Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNIFI

Risultati per: abbattere

Numero di risultati: 5 in 1 pagine

  • Pagina 1 di 1

CHI VUOL FIABE, CHI VUOLE?

661228
Capuana, Luigi 1 occorrenze

Si diedero ad abbattere con le accette rami di alberi, li legarono in modo da costruire una rozza ma solida scala; e, quando fu pronta, il Reuccio vi montò su e prese a uno a uno i draghettini. Erano quattro, molli, quasi viscidi, con sul dorso un accenno di ali simili a pinne di pesce, poco più grossi di un grosso ramarro. E rizzavano le teste e spalancavano le bocche, affamati. Il Reuccio disse: - Il drago e la draghessa certamente recavano da mangiare ai piccini. Infatti, aperto il gozzo di essi, vi trovarono il cibo, e il Reuccio ingozzò pazientemente i draghetti, finché non riapersero più le bocche. Da lì a poco, piegavano le teste, si acchiocciolavano, ed erano belli e addormentati. Il Reuccio stimò inutile di prolungare più la caccia. Lasciarono là a imputridire il drago e la draghessa, e coi draghetti situati in fondo a una cesta sopra un letto di foglie secche, egli e i compagni presero la via del ritorno. Quando si seppe che il Reuccio aveva riportato quattro piccoli draghi e che intendeva di allevarli e addomesticarli, i soliti brontoloni ripresero: - Lo abbiamo detto: i figli dei vecchi non riescono gran cosa! Ecco: ora, con questi draghi chi sa quante disgrazie accadranno! Sarà un Re sanguinario, se giunge a salire al trono! Invece il Reuccio pensava che certi animali sono feroci perché nessuno si è mai incaricato di renderli domestici e miti. E voleva provare coi draghi. Stava occupato da mattina a sera a ingozzarli, ad accarezzarli stropicciandoli leggermente con le mani, e osservava che essi godevano del tepore che quel lieve stropicciamento lor produceva. Lo riconoscevano già; rizzavano le teste, agitavano le code, vedendolo avvicinare. Gli si arrampicavano addosso con le zampine ugnate, gli lambivano le mani con le linguette, lunghe e sottili, e smovevano le ali che cominciavano a distendersi cartilaginose, a spicchi come quelle dei pipistrelli. Ormai mangiavano da sé, divorando golosamente, e il Reuccio se li faceva venir dietro per la stanza, imitando il loro sibilo, attirandoli con un po' di cibo. Fin a tanto ch'essi erano piccoli, il Re non stava in pensiero pel Reuccio; ma ora che avevano già messe le ali e si provavano a volare, il Re si atterriva vedendolo entrare nello stanzone dove stavano chiusi, perché vi si potessero muovere a tutt'agio. E lo ammoniva: - Badate, Reuccio! Non vorrei che un giorno o l'altro ... Il Reuccio sorrideva, e per mostrargli che i quattro draghi gli s'erano affezionati come cagnolini, apriva l'uscio e se li traeva appresso pei corridoi del palazzo reale; li tastava, li accarezzava, li faceva star ritti sulle zampe di dietro, col collo proteso in avanti, con le ali che sbattevano e facevano un rumore simile a quello di piccole vele smosse da forti soffi di vento. Erano belli nel loro orrido, con quei corpi di serpenti alati, con quel collo pieno di rughe simile a collo di tartaruga, e le creste rosse che già spuntavano nella parte superiore delle teste, più appariscente nei due maschi, meno pronunciate e meno vivide nelle due femmine. Un giorno, però, che il Reuccio ebbe il capriccio di condurseli dietro per le vie, legati con catenelle di acciaio raccomandate a dei collari di ferro battuto, fu un fuggi fuggi della gente spaventata dall'aspetto di quei mostri non mai visti. - I draghi! I draghi! Era un chiuder di usci e d'imposte; un gridare, un piangere, quasi i draghi avessero cominciato a divorare qualcuno. Essi, intanto, camminavano tranquillamente, scherzando tra loro con le code, con le teste, accostandosi spesso al Reuccio per leccargli la mano, elevandosi a brevi voli, a fior di terra. E fu peggio la mattina che fu visto uscire il Reuccio a cavallo di uno dei draghi ben bardato, guidato con lunga briglia, e che appena fuori del portone spiegò le ali e si elevò altissimo, obbediente al richiamo della briglia, come il più docile dei cavalli. Anche il Re e la Regina lo guardavano atterriti da un balcone del palazzo reale, e dovettero fare uno sforzo per non ritirarsi, quando il Reuccio fece abbassare il volo del drago e lo diresse proprio verso di loro e fermossi a discorrere mentre il drago si librava su le ali e si teneva quasi fermo per aria, inarcando il collo rugoso, proprio come il più superbo cavallo delle stalle reali. E fatta la prima prova con uno, la ripeteva nei giorni appresso con gli altri tre. Ora la gente gridava, sì, da ogni parte: - Il drago! Il drago! - ma era rassicurata, e godeva di vederlo aliare da un punto all'altro, col Reuccio a cavallo, che lo guidava a suo talento, e saliva e scendeva e risaliva fino a perdersi tra le nuvole a grande altezza. I brontoloni però non si davano ancora per vinti: - Lo abbiamo detto: i figli dei vecchi non riescono gran cosa! Vedrete, con questi draghi, che disgrazie accadranno. Sarà un Re sanguinario, se giunge a salire ai trono! Un giorno il Re chiamò il Reuccio nella sala del Consiglio. I ministri eran seduti gravemente attorno a lui. - Reuccio, - gli disse - è tempo di finirla coi capricci. Io sono vecchio, e posso morire da un giorno all'altro. Voglio lasciare ben ordinate le cose del Regno e della mia famiglia. Ho deciso di darvi moglie. Scegliete voi stesso tra le principesse più in vista. - Non ne conosco nessuna. Sarà degna della mia mano colei che, per dimostrarmi il suo affetto, avrà il coraggio di fare una passeggiata a cavallo di uno dei miei draghi assieme con me. Il Re voleva troppo bene a quel figlio unico; si strinse nelle spalle, e accettò questa condizione. Ambasciatori partirono per diverse Corti, dove erano principesse da marito. - Dice il Reuccio: Sposerò colei che avrà il coraggio di fare una passeggiata a cavallo di uno dei miei draghi assieme con me. Che cosa risponde la Principessa.? - Che il Reuccio è matto da legare. Gli ambasciatori si aspettavano questa risposta; e, secondo gli ordini del Re, si presentarono a un'altra Corte. Dice il Reuccio: Sposerò colei che avrà il coraggio di fare una passeggiata a cavallo di uno dei miei draghi assieme con me. Che cosa risponde la Principessa? - Che il Reuccio è peggio che matto da legare. Gli ambasciatori, dopo questa seconda, non si aspettavano risposte diverse: ma, secondo gli ordini del Re, si presentarono a un'altra Corte. Con loro grande meraviglia, la Principessa interrogata rispose francamente: - Dite al Reuccio che accetto! Lieti di aver potuto compiere la loro missione, gli ambasciatori tornarono dal Re. - La Principessa di Spagna ha risposto: Dite al Reuccio che accetto. Il Reuccio aveva fatto costruire un'apposita stalla pei draghi, e passava lunghe ore con essi, che intendevano già ogni inflessione della parola di lui, e lo obbedivano mirabilmente. E quando egli, molto contento della risposta della Principessa, quasi sicuro o, almeno, desiderando di esser compreso, andò nella stalla ad annunziare: - Uno di voi avrà l'onore di portare sul dorso la Reginotta - parve che essi avessero inteso davvero, e proruppero in sibili acuti, girando le teste, vibrando le lingue, agitando le code. La Corte era in gran tramenìo pei preparativi delle nozze. Il vecchio Re e la Regina, che aveva pochi anni meno di lui, sembravano ringiovaniti. Il Reuccio ordinava nuove magnifiche bardature, con stoffe tramate d'oro, con galloni di oro e borchie di diamanti. Di oro era pure il freno delle briglie, e queste tutte trapunte di vere pietre preziose. Il giorno che li provò addosso ai draghi, essi parvero orgogliosi di vedersi ornati a quel modo, e sibilavano, e rizzavano le teste, e vibravano le lingue, e agitavano le code in più espressiva maniera. Anche questa volta non mancarono i soliti brontoloni di malaugurio: - Lo abbiamo detto: i figli dei vecchi non riescono gran cosa! Vedrete quel che accadrà con questi draghi maledetti! E avverrà anche peggio, quando costui salirà sul trono! Nella Corte della Principessa c'era un'ansiosa aspettativa, che nel popolo assumeva forza di terrore al solo pensare che il Reuccio avrebbe condotto due draghi, invece di carrozze e cavalli, e che Reginotta e Reuccio dovevano partire a cavallo di essi. - Ma sono bell'e addomesticati! - dicevano alcuni. - Con certe bestie non si sa mai! Il Re di Spagna volle interrogare novamente la figlia. - Siete proprio decisa, Principessa? -- Proprio decisa! - Ma voi non avete mai visto draghi; sono mostri orrendi. Li ho visti dipinti e non mi hanno fatto paura. Il Re era stupito di tanto coraggio; pure insisteva: - Se vi figurate, Principessa, di non trovare altro marito ... - O il Reuccio dei draghi, o più nessuno, Maestà. - Che il Cielo vi aiuti, figliola mia! Disse così; ma in fondo al cuore aveva un triste presentimento. Il giorno dell'arrivo del Reuccio poche persone si avventurarono nelle vie. La gente se ne stava rimpiattata in casa, dietro le imposte e dietro gli usci aperti a fessolino per poter assistere allo spettacolo senza incorrere in qualche disastro. Appena però s'intesero da lontano i sibili acuti dei draghi e si avvicinò il rumore delle loro ali da pipistrello larghe come vele, nessuno poté frenarsi di affacciare la testa e poi di protendersi dal davanzali; la curiosità aveva potuto più della paura. I draghi arrivavano maestosamente, con lento volo. Il Reuccio che cavalcava su uno di essi, si traeva dietro per la briglia l'altro destinato alla Principessa. Alla vista di quei mostri, ella impallidì un po' e si senti correre un lieve brivido da capo a piedi, ma si rinfrancò subito. Il Reuccio diresse il volo dei draghi verso la terrazza dov'era raccolta la famiglia reale. - Ben arrivato, Reuccio! - Ben trovata, Reginotta! - Ben arrivato, Reuccio! - Ben trovata, Maestà! Il Reuccio scese davanti al portone del palazzo reale, introdusse egli stesso i draghi nell'ampia stalla preparata per essi; li legò con catene alla mangiatoia e chiuse a chiave, per cautela, la porta. Il giorno dopo si celebrarono le nozze. Il Reuccio aveva notato un'insolita irrequietezza nei draghi; ma non se ne era dato pensiero; il lungo viaggio fatto e il nuovo locale della stalla gli parvero sufficiente spiegazione. Arrivati il giorno e l'ora della partenza, il Reuccio andò a trarre di stalla i draghi, magnificamente bardati e imbrigliati. Abbracci, baci, saluti; la Reginotta non sapeva staccarsi dal padre. Il Reuccio dové farle dolce violenza. E tra gli applausi della folla e i gridi di augurio, egli aiutò a montare sul drago la Reginotta e le mise in mano la briglia, poi montò lui e diè agli animali impazienti il cenno della partenza. Distesero le ali, si elevarono lentamente, poi presero un largo volo, e sparvero dagli sguardi di tutti. Arrivarono, dopo alcuni giorni, quelli del séguito del Reuccio, ed egli e la Reginotta, che avrebbero dovuto giungere molto prima, non si vedevano ancora. Il Re, la Regina, i Ministri spiavano il cielo dall'alto di una terrazza; ed ogni ora, ogni istante che passavano, li riempivano di ansia e di spavento. Alla Corte di Spagna attendevano, con uguale ansietà, notizie dell'arrivo degli sposi. Avrebbero dovuto ricevere staffette da correre a spron battuto, e non ne arrivava nessuna!Che cosa era dunque accaduto? Era accaduto che, dopo un lungo tratto di volo, i due draghi avevano cominciato a non più obbedire al freno della briglia. Il drago della Reginotta voltava indietro la testa quasi a fiutarla, e il drago del Reuccio, girando attorno all'altro, stendendo anch'esso la testa quasi a fiutare la Reginotta. L'odore di quelle carni fresche, non mai sentito da loro, aveva risvegliato tutt'a un tratto in essi l'istinto tenuto in freno e sopito dall'addomesticamento fatto dal Reuccio, ma non distrutto. I draghi finalmente si fermarono, non vollero più andare avanti né indietro. Si libravano su le ali e stendevano la testa con la bocca spalancata vibrando le lingue che parevano di fuoco, tentando di addentare la Reginotta e di farne due bocconi. Ella non capiva il pericolo, ma il Reuccio ne fu spaventato. Afferrò disperatamente le redini, e con rapido moto le attorse attorno al collo del suo drago e strinse forte forte, per soffocarlo. Il drago diè due trabalzi per buttar giù di sella il Reuccio, poi barcollò, piegò a metà le ali e cominciò rapidamente a scender giù, tramortito. L'altro seguì il compagno; ma il Reuccio, colto il momento, slanciossi a cavalcioni su lui, afferrò le redini e gliene attorse al collo come all'altro, e strinse forte forte. Il mostro diè due, tre balzi, barcollò, piegò a metà le ali e segni più rapidamente nella discesa, tramortito, il compagno. Appena toccata terra, Reuccio e Reginotta saltaron giù di sella. I due draghi, soffocati, davano gli ultimi tratti. Per la campagna dove erano discesi non si vedeva anima viva. Stoppie, stoppie, stoppie, a perdita di vista e qualche albero qua e là. In fondo, una casetta di contadini; ma bisognava far molta strada per arrivarvi. Dopo quattro giorni di cammino a piedi, Reuccio e Reginotta non si riconoscevano più dagli stenti e dalla fatica. Finalmente s'imbatterono in un carro guidato da un contadino. - Se ci porti fino al palazzo reale, farai la tua fortuna! - E voi chi siete? - Siamo il Reuccio e la Reginotta. - Il Reuccio e la Reginotta sono morti. Il Re e la Regina hanno già preso il lutto. A chi volete darla a intendere? Vi porto per carità, perché siete due poveri diavoli affamati e stanchi. Su, montate. Giunti alla porta della città, il contadino voleva che scendessero. - Accompagnaci fino a casa nostra e sarai ricompensato. Il contadino disse: - Ho fatto novantanove; facciamo cento! E tirò avanti. Il portone del palazzo reale era chiuso per lutto. Quando il contadino capì che quei due poveri diavoli affamati e stanchi, come li aveva chiamati, erano davvero il Reuccio e la Reginotta, cominciò a tremare dalla paura di averli offesi. E per ingraziarseli si diè a picchiare forte, gridando: - Aprite, aprite! ... Il Reuccio! ... La Reginotta! Le guardie lo presero per ubriaco o per pazzo, e volevano arrestarlo. Quel che accadde nella Corte tra Re, Regina, Reuccio e Reginotta, immaginatelo voi. Il Reuccio raccontò del gran pericolo corso, e la morte dei due draghi. - E i due rimasti qui? Nessuno aveva voluto cimentarsi a governarli, ed erano morti di fame nella stalla. Si sentiva il puzzo delle loro carogne. Da allora in poi il Reuccio non tentò più di addomesticare animali feroci, convinto che presto o tardi l'istinto riappare. E poi - gli disse un giorno il padre - quando io non ci sarò più, avrai ben altro animale feroce da ammansire! E indicava la folla che sotto il palazzo reale gridava a squarciagola, battendo le mani: Viva il Reuccio! Viva la Reginotta! Fiaba detta, fiaba scritta, Ora va storta, ora va diritta.

IL FIGLIO DEL CORSARO ROSSO

682236
Salgari, Emilio 4 occorrenze

. - Ne darei anche mille, purché riuscisse ad abbattere il figlio del Corsaro Rosso. - Tu dimentichi una cosa. - Quale. - Ed i tre avventurieri che accompagnano il conte? - Troveremo un pretesto qualunque per trattenerli qui. Si potrebbe vedere questo Valiente? Subito? Se fosse possibile sarebbe meglio. So dove abita: manderò un uomo a cavallo ad avvertirlo di venire subito. Guardò l'orologio appeso al muro, uno di quegli orologi altissimi, chiusi in una cassa. - Non sono che le nove, - disse. - Fra dieci minuti può essere qui, aspettami. Il Consigliere uscí per dare gli ordini, poi rientrò, dicendo: - Il messo è già a cavallo; intanto ceneremo, poiché m'immagino che avrai fame, caro amico. - È da ieri sera che non mangio, - rispose il marchese. Don Juan de Sasebo lo fece passare in un vicino salotto, ammobiliato con molto gusto e dove una tavola era pronta, con bellissimi piatti d'argento finemente cesellati. Erano già alle frutta, quando un servo negro entrò, dicendo al Consigliere: - Padrone, El Valiente è qui. - Sei riuscito a scovarlo? - In una taverna vicina alla sua catapecchia. - Conducilo qui subito. Il negro uscí rapidamente ed un momento dopo El Valiente si trovava dinanzi al marchese ed al Consigliere dell'Udienza Reale. Era quell'uomo il vero tipo dell'avventuriero e spadaccino. Era un uomo alto, grosso, forte come un giovane toro, con lunghi capelli biondastri ed una barba invece rossastra, un naso che somigliava al becco d'un pappagallo e due occhi grigiastri che avevano il lampo dell'acciaio. Alla cintura portava una spada francese, lunga e sottile ed uno di quei pugnali chiamati: misericordie. - Mi avete fatto chiamare, Eccellenza? - chiese, facendo un goffo inchino e levandosi il feltro adorno d'una lunga penna di struzzo, ormai rosa dal tempo e dalle intemperie. - Sí, perché ho ancora bisogno di voi, - rispose il Consigliere. - Qualche altra persona vi darebbe noia? - Precisamente. - Si manda allora all'inferno, - disse lo spadaccino. - Laggiú vi è posto per tutti. - Anche per voi, - disse il marchese. - Può darsi, Eccellenza, ma molto tardi, io spero. - Badate però che l'uomo che dovete spacciare è un gentiluomo che ha il pugno molto saldo. Un sorriso di sprezzo contorse le labbra del brigante. - Ho mandato all'altro mondo non pochi gentiluomini, Eccellenza, e piú facilmente di quello che credete. Si vantano tutti famosi spadaccini ed invece non sono che dei pessimi dilettanti, incapaci di fare una buona cartocciata o di parare il colpo delle cento pistole. - Un colpo famoso, a quanto si dice, - disse il marchese. - Terribilissimo, Eccellenza. Se non si para, e si para assai difficilmente, si va diritti all'altro mondo, senza un minuto di ritardo. Dov'è l'uomo che devo spacciare? - Correte troppo, Valiente, - disse il Consigliere. - Quando devo dare delle stoccate ho sempre fretta, - rispose il bandito. - Non ucciderete prima di domani sera, - disse il marchese. - Si può pazientare per venti ore: cosí avrò il tempo di esercitarmi pel colpo delle cento pistole. - Riuscirà? - Pochi lo conoscono, Eccellenza. Solo i famosi spadaccini ne sanno qualche cosa. - E quello è uno dei buoni. Il bandito alzò le spalle. - Bah! ... Avrà da fare con me. - Quanto il prezzo? - Cinquanta piastre per anima, è la mia tariffa. Non lavoro mai per meno. I tempi sono pessimi e si guadagna poco anche ad ammazzare delle persone" rispose El Valiente. - Ve ne offro invece mille, purché il gentiluomo domani sera sia morto. Il Valiente corrugò la fronte, come presentisse un terribile pericolo. - Che quel gentiluomo mi porti sventura? - si chiese. - Per pagarmi mille piastre, bisogna che quel signore sia veramente un formidabile spadaccino. - Ve l'ho già detto prima che non avrete da fare con un dilettante disse il marchese. - Ne ho ammazzati per lo meno venti. Che il ventunesimo deva mandarmi a tener compagnia a messer Diavolo? Io non lo credo. Quando devo venir qui? - Domani sera, prima dell'Ave-Maria. Vi daremo le istruzioni necessarie. - Sta bene, - rispose il bandito. Fece un nuovo e piú goffo inchino, si gettò sulle spalle uno sdruscito sèrapè, che fino allora aveva tenuto sul braccio sinistro, e se ne andò tranquillo, come se avesse fatto un semplice affare commerciale. - Quando lo farai appiccare? - chiese il marchese a don Juan de Sasebo. - Quel furfante meriterebbe almeno venti spanne di corda e molto solida. - Quando non si avrà piú bisogno di lui, lo manderemo a tener compagnia a tutti i disgraziati che ha spediti all'altro mondo, - rispose il consigliere. - Qualche volta anche questi briganti sono necessari. - Amico, possiamo andare a riposarci.

Estrasse la draghinassa e cominciò ad abbattere le canne, formandone in terra un fitto strato. - Signor conte, - disse poi. - Potete coricarvi e terminare il sonno cosí malamente interrotto dalle guardie. Qui nessuno verrà di certo ad importunarci. Il guascone ed il fiammingo non avevano indugiato a fare altrettanto, sicché in pochi minuti si prepararono un giaciglio, se non troppo comodo, per lo meno bene asciutto. - Dormiamo, in attesa che il sole renda le nostre vesti almeno un po' presentabili, - disse il conte. Si gettarono sullo strato di canne, uno presso all'altro ed essendo la notte caldissima non tardarono ad addormentarsi, quantunque fossero ancora inzuppati d'acqua. Quando si svegliarono, le loro vesti erano perfettamente asciutte ed il sole già molto alto. La piantagione era sempre deserta, non essendo ancora giunto il momento di procedere al taglio della preziosa canna. - Andiamo a fare una prima esplorazione in città, - disse il conte. - Voglio assicurarmi se veramente il consigliere abita là dove ci ha indicato la bella castigliana. Siate prudenti e non commettete gradassate: lo dico specialmente a voi, don Barrejo. - Sí, prometto di essere tranquillo come un agnello dei Pirenei, - rispose il guascone. - No, come un montone, - disse Mendoza. - Vada anche pel montone! ...

Buttafuoco pure, di quando in quando, faceva qualche breve sosta per sparare qualche archibugiata, ma piú per concedere ai suoi compagni un mezzo minuto di riposo che colla speranza di abbattere qualche nemico. Quella corsa furiosa durava da circa mezz'ora e gli spagnuoli erano rimasti tanto indietro da non scorgerli piú, quando Buttafuoco andò a urtare contro una palizzata. - Siamo salvi! - gridò. - Ecco la fattoria della marchesa di Montelimar!

I suoi fucilieri, quei terribili filibustieri che quasi mai sbagliavano un colpo e che erano armati di grossi archibugi tutti di buon calibro, si erano disposti in un lampo dietro le murate, sopra le quali avevano arrotolato le brande, aprendo subito un fuoco infernale sui ponti delle navi avversarie, per abbattere i timonieri e gli ufficiali. Altri si erano lestamente arrampicati sulle coffe, per lanciare bombe, delle quali quei formidabili scorridori del mare facevano molto uso e con buon successo. Le navi spagnuole, fidando nella loro superiorità, avevano accettato risolutamente la lotta; stringendosi le une alle altre per impedire il passo alla nave nemica e opporle una formidabile barriera. Disgraziatamente per loro, avevano da fare con un uomo di mare che ben altre ne aveva vedute e che era rotto a tutte le astuzie, e per di piú con un veliero estremamente maneggiabile e che poteva spostarsi rapidamente. Per alcuni minuti fra la fregata ed i galeoni fu un continuo scambio di cannonate, senza causare troppi danni né da una parte né dall'altra, facendo accorrere sulle calate tutta la popolazione di San Domingo; poi vi fu un po' di sosta, perché la Nuova Castiglia, con un'abile manovra, si era spostata in modo da far convergere il fuoco degli spagnuoli verso le case del porto. Era vero che a questo modo si esponeva al tiro delle artiglierie dei forti che potevano incrociare i loro fuochi senza danneggiare la città, ma il luogotenente del conte non era uomo da esporre lungamente la sua nave alle palle nemiche. Con due fulminee bordate, la Nuova Castiglia ripiegò verso il centro della rada, scatenando da parte dei forti un uragano di cannonate; poi prese il suo slancio verso la bocca del porto, ora minacciando di passare a tribordo della squadra ed ora a babordo. I suoi venti pezzi della batteria e le due caronade del cassero tuonavano furiosamente, specialmente contro le caravelle, mentre i suoi fucilieri spazzavano a fucilate i ponti altissimi dei galeoni, abbattendo, con una precisione matematica, timonieri e ufficiali. Urla feroci s'alzavano su tutte le tolde, mescolandosi, confondendosi col fragore delle artiglierie e lo scrosciate degli archibugi. Anche la folla che si accalcava sulle calate, quantunque esposta al fuoco delle artiglierie, urlava ferocemente: - Morte ai filibustieri! Distruggeteli! Massacrateli! La Nuova Castiglia continuava intrepidamente la sua marcia, coprendo di palle e di bombe le navi nemiche e minacciando di abbordarle. Salda di costole, bene armata e condotta da uomini abituati a battersi quasi ogni giorno, non tentennava nelle sue mosse. Rispondeva ai galeoni e alle caravelle, quasi colpo per colpo, con una insistenza feroce, mentre le due caronade della coperta avventavano di tratto in tratto delle bordate di mitraglia. Giunta a cento passi dai galeoni, sfilò superbamente sulla loro fronte con tutti i suoi formidabili archibugieri a babordo; poi, con una mossa improvvisa, inaspettata, girò a destra della squadra dove c'era ancora abbastanza spazio per navigare lungo la costa. Una piccola caravella tentò di chiudere il passo, gettandosi dinanzi alla prora per lasciar tempo ai galeoni di muoversi. Era un topolino che tentava di arrestare un leone. La Nuova Castiglia la urtò poderosamente col suo solidissimo tagliamare e la sfasciò completamente passando in mezzo ai rottami; poi, dopo aver scaricati tutti i suoi pezzi d'un colpo solo, fuggí fuori dal porto. - Ebbene, che cosa ne dite, signor conte? - chiese Mendoza, il quale fumava furiosamente, con le mani affondate nelle tasche e le gambe allargate. - Che con simili uomini, si potrebbe conquistare il mondo - rispose il signor di Ventimiglia. Non so se un'altra nave se la sarebbe cavata cosí bene, mio caro. - Ecco che i galeoni si mettono in caccia, ma che cosa sperano di fare? Di raggiungere la nostra nave? Eh, cari miei, non conoscete ancora la Nuova Castiglia! - Mi pare che l'abbiano conosciuta or ora. - Il signor Verra li farà correre. - E allora corriamo anche noi e cerchiamo di lasciare San Domingo prima che spunti il sole. Gli spagnuoli rivolgeranno tutta la loro rabbia contro di noi e ci daranno una caccia spietata. - E se ci prendono, ci impiccheranno, signor conte, - rispose Mendoza. - Forse quelle due corde non sono ancora state intrecciate. Conosci anche tu la città! - Abbastanza per condurvi alla Puerta del Sol. - Ci lasceranno poi uscire, a quest'ora? - Oh, non lo sperate, capitano, - rispose il filibustiere; - E perché condurmi là dunque? - Perché il bastione vicino è in parte diroccato e potremo trovare il modo di scendere nel fossato e anche ... Si era interrotto, guardando il conte, e rimanendo con la bocca aperta. - E dunque? - chiese il corsaro. - Sono un vero stupido, capitano! - Perché? - Ma sí che noi possiamo passare per la Puerta del Sol senza esporci al pericolo di fiaccarci il collo in fondo al fossato. In verità io invecchio troppo presto. - Sei impazzito, Mendoza? - No, signor conte, ma stavo per diventare un cretino. Non siete vestito da alabardiere, voi? - Pare di sí! - Noi ci presenteremo alle guardie della porta e voi direte che avete ricevuto l'ordine di scortarmi e di farmi uscire. Potrete aggiungere, se non vi dispiace, che io sono una spia che va a sorvegliare i bucanieri. A un soldato si crede sempre. - E tu affermavi poco fa che stai per diventare un cretino? disse il conte ridendo. - A me pare invece che tu diventi ogni giorno piú furbo, vecchio squalo. In marcia! Non voglio trovarmi ancora a San Domingo al sorgere dell'alba. Gettarono le vesti e la spada di Martin in mezzo ad un folto cespuglio e volsero le spalle al porto, internandosi in una stradicciuola che serpeggiava fra siepi e splendidi filari di banani e di palme. Essendo tutta la popolazione accorsa sulle calate, non vi era anima viva nei dintorni, cosicché poterono attraversare indisturbati la città e giungere dinanzi alla Puerta del Sol, che era in quel tempo una delle principali di San Domingo e che metteva nell'aperta campagna. Due alabardieri, armati di lunghe picche, passeggiavano a breve distanza, fumando e chiacchierando. Scorgendo il conte e il suo marinaio, si fermarono per sbarrare loro il passo; poi uno dei due, accortosi di aver da fare con un soldato, chiese: - Oh, camerata, dove vai? - Ho l'ordine di scortare quest'uomo fuori della città - rispose franco il signor di Ventimiglia. - Chi è? - Un corriere governativo. - Senza cavallo? - Sa dove trovarlo. Sbrigatevi ad aprire la porta; abbiamo molta fretta. - E non ti hanno dato nessuna carta? - Non sono un soldato, io? - È vero, ma ci hanno dato anche il comando di impedire l'uscita a qualunque persona. - Era per i borghesi, quello. - Aspetta che chiamo l'anziano: io non voglio assumermi questa responsabilità. Entrò in una vicina caserma e uscí subito con un altro soldato, munito di una lanterna, il quale trascinava con gran fracasso un enorme spadone. - Guarda questi uomini, Barrejo - disse la sentinella. - Fulmini! - mormorò Mendoza. - Il guascone! Ora siamo fritti! Il conte trasalí e portò rapidamente una mano sulla pistola di Martin, pronto ad impegnare una lotta disperata. Il guascone si avvicinò a loro e non potè trattenere un gran gesto di stupore nel riconoscere la propria corazza e le proprie vesti che il conte indossava. - Ah, camerata! - esclamò sbarrando gli occhi. Poi, volgendosi verso le due sentinelle, disse loro: - Continuate la ronda voi, io conosco queste persone. Aspettò che si fossero allontanate, poi, dopo aver alzato una seconda volta la lanterna per guardare bene in viso il conte ed il suo compagno, chiese: - Che cosa fate ancora qui, nei miei panni, signore? Siete ben voi che mi avete dato quei venti dobloni! - Sí, messer Barrejo - rispose il signor di Ventimiglia. - E che cosa siete venuti a fare qui? - A offrirvi altri dieci dobloni, se non vi rincresce. - Per tutti i venti del mare di Biscaglia! Volete far di me un milionario? - No, voglio ingrassarvi, perché siete troppo magro. - Tutti i guasconi sono magrissimi, signor conte. Ma che muscoli d'acciaio abbiamo! - Chi sa che un giorno non li veda al lavoro! Orsú, volete guadagnare altri dieci dobloni? - Che cosa devo fare? - Una cosa semplicissima. Aprirci la porta e lasciarci andare in campagna. - E null'altro? - chiese il guascone con stupore. - Nient'altro. Vi avverto che abbiamo detto ai vostri camerati che siamo corrieri del governatore. - E non avete paura d'incontrare i bucanieri? Si dice che stiano organizzandosi per tentare un colpo di mano sulla città. - Non vi occupate di questo, messer Barrejo. Apriteci la porta e altre dieci monete d'oro andranno a ingrossare il vostro piccolo tesoro. - Vi apro anche tutte quelle della città - rispose don Barrejo. Venite, signor conte. I miei camerati non vi daranno alcun fastidio. Afferrò un'enorme chiave che stava appesa ad un chiodo e aprí la pesante porta laminata di ferro, conducendoli attraverso un massiccio bastione forato nel mezzo da uno stretto passaggio. - Eccovi in campagna - disse dopo aver aperta un'altra porta. Mi permettete di scortarvi per qualche tratto? - Vi ho detto che noi non abbiamo paura - disse il conte. - Non ne dubito, signore, ma che volete, mi piace immensamente la vostra compagnia. - Non sarà per sorvegliarci, spero - disse Mendoza. - Oh! un guascone! ... Noi non siamo abituati a mentire. - Allora venite - disse il conte. - Potreste darci qualche preziosa informazione. - Sono tutto a vostra disposizione, signor conte - rispose il guascone. - Potreste, per esempio, dirci dove potremo trovare dei cavalli. - Vi è un corral a mezzo miglio di qui, annesso ad una grande fattoria. Se avete ancora di quei bei dobloni, potrete acquistarne finché vorrete. - Le nostre borse sono ancora assai fornite, malgrado il salasso fatto alla mia. - Vi guiderò io. - Ed i vostri camerati che non vi vedranno tornare non si allarmeranno? - Vadano al diavolo! - disse Barrejo alzando le spalle. - Non sono padrone di fare una passeggiata notturna e di scortare delle persone raccomandate da Sua Eccellenza il Governatore? - Oh, è vero! - disse il conte ridendo. - Noi siamo personaggi importantissimi. - Che viaggiano però senza carte - aggiunse maliziosamente il guascone. - Le teniamo sempre sulla punta delle nostre spade. Il soldato capí a che cosa voleva alludere il conte e, quantunque guascone, credette opportuno di troncare il discorso. Si erano inoltrati per una viuzza fiancheggiata da bellissime agavi, piante tessili che danno dei fili elastici e fini e dalle cui foglie gli indiani estraggono una bibita fermentata detta pulque, molto spumante e anche molto gradevole. Di là da quelle enormi siepi, si estendevano immense piantagioni di canne da zucchero e di caffè, le maggiori risorse di quella fertilissima isola. Per la tenebrosa campagna volavano sciami di Moscas de luz, insetti che tramandano una luce ben piú potente delle nostre lucciole, e nei solchi delle piantagioni e attorno agli stagni muggivano i grossi rospi gialli e neri con appendici cornute e fischiavano migliaia e migliaia di batraci. I tre uomini camminarono in silenzio per un buon quarto d'ora, rischiarando la via con la lanterna; poi, giunti ad una biforcazione, il guascone si fermò. - Ci lasciate? - chiese il conte. - Questo dipende da voi, signore - rispose il soldato. - Che cosa volete dire? - Signor conte, io sono un uomo d'onore e sono un cadetto d'una famiglia nobile della Guascogna. Già. Voi saprete che, piú o meno, noi siamo tutti nobili nel mio paese, ma anche poveri, poveri, perché i nostri padri non ci lasciano per eredità che una buona spada e delle lunghe lezioni di scherma. - Che cosa volete concludere, signor Barrejo? - Che vorrei sapere chi siete e perché siete fuggito da San Domingo, mentre era stato dato l'ordine d'impedire l'uscita a tutti gli abitanti. Il conte rimase un momento muto, guardando il soldato, poi disse: - Scommetterei che voi già lo sapete. - Forse. - Sono il capitano della fregata che entrò nella rada ieri mattina che due ore fa è stata cannoneggiata dagli spagnuoli. - Dei filibustieri, non è vero? - Siete molto perspicace, signor Barrejo. Ora andrete ad avvertire certamente il governatore. - Io? - esclamò il guascone. - Io tradirvi? Mai! Siamo uomini d'onore, noi. - Allora avrò soddisfatta la vostra curiosità. - Signor conte, se vi facessi una proposta? - Dite pure. - Noi guasconi siamo gente di guerra e non amiamo lasciar arrugginire inutilmente le nostre spade. La mia dorme da due anni in San Domingo e minaccia di non saper piú uscire dal fodero. Volete arruolarmi? Coi filibustieri vi è sempre occasione di menar le mani. - E anche di morire piú facilmente! - aggiunse Mendoza. - Ho trentadue anni e ne ho già abbastanza della vita - disse il guascone. - Mi volete, signor conte? Vi giuro che sarò una buona lama. - E poi lo liberereste da molti fastidi - aggiunse il marinaio, a cui non dispiaceva affatto quel fracassone. - Sia! - disse il signor di Ventimiglia. - Un bravo soldato di piú sulla mia nave non sarà d'impiccio. - Voi non siete spagnuolo, quindi potete passare al nemico - disse Mendoza. - Sono un soldato di ventura e null'altro, e come tale posso offrire la mia spada ed il mio braccio a chi meglio mi piace. - Conoscete S. Josè? - Conosco mezzo San Domingo. - Sapreste condurci nella tenuta della marchesa di Montelimar? - Anche con gli occhi bendati. - Andiamo a procurarci dei cavalli, prima di tutto. Io non dubito che gli spagnuoli ci diano la caccia. - Potete esserne certo, signor conte - rispose il guascone. - Ci lanceranno anche addosso qualche banda dei loro terribili cani. - In cammino allora, Barrejo - disse il conte. - Non ho alcun desiderio di farmi mordere i polpacci da quelle bestiacce. - Dovremo prendere la via dei boschi, signor conte. Le vie sono battute dalle ronde e potrebbero arrestarci. - Ve ne sono molte fuori della città? - Eh, un bel numero. - Andiamo a visitare i boschi. Il guascone gettò via la lanterna, la cui luce poteva tradirli e attirare qualche ronda in perlustrazione o alla caccia di bucanieri. Quelle bande di soldati, formate da cinquanta uomini ciascuna, erano incaricate di impedire ai bucanieri, alleati dei filibustieri, di dare la caccia ai numerosi tori selvatici che in quell'epoca scorrazzavano liberamente per le foreste dell'isola. Non osando gli spagnuoli affrontare quei terribili cacciatori, i quali non sbagliavano mai un colpo, avevano deciso di affamarli e perciò avevano istituite quelle compagnie volanti. Dapprima le avevano munite d'armi da fuoco, ma siccome non volevano imbattersi nei bucanieri, né impegnare mischie con loro, quando s'accorgevano della loro presenza preferivano fare delle scariche di moschetteria in aria. I cacciatori, avvertiti del pericolo, se ne andavano tranquillamente da un'altra parte. I governatori delle varie città, accortisi della gherminella, avevano tolto alle ronde le armi da fuoco, armandole solamente di alabarde, ma senza ottenere, come si può capire facilmente, alcun risultato pratico. Se prima erano i bucanieri che scappavano, ora erano gli alabardieri che se la davano a gambe appena udivano uno sparo; sicché i combattimenti erano rari come le mosche bianche, ché nessuno aveva il desiderio di giocare la pelle inutilmente. E quelle erano le famose ronde dette cinquantine, colle quali i governatori speravano di distruggere tutti i bucanieri, - ed erano molti - che infestavano le immense foreste dell'isola, sempre pronti a prestare man forte ai filibustieri della Tortue, quando si trattava di tentare qualche buon colpo Il guascone fece attraversare ai suoi due compagni una vasta piantagione di canne da zucchero, poi si gettò risolutamente in mezzo alle boscaglie, formate per lo piú da enormi piante di cotone selvatico, con i cui tronchi cavi gli indiani e i negri formavano canoe capaci di contenere perfino cento uomini. - Il corral lo troveremo di là da questa boscaglia - aveva detto il soldato al conte. - Risparmieremo tempo e non correremo il pericolo di imbatterci in qualche cinquantina. Cercate solo di non far rumore, poiché fra queste macchie i tori non mancano, e vi so dire io se sono pericolosi quando s'infuriano o vengono disturbati! La marcia non tardò a diventare difficilissima, con molto dispiacere di Mendoza, abituato a passeggiare solamente sulle tolde delle navi e ad arrampicarsi sulle alberature. A quei tempi San Domingo, al pari della vicina Cuba e della Giamaica, aveva delle foreste, antiche quanto il mondo, le quali accumulando foglie su foglie e imputridendo rami e tronchi, dovevano preparare quel meraviglioso ordimento vegetale, che piú tardi doveva cosí ben servire agli intraprendenti piantatori. I cotoni selvatici s'alzavano dovunque, mescolati, anzi confusi, con palme gigantesche, reggendo non si sa in quale modo i loro giganteschi fusti, non avendo per sostegno che una crosta di terra non più alta di due piedi affatto insufficiente alle smisurate radici. Erano soprattutto i foltissimi cespugli, vere macchie per le imboscate, che facevano brontolare Mendoza, anche perché si mostravano formidabilmente armati di acutissime spine. Il guascone, che aveva fatto parte piú volte delle cinquantine, per buona fortuna non esitava mai a scegliere la via, quantunque sotto quelle immense arcate di verzura regnasse un'oscurità quasi completa. - Ho la bussola nella testa - ripeteva sfondando a colpi di spadone i cespugli per aprire il passo al conte. E pareva infatti che quel diavolo d'uomo, che camminava con piena sicurezza senza mai fermarsi, avesse la facoltà d'orientarsi come i piccioni viaggiatori. Chi invece era incerto e non poco era Mendoza, il quale, quantunque uomo di mare, non ignorava come fosse facile smarrirsi in mezzo alle boscaglie. Quella marcia faticosissima durò tre ore, poi il piccolo drappello si trovò dinanzi ad una vasta pianura interrotta da un gran numero di stagni. Un fracasso indiavolato s'alzava fra le alte erbe e i canneti che la coprivano. Muggivano milioni di rospi, fischiavano le rane americane e di quando in quando, a tutto quel baccano, si univano delle urla rauche, somiglianti al fragore dei tamburi, dei cannoni. Il guascone si era arrestato, bestemmiando in francese o in spagnuolo. - Ehi, camerata, avresti per caso perduta la bussola che tu affermavi d'avere dentro il cervello? - chiese Mendoza. Il guascone stette un momento zitto, poi picchiandosi furiosamente la corazza che gli rinserrava il petto, rispose: - Pare proprio che si sia guastata. - Chi? - La mia bussola. - Ecco una faccenda seria per la gente di mare. - E anche qualche volta per la gente di terra, - rispose l'avventuriero, il quale appariva sconcertato. - Come mai mi sono smarrito? Eppure queste boscaglie le ho scorse piú volte. - Spero, don Barrejo, che non avrete l'intenzione di farci divorare dai caimani, - disse il signor di Ventimiglia. - Ci tengo alle mie gambe non meno di voi, - rispose il guascone. - Volete un consiglio, signor conte? Aspettiamo l'alba. - Ed intanto schiacciamo un sonnellino - aggiunse Mendoza. L'erba è folta e fresca e dormiremo meglio che su una branda della Nuova Castiglia. - E i caimani intanto cenerebbero con i vostri piedi - disse il guascone. - Non chiudete gli occhi, signore, ve ne prego. Io so come sono pericolose queste paludi! - Avete un sigaro, don Barrejo? - chiese il conte. - Sono ben provvisto, signor conte, ed è tabacco di Cuba, il migliore che si coltivi in tutto il golfo del Messico. - Datemene uno, e aspettiamo che il sole spunti. Spero che non ci farete perdere in mezzo alle boscaglie di San Domingo. - Zitto, signore! - Che cosa c'è ancora? Se è qualche caimano, lo taglieremo in due a colpi di spada. Anzi, non ho ancora visto lavorare la vostra draghinassa. - Altro che caimano! È una cinquantina che s'avvicina. Zitti! Tutti si misero in ascolto, dopo essersi gettati dietro l'enorme tronco d'un albero di cotone selvatico. Pareva che un grosso drappello uscisse dal bosco. Si udivano i passi pesanti e cadenzati di uomini abituati a marciare in colonna. - Adesso ci prendono! - borbottò Mendoza. - Che splendida passeggiata notturna! Era molto meglio restarcene a San Domingo. - Zitto, eterno brontolone! - sussurrò il conte. - Sai che le cinquantine non desiderano altro che di andarsene pei fatti loro. Non ti muovere, e vedrai che nessuno verrà a cercarti dietro a questa pianta. - Ben detto, signor conte, - disse il guascone. - D'altronde basterebbe sparare un colpo di pistola per far scappare quei poveri diavoli. Da quando i governatori hanno avuto la pessima idea di privarli delle armi da fuoco, non si sentono piú in grado né di darci, né di fare battaglia. - Purché non abbiano con loro dei cani, - disse Mendoza. - Ecco quello che temo, - rispose il guascone. - Voi avete però quattro pistole. Datene una a me e vedrete che scapperanno come lepri, benché non manchino di coraggio, questo ve lo assicuro io. Lo spagnuolo è sempre stato un buon soldato e nemmeno io, se avessi in mano una spada contro un buon bucaniere armato d'archibugio volterei le spalle, eppure sono un guascone. - Ricco di guasconate! - disse Mendoza, un po' ironicamente. - Mi vedrete all'opera, camerata, - rispose il soldato, un po' piccato. - Silenzio, s'avanzano. Un grosso drappello era sbucato di fra le canne e le erbe e avanzava lungo la fronte della foresta. Si trattava veramente d'una di quelle famose cinquantine, armate esclusivamente d'alabarda e di spade, senza nessuna bocca da fuoco. Era composta tutta di alabardieri con elmetto e corazza, difese affatto insufficienti contro le grosse palle dei bucanieri. Era preceduta da un doz di Cuba. Questi cani ferocissimi sono molto grossi, molto robusti e d'un coraggio a tutta prova, e gli spagnuoli li usavano specialmente contro gli indiani, i quali avevano una paura terribile di quelle bestiacce. A quei doz cubani si deve piú che altro la conquista delle numerose colonie del golfo del Messico. Si può anzi dire che la Colombia fu conquistata piú da loro che dagli avventurieri. Il cane, giunto in vicinanza del grosso albero del cotone, si era fermato, aspirando fragorosamente l'aria, e la cinquantina, che era guidata da un ufficiale, si era subito disposta su quattro linee abbassando le alabarde. - Camerata, - sussurrò Barrejo, rivolgendosi a Mendoza - voi occupatevi di quel cagnaccio e badate di non sbagliare il colpo o vi salterà alla gola. - È un affare che sbrigherò io, - rispose il filibustiere. - Alla cinquantina penseremo io e il signor conte. Tutti e tre avevano armato le pistole e si tenevano l'uno presso l'altro, pronti a sguainare le spade. Il doz cubano fiutava sempre, volgendo la testa massiccia verso l'enorme albero e ringhiando sordamente. Doveva aver sentito che là si nascondeva il nemico. Un grido s'alzò fra gli uomini d'avanguardia della cinquantina - Ay, perrito! Il cagnaccio, udendo quel comando, si slanciò furiosamente, sperando di azzannare i misteriosi avversari che non osavano mostrarsi. Mendoza, che lo teneva d'occhio, fu pronto a sparare e gli fracassò il cranio, mentre il conte ed il guascone facevano fuoco contro la cinquantina, tirando a casaccio. Allora gli spagnuoli, credendo d'aver dinanzi qualche grosso drappello di quei terribili bucanieri che non sbagliavano mai la mira, in un lampo si dileguarono, gettandosi in mezzo ai canneti delle paludi. - Ecco la cinquantina sgominata! - disse il guascone ridendo. Lavoriamo tuttavia di gambe, perché domani mattina tornerà qui e se si accorgerà, dalle nostre tracce, d'aver avuto da fare con soli tre uomini, ci darà una caccia terribile. Corriamo, signor conte! - E queste sono le splendide passeggiate che si fanno a San Domingo - disse Mendoza. - Preferisco quelle che si fanno sulla tolda della Nuova Castiglia. Si erano messi a correre, come se avessero altri molossi alle calcagna. Il guascone, che aveva le gambe piú lunghe di tutti, marciava con una rapidità incredibile lungo la fronte della boscaglia, dietro però la prima linea degli alberi, per paura che la cinquantina, rimessasi dalla sorpresa, si fosse nuovamente ordinata e formata per la caccia. - Questo briccone ha giurato di farmi morire completamente sfiatato! - brontolava Mendoza, il quale sbuffava come un bufalo. - Quanto durerà questa storia? Pareva proprio che il guascone possedesse una resistenza incredibile e muscoli di acciaio, poiché non rallentava nemmeno un momento la sua corsa. Il figlio del Corsaro Rosso si mostrava non meno resistente, anzi, aveva maggiore slancio, come se fosse già abituato alle lunghe corse. Quella galoppata furiosa durò un'ora, poi il guascone si fermò. - Può bastare - disse. - La cinquantina ha avuto piú paura di noi e non ha osato darci la caccia. Prima che ne incontri altre o che si rifornisca di cane, passerà del tempo e noi potremo raggiungere la villa della marchesa, senza essere piú disturbati. - Se non sapete nemmeno dove si trovi! - disse Mendoza, il quale aspirava, come un mantice da fucina, la fresca brezza notturna. - Camminando sempre, si va anche a Parigi - rispose Barrejo. - Nel mio paese si dice che tutte le vie conducono a Roma - aggiunse il conte. - Ma non alla villa di Montelimar - ribattè Mendoza il quale sembrava di pessimo umore. - Voi, camerata, brontolate sempre contro il vostro capitano - disse il guascone. - Anche questo è un brutto vizio. - Mi correggerò col tempo. - Siete ormai troppo vecchio per farlo. - I filibustieri sono sempre giovani. Lo sanno gli spagnuoli. - Oh, non lo nego, amico! Avete sempre il fuoco nel petto. - E non le vostre gambe. - Orsú, che cosa facciamo ora, don Barrejo? - chiese il conte. - Io per conto mio, farei colazione - disse Mendoza. - Questa corsa mi ha messo un appetito da pescecane. - Contentati di accendere la tua pipa, per ora - rispose il conte. - Se non basta, stringi bene la cintura. - Ottimo consiglio! - sentenziò gravemente il guascone. - Che non farà bene a nessuno - brontolò Mendoza - Mettetelo in pratica voi. - Ne avete qualche altro da suggerirci don Barrejo? - chiese il conte. - Sí, quello di sdraiarci in mezzo a queste fresche erbe e di tirare il fiato fino all'alba. - E i caimani? - chiese Mendoza. - prima avevate una gran paura di quelle bestiacce. - Sono lontani da qui, e poi non chiuderemo gli occhi - Visto e considerato che non vi è di meglio da fare, lo metto in esecuzione - disse il conte, lasciandosi cadere fra le erbe e allungandosi con visibile soddisfazione. - Sono due giorni che io e questo eterno brontolone non ci riposiamo: è vero, Mendoza? - Saranno forse di piú - rispose il filibustiere imitandolo. Il guascone guardò attentamente in tutte le direzioni, si chinò, accostò un orecchio a terra, ascoltò attentamente e poi, a sua volta, si allungò fra le fresche erbe, dicendo: - Nulla: possiamo riposarci. Non era però troppo facile socchiudere gli occhi. I grossi rospi muggivano sempre, con un crescendo spaventoso; i caimani facevano del loro meglio per imitarli ed i batraci gareggiavano fra di loro per fischiare con maggior furore, come se si fossero messi d'accordo per impedire a Mendoza di schiacciare un sonnellino, fosse pure d'un quarto d'ora. Era però molto tardi, e l'alba non doveva tardar molto a spuntare. Nel Golfo del Messico il sole tramonta presto e si alza anche molto presto. Alle tre e mezzo, durante l'estate, il cielo si tinge dei primi riflessi dell'aurora e le stelle scompaiono. I tre filibustieri - poiché ormai anche il guascone si poteva considerare come tale - si riposavano da un paio d'ore, tendendo continuamente gli orecchi, per paura che i cani delle cinquantine, li sorprendessero, quando le tenebre cominciarono a diradarsi. - In marcia, signor conte - disse il guascone, alzandosi rapidamente. - Cercherò di orientarmi. - È stata accomodata la bussola piantata in mezzo al vostro cervello? - chiese Mendoza beffardamente. - S'incaricherà il sole di rettificarla - rispose l'avventuriero. - Speriamo che sia un abile meccanico. - Vedrete, camerata. Stavano per mettersi in cammino, quando udirono a breve distanza uno sparo. - La cinquantina! - gridò Mendoza facendo un salto. - Sí, che spara con le sue alabarde! - osservò il guascone sorridendo. - Io scommetto invece che è la colazione che giunge. Signor conte, siete conosciuto fra i bucanieri? - Se non io, erano troppo noti i tre corsari: il Rosso, il Nero e il Verde. - Questa archibugiata deve averla sparata un bucaniere. - Andiamo a trovarlo - rispose il signor di Ventimiglia. Attraversarono di corsa una folta macchia e, giunti sul margine, scorsero, in mezzo ad una radura erbosa, un uomo piuttosto attempato, vestito malamente. Aveva un grembiale di pelle ed un largo cappello di feltro in testa e stava ritto accanto ad un gigantesco bue selvaggio il quale stava spirando. Vedendo quegli stranieri, il cacciatore fece alcuni passi indietro, e gridò con voce minacciosa: - Chi siete? Rispondete, o vi uccido prima che possiate giungere fino a me! - Siamo filibustieri, camuffati da spagnuoli - rispose il conte in francese purissimo, perché l'intimazione era stata fatta in quella lingua. - Io sono il figlio del Corsaro Rosso e nipote del Verde e del Nero. - Del Corsaro Nero! - gridò il bucaniere, lasciando cadere l'archibugio e facendosi innanzi. - Di quello che con Grammont, Laurent e Wan Horn ha espugnato Vera-Cruz? Io ho combattuto con lui! Tonnerre de Brest! Signore, sono ai vostri ordini! Comandate!

Cerca

Modifica ricerca