Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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La tregua

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Levi, Primo 2 occorrenze

In seguito, si costituirono diverse coppie di cacciatori-beccai specializzati, che non si accontentavano più di abbattere i cavalli malati o dispersi, ma sceglievano i più grassi, li facevano deliberatamente uscire dalla mandria e li uccidevano poi nel bosco. Agivano di preferenza alle prime luci dell' alba: uno copriva con un panno gli occhi dell' animale, e l' altro gli vibrava il colpo mortale (ma non sempre) sulla cervice. Fu un periodo di assurda abbondanza: c' era carne di cavallo per tutti, senza alcuna limitazione, gratis; tutt' al più, i cacciatori chiedevano per un cavallo morto due o tre razioni di tabacco. In tutti gli angoli del bosco, e quando pioveva anche nei corridoi e nei sottoscala della Casa Rossa, si vedevano uomini e donne affaccendati a cuocere enormi bistecche di cavallo coi funghi: senza le quali, noi reduci da Auschwitz avremmo tardato ancora molti mesi a riacquistare le nostre forze. Neppure di questo saccheggio i russi del Comando si diedero il minimo pensiero. Vi fu un solo intervento russo, e una sola punizione: verso la fine del passaggio, quando già la carne di cavallo scarseggiava e il prezzo tendeva a salire, uno della congrega di San Vittore ebbe l' improntitudine di aprire una macelleria vera e propria, in uno dei molti stambugi della Casa Rossa. Questa iniziativa ai russi non piacque, non fu chiaro se per ragioni igieniche o morali: il colpevole venne pubblicamente redarguito, dichiarato "cort (diavolo), parazìt, spjekulànt", e cacciato in cella. Non era una punizione molto severa: alla cella, per oscure ragioni, forse per burocratico atavismo di un tempo in cui i prigionieri dovevano essere stati a lungo in numero di tre, spettavano tre razioni alimentari al giorno. Che i detenuti fossero nove, o uno, o nessuno, non importava: le razioni erano sempre tre. Così il macellaio abusivo uscì di cella allo scadere della pena, dopo dieci giorni di sovralimentazione, grasso come un maiale e pieno di gioia di vivere.

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Sentivamo fluirci per le vene, insieme col sangue estenuato, il veleno di Auschwitz: dove avremmo attinto la forza per riprendere a vivere, per abbattere le barriere, le siepi che crescono spontanee durante tutte le assenze, intorno ad ogni casa deserta, ad ogni covile vuoto? Presto, domani stesso, avremmo dovuto dare battaglia, contro nemici ancora ignoti, dentro e fuori di noi: con quali armi, con quali energie, con quale volontà? Ci sentivamo vecchi di secoli, oppressi da un anno di ricordi feroci, svuotati e inermi. I mesi or ora trascorsi, pur duri, di vagabondaggio ai margini della civiltà, ci apparivano adesso come una tregua, una parentesi di illimitata disponibilità, un dono provvidenziale ma irripetibile del destino. Volgendo questi pensieri, che ci vietavano il sonno, passammo la prima notte in Italia, mentre il treno discendeva lentamente la val d' Adige deserta e buia. Il 17 di ottobre ci accolse il campo di Pescantina, presso Verona, e qui ci sciogliemmo, ognuno verso la sua sorte: ma solo alla sera del giorno seguente partì un treno in direzione di Torino. Nel vortice confuso di migliaia di profughi e reduci, intravvedemmo Pista, che già aveva trovato la sua strada: portava il bracciale bianco e giallo della Pontificia Opera di Assistenza, e collaborava alacre e lieto alla vita del campo. Ed ecco, di tutto il capo più alto della folla, avanzare verso di noi una figura, un viso noto, il Moro di Verona. Veniva a salutarci, Leonardo e me: era arrivato a casa, primo fra tutti, poiché Avesa, il suo paese, era a pochi chilometri. E ci benedisse, il vecchio bestemmiatore: levò due dita enormi e nodose, e ci benedisse col gesto solenne dei pontefici, augurandoci un buon ritorno e ogni bene. L' augurio ci fu grato, poiché ne sentivamo il bisogno. Giunsi a Torino il 19 di ottobre, dopo trentacinque giorni di viaggio: la casa era in piedi, tutti i familiari vivi, nessuno mi aspettava. Ero gonfio, barbuto e lacero, e stentai a farmi riconoscere. Ritrovai gli amici pieni di vita, il calore della mensa sicura, la concretezza del lavoro quotidiano, la gioia liberatrice del raccontare. Ritrovai un letto largo e pulito, che a sera (attimo di terrore) cedette morbido sotto il mio peso. Ma solo dopo molti mesi svanì in me l' abitudine di camminare con lo sguardo fisso al suolo, come per cercarvi qualcosa da mangiare o da intascare presto e vendere per pane; e non ha cessato di visitarmi, ad intervalli ora fitti, ora radi, un sogno pieno di spavento. È un sogno entro un altro sogno, vario nei particolari, unico nella sostanza. Sono a tavola con la famiglia, o con amici, o al lavoro, o in una campagna verde: in un ambiente insomma placido e disteso, apparentemente privo di tensione e di pena; eppure provo un' angoscia sottile e profonda, la sensazione definita di una minaccia che incombe. E infatti, al procedere del sogno, a poco a poco o brutalmente, ogni volta in modo diverso, tutto cade e si disfa intorno a me, lo scenario, le pareti, le persone, e l' angoscia si fa più intensa e più precisa. Tutto è ora volto in caos: sono solo al centro di un nulla grigio e torbido, ed ecco, io so che cosa questo significa, ed anche so di averlo sempre saputo: sono di nuovo in Lager, e nulla era vero all' infuori del Lager. Il resto era breve vacanza, o inganno dei sensi, sogno: la famiglia, la natura in fiore, la casa. Ora questo sogno interno, il sogno di pace, è finito, e nel sogno esterno, che prosegue gelido, odo risuonare una voce, ben nota; una sola parola, non imperiosa, anzi breve e sommessa. È il comando dell' alba in Auschwitz, una parola straniera, temuta e attesa: alzarsi, "Wstawac".

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