Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNIFI

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LE NOVELLE DELLA NONNA. Fiabe fantastiche

679058
Perodi, Emma 1 occorrenze
  • 1992
  • Newton Compton Editori s.r.l.
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Ma a un tratto la porta fu aperta e una turba di uomini si precipitò sulla scala per salire in vetta alla torre e abbatterla affinché il fuoco non si comunicasse al restante del castello. Però, appena la videro, rimasero come inchiodati, credendola un'apparizione, ed ella approfittò di quel momento di timore, per farsi largo ed uscire. Appena fu fuori si diede alla fuga, e trovando abbassato il ponte levatoio, perché era stato sonato a stormo e i terrazzani giungevano già per dar mano a spengere l'incendio, ella corse per la campagna e andò ad appostarsi in un bosco, poco lungi dalla strada per la quale il conte Beltramo doveva giungere. A un certo momento della notte la torre cadde con grandissimo fracasso e la contessa Chiarenza, che stava dalla sua finestra a guardare l'incendio, esclamò: - Questa volta la perfida è ben sotterrata fra i rottami, e il conte Beltramo non saprà rinvenirvela. Dirò che è fuggita, e nessuno potrà contraddirmi! La perfida Contessa, che aveva vegliato tutta la notte attendendo che la torre crollasse, si coricò; ma il rimorso le impedì di dormire, e all'alba era già alzata e si faceva acconciare dalle sue donne, alle quali raccontava che Lavella aveva appiccato il fuoco alla torre ed era fuggita. Esse fingevano di credere al racconto, e, per adulare la signora, dicevano che Lavella così doveva finire, perché era insubordinata, altera e sprezzante. I suoni del corno, che salivano dalla valle, fecero impallidire Chiarenza. Nonostante ella si fece animo e, terminatasi di acconciare, mosse incontro al suo signore, dando la mano a Selvaggia. Madonna Chiarenza attese il Conte nella grande sala d'armi e quando lo vide comparire fece per abbracciarlo; ma egli la respinse, e con piglio severo le chiese: - Dov'è mia figlia? - Eccola! - rispose la perfida donna spingendogli nelle braccia Selvaggia. - Io non intendo parlare di questa, - disse il Conte, - ma di Lavella, così dolce, buona e leggiadra. - Ahimè, signor mio! Quella insubordinata mi ha dato molta pena nella vostra assenza. Ed io, per restituirvela come me l'avevate consegnata, avevo stimato bene di tenerla chiusa nella torre; ma neppur là dentro ho potuto custodirla, poiché ella vi ha appiccato il fuoco ed è fuggita. - Madonna, voi siete una perfida, - disse il Conte. - Che cosa avete fatto a Lavella? Se l'infelice è perita per mano vostra, voi pure perirete. - Più che rinchiuderla io non potevo fare, e chiamo il Cielo a testimonio delle mie intenzioni. - Non bestemmiate! - urlò il Conte, e fattosi sulla porta fece un cenno. Pallida, con i capelli disciolti, le vesti bruciate, comparve Lavella. La Contessa mandò un grido vedendola, ma ricompostasi subito disse: - Vedete che è vero quello che vi dicevo; prima ha dato fuoco alla torre, e poi è fuggita. - No, non sono io che ho appiccato l'incendio, ma colei che mi voleva morta, - rispose Lavella pacatamente. - Il Signore, la Vergine Santissima e il mio angelo custode, mi hanno salvata dal veleno che ponevate nei miei cibi, e dall'incendio. Che cosa vi ho fatto, madonna, per meritare il vostro odio? - Sentite, signor mio, come mi accusa quella sfrontata; fatela tacere! - disse Chiarenza. Lavella, colpita da quelle parole, abbassò gli occhi e tacque, e il conte Beltramo non sapeva se credere al racconto delle sevizie patite, fattogli da Lavella, o alle accuse che la moglie aveva formulate contro di lei, quando Selvaggia, che era uscita per un momento, entrò con una fetta di torta in mano, nella quale poneva avidamente i denti. Chiarenza fece un lancio, le strappò la torta di mano e poi aprendole la bocca, smarrita dal terrore, le gridava: - Sputa! Sputa! È veleno! - Ecco il cibo che voi preparavate per Lavella; osereste negare il vostro delitto? - disse il Conte. Chiarenza non l'udì. Inginocchiata accanto alla figlia, la guardava ansiosamente e le poneva le dita in gola per farle rigettare la torta avvelenata. Ma Selvaggia, da gialla che era si era fatta livida. - Aiuto! Salvatela! - urlava la Contessa. Accorse padre Uguccione, le dette subito alcuni farmachi, ma Selvaggia, invece di riaversi, si contorceva come i topi nella prigione di Lavella, e strillava come se la uccidessero. La figliastra se ne stava in disparte, guardando atterrita quella scena in cui riconosceva la giustizia di Dio. Selvaggia spirò fra atroci dolori e la madre se la strinse fra le braccia cercando di rianimarla col suo fiato. Il Conte fece atto di trascinare via la moglie, ma Lavella, guardandolo pietosamente, gli disse: - Non vi pare che ella sia abbastanza punita della sua perfidia? - Hai ragione, - rispose il Conte. - Lasciamola al suo dolore e al suo rimorso; e tu, figlia mia, va' a farti bella, perché fra poco giungerà il bel cavaliere Guglielmo degli Ubertini, colui che vestì i tuoi colori alla giostra di Bibbiena, per domandarti in isposa. Lavella uscì, e quelle stesse donne che avevano dimostrato per lei tanto odio quando Chiarenza la torturava, le furono d'attorno facendo a gara ad acconciarla e a proclamarla bella. Gli sponsali si fecero quel giorno stesso con molta pompa, e Lavella sentiva dintorno a sé un coro di voci celestiali, che gli altri non udivano. La contessa Chiarenza compose la figlia nella bara, e mentre la sala echeggiava di suoni e di liete conversazioni, lei sola assisteva ai funerali della figlia. Il giorno dopo, madonna Chiarenza partiva per ordine del marito e andava a rinchiudersi in un convento di Arezzo, mentre Lavella, figlia e sposa felice, restava signora del castello. La novella non dice come finisse Chiarenza, ma si sa che Lavella si mantenne sempre buona e leggiadra, e visse lungamente a fianco dello sposo, al quale die' numerosa figliuolanza. - Ma quanto patì quella poverina! - osservò l'Annina, quando la nonna ebbe terminato di narrare. - Bambina mia, - replicò la vecchia, - ogni creatura che resta senza madre è da compiangere, e Dio non vi faccia mai provare una matrigna. Appena ebbe pronunziato quel nome, Cecco diventò rosso, e, facendosi forza, domandò alla cognata e ai fratelli: - Dunque, la volete o no in casa la Vezzosa? - Come sarebbe a dire? - rispose Maso. - Io, ormai, ho fatto proposito di sposarla, - riprese l'artigliere. - Se l'accettate in casa e la mamma nostra è contenta, la sposo subito; se no mi cerco un poderetto, prendo meco la nostra vecchina, e la sposo lo stesso. Lavoreremo come cani da principio, ma non avrò più il martirio di saper quella povera ragazza nelle mani della matrigna. - La nostra vecchia non uscirà di casa! - dissero tutti in coro. - E allora? - domandò Cecco che aveva fatto una provvista di coraggio. - Senti, - disse Maso dopo aver riflettuto. - Noi si ha bisogno almeno di un po' di roba, e non possiamo caricare il podere di una nuova famiglia. Capisco che a te vada giù male di veder patire Vezzosa, ma finché si piange soli, le lacrime non sono amare come quando si piange in compagnia. - Ma quella ragazza soffre, - osò dire la Regina. - Allora che devo dire? Sposala, e facciamola finita, - replicò Maso. - Lo sai che tocca a te a chiederla? - osservò la vecchia. - L'avrei da sapere; non ho già chiesto tutte le cognate? - Chiedila, dunque, e fai contento Cecco. - Ebbene, la chiederò. Cecco non poté dire una parola, e, per nascondere i lucciconi, abbracciò la sua vecchia.

IL RE DEL MARE

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

. - Mi basta che resista qualche ora e poi i dayaki non si affaticheranno ad abbatterla. Preferiranno bere il tuo bram, - disse Yanez ridendo. - Noi collocheremo nel cortile tutti i vasi che contiene la tua cantina e vedrai che quella barriera li arresterà meglio di qualunque altra. - Si ubriacheranno, ne sono certo. - È quello che desidero; perchè noi ne approfitteremo per andarcene, dopo d'aver incendiato il bengalow e le tettoie. Protetti dalla barriera di fuoco, nessuno ci molesterà almeno per alcune ore. - Tippo Sahib, il Napoleone dell'India non sarebbe certo capace di architettare un simile piano. - Quella non era una tigre di Mompracem, - disse Yanez con comica serietà. - Cadranno nel laccio i dayaki. - Non ne dubito. Appena si accorgeranno che la saracinesca è aperta e che le terrazze sono state abbandonate e disarmate, non indugieranno ad assalirci. Sotto gli arbusti spinosi non mancano delle spie che si affretteranno ad avvertirli. - A quando il colpo? - chiese Kammamuri. - Tutto deve essere pronto per questa sera. Le tenebre ci sono necessarie per fuggire senza essere veduti. - All'opera Yanez, - disse Tremal-Naik. - Io ho piena fiducia nel tuo piano. - Hai un cavallo per Darma? - Ne ho quattro e buoni. - Va benone, faremo correre i dayaki fino alla costa. Quanto hai impiegato tu, Kammamuri, a raggiungerla? - Tre giorni, signore. - Cercheremo di arrivare prima. I villaggi di pescatori non mancano e qualche praho o delle scialuppe sapremo trovarle. L'audace progetto fu subito comunicato ai difensori del kampong e da tutti approvato senza obiezioni. D'altronde, non vi era nessuno che non fosse disposto a fare un supremo tentativo per liberarsi da quell'assedio che cominciava a pesare e demoralizzare la piccola guarnigione. I preparativi vennero cominciati. Le spingarde vennero ritirate e piazzate dietro la palizzata interna, su terrazze frettolosamente costruite, essendo la fattoria fornita di legname, poi le cantine furono vuotate portando tutto il bram nel cortile che si estendeva dinanzi al bengalow. Vi erano più di ottanta vasi, della capacità di due e anche tre ettolitri ciascuno; tanto liquore da ubriacare un esercito, essendo quella mistura fermentata, di riso, di zucchero e di succhi di palme diverse, eccessivamente alcolica. Verso il tramonto, la guarnigione abbattè una parte della cinta e dopo aver isolate le terrazze, le incendiò per meglio attirare i dayaki e far loro credere che il fuoco fosse scoppiato nel kampong. Terminati quei diversi preparativi e preparate delle cataste di legna sotto le tettoie e nelle stanze terrene del bengalow, abbondantemente innaffiate di resine e di caucciù onde ardessero immediatamente, la guarnigione si ritrasse dietro la palizzata in attesa del nemico. Come Yanez aveva preveduto, gli assedianti attratti dai bagliori dell'incendio che divorava le terrazze contro cui si erano fino allora infranti i loro sforzi e fors'anche avvertiti dai loro avamposti celati sotto gli arbusti spinosi, che le cinte erano state sfondate, non avevano indugiato a lasciare i loro accampamenti per muovere ad un ultimo assalto. Presa fra il fuoco ed i kampilang, la guarnigione del kampong non doveva tardare ad arrendersi. Calavano le tenebre quando le sentinelle che vegliavano sui due angoli posteriori della fattoria annunciarono il nemico. I dayaki avevano formato sei piccole colonne d'assalto e s'avanzavano di corsa, mandando clamori assordanti. Si tenevano ormai certi della vittoria. Quando Yanez li vide entrare fra gli arbusti, fece dare fuoco alle cataste di legna accumulate sotto le tettoie e nelle stanze del bengalow, poi appena vide che i suoi uomini erano in salvo, fece tuonare le spingarde per simulare una disperata difesa. I dayaki erano allora davanti alle cinte. Vedendole in parte abbattute ebbero un momento di esitazione temendo qualche agguato, poi passarono correndo sotto le terrazze che finivano di ardere e si rovesciarono all'impazzata nel kampong, urlando a squarciagola, pronti a sgozzare i difensori a colpi di kampilang. Yanez vedendoli slanciarsi verso gli enormi vasi che formavano come una doppia barriera dinanzi al bengalow, aveva dato ordine di sospendere il fuoco per non irritare troppo gli assalitori. Vedendo quei recipienti, i dayaki per la seconda volta si erano arrestati. Un resto di diffidenza li tratteneva ancora non sapendo che cosa potessero contenere. L'alcol che si sprigionava dai coperchi, che erano stati appositamente smossi, non tardò a giungere ai loro nasi. - Bram! Bram! Fu il grido che uscì da tutte le gole. Si erano precipitati sui vasi, strappando i coperchi e tuffando le mani nel liquido. Urla di gioia scoppiarono tosto fra gli assedianti. Una bevuta s'imponeva, tanto più che i difensori avevano sospeso il fuoco. Un sorso, solo un sorso e poi avanti all'attacco! Ma dopo le prime gocce tutti avevano cambiato parere. Era meglio approfittare dell'inazione della guarnigione del kampong; d'altronde era infinitamente migliore, quell'ardente liquore, delle palle di piombo. Invano i capi si sfiatavano per cacciarli innanzi. I dayaki erano diventati ostriche attaccate al loro banco colla differenza che si erano invece incrostati ai vasi. Ottanta vasi di bram! Quale orgia! Mai si erano trovati a simile festa. Avevano gettato perfino gli scudi ed i kampilang e bevevano a crepapelle, sordi alle grida e alle minacce dei capi. Yanez e Tremal-Naik ridevano allegramente, mentre i loro uomini staccavano senza troppo rumore alcuni tavoloni dalla cinta per prepararsi la ritirata. Intanto le tettoie cominciavano ad ardere e dalle finestre del bengalow uscivano torrenti di fumo nero. Fra pochi istanti una barriera di fuoco doveva frapporsi fra gli assedianti e gli assediati. I dayaki non parevano preoccuparsi dell'incendio che minacciava di divorare l'intero kampong. Insaziabili bevitori continuavano a dare dentro ai vasi, urlando, ridendo, cantando, e contorcendosi come scimmie. Bevevano colle mani, coi panieri destinati a contener le teste dei vinti nemici, con gusci di noci di cocco trovati per il cortile. I loro stessi capi avevano finito per imitarli. Il terribile pellegrino dopo tutto era al campo e non poteva vederli. Perchè non avrebbero approfittato di quell'abbondanza, dal momento che gli assediati si mantenevano tranquilli? E gli uomini cadevano, come fulminati, pieni da scoppiare, intorno ai vasi, mentre le fiamme s'alzavano altissime facendo piovere su di loro una pioggia di scintille. Il bengalow era tutto in fuoco e le tettoie, piene di provviste, ardevano come zolfanelli, illuminando i bevitori. Era il momento di andarsene. I dayaki non si ricordavano forse di non aver più dinanzi il nemico, tanto la loro ubriachezza era stata rapida. - In ritirata! - comandò Yanez. - Abbandonate tutto fuorchè le carabine, le munizioni ed i parangs. Aiutando i feriti, lasciarono silenziosamente la palizzata, attraversarono la cinta e si slanciarono a corsa sfrenata attraverso la pianura, preceduti da Tremal-Naik e da Kammamuri che cavalcavano a fianco di Darma. La tigre li seguiva spiccando salti immensi, spaventata dalla luce dell'incendio che diventava sempre più intensa. Raggiunto il margine della boscaglia che si estendeva verso ponente, il drappello che si componeva di trentanove persone, compresi sette feriti, s'arrestò per prendere fiato e anche per osservare ciò che succedeva nel kampong e negli accampamenti dei dayaki. La fattoria pareva una fornace. Il bengalow che era costato tante fatiche al suo proprietario, ardeva dalla base alla cima come una fiaccola immensa, lanciando in aria fitte nubi di fumo e sprazzi di scintille. Le cinte avevano pure preso fuoco e rovinavano assieme alle terrazze. Si udivano gli scoppi delle spingarde che erano state abbandonate ancora cariche. Degli uomini s'aggiravano affannosamente trascinando i guerrieri che si erano ubriacati e che correvano il pericolo di essere bruciati accanto ai vasi di bram. Il pellegrino doveva aver tenuto alcuni drappelli di riserva per appoggiare le colonne d'assalto nel caso che non fossero riuscite a penetrare nel kampong e, non udendo più nè spari nè grida di guerra, erano certamente accorsi per vedere che cosa era successo dei loro compagni. - Che l'inferno bruci tutte quelle canaglie, - disse Yanez inforcando uno dei quattro cavalli che gli era stato condotto da Tangusa. - Solo mi spiace andarmene senza aver potuto mettere le mani su quel cane di pellegrino. Spero di ritrovarlo un giorno sul mio cammino e allora guai a lui! - Un giorno? - disse ad un tratto Kammamuri, che aveva volti gli sguardi verso il nord. - Gambe, signori! Siamo stati scoperti e ci danno la caccia!

I CORSARI DELLE BERMUDE

682285
Salgari, Emilio 1 occorrenze

Sir William passò rapidamente dinanzi alla sentinella, seguito da Testa di Pietra, che si era già preparato ad abbatterla con due terribili pugni, e da Piccolo Flocco. La stecconata era terminata e le case di Boston cominciavano a comparire. - Prendiamo la prima via che si trova dinanzi a noi - disse il Corsaro ai due marinai. - Siamo abbastanza lontani per non temere l'esplosione della mina. - Dove finiremo? - Lo vedremo più tardi. - Orizzontiamoci, comandante, - disse il bretone. - Conosci Boston? - Ci sono stato due volte, ma vent'anni fa. Ora non so più come siano le sue vie, pure credo che una certa taverna esista ancora. Lavorava tanto, perciò il suo padrone non può essere fallito, né fuggito nell'America del Sud. - Sapresti trovarla? - Mah! Con questa oscurità non è cosa facile. Diamine, non ho una bussola piantata nel cervello. In quel momento avvenne uno scoppio che li scaraventò tutti e tre a terra. La mina era scoppiata con fracasso spaventevole, lanciando in aria le casematte ed una parte del bastione. - Povero pappagallo! - esclamò Testa di Pietra che si era prontamente rialzato tastandosi le costole. - A quest'ora viaggia verso l'altro mondo, colla velocità di trenta o quaranta nodi all'ora. Deve soffiare sempre buon vento in quel brutto paese. Urla spaventevoli echeggiavano. Alcuni soldati fuggivano come pazzi in tutte le direzioni gridando: - Aiuto! aiuto Dalle finestre delle case prospicienti il bastione erano caduti con gran fragore i vetri. Il Corsaro e Piccolo Flocco non avevano riportato nessuna contusione, essendo, in virtù delle loro buone gambe, abbastanza lontani dal luogo dello scoppio. - Capitano. - disse Testa di Pietra - pare che di pappagalli ne siano volati in buon numero, non so se in cielo o all'inferno. Nei quartieri vicini squillavano le trombe per chiamare a raccolta i soldati dispersi per la città, ed avviarli sul luogo del disastro. Già dei furgoni carichi d'inglesi e di assiani correvano all'impazzata, per portare i primi soccorsi. - Gettiamoci in una viuzza oscura - disse il Corsaro. - se ci scorgono ci manderanno al bastione e non ho nessun desiderio di rivederlo. Fila, Testa di Pietra. Il bretone prese la corsa attraverso terrapieni ingombri d'artiglierie e di carri e, raggiunte le prime case, si gettò dentro un viottolo, che nessuna lanterna illuminava e che pareva deserto. - Ci fosse almeno una taverna aperta! - disse. - Oh, ne troveremo! - rispose il Corsaro. - Gl'inglesi sono troppo buoni bevitori per farle chiudere, specialmente in queste notti. Finestre si aprivano e teste si disegnavano vagamente alla luce delle lanterne. Domande e risposte s'incrociavano fra gl'inquilini. - Che cosa è saltato? - Un forte di sicuro. - È saltata la torre di Oxford insieme col castello. - Ma no, lo scoppio è avvenuto in direzione opposta. - Poveri figliuoli! Dopo che il Corsaro aveva riacceso l'occhio di bue, si erano rimessi in marcia, tenendo la mano sinistra appoggiata sul calcio d'una delle loro pistole. Il bombardamento continuava malgrado il disastro. Le palle americane giungevano facilmente in città dall'altura, sfondavano tetti e spaccavano muraglie. Di quando in quando altre esplosioni si succedevano, seguite da urli di spavento e da un fragoroso crollare di rottami. Erano le grosse granate dei mortai della corvetta che facevano quelle prodezze. - Suona la musica a bordo della Tuonante - dice Testa di Pietra. - Se si chiama Tuonante deve ben tuonare, per il borgo di Batz! ... Bum! Questi sono i cannoni da caccia di poppa. Saprei distinguere la loro voce fra mille altri pezzi. Percorsero, quattro o cinque viottoli fiancheggiati da case basse ed oscure che parevano disabitate; poi si fermarono dinanzi ad una lampada sospesa, sopra una porta. - Albergo delle trenta corna di bisonte! - lesse Piccolo Flocco sull'insegna, e domandò: - Che si possa mangiare bisonte qui, mastro Testa di Pietra? - Che io sappia, i bisonti non portano che due corna, quindi là dentro ve ne dovrebbero essere almeno quindici sempre a disposizione degli avventori. - Chiudete il becco! - disse il Corsaro, mettendo le mani su un anello di ferro che voleva essere una maniglia e spalancando la porta dell'albergo delle Trenta corna di bisonte. Un'ondata di fumo puzzolente li investì. Avevano fumato molto là dentro, quella sera, malgrado il bombardamento. L'albergo non era altro che una tavernaccia d'infimo ordine, che consisteva in uno stanzone assai basso dalle pareti ben affumicate, con una mezza dozzina di tavolini sgangherati e di scanni in non migliore stato, e illuminata da un'unica candela di sego che dava più fumo che luce. Dietro il banco, un omaccione coi capelli e la barba rossa e due occhi grossi come quelli dei buoi, dall'aria stupida, fumava la pipa reggendosi la testa con una mano. Scorgendo il Corsaro si alzò dicendo: - Buona sera, gentleman: che cosa posso servire a Vostro Onore? - Portaci una bottiglia di gin o di brandy, purché sia buono, rispose sir William sedendosi al tavolino che era più vicino alla candela. - Ne ho ancora qualcuna, gentleman. Se foste giunto fra qualche giorno, con mio grande dispiacere avrei dovuto rimandarvi, perché non entra più nulla nella piazza, Quest'assedio è la mia rovina. - Raddoppia i prezzi delle bottiglie che ancora possiedi, mastro Taverna - disse Testa di Pietra. - Ecco un bel consiglio. - Infatti avete ragione. - Ma non cominciare da noi. I consigli si pagano sempre, specialmente quelli che danno gli avvocati. - Ah! siete avvocato? - Sì, del catrame, - rispose il bretone, scoppiando in una risata. Il taverniere lo guardò stupidamente, poi scosse la sua grossa testa fulva e scese in cantina. - Si può fumare, comandante? - chiese il bretone. - Fa' quello che vuoi - rispose il Corsaro, che era diventato improvvisamente di cattivo umore. Testa di Pietra trasse da una delle sue dodici tasche la preziosa reliquia di famiglia, la caricò con cura minuziosa e l'accese alla fiamma della candela. - Pare impossibile - disse, dopo essersi avvolto in una nuvola di fumo - tutte le volte che adopero questa pipa mi pare di trovarmi in Bretagna. - Nel castello dei tuoi avi - disse Piccolo Flocco con aria grave. - Sappi, per tua regola, ragazzaccio, che i miei avi dormivano sempre sul mare e non avevano quindi bisogno di castelli - rispose il bretone. - Su qualche barca sconquassata. - Briccone! Mio nonno andava a pescare il merluzzo fino sulle coste dell'Islanda, ed il suo skooner era considerato il miglior veliero di tutte le coste bretoni. Se fosse stata una carcassa, mio nonno sarebbe morto sul mare, mentre ha chiuso gli occhi sul suo letto. - Foderato di piume d'edredon. - Sicuro! Portava sempre dall'Islanda quelle preziose penne che tengono tanto caldo. Il ritorno del taverniere, armato d'una bottiglia discretamente polverosa e di tre tazze, interruppe quella disputa che avrebbe potuto andare molto per le lunghe, ma alla quale il Corsaro pareva non avesse prestato nemmeno orecchio. - Vecchia, mastro Taverna? - chiese il bretone. - Cinquant'anni. - Corpo di centomila corna di bisonte! In quale distilleria della Inghilterra l'hai veduta nascere, se non hai nemmeno quarant'anni? - Bisognerebbe domandarlo a mio padre - rispose serio serio il taverniere. - Fallo venire. - È morto vent'anni fa, dopo aver bevuto, in seguito ad una scommessa, tre bottiglie di whisky. - Beveva per incoraggiare gli avventori - disse Piccolo Flocco. - E vi ha lasciata la pelle. - E la cantina a voi, mastro Taverna, - disse il bretone. - assaggiamo dunque questo famoso ... che cos'è? - Gin - Che ha cinquant'anni di prigionia. Comandante, se è vero che è così vecchio, vi metterà di buon umore. Il Corsaro non rispose. Colla testa appoggiata al braccio sinistro, gli sguardi fissi dinanzi a sé, il volto pallido, non si occupava di quanto accadeva intorno a sé. Certo doveva pensare in quel momento a Mary di Wentwort. - Soffia tempesta! - sussurrò il bretone in un orecchio del giovane gabbiere. Il taverniere sturò la bottiglia, empì una tazza, e subito si vide cadere, insieme col liquido, una cosa nerastra che mastro Testa di Pietra si affrettò a prendere. - Corpo d'una barca sventrata! - urlò. - Cosa faceva tuo padre? Il conservatore di scorpioni sotto spirito? Il taverniere era rimasto stupefatto e guardava con due occhi smarriti un superbo scorpione, magnificamente conservato, che il bretone teneva stretto fra le sue dita. - Che cosa ci fa qui dentro questa bestiaccia? - chiese Testa di Pietra -, guardandolo di traverso. - Volevi forse avvelenarci perché siamo inglesi? Ti faremo tradurre dinanzi al Consiglio di guerra e fucilare come traditore. - Perdonate, - rispose il taverniere balbettando e tremando. Questa è la bottiglia dove metteva in infusione gli scorpioni. - E volevi darci ad intendere che era stata tappata cinquant'anni fa in non so quale distilleria gallese? - Ho sbagliato, non avevo un lume. - Avaro! dovevi accendere una candela. - Non se ne trovano quasi più a Boston, e bisogna economizzare quelle poche che ancora rimangono. - E perché fai raccolta di scorpioni? Per avvelenare i soldati inglesi? Si vede bene che sei un americano, forse amico di quella canaglia di Washington o di quell'altra pellaccia che si chiama Arnold. - No, no, mister. Li metto in infusione per sanare più rapidamente le ferite. - Per il borgo di Batz! Hai mai udito raccontare che un taverniere facesse anche il farmacista? - Mai - rispose seriamente il giovane gabbiere. - E nemmeno voi, comandante? Il Corsaro si limitò a sorridere e a crollare la testa. - Riporta nella cantina i tuoi scorpioni - disse Testa di Pietra - e portaci un'altra bottiglia. Non dimenticare che se vi trovo qualche serpente in infusione, ti faccio fucilare. Il taverniere scappò via colla bottiglia, dicendo: - Scendo col lume, questa volta. - Crepi l'avarizia! - gli gridò dietro Piccolo Flocco. Un istante dopo risaliva con un'altra bottiglia di aspetto più venerando, perché aveva un bel contorno di ragnatele polverose. - Cent'anni? - chiese il bretone. - No, sessanta - rispose il taverniere. - L'ha tappata tuo nonno? - Mia madre. - Allora dev'essere eccellente: cambia le tazze e vuota. - Non l'hai ancora finita, vecchio brontolone? - chiese il Corsaro. - Comandante, - rispose Testa di Pietra - chiacchiero come una dozzina di pappagalli per distrarvi. Siete di pessimo umore stanotte, mentre dovreste esser contento ora che siamo entrati nella piazza. Qui non c'è burrasca. - Puoi avere ragione - rispose il Corsaro con un pallido sorriso. Prese la tazza che gli stava dinanzi poi la vuotò d'un fiato. - Proprio messo in prigione sessant'anni fa? - chiese Testa di Pietra; ma sir William rispose con una scrollata di spalle. - All'assalto anche noi, Piccolo Flocco. - Sempre, mastro, - rispose il giovane gabbiere. E tracannarono, senza nemmeno gustarlo, il fortissimo liquore. - Che te ne pare, figliuolo mio? - chiese il bretone. - Non so. - La mia pipa è più forte. - Sfido io! vi hanno fumato tre o quattro uomini per un paio di secoli almeno! - Non so se siano veramente due secoli, - rispose Testa di Pietra - ma molti anni sono passati attraverso questa pipa. Il turco che l'ha fabbricata doveva essere un vero artista ed anche ... Una mossa brusca del Corsaro gli troncò la frase Sir William si era alzato ed aveva fissato il taverniere, il quale si era fermato presso il tavolino, come se aspettasse un giudizio sulla bottiglia. - Da quanti anni di trovi in Boston? - gli chiese. - Ci sono nato, Vostro Onore. Dunque, ti trovavi qui quando gli americani assediarono la piazza. - Sì, mio gentleman. - Allora conoscerai tutti i comandanti dell'armata. - Certo, signore. - Anche il marchese d'Halifax? - Ho avuto l'altissimo onore di portargli le mie ultime bottiglie di Bordeaux e di Champagne. - Ah! Dove abita? - Nel castello d'Oxford. Mi stupisco come Vostro Onore lo ignori - disse il taverniere. - Ci troviamo qui solamente da ieri, e non conosciamo affatto la città. - Abita nel castello d'Oxford? - esclamò Testa di Pietra. - So dove si trova, e vi saprei condurre ad occhi bendati, comandante. È il punto meglio fortificato della piazza: è vero, mastro Taverna? L'oste fece col capo un cenno affermativo. - Siediti - disse il Corsaro. Il taverniere obbedì, ma tenendo lo sgabello ad un paio di metri dalla tavola. - Hai mai veduto, nel castello, una fanciulla bionda? - Le ho portato due bottiglie di vino del Reno, mio gentIeman. Erano le ultime che tenevo nella cantina; due bottiglie che devono aver fatto molto onore all'Albergo delle trenta corna di bisonte. - Bum! - esclamò Testa di Pietra. - Vi erano certamente dentro scorpioni! - Ah, no, signore, - rispose il taverniere. - Non potrebbero conservarsi! - Per caso non ne avresti ancora una bottiglia? - Credo di si. - Portala subito: ma ti avverto che se vi trovo uno scorpione, parola di marinaio, dò fuoco alla tua baracca. Comandante, permettete che il vostro vecchio lupo di mare ve l'offra. Uomini che sono sfuggiti miracolosamente alla morte hanno ben diritto di bere più d'un bicchierotto e di quello prelibato. - Fa' come vuoi - rispose il Corsaro sorridendo. - Sei il più pazzo dei miei marinai. - Quando affermate ciò, ci credo, - rispose il bretone con gravità - e appena terminata la campagna, andrò a rinchiudermi in un manicomio.

I PREDONI DEL SAHARA

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

"M'incarico io di abbatterla," disse Rocco. "Allarghiamo il passaggio," disse il marchese. "Con queste due sbarre possiamo spostare una lastra, è vero, Rocco?" "Ci riuciremo, signore," rispose il sardo, il quale ormai non dubitava più della riuscita del suo piano. "E potremo poi uscire dal giardino?" chiese Ben. "Vi saranno delle muraglie da superare." "Le scaleremo," rispose Rocco. "Diavolo d'un uomo," mormorò l'ebreo. "Trova tutto facile, ma sa anche operare." Stavano per mettersi al lavoro, quando il marchese si arrestò, dicendo: "E se ci sorprendono? Ben, mettetevi presso la porta e se qualcuno s'avvicina, avvertiteci. Noi due basteremo a smuovere la lastra." Essendo le due sbarre un po' appuntite, riuscirono a sgretolare parte dell'intonaco, una specie di calce rossiccia di poca resistenza, quindi si provarono a smuovere la lastra di destra che formava uno degli angoli della feritoia. Dopo quattro o cinque colpi la pietra si spostò, quindi cadde fra le braccia del sardo. Dietro non vi era che del fango disseccato mescolato a pochi mattoni cotti al sole. "Che cosa dite, padrone?" chiese Rocco, giulivo. "Che fra un'ora noi saremo liberi," rispose il marchese. "Questi mattoni non offriranno alcuna resistenza." "Che cattive costruzioni, signor marchese." "Gli abitanti di Tombuctu non conoscono la calce. Tutte le loro case sono fatte con mattoni male seccati e con argilla." "Assaliamo la parete, signore." "Adagio, Rocco. La sentinella può accorgersi del nostro lavoro." "Faremo poco rumore." Si rimisero al lavoro, sgretolando l'intonaco e levando i mattoni che mettevano a nudo. La feritoia a poco a poco si allargava, nondimeno ci vollero non meno di quattro ore prima che fosse ottenuto uno spazio sufficiente per lasciar passare i loro corpi. Quand'ebbero finito, la notte era calata da qualche ora. "È il momento di andarsene," disse Rocco. "Puoi passare?" chiese il marchese. "Tu sei il più grosso di tutti." "Passerò, signore." "Guarda se il kissuro ha lasciato il posto." Rocco si alzò sulle punte dei piedi e sporse con precauzione la testa. "È sempre lì sotto e mi pare che si sia addormentato," disse. "Non si muove più!" "È bene armato?" "Ha una lancia e delle pistole alla cintura. Oh!" "Cos'hai?" "Invece di accopparlo con un colpo di sbarra lo afferro pel collo e lo metto al nostro posto." "Saresti capace di fare una simile prodezza?" "Guardate!" Il sardo passò il corpo attraverso la feritoia, allungò la destra, afferrò la sentinella per la gola stringendo forte onde impedire di mandare qualsiasi grido, poi lo alzò come un bamboccio e lo fece passare per lo squarcio, deponendolo ai piedi del marchese e di Ben. "Mille leoni!" esclamò il signor di Sartena. "Che braccio!" Il kissuro, rapito così di volo, non aveva nemmeno cercato di opporre resistenza. D'altronde Rocco non aveva allargato la mano. "Un bavaglio," disse l'ercole. "Presto o lo strangolo." Il marchese strappò un pezzo del suo caic, fece una fascia e aiutato da Ben l'annodò attraverso la bocca del disgraziato guerriero. "Ora le gambe e le mani," disse Rocco. "È fatto," rispose il marchese, il quale si era levato la lunga fascia di lana che gli stringeva i fianchi. Il kissuro, mezzo strangolato, era rotolato al suolo, guardando i tre prigionieri con due occhi strabuzzati. "Bada che se tu cerchi di liberarti noi torneremo qui e ti accopperemo," gli disse il marchese, con voce minacciosa. "Mi hai compreso?" Gli levò le due pistole che aveva alla cintura, due armi ad acciarino, lunghissime, col calcio intarsiato in argento, e ne diede una a Ben. "Andiamo," disse. Rocco, munito d'una sbarra, arma ben più pericolosa d'una lancia per quell'ercole, passò attraverso la feritoia e si lasciò cadere nel giardino. "Vedi nessuno?" chiese il signor di Sartena. "Passate," rispose il sardo. Un momento dopo i tre prigionieri si trovavano riuniti sotto la feritoia.

Vita intima

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Vertua Gentile, Anna 1 occorrenze

Ora non si può ricostrurre una casa, senza abbatterla del tutto o in parte. Ci vuole dunque un momento di ricerca per ottenere il meglio, forse il buono, forse anche qualche cosa che somigli la perfezione. Non bisogna perdere di vista questa idea o verità, dicendo della famiglia d'oggi, che è quello del secolo XIX. La vita di famiglia rafforza i legami del sangue e sveglia e coltiva l'amore di patria. Chi è inutile alla famiglia è generalmente inutile al proprio paese e all'umanità. Chi non conosce i doveri e gli affetti della famiglia o vi è indifferente, è snaturato. Nella società moderna si sono ingentiliti i rapporti fra i membri della famiglia. Ma per moltissime cause, fra le quali varie istituzioni, i costumi derivanti dalla mischianza di popoli, l'estensione del commercio, ecc. si direbbe diminuito il bisogno e il desiderio delle gioie domestiche. A la calma, a la sobrietà, al lavoro tranquillo e assiduo dei nostri padri, è successa una specie di inquietudine malata. C'è in tutti o in quasi tutti, un bisogno di eccitamento e di emozioni che per certo, la famiglia non può dare. I libri che ora si leggono, più non sono i pochi libri esemplari, le grandi immortali opere del genio, che esigono la calma del pensiero e ispirano sentimenti profondi: sono più tosto, in generale, lavori effimeri, che si percorrono con rapidità e danno un piacere che somiglia spesso a l'ebbrezza. Adesso si vive d'una vita affannosa. Gli affari sono una corsa sfrenata in cui il rischio fa da staffile, e la smania dei grandi profitti attira, offuscando spesso ogni sentimento di riguardo e perfino di pietà: fascino irresistibile. Mai come ora si sofferse della terribile necessità dello « struggle for life . Si lotta per l'impiego, per la professione, per il iavoro manuale, per aprirsi una via nell'arte, per tutto. E la religione risente dell'agitazione universale. Quanti ora che hanno conservato rispetto per il culto, vanno in Chiesa più tosto per eccitarsi nell'astrazione che per pregare con l'ingenua santa fede, che dà riposo a l'anima ! .. Si direbbe che si è arsi di una sete di stimolanti. E questa sete febbrile, da deliranti, spinge spesso a piaceri pazzi, ai liquori, a l'ubbriachezza, a l'oblio della dignità umana ; ciò che per certo non favorisce la intimità della famiglia. Ora, nel secolo XIX si sentì il bisogno di mettere un rimedio a questo male, che nonostante l'educazione introdotta nella famiglia, nonostante il progresso materiale e intellettuale, allontana dalla casa e rallenta i vincoli della parentela ? .. Nel secolo XIX si sentì la necessità di frenare la fatal corsa al male, a l'abrutimento, quindi al delitto e allo sfacelo della morale senza della quale non può sussistere la famiglia ?

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