Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbattere

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Lilit

681985
Levi, Primo 3 occorrenze

Aveva passato due inverni fra i boschi, ad abbattere pini con tre compagni: un lavoro duro, ma ci si era trovato bene, quasi felice. D' altronde, mi accorsi presto che Bandi aveva un talento unico per la felicità: l' oppressione, le umiliazioni, la fatica, l' esilio sembravano scivolare su di lui come l' acqua sulla roccia, senza corromperlo né ferirlo, anzi, purificandolo, ed esaltando in lui la nativa capacità di gioia, come si narra avvenisse per i Chassidim ingenui lieti e pii che ha descritti Jirì Langer in "Le nove porte". Mi raccontò del suo ingresso in Lager: all' arrivo del convoglio, le SS avevano costretto tutti gli uomini a togliersi le scarpe e ad appenderle al collo, e li avevano fatti camminare a piedi nudi, sui ciottoli della ferrovia, per tutti i sette chilometri che separavano la stazione dal campo. Narrava l' episodio con un sorriso timido, senza cercare commiserazione, anzi, con un' ombra di vanità infantile e sportiva per "avercela fatta". Facemmo insieme tre viaggi, durante i quali, a frammenti, cercai di spiegargli che il posto in cui era capitato non era per persone gentili né per persone tranquille. Tentai di convincerlo di alcune mie recenti scoperte (per verità non ancora bene digerite): che laggiù, per cavarsela, bisognava darsi da fare, organizzare cibo illegale, scansare il lavoro, trovare amici influenti, nascondersi, nascondere il proprio pensiero, rubare, mentire; che chi non faceva così moriva presto, e che la sua santità mi sembrava pericolosa e fuori luogo. E poiché, come dicevo, venti mattoni sono pesanti, al quarto viaggio, invece di prelevare dal vagone venti mattoni, ne prelevai diciassette, e gli mostrai che disponendoli sulla barella in un certo modo, con un vuoto nello strato inferiore, nessuno avrebbe potuto sospettare che non fossero venti. Questa era una malizia che credevo di avere inventata io (seppi poi invece che era di pubblico dominio), e che avevo messo in opera diverse volte con successo, altre volte invece prendendo botte; comunque, mi pareva che si prestasse bene a scopo pedagogico, come illustrazione delle teorie che gli avevo esposte poco prima. Bandi era molto sensibile alla sua condizione di "Zugang", ossia di nuovo arrivato, ed al rapporto di sudditanza sociale che ne scaturiva, e perciò non si oppose; ma non si mostrò per nulla entusiasta del mio ritrovato. _ Se sono diciassette, perché dovremmo far credere che sono venti? _ Ma venti mattoni pesano più di diciassette, _ replicai con impazienza, _ e se sono messi bene nessuno se ne accorge; del resto, non servono per fabbricare la tua casa né la mia. _ Sì, _ disse, _ però sono sempre diciassette e non venti _. Non era un buon discepolo. Lavorammo ancora per qualche settimana nella stessa squadra. Seppi da lui che era comunista, simpatizzante, non iscritto al partito, ma il suo linguaggio era quello di un protocristiano. Sul lavoro era destro e forte, il migliore della squadra, ma da questa sua superiorità non cercava di trarre profitto, né per mettersi in buona luce presso i capomastri tedeschi, né per darsi importanza con noi. Gli dissi che, secondo me, lavorare così era un inutile spreco di energia, e non era neppure politicamente corretto, ma Bandi non diede segno di aver capito; non voleva mentire, in quel luogo si supponeva che noi lavorassimo, perciò lui lavorava nel suo miglior modo. Bandi, dal viso puerile e radioso, dalla voce energica e dalla goffa andatura, divenne in breve popolarissimo, amico di tutti. Venne agosto, con un dono straordinario per me: una lettera da casa, fatto inaudito. A giugno, con spaventosa incoscienza, e con la mediazione di un muratore "libero" italiano, avevo scritto un messaggio per mia madre nascosta in Italia, e lo avevo indirizzato ad una mia amica che si chiama Bianca Guidetti Serra. Avevo fatto tutto questo come si ottempera ad un rituale, senza veramente sperare in un successo; invece la mia lettera era arrivata senza intralci, e mia madre aveva risposto per la stessa via. La lettera dal dolce mondo mi bruciava in tasca; sapevo che era prudenza elementare tacere, eppure non potevo non parlarne. In quel tempo pulivamo cisterne. Scesi nella mia cisterna, e con me era Bandi. Alla debole luce della lampadina, lessi la lettera miracolosa, traducendola frettolosamente in tedesco. Bandi mi ascoltò con attenzione: non poteva certo capire molto, perché il tedesco non era la mia lingua né la sua, e poi perché il messaggio era scarno e reticente. Ma capì quanto era essenziale che capisse: che quel pezzo di carta fra le mie mani, giuntomi così precariamente, e che avrei distrutto prima di sera, era tuttavia una falla, una lacuna dell' universo nero che ci stringeva, e che attraverso ad essa poteva passare la speranza. O almeno, credo che Bandi, benché "Zugang", abbia capito o intuito tutto questo: perché, a lettura finita, mi si accostò, si frugò a lungo nelle tasche, e ne trasse infine, con cura amorosa, un ravanello. Me lo donò arrossendo intensamente, e mi disse con timido orgoglio: _ Ho imparato. È per te: è la prima cosa che ho rubato.

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Le era sembrato grazioso, e doveva anche essere abile se da solo era riuscito ad abbattere un faggio; Danuta fu subito sicura che il ponte l' aveva costruito lui, voleva fare amicizia, parlargli, non farselo scappare. Infilò un dito nell' apertura della grotta, ma sentì una puntura e lo ritirò subito di scatto con una gocciolina di sangue sul polpastrello. Aspettò fino a buio, poi se ne andò, ma a Brokne non raccontò niente. Il piccolino doveva avere una gran fame di legno, perché nei giorni seguenti Danuta ne rinvenne le tracce in vari punti della valle. Abbatteva di preferenza i faggi più grossi, e non si capiva come avrebbe fatto per portarseli via. In una delle prime notti fredde Danuta sognò che la foresta era in fiamme e si svegliò di soprassalto; l' incendio non c' era ma l' odore dell' incendio sì, e Danuta vide sull' altro versante un chiarore rosso che palpitava come una stella. Nei giorni seguenti, quando Danuta tendeva l' orecchio, sentiva un ticchettio minuto e regolare, come quando i picchi perforano le cortecce, ma più lento. Cercò di avvicinarsi a vedere, ma appena lei si muoveva il rumore cessava. Venne finalmente un giorno in cui Danuta ebbe fortuna. Il piccolino si era fatto meno timido, forse si era abituato alla presenza di Danuta, e si mostrava di frequente fra un albero e l' altro, ma se Danuta accennava ad avvicinarsi scappava svelto a rintanarsi fra le rocce o in mezzo al fitto del bosco. Danuta lo vide dunque avviarsi verso la radura dell' abbeveratoio; lo seguì di lontano cercando di non fare troppo rumore, e quando lo vide allo scoperto con due lunghi passi gli fu addosso e lo intrappolò fra i cavi delle mani. Era piccolo ma fiero: aveva con sé quel suo arnese lucente, e tirò due o tre colpi contro le mani di Danuta prima che lei riuscisse a pizzicarlo fra l' indice e il pollice ed a buttarglielo lontano. Adesso che l' aveva catturato, Danuta si rese conto che non sapeva assolutamente che cosa farsene. Lo sollevò da terra tenendolo fra le dita: lui strideva, si dibatteva e cercava di mordere; Danuta, incerta, rideva nervosamente e tentava di calmarlo carezzandolo con un dito sulla testa. Si guardò intorno: nel torrente c' era un isolotto lungo pochi passi dei suoi; si sporse dalla sponda e vi depose il piccolino, ma questo, appena libero, si buttò nella corrente, e sarebbe certo annegato se Danuta non si fosse affrettata a ripescarlo. Allora lo portò da Brokne. Neppure Brokne sapeva che farsene. Brontolò che lei era proprio una ragazza fantastica; il bestiolino mordeva, pungeva e non era buono da mangiare, che Danuta gli desse il largo, altro da fare non c' era. Del resto, stava scendendo la notte, era ora di andare a dormire. Ma Danuta non volle sentire ragione, l' aveva preso lei, era suo, era intelligente e carino, voleva tenerselo per giocare, e poi era sicura che sarebbe diventato domestico. Provò a presentargli un ciuffo d' erba, ma lui girò la testa dall' altra parte. Brokne sogghignò che tanto domestico non era e che in prigionia sarebbe morto, e si stese in terra già mezzo addormentato, ma Danuta scatenò un capriccio d' inferno, e tanto fece che passarono la notte col piccolino in mano, a turno, uno lo teneva e l' altro dormiva; verso l' alba però anche il piccolino era addormentato. Danuta ne approfittò per osservarlo con calma e da vicino, ed era veramente molto grazioso: aveva viso, mani e piedi minuscoli ma ben disegnati, e non doveva essere un bambino, perché aveva la testa piccola e il corpo snello. Danuta moriva dalla voglia di stringerselo contro il petto. Appena si svegliò cercò subito di fuggire, ma dopo qualche giorno incominciò a farsi più lento e pigro. _ Per forza, _ disse Brokne: _ non vuole mangiare _. Infatti il piccolino rifiutava tutto, l' erba, le foglie tenere, perfino le ghiande e le faggiole. Ma non doveva essere per selvatichezza, perché invece beveva avidamente dal cavo della mano di Danuta, che rideva e piangeva dalla tenerezza. Insomma, in pochi giorni si vide che Brokne aveva ragione: era uno di quegli animali che quando si sentono prigionieri rifiutano il cibo. D' altra parte, non era possibile andare avanti così, a tenerlo in mano giorno e notte, un po' l' uno, un po' l' altra. Brokne aveva provato a fabbricargli una gabbia, perché Danuta non aveva accettato di tenerlo nella grotta: lo voleva avere sotto gli occhi e temeva che al buio si ammalasse. Aveva provato, ma senza concludere nulla: aveva divelto dei frassini alti e diritti, li aveva ripiantati in terra a cerchio, ci aveva messo in mezzo il piccolino e aveva legato insieme le chiome con dei giunchi, ma le sue dita erano grosse e maldestre, e ne era venuto fuori un brutto lavoro. Il piccolino, benché indebolito dalla fame, si era arrampicato in un lampo su per uno dei tronchi, aveva trovato una lacuna ed era saltato a terra all' esterno. Brokne disse che era tempo di lasciarlo andare dove voleva; Danuta scoppiò a piangere, tanto che le sue lacrime rammollirono il terreno sotto di lei; il piccolino guardò in su come se avesse capito, poi prese la corsa e scomparve fra gli alberi. Brokne disse: _ Va bene così. Lo avresti amato, ma era troppo piccolo, e in qualche modo il tuo amore lo avrebbe ucciso. Passò un mese, e già le fronde dei faggi volgevano al porporino, e di notte il torrente rivestiva i macigni di un sottile strato di ghiaccio. Ancora una volta Danuta fu svegliata in angoscia dall' odore del fuoco, e subito scosse Brokne per ridestarlo, perché questa volta l' incendio c' era. Nel chiarore della luna si vedevano tutto intorno innumerevoli fili di fumo che salivano verso il cielo, diritti nell' aria ferma e gelida: sì, come le sbarre di una gabbia, ma questa volta dentro erano loro. Lungo tutta la cresta delle montagne, sui due lati della valle, bruciavano fuochi, ed altri fuochi occhieggiavano molto più vicini, fra tronco e tronco. Brokne si levò in piedi brontolando come un tuono: eccoli dunque all' opera, i costruttori di ponti, i piccoli e solerti. Afferrò Danuta per il polso e la trascinò verso la testata della valle dove pareva che i fuochi fossero più radi, ma poco dopo dovettero tornare indietro tossendo e lacrimando, l' aria era intossicata, non si poteva passare. Nel frattempo, la radura si era popolata di animali di tutte le specie, anelanti ed atterriti. L' anello di fuoco e di fumo si faceva sempre più vicino; Danuta e Brokne sedettero a terra ad aspettare.

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Voleva punire la sua donna del dolore che aveva suscitato in lui: nel pensiero, e talora nei suoi versi, l' accusava di essere una ingannatrice, di aver tentato di apparire ai suoi occhi migliore di quanto non fosse; di averlo voluto conquistare, abbattere, per ambizione di cacciatrice; di non essere neppure in grado (né lei, né alcuna altra donna) di misurare gli effetti della sua stessa bellezza, poiché questi effetti sono così travolgenti da superare la capacità "di quelle anguste fronti". Doveva ammetterlo, l' amore era sempre stato per lui una fonte di travaglio e non di gioia; e senza l' amore, a che vale vivere? Il medico non insistette. Cercò di rincuorarlo, ricordandogli che era ancora giovane, che la prestanza fisica conta meno di quanto si creda, e che certamente avrebbe incontrato una donna degna di lui, che in un istante avrebbe fatto dileguare le sue angosce. Meditò per un minuto, poi gli disse che per quella volta poteva bastare, e che il suo caso non gli pareva grave: era piuttosto un ipersensibile che un malato. Un trattamento d' appoggio, ripetuto a intervalli di qualche mese, avrebbe certamente attenuato la sua sofferenza. Prese il blocchetto delle ricette e scrisse due o tre righe: _ Per intanto provi con questi, se crede: le daranno sollievo, ma si attenga alle dosi che ho indicate. Il poeta scese le scale e si avviò verso la farmacia più vicina. Mentre camminava, infilò nella tasca del pastrano la mano che stringeva la prescrizione, e vi ritrovò certi foglietti che aveva dimenticati. Vi aveva annotato alcuni pensieri che gli erano occorsi qualche giorno prima, ed a cui aveva meditato di dare veste di canto. La sua mano, come mossa da una volontà sua propria, appallottolò la prescrizione e la gettò nel rigagnolo che scorreva lungo la via.

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