Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbattere

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IL RE DEL MARE

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Salgari, Emilio 2 occorrenze

. - Ed ora, - disse Sandokan, quando ebbe dato gli ultimi ordini ai comandanti dei legni e che questi si misero in marcia, - andiamo a liberare Tremal-Naik ed abbattere la potenza del rajah di Sarawak, suoi alleati e protetti. Un momento dopo, il Re del Mare, come era stata battezzata la poderosa nave americana, si slanciava a tutto vapore verso il sud, per raggiungere la baia di Sarawak.

Il giong, accortosi dell'intenzione dei fuggiaschi, con una lunga bordata si era frammesso fra i due prahos, seguìto subito dalla scialuppa a vapore ed aveva cominciato a far fuoco coi suoi lilà, cercando di abbattere le manovre. - Ah! Canaglie! - aveva gridato Yanez. - Ci separano per distruggerci più facilmente. Su, tigri di Mompracem, diamo battaglia e affondiamo tutti piuttosto che cadere vivi nelle mani di quei selvaggi. Afferrò la carabina e pel primo aprì il fuoco, sparando sul ponte del giong. I suoi uomini avevano pure impugnate le armi, moschettando vigorosamente l'equipaggio della nave avversaria. Anche sul praho di Tremal-Naik, quantunque stretto fra il grosso veliero e la scialuppa a vapore che tentava di abbordarlo, le carabine tuonavano furiosamente, tentando una suprema resistenza. Non doveva durare a lungo quella lotta così impari. Una bordata di mitraglia disalberò d'un colpo solo il praho dell'indiano rasandolo come un pontone ed immobilizzandolo, mentre una piccola granata, sparata dal pezzo d'artiglieria che armava la scialuppa a vapore sfondava la ruota di prora, aprendo una falla enorme. - Tigrotti di Mompracem! - aveva gridato Yanez, che si era subito accorto della disperata situazione in cui trovavasi Tremal-Naik. - Andiamo a salvare la fanciulla! Il praho virò per la seconda volta di bordo cercando di accostarsi a quello dell'indiano, quando si vide tagliare la via dal giong. Il grosso veliero, compiuta la sua opera di distruzione, si era rivolto verso quello di Yanez, mentre la scialuppa a vapore abbordava, con due doppie scialuppe d'appoggio, quello di Tremal-Naik che cominciava ad affondare. - Fuoco sul ponte, Tigrotti! - gridò il portoghese. - Almeno vendichiamo gli amici! Una voce dall'accento metallico, si levò in quel momento dalla poppa del giong: - Arrendetevi al pellegrino della Mecca! Vi prometto salva la vita! Il misterioso nemico era apparso sul cassero col suo turbante verde in capo, impugnando una di quelle corte scimitarre indiane chiamate tarwar. - Ah! Cane! - gridò Yanez. - Anche tu ci sei! Prendi! Aveva in mano la carabina carica. La puntò e fece fuoco rapidamente. Il pellegrino aprì le braccia, le richiuse, poi cadde addosso al timoniere, mentre un altissimo urlo di furore s'alzava fra l'equipaggio del giong. - Finalmente! - gridò Yanez. - Ed ora fumiamo la nostra ultima sigaretta!

IL VENTRE DI NAPOLI (VENTI ANNI FA - ADESSO - L'ANIMA DI NAPOLI)

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Serao, Matilde 2 occorrenze
  • 1906
  • FRANCESCO PERRELLA EDITORE
  • prosa letteraria
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Citiamo il Borgo Marinai, a santa Lucia, posto che si dovevano abbattere, sino da venti anni, tutte le case pittoresche e sporchissime dell'antico rione santa Lucia, case che, oh ironia, si vanno abbattendo solo da un anno, e si era preoccupati dove si sarebbero allogati quei pescatori di polipi, quelle venditrici di acqua sulfurea, quegli intrecciatori di nasse, quei sommozzatori o palombari, si pensò e si costruì, sulla lingua di terra che parte dalla sinistra, di Castel dell'Uovo, un gruppo di casette a un piano, sulla riva del mare. Costavano, costano diciotto lire, una stanzetta con la cucina, e ventisette lire due stanzette con la cucina. Irrisione! Nonsenso! Non vi è pescatore, non vi è palombaro, non vi è barcaiuolo di santa Lucia che guadagni più di venticinque o trenta soldi al giorno e volete che ne spenda diciassette soldi, al giorno, solo per la casa? Non vi è venditrice di acqua minerale, di noci, di frutta fracide, di ciambellette, di spassatiempo che guadagni, quando li guadagna, più di dodici o quindici soldi al giorno e, se è sola, se è vedova, se è abbandonata dal marito, come potrebbe pagarne diciassette, al giorno, per il pigione di casa? In breve: come era naturale, non un solo luciano , non una sola luciana è andata ad abitare al Borgo Marinai. Non uno, una! Hanno preferito, ostinatamente, le loro vecchie, dirute, sudicissime case che, per diciotto anni, hanno aspettato il piccone, ove pagavano nove o dieci lire il mese, di pigione - è TUTTO ciò che può pagare il popolo napoletano NOVE o DIECI LIRE il mese! - e negli ultimi due anni, man mano si sono ritirati più indietro, nelle medesime catapecchie, e scacciati dalle demolizioni, sono rientrati, rientrano la notte ad abitare le rovine, e si gittano alle ginocchia dei demolitori, per non essere perseguitati dalle guardie, dai carabinieri, e piangono, e gridano, e urlano, non vogliono andar via, non sanno andar via, e alcuni di essi, o pietà grande, abitano, adesso, nelle grotte onde è forato il monte Echia che sovrasta santa Lucia, e talvolta una di queste grotte frana sulle teste, sui corpi di questi miseri luciani che dormono, e li uccide. Intanto dirimpetto, sotto il forte Ovo, il Borgo Marinai scintilla di lumi che si riflettono nelle acque del mare. Chi vi abita, chi vi vive, mai? Pittori che scelsero quei quartini per istudio, poichè il posto è pittoresco; qualche loro modella; delle ballerine o delle chanteuses del vicino cafè chantant dell'Eldorado, che prendono in affitto, per un mese, per quindici giorni, una cameretta con cucina; qualche donnina di facile vita e misera fortuna; e altra minuta gente, non del popolo. In quanto alle botteghe, esse in un vasto angolo, sono tutte trasformate in osterie grandi e piccole, alcune carissime, altre modeste, altre vere taverne e vi si aspira un'aria mefitica di cucine più o meno malsane, e nel piccolo porto cadono tutti i detriti di queste taverne e ciò contrista, affligge, avvilisce i due eleganti clubs dei canottieri che sono sulla riva accanto. A ogni modo il Borgo Marinai è vivido, lieto, curioso: e inutile, infine, anche al santo scopo a cui serviva. I luciani sono d'altra parte respinti di stamberga in stamberga, respinti di rovina in rovina, di grotta in grotta. E dopo, quando tutto, tutto sarà demolito dove andranno questi superbi ma poverissimi popolani, quelle fiere, ma miserissime popolane dove andranno? Lo sa Iddio! Anche le case del popolo costruite all'Arenaccia, nel Quartiere Orientale hanno fallito completamente la meta. Il minor prezzo di ognuno di questi quartini, è ventisette lire il mese; si domandano due mesate anticipate, per regolamento, cioè cinquantaquattro lire: o si domanda un garante solido. Anzi tutto, dove è mai un vero popolano che possa pagare ventisette lire il mese, di pigione? Per poter cavare questa somma, un napoletano del popolo deve guadagnare almeno due lire e cinquanta al giorno, o tre lire: e allora, qui da noi, non è più un popolano, è già un operaio, ma di quelli fortunatissimi, di opera eletta, diciamo così: è già un civile, è già appartenente alla piccola borghesia. Dove, dove è il popolano che disponga, mai, nella sua vita di cinquantaquattro lire tutte insieme? Dove, dove è il popolano che trovi un garante solido? Ah che nessuno, nessuno si convince che qui, il popolo nostro, vive di soldi e non vive di lire, che gitta la sua gioventù, la sua salute e la sua forza in fatiche compensate irrisoriamente, felice, anche, di trovarla, questa fatica; che, per istinto, poichè nessuno pensò a educarlo, preferisce spendere i suoi soldi più nel mangiare, che nell'aver una casa e delle vesti e che quando ha venti soldi, quindici, almeno, gli servono pel suo pranzo e il resto, pel resto! Ventisette lire il mese! Cinquantaquattro lire di anticipo! Un garante solido! Quale ironia insultante! Nelle case del popolo, all'Arenaccia, nel Quartiere Orientale non abitano, dunque, che gli operai eleganti, diciamo così, e tutta la piccola borghesia, piccoli impiegati, commessi, contabili, uscieri, scritturali e, persino, dei cancellieri di tribunale: non abitano che tutti coloro, il cui bilancio familiare fluttua da settantacinque lire a cento lire il mese, posizione, già molto brillante, in questo nostro paese. Borghesia, borghesia minuta, modesta, innumerevole come le stelle del cielo e le arene del mare, borghesia lavoratrice, onesta, ma, come si vede, molto povera, per la sua condizione: borghesia, non altro che borghesia, nelle case del popolo, ma niente popolo, mai! Vi è di più. Spesso, a questi operai fortunati, a questi oscuri borghesi dalla decente miseria, è impossibile pagare ventisette lire al mese, perchè vi sono spesso, cioè, non spesso, sempre, dei figli, e spesso, quasi sempre molti figli, poichè la fecondità femminile, la prolificazione, sovra tutto in certe classi, assume proporzioni assai patriarcali, ma, anche, terrificanti. E allora si trova il rimedio peggiore e migliore; sono due le famiglie che prendono in affitto la casa di ventisette lire, stringendosi, stringendosi, mettendosi in tre, in quattro in una stanza, avendo la piccola cucina comune e allora, addio aria, addio luce, addio igiene! Spesso una famiglia subaffitta una camera a studenti, a uomini soli e la vita è comune e tanto nel primo, come nel secondo caso l'agglomerazione, i contatti, il vivere gli uni sugli altri, conduce, novellamente, alla sporcizia, alla malattia, al vizio, alla corruzione e alla depravazione. In quei nuovi caravanserragli, laggiù, laggiù, in questi caravanserragli già tutti deturpati, dall'aspetto già sconquassato, dalle macchie di sudiceria trapelanti dai muri, dai vetri già appannati e dalle cui finestre, come nei quartieri antichi, pendono le biancherie di dubbio colore, mal lavate, e i mazzi di pomidoro e i mazzi di agli, in questi derisorii caravanserragli che dovevano servire alla rigenerazione fisica e morale del popolo napoletano, si svolgono, ogni giorno, drammi dolorosi venuti, appunto, dalla povertà e dalla degenerazione, si svolgono farse grottesche e si vive colà, male, malissimo, come si viveva altrove, e per una folla che, per abnegazione, per virtù naturale, per onestà natia conserva la decenza dei costumi, ve ne è un'altra che ha trasportato, colà, tutti i suoi istinti indomabili, indomati, che niuno ha cercato di domare, che ha impiantato, colà, una novella vita brulicante e scostumata come nei vecchi quartieri, che, infine, se pure non ruba, se pure non assassina, altri essendo i covi e le caverne del ladri e degli assassini, mette, accanto alla folla borghese e decente, una nota di più bassa borghesia, indecente, rumorosa, screanzata, villana, repugnante. Non popolo, non popolo! Il popolo napoletano è restato nei suoi bassi dei vecchi quartieri, nei suoi bassi dei quartieri non risanati, nei bassi purtroppo, del Vasto, dell'Arenaccia, del Quartiere Orientale; non è mai salito, in nessun posto, di Napoli antica, di Napoli nuova, al primo piano o all'ultimo piano, perchè non può pagare i prezzi, anche minimi che vi si pagano, perchè chi ha costruite quelle case non sapeva niente, ignorava tutto e, intanto, ha fatto una ottima speculazione, poichè tutte quelle case sono affittate, come ho detto; ma lo ripeto, e lo ripeterò sempre, il popolo napoletano non si è mosso dal suo basso , dovunque il basso si trovi, sia una bottega quasi pulita o sia un buco oscuro e insalubre Così, purtroppo, tutte le grandi idee dei grandi uomini, tutti i vasti progetti, a base di milioni, tutte le intraprese colossali, che volevano il risanamento igienico e morale di Napoli, bisogna dirlo hanno fatto fiasco. E non vi è rimedio, dunque? Non vi è altro da fare? Nulla, proprio, di fronte a tante tristezze, a tanti disastri, a tanti pericoli sociali? Chi sa! Vedremo!

Quando si sono visti abbattere i meravigliosi sentieri ombrosi di quella villa incantevole che era la Ludovisia, a Roma, quando quel bosco sacro alla beltà e alla grazia, è sparito, per dar luogo ai quartieri Ludovisii, possiamo sopportare in pace anche le laidezze di non tutti i palazzi del Rettifilo; anche perchè, alcuni fra essi sono, se non altro, semplici, poichè, fortunatamente l'architetto non aveva fantasia; e qualcuno, forse, ha persino delle linee eleganti. Non bisogna guardar troppo, ecco tutto, bisogna sogguardare, e così la vivezza della grande fontana, in piazza della Borsa, nasconderà il dislivello famoso e incorreggibile di via Guglielmo Sanfelice, mentre il solenne edificio della Borsa gli farà credere, al viaggiatore, chi sa quale mirabolante giro di affari e la gabbia aerea dei telefoni, a una rete di abbonati che serri tutta la città. Per fortuna, le guide tacciono su queste circostanze; il viaggiatore non vede che l'esterno; e la messa in iscena del Rettifilo, del resto abbastanza felice, ottiene il suo effetto. Che se, poi, qualche conoscente napoletano, qualche compagno di viaggio più esperto, narra al viaggiatore che il Rettifilo ha tagliato in due il ventre di Napoli, attraversando i quattro quartieri popolari e popolosi di Mercato Vicaria, Pendino e Porto; che questo Rettifilo non è stato fatto solo per arrivare più presto e meglio alla stazione ferroviaria; non è stato fatto solo per i grandi industriali che vendon tessuti di lana e di cotone; non è stato fatto solo per avere una larghissima via; ma è stato fatto in nome di un criterio assoluto d'igiene e quindi di civiltà, allora la sua impressione si viene sempre più migliorando. Il Rettifilo era, doveva essere, dovrebbe essere l'apportatore dell'aria, della salute, della pulizia di migliaia e migliaia di popolani napoletani: il suo ufficio, realizzando una idealità di carità civile che vollero Umberto Primo, Agostino Depretis e Nicola Amore, era quello di vincere la malattia e la morte, nel popolo napoletano. E allora, per chi abbia anima sensibile questa strada assume un simbolo elettissimo, è l'emblema della solidarietà umana che, dall'alto del trono, del governo dello Stato, del governo della Città, sente la necessità di elevare prima fisicamente e poi moralmente il popolo, dando ad esso i beni primari della vita, la luce, l'aria, la nettezza, la salubrità, dandogli la via e la casa, dandogli il modo di acquistare la sanità del corpo che è la gioia dell'anima, sottraendolo alle infermità, alle degenerazioni, all'epidemia, e sottraendolo, così, anche alla disonestà e al vizio. Questo, nella mente di chi lo volle, dopo la strage del 1884, dopo la visita ai tugurii e alle catapecchie fatta dal Re, dopo l'orrore che ne ebbe l'animo dei maggiorenti, questo era il compito del Rettifilo, che si è chiamato e si chiama Risanamento, con tutto il suo progetto di diramazioni, di colmate, di traverse. Il Rettifilo doveva salvare il popolo napoletano: e poichè gli occhi che guardano poco e fugacemente, poichè le labbra che domandano, non sempre sono esaudite da labbra che conoscano la verità, poichè il difetto di cui tutti siamo malati, è la fretta, poichè noi siamo, anche, malati di superficialità, poichè nessuno ha il tempo di fare quel che vorrebbe, nel mondo, poichè nessuno ha la volontà necessaria a eseguire tutto quello che vorrebbe, poichè tutto ci sfugge, per esser profondi, così, noi possiam credere che, veramente, il Rettifilo abbia dato al popolo napoletano tutto quello che gli mancava, e, sovra tutto, lo posson credere tutti coloro che passano qui un giorno o un mese! Eppure, questa illusione non resisterebbe a una osservazione più minuta. Alla seconda, alla terza, alla decima volta che voi attraversate questa magnifica strada, volgendo gli occhi, a manca, a dritta, lo scenario seducente ha dei grandi strappi. Un imponente palazzo, rossastro, pomposo, si pavoneggia con le sue cento finestre: e, accanto, voi scovrite un vuoto, e un muretto basso si prolunga, si prolunga, un muretto su cui la pubblicità allegramente appende i suoi quadri, da anni e anni, e dietro questo muretto, molto più indietro, sorgono delle masse di case lercie, cadenti, miserabili, di tutte le misure, macchiate di tutte le stigmate della povertà e del vizio. Ciò sparisce: un'altra costruzione moderna tenta ridarvi una parvenza di civiltà, ma, fatto accorto, voi cercate ficcar l'occhio, ai fianchi, alle spalle, e subito dietro, a otto o dieci metri, ecco, di nuovo, un affogamento di topaie, dalle cui finestrette pendono i cenci più indecenti, magari con la poesia del vaso di basilico e del popone appeso al giunco. Così, otto, quindici, venti volte, dalle due parti, ma sovra tutto, a diritta, andando verso la ferrovia, questo sipario lacerato bruscamente, vi mostra degli spettacoli improvvisamente brutti, nauseanti, schifosi: è la cattiva parola, ma è la parola e invano voi tentate di rifare le fila del vostro sogno di una via maestosa e ricca, di una via nobile e purificante, di una via che serva egualmente alla salute, alla fortuna e alla felicità del popolo. Queste continue apparizioni, fra le enormi nuove costruzioni, di quelle immonde costruzioni vecchie, non lontane, vicine, non lontane, accanto, non lontane, alle spalle, vi hanno distrutto tutta la vostra tela d'illusione. Cercate le traverse che dovevano portare da sinistra, dai quartieri più alti al Rettifilo, bonificando la regione che comincia a santa Maria la Nova e continua pei Banchi Nuovi, san Giovanni Maggiore, Mezzocannone, Università, sino all'Annunziata, sino a Capuana, e non ne trovate che due sole, complete, su venti, quelle attorno al Sedile di Porto, e tutte le altre sono abbozzate, sono pezzi di via, di otto o dieci metri, con il loro bravo nome, di un qualche nostro illustre cittadino - e anche di voi, o Francesco Serao, o avo mio! - e niente altro, salvo, dopo questi dieci metri, che una cortina di antiche case non abbattute, una cortina che chiude le comunicazioni, che urta lo sguardo. Voi cercate le più belle traverse, quelle che dovevan tagliare a diritta, dal Rettifilo al mare, risanando i quartieri successivamente di Porto, Mercato e Vicaria. Su venti, ve n'è una sola, completa . Alcune altre, quattro o cinque sono come quelle a sinistra, appena cominciate, abbandonate da anni, ottuse, traverse cieche, ove, in fondo, ma non molto in fondo, sorge lo stesso spettacolo, sempre, di case antichissime, mezze dirute, mezze cadenti, nerastre, verdastre, grigiastre. Dopo, non vi è più nulla. Cioè, vi sono dei vicoletti che precipitano per mezzo di dislivelli paurosi, di scalette ripide, difese da rozze ringhiere, in tutto ciò che sta dietro il Rettifilo , vicoletti sinuosi, vicoletti neri, angoli dove due o tre vicoli s'intersecano dirupandosi, tutto un disegno bislacco e grottesco, accanto, sì, accanto, alle altitudini superbe dei nuovi palazzi. E voi, verso la fine del Rettifilo, vedendo fuggire gli ultimi lembi mirabili della vostra illusione, voi vi domandate se non siate vittima di un'allucinazione, se una parte di quel che vedete non sia falso, poichè troppo forte è il contrasto, poichè non può essere tutto vero, a pochi metri di distanza, il decente e l'indecente, il pulito e lo sporco, la pompa e l'inguaribil miseria, il lusso e la povertà più abbietta. Che cosa è falso, che cosa è vero? Sono, forse il portato di un incubo tutte quelle masse di abitazioni luride, fetide, cascanti, ove pare che si moltiplichino la tristizie e la tristezza, il morbo e il disonore, il delitto e la morte? Sono forse gli spettacoli che vi fecero inorridire, come uomini e come cristiani, venti anni prima, sono questi spettacoli che si rinnovano, falsamente nella memoria, nella fantasia, così, come nei momenti di nostra malinconia spirituale e di nostra debolezza fisica? O, forse è falsa l'altra parte, cioè la parvenza moderna del Rettifilo e i suoi palazzi che vorrebbero essere splendidi, ma che sono almeno, nuovi, netti, solidi, grandi, appartengono al sogno? Non sono forse, un lungo scenario di tela, su cui un abile scenografo abbia dipinto a grandi tratti, una serie di edifici maestosi, e intanto, non si sa come, non si sa perchè, la tela ha delle grandi soluzioni di continuità e lascia vedere l'oscurità, il luridume delle quinte, ove tutto è rancido, è puzzolente, è nauseante? O, forse, non sono di carta pesta, di legno dipinto, queste case, come quelle che estrae, lentamente, da una scatola, la mano di un bimbo e le dispone sovra un piano, ad angoli retti? Non è, forse, a destra, a sinistra del Rettifilo, lo svolgersi di un bizzarro paravento, i cui pezzi non sono bene congiunti, anzi sono disgiunti, e il paravento non giunge a nascondere, quel che non si deve vedere? E passino i vostri occhi ricercatori dalle cose alle persone del Rettifilo, vi passino, per conoscer più presto e meglio il motto dell'enigma. La possente arteria napoletana rifluisce, in ogni ora, di sangue vivido: una folla attraversa costantemente il Rettifilo, a piedi, in carrozza, in trams , specialmente sino a piazza Depretis, andando e venendo dai due rami di via Duomo. Folla di ogni qualità e, talvolta, anche, folla di persone distinte, bene vestite, gli uomini con la catena di oro sul panciotto, le donne con i ciondoli sospesi sul petto. Tutto questo mondo va, viene, ritorna, si allontana, mondo svariato, multiforme, multanime. Se voi siete abituato a discernere i volti e le espressioni, fra la folla, se avete l'ardente e dolente segreto dell'intuizione, voi scorgerete, lungo il Rettifilo, persone e faccie che vi daranno un fremito di sorpresa e, forse, di sgomento. Sugli angoli di quelle viuzze, presso quelle ringhiere, su quel limitare fatidico fra il vecchio e il nuovo, e, persino, nelle poche vie principali e non finite, stazionano sempre degli uomini, sul cui viso la delinquenza è impressa e la cui espressione non mente; stazionano mendicanti dei due sessi e di tutte le età, ma di una mendicità sfrontata e ributtante, e stazionano anche, meno di mattina, molto più nel pomeriggio, moltissimo di sera, le sventurate e sciagurate femmine del popolo, che esercitano il più compassionevole e più atroce fra i mestieri. Così, sull'orlo della superba via, sui due suoi lati, fiancheggiandola, il vizio e la miseria, il delitto mettono la loro popolazione. La gente che passa, è molta, non guarda bene, non bada: ma due, tre volte al giorno, un ladro si slancia sovra al galantuomo , sovra la signora, in pieno giorno, in pieno Rettifilo, fra mille persone, e gli strappa l'orologio, le strappa gli orecchini, il derubato grida, il ladro infila la viottola, si gitta per un angiporto, è sparito, la folla strepita, non vi sono guardie, i mendicanti gridano e una di quelle donne del vizio, dà una falsa indicazione, perchè è, forse, un'amante, un'amica, una sorella del ladro, sempre una complice. Sia a piedi, sia in carrozza, la vittima, il ladro finisce sempre per fare il suo colpo, senza farsi arrestare, liquefacendosi come una nuvola, dietro una di quelle stradette: e alcune, anzi, di quelle vie, hanno la loro fatal rinomanza, come quella a principio del Rettifilo, la via di santa Candida. Dopo le nove di sera, il tratto del Rettifilo da piazza Depretis alla Ferrovia, è poco percorso da gente: e malgrado le grosse lampade elettriche, quel tratto è uno dei più pericolosi della città, e i medesimi cocchieri da nolo, affrettano il passo zoppicante del loro povero cavallo, andando alla stazione o tornandone, poichè sanno che il loro passaggiero può avere, forse e senza forse, un'aggressione. In quell'ora non si aggirano, colà, che ladruncoli, camorristi, pregiudicati e donne di mala vita. Nella magnifica strada: nella strada della salute e della redenzione del popolo napoletano! Ahi, che essa è semplicemente un paravento, ma leggiero, fragile e grossolano paravento, un paravento che non nasconde neppure, a chi vuol saper tutto, tutto ciò che vi è dietro, di pietoso e di orribile! E un'altra volta io vi dirò quel che vidi, lì dietro, con una triste e lunga curiosità, con un coraggio disperato e, con l'angoscia più opprimente, del mio umile ma fedele cuore di napoletana!

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