Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbatterlo

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L'ANNO 3000

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Mantegazza, Paolo 1 occorrenze

Egli darà un premio di L. 10000 a chi riuscirà ad abbatterlo. TEATRO SOTTERRANEO. - Il centro della terra. Scene di gnomi e di giganti che si contrastano il dominio sotterraneo. Scene geologiche e paleontologiche svariate. TEATRO DELLA SATIRA. - Le avventure di un antico commendatore. Commedia tutta da ridere. Si raccomanda caldamente l'uso del freno moderatore. TEATRO DI DECLAMAZIONE. - Le vette del mondo ideale. Tre celebri declamatori e tre celebri declamatrici, declamano tradotte in lingua cosmica le poesie più sublimi di Byron, di Shelley e di Victor Hugo e porteranno gli spettatori a godere le note più alte del mondo ideale. TEATRO DELLA VOLUTTÀ. - La sinfonia del piacere. Gli spettatori godranno le armonie della musica, del profumo, del sapore artificiale e delle vibrazioni edoniche, mentre gli occhi si inebbrieranno di continuo collo svariato caleidoscopio di immagini, che passeranno con corrente interrotta sulla scena. *** Paolo e Maria avevano già assistito a parecchie rappresentazioni nei teatri di Andropoli, ma la sera del 26 aprile vollero godere la serata di gala, a cui interverrebbe il Pancrate collo Stato maggiore dei suoi ministri, e di tutte le persone più ragguardevoli della città. Era anche una bella maniera per conoscere il Presidente dell'Accademia delle scienze, il Presidente dell'Accademia di belle arti e molti grandi uomini, celebri in tutto il mondo. Il cartellone del teatro annunzia: Il ciclo del piacere cosmico da Omero fino all'anno 3000. L'argomento promette molte e liete emozioni. Il teatro è isolato in una gran piazza e vi si sale per una larga gradinata di marmo. L'architettura è greca e di stile severo. Nel vestibolo, che fa capo alla scala, si aprono varii caffè, nei quali gli spettatori fra un atto e l'altro possono rinfrescarsi. - Un'immensa folla si accalca sullo scalone e nel vestibolo. - Entrati nel teatro i nostri due viaggiatori rimasero per un momento estatici. La sala è un anfiteatro a gradinate, senza palchi, e ogni posto è distinto dall'altro. Solo nell'alto vedi una grande piccionaia in forma di galleria e dove si addensa già da un paio d'ore la folla degli spettatori poveri. Paolo e Maria avevano preso due posti in prima fila onde esser più vicini al palcoscenico. Appena si furon seduti. Maria rimarcò che davanti ad essi era posto sopra una tavoletta una specie di berretto di una stoffa molto grossa di seta a cui facevan capo sei fili. Era per lei una cosa nuova e curiosa, non avendola veduta in nessun altro teatro, per cui domandò subito al compagno: - E che affare è questo? Paolo si mise a ridere e poi: - Te lo spiegò subito. Guarda gli altri spettatori. Appena hanno preso il loro posto, si levano il cappello e si mettono in testa il berretto, che si chiama l'estesiometro. Poi fissano il filo più grosso alla tavoletta, che sta loro dinanzi, tenendo gli altri fili nella mano. È un apparecchio inventato da poco tempo da un celebre fisico inglese e che fino ad ora non fu applicato che in questo e in qualche altro grande teatro d'Europa. Il filo, che fa capo alla tavoletta, comunica con un grande condensatore di forza elettronervea, che è una sola per tutti quanti gli spettatori; mentre gli altri cinque fili minori si applicano in vani punti del nostro corpo, a seconda del senso, di cui vogliamo accrescere o diminuire la sensibilità. Mentre Paolo parlava, aveva in mano i fili e andava spiegando alla compagna il meccanismo dell'apparecchio. - Tu vedi, questo è il filo della sensibilità generale, e si può applicare in qualunque punto del nostro corpo. Di solito si tiene in mano e ciò basta perchè noi possiamo acuire o moderare tutte quante le nostre sensazioni. Il più e il meno di sensibilità si ottiene, premendo col piede l'uno o l'altro di questi pedali, che tu vedi qui sotto dinanzi al nostro sedile. Quando uno spettatore vuole crescere l'intensità del piacere, che prova in qualunque delle scene del teatro, preme sul più, e la sua sensibilità cresce secondo la pressione. Se invece sente troppo, preme sul meno e modera così l'intensità del piacere, il quale si trova a diversi gradi di tensione, secondo le nostre condizioni del momento e secondo il modo di sentire di ciascheduno. Vedrai che alcuni degli spettatori non fanno uso di questo nuovo strumento, che è un vero regolatore della sensibilità, sia perchè lo trovano ancora troppo complicato, sia anche perchè si accontentano dello stato normale del loro sentire. Quando tu applichi il filo più sottile sulla fronte o sull'orecchio o sul naso, agisce più direttamente sul senso della vista, dell'udito, o dell'olfatto; rendendo più delicate e più squisite le sensazioni che vi corrispondono. Negli antichi teatri il piacere non era dato che dai due sensi della vista e dell'udito, ma oggi nei nostri spettacoli è entrata anche la nota del profumo e perciò anche i piaceri dell'olfatto possono essere moderati o resi più intensi coll'uso di questo estesiometro. Maria crollava il capo, tra la meraviglia e l'ironia e poi: - Tutto questo mi sembra troppo complicato, troppo artificioso. Mettiti tu il beretto magico: quanto a me voglio per questa sera accontentarmi dei miei sensi naturali, così come me li ha fatti Domeneddio. Intanto la sala, illuminata da una luce, di cui non si vedeva la sorgente, e che rischiarava uomini e cose come il sole, si andava riempiendo e una musica soavissima, di cui non si vedevano gli esecutori, spandeva all'intorno le sue divine armonie. A un tratto la musica cessò, si apersero le cortine che separavano gli spettatori dal palco scenico e apparve all'occhio di tutti la prima scena: È una famiglia preistorica, che fa il suo pasto in una grotta trogloditica. Uomini e donne nudi, irsuti. - Ascie di pietre immanicate e appese alle pareti della grotta. Nel mezzo un focolare acceso, su cui cuoce la metà di una renna enorme e che è già pronta per esser mangiata. Il padre di famiglia distribuisce alle tre mogli e ai fanciulli, che gli fanno corona, coltelli di pietra di varia grandezza, secondo l'età di chi deve maneggiarli. E tutti guardano con occhi avidi l'arrosto saporito e fumante, aspettando che il padre spenga il fuoco e dia l'ordine dell'assalto. La scena preistorica non poteva essere più fedelmente rappresentata e l'evidenza storica era ancora più eloquente, perchè alla sensazione della vista si associavano quelle dell'udito e dell'olfatto. Mentre quei trogloditi facevano a pezzi l'arrosto preistorico, spezzando le ossa lunghe con martelli di pietra e succhiandone avidamente il midollo, si udiva una musica invisibile, rozza, barbarica, tumultuosa e in tutta la vasta sala del teatro si sentiva un odore selvaggio di carni arrostite. Fuori della grotta pareva di sentire da lungi muggiti di fiere, mentre il cielo oscuro lampeggiava come per una procella vicina. - Tutto era unissono e concorde per trasportare gli spettatori nel mondo di centinaia di secoli or sono e a tutti sembrava di rivivere in quella gioia animalesca di una famiglia neolitica, che saziava la sua fame omerica con un pasto selvaggio, ma saporito. - Vedi, Maria, - disse Paolo, - io mi servo subito del mio estesiometro, perchè questa scena mi piace assai; ma non così egualmente trovo troppo gradevole questo profumo di carne arrostita. Io metto il filo dell'estesiometro sul naso, premo il piede sul pedale moderatore ed io non sento quasi più l'odore di bruciaticcio. Anzi l'odore è diventato quasi un profumo di bistecca, che mi solletica, piacevolmente il palato e mi risveglia l'appetito. Maria allora, incuriosita della cosa, volle mettersi anch'essa il magico berretto e se ne trovò soddisfattissima. Finita la prima scena si richiusero le cortine e si riaprirono poco dopo, per mostrarne una seconda. Era una scena di guerra omerica nei tempi dell'antica Grecia, e chi ha letto l'Iliade o l'Odissea può figurarsela facilmente. Mentre la prima scena rappresentava la gioia animalesca del mangiare, questa mostrava al vivo le terribili voluttà della lotta, e i cavalli che portavano i guerrieri alla battaglia nitrivano e gli eroi dagli elmi piumati alzavano al cielo grida formidabili, e lancie e giavellotti cozzavano orrendamente tra di loro; e l'urlo selvaggio della vittoria riempiva l'aria di orrore; mentre i carri passavano sui caduti e i loro gemiti si udivano nel fragore e nel tumulto della pugna. Finita la battaglia, appariva lassù nell'alto cielo Venere bella, spargendo fiori sui vincitori. Anche in questa seconda scena la musica armonizzava coll'orrore della battaglia e coi dolori della morte, e un odore di sangue e di ferri cozzanti circolava per l'aria ad acuire le tinte della omerica scena. Non starò a dire tutte le scene, che si successero l'una dietro l'altra in quella sera, rappresentando a grandi salti le gioie dell'umanità attraverso le evoluzioni progressive della civiltà. Si ebbe una scena di lotta di gladiatori e di fiere nel Colosseo di Roma e anche là la musica era romanamente terribile e grande e l'odore sparso per la sala del teatro era di pelli sudanti e di belve ircine. Si ebbe una scena di una Corte d'amore in un Castello di Provenza, con dame bellissime e pennuti cavalieri. Si ebbe una festa carnevalesca del popolo nel tempo dei Medici. Si vide un ballo delle Tuileries al tempo di Napoleone III di Francia. Ed altre ed altre scene tutte gaie e festose dei tempi successivi. Non mancarono durante lo spettacolo gli applausi e una sola volta una scena zittita, quella cioè in cui si rappresentava una cena pantagruelica in un convento di francescani. Il ricordo dei tempi frateschi era per sè stesso poco simpatico e la scena era con troppa fedeltà rappresentata al vivo nella brutale disarmonia estetica delle sue note. Mentre alcuni frati eruttavano rumorosamente dai ventri troppo obesi, un altro frate leggeva ad alta voce un libro di preghiere, sogghignando sotto i baffi e maciullando di nascosto un'ala di cappone, che gli aveva passato un collega. Questa scena, benchè fosse rappresentazione di gioie storiche, parve sguaiata e perciò fu zittita. *** Fra un atto e l'altro dello spettacolo Maria e Paolo poterono passeggiare nei corridoi e nelle ampie sale di conversazione, di cui era fornito il teatro e che erano altrettanti giardini ornati di vaghe piante in fiore. Anche negli intervalli la musica non cessava mai di spandere all'intorno le sue armonie deliziose. Nello stesso tempo correnti invisibili di profumi svariati e delicatissimi accompagnavano la musica dell'orecchio con un'altra musica di odori, che si alternavano e si confondevano; facendo dei veri concerti armonici e melodici, che deliziavano gli spettatori di una voluttà olfattoria affatto sconosciuta agli uomini dell'evo antico.

LE NOVELLE DELLA NONNA. Fiabe fantastiche

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Perodi, Emma 1 occorrenze
  • 1992
  • Newton Compton Editori s.r.l.
  • prosa letteraria
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Allora di fuori i frati si diedero ad urtare con pali contro l'uscio per abbatterlo; e fra' Gaudenzio, che non vedeva le fiamme, rideva, sentendo che si affannavan tanto per salvarlo mentre non correva nessun pericolo. Batti e batti, l'uscio alfine cedé, e quando i frati stavano per penetrare nella cella, videro il Diavolo con la testa di drago e la gola di brace, che stava nel vano a impedire loro il passaggio. Essi fuggirono spaventati, e in un momento le pareti della cella crollarono con gran fracasso e attorno al letto su cui giaceva fra' Gaudenzio, si formò come una fornace ardente; le fiamme salivano dal pavimento, penetravano dalle stanze vicine e già il frate si sentiva ardere i capelli e la barba e scottare le carni. - È questa la lunga vita che mi hai promesso? - diss'egli al Diavolo in tono di rimprovero. - Se ti preme la vita, te la concedo eterna, - rispose Satana. - Ma l'arrosto? - domandò fra' Gaudenzio. - L'avrai tutti i giorni. - Allora son tuo. Appena fra' Gaudenzio ebbe detto queste parole, si sentì sollevato dal mostro dalla faccia di drago e dai Diavoletti, i quali formarono sotto a lui come una nube densa, e dopo averlo spinto sopra al tetto, lo trascinarono in un burrone profondo, che si spalancò per inghiottirlo. Il convento continuò a ardere dal lato della cella di fra' Gaudenzio, e i frati, che si erano tutti rifugiati in chiesa a pregare, e non avevan veduto come egli fosse stato portato via, credettero che avesse trovato la morte nelle fiamme. Però capirono che fra' Gaudenzio, prima di morire, aveva ingannato il Padre guardiano, perché il teschio portato in processione nella tomba di lui, fu trovato il giorno dopo sul praticello dinanzi alla cappella degli Angioli, e per quante volte lo collocarono accanto alla salma di fra' Amalziabene, per altrettante lo trovarono or qua or là, ma mai al posto ove lo mettevano. E qui la novella è finita. Intanto il temporale era cessato e la Vezzosa staccava già, dal chiodo cui l'aveva appeso, il cappotto del babbo, per tornarsene a casa, quando Maso le disse: - Aspetta che ti accompagnamo; due passi non ci faranno male; e poi ho da dire una cosa a tuo padre. Un istante dopo tutti i Marcucci erano fuori con la Vezzosa, la quale, accostatasi a Cecco, gli disse: - Sentite, Cecco, ho da chiedervi un favore. - Dite pure. - Me lo potete lasciare per qualche giorno quel libro di Silvio Pellico? l'ho letto già ma non so staccarmene, e mentre mi fa piangere, mi pare che mi renda più buona e m'insegni a esser tollerante, e sapete se della tolleranza ne ho bisogno! - Tenetelo pure per sempre, - rispose il giovane. - Ma ad un patto. - Quale? - Che nel leggerlo pensiate a chi l'ha tanto letto prima di voi e ve l'ha dato. - Non dubitate, - rispose la Vezzosa. E siccome era giunta a casa sua, lasciò i Marcucci a parlare col babbo e corse in camera.

ALLA CONQUISTA DI UN IMPERO

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Salgari, Emilio 3 occorrenze

Non abbiate paura del rinoceronte: penso io ad abbatterlo. - Temi qualche tradimento, padrone? - chiese Kubang. - Sono sicurissimo che quel maledetto greco, cercherà di vendicarsi, con tutti i mezzi possibili, del colpo di scimitarra che gli ho dato, e perciò dubito di tutto e di tutti. In una caccia in mezzo alla foresta accade talvolta di ammazzare un cacciatore invece dell'animale. - Non perderemo d'occhio i seikki, capitano Yanez. Alla prima mossa sospetta, piomberemo addosso loro come tigri e vedremo quanti sfuggiranno alle nostre scimitarre. - Che uno di voi monti la guardia fuori della capanna e prendiamo un po' di riposo. - Si stese su una stuoia ed invitato dal gran calore che regnava e dal profondo silenzio, poiché anche gli elefanti e gli indiani si erano addormentati, chiuse gli occhi. Fu svegliato verso il tramonto dai latrati dei cani, dai nitriti dei cavalli, dai barriti degli elefanti e dalle grida dei cornac e dei seikki. I malesi erano già in piedi e pulivano le loro carabine e le loro pistole. - La cena, - disse Yanez. - Poi andremo a scovare questo signor colosso. - I cuochi avevano preparato il pasto serale e non aspettavano che l'ordine del gran cacciatore per servire. Yanez mangiò alla lesta, prese la sua magnifica carabina a doppia canna, caricata con palle rivestite di rame, veri proiettili da grossa caccia, e uscì. Gli uomini scelti ad accompagnarlo, non erano che in sei e tenevano per le briglie alcuni splendidi cavalli, fra i quali uno tutto nero che pareva avesse il fuoco nelle vene e che era riccamente bardato, con staffe corte all'orientale. - Il mio? - chiese Yanez all'ufficiale. - Sì mylord, - rispose l'indiano. - Non montarlo però ora. - Perché? - I cavalli devono giungere sul luogo della caccia freschissimi. I rinoceronti corrono colla velocità del vento quando caricano e guai al cavallo che in quel momento si trovasse affaticato. - Hai ragione. E la guida? - Ci aspetta di là delle piantagioni. - Partiamo, ma senza cani: disturberebbero la caccia. - Così ho pensato anch'io, desiderando tu cacciare all'agguato. - Lasciarono l'accampamento e presero un sentiero che attraversava le piantagioni d'indaco, seguìti dagli sguardi di tutti i contadini, i quali si erano schierati sui margini dei campi. La notte era splendida e propizia per una buona caccia. Una fresca brezzolina, che scendeva dagli altipiani giganteschi del Bhutan, soffiava ad intervalli, sussurrando fra le pianticelle d'indaco, e la luna sorgeva mestosa dietro i lontani picchi della frontiera birmana. In cielo le stelle fiorivano a milioni e milioni, proiettando una luce dolcissima. Yanez colla sua eterna sigaretta fra le labbra, colla carabina sotto un braccio, seguìto subito dai suoi malesi, marciava in testa al drappello. L'ufficiale invece guidava i seikki che conducevano i cavalli. Oltrepassate le piantagioni il drappello trovò il vecchio capo. - L'hai veduto? - gli chiese Yanez. - No, sahib, ma ho saputo dove si trova il suo covo. Un cacciatore di nilgò me l'ha indicato. - Credi che sia già uscito a pascolare? - Oh! non ancora. - Meglio così: lo sorprenderemo nel suo covo. - Ripresero la marcia avviandosi verso una foresta che nereggiava verso ponente e che sembrava immensa. Bastò un'ora di marcia rapidissima, essendo gli indiani dei camminatori lestissimi ed infaticabili non meno degli abissini, perché la raggiungessero. Per un caso veramente raro, quella foresta si componeva quasi tutta di fichi d'India, piante colossali d'una longevità straordinaria, dalle foglie ovali lanceolate, coriacee, mescolate a piccoli frutti d'un sapore dolciastro che poco hanno da fare coi nostri fichi d'Europa, e dai cui tronchi gl'indiani estraggono, mediante una semplice incisione, una specie di latte che non è però bevibile, ma che invece serve ottimamente a preparare una specie di gomma-lacca, che nulla ha da invidiare a quella che viene usata dai cinesi e dai giapponesi. Il vecchio capo fece una breve fermata sul margine della foresta mettendosi in ascolto, poi non udendo che gli ululati lontani di alcuni lupi indiani, s'inoltrò risolutamente fra quella miriade di tronchi, dicendo a Yanez: - Non ha ancora lasciato il suo covo. Se fosse uscito lo si udrebbe, perché quando scorazza per le boscaglie fa sempre udire il suo niff-niff. - Meglio così, - rispose Yanez. Gettò via la sigaretta, armò la carabina, fece segno ai malesi di fare altrettanto e seguì la guida che s'inoltrava con passo sicuro sotto le immense volte dei fichi, tenendo in mano un vecchio fucile che ben poco avrebbe potuto servire contro quei colossali animali, che hanno una pelle quasi impenetrabile ai migliori proiettili. La foresta, di passo in passo che i cacciatori s'avanzavano, diventava sempre più fitta. Per di più enormi cespugli crescevano qua e là, avvolti in una vera rete di calamus e di nepente. I cacciatori avevano percorso un buon mezzo miglio, quando il vecchio indiano fece a loro segno di arrestarsi. - Ci siamo? - chiese Yanez sottovoce. - Sì, sahib: lo stagno dei coccodrilli è poco lontano ed è sulle sue rive che il rinoceronte ha il suo covo. Fa' avvolgere le teste dei cavalli nelle gualdrappe onde non nitriscano. L'animale può essere di buon umore e sfuggirci, invece di caricarci. - Yanez trasmise l'ordine ai seikki poi disse alla guida: - Avresti paura a seguirmi? - Perché sahib? - Desidero scovare il rinoceronte senza avere dietro di me i seikki ed i miei uomini. Spareranno dopo di me se non riuscirò ad abbatterlo. - Tu sei il grande cacciatore del rajah, quindi nulla devo temere. - Aspettatemi qui e tenetevi pronti a montare a cavallo, - disse Yanez alla scorta. - Se io manco aprite il fuoco e mirate bene. Se ci carica sarà un affare serio ad arrestarlo in piena corsa. Andiamo amico: conducimi nel luogo preciso dove si trova il covo. - Vieni, sahib. - Si allontanarono in silenzio, passando con precauzione fra le innumerevoli colonne dei fichi, cogli occhi in guardia e gli orecchi ben tesi. Regnava un profondo silenzio. Perfino i bighama, i lupi dell'India, tacevano in quel momento. Anche il venticello notturno era cessato e non faceva più stormire il fogliame degli immensi alberi. Percorsi altri trecento passi il vecchio indiano tornò a fermarsi. - Lasciami ascoltare, - disse sottovoce a Yanez. - Lo stagno dei coccodrilli sta dinanzi a noi. - Odi nulla? - Il respiro del rinoceronte. Deve essere nascosto in mezzo a quel vasto cespuglio. - Che non abbia fame questa sera? - Si sarà cibato abbondantemente stamane. - Lo costringerò io a mostrarsi. - Si guardò intorno e scorto un grosso pezzo di ramo, lo scagliò, con quanta forza aveva, al disopra del cespuglio. Subito una specie di fischio rauco s'alzò fra le fronde seguìto da uno strano grido. Era il niff-niff del rinoceronte. - Si è svegliato - sussurrò Yanez mettendosi rapidamente la carabina alla spalla. - Che si mostri e gli caccerò due palle nel cervello. - Trascorsero alcuni istanti senza che l'animale si mostrasse. Anche l'indiano, quantunque avesse una scarsa fiducia nell'efficacia del suo vecchio fucile, si teneva pronto a sparare. Ad un tratto il cespuglio si agitò in tutti i sensi, come se una tempesta fosse improvvisamente scoppiata nel suo seno, poi s'aprì bruscamente ed un enorme rinoceronte comparve lanciando furiosamente il suo grido di guerra. Subito tre detonazioni rimbombarono l'una dietro l'altra, seguìte tosto da un altissimo grido lanciato dall'indiano. - Fuggi, sahib! ... - Il rinoceronte quantunque dovesse aver ricevuto qualche palla, poiché Yanez non mancava mai ai suoi colpi, caricava all'impazzata coll'impeto furibondo, che è particolare a quegli animalacci. Il portoghese vedendolo, aveva voltato le spalle slanciandosi a tutta corsa verso il luogo ove si trovavano i malesi e i seikki. Fortunatamente gl'innumerevoli tronchi dei fichi d'India, che in certi luoghi crescevano così uniti da non permettere il passaggio ad un grosso animale, avevano frenato lo slancio terribile del colosso, lasciando così tempo ai fuggiaschi di raggiungere i loro compagni. - A cavallo! - gridò Yanez. Un seikko gli condusse prontamente dinanzi quel cavallo che il rajah gli aveva destinato. Il portoghese con un solo slancio fu in sella senza servirsi delle staffe. I malesi e i seikki vedendo il rinoceronte apparire fra i tronchi dei baniani a corsa sfrenata, fecero una scarica, poi si dispersero in varie direzioni, trasportati loro malgrado dai cavalli spaventati che non obbedivano più né alle briglie, né agli speroni. L'ufficiale del rajah era stato il primo a scappare, senza perdere tempo a far fuoco. Yanez aveva fatto fare al suo nero destriero un salto terribile per evitare l'urto del furibondo colosso, mentre il vecchio indiano, più fortunato, si poneva in salvo, con un'agilità scimmiesca, su un fico. Il rinoceronte, reso feroce dalle ferite ricevute, continuò la sua corsa per un due o trecento passi; poi fatto un brusco voltafaccia tornò indietro lanciando per la seconda volta il suo grido di guerra: niff-niff! ... Se gli altri erano scappati, Yanez era rimasto sul luogo della caccia e non per volontà sua, bensì per bizzarria del suo cavallo che pareva fosse diventato improvvisamente pazzo. Faceva dei terribili salti di montone come se il peso del cavaliere gli spezzasse le reni, s'inalberava nitrendo dolorosamente, poi sferrava calci in tutte le direzioni. Il portoghese però non si lasciava scavalcare e stringeva nervosamente le ginocchia e non risparmiava né strappate di briglie, né colpi di sperone, sagrando come un turco. - Via! scappa! - urlava. - Vuoi farti sventrare? - Il cavallo non obbediva ed il rinoceronte tornava alla caccia, colla testa bassa ed il corno teso, pronto ad immergerlo tutto nel ventre del nemico. Un freddo sudore bagnava la fronte di Yanez. Un terribile sospetto gli era balenato nel cervello, ossia che il greco gli avesse preparato qualche tranello per perderlo nel momento più pericoloso. Guardò rapidamente in aria. Appena ad un metro sopra la sua testa si stendevano orizzontalmente i rami dei fichi. - Sono salvo! - esclamò, gettandosi a bandoliera la carabina. In quel momento il rinoceronte piombò addosso all'imbizzarrito destriero. Il corno scomparve intero nel ventre del povero animale, poi con un colpo di testa alzò cavallo e cavaliere. Uno solo però cadde: il primo, poiché il secondo, che aveva conservato un meraviglioso sangue freddo anche in quel terribile frangente, si era disperatamente abbrancato ad un ramo, issandosi prontamente. Il cavallo, sventrato di colpo, stramazzò al suolo, s'alzò ancora inalberandosi, poi cadde di quarto mandando un nitrito soffocato. Il rinoceronte, colla brutalità e ferocia istintiva degli animali della sua razza, tornò addosso al povero animale immergendogli per la seconda volta nel corpo il corno, poi preso da un eccesso di furore indescrivibile, si mise a calpestarlo rabbiosamente mandando fischi acuti. Sotto il suo peso enorme, le ossa del cavallo scricchiolavano e si spezzavano, e dagli squarci prodotti da quei due colpi di corno, uscivano insieme getti di sangue, intestini e polmoni. Yanez che aveva ricuperata prontamente la sua calma, appena messosi a cavalcioni del ramo, ricaricò la carabina, borbottando: - Ora vendicherò il cavallo del rajah, quantunque quel testardo, per poco, non mi abbia spedito diritto nell'altro mondo. - In quel momento alcuni spari rimbombarono a breve distanza: poi i sei malesi passarono a centocinquanta metri circa da Yanez, trasportati in un galoppo sfrenato. - Andate pure, miei bravi - disse Yanez. - Ci penso io al rinoceronte. - Si accomodò meglio che poté sul ramo e puntò la carabina. Il bestione che pareva impazzito non aveva ancora lasciato la sua vittima. La squarciava a gran colpi di corno avvoltolandosi nel sangue, la calpestava lasciandosi poi cadere con tutto il suo enorme corpaccio e non cessava di mandare urla stridenti. Una palla che lo colpì un po' sopra l'occhio sinistro, lo calmò per un istante. S'arrestò guardando in aria, colla bocca aperta. Era il momento che Yanez aspettava. Il secondo colpo di carabina partì colpendo l'animale al palato e penetrandogli nel cervello. La ferita era mortale, pure il bestione non cadde. Anzi si mise a galoppare vertiginosamente intorno ai tronchi dei fichi schiantandone parecchi. - Per Giove! - esclamò Yanez ricaricando l'arma. - Per questi animali ci vorrebbe una spingarda o meglio un cannone. - Attese che gli passasse sotto e fece fuoco quasi a bruciapelo, colpendolo fra la nuca ed il collo. L'effetto fu fulminante. L'animalaccio si rizzò di colpo sulle zampe posteriori, poi stramazzò pesantemente a terra rimanendo immobile. Aveva ricevuto cinque palle e tutte foderate di rame e di grosso calibro. - Era tempo che tu morissi! - esclamò Yanez lasciandosi scivolare giù da uno di quegli innumerevoli tronchi. - Ho ammazzato tanti animali, ma nessuno m'ha fatto sudare né passare un brutto momento come questo. Vediamo ora che giuoco hai tentato, maestro Teotokris dell'Arcipelago greco. Che una tigre mi divori se qui sotto non vi è la tua mano! Il cavallo era troppo impazzito. - S'avvicinò con precauzione al rinoceronte e dopo essersi ben accertato che era proprio morto e che non vi era più pericolo che si rimettesse in piedi, rivolse la sua attenzione al destriero del rajah. Disgraziato animale! Intestini, cuore, polmoni e fegato giacevano intorno a lui, strappati dal brutale corno del colosso ed il suo corpo schiacciato, mostrava delle ferite spaventevoli dalle quali il sangue colava ancora abbondantemente. - Sembra quasi una focaccia, - mormorò Yanez. - Spero nondimeno di poter ancora trovare il perché aveva il diavolo in corpo. Ci deve essere qui sotto qualche bricconata. - Guardò a lungo il cadavere, poi slacciò la fascia del sottoventre e alzò la sella. - Ah! birbanti! - esclamò. Nella parte interna vi erano state confitte tre punte d'acciaio, lunghe un centimetro. - Ecco perché il povero animale era diventato furibondo, - riprese il portoghese. - Saltando in sella gli si erano conficcate nelle carni. Questo è un tiro del greco. Egli sperava che il rinoceronte mi sventrasse. No, mio caro, anche questa t'è andata a vuoto. Yanez ha la pelle più dura di quello che tu credi e, devo dirlo, anche una fortuna prodigiosa. Acqua in bocca per ora e lasciamo correre, ma ti giuro, birbante, che un giorno ti farò pagare, e tutto d'un colpo, i tuoi tradimenti. Già quell'altissimo ufficiale, che deve essere una tua creatura, mi era sospetto. - Caricò flemmaticamente la carabina e sparò, con un certo intervallo l'uno dall'altro, due colpi in aria. Le due detonazioni rombavano ancora sotto le infinite volte di verzura, quando vide giungere, a breve distanza l'uno dall'altro, i suoi fidi malesi seguìti dall'ufficiale del rajah. - Ecco fatto, - disse Yanez con una certa ironia, guardando l'indiano. - Come vedi la faccenda è stata sbrigata senza troppa fatica. - L'ufficiale rimase per qualche istante muto, guardandolo con profondo stupore. - Morto, - disse poi. - Non si muove più, - rispose Yanez. - Tu sei il più grande cacciatore di tutta l'India. - È probabile. - Il rajah sarà contento di te. - Lo spero. - Farò tagliare dai seikki il corno e tu stesso lo regalerai al principe. - Lo presenterai tu, così potrai avere una mancia. - Come vuoi, mylord. - Fammi condurre un altro cavallo, purché sia più docile del primo. Ne ha qualcuno troppo bizzarro il tuo signore. - L'ufficiale finse di non udirlo ed essendo in quel momento giunti i seikki accompagnati dal vecchio indiano, fece cenno a uno di loro di smontare. Yanez stava per montare in sella quando un'improvvisa agitazione si manifestò fra i seikki, seguìta quasi subito dalle grida: - Lo jungli-kudgia! ... Lo jungli-kudgia! - Yanez udendo dietro di sé aprirsi i cespugli si voltò rapidamente. Un animale che a prima vista sembrava un bisonte indiano, era comparso improvvisamente aprendosi il passo fra le liane e i nepenti. - Fuoco, amici! - gridò. I sei malesi, che avevano le carabine ancora cariche, fecero fuoco simultaneamente, non badando al grido mandato dal vecchio indiano: - Ferma! - Il ruminante colpito da cinque o sei palle stramazzò fra le erbe, senza mandare un muggito. - Sventura sui maledetti stranieri! - urlò il capo del villaggio slanciandosi verso l'animale che agonizzava e alzando le braccia verso il cielo. - Hanno ucciso la vacca sacra di Brahma! - Ehi capo, diventi matto? - chiese Yanez. - Se è per spillarmi un po' di rupie, sono pronto a pagarti la tua bestia. - Una vacca sacra non si paga, - rispose l'ufficiale del rajah. - Andate tutti al diavolo! - gridò Yanez che perdeva la pazienza. - Temo, mylord che tu dovrai fare i conti col rajah, perché qui, come in tutta l'India, una vacca è un animale sacro, che nessuno può uccidere. - Perché dunque i tuoi uomini hanno gridato lo jungli-kudgia? Sebbene non conosca profondamente la lingua indiana, quel nome lo si dà, se non erro, ai terribili bisonti della jungla, che non sono meno pericolosi d'un rinoceronte. - Si saranno ingannati. - Peggio per loro. - Mentre si scambiavano quelle parole, il vecchio indiano continuava a girare intorno al cadavere della vacca, manifestando la più violenta disperazione e vomitando una serqua infinita d'ingiurie contro gli uccisori dell'animale sacro. - Finiscila, cornacchia! - gridò Yanez, sempre più seccato. - T'ho liberato dal rinoceronte che guastava le tue piantagioni, e non cessi d'ingiuriarmi. Tu sei la più grande canaglia che abbia conosciuto da che sono nato. Se non ritiri la tua linguaccia da cane, ti farò bastonare dai miei uomini. - Tu non lo farai, - disse l'ufficiale del rajah con voce dura. - Chi me lo impedirebbe, signor ufficiale? - chiese Yanez. - Io, che qui rappresento il rajah. - Tu non sei, per me, che sono un mylord inglese, che un impiegato della corte, inferiore ai miei servi. - Mylord! - Vattene all'inferno, - disse Yanez, montando a cavallo. Poi volgendosi verso i malesi che guardavano ferocemente i seikki, pronti a caricarli al primo moto sospetto, disse a loro: - Torniamo in città; ne ho abbastanza di questo affare. - Mylord, - disse l'ufficiale, - gli elefanti ci aspettano. - Gettali nel fiume, non ne ho bisogno. - Fece salire dietro di sé il malese che gli aveva dato il cavallo e partì al galoppo, mentre il vecchio indiano gli urlava dietro ancora una volta: - Maledetti stranieri! Che Brahma vi faccia morire tutti! - Usciti dal bosco, le tigri di Mompracem si gettarono fra le piantagioni, senza badare se rovinavano più o meno l'indaco, e presero la via di Gauhati. Quando entrarono in città era ancora notte. Le guardie che vegliavano dinanzi al portone, si affrettarono ad introdurli nel vasto cortile d'onore, dove, sotto i porticati spaziosi, dormivano su semplici stuoie, scudieri e staffieri, onde essere più pronti ad ogni chiamata del loro signore. Yanez affidò a loro i cavalli e salì nel suo appartamento svegliando il chitmudgar. - Tu, signore! - esclamò il maggiordomo stropicciandosi gli occhi. - Non mi aspettavi così presto? - No, signore. Hai già ucciso il rinoceronte? - Sì, l'ho messo a terra con quattro colpi di carabina. Portami una bottiglia nella mia stanza, alcune sigarette e aspettami, ché devo chiederti importanti spiegazioni. - Sono ai tuoi ordini, sahib. - Yanez si sbarazzò della carabina, mandò i suoi malesi a coricarsi, poi raggiunse il chitmudgar, che aveva già accesa la lampada e messo sul tavolo una bottiglia di liquore ed una scatola di sigarette indiane, formate d'una foglia di palma arrotolata e di tabacco rosso. Vuotò un bicchiere di vecchio gin, poi sdraiatosi su una poltrona, gli narrò succintamente come si era svolta la caccia, dilungandosi solo sull'uccisione di quella maledetta vacca sacra, che l'aveva fatto uscire dai gangheri: - Che cosa ne dici tu ora di questo affare? - È una cosa grave, mylord - rispose il maggiordomo che appariva preoccupato. - Una mucca è sempre sacra, e chi l'uccide incorre in grandi fastidi. - Mi avevano detto che era un bisonte della jungla ed io ho comandato il fuoco senza guardarla bene. - Il chitmudgar scosse il capo mormorando: - Affare serio! affare serio! - Dovevano tenersela nel villaggio. - Tu hai ragione, mylord, ma il torto sarà tuo. - Quel capo è un vero furfante. Non gli ho ucciso il rinoceronte che devastava le piantagioni del villaggio? Ah! e se in questa faccenda vi fosse sotto la mano del favorito del rajah? Le punte di ferro vi erano nella sella. - Non mi stupirei, - rispose il maggiordomo. - Io so che quell'uomo ti odia a morte. - Me ne sono già accorto e poi vorrà vendicarsi di quel colpo di scimitarra. - Certo, mylord. - Allora è stata ordita una vera congiura. Prima ha tentato di farmi sventrare dal rinoceronte, poi mi ha mandato la vacca sacra. Che fosse d'accordo anche il capo del villaggio? - È probabile, signore. - Per Giove! non mi lascerò mettere nel sacco. Vado a riposarmi e se prima di mezzogiorno il rajah manda qualcuno dei suoi satrapi, risponderai che dormo e che non voglio essere disturbato. Se insistono, lancia contro di loro i miei malesi. È ora di mostrare a quel cane di greco e a quell'ubriacone che serve, che un mylord non si lascia prendere a gabbo. Va', chitmudgar. - Spense la lampada e si gettò sul ricchissimo letto senza spogliarsi, addormentandosi quasi subito.

Yanez però era sicuro di abbatterlo a colpi di carabina, prima che potesse scagliarsi attraverso la sala. - Dietro a tutti questi divani, ci difenderemo a meraviglia, - disse ai malesi. - Rimanga un uomo solo a guardia delle due porticine. L'attacco si farà qui per ora. - In quell'istante un altro e più formidabile barrito si fece udite al di fuori, seguìto da alcune grida. Erano i cornac che eccitavano l'animale a dare addosso alla porta. - Tutti intorno a me! - comandò Yanez. - Qualunque cosa accada, non lasciate la barricata, o morrete schiacciati dalle porte di bronzo. - Un rombo metallico fece tremare perfino le pareti della vasta sala e oscillare spaventosamente le massicce porte di bronzo. L'elefante aveva dato il primo cozzo colle parti deretane. - Che forza prodigiosa hanno questi pachidermi! - mormorò Yanez. - Sette od otto di questi colpi ed il varco sarà aperto. - Trascorse mezzo minuto d'angosciosa aspettativa per gli assediati, poi un altro urto fu dato alla porta, la quale oscillò dalla base alla cima. Parve che fosse scoppiata qualche grossa granata, o che gli assedianti avessero dato fuoco ad un mortaio di grosso calibro. Ne seguì un terzo, poi un quarto, sempre più violento. Al quinto le porte, svelte dai cardini, piombarono con un fragore assordante addosso ai divani, schiacciandone un gran numero, ma rinforzando nel medesimo tempo colla loro massa, la barricata. - Amici! - gridò Yanez, che era già preparato a quella caduta - prepariamoci a dare a questi indiani una lezione che faccia epoca. -

Sandokan tornò a puntare l'arma, mirando ancora il capo-fila, essendosi promesso di abbatterlo a qualunque costo. Due minuti dopo un altro sparo rimbombava e la palla passava oltre senza aver colpito nessuno del branco. - Tu sprechi il piombo, - disse il bengalese. - Ho ancora una palla. - Confesserai almeno che si spara male, stando sul dorso d'un elefante, e che per distruggere tutto quel branco, dovremmo consumar tutte le munizioni. - Ciò che non desidero affatto, non sapendo se gli assamesi ci seguono ancora o, se sono tornati indietro. - Uhm! Lo dubito: sono testardi come gli jungli-kudgia. - Riprese la carabina e per la terza volta l'alzò, aspettando il momento favorevole. Una nuova fermata dell'elefante pilota, il quale era sprofondato nel fango fino alle ginocchia, rimanendo immobile per qualche istante, gli permise di sparare il suo ultimo colpo. Il bisonte mandò un lunghissimo muggito, poi si fermò bruscamente abbassando la testa fino quasi al suolo, colla lingua pendente. Tutto il branco si era fermato, guardandolo e muggendo. Aveva compreso che il capo doveva essere stato gravemente ferito. Il colossale bisonte non accennava a muoversi. Tenera sempre la testa bassa e dalla sua bocca, assieme ad una bava sanguigna, uscivano dei rauchi muggiti, che diventavano rapidamente fiochi. - Sta per morire! - esclamò Sandokan. In quel momento il bisonte cadde sulle ginocchia, affondando il muso nel fango. Tentò ancora di rimettersi in piedi; le forze invece bruscamente gli mancarono e si rovesciò su un fianco. - Pare che sia proprio morto, è vero Tremal-Naik? - disse Sandokan, tutto lieto di quel successo insperato. - Tu hai provveduto agli sciacalli ed ai cani selvaggi una buona preda, che avrebbe servito a meraviglia anche a noi, - rispose il bengalese. - Tu tiri, come Gengis-khan lanciava le sue frecce. - Non lo conosco, né mi occupo di sapere chi sia. - Un meraviglioso conduttore di esercito ed un famoso arciere. - I bisonti, dopo d'aver fiutato a più riprese il loro capo e di aver manifestata la loro rabbia con muggiti possenti, avevano ripresa la marcia, camminando quasi parallelamente agli elefanti. Vi era da augurarsi che quel pantano si prolungasse indefinitivamente, o almeno fino alle falde delle montagne di Sadhja, ciò che era impossibile a sperarsi. Per altre due ore gli elefanti continuarono a marciare, ostinatamente seguìti dai bisonti. Trovato un altro strato solido, che formava come un isolotto in mezzo alla fanghiglia della circonferenza di tre o quattrocento passi e coperto d'alberi di varie specie, Sandokan comandò una seconda fermata. Era una precauzione necessaria, poiché il mezzodì era già trascorso e continuando ad avanzare, senza alcun riparo, potevano buscarsi qualche terribile colpo di sole, non meno fatale del morso dei velenosissimi cobra-capello. D'altronde tutti avevano fame, non avendo potuto prepararsi la colazione durante la prima fermata, in causa dell'attacco furioso degli jungli-kudgia. Il luogo non era stato scelto male, poiché un largo canale fangoso li difendeva dall'attacco di quei testardi animali; e poi su quell'isolotto assieme a parecchie palme ed a piante d'areca, si vedevano degli ham, ossia dei manghi, carichi di frutta oblunghe di tre o quattro pollici di lunghezza, che sotto la buccia dura e verdognola, contengono una polpa giallastra, d'un sapore aromatico squisitissimo e salubre se ben matura. Il campo fu subito improvvisato alla meglio, all'ombra delle piante, poiché anche gli elefanti soffrono assai il calore; anzi tenendoli troppo esposti, corrono il pericolo di veder la loro pelle screpolarsi, formando così delle piaghe nella carne viva, che sono talvolta difficilissime a guarirsi. Gli è perciò che i loro cornac li spalmano di grasso, specialmente sulla testa. Furono accesi parecchi fuochi e furono messi ad arrostire i volatili abbattuti da Sandokan e da Tremal-Naik. Mentre gli arrosti rosolavano infilzati nelle bacchette di ferro delle carabine, e attentamente sorvegliati da una mezza dozzina di cuochi improvvisati, Sandokan, Surama ed il bengalese, scortati da alcuni dayachi, esploravano l'isolotto, per far raccolta di frutta, non avendo ormai più nemmeno un biscotto. La loro gita non fu inutile, poiché oltre a molli manghi, furono tanto fortunati da scoprire un paio di mahuah, piante preziosissime, che non a torto vengono chiamate la manna delle jungle, perché danno, dopo la caduta dei fiori, che sono pure mangiabilissimi, quantunque sappiano di muschio, delle grosse frutta col mallo violaceo, contenenti delle mandorle bianche eccellenti, lattiginose, colle quali gli indiani si preparano delle focacce gustosissime, che surrogano benissimo il pane. La colazione, abbondantissima, essendo tutti i volatili grossissimi, fu divorata in pochi minuti; poi tutti, Sandokan e Tremal-Naik eccettuati, si stesero sotto la fresca ombra delle palme, a fianco degli elefanti, i quali stavano consumando una enorme provvista di teneri rami e di foglie, non potendosi dare a loro né farina di frumento impastata, né la solita libbra di ghi per ciascuno, ossia di burro chiarificato. I due capi, che sospettavano sempre un attacco degli assamesi, e che da veri avventurieri non sentivano bisogno di riposarsi, avevano riprese le loro armi, per sorvegliare le due rive dell'isolotto. Volevano anche assicurarsi di ciò che facevano i bisonti, che poco prima avevano veduto ancora gironzolare al di là della fanghiglia. Percorso l'isolotto tutto all'ingiro, scorsero nuovamente gli jungli-kudgia. Si erano sdraiati al di là del canalone, brucando le dure erbe palustri che crescevano presso di loro. Vedendo apparire i due cacciatori, in un attimo furono tutti in piedi, cogli occhi iniettati di sangue, sferzandosi rabbiosamente i fianchi colle loro lunghe code infioccate. Muggivano ferocemente e dimenavano freneticamente le teste, come se si provassero ad avventare delle cornate. - Qui non siamo più sul dorso degli elefanti, - disse Sandokan. - È questo il momento di decimarli. - Accostò le mani alle labbra e mandò un lungo fischio. Subito malesi e dayachi si precipitarono verso la riva. - Fucilatemi quelle canaglie, - disse a loro Sandokan. - È tempo di finirla con questo inseguimento che dura da troppo tempo. - Fu una scarica terribilissima quella che partì. Su diciotto bisonti, undici caddero morti o moribondi; gli altri, vista la mala parata, si allontanarono a corsa sfrenata, mettendosi in salvo fra le moltissime macchie di bambù, che coprivano la jungla settentrionale. I nostri fuggiaschi non scorgendo più i bisonti, fecero ritorno all'accampamento, sicuri di potersi finalmente riposare senz'essere più disturbati. Verso le quattro pomeridiane, quando l'intenso calore cominciava a scemare, l'accampamento fu levato e gli elefanti, sempre preceduti dal pilota, riprendevano le mosse. Mezz'ora dopo ritrovavano finalmente il terreno solido. La jungla paludosa era stata attraversata e cominciava quella secca, con distese di eterni bambù lisci e spinosi, di erbe altissime semi-bruciate dal solleone, di immensi cespugli con qualche gruppo di mindi, quei graziosi arbusti dalla corteccia bianchiccia, foglie verdi pallide e lunghi grappoli di fiori, d'un giallo delicato e dal profumo delizioso. Era il momento di spingere i pachidermi a gran corsa, per lasciare definitivamente indietro gli assamesi, se ancora li seguivano. Una brutta sorpresa però attendeva i fuggiaschi e si preparavano a offrirla gli implacabili bisonti. Nessuno più pensava a quegli animali, che non si erano fatti più vedere dopo la disastrosa sconfitta, che avevano subìta sul margine della fanghiglia, quando una improvvisa agitazione si manifestò fra gli elefanti. Il pilota pel primo si era fermato dimenando la proboscide e lanciando dei sonori barriti. - In guardia, signori! - gridò il cornac, volgendosi verso Sandokan e Tremal- Naik, che si erano alzati scrutando le folte macchie che li circondavano. - Noi abbiamo dimenticato gli jungli-kudgia, - disse Tremal-Naik. - Ancora quelle canaglie! - esclamò Sandokan furioso. - T'ho già detto che tu non li conosci. - Questa volta li stermineremo! - Non ci resta altro da fare, se vogliamo continuare tranquillamente la marcia. - Sandokan alzò la voce. - Tenetevi pronti tutti! Fuoco accelerato e mirate meglio che potete. - Gli elefanti, malgrado i colpi d'arpione, non si muovevano e non cessavano di barrire. Si erano piantati solidamente sulle zampacce, colla proboscide ben alta, pronta a vibrare colpi vigorosi e le teste basse colle lunghe zanne tese innanzi. Avevan fiutato il pericolo prima degli uomini e si preparavano a sostenere gagliardamente l'urto degli avversari, proteggendosi vicendevolmente i fianchi, per non farsi sventrare dalle aguzze corna di quegli indemoniati animali. I malesi ed i dayachi, tutti appoggiati ai bordi delle casse, colle dita sui grilletti delle carabine, erano pronti ad appoggiarli e ben risoluti a difenderli. Gli jungli-kudgia s'avvicinavano, sfondando con slancio irresistibile le macchie. Le altissime canne oscillavano in diversi punti, poi cadevano abbattute dalle corna d'acciaio dei colossi animali. La carica, a giudicarlo dalle mosse disordinate dei bambù, doveva avvenire per diverse direzioni. Gli astuti e vendicativi animali, non si slanciavano più in una sola massa, per non cadere in gruppo come sulle rive della fanghiglia. - Eccoli! - gridò ad un tratto il cornac. Un bisonte, dopo d'aver sfondato con un ultimo urto una vera muraglia di bambù spinosi, comparve all'aperto e si slanciò, con impeto selvaggio, contro l'elefante pilota, colla testa bassa, per piantargli le corna in mezzo al petto. Fu così fulmineo l'attacco, che Sandokan, Tremal-Naik, Kammamuri e anche Surama, la quale si era pure armata, essendo una buona bersagliera, non ebbero nemmeno il tempo di far fuoco. L'elefante-pilota però vegliava attentamente. Alzò la sua possente tromba, poi quando si vide l'animale quasi fra le gambe, lo percosse furiosamente sulla groppa. Parve un colpo di spingarda. Lo jungli-kudgia stramazzò di colpo, colla spina dorsale fracassata da quella tremenda sferzata. S'udì quasi subito un crac, come se delle ossa si spezzassero sotto una pressione spaventevole. Il pachiderma aveva posato ambe le zampe posteriori sul moribondo, schiacciandogli la testa. - Bravo pilota! - gridò Tremal-Naik. - Questa sera avrai doppia razione di typha! - Altri tre bisonti erano comparsi sbucando da diverse direzioni e caricando all'impazzata. Uno fu subito fulminato da una scarica dei malesi e dei dayachi, il secondo andò a cacciarsi fra due elefanti della retroguardia e subito schiacciato prima che avesse potuto far uso delle sue corna, ed il terzo, ferito e forse gravemente da una palla di Sandokan, voltò le spalle rientrando nelle macchie, forse per morire là dentro in pace. Giungeva però il grosso, formato fortunatamente da cinque soli animali, gli unici superstiti della numerosa truppa. L'accoglienza che ebbero fu tremenda. I malesi ed i dayachi che avevano avuto il tempo di ricaricare le armi, li ricevettero con un vero fuoco di fila, arrestandoli in piena corsa ed il peggio fu quando gli elefanti, aizzati dai cornac, caricarono a loro volta abbattendo con gran colpi di proboscide quelli che, quantunque gravemente feriti, tentavano ancora di rialzarsi. - Ehi, Tremal-Naik! - gridò allegramente Sandokan. - Che questa volta la sia proprio finita? - Vorrei sperarlo, - rispose il bengalese che non era meno lieto di quel completo successo. - E quello che si è rifugiato nella jungla, vada a cercare altri compagni? - Le truppe di bisonti non s'incontrano ad ogni passo e poi ogni gruppo fa da sé e non si unisce mai agli altri. Facciamo le nostre provviste, giacché la carne qui abbonda, mentre noi siamo a secco. Il filetto e le lingue di questi animali, godono fama di essere bocconi da re. - Gli elefanti furono fatti inginocchiare e tutti scesero a terra, senza l'aiuto delle scale, correndo verso quelle enormi masse di carne. Non fu però impresa facile spaccare quelle gobbe per trarne i filetti. I bisonti indiani, al pari di quelli americani, offrono delle resistenze incredibili anche dopo morti, per lo spessore enorme delle loro ossa che sono a prova di scure. I malesi, dopo essersi invano affaticati, dovettero lasciare il posto a Bindar ed ai cornac più pratici di loro. Fatta un'abbondante provvista di lingue e di carne scelta, la carovana riprese la marcia, rimontando verso il settentrione con passo abbastanza celere, malgrado gli ostacoli che presentava incessantemente l'interminabile jungla. Non fu che verso le otto della sera, nel momento in cui il sole precipitava all'orizzonte e dopo d'aver percorse ben quaranta miglia in poche ore, che Sandokan diede il segnale della fermata a breve distanza dalla riva destra del Brahmaputra, il quale piegava pure, in senso inverso, a settentrione, scendendo dall'imponente catena dell'Himalaya. Non essendo improbabile che in quel luogo vi fossero molti animali feroci, Tremal-Naik e Kammamuri fecero improvvisare dai malesi e dai dayachi, uno stecconato di bambù, intrecciati e accendere anche, ad una certa distanza, numerosi falò; poi le tende furono rizzate per difendersi dai colpi di luna, che nell'India non sono meno pericolosi di quelli di sole, poiché dormendo col viso esposto all'astro notturno, sovente ci si sveglia ciechi affatto. La cena fu deliziosa e, come si può ben immaginare, abbondantissima. Gustate furono specialmente le lingue dei bisonti, che erano state messe a bollire in un pentolone di rame. I flying-fox, quei brutti vampiri notturni, dalle ali nere, che quando sono interamente spiegate, misurano insieme perfino un metro e che hanno il corpo rivestito da una folta pelliccia rossastra, e la testa che somiglia a quella della volpe, cominciavano a descrivere in aria i loro capricciosi zig-zag, quando Sandokan, Surama e Tremal-Naik, si ritirarono sotto la loro tenda, sicuri di poter passare finalmente una notte tranquilla. Gli altri li avevano già preceduti. Solo Kammamuri e Sambigliong, con quattro dayachi, erano rimasti a guardia del campo, potendosi dare che qualche tigre, qualche pantera, si celassero nei dintorni e tentassero, quantunque i fuochi ardessero sempre, qualche colpo sugli addormentati.

I PREDONI DEL SAHARA

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Salgari, Emilio 2 occorrenze

"Lo scorgo benissimo e posso abbatterlo." "Lo miro anch'io," rispose il sardo. La giovane ebrea aveva alzato la carabina americana, appoggiando la canna al tronco d'una acacia per mirare con maggior sicurezza. Era tranquillissima come se si trovasse dinanzi ad un bersaglio anziché ad una delle più pericolose belve dell'Africa. Le sue belle braccia non avevano il minimo tremito, cosa veramente straordinaria in una donna. "Bella e coraggiosa," mormorò il marchese, con ammirazione. "Se ... " L'acuta detonazione della carabina gli ruppe la frase. La belva che stava nascosta dietro al cespuglio s'alzò di colpo sulle zampe deretane, girando su se stessa, poi cadde senza mandare un grido. "Bel colpo!" esclamò il marchese. "Signorina Esther, i miei complimenti!" "Una cosa assai facile, come ben vedete," rispose la giovane. "Ma che cosa abbiamo ucciso?" chiese Ben Nartico. "Il leone o qualche altro animale?" "Ora lo sapremo," disse il marchese. Stava per slanciarsi fuori dalla macchia, quando verso l'accampamento echeggiarono urla di terrore, seguite da tre detonazioni. "Chi assale i nostri uomini?" gridò il signor di Sartena, arrestandosi. Un ruggito formidabile rintronò nella foresta come un colpo di tuono, uno di quei ruggiti così possenti che non si dimenticano più una volta uditi. "Mille cabili!" disse Ben Nartico. Si lanciarono di corsa attraverso la macchia. Avevano percorso cinquanta passi quando videro un'ombra balzare fuori da un cespuglio, passare sopra le loro teste colla rapidità di una freccia e scomparire subito in mezzo agli alberi. Il marchese e Rocco avevano subito alzato i fucili. "Troppo tardi," disse il signor di Sartena. "Un leone di statura gigantesca e che per poco non mi ha atterrato," disse Ben Nartico. "Attenzione! Forse sta per riprendere lo slancio." Tutti avevano puntato i fucili verso gli alberi fra i quali era caduta la belva, credendo di vederla ricomparire. "Che si sia già allontanato?" chiese il marchese, dopo qualche istante d'angosciosa attesa. "Non si ode più nulla." "Ripieghiamo sull'accampamento," disse Ben Nartico. "Qui non siamo sicuri." Ripresero la marcia tenendo le armi puntate a destra ed a manca, pronti a fare una scarica, e giunsero in pochi minuti presso i fuochi. Il moro ed i due beduini erano ancora in preda ad una grande paura e scagliavano da tutte le parti tizzoni accesi. "Signore," disse El-Haggar, con voce alterata, "il leone ha approfittato della vostra assenza per assalirci. È piombato su uno dei nostri asini, spezzandogli la spina dorsale con un terribile colpo d'artiglio." "E se lo è portato via?" "No, signore, perché gli abbiamo sparato addosso." "E lo avete mancato." "L'assalto è stato così improvviso che non abbiamo avuto il tempo di mirarlo." "Da quale parte è fuggito?" chiese Ben. "In mezzo a quel gruppo d'alberi." "Dinanzi a voi!" esclamò il marchese. "Allora i leoni sono due invece d'uno." "Certo," disse Rocco; "quello che ci è passato sopra doveva essere un altro." "Diavolo!" esclamò il marchese. "La faccenda si fa seria." "E la bestia che è caduta presso il cespuglio?" chiese Esther. "Che fosse anche quello un leone?" "Me lo domandavo in questo momento," rispose il corso. "Che cosa fare?" chiese Rocco. "Dare una buona lezione all'assassino del nostro asino," disse il marchese, senza esitare. "Sono in due, signore," disse Ben Nartico. "Un'idea!" esclamò Rocco. "Gettala fuori." "Voi sapete che i leoni hanno l'abitudine di ritornare là dove hanno abbattuto una preda." "Sì, per divorarsela, quando le iene e gli sciacalli la lasciano." "Trasciniamo l'asino fuori del campo e aspettiamo il ritorno dell'assassino. Oh! Non tarderà a mostrarsi, ve lo assicuro." "Mettiamo in esecuzione la tua idea," disse il marchese. Chiamò i beduini ed il moro e diede l'ordine di trascinare l'asino a centocinquanta metri dall'accampamento, presso un gruppetto di cespugli. Mentre obbedivano, egli, aiutato da Rocco e da Ben, accumulò parecchi grossi rami verso uno dei fuochi, in modo da formare una specie di barricata alta un buon metro e solidissima. "Ci nasconderemo qui dietro," disse. "I leoni, non vedendoci, ci crederanno addormentati e non tarderanno a venire per portarsi via la preda." "Signorina Esther, potete prendere un pò di riposo. Quando si mostreranno, vi sveglieremo." Fece sdraiare i due beduini ed il moro presso i cammelli, poi si nascose dietro la barricata assieme con Ben Nartico e con Rocco. La foresta era tornata silenziosa. Pareva che i due leoni, scoraggiati dalla mala riuscita del loro primo assalto, si fossero allontanati. Nondimeno né il marchese, né i suoi compagni ne erano convinti. "È un'astuzia vecchia," aveva detto il signor di Sartena. "Sono certo che ci spiano." Checché sia stato detto e scritto, il leone dell'Africa settentrionale, molto più grosso e più forte di quello dell'Africa meridionale, non rinuncia mai alla sua preda, anche quando sa di essere insidiato. Possiede un'audacia incredibile e non teme l'uomo, sia arabo o europeo, soprattutto quando ha cominciato ad assaggiare la carne umana. In ciò rassomiglia alle tigri dell'India. Anche queste, dopo che hanno divorato la prima vittima umana, diventano eccessivamente sanguinarie e affrontano risolutamente qualsiasi pericolo, pur di provvedersene altre. Generalmente il leone che vive di animali sorpresi nelle foreste sfugge quasi sempre il cacciatore. Se per caso ne atterra uno e prova ad assaggiarlo, allora diventa estremamente pericoloso. Osa entrare di notte nei duar per rapire i beduini o gli arabi addormentati, e non lo trattengono né i fuochi accesi attorno ai campi, né le siepi spinose e nemmeno le palizzate che varca con facilità, possedendo uno slancio incredibile. Per citare un caso dell'audacia di questi animali, basterà narrare un aneddoto. A Tsavo, nell'Uganda inglese, si stava costruendo un tronco ferroviario. Una notte due operai cinesi scomparvero. Erano stati portati via da un leone, il quale aveva avuto l'audacia di andarli a rubare in mezzo ad un accampamento difeso da trincee, da siepi e da fuochi e abitato da centinaia di persone. Poche sere dopo quell'animale, che aveva preso molto gusto alla carne umana, ritornava in quel medesimo accampamento e si portava via un indiano di cui aveva lasciato intatta la sola testa. Il signor Patterson, uno dei direttori del tronco in costruzione, spaventato dal crescente numero delle vittime, prepara un'imboscata; ma il leone sfugge con un'abilità incredibile, entra nell'accampamento dalla parte opposta e rapisce un altro lavorante. Si raddoppiano le siepi, i fuochi e le sentinelle, ma tutto è invano. Il formidabile mangiatore d'uomini due sere dopo salta la cinta, sventra la tenda che serviva da ospedale, ferisce mortalmente due malati, atterra un infermiere e se ne porta via un altro che va a divorarsi tranquillamente nella foresta. Il signor Patterson prepara un nuovo agguato presso l'ospedale, ed al mattino s'accorge che il leone ha ucciso uno dei portatori d'acqua, non lasciando che un pezzo di cranio ed una mano. Soltanto dopo parecchi agguati venne finalmente ucciso insieme ad un compagno, quando aveva già divorato, in poche settimane, una cinquantina d'operai fra negri, indiani e coolies cinesi. Il marchese di Sartena poteva quindi essere certo che i due leoni sarebbero ritornati per riprendersi la preda o fare qualche nuova vittima. Ed infatti non era ancora trascorsa un'ora quando Rocco s'accorse che un'ombra scivolava cautamente dietro i cespugli, cercando d'avvicinarsi all'accampamento. "Marchese, vengono," disse. "Me lo immaginavo," rispose il corso. "Ci sono tutti e due?" "Non ne ho veduto che uno." "Dove sarà l'altro? Stiamo in guardia onde non ci piombi addosso da qualche altra parte. "Lasciate che faccia fuoco solamente io, per ora; voi serbate i vostri colpi per l'altro." "Eccolo, marchese guardatelo!" esclamò Ben Nartico. "Che animale superbo," disse il corso. "Non ne ho veduto di così grossi, nemmeno nella Cabilia." Il leone era uscito dai cespugli e si era piantato dinanzi al primo fuoco, percuotendosi i fianchi colla lunga coda. Era un animale veramente splendido, uno dei più grossi e dei più maestosi della famiglia leonina. Doveva misurare non meno di due metri ed aveva una criniera abbondantissima, molto oscura, che gli dava un aspetto maestoso. I suoi occhi, che mandavano cupe fiamme, s'erano fissati sull'ammasso formato dai rami, come se già avesse indovinato che colà si nascondevano i suoi avversari. Nondimeno si teneva ritto, colla testa alta, il corpo raccolto, come se si preparasse a slanciarsi e ad impegnare risolutamente la lotta. Il marchese passò silenziosamente la canna del suo Martini in una fessura fra due rami e mirò attentamente quel terribile nemico. Già stava per far partire il colpo, quando un ruggito terribile, assordante, seguito dalle urla dei beduini e del moro e dai nitriti dei cavalli, risuonò dietro di lui. "Il leone! ... Il leone! ... " urlavano i carovanieri. Il marchese ritirò prontamente l'arma e si volse. Il secondo leone era piombato improvvisamente in mezzo all'accampamento, varcando i fuochi con un salto immenso. Spaventato forse dalle grida dei beduini e del moro, era rimasto un momento immobile, probabilmente anche sorpreso dalla propria audacia. "Occupatevi dell'altro, marchese!" gridò Rocco, facendo fuoco contemporaneamente a Ben Nartico. Ai due spari aveva fatto eco un nuovo ruggito, più formidabile del primo. La belva era caduta, ma poi si era subito risollevata. Con un salto abbatté la tenda di Esther, poi varcando nuovamente i fuochi si slanciò fuori dall'accampamento. Quasi nel medesimo istante le barricate rovinavano addosso al marchese, atterrate da un urto irresistibile, ed il secondo leone piombava a sua volta nel campo. Vedendosi vicino un cammello, gli balzò sulle gobbe, ruggendo spaventosamente, mentre Ben Nartico e Rocco si gettavano dinanzi alla tenda, fra le cui pieghe si dibatteva Esther, cercando d'uscire. Il marchese però non aveva perduto il suo sangue freddo. Quantunque intontito dal rovinio delle casse, si era prontamente rialzato col fucile in mano. "A me!" gridò. Il leone non era che a dieci passi e si sforzava di tenere al suolo il cammello, che faceva sforzi disperati per sbarazzarsi di quello strano cavaliere. "Badate!" gridò Ben, che ricaricava precipitosamente il fucile, mentre Rocco aiutava Esther a liberarsi dalla tenda che la soffocava. Il marchese muoveva intrepidamente contro la fiera, dalla cui gola spalancata uscivano sordi ruggiti che aumentavano rapidamente d'intensità. Aveva puntato il fucile, mirando la belva in pieno petto, onde colpire il cuore. Anche Ben Nartico aveva alzato il fucile e Rocco ed Esther stavano per imitarlo. I beduini ed il moro invece si erano rifugiati dietro un falò. Ad un tratto il leone, dopo aver dilaniato le gobbe al povero cammello, si raccolse su se stesso abbassando la testa e digrignando i denti. Il marchese si trovava allora a solo sei passi. "Sta per slanciarsi!" gridò Rocco. "Fuoco, padrone!" Un colpo di fucile rimbombò. Il leone stramazzò in mezzo ai cammellí, ma subito si rialzò ruggendo spaventosamente. Stava per scagliarsi sul marchese il quale ricaricava l'arma quando Esther, Ben Nartico e Rocco fecero una scarica. Il leone era ricaduto e questa volta per non più rialzarsi. Si dibatté per qualche istante, cercando ancora di lacerare i fianchi al povero cammello, poi si irrigidì. "Perbacco! ... Che pelle dura!" esclamò il marchese con voce tranquilla. "Eppure l'avevo colpito al cuore!"

Il vento, diventato impetuosissimo, lo respingeva, lo rotolava al suolo, poi tornava ad abbatterlo, mentre la sabbia lo accecava e gli entrava fra le fauci disseccate, minacciando di soffocarlo. Quando poté finalmente giungere al crepaccio, la giovane ebrea era tornata in sé. "Marchese!" esclamò, rivedendolo, "vi credevo perduto." "Prendete, vi è dell'acqua qui!" rispose il signor di Sartena, articolando le parole a sbalzi. "No, voi ... voi ... " "Silenzio ... bevete ... dopo ... dopo ... " La giovane accostò le labbra aride all'apertura dell'otre e bevette a lunghi sorsi, tenendo gli occhi fissi in quelli del marchese. Sul suo viso, ordinariamente candido come l'alabastro, colorito particolare delle ebree marocchine, che vince in splendore quello delle creole, a poco a poco si diffondeva una leggera sfumatura rosea. "Grazie," disse, ma con un accento così caldo che fece trasalire il marchese. Questi le sorrise, poi a sua volta accostò la bocca all'apertura ancora umida delle labbra rosee della bella giovane e bevette. Gli parve che quell'acqua, che aveva bagnato la bella bocca di Esther, fosse diventata più dolce e più fresca, dandogli una sensazione deliziosa. Depose con precauzione l'otre accanto all'altro, badando che non sfuggisse nemmeno una goccia di quel liquido prezioso; poi guardò verso l'apertura, come se volesse evitar lo sguardo nero e scintillante della giovane, che si teneva ostinatamente fisso su di lui. "E vostro fratello? ... e Rocco?" disse. "Non li avete veduti?" chiese Esther con inquietudine. "No! ... " esclamò il marchese, stupito di non aver pensato prima ai suoi compagni. "Che abbiano trovato, al pari di noi, rifugio?" "Volete che vada a cercarli?" "Vi esporrete a un grave pericolo, marchese. Non udite come le sabbie precipitano dinanzi alle rocce e come il vento rugge?" "È vero, Esther, pure non devo rimanere qui inoperoso mentre forse stanno per venire sepolti da queste trombe di sabbia." Così dicendo si spinse verso l'apertura, ma comprese subito che qualunque tentativo sarebbe stato vano. Il deserto era in piena tempesta e offriva uno spettacolo terribile. Le dune si scioglievano come se fossero diventate di neve e il vento, sempre più caldo e sempre più impetuoso, sollevava le sabbie in tali quantità da ottenebrare il cielo. Le cortine turbinavano in tutte le direzioni alzandosi a prodigiose altezze, poi si spezzavano bruscamente precipitando, quindi tornavano ad alzarsi, volteggiando sulle possenti ali del turbine. In certi momenti quell'oscurità s'illuminava d'una luce viva e rossa come se il deserto fosse in fiamme e come se il cielo fosse rischiarato da centinaia di vulcani. In alto e in basso si udivano rombi assordanti, seguiti da ululati spaventosi prodotti dal vento sempre più scatenato. Le sabbie, spinte dappertutto, cominciavano già ad accumularsi anche dinanzi al rifugio, minacciando di otturarlo. Dall'alto di quell'enorme ammasso di rocce cadevano ad ogni istante valanghe di sassi, i quali rimbalzavano dovunque, correndo poi all'impazzata pel deserto, sotto la spinta irresistibile dei venti. "Marchese," disse Esther, stringendosi a lui, "ho paura!" "Siamo al coperto e nulla abbiamo da temere," rispose il signor di Sartena, cingendole con un braccio la vita. "Non siamo noi che corriamo pericolo, bensì gli uomini della carovana." "E mio fratello!" "Avrà raggiunto qualche altro rifugio, ne sono certo, Esther. Il moro aveva detto che ve n'erano parecchi fra queste rocce e forse i nostri compagni sono più vicini a noi di quello che crediamo. Riposatevi, fanciulla e aspettiamo che il simun cessi; dovete essere stanca." "È vero, marchese; mi reggo appena. Mi pare che l'aria mi manchi." "Riposatevi in quell'angolo; io veglio su di voi. Se avviene qualche cosa, vi sveglierò." La giovane, che si sentiva stordita e completamente affranta, si rifugiò nell'angolo più lontano della caverna, mentre il marchese si sdraiava presso l'apertura, tendendo gli orecchi colla speranza di udire qualche chiamata. Si sentiva però anche lui invadere da un profondo torpore, causato forse da quell'intenso calore e dalla difficoltà del respiro, e faceva sforzi prodigiosi per tenere aperti gli occhi. Quando, dopo alcuni minuti, si volse, vide Esther stesa sulla fine sabbia della caverna, colla testa abbandonata su un braccio e le palpebre chiuse. Il seno le si alzava affannosamente, come se provasse difficoltà a respirare quell'aria infuocata che pareva priva di ossigeno. "Un pò di riposo le farà bene," disse. Si rimise in osservazione, lottando contro il torpore che lo invadeva con maggior ostinazione; quando ad un tratto chiuse gli occhi. I fragori della tempesta non giungevano che vagamente alle sue orecchie e si sentiva invadere da un torpore delizioso, che lo invitava ad abbandonarsi. Lottò ancora qualche momento, poi, vinto da un estremo languore, si lasciò cadere, mentre le sabbie, spinte dai venti, continuavano ad accumularsi dinanzi al rifugio, minacciando di seppellirlo vivo colla giovane ebrea.

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