In Russia la dittatura di Lenin c’è voluta per abbattere la dittatura dello zar. I bolscevichi avranno dovuto fare delle vittime, ma quanti milioni non ha ammazzato lo zar? Il Degasperi ebbe facile gioco a replicare: Benché in veste da moderato, il Flor sostiene in realtà il principio della dittatura contro il principio democratico della rappresentanza parlamentare. I deputati socialisti, dice egli, metteranno le loro condizioni: se la borghesia le respinge, scenderanno in piazza. Ciò vuol dire che se la maggioranza della Camera eletta a suffragio universale dai cittadini italiani, non accetta le condizioni della minoranza socialista, essi ricorreranno alla violenza. Ecco il principio con cui non si può andare d’accordo, senza conculcare la libertà e la giustizia sociale. I socialisti, se vogliono attuare il loro programma, devono guadagnarvi l’adesione della maggioranza degli eletti o degli elettori. Altra via legale non esiste. Fuori di essa non c’è che la tirannide. Non è vero che Lenin in Russia sia ricorso alla dittatura per abbattere lo zar. Lo zar era già caduto, la rivoluzione era già fatta pacificamente. Erano al governo socialisti e democratici, ed è contro l’assemblea costituente, rappresentante tutti i cittadini, che Trotzki e Lenin fecero funzionare le mitragliatrici.
Questo nostro grido di libertà economica non è però un grido di iconoclasti, né vuole abbattere quelle conquiste sociali che sono state invocate da gran tempo da tutte le scuole. Il regime delle assicurazioni operaie, la tutela del lavoro igienico e morale, le provvidenze atte ad agevolare le forme economiche del partecipazionismo non contraddicono al concetto di libertà economica nel senso già espresso in confronto alla pretesa eco¬nomica statale; solo limitano la ragione economica privata per una funzione sociale del capitale, e ne determinano certi rapporti col lavoratore come persona umana operante, non come cosa o strumento dell’opera. Ciò è ormai pacifico anche fra i partiti e fra i rappresentanti diretti degli interessi dei produttori. Quello che non è pacifico e attesta sempre il medesimo errore, è che il regime sociale associativo, mutuale, previdente del lavoro, lo si voglia far divenire servizio statale, monopolistico, meccanico; e che lo stato voglia creare attorno a tali istituti una classe, un partito, una burocrazia, una casta privilegiata e predominante.
Tutto ciò esige tempo: il dissesto di un paese come il nostro si può superare solo se tanto l'economia privata nazionale che l'economia privata estera constatino e apprezzino gli elementi di fiducia e di serietà nell'amministrazione dello stato; non quando nella fretta di abbattere e di improvvisare si dà campo alle speculazioni impure e ai tentativi di accaparramento. Si è detto che in un anno le economie debbano arrivare a circa due miliardi; ciascuno se lo augura, e per quanto può, deve contribuire al risanamento del bilancio.
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Noi abbiamo espresso questa finalità fin dall'apparire del nostro partito, fin dall'appello del 18 gennaio 1919, e proseguiamo su quella linea nello sforzo pratico dell'ora e del momento; — abbattere l'accentramento statale. che sopprime la personalità alle collettività operanti in esso, che toglie la responsabilità alle persone che in nome di esso operano; — ridare la coscienza giuridica agli organismi che natura crea, perché lo svolgersi della loro azione non sia senza i limiti della coesistenza e senza il rispetto delle libertà; — chiamare la solidarietà umana col nome di giustizia e di carità, che unica rende possibile la collaborazione delle classi e contingente la lotta; — eccitare le energie individuali perché diano all'economia nazionale la fiducia e la forza, che eventi o malvolere di uomini oggi hanno ridotto quasi all'impotenza; — ridare ai valori morali e ideali la importanza suprema nell'educazione di un popolo per la sua resistenza nelle ore tragiche del paese.
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Il fascismo, come metodo, dovrebbe valere ad abbattere le vecchie costruzioni e impalcature che danneggiano e inquinano la nostra vita. Sarà da tanto? O non ripeterà l'errore di fare del mezzogiorno il campo di speculazione politica e di clientele? non perderà qui la sua fisionomia, asservendosi alle consorterie? la gioventù nuova saprà superare le insidie delle volpi politiche e la tentazione di credersi dominatrice, senza esserlo? Il pericolo maggiore però sta altrove; non è una presa di possesso alla garibaldina, che muta il mezzogiorno e lo fa rivivere; ma nessuno di noi si augura che, dietro al fascismo al potere, forte della sua gioventù, debole della sua inesperienza, si annidino la speculazione dell'alta banca, l'internazionalismo ebraico, la siderurgia del nord, e si ripeta per l'avvenire lo sfruttamento del passato. Sta al mezzogiorno — cioè a tutte le forze politiche meridionali, nella solidarietà difficile, ma doverosa, della nostra terra e del nostro popolo — che la questione meridionale venga conosciuta, sentita, valutata, e che si superino i vecchi e i nuovi ostacoli a risolverla.
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Questo nostro grido di libertà economica non è però un grido di iconoclasti, né vuole abbattere quelle conquiste sociali che sono state invocate da gran tempo da tutte le scuole. Il regime delle assicurazioni operaie, la tutela del lavoro igienico e morale, le provvidenze atte ad agevolare le forme economiche del partecipazionismo non contraddicono al concetto di libertà economica nel senso già espresso in confronto alla pretesa eco¬nomica statale; solo limitano la ragione economica privata per una funzione sociale del capitale, e ne determinano certi rapporti col lavoratore come persona umana operante, non come cosa o strumento dell’opera. Ciò è ormai pacifico anche fra i partiti e fra i rappresentanti diretti degli interessi dei produttori. Quello che non è pacifico e attesta sempre il medesimo errore, è che il regime sociale associativo, mutuale, previdente del lavoro, lo si voglia far divenire servizio statale, monopolistico, meccanico; e che lo stato voglia creare attorno a tali istituti una classe, un partito, una burocrazia, una casta privilegiata e predominante.
Quindi la Chiesa ufficiale, in Francia, diffidava profondamente della Repubblica; e questa diffidenza entrava meravigliosamente nei piani di quelli che la Repubblica volevano abbattere. «Noi avremmo-forse potuto, mi diceva uno dei più eminenti giuristi cattolici francesi, fidarci di Briand: ma e se Briand cade?» Ed aggiungeva «Ogni volta che ci siamo fidati del Governo, abbiamo avuto la peggio; ogni volta che abbiamo resistito, qualche vantaggio ce ne è venuto.»
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