno però negativa di quell' idee che mi sono somministrate da semplici relazioni. Voi ora intendete, miei signori, che con un somigliante discorso si può dimostrare che l' idee astratte di specie contengono anch' esse del negativo; ma ancor meno dell' idee generiche. Così se io sapessi, trovarsi un uomo in un dato luogo, e nulla di più; io ignorerei a dir vero s' egli è uomo bianco o di colore, e tutte l' altre particolarità; ma pure saprei che quell' essere a cui penso non solo appartiene al genere degli animali, ma altresì alla specie degli animali ragionevoli, e tanto l' animalità quanto la ragione sono due cose che io conosco positivamente pel mio proprio sentimento. Nell' idea astratta di specie giace dunque più di cognizione positiva che non nel genere, e tuttavia ella ritiene ancora non poco di negativo; poichè io non penso con essa molte qualità accidentali dell' ente, che cadono nel sentimento. Quale adunque sarà l' idea interamente positiva? diciamolo di nuovo, quella che si cava immediatamente dalla percezione, universalizzandola, cioè togliendo da essa unicamente la sussistenza, e lasciando l' ente vestito di tutti i suoi accidenti e qualità sensibili. Così se io penso all' immagine d' un fiore, d' un cavallo, d' un uomo, tale appunto quale l' ho veduto altra volta, e lo considero come tipo universale che può essere realizzato in un numero infinito di individui, fiori, cavalli, uomini, perfettamente uguali, allora io penso un ente con un' idea al tutto positiva, che noi per distinguerla da ogni altra denominammo idea piena. Questa è l' idea più comprensiva, che noi possiamo avere della cosa, e tuttavia anche questa maniera di conoscere è limitata; ma questa limitazione nasce dalla limitazione dell' uomo stesso, e non da un qualche modo particolare con cui l' uomo conosce, il quale sia più imperfetto degli altri. Qual' è dunque, miei signori, questa limitazione necessaria della cognizione umana? Questo è quello che ci proponiamo di ricercare nella seguente lezione. Il sentimento e l' idea sono i due elementi delle cognizioni umane. Il sentimento presta alle cognizioni umane tutto ciò ch' elle hanno di positivo; l' idea somministra loro tutto ciò ch' elle hanno d' indeterminato e di negativo. Conviene riconoscere, miei signori, entrambi questi due elementi, e a ciascuno di essi fare la loro giusta parte nello scibile umano. Conviene riconoscerli, dicevo, e a ciascuno di essi non dare nè più nè meno di quello che si abbiano in fatto: ecco ciò che dee fare l' Ideologo; ma lo hanno sempre fatto, miei signori, gl' Ideologi? Noi non vorremmo certo metterli tutti egualmente in un fascio; ma non ci pare poter essere accusati con ragione di temerità, se aprendo i loro libri leggeremo ciò che dentro ci sta scritto. Ebbene, noi troviamo un gran numero d' Ideologi che riconoscono bene o male il sentimento; ma poi vi negano l' idea, ve la negano in fatto, benchè ne ritengano la parola, giacchè con questa parola d' idea non intendono significare che il sentimento. Voi v' accorgete che questi sono i sensisti. Noi troveremo dopo di ciò molti altri Ideologi, i quali riconoscono ed ammetton l' idea; anche questi non è che sbandiscano la parola sentimento, perocchè le parole date loro dal popolo non possono ricusarle e servono appunto a smentire i loro sistemi arbitrarj, accorcianti l' umano sapere: ritengono dunque la parola sentimento, come dicevo; ma poscia ve lo trasportano nell' ordine intellettivo, lo trasmutano in idea: questi sono i veri idealisti. Perchè errano gli uni e gli altri? Perchè limitano arbitrariamente la cognizione umana; perchè usano di una osservazione imperfetta, pongono la loro attenzione esclusivamente ad uno dei due elementi, e non ad entrambi. La perfezione della Filosofia, e in ispecie dell' Ideologia, vuol dunque che si osservi tutto intero il fatto della cognizione, e che si ammetta l' uno e l' altro elemento de' due ond' ella risulta. Ma questa non è che la prima funzione del filosofo: gli resta a compire la seconda, cioè a determinare quanto influisca ciascuno de' due elementi nell' umana cognizione. Noi abbiamo difeso l' uno e l' altro elemento, il positivo e il negativo, il reale e l' ideale; n' abbiamo veduto la connessione, abbiamo confutati quelli che negano all' uomo la cognizione delle essenze: abbiamo in particolare veduto, che la mente concepisce le essenze in un modo positivo quando il sentimento vi depone il suo elemento, e in un modo negativo quando manca l' elemento del sentimento. Abbiamo risposto a quelli che pretendono niente conoscer noi delle cose sentite, perchè veniam meno in rispondere a molte questioni sulla natura di esse: abbiamo sostenuto, che se non conosciamo il sentimento in modo al tutto perfetto, lo conosciamo tuttavia in qualche grado: in qualche grado, dicevo, e perciò accordammo agli avversarj, che le nostre cognizioni positive sono limitate. Conviene dunque ora, che ci spieghiamo maggiormente su questa limitazione della cognizione umana, e sarà ciò che prenderemo a fare in questa lezione. Sì, il sentimento somministra tutto ciò che v' ha di positivo nello scibile umano. Ma nello stesso tempo, e perciò appunto, esso è la causa della limitazione della mente umana. Egli è singolare, miei signori, a vedere come lo scibile che il Creatore largì al genere umano, presenti due aspetti che sembrano contradittorj. Da una parte egli pare infinito: e chi di noi non ha udito le eloquenti amplificazioni della grandezza dello spirito umano, di cui sono pieni i libri dei filosofi e degli oratori? Chi di noi non si è più volte stupito seco medesimo ripensando quante mirabili discipline ed estesissime scienze abbia partorite l' umana mente? Quante nobili invenzioni non ha ella prodotte? Quante arti ed industrie, o inservienti agli agi o alle necessità della vita, non abbiamo noi ricevute in retaggio dai secoli precedenti? E chi può metter un confine all' umano progresso? Chi può essere o sì audace o sì stolto da proibire ai presenti od ai posteri d' aggiungere altre ed altre cognizioni, altre ed altre invenzioni al patrimonio degli avi, o così temerario da predire che a tal tempo, a tal secolo, l' umana mente avrà esaurita la sua prodigiosa fecondità? Chi anzi non dovrà considerare per una assai piccola cosa tutto quello che ha l' uomo imparato fin qui e colle sue speculazioni inventato, a paragone di quello che a sapere e a trovare gli rimane; e di quello che troveranno indubitatamente i nostri posteri, progredienti per la via de' lumi con un corso sempre accelerato, senza confine? Sì, l' umano sapere è inesauribile, e non può trovarsi un termine alla sua attività. Ma, miei signori, rovesciamo la medaglia. Non ci sarà egli ugualmente facile il considerare il sapere dell' uomo sotto l' aspetto opposto? Non potrò interrogarvi di bel nuovo così: chi di voi non ha letto in mille libri, chi non ha udito dalla bocca de' maggiori sapienti deplorare la profonda ignoranza dell' essere umano? Chi tra quanti hanno un poco ripensato seriamente sopra se stessi, non ha dovuto confessare di trovarsi immerso in un mare profondo di tenebre? Qual savio dubitò mai per un solo momento, che la mole delle cose che l' uomo ignora, e che ignorerà mai sempre, non sia infinitamente maggiore delle cose che egli sa, o anche che saprà? In qual pelago d' errori non ha navigato e naufragato sempre, e naviga e naufraga ogni dì lo spirito umano? Come vacilla l' umana mente ne' suoi passi? Quante incertezze e quanti dubbj non la sorprendono anche solo se s' addentra a scrutinare le cose più ovvie e più comuni? Chi ha filosofato, e non è giunto a dubitare qualche volta della propria esistenza o a capire almeno come se ne possa dubitare? Quale spettacolo a vedere, che quando la civiltà ed il sapere delle nazioni è arrivato al suo apice s' invecchia, quasi fosse corruttibile, e viene un' epoca, in cui un gran numero d' uomini, sebben dotati di perspicacissime menti, si perdono nel cimento della ricerca del vero, e avviliti e scorati si gettano nel desolante scetticismo, seppellendo in questo baratro tutta quanta la scienza umana, e sforzandosi di spegnere in sè stessi quel lume della ragione da cui non seppero cavar altro che angosciose esitazioni? E quegli che non si danno già perduti e vinti dalle difficoltà, sentono nondimeno anch' essi il bisogno di compatire e di compiangere l' aberrazione de' precedenti, troppo sperimentando essi stessi quanto è breve e fallace l' umano intelletto, e quanto tutte le cose intorno a cui s' affatica, sieno piene di misteri? E che direm dunque? Forse che è nullo l' umano sapere, e che è un' illusione, un mero inganno? Così è, miei signori; lo scibile umano presenta due faccie, come vi dicevo; da una ci si mostra infinito, dall' altra ci apparisce assai finito. Dove dunque sta il vero? A quale ci atterremo noi di queste due proposizioni: « il sapere dell' uomo è infinito, il sapere dell' uomo è finito »? Ad entrambe, miei signori. Sì, noi non ricusiamo mai di accettare tutto ciò che ci dice il senso comune, e questa volta pare che egli ci dica due proposizioni contradittorie. Ma non manchiamogli di fede, perchè se esamineremo la cosa a fondo troveremo che la contradizione è solo apparente. Noi crediamo, che non possa esser verace e soddisfacente quella Filosofia, che non sa spiegare le contradizioni apparenti del senso comune, che è costretta a ricusarne qualcuna. Noi dunque ammettiamo, che l' umano sapere non abbia confini; ed ammettiamo pure, che l' umano sapere ne abbia di angustissimi. Infatti la contradizione svanisce, se si considera, che è rispetto a due differenti generi di cognizione che sono vere entrambe quelle proposizioni; dico rispetto al genere della cognizione ideale negativa, e rispetto al genere della cognizione positiva. Rammentiamoci quali sono i principj di queste due maniere di cognizioni: l' idea è il principio della cognizione ideale negativa, il sentimento è il principio della cognizione positiva. Or bene, l' idea è infinita, perchè l' essere che nell' idea s' intuisce non ha limite alcuno: il sentimento è finito, perchè il sentimento non è che la nostra propria realità e le sue modificazioni o ciò che si commisura col nostro sentimento; e noi come esseri reali siamo limitati, limitatissimi. V' ha dunque in noi un fonte di cognizione infinita e questa è l' idea, ed un fonte di cognizione finita e questo è il sentimento: idea e sentimento, sono i principj di tutte le cognizioni umane: queste si mescolano in mille maniere e si fecondano ritenendo la natura de' principj da cui derivano: lo scibile umano dunque è un miscuglio d' infinito e di finito, ed egli deve presentare necessariamente le due faccie che dicevamo riconosciute dal senso comune degli uomini. Ed egli è qui, miei signori, che ci tornerà facile a spiegare come v' abbiano dei filosofi i quali sostengano, che noi non conosciamo punto nè poco le essenze delle cose, e v' abbiano degli altri, tra i quali Sigismondo Gerdil, che sostengono il contrario. Osserviamo, miei signori, che la stessa cosa conosciuta da due uomini collo stesso grado di cognizione, produce talora in essi due effetti diversi. L' uno rimarrà pago della sua cognizione, e si crederà d' essere appieno istruito intorno alla natura di quella cosa, l' altro non così e crederà tuttavia d' ignorarla. Domandate ad un uomo del volgo, s' egli conosce che cosa sia una pianta o un animale: egli sorriderà di voi, e non crederà neppure necessario di dirvi, che troppo ben la conosce, perchè non potrà mai credere che voi ne dubitiate. Ma se voi domandate all' incontro la stessa cosa ad un naturalista o ad un filosofo, facil cosa sarà ch' egli vi dica d' ignorarne la natura, e di conoscerne solo alcuni esteriori fatti, o alcune apparenze. E perchè questa differenza di persuasioni? Perchè il primo, cioè l' uomo del volgo, troppo bene intende, che l' idea dell' albero o dell' animale formatasi da lui mediante le percezioni gli danno una cognizione tal della cosa, che basta a poterla distinguere da tutte l' altre, e basta altresì a dirigerlo nel suo operare nè gli fa bisogno di più: qui dunque s' acquieta, non fa ulteriori confronti e ricerche. Ma l' uomo in cui è sviluppata maggiormente la riflessione, dimentica per così dire ciò che sa della pianta e dell' animale; dimentica che l' idea che egli pure se n' è acquistata come il volgare, è cognizione anch' essa, tutto intento a volerne una cognizione maggiore, una cognizione riflessa e scientifica. Ma come è egli possibile in lui questo desiderio? Come può in lui cadere il sospetto, che la cognizione percettiva che n' ha acquistato sia imperfetta e ce ne possa essere una più perfetta? Sapete ond' è ciò? E` da qui, che egli confonde la cognizione acquistatasi dell' albero o dell' animale colla cognizione dell' essere in universale da lui intuito, e poichè questa è cognizione infinita, e quella finita, perciò quella gli sembra nulla, poichè il finito paragonato all' infinito svanisce in nulla. Infatti quando l' investigatore della natura raccoglie più fatti che può intorno alla natura della pianta o dell' animale, e classifica quei fatti, li riduce a classi più generali, lega i fatti variabili ad un fatto stabile e primitivo, considera questo fatto primitivo come ragione e fonte degli altri, e lo prende per carattere fisso della loro sostanza, che cosa fa egli se non ricercare continuamente in qual modo si avverino nella pianta o nell' animale le condizioni dell' essere da lui conosciuto per intuizione; in qual modo si avveri l' ordine dell' essere stesso, giacchè nell' essere intuito lo contempla e quasi lo legge? E il far ciò che cosa è altro, se non un continuo attento confronto tra l' idea positiva datagli dalla percezione e l' essenza dell' essere? Ora, che sia limitata l' umana percezione, che ella non si estenda a comunicare a noi tutta l' entità della cosa, ma solo una entità relativa a noi stessi percipienti, è ben facile a rilevarsi, se si considera quali sono gli strumenti datici dalla natura al percepimento delle cose. Questi, non uscendo mai dall' ordine naturale, sono (almeno i più risaltanti) gli organi corporali; in generale l' istromento della percezione è la nostra propria animalità; ma questo istromento è così imperfetto, o direm meglio, limitato, che non si stende se non alle cose corporee o animali, e queste stesse non ce le comunica già quali sono in se stesse, ma unicamente sotto la relazione di sensilità . E che cosa è ella mai questa relazione di sensilità? Non più, miei signori, che un rapporto di forze; non più che un effetto delle forze corporee sopra di noi; (prescinderò ora dal sentimento sostanziale dell' anima nostra) anzi nè pure è tanto, poichè la sensilità delle cose non è effetto di una causa sola, cioè delle cose; ma ella è effetto di una causa composta di più concause, voglio dire, delle forze delle cose stesse, e delle forze nostre proprie che agiscono simultaneamente. Dunque il sentimento che abbiamo de' corpi non ha nulla in sè di assoluto, ma è tutto a noi relativo. Ebbene, tutt' il contrario dee dirsi dell' intuizione dell' essere. Questa è cognizione assoluta, nulla vi ha in essa di relativo: non concorriamo già noi menomamente a comporre l' essere come concorriamo a comporre il sentimento corporeo, e quindi i corpi in quanto sono sensibili: l' essere è per sua propria essenza così assoluto che non può mai relativizzarsi, nè soggettivarsi senza cessare d' esser lui stesso, senza cessare d' esser l' essere. Quindi noi già lo denominammo, se vi rammentate, o signori, « l' oggetto per essenza ». Or bene che cosa è mai la cognizione relativa se si raffronta alla cognizione assoluta? L' uomo aspira alla cognizione assoluta, poichè la forma del suo intelletto è l' essere assoluto. Egli dunque inclina e tende per sua natura a volere avere delle cose una cognizione assoluta, e si sforza di trovare una cognizione assoluta anche in quella cognizione che è per natura sua relativa. Ma questo è impossibile: può lusingarsi per qualche istante di dovercela rinvenire; ma a lungo andare si stanca co' suoi inutili sforzi e dispera. Or fa meglio ancora, apre gli occhi e conosce che egli vuole l' impossibile. Allora confessa la sua ignoranza, allora arriva fin anco a dire di nulla conoscere, a reputar nulla tuttociò che prima conosceva relativamente, e a negare risolutamente di conoscere le essenze delle cose. Ed ha ragione, se egli intende negare di conoscerle assolutamente; ma ha torto se pretende che il conoscere relativamente non sia conoscere. Infatti il conoscere ancorchè limitato e relativo non può egli servir di norma all' operare dell' uomo? Dunque è conoscere; chè ciò che non si conosce non può servir di norma all' operare. Considerate, miei signori, che la cognizione è data all' uomo dal Creatore per qualche cosa: ella non dee mica essere sterile ed inutile: essa ha per iscopo di guidar l' uomo nelle sue operazioni, acciocchè ed operi rettamente, ed operando rettamente cioè in un modo conforme alla verità ed alla giustizia, acquisti la perfezione morale che è la perfezione propria dell' uomo, a cui tien dietro la felicità. Ebbene, a questo gran fine che è il fine dell' uomo, che è il tutto dell' uomo, dove finiscono tutti gli umani desiderj che non sieno spurj ed ingannevoli, basta una cognizione relativa rispetto all' elemento positivo. Dico rispetto all' elemento positivo e nella vita presente, perchè in quanto all' elemento ideale e al negativo noi l' abbiamo anche in questa vita ed oggettivo ed assoluto, e non può esser altro, perchè è tale per sua essenza. Sebbene dunque questo elemento ideale e oggettivo sia il fondamento e la causa formale anche della cognizione positiva, tuttavia, dicevo, ciò che ci ha di positivo nella cognizione nostra naturale presente è relativo e questo ci basta. E come e perchè, mi domanderete? Perchè anche l' operare è relativo, perchè anche la perfezione che si cerca con esso è relativa, cioè relativa all' uomo; perchè anche la felicità, finalmente, non è nè può essere altro che relativa. Trattasi forse della virtù e della felicità astratta? No davvero; chè la virtù e la felicità astratta non è virtù e felicità di qualcheduno; e qui trattasi della virtù e della felicità di qualcheduno, cioè di quella dell' uomo, che è il soggetto che dee per essa divenire virtuoso e felice. Che cosa vuol dunque dire perfezione relativa? Nient' altro, miei signori, se non perfezione soggettiva, cioè relativa al soggetto: e perciò che vuol dire cognizione relativa? Vuol dire medesimamente cognizione soggettiva, cioè relativa al soggetto uomo. E poichè il soggetto uomo è finalmente un sentimento sostanziale, ella vuol dire « cognizione somministrata dal sentimento ». Tant' è lungi adunque, che la cognizione relativa ossia soggettiva manchi della natura della cognizione, che anzi ella è quella cognizione umana, che deve servire di guida all' umana perfezione. Ma qui si sollevano delle turbe. E come? Ci dicono molte voci: voi sostenete, che ciò che sa l' uomo di positivo è soggettivo? In tal caso la cognizione positiva dell' uomo è tutta falsa: poichè che cosa vuol dire altro cognizione soggettiva , se non cognizione falsa, apparente, fenomenale? No, miei signori, non è così: i nostri oppositori confondono le cose più diverse, perchè mancano d' analisi. La cognizione soggettiva non è cognizione falsa per sè stessa, non è cognizione apparente e nulla più: essa è una cognizione, certo limitata, ma non meno vera per questo. Vogliamo vederlo? Interroghiamo i nostri avversarj in questo modo: la cognizione del soggetto può ella esser altro che cognizione soggettiva? E che cosa vuol dire cognizione soggettiva, se non cognizione delle cose che appartengono al soggetto? O finalmente cognizione di quelle cose nelle quali ha qualche parte il soggetto? Siete voi dunque d' avviso, o sapienti oppositori, che intorno al soggetto e alle cose che gli appartengono, o nelle quali egli ha qualche parte, non si possa aver cognizione vera, perchè non si può averne altra che soggettiva? Se ciò fosse, dovrebbe dirsi che Iddio medesimo non conosce i soggetti, non conosce sè stesso, primo ed assoluto soggetto, ovvero conosce sè stesso e gli altri soggetti con cognizione falsa, che meglio si chiamerebbe una mendace apparenza. Ora essendo questo manifestamente assurdo; dunque si può dare una cognizione che sia nel medesimo tempo e soggettiva e vera. - Ma gli oppositori risponderanno, che anche la cognizione intorno al soggetto e alle cose soggettive, si può oggettivare ed in tal caso rendersi vera. - Ora che è questo, se non appunto ciò che diciamo noi? Solamente che noi diciamo di più che la cognizione soggettiva è già oggettivata per sè stessa, poichè altramente non sarebbe cognizione. Così il soggetto, ed i sentimenti del soggetto, che sono il fondamento della cognizione positiva dell' uomo, tostochè si conoscono sono per ciò stesso oggettivati; poichè se non fossero oggettivati non sarebbero cognizioni. Eppure i sentimenti del soggetto sono tutti relativi al soggetto; e le cose che operano nel sentimento del soggetto, come i corpi che feriscono gli organi sensorj, si conoscono per gli effetti prodotti nello stesso sentimento soggettivo, i quali effetti sono relativi alla natura del sentimento, perchè sono modificazioni dello stesso sentimento; e perchè ogni essere suscettivo di passione, riceve una passione conforme alla propria natura, il che Aristotele espresse con quel detto divenuto celebre presso gli Scolastici, che « quidquid recipitur ad instar recipientis recipitur . » Del soggetto dunque, che non è altro infine che un sentimento sostanziale, e dei sentimenti in lui suscitati, che sono sue modificazioni, come pure degli effetti tutti che producono in lui le cose esterne, pei quali effetti si conoscano, noi possiamo avere una cognizione vera, e pure ella sarà sempre cognizione di cose relative al soggetto, e perciò soggettive, benchè coll' essersi rese cognizioni, coll' esser divenute oggetti conosciuti, si dice giustamente essersi oggettivate. - Dove sta dunque l' equivoco preso dai nostri oppositori? Nell' aver confuso la cognizione in genere delle cose, colla cognizione assoluta. Ciò che è vero si è, che noi delle cose sensibili non abbiamo una cognizione assoluta, e il pretenderlo è lusinga vanissima; nè da ciò, come dicevo, procede che se la cognizione non è assoluta ma relativa al soggetto, per questo essa non sia cognizione, o sia falsa, ma ella è nondimeno vera nel suo genere; e la questione unica che si può fare ragionevolmente non è mica quella di sapere se la cognizione soggettiva, cioè relativa al soggetto, sia in un altro senso oggettiva; poichè se ella è cognizione, non può mancare certamente di quella oggettività che la rende cognizione. A propriamente parlare la frase di « cognizione oggettiva »non racchiude altro che una ripetizione, ed è come se si dicesse cognizione cognizione; essendo chiaro che l' essere oggettiva e l' essere cognizione viene al medesimo. Laonde nel nostro discorso, miei signori, non si possono distinguere due specie di cognizioni, delle quali l' una sia cognizione soggettiva, e l' altra cognizione oggettiva: se questo talora si fa in altre questioni, dove non s' esige tutto il rigore, come si esige nella nostra presente, ella è sempre una divisione inesatta. L' unica distinzione dunque che si può fare si è tra la cognizione soggettiva cioè relativa al soggetto, e la cognizione assoluta . Ripetiamo dunque, che può aversi una cognizione soggettiva, cioè di cose relative al soggetto, verissima, non fallace e ingannevole; ed anzi di più che la cognizione del soggetto e di tutto ciò che a lui si rapporta sarebbe falsa, se non fosse soggettiva; poichè ella ci farebbe conoscere le cose non come sono, ma come non sono. E qui appunto comincia l' errore; qui comincia la falsità, quando l' uomo pretende che la cognizione soggettiva che egli ha delle cose reali, non deva essere soggettiva com' ella è. Con quanta logica, miei signori, nel primo Alcibiade, Platone introduce Socrate a dimostrare, che l' errore non istà nell' ignoranza, ma si riduce sempre a pretendere di sapere ciò che non si sa? Poichè dopo aver Socrate con accortissime interrogazioni condotto Alcibiade a pronunciare delle sentenze erronee intorno alle cose giuste e ingiuste, belle e turpi, utili e dannose, il costringe a confessare ch' egli s' è ingannato per ignoranza, ma tosto il riprende anche di questa confessione così proseguendo: [...OMISSIS...] Gran documento, signori, degno di Platone, degno che tutti i filosofi, tutti gli uomini l' abbiano avanti gli occhi prima di pronunciare checchessia. In tal caso non si sarebbe udita la strana sentenza, e non sarebbe invalsa nelle menti l' opinione, che la natura delle cose sensibili, p. e. dei corpi, si conosca con cognizione assoluta. E di più certi filosofi non sarebbero dati nell' eccesso opposto dello Scetticismo, negando che l' uomo abbia una cognizione qualunque delle essenze delle cose sensibili, tosto che venne loro dimostrato, o da se stessi trovarono, che tutta la cognizione che noi possiamo avere delle cose sensibili, che è quanto dire tutta la cognizione positiva, non è che soggettiva, ossia relativa al soggetto. Se v' ha dunque taluno, che giudichi e pronunci qualche cosa intorno ai sensibili, (sieno questi l' anima, o sieno i corpi) come se egli li conoscesse di cognizione assoluta, questi errerebbe certamente, e perchè errerebbe? Perchè mentre ignora non sa d' ignorare; perchè vuol portare il suo giudizio temerario al di là della sua cognizione. Ma non solo erra chi ignora e pretende di non ignorare, ma erra anche colui che mentre sa, ignora di sapere. Or bene, quegli che dice, che la cognizione soggettiva che abbiamo di noi stessi e de' corpi è nulla, o è cognizione fallace ed apparente, erra appunto in questo secondo modo; erra perchè giudica d' ignorare mentre sa. Come dunque evitare queste due opposte maniere d' errare? Noi l' abbiamo veduto; col non fermarci esclusivamente a considerare una sola maniera di cognizione; coll' abbracciare tutta quanta è la cognizione umana, tanto l' assoluta quanto la relativa, tanto quella che ci fa conoscere l' essere quanto quella che ci fa conoscere il sentimento (giacchè l' essere noi lo conosciamo con cognizione assoluta, benchè incompletamente, dovendosi ancora distinguere l' assoluta cognizione dalla completa); col riconoscere che tanto l' assoluta cognizione quanto la relativa, è fedele e verace fin a tanto che noi stessi non c' introduciamo arbitrariamente l' errore, affermando di conoscere ciò che ignoriamo, o d' ignorare ciò che conosciamo, o di conoscere in diverso modo da quello che conosciamo. E appunto per evitare gli indicati errori opposti tra loro tenemmo il cammino che avete meco percorso nelle nostre ricerche, e qual frutto ne raccoglieremo? Noi abbiamo diligentemente distinte e caratterizzate due nature di cognizioni, la positiva e l' ideale7negativa; e alla prima abbiam trovato doversi dare due qualità 1 d' esser vera, 2 d' esser soggettiva, relativa a noi stessi che siamo il soggetto, per contrapposto dell' assoluta . E che ella sia vera, il provammo perchè ella ci dice le cose tali quali sono; ci presenta cioè le cose soggettive come soggettive, e quando noi le prendiamo per assolute, siamo noi stessi che introduciamo l' errore giudicando male della verace nostra cognizione, e dicendo che ella è quello che non è. Ma finchè la prendiamo per quello che è non si dà errore, ed oltre esser vera quella cognizione nostra, ella ci è anche utile e necessaria, e preziosissimo dono della natura, poichè ella ci è sufficientissima regola ad evitare il male e ad operare il bene; a provvedere alla nostra conservazione, al nostro sviluppo, al nostro perfezionamento, sì fisico che intellettuale e morale, e così a condurci in una parola a conseguire virtù e felicità, che è il fine nostro. Perchè il fine nostro essendo soggettivo, cioè fine di noi soggetti, e le operazioni nostre e i mezzi coi quali ottenere il nostro fine essendo pure tutte cose soggettive, ci ha mestieri di norme soggettive per regolarle e indirizzarle a quello scopo a cui devono tendere. Il che videro gli stessi Scettici dell' antichità, quando riconobbero ed ammisero una certezza pratica ed operativa negando la speculativa. Errarono tuttavia gravissimamente in questo appunto, che non intesero come anche la cognizione e la certezza pratica sia necessariamente speculativa nella sua parte formale ed ideale, e quindi possa ella stessa essere argomento di certa teoria. Ma aggiungiamo ancora un' osservazione e poi concludiamo. La cognizione, dicevamo, è sotto un altro punto di vista sempre oggettiva, perchè ella si fa sempre per un atto dell' intendimento che s' affissa in un oggetto, cioè in un' entità che rimane sempre distinta dall' intellezione medesima; anzi tale che l' intellezione di sua natura la pone come distinta. Ma questo oggetto, noi soggiungemmo, può essere un soggetto o cosa che ad un soggetto si riferisce, ed allora la cognizione dicesi relativa e soggettiva. Quale è dunque la distinzione tra questa cognizione e l' assoluta? Se la cognizione soggettiva è quella, che ha per suo oggetto un soggetto, che cosa avrà per suo oggetto la cognizione assoluta? La risposta quanto è facile dopo quello che abbiam detto, altrettanto è importante, signori, perchè ci scorge a trovare una bellissima verità. Infatti che cosa possiamo noi rispondere a quella domanda, se non che, se la cognizione soggettiva ha per oggetto un soggetto, la cognizione assoluta dovrà avere per oggetto un oggetto? Ma come è questo? Non sembra egli un giuoco di parole? Eppure non è, miei signori; anzi è in questo apparente giuoco di parole che noi dobbiamo affissare bene la nostra attenzione per riuscire ad un nobilissimo ritrovato: perchè quando parliamo d' una cognizione che ha per suo oggetto il soggetto, allora manifestamente intendiamo, che l' oggetto di questa maniera di cognizione non è oggetto per se stesso, poichè egli è anzi soggetto. Dunque se non si dà cognizione senza oggetto, forza è che la mente abbia tale facoltà da cangiare in oggetto suo anche ciò che di sua natura, cioè ristretto a se stesso, è meramente soggetto; il che noi dicemmo oggettivare. Ma, notate, egli è uopo che ella faccia questa operazione senza che il soggetto si rimanga dall' essere soggetto come egli è. E così ella fa appunto; poichè se nol facesse non potrebbe mai conoscere i soggetti come pur li conosce. Che se volessimo anche cercare come i soggetti si possano oggettivare senza che perdano la loro natura di soggetti, noi troveremmo che v' ha un primo oggetto, che è l' ente in universale, il quale abbraccia nel suo seno tutti i soggetti, e che questi si oggettivano appunto quando si vedono in lui. Ma lo svolgere questo concetto ci condurrebbe troppo a lungo, e le cose dette innanzi intorno all' ente in universale pel presente nostro bisogno chiariscono la cosa abbastanza per chi ci medita. Veniamo dunque all' altra maniera di cognizione, cioè alla cognizione assoluta, il cui carattere distintivo è d' avere per oggetto un oggetto. Che cosa viene a dire questa locuzione? Non dice due volte la stessa cosa? Appunto, miei signori. Poichè se l' oggetto della cognizione assoluta è già un oggetto; dunque egli non ha più bisogno di essere oggettivato; dunque è atto ad essere conosciuto per se stesso, senza bisogno di farci sopra alcun' altra operazione intermedia; dunque egli è conoscibile immediatamente per se stesso. Ecco che siamo arrivati a trovare ciò che è conoscibile per se, ciò che è intelligibile per la sua propria essenza; poichè niuna cosa è intelligibile se non è oggetto; quindi ciò che è puro oggetto è l' intelligibile stesso, la luce stessa della mente, o come si suol dire volgarmente il lume della ragione. Il soggetto adunque, e le cose che al soggetto si riferiscono o cadono nel soggetto, non sono conoscibili per sè; esse hanno d' uopo d' essere trasferite coll' atto del pensar nostro in ciò che è oggetto per sè e loro contenente quasi in un immenso specchio, e di essere così rese conoscibili partecipando all' oggettività. E quali sieno le cose soggettive noi l' abbiamo veduto, tutte quelle che cadono nel sentimento o che modificano il sentimento, le cose sensibili in una parola, interne ed esterne; l' anima nostra che è il soggetto stesso, e i sentimenti dell' anima, le sensazioni, le qualità sensibili dei corpi, insomma tutto ciò a cui si stende la percezione, tutto ciò che forma la nostra cognizion positiva, tutta la realità nostra propria e quella qualunque realità che agisce nella realità nostra. Se la cosa è così, che dunque concluderemo? Che la realità a noi conosciuta non è per se stessa oggetto dello spirito, ma ha bisogno d' esser prima oggettivata per esser da noi conosciuta: che dunque dee precedere nel nostro spirito ciò che è oggetto per se stesso, l' ente in universale; che la cognizione della realità è posteriore, è necessariamente acquisita, con quell' atto col quale lo spirito stesso la rende a sè conoscibile. Possiamo ora portare giudizio di quel sistema, che pretende di fare la realità stessa oggetto del primitivo intuito dell' anima. In un tal sistema manca la dottrina dei veri caratteri che distinguono ciò che è soggettivo da ciò che è oggettivo. Noi ne parleremo più a lungo nelle susseguenti lezioni. Noi abbiamo fatto fin qui non piccolo viaggio, o signori: abbiamo difesa la distinzione fra l' ideale e il reale contro coloro che tentano di levarla dalla Filosofia, il che è quanto dire che non arrivano a coglierla colle loro menti; abbiamo dimostrato come quella distinzione sia il principio, secondo il quale si devono classificare le cognizioni umane, e investigare la natura propria di ciascuna classe: quindi vedemmo altresì che da lei solamente si può dedurre la dottrina intorno all' intuito naturale dell' ente ed ai confini dello scibile umano; dottrina necessarissima ad evitare gli errori, che tutti a due forme riduconsi: « l' affermare di sapere quel che s' ignora »e « l' affermare d' ignorare quel che si sa ». Vogliamo ora continuarci a derivare nuovi ed importanti corollarj da quella distinzione preziosa che rivendicammo fra l' ideale ed il reale; i quali ci dimostrano com' ella, maneggiata secondo una buona dialettica, ci diviene in mano un' arma potentissima, con cui combattere gli errori più disparati e più perniciosi. Oserei quasi dirvi, che non c' è errore in metafisica che con quella distinzione non si possa abbattere facilmente. Io vi recherò in esempio quell' erroneo e mostruoso sistema di cui più che mai si parla a' nostri tempi, cioè il Panteismo. E che mai diviene questo sistema cimentato alla nostra distinzione? Vediamolo. Primieramente osservate, che il Panteismo è l' errore di una filosofia sintetica, voglio dire esclusivamente sintetica . Infatti fino a tanto che non si è ancora introdotta l' analisi, niente è più facile che confondere Iddio coll' universo. L' uomo allora apprende e pensa tutte le cose come una sola: ella è proprietà della percezione l' unità dell' oggetto, e le prime percezioni abbracciano, per così dire, tutto l' universo; una simile unità si scorge ancora nelle prime riflessioni. Qual meraviglia dunque che al pensiero dei primi investigatori della natura ogni cosa appaja mescolata col tutto; niente ci abbia al loro vedere di distinto, e la Filosofia così cominci col caos come la creazione? Ciò dee sembrare naturalissimo e necessario, e questo spiega come i sistemi panteistici sieno nati nella più remota antichità, e sieno proprj dell' Oriente, dove l' analisi non fece mai progresso alcuno, nè mai nacque o crebbe a buon punto la dialettica. Spiega ancora come in questa nostra Italia, quando i genj della Magna Grecia cominciarono il ciclo della filosofia occidentale, il primo loro pronunciato fu il panteismo. Ricordatevi, miei signori, di Senofane e di Parmenide, che spinse alla perfezione il sistema dal primo abbozzato dell' « Unità assoluta »e della famosa loro formula «en ta panta» (1). Ma un tale sistema non si tenne in piedi: fu assai breve il trionfo, o, per dir meglio, la tirannia che il sistema dell' unità esercitò sulla pluralità da lei assorbita e distrutta. Tostochè Zenone discepolo a Parmenide ridusse a scienza la dialettica (la maggiore invenzione forse che sia mai stata fatta, e tale che basterebbe sola ad illustrare l' Italia), il panteismo non potè più mantenersi; onde si può dire che quegli che più ingegnosamente il difese, qual fu Zenone, ne preparò altresì l' irreparabil caduta, introducendo nelle menti quest' arte analitica, in faccia alla quale esso non può durare e tenersi, la quale era pure stata trovata in suo servigio. Che dunque diremo, miei signori, osservando così di passaggio quella smania di che si mostra agitato alcuno dei presenti scrittori (il Gioberti) d' innalzare a cielo il metodo sintetico, e di deprimere l' analitico, quasichè la sintesi che non sia preceduta dall' analisi possa essere per avventura altra cosa che quello stato appunto d' ignoranza, di rozzezza, di confusione in cui si trovan le menti negli esordj delle nazioni (2)? Per la ragion de' contrarj dimostriamo tosto quanto l' analisi delle cognizioni umane ci spiani dinnanzi una via regia da condurci a vedere la falsità del panteismo, e tagliarlo dalle radici. E da prima, se il panteismo è quell' errore che confonde tutte le cose con Dio, e Dio con tutte le cose, l' errore della confusione, l' errore eminentemente sintetico, o piuttosto la sintesi di tutti gli errori; già si vede pur considerando questa sola condizione di lui, che qualsivoglia grado d' analisi distrugge il panteismo, poichè qualunque distinzione reale e separazione che noi facciamo nelle cose, il panteismo è tolto via: saremo forse caduti in qualche altro errore, ma nel panteismo non più. Pure non è questa, miei signori, l' applicazione che io vi chiamo a fare della nostra analisi alla confutazione del panteismo; ma ho voluto farvi riflettere in generale, che niun sistema analitico può essere panteistico; e perciò il sistema da noi seguito (quello del Rosmini) che viene riconosciuto per eminentemente analitico dagli stessi avversarj, e per questo gli danno biasimo e mala voce, non può essere che lontanissimo dal panteismo; nè quelli possono accusarlo di questo errore, senza cozzare seco medesimi. Poichè queste due qualità che gli vengono date ad un tempo di essere sommamente analitico, e di essere panteistico (quest' ultima però è accusa datagli dal solo Gioberti) sono, per dirlo di nuovo, contradizione. Veniamo dunque a noi: veniamo agli argomenti che escono dai visceri della nostra filosofia, i quali abbattono il panteismo. Noi abbiamo distinto l' ideale dal reale; abbiamo veduto che l' ideale è il fonte di quel cotale infinito che si scorge nello scibile umano, e il reale è il fonte della limitazione di questo stesso scibile . Di qual reale parliamo noi? Di quello che è l' oggetto della nostra percezione; di quello che costituisce il positivo della nostra cognizione; poichè già dicemmo, che la cognizione, in quant' è negativa, è potenzialmente priva d' ogni confine. Ecco dunque che noi con questa importantissima distinzione del reale e dell' ideale, di ciò che è l' oggetto della nostra intuizione, e di ciò che è l' oggetto della nostra percezione, abbiamo tirato una linea di separazione tra il finito e l' infinito, tra le cose contingenti e le cose eterne. Infatti quali sono i caratteri che noi abbiamo assegnato all' essere in universale , che è il proprio e necessario oggetto dell' intuizione, e che è il medesimo che dire l' essere ideale? Questi caratteri furono i più eminenti, cioè, se vi sovvenite, l' eternità, l' impassibilità, l' immutabilità, la necessità, la semplicità ovvero unità e l' infinità. Quali sono all' incontro i caratteri che noi abbiamo assegnati al reale a noi sensibile e percettibile nell' ordine di natura? I caratteri direttamente opposti a que' primi: e quindi la temporalità, la passibilità, la mutabilità, la contingenza, la pluralità e la limitazione. Ora di due qualità contrarie un subietto solo, una sostanza sola, non può averne che una, pel principio di contradizione, che vieta di affermare due qualità contrarie contemporaneamente e sotto lo stesso aspetto del subietto medesimo. Dunque se l' ideale e il reale da noi percettibile hanno proprietà direttamente tra loro contrarie, esse non possono esser un subietto solo, nè una sola natura, ma devon esser due nature affatto tra loro distinte. Ebbene, con questo già voi vedete, o signori, che il panteismo è impossibile. Intanto il reale a noi percettibile non sarà mai Dio; perchè esso ha i caratteri opposti ai divini. Esso è soggetto al tempo, ma la natura divina non soggiace punto alla legge del tempo. Esso è sottoposto alla passione, cioè un reale agisce sull' altro, un reale riceve l' azione dell' altro, ma niente può agire sopra di Dio, il quale è atto purissimo, come dimostra la Teologia, e però è superiore a tutti gli agenti inferiori, che da lui solo ricevono l' esistenza e l' attualità: l' essere reale da noi percepito è mutabile e modificabile, appunto perchè misto di potenza e di atto; ma questo ripugna all' essere divino che è sempre lo stesso: l' essere reale di cui parliamo, è contingente, cioè egli è tale di cui si può pensare tanto che sia, quanto che non sia; ma se di Dio nel suo intero concetto si potesse pensare che non fosse, già non sarebbe più Dio, e il levarlo via col pensiero, è un rendere impossibile il pensiero medesimo, poichè essendo Iddio la prima causa, tutto si distrugge colla distruzione di esso; perciò anche il pensante e il pensiero. L' essere reale, oggetto della percezion nostra, è moltiplice; i corpi sono fuori l' un dell' altro; le anime sono individue, aventi ciascuna un' esistenza tra loro incomunicabile; ma in Dio, non che darsi pluralità di natura, v' ha semplicità sì perfetta, che l' essenza sua non ammette neppure distinzioni reali di sorta alcuna. E finalmente l' essere reale a noi percettibile è d' ogni parte limitato, onde appunto gli accade di esser moltiplice, mentre Iddio è l' essere infinito da tutti i lati, sicchè nulla si può assegnare che il limiti e circoscriva. La distinzione adunque tra l' essere reale , e come oggetto della nostra esperienza e della nostra percezione, dall' essere ideale , oggetto della primitiva nostra intuizione e lume di nostre menti, il quale si riduce in Dio come una sua appartenenza (1), basta ella sola a distruggere ogni sistema di panteismo. Ma noi non dobbiamo accontentarci, miei signori, di questa confutazione universale, benchè irrepugnabile. E sapete perchè non dobbiamo noi accontentarcene? Perchè l' errore fa bene spesso come il ladro, che scacciato da una porta del palazzo entra di soppiatto da un' altra. Egli è vero che la mente che ha una volta bene afferrato l' assurdità d' un sistema, non dovrebbe più ammetterlo per cosa alcuna; egli è vero questo, ma ad una condizione, sapete quale? A condizione che la mente sia coerente seco stessa; e questa condizione appunto assai spesso non si verifica nella povera mente umana. Vediamo dunque, per quali vie l' errore del panteismo potrebbe mettersi furtivamente in essa, il che è quanto dire vediamo quali e quanti sieno que' ragionamenti che portan seco per logica conseguenza il panteismo. E cominciamo da quelli che muovono da un erroneo concetto dell' essere ideale; sarà questo il primo dei sistemi filosofici panteisti, che noi piglieremo a impugnare. Che cosa è, miei signori, l' essere ideale? Noi abbiamo già veduto che cosa egli è in sè stesso, ma all' uopo nostro dobbiamo darne una definizione che ne esprima l' uso. Diremo dunque che l' essere ideale è il mezzo del conoscere . Questa definizione non si può negare. Infatti l' uomo conosce per mezzo delle idee; senz' idee niente egli conosce. Tuttavia ella è una grande questione quella che si fa sulla natura del mezzo del conoscere. Noi che abbiamo distinto l' essere ideale dall' essere reale, abbiamo altresì sostenuto che il mezzo del conoscere è il puro essere ideale distinto dal reale. Ma questo sembra agli avversarj nostri un solenne sproposito; e vogliono che il mezzo con cui la mente umana conosce non sia solamente ideale, ma sia reale altresì; poichè, a loro avviso, ciò che è meramente ideale è nulla, non potendo essi comprendere niun' altra maniera di essere, distinta dalla realità. Ora vediamo un po' qual sarebbe la conseguenza del sistema che gli avversarj nostri vogliono sostituire a quello dell' essere ideale come mezzo dell' umano conoscere. Prima di tutto se l' essere ideale con cui l' uomo conosce è anche reale, quest' essere indubitatamente è Dio; poichè non solo ha tutti i caratteri divini che abbiamo enumerati della eternità, dell' impassibilità, dell' immutabilità, della necessità, della semplicità e della infinità, ma tutti questi caratteri non si restringono più ad essere mere idee, ma costituiscono oggimai un ente sussistente, il quale di conseguenza non può essere altro che Dio; ed essi, gli avversarj nostri, non rifuggono menomamente da questa evidentissima conseguenza, anzi ci confessano che l' oggetto della intuizione primitiva del nostro intelletto è appunto Iddio; e di ciò menan vanto, e pretendono riscuoter lode di filosofi religiosissimi, non senza morder noi d' empietà come quelli che ci dipartiamo dal celebre principio del greco poeta: « a Iove principium ». Ma non crediamo che questo luogo di Arato sia citato a ragione contro di noi; e di più crediamo che convenga, sopra tutto oggidì, guardarsi non meno per avventura che dall' empietà, da una falsa specie di Religione: perocchè conviene ben poco conoscere lo spirito del secol nostro, per non accorgersi, che non è quello dell' irreligione aperta, ma invece è uno spirito grandemente prolifico di sistemi bugiardamente religiosi ed ipocriti: parlo, signori miei di sistemi, e non di sistematizzanti: ed è per ciò che oso dire, che il sistema che ci si contrapone da Vincenzo Gioberti come religiosissimo, senza voler io punto toccare la religione del suo autore, è più che mai panteistico, benchè questo facondissimo scrittore declami con istraordinario zelo, e diciamolo francamente, con un zelo affettato contro di questo errore. Mettiamo dunque in confronto i due sistemi, e vediamo se l' uno o l' altro di essi sia per avventura affine all' empietà panteistica. Cominciamo dal nostro. Onde prendiamo noi la realtà delle cose? Dal sentimento, dal sentimento che ci costituisce, e poi dall' azione delle cose stesse reali su di noi, la quale da noi si sente, secondo la nostra condizione di esseri senzienti. Notate bene, miei signori, che dai nostri avversarj siamo perciò appunto accagionati di sensismo , poichè essi stimano che sia sensismo il prendere la realità dalle sensazioni, e non cavarla dall' intuito di Dio stesso. Ebbene: donde prendiamo noi la idealità delle cose? Non già dal sentimento; il che per tutti quelli che intendono un poco la natura dei sistemi filosofici, sarebbe veramente sensismo; non già dal sentimento, dicevo, ma dall' idea dell' essere in universale . Ora ditemi un poco: diamo noi forse alle cose reali e sussistenti l' idealità? Facciamo noi che l' idealità sia un elemento intrinseco della realità? Mai no; che anzi tutto il nostro studio consiste in tener separata l' idealità dalla realità della cosa, e noi la teniamo così separata, o se meglio vi piace, distinta, che noi la diciamo anzi incomunicabile. Infatti che cosa è l' idealità? Non altro che la cosa universale, possibile . Che cosa è la realità? Non altro che la cosa sussistente . Ora la cosa possibile non è e non può essere in modo alcuno la cosa sussistente. Ma le cose, in quanto sono cose contingenti e create, son elle possibili o sussistenti? Sussistenti, miei signori; poichè il possibile è eterno, e però increato; nè gli si può dare il titolo di creato, se non per esprimere ch' egli ha cominciato ad esistere in un modo distinto nella mente umana; non che egli abbia cominciato ad esistere nella possibilità universale delle cose (nella mente divina). Che servigio adunque presta a noi l' essere possibile? Non altro che quello di farci conoscere le cose sussistenti; poichè altro è la cognizione delle cose sussistenti, e altro la loro stessa sussistenza; senza l' essere possibile risplendente nelle nostre menti, le cose sussistenti non sarebbero a noi conosciute; ma sarebbero nondimeno sussistenti ed altresì sentite. Un' altra ricerca è poi quella, se possano sussistere senza essere conosciute da mente alcuna. Questa ricerca ontologica non appartiene punto nè poco al ragionamento presente. Ma come l' essere possibile, essendo meramente possibile, ci fa egli conoscere le sussistenze? Noi l' abbiamo veduto, noi l' abbiamo già spiegato precedentemente: non è che egli solo ci faccia conoscere le sussistenze, il che sarebbe assurdo; ma egli ci mette in grado di conoscerle all' occasione dei sentimenti; poichè noi mediante l' essere possibile, vediamo le sussistenze possibili, e vedendo le sussistenze possibili, possiamo anche affermarle allorchè le sentiamo, e tostochè le abbiamo affermate, noi le abbiamo conosciute; poichè questa dell' affermazione interiore è l' unica maniera di conoscere le sussistenze: all' incontro datemi un ente, il quale non potesse intuire le sussistenze come possibili (la possibilità delle sussistenze), in tal caso neppure potrà affermarle, e quindi neppur conoscerle come sussistenti, poichè affermare una sussistenza, non è altro che dire a sè stesso, che ciò che si sente è la realizzazione del possibile che s' intuisce. L' essere ideale dunque è per noi la condizione necessaria dell' affermare le sussistenze; non è egli stesso l' affermazione delle sussistenze, e molto meno le sussistenze medesime. Ora quando si afferma la realizzazione del possibile intuíto, non è mica che si affermi il possibile del reale, ciò che sarebbe un assurdo ed una contradizione, ma si afferma il reale come esemplato relativamente al possibile che è l' esemplare. Dunque nel sistema nostro non si predica del reale finito che cade ne' nostri sensi nessuno dei caratteri divini dell' essere possibile, che rimane sempre dal reale distinto; e quindi il divino e l' umano, il necessario e il contingente, restano immensamente e per sempre divisi, inconfusibilmente distinti. Passiamo ora al sistema de' nostri avversarj, nel qual sistema la realità stessa non si prende dal sentimento, come dicevamo, perchè è data nel primo intuito. Ora secondo essi, l' oggetto dell' intuito primitivo, il mezzo con cui l' uomo conosce tutte le cose reali, è Dio stesso. E bene, esaminiamo un poco come faccia l' uomo a conoscere, qual sia la natura dell' atto con cui l' uomo conosce i reali. Si direbbe egli che l' uomo conosca un dato reale, p. e. una casa, senza saper niente di lei? senza saper che sussiste? certo che no. Niente dunque si sa d' una cosa reale, se ignorasene la sussistenza. L' atto dunque, con cui si conosce una cosa reale, involge, come sua condizione intrinseca, che noi nel nostro interno affermiamo la sussistenza di quella cosa. E appunto qui, dicono i nostri avversarj, che essendo Dio l' Ente per essenza, abbiamo bisogno di Dio per conoscere le cose reali, come l' Ente nel quale sono e onde ricevono continuamente la sussistenza per via di creazione. Ma se la cosa è così, argomentiamo in questo modo: noi conosciamo la sussistenza delle cose reali, coll' affermare che esse sussistono, il che è quanto dire, col predicare di esse la sussistenza. Ma questa sussistenza che noi predichiamo di esse e che noi loro attribuiamo, secondo i nostri avversarj è nel primo intuito, il cui oggetto è Dio stesso; dunque l' essere reale di tutte le cose è Dio; dunque affermando le cose, affermiamo Dio; dunque le cose tutte che conosciamo altro non sono finalmente che Dio; l' oggetto del nostro conoscere è sempre Dio, anche quando conosciamo i corpi e gli enti finiti d' ogni maniera; quindi tutte le scienze non sono che Teologia, e l' enciclopedia delle scienze, come dice appunto Vincenzo Gioberti, altro non è che una Religione. Ora ditemi che ve ne pare? Non altro ve ne può parere, io credo, se non che questa dottrina è panteismo apertissimo e manifestissimo. Permettete, miei signori, che io vi legga qui un luogo di questo caldo avversario del sistema da noi seguito, pronti anche dopo di ciò a discutere quanto egli dice per giustificarsi dall' accusa di panteismo che ben prevede dovergli essere apposta. [...OMISSIS...] Io non so, miei signori, come si possa professare il panteismo più apertamente, e come si possa con sincerità niegare di professarlo. Ma osservate diligentemente tutto ciò che afferma il signor Gioberti in questo periodo e le conseguenze che ne verrebbero, benchè certo dobbiamo ad ogni modo credere, contro la volontà dello scrittore. [...OMISSIS...] A dir vero con queste parole si sublimano molto le umane scienze; giacchè si assicura che il Fisico, il Matematico, il Chimico, l' Anatomico, il Fisiologo, ogni scienziato insomma, sia cristiano, sia gentile, turco o ebreo, il quale investighi qualche parte della natura fisica o spirituale, non è niente affatto inferiore al Teologo e neppure al Mistico più sublime, perchè di tutti i suoi studj egli ha sempre egualmente per termine immediato Iddio stesso, e così deve essere: se Iddio è l' oggetto universale del sapere, necessariamente l' oggetto immediato di ogni scienza, ed ogni cosa di cui tratta una scienza qualsiasi, ha per essere suo Iddio stesso. Le scienze così sono, come dicevo, innalzate oltre misura, e come esse si cangiano tutte insieme in una Religione, così i dotti devono essere i sacerdoti di questa nuova Religione; e non devono essere già chiamati sacerdoti per un modo di favellare traslato, ma nel senso il più proprio della parola, in senso veramente filosofico, giacchè nel senso il più proprio, e, siccome l' ultima espressione del suo sistema, il signor Gioberti ci dice, che « Iddio è l' oggetto universale del sapere , » e che tutte le scienze hanno per « termine immediato Dio stesso », e che sono (il che è conseguente) una religione . Certo la cosa dee essere così, miei signori, poichè se l' essere reale che noi predichiamo di tutte le cose reali è Dio stesso, come si sostiene; essendo Dio l' essere di tutte le cose, non si può dare scienza che non abbia per suo termine immediato Iddio. E notate bene, che non dice già solo termine, ma termine immediato, il che esprime propriamente l' oggetto del conoscere, sicchè quando noi conosciamo un legno, l' oggetto del conoscere è Dio; e quando conosciamo una pietra, un ferro, una serpe, uno scarafaggio, un uomo, il diavolo stesso finalmente (scusate se faccio entrare questo personaggio) l' oggetto del nostro conoscere è sempre Dio; Dio stesso è il termine immediato della nostra conoscenza, nè più nè meno. Che ve ne pare, di nuovo vi domando, signori miei? calunniamo noi forse il signor Gioberti? o piuttosto non sono le sue stesse parole stampate alla pagina VI e VII della citata « Avvertenza », che ci dicono tutto questo, e ce lo dicono come un riassunto del suo sistema, come l' espressione dell' intimo suo pensiero, come la formola più esatta della sapienza, quella famosa formola di cui egli parla con tanta compiacenza, e dall' alto della quale compatisce sì poco la nostra ignoranza? Beate adunque le umane scienze che sono divenute la religione del Dio7Mondo! Beati i dotti, che sono divenuti i veri sacerdoti di questo Dio giobertiano! Beati i gentili Confucio, Zoroastro, Budda, Averroè, Leucippo, Democrito, e quanti empj fur celebrati in mezzo al paganesimo o tra i Musulmani per uomini dotti, investigatori della natura, i quali, eziandiochè professassero l' ateismo, avevano però Dio stesso per termine immediato de' loro studj, quel Dio che è sempre l' oggetto universale del sapere! Beati gli Enciclopedisti e tutti gl' increduli d' ogni nazione, che ne' due secoli passati combatterono il Cristianesimo, e fin l' esistenza di Dio, i quali diventano per la giobertiana dottrina altrettanti pontefici del nuovo culto, della nuova religione, che annunzia e predica questo non so se filosofo, o pur profeta! Ed io ben credo che se potessero rinascere, maravigliati di tanta trasformazione, al vedersi unti sacerdoti e pontefici quelli che finchè vissero, bestemmiarono ogni fede ed ogni culto, si dichiarerebbero troppo riconoscenti al signor Gioberti; nè esiterebbero per avventura un istante ad arruolarsi sotto ad un sì nuovo stendardo, se non che, miei signori, io temerei che questo stendardo che si fa ora sventolare agli occhi dell' Italia, sarebbe forse strappato di mano all' ardito antesignano, che tolse ad inalberarlo: poichè e il Waishaupt e il Saint7Simon, ed altri ancora di cotali gerofanti, rivendicherebbero probabilmente a sè la gloria di averlo innalzato i primi, e dichiarerebbero l' Italiano usurpatore della gloria straniera. Davvero che il Padre Enfantin non serebbe l' ultimo ad assalire il nostro bandierajo, e torgli di mano l' insegna, perchè io suppongo, miei signori, che voi siate già al fatto di tutto ciò che scrissero i San7simoniani per dimostrare che tutte le scienze, le arti, il commercio, l' industria, l' agricoltura non è altro che Religione, l' unica Religione, la sola vera Religione, e che perciò appunto Iddio essendo l' uomo e tutte le cose, non c' è bisogno d' altro culto, di altra sacerdotale gerarchia, che il culto delle scienze e delle arti, i cui sacerdoti sono tutti gli uomini dotti, industriosi, e che sanno godere i beni della vita, beni tutti naturalmente divini; e sacerdotesse sono le donne delle stesse attitudini fornite: di che traevano altresì che la disposizione più eccellente ad un tale loro sacerdozio non era altro che l' avvenenza de' corpi, giacchè dicevano e dicono, che tali sacerdoti e tali sacerdotesse debbono esercitare il nuovo loro culto principalmente colla bellezza. Onde codesti inspirati, che dal Saint7Simon presero il nome, trassero già dalla teoria che il Gioberti ora ripete ristretta ne' suoi principj, e ce la dà come un eccellente sistema di vera filosofia, tutte le conseguenze pratiche che da essa legittimamente derivano, e che egli giustamente ricusa e disdice. Ma noi non siamo qui, miei signori, per trattare quasi innanzi a tribunale il diritto di priorità che possa avere l' abate Gioberti all' invenzione del suo sistema sopra i precedenti; non siamo qui per esaminare a qual titolo egli si vanti d' aver nobilitata la scienza, e fattala divenire una specie di culto nobilissimo verso il suo Autore. Siamo qui solamente per esaminare una verità importante al nostro studio, per riconoscere con mature ed imparziali riflessioni, se si possa confondere l' ente ideale col reale, l' idea con cui l' uomo conosce tutte le cose, colla realità di Dio, senza professare con ciò appunto un sistema di panteismo. Poichè io sono ben certo che voi tutti sarete meco d' accordo in questo, che se rimane provato, che dichiarando esser Iddio stesso il mezzo unico e necessario con cui si possono conoscere tutte le cose reali, è lo stesso che fare Iddio l' essere reale e la sostanza di tutte le cose, se ciò sarà provato una volta, dico, non potrà mai più venire un tempo in cui questa dottrina cessi dall' essere panteistica, poichè ciò che è vero una volta è vero sempre, e però non può riuscire che vana la lusinga del signor Gioberti, il quale spera appunto che verrà un tempo in cui non sarà più panteistico il dire che « Iddio è in tutta la scienza » confessando con ciò che, al presente almeno, la sua è una dottrina riputata panteistica. Ma concedetemi che io vi legga anche questo brano, in cui egli va preconizzando i destini della nuova teoria. [...OMISSIS...] E certo la scienza non può essere religiosa, come egli dice, se non è una religione, quando sia vero che l' oggetto d' ogni scienza e di ogni cognizione è Dio stesso. Ma se per l' opposto, l' oggetto e il termine immediato delle scienze naturali non è Dio stesso, converrà dire il contrario, miei signori; converrà dire che il pretendere che la scienza sia irreligiosa sol perchè non è una religione, è un portare le cose all' eccesso, è un confondere due cose ben diverse, la religione e la scienza, e dichiarando la scienza religione, egli è un sagrificare la religione alla scienza. Giacchè non vi ha più bisogno di un' altra religione in tal caso, qualora gli uomini coltivino la scienza, che è già la religione ella stessa: e perciò il fisico, il botanico, l' astronomo non ha più bisogno d' altro culto, che del culto della natura, delle piante, degli animali e degli astri, perocchè questi sono gli oggetti immediati di tali scienze, o son tutti Dio, perchè l' oggetto e il termine immediato della scienza è Dio. Io non so, miei signori, come si possa professare più apertamente il panteismo; ma poichè il nostro signor Gioberti fa almeno le mostre di voler giostrare contro tutti i panteisti anteriori a lui, e quindi dobbiamo credere lontanissimo dall' animo suo un tale errore; ella è cosa equa e necessaria per illustrare questo argomento e investigarne il fondo, che noi ascoltiamo ed esaminiamo diligentissimamente le sue discolpe, e facciamo ogni nostra possa per liberarlo da tanta vergogna, o almeno da tanto abbaglio, se mai ci riesce possibile; se non che non rimanendoci oggi mai più tempo in questa lezione da svolger le ragioni con cui egli toglie a giustificarsi, ne riserveremo la trattazione alla lezione prossima, contentandoci per questa di solo sfiorare l' ampia materia. E per primo fiore che noi possiamo raccogliere ad introduzione della sottile disamina, piglieremo a nostro pro un avvertimento che ci dà lo stesso Gioberti, ed è [...OMISSIS...] Non applichiamo no, miei signori, il titolo di frasi menzognere alle frasi giobertiane, siccome quello che ha una non so qual relazione ingiuriosa coll' animo; ma non sarà indiscreto nè ingiusto che noi chiamiamo magnifiche le frasi che egli adopera, e sotto una veste magnifica si possono certamente coprire anche cenci o piaghe profonde. Onde non ci vorremo noi lasciare illudere al suono delle parole, ma col pensiero semplice e retto cercare i concetti. L' altra cosa che vi farò osservare prima di chiudere la lezione, si è che due sono le strade più generali per le quali si può rovesciare nel panteismo, delle quali il Gioberti non par che conosca se non una sola. Poichè egli è tuttavia certo che una strada conducente al panteismo, è il partir da Dio, e discendendo alle creature, con queste confonderlo; l' altra si è muover dalle creature, e confonderle col Creatore. La prima è il confondere la natura necessaria ed assoluta colla contingente e limitata, ed è propria di quelli i quali, formandosi un' idea grandissima di Dio, non sanno poscia tener da lui le altre cose distinte, ma le fanno assorbire in lui stesso e così indiarsi; la seconda è propria di coloro che più grossolanamente della grandezza dell' universo stupiti lo vengono deificando. Egli è evidente che entrambi riescono al medesimo risultato, benchè i termini da cui muovono siano diversi; poichè vi ha tanto dalla natura a Dio, quanto vi ha da Dio alla natura, e il dire che Iddio è tutte le cose, riesce al medesimo che a dire che tutte le cose sono Dio. Ora coloro che fanno Dio quell' Essere che si afferma e si predica delle cose reali, e col quale si conoscono, sogliono essere di que' panteisti, che avendo precedentemente un' idea grande di Dio, credono magnificarlo vie più col dichiarare che l' essere suo è quell' essere stesso che l' intendimento conosce in tutte le cose reali, e che perciò il termine immediato della cognizione di ogni cosa è Dio. Ma il Gioberti non vuol punto riconoscere questa seconda via per la quale si viene al panteismo, confondendo la natura necessaria colla contingente; che anzi pretende non avervi che un sistema di panteismo, il quale confonde la realità contingente colla realità necessaria. Egli se ne dichiarò espressamente nell' opera degli « Errori », perchè il professore Tarditi aveva scritto che [...OMISSIS...] Ora il Gioberti gli negò recisamente che il panteismo nascesse dal fare che quell' Ente che è il principio del sapere sia altresì il principio e la base delle realità contingenti, anzi egli scrisse così: [...OMISSIS...] . Ma noi sappiamo assai bene, che la confusione della realtà contingente colla realtà necessaria e assoluta è principio generativo del panteismo; ma sappiamo altresì che è ugualmente principio generativo del panteismo la confusione della idealità necessaria e assoluta colla realità contingente (tanto più nel sistema di Gioberti, che ad imitazione di Hegel, chiama e definisce Iddio l' idea); come pure l' identificazione di quella idealità con tutto ciò che non è la stessa realità necessaria e assoluta, ed è questo che ignora e disconosce il signor Gioberti; e però egli ci dà un giusto sospetto, o per dir meglio, ci spiega per qual via egli pervenne al suo errore, ignorando dove tal via conduce. Poichè escludendo egli uno dei sistemi di panteismo, pretendendo che non ci sia che l' altro dei due grandi sistemi da noi indicati, non riconoscendo che una sola delle due vie che mettono a tale errore, qual meraviglia, miei signori, ch' egli sia, e nieghi ciò nondimeno di essere panteista? Il suo sistema panteistico è appunto quello che egli disconosce, la via per cui egli se ne va a precipitarvi è appunto quella che egli ignora, o dichiara ignorare che meni a tal termine. Ma d' altra parte come può egli ignorar ciò? quali almeno sono le ragioni, alle quali affidato, pretende che non è punto nè poco infetta di panteismo quella dottrina ch' egli professa, e colla quale sostiene a rigor di parola, che il termine immediato di ogni cognizione naturale è Dio, che Dio è l' oggetto universale del sapere? Questo, come vi dicevo, è ciò che nella prossima lezione servirà di tema al nostro ragionamento. Avete veduto, o signori, in qual maniera il signor Gioberti pensi di medicare e rimpastare il sistema rosminiano per allontanarsi più che mai dall' empietà panteistica da lui tanto detestata ed abborrita. Noi per ispiegare la cognizione delle cose reali, e principalmente la percezione intellettiva, ricorrevamo col Rosmini non meno che col senso comune, all' azione che esse esercitano immediatamente sopra di noi producendoci i sentimenti. Ma poichè quest' azione e questi sentimenti non possono esser più che materia di cognizione, cercavamo poi il formale della cognizione in un elemento divino, cioè nell' essere possibile, che è l' intelligibile stesso. Noi abbiamo posta tutta la cura per non confondere l' idea elemento divino con cui si conosce, colla cosa reale che affermando si conosce, la quale, se parlasi di cose create, è contingente: e così ponendo un muro di separazione insuperabile tra la cosa contingente e l' elemento divino con cui ella si conosce, credevamo d' avere estirpato il panteismo fino dalle radici. Ma il signor Gioberti grida all' incontro con altissima voce, che noi siamo appunto per questo panteisti, perchè abbiamo elevato questo gran muro che separa il divino dall' umano, e che egli solo ha trovata la via di annientare quest' errore perniciosissimo coll' atterrare del tutto il muro di divisione da noi eretto. E come procede egli in questo suo trovato? Voi l' avete veduto, col negare fieramente che gli uomini prendano dal sentimento la materia della cognizione dei reali, e coll' affermare che essi prendano tanto la materia, quanto la forma di questa cognizione, tanto l' elemento ideale, quanto l' elemento reale de' contingenti in Dio stesso percepito da noi, com' egli pretende, per un naturale intuito, di maniera che Iddio sia sempre l' oggetto universale del sapere e tutte le scienze abbiano per loro termine immediato Dio stesso, e sieno una religione! Tale è la pretensione del signor Gioberti, ed io credo, come v' ho detto nella precedente lezione, che deva essere tanto difficile ad ogni uomo di buon senso il capire come si possa evitare il panteismo cercando nella natura divina la realità delle cose contingenti, quant' è difficile il capire come si possa accusare di panteismo una filosofia che toglie la realità delle cose contingenti da queste stesse cose, e non ricorre all' elemento divino se non per ispiegare la loro cognizione. Ma poichè il signor Gioberti stesso pur sente d' aver bisogno d' una apologia e d' una difesa contro il sospetto di panteismo; egli si sbraccia a difendersi, ed è questa apologia che noi ci siamo proposti di esaminare nella lezione presente con tutta la possibile equità e discrezione. In primo deve esser cosa bella ed intesa con noi, che il protestare e gridare di non esser panteista, come pure il dare generosamente quest' accusa agli altri, questo solo non iscioglie la questione, perchè in filosofia non vale il cicaleccio, ma la ragione; non vale fare lo spavaldo, ma convien fare il filosofo; onde tutte le declamazioni del signor Gioberti contro gli altri sistemi, e specialmente contro quelli da cui egli ha preso di più, e tutte le magnifiche lodi che dà a sè stesso, non devono, miei signori, entrare in conto: e qui noi dobbiamo, se vogliamo trovare il vero e non bere grosso, cancellarle coll' imaginazione nostra da' suoi volumi senza compassione di renderli, così facendo, piccini piccini, o, per usare una parola sua, assai mingherlini. In secondo luogo egli stesso ci avverte di non lasciarci illudere, come avete udito, « dalle frasi magnifiche e menzognere che talvolta adoperano i panteisti »; il che dee valere anche per lui finattanto che non è purgato intieramente dal sospetto di panteismo ch' egli stesso teme d' incorrere; benchè predica che verrà un tempo in cui non si avrà più per panteistico il dire quel ch' egli dice, cioè che « « Iddio è in tutta la scienza » », frase che contiene il sistema da lui professato e con che egli viene a riconoscere che al presente almeno quella frase nel senso datole è riconosciuta per panteistica. Oltre ciò, dopo aver egli scritto nel 1.40, nell' « Introduzione allo studio della filosofia », che Iddio è « « l' oggetto universale del sapere » », tre anni dopo, cioè nel 1.43, nell' opera « del Buono » confessò che questa frase è equivoca, e che per lo meno uno de' suoi sensi è apertamente panteistico, benchè egli l' abbia pronunciata assolutamente, e senza distinzione, come quella che esprimeva nel modo più proprio tutta la sua dottrina. Udite, o signori, la sua confessione nell' Avvertenza premessa all' opera « del Buono » [...OMISSIS...] . Se dunque questa frase si può prendere anche in senso eterodosso e panteistico, perchè l' ha egli pronunciata assolutamente ed incondizionatamente? perchè ha lasciato che tutto il mondo per ben tre anni la considerasse come l' espressione più fedele del suo sistema? Ma via, posciachè ora egli stima bene di ritrattarsi in parte, cioè di ritrattare l' uno de' due sensi che può avere quella frase, vediamo con quali argomenti dimostri, che nel suo sistema essa debba avere un senso ortodosso. Egli avverte, che i panteisti [...OMISSIS...] . Io non mi fermerò, o signori, ad osservare la poca proprietà filosofica di que' suoi dati scientifici, frase tutta sua; ma piuttosto domanderò se l' oggetto del sapere possa essere la sola forma senza la materia, o la materia senza la forma. P. e. il fisico che parla delle diverse specie di sostanze corporee, prende forse ad oggetto della sua dottrina i corpi spogliati di materia? o volendo esporre la scienza dell' uomo potrà l' antropologista parlare d' un uomo non composto di carne e di ossa? I corpi celesti che sono l' oggetto dell' astronomia si possono concepire privi al tutto d' ogni materia e d' ogni realità? e in generale quando le scienze trattano di esseri reali, e non puramente ideali, si può egli dire che il loro oggetto debba esser privo di materia ossia di realità? Poichè non si parla già qui di materia o di realità individuata, ma della materia de' dati scientifici che è materia e realità comune e specifica. Laonde, se i panteisti sotto il nome d' oggetto del sapere intendano la forma o idea dei dati scientifici, e la loro materia egualmente, niuno potrà accagionarli per questo d' errore, finchè si parla di scienze che hanno esseri determinati per loro oggetto, quando non si voglia dire che l' oggetto di un tal sapere sia costituito dalla sola forma senza più contro a ciò che si propone la scienza. Dove sta adunque l' errore dei panteisti? non già nella definizione dell' oggetto del sapere, che loro attribuisce il signor Gioberti, ma bensì nel pretendere che quest' oggetto sia Dio. Ma questo è appunto quello che pretende Vincenzo Gioberti. Egli l' ha detto, l' ha replicato in termini espressi, ha pronunciato solennemente che Iddio stesso è il termine immediato di tutte le scienze di cui si compone l' Enciclopedia, e che questa è una religione, e che Iddio stesso è l' oggetto universale del sapere, e lo provò di qui che non si deve prendere la materia della cognizione nostra dal sentimento, come fa il Rosmini col senso comune degli uomini e delle scuole, ma si deve trovarla in Dio, che è l' oggetto del nostro intuito; imperocchè che cosa è la materia del sapere, se non la realtà delle cose che si conoscono, o al più la cognizione di questa realtà? Onde se il signor Gioberti non credesse, come egli dice che fanno i panteisti, che per l' oggetto delle scienze fisiche si debba intendere la forma de' dati scientifici e la materia egualmente, invano avrebbe riposto fra i pretesi errori del Rosmini questo, che egli toglie la materia della cognizione da' sensi, e non da Dio oggetto dell' intuito. E voi già vi sovvenite quanto il Gioberti lungamente si sbracci per provare che non è mica vero che la cognizione di un essere reale p. e. d' un corpo sia composta di due elementi assolutamente distinti, l' uno de' quali divino ed ideale, l' altro contingente e reale ricevuto nel nostro sentimento; da due elementi, dico, che un giudicio dell' uomo copula insieme in un' affermazione; egli pretende anzi che questi due elementi l' idea e la realità sentita da noi non abbiano alcuna reale distinzione, e quindi non possano essere termini di alcun giudicio, ma si percepiscano come un concetto semplice, di modo che l' idea e la realità contingente (notate bene contingente) formi un oggetto solo al tutto indivisibile, oggetto del nostro intuito, il quale è la sostanza delle cose, ed è Dio stesso. Risovvenitevi del Capo IV della sua « Introduzione allo studio della Filosofia », dove questo suo concetto è ampiamente sviluppato, e per ajutare la vostra memoria ve ne leggerò qualche passo. Al N. 3 del citato capitolo egli prende a confutare questa proposizione del professor Tarditi: [...OMISSIS...] Ora egli sostiene che qui non vi ha giudizio, ma semplice concetto. Ma udiamo lui stesso. Proposta la questione da che nasca, e in che consista il concetto della concretezza e della individualità delle cose, incomincia a dire [...OMISSIS...] Era facile, voi il vedete, rispondere a questa interrogazione, bastando dire che il concetto del concreto e dell' individuo è generico anch' esso, perchè esprime ogni concreto ed ogni individuo; onde la difficoltà da lui proposta non esiste, ma è da lui sognata. Ma invece di trovare una risposta sì facile, al Gioberti piace rispondere così: [...OMISSIS...] . Io credo che voi altri stupirete a queste parole. Stupirete a sentire che vi fu al mondo un uomo che negò, che l' idea della concretezza sia un' idea, il che è quanto dire che il nero sia il nero, e che il bianco sia il bianco. Io non ho mai saputo, che vi sia stato un tal uomo al mondo, e molto meno un filosofo; ma il signor Gioberti ci fa sapere che questo povero goffo è il Rosmini. Peccato che non abbia indicato dove il Rosmini abbia parlato così! Ma via, non perdiam tempo, posciachè in tutte le opere del Rosmini dal principio alla fine si cercherebbe indarno una cosa simile: egli è uopo conchiudere, o che il signor Gioberti abbia traveduto, ovvero che il suo sistema non possa esser sostenuto, se non avanzando sì gravi errori di fatto. Proseguiamo dunque a sentire il ragionamento, col quale il Gioberti pretende che noi conosciamo la realità delle cose, dico delle cose contingenti, notate, per un immediato intuito di Dio, di maniera che Iddio riesca sempre il termine immediato del nostro sapere. Così egli la discorre. [...OMISSIS...] Voi avete udito! Gli esseri contingenti, la realità individuale si conosce per un intuito speciale e diretto, il quale ci rivela non la sola corteccia, ma la sostanza delle cose. Ora l' oggetto di quest' intuito, come oggetto immediato di ogni sapere, secondo il Gioberti, è Dio; nè può esser altro, perocchè se potesse essere qualche cos' altro, già egli non sarebbe più bisogno di spendere tante parole al Gioberti per ispiegare come si conosca la realità individuale. Che cosa dunque ci rivela l' intuito? nient' altro ci può rivelare se non il suo oggetto. Ma da una parte si dice che questo oggetto è Dio, dall' altra si dice, che quest' oggetto che ci si rivela è « « non solo la corteccia, ma ben anco la sostanza delle cose ». » Or pel principio che due cose eguali a una terza sono uguali tra di loro, ne viene irrepugnabilmente che Iddio è « « non solo la corteccia, ma ben anco la sostanza delle cose ». » Non siamo noi nella sostanza universale dello Spinoza? se non anco più in là, giacchè Iddio, secondo le citate parole del Gioberti, è non solo la sostanza, ma anco la corteccia delle cose? Noi siamo pervenuti a questo risultato per una dimostrazione altrettanto esatta, quanto le dimostrazioni matematiche. Il qual risultato noi l' abbiamo colto in sulla via, perchè ci veniva tra' piedi, senza che fosse propriamente l' intento del nostro ragionamento. Noi volevamo far osservare che il Gioberti pretende che si conosca la realità delle cose contingenti per un intuito semplice e indivisibile, e non per un giudicio risultante da due termini, l' idea (o per dir meglio, l' essenza che si vede nell' idea) e il sentimento reale. Infatti tutto il discorso suo tende a provare la tesi che questi due termini non esistono, ma ne esiste un solo, che è l' ente reale indivisibile affatto in sè stesso, in quant' è oggetto del primo intuito, Iddio: egli sostiene, che l' essere possibile si trova dalla mente colla riflessione dopo il reale che è l' oggetto dell' intuito. [...OMISSIS...] Dal quale passo si vede che il Gioberti nega espressamente che il reale oggetto dell' intuito sia composto, o si possa dividere realmente, e sola la riflessione lo divide astraendo da esso il possibile. Ora il reale che è l' oggetto dell' intuito contiene per conseguente non solo la forma o idea, ma anche la materia del conoscere, sicchè la riflessione che sopravviene non può aggiungervi nulla, ma solo analizzarlo mentalmente, su di che mi riserbo, o signori, a farvi in altro luogo delle speciali osservazioni. Dunque se l' oggetto dell' intuito è indivisibile, e contiene ugualmente la materia e la forma del sapere, come potrà il Gioberti condannare i panteisti per questo che essi « « intendono sotto il nome d' oggetto la forma o idea dei dati scientifici, e la loro materia egualmente » » senza condannare sè stesso? E se sono i panteisti che « « quando dicono che esso Dio è l' oggetto universale del sapere, intendono sotto il nome di oggetto la forma o idea dei dati scientifici e la loro materia egualmente » », non dovrà temere il signor Gioberti di essere annoverato appunto fra essi, posciachè sostiene che la materia e la forma del sapere, la realità e l' idealità, non si congiungono dall' uomo con un giudicio come è uopo che avvenga se sono due cose; ma si comprendono in un concetto solo, e si hanno unite nell' oggetto dell' intuito, che è Dio, oggetto universale del sapere? Di poi osservate ancora incostanza di parlare. Questo autore afferma che, [...OMISSIS...] ; il che è quanto dire che per evitare il panteismo conviene dividere il conoscimento delle cose contingenti in IDEA o forma, e in MATERIA. Ora voi ben sapete che questo è appunto quello che facemmo noi col Rosmini; onde a detta del signor Gioberti, la nostra maniera di filosofare dovrebbe appunto essere la via sicura di evitare il panteismo. Non crediate: il Gioberti vuole tutt' altro: vuole anzi la confusione in uno stesso concetto della materia colla forma del sapere: ed è implacabile contro il Rosmini, perchè divise saviamente que' due elementi. Ma di più, che cosa egli intenda per Idea, l' avete udito poco fa: vi richiamerò le sue parole: [...OMISSIS...] . Nell' idea dunque, secondo il Gioberti, si contiene la REALITA`, anzi ella è la realità stessa; dalla quale colla riflessione si astrae poscia la possibilità. Se dunque l' idea contiene tutto, la realità come anche la possibilità, in che modo poi egli vuole che si distingua l' idea dalla materia del sapere? in che modo dichiara panteismo il non distinguere que' due elementi, ma fare che nell' oggetto del sapere si comprenda tanto l' idea quanto la materia? che cosa è, o può essere la materia del sapere, se non la realità? E se nell' idea vi è già prima di tutto la realità, che cosa può rimanere fuori di lei e che sia atto a costituire una materia del sapere, distinta dall' idea stessa? O si dee dunque distinguere l' idea che contiene la possibilità dell' ente contingente, dalla realità di quest' ente, e allora vi ha distinzione tra la forma e la materia del sapere, ed è evitato il panteismo, il che fa appunto il Rosmini; ovvero si dee dire che l' idea è la realità dell' ente onde poi si astrae la possibilità, ed allora non vi ha distinzione possibile tra la forma e la materia del sapere, e si cade nel panteismo, il che fa il Gioberti. Ma il Gioberti stesso insegna che se non si distingue la materia dalla forma del sapere, e si fa che entrambi sieno oggetto dell' intuito, il panteismo è irreparabile. Dunque il Gioberti stesso si fa la sentenza, e noi siamo costretti a dichiararlo panteista, se vogliamo attenerci alla sua propria confessione. Tornando dunque alla definizione dell' oggetto del sapere, no, l' empietà de' panteisti non istà in pretendere che l' oggetto del sapere umano abbracci la forma e la materia egualmente: qui non vi ha errore di sorta; la forma e la materia del sapere è egualmente necessaria a costituirne l' oggetto, o per dir meglio, certi oggetti, e non si può dividere trattandosi di enti contingenti; imperciocchè, badate bene, miei signori, il Gioberti vi confonde due questioni che sono separatissime: la prima « se l' essere ideale sia Dio o no »: la seconda « se noi conosciamo i reali contingenti coll' idea e col sentimento, ovvero collo stesso Dio7Idea, di modo che quando conosciamo un reale contingente, l' oggetto del nostro conoscere sia Dio stesso ». Ora è questa seconda questione che noi al presente trattiamo, e non la prima, e il Gioberti la risolve affermativamente. Ma posciachè il dire che, quando conosciamo i reali contingenti, allora l' oggetto del nostro conoscere è lo stesso Dio, altro non è che un manifestissimo panteismo; quindi il Gioberti per iscansare in qualche modo tale conseguenza, qui senza paura di contradirsi viene con noi, e ci divide in due parti l' oggetto del conoscere, cioè nella forma o idea e nella materia, e dice che l' errore del panteismo sta nel non fare questa divisione: nè si ricorda più, o mostra almeno di non ricordarsi che prima, nell' « Introduzione allo studio della Filosofia », aveva insegnato, che ogni oggetto del conoscere si riduce all' oggetto dell' intuito, e che l' oggetto dell' intuito è reale, uno e indivisibile, e che il possibile si trova poscia in esso per astrazione. Quindi egli non aveva certamente diritto di scrivere così: [...OMISSIS...] . Perocchè in prima, quando noi conosciamo un corpo, abbiamo per oggetto del nostro conoscere la materia delle forze finite, e se non avessimo questa materia delle forze finite per oggetto del nostro atto conoscitivo, non conosceremmo mai un corpo. In secondo luogo egli dice, che in questa materia delle forze finite riluce l' idea, la quale è Dio stesso: ma in tal caso, quando noi conosciamo un corpo, il nostro conoscere avrebbe due oggetti e non un solo, l' un oggetto sarebbe l' idea che è Dio, che non si può confondere colle forze finite, senza cadere nel panteismo che si vuole evitare, l' altro oggetto sarebbe la materia delle forze finite che costituisce il corpo e che non è Dio. Ed egli sembra che così voglia dire, laddove scrive, che egli move il suo ragionare [...OMISSIS...] ; lasciando da parte la strana improprietà di applicare a Dio la denominazione di concreto, mentre tutta la Teologia insegna che Iddio non è un concreto. Ora se l' atto di conoscere ha un doppio concreto, ognuno che conosce un corpo dovrebbe conoscer due cose, Dio e il corpo, il che si oppone troppo al senso comune per farcelo ingozzare; poichè niuno quando conosce un corpo dice mai di conoscere Dio ed il corpo. Dipoi, se chi conosce un corpo conosce questi due oggetti, certo è che egli non li deve confondere, bensì distinguere tra loro, li deve cioè distinguer tanto quanto sono distinti in sè stessi; e poichè sono distinti immensamente, infinitamente, perciò nel suo supposto chi conosce un corpo dee collo stesso atto conoscere l' infinita differenza che corre tra il corpo che conosce e Iddio che pure conosce. Perocchè sarebbe un assurdo contrario all' esperienza ed al senso comune il dire che ognuno che conosce un corpo, conosce Iddio e il corpo in modo che faccia di questi due oggetti un pasticcio, prendendoli per un solo oggetto. E pure il Gioberti nel luogo citato, in cui prende a separare il suo sistema dal panteismo, parla di un oggetto solo, nel quale distingue la materia dalla forma. Ma o convien dire, che il corpo non sia mai oggetto del conoscimento dell' uomo, ma solo Iddio anche quando l' uomo crede conoscere un corpo, il che è marcio panteismo; o convien dire, che chi conosce un corpo, conosce solamente un corpo e non Dio, conosce la materia delle forze finite sotto una sua propria forma e non più, il che si oppone a quanto insegna il Gioberti; o finalmente convien dire, che conosce bensì Iddio e il corpo, ma di questi due oggetti ne fa un solo oggetto, il che, a detta dello stesso Gioberti, è quello che di nuovo i panteisti fanno, [...OMISSIS...] . Notate, miei signori, che questa nostra argomentazione non ha già bisogno di cercare come si conosca il corpo, limitandosi a cercar solo se il corpo, ossia la materia delle forze finite si conosca sì o no; e se si conosce sola, o con Dio, in modo che Dio sia l' oggetto del conoscere; e conoscendosi insieme con Dio, se si distingua o si confonda con esso Dio. Osservate ancora che il Gioberti dice che l' Idea, cioè Dio, riluce nella materia delle forze finite. Ora come possiamo noi sapere che vi riluca, se non supponendo di conoscer la materia delle forze finite, dove l' Idea, cioè Dio, riluce? Converrebbe dunque supporre che noi vedessimo e conoscessimo Dio vedendo e conoscendo le forze finite dove egli riluce; e in tal caso la materia delle forze finite sarebbe l' oggetto precedente del nostro conoscere e il contenente; e Iddio, ossia l' Idea sarebbe l' oggetto susseguente e il contenuto. La materia dunque delle forze finite si conoscerebbe per sè stessa, e Iddio, ossia l' idea giobertiana, per via della materia! Assurdo che il Gioberti sicuramente rifiuta, benchè implicitamente il pronunci. Ma dopo aver veduto che, secondo la giobertiana dottrina, quando l' uomo conosce un corpo dovrebbe conoscer due oggetti immensamente distinti e inconfondibili tra loro, e quali e quanti assurdi da ciò derivino; vediamo anche il come voglia il Gioberti che si conosca la materia delle forze finite che egli fa sinonimo alla sostanza delle cose create . Udiamolo attentamente. [...OMISSIS...] . Queste ultime parole escludono, miei signori, la volontà di esser panteista: ma la dichiarazione di non esser panteista, (la quale è frequente nel Gioberti, e però noi non attribuiremo mai un tale errore alla sua persona) esclude ella altresì il panteismo che si trova nelle parole precedenti? Certo presso i veri panteisti la dichiarazione di non esser panteista non val nulla, perchè sono di quelle frasi magnifiche e menzognere, che essi talora adoperano, e dalle quali il Gioberti già ci mise in gran guardia. In fatti abbiamo veduto che l' oggetto scientifico, quando si tratta di conoscere oggetti finiti, è composto, secondo lo stesso Gioberti, di materia e di forma; e che la forma è l' idea la quale è Dio stesso. Iddio dunque, secondo quest' autore, viene in composizione colla materia corporea, ed insieme con essa costituisce l' oggetto del sapere; ma s' udì mai che Iddio possa venire in composizione con cos' alcuna, e in composizione sì stretta da formare un solo oggetto scientifico, un composto di materia e di forma, di cui Iddio sia la forma? All' incontro, basta conoscere i primi elementi della Teologia per sapere che Iddio è purissimo e tale che non si può mescolare con cosa alcuna fino a formare con essa un solo oggetto. Nè vale già il dire, qui si tratta d' oggetto scientifico, e non d' oggetto reale, perocchè il Gioberti esclude affatto questa ritirata, sostenendo che l' ordine che hanno le cose nella mente è quello stesso nè più nè meno che esse hanno al di fuori della mente; e al professor Tarditi fa colpa dell' aver distinti col Rosmini questi due ordini, e assegnate le lor proprie leggi a ciascuno. E qui notate, o cari signori, che questo principio che l' ordine delle cose nella mente sia quello stesso dell' ordine delle cose fuori della mente, fu sempre graditissimo ai panteisti tutti, siccome quello che mirabilmente giova al loro sistema. Nè sarà inutile raffrontare a questo proposito la maniera di pensare dello Spinosa con quella di Vincenzo Gioberti, il che farò colle parole di un recente storico della Filosofia che così espone il pensiero dello Spinosa: [...OMISSIS...] Io lascio riflettere a voi stessi sull' eco che di questa dottrina voi trovate nel Gioberti. Il quale anche nel passo ultimamente di lui citato ripete che [...OMISSIS...] ; il che è quanto dire che quando il pensiero pensa la materia creata (notate bene, la materia e non più la forma), pensa Dio stesso. Ed avvertite la ragione che egli dà di questa sentenza, perchè dice, « « la materia creata non si può disgiungere dall' azione creatrice » ». La qual ragione acciocchè sia efficace a provare l' assunto, dee voler dire che la materia creata è così congiunta coll' azione creatrice che forma con essa una cosa sola pensabile; perocchè se non formasse con essa una cosa sola, non potrebbe giammai formare un solo ed unico oggetto del sapere, come vuol provare il nostro filosofo. Che se la materia creata forma una cosa sola coll' azione creatrice, in modo da costituire un solo ed unico oggetto del sapere, forz' è che la materia creata formi una cosa sola con Dio, perocchè l' azione creatrice è Dio stesso, e d' altra parte Dio appunto, a detta del Gioberti, è l' oggetto immediato ed universale del sapere. Se dunque la materia creata e Dio sono una cosa sola, e tale che non si possono pensare divisi come due oggetti (se non solo forse per quell' astrazione che succede al primo intuito, e che, secondo il Gioberti, divide anche l' indivisibile), varrà egli punto a fare, che un tal sistema non sia manifestissimo panteismo, la dichiarazione aggiunta che anche rispetto alla materia creata « « l' oggetto scientifico è Iddio stesso, non come identico alle sue fatture, ma come causa creante e immanente di esse »? » O non converrà piuttosto conciliare questa dichiarazione con quel che precede? Perocchè una tale dichiarazione è infatti conciliabile, miei signori, colla dottrina precedente, avendo ella un senso che può star bene nella bocca di qualunque compiuto panteista ed emanatista. Poichè l' emanatista è già panteista facendo che Iddio e le creature sieno della stessa sostanza, senza che tuttavia egli dica che Iddio sia identico colla sua fattura, che anzi egli distingue benissimo l' emanante dall' emanato. Ma il sistema giobertiano, stando alle sue frasi, è un panteismo ancora più solenne e più compiuto. Perocchè l' emanatista fa, è vero, che la sostanza di Dio sia quella stessa delle sue fatture, ma alla fine, lungi dal fare che Dio emanante e le sue fatture emanate sieno lo stesso oggetto, ne fa due oggetti distinti; quando all' incontro il signor Gioberti dice che questo è impossibile, e che non possono essere che un oggetto solo, benchè poscia la sopravveniente astrazione li distingua. Onde se per l' emanatista, Iddio e le sue fatture non sono identiche, perchè formano due oggetti realmente distinti, benchè d' una stessa sostanza; pel signor Gioberti Iddio e le sue fatture (quantunque formino un solo e medesimo oggetto del pensiero) non sono identici, unicamente perchè l' astrazione poi distinguendoli toglie loro l' identità, e così ci mette una semplice distinzione di ragione. Di che conchiude il Gioberti con quella frase che adopera spesso anche lo Spinosa, cioè che « « Iddio è causa creante e immanente di esse » », perchè forma con esse un oggetto solo, nel quale poi la nostra astrazione distingue causa ed effetto; ma come il signor gioberti concepisca la causalità e la creazione, senza che punto nè poco rechino offesa al suo panteismo, noi lo vedremo meglio fra poco. Facciamo ora un passo indietro e supponiamo che noi non leggessimo nelle opere del signor Gioberti che [...OMISSIS...] . Supponiamo che egli si ristringesse a dire che Iddio è l' oggetto del sapere solamente in quanto alla sola forma. Che ne avremo, o signori? avremo evitato con ciò il panteismo, o supponendo che sì, avremo evitato ogni altro errore, avremo una filosofia veramente sana? Vediamolo. a) Primieramente quand' anco si trattasse d' idee nel senso in cui solitamente le intendono i filosofi, e non nel senso giobertiano, secondo il quale la stessa realità è in esse e propria di esse, ditemi, o signori, parrebbe egli a voi che si potesse riputare una proposizione del tutto ortodossa questa, che « « le idee delle cose finite sieno Dio stesso » »? Io non so, a dir vero, se si possa asserire ch' essa sia stata precisamente condannata dalla Chiesa in Wicleffo (1), ma certo a me sembra manifestamente erronea, giacchè nè in ciascuna nè in tutte insieme tali idee si può trovare quello che è necessario all' essenza divina, nè per fermo si potrà mai dire, che l' intuire tali idee così moltiplici e limitate siccome sono, sia intuire Dio stesso. b) Di poi, quanto non s' accresce l' errore se si considera, che pel Gioberti l' idee sono reali, e non contengono la sola possibilità delle cose, che anzi questa possibilità, secondo lui, è soggettiva, cioè prodotta dalla riflessione ed astrazione dell' uomo, che la distacca dirò così dall' idea nella sua concretezza? Con questo dogma filosofico il panteismo ideologico di Wicleffo diviene di più un panteismo materiale ed assoluto. c) Finalmente e a conferma appunto di questo, si consideri che se fosse altramente, secondo la dottrina del Gioberti, cioè se quando conosciamo un corpo, l' oggetto del nostro conoscere fosse bensì composto di forma e di materia, ma la sola forma fosse Dio; resterebbe a domandarsi, se il detto oggetto del conoscere sia realmente solubile in due oggetti, ovvero rimanga un oggetto solo. Poichè se rimane un oggetto solo, siamo da capo. E questo conferma veramente il Gioberti quando dice che [...OMISSIS...] . Nelle quali parole la forma cioè Dio, si conjuga colla materia, cioè col corpo, e quindi costituisce con esso un solo oggetto; e in questa conjugazione, per cui Iddio diventa un oggetto solo col corpo, sta, dice il Gioberti, « la sintesi maravigliosa dell' intuito umano ». Da cui trae questo conseguente, che [...OMISSIS...] . Notate bene: dall' avere egli ammesso a principio che Iddio è l' oggetto del sapere rispetto alla forma, è venuto poi quasi come per una conseguenza indeclinabile a concedere, che quando conosciamo un corpo materiale, lo stesso Iddio sia l' oggetto scientifico anche rispetto alla materia creata; per la ragione appunto, che questa non si può disgiungere dall' azione creatrice, la quale azione è Dio stesso. E in fatti egli dovea precipitare a questo contradittorio risultato, poichè se Iddio non fosse, secondo lui, l' oggetto del conoscer nostro, anche quando il conoscer nostro ha per oggetto la materia creata, egli non avrebbe impugnato il sistema del Rosmini, che fa venire la cognizione della materia dal sentimento, e non avrebbe detto che l' oggetto dell' intuito dovea essere un reale, acciocchè in lui potessimo trovare e conoscere la realità delle cose contingenti, delle quali si parla; senza di che questa realità non sarebbe stata conoscibile. Conchiudiamo dunque questa lezione. Panteisti son quelli che, « quando dicono che Dio è l' oggetto universale del sapere, intendono sotto il nome d' oggetto la forma o idea dei dati scientifici, e la loro materia egualmente ». Ma Vincenzo Gioberti insegna, che « « non solo rispetto alla forma, ma anche rispetto alla materia l' oggetto scientifico è Iddio stesso » ». La conclusione non è bisogno che la tiriamo noi, miei signori; ma viene da sè. Ripetiamo che non vogliamo attribuire la panteistica empietà all' animo del signor Gioberti, ma noi non sappiamo come purgarne il sistema. Nella precedente lezione noi abbiamo udite le giustificazioni, colle quali il signor Gioberti cerca di purgare il suo sistema dall' empietà panteistica, e, dopo esaminatele il più accuratamente che noi abbiamo saputo e imparzialmente, dovemmo convincerci ch' elle sono insufficienti. Tuttavia non dobbiamo tenercene a pieno contenti, miei signori; dobbiamo continuare nella ricerca, penetrare più addentro, considerare altri brani delle opere d' un autore, che fu letto avidamente in qualche parte di questa nostra penisola. Ciò noi dobbiamo per doppia ragione. La prima, perchè, se mai ci riesce di averne il lietissimo risultato, che il giobertiano sistema vada immune veramente da un tanto errore, noi avremmo non solo provveduto al buon nome del suo autore, ma ben anco al buon nome di tutti coloro che gli furono larghi di prontissimi ed amplissimi encomj. La seconda, che se per opposto noi avessimo il dolore di rinvenire il fatto contrario, in così rincrescevol termine dovrebbe pur confortarci il vantaggio che per avventura potrebbero ritrarre i nostri connazionali dalla nostra discussione. Imperocchè egli è troppo importante, o signori, di ben guardare e premunire questa nostra terra italiana, che per pietà e per buon senso a niuna cede di quante in potenza la vincono, all' invasione che la minaccia dei mostruosi sistemi stranieri, quali sono quelli che straziano sì crudelmente i visceri della Germania, de' quali indubitatamente il Gioberti s' industria di trapiantare almeno le frasi, se non i concetti, nel nostro suolo. Cominciamo adunque subito, se vi piace, a leggere qualche altra pagina del Gioberti, e vedere che cosa vi troviamo a sua discolpa. [...OMISSIS...] . Qui subitamente già troppe cose ci si presentano, troppe cose ci si rivelano. La prima si è, che l' idealità si dichiara separabile nell' ordine delle cose contingenti. Dunque almeno in quest' ordine può essere la idealità senza la realtà, e però non è assurda questa separazione. Si dee dunque conchiudere che almeno in quest' ordine l' ideale, benchè separato dal reale, non è più il nulla, come tante volte ci ripete il Gioberti per provare che ripugni intrinsecamente che l' ideale si separi dal reale. E se questo ideale anche separato dal reale è qualche cosa, dunque non è mica più assurdo, che Iddio nella formazione dell' uomo, gli abbia dato l' intuito dell' essere ideale, e non la percezione dell' essere reale. Non trattasi adunque che della verificazione del fatto, il quale non può argomentarsi a priori, ma accertasi colla osservazione filosofica. Dipoi, egli è assai strano l' immaginare un ordine contingente di cose, in cui l' ideale stia separato dal reale; giacchè in un ordine contingente di cose non si sa come possa avervi l' ideale; poichè in qualunque senso si prenda l' ideale, egli è pur sempre necessario, e non mai contingente. Se si prenda nel senso nostro come distinto da ogni realità, e qual semplice lume comunicato da Dio alle create intelligenze, noi abbiamo veduto che esso gode i caratteri della necessità, dell' eternità ecc.: dunque non appartiene all' ordine contingente, ma all' ordine necessario, a Dio stesso, di cui è un' attinenza. Se si prende nel senso giobertiano, nel qual senso esso è Dio stesso, molto meno può essere contingente, se non fosse nel sistema panteistico, in cui del contingente e del necessario si fa una cosa sola. Il dire dunque che l' ideale nell' ordine contingente di cose è separabile dalla realità, è in ogni modo un manifesto assurdo, sia poi un assurdo panteistico, o d' altro genere. E pure non ci dee fare meraviglia, o signori, se il Gioberti ponga nell' ordine delle cose contingenti qualche specie d' ideale . Poichè dove mai ha egli preso il suo achille contro la nostra dottrina, se non in questo principio appunto che l' idea dell' essere essendo, a detta sua, un' idea astratta, è per conseguenza subiettiva e s' immedesima col subbietto uomo che è pur contingente, di che accusa il Rosmini di psicologismo con tutte le altre brutte taccie, che ne sono la conseguenza? [...OMISSIS...] . Ma forse ad alcuno di voi sovverrà, miei signori, che in altri luoghi il medesimo Gioberti dà del divino anche alle idee astratte siccome sono le idee generiche: sovverrà che nella sua terza lettera al professor Tarditi, dopo aver pronunziato solennemente che [...OMISSIS...] . Onde aperto dichiara che egli ammette bensì un reale dotato di contingenza, ma non un ideale della stessa natura (3). Le quali cose sembrerebbero contradittorie all' aver distinto, come egli fece, l' ideale dal reale nell' ordine contingente, ed all' aver dichiarato che le idee astratte, e nominatamente quella dell' essere in universale, ch' egli fa venire dall' astrazione (al contrario del Rosmini che la mantiene innata alla mente) è un' idea subbiettiva, che s' immedesima coll' uomo soggetto contingente e finito. Ma egli v' ha pure un sistema nel quale tali proposizioni tanto opposte si conciliano ottimamente: dovremo noi, miei signori, credere che un tale sistema sia quello del signor Gioberti per cavarlo di contradizione? Ora qual è mai questo sistema? Il panteismo, o signori; non altro che il panteismo. Poichè solo in questo sistema si può cangiar di linguaggio, e dire, in qualche modo, ora che l' idea sia Dio stesso, ora che la medesima idea sia l' uomo essere contingente e finito; quando il panteista, come sapete, riguarda il contingente ed il necessario come aspetti diversi, sotto cui lo stesso essere si considera; e quello a ragion di esempio che considerato come oggetto dell' intuito chiamasi Dio, quello stesso diviso poi dalla riflessione e dall' astrazione diviene uomo, e chiamasi essere contingente e finito. Ma il Gioberti, che ha tutta la buona volontà di non esser panteista, tenta un' altra via per vedere se gli riesce di conciliarsi seco stesso con più onestà. Egli immagina dunque due enti possibili invece d' un solo, perocchè egli dice: [...OMISSIS...] . Dunque quando l' uomo pensa un ente possibile, per esempio « un cavallo possibile », egli pensa due possibili, due cavalli possibili, immensamente diversi l' uno dall' altro, perocchè l' uno dei due cavalli possibili è Dio stesso, poichè è « « il possibile eterno come pensato da Dio » », è « « l' idea divina numericamente identica » », come dice poco appresso (1); l' altro cavallo possibile è nel soggetto umano, e s' immedesima col soggetto umano, e però è l' uomo o parte dell' uomo, e tuttavia questo possibile subbiettivo, com' anco dice, è « « la pensabilità umana del pensato divino » ». Di che ne viene che l' altro possibile oggettivo debba essere « « la pensabilità divina del pensato divino » ». Non voglio indugiarvi sull' assurdo che di una stessa cosa vi abbia due possibili, distinti quanto è distinto Iddio dall' uomo. Solo voglio farvi avvertire, che queste due pensabilità sono entrambi accessibili all' uomo, secondo il signor Gioberti: onde nell' uomo cade tanto « « la pensabilità divina del pensato divino » », che viene appresa dall' intuito, quanto « « la pensabilità umana del pensato divino » », che è una copia finita di quella, come dice poco appresso, e però non più un' astrazione com' avea detto innanzi. Veramente se l' uomo non è Dio, pare difficile a intendere, come gli possa appartenere « « l' idea divina numericamente identica », « il possibile eterno, come pensato da Dio » », e « « la pensabilità divina del pensato divino » ». Ma se l' uomo è Dio, in tal caso poi è difficile a concepire del pari, come gli possa appartenere « « la pensabilità umana del pensato divino » », e « « una copia finita del cavallo possibile eterno come pensato da Dio » ». Anche di questo intrico ci sembra oltre modo malagevole uscire senza ricorrere ad un sistema, che confonda insieme la natura divina e l' umana. Se il signor Gioberti ci riesce, lui fortunato! Intanto però egli ci protesta che « « il subbiettivo dell' idea non si può separare dall' obbiettivo »(2) »; il che è quanto dire, che l' umano dell' idea, non si può separare dalla medesima idea, la quale avrebbe perciò ad un tempo stesso dell' umano e del divino. Laonde egli sembra che la distinzione che il Gioberti introduce, nel passo più sopra recatovi, fra l' ordine assoluto e l' ordine contingente, nel suo sistema non possa aver luogo; e questo vi si renderà anzi evidente se farete riflessione alla ragione che son per dirvi. Il signor Gioberti insegna, che « « l' idealità non è separabile dalla realità nell' ordine assoluto, oggetto dell' intuito » »; ma dice ancora e lo replica fino alla sazietà, che nell' oggetto dell' intuito vi è tutto lo scibile, tanto quello che riguarda le cose create, e tutto ciò che resta a fare all' uomo non è che l' opera della riflessione che analizza, e lavora ciò che nell' oggetto dell' intuito si contiene, onde anche l' ordine contingente di cose non può essere escluso dall' oggetto dell' intuito giobertiano, perchè la riflessione ve lo trova, ovvero sia lo produce in separandolo. Se dunque si dà distinzione tra l' ordine assoluto e l' ordine contingente, non può mica essere che il primo ordine sia oggetto dell' intuito e non il secondo, come viene a dire nel passo citato; ma convien dire che questa distinzione si trovi già nell' oggetto dell' intuito stesso. Ora se i due ordini, l' assoluto e il contingente, sono separabili e non confusi insieme, essi vengono necessariamente a costituire due oggetti e non un solo; poichè la loro separazione, se la si vuol riconoscere, si dee riconoscerla per una separazione massima, di maniera che sia più separato il contingente dall' assoluto, di quello che un oggetto contingente qualsiasi, p. e. un topo, da un altro oggetto contingente qualsivoglia, p. e. dal sole. Se dunque il topo ed il sole sono due oggetti distinti del conoscere umano, molto più debbon essere due oggetti distinti del conoscere l' ordine contingente di cose e l' ordine assoluto, e quindi il primo non può essere in modo alcuno forma, ed il secondo materia del medesimo oggetto. Ma se l' intuito giobertiano ha due oggetti e non un oggetto solo, e se l' uno non è forma dell' altro, come poi dice il nostro Filosofo, che quando conosciamo un corpo, l' oggetto scientifico è Dio stesso, non solo rispetto alla forma, ma anche rispetto alla materia, quando pure Iddio sarebbe non lo stesso oggetto, ma un oggetto diverso? Di più, se « « l' idealità non è separabile dalla realtà nell' ordine assoluto, oggetto dell' intuito, ma solo nell' ordine contingente » », come si conosce quest' ordine contingente? O si conosce coll' idea, o senza di essa: se coll' idea, in tal caso, posciachè quest' idea per il signor Gioberti è reale ed è Dio stesso, l' ordine contingente non è più diviso dall' ordine assoluto, e supponendolo diviso si suppone ciò che nel suo sistema è contradittorio ed assurdo. Se si conosce senza l' idea, l' ordine contingente è dunque fuori dell' idea, è conoscibile per sè stesso; e quindi non è più vero che tutto si contenga anche il contingente nell' oggetto dell' intuito. Finalmente dicendo che nell' ordine contingente l' idealità è separabile dalla realtà, pare che l' ordine contingente si componga di idealità e di realità. Ma nell' idealità, secondo il signor Gioberti, si contiene già la realità, perocchè altrimenti sarebbe nulla. Dunque l' ordine contingente, secondo lui, si compone d' idealità che è insieme realità, e d' una realità che non è idealità. Dunque si compone di una idealità e di due realità. Ma nell' ordine assoluto non v' ha che una idealità e una realità inseparabili tra loro. Dunque, giusta il ragionare giobertiano, vi ha più nell' ordine contingente che nell' ordine assoluto: perocchè in questo vi è una idealità con una sola realità, e in quello una idealità con due realità, l' una delle quali è separabile! Quali imbarazzi, quali contradizioni non sono queste, miei signori? Ma portiamo pazienza, e riprendiamo le giobertiane parole. [...OMISSIS...] Io non mi fermerò qui, miei signori, ad osservare tutte le cose gratuite e false che suppongono queste parole; giacchè gratuito e falso è che l' intuito umano abbia per oggetto Iddio, il quale in tal caso sarebbe « nobis naturaliter notum », contro la dottrina di s. Tommaso «(S. I, II, 1; e III, IV, 2) »; e di tutti i principali teologi; gratuito e falso è che abbia per oggetto l' atto creativo, che nessun vide, mai quaggiù, appunto perchè « Deum nemo vidit nunquam », come disse san Giovanni «(I, 1.) », non potendosi vedere l' atto creativo senza vedere lo stesso Dio. Non sono questi ed altrettali gli errori che noi abbiamo preso a rifiutare in queste lezioni, miei signori (2); ma dobbiamo solo esaminare se, anche supposto che tutto ciò fosse vero altrettanto quant' egli è falso, una tale dottrina possa conciliarsi coi principj teologici, e specialmente se ella possa andarsene pura dal veleno panteistico. Ora il Gioberti ci accorda espressamente che Iddio non è identico alle sue creature, ma che queste sono effetto, di cui Dio è causa. Per evitare il panteismo questo non basta, miei signori; converrebbe che egli qui ci dicesse di più che la natura di Dio e la natura delle creature sono cose infinitamente distanti l' una dall' altra, che sono dunque due nature realmente diverse: converrebbe che ci dicesse ancora che queste due nature non hanno niente, niente affatto di comune tra loro, dimodochè non possano essere intese con un solo concetto; perocchè tutti i teologi cattolici e fino i Mussulmani insegnano che Iddio non cade nè in alcun genere, nè in alcuna specie. Se dunque Iddio e le creature sono nature così distinte, che non hanno nulla affatto di comune tra esse; egli è manifesto che non si possono intendere e percepire con un solo e medesimo concetto; e non possono formare un oggetto solo dell' intuito. E` dunque necessario per non cadere nel panteismo il supporre che due pensieri, e non un solo pensiero, sia quello che ci fa conoscere cose così al tutto diverse: giacchè due sono indubitatamente gli oggetti che quanto alla natura, non comunicano insieme in cosa alcuna. Laonde, e come mai sfuggirà il panteismo una dottrina, la quale insegna che v' ha un solo intuito nell' uomo, il cui oggetto contiene tutto lo scibile sì del necessario, come degli esseri contingenti, e che la riflessione non fa che trovarlo, e svolgerlo poscia operando su quell' oggetto? come sfuggirà il panteismo un sistema, che sostiene che quando noi conosciamo le creature materiali, p. e. un corpo, allora noi abbiamo per oggetto Dio stesso? e ciò non solo per rispetto alla forma, ma ben anco alla materia? Il Gioberti dice « « perchè Iddio è causa creante e immanente delle cose » »: ma e che per questo? Noi gli rispondiamo, o la causa si identifica coll' effetto, ed allora accordiamo, che percependo l' effetto si percepisce necessariamente la causa, e viceversa; o la causa non s' identifica coll' effetto, come il Gioberti dice espressamente, e come diciam noi, anzi è una natura intieramente diversa da quella dell' effetto e non ha niente di comune con esso, ed in tal caso come può essere che la causa, che nel caso nostro è Dio, formi un oggetto solo del conoscere umano col suo effetto, che sono le creature, e sottostia ad un solo concetto, siccome pure viene a dire il Gioberti, quando pretende che Iddio sia l' oggetto di tutte le nostre cognizioni? non si potrà forse conoscere una natura, che è causa, senza conoscere un' altra natura tutta diversa da lei, che è l' effetto non necessario, ma libero di quella? Ma il nostro autore soggiunge: queste due cose, Iddio e la creatura, sono congiunte mediante l' atto creatore. E che perciò? non restano esse tuttavia così distinte e così separate, che v' ha un infinito di mezzo? non rimangonsi nature così dissimili, che non convengono in cosa alcuna nè speciale, nè generale (1), se non fosse nel nudo concetto dell' esistenza? Ma voi non potete vedere l' atto creatore senza vedere la creatura prodotta. Sebbene l' affermare che l' uomo veda l' atto creatore in questa vita sia piuttosto un sogno o un delirio, che una sentenza filosofica o teologica, tuttavia giacchè abbiamo detto di non volere impugnare per ora questa stranezza, anzi di voler supporla, così rispondiamo a tale istanza: l' atto creatore si distingue egli dall' essenza di Dio? no certamente, ma quell' atto è la stessa essenza divina, perchè Iddio è un atto solo con cui è e con cui opera. Dunque coll' introdurre l' atto creatore non si può spiegare la percezione delle cose create, p. e. dei corpi, meglio che coll' introdurre l' essenza divina. Se questa è un oggetto del conoscere umano diverso al tutto da un corpo che l' uomo percepisce, si ha una natura diversa, una natura e un oggetto che non ha niente di comune col corpo; dunque nè pur nell' atto creatore si possono trovare i corpi stessi reali, e percepirveli . Il Gioberti, egli pure dice in qualche luogo, che le creature sono il termine estrinseco dell' atto creatore, e non il termine intrinseco e consostanziale. Dunque nell' interno dell' atto creatore, cioè in Dio, non vi sono i corpi reali, non v' è il contingente, non v' ha la materia creata, in questo senso che sono appunto quello che sono in quanto da Dio si distinguono. Or come, se la cosa è così, può dire il nostro eloquente scrittore, che quando conosciamo un corpo, Iddio è l' oggetto del nostro conoscimento, e non solo quanto alla forma, ma ben anco quanto alla materia creata? O bisogna abbandonare questo sistema, o non disdire e negare il panteismo, ma anzi ammetterlo: poichè il fare altrimenti è un tagliarsi per mezzo colle proprie mani. Ma pure le cose create sono in Dio, e però in Dio si possono vedere; e le vedono in Dio i celesti comprensori. - Io non so se io debba far parlare il Gioberti con sì poco senno teologico; ma mi permetto di farlo, o signori, a suo vantaggio; cercando cioè di non trapassare niuna delle ragioni apparenti, che potessero scusare i suoi gravissimi errori. E di vero, se così ci replicasse il Gioberti, noi gli diremmo, che consultando i teologi, gli sarà facilissimo impararvi, che le cose create sono bensì in Dio, come nel loro esemplare e nella loro causa, [...OMISSIS...] , per usare l' espressione di s. Tommaso «(S. I, III, VIII) »; ma non sono mica in Dio nè quanto alla loro forma, nè quanto alla loro sostanza materiale, [...OMISSIS...] . Ora di che cosa trattiam noi? forse di avere solamente l' idea del corpo, che è quanto dire di conoscere il corpo nella sua possibilità? Non ci ha dubbio che l' idea di corpo c' è in Dio in qualche modo: in un modo, dico, che resterebbe ancora a spiegare, perchè l' idea de' corpi non è in Dio, come in noi, distinta realmente dalle altre idee, ma compresa in un lume solo; che l' unica cosa che v' ha in Dio di realmente distinto sono le persone, e il porre altra distinzione reale si oppone, come sapete, alla cattolica fede. Onde non essendo l' idea che è in noi di un corpo, quell' idea stessa che è in Dio del corpo, non si può dire senza errore che noi vediamo l' idea in Dio; perocchè quando ciò fosse, vedremmo l' idea del corpo con tutte l' altre idee contenute in una idea sola, o per dir meglio nel Verbo, come le vedono i comprensori celesti, al che ripugna il fatto del nostro modo di conoscere per via d' idee molte e distinte. Ma benchè questo solo argomento, dove fosse svolto secondo i principj della cattolica teologia, basterebbe a rovesciare l' ipotesi giobertiana, ed eziandio la meno ardita di Malebranche; tuttavia, anche accordatogli quello che non è, che vedessimo in Dio l' idea del corpo, niente avrebbe egli ancora guadagnato; chè il nostro discorso non è mica v“lto a spiegare l' idea del corpo, ma è v“lto a spiegare la percezione intellettiva d' un corpo, colla quale noi percepiamo e conosciamo non la possibilità del corpo, ma la sua stessa realità; questo corpo che è qui, ora; la sua materia, la quale in Dio non si trova, che anzi ella ha questo per essenza, d' esser fuori di Dio; nè si potrebbe metterla in Dio senza divinizzarla, e materializzare Iddio, e quindi essere panteista e spinosista. Ancora, trattiamo noi forse di spiegare come conosciamo la causa del corpo, o il corpo in quanto è nella sua causa, cioè in Dio? Neppur questo, poichè, per dirlo di nuovo, trattasi di spiegare unicamente come noi percepiamo la stessa sostanza materiale del corpo, e come noi stessi veniamo in comunicazione con questa sostanza. Ora il corpo, in quanto è sostanza materiale, non si trova in Dio, nè nell' atto creativo che è Dio stesso; ma è tutto fuori di Dio, e fuori dell' atto creativo che il fa esistere. Egli è vero che in Dio vi è la virtù che fa sussistere il corpo, perchè è causa creante ed immanente; ma da ciò non ne viene altra conseguenza se non questa, che qualora fosse vero che noi conoscessimo Dio, sarebbe vero che noi percepiremmo la causa, e conosceremmo l' effetto, cioè il corpo, ma non lo percepiremmo già nell' essere suo proprio materiale, come in fatto lo percepiamo, ed è questo fatto della percezione della corporea e materiale sostanza, per dirlo di nuovo, che noi dobbiamo e vogliamo spiegare in Filosofia. Onde o convien dire che noi non percepiamo la sostanza materiale de' corpi, il che sarebbe un negare il fatto più manifesto, ed il Gioberti stesso nol nega parlando anch' egli di sostanza contingente e di materia; ovvero, volendo sostenere che noi percepiamo il corpo nel suo essere proprio e materiale in Dio, che si suppone oggetto dell' intuito, non vi ha più riparo alcuno alla panteistica assurdità; giacchè è giocoforza che collochiamo in Dio la stessa sostanza e materia corporea; e poichè tutto ciò che è in Dio è Dio; forz' è che concludiamo che Dio è corpo, o che il corpo è Dio; ciò che viene al medesimo. Riassumiamo, o signori, quest' argomento evidentissimo. Noi non possiamo percepire in Dio, o nell' atto creatore, che è pur Dio, ciò che non vi è. Ma il corpo, e niuna delle cose contingenti, in quanto hanno un loro essere proprio reale, contingente e materiale, non sono in Dio. Dunque, quand' anco fosse vero altrettanto quanto è falso, che noi vedessimo Iddio, potremmo conoscere perfettamente, ma non potremmo percepire la materiale sostanza dei corpi, nè alcuna creatura nel suo essere proprio e contingente, se non avessimo il sentimento, e nel sentimento non ne ricevessimo l' azione. Convien dunque confessare, che col ricorrere all' intuito di Dio e dell' atto creatore, non si può spiegar la percezione delle sostanze create, e specialmente delle materiali, e questo è rinunziare al giobertiano sistema; ovvero conviene ammettere tutto quant' è lungo e largo e goffo e grosso il panteismo. A voi, miei signori, la scelta, che non vi è certamente difficile a fare. Ma e i celesti comprensori non percepiscono forse in Dio le cose create? A questa dimanda, che niuno perito nella scienza teologica farebbe mai, rispondo di no: posciachè mi parlate di percepire, e non di conoscere semplicemente. In Dio, nè nel suo atto creatore, che è Dio medesimo, essi non possono percepire ciò che non vi è; e non vi è, come dicemmo, la creatura nell' essere suo proprio formale, sostanziale, materiale. Dunque ivi non possono percepire e non percepiscono punto nè poco le creature. Essi ve le conoscono bensì, ve le conoscono cioè non tutte, ma solo quelle che Iddio vuol loro rivelare; ma non ve le conoscono per via di percezione come le conosciamo noi al presente; benchè è da credersi che neppure ad essi sia tolta la percezione delle creature nel loro essere proprio fuori di Dio; ma questa loro percezione non l' hanno nella visione di Dio, perchè quivi non possono averla, ma per quella comunicazione naturale che ancor conservano colle creature stesse. Essi vedono in Dio le cose contingenti quante Iddio ne vuol loro dimostrare, come nel loro esemplare, cioè nella loro idea, e questa idea fa loro conoscere la possibilità di esse. Ci vedono ancora le cose come nella loro causa creante, e quindi ben intendono che sussistono e come sussistono, e le conoscono meglio che non le conosciamo noi colla percezione; ma in altro modo, perchè non le percepiscono in sè stesse. Nè l' uno nè l' altro di questi due modi di conoscere è percepire le cose; e perciò quello dei celesti comprensori non è il modo del conoscer nostro sperimentale, non è quello che noi trattiamo di spiegare, e per ispiegare il quale noi ricorriamo col Rosmini al sentimento, e all' essere ideale; laddove il Gioberti ricorre all' intuito di Dio e dell' atto creativo. Vero è che noi abbiamo anche un altro modo di conoscere le cose, ed è quello di conoscerle nella loro possibilità. Ma neppur questo modo si può spiegare, come abbiamo accennato, ricorrendo all' intuito di Dio, per l' argomento fatto di sopra, che possiamo riassumere così. In Dio non vi hanno concetti in senso proprio, l' uno realmente distinto dall' altro, ma vi ha un solo ed unico Verbo, che è figura della sostanza; e insieme esemplare delle cose, pel quale tutte le contingenti si creano, e si distinguono e sono da Dio perfettamente conosciute. Ma noi vediamo le cose possibili con altrettanti concetti determinati dalle nostre percezioni, ciascuna delle quali è realmente diversa dall' altra, e non già pronunciandole con un solo e medesimo verbo, come faremmo se le vedessimo nell' unica percezione del Verbo divino. Dunque qualunque via si prenda a spiegare l' origine di questi concetti così distinti, o si ricorra ai sentimenti e alle loro vestigia, come facciamo noi, o si abbracci un altro sistema; non sarà mai vero che i detti concetti sieno un solo pronunciato, come dovrebbe essere se li conoscessimo a quel modo come sono conoscibili in Dio. Dunque noi non vediamo la possibilità delle cose in Dio, e quindi non vediamo Iddio, come pretende il Filosofo nostro. Rimane il terzo modo di cognizione per via di causa. Di questo noi uomini, nel mondo presente, ne siamo privi del tutto: noi non sappiamo come le cose sieno in Dio eminenter: questo lo sanno solo i comprensori celesti. E facilmente si prova in questo modo. Ciò che si conosce per via di causa, o è nella causa o fuori di essa. Se è nella causa, si può percepire insieme nella percezione della causa; altrimenti, non essendo nella causa, si deve argomentare movendo dalla causa, e venendo all' effetto; e questo sarebbe un conoscere le cose indirettamente . Ma le cose create col loro essere sostanziale e materiale, come noi le conosciamo sperimentalmente, non sono in Dio loro causa, ma sono il termine dell' azione di questa causa. Dunque se noi vedessimo Iddio solo, senza avere anche la percezione immediata e diretta di esse, noi non potremmo conoscerle se non per via d' un' argomentazione dalla causa all' effetto, o, per dir meglio, dall' esistenza eminente all' esistenza propria e reale, o per ispeciale interna e positiva rivelazione. Solo se noi vedessimo l' atto di questa causa unitamente al suo termine, conosceremmo certamente questo termine, ma nè pur allora in quel modo sperimentale e diretto, nel quale lo conosciamo adesso. Certo nessuno dirà che noi conosciamo prima l' esistenza eminente delle cose in Dio, e poi l' esistenza loro propria e reale; come pure niuno dirà che noi conosciamo la sussistenza delle creature per via di argomentazione che parte dalla causa e viene all' effetto, e finalmente nessuno di buon senno dirà, io credo, che invece di percepir le cose direttamente e trattandosi de' corpi col senso, conosciamo tali cose col puro intuito dell' intelletto come termini dell' atto creativo, il quale certamente non è sensibile, se non all' intelletto: e il Gioberti stesso, sebbene dica che la conosciamo indirettamente, tuttavia altrove esclude espressissimamente questa via, perocchè egli vuole che il suo intuito sia immediato per forma, che non vi si mescoli alcuna argomentazione, che anzi per lui è l' intuito di un mero concetto . Dunque l' uomo non può conoscere le cose create per via di causa. Ma nulla ostante, si prenda ciò che si vuole, e converrà sempre rinunziare al sistema giobertiano. Se si prende che le cose si conoscano per via di causa, argomentando; si rinunzia al sistema giobertiano, che sostiene, quelle conoscersi per intuito immediato senza sillogismo, e senza giudizio alcuno di mezzo. Se si prende il partito di dire, come dice il Gioberti, che si conoscano nella causa, senza argomentazione nè giudizio, anzi come un semplice concetto che s' intuisce; allora divenendo noi manifesti panteisti, perchè mettiamo l' effetto sostanzialmente e realmente nella divina sua causa, converrà di nuovo rinunziare al giobertianismo, perchè il Gioberti dichiara di non voler essere panteista. Da qualunque via si prenda questo sistema, ne' suoi visceri è dal panteismo corroso a morte; nè le proteste in contrario, o le belle frasi nel possono guarire. Non mi fermo, o signori, a notare cent' altre inesattezze e ripugnanze nei passi citati, come il dire che « « la cosa creata rappresenta imperfettamente l' idea creante » », frase che starebbe bene solo in colui che ammettesse che dalle creature, percepite direttamente, si salisse a conoscere il Creatore, che è il viaggio contrario a quel del Gioberti; o come l' ostinarsi a chiamare Iddio Idea , ed alla frase consacrata e al tutto dogmatica « il Verbo umanato »affettare con profano ardire di sostituire continuamente quella d' « idea umanata »; neologismi temerarj e gravidi di perniciosissime conseguenze, e tant' altre che il tempo mi vieta di riferire. Ma io non posso nulladimeno abbandonare ancora l' argomento troppo fecondo, senza chiamarvi ad altre importanti considerazioni, le quali io mi riserbo ad esporvi in un' altra lezione. Noi raccogliemmo, o signori, nelle lezioni precedenti tutte le giustificazioni, di cui il signor Gioberti riputò bisognevole il suo sistema per nettarlo dalla taccia di panteismo, e non omettemmo industria affine di trovarci dentro qualche valore; ma sgraziatamente ne riuscì il risultamento contrario, poichè le sue scuse e le sue giustificazioni stesse misero in più aperta luce la increscevole verità che quel sistema ch' egli si sforza d' introdurre in Italia, è fiore di panteismo tedesco. E per vero le proposizioni tutte che egli adduce a rimuovere da sè la sentenza che lo condanna, si trovano già ammesse dai panteisti più famosi che lo precedettero. Egli ammette che Iddio sia causa, e si compiace assai di chiamarlo causa immanente del mondo; ma anche molti fra i panteisti ammisero Dio come causa del mondo, e Spinosa in particolare si compiaceva di quella espressione; e pure essi fecero il mondo della stessa sostanza di Dio (1). Egli dichiara che Iddio è l' oggetto del sapere anche quando il sapere ha per oggetto le cose contingenti, poniamo, i corpi: [...OMISSIS...] . Ora sarà ben difficile il trovare dei panteisti, i quali dicano Iddio identico a ciò ch' egli produce colla sua propria sostanza. Egli confessa che Iddio è causa libera; ma chi non sa che questo fu detto anche da' più spacciati panteisti (2)? e che gli stessi teologi più rispettabili dissero che Dio fa liberamente tutto quello che fa, anche le stesse operazioni interiori, come la generazione del Verbo e la processione del Santo Spirito? Perocchè prendono la parola liberamente per indicare un' azione spontanea non legata, non determinata da alcun principio straniero a Dio (3); onde ancora il dire Iddio causa libera senza spiegare di più, non giustifica dal panteismo un autore che in tanti luoghi sembra professarlo col suo sistema, benchè continuamente, e quasi con soverchia solennità, dichiari d' esserne inimicissimo. Ma acciocchè voi abbiate qualche documento storico sotto gli occhi, dove vediate aperto come i panteisti abbiano sempre accozzate insieme, parlando di Dio, le proposizioni più contraddittorie nell' apparenza, alla guisa dell' autore che esaminiamo, permettete ch' io vi accenni il panteismo stoico, e che vi legga un passo dello stoico Seneca, che il professava. Questi, nel libro II, cap. 45, « Delle naturali questioni », così prende a parlare di Dio: [...OMISSIS...] . Voi vedete già in queste parole che Giove, cioè il sommo Dio, qui si riconosce 1 per custode e rettore dell' universo: 2 qual animo e spirito; 3 qual signore e fabbricatore della natura. Dunque Iddio non si fa già identico con ciò che egli produce, regge e governa: lo si fa artefice, e perciò causa del mondo, e lo si fa causa spirituale e intelligente a cui compete lo scegliere, il deliberare, l' esser libero. Con tutto ciò udite in che modo continua lo stoico panteista dopo aver detto che a Giove compete ogni nome: [...OMISSIS...] . Qui già Iddio è convertito nel fato, al quale lo stesso filosofo poco prima aveva attribuito la necessità scrivendo: [...OMISSIS...] . E tuttavia chiama Iddio « causa caussarum », che è veramente un renderlo creatore, come quello che produce non già solo gli atti delle cause seconde, ma le stesse cause seconde. Andiamo avanti: [...OMISSIS...] . Qui non è una necessità cieca, ma una mente guidata dal consiglio e dalla sapienza, ed è ancora distinto dal mondo. Procediamo a quel che viene: [...OMISSIS...] . Eccoci arrivati allo scioglimento: ecco dove finiscono le magnifiche frasi dei panteisti. Sì, Iddio è creatore, libero artefice dell' universo, non identico colle sue fatture, la causa delle cause, il rettore e il signore di tutte le cose; ma insieme egli è anche la necessità di tutte le cose e di tutte le azioni, egli è la natura, egli è l' universo: [...OMISSIS...] . Simili esempj di panteisti i quali uniscono, parlando di Dio, le frasi più vere e le più erronee ad un tempo, sono comuni. Acciò che dunque il signor Gioberti avesse legittimamente purgato il suo sistema dal panteismo, di cui teme egli stesso possa venire accusato, conveniva che oltre quelle magnifiche sue frasi intorno a Dio, non avesse poi aggiunte quell' altre che panteista il potrebbero dimostrare, come, poniamo, quella che « « Iddio è l' oggetto immediato ed universale del sapere, e non solo rispetto alla forma di esso sapere, ma ben anco alla materia » »; e l' altre da noi ripassate nella lezione precedente e moltissime più efficaci ancora che non abbiamo avuto il tempo d' indicare. Or qui, miei signori, ditemi per puro amore del vero, vi par egli che un tale scrittore sia giudice competente, quando, sedendo a scranna, toglie ad imporre accusa e a pronunciar sentenza recisa di panteista a questo e a quel filosofo, che non ebbe mai alcuna simile taccia? O vi credete voi che questo suo zelo possa parere al pubblico del tutto netto e sincero? Il zelo puro e sincero suol avere per sua guida la discrezione e la verità, nè suole eccedere in esagerazioni manifeste. Ora vi par egli che sia savia e discreta quella smania che ha il signor Gioberti di trovare il panteismo per tutto, dicendo che [...OMISSIS...] ? Non si può dunque più errare senza essere panteista? Non ha questo l' aspetto di un zelo eccessivo e del tutto esagerato? Non lascia egli dubitare che, colle migliori intenzioni, il signor Gioberti vada illudendo se stesso? Quando specialmente si considera, che al Panteismo contrappone come unico sistema vero il suo proprio sistema, dandogli l' appellazione di Ontoteismo, che non sembra il miglior vocabolo per designare un sistema affatto immune da ogni parentela con quel brutto errore del panteismo (2)? Perocchè egli pare che la parola Ontoteismo, che viene da Ente e Dio, sarebbe acconciamente adoperata a significare il sistema che fa Dio di ogni ente, ossia che fa ogni ente sia Dio. Onde quella denominazione che cangia il nome e lascia la cosa, potendosi Ontoteismo prendere appunto siccome sinonimo di Panteismo, sembra tanto più inopportuna, che le cose già da noi considerate nelle precedenti lezioni dimostrano pur troppo, che il signor Gioberti rassomiglia in qualche modo a colui che affaticasi a gittar acqua in casa d' altri, dove non è alcun fuoco, mentre arde tutta la propria. Al che dimostrare maggiormente non ci vien meno, o signori, sempre nuova messe ogni qual volta apriamo i suoi libri dovecchessia. Io credo non dovervi rincrescere che noi spendiamo ancora qualche tempo a considerare alcuni brani tra i molti di questo Autore, affine di assicurarci via più che non pronunciamo leggiermente sì grave sentenza sulla natura del suo sistema nel tempo stesso che rispettiamo senza limite le sue intenzioni. Nell' opera degli « Errori » alla terza lettera diretta, come tutte le altre, al prof. Tarditi, fac. .2, egli scrive così: [...OMISSIS...] . Meritano bene la nostra attenzione, o signori, queste parole, poichè, anche prescindendo dalla questione del panteismo, esse ci accordano più cose che prima ci sembrava negare. Esse ci accordano prima di tutto il fatto capitale da cui movono i nostri ragionamenti, cioè che « la mente umana pensa l' ente comunissimo e generalissimo ». Non è dunque assurdo, miei signori, pensare quest' ente, come sembra che voglia fare credere in altri luoghi il signor Gioberti; non è assurdo, e non può essere assurdo, perchè non può essere assurdo un fatto. E veramente altra è la questione dell' origine dell' essere ideale, altra la questione della natura . Altro è il domandare se noi vediamo l' essere ideale per natura, o lo caviamo per astrazione; altro il cercare se, qualunque sia la origine di quel concetto, egli ci stia dinanzi alla mente, e però sia qualche cosa, ovvero sia un mero nulla. Quando il signor Gioberti pretende che non possa essere congenito alla umana natura perchè egli è nulla, e poi ci fa sapere che l' uomo sel forma per astrazione, allora si contraddice; giacchè se è possibile che l' uomo si formi l' essere ideale per astrazione, rimane dunque possibile egualmente che sia a lui congenito, e, se più vi piace di così esprimervi, che Iddio glielo dia già bello ed astratto. Per decidere la questione dell' origine, conviene dunque aver prima ammesso che l' essere di cui si parla non sia nulla; questione che riguarda la sua natura, perchè di ciò che è nulla non si cerca l' origine. Il Gioberti confonde adunque due questioni, pugnando seco medesimo: non vuole riconoscere che l' essere ideale possa essere innato come quello che è nulla (onde accusa di nullismo il Rosmini); e poi riconosce che l' essere ideale si forma per astrazione, ammettendo così che sia qualche cosa. E perchè Iddio non potrebbe infondere ad una mente da lui creata una cognizione generica o speciale senza bisogno d' infondergli insieme quella dei reali e sussistenti individui che ad essa corrispondono? Del pari, anzi a maggior forza, niente dimostra impossibile, che il Creatore conceda all' umana creatura l' intuizione dell' essere universale, il quale si può pensare manifestamente senza bisogno di volgere contemporaneamente il pensiero alle sussistenze reali. Quante volte non si pensa un ente nella sua pura possibilità senza più? Ma quello che maggiormente dovete notare, o signori, si è, che fu già a pieno dimostrato dal Rosmini, che l' essere in universale non si può avere in modo alcuno per via d' astrazione, come vogliono i sensisti, la cui sentenza è ammessa senza esame per assioma indubitato dal Gioberti, perocchè l' astrazione non può cadere che sugli oggetti già percepiti, ed ogni percezione suppone dinanzi a sè la notizia dell' ente in universale; la quale d' altra parte sola ella basta a renderla possibile. In secondo luogo, quell' ente comunissimo ed astratto non è nessun ente particolare, è una mera astrazione pel signor Gioberti; dunque considerato come astratto non ha realità; che è quello appunto che diciam noi, essendo la realtà propria degli enti particolari. Perocchè se il signor Gioberti, dopo aver astratto l' ente comunissimo dall' ente reale, pretendesse di aver formato con questa operazione un altro ente reale, darebbe forse a ridere alla gente, e perciò noi crederemmo di fargli torto, se gli attribuissimo una simile assurdità. Vero è, che egli dice, che « « il possibile è reale come possibile »(1) », frase novissima, udendo la quale sembra, a dir vero, che egli voglia giocar di parole; che egli cioè, dopo aver distinto per via di astrazione il possibile dal reale, voglia poi allo stesso possibile astratto dare la realtà, benchè coll' astrazione gliel' abbia tolta. Il che è come dire: « Vedete il fusto di questa colonna. Astraete da esso la pietra di cui ella è formata: che cosa vi resta? Mi resta l' idea d' un fusto di colonna che contiene tutta la forma, ma che non contiene, non determina alcuna materia di cui sia composta, nè pietra, nè legno, nè metallo, nè altro. Eh! v' ingannate, soggiungesse, la vostra colonna astratta è realmente di pietra ». Si risponderebbe ad un tale dialettico: Voi volete farci travedere: come può essere di pietra quella colonna astratta, dalla quale coll' astrazione abbiam tolta via la pietra? Così appunto il Gioberti: egli ci consente che coll' astrazione si possa levare la realità dell' ente, e con ciò formarci un ente possibile, astratto, comunissimo. Ma dopo tutto ciò, ci soggiunge tuttavia: [...OMISSIS...] . Non è questo un giocar di parole? Non si muta qui il valore della parola realità? E mentre prima si prendeva in senso di ente sussistente in opposizione dell' ente meramente ideale, poscia si prende in senso di entità? Certo che l' astratto, il possibile, l' idea pura ha la sua entità, non è nulla; ma la questione non cade qui; la questione cade a sapere se il possibile, il comune, l' astratto, ha quella entità che hanno gli enti chiamati sussistenti e reali da tutto il mondo. Conviene egli a noi tener dietro a siffatti scambietti di significati dati alle parole, non degni di chi vuol filosofare? No, miei signori, onde lasciamoli pure da parte (1), e concludiamo che il Gioberti ci concede che l' ente comunissimo, ideale e possibile, possa esser diviso dal reale (dal quale per altra parte non si può prendere, perchè non può prendersi alcuna cosa dov' ella non è) senza che questo sia reale, benchè sia verissimo oggetto della mente che lo vede puro e lo contempla, e senza che sia tuttavia il nulla, che non si può vedere nè contemplare, nè dire che sia un elemento comune a tutti gli enti; e posciachè quell' oggetto della mente non è nulla, egli può anche essere ingenito; del che il Rosmini diede molti ed apertissimi argomenti, ai quali avrebbe dovuto certamente rispondere il Gioberti se volea impugnare quel sistema, ma stimò meglio dissimularli trapassandoli in sommo silenzio. Prendiamo dunque a conto queste concessioni che egli ci fa, e che sono pure il tutto nella disputa che egli move contro alla dottrina da noi seguita. Ma egli tuttavia ce ne fa un' altra non meno importante: ci concede ancora che noi diciamo bene quando affermiamo che quest' ente comunissimo non è Dio; poichè, a detta sua, tra l' idea di Dio e l' idea dell' essere comunissimo v' ha quella analogia e somiglianza rimota che corre tra l' infinito e il finito . Ascoltate attentamente, perchè già ci avviciniamo di nuovo alla questione del panteismo, che è il principale argomento, di cui al presente ci dobbiamo occupare. Non è già che con quelle parole il signor Gioberti esprima fedelmente la nostra opinione. Primieramente tra l' idea di Dio e l' idea dell' essere comunissimo non ci può correre quella infinita distanza che pretende il signor Gioberti, perchè finalmente elle sono due idee dello spirito umano. La distanza sta bene tra Dio e l' essere comunissimo, ma non ancora tale quale il Gioberti sembra volerla indicare. Se noi diciamo, che l' ente ideale non è Dio, non diciamo però così assolutamente, com' egli dice, che esso sia finito; anzi diciamo che egli ha un lato infinito ed un lato finito: in quanto è infinito ed universale cioè nella sua parte positiva, egli è un raggio di Dio, un lume del volto divino, come la Scrittura lo chiama, una partecipazione del lume increato, e perciò lo chiamiamo anche noi divino; in quanto poi è finito e limitato, cioè nella sua parte negativa, intanto a lui si appartiene il nome che gli dà s. Tommaso di lume creato . Ma ad ogni modo resta sempre fermo, che il Gioberti ci accorda, che l' ente ideale non è Dio, e questa è quella confessione che noi vogliamo raccogliere dalla sua bocca. Che se noi abbiamo ragionato bene dicendo che quest' ente non è Dio; ond' è poi lo strepito ch' egli mena contro questa nostra sentenza, per la quale vuole che noi urtiamo necessariamente in uno de' due infamissimi scogli del soggettivismo o del panteismo? A vederlo conviene che noi attendiamo al modo onde egli ragiona in quanto al soggettivismo, cioè a quell' errore che il Rosmini denunziò forse il primo al pubblico, e cui egli impose il nome. Egli dice così: [...OMISSIS...] . Così alla facc. .5 della citata lettera. Io non voglio già qui fermarmi, o signori, ad osservare quante cose inesatte o false si contengano in queste parole; non voglio già farvi osservare essere una mera e grossa falsità, l' affermazione sì franca, diciamolo pure, e sì audace al suo solito, che, secondo il Rosmini, « « si distingue l' essere ideale numericamente dall' idea divina » », frase che non adoperò, nè adoprerebbe mai il Rosmini, il quale non parla d' idee divine che riduce tutte al Verbo, ed ancora sostiene che l' essere in universale è essenzialmente uno, e numericamente il medesimo veduto da tutti gli uomini e da Dio stesso, ma da Dio in tutt' altro modo proprio di Dio, senza niente di negativo, perciò senza che in Dio si distingua dal suo stesso Verbo (1), distinguendosi solo rispetto all' uomo a cui è dato in modo sì limitato. Neppure mi fermerò a pregarlo che si compiaccia di darci qualche prova di quell' affermazione egualmente ardita e gratuita, [...OMISSIS...] . Perocchè se per questo soggetto conoscente egli intende l' uomo, ora perchè mai, noi gli domandiamo, dovrà egli immedesimarsi coll' uomo, a cui solo risplende come il lume agli occhi? Forse perchè è nell' uomo come oggetto del suo intuito? Per questo no, poichè, se egli adducesse questa ragione, la ragione stessa varrebbe per l' oggetto reale che egli attribuisce all' intuito, onde si darebbe della zappa in sul piè. Forse perchè, essendo ideale, dee aver per sua sede qualche mente reale? Questo non prova che s' immedesimi coll' uomo. Prova solo quello che dimostra il Rosmini, cioè che l' essere ideale dee risiedere in Dio, e immedesimarsi con Dio; benchè l' uomo non veda il come, perchè col lume naturale non vede Iddio. E questo è anzi l' argomento a priori che il Rosmini addusse dell' esistenza del Supremo Essere (1). Dove io vorrei pure poter dare al signor Gioberti almeno lode di buona fede. Ma quando considero l' abuso che egli ha fatto dell' aver detto il Rosmini che « l' ente ideale non sussiste fuor della mente », colle quali parole il Rosmini intendea d' ogni mente e umana e divina, e il Gioberti se ne prevale per far dire al Rosmini, che l' essere ideale è nulla fuori dell' uomo; mi duole non potergli neppure attribuire quella lode che agli onesti è sì cara. Procede adunque il nostro Filosofo tutto sul gratuito e sul falso. Ma non fermiamoci a ciò: in quella vece così ragioniamo. Il signor Gioberti dice, che « « un tale ideale solo nel soggetto conoscente, s' immedesima sostanzialmente con esso » »; il Rosmini all' incontro dimostra in un lungo dialogo (1) con argomenti evidenti, di cui il Gioberti non fa parola, che, quantunque l' essere ideale sia nel soggetto conoscente nel senso che è da questo soggetto intuíto, tuttavia non si confonde, nè si può giammai confondere con esso lui; che anzi è per la sua stessa essenza inalterabile ed inconfusibile, ed ha natura tanto distinta dal soggetto intuente, quant' è distinto ciò che è necessario da ciò che è contingente, e la natura dell' uno conserva opposizione alla natura dell' altro, come esprime anche l' etimologia della parola soggetto ed oggetto . Dunque il Rosmini a buon conto non cade certamente nel soggettivismo, che gl' imputa l' avversario. Dopo di ciò raccolgo un' altra confessione del signor Gioberti intorno alla maniera con cui egli concepisce « l' essere possibile, ideale, comunissimo »; raccolgo cioè essere la sua sentenza intorno alla natura di quest' essere tutto contraria alla sentenza del Rosmini, il quale sostiene che egli è per essenza oggetto; laddove il Gioberti lo fa soggettivo, e vuole che s' immedesimi col soggetto conoscente. Ritenuta questa confessione del Gioberti intorno alla natura dell' essere ideale, ritenuto che quest' essere astratto, com' egli dice, non è Dio, ma creatura, non conserva rispetto a Dio che « « quella analogia e somiglianza rimota e imperfettissima che corre fra l' infinito e il finito » »; io passo all' accusa di panteismo, ed esamino tosto se questa cade giustamente sul Rosmini, o ricade piuttosto in capo allo stesso Gioberti. In quanto al Rosmini, voi sapete che egli insegna che l' essere ideale è per essenza oggetto, come dicevamo, ed inconfusibile coll' uomo, che è identico, manifesto a tutti gli uomini che vissero ne' varj secoli, e nelle più disparate parti della terra, universale, eterno, immutabile ec., in somma divino da quel lato nel quale egli è infinito. Dunque dicendo il Rosmini che quest' oggetto è nella mente di Dio, ossia è in Dio, egli non confonde già le creature con Dio, e perciò non cade nel panteismo. Dice di poi che quest' essere in Dio non si trova a quel modo come si trova nell' uomo per partecipazione e da qualche parte limitato, ma si trova per essenza e illimitato da tutti i lati, e che è Dio stesso non punto nè poco diviso dalla divina natura. Ma dice di più che non ne viene da questo, che l' uomo veda la natura divina, la coscienza e la ragione dicendoci il contrario; dicendoci cioè che l' uomo vede l' essere in istato puramente ideale, il quale però non è Dio, perchè Iddio non è un' idea, ma è vera sussistenza, viva, intelligente ed intelligibile per se stessa. Laonde la limitazione colla quale è dato all' uomo l' intuito dell' essere, è tale e tanta che per essa gli si nasconde la divina sussistenza e sostanza, in modo che l' essere che rimane visibile non contiene più ciò che col nome sostantivo di Dio viene espresso. E tuttavia, aggiunge il Rosmini, che l' essere ideale qual è veduto dall' uomo suppone un primo reale, cioè una mente sussistente in cui egli si trovi come in proprio luogo, e così per via di raziocinio e non intuitivamente, dall' essere ideale argomenta all' esistenza di Dio, con argomentazione a priori efficacissima. All' incontro il Gioberti vuole che l' essere ideale sia del tutto finito, soggettivo, anzi che si immedesimi col soggetto uomo. Ora indovinate mo' dopo tutto questo, dove, secondo lui, un tal ente si trova? Quest' ente appunto si trova, secondo il Gioberti, in Dio medesimo: Iddio è l' oggetto dell' intuito giobertiano, e l' uomo coll' astrazione vi trova dentro l' ente finito, l' ente che s' immedesima coll' uomo stesso. Or questo che cosa è mai, miei signori? E` panteismo o no? Leggete che cosa egli scrive alla faccia 67 della citata lettera III. [...OMISSIS...] . Questi riverberi e queste postille delle cose impresse in nitido vetro, non farebber pensare, per osservarlo di passaggio, che le cose mandino il loro lume in Dio come nello specchio? sicchè le cose sieno il lume, e Iddio il vetro che lo riceve? Ma lasciando tali improprietà, avete udito che Iddio contiene l' idea dell' essere possibile, che, secondo il Gioberti, è l' ente finito, identico coll' uomo. Si fa dunque dell' ente finito e dell' infinito, dell' uomo e di Dio una cosa sola. Ascoltate di più come egli aveva già prima scritto nella « Introduzione, L. I, c. IV, facc. 35 »: [...OMISSIS...] . Quale eloquenza, miei signori! Egli è impossibile raffrenarne la foga coll' opporgli forse che tali cose non sono state mai dette nè da filosofi, nè da teologi cattolici. E che varrebbe infatti l' opporgli che tutti quanti i più solenni teologi della Chiesa cattolica, incominciando da s. Tommaso (e più su si potrebbe andare), dichiararono e dimostrarono fin qui, che in Dio non vi è nè generale nè particolare (1), se questo fiume d' eloquenza sdegna ed abbatte tutte le teologiche sponde? Lasciando adunque questi accessorj, cerchiamo d' intendere bene la sua mente nel principale. Ed i passi citati sono chiari. Egli dice, che l' Ente reale, cioè Iddio, è la sintesi di queste proprietà, cioè del concreto e dell' astratto, dell' individuale e del generale (già v' accorgete dell' affinità di questo parlare col sistema dell' identità assoluta dello Schelling): dice che Iddio sotto un aspetto è l' astratto, sotto un altro il concreto, sotto un aspetto è il generale, sotto l' altro è il particolare; dice bensì che tutto ciò è in modo diverso dalle creature; ma soggiunge che la concretezza e l' individualità sono il reale senza l' ente, da cui nascono le idee riflesse. E per istare nel discorso che abbiamo cominciato, egli colloca l' ente astratto e possibile, dove si rinviene poi per via d' analisi, in Dio, anzi egli dice che Dio stesso è l' ente astratto, è il possibile considerato sotto un rispetto, dice che l' ente assoluto contiene in sè l' idea del possibile. Ma avvertite, che egli stesso altresì è quegli che dice parimente, che l' ente astratto e possibile non è Dio, non è che un' analogia e somiglianza con Dio rimota ed imperfettissima, come quella che corre tra il finito e l' infinito, e che quell' ente astratto s' immedesima coll' uomo. Dunque la conclusione parmi assai chiara; il finito, il soggettivo, il soggetto stesso umano col quale s' immedesima l' essere astratto è in Dio ed è Dio; perocchè tutto ciò che è in Dio è Dio, e la sola analisi dello spirito è la virtù creatrice che cava il finito dall' infinito, e le esistenze, cioè le creature dal creatore. E qual panteismo v' ebbe mai al mondo che non sia rifuso in questo sistema? Dunque al Gioberti si deve applicare, secondo la giusta logica, quell' argomento che egli fa sì male a proposito contro il Rosmini e contro il Tarditi, il quale è questo: [...OMISSIS...] . A questo ragionamento non si può rispondere. E di vero, risponderà forse, che quando egli disse che l' essere possibile ed astratto è finito, intendeva solo nel caso che non si ponesse in Dio, ma che esistesse solo nell' uomo, come falsamente attribuisce a noi di tenere? Non può dir questo, mentre anzi espressamente dichiara in contrario; dichiara che è proprio finito quell' essere che si vede in Dio, e che perciò è Dio: ripetiamo le sue parole: [...OMISSIS...] . Dice adunque che è finito quell' ente possibile appunto, che si vede in Dio, ed anzi che si crede tale perchè tale si vede in Dio. Or posciachè tutto ciò che è in Dio è Dio, dunque anche il finito, ciò che, secondo il Gioberti, è soggettivo, e che si immedesima con noi è Dio; il che se non è panteismo, per dirlo ancora, che cosa sarà, miei signori? S' accalappia dunque il nostro Filosofo ne' suoi stessi ragionamenti, e precipita nella fossa altrui preparata; il che suole esser sempre la giusta sorte riserbata all' errore. Ma v' ha ancora un barlume di speranza, miei signori, di poter salvare in qualche modo il sistema dell' ab. Gioberti dalla taccia gravissima che egli incorrerebbe, secondo i fatti ragionamenti; e questo si è che egli professa apertamente, ed estolle a cielo il dogma della creazione, anzi lo pone a segno caratteristico da cui distingue i filosofi puri di panteismo da quelli che ne vanno infetti. E veramente in ciò siamo d' accordo con lui, purchè s' intenda come l' intendono i cattolici e non come l' intendeva lo Spinosa o l' Hegel: questo dogma può essere una tessera acconcissima a ciò, perchè in qual maniera sarà panteista colui che professa, come professiamo noi tutti cattolici, miei signori, che l' università delle cose contingenti è cavata dal nulla? Perciò se gli fosse piaciuto di esser coerente a questo criterio che stabilisce per iscoprire dove giacciasi il panteismo, avrebbe dovuto incominciare dimostrando che tutti quei filosofi che egli accusa di tanto errore, negano la creazione, e che egli solo l' ammette. Ma questo è quello appunto ch' egli si dimenticava di fare. Ma or lasciando stare le accuse che egli appone altrui, non avrà almeno il signor Gioberti, magnificando il dogma della creazione, ed anzi cangiandolo in assioma filosofico (il che è andare certamente al di là dello stesso dogma), purgato interamente e pienamente il suo sistema da così brutta colpa? Questo è quello che noi ci proponiamo d' investigare, miei signori, in altra lezione. Sì, miei signori, se Vincenzo Gioberti ammette puramente e semplicemente il dogma della creazione, quale è insegnato dalla fede cristiana, egli non è panteista. A malgrado di tutto ciò che abbiamo veduto di lui, noi siamo presti ad assolverlo da un tanto errore: noi diremo o che non l' abbiamo inteso, ovvero che egli non è troppo felice nello spiegare i suoi concetti, o finalmente che egli si contraddice inavvedutamente. Ma avvertite: noi pretendiamo per rimandarlo giustificato, ch' egli veramente ammetta questo dogma cristiano della creazione, e che non ci illuda con pompose parole; che lo ammetta nella sua filosofia, non nella sua credenza, sulla quale noi non moviamo alcun dubbio, nè importerebbe alla scienza. Quest' avvertenza ce la insinua egli stesso, poichè egli stesso ci ammonisce [...OMISSIS...] . E veramente se gli stoici chiamavano Iddio caussa caussarum, che è quanto farlo in un certo senso, creatore, non erano perciò meno panteisti; se lo Spinosa chiama Iddio CAUSA IMMANENTE di tutte cose, che è la frase di cui tanto si compiace il Gioberti, non era questo immune da panteismo. Convien dunque, che il Gioberti, se vuole andar netto da sì brutta macchia (parliamo sempre del sistema, non dell' uomo,) ammetta la creazione nel vero senso, nel senso cattolico, come l' ammettiamo noi. E` questa la ricerca che ci rimane a fare: a noi riman di vedere qual sia il concetto che il signor Gioberti ci dà della creazione, come ce la spieghi; giacchè egli dichiarando propriamente di vederla nell' intuito primitivo, può essere in caso di spiegarcela assai meglio d' ogni altro che non crede di vederla. Cominciamo dunque a dar mano a questa nuova ed importante ricerca. E prima osserviamo come lo stesso signor Gioberti confessi di non avere altro rifugio che il salvi dal panteismo, se non questo dogma della creazione; e confessi che tutto il resto del suo sistema sarebbe manifestamente panteistico, se non sopraggiungesse opportunamente questo dogma a sanarlo. Nella lettera XI di quelle che dirige al professor Tarditi, ci narra la storia dei suoi pensieri, parlando di se stesso in terza persona così: [...OMISSIS...] . Dal qual passo raccogliamo più cose importanti. E la più importante si è, che costruire la scienza prima coll' ente possibile del Rosmini non è già cadere nel panteismo, come in tanti altri luoghi va declamando il signor Gioberti (che che ne sia dello scetticismo che non appartiene al nostro discorso); e che all' incontro costruire l' edificio della scienza prima colla semplice nozione dell' ente reale, è appunto un cadere nel panteismo; questa confessione rileva assai, miei signori, perchè è ciò appunto che avea scritto il prof. Tarditi, dicendo che [...OMISSIS...] . Ora voi vi risovverrete pur anco, o signori, che il Gioberti, stretto allora dal bisogno di difendersi, negò francamente, che il Tarditi cogliesse nel vero [...OMISSIS...] . Ma ora all' opposto concede al prof. Tarditi senza contrasto, che costruire la scienza coll' ente reale è cadere nel panteismo, il che gli avea prima negato: noi teniamolo a conto. Di poi avete udito che egli parla di molti autori ortodossi ed eterodossi, che pongono a prima base dell' umano sapere l' ente reale , e che il loro sistema riesce al panteismo. Quali sono, secondo il Gioberti, cotesti scrittori ortodossi? Certo, sant' Agostino, s. Bonaventura, Malebranche ed altri tali. Vedete, che interpretati al modo che fa il Gioberti, tutti cotesti autori riescono macchiati di panteismo, perchè a spiegare la cognizione delle cose esistenti non sono ricorsi all' intuito della creazione. Or questo non par probabile di uomini sì illuminati, al men rispetto ai due primi. Laonde noi ci atterremo, miei signori, all' interpretazione che dà il Rosmini di sant' Agostino e di s. Bonaventura, la quale nello stesso tempo che li concilia con s. Tommaso, li salva ancora da ogni taccia di panteismo; e d' altra parte l' interpretazione del Rosmini non è tratta già dall' una o l' altra frase sfuggevole, ma dallo spirito e dal fondo di tutte le loro opere. Ma che diremo poi della pretensione, che mette fuori il signor Gioberti ad ogni piè sospinto, di avere tali autori dalla sua, se tali autori appunto, a detta di lui, sono panteisti? Convien dunque dire, stando alle confessioni dello stesso signor Gioberti, ch' egli si vanti di seguire dei panteisti; o se rinunzia a coprire il suo sistema con sì rispettabili autorità, egli si rimane del tutto solitario ed isolato nel mondo della Filosofia. Ma entriamo direttamente nel nostro argomento. E cominciamo dall' osservare che pel signor Gioberti il dogma della creazione non è solamente un articolo di fede, o un teorema filosofico, ma di più è anche un assioma . E quale assioma! Il primo di tutti gli assiomi, sul quale si fonda lo stesso principio di contraddizione, e da cui procede la forza d' ogni dimostrazione (1). Ora un assioma è una verità necessaria, e il primo di tutti gli assiomi è il più necessario di tutti, da cui deriva la necessità agli altri. Se dunque il principio di contraddizione è necessario, se è necessaria la forza con cui conchiude il sillogismo, ancor più necessario o almeno ancor prima dee esser necessario il principio o l' assioma di creazione. Abbiamo dunque una creazione necessaria, una creazione così necessaria come sono i primi principj della ragione, e d' una necessità anteriore; ma non è questa, o signori, come ben sapete la creazione cattolica, la quale non ha una necessità intrinseca e razionale, come quella che dipende dal libero ed ottimo volere di Dio. Di poi che cosa sono le esistenze o sieno le creature pel signor Gioberti? Non altro che qualche cosa che si separa da Dio per mezzo della riflessione. Vediamolo. L' oggetto dell' intuito umano è l' Ente. L' Ente è Dio. In quest' oggetto l' uomo trova ogni cosa, il contingente e il necessario, la creatura e il Creatore, perocchè l' ente è ogni cosa. Noi abbiamo veduto che tale è la dottrina del Gioberti. Richiamiamo le sue parole: [...OMISSIS...] . L' Ente, cioè Iddio oggetto dell' intuito, possiede dunque tutto ciò che vi ha di positivo nell' astratto, nel concreto, nel generale e nel particolare, nell' individuale e nell' universale. Le creature possiedono le stesse cose, ma in altro modo, perchè il positivo è mescolato in esse col negativo, il quale non è in Dio. Alle esistenze reali, che sono le creature, appartengono, come dice poco appresso, la concretezza e l' individualità , che per altro in un modo diverso, cioè senza l' elemento negativo, si trovano in Dio. Quindi egli soggiunge che « « la concretezza e l' individualità sono il reale senza l' ente »(2) », cioè il reale diviso, separato da Dio, ammettendo che per via di riflessione e di astrazione si possa separare il reale da Dio, e così fare che esistano. Come poi si può separare da Dio il reale, così viceversa si può colle operazioni riflesse della mente separare da Dio l' astrattezza e la generalità, e così fare che esistano nello spirito umano le idee, onde dice: « « L' astrattezza e la generalità sono l' ente senza il reale » », cioè l' ente dal quale è stato separato per via d' analisi il reale. E che cosa allora ne è rimasto dell' Ente, cioè di Dio, su cui si esercitarono tali operazioni? Egli è rimasto l' ente possibile, perchè l' ente senza il reale è ente possibile, e però all' ente possibile, che altre volte ha detto essere il nulla, altre volte ha detto immedesimarsi col soggetto umano, qui dà il titolo di Ente, che è la parola solenne che egli serba a significare Iddio, e altrove dice più espressamente che è Dio. Pone dunque due separazioni che si fanno nell' Ente, cioè in Dio, mediante la riflessione: colla prima si trova la concretezza e la realtà, coll' altra si trova l' astrattezza e la generalità: [...OMISSIS...] . Fermiamoci dunque qui, e vediamo come il nostro Filosofo faccia nascere le cose create, perocchè questo ci fa conoscere qual sia il concetto che egli si è formato della creazione. Onde adunque, nascono secondo Gioberti, le cose create? Dalla concretezza e dalla generalità. E dove sono la concretezza e la generalità? Sono in Dio, il quale è [...OMISSIS...] . Ma il concreto, il particolare, l' individuale appartengono all' esistenze reali (così chiama le creature) per altro in modo diverso da quello in cui appartengono a Dio, perchè in Dio quelle nozioni sono unite coll' astratto, col generale, coll' universale; ed acciocchè nascano le creature si devono separare. Le creature dunque sono nozioni o idee che sono in Dio, ma che si devono separare dalle sue correlative, acciocchè sieno creature. Così nascono le creature. Ma se dopo separate queste, si tornano a unire colle loro nozioni corrispondenti, che sono l' astrattezza, la generalità, l' universalità, in tal caso si ricompone l' Ente, cioè Dio. L' analisi adunque e la sintesi sono quelle che fanno uscire le creature da Dio, e che le fanno poscia rientrare in Dio. Infatti egli soggiunge: [...OMISSIS...] . Tale è il concetto della creazione giobertiana. E questo concetto non ispiega solamente la creazione del mondo, cioè dell' esistenze reali, ma ben anco l' origine delle idee, come vedemmo. Perocchè a quel modo che, analizzando l' Ente, si può separare il concreto e l' individuale dall' astratto e dall' universale, e così averne belle e create le esistenze reali, simigliantemente si può separare l' astratto e l' universale dal concreto e dall' individuale, e così averne le idee riflesse, giacchè, come dice, [...OMISSIS...] . Ora ditemi, miei signori, che vi par egli di questa maniera di far nascere le esistenze reali mediante l' analisi che lo spirito fa dell' Ente, cioè di Dio, coll' uso della riflessione? Vi par egli che questo sia un ammettere il dogma della creazione? Non è molto singolare la spiegazione di questo dogma? Voi sapete che il dogma della creazione suppone un atto di Dio, e qui noi lo troviamo ridotto ad essere un' analisi che fa lo spirito dell' uomo! come viceversa troviamo che l' Ente reale, cioè Iddio, è finalmente una sintesi dello spirito stesso! Vero è che il sig. Gioberti dice, che [...OMISSIS...] . E che diremo, dunque, signori miei? Diremo forse che la creazione sia un lavoro filosofico che fa Iddio e che l' uomo ripete, e così la ragione dell' uomo sia veramente la ragione di Dio? Diremo che la creazione non sia altro che « « una rivelazione di cose » » come espressamente la chiama il nostro Filosofo (2)? E` forse questo il dogma cattolico della creazione? Dal catechismo noi abbiamo apparato che la creazione si definisce convenientemente « una produzione dal nulla ». Non crediate. Il signor Gioberti vi dichiara espressamente che questa non è che una « « metafora volgare » » (3), benchè confessi che essa è « « la produzione assoluta, che dà principio alla sostanza, non meno che alle forme potenziali ed attuali delle cose prodotte » »; ma è da vedere in che modo egli intenda avvenire questo dar principio . Noi abbiamo veduto che nel sistema che esaminiamo il Creatore è lo spirito che analizza l' oggetto dell' intuito, il quale oggetto è Dio, e vi cava il concreto ed il particolare che sono le esistenze reali, le creature: niente dunque produce dal nulla, perchè trova in Dio tutto: la concretezza stessa e l' individualità, dalle quali nascono le cose create, come pure l' astrattezza e la generalità, dalle quali nascono le idee riflesse; perocchè « « l' ente è astratto e concreto, generale e particolare, individuale e universale in un tempo » » le creature dunque sono diverse da Dio, come le proprietà divise per analisi sono diverse dalle proprietà unite per sintesi: non v' ha qui niente di nuovo se non che è nuovo il modo col quale la riflessione umana considera lo stesso oggetto dell' intuito. A questo appartiene la sintesi primitiva che ha per oggetto Iddio, a quella appartiene l' analisi che ha per oggetto le creature, cioè certe proprietà dell' Ente divise dalle altre. Perciò egli ci dice che « « l' atto creativo immanente non è cosa sostanziale, ma modale »(1) » benchè, secondo la Teologia cristiana, la creazione in Dio è la stessa divina sostanza, e neppure nella creatura ella è cosa modale; anzi è il ricevimento del suo essere sostanziale. Ma se la creazione si fa coll' analisi e colla sintesi giobertiana, niente vieta che ella sia non più che cosa modale; conciossiachè il separare il concreto e il particolare dall' astratto e dal generale certo non importa che una mera modalità. Ma è egli forse questo quel concetto di creazione che può purgare un filosofo dalla taccia di panteismo? O piuttosto non vediamo noi che un panteista dee per necessità e coerenza col suo sistema innalzare alle stelle la bellezza e la fecondità del dogma di creazione spiegata in tal modo? E il vantare con tanta affettazione un tal dogma come cosa propria di tal filosofia, e quasi non più comune al mondo cristiano, non somiglia egli al costume di que' panteisti che cercano d' illudere il pubblico con frasi magnifiche e mensognere? Vero è che in un altro luogo dice, che « « l' esistente è sostanzialmente distinto dall' ente »(2) »: questa frase ci fa concepire un raggio di speranza, che il Gioberti riconosca che le creature e Dio non sono una sola sostanza, ma due sostanze veramente distinte; pure perchè mai esprimere un vero tanto importante così brevemente? Sarebbe ella non più che una frase magnifica? Vediamo tutto il contesto: [...OMISSIS...] . Ora se le creature insiedono in Dio, come possono essere una sostanza da lui diversa? Perocchè qui non si tratta dell' insidenza loro come in esemplare ed in causa, ma si tratta d' un' insidenza dell' essere reale e sostanziale delle creature. Certo che in Dio non vi hanno due sostanze, ma una sola. Tutto quello che è in Dio è Dio. Dire che il concreto e il particolare, da cui prima avea detto che nascono le creature, quando tali proprietà si dividono coll' analisi, esistono in Dio in un altro modo, non basta; perchè la differenza non può essere di modo, ma di sostanza, per evitare il panteismo. Ma udiamo come egli continua: [...OMISSIS...] . Che vi pare di questo linguaggio? Egli è certamente coerente a quello che avea detto prima, che togliendo in Dio coll' analisi l' astrattezza e la generalità, nascono le idee, e togliendo in lui la concretezza e la individualità nascono le creature. Ma la sostanza è ella unica, o sono più sostanze? Questo è quello che noi dobbiamo sapere. Ora noi abbiamo da una parte un sistema intero da cui risulta che la sostanza è unica; ed abbiamo dall' altra una frase sfuggevole, isolata e contradittoria che « « l' esistenza si distingue sostanzialmente dall' ente » ». Questa frase potrà esprimere la credenza dell' uomo; ma noi esaminiamo il sistema del Filosofo. D' altra parte, la frase è conciliabile col sistema, giacchè se le creature sono il concreto e il particolare che la riflessione ritrova in Dio oggetto dell' intuito, certo che esse si distinguono da Dio sostanzialmente, perchè le creature in tal supposto, lasciano a Dio tutta la sostanza e esse non sono che sue proprietà. Infatti il Gioberti dà il nome di proprietà al concreto ed all' astratto, all' individuale e al generale che ripone in Dio, là dove dice: [...OMISSIS...] . Ma consideriamo un altro luogo dello stesso Autore, acciocchè, quanto si rende più chiaro il suo pensiero, altrettanto s' allontani il pericolo che le sue frasi ci illudano. L' oggetto dell' intuito giobertiano è l' ente, cioè Dio; all' incontro l' ente possibile che s' immedesima col nostro spirito, come vedemmo, è oggetto della riflessione. Ora fra l' uno e l' altro « « v' ha quella analogia e somiglianza rimota e imperfettissima, che corre tra l' infinito e il finito, fra l' ente e l' esistente » »: sono parole del Gioberti. Questa immensa differenza nasce unicamente dalla diversa maniera colla quale lo spirito nostro vede lo stesso oggetto. Se dunque l' oggetto è lo stesso, benchè le potenze sieno diverse; se lo stesso oggetto rispetto ad una potenza è Dio, rispetto all' altra potenza è l' esistente, cioè la creatura; non avremo noi che Iddio e la creatura sono l' essere stesso, la stessa sostanza? Ora udite le parole di Vincenzo Gioberti: [...OMISSIS...] . Considerato bene tutto questo passo, molte cose, son certo, suggerirà al vostro spirito, miei signori, la penetrazione di cui siete dotati, delle quali alcune saranno forse le seguenti: 1 Il Gioberti dice che l' idea diretta e la riflessa hanno NELLA SOSTANZA un oggetto medesimo: la sostanza dunque è unica. 2 Che quest' oggetto sostanzialmente il medesimo, quest' unica sostanza, rispetto all' intuito è l' Ente, cioè Iddio; rispetto alla riflessione è l' ente finito, l' ente astratto e possibile, quale è nel nostro spirito, e s' immedesima col nostro spirito stesso; onde accagiona il Rosmini di soggettivismo, perchè da esso deduce le idee; benchè non sia vero che ne deduca le idee, ma solo la forma delle idee. Tiratene la conclusione: non solo voi, miei eruditi signori, ma ognuno che abbia fior di logica, sa tirarla. La conclusione indeclinabile, inescusabile, manifesta ed evidente si è, che dunque Iddio, e l' ente astratto, finito, soggettivo, che s' immedesima collo spirito umano, sono nella SOSTANZA il medesimo oggetto, e differiscono nel modo; perchè è la sola riflessione e astrazione dello spirito che li divide; questa è quella che fa uscir fuori le esistenze dall' Ente: ecco per dirlo di nuovo, a che si riduce la CREAZIONE GIOBERTIANA! Onde altrove egli esprime la creazione con questa frase, « « la trasformazione psicologica del reale (cioè di Dio) nel possibile » » (che secondo lui è una creatura) (2). Miei signori, non è ella forse una dolorosa, ma patente verità oggimai il dire, che questo sistema è quello nè più nè meno de' più arditi panteisti? Dopo di ciò non fa meraviglia, che il Gioberti, miei signori, sembri contradirsi, come abbiam veduto che soglion pur fare tutti i panteisti, e di più non è meraviglia, che esca in declamazioni contro i panteisti che lo precedettero (anzi ella è cosa naturale), secondo i quali [...OMISSIS...] . Ma dopo avere dato tali e somiglianti sgarrate, quasi scudo messo avanti a protezione di sua dottrina, egli ritorna a sè medesimo, e vi dice netto, che, come [...OMISSIS...] . Vi dice ancora, siccome udiste, che [...OMISSIS...] . Nel qual luogo l' Ente, cioè Iddio, è divenuto quell' idea che dà luogo alla psicologia, quell' idea che spiegò già il Gioberti nel luogo sopracitato, dove disse, che è un' idea che s' immedesima collo spirito umano, onde anzi dà nome ed accusa di soggettivisti e psicologisti a quanti muovono da quest' idea separandola dalla sussistenza. Perocchè non è già l' Ente come sussistente che dà luogo alla psicologia, ma l' Ente come intelligibile, che è quanto dire come quello onde fu astratta la sussistenza, il quale, secondo lui, s' immedesima col soggetto, coll' uomo. Ancora, dopo averci detto, che la sola dovizia reale delle scienze è quella che consiste nel concreto, egli ci soggiunge che il concreto della Filosofia [...OMISSIS...] . Il che vi prego di raffrontare con ciò che avea scritto nell' « Introduzione », «L. I, p. I, f. 23 ». [...OMISSIS...] , ed è perciò ch' egli vuole che nell' oggetto del suo intuito vi sia anche il sensibile, il che è perfettamente conseguente a tutto il resto, perchè anche la materia sensibile è una esistenza. Ma posciachè voi avete udito pure testè di che il Gioberti accusa i panteisti, cioè di volere che Iddio sia, a rigor di termini, non già il centro universale, ma lo stesso circolo; giova che noi vediamo d' intendere a fondo quale sia la distinzione che il Gioberti pone fra il centro universale che è Dio, e il circolo che sono le cose create. Parlando dunque egli dell' idea e del reale, li considera meramente come due rispetti, sotto cui si riguarda la cosa stessa, la stessa sostanza; protestando di dividerli appunto come si divide coll' astrazione il centro d' un circolo dalla sua periferia. Ora udite, che divisione sia questa, e se basti a dividere le creature dal Creatore in modo da non cadere nel panteismo. [...OMISSIS...] . Se dunque i panteisti errano col dire che Iddio è tutto il cerchio, mentre non ne è che il centro universale; voi avete inteso, miei signori, rimedio che apporta a tant' errore il nostro Gioberti. Egli ci fa osservare che il centro non istà senza il circolo, nè il circolo senza il centro, che il circolo ha due rispetti, l' uno de' quali è il centro, e l' altro è la periferia, i quali non si possono dividere nè realmente, nè scientificamente; ma solo astrattamente, cioè con quell' astrazione che distingue mentalmente le cose più indivisibili. Ora se Iddio è il centro, secondo il Gioberti, e se secondo i panteisti, Iddio è tutto il circolo, che avremo a dire se non: poveri panteisti, che non hanno saputo dividere Iddio coll' astrazione dal resto delle cose, benchè sia indivisibile, come il centro è indivisibile dalla periferia! Povera gente, a cui non è riuscito di trovare quest' accorta distinzione suggerita da Vincenzo Gioberti, per la quale si fa vista di distinguere Iddio da tutto il resto; ma s' aggiunge la dichiarazione, che ella non è già una distinzione nè reale nè scientifica; ma una distinzione di mera astrazione, la quale fa considerare l' Ente sotto due rispetti diversi, l' uno dei quali è Dio, Idea, e l' altro è la realità in tutta l' estensione del termine tanto necessaria, quanto contingente! Ed ancora, dopo avere insegnato una dottrina così ardita, sembra nondimeno ch' egli intenda di prepararsi aperta una ritirata al suo bisogno, gittando in un altro luogo male a proposito quelle parole che vi ho già recitate altrove, colle quali egli fa vista di rifiutare il panteismo, come se il giudicio del pubblico potesse sorprendersi e ingannarsi con qualche frase. [...OMISSIS...] ; sul qual passo alle osservazioni per noi fatte nella lezione precedente dobbiamo aggiungerne un' altra, miei signori, importante, mostrando forza che egli ha di assolvere dalla colpa di panteismo il giobertiano sistema. Secondo queste parole dunque, l' ordine assoluto è l' oggetto dell' intuito; e in quest' oggetto l' idealità è inseparabile dalla realità; questa è quella sintesi la quale precedentemente ha detto, se vi ricorda, che è Dio, perocchè Iddio pel signor Gioberti è una sintesi, quella sintesi che si trova nell' intuito dell' uomo. Or che cosa contrappone il Gioberti all' ordine assoluto oggetto dell' intuito? Egli contrappone l' ordine contingente di cose, il quale è l' effetto libero del primo. Dunque l' ordine contingente, l' ordine delle cose create ch' egli chiama effetto libero, quest' ordine non è l' oggetto dell' intuito. Ma d' altra parte ella è pur dottrina fermissima del signor Gioberti, che ogni conoscimento umano sostanzialmente è compreso nell' oggetto dell' intuito, e che fuor dell' ordine dell' intuito non v' ha altro ordine di sapere, se non quello della riflessione e dell' astrazione, o, come la chiama altrove, della sintesi raziocinativa e dell' analisi. Dunque alla sintesi raziocinativa ed all' analisi appartiene l' ordine contingente delle cose, le quali cose, per dirlo di nuovo, sono create in virtù delle operazioni della mente umana, che è appunto il sistema de' panteisti della Germania. Per fermo chi mai di voi non conosce il sistema dell' Hegel; che riduce appunto tutte le cose all' idea, e colle trasformazioni di essa fatte dal pensiero toglie a spiegare egualmente Iddio e il mondo, il necessario ed il contingente, l' essere e il pensiero stesso? Il qual sistema, lungi d' esser nuovo, è quello appunto de' primi panteisti italiani, gli Eleatici, pe' quali era un medesimo il pensare e l' essere, [...OMISSIS...] . Udiamo su di ciò nuovamente spiegarsi lo stesso Gioberti: [...OMISSIS...] . Dalle quali parole, unendole alle precedenti, noi possiamo trarre questo dialogo. - Che differenza vi ha, signor Gioberti, tra la cognizione che è oggetto dell' intuito, e la cognizione che è oggetto della riflessione? G. La cognizione che è oggetto dell' intuito, e quella che è oggetto della riflessione, è sostanzialmente la medesima, e non differisce che nella forma . - Se l' oggetto dell' intuito e quello della riflessione è nella sostanza il medesimo, come poi dite che differisce nella forma? in che consiste questa differenza? G. La differenza di forma che passa tra la cognizione oggetto dell' intuito, e la cognizione oggetto della riflessione, consiste in due cose, la prima che la cognizione oggetto dell' intuito è istantanea, e la cognizione oggetto della riflessione è successiva; la seconda che nell' intuito lo spirito vede l' oggetto quale è in sè, e la riflessione gli dà una forma soggettiva, lo scompone e ricompone . - Ma non avete anche detto che all' intuito appartiene l' ordine assoluto nel quale l' idealità è inseparabile dalla realtà? G. Sì, l' ho detto. - Non avete anche detto che il contrapposto dell' ordine assoluto è l' ordine di cose contingenti? G. L' ho detto. - E che l' ordine delle cose contingenti è l' effetto libero dell' ordine assoluto, oggetto dell' intuito? G. L' ho detto parimente, e ne ho soggiunta la ragione, perchè [...OMISSIS...] . - Voi dunque per Ente intendete l' ordine assoluto? G. Appunto. - E per esistenze, ossia cose contingenti, intendete quelle cose che la riflessione, la sintesi raziocinativa e l' analisi trovano nell' ordine assoluto, che è il vostro Ente, veduto proprio in sè, quando queste facoltà dividono l' una cosa dall' altra, per esempio l' idealità dalla realità, e le dividono con successione di tempo, onde quest' ordine in fatto diviene in tal modo un ordine soggetto al tempo, alla moltiplicità ed alla contingenza? G. Appunto. - Egli diviene altresì ordine soggettivo, perchè in tal modo l' ordine assoluto acquista una forma soggettiva? G. Così nè più nè meno. - L' ordine adunque delle cose contingenti è formato dalla riflessione, che scompone e ricompone l' ordine assoluto, ossia l' Ente oggetto dell' intuito. G. Ottimamente. - Ora veramente capisco chiaro che cosa sia quello che voi chiamate principio di creazione, pel quale l' ordine delle cose contingenti, è un effetto libero dell' ordine assoluto che è l' oggetto dell' intuito. L' ordine delle cose contingenti dove si dà separazione dell' ideale dal reale non differisce sostanzialmente dall' ordine assoluto, ossia dall' Ente, da Dio, oggetto dell' intuito, ma differisce solamente nella forma, e per questo la creazione è cosa modale, come dite, [...OMISSIS...] . G. Dite di più: l' ordine contingente che abbraccia le creature non differisce dall' ordine assoluto, cioè da Dio, nella sostanza; ma differisce nella forma, perchè in quell' ordine delle cose contingenti vi è lo stesso che nel primo, oggetto dell' intuito, lo stesso che in Dio, ma con questo divario che l' oggetto dell' intuito, cioè Dio, acquista una forma soggettiva . Questa forma soggettiva che si dà all' oggetto dell' intuito, cioè a Dio, mediante il raziocinio, la sintesi raziocinativa e l' analisi, è appunto la creazione, perchè venendo posto l' oggetto dell' intuito sotto questa forma, ciò che era assoluto divenne relativo, ciò che era necessario divenne contingente, ciò che era oggettivo si cangiò in soggettivo, ciò che era Dio si cangiò in creatura. - Mirabile spiegazione che voi date, mio caro Gioberti, del mistero della creazione; si vede proprio che n' avete l' intuito immediato! La cosa infatti non mi pare che possa essere più chiara, o signori: l' ordine delle cose contingenti non differisce, secondo il nostro Filosofo, di sostanza dall' ordine assoluto, ossia dall' Ente, che è il Dio del Gioberti. La sostanza dunque di Dio e delle creature è la medesima; la diversità sta unicamente nella forma; il cangiamento di forma a cui l' Ente, cioè Iddio oggetto dell' intuito soggiace, è la creazione. Questo cangiamento è un effetto libero dell' Ente, ma questo effetto libero è poi l' opera della sintesi raziocinativa, e dell' analisi dell' uomo; perchè è questa che dà all' oggetto dell' intuito una forma soggettiva, scomponendolo, maneggiandolo giusta le proprie leggi, senza però alterarne la sostanza, benchè tuttavia sia da aggiungersi, che [...OMISSIS...] . Voi giudicate dunque, o signori; voi paragonate questo sistema a quello dell' unica sostanza di Spinosa, e ditemi che ci trovate di diverso, se non forse una nuova fraseologia, una maggior confusione d' idee, maggiori contraddizioni, ed una declamazione continua che tutti gli altri sistemi, eccetto questo suo, sono panteisti, la qual declamazione (d' altra parte non degna d' un filosofo) voi ben vedrete se appartener possa a quelle frasi magnifiche e menzognere di cui i panteisti appunto, massime del nostro tempo, fanno uso, come c' insegna lo stesso Gioberti. Alle quali frasi magnifiche si potrà dunque senza scrupolo riferire anche quella, dove il signor Gioberti dice, che Iddio non comprende in sè la « « realità contingente »(1) ». E certo la realità contingente non può essere in Dio dall' istante ch' ella è il concreto separato per via d' analisi da Dio; onde ciò che è separato non può essere unito. Ma questa separazione però operata dallo spirito che riflette e che costituisce il principio di creazione, non è più che modale; perchè la riflessione e l' intuito hanno nella sostanza il medesimo oggetto . E la ragione che di ciò dà il Gioberti, come vedemmo, si è perchè il discorso che fa la mente quando dall' Ente possibile passa all' Ente reale [...OMISSIS...] . Nell' oggetto dell' intuito vi è dunque ogni realità che altronde non potrebbe aversi, il qual discorso, s' egli ha alcuna forza, vale anche per la realità contingente nella sostanza, non però quanto al modo della contingenza, che nasce quando si separa colla riflessione. Che anzi non si potrebbero distinguere i corpi reali dai fantasmi e dai sogni, se non vedessimo quelli nell' oggetto stesso dell' intuito (1), secondo il Gioberti; e però conviene che la stessa realità de' corpi si vegga almeno confusamente nell' oggetto intuíto. [...OMISSIS...] . Allo stesso genere di frasi non si può a meno di ascrivere quell' altra che [...OMISSIS...] . Perocchè questa analogia e somiglianza imperfettissima diviene bentosto nel linguaggio del Gioberti una vera similitudine mediante « « la sintesi dell' atto creativo » », perocchè l' atto creativo è una sintesi, come voi già sapete, [...OMISSIS...] , benchè la Teologia cattolica insegni che fra Iddio e le creature non possa passare alcuna vera similitudine, nè avervi alcun genere comune. Questa sua similitudine è fondata, secondo il Gioberti, nell' Ente possibile, che egli afferma comune a Dio ed alle creature. Eppure il Rosmini avea dimostrato, che non si può applicare propriamente la possibilità a Dio, ma solo l' idealità, e ciò per conoscere che egli esiste, non mai per conoscerlo simile alle creature. Dice adunque il nostro filosofo, che l' Ente possibile conviene a Dio ed alle creature: è una impressione e una modificazione del soggetto conoscente fatta nell' uomo dall' oggetto conosciuto (1), quasichè una modificazione del soggetto umano possa essere comune a Dio ed alle creature. Ma se l' Ente possibile è una impressione ed una modificazione del soggetto umano; se è una modificazione ed un' impronta lasciata dall' oggetto dell' intuito, e se l' oggetto dell' intuito è veramente duplice, cioè Iddio e le creature, come talora dice il Gioberti, conseguirebbe, secondo la buona logica, che le impressioni e modificazioni fossero due, e tanto distinte fra loro e disparate, quanto sono distinti gli oggetti che fanno l' impronta. Non ve lo pensate: anzi il Gioberti vuol che sia un' impressione ed una modificazione sola, il che corrisponde alla sua dottrina sull' unicità dell' oggetto del sapere, di che abbiamo parlato nelle precedenti lezioni, e ciò attesa la sintesi dell' atto creativo che risponde nello stesso tempo all' uno ed all' altro oggetto. Poichè [...OMISSIS...] . Ma non crediate, miei signori, che questo Ente possibile che è una modificazione dello spirito umano, comune a Dio ed alle creature, non sia nello stesso tempo l' idea posseduta da Dio stesso. Questa impressione unica che l' Ente e l' esistente, Iddio e le creature lasciano nello spirito umano, attesa la sintesi dell' atto creativo, e che è fedel ritratto dell' unicità sostanziale del suggello, questa impressione e modificazione del soggetto umano che è l' Ente possibile comune a Dio ed alle creature, questa modificazione che rende simili fra di loro Iddio e le cose create, è nello stesso tempo [...OMISSIS...] . Voi vedete dunque, miei signori, che l' idea possibile è una modificazione dello spirito umano; e che nello stesso tempo è l' idea divina, che è quanto dire Dio stesso (2). [...OMISSIS...] . Certo in qual modo la stessa idea possa essere ad un tempo subbiettiva, cioè modificazione dello spirito umano, e obbiettiva, cioè idea di Dio, non si può facilmente intendere se non in un sistema di assoluto panteismo. Così fuori di questo sistema è impossibile intendere come un' idea possa mai essere una modificazione dello spirito umano, un' impronta, una impressione, metafora de' materialisti e soggettivisti; che d' altra parte non danno nessuna chiara notizia di ciò che costituisca un' idea. Dove mi piace, o signori, farvi osservare quanto agevolmente il Gioberti cangia stile e linguaggio, senza alcun sospetto, dove stima bisognarli per la sua causa. Perocchè avendo sempre nel corso de' suoi volumi accagionato il Rosmini di soggettivismo, qui tutto improviso lo accusa d' essere soverchiamente oggettivista, scrivendo che [...OMISSIS...] . Ma qual' è la ragione perchè il Rosmini dice obbiettivo, e insieme nega che sia subbiettivo l' Ente ideale? Voi lo sapete, o signori: è perchè immedesimare l' obbiettivo col subbiettivo da una parte va contro al senso comune ed alla ragione; dalla altra parte è un professare il più compiuto panteismo. Senza cadere nel panteismo, certo non si può dichiarare che l' idea, che è cosa divina, sia modificazione o impressione dello spirito umano, come non si può insegnare che Iddio e le creature lascino una sola e medesima impronta nel soggetto pensante come fossero un solo suggello, e che quest' impronta sia l' Ente possibile comune a Dio ed alle creature, dichiarando nello stesso tempo che questa comunità, questa similitudine di Dio e delle creature, si ravvisa « « nell' idea eterna dell' Ente »(2) ». Che se si ravvisa nell' idea eterna dell' Ente, che bisogno di ricorrere all' impronta che rimane nel soggetto uomo? E poi, se questa idea eterna dell' Ente, cioè di Dio, è « « l' archetipo eterno, senza il quale la creazione sarebbe impossibile » », converrà dire che vi abbia un archetipo comune a Dio e alle creature. Ora quando si udì mai che Iddio abbia un suo archetipo su cui possa esser creato? E se non ha l' archetipo, come l' archetipo potrà mai essere l' idea dell' Ente possibile, comune a Dio e alle creature? Lasciamo pure la sua gran parte alla confusione delle idee che cozzano nell' ardente immaginazione del nostro oratore; ma finalmente non rimarrà sempre il panteismo manifesto in fondo a tutto questo sistema, se così un cotale straparlare può chiamarsi? In altro luogo il signor Gioberti scrive che [...OMISSIS...] , cioè da Dio. Il possibile dunque che è da una parte subbiettivo, cioè una modificazione dell' uomo, dall' altra parte è inseparabile da Dio dove si contiene, e perciò è Dio. Ma da questo così aperto panteismo sembrerebbe discordare quella frase che « « la realtà finita si contiene idealmente nell' infinita » »; perocchè certo il dire che la realtà finita si contiene soltanto idealmente nell' infinita, è benissimo detto, miei signori, è frase immune al tutto da panteismo. Ma noi dobbiamo pur sempre domandare, prima di raccoglierne cosa alcuna, se quella frase sia veritiera, o per avventura ci mentisca come tutte le altre. Per venirne a capo, noi dobbiamo richiedere che cosa intenda il nostro Filosofo per idealmente, che cosa per idea, da cui viene la voce idealmente . Ora tutto il suo sistema para a questo d' identificare l' idea colla realtà; e contro a que' filosofi che vogliono accuratamente distinguere tali cose, egli adopera, se non l' armi della Filosofia, certo quelle della Rettorica, per le quali innalzò tanto grido fra' suoi amici. Il signor Gioberti insegna che tutte le cose sono idee (1); che lo spirito nostro afferra non solo l' Ente (Iddio), ma anche l' esistente (le creature contingenti) « « nella loro concretezza, non già applicando loro l' idea astratta dell' ente » (2) », di maniera che anche la concretezza delle cose contingenti è intelligibile allo spirito senza alcun mediatore (3), e crede che questo sia anche il pensar comune degli uomini, la quale credenza, o signori miei, vi parrà forse un po' strana, come pare a me; perocchè scrive francamente che [...OMISSIS...] . Se dunque le cose s' immedesimano colle idee e le idee colle cose, se ogni cosa è un' idea e ogni idea una cosa, che significherà in questo sistema la frase che la realtà finita si contiene « idealmente nell' infinita »? Qual sarà il valore da attribuirsi, o signori, a quella parola idealmente? La differenza che si pone tra l' idea e la cosa, ci sarà pure tra il valore delle parole idealmente e realmente . Ma quella differenza è nulla, perchè l' idea e la cosa si identificano: dunque la parola idealmente dee avere un valore nel sistema del nostro Autore identico alla parola realmente (1). Non lasciamoci dunque ingannare nè pure da questa frase e dichiariamola senza scrupolo menzognera come tutte le altre, perocchè quando il nostro Autore dice che « « la realtà finita si contiene idealmente nell' infinita » », dice ad un tempo che si contiene realmente, non differendo l' ordine dell' idee da quello delle cose. Ma il dir questo è panteismo svelato, e perciò gli giova coprirlo pudicamente agli occhi de' semplici suoi lettori col velo di una frase così bugiarda. La messe è tanto ricca, o signori, che io vi tratterrei di soverchio, se ne volessi fare l' intera raccolta. Io m' ero proposto di esaminare in questa lezione che cosa intende il nostro Filosofo sotto la parola di creazione, a cui egli ricorre, come ad unico scudo, onde salvare il suo sistema dalla brutta taccia che tanto teme: m' ero proposto di esaminare s' egli, come filosofo, ammetta veramente la creazione, quale l' ammettiamo noi colla Chiesa cattolica, ovvero se adoperi anche questa bella parola insidiosamente per ammansare i timori che i buoni potessero concepire de' suoi filosofici ardiri; e quanto abbiamo detto finqui mostra assai manifesto, che la sua creazione non è per avventura la creazione della cristiana Teologia, ma una creazione al tutto panteistica. Ma ciò che ho detto è pur poco verso a quello che a dire mi rimarrebbe, onde a mio malgrado devo rimettere oggimai molte cose, e per avventura le più importanti, ad un' altra lezione. Mi contenterò dunque in questa di aggiungere ancora poche osservazioni, e poi finirò per non abusare della vostra indulgenza. Noi abbiamo veduto che l' ordine delle cose è identico a quello delle idee, e che ogni cosa è un' idea, e che la prima idea, chiamata dal sig. Gioberti il primo psicologico, è il principal concetto di quelli che entrano a formare il primo ontologico, mentre gli altri non sono che logicamente derivati . E bene, questo ci appiana la strada ad intendere come il nostro Autore attribuisca la creazione all' idea . E posciachè l' idea è quella che giudica, ragiona e in una parola dialettizza, non è maraviglia se quella che crea sia la sintesi, onde parla così spesso della sintesi creatrice (1). Ma in che maniera credete voi che l' Idea operi la creazione? Egli vi dice schiettamente che [...OMISSIS...] . Voi sapete, l' intelligibilità propria di Dio è Dio stesso, come insegna il signor Gioberti, e questa intelligibilità che trapassa è dichiarata da lui numericamente identica in Dio e nelle creature. Dunque, secondo la sua dottrina, Iddio coll' azione creatrice trapassa nelle cose create, ed è per questo che egli insegnava prima che l' oggetto universale ed immediato del sapere in tutte le scienze è Dio stesso, come abbiamo veduto nelle precedenti lezioni. La qual maniera di spiegare la creazione è a dir vero a lui comodissima. L' intelligibilità di Dio trapassa nelle creature, perciò anche queste divengono intelligibili, perchè esse hanno in sè l' intelligibilità stessa di Dio in esse trapassata. Ma perocchè l' ordine degli intelligibili è identico perfettamente all' ordine della realtà, conviene che trapassando l' intelligibilità di Dio nelle creature vi trapassi anche l' essere reale, e così acquistino in virtù della stessa operazione « « l' essere, l' intelligenza e la vita »(1) ». Le creature adunque che sono ad un tempo cose ed idee, acquistano ad un tempo e collo stesso atto creativo l' esser cose e l' essere idee, trapassando in esse Iddio che è cosa ad un tempo ed idea. Egli è piacevole, a dir vero, miei signori, l' udire il Gioberti menare gran vanto di aver trovato un sistema così felice per evitare intieramente il panteismo. In un luogo delle sue opere, mettendosi uno scanno più su di Platone, egli viene narrando, come questo filosofo, benchè nè pure egli netto al tutto di panteismo, non sia pervenuto a tanta altezza. Sofferite che vi rechi ancora le sue parole. Dopo aver professato di seguire il filosofo ateniese, così segue: [...OMISSIS...] . Se dunque l' intelligibile ossia l' idea divina trapassa nelle cose create, dee trapassare pure in esse la realtà divina; e così vengono create: il qual placito è chiamato dal signor Gioberti l' assioma di creazione. Di che egli condanna [...OMISSIS...] . Mediante questa dottrina dell' atto creativo che il Gioberti ripone nel trapassamento dell' idea e della realtà divina nelle cose create, con che le cose sono create e diventano contingenti, reali ad un tempo ed intelligibili nella loro concretezza, o anche intelligenti; intenderete a meraviglia, miei cari signori, molti luoghi dell' opere del nostro Filosofo, che altramente riuscirebbero oscuri e sembrerebbero dissonanti dal panteismo. Intenderete cioè a meraviglia: I Perchè il Gioberti consideri l' idea di creazione [...OMISSIS...] , soggiungendo che [...OMISSIS...] . II Perchè affermi che [...OMISSIS...] , negando che sia mediatore ossia mezzo di conoscere l' essere ideale, come vuole il Rosmini (3), e tuttavia sostiene che la realtà non si può conoscere che nella sua ragione necessaria, la quale è Dio. Ora se questa ragione necessaria che ci fa conoscere la realtà finita e contingente fosse cosa diversa da quella realtà, ella sarebbe mezzo di conoscere, mediatore; ma poichè quella ragione necessaria, che è l' idea divina e Dio stesso è passata nelle cose create coll' atto creativo, e passando in esse le ha create e costituite nella loro concretezza; perciò ella non è diversa dalle cose create che si devono conoscere, e non è quindi mezzo di conoscerle, nè mediatrice tra esse e lo spirito, ma è proprio l' oggetto del conoscere, e così le cose create si conoscono nella loro stessa concretezza, senza bisogno d' altro, perchè nella loro concretezza sta l' intelligibile divino. III S' intende ancora perchè il signor Gioberti distingua il reale finito dal possibile, e distingua in ogni cosa due possibili, l' uno umano e l' altro divino; ma queste distinzioni che gli giovano non poco a mantellare il panteismo, egli dichiara che non sono che distinzioni di semplici rispetti e di puri aspetti, sotto cui si considera sempre la stessa cosa. [...OMISSIS...] . IV L' atto creativo consistendo nel trapassare che fa l' idea divina e con essa la realtà nella cosa creata, s' intende in che senso egli dice che l' Idea divina (e reale) informi la mente umana, e si vanti di spiegare egli pel primo la virtù informatrice dell' Idea ripetendola dalla sua VIRTU` CAUSATRICE, la qual virtù causatrice è quella appunto che dà l' essere materiale e sostanziale alle cose. Di vero egli continuamente dichiara che [...OMISSIS...] . I teologi cattolici insegnano che Iddio non può venire in composizione colle cose create, e però non può essere la loro forma sostanziale. Ma il signor Gioberti non si contenta già di fare che Iddio venga in composizione colle sue creature, dichiarandolo forma delle medesime; ma di più egli passa colla sua propria concretezza a costituirle, e così le crea; perocchè è coll' atto creatore che Iddio come idea informa le cose, e Iddio come cosa (giacchè cosa e idea s' identificano) le crea trapassando in esse il divino intelligibile, che è Dio stesso. V S' intende ancora in che modo il signor Gioberti non si contenti di chiamare Iddio causa prima e le creature cause seconde, il che è benissimo detto e consentaneo al comune sentire, giacchè la causa prima non ha bisogno per essere tale d' immedesimarsi colla causa seconda: ma lo chiami ancora sostanza prima, chiamando le creature sostanze seconde, con che spera egli di ottener due vantaggi, cioè di sbattere da sè la taccia di panteista colla frase magnifica di sostanze seconde riserbata alle create esistenze, e d' intromettere nello stesso tempo il panteismo a man salva nelle menti de' suoi lettori. E veramente egli descrive l' attinenza delle sostanze seconde alla sostanza prima, come si descriverebbe appunto l' attinenza degli accidenti alla sostanza che li regge e sostiene. Così Iddio diviene sostanza delle sostanze, e queste acquistano natura di accidenti di Dio medesimo; il quale oltre comporsi con esse come la forma colla materia, trapassa in esse sostanzialmente e così le crea. Ascoltiamo com' egli si esprime: egli dice in un luogo che il Sole spirituale, cioè Dio, [...OMISSIS...] . Iddio dunque informa l' anima umana sostanzialmente, la informa come prima sostanza, la sostiene, che è la frase che s' applica alle sostanze reggenti e sostenenti gli accidenti. Altrove, parlando dell' intuito umano, s' esprime così: [...OMISSIS...] . Laonde il Gioberti non trova modo più acconcio a descrivere la virtù creatrice, che quel di dire che « « il contingente RAMPOLLA dal necessario » », come appunto il rampollo esce dall' albero, trapassando in esso i succhi dell' albero; e quello che « fa rompollare il contingente dal necessario » è un' idea, cioè com' egli dice, l' idea di creazione (3). VI Finalmente vi si renderà or chiaro perchè voi vi scontrate negli scritti del nostro Filosofo in tante identificazioni. Identico è per lui l' ordine delle cose e l' ordine delle idee, come vedemmo, identico l' ideale ed il reale, identico nella sostanza è ciò che dà l' intuito e ciò che dà la riflessione, identica è la necessità metafisica (1); in somma tutto si riduce a identità, da poichè la creazione si fa col movimento e trapassamento dell' idea di Dio e Dio stesso nella creatura (rimanendo quell' idea e sostanza divina numericamente la stessa), di quel Dio che come sostanza informa, sostiene e regge le cose create, a quel modo che queste sostengono gli accidenti, e più ancora perchè elle propriamente non gli informano. Ma io voglio chiamarvi a considerare più attentamente un' altra identificazione. Voi sapete che il sig. Gioberti dà all' uomo l' intuito di Dio. Ma l' intuito, quest' operazione dell' anima umana, a chi appartiene, all' anima umana o a Dio? Il signor Gioberti vi dice conseguentemente alla sua teoria dell' atto creativo, pel quale l' intelligibile divino trapassa nelle cose create e così le crea; vi dice che appartiene non meno all' uomo che a Dio. [...OMISSIS...] , onde l' intuito dell' uomo è anche medesimamente per un altro rispetto intuito di Dio. E dà di ciò questa ragione, che [...OMISSIS...] . E certo, che vi abbia una connessione intima fra la creatura e il Creatore, niuno il vorrà negare; ma trattasi di sapere se questa sintesi faccia sì che il Creatore e la creatura diventino un solo oggetto, come il signor Gioberti sostiene; o se ella consista nel trapassare che fa l' Intelligibile, cioè il Creatore, nella creatura, come il sig. Gioberti la spiega nel luogo che abbiamo citato (benchè altrove si contradica negandolo); o finalmente se l' atto creativo è così inseparabile dall' atto conoscitivo, che quello sia un elemento essenziale di questo, a talchè il proprio concetto di questo racchiuda come una sua parte l' atto creativo, ciò che pure sostiene il nostro Filosofo. Egli dice in fatti, che [...OMISSIS...] ; il che è coerente con ciò che disse che ogni cosa è un' idea, sistema che si direbbe del panteismo ideale, ma pel sig. Gioberti è medesimamente panteismo reale, poichè per lui ogni idea è una cosa, e viceversa. Or posciachè le cose create sono intelligibili, secondo lui, nella loro propria concretezza, senza bisogno di un altro lume mediatore, perciò l' intelligibilità delle cose s' immedesima colla concretezza delle cose, ed è cosa identica l' esser le cose intelligibili e l' essere concrete. Ma posciachè l' intelligibilità delle cose non differisce numericamente dall' intelligibilità divina, giusta la sua dottrina; dunque l' intelligibilità divina s' immedesima colla concretezza delle cose finite; e il renderle intelligibili s' immedesima colla loro produzione. Di più, l' intelligibilità divina, secondo il signor Gioberti, è lo stesso che la mente divina, onde dice che [...OMISSIS...] . Non è dunque meraviglia se l' atto dell' intuito umano sia pel sig. Gioberti un intuito appartenente alla causa ed alla sostanza prima, cioè alla mente divina, e quest' intuito divino ed umano sia l' atto creatore, cioè l' atto che rende intelligibili le cose, e così le crea. E se il renderle intelligibili ed il crearle suona il medesimo, dunque tutto l' essere delle cose create consiste nella loro intelligibilità, ed elle sono idee (ciò che è lo stesso pel signor Gioberti che dire cose reali); e però sono intelligibili nella loro concretezza, perchè la loro concretezza ed esistenza è appunto la loro intelligibilità: [...OMISSIS...] (quasi che, miei signori, per dirlo di passaggio, applicando l' idea astratta alle cose, quest' idea non cessasse per ciò appunto di essere astratta). Se dunque la concretezza delle cose è la loro esistenza, e quest' esistenza s' identifica colla loro intelligibilità, onde coll' illustrarle sono create, e la loro intelligibilità è numericamente identica con quella di Dio, e con Dio stesso, voi vedete bene qual conseguenza indeclinabile ne proceda, e se per evitare la taccia di panteista basti che l' Autore dichiari sulla sua parola di non essere, e qua e colà sparga a piene mani frasi magnifiche contradicenti al panteistico errore (1). Laonde il signor Gioberti scrive ancora che [...OMISSIS...] . Dove il discendere che fa lo spirito umano da Dio a sè come creatura si dichiara un atto che s' immedesima coll' ascendere che fa lo spirito come pensiero a Dio, mediante l' azione creatrice. Il pensiero dunque dell' uomo che ascende a Dio, s' immedesima col discendere che fa la creatura da Dio, mediante l' atto creativo, e queste operazioni sono simultanee ed immanenti com' è l' atto creativo! Ancora un' ultima osservazione, o signori, e poi finisco, che è ben tempo. Il signor Gioberti ci fa sapere che non v' ha un solo panteista che non si contradica, e che a lato del panteismo non insegni cose contrarie a tale sistema, infiorando ogni cosa di frasi magnifiche e menzognere, perocchè il panteista pudico ha vergogna di mostrar nuda la propria fronte. Ora se il contradirsi è costante carattere de' panteisti, dichiaro non mancare nè pure questo carattere al nostro Filosofo. Noi l' abbiamo veduto, ma suggelliamo la serie delle contradizioni accennate, con un gruppetto di esse alquanto piacevole. I Il signor Gioberti insegna che ogni cosa è un' idea, e che l' idea crea le cose, che l' intelligibile divino passando nelle cose create dà loro esistenza, che crea i sensibili illustrandoli, e crea pure la mente (2). Or ogni cosa è un' idea ed ogni idea è una cosa: creandosi le cose di necessità si creano anche le idee. Ma no che in un altro momento lo stesso signor Gioberti scrive all' opposto: [...OMISSIS...] . II A malgrado però che « « la menoma idea obbiettivamente sia Dio, pel signor Gioberti, e non possa esser creata » », giusta un' altra dichiarazione non meno espressa dello stesso Filosofo, vi ha un gran numero d' idee, ossia d' intelligibili essenzialmente distinti, il che recherebbe direttamente la conseguenza platonica, che vi abbia un gran numero d' Iddii essenzialmente distinti, i quali Iddii potrebbero esser creati dall' Ente, che sarebbe il supremo Iddio. Ciò risulta assai chiaro, se si raffronta col brano ultimamente citato quello ove dice: [...OMISSIS...] . Or se gl' intelligibili assoluti sono le idee obbiettivamente considerate, ciascuna delle quali, benchè essenzialmente distinte, è Dio; gli intelligibili relativi sembra che siano le stesse idee considerate subbiettivamente, le quali lo spirito umano si forma colla sua riflessione, e tuttavia, secondo il Gioberti, l' Ente egualmente le crea e sono essenzialmente distinte (1). Del resto voi non ignorate che noi col Rosmini siamo assai lungi dal dire che « « l' idea dell' essere sia la sola cosa conosciuta dall' uomo » », quando anzi insegniamo che per mezzo di questa idea conosciamo tutte le altre cose, e particolarmente le realità finite. Ma poichè non è la difesa nostra che noi cerchiamo di fare in queste lezioni, ma sì la difesa della verità filosofica e cristiana che esclude e riprova il panteismo, noi qui lasciamo ben volentieri l' argomento, pregandovi di continuarmi la studiosa vostra attenzione per un' altra lezione ancora, la quale conchiuderà la discussione intrapresa sul sistema di panteismo proposto all' Italia da Vincenzo Gioberti: forse acciocchè questa nostra nazione nel genere del panteismo s' abbia il primato. Ripetiamo, o signori, quello che abbiamo detto al cominciamento della precedente lezione, che se Vincenzo Gioberti ammette puramente e semplicemente la creazione, noi lo rimandiamo assai volentieri libero da ogni sospetto di panteismo. Ma dobbiamo però rammentargli quanto egli disse a Vittorio Cousin: « « Non si tratta delle parole, ma dei concetti »(1) ». Perocchè il signor Cousin si difendeva appunto dalla taccia di panteismo, dichiarando d' ammetter la creazione, e nulladimeno il Gioberti non gli fece buona la scusa, anzi il volle convinto di quell' errore, di cui certo una parola non basta a purgarsi. Ora noi abbiamo veduto che maniera di creazione sia per avventura la giobertiana; creazione che non è creazione, anzi è velo trasparente assai e squarciato, con cui egli spera di togliere agli occhi altrui la schifezza del suo panteismo. Ma che direste, signori miei, se io vi dimostrassi che dopo avere egli sbandito nel fatto il concetto di creazione, e tenutane co' denti la parola, questa stessa arma imponente della parola ce la cede assai facilmente? Udite tutto il ragionamento e poi giudicate. Egli dice prima che ogni cosa è un' idea (2). Dice dipoi che ogni menoma idea obbiettivamente è Dio (3). Già voi sentite la conseguenza manifesta che discende da queste due premesse, cioè che ogni cosa obbiettivamente è Dio. Ora, secondo il signor Gioberti, gli altri sistemi fuori di questo suo nel quale ogni cosa è necessariamente Dio, sono tutti fracido panteismo. Andiamo avanti. Se ogni cosa è un' idea, non si posson creare le cose senza creare le idee. E in fatto il signor Gioberti, quantunque sostenga che ogni menoma idea obbiettivamente sia Dio, tuttavia dice ancora che le idee sono essenzialmente diverse l' una dall' altra, e che si creano (4). Ma in altri luoghi, rinsavito alquanto, nega che si creino, e prende calore contro il Tarditi, attribuendo a questo professore, benchè falsamente, l' aver detto che le idee si creino, e che l' idee dell' uomo sieno numericamente distinte da quelle di Dio; perchè dice il Gioberti: [...OMISSIS...] . Se dunque Iddio non può creare la menoma idea, dunque egli non può creare nè tampoco la menoma cosa: ed ecco esclusa la creazione, ecco caduta di mano al nostro Filosofo anche questa parola, quest' arma impotente colla quale credea difendersi dalla vergogna del panteismo. La logica dee avere il suo luogo, miei signori, e la logica è inesorabile, non ha compassione delle parole, quando queste la vogliono impaniare e impastojare. Ma come dunque (si opporrà) il signor Gioberti, che da una parte dice che ogni cosa è un' idea, e che le idee non si posson creare (onde la creazione rimane abolita); come lo stesso signor Gioberti ha poi continuamente in bocca la parola creazione, e non contento che ella sia un dogma, e d' altra parte confessando che non si può dimostrare per via di raziocinio (3), ci assicura sulla sua parola d' onore ch' egli la vede proprio immediatamente e direttamente coll' acuto sguardo del suo spirito contemplante, e la dichiara altamente non già un teorema, ma un assioma filosofico? Signori, e non sapete voi che i panteisti son filosofi, che stimano di aver la facoltà di far travedere come indubitatamente hanno quella di travedere? Non sapete quante scappatoje si tengano sempre aperte? Eccovene qua una nel caso nostro. Distinguete il concetto volgare della creazione dal concetto filosofico; e tutto sarà aggiustato. Il Gioberti la nega solo nel concetto volgare, che la definisce colla Chiesa cattolica, una produzione dal nulla; ma la ammette poi nel concetto filosofico. E qual è questo concetto filosofico? Voi l' avete udito. [...OMISSIS...] . In tal modo esse pure diventano intelligibili, idee, e lo spirito umano le afferra nella loro concretezza, senza bisogno di alcun mezzo di conoscere, di alcun' altra idea che faccia l' ufficio di mediatore tra le cose create e lo spirito, perchè sono esse stesse idee. Così c' insegna il Gioberti. In un luogo il nostro Filosofo, dopo aver detto che [...OMISSIS...] , segue a parlare della luce intellettuale così: [...OMISSIS...] . Conchiudete: la luce stessa intellettuale sussiste adunque identica in Dio e nelle creature, le quali si creano col venire illustrate da questa luce divina, come disse altrove, e così la loro concretezza non ha bisogno d' altro che di se stessa per esser conosciuta. L' idea dunque è quella che crea, ella è altresì quella che intuisce, che giudica (1), che astrae (2), che ragiona (3); ma è altresì quella che è creata; onde la creazione di una cosa, per esempio d' un arbore, è chiamata dal nostro Autore [...OMISSIS...] . Ma questa attuazione estrinseca dell' idea dell' arbore, che è la sussistenza e concretezza dell' arbore, è della stessa sorte e natura dell' idea? Certamente, secondo il Gioberti, perocchè egli argomenta così: [...OMISSIS...] . Acciocchè dunque l' idea, che è la potenza, attuandosi diventi cosa, che è la sua attuazione ed effettuazione, conviene che l' idea e la cosa sieno della stessa sorte, perocchè quella altramente non potrebbe dare la realtà a questa se non fosse reale; il qual argomento non può valere se non trattasi di una realtà della stessa natura e sostanza; benchè soggiunga che [...OMISSIS...] . Onde la cosa contingente essendo « il possibile attuato », consegue che egli sia più del possibile, cioè che sia il possibile dotato di necessità assoluta, più il suo atto contingente; ond' è che il contingente è intelligibile nella sua concretezza senza bisogno d' altra idea o mezzo di conoscere. Ogni cosa dunque è l' idea, più l' atto contingente dell' idea, e l' idea essendo la sostanza stessa di Dio, quindi ogni cosa è la sostanza di Dio, più l' atto contingente di questa sostanza: così Iddio è la sostanza prima, e il suo atto contingente sono le sostanze seconde sostenute da quella, come l' atto è sostenuto dalla potenza che lo produce (2). La stessa conclusione si raccoglie, miei signori, dalla definizione che il nostro Filosofo ci dà poco appresso del possibile, definendolo: [...OMISSIS...] . Ora che cosa è il reale increato o creante? Egli è certamente Iddio. Ma che cosa è il reale creabile? Il creabile non è ancora il creato: il creabile sono le idee. Ma la menoma idea obbiettivamente è Dio stesso, insegna il Gioberti. Dunque il creabile è Dio stesso; e il possibile non è altro che una relazione che ha Dio verso sè stesso, quasichè in Dio vi avessero altre relazioni che quelle delle persone. L' idea dunque è quella che crea ed è ad un tempo quella che è creata; dove per creata il signor Gioberti intende, come abbiamo veduto, attuata, effettuata . Tale è il concetto della creazione del nostro Filosofo. Da tutti i lati spiccia la stessa conseguenza, lo stesso puro e putido panteismo; sicchè si può dire a ragione che il signor Gioberti sia fra i panteisti uno de' più coerenti. Pigliamo pure la cosa ancora da un altro verso. E` principio del signor Gioberti che nulla vi abbia nell' oggetto della riflessione che non sia prima nell' intuito, e che quella non faccia che ripetere ciò che vi ha in questo. [...OMISSIS...] (1). Vediamo dunque di nuovo che cosa si contenga nell' oggetto dell' intuito. Il signor Gioberti ci insegna che l' uomo nello stato di intuito [...OMISSIS...] . L' intuito dunque non ha che un oggetto ideale. Ora ogni ideale, anzi ogni menoma idea oggettivamente, com' è data nell' intuito, è Dio stesso. Ma nello stesso tempo egli ci dice, che l' oggetto dell' intuito è quello che egli chiama anche la formola ideale, e che [...OMISSIS...] . Ma come da questo Dio, che è tre realità, giusta la formola, come da questa trinità giobertiana escono poi le creature? Voi avete udito la descrizione dell' atto creativo: egli è quello [...OMISSIS...] . Perciocchè infatti il collegarsi d' un ente con un altro è una mera modalità. Onde, spiegando che cosa intenda per sostanza seconda, egli l' aveva definita [...OMISSIS...] . Con che nulla si crea veramente, poichè la stessa sostanza che esisteva prima in un modo, comincia ad esistere in un altro. Ma riteniamo, miei signori, che l' oggetto dell' intuito, benchè contenga anche le esistenze, cioè le creature, egli è sempre ideale, e però è sempre Iddio, pel signor Gioberti, pel quale ogni ideale è Dio. Onde le esistenze, cioè le cose create, essendo Dio, sono intelligibili per sè stesse, nella loro concretezza, senza bisogno di alcuna idea che loro serva di mediatore, poichè sono anch' esse idee, e però Iddii; e l' uomo conosce le cose immediatamente in virtù dell' intelligibilità assoluta (3), che è Dio oggetto unico dello scibile. Ma come poi, essendo Dio le cose create, noi le separiamo da Dio? Non già per mezzo dell' intuito, il cui oggetto è ideale, ma per mezzo della riflessione, la quale così diventa creatrice, come già abbiamo veduto. Ma avvertite che l' intuito e la riflessione convengono insieme « « NELLA SOSTANZA del loro oggetto » », giusta la dottrina del nostro Filosofo (4). Onde, le creature sono apprese come contingenti dalla riflessione, ma nell' intuito sono idee, e perciò hanno la divina natura, e nella sostanza s' identificano perfettamente. La loro intelligibilità tuttavia, ossia la loro idealità (1), rimane la stessa anche nella riflessione, e però rimane divina, anzi Dio stesso; e mediante questa intelligibilità sono create, cioè sono sostanze, perchè è l' idea quella che le crea. Tuttavia il signor Gioberti di buon animo nega la medesimezza del reale e dell' ideale contingenti, spiegando però la parola contingenti così, [...OMISSIS...] , la qual derivazione si fa per via di riflessione, come vedemmo. Tuttavia la riflessione [...OMISSIS...] . Sebbene adunque nell' oggetto dell' intuito giobertiano si comprenda ogni cosa in quanto alla sostanza, e tutto in esso sia ideale, cioè tutto in esso sia Dio; tuttavia nell' intuito l' uomo non trova sè stesso, [...OMISSIS...] . E pure, ciò che si contiene nell' oggetto dell' intuito e nell' oggetto della riflessione non differisce nella sostanza, ma solo nel modo. Se dunque il soggetto uomo è una sostanza seconda che non si trova che nell' oggetto della riflessione, e se l' oggetto della riflessione non differisce di sostanza dall' oggetto ideale dell' intuito, che è la sostanza prima; convien dire che le sostanze seconde non differiscono dalla prima di sostanza, ma solo di modo . Tali sono le sostanze seconde del signor Gioberti. Si può dunque conchiudere, che il vocabolo di sostanze seconde non sia un velo abbastanza denso per coprire la vergogna del panteismo, e che val tanto questo vocabolo di sostanze seconde, quanto vale la dichiarazione che [...OMISSIS...] ; mentre avea pur detto che l' intuito e la riflessione convengono [...OMISSIS...] . Volgiamoci ancora d' altra parte: vediamo se il signor Gioberti spieghi in qualche altra maniera il suo principio di creazione, che più s' avvicini al cattolico insegnamento. Eccovi qua un luogo, signori miei, molto atto a farci conoscere la sua mente. Egli riduce la creazione ad una individuazione delle idee. Iddio è l' idea, anzi ogni menoma idea è Dio: questo Dio7Idea è il generale; questo generale s' individua, ed ecco venute fuori tutte le creature. [...OMISSIS...] . E certo, miei signori, gli scolastici più illustri e di sana dottrina, fra i quali s. Tommaso, dicevano che Iddio nella creazione non individualizza già una cosa che prima era generale, e molto meno individualizza se stesso; ma dicevano che egli cava dal nulla la cosa stessa, la materia o sostanza e la forma, come insegna la Chiesa cristiana cattolica. Ma non tutti gli scolastici s' attennero a questa maestra di verità: anche fra essi v' ebbero dei panteisti, e questi panteisti insegnarono intorno alla creazione quello appunto che adesso ci ripete come una novità, come un sistema da lui trovato, Vincenzo Gioberti. Scoto Erigene, il più celebre tra i panteisti del medio evo, ammetteva le idee creanti come udimmo fare il Gioberti, ed insieme create, perchè il Gioberti insegna, che [...OMISSIS...] . Ma Guglielmo di Champeaux ebbe di più insegnato che gli universali, cioè le idee, s' individuano nei particolari, e così vengon questi creati; e poichè in ogni particolare v' ha lo stesso universale individuato, perciò gl' individui identici nell' essenza non differiscono che per la varietà degli accidenti e delle forme passeggiere. Non vedete voi qui aperto quel fonte a cui il signor Gioberti sembra aver attinto il suo sistema della creazione? e che, se voi volete, dopo averlo attinto, l' ebbe anco perfezionato, press' a poco come Amanzi di Chartes e Davide di Dinant perfezionarono il sistema di Guglielmo, riducendolo in un più espresso panteismo? Perocchè il Gioberti, facendo che l' intelligibile, cioè Iddio, che chiama anche il generale, crei le cose illustrandole, e le illustri passando in esse, nella loro propria concretezza che diventa così intelligibile per sè stessa, sicchè lo spirito l' afferra senza bisogno del mezzo d' alcun' altra idea, riuscì a quella solenne sua conclusione, che Iddio è l' universale ed immediato oggetto pel sapere umano. Laonde quando il Gioberti vi dice, o signori, che lo speculare degli scolastici non potè sciogliere per intero il gran problema della creazione, egli dee intendere degli scolastici sani e cattolici, come un san Tommaso ed altri tali, perocchè d' altra parte voi avrete osservato quante volte nelle sue opere egli riprenda e condanni i semi7realisti, e con qual compiacenza egli si dichiari per uno schietto realista . Or bene a chi non è noto che REALISTI appunto si chiamavano i discepoli di Guglielmo di Champeaux, di questo famoso dottore, il quale dichiarava la creazione essere un' individuazione degli universali, come fa il Gioberti? Ma torniamo un poco ad ascoltare il Gioberti stesso. [...OMISSIS...] . Questa è la definizione che il Gioberti dà del generale in sè stesso, e nella sua radice; la quale giunta « nella sua radice »parrebbe, a dir vero, superflua, dopo aver detto che il generale è tale in sè stesso; poichè, se il generale è l' Ente necessario, l' Ente necessario non ha radice, nè io so che i filosofi od i teologi abbiano mai fin qui parlato della radice dell' Ente necessario, che è Dio. Andiamo dunque avanti. [...OMISSIS...] Se non fosse, miei signori, per non interrompere troppo il corso delle idee, vorrei pur trattenermi un poco anche su questo punto determinato, in cui l' individuale contingente concentra la sua realità; ma continuiamo: [...OMISSIS...] . Così il signor Gioberti si esprime. Riassumiamo adunque. Che cosa è creare? Creare è individualizzare l' idea generale. Che sono le creature? Le creature, ossia le esistenze contingenti, non sono che l' idea generale (l' Ente necessario, Iddio), che passa a stato d' individuo. Vi farete ora maraviglia, miei signori, che le cose contingenti sieno pel Gioberti l' idea, quando Iddio stesso, secondo lui, è l' idea? Ma qual differenza passa dunque fra Dio e le creature? Grande certamente e sostanziale; perchè Iddio, secondo il Gioberti, è l' idea generale nella sua generalità, mentre le creature sono l' idea generale nella sua individuazione; onde l' idea generale si chiama sostanza prima, e l' idea generale nella sua individuazione si chiama sostanze seconde. La creazione è il passaggio che fa Iddio dallo stato d' idea generale allo stato d' individuo, dallo stato di Ente allo stato di esistenza, e questo passaggio è l' atto creativo. Voi vedete di nuovo qui che Iddio oggetto dell' intuito, e le creature oggetto della sintesi raziocinativa e dell' analisi, non differiscono nella sostanza, ma differiscono nella forma (il signor Gioberti nondimeno trova assai utile di chiamare Iddio sostanza prima e le creature sostanze seconde): Iddio è l' oggetto generale, che mediante l' individuazione, cioè l' atto creativo, passa a stato di soggetto, ossia di creatura. Laonde coerentemente dice il Gioberti: [...OMISSIS...] . Per quanto sia strano il dire che la radice divina si veda effettuata nelle creature, pure non è men vero che così la pensi il signor Vincenzo Gioberti, perchè egli stesso ce ne assicura. Con queste spiegazioni che egli medesimo ci somministra de' suoi pensieri, e della maniera con cui toglie a distruggere il panteismo, noi intendiamo, o signori, più altre cose, che senza ciò ne riuscirebbero per avventura troppo difficili a concepire. Intendiamo primieramente l' impegno ch' egli ha preso di combattere la distinzione dell' ideale dal reale, e di pretendere che l' ideale sia qualche cosa di sussistente, e com' egli dice nel modo il più strano, di concreto . Senza di ciò, egli non avrebbe potuto nè convertire Iddio in un' idea, nè convertire quest' idea nelle creature coll' individuamento, che è il suo atto creativo . Egli dunque accorda, che l' idea generale appartenga alla mente, e il particolare al senso; ma solamente nell' ordine della riflessione, che è l' ordine delle cose contingenti: in quest' ordine il generale è già individuato, reso soggettivo, immedesimato col soggetto, meramente ideale, cioè diviso dal reale e dal sensibile. Ma questa è tutta opera della riflessione dell' uomo che viene dopo l' intuito, il quale vede tutte queste cose insieme: e questa congerie, questa sintesi, come la chiama il Gioberti, è l' ordine assoluto, cioè Dio stesso. [...OMISSIS...] (voi ben sapete che noi non reputiamo la mente dell' uomo sorgente del generale, come egli ci imputa colla sua solita infedeltà; diciamo anzi che la mente non crea, ma riceve il lume universale col quale ella poi forma, limitandolo, gli universali minori, ciò i generi e le specie), [...OMISSIS...] . Voi vedete qui la solita metafora della radice obbiettiva sì della generalità , come dell' idee riflesse e del concreto dei sensibili . Non viene egli la voglia di rivolgere al signor Gioberti quella interrogazione, che assai male a proposito egli fa a' suoi avversarj, [...OMISSIS...] , le quali sappiamo aver le loro radici, perchè sono piante? In secondo luogo è pure notabile che il Gioberti riconosca una radice unica, obbiettiva, esterna, indipendente della cognizione, tanto della generalità delle idee riflesse, quanto del concreto de' sensibili, cose, a dir vero, molto disparate. In terzo luogo rimane a vedere, se questa radice della generalità dell' idee riflesse e del concreto dei sensibili, sia sostanzialmente la stessa cosa con questa generalità e con questo concreto, oppure sia cosa separata da essi, e di diversa sostanza; poichè questa ricerca è quella che può decidere la questione (quantunque sembri decisa soprabbondantemente da quanto è detto), se il sistema che esaminiamo sia panteistico o no. Giacchè essendo in fine quest' unica radice della generalità delle idee riflesse e del concetto dei sensibili, per Vincenzo Gioberti, Iddio stesso; la questione del panteismo è sempre quella di sapere se la sostanza di Dio e quella delle creature è una e la stessa, o diversa e infinitamente diversa. Se la radice del Gioberti è di sostanza diversa affatto dalla sostanza delle due piante che si fanno nascer da essa (la generalità delle idee riflesse e il concreto dei sensibili), in tal caso le metafore che egli adopera non saranno più che frasi poco esatte; ma se la sostanza della radice di quelle piante è identica, il panteismo sarà aperto ed indubitabile. Ora, onde mai il Gioberti fa uscire le due piante della generalità delle idee riflesse, e del concreto dei sensibili? Le fa uscire dalla riflessione dell' uomo preceduta però e creata dalla riflessione dell' idea, cioè del Dio7Idea. Ma questa operazione della ragione umana, che è anche insieme la ragione divina, che cosa fa? Scompone e compone l' oggetto precedente, soggettivizza quello che era oggettivo, produce, come abbiamo veduto, l' ordine contingente colla scomposizione dell' ordine assoluto oggetto dell' intuito. L' oggetto dell' intuito è dunque la radice della generalità delle idee riflesse e del concreto dei sensibili, che sono come l' albero diviso in due tronchi, e quell' oggetto è l' oggetto stesso della riflessione nella sostanza, non differendo che nella forma. Ecco come ripete questa sua teoria: [...OMISSIS...] . Quindi conchiude che il generale, in quanto è veduto nell' intuito, è l' essere necessario, cioè Dio stesso, e il concreto sensibile è il contingente, cioè Iddio stesso che concentra la sua realtà in un punto individuandosi. [...OMISSIS...] . Uditene la conseguenza che spiega ancor più le premesse. [...OMISSIS...] . La conseguenza è coerente alle premesse. Poichè, s' egli è vero che l' individuale contingente, o, come anche dice, il concreto de' sensibili altro non sia che l' idea generale individualizzata, egli è certo che per averne la cognizione, conviene aver l' intuito di quest' idea generale, che è l' essere necessario e infinito, cioè Dio, e della sua individualizzazione, che è l' atto creativo, il qual atto creativo che concentra l' esistenza in un punto determinato, è l' opera della riflessione che così reca all' esistenza il concreto dei sensibili. Egli è dunque del tutto logico il dire che per conoscer l' albero conviene conoscer la radice nel sistema del signor Gioberti, perchè in tal sistema non solo la radice è della stessa sostanza dell' albero, ma anzi ella si trasfonde nell' albero stesso, essa è il soggetto sostanziale di cui l' albero è l' atto accidentale retto e sostenuto; laddove se la radice fosse di sostanza totalmente diversa, non vi sarebbe bisogno alcuno di percepire la radice per percepire i rami della pianta, perchè una sostanza è ciò appunto che si concepisce dalla mente senza ricorrere ad altra sostanza, quando l' accidente è ciò che non si può concepire solo senza la sostanza. Quindi la ragione è palese del perchè egli cotanto ci replichi, che le cose contingenti non si posson percepire che nell' atto creativo: essendo quelle una trasformazione di Dio medesimo, conviene vedere e Dio e la sua trasformazione per averne la percezione. Ora io credo che a ciascuno sia facile il decidere sulla ricerca che continuamente facciamo, se il sistema del nostro Filosofo ontologista sia netto e puro di panteismo, com' ei sostiene. Ritenuto il filo del qual discorso, non fa maraviglia l' udire che, come le cose individue sono l' idea, ossia Dio trasformato, così l' idea, cioè Iddio, anch' egli alla sua volta sia le cose trasformate in senso contrario, cioè trasformate nella composizione o sintesi; non fa meraviglia che l' idea, cioè Iddio, sia un' attuazione dell' individuo, piuttosto che l' individuo sia una cotale attuazione dell' idea. E questo è pur quello che insegna ancora espressamente il Gioberti. [...OMISSIS...] . Ritenete, o signori, che individuare è creare, e che individuo è sinonimo di creato, e che l' idea, ossia il generale che s' individua è l' essere necessario e infinito. Che cosa è dunque il creato? L' attuazione di Dio. E che cosa è Dio? E`, ed assai meglio, l' attuazione del creato; [...OMISSIS...] . Come dunque intuire le esistenze create, senza intuire Iddio di cui sono l' attuazione? (perocchè Iddio in questa dottrina non è solo atto, ma egli ha anco attuazione). E come intuire Iddio senza intuire le esistenze che sono il creato, di cui Iddio stesso è assai meglio l' attuazione? « Quindi (soggiunge di nuovo quello che sapevamo, perchè ce l' aveva detto tante volte), [...OMISSIS...] , ossia nella loro radice obbiettiva. Udite ora come il nostro Filosofo applichi la sua teoria della creazione a spiegare il valore della proposizione: « Questo corpo è ». Colui che la volesse interpetrare alla semplice, secondo il senso comune ed i filosofi passati, altro non vedrebbe in quella proposizione che l' affermazione di un corpo. Non lo crediate: il Gioberti è troppo coerente a se stesso; egli vi vede l' insidenza del corpo nell' Ente, cioè in Dio, di cui il corpo è un' attuazione, o assai meglio Iddio è un' attuazione del corpo, e però ci vede anco l' affermazione di Dio stesso. Udite: [...OMISSIS...] . In che dunque consiste, secondo Vincenzo Gioberti, l' esistenza, colla qual parola a lui piace d' esprimere la cosa creata o contingente? Consiste nella [...OMISSIS...] . Il corpo materiale adunque nella sua concretezza insiede in Dio, e partecipa a Dio, ed è questa l' esistenza del corpo. Ora poichè non vi è nulla che insieda in Dio, e che a Dio partecipi, se non Iddio, forz' è dire che anche la materia sia Dio. Ma notate tuttavia, che il corpo è l' idea generale (il Dio di Gioberti) individualizzata, e non l' idea generale nella sua generalità: non è l' idea generale oggetto dell' intuito, ma è l' idea generale divenuta oggetto della riflessione, che l' analizza col raziocinio; ond' è necessario che la voce è nella proposizione « questo corpo è », indichi il suo riferirsi alla realtà necessaria, poichè questo riferirsi della realtà contingente alla realtà necessaria, è l' esister di questa. E in che consiste questo riferirsi? Nell' emergere, dice il Gioberti, dalla sua causa per mezzo dell' individuarsi che fa questa causa, cioè Dio, l' individuarsi del quale è l' atto creativo. Lo stesso egli ci ripete in altro luogo: udite attentamente: [...OMISSIS...] . L' esistenza dunque, sotto il qual nome il Gioberti intende costantemente la creatura, è una partecipazione finita di Dio! Se l' esistenza, per esempio, un corpo reale e individuale è Iddio partecipato in un modo finito, il corpo stesso nella sua realità e individualità ha la natura di Dio, benchè in un modo finito. E non è questo il più materiale panteismo? (2). Ora imparate, o signori (perdonatemi se così parlo), imparate a conoscer l' ignoranza profonda in cui fin qui foste stati immersi, e con voi insieme tutti gli uomini. Non credete voi, che dicendo « è questo corpo »(e ben vedete che dicendo questo non si esprime il corpo in genere, ma in individuo, nella sua concretezza e materialità), non credete, che dicendo « è questo corpo », si affermi una sostanza morta? Certamente. Ma siete ingannati: il corpo che s' afferma esistere è ben tutt' altro. Il Gioberti v' assicura, e con tutta coerenza, che dicendo « questo corpo è », il verbo è « esprime una forza viva », perchè ci mostra [...OMISSIS...] . Di più, fin qui voi eravate in un goffo errore credendo che la creazione fosse una cotal produzione dal nulla: il signor Gioberti, il filosofo della creazione, venne a insegnarvi che questa non consiste già nel prodursi il contingente dal nulla, ma [...OMISSIS...] . Quanto erano ignoranti prima di questo lume tutti i sani filosofi ed i teologi cattolici! Essi credevano tutt' alla buona, che i corpi si conoscessero come cose fatte nel tempo, e invece a rigor di termini si conoscono dall' uomo, non come fatte nel tempo, ma nell' immanenza dell' Eterno . E questo noi lo sappiamo non per divina rivelazione, non per via di raziocinio, ma di semplice intuito, che ha per oggetto l' ordine assoluto: ce ne assicura il signor Gioberti, e guai a domandargliene la menoma ragione, chè il suo intuito è immediato, e non ammette ragione alcuna. In appresso succede la riflessione che analizza quest' oggetto, il quale appare nell' immanenza dell' eterno, ed allora nasce la continuità temporanea, allora il contingente è già emerso dal necessario. Il panteismo dunque è nell' intuito, ma sopravviene la riflessione soggettiva che disfà il panteismo coll' analisi raziocinativa. Ecco l' errore dei panteisti antichi: essi avevano bonariamente insegnato il panteismo col raziocinio, ma il Gioberti li confuta, trasportandolo nell' intuito; perchè ragione prima del raziocinio che nulla crea, dee esser l' intuito che tutto contiene: e questo è l' ordine del vero assoluto, mentre quello della riflessione è un ordine soggettivo. Combatte dunque il panteismo, dimostrando che non ebbe fin qui solide basi, ed egli intende così di sopporgliele; lo combatte col sostituire un panteismo assoluto ed intuitivo ad un panteismo troppo meschino, perchè relativo e raziocinativo; un panteismo più perfetto a quei sistemi che fin qui furon proposti, e che a lui non sembrano perfetti e compiuti. Concludiamo: per distinguere il signor Gioberti da tutti gli altri panteisti, non ci resta che denominarlo il panteista intuitivo. Dovrei copiarvi le opere intere del sig. Gioberti, se volessi arrecarvi tutti i passi, coi quali egli colorisce ed incarna in tutte le guise questo suo filosofico disegno: egli parla, nella stessa pagina che vi citavo testè, del flusso delle creature che si contempla congiuntamente alla immanenza dell' atto creativo, e conchiude: [...OMISSIS...] , confondendo così insieme l' ordine naturale col soprannaturale, come appunto confuse le creature col Creatore. Ma egli è pur tempo che noi poniam modo a questa lunga discussione, in cui abbiamo spese diverse lezioni. L' attenzione che voi mi avete costantemente prestata riesce a me di caro conforto, o signori, a dover credere, che voi avete giudicato importante l' argomento, e che noi non abbiamo perduto il nostro tempo invano. Avrei desiderato che Vincenzo Gioberti fosse stato anch' egli qui ad ascoltarmi: amatore del vero, come dobbiam riputarlo, forse avrebbe modificato le sue sentenze. Se egli avesse voluto difenderle, lo avrei ammonito di mantenere in facendolo la stessa legge ch' egli ricorda sì sovente ai suoi avversarj, di non arrecare per avventura altri suoi detti contradittorj ai primi, ma di sciogliere direttamente le obbiezioni che presentano quei molti che noi abbiamo disaminati. E gli avrei aggiunto, che noi trattiamo del suo intero sistema, e della coerenza intrinseca del medesimo, non di alcuna frase appiccicata e dissonante. Quello dee dimostrare immune da panteismo, non questa, perocchè di quello si tratta. Del resto confidiamo nel retto senso de' nostri connazionali. Invano si vuol presentare a questa nostra religiosissima e svegliata nazione un panteismo deforme, mascherato, siccome nuovo e sano e profondo sistema filosofico: la chiara mente degli Italiani non s' appaga d' ambiguità di favellare, di vanissime ed insolenti dicerie, di stirate cavillazioni; sono sei anni che scrisse Vincenzo Gioberti, e non un solo Italiano, a noi noto, ha per ancora preso a professare il suo panteismo: l' Italia dunque, o signori, diciamolo pure, lo conosce e lo rigetta. Ho letto con mio molto piacere la « « Teorica del Sovrannaturale » » del sig. ab. Vincenzo Gioberti, da Lei favoritami. Prima non la conoscevo che per qualche brano mandatomi dagli amici. Di vero, l' argomento del libro è acconcissimo ai tempi nostri e necessario, perocchè il maggior bisogno che ha oggidì il mondo, e il maggior suo desiderio si è quello di essere accertato che vi ha qualche cosa di soprannaturale, e di poter dire in qualche modo a se stesso che cosa il soprannaturale si sia. Nulladimeno non parmi vero, nè detto con proprietà, ciò che l' autore afferma alla faccia 52 del suo libro, cioè che « « in tutta la Storia della Filosofia - non si è mai atteso a ricercare se in effetto la mente umana comprenda qualche elemento inintelligibile » ». Manca, se io non erro, la proprietà dell' espressione in queste parole; perocchè egli pare una contradizione il pretendere che la mente umana comprenda quello che è inintelligibile; tanto più se si consideri, che la parola comprendere significa, secondo la nota definizione che ne dà s. Tommaso, perfettamente conoscere; di guisa che quella proposizione suonerebbe così: « Non si è atteso a ricercare se la mente umana perfettamente conosca qualche elemento che non è intelligibile »! Voleva egli alludere certamente in quelle parole alla potenza che lo spirito umano possiede, d' accorgersi ch' egli non conosce tutto, e che vi hanno delle cose ch' egli neppure può conoscere nella presente sua condizione, o certo ch' egli non può comprendere, benchè non di meno sappia determinarle e segnarle con certe loro relazioni ad altre cose a lui note, e sappia ancora assicurarsi di loro reale esistenza e di loro necessità. Ma spiegato il suo detto a questo modo, cessando di essere assurdo, incomincia a non esser vero. Imperocchè egli è indubitato, che fu sempre mai conosciuta questa potenza del soprannaturale (chiamiamola pur così), la quale porta l' uomo a persuadersi dell' esistenza di una qualche cosa che sta via oltre a' confini della natura contingente e limitata; ed io, quando mi occorse parlarne, le assegnai il proprio e specifico nome d' integrazione . Tutti i teologi scolastici oltracciò, cominciando dall' antico autore de' libri de' « Nomi Divini e della Celeste Gerarchía », parlarono della maniera negativa, colla quale la mente umana da se stessa si leva a conoscere Iddio. Potrei salire più là, e trasportarmi fino ad un tempo anteriore a quello della filosofia italo7greca, dimostrando co' libri da non molto tempo scoperti degli Indiani, e coll' altre memorie antichissime dell' orientale sapienza, che la facoltà del soprannaturale e dell' incomprensibile fu sempre conosciuta e positivamente annunziata dai savj; come pure che da essa sola ebbero origine le infinite superstizioni di tutti i tempi e di tutti i luoghi. Che se il signor Gioberti avesse avuto sott' occhio la « Tavola delle potenze dell' anima umana »da me pubblicata in Rovereto, vi avrebbe trovato quella potenza del soprannaturale, distinta nelle sue varie diramazioni. Quantunque poi il suo libro dimostri ch' egli conosce assai bene le teologiche discipline (conoscenza che suol mancare in quasi tutte le moderne scritture, eziandio che trattino di Filosofia o di Religione, come egli stesso giustamente osserva), tuttavia non trovo da lui dichiarata la doppia maniera nella quale lo spirito umano si solleva a ciò che è soprannaturale e divino, distinzione alla lucidezza dell' argomento necessarissima. Perocchè ella è cosa grandemente diversa, che l' uomo s' accorga dover esistere alcun che al di là di tutte quante le cose da lui conosciute, al di là di tutti i confini del contingente; in una parola, dover esistere al di là del relativo, l' assoluto; ovvero che l' uomo possa oltracciò percepire realmente questa assoluta sostanza. A fare la prima di queste due operazioni, a conoscere l' esistenza dell' ente assoluto, ed alcune necessarie analogie fra esso e l' ente relativo, bastano le naturali umane facoltà. Onde può dirsi, che v' abbia una facoltà naturale delle cose soprannaturali. Ma all' incontro a fare la seconda di quelle operazioni, cioè a percepire realmente quello che è soprannaturale, niuna facoltà naturale qualsivoglia è sufficiente; chè ella sarebbe contradizione apertissima il dire che la natura percepisca quello che è al di là della natura. Ella ben intende che cosa a me suoni la parola percepire . Allora solo, secondo la maniera di parlare da me stabilita, una cosa viene da noi percepita, quando noi ne sentiamo in noi stessi l' azione sua propria, cioè un' azione tale che non può venirci altronde, e però atta a caratterizzare e distinguere nell' intendimento nostro quella cosa fuori d' ogni altra. Richiedesi adunque che venga dato all' uomo un principio di conoscimento soprannaturale, acciocchè egli possa percepire il soprannaturale; o, come dicono ottimamente i teologi, si richiede l' infusione del lume di grazia o di gloria. Sarebbe dunque cosa assurdissima il collocare nella natura umana una potenza del soprannaturale presa in questo secondo senso; e si può solamente attribuirle una cotal radice di detta potenza, che è piuttosto una potenza della potenza, cioè a dire ella è la potenza di ricevere in sè la potenza di percepire Iddio, cui Dio stesso, comunicandosi all' anima, crea in essa. Di qui Ella vedrà manifesta ragione per la quale nella citata Tavola delle umane potenze, io abbia collocata l' integrazione (facoltà della Teologia naturale), come anche la fede (facoltà delle idee negative) che le si associa, fra le potenze naturali; e perchè all' opposto abbia fatto una lunga enumerazione di potenze soprannaturali, quando volli indicare quelle facoltà o virtù infuse, colle quali si percepiscono realmente le cose divine, e si pensa e si vuole e si opera in conseguenza di quelle deiformi percezioni. Nell' incertezza se Ella abbia sott' occhio la Tavola di cui le parlo, gliene unisco qui un esemplare. Col volgere poi uno sguardo alla Tavola medesima, Ella potrà vedere altresì, che la facoltà del soprannaturale, quale viene descritta dall' ingegnoso signor teologo Gioberti, dà luogo ad un' altra osservazione importante assai per le conseguenze che si trae dietro. Della facoltà del soprannaturale egli fa una potenza isolata e tutta da sè, contrapponendola a quella della ragione e a quella del sentimento . Ora il concepire a questo modo la facoltà delle cose soprannaturali, dà, egli è vero, ai ragionamenti che n' espongono la teorica, un' aria di non so qual misterio e profondità, gradita al lettore; ma a fondo considerato, quel modo di concepire la detta facoltà non trovasi conforme al vero, nè scevro d' intima contradizione. E di vero, come è egli mai possibile concepire una facoltà senza ch' essa produca all' uomo qualche specie di sentimento? Non si possono dunque dare facoltà nell' uomo, le quali sieno al tutto straniere al sentimento; poichè l' uomo stesso, come io ho dimostrato nell' « Antropologia », è un sentimento. Come, di nuovo si possono dare tali notizie o percezioni, delle quali noi siamo ben certi, quando elle sieno poi prive al tutto dell' autorità della ragione, ed escluse dall' intendimento? Non si possono dunque dare oggetti nè naturali nè soprannaturali, de' quali noi siamo ben certi, se questi si pongano fuori del dominio dell' intelligenza. Convien dire adunque o che la facoltà del soprannaturale sia cieca, e in tal caso di nissun pregio, nè diversa dal fanatismo e dalla superstizione; ovvero ch' ella abbia pure in sè del lume di ragione, nè sia tutta sola, e genericamente distinta tanto dal sentimento quanto dall' intelligenza. Cotal facoltà non può dunque non essere finalmente che una specie di sentimento ed una specie d' intelligenza; e questo è quanto apparisce chiaramente da tutto ciò che io n' ho scritto in più luoghi, e ch' Ella potrà veder di nuovo nella « Tavola delle potenze »dove, senza accennar nulla che si riversi al di fuori dell' ordine de' sentimenti e dell' intelligenza, appariscono le potenze soprannaturali innestate sopra le naturali, e si dimostrano come una sublimazione del sentimento e della intelligenza, a cui azioni ed oggetti divini si comunicano; un perfezionamento insomma e completamento della natura, secondo la dottrina de' teologi cattolici, i quali costantemente insegnano l' elemento soprannaturale essere perfettivo del naturale. Le quali cose mi prendo fidanza di esporre alla Signoria Vostra, per ubbidire al gentile invito che Ella me ne fa nella pregiata sua lettera. E le aggiungerò, quanto a ciò che Ella mi dice, accordarsi meco il sig. Gioberti in più cose, che si scorge veramente da diversi tratti dell' opera sua, ch' egli vide il « N. Saggio ». E l' aver dato in parte al medesimo favorevol suffragio, certo egli è per me un fatto assai onorevole, pregiando io l' altezza dell' ingegno e anco la bontà dell' animo che dimostra nell' autor suo la « Teorica del soprannaturale ». Ma non mi posso tenere dal dire a Lei nello stesso tempo in tutta confidenza, che parmi di ravvisare anco nell' egregio sig. Gioberti quello che pur mi tocca continuamente vedere in tant' altri valent' uomini, che scrissero pro e contro la mia filosofia, cioè che troppo presto si credono d' aver colto il mio pensiero e tutta abbracciata la dottrina da me proposta alla loro meditazione. Forse che la facilità apparente di questa filosofia gl' inganna, onde non si danno il tempo di andar più addentro della corteccia. Certo, non basta l' appigliarsi ad alcune sentenze, nè basta l' aver inteso alcuni brani del sistema: è necessario por mente al tutto, e por mente a ciascuna parte, giungere al fondo delle questioni principali; ed in questo fondo non veggo esser discesi ancora gran fatto molti, e pure molti (io vorrei dir tutti) giungere vi potrebbero, se non si avvisassero d' esservi giunti (1). E qui, a ragione d' esempio, io mi persuado che il teologo torinese non avrebbe posto così in generale nell' essenza l' elemento incomprensibile delle cose, se egli avesse posto attenzione a quanto io dissi in più luoghi circa l' essenza, la sostanza, la sussistenza, la materia, ecc.; nè avrebbe disconosciute quelle dottrine ontologiche che nel mio sistema vanno intimamente collegate all' Ideologia, e che finora veramente furon da me piuttosto qua e là toccate, che trattate alla distesa, non avendo io pubblicato per anco nè l' Ontologia, nè le scienze che l' accompagnano, le quali sono la Dinamiologia, l' Agatologia e la Cosmologia . E qui basti dell' argomento principale del libro, che pur merita di essere ben accolto da noi, siccome ricchezza accresciuta all' italiana filosofia. Solo aggiungerò, prima di chiudere la presente, essemi dispiaciuto non poco l' aver trovate, in leggendo l' opera del sig. Gioberti, qua e colà accennate certe dottrine politiche, le quali non mi sembrano nè vere nè utili al genere umano. Tale si è quella, peraltro speciosissima, che sembra attribuire il diritto di governare ai migliori «(facc. 225, 226, 450) »; principio impossibile a ridursi in pratica, e ingiustissimo oltre a quanto si può credere; il quale divelle fino dalle radici ogni diritto non pur di dominio, ma ben anco di proprietà . Sono certissimo che l' egregio Gioberti non ne vuole le conseguenze, direttamente contrarie a quella rettitudine di mente e di animo, e a quell' amore del bene che il suo libro costantemente manifesta; e però, propriamente parlando egli disdice quel suo principio tutte le volte che toglie (e il fa con ingegno ed eloquenza) a difendere la verità, la giustizia e la religione. In un' opera di recente da me pubblicata, e probabilmente a Lei nota, io dimostrai darsi veramente un diritto di dominio ed un obbligo di sudditanza. Quando adunque questo diritto di dominio sia verificato nella realtà del fatto, egli è uopo rispettarlo, allo stesso modo come è uopo rispettare l' altrui campo, l' altrui casa, la veste, il pane altrui, eziandiochè questi beni siano in mano delle persone peggiori che ci vivono. Sappiam tutti che bella cosa sarebbe, o parer potrebbe, se le proprietà fossero de' soli buoni, i quali non ne userebber che bene; ma per quantunque sia, o paja bellissima questa cosa, ne vien egli di conseguenza che si possano spossessare i malvagi de' loro averi, per trasferir questi nelle mani de' migliori? E pure così si ragiona, o anzi si sragiona dai pretesi riformatori delle politiche società, i quali vorrebbero surrogare, com' essi dicono, la capacità elettiva al diritto ereditario. L' utilità pubblica, ecco il fonte ond' essi tutti i diritti pretendono derivare; ma s' ingannano oltre misura. Anteriore alla pubblica utilità (nome vago e capzioso), e ancor più di essa utilità veneranda, si è l' onestà e la giustizia, il rispetto cioè dei diritti di tutti: e finalmente la stessa utilità pubblica è andata in fumo, allorquando si comincia in suo nome a rapire l' altrui, e a permutare o le proprietà o i dominj. I quali concetti falsi e dannosi tanto più rincrescono a rinvenirsi nella « Teorica del soprannaturale », quanto che l' ingegno, la dottrina, la nobiltà dell' animo e il carattere sacerdotale del suo autore ci danno ampio diritto di pretendere da lui, ch' egli sappia diligentemente discernere l' apparenza del bene dal bene stesso, e cautelarsi contro a' lusinghevoli sofismi della giornata, i quali invescano assai facilmente coloro, che avendo il cuore inclinato all' affetto degli uomini, non hanno pari a quell' affetto la vigilanza della mente e l' ardore della sovrumana verità. [...OMISSIS...] L' amore della verità ci induce a rispondere col presente articolo alle difficultà mosse dal sig. abate Gioberti alla filosofia rosminiana. Ne compendiamo le principali in pochi sillogismi, e soggiungiamo ad esse le soluzioni. Il Rosmini dice, che l' Essere ideale, qual risplende per natura nella mente umana, è un' appartenenza di Dio - Ma ogni appartenenza di Dio, è Dio - Dunque l' essere ideale è Dio. Distinguo la minore - Ogni appartenenza di Dio, è Dio, se la si considera in Dio, e non la si precide da tutto il resto che forma la Divinità, concedo; se la si precide dal resto che forma la Divinità, nego: ed allora le si dà il titolo di appartenenza di Dio, per indicare appunto che unita al resto che forma la Divinità è Dio, ma non così precisa dal resto. Iddio non si può dividere, perchè è un Ente semplicissimo - Ma la recata distinzione divide Iddio - Dunque una tale distinzione fa quello che non si può, è falsa. Distinguo la maggiore, ed anco la minore. Distinguo la maggiore - Iddio non si può dividere realmente , concedo; mentalmente, nego. Infatti colla mente umana si dividono i suoi attributi, la sapienza, la giustizia, la potenza ec.. E così si divide l' idea dell' essere (che gli scolastici chiamano l' essere comunissimo ) da Dio sussistente. Di più distinguo la maggiore ancora così - Se da Dio si divide qualche suo attributo, o qualche cosa che la mente umana concepisca in lui, per modo che si pretenda, che quella cosa così divisa e precisa sia ancora Dio; la divisione non si può fare. Ma se si dice, che quella cosa così precisa non è Dio, ma un essere mentale ed universale, che si chiama un' appartenenza di Dio, per indicare il fonte onde procede; questa divisione si può fare. Distinguo poi la minore così - La recata distinzione divide Dio mentalmente, e in modo che a ciò, che si precide da Dio, non si applica più la denominazione di Dio, il che si può fare senza inconveniente, concedo; la recata distinzione divide Iddio realmente, ovvero mentalmente, ma in modo da applicare la denominazione di Dio a ciò che si considera come preciso da Dio, il che non si può fare, nego. Ogni cosa o è Dio, o una creatura - Ma l' Ente ideale non è una creatura, perchè gli si danno gli attributi dell' eternità, immutabilità ec.. - Dunque l' Ente ideale è Dio. Distinguo la maggiore e la minore. Distinguo la maggiore così - Ogni cosa che realmente sussiste è o Dio, o una creatura, lo concedo, (benchè s. Tommaso osservi che le forme e gli accidenti sono piuttosto concreati che creati, dicendosi le sole sostanze propriamente create [...OMISSIS...] «S. I XLV, IV »); ogni cosa ideale lo nego: perchè le relazioni p. e. tra Dio e la creatura, hanno un termine increato che è Dio, e un termine creato che è la creatura, onde non possono dirsi propriamente create, ma piuttosto conseguenti alla creazione. E così l' idea, ossia l' essere ideale, che è il mezzo del conoscere, è un' entità precisa mentalmente da Dio, e quindi la mente lo considera sotto due relazioni, o in quanto ritiene dell' essere divino da cui fu preciso, e intanto non è creatura, ma ritiene delle qualificazioni divine, benchè niuna qualificazione, come nè pure niun attributo preciso da Dio si possa dire Dio, perchè gli manca ciò che è a Dio essenziale, cioè l' essere completo e d' ogni parte infinito: o in quanto è preciso, e intanto si può chiamare creatura a quel modo che una tal denominazione conviene a tutto ciò che ebbe principio o per la creazione, o in conseguenza della creazione; come s. Tommaso chiama la verità, che risplende nell' intelletto umano, creata «(S. I/XVI, VII) ». Distinguo la minore così - L' Ente ideale non è una creatura in quanto ritiene dell' essere divino da cui fu preciso, lo concedo: benchè non gli possa perciò competere la denominazione di Dio, perchè da Dio niente si può dividere colla mente che si rimanga Dio, giacchè se si potesse far ciò, si porrebbe la divisione in Dio stesso. L' Ente ideale è creatura in quanto è preciso da Dio nel modo detto, lo concedo pure, perchè ciò non significa altro se non che la precisione ha avuto principio, quando ha avuto principio l' uomo. Ciò che non è reale è nulla - Ma l' essere ideale non è reale - Dunque l' essere ideale è nulla. Nego la maggiore, perchè ognun sa che l' idea del pane non è il pane reale, e che tuttavia quella idea non è nulla; e così si dica d' ogni altra cosa. Che se sotto la denominazione di reale si vuole intendere ogni entità, anche l' ideale; in tal caso il vocabolo reale non è più adoperato in opposizione all' ideale, come si adopera nella proposizione, e però si cambia il valore alla parola. Poichè quando si contrappone il reale all' ideale, allora, come indica la proposizione stessa, si contrappongono due concetti l' uno all' altro, e però il reale opposto all' ideale non può essere l' ideale, e la cosa opposta all' idea non può essere l' idea, perchè altrimenti i concetti si confonderebbero. Rimarrà dunque che l' idea presa in opposizione alla cosa non è la cosa, e che l' ideale preso in opposizione al reale non è il reale. Il determinare poi che cosa sia l' ideale è appunto quello che si cerca di fare coll' Ideologia, e quando anche non si riuscisse a farlo, rimarrebbe egualmente vero che l' idea del pane non è la cosa pane, cioè il pane reale che si mangia, e che nutre, giacchè l' idea non si mangia nè nutre. Se gli elementi, di cui si fa risultare la cognizione del reale, non hanno in sè la detta cognizione della cosa reale, non la possono dare, perchè nemo dat quod non habet - Ma il Rosmini fa risultare la cognizione della cosa reale dall' idea dell' essere, e dal sentimento, che non contengono questa cognizione, perchè il sentimento è cieco, e non racchiude cognizione alcuna, e l' idea non racchiude la cognizione del reale, ma solo del possibile - Dunque egli non ispiega bene la cognizione del reale. Nego la maggiore e la minore. Nego la maggiore, perchè talora due elementi coll' unirsi insieme producono un terzo effetto, che non è nè nell' uno, nè nell' altro di essi elementi; il che si avvera continuamente anche nelle cose fisiche; p. e. l' azoto e l' ossigeno producono l' aria atmosferica, che non si trova nè nell' uno, nè nell' altro di essi. Nego la minore, perchè egli è falso che il Rosmini faccia nascere la cognizione del reale dai due soli elementi dell' essere ideale, e del sentimento; ma vi aggiunge anzi un terzo elemento che è l' atto dello spirito semplicissimo, che intuendo da una parte l' ideale, e dall' altra percependo il reale, s' accorge che nell' ideale è il tipo dell' attività reale percepita nel sentimento, e lo afferma a sè stesso, e così produce a sè la cognizione del reale mediante questo giudizio primitivo. Infatti la cognizione del reale consiste nella unione di que' due elementi operata dallo spirito, e dallo spirito semplice e identico. E però, sebbene ciascuno di essi non dia la cognizione del reale, tuttavia uniti la danno, appunto perchè la cognizione del reale non è altro che l' atto dello spirito che li congiunge, e congiungendoli ne afferma il rapporto. Il ragionamento è impossibile, se nel primo intuito l' uomo non vede in confuso tutto ciò che poscia colla riflessione distingue - Ma il Rosmini pretende che il reale non si percepisca dall' uomo nel primo intuito del suo spirito - Dunque è impossibile che l' uomo giunga mai a conoscere il reale. Distinguo la maggiore - Il ragionamento è impossibile, se nel primo intuito l' uomo non vede in confuso tutto ciò che poscia colla riflessione distingue, concedo se si tratta di cognizione formale, cioè di un ragionamento che non esce dall' ordine delle idee, ed è perciò che nell' essere ideale, oggetto del primo intuito, vi hanno indistinti tutti i principj del ragionare, perchè i principj appartengono tutti all' ordine delle idee; nego se si tratta di cognizione materiata, perchè la materia della cognizione viene somministrata dal sentimento. D' altra parte sarebbe contro il buon senso il sostenere che nelle idee ci fosse la realtà della cosa, per es. che nell' idea dell' albero ci fosse l' albero stesso reale; giacchè in tal caso un' idea sarebbe un albero, o un albero sarebbe un' idea, il che è assurdo.

Psicologia Vol.II

641953
Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Solamente più tardi si negò il moto per l' imbarazzo che arrecava ai sistemi filosofici; il che era già qualche cosa, ma non soddisfacente al bisogno, perocchè non bastava a spiegare l' apparenza del moto continuo, che era pure innegabile; onde parve una stravaganza ingegnosa anzichè una verità consentanea alla natura; e Aristotele tolse a confutare gli argomenti dell' acuto Zenone invece d' intendere che essi abbattevano solo la continuità del moto, e ciò indubitabilmente, non il moto stesso secondo il suo vero concetto. Ora questa terribile difficoltà, che « se qualche cosa cangiava continuamente stato, niuno dei suoi stati avendo durata di sorte alcuna, non poteva essere concepita, nè essere ente », fu quella che mise quel perpetuo tumulto fra i pensatori, che scompigliò tutto il campo della filosofia, e non ritornò la pace se non colla morte della filosofia stessa, quando per la barbarie dei tempi le scuole filosofiche ammutolirono. Gli Ionici antichi, limitati allo studio della natura, non levatisi ancora alle regioni metafisiche, ignoravano cotanta difficoltà, onde in luogo di trovar difficile la concezione del moto continuo, anzi supposero che nel moto continuo dovesse consistere la vita e l' intelligenza. Aristotele attribuisce questa rozza sentenza a Talete, e dopo di lui a Diogene, ad Eraclito e ad Alcmeone in questo passo: [...OMISSIS...] . Ma dai primi Ionici ai loro seguaci è da fare gran divario; perocchè i seguenti, per esempio Eraclito, compatriotta di Talete, aveva già udita l' opposizione che al moto continuo facevano i metafisici italiani; onde vedendo da una parte la difficoltà di ammettere che ciò che si muove sia un ente, e non sapendo rinunziare all' opinione ionia che tutto si muova, divenne oscurissimo nei suoi parlari a segno di venire soprannominato «skoteinos». Egli ammise, adunque, che tutte le cose erano nel confine dell' ente e del non ente, si facevano e si disfacevano continuamente, come apparisce da queste due sentenze di lui, conservateci nel libro Delle allegorie d' Omero di Eraclide Pontico; l' una: [...OMISSIS...] : il che sembra voler dire che gli uomini, sciogliendosi nei loro principŒ, si convertono in Dei e così fanno la vita degli Dei, che sono i principŒ, e divenendo uomini, acquistando la vita umana, fanno la morte degli Dei, perchè cessano di essere principŒ. L' altra: [...OMISSIS...] ; il che allude al trascorrimento perpetuo delle cose supposto da questo filosofo ( «rhoe»). Dove si vede manifestamente che il sistema di Hegel, che pone per principio il divenire, fu derivato apertamente dal siamo e non siamo del tenebroso Eraclito. E poichè il siamo e non siamo è una contraddizione, il che ripugna all' ente, riesce necessariamente alla distruzione dell' ente, facendo il nulla origine dell' ente; al quale pazzo ed assurdo sistema, se sistema si vuol nominare, nei tempi nostri non disacconciamente fu posto nome di Nullismo (1). Ora a tutti questi assurdi, che distruggono col pensiero l' universo, come pervenne la mente dei filosofanti? - Partendo da due concetti volgari, da due pregiudizi indegni della filosofia, cioè 1 dall' opinione della continuità del moto; 2 dal sensismo. Infatti è facile vedere ciò che l' esperienza attesta, che tutti i corpi si muovono. Se dunque: 1 tutti i corpi si muovono e niente sta fermo; 2 se questo moto è continuo; 3 se niente si conosce se non pel senso, e quindi non altri enti cadono sotto la nostra percezione e cognizione se non i corpi pel principio del sensismo; dunque tutti gli enti a noi noti sono in continua mutazione, e niuno dei loro stati ha durata alcuna. Dunque non sono , ma continuamente diventano . Ma ciò che diventa , ancora non è; dunque non sono enti nell' universo . Ecco il nullismo hegeliano, che ha il pregio d' una buona logica nel dedurre le conseguenze, e il difetto di una volgarità plebea nel ricevere senza esame i falsi principŒ su cui si appoggia. Ora, che tutto il mondo corporeo sia in movimento è ammesso dai moderni fisici, e a persuadersene non è necessario per avventura di leggere il libro di Boyle contro il riposo assoluto. Ma quello che a me sembra strano si è che quel grande ingegno e infaticabile di Leibnizio abbia potuto ammettere la continuità del moto, senza punto nè poco adombrarsi delle difficoltà invincibili che ella involge, nè pur travedere le pessime conseguenze che ella adduce; il che credo io avvenutogli per quella viva fantasia che gli somministrava sì pronte ipotesi, per vaghezza delle quali e per la foga con cui le abbracciava, trasaltava sovente qualche anello nella serie dei suoi ragionamenti (2). Ma per tornare alle disputazioni degli antichi filosofi, essi navigavano fra due scogli. Il dire che le cose fossero in mutazione continua era sentenza che, sospinta dalla logica invincibile di Parmenide quasi da vento impetuoso, rompevasi allo scoglio di un manifestissimo assurdo, qual era quello che niente esistesse di tutto ciò che così si muoveva, perchè incalzava quel grande dialettico l' avversario con quel principio che ciò che nulla dura non è. All' opposto, il negare il moto, del quale altra idea non si aveva che quella che involgeva l' idea di continuità, e quindi il negare la continua generazione e distruzione degli esseri che cadevano sotto i sensi, era lo stesso che un rompere contro ad un altro scoglio, quello di rinunziare al senso comune, giudice autorevolissimo, se pure non si scambia in quello che non è senso comune, divenendo allora giudice piuttosto crudele che severo, che punisce i suoi refrattari con derisione, infamia implacabile e sovente calunniosa persecuzione, senza forma di legale processo. I primi filosofi di Mileto, adunque, ammisero la mutazione continua, seguitando senza alcun sospetto l' apparenza dei sensi, siccome il volgo. Venne Parmenide, e stabilendo il principio somministratogli dall' idea dell' ente, che « « ciò che non ha alcuna durata non ha esistenza » », sgridò quelli che pigliavano i fenomeni sensibili per altrettante verità, affermando che la ragione sola era quella che conveniva seguire, «krinai de logo», essendo essa la potenza che ha per oggetto il vero: [...OMISSIS...] . Ma per quanto fosse insolubile l' argomento di Parmenide, tuttavia parte perchè egli ne cavava delle strane conseguenze, parte perchè ripugnante ai sensi ed all' opinione della moltitudine, non fu guari seguìto, e si tolse piuttosto a negare ogni vero e a cadere nello scettiscismo e nel nullismo, venendo così la filosofia in mano ai sofisti i più sguaiati, dei quali celeberrimo fu Protagora. Poichè dopo Parmenide, da chi intendeva era impossibile ammettere che ciò che muta sempre, fosse ente; onde non vedendosi coi sensi che cose soggette a continua mutazione, si scelse piuttosto di negare l' esistenza di tutte le cose che di ammettere che il senso s' ingannava, deponendo egli il continuo loro rimutare. Così Socrate presso Platone espone il sistema di Protagora e di molti altri: [...OMISSIS...] (1), [...OMISSIS...] . Il qual luogo di Platone è notabile, perchè da esso si può rilevare: Che Parmenide, stabilita la sentenza che a ciò che esiste spetta l' immobilità e la durata come proprietà essenziali dell' ente, negò la generazione ed il movimento (4). Che egli rimase solo in questa sentenza, eccettuati i pochi suoi primi discepoli (1). Che i seguenti filosofi, non potendo da una parte negare che la durata sia proprietà essenziale dell' ente, e dall' altra non volendo negare la mutazione continua, cioè la generazione e il movimento, perchè non ebbero vigore da elevarsi sopra i sensi e di opporsi al senso comune che l' ammetteva; furono costretti a negare l' ente, cioè a negare che qualche cosa veramente esistesse, e così caddero nel nullismo. Che il negare che qualche cosa esistesse era un urtare contro a quello stesso senso comune, per attenersi al quale credevano alla mutazione continua. Quindi, allorchè Protagora ed i sofisti suoi pari dedussero le estreme conseguenze del loro sistema, furono costretti a celarsi al comune degli uomini. Onde narra Platone, nello stesso Teeteto poche linee innanzi, che Protagora teneva due parlari, e che mentre coi suoi stretti discepoli si dichiarava alla scoperta per scettico e nullista, agli altri dava parole ambigue che nascondessero un assurdo così ributtante (1). Finalmente si raccoglie ancora che Platone fu il primo a tentare espressamente come si poteva ritenere la dottrina di Parmenide circa la necessità della durata perchè qualche cosa sia, senza rinnegare il senso comune circa il movimento continuo, ammettendo delle cose che sono (le idee), ed altre cose che diventano (le cose fluenti, che hanno in sè una continua mutazione). Ma veramente neppure Platone giunse a sciogliere il nodo di questo curiosissimo mistero che alcune cose diventino e non sieno; perchè non giunse a vedere che la continuità della mutazione , che tanto impacciava, era un falso supposto, non essendo ella data per nessuno argomento di ragione, ma ammessa gratuitamente per illusione fenomenale (2). Se poi abbia veduto che il fatto del continuo venga dalla semplicità ed unità del principio senziente, ciò non mi consta. Per altro che Parmenide, nei frammenti che di lui ci rimasero, nulla dica della dottrina delle idee , e che questa perciò sia dovuta a Platone, è facile assicurarsene leggendoli. Di che mi sembra poter anche trarsi non improbabile congettura dal dialogo che Platone inscrisse del nome di quel filosofo, dove è Socrate quegli che per primo introduce l' argomento delle specie od idee, ragionando con Zenone discepolo di Parmenide (1); e quegli ed il maestro suo, al ragionare stringente del giovanetto Socrate, sembrano dimostrar qualche sdegno. I frammenti del poema di Parmenide indicano senza dubbio tre sistemi: 1 il primo di quelli che non ammettono se non l' ente, ed è il sistema eleatico; 2 il secondo di quelli che non ammettono se non il non7ente, cioè le cose sensibili soggiacenti a continua mutazione; e di questa opinione fu gravida la filosofia ionica, e divenne in fine il sistema di Protagora e dei sofisti; 3 il terzo di quelli che ammettono ad un tempo l' ente e il non7ente, e a questa classe appartennero poi Platone, Aristotele e i loro seguaci, che tentarono di conciliare in qualche modo l' eterno ed il generabile. Dei due primi di questi sistemi, come dei principali e più recisi, e soli al suo tempo ben disegnati, parla Parmenide in principio del suo poema: [...OMISSIS...] . Ma egli divide in appresso questa seconda via, il cui carattere è di ammettere il non7ente, nelle due: di quelli cioè che ammettono il solo non7ente negando l' ente, e di quelli che pretendono poter ammettere il non7ente insieme coll' ente; onde dice: [...OMISSIS...] ; così descrivendo il senso comune e volgare, che, ammettendo a un tempo ciò che dura e ciò che non dura, crede ai sensi, e non fa distinzione fra ciò che veramente è, e ciò che essendo di continuo fluente, pare solamente che sia. Ma la dottrina eleatica non viene da un principio solo, ma da due, i quali sono: 1 ciò che continuamente si muta e non dura, non è ente, 2 dal niente non può uscire l' ente. Noi abbiamo parlato fin qui di tutta quella dottrina che il filosofo di Elea dedusse dal primo di questi principŒ, la quale dimostra che il mondo sensibile, perchè continuamente mutabile , come da tutti egualmente si supponeva, era apparenza, non7ente. Dall' altro principio Parmenide dedusse altre proprietà dell' ente, cioè l' esser egli eterno, necessario, il tutto (giacchè fuori di lui non poteva essere cosa alcuna), l' universo , [...OMISSIS...] e insomma tutto il panteismo di Senofane. Dove si vede che cosa Parmenide abbia tolto dal suo maestro, e che aggiunto del suo. La dottrina dedotta dal principio, a nihilo nihil fit , gli venne dirittamente da Senofane. La dottrina della necessaria durata dell' ente pare che fosse sua propria, per quanto ne lice congetturare dai frammenti che ci rimangono di quei due filosofi, e specialmente dal libro di Senofane, Zenone e Gorgia di Aristotele. E invero dal solo principio che l' ente debba durare , cioè non essere in mutazione continua, non si può trarre la conseguenza che vi sia un ente solo , e questo eterno, il tutto, ecc. . Se non che a dimostrare che di fatto esistono più enti, è uopo provare che le cose sensibili abbiano durata; conviene dunque abbattere il pregiudizio sì inveterato della continuità del moto, o in generale della continua mutazione; il che noi abbiamo procurato di fare (1). Finito è ciò di cui si può pensare cosa maggiore. Infinito , assolutamente parlando, è ciò di cui non si può pensare cosa maggiore. Non si deve confondere l' infinito coll' indefinito (2). L' indefinito è ciò che, potendo ricevere aumento successivo sempre maggiore, non ha determinata misura, ma si considera semplicemente come suscettivo di una serie continua di aumenti. Quindi l' indefinito non esprime un ente, ma un' idea astratta; per esempio l' idea generica del numero , che risponde a tutti i numeri, i quali sono sempre aumentabili d' una unità, per quantunque grandi si pensino. Quindi è manifesto che l' ente non può mai essere indefinito , perchè l' astratto (di astrazione propriamente detta) non è un ente, come vedemmo; è una veduta dello spirito, un oggetto della riflessione astraente, che limita l' attenzione ad una qualità dell' ente, e che suppone sempre innanzi di sè nella mente la notizia dell' ente, da cui si astrae e in cui l' astratto si vede. Mi fu opposto che io ammetto per oggetto primo dell' intuizione un essere universale, indeterminato, astratto, l' essere ideale. Mi sono spiegato su di ciò in molti luoghi, e in uno fra gli altri ho detto nel Nuovo Saggio circa l' universalità e l' indeterminazione: « « Non è che vi sia cosa che possa essere universale in sè stessa; ogni cosa in quanto è, è particolare, voglio dire determinata. Un universale adunque non significa se non tale cosa, colla quale sola se ne conoscono molte, anzi un numero indefinitamente grande. L' universalità adunque non è che un rapporto; nè può cadere propriamente in altro che nelle idee, perocchè le idee sono cose, siccome abbiamo veduto, con ciascuna delle quali noi conosciamo un numero indefinito di cose, il qual numero si chiama specie »(1) ». Quanto poi all' astrazione che si vuole da me attribuita all' idea dell' essere, mi sono dichiarato pure nel Nuovo Saggio in questo modo: « « Quando io nel corso di quest' opera chiamo l' idea dell' essere in universale astrattissima , non intendo che sia dalla operazione dell' astrarre prodotta, ma solo che ella sia per sua natura astratta e divisa da tutti gli esseri sussistenti »(2) ». E parendomi un perditempo il recar qui ciò che è già stampato, invocherò piuttosto in generale l' attenzione di quelli che mi onorano di loro censure sopra molti altri luoghi, dove dichiaro i miei pensieri, persuaso siccome sono che utilissimi a me ed al pubblico dovranno tornare i loro giudizi anche severi, se si renderanno più attenti. Invece adunque di addurre altri passi delle opere precedenti, aggiungerò qualche nuova considerazione, o in nuovo modo esposta. Potrebbe mai alcuna mente pensare l' idea astratta del colore, senza conoscere nè aver mai conosciuto alcun colore particolare? Potrebbe pensare il suono in astratto, senza aver mai conosciuto alcuno dei particolari suoni, e così delle altre cose sensibili? Non credo. E ciò, si noti bene, non lo induco solamente dall' esperienza, ma dall' intima natura dell' idea astratta di colore, di suono, di sapore, ecc.. Perocchè, che significa l' astratto colore, l' astratto suono, l' astratto sapore? Non altro che ciò che hanno di comune le sensazioni particolari colorate, sonore, sapide, ecc.. Ora ciò che è comune, semplicemente comune a più cose e non proprio di ciascuna, non si può pensare, se non si riferisce in qualche modo ai particolari in cui si riscontra. Ora avviene forse il medesimo dell' essere in universale? - A primo aspetto pare, perchè è comunissimo a tutti i particolari e i reali; ma se più addentro si considera, la cosa non va così; perchè non è semplicemente comune sicchè escluda il proprio , anzi egli abbraccia, in un modo comune, anche il proprio. Perocchè l' essere ideale è ciò che si realizza non solo nella sostanza delle cose, ma ben anche negli accidenti, non solo in ciò che hanno di generico e di specifico7astratto, ma ben anche in ciò che hanno di specifico7pieno, ossia di proprio; sicchè l' essere ideale abbraccia tutto l' ente e tutto ciò che è nell' ente (benchè non in egual modo), e però non è solamente un elemento comune dell' ente con esclusione del proprio. Dunque l' essere ideale ha natura interamente diversa dagli astratti, che esprimono solo ciò che l' ente ha di generico o di specifico7astratto, ed escludono le differenze. Dunque gli astratti non possono esistere tutti soli dinanzi al pensiero, senza cercare qualche appoggio nelle percezioni o nelle specie piene, che le percezioni lasciano dopo di sè nello spirito, perchè da sè soli non sono idee di enti; all' incontro l' idea dell' ente ha eminentemente e per essenza questo carattere di manifestare l' ente con tutto ciò che egli deve avere in sè per essere tale, benchè parte di questo tutto che deve aver l' ente sia in essa solo virtualmente contenuto. Da questa prima differenza ne viene una seconda, che mostra la somma diversità che passa fra gli astratti propriamente detti e l' essere ideale universale . Gli astratti esprimono tal cosa dell' ente che non ha, nè può avere un atto proprio di esistere; infatti nessun astratto da sè solo preso potrebbe somministrare ad un artista il modello di una statua o il tipo di una dipintura. L' atto dell' essere è fuori dell' astratto, o certo è reso dall' astratto impossibile. Niuno concepirà mai alcun atto proprio di essere nel colore astratto o nel suono astratto, o anche nella sostanza astratta (in esclusione all' accidente); ma all' opposto l' idea dell' essere è appunto quella che manifesta ogni atto di essere, e però al suo oggetto nulla manca per essere dal pensiero intuìto; benchè, come abbiamo osservato, il pensiero non determini nulla dentro a quell' idea di speciale, ma non l' esclude, anzi lo suppone, lo richiede, aspettando di trovarlo quando che sia. Dunque i caratteri dell' essere ideale e i caratteri degli astratti non sono i medesimi, sono anzi del tutto opposti. Quello ha tutto ciò che costituisce l' ente, perchè è appunto l' idea dell' ente, e però può essere concepito da sè solo; a questi mancano più cose necessarie all' ente a cui si riferiscono, cose che escludono; quindi non possono essere da sè soli oggetto del pensiero complesso, ma solo del parziale, della riflessione astraente. E qui si vede quale parte di vero e quale di falso contenga quella dottrina di Stewart e di altri nominali, i quali sostengono che gli astratti non sieno che vocaboli , di cui si serve la mente per andare, a suo piacimento, dall' una all' altra idea particolare; al che spiegare adducono l' uso che fanno gli algebristi delle lettere dell' alfabeto per condurre i loro calcoli. Questi filosofi errano: In non conoscere che l' idea è per essenza universale , benchè manifesti l' ente con tutte affatto le sue condizioni e qualità anche accidentali, e che particolare non si può denominare, se non in quanto si considera nella percezione legata con essa; il che è condizione estrinseca all' idea e relativa allo spirito che così la lega. Benchè però l' idea sia di natura sua universale , ella non è di natura sua astratta , perchè può manifestare ogni cosa possibile a cadere in un ente; quindi l' essere ideale, o un essere ideale non astratto, è pensabile senza bisogno di pensare alcun essere sussistente . A pensare un essere ideale non astratto, un' idea piena , non vi è bisogno di segni, ma è necessario o che sia data allo spirito per natura, o che lo spirito la cavi dalla percezione; al che i vocaboli non sono punto necessari (1). Le idee astratte non si possono pensare dalla mente, se nella mente stessa mancano del tutto le idee7piene , a cui quelle si riferiscono; ma è però sufficiente che queste idee7piene sieno nella mente senza attenzione da parte dello spirito; che anzi l' astrarre non è altro, come vedemmo, se non un concentrare e limitare l' attenzione della mente a qualche qualità che si trova nelle idee7piene, rivocando l' attenzione da tutto il resto che nell' idea piena si contiene. Perocchè l' esistenza delle idee o di parte di esse nella mente, senza che questa dia loro attenzione, è un fatto psicologico indubitabile e di somma importanza. Sono cotali idee di continuo intuìte, ma senza avvertenza, o senza avvertenza diretta più ad una che all' altra; e però l' uomo può passare quando vuole dall' idea astratta ad avvertire le idee piene a cui si riferisce, con più o meno di facilità (2). Ora questa è la parte di vero veduto o traveduto dai nominali, di cui parliamo; da questo fatto però, che l' astratto non si può pensare nella mente senza l' idea7piena (confusa da essi coll' idea particolare), indussero falsamente che dunque l' astratto fosse nulla nella mente, e solo un segno fuori della mente. Al che li condusse anche questo: Altra è la questione « che cosa si richieda acciocchè un' idea si possa pensare , sia pensabile », e altra la questione « che cosa si chieda acciocchè l' uomo se la possa formare , venga al fatto di formarsela, di pensarla ». Acciocchè l' astratto sia pensabile, basta che nella mente ci sieno le idee7piene, a cui egli si riferisce e onde lo si toglie. Ma acciocchè lo spirito muova a questo suo atto, si richiede un oggetto, un termine o un motivo che lo spinga a ciò, perchè l' attività dello spirito è sempre suscitata dal termine. E poichè l' astratto come astratto non esiste, quindi non può tirare lo spirito a sè. Ma se è legato ad un segno sensibile, può stimolare e attirare a sè l' attenzione della mente. E quindi fu da noi provata l' utilità del linguaggio, o per dir meglio, di segni per la formazione degli astratti; utilità che in altro non consiste se non nell' offerire dinanzi allo spirito uno stimolo e termine che lo muova a concentrare e fissare l' attenzione, nel modo che abbiamo più estesamente esposto nel Nuovo Saggio , e che più innanzi di nuovo sottoporremo ad esame (1). Ora anche questo fatto, non bene osservato dai nominali, li trasviò; perocchè dall' utilità del linguaggio alla formazione degli astratti, conchiusero che essi erano nulla in sè stessi, e però nè possibili a formarsi, nè pensabili senza i segni del linguaggio. Finalmente l' esempio che adducono a conferma di loro dottrina, cioè l' uso che l' algebrista fa delle lettere dell' alfabeto, lungi dal provare per loro, prova il contrario di quello che vogliono. E di vero, altro è ciò che le lettere dell' alfabeto segnano per l' algebrista, altro quel vero che egli vuol ritrovare col loro uso. I segni algebrici segnano delle quantità astratte, egli è vero (e la quantità discreta, fosse anche determinata, è sempre un astratto); ma l' algebrista non li adopera già al fine di segnare semplicemente tali quantità, ma a discoprirne le loro relazioni. Infatti quando scrive a .più . b e d .meno . c , che cosa intende egli di fare? Egli vuole esprimere nel primo caso la relazione di addizione che corre fra due quantità qualunque (astratte e indeterminate), segnate dalle due lettere a e b , e nel secondo caso la relazione di sottrazione che corre fra due quantità qualunque, segnate dalle due lettere d e c . Ora quando egli, facendo un' equazione fra quelle due funzioni, discopre che a .uguale . d .meno . c .meno . b , cioè che il valore a è uguale al valore d meno la somma di c e di b , facendo, dico, questa operazione, la sua mente pose attenzione alla relazione di eguaglianza fra quelle due funzioni, e in conseguenza di questa attenzione le unì col segno di eguaglianza; poi pose attenzione alla conseguenza che ne nasceva, e questa conseguenza fu la scoperta del valore di a rispetto alle altre tre lettere. Se dunque l' algebrista condusse il suo calcolo ponendo attenzione a quella relazione, e, avvertita questa relazione, unì quelle lettere con vari segni, è evidente che la mente pensò alla detta relazione e ai conseguenti prima di averne posti i segni in carta, e pose questi segni esprimenti le dette relazioni dopo averle pensate. Dunque pensò queste relazioni senza i loro segni, ed i segni vennero dopo in conseguenza delle relazioni già pensate dalla mente. Ma le relazioni sono esse stesse astrazioni, sono astrazioni via più elevate di quelle semplici quantità fra cui le relazioni corrono. Dunque l' uso dei segni algebrici dimostra manifestamente che gli astratti sono pensabili per sè stessi senza bisogno dei segni, e che quell' uso sarebbe impossibile, se la mente non pensasse gli astratti effettivamente senza di essi. L' uso adunque dei segni algebrici suppone che la mente sia già venuta in possesso degli astratti, e di astratti molto elevati, e non ispiega punto come ella se li abbia formati; molto meno scioglie la questione « che cosa si ricerchi affinchè sieno pensabili ». Essi solamente aiutano la mente a tener presente all' attenzione la serie delle relazioni, che facilmente svanirebbe per la sua lunghezza e molteplicità. Non può dunque l' ente essere indefinito, e però l' indefinito, non avendo tutto ciò che si richiede ad esser ente, non può da sè solo essere oggetto al pensiero. Ma sebbene l' ente non possa essere mai indefinito (1), tuttavia egli può essere finito o infinito. Ora, ciò che vogliamo con questa legge attentamente osservato si è che la finitezza o l' infinitezza è qualità ontologica, cioè così propria dell' ente che non si può da esso distaccare senza che se ne perda l' identità. Quindi se un ente è finito, per quantunque si accresca o moltiplichi, non cangerà mai la sua natura, rimarrà sempre finito. Viceversa, se un ente è infinito, non si potrà dividere in modo da rendersi giammai finito. E se nell' infinito si potrà colla mente distinguere più cose, converrà che ognuna di esse rimanga infinita e comprenda, con avvertenza o senza, virtualmente o in atto, tutte le altre, altrimenti non si pensa più quell' ente. Quindi un' altra conseguenza: se si pensa l' infinito, conviene pensarlo tutto o niente. E tuttavia si potrà pensare in un modo limitato , ma la limitazione deve rimanere nel modo con cui si pensa, non nell' oggetto del pensiero; e la limitazione consiste solamente nel modo del pensiero, quando il soggetto, che pensa un ente infinito, sa di non pensarlo totalmente, cioè sa che oltre quello che egli ne abbraccia, la natura di lui si estende via oltre senza confine alcuno nè misura, sa che ciò che pensa contiene tutto, benchè non apparisca al veggente che implicitamente, virtualmente; il che appartiene al modo del suo conoscere. Così chi ha poca vista, non vedrà un uomo così perfettamente come lo vede chi l' ha eccellente, e nondimeno entrambi vedranno tutto l' uomo. A chiarir meglio la cosa si consideri che il pensiero ha per oggetto: 1 l' ente ideale, e questo, come vedemmo, non ammette misura; 2 l' ente reale, il quale ammette misura. Due questioni adunque: Come si può pensare l' ente ideale infinito? - Risposta: a quel modo che il fatto dimostra che lo si pensa. Il raziocinio poi di colui che osserva l' essere ideale, tosto s' accorge esser egli così semplice nella sua infinità che non ammette in sè stesso alcuna divisione o separazione, e quindi la questione che si propone neppure è possibile; e piuttosto dovrebbe farsi quest' altra: « Come è che non si può pensare l' ente ideale se non a condizione di pensarlo infinito? ». A cui si risponderebbe come sopra: perchè è semplicissimo ed uno. Come si può pensare l' ente reale infinito? - Risposta: il reale infinito è lo stesso ente, che si vede nell' idea sotto la forma di realità. Ora per la stessa ragione che si vede l' ideale, benchè infinito, per quella stessa non è assurdo che si possa vedere il reale infinito, perchè è quell' uno semplicissimo che nell' ideale s' intuisce. Ma quantunque tali risposte sieno sufficienti a chi ne intende il fondo, tuttavia non crediamo inutile dar loro una più ampia esposizione. Perocchè le percezioni che più chiamano a sè l' attenzione sono quelle dei corpi e delle altre cose contingenti; ond' è che l' uomo suol ragionare della percezione del reale sull' esempio di quelle, quasi non vi potesse essere altra maniera di percepire; e pur coll' esempio di esse non si spiegherà mai la percezione dell' infinito, che appartiene ad un ordine soprannaturale; questo è ciò che rende difficile intendere la possibilità della percezione di un tal essere. I corpi si percepiscono per una vera azione che esercitano in noi; indi ciò che pensiamo nel concetto dei corpi si è un misto di soggettivo e di extra7soggettivo . Questo ente corporeo, che si compone parte del nostro stesso sentimento e parte di un agente in esso, non è oggetto del pensiero per sè, ma è pensato nell' oggetto; l' oggetto dunque è straniero, ma la mente lo unisce qual mezzo necessario al conoscimento. Se consideriamo la percezione di noi stessi in quanto siamo sentimento sostanziale, di nuovo ciò che pensiamo in tale percezione è il mero soggetto , il quale viene da noi oggettivato per la necessità del percepirlo. Quindi essendo il soggetto finito, tutto ciò che si conosce, conoscendo lui, o conoscendo le sue modificazioni, o conoscendo l' agente che lo modifica, non può essere che finito; perchè il finito non può sentire in sè che un' azione modificatrice finita, come finita deve essere la modificazione prodotta. Di più, essendo il soggetto percipiente, cioè noi stessi, molteplice, tutto ciò che si percepisce come passione o modificazione di ciò che è molteplice, e come agente immediato o causa immediata di tale modificazione, non può percepirsi come del tutto uno e semplice, ma con qualche moltiplicità; giacchè dove vi è confine, già per questo solo vi è moltiplicità. L' infinito adunque, a cui spetta la somma unità e semplicità, non si può percepire a questo modo, cioè come una modificazione di noi stessi o come la forza che immediatamente la produce (1). Se vi fosse dunque soltanto questa maniera di percezione, la percezione dell' infinito sarebbe inesplicabile; ma ve ne è bene un' altra. L' infinito ente è essenzialmente oggetto; dunque nella percezione dell' infinito niente può cadere di soggettivo. Ora l' essere oggetto vuol dire che egli si conosce distinguendolo e separandolo da noi, e contrapponendolo a noi. Non trattasi qui di passione , che l' infinito produca sull' oggetto, non trattasi di percepirlo come agente; trattasi di percepirlo semplicemente come ente; se egli è causa di atti transeunti, questi non si possono confondere con lui, sono fuori di lui, non ne costituiscono punto il concetto. L' oggetto dunque non si confonde col soggetto, ma s' intuisce e percepisce in sè stesso, e però egli dal soggetto non può ricevere alcun confine, nè alcuna moltiplicità in sè stesso (1). Se dunque il soggetto nel percepire l' oggetto non lo riceve in sè stesso come un agente, ma solo lo vede da sè distinto, egli non ha bisogno per percepirlo di dargli la propria misura, come accadrebbe, poniamo, nel contatto che la parte toccante è commisurata dalla parte toccata, nè di attribuirgli nulla della propria limitazione; e così è tolta via la difficoltà, è tolta la ripugnanza che un ente finito ne percepisca uno infinito (già s' intende nell' ordine soprannaturale), cadendo affatto il principio di Protagora che « « l' uomo sia la misura di tutte le cose » » (2). Si dirà che questa maniera di percepire oggettivamente è misteriosa. - Sì certo, ed all' uomo appare misteriosa, perchè non ne ha esempio in tutte le percezioni delle cose finite, onde l' uomo toglie arbitrariamente la legge della percezione. Ma non è per questo meno un fatto innegabile, un fatto di cui abbiamo esempio in natura nell' intuizione dell' essere ideale; e il fatto si deve ammettere, anche allorquando appare misterioso all' abitudine nostra di ragionare diversamente; perocchè finalmente niente vi è in esso di ripugnante alla mente, ma solo di contrario, come dicevo, all' abitudine ragionatrice; anzi, la mente contemplativa, che si solleva sopra tali abitudini, le quali limitano la sfera del ragionamento, viene ad intendere che quel fatto è evidente, e così necessario che senza di esso nessuna affatto delle operazioni della mente potrebbe ricevere spiegazione; ogni pensiero di qualsiasi classe rimarrebbe impossibile. Vero è che dalla percezione dell' infinito il soggetto deriva poscia in sè stesso un sentimento di giubilo e di felicità, che è così proprio che non si può confondere con altri sentimenti; e fa intendere la sua fonte infinita. Ma questo sentimento è un effetto della percezione oggettiva; benchè strettamente unito con lei, non è lei, e con lei non si può mai confondere. Il qual sentimento è finito; ma posciachè è indivisibile dalla percezione oggettiva, perciò pare che sia infinito anch' esso, in quanto che nell' unità dell' uomo la percezione oggettiva è così congiunta con esso che ne forma, siccome a dire, il compimento e la sommità. Onde presa la percezione oggettiva in unione col sentimento, che nel soggetto ella produce, presa tutta assieme questa comunicazione dell' infinito al finito, se ne ha che la cognizione dell' infinito riesce da una parte infinita, dall' altra finita. Ella è infinita quanto all' oggetto intuìto e percepito, ed è finita quanto al sentimento di lei prodotto nel soggetto. Ed anche per questa ragione si può dire assai giustamente che dai celesti comprensori Iddio si percepisce tutto e non totalmente; in quanto che l' oggetto è tutto Iddio, ma il sentimento, prodotto da quell' oggetto nei comprensori, non è tutta l' azione che Iddio potrebbe far sentire. Si percepisce adunque Iddio tutto come ente , non si percepisce totalmente come agente . Ma noi dobbiamo dichiarare come Iddio possa essere agente in quelle creature intelligenti, che lo percepiscono. Il concetto di Dio, come agente nei soggetti che lo percepiscono, si può falsare in due modi: l' uno, facendo che Iddio non agisca nulla e agisca il soggetto solamente, derivando dall' oggetto infinito della propria percezione il sentimento gaudioso che lo felicita; l' altro, facendo che Iddio agisca nel soggetto in un modo soggettivo, al modo come gli enti finiti fanno nell' uomo, semplicemente modificandolo. Fra questi due partiti erronei ve ne è uno di mezzo, che è il vero. Stabilito adunque che Iddio percepito sommamente agisce in chi lo percepisce, e che Iddio non agisce modificando immediatamente il soggetto, quale è questo modo di agire nel soggetto finito proprio di Dio solo, che non istà nel produrre una semplice modificazione o passione? Si noti che, quando diciamo modificazione o passione semplice , noi veniamo a dire che la sostanza del soggetto non viene cangiata, nè aumentata, e molto meno prodotta; ella è quella di prima, nella stessa quantità; solo che è in un modo nuovo; ovvero (e questo esprime ancor meglio il concetto che vogliamo) l' agente, che lo modifica semplicemente, non la produce, ma la suppone prodotta e capace di ricevere in sè la sua azione. All' incontro, l' operare divino si fa sempre per via di una cotale creazione (1), con un atto cioè che pone l' ente col suo quale e quanto, e non suppone già l' agente sussistente in cui operi. La ragione di ciò si è che Iddio è causa di tutto l' ente, e facendo Iddio ogni cosa con un atto solo e semplicissimo, forza è che con quell' atto stesso con cui pone la sostanza, ponga anche gli accidenti di lei, qualunque durata essi abbiano, e non produca gli accidenti con un atto diverso. Ciò ripugnerebbe non solo all' unicità e semplicità dell' atto col quale Iddio fa tutto quello che fa, ma ripugnerebbe ancora alla somma semplicità della sua sostanza (1); perocché la sostanza di Dio e la sua azione sono il medesimo, laddove nelle creature altro è la sostanza, altro gli atti della sostanza. Infatti noi vedemmo che nelle sostanze create possono cadere atti transeunti, laddove Iddio può essere causa di atti transeunti, ma questi non possono mai cadere in lui, sì bene da lui debbono restare distinti. Essendo adunque nelle creature create distinte le attività dalla sostanza , accade che l' una agendo nell' altra, entri nell' altra solamente coll' attività sua, ma non colla sostanza; e che l' attività di una non possa modificare che la sola attività dell' altra, e non mai produrre la stessa sostanza. Se dunque Iddio fosse agente immediato nelle sostanze, e così modificasse le loro attività senza creare le sostanze stesse, ma presupponendole esistenti; in tal caso l' attività di Dio entrerebbe nelle sostanze contingenti, e non la sostanza divina, poichè ciò che è passivo e modificato non riceve mai la sostanza, ma l' attività sola di ciò che è attivo e modificante; e così vi sarebbe in Dio una divisione reale fra il suo operare ed il suo essere, il che è assurdo. Dunque Iddio non può agire che per via di creazione, cioè creando il tutto dell' ente contingente in ogni momento, creando l' ente con tutte le sue modificazioni, perocchè sarebbe assurdo egualmente il dire che Iddio entrasse colla sua sostanza in un ente che non è ancora. Dunque la sostanza stessa non può essere mai ricevuta in un ente come paziente. Le quali cose tutte premesse, non sarà più difficile intendere come Iddio percepito possa agire, e agire sommamente in chi lo percepisce. Perocchè in questo fatto avvengono due cose: Il soggetto intelligente, a cui è data la percezione di Dio, e quindi possiede Iddio come oggetto del suo intelletto, può colla propria attività stringersi a lui, e goderlo con quanto ha di forza per via di amorosa contemplazione. Nello stesso tempo queste forze, colle quali egli fruisce di Dio, gli sono date a misura da Dio stesso come suo Creatore, cioè come quella causa che lo produce totalmente con tutti quegli atti ch' egli fa di fruizione. Quindi il godimento è limitato, perchè è un atto del soggetto (il quale atto però è creato da Dio col soggetto), ma l' oggetto del godimento è infinito. In questo senso è che Iddio si percepisce tutto , e non può percepirsi altrimenti che tutto, perchè indivisibile; e nondimeno non può percepirsi totalmente rispetto al bene che se ne deriva dal soggetto, perchè la natura del soggetto, e le forze di questa natura, e gli atti di queste forze sono limitati. Ma di qui medesimamente avviene che ciò che si gode di Dio, è sempre Dio, perchè si gode tutto Dio. Per la limitazione adunque dell' atto, con cui un soggetto intelligente aderisce a Dio, accade che sembra che si divida Iddio; giacchè diversi oggetti, dotati di diversa misura di forze, ne godono diversamente. E tuttavia tutti godono dell' infinito; ed è in questo senso che dicevamo che « l' essere infinito o finito appartiene all' ente, all' oggetto del pensiero »e non si può mai cangiare l' uno nell' altro; quantunque, godendosi l' infinito più o meno, sembra dividersi, impicciolirsi o ingrandirsi nel nostro concepimento, quando questo piglia a misura la relazione dell' ente infinito colla sua fruizione. Ma questa cotal maniera d' impicciolimento relativo non toglie mai da lui l' infinità; la quale se cessasse, incontanente l' ente oggetto della mente sarebbe un altro. Con questo si spiega ancora come Iddio si può concepire, sempre in un modo negativo o virtuale, sotto vari concetti della sapienza sussistente, della bontà e santità sussistente, ecc., perchè in ciascuno di essi vi è egualmente l' infinito. La moltiplicità dei concetti (toltine quelli delle persone) nasce tutta dal soggetto, e dalla diversa e molteplice esperienza che egli ne prende, perchè egli stesso è limitato e molteplice. Ma poichè la percezione di Dio appartiene all' ordine soprannaturale, qui si presenta la questione se questa moltiplicità di concetti, sotto i quali l' uomo può pensare lo stesso Dio, debba al tutto cessare nella beata visione. Alla quale questione, non poco difficile, ci sembra di potere rispondere quanto segue. In prima si ritenga che se colla mente si divide dall' oggetto del pensiero qualche cosa che è a Dio essenziale, quell' oggetto non è più Dio. Ora a Dio è essenziale che la sussistenza e l' essenza sieno la medesima cosa, il medesimo essere semplicissimo. L' essenza dunque dell' essere, separata dalla sussistenza , non è Dio. Il perchè, non intuendo l' uomo per natura che l' essenza dell' essere, l' essere ideale e non la sua reale sussistenza, quell' essenza non si può dire l' essenza di Dio; e però l' uomo per natura non intuisce Iddio; il qual vero egualmente è provato dall' esperienza, dalla ragione e dalla fede cristiana. E di vero per accertarsi che non vi sia per natura nell' intelletto umano la divina sussistenza, che vi sia una pura idea dell' essere, basta che l' uomo rifletta sopra sè stesso. Una gran parte degli uomini non solo non troveranno di avere per oggetto naturale del loro intendimento la sussistenza stessa dell' essere, ma non sapranno neppure osservarne in sè stessi l' essenza . Se avessero la sussistenza divina per oggetto del loro pensiero, ella è tal cosa e sì preziosa che niuno l' ignorerebbe. D' altra parte la ragione prova che il supporre ciò non è necessario a spiegare nessuna delle operazioni dello spirito umano; di più, che intuendo Iddio ognuno potrebbe esser beato a sua voglia, avendo con ciò in sua mano il fonte della beatitudine; ciò che non s' avvera. Finalmente il dire che l' uomo vede Dio per natura è un errore manifesto contro la fede cristiana , che riserba la visione di Dio ai celesti. Se dunque all' uomo quaggiù non è dato di vedere l' identità fra l' essenza e la sussistenza dell' essere, e perciò non gli è dato di vedere Iddio, forza è ch' egli acquisti la cognizione dell' Essere supremo per via di ragionamento e non d' immediata intuizione. Ora il ragionamento lo conduce a conoscere che Iddio è, ma non il modo come egli è, che nella sua sussistenza si nasconde (1). Nella visione beatifica all' incontro, percependosi la sussistenza dell' essere, si vedrà il nesso d' identità fra questa sussistenza e l' essenza dell' essere stesso, il qual nesso rivela Iddio; e però lo si vedrà sicuti est , cessando l' imperfezione del ragionamento, et scientia destruetur . Ma qualora poi si voglia indagare per via di ragionamento « se questa sussistenza divina ci apparirà scevra da tutte le relazioni colle creature », è da dirsi anzi, pare a noi, che si vedrà nella relazione creatrice che ella ha colle creature e non altrimenti; e in questa relazione si contempleranno le infinite sue perfezioni, come abbiamo altrove dichiarato (2). Ora, poichè la relazione di Dio colle creature è molteplice, non da parte di Dio, ma delle creature che sono pur molte, perciò appariranno molteplici le perfezioni divine, ma in modo diverso da quello che ci appariscono ora quaggiù. Perocchè noi ora non sappiamo raggiungere le perfezioni divine al loro semplicissimo fonte, in cui l' una coll' altra e tutte coll' essere stesso s' identificano; ed allora sapremo. Vedremo adunque che quelle perfezioni divine, che nelle creature appaiono ed appariranno anche allora moltiplicate, altro in Dio non saranno che il suo essere stesso semplicissimo; il che ora vediamo dover essere, ma il come ci è un mistero, perchè nessuno esempio di ciò troviamo nella natura. Sicchè con diversi concetti potremo anche allora esprimere a noi stessi l' essere divino; ma in ciascuno di essi vedremo lo stesso essere, e però quella molteplicità non ci porrà impedimento di sorte a vedere Iddio siccome egli è, perchè ad un tempo vedremo e come in molte relazioni la perfezione divina si espanda, e come in tutte sia una sola ed identica, primordiale ed essenziale perfezione. Di più, noi al presente quando pensiamo ad una perfezione, per esempio alla sapienza, la vediamo limitata, e solo ragionando per quella via che i teologi dicono di eminenza, intendiamo che in Dio ella deve essere illimitata; onde dicevamo che, quando pensiamo Iddio come la sapienza sussistente, ecc., quel nostro concetto che ci formiamo di Dio, è virtuale e non attuale. Allora non indurremo questa necessità per ragionamento, ma vedremo immediatamente che la cosa è così, la vedremo come un fatto, perchè vedremo la sapienza stessa infinita e necessariamente infinita; e però molto più intenderemo immediatamente come ella possa essere tale. Se dunque la perfezione divina ci apparirà allora così una come è il punto centrale di un circolo, identico in sè, e pure principio e termine di tutti i raggi; è chiaro che ognuna delle perfezioni divine basterà allora a farci conoscere tutto Iddio, come quel termine o principio di uno solo dei raggi basta farci conoscere il centro del circolo; e però in ognuna di esse vedremo sempre lo stesso infinito. Così l' ente infinito, benchè sembri dividersi pei suoi vari rispetti sotto cui si considera, non cessa mai di essere ente infinito; così l' infinità è condizione appartenente all' ente stesso infinito, come la finitezza all' ente finito. E però vale la legge del pensiero da noi proposta. Tali sono le principali leggi ontologiche, che segue il principio razionale nelle sue operazioni. Ora dobbiamo passare a quelle che presiedono all' operare della ragione pratica. La ragione, che noi chiamiamo pratica, non è già la ragione in quanto determina ciò che s' abbia a fare o sia conveniente; questa è ancora speculativa. La ragione pratica è il principio razionale7operante (1); ora a questo principio razionale operante sono imposte le leggi ontologiche, di cui parliamo. Quali sono queste leggi? Esse debbono essere necessariamente quelle stesse della ragione teoretica, perchè questa è la ragione nei primi suoi atti, di cui gli atti susseguenti appartengono alla ragione pratica; onde tali leggi non possono mancar mai senza mancar la ragione. Essendo dunque la ragione pratica anch' essa ragione , non essendovi che uno stesso principio razionale che, in quanto conosce dicesi teoretico, in quanto opera dicesi pratico (2), è evidente che le stesse leggi, che hanno vigore nella speculazione, debbono aver vigore nell' operazione, giacchè quelle leggi nascono dalla natura del principio comune. La ragione teoretica è ella stessa che diventa pratica, quando opera; ella opera come ragione, cioè come conoscitrice; perciò le leggi del suo conoscere debbono essere le leggi del suo operare. Queste leggi sono dunque naturali alla ragione, come le leggi della comunicazione del moto sono naturali ai corpi. Ma qui insorge una difficoltà. La natura sensitiva ed anche la natura meramente sensibile ubbidiscono sempre alle loro leggi; perchè la ragione le infrange? E di vero la ragione le infrange, sia quando cade nell' errore , col quale rimangono violate le leggi della ragione in quanto è teoretica, sia quando cade nel peccato , col quale rimangono violate le leggi della ragione in quanto è pratica. Il rispondere semplicemente che ella è libera e perciò può infrangerle, non soddisfa alla difficoltà, perchè non fa che annunziare il fatto che sembra contraddire al concetto della legge; e la difficoltà proposta appunto richiede che si tolga via questa contraddizione, richiede che si dimostri che esistono leggi veramente naturali, le quali possano rimanere tuttavia violate, laddove la condizione di legge naturale sembra esigere che non possa esser violata giammai. La soluzione della difficoltà si trova, quando si osserva che nelle operazioni del principio razionale intervengono agenti stranieri, soggetti ad altre leggi diverse da quelle della ragione; onde la violazione delle leggi di questa accade per collidersi di varie leggi di diversa indole; il che anche è ciò che spiega il mirabile fatto della libertà umana. Noi ne abbiamo parlato (3); ritorniamoci sopra dopo avere annunciata la legge suprema della ragione pratica. Dobbiamo dimostrare che il principio di cognizione, che costituisce la legge suprema secondo cui opera la ragione teoretica, presta pure alla ragione pratica la legge suprema secondo cui deve operare; di maniera che, se la ragione teoretica ha questa legge: « l' ente è l' oggetto del conoscere », la ragione pratica ha quest' altra: « l' ente deve essere l' oggetto del conoscere pratico ». Si dice che la ragione teoretica opera secondo il principio di cognizione, perchè ella o non opera al tutto, o è necessitata, se opera, a seguitarlo, giacchè gli errori stessi, come vedemmo, si debbono attribuire alla ragione pratica. Si dice all' incontro che la ragione pratica deve operare secondo lo stesso principio, perchè l' operazione di questa può essere in due modi, o conforme alla sua legge o difforme; se è conforme, ella è retta; se difforme, torta. Questo è appunto quello che dicevamo aver bisogno di chiarimento; ci si conceda di premettere alcune nozioni. L' ente insensitivo non è soggetto di male o di bene. Egli opera secondo le necessarie sue leggi, e però è sempre ordinato; solo l' uomo, che esige da lui altro da quel che fa, gli appone per una cotale illusione arcana il male ed il bene. Il che avviene perchè l' uomo lo lega alle sue idee, a cui pure non è legato. « Questo - dice - deve essere una pera; ed ecco ella è rosa dai vermini; dunque è mala ». Sì, se fosse vero che dovesse essere una pera perfetta ed avere ciò che si contiene nell' idea di pera; ma questo debito non c' è nella pera; misuratela coll' idea specifica piena , e la troverete quale deve essere; il misurarla coll' idea astratta è considerare una relazione di quell' oggetto, che non entra a costituire l' ordine intrinseco di lui, ma l' ordine ipotetico ed estrinseco con una idea che gli si impone (1). La materia insomma, qualunque figura s' abbia, non è soggetto , perchè il soggetto è sempre un ente principio , e il concetto di materia è quello unicamente di ente termine . L' ente sensitivo e il razionale, all' incontro, è soggetto di male e di bene. Il bene dell' uno e dell' altro consiste in un' attività, a cui si riduce anche il loro male; perchè ciascuno può avere un' attività conforme alla sua essenza o difforme da essa; nel primo caso trovasi in buono, nel secondo in malo stato. L' essenza del principio senziente vuole che l' attività sua si possa spiegare senza trovare ostacoli da parte del suo termine; se trova ostacoli, nasce il dolore, che è il suo male. Il simile accade nel principio razionale; egli ha un' attività che, secondo l' intento e il conato della sua essenza, vuole spiegarsi in un dato modo; se per qualsivoglia cagione quell' attività non si spiega così, ma in un modo diverso, vi è il disordine; il principio razionale soffre, perchè non può non sentire il proprio disordine, essendo tutto sentimento. Ma se fin qui lo stato buono o tristo del principio sensitivo e del razionale si può raccogliere sotto una stessa formula, ben presto si manifesta l' infinita differenza che passa fra il bene ed il male del principio sensitivo e del razionale. Questo è ciò che dobbiamo dichiarare. La differenza fra il bene ed il male dell' uno dei due principŒ, e il bene ed il male dell' altro, nasce dalla differenza che hanno i loro termini; perocchè sono i termini che suscitano le attività e ne determinano la natura; il bene ed il male d' un ente, suscettivo di bene e di male, giace, come dicevamo, nel diverso modo secondo cui è disposta l' attività sua propria. Ora il termine dell' attività sensitiva è l' esteso materiale e le passioni di esso; il termine poi del principio razionale è l' ente . Quindi l' attività sensitiva è la sede del bene dell' ente sensitivo, che vi è quando può estendere nell' esteso le sue passioni a misura del proprio istinto; l' attività razionale poi è sede del bene del principio razionale, quando aderisce, senza contrasto e lotta, all' ente termine suo. Di qui la prima legge della ragione: « aderisci all' ente ». Infatti il principio razionale non può cessar mai di essere razionale, e però non può cessare di avere per suo termine l' ente. Dunque se il principio razionale ha un' attività propria, anche questa deve avere per termine l' ente. Ma il principio razionale ha veramente una sua propria attività, e non è meramente ricettivo. Dunque la legge di quest' attività gli deve venire dall' ente, secondo il principio che ogni soggetto suscettivo di bene e di male ha il bene, quando aderisce perfettamente al suo termine, ed ha il male, quando non aderisce al suo termine in quel modo che la sua essenza esige. Il principio razionale adunque, tanto allorchè è meramente ricettivo e prende il nome di ragione teoretica , quanto allorchè è attivo e prende il nome di ragione pratica , essendo lo stesso principio, non può avere che lo stesso termine onde deve ricevere le leggi dell' operare. Ma in quanto è ricettivo, il principio razionale non facendo che ricevere al modo suo proprio, quale è quello dell' intuizione, non dipende da sè l' unione col termine, appunto perchè riceve e non fa; ma dipende dal termine stesso, dall' ente che gli è dato ad intuire. Onde la sua costituzione è fissata e determinata da una necessità a lui straniera; da quella necessità che lo costituisce quello che è. All' incontro, in quanto è attivo, il principio razionale pone da sè il suo atto; se lo fa, è egli che lo fa; se non lo fa, è egli che non lo fa; egli stesso ne è la causa. La necessità dunque di questo atto non può mai essere tale, quale è la necessità della ricettività dell' ente; perocchè quand' anche l' attività del principio razionale non si spiegasse alla sua propria e retta azione, tuttavia il principio razionale sarebbe; all' incontro questo principio non sarebbe, se egli non ricevesse l' ente. Vi è dunque questa prima differenza fra il principio razionale in quanto è teoretico e in quanto è pratico, che l' atto primo teoretico è necessario alla costituzione di esso, e niun atto pratico è necessario alla sua costituzione . Vero è che questo solo fatto basterebbe, come accennavamo di sopra, a dare piena ragione del perchè un principio possa deviare dalla sua propria legge naturale . Ma la compiuta spiegazione si trova esaminando che sia la libertà morale, come questa potenza si costituisca, come risulti dal contrasto di agenti categoricamente opposti che si collidono; cose tutte da noi già svolte, e che dobbiamo credere note al lettore. Rimane dunque a vedere che cosa sia quell' attività del principio razionale, rimane a trovarne la propria natura, perocchè la parola attività è comune a tutti gli enti. Si deve dunque in prima differenziare l' attività del principio razionale da tutte le altre attività, e poi distinguerla dall' attività ricettiva e primordiale della ragione teoretica. Trattandosi di un principio razionale, ella non può essere che attività razionale; deve dunque essere una maniera di conoscere. Ma il primo conoscere è quello della ragione teoretica. L' attività dunque della ragione pratica conviene che sia un altro conoscere, un conoscere con compiacenza nell' oggetto conosciuto, un appropriarselo, e trovare in esso il proprio bene. Quindi l' ente rispetto alla ragione pratica riceve il concetto di bene . Per caratterizzare poi con una parola questo conoscere attivo e vivace, fornito di compiacenza, noi lo chiamiamo riconoscere pratico . E questo atto della ragione pratica è il primo atto della volontà . La legge suprema adunque della ragione teoretica è la legge suprema altresì della ragione pratica. La differenza non istà che nella diversa relazione che l' una e l' altra ragione tiene collo stesso termine: la ragione teoretica ha coll' ente la relazione da noi dichiarata di ricettività , e la ragione pratica tiene collo stesso ente la relazione da noi dichiarata di adesione . Quello dunque che abbiamo detto della legge suprema della ragione teoretica, applichiamolo alla ragione pratica. E prima abbiamo distinto il pensare intero dal pensare astratto , e osservato che questo può bensì tirare a sè la nostra attenzione e divenire il termine esclusivo di essa; ma tuttavia non può stare da sè solo nella mente umana, nella quale forza è che vi si trovi sempre il pensare intero , sebbene vi stia negletto ed inosservato; e ciò perchè, essendo « l' ente l' oggetto del conoscere », non si può dare alcun conoscere, se non vi sia nella mente tutto ciò che è essenziale all' ente, benchè parte di ciò possa essere nella mente in un modo, per esempio accompagnato da attenzione, parte in un altro modo, non accompagnato da alcuna attuale attenzione. Ora questa dottrina è importantissima per la pratica; la ragione pratica ha in essa una legge nobilissima, e propriamente « la suprema regola della prudenza ». Perocchè l' attenzione è una forza che già appartiene alla ragione pratica, ma è un' attività che influisce sulla ragione teoretica, e ne avvigorisce gli atti; perocchè la ragione pratica, come vedremo anche meglio in appresso, ha un' azione che si ripiega in vari modi sulla stessa ragione teoretica. Nell' attenzione, adunque, la ragione pratica già comincia ad operare, e le cognizioni, a cui lo spirito dà attenzione, riescono più facilmente ed efficacemente norme e principŒ dell' umano operare. Indi può accadere che l' uomo diriga le sue operazioni in due modi, o secondo ciò che conosce col pensare intero e complessivo , o esclusivamente secondo ciò che conosce col pensare astratto e parziale . Se le operazioni umane corrispondono al pensare intero e complessivo, esse pure sono intere e complessive; se si limitano ad avere per norma il pensare astratto, esse sono manchevoli ed imperfette. In questo appunto stà la suprema regola della prudenza, che si può formulare così: « Opera a tenore del pensare intero »; o con espressione negativa: « Guardati dall' operare dietro un pensare astratto e parziale ». Solamente qui è da por mente che l' operare secondo la norma del pensare intero e complessivo può essere di due maniere, più o meno perfetto. Se il pensare è intero, ma non analizzato, privo delle astrazioni, l' operare sarà sostanzialmente prudente; ma gli mancherà qualche cosa di accessorio, e però riuscirà imperfetto negli accidenti. Laonde vi sono due gradi di prudenza; l' uno è di quelli che operano secondo il pensare intero e complessivo, ma senza analisi ed astrazioni, l' altro il più perfetto, di quelli che operano secondo il pensare intero e nello stesso tempo secondo il pensare astratto, non pigliando questo da sè, ma unito col primo, cioè considerando le astrazioni siccome congiunte cogli oggetti su cui vennero formate. Benchè questa dottrina sia importantissima, io mi astengo dall' aggiungerle qui un maggiore sviluppo, potendo il lettore trovare un luminosissimo esempio della sua efficacia nell' applicazione, che ne abbiamo fatto, alla prudenza politica nell' opera intitolata La società ed il suo fine (1), dove abbiamo chiamato semplicemente facoltà di pensare quella del pensare intero e complessivo, e facoltà di astrarre l' altra. Dalla qual regola generale procede quella più speciale, che si enuncia così: « « Nell' operare attienti alla sostanza, e non sacrificare essa giammai agli accidenti », svolta da noi in un' apposita operetta (2) ». E nell' oggetto del pensare intero deve necessariamente entrare la sostanza, che è il primo atto di ogni ente reale; la sostanza non può mancare che nell' oggetto del pensare astratto (3). Dopo di ciò, come la ragione teoretica ha diversi atti, che noi riducemmo a tre, d' intuizione , di percezione e di riflessione , così le leggi proprie, a cui questi diversi atti soggiaciono, debbono riprodursi, ossia avere le loro corrispettive, nella ragione pratica ; il che ora dobbiamo noi svolgere. L' intuizione ha per oggetto l' ente, tutto l' ente, ma sotto la forma ideale. Ora, posciachè l' ente ideale non si può godere in altro modo, nè unirsi a lui che per via di contemplazione, perciò la ragione pratica ha per legge sua propria l' inclinazione alla contemplazione dell' idea , che diviene poi secondo diversi rispetti verità, tipo, bellezza, ecc.. Ogni inclinazione propria di un ente è legge del suo operare; perocchè il suo operare, e in generale la sua attività, è in buono stato, quando è conforme all' essenziale e naturale sua inclinazione. Acciocchè poi l' inclinazione alla contemplazione delle idee riesca all' atto, debbono avverarsi certe condizioni. Altrimenti la naturale intuizione rimane senza sforzo di attività, e però teoretica, non pratica. L' una e la principale di queste condizioni si è « il confronto dell' ente reale coll' ideale », perocchè l' ente reale è propriamente il termine dell' attività razionale; ma poichè ogni essere reale è dato al principio razionale per mezzo dell' idea e nell' idea, quindi avviene che quell' attività, che viene mossa dal termine reale, ricada anche in sull' idea, ed in questa, mossa che sia una volta, possa affissarsi. Così si sviluppa la contemplazione attiva , che anche si può dire semplicemente la contemplazione in opposizione alla semplice intuizione . Come poi in ogni atto del principio razionale vi è una compiacenza, così vi è pure l' amore, il quale, definito in modo generale, è « la fruizione dell' oggetto ». In secondo luogo l' intuizione produce altresì nel principio razionale l' inclinazione o predisposizione verso ogni ente reale, perocchè l' essenza di ogni ente reale è già compresa nell' ideale, benchè virtualmente, cioè così che non vi si vede il modo dell' ente fino che non è percepito. E questo è ciò che insegnano comunemente i filosofi, quando dicono che: [...OMISSIS...] . L' essere ideale adunque, oggetto dell' intuizione, produce nell' uomo per sè stesso solo inclinazioni e propensioni, e non atti, che vengono poi in appresso, ricevutine gli stimoli opportuni; le quali inclinazioni si possono ridurre a due: 1 inclinazione alla contemplazione; 2 inclinazione ad ogni bene reale conoscibile (2). Veniamo alla percezione, e vediamo che cosa dalle leggi, a cui soggiace la percezione, provenga nella ragione pratica. La legge della percezione è questa, che « l' ente limitato, percepito nel sentimento, si riporti all' essere ideale e in esso si vegga », di modo che nella percezione vi è: 1 il sentimento o realità; 2 l' ente ideale; 3 il rapporto d' identità (imperfetto) fra quello e questo. L' ente ideale è infinito e per sè completo. Dunque se l' ente reale si percepisce razionalmente riferendolo a lui, si percepisce insieme con esso la sua misura; perchè riportandolo al totale dell' essere, si vede fra gli enti reali qual più e qual meno prenda dell' essere, lo realizzi in sè stesso. Ora essendo il termine della ragione pratica l' ente quale è dato dalla ragione teoretica e da tutte le sue funzioni, è termine altresì di quella l' ente percepito. E perchè l' atto della ragione pratica consiste nell' aderire al suo termine, perciò ella deve aderire all' ente percepito in quella guisa che è percepito. Ma è percepito misurato dall' essere ideale, sicchè l' un ente percepito è percepito come maggior ente, e l' altro come minor ente. Dunque è legge della ragione pratica che ella aderisca agli enti secondo la loro misura. Ed anche quando il soggetto non percepisce che un solo ente reale, egli pur vede al confronto dell' ideale se sia limitato o illimitato; e deve aderirvi tale quale egli è, cioè con affezione misurata ad esso e proporzionata. Ora questo è il principio morale, « la legge dell' ordine morale », che prescrive che il riconoscimento affettivo sia compartito agli enti reali conosciuti, proporzionalmente alla loro misura, considerata sì rispetto all' ente completo ideale, e sì comparati fra loro, se sono più (1). Di qui un' altra nobilissima conseguenza, che il bene morale è di natura infinita, in quanto ha sempre per oggetto l' ente infinito. Perocchè l' ente limitato non è mai presentato dalla percezione solo e rispetto a sè, ma sempre unito all' ideale, che è completo ed infinito; e da questo misurato. Onde l' oggetto della ragione pratica non si ferma mai all' ente reale7finito, ma lo congiunge coll' ideale infinito e con questo insieme lo costituisce suo bene, aderendo a lui solo in quel tanto che l' essere ideale7universale gli prescrive. Onde l' atto dell' adesione ubbidisce a questo essere ideale7universale come sua suprema norma e regola; e lo tiene per conseguenza in maggior riverenza di ogni reale finito. E in questo sta appunto il carattere essenziale di ciò che è morale, di abbracciare sempre il tutto dell' essere , e finire in questo tutto, e secondo questo tutto regolarsi; e però esso è un bene di natura infinita , non comparabile a nessun altro bene finito, quale è il bene eudemonologico scompagnato dal morale, che termina nel finito. L' uomo adunque per la bontà morale è ordinato rispetto a tutto l' essere, all' essere infinito; e però quest' ordine, anche secondo il costante e uniforme giudizio degli uomini, ha un infinito prezzo. Nè vale il dire che l' ente reale, a cui si aderisce, è finito, perchè non si aderisce a lui se non aderendo prima all' ideale infinito, che misura e determina la quantità di adesione a quello dovuta. Vero è che se l' ente reale fosse egli stesso infinito, il bene morale sarebbe infinito da due parti, rispetto alla dignità infinita della norma che si venera su tutte le cose finite, e rispetto all' oggetto reale. Ma benchè in questo caso la moralità sia infinitamente maggiore che nel primo, perchè ella acquista un prezzo infinitamente infinito, tuttavia anche nel primo caso vi è una infinità di prezzo; chè, come abbiamo veduto, l' infinito è una proprietà ontologica, che non si può perdere in parte, ma o si perde tutta ovvero rimane tutta, cioè rimane l' infinità, tale essendo per natura e non per addizione o secondo la quantità. Riconoscere praticamente ciò che prima si conosceva teoreticamente è l' atto proprio della ragione pratica, in cui consiste la moralità. Il primo atto dunque della moralità si fa per via di riflessione. Ma la riflessione è doppia, astraente e integrante; a cui si può qui aggiungere una terza funzione, quella di semplicemente riconoscere ciò che si conosce, senza esercitarvi sopra nè l' astrazione, nè la riflessione. Quindi anche la ragione pratica deve avere tre funzioni: 1 il riconoscere volontariamente quello che si conosce; 2 il riconoscerlo con astrazione, con divisione e separazione; ossia riconoscere una parte solamente di ciò che si conosce; 3 il riconoscerlo con integrazione. Se la ragione pratica riconosce l' ente conosciuto semplicemente per quello che è nella cognizione teoretica, ella fa l' atto suo naturale, si unisce al termine determinatole dalla sua propria essenza, dall' essenziale sua inclinazione; il suo atto è buono. Ma se ella, invece di riconoscere semplicemente tutto il suo termine, vuole astrarre da qualche parte di esso e vuole aderire solo ad un' altra parte, ella non consegue la totalità del suo termine, e quindi è viziosa, il suo atto è malvagio. Di maniera che in ogni atto immorale vi è sempre un' astrazione arbitraria e contro natura. Da che poi l' uomo possa essere sedotto ad operare in opposizione all' essenza del suo principio razionale, che è egli stesso, fu da noi altrove chiarito (1). Di più, il restringere che fa la ragione pratica, e chiudere la propria attenzione e attività in una parte dell' oggetto conosciuto, è privarsi di una parte di lume, un accecarsi. In ogni vizio adunque e in ogni atto vizioso vi è qualche ignoranza e qualche cecità, la quale produce anche le coscienze erronee, di cui riesce poi cotanto difficile all' uomo interamente spogliarsi e pur solo avvertirle (1). Quanto poi alla riflessione integrante come funzione della ragione pratica, ella presta un nobilissimo ufficio alla perfezione dell' uomo, perocchè lo innalza a Dio, e con ciò l' ordine morale riceve l' ultima sua perfezione, e la ragione pratica è giunta all' ultimo divino suo termine, che quale principio e fine delle cose, e quale essere essenziale compie l' ordine dell' ente conosciuto. Poichè allora la ragione pratica ha già per suo termine non solo tutto l' essere sotto la forma ideale, ma ben anche sotto la forma reale, benchè con una cognizione negativa. Così la religione è il fastigio della morale; e come la morale nemica alla religione non è morale, anzi somma empietà, così la morale senza religione è una casa fabbricata senza tetto, il quale rimase solo disegnato in sulla carta dall' architetto. Veniamo ora alle leggi ontologiche speciali della ragione pratica: la prima è quella dell' oggettività. Noi abbiamo veduto che per la legge dell' oggettività la ragione: 1 non modifica il suo termine; 2 non apprende la sua azione, ma lui stesso; 3 e l' apprende senza apprendere insieme sè stessa, anzi finendo col suo atto fuori di sè, in lui. Queste tre qualità dell' operare razionale debbono riscontrarsi sì nella ragione teoretica che nella pratica; perocchè l' una e l' altra è ragione. Ma come tali leggi sono necessarie alla ragione teoretica, la quale da esse viene costituita quello che è, e però sono leggi essenziali, così rispetto alla ragione pratica, che soggiace ad agenti stranieri al suo oggetto, non ne costituiscono l' essenza, ma la perfezione, il bene proprio, e però non sono necessarie in questo senso, ma convenienti; non hanno necessità fisica , ma morale . Essendo dunque legge morale alla ragione pratica quello stesso che è legge essenziale alla teoretica, ne procede che: Come è legge essenziale alla ragione teoretica il non modificare il suo termine, così la pratica deve astenersi dal pur tentare di modificarlo, di alterarlo, di farlo diverso da quello che è, perchè ciò sarebbe un deviare dalla legge del principio razionale, un non operare più razionalmente. Ora per questo appunto noi ponemmo una facoltà dell' errore e del vizio diversa dalla facoltà di conoscere; perchè l' attività della ragione pratica, viziosamente alterando la misura e la stima degli enti, si oppone al conoscere anzichè produrre un conoscere. Come è legge essenziale della ragione l' apprendere l' ente e non ricevere l' azione dell' ente che, entrando nel soggetto, lo modifichi, quindi è che il principio razionale pratico deve, come sua legge, considerare il valore dell' ente in sè stesso, indipendentemente dall' accidentale e reale azione che egli esercita in lui, dovendosi misurare coll' essere ideale, e non coi soggettivi vantaggi e danni; e secondo la misura, che dal confronto coll' essere ideale riceve, conviene apprezzarlo. La reale azione adunque, che l' ente esercita in noi, non deve muovere la nostra ragione pratica a stimarlo diversamente da quello che, considerato rispetto all' ente ideale e nell' ente ideale, vale per sè. Perocchè altro è l' operare nostro in conseguenza dell' azione reale che esercita un ente o piuttosto un agente in noi, altro è operare in conseguenza della misura verace dell' ente (nel quale certo si comprende anche la sua attività e attitudine ad operare in noi ed in altri), rilevata per via di confronto coll' essenza dell' ente, che nell' essere ideale7universale la mente intuisce. L' operare secondo questa misura è operare razionalmente , e quindi moralmente; l' operare per impulso dell' azione reale in noi è abbandonare la legge della ragione, per seguitare quella dell' essere reale, o cieco o meramente sensibile (1). La ragione pratica adunque deve dirigersi secondo l' oggetto , e non secondo il soggetto . Come è legge essenziale della ragione apprendere l' ente con esclusione di sè stessa, in quanto è apprendente, quindi la ragione pratica, per operare razionalmente, deve seguitare l' ente suo termine in modo da dimenticare affatto sè stessa (soggetto), a meno che ella non fosse nell' ente, nell' oggetto compresa (oggettivata). Il che ritorna alla legge precedente di operare secondo l' oggetto , ma di più dimostra il perchè l' uomo virtuoso dimentichi sè stesso, e quale sia l' origine della bella semplicità del giusto, consistendo questa preclarissima dote in operare il bene senza pur volgere l' occhio agli stimoli soggettivi, come pure s' appalesa qui l' origine della generosità , della magnanimità , del sacrificio . Veniamo alla legge del sintesismo della ragione. Quale è la conseguenza, che questa legge adduce nella ragione pratica? La conseguenza si è che come il principio razionale ha una dualità, perchè esce di sè e si affissa e quasi dimora in cosa diversa ed opposta a sè soggetto, cioè nell' oggetto, così, qualora la ragione pratica opera consentaneamente alla propria legge della ragione, non solo ella è ordinata e soddisfatta in sè stessa (bene morale7psicologico), ma ella diede altresì all' ente suo oggetto ciò che a lui si aspetta, l' esigenza dell' ente fu pure soddisfatta (bene morale7ontologico). Viceversa, se la ragione pratica devia dalla legge propria della ragione, ella produce due mali: 1 disordina sè stessa, non unendosi e spiegandosi verso al suo termine, come esige la sua natura (male morale7psicologico); 2 ma ben anche pone un disordine fra lei e l' ente, non essendo osservata la relazione naturale fra i due termini (male morale7ontologico). Quindi è che il male morale non può essere riparato pienamente col solo emendare il disordine rimasto nell' attività pratica, il che non è che un restituire l' ordine psicologico , ma conviene di più che all' ente, di cui non si rispettò l' esigenza , si dia una soddisfazione, e così si restituisca l' ordine ontologico; il che spiega l' origine della giustizia punitrice e vendicatrice, e della soddisfazione penale. Se dunque vi è chi abbraccia tutto l' ordine ontologico in sè stesso, e presiede perciò alla conservazione di lui (e questi è Dio), è manifestamente uopo che la giustizia di lui esiga soddisfazione penale del male morale a favore dell' ente che fu oltraggiato. Egualmente da dirsi del bene operare. Oltre il buono effetto psicologico, che nasce dal bene morale nell' ordine interiore del soggetto che lo produce, deve conseguirne un premio ontologico. Ma questo è vario secondo l' ente particolare , di cui fu rispettata l' esigenza. Se l' uomo retto operò quel bene che riguarda sè stesso (oggettivamente considerandosi), egli ne avrà di bene ontologico l' amore e la stima accresciuta di sè medesimo (testimonianza della coscienza, che è cosa diversa dal sentimento dell' armonia psicologico7morale). Se l' uomo retto operò quel bene che riguarda i suoi simili, il premio ontologico, a cui ha diritto, è nell' amore e gratitudine dei suoi simili; e l' Ente supremo che presiede all' ordine ontologico lo deve compensare, se gli vien negato; come pure deve punire questa ingiusta negazione nei suoi simili, che glielo ricusano. Se finalmente l' uomo retto operò quel bene che riguarda Iddio, questi gli riserva premi degni di lui e della virtù morale verso di lui esercitata. Il quale discorso vale egualmente rispetto al male. Ma giova che noi vediamo più distintamente come il bene ed il male morale sia sempre duplice, psicologico ed ontologico ad un tempo, confrontando questo bene, proprio dell' attività del principio razionale, col bene proprio dell' attività del principio sensitivo. Il termine del principio sensitivo è da lui indiviso, ha con lui un' unione od una relazione di attività reciproca; il termine del principio razionale è essenzialmente a questo contrapposto, e non vi è fra essi congiunzione di reciproca attività, non essendo uniti che per una relazione intuitiva. Quindi tutto il male del principio sensitivo si riduce in quello che produce a sè stesso, e non è male suo quel che produce in altrui, sì perchè l' esteso materiale suo termine non è suscettivo, come dicevamo, di male e di bene, sì perchè ciò che è da lui disgiunto non è suo termine. Quindi se un cane morde un uomo, non si dice che egli stesso il cane da questa azione ritragga alcun male; e se lo si dice cattivo, l' appellazione si riferisce unicamente al male da lui prodotto, ed è piuttosto un traslato che un parlare proprio. All' incontro il principio razionale, avendo per termine un oggetto da sè distinto, ogni qualvolta ha fatto male altrui, per esempio al suo simile, egli ha operato contro alla legge che gl' imponeva il termine della sua attività, l' ente; e ciò per le dette leggi di oggettività e di sintesismo, per le quali questo termine è a lui presente. Dunque il principio sensitivo è soggetto al male per una sola ragione, perchè la sua attività può trovarsi sconcertata nel naturale suo istinto; all' incontro il principio razionale è cagione del male a due titoli: 1 a cagione dello sconcerto che egli produce nell' ordine ontologico, alterando la relazione naturale fra gli enti, e così tentando da parte sua di distruggere l' ente in universale, che ha questo ordine intrinseco; il che a lui viene imputato come a cagione; 2 per lo sconcerto che indi nasce in sè stesso, che non aderisce al suo termine naturale secondo la legge della sua propria costituzione. Ond' è che la necessità morale è oggettiva e soggettiva ad un tempo (1). Applichiamo ora la seconda legge della ragione, che dice: « il termine del pensiero è il possibile », alla ragione pratica. Tosto ne avremo due nobilissime conseguenze. La prima si è che la ragione pratica ha per suo termine l' essenza degli enti in relazione al realizzamento di lei. Abbiamo veduto, parlando della legge della percezione, che la ragione pratica deve aderire all' ente reale secondo la misura di lui, e che la misura di lui è determinata dall' essere ideale7universale. Questa misura è l' idea specifica dell' ente di cui si tratta; e questa idea specifica è sempre l' essere ideale considerato come manifestativo di quell' ente reale. Vi è dunque: 1 l' essere ideale universale, misura prima, assoluta, misura di tutte le misure degli enti reali; 2 vi è l' idea specifica, misura prossima dell' ente reale; 3 vi è l' ente reale misurato. La legge prima sta nella prima misura misuratrice delle altre; il che è quanto dire che la ragione pratica deve operare secondo la sentenza di questo misuratore, deve abbracciare la misura che egli assegna. La legge seconda sta nella misura prossima; il che è quanto dire che la ragione pratica, avuta questa misura dal misuratore, deve tenerla per norma della sua stima e della sua adesione all' ente reale. Sopra l' ente reale adunque vi sono queste norme della ragione pratica; onde l' ordine morale viene alla ragione pratica da quelle leggi che le prescrivono il contegno, che ella deve tenere verso a ciascun ente reale. La ragione ultima adunque del rispetto morale è l' idea, e l' ente non è apprezzato se non in quanto lo prescrive l' idea . Ora l' idea contiene l' essenza dell' ente. Dunque il rispetto della ragione pratica termina nell' essenza dell' ente; e l' ente reale è apprezzato non in sè stesso e per sè stesso, ma nella sua essenza e per la sua essenza. Ma l' essenza dell' ente, trattandosi di enti contingenti, è ideale, e prende il nome di possibile , quando si considera rispetto alla sua realizzazione. Dunque il termine ultimo conveniente alla ragione pratica è l' essenza possibile della cosa in relazione col suo realizzamento. Di qui si scorge perchè è atto morale non solo il rispettare un ente reale secondo la misura della sua essenza ideale, ma anche il tendere a realizzarne l' essenza. Poichè se la ragione pratica ha per oggetto il realizzamento dell' essenza, ne viene che se questo realizzamento ancora non è fatto o è imperfettamente, ella tenderà a produrlo, e a produrlo nel modo più compiuto e perfetto; se poi è già prodotto, ella tenderà ad aderire all' ente reale perfettamente realizzato. Quindi i due atti morali: 1 di aderire all' ente reale (giustizia speciale); 2 di realizzare l' ente ideale (beneficenza, carità); e questo secondo si parte in due, l' atto di produrre e l' atto di perfezionare (1). Da questa stessa dottrina procede la legge del realizzamento completo delle specie o dell' esclusa eguaglianza , che segue il Creatore nella formazione e nel governo del mondo (2). Noi di sopra parlavamo degli enti contingenti. Ma si può applicare un simile ragionamento all' Ente supremo, necessario ed assoluto. Perocchè, quantunque l' Ente supremo abbia la sussistenza e realità nella sua essenza, tuttavia la sua essenza non è meno manifestativa della sussistenza e realità sua; o per dir meglio la sussistenza dell' essere supremo in quanto si fa conoscere col proprio lume, in tanto è legge imposta alla ragione pratica, e in quanto vive compiuta in sè, in tanto è oggetto reale della stessa ragione pratica. La seconda conseguenza, che noi deduciamo dal sapere che il possibile è il termine della ragione, si è che la ragione pratica ha per legge sua propria l' armonia nell' oggetto. L' essenza, che non abbia in sè la sussistenza dell' ente, si dice possibile, considerata in relazione al suo realizzamento. Possibile logicamente è tutto ciò che non involge contraddizione; onde dicemmo che l' oggetto della ragione, l' ente, è immune da ogni contraddizione, consentaneo seco stesso, pienamente armonico. Dunque la ragione pratica, essendo anch' essa ragione, forza è che per operare secondo la sua natura abbia un termine armonico, immune da contraddizione. All' incontro l' uomo vizioso, se ben si considera, ha sempre per termine del suo operare una contraddizione; egli si sforza di fare l' impossibile. Infatti è impossibile distruggere l' ordine intrinseco dell' essere universale, fare che l' ente considerato secondo la sua essenza sia diverso da quello che è, perchè le essenze sono immutabili. Ora quando un uomo, invece di riconoscere, secondo la sua misura, l' ente concepito, vuole riconoscerlo secondo un' altra misura arbitraria, egli rappresenta a sè stesso l' essenza dell' ente mutata quanto alla sua misura, e quindi di maggiore o minore prezzo del vero. Egli si rappresenta dunque il falso per oggetto di sua attività; ma egli non lo si presenta già come falso, ma come vero. Perocchè niuno può pienamente e assolutamente volere ingannarsi, e ogni vizioso tende necessariamente a persuadere a sè stesso che il bene da lui voluto è vero bene; e se si potesse a pieno convincere che neppure hic et nunc è vero bene, non lo seguirebbe giammai, cioè non abbandonerebbe il vero bene per ciò che già conoscerebbe non essere bene. Certo che egli può colla ragione speculativa conoscere che s' inganna; ma non lo riconosce colla ragione pratica. Egli dirà a sè stesso che il bene che lo seduce non è bene in generale, e che arreca dopo di sè maggior male; ma egli vuole in pari tempo che gli sia bene per il presente, astraendo dal futuro, astraendo dalle conseguenze o da mille altre considerazioni; perocchè, come dicevamo, è per astrazione che la ragione pratica devia dalla strada, che le prescrivono le naturali sue leggi. Se dunque vuole praticamente e nell' atto di operare che sia bene quello che è male, egli tenta con questa sua attività di snaturare e distruggere la verità, di fare che quello che è in un modo sia a lui in un altro, tenta di mutare l' ordine dell' ente. Ora l' ente in tal caso entrerebbe in contraddizione seco medesimo. Perocchè alla ragione teoretica sarebbe una cosa, avrebbe una misura; alla ragione pratica sarebbe un' altra cosa, avrebbe un' altra misura. Quindi la ragione pratica, tendendo con un vizioso operare di mettere l' ente in contraddizione seco stesso, tende di fare l' impossibile. Dove si appalesa l' origine della lotta incessante e della implacabile battaglia, che ogni vizioso agita nel proprio seno, e della pace e concordia seco stesso dell' uomo giusto (1). Le quattro leggi seguenti della ragione non fanno che definire ciò che non può costituire il suo termine; e rispetto alla ragione pratica hanno la stessa efficacia negativa. Per essa appare che non vi può essere il termine proprio della ragione pratica, qualora il termine che ella prende di mira manchi o dell' atto primo, o dell' unità, o della durevolezza, o della determinazione. Tutto ciò viene a dire che il termine della ragione pratica deve essere qualche sostanza. Quindi ciò che è accidente non può costituire un termine proprio alla ragione pratica, la quale deve riferire ciò che è accidentale a ciò che è sostanziale. Noi l' abbiamo veduto parlando della legge della prudenza. Di più, ciò che è corporeo, non avendo unità propria, ma mutuandola dal principio senziente (nel quale solo ha la continuità), non può essere vero termine alla ragione pratica. Neppure il principio meramente senziente7animale costituisce il termine finale della ragione pratica, come quello che non è ente completo, ma solo un cotal rudimento di ente; è in via ad essere ente. Oltre di che, dovendo questa sempre spingersi all' infinito, il che la rende morale, e il principio animale niente avendo in sè dell' infinito, egli non può essere in alcun modo ultimo termine alla ragione pratica. L' essere intelligente all' incontro, essendo quello che ha sua sede nell' infinito, nell' essere ideale, nell' essenza dell' ente in universale, in quanto che in questa si affissa e riposa; partecipa della dignità di questo, perchè è a questo ordinato, e quindi ha ragione di fine e di termine della ragione pratica. Ma posciachè anche fra gli esseri reali7intelligenti vi è un ordine, e il reale finito non è che una produzione dell' Infinito che lo crea, così è necessario alla ragione pratica di aderire all' ente intelligente finito in modo da riferirlo al suo principio, a Dio creatore; nel quale solo s' acquieta interamente come in suo termine ultimo, completo, assoluto. E questo basti delle leggi ontologiche, a cui ubbidisce il principio razionale; passiamo ora al secondo genere, cioè alle leggi psicologiche. Quantunque il termine sia quello che suscita l' attività del principio a cui è congiunto, tuttavia dopo di ciò il principio ha pur egli un' attività sua propria. Il termine del principio razionale nella vita naturale è duplice, cioè l' ente ideale e il reale finito (il mondo). Questo doppio termine deve suscitare nel principio razionale una doppia attività. E poichè questa doppia attività deve ricevere in non piccola parte il suo modo di operare dalla natura del principio stesso, ossia dell' anima, quindi le leggi psicologiche debbonsi dividere in due classi; e sono quelle che rispondono alle leggi ontologiche, e quelle che rispondono alle leggi cosmologiche. Ma delle leggi cosmologiche noi non abbiamo ancora parlato, ma solo delle ontologiche. Gioverà dunque che qui noi ci limitiamo ad esporre le sole leggi psicologiche che alle ontologiche rispondono, rimettendo a parlare dell' altra classe più innanzi. Tuttavia noi non potremo farlo, prescindendo al tutto dalle leggi cosmologiche; ma ciò che ci verrà detto intorno a queste, sarà un acconto di quanto dovremo dire di poi, quando tratteremo exprofesso di esse. La legge ontologica generale, che riassume tutte le altre, si è: « il termine del principio razionale è l' ente »; e però se manca qualche condizione essenziale dell' ente, non c' è più il termine del principio razionale; all' incontro, se non manca niuna condizione, quel principio, avendo il suo termine, esercita in esso la sua attività. Per applicare debitamente questa legge all' uomo ci convenne osservare quali sieno le condizioni essenziali dell' ente. E primieramente osservammo: Che l' ente ha tre forme, e che sotto ciascuna è compiuto; quindi che può essere dato ad un soggetto l' ente sotto la forma ideale, senza che gli sia dato sotto le altre due forme. Che non potrebbe tuttavia essere dato l' ente sotto la forma reale e morale senza la forma ideale, perchè l' ente ideale è quello che manifesta l' essenza dell' ente , e l' ente non può essere oggetto del pensiero sotto nessuna forma, quando gli manchi la sua propria essenza (1). Che l' ente sotto la forma ideale essendo per sè oggetto, il principio razionale che ne è informato, non può avere altro termine che sotto la forma di oggetto. Da queste verità si raccoglie: Che il principio razionale, in quanto è per natura intellettivo, non ha che quella attività che gli può essere data dall' ente ideale. Che il detto principio, quando si dividesse affatto dal sentimento fondamentale7animale, s' acquieterebbe nell' ente ideale, suo naturale termine. Che non è suscettivo di alcuna mozione a qualche altro atto, se non è tirato a ciò da un nuovo oggetto. In queste proposizioni si contengono già i semi delle leggi psicologiche, che ci proponiamo di esporre; cominciamo dal considerare l' ultima. L' ultima delle tre proposizioni enunciate viene a dire che, se si suppone che il principio razionale non sia mosso ad operare da alcun altro oggetto che dall' ideale, egli si rimane in perpetua quiete, nulla opera al di là dello stesso atto intuitivo pel quale è unito al suo termine. Infatti chi ricerca le leggi soggettive secondo le quali opera il principio razionale, può intendere di fare due cose, cioè può intendere di risolvere due questioni. Questione prima : secondo quali leggi si muova ai suoi atti secondi. Questione seconda : secondo quali leggi, posto che sia già mosso, egli eseguisca il suo movimento. In quanto alla prima questione, è da rispondere che il principio razionale non si muove a nessun atto secondo, se non gli è dato un nuovo oggetto oltre l' ente ideale, se non gli è dato qualche cosa di reale. Ma posciachè l' ente reale, termine del pensiero, può essere finito o infinito, incompleto o completo, e quando è infinito e completo, la stessa essenza si vede nell' ideale realizzata, e però egli stesso è per sè oggetto; quindi l' attività, che verrebbe suscitata dall' ente reale infinito nel principio razionale se gli si comunicasse, sarebbe veramente ontologica; e in questo caso si può ricercare quali sarebbero le leggi soggettive7ontologiche del principio razionale. Ora è evidente che l' attività suscitata nel principio razionale in tal caso sarebbe massima, e tuttavia semplicissima, cioè tutta si ridurrebbe a un atto, che riposerebbe e si acquieterebbe nel suo termine senza più; e però, compiuto quest' atto, non si darebbe altro movimento se non quello che vi potesse essere dal passaggio fra l' ideale e il reale; atto di compiacenza in vedere che quel reale compie tutto l' ideale, e che l' ideale esprime e, per così dire, illumina tutto quel reale. Al quale passaggio incessante di attenzione e di contemplazione ella potrebbe essere mossa da ciò che nel reale stesso ritroverebbe di identico e di distinto dall' ideale (1). Ma lasciando la comunicazione dell' ente reale infinito, ogni comunicazione del reale finito non può suscitare che una attività cosmologica, e quindi esser fonte di sole leggi cosmologiche, non ontologiche. Suscitata poi questa attività, è certo che il modo dell' operare del principio razionale trae dall' ente ideale, e perciò è ontologico, e vi possono essere leggi ontologiche7soggettive, benchè col solo ente ideale o infinito7reale non vi possa essere che quell' atto semplice, che termina in esso ed ivi si quieta. Questo bisogno dunque, che ha il principio razionale di nuovi oggetti per fare nuovi atti, è quello che chiamiamo legge psicologica d' inerzia , che fa sì che quel principio non possa muoversi dalla quiete ad alcun atto per sè stesso, se non quando l' oggetto stesso a sè lo tira e il muoversi gli concede; benchè già in moto, egli possa diverse cose operare secondo l' altra legge della spontaneità (1). Se dunque l' anima umana, ossia il principio razionale, non si muove che quando gli è dato il termine, come spiega egli tanta attività in sì varie operazioni, che lo conducono ad un immenso sviluppo? Non parrebbe per avventura che non vi fosse nulla di mezzo fra l' essergli dato l' oggetto e il non essergli dato, delle quali due supposizioni nella seconda non potrebbe avere operazione, nella prima avrebbe l' operazione semplicissima dell' unirsi all' oggetto e in lui riposare? Rispondo che così appunto dovrebbe avvenire, se l' anima non avesse un' attività propria di lei come principio; la quale attività non sarebbe, è vero, se non vi fosse l' oggetto, ma, posto l' oggetto, ella è, ed ha sue proprie leggi, che sono appunto le leggi psicologiche che noi andiamo investigando. E primieramente l' unirsi all' oggetto si fa in due modi, come già indicammo, l' uno speculativo , l' altro pratico . Ora l' unione meramente speculativa è l' atto primo di unione, e questo è determinato dalla presenza dell' oggetto, ed è però unione ontologica; ma l' unione pratica si fa per l' attività propria del soggetto, e quindi ella è unione psicologica (1). Di che noi vedemmo che le leggi ontologiche della ragione speculativa sono fisicamente necessarie, come venienti dall' oggetto e dalla virtù creatrice che pone l' anima intuente l' oggetto, e però non traggono dall' attività razionale dell' anima, ma questa anzi per esse si crea. All' incontro, quando cercammo se la ragione pratica avesse leggi ontologiche e quali fossero, noi non trovammo leggi ontologiche della ragione pratica, che fossero fisicamente necessarie (2), ma solo leggi necessarie moralmente. Che vuol dire leggi ontologiche moralmente necessarie? Vuol dire tali che non determinano l' operare fisico di lei, ma il morale; non determinano ciò che ella veramente fa, ma ciò che che deve fare per essere perfetta. La ragione pratica adunque ha due specie di leggi: quelle secondo le quali la sua propria natura la fa operare, e queste sono psicologiche; e quelle secondo le quali deve operare per essere perfetta, e queste sono ontologiche e morali . Queste ultime le abbiamo già esposte, quelle prime prendiamo ora ad esporle. Ma posciachè la ragione pratica non è che una cotal continuazione della ragione teoretica, come gli atti secondi sono una cotal continuazione dell' atto primo, perciò la ragione pratica non opera mai sola, ma colla stessa ragione teoretica, onde muove come da sua origine; di che avviene che nell' operazione della ragione pratica si vedono già adempiute le leggi della teoretica; dal che però non deriva che le une sieno le altre, conviene anzi guardarsi dal confondere insieme tali due maniere di legge distintissime. L' attività e spontaneità psicologica , adunque, si compone ottimamente coll' inerzia psicologica , poichè questa consiste nel non poter l' anima operare senza oggetto; e quella nell' unirsi più e meno, e in diversi modi all' oggetto, quando questo le sia già dato. Affine però di avere più chiara nella mente questa conciliazione, gioverà qui riassumere in breve tutto lo sviluppo psicologico , raccogliendo dai vari luoghi dove ne parlammo. Esso procede coi seguenti passi e modi di operare dello spirito, ai quali tutti soggiungemmo la loro ragione sufficiente. Il principio razionale non si muove, se non gli è dato l' oggetto a cui si possa unire. Se questo oggetto è il solo ente ideale, infinito, egli s' acqueta in lui, e l' azione in tal caso è semplicissima (intuizione), come semplicissimo è l' oggetto; nè gli rimane ad andare più in là col suo movimento, il quale è giunto al suo compiuto termine. Se l' oggetto è un reale dato nel sentimento, questo promuove la percezione, la quale ha del molteplice, racchiudendo tutti insieme: a ) l' ideale infinito; b ) l' ideale in quanto mostra l' essenza del reale, concetto del reale, misura del reale; c ) l' affermazione del reale, cioè della realizzazione del concetto. Ma tutto ciò quasi direbbesi organicamente unito. Se l' affermazione del reale o la sua memoria cessa per qualunque ragione, rimane nella mente il concetto della cosa, sorretto da qualche vestigio reale di sentimento, che ne fa le veci. Ma un reale, percepito dalla nostra ragione teoretica , può divenire oggetto alla nostra volontà (attività psicologica) non solo in quanto è concepito , ma in quanto è reale . Questi sono due modi diversi di unione dell' anima coll' oggetto. Infatti la volontà talora si diletta semplicemente di conoscere attualmente una cosa (diletto di contemplazione), ed allora le basta di avere l' oggetto presente nella concezione della ragione teoretica, soddisfacendosi in contemplarlo, che è atto di ragione pratica (1). Ma talora non basta alla volontà di contemplare l' oggetto conosciuto; ella appetisce la sua fruizione sentimentale, l' appetisce come reale, come termine del sentimento, non come termine semplicemente della cognizione. E rispetto a questa unione reale possono aver luogo due specie di volizioni: le affettive e le appreziative (1). Nelle volizioni meramente affettive il principio razionale non fa che secondare l' istinto, e quindi si contiene negativamente rispetto al termine dell' istinto, concependolo bensì nell' ente, ma non apprezzandolo distintamente come bene. Nelle volizioni appreziative interviene e precede l' atto di appreziazione. Ora la volizione appreziativa (perocchè restringeremo ora a questa il discorso), che appetisce il reale come termine del sentimento, è varia secondo che vari sono i sensorii e i modi coi quali i sensorii si uniscono al loro termine. Quindi: Se si tratta del sensorio della vista, basterà, perchè abbia luogo la volizione appreziativa, che il reale sia presente agli occhi; la percezione visiva del reale sarà l' oggetto dell' appetito; basterà il contemplare una bella frutta che penzola rosseggiante da un albero per appetirla. Se si tratta del tatto, non le basterà che il reale sia ad una certa distanza dove possa esser veduto, ma lo vorrà vicino, sotto le sue mani; per esempio, il bambino vorrà che gli si spicchi e che gli si dia in mano, per contrattarla, quella bella frutta che vede rosseggiare sull' albero. Se si tratta del gusto o del senso alimentare, si vorrà poter mangiare lo stesso oggetto; il bambino vorrà poter mettere alla bocca e mangiare quella frutta. E così si dica di ogni altro sentimento. In generale adunque si brama che il termine appetito venga unito al senso a cui appartiene, in quel vario modo che la natura del sensorio esige. Quindi è che il reale concepito dalla ragione teoretica, qualora dalla volontà sia appetito come reale termine dei sentimenti, riceve la natura di fine rispetto alla volontà, la cui attività tosto si muove a cercare i mezzi per conseguire quel fine. I quali mezzi possono essere trovati per un gioco di volizioni meramente affettive , ovvero può muoversi la ragione pratica a trovarli con volizioni appreziative e calcolatrici. In questo ultimo caso la ragione pratica già muove la ragione teoretica a trovare i detti mezzi . E tuttavia non è qui da conchiudere che con ciò si formino i concetti astratti di fine e di mezzo; niente vi è ancora di veramente astratto nella ragione teoretica, ma ella opera dietro le relazioni degli enti, senza astrarre da essi queste relazioni, che vede negli enti e non in separato da essi, benchè con atti che hanno già un termine complesso e molteplice; le cui parti però sono come organi di un solo tutto, inteso nel tutto e pel tutto. Questa maniera di operare per fine e mezzi, senza conoscersi ancora astrattamente il fine ed il mezzo, non appartiene al pensare astratto , ma al pensare molteplice; perocchè nell' oggetto del pensiero vi può essere molteplicità senza astrazione. Così abbiamo veduto che nell' oggetto della percezione si distinguono tre elementi; eppure ella è una sola operazione, e l' oggetto è uno, benchè organato. Ma questa relazione di mezzo e di fine è già un legame fra le idee e le percezioni. Altri legami poscia si manifestano, che le associano in mille forme, e di molte fanno un solo pensiero. E l' istrumento che dà nuova attività al pensiero è l' associazione e la spontaneità dei fantasmi; poichè noi abbiamo veduto essere legge del principio razionale che ad ogni sentimento egli unisca l' idea. Quindi i fantasmi eccitano il pensiero. Ora è proprio della fantasia l' avere un cotal moto spontaneo per sì fatta guisa che al suscitarsi di un solo fantasma se ne suscitino altri (1). Di conseguente anche i pensieri vengono da tale stimolo tratti a succedersi. La fantasia ha oltracciò la legge dell' abitudine, e questa le viene imposta anche in parte dai pensieri; poichè come i fantasmi muovono i pensieri corrispondenti, così i pensieri muovono i fantasmi. Ora i pensieri sono legati dai loro nessi logici, e però anche i fantasmi corrispondenti si abituano a rappresentarsi in una serie, quasi direbbesi, ragionata. Poichè quella serie di ragionamenti, che la mente una volta ha percorso, già lega e produce la serie corrispondente di fantasmi. Quindi poi quelle serie ragionate di fantasmi, legate a tenore dei diversi ragionamenti, vengono a suscitarsi in noi abitualmente, tostochè se ne sia dato l' impulso al nostro sensorio interno, e dietro ad esse tornano i congrui ragionamenti. Così l' abitudine, a cui soggiace la fantasia, passa alla facoltà di pensare con quella abbinata; ed è questo che noi chiamiamo fantasia ragionante , ovvero abitudine ragionante , della quale ci gioviamo a spiegare i fenomeni dei sogni, delle distrazioni, ecc.. E qui si rifletta che questa abitudine ragionante , che incomincia già a questo grado dello sviluppo intellettivo, molto più si accresce ed amplifica cogli altri gradi dello svolgimento del pensiero che siamo per descrivere. L' associazione delle percezioni e delle idee fa sì che un reale diviene segno di un altro, e la percezione di un' altra percezione. Così comincia a formarsi naturalmente una lingua. Di più la natura, l' istinto, insegna all' uomo ad adoperare cogli altri questa associazione delle percezioni, perchè l' uomo che vuole tendere ad un fine, ha bisogno talora di fare che i suoi simili lo sappiano, essendo questa cognizione data ai suoi simili un mezzo col quale ottiene il fine desiderato. La sapienza poi del Creatore ha fornito l' uomo, fra gli altri modi di comunicare altrui i suoi bisogni e le sue volontà, di uno strumento acconcissimo a ciò, qual' è la facoltà dei suoni articolati; e gli ha dato l' istinto di produrli anche come semplice conseguenza fisica dei suoi sentimenti e pensieri. Perocchè l' uomo, quando sia animato da qualche sentimento più o meno grande, manda per istinto suoni dalla sua bocca, anche se egli è solo; giacchè il guizzo della sua lingua, e il cacciamento dell' aria dal petto, e l' acconcio incanalamento della gola, è un effetto del suo interno sentire, anche indipendentemente dall' attitudine che tali suoni hanno a significare; la quale attitudine si scopre ben tosto dopo. Questo è già un passo grande al suo sviluppo intellettivo, ma l' astrazione propriamente detta non c' entra ancora. Ora questi suoni od altri segni, che l' uomo adopera a manifestare i propri bisogni, e sentimenti, e volizioni ai suoi simili, sono essi nomi propri o comuni? La natura loro è quella di nomi comuni, perchè esprimenti il concetto (altrimenti sarebbero suoni istintivi, non segni imposti); ma l' uso che se ne fa al cominciamento è quello dei nomi propri, perchè esprimono il concetto legato ancora al sentimento, la percezione (1). Incominciano dall' essere nomi propri nell' atto che s' impongono all' oggetto della percezione, la quale è di natura sua singolare; ma ben presto sono usati come comuni, avendo la percezione il comune in sè stessa, cioè il concetto che è essenzialmente comune, tostochè l' idea legata all' oggetto della percezione e così particolarizzata, si scioglie da quel legame estrinseco. E per vedere con qual progresso e fin dove l' uomo, o piuttosto gli uomini conviventi insieme, possano andare nella formazione del linguaggio, è uopo considerare bene la natura della percezione, prima generatrice dei nomi. I suoi tre elementi sono: 1 l' idea (l' essere ideale illimitato); 2 il concetto (essere ideale limitato dal rapporto che la percezione sensitiva ha con esso); 3 l' atto dello spirito affermante la sussistenza, ossia la realizzazione del concetto. Dapprima dunque il nome imposto segna questo triplice oggetto della percezione. Tosto appresso lo spirito abbandona la sussistenza , perchè non ne ha bisogno, e gli resta il concetto intuìto nell' idea. Il nome perciò non muta, ma egli è già usato da quest' ora come comune. Ma qual' è la natura del concetto , che si acquista nella percezione? Primieramente la percezione intellettiva si fa in occasione delle sensazioni e percezioni sensitive. Ora i diversi sensorii, che percepiscono lo stesso reale, spezzano già naturalmente quel reale in più; perocchè rappresentano all' uomo con percezioni separate le diverse sue qualità sensibili. Di che l' uomo può connettere un suono diverso a indicare l' oggetto colorato, e lo stesso oggetto gustoso al palato, ecc. (1). E questa non è ancora tuttavia astrazione pura; perocchè ognuno di quei suoni indica una sostanza reale, quale è data dal relativo sensorio, è un nome sostantivo qualificato . Quando poi l' uomo s' accorge della medesimezza dell' individuo, ancora non astrae, anzi sintesizza. Questo nondimeno è un passo importante che fa lo spirito umano. Ma accade che due o più reali diversi, e diversamente percepiti, arrechino all' uomo un piacere simile, ovvero un simile dolore. Nel primo caso egli esprimerà la sua gioia con movimenti somiglianti il suo piacere, e nel secondo con movimenti somiglianti il suo dolore. I suoi simili leggeranno adunque nel suo volto e nei suoi gesti il piacere ovvero il dolore che prova. Egli potrà esprimere ancora tali sentimenti con dei suoni spontanei ed istintivi. Cotesti gesti e cotesti suoni esprimono propriamente un reale, cioè il suo sentimento piacevole o doloroso; ma ben presto si potranno associare agli oggetti reali che ne sono la causa e la forma, secondo il detto delle scuole che sensibile in actu est sensus in actu . Poniamo una madre, che voglia allontanare un bambino da diversi oggetti nocevoli. Ella per fargli intendere che quegli oggetti sono nocevoli, farà di quei gesti e manderà di quei suoni, che esprimono dolore, paura, ed altri simili effetti. E questi segni li adopererà tanto per far intendere al bambino che deve allontanarsi dal fuoco, quanto da un rasoio, o da uno stagno d' acqua, o da un precipizio, ecc., perchè essendo simile il sentimento che tali oggetti producono, è consentaneo che ella adoperi sempre i medesimi segni, tanto più che vi è la legge che « l' animale e l' uomo prende sempre la via più facile a far ciò che fa », ed è più facile ripetere lo stesso segno che trovarne di nuovi. Così un po' alla volta verrà a stabilirsi un suono, che sarà il nome comune di tutti gli oggetti nocevoli. Voglia all' incontro la madre stessa invitare il suo bambino a godere degli oggetti piacevoli, a mangiare frutta o dolci, a trastullarsi, ecc., ella userà quei segni che esprimono gioia, e ripetendo gli stessi segni in un gran numero di circostanze diverse e per diversissimi oggetti reali, finirà collo stabilire un nome comune a tutti gli oggetti dilettevoli od utili (1). I nomi imposti da questa madre significherebbero adunque « ciò che dà dolore, tristezza », e « ciò che dà piacere, letizia ». Esprimerebbero dunque enti, ma caratterizzati e distinti dall' effetto che producono nel sentimento; sarebbero dunque nomi comuni estesissimi, perchè abbraccerebbero innumerevoli classi di effetti. Essendovi questa facoltà nell' uomo, niente vieta che secondo il bisogno del sentimento si inventassero nomi comuni più ristretti, determinati non dal piacere o dal dolore in genere, ma da un genere o da una specie di piaceri, di dolori, di sentimenti soddisfacenti o molesti. Così buono e cattivo, utile e disutile, sano e malsano , ecc., sarebbero di tali nomi comuni detti dai grammatici aggettivi sostantivati , ma malamente, perchè nel progresso della lingua umana l' uomo li deve trovare prima degli aggettivi, onde il loro nome filosofico sarebbe sostantivi qualificati , perocchè esprimono il concetto di una sostanza determinata da una o più specie dei suoi accidenti. Secondo la stessa legge apparisce che il nome comune, significante a principio la specie piena, deve essere trasferito a significare non solo i generi molto estesi, ma anche i meno estesi e fino i generi infimi. Diamo un esempio. Al vedere il verde tappeto, di cui è coperta una parte della terra, si muoverà l' uomo a denominare prato quella superficie verde, il suolo coperto d' erba, nominando così con nome proprio l' oggetto della sua percezione. In appresso ogni simile tratto di terra verdeggiante lo chiamerà pure prato , e questo sarà già un uso di quel nome in quanto è comune, perchè, abbandonando il pensiero della sussistenza del primo prato reale, s' accomuna concetto e nome ad ogni suolo erboso, onde colla parola prato denomina già l' oggetto del suo concetto . E` vero che nella prima percezione del prato egli percepì altre qualità oltre il color verde, cioè la grandezza, la forma, la gradazione del colore, ecc.. Ma queste qualità non colpirono il riguardante così vivamente siccome il color verde , e perciò, trascurate le altre qualità senza imporvi denominazione alcuna, si contentò di nominare l' oggetto veduto dalla qualità più viva « un ente verde ». Quindi se agli sguardi di quest' uomo, che non ha ancora altri vocaboli, si presenterà una tappezzeria verde e vorrà nominarla, egli non cercherà un vocabolo nuovo, che gli costerebbe maggior fatica e sarebbe inutile al suo bisogno, ma la chiamerà incontanente collo stesso nome di « prato », ampliandone il significato e pigliandolo a significare in generale « ciò che è verde ». Di qui si trae che il pensare generi e specie, e il produrre nomi comuni è naturale all' uomo, talmente che tutti i primi nomi sostantivi dovevano essere non mai sostantivi, ma sostantivi qualificati , e le lingue antichissime ne hanno le traccie manifeste. Leibnizio l' aveva osservato, e non sarà inutile l' aggiungere qui agli esempi da me recati (1) quelli che adduce questo sommo filosofo, che fiorì in Germania quando non era ancora entrato in quella nazione lo spirito caustico di sofisma introdottovi da Kant, figliuolo del tempo suo e corrompitore del vero modo di filosofare. Ecco adunque ciò che scrive quel grande uomo: [...OMISSIS...] Leibnizio tuttavia non tocca in questo passo la cagione per la quale l' uomo sia inclinato a formare nomi comuni , e ne abbia tanta facilità che lo fa senza fatica, e tanto più facilmente, quanto è più tenero. Questa cagione si è sempre: La natura della percezione , che apprende le cose nell' azione loro speciale sui particolari sensorii, e qui le apprende non in tutto il loro essere e in tutta la loro attività, ma parzialmente, in attività unilaterali, onde percepisce l' ente determinato da tali qualità sensibili. La natura dei sentimenti , producendo disparati oggetti dei sentimenti simili od eguali; onde a questi sentimenti, come a reali, si attaccano le loro varie cagioni, e queste ricevono un nome comune , più comune ancora di quello che esprime l' attitudine a produrre speciali percezioni, perchè significa più reali disparati per l' attitudine che tutti hanno a cagionare quei medesimi sentimenti. Finalmente la natura dell' appetizione , che è anch' essa un reale, a cui si congiungono nella mente gli oggetti suoi lontani ed anche quelli che hanno attitudine di mezzi a conseguirli; onde altri nomi più comuni ancora, cioè tutti quelli che segnano molti reali per l' attitudine comune, più o meno mediata, a fare che l' appetizione ottenga l' oggetto a cui tende come a suo fine; onde si dirà, poniamo, vehiculum tutte le cose atte a condurre, instrumentum tutte le cose che aiutano di mezzo a fare checchessia, ecc.. E qui giova che diciamo pur qualche cosa di quella potenza che Aristotele chiamò senso comune, ammessa poi universalmente dalle scuole. Secondo questo filosofo il senso comune è una potenza interna, che riceve le sensazioni dei cinque sensi esterni, ed ha un proprio organo nel cervello. Quanto ad avere un proprio organo nel cervello, questa è proposizione gratuita, e il ragionamento prova anzi il contrario; perocchè ad ogni sentimento corporeo deve rispondere un movimento speciale. Onde se contemporaneamente si avessero sensazioni di vari sensi, e queste fossero tutte ricevute dal medesimo organo destinato al senso comune, in tal caso il medesimo organo dovrebbe avere nello stesso tempo movimenti diversi: cosa manifestamente assurda. E se nello stesso organo si distinguessero più parti, l' una delle quali ricevesse un movimento e l' altra un altro, già non sarebbe più un organo solo e comune, ma più organi e più sensi, onde con ciò non si spiegherebbe come un solo organo sensorio presiedesse a tutte le diverse sensazioni. Di più, se oltre i sensorii speciali vi fosse un sensorio comune, il quale risiedesse in un organo diverso da quelli, tutte le sensazioni speciali dovrebbero essere doppie, manifestandosi prima separate nei sensorii speciali e poscia unite nel sensorio comune; il che va contro il fatto. A cui si aggiunga quanto fu ragionato nel Rinnovamento contro l' unificazione delle sensazioni in un comune sensorio, ed apparirà manifesto che il senso comune di Aristotele e degli Scolastici non si può ammettere da una buona filosofia (1). Quindi cade altresì la facoltà, che Aristotele concedeva al senso comune, di discernere e giudicare della differenza fra le sensazioni dei vari sensorii speciali. Collo stesso ragionamento viene tolta ancora la facoltà, che quel filosofo ed i suoi seguaci diedero ai sensi speciali, di discernere o giudicare fra le varie sensazioni loro proprie (2). Viene anche emendata la definizione della fantasia, che per essi era quella facoltà che conservava le specie tanto dei sensorii speciali, quanto del senso comune (3). Esclusi questi errori, rimane tuttavia pur certo che a ciò che gli Aristotelici chiamarono senso comune , deve rispondere qualche cosa di vero; perocchè altrimenti l' animale non potrebbe governarsi dietro le sue varie sensazioni e sentimenti. Sì, ma questo non può essere un nuovo senso. Che sarà dunque? Noi abbiamo veduto che il sentimento animale ha un termine esteso ed un principio semplice . Ora al termine esteso appartiene la moltiplicità e varietà delle sensazioni e dei sentimenti; ed al principio semplice appartiene il governo che ha l' animale delle sue proprie sensazioni, dei propri sentimenti, dei propri sensorii. Quel principio identico, semplice, immateriale è quello dove tutte le sensazioni ed i sentimenti esistono; e però l' animale non solo sente ciascuno, ma è mosso da tutti insieme, e secondo il suo totale sentire fa le sue operazioni, a quel modo che abbiamo più lungamente dichiarato nel libro secondo dell' Antropologia . E veramente l' animale ha un sentimento unico, fondamentale, che viene variamente modificato; e queste modificazioni sono poi le sensazioni speciali (4), le quali non esistono divise da tutto il resto del sentimento, ma sono parti più vivaci di esso e varietà che accadono nel suo termine esteso. Onde l' animale opera sempre in conseguenza dello stato di questo sentimento unico e non d' una mera sensazione (benchè paia altrimenti per la vivezza speciale di essa); e quindi il sentimento totale è un reale, a cui come oggetto della percezione intellettiva può essere posto un nome; e le sensazioni sono lati diversi, per così dire, e atteggiamenti di questo sentimento, a cui del pari può essere posto un nome. E poichè il termine si distingue dal principio, e il termine si confonde collo stimolo, quando lo stimolo è applicato al sensorio, perciò anche l' oggetto stimolante riceve il nome, in quanto è stimolante; e questo è il nome comune di tutti quegli oggetti che sono atti a stimolare in un dato modo, od anche di tutti affatto, se nella percezione intellettiva l' attenzione non si limita a ciò che vi è di più vivo del sentimento, ma abbraccia tutto il sentimento. Nel qual caso il nome comune inventato sarà il sensibile . Ma poichè l' attenzione, come dicevamo, suol fermarsi a ciò che più la colpisce, od a ciò di cui l' uomo ha bisogno, perciò difficilmente e tardi l' uomo della natura giungerebbe ad inventare un nome, che rispetto alle cose sentite fosse così comune come sarebbe il sensibile; ma per le cose che cadono sotto i suoi sensi inventa a principio nomi comuni più ristretti, e poi secondo il bisogno li adopera, senza pur accorgersi, in un più ampio significato. Così da principio, venendo attivata la sua attenzione più che da ogni altra sensazione dalla vivezza e comodità delle sensazioni della vista, inventerà un nome, che equivarrà a quello che in italiano si direbbe il visibile ; ma poscia ne estenderà il significato a tutto ciò che cade sotto i sensi. Il che avvenne di fatto, come l' osservazione delle lingue, specialmente antiche, dimostra; perocchè in tutte le lingue si adoperarono i vocaboli imposti alle sensazioni visive per significare non solo gli oggetti o termini di queste sensazioni, ma ogni cosa che cada sotto i sensi. Onde ancora si dice comunemente le cose visibili per dire tutte le cose che cadono sotto i sensi. Ed è degnissima di considerarsi questa storia dei vocaboli, di cui nei popoli e nelle lingue più antiche si conservano traccie evidentissime. A ragion d' esempio, non dipartendoci dall' uso delle parole applicate da prima alla vista, ecco come esse si estendono all' udito. Nell' Esodo Mosè dice: [...OMISSIS...] . Nel Deuteronomio: [...OMISSIS...] ; ed appresso: [...OMISSIS...] . Onde il Calmet giustamente osserva che: [...OMISSIS...] . E questo fecero pure i Greci, massime gli antichi come Eschilo, che adopera le frasi di « « vedere i rumori »(5). » « « vedere le voci di un uomo »(6) » e gli esempi sono innumerabili, dei quali molti sono anche nella lingua latina e nelle moderne altresì; ma più che si discende ai tempi moderni, il significato delle parole si allontana dalla percezione e si accosta più e più al concetto comune. Il nome imposto alla percezione, quindi trasferito a significare la specie piena, che si può definire anche la percezione del fantasma , è l' origine di tutto il parlare traslato, figurato, metaforico, allegorico, ecc.. Infatti nelle lingue antichissime invece di usare il verbo vivere , che rappresenta tutto il sentimento fondamentale, si adoperano quelle funzioni della vita che, attraendo più l' attenzione, caratterizzano la percezione. Nella Genesi, XVI, 13, secondo il testo ebraico si dice: « « Ancora io vedo , dopo il vedente me? » », dove l' io vedo è posto invece di: io vivo . Altrove « « mangiare e bere » » significa vivere, come nell' Esodo, in cui si legge che gli Ebrei, dopo veduto il Signore, « « ancor mangiarono e bevvero » ». Volevasi esprimere una vita tranquilla e prospera? Dicevasi: « « sedere sotto la sua vite e sotto il suo fico » » (3), la quale espressione non significava per sè tutto ciò che vi è nel concetto di vita felice, ma si trasferiva a significarla, bastando nominare ciò che nella vita teneva più l' attenzione, e il resto sottintendevasi. Volevasi dire: « rendilo schiavo »? Dicevasi: « « incurva il suo dorso » » (4), perchè questa era quella parte del concetto che, più rimanendo scolpita nella fantasia, traeva seco il rimanente del concetto senza esprimerlo in parole. Volevasi dire: « la città s' empierà di mestizia e di solitudine »? Dicevasi: « « Non s' udirà più voce di sposo e voce di sposa » » (5). Quindi ai primi uomini era inefficace l' imporre precetti generali; si dovevano dare precetti particolari, che fossero quasi altrettanti esempi e rappresentazioni del generale. Il decalogo è tutto composto di precetti particolari. Vi si dice: « « non commetterai adulterio » », per fare intendere che non si deve peccare di lussuria; vi si dice: « « non ucciderai » », per fare intendere che non si deve far male al prossimo, e così dicasi pure degli altri. Volevasi predicare l' umanità? Il dirlo così in generale poco valeva. Si davano dunque precetti particolari simili a questi: [...OMISSIS...] La frase: « capere vel occidere matrem cum filiis », vale nella Scrittura a significare una immane crudeltà. E di somiglianti frasi la Scrittura è pienissima, ma più l' Antico Testamento del Nuovo; e i libri più antichi non hanno quasi altro linguaggio. Dopo la Scrittura, Omero ne abbonda. E se non si trovano egualmente frequenti cotali maniere nei libri sacri Indiani e Cinesi, è questa una nuova prova per me che non debbono essere così antichi come si vuole, o che furono alterati e tradotti; benchè abbia potuto contribuire a quel loro stile meno figurato la celerità, con cui progredì in antico presso quei popoli lo sviluppo del pensiero, che poi s' arrestò. Il carattere adunque dei vocaboli e delle maniere di dire antiche, di cui parliamo, si è questo, che esse « esprimono il concetto quale è dato dalla percezione »; e che poi l' espressione, rimanendo così speciale, viene trasferita tuttavia a significare un concetto, o una sentenza più e più comune e generale. Di qui, come dicevo, tutto il parlare figurato, di qui tutte le figure grammaticali. Per questo lo stile degli antichi è più poetico di quel dei moderni; perchè egli dipinge le cose ai sensi. Il naturale sviluppo del pensiero e dell' imposizione dei vocaboli ai pensieri spiega questo fatto senza bisogno d' altro; essendo gli antichi costretti a formarsi quella lingua che ancora non avevano, essi dovevano nominare i concetti legati alle percezioni, poi i concetti stessi divisi dalle percezioni. Ma nelle percezioni non nominavano tutto, ma ciò che più colpiva e attirava l' attenzione; questo elemento si prendeva ad indizio e segno di tutta intera la percezione; e il nome esprimeva la percezione, riferendosi a quell' indizio o segno naturale; e il vocabolo significava sempre: « ciò che produce quel sentimento »; per esempio « il bello »: ciò che produce il sentimento della bellezza; il sano: « ciò che produce la sanità », ecc.. Ma quell' indizio trovavasi poi in altri oggetti, e quindi la parola era atta a significarli anch' essi. Trovavasi, dico, in altri oggetti anche disparati, per la medesimezza del sentimento da loro prodotto; perchè è il sentimento, per dirlo ancora, a cui si riferiva la significazione del vocabolo. Onde « l' unità del sentimento è l' istrumento primitivo della formazione dei generi e delle specie significate dai vocaboli », perocchè esso è un effetto prodotto egualmente da più cause, e però un segno naturale comune ad esse. Di più, l' unità del sentimento è anche la ragione dell' associazione dei sentimenti parziali; e questa, come dicemmo, è il fonte delle figure, e specialmente della metonimia, giacchè la cosa che si nomina in relazione al sentimento percepito è l' elemento che più attira l' attenzione, secondo il senso più vivo o secondo il bisogno nostro, che sono le due guide di essa attenzione. Ora nel sentimento stesso talvolta cade la causa e l' effetto, il contenente e il contenuto, il segno e la cosa significata, ecc.; perciò il vocabolo, che esprime uno di questi elementi, si trasporta a significarli tutti, ovvero a significare un altro di essi, appunto perchè egli è atto a risvegliare gli altri sentimenti per via di associazione. « Io non ho veduto la sua faccia »per dire: « non ho veduto quell' uomo »; la parte che più tira l' attenzione è la faccia, e però il vocabolo è atto a risvegliare il pensiero del tutto. « Impugnò il ferro »per dire: « impugnò la spada »; la materia per tutto l' istrumento, materia e forma. « Tutta la terra esultò »per dire: « gli abitatori della terra »; il il contenente pel contenuto. E così di tutte le altre metonimie. E` anche da osservarsi che questo passaggio di significato non ha mai fine, onde una ragione del rimutare delle lingue, appunto perchè l' associazione dei pensieri e dei sentimenti non ha mai fine, nè mai ristà, ma si spiega in una serie continua, che talora si aggruppa e variamente ravvolge; e questo è il progresso continuo, che fa la mente umana e con essa l' uso dei segni, che da nomi comuni talora diventano individuali, e da individuali ritornano comuni e comunissimi, da traslati diventano propri, e da propri di nuovo traslati; per esempio, la parola Adam dovette prima di tutto, secondo l' ordine logico, significare una certa terra rossa percepita, e però essere imposta a quell' oggetto individuale della percezione; poi « ogni terra rossa », l' idea specifica compresa nella percezione. Così divenne nome comune. Poi espresse il primo uomo creato, perchè formato di terra rossa. Così quel nome comune ritornò individuale. Poi fu accomunato alla donna e ad ogni altro uomo, ricevendo questo significato generale: « ciò che è formato di terra rossa », e restando tuttavia legato nell' uso (1) con un genere più ristretto, cioè con quello degli uomini. Fin qui si vede come gli uomini in società potevano pensare il comune, e inventare i vocaboli che lo contrassegnassero. Ma il comune non è ancora l' astratto puro; questo viene dopo, ed è assai più difficile intendere il modo come esso si poteva originare. Noi abbiamo altrove espressa l' opinione che gli uomini non potessero venire a pensare e a denominare le pure astrazioni, per non avere in natura alcuno stimolo che a ciò li muova; di che deducevamo la divina origine di questa parte della lingua (2). Di poi abbiamo fatto più maturi riflessi, ed ora non ci sembra quella dimostrazione irrepugnabile. Distinguiamo adunque la questione del fatto da quella della semplice possibilità . E` indubitato, quanto al fatto, che il primo uomo ricevette l' avviamento a parlare da Dio stesso, il quale, parlandogli il primo, gli comunicò una porzione della lingua; e gli argomenti che lo provano verremo altrove esponendo. Ma trattandosi d' una semplice possibilità metafisica, se l' umana famiglia (non l' uomo isolato) potesse col tempo giungere a pensare almeno alcuni astratti, contrassegnandoli nello stesso tempo e con una stessa operazione complessa, colla voce o con altra maniera di segni, ci pare oggimai di poter rispondere affermativamente di aver trovato quello stimolo che indarno avevamo prima cercato, dal quale fosse mosso l' umano intendimento. Questa operazione doveva certamente aver luogo dopo le altre accennate di sopra; e però i nomi astratti dovevano rinvenirsi dopo i nomi comuni . Il che è quello appunto che dimostrano chiaramente le lingue antiche, le quali hanno pochissimi astratti (forse di divina origine), e in loro luogo fanno uso frequentissimo di nomi comuni , cioè di sostantivi qualificati; la quale indole rimane ancora nella stessa lingua di Platone, che recò pure l' astrazione sì alto; onde invece di intitolare i suoi dialoghi della giustizia , della bellezza , della santità , della bontà , ecc., egli li inscrisse: « di ciò che è giusto, «peri dikain»; di ciò che è bello, «peri kalu»; di ciò che è santo, «peri osiu»; di ciò che è buono, «peri hedones, peri agathu», ecc.. » Come crediamo noi dunque che l' umana famiglia potesse giungere da sè stessa agli astratti puri, almeno ad alcuni di essi? Conviene indubitatamente poter trovare qualche cosa nella natura reale, che leghi a sè l' astratto, servendogli di natural segno; solo a questa condizione l' attenzione dell' umana mente può fermarsi in essi e coglierli. Ora questa cosa non manca veramente, ed ecco quale ella si è, e come venga data all' uomo. Lo scopo pel quale s' inventa un nome, è quello di risvegliare nell' altrui mente il concetto della cosa significata. Quindi si adopera la parte pel tutto, il contenente pel contenuto, ecc., ogni qualvolta il nome dato alla parte e al contenente basta per isvegliare nella mente il concetto del tutto o del contenuto, senza bisogno d' inventare un altro nome. Il che riesce ottimamente, attesa la naturale associazione dei sentimenti. Ora, se noi osserviamo che gli enti corporei hanno più parti, e che ciascuna può essere percepita da sè, è chiaro che può essere senza difficoltà altresì nominata da sè. Quindi rispetto alla persona umana, oltre il nome di uomo, s' inventarono facilmente il nome di capo, faccia, braccio, mano, ecc.. Ma ognuna di queste parti ha poi sue speciali doti e proprietà, le quali si percepiscono insieme con quella parte a cui appartengono. A ragion d' esempio, una di queste proprietà sia la fortezza. Questa potrà denominarsi in due modi, o mediante un nome comune neutro, che venga a significare « ciò che è forte »; ovvero col nome della parte, nella quale si ravvisa più frequentemente e in modo interessante, per esempio nella mano, o nel braccio, o nel corno, ecc.. In qual maniera si nominerà ella? Nella maniera più facile. Ora è più facile adoperare la parola mano, braccio, corno, ecc. per indicare la potenza, ovvero inventare per essa un nome nuovo, un nome comune neutro? Posciachè i nomi di quelle parti robuste del corpo sono già inventati, è manifestamente più facile adoperare quei nomi che già si hanno, dando loro un significato metonimico. Perocchè è regola generale che « l' estendere o il trasferire il significato di un vocabolo, che già si ha, è più agevole che ritrovarne un altro del tutto nuovo ». Ora i nomi delle dette parti, significando oggetti di percezioni, sono dei primi che s' inventano. Dunque la mano, o il braccio, o il corno si prenderanno a significare la potenza, e questo è quello appunto che noi vediamo nelle lingue antiche « manus Domini (1) » o « brachium Domini (2) » si usa continuamente nella Scrittura per indicare la potenza di Dio, « cornu David » per indicare la potenza di Davide (3). Ed ecco già trovato il segno, a cui la mente può legare veramente un concetto astratto; e via più apparisce che quel nome già significa un astratto, quando quel nome vada perdendo, come talora avviene, il suo primitivo significato, e rimanga unicamente significativo dell' astratto. Così la faccia od il volto , dove si conoscono gli affetti della persona, applicati a Dio si prendono per la sua benevolenza o anche per l' ira sua (4); la strada per la sua provvidenza, ecc.; e in tal modo si può, a dir vero, andare molto innanzi nella formazione degli astratti puri; si può giungere ad un' astrazione grandissima. Rechiamo ancora un esempio delle astrazioni maggiori. Primieramente per metonimia si prende il segno per la cosa segnata. Questo è comunissimo e naturalissimo. Poniamo che si domandi: che cosa è questo? E che si risponda: « è corpo, è luce, è un elefante, ecc. ». In questa risposta si prende il segno per la cosa segnata, poichè invece di dire con lungo ambito: è quell' ente che viene significato dal vocabolo corpo, o dal vocabolo luce, o dal vocabolo elefante, ecc., si dice brevemente che è il vocabolo stesso. Ebbene quale meraviglia ora che la voce parola, verbum, «logos», sia usata nelle Scritture, e nei greci e nei latini scrittori, per significare qualunque fatto, avvenimento, e fin anche pel generalissimo cosa , come si può vedere nei lessicografi? [...OMISSIS...] ; e questo parlare è frequentissimo nei libri santi. Così la voce parola o verbo , venne a prendersi pel maggior astratto col quale si possa concepire l' ente reale ed efficiente ; e quella voce stessa fu applicata a significare altresì la seconda delle Persone divine. Anche l' essere ideale potè essere significato come rappresentativo del reale, trasportando ad esso la parola immagine o cosa veduta , come fecero le lingue antiche. Ora, pervenuta la mente a fissare alcuni astratti coll' aiuto di tali segni sensibili somministrati dalla natura, e quindi denominati, applicando ad essi il nome imposto da principio a cotali segni, già il cammino della mente non trova più impedimenti insuperabili, e però tutto il suo svolgimento rimane naturalmente spiegato. Dati dunque coll' anima i termini e gli stimoli necessari per uscire ai suoi atti, ella tiene in questi un modo suo proprio. E questo si è che ella, avendo un' attività limitata, quando vuole unirsi più al suo termine, allora concentra quell' attività in una sola parte di esso, e così la sottrae alle altre parti; di che nasce l' analisi materiale o formale, secondo che l' oggetto su cui si esercita ha estensione o no. L' analisi formale è l' astrazione propriamente detta, che in un oggetto ideale o spirituale considera un elemento, lasciando il resto; e questa è quella legge psicologica, che risponde alle leggi ontologiche sopra descritte. Qui nasce una difficoltà, che domanda scioglimento. Come un oggetto ideale ovvero spirituale, che è semplicissimo, si può analizzare e quasi dividere in parti dall' uso dell' attenzione umana? E queste parti sono esse vere, oppure sono apparenti e ingannevoli? Per rispondere è necessario prima di tutto osservare: Che una cosa semplice molte volte si moltiplica dallo spirito, che la considera in relazione con molte; per esempio quando si dice: « l' essere ideale è la possibilità delle cose », non si fa che considerare questo essere in relazione colla sua realizzazione, senza che si predichi perciò la possibilità dello stesso essere ideale. Così tutte quelle che noi abbiamo chiamate idee elementari dell' essere ideale (1), si riducono ad altrettante relazioni di esso. Ora le molte relazioni di un essere semplice non tolgono a lui la sua semplicità, come al centro del circolo non è tolta la semplicità, quantunque si riguardi in relazione con tutti i punti assegnabili nella circonferenza, che non hanno numero. Le dette relazioni altro non dimostrano se non che quell' ente semplice non è solo, ma vi sono altri enti, i quali a lui si possono riferire e paragonare col pensiero, e lui ad essi. E per vero, se vi fosse il solo essere ideale e niun ente reale (il che è impossibile), in tal caso niente si potrebbe distinguere in quello, che si rimarrebbe interiormente uniforme. E però qualora Parmenide, ammettendo un solo ente, avesse inteso l' ente ideale, l' idea dell' ente, in tal caso solo riuscirebbero efficaci le obbiezioni che gli fecero Platone (2) ed Aristotele (3), i quali pretendono trovarlo in contraddizione, perchè a quell' ente attribuisce l' immortalità, l' immobilità, l' uniformità, l' integrità, la perfezione, ecc., poichè dicono che se l' ente è semplicemente uno, non gli si può aggiungere altro. Ma a quel tempo non si era ancora conosciuto che l' ente è sotto più forme, e però senza avvedersi si ragionava dell' ente ora sotto una forma, ora sotto l' altra; il che perdeva quei grandi ingegni in inestricabili labirinti. Ma per lo più, quando il ragionamento s' innalzava, finiva nell' idea dell' ente , e le proprietà di questa idea si attribuivano all' ente stesso. Onde come quell' idea non ha interna varietà, se non è in presenza del reale, si negava che anche l' ente avesse interna varietà ed ordine. Indi quelle obbiezioni, che paiono così difficili a risolvere. Che un ente può essere semplice, e tuttavia avere varietà nel suo seno. La ragione, che fa supporre il contrario, si è il non avere altro concetto della semplicità fuori di quello che si trae dal punto matematico; concetto negativo, che non dice se non l' ultima negazione dell' estensione. Ma gli enti semplici non consistono in una sola negazione, anzi sono positivi, più positivi ancora degli enti estesi. E` semplice adunque ciò da cui non si può levare cosa alcuna senza distruggerlo. Secondo questa definizione non è già contrario alla semplicità che un ente molte e varie cose in sè contenga; ma è uopo che tutte le cose che contiene sieno così unificate che il rimuoverne solo una basti a distruggere l' ente. Quindi varie classi di enti semplici. Il punto matematico non è un ente , come dicevamo, ma una negazione , non è un oggetto del nostro spirito, ma un atto che fa il nostro spirito sopra un oggetto (l' estensione). L' ente ideale è tutto uniforme, nè dentro ad esso, finchè resta solo, si può discernere cosa alcuna distinta; ma per distinguere alcuna cosa deve confrontarsi coll' ente reale. L' ente spirituale è semplice, e non uniforme nel suo interno, anzi quasi organato, sì fattamente però che niun suo organo, niun suo essenziale elemento si può divellere da lui senza distruggerlo. Il che non di meno vuole intendersi in più modi. Poichè: Se si parla della realità dell' ente spirituale, le sue parti accidentali possono mutarsi in altre , ma non dividersi per ciò; può anche moltiplicarsi , se si moltiplica il suo termine, come accade del principio animale; ma neppure questo è dividersi in più. Se si tratta dell' idea dell' ente spirituale, in questa si può colla mente: 1 concepire le mutazioni degli accidenti dell' ente e la sua moltiplicazione; 2 di più, dividerne altresì gli elementi col pensiero astratto, ma non col pensiero complesso, il quale rimane sempre nella mente; nè che il pensiero astratto e parziale trovi tali distinzioni si oppone colla semplicità dell' ente; nè ella è cosa contraria alla verità, perocchè quegli elementi sono nell' ente distinti veramente, benchè non separati. Ora il pensiero astratto ed analitico non li separa già, ma solo li distingue, e nello stesso tempo che questo atto del pensiero li distingue, il pensiero intero e complesso li tiene individualmente uniti. Che se talora l' uomo crede di separarli con ciò, egli s' inganna; quella sua credenza non gli nasce dal pensiero, ma dall' arbitrio, fonte degli errori. Niente si conosce se non l' oggetto del pensiero (idea), o ciò che dice lo spirito intorno all' oggetto del pensiero (verbo). Quando l' oggetto del pensiero siamo noi stessi, o ciò che è o che accade in noi, allora conosciamo noi stessi, o ciò che è o che accade in noi. Una tale cognizione dicesi coscienza . La coscienza è diversa dal sentimento , perchè quella è cognizione ed ha la dualità propria della cognizione (il conoscente ed il cognito come enti separabili); questo è semplice, ha solo quella dualità propria sua, per la quale si distinguono due termini così correlativi che l' uno non si può pensare come ente, se si separa dall' altro. Ora, fino a tanto che lo spirito umano ha per suo oggetto il solo essere ideale7infinito, egli non ha coscienza, perchè sè stesso e tutto ciò che passa in lui non è ancora divenuto oggetto di sua attenzione (1). L' attenzione , adunque, posta a sè stesso, è ciò che produce la coscienza. Conviene adunque che il principio umano (che più tardi si denomina Io) attiri la propria attenzione a sè. Ma il principio umano non è mosso ad attendere se non pel bisogno; e qual' è la definizione di questo bisogno? « Il bisogno è l' istinto di compiere un' azione incominciata, ossia è l' istinto di completare un' attività che ha cominciato a muoversi ». Ma tutta l' attività umana incomincia a muoversi mediante il suo termine reale, come abbiamo detto. Quindi solamente aggiungendosi al principio intellettivo un termine reale, è possibile che venga il caso pel quale egli sia mosso ad attendere a sè, e così formarsi la coscienza. Date poi le condizioni, alle quali l' uomo si forma la coscienza, egli può anche separare sè stesso positivamente dall' oggetto ideale, e conoscersi come soggetto contrapposto ad esso. Vi è dunque questa differenza fra il primitivo stato dell' uomo anteriore ad ogni suo sviluppo e lo stato in cui ha coscienza di sè; vi è questa differenza, dico, circa il distinguere l' essere ideale da sè, che: Nel primitivo stato egli conosce il solo essere ideale e non sè stesso; perciò non confonde l' essere ideale con sè, perchè il sè non lo conosce, non è ancora formato, ma neppure lo distingue, perocchè non si può distinguere una cosa da un' altra senza conoscerle entrambe. Nello stato di coscienza può conoscere l' essere ideale e conoscere sè come soggetto opposto a questo oggetto, e così distinguersi con un atto positivo. Si può adunque stabilire che lo spirito ha per legge psicologica di conoscere senza coscienza, e che la coscienza gli nasce solo in conseguenza degli stimoli reali, che lo traggono ad operare. Ma quello che lo spirito aggiunge del suo è il verbo , cioè quella parola interiore colla quale afferma o nega. Con questo atto lo spirito acquista una nuova cognizione, ma, si noti bene, non già un nuovo oggetto , perchè ciò che lo spirito pronuncia suppone l' oggetto a lui dato per intuizione, percezione, ragionamento, chè anzi il pronunciato dello spirito si fa intorno all' oggetto dato, quasi a sua materia. Ora questo verbo, giudizio, affermazione, o come si voglia in altro modo chiamare, è mosso dalla ragione pratica influente sulla teoretica, e però appartiene più alla ragione pratica, come a sua causa, che non alla teoretica; benchè talora l' atto dell' affermare segua immediatamente, e per un cotale psicologico istinto, alla teoretica visione. Affinchè questo atto della parola interiore sia fatto dallo spirito, conviene che lo spirito nell' oggetto possa trovare una dualità, che poi diviene predicato e soggetto. E posciachè l' ente ideale infinito , diviso da ogni reale, è così uniforme che non ammette moltiplicità nel suo seno, perciò nella semplice intuizione di lui non è possibile alcun pronunciato, alcun giudizio (1). Quindi, acciocchè lo spirito affermi o neghi, egli ha bisogno di essere posto in comunicazione con qualche essere reale, fonte della pluralità. Ma qual' è la natura della cognizione, che acquista lo spirito per via del suo verbo, se questo non gli aggiunge niun oggetto nuovo? La cognizione prodotta dal verbo della mente è interamente diversa da quella prodotta dall' idea (dall' ente); ella è soggettiva , laddove la cognizione dell' idea è essenzialmente oggettiva , come abbiamo veduto. Quando diciamo cognizione soggettiva non intendiamo cognizione falsa, tutt' altro; intendiamo dire che essa ha in sè la sua verità, come la cognizione che viene dall' idea, ma deve riceverla dall' idea, dall' oggetto, a questo accordandosi ed adattandosi. Quindi l' oggetto, l' ente, l' idea, essendo la verità stessa, è superiore al vero ed al falso, e non riceve queste predicazioni, ricevendo solo la denominazione di verità, quasi un sinonimo di lei stessa (2). Il vero dunque ed il falso appartengono ai pronunciati dello spirito e non all' oggetto. Di qui si scioglie quel celeberrimo sofisma degli antichi, che argomentavano: [...OMISSIS...] (3). A cui rispondiamo negando la maggiore, presa nella sua totalità; ovvero, distinguendo le parti di essa, diciamo così: « Non si pensa che l' ente »; distinguo: se per le parole « non si pensa »s' intende esprimersi un pensare oggettivo, concedo; se s' intende esprimere ogni modo di pensare anche soggettivo, che è il pronunciare qualche cosa intorno all' ente, nego; « e quindi non si può pronunciare che l' ente », nego, perchè il pronunciare, essendo affermare o negare qualche cosa, non ha per oggetto l' ente, ma il nesso, cioè la predicazione stessa. Ora intorno all' ente si può pronunciare il falso e il vero; nel qual caso non è che l' ente diventi falso, ma il falso giace nel pronunciato, che è operazione soggettiva dello spirito. Di questa importantissima distinzione, per quanto io so, i filosofi non hanno ben sentita la forza, nè abbastanza conosciuta e descritta la natura della cognizione soggettiva, per via di pronunciamento, giudizio, o verbo dello spirito. In che consiste adunque la natura di questa maniera di conoscere? Non consiste nell' acquisto che lo spirito faccia per essa d' un oggetto nuovo, come abbiamo detto di sopra, ma consiste « in potere lo spirito disporre sè stesso in un certo modo, relativamente all' oggetto che ha dinanzi ». Se lo spirito afferma, dispone sè stesso in un certo modo relativamente all' oggetto; se lo spirito nega, dispone sè stesso in un altro modo. L' oggetto resta il medesimo; perocchè che cosa è l' oggetto? per dirlo ancora « è l' essenza della cosa veduta nell' idea ». Dunque nell' oggetto non è affermazione, nè negazione; questa è tutta opera dello spirito; l' essenza rimane la stessa dinanzi alla mente, tanto se si afferma qualche cosa di quella essenza, quanto se si nega. Nego che in questo giardino sia un pero o un fico: l' essenza del pero o del fico, che è l' oggetto della mente, è quella di prima; solamente lo spirito dichiara a sè stesso che quella essenza non è realizzata in quel giardino. Se avesse affermato, l' essenza non avrebbe egualmente sofferta modificazione di sorte. Qual' è l' effetto che produce questo atto nello spirito? Come si può denominare questo effetto, questa disposizione che lo spirito dà a sè stesso col suo atto? Noi l' abbiamo denominata persuasione , onde questa specie di scienza si può chiamare anche scienza di persuasione ovvero scienza di predicazione . Gli antichi confusero talora la persuasione coll' opinione; differisce grandemente, potendo questa essere congiunta con una ferma persuasione, o con una persuasione debole e vacillante. Procuriamo di dissipare dall' animo le difficoltà che vi potessero insorgere. Altro è l' oggetto intuìto ed appreso direttamente dallo spirito, altro è ciò che susseguentemente lo spirito predica di lui. Nell' intuizione e nell' apprensione diretta dello spirito non può cadere errore (1). Nell' atto del predicamento che fa lo spirito può cadere errore, perchè può essere fatto in modo conforme all' oggetto e in modo da lui difforme. Qui facilmente sorge difficoltà nelle menti, che potrebbero ragionare così: « Se io predico qualche cosa dell' oggetto, questo qualche cosa predicabile non è anch' egli un oggetto? Se sì, dunque anche la scienza di predicazione ha per suo termine l' oggetto, un oggetto nuovo ». Alla quale difficoltà si risponde che il termine della scienza di predicazione non è alcun oggetto, cioè non è nè il soggetto, nè il predicabile, ma è la loro congiunzione; io conosco per la predicazione, che fa il mio spirito, la loro congiunzione in un medesimo oggetto. Replicasi che, dunque, la congiunzione del soggetto col predicato è l' oggetto della scienza di predicazione; e però questa scienza ha un oggetto suo proprio, per essa dunque è dato un oggetto nuovo allo spirito. Chi così ragiona prende una di quelle illusioni comuni, difficilissime ad evitarsi, che noi continuamente cerchiamo di manifestare, perchè impediscono alla mente il filosofare rettamente. L' illusione è questa. La relazione fra il predicato ed il soggetto si può considerare unicamente come possibile (intuibile), e così considerata ella è un oggetto; ma allora ella non è già ciò che si conosce per via di predicazione , ma la si conosce per via d' intuizione. Diamo un esempio; dicendo io: « questo corpo è freddo », io predico il freddo di questo corpo, e mi persuado che questo corpo sia freddo. Ma prima di affermare che quel corpo è freddo, io posso concepire la relazione fra il freddo e quel corpo senza affermarla; allora io la intuisco semplicemente come possibile, e insieme con essa posso anche intuire la relazione fra quel corpo e il caldo; non affermo ancora nè l' una nè l' altra. Intuendo così tali relazioni possibili, il mio spirito ha già l' oggetto, che egli può affermare o negare. Quando dunque afferma o nega, l' oggetto egli lo ha già, e non è lo scopo dell' affermazione o della negazione; l' una e l' altra delle quali operazioni fa solo questo, di rendere persuaso lo spirito che l' una delle due relazioni, intuìte come possibili, sia; e si rende persuaso, quando pronuncia che quella è. Ma di nuovo: « Che cosa vuol dire questo è , che si pronuncia di una delle relazioni possibili, contradittorie? ». Questo è ha due valori, perchè può significare l' atto dell' essere ideale o l' atto dell' essere reale. Se l' affermazione non esce dalla sfera della possibilità, come accade nelle affermazioni logiche e matematiche, per esempio « la conseguenza è contenuta nel principio », ovvero « la somma dei tre angoli del triangolo è uguale a due retti »; quell' è copulativo non significa che l' essere ideale. Se l' affermazione discende alla sfera della realità, come accade nelle affermazioni fisiche, per esempio « questo metallo è oro », ovvero « il sole è un corpo »; quell' è copulativo significa una realità appartenente ad un subbietto reale. Può anche il subbietto essere l' ente astratto dalle sue forme, e il predicato essere la forma reale, per esempio « questo ente sussiste », dove la sussistenza , ossia realità, si piglia come predicato dell' essenza dell' ente. Ora se l' è copulativo, che è ciò che sempre si pronuncia nel predicamento, significa essere ideale, in tal caso ecco la cosa come accade. L' ente ideale è l' oggetto, il quale se non fosse dinanzi alla mente, nulla lo spirito potrebbe predicare di lui. Ora tale oggetto è dinanzi alla mente, che lo intuisce tutto intero, secondo quelle leggi ontologiche che abbiamo esposte. Ma nello spirito, oltre esservi la facoltà dell' intuizione, vi è quella dell' astrazione , la quale si fa per limitazione e concentramento di attenzione. Questa astrazione non distrugge l' oggetto, ma lo spezza, distinguendo in esso i suoi elementi. Questa operazione è soggettiva , l' oggetto non ne soffre, e rimane intatto sì in sè come dinanzi alla mente; solo che la mente, oltre avere l' oggetto intero dinanzi per intuizione, ha altresì l' oggetto diviso nei suoi elementi per astrazione. Questa astrazione , che è una specie di analisi o scomposizione, dà luogo alla predicazione , che è una specie di sintesi, per la quale si ricongiungono quegli elementi scomposti. Quando dico analisi e sintesi , parlo della forma che prende l' operazione dello spirito, e non propriamente del loro risultato. Infatti si può fare una divisione in forma di sintesi, quando accade che invece di affermare si neghi un predicato di un soggetto. Ma posciachè parliamo di operazioni soggettive, conviene che badiamo alla loro forma e non al loro risultato. Ora se la predicazione è falsa, congiungendo un elemento dell' oggetto ad un altro elemento che non gli appartiene, lo spirito in tal caso pronuncia un assurdo (trattandosi del mondo ideale, nel quale ora siamo); e un assurdo non è un oggetto se non putativo. Dico che pronuncia un assurdo, perchè quando afferma un predicato ideale d' un soggetto ideale, come è il caso nostro, allora l' affermazione riguarda la possibilità; e se pronuncia possibile ciò che non è possibile, altro non pronuncia che un assurdo. Predicare adunque la possibilità non è altro che riconoscere ciò che si conosce , affermare d' intuire ciò che s' intuisce. Ma se non si tratta che di riconoscere, cioè conoscere in altro modo ciò che già si conosce, dunque non si produce con ciò un oggetto nuovo dinanzi allo spirito; cangia solamente il modo col quale lo spirito toglie a conoscere lo stesso oggetto; e questo modo diverso, che non può appartenere all' oggetto, appartiene al soggetto; è dunque una mera disposizione nuova, che prende lo spirito rispettivamente al suo oggetto; la quale disposizione dicesi cognizione soggettiva o persuasione , dove si dà il vero ed il falso, secondochè ella si conforma all' oggetto o da esso discorda. Che se l' è copulativo significa essere reale, come negli esempi addotti, accade il medesimo. Solamente che gli elementi del giudizio o predicamento non sono dati dall' astrazione, e quindi se il giudizio è falso, non è necessariamente assurdo; per esempio, quando dico: « questo metallo è oro », laddove egli è ottone, io dico il falso, ma non l' assurdo, perchè non è impossibile a concepirsi che fosse oro; e quando dico: « la fenice sussiste », dico del pari cosa falsa, non impossibile. Qui dunque gli elementi del giudizio sono dati in parte dal sentimento, almeno dalla parte del predicato , il quale è un reale; nè reale vuol dir altro che cosa cadente nel sentimento. Il sentimento poi è soggettivo e al tutto fuori dell' oggetto della mente; ma lo spirito, che è il soggetto, fa un atto pel quale congiunge in una il predicato7sentimento (reale) col subbietto del discorso, che può essere anch' esso reale, ovvero può essere l' essere essenziale, astrazione fatta dalle sue forme. Ora questa congiunzione d' identità non produce novità alcuna nell' oggetto, ma è una congiunzione che avviene tutta nel soggetto che la fa, ed è la disposizione nuova di questo, di cui parlavamo, la quale costituisce la cognizione soggettiva . Infatti noi abbiamo già distinta l' unione fondamentale del soggetto coll' oggetto, ed è quella che accade per via d' intuizione, dall' unione più intima che il soggetto stesso fa col suo oggetto. Questa seconda unione, che dicemmo appartenere alla ragione pratica od operativa, non produce un oggetto nuovo, ma un nuovo grado e modo di unione, e però una nuova cognizione relativa al medesimo oggetto, nella quale cade il vero ed il falso. Ma la realità non si aggiunge? e non è ella un oggetto nuovo? La realità si aggiunge, ma non è un oggetto nuovo, bensì un predicato, un' apparenza dell' oggetto precedente. Poichè se l' oggetto precedente era l' essenza del pane intuìta nell' idea del pane, quando dico « il pane sussiste », altro non fo che aggiungere all' oggetto che conosceva prima (il pane ideale) la realità, la quale non è oggetto, ma è sentimento soggettivo; e però il subbietto di quella proposizione è veramente oggetto, ma il predicato non è oggetto, anzi è piuttosto termine dell' affermazione, termine soggettivo, perchè giacente nel sentimento del pane; sicchè quella proposizione equivale a quest' altra: « il pane, oggetto della mia mente, ha un modo di essere fuori della mia mente, e questo modo di essere è a me sensibile così e così ». Si noti bene che se l' essere sensibile io lo prendo come oggetto della mente e non come sentimento, in tal caso egli è un possibile, e non c' è ancora l' affermazione; non è quello di cui parliamo. Se dunque i due termini della proposizione: 1 il pane, 2 la sussistenza, io li considero come possibili, essi sono oggetti, e in tal caso la sussistenza non è più sussistenza, ma idea di sussistenza; siamo tornati all' ordine ideale. Allora di questi oggetti non ho già io pronunciato la connessione; ma quando la pronuncio, non aggiungo altro oggetto; la stessa fin tanto che io la intuisco come possibile, non la pronuncio, non l' affermo; e quando l' affermo, diviene persuasione, cognizione soggettiva. Nell' essenza ideale adunque di un ente si contiene già la realità come ideale; ma questa non è propriamente per lo spirito umano realità se non allora che egli l' afferma. Lo spirito afferma dunque l' oggetto che già intuiva; e l' afferma perchè lo sente; e l' affermarlo non è altro che un nuovo modo di unire a lui sè stesso. E qui crediamo di non dover tralasciare un corollario importante, che procede dall' esposta dottrina. L' umana cognizione è di due maniere, oggettiva e soggettiva , perchè due sono le attività del principio razionale, l' una suscitata unicamente dall' oggetto e l' altra propria del soggetto. All' attività prima del principio razionale, suscitata dall' oggetto, risponde la cognizione oggettiva, regolata tutta dalle leggi ontologiche che abbiamo esposte. All' attività seconda, propria del soggetto, corrisponde la cognizione soggettiva per via di predicazione, regolata dalle leggi psicologiche. La prima di queste due maniere di cognizione ha per suo termine l' oggetto intuìto (il possibile), e rispetto ad essa si avvera la proposizione che scientia est de necessariis (1). La seconda ha per suo termine la persuasione , ossia un certo stato dell' animo relativo all' oggetto, pel quale l' animo, il soggetto, si unisce all' oggetto in un altro modo, e così accresce la sua cognizione; e rispetto ad essa non ha luogo la proposizione che scientia est de necessariis , potendo essere dei contingenti, perchè il reale può essere contingente, anzi ogni contingente è reale, benchè non ogni reale sia contingente. La quale distinzione basta a distruggere il panteismo idealistico, che dal falso principio che « ogni sapere sia oggettivo » induce che, dunque, ogni sapere è delle cose necessarie, le quali si riducono in Dio. Quindi pone che Iddio sia l' oggetto universale e immediato del sapere. E posciachè ogni entità è oggetto di sapere, tosto raccoglie che ogni entità è Dio. Del quale ragionamento l' errore consiste nel principio; essendo falso, come dicevamo, che ogni sapere sia oggettivo, come pure che ogni sapere sia de necessariis , essendovi un modo di sapere che riguarda i contingenti, un sapere soggettivo che si fa per via di predicazione. La quale distinzione medesima fra il sapere per intuizione e il sapere per affermazione, dà una solida base al metodo filosofico , escludendo l' errore di quelli che dicono che tutto il sapere dell' uomo si riduce ai fatti , e che l' uomo non conosce le ragioni delle cose; che perciò le scienze speculative non hanno alcun vero valore, ma solo le positive, ecc.. Ora la parola fatti si può prendere in più significati; nel senso più ovvio i fatti sono il termine di quella cognizione che si acquista per affermazione . La quale non è la sola scienza dell' uomo, anzi, prima che per affermazione egli conosce per via d' intuizione, per via di oggetto ideale. Quindi egli può anche riportare le cognizioni acquistate colle sue affermazioni (i fatti conosciuti) alle cognizioni sue per via di intuizione , e trovarne i rapporti; nei quali rapporti stanno le ragioni dei fatti , che diventano un terzo genere di cognizioni. Di questo errore non va immune neppure la filosofia scozzese (2). Che se alla parola fatto si dà un senso estesissimo, benchè improprio, in tal caso conviene distinguere: 1 i fatti reali; 2 i fatti ideali; 3 i rapporti di questi con quelli, ossia le ragioni che spiegano i fatti reali. E solo in questo senso improprio si può dire che tutte le cognizioni umane si riducono ad avere per loro materia dei fatti. Noi non abbiamo potuto esporre le leggi psicologiche del principio razionale se non mescolandole a ciò che somministra allo spirito il mondo, perchè il movimento degli atti secondi non è dato allo spirito se non dall' azione del mondo. Quindi sono da distinguersi le leggi, che presiedono a produrre il movimento del principio razionale già costituito, che chiameremo leggi della mozione , dalle leggi che determinano il modo che tiene il movimento, le quali noi possiamo chiamare leggi della qualità del moto . Le leggi della mozione sono cosmologiche, cioè imposte allo spirito dalle entità contingenti, che sopra di lui agiscono. Le leggi della qualità del moto sono in parte cosmologiche e in parte psicologiche. Di che noi ridurremo tutte le leggi cosmologiche a due supreme, l' una delle quali chiameremo legge della mozione, perchè esprime la dipendenza degli atti dello spirito dall' azione stimolante del mondo; l' altra chiameremo legge dell' armonia estetica , perchè esprime la qualità e il modo del movimento dello spirito e degli atti secondi, determinato dall' armonia del mondo prestabilita dal Creatore, acciocchè una pari armonia si trasporti nello spirito che svolge la sua attività. Nel sensismo di Fichte (l' idealismo di questo filosofo è puramente sensismo) lo spirito pone sè stesso con quell' atto con cui pone il mondo. Egli afferma ad un tempo l' io e il non io come contrapposti correlativi, l' uno dei quali limitando distingue l' altro. Secondo noi lo spirito non si costituisce in questo modo, ma egli procede per via degli atti seguenti: Intuisce l' oggetto, l' essere in universale, senza affermarlo, senza affermare sè stesso, senza avere alcuna coscienza nè di sè, nè del suo atto; egli vive ed è nell' essere. Contemporaneamente percepisce un sentimento fondamentale, e perciò ha una percezione fondamentale , la quale è apprensione senza espressa affermazione . Ma con ciò non percepisce sè stesso come percipiente , nè ha coscienza di sè, benchè abbia cognizione del proprio sentimento, del termine del sentimento e del principio del sentimento, senza che questo sia diviso con un alcun atto dello spirito dal termine in cui si giace. La coscienza, poi, e l' io viene molto tempo appresso nella maniera da noi spiegata. Dunque il termine del sentimento fondamentale non si percepisce pronunciando un non7io , che è la relazione coll' io , la negazione di questo; ma si percepisce semplicemente come esteso senza confronto alcuno coll' io; chè l' io non è per anco rivelato. Perocchè l' io non è il principio senziente, ma è il principio razionale percipiente il sentimento, che acquistò colla riflessione7coscienza, ossia che si è percepito. Tuttavia nel sentimento vi è la dualità male espressa da Fichte colle parole di io e non7io ; la quale si doveva esprimere colle parole significanti i concetti correlativi di principio e di termine. Ora la mutazione, che nasce nel sentimento, è la condizione della mozione che riceve il principio razionale ai suoi atti secondi; e perchè quella mutazione accade naturalmente per l' azione degli agenti, che compongono il mondo, perciò lo spirito si dice soggetto a questa legge di dipendenza nel suo sviluppo dal mondo, legge cosmologica. Questa legge adunque si riduce a quello che abbiamo già indicato, cioè che il reale è il termine suscitatore dell' attenzione , che è la forza radicale del conoscere soggettivo , e la attua e concentra (1). Onde venendo tolto il reale all' anima, niun atto conoscitivo può a lei restare eccetto l' atto primo d' intuizione, senza attenzione soggettiva, senza concentrazione alcuna di questa. Di che può dirsi in un senso che il soggetto, come soggetto, non abbia in tale stato alcuna cognizione attuale sua propria. Ma in questa legge sono da considerarsi due cose: La ragione perchè il principio razionale passi ai suoi atti secondi, uscendo dalla sua inerzia; il che si può esprimere così: « Il reale, quale termine del principio razionale, è ciò che suscita l' attenzione di lui e lo conduce agli atti di conoscere soggettivo ». La ragione perchè questi atti secondi del principio razionale sono vivaci, durevoli e soddisfacenti; il che si può esprimere così: « Se gli atti secondi del principio razionale trovano un termine reale, in tal caso sono stabili e vivaci; altrimenti sono languidi, faticosi, e cessano prestamente ». Consideriamo l' una e l' altra parte di questa legge. Questa legge è patente dall' esperienza. Su di essa giova fare le seguenti osservazioni: Non ogni reale eccita il principio razionale ad un medesimo grado di attenzione e pone in lui un' eguale quantità di azione; ma alcuni reali attirano a sè unicamente l' attenzione che nella percezione s' acqueta, altri all' incontro muovono il ragionamento . I reali, che muovono il ragionamento e non la sola percezione, sono i bisogni; onde il principio razionale ricorre istintivamente a tutte le vie per soddisfarli, e però anche al ragionamento; il bisogno poi non è un sentimento semplice, ma è un sentimento che risulta da molti sentimenti semplici, aggruppati con un certo ordine; dove sta propriamente la ragione di quella mozione, che si svolge anch' essa in atti molteplici. I reali eccitano ancora il ragionamento e un' azione che si estende oltre la percezione, quando sono connessi insieme in virtù delle leggi dell' animalità e degli istinti animali; onde accade che, data un' immagine, se ne suscitano altre ed altre; dato un sentimento, a questo altri si accoppiano secondo il tenore di dette leggi. Quando il pensiero è giunto a concepire e proporre un fine alla volontà, allora nasce il decreto libero di pensare ai mezzi, e quindi si estende l' attività; ma questa stessa attività cogitativa ha bisogno di continuamente aiutarsi con nuovi reali, pei quali trascorre il pensiero e l' azione. Non ogni reale, benchè ecciti una percezione vivace, è bastevole a produrre la coscienza , cioè a muovere l' uomo a riflettere su di sè; ma l' uomo è indotto a questo principalmente dal linguaggio sociale e dai suoi bisogni. Infatti, nella società i nomi e i pronomi personali eccitano la riflessione a ripiegarsi sopra la persona; e il bisogno nasce ben presto; come, poniamo, se viene fatto un torto al bambino, egli, pigliando a difendere il proprio diritto e a giudicare fra sè e il compagno offensore, incomincia a riflettere sulla propria persona e sull' altrui. Finalmente i sentimenti, essendo durevoli per qualche tempo, aiutano il pensiero a mantenersi in atto; il che forma la seconda parte della legge che noi esponiamo. Niuno di quelli che sogliono osservare la maniera di operare dell' uomo negherà questo fatto. Ma qui si presenta una curiosa ricerca. Noi abbiamo veduto: 1 che il movimento non è continuo, ma che si fa per mutazioni istantanee di stato a stato, ciascuno dei quali stati dura un tempuscolo; 2 che ai sentimenti eccitati precedono o certo corrispondono dei movimenti extra7soggettivi nella fibra. Ora altro è il sentimento, altro la mutazione di un sentimento ad un altro; questa può farsi in un istante, quello deve avere qualche durata. Il sentimento eccitato adunque è sempre uno stato più o meno durevole. Se dunque il sentimento eccitato è uno stato durevole, e se tuttavia egli viene eccitato in compagnia di mutazioni (movimento di fibre) non durevoli, conviene dire che le mutazioni istantanee, che si hanno nel movimento, nè sono i sentimenti, nè possono essere la causa piena dei medesimi; la pienezza di questa causa deve venire dallo stesso principio senziente che dura. In secondo luogo si conferma che vi è un sentimento non eccitato , il quale ha per suo termine l' esteso, cioè più estesi che si confricano, e non il movimento (1). In terzo luogo si scorge che i movimenti, che nascono nell' esteso, non sono sentiti nelle loro singole mutazioni istantanee, perchè: 1 in tal caso la mutazione essendo istantanea, e il sentimento non durando se non quanto dura il suo termine, egli non durerebbe nulla se avesse per termine le sole dette mutazioni; e però non sarebbe sentimento; 2 se così avvenisse, noi non avremmo mai un sentimento costante, ma dovremmo sentire in ogni sentimento una mutazione incessante, ogni sentimento sarebbe un complesso di molti sentimenti successivi, fra l' uno e l' altro dei quali rimarrebbero degli intervalli senza sentimento; il che è al tutto opposto al fatto dell' esperienza. Nè si può dire che tale moltiplicità e tali intervalli sieno in ogni sentimento senza che noi li avvertiamo, perocchè, qualora la cosa così avvenisse, noi dovremmo assai più facilmente accorgerci degli intervalli di un sentimento all' altro che avrebbero durata, che non sia degli stessi sentimenti che non ne avrebbero alcuna; sicchè tutti quei sentimenti, presi insieme, durerebbero meno di un solo intervallo, come la niuna durata è meno di qualsiasi minima durata. Oltracciò la ragione per la quale non avvertiamo certe cose, che passano in noi, si è perchè noi siamo occupati e distratti da altre più sensibili, che attirano e legano la nostra attenzione razionale. Ora nel detto caso la cessazione del sentimento che durerebbe si dovrebbe poter avvertire, anzi sarebbe più atta a tirare e tenere a sè la nostra attenzione che i sentimenti che nulla durerebbero. Perocchè è da stabilire che « tutto ciò che l' uomo sente e tutti i passaggi di un sentimento ad un altro sono per sè avvertibili », ed è solamente accidentale che non s' avvertano per la ragione detta. Finalmente altro è non avvertire ciò che vi è, altro avvertire ciò che non vi è. Al primo siamo soggetti per distrazione, al secondo no. Laonde rimarrebbe inesplicato come noi avvertiamo la durata dei nostri sentimenti, se questa durata non fosse. Anzi dobbiamo dire: « noi l' avvertiamo, tutti gli uomini l' avvertono, dunque vi è »; se ella non fosse, non la potremmo avvertire. E` dunque da conchiudere con questa bella ed importante proposizione, che dichiara non poco la natura del sentimento animale: « Le sensazioni e gli altri sentimenti eccitati non hanno per loro termine il movimento della fibra, cioè la mutazione di luogo o di stato delle parti che compongono il sentito esteso, ma hanno per termine lo stesso sentito esteso; dal movimento però delle parti dell' esteso, e dalla pressione e confricazione reciproca di esse, consegue che l' esteso sia sentito in altro modo e con maggiore vivacità »(1). Ora poi una cosa prova l' altra: il fatto della durata del sentimento eccitato prova l' impossibilità del moto continuo, come suo termine; il moto continuo non ha alcuno stato o luogo durevole, dunque non può essere termine del sentimento. Laonde è a dire che le mutazioni, che accadono nel moto della fibra, possono essere eccitatrici (a loro modo) del sentimento, non essere da sè sole suo termine; e che il sentimento eccitato dura in istato, quantunque lo stimolo eccitante (la mutazione della fibra) non duri. Se non avesse disposto il Creatore che le sensazioni si prolungassero nella durata, non sarebbero bastate al bisogno, nè sarebbero possibili le osservazioni e le esperienze degli studiosi della natura. Veniamo ora a giovarci della seconda parte della legge della mozione alla spiegazione di alcuni fatti. E` certo che il principio razionale, tratto una volta ai suoi atti secondi, acquista un movimento libero, cioè tale che può dirigersi secondo i fini della volontà; e nondimeno, se il detto movimento razionale (mosso in origine da un termine reale, da un bisogno, ecc.) non trova pure un termine reale a suo scopo, egli non può formare atti lungamente durevoli, facili e vivaci. I fatti, che vengono spiegati mediante questa legge, sono principalmente i seguenti; ella spiega: Perchè senza sensazioni o fantasmi la mente non può pensare soggettivamente (1). Perchè le sostanze incorporee riescano difficili a concepirsi puramente, senza mescolarvi cosa alcuna di corporeo. Di che la ragione è questa: noi non percepiamo nell' ordine della natura altra sostanza incorporea che l' anima nostra, e l' anima nostra noi la percepiamo per via di sentimento, in questo come in suo principio. Ora il sentimento nostro proprio ha per termine l' esteso puro o corporeo. Vero è che il principio intuente è l' atto primo dello stesso sentimento, ma appunto perciò non ha coscienza; è un reale, ma non è un reale7termine , ed è solo il reale7termine che suscita l' attenzione. Ora l' uomo nell' ordine naturale non ha altro reale termine che il corpo, e perciò l' attenzione del principio razionale è attirata dal sentimento corporeo, e solo in appresso per libera riflessione considera il principio intuente; e questo non lo può conoscere con una concezione viva e concentrata, appunto perchè non vi trova alcun reale che gli possa servire di termine eccitatore. Non essendovi dunque in noi percezione di alcuna sostanza incorporea se non della nostra propria, la quale non si rende termine eccitante la nostra attenzione se non in quanto è unita al corpo, indi avviene che siamo inclinati a concepire ed immaginare le altre sostanze di quella natura che è il termine della nostra, cioè di natura corporea. Perchè le astrazioni hanno bisogno di segni, o naturali o artificiali, per pensarsi e per ragionare con esse o sopra di esse. Perchè le sostanze spirituali e gli astratti nelle lingue più antiche sono sempre significati con vocaboli tratti da cose corporee. Così anima, animus, «anemos», spiritus, «pneuma» , sono tutte voci significative del vento o aria corporea, trasportate a significare la sostanza incorporea. Così pure l' astratto del bene morale non ebbe un nome suo proprio, ma fu chiamato ora virtù , che significa forza (1), ora honestas , che significa bellezza, ora mos , che significa consuetudine; la parola obligatio è pure tolta dal legame sensibile e trasportata a significare la forza della legge. E del pari si può dire di ogni sostanza spirituale e di ogni astratto, eccetto il solo verbo essere , che non fu mai espresso per via di metafora; il qual fatto è già solo per sè una manifesta testimonianza del senso comune, che depone a favore del sistema filosofico da noi proposto, dimostrando che l' essere non è a confondersi colle altre astrazioni, siccome quello che è oggetto immediato e sempre presente della mente (2). Perchè le lingue sono strumenti acconci al pensiero, tanto per sintesizzare, quanto per analizzare. Per sintesizzare, si vede nell' imposizione delle parole, allorquando s' impone un nome affine di legarvi un gruppo di idee o di rimembranze. Essendo obbligato il pensiero all' unità per legge ontologica, quando egli deve ritenere più concetti o pensieri, cerca di raggrupparli; ed uno dei modi che adopera è di attaccarli ad una sola parola , la quale, essendo un reale, tiene desta e viva l' attenzione e la memoria, chè altrimenti svanirebbe, se nella pluralità delle cose non vi fosse un vincolo reale , che le congiungesse ed unificasse. Quindi l' istinto di segnare i luoghi, dove è avvenuto qualche avvenimento che preme di mantenere nella memoria, con un vocabolo che lo rammemori; giacchè l' avvenimento e il luogo non hanno connessione naturale ed essenziale, e però si trova un segno unico commemorativo di entrambi. Questo istinto razionale non ha solamente lo scopo di tramandare ai posteri quelle memorie, ma ben anche di renderle presenti a sè stessi; e si scorge più attivo nei primi uomini, il cui linguaggio era ancor povero, onde avevano più bisogno al loro uopo di tali imposizioni di nomi. Così Agar impone il nome di « pozzo del veggente »a quello presso il quale erale apparso l' angelo del Signore (1). Abramo, similmente, al monte del sacrificio impone il nome « il Signore vede »(2); Giacobbe al luogo, dove ebbe la visione della scala, pose il nome di Bethel, ossia « casa di Dio »(3); al luogo di un' altra visione di angeli, dove aveva detto quasi espressione spontanea del suo sentimento (il che mostra l' istinto del pronunciare): « questi sono gli accampamenti di Dio », pose nome Mahanaim , cioè « accampamenti »(4). Così si nominavano i pozzi, che facevano scavare i patriarchi, secondo l' avvenimento che aveva occasionato quell' opera, e il sentimento da cui erano all' istante animati (5); ed è frequentissimo in tutta la Genesi questo fatto dell' imposizione dei nomi ai luoghi dei più insigni eventi. Sospinti gli uomini dallo stesso istinto razionale, agli astri stessi diedero dei nomi, i quali rammemorassero qualche eroe o qualche avvenimento, di cui volevano perrennar la memoria, quando essendo egli passato, aveva cessato di essere, ossia di operare come reale; conseguendo il loro intento col legarlo appunto a due reali, l' uno dei quali feriva sempre vivamente gli occhi col suo sublime aspetto, nè poteva guastarsi dal tempo siccome si guastano i monumenti terreni; l' altro feriva l' orecchio, ed era il nome consegnato alla società delle succedenti generazioni. Onde Giuseppe Bianchini con sapienza scrisse: [...OMISSIS...] Noi possiamo dire che ogni parola è una sintesi, giacchè assai di rado una parola significa un concetto solo, come scorgesi dei sinonimi, i quali, convenendo in un concetto principale, ne risvegliano tanti altri, che difficilmente si osservano se non dai più sagaci osservatori, qual' è un Tommaseo, e pure si sentono dal comune degli uomini, i quali si accorgono unanimi se nell' uso delle parole pur manchi qualche cosa alla proprietà del parlare; nè però sanno dire con distinzione che cosa manchi, e se vogliono dirlo, talora sbagliano, e se vogliono scrivere, mancano alla proprietà essi medesimi. I vocaboli adunque prestano fra gli altri quest' ufficio al pensiero, di dare unità a certe pluralità di concetti, la quale pluralità , non essendo un reale, ha bisogno di un segno reale per essere ritenuta e marcata. Laonde tutto ciò che non è un reale operante sull' uomo: a ) le sostanze incorporee, b ) gli astratti, c ) i molteplici, d ) i reali passati, come i fatti storici che non sono più operanti sull' uomo, e ) i reali assenti, e però del pari non operanti, e così via, esigono dei segni reali acciocchè l' uomo possa mantenere e concentrare in essi la sua attenzione. Quanto ai reali assenti, la prova di ciò che diciamo è nel desiderio che ha l' uomo di avere ritratti e memorie , che gli facciano sovvenire vivacemente le persone o le cose amate, le quali egli non può avere di continuo presenti. E le sostanze incorporee si possono considerare come assenti, in quanto che non operano come reali immediatamente sopra di noi; quindi la propensione e il bisogno delle immagini e dei simboli che le rappresentano alla nostra venerazione, e la ragione di tutto il culto esterno. Onde gli Iconoclasti, abusando di vane sottigliezze, oppugnavano le leggi della natura. Come poi ogni parola è una sintesi , così ogni proposizione e ogni discorso è un' analisi . E che il pensiero per analizzare, e specialmente astrarre, abbia uopo giovarsi dei segni e massimamente dei vocaboli che sono i più acconci e naturali, si vede da quello stesso che dicevamo, cioè che la pluralità non è un reale; ora l' analisi non fa altro che scomporre l' uno in più. Riconducendo dunque alla pluralità , già per questo solo abbisogna dei segni a cui legare l' attenzione, acciocchè questa possa concentrarsi nelle singole parti, e nello stesso tempo abbracciarle in modo da non dimenticare che sono parti di un tutto solo. Al che mirabilmente giova la lingua, strumento sintetico ad un tempo ed analitico. Coll' invenzione adunque della lingua l' uomo: 1) - Soddisfa ad un bisogno proprio del suo pensiero; e perciò la lingua non s' inventa solamente per comunicare altrui i propri pensieri, ma per fissare il pensiero proprio, dirigere, fermare e concentrare la propria attenzione. 2) - Soddisfa altresì al bisogno di comunicare i propri pensieri ai suoi simili, fornendo loro quello stesso facile mezzo di pensare, cioè di dirigere e concentrare la propria attenzione, che adopera per aiutare a ciò sè stesso. Nel che è da ammirare la sapienza del Creatore, il quale non ha abbandonato questa invenzione della lingua al solo operare libero e calcolato del pensiero umano; ma ne ha messo nell' uomo l' istinto, come diremo parlando di quella specie di leggi psicologiche del pensiero, che rispondono alle cosmologiche; e di più gliene ha egli stesso comunicati positivamente i primi elementi. Si spiegano per questa via anche le leggi della memoria, nella quale si rinvengono alcuni fatti di non facile spiegazione: La prima cosa, che riesce difficile a spiegare, si è come le cognizioni si conservino in noi, senza che noi ci pensiamo. - Nasce ciò solamente perchè non vi rivolgiamo più l' attenzione, come accade che un quadro, benchè ci sia continuamente presente, non lo vediamo se non volgiamo a lui gli occhi? Questo non basta a spiegare il fatto pienamente; perocchè se il giacere in noi le cognizioni, senza che noi ci pensiamo, dipendesse solo da non darvi avvertenza, in tal caso ogni qual volta vorremmo, potremmo risovvenirci di checchessia, come possiamo ogni momento riguardare il quadro, che ci sta dinnanzi a nostra libera voglia. All' incontro, molte cose dimenticate noi non possiamo più richiamarcele, o ce le richiamiamo a fatica. Conviene dire che in tal caso l' attenzione non è attivata e tenuta da alcun reale, cioè da alcuna immagine o altro sentimento; e però ella non sa dove volgersi e dove affissarsi per trovare la notizia o la cognizione che cerca nell' anima. Quando dunque cessano le immagini e i sentimenti, ai quali è legata la notizia o cognizione desiderata, allora ella s' immerge nell' essere universale uniforme, dove si sta nascosta, che è quello che gli antichi dicevano conoscere potenzialmente o virtualmente. Ma ivi non è tuttavia smarrita per sempre; ella ne emerge ogniqualvolta alla forza dell' attenzione riesce di afferrare un' immagine o un sentimento reale, a cui quella notizia è congiunta nell' istinto dell' attenzione medesima; del quale reale ella quasi si veste, o a parlar propriamente, è segnata. Onde le cognizioni, che si smarriscono affatto e di cui non vi è reminiscenza, si possono dire cognizioni non segnate , e quindi non distinte nell' essere ideale. La seconda cosa a spiegare circa i fatti della memoria si è perchè alcune cognizioni o notizie ci riappariscano da sè stesse al pensiero, senza ed anche contro nostra volontà, e così talora diano luogo a quelle che diciamo poi distrazioni, tentazioni, ecc.. La ragione ne è la medesima: posto il principio che le notizie e cognizioni che in noi stanno, richiamano e tengono la nostra attenzione ogniqualvolta sono segnate, ossia legate a qualche reale, siccome immagini, sentimenti, corpi esterni, ecc., e posto d' altra parte che i reali, a cui sono legate, si presentano a noi senza ed anche contro volontà nostra, come quelli che dipendono dal gioco dell' animalità e delle animali potenze; è manifesto che molte notizie obliterate ci devono da sè ritornare al pensiero, e attirare a sè l' attenzione nostra cogitativa secondo le leggi dell' istinto e delle abitudini, e talora anche farci violenza, quand' elle sieno più forti a trarre e tenere l' attenzione che non sia la volontà nostra a ritrarnela. E quale sia la forza e l' indipendenza delle immaginazioni e dei sentimenti animali, ogni giorno si prova per esperienza; il che è una grande umiliazione dell' uomo, che risiede nel principio razionale, perocchè questo principio, che è l' uomo, vedesi così sgagliardito che, dovendo egli per ogni buona ragione precedere e imperare, in quella vece segue siccome schiavo incatenato ed ubbidisce, renitente indarno e contendente. La terza cosa a domandare si è perchè alcune notizie si richiamano con facilità al pensiero, ed altre difficilmente. - Veduto che la presenza dei sentimenti reali , onde si segnano le notizie, non dipende interamente da noi, resta facile intendersi anche questo fatto. Poichè i movimenti e sentimenti animali nè sono intieramente sommessi nè interamente sottratti al potere del principio razionale; ma questo può molto in essi, non però tutto quello che vuole. Onde talora gli riesce facile il muovere quei sentimenti in sè stesso, talora difficile, talora poi del tutto impossibile. Se poi si chieda secondo quale legge si digradi questa facilità o difficoltà, restringendoci a quello che riguarda solo la reminiscenza, noi diciamo: 1 che l' uomo che pensa ha sempre dei reali presenti (pei quali reali s' intende immagini e sentimenti); 2 che i reali presenti sono più o meno legati coi reali non presenti; 3 che questo legame è un legame di segno , o anche un legame organico , onde un movimento sensibile è continuazione od effetto immediato di altri, o un legame consensuale per istinto ed abitudine , ecc.. Acciocchè dunque il principio razionale possa suscitare e ridurre in atto i sentimenti che egli cerca: 1 questi debbono avere connessione con quelli che gli stanno attualmente presenti in atto; 2 debbono poi altresì avere una connessione più o meno felice e di spontaneo passaggio, secondo la qual condizione il principio razionale più o meno facilmente riesce a ridurre in pristino i movimenti animali e i sentimenti annessi che cerca, siccome segni delle notizie che gli bisogna rammemorare. Per legge cosmologica dell' operare del principio razionale intendemmo quella che gli viene imposta dall' azione delle cose create, dal mondo o, come direbbe Fichte, dal non7io . Nel quale concetto del mondo il principio stesso razionale viene escluso ed al mondo contrapposto, benchè questo stesso principio, questo io , formi pure anch' esso parte del mondo; altro errore del fichtiano sistema (1). Tuttavia, poichè l' anima intellettiva ha nell' idea lo specchio del mondo reale ed anche di sè stessa, non è al tutto assurdo pigliarla in due aspetti, come cognita e come conoscente, come parte del mondo e come opposta al mondo. Così la natura del mondo, compresa l' anima termine del conoscere, è il fonte delle leggi cosmologiche, secondo le quali opera il principio razionale (l' anima); e la natura dell' anima, principio razionale, è il fonte delle leggi psicologiche corrispondenti. Ma qui ci si domanda se l' animalità appartenga all' anima conoscente, a cui somministra l' immediata materia. La quale questione deve sciogliersi prima di entrare a parlare della legge dell' armonia, acciocchè si sappia se questa legge, in quanto è cosmica, debbasi derivare non solo dall' ordine delle cose esteriori, ma ancora dall' ordine intrinseco all' animalità, come formante parte di quel mondo che si considera contrapposto al principio razionale. Rispondiamo che l' animalità, come tale, non appartiene all' anima conoscente, la quale significa principio, quando quella non è rispettivamente che termine, in quanto cade nella percezione fondamentale. Laonde l' armonia, che il principio razionale trova nel suo termine e ond' egli stesso partecipa, gli viene non solo dall' armonia che vi è nelle cose esterne diverse dai sentimenti animali, ma dall' armonia che sta nella stessa animalità. Gli antichi pensatori della scuola italica avevano conosciuto l' esistenza della legge dell' armonia nelle operazioni del principio razionale, ma l' avevano creduta piuttosto una legge unicamente psicologica che una legge in parte almeno cosmologica . Di che la ragione si fu che essi non sapevano concepire l' anima puramente intellettiva, neppure intendevano la natura dell' anima razionale, ma movendo il pensiero filosofico da ciò che è più ovvio agli uomini, la materia ed il senso, fissavano lo sguardo della loro mente nell' anima sensitiva, ed a questa come a principio riducevano ogni operazione anche intellettuale. Nell' anima sensitiva poi non erano ancora pervenuti a distinguere il principio , al quale solo spetta il nome di anima, dal termine , che è l' esteso ed il materiale. Onde attribuivano all' anima in proprio anche ciò che le veniva dal suo termine. E poichè dove più sensibilmente e vivamente si sente l' ordine sono i suoni bene accordati, perciò ad ogni ordine e armonia diedero il nome di musica , generalizzando il significato di quella parola che da prima era imposta al diletto, che prendeva l' orecchio dai suoni convenienti (1), secondo le leggi dell' invenzione delle parole da noi esposte. Quindi la musica, collocata primieramente nell' anima del mondo, poscia nelle altre anime, che, di quella prendendo, si costituivano e individuavano, come si vede in questo luogo di Macrobio, che riassume le antiche dottrine. Non deve far meraviglia, dice, che la musica abbia cotanta potenza sugli uomini non meno che sulle bestie (ecco come si aveva l' occhio all' anima sensitiva); [...OMISSIS...] . Ora poi, dall' essere conosciuto che l' armonia, che dirige segretamente il principio razionale come pure il principio senziente, viene a questo dal termine e non l' ha in sè, rimane abbattuto questo errore degli antichi, i quali attribuivano unicamente all' anima, che è il principio, l' origine dell' armonia; il quale errore sospinsero così innanzi che molti pronunciarono nell' armonia stessa consistere la natura dell' anima (2). L' animalità, adunque, non è il principio razionale, rispetto al quale ha ragione di termine, e però appartiene al mondo in contrapposto dell' anima razionale; l' anima razionale poi partecipa dell' armonia, che nell' animalità si contiene. Ma se si parla dell' anima sensitiva, che è il principio immediato del sentimento, si può domandare se l' armonia, che nell' animalità si trova, proceda dall' anima, cioè dal principio sensitivo , o dall' esteso, che ne è il termine . E qualora gli antichi avessero così posta la questione, il loro errore di attribuire all' anima sola l' origine dell' armonia sarebbe stato minore, perchè veramente, almeno in parte, l' armonia viene dalla natura dell' anima sensitiva. Ma essi confusero l' anima sensitiva colla razionale, e parlarono di quella come se fosse questa. Ora il nostro intento si è di spiegare l' origine della legge dell' armonia rispetto all' anima razionale, e di mostrare come, rispetto a questa, quella legge sia cosmologica, appunto perchè la stessa anima sensitiva, che è il principio rispetto all' esteso, termine suo proprio, è termine rispetto al principio razionale, che percepisce il senziente nel sentito; e però appartiene anch' essa al mondo contrapposto al principio razionale. Vediamo dunque come l' anima sensitiva sia in parte fonte dell' armonia che trovasi nell' animalità, benchè di questo stesso argomento dovremo parlare più a lungo in appresso. In primo luogo l' esteso continuo acquista l' unità, e insieme coll' unità la natura di continuo, dalla semplicità del principio sensitivo (1). In secondo luogo vedemmo come nella semplicità del principio sensitivo giaccia l' unità del tempo. Ora nell' estensione sentita e nel tempo si manifesta l' armonia dell' animalità, perocchè nell' estensione sentita nasce la moltiplicità necessaria all' armonia, nel tempo il numero . E veramente la moltiplicità e il numero non sarebbero, se non ci fosse un ente semplice, al quale e nel quale più unità fossero presenti; giacchè ogni unità, come tale, se è presente a sè stessa, non può essere alle altre; chè ogni unità, come tale, è finita in sè e non può varcare i confini dell' essere suo. All' incontro lo stesso principio sensitivo è suscettivo di più sentimenti, e contemporanei e successivi, onde in lui solo (e più eminentemente e in altro modo nel principio razionale) la moltiplicità, il numero e la successione di più cose ritrovasi. Risultando dunque l' armonia dall' unità e dalla pluralità , l' unità è posta dall' anima, e però è elemento psicologico , e la pluralità è data all' anima sensitiva dal termine, e però è elemento cosmologico; quindi si può dire che l' armonia nella sfera del sentimento animale sia una cotale unione di natura, e quasi un abbracciamento genetliaco dell' anima col mondo. Ora l' unità è propriamente la forma del bello, come osserva S. Agostino (2). Di che si raccoglie che la parte formale dell' armonia sensibile è di natura psicologica, la parte materiale di natura cosmologica. Ma come accade che nel sentito sia la pluralità ridotta ad unità? ond' ella viene? qual parte tiene in formarla il principio, quale il termine? Il termine del sentimento corporeo è un solo esteso continuo, e non più; poichè se l' esteso corporeo si dividesse in più continui, già si moltiplicherebbero i principŒ senzienti. Qui abbiamo intanto una unità di continuo. Ma posciachè il continuo ha dei limiti che costituiscono una specie di pluralità, indi la domanda: onde i limiti (1) che determinano la grandezza e la forma di questo unico continuo? - E la risposta si è che questi limiti non vengono dal principio senziente, indifferente per sè ad ogni estensione e figura di sentito; dunque essi vengono dalla virtù esteriore cosmica. Noi abbiamo già detto che vi è un' estensione (di cui sono condizioni o limiti la grandezza e la forma), come pure una virtù sensifera extra7soggettiva (2), il cui principio deve certamente essere inesteso (principio corporeo). Oltre la moltiplicità della grandezza , della forma , dei limiti , che si rivelano in appresso colle sensazioni acquisite, si dimostra nell' animalità il molteplice delle sensazioni. Quindi un' altra questione: come nell' unico esteso continuo cada varietà di sensazione. E dicemmo da questo, che lo stesso sentimento fondamentale esteso non è al tutto uniforme nella qualità, ma variato e per così dire screziato; il che si può congetturare dover essere (benchè non credo che l' avvertenza dell' animo possa discernerlo, a cagione dell' indole del sentimento fondamentale, poco e quasi nulla atto a tirare e tenere la nostra attenzione intellettiva) (1) dal diverso grado di sensitività eccitata, di cui sono fornite le diverse membra del corpo e i diversi organi sensorii. Perocchè, essendo una parte più sensitiva o diversamente sensitiva all' eccitamento, pare che vi debba essere un primitivo sentimento diverso, nel quale ogni parte si senta in vario grado e in diverso modo. A ragion d' esempio, io credo che il nervo ottico abbia un sentimento fondamentale diverso, voglio dire di tutt' altro tocco delle altre parti sensibili del corpo, il quale sia appunto il sentimento del nero ; perocchè definire il nero nulla più che la mancanza dei colori è un confondere la causa delle sensazioni visive colle stesse sensazioni. Certo è verissimo che, tolti via tutti gli stimoli esterni dalla retina, rimane il nero; il nero si ha, quando manca intieramente la luce. Ma il corpo stimolante, che si dice luce, non è la sensazione che esso produce. Le sensazioni poi dei colori, prodotte dallo stimolo della luce, sono sensazioni parziali, ossia modificazioni speciali di un sentimento precedente fondamentale, onde questo non può essere che il sentimento del nero. Per convincersene si entri in luogo perfettamente oscuro, si ponga attenzione a ciò che si prova di sentimento nei propri occhi, e si confronti con ciò che si esperimenta in un' altra parte del corpo, per esempio nella nuca, e stando bene attenti ciascuno si convincerà che negli occhi vi è il sentimento del nero, sentirà come tappezzati gli occhi suoi d' un panno nero, il quale sentimento non l' avrà nella nuca. Nè ciò si può attribuire alla reminiscenza delle sensazioni colorate avute innanzi, le quali ora mancano; perocchè, qualora si faccia grande attenzione, s' intenderà che si tratta propriamente di un cotal sentimento che sta negli occhi, anche prescindendo da ogni rimembranza e riflessione della mente. Io credo che rispetto al nervo acustico si possa dire qualche cosa di simile, e che ci sia il sentimento del silenzio (sentimento fondamentale proprio di quel nervo), sicchè il silenzio (prescindendo dalla sua occasione esterna, che è certamente negativa, e considerato come sentimento) non sia cosa al tutto negativa, anzi abbia un che di positivo fondamento a tutte le sensazioni acustiche. All' accennata domanda, adunque, rispondo che la varietà che cade nel sentimento esteso, deve nascere dalla diversa tessitura del continuo sentito, il quale può avere maggiori o minori intervalli, risultare da molecole di diversa forma, una molecola attenersi e premere sull' altra con forza maggiore, le molecole specifiche essere più o meno involute, e da altre sì fatte condizioni dei tessuti, onde anche risultano i vari organi. La moltiplicità, che si scorge nel sentimento di eccitazione, ci porge una terza domanda, cioè: Onde nasce la varietà delle diverse parti del sentimento eccitato, la quale varietà è evidente, costituendo essa anche la varietà delle sensazioni figurate, diverse d' indole e d' intensità? nasce dall' anima o dal mondo? - Fu veduto che tali varietà eccitate nel sentito rispondono al movimento delle molecole componenti il sentito; il qual movimento parte viene determinato da stimoli esterni, parte dall' attività del principio stesso sensitivo; onde la causa di questo vario movimento deve appellarsi parte cosmologica , parte psicologica; cosmologica, in quanto vince l' inerzia dello spirito, psicologica, in quanto ubbidisce alla legge di spontaneità , di cui lo spirito stesso è fornito (1). Ma questo movimento non è la sensazione stessa; parliamo dunque di questa. Si deve distinguere: 1 il modo della sensazione, che è l' estensione, e le condizioni proprie dell' esteso, che sono i limiti, ossia la grandezza e la forma ; 2 la causa eccitatrice extra7soggettiva, ossia cosmologica, della sensazione, che è la virtù sensifera , e i movimenti intestini nell' esteso sentito; e finalmente 3 la sensazione pura, che è o sedata e primitiva, o eccitata. A costituire il modo esteso della sensazione e dei sentimenti contribuisce indubitatamente l' azione cosmologica, di cui quel modo è termine , essendo egli termine ad un tempo anche dell' anima. La causa extra7soggettiva, cioè il principio corporeo, la virtù sensifera, è ancora azione cosmologica. Ma la sensazione pura è così propria del principio senziente che ella è l' atto proprio di questo, e però appartiene intieramente all' essenziale virtù di questo principio; è quindi del tutto soggettiva, del tutto psicologica (2). L' azione cosmologica, adunque, è causa che contribuisce a porre in essere quell' atto, e con esso lo stesso principio senziente, l' anima, e a determinare quell' atto in quanto al suo modo dell' estensione; ma finalmente l' atto del sentire, è atto del principio senziente, il quale è il soggetto unico di tutte le sensazioni. La sensazione pura, adunque, dipende dal mondo esterno come da suo termine, ma non è atto del mondo esterno, sì dell' anima. Ora la sensazione pura, che chiamerò il tocco della sensazione per darle una denominazione apposita che la astragga dall' estensione, cangia, restando la stessa grandezza e forma di esteso, come si vede nelle sensazioni dei vari organi sensorii ed anche di uno stesso organo; giacchè non solo l' odore è di un tocco al tutto diverso dal colore, ma nel colore e nell' odore stesso varia il tocco di qualità e di grado. Ora, quantunque il tocco della sensazione riesca variato di specie e di grado, per cagione del diverso termine esteso e dei diversi movimenti intestini mossi entro al medesimo, tuttavia ognuno può intendere che il detto tocco, qualità positiva della sensazione, non è l' estensione, nè il movimento, ed è anzi sempre l' atto variato del solo principio sensitivo. Il che, quanto all' estensione, si vede da questo, che una sensazione può variare di tocco e non di estensione. Così una stessa estensione può essere quella in cui termina la sensazione dell' occhio, e in cui termina la sensazione del tatto; e tuttavia le sensazioni riescono diversissime, sono di un diversissimo tocco. Quanto poi al movimento, abbiamo già dimostrato innanzi che il tocco della sensazione, eccitato dai movimenti dell' organo sensorio, non ha similitudine alcuna con questi movimenti, i quali sono molti, e il tocco della sensazione eccitata è uno; i movimenti sono istantanei (essendo ogni mutazione istantanea), e il tocco della sensazione ha durata, chè altrimenti niente si sentirebbe. Dunque il tocco della sensazione è tutto dovuto all' anima sensitiva, come l' atto è dovuto al soggetto, e conseguentemente è di natura intieramente psicologica . Ma rimane sempre a vedere come il tocco possa variare col variare degli organi e dei loro movimenti, e col numero di questi. Il che riesce più malagevole a rilevare e descrivere, per l' immischiarsi fra i sentimenti che fa l' attenzione e l' operazione razionale, le quali dividono a loro modo anche ciò che nel sentimento va unito. Tuttavia non lascieremo intentata alcuna difficoltà. Il principio razionale converte in ente il sensifero e lo stacca dal senso; senza l' opera di tal principio, il sensifero sarebbe un mero agente dimorante nel senziente, l' azione di un ente, non un ente. Ma poichè il principio razionale cangia in enti i termini sensiferi delle percezioni sensitive, perciò accade che ogni organo sensorio spazii in un mondo suo proprio. Ciascuno di questi mondi è affatto diviso, prescindendo dall' estensione, e neppure simile in quanto al tocco specifico del sentimento, da ciascun altro mondo proprio di un altro sensorio. Che se il principio razionale confronta questi diversi mondi e se ne fabbrica uno di tutti, ciò egli fa per via di analogia e non per vera similitudine che sia fra loro; non lo fa perchè abbiano somiglianza nella qualità del tocco sensibile, ma perchè convengono nel numero, nello spazio, ecc., in cose cioè che non spettano alla sensazione pura. Nell' identità di queste condizioni, che non costituiscono la sensazione, il principio sensitivo per la sua semplicità le congiunge ed armonizza. Così quando l' occhio dirige la mano a toccare un oggetto, la sensazione visiva (esteso sentito dall' occhio) è intieramente diversa dall' esteso, in quanto è toccato dalla mano; ma la sensazione visiva presta il medesimo servigio alla mano che presta una carta geografica accuratissima al viaggiatore, coll' aiuto della quale egli dirige i suoi passi. Del che non è facile accorgersi; perocchè vi è questa differenza notabilissima fra la carta geografica e la sensazione visiva: che si percepisce la carta geografica come uno spazio piccolissimo in paragone dello spazio da percorrersi dal viaggiatore, laddove la sensazione visiva presenta l' oggetto d' una dimensione che pare eguale a quella che sente la mano toccando, benchè ciò non sia; giacchè la sensazione dell' universo ottico non è più estesa veramente di quel che sia estesa la retina che lo contiene (percepita questa retina col tatto). Ma la differenza sta in questo: che quando io vedo la carta geografica, vedo contemporaneamente tutto ciò che sta di là da essa, tutto lo spazio che eccede i suoi confini, l' immenso spazio, per esempio, delle pianure e delle montagne e del cielo; e al di là di quel che vedo immagino altro spazio, al paragone dei quali spazi la carta geografica mi riesce al tutto piccolissima, e in questa piccolissima carta io trovo segnati e distinti quei piani e quei monti, quei mari e quei cieli, che vedo coll' occhio; e coll' occhio che m' accompagna viaggiando, vedo due volte le cose stesse, vedo segnato in piccolo sulla carta quello stesso che vedo in grande nella natura, e questo piccolo rappresentante e questo grande rappresentato è veduto dallo stesso organo, cioè dall' occhio, sicchè coll' aiuto dello stesso sensorio io confronto diverse parti della sua sensazione. All' incontro accade tutt' altro, quando lo spirito non confronta la grandezza delle varie parti d' una sensazione dello stesso sensorio, ma confronta la sensazione di un sensorio, per esempio dell' occhio, colla sensazione di un altro sensorio, per esempio del tatto. Allora si paragonano due universi, non le parti dello stesso universo; si paragona l' universo veduto coll' universo toccato, poichè nella sensazione totale dell' occhio, che noi chiamiamo specchio visivo, vi è tutto l' universo ottico, cioè tutto ciò che può vedere l' occhio con uno sguardo, e la ritentiva e l' immaginazione con più sguardi. In questo universo ottico vi è la mano che tocca e l' oggetto toccato; e l' una e l' altro colle loro proporzioni, sicchè se l' oggetto toccato è più piccolo della mano, anche nello specchio visivo compare più piccolo, e se è più grande, compare più grande. Di più, la mano e l' esteso toccato tengono la proporzione debita a tutti gli altri oggetti circostanti, che nello specchio visivo si trovano; e però l' occhio fa discernere al principio razionale tutte queste proporzioni, e il principio razionale sa conseguentemente dire a sè stesso quanto è più grande quella colonna, cui la mano tocca, della mano stessa, e quanto il tempio della colonna, e quanto il monte, che gli sta accanto, del tempio, ecc.. Il perchè, se la mano è toccata tutta da un corpo, il principio razionale, guidato dall' occhio, sa dire che « quel corpo è così esteso come è estesa la sensazione di tutta la mano »; poichè tutte queste proporzioni sono segnate nei colori sentiti nella retina come sopra carta geografica. Ma al di là di tutto questo, al di là dello specchio visivo, di questa carta geografica, l' occhio non vede altro; vede dunque la sola carta geografica, questa è il suo universo, e però egli non può paragonare questa carta geografica con altra cosa maggiore di lei, nè trovar cosa che sia maggiore di lei, perchè altra non ne vede. Quanto è dunque grande lo specchio visivo? Altrettanto quanto è grande l' universo, cioè l' universo visivo, perchè parlando del detto specchio non vi sono altri universi. Quando dunque l' anima dirige la mano ed il piede colla scorta dell' occhio, allora la mano e l' esteso che vuol prendere, e il piede e la via che vuol percorrere, e gli spazi circostanti sono tutti disegnati nell' universo visivo, nello specchio ottico; e questi disegni sono il principio dei movimenti regolati, che fa la mano od il piede ad impero dell' anima. Quei segni adunque, che occupano una parte piccolissima della retina e che rispondono distintissimamente alle proporzioni della mano, del piede, ecc., contengono sì fattamente il principio dei movimenti della mano e del piede che basta che l' anima voglia, ella con solo quei segni accosta realmente la mano all' oggetto che vuol prendere, e rivolge i passi per la direzione che brama. Si consideri bene che nè la strada, nè l' oggetto, nè la mano, nè il piede è nell' occhio; ma che la mano ed il piede, che si deve muovere, comunica per via dei nervi sensorii o motori col cervello; e che nel cervello termina pure il sensorio ottico, che rappresenta la mano ed il piede; si consideri che il principio animale unifica in sè la mano ed il piede veduto col sensorio ottico, sentimento passivo, ed il sentimento attivo dei nervi motori; si consideri che i movimenti della mano e del piede incominciano da movimenti piccolissimi del cervello per imperio dell' anima, i quali minimi movimenti si propagano, per la legge di spontaneità, ai nervi ed ai muscoli. Se dunque vogliamo dire che la sensazione visiva occupa un minimo spazio del cervello, potremo dire egualmente che l' anima, diretta o anche eccitata da quella sensazione, basta che ecciti un minimo movimento nel cervello, perchè si muova la mano od il piede, che nel sentimento soggettivo sono intimamente uniti con esso. Ora non è difficile concepire come una sensazione occupante uno spazietto minimo (nel sensorio ottico), quale sentimento passivo, dia principio al suo corrispondente sentimento attivo in un altro spazietto minimo (nelle radici dei nervi motori); nel quale spazietto minimo iniziandosi i movimenti, questi poi, per la legge che « l' animale tende a conservare ed accrescere i moti a lui grati », si vadano aumentando fino a muovere la mano ed il piede nella direzione determinata dalla sensazione visiva. Questo altro non dimostra se non l' ammirabile armonia, che pose il Creatore nella composizione dell' animale. Ma come accade, si dirà, che noi pur ci accorgiamo che l' universo visivo, essendo limitato all' estensione della retina, sia minimo rispetto all' universo reale? - Questo non può accadere mediante il paragone fra le grandezze date dal tatto e quelle date dall' occhio, perchè le grandezze date dal tatto vanno sempre d' accordo con quelle date dall' occhio, e quelle date dall' occhio vanno in perfetto accordo con quelle date dal tatto, sicchè le une commisurano le altre. In questo confronto si può bensì rilevare a che misura data dal tatto corrisponda la misura data dall' occhio, o a che misura data dall' occhio corrisponda la misura data dal tatto; ma non si arriverebbe mai a conoscere se una sensazione fosse più estesa assolutamente dell' altra. Per esempio, l' occhio mi dimostra una statuetta nel tempo che la mano la tasta. L' uomo dalla contemporaneità di queste due sensazioni altro non può indurne se non che l' oggetto, veduto dall' occhio, è così grande che produce tale ampiezza di sensazione nella mano; o viceversa l' esteso, tastato dalla mano, è così grande che adduce tale ampiezza di estensione visiva. Le sensazioni dunque dell' occhio e della mano, divenendo misura l' una dell' altra, non possono mai dare misure discordi, ma debbono dare misure scambievolmente commisurate, che sono misure di proporzione, non misure assolute. Come è dunque, per ripetere la domanda, che noi pure ci accorgiamo che la sensazione visiva di un esteso occupa meno spazio della sensazione tattile del medesimo esteso? Qui si tratta di trovare la ragione fra lo spazio, che occupa la sensazione di un sensorio, e lo spazio, che occupa la sensazione corrispondente di un altro sensorio. Ora questa proporzione non esiste fra i due sensorii, perchè nè l' uno nè l' altro somministra una misura comune , la quale potesse andar bene a misurare quelle due sensioni specificamente diverse; giacchè il sensorio ottico niente abbraccia del sensorio tattile, e il sensorio tattile niente abbraccia del sensorio ottico; ogni sensorio è limitato al proprio mondo; e quando il principio animale o razionale li paragona, altro non trova che eguaglianza; perchè il paragone è unicamente fatto per analogia, sicchè non paragona ampiezza ad ampiezza, ma proporzione a proporzione. Conviene dunque dire che la misura dell' estensione della grandezza della sensazione ottica sia la stessa sensazione; e la misura della grandezza della sensazione tattile sia la sensazione tattile; ed ecco in che modo. La retina ha due relazioni con noi: la relazione di sensorio e la relazione di termine esterno sentito. La retina nell' atto che fa da sensorio è lo stesso specchio visivo, è l' universo visivo; fuori di questo universo visivo, che è quanto dire fuori della retina, non vi è alcuno sentimento visivo. L' anima dunque, veggente per quest' organo, non può paragonare lo specchio somministrato da quest' organo ad altra cosa, perchè non vede alcun' altra cosa fuori di lui; e benchè non senta che l' organo, tuttavia neppure si dice che vegga l' organo; perchè la parola vedere si riferisce ai termini staccati e distinti dall' organo, portandosi l' attenzione ad essi e non fermandosi all' immediato sentito, cioè alla retina che li segna e rappresenta. In questa maniera la retina si sente soggettivamente; al che non si ferma l' attenzione, la quale anzi procede ai diversi colori di cui la retina è variegata, che prende (in virtù del principio razionale) per altrettanti oggetti esterni, ossia enti. Fino a tanto dunque che l' anima sente la retina così soggettivamente, qual sensorio in atto, ella non può paragonare lo spazio della retina ad altro spazio, perchè tutto lo spazio possibile dato all' anima da contemplare, tutto lo spazio dell' universo visivo è la retina stessa, non esiste che essa per l' anima; non esiste la testa del riguardante dove è l' occhio e la retina, non esiste il corpo del medesimo dove è la testa, ecc., perchè se esistono tutte queste cose, esistono nella retina e non fuori di lei. Ma consideriamo la retina nell' altra sua relazione con noi, cioè non più come sensorio, ma come termine esterno sentito. L' opposizione di queste due relazioni, che ha la retina con noi, si scorge ponendoci a riguardare coll' occhio nostro la retina dell' occhio altrui. In tale posizione l' occhio nostro fa a noi l' uffizio di sensorio; l' anima nostra sente internamente, soggettivamente, la retina di lui, quando la retina dell' occhio altrui, rispetto a noi che lo rimiriamo, non fa già l' ufficio di sensorio, ma di termine esterno da noi sentito, veduto. La retina dell' occhio altrui in questa relazione con noi non è rappresentante, ma rappresentata; è rappresentata nella retina nostra, ella occupa nella retina nostra uno spazietto piccolissimo e diventa una minima parte del nostro specchio visivo, del nostro visivo universo, diventa un' estensione assai più piccola dell' occhio altrui che io considero, più piccola ancora del capo o del corpo altrui, e via più piccola dell' interno universo visivo, che io sento nella mia retina. La mia retina, adunque, sentita soggettivamente è ampia come lo spazio dell' universo, e la retina altrui, da me sentita extra7soggettivamente, non è più ampia che una piccolissima particella dell' universo. Ma accade il somigliante rispetto a colui, la cui retina io miravo; la retina di lui, come sensorio in atto, è lo spazio universo, e la retina mia è una minima particella di questo spazio. Ciascuno può anche guardare la retina sua propria in uno specchio, e in tal caso la stessa retina acquista verso del riguardante le due relazioni: come sentita soggettivamente è l' universo visivo, come veduta, ossia sentita extra7soggettivamente, è un minimo spazietto dell' universo medesimo. Io conosco poi che la retina sentita soggettivamente come sensorio in atto, e la retina veduta, cioè sentita extra7soggettivamente come termine esterno, è identica, osservando che, coprendo quella retina che vedo come oggetto esterno, cessa la visione, cioè cessa la retina di essere sensorio in atto. Che se io voglio misurare la grandezza degli oggetti col tatto, fra questi oggetti trovo ancora la retina; ed allora il paragone delle sensazioni del tatto stesso mi dice che la retina occupa un piccolissimo spazietto nell' universo tattile. Provo poi che la retina toccata è quella stessa che fa l' ufficio di sensorio, accorgendomi che al sovrapporle la mano ella cessa di vedere. Ora questi fatti confermano quanto abbiamo detto più sopra, cioè che lo spazio continuo è nel principio senziente; e l' uomo non misura la grandezza degli oggetti esteriori se non applicando loro lo spazio che ha in sè, cioè lo spazio in cui termina il proprio sentimento; onde dai diversi modi, nei quali quei corpi si commisurano allo spazio soggettivo e fondamentale, ricevono diverse misure. Ma poichè i corpi veduti non toccano propriamente l' occhio, ma sono disegnati in esso dalla luce che vibrano, quindi la percezione degli occhi è percezione di segni corrispondenti ai corpi e non dei corpi stessi. Ma la grandezza di questi segni, benchè sì piccoli, sembra eguale alla grandezza dei corpi percepiti col tatto, perchè queste due maniere di sentire, come dicevamo, non hanno una misura comune alle loro grandezze rispettive, ma ciò che hanno di comune è la proporzione delle parti eguale in entrambe, la quale proporzione soltanto il principio razionale paragona. Rimane tuttavia a cercare come lo spazio occupato dalle sensazioni ottiche appaia così separato dallo spazio totale del sentimento fondamentale. Chè se non apparisse separato, già vi sarebbe la misura comune, nè lo spazietto della retina, dove sta il sentito, darebbe un mondo a parte, ma altro non sarebbe che una particella dello spazio totale del sentimento fondamentale. Ora questo avviene per più cagioni: Lo spazio, termine del sentimento fondamentale, non è misurato nel sentimento stesso, ma solo viene misurato poscia dalle sensazioni esterne, figurative e superficiali, appartenenti ad organi speciali; i confini non formano parte del sentimento fondamentale, e la sua continuità non ha traccia di linee o figure di sorte. Ma quei confini sono le stesse sensazioni superficiali, che appartengono al sentimento eccitato in organi speciali. Quindi accade che se vi è una sensazione superficiale, che stabilisca un confine limitato al sentimento superficiale, l' estensione di questa sensazione è unicamente quella che si sente; ella non si può paragonare coll' estensione totale del sentimento fondamentale, perchè questa estensione totale non si sente a quel modo, non esiste per noi facienti uso di quegli organi, che soli dànno i confini e però le misure determinate. Così quando l' uomo sente il piccolo spazio della retina dove la luce ha eccitato il sentimento, quel piccolo spazio è sentito del tutto isolato dal rimanente spazio superficiale del corpo umano, perchè in quel solo spazietto è l' eccitamento e non nel resto. Di più, quand' anche avvenisse che nello stesso tempo che la retina è eccitata dai colori, le parti circostanti fossero eccitate da stimoli loro propri, sicchè dessero anch' esse una sensazione superficiale; non avverrebbe ancora tuttavia che l' uomo sentisse quelle sensazioni disposte in una sola superficie continua, perchè vi è intervallo e separazione fra il nervo ottico e i nervi circostanti, che, venendo eccitati, ci fanno sentire; onde la sensazione superficiale riterrebbe delle lacune, che la separerebbero in più sensazioni, ognuna delle quali misurerebbe sè stessa, ma non l' altra, perchè niuna di esse sarebbe parte di una sensazione superficiale maggiore, la quale è condizione per essere misurata, giacchè nel caso nostro le parti non si misurano altrimenti che mediante il loro rapporto col tutto. Ancora, il tocco della sensazione riuscendo diversissimo, e al sommo vivo e distinto quello della luce, la retina richiamerebbe tuttavia a sè l' attenzione, e darebbe una superficie diversa da quella che le sarebbe contigua. Finalmente, e questo nasce principalmente dall' ingerenza del principio razionale, l' attenzione dell' uomo non si ferma alla sensazione soggettiva della retina, e neppure alla sensazione extrasoggettiva, ma va direttamente agli oggetti esterni rappresentati nello specchio visivo, e crede di percepirli immediatamente. Onde cessa la possibilità di paragonare la sensazione superficiale della retina colla superficie totale del corpo umano, perchè a quella non si attende, ma si attende agli oggetti, di cui ella presenta i segni, che ne formano la espressione. La seconda e la terza delle ragioni da noi date meritano qualche maggior considerazione. E` da riflettersi che la diversa organizzazione delle parti sensitive del corpo umano fa sì che una di esse sia suscettiva di un eccitamento, e un' altra di un altro diversissimo, onde se ne hanno sensazioni di un tocco così diverso come è quello proprio di ciascuna specie delle sensazioni dei cinque organi, le quali, rispetto al tocco, in nulla si assomigliano, giacchè niuno potrebbe trovare similitudine fra il colore, l' odore, il sapore, ecc.. Di che tali organi si chiamano altrettanti sensorii differenti. Ma la natura volle di più separarli in modo che le sensazioni degli uni non si continuassero alle sensazioni degli altri, le sensazioni dell' uno di essi occupassero uno spazietto discontinuo alle sensazioni di un altro; ed essendo discontinuo, non vi è uno spazio unico in cui cadano le dette sensazioni, mediante il quale si possa vedere quale parte di spazio occupa ciascuna di esse. Quindi la estremità del nervo acustico, che riceve l' impressione dell' aria vibrata, è in un luogo tutto differente da quello occupato dall' estremità del nervo ottico, che riceve l' impressione della luce; e così si dica degli altri sensorii speciali. Neppure si può dire che tali nervi o sensorii si continuino con parti che appartengono al senso del tatto, perocchè ciascuno è protetto e vestito di parti insensate; e quand' anche fossero sensate, elle o non sarebbero eccitate tutte contemporaneamente, o l' eccitamento darebbe una sensazione così debole che non si osserverebbe all' atto della sensazione vivacissima del sensorio con cui confina; onde ancora lo spazio occupato dalla sensazione di questo sensorio sarebbe isolato e non appartenente, come parte, a tutto lo spazio superficiale del corpo umano. Senonchè vi è discontinuità anche negli spazietti eccitati in uno stesso sensorio. Quando io considero come l' orecchio senta distintamente diversi suoni venienti da diversi punti, per esempio i suoni dei vari strumenti di un' orchestra, allora debbo credere che i raggi sonori vadano a colpire ed eccitare diverse parti del nervo acustico. E converrebbe forse studiare i diversi ingegni di cui si compone l' orecchio, di cui l' uso appieno non si conosce sotto questo aspetto, cercando se uno dei loro fini sia quello di tenere separati i suoni, facendo che i raggi sonori eccitino il nervo in parti diverse (1). I fisici spiegano benissimo come le onde sonore non si confondano fra loro pel principio da loro detto della « sovrapposizione dei piccoli movimenti »; ma questa non basta a spiegare il fenomeno delle sensazioni distinte, che non avviene nelle onde aeree, ma nel sensorio. Supposto poi che le onde sonifere, restringendosi ed appuntandosi, quasi come fa la luce col rifrangersi o riflettersi nelle lenti, vadano ad eccitare punti diversi della membrana acustica, è chiaro che non tutta la detta membrana è eccitata, ma solo quei punti di essa che vengono percossi; e ciò perchè l' onda non parte da ogni punto del corpo sonoro, ma il corpo sonoro che vibra produce un' onda sola, di cui approdano all' orecchio alcuni raggi, che finiscono in un solo punto, a differenza di ciò che fa la luce, la quale è mandata da ogni punto del corpo luminoso come da centro diverso. Onde la retina è tutta eccitata, e il suo eccitamento è vario come sono vari i punti dei corpi, che le riflettono la luce; il che fa la sensazione visiva, attissima a rappresentare in sè i corpi disegnati con proporzioni, o piane o prospettiche, accuratissime; laddove tutt' altro avviene nell' orecchio, che riceve suoni isolati, perchè non tutta la membrana acustica è colta, ma solo quei punti dove urta il raggio sonifero, rimanendo nella stessa membrana diversi spazietti non eccitati, e però privi della sensazione sonora (2). La spiegazione della diversità del tocco delle sensazioni eccitate non sarebbe perfetta, se non aggiungessimo qualche cosa intorno alla relazione che passa fra quel tocco e i movimenti extra7soggettivi e vibratorii delle molecole, di cui constano le fibre nervose. In primo luogo si ricordi che la causa efficiente delle sensazioni non sono i movimenti delle molecole della fibra, ma l' attività del principio sensitivo; i movimenti non sono più che la causa eccitatrice; quindi gli stessi movimenti, che sono accompagnati da sensazione in un corpo animato, rimangono privi di sensazione in un corpo non animato, perchè vi sarebbe l' eccitante, ma la causa che viene eccitata ed attuata non c' è. In secondo luogo il sentimento eccitato ha sempre per suo termine un esteso , altrettanto quanto il sentimento sedato , nè coi movimenti che si eccitano nel termine esteso sentito si rompe e discontinua l' estensione, ma si tratta unicamente d' uno spostamento di molecole, che, senza cessare di essere continue fra loro, si muovono quasi strofinandosi con più o meno di pressione alle loro superficie. Ciò posto, è chiaro: Che il movimento eccitatore non deve avere per effetto la mutazione dell' esteso continuo, il quale non si muta (se non forse nei suoi limiti che sono insensibili), ma deve cangiare il modo del sentire, deve rendere più vivo e diverso il modo, onde l' esteso continuo si sente dall' anima; il quale modo diverso e più vivo fa che la sensazione sia di un altro tocco. Perocchè il sentimento non ha per termine immediato il moto, come dicevamo, ma l' esteso intestinamente mosso. Quindi il movimento delle molecole non si può sentire in ciascuna sensazione speciale, ma si deve sentire lo stesso esteso, non entrando il movimento eccitatore nel principio senziente, il quale anzi è costantemente causa dell' unità del sentito, cioè della sua continuità. Per dirlo in altro modo, tale è la legge dell' attività sensitiva (animale) che ella produce un sentimento continuo . Ora nel continuo non vi è movimento sensibile, perocchè per sentire il movimento converrebbe dividere il continuo, cioè converrebbe conoscere i confini delle parti che si muovono, e così distinguere queste parti, laddove nel continuo è abolita la distinzione delle parti ed i loro confini. Quindi è che più movimenti vicini di tempo nello stesso organo sensorio non producono più sensazioni, ma una sensazione sola; ossia altro non possono fare se non che il tocco della sensazione si cangi, secondo il numero delle vibrazioni comunicate all' organo sensorio nel tempuscolo in cui si forma la sensazione, come si vede nei toni musicali, che sono altrettante sensazioni di tocco specificamente diverse, e diversificano secondo il numero delle vibrazioni del corpo sonoro (1); al qual numero di vibrazioni deve rispondere un pari numero di scosse, ossia di vibrazioni nelle molecole elastiche dell' organo sensorio, che da esse è urtato. Ma la ragione perchè supponendo che 24 vibrazioni di un corpo sonoro producano il tono do , ce ne vogliano 27 a produrre il re , non può cercarsi che nell' indole speciale della costituzione del sensorio acustico, e più ancora nella natura del principio sensitivo, che è il produttore di quella sensazione; onde questa ragione deve indubitatamente essere psicologica in parte, ed in parte cosmologica. Lo stesso è da dirsi della ragione perchè fra i primi tre toni (supponendo sempre il do prodotto da 24 vibrazioni) vi sia una differenza di tre vibrazioni; laddove dal mi al fa non vi sia che la differenza di due vibrazioni, e in questo caso l' orecchio stesso discerne fra questi due toni correre un intervallo minore che fra gli altri; come pure è da dirsi lo stesso della ragione perchè fra gli ultimi tre toni vi sia una differenza di quattro vibrazioni, e l' orecchio non discerna tuttavia fra il sol, la, si che un intervallo tonico pari a quello che discerne fra il do, re, mi (1). Riassumendo adunque ciò che vi è di natura psicologica nei sentimenti animali, ossia riassumendo gli elementi che l' anima somministra colla propria attività all' armonia che trovasi nel sentimento, diciamo che questi elementi psicologici sono: 1 L' unità dello spazio; 2 l' unità della successione; 3 l' unità della moltiplicità, e quindi la forma dell' armonia che si trova nell' animalità; 4 il tocco del sentimento. Ma noi dobbiamo investigare più addentro come sorga l' armonia nell' animalità; perocchè, quantunque fin qui ne abbiamo indicati gli elementi, e l' origine o psicologica o cosmologica di ciascheduno, tuttavia non abbiamo ancora esposto il modo come ella sorge ed è formata. Il tempo e lo spazio è quasi la sede della moltiplicità, che è nel senso animale; a questa l' anima dà unità. Ma non ci sarebbe armonia, se non ci fosse diletto, e questo senso dilettevole è da cercarsi nel tocco del sentimento. Ciò non basta ancora a compire il concetto dell' armonia sensibile, perocchè ogni sentimento singolare ha il suo tocco proprio, ma l' armonia non può risultare che da più sentimenti. Dall' anima viene anche l' unità dilettevole di questi vari sentimenti. Acciocchè dunque vi sia armonia non basta che l' anima dia la sua unità allo spazio che è la continuità, non basta che la dia al tempo che è la durata; ma deve di più dare unità alla moltiplicità dei sentimenti; l' anima gliela dà, sieno essi di vario o del medesimo tocco (1), i quali sorgono nel seno del sentimento sedato fondamentale. Nè qui è ancor tutto; l' anima a fare che insorga l' armonia, deve dare a più sentimenti non una unità qualsiasi (perocchè ella dà sempre e necessariamente qualche unità ai sentimenti dei quali ella è l' identico soggetto), ma una unità dilettevole ; ed è questa che si tratta di spiegare da noi, distinguendola da quella unità che non manca mai per l' identità del soggetto senziente. Ora per dichiarare quale sia e onde risulti questa unità piacevole, noi dobbiamo ascendere a quelle leggi universali (ontologiche o cosmologiche), secondo le quali agisce e patisce convenevolmente ogni sostanza; le quali leggi si possono egualmente applicare al principio sensitivo ed al razionale. Esse sono le seguenti. La prima si annunzia così: « L' ente ama quell' atto, a cui egli è avviato, e riceve molestia, se incontra qualche impedimento che glielo mozzi per via; trova all' opposto diletto, se può spiegare tutto il suo atto fino all' ultimo finimento, a cui il libero suo movimento giungerebbe ». Diciamo « l' ente ama quell' atto a cui egli è avviato », perocchè se non avesse preso già l' avviamento ad un atto, egli non riceverebbe molestia dall' andarne privo; solo gli mancherebbe il diletto, che ogni atto d' un ente sensitivo racchiude per propria essenza. Diciamo « sino all' ultimo finimento, a cui il libero suo movimento giungerebbe », perchè quando un ente è in via ad un atto, il suo moto è limitato di specie e di grado dalla propria virtualità, e quindi ha un fine naturale dove il moto si quieta. Applicando questa legge al principio sensitivo, cade sotto di essa la spiegazione che noi davamo del dolore; il principio animale volto all' atto di porre il sentimento fondamentale nel modo più pieno che gli sia possibile (istinto vitale), sta male se di ciò far pienamente gli è conteso, e questo suo star male è il dolore. La seconda legge riceve questa espressione: « L' atto, a cui un ente è avviato, talora è molteplice per successione, cioè risulta da una serie di anelli, i quali si possono considerare come un atto solo per l' unità dell' ente, che spiega la sua attività in più potenze comunicanti. In tal caso l' ente tende a percorrere tutta la serie di quegli anelli fino all' ultimo, e il venire arrestato per via gli è molesto ». Diamo un esempio di questa legge, togliendolo dall' operare del principio razionale, a cui è connesso e subordinato il principio sensitivo. Il principio razionale ha un atto composto di tre anelli: 1 giudizio, 2 affetti, 3 movimenti esterni; e talora di quattro: 1 giudizio, 2 affetti, 3 decreti, 4 atti esterni. L' attività di quel principio non suole dunque fermarsi al semplice giudizio, ma a tenore del giudizio (primo anello) produce gli affetti (secondo anello) verso la cosa giudicata buona o mala, ecc.; nè si ferma qui; ma o interpone decreti ed operazioni esterne conseguenti, o gli affetti producono istintivamente i movimenti nel corpo corrispondenti (terzo anello). Fra i movimenti corporei vi sono quelli dei suoni vocali; ed è perciò che l' uomo è inclinato a far seguire a un vivo sentire l' emissione della voce, naturale finimento della sua attività sensitiva tratta in movimento. Questi suoni poi, legati intimamente come ultimi effetti col pensiero e coll' affetto, diventano segni naturali esterni, dai quali si può dagli altri uomini, che esperimentano lo stesso, conoscere ciò che l' uomo pensa e sente dentro di sè. Ma prima che passino a servire a questo ufficio, essi sono lo spontaneo e naturale finimento dell' atto sensitivo e razionale dell' uomo, il quale vuole completarsi, vuole andare fin dove egli può. Il che si vede manifesto principalmente quando l' uomo, mosso dentro da un grande sentimento, manda fuori qualche grande suono od anche qualche grande espressione, che non ha propriamente legame col suo pensiero o col suo sentimento, se non perchè quello sfogo è l' ultimo termine dello stesso; per esempio, nella collera uscirà in una bestemmia, in una imprecazione a tutt' altro che a ciò con cui si adira, o pronuncierà una parola sconcia o sonante anche priva di significato, come «babai», papae, capperi , ma più comunemente pronuncierà il nome di Dio, per isfogarsi dicendo la cosa più grande che egli sappia trovare. Così nella lingua ebraica la parola Dio si aggiungeva come superlativo a tutti i vocaboli, dicendosi « monte di Dio », « principe di Dio », ecc. per significare monte altissimo, gran principe, ecc. (1). Lo stesso usano di fare gli Arabi (2) e tutti gli Orientali, e in Euripide s' incontra la stessa maniera (3). Quindi anche l' origine del giuramento e delle esclamazioni, che si mandano fuori quasi istintivamente senza considerazione, come facevano i Latini colle parole Pol, Edepol, Jupiter , ecc.; onde fu bisogno una legge positiva, colla quale si vietasse agli uomini di nominare invano un nome sì augusto, affine di raffrenare l' umano istinto, che non poteva quasi a meno di pronunciarlo. E così si fa servire allo stesso sfogo il pronunciare di una cosa grande qualsiasi, come in italiano diciamo « Poffare il cielo, poffare il mondo! potenza in terra! » ecc.. Ed il giurare pel capo di alcuno o per altra creatura è come un divinizzarla, onde anche per questo fu vietato. I quali sfoghi, che terminano in una voce, conviene osservare che appartengono al principio razionale, a cui il sensitivo si continua; ed è perciò che, qualunque sia la voce o l' espressione che si pronuncia, intende sempre chi la emette di dire qualche cosa, non semplicemente di fare uno scoppio sonoro, intende di dire e segnare una cosa grande oltremodo, anche ove per sè la voce nulla significasse; nel qual caso è voce nuova, inventata a bella posta per ultimare l' atto di quel pensiero, il quale non può stare chiuso, ma vuol rendersi sensibile, legarsi ad un reale, che lo renda più vivo e più consistente a lui stesso che l' ha; ufficio che, come abbiamo veduto, sogliono prestare i reali immaginari o in generale sensibili, rendendosi compimento (segni) degli interni pensieri. Ed è tanto grande questo bisogno che ha l' uomo di ultimare così in un segno reale esterno l' atto cominciato nel suo pensiero che, dopo vietato dalla divina legge l' interporre invano il nome della divinità, pur i migliori uomini ne sentono il bisogno, e quasi per ingannare sè stessi sostituiscono vocaboli simili, siccome fanno i fiorentini, che invece di « Poffare Iddio » sogliono dire « Poffare il zio », ed i Cappuccini, che hanno inventata la esclamazione « Pojane! »quale innocente intercalare di meraviglia. L' istinto che ha l' uomo di completare l' atto suo, che incomincia nel pensiero, si continua all' affetto, muove talora la volontà a fare i decreti, e si consuma nell' azione esterna, in cui l' uomo stesso che la fa, ne scorge l' espressione che glielo rende più vivo, è istinto potentissimo, e se ne ha grave molestia se viene contraddetto e rimane storpiato dall' ultimazione dell' atto suo. Onde questo istinto vale a dar buona ragione di molti altri fatti dell' umano operare. E perchè mai se non per questa cagione appunto l' uomo, a cui soppravvenga sciagura grandissima, manda grida e lamenti, e di più fa onta e danno a sè stesso, e si sciupa le vesti, e si lorda di cenere e di fango, e si batte la fronte e si strappa il crine, e siede e ravvoltolasi per terra, e si morde e si dilacera, e perfino si uccide? Per quella legge che dicevamo; ed una delle origini del suicidio è pur questo istinto, e il bruciarsi sul rogo del marito delle vedove indiane, non tutte finte, ne è una prova evidente (1). Cerca forse l' uomo sollievo e diminuzione ai suoi mali col farne degli altri a sè stesso, coll' aggiungersene di nuovi? Non è questa la causa del suo incrudelire seco medesimo; ma si è quell' atto interno di dolore veementissimo, che non può tenersi e fermarsi al primo passo, ma vuole trascorrere la sua via e spiegarsi in tutta la naturale sua protensione; vuole ingrandirsi, ed ultimarsi, e segnarsi, e quasi lasciare di fuori nella straziata persona di sè un monumento; onde i mali, che fa l' uomo in tale condizione a sè stesso, gli sono più agevoli a tollerare che agevole non gli sia il rattenere quell' istinto, lasciando dimezzato l' atto del suo dolore cominciante nel pensiero e finiente nel corpo, per l' unità del soggetto intellettivo7animale, per quel nesso dinamico che lega insieme le varie potenze, e il moto dell' una fa trascorrere e continuarsi nell' altra. Laonde, anche quando l' animo esultante di gioia induce l' uomo a gongolare e trionfare nei suoi gesti esteriori, e lisciarsi, e azzimarsi, e coronarsi di rose, e banchettare, e inebbriarsi, e magnificamente e copiosamente parlare, non è a credere che egli faccia tutto ciò unicamente per trovare in cotali cose maggiore diletto; ma vi tiene gran parte l' istinto di far sì che l' atto della sua gioia interna percorra e rivolga, a così dire, tutta la naturale sua orbita, e se ne sfoghi ed esaurisca l' attività. Vero è che, come dice Seneca, parvae et lenes curae loquuntur, ingentes stupent ; ma questo stupore si spiega colla stessa legge, considerando parte che la veemenza della passione animale offende gli organi, a cui è tolta ogni virtù di continuare il movimento dell' animo, parte che la intensità dell' atto interiore compensa la sua estensione, sicchè l' istinto si nutre, per così dire, e si soddisfa nel desiderio e nello sforzo di perfezionare l' atto del dolore interno coll' accrescerne il grado, e tuttavia non ne viene a capo, sicchè non trovando forze di svolgere l' atto e comunicarlo alle potenze esterne, l' addolorato dentro impetra. La solitudine adunque sì amata e ricercata dall' uomo profondamente afflitto, e il non poter mai togliere il pensiero dalla causa del suo dolore, nè parlare d' altro che della sua sciagura, e il voler anatomizzarla e considerarla in tutte le più minute circostanze, e riuscirgli intollerabile chi gliela pretende diminuire; nasce dalla legge stessa, dallo stesso istinto, che tende a far sì che l' atto stesso del dolore, già avviato, si compia e si perfezioni con quanta attività egli s' abbia maggiore; sicchè non rimangasi rannicchiato in germe, anzi ciò che è nel seme acquisti suo corpo e cresca adulto quanto mai egli può. Ed alla stessa legge deve riputarsi la causa perchè le lagrime sollevano l' infelice, a cui non è forse cosa più cara del pianto. E` l' ultimo sfogo dell' atto, senza il quale l' atto, non consumato ancora, rimane pieno di virtù e in conato di germinare. L' origine dei sacrifizi alla divinità e specialmente dei sacrifizi umani (ai quali furono surrogati quelli in cui s' immolavano a Dio le cose più care dell' uomo invece dell' uomo) deve pure a questa legge riferirsi. Il sentimento della somma umiliazione, di un Signore supremo di tutte le cose, e specialmente del riconoscersi rei di peccato in faccia a quel potentissimo, a quel Sovrano infinito, addimanda più che un atto sterile e freddo di solo pensiero; vuole spiegarsi in un atto realissimo, che, trascorrendo tutto l' uomo, lo penetri e domini; il quale atto di natura infinito, perchè rispondente al concetto di un ente infinito, l' uomo non trova come completarlo se non colla distruzione di sè, e più imperfettamente colla distruzione delle cose sue. Perocchè l' essenza del sacrificio, sia esso olocausto, o sia per il peccato, esige propriamente che l' uomo stesso ne sia vittima; gli altri sacrifizi non sono più che un surrogato a quello perfetto. Infatti nell' olocausto l' atto del sentimento muove da questo pensiero: « in paragone del Creatore la creatura è nulla, il Creatore solo è ente ». Il sentimento del nulla non si esprime sensibilmente e, per così dire, monumentalmente se non colla distruzione. Nel sacrificio per il peccato l' atto del sentimento muove da quest' altro pensiero: « la creatura, che ha offeso il Creatore, non deve esistere ». Il pensiero dell' indebita esistenza non riceve l' ultima sua attuazione se non realizzando la non esistenza, e così ancora colla distruzione. Finalmente, anche espressione di un sommo amore è il sacrifizio, perchè non essendovi atto in cui l' amore sia più intenso ed operativo che nel soffrire per la persona amata, l' amatore grande cerca questo atto come l' ultimo sforzo amoroso che di far gli sia dato; a cui massimamente è invitato, quando disperato dolore dell' amata persona perduta lo determina e già lo avvia agli atti crudeli. Quindi alla morte di Patroclo i soldati di Achille si rasero i capelli e ne copersero il cadavere; quindi le crudeltà in uso presso tutti i popoli antichi nei funerali o nelle feste pei trapassati (1). La terza legge dell' armonia, ossia della conveniente azione degli enti, si formula: « L' atto semplice o molteplice, continuato pel nesso di più potenze che lo si comunicano, dopo compiuto, non cessa sempre d' un tratto, ma rimettendo con una certa legge, per la quale quell' atto passa a stati diversi ordinati in serie successive; il qual passaggio graduato fino alla totale estinzione dell' atto, è grato al soggetto che lo fa, perchè a lui naturale, e se gli è impedito, ne riceve molestia ». A provar questa legge nell' « Antropologia » abbiamo recato l' esempio dei colori immaginari e dei suoni (1); diciamone ancora qualche cosa. Ciò che Fresnel e Arago hanno detto del sistema delle ondulazioni per ispiegare i fenomeni della luce fu riputato assai probabile. Ma essi limitarono i loro studi alle leggi secondo le quali procedono le onde luminose del fluido, che suppongono diffuso in tutta la natura; il che non basta a spiegare la visione. Questa nasce nel sensorio visivo e non nell' etere, che non può far altro officio che di eccitatore. Lo psicologo, adunque, deve giovarsi delle loro fatiche per riuscire a conoscere o congetturare in qual maniera il detto sensorio operi, quando insorgono nell' anima le sensazioni luminose. Io credo che riceverebbe non piccolo vantaggio questa difficile questione, se si trasportasse nel sensorio stesso quanto quei due perspicaci fisici trovarono o congetturarono dover avvenire al di fuori di esso nel detto fluido. Secondo questo concetto il nervo ottico sarebbe un fascicolo di filamenti nervosi, pieno di una sostanza sommamente elastica (e forse fluida), le molecole della quale riceverebbero l' impressione delle ondulazioni eteree, e vibrerebbero longitudinalmente; queste vibrazioni riuscirebbero simili alle vibrazioni longitudinali di una corda di violino. L' ampiezza di queste onde, la loro celerità, il loro numero, i loro incontri diversi spiegherebbero i fenomeni della visione. Primieramente i diversi colori risulterebbero dal diverso numero di vibrazioni, che opererebbero le molecole nel filamento nervoso; il qual numero sarebbe corrispondente al numero delle vibrazioni eteree. Si può avere per dimostrato che il numero delle vibrazioni eteree varia secondo i vari colori; per esempio, le vibrazioni della luce gialla sono in maggior numero delle vibrazioni di quella che eccita il colore rosso. Quanto le onde sono in maggior numero, tanto elle sono più veloci e meno ampie. Simili vibrazioni, con questa diversa velocità, ampiezza e numero, debbono sorgere nelle molecole della sostanza nervosa, e così produrre eccitamenti diversi, e così dare colori diversi; il che spiega come ciascun filamento nervoso possa esser atto a dare la sensazione di tutti i colori, pel diverso eccitamento che riceve dai diversi raggi luminosi (1). Di più, le vibrazioni poi propagate lungo il filamento nervoso dovrebbero, giunte all' estremo, riflettersi e tornare indietro secondo certa legge; e questo ritorno delle vibrazioni spiegherebbe i colori immaginari e complementari, di cui si ha l' immagine (2), al venir meno di una sensazione esterna. Infatti la vibrazione che s' infrange, urtando in un ostacolo prima di esser compiuta, ne produce una riflessa, la cui velocità deve variare dalla prima secondo una legge complementaria. Quindi ancora s' intenderebbe perchè i colori accidentali complementari sieno opposti e si annullino, cioè producano del nero invece che del bianco. Se nel filamento nervoso ritorna una vibrazione riflessa complementaria, e contemporaneamente l' occhio sia impressionato dallo stesso colore, si deve produrre una vibrazione in senso opposto, che rimetta in quiete la pupilla. Rammentiamo un esperimento noto ai fisici. Sieno collocati sopra un fondo nero due piccoli quadrati, colorati l' uno in violetto e l' altro in aranciato, i cui centri sieno punti neri. Fissati alternativamente di secondo in secondo questi due punti, e poi chiusi gli occhi, sembrerà di vedere tre quadrati, l' uno dei quali di color giallo, che è complementario del violetto, l' altro bleu, che è complementario dell' aranciato, il terzo in mezzo di colore verde, che è il colore risultante dalla composizione del giallo e del bleu. All' incontro, se i due quadrati sono colorati essi stessi di colori complementari fra loro, per esempio di violetto e di giallo ovvero di aranciato e di bleu, il quadrato di mezzo non si vede più, cioè si fa nero. Questi fenomeni sembrano potersi spiegare così: Gli assi ottici non hanno la stessa direzione quando guardano successivamente i due quadrati colorati; indi avviene che i due quadrati colorati colpiscono la retina in ispazietti diversi, sicchè ciascun occhio ha l' impressione di due quadrati, quattro impressioni. Ma due di queste impressioni battono nello stesso spazietto delle due retine, e l' una di queste due impressioni è d' un quadrato, l' altra dell' altro, perchè l' asse ottico di un occhio è diretto ad un colore nella stessa direzione nella quale l' asse ottico dell' altro occhio è diretto all' altro colore; sicchè le impressioni dei due colori vengono a battere nello stesso spazietto della retina di entrambi gli occhi. Tuttavia i due occhi, finchè fissano i quadrati, non ne veggono che due, sia perchè le impressioni non hanno tempo di comporsi, sia perchè la spontaneità dell' anima non concorre allora a produrre immagini fantastiche, sia perchè l' attenzione non è volta che a vedere i due quadrati ed ad altro non bada. Ma non così accade dei colori immaginari, che succedono appresso. Essendo impressionati tre spazietti diversi nelle due retine, questi debbono dare tre serie di vibrazioni longitudinali nei filamenti nervosi. I due spazietti impressionati di un colore solo debbono dare ciascuno per colore immaginario o riflesso il colore complementario, perchè la vibrazione riflessa deve essere complementaria di quella che s' infranse. Lo spazietto di mezzo, impressionato dai due colori contemporaneamente, deve dare due vibrazioni riflesse complementarie dei singoli colori, le quali, essendo di ampiezza e celerità diversa, ritornano senza confondersi; e perchè un filamento nervoso non può che dare una sensazione sola alla volta, proporzionata al numero delle vibrazioni delle sue molecole, perciò ne viene un colore composto dai due complementari. Ma se i due colori dei quadrati sono complementari essi stessi, allora, mentre è in corso la vibrazione suscitata da uno di essi per recarsi dal di fuori al di dentro, è chiaro che gli deve venire incontro dal di dentro all' infuori la vibrazione riflessa dell' altro colore eguale perfettamente ad essa, ma in senso contrario; e così le due serie di vibrazioni si elidono reciprocamente, e quelle che vanno distruggono alternativamente le altre due serie che ritornano riflesse. Colla stessa ipotesi sarebbe spiegato altresì perchè un colore, prima di morire nell' occhio, lasci dopo di sè altri colori; per esempio, il bianco si converta in giallo e poi in rosso, e poi in indaco, e poi in azzurro e finalmente in verde, col quale svanisce. Quando si considera che la vibrazione molecolare, che ritorna indietro dall' estremità interna del filamento nervoso, è complementaria del colore di cui la retina fu impressionata, si può concepire che di nuovo quella vibrazione riflessa complementaria s' infranga, venuta che sia all' estremità esterna del filamento nervoso; nel qual caso deve ritornare di nuovo dal di fuori al di dentro con una celerità differenziata. E questo andare e venire di onde sempre diverse deve dare i diversi colori immaginari, fino a che l' eccitamento si acqueta del tutto, o diviene la vibrazione sì piccola che non è sufficiente a produrre un colore distinto (1). Dei ragionamenti simili a questi si potrebbero fare a spiegare le leggi del meccanismo, con cui il nervo acustico ammette l' eccitamento che dà il suono. Ed io penso dover essere assai probabile che le sensazioni di tutti gli altri sensorii nascano per somiglianti vibrazioni, ed ubbidiscano a leggi analoghe. Ora, se ad ogni soggetto è dilettevole l' atto suo, e conseguentemente gli è molesto l' impedimento che ritrova per via al suo atto, o il turbamento che s' ingerisce in esso, sforzandolo ad interrompere un atto a mezzo per farne un altro, ne avverrà che all' anima sensitiva dovranno essere grate quelle vibrazioni delle molecole sensorie, che producono in essa un maggior sentimento; e però quelle vibrazioni, che procedono accordate fra loro in modo che non s' impediscano l' una coll' altra, nè si turbino o confondano fra loro, ma sì anzi quelle che vanno tutte insieme ad accrescere il maggiore eccitamento possibile. Ora questo spiega perchè alcuni colori ed alcuni toni sono armonici e grati a vedersi o ad udirsi insieme, ed altri più o meno ingrati. Deve dirsi, come abbiamo già toccato nell' Antropologia , che i colori e toni grati sieno quelli le cui vibrazioni sono naturali e spontanee, il che accade altresì dei colori e suoni complementari ed immaginari; quelli a cui lo stesso meccanismo del sistema nervoso è già da sè spontaneamente determinato, sicchè l' esterna impressione non fa che associarsi alla spontaneità sensitiva, ed aiutarla e secondarla, alleggiando così anche la fatica a quel che vi pone del suo l' attività del principio senziente. All' incontro, quando il principio senziente riceve eccitamenti contrari o tali che si turbano fra loro e s' impediscono, sicchè egli non sia lasciato continuare e finire gli atti sensitivi da lui cominciati, costretto dai nuovi eccitamenti a farne altri diversi lasciando i primi; allora ne ha molestia, è un disaccordo, una disarmonia che l' affligge. Applichiamo questa teoria a spiegare le consonanze e gli accordi dei suoni. Primieramente se più suoni partissero dallo stesso luogo e nello stesso tempo, essi non produrrebbero che una sensazione sola, corrispondente alle vibrazioni di quel filamento nervoso che ecciterebbero. Questo si può provare coll' esperienza di Savart, che fece girare una ruota dentata in modo che i suoi denti percotessero contro una carta ferma. Se la ruota gira lentamente, si distinguono i colpi che dànno i denti della ruota nella carta, perchè quei colpi sono dati con notevole intervallo di tempo fra loro. Ma se si accelera assai il movimento della ruota, non si ode più che un suono solo continuo, la cui acutezza si aumenta colla velocità della rotazione, producendo così vibrazioni più frequenti; e ciò perchè i diversi colpi si succedono con un intervallo di tempo minimo, cioè minore di quello che è necessario a formarsi la sensazione. Acciocchè dunque vi siano più sensazioni acustiche e però vi sia accordo, è necessario che le vibrazioni aeree non approdino all' orecchio nello stesso tempo, ovvero partano da un diverso luogo; nel qual caso operano sopra un diverso filamento nervoso. Vi può essere accordo tanto fra i suoni successivi, purchè distanti di assai breve intervallo, quanto fra i suoni contemporanei venienti da diversi luoghi, per esempio dai diversi strumenti di un' orchestra. L' accordo dei suoni successivi, come sono quelli che ci vengono da un solo cantore o da un solo strumento, dovendo eccitare la sensazione negli stessi filamenti nervosi, non ci potrebbe dilettare, se l' anima, che raccoglie quei diversi suoni, non li rendesse contemporanei mediante la sua natura immune dal tempo. E` dunque l' anima quella che sente un sentimento solo risultante da più suoni successivi, il qual sentimento è quello della melodia; il che prova di nuovo la semplicità e identità in tempi diversi del principio sensitivo. Infatti l' atto del sentimento fondamentale ha una durata costante, e i suoni successivi sono modificazioni di quel sentimento identico; in questo sentimento adunque che rimane essi trovano il loro confronto, e lasciano il dilettevole armonico, che si chiama melodia. Qui di nuovo si vede come l' unità dell' armonia è di origine al tutto psicologica. Ma, secondo la legge da noi posta, questo diletto nasce all' anima essenzialmente sensitiva per la ragione che i due o più suoni successivi le sono naturali e spontanei, cioè sono tali che in essi ella spiega la sua attività facilmente, e produce atti sensitivi senza essere storpiata, impedita, costretta a mutarli prima di averli perfezionati. Perocchè: 1 vi è un diletto che viene all' anima da ciascuno dei suoi atti, essendole il sentire sempre dilettevole; e questo non è armonia, ma semplice diletto, che viene offeso quando i singoli atti le si storpiano a mezzo; 2 vi è un diletto che viene all' anima da più atti, quando l' uno di essi non disturba l' altro, anzi l' aiuta; e questo è il diletto dell' accordo, ossia dell' armonia. Infatti l' anima trova diletto, allorquando ella fa il suo atto colla maggiore facilità possibile e colla minore fatica possibile; e questo le accade quando non è costretta a mutarlo. Ond' è che la regolarità dei suoi atti le sia piacevole, perchè non le impone il bisogno di mutare stampo alla sua operazione, ma conserva quel metro o quella forma di operare, senza novità e cangiamenti. Quindi anche si trova che i suoni armonici, che fanno accordo fra loro, sono quelli che vengono prodotti da tali numeri di vibrazioni, il rapporto dei quali sia quello dei numeri naturali 1, 2, 3, ecc., senza frazioni; di che avviene che l' ampiezza delle vibrazioni sia pure come quei numeri, sicchè due o tre o quattro, ecc. vibrazioni di un suono siano eguali appunto ad una vibrazione d' un altro suono. Così la velocità delle vibrazioni d' un suono riesce appunto doppia, o tripla, o quadrupla, ecc. dell' altro suono, senza che avanzi nulla. In questo modo distribuite le vibrazioni: 1 non si confondono mai, nè impediscono; 2 hanno rapporti facilmente percettibili; 3 questi rapporti sono sempre gli stessi, sicchè l' eccitamento ha un metro costante. Quindi l' anima, dovendo concorrere colla sua attività alla produzione di tali sensazioni, trova subito la legge secondo cui produrle, cioè la sua azione è regolare; e questo stampo regolare è ciò che produce l' abitudine, l' operare secondo la quale le è spontaneo e facilissimo. Basterà dunque osservare quali suoni si producono con vibrazioni eteree, che abbiano i rapporti dei numeri naturali, per conoscere quali sieno i suoni che meglio s' accordino insieme. Si trova corrispondere a questa condizione l' accordo di ottava, le cui vibrazioni sono come 1 a 2; l' accordo di quinta, le cui vibrazioni sono come 2 a 3; l' accordo di quarta, le cui vibrazioni sono come 3 a 4 (1), l' accordo di terza, le cui vibrazioni sono come 4 a 5; gli accordi che si dicono perfetti: fa, la, do; do, mi, sol; sol, si, re ; i cui numeri delle vibrazioni sono sempre come 4, 5, 6. Ora poi la sapienza divina ordinò le cose esterne corporee per modo che aiutassero l' anima ai suoi atti colle loro proprie leggi. Quindi è noto che una corda vibrante, oltre la vibrazione di tutta la corda, vibra altresì colla sua metà, colla sua quarta parte, ecc., in modo che unitamente al suono dell' intera corda fa sentire altri suoni, e quelli appunto che formano fra loro armonia (2). Venendo agli accordi, che nascono dai suoni contemporanei che ci vengono da luoghi diversi, la ragione di essi è la medesima. Perocchè, quantunque noi supponiamo che le sensazioni discordi sieno ricevute da filamenti nervosi diversi, onde non si possono confondere fra loro, tuttavia la spontaneità dell' anima vi concorre a produrle; e però ella è sempre obbligata ad operare irregolarmente, ed a variar metro nel suo operare, se i numeri delle vibrazioni non hanno un giusto e netto rapporto fra loro. E questo suggella e conferma ciò che dicevamo, cioè che l' unità dell' armonia è di origine psicologica, benchè la spontaneità dell' anima venga eccitata, o con regolarità o senza, dagli stimoli esteriori che mutano il suo termine. Finalmente la ragione, per cui piace il tempo a battute regolari, trovasi nella stessa legge che presiede all' operare dell' anima. Dalle quali cose possiamo conchiudere: Che il mondo corporeo ricevette dalla sapienza creatrice un ordine ammirabile, acciocchè egli somministri ordine e armonia al sentimento e al principio razionale. Che quest' ordine non giace solamente nelle cose esterne all' uomo, ma altresì nella sua organizzazione (su di che torneremo ancora), nella fabbrica squisita dei suoi sensorii, i quali sono architettati e condotti con tale arte e maestria di proporzioni che mirabilmente rispondono e s' accordano alle proporzioni del mondo esterno e materiale. Che lo stesso principio sensitivo raccoglie il mirabile ordine del mondo esterno e del suo proprio termine (i sensorii), ed è quello che colla sua attività vi pone la forma , e fa sì che il mondo esterno, che non avrebbe per sè natura di ordine, di proporzione, di armonia, ma solo di entità ed azioni separate e disgiunte, riceva tutto ciò da lui stesso, per l' unità che il medesimo principio senziente crea in quella acconcia molteplicità. Ora quest' ultima parte formale dell' armonia, benchè non sia di origine razionale , è nondimeno di origine psicologica , perchè viene dall' anima in quanto è sensitiva.

IL BENEFATTORE

662569
Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1901
  • CARLO LIPRANDI EDITORE
  • prosa letteraria
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Di cima al Muraglione, i galantuomini del Casino andavano ad osservare, due, tre volte al giorno, i lavori delle squadre di uomini che laggiù abbattevano siepi di fichi d'India, ammonticchiavano sassi per costruire il gran muro di cinta lungo lo stradone, appianavano rialzi di terreno, sgombravano la linea, tracciata dall'ingegnere, che dal posto dove dovea sorgere il cancello saliva a zigzag fino alla casetta rurale dei Laureano già abbattuta dalle fondamenta per far luogo al Cottèg , come avevano sentito dire che sarebbe chiamata la villa. E di lassù si distingueva benissimo l' inglese che andava qua e là, dando ordini, sotto l'ombrello cenericcio sempre aperto contro il sole, e sollecitava e dirigeva, instancabile. Poi, verso sera, gli vedevano riprendere la via del paese, cavalcando alla testa dei suoi uomini, al pari di un generale, com'era partito la mattina, all'alba, dopo averli rassegnati (erano quasi un centinaio) e averli disposti in squadre, secondo i diversi lavori a cui venivano addetti. Gli uomini partivano cantando in coro, con gli strumenti del lavoro in ispalla, marciando alla soldatesca. E come i soldati pel loro capitano, si sarebbero fatti ammazzare per quel padrone che li pagava bene, puntualmente; che li ristorava con buone minestre, con ottimo vino; che li faceva riposare un paio d'ore, quando il sole saettava dal meriggio; non rifiutando mai una persona che gli si fosse presentata per chiedere lavoro; pagando il medico e le medicine, se qualcuno di loro si ammalava. Nei primi mesi, i galantuomini sorridevano di compassione, crollavano la testa, pensando che la cosa era troppo bella da poter durare. Convenivano però che l' inglese si rivelava più furbo di quel che non sembrasse. Facendo a quel modo, otteneva che i contadini e gli operai lavorassero il doppio quasi senza accorgersi di lavorare. Infatti in meno di due mesi, le grillaie di Tirantello e del Cucchiaio erano quasi irriconoscibili; il muro di cinta, terminato; lo stradone serpeggiava fino a piè della collina; e si vedevano già i fossati delle fondamenta che tracciavano lo scheletro del Cottage . - E poi? - domandava il canonico Medulla. - Dice che vuol piantare un vigneto da una parte - rispondeva il sindaco - e un giardino di agrumi dall'altra. - E l'acqua? D'onde la caverà l'acqua per inaffiare il giardino? - Ha già fatto cominciare gli scavi. Intanto ha quella del mulino dal Cucchiaio . - Due gocce! È pazzo da catena costui. Un giorno, abbandonerà baracca e burattini e scapperà coi debiti che ha fatto nelle Banche di Catania; lasciatevelo dire da me! - Ma sono quattrini suoi quelli che prende dalle banche, quattrini depositati, messi a frutto. - Fandonie! - Costui ci darà una bella lezione, signor canonico! - La lezione la riceverà lui, e di che sorta! Andare ad affacciarsi dal Muraglione per osservare i lavori dell' inglese , laggiù, era diventato l'occupazione giornaliera dei galantuomini che ordinariamente ozieggiavano in Casino, dicendo male di questo e di quello, ammazzando il tempo con interminabili partite a tarocchi o al bigliardo, o sbadigliando seduti in circolo, su la terrazza che dominava il Largo della Matrice e quasi segregava il Casino dal contatto della gente radunata davanti a la chiesa, le domeniche; contadini la più parte. Le gite al Muraglione formavano un diversivo, davano pretesto a discussioni, a malignità anche; perchè quando noi vediamo fatto da altri quel che, con nostro profitto, avremmo potuto fare e non abbiamo voluto o saputo fare, l'attività altrui ci insinua nell'animo un rancore chiuso; ci sentiamo quasi frodati di quel che ci sarebbe stato facile possedere e che scorgiamo intanto in mano di uno che ci apparisce ora un intruso e fino a ieri compiangevamo o disprezzavamo come illuso o pazzo da legare. Chi di quei galantuomini si sarebbe mai immaginato che Tirantello , Cucchiaio , Pennino e Santa Barbara , avessero potuto divenire un gran podere modello, trasformati dall'attività di un sol uomo; e coprirsi di vigneti, di giardini di agrumi, con polle di acqua fatte scaturire quasi miracolosamente dalle viscere della terra; con un vasto casamento, con stalle, comode abitazioni pei contadini; con una vita rigogliosa, fiorentissima, regolata come un orologio dall'intelligenza direttrice che aveva saputo operare tale trasformazione, da rendere impossibile a qualunque immaginazione il ricostruirsi la visione di quell'aggregato di grillaie dove poco addietro le capre, i buoi trovavano a stento un po' di erba da brucare? E c'era voluto meno di tre anni, perchè i viaggiatori che passavano con la vettura postale per lo stradone, mentre davanti la rimessa avveniva il ricambio dei cavalli, si accostassero al cancello meravigliati di scorgere una scena così ridente colà, dove prima non si vedeva altro che miseria e desolazione!

Il Marchese di Roccaverdina

662609
Capuana, Luigi 1 occorrenze

E pochi giorni dopo, la casa era piena di operai che buttavano giù pareti intermedie, smattonavano pavimenti, abbattevano volte reali; di ragazzi che ammonticchiavano i calcinacci ai lati del portoncino, donde li portavano via i carrettieri, di mano in mano, per non ingombrare il viale che conduceva alla spianata del Castello. Impolverato peggio dei manovali, il marchese andava da un punto all'altro dando ordini, gridando come un ossesso se si vedeva mal capito, togliendo di mano il piccone a un operaio se questi esitava nel dare i colpi per paura di vedersi crollare addosso un pezzo di muro: «Così, animale! Debbo insegnarti io il tuo mestiere?». E la domenica appresso, non avendo chi sgridare né di che occuparsi, sentì con piacere che due forestieri , pecorai a giudicarli dall'apparenza, chiedevano di consegnargli una lettera e di parlare con lui. Li squadrò mentre apriva la busta. Vestiti da festa, con camicia di grossa tela candidissima sotto il bianco corpetto di frustagno casalingo, ornato di fitti bottoncini di madreperla; giacchetta di albagio nero con maniche attillate; calzoni della stessa stoffa, a ginocchio, dall'orlo dei quali scappavano i lembi delle mutande; calze di lana grigia, e calzari a punta, di pelle suina, legati con corregge di cuoio incrociate attorno al collo del piede, quei due, un vecchio e un giovane, parevano intimiditi dalla circostanza di trovarsi al cospetto del marchese di Roccaverdina. «Di che si tratta? La lettera non spiega nulla», egli disse. «Vostra eccellenza scuserà l'ardire», balbettò il vecchio. «Questi è mio figlio.» «Me ne rallegro con voi; bel pezzo di giovane!» «Grazie, voscenza ! Abbiamo detto! "È giusto richiedere prima il permesso al padrone". I grandi meritano rispetto. Noi non vogliamo offendere nessuno ... Se voscenza acconsente ... » «Spiegatevi.» Si vedeva che non era facile spiegarsi perché padre e figlio si guardarono negli occhi, invitandosi l'un l'altro a parlare. «Siamo di Modica, eccellenza», riprese, esitante, il vecchio. «Ma, pel pascolo delle pecore, veniamo spesso da queste parti ... Così si sono conosciuti, per caso. Egli mi ha detto: "Padre, che ne pensate? Io la sposerei, però ... ".» «Chi?», domandò il marchese che cominciava a comprendere. «La vedova ... di voscenza , cioè, la Solmo ... » «E venite da me? Che può importarmi a me di cotesta signora? ... Vi compatisco, perché non siete del paese.» « Voscenza deve perdonarci», s'intromise il giovane. «Ci hanno consigliato ... », balbettò l'altro. «Vi hanno consigliato male. Non ho niente che spartire con costei ... Sono suo parente, forse? Perché è stata ... al mio servizio? Ha preso marito ... È vedova, libera ... Che c'entro io?» Il marchese alzava la voce, corrugando le sopracciglia, facendo gesti di negazione con le mani. «Che c'entro io?», agitato da improvviso sentimento di rancore, quasi di gelosia, contro colui che infine (egli lo riconosceva nello stesso tempo) veniva a rendergli un bel servizio portando via, lontano, quella donna che forse tratteneva la signorina Mugnos dal prendere una risoluzione affermativa. «Chi vi ha consigliato? ... Essa?» «Eccellenza, no. Un nostro amico che rispetta tanto voscenza ... » «Ditegli che lo ringrazio, e che poteva far a meno di suggerirvi una sciocchezza ... E sposatevi, sposatevi pure! È libera, vi ripeto. Io non c'entro, né voglio entrarci ... Subito vi sposereste?» «Bisogna cavar fuori le carte e fare i bandi in chiesa.» «E la condurreste a Modica?» «Se voscenza permette.» «Io non c'entro; non volete intenderlo?», urlò il marchese. Era rimasto turbato. Per poco non gli sembrava che Agrippina Solmo gli facesse ora un altro tradimento; giacché doveva essere di accordo con lui, se pure quel tentativo non nascondeva un'insidia, un mezzo di rammentare a lui, marchese, che ella era viva e che si teneva ancora come legata! ... Sposasse! Purché gli si levasse di torno! ... Non voleva darle neppure la soddisfazione di rinfacciarle la sua infamia! Aveva dunque fretta di riprendere marito? E una sconcia parola gli uscì di bocca, quasi la Solmo fosse là, a riceverla, in pieno viso! Per sfogo, ne parlò con mamma Grazia. «Meglio così, figlio mio!» «Se venisse, bada! ... non voglio vederla!» «La ha incontrata parecchie volte a messa. Ultimamente mi ha domandato: "È vero che il marchese prende moglie?".» «Chi gliel'ha detto?» «Non so. Risposi: "Se fosse vero, lo saprei prima degli altri". Ah, se le anime sante del Purgatorio facessero questo miracolo!» «E ... insistette?» «Disse: "Dio lo renda felice!". Nient'altro. E ogni volta ha soggiunto: "Baciategli le mani, se credete!". Ma io te l'ho sempre taciuto, per non farti dispiacere, figlio mio!» Eppure no, non doveva lasciare andar via quella donna senza prima rinfacciarle il suo nero tradimento! Doveva, invece, strappargliene la confessione, perché ella non potesse vantarsi, in cor suo, di essere riuscita a farsi gioco del marchese di Roccaverdina. Voleva che piangesse, che avesse rimorso dell'atto infame da lei commesso, e non ignorasse per quale motivo egli si era rifiutato di più vederla e le aveva chiuso in faccia la porta di casa! Poi rifletteva: «Ho torto. Vada via! Lontano! Vada!». Aveva paura di tradirsi, di farla sospettare per lo meno. E s'indignava contro se stesso della vigliaccheria che gli rimestava nel cuore i ricordi del passato, che gli faceva risentire il contatto delle verginali carni di lei, come la prima volta, a Margitello, quando egli le aveva giurato: «Non avrò altra donna!». Era un fiore, allora! ... E dopo ... anche! E, nei giorni scorsi, mentre il piccone dei manovali abbatteva le pareti della sua camera, non si era sentito stringere il cuore ... ? «Ho torto! Vada via! Lontano! ... Vada! ... E se ella avesse l'audacia ... » Ma quella sera, al vedersela improvvisamente davanti, avvolta nella mantellina nera e vestita a lutto, nell'andito del portoncino dov'ella lo aveva atteso quasi un'ora, sapendo che doveva arrivare da Margitello, al sentirsi salutare don voce commossa: « Voscenza benedica! » , il marchese non ebbe animo di passare sdegnosamente innanzi, né di fare un gesto o di dirle un'amara parola che la scacciasse. L'umile atteggiamento, il suono di quella voce che, non udita da un pezzo, gli ronzava da qualche giorno nell'orecchio col ricordo di parole e di frasi evocate suo malgrado (egli stesso non avrebbe saputo dire se per rimpianto, o per indignazione, o per rigurgito di odio), lo sopraffecero, anche perché lo coglievano alla sprovveduta. «Che fai qui? ... Perché non sei entrata?», le disse in risposta al saluto. «Volevo almeno vederlo ... Per l'ultima volta!» «Entra! Entra!» La voce del marchese si era già alterata, e il gesto era diventato brusco, imperioso. Mamma Grazia, accorsa ad aprire l'uscio al tintinnio dei sonagli delle mule e al rumore delle ruote della carrozza, indietreggiò spalancando gli occhi vedendoseli apparire insieme, e non poté trattenersi dall'esclamare sotto voce: «Oh, Vergine santa!». Agrippina Solmo la salutò con un cenno della testa, inoltrandosi dietro al marchese tra le impalcature e gli arnesi da muratori che ingombravano le stanze, fino alla sala da pranzo, rimasta intatta, dove il marchese si fermò, sbatacchiando nervosamente l'uscio per chiuderlo. «Volevo almeno vederlo ... per l'ultima volta», ella replicò tra i singhiozzi irrompenti. «Sto per morire, forse?», disse il marchese con cupa ironia. «Per te, lo so, sono morto da un pezzo!» «Perché, voscenza ?» «Perché? ... Non avevi giurato?», egli proruppe. «Ti ho costretto con la forza quel giorno? Ti feci una proposta. Potevi rifiutarla, rispondermi di no!» «Ogni sua parola era comando per me. Ho obbedito ... Ho giurato, sinceramente.» «E poi? ... E poi? ... Nega, nega, se hai coraggio!» «Per Gesù Cristo che deve giudicarmi!» «Lascia stare Gesù Cristo! Nega, nega, se puoi! ... Ti sei data ... a tuo marito, come una sgualdrina! Non era, non doveva essere marito di apparenza soltanto? ... Lo avevate giurato, tutti e due!» «Ah ... Voscenza! » «Tu, tu stessa me l'hai fatto capire!» «Com'è possibile?» «Ti faceva pena! Ti sembrava avvilito davanti alle persone! Me lo hai detto più volte.» «È vero! È vero! Ma pensi, voscenza ! ... Da prima, niente; come due estranei, come fratello e sorella. Spesso lo vedevo appena mezza giornata, le domeniche ... Dopo quattro o cinque mesi ... oh! sembrava scherzasse: "Bellavita, eh? Ho sotto gli occhi la tavola apparecchiata e debbo restare digiuno!". Io lo lasciavo dire. E poi, di tratto in tratto, mordendosi le mani: "Ci voleva il santissimo ... del marchese di Roccaverdina per farmi fare questo sacrificio!". E una volta: "Vi pare che io non indovini che cosa dice la gente? Quel cornutaccio di Rocco!". Gli risposi: "Dovevate pensarci prima! ... ". "Avete ragione! ... ". Pensi, voscenza. Sentirlo parlare così! ... Non ero di bronzo!» «E allora? ... Allora? ... Non me ne dicevi niente però!» «A che scopo? Perché voscenza andasse in collera? ... » «E ... poi?» «E poi ... Ma pensi, voscenza ! ... Un giorno gli risposi: "Femine ne avete quante volete ... Chi v'impedisce? ... Non vi bastano?". Si mise a piangere; come un bambino piangeva, imprecando: "Sangue ... qua! Sangue ... là! Dobbiamo finirla questa storia! Non reggo più! ... Che cuore avete dunque?". Che cuore? Non glielo davo a vedere, ma piangevo, di nascosto, pel peccato mortale in cui vivevo ... » «E per lui pure! ... Dillo! Confessalo!» «Niente! Niente, voscenza ! ... No», ella soggiunse dopo breve pausa, «non voglio mentire! ... Ma il Signore ci ha castigati ... per la mala intenzione soltanto! E, quella notte, non lo fece arrivare a casa! ... Oh! ... Saremmo venuti da voscenza, a pregarlo, a scongiurarlo ... Tanto, a voscenza che le è più importato di me? ... Il mio destino ha voluto così! Sia fatta la volontà di Dio! ... Ed ora, si perderà di me anche il nome. Vado via, in un paese dove nessuno mi conosce; per disperazione vado via ... Se un giorno però ... Serva, serva e nient'altro! Ah! Vorrei dare il mio sangue per voscenza !» Il marchese l'aveva ascoltata con crescente ansietà, stringendo tra i denti il labbro per non irrompere; e quando, fermatasi un istante, ella aveva subito soggiunto: «No, non voglio mentire!», il sangue gli aveva dato un tuffo, quasi egli dovesse vedere compirsi di nuovo l'infame tradimento e proprio sotto i suoi occhi. Stette immobile, senza fiato. Immediatamente però il petto gli si gonfiava con un gran respiro di tetra soddisfazione. Aveva colpito a tempo! Aveva impedito che il tradimento fosse compiuto! ... Ma la intenzione, la mala intenzione, c'era dunque stata! E, chi sa? - non osava di confessarglielo - essa rimpiangeva ancora il morto! Un feroce pensiero gli attraversò la mente: impedirle di sostituire il morto con un vivo! Tenersela sempre schiava, e colmarla di disprezzo, non guardandola neppure in viso! Quei singhiozzi, quelle lagrime, quelle proteste erano certamente menzognere! E già stava per dirle: «Non sposare! ... Resta!». Si trattenne a stento. Agrippina Solmo gli si era accostata umilmente, asciugandosi le lagrime; e, presagli una mano, gliela baciava con labbra gelide e convulse: « Voscenza benedica ! E il Signore le dia tutte le felicità ... se è vero che sposa!». Un lieve senso di tenerezza lo invase al contatto, ed egli ritrasse lestamente la mano. E prima che maggiore commozione lo vincesse, al gesto di commiato, fece seguire, con voce turbata, queste sole parole: «Se, per caso ... avessi bisogno ... Ricordati! ... ».

Teresa

678635
Neera 1 occorrenze
  • 1897
  • CASA EDITRICE GALLI
  • prosa letteraria
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Pagina 224

Al tempo dei tempi. Fiabe e leggende delle Città  di Sicilia

679133
Perodi, Emma 1 occorrenze

I fulmini abbattevano gli alberi, il vento schiantava i rami, la pioggia e la grandine venivano giù come Dio le mandava. I cacciatori spronarono i cavalli per uscire dal bosco e schivare il pericolo d'esser fulminati. Appena all’aperto scorsero un bellissimo palazzo, bussarono e furono accolti gentilmente da tante cameriere, che li fecero entrare in una gran sala, dove in un vasto camino ardeva il fuoco. Da quella sala passò Mariuccia col figlio per andare nelle sue stanze, e tutti i cacciatori s’alzarono, credendola la padrona del palazzo, e l'ossequiarono. Ella, non appena ebbe fissato il Reuccio, lo riconobbe e impallidì, ma non disse nulla sul momento e si ritirò insieme col figlio. Però di lì a poco disse al giovinetto : - Hai veduto quel cacciatore più alto di tutti e col portamento così nobile, benché pallido e come affranto dal dolore ? Ebbene, quel cacciatore è il Reuccio tuo padre. Va’ da lui e baciagli la mano. - II fanciullo tornò nella sala, s'accostò al cacciatore che la madre gli aveva indicato, mise un ginocchio in terra e baciandogli la mano, gli disse : Padre mio, beneditemi ! - Figuriamoci quel che provasse il Reuccio in quel momento! Rialzò il fanciullo, se lo strinse al petto e pianse di gioia su quel capo che aveva tanto bramato di baciare. Poi si fece condurre dalla madre, e qui nuovi abbracciamenti e nuove lacrime. Mariuccia gli raccontò tutto quello che aveva .offerto e quanto l' aveva aiutata il cavalluccio e la promessa che gli aveva fatta di dargli una mangiatoia d’oro. Naturalmente il Reuccio insieme con la moglie, il figlio e il seguito andarono subito alla Corte. Il cavallino fa montato dal fanciullo e in città si fecero grandi feste a tutti, e anche al cavallino, che ebbe la sua mangiatoia d'oro e una stalla tutta di marmo e e visse tanti anni, grasso bracato, e vide il Reuccio divenir Re, la Reginuzza divenir Regina e poi regnare anche il figlio di Mariuccia. Finalmente un giorno anche il cavallino sauro morì, e il Re gli fece erigere una statua.

Pagina 52

La tregua

679765
Levi, Primo 1 occorrenze

Charles ed io sostammo in piedi presso la buca ricolma di membra livide, mentre altri abbattevano il reticolato; poi rientrammo con la barella vuota, a portare la notizia ai compagni. Per tutto il resto della giornata non avvenne nulla, cosa che non ci sorprese, ed a cui eravamo da molto tempo avvezzi. Nella nostra camera la cuccetta del morto Sòmogyi fu subito occupata dal vecchio Thylle, con visibile ribrezzo dei miei due compagni francesi. Thylle, per quanto io ne sapevo allora, era un "triangolo rosso", un prigioniero politico tedesco, ed era uno degli anziani del Lager; come tale, aveva appartenuto di diritto alla aristocrazia del campo, non aveva lavorato manualmente (almeno negli ultimi anni), ed aveva ricevuto alimenti e vestiti da casa. Per queste stesse ragioni i "politici" tedeschi erano assai raramente ospiti dell' infermeria, in cui d' altronde godevano di vari privilegi: primo fra tutti, quello di sfuggire alle selezioni. Poiché, al momento della liberazione, era lui l' unico, dalle SS in fuga era stato investito della carica di capobaracca del Block 20, di cui facevano parte, oltre alla nostra camerata di malati altamente infettivi, anche la sezione TBC e la sezione dissenteria. Essendo tedesco, aveva preso molto sul serio questa precaria nomina. Durante i dieci giorni che separarono la partenza delle SS dall' arrivo dei russi, mentre ognuno combatteva la sua ultima battaglia contro la fame, il gelo e la malattia, Thylle aveva fatto diligenti ispezioni del suo nuovissimo feudo, controllando lo stato dei pavimenti e delle gamelle e il numero delle coperte (una per ogni ospite, vivo o morto che fosse). In una delle sue visite alla nostra camera aveva perfino encomiato Arthur per l' ordine e la pulizia che aveva saputo mantenere; Arthur, che non capiva il tedesco, e tanto meno il dialetto sassone di Thylle, gli aveva risposto "vieux dégoûtant" e "putain de boche"; ciononostante Thylle, da quel giorno in poi, con evidente abuso di autorità, aveva preso l' abitudine di venire ogni sera nella nostra camera per servirsi del confortevole bugliolo che vi era installato: in tutto il campo, l' unico alla cui manutenzione si provvedesse regolarmente, e l' unico situato nelle vicinanze di una stufa. Fino a quel giorno, il vecchio Thylle era dunque stato per me un estraneo, e perciò un nemico; inoltre un potente, e perciò un nemico pericoloso. Per la gente come me, vale a dire per la generalità del Lager, altre sfumature non c' erano: durante tutto il lunghissimo anno trascorso in Lager, io non avevo avuto mai né la curiosità né l' occasione di indagare le complesse strutture della gerarchia del campo. Il tenebroso edificio di potenze malvage giaceva tutto al di sopra di noi, e il nostro sguardo era rivolto al suolo. Eppure fu questo Thylle, vecchio militante indurito da cento lotte per il suo partito ed entro il suo partito, e pietrificato da dieci anni di vita feroce ed ambigua in Lager, il compagno e il confidente della mia prima notte di libertà. Per tutto il giorno, avevamo avuto troppo da fare per aver tempo di commentare l' avvenimento, che pure sentivamo segnare il punto cruciale della nostra intera esistenza; e forse, inconsciamente, l' avevamo cercato, il da fare, proprio allo scopo di non aver tempo, perché di fronte alla libertà ci sentivamo smarriti, svuotati, atrofizzati, disadatti alla nostra parte. Ma venne la notte, i compagni ammalati si addormentarono, si addormentarono anche Charles e Arthur del sonno dell' innocenza, poiché erano in Lager da un solo mese, e ancora non ne avevano assorbito il veleno: io solo, benché esausto, non trovavo sonno, a causa della fatica stessa e della malattia. Avevo tutte le membra indolenzite, il sangue mi pulsava convulsamente nel cranio, e mi sentivo invadere dalla febbre. Ma non era solo questo: come se un argine fosse franato, proprio in quell' ora in cui ogni minaccia sembrava venire meno, in cui la speranza di un ritorno alla vita cessava di essere pazzesca, ero sopraffatto da un dolore nuovo e più vasto, prima sepolto e relegato ai margini della coscienza da altri più urgenti dolori: il dolore dell' esilio, della casa lontana, della solitudine, degli amici perduti, della giovinezza perduta, e dello stuolo di cadaveri intorno. Nel mio anno di Buna avevo visto sparire i quattro quinti dei miei compagni, ma non avevo mai subito la presenza concreta, l' assedio della morte, il suo fiato sordido a un passo, fuori della finestra, nella cuccetta accanto, nelle mie stesse vene. Giacevo perciò in un dormiveglia malato e pieno di pensieri funesti. Ma mi accorsi ben presto che qualcun altro vegliava. Ai respiri pesanti dei dormienti si sovrapponeva a tratti un ansito rauco e irregolare, interrotto da colpi di tosse e da gemiti e sospiri soffocati. Thylle piangeva, di un faticoso ed inverecondo pianto di vecchio, insostenibile come una nudità senile. Si avvide forse, nel buio, di un qualche mio movimento; e la solitudine, che fino a quel giorno entrambi, per diversi motivi, avevamo cercato, doveva pesargli quanto a me, poiché a metà della notte mi chiese "Sei sveglio?", e senza attendere la risposta si arrampicò a gran fatica fino alla mia cuccetta, e d' autorità mi sedette accanto. Non era facile intendersi con lui; non solo per ragioni di linguaggio, ma anche perché i pensieri che ci sedevano in petto in quella lunga notte erano smisurati, meravigliosi e terribili, ma soprattutto confusi. Gli dissi che soffrivo di nostalgia; e lui, che aveva smesso di piangere, "dieci anni", mi disse, "dieci anni!": e dopo dieci anni di silenzio, con un filo di voce stridula, grottesco e solenne ad un tempo, prese a cantare l' Internazionale, lasciandomi turbato, diffidente e commosso. Il mattino ci portò i primi segni di libertà. Giunsero (evidentemente precettati dai russi) una ventina di civili polacchi, uomini e donne, che con pochissimo entusiasmo si diedero ad armeggiare per mettere ordine e pulizia fra le baracche e sgomberare i cadaveri. Verso mezzogiorno arrivò un bambino spaurito, che trascinava una mucca per la cavezza; ci fece capire che era per noi, e che la mandavano i russi, indi abbandonò la bestia e fuggì come un baleno. Non saprei dire come, il povero animale venne macellato in pochi minuti, sventrato, squartato, e le sue spoglie si dispersero per tutti i recessi del campo dove si annidavano i superstiti. A partire dal giorno successivo, vedemmo aggirarsi per il campo altre ragazze polacche, pallide di pietà e di ribrezzo: ripulivano i malati e ne curavano alla meglio le piaghe. Accesero anche in mezzo al campo un enorme fuoco, che alimentavano con i rottami delle baracche sfondate, e sul quale cucinavano la zuppa in recipienti di fortuna. Finalmente, al terzo giorno, si vide entrare in campo un carretto a quattro ruote, guidato festosamente da Yankel, uno Häftling: era un giovane ebreo russo, forse l' unico russo fra i superstiti, ed in quanto tale si era trovato naturalmente a rivestire la funzione di interprete e di ufficiale di collegamento coi comandi sovietici. Tra sonori schiocchi di frusta, annunziò che aveva incarico di portare al Lager centrale di Auschwitz, ormai trasformato in un gigantesco lazzaretto, tutti i vivi fra noi, a piccoli gruppi di trenta o quaranta al giorno, e a cominciare dai malati più gravi. Era intanto sopravvenuto il disgelo, che da tanti giorni temevamo, ed a misura che la neve andava scomparendo, il campo si mutava in uno squallido acquitrino. I cadaveri e le immondizie rendevano irrespirabile l' aria nebbiosa e molle. Né la morte aveva cessato di mietere: morivano a decine i malati nelle loro cuccette fredde, e morivano qua e là per le strade fangose, come fulminati, i superstiti più ingordi, i quali, seguendo ciecamente il comando imperioso della nostra antica fame, si erano rimpinzati delle razioni di carne che i russi, tuttora impegnati in combattimenti sul fronte non lontano, facevano irregolarmente pervenire al campo: talora poco, talora nulla, talora in folle abbondanza. Ma di tutto quanto avveniva intorno a me io non mi rendevo conto che in modo saltuario e indistinto. Pareva che la stanchezza e la malattia, come bestie feroci e vili, avessero atteso in agguato il momento in cui mi spogliavo di ogni difesa per assaltarmi alle spalle. Giacevo in un torpore febbrile, cosciente solo a mezzo, assistito fraternamente da Charles e tormentato dalla sete e da acuti dolori alle articolazioni. Non c' erano medici né medicine. Avevo anche male alla gola, e metà della faccia mi era gonfiata: la pelle si era fatta rossa e ruvida, e mi bruciava come per una ustione; forse soffrivo di più malattie ad un tempo. Quando venne il mio turno di salire sul carretto di Yankel, non ero più in grado di reggermi in piedi. Fui issato sul carro da Charles e da Arthur, insieme con un carico di moribondi da cui non mi sentivo molto dissimile. Piovigginava, e il cielo era basso e fosco. Mentre il lento passo dei cavalli di Yankel mi trascinava verso la lontanissima libertà, sfilarono per l' ultima volta sotto i miei occhi le baracche dove avevo sofferto e mi ero maturato, la piazza dell' appello su cui ancora si ergevano, fianco a fianco, la forca e un gigantesco albero di Natale, e la porta della schiavitù, su cui, vane ormai, ancora si leggevano le tre parole della derisione: "Arbeit Macht Frei", "Il lavoro rende liberi".

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IL RE DEL MARE

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

I FIGLI DELL'ARIA

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

Avevano già percorso tre o quattro miglia facendo delle frequenti fermate per raccogliere i volatili che abbattevano, quando Fedoro, che si trovava a prora, mandò un grido di rabbia: - Stiamo per venire presi! ... - Da chi? - chiesero a una voce Rokoff e il capitano. - Una giunca di guerra scende il fiume! - Per tutte le steppe del Don! - esclamò Rokoff. - L'avventura minaccia di finire male! ... - E lo "Sparviero" è ancora ammalato! - esclamò Fedoro. - Dove fuggire? Il capitano non rispose. Invece di guardare la giunca aveva volti gli occhi verso l'isolotto, dove vedeva apparire e agitarsi al disopra degli alberi, le immense ali del suo aerotreno. - Giungeranno troppo tardi - disse finalmente. - Lo "Sparviero" fra poco sarà qui e ci rapirà sotto gli occhi dei manciù e dell'equipaggio della giunca. Signor Rokoff, ridiscendiamo la corrente.

I PREDONI DEL SAHARA

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Salgari, Emilio 1 occorrenze